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Quaderni di Etnomusicologia 1: Patagonia

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 08/05/2011 10:35:41

QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGICA

“PATAGONIA: terra di armonie selvagge”, di Giorgio Mancinelli.

(Da “Il canto della terra”, trasmissione radiofonica in due puntate messa in onda da RSI –Radio della Svizzera Italiana).

Il primo itinerario proposto da questa ricerca etnomusicologica prende avvio da Buenos Aires, tappa necessaria quanto obbligatoria, per proseguire verso la Patagonia e l’estrema punta della Terra del Fuoco: “un ammasso accidentato di sterili rocce, di alte colline e inutili foreste, il tutto avvolto in nebbie ed eterne tempeste” – come ci rivela Paul Theroux (1) lo scrittore che visitò la Patagonia negli anni ’80, e che annotò molte osservazioni utili per la conoscenza di questa terra e dei popoli che la abitavano, ancora oggi fonte di scientifica curiosità. “Sapevo che era la parte più vuota dell’America e una delle meno conosciute – e quindi una serra di leggende, mezze verità e cattiva informazione” - aggiunge. Degli antichi abitatori di queste regioni, più conosciuti col nome di indios Fuegini, non rimangono che pochissimi manufatti d’uso quotidiano, il ricordo di alcune usanze arcaiche entrate nella quotidianità, e alcuni nomi riferiti ad abitanti aborigeni. Eppure: “Non appena gli scienziati, come Darwin, grattarono il terreno, trovarono che era un cimitero d’ossa di mammiferi preistorici, alcuni dei quali si pensò fossero ancora viventi. E inoltre: foreste pietrificate, laghi effervescenti e colate di ghiaccio azzurro che si addentravano in foreste di faggi”. Come ci rivela Bruce Chatwin (2) il viaggiatore che ha fatto della Patagonia un affascinante ed erudito racconto di viaggio.
Sembra che gli aborigeni fossero divisi in almeno due gruppi distinti: il primo includeva i Selk’nam, i Tehuelches e gli Haush che abitavano gli umidi pascoli della Patagonia Orientale; il secondo gruppo, comprendeva gli Yamana, i Chono, e forse gli Ona originari dell’Arcipelago Fuegino che si estende dall’isola di Chiloe a nord, all’isola Navarino a sud, dove cresce una vegetazione di cespugli spinosi e piove per due terzi dell’anno. Diretti discendenti di quelle popolazioni amerindie che verosimilmente vi si stabilirono in tempi molto lontani, vanno certamente menzionati gli Aymara, sparsi nelle provincie montuose di Tarapaca e Antofagasta nell’odierno Chile; i Mapuche conosciuti come il “popolo della terra”, circostanziati nell’area rurale detta Araucania, e per questo anche chiamati Araucani; e i Qawashqar, considerati i più antichi abitanti della Terra del Fuoco, che vivevano “ai piedi del mondo”, nella regione più a sud del pianeta, e di cui si è quasi perduta memoria. Ma, mentre si conosce gran parte della cultura degli Aymara, rimasti isolati dalle influenze della civiltà occidentale per lunghissimo tempo, fatto che gli ha permesso di continuare a condurre il loro modo di vita tradizionale; quasi nulla rimane della cultura dei Qawashqar, chiamati anche Alakaluf (ma probabilmente trattasi di una diversa etnia tribale di nomadi navigatori), molto attaccati al proprio territorio, malgrado dovessero costantemente lottare contro l’asprezza dell’ambiente naturale.
Thomas Falkner (3), che visitò la Patagonia nel 1774, riguardo agli aborigeni, annota che: “Sono un popolo innocente e mite (..) si nutrono principalmente di pesce, che si procurano o tuffandosi in acqua o infilzandolo con le fiocine (..) sono lesti di piede e catturano guanachi e struzzi lanciando le loro bocce (bolas)”. Charles Darwin (4) ancora nel 1832 parlando dei “patagoni” racconta: “Quando sbarcammo, manifestarono un certo allarme , ma continuarono a parlare e a gesticolare con grande rapidità. Era senz’altro lo spettacolo più curioso e interessante cui avessi mai assistito: non avrei mai creduto che tanto grande fosse la differenza fra l’uomo civile e quello selvaggio; è maggiore di quella fra un animale selvatico e uno domestico, poiché nell’uomo vi è una maggiore capacità di miglioramento. (..) un giorno, mentre ci dirigevamo verso la spiaggia vicina all’isola Wollaston, passammo a fianco di una canoa con sei fuegini. Erano le creature più abiette e miserevoli che avessi mai visto”.
Le ragioni della quasi totale estinzione di questi gruppi sono strettamente collegate con l’arrivo degli occidentali sul continente che, a loro volta per sottometterli alla schiavitù, organizzarono il massacro di grandi gruppi di indios, e successivamente, li ridussero alla condizione di miserabili dai trafficanti contrabbandieri per ragioni esclusivamente economiche. Al resto pensò la predisposizione degli indios alle malattie portate dalla civilizzazione e, infine, i violenti tentativi di imporre a questa gente una cultura a loro completamente estranea. Va aggiunto che in questa vasta estensione territoriale, oggi divisa fra gli stati del Chile e dell’Argentina, le risorse naturali non offrivano possibilità allo sviluppo dell’agricoltura o alla lavorazione di terraglie, così come la scarsa vegetazione non ne offriva alla tessitura, pertanto gli autoctoni si dedicavano soprattutto alla caccia e alla pesca in quel grande deposito che le rocce delle coste e le spiagge delle insenature offrivano loro, di elefanti marini, lontre, pinguini, e balene che tiravano a secca nei canali dell’isola.
Visitata nel tempo da navigatori quali Ferdinando Magellano e Alessandro Malaspina, da ricercatori come Charles Darwin e Fitz Roy, descritta da Saint-Exupéry e Joshua Slocum, esaltata da J. Luis Borges e Luis Sepulveda, che oltre ad averne rivelato l’affascinante attrattiva dei luoghi, l’hanno anche straordinariamente definita la terra “al di là dei confini del mondo”, consegnandola definitivamente all’immaginazione e alla leggenda, che spinge oggi il ricercatore e lo scienziato, così come il turista o il visitatore, a un costante viaggiare nei luoghi “patagonici”: quasi a voler indicare qualcosa di infinito e d’immenso e anche di totalmente esotico e pericolosamente attraente. La definizione è di Hermann Melville (5) che, nel suo romanzo “Moby Dick”, l’aggettiva così: “Poi, i mari selvaggi e remoti dov’egli (la balena) voltolava la sua massa simile a un’isola, i pericoli, indescrivibili e senza nome, della caccia: queste cose, con tutte le concomitanti meraviglie di un migliaio di parvenze e suoni patagonici s’aggiungevano a spingermi al mio desiderio” e – aggiungerei – ad andare oltre. Non ci rimane, quindi, che avventurarci in questa irrealtà di parvenze e suoni al pari di quei “viaggiatori letterari”, come amava definirsi Bruce Chatwin, e cercare di comprendere ciò che resta dell’antica cultura musicale, (poiché questo è il nostro scopo di ricerca), degli strumenti e dei canti originari della Terra del Fuoco tanto lontana quanto mostruosamente straordinaria: “il punto oltre il quale non è dato andare”.
La componente forse più resistente della cultura Qawashqar (6), dei quali ci occuperemo in questa ricerca, è senza dubbio il linguaggio, che sopravvive ancora, seppure in parte, minacciato dall’introduzione di una scolarizzazione in cui si parla solo spagnolo. Probabilmente lo stesso che Darwin ascoltò incontrando gli aborigeni “dal linguaggio sottile”, e li trovò così “abietti” da dubitare, che appartenessero alla sua stessa specie. Secondo lo studioso Augusto Raùl Cortazar (7), le aree più interessanti per la ricerca etnologica sono almeno quattro, in ordine: regioni andine della Sierra de Calalaste, Pampa del Chaco, Patagonia, Terra del Fuoco, da cui prendono il nome le relative quattro regioni. Ricerche effettuate sul campo in Patagonia, hanno portato a conoscenza di una comune cultura andina dedita al “nomadismo ciclico”: seminano i campi di grano, quinoa, patate, aglio, pepe chili e fagioli sull’altopiano. Parliamo quindi di un popolo di raccoglitori e consumatori di piante e frutta selvatiche, le cui scorie, essiccate, venivano conservate e costituivano una buona scorta per accendere il fuoco.
Questo, era “fondamentale” alla loro stessa sopravvivenza e, una volta acceso, prendevano tutte le precauzioni per non farlo spegnere, poiché riaccenderlo, nel clima freddo e umido dell’arcipelago, non era impresa da poco e significava grande dispendio di legna secca da bruciare. Praticavano un artigianato poverissimo che la famiglia poteva scambiare con altre, oltre al smercio delle prede di caccia e pesca con gli acquirenti locali. Quando il gruppo familiare viaggiava, e solitamente si spostava a bordo di piccole canoe ottenute dal tronco degli alberi, portava il fuoco con sé nella canoa, insieme a un piccolo numero di utensili per lo più attinenti la caccia, come fiocine, trappole, ecc., finché non lo si poteva mettere nella nuova capanna. Loro unica forma di organizzazione sociale era il piccolo gruppo familiare, le decisioni venivano prese dal capofamiglia, e non c’erano capi o autorità al di fuori del gruppo familiare che veramente contassero. Malgrado ciò la loro condizione economica ne faceva un popolo praticamente nomade ed ogni anno con l’avvicinarsi dell’inverno, i Qawashqar si trovavano a lasciare le capanne e i campi per i burroni e le gole della Cordigliera della Ande, prima che le pastura per le greggi diventino secchi e gelino. Queste erano formate in prevalenza da alpaca e lama e talvolta anche da pecore e capre, tenute in recinti costruiti in pietra dove veniva accumulato lo sterco che sarebbe servito a concimare i campi per il successivo pascolo.
I campi, che nel frattempo, avevano raccolto le piogge, assai numerose, permettevano al bestiame di pascolare sui terreni da pascolo, detti bofadales in primavera, mentre le terre sull’altopiano, così concimate e irrigate, sarebbero state pronte per la semina, quando i gruppi avrebbero fatto ritorno nei villaggi per mietere il raccolto alla fine dell’estate. Una delle principali funzioni della comunità tribale era l’organizzazione e l’allestimento delle feste che si basavano sull’esistenza di forze e spiriti presenti nella natura, e che l’uomo spesso, secondo una concezione animista, doveva onorare e placare, con offerte e olocausti. Si narra che fu proprio il grande navigatore a dare a questa estrema landa il nome di Terra del Fuoco, dopo aver avvistato numerosi falò accesi giorno e notte lungo le coste dello stretto che oggi porta il suo nome, e scambiò per le “anime dei morti che bruciavano all’inferno”. Una delle feste più importanti, che ritroviamo nelle diverse regioni, è chiamata del floreo, che si tiene nel corso dei mesi estivi, in cui gli animali del gregge vengono agghindati con ornamenti coloratissimi. Floreo deriva dalla parola “flor” che significa fiore, e poiché non ci sono fiori sull’altipiano, gli ornamenti sono fatti con lana multicolore. La festa è una gioiosa celebrazione delle greggi, in cui le diverse tribù trovano l’occasione per fare musica insieme e cantare, soprattutto, per tramandare la narrazione dei “miti” tribali che alcune leggende fanno risalire all’origine del tempo.
La “narrazione di un mito” è il contenuto di una registrazione eseguita sul campo durante le riprese di un documentario sulle tribù della Patagonia, riferita proprio ai Qawashqar, dal titolo: “Atqashap” (8), linguisticamente parlando il "topo", allo stesso tempo identificato con la gente della tribù che l’ha tramandata seguendo il peculiare concetto secondo cui essi chiamano “canzone” quella che per noi sarebbe una “narrazione”. La storia consiste in un numero di episodi che si riferiscono a Atqashap, per mezzo dei quali sono messe in risalto le sue virtù: “Uomo come me, ma topo. / Sono i primi uomini..”. In essa si riflettono le origini della vita e della storia della gente Qawashqar. Il narratore parla in un ritmo speciale adattato al contenuto semantico di cosa si sta dicendo, e adopera un linguaggio pieno di arcaismi, la maggior parte dei quali è incomprensibile per la presente generazione. Questo linguaggio costituisce un’improvvisata manifestazione rituale, forse la sola ancora conservata oggi. L’idea centrale del mito è la lotta fra Atqashap e Silum “il male”, che è situato geograficamente al Nord. Questa potrebbe essere allusiva degli invasori che arrivavano sempre da quella direzione. Nel corso degli altri episodi astuzia, velocità e coraggio sono messi in rilievo come virtù fondamentali fra le altre: “Silum viene dal Nord per uccidere Atqashap, ma quest’ultimo imbroglia il suo nemico travestendosi, e poi nascondendosi in una testa di delfino, cosicché Silum lo colpisce alla testa credendo di averlo ucciso”. In un altro episodio: “Silum solleva il suo bastone per ucciderlo, ma Atqashap, essendo un topo, corre sulla cima del bastone salvandosi (la dinamica della velocità è imitata nella narrazione)”. Ciò è confermato nell’episodio in cui: “Atqashap ha dell’acqua nascosta in un piccolo pozzo, e deve berla velocemente per poi nasconderla di nuovo, in modo che Silum non la trovi” (9).
Molta parte del linguaggio usato nelle canzoni, ad esempio, consiste in parole senza senso usate in forma onomatopeica in cui, la ripetizione di una stessa frase o parola, emette un suono, si combina in ordine con le altre, se scandita crea ritmo, se cantilenante crea consonanza. Un esempio è dato da una canzone molto in voga, di cui esistono molte versioni e conosciuta anche al di fuori del contesto regionale, dal titolo “Chichili” (10) che, nel ricordo della gente è una canzone d’amore che parla di qualcuno che si sta innamorando, anche se nessuno ricorda il preciso significato delle parole. Nella versione più complessa di questa canzone, Chichili sta a significare “desiderio di tenere, di mantenere”: “yapashquna goles warlay yetenaq achal” corrisponde a “l’amante abbraccia una donna”. Si è cercato, in fase comparativa, di avvicinarla al chequa, lingua tipica parlata lungo tutta la Cordigliera delle Ande, ma inutilmente. E non solo, risulta diverso anche il modo di cantare, come diversi sono gli strumenti arcaici, dal suono molto singolare: il pinqalyo o pinkullu, è una sorta di flauto di canna con 4 o 5 fori rintracciato sull’altipiano andino, suonato trasversalmente durante la pastorizia. Un noto canto entrato nella tradizione e solitamente accompagnato dal pinkullu ha un titolo intraducibile “Sumirumansanisa” (12); si tratta di una canzone laudatoria di contenuto agreste, le cui parole di lode sono rivolte alle montagne sacre “raffigurazioni di mitiche divinità”. In essa un pastore invoca la “mamala” (madre natura), anche detta “pacha-mama” (nelle regioni andine), affinché protegga il suo gregge di lama dal correre troppo velocemente, sì da fargli temere di perdersi nella nuvola di polvere che solleva e di finire in qualche dirupo.
Dalle regioni più interne, sorvolando l’immensa distesa che il sole, incendia fin dalle prime ore dell’alba: “in una di quelle albe che dopo la tempesta, appaiono come la rinascita del mondo”, si nota chiaramente la parziale utilizzazione a culture agrarie sparse sul tessuto umido e fertile della Pampa, una terra apparentemente senza confini, mentre la gran parte di essa è deserta, rotta solo da rari ciuffi d’alberi stravolti dal vento, percorsa da branchi di bestiame, per lo più bovidi in masse caracollanti di groppe a migliaia in cerca delle distese d’erba utilizzata per i pascoli assai numerosi. Piccoli centri abitati e fattorie segnano una ragnatela di civiltà che, con il maggiore sviluppo dell’agricoltura, la stanno cambiando in parte l’aspetto selvaggio che la distingueva. Attorno alle estancia, le fattorie, si vedono molte oasi verdi dette cascos, rigogliose di eucalipti, pioppi e alberi del paradiso, piantati dalla mano dell’uomo. Alcuni talmente isolati, da sembrare verdi isole sperdute nella vasta pianura; altri, formati da un solo grande albero: l’ombù, tipico di questa regione, entrato nella leggenda e nelle canzoni popolari, punto di riferimento e di ritrovo per uomini e animali che vi trovano riparo dal sole cocente del giorno e dall’umido pungente della notte.
Ben presto si è immersi nella Pampa più selvaggia, piana e asciutta, senza punti di rilievo, continuamente spazzata dai venti che raggiungono sovente la violenza dell’uragano, quando non è la bonaccia a farla implodere sotto il sole infuocato. È questa la terra detta “del silenzio” che si estende dalle Ande, al Chàco, al Paranà, fino all’Atlantico e la Patagonia, terra leggendaria di gaucho errabondi che vanno alla ricerca delle distese di verde per le loro mandrie. Infatti, all’indirizzo dei gaucho assetati d’ombra e di riposo, sono indirizzati i racconti di gesta leggendarie, come anche degli eroi che un tempo hanno soggiornato e attraversato la Pampa, ed entrati nella letteratura ufficiale. Uomini come “Martin Fierro”, eroe dell’omonimo poema di Josè Hernàndez (12) che la solitudine della Pampa ne ha fatto un uomo altero e poetico, il cui personaggio romanticissimo, alimenta ancora oggi la fantasia sudamericana sulla figura del gaucho, di cui leggiamo un passo:

“Aquì me pongo a cantar, / al compàs de la viguela / que al hombre que lo desvela / una pena extraordinaria, / como el ave solitaria / con el cantar se consuela”.

"E qui mi metto a cantare, / al compàs della viguela / che all'uomo che lo svela / una pena straordinaria, / come l'uccello solitario / col cantare si consola".

Al mitico gaucho è dedicata più di una canzone, come ad esempio quella qui riportata:

“Quando mia sarà la terra, seminerò parole / che mio padre, Martin Fierro, diede al vento.. / Quando mia sarà la terra, io ti giuro semente / che la vita sarà un dolce grappolo / e nel mare dell’uva il nostro vino. / Quando mia sarà la terra, darò alle stelle / astronauti di messi, la luna nuova.. / Quando mia sarà la terra, formerò con i grilli / un’orchestra, dove possano cantare / quelli che pensano” (13).

Il gaucho, figura mitica della pampa, rispecchia quell’ideale di libertà incontrastata che è sempre presente nel popolo argentino. “E il popolo, vi è presente come problema aperto – scrive J. Luis Borges (14) – che non basta l’esistenza del gaucho e della pampa a spiegare la letteratura gauchesca, che si è formata quando uomini di cultura urbana si sono avvicinati a quel mondo, attraverso l’esperienza dell’indipendenza argentina e le guerre civili”. È il caso di citare almeno un altro personaggio famoso della letteratura: “Santos Vega” (15), “al cui amore nessuna donna avrebbe resistito e nessun uomo ha mai vinto in duello”. Narra la leggenda che un giorno, accettata la sfida lanciata da un misterioso cavaliere, rivelatosi poi il diavolo in persona, egli fu vinto e morì in seguito al combattimento. E aggiunge che, nelle notti di luna la sua ombra torna errabonda ad attraversare la pampa:

“Tu alma puebla los desiertos, / y del Sud en la campaña / al lado de una cabaña / se eleva fúnebre cruz; / esa cruz, bajo de un tala / solitario, abandonado,/ es un simbolo / venerado / en los campos del Tuyú”.

La tua anima popola i deserti, / e del Sud nella campagna / di fianco ad una capanna / si alza funebre croce; / quella croce, sotto di un bosco / solitario e abbandonato, / è un simbolo venerato / nei campi del Tuyú".

Bartolomé Mitre fu il primo che fissò per iscritto il motivo di “Sacra Pianura”, ispirato nella tradizione orale dello stesso. Il poema "A Sacra Pianura, payador argentino" fu scritto nel 1938 e raccolto in libro di Rime nel 1954. Questo poema sottolinea la tradizione orale della poesia e la permanenza dei versi di “Sacra Pianura” nel paese e nella natura, oltre il passo del tempo. Qui si sente riferito il posto dove Sacra Pianura sarebbe stato sepolta: sotto un bosco, nei campi del Tuyú. Ma non è solo per questi poemi maggiori della letteratura gauchesca che il fenomeno è importante, in tutto il Sudamerica i proverbi e le canzoni legate alla figura del gaucho, tra cui spicca una ballata popolare conosciuta come: “Milonga del solitario”, il lamento triste di un gaucho rimasto solo che il poeta e narratore Atahualpa Yupanqui (16), ritenuto “l’anima stessa dell’Argentina”, ha raccolto e fatto conoscere al mondo intero:

“Toda la noche ho cantado / con el alma estremecida. / Que el canto es la abierta herida / de un sentimiento sagrado. / A naides tengo a mi lado / porque no busco piedad. / Desprecio la caridad / por la verguenza que encierra. / Soy como el leon de mi sierra: / vivo y muero en soledad”.

“Tutta la notte ho cantato / con l'anima scossa. / Che il canto è l'aperta ferita / di un sentimento sacro. / Nessuno tengo al mio fianco / perché non cerco pietà. / Disprezzo la carità / per la vergogna che rinchiude. / Sono come il leone della mia catena montuosa: / vivo e muoio in solitudine”.

La figura del gaucho arrivata fino a noi è impastata di popolare saggezza, di esperienze complesse anche importanti, che hanno fatto di lui un essere completo. E questo significa non solo che egli continuerà a vivere fin tanto che continuerà ad esistere la pampa, il mondo che condiziona e determina la sua esistenza, ma significa, anche che egli continuerà ad essere idealizzato e continuerà a suggestionare l’uomo moderno proprio sulla scia della tradizione poetica, narrativa e spirituale della Pampa, la “tierra del silencio”, com’è anche chiamata dalle numerose voci popolari, e descritta in questa canzone di gusto gauchesco, di Atahualpa Yupanqui: “Vidala del silencio” (17):

“Cierta vez en la manana de un pais de montanas azules, / miraba yo esas nubes pequenas, que suelen quedar como / prendidas de las piedras en la mitad del cerro. / El aire, ausente. mas arriba, un cielo azul, abajo,la tierra dura, y calida. / Alguien me dijo unas raras palabras refiriendose a esas / nubecitas blancas, quiza lejanas ya, que embellecian el paisaje... / Eso que usted està mirando, no son nubes, amigo. / Yo creo que son vidalas olvidadas, son melodias, esperando que alguien / comprenda su silencio, entienda su palabra, intuya su canciòn. / Poco tiempo después de ese momento que no se puede / traducir cabalmente, porque esta màs allà de nuestro /
entendimiento, asì poco tiempo despues / naciò la vidala del silencio”.

“Una certa volta nella mattina di un paese di montani azzurri, / io guardavo quelle nuvole piccole / che normalmente rimangono come / agganciate delle pietre nella metà del dorso. / L'aria, assente. ma sopra, un cielo azzurro, abbasso, / la terra dura, e calda. / Qualcuno mi disse alcune rare parole riferendosi a quelle / piccole nuvole bianche, chissà lontane già che abbellivano il paesaggio... / Quello che lei sta guardando, non sono nuvole, amico. / Io credo che siano vidalas dimenticate / son melodie / sperando che qualcuno / comprenda il suo silenzio, capisca la sua parola, / intuisca il suo cantare. / Poco tempo dopo quello momento che non si può / tradurre perfettamente, perché va al di là del nostro / intendimento, è così che poco tempo dopo / nacque questa vidala del silenzio”.

Un tempo le terre della Pampa erano abitate esclusivamente da tribù indios autoctone che popolavano la grande pianura anch’esse chiamate “pampa”, da cui il nome dato in seguito alla terra che le ospitava. Tra queste vi erano i Queranoi e i Puelches che vivevano a grande distanza le une dalle altre e che di tanto in tanto si riunivano per lo scambio di merci e manufatti, oltre che per combattere, e forse – ma questo non è stato appurato – per festeggiare insieme particolari riti e cerimonie di fratellanza. Festività nelle quali gli indios s’intrattenevano con canti e danze facendo uso di particolari strumenti ancora oggi in uso fra le popolazioni autoctone delle Ande. Tuttavia, il ceppo più antico, sembra fosse lo stesso per entrambe le popolazioni, delle quali, pur con tutte le riserve del caso, si conoscono solo pochi e dubbi esempi di musica strumentale diversamente distribuiti nelle varie regioni. Ognuna di esse possiede ritmi, e qualche volta anche strumenti diversi, nonostante la chitarra spagnola si ritrovi dappertutto. La musica del sud, che include Buenos Aires e la Pampa, riflette fedelmente le melodie, spesso malinconiche e talvolta appassionate, tipiche della cultura “gauchesca”, suonate alla chitarra, a differenza delle regioni del nord dove si usa il charango, una sorta di mandolino ricavato dal guscio dell’armadillo. Così come nella regione del nord-est, in prossimità del Paraguai, l’armonica rimpiazza la fisarmonica.
Tutte le regioni dell’ovest, o Cuyana, confinanti con il Chile risentono di una reciproca influenza, per cui sono molto simili per l’uso costante degli stessi strumenti, dal charango, ai differenti tipi di flauti. Ma è senz’altro nelle regioni del centro che la musica non rassomiglia a quella di nessun altro paese sudamericano, ed è qui che si scoprono i ritmi argentini più originali e gli strumenti più conosciuti, come: il bandoneon, alcuni tipi di violini, il piano e il contrabbasso. Inutile ricordare che esistono una grande varietà di danze popolari, come la zamba e la chacarera, il tango e il carnavalito; e diversi tipi di melodia e di canto, come la tonada, la milonga, la coplas, la vidala; nonché modi diversi di narrare, come l’homenaje, la nostalgia, la baguala.
Un altro strumento tipico denominato o-thara, è ricavato dall’arbusto di una pianta originaria dell’altipiano andino, di cui non si conosce l’eguale, ad esso si affida il “popolo della terra” così detto dei Mapuche, conosciuto come il più grande gruppo indigeno ancora oggi esistente in Sudamerica, che vive nella regione confinante detta “la frontiera” o Araucania prossima al Chile, di cui pure è conosciuta la cultura musicale, ricca di numerosi canti infantili e d’amore. Sempre ai Mapuche si deve il trutruka, uno strumento non bene identificato, ricavato dal seme di una pianta assai rara, o forse anche dal nocciolo di un frutto essiccato, nel quale si soffia all’interno attraverso una stretta fessura praticata in orizzontale che emette un effetto acustico particolare, così che all’ascolto fa pensare a un suono arcaico, quasi “mistico”, come può esserlo un suono emesso dalla medesima natura del luogo.
Dalla Pampa all’estrema punta della Terra del Fuoco c’è un lungo cammino da intraprendere e il viaggio non è certo dei più facili. A renderlo impervio, a meno che non si raggiunga Ushuaia in aereo, è il vento che giunge da tutte le parti e che talvolta spira a forte velocità, ora sferzante e gelido, ora più tiepido quasi graffiante, che ulula nelle orecchie e lascia frastornati. Ushuaia è il punto di partenza della nostra spedizione via mare verso la penisola di Valdés, ed anche della nostra ricerca etnologica dei suoni della natura e delle voci degli animali che la abitano. È una piccola città costruita i primi del ‘900 dai coloni, per lo più inglesi e tedeschi che vi si stabilirono all’inizio del secolo per ragioni di studio. In minoranza vi si incontrano francesi e italiani accomunati da una stessa scelta di vita, per lo più pescatori o cacciatori, qui giunti, insieme ai tagliaboschi e agli estancieros, una sorta di guardie forestali governative, a popolare questi territori ricchi di fauna e di altre ricchezze naturali. E che, dopo la scomparsa degli indios Tehuelche (tribù originaria della Terra del Fuoco) che un tempo stanziavano sul territorio, popolano ormai questa terra affascinante quanto inospitale.
La vita sociale a Ushuaia rispecchia quella di una qualunque città di mare dove la gente parla più o meno delle stesse cose riferite alla pesca, all’andare per mare, alle imbarcazioni, ai motori, forse con meno entusiasmo per la rigidità del clima. Per lo più si lasciano cadere i discorsi e gustare lunghi sorsi di malto d’importazione, o ascoltare la radio che trasmette di tanto in tanto, interrompendo il programma di musica moderna, il bollettino del mare. Il resto del tempo lo si passa a osservare il moto dell’Oceano. Qui si ha la netta sensazione di essere proprio giunti alla fine della strada, poiché la tempesta non cessa mai di urlare e le onde, si abbattono rabbiose contro le coste. Ma basta una giornata meno burrascosa del solito che tutto, per così dire, si rianima. L’intero paesaggio muta d’aspetto. si può anche fare una passeggiata per le stradine del centro commerciale e fare piccoli acquisti di souvenir da portare agli amici increduli e le necessarie calzature di pelo di foca per ripararsi i piedi dal gelo. Tanto da somigliare a quei patagones che Magellano, il grande navigatore portoghese, incontrò durante il suo primo viaggio proprio qui,  e che avevano in uso di indossare attorno ai piedi pelli di guanaco, da sembrare autentiche zampe di animale, da cui il nome spagnolo pata-gones.
Ovviamente, di quelli che un tempo furono gli autoctoni, neppure l’ombra, e forse, le rare fotografie di inizio secolo e i disegni che li ritraggono, insieme a piccoli utensili per la caccia e la pesca in mostra nel piccolo e interessante museo di Ushuaia, appartengono a un tempo davvero molto lontano che nessuno ricorda più. Le notizie che li riguardano, raccolte dalle diverse spedizioni succedutesi a partire dalla seconda metà del ‘700, sono per lo più riportate nei diari di bordo dei navigatori spagnoli e inglesi che vi presero parte, e dalle rilevazioni geografiche dei missionari salesiani di cui padre Alberto Maria De Agostini (18) esploratore, fotografo e presbitero italiano, famoso per le esplorazioni della Patagonia e della Terra del Fuoco, fu uno dei fautori. Ordinato sacerdote salesiano, padre De Agostini scelse di diventare missionario nelle zone meridionali dell'Argentina e del Cile, dove i salesiani fin dal 1875 operavano la loro missione a favore degli indios delle etnie Alakaluf, Ona e Yamana dei quali descrisse la vita e le tradizioni. Tra il 1912 e il 1945 affiancò alla propria attività pastorale una nutrita serie di viaggi esplorativi avendo come base logistica Punta Arenas, sulla costa settentrionale dello Stretto di Magellano. Realizzò un'accurata cartografia della Patagonia meridionale e della Terra del Fuoco colmando così varie lacune presenti nelle carte del tempo. Da ricordare il suo contributo alle scienze naturali e all’antropologia: raccolse minerali e fossili, contribuì alla classificazione di numerose specie vegetali, approfondì le conoscenze sulla morfologia glaciale delle zone esplorate. Nei suoi libri, infatti, si trovano riferimenti oltre che agli usi e i costumi, notizia dei diversi idiomi usati e dei caratteri somatici degli aborigeni che li diversificavano dagli europei.
Dalla “Cronaca di Bordo” della spedizione guidata dal navigatore Alessandro Malaspina (19) del 1789, apprendiamo che: “Il giorno 3 di dicembre, avendo saputo dal comandante Pena di varie tribù che erano state avvisate del nostro arrivo, si fecero trovare vicino alla spiaggia. Immediatamente che scendemmo a terra, si presentò sull’alto di un monte poco distante dalla spiaggia, un patagone capo di tribù, e con segni di amicizia che gli facemmo, si avvicinò, senza avanzare però troppo; assicurato poco dopo, per mezzo di altri segni amichevoli, sulle nostre intenzioni pacifiche, si avvicinò comandando un indio che lo seguiva a grande distanza, che lo accompagnasse, e ciascuno presentò al nostro comandante un guanaco, alla cui dimostrazione corrispose con un abbraccio e vari regali di valore. Soddisfatto, il capo chiamò tutta la sua tribù e vennero in numero di 60 persone, 20 erano uomini e gli altri giovani, donne e bambini. Tutti si presentarono a cavallo con più di 40 cani, e dopo essere scesi a terra ci fecero segni di sedersi sopra l’erba, ciò che essi fecero immediatamente. Seguirono poi i regali fatti a ciascuno indio senza escludere le donne e i bambini che apprezzarono in particolare i relicari (reliquari) con nastro di seta rossa, che si misero al collo, e su tutto manifestavano la loro approvazione”.
La “Cronaca” ci relaziona inoltre sui caratteri somatici del tipo indio e del suo modo di vivere: “..i lineamenti generalmente rotondi e con denti proporzionati e larghi, narici ben fatte, poche sopracciglia e capelli neri, molta robustezza nei vecchi, si ungono il corpo con olio, nessun segno di ferite, né altra arma che le bolas per la caccia, fabbricano i loro costumi, i cappelli, e una specie di stivaletti di pelle di guanaco, ballano e cantano in diverse occasioni rituali” (20). Nulla ci dice degli strumenti musicali usati, se ve ne fossero stati di particolari e sulla qualità della musica prodotta, solo “cantano e ballano”, nessun’altra notizia a riguardo, ad esempio, su come cantassero e quali fossero i ritmi e i passi delle loro danze. Tuttavia siamo portati a pensare che la musica presente in questa regione non sia del tutto avulsa da una stretta concomitanza con la natura che l’ha prodotta e che in qualche aspetto conservi ancora aspetti dei suoi caratteri originali, in questo caso specificamente tribali, residuali della tradizione più arcaica. Non è affatto impossibile che caratteri della musica tribale di queste regioni siano perpetrati, in qualche modo, nelle espressioni della musica prodotta oggigiorno, e proprio per la ineluttabile possibilità che, seppure cambiano gli strumenti e le tecnologie, in fondo è di per sé lo stesso l’uomo a governarne il suono, a liberarlo e farlo vivere nel cosmo delle vibrazioni, con i suoi modi e i limiti della sua creatività.
Gli esempi rintracciabili nell’odierna discografia sono molteplici ed eclatanti, a incominciare dal noto sassofonista jazz argentino Gato Barbieri (21) anche detto “el pampero” e ai suoi recuperi etnici, in qualche modo legati alla sua terra di provenienza, l’Argentina, se non altro per la scansione rallentata del tempo, per il raggruppamento onomatopeico delle varianti allungate delle sue sonorità, come ad esempio nella sua “Vidala triste”, un “canto d’amore alla vita” appartenente al folklore sudamericano, in cui vengono espressi i desideri contrastanti dell’anima del gaucho. Ma è forse nell’andamento malinconico, dolente di inespressi ricordi che trovano luogo nell’estrema e sconvolta eredità degli avi, che meglio si riesce a ravvisare lo spirito arcaico dell’indio. La comparazione musicologica ci porta a un altro esempio, un poema sul mistero dell’esistenza narrato da Atahualpa Yupanqui (22): “A quel llaman distancia”, con quello ancora più antico dal titolo “Atqashp”, ovvero la narrazione di un mito in cui – ricordate – si faceva riferimento alle lontane origini tribali dei Qawashqar, entrambi musicalmente contenuti sulla stessa cadenza ritmica, tipica della narrazione andina. L’equivalenza è evidente, Athaualpa di fatto scandisce con il canto la propria narrazione, mentre l’anonimo narratore qawashqarigno adatta il contenuto semantico del racconto, al ritmo che l’accompagna o che si vuole creare, e che è forse il solo, conservatosi, all’interno di queste culture d’altura.
La differenza fonetica della "vidala" è sostanziale, anche se all’orecchio dell’ascoltatore disabituato ciò non arriva, entrambe sembrano due narrazioni dalla stessa identica assonanza, corrispondente di una diversità naturale dei due dicitori. Non è così, più semplicemente si chiama effetto di sostituzione, riguardante il trasferimento di un fatto emotivo personalissimo, all’interno di una sonorità della voce che finisce per contraddistinguere entrambi gli esecutori che si trovano a improvvisare su una sorta di rituale che solo loro conoscono, e mai codificato. Fatto esclusivamente fonografico riguarda la nota composizione della più nota “Misa Criolla” di Ariel Ramirez (23), espressione di un sentimento religioso che riguarda il Sudamerica tutto. Tale è l’intraprendenza dell’animo indio che l’autore ha sentito di impostare la Misa sull’andamento cadenzato e processionale della vidala nel Kyrie di apertura per poi lasciar esplodere l’emozione mistica che essa tramanda al ritmo del carnavalito tipico della tradizione andina. Per restare ai nostri giorni potremmo porre uno di fronte all’altro due esempi di una danza popolare: la "milonga", che ha conosciuto numerosissime esecuzioni e interazioni non solo di genere musicale, quanto di stili di epoche diverse, e che rappresenta una vera e propria tipologia di canto.
Originariamente conosciuta come ballo di strada già nei primi anni del XIX secolo, la milonga possiede elementi della musica africana nella sua struttura ritmica e influenze di danze creole ed europee importate dai colonizzatori spagnoli, a imitazione del portamento e l’andamento nel camminare, nonché nell’atteggiamento macho degli uomini che ostentavano il potere, e subito accalappiato al lazo dal gaucho la cui figura ormai mitica, ne faceva uno stereotipo di rudezza e di grande fascinazione. L'origine della "milonga" è incerta e molto discussa. Si sa, tuttavia, che arrivò nella regione di Buenos Aires attraverso vie diverse, come fenomeno popolare detto “de ida y vuelta” per via che i generi viaggiavano dall'America all'Europa e viceversa acquisendo trasformazioni e adattamenti in ogni regione specifica. Ha somiglianza con altri ritmi come la chamarrita, il choro, il candomblé e la habanera definitisi in altre aree geografiche. Si presume che la "milonga" abbia apportato elementi al tango, che più tardi prese la forma originale della stessa come sottogenere.
L’esempio non è casuale e riguarda una stessa musica suonata dalle migliori orchestre del mondo e cantata dalle voci più efficaci della comunicazione musicale e canora, divenuta patrimonio dell’umanità. Poniamo due esecuzioni a confronto: un tango argentino eseguito da Astor Piazzolla (24) e la sua reinterpretazione dei Gotan Project (25). La differenza sembrerebbe abissale, mentre invece quasi non esiste, sebbene le due versioni siano davvero molto distanti tra loro e coprano uno spazio temporale non indifferente: vuoi per la grande modernità dell’interpretazione dell’uno, vuoi per il recupero a effetto del nuovo gruppo che ripropone, attraverso tutte le interazioni accettate nel tempo, le sonorità di una "milonga" snaturata nei suoni e tuttavia riconoscibile, apprezzabile nella sua nuova veste musicale, tale da rinnovarne il successo popolare, esteso a un pubblico sempre più ampio, vasto quanto l’universo mediale.
Accompagnati dal suono cadenzato della "vidala" che non ci solleva dalle preoccupazioni di carattere meteorologico, ci imbarchiamo al porto di Ushuaia e affrontiamo la traversata del canale detto di Beagle, dal nome del famoso brigantino che un tempo condusse Charles Darwin e Robert FitzRoy (26) nelle loro prime spedizioni al Polo Sud. Il paesaggio alquanto aspro è qua e là coperto di foreste di lenga, un albero tipico di questa regione la cui crescita lentissima è misurabile con lo scorrere del tempo che passa e di cui non ci si accorge, se non per il continuo passaggio instancabile delle nuvole. Da qui, circumnavighiamo per un tratto la costa, per poi immetterci nel Parque Nacional de Hornos, una manciata di piccole isole che segnano il punto cruciale di Capo Horn. L’impressione è quella di andare incontro all’ignoto, oltre l’imperativo vincolante della mente di voler tornare indietro, a sostegno degli appunti di viaggio di C. Darwin che nel 1832 in proposito, così scriveva: “Navigando sullo stretto (di Magellano) avevamo l’impressione che i lontani canali conducessero al di là dei confini del mondo”.
Solo una volta superato lo stupore iniziale ci si rende conto quanto quelle parole fossero, e ancora oggi lo sono, piuttosto veritiere, considerato che le nostre preoccupazioni iniziali si rivelarono all’improvviso, nelle forme di una tempesta di enormi dimensioni, che ci costrinse a stare al chiuso dell’imbarcazione per tutto il tempo, con onde che sembrano impossibili da superare, e che dal Pacifico sembravano volerci scaraventare nell’Atlantico. Non saprei dire a riguardo se fossi giunto alla fine o all’inizio del mondo, solo che lo spettacolo era impressionante, quasi mostruoso. La violenza degli oceani che s’incontravano superiore ad ogni aspettativa, i sentimenti contrastanti di voler vedere e conoscere che mi avevano spinto fin lì e che in qualche modo ancora mi sostenevano, erano costantemente affrancati dalla paura di non farcela a tornare indietro, malgrado le rassicurazioni dei marinai che dicevano di aver visto di peggio. Paul Theroux (27) sembra abbia subito la stessa fascinazione e un identico timore: “A Boston nevicava, quando partii: la Patagonia prometteva un clima diverso, un cambiamento di umore e la possibilità di girovagare in tutta libertà. È lo stato d’animo migliore per iniziare un viaggio. Ero pieno di slancio; solo più tardi, nei viaggi , si capisce che le distanze più grandi ispirano le più grandi illusioni, e che il viaggio solitario è un piacere che spesso si paga”. Ma se quello non era il peggio, allora il meglio dov’era? – mi chiesi. Avrei dovuto saperlo, l’avevo portato con me fin dall’inizio del viaggio, e improvvisamente l’avevo perduto di vista, racchiuso nello spirito d’avventura e di conoscenza che da sempre spingono l’uomo a cercarsi, forse a cercare Dio. “La Patagonia – ci ragguaglia ancora Theroux – era quindi la promessa di un paesaggio sconosciuto, l’esperienza della libertà, la parte più a sud del mio paese, la destinazione perfetta (..) e quando finalmente vi arrivai, ebbi la sensazione di essere approdato al nulla, a un non-luogo. Il paesaggio aveva un aspetto desolato, eppure dovevo ammettere che i suoi tratti erano leggibili e che io esistevo in esso. Questa era una scoperta: il suo aspetto, pensai, in fondo, un non-luogo è un luogo” (28).
Al ritorno, Ushuaia ci accoglie tremanti e spossati per una breve sosta al riparo e per rifocillarci con una tazza di caffè bollente. Quindi si riparte in aereo per Rio Gallegos e di lì in auto attraverso Esperanza fino a El Calafate, dal nome del bellissimo fiore giallo che vi nasce spontaneo, comprensivo della natura che circonda la “meravigliosa” vista del Lago Argentino, con i suoi 1800 chilometri quadrati di acque gelide, solcate da erranti iceberg e popolato da trote e salmoni. El Calafate è punto di riferimento per numerosi scienziati ed ecologisti, fotografi e cineoperatori che qui giungono in ogni stagione da ogni parte del mondo. Indubbiamente la più grande attrattiva di questo straordinario scenario naturale sono i ghiacciai del Perito Moreno, inclusivo del Cerro Torre (3128 mt) e del Fitz Roy (3441 mt), che più d’ogni altro dominano per la loro imponenza, l’unico al mondo in continuo avanzamento verso la barriera dei ghiacciai, la cui pressione provoca la caduta di enormi blocchi di ghiaccio che, con fragore e alti spruzzi, s’immergono nelle acque gelide, per riemergere poi, quasi fossero ripresi al rallentatore, in forma di iceberg e avviarsi nel loro lento peregrinare verso i bracci lacustri. È questo uno spettacolo straordinario, davvero irrinunciabile, che da solo ripaga del viaggio intrapreso.
Lasciata la terra dei ghiacciai ci spingiamo a Puerto San Juliàn e di lì in aereo fino a Puerto Madryn nel Golfo Nuevo. La vista del mare aperto e le belle giornate assolate mi rinfrancano, prima di riprendere il viaggio di circumnavigazione della penisola di Valdès, dove incontriamo Puerto Piramides, una baia di bianche piramidi naturali a picco sul mare, uno spettacolo per gli occhi, tale da sembrare uscita quasi dalla fantasia di un artista, da cui il suo nome. Numerosa la fauna le cui diverse specie trovano in questi luoghi un habitat naturale a loro confacente. A venirci incontro per primi – in senso figurato – sono i pinguini, che tanto somigliano a quei signori in tight che un tempo affollavano le stazioni termali. Qui a Punta Tambo, nel periodo che va da novembre a gennaio, se ne possono trovare fino a 800 mila esemplari tra maschi e femmine. I primi ad arrivare sono i maschi, riconoscibili per le bande scure sul collo e sul petto. Monogami e fedeli, i pinguini si dirigono verso il luogo designato fin dalla nascita, e attendono l’arrivo della compagna, la quale sopraggiunge esattamente dieci giorni dopo, per l’accoppiamento. Numerose sono le foche, ma è forse l’elefante marino l’attrazione esclusiva del luogo. Così detto per la massa carnosa che i maschi accumulano sul naso, rigonfia come una proboscide di elefante, è considerato il più grande dei pinnipedi e può raggiunge i sei metri di lunghezza e pesare fino a quattro tonnellate, mentre le femmine, di solito stese attorno alla loro massa ingombrante, non superano la tonnellata. Questi, letteralmente spalmato sulle rocce della costa dove s’addormenta al tepore dei raggi del sole, si lascia ammirare come qualsiasi grasso signore disteso sulla spiaggia in una domenica d’agosto.
Meta ultima del nostro viaggio è il rifugio delle balene australi che qui, nella Baia di Valdès si possono osservare, insieme ai pinguini, alle foche e ai leoni marini. Si può restare sbalorditi di fronte allo spettacolo offerto da questi enormi cetacei, lunghi fino a 16 metri e del peso di 50 tonnellate, che s’inabissano e riemergano con gravida mollezza in un gioco di spruzzi. Osservare le balene australi, i delfini e le focene è probabilmente la più entusiasmante fra le esperienze naturalistiche, del resto sono animali esclusivi che trascorrono la maggior parte della vita sott’acqua o in zone remote al largo, cosicché osservarli o studiarli può essere molto difficile. La conoscenza della loro distribuzione geografica, del loro comportamento e di altri aspetti della vita di questi animali è in perenne evoluzione. Non si sa nemmeno quante specie esistano poiché ne vengono scoperte sempre di nuove e vi è un costante dibattito sull’opportunità di ripartirne alcune su due o più generi. Mark Carwardine (29) che insieme a Martin Camm, ha curato una “Guida illustrata ai cetacei di tutto il mondo”, ci informa sul whale watching: “È attualmente una delle attività in maggiore espansione in tutto il mondo e coinvolge più di settanta paesi attirando ogni anno più di 4milioni di persone”, che hanno soppiantato pescatori e cacciatori che un tempo operavano in queste acque con scopi strettamente economici.
Egli scrive: “L’eccezionale incontro con una balena, un delfino o una focena, è ancora più straordinario perché, nonostante i molti secoli di persecuzione da parte degli esseri umani, esse ci accettano prontamente come amici. Le balene grigie in particolare sono così aperte e curiose da rendere talora difficile capire che è l’osservatore e chi l’osservato. (..) Questo tipo di esperienza può cambiare la vita di una persona; andare in canoa – ad esempio – è un metodo meraviglioso per osservare i cetacei, anche se è molto importante non spaventarli avvicinandosi troppo silenziosamente. Può essere pericoloso, ma i cetacei stessi sembrano essere consci della loro forza e delle loro dimensioni e, se vengono trattati con le dovute cautele, sono in genere attenti a non causare danni”.
Trovo davvero incredibile come un animale di così enormi dimensioni conosca una simile “delicatezza” quasi da farci sentire goffi. Noi, che della delicatezza abbiamo fatto una virtù estetica, non riusciremmo a essere delicati quanto loro. Eppure è così che ci si è resi conto del loro “cantare”, seppure la parola “canto” è qui usata per descrivere il campione dei suoni prevedibili e ripetibili prodotti da determinate specie di balene o megattere (specialmente la Megaptera novaeangliae) in un modo che ai cetologi ricorda il canto umano.
E se i viaggiatori, gli scrittori in genere ci hanno fin qui impressionato e, al tempo stesso, affascinato con i loro racconti, ancor più noi dovremmo essere conquistati dalla “poesia” che proviene dal “canto delle balene” durante la stagione dell’accoppiamento, facendo supporre che lo scopo dei canti sia aiutare la selezione naturale. Trovo straordinario sapere che le “canzoni delle balene” siano un comportamento competitivo tra maschi che seguono uno stesso potenziale partner, un sistema per definire il territorio o una tecnica di corteggiamento da maschio a femmina e che le balene che occupano le stesse regioni geografiche tendono a cantare canzoni simili, solo con leggere variazioni. Sembra che le balene che vivono in regioni che non si sovrappongono cantano collezioni di unità completamente differenti, e che, man mano che la canzone si evolve alcuni vecchi motivi non vengano rivisitati. Il biologo marino Philip Clapham (30) descrive il canto delle balene "probabilmente il più complesso nel regno animale". In proposito va qui ricordato che una analisi di 19 anni di canzoni di balena ha trovato che, nonostante si potessero ritrovare dei motivi generali nella canzone, le stesse combinazioni non ricorrevano mai.
Così come trovo affascinante che nel ripetersi costante del creato la bellezza trovi pur sempre il posto che gli spetta, anche se noi (esseri umani) ce la mettiamo tutta per distruggere ciò che ne rimane. Anche se un giorno, è accaduto, il Voyager Golden Record (31) ha portato il canto delle balene nello spazio, assieme ad altri suoni che rappresentano il pianeta Terra. Ed è qui, nella penisola di Valdès, che padre Oceano sembra levare il suo profondo respiro e sussultare di soddisfazione quando, con straordinaria destrezza, alcune delle balene che stiamo osservando, per una volta ancora, si lasciano ammirare nel silenzio del profondo mare che le accarezza e in qualche modo le protegge dal caparbio dominio dell’uomo, per trovare la loro salvezza nella sopravvivenza. Ecco, il nostro itinerario s’interrompe qui, con le immagini viventi del creato, mentre in alto, nel cielo solo talvolta terso, la fantasmagoria delle nuvole, che tutto avvolge, muta a ogni mutare del vento, e dà a questo viaggio, un ché di surreale, come fosse sospeso nel tempo. Ed anche se ormai nel mondo rimangono pochi luoghi inesplorati, l’aver dato il nostro contributo alla scoperta di questo continente ci deve rendere molto orgogliosi. In fondo: “La voce umana non potrà mai raggiungere la distanza coperta dalla sottile voce della coscienza (Mahatma Ghandi).


Bibliografia e testi di consultazione:

“Quawashqar: Una investigaciòn etnolinguistica en el Pacifico”, di Christos Clair-Vasiliadis – in Rivista de Estudios del Pacifico, 5 – Valparaiso, 1972.
“Fuegians Songs ”, di E. M. von Hornbostel – in American Anthropologist, 3 1936.
“The Music of the Fuegians”, di E. M. von Hornbostel – in Ethnos, XIII 1948.
Meridiani: “Argentina” Anno XI, n.73, Milano 1998 – e “Patagonia – Terra del Fuoco” Anno XVIII n.143, Editoriale Domus - Milano 2005.
“Balene e Delfini: Guida illustrata ai cetacei di tutto il mondo”, Mark Carwardine e Martin Camm – Dorling Kindersley Handbooks – RCS Libri – Milano 2001.
Bruce Chatwin: “In Patagonia” – Biblioteca Adelphi, Milano 1982.
Bruce Chatwin – Paul Theroux: “Ritorno in Patagonia” - Adelphi, Milano 1991.

Discografia:

Unesco Collection - Philips “Musical Souces: Amerindian Ceremonial Music from Chile”, Berlin/Venice 1975. Emi-Odeon “Musical Atlas: Chile” – commentary by Manuel Dannemann- editor Alain Daniélou –- Berlin/Venice 1976.

“Antologia de la Cancion Folklorica Chilena”, Gaston Soublette, Odeon-Chile 1975.

“Musica Andina e della Terra del Fuoco”, a cura di ClairVasiliadis, Medina, Salas, Stratigopoulou – Registrazioni sonore raccolte sul campo edite dal Centro di Lenguas Indigenaz di Valpàraiso -Albatros VPA 8225 – 1979.

Atahualpa Yupanchi: “A que le llaman distancia” – Odeon-Iempsa 1423 – Perù. E in: “Cancion para Pablo Neruda” – Le Chant du Monde LDX 74540 – 1974 ; “Vidala del Silencio” – Le Chant du Monde LDX 74697 – 1979. Cantautore, poeta, ricercatore, musicista argentino.

Ariel Ramirez: “Misa Criolla” di– Philips SBL 7684 – 1965, compositore e musicista argentino.

Gato Barbieri, “Vidala triste” in “Bolivia” - BMG –jazz – 1973. Ed in: “El Parana”, “Under Fire” e “Carnavalito” in “Fenix”, – Philips 1973. Inoltre:“Hasta Siempre”, in “Chapter Two” e “Milonga Triste”, in “Chapter Three” – Impulse 1974. Jazzman argentino.

Astor Piazzolla, musicista di bandoneon, compositore di Tango argentino: "Concierto para bandoneon - Tres Tangos" - con Lalo Schifrin.Elektra 1988. "Astor Piazzolla e Quintetto di Tango" - RSI 1983.

Gotan Project, gruppo di nuova formazione ispiratosi alla cultura del Tango: "Lunàtico"  - Iya Basta! - Records 2006. "La revancha del Tango" - Iya Basta! Records - 2001. "Gotan Project Tango 3.0" - Iya Basta Records - 2010.

Voyager Golden Record, è un disco per grammofono inserito nelle due sonde spaziali del Programma Voyager, lanciato nel 1977, contenente suoni e immagini selezionate al fine di portare le diverse varietà di vita e cultura della Terra. È concepito per qualunque forma di vita extraterrestre o per la specie umana del futuro che lo possa trovare. La sonda Voyager impiegherà 40.000 anni per arrivare nelle vicinanze di un'altra stella. Le probabilità che venga trovato da qualcuno sono estremamente remote in rapporto alla vastità dello spazio interstellare. Un suo possibile ritrovamento ad opera di una forma di vita aliena potrà avvenire soltanto in un futuro molto lontano. Il suo lancio è infatti visto più che altro come qualcosa di simbolico che non un tentativo reale di comunicare con forme di vita extraterrestri. Attualmente, nel 2010, le sonde Voyager sono due dei quatto artefatti prodotti dall'umanità usciti dal Sistema solare. Gli altri due sono le sonde Pioneer 10 e Pioneer 11, appartenenti al omonimo Programma Pioneer, e lanciate rispettivamente nel 1972 e nel 1973. Ogni sonda Pioneer possiede una placca metallica che identifica il loro luogo e il loro tempo d'origine, per beneficiare altri viaggiatori spaziali che potranno ritrovare le placche in un lontano futuro. « Questo è un regalo di un piccolo e distante pianeta, un frammento dei nostri suoni, della nostra scienza, delle nostre immagini, della nostra musica, dei nostri pensieri e sentimenti. Stiamo cercando di sopravvivere ai nostri tempi, ma potremmo farlo nei vostri. » (Jimmy Carter, Presidente degli Stati Uniti d'America).

Note:

(1) Paul Theroux , “Ritorno in Patagonia”, con Bruce Chatwin – Adelphi 1991.
(2) Bruce Chatwin , “Patagonia”, “Ritorno in Patagonia” - Adelphi 1989.
(3) Thomas Falkner, “A description of patagonia” – Hereford 1974.
(4) Charles Darwin , “Journal of researches into the Natural History and Geology of the Countries Visited during the Voyage round the World of H.M.S. Beagle” – London 1902.
(5) Hermann Melville “Moby Dick” – Meridiani Mondadori 1987..
(6) “Qawashqar”, in A. Raùl Cortazar, in “Musica Andina e della Terra del Fuoco”, a cura di ClairVasiliadis, Medina, Salas, Stratigopoulou – Registrazioni sonore raccolte sul campo edite dal Centro di Lenguas Indigenaz di Valpàraiso -Albatros VPA 8225 – 1979.
(7) A. Raùl Cortazar, académico argentino. Abogado y doctor en Letras, uno de los folklorólogos más reconocidos de su país, se dedicó a la docencia y a la investigación en la Universidad de Buenos Aires y en la Universidad Católica Argentina, Folklore General y Ciencias Antropológicas en la Facultad de Filosofía y Letras (UBA). Jefe del Departamento de Folklore del Museo Etnográfico y Director de la Biblioteca Central de la Universidad. Creó el Seminario de Folklore y la Carrera de Licenciatura en Folklore. Libros: “El folklore argentino y los estudios folklóricos : reseña esquemática de su formación y desarrollo”. Buenos Aires, El Ateneo, 1965. “Ciencia folklórica aplicada: reseña teórica y experiencia argentina”. Buenos Aires: Fondo Nacional de las Artes, 1976.
(8) “Atqashap” (vedi discografia Atahualpa Yupanqui)
(9) Ibidem
(10) “Chichilli” (vedi discografia“Musica Andina e della Terra del Fuoco”, a cura di ClairVasiliadis, Medina, Salas, Stratigopoulou).
(11) “Sumirunmansanisa” (vedi discografia Unesco Collection - Emi-Odeon “Musical Atlas: Chile” – commentary by Manuel Dannemann).
(12) José Hernández, scrittore, giornalista e poeta argentino. La sua opera più famosa è il “Martín Fierro”, poema epico su un gaucho della pampa, un poema epico argentino scritto da nel XIX secolo. Il poema fu pubblicato nel 1872 con il titolo El gaucho Martín Fierro ed è considerato un capolavoro del genere gauchesco in Argentina e Uruguay. Una prosecuzione dell’opera, intitolata “La vuelta de Martín Fierro” (Il ritorno di Martín Fierro) fu pubblicata da Hernández nel 1879.
(13) Ibidem
(14) J. Luis Borges, Narratore, poeta e saggista, è famoso sia per i suoi racconti fantastici, in cui ha saputo coniugare idee filosofiche e metafisiche con i classici temi del fantastico (quali: il doppio, le realtà parallele del sogno, i libri misteriosi e magici, gli slittamenti temporali), sia per la sua più ampia produzione poetica, dove, come afferma Claudio Magris, si manifesta "l'incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto".
(15) Bartolomé Mitre fu il primo che fissò per iscritto il motivo di “Sacra Pianura”, ispirato nella tradizione orale del gaucho Santos Vega. Il poema "A Sacra Pianura, payador argentino" fu scritto nel 1938 e raccolto in libro di Rime nel 1954.
(16) Atahualpa Yupanchi (vedi discografia)
(17) Ibidem
(18) Alberto Maria De Agostini esploratore, fotografo e presbitero italiano, famoso per le proprie esplorazioni della Patagonia e della Terra del Fuoco. Realizzò un'accurata cartografia della Patagonia meridionale e della Terra del Fuoco colmando così varie lacune presenti nelle carte del tempo. Da ricordare il suo contributo alle scienze naturali e all’antropologia: raccolse minerali e fossili, contribuì alla classificazione di numerose specie vegetali, approfondì le conoscenze sulla morfologia glaciale delle zone esplorate e descrisse la vita e le tradizioni degli ultimi indigeni della Patagonia e della Terra del Fuoco. Il Cile gli ha dedicato un grande parco nazionale nella Terra del Fuoco e il nome di un fiordo lungo 35 km. Opere: I miei viaggi nella Terra del Fuoco, Paravia, Torino, 1928 . Opere: Ande Patagoniche - viaggi di esplorazione nella Cordigliera Patagonica australe , Milano, Soc. Geografica G. De Agostini, 1949. Trenta anni nella Terra del Fuoco, SEI, Torino, 1955. Sfingi di ghiaccio, Ilte, Torino, 1958. Padre De Agostini produsse anche una grande quantità di articoli, pubblicati su varie riviste specializzate. Una scelta della sua vastissima produzione fotografica è stata raccolta su alcuni numeri dei Cahier Museomontagna, editi dal Museo Nazionale della Montagna Duca degli Abruzzi di Torino: Ai limiti del mondo. Alberto M. De Agostini in Patagonia e Terra del Fuoco - 1999 La naturaleza en la América austral. Alberto M. De Agostini – 2000.
(19) Alessandro Malaspina, esploratore e navigatore italiano a servizio della Spagna. Dopo aver attraversato l'Atlantico in soli 52 giorni, le corvette si trovarono in rada a Montevideo il 20 settembre, dove vennero stabiliti protocolli per i rilievi astronomici, geografici e cartografici, per l'esecuzione delle raccolte naturalistiche e le riparazioni necessarie alle navi e fu rilevato l'estuario del Río de la Plata prima di iniziare la navigazione verso la Terra del Fuoco dove incontrò le popolazioni della Patagonia a Puerto Deseado, nello Stretto di Magellano.
(20) Ibidem
(21) Gato Barbieri, (vedi discografia)
(22) Athaualpa Yupanchi, (vedi discografia)
(23) Ariel Ramirez, (vedi discografia)
(24) Astor Piazzolla, (vedi discografia)
(25) Gotan Project, (vedi discografia)
(26) Robert FitzRoy, navigatore britannico, celebre per aver condotto in qualità di capitano il brigantino Beagle nel viaggio in Patagonia e nello stretto di Magellano, trasportando come passeggero il naturalista Charles Darwin la cui esperienza fu la scintilla che innescò le sue teorie sull'origine della specie. Durante il viaggio sul brigantino Beagle tiene un diario di bordo sul quale annota le proprie esperienze, proprio come Darwin. Fitzroy è anche considerato uno dei pionieri della meteorologia, egli infatti diede vita alle prime previsioni del tempo.
(27) Bruce Chatwin e Paul Theroux op. cit.
(28) Ibidem.
(29) Mark Carwardine e Martin Camm, “Balene e Delfini: Guida illustrata ai cetacei di tutto il mondo”, Dorling Kindersley Handbooks – RCS Libri – Milano 2001.
(30) Philip Clapham, biologo, in “Lone whale's song remains a mystery”, New Scientist, numero 2477, 11 dicembre 2004: “L'incremento del rumore ambientale nel mondo oceanico causato dalla navigazione è alla base delle lamentele degli ambientalisti sul fatto che gli umani stiano distruggendo questa importante caratteristica dell'habitat marino. Due gruppi di balene, le Megattere e le sottospecie di balenottera azzurra trovate nell'oceano indiano, sono note per la produzione dei suoni ripetitivi in varie frequenze conosciuti come canto delle balene”.
(31) Voyager Golden Record, (vedi discografia).



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