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Etnomusicologia 4 - Maschere e Body Art

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 27/05/2011 08:48:05

ETNOMUSICOLOGIA – 4

“MASCHERE & BODY ART” di Giorgio Mancinelli con la partecipazione di Paolo Rovesti.

(Studi e ricerche effettuati per “Folkoncerto: Maschere Rituali”, un programma di Etnomusicologia trasmesso da RAI Radio Tre; per “Il canto della Terra” su RSI radio della Svizzera Italiana).

In apertura di questo capitolo di ricerca scientifica dedicato alla maschera e al tatuaggio, non posso fare a meno di ricordare il professor Paolo Rovesti (1), già Presidente d’Onore del Comitato Internazionale di Estetica e Cosmetologia della Società Italiana dei Chimici Cosmetologi (di cui è stato fondatore) e dell’Unione Tecnica Italiana Farmacisti; Membro dell’Accademia Italiana di Storia dell’Arte Sanitaria di Roma, dell’Accademia di Dermatologia di Parigi e di numerose altre associazioni scientifiche italiane e straniere. Al quale, in passato, sono stato legato da profonda amicizia, e che ricordo con stima e grande affetto. Le ragioni che mi spingono a questo sono molteplici, legate soprattutto alla collaborazione prestatami nell’organizzare la serie di trasmissioni radiofoniche “Maschere Rituali” (2), cui egli prese parte attivamente con suoi scritti e intervenendo personalmente in più di un’occasione. Inoltre si rende qui necessario citare almeno due delle sue opere “importanti” per la nostra ricerca sul campo. “Alla ricerca della cosmesi dei primitivi” (3), e “Alla ricerca dei profumi perduti” (4) che, in qualche modo, hanno fornito le basi per la ricerca “antropologica” da cui si è partiti.
Così egli scrive (quasi il buon vecchio che ci racconti una bella fiaba): “La giungla intatta dei primordi, con la sua flora spontanea, fitta e polimorfa, con i suoi grandi alberi ombrosi, con la sua fauna squittente e scattante, coi suoi straordinari colori, era l’ambiente predominante dell’uomo primitivo che vi si trovò immerso nel suo cammino per la sopravvivenza. Con grande cautela, sgrovigliando ramaglie e sterpi che ostacolavano il suo cammino, egli cercò di dilatare il suo spazio vitale nella ricerca di procurarsi del cibo. Ed ecco, in una pausa della sua polivalente attività, sorgergli accanto un fiore d’ibisco, rosso come il sole e vivo come la fiamma, a dirgli che non era solo, che la silenziosa compagnia di un piccolo fiore, talvolta, andava considerata come un piccolo dono che la natura fantasmagorica di colori, di aromi, e di suoni, sarebbe stata con lui, per la sua gioia e il suo immenso piacere. L’incontro con le misteriose solitudini della natura quindi, c’era stato, adesso egli avrebbe dovuto scoprire tutto quanto rimaneva da scoprire, e la natura si sa ha i suoi lati oscuri. Era ancora troppo sconosciuta per non incutere in lui quel timore riverenziale e quell’angoscia carica di preoccupazione di cui egli difficilmente si sarebbe liberato”.
È vero, poche cose nella vita hanno un carattere di eternità quanto la bellezza che ci accompagna, con i suoi costrutti, le sue premure ma anche con la sua fragilità, tuttavia ricolma di cosmica armonia. L’esigenza estetica nasce da questo, come un istinto cosciente rivolto all’armonia, nel voler dare un aspetto e una forma migliore alle cose, disporle a proprio gusto e piacimento, dare alla “bellezza” che pur esiste già nella natura, un ordine, una tendenza, una sollecitazione capace e intuitiva.
“I primitivi – scrive ancora il prof. Rovesti – furono i soli a lasciarsi guidare dall’intuizione nella scelta degli adornamenti e dall’estro estetico della natura, dal proprio senso istintivo della bellezza. Le terre, i fiori, i frutti, i semi, essendo reperibili in forme e colori diversi, vennero utilizzati per ogni tipo di ornamentazione: collane, ghirlande e bracciali di champaca, gelsomino, frangipani, basilico selvatico, vaniglia e gardenia, fresie etc. “importanti” non solo per i loro colori ma anche per i loro profumi. Anche le conchiglie e altri prodotti del mare, abbondantemente reperibili sulle spiagge e lungo gli anfratti costieri, come la madreperla, il corallo, il guscio di conchiglie, si sono rivelati preziosi nella creazione di oggetti ornamentali per gli usi più diversi. Tra i più apprezzati spiccano i denti di squalo e le ossa di balenotteri spesso usati come amuleti per forme diverse di superstizione. Penne di uccelli e pelli animali, da sempre sono fatte oggetto di adornamento per i nativi aborigeni delle grandi foreste, per le gamme multicolori e la varia lunghezza, monocrome e variegate, a ciuffo o piane, ricche di sfumati e brillanti colori che hanno rivestito, in modo davvero affascinante, i corpi nudi delle popolazioni indigene”.

È detto nella strofa di una canzone Sasak: (vedi discografia)
“Splendono nel cielo uccelli multicolori / con le loro penne mi sento come loro / più leggero e più bello / per danzare con la mia tribù”.

Lo stesso accadeva con le pelli di animale, a chiazze, a strisce, in tinta unita, con pelo folto o rado, con morbidezze cangianti, cui erano attribuiti significati magici di una certa rilevanza. Ma era la pelle di felino, giaguaro, puma, tigre, leopardo, a essere considerata portatrice di forza e coraggio; mentre quella di serpente significava astuzia e quella di scimmia agilità. Utilizzati per scopi diversi gli amuleti ricavati dalle zanne e dalle ossa di questi animali sono per lo più entrati a far parte della vasta gamma degli “amuleti” integrativa del costume dei primitivi, spesso legati a riti tribali di oscura provenienza con motivazioni propiziatorie e animiste. Per lo più vengono indossati nella foggia di orecchini, anelli nasali, ciondoli e collane, ma anche come cavigliere e sonagli, altresì usati a supporto di estensioni del corpo e come strumenti di chirurgia, come ad esempio nelle scarificazioni (5).

Riporta una tradizione orale del Borneo:
“Questo fiocco di cordicelle colorate per contarle e guardarle, farà perdere del tempo allo spirito maligno che vorrebbe colpirmi, e tutti questi denti e spine e schegge di ossa, saranno per lui come una siepe irta che non gli permetterà di passare”.

“Questi oggetti – ci dice ancora il prof. Rovesti – insieme con altri manufatti più complicati, sono entrati in seguito a far parte dell’abbigliamento quotidiano dei primitivi, come parti essenziali di un mascheramento più complesso con implicazioni religiose e mitiche che, per una peculiarità prettamente psicologica, richiedono di coprire tutto il corpo facendo anche uso di maschere facciali e copricapo molto elaborati. Fibre vegetali e paglia intrecciata, diversi tipi di legno inciso i pirografato, tela e argilla, liane intessute, teste di animali sono di gran lunga le materie utilizzate per questa vestizione che si rivela poi come vero e proprio mascheramento dell’uomo nelle sembianze dell’animale che rappresenta, e comunque della natura che lo circonda. Allora si ha l’uomo-giaguaro, il “dio” della foresta, il “dio” dell’acqua; oppure l’uomo-albero, l’uomo-vento ecc., e sempre il risultato è sorprendente, anche quando i mascheramenti raffigurano qualcosa di spaventoso”.
Numerosi studi antropologici hanno rilevato che l’uso del mascheramento, o con maschere, anche solo basato sul travestimento, trova riscontro nella forma di comunicazione tipica di ogni tradizione orale, cioè sostitutiva di un dialogo linguistico che non poteva esserci e che andava rammentato. Non c’era miglior modo quindi che trasformare il linguaggio vocale in linguaggio visivo, allo scopo della memorizzazione. L’interpretazione di un costume riferito a un mito rappresentava il mito stesso che s’incarnava nel quotidiano, in mezzo alla collettività che era chiamata a partecipare. Poiché ogni aspetto della vita tribale doveva necessariamente rapportarsi con la realtà sociale/tribale di questo o quel gruppo l’utilizzo di maschere tipiche usate a scopo rituale non era semplicemente una forma d’arte come la possiamo intendere noi, bensì era tutt’uno con la realtà che la comunità si trovava a vivere, anche se, e questo accadeva molto spesso, la miticizzazione di questo o quell’aspetto degli eventi naturali risultavano trasformati, che noi diremmo, concetti astratti.
La “magia” quindi, utilizzata per sopperire a ciò che in astratto non era spiegabile con le parole, è la nascita della rappresentazione visiva, della musica in funzione dell’accompagnamento al rito, alla nascita del mito dell’eroe, della tragedia (casuale o necessaria) che l’incombe nel suo divenire mito. Potremmo finanche dire che siamo di fronte alla prima forma di comunicazione collettiva che, passando attraverso “l’arte” (canto e musica, pittura decorativa e abbigliamento, maschere e ornamenti, cosmesi facciale e body-decorated), si rappresenta all’interno di un linguaggio universale che ci accomuna e ci rappresenta. È la scatola magica del cinema e della televisione di oggi, il cui linguaggio più affermato è rappresentato dalla pubblicità.
Al fine della nostra ricerca è questo l’Eldorado che stavamo cercando. È nella prospettiva del ritrovamento di un linguaggio accomunante che la ricerca assume una dimensione assai più ampia, che fuoriesce dagli schemi di un programma precostituito, atrofizzato dentro etichette e didascalie polverose, che diventa percezione, riflessione, stimolazione dei sensi, sollecitazione. L’aprirsi di spazi non convenzionali, nella nuova ottica di veicolo di scambio e di comprensione. Molti sono i segni dell’attualità soprattutto fra le nuove generazioni che spesso vediamo adottare riti e d espressioni dei costumi del passato, e non solo. Non ne sono avulse certe scienze umanistiche che hanno riposto certe perplessità e che rivolgono maggiore attenzione alle culture orali e comunque primitive. Vuoi per una nuova lettura più approfondita, forse mancata a suo tempo, e che oggi si propongono come innovatrici nella ricerca di temi “etnologici” che hanno sempre avuto sotto gli occhi.
Il tema del mascheramento e dell’utilizzazione delle maschere è uno dei più dibattuti e interessanti nello studio antropologico ed etnologico per le interazioni che ha subito nel tempo e presso i diversi popoli. Ancor più, perché porta all’analisi della personalità dell’uomo e dei suoi tabù, di quelli che sono i suoi “problemi atavici”, preconcetti e illogicità compresi. Quelli che Ernesto de Martino (6) definisce “ancestrali incertezze” e che hanno dato luogo al dramma della “crisi della presenza” riconducibile all’età “magica” dei cosiddetti primitivi. “Un’età – scrive De Martino – in cui l’uomo subì il rischio di essere annullato dalle forze naturali, incommensurabili e incontrollabili”. E che l’uomo, a incominciare proprio dall’uomo primitivo, ha rappresentato nelle forme della sua arte e che si presenta a noi ricco di stimoli e di tensioni importanti per la ricerca qui avanzata, nelle espressioni pittografiche e scultoree del passato ma, ed anche, del canto e della musica, così come nella pittura decorativa e nell’abbigliamento, nelle maschere e negli ornamenti, nella cosmesi facciale e nel body-decorated. Ma andiamo con ordine.
“Lo studio della maschera – prosegue il prof. Rovesti durante l’intervento in trasmissione – possiede un grande fascino, soprattutto perché, come allora, il suo utilizzo esalta la fantasia. Sono state ritrovate maschere che rendono un’espressione sorridente oppure tragica, altre spaventevoli, legate ai culti di divinità demoniache che ancora oggi mantengono il loro “spirito” malefico, ovviamente dettato dalla loro espressione rivolta all’uomo. Altre invece sembrano più rassicuranti e, guarda caso, sono quelle che prendono a soggetto la natura e gli animali. Il che starebbe quasi a che l’uomo è il contenitore del male mentre ciò non riguarda la natura che lo circonda”.
Una dicotomia, quindi, come per dire che la maschera è la rappresentazione di spiriti del male o di esseri protettori dell’uomo?
“Psicologicamente parlando, chi indossa la maschera o la disegna sulla pietra, o ancora la raffigura nell’argilla, che sia con il ferro o il legno, con la stoffa o la paglia, si esalta nella sua funzione, non in ciò che essa rappresenta. Tuttavia è cosciente di non incarnare ciò che appare alla vista altrui; ma in quanto portatore o attore, egli entra nella sfera del sacro e se ne sente responsabilmente partecipe. Talè è la forza che possiedono certe maschere nella psicologia tribale, ad esempio dei neri d’africa”.
Una forma di intermediazione tra l’uomo e la divinità o l’essere mitico che rappresenta?
“Difficile rispondere, forse sì, è così, la maschera mette a diretto contatto l’’umano col soprannaturale, utilizzando una lingua complessa ricca di simbologie, di cui solo gli iniziati riescono a comprenderne il profondo significato che essa pure gli trasmette”.
Ciò vale ad affermare ciò che qualcuno ha stereotipato in “Io non sono io, sono un altro!”?
“È in questa dimensione che lo sciamano che appare sullo spiazzo del villaggio o dell’accampamento provvisorio, per dare inizio a una danza “magica” non è in realtà lui”.
Cioè non è più la stessa persona che tutti conoscevano come “l’uomo medicina”?
“Di certo non è la persona di prima in virtù della maschera. Facendo uso della maschera, egli appartiene ad un’altra sfera di percezione, entra in contatto con le forze misteriose che regolano l’universo. È qui, che noi contemporanei ci perdiamo, nella nostra incredulità”.
Ci vuole fare un esempio?
“Ecco, i fanciulli e le donne Papua delle piccole isole Kiwai, credono fermamente che gli attori mascherati, siano realmente gli spiriti dei defunti. E gli anziani fanno tutto il possibile per rafforzarli nella loro credenza raccontando loro anche menzogne a riguardo. Resta il fatto che gli stessi anziani prendono molto sul serio quello che a prima vista potrebbe sembrare un gioco. Per loro, se gli attori non sono gli spiriti dei morti, poco importa, perché gli spiriti stessi sono però presenti alla cerimonia”.
All’origine di ogni forma di mascheramento sta, come si è detto, la determinante necessità da parte dell’uomo , di sentirsi partecipe delle forze che animano il mondo, e la peculiarità di dover collaborare con esse, sfruttarne e sublimarne così le proprie facoltà istintive. L’uso che si fa delle maschere e spesso di “idoli” ad esse connessi in cui l’aspetto terrificante, talvolta unito all’uso di sostanze allucinogene, permette alle comunità che ne fanno uso, la suggestione collettiva, stimolata ed esercitata dallo sciamano sugli iniziati dell’intero gruppo. Chi la indossa spesso riesce ad esternare la virtù segreta che la maschera custodisce in sé e di trasmettere un particolare messaggio, sia esso di culto o di origine mitica su cui è improntata la loro vita sociale e che regolamentano la loro la loro esistenza dalla nascita alla morte.
Professore ci dica qualcosa riguardo l’autosuggestione (7).
“Indubbiamente occupa un posto predominante su tutto l’apparato rituale da e totemico nei riti d’iniziazione. In breve, è codificato entro un’iconografia tradizionale tramandata oralmente di generazione in generazione, con maschere e l’uso di cosmetici di grande effetto decorativo, eseguiti in onore degli idoli cui sono rivolti, e officiati con riti sacrificali, canti e danze con grandi effetti coreografici. Che talvolta però, si caricano di fin troppa atmosfera magica, come ad esempio nel voodoo haitiano o nella macumba brasiliana, in cui la presenza “divina” non è possibile eliminare senza svuotare di significato il rito stesso. Soprattutto, cosa che non è ancora stata detta, la maschera o il mascheramento in sé, è il mezzo che permette la presa di contatto con il mondo soprannaturale”.
Non ricordo però di aver visto vere e proprie maschere nella macumba brasiliana, non so se nel woo-doo haitiano…?
“Come abbiamo già detto il mascheramento, qualunque esso sia è già la maschera, e allo stesso modo richiede l’osservanza di regole precise e atti rituali inderogabili. Atti che sono per lo più autorizzati dai capi spirituali o dagli sciamani che di solito presiedono all’investitura nei riti iniziatici, cosiddetti anche “riti di passaggio” (8) e che, di solito, si presentano sempre dipinti nel corpo o mascherati”.
Questo fenomeno è verificabile in tutte le cerimonie religiose di qualsiasi rito anche oggigiorno: si veda il Sindaco della Città con la fascia, il sacerdote sull’altare di qualsiasi confessione ecc. Giovanni Vignola (9), in “Riti magici di ieri e di oggi” sottolinea questa particolarità scrivendo: “Se l’officiante, il sacerdote, il pastore, il bonzo o il muezzin, non avessero uno o più segni distintivi che li fanno diversi dagli altri, o che li rendono idonei alla funzione cui sono chiamati a svolgere, e che li abilitano e li autorizzano a fare da intermediari fra due mondi diversi, non soltanto la cerimonia cadrebbe nel ridicolo ma perderebbe la sua intrinseca efficacia”.
Che cosa ci dice professore?
“Astraendoci da una qualsiasi locazione geografica precisa, l’uso della maschera o il mascheramento, compare nella storia dell’umanità fin da epoche relativamente remote, in diretto rapporto tra esigenza magico-religiosa e necessità quotidiana della ricerca di evasione, nell’esperienza di esistenze diverse, come pure, non dimentichiamolo mai, nell’identificazione con le forze della natura, nel connubio uomo-animale e uomo-divinità”.
Quindi torniamo di nuovo sul piano psicologico!
“È inevitabile, del resto lo dice anche il Vignola (sopracitato), dove appunto egli scrive: … la maschera offre l’opportunità per l’evasione, quasi un alibi direi per evadere; permette che l’evasione si completi nello spirito e nella figura … . In effetti cosa succede quando guardiamo una maschera? La nostra prima impressione è proprio che dietro di essa non si nasconda un uomo in carne ed ossa, con un corpo come il nostro, con gli occhi, il naso e la bocca come i nostri, ma una creatura mostruosamente fantastica, che ci riempie di curiosità e di sgomento, ma anche di timore, non è forse così?”
In definitiva, dobbiamo ammettere che la maschera è principalmente un mezzo per occultare noi stessi, come dire, per non essere riconosciuti dagli altri?
“Il principio è sicuramente quello, anche se nella civiltà contemporanea questa tendenza si è andata affievolendo, anche perché la così detta “mascherata” è nata a scopo di divertimento e di piacere, prima di divenire occasione di gioco riservato ai bambini”.
Già, i grandi preferiscono il travestimento.
“Piuttosto, direi che i grandi hanno perduto il gusto di recitare una parte che in realtà poi recitano, talvolta anche nel peggiore dei modi, facendo in modo che gli altri non se ne accorgano, o meglio fanno finta di non accorgersene, solo perché recitano anche loro. È altrettanto chiaro che tutto questo porta a una grande solitudine, a quella “solidào” che i brasiliani, più d’ogni altro popolo, sentono e trasmettono nella loro musica”.
Del resto, come rileva Franco Monti (10) – “… la maschera è sempre attuale e i suoi molteplici usi investono ogni attività dell’uomo di ogni epoca, pur senza trasgredire a l’ordine iconografico che la raffigura; essa non rappresenta l’emozione del singolo, non descrive figurativamente l’uomo che teme, che combatte o che muore; è essa stessa il “timore”, “la guerra”, “la morte” … nella sua identificazione con le forze universali divine o demoniache la maschera rende sempre più incerti i confini che separano l’uomo dalla natura o dall’animale, o dallo spirito che si trova a perpetuare che lo rende simile alla divinità”.

Lasciamo il mondo delle maschere vere e proprie per introdurre il prossimo contesto della nostra ricerca improntata sul “tatuaggio” che prima di far parte della body-art va riferito a una forma di cosmesi intuitiva sul filo di situazioni ambientali e psicologiche all’interno di differenti realtà tribali. Come e in quale misura i popoli primitivi abbiano impiegato alcune materie prime e quali mezzi tecnici hanno escogitato per creare forme di bellezza diverse, e di rilevanti scoperte fatte dall’etno-cosmesi. Tematiche queste che saranno di volta in volta illustrate dal prof. Paolo Rovesti e che ci permetteranno di conoscere come la maschera cosmetica dei primitivi si sia inserita nell’evoluzione dell’arte, certo in maniera effimera, nella moderna cosmesi.

“Tattoo & Scarificazioni”

Alla base di questa ricerca comparativa che vuole anche essere un’inchiesta sulle diverse forme di comunicazione visiva e artistica, e la gestualità e i modi comportamentali, dall’uomo primitivo a quello moderno, del perché ci si tatua, la psicologia del tatuaggio e i suoi significati, del perché ha influenzato intere generazioni su scala mondiale e abbia influenzato nel profondo il comportamento sia degli uomini che delle donne. A incominciare dai cosi detti “mosaici” corporali ottenuti con l’ausilio di minuscole tessere lisce di legno o di pietre colorate che vengono applicate sulla pelle preventivamente preparata con disegni rituali e fissate con sostanze adesive, usate nelle feste e nelle cerimonie iniziatiche e, particolarmente, per segnare il numero dei figli o degli adepti di una setta, o nel caso di amputazione e forme di mutilazione tribale. Un esempio lo sono la limatura dei denti incisivi nelle popolazioni dell’Africa e l’uso di incastonare pietre di solito preziose o semipreziose, sullo smalto dei denti dell’ultima moda, già praticata in India e da alcune popolazioni sud sahariane.
È noto che l’immagine del proprio corpo da sempre ha provocato un effetto considerevole sui comportamenti degli uni verso gli altri. Alcuni studiosi hanno rilevato l’importanza per i due sessi di stabilire le loro prerogative sentimentali e sessuali: il sesso maschile, quella di possedere un sesso di più grandi dimensioni; quello femminile di possederne uno più piccolo, ma dotato di seni e glutei più grandi, anche se indubbiamente sono cambiate molte cose. È evidente che esiste una correlazione fra l’autovalutazione del proprio corpo e la ricerca di giudizio positivo da parte del sesso opposto. Non a caso molte persone sono considerate più attraenti di quanto esse stesse credono e viceversa.
Così amuleti, costumi e ornamenti finiscono con l’essere sotto controllo di chi li indossa a scopo apotropaico, cioè servono ad allontanare o ad annullare influssi magici maligni, in modo da ottenere particolari effetti negativi provenienti dagli altri, e che invece oggigiorno vengono esposti per una forma di narcisismo. A questo desiderio di comunicare, che è considerato esigenza primaria dell’uomo, fa riscontro un desiderio più grande che è quello di esprimersi. Scrive Edmund Husserl (11): “Fra ciò che veramente mi appartiene io trovo solo il mio corpo che si distingue da tutti gli altri per una particolarità unica. È il solo corpo all’interno dello strato astratto ritagliato da me nel mondo, al quale, conformemente all’esperienza, io coordino, in modi diversi, campi di sensazioni”.
Desmond Morris (12) nel suo famoso “L’uomo e i suoi gesti” rileva quanto segue: “L’indossare abiti è soltanto uno dei modi in cui l’animale uomo si adorna . Ma oltre a vestirsi, egli si può incidere la pelle, forare la carne, tagliare i capelli, profumarsi, dipingersi gli occhi e le labbra, incipriare la faccia e limare i denti, truccarsi, mettersi parrucche, travestirsi con forme di abbellimento che operano come importanti esibizioni umane, che indicano lo stato sociale, la condizione sessuale, la disponibilità individuale, l’alleanza di gruppo”. Ma si tratta di ornamenti per lo più temporanei. Le decorazioni costanti, quelle che comportano qualche forma di mutilazione fisica, sono forse quelle più tipiche del linguaggio visivo che danno l’avvio alla nostra ricerca improntata come si è detto sul tatuaggio.
Il progredire del senso estetico porta successivamente al compiacimento di sé, a un incipiente narcisismo che fa scoprire nuovi mezzi naturali per arricchire sempre più il proprio corpo con colori, ornamenti e forme estetiche originali. Creatività che raggiunge valori e livelli notevoli nel tatuaggio, un’espressione cosmetica usata per gli scopi più diversi. Ci dice il professor Rovesti: “Per le figurazioni più semplici la reazione cutanea è di solito poco dolorosa, ma per quelle più estese si può verificare una reazione edematosa più o meno intensa e dolorosa che però scompare in pochi giorni. Se i tatuaggi sono limitati a pochi punti, di solito costituiscono solo segni di riconoscimento fra tribù, ma quando interessano tutto il corpo significa che si perseguono scopi ben diversi, estetico, religioso, propiziatorio, medico, magico”.
Può farci degli esempi?
“I tatuaggi più complessi e appariscenti li troviamo tra i melanesiani e i polinesiani; tatuaggi che occupano nei capi e nelle persone di maggiore importanza nella tribù, quasi la totalità del corpo. Si conoscono diverse preferenze di tatuaggio che in un certo senso segnano la diversità tra i vari popoli anche dello stesso continente”.
Quali parti del corpo sono prevalentemente sottoposte al tatuaggio?
“Sono preferite le spalle e le natiche, il volto, il petto negli uomini nel caso si tratti di etero tatuaggi, mentre gli auto tatuaggi di preferenza sono l’avambraccio, le cosce, la zona palmare sinistra, le dita della mano sinistra. In realtà è più nella simbologia e nella grafia che si trovano queste differenze. Nelle isole Cook, ad esempio, troviamo numerosi i tattoo sugli organi genitali maschili; mentre nelle isole Ponape troviamo in prevalenza tattoo sugli organi di riproduzione femminili. Curiosa può risultare l’usanza di farsi tatuare la lingua dalle vedove nelle isole Sandwich, o di farsi tatuare il cranio calvo dei vecchi nelle isole Marchesi. Mentre invece a Tahiti troviamo quasi esclusivamente tatuaggi sui seni e i glutei femminili con uccelli, lucertole, pesci, mani maschili. Nelle isole della Sonda alcune ragazze adornano la loro bocca con corone di fiorellini tatuati. Nelle Caroline, appena una fanciulla diviene donna si fa tatuare un triangolo sul basso ventre più o meno vistoso, senza il quale, nessun uomo l’avvicinerebbe”.
Non si pensi che mi sia dimenticato della nostra ricerca primaria riferita all’etnomusicologia applicata. Se la tematica sembra non dover lasciare spazio alla musica o al canto, è solo perché in questa specifica trattazione scritta, non c’è lo spazio materiale per l’ascolto, in cui l’ascoltatore è chiamato a partecipare della ricerca musicale che accompagna i testi. Cercherò di rimediare con un’ampia sezione discografica di riferimento, di cui ci si potrà avvalere per indurvi all’ascolto di alcuni brani che ho scovato nell’ampia discoteca che ho raccolto nei miei frequenti spostamenti in giro per il mondo. Come in questo caso del brano “saka” registrato nell’isola di Bellona in Melanesia, cantata durante il tattoo di una isolana per distrarre la sua mente dal dolore. La canzone, più semplicemente “canto per il tatuaggio” è stata composta da un esponente di questa cultura dal nome originale “Mautikitiki” (13). L’accompagnamento è costituito dal suono di un bastoncino che scandisce il picchiettio dell’ago a imitazione del tatuaggio reale. Una pratica interrotta solo da pochissimi anni.
Esistono quindi diverse tecniche di esecuzione del tatuaggio? – chiedo al professor Rovesti.
“Il tattoo per infissione è certamente quello più diffuso nei paesi che ce lo hanno trasmesso, quali l’Oceania, Melanesia, Nuova Guinea, Tasmania e in alcune zone centrali dell’Australia dove, ancora oggi, sopravvivono un gran numero di popolazioni allo stato aborigeno. Mentre in Africa è maggiormente in uso la scarificazione, in India e nei paesi arabi troviamo il tatuaggio per puntura sulla fronte, sul mento e sulle mani, e solo raramente si sono visti casi di tatuaggio totale, come ad esempio presso alcuni popoli della Siberia”.
Immagino si riferisca al rinvenimento archeologico dell’uomo tatuato di Pazyryk nel massiccio montuoso dell’Altai?
“Certamente, anche se non ho sufficiente documentazione per parlarne”.
Ho raccolto alcune notizie stampa e sono venuto a conoscenza che si tratta di uno dei più importanti ritrovamenti d’interesse antropologico del secolo, avvenuto tra le sepolture della vallata da cui ha preso il nome. Il corpo completamente tatuato, sembra appartenesse a un capo o forse uno stregone di una tribù nomade risalente addirittura al IV° V° secolo a. C. giunto fino a noi grazie alla protezione del gelo che lo ha mantenuto in buono stato di conservazione, insieme agli animali e gli oggetti con cui era stato sepolto. A Pazyryk (14) nella regione dei monti Altai (Siberia - Russia) è presente un gruppo di circa 40 tombe preistoriche rinvenute dall' archeologo Rudenko nel 1920. Queste tombe (del quinto secolo avanti Cristo), quasi tutte violate durante la storia, fin’ora hanno restituito 3 corpi, imbalsamati, ben conservati e, quasi incredibile a dirsi, ricoperti di splendidi tatuaggi. I Pazyryk erano cavalieri con la passione per la caccia, pastori pronti a combattere per aggiudicarsi i pascoli migliori ed artisti erano a stretto contatto con il mondo naturale - un mondo che comprendendo leopardi della neve, aquile, renne - favoriva in questi artisti la propensione a rappresentare animali fantastici.
Uno di questi corpi apparteneva quasi certamente ad un capo, un uomo dalla corporatura possente, intorno ai 50 anni. Sul suo corpo, disegni vari che rappresentano una varietà di creature fantastiche e non. I tattoo ancora riconoscibili ci mostrano un asino, un ariete, cervi stilizzati dalle lunghe corna ed un feroce predatore sul braccio destro. Due bestie mostruose decorano il torace e sul braccio sinistro si intravedono figure che sembrano rappresentare due cervi ed una capra. Dal piede al ginocchio si dipana il disegno di un pesce, un mostro sul piede sinistro e sul polpaccio quattro figure di arieti in corsa si uniscono a formare un solo disegno. Sul dorso piccoli cerchi in corrispondenza della colonna vertebrale. Si tratta dunque di una ridda di animali fantastici che sembrano “in movimento” su quel corpo come esseri viventi: “una moltitudine di animali reali e immaginari, saltanti sulle prede, galoppanti, scalpitanti o fuggenti, che corrono alla rinfusa sulle due braccia, su una parte della gamba destra, sul petto e sul dorso. I motivi erano stati ottenuti per mezzo di punture nelle quali veniva iniettata della fuliggine. Una tecnica già conosciuta che è rimasta per lo più la stessa da allora.
Un altro rinvenimento di cui si è molto parlato, risale al 1993, anno in cui l'archeologa Natalia Polosmak (15) scoprì la tomba di una donna soprannominata poi "La Dama di Ghiaccio". Sotto i corpi di 6 cavalli sacrificati all'occasione, la dama giaceva in una tomba ricavata da un tronco di larice. La tomba è decorata da immagini di cervi e leopardi delle nevi intagliate nel cuoio. Il corpo, adagiato come se si fosse dolcemente addormentato, apparteneva ad una ragazza sui 25 anni dai capelli biondi, alta circa 1,65 m. Anche la dama presenta diversi tatuaggi (di un blu intenso) sulla sua pelle chiara: creature dotate di lunghe corna che si compongono in immagini floreali. Due anni dopo il marito dell'archeologa, Vyacheslav Molodin (16), scopriva il corpo di un altro uomo, con un elaborato tatuaggio raffigurante un alce, due lunghe trecce, sepolto con le proprie armi.
Si pensa che, come nel caso di Oetzi (17), nelle Alpi italiane dove, nel 1991 è stata trovata una mummia databile al IV millennio a.C.. con bellissimi tatuaggi, il che lascia pensare che anche queste antiche popolazioni adoperassero il tatuaggio a scopi lenitivi, ma in questo caso ottenendo allo stesso tempo risultati dalla grande valenza artistica. Non si conosce come venissero eseguiti i loro tatuaggi, ma è probabile si servissero degli stessi finissimi aghi utilizzati per creare tessuti e tappeti, arte nella quale erano maestri.
“Come vediamo dalle date se ne ricava che la storia del tatuaggio inizia con la storia dell'uomo in epoca preistorica (uomo di Cro-Magnon, 35000 – 10000 a.C., e Neolitico, VIII – IV millennio a.C.). Grazie ad alcuni ritrovamenti di statuette con segni geometrici sul corpo, si suppone che gli uomini, dotati dell'abilità di ricavare colori da minerali e vegetali, utilizzassero strumenti appuntiti per realizzare segni permanenti sul corpo”.
Ma c’è un altro fatto da prendere qui in considerazione ed è il mondo dell’immaginazione e la raffigurazione legato ad animali fantastici, come motivo ricorrente nel tatuaggio. Rammento che in una mostra che poi ha fatto il giro dell’Europa sugli “Ori degli Sciti” gli animali fantastici e “straordinari” vi erano frequentemente raffigurati: leoni con la testa di bue, grifoni rampanti, tutti resi nella dinamica del movimento.
“Ancor più ne troviamo nei tessuti e nel cuoio, o parzialmente ricoperti d’oro che oggi abbelliscono corpetti, giubbe e selle delle popolazioni siberiane. E che non sono soltanto belle a vedersi ma riflettono di una cultura che richiederebbe però uno studio più approfondito nell’ambito dell’artigianato e dell’arte”.
Ma che dobbiamo rimandare ad altra sede e in un altro momento. Per adesso soffermiamoci ancora sull’aspetto, come dire, cosmetico del tatuaggio. Cosa ci dice in proposito?
“Non si tratta di un accessorio cosmetico inutile o di pura e semplice decorazione occasionale, bensì che riveste un significato profondo e importante, come quello che si è dimostrato in alcuni popoli con diversa cultura dalla nostra, addirittura lontana migliaia di anni da noi contemporanei che lo facciamo quasi per metterci alla prova. Si pensi il dispendio di tempo, di pazienza, di sacrificio e di dolore fisico che chi vi si sottopone deve affrontare. Ovviamente chi vi si sottopone lo fa con convinzione di aver accolto in sé qualcosa che gli altri non hanno, una sorta di “tesoro” di bellezza che porterà per sempre sulla propria pelle”.
A questo proposito ho scovato i versi di un ritornello polinesiano che dice:

“Ho imprigionato bellezza nella mia pelle e nessuno potrà mai rubarmela, nemmeno gli spiriti del male”.

Passiamo quindi alla scarificazione e la mutilazione, in uso ancora oggi anche fra i popoli civilizzati, e dovute a pratiche segrete di casta e di culto, quando non appartengono a residui di stregoneria legata alla magia. Professore, vuole dirci di cosa si tratta?
“La scarificazione è in fondo una forma di tatuaggio ben più dolorosa, praticata in certe regioni dell’Africa Centrale che, dato il colore della pelle scura, non permette tatuaggi colorati. Si praticano piccoli tagli sulla pelle per mezzo di coltelli di osso, conchiglie assottigliate, o pietre aguzze affilate, con una lama molto bassa, su disegni lineari o curvilinei non complicati, spesso geometrici, formati da punti che si rincorrono, lineette oblique, ecc., in modo da lasciar penetrare polveri di sabbia o di cenere o sostanze irritanti ricavate da piante, in modo che dopo alcuni giorni formano cicatrici sottocutanee che riproducono i disegni e le forme desiderate”.
Però non si notano tagli o cicatrici visibili, talvolta sembrerebbero dei piccoli semi a fior di pelle, è così?
“A vista d’occhio si, ma la pratica richiede un accorgimento speciale alfine di ritardare la guarigione immediata delle cicatrici, provocando la formazione di cheloidi rilevate e dure per irritazione continua delle ferite, e che porta al risultato ben visibile e tattile cui molte popolazioni africane non possono fare a meno, per loro sarebbe assai difficile essere ammessi all’interno del proprio gruppo tribale”.
C’è qualche altro pratica che vuole illustrarci?
“Si, un altro metodo è l’ustione, praticata con punte roventi in modo da provocare ferite superficiali che lasciano cicatrici in superficie molto evidenti che, provocano dolore più che qualsiasi altra pratica. Chi vi si sottopone fa spesso uso di allucinogeni per ridurre la sofferenza”.
Lo stesso immagino valga anche per la mutilazione?
“Esempi di quelle che sono considerate specie di mutilazioni si riscontrano presso tutti i popoli distribuiti sulla terra, anche fra i più sperduti delle isole del Pacifico, come ad esempio gli “orejones” dell’Isola di Pasqua più conosciuti col nome di “uomini dai lunghi orecchi. Una pratica che prevede l’introduzione di ossicini o pezzetti di legno sempre più grandi nel lobo forato degli orecchi. Addirittura di portare grossi pesi che col tempo permettono l’allungamento della cartilagine. A questa pratica non viene risparmiato neppure il naso o addirittura le labbra e la conformazione della bocca, e non solo a scopo ornamentale”.
Vuole farci degli altri esempi?
“Gli accessori che fanno da ornamento al naso, specialmente in India, in Nuova Guinea e in Papuasia, ma anche in Africa e in Polinesia, sono indicativi di una casta sociale o talvolta religiosa. Si tratta di ossicini o di anelli inseriti nel foro anche di grandi dimensioni, praticato all’interno di esso nello spessore che separa le narici. Ad esempio, in Nuova Guinea e nelle Isole Salomone è in uso inserirvi un osso trasversale così lungo da coprire l’ampiezza del viso. Per quanto riguarda le labbra e la bocca, si conoscono mutilazioni del tipo degli anelli labiali portati dalle donne di alcune tribù africane: si tratta di dischi di legno mobili che deformano le labbra e che all’occorrenza servono anche come piatto per il cibo. Presso alcune tribù Padang si usa inserire anelli metallici o rivestiti di perline colorate al collo delle bambine, sempre più grandi man mano che crescono, fino ad allungarlo all’inverosimile, le quali, addirittura, non potranno mai più toglierselo perché si è impedito lo sviluppo della muscolatura del collo, per cui, in mancanza di questo supporto non riescono a mantenere il peso della testa”.
E riguardo alle mutilazioni vere proprie?
“Se consideriamo mutilazioni anche le pratiche di circoncisione relative ai riti d’iniziazione e religiosi, la depilazione totale del corpo eseguita presso gli egizi, o il taglio dei capelli rasato, o il rifacimento del seno e dei glutei dell’odierna chirurgia plastica, possiamo ben dire che la mutilazione vera e propria ha avuto inizio in età preistorica per non essere ancora giunta alla fine. L’espianto degli organi interni è rintracciabile fin dai tempi preistorici; mani dipinte che presentano mutilazioni sono visibili nelle caverne preistoriche in Francia e Spagna; deformazioni del teschio erano praticate tra gli Egiziani, i Maya, gli Aztechi; l’impedimento della crescita dei piedi in Cina e Giappone ecc.”.
E dire che si voleva parlare della bellezza e trovare in essa l’ispirazione al canto e alla poesia che ha ispirato moltissima letteratura e, in campo musicale, una certa linea canzoni ad essa riferite. Ma troveremo il tempo per parlare anche di quelle. Per adesso mi limito a parlare di poesia in quanto il tatuaggio, incredibile a dirsi, nasconde o esterna, come preferite una sua forza poetica nel contrasto armonioso dei colori sulla sfondo della pelle, con l’ambiente e spesso con il clima tropicale in cui viene esposto. Ma è soprattutto poesia la sintonia del tatuaggio con il suo padrone, talvolta con la sua ingenuità, con la padronanza che ha di sé, o come segno di riconoscimento e tale è la sua motivazione che rivela il suo modo di essere e di pensare.

Canta una ragazza polinesiana: (vedi discografia)
“Mi sono scelta i miei compagni / che nella loro casa dentro la mia pelle / non mi lasceranno mai sola. / Sono uccellini e fiori dai vivaci colori. / E quando abbraccio il mio amore / mi sembra di sentire sommessamente / sulla mia pelle / con le sue carezze, i cinguettii e i profumi squisiti dei fiori”.

Sorge evidente che la pratica del tatoo non serve soltanto a trasferire segni sulla pelle, ma ha motivazioni diverse e complesse. Mentre per i primitivi, di cui ne abbiamo dimostrato la necessità, facciamo ricorso al fatto che lo praticavano come norma di costume, e che quindi mantenevano una certa purezza d’intenzione e una loro poesia di fondo, possiamo ben intuire come a confronto, prevale in noi moderni una certa sofisticazione riferita alla moda, grazie anche a fatto che l’evoluzione tecnologica ha ridotto di molto l’effetto dolore. Dobbiamo ammettere che la pratica del tatuaggio oggi si pone in disaccordo con la natura, sia con l’ambiente urbano che ci circonda, sia con l’abbigliamento che lo nasconde, e ancor più con quella poesia, talvolta benevola, altre oscura, nell’uso discutibile che ne fa la moda. Non è invece da considerare solo una moda la pratica del “piercing”, tornata in auge in occidente al seguito dell’esperienza in musica del punk. In parte autentica e in parte mimetizzazione di un coraggio di cui andare fieri, l’uso di spilli, barrette, anelli, infissi nelle guance e nel naso, nelle orecchie e le sopracciglia, sulle labbra e sulla lingua, colorazioni indelebili del viso, lenti a contatto di diversi colori, e altri accessori da falsare le ciglia o le palpebre degli occhi, è espressione di un disagio profondo in cui il nostro corpo non ci basta più, la nostra sicurezza interiore necessita di prove per essere poi messa al bando a fronte di un vuoto culturale che non ha eguali.
Colgo l’occasione per farvi leggere il bellissimo racconto di un pescatore somalo il quale porta tatuato sul petto, il volto della sua ex ragazza.

“Questa è Liré, la mia ragazza scomparsa in mare non più di un anno fa. Qui ride col capo rovesciato all’indietro, come faceva quando le parlavo d’amore. la sua vera tomba è qui, dove pulsa il mio cuore, dove ella può ancora vivere il dolce ricordo. E qui, si anima della luce del sole, del moto che faccio quando esco in mare, dell’argento lunare che la rendeva adorabile, delle mie parole e dei miei baci. Da un lato all’altro del viso ci sono i fiori che lei amava tanto; sopra e sotto i pesciolini d’argento che ora le tengono compagnia nel profondo del mare” (18).

Sembra di leggere un ingenuo Lee Masters, tanto è limpida la sua dimensione poetica raccolta nel tatuaggio che porta nel cuore. È il canto di un uomo nudo, solitario che osserva il mare, quanto mai ricco di un gioiello sentimentale che oggi può venerare al pari di un idolo. A questo proposito si potrebbe parlare della superstizione che accompagna il tatuaggio che vede la sua creatura incontaminata da sovrapposizioni fantastiche, quanto invece infervorata da un profondo credo. Il tatuaggio (in generale), porta con sé un retaggio favoloso di tradizioni estetiche e rappresenta l’esempio più toccante di una tradizione artistica mai venuta meno. È indubbiamente una forma dell’arte naturalistica, spontanea come solo può essere una sorgente, per dire una trasfigurazione della realtà in una zona viva come la pelle.
Non c’è dubbio che molti tatuaggi vanno attribuiti alla superstizione latente che stenta a scomparire e che ritroviamo nella riproduzione di “ferri di cavalli”, “corna”, “chiavi” ecc. usati contro il malocchio e la iattura, così come anche ve ne sono detti di scongiuro a forma di “stella”, “lampada”, “fiore”, “bandiera”; o di vendetta come di “teschio” o di “testa recisa”, di “cassa da morto”, di “cuore morso dal serpente” o “trapassato dal ferro di un pugnale” con l’aggiunta spesso di motti e scritte di difficile interpretazione, ma è proprio qui, nel messaggio che si rappresenta, nella veridicità della sua funzione, che il tatuaggio esprime il suo linguaggio poetico e virtuoso, tutta la sua forza comunicativa che le parole, talvolta, non possono o non riescono a esprimere.
Formule magiche di sicura origine onomatopeica, fonosimbolica e imitativa, accompagnano spesso i disegni e le figurazioni propiziatorie contro le influenze del male. Fra questi vanno ricordati i tatuaggi dei pastori della Lombardia e dei pellegrini al santuario di Loreto, che consistono in una croce sovrapposta a una sfera o a un cuore, a una stella, e riferiti all’immagine del sacramento, al santo Patrono, ai simboli della Passione. In altre regioni, come la Romagna e l’Abruzzo, ad esempio, è in uso il monogramma di Cristo, spesso ridotto a una H maiuscola. C’è però un altro tipo di tatuaggio di cui vorrei qui parlare, ed è quello a scopo erotico/indicativo. Che ne dice professore?
“I tatuaggi con soggetti erotici e comunque eseguiti su quelle parti del corpo cosiddette erogene, tanto scarsi fra i primitivi, sono invece frequenti fra i marinai, i soldati, i carcerati, i delinquenti, e solo recentemente fra la gente comune. Vi figurano ideogrammi riferiti a prove d’amore, e piccole poesie amorose dedicate ora a questa o quella donna, ma solo raramente, immagini di lussuria e oscenità, che vanno riferiti a promesse fatte o a giuramenti”.
A quale simbologia si rifanno?
“Per lo più, possiamo dire che dimostrano “un carattere osceno” distinto dagli altri dato dalla loro estensione ma, anche, perché spesso sono eseguiti in parti invereconde. Diversi da altri che si contraddistinguono in specie che sono di “castigo” o di “sfregio”, o come abbiamo già detto, di “vendetta””.
Vi sono poi quelli di tipo informativo.
“Soprattutto nelle associazioni criminose, dove il tattoo serve a indicare i gradi gerarchici, così come, ad esempio, avveniva nella vecchia Camorra in cui, una lineetta e un puntino servivano a indicare il giovanotto onorato; una lineetta e due puntini il “picciotto”, una lineetta e tre puntina il camorrista vero e proprio. Il tatuaggio allora chiamato in gergo “devozione”, così detto perché suppliva al santino che suggellava la sua spavalda identità, il gusto spacconesco, l’estro picaro della Camorra”.
E ovviamente quelli per così dire “a ricordo”.
“Sì, che vengono eseguiti in onore di una persona cara perduta, un animale prediletto scomparso, ecc. allo scopo di indicare, almeno presso i primitivi, che l’iniziato tatuato era maturo per la vita sociale e pronto per la vita sessuale. Presso alcuni popoli invece era indicativo della tribù d’appartenenza, in altre semplicemente un segno d’onore o sanciva un patto di sangue, o anche per distinguere i capi, i sacerdoti, gli sciamani. In alcuni casi il tattoo esposto informava dei nemici uccisi, delle bestie feroci catturate, delle imprese memorabili compiute, che ne facevano, agli occhi degli altri, quasi un eroe”.
Diverso è invece il tatuaggio strettamente simbolico di tipo “totemico” di non facile interpretazione, la cui funzione magica, fa parte del retaggio di una tradizione artistica e devozionale che attribuiscono al tatuaggio una funzione magica, che pur se lontano, “ricondurranno l’anima del defunto alla sua terra e al suo popolo”. L’esempio più eclatante che ci viene in mente, lo stavamo appunto dicendo con il professor Rovesti – è quello descritto da Herman Melville in “Moby Dick” (19), lì dove parlando del ramponiere Quiqueg, ravvisa: - “Con una stravaganza bizzarria, egli adibì ora la bara a cassetta e, vuotandoci dentro il sacco di tela degli abiti, ve li ordinò. Trascorse molte ore libere a intagliarne il coperchio con ogni sorta di figure e disegni grotteschi, e pareva che con ciò cercasse di riprodurre, nella sua rozza maniera, parti dell’intricato tatuaggio del suo corpo (..) opera di un defunto profeta veggente della sua isola, che per mezzo di quei segni geroglifici gli aveva tracciato addosso una teoria completa dei cieli e della terra e un mistico trattato sull’arte di conseguire la Verità, cosicché Quiqueg era nella sua persona stessa un enigma da spiegare, un’opera meravigliosa in un volume, i misteri della quale però neanche lui sapeva leggere benché sotto vi pulsasse il suo cuore vivo. Questi misteri erano quindi destinati a perire alla fine insieme alla pergamena vivente dov’erano tracciati e così restare insoluti fino all’ultimo. E doveva essere stato questo pensiero che suggerì ad Achab quella sua fiera esclamazione, un mattino mentre si voltava ad osservare il povero Quiqueg: «Oh, diabolica tentazione degli dèi!».


“Maschere & Body Art”

Propongo qui la lettura di una poesia: “Paradiso Africano” di Francis E. Kobina-Parkers (20), poeta del Ghana, che rende con forza il significato della musica e dei canti, ma anche l’atmosfera che vige nelle feste rituali legate al culto degli antenati, in cui fanno la loro apparizione un gruppo di maschere tribali e la visibilità di corpi e volti dipinti:

“Datemi anime nere / che siano nere o cioccolata bruna / Datemi tamburi / diciamo tre o anche quattro / e che siano neri / sudici e neri: / di legno o pelle secca di pecora / e poi facciamoli rullare / rullare forte, brontolare / poi smorzati. / Che vengano introdotte le maschere rituali. / Rullino i tamburi / risuonino sfrenatamente. / Aggiungete voci di donne / e quelle basse di uomini / e grida di bimbi. / Che vengano i danzatori / neri dalle spalle ampie / che pestano il suolo coi piedi nudi / a ritmo. / E quando in cielo il sole è al tramonto / siano ammessi gli spettatori / possono essere bianchi o neri / che possono udire i nostri canti nativi / e il rullo dei tamburi / e possano godere / del nostro Paradiso Africano”.

Niente di più appropriato per proseguire nella nostra ricerca sull’uso delle maschere in Africa, tuttavia, come sono solito fare, ritengo opportuno fare un passo indietro e come sempre mi affido all’antropologia e all’arte, che a un certo momento si sono fuse nell’esperienza formata dalle tradizioni e dall’espressione artistica dei rispettivi popoli. Non mi sembra di aver affrontato ancora, in queste pagine, il concetto relativo alla definizione di “primitivo” che pure si rende necessaria al fine di comprendere di cosa andiamo parlando: “appartenente alle età o alle popolazioni preistoriche o a livelli di cultura caratterizzati da un’estrema semplicità e rozzezza, con riferimento agli uomini e alle opere” (21). Per alterazione o derivazione si è preferito utilizzare il termine primitivo rispetto a selvaggio, per definire sia lo stadio evolutivo primigenio dell'Umanità, che quello che veniva considerato l'oggetto di studio delle scienze etno - antropologiche. A tutt'oggi, l'antica ambiguità insita nell'uso del termine primitivo non è stata risolta dagli antropologi ed il termine ha finito per connotarsi degli stessi significati che aveva selvaggio (inferiorità, razzismo, etnocentrismo, ecc.). Ed è per questo che riferendosi a primitivo, «...attualmente esso viene usato solo convenzionalmente, e spesso tra virgolette, nella letteratura antropologica» (U. Fabietti).
Molti obiettano che spesso questi gruppi sono perfettamente adattati all'ambiente naturale, come nelle selve equatoriali, o nella banchisa artica (dove non esiste né legno, né minerali, né pietre per costruire templi, ne ovviamente la possibilità di arare un terreno) e che possono averci insegnato molte cose, come l'impiego di piante medicinali, p.es il curaro (che oggi si adopera negli interventi chirurgici), oppure la vincristina (che si utilizza correntemente nella terapia dei tumori). Inoltre la mentalità magico-religiosa, in passato considerata caratteristica distintiva dei primitivi (L. Lévy-Bruhl), è un concetto screditato dai successivi approcci teorici dell'antropologia. In molti, come Marcel Griaule, hanno sottolineato la continuità tra una visione del mondo che poteva venire etichettata come primitiva e le religioni, superstizioni e le credenze delle persone che abitano le metropoli contemporanee. In definitiva, è ad oggi largamente accettato nella comunità scientifica il carattere di costruzione del concetto di primitivo, utilizzato dall'antropologia dell'Ottocento e di gran parte del Novecento per individuare il proprio oggetto di studi (The Invention of Primitive Society, Adam Kuper, 1988).
Detto ciò, affrontiamo con serenità l’aspetto più critico della ricerca affidandoci a quelli che vengono considerati i “documenti” lasciati dai primitivi riguardanti l’uso di indossare maschere durante la caccia, che sono le incisioni e le pitture rupestri presenti in alcune zone della terra in modo più concentrato che in altre, trovate al seguito di scoperte archeologiche, e che sono oggi patrimonio sia dell’archeologia che dell’etnografia, sia dell’antropologia che dell’etnomusicologia lì dove appaiono strumenti musicali, danzatrici e danzatori ecc. Una testimonianza che ha valore sia documentario che artistico è rappresentata dalle incisioni rupestri che si possono vedere in Brasile (Lajedo de Soledade), come in Italia (Valle Camonica), nel Tadrart-Acacus, come nel Sinai e in Giordania; o le pitture rupestri ritrovate in Francia (Lascaux), in Spagna (Altamira) e nell’area montuosa del Sahara (Aggar e Tassili), dove rupestre sta per grotte o pareti rocciose.
Si tratta per lo più di “segni” scalfiti sulla pietra grezza, che lasciano pensare ad una sorta di scrittura ideografica (incisioni), il cui scopo, poteva essere commemorativo della presenza di particolari animali, o indicativo di sorgenti d’acqua. Nella simbologia tribale potrebbero aver avuto significato religioso o curativo ad uso degli sciamani. Pertanto detti luoghi assumevano una sorta di sacralità, rispettata dagli appartenenti alla tribù. Segni che ritroviamo e sui manufatti come ceramiche e utensili d’uso quotidiano e, soprattutto, sui tessuti e nel decorativismo del tatuaggio e del decorativismo corporale che rappresentano la loro espressione artistica in termini di fantasia e creatività. Un discorso diverso va fatto per la pittura rupestre eseguita su pareti lisce naturali o su superfici precedentemente levigate, e talvolta pregne dei colori rosso od ocra, ricavati da terre o da spremiture di frutti e radici, probabilmente a scopo divulgativo o, come qualcuno ha detto, commemorativo di particolari azioni di caccia, o di raccolta del bestiame, tendenti a sacralizzare il luogo (caverna, anfratto, ecc.), forse, come centro di raccolta della comunità, ove trasmettere le tradizioni e i miti riferiti all’attività tribale.
Penso qui di poter fare riferimento alle cerimonie di quasi tutte le tribù disseminate nel cuore dell’Africa Centrale poiché presentano almeno due prerogative comuni: quella di dare inizio ai propri riti con danze propiziatorie di tipo magico-mistico, scandite dal ritmo preponderante delle percussioni; e quella di vestire o portare in processione le maschere rituali. A proposito di quanto scrive Giovanni Vignola (22): “Si può studiare il tipo di civiltà o un periodo della civiltà stessa attraverso la produzione e l’uso delle maschere, come si fa per la produzione di utensili, vasi, tessuti ecc., poiché questo studio ci mette in contatto diretto con la vera e più intima immagine del mondo”.
“Infatti – ci dice il nostro amico e gradito ospite professor Paolo Rovesti – nel suo significato arcaico, la maschera rappresenta di solito un eroe o un antenato, il totem della tribù, o lo spirito della vegetazione o della pioggia, come, ad esempio, erano il “serpente piumato” Quetzalcoatl degli Aztechi o, Amon-Rà il sole degli Egizi. Chi in realtà indossa una maschera subisce una sorta di “trasformazione unificatrice”, in quanto elimina il divario esistente fra il mondo reale e quello soprannaturale. Un altro esempio ci è dato dalla raffigurazione della morte che troviamo in molti riti, in cui la morte è strettamente legata al mondo degli spiriti. La sua funzione principale è appunto quella di creare una certa relazione tra l’essere che rappresenta e colui che la porta. In certi casi, il portatore della maschera è, in quel momento, una sintesi del visibile che compenetra l’invisibile, un vivo-morto e, per contro, un morto-vivo, realizzando materialmente una delle più grandi aspirazioni umane”.
Così a proposito della maschera figurativa della morte, Otto H. (23) scrive: “L’uomo che porta ritualmente la maschera subisce l’impressione della grandezza e della dignità di coloro che non esistono più. Egli è se stesso ma, al tempo stesso, è altro”, l’ha sfiorato la follia, qualcosa del dio furente, di quello spirito dell’esistenza doppia che vive nella maschera. È lo spirito del divino morto che ritorna, non come larva, come ombra o spettro, ma come potenza del vissuto.
Scrive Umberto Galimberti (24) nel suo “Paesaggi dell’Anima”, probabilmente riferendosi a qualcos’altro, che tuttavia mi è sembrato si sposasse perfettamente col nostro discorso: “..il suo punto di vista si colloca là dove prende avvio la coscienza umana nel suo emanciparsi da quella condizione animale o divina che l’umanità ha sempre avvertito sullo sfondo, e da cui, pur sapendosi in qualche modo uscita, ancora si difende temendone la sempre possibile irruzione”. E aggiunge: “Quando la natura cede il suo segreto mostra il suo volto che, irrispettoso delle differenze che la ragione ha faticosamente guadagnato, si offre indifferenziato, e perciò carico di quell’aspetto minaccioso che non distingue e non separa, ma tutto mantiene in quella contrazione simbolica così poco rassicurante che gli uomini, non potendola eliminare, hanno espulso in quella sfera non-umana che è il mondo degli elementi naturali, degli animali, degli dèi, e nella forma ben più drammatica del divino e del sacro”.
Col passare del tempo certi riti tragici di ieri sono andati perduti, ci restano a tutt’oggi alcune maschere, ma l’impressione che ancora ne traiamo, è che esse esprimono più mistero, più impenetrabilità, che sacro terrore. È sufficiente accennare, come, ad esempio, il passaggio dalla maschera tragica rituale e sacra di ieri, alla maschera carnevalesca, caricaturale e canzonatoria di oggi, per comprendere che è avvenuta una certa dissacrazione del soggetto “mascherato” e, non in ultimo, si è giunti al dissolvimento del suo significato iniziale. L’esempio musicale che qui di seguito vi propongo, vede i Pigmei del Gabon (25) impegnati in una cerimonia del culto Mbiri che sta a significare “la religione del mondo”; messo a confronto con un altro culto ancora vivo alla stadio tribale, detto Bwiti “la religione dell’al di là”. La registrazione, unica nel suo genere, mostra come entrambe si sviluppano attorno all’albero totem detto Adzap che presenta incisioni zoomorfe e maschere stilizzate.
Questo albero simbolico è il pilastro centrale della capanna eretta appositamente per le suddette celebrazioni tribali dei due gruppi riunitisi per l’occasione. Rilevante come questo culto presenti allo stesso modo le sue linee originali, con due aspetti diversi: la riesumazione della “religione del mondo” in cui si vive (culto Mbiri), e la “religione dell’al di là” (culto Bwiti), quale rappresentazione degli aspetti fondamentali della vita e della morte, della creazione e dell’annientamento. La musica che accompagna entrambi i culti ha una funzione “viva”, di happening, e rappresenta l’anima stessa del culto. Uno dei brani, pensate, parla della “strada della morte e dell’annientamento”.
Dice Paolo Rovesti: “Come per altre culti tribali, anche nella musica africana è fatto uso di piante dalle spiccate qualità psicotrope di cui i Pigmei fanno grande uso, come ad esempio “l’eboga” una pianta che cresce nella foresta equatoriale, e che ha il potere di accrescere la resistenza fisica. Si vuole che presa uno o due volte a dose massicce, procura frequenti visioni che permettono agli iniziati di compiere il cercato “viaggio nella terra dei morti” e verso i sognati “altopiani della savana”. Ma quali sono gli effetti che l’eboga procura agli iniziati, ricevuta attraverso la maschera totemica, e perché di questa esigenza, il professor Rovesti è qui a dirci qualcosa.
“È solamente con la forza psicologica datagli dalla droga che gli iniziandi riescono ad affrontare la natura complessa e, in certi casi, ostile, che troveranno sul loro cammino. Grazie ad essa essi riescono a mutare quello che è considerato il “male” in qualcosa che gli sia meno nocivo, in modo che la metamorfosi, sollecitata e avvalorata dal gruppo, si trasforma in ipnosi collettiva”.
Ragione per cui il primitivo sente quasi “istintivamente” l’unicità fisica della disponibilità del suo corpo in senso squisitamente collettivo. Sente nascere in sé il desiderio di adornare, di abbellire, di usare forme e colori che rendano più attraenti le sue superfici corporee.
“Va ricordato che la prima e più semplice tela che un pittore primitivo ha a sua disposizione è la pelle del suo corpo. Egli raramente l’apprezza al suo stato naturale per la sua levigatezza, la sua glabrezza, la considera troppo nuda, troppo sola e insignificante” – aggiunge Rovesti.
Si tratta quindi di vera e propria opera d’arte?
“Di una vera e propria opera di cosmetica artistica, non solo per le motivazioni sopraddette, bensì la ricerca dell’ammirazione dell’altro sesso, una maggiore accettazione di sé e da parte degli altri, oltre a quanto è stato detto per il tatuaggio”.
In Africa le maschere cosmetiche che spesso si estendono a tutto il corpo sono cambiamenti che permettono di assumere personificazioni di fantasia per altrettanti motivi di ordine magico e rituale, da guerra e da spettacolo, come danze e canti collettivi e rappresentazioni, con transizioni difficilmente classificabili. Non a caso i soggetti più frequentemente raffigurati sono fiori e alberi, animali, paesaggi e simboli astrali, presi a prestito per attrarre l’attenzione e, al tempo stesso, la volontà di sentirsi parte del creato.
“Nel volersi immaginare diverso, il primitivo, diversifica il suo stato d’essere, in un certo modo, per non essere riconosciuto dagli spiriti maligni, o anche per semplice gioco, per il piacere di cambiare se stesso sul filo della fantasia, con un senso di compiacimento estetico che spesso ha dato luogo a vere e proprie maschere cosmetiche pari ad altrettante opere pittoriche”.
Oggi, in occidente, l’uso di adornare il volto con materie coloranti è relativo alla moda e alla moda è soggetto. Può dirsi lo stesso tra i primitivi?
“Nei primitivi è sempre stato un’espressione originale autentica, con una sua unicità fedele ai suoi requisiti base”.
Sappiamo che il desiderio istintivo di “dipingersi” il volto o il corpo nasce spontaneo in quasi tutti i popoli, ma per nessuno di questi le maschere cosmetiche hanno raggiunto una concentrazione, una icasticità e una espressività così profonde sul piano estetico come nei primitivi africani, è così?
“Dipingersi la pelle è sempre stato molto meno impegnativo e invasivo del tatuaggio o della scarificazione, tuttavia, oltre al truccarsi più o meno diffusamente il viso, si complica in figurazioni diversissime nella cosmesi del corpo. I mezzi usati sono semplici, ricavati da pigmenti minerali impastati dopo fine macinazione e lacche adesive e poco olio, o con semi oleosi oppure olio di termiti. La decorazione è spesso eseguita su disegno preventivamente delineato sulle zone interessate, ma altrettanto spesso viene eseguita in modo estemporaneo, come dire, di getto”.
La pittura del corpo, talora semplice quanto efficace, altre volte invece miniata, parziale o totale, è compresa nei trattati di etnologia del costume e dell’abbigliamento, possiamo ora inglobarla nella storia della medicina e della cosmesi?
“Per maggior precisione si tratta di cosmesi artistica del corpo, praticata dai primitivi in occasione di feste e cerimonie tribali, rituali, spesso riservata a capi e sacerdoti o agli stregoni, in riti totemici e religiosi, rivolti a sacrifici talvolta misteriosi e crudeli (inumani), legati a “società segrete” di origine oscura. È indubbio che i loro mascheramenti siano quelli più complessi anche artisticamente parlando”.
Si può dire che a molte “società segrete” oggi per lo più ridotte di numero, sono fortunatamente sopravvissute solo le maschere e non certi riti sanguinari, le quali, una volta staccate dal cerimoniale che le accompagnava, si offrono all’osservatore nei musei, non più come oggetti di culto, bensì nella veste dell’estetica e della forma d’arte. È indubbio che qualcosa hanno perduta, ed è la forza magica che da esse scaturiva in funzione del loro aspetto apparentemente temibile. Con la danza detta della maschera della società “Lò” presso i Senufo della Costa d’Avorio, che raggruppa solo individui di sesso maschile, approntiamo qui di parlare di un culto oscuro che si avvale della “maschera dai due volti”, così detta, che rappresenta due aspetti dello stesso volto, uno soprastante l’altro, e termina con due grandi corna , a significare entrambi gli aspetti del bene e del male che si sovrappongono nell’essere umano.
Un’altra maschera, sempre d’origine Senufo, e quella denominata “sputa fuoco”, trovata nella regione dei Korhogo. Oggi è visibile in legno naturale ma un tempo sicuramente colorata, essa riunisce in modo fantastico l’elemento umano con elementi presi da svariati animali, nell’intento di creare immagini mostruose o demoniache, tali da incutere paura e spavento. Un’arte, questa, che esprime concetti animistici legati a credenze religiose sovrapposte, in cui la “magia nera” è espressa nel senso più alto e terrifico della sua mediazione tra il mondo della natura e quello soprannaturale.
Evitiamo di proposito di parlare di certi aspetti terrificanti della “magia nera” praticata in alcuni riti dell’Africa Centrale, per tornare al discorso più significativamente musicale, lì dove appunto la ricerca etnomusicologica trova un ampio materiale di studio e di soddisfazione. A questo punto non può mancare una escursione in quelle che sono le danze e gli strumenti e i canti che le accompagnano. Va detto che danza è elemento fondamentale della vita tribale africana presso tutti i popoli conosciuti, o meglio rappresenta il fluido nascosto che scorre in tutti gli esseri e che segna, al pari del ritmo in musica, il magico punto di contatto e di partecipazione dell’uomo con la natura. La danza quindi come elemento mobile che regola e rende comprensibili i fatti ineluttabili della sua vita.
“È anche in funzione di questo che il mascheramento dei popoli africani e certe maschere in particolare sembrano create per essere in movimento. Si può ben dire, anzi, che la danza in Africa è il completamento necessario per la totale comprensione delle maschere ” – ribadisce il prof. Rovesti.
Propongo qui, ad esempio, una “danza delle maschere delle regine” riferita a un personaggio leggendario: la regina Aura Poku (26) che regnava sui Bàule della Costa D’Avorio, presenti anche in Ghana. In essa si narra dell’avvenuta scissione di questi dalla tribù degli Akan (oggi presenti solo in Ghana). I quali nel loro peregrinare si spinsero fino ai confini della Costa d’Avorio, ma che vennero fermati dall’impervio fiume Comoé, il cui spirito apparso loro in circostanze sconosciute, gli intimò di sacrificare ad esso un giovane della tribù. Fu così che la regina Aura Poku sacrificò il proprio figlio e il fiume permise infine il passaggio dei fuggitivi salvandoli dal possibile genocidio. Questo spiega la posizione predominante della regina al centro della vita religiosa di questi popoli e come il “culto” a lei riservato abbia condizionato la vita politica e sociale, nonché religiosa attorno ad essa.
Danze e canti in onore di Aura Poku accompagnano presso il villaggio di Sakasso questo rito rimasto inalterato nel tempo, in cui è fatto uso di maschere composte di vestiario fine e di delicati colori, i cui volti riproducono visi femminili ovali e levigati, dipinti con “maschere cosmetiche” di un bellissimo blu-azzurrino e in parti di rosso, ricavate da minerali e terre colorate, uniche in Africa. Proviene invece dal Dahomey il rito dell’offerta ai re Tohossou, capi spirituali e reincarnazione dei defunti re, principi e dignitari del paese. In questa cerimonia religiosa, ripetuta in tutti e venti i templi dedicati a questo culto presenti nel paese. La cerimonia si avvale di una formazione strumentale di tre tamburi lunghi, interamente ricavati nel legno di alberi, che vengono battuti con alcuni bastoni da un lato e con la mano dall’altro dagli uomini, e di tre campane di ferro battute con stecchi dai bambini, mentre tutt’intorno il coro delle donne fa clangore con sonagli attorno al cerimoniere che avanza, sotto il tipico ombrello che sempre lo accompagna, suonando una speciale campanella dal suono vivace e canta una melopea di tipo responsoriale.
Le ragazze invece, prescelte per reincarnare le defunte principesse, indossano abiti multicolori e gioielli, orecchini di perle, braccialetti di conchiglie colorate e altri oggetti di valore, e abbelliscono il proprio viso con l’uso di sostanze cosmetiche. Esse seguono la processione che si snoda all’aperto attraverso le capanne del villaggio fino a giungere presso l’albero ritenuto sacro, il Baobab, dalle enormi dimensioni, e tutti insieme cantano e suonano al vento, portatore degli spiriti Tohossou, personificati da due danzatori nelle vesti di un principe e una principessa. È questo il momento in cui vengono esposte le maschere rituali che raffigurano i defunti re, davanti alle quali si svolge il sacrificio (un tempo cannibalesco) di un toro, le cui carni e sangue, vengono poi spartite tra i presenti.
Riuscite a immaginare l’effetto coreografico della cerimonia e la magica visione delle maschere rituali in questo momento? Non è possibile immaginare, è terrificante!
Non sono le sole maschere ad essere in qualche modo così terrificanti, talvolta sono invece i riti che le accompagnano ad esserlo di più. Va anche detto che ve ne sono anche di molto belle e che raggiungono un’alta espressione artistica in senso pieno. Quelle ad esempio dei Tomà dell’Alto Volta, dei Dògon del Mali, del Benin e tantissime altre.
“Potresti dirci della maschera che accompagna la “danza dell’uomo uccello” presso i Tomà, ad esempio” – chiede il prof Rovesti.
Lo faccio volentieri, anche perché ha una maschera fatta di piume colorate molto bella che raggiunge, nel copricapo, un’eleganza altamente ricercata. soprattutto perché ha un nome inconfondibile: “Ouénilégagui” (27), e si svolge con grande effetto coreografico. La tradizione vuole che il portatore della maschera dipinga le parti che restano scoperte del corpo, come la faccia e gli arti, di bianco e si rivesta delle piume più belle che sia dato trovare nella foresta. L’uomo-uccello appare soltanto in occasioni tragiche, per la morte di un capo dignitario o quella di uno stregone ecc. di cui è simbolo ammonitore. La sua danza è accompagnata dal suono di un piccolo tamburo che il suonatore batte con una stecca da entrambe le parti, nel mentre il tamburo “parlante” indica ai danzatori le figure che devono eseguire da accompagnamento alla danza dell’uomo-uccello. La cerimonia si conclude con una sorta di “canto del cigno” e infine e l’uomo-uccello s’invola, scomparendo nel folto della foresta.
L’uso delle percussioni è praticato in tutto il continente africano in diversi modi, ma è la voce del Tam-tam che risuona cupa nella notte come un richiamo, per questo si è parlato e si parla di “tamburi parlanti” (28).Il suo suono, al pari della voce, sprigiona una tale forza evocativa portatrice di mistero tale, che è ritenuto uno strumento sacro, avente la forma tangibile della divinità. Non si è mai riusciti a scoprire l’origine di questa forza nascosta che da esso scaturisce, al pari di una forte emozione, talvolta di gioia ma anche di dolore, quasi che col suono si distribuisse una potente droga che stordisce e che rende gli uomini che l’ascoltano succubi di forze soprannaturali. Tant’è che studiosi e missionari arrivarono perfino a proibirne l’uso.
Ricavato da dal tronco di un albero particolare, precedentemente scelto, che cresce nella savana, il Tam-tam viene scavato all’interno di una fessura più o meno grande, praticata su un lato, e scolpito in forme di animali diversi, talvolta dipinti e ornati come avviene per le maschere. Sotto questa forma, infatti, il Tam-tam assume il ruolo sacro che gli compete, quindi, degno di culto da parte di tutti i componenti la tribù che conoscono il modo di suonarlo e la prerogativa di recepire la parola o la frase che il tamburo trasmette, e che solo riesce a comprendere. È spesso usato per trasmettere anche messaggi a lunga distanza.
“Anche per questo i Tam-tam distribuiti in varie regioni, sono ripetutamente suonati durante la notte, perché l’umidità della notte è buon trasmettitore di suoni. Essi, infatti, ripetono il messaggio, che viene così divulgato fino a coprire tutto il territorio” – aggiunge il prof. Rovesti.
Qui siamo giunti, e qui ci fermiamo poiché l’Africa coi suoi sterminati territori, la savana, il deserto, le sue montagne i grandi laghi, i fiumi e le cascate, i suoi molti popoli e suggestivo, ricco di innumerevoli tradizioni, riti, culti, religioni, civiltà antiche e nuove, è un continente immenso dove potremmo perderci. Rimando pertanto ad altre possibilità d’incontro su temi specifici che spero vogliate anche suggerirmi e invogliarmi a scandagliare. Tuttavia penso che potreste farlo anche voi lettori, nessuno escluso, sotto l’egida, e qui mi ripeto, che: “È nello scoprire il fascino “ancestrale” della musica dei popoli, che la infinita ricerca di “noi stessi” si amplia di nuovi e importanti capitoli, che vanno ad aggiungersi alla macroscopica “storia universale” che noi tutti stiamo scrivendo. Soltanto nello scoprire “noi stessi” saremo in grado, un giorno, di conoscere il mondo in cui viviamo” (29). E magari lo salvaguarderemo!

Del resto: “Tutto su questa terra è una mascherata, ma Iddio ha stabilito che la commedia si debba recitare a questo modo”.
(Erasmo da Rotterdam, Elogio alla follia).


Discografia:
(in preparazione)


Bibliografia:
(in preparazione)



Note:
(1) Paolo Rovesti si è laureato in Chimica e Farmacia all’Università di Genova nel 1925. Dalla direzione tecnica di diverse industrie chimiche, farmaceutiche ed essenziere, è passato in seguito a quella della Società Imprese Africane e della Compagnia per la Valorizzazione della Flora Etiopica e, infine, a industrie alimentari estrattive. Fondatore dell’Istituto di Ricerche sui Derivati Vegetali, è autore di oltre 500 pubblicazioni di carattere sperimentale sulla fitochimica, gli olii essenziali, le piante medicinali e la cosmesi funzionale. Universalmente riconosciuto come il padre della Fitocosmetica. Tuttora, a diversi anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1983, la figura e gli studi del prof. Paolo Rovesti nel mondo accademico e industriale rimangono un importante punto di riferimento umano e scientifico. L’Istituto Paolo Rovesti, a lui intitolato, è nato nel 1984 per iniziativa di un gruppo di collaboratori. La grande mole di documentazione (oltre 15.000 testi), le pubblicazioni originali (e anche inedite) di Paolo Rovesti sono la base scientifica e culturale di questo Istituto. Ma la ricerca è continuata, per scoprire nuove materie prime e principi attivi, per la messa a punto di nuove formulazioni innovative, legate alle piante ed all’erboristeria, sia nel campo cosmetico che farmaceutico. L'Istituto ha sviluppato una serie di attività di ricerca di base investigando le proprietà degli ingredienti vegetali per applicazione nel campo cosmetico, farmaceutico e veterinario da poter consultare sul sito info@istitutorovesti.it che, di volta in volta, provvede agli aggiornamenti sulle pubblicazioni "storiche" e scientifiche “nuove” . Inoltre è possibile consultare una sezione di proposte legate ai nuovi filoni di ricerca dell’Istituto, che possono trovare interesse anche economico da parte degli operatori del settore.

(2) “Folkoncerto: Maschere Rituali”, RAI – Radio 3, programma di Pierluigi Tabasso e Landa Ketoff – testi, ricerche musicali e materiali fonografici di Giorgio Mancinelli.

(3) Paolo Rovesti, “Alla ricerca dei cosmetici dei primitivi” 3 vol. – Blow-Up – Milano 1977

(4) Paolo Rovesti, “Alla ricerca dei profumi perduti” 3 vol. – Blow-Up Milano 1979.

(5) La scarificazione (in Wikipedia Enciclopedia), è una deformazione cutanea a scopi decorativi e protettivi, collegata a molte motivazioni. In passato, era praticata soprattutto da parecchie etnie africane, e spesso coincideva col rito iniziatico del passaggio dall'infanzia all'età adulta. Determinante era che il soggetto sottoposto a questa pratica molto dolorosa, e che poteva far perdere sangue in abbondanza, sopportasse le incisioni in stoico silenzio. La sofferenza è un elemento fondamentale della cerimonia, in quanto dimostra il coraggio e il valore del ragazzo che entra nell'età adulta: il popolo Nuer (Sudan meridionale e zona occidentale dell'Etiopia) ancora oggi si fa tagliare col rasoio, sei larghe strisce sulla fronte. L'operazione è molto pericolosa, in quanto la recisione di un nervo frontale può portare alla morte, nonostante i tentativi di arginare l’emorragia. Dopo un lungo periodo di convalescenza l'iniziato è ammesso alla tribù con grandi feste. Consiste in incisioni, tagli della pelle (con coltelli, rasoi, conchiglie, pietre affilate, ecc.) bruciature, allo scopo di produrre cicatrici permanenti. Ogni cicatrice viene soffregata varie volte con polveri e prodotti coloranti e lasciata a lungo aperta, finché la particolare pelle cheloide dei popoli africani non si cicatrizzi con forte evidenza plastica. I motivi preferiti sono solitamente di tipo geometrico, ma a volte vengono incisi animali stilizzati. Ogni etnia aveva i propri simboli. Sovente le donne avevano imponenti scarificazioni sul ventre, che ne costituivano anche l'attrazione sessuale. Come il tatuaggio e la mutilazione, la scarificazione era considerata segno di qualificazione sociale, e parecchie donne affermavano che senza quei segni non si sarebbero mai sposate. Una importante documentazione di questa pratica si trova nelle fotografie di Leni Riefenstahl, che eseguì vari servizi fotografici in Africa attorno agli anni Settanta del secolo scorso. in particolare presso il popolo dei Nuba. Nonostante sembrino intollerabili a noi occidentali, le scarificazioni femminili erano fortemente attrattive per i gli uomini dei vari clan, che non sopportavano la pelle liscia, ma preferivano accarezzarne le escrescenze. Impropriamente identificata con il tatuaggio, la scarificazione è diffusa soprattutto in Africa centrale ed in Nuova Guinea, sebbene molti governi locali le abbiano proibite. Le tecniche di scarificazione sono varie e ognuna dà un messaggio diverso. Il significato delle scarificazioni, come per i tatuaggi è: di tipo estetico; di tipo apotropaico; di tipo onorofico; di tipo religioso (frequente tra gli indigeni convertiti al cristianesimo). In Etiopia molti indigeni abissini possono avere croci marcate a fuoco sulla fronte, o scarificazioni col numero delle messe cui hanno assistito; di tipo informativo, ossia a quale clan si appartiene, lo stato sociale. Ad esempio gli Shilluk dell'Alto Nilo hanno sulle arcate sopraccigliari caratteristiche scarificazioni dette "a grani di rosario" che vengono eseguite sia sugli uomini sia sulle donne e dipinte con terra bianca per evidenziarle. In una tribù musulmana dell'Alta Etiopia era usanza di scarificare sul dorso le pene inflitte ai colpevoli di qualche reato: ho rubato una mucca, ho commesso adulterio, ecc. La scarificazione di tipo totemico era legata ad un animale in cui ci si identificava. I boscimani infatti, praticavano una serie di incisioni sulla fronte dentro a cui cucivano microscopici frammenti di carne di antilope, animale di cui erano convinti di acquisire la velocità.

(6) Ernesto De Martino, “Il Mondo Magico” – Bollati Boringhieri – Torino 1973, studioso di etnologia e folklore si è dedicato allo studio poco coltivato in Italia delle società primitive. Professore di storia delle religioni alla Università di Cagliari dal 1959 alla morte, de Martino è autore tra l’altro di “Sud e magia” (1959) e “La terra del rimorso” (1961). Con questo libro, che è la sua opera più profonda e celebre, de Martino intese dare una ricostruzione dell’età magica come momento di sviluppo della storia dello spirito. Essa è un’epoca in cui i confini tra uomo e natura, tra soggetto e oggetto sono ancora incerti. Ma anziché risolversi in una partecipazione mistica, come riteneva l’etnologia d’ispirazione irrazionalistica, questa incertezza crea un dramma: quello della «crisi della presenza», del rischio per l’uomo di essere annullato da forze naturali incommensurabili e incontrollabili. La magia appare così come un insieme di tecniche per riscattarlo da questa crisi e rassicurarlo del proprio «esserci». Attraverso un’accurata scelta di reperti etnografici, De Martino rievoca plasticamente, in pagine indimenticabili, i momenti di tale dramma. Egualmente distante da irrazionalismo e razionalismo, che diversamente rimuovono il carattere storico di tale dramma, de Martino mostra come il soggetto umano sia esso stesso un prodotto storico la cui genesi si situa appunto nell’età magica. La posizione teorica di de Martino, al crocevia tra idealismo, esistenzialismo e marxismo e affacciata sui problemi della parapsicologia e della psicoanalisi, è talmente ricca di stimoli e di tensioni che mantiene ancora oggi intatta la sua forza di suggestione.

(7) L'autosuggestione, in psicologia, è una forma di comunicazione mediante la quale in un individuo - senza che egli avverta imposizione né comando alcuno, in assenza di razionale e libera scelta oltre che di consapevolezza - è indotto ad un'autoconvinzione, un pensiero od una condizione esistenziale senza che egli voglia opporvisi né avverta la ragione di farlo neppure su altrui pressione.

(8) Arnold Van Gennep, “Riti di passaggio” – Bollati Boringhieri – Torino 1985, professore di Etnologia all'Università di Neuchàtel, studiò i problemi generali dell'etnologia e del folklore, stabilendo metodi di investigazione che lo accomunano a etnologi quali Frazer e Tylor . Si occupò soprattutto di folklore francese, ma lasciando anche contributi importanti di carattere etnologico. Oltre al presente volume, la sua fama è legata a "Religions, moeurs et légendes" (1908-14) e al "Manuel du folklore français contemporain". «Riti di passaggio» è una formula famosa, impiegata non solo nel gergo degli etnologi e degli antropologi, ma anche in quello di sociologi, psicologi, etologi. Pubblicato nel 1909, il libro di Van Gennep gode ormai del riconoscimento di testo classico. Il fatto di non aver selezionato uno specifico materiale etnografico, proveniente da un numero ristretto di società, e il fatto di aver spaziato in tutti i continenti e in diversi periodi storici attribuiscono all'opera un carattere di ampia generalità, che la rende disponibile per diverse, interpretazioni. E tuttavia, affinché questa dilatazione di prospettiva non dia luogo ad assimilazioni acritiche o affrettate, a procedimenti puramente analogici, occorre non perdere di vista i caratteri differenziali, ovvero ciò che conferisce ai fenomeni rituali umani la loro indubbia specificità. Per questo è indispensabile non dimenticare i contributi di analisi dei rituali umani offerti dalla ricerca etnologica e antropologica di cui questo libro è uno degli esempi più suggestivi.

(9) Giovanni Vignola, “Riti Magici di ieri e di oggi” - Milano : De Vecchi, 1972.

(10) Franco Monti, (ricerca sulla maschera), apparso in Vignola op. cit.

(11) Edmund Husserl, “Introduzione generale alla fenomenologia pura” - filosofo e matematico austriaco naturalizzato tedesco, fondatore della fenomenologia e membro della Scuola di Brentano. La corrente filosofica della fenomenologia ha influenzato gran parte della cultura del Novecento europeo e non solo. Oltre a Max Scheler ebbe un profondo influsso sull'esistenzialismo e Martin Heidegger, ma indirettamente il suo pensiero ha influito anche sulle Scienze cognitive e sulla filosofia della mente odierne (secondo Hubert Dreyfus, Husserl è da considerarsi il "padre delle ricerche contemporanee nella psicologia cognitiva e intelligenza artificiale"). Opere: • Zweiter Teil: Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis (1901). "Philosophie als strenge Wissenschaft" in Logos, I (1911). In italiano: Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a cura di Enrico Filippini, tr. Giulio Alliney, Torino: Einaudi, 1950, in 2 volumi, Introduzione generale alla fenomenologia pura, con introduzione di Elio Franzini, Torino: Einaudi, 2002. Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione; La fenomenologia e i fondamenti delle scienze, Torino: Einaudi, 1982.
(12) Desmond Morris, “L’uomo e i suoi gesti”, zoologo ed etologo inglese – Mondadori Electa – Milano 2005.
(13) “Mautikitiki” (vedi discografia).

(14) Tatuaggi di Pazyryk, (per i riferimenti vedere il sito http://www.hermitagemuseum.org/).

(15) Natalia Polosmak, archeologa russa, nel 1993 scopriva la tomba di una donna soprannominata poi "La Dama di Ghiaccio". Sotto i corpi di 6 cavalli sacrificati all'occasione, la dama giaceva in una tomba ricavata da un tronco di larice. La tomba è decorata da immagini di cervi e leopardi delle nevi intagliate nel cuoio. Il corpo, adagiato come se si fosse dolcemente addormentato, apparteneva ad una ragazza sui 25 anni dai capelli biondi, alta circa 1,65 m. Anche la dama presenta diversi tatuaggi (di un blu intenso) sulla sua pelle chiara: creature dotate di lunghe corna che si compongono in immagini floreali. Alcune tombe femminili in Asia Centrale sono state attribuite a principesse sciamane dalle archeologhe Natalia Polosmak e Jeanine Davis-Kimball. La principessa Ukok (5° secolo BCE) fu sepolta con un abito adorno dell’Albero della vita, con felini dorati e uccelli sui rami. Simili ritrovamenti sono stati rinvenuti a Ussun, Kazakistan del sud, e in Ucraina nel bacino del Tarim, anch’essi con i temi ricorrenti dell’Albero della Vita sui copricapo, oltre ad amuleti, incensi, borse mediche e specchi sacramentali. Specchi analoghi sono stati trovati anche nella regione Bactrian in Afghanistan e si ritiene fossero strumenti iniziatici utilizzati dalle adepte in Tibet. Le incredibili dee mikogami in Giappone detenevano lo ‘specchio sacro’ della dea del sole, Amaterasu. La presentazione visiva “Woman Shaman” include una sequenza di immagini femminili che cambiano forma, trasformandosi in animali o in sella a destrieri sciamanici. Questi temi sono ricorrenti in molte tradizioni e vivacemente illustrati nella moderna arte artica dell’incisione. Un’ incisione in avorio della tribù degli Aleut (circa 1816) mostra una sciamana che indossa un maschera di animale.

(16) Vyacheslav Molodin, archeologo, nel 1995, scopriva il corpo di un altro uomo, con un elaborato tatuaggio raffigurante un alce, due lunghe trecce, sepolto con le proprie armi. Uno di questi corpi apparteneva quasi certamente ad un capo, un uomo dalla corporatura possente, intorno ai 50 anni. Sul suo corpo, disegni vari che rappresentano una varietà di creature fantastiche e non ... i tattoo ancora riconoscibili ci mostrano un asino, un ariete, cervi stilizzati dalle lunghe corna ed un feroce predatore sul braccio destro. Due bestie mostruose decorano il torace e sul braccio sinistro si intravedono figure che sembrano rappresentare due cervi ed una capra. Dal piede al ginocchio si dipana il disegno di un pesce, un mostro sul piede sinistro e sul polpaccio quattro figure di arieti in corsa si uniscono a formare un solo disegno. Sul dorso piccoli cerchi in corrispondenza della colonna vertebrale.

(17) Oetzi, l'Uomo venuto dal ghiaccio, ed il suo equipaggiamento rappresentano naturalmente il fulcro dell'esposizione. L'intera vicenda, la scoperta, il recupero, le successive campagne di scavi, gli esami clinici, è illustrata dettagliatamente con l'ausilio di pannelli esplicativi, foto, filmati e stazioni multimediali interattive. Una mostra temporanea dal titolo "Ötzi" dal 1 marzo 2011 al 15 gennaio 2012 al Museo Archeologico dell'Alto Adige dedicata al ventennale del ritrovamento dell'Uomo venuto dal ghiaccio. Vengono illustrate le più recenti scoperte scientifiche presentando numerose curiosità sulla mummia dell'Età del rame.

(18) “Canto di pescatore somalo” (vedi discografia).

(19) Herman Melville, “Moby Dick”, Adelphi Edizizioni – Milano 1987.
(20) Francis E. Kobina-Parkers (born 1932, Korle Bu, Gold Coast [now Ghana]), journalist, broadcaster, and widely anthologized poet whose style and great confidence in the future of Africa owe much to the Senegalese poet David Diop. His poetry, a rhythmic free verse with much repetition of words and phrases, tends to romanticize and glorify all that is African, from the blackness of African skin to indigenous music, dancing, and ritual. He recalls his continent’s past sufferings, exhorts the reader to do something about the oppression of blacks, and criticizes world powers for their concern with war and technology rather than with human needs. He admonishes colonial administrators of the past for the legacy they have left behind them. Parkes displays a great faith, similar to Diop’s, in the ability of Africans to bring about a glorious future through their own efforts. From the early 1970s Parkes worked for the Ministry of Information in Accra. Although a number of his poems have been collected in anthologies of African and Ghanian poetry—most notably Messages (1971) and Katchikali (1971)—Songs from the Wilderness is Parkes’s only published volume of poetry.
(21) “primitivo”, concetto, in (Dee Voto-Oli Dizionario della Lingua Italiana). E in Fabietti U., Remotti F. (a cura di), Dizionario di antropologia. Zanichelli, Bologna 1997.
(22) Giovanni Vignola, “Riti di iniziazione magici, sessuali e religiosi” - Milano - De Vecchi, 1972.
(23) Otto H. Pesch, “Liberi per grazia. Antropologia teologica” – Queriniana – 1988.

(24) Umberto Galimberti “Paesaggi dell’Anima” – Mondadori, Milano, filosofo, psicoanalista e docente universitario italiano.

(25) “Gabon”, (vedi discografia).

(26) “Aura Poku: danza delle maschere delle regine”, è il nome di una regina che regnava sui Bàule della Costa D’Avorio, presenti anche in Ghana, si tratta forse di una leggenda entrata nella tradizione (vedi discografia).

(27) “Ouénilégagui” (vedi discografia).

(28) Tam-tam - “tamburi parlanti”, articolo apparso in …………… (vedi discografia)

(29) Giorgio Mancinelli, dalla presentazione collana “Musical Atlas” -UNESCO, di musica tradizionale diretta da Alain Danielou e realizzata per il Consiglio Internazionale della Musica dall’Istituto Internazionale di Studi Musicali Comparati Fondazione Cini – Isola San Giorgio Maggiore - Venezia; prodotta da EMI.Italiana.





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