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Quaderni di Etnomusicologia 6: Il Romance spagnolo

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 22/10/2011 11:40:20

QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA – 6

“Il Romance Spagnolo tra Letteratura e Musicologia”, (prima parte)
di Giorgio Mancinelli (*).

(Studi e ricerche effettuati per “Folkoncerto”, RAI3, e per “Il Canto della Terra”, un programma di Etnomusicologia trasmesso da RSI (Radio della Svizzera Italiana), e stralci da articoli diversi apparsi sulle riviste: Nuova Scienza, L’Annuario Discografico, Nuovo Sound, AudioReview).

(Avviso importante: nell’impossibilità di tradurre correttamente tutti i testi medievali presenti nel saggio mi scuso se alcuni di essi non sono riportati in italiano. Chiunque sia in grado di farlo o di apportare migliorie è ben accetto. Può farlo inserendo le traduzioni nei commenti o usando la posta personale, grazie!)

Perché si possa parlare di qualcosa di diverso nell’ambito della etnomusicologia che qui concerne, ma che pure esula dalle linee conformi alla ricerca antropologica tout-court, occorre prima individuare un qualche rapporto esistente tra due entità relative, quali, ad esempio, quelle che qui sono l’oggetto dell’investigazione: la musica e la letteratura conformi alla tradizione orale e alla parola scritta, e tuttavia soggette alle interazioni (influenze reciproche), agli scambi formativi, di una diversa ricezione della cultura specifica che vogliamo trattare. Ma cosa avviene quando a formare una determinata realtà culturale contribuiscono più di un singolo sapere o più di una entità popolare che, verosimilmente, ne forgia l’anima multiforme, dando ad essa quell’impronta originale, tipica del territorio o del popolo che l’ha tramandata?
A fronte di una domanda siffatta è compito di questa ricerca trovare una risposta che abbia un senso compiuto, senza per questo andare a rimestare nelle scienze o nelle religioni riconosciute dall’ufficialità gestante, per la maggior parte, prive di curiosità e d’interesse per la nostra ricerca, che invece trova il suo peculiare coinvolgimento proprio in ciò che c’è d’involontario e accidentale e che si muove al di fuori dell’ufficialità educativa e della religiosità teologica, sulle quali una determinata cultura, solitamente di tipo “etnocentrico”, è fondata. Di contro, quello che più ci interessa è l’interpretazione “evoluzionista” senz’altro più concernente e interessante nello sviluppo culturale del gruppo sociale che si sviluppa all’interno di modalità ineluttabili, culturali, biologiche e del pensiero, che esulano da qualsiasi etichettazione programmata.
In realtà l’incompatibilità fra le due visioni non è poi così totale o incommensurabile come sembra, un risvolto unitario va necessariamente trovato al fine di dare luogo alla nostra ricerca, onde poter individuare quelle che sono le parti essenziali di un discorso culturale unitario e unificante, sia esso di transizione o definitivo, purché adeguato allo scopo della ricerca. È comunque importante non perdere di vista la méta iniziale che ci si è dati, che può anche cambiare durante il percorso e percorrere strade inusitate non corrispondenti a quelle esplorate dall’antropologia tradizionale, per avvalorarne altre, che invece si rifanno allo strutturalismo antropologico, necessario per comprendere più a fondo l’oggetto della ricerca in ogni suo aspetto. In questo caso specifico, l’uso dell’etnomusicologia comparata, è disciplina indicativa dell’esperienza socio-culturale della conoscenza umana più approfondita.
Il che equivale ad ammettere la sua legittima funzione di scienza fondamentale, indispensabile per colmare ogni spazio rimasto vuoto nella altre discipline formative, a iniziare dalla distanza che ci separa dalle “silenziose pianure del passato” e la “sovranità e il predominio del futuro”; così come ogni altra differenziazione nel campo della conoscenza applicata, per cui ogni popolo, ogni singolo soggetto sociale, ha le stesse capacità e le stesse possibilità di sviluppare una propria cultura originale che – non smetterò mai di ripeterlo – va considerata e rispettata per quella che è. Questo implica che nulla in linea di principio, ci impedisce di valutare positivamente modalità di valutazione che un tempo (per qualche millennio), sono state ritenute valide e che, in qualche modo, ancora oggi ci rappresentano.
Tuttavia, se è vero che la musica ha avuto ed ha il potere di mantenere vivi certi suoi caratteri millenari, che continua a essere suonata e verosimilmente intonata negli stessi luoghi dove si è formata, lo studio dell’etnomusicologia offre qui l’occasione per una sua rivalutazione in qualità di scienza necessaria per riappropriarci dell’identità smarrita del mondo, ossia: “della materia stessa di cui è formato il linguaggio sonoro” (*), che vede inclusa sia la musica che la parola orale, il canto e la danza; sia il linguaggio gestuale che pure ci compete e che, nell’insieme, formano quel tutt’uno culturale che dobbiamo riconsiderare, per una migliore comprensione del mondo in cui viviamo. Del resto, vivere il mondo della musica oggi, significa vivere il mondo sonoro nella sua totalità in una condizione sperimentale che non conosce precedenti.
Pertanto, anche quella che consideriamo esclusiva tematica musicologica o letteraria che si vuole affrontare in questa ricerca, trova nell’etnomusicologia, nella sua accezione specifica riferita alla forma orale ancor prima che scritta, una ragione investigativa e di screening, che spalanca una finestra sul “paesaggio sonoro” (*) della nostra immaginazione, che ci permette infine di ricapitalizzare quel patrimonio culturale che rischia altresì di andare perduto, o che è ancor peggio, di essere dimenticato. Tuttavia, prima di entrare nel vivo dell’investigazione, necessita qui trattare, seppur brevemente, quello che era il contesto letterario medioevale di rilevanza musicologica, che verso la fine del XIII secolo salutò in Spagna il sorgere di forme culturali autonome come la “prosa epica” e la “poesia lirica”, corrispettivi di un sostrato “etnico” preesistente – forse retaggio di più antichi aedi – formatosi sulla scia dei “cantare de gesta” e sfociato poi nel Romance epico-cavalleresco, giunto a noi esclusivamente in forma letteraria, ma che un tempo era fondamento della tradizione orale.
Si tratta in breve di una sorta di narrazione che, fluita attraverso i cuentos (racconti, novelle, fiabe), le coplas (canzoni, versi, ballate), subì notevoli mutazioni prima di definirsi nella forma del Romance che noi conosciamo e che, una volta oltrepassati i confini nazionali, arrivò nelle Corti dell’Europa medievale, al seguito di venditori ambulanti, viaggiatori e pellegrini, guitti e trovatori, subendo modifiche di aggiustamento secondo la lingua e la cultura ospitante, onde per cui una stessa “ballata”, magari d’origine inglese o francese, italiana o spagnola, all’occorrenza rimaneggiata, raggiungeva e diventava popolare in altre parti del mondo all’ora conosciuto, nei territori tedeschi e olandesi, o attraversati i mari, addirittura in quelli scandinavi e oltre.
Caratteristica dell’epoca fu la riduzione, da parte di narratori e cantori che li avevano appresi dalla tradizione orale, di Romance più o meno anonimi che venivano rappresentati nei teatri improvvisati all’interno delle corti medievali, alla presenza di nobili e prelati altolocati, nonché di signorotti arricchiti, e da cui, verosimilmente, prese forma quello che sarà la grande tradizione del Teatro spagnolo passando per Garcilaso de La Vega, Lope de Vega, fino a Calderon de la Barca. Quello stesso che, ad uso e consumo della catechesi dilagante, trascinerà sui sagrati delle chiese, dando sfogo all’attività processionale nella chiusa dei Sacramentales, recitativi di derivazione religiosa, conosciuti anche come Sacre Rappresentazioni. Allo stesso modo che, seppure in forma assai ridotta, entrava nei Retablo degli spettacoli di piazza, tenuti in occasione di fiere e mercati, o durante le festività ad uso e consumo del popolino, sempliciotto e credulone, ma non per questo sciocco e sprovveduto, che cercava nel Romance un certo acume vivace e spesso salace, in cui si rispecchiavano le debolezze umane, le passioni e gli intrighi dei nobili o delle Corti.
Spettacoli questi molto popolari che, con l’avanzare d’una maggiore conoscenza della lingua e della scrittura, acquistarono man mano un certo gusto espressivo e se vogliamo finanche pittoresco che ritroveremo più tardi nella zarzuela, l’operetta tipica del teatro spagnolo, che fornì ai “Romanceros”, sorta di divulgatori d’una primitiva forma di comunicazione sub-mediale, forme linguistiche e letterarie originali profuse di latino, giudaico-cristiano, moresco, e alcuni dialetti volgari che, in buona misura, ritroviamo nelle canciónes liriche e in alcuni Romance famosi, come questo “Romance del Quintado” (*), nella sua forma più tradizionale, trascritto da Joaquin Diaz:

“Ciento y un quintado llevan, todos van para la guerra. / Unos ríen y otros cantan; otros bailan y otros juegan. / Si no es aquel buen soldato, que tan largas son sus penas, / que el día que la casaron, sus bodas fueron sin fiestas. / Ya se acerca el capitán, le dice de esta manera: / ¿Qué tiene mi buen soldado; qué tiene que non se alegra? / Que el día que me casé me llevaron a la guerra / y he dejado a mi mujer, ni casada ni soltera. / Coge mi caballo blanco y vete en busca de ella, que con un soldado menos, también se acaba la guerra”.

"Cento ed un reclutato portano, tutti vanno per la guerra. / Alcuni ridono ed altri cantano; altri ballano ed altri giocano. / Se non quel buon soldato che tanto lunghe sono le sue pene, / che il giorno che si sposarono, le sue nozze furono senza feste. / Si avvicina già il capitano, gli dice di questa maniera: / Che cosa ha il mio buon soldato; che cosa ha che non si rallegra? / Che il giorno che mi sposai mi portarono alla guerra / e ho lasciato mia moglie, né sposata né nubile. / Prendi il mio cavallo bianco e vatti alla ricerca di lei che con un soldato in meno, finisce anche la guerra."

Riguardo alla composizione dei testi, molti erano gli autori che usavano stilare i loro versi sullo stile del virelai (*) provenzale, una delle tre forme impiegate nella poesia e nella musica medioevale, le altre sono la ballata italiana e il rondeau francese che rimandano a quel patrimonio musicale comune di una vasta area che dalla penisola Iberica raggiungeva l’Occitana fino alla Lombardia. Non di meno la musica strumentale era altresì ricca di straordinari esecutori per vihuela, chitarra saracena, cornamusa, ribeca, che si servivano per l’accompagnamento di tintinnambulum, flauti diversi, crotali, tamburi e tamburini, e timpani per segnare il “passo” nelle processioni. Nel tempo, vanno citati i francesi Jehannot de l'Escurel, Guillaume de Machaut e Guillaume Dufay che ci hanno lasciato composizioni ballate e mottetti, e alcuni complainte, molto eleganti nella forma; gli italiani Francesco Landini, compositore, organista, poeta, cantore, organaro e inventore di strumenti musicali, uno dei più famosi compositori della seconda metà del XIV secolo; e il più acclamato del suo tempo non solo in Italia, Jacopo da Bologna, compositore che si inserisce nella corrente musicale dell’Ars Nova, noto soprattutto per i suoi madrigali, e le sue numerose “cacce”. In Spagna, Alonso Mudarra, Luis de Milàn, Diego Ortiz e altri, i quali composero brani preminentemente strumentali utilizzando generi diversi, come: la “gagliarda”, la “fantasia”, la “ballade”, la “pavana” e le così dette “recercar” e “folias”.
Vanno ricordati inoltre, quei Troubadour (così si chiamavano nell’Europa medievale) che, oltre a suonare strumenti di vario tipo, come: lira, arpa, organetto, piffero e Fidel, intonavano la “voce” su versi di loro stessa composizione, improvvisando nei diversi “dialetti” regionali, canzoni e musiche a ballo in occasione di feste, matrimoni e banchetti, nelle nascenti Corti e presso i Signori dell’epoca. Tra i molti rimasti anonimi spiccano i nomi di Peire Vidal, Bernart de Ventadorn, Rambaut de Vaqueiras, La Comtessa de Dia, Marcabrun, Jaufre Rudel che scrissero madrigales cortesanos, romance e villancicos amorosos, danzas e bailes para cantar y taner (per cantare e suonare). In quel tempo, la maggior parte della poesia lirica e i poemi cavallereschi, le cronache storiche, i Romance e le opere filosofiche, erano per lo più scritte (o trascritte) in castigliano antico, che accoglieva in sé molte espressioni popolari, e che, una volta adeguatamente affinate o del tutto rimosse, diedero forma alla lingua spagnola così come è conosciuta ai giorni nostri.
È in quest’ambito cortigiano e popolare che, nel XIII secolo Alfonso X di Castiglia, detto “el Sabio”, dispose la raccolta delle “Cantigas de Santa Maria” (*), quattrocentoventisette composizioni in onore della Vergine Maria e dei suoi miracoli, in cui è fatto uso del volgare desunto dal latino, dovuto a copisti non sufficientemente esperti della lingua, che lo intervallarono con espressioni d’uso quotidiano a loro forse più naturali. Conservate in parte a Madrid e altre a Firenze, in quattro manoscritti contenenti inoltre raffigurazioni pittoriche di strumenti e suonatori, le Cantigas, ricche come sono di suggestioni musicali improvvise e di apporti letterari diversi, rappresentano una forma “commemorativa” di notevole pregio, sia nell’uso della “cantata”, sia per la struttura musicale utilizzata, che ben presto confluirono nella cultura delle austere corti d’Aragona e di Castiglia, d’Aquitania e di León, al pari del teatro e della danza annoverate tra gli svaghi preferiti dagli aristocratici del tempo.
Ad Alfonso X “el Sabio”, si deve inoltre l’aver incrementato con le sue opere, la letteratura del tempo e le discipline storiografiche e giuridiche, in aggiunta alla sua già copiosa biblioteca, indubbiamente una delle più ricche e conosciute dell’epoca, costituita da un numero impressionante di manoscritti redatti da intellettuali latini e arabi, ebrei e islamici, iberico cristiani e provenzali che formavano l’importante scuola da lui fondata detta dei Traduttori di Toledo, il cui apporto letterario e scientifico andò sviluppandosi nei secoli successivi. A lui si devono alcune fra le Cantigas più belle:

Da la “Cantigas 7”: (stralcio senza traduzione)

“Esta é de como Santa Maria pareceu en Toledo a Sant Alifonsso, et deu-ll’huia alua que trouxe de Parayso, con que dissesse missa”.

“Muito dovemos, varóes, / loar a Santa Maria, / que sas graças et seus dòes / dá a quen por ela fia. / Sen muita de bòa manna / que deu a un seu prelado, / que primado foi de España / et Affons’ era chamado; / deu-ll’húa tal vestidura / que trouxe de Para’yso, / ben fe’yta a ssa mesura, / porque metera seu siso / en a loar no’yf’e dia. / Ben enpregou él seus ditos, / com’achamos en uerdade, / et os seus bòos escritos /que fez da Virigihndade / d’aquesta Sennor mui santa; / per que sa loor tornada / fai en España de quanta / a end’auian de’ytada / jvdeus et a eregìa. / Porén deuemos etc.”...

In questa atmosfera culturale incontriamo Martin Codax, compositore ed esecutore colto, forse originario di Vigo, di cui non si hanno ulteriori riferimenti biografici, annoverato come giullare di estrazione medio borghese, in contrapposizione al troubadour galiziano probabilmente titolato. A giudicare dall'analisi scrittoria, egli doveva essere attivo durante la metà del XIII secolo, l’unico autore a fare uso nella composizione, della forma strofica arcaica (distico rimato seguito da un ritornello), impiegando inoltre un sistema di rime utilizzate a strofe alternate. La stessa che ritroviamo nel “Cancionero” (*), una raccolta in cui è citato come autore di almeno sette manoscritti rintracciabili in alcuni canzonieri galiziano-portoghesi. A lui si devono inoltre alcune delle canciones contenute in una pergamena scoperta in modo fortuito a Madrid, tra il materiale bibliotecario dell’antiquario e bibliofilo Pero Vindel, da cui la pergamena prende il nome. Sue sono inoltre le sette “Cantigas de amigo” (*) su un totale di ottantotto, le uniche in galiziano antico ad essere accompagnate da notazione musicale (sebbene con lacune), tranne che la sesta, in cui l’autore espone lo sfogo di una dama innamorata che lamenta la lontananza dell’amato, dal titolo: "Quantas sabedes amar”:

“Mia irmana fremosa, treides comigo / a la igreja de Vigo u è o mar salido / e miraremos las ondas. / Mia irmana fremosa, treides de grado / a la igreja de Vigo u è o mar levado / e miraremos las ondas. / A la igreja de Vigo u è o mar salido / e verrà i mia Madre e o meu amado / e miraremos las ondas”.
“Mia graziosa sorella, vieni con me / alla chiesa di Vigo dov’è il mare in tempesta, / e guarderemo le onde. / Mia graziosa sorella, vieni di buon grado / alla chiesa di Vigo, dove il mare si è alzato, / e guarderemo le onde. / Alla chiesa di Vigo, dove il mare si è levato, / e verrà mia Madre e il mio amato, / e guarderemo le onde”.
È indubbio che all’origine di tanta ricchezza di brani sia strumentali sia cantati che compongono il “Cancionero”, si noti la molteplice coesistenza di diverse forme musicali, quelle stesse che hanno accompagnato la grande evoluzione culturale che si andò conformando nella Spagna dei secoli XIII e XIV, e che videro l’evolversi, accanto agli inni processionali, ai canti dei pellegrini e le preghiere ispirate, altre forme musicali popolari, accostate a canciones amorose e profane, melodie per vihuela e arie di danza e d’occasione, impiegate come brevi “intermezzi musicali” durante la lettura dei primi Romance viejos d’argomento religioso che segnarono un’autentica evoluzione del genere.
Uno dei più noti, è senz’altro la “Historia de los enamorados Flores y Blancflor” di anonimo medievale, il primo esempio di romance esposto in forma letteraria, conosciuto in tutta l’Europa già nel XIII secolo, in cui si narra di due innamorati, modello di fermezza e di costanza, la cui lealtà superò ogni pena che la vita inflisse loro per separarli, e di come, infine, riuscirono a coronare il loro sogno d’amore: “… essendo Flores d’origine mora e Blancaflor cristiana”:

“Señora mia: De la pena vuestra duele al ànima mia, que, de la vida mia, yo tengo por bien empleada, porque, cuando yo de espana partì, fice cuenta de perder la vida por vos. Pues Dios me ha enderezado asì, creo que me sacarà a mì y a vos de todo este peligro. Màs una sola cosa, señora, vos demando merced, si a vos placerà: que demos complimiento a nuestros amores”.

“Signora mia: Della vostra pena duole all’anima che, della mia vita io ho ben impiegata, perché, quando io partii di Spagna, feci conto di perdere la vita a causa vostra. Perché Dio mi ha indirizzato così, credo che tirerò fuori voi e me da tutto questo pericolo. Ma una sola cosa, Signora, voglio chiedere grazia, se a voi piacerà: che si dia compimento ai nostri amori”.

Ancora in questo secolo Alfonso XI detto “el Justiciero”, per la fermezza e la crudeltà con la quale seppe reprimere le rivolte della nobiltà che gli era ostile, quando, salito al trono di Castiglia e León, pose fine allo stato di anarchia in cui si trovava il suo regno, dopo che i Merinidi (Mori), con l'assedio di Tarifa nel 1340, avevano occupato Gibilterra e da lì avevano conquistato possedimenti in Andalusia, stabilendosi a Siviglia e Granada. Ma fu nel 1344 che, dopo oltre due anni di assedio, e con l'aiuto dei cavalieri di tutta Europa, egli conquistò la città di Algeciras bloccando l'espansione dei Merinidi nel Sud del continente, dando inizio a quella che sarà ricordata come l’epoca della Reconquista da parte della nazione spagnola sui Mori invasori.
Sull’onda di questi avvenimenti la borghesia acculturata e per buona parte anche la popolazione meno abbiente, si appropriarono delle conoscenze culturali e artistiche dell’invasore, avviando quello scambio culturale e commerciale che, in qualche modo, arricchiva la sua conoscenza. Furono apprese nuove tecniche scientifiche, si impreziosirono i costumi, le arti, la musica e, soprattutto, si fecero propri gli eroi delle vicende guerresche, nel modo dei vecchi “cantare de gesta”, e se ne crearono di nuovi. Ne sono un esempio i molti poemi in versi, riferiti al periodo detto fronterizos o moriscos, ovvero della presenza dei Mori sul territorio spagnolo: “Romance del cautivo y el alma buena”, “Romance de los Moros de Moclin” ecc.; e altri detti di tema “historicos-novelescos”, come: “Mocedades de Rodrigo”, “Poema de Alfonso Onceno”, “Poema de Mio Cid”, in gran parte ascrivibili alla lirica castigliana del tempo, e che tuttavia favorirono una certa trasformazione del linguaggio orale, più recepito e quindi popolare, e che in seguito scaturì nella forma del Romance epico.
Fra i poemi di carattere “epico-cortesanos”, troviamo il leggendario “Cantar de mio Cid” (*) che è forse il più completo, oserei dire senz’altro il più ardito della letteratura spagnola. La stesura definitiva del poema, così come si presenta nell’edizione critica dello storico Ramón Menéndez Pidal che lo ha restituito all’antico splendore, faceva parte di un numero indecifrato di cronache precedenti, forse copie di testi precedenti probabilmente redatti tra il 1140 e il 1180. Nel testo originale, relativo a un manoscritto del XV secolo conservato nella Biblioteca National de Madrid, come risulta da un attento esame linguistico dello stesso Pidal, la figura di Rodrigo Diaz de Vivár, anche detto nei racconti in volgare “el Campeador” per le sue numerose imprese, e cioè “signore delle battaglie”, fu circondata di grande fama quando egli era ancora in vita, ragione per cui i suoi contemporanei Mori, gli tributarono l’epiteto “el Cid” o “Mio Cid”, dall’arabo “sayyiddì”, una forma di rispetto regale che significa “mio signore”. Alla sua morte, avvenuta nel 1099, la tradizione ne trasmise le sue gesta in forma di leggenda.
Verso il 1140 il “Romance del Cid”, si poteva già ascoltare per intero nella stesura che oggi conosciamo, sebbene, in altri componimenti popolari si fa riferimento a situazioni non inerenti che lo rappresentano talvolta come eroe ardito e a tratti violento, mentre, per i cronisti arabi fu valoroso uomo d’armi, rapace e a volte sleale. Ripresa successivamente, l’epopea del Cid ha subito manipolazioni e trasformazioni che ne stravolsero il linguaggio originale, in quanto autori, talvolta anche affermati, ne ricavarono opere drammaturgiche di scarso interesse storico. È il caso dello spagnolo Guillen de Castro che nel 1600 lo trasformò in un dramma desunto da vari romance popolari, dal titolo: “Las mocedades del Cid” (la gioventù del Cid). Spetta invece a Pierre Corneille, francese, il merito di averlo reso celebre al di fuori di Spagna, con la sua – molto discussa – tragicommedia “Il Cid”, rappresentata sul finire dello stesso secolo.
Il poema “Cantare del Cid” si divide in tre parti detti anche “cantos”: dell’esilio, in cui si narra come Alfonso VI di Castiglia incorse nell’ira regia dando esilio a Rodrigo Diaz de Vivár (el Cid), e da qual fatto si vuole abbiano avuto inizio le sue scorribande in terra mora. Bellissimo è l’inizio di questo primo canto che leggiamo nella traduzione di Cesare Acutis, che di recente lo ha riproposto all’attenzione dei lettori, in una edizione suggestiva e in tutta la sua piacevole leggibilità:

“Dagli occhi suoi / così forte piangendo, / volgeva la testa / / e indugiava guardando. / Vide le porte aperte, / senza pelli né manti / e senza falconi, / senza più astori mudati. / Sospirò il Cid, / che aveva grande affanno. / Parlò il Cid, / bene e con tanto senno: / - Ti dico grazie, Dio / Padre che sei in alto! / Questo han fatto di me / i miei nemici malvagi!”.

E, mentre numerosi cavalieri si apprestano a partire con il Cid verso Burgos, all’uscita di Vivàr: “Il Cid scosse le spalle / e poi scrollò la testa: / - Buone nuove , Alvar Fánez / siamo cacciati dalla nostra terra! /.

E ancora: “Le genti di Burgos / alle finestre stanno / piangendo dagli occhi / per il gran dolore …”.

Il primo “cantos” si chiude con l’arrivo del Cid a Toledo regno dei Mori, da dove hanno poi inizio le gesta che lo renderanno famoso: dalla sfida lanciata al Conte di Barcellona, fino alla conquista della spada Colada. Nel secondo “cantos” si fa riferimento alle nozze tra due Infanti di Spagna e le figlie del Cid, doña Elvira e doña Sol, rese possibili grazie alla mediazione del re Alfonso, il quale, nel frattempo, ha concesso il perdono al Campeador. La scena si svolge a Valencia, dopo l’ingresso trionfale del Cid:

“Il Cid s’incamminò alla fortezza / (con le due figlie e la moglie Jimena) / le faceva salire / sulle torri più alte. / Occhi si belli / guardano da ogni parte; / guardan come si stende / spaziosa Valencia / e poi, dall’altra parte / la vastità del mare. / Osservano il verziere / lussureggiante e grande. / Sollevano le mani / Iddio a ringraziare” /.

Il terzo “cantos” è detto dell’oltraggio, vi si narra della sconfitta dei Mori ed altre imprese. L’oltraggio consiste nell’abbandono delle figlie del Cid nel querceto di Corpes, da parte dei rispettivi mariti e del vanto che essi – gli Infanti di Carriòn – fanno della loro mala impresa. Il Cid, rivoltosi al Re Alfonso, chiede venga fatta giustizia e il re stabilisce che l’onta subita dal Cid sia cancellata con un duello. I tre campioni del Cid vincono il torneo e tornano vittoriosi a Valencia dove, nel frattempo, si preparano le nozze delle figlie con gli Infanti di Navarra e d’Aragona, con i quali il Cid lega definitivamente la sua stirpe alla regalità spagnola dell’epoca. Il “cantos” si chiude con la morte del Cid senza un atto testamentario che invece si trova in un romance popolare, recuperato da una versione più tarda.

La trasformazione da poema lirico in Romance è di carattere popolare e avrà un lungo seguito, per cui tutti i poemi più o meno attendibili, nati come brevi evocazioni di leggende o ascrivibili a cronache realistiche, divennero veri e propri romance lunghi, paragonabili a sequel di più puntate, tra questi: “Romance del Rey Don Rodrigo y la perdida de España”, “Bernardo del Carpio”, “Romance de los siete Infantes de Lara”, ed altri, di cui rimangono solo alcuni episodi, come nel caso del: “Romance de Don Bueso”, del “Romance de Abenámar y el rey Don Juan”, o del “Romance del Prisonero” (*) che leggiamo qui di seguito:

“Por el mes de mayo era / cuando hace la calor, / cuando los trigos ancañan / y estan los campos en flor, / cuando canta la calandria / y responde el ruiseñor, / cuando los enamorados / van a servir el amor; / sino yo triste, cuitado, / que vivo en esta prison, / que ni se cuando es de dia, / ni cuando las noches son, / sino es por una avecilla / que me cantaba el albor / matomela un ballestero, / !déle Dios mal galardon! / Mas quien ahora me diese / un pajaro hablador, / siquiera fuese calandria, / o tordico o ruiseñor; / criado fuese entre damas y avezado a la razon, / que me lleve una embrajada / a mi esposa Leonor, / que me envìe una empanada, / no de trucha ni salmon, / sino de una lima sorda / y de un pico tajador: / la lima para el torreon. / Oidolo habia el rey, / mando quitar la prision”.

“Per il mese di maggio era / quando fa il caldo, / quando i grani si alza / e i campi sono in fiore, / quando canta la calandra / e risponde l'usignolo, / quando gli innamorati / servono l'amore; / bensì me triste, afflitto, / che vivo in questa prigione, / che non la vedo quando è giorno, / né quando le notti sono, / bensì è per un'avecilla / che mi cantava l'albore / me l’ha uccisa un balestriere, /! dalle Dio un cattivo premio! / Ma chi ora mi desse / un uccello parlatore, / almeno fosse calandra, / o tordo o usignolo; / che addomesticato fosse tra dame e avvezzo alla ragione, / che mi porti un'ambasciata / a mia moglie Leonor, / che m’invii un panzerotto, / non di trota né salmone, / bensì di una lima sorda / e di un becco tagliente: / la lima per il torrione. / Oídolo aveva il re, / quando comandò di togliermi di prigione”.

Ancora sul finire del XIII secolo, assistiamo al nascere di un nuovo uso del linguaggio, divenuto più composito e ricco di espressioni idiomatiche, sul modello del “romance novelescos” di tipo lirico (narrato e talvolta cantato), che raggiunge uno straordinario sviluppo e instaura una nuova ripresa della tradizione. È questa una trasformazione importantissima che permetterà agli autori (spesso anonimi), di maneggiare altre forme di espressività letteraria, distinta da quella utilizzata in precedenza nei poemi destinati alla recitazione sul genere dei “cantare de gesta”. Era dunque inevitabile che anche in questo “nuovo genere” si avessero delle diversità di linguaggio, ampliate e fortemente intrise di spettacolarità, sul tipo del “Tirante el Blanc” e del “Amadis de Gaula” con il quale s’inaugura il “romance d’avventura” del genere cortese, poi ripreso nella forma da tutta la letteratura successiva, non solo spagnola.
Garci Rodriguez de Montalvo, autore dell’ “Amadis de Gaula” (*), compila una minuziosa geografia fantastica in cui principi e cavalieri, draghi e giganti, maghi e maghe autori d’incantesimi, vengono bizzarramente mescolati ad elementi del genere picaresco, quanto ad elementi del romanzo epico - cavalleresco. Non deve sorprendere dunque se il primo fantasy della letteratura spagnola conserva una religiosità profonda e una forte risonanza avventurosa, tipica dei poemi cavallereschi dei cicli carolingio e bretone, quanto invece che questi offrirono spunti ad altri autori di aggiungervi altri episodi non sempre ben argomentati.
Tra questi ricordiamo Gil Vicente, drammaturgo e poeta portoghese autore di un “Amadis de Gaula” tratto dall’omonimo romanzo in cui si alternano vicende d’amore, di gelosia e pentimento, di grande eleganza letteraria. Nonché Bernardo Tasso (italiano) padre di Torquato, il quale, rimasto affascinato dalla trama, rielaborò la materia del poema e ne proseguì la historia, in un poema in ottave “Amadigi”, formato di 100 canti. E l’altro, quel “Romance del cautiverio de Guarinos” di anonimo pubblicato in pliegos sueltos, cioè in fascicoli sciolti, all’inizio del XIV secolo, in seguito ricordato da Miguel Cervantes nella sua opera più famosa “El ingenioso hidalgo don Quixote de la Mancha”(*), nel passo in cui, Don Quijote andando a trovare Dulcinea, lo ascoltò cantare da un agricoltore del Toboso, il cui incipit è pressoché indimenticabile:

“!Mala la hubistes, franceses, / la caza de Roncesvalles ...”
“! Cattiva la subiste, francesi, / la caccia(ta) da Roncisvalle...”

L’opera letteraria più importante dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes de Saavedra, giustamente ritenuta una delle più rappresentative della letteratura mondiale, è anche un eccellente compendio di musica del suo tempo, infatti fa dire al burlone scudiero Sancio Panza:

“Señora, donde hay mùsica no puede haber cosa mala.
La mùsica siempre es indicio de regocijo y fiestas”.

"Signora, dove c'è musica non può esserci cosa cattiva.
La musica è sempre indizio di gioia e festa"…

È questa la più alta testimonianza della popolarità del Romance in terra di Spagna, che ci permette di dar credito a quella che è una prima informazione musicale (ne troveremo delle altre) che forse stavamo cercando fin dall’inizio e che fa da autentica cornice all’epica tardo-rinascimentale e quindi barocca, in cui sfocerà il Romance successivo. L’attendibilità di questo discorso, ci fornisce la chiave di lettura dell’intero romanzo, che è racchiusa nella frase che Cervantes fa dire proprio al protagonista indiscusso della sua opera, quel “Don Chisciotte della Mancia” audace cavaliere errante:

“Todos o los mas Caballeros andantes de la edad pasada,
fueron grandes trovadores y grande musicos”.

“Tutti o forse i più dei Cavalieri erranti dell'età passata,
furono grandi trovatori e grandi musicisti”.


Con ciò, s’introduce qui la figura del “Romamceros”, ovvero dello scrittore di romance, da non confondere con la raccolta di Romance cosiddetta cancioneros, quei narratori medievali, trovatori e menestrelli (vecchi e nuovi) che ancora all’inizio del XIV secolo, giravano per i borghi e nei contadi portando oltre alle cantate popolari e le canciones, quei componimenti poetici di carattere epico-lirico espressi in doppi ottonari assonanti con o senza estribillo (ritornello) fra l’una e l’altra strofa, simile alla ballata trovadorica e, come questa, lineare e monotona, gravata da una pena inarrivabile e dolente, tipica delle lamentaciones religiose. Dire che i Romanceros, narratori di storie leggendarie e avvenimenti di cronaca spesso rimaneggiati, obbedivano in certo qual modo, a quel codice dell’amor cortese, modello di virtù e moralità, nel quale la società cortigiana del tempo piaceva rispecchiarsi, è più che superfluo, nessuno di loro sfugge a quelle che sono le linee (o le mode) “letterarie” dell’epoca in cui si trovavano ad esercitare uno dei mestieri più antichi del mondo: l’affabulazione.
È però nella forma del “Romance nuevo” che i Romanceros mettevano insieme sentimenti diversi anche contrastanti quali: amore e odio, vendetta, magia, esotismo, fantasia (che più tardi saranno detti romantici), e che oggi ancora abbagliano l’improvvisato ascoltatore e l’acculturato lettore per le tematiche riferite a eroi lontani e vicini (nel tempo o nella realtà), e che piuttosto desidera burlarsi di loro, piuttosto che ammirarli per quelli che sono o che rappresentano. Non si sa bene se fin dall’inizio, ma comunque e sempre più spesso, i Romanceros rendevano una trasposizione fortemente emotiva, inframmezzata di pause e silenzi più o meno prolungati che accrescevano nell’ascoltatore una certa suspense nella narrazione. Così come, sul tipo della canciones epica, usavano accompagnarsi al suono di una chitarra, o una viella, alternando la narrazione con brevi parti cantate, o “villancicos” che, oltre ad alleggerire il racconto, permettevano, in ragione dell’orecchiabilità della musica, una maggiore memorizzazione del fatto narrato, per cui non sorprenda che il risultato artistico possa vantare una storia fra le più lunghe e continue, dal medioevo a oggi.

Da “La Letteratura Spagnola” (*) di Carmelo Samonà e Alberto Vàrvaro, apprendiamo quanto segue:

“Contemporaneamente alla lirica tradizionale affiora nella penisola iberica un altro tipo di poesia popolare, una specie di zibaldone che andava scrivendo nel 1421, un giovane maiorchino che studiava legge in Italia, Jaume de Olesa, il quale mise per scritto (ma lasciandola a mezzo), una versione molto catalanizzata del “Romance della Dama e del Pastore”, una sorta di pastorella alla rovescia, che ancora in tempi recenti veniva cantata dagli ebrei sefarditi del Marocco e del Levante. In un canzoniere conservato a Londra è detto come Juan Rodrìguez del Padròn, attivo verso il 1430-1440, scrivesse tre “romances”, così esplicitamente chiamati, che trovano corrispondenza nella tradizione ulteriore (uno di essi è una versione contaminata del “Conde Arnaldo”): il confronto prova che l’intervento di Rodriguez del Padròn non deve essere andato molto oltre la semplice raccolta dei testi dalla tradizione orale”.

Molteplici sono gli aspetti colti presenti nei romance redatti durante il XV secolo, corrispettivo del rinascimento europeo, in cui la Spagna, governata dai Los Reyes Católicos Ferdinando d’Aragona e Isabella la Cattolica, vide la fini delle lotte intestine per la supremazia del territorio tra le diverse Corti. Ma siamo ancora nel 1496, inizio di un’altra epoca storica e letteraria che vede, verso la fine del secolo, il prevalere, a fianco di una concreta esplosione religiosa e dall’embrionale presa di coscienza nazionalistica delle corti feudali, il fiorire delle arti e della musica in particolare, che almeno in certe forme tipiche vide il prevalere di un tono più popolare e meno artificioso. È il caso del “Cancionero de la Colombina” (*), così detto dal nome della Biblioteca della Colombina che ne conservava il manoscritto spagnolo contenente brani strumentali e vocali del XV secolo, copiato probabilmente attorno al 1460-1480 da un unico copista di cui si ignora la provenienza.
Originariamente constava di 107 fogli, dei quali 17 andati perduti, consta oggi di 95 brani musicali, alcuni dei quali incompleti. Degli altri, pervenuti per lo più anonimi, 53 sono ascritti a diversi autori incontrati in altre raccolte, tra i quali spiccano: Juan Cornago, Juan de Triana, Juan Urrede, Enrique, Juan del Encina, Francisco de la Torre, Juan de León. Inoltre si è potuto identificarne altri, alcuni dei quali sono più conosciuti in qualità di poeti, come García Álvarez de Toledo (duca d’Alba), Rodríguez del Padrón o Íñigo López de Mendoza (Marqués de Santillana). Il repertorio del manoscritto è molto variato, passa attraverso diversi generi musicali strumentali e canciones, villancicos, romance e ensaladas, molti dei quali affrontano tematiche particolarmente licenziose:

Dal “Cancionero de la Colombina”, leggiamo:

“¿Como no le andaré yo, / mesquina, tan desmayada? / Dixo la niña al pastor: / - Mira, pastor, qué tetas. / Dixo el pastor a la niña: / - Más me querría dos setas, / mi çurrón, mi çamarrón, / mi cayada y mi almarada / y mi yesca y mi eslabón. / ... / Dime, triste coraçón, / ¿por qué callas tu passión? / Cativo no sé qué diga. / A quien sirvo es mi enemiga, / plázele con mi fatiga, / desespero galardón. / ... / Querer vieja yo, / no quiera Dios, no. / Una vieja como sarra, / los gargueros de guitarra, / ya me dava una çamarra / porque le quisiese yo. / Querer vieja yo, / no quiera Dios, no. /.../ ¡Allá yrás, doña vieja, / con tu pelleja! / Sospira como moçuela, / dize que amor la desuela, non tiene diente ni muela, / rrumia, al comer, como una oveja. / ¡Allá yrás, doña vieja! / ....”.

"Come non ti vado io, / meschina, svestita? / Disse la bambina al pastore: / - Guarda, pastore, che tette. / Disse il pastore alla bambina: / - Più amerei due funghi, / il mio çurrón, il mio çamarrón, / il mio cayada ed il mio almarada / e la mia esca ed il mio anello. /... / Dimmi, mio triste cuore, / perché taci la tua passione? / Cattivo non so che cosa dica. / A chi servo è la mia nemica, / piacerle con la mia fatica, / esasperato premio. /... / Essere vecchia io, / non voglia Dio, no. / Una vecchia come Sara, / le strozze di chitarra, / già io le davo una çamarra / perché lo volesse io. / Voler essere vecchia io, / non voglia Dio, no. /... / Lo dirà, signora vecchia, / col tuo cuoio! / Sospira come moçuela, / dice che amore la devasta, dispari ha denti che macina, / rumina, mangiando, come una pecora. / Lo vedrà, signora vecchia! / mia".

La forma del Cancionero divenne in seguito oggetto di elaborazioni artistiche raffinate da parte dalle classi più colte, seppure un’indagine erudita dei testi, comincerà ad occuparsene solo in epoca successiva, allorché si scorse all’interno di essi una fase dell’evoluzione del poema epico - cavalleresco d’importanza nazionale. In realtà, la presenza di grandi personalità, oltre che a narratori e cantori anonimi, a loro volta autori dei poemi e dei brevi Romance che entravano a far parte della raccolta, permise loro di conoscere più ampia eco nella cultura ufficiale e il loro “dire” fu preso ad esempio del nobile parlare Castigliano. Successivamente trascritti nella lingua letteraria utilizzata per celebrare eroi e personaggi illustri che, in qualche modo, si erano rivelati di primaria importanza nella storia dell’odierna Spagna, il Romance si confermò, in seguito, tra le forme letterarie, la più rappresentativa dell’anima spagnola. La cui narrazione, parimenti amata sia dal principe che dal contadino, a un certo momento, si trovò a spaziare tra una settantina di testi letterari redatti su melodie più antiche, quando specificamente composte appositamente per questa forma, e pervenuteci, per la maggior parte, in famose raccolte, quali il “Cancionero musical de Palacio”(*), il “Cancionero musical de la Casa de Medinaceli”(*), il “Cancionero de Montecassino” (*), “Il Cancionero di Upsala” (*) e il “De musica libri septem” (*) - Salamanca 1577, di Francesco Salinas, in cui predominano i temi dell’amore, dell’ineluttabile fatalismo e del dolore, caratterizzati da un’intonazione dichiaratamente drammatica.
La pratica più comune voleva che la musica per il romance si scrivesse per una sola strofa, onde poi cantarla sull’aria di un villancicos conosciuto. Così facevano ancora nel XVI secolo Luys de Narvàez e Alonso Mudarra, nel fornire accompagnamenti per due strofe. Mentre Valderàbano, in particolare, completava le melodie popolari alla maniera del canto fermo (cantus firmus) con lunghe, espressive cadenze sulla vihuela in coincidenza di pedali nelle parti vocali, mentre, ad esempio, in “Durmiendo yva el Senor”, le strofe sono collegate da un’elaborazione polifonica sulla melodia di Romance per vihuela. Diversamente Diego Pisador e Miguel de Fuentellana, vihuelista y compositore del Rinascimento, ci hanno lasciato introduzioni strumentali per Romance di cui sono state trovate versioni diverse tra loro; lo stesso può dirsi per numerose trascrizioni rispettivamente per voce e chitarra.
È tuttavia Luis de Milán che riesce a trarre il miglior partito artistico dalla forma del romance. Come avverte l’autore stesso : “L’effetto di una musica così gravemente bella ed elementare si fa ancor più potente se si ha cura di cantare le melodie senza fretta, in maniera ampia e libera, e di suonare il più velocemente possibile i passi strumentali tra le frasi vocali”. Successivamente altri musicisti introdussero particolari innovazioni, ma nessuno raggiunse la perfezione dei suoi quattro esempi. Tre di essi si dividono in due parti: la melodia della prima è popolare; quella della seconda è di sua mano, benché affine alla prima. Come ad esempio, la seconda parte della sua “Durandarte”, appartenente ai “Romances del ciclo Carolingio”, sviluppa l’ultima frase della prima, che riappare immutata alla fine del testo. Le indicazioni di tempo di de Milán e Valderàbano, sia detto incidentalmente, sono tra le più antiche conosciute: Dal “Cantar de Roncisvalles” (*) leggiamo:

I
“Durandarte, Durandarte, / buen caballero probado, / yo te ruego que hablemos 7 en aquel tiempo pasado, y dime si se te acuerda / cuando fuiste enamorado, / cuando en galas e invenciones / publicabas tu cuidado, / cuando venciste a los moros / en campo por mi aplazado; / agora, desconocido, / dí, ¿por qué me has olvidado? / - Palabras son lisonjeras, / señora, de vuestro grado, / que si yo mudanza hice / vos lo habéis todo causado, / pues amaste a Gaiferos, / cuando yo fui desterrado; / quei si amor queréis conmigo / tené islo muy no sufris ultraje / moriré desesperado”.
II
“Muerto yace Durandarte / debajo de una verde haya; / con él está Montesinos, / que en la muerte se hallara; / la fuesa le está haciendo / con una pequeña daga. / Desenlázale el arnés, / el pecgo le desarmaba; / por el costado siniestro / el corazón le sacaba, / volviéndolo en un cendal,/ de mirarlo no cesaba. / Con palabras dolorosas / la vista solemnizaba: / - ¡Corazón del más valiente / que en Francia ceñía espada, / ahora seréis llevado / a donde Belerma estaba! / Para dar clara señal / de la verdadera llaga, / será hecho el sacrificio / que ella tanto descaba, / del amador más leal / a la más cruel y brava. / Use clemencia en la muerte, / pues en vida os la robaba. / ¡Si vuestra muerte le duele, / dichosa será la paga / a quien está aguardando / el contenuto de su dama, / que hasta ver la licencia / el cuerpo muerto acompaña! / Allegando Montesinos / a donde Belerma estaba, / le dice con el semblante / que el color le convidaba: / - Si la potencia de amor / te ha rendido en su batalla, / muéstralo en saber que es muerto / el que más a sí te amaba. / Belerma con estas nuevas / no menos que muerta estaba; / mas después que ya tornó, / entre sí se razonaba: / - ¡Mi buen señor Durandarte, / Dios te perdone la tu alma, / que según queda la mia, / presto te tendrá compaña!”.

I
"Durandarte, Durandarte, / buon cavaliere provato, / io ti prego che parliamo 7 in quello tempo scorso, e dimmi se si ricorda Lei / quando fosti innamorato, / quando in regali ed invenzioni / pubblicavi la tua attenzione, / quando vincesti i moro / in campo per mio posticipato; / agorà, sconosciuto, / diedi, perché mi hai dimenticato? / - Parole sono lusinghiere, / Sig.ra, del vostro grado, / che se io trasloco feci / voi l'avete causato, / perché amaste Gaiferos, / quando io fui confinato; / che se amore volevate a me / tenervi a lui molto e non soffrite oltraggio / mentr’io morirò disperato."
II
"Morto giace Durandarte / sotto una verde siepe; / con lui sta Montesinos, / che procurandogli la morte; / una ferita sta facendogli nel petto / con una piccola daga. / Slacciatogli l'arnese, / che il petto disarmava; / per il fianco sinistro / gli tirava fuori il cuore, / girandolo nell’armatura, / mentre di guardarlo non cessava. / Con parole dolorose / la vista solennizzava: / - Cuore del più coraggioso / che cingeva la sua spada in Francia, / ora sarete portato / la dove Belerma stava! / Per dare chiaro segno / della vera piaga, / sarà fatto il sacrificio / che ella tanto cercava, / dell'amatore più leale / al più crudele e valoroso. / Usa clemenza nella morte, / perché in vita ve la rubava. / Se la vostra morte gli duole, / felice sarà la paga / a chi sta aspettando / il contenuto della sua dama, / che fino a vedere la licenza / il corpo morto accompagni! / Raccogliendo Montesinos / la dove Belerma stava, / gli dice con l'aspetto / che il colore l'invitava: / - Se la potenza di amore / infine si è arreso nella battaglia, / mostralo adesso, che lo sai morto / quello che più per sé amava. / Belerma con queste notizie / non meno che morta stava; / ma dopo che tornò, / tra sé si ragionava: / - Il mio buon signore Durandarte, / Dio perdoni la tua anima, / che come rimane la mia, / presto ti avrà in compagnia! ".

Ciò che può dirsi anche per i villancicos (inseriti all’interno del Romance per alleggerirne la portata narrativa) e che, all’inizio, muovevano da un’occasione storica volendo rendere omaggio a una città o a un personaggio importante, oppure commentare comuni avvenimenti di corte o santificare le festività religiose. Il numero sempre crescente di villancicos religiosi costituì nel tardo ‘500 l’essenziale premessa per la trasformazione di questa forma, nella più ampia “Cantata Sacra” di cui sono piene le pagine della musica colta. Tuttavia l’amore, quello affettivo e intimistico, speso a un livello ben più familiare, rimase l’argomento preferito. Ne è un esempio quello qui di seguito riportato, musicato dallo stesso de Milán e in cui il numero dei versi e il numero delle sillabe di ogni verso, varia da canto a canto:

“Toda la vida hos amé, / si me amais, yo no lo sé, / bien sé que teneis amor, / al desamor y al olvido. / Sé que soy aborrecido, / ya que sabe el disfavor. / Y poe sempre vos amaré / si me amais, yo no lo sé”.

“Tutta la vita vi ho amato. Se voi mi amate, io non lo so. So bene che voi tenete l’amore in disamore e oblio. So che sono odiato, poiché ho provato il disfavore. E sempre vi amerò. Se voi mi amate, io non lo so”.

Una sostanziale quanto necessaria ripartizione, distingue i Romance in cinque classi: storici, carolingi, romanzi, lirici e biblici, che il Milá y Fontanals, riprendendone, in epoca più tarda, lo studio “De la poesia heròico popular castellana” (*), riconobbe nei Romance viejos non soltanto forme poetiche posteriori agli antichi “cantare de gesta”, altresì frammenti superstiti di una elaborazione storico epica di testi risalenti a secoli precedenti e che pertanto annullava di per sé la ripartizione del Romance. Dichiarazione questa che, ripresa nelle sue linee sostanziali ed elaborata da Ramón Menéndez Pidal (*) il quale, nonostante le critiche non prive di valore che gli vennero mosse sulla fondamentale differenza di metro e d’intonazione del Romance lirico dal più antico poema epico, fu da lui vivamente contestata, facendo osservare che di per sé semmai l’elaborazione popolare trasformava l’intonazione epica in romanzesca, e il tono narrativo in lirico.
Obiezioni che permisero allo stesso Pidal di riferirne l’evoluzione a forme sociali e borghesi più tarde, e che ci sembra oggi decisamente la più accettabile. Di fatto egli distinse le forme come: “romance viejos”, quelli anteriori al pieno fiorire del rinascimento, compresi quelli di materia storico-tradizionale; in “fronterizos”, o di frontiera, quelli riferiti a scrittori spesso curiosi delle forme erudite che il romance offriva loro; in “moriscos” (da Mori), di genere epico-cavalleresco quelli che si ascoltavano durante la dominazione araba, per lo più elaborati sui cicli carolingio e brettone. A seguire, quelli detti “eruditos” e quelli “novelleschi” più lirici, sottilmente carichi di accenti e frasi arcaiche, privi di quell’ingenua e limpida ispirazione che rimane il maggior pregio delle vecchie romanze, e il cui affermarsi corrispondeva al pieno fiorire di quella rinascenza letteraria e artistica che investì la Spagna e il resto d’Europa alla fine del XV secolo.
Proseguendo nella nostra ricerca c’imbattiamo, di sicuro più agevolmente, in qualche edizione di “Storia della Musica” (*) che, seppure da un certo punto di vista, sorvola quanto raccolto dalla nostra ricerca, comunque utile per accertare l’evoluzione del romance spagnolo in genere:

“Il romance si diffonde negli strati sociali più bassi ed è in origine un genere popolare, senza per questo rimanere estraneo alle esperienze delle persone più colte, anche se per qualche tempo costoro lo considerano privo di validità letteraria. (..) Ancora nel 1444, un certo Juan de Mena, accenna ad una versione della morte di Fernando IV, “segun dizen rustico d’esto cantando”, secondo il dire rustico di questo cantare, (ed in realtà noi troviamo questo tema nel romancero), e poco dopo Santillana parla di “romances e cantares de que las gentes de baxa e servil condiciò se allegra”. Qualche anno più tardi, alla corte di Napoli, Carvajal compone, a imitazione di quelli tradizionali, due romance, uno dei quali è databile al 1454. Dopo questi primi affioramenti, di cui va notata la localizzazione per lo più periferica, sotto il regno di Enrique IV (1454-1474), che li cantava egli stesso, comincia la gran voga del genere in Castiglia e questa fortuna durerà fino a metà circa del Seicento; poi i romance scompaiono, ma in realtà erano solo passati di moda fra le persone colte ma il popolo li ripeteva dovunque fossero giunte genti ispaniche, dall’America alle Filippine e, dopo che il romanticismo ne ebbe restaurato il gusto al livello sociale e culturale più alto, essi sono andati riaffiorando a migliaia ad opera di amorosi raccoglitori, primi fra tutti Menéndez Pidal e sua moglie, Marìa Goyri.
Il testo raccolto da Jaime de Olesa è in doppi ottonari con il primo emistichio piano e il secondo tronco e con assonanza in e dei secondi emistichi; i tre romance di Juan Rodrìguez del Padròn hanno la stessa struttura, ma il verso è meno regolare ed uno dei testi usa la e paragogica dell’epica antica (Juane, mare, cantare, ecc.). poiché Santillana dice che essi erano composti “syn ningund orden, regla, nin cuento”, par lecito pensare che in origine i romances fossero in versi anisosillabici, anche se a base di emistichi ottonari, ma è la struttura del testo dello studente maiorchino quella poi normale del genere: nel Cinquecento gli emistichi divennero veri e propri versi, ma l’assonanza rimase limitata ai versi pari e perdurò la preferenza per terminazioni piane in sede dispari. L’intera gamma tematica del romancero viejos è dunque documentata fin dalle sue prime attestazioni. Pertanto, verosimilmente, la sua origine è senz’altro più antica dei testi che ci sono pervenuti; resta da stabilire di quanto, e quali ne siano le origini. Esaminando la tematica dei più antichi testi a noi noti: la “Dama e il Pastore” è un’invenzione su uno spunto indigeno (la serranilla). I romantici, che vedevano nella poesia popolare l’espressione spontanea della collettività e gli incunaboli della produzione poetica di un popolo, ritennero antichissima l’origine del romance di cui l’epica sarebbe stata un posteriore sviluppo. Più tardi la revisione del concetto di poesia popolare ha portato a sottolineare l’origine individuale e non collettiva dei singoli testi e contemporaneamente il rapporto fra epica e romancero è stato capovolto, soprattutto per merito del Milà y Fontanals.
I primi romance sono in qualche modo legati alla data (o poco posteriori) dell’avvenimento che cantano; il più antico è da questo punto di vista proprio quello ricordato da Juan de Mena, che narra come il re Fernando IV sia stato citato davanti al tribunale di Dio da due condannati e sia poi deceduto misteriosamente trenta giorni dopo (1312). Ma non è possibile stabilire con sicurezza quando questa leggenda, che è raccolta anche da una cronaca già verso la metà del trecento, abbia dato luogo ad un romance. Più sicuro pare il caso di un romance sulla ribellione di Hernàn Rodrìguez, priore dell’ordine di San Giovanni, contro Alfonso di Castiglia (1328), romance che par proprio destinato a dar notizia degli avvenimenti. Ad ogni modo devono essere considerati contemporanei ai fatti i romance su re Pedro il crudele, in quanto è probabile che i romance storici e quelli epici, siano stati almeno in parte composti per impressionare l’opinione pubblica a favore dei Trastàmara, dunque in funzione propagandistica e di “guerra psicologica”, e siano poi rimasti nella memoria popolare per la tragicità delle vicende di quel regno, (..) molti dei quali paiono però di origine giullaresca e di intento sia celebrativo, sia informativo del popolo che poco sapeva di molte vicende. Pare anche che questi più antichi testi giullareschi fossero ampi e circostanziati ed abbiano acquisito il tipico taglio che ci è noto solo grazie all’elaborazione della tradizione orale.
Poiché dai romance storici non ricaviamo tutto sommato molta luce sul problema delle origini del genere, esaminiamo i testi di tema epico-nazionale. I poemi epici erano recitati dai giullari che a volte si limitavano a qualche episodio isolato; s’è pensato perciò che i romance epici fossero in origine semplici brani enucleati da un più ampio poema, precisamente, i punti più salienti che il pubblico imparava e ripeteva. Al di là delle apparenze, la differenza con l’epica non potrebbe essere maggiore: il tema narrativo è estratto dal nesso causale e lo presuppone soltanto in modo vago, non necessario; dalla struttura distesa ed esplicita del racconto si passa a quella contratta ed implicita di un momento drammatico per se stesso compiutamente espressivo e valido. La conclusione non può essere dunque che vaga ed ipotetica”.
Riprendiamo, quindi, da dove eravamo rimasti, lì dove il Romance si attesta e si sviluppa nella Castiglia del XIV secolo, da cui poi giunge in Portogallo, ricevendo una “nuova” impronta sul finire del XV sec. dalla maggior grazia d’invenzione e la profusa delicatezza dei sentimenti cui si ispirarono molti compositori dell’epoca. I temi nazionali portoghesi furono dapprima reinterpretati sulla scia del romance castigliano; ma è possibile ammettere una priorità della redazione portoghese per alcuni romance di carattere sentimentale, come ad esempio quelli intitolati alla “Bella Infanta”, a “Don Bueso” e al “Conde Claros”, ecc.: vuoi per la “genuina melodia del folklore, piuttosto che popolare, e che come moltissime altre, ebbero vasta notorietà perché su di essa si potevano cantare tanti altri “romance” e, soprattutto, perché la sua indubbia monotonia melodica era un agevole campo d’azione per i compositori, che potevano sbrigliarvi il talento in una serie di variazioni. (..) Infatti,la forma della variazione pare sia nata in Spagna, per la necessità di alleviare la monotonia dell’accompagnamento del liuto durante la recitazione di un romance lungo” (*).
Con il “Cancioneiro Geral” (*) di Garcia de Resende portoghese del XV secolo, si testimonia la più antica presenza del Romance sul territorio, a conferma dell’avvenuta interazione della tradizione spagnolo-portoghese con quella che era la tradizione musicale ebraica e araba, rintracciabile nelle ricche ornamentazioni musicali che irrompono improvvise con l’esplosione sonora e vocale, tipiche di quelle culture. Siamo però già un passo troppo avanti, prima di questa raccolta che contrassegna un vero e proprio nucleo di riferimento del Romance viejos e la linea di svolta con i “nuevos”, c’erano stati almeno due avvenimenti non trascurabili, entrambi ascrivibili al 1492: la guerra di Reconquista culminata con la caduta definitiva del regno musulmano di Granada e la conseguente cacciata degli ebrei-sefarditi che non riconoscevano la cristianità; e la scoperta del “Nuevo Mundo” da parte di Cristóbal Colón, che riaccesero gli animi nazionalistici e diedero ulteriore vigore alla rinascita dell’epopea epica.
Ancora in epoca trovadorica, nell’Andalusia araba, era conosciuta una composizione simile come struttura alle canciones di cui si è precedentemente parlato: “el zéjel”, in cui si alternavano “strofe” cantate da un solista, con inserimento di un “estribillo” (ritornello) cantato invece dal coro sullo stile del responsorio; nel modo in cui agli “a-solo” del cantante rispondevano i “vocalizzi” del coro, onde all'estribillo iniziale succedeva una o più strofe, o rime deferenti: le così dette solfe, l'ultima delle quali, la vuelta, veniva sostituita dal ritornello. Altresì si conoscono Romance contenenti, al loro interno, uno o più canti appassionati dal nome vivace, detti “villancicos”, di carattere popolare: “vivo e traboccante di allegria, spesso ironico o picaresco”, apparentato – è bene ricordarlo – con il “virelai” francese che, a sua volta, faceva da sfondo alla “ballata” italiana.
Ciò non toglie che anche nel Romance di questo periodo si facesse un uso strumentale d’accompagnamento, come infatti è testimoniato in alcuni testi dove è fatto riferimento oltre che all’esposizione narrativa, a un fare musica per così dire “improvvisata”, o come si diceva allora “intavolata”, per accentuare la sua estrazione popolare e ricreare quell’atmosfera, reale o fantastica che fosse, più adatta allo svolgersi degli accadimenti. E che, così utilizzata, serviva a colmare i vuoti che separavano i diversi periodi e i salti di tempo richiesti dalla narrazione. Acciò assolveva spesso i villancicos (canto dei villani), di stampo vivace e gaio usato nelle feste, ma anche le canciones di genere amoroso, così come le ninne-nanne, i canti religiosi per la natività ed altri, più o meno spontanei, accompagnati dal liuto, dalla tiorba, o dalla chitarra; mentre per la musica colta erano già in uso il l’arpa, il chitarrone, il violòn e altri.
Nei primi Romance di genere nuevos, fortemente ispirati dalla cultura arabo-moresca, tipica delle correnti andaluse, era consuetudine la tendenza a limitare l’uso alla voce narrante e l’accompagnamento a un solo strumento (rebèc, lyra, viella, guitarra morisca); mentre, la monodia vocale, all’origine della polifonia (a più voci), rivelava segreti rapporti con la cultura ebreo-sefardita nell’andamento salmodiante dei recitativi, e per certi aspetti l’influenza mozárabe e bizantina. Ecco che allora, anche la guerra contro l’infedele, la celebrazione dell’eroe tragico, oppure altri temi epici, spesso molto più antichi, davano forma alle trame di un repertorio al tempo stesso creativo e fantasioso, certamente partecipe del nobile lamento o del veemente compianto popolare.
Oltre agli strumenti già citati, e in seguito sostituiti da altri (vihuela, chitarra, liuto, flauto, percussioni), non è stato rintracciato riferimento alcuno che fossero usati durante la narrazione del Romance così detto, poiché il genere richiedeva una particolare capacità interpretativa e quindi una struttura armonica imprevedibile. Tuttavia, più in generale, si evita di parlare di liutisti spagnoli, seppure il liuto fosse allora lo strumento più diffuso durante “l’età d’oro” della musica spagnola. Abbondantemente rappresentato nell’iconografia medievale dopo la conquista araba, il liuto, descritto a quattro o cinque corde e apparentato con l’ud – etimologicamente il legno – che invece non conobbe alcuna notazione scritta, perlomeno non in quel tempo, in quanto strumento d’estrazione musulmana e quindi rifiutato dai cristiani.
È interessante notare come la scrittura nel Romance tenda a esemplificare oltremodo l’uso della tecnica utilizzata dal Romanceros, nell’uso che egli faceva (e tutt’ora fa) di scandire ogni frase, ogni parola con l’ardore di chi esprime intensità di sentimenti o di passioni in modo struggente e implacabile, con slancio impetuoso; tale da determinare un qualche effetto commovente o comunque profondamente drammatico, quasi voglia attestare la supremazia della propria voce che, riprodotta a oltranza, caratterizza l’obiettivo della sua esposizione, al pari di un leit-motiv ripetuto per l’intera durata della narrazione. Nel frattempo le forme vocali, ancora lontane dal regolarizzarsi, non saranno avvertite almeno fino alla metà del XVI secolo. Dopodiché il Castigliano, come lingua parlata e scritta, pur mantenendo un sapore legato al territorio, assumerà una sua eleganza formale, con l’allontanarsi definitivamente dalle pretese latinizzanti che lo tenevano imbrigliato, in ragione dell’immissione letteraria di nuovi talentuosi compositori, perdendo così ciò che rimaneva della sua rudezza, compensata dalla spontaneità del “castiglianismo” a oltranza.
Per altro, oltre che a coltivare i diversi generi narrativi, i Romanceros accrebbero quelli che erano gli stampi linguistici del Romance viejos, incorporando quelle risorse linguistiche popolari ch’erano presenti sul territorio, allorché il castigliano, sulla scia dell’ampliamento culturale in atto, conobbe una rinnovata "coscienza" nazionalistica e, in un certo qual senso, obbligò i nuovi autori di cercare nel “castigliano” tutte le risorse linguistiche di cui necessitava. Il successivo abbandono di certi ideali, a seguito della rimessa in discussione di molti valori secolarizzati, sia religiosi che socio-politici, riguardanti i privilegi del potere ecclesiastico e della borghesia laica, sostituiti in parte da quel rifiorire che porterà infine al Rinascimento, furono all’origine di un altro tipo di Romance che possiamo definire “comico-burlesco” carico d'ingegno e di malizia popolare che pretendeva solo di divertire.
In esso troviamo infatti, oltre ai racconti giocosi, le “fabula" e le “apologie”, con le loro morali e una gran quantità di "punizioni esemplari" ed "esempi moraleggianti" di ogni tipo, che furono gli ingredienti costanti del successivo impegno letterario di molti autori minori, come del resto lo erano i Sacramentales di religiosa memoria, i quali, se da una parte mettevano in luce le virtù teologali, dall’altra, con la stessa spudoratezza, esibivano le armi usate dalla borghesia in difesa dei propri interessi e come risultato dei propri bassi appetiti.. Come risulta da questo grazioso “Romance de la Loba Parda” (*) su un tema rusticano, che Enrique de Mesa inquadra in un precedente passaggio di “Nieves del Guadarrama”:

"Estando yo en la mi choza / pintando la mi cayada, / las cabrillas altas iban / y la luna rebajada; / mal barruntan las ovejas, / no paran en la majada. / Vide venir siete lobos / por una oscura cañada. / Venían echando suertes / cuál entrará a la majada: / le tocó a una loba vieja, / patituerta, cana y parda, / que tenia los cocolmillos / come punta de navaja. / Dio tres vueltas al redil / y no pudo sacar nada; / a la otra vuelta que dio, / sacó la borrega blanca, / hija de la oveja churra, / nieta de la orjisana, / la que tenian mis amos / para el domingo de Pascua. / - ¡Aquí, mis siete cachorros, / aquí, perro el de los hierros, / a correr la loba parda! / Si me cobráis la borrega, / cenaréis leche y hozaga; / y si no me la cobráis, / cenaréis de mi cayada. / Los perros tras de la loba / las uñas se esmigajaban; / siete leguas la corrieron / por unas sierras muy agrias. / Al subir un cotarrito / la loba ya va cansada: / - Tomad, perros, la borrega, / de tu boca alobadada, / que queremos tu pelleja / pa’ el pastor una zamarra; / el rabo para correas, / para atacarse las bragas; / las tripas para vihuelas / para que bailen las damas”.

"Stando io nella mia capanna / dipingendo la mia cayada, / le cabrillas alte andava / e la luna ribassata; / male si presentano le pecore, / non ferme nell'ovile. / Vide venire sette lupi / per un'oscura gola. / Venivano gettando fortune / quale entrerà all'ovile: / toccò una lupa vecchia, / dalle gambe storte, capello bianco e bruna, / che tenia i cocolmillos /e mangiava in punta di coltello. / Girò all'ovile / e non poté tirare fuori niente; / all'altro giro che diede, / tirò fuori la borrega bianca, / figlia della pecora churra, / nipote dell'orjisana, / quella che avevano i miei padroni / per la domenica di Pasqua. /- Qui, i miei sette cuccioli, / qui, il cane quello dei ferri, / si mise a correre dietro la lupa bruna! / Se mi riscuotete la borrega, / cenerete latte e hozaga; / e se non me la riscuotete, / cenerete della mia cayada. / I cani oltre alla lupa / le unghie Lei esmigajaban; / sette leghe la rincorsero / per alcune catene montuose molto aspre. / Portando su una combriccola / la lupa era già stanca: / - Prendete, cani, la borrega, / del tuo bocca alobadada, / che vogliamo il tuo cuoio / per farci il pastore una zimarra; / la coda per cinturini, / per attaccarsi le mutande; / le budella per la viella / affinché ballino le dame."

Molti sono gli autori spagnoli di Romance vecchi e nuovi, che solo un elenco sarebbe qui impossibile quanto inutile azzardare, pertanto mi limito a citarne uno, il primo e senza dubbio il più grande, colui che, in qualche modo, ha contrassegnato la sua epoca, il XIV secolo: Juan Ruiz, più noto come Arcipreste de Hita, nato presumibilmente ad Alcalá de Henares (la stessa patria di Cervantes) nel c.1280, anche famoso per essere l’autore del “Libro de buen amor” (*) considerato uno dei capolavori della poesia medievale spagnola. Un poema di 7 mila versi assortiti divisi in 1728 strofe, con forme che rimandano alla poesia devota, alla lirica, all'allegoria, alla satira, e personaggi molto realistici (come la mezzana Trotaconventos, e doña Endrina). Nel prologo si allude a una prigionia che una didascalia di un amanuense dice ordinata dal cardinale Gil Albornoz, dove il "buen amor" del titolo, cioè l'amore divino, si contrappone al "loco amor", l'amore folle e terreno.
Senz’altro uno dei libri più singolari e significativi delle origini della produzione in castigliano, scritto in "cuadernavía", un verso in sedici sillabe, usato soprattutto nella parte narrativa, ma sono presenti anche altri tipi di versi. Con la pretesa/pretesto di svelare i sottili inganni dell'amore mondano, attraverso una concreta varietà di “exempla”, “Libro de buen amor” si muove tra digressioni e divagazioni di ogni genere, presentando una serie di esperienze galanti e sensuali in cui la seduzione si conclude sempre con uno scacco, tranne in una sola eccezione. Alla costruzione del poema pseudo autobiografico confluiscono dati e toni disparati: avventure immaginarie e esperienze reali, schemi dottrinali e atteggiamenti goliardici e giullareschi, l'invettiva e il tradizionalismo, fonti classico-latine e cristiane, mentre influenze francesi e orientali sono inserite nel flusso della vita quotidiana. Quest'ultima è deformata in modo caricaturale da un irrefrenabile umorismo fantastico e un vitalismo che si mescola con pressanti preoccupazioni didascaliche, e tuttavia di edificazione etico- religiosa.

Dal “Libro del buen amor” leggiamo:

“El hombre debe alegrar su corazón, pues las muchas tristezas pueden nublar su entendimiento. Son palabras de Catón el sabio, que yo hago mías ahora. Mas nadie puede reírse de cosas serias, por eso yo pienso introducir en este libro algunos chistes con objeto de que aquéllos que los lean puedan divertirse y alegrar su ánimo. Pero te ruego, lector, que entiendas bien lo que digo y no tomes el rábano por las hojas. Medita bien la esencia de mis palabras. No me pase contigo lo que sucedió al doctor de Grecia con su rival romano, un hombre ognorante y de pocas luces. He acquí el cuento: ...”.

"L'uomo deve rallegrare il suo cuore, perché le molte tristezze possono offuscare il suo intendimento. Sono parole di Catone il saggio che io faccio ora mie. Ma nessuno può ridere di cose serie, per qual motivo io penso di introdurre in questo libro alcune storielle che quelli che li leggono possano divertirsi e rallegrare il proprio animo. Ma ti prego, lettore, capisci bene quello che dico e non prendere il ravanello per le foglie. Medita bene l'essenza delle mie parole. Non mi passi con te quello che succedette al dottore della Grecia col suo rivale romano, un uomo ignorante e di poche luci. C'è qui il racconto: ... ".

Autore di straordinaria importanza per la nostra ricerca è senz’altro Juan de Fermoselle, detto Juan del Encina (da Encinas presso Salamanca, 12 luglio 1468 – León, 1529), poeta, drammaturgo e musicista del quale non si conosce l’origine del nome che forse risponde solo a un appellativo non di origine spagnola, subito cambiato in quel del Encina o Enzina. Una volta diplomatosi in diritto, entrò al servizio del Duca d’Alba, Don Fadrique Alvarez de Toledo, nipote del re di Aragona Fernando V che dopo alcuni anni, nel 1498 lo designò Maestro di Cappella nella Cattedrale di Salamanca. In ragione della sua veste fu spesso a Roma con incarichi forse diplomatici, dove contava del favore di diversi papi, da Alessandro VI, Giulio II e Leone X. Sebbene non se ne conosca la ragione, del Encina ricevette gli ordini minori, forse per i suoi trascorsi di un viaggio in Terrasanta.
A partire dal 1523, prese residenza in León, dove papa Leone X lo aveva nominato Priore della Cattedrale, trascorse i suoi ultimi anni e vi morirà sul finire del 1529. Queste le sole date interessanti della sua lunga biografia che, se da una parte ci danno la dimensione del personaggio nulla ancora ci dicono della sua grandezza di musicista e non spiegano il perché della “nostra” scelta. Sta di fatto che del Encina, fu uomo dalla personalità molto spiccata, che è quasi impossibile immaginare il corso della sua vita amorosa e sapere se le allusioni della sua poesia corrispondono all'esperienza o al convenzionalismo galante dell'epoca. Il successo del suo “Cancionero” (*), fu tale che la sua pubblicazione, avvenuta in Salamanca nel 1496, è certamente da ritenersi la prima edizione affermatasi in Spagna, ed una delle prime in Europa, di uno stesso autore in vita.
Lo testimoniano le cinque edizioni successive tra 1501 e 1516, in alcune città spagnole tanto lontane da Salamanca come Saragozza e Siviglia, nonché l’ampia influenza letteraria che queste ebbero nella letteratura dell’epoca. È certo che egli compose molte delle sue liriche ancor prima di aver compiuto 25 anni di età. Poeta dunque, egli compose le sue “Eglogas” in forma di villancicos per il teatro, e che lo attestano patriarca della scena teatrale spagnola. Ciò che più ci interessa, sia per l’aspetto etnologico per aver egli operato sul territorio, sia per l’aspetto comunicativo del suo essere “mùsico”. Maestro de Capilla, el Encina non scrisse né messe, né mottetti, cosa quest’ultima che non gli avrebbe permesso di mantenere il suo posto, compose invece molte canciones, ispirate esclusivamente sui propri poemi, dimenticando talvolta di essere un chierico molto compromesso che s’imponeva con un'opera esclusivamente profana. La sua vita, a partire da 1500, sembra dividersi in due, una prima sedentaria e creatrice alla Corte del Duca d’Alba, cui rimase innegabilmente legato vuoi per affetto o per adulazione cortigiana; e l’altra, vissuta tra l’ambulante profano e la religiosità del chierico.

Fermiamoci per un momento sul componimento più importante della sua produzione, quel “A la dolorosa muerte del Principe Don Juan” (1497), da cui è tratto il romance “Triste España sin ventura” (*):

“Triste España sin ventura, / todos te deven llorar. / Despoblada de alegrìa, / para nunca en ti tornar, / tormentos, penas, dolores / te ninieron a poblar. / Sembròte Dios de plazer / porque naciesse pesar; / hìzote la màs dichosa / para más te lastimar. / Tus vitorias y triunfos / ya se hovieron de pagar: / pues que tal pérdida pierdes, / dime en qué podras ganar. / Pierdes la luz de tu gloria / y el gozo de tu gozar; / pierdes toda tu esperanca, / no te queda qué esperar. / Pierdes Principe tan alto, / hijo de reyes sin par. / Llora, llora, pues perdiste / quien te havìa de ensalcar. / En su tierna juventud / te lo quiso Dios llevar. / Llevote todo tu bien, / dexòte su desear, / porque mueras, porque penes, / sin dar fin a tu penar. / De tan penosa tristura / note esperes consolar.”

“Triste Spagna senza sorte, / tutti ti devono piangere. / Spopolata della tua allegria,
che mai più in te tornerà, / tormenti, pene, dolori / sono tornati a popolarti. / Sembra che Dio abbia dichiarato il suo piacere / affinché nascesse a te / la più felice delle gioie,/ non per ferire, / altresì soffrendo per tale perdita. / Ora per le tue vittorie e i trionfi / ti corre l’obbligo di dover pagare: / affinché la tua sofferenza sia minore / del perché di una tale perdita, / non c’è cosa che tu possa guadagnare. / Hai perso la luce della tua gloria / e il godimento ultimo della tua felicità; / e di tutta la tua speranza, / infine non ti rimane niente in cui sperare, / dal momento che hai perduto questo grande Principe, / figlio di re senza pari. / Adesso piangi, piangi, per ciò che hai perduto / quell’unico che ti esaltava / nella sua tenera gioventù. / Dio ha voluto toglierlo a noi per portarlo con sé / togliendoti con lui ogni tuo bene, / secondo il suo desiderio. / Affinché tu muoia, / perché tua sia la pena, / senza poter mettere fine al tuo penare. / Perché di tanta penosa afflizione / Tu non possa sperare nella consolazione”.

La distanza storica che ci separa dal suo autore non ci permette qui di comprendere i timori, che alla morte di Don Juan, figlio unico di Ferdinando V e Isabella d’Este, visse con dolore seppure foderato di nobile dignità, per l'irreparabile catastrofe che si preparava a seguito della notizia della presa di Granada e la conseguente caduta dei Reyes Catòlicos. La morte del principe Don Juan è uno dei grandi temi sui quali poggia il suo “Cancionero”; di cui non si comprenderebbe la portata, se si dimenticasse che Don Juan rappresentava la speranza di una dinastia stabilizzata, in un paese che cercava in ogni modo di accedere al rango di stato moderno. Con la prospettiva del tempo, oggi arriviamo a dire che i suddetti avvenimenti influenzarono senza ombra di dubbio le sue scelte non solo letterarie, ma non ci ingannino certi accenti colti, seppure ciò costituisse una rottura nella vita del suo essere artista dottissimo.
Ciò che più coglie l'attenzione, oltre alla spiccata indole genuinamente spagnola di Juan dell'Encina, è l'armonia che intercorre tra i poemi scritti e la loro traduzione musicale operata nei villancicos e nei romance cavallereschi di cui è autore. Ogni inflessione del testo dà luogo a un'invenzione melodica e ritmica che traduce il suo sommo dominio delle risorse disponibili che danno forma all'espressione musicale: sia che si tratti della disperazione (nel ciclo dedicato a Don Juan), nell'umore colorito (Cucù cucù, cucucù; Si habrà en este baldrés), o picaresco (Hoy comamos y bevamos), o grazioso dell’attore comico (Fata la parte). Ancor più, ironicamente moralizzatore di (El que rige y el regido), o dell'amore cortese e platonico (Amor con fortuna; Ay, triste, que vengo; Mas vale trocar), in cui il “tono” scelto è tanto gradevole da risultare irresistibile. È infatti l'immediatezza di questi brani, a darci l’esatta percezione dell’elemento popolare delle canciones e dei villancics, non per questo meno colto, nonché la chiave della sua originalità.
In breve il “Cancionero” entrò a far parte del repertorio al servizio della Cappella Reale, come “Cancionero musical de Palacio” (*), il cui ritrovamento nella biblioteca del Palazzo Reale a Madrid, testimonia all’origine la vita musicale delle Corti in Spagna dal finire del XIV fino al XVI secolo. Originalmente inclusivo di 551 composizioni, di cui 460 molto ben preservati, non è il lavoro di uno ma piuttosto di molti scrivani che ne copiarono la notazione, pur facendo molti errori e alimentando gli cambi fonetici dei testi, anche se si pensa che molti poemi scaturirono dall'entourage del Duca d’Alba, mecenate di Juan del Encina. Tuttavia le canciones non appaiono ordinate in sequenza e per lo più sono di generi diversi: storie d’amore, resoconti politici e storici (mai è toccato il tema della cattura di Granada), soggetti religiosi, cavallereschi e pastorali, brani più allegri e musica da ballo. Sulla scia del successo ottenuto e per compiacere il re, le altre Corti spagnole non vollero essere da meno e aprirono i propri palazzi a cantori e strumentisti, nonché a quei compositori in grado di gareggiare con la Cappella Reale.
Lo testimoniano i numerosi “Cancionero” dell’epoca, nei quali si riscontra il Castigliano, essere la lingua più frequente, con una piccola quantità di testi misti in latino, francese, italiano, portoghese ed anche basco. Così come simili sono nello spirito “triste e lamentoso”, verosimilmente carico di “malinconia”, tipico di molta musica dell’epoca, la cui melodia, seppure arricchita di fioriture ritmiche, è trasferita nella costante disputa all’interno delle canzoni popolari, colorita di altre assonanze e di nuovi strumenti e musicisti virtuosi. Tuttavia, per comprendere tutto ciò occorre cercare nella Spagna cristiana piuttosto che in altra area musicale, dove, certo troviamo tracce di quella cultura colma di colore ed eleganza che tanto impressionò tutta la musica successiva europea.
Parallelamente, il Romance tradizionale si ampliò con l’affrontare le tematiche religiose e di quella letteratura romanza carica di storie prese da gesta banditesche e narrazioni più semplici, scaturite dall’ambiente rurale e trasferite, in seguito, nelle famose “zarzuela”, sorta di operetta leggera cantata e spesso danzata che fin da allora, continua ad occupare la scena teatrale spagnola.
Nel suo genere, almeno in quello ascrivibile all’epica castigliana, il Romance come genere, s’impone alla nostra attenzione più per originalità che per l’attinenza storica che lo si distingue da quello francese, giocato sulla perfezione del linguaggio. Del resto gran parte della letteratura ispanica riferita al Romance che affolla i secoli passati è pregna di lirismo poetico e, in definitiva, di un alone di sentimentalismo narrativo che troviamo in quelli più antichi cosi detti “Romance viejos”, dedicati a personaggi famosi della storia nazionale spagnola: “Re Rodrigo”, “Bernardo del Carpio”, “Fernan Gonzales Conte di Castiglia”, gli “Infanti di Lara”, “El Cid Campeador”, “El Conde Arnaldos”, “Don Alvarez de Luna”, e in quei tanti altri che raccontano eventi epici accolti nei cicli “carolingio” e “bretone” di genere avventuroso - cavalleresco. In particolare, quello riferito al “Re Rodrigo e la perdita di Spagna” (*), datato – pensate – tra l’860 e il 930, e ritenuto a ragione il più antico pervenuto nella forma orale.

Nell’impossibilità di tradurre l’intero Romance, del resto assai lungo, leggiamo insieme un brano riferito alla “Penitencia del Rey Rodrigo”:

“Después que el rey Rodrigo a España perduto habia, / ibase desesperado / huyendo de su desdicha; / solo va desventurado, / no quiere otra compania / que la del mal de la muerte / que en su seguimento iba: / métese por la montanas, / las más espesas que veìa. / Topado ha con un pastor / que su ganado traìa; / dijole: "Dime, buen hombre, / lo que preguntar querìa: / si hay por aquì monasterio / o gente de clerecia". / El pastor respondiò luego / que en balde lo buscaria, / porque en todo aquel desierto / solo una ermita habia, / donde estaba un ermitano / que hacia my santa vida. / El rey fue alegre desto / por all'ì acabar su vida; / pidio al hombre que le diese / de comer si algo tenia, / que las fuerzas de su cuerpo / del todo desfallecian. / El pastor sacò un zurròn / en donde su pan traia;/ diòle de él y de un tasajo / que acaso allì echado habia;/ el pan era muy moreno, / al rey muy mal le sabia, / las lagrimas se le salen, / detener no las podia,/ acordandose en su tiempo / los manjares que comia. / Después que hubo descansado, / por la ermiya pedia; / el pastor le enseno luego / por donde no erraria; / el rey le dia una cadena / y un anillo que traia;/ joyas de gran valor / que el rey en mucho tenia. / Comenzando a caminar, / ya cerca el sol se ponia, / a la ermita hubo llegado / en muy alta serrania. / Encontrose al ermitano, mas de cien anos tenia. / "El desdichado Rodrigo / yo soy, que rey ser solia, / el que por yerros de amor / tiene su alma perdida, / por cuyos negros pecados / toda Espana es destruida. / Po Dios te ruego, ermitano, por Dios y Santa Maria, / que me oigas en confesion / porque finar me queria". / El ermitano se espanta / y con lagrimas decia: / "Confesar, confesaréte, / absolverte no podia". / Estando en estas razones voz de los cielos se oia: / "Absuélvelo, confesor, / absuélvelo por tu vida 7 y dale la penutencia / en la sepultura misma". / Segun le fue revelado / por obra er rey lo ponia. / Metiose en la sepoltura / que a par de la ermita habia; / dentro duerme una culebra, / mirarla espanto ponia: / tres roscas daba a la tumba, / siete cabezas tenia. / "Ruega por mi, el ermitano, / por que acabe bien la vida". / El ermitano lo esfuerza,7 con la losa lo cubria, / rogada a Dios a su lado / todas las horas del dia. / "Como te va, penitente, / con tu fuerte compania?". / "ya me come, ya me come, / por do mas pecado habia, / en derecho al corazon, / fuente de mi gran desdicha". / Las campanicas del cielo / sones hacen de alegria; / las campanas de la tierra / ella solas se tanian; / el alma del penitente / para los cielos subia".

"Dopo che il re Rodrigo la Spagna perduto aveva, / rimase disperato / fuggendo dalla sua sfortuna; / solo va sventurato, / non vuole un'altra compagnia / che quella del male della morte / che andava al suo seguito: / mettila per le montane, / ma ispessisci che veìa. / Urtato c'è con un pastore / che il suo bestiame traeva; / dicendole: Dimmi, buon uomo, / quello che domandare voleva: / si va per qui al monastero / o gente di clero?" / Il pastore rispose dopo / che invano lo cercherebbe, / perché in tutto quel deserto / solo un eremo aveva, / dove stava un eremita / che verso la mia sacra vita. / Il re fu allegro desto / per finire la sua vita; / chiese all'uomo che gli desse / da mangiare se qualcosa tenia, / che le forze del suo corpo / del tutto l’abbandonavano. / Il pastore prese un zurròn / dove il suo pane portava; / lo diede a lui con una carne salata / che per caso lì per lì cacciato aveva; / il pane era molto bruno, / al re molto cattivo egli sapiente, / le lacrime uscirono, / che fermarle non poteva, / ricordandosi nel suo tempo / i manicaretti che mangiava. / Dopo che aveva riposato, / per l'eremo chiedeva; / il pastore gli insegnò / per dove non poteva sbagliare; / il re gli regalò una catena / ed un anello che portava; / gioielli di gran valore / ai quali il re in molta riguardo teneva. / Cominciando a camminare, / già il sole accerchia si metteva, / all'eremo era arrivato / in molto alto serrania. / Incontrò l'eremita, che più di cento anni aveva. / "Lo sfortunato Rodrigo / io sono che re essere soleva, / quello che per errori di amore / ha la sua anima persa, / per i cui neri peccati / tutta la Spagna è distrutta. / Per Dio ti prego, eremita, per Dio e Santa Maria, / che mi senta in confessione / perché morire mi amavo". / L'eremita si spaventa / e con lacrimi diceva: /"Confessare, ti confesserei,/ assolverti non posso". /Stando in queste ragioni voce dei cieli si sentiva: /"Assolvilo, confessore, / assolvilo per la tua vita 7 e dagli la penitenza / nella sepoltura stessa". / Come gli fu rivelato / per opera il re lo metteva. /Messosi nella sepoltura / che a pari dell'eremo aveva; /dentro dorme una biscia, / guardarla spavento metteva: / tre viti dava alla tomba, / sette teste tenia. /"Prega per me, l'eremita, / per che finisca bene la vita." / L'eremita con la forza,/con la lastra lo copriva, / pregava Dio al suo fianco / tutte le ore del giorno. /"Come ti va, penitente, / con la tua forte compagnia?". /“Già mi mangia, già mi mangia, / perdono che peccato aveva, / in diritto al cuore, / fonte della mia gran sfortuna."/Le campana del cielo / suonava di allegria; /le campane della terra / da sole suonavano; / mentre l'anima del penitente / per i cieli saliva".

Sono questi Romance che più d’ogni altra cosa ci rendono, ancora una volta, la dimensione degli avvenimenti pseudo storici, quando addirittura leggendari, che ci permettono di rivisitare, seppure attraverso l’ottica etnomusicologica, un certo piacere del semper et nunc filtrato dal gusto popolare del narrare, e comunque, sottilmente elaborato nello stile personale del narratore, quel Romancero che nel tempo, ne ha permesso la sedimentazione all’interno della tradizione. Numerosi sono i Romance che si ascoltavano ancora negli ultimi anni della dominazione araba, cosiddetti “moriscos” per l’argomento trattato. La cristianità è partecipe in questi testi elaborati contro il pericolo musulmano degli Almoràvidi che, intorno al 1114 avevano risalito l’Ebro e vi erano installati, per la vittoria riportata a Tolosa (1215) che aprì ai cristiani la strada della Reconquista, culminata molto tempo più tardi – è bene ricordarlo – con la caduta di Granada (1492), con la quale si pose fine alla dominazione araba in Spagna. L’eco di quelle “algarades”, ovvero scorrerie (la parola viene dall’arabo attraverso lo spagnolo), è rintracciabile nel “Romance del Moro que perdiò Alhama” (*), riferito al primo fatto saliente della caduta di Granada, allorquando Don Rodrigo Ponce de Léon conquistò, in maniera sorprendente, la ricca piazza di Alhama, luogo ideale dei re Mori. Raccontano le cronache dell’epoca, che fu tanta la pena dei “granadinos” (gente di Granada)per quella perdita, che in seguito fu proibito eseguirlo, perché tanto era il dolore che infondeva negli animi che finiva per disanimare il popolo.

Da “La gran pérdida de Alhama” leggiamo:

“Paseábase el rey moro / por la ciudad de Granada, / desde la puerta de Elvira / hasta la de Villarrambla. / ¡Ay de mi Alhama! / Cartas le fueron venidas / que Alhama estaba ganada; / las cartas echó en el fuego / y al mensajero matara. / ¡Ay de mi Alhama! / Descabalga de una mula / y en un caballo cabalga; / por el Zacatín arriba / subido se había al Alambra. / ¡Ay de mi Alhama! / Como en el Alambra estuvo / al mismo tiempo mandaba / que se toquen sus trompetas, / sus añafiles de plata. / ¡Ay de mi Alhama! / Y que tambores de guerra / aprisa toquen alarma, / para que lo oigan sus moros, / los de la Vega y Granada. / ¡Ay de mi Alhama! / Los moros, que el son oyeron, / que al dios de la guerra llama, / uno a uno y dos a dos, / se ha juntado gran batalla. / ¡Ay de mi Alhama! / Allí habló un moro viejo, / de esta manera hablara: / -¿Para qué nos llamas, rey? / ¿Para qué es esta llamada? / “¡Ay de mi Alhama! / -Habéis de saber, amigos, / una nueva desdichada, / que cristianos de braveza / ya nos han ganado Alhama. / ¡Ay de mi Alhama! / Allí habló un alfaquí / de barba crecida y cana: / -Bien se te emplea, buen rey; / buen rey, bien se te empleara. / ¡Ay de mi Alhama! / Has matado Abencerrajes, / que eran la flor de Granada, / y cogido a renegados / de Córdoba la nombrada. / ¡Ay de mi Alhama! / Por eso mereces, rey, / una pena muy doblada: / que te pierdas tú y el reino, / y aquí se pierda Granada. / ¡Ay de mi Alhama! / Ahi del mio Alhama! / Per quel motivo meriti, re, / una pena molto arcuata: / che ti perda tu ed il regno, / e qui si perda Granada. / Ahi del mio Alhama!”

“Passò il re moro / per la città di Granada, / dalla porta di Elvira / fino a quella di Villarrambla. / Ahi del mio Alhama! / Lettere gli furono giunte / che Alhama era perduta; / le lettere gettò nel fuoco / ed egli fece uccidere il messaggero. / Ahi del mio Alhama! / Quindi smonta dalla mula / e in sella una cavallo cavalca; / verso il Bazar sopra la piazza recinto. / Ahi del mio Alhama! / Come in quello recinta stette / contemporaneamente comandava/ che si suonassero le trombe, / e il suo corno d’argento. / Ahi del mio Alhama! / E che i tamburi di guerra / rapidamente suonino l’allarme, / affinché lo sentano i suoi mori, / quelli della Pianura e quelli di Granada./ Ahi del mio Alhama! I mori, che quel suono sentirono, / che il dio della guerra chiama, / uno ad uno e due a due, / si unirono a lui gran battaglia. / Ahi del mio Alhama! / Così parlò al vecchio moro, nel modo che in questa maniera parlasse: / - Per che motivo ci chiami, re? / Per quale motivo hai fatto questa chiamata? / Ahi del mio Alhama! Dovete sapere, amici, / una notizia sfortunata, / che cristiani di bravura / già hanno riguadagnato Alhama. / Ahi del mio Alhama! / Ahi parlò un vecchio dalla barba cresciuta e dal capello bianco: / - Bene si impiega, buon re; / bene buon re, se non avessi osato. / Ahi del mio Alhama! / Hai ammazzato Abencerrajes, / che erano il fiore di Granada, / e addirittura hai rinnegato Cordova la famosa. / Ahi del mio Alhama! / Per questo motivo meriti, re, / una pena molto infame: / che tu perda tu e il regno, / e che si perda Granada. / Ahi del mio Alhama! / Hai del mio Alhama! / Per quel motivo meriti, o re, una pena molto cercata: / che tu perda il tuo il tuo regno, e che tu perda Granada. /Ahi del mio Alhama!”

(continua).

Bibliografia:

(*) Giorgio Mancinelli - Etnomusicologia 1: “Musicologia per capire i popoli” (in questo sito).
AA.VV. “Enciclopedia della musica” - The Oxford University Press / Garzanti - 1996.
Francisco M. Marìn - “Literatura Castellana Medieval: de la jarchas a Alfonso X” - Editorial Cincel - Madrid 1980.
Rosa Bobes Naves - “Clerecìa y juglarìa en el s. XIV: Libro de Buen Amor” - Editorial Cincel – Madrid 1980.
Luis Diaz Viana - “Del Medievo al Renacimiento: Poesìa y prosa del s. XV” - Editorial Cincel – Madrid 1980.
Dionisio Preciado - “Folklore Espanol: musica, danza y ballet” - Studium Ed. Madrid 1969.
G. Di Stefano - “El Romancero: estudio, notas y comentarios de texto” - Narcea de Ed. - Madrid 1985.
Javier Villalibre - “Selection de Romances” - Editorial Everest - Leòn 1983.
Cesare Acutis, a cura di, "Romancero: Canti Epici del Medioevo Spagnolo" - Einaudi1983 e
"Cantare del Cid" - Einaudi 1986.

Note:

1) Giorgio Mancinelli - “Il paesaggio sonoro” in Etnomusicologia 2, (in questo sito).
2) Giorgio Mancinelli - “Il linguaggio sonoro” in Etnomusicologia 3, e “La comunicazione vocale” in Quaderni di Etnomusicologia 3 (in questo sito).
3) Joaquin Diaz - “Cancionero de Romances” (vedi discografia)
4) “virelai”, per una conoscenza più approfondita vedi: note e libretto in Guillaume de Machaut - “Chanson 1-2” del - EMI 2Lp 3C 053-30106/09. (vedi d.)
5) “Cantigas de Santa Maria” (vedi d.)
6) M. Pedro Ferreira - “O som de Martin Codax sobre a dimensao musical da lirica galego-portughesa” - UNYSIS - Lisboa 1986.Martin Codax
7) Martin Codax - “Cantigas de Amico” – in Cohen “500 camposdas letras” – Porto 2003.
8) “Flores y Blancaflor” - romanzo anonimo medievale, edizioni varie.
9) “Cantar de mio Cid” – in Ramon Menendez Pidal - “Flor nueva de romances vijeos” – Espasa-Calpe Madrid 1985.
10) Joaquin Diaz “Romance del prisonero” – in “Cancionero de Romances” op. cit.
11) Garci Rodriguez de Montalvo - “Los cuatro libros del virtuosa caballero Amadis de Gaula” – romanzo del XV
12) Miguel Cervantes de Saavedra “Don Chisciotte della Mancia” – Einaudi 1972.
13) C. Samonà – A. Varvaro “La Letteratura Spagnola: dal Cid ai Re Cattolici” – Sansoni – Milano 1972.
14) Samonà, Mancini, Guazzelli, Martinengo “La Letteratura Spagnola: I Secoli d’Oro” - Sansoni – Milano 1973.
15) “Cancionero della Colombina” - (vedi discografia)
16) “Cancionero de Palacio” (vedi discografia)
17) “Cancionero de la Casa de Medinaceli” - (vedi d.)
18) “Cancionero de Montecassino” - (vedi d.)
19) “Cancionero de Upsala” - (vedi d.)
20) Francisco de Salinas - “De musica libri septem” - in Documenta Musicologica n.13 - Bärenreiter - Kassel 1958.
21) “Cantar de Roncisvalles” – in Ramòn Menéndez Pidal op. cit.
22) Milà y Fontanals “De la poesia heroico popular castillana” 1988-96 - in La obras completa - a cura di Manuel Pelayo.
23) Ramon Menéndez Pidal – op. cit.
24) AA.VV. “Storia della Musica” vol. III - La Feltrinelli - Garzanti, 1996.
25) Ibidem
26) Garcia de Resemde - “Cancionero Geral” – Impresada Universidade - Coimbra1917.
27) “Romance de la Loba Parda” - di anonimo, in Ramon Menéndez Pidal - op. cit.
28) “Libro del Buen Amor” - in Storia della letteratura spagnola” - op. cit.
29) Juan del Encina – “Monumentos Historicos de la Musica Española” – Salamanca 1496.
30) Juan del Encina - “Cancionero de Palacio” - (vedi d.)
31) “Romance del re Rodrigo e la perdita di Spagna” - (vedi d.)
32) “Romance del moro que perdio Alhama” - (vedi d.)

Discografia: in chiusura dell’ultima parte.


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