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Quaderni di Etnomus. 6: Il Romance -seconda parte

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 23/10/2011 14:31:18

QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA – 6

“Il Romance Spagnolo tra Letteratura e Musicologia”, (seconda parte)
di Giorgio Mancinelli.

(Studi e ricerche effettuati per “Folkoncerto”, RAI3, e per “Il Canto della Terra”, un programma di Etnomusicologia trasmesso da RSI (Radio della Svizzera Italiana) e articoli apparsi sulle riviste: Nuova Scienza, L’Annuario Discografico, Audio Review).

Dalla monumentale “The History of Music in Sound” edita dalla Oxford University Press / His Master’s Voice, apprendiamo quanto segue sulla tematica della lettura del testo. La storia del Romance è anche la storia di ogni singolo testo nell’ambito di un gusto e di una tradizione comuni. L’identificazione letteraria del romance non si fonda perciò sulla sua origine ma insieme è tematica e stilistica:

“Il tempo breve della composizione (del Romance qui di seguito riportato) è rallentato dal frequente ricorso alla formula ed al parallelismo, che si fa insistente e dolcissimo nella ripetizione immediata o genera le serie anaforiche, e perfino senza riprese verbali governa tutta la struttura del discorso. Altrettanto frequente è la contrapposizione, anch’essa semplicissima ed espressiva. A ogni modo il poeta non interviene mai in prima persona e la narrazione è sempre concretissima e di scorcio ed in genere si subordina al discorso diretto: si veda la descrizione di Granada in “Abenàmar, Abenàmar” (*) o l’inizio di “Rosa fresca”, dove noi non sappiamo nulla del passato amore ma lo intuiamo, come là non sappiamo in che modo Juan II sia giunto davanti a Granada e chi sia Albenàmar, né importa che la storia ci dica che il re fu in vista della città il 27 di giugno 1431, accompagnato dall’infante moro Abenalmao. Il romance non ci pone davanti a fatti o a cose ma alla coscienza di fatti e cose: la domanda del re e la risposta di Abenàmar presuppongono già l’incanto ed il desiderio da cui nascerà la proposta appassionata del re alla città”.
“Così il romance sembra alternare momenti di intensità drammatica, scatti del sentimento o del destino, con altri di distensione e di contemplazione, secondo l’alternanza di contrapposizioni e parallelismi, di perfetti e imperfetti, ma i due aspetti si integrano in un drammatismo decantato, nel senso vivissimo del destino in cui risolvono tutte le tensioni ed i contrasti, chiusi nella misura di un tempo soprannaturale, insieme incalzante e fermo. In “Abenàmar, Abenàmar” la città si nega al re castigliano eppure deve arrendersi, in “Pèsame de vos” non si riconosce colpa eppure si accetta la pena suprema, in “A cacar va don Rodrigo” Mudarrillo è inspiegabilmente atteso fin dall’inizio, ed infatti giunge e non lascia scampo. Il romance racchiude in sé una coscienza della vita forse poco ragionata eppure ricca di singolare modernità per la sua individualità ed il suo drammatismo; ed insieme una coscienza nuova del rapporto fra vita e poesia, riscattato dalla medievale esemplarità, dal didatticismo e dalla mediazione problematica ed idealizzante della letteratura cortese”.

Leggiamo dunque insieme, questo straordinario testo entrato nella tradizione spagnola che, per la bellezza del testo e la sua espressione poetica e al tempo stesso drammatica, giustifica il suo valore e la presenza in questa breve antologia:

"¡Abenámar, Abenámar, / moro de la morería, / ed día que tu naciste / grandes señales había! / Estaba la mar en calma, / la luna estaba crecida; / moro que en tal signo nace / no debe decír mentíra. / No te la diré, señor, / aunque me cueste la vida. / Yo te agradezco, Abenámar, / aquesta tu cortesia. / ¿Qué castillos son aquéllos? / ¡Altos son y relucían! / El Alhambra era, señor, / y la otra, la mezquita; / los otros, los Alixares, / labrados a maravilla. / El moro que los labraba, / / cien doblas ganada al día, / y el día que no los labra / otras tantas se perdía; / desque los tuvo labrados, / el rey le quitò la vida / porque no labre otros tales / al rey del Andalucía. / El otro es Torres Bermejas, / castillo de gran valía; / el otro Generalife, / huerta que par no tenía. / Allí hablara el rey don Juan, / bien oiréis lo que decía: / Si tu quisieras, Granada, / contigo me casaria; / daréte en arras y dote / a Cordoba y a Sevilla. / Casada soy, rey don Juan, / casada soy, que no viuda; / el moro que a mi me tiene / muy grande bien me quería. / Hablara alli el rey don Juan, / estas palabras decía: / Echenme aca mis lombardas / doña Sancha y doña Elvira; / tiraremos a lo alto, / lo bajo ello se daría. / El combate era tan fuerte / que grande temor ponía".

"!Abenámar, Abenámar, / moro del quartiere arabo, / ed giorno che tuo nascesti / grandi segni avevo! / Stava la mare in calma, / la luna era cresciuta; / moro che nasce in tale segno / non deve dire bugia. / Non te la dirò, signore, / benché mi costi la vita. / Io ringrazio per te, Abenámar, / questa tua cortesia? / Che castelli sono quelli? /! Alti sono e rilucevano! / L'Alhambra era, signore, / e l'altra, la moschea; / gli altri, gli Alixares, / coltivati a meraviglia. / Il moro che li coltivava, / / cento pieghi guadagnata al giorno, / ed il giorno che non li coltiva / altrettante si perdeva; / dopo che li ebbe coltivati, / il re gli tolse la vita / perché non coltivi altri tali / al re dell'Andalusia. / L'altro è Torri Vermiglie, / castello di gran valeva; / l'altro Generalife, / orto che pari non tenia. / Lì parlasse il re Don Juan, / bene sentirete quello che diceva: / Se tua volessi, Granada, / con te mi sposerei; / daréi caparra e dote / a Cordova e Siviglia. / Sposata sono, re Don Juan, / sposata sono che non vedova; / il moro che a mio mi ha / molto grande bene mi amavo. / Parlasse lì il re Don Juan, / queste parole diceva: / Mi getti qua le mie bombarde / donna Sancha e donna Elvira; / tireremo alla cosa alta, / la cosa sotto ciò si darebbe. / Il combattimento era tanto forte / che grande paura metteva."

Pervenuti per lo più in manoscritti tardivi, in rielaborazioni di seconda e terza mano, talvolta decurtati di alcune parti, quando non ridotti a poco più di semplici testi sovrapposti uno sull’altro, i romance costituiscono il retaggio di un “fare teatro” che li riscatta dall’etichetta narrativa nel loro insieme, per restituirli integri nella loro originalità, al teatro drammatico vero e proprio, tipico della finzione scenica che trascende la contingenza di luogo e di tempo, per acquisire significato universale, un artifizio questo di molto teatro popolare. Il genere si commenta da solo, a poco – come si è visto – è servito in questa sede, un’analisi sistematica dei testi, coniugare il soggetto coi personaggi o con la metrica del verso.
Le forme musicali più frequenti sono, come si è detto, il villancico somigliante alla frottola italiana, e lo zejel arabo. Il fraseggio compositivo delle canzoni non è unificato e varia dalla semplice monodia: dall’espressione vocale formata da tre-voci nel discanto, lasciato al tenore e al controtenore, alla forma polifonica vera e propria a sei-voci del XVI secolo. Altra forma presente, sebbene in numero minore, è ancora il romance, letteralmente "portato” nelle corti e foderato con perfezioni e squisitezze colte, diverso nella metrica che risulta irregolare, fiorita per bocca di buffoni e narratori che l’adattarono ai canoni dell’epoca. Trascritto più tardi in versi di otto sillabe (ottonari) in forma strofica che, vale qui la pena ricordarlo, il romance sempre inizia con un verso introduttivo (estribillo), continua con una strofa originale (copla), e termina con la (vuelta), cioè il ritorno all’inizio.
Forme queste, che ritroviamo anche nella musica popolare, basata su una struttura armonica molto semplice, che man mano si andò arricchendo di nuove espressioni strumentali con inserimenti corali, e una più sensibile espressione del testo, al pari di quella “spiritualità” cortese di stampo religioso conosciuta come musica sacra. In ognuna delle molte canciones o villancicos il canto popolare sempre si mostra come il fiore della vita culturale spagnola, destinato, per il tramite d’una risorta autocoscienza, fortificata dal fatto dell’avvento di un nuovo spirito nazionale che attraverso il contatto con le altri nazioni europee, che caratterizzò in profondità lo stile musicale del romance – “accompagnato da brevi e monotone note” , come ha commentato l'eminente Menéndez Pidal, che lo ha ben esposto nel suo "Romancero Ispanico" (*):

“… quello que sin ningun orden, regla ni cuento, facen estos romances e cantares de que las gentes de baxa e servil condicion se allegra, forman un solo cuerpo tradicional”.

"… quello che senza nessun ordine, riga né conto, fa di questi romanzi cavallereschi e dei canti che le genti di bassa e servile condizione rallegra, forma un solo corpo tradizionale".

Non in ultimo, va riscontrata un'indubbia tendenza del romance verso il verismo, che però non deve confondersi con un realismo troppo dettagliato, il che lo porterebbe a eliminare la sua potenza archetipica e i suoi misteriosi suggerimenti. La realtà che i “romance cavallereschi” ci mostrano è di per sé una realtà in certa misura trasfigurata nell’aspetto, più o meno veridico della cosa ideale o idealizzata, connessa con chiavi ed echi di magica trascendenza; le cui caratteristiche possono apprezzarsi, in certo qual modo, più per la stringente spontaneità, che per rilevanza storica o realistica. Come si può riscontrare in “L'apparizione” (*), di anonimo, che qui leggiamo un breve stralcio nella versione di Campaspero di Valladolid:

"Se ha asustado mi caballo / yo tambien me sorprendì. / No te asustes, caballero / no te asustes tù de mì, / que yo soy la tu querida / la que llaman Beatriz. / Còmo siendo mi querida / no me hablas tù a mi?/ Boca con que yo te amaba / ya no la traigo yo aquì, / que me la pidiò la tierra / y a la tierra se la dì. / Ojos con que te miraba / tampoco les traigo acquì, / que me les pidiò la tierra / y a la tierra se les dì. / Brazos con que te abrazava, / tampoco les traigo aquì, / que me les pidiò la tierra / y a la tierra se les dì. / Yo venderé mi caballo / para misas para tì, / y me venderé a mì mismo / porque no pases allì. / No vendas a tu caballo / ni te pongas a servir; / cuantas màs misas me digas / màs tormentos para mì".

“Si è spaventato il mio cavallo / che anch’io mi sorpresi. / Non ti spaventare, cavaliere / non ti spaventare di me, / che io sono la tua amante / quella che chiamano Beatrice. / Come mai, pur essendo la mia amante / non parli tu a me? / Bocca con che io ti amavo / non la porto oramai io qui, / che io la chiesi alla terra / ed alla terra io la diedi. / E gli occhi con cui io ti guardavo / neanche quelli porto io qui, / che io li chiesi alla terra / ed alla terra essi li ho dati. / E queste braccia con che tu abbracciavi, / neanche loro porto qui, / che io essi chiesi alla terra / ed alla terra essi ho dato. / Io venderò il mio cavallo / per dire messe per te, / e venderò me stesso / perché non passi lì. / No, non vendere il tuo cavallo / né mettiti a servire; / quante più messe tu mi dica / più aumentano i tormenti per me".

Come è possibile comprendere dal testo che abbiamo appena letto, l’atmosfera dell’amor cortese, fa ancora da sfondo a quella culturale del periodo entro il quale il Romance fiorì e si sviluppò, e che, ritessuta nelle forma più erudita del genere novelesco, trovò una sua evoluzione più tardi, in epoca Barocca e per certi versi nel corso dei secoli XVI e XVII in cui assistiamo a una ripresa assai suggestiva, da parte di musicisti e letterati illustri che ne fecero un genere raffinato, utilizzato poi nella successiva forma polifonica. Ne sono esempi illustri: Luis de Góngora, teso al recupero dell’aspetto primario ricco d’immaginazione e fantasia; Francisco de Quevedo, che nel Romance evidenziò l’aspetto satirico e menzognero; Lope de Vega il cui ideale cortese consisteva in un colto casticismo che sovrapponeva la tradizione del Romancero, all’eleganza e alla dolcezza della metrica italiana. Per arrivare alla nostra epoca con Blas de Otero, che trasformò la figura del “poeta” in un “profeta” che segnala gli errori del presente per riuscire a superarli ed accedere a un futuro migliore. In entrambi i casi, questi autori, con fare di moderni musicologi, si adoperarono nel recupero delle antiche melodie tradizionali e poemi anonimi e popolari di molti autori del passato, e altri ne composero, interpretando con notevole compiacenza, i sogni e gli ideali della Spagna feudale.

Facciamo anche noi un passo indietro nell’affrontare un aspetto finora trascurato in questa ricerca che a fatica s’inoltra nel mare magnum della letteratura spagnola riferita al Romance, e recuperare, lì dove ci siano state carenze, alcuni testi di rilevante importanza. Ovviamente il semplice elencare testi non comporterà una loro assunzione nella ricerca qui avviata che certo non valica il muro della conoscenza archeologica, ma si vuole essere di stimolo per riscoprire quanto di essi ha contribuito alla nostra formazione letteraria e non solo. Soprattutto di quanto oggigiorno viene utilizzato da molti autori che crediamo originali, creatori di fumetti e romanzi, giochi elettronici e cinema fantasy, e che invece, sicuramente, dobbiamo a quanti: filologi e ricercatori, etnomusicologi e musicisti, letterati e semplici ricercatori appassionati, che si sono prodigati nel recupero di tanta letteratura e che ci permettono di rivisitare quell’epopea portentosa del passato, non senza scaturire in noi, attuali fruitori senz’anima, una pur vaga emozione che testimonia una creatività esemplare, mai venuta meno.
La tradizione del Romance dunque, si presenta a noi di una tale ricchezza che definirei quasi miracolosa, e che invito qui a riscoprire, per l’essere sorprendentemente ricca di spunti poetici e non solo. A partire da un autore che in assoluto si leva su tutti (almeno per noi ricercatori), testimone della popolarità che ebbero il Romance e i Romanceros nella tradizione spagnola: Miguel de Cervantes de Saavedra. Il quale, nel suo “Don Quijcote de la Mancia” (*), che di fatto possiamo definire quasi un lungo “romance nel romance”, elenca circa quaranta strumenti musicali in accordo con la loro funzione e colore timbrico perfettamente allogati e aggettivati secondo la lingua popolare. Nonché venti danze e balli tra quelli menzionati; altrettanto dicasi delle canzoni che corrono di bocca in bocca e che l’autore fa cantare ai suoi personaggi; mentre sono almeno una dozzina i romance citati. Un esempio di quella che è la sua sterminata conoscenza enciclopedica, lo troviamo in apertura del capitolo XXXXIII, in cui il Romance è annunciato dal canto “in sulla prima ora dell’alba”, l’ora propizia per il canto amoroso in letteratura:

“Marinero soy de amor / y en su piélago profundo / navego sin esperanza / de llegar a puerto alguno … ”.
“Marinaio son d’amore / e nel suo pelago profondo / navigo senza speranza / di arrivare in porto alcuno …”.

Il romance popolare spagnolo si rivela comunque in tutta la sua ricchezza di contenuto, quale mezzo espressivo di sentimenti che vorremmo fossero nostri, nel ritrovare quella compostezza, quella integrità nazionalistica di un popolo che già allora si distingueva per il temperamento virile dei suoi personaggi, per l’ardire di un torneo o di una corrida, per i ritmi sfrenati dei suoi bailes, l’andamento malinconico del cante, la nostalgica cadenza della vihuela, l’insolenza della chitarra flamenca o morisca, la voce alta dei suoi poeti. Una voce altamente sonora, con la quale ogni poeta d’oggi che si misura nel romance, diventa subito autentica e popolare, nell’accezione della parola stessa di narrazione, che prende forma dal popolo e nel suo essere popolare trova la sua continuità e la sua massima affermazione creativa, secondo il metodo che restituisce al popolo la sua storia, e di cui diviene – in senso assoluto – protagonista:

“… col tagliare e aggiungere versi, col sopprimere o variare le parole, col modificare lo svolgimento o alterare capricciosamente gli avvenimenti e le azioni dei personaggi, o meglio, col riscrivere la storia secondo un singolare punto di vista, secondo una propria logica dei fatti …”.

È qui che in veste di protagonisti, storici o leggendari che siano, gli eroi chiamati ad agire all’interno del romance, si destano e reclamano quella vita letteraria che spetta loro di diritto, che pure va oltre la finzione scenica, oltre la carta stampata, per entrare a far parte della mitografia popolare. Come ancora scrive Miguel de Cervantes nella sua opera più famosa:

“… para mover los sentidos de sus lectores e nel teatro, de sus posibles spectatores”.

“… per muovere i sensi dei suoi lettori e nel teatro, dei suoi possibili spettatori”.


A dimostrazione del fatto che nella tradizione del romance troviamo una tale ricchezza, che definirei prodigiosa, e che invito a raccogliere e a rivalutare, malgrado sia ormai molto diversa dalle origini che abbiamo affrontato, e che si presenta ancora sorprendentemente ricca di spunti poetici.

“Quello che c’è di prodigioso nel “Don Chisciotte” è la totale assenza di artificio e la continua fusione di illusione e realtà, che ne fanno un libro così comico e così poetico”…

Con queste parole Flaubert celebrava, più di due secoli dopo la sua pubblicazione, la grande opera con la quale Miguel de Cervantes aveva dato inizio al romanzo europeo, inventando una forma narrativa che, sotto il segno dell’ironia, si è dimostrata capace di rappresentare le grandi contraddizioni dell’uomo e del mondo; il confine tra il sogno, la fantasia e la cruda realtà materiale che la dice lunga sull’eterno disagio di vivere, sui desideri e sulle frustrazioni, e a distanza di tanti anni continua a raccontare tutto il tragico e il comico del mondo, da cui l’incipit del prologo:

“Lettore mio, che non hai nulla di meglio da fare …”.

Non poca importanza va quindi attribuita al Cervantes musicologo, conoscitore ed estimatore della musica del suo tempo, tanto più va sottolineata la sua funzione di ricercatore e trasmettitore dell’antica tradizione, sebbene, egli ne abbia fatto, per così dire, un uso speculativo all’interno del suo romanzo (e che romanzo), col voler dare ai suoi personaggi una parvenza di realtà e di lucida follia. E che bene interpretò il noto compositore contemporaneo Manuel de Falla, il quale, nella messa in musica di “El retablo de Maese Pedro”(*), improntato sulla storia di “Gaiferos e Melisenda” (*), d’appartenenza al Romance epico, in cui il “retablo”, cioé il teatrino dei burattini, fa da sfondo alla rappresentazione che si svolge davanti a Don Quijote, l’ultimo e certamente il più nobile dei cavalieri erranti che siano mai esistiti.
Nel suo romanzo Miguel de Cervantes, l’antico e romance vijeos assume una posizione di grande rilievo, rendendogli quell’attualità che in parte esso aveva perduta nel tempo, ottenendo così un duplice effetto: integrativo della rappresentazione che si svolge sulla scena, alla vita dello spettatore e viceversa e, al tempo stesso, permette a Don Quijote di entrare nel vivo della rappresentazione. Una scena che ritroviamo nella finzione del “teatro nel teatro” e ancor più nel cinema: da “Hellzapopping” di Henry C. Potter, a “La Rosa purpurea del Cairo” di Woody Hallen , dove la “finzione sostituisce la realtà che sostituisce la finzione”, in quanto elemento caratterizzante di un accadimento, attraverso il quale l’autore colto, il musicista galante, il narratore forbito, con l’assegnare ai personaggi certe emozioni, li consegna alla vita reale o inventata che sia, restituendo al lettore prima, all’ascoltatore poi, così come al cineamatore meravigliato, una diversa condizione esistenziale, attraverso la quale è sollecitato il sogno, la fantasia, l’istinto, la follia, l’ignoto:

Giace qui l’hidalgo forte
Il cui valore arrivò
A tal punto che ebbe in sorte
Che la morte non trionfò
Della vita con la morte.

Poco il mondo calcolò.
Se ebbe d’orco la figura,
un’insolita mistura
la ventura in lui provò:
visse pazzo e morì savio.

È ancora Cervantes che ci fa dono di questo sonetto, se pure va ricordato che sono passati secoli da che Miguel de Cervantes scrisse il suo famoso romanzo e altrettanti da che l’eco di quella che fu la poesia epica spagnola fosse ripresa dai suoi poeti più insigni: “che è poi il segreto spirito del romance che torna a forgiare noi moderni”, come affermato da Léon Felipe, uno dei grandi poeti spagnoli del novecento che ha dato nuova voce al romance epico e cavalleresco, quello stesso spirito che releghiamo all’antica voce della terra e che trascende la contingenza di luogo e tempo, per acquisire quei significati universali che sono propri della grande poesia. Quand’ecco:

“Per la pianura della Mancha / torna a vedersi la figura /
di Don Chisciotte passar”.

L’affermarsi del Romance nuevos, portato in parallelo all’evoluzione del gusto letterario castigliano, si rivolge dunque ad atteggiamenti più moderni, ciò che avviene in quasi tutti i campi della cultura la cui frammentazione è senza dubbio, come dice Menendéz Pidal: “Un poderoso atto creativo, straripamento di lirismo che infonde nei versi vecchi una poesia nuova di incalcolabile virtualità”. Quindi non nasce da un gusto storicamente individuato e cronologicamente determinato. Che sia del tutto casuale e forse del tutto estraneo ai secoli precedenti? C’è tempo per una risposta, intanto riprendiamo da dove avevamo lasciato. Numerosi sono i romance viejos inseriti nella discografia di molti interpreti attuali, cantanti, narratori ecc. di fama internazionale, ed altri fanno parte della produzione poetico - letteraria di altrettanti autori moderni, a rappresentare che il romance non si è mai estinto, bensì è sempre stato di grande attualità nella cultura spagnola, nelle forme dello spettacolo teatrale e della produzione discografica.
Sul finire del ‘900, il Romance trova rifugio nella letteratura colta, utilizzato dai grandi poeti delle generazioni del ‘27 e del ‘98, di cui ricordiamo i geniali esempi di Francesco de La Torre, Antonio Machado, Federico Garcia Lorca, Cesar Vallejo, Ruben Dario, Francisco de Quevedo, Blas de Otero, Michel Hernandez, Jorge Manrique, Fanny Rubio, Rafael Alberti, Luis Cernuda, Léon Felipe, Gabriel Celaya, José Antonio Munoz, Gloria Fuertez, nelle cui opere, solitamente non tutte molto considerate dalla critica letteraria, troviamo invece una perfetta simbiosi fra voce di popolo e voce d’artista che, in brevi quadretti, sovente costruiti secondo lo schema iterativo del “botta e risposta” tipico della espressività popolare, ci confermano la loro estrazione popolare e proletaria. Infatti non possiamo qui parlare dei “canciones y poemas” di questi autori senza parlare di alcuni di essi che hanno dato un forte e glorioso contributo alla moderna poesia spagnola. In questo spettro ravvicinato di poeti va senz’altro annoverato Federico Garcia Lorca, “la voce della poesia popolare”. Enrico Lepari (*) ha scritto di lui:

“Nonostante si sia formato culturalmente (Università di Granada), Lorca possiede in sé quegli elementi che sono propri della cultura popolare, per cui il diritto alla vita lo si conquista giorno dopo giorno, fra mille sconfitte, infinite sofferenze, ma anche con grandi e improvvisi squarci di autentica gioia e felicità”.

Sentimenti come l’amore, la libertà, il diritto al lavoro, le passioni giovanili, la lotta civile, l’odio, l’amicizia, la sconfitta e la vittoria, sono tutti grandi temi cui Lorca a saputo dare una risposta o e che almeno sono stati la base da cui poterli affrontare in maniera diretta, talvolta immediata, con quel senso di concretezza che è distintivo dell’animo popolare. Soprattutto quando, con l'aiuto di Fernando de Los Ríos, che nel frattempo è diventato Ministro della Pubblica istruzione, García Lorca, con attori e interpreti selezionati dall'Istituto Escuela di Madrid con il suo progetto di Museo Pedagocico, realizza insieme a Rafael Rodríguez Rapún, studente d'ingegneria conosciuto a Madrid, il progetto di un teatro popolare ambulante, chiamato La Barraca.
Lorca, che ne è insieme ideatore e regista, nonché animatore entusiasta della piccola troupe teatrale, vestito con una semplice tuta azzurra a significare ogni rifiuto di divismo, porta in giro negli ambienti rurali e universitari il suo teatro facendo conoscere gran parte del repertorio classico spagnolo. In un primo tempo Lorca manifesta il suo talento come espressione orale seguendo lo stile della tradizione giullaresca riscuotendo un grande successo. Il poeta infatti recita, legge, interpreta i suoi versi e le sue pièce teatrali davanti agli amici e agli studenti dell'università prima ancora che siano raccolte e stampate. Ma pur essendo un artista geniale ed esuberante, mantiene verso la sua attività creativa un atteggiamento severo chiedendo ad essa due condizioni essenziali: amor y disciplina. Attività questa che egli svolge senza interruzione fino all'aprile del 1936, a pochi mesi dallo scoppio della guerra civile in Spagna.
Nel “Libro de poemas” (*), composto dal 1918 al 1920 García Lorca documenta il suo grande amore per il canto e la vita; dialoga con il paesaggio e con gli animali con il tono modernista di un Rubén Darío o un Juan Ramón Jiménez facendo affiorare le sue inquietudini sotto forma di nostalgia, di abbandoni, di angosce e di protesta ponendosi domande di natura esistenziale:

“Qué me encierro en mí / ¿en estos momentos de tristeza? / Ay, quién corta mis bosques / ¡dorados y floridos! / Qué leo en el espejo / de plata compadecida / qué la aurora me ofrece / sobre el agua del río?”.

“Che cosa racchiudo in me / in questi momenti di tristezza?/ Ahi, chi taglia i miei boschi / dorati e fioriti! / Che cosa leggo nello specchio / d'argento commosso / che l'aurora mi offre / sull'acqua del fiume?”.

In questi versi ci sembra ancora di sentire il sottofondo musicale che, modulando la pena del cuore, riflette la situazione d'incertezza vissuta e il suo distacco dalla fase dell'adolescenza. Il periodo che va dal 1921 al 1924 rappresenta un momento molto creativo e di grande entusiasmo lirico, anche se molte delle opere prodotte vedranno la luce solo anni dopo, come il suo “Libro de canciones” (*) del 1927, in cui trasfuse gli spiriti di un lirismo moderno e genuino col reinventate parti melodiche e testi semi-dimenticati, cui ne aggiunse altri di sua creazione. Nel suo precedente “Poema del Cante jondo” (*), (canto profondo della terra andalusa), scritto tra il 1921 e il 1922, troviamo invece tutti i motivi del mondo andaluso ritmati sulle modalità musicali del Cante Jondo a cui Lorca aveva lavorato con il maestro De Falla in occasione della celebrazione della prima Fiesta del Cante jondo, cui aveva dedicato, nel 1922, la conferenza “Importancia histórica y artística del primitivo canto andaluz llamado «cante jondo»”, dal quale traggo questo inizio di canto:

“… Sobre el tablado oscuro / la Parrala sostiene / una conversaciòn / con la muerte, / La llama / no viene / y la vuelve a llamar / ...”.

“... Sopra il tavolaccio oscuro / La Parrala tiene / una conversazione / con la morte. / La chiama / non viene / e torna a chiamarla / …”.

E ancora:

“… Hasta el alma me duele, seniores, / De tanto querer. / Los tormentos de mis negrs duquelas / Yo no se los mando / A mis nemigos / ...”.

“... Perfino l’anima mi duole, signori, / Per il tanto amore. / I tormenti delle mie nere pene / Io non li auguro nemmeno / Ai miei nemici / …”.

Il testo vuole essere un'interpretazione poetica dei significati legati a questo canto primitivo che esplode nella ripetizione ossessiva dei suoni e dei ritmi popolari, espressi poi nelle canciones: siguiriya, soleá, petenera, tonáa, liviana, accompagnate dal suono della chitarra, da cui prende il nome il sonetto che segue:

“Empieza el llanto / de la guitarra. / Se rompen las copas / de la madrugada. / Empieza el llanto / de la guitarra. / Es inútil callarla. / Es imposible callarla. / Llora monótona / como llora el agua, / como llora el viento / sobre la nevada”.
“Comincia il pianto / della chitarra. / Si spezzano le coppe / dell'alba. / Comincia il pianto / della chitarra. / È inutile tacerla. / È impossibile tacerla. / Piange monotona / come piange l'acqua. / Come piange il vento sulla montagna”.

Voler spiegare qui le caratteristiche tecniche vocali del Cante Jondo, le sue numerose varietà di forma, si presenta quanto di più arduo. Tuttavia, a una lettura più approfondita, appare come una sorta di linguaggio dalle forti emozioni, in cui il cantore gitano esprime i propri sentimenti interiori, l’intimità del suo pensiero profondo, il verbo recondito della parola esteso all’infinito nella ricerca di possibili assonanze che si riallacciano alla vita, all’amore, o forse a una rivalità riferita a un sogno, al ricordo di un cielo perduto dietro una montagna che si fa canto. O ancora, a un afflato essenzialmente notturno, che meglio risuona nell’oscurità e nell’intimità della notte come il gorgheggio dell’usignolo: un canto doloroso di una malinconia struggente lasciata al vento, confidente di una profonda pena d’amore. Quegli stessi sentimenti che Garcia Lorca tradusse in linguaggio vivido e concitato, che trasferì nei suoi testi teatrali più famosi: “Bodas de sangre”, “Yerma”, autentici Romance rusticani che abbiamo visto danzati in maniera strepitosa da Antonio Gades, rappresentati a teatro da innumerevoli compagnie di tutto il mondo e non in ultimo ripresi poi in sede cinematografica dal regista Carlos Saura.
Altro esempio importante nel quale troviamo una simile venatura poetica “rusticana”, benché talvolta più ricercata, è Antonio Machado. Nelle elezioni del 1931 fu tra gli strenui sostenitori della Repubblica e, l'anno successivo si trasferì definitivamente a Madrid insieme alla famiglia del fratello José (pittore e disegnatore) e all'anziana madre che restarono con lui fino alla morte. Intanto proseguì la pubblicazione dei suoi versi e nel 1933 fu la volta della terza edizione delle “Poesías completas” (*) cui venne aggiunta una ulteriore sezione: “De un cancionero apócrifo”. In “Soledades” (1899-1902), la sua prima raccolta poetica pubblicata, è presente in modo evidente l'impronta del modernismo rubendariano ma, contemporaneamente, si può ben notare la propria tensione verso un linguaggio apparentemente semplice e l'intensa introversione poetica. Il titolo stesso “Solitudini”, annuncia l'essenza intimistica del libro: solitudini non solo dell'uomo ma anche dello spazio abitato solo dal soggetto che dialoga in modo autobiografico con i fantasmi del proprio passato, onde tutto appare velato di malinconia e di nostalgia attraverso le immagini tipiche del decadentismo: i giardini abbandonati, i vecchi parchi, le fontane, che in chiave simbolica, rappresentano lo stato d'animo del poeta.
In “Campos de Castilla” (1907-1917) il poeta evoca con tratti essenziali la solennità del paesaggio circostante, rievocato con un'ottica quasi visionaria in cui l' “io” si apre al dialogo entrando a far parte del "noi" del proprio tempo storico segnando definitivamente il distacco dell'estrema soggettività di “Soledades” dalla dimensione storica, come si legge appunto nella sua introduzione. In molti passi, infatti, sono presenti rimandi agli eventi passati della storia della Spagna e al dibattito ad essi collegato. Tematica che verrà ripresa in seguito, allorquando la nazione si troverà a essere soggiogata dal potere dittatoriale e dalla guerra civile:

“Mas otra España nace, la España del cincel y de la / maza, / con esa eterna juventud che / se hace / del pasado macizo de la raza. / Una España implacable y / redentora, / España que alborea / con un hacha en la mano vengadora, / España de la rabia y de la idea”.
“Ma un'altra Spagna nasce, / la Spagna dello scalpello e della / mazza,/ con quella eterna gioventù ch'è / fatta / del passato massiccio della razza. / Una Spagna implacabile e / redentrice, / Spagna che albeggia / con un'ascia nella mano / vendicatrice, / Spagna della rabbia e dell'idea”.

Il nostro maggiore interesse va però al suo libro “Cancionero apócrifo” (*) (attribuito ad Abel Martín, uno degli eteronimi di Machado) dove il poeta accentua l'esplorazione della propria identità e riflette sull'eterogeneità dell'essere, nel quale il poeta opta per la prosa con una forte tendenza alla frammentazione nella quale si riflette il convincimento della disgregazione dell'esistenza. Da “Soledades” leggiamo insieme questo “Poema Caminante No Hay Camino” che più risente della forma del romance, nel modo in cui la ripetizione di alcune parole (versi, grida) ricorda da vicino l’enfasi del narrare del Romanceros:

“Todo pasa y todo queda, / pero lo nuestro es pasar, / pasar haciendo caminos, / caminos sobre el mar. / Nunca persequí la gloria, / ni dejar en la memoria / de los hombres mi canción; / yo amo los mundos sutiles, / ingrávidos y gentiles, / como pompas de jabón. / Me gusta verlos pintarse / de sol y grana, volar / bajo el cielo azul, temblar / súbitamente y quebrarse… / Nunca perseguí la gloria. / Caminante, son tus huellas / el camino y nada más; / caminante, no hay camino, / se hace camino al andar. / Al andar se hace camino / y al volver la vista atrás / se ve la senda que nunca / se ha de volver a pisar. / Caminante no hay camino / sino estelas en la mar… / Hace algún tiempo en ese lugar / donde hoy los bosques se visten de espinos / se oyó la voz / de un poeta gritar / “Caminante no hay camino, / se hace camino al andar…” / Golpe a golpe, verso a verso… / Murió el poeta lejos del hogar. / Le cubre el polvo / de un país vecino. / Al alejarse le vieron llorar. / “Caminante no hay camino, / se hace camino al andar…” / Golpe a golpe, verso a verso… / Cuando el jilguero no puede cantar. / Cuando el poeta es un peregrino, / cuando de nada nos sirve rezar. / “Caminante no hay camino, / se hace camino al andar…” / Golpe a golpe, verso a verso”.

"Tutto passa e tutto rimane, / ma egli nostro è passare, / passare facendo strade, / strade sul mare. / Mai perseguì la gloria, / né lasciare nella memoria / degli uomini la mia canzone; / io amo i mondi sottili, / imponderabili e gentili, / come pompe di sapone. / Mi piace vederli dipingersi / di sole e grana, volare / sotto il cielo azzurro, tremare / improvvisamente e rovinarsi … / non perseguii Mai la gloria. / Viandante, sono le tue orme / la strada e nient'altro; / viandante, non è strada, / si fa strada camminando. / Camminando si fa strada / e girando dietro la vista / si vede il sentiero che mai / deve tornare a pestare. / Viandante non è strada / bensì steli nella mare … / Fa qualche tempo in quello posto / dove oggi i boschi si vestono di spini / si sentì la voce / di un poeta gridare / "Viandante non è strada, / si fa strada camminando"… / Colpo a colpo, verso a verso … / Morì il poeta lontano dalla casa. / Lo copre la polvere / di un paese vicino. / Allontanandosi videro piangere. / "Viandante non è strada, / si fa strada camminando"… / Colpo a colpo, verso a verso … / Quando il cardellino non può cantare. / Quando il poeta è un pellegrino, / quando di niente ci serve pregare. / "Viandante non è strada, / si fa strada camminando"… / Colpo a colpo, verso a verso."

Di Francico de Quevedo: “Romance satirico” (*)

“Pues me hacéis casamentero, /Ángela de Mondragón, / escuchad de vuestro esposo / las grandezas y el valor. / Él es un Médico honrado, / por la gracia del Señor, / que tiene muy buenas letras / en el cambio y el bolsón. / Quien os lo pintó cobarde / no lo conoce, y mintió, /que ha muerto más hombres vivos / que mató el Cid Campeador. / En entrando en una casa / tiene tal reputación, / que luego dicen los niños: / «Dios perdone al que murió». / Y con ser todos mortales / los Médicos, pienso yo / que son todos venïales, / comparados al Dotor. / Al caminante, en los pueblos / se le pide información, / temiéndole más que a la peste / de si le conoce, o no. / De Médicos semejantes / hace el Rey nuestro Señor / bombardas a sus castillos, / mosquetes a su escuadrón. / Si a alguno cura, y no muere, / piensa que resucitó, / y por milagro le ofrece / la mortaja y el cordón. / Si acaso estando en su casa / oye dar algún clamor, /tomando papel y tinta / escribe: «Ante mí pasó». / No se le ha muerto ninguno / de los que cura hasta hoy, / porque antes que se mueran / los mata sin confesión. / De envidia de los verdugos / maldice al Corregidor, / que sobre los ahorcados / no le quiere dar pensión. / Piensan que es la muerte algunos; / otros, viendo su rigor, / le llaman el día del juicio, / pues es total perdición. / No come por engordar, / ni por el dulce sabor, / sino por matar la hambre, / que es matar su inclinación. / Por matar mata las luces, / y si no le alumbra el sol, / como murciégalo vive / a la sombra de un rincón. / Su mula, aunque no está muerta, / no penséis que se escapó, / que está matada de suerte / que le viene a ser peor. / Él, que se ve tan famoso / y en tan buena estimación, / atento a vuestra belleza, /se ha enamorado de vos./ No pide le deis más dote / de ver que matáis de amor, / que en matando de algún modo / para en uno sois los dos. / Casaos con él, y jamás / vïuda tendréis pasión, / que nunca la misma muerte / se oyó decir que murió. / Si lo hacéis, a Dios le ruego / que os gocéis con bendición; / pero si no, que nos libre / de conocer al Dotor”.

“Perché mi fate pronubo, / Ángela di Mondragón, / ascoltate di vostro marito / le grandezze ed il valore. / Egli è un Medico onesto, / per la grazia del Sig., / che ha molto buone lettere / nel cambiamento ed il bolsón./ Chi ve lo dipinse codardo / non lo conosce, e mentì, / che è morto più uomini vivi / che ammazzò la Cid Prode. / In entrando in una casa / ha tale reputazione, / che dopo dicono i bambini: / Dio perdoni a quello che "morì." / E con essere tutti mortali / i Medici, io penso / che sono tutti veniali, / comparati al Dottor. /Al viandante, nei paesi / gli è chiesto informazione, / temendolo più che alla peste / di se lo conosce, o no. / Di Medici simili /fa il nostro Re Sig./ bombarde ai suoi castelli, / moschetti al suo squadrone. / Se ad alcuno curato, e non muore, / pensa che resuscitò, / e per miracolo gli offre / il sudario ed il cordone. / Semmai stando nella sua casa / sente dare qualche clamore, / prendendo carta e tinge / scrive: "Davanti a me passò." / Non gli è stato morto nessuno / dei che cura fino ad oggi, / perché prima che muoiano / il cespuglio senza confessione. / Di invidia dei boia / maledice il Governatore, / che ecceda gli impiccati / non gli vuole dare pensione. / Pensano che è la morte alcuni; / altri, vedendo il suo rigore, / lo chiamano il giorno del giudizio, / perché è totale perdizione./ Non mangia per ingrassare, / né per il dolce sapore, / bensì per ammazzare la fame, / che è ammazzare la sua inclinazione. / Per ammazzare cespuglio le luci, / e se non l'illumina il sole, / come murciégalo vive / all'ombra di un angolo./ La sua mula, benché non sia morta, /non pensiate che fuggì, / che è uccisa di fortuna / che gli viene ad essere peggiore. / Egli che si vede tanto famoso / ed in tanto buona stima, / attento alla vostra bellezza, / si è innamorato di voi. / Non gli chiede diate più dote / di vedere che ammazzate di amore, / che in ammazzando in qualche modo / ferma in uno siete i due. / Sposatevi con lui, e se mai /di lui avrete passione, / che mai la stessa morte / si sentì dire che morì. / Se lo fate, a Dio lo prego / che vi godiate con benedizione; / ma se non che ci liberi / di conoscere al Dottor”.

Di Gabriel Celaya, leggiamo: “La poesia es un arma cargada de futuro” (*)

“Cuando ya nada se espera personalmente exaltante / más se palpita y se sigue más acá de la conciencia, / fieramente existiendo, ciegamente afirmando, / como un pulso que golpea las tinieblas, / cuando se miran de frente / los vertiginosos ojos claros de la muerte, / se dicen las verdades: / las bárbaras, terribles, amorosas crueldades; / Se dicen los poemas / que ensanchan los pulmones de cuántos, asfixiados, / piden ser, piden ritmo, / piden ley para aquello que sienten excesivo. / Con la velocidad del instinto, / con el rayo del prodigio, / como mágica evidencia, lo real se nos convierte / en lo idéntico a sí mismo. / Poesía para el pobre, poesía necesaria / como el pan de cada día, / como el aire que exigimos trece veces por minuto, /para ser y en tanto somos dar un sí que glorifica. / Porque vivimos a golpes, porque apenas si nos dejan /decir que somos quien somos, / nuestros cantares no pueden ser sin pecado un adorno. / Estamos tocando el fondo. / Maldigo la poesía concebida como un lujo / cultural por los neutrales / que, lavándose las manos, se desentienden y evaden. / Maldigo la poesía de quien no toma partido hasta mancharse. / Hago mías las faltas. Siento en mí a cuántos sufren / y canto respirando. / Canto, y canto, y cantando más allá de mis penas / personales, me ensancho. / Quisiera daros vida, provocar nuevos actos, / y calculo por eso con técnica, qué puedo. / Me siento un ingeniero del verso y un obrero / que trabaja con otros a España en sus aceros. / Tal es mi poesía: Poesía-herramienta / a la vez que latido de lo unánime y ciego. / Tal es, arma cargada de futuro expansivo / con que te apunto al pecho. / No es una poesía gota a gota pensada. / No es un bello producto. No es un fruto perfecto. / Es algo como el aire que todos respiramos / y es el canto que espacia cuanto dentro llevamos. / Son palabras que todos repetimos sintiendo / como nuestras, y vuelan. Son más que lo mentado. / Son lo más necesario: lo que no tiene nombre. / Son gritos en el cielo, y en la tierra, son actos. / Porque vivimos a golpes, porque apenas si nos dejan / decir que somos quien somos,/nuestros cantares no pueden ser sin pecado un adorno. / Estamos tocando el fondo”.

“Quando non si raggiunge più niente di personalmente esaltante / ma si palpita e si afferma al di là della coscienza / la selvaggia esistenza e la cieca presenza /come un polso che palpiti nelle tenebre / che martelli le tenebre. / Quando si guarda negli occhi / il vertiginoso sguardo bianco della morte / le verità si fanno avanti / le barbare terribili amorose crudeltà / amorose crudeltà. / Poesia dei poveri, poesia necessaria / come il pane quotidiano / come l’aria che esigi tredici volte al minuto / per essere e per affermarlo, per affermare / che siamo uomini, affermare che siamo uomini. / Giacché viviamo appena, e appena ci lasciano / dire chi siamo / allora i nostri canti non saranno senza macchie, pura forma, / ché stiamo toccando il fondo / stiamo toccando il fondo. / Maledetta la poesia concepita come un lusso / culturale per i neutrali /i sordi, quelli con le mani pure / maledetta la poesia che non parla / un linguaggio compromesso. / Io mi assumo i miei errori, sento la mia sofferenza / se canto respirando / canto, canto e cantando al di là delle pene / delle mie personali / mi spingo, mi spingo. / Voglio spingere la vita, provocare nuovi atti / e a ciò adopero ogni calcolo e strumento / mi sento un ingegnere del verso, un operaio / che lavora con voi alla Spagna / la Spagna e ciò che può. / Non è una poesia goccia a goccia pensata, / non è un bel fiore, non è un frutto perfetto / è ciò che è necessario, ciò che non ha nome / un gesto per terra / un grido nel cielo. / Giacché viviamo appena, e appena ci lasciano / dire chi siamo / allora i nostri canti non saranno senza macchie, pura forma, / ché stiamo toccando il fondo / stiamo toccando il fondo”.

Di Blas de Otero: “Me queda la palabra”. (*)

“Si he perdido la vida, el / tiempo, todo lo que tiré, / como un anillo, al agua; / si he perdido la voz en la maleza, / me queda la palabra. / Si he sufrido la sed, el hambre, todo / lo que era mio y resultó ser nada, / si he segado las sombras en silencio / me queda la palabra. / Si abrí los ojos para ver /el rostro puro y terrible de / mi patria. Si abrí los labios hasta desgarrarmelos, / me queda la palabra. /Me queda la palabra. / Si los labios abrí, / si me lo desgarré, / si he sufrido la sed, / se he segado las sombras, / si ho perdido la vida, / si he perdodo la voz, / me queda la palabra.

“Se ho perduto la vita, il / tempo, tutto quello che gettai, / come un anello, nell’acqua; / se ho perduto la voce nella / sterpaglia, / mi resta la parola. / Se ho sofferto la sete, la fame, / tutto quello che era mio / e risultò esser niente, / se ho falciato le ombre in silenzio / mi resta la parola. / Se ho aperto gli occhi per vedere / il volto puro e terribile della / mia patria. Se apersi le labbra / fino a lacerarle, / mi resta la parola. / Mi resta la parola. Se le labbra aprii, /se me le lacerai, / se ho sofferto la sete, / se ho falciato le ombre, / se ho perduto la vita, / se ho perduto la voce, / mi resta la parola”.

Di Léon Felipe: “Mia es la voz” (*)

“Hermano … tuya es la hacienda / la casa, el caballo y la pistola. / Mia es la voz antigua de la tierra. / Tú te quedas con todo / y me dejas desnudo y / errante por el mundo, / mas yo te dejo mudo ... / ¡mudo! / Y ¿cómo vas a recoger el trigo / y alimentar el fuego / si yo me llevo la canción? / Mia es la voz”.
“Fratello ... tuo è il podere / la casa, il cavallo, la pistola. / Mia è la voce antica della terra. / Tu ti tieni tutto e mi lasci nudo / ed errante per il mondo, / ma io ti lascio muto! / Muto! / E come raccoglierai il grano / e come alimenterai il fuoco/ se io mi porto via la canzone? / Mia è la voce”.

Di Luis Cernuda: “Un espanol habla de su tierra” (*)

“Las playas, parameras / al rubio sol durmiendo, / los oteros, las vegas / en paz, a solas, lejos; / los castillos, ermitas, / cortijos y conventos, / la vida con la historia, / tan dulces al recuerdo, /ellos, los vencedores /Caínes sempiternos, /de todo me arrancaron. / Me dejan el destierro. / Una mano divina /tú tierra alzó en mi cuerpo /y allí la voz dispuso /que hablase tu silencio. /Contigo solo estaba, /en ti sola creyendo; / pensar tu nombre ahora /envenena mis sueños. /Amargos son los días / de la vida, viviendo /sólo una larga espera /a fuerza de recuerdos. /Un día, tú ya libre /de la mentira de ellos, /me buscarás. Entonces /¿qué ha de decir un muerto?”.

“Le spiagge, regioni desertiche / al biondo sole dormendo, / i picchi, le pianure / in pace, a sole, lontano; / i castelli, eremi, / fattorie e conventi, / la vita con la storia, / tanto dolci al ricordo, / essi, i vincitori / Caínes sempiterni, / di tutto mi strapparono. / Mi lasciano l'esilio. / Una mano divina / tu terra alzò nel mio corpo / e lì la voce dispose / che parlasse il tuo silenzio. / Con te assolo stava, / in te sola credendo; / pensare ora il tuo nome / avvelena i miei sonni. / Amari sono i giorni / della vita, vivendo / solo una lunga attesa / a forza di ricordi. / Un giorno, tu già libero / della bugia di essi, / mi cercherai. Allora / che cosa deve dire un morto?”.

Di Cesar Vallejo: “Amada” (*)

“Amada, en esta noche, tú te has crucificado / entre los dos maderos curvados de mi beso./ Y tu pena me ha dicho que Jesús ha llorado / y que hay un Viernes Santo más dulce que ese beso. / Amada, en esta noche, tú te has crucificado. / Amada, moriremos los dos juntos, muy juntos / y ya no habrán reproches en tus ojos benditos / ni volveré a ofenderte. Y en una sepoltura / dormiremos los dos como dos hermanitos”.

"Amata, in questa notte, tu ti hai crocifisso / tra i due tronchi ricurvi del mio bacio. / E la tua pena mi ha detto che Gesù ha pianto / e che c'è un venerdì Sacro più dolce di quello bacio. / Amata, in questa notte, tu ti hai crocifisso. / Amata, morremo insieme i due, molto insieme / e non ci saranno oramai rimproveri nei tuoi occhi benedetti / né tornerò ad offenderti. E in una sepoltura / dormiremo i due come due fratelli."

Di Fanny Rubio: “El Rey Almutamid” (*)

“Soñaba en su lecho el rey / soñaba de madrugada / que entre las ondas del rio / buscaba manzanas blancas. / Noche de miedo en Sevilla / víspera de la batalla. / Y el rey Almutamid / en el sueño contemplaba / la dulce fruta de nieve / que en los espejos temblaba. / Noche de miedo en Sevilla / víspera de la batalla. / En Sevilla, Almutamid / abrió los ojos al alba / cuando el sol enrojecia / en la ventana más alta. / Y ni amanecer halló / ni arrayán bajo la almohada / ni del agua el dulce nido / donde vio manzanas blancas. / Noche de miedo en Sevilla / víspera de la batalla”.

"Sognava nel suo letto il re / sognava di buon mattino / che tra le onde del fiume / cercava mele bianche. / Notte di paura a Siviglia / vigilia della battaglia. / Ed il re Almutamid / nel sonno contemplava / la dolce frutta di neve / che tremava negli specchi. / Notte di paura a Siviglia / vigilia della battaglia. / A Siviglia, Almutamid / aprì gli occhi all'alba / quando il sole arrossava / nella finestra più alta. / E né alba trovò / né mirto basso il cuscino / né dell'acqua il dolce nido / dove vide mele bianche. / Notte di paura a Siviglia / vigilia della battaglia."

In ordine di tempo possiamo dire che Rafael Alberti (*) è l’ultimo (ma non l’ultimo), che si è misurato con il romance, in una versione propositiva di grande presa sull’ascoltatore: Ignazio Delogu, ha scritto di lui: “Certo, nella poesia il sentimento più generale e la motivazione collettiva prevalgono sui motivi individuali o di gruppo, ma restano nella poesia civile, e in quella di Alberti in maniera particolare, una ribellione anche individuale, un furore che non possono essere trasferiti e che danno a questa poesia un accento inimitabile e una estrema, travolgente persino, capacità di persuasione”. Di Rafael Alberti leggiamo insieme “La colomba” (*):
“Se equivocó la paloma. Se equivocaba. Por ir al norte, fue al sur. Creyó que el trigo era agua. Se equivocaba. Creyó que el mar era el cielo; que la noche, la mañana. Se equivocaba. Que las estrellas, rocío; que la calor; la nevada. Se equivocaba. Que tu falda era tu blusa; que tu corazón, su casa. Se equivocaba. (Ella se durmió en la orilla. Tú, en la cumbre de una rama)”.
“Si sbagliò la colomba. si sbagliava. per andare al nord fuggì al sud. credette che il grano fosse acqua. si sbagliava. credette che il mare fosse il cielo; e la notte, la mattina. si sbagliava. credette che le stelle fossero rugiada; e il calore neve. si sbagliava. credette che la tua gonna fosse la tua blusa e il tuo cuore la sua casa. si sbagliava. (Lei si addormentò sulla spiaggia. Tu, sulla cima di un ramo)”.
E ancora: “A galopar” (*)

“Las tierras, las tierras, las tierras de España, / las grandes, las solas, desiertas llanuras. / Galopa, caballo cuatralbo, / jinete del pueblo, / al sol y a la luna. / ¡A galopar, / a galopar, / hasta enterrarlos en el mar! / A corazón suenan, resuenan, resuenan / las tierras de España, en las herraduras. / Galopa, jinete del pueblo, / caballo cuatralbo, / caballo de espuma. / ¡A galopar, / a galopar, / hasta enterrarlos en el mar! / Nadie, nadie, nadie, que enfrente no hay nadie; / que es nadie la muerte si va en tu montura. / Galopa, caballo cuatralbo, / jinete del pueblo, / que la tierra es tuya. / ¡A galopar, / a galopar, / hasta enterrarlos en el mar!”.
“Le terre, le terre, le terre della Spagna, / i grandi, le sole, deserte pianure. / Galoppa, cavallo cuatralbo, / fantino del paese, / al sole ed alla luna. / A galoppare, / a galoppare, / fino a seppellirli nel mare! / A cuore suonano, risuonano, risuonano / le terre della Spagna, nei ferri di cavallo. / Galoppa, fantino del paese, / cavallo cuatralbo, / cavallo di schiuma. / A galoppare, / a galoppare, / fino a seppellirli nel mare! / Nessuno, nessuno, nessuno, che affronti non c'è nessuno; / che è nessuno la morte se va nella tua cavalcatura. / Galoppa, cavallo cuatralbo, / fantino del paese, / che la terra è tua. / A galoppare, / a galoppare, / fino a seppellirli nel mare!”.

Una nota a parte meritano i Romanceros di ultima generazione, alcuni vanno considerati continuatori di quella tradizione popolare mai venuta meno, che possiamo ben indicare, “a flor de tiempo”, luce della poesia spagnola. Molti dei quali sono noti al grande pubblico, non solo in Spagna: Angel Baltanàs, Manuel Dicenta, Luis Prendes, Adolfo Marsillach, Antonio Mairena, Jose Torregrosa, Antonio Carmona, Joaquin Diaz, Paco Ibanez, José Agustin Goytisolo, Fernando Guillén, Juan Manuel Serrat, Manolo Diaz, Aguaviva (… la que mana y corre naturalmente), Joaquin Diaz, Quarteto Cedron, possono sembrare solo nomi senza volto, ma come pure afferma Umberto Eco, nel suo libro “Vertigine della lista” (*): “Questo secondo modo di rappresentazione è la lista o elenco. Ci sono liste che hanno fini pratici e sono finite, come la lista di tutti i libri di una biblioteca; ma ve ne sono altre che vogliono suggerire grandezze innumerabili e che si arrestano incomplete ai confini dell'indefinito”; ognuno di essi ha una propria ragione di essere, per aver dato nel tempo, o perché continua a dare, un supporto vitale, poetico e letterario, che testimonia di una realtà linguistica e musicale, all’interno di una tradizione, quella spagnola, apprezzandola e facendola conoscere in tutto il mondo. E che del mondo continua a scrivere la grande storia dell’umanità, in funzione di un sentire che facilita la comprensione tra i popoli, pur nel loro stanziamento geografico.
Tengo qui a ripetere una massima che ho scritto all’inizio di questa avventura sull’etnomusicologia trascritta per larecherche@larecherche.it, iniziata molti anni fa, in occasione della mia prima collaborazione con l’UNESCO, per la presentazione della collana “Musical Atlas” (*) curata dal prof. Alain Danielou e, successivamente, in occasione del primo programma RAI da me condotto e dal titolo “Folkconcerto” (*): “È nello scoprire il fascino ancestrale della musica dei popoli che la infinita ricerca di «noi stessi» si amplia di nuovi importanti capitoli, che vanno ad aggiungersi a quella macroscopica «storia universale» che tutti stiamo scrivendo. Soltanto nello scoprire «noi stessi» saremo un giorno in grado di conoscere il mondo in cui viviamo”. Con il quale la RAI, e poi la RSI (Il canto della terra), sottoponevano all’attenzione del grande pubblico, la magica comunicativa della musica dei popoli, alcuni molto lontani da noi e dalla nostra cultura, e che ottenne un inaspettato successo d’ascolto.
Come spesso si è trovato a dire Joaquín Díaz, uno dei ricercatori più affermati, nonché egli stesso arrangiatore ed esecutore vocale del folklore spagnolo: “È possibile che, il folclore non stia lì per sparire, la cosa certa è che, la canzone folcloristica riceve di tanto in tanto una nuova linfa di cui beneficia e da cui trae vigore”, ma noi sappiamo anche, che non è stato sempre così e che, nel tempo di “fermo”, cade l’interesse che lo sostiene e un po’ si perde strada facendo. Se è vero che molto si è fatto, pochissimo invece si fa per ciò che il folklore continua a dare in termini di “ecologicamente parlando” conoscenza del territorio, e non solo per quel che riguarda il passato. Un passato che ritorna e che ancora sorprende, quando a rivisitarlo con altri interessi sono i giovani.
Quegli stessi giovani che, nel ricordo di Joaquín Díaz, dopo aver ascoltato alcune canzoni, di quelle che egli interpreta per dimostrarne la validità. È allora che i ricordi ripetono il solito ritornello del “prima”, quando si cantava a tutte le ore e bastavano cinque o sei feste all'ano, per mantenere le illusioni della gioventù sveglie: “All’epoca – ricorda ancora - si ballava la molinera, la donzaina, il ben fermo, lo spostato e la jota aragonesa. E come dietro tutto ciò, si prendeva parte a qualche Via Crucis, si cantavano le canciones su temi di navidad e le devozioni particolari, radicate nella religiosità a dispetto di vivere nell'epoca di miscredenza attuale”. Ovviamente non c’era solo quello, e gli occhi brillano per l'emozione del ricordo o per l'orgoglio di quei compositori che cantavano le loro coplas nelle fiere locali che riempivano di versi mille le celebrazioni, da offuscare perfino le nuove orchestrine che misero fine all'era dorata dei tamburelli a sonagli.
Attualmente il prestigio di Joaquín Díaz è ben solido, costruito sulla sua serietà professionale e il suo interesse nel far partecipi gli altri delle sue conoscenze, divenute ormai enciclopediche, a conferma di un lavoro silenzioso, poco spettacolare, quello dello studioso e del ricercatore della tradizione spagnola nei suoi molteplici aspetti, nazionali e regionali, comunque sempre popolari. Antonio Garcia Rayo (*), parlando di lui racconta:

“… se ne stava in disparte, quando, tutti gli altri protestavano contro la dittatura franchista ma egli non cantava per protestare per niente, sebbene tutta la sua musica era un torrente in piena, una cascata per la quale usciva con urla la vecchia cultura musicale spagnola, quella che gli etnologi oggi chiamano tradizionale. È a lui che dobbiamo ciò che un giorno, da vero innamorato della sua eredità, nella quale si accumulavano ancora ricchezze di terra colta, strappate al suo entusiasmo, è venuto a creare il Centro di Studi Tradizionali oggi a lui intitolato. Lui, che con i mezzi che poté racimolare della sua raccolta, volle che facessimo la stessa cosa. Col passare del tempo, può sembrare logico dire che cantasse come quei figli del tempo. A tanti ani di distanza, ripensare a quel tempo di oscurità e miseria culturale, con la luce della libertà redenta, mi accade di pensare che il suo cantare altro non fosse che il pagamento che oggi dobbiamo a questo poeta della terra”.

Altro grande è Paco Ibañez (basco), figura straordinaria sotto molti aspetti che parlare di lui trascurando la sua ideologia politica può essere più complicato di quanto s’immagini, per essere egli un personaggio già mitico: “quasi leggendario, capace di catturare la gente di tutto il mondo nella sua rete di versi e il suono della chitarra”. Compositore, arrangiatore, cantautore, ha saputo restituire alla poesia spagnola, quella risonanza assoluta, che la eleva all’alto rango di “colta”, vuoi per la sontuosità narrativa, che per il “misterio” che la circonda. Egli è considerato il “romanceros” per eccellenza, cantore di Ruíz, de Gongora, de Quevedo, Ortiz, Lorca, Celaya, Dario, Alberti, de Otero, Cernuda, Felipe, Machado, Goytisolo, Manrique, Rubio, Vallejo, Raúl Gonzales Tuñón; amico di pittori famosi quali Salvador Dalì, Corneille, Pablo Picasso, Antonio Saura, Ortega; cantanti e poeti di grido Rafael Alberti, Georges Brassens, Leo Ferré, Atahualpa Yupanqui e numerosi altri. Dire quale è il segreto del suo successo, varrebbe a chiedersi qual è il segreto della poesia(?), che ovviamente sfugge anche ai filosofi più ferrati, competenti in fatto di letteratura, intenditori di musica e di quei risvolti della psiche umana che talvolta ci sorprendono e ci affascinano.
Chi come me lo ha incontrato e intervistato (seguirà intervista su questo stesso sito), è rimasto affascinato dalla sua voce impostata e ferma, capace di levarsi dal sussurro a toni elevati e gravi, di scolpire le parole quasi più che cantarle, come farebbe uno scalpello nella pietra; che davvero credo egli abbia consegnato al mondo ciò che restava di un’arte di quel dire lirico - epico, che la poesia moderna non arriverà mai a conoscere. Risale al 1998 il suo album “Oroitzen” (*) (“Ricordando”) cantato completamente in lingua basca insieme al cantante (basco) Imanol Landeta. Paco Ibañez ha inoltre dedicato un intero album a un altro grande della canzone spagnola: José Augustin Goytisolo, (Barcellona 1928/1999), forse il meno conosciuto da tutti noi, e che pure fu uno degli autori più importanti della generazione degli anni 50, più precisamente nella scuola poetica di Barcellona, detta anche “Gruppo Catalano”. Insieme ad altri poeti della generazione del '27 Goytisolo fu anche traduttore, in particolare dell'opera poetica di Cesare Pavese, Salvatore Quasimodo e Pier Paolo Pasolini.

Di Goytisolo leggiamo, “Nessuno è solo” (*):

“In questo stesso istante /c’è un uomo che soffre, /un uomo torturato /solo perché ama / la libertà. / Ignoro /dove vive, che lingua /parla, di che colore / ha la pelle, /come /si chiama, ma /in questo stesso istante, /quando i tuoi occhi leggono / la mia piccola poesia, / quell’uomo esiste, grida, / si può sentire il suo pianto / di animale / perseguitato / mentre si morde le labbra / per non denunciare / i suoi amici. Lo senti? /Un uomo solo / grida ammanettato, esiste / in qualche posto. / Ho detto solo? / Non senti, come me, / il dolore del suo corpo / ripetuto nel tuo? / Non ti sgorga il sangue /Sotto i colpi ciechi?”.

“Sono così” (*):
“Si sa il loro mestiere è molto antico /ed immutato è giunto fino ad oggi /attraverso più secoli e molte civiltà. /Non sanno la vergogna né il riposo /tengono duro a lungo nonostante le critiche /certe volte cantando /altre patendo l'odio e la persecuzione /ma quasi sempre sotto tolleranza. /Platone interdi loro la Repubblica. /Credono nell'amore /sia pur con tutto il carico di corruzione e vizio /amano mitizzare l'infanzia a sufficienza /e hanno dei medaglioni e dei ritratti / che guardano in silenzio quando sono un po' tristi. /Che curiose persone che delle volte giacciono / in letti lussuosissimi ed enormi
/ma che pure si sanno rotolare /nei lerci pagliericci della concupiscenza /se gli viene il capriccio. /Vogliono dalla vita più di quanto offra. /Difficilmente mettono da parte un po' di soldi /la previdenza non è il loro forte /e marciscono intanto poco a poco /in maniera ridicola /se prima non li ammazzano per chissà che motivo. /Così sono i poeti /le vecchie prostitute della Storia”.
“Affare di famiglia” (*):
“Non dolerti se hai un figlio fannullone /se è imbroglione e bugiardo e spende molto /giacché tu lo hai educato senza accorgertene /da bravo cittadino con il tuo esempio”.

Le tre poesie sono tratte dal libro di José Agustín Goytisolo, “Poesia civile” (*), a cura e traduzione di Matteo Lefèvre, formano un ampio spaccato su quella che è la produzione poetica di Goytisolo (oltre venti libri di poesia che vanno dal 1955 al 1996), che fu anche traduttore (Pasolini, Pavese) e scrittore di racconti per bambini, fa parte dei poeti spagnoli della generazione "de los años cinquenta" che doveva vedersela con la Spagna franchista e una dura crisi economica. Il titolo dell'antologia "poesia civile" pone subito l'accento sulla caratteristica di questa poesia legatissima al sociale, concreta e comunicativa, sebbene spesso spinosa e dura, senza toni declamatori, d'un sobrio pessimismo. Le poesie (con testo a fronte) sono precedute da un ampio saggio dello stesso Matteo Lefèvre: "La lingua della denuncia nella lirica di José Agustín Goytisolo", utile e preciso nel cogliere i vasti riferimenti poetici di Goytisolo (Marziale, Blas de Otero, Pasolini...) e nel sottolineare il rigore linguistico, mai disgiunto da quello etico.

Voglio parlarvi adesso di un altro cantautore semi-dimenticato dal pubblico italiano e per lo più sconosciuto alle giovani generazioni, Juan Manuel Serrat (*), seppure sia stato un giovane “indignados” dei giorni che furono della ribellione spagnola, quando Juan cantava:

“Golpe a golpe, verso a verso … / Cuando el jilguero no puede cantar. /Cuando el poeta es un peregrino, / Cuando de nada nos sirve rozar. / Caminante no hai camino, se hace camino al andar …/ golpe a golpe, verso a verso”...

"Colpo a colpo, verso a verso… / Quando il cardellino non può cantare. / Quando il poeta è un pellegrino, / Quando di niente ci serve sfiorare. / Viandante non hai strada, si fa strada camminando… / colpo a colpo, verso a verso"...

… canta Serrat i versi di Antonio Machado cui ha dedicato un intero album, ed altri come Rafael Alberti, Augusto Algueró, Sergio Endrigo, arrangiamenti dello stesso Juan Manuel Serrat. Sue canzoni sono cantate in italiano da Gino Paoli, Mina, Ornella Vanoni, Ana Belen, e tantissimi altri, come quella che segue di cui si conoscono diverse versioni, dal titolo: “Ballata d’autunno” (*) nella trasposizione di P. Limiti:

“Piove / là dietro la finestra piove, piove …/ sopra quel tetto rosso e spaccato, / sopra quel fieno tagliato, / sopra quei campi, piove. / Si gonfia di grigio il cielo / e il suolo è già grondante di foglie, / si è profumato d’autunno. / Il tempo che si addormenta / mi sembra un bimbo in braccio al vento / come in un canto d’autunno. / Una ballata d’autunno / un canto triste di malinconia / vien dietro al giorno che va via … / Una ballata in autunno / pregata a voce spenta, / soffiata come il lamento / che canta il vento. / Piove, / là dietro la finestra piove, piove … / sopra quel tetto rosso e spaccato, / sopra quel fieno tagliato, / sopra quei campi piove. / Io ti racconterei / che sta bruciandosi l’ultimo legno al fuoco e poi / che la mia povertà / è anche di un sorriso che sono solo ormai / ma io da solo son finito, ormai. / E ti racconterei che i giovani / son giovani perché non sanno mai / che no, non è la vita / la bella cosa che / che loro gira in mente, io questo lo so. / Magari si potesse, / del domani e del passato / dire quello che ho sognato … / Ma il tempo passa / e ti canta pian, piano, / con voce sempre più stanca, / una ballata d’autunno. /Piove, / là dietro la finestra piove, piove … / sopra quel tetto rosso e spaccato, / sopra quel fieno tagliato, / sopra quei campi piove”.

Considerato il più grande cantautore spagnolo e catalano J. M. Serrata Inizia la sua carriera quasi cinquant'anni fa, nel 1965, in pieno franchismo, aderendo al collettivo di cantanti in lingua catalana “Els Setze Jutges” ("I sedici giudici"), che diverrà ispiratore e "spina dorsale" di un più vasto movimento di rinnovamento della canzone catalana, già attivo dai primi anni '60, noto come "Nuova Canzone Catalana". Movimento di rinnovamento e protesta nella "pace terrificante" della Spagna di allora; già l'uso di una lingua diversa dal castigliano era simbolo di non accettazione e di ribellione! Nonostante tutto ciò, la "N. C. C." ottiene un successo clamoroso. Ben presto, Serrat diventa - assieme a Lluís Llach (*)e ad altri - un simbolo di opposizione autentica al franchismo; un simbolo niente affatto "teorico", date le noie spesso di carattere poliziesco e intimidatorio che deve subire.
Nel frattempo Serrat comincia a essere conosciuto anche all'estero; sue canzoni sono tradotte un po' ovunque e cantate, ad esempio, da David Broza in Israele, da Carlos do Carmo in Portogallo, da Mina e Gino Paoli in Italia e da Jaime Marques e Ana Belen in Brasile. Con la fine del franchismo, Serrat non cessa di scrivere e cantare le sue canzoni piene di bellezza, di libertà e di meraviglia del vivere come “Mediterraneo”; ne è prova l'"aggiornamento" regolare di una sua vecchia canzone, "Fan vent'anni che avevo vent'anni" o le lacrime nello stadio di Santiago del Cile (lo stesso dove venne ucciso Víctor Jara, poco dopo la fine del regime fascista di Pinochet nel 1989), mentre canta “Volver a los dieci siete” di Violeta Parra. Il suo ultimo lavoro sono giustappunto "rielaborazioni" di canzoni latinoamericane mediante il suo "alter ego" Tarrés, in un album intitolato “Cansiones” (2000), da rileggere e riascoltare.

Di Juan Manuel Serrat (alias rarrés) leggiamo: “Para la libertad” (*)
“Para la libertad sangro, lucho y pervivo. / Para la libertad, mis ojos y mis manos, / como un árbol carnal, generoso y cautivo, / doy a los cirujanos. / Para la libertad siento más corazones / que arenas en mi pecho. / Dan espumas mis venas / y entro en los hospitales y entro en los algodones / como en las azucenas. /Porque donde unas cuencas vacías amanezcan, / ella pondrá dos piedras de futura / mirada y hará que nuevos brazos y nuevas piernas / crezcan en la carne talada. / Retoñarán aladas de savia sin otoño, /reliquias de mi cuerpo / que pierdo en cada herida. / Porque soy como el árbol talado, / que retoñoy aún tengo la vida.

(Versione italiana di Riccardo Venturi):
“Per la libertà sanguino, lotto e continuo a vivere. / Per la libertà, i miei occhi e le mie mani, / come un albero carnale, generoso e prigioniero, / le consegno ai chirurghi. / Per la libertà, sento d'avere nel petto / più cuori che grani di sabbia. / Schiumano le mie vene / e entro negli ospedali, / entro nelle bende di cotone / come in candidi gigli. / Perché dove compariranno orbite d'occhi vuote / lei porrà due pietre per lo sguardo futuro / e farà crescere nuove braccia e nuove gambe / nella carne devastata. / Germoglierà di nuovo l'energia a colpi d'ala, / senza autunno, / reliquie del mio corpo / che perdo a ogni ferita. / Perché sono come l'albero strappato: / rigermoglio e ancora ho vita”.

Sono questi i poeti di un nuova stagione della “Poesia civile spagnola” che si chiude qui con José Agustín Goytisolo, ma che si riapre in America Latina con quanti hanno elaborato sullo spirito del Romance le loro composizioni, e hanno levato le loro grida contro l’ingiustizia e la mancanza di libertà; di quanti hanno cantato con anima grave le sofferenze cui sono state sottoposte le popolazioni, contro il potere autoritario delle dittature; di tutti coloro che hanno levato la loro voce contro: Pablo Neruda, Cesar Vallejo, Ruben Dario, Jorge Guillen, ma anche Victor Yara, Violetta Parra, Angel e Isabel Parra, Daniel Viglietti, Sergio Ortega, Rolando Alarcón, nonché numerosi gruppi musicali che abbiamo conosciuto durante la resistenza cilena: Inti Illimani, Quinteto Tiempo, Quilapayun, Los Calchakis, sembrano far parte di un altro elenco di nomi indifferenti, altresì sono poeti e scrittori moderni di Romance, di canciòn y coplas y villancicos, che hanno reso grande la tradizione spagnola trasmigrata in Sudamerica. Ancor più essi sono di riferimento nel mondo della “canzone di protesta” e della “canzone d'autore”, politicamente impegnati e conosciti a livello internazionale.
È così che la poesia diviene quindi intuizione di un microcosmo individuale di fulminea durata eppure densissimo di realtà perenni. Intuizione consegnata in versi (alla storia della letteratura) insieme espliciti e reticenti: “Yo no digo esta canciòn / sino a quen comigo va”; e con ciò partecipi a pieno diritto alla letteratura moderna, diffusa a tutto il mondo. Al loro insegnamento si rifaranno gli attuali cantares forgiati nello spirito della tradizione del vecchio Romance dell’epoca d’oro, risonante di frammenti melodici assai diffusi nella musica popolare spagnola, solenni e un poco remoti, raramente lirici, di cui utilizzano la caratteristica cadenza ritmica, sulla sonorità della “copla” (solfa), il cui termine definisce quella che per noi è la comune canzone, indicandone le diverse stanze (poetiche), legate dal ritornello che viene di tanto in tanto ripetuto. Così dicendo, il tutto potrebbe sembrare banalmente riconducibile a una moda legata al tempo in cui si è verificata. Ma se soltanto pensiamo che dietro queste canzoni di grande impatto lirico e poetico si è innescata “La Nueva Canción Chilena” un movimento culturale e musicale sorto in Cile negli anni sessanta, improntato al recupero e alla rielaborazione del folklore latinoamericano e all'utilizzo della musica come arma di lotta ed impegno sociale e politico, ci accorgiamo che un solo sperduto verso di una di queste canzoni fa la differenza.
Non a caso il destino degli artisti della “Nueva Canción Chilena” (*) è profondamente segnato dal Golpe di Pinochet dell'11 settembre 1973: Jara viene imprigionato e ucciso pochi giorni dopo, mentre gli Inti Illimani e i Quilapayún sono costretti a rimanere a lungo in esilio, rispettivamente in Italia e in Francia, dove si trovavano per concerti al momento del colpo di stato. Con il regime militare fu anche soppressa l'etichetta che pubblicava i dischi di quasi tutti i musicisti della Nueva Canción, la DICAP (Discoteca di canto popolare). Si pensi inoltre alle migliaia di “desaparecidos”, alle uccisioni di massa, a quanti è stata tolta la libertà, a quanti è stata tolta definitivamente la parola. Una storia, questa, che pur restando nella ricerca musicale, affronteremo in un prossimo Quaderno dedicato. Tuttavia fin da subito va sottolineato quanta strada fin qui è stata fatta, di come attraverso la nostra ricerca, partita da una “banale” tradizione popolare, siamo arrivati a trattare di letteratura e storia, di poesia e canto, di contrasti sociali e di grandi ideali guidati da sentimenti forti, rimasti tali, che non hanno mai smesso di far sentire il loro grido altissimo, levato in difesa di un’identità da salvare, la nostra, di tutti quei popoli liberi che giustamente riscattano la propria esistenza.
Se è vero che a volte le cose ci vengono semplicemente incontro, allora c’è da chiedersi: “A che serve la musica che ci suona nella testa senza essere evocata e forse nemmeno desiderata?”. E la domanda è inclusiva di quella risposta spontanea che Oliver Sacks (*) non si è ancora data: cioè che noi l’abbiamo evocata, l’abbiamo desiderata, attraverso la nostra ricerca. L’invito è sollecitato dal recupero effettuato negli archivi della memoria che abbiamo portato avanti con discrezione e che ha attirato la nostra attenzione su quanto fin qui avevamo trascurato e che per una strana coincidenza della mente, si avvale di una strana forma d’immaginazione in cui una canzone o una melodia, ma anche una fiaba o una narrazione, salgono immediate alla mente, per assolvere a una funzione simile a quella del sogno. Scrive ancora Sacks: “Quale che sia il suo messaggio segreto, la musica di fondo che accompagna il nostro pensiero cosciente non è mai accidentale” … come dire che tutto ciò che fin qui abbiamo apprezzato: narrazioni, leggende, favole antiche e nuove, musica e poesia, cantes e romance, ma anche storia di tradizioni , di folklore popolare, di lotta e di scontento che fanno parte della nostra realtà, del nostro essere antropologicamente umani:

“… Copla de mis amores / cantar de mis dolores, / entonces tù seràs / la copla verdadera, / la alondra mananera, / que lejos volaras, / y en labios de cualquiera / de mi te olvidaras!”
“… Canzone dei miei amori / cantare dei miei dolori, / allora tu sarai / la solfa vera, / l'allodola mattiniera, / che lontano volerai, / e sulle labbra di chiunque / di me ti dimenticherai!”.
(Manuel Machado: “El cantar”)


(continua)


Note:
1) “The History of Music In Sound” - Vol.II - Oxford University Press / His Master’s Voice - London.
2) “Romance de Abenàmar” di anonimo del XV secolo - In Wikipedia Libera Enc.
3) Ramon Menéndez Pidal - in “Flor nueva de romances viejos” - Espasa-Calpe - Madrid 1985.
4) “L’apparizione” di anonimo del XIV secolo - in Wikipedia Libera Enc.
5) - in “Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes op. cit.
6) Manuel de Falla - “El retablo de Maese Pedro” - (vedi discografia)
7) “Gaiferos e Melisenda”, ballata judeo-españolas in “Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes op. cit.
8) Federico Garcia Lorca - “Poesie” – Guanda 1959.
9) Federico Garcia Lorca - “Libro de Poemas”, “Nueva Canciones” - Residencia de Estudiantes – Madrid 1917.
10) Federico Gracia Lorca - “Canti Gitani e Andalusi” a cura di Oreste Macrì - Guanda - Parma 2005.
11) Federico Garcia Lorca - “Poema del Cante Jondo” - Espasa Calpe - Madrid 1936; e in Giorgio Mancinelli “Musica Zingara: Testimonianze etniche della cultura europea” - MEF Firenze Atheneum - 2006.
12) Antonio Machado - “Poesie, Proverbios y Cantares” - a cura di Claudio Rendina – Newton Compton 1971.
13) Antonio Machado - “Prose e poesie scelte” - I Meridiani Mondadori -
14) 15) 16) 17) 18) 19) - in Paco Ibanez (vedi d.)
20) 21) Rafael Alberti - “Cal y Canto”, “Sobre los Angeles”, “Il quartiere dei profeti” - De Donato ed.
22) Umberto Eco - “Vertigine della lista” - Bompiani 2009.
23) A cura di Alain Danielou - “Musical Atlas” - Collana Discografica (vedi d.)
24) “Folkoncerto” - Programma RAI sull’Etnomusicologia diretto da
25) Antonio Garcia Rayo in “Cancionero de Romances” - Joaquin Diaz (vedi d.)
26) Paco Ibañez - “Oroitzen” – (vedid.)
27) José Augustin Goytisolo - “Poesia Civile” - Perrone Editore 2006.
28) Juan Manuel Serrat - (vedi d.)
29) Lluis Llach - (vedi d.)
30) Juan Manuel Serrat - (vedi d.)
31) Inti Illimani - “Nueva Cancion Chilena” - (vedi d.)
32) Oliver Sacks - “Musicofilia” - Adelphi 2009.
33) Manuel Machado - “Antologia Poetica” - EDAF 2007.






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