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Quaderni di Etn. 9 Indiani d’America: prima parte

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 03/02/2012 10:05:22

QUADERNI DI ETNOMUSICA 9 - (prima parte)
“Indiani d’America: tra storia e leggenda”, di Giorgio Mancinelli.

(Da “Folkoncerto”, RAI-Radio3, e “Itinerari Folkloristici”, reportage trasmesso dalla RSI – Radio della Svizzera Italiana).

'Fratello, sii il benvenuto!/Vieni a sederti accanto al fuoco,/Sii uno di noi!/Fratello sii il benvenuto./Vieni a sederti accanto al fuoco,/Vieni a fumare il calumet della pace'.

È questo un canto che la tribù dei Winnebago, grande famiglia degli Irochesi che abitano il Nord Est della grande prateria, usano ancora oggi come forma di ‘benvenuto’ per quei turisti e curiosi che si recano in visita presso di loro. L’usanza di offrire di fumare la ‘pipa della pace’, un tempo ritenuta sacra presso le comunità di molte realtà tribali pellerossa, assolveva a un preciso patto sociale stabilito tra le forze del bene e del male che, per l’occasione, trovavano una pausa nella costante lotta in cui erano impegnate, e si sedevano insieme per una tregua che sarebbe durata fintanto che dall’una o dall’altra parte si riaccesendessero le ostilità. E ciò poteva accadere per una infinità di ragioni, dall’aver sconfinato nei territori adibiti al pascolo dell'una, o nelle riserve di caccia dell'altra, i cui confini, stabiliti da patti inscindibili, erano ritenuti sacri, poiché decisi e prefissati dai ‘grandi’ padri delle tribù in tempi immemorabili, e che le generazioni più giovani erano tenute a rispettare. Più genericamente questo particolare uso era legato a cerimonie o festività che possiamo definire ‘religiose’, ma solo se diamo a questa parola un senso diverso da quello universalmente accettato, sulla falsariga di ‘praticante’, o meglio ‘osservante delle tradizioni’, e quindi di natura sociale e politica.

Di fatto il passarsi il 'calumet' l’uno con l’altro rappresentava il fulcro di una cerimonia colma di significati: dal parlare ‘chiaro e sincero’ all’essere ‘onorato e rispettoso’ dei partecipanti all’assemblea. E questa era di solito indetta ogni qual volta c’era qualcosa di cui discutere ‘in pace’ o, in caso di dispute, per ‘pareggiare i conti’ che, in alcun modo, dovevano rimanere in sospeso e divenire causa di guerre feroci tra le tribù. In caso di acceso contrasto, spettava al capo tribù dissotterrare ‘l’ascia di guerra’ dal luogo ove ‘riposava’ e dichiarare aperta la conflittualità. Altresì la sua sepoltura rendeva neutrale il terreno che tutte le tribù erano tenute a rispettare. Avveniva così che durante le assemblee il 'calumet' continuava a circolare dall’uno all’altro dei partecipanti fintanto che ognuno avesse parlato e tutti i problemi in agenda per quel giorno fossero messi in discussione. Il che talvolta significava che le riunioni dei ‘capi tribù’ spesso coadiuvati dagli sciamani, potevano durare per giorni. L’importante era che ogni questione, infine, trovava una sua conclusione e gli accordi presi o riconfermati tra le varie realtà tribali, fossero mantenute nel rispetto delle antiche tradizioni, o meglio, delle rigorose ‘leggi dei padri’.

'Eccoci giunti quindi, e qui alzeremo le tende del nostro accampamento indiano!' – mi viene quasi spontaneo dire, nell’avvicinarmi quest’oggi a una cultura di cui davvero conosco molto poco, le cui nozioni sono per lo più derivate dalla pletora di film visti al cinema fin da ragazzo, e giocavo con altri alla guerra tra “indiani e cow-boy” senza dare alcun senso a ciò che facevamo. In realtà nei nostri futili giochi c’era sempre una sorta di agonismo in cui ognuno si aspettava che lo scontro infine non fosse così violento come nei film, oppure che infine si trovasse una forma di accordo che, per le cinque del pomeriggio, vincitori e vinti, fossimo tornati tutti a casa senza esserci fatti del male. A ripensarci senz'altro c’era in ognuno di noi ragazzi un senso recondito e comunque segreto occulto nelle nostre scelte, altrimenti non si spiega perché uno sceglieva di stare dalla parte dei cow-boy e un altro da quella dei pellerossa, non vi pare? Soprattutto perché era quello che faceva la differenza, ma se non avete mai provato a indossare i panni dell’uno o dell’altro, non la scoprirete mai. Che i pellerossa rappresentassero quel lato perdente ma pieno di dignità e orgoglio, da essere quasi sempre da me prescelti? Non saprei dirlo. Fatto è che per affrontare questo tema di ricerca sono andato a rivedermi molti di quei film in cui i pellerossa hanno la meglio o, come si usa dire, perdono in battaglia ma vincono in onore: “The Alamo”, “Soldato Blu”, “L’ultimo dei Mohicani”, “Balla coi lupi” e tanti altri. Nel rivederli ho ricordato soprattutto che mi piaceva il loro lungo peregrinare attraverso la prateria innevata dal rigido inverno, il loro fermarsi ai bordi della foresta o nei pressi di un fiume e costruire  il loro accampamento, l’accendere il grande fuoco dal quale ognuno poi avrebbe preso il suo ceppo acceso e lo avrebbe portato nella propria capanna (tepee), e tante altre usanze, a cominciare dalla concia delle pelli degli animali cacciati, ai loro metodi di pesca, al cibo preparato  e cotto in un unico orcio, ai costumi e i copricapo piumati, alle maschere rituali ai canti anomatopeici, alle danze scalmanate. Sì che tutt'ora mi coglie un che di famigliare in presenza di un grande fuoco, al ricordo forse del 'ceppo' che veniva bruciato nel camino di casa per tutto il periodo natalizio e che avrei voluto che mai venisse spento. Ecco ora ricordo, s’aspettava sempre il momento in cui i pellerossa avrebbero danzato. la tipica danza di guerra detta 'del serpente' che si snodava in forma di marcia attraverso l’accampamento.

Ma parlare qui di 'Indiani d’America' può sembrare fuori luogo, non meno che chiamarli 'pellerossa' che può sembrare un voler fare una qualche distinzione dovuta al colore della pelle, chi mi legge sa che non soffro di queste dissociazioni, tuttavia è così che li conosciamo e così che continuerò a chiamarli nell’ambito di questa ricerca. A riguardo però c’è una sottile linea conduttrice sia nell’uno che nell’altro termine: ‘pellerossa’ in origine era chiamato l’indigeno del Nord America in ragione del fatto che aveva in uso di cospargersi il corpo con ocra rossa (terra) e che venne poi esteso a indicare gli amerindi degli odierni USA e Canada; mentre la denominazione ‘indiano/i’ pure in uso, deriva da ‘indios’, come C. Colombo nomò le popolazioni delle isole caraibiche, nell’errata convinzione di aver raggiunto le Indie orientali. Entrambi i termini, se usati in senso positivo, sono però scambievoli se derivati dalla conoscenza acquisita e che riguardano le grandi migrazioni che videro intere popolazioni o parti di esse, migrare da un emisfero all’altro per cause ancora oggi non meglio specificate, spintesi dalle continente indiano verso il Nord e quindi ridiscese ad occupare quei territori che oggi formano l'America Nordoccidentale e del Nordeuropa. La denominazione ‘indo-europei’ è significativa, come allo stesso modo lo è ‘indo-americani’ o ‘amerindi’ che sia. Eccoci dunque proiettati in uno dei grandi problemi che affliggono l’umanità costretto in una semplice frase: “chi siamo e da dove veniamo?”. La risposta è racchiusa nella mobilità caratteristica di alcuni gruppi etnici, così detto ‘nomadismo’, in genere, limitato all’interno di un territorio definito, ma che in certi periodi della storia dell’uomo ha assunto gradi diversi a seconda delle regioni e delle popolazioni. Come ad esempio presso i popoli raccoglitori o quelli che praticavano l’allevamento del bestiame, per cui lo spostarsi in cerca di cibo o al seguito di mandrie assumeva carattere periodico, con il ritorno ciclico delle stagioni, al luogo di partenza, o anche il trasferirsi dalla pianura ai monti e viceversa. In questo caso specifico, quello dei pellerossa va considerato un semi-nomadismo, causato dall’abbandono di alcuni territori dopo lo sfruttamento stagionale, nel rispetto della natura per farvi poi ritorno una volta l'avvenuto rigenerarsi della natura.

Caratterizzate da una profonda eterogeneità etnico-linguistica, le popolazioni amerindie presentano tuttavia alcune caratteristiche comuni, come la credenza in un solo creatore, il Grande Spirito, e nella presenza di una forza vitale in tutte le cose della natura, ‘mana’, come la grande importanza che esse attribuiscono alla musica. Vi sono sicuramente differenze formali tra il modo di vivere delle tribù sparse in territori talvolta vasti quanto un continente, sia tra quelle del Nord che del Sud, sia tra quelle forzatamente stanziali che abitano all’interno dei Parchi USA, che quelle occupanti gli spaziosi territori del Canada; tra coloro che hanno preferito l’integrazione da quanti, ancora oggi, ostentano il separatismo contro la più totale emarginazione. Come pure diversità sono presenti nell’Est, tra le tribù degli Irochesi coltivatori che sono riusciti a produrre ben quindici tipi diversi di mais, senza per questo aver abbandonato la caccia e la pesca; e quelle del Sud-Ovest come i Navajos dediti alla pastorizia, e le tribù del profondo Sud come i Cherokee, i Cooctaw, i Seminole; oppure quelle delle grandi pianure come i Sioux, i Cheyenne, gli Arapahoes, i Piedi Neri, i Crown e gli Shoshones, che un tempo si spostavano di continuo all’inseguimento delle grandi mandrie di bisonti. Così come alcune diversità sono rintracciabili tra i Pueblos costruttori di villaggi murari scavati nella roccia, e gli Zuni, gli Hopi, i Tewa, che hanno sviluppato un’agricoltura molto avanzata; fino ai Comanches e agli Apaches cacciatori e razziatori che vivevano ai limiti delle zone aride e desertiche del Sud-Ovest; o ancora, gli Ojibway (Chippawas), che pescavano nelle ricche acque dei Grandi Laghi.

Caratteristica uguale tra tutte le tribù era il fuoco da campo che soprattutto le donne e i bambini collaboravano a mantenere acceso, mentre i ragazzi e gli uomini erano fuori dell’accampamento impegnati in una battuta di caccia o nella pesca lungo i fiumi, quando non erano presi in un’azione di guerra con altre tribù. Il fuoco era il centro della vita sociale dei pellerossa che, in occasione di particolari avvenimenti o nelle festività fissate dal calendario lunare, assumeva una funzione di rilievo in tutte le manifestazioni comunitarie. Attorno al fuoco, infatti, si radunavano i capi tribù per parlare al popolo, sia per prendere decisioni che riguardavano tutti, sia nelle consultazioni con i guerrieri, o nel caso di previsioni sciamaniche; ma anche per ‘acculturare’ le rispettive tribù coi racconti riferiti alla loro storia, alle credenze specifiche riferite agli spiriti della natura e, in ambito religioso, al culto degli antenati e, tramandare allo stesso modo, quelle che erano le loro conoscenze in ambito creativo e manifatturiero. E ancora intorno al fuoco, si radunavano i guerrieri per raccontare ai più giovani le loro avventure di caccia a dimostrazione del coraggio avuto nell’affrontare un animale selvatico con tanto di descrizione delle tecniche usate nel costruire una trappola, o una canoa, oppure ad alzare il ‘tepee’ la classica capanna a cono, dell'uso di archi e frecce, o a scolpire un ‘totem’. I più vecchi, dal canto loro e talvolta con rimpianto, narravano ai bambini di quando: “… le frecce erano più appuntite e gli archi più resistenti”, rinverdendo così un passato definitivamente lontano e tuttavia mai dimenticato. Ma anche insegnavano loro come rappresentare con le sabbie colorate le divinità appartenenti alla religiosità e alla non meno importante mitologia, per cui ogni sfumatura aveva un suo precipuo significato all'interno di una tecnica singolare che richiedeva doti di esperienza e precisione e che andava appresa fin da piccoli. Riguardo alle donne, esse per lo più si adoperavano in lavori utili alla comunità fabbricando suppellettili in terracotta, lavorare al telaio, conciare pelli, salare le carni e cucinare, insegnare alle bambine a tenere in ordine la tenda e, non in ultimo, le arti del canto e della danza. Vi erano infatti specifici canzoni e danze intitolate ‘alla tela di canapa’, alla ‘macina’, al ‘gioco di destrezza’, al ‘fumo del fuoco’, ed anche alla natura in ogni sua espressione e aspetto, conservate nell’ambito della vita quotidiana fino ad oggi, e che noi conosciamo per essere state raccolte in edizioni librarie e pubblicazioni discografiche di rilevante importanza etnomusicologica:

‘Canto del fumo’ - Indiani Pawnee (vedi disc.)

Guarda il fumo che passa!/Su verso l’alto salendo insegue la sua voce/che si affretta, teso a giungere/lassù dove gli déi vivono,/nel profondo cielo azzurro./Guarda il fumo che passa!/Guarda il fumo che ascende!/ Ora l’odore sale, e segue la sua voce/che si affretta, teso a giungere/là dove gli dei vivono./Là l’odore supplica,/supplica per ottenerci aiuto.


‘Canto degli alberi e delle acque’ - Indiani Pawnee (v.d.)

Scura contro il solo quella linea lontana/ci giace davanti.Alberi vediamo:/una lunga linea d’alberi,/che oscillano e si piegano nella brezza./Splendente di luci abbaglianti quella linea lontana/ci corre davanti,velocemente/corre, veloce corre il fiume,/serpeggiando, scorrendo sulla terra./ Taci, Oh taci! Un suono, un suono lontano/viene a salutarci,/cantando viene,/lieve il canto del ruscello,/mormorando dolcemente sotto gli alberi.


‘Canto per il cielo’ – Indiani Chippewa-Ojibwa (v.d.)

Camminando nel cielo accompagno un uccello.

‘Canto per l’arcobaleno’ – Indiani Papago (v.d.)

Tu che possiedi il giorno, fallo bello./Prendi i colori del tuo arcobaleno e sarà bello.

‘Canto per il sole che sorge’ – Indiani Papago (v.d.)

Sorge il sole,/entrambi i lati hanno il loro arco,/accanto all’arco giacciono i leoncini/il cielo è rosa/e questo è tutto./la luna se ne va,/entrambi i lati hanno i loro bambù per le frecce,/accanto ai bambù ci sono piccoli gatti selvatici/che camminano insicuri/e questo è tutto.


‘Canto di primavera’ – Indiani Teton-Sioux (v.d.)

Gli occhi miei/scrutano la prateria;/sento aria d’estate nella primavera.

‘La stella del mattino’ – Indiani Papago (v.d.)

La stella del mattino è sorta./Valico montagne,/nella luce del mare./Laggiù al limite della terra/ha posto la mia meta.

 

Di rilevante importanza questo canto relativo al culto detto ‘della stella del mattino’ che secondo i Papago aveva il potere di dare la vita e la forza della fecondità. In suo onore si celebravano riti sacri in alcune altre tribù come, ad esempio, fra gli Ojibway e i Chaui-Pawnee:

‘Canto per la stella del mattino’ – Indiani Chaui-Pawnee (v.d.)

O stella del mattino a te guardiamo!/Tenue viene la tua luce da cieli distanti;/noi ti vediamo, e poi tu vai perduta./Stella del mattino, porti la vita a noi.


‘Canto per la stella del mattino’ – Indiani Arapaho (v.d.)

Figli, o figli miei,/sono io che porto/la stella del mattino sul capo;/la mostro ai miei figli,/dice il padre.

Semplici e carezzevoli questi testi che potremmo definire preziosi haiku quasi naif, nei quali il sussurro lieve del canto ha un effetto rigenerativo, vicino a quello che forse, un tempo, doveva sussistere tra l’essere umano e la natura. ve ne sono moltissimi altri e per ogni occasione, per quanto quelli dedicati ai bambini sono forse quelli che mi piacciono di più. Come questa ninnananna melodiosa, probabilmente la prima che viene cantata al nascituro subito dopo essere venuto al mondo:

‘Ninnananna’ – Indiani Zuni (v.d.)

'Nonie-hi-e-nonie-he-e/Hey-lun-coo-hey-len-coo/Nonie-hi-e'.
(Vai a dormire, piccolo mio, mentre io lavoro. Tuo padre porterà subito dentro le pecore).

"Questo canto – scrive Charles Hoffman (*) curatore del testo - è piuttosto importante perché presenta una delle rare possibilità nelle quali le donne potevano cantare, secondo quella che è una regola nella cultura degli Indiani del Nord America. Infatti il predominio degli uomini nell’attività musicale è quasi assoluto: sono gli uomini che cantano, che compongono nuovi canti, che suonano e costruiscono gli strumenti, mentre le donne assolvono ai compiti famigliari e secondari".

 

Molti sono comunque i canti dedicati ai bambini, spesso intonati dagli adulti per incoraggiarli a misurarsi in questa occupazione. Si tratta di solito di mini-storie che palesano lo scopo educativo e che parlano di animali, spesso accompagnati da gesti mimetici e versi imitativi del lupo, del tacchino, della tartaruga e della lucciola, qui riportati, ma ve ne sono molti altri.


‘Del Lupo’ – Indiani Apache (v.d.)

'I lupi stanno ululando/(segue verso)/tutti dicono ‘buta, buta’./Sta mangiando qualcosa di buono'. (‘buta’ traduzione non reperita).

‘Della tartaruga” – Indiani Apache (v.d.)

'La tartaruga corre sul fianco/corre nella polvere./Ogni sua parte corre nella polvere'.

‘Del tacchino’ – Indiani Apache (v.d.)

'Il piccolo del tacchino avanza impettito/(segue imitazione)/io sto preparando un bel fuoco/raspando il terreno'.

Entriamo quindi in un accampamento e subito notiamo come la disposizione delle cappane tutt’attorno a una più grande formano un grande cerchio, anche se non proprio perfetto, in cui i ‘tepee’ a disegni geometrici, colgono lo sguardo per i colori vivaci, dando all’intero villaggio un tono gaio e armonioso per le scene artistiche sopra raffigurate, come animali stilizzati e scene di caccia. Le terre colorate che più spesso venivano utilizzate erano il rosso-ossido e il blu-cobalto, mentre le tinture spaziavano dal giallo-forte al verde-erba ricavate da vegetali. Il ‘tepee’, parola Sioux che sta per ‘abitazione’, originariamente costruita secondo regole ben precise, assumeva forme diverse a secondo dell’importanza di chi vi dimorava. In alcuni casi, dipendeva dal numero di cavalli in possesso o detenuti dall’intero gruppo famigliare, che serviva poi a trasportare le attrezzerie nei lunghi spostamenti. Ogni capanna, a forma conica, era composta da pali ricavati da arbusti di legno solido, un numero variante secondo la grandezza, legati in cima tra loro con corde e ricoperti di pelli di bufalo conciate, cucite tutt’attorno che la riparavano dal freddo pungente. All’interno di ogni capanna veniva acceso un fuoco, affinché durante l’inverno la tenda restasse asciutta, oltre che a mantenere la sua funzione primaria di focolare domestico.

Oltre alla costruzione meticolosa delle canoe agevoli e leggere alle quali dedicavano molta cura, e che i pellerossa utilizzavano come mezzo di trasporto e di pesca nei laghi e nei fiumi, molte tribù dedicavano il loro tempo al lavoro di intaglio del legno, di cui gli esemplari più noti a noi rimasti sono i grandi To-tem, interi tronchi d’albero intagliati e scolpiti con stilizzazioni di mascheroni, figure di animali antropomorfi, esseri superiori, entrati nel simbolismo tribale e facenti parte di una mitologia ancestrale, certamente di origine ‘sciamanica' e 'animistica' originaria della popolazione Tungus della Siberia, stanziata tradizionalmente nei pressi dell'estremo confine sttentrionale cinese. Scrive Martin Palmer in "Le origini del Taoismo":

"Iniziato 8000 anni fa in Siberia, lo sciamanesimo si diffuse in Cina, attraversando il Giappone e il Sudest asiatico e giungendo, tramite l'istmo che unisce Siberia e Alaska, fino all'America settentrionale e centrale. (..) Da antiche fonti pervenute la tradizione si avvale di un precetto fondamentale per cui esistono due mondi paralleli, talvolta sovrapposti, ma distinti l'uno dall'altro: il mondo fisico, cioè quello in cui viviamo e il mondo spirituale, abitato da forze che guidano e controllano il mondo fisico. (..) Il mondo spirituale è parallelo a ogni forma di vita  del piano fisico per cui ogni albero, fiume, animale o roccia possiede un proprio spirito. Danneggiarli o offenderli (tabù) non può che suscitare sventure, per cui è estremanente importante prendersi cura di loro. Il modo per collegarsi al mondo spirituale è ricoperto dallo 'sciamano', egli penetra nel mondo spirituale e comunica con le sue forze tramite lo stato di 'trance' nel quale parla con gli spiriti e ne diventa il portavoce. Il suo potere è talmente considerevole che non s'intraprende alcuna decisione senza consultarlo. In caso di malattia o di disgrazia lo sciamano penetra nel mondo degli spiriti per ricercarne la causa e comunica poi alla comunità l'offesa che ha portato tale punizione. la convinzione che tutti i gli elementi del mondo fisico sono rispecchiati nel mondo spirituale induce ad assumere un atteggiamento cauto e rispettoso verso la natura, assoggettandosi ai suoi poteri e diritti. Il modello stesso dei due mondi paralleli, pose le basi per il concetto di 'via naturale', ovvero il cammino da seguire nel mondo materiale se si vogliono evitare disgrazie e catastrofi".

Si conoscono infatti molti canti e danze riferite in questo senso ai diversi animali e idoli raffigurati sui To-tem. Uno di questi fa riferimento a un ‘essere supremo’ intessuto a una funzione religiosa immune da ulteriore senso morale o immorale, che era all’origine del bene e del male. La sua potenza suprema non si mescolava mai agli individui, ma gli spiriti animali che erano in lui, avevano il potere soprannaturale di entrare ed uscire dai corpi degli stregoni (sciamani), oltre che dei danzatori che prendevano parte all’attività cerimoniale e detti Hamatsa ‘uomini selvaggi dei boschi’. L’Hamatsa era una sorta di ‘società segreta’ formata da soli uomini posti sotto la protezione di spiriti erroneamente indicati come ‘danzatori cannibali’ in ragione del fatto che nelle loro cerimonie le danze avevano un ruolo importante. Vi si accedeva per diritto ereditario ma era inoltre necessario essere stati prescelti e iniziati. Ogni capo doveva essere anche un Hamatsa e per diventarlo doveva sottoporsi a prove ardue e rigorose. Benché i membri della società fossero per lo più maschi, a volte, poiché il grado era ereditario, una donna, qualora fosse figlia unica di un Hamatsa, poteva entrare a far parte della società segreta. Come riferisce Ida Halpern (*), curatrice della ricerca qui trattata:

«Da sempre sono molto diffuse presso gli Indiani le società segrete che costituiscono dei raggruppamenti di individui che si creano in base a fattori ‘divini’, che nulla hanno a che vedere con la parentela. Regola generale è che a tali società non possono mai appartenere i bambini, ed altra regola, che ammette rare eccezioni, esclude l’appartenenza delle donne. Presso i Kwakiutl an un certo momento operarono tre diverse società segrete (fra cui appunto quella degli Hamatsa), ognuna delle quali aveva elaborato un suo ciclo di riti segreti dei quali potevano essere a conoscenza solamente i componenti della rispettiva società. Uno stesso individuo non poteva far parte di più di una società e, in seno alla società di appartenenza ognuno occupava un suo posto preciso, gerarchicamente stabilito. Nel corso delle cerimonie rituali delle società Kwakiutl si svolgevano vere e proprie ‘recite teatrali’, con numerose finzioni sceniche di grande effetto. Queste si svolgevano soprattutto di notte, quando l’incerta luce dei fuochi rendeva più facili gli inganni. Ad esempio, alcuni ‘attori’ portavano sotto i vestiti degli otri pieni del sangue di animali uccisi: in tal modo quando venivano ‘colpiti a morte’ il sangue scorreva abbondante per terra. Era così che gli Hamatsa fingevano il loro cannibalismo, a quanto si dice con impressionante evidenza. I danzatori erano posseduti dallo spirito cannibale e dovevano assolutamente dare sfogo al loro istinto e così, per evitare che assalissero davvero i loro compagni, si doveva fingere di dar loro da mangiare carne umana. Veniva appositamente preparato un piccolo orso bruno o un altro animale di dimensioni e forma adatte allo scopo, che era poi cotto e affumicato per bene. Il danzatore (invasato) si avventava su questo corpo che la penombra contribuiva a rendere sufficientemente ‘umano’ e lo divorava con ostentata ferocia».

Canti Hamatsa’ – Indiani Kwakiutl-Nootka (v.d.)

'Kin kawa ya/Sun km wm so mut ta sus/Sus glaw la a sus'.
(Perché stupirsi/Le cose che pensi troppo piccole/A causa del tuo tocco magico).

Questo canto in apertura di una danza che si svolge di notte, appartiene a Cho Sam Tas, che era un Hamatsa della tribù Quiquam, ora defunto. Ogni Hamatsa aveva almeno quattro canti di riferimento e questo, detto Hamam, era il primo della serie, noto anche come ‘canto della corteccia di cedro’ per essere eseguito con un abbigliamento ricavato appunto dalla corteccia dell’albero. E l’albero del cedro era l’elemento naturale con cui erano costruiti molti To-tem, selezionato tra moltissimi altri perché abitato dagli spiriti della natura. Simbolo e oggetto di culto il To-tem veniva posto davanti l’ingresso di alcune ‘tepee’ a raffigurare il suo proprietario o la sua professione; o come pure avveniva, era eretto alla memoria dei defunti che si erano distinti durante una particolare occasione, come la caccia o la guerra; per aver svolto singolari azioni che avevano dato lustro alla comunità tribale; per essere stato un capo saggio e giusto, e che per questo doveva essere ricordato e venerato; altri ancora.

«La religiosità indiana – scrive Charles Hamilton (*) autore di una preziosa raccolta di “Scritti e testimonianze degli Indiani d’America” – si proponeva di essere portatrice di felicità in questo mondo. E quando egli pregava o faceva offerte sacrificali al To-tem, era per ottenere risultati immediati. Se, per qualche ragione, non li otteneva ecco si rivolgeva a un qualche altro più disponibile, poiché nel To-tem tribale, solitamente alzato al centro dell’accampamento molti erano gli spiriti del bene o del male che vi erano rappresentati. Per lo più gli essi credevano che il mondo fosse pervaso dalla peculiare “forza” della magia, posseduta da ogni singolo spirito e che, per loro intercessione, questa potesse entrare a far parte delle doti dell’essere umano, che avendone acquisito il controllo, avrebbe finito col renderlo invulnerabile in battaglia alle armi del nemico, oppure fortunato in una battuta di caccia o irresistibile alle donne. Ogni tribù dava un nome diverso a questa forza misteriosa alfine di averla in esclusiva o ottenerne il favore. Gli Algonquini la chiamavano ‘Manitou’, i Sioux ‘Wakan-Tanka’, mentre i primi missionari qui giunti, confondendola con la loro idea di Dio, chiamarono ‘Grande Spirito’».

Ma i cieli del tempo nascondevano loro ancora molte verità: gli Ojibway, ad esempio, credevano in un doppio Spirito che era Buono o Cattivo e che governava sugli altri ‘della guerra’, ‘della caccia’, ‘degli uccelli dell’aria’ e ‘della medicina’ ritenuto forse tra i più importanti perché era ben rappresentato sulla terra nella figura dello sciamano e che presieda alla nascita e alla crescita delle piante. Uomini e donne apprendevano da lui le virtù delle radici e delle erbe mediche, e che spesso per guadagnarsi il suo favore, si sottoponevano a digiuno per giorni. Fermamente credenti nei poteri benefici o malefici dello sciamano, i guerrieri Ojibway, nei periodi di ostilità, portavano al collo certe erbe che, secondo loro, li avrebbero preservati dalla morte. Ma non erano solo le erbe curatrici delle ferite riportare a caccia o negli scontri con i nemici, i morsi delle tarantole o degli scorpioni, le febbre portate dai parassiti e altro, c’erano inoltre il succo di scorse di alcuni alberi, le radici allucinogene come il peyote e, soprattutto, le argille renose di alcuni luoghi o dei greti di alcuni fiumi, le quali, posate sulle ferite, permettevano loro di guarirle. Una conoscenza profonda dei doni della natura, oggi venuta meno, e che testimonia della simbiosi trovata un tempo dall’uomo con il territorio circostante.
Ancor più i pellerossa, avevano in uso di emettere certi suoni, derivati da alcuni strumenti d’origine magica come tamburi, sonagli, fischietti, zucche essiccate, ed altri; e canti onomatopeici, fonosimbolici e imitativi che servivano a lenire ma anche a curare lo spirito del malato, come ad esempio quella qui riportata:

‘Canto/Inno’ – Indiani Baraga-Ojibwa (v.d.)

'Manitou abisso neta’batadidjig,/Wasswnemaw gaie tebikadisidjig/Miwi tawi shinam anotch maianadak/Bidawishinam anotch maianadak/Bidawi shinam dash mojag weni jishing/Wabanaishinam eji-ogimik/Kinki ginigia, tchi widagwishinged'.

(Manitou, salvaci /Scaccia le potenze delle tenebre/Aiutaci contro il male/Donaci sempre la virtù/Proteggici,/Tu che nascesti perché/Io potessi giungere fino a te/Nei cieli).

L’esempio qui riportato serve soprattutto a dichiarare una certa approssimazione alla traduzione dei testi dei canti in una delle tante espressioni ‘linguistiche’ che distinguono gli Indiani d’America ancora oggi. Si consideri che essi non conoscevano alcuna sorta di alfabeto, tuttavia erano giunti a formalizzare mnemonicamente un linguaggio comune che serviva loro per comunicare, in realtà fra le tribù ci si esprimeva a gesti, con un linguaggio simbolico del tipo usato fra i sordomuti. Un modo di comunicare tuttavia immediato e scorrevole, preciso quasi quanto un discorso fatto di parole. Una sorta di scrittura ideografica tradotta in gesti, interpolato da un simbolismo che ripeteva nei movimenti quello che può essere la modulazione della voce nella poesia. Chi sapeva esprimersi a segni con abilità, era in grado di comunicare anche una storia complicata e, perfino in concetti astratti o fantasiosi. Pur tuttavia, non conoscendo la scrittura come la si intende ufficialmente nei paesi occidentali, la esprimevano per mezzo di ideogrammi sulla tela delle capanne e delle amache, sulla sabbia nei racconti della tradizione, e nelle incisioni su rame, nella corteccia di betulla come fosse una piccola lavagna per messaggi brevi, o dipinta sulle pelli interne ricavate dallo scuoiare degli animali.

Come ci ricorda Raffaele Pettazzoni (*) nella prefazione alla “Enciclopedia della Leggenda” del lontano 1957, e ben per questo ritenuta attendibile più di tanti altri scritti successivi di altri autori:

«La prima scrittura alfabetica usata dagli Indiani dell’America settentrionale fu quella creata per loro da Sequoia nella prima metà del XIX secolo come adattamento dell’alfabeto europeo alla lingua irokese dei Cheroki. Fuori di questa ‘invenzione’, il mondo indigeno nord-americano conobbe e usò soltanto scritture pittografiche, dipinte a colori oppure incise, come quella adoperata per il ‘Walam Olum’, a fissare mnemonicamente le tradizioni sacre dei Lenape. Alcuni ‘testi’ pittografici di contenuto rituale, come canti sacri e simboli iniziatici, relativi alle celebrazioni, comprendono una varietà di mitologie culturalmente differenziate, dovute alla configurazione etnologica del continente nor-americano. Questo, consta schematicamente di un grosso nucleo centrale di civiltà arcaica e uniforme – la massa dei popoli raccoglitori e cacciatori delle grandi foreste e degli aridi altipiani dell’interno (Proto-Algonkini, Proto-Athapaski, Proto-Californiani, ecc.) -, variamente lambito ai due margini costieri del Pacifico e dell’Atlantico, da correnti culturali provenienti dal sud, portatrici di forme più varie e più ricche. Su questo schema si articolano i singoli complessi culturali diversi, e la diversità si riflette anche nelle mitologie».

Seppure nel più lontano passato alcune tribù avessero elaborato forme di scrittura ‘ideografica’, il ‘Walam Olum’ dei Delaware, il cui nome sta a significare “riquadro dipinto”, è il primo e il più antico ‘testo’ (1789 circa) in cui è riportata la storia di un’intera tribù, graffita e colorata su tavolette di legno. Un altro famoso ‘manoscritto’ è il così detto “computo invernale di Cane Solitario” della tribù Sioux, redatto all’incirca tra il 1800 e il 1871. Si tratta di una ‘resoconto’ degli avvenimenti più salienti e degli spostamenti avvenuti sul territorio, trascritta su pelle di bufalo, in cui ogni singolo inverno tra quelle date trova corrispondenza in un dipinto. Altre tribù costiere, quindi più vicine al mare, si servivano per i loro scritti ideografici, dei ‘wam-pum’, frammenti di conchiglie colorate, che forati e uniti assieme, formavano una cintura sulla quale il messaggio poteva essere letto in modo continuativo.

Altre forme di comunicazione che possiamo qui considerare ‘uniche’ nel loro genere, per lo più utilizzate dai guerrieri delle praterie che per ragioni di lontananza avevano qualcosa da comunicare alla propria tribù o ad altre realtà tribali che si trovavano sullo stesso territorio: i così detti “messaggi di fumo”, quello detto “dello specchio” e il “suono dei tamburi parlanti”. Il metodo del ‘fumo’, se il cielo era libero dalle nuvole, permetteva in pochi minuti, di trasmettere un messaggio a cento e più miglia di distanza quasi con la stessa velocità dei ‘fili parlanti’, come i pellerossa in seguito chiamarono il telegrafo. Il metodo era semplice, si accendeva un grande falò facendo in modo che producesse fumo, poi a tratti vi si stendeva sopra una coperta possibilmente umida e subito si risollevava. Il messaggio vero e proprio era contenuto nel numero di piccole nuvole che si levavano alte nel cielo. Un’altra forma,  prevedeva l’uso dello specchio, o di una piccola parte di esso, era utilizzata principalmente durante gli appostamenti nella caccia, vuoi per non essere uditi dall’animale, vuoi durante i combattimenti che prevedevano una qualche sortita ad effetto. Il metodo prevedeva alcuni lampeggiamenti, riflessi del sole catturati nello specchio, che in pratica comunicavano la presenza di qualcosa o qualcuno nei paraggi, e che poteva arrivare a distanze imprevedibili fra gli otto e i diciassette chilometri.

C’era poi il “linguaggio dei tamburi” che, utilizzato in diversi modi, era pregno di significato rituale. Va detto che il suono del tamburo era di primaria importanza nella vita comunitaria e culturale dei pellerossa, la cui esistenza, dalla nascita alla morte, era contrassegnata dalla danza e scandita dal suono martellante e arcano del tamburo. Una manifestazione questa che serviva a sottolineare le festività ed altre occasioni particolare di carattere comunitario, come il ritorno di un gruppo dopo un lungo soggiorno lontano dalla tribù, o l’arrivo di ospiti di particolare riguardo. Solitamente la danza iniziava la sera e durava spesso tutta la notte. Scopo primario era appunto ‘la danza’, ma dato che era anche la sola occasione in cui si supponeva che tutti i membri della tribù fossero presenti, essa forniva nello stesso tempo, un ottimo pretesto per rinsaldare i vincoli sociali e per lo scambio reciproco dei doni. Aveva inizio con un canto religioso in cui venivano ringraziati gli déi (spiriti del bene) per aver concesso la salute e contemporaneamente si chiedeva loro di proteggere i partecipanti ad eventuali effetti negativi conseguenti alla esecuzione della danza. Subito dopo il canto di apertura aveva inizio la danza vera e propria suddivisa in tre generi: la ‘danza del the’, ‘del tamburo’, e la ‘Danza Cree’ tipica di questa tribù. In particolare quella detta ‘del tamburo’ vedeva i partecipanti disporsi in un’unica fila e girando in tondo danzare con passo saltellante, chiamato ‘passo del coniglio’.

Diversi erano i tipi di tamburi e le percussioni in genere utilizzate: il ‘tom-tom’ piccolo tamburo a una sola faccia e l’unico percosso con le dita; il ‘nail keg’ a due membrane che si percuote con la bacchetta di legno; e l’ ‘hollow-log’ un tamburo ad acqua con una sola faccia percussiva. La pelle usata era per lo più di cervo o di daino per la sua elasticità e impermeabilità, la stessa che era anche usata per le calzature, i famosi ‘mocassini’ e le sacche. Di particolare interesse era anche una cerimonia religiosa che si svolgeva presso i Chippewa attorno a un grande tamburo decorato detto: ‘dream drum’, tamburo dei sogni, ritenuto sacro e possessore del Grande Spirito, che solo si sprigiona nel suo suono, alla cui costruzione sopravvede lo sciamano della tribù con un rituale dedicato al corso del sole attraverso l’arco del giorno.

‘Canto del tamburo’ – Indiani Navaho (v.d.)

“Haiya ha haya haya ha-a!/Ora ti incontro e sono con te. Haiya ha!/Quando il sole s’affonda a occidente/cominciamo a cantare i canti dell’aquila./La casa del Mago sorge,/drizzata dinanzi a me sul terreno./Noi cominciamo a cantare i anti dell’aquila./Il Mago terrestre ora viene qui./Il Mago terrestre ora viene qui;/dagli abissi sorgono i canti,/e da lui son qui fissati./Poiché ora la terra è fertile/il fratello anziano viene dall’oriente;/egli viene qui come potrebbe un fanciullo,/la terra prospera con la sua venuta./Era nelle montagne a occidente/che dimorava la Donna divoratrice di bianchi./Era nelle montagne a occidente/che dimorava la Donna divoratrice di bianchi./La sera splende rossa all’occidente,/e qui gli uccelli si radunano intorno a me./Ora io odo le grida dell’aquila:/Haiya ha haya haya ha-a!/Ora ti incontro e sono con te. Haiya ha!».

‘Canto del tamburo’ (recitativo) – Indiani Navaho (v.d.)

'Rullate da orlo di rupe ad orlo di rupe,/rullate, venti, dai ripidi muri dei casa./Ecos’ il crescente entusiasmo/aumenta come i venti che soffiano/dalla casa del Mago del Vento./All’oriente, miei giovani fratelli,/noi siamo preceduti dai portatori/delle sacre penne d’aquila./All’oriente, miei giovani fratelli,/noi siamo preceduti dai portatori/delle sacre penne d’aquila./Nella lontana terra dell’aquila,/nella lontana terra dell’aquila/risuona l’armonioso rullio/del tuono riecheggiante./Ora la rondine comincia il suo canto;/ora la rondine comincia il suo canto./E le donne che sono con me,/le povere donne, cominciano a cantare./Le rondini s’incontrano sulle rupi che si ergono;/le rondini s’incontrano sulle rupi che si ergono,/e gli arcobaleni curvati sopra di me,/là gli azzurri archi degli arcobaleni s’incontrano./Le nere rondini qui correndo;/ le nere rondini qui correndo,/correndo qui, vengono per condurmi,/per condurmi laggiù, laggiù./Haiya! Lontano nel distante oriente/giacciono le nubi nascoste dietro le montagne;/lontano verso oriente/alle nubi celate io corro./Noi battiamo i tamburi,/noi battiamo i tamburi/io canto, io ascolto,/dalle mie penne si scuotono le nubi./Io volteggio come l’avvoltoio,/soffermandomi, volando vicino all’azzurro,/io volteggio come l’avvoltoio,/vivo e volo vicino all’azzurro./Ora il rossiccio pipistrello si rallegra/dei canti che noi stiamo cantando;/si rallegra per l’aureola di penne d’aquila/con cui i nostri capi orniamo./Disorientato corsi alla palude/là udii le rane cantare;/disorientato corsi alla palude,/dove le rane coperte di croste cantavano./All’ovest il moscone d’oro vaga,/sfiorando la superficie degli stagni,/toccandoli con la coda rapidamente,/sbattendo le ali fruscianti, passa./Di là io fuggo mentre l’oscurità si raccoglie/portando fiori di cactus nei capelli;/di là io fuggo mentre l’oscurità si raccoglie:/oscurità vibrante verso il luogo del canto'.

‘In a sacred manner I live’ – tradizionale, rielaborata da Frank Fields (v.d.)

'Il sole cocente sulla roccia arsa/lontano una nube di polvere avanza/gli spiriti degli antichi antenati si allontanano./Nella valle verde e rocciosa contornata da alberi/i Sioux stanno facendo una danza/per placare gli spiriti del male./Un’aquila d’oro fa la sua apparizione in cielo/il loro canto dice:/’in maniera sacra noi viviamo/guardando fisso il cielo./In maniera sacra noi viviamo/i nostri cavalli sono molti’.

Se esaminiamo i canti sopra riportati fin da subito notiamo una certa ripetitività delle frasi, un’ostentazione quasi a rimarcare alcune parti del canto stesso. La ragione di ciò sta nell’adeguare la voce (le voci) del cantare alla ripetitività dei passi nella danza eseguita, la cui scansione ritmica equivale ad aumentare la forza che dai suoni emessi arriva ai danzatori. Altro elemento è senz’altro quello animale evocato, in questo caso l’aquila, che tutto sovrasta e la cui regalità domina sul territorio e nello spirito (psiche) umano. Tenuta in grande considerazione da tutte le tribù indiane, l’aquila incarna ‘l’uccello del tuono’ (thunderbird), la cui apparizione improvvisa in cielo faceva sussultare gli animi per il suo coraggio e la forza che da questo scaturiva. Particolarmente ammirata e venerata dai guerrieri, che amavano fregiarsi delle sue penne, era allo stesso tempo altrettanto temuta. Infatti era pensiero comune che con il solo muovere le ali l’aquila producesse il tuono, e il lampo con il solo battito di ciglia; il suo grido era udito dall’una all’altra parte del continente americano. Gli Indiani la catturavano, per farne i caratteristici copricapo, simbolo di potere e regalità. Le sue piume inoltre venivano utilizzate come motivo d’ornamento che apponevano tra i capelli e nel vestiario, come decorazione d’arte e in raffinati oggetti manifatturieri come tamburi, vasellame e coperte, o presa a simbolo decorativo sulle capanne, la cui immagine - si supponeva- proteggeva gli abitanti e la comunità dagli spiriti del male.

L’aquila era largamente presente presso i Pueblo del Sud-Ovest che la veneravano per i suoi poteri soprannaturali. Ad essa dedicarono una danza mimetica detta appunto ‘dell’aquila’ che si svolgeva nel villaggio in attesa della pioggia e nel tempo precendente al raccolto. Era solitamente eseguita dagli uomini che con i loro movimenti imitavano il suo andamento, i passi, i salti, il volo, l’accoppiamento. Prevedeva il canto di un coro accompagnato dal suono di un grosso tamburo che iniziava su un tempo lento per permettere ai danzatori di fare il loro ingresso nello spiazzo battuto; quindi si dava inizio alla danza vera e propria, dapprima lentamente, poi in modo accelerato, per tornare infine sul tempo iniziale. Il costume indossato prevedeva due ampie ali che scendevano dal collo alle braccia e si univano al corpo opportunamente dipinto, sovrastata dal ricchissimo copricapo a imitazione della testa dell’uccello e che conferiva ai danzatori un aspetto non solo bello da vedersi, ma anche perfettamente mimetico:

‘Danza dell’aquila’ – Indiani San Idelfonso (v.d.)

'Laggiù al limite della terra/ho posto/la mia meta./Dentro al tuo corpo/infondo lo spirito …'.

‘Terzo canto Hako’ – Indiani Hako (v.d.)

'Guizza sulla prateria/ment’io cammino/l’ombra di un uccello,/in cerchi sempre più vasti, attorno a me;/volgo i miei occhi all’alto,/Kawas mi guarda,/si volge con un battito d’ali/e vola via lontano.
Intorno ad un albero,/in cerchi sempre più vasti/un’aquila vola,/vegliando attenta sul nido;/forte ella grida,/gettando una sfida lontano,/là sulla terra ampia/riecheggia sfidando i nemici'.

Racconta una leggenda dei Pueblo che l’aquila li salvò da una pestilenza scoppiata dopo un lungo periodo di siccità, la quale, sopraggiunse ad ali spiegate e trasformò la brezza del mattino in nubi cariche di pioggia che lavarono la terra e spazzarono via il morbo dalla terra.
L’importanza di queste danze stava nella preparazione che sottendeva ad esse: nella preparazione del trucco facciale e corporale (body-art), nell’indossare le maschere o mascheramenti che talvolta prendevano tutto il corpo, e nel dedicarle a questo o quello spirito cui erano dirette, che fosse un elemento della natura o un animale. Ve ne sono, infatti, di dedicate al ‘bufalo’, al ‘cavallo’, al ‘serpente’, al ‘cane pazzo’, alla ‘farfalla’, alla ‘strolaga’ e altre dedicate allo ‘spettro’ (ghost dance), e al ‘diavolo’, alla ‘nascita’ e alla ‘rinascita’, alla ‘felicità’ e, ovviamente ‘all’amore’ di cui parleremo in altra occasione. Quella descritta qui di seguito, è conosciuta come ‘Danza del Sole’ tipica dei Sioux e trovava la sua espressione più completa nella cerimonia, piuttosto complicata, che ogni anno si svolgeva durante il plenilunio di mezza estate quando, da ogni località, lontana e vicina, i gruppi e le famiglie di varie tribù si riunivano per assistere all’adempimento dei voti dei loro membri, svolti in onore di ‘Wakan-tanka’, il Grande Misterioso, e farsi così partecipi della vita sociale che era parte del rito annuale.

La descrizione qui riportata appare all’interno dell’antologia “Indiani dell’America del Nord” a cura di Michael I. Asch (*):

"Narra Capo Lunga Lancia Figlio di Bufalo della tribù Sioux-Croatan, che circa mezz’ora prima di mezzogiorno si udiva un gran trambusto di grida e strepiti per l’arrivo nell’accampamento di dodici giovani guerrieri a cavallo, i quali, si trascinavano dietro rami di sempreverde appena tagliati, che dovevano essere gettati sull’impalcatura della capanna, costruita appositamente per la ‘Danza del Sole’. Al segnale dato dall’uomo di medicina, sciamano e stregone, due uomini in abito cerimoniale, entravano al galoppo nello spiazzo portando un nido d’aquila che veniva posto in cima al palo To-tem. Allo scoccare del mezzogiorno, con il sole a picco sul To-tem lo sciamano dava il segnale d’inizio della cerimonia. Il canto che l’accompagnava era eseguito da un coro maschile e da un tamburo e un fischietto di osso ricavato da un’ala di aquila e terminava nel mezzo del tumulto che si levava dal battimento dei piedi sul suolo, sonagli, campanelle, fischietti, grida, canti e zoccoli di cavalli lanciati in corsa pazza nella polvere. Alla fine, la ‘Donna della Danza del Sole’ che, per cinque giorni era stata tenuta a digiuno reclusa in una apposita ‘tepee’, prendeva posto accanto allo sciamano. I giovani guerrieri scelti tra i più coraggiosi, che dovevano affrontare le torture predisposte per loro, si inchinavano davanti alla Donna per farsi dipingere sul viso e i polsi i rituali disegni neri e quindi ricevevano dallo sciamano l’investitura che li avrebbe accompagnati.
Questa consisteva da parte dello stregone munito di un affilato coltello e alcune strisce di pelle cruda lunghe all’incirca un metro, nel praticare profonde ferite a circa quattro centimetri l’una dall’altra sotto una mammella del giovane e far scorrere la lama sotto la carne viva in modo da passarvi la striscia di pelle e legarla, e che poi ripeteva nell’altra. Terminata questa operazione, durante la quale il giovane non doveva essersi lasciato sfuggire neppure un lamento, lo sciamano prendeva una cinghia robusta lunga alcuni metri e ne legava l’estremità alla striscia di pelle attaccata al petto del giovane e legandola al palo To-tem. A questo punto l’aspirante guerriero iniziava la sua vera e propria ‘Danza del Sole’ al ritmo scandito dai tamburi. Avveniva così che il giovane durante la danza dava forti strattoni alle cinghie nel tentativo di liberarsi. Se resisteva a lungo allora lo sciamava ordinava a un guerriero a cavallo affinché lo trascinasse nel tentativo di strappargli la cinghia dalla carne. Spesso la partenza a strappo del cavallo provocava la liberazione. Dopo di ché lo sciamano si prendeva cura di lui medicandolo con erbe selvatiche appositamente preparate. Solo allora il giovane poteva dirsi un ‘guerriero’ forte e coraggioso che avendo egli dato prova del suo valore poteva essere accolto fra i guerrieri più maturi.
Tale procedura aveva anche un significato di qualificazione sociale. Da questo momento in poi egli poteva quindi indossare il copricapo di penne e portarlo fieramente nei combattimenti contro il nemico. Chiunque non avesse superato questa prova non era ritenuto degno di schierarsi tra i ‘prodi’ che prendevano parte alle cerimonie comunitarie, né di combattere al fianco degli altri guerrieri. Presso i Sioux-Oglaga, ad esempio, un uomo non poteva vantare le primarie virtù di coraggio, generosità e integrità se non presentava sul corpo le tracce delle ferite che si era procurato nel corso della 'Danza del Sole'".

Approfondiamo qui un altro tema di carattere religioso: il ‘Culto del Peyote’, curiosa mescolanza di simbolismo religioso (anche cristiano) e di riti e pratiche indiane originarie, in cui confluivano fede e atti di culto, il cui punto centrale consisteva nell’atto di mangiare il ‘peyote’, un cactus privo di spine i cui baccelli si sviluppano per la maggior parte sotto terra, e che gli Indiani identificavano con l’Essere Supremo. Lo stato eccitante ed ipnotico prodotto dal frutto era ulteriormente rafforzato dalla musica incessante che per l’occasione s’accompagnava allo stordimento che la radice procurava. La sua origine, per quanto riguarda gli Indiani nord-americani, ha il suo centro di diffusione in Athabasca ma alcuni studiosi, andando più indietro nel tempo, ne fissano in Messico, con riti simili nella civiltà Azteca. Ha scritto a proposito di questo culto Roberto Leydi (*) in “La musica dei Primitivi”:

"È molto probabile che il ponte attraverso il quale questa ‘religione’ messicana ha potuto giungere nel cuore degli Stati Uniti sia stato il popolo Apache. Il ‘Peyote Cult’ offre infatti, ovunque esso venga praticato, una notevole omogeneità cerimoniale ed espressiva, tanto da costituire quasi un’aria stilistica indipendente sovrapposta ad altre di definizione, oltre che culturale, anche etnica e linguistica. Le canzoni che si cantano durante i meeting notturni (..) hanno infatti carattere ibrido e partecipano al tempo stesso dei modi dell’area Athabasca e di quella della prateria e del gruppo dei Pueblo. Questi canti presentano sempre una struttura incompleta come quelli della prateria che dimostrano una spiccata tendenza ripetitiva, propria della musica Athabasca".

Antonin Artaud (*), in “Viaggio al Paese dei Tarahumara” (1936), a proposito della ‘Danza del Peyotl’, scrive:

"Lassù, sulle pendici dell’enorme montagna che scendeva a scaglioni verso il villaggio, era stato tracciato un cerchio di terra. E già le donne , in ginocchio davanti ai ‘metales’ (mortai di pietra), pestavano il peyote con una sorta di scrupolosa brutalità. Gli assistenti si misero a calpestare il cerchio.Lo calpestarono accuratamente e in tutti i sensi; e in mezzo al cerchio accesero un rogo che il vento aspirò vorticosamente dall’alto. (..) Mi avvicinai per scoprire la natura di quel fuoco e scorsi un groviglio incredibile di campanelli, alcuni d’argento, altri di corno, attaccati a corregge di cuoio, anch’essi nell’attesa del momento per officiare. (..) Intorno a quel cerchio, una zona dove nessun indio si avventurerebbe: si racconta che gli uccelli che vi si smarriscono precipitano, e le donne gravide sentono l’embrione decomporsi. Vi è una storia del mondo nel cerchio di quella danza, racchiusa tra due soli, quello che declina e quello che sorge. E quando il sole declina gli stregoni entrano nel cerchio, e il danzatore dai seicento campanelli lancia il grido di coiote, nella foresta. Il danzatore entra ed esce, tuttavia non lascia il cerchio. Deliberatamente avanza nel male. E vi si getta con una sorta d’orrendo coraggio, a un ritmo che, al di sopra della Danza, sembra disegni la Malattia. E si crede di vederlo volta a volta emergere e scomparire in un movimento che evoca non si sa quali oscure tantalizzazioni. (..) Salta con la sua schiera di campanelli, simile a un’agglomerazioni d’api impazzite, agglutinate le une alle altre, alla rinfusa, in un crepitante e tempestoso disordine. (..) Tra i due soli, dodici tempi in dodici fasi. E il cammino in tondo di tutto quel che brulica intorno al rogo, nei limiti sacri del cerchio: il danzatore, le raspe, gli stregoni. Ai piedi di ogni stregone, una buca sul cui fondo il Maschio e la Femmina della Natura, raffigurati dalle radici ermafrodite del peyote (si sa che il Peyotl rappresenta l’immagine d’un sesso d’uomo e di donna uniti), dormono nella Materia, cioè nel Concreto".

Chi di noi non conosce la ‘Danza della Pioggia’? L’abbiamo vista eseguire in tanti di quei film che disconoscerla significherebbe non essere mai andati al cinema e, forse, non essere mai stati ragazzi, per cui l’intento di provocare la pioggia era di primaria importanza nel gioco ‘degli Indiani’, quasi quanto lo era per gli Zuni o per i Pueblo che, nelle loro cerimonie avevano questo preciso scopo. In proposito Ruth Benedict (*) scrive:

"La danza, come la loro poesia rituale, è una monotona compressione di forze naturali che si ottiene con l’iterazione. L’infaticabile battito dei loro piedi riunisce l’umidità del cielo e l’accumula in grandi nuvole di pioggia. Costringe la pioggia a cadere sulla terra. I danzatori Zuni non si piegano affatto a un’esperienza estatica, ma raggiungano l’identificazione con la natura per piegare le sue stesse forze al loro volere".

L’importanza di questa danza, come di tutte le altre cerimonie aventi lo stesso scopo di provocare la pioggia, può essere compresa in tutto il suo valore se si considera che la regione abitata dagli Zuni – cioè quella dei Pueblo sud-occidentali – va soggetta a ricorrenti siccità. Alla danza prendevano parte numerosi danzatori e ad essa, essendo essa d’interesse comunitario, assistevano tutti i componenti della tribù. Per la stessa ragione lo sciamano che era ritenuto in grado di prevedere con particolare precisione il tempo, e quindi pronosticare l’avvicinarsi della pioggia, era tenuto in grandissima considerazione. Ma chi era davvero lo ‘sciamano’ o ‘stregone’ che dir si voglia? Un individuo ‘iniziato’ che praticava speciali attività rituali magico - religiose, assai diffuse in molte regioni della terra, tra cui l’America settentrionale e meridionale. Dotato di particolari facoltà conosciute a livello etnologico come applicative di tecniche dell’estasi che, secondo la mentalità del primitivo, permetteva a chi le possedeva, di comunicare direttamente con potenze superiori (divinità, esseri supremi e soprattutto spiriti), e di volgere la loro opera in favore degli individui e della comunità d’appartenenza. È però il carattere estatico del suo operare che distingue nettamente lo sciamano da altri tipi di stregoni, indovini e guaritori.

Una delle funzioni più diffuse dello sciamano era di guarire l’ammalato dagli spiriti con cui entra in contatto, egli viene a sapere così la causa della malattia che lo indispone e il modo di curarla e possibilmente di eliminarla. Particolarmente lo sciamano s’impegna nel raggiungere e ricondurre l’anima che ha abbandonato o sta abbandonando l’ammalato. Condizioni indispensabili per uno sciamano sono infatti (o almeno lo erano), il possesso di certe qualità psichiche che gli permettono di comunicare con le potenze superiori e di raggiungere uno stato ‘di possessione’ semi-divina, per cui egli finirà col parlare con la voce degli spiriti invocati e agire per essi. Ciò che gli permette inoltre tutta una serie di attività ‘altre’ come, ad esempio, la funzione di sacerdote cerimoniere duranti i riti tribali, con notevoli capacità ipnotiche e illusionistiche. Ovunque, ma specialmente nelle regioni nord-occidentali lo sciamano è un abile ventriloquo e un profondo conoscitore della fauna e della flora del proprio territorio, nonché dei miti e dei riti inerenti alla tradizione e alla religione.

È pressoché convinzione universale dello sciamanismo che certe malattie siano causate da un turbamento interiore dell’uomo, da uno smarrimento dell’anima. In quel caso solo lo sciamano, colui che attraverso l’estasi varca la soglia dell’invisibile ed è in grado di ‘vedere l’anima, può ricondurla all’uomo e ripristinare l’equilibrio perduto. Ma quella dello sciamano in estasi, equivale a una morte temporanea, grazie alla quale egli ristabilisce il contatto originario che pure in un tempo remoto doveva essere esistito tra il Cielo e la Terra, tra la Terra e l’Uomo. In tal modo, come per molti sciamani, il canto (lento e profondo), materializza la visione del potere che gli è dato, nel cui segreto si nasconde la causa della malattia, solo a quel punto la musica del tamburo incombe come chiave che spalanca le porte dell’immateriale. Molto conosciuto e praticato da tutti gli sciamani era una forma di canto di tipo ‘gutturale’ mantenuta segreta, risalente all’origine ancestrale della voce umana, al suo distinguersi dai suoni animali, ai primi passi verso una lingua articolata. L’emissione di suoni animali, richiama infatti un elemento tipico della ‘trance’ sciamanica, arte che per gli Inuit – ad esempio – rappresenta la quint’essenza della via interiore.

Esistono tuttavia alcune registrazioni di detti suoni ed emissioni vocali chiamate di speciali ‘inni notturni’ detti ‘katajak’, quanto di più estraneo all’orecchio europeo si possa immaginare, e canti specifici ‘per la cura di gravi malattie’, o ‘per la profezia’, in ragione della quale il suono di un tamburo in sottofondo non è solo il suono di un tamburo intorno al fuoco, ma un modo per liberare da stereotipi e preconcetti. Con ciò possiamo dire che è attraverso l’esperienza religiosa vissuta nell’osservanza e nella accurata pratica dei riti e delle cerimonie ad essi connesse che queste popolazioni hanno potuto mantenere viva l’armoniosa relazione con le forze misteriose che governano l’universo che si nasconde nei così detti ‘inni notturni’. Un complesso elaborato e molto sviluppato di queste cerimonie è stato riscontrato presso i Navajo. Vi figurano almeno trentacinque principali, generalmente indicate come ‘Inni’, la maggior parte delle quali hanno lo scopo di curare le malattie. Queste cerimonie, che possono durare da due a nove giorni, sono sempre guidate da uno sciamano ‘stregone’, che è anche il cantore. Si crede che la dottrina cerimoniale ed esoterica del cantore gli sia stata trasmessa attraverso una ininterrotta catena di cantanti dagli stessi déi che conferirono tale potere al primo Navajo.

"'L’inno notturno’ – scrive Willard Rhodes (*) – comunemente noto come ‘Yeibichai’ era parte di una cerimonia che non poteva avere luogo se non dopo la prima gelata. È nel corso di essa che i giovani di entrambi i sessi erano iniziati alla vita cerimoniale della tribù da due danzatori mascherati che impersonavano il ‘Nonno dei Morti’ e la ‘Divinità Femminile’. Durante l’ultima notte ‘Yeibichai’, fa la sua apparizione in compagnia di altre divinità mascherate e di danzatori. Dopo un’invocazione soprannaturale degli déi, i danzatori scuotono i loro sonagli con movimenti violenti, da terra all’altezza del capo, poi si girano nella direzione opposta e ripetono il medesimo gesto. Dopo questa introduzione canonica, i danzatori danno inizio alla danza ritmica e al canto, accompagnandosi con i sonagli. La potenza ipnotica di questa musica si accresce con l’ininterrotto susseguirsi, per tutta la notte, di canti. Gruppi di danzatori che hanno passato settimane e mesi preparandosi per questa cerimonia, gareggiano non solo nella danza e nel canto, ma anche nel proporre nuove melodie in onore di ‘Yeibichai’'.

(continua)

Bibliografia:
Franz Boas, “Anthropology” – Columbia University Press – New York 1908.
Carleton S. Coon, “I popoli cacciatori” – Bompiani 1973.
Aldo Celli, “Canti Indiani del Nord-America” - Firenze 1959.
Martin Palmer, "Il Taoismo", Xenia 1991.
Jaime De Angulo, “Indian Tales” – New York 1940. “Racconti Indiani” – Adelphi 1973.
Claude Lévi-Strauss, “Il pensiero selvaggio” – Il Saggiatore – Milano 1964.
Eckart v. Sydow, “Poesia dei popoli primitivi” - Parma, 1951.
Joyce Sequichie Hifler, “Diario Pellerossa: L’eredità spirituale degli Indiani d’America” - ….
AA.VV. a cura di Franco Meli, “Canti e Narrazioni degli Indiani d’America” – Guanda 1978.
Alfonso M. di Nola, “Canti dei Primitivi” – Garzanti 1961.

Blog: frank.dakota “Indiani d’America” –
Wikipedia: George Catlin (dalla parte degli Indiani) /dipinti.

Note:
(*)Charles Hoffman (vedi discografia)
(*)Ida Halpern (v.d.)
(*)Charles Hamilton, "Scritti e etstimonianze degli Indiani d'America" - Feltrinelli 2007. (v.d.)
(*)Raffaele Pettazzoni, Prefaz. a “Enciclopedia della Leggenda”- UTET 1957.
(*)Michael I. Asch, a cura di, “Indiani dell’America del Nord” -

(*)Roberto Leydi, etnomusicologo italiano. Dal 1973 è stato docente di etnomusicologia al DAMS di Bologna, da cui ha potuto coordinare numerose campagne di ricerca sulle tradizioni musicali di tutte le regioni italiane (ricerca sul campo). Sue opere: “L' altra musica. Etnomusicologia”, Lucca, LIM, 2008; “L' influenza turco-ottomana e zingara nella musica dei Balcani”, Nico Staiti, Nicola Scaldaferri (a cura di), Udine, Nota, 2004. “Gli strumenti musicali e l'etnografia italiana” (1881-1911) /Roberto Leydi, Febo Guizzi, Lucca, LIM, 1996;“L'altra musica”, Giunti-Ricordi, 1991; “I canti popolari italiani, Mondadori, 1973”; “Musica popolare e musica primitiva” , Torino-Eri, 1959.

(*)Antonin Artaud, “Al Paese dei Tarahumara” – Adelphi – 1966.

(*)Ruth Benedict, “Modelli di cultura”, Milano, 1960, antropologa statunitense, studiò antropologia con Franz Boas e dove si laureò nel 1923 ottenendo in seguito una cattedra. Per lungo tempo fu sua assistente Margaret Mead con la quale fece diversi viaggi di studi e sviluppò un legame accademico e di amicizia molto stretto. Nei movimenti studenteschi degli anni sessanta i risultati degli studi effettuati dalla Benedict e dalla Mead furono utilizzati - e a volte interpretati secondo tendenza - per mettere in discussione le strutture e tradizioni patriarcali. Fu una delle prime donne a occuparsi di antropologia ed ebbe difficoltà a farsi accettare dall'establishment accademico, diversi suoi scritti non furono mai pubblicati.

(*)Willard Rhodes, (v.d.)

Discografia:
Michael I. Asch, “Musica degli Indiani e degli Eschimesi dell’America del Nord” – Antologia di musiche e canti a cura di Alberto Paleari. 2LP Albatros – Folkways Records – 1974.
Willard Rhodes c/o The United State Office of Indian Affairs, “Musica delle tribù Indiane d’America Sioux & Navajo” – LP Albatros – VPA 8441.
(*)Charles Hoffman, in “Musica degli Indiani e degli Eschimesi dell’America del Nord” – op. cit.
(*)Ida Halpern, in “Musica degli Indiani e degli Eschimesi dell’America del Nord” – op. cit.
(*)Charles Hamilton, in “Musica degli Indiani e degli Eschimesi dell'America del Nord” – op. cit.
(*) R. Carlos Nakai, “Desert Dance” – Celestial Harmony 13711 30332.
(*) “Sacred Spirit” (Canti degli Indiani d’America) – 2CD Virgin 841245.



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