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Luigi Pirandello. Siamo uomini, sì, ma “irrelati”

Argomento: Letteratura

di Enzo Sardellaro
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Pubblicato il 27/06/2014 21:50:48

 Si riuniscono in questa  sede (LaRecherche), con  numerose   revisioni  testuali e  formali,  alcuni saggi (questo è il primo) che scrissi  anni or sono (tra il 2009 e il 2010), variamente sparsi su diversi siti.

 

Iniziando a discutere  sulla lingua di Pirandello, partirei da alcune considerazioni di Maria Luisa Altieri Biagi, che si era impegnata non tanto nell’ operazione di storicizzare la lingua di Pirandello, rivalutandone gli indubbi meriti per la scelta di una “lingua media”, atta ad “aiutare” in qualche modo la lingua italiana a farsi “nazionale”,  quanto ad individuare  il modo con cui Pirandello avrebbe, per così dire, “piegato” la lingua italiana per adattarla alle sue esigenze filosofiche. Come ben ha detto l’Altieri Biagi, la neutralità, la medietà, lo stesso “grigiore” spesso  individuato  nella lingua di Pirandello, non devono condurci a un giudizio conclusivo di “banalità”, o peggio  di “ovvietà” trita e insignificante, perché tali aspetti in apparenza negativi, invece, si “…rivelano le caratteristiche più idonee alla trasmissione efficace del messaggio…” di Pirandello (1). 

   

Pirandello fu uno scrittore estremamente prolifico, considerando la sua produzione romanzesca, novellistica e teatrale. Però, nonostante la diversità dei generi frequentati, si può tentare un’analisi globale della sua produzione letteraria, sia a livello di temi sia sotto il profilo linguistico. I toni cromatici pirandelliani sfumano tutti verso il “grigio”, se non verso il “nero”: quanti sono i personaggi “grigi”, vestiti di nero, in Pirandello? Tutta la sua attività letteraria converge  pertanto nella rappresentazione di quelle “grigie” e assillanti angoscie e angustie quotidiane in cui si dibattono i suoi personaggi solitari e “intraducibili”, come a dire, chiusi ermeticamente nella loro disperata solitudine, e incapaci di trasmettere attraverso le parole il  “mondo di dentro”. Solitudini e grigiori quotidiani costituiscono quindi l’essenza dell’opera di Pirandello. Lo squallore grigio di una vita quasi “invisibile”, vissuta tra l’indifferenza generale, è esemplificata in modo prodigioso nella novella Nell’albergo è morto un tale, dove, appunto, in un’anonima camera d’albergo di una grande città è  trovato, morto stecchito, “un tale”, un viaggiatore, che ha concluso la sua parabola esistenziale fra l’indifferenza generale, in un albergo anonimo, frequentato da frettolosi clienti.

Questo è  l’ambiente in cui è morto “un tale”, un’icona, un simbolo che anche strutturalmente rimanda all’atmosfera grigia che avvolge le persone che vi transitano rapide, ignote, indifferenti:

“Cento cinquanta camere, in tre piani, nel punto più popoloso della città. Tre ordini di finestre tutte uguali, le ringhierine [sic] ai davanzali, le vetrate e le persiane grigie, chiuse, aperte, semiaperte, accostate…» (2).

Il “cromatismo psicologico” trasmesso ad un possibile osservatore, sia pure distratto, dell’albergo è definito perfettamente dalle persiane, che sono “grigie”, come la vita delle “ombre” che passano, veloci, al suo interno. Allo stesso modo degli ambienti e dei personaggi, così la lingua di Pirandello sfuma verso il grigio, il banale, senza sussulti stilistici, specialmente quando l’attenzione è posta su determinati “contesti descrittivi”. Il contesto è fondamentale perché rispecchia il sentimento dominante  dei personaggi:

“… Scesi alla stazione, montai sulla mia automobile che m’attendeva all’uscita, e m’avviai per ritornare a casa. Ebbene, fu nella scala della mia casa; fu sul pianerottolo innanzi alla mia porta. Io vidi a un tratto. Innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d’ottone, su cui è inciso il mio nome… vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita” (3).

E’ questa una descrizione “impassibile” e neutra di un protagonista che guarda, come dice egli stesso, “da fuori”, neutro obiettivo di una “macchina”  che registra, indifferente, il banale svolgersi degli eventi. Giustamente B. Terracini sottolineò a suo tempo che, alla base di una siffatta invenzione linguistica,  stavano antefatti di poetica miranti all’ impersonalità dei Naturalisti, ma non per acquisirne le tecniche, bensì per superarle; e il critico citava un passo di Pirandello:

“… I poeti veri, cioè quelli in cui la rappresentazione si vuole per se stessa… e tale essi la vogliono, quale essa si vuole. In questo totale disinteresse, e non in altro, può consistere la impersonalità dello scrittore sulla realtà da lui creata…” (4). 

Ufficio dello scrittore, dunque, non è tanto quello di interpretare la vita, quanto quello di “registrarla”: come fa Serafino Gubbio operatore:

“… - Forse col tempo, signore. A dir il vero, la qualità precipua che si richiede in uno che faccia la mia professione è l’ impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti alla macchina…” (5). La neutralità “vitrea” della scrittura “mima” la vita dell’uomo su questa terra, “inconoscibile maschera”: qualunque “abbellimento” tradirebbe pertanto la convinzione che sta alla base della poetica di Pirandello, ovvero l’impossibilità di conoscere “realmente” l’intima essenza dell’individuo. La parola impassibile, descrittiva e neutra è quanto di più vero può esprimere lo scrittore; la parola “connotata”, tendente all’interpretazione del profondo si rivelerebbe un’opinione non una verità; la parola connotativa è menzognera, perché pretenderebbe di individuare una realtà profonda di cui non si può, assolutamente, sapere nulla. E  B. Terracini, acutamente, chiosava:

“La parola è inconsistente e menzognera come la maschera… non dice nulla: mera illusione”.

Non solo la parola è menzogna, ma neppure è trasmissibile agli altri, perché  “ciascuno a suo modo” ne percepisce il significato, diventando essa  il “symbulum symbulorum”  dell’isolamento totale a cui siamo dannati:

“Ma se è tutto qui il male! Nelle parole!- dice “il padre” nei Sei Personaggi in cerca d’autore -  Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo d'intenderci; non c'intendiamo mai!…”.

Quando pertanto la critica, tutta la critica, chi più chi meno, recepì  la lingua di Pirandello come “grigia”, “disarmonica”, “senza grazia”, dai toni “neutri”, avvertì  giustamente un fatto di stile che si faceva “sostanza del contenuto”  di una realtà umana inconoscibile o conoscibile se non “per umbras”, in maniera non solo imprecisa,  ma spesso anche soggetta ad una severa distorsione del mondo interiore dei personaggi. Pirandello stesso era un uomo  che raramente lasciava trasparire qualcosa di sé, e si mostrava al mondo con la sua maschera illusionistica, ovvero falsa ed imperfetta,  mai vera e  mai veramente capita in  profondità.

 

La lingua pirandelliana è “la”  lingua dell’ “uomo”, all’anagrafe Luigi Pirandello. E quando egli mostra  di compiere uno sforzo sovrumano per tentare di farsi capire, il discorso si fa ancor più labirintico, e il periodo diventa “mostruoso”  per complicanza di nessi sintattici, riprese, cadute, nuove riprese dell’argomento. Anche in questo caso, il tentativo  risulta alla fine vano, perché, anziché dipanare le tenebre, inviluppa viepiù i concetti, che finiscono per perdersi nei gorghi dell’indistinto. Gli esempi più significativi si riscontrano nei lunghissimi monologhi di molti personaggi “raziocinanti”, che cercano disperatamente di evocare dal profondo qualche verità solo in apparenza trasmissibile.

 

“ Landolfo Arialdo Ordulfo: (sconvolti, trasecolati, guardandosi tra loro). Come! Che dice? Ma dunque?

Enrico IV: (si volta subito alle loro esclamazioni e grida, imperioso): Basta! Finiamola! Mi sono seccato!

Poi subito, come se, a ripensarci, non se ne possa dar pace, e non sappia crederci:

Perdio, l'impudenza di presentarsi qua, a me, ora col suo ganzo [amante] accanto... - E avevano l'aria di prestarsi per compassione, per non fare infuriare un poverino già fuori del mondo, fuori del tempo, fuori della vita! - Eh, altrimenti quello là [Belcredi], ma figuratevi se l'avrebbe subìta una simile sopraffazione! - Loro sì, tutti i giorni, ogni momento, pretendono che gli altri siano come li vogliono loro; ma non è mica una sopraffazione, questa! - Che! Che! - È il loro modo di pensare, il loro modo di vedere, di sentire: ciascuno ha il suo! Avete anche voi il vostro, eh? Certo! Ma che può essere il vostro? Quello della mandra [=mandria]! Misero, labile, incerto...E quelli ne approfittano, vi fanno subire e accettare il loro, per modo che voi sentiate e vediate come loro! O almeno, si illudono! Perché poi, che riescono a imporre? Parole! parole che ciascuno intende e ripete a suo modo. Eh, ma si formano pure così le così dette opinioni correnti ! E guai a chi un bel giorno si trovi bollato da una di queste parole che tutti ripetono! Per esempio: “pazzo!” - Per esempio, che so? – “imbecille” - Ma dite un po', si può star quieti a pensare che c'è uno che si affanna a persuadere agli altri che voi siete come vi vede lui, a fissarvi nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di voi? – “Pazzo, pazzo”! - Non dico ora che lo faccio per ischerzo! Prima, prima che battessi la testa cadendo da cavallo...”(6) .

 

    Pirandello appare  assolutamente convinto dell’impossibilità di farsi capire attraverso la parola. Lo scrittore siciliano ha  radicata in sé tale convinzione, e pertanto si esime  dall’enorme quanto presuntuosa responsabilità di farsi intendere. Nelle opere teatrali ciò gli risulta più facile: il personaggio vive   “oltre” l’autore, in una dimensione autonoma rispetto ad esso, parla di sé e per sé, perché, appunto, l’autore si è eclissato, e, ormai ombra evanescente, non si vede più. Nelle novelle e nei romanzi, nei generi cioè dove la possibilità  del coinvolgimento emotivo dell’autore con il personaggio è più forte, e il pericolo di farsi attirare e coinvolgere nel dramma in fondo “incomprensibile” degli “altri” è tanto maggiore in ragione della tonalità espressivo-connotativa del discorso diretto, Pirandello gioca la  sua carta estrema: il discorso indiretto libero. In tal maniera egli riesce, comunque, a  “sganciarsi”  dal personaggio, limitandosi ad osservarlo dal di fuori, sotto la cappa protettiva  dell’impersonale descrittivismo della neutra “terza persona”, dove, come nell’esempio che segue, domina gigantesca l’immagine terribile e temibile d’un uomo che ha subito l’onta cocente di uno schiaffo, e ha deciso, senza possibilità di appelli, una vendetta  inesorabile, che solo il sangue spicciante del “nemico”, soltanto la sua morte, può placare. L’uomo è sovraeccitato, pensa per frasi minime, sintatticamente slegate, e solo l’ultimo periodo si rovescia, come un fiume corrente e violentissimo,  a travolgere il “miserabile”:

“… E l’ irritazione nervosa gli crebbe.| Se, la sera avanti, dopo lo schiaffo a tradimento.| Glielo avessero lasciato bastonare ben bene, non si sarebbe trovato ora nella dura necessità di uccidere quel povero pazzo, così malandato e miserabile …” [La signora Speranza].

Nei suggestivi e tremendi discorsi interiori espressi nell’indiretto libero, Pirandello abbandona dunque la lingua “grigia” tipica delle descrizioni dei contesti piccolo-borghesi , e tende invece ad assumere toni e colori decisamente drammatici, e talvolta poetici: di qui l’uso di termini evocativi, di aggettivi, di toni enfatici, di figure retoriche:

“… Guardava le stelle; aveva sotto gli occhi tutto il paese, una strana vista; tra il chiarore che sfumava dai lumi delle strade anguste, brevi o lunghe, tortuose, in pendio, la moltitudine dei tetti delle case, come tanti dadi vaneggianti in quel chiarore; udiva nel silenzio profondo delle viuzze qualche suono di passi: la voce di qualche donna che forse aspettava come lei; l’abbajare [sic] di un cane e, con più angoscia, il suono dell’ora del campanile della chiesa più vicina. Perché misurava il tempo quell’orologio? A chi segnava le ore? Tutto era morto e vano…” [Leonora, addio!].

Ma il tono poetico del discorso indiretto libero non significa “comprensione”, ma soltanto intuitiva appercezione di taluni sentimenti indistinti del personaggio, che si sofferma incerto e dubbioso di fronte a certi oggetti simbolici:

“Perché misurava il tempo quell’orologio?”.

L’ “estraneità assoluta”  è conseguita da Pirandello al diapason delle possibilità  linguistiche nel teatro, dove il rapporto dell’autore con i suoi personaggio si  spezza e s’infrange del tutto. Il teatro è l’inevitabile esito di un’arte forgiata sull’incudine dell’indifferenza, dell’estraneità, e dell’impersonalità del “parlato” teatrale , ove, tra l’altro, come nota Giovanni Nencioni, egli consegue risultati di notevole rilievo sotto il profilo stilistico, soprattutto per “l’alternarsi e intrecciarsi delle voci… Un costrutto lanciato da un personaggio, e interrotto da un altro, può essere raccolto e proseguito da un terzo e concluso da un quarto, così da passare mnemonicamente e formalmente integro, ma non monotono…” (7).

Attraverso il teatro  Pirandello dimostra, “come in  un  teorema”, ad una platea vasta di spettatori, il suo credo viscerale circa l’ assoluta incomunicabilità tra gli uomini; e, per risultare più convincente, egli si eclissa completamente, facendo parlare  gli “altri”, quei suoi “personaggi” che ormai vivono di vita autonoma rispetto ad esso. Per Pirandello dunque noi, noi tutti, senza distinzioni, senza eccezioni, siamo isole  separate da un mare innavigabile, sempre in tempesta.  Si legga una parte del dialogo tra L’uomo dal fiore in bocca e Un avventore. Alla fine, l’impressione che si ricava è netta: nonostante i titanici (ma inani) tentativi dell’ “uomo dal fiore in bocca” di farsi capire, l’ “avventore” viene letteralmente spiazzato. Egli non comprende, risponde a monosillabi: cosa che tutti fanno, quando  il senso di un discorso non è assolutamente inteso, e le risposte, a loro volta,  si riducono a monosillabi incomprensibili, o di pura compiacenza rispetto a un discorso che, scaturendo dal profondo, non può, quasi per definizione, essere compreso dagli “altri”.

 L'UOMO DAL FIORE IN BOCCA

UN PACIFICO AVVENTORE

…E così ha lasciato tutti quei pacchetti in deposito alla stazione?

L'AVVENTORE. Perché me lo domanda? Non vi stanno forse sicuri? Erano tutti ben legati...

L'UOMO DAL FIORE. No, no, non dico!

Pausa

Eh, ben legati, me l'immagino: con quell'arte speciale che mettono i giovani di negozio nell'involtare la roba venduta...

Pausa

Che mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rossa, levigata... ch'è per se stessa un piacere vederla... così liscia, che uno ci metterebbe la faccia per sentirne la fresca carezza... La stendono sul banco e poi con garbo disinvolto vi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben piegata. Levano prima da sotto, col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l'altro e ci fanno anche, con svelta grazia, una rimboccaturina [sic], come un di più per amore dell'arte; poi ripiegano da un lato e dall'altro a triangolo e cacciano sotto le due punte; allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrere quanto basta a legare l'involto, e legano così rapidamente, che lei non ha neanche il tempo d'ammirar la loro bravura, che già si vede presentare il pacco col cappio pronto a introdurvi il dito.

 

L'AVVENTORE. Eh, si vede che lei ha prestato molta attenzione ai giovani di negozio.

L'UOMO DAL FIORE. Io? Caro signore, giornate intere ci passo. Sono capace di stare anche un'ora fermo a guardare dentro una bottega attraverso la vetrina. Mi ci dimentico. Mi sembra d'essere, vorrei essere veramente quella stoffa là di seta... quel bordatino... quel nastro rosso o celeste che le giovani di merceria, dopo averlo misurato sul metro, ha visto come fanno? se lo raccolgono a numero otto intorno al pollice e al mignolo della mano sinistra, prima d'incartarlo.

Pausa

Guardo il cliente o la cliente che escono dalla bottega con l'involto appeso al dito o in mano o sotto il braccio... Li seguo con gli occhi, finché non li perdo di vista... immaginando... - uh, quante cose immagino! Lei non può farsene un'idea.

Pausa - Poi, cupo, come a se stesso:

Ma mi serve. Mi serve questo.

L'AVVENTORE. Le serve? Scusi... che cosa?

L'UOMO DAL FIORE. Attaccarmi così - dico con l'immaginazione - alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d'una cancellata.

Pausa

Ah, non lasciarla mai posare un momento l'immaginazione: - aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri... - ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire... sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. - Ma nella nostra, noi, non l'avvertiamo più, perché è l'alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì...

L'AVVENTORE. Sì, perché... dico, deve essere un bel piacere codesto che lei prova, immaginando tante cose...

L'UOMO DAL FIORE (con fastidio, dopo averci pensato un po'). Piacere? Io?

L'AVVENTORE. Già... mi figuro...

L'UOMO DAL FIORE. Mi dica un po'. E` stato mai a consulto da qualche medico bravo?

L'AVVENTORE. Io no, perché ? Non sono mica malato!

L'UOMO DAL FIORE. Non s'allarmi! Glielo domando per sapere se ha mai veduto in casa di questi medici bravi la sala dove i clienti stanno ad aspettare il loro turno per essere visitati.

L'AVVENTORE. Ah, sì. Mi toccò una volta d'accompagnare una mia figliuola che soffriva di nervi.

L'UOMO DAL FIORE. Bene. Non voglio sapere. Dico, quelle sale...

Pausa

Ci ha fatto attenzione? Divano di stoffa scura, di foggia antica... quelle seggiole imbottite, spesso scompagne... quelle poltroncine... E` roba comprata di combinazione, roba di rivendita, messa lì per i clienti; non appartiene mica alla casa. Il signor dottore ha per sé, per le amiche della sua signora, un ben altro salotto, ricco, bello. Chi sa come striderebbe qualche seggiola, qualche poltroncina di quel salotto portata qua nella sala dei clienti a cui basta questo arredo cosi, alla buona, decente, sobrio. Vorrei sapere se lei, quando andò con la sua figliuola, guardò attentamente la poltrona o la seggiola su cui stette seduto, aspettando.

L'AVVENTORE. Io no, veramente...

L'UOMO DAL FIORE. Eh già; perché non era malato...

Pausa

Ma neanche i malati spesso ci badano, compresi come sono del loro male.

Pausa

Eppure, quante volte certuni stanno lì intenti a guardarsi il dito che fa segni vani sul bracciuolo [sic] lustro di quella poltrona su cui stan [sic] seduti! Pensano e non vedono.

Pausa

Ma che effetto fa, quando poi si esce dalla visita, riattraversando la sala, il rivedere la seggiola su cui poc'anzi, in attesa della sentenza sul nostro male ancora ignoto, stavamo seduti! Ritrovarla occupata da un altro cliente, anch'esso col suo male segreto; o là, vuota, impassibile, in attesa che un altro qualsiasi venga a occuparla.

Pausa

Ma che dicevamo? Ah, già... Il piacere dell'immaginazione. - Chi sa perché, ho pensato subito a una seggiola di queste sale di medici, dove i clienti stanno in attesa del consulto!

L'AVVENTORE. Già... veramente...

L'UOMO DAL FIORE. Non vede la relazione? Neanche io.

 

Così Pirandello ci lascia la sua eredità, il suo credo di tutta la vita, che coincide esattamente con questa semplice proposizione: siamo uomini, sì, ma … irrelati

                                                                                         

                                                                Enzo Sardellaro

 

Note

    

 

1) M. L. Altieri Biagi, Pirandello, dalla scrittura narrativa alla scrittura scenica, in La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 172-173. Sull’importanza di Pirandello nella formazione di una lingua media per l’italiano, cfr. p. 163: “…Diciamo subito… che… Pirandello, se non ha attirato come meritava l’attenzione dei linguisti distratti da più vistosi oggetti, si è assicurato un posto significativo nella storia della formazione della nostra lingua nazionale…”.

     2) L. Pirandello, Nell’albergo è morto un tale, in  Novelle per un anno, a c. di M. Costanzo Milano, Mondadori, 1990.

     3) L. Pirandello, La carriola, in Novelle per un anno, cit., vol. III.

     4) B. Terracini, Le ‘Novelle per un anno’ di Luigi Pirandello, in Analisi stilistica, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 335-336, nota 70. Il saggio di Terracini, estremamente ampio e articolato, con ricchissima bibliografia, si legge alle pp. 285-395.

    5) L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Quaderno I, capp. I-II, in Tutti i romanzi, a c. di G. Macchia e M. Costanzo, vol. II, Milano, Mondatori, 1973.

  6)   L. Pirandello, Enrico IV, in Maschere nude, a c. di A. D’Amico, Atto II, vol. II, Milano, Mondatori, 1993.

 7)   G. Nencioni, Tra grammatica e retorica, Torino, Einaudi, 1983, p. 222.

 


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