Pubblicato il 18/09/2015 22:30:51
‘L’albero di Canto’ / Emilia 2 – La Tradizione in Italia
Un ‘violino’, una ‘fisarmonica’, una ‘campana’ lontana sopra un campanile sono parte integrante della ‘filastrocca’ assai lunga e amara che man mano si va componendo tra le righe di questo articolo, iniziata tanto tempo fa allorché il Parmense fu protagonista di grandi scioperi contadini e di braccianti nel maggio-giugno 1908 quando il disagio delle famiglie fu davvero grande allorché venne presa la triste decisione, per molti aspetti eroica, di allontanare tutti i bambini figli degli scioperanti dalle zone occupate e inviarli presso famiglie di parenti e amici, ospiti di compagni socialisti. Un modo questo per annunciare con notevole chiarezza i sentimenti che animavano le masse in lotta, disposte ad affrontare l’apparato regressivo dello stato borghese dei padroni dei fondi agrari e delle fabbriche urbanizzate. Famoso è un “Contrasto fra un padrone e due contadini”* in ottava rima tratto da un foglio volante, reperito presso il Museo di Arti e Tradizioni Popolari di Roma, ma che riferisce di una sua vitalità, del tutto orale, sia nel Lazio che in Toscana e in Emilia, dove continua a essere presente essenzialmente per opera degli improvvisatori che si esibiscono nelle feste popolari.
Il ‘contrasto’ è considerato in genere una gara di abilità e virtuosismo, ma è anche, come osserva il Toschi* “.. una forma drammatica, forse la più semplice ed arcaica, che ci richiama a quella parte del rito-spettacolo che costituita da una qualche forma di lotta”. Notevole è infatti la diversità di toni (modulo musicale) usati nel canto: piuttosto dolce e modulato per il padrone, mentre la voce dei contadini risulta più rotta, secca, più grido che canto:
“Contrasto fra un padrone e due contadini”* (Canzoniere Internazionale - essai)
Stasera siam venuti a questo posto Per farvi con dei versi genuini Racconto di un durissimo contrasto Che avvenne fra padrone e contadini: … O contadino il tuo linguaggio fioco dice che ti sei fatto prepotente ma se qualcuno t’ha insegnato il gioco a me stai certo non mi può far niente se cominci a gettar olio sul fuoco sarà peggio per te sicuramente se mangi poco e versi assai sudore pensa che tu non sei nato signore. … Se lei padrone avesse un po’ di cuore non ci farebbe tale osservazione sappiamo che nel mondo il Creatore non fece servi né fece padroni non fece oppresso né fece oppressore guerre carneficine e distruzioni ma il suolo popolò d’erbe e di frutti perché dasse lavoro e pane a tutti. … Ora ti sei spiegato anche abbastanza vorreste una riforma ho ben capito pover’a tè se speri all’eguaglianza quello che chiedi mai non è esistito chi predicando va la fratellanza lo vedo t’ha purtroppo ammaliziato ma tutto questo sai non ci spaventa noi siamo quattrocento e loro in trenta. … Signor padrone i’ lievito fermenta e i panettiere ha messo foco in forno se di pochi di molti si diventa se ne potrebbe riparlare un giorno ed ora udienza se sei stata attenta apri gli occhi e guardati d’intorno l’unione fa la forza tu lo vedi non istar più in ginocchio ..
‘alzati in piedi!
Si dovrebbero qui ricordare i numerosi accadimenti e le tante figure che si sono distinte nelle fasi della storia sociale che hanno contribuito a dare impulso al recupero della cultura popolare con scritti letterari, canzoni e ballate, raccolte di poesie e quant’altro che più interessano la nostra ricerca musicologica, cui spesso fanno riferimento alcuni testi di canzoni e di narrazioni contenute nei vari ‘canzonieri’ e ‘almanacchi popolari’. Filippo Crivelli, Roberto Leydi, Franco Fortini, Costantino Nigra, Maria Teresa Bolciolu, Giovanna Daffini, Sandra Mantovani, Caterina Bueno, Giovanna Marini, Hana Roth, Silvia Malagugini, Cati Mattea, Bruno Pianta, Michele L. Straniero, Duo di Piadena, Ivan Della Mea, oltre a quelli già citati, sono solo alcuni dei nomi conosciuti anche dal grande pubblico. Rientrano in questa ricerca molte delle canzoni che ancora oggi si sentono risuonare nell’aria, come, ad esempio quelle dedicate all’emigrazione “Le canzoni degli emigranti”* di cui ci occuperemo in altra sede, e quelle sulla condizione della donna: “La donna nella tradizione popolare”*; a cominciare da “Donna lombarda”* una canzone epico-lirica, fra quelle che ha suscitato maggiore interesse tra gli studiosi, così come ce la presenta Roberto Leydi*: “Donna Lombarda”* (“I canti popolari italiani”, a cura di R. Leydi)
"Dona lombarda, lombarda, dona lombarda se vuoi venire a cenar con me” (bis ) “Mi venireva ben volentieri ma l'ho paura dello mio marì” “Tuo marito fallo morire fallo morire che t'insegnerò. Va ne l'orto de lu tuo padre, prendi la lingua dello serpentin. Prendi la lingua del serpentino, butala dentro ne lu buon vin”. E alla sera riva 'l marito: “o moglie mia pòrtami da ber”. “Tu lo vuoi bianco tu lo vuoi nero”. “Pòrtalo pure come piace a te”. “O moglie mia come la vale che questo vino l'è intorboli?” “Sarà la pompa dell'altro ieri e che l'ha fatto ma intorbolì”. Ma un bambino di pochi mesi che apena apena cominciò a parlar: “O padre mio no lo sta a bere che questo vino l'è avvelenà”. “E all'onore di questa spada o moglie mia bévilo tu E all'onore di questa spada donna lombarda devi morir”.
“Le comunità contadine – scrive Roberto Leydi* in “I canti popolari Italiani” - così come erano organizzate prima dello spopolamento di tante zone della campagna italiana, avevano una loro cultura compatta e antica. Si andava dagli usi e dalle tradizioni domestiche alle abitudini di lavoro e di divertimento, alle credenze ed alle superstizioni. Il complesso di tutte queste cose si può definire come cultura contadina, perché la `cultura' è quel complesso di nozioni e di regole su cui si fonda la tradizione e la vita organizzata di una società. Mentre la nostra esistenza è regolata da nozioni scritte (libri, leggi, informazioni dei giornali ecc.), la cultura contadina, tipica di un mondo in cui non si sapeva quasi mai leggere e scrivere, era orale, cioè tramandata attraverso la viva voce. Il canto popolare, usato dalle comunità in occasione di riunioni nei momenti di festa e riposo, ma anche talvolta sul lavoro, nei campi, era appunto una forma di 'letteratura' non scritta usata dal popolo”. (..) “Un grande esperto di canti popolari vissuto nell'Ottocento, Costantino Nigra, riteneva che l'origine di “Donna lombarda” fosse antichissima. Infatti, la storia che viene raccontata in questa canzone ha dei singolari punti di contatto con quella della regina longobarda Rosmunda, la quale tentò di uccidere il marito Elmichi dandogli da bere una coppa di vino avvelenato; l'uomo, accortosi dell'inganno, con la minaccia della spada costrinse Rosmunda a bere anch'essa, ed i due morirono nella medesima ora, entrambi uccisi dallo stesso veleno. A parte i nomi, è la stessa vicenda che troviamo nel nostro canto: Nigra identificò senza alcun dubbio Rosmunda nella misteriosa donna 'lombarda' (=longobarda), e datò la canzone al VI secolo dopo Cristo, epoca in cui era avvenuto il fatto storico, ritenendo che il popolo lo avesse fatto suo ed avesse subito cominciato a cantare quei versi che ancora oggi sono vivi in tante parti d'Italia. Una identificazione, quella di Nigra, affascinante, ma che oggi non ci trova più molto convinti: infatti la storia di un avvelenamento che si conclude con la punizione dell'assassino non è un fatto che debba essere collegato ad una precisa realtà storica, e comunque non certo a un episodio così lontano: si tratta piuttosto di una storia esemplare, per nulla specifica”. (..)
“La canzone è probabilmente molto più recente di quanto credeva Nigra. Del resto, non è solo l'antichità ad interessarci: ci affascina la diffusione ampia di questo canto, che è stato registrato in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, in Emilia, in Toscana (ed anche in Puglia, in Campania, nel Lazio). Naturalmente, muovendosi nello spazio, viaggiando da luogo a luogo, il canto non è rimasto sempre uguale, ma ha subito diverse modificazioni. Per esempio, ogni comunità lo adatta al proprio dialetto; oppure si italianizza; e certe parole mutano, diventando magari incomprensibili. La cultura popolare orale (la cultura del popolo contadino dell'età pre-industriale, la cultura di chi non sa scrivere) affida solo alla memoria ed alla ripetizione il possesso delle nozioni; e, si sa, la ripetizione orale, a differenza della scrittura, non conserva le cose, ma le modifica continuamente. Queste modificazioni avvengono nel corso del tempo e nello spazio, durante la trasmissione da luogo a luogo, quando il canto passa dall'uno all'altro, come in una catena. Una stessa canzone, cantata dal popolo in luoghi diversi, può presentarsi diversa nella lingua e nel contenuto. Proprio in questa mutevolezza continua, in questa adattabilità alle più diverse situazioni, sta la vera natura del canto popolare”.
“I canti popolari sono un poco come la lingua che parliamo e come le parole che usiamo, le quali hanno un'origine, ed anche magari un autore, ma sono ormai diventate un bene di tutti. La versione di “Donna lombarda” che ho trascritto è stata raccolta in Liguria (a Ceriana, in provincia di Imperia) da Roberto Leydi. Il testo non è però in dialetto ligure, bensì in un italiano particolare, adattato alle esigenze di parlanti abituati al dialetto e non colti. Questo italiano può essere definito italiano popolare. Ci basti per ora frenare lo stupore davanti a forme come dona per donna, venireva per verrei, de lu tuo padre per di tuo padre, bùtala per mettila ecc. Apparentemente sono 'errori' o 'grossolanità'; in realtà è il modo con cui un canto popolare da centinaia di anni ripetuto in dialetto si è pian piano italianizzato, assumendo forme linguistiche che ancora risentono del dialetto di partenza. Anche nel contenuto si trova di che sconcertare chi non è abituato a questo tipo particolare di letteratura umile. (..) Davanti a testi di questo tipo, quindi, non ci deve guidare la ricerca del bello o comunque un atteggiamento simile a quello che usiamo nei confronti della letteratura colta. Dobbiamo invece pensare che stiamo esaminando un documento di un mondo lontanissimo dal nostro e governato da regole del tutto differenti”.
Eccone alcuni esempi:
“Mia mama ‘l vol ch’j fila”*
“E mi mama vol ch’j fila al lunez. ma mi al lunez m’gratu le pulez e ‘n po’ d’su-si e ‘n po’ d’lu-là la mia mama jé da sinha e da dizné la mia mama vol ch’j fila e mi pos pà filé.
E mia mama vol ch’j fila al martéz ma mi al martéz giogu le carte […] E mia mama vol ch’j fila al mércul ma mi al mércul vadu da Bertu […] E mi mama vol ch’j fila al giobia ma mi al giobia muntu ‘ns’la lobia […] E mia mama vol ch’j fila al v’nner ma mi al v’nner siasu la s’nner […] E mi mama vol ch’j fila al saba ma mi al saba ciapu la paga […] E mia mama vol ch’j fila d’fésta ma mi d’fésta stagu a la finestra […]”.
“Sciur padrun da li béli braghi bianchi” * (Sandra Mantovari)
“Sciur padrun da li béli braghi bianchi fora li palanchi, fora li palanchi sciur padrun da li béli braghi bianchi fora li palanchi ch’anduma a cà.
A scuza sciur padrun s’a l’em fat trivulèr l’era li premi volti l’era li premi volti a scuza sciur padrun s’a l’em fat trivulèr l’era li premi volti ch’a ‘n salevum cuma fèr. Sciur padrun da li béli braghi bianchi … ecc. Prema a’l rancàun e po dopu a s-ciancàun e adés ch’a l’em tot via a’l salutem e po’ andém via. Sciur padrun da li béli braghi bianchi … ecc.
Al nòstar sciur padrun l’è bon com’è ‘l bon pan da ster insima a l’erzan a’l diz: «fè ander cal man». Sciur padrun da li béli braghi bianchi … ecc. E non va più a mesi e nemmeno a settimane la va a poche ore e poi dopo andém a cà. Sciur padrun da li béli braghi bianchi … ecc. E quando al treno a s-ceffla i mundèin a la stassion con la cassietta in spala su e giù per i vagon. Sciur padrun da li béli braghi bianchi … ecc.”
Quelle dedicate alla nostalgia della lontananza dalla propria terra e il desiderio di tornare a casa delle mondariso:
“Amore mio non piangere”* (Giovanna Daffini)
“Amore mio non pianger se me ne vado via io lascio la risaia ritorno a casa mia. Ragazzo mio non piangere se me ne vò lontano ti scriverò da casa per dirti che ti amo. Non sarà più la capa che sveglia a la mattina ma là nella casetta mi sveglia la madre mia. Vedo laggiù fra gli alberi la bianca mia casetta e vedo là sull’uscio la mamma che mi aspetta. Mamma papà non piangere non sono più mondina sin ritornata a casa a far la signorina. Mamma papà non piangere se sono consumata è stata la risaia che mi ha rovinata”.
Inoltre “Le canzoni del lavoro”* e quelle riferite al ‘Cantar Maggio’*, già riportate in altro articolo apparso su questo stesso sito, vanno qui citate quelle riferite ai “Canti dell’Osteria”*:
“Vinassa, vinassa” *(canto degli Alpini - trascr. Moretto)
“Là nella valle, c'è un'osteria è l'allegria, è l'allegria là nella valle, c'è un'osteria è l'allegria di noi alpin! E se son pallida né miei colori no' vo' dotori, no' vo' dotori e se son pallida come 'na strassa vinassa, vinassa e fiaschi de vin! Là sul Cervino c'è una colonna è la Madonna, è la Madonna là sul Cervino c'è una colonna è la Madonna di noi alpin! Là nella valle c'è un filo d'erba l'è la riserva, l'è la riserva. Là nella valle c'è un filo d'erba l'è la riserva di noi alpin. Là nella valle c'è la Rosina l'è la rovina, l'è la rovina. Là nella valle c'è la Rosina l'è la rovina di noi alpin. Là nella valle c'è un buco nero l'è il cimitero, l'è il cimitero Là nella valle c'è un buco nero l'è il cimitero di noi alpin. Là su quel monte c'è una lanterna requiem aeternam, requiem aeternam, Là su quel monte c'è una lanterna requiem aeternam per noi alpin.”
E ovviamente quelle composte sulla scia di “Bella Ciao”* conosciuta in diverse versioni, quella di lavoro delle mondine e quella partigiana, senz’altro la più famosa della Resistenza italiana:
“Bella Ciao!”*
“Una mattina mi sono alzato o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao una mattina mi sono alzato e ho trovato l’invasor. O partigiano portami via o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao o partigiano portami mia che mi sento di morir. E se io muoio da partigiano o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao e se io muoio da partigiano tu mi devi seppellir. E seppellire lassù in montagna o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao e seppellire lassù in montagna sotto l’ombra di un bel fior. E le genti che passeranno o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao e le genti che passeranno ne diranno o che bel fior. È questo il fiore del partigiano o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao è questo il fiore del partigiano morto per la libertà.”
E non possiamo dimenticare “I canti degli Alpini”* che tanta gloria hanno dato a questo nostro Settentrione, come del resto riporta un noto “Canzoniere” che si apre con questa didascalia: “I canti della montagna sono i canti della Patria, sono i canti che il padre insegna al figlio, che la madre canta, con lieve rossore di pudicizia, quando la figlia è lì ad ascoltare; ma sempre poesia, sempre nuova e sempre bella. ”
“Addio, mia bella, addio” * (Canto degli Alpini)
“Addio mia bella addio, che l'armata se ne va, e se non partissi anch'io sarebbe una viltà, Il sacco è preparato Sull’omero mi sta, son uomo e son soldato viva la libertà Ma non ti lascio sola, ma ti lascio un figlio ancor, sarà quel che ti consola, sarà il figlio dell'amor”.
“Sul ponte di Bassano” * (Canto degli Alpini)
“Eccole che le riva 'ste bele moscardine, son fresche e verdoline colori no ghe n'à. Colori no ghe n'emo né manco gh'en serchemo, ma un canto noi faremo al ponte di Bassan. Sul ponte di Bassano là ci darem la mano. Noi ci darem la mano ed un bacin d'amor. Per un bacin d'amore successer tanti guai non lo credevo mai doverti abbandonar. Doverti abbandonare volerti tanto bene. E' un giro di catene che m'incatena il cor. Che m'incatena il core che m'incatena i fianchi in mona tutti quanti quelli che mi vuoi mal”.
Facciamo un salto cronologico e arriviamo ai periodi successivi alle due guerre mondiali per tornare a parlare di poesia e ai canti riferiti alla terra, ai lavori dei campi, ai raccolti ecc.; come quella che segue conosciuta in tutta l’area padana e che formano un capitolo a parte della nostra cultura popolare:
“La Pastora” * (canto di montagna del '600 dal repertorio del Coro “Monte Cauriol” )
“La pastorella si leva per tempo menando le caprette a pascer fora. Di fora in fora la traditora coi suoi belli occhi la m'innamora e fa di mezzanotte apparir giorno. Poi se ne gira presso la fontana calpestando l'erbette oh tenerelle. Oh tenerelle galanti e belle sermolin fresco, fresche mortelle e il grembo ha pien di rose e di viole. E qualche volta canta una canzone che tutto il gregge canta, e gli agnelletti, e gli agnelletti fan gli sgamgetti così le capre come i capretti e tutto fanno a gara in lor danza”.
“L’uva fogarina” *
“O come è bella l’uva fogarina o come è bello saperla vendemmiar a far l’amor con la mia oi-bella a far l’amor in mezzo al prà. Diririndindin diririndindin diriridindindindindindin Teresina ‘mbriaguna poca voia d’laurà la sé tolta ‘na vestaglia la gh’l’à ‘ncura da pagàr cuzir la ‘n vol cuzir filar la ‘n vol filar el sol de la campagna la diz che ‘ ghe fa mal. Diririndindin diririndindin diriridindindindindindin O come è bella l’uva fogarina o come è bello saperla vendemmiar..”
E le canzoni che mia madre a mo’ di ninna-nanna sempre cantava per farmi addormentare:
“La Viuleta”*
“E la Viuleta la va, la va, la va, la va, la va, la va! La va sul campo, la s'era insugnada che gh'era 'l so Gingin che la rimirava! La va sul campo, la s'era insugnada che gh'era 'l so Gingin che la rimirava! Perchè te mi rimiri, Gingin d'amor? Gingin d'amor? Gingin d'amor? Mi te rimiri, perchè tu sei bella, e se tu vuoi venire con me alla guerra. E mi con ti alla guerra non vo’ venir, non vo’ venir, non vo’ venir. Non vo’ venire con ti’ alla guerra perché si mangia mal e si dorme per terra. No, no, no, per terra non dormirai, non dormirai, non dormirai! Tu dormirai sopra un letto di fiori con quattro bei Alpin, e lassa fa’ a lori!”
“La Rosina bella” *
“E verrà quel dì di lune mi voo al mercà a compràa la fune. Lune la fune e fine non avrà . L'è la Rosina bella in sul mercà. E verrà quel dì di marte mi voo al mercà a compràa Ie scarpe. Marte le scarpe, lune la fune, e fine non avrà. L'è la Rosina bella in sul mercà. E verrà quel dì di mercole, mi voo al mercà a compràa Ie nespole. Mercole le nespole, ecc. E verrà quel dì di giove mi vò al mercà a compràa Ie ove. Giove le ove, ecc. E verrà quel dì di venere mi voo al mercà a compràa la cenere. Venere Ia cenere, ecc. E verrà quel dì di sabato mi voo al merca a compràa 'l soprabito. Sabato 'I soprabito, ecc. E verrà quel dì di festa, mi voo al mercà compràa la vesta . Festa la vesta, sabato 'I soprabito , venere la cenere, giove Ie ove, mercole Ie nespole, marte Ie scarpe, lune la fune , e fine non avrà,. L'e la Rosina bella in sul mercà.”
“Quel mazzolin di fiori”* “Quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna e bada ben che non si bagna che lo voglio regalar. Lo voglio regalare perché l'è un bel mazzetto lo voglio dare al mio moretto questa sera quando vien. Stasera quando viene sarà una brutta sera e perché sabato sera lui non è venuto a me. Non è venuto a me l'è andà dalla Rosina perché mi son poverina mi fa piangere e sospirar. Mi fa piangere e sospirare sul letto dei lamenti, cosa mai dirà le genti, cosa mai dirà di me? Dirà che son tradita tradita nell'amore e a me mi piange il cuore e per sempre piangerà. Abbandonato il primo abbandonà il secondo abbandono tutto il mondo e non mi marito più”.
Mi scuso con gli assertori della filologia pura per aver qui trascritto canzoni non esattamente rispondenti agli originali e alle diverse forme dialettali che si parlavano e si continuano a parlare in Lombardia e soprattutto quelle ancora in uso in Emilia: diverse come sono diverse le inflessioni che di volta in volta ogni canzone ha assunto a seconda dei periodi in cui erano o tornavano in voga. Pensatele nella lingua e nella spontaneità musicale popolare emiliana che ha contribuito in modo determinante al modificarsi del gusto nel nostro paese e al sopravvento dell’abilità di molti suonatori che l’hanno sostenuta, fino all’avvento del ‘liscio’ che impera in tutta la Versilia. Del resto come – annota Stefano Cammelli* – “..sia suonare uno strumento, sia le forme di canto, all’epoca potevano essere apprese solo tramite l’esperienza e l’ascolto diretto. Tutta la cultura musicale popolare era basata sull’elemento orale, sul suono suonato e sulla parola parlata, che non permettevano forme diverse di apprendimento di quello dell’ascolto, della pure attenta osservazione, di cui però non sfugge la sostanziale imprecisione e approssimazione. (..) Né può stupire la ripetitività di queste musiche, l’incessante ritornare su arie e variazioni già sentite, la loro apparente semplicità ben lontana comunque, dalla presunta facilità che certi inesperti attribuiscono alla musica contadina. (..) SE anche di un ballo è mai esistita una prima stesura musicale, essa è stata poi cambiata e modificata da ciascun suonatore, fino a giungere alle attuali, notevoli, diversificazioni pure fra quei balli che sembrano richiamarsi ad uno stesso tema.” Se fino a ieri eseguire un brano strumentale, che fosse d’accompagnamento al canto o una musica cosiddetta ‘a ballo’, significava attenenrsi strettamente al testo o alla composizione primaria; oggi le possibilità di ‘variazioni’ sono infinite, vuoi per la contaminazione (rock, jazz, pop) esercitata nel tempo sui testi, vuoi per le nuove tecnologie elettroacustiche applicate anche agli strumenti tradizionali.
“Per esemplificare maggiormente questo processo di ‘creazione autonoma’ può essere utile analizzare un esempio relativamente recente, la storia del valzer “Speranze perdute”, uno dei più vecchi e conosciuti brani del liscio, conosciuto da tutti i suonatori”, i quali spesso vi apportano ‘variazioni’ virtuosistiche proprie, talvolta abbellimenti addirittura geniali cui ci hanno abituato, soprattutto, i vecchi suonatori di violino e stradaioli come ‘il Migliavacca’, nonché Melchiade Benni, che molto hanno influenzato la cultura del violino popolare emiliano. Tutte le musiche così interpretate o reinterpretate hanno mantenuta la caratteristica di spezzare continuamente la melodia del brano strumentale, raggruppando velocissimi gruppi di note ciascuno separato dall’altro, o di far saltare l’archetto sulle corde, particolare questo che le fa risultare sempre originali e quindi ‘vive’. Come ‘vivi’ sono nel ricordo di chi ama questa terra d’Emilia recentemente sconvolta dal terremoto del 2012, e che ha richiamato intorno a sé tutti ‘i suoi figli’ nel riconoscimento e nella volontà di poter ‘ricominciare a sperare’. Molte sono state le iniziative a sotegno di questa speranza; non in ultima quella promossa da un numero di poeti, emiliani ed ospiti aggiunti, che hanno prestato il loro assenso alla pubblicazione di poesie ‘dedicate’ a questo terribile evento dal titolo “La luce oltre le crepe”* a cura di Roberta De Tomi e Luca Giglioli con prefazione dell’esimio Giuseppe Pederiali, i cui proventi sono stati devoluti a favore delle biblioteche modenesi colpite, sotto l’egida: ‘a profonda testimonianza e affinché nulla vada perduto’.
Acciò anch’io ho voluto dedicare un saggio (ahimè ancora inedito) cui ho lavorato con impegno e vero amore filiale, dal titolo: “Oralità e Scrittura nella Tradizione Poetica Italiana” con una analisi critica comparativa dei testi in esso contenuti, del quale riporto qui di seguito uno stralcio, in cui è fatto riferimento alla musicalità e dello spirito poetico emiliano, prendendo come spunto quanto riferito da Paolo Toschi* in apertura di “Il ciclo dell’uomo” del 1969:
«Il corso della vita si svolge, per il popolo, secondo una continua e fitta trama di forme tradizionali che ispirano, determinano e interpretano via via le azioni e le situazioni di cui è intessuta l’esistenza dell’uomo», e da allora questa realtà non è mai cambiata, almeno secondo la ‘teoria sociale’ intorno allo sviluppo della persona e della società:
‘E siamo stati come case’ di Luca Artioli* E siamo stati come case per un tempo senza tempo, quand’era ancora Maggio … –pietra dopo pietra – nella storia che si salda al ventre di ogni madre … nella storia di ogni padre …
Il raffronto tra le case tirate su ‘pietra dopo pietra’ e fatalmente crollate, creano qui un fermo immagine di una immediatezza sconcertante, in cui lo sguardo costruisce e decostruisce per ricostruire mentalmente domani, quello che fino a un momento prima, era un ‘luogo dell’anima’ andato perduto dentro un nero profondo che sa di fumo di memorie, di travi carbonizzate, di mobilia cariche di ricordi, di immolazioni, lutti, orgoglio e solitudine … e siamo stati carne congiunta visceralmente alla madre, molecola nella storia del padre e del figlio del padre …
..in quell’abitare scomodo nello stesso sacrificio.
Nel ricordo fa pensare a un nucleo numeroso, come un tempo era la composizione famigliare, in cui i conflitti interni, quando ce n’erano (e necessariamente c’erano), erano per lo più condivisione di uno stare tutti insieme con i diversi problemi che solitamente venivano risolti senza né vinti né vincitori, per così dire ‘alla pari’, tra fratelli e/o sorelle, senza rancore. Ciò che aveva significato di un ‘dare e avere’ e che nessuno doveva niente a nessuno, bensì solo le scuse ai genitori per aver alzato la voce; al figlio che chiedeva prima e nuovamente chiede – pietra dopo pietra – di ricostruire la casa crollata; alla terra per aver disprezzato i favori (il pane) che generosamente concede; e infine a Dio per aver imprecato “..per non farsi dimenticare”…
.. e di (poter) risalire da questo vuoto e che poi sia sforzo leggero il futuro quasi che fosse volo …
Ed ecco nella disillusione affacciarsi la speranza del superamento possibile del tempo, cioè entro “..un tempo senza tempo” smarrito nella sfera del tempo che forse non esistito, se non nel ricordo della stagione che più di tutte lo fa ricordare “..quand’era ancora Maggio”, la primavera, in cui tutto rinasce alla vita.
“Le case bambine” di Marzia Braglia*
Si chiamano: La Gnola, la Disturbata, la Guidalina, Patrinia, la Losca, la Pitoccheria e Angelina … le vecchie case sparse nella valle dormono e sognano quand’erano belle. Riposano nel buio perfetto di una notte senza luna e si rivedono bambine baciate dalla fortuna. Rammentano gelidi inverni che segnavano ore noiose, scolorivano i capelli e appassivano le rose. Vibra ancora la musica fra le antiche mura e i fantasmi ballano nella notte oscura.
Sembra di vederle sullo sfondo di tele dipinte di Fattori, Signorini, Lega, Sernesi, Banti che dall’amata Toscana si spinsero alla Romagna e all’Emilia affermando che la ‘forma’ (oggettiva delle cose) in fondo non esiste, se non come ‘macchie di colore’ (da cui il nome del movimento detto dei Macchiaioli) distinte o sovrapposte ad altre macchie di colore, perché la luce, colpendo gli oggetti, viene rinviata all’occhio come immagine di puro colore. Due sono i motivi di questa scelta qui elaborata: per primo il riferimento alle cose ‘amate’ che, solo per il fatto che abbiano un nome, rivelano l’esistenza di una storia più o meno felice che stava nelle mani di chi le ha costruite per la felicità di qualcuno, non si costruisce una casa se non per soddisfare un bisogno e per accogliere i propri affetti. Il secondo, per quell’ “.. vibra ancora la musica e i fantasmi ballano” e che sta a significare che esse non sono più, forse andate distrutte con il terremoto che non le ha risparmiate allo scempio, insieme a quanti vi abitavano, con i loro ricordi, le rose che appassivano nei vasi, i frutti degli orti raccolti nel ‘coccio’ posato sulla tavola, e le loro padrone che invecchiando (come le rose) scolorivano i capelli. Ciò che rimane nel ricordo vivo dell’autrice, è la musica di un valzer lento come può essere lento il tempo trascorso “..di inverni gelidi che segnavano ore noiose”, e che all’improvviso subisce un arresto, per lasciare che i ‘fantasmi’ si ritrovino nella notte oscura e ballare ancora insieme … Addio Gnola, Disturbata, Guidalina, Patrinia, Losca, vecchie case incorniciate nel tempo, però bella la musica che vi ricorda!
“At to Final” di Maria Grazia Fabbri* (con traduzione a fronte).
La tua Finale (Finale Emilia). Papà, è bèla passà tria n / Papà, sono già passati tre anni da quand te andà via / da quando te ne sei andato / e adèsa che è capità / e adesso che è successo / stal brut lavor, t’am manc tant. / questo brutto lavoro, mi manchi tanto” …
Pagina di diario, lettera, preghiera … tutte raccolte in una forma davvero delicata, che oso dire quasi emozionata, nel rammentare a chi, pur non essendo più viene messo al corrente di quanto accade nella terra dove forse è nato, certamente cresciuto e deve aver messo su famiglia. Ancor più si sente qui un attaccamento filiale profondamente partecipe dei sentimenti del padre e dei ricordi a lui legati, di una presenza che non si è mai trasformata in assenza neppure adesso che la rivolta della terra tenta di cancellare quei ‘luoghi della memoria’ che erano lì a rappresentare l’esistenza in vita di ambedue, padre e figlia, congiunti nell’amore per la propria piccola città, così grande da contenere tutto il loro mondo. ".. ma at fag na prumessa / ..ma ti faccio una promessa. Appena la tera la lasa li ad tarmar ... / Appena la terra smette di tremare … e prèda dop prèda / e pietra dopo pietra con i nostar braz / con le nostre braccia al tirem su al nostar paes … / lo tiriamo su il nostro paese … adrà papà che al turnem a far / e at ve vedrai papà che lo torniamo a fare ancora più bel. / ancora più bello". Ben sappiamo che non c’è preghiera senza promessa, il laggio che si paga per ogni richiesta, tanto quanto sono disposte a pagare l’energiche donne emiliane capaci di una volontà ferrea e d’amore materno, pronte a combattere e di rivoltare il mondo per ideali di giustizia e di libertà, più che il ‘terremoto’.
Va detto che la poesia letta ‘in lingua originale’ rivela una maggiore espressività di toni, di sospensioni e di ritmi, per cui la traduzione, per quanto si voglia, non regge il confronto.
“Tsunami” di Mabi Col*
Rimesto nel paiolo briciole di vita, pelo una patata frammento inessenziale d’universo, penso a quello scoglio malfermo e insicuro che mi ospita, pezzetto sperso inesplorato e vuoto di tempeste ignote, elettromagnetiche speranze, casa buia piena di misteri in cui indifferente rotola, rimescola e patisce il nostro sasso vivo e derelitto, la nostra pentola d’acqua e di canzoni marmellata amara d’assurde sensazione cortocircuiti e minestre ricordi astrusi da dimenticare ansie e calligrammi. Minuscoli coriandoli D’avventura e sentimenti Ci accapigliamo In cerca di consensi, mentre sopra di noi s’abbatte l’orizzonte.
Poesia cosmica che riunisce il micro mondo di una cucina, qui immaginato (o forse vissuto) come un territorio di confine che rende il percorso dell’io poco avventuroso, scandito da ‘ansie come calligrammi’ del residuale, con il macrocosmo esistenziale “..in cerca di consensi”, dove l’essenza dell’io si perde di fronte all’evento conoscitivo, incerto e pericoloso, dello ‘tsunami’ che sopraggiunge nel momento quotidiano che è dato sottendere. Anche qui la metafora dello tsunami (tipico del maremoto) si sostituisce al terremoto derivato dallo scuotimento della terra, che non sembra scuotere però il calmo equilibrio dell’autore/autrice (non so), alle prese con i fornelli della sua cucina, quasi fosse un rito (e in parte lo è) ineluttabile dove si prepara il cibo per gli déi, dove l’io di fatto “..non conosce il pathos, l’aritmia dell’eros, la coscienza della morte”, (41). Neppure “..mentre sopra di noi / s’abbatte l’orizzonte” e tutto deve ancora accadere, mentre la pentola dell’acqua ribolle, e il cuore ispirato intona canzoni, certamente d’amore.
“… e non ci credi” di Claudio Porena*
Trabocca, goccia dopo goccia, il catino sotto il tetto che pende. Ci si specchiano chine dalla sete le macerie riarse, e tutto pare inchiodato al suo posto: il lampadario di Murano ormai spento, il cassetto riverso, le tazzine sul mobile di noce, la cornice con la natura morta alla parete, le lunghe crepe che fulminano il muro sulla porta. Una lingua di vento fischia attraverso i frantumi di vetro fra le tende, nel vano semivuoto dove pare echeggiare sotto i piedi lo scricchiolio, il fragore delle maioliche cadute in terra quando la Terra tremò il giorno avanti, contro tutte le attese. E dopo il terremoto spunta il calvario, il momento dei pianti che impregnano le rughe del paese evacuato, infelice, e che gonfiano gli occhi impolverati e addormentati nel risucchio del cielo. È pallida la luna sulla siepe: sbianca il cavo dei portici. La roccia d’ogni casupola grida dolore e dappertutto è lutto come un velo. E si aspetta il mattino ..e non ci credi.
Il taglio fotografico delle ‘immagini’ verbali e sonore qui riportate rivela un’immediatezza rara nell’uso della parola, molto vicina alla ‘poesia automatica’ di stampo ‘futurista’. Indubbiamente l’osservatore coglie nei particolari ciò che finora è sfuggito a tutti gli altri: la dimensione onirica dell’evento sismico. Neppure stesse approntando una mostra fotografica egli dispone le opere in sequenza per così dire ‘alternativa’ alfine di creare una sorta di happening visivo dove tutto è detto e nulla è al proprio posto. Dove finanche gli spazi aperti dal sisma, illuminati del proprio caleidoscopio rotto, sono trasformati in immagini da osservare: allora si è risucchiati dal cielo nel taglio della finestra divelta e del muro crollato, dove la luna fa capolino dalla siepe dell’ ‘infinito’ leopardiano e “..sbianca il cavo dei portici”. Tuttavia lo sguardo attento dell’osservatore si sofferma su un’immagine in particolare: lì dove “alla parete, le lunghe crepe / che fulminano il muro sulla porta”, a dir poco strepitosa che potrebbe diventare il manifesto dell’ipotetica mostra ‘poetica’ sull’argomento. E quando tutto è pronto, “..e si aspetta il mattino”, arriva l’alba …
“..e non ci credi”.
Sospensione strepitosa, in cui la voce s’arresta in mancanza delle parole, in cui tutto è accolto nel silenzio onirico di un perché filosofico che aspetta una risposta, e che “..Una lingua di vento / fischia attraverso / i frantumi di vetro fra le tende, / nel vano semivuoto /.. contro tutte le attese”.
In conclusione riesco solo a dire che se la cultura di un popolo si misurasse sulle mode musicali e canzonettistiche di passaggio perderebbe ogni particolare significato poetico e letterario, mentre, al contrario la ‘poesia popolare’ non conosce alcuna forma di stasi o di annullamento, ed è per questo che di tanto in tanto assistiamo a una sua ‘rinascita’ riscontrabile nella sua continuità, seppure in alcuni periodi storici più lenta e difficile a causa della contaminazione di certe mode ‘inflazionistiche’ entrate di straforo nella sua evoluzione. È un fatto che quando si parla di cultura popolare cosiddetta ‘tradizionale’ si torna sempre a un passato remoto di dimenticata memoria, ma che altresì l’uso in voga della rivisitazione, del recupero, chiamiamolo anche del ‘revival’, sottolineano una certa continuità discorsiva con quei ‘valori’, mai completamente perduti, significativi di una cultura autonoma tipicamente emiliana e ovviamente italiana, formativa della realtà sociale che noi tutti ci troviamo a vivere …
..no, nessun viaggio ci porta così lontano come il rimuginare della terra di questa nostra terra d’Emilia ché l’amore è canto ..no, nessun viaggio ci porterà lontano così lontano da qui perché noi siamo viaggiatori sulle ali del tempo in cerca di un’ultima parola.
C’è ovviamente un’altra Emilia, tante altre Emilie che meriterebbero di essere citate: quella del Teatro, quella Letteraria e Artistica, quella Universitaria, delle Fiere, delle manifestazioni di piazza ecc. Ci sono le città importanti come Bologna, Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Ferrara, Modena, nonché la vicina Romagna con Ravenna, Rimini, Riccione, Cesenatico, Cattolica e tante altre piccole comunità ugualmente importanti, con altrettante tradizioni, usi e costumi, musiche, danze e strumenti di cui si tratterà in altro luogo. Per il momento mi fermo qui col rinnovare l’invito a inviare a questa redazione i vostri racconti/ricordi ‘regionali’ che in seguito potreste vedere inseriti nei prossimi saggi/articoli di : “La Tradizione Italiana”.
Note bibliografiche:
“Folklore Italiano” - Paolo Toschi – Sansoni Edit. - “I canti popolari Italiani” a cura di Roberto Leydi - “Orsù, ben venga Maggio…: la tradizione in Italia – Saggio di Giorgio Mancinelli – Larecherche.it 2015. “Emilia Romagna” a cura di Giuseppe Vettori – Lato/Side Edit. 1981 “La luce oltre le crepe” – raccolta poetica a cura di Roberta De Tomi e Luca Giglioli - Bernini Edit.2012 ‘E siamo stati come case’ di Luca Artioli – poesia in “La luce oltre le crepe”, op.cit. “Le case bambine” di Marzia Braglia – poesia in “La luce oltre le crepe”, op.cit. “At to Final” di Maria Grazia Fabbri – poesia in “La luce oltre le crepe”, op.cit. “Tsunami” di Mabi Col – poesia in “La luce oltre le crepe”, op.cit. “… e non ci credi” di Claudio Porena – poesia in “La luce oltre le crepe”, op.cit.
Discografia: “Almanacco Popolare” – canti e balli dell’Italia Settentrionale – Albatros LP8289 “Canti popolari Italiani” – gruppo dell’Almanacco Popolare – Albatros LP8089 “Siam venuti a cantar Maggio” – Canzoniere Internazionale – Cetra LP261 “Bella Ciao” – Il Nuovo Canzoniere Italiano – I dischi del Sole LP DS101/3 “La donna nella tradizione popolare” – a cura di Sergio Boldini – Zodiaco LP ZD4116 “Le canzoni del lavoro” a cura di Sergio Balloni – Signal LP SM3407 “Sebben che siamo donne” – Anna Casalino – Cetra LPP243 “Canti dell’Osteria” – M.Cipolla e il Gruppo Naviglio – UP LPUP5183 “I Viulan” Musiche tradizionali di Giorgio Massini – EMI-Odeon LP 054-18276 “Chants de mendiants” – La musica in Italia - Harmonia Mundi CD190434 “Bella Ciao” –collection – Harmonia Mundi CD 190734 “Il fischio del vapore” – F. De Gregori e G. Marini – Caravan CD 510218 2 “Vola vola vola” Canti popolari e canzoni – A. Sparagna e F. De Gregori – Parco della Musica – MPR 039CD. “Gocce” Acqua per la Pace – Modena City Ramblers – Mercury CD Coop
Nota dell’autore: Parte dei contenuti e delle musiche e canzoni citate all’interno di questo articolo e facenti parte della ricerca filologica e musicale, sono state in parte utilizzate nella trasmissione radiofonica RAI-Radio3 “Cantarballando di Regione in Regione” in onda dal 21-03-1982 e che sono parte della ricerca filologica e musicale dell’autore.
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