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‘Viaggiare’ con il grande Cinema.

Argomento: Cinema

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 29/01/2016 06:30:34

‘Viaggiare’ con il grande Cinema.

“Trains and boats and planes are passing by … they mean a trip to …” (B. Bacharach-H. David)

Sì, “I treni e le barche e gli aerei sono di passaggio…significano un viaggio verso …”, tutti quei ‘luoghi’ del mondo che oggi in parte conosciamo perché visitati o, per altri versi conosciuti, tramite le ‘location’ di film che ci hanno fatto ‘vivere’ o rivivere emozioni e avventure appartenenti al linguaggio visivo, in quanto luoghi utilizzati nell’ambientazione cinematografica o verosimilmente ricostruiti in studio. Più esattamente, il ‘set’ esterno o interno prescelto dallo scenografo insieme al regista, onde ambientare un film o simularne la presenza in una sequenza fotografica. In breve, il luogo dove si svolge la scelta narrativa, teatrale, televisiva e comunque filmica di un’ambientazione che può riguardare il passato o il passato remoto, per quei film di rilevanza storica; il presente per l’attualità e la cronaca recente, oppure il futuro, nel caso della fantascienza; come per esempio è avvenuto con “La macchina del tempo” il romanzo che Herbert George Wells scrisse nel 1895 dal quale sono state tratte almeno tre sceneggiature.

In alcune famose sceneggiature, infatti, di cui si ha riscontro nel teatro e soprattutto nel cinema, si denota l’utilizzo di almeno tre diverse ambientazioni, relative ai ‘tempi narrativi’ del romanzo dal quale era tratta la sceneggiatura portata sullo schermo. E comunque un’ambientazione diversa da quella originale, riguardo ad esempio la trasposizione in un’altra epoca, o un periodo staccato dal presente, con la tecnica del deja-vù, o del back-up; che hanno permesso il prodursi nella mente dello spettatore una sorta di ‘vademecum visivo’ che ha influenzato non poco il senso del nostro ‘viaggiare nella conoscenza’, allargando di fatto l’orizzonte del nostro immaginario, fino a qualche tempo fa, e per diverse ragioni, limitato al ristretto mondo delle disponibilità che, nonostante tutto, ognuno in sé possiede, e relative al senso d’avventura, alla curiosità di esplorare novi luoghi e nuovi mondi, di metterci, per così dire, le mani sopra e vederla con i propri occhi, anziché apprenderne i recessi dalla lettura di un libro, dallo sfogliare una rivista sull’argomento o dalla visione di un documentario.

È così che ‘apprendere’ dalla storia, ‘penetrare’ la struttura di un oggetto, ‘conoscere’ altra gente, ha assunto nel tempo significati diversi; non in ultimo, o forse più semplicemente, abbiamo imparato ad avvicinare altri popoli, appreso altri costumi, conosciuta altra arte e, in senso speculativo, siamo andati incontro agli ‘altri’ avventurandoci nell’ignoto, nell’accezione di scoprire ciò che viene dopo; e perché no, di ritrovarci con se stessi ... “Non c'è piacere più grande nel viaggiare che questo – scriverà Albert Camus in "Carnets” – e io lo vedo come un'occasione per affrontare una prova spirituale (..) Il viaggio, come una scienza più grande e più grave che ci riporta a noi stessi.” Tuttavia ‘viaggiare’ è qualcosa cui oggi in molti prestano attenzione, molto più che in passato, sfogliando rotocalchi e guide, andando al cinema o standosene seduti davanti alla televisione, affascinati non poco dalle immagini e dalle sequenze filmiche di un documentario, in ragione di uno spirito innato che ci portiamo dentro, che è poi quello dell’evasione, ma che subito si trasforma in ‘avventura’, dacché ci spinge a voler scoprire ‘luoghi’ solo apparentemente lontani, oggi assai più vicini e raggiuingibili di ieri.

Così vicini al nostro ‘presente’ le cui incognite, pur restando a noi del tutto sconosciute, s’avvalgono di quella spinta all’indietro che ci permette di ‘contestualizzare’ il passato scavalcando il presente; e di avventurarci nel futuro, in quel fantascientifico ignoto altrettanto misterioro a cui da sempre tendiamo. Ragione per cui il ‘mondo’ a disposizione sembra non bastarci più, pur restando semisconosciuto e infinito se confrontato con la nostra breve esistenza. Ciò anche in funzione dell’aver racchiuso la nostra fertile fantasia dentro una fitta rete di ‘immagini’ cui vogliamo (perché lo vogliamo non è vero?), ad ogni costo, far nostre, quasi a volerne ridisegnarne i contorni, renderle vive, come per un atto creativo che scusi ai nostri occhi l’ambizione di un ‘spirito d’avventura’ innato. Quello stesso che ci ha permesso di valicare montagne, navigare per mari e oceani, imitare il volo degli uccelli, viaggiare nello spazio, e accresciuto, attraverso le emozioni e i sentimenti che il viaggiare ci da, la conoscenza del mondo in cui viviamo, nella consapevolezza di soddisfare il nostro infinito desiderio di superare noi stessi; così da ‘visualizzare’ ciò che, in ogni epoca fino ad oggi, ha accompagnto il nostro ‘sognare di essere nel mondo’ rasentando spesso l’inverosimile e per quanto lo sviluppo tecnologico e scientifico abbia poi visto la realizzazione di quanto si andava delineando, in fatto di ‘visualizzazione’ del nostro instancabile immaginario.

Lo stesso che i ‘costruttori di immagini’, quali noi siamo inquanto scrittori e illustratori, per non dire degli artefici di tanta arte, si sono prodigati per meglio realizzare tutto quanto credevamo appartenesse solo alla fantasia di un tempo, a quel passato fatto di oralità e fiabe, di leggende e miti dimenticati, in qualità di patrimonio esclusivo dell’arte e della letteratura, delle saghe e dei grandi romanzi in genere. Cioè di tutto quello scrivere e visualizzare in immagini, che pur nei suoi diversi aspetti ci ha permesso, in passato, di trasporre la nostra immaginazione fin oltre gli ‘estremi’ lembi della conoscenza che andiamo esplorando e che, oggi costituiscono il bagaglio conoscitivo dell’intera umanità, cospicui di idee e immaginazione che in qualche modo travalica lo spazio del nostro vivere quotidiano. Un quotidiano se vogliamo alquanto surreale, decisamente artificioso, che fin dall’inizio si presentava come un insieme di situazioni sceniche manipolate all’occorrenza, in quanto:

“Espediente felicemente riuscito per alcuni e del tutto artificioso per altri; (..) nel tentativo, non si sa bene quanto riuscito, di dare unità all’intero impianto letterario/drammaturgico dell’epoca che andava confluendo nel cinematografo. Un fare cinema, quello degli inizi, che parlava con un linguaggio atipico, degli schemi e degli umori del romanzo d’appendice. (..) E poi quell’intonazione educativo-moralistica che era propria del feuilleton, e in più conservava quel fondo umano, quasi da rimpianto, di un ‘paradiso perduto’ verso il quale tendevano tutti i personaggi (dei romanzi e poi del cinema), spinti e animati da sentimenti consolatamente o sconsolatamente umani”. Così carichi di un’ansietà di vivere che li teneva sempre in costante fervore, traboccante di costante quanto di incredibile voglia d’avventura, quasi fossero sempre sulla linea di mettersi in gioco. Ma solo nella finzione, perché nella realtà non è la loro vita che eccita la nostra fantasia, tale da sembrare autentica o quantomeno possibile, bensì quella che consciamente vorremmo far nostra. Cioè, consequenziale di un possibilismo che l’avanzamento costante della scienza e della tecnologia tutt’ora si lascia solo ‘immaginare’ come probabile ed eventuale di un filo conduttore che travalica il nostro tempo e si spinge nell’addivenire.

Come era ovvio che accadesse, tutto ciò ha avuto un inizio: il 28 Dicembre 1895, giorno della prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière, considerata la data di nascita dello spettacolo cinematografico, benché le prime immagini in movimento furono realizzate molto prima, allorché l’invenzione fu concepita come un prezioso strumento per la ricerca scientifica. Ecco, il nostro ‘viaggio’ incomincia appunto da quei ‘pionieri’ che, a partire dal 1873, studiarono e progettarono apparecchi e materiali sensibili alla luce. Tra i tanti l’astronomo Janssen, il fotografo Mybridge e il fisiologo Marey, grazie ai quali furono messe a punto macchine che permettevano l’analisi di movimenti nel dettaglio, riuscendo a far ‘vedere l’invisibile’. Le prime applicazioni del nuovo mezzo furono certamente stupefacenti, gli spettatori del tempo poterono infatti guardare cose mai viste fino allora, come riprese temporizzate per lo studio della botanica, i primi film girati con i raggi X o in sala operatoria. Tre momenti di straordinario interesse e ricchi di immagini filmate che, per la prima volta, venivano mostrate al difuori dell’ambiente scientifico, e che sono oggi fondamentali per chi voglia conoscere gli sviluppi del mezzo cinematografico che ha determinato l’odierna civiltà delle immagini.

Altrettanto numerose sono le pellicole che determinarono lo spazio di quella che, non a caso, fu definita la ‘settima arte’ del tempo moderno, oggi a dir poco sconosciute, quando non addirittura andate perdute, e solo in qualche caso ritrovate, come è accaduto a molte altre trafugate nel periodo della guerra del 1943 e andate distrutte. Ciò che rende impossibile darne qui una elencazione fittizia e che, pertanto, mi limito a ricordarne solo alcune di cui si ha ricordo, non tanto per rifare la storia di un cinema che c’era, quanto di un cinema che non c’era ma che si voleva fare a tutti i costi: L’Inferno (1911) di Francesco Bertolini, composto da 54 scene animate ispirate alle illustrazioni di Gustave Doré della prima cantica della “Divina Commedia”, e che abbiamo potuto visionare solo nella versione restaurata del 2004, con l’aggiunta delle musiche del gruppo rock dei Tangerine Dream; Ma l'amor mio non muore (1913), diretto dal regista Mario Caserini, con Lyda Borelli, Mario Bonnard, Maria Caserini; Sperduti nel buio (1914) di Nino Martoglio ritenuto precursore del Neorealismo italiano; Assunta Spina (1915) di e con Francesca Bertini considerato uno dei film di maggiore successo del cinema muto italiano; Femmine folli (1922) e Sinfonia nuziale (1926) entrambi di Erich von Stroheim; La strada (1923) diretto da Karl Grune, un classico dell'espressionismo tedesco, ripreso poi nel 1954 da Federico Fellini con i due straordinari interpreti Antony Qeen e Giulietta Masina; Rotaie (1929) di Mario Camerini; Tabù (1931) scritto e diretto da Friedrich Wilhelm Murnau, censurato a suo tempo negli Stati Uniti per la presenza di donne polinesiane a seno nudo.
Le potenzialità della ‘nuova arte’ si fecero ben presto apprezzare con film che negli anni successivi strabiliarono un pubblico attonito fino allo sgomento: l’Odissea (1911) diretto da Francesco Bertolini e Adolfo Padovan, un primo ‘muto italiano’ ispirato al libro di Omero, ripreso poi nel 1969; La caduta di Troia (1911) e Cabiria (1914) entrambi di Giovanni Pastrone che, insieme a Quo Vadis (1912) di Enrico Guizzoni segnarono l’inizio del genere ‘kolossal’, contenenti cioè spostamenti di grandi masse di ‘comparse’; Nascita di una nazione (1915) di David W. Griffith; L'Atlantide (1921) di Jacques Feyder; e quel Metropolis (1927) di Fritz Lang che, con le sue audaci architetture aeree creò e divulgò immagini strabilianti di pura bellezza. Chi l’avrebbe detto, ad esempio, che un film come Lord Jim (1925) tratto dal romanzo di Joseph Conrad e adattato per lo schermo da Victor Fleming; o che anche quello successivo del 1965, diretto da Richard Brooks con lo starordinario Peter O’Toole, aprisse le porte a un genere entusiasmante denominato di ‘cappa e spada’ e di avventurieri di mare come i ‘corsari’. O che Mata Hary (1931) di George Fitzmaurice con la ‘divina’ Greta Garbo desse inizio a tutto un genere ‘spy-dective’ che avrebbe avuto un così fortunato seguito. Che, Don Chisciotte (1933) di Pabst con l’inarrivabile F. Chaliapin, vedesse almeno 10 remake? O che Moby Dick (1956), tratto dal romanzo di Herman Melville del 1851 e diretto da John Houston nell’indimenticabile interpretazione di Gregory Peck (Capitano Achab), potesse esistere davvero nel profondo degli oceani (?).

Nessuno credo, come del resto alcuno avrebbe pensato che alcune pellicole del cinema cosiddetto ‘espressionista’ come Il Golem (1920) dei registi Paul Wegener e Carl Boese; Il gabinetto del dott. Caligari (1920) di Robert Wiene; Il dottor Jekyll e Mr. Hyde (1920) di John S. Robinson, tratto dal racconto omonimo di R. Stevenson; o che il genio malefico del Dottor Mabuse (1922) di Fritz Lang con i due ‘sequel’ apparsi sempre in quegli anni, avrebbero dato il via alla creazione di un ‘genere’ a sé stante che spaziava tra il fantascientifico e l’orrore, per l’appunto denominato ‘horror’. Cui fecero seguito Nosferatu il Vampiro (1922) di Friedrich W. Murnau, ripreso in seguito da Dracula (1931) diretto da Tod Bronwing con Béla Lugosi e che, tra tutti i remake, anche quelli più vicini a noi, fino a Dracula il Vampiro (1958) nel remake di Terence Fisher con l’orrifico e pur bravissimo Christopher Lee, rimane il più fedele al romanzo originale di Bram Stoker. E a tutta una serie di ‘freaks’, ‘mostri’ ed esseri all’epoca inqualificabili, come quelli apparsi in Il tesoro (1923) del pur grande Wilhelm Pabst; Il gobbo di Notre Dame (1923) di Wallace Worsley e, quel Il fantasma dell’opera (1925) di Rupert Julian, entrambi interpretati dalla ‘maschera incredibile’ che fu Lon Chaney; fino all’omonima quanto straordinaria ‘piece musicale’ (1986) di Andrew Lloyd Webber; e ai racconti di Edgar Allan Poe (grande padre dell’Horror), che abbiamo visto in La caduta della Casa Usher (1928) diretto da Jean Epstein.

Senza nulla togliere a Frankenstein (1931) di James Whale tratto dall’omonimo romanzo di Mary Shelley che vide la sublime interpretazione di Boris Karloff; o dei suoi numerosi ‘remake’, tra cui svetta quello del 1994 con De Niro, ma che abbiamo comunque apprezzato nelle versioni comiche in La famiglia Addams (1973), di Charles Addams, la cui prima apparizione risale agli anni trenta in una serie di vignette umoristiche pubblicate sul settimanale The New Yorker; e nel parodistico Frankenstein Junior (1974) diretto da Mel Brooks. Chi davvero mai avrebbe detto che uno straordinario ‘mostro’ come King-Kong (1933) di M. C. Cooper e E. B. Schoedsack, potesse esistere nella realtà? Non sono forse da considerarsi del genere ‘avventura’ anche i ‘viaggi fantascientifici’ descritti da Jules Verne alla fine dell’Ottocento, in compagnia del quale abbiamo attraversato il globo in ogni direzione nella penombra del tempo, fra città perdute, tigri, locomotive, sommergibili e aeroplani? Chi di noi non rammenta le emozioni narrate in 20.000 Leghe sotto i Mari (1954) di Richard Fleischer; Il giro del Mondo in 80 giorni (1956) di Michael Levinson; Viaggio al centro della Terra (1959) di Henry Levin; Cinque settimane in pallone (1962) di Irvin Allen.

Un discorso a parte va fatto per i numerosi film con “Tarzan”, personaggio immaginario inventato da Edgar Rice Burroughs che rappresenta l'archetipo del bambino selvaggio allevato nella giungla dalle scimmie, che ritorna in seguito alla civilizzazione solo per rifiutarla in buona parte e tornare nella natura selvaggia nelle vesti di eroe ed avventuriero. È apparso per la prima volta nel romanzo Tarzan delle Scimmie (Tarzan of the Apes, pubblicato originariamente nell'ottobre del 1912 sulla rivista The All-Story e in volume nel 1914) e in seguito in 23 storie e in innumerevoli opere su altri media, autorizzate o meno. La fortuna di Tarzan non risiede solo nelle storie, avventure mozzafiato in terre esotiche e aliene, ma anche nello stile adottato da Burroughs, che fa della semplicità della scrittura il cardine dei suoi romanzi, ottenendo facilmente un forte legame con il lettore ed una più facile identificazione con personaggi che normalmente non fanno parte del vivere quotidiano. I racconti di Tarzan sono stati trasposti nel cinema, televisione, fumetto, anche con nuove storie originali. Il personaggio vanterà inoltre numerosi imitatori (i cosiddetti tarzanidi). (Wikipedia)

Quante avventure e quante emozioni!, permettetemi di dirlo, e soprattutto quanta ‘storia’ e quanta ‘finzione’ c’era in quelle pellicole, tale ch’è divenuto proverbiale dire: “trattasi pur di cinematografo!”.

Ebbene sì, ma quanto ci ha dato e quanto ci ha insegnato è incommensurabile. Frotte di giovani sono rimasti folgorati da personaggi cinematografici di uomini ‘impossibili’ nella realtà; dagli amori ‘fatali’ di donne appassionate. Quanti ‘idealisti’, quanti ‘visionari’, e quanti veri ‘uomini’ sono cresciuti sotto l’egida del ‘cinema’ e da questo hanno preso a modello atteggiamenti e comportamenti di personaggi della celluloide, uomini e donne senza differenziazioni (?) che, in qualche modo, ha svelato loro i segreti d’una vita che si mostrava ‘meravigliosa’ o, quantomeno avventurosa: La grande illusione (1937) di Jean Renoir; Il porto delle nebbie (1938) di Marcel Carné e Il bandito della Casbah (1942) di Julien Duvivier, tutti con lo stravolgente Jean Gabin; per non dire di Casablanca (1942) di Michael Curtiz, con l’altro straordinario attore ch’è stato Humprhey Bogart e la pur meravigliosa Ingrid Bergman.

Ma torniamo alla grande avventura del cinema con La corazzata Potëmkin (1925), Sciopero (1925), Ottobre (1928), Que Viva Mexico (1931) visto solo nel 1979, Aleksandr Nevskij (1938) una ricostruzione storica di propaganda antinazista in chiave epica, tutti del grande regista russo Serghej Eisenstein che indiscutibilmente, per taglio filmico, ombre e luci del bianco-nero, per l’atmosfera ambientale (scenografie) e sceneggiatura (sintetismo), interpretazioni da urlo, montaggio geniale, hanno influenzato e fatto scuola per tutto il ‘900. Cui hanno fatto seguito l’italiano Terra madre (1931) e 1860 (1934) entrambi di Alessandro Blasetti; L’Atalante (1934) di Jan Vigo, al pari di tanti altri meno impegnativi come: I Viaggi Di Gulliver (1939) da Swift, di Max e Dave Fleischer; Lo Sparviero del Mare (1940) di Michael Curtiz che ci fece conoscere l’atletico Errol Flynn; Il figlio della furia (1942) di John Cromwell con Tyrone Power; L’Isola del Tesoro (1950) di Robert Louis Stevenson che tanto ci incuteva paura e ancora tanto ci sorprende per le sue cupe scene marinare.

Nonché tutti o quasi i romanzi di Jack London, lo scrittore statunitense noto per aver scritto “Il richiamo della foresta” (1923) di Fred Jackman, “Martin Eden” (1942) di Sidney Salkow, “Zanna Bianca” (1973) di Lucio Fulci con Franco Nero e Virna Lisi, tutti più o meno trasposti in altrettanti film di successo ed entrati a far parte del nostro bagaglio culturale, nello specifico, di quella ‘letteratura d’avventura’ e quindi anche ‘letteratura cinematografica’ che ha in indice la scienza e la fantascienza, in altre parole quel ‘viaggiare’ che da sempre ci emoziona. E che dire di Emilio Salgari con i suoi famosi ‘cicli letterari’ dedicati ai Pirati delle Antille (1908) ed ai Pirati della Malesia (1913) con i quali ci spingemmo fra giungle, tigri, e che fra l’altro ci fecero conoscere luoghi per quel tempo irraggiungibili come Cina, Filippine, Paraguay, India, Polo Nord ecc. conducendoci fra mari in tempesta, galeoni corsari, pantere affamate, deserti e ghiacciai sterminati. Sicuramente straordinari furono i film Il ladro di Bagdad (1924) di Raoul Walsh che fu la rivelazione di Douglas Fairbanks; l’amaro e pur straordinario La buona terra (1937) di Jean Vigo, tratto dall’omonimo romanzo di Pearls Buck così straordinariamente umano.

Per non dire di molta letteratura d’avventura, cosiddetta ‘per ragazzi’, che ha visto numerosi titoli trasferiti in altrettanti film di successo e che indubitabilmente vanno qui ricordati: Il Mago di Oz (1939) di Victor Fleming con l’amorevole Judy Garland; e quel Libro della giungla (1942) di Rudyard Kipling, dal quale fu tratto l’omonimo film per la regia di Zoltan Korda con il giovane Sabù, e quello del (1967) diretto da Wolfgang Reitherman; al quale non fu da meno il ‘cartoon’ della Walt Disney & C. prodotto nello stesso anno e che, ancor prima aveva prodotto quel capolavoro che fu Pinocchio (1940) tratto da Collodi; nonché la felice trasposizione cinematografica di Alice nel paese delle meraviglie (1951) di Geronimi, Luske e Jackson. Non sono anche questi film tutti da ricordare e da rivedere in quanto raccontano di ‘viaggi’ e di ciò che dà significato al nostro immaginifico ‘viaggiare’, seppure con la fantasia? Devo ammettere che all’epoca sembravano altrettanto meravigliosi, così, tanto per restare in casa nostra, è doveroso ricordare che le pellicole erano ancora in bianco/nero, il colore sarebbe arrivato molto tempo dopo, così anche la ‘sonorizzazione’ di tutti quei film che seguirono il primo film sonoro italiano La canzone dell’amore (1930) di Gennaro Righelli.

Per il genere ‘viaggiare con il grande cinema’ italiano, dopo l’apertura degli studi di Cinecittà avvenuta nel 1937, assumono importanza tutti, o quasi, i diversi ‘generi’ filmici entrati di merito nella storia della cinematografia italiana: Scipione l’Africano (1937) di Carmine Gallone; L’Assedio dell’Alcazar (1940) di Augusto Genina, con Febo Giachetti e Andrea Checchi; Dagli Appennini alle Ande (1943) di Fabio Calzavara tratto dal libro “Cuore”; Roma città aperta (1945) con Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Maria Ninchi, e Paisà (1946) entrambi di Roberto Rossellini; La terra trema (1948) di Luchino Visconti, e Stromboli (1950) ancora di Roberto Rossellini, che per la prima volta fece porci la domanda: “..ma dov’è Stromboli, mica sarà in Italia?”. Per arrivare poi a Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica; Il cappotto (1952) di Alberto Lattuada tratto da Gogol con uno straordinario Renato Rascel; e il documentaristico Viaggio in Italia (1954) ancora di Roberto Rossellini, restaurato e presentato lo scorso anno a Cannes. Nonché La grande Guerra (1959) di Mario Monicelli con due straordinari interpreti Vittorio Gasman e Alberto Sordi.

Ma facciamo un passo indietro nel cinema internazionale, sono degli anni ’50: Kon Tiki (1950) film documentario di Thor Heyrdahl; Tamburi lontani (1951) di Raul Walsh con Gary Cooper; Le nevi del KiIlimanjaro (1952) di Henry King con uno staff a dir poco stellare; I sette samurai (1954) interpretato, tra gli altri, da Toshirō Mifune e Takashi Shimura, diretto da Akira Kurosawa che quattro anni prima aveva firmato quel capolavoro di Rashomon (1950); e inoltre La pista degli Eelefanti (1954) di William Dieterle; L'arpa birmana (1956) diretto da Kon Ichikawa; Sayonara (1957) di Joshua Logan con Marlon Brando; Sinbad il Marinaio (1958) diretto da Nathan H. Juran, che fu l’eroe di un ciclo di racconti leggendari, ma soprattutto “di viaggio”, tratti dalla raccolta novellistica araba “Mille e una notte”. Ancora di quegli anni La tigre di Eschnapur e Il sepolcro indiano (1959) entrambi diretti da Fritz Lang, il primo film diviso in due parti, e il più lungo in assoluto che si ricordi. Seguito nello stesso anno dal sequel: Le miniere del re Salomone e, Watussi (1959) di Kurt Newman con Stewart Granger e Debora Kerr che aprirono un nuovo filone d’avventura geologico-archeologica, proseguito con la ‘saga’ per la TV dedicata al personaggio di Sandokan (1976) diretta da Sergio Sollima e magistralmente interpretato da Khabir Bedi; e dal
sequel de La mummia (1999) di Stephen Sommers con Brendan Fraser, e Il re scorpione (2002) di Chuck Russell con Dwayne Johnson.

Volendo restare nei limiti del genere ‘artistico-mélos’, vanno qui citati capolavori epico/lirici sonori riconducibili al genere ‘kolossal’ quali: Via col vento (1939) di Victor Fleming con le strepitose interpretazioni di Vivien leigh, Clark Gable, Olivia de Havilland e leslie Haward; Quo Vadis (1951) nell’adattamento del romanzo omonimo di Henryk Sienkiewicz, diretto da Mervyn LeRoy, con l’insuperabile Sir Peter Ustinov; Salomè (1953) di Fleming e Dieterle; Sinhue l’Egiziano (1954) dal romanzo di Mika Waltari, diretto da Michael Curtiz nella stupenda interpretazione di Edmund Purdom; Ulisse (1954) di Mario Camerini e Mario Bava tratto dall'Odissea di Omero con uno stuolo di grandi attori come Kirk Douglas, Silvana Mangano, Antony Quinn, Rossana Podestà, Franco Interlenghi; I dieci comandamenti (1956) diretto dal grande Cecil B. DeMille che in seguito diresse Ben Hur (1959) con il quale s’impose all’attenzione internazionale lo formidabile Charlton Heston. Fino ad arrivare ai capolavori assoluti quali: Il Re ed Io (1956) di Walter Lang con Yul Brinner e Debora Kerr; Salomone e la regina di Saba (1959) di King Vidor con Gina Lollobrigida e Yul Brinner; Guerra e Pace (1956) tratto dall’omonimo romanzo di Tolstoj per la regia di Victor Fleming; Gli ultimi giorni di Pompei (1959) di Sergio Leone con Sophia Loren.

Gli anni ’60 sono forse i più proficui di opere attribubili all’arte cinematografica, un ritorno quasi al genere cosiddetto ‘di massa’, intendendo con ciò la partecipazione di numerosi attori e un infinito numero di secondari e comparse: Exodus (1960) di Otto Preminger con ‘l’immpassibile’ Paul Newman; Spartacus (1960) di Stanley Kubrick con l’audace Kirk Douglas; Lawrence d’Arabia (1962) diretto da David Lean nell’immensa interpretazione di Peter O’Toole; La conquista del West (1962) di John Ford, ottavo remake del film del 1936 diretto da C. De Mille con Gary Cooper; Gli ammutinati del Bounty (1962) con lo strabiliante Marlon Brando, del quale si sono visti numerosi remake; Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti tratto dall’omonimo romanzo di G. Tommasi di Lampedusa, con uno straordinario Burt lancaster e la meravigliosa Claudia Cardinale, Alain Delon, Paolo Stoppa e Rina Morelli, Romolo Valli e i giovanissimi Ottavia Piccolo e Pierre Clémenti. Nonché il fastoso Cleopatra (1963) di Mankieviz e D. Zanuck con la coppia E. Taylor e R. Burton; 55 giorni a Pechino (1963) diretto da registi diversi, con Charlton Heston, Ava Gardner, David Niven; La caduta dell’impero romano (1964) di Antony mann; Zulu (1964) di Cy Endfield; Il Dott. Zivago (1965) di David Lean dal romanzo di Boris Pasternak, dove s’imposero le figure di Omar Sharif e il portentoso Rod Steiger, il ‘signore’ del cinema inglese Alec Guinness e la pur splendida Julie Christie.

Una parentesi d’obbligo va riservata a Pier Paolo Pasolini, scrittore, sceneggiatore, drammaturgo, poeta, attore, regista, considerato uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani del XX secolo, ed anche il più emblematico. Il quale, dopo il suo esordio nel cinema negli anni '50 come soggettista intrprese la strada della regia con Accattone (1961) e Mamma Roma (1962) con la pur grande Anna Magnani, suoi primi film che lo fecero conoscere a livello internazionale. Ma il Pasolini che più interessa qui è il ‘viaggiatore’ instancabile dentro e fuori le sceneggiature dei suoi film di genere ‘storico’ e ‘letterario’ rivisitati in chiave critica; a cominciare da Il Vangelo secondo Matteo (1964); Appunti per un film sull’India (1965) da cui fu tratto un libro con Alberto Moravia, “Il profumo dell’India”, un cammeo assoluto nella storia della letteratura di viaggio; il capolavoro interpretativo di Totò Uccellacci, uccellini (1966); Edipo Re (1967); Medea (1969) con Maria Callas; Appunti per un’Orestiade Africana (1970); Il Decameron (1971) da Giovanni Boccaccio; I Racconti di Canterbury (1972) da Geoffrey Chaucer; Le mura di Sana’a (1973); Il fiore delle Mille e una Notte (1974); tutte opere che hanno aperto una improvvisa finestra sul senso del ‘viaggio’, mostrando i recessi della conoscenza e dell’ambiguità intrinseca nel viaggiare.

Si consideri che sono di quegli stessi anni film che hanno avuto rilevanza mondiale, come Khartoum (1966) di Basil Deardem con Lawrence Olivier e Charlton Heston; e La Bibbia (1966) di John Huston, che fece dire al mondo che ‘mai un film era stato così coinvolgente’; C’era una volta il West (1968) il capolavoro di Sergio Leone; Queimada (1968) di Gillo Pontecorvo; Waterloo (1970) di Sergej Fëdorovič Bondarčuk; Excalibur (1981) di John Boorman; Marco Polo (1982) di Giuliano Moltaldo dal libro omonimo, una miniserie televisiva di grande successo; Il Mahabharata (1990) dall'antico poema indiano quindici volte più lungo della Bibbia, portato sullo schermo dal geniale Peter Brook; L’ultimo imperatore (1987) di Bernado Bertolucci che di li a poco firmerà la regia di Il Tè nel deserto (1990) il suo capolavoro, tratto dall'omonimo romanzo di Paul Bowles, con John Malcovich; 1492- La conquista del paradiso (1992) diretto da Ridley Scott con la struggente colonna sonora di Vangelis; Il Gladiatore (2000) di Ridley Scott; Master& Commander (2003) di Peter Weir entrambi con Russel Crowe; Il velo dipinto (2006) diretto da John Curran, tratto dall'omonimo romanzo di William Somerset Maugham, girato prevalentemente in Cina.

Appartengono al genere ‘western & war’ nell’ampia accezione che mette assieme ‘spy e detective story’, e non solo: The big trail (1930) di Raoul Walsh e Ombre Rosse (1959) di John Ford; Da qui all’eternità (1953) di Fred Zinnemann con Burt Lancaster, Montgomery Clift, Debora Kerr, Donna Reed, Frank Sinatra che, penso, non bisognano di alcuna presentazione; La valle dell’Eden (1955) di Elia Kazam con James Dean; Il gigante (1956) di George Stevens con Elizabeth Taylor, Rock Hudson, James Dean; Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick con Kirg Douglas; I Magnifici 7 (1960) con Yul Brinner, Steve McQueen, Charles Bronson, Ely Wallach; La battaglia di Alamo (1960) di e con J. Wayne; Hatari! (1962) di Howard Hawks; Django (1966) di Sergio Corbucci con Franco Nero e riadattato dall’estroverso Quentin Tarantino; Il piccolo, grande uomo (1970) di Arthur Penn con Dustin Hoffman che dava seguito al genere ‘western’ con entratura psicologica; il bel documentario Le sorgenti del Nilo (1971) di Kenneth Haigh, tema ripreso poi Bob Rafelson in Le montagne della luna (1990); Il Messia (1975) di Roberto Rossellini; Il deserto dei Tartari (1976) di Valerio Zurlini tratto dal romanzo omonimo di Dino Buzzati; il capolavoro assoluto di Franco Zeffirelli Gesù di Nazareth (1977) con un cast mozzafiato; tematica che sarà ripresa in La Passione di Cristo (2004) scritto e diretto da Mel Gibson, interamente girato a Matera in Italia; Nuovo Cinema Paradiso (1988) diretto dal Premio Oscar Giuseppe Tornatore; Teatro di guerra (1998) di Mario Martone, e Noi credevamo (2010) diretto da Mario Martone su sceneggiatura del regista e di Giancarlo De Cataldo, liberamente ispirata alle vicende storiche realmente accadute e al romanzo omonimo di Anna Banti.

Un discorso a parte va fatto per il ‘genio’ del cinema italiano Sergio Leone, uno dei più importanti registi della storia del cinema internazionale, particolarmente noto per i suoi film del genere ‘spaghetti-western’. Nonostante abbia diretto pochi film, la sua regia ha fatto scuola e ha contribuito alla rinascita del western negli anni sessanta, grazie a titoli come Per un pugno di dollari (!964), Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966) che insieme formano la cosiddetta "trilogia del dollaro", C'era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971), mentre con C'era una volta in America (1984), ha profondamente rinnovato il lessico dei gangster movie tre pellicole che insieme compongono invece la "trilogia del tempo". Inutile dire quanti e quali attori già a suo tempo famosi del cinema americano ha fatto rivivere nei suoi film, uno per tutti quel campione d’incassi che fu Clint Eastwood. Nel 1972 con Giù la testa è stato vincitore del David di Donatello per il miglior regista. Nel 1985 con C'era una volta in America ha vinto il Nastro d'argento al regista del miglior film, è stato nominato al Golden Globe per il miglior regista ed è stato nominato al David di Donatello per il miglior regista straniero. Nel 1984 gli è stato inoltre assegnato il David di Donatello René Clair (premio che ora non viene più assegnato). Il 9 ottobre 2014 gli è stato attribuito, alla cerimonia del Premio America presso la Camera dei deputati, un premio speciale alla memoria dalla Fondazione Italia USA.

Tanto per spingerci oltre, sottolineo alcuni film dalle tematiche diverse e, tuttavia, riconducibili dentro un umico filone: Quarto Potere (1941) del pur geniale Orson Welles; Il padrino (1972), prima pellicola della trilogia omonima firmata dal regista Francis Ford Coppola e interpretato da Marlon Brando con Al Pacino, James Caan, Robert De Niro, John Cazale, Robert Duvall; Apocalypse Now (1979) ancora di F. Ford Coppola con marlon Brando; Kagemusha (1980) di Akira Kurosawa; La mia Africa (1985) di Sidney Pollack dall’omonimo romanzo di Karen Blixen con Robert Redford e Meryl Streep; Mission (1986) di Roland Joffe con il pur grande Robert De Niro e il non da meno Jeromy Irons; Balla coi lupi (1990) diretto, prodotto e interpretato da Kevin Costner, tratto dall'omonimo romanzo di Michael Blake, autore anche della sceneggiatura e che vinse ben sette premi Oscar, tra cui quelli per il miglior film e miglior regista. Nel 1998 l'American Film Institute l'ha inserito al settantacinquesimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi. Infine, nel 2007 è stato scelto per essere conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. L’ultimo dei Moicani (1992) di Michael Mann; Rapa Nui (1994) di Kevin Reynolds; La tigre e il dragone (2000) di Ang Lee; Titanic (1997) di James Cameron, remake dei film del 1958 e del 1979, e che segnò la rivelazione di Leonardo Di Caprio; L’ultimo Samuray (2003) di Edward Zwick con Tom Cruise.

Degni di nota e certamente non ultimi, tutti quei film accattivanti del genere ‘on the road’ quali: Due per la strada (1967) di Stanley Donen con la splendida Audrey Hepburn e con Albert Finney ; Easy Rider (1969) il capolavoro di Dennis Hopper; Jesus Christ Superstar (1973) dall'opera rock di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice; Dersu Uzala (1975) di Akira Kurosawa; Professione Reporter (1975) di Michelangelo Antonioni con quel ‘mostro sacro’ che è Jack Nicholson; Un mercoledì da leoni (1978) di John Milius; Hair (1979) di Milos Forman musical sui ‘figli dei fiori’; Reds (1981) di Warren Beatty con lo stesso W. Beatty, Diane Keathon, Iack Nicholson; Fuori orario (1985) di Martin Scorsese; Fandango (1985) di Kevin Reynolds, Stand by me (1986) di Rob Reiner; Mississippi adventure (1986) di Walter Hill; Rain Man (1988) di Barry Levinson. E ancora: Thelma & Louise (1991) di Ridley Scott; Un mondo perfetto (1993) di Clint Eastwood; Dead Man (1995) di Jim Jarmusch; Undergrounnd (1995) dell’originale Emir Kusturica; Verso il sole (1996) di Michael Cimino; L'AIbatross (1996) di Ridley Scott; Contact (1997) di Robert Zemeckis; Sette anni in Tibet (1997) diretto da Jean-Jacques Annaud, ispirato da un libro autobiografico scritto da Heinrich Harrer pubblicato nel 1953; Detroit Rock City (1999) di Adam Rifkin; Collateral (2004) con Tom Cruise e Nemico Pubblico (2009) con Johnny Deep entrambi diretti da Michael Mann regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense, insomma quello che si può definire un cineasta eclettico e innovativo, considerato uno dei maestri del moderno cinema d'azione.

L’anno 2000 vede Babel (2006), Birdman (2014) e The Revenant (2015) entrambi di Alejandro González Iñárritu, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico messicano con una particolare visione del cinema futuro; Into the wild (2007) di Sean Penn; nonché l’attesissimo The Hateful Eight (2015), scritto e diretto da Quentin Tarantino, ed interpretato da Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Demián Bichir, Tim Roth, Michael Madsen e Bruce Dern. E per finire, uno sguardo a quelle efficaci macchine ‘esaudisci-desideri’ che sono in tal senso da reputarsi: The beach (2000) di Danny Boyle; Road Trip (2000) di Todd Phillips; Riding the bullet (2004) di Mick Garris; I diari della motocicletta (2004) di Walter Salles sulle avventure del giovane Ernesto ‘Che’ Guevara, ispirato dai diari di viaggio Latinoamericana dello stesso Guevara e un di gitano che l’accompagna; Exils (2004) di Tony Gatlif, nome d'arte di Michel Dahmani, è un regista, sceneggiatore, compositore, attore e produttore cinematografico francese autore di alcuni film sui Rom; El Camino de San Diego (2006) di Carlos Sorin; Viaggio in India (2006) di Mohsen Makhmalbaf; Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton; Into the wild (2007) di Sean Penn. Il discorso vale anche per tutti i film del genere ‘detective’ quali furano e continuano ad esserlo gli ‘007’ tratti dai romanzi di Jan Fleming e interpretati da quell’attore mitico che è diventato Sean Connery, rimasto ahimé senza validi eredi. Come si trovò a scrivere Gabriel G. Marquez in ”L'amore ai tempi del colera” (2007):

“Gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce ma la vita li obbliga ancora molte volte a partorirsi da loro stessi.”

A proposito di sequel, ci sarebbe molto da dire della straordinaria saga di Star Wars (1977) dell’immenso George Lucas; Indiana Jones (1981) di Steven Spilberg il ‘più grande’ in assoluto, padre inoltre di E.T. (1982) e di Jurassick Park (1983); il seriale Batman (1989) di Joel Schumacher, comprensiva di almeno undici adattamenti tratti dal personaggio dei fumetti DC tra cui “Batman: L'uomo che ride” (Batman: The Man Who Laughs, 2005), titolo di una storia a fumetti che rielabora il primo incontro tra Batman e Joker e, inoltre, il nome di un personaggio della serie “Ghost in the Shell: Stand Alone Complex” creata da Masamune Shirow. Va detto che il cinema si era impossessato del personaggio Gwynplaine fin dal romanzo L'uomo che ride (1909) creato da Victor Hugo. “Das grinsende Gesicht” è invece il titolo del film tedesco del 1921 diretto da Julius Herzka. E ben altri due film furono tratti dalla medesima opera e sono: L'uomo che ride (1928) realizzato dal grande Paul Leni, e ancora l’omonimo film italiano del 1966 che Sergio Corbucci adattò sulla vicenda di Lucrezia Borgia.

Come dimenticare la trilogia del Il Signore degli Anelli (2001) di Peter Jackson, la trilogia basata sull'omonimo romanzo di John R. R. Tolkien; ed anche di Pirati dei Caraibi (2011) di Rob Marshall, basata sull'omonima attrazione dei parchi Walt Disney che si compone, fino ad ora, di quattro film prodotti da Jerry Bruckheimer e che negli anni si è espansa in fumetti, romanzi e altri media, a cui continua a prestare il volto un altro ‘mostro sacro’ del cinema, Johnny Depp, nei panni del pirata ‘Jack Sparrow’. Mah, se non ricordo male ho cominciato col parlare del cinema ‘muto’ come se fosse un’accadimento dell’altro ieri, forse che sì o forse decisamente nò, fatto è che nel 2014 c’è stato un film che pur essendo muto, che ci crediate oppure no, ha fatto molto parlare di sé: si tratta di ‘The Artist’ (2011), se non l’avete ancora visto è forse giunto il momento che ve ne procuriate una copia e gustarvelo fotogramma dopo fotogramma … vi delizierà.

«Bene, non ci mancava che questo!» – avrebbe esclamato Charlie Chaplin quando, nel 1929, il cinema da muto diventò sonoro e, per moltissimi anni a venire, mai l’ombra del dubbio appannò per un momento le sue certezze. L’attore (regista, musicista, sceneggiatore e scrittore), non ebbe tentennamenti, al punto che dopo la proiezione di una delle prime pellicole sonore annotava: «Uscii dal teatro convinto che il sonoro avesse i giorni contati». Chissà come se la riderebbe oggi Chaplin nel vedere che si fa la fila per entrare nei cinema dove si proietta ‘The Artist’, un film muto, in bianco e nero, che parla di cinema, ricreato dall’ “intelligenza” registica di Michel Hazanavicious (...per non dir del cane!). Tutto questo proprio mentre il sonoro si avvia alla tridimensionalità degli effetti speciali e della motion capture. Bene, tantopiù che abbiamo riso anche noi – plurale maiestatis – quando dopo la proiezione in sala e mentre scorrevano i titoli si è levato un applauso di godimento pieno, convinto e inaspettato.

Come ha spiegato dettagliatamente lo stesso regista, durante la conferenza stampa al festival di Cannes, si tratta di un “tipo di cinema dove tutto passa attraverso le immagini, attraverso l’organizzazione dei segni che un regista trasmette agli spettatori. E poi è un cinema molto emozionale e sensoriale: il fatto di non passare per un testo ti riporta a una modalità di racconto estremamente essenziale che funziona solo sulle sensazioni che sei in grado di creare”. Hazanavicious, autore della stessa sceneggiatura, ha confermato per la realizzazione della pellicola la coppia composta da Jean Dujardin (francese), che a sua detta “funziona sia sul primo piano, grazie all’espressività del suo volto, sia sul campo lungo, grazie al suo linguaggio corporeo”. Infatti ha un viso senza tempo, che può facilmente essere vintage; e la fascinosa Berenice Bejo che, almeno nel film, “emana una grande freschezza e positività quasi eccessiva! In un certo senso, i personaggi che interpretano sono abbastanza vicini a loro, o quanto meno, alla visione che ho di loro”. Il trucco c’è ma non si vede ed è nella non facilità di recitare senza dialoghi, pur calandosi nella parte, e facendo finta che questi ci siano, anche se poi il sonoro non viene registrato.

Una prova non indifferente, direi, che premia (era ora!) il cinema muto per quello che ci ha dato e, visto che all’epoca non c’era l’Oscar, credo che oggi questo film lo meriti davvero, anche dovesse essere “alla carriera”. Infatti rivedere oggi un “vecchio” fil del muto, (e questo è nuovo di zecca), oltre che a farsi apprezzare per essere così all’avanguardia e ancora pieno di idee, ci rinfranca lo spirito da tante pellicole “spazzatura” che non hanno neppure la dignità di chiamarsi CINEMA. D’accordo con Chaplin quando, dopo aver visionato ‘Melodie di Broadway’ (1929) diretto da Harry Beaumont, una commediola sonora del genere musicale molto scadente sotto il profilo artistico, disse: «Peccato, perché cominciava a perfezionarsi proprio allora … io però ero deciso a continuare a fare film muti, perché credevo che ci fosse posto per ogni sorta di svaghi». Una ‘civetteria d’autore’? Forse. No lo credo, è questa la conferma di un’arte, quella cinematografica, che proprio in quegli anni si andava diffondendo in tutto il mondo, per il nostro effimero piacere. I virgolettati sono ripresi dalla biografia di Charlie Chaplin edita da Mondadori e dalla rivista di cinema 35MM.IT Magazine.

Ma ahimé devo lasciarvi. Senza accorgemene per me si è fatta l’ora di lasciare quest’ultima pagina e correre al cinema. Oggi è in uscita mondiale il primo film della nuova serie di Star Wars (2015) ed io non me lo posso perdere. Lo so, da parte mia sarebbe corretto che una materia come il ‘cinema’, la sua evoluzione sociale, in quanto strumento, seppure atipico, della formazione necessaria allo sviluppo intellettivo e conoscitivo, venisse studiato più a fondo, in ambito ‘sociologico’ così come in ‘psicologia’ e in ‘filosofia’ per conseguirne l’apprendimento ‘a tutto tondo’ degli aspetti morfologici-ambientali, geografici-meteorologici, floreali e faunistici dei territori, delle montagne come delle foreste, dei mari e degli oceani; nonché per la conoscenza scientifico-biologica riguardante la fisicità e i comportamenti umani; la situazione socio-abitativa di paesi e metropoli, i costumi dei popoli ecc. ragioni per cui, e già solo per questo, il ‘cinema’ andrebbe più che mai sostenuto.

Tutte ragioni per cui, e già solo per queste, il ‘cinema’ andrebbe più che mai sostenuto; ma non mi sembrava il caso di entrare così in profondità in questo scritto che voleva solo scandagliare l’aspetto del ‘viaggiare’ e, anche se qua e là ho divagato tralasciando quella che era la tematica iniziale, spero di poterne riparlare in una prossima volta, magari citando quei film di ‘fantascienza’ che, contrariamente a quanto si vorrebbe, mi hanno sempre fatto sognare, e che oggi m’inducono a pensare di poter ‘viaggiare’ all’infinito negli spazi siderali del nostro universo, (visto che non c’è nessun altro), continuando a cercare un ‘altro’ ipotetico mondo: “..in fondo al cinema il bene vince sempre, o no?”. Ma dobbiamo costruirlo insieme, questo mondo di ‘argonauti del domani’, tutti noi unitamente con le nostre differenze e il nostro amore. Il perché lo conosciamo tutti: perché “..domani è un altro giorno” e noi vogliamo che sia ‘migliore’.

Così come ci ha lasciato scritto T. S. Eliot in “Four Quartets” (1943):

“Non finiremo mai di cercare.
E la fine della nostra ricerca
Sarà l'arrivare al punto da cui siamo partiti
E il conoscere quel luogo per la prima volta.”

N.b. mi scuso con tutti gli appassionati di cinema se ho volutamente tralasciato alcuni ‘generi’ (di cui scriverò in altra occasione), o dimenticato qualche titolo rilevante; soprattutto se ho commesso qualche errore eclatante nel citare questo o quello; posso solo dire che in questo viaggio spesso mi sono intenzionalmente perso, per poi ritrovarmi, alla fine di ogni proiezione, davanti a uno schermo vuoto, in attesa che la macchina da presa torni a girare per Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Giuseppe Tornatore, Paolo Sorrentino, Paolo Virzì, John Turturro, Gabriele Muccino, Silvio Soldini, Ferzan Ozpetek, Roberto Faenza, per un altro fantasmagorico giro di giostra … ops, di manovella.

Bibliografia per saperne di più:

“Antologia della letteratura fantastica”, Autori Vari – Editori Riuniti 1981.
“Storia della letteratura del terrore”, David Punter – Editori Riuniti 1985.
“Il primo film sonoro italiano: La canzone dellìamore” di Gennaro Righelli. Catalogo della Biennale di Venezia 1980.
“La voce nel cinema”, Michel Chion – Pratiche Editrice 1982.
“Il linguaggio delle immagini in movimento”, Virgilio Tosi – Armando Editore 1984.
“Sperduti nel buio”, a cura di Alfredo Barbina, Centro Sperimentale di Cinematografia – Nuova Eri 1987.
“Storia e technica del film e del disco”, Mario Calzini – Cappelli Editore 1991.
“Il cinema nascosto” Le pellicole ardite nell’archeologia cinematografica, Pino Pelloni – Marianna Ediz. 1998.
“Cinema muto italiano” (1896-1930), Riccardo Redi – Biblioteca di Bianco & Nero 1999.
“Fino all’ultimo film” L’evoluzione dei generi nel cinema, a cura di Gino Frezza – Editori Riuniti 2001.
Cinegrafie: “Il comico e il Sublime”, Autori vari – Rista annuale della Cineteca del Comune di Bologna n.10, 2006
“L’arte di guardare gli attori”, Claudio Vicentini – Marsilio 2007.
“Scrivere sceneggiature per il cinema e la TV”, Francesco Spagnuolo – Delos Books 2010.
“Filmare la musica” Il documentario e l’etnomusicologia visiva, Leonardo D’Amico – Carocci Editore 2012.

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