È un libro che fa innamorare di sé un po' alla volta e al quale dire grazie questa terza pubblicazione in versi di Serena Rossi, quarantenne milanese attiva anche nelle arti visive (tra l'altro formatasi alla Fondazione Pomodoro di Milano). Un libro che va a vincere alcune resistenze che ogni tanto per evanescenza di immagine, e di parola, rischiano di frenarne il dettato e di conseguenza la lettura. Eppure, è proprio qui, collateralmente, all'interno di un contemporaneo narrato nella mestizia di un divenire irraggiungibile che certa fragilità si impone, si fa funzionale nelle sue incrinature, a un discorso sull'essere che ha base su una condizione non solo personale ma diremmo sociale, culturale, esistenziale di disagio. Ed è un ritratto intenso, doloroso, ferito ma splendidamente, creativamente libero quello che la Rossi ci offre. Femminilmente libero, evidentemente, coscienza e carico del peso risalendo e sciogliendosi per il tramite di nudità non nascoste nella loro ansia di luce ma esposte e dunque condivise. La lotta è tra un'espressione piena e partecipata del mondo e i traumi, le frizioni che risalendo come detto da oscure camere vanno a inficiare un presente già carico e sospeso nei suoi rifiuti entro una geografia di luoghi e di anime forse non vinte ma certo colpite, battute, derise. La risposta, nello stordimento, in un procedere a inciampi e a perdite in cui nessuno è escluso, è in un fermo, muscolare richiamo a restare come detto, a prestarsi nel capovolgimento delle declinazioni, e nella singolarità delle identità violate, a un ritrovamento al plurale di noi stessi. Nella forma del "siamo " infatti, la Rossi scioglie il suo interminabile appello, nella figura degli ultimi, dagli esclusi ai bambini e alle donne, rammentando una sacralità, un destino d'orizzonte sovente in progressiva e reciproca cancellazione- quasi castrata, dimentica (se non in abbandono come nel destino dei tanti animali qui ricordati) Investe infatti tutta la dimensione allargata del suo mistero il discorso sull'uomo cui questa scrittura ci riporta tra gli umori e le sostanze di una terra che chiede sostanza e accoglienza soprattutto dal basso, da quelle secche e da quegli umori entro cui con forza questa poesia (altro non potendo) vuole restare. Ed è proprio tanta tenacia, tanto insistito dichiarato attaccamento a una vita aggredita nei propri sogni, alle proprie ontologiche promesse- e premesse- a cui solo l'amore, seppur spoglio, seppur spesso nella sterilità della solitudine, può ricordare e dare degna bellezza a imporsi come moto propulsore del testo incidendosi in tutta la sua interrogante lacerazione. Ed è proprio ancora tanto naturale procedere in versi pur a tratti zoppicanti a convincere sciogliendosi forse anche al di là delle intenzioni in una piccola lezione consigliandosi da sé allora alla lettura. Brava, coraggiosa autrice dunque cui va il nostro plauso per lo sforzo del continuo ricordo: "non siamo soglia" ma anima già eterna, e casa.