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Sul corno del rinoceronte

Romanzo

Francesca Bellino
L’Asino d’oro edizioni

Recensione di Enzo Rega
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Pubblicato il 01/04/2016 12:00:00

 

   Inizia con il fermo-immagine della rivoluzione dei gelsomini del 2011, in Tunisia, il romanzo di Francesca Bellino, Sul corno del rinoceronte (L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014): “Ombre di fucili disegnano movenze precise e lente sulle bianche case di Kairouan. I corpi statuari di soldati austeri e tristi sono l’unico elemento in movimento in uno scenario tetro e immobile. Saracinesche serrate. Strade deserte. Aria compressa. Carri armati sui marciapiedi. Ai bordi delle strade scarpe spaiate, spranghe, bastoni. Tutto è fermo, anche le nuvole in cielo. Il profumo rassicurante dei gelsomini e dei biscotti fritti della mia memoria è sostituito dall’odore acre dei lacrimogeni” (p. 11).

   Un gioco proustiano al contrario – la cancellazione di odori e sapori – mette in moto la memoria. Innanzitutto, questa sospensione: la rivolta, nel momento in cui sembra azzerare il passato, lascia tutti immobili, protesi verso un futuro che ancora non si conosce ma che ora diventa possibile.

   Quindi, da questo fermo-immagine, la memoria – e la struttura del romanzo – si muovono su diversi piani temporali in una sorta di contemporaneità emotiva. La protagonista, Maria ovvero Mary, un’antropologa innamorata di ciò che è altro, arriva in taxi da Tunisi a Kairouan per il funerale dell’amica – omonima in arabo – Meriem. Da qui, però, il racconto recupera, intersecandoli, momenti diversi: 1) l’arrivo a Tunisi di Mary e l’incontro con il taxista Hedi che la porta a Kairouan, terza meta sacra dell’islam dopo La Mecca e Medina, e che parla (a lei e a noi lettori) della nuova Tunisia in rivolta; e, indietro nel tempo: 2) l’incontro con Meriem a Roma, 3) il primo viaggio a Kairouan di Mary con Meriem.

   In questo andirivieni nel tempo, e nello spazio tra le due sponde del Mediterraneo le dimensioni si sovrappongono e finiscono per coincidere, perché la dislocazione spaziale – il viaggio nella Tunisia più profonda – significa anche un salto temporale in un mondo che appare, dall’ottica occidentale, sprofondato in un lontano passato. Le due realtà culturali s’incarnano nelle due donne che s’incontrano solcando mare, spazi, tempi e culture. Mary è profondamente occidentale, benché protesa all’ascolto delle altre “culture”, tanto che l’amico Kamel la rimprovera in occasione della prima visita a Kairouan perché si sta presentando a casa di Meriem con il suo succinto abitino di cotone: “Kairouan è una città tradizionale e la famiglia di Meriem è molto credente” (p. 71). Da questo mondo è arrivata invece Meriem alla ricerca di una propria identità che non sia appiattimento sulla tradizione. Ma il drammatico conflitto con se stessa e con il proprio mondo si conclude con la decisione di ritornare a casa dopo la lunga parentesi romana: e in quel primo viaggio a Kairouan Mary vi accompagna appunto Meriem, che fa ritorno anche per la fine del suo rapporto sentimentale con un italiano, legame che l’aveva spinta appunto in Italia.

   Con Meriem, Mary ha convissuto per un po’ nella sua casa al Pigneto, a Roma. Ed è proprio nel giorno in cui si trasferisce che la ragazza tunisina sembra uscire dal suo muto travaglio interiore per confidarsi con l’amica. Infatti. “Cambiare casa è voltare pagina, passare a un’altra fase, sognare cose diverse. Meriem voleva essere una donna nuova” (p. 77).  Ed è Mary a diventare per Meriem la “traghettatrice verso nuovi mondi” in un viaggio interiore che muta anche la donna italiana. Per dirla con l’antropologo d’origine indiana Arjun Appadurai – visto che siamo in tema d’antropologia – è l’etnopanorama stesso (il panorama etnico) delle due donne che si riformula sullo sfondo di una Roma essa stessa multiculturale: in particolare al Pigneto, quartiere contraddittorio tra “movida e criminalità, creatività ed elemosina, degrado e gentrificazione”, e con un’esplosione di variopinta natalità: “Ogni locale si era attrezzato di fasciatoio, seggioloni e giochi, per ospitare al meglio i piccoli clienti del futuro dai nomi stravaganti: Auronda, Nahuel, Ape, Frida, Zoe, Tea, Tomas, Adam, Leon, Martita, Alia, Denisa, Aden, Guergana, Atena, Alma, Laila, Jurij, Pavel, Maida, Morgana. Molti erano figli di immigrati o di coppie miste, ma anche gli italiani avevano cominciato a escludere i soliti nomi del calendario e a proiettare i loro piccoli verso un mondo globale” (p. 79).

All’interno di questo crogiuolo, Meriem va appunto alla ricerca della propria umanità, delle proprie emozioni – emozioni che, come le diceva la nonna, vanno cercate nell’acqua: e per questo, osserva Mary, il giorno in cui si erano incontrate, la tunisina “guardava con attenzione le diverse forme di acqua che la circondavano: dalle goccioline che si infrangevano e si agitavano nel perimetro limitato del finestrino di fianco a lei sul treno alle bollicine dell’acqua frizzante nella bottiglietta, alle gocce che colavano dagli ombrelli dei passanti” (p. 76).

   Il ritorno a Kairouan di Meriem, accompagnata da Mary e Kamel, è anche far rientro in una chiusura rispecchiata dalla disposizione stessa delle case che isola visivamente lo spazio privato e sacro da quello pubblico e profano. È anche tornare sotto il controllo del padre/padrone, appunto il “rinoceronte”, caratterizzato da un soprannome simile a quello del dittatore Ben Ali che verrà deposto proprio dalla rivoluzione dei gelsomini. Così appare la vita dei tunisini, e in particolare delle donne, tutti prigionieri nel loro stesso paese; limitati, anche dall’educazione tradizionale, nell’espressione delle proprie emozioni. Ma tant’altro, invece, cova nell’animo delle persone e rende più variegata la realtà: “I segreti sono nascosti negli occhi. Il mio primo incontro con la Tunisia sono stati gli occhi di Meriem. Poi mi sono imbattuta in quelli dei giovani in trappola, arresi ai bordi delle strade o persi davanti a squallide tazzine di caffè. Solo dopo ho incrociato lo sguardo saggio, affamato e sensuale di Faruk” (p. 90), il fratello di Meriem con il quale Mary ha una breve e bruciante relazione.

   Ma non solo il mondo maschile arabo appare incomprensibile a Mary, un mondo nel quale fin da piccoli, come lo stesso Faruk, i maschi devono imparare a nascondere le emozioni: neanche da neonati dovrebbero piangere. Ma anche il mondo femminile appare avvolto in un’atavica imperturbabilità. Sono le stesse madri musulmane ad allevare così i propri figli. E osserva Mary: “La madre di Meriem apparteneva a questa categoria di donne tradizionaliste e inumane. Il giorno in cui arrivammo a Kairouan fui colpita dalla sua freddezza […]. Si mostrò indifferente nel rivedere la figlia dopo tutti quegli anni […]. Restò muta, impassibile. […] I grandi seni si sollevavano a ogni respiro mentre il resto del corpo rimaneva immobile. Fissò la figlia lasciando trasparire a tratti rabbia, a tratti disprezzo. Le rimase distante” (p. 134).

   Alle donne è proibito anche piangere i propri morti. Per questo non sono ammesse ai funerali. E con questo pretesto Mary, finalmente giunta a Kairouan la seconda volta, viene respinta dallo stesso Faruk: non può essere presente al funerale, non può andare al cimitero. La frustrazione di Mary, il suo senso d’impotenza, portano al crescendo finale, al climax che anticipa la conclusione: la donna italiana si lascia sorprendere da un acquazzone e vaga sola per la città; e anche la scrittura, finora sorvegliata ed equilibrata pur nel descrivere emozioni e stati d’animo, assume toni più lirici e onirici, accompagnando una tempesta emotiva che si dispiega sotto lo scatenarsi stesso degli agenti atmosferici:

 

   “Il mio sguardo gira e rigira come un mulinello. Inizio a camminare a passo svelto tra i vicoli stretti, nelle tenebre che hanno ormai avvolto la città e il mio cuore. Per il momento cerco solo un riparo. Mi sento vulnerabile. Chiunque potrebbe farmi del male. Qualcuno mi fissa. Infiniti occhi mi osservano e mi giudicano. […] Tiro dritta in cerca di protezione dalla pioggia e dagli sguardi.

   Ogni stradina mi porta in un’altra ma nessuna offre una copertura. Non ci sono tetti, né portoni aperti, né ombrelloni. Non posso mollare, devo andare avanti. Per non fermarmi immagino di seguire una linea a terra che mi aiuti a proseguire senza guardarmi intorno. Le strade mi sono familiari. Sulle porte blu ci sono innumerevoli mani di Fatima che al mio passare si deformano. Le loro dita si gonfiano, poi si allungano per afferrarmi.

   Riesco a sfuggire la loro presa correndo dritta verso nuovi vicoli, terrorizzata. Sento di essere inseguita. Sento il fiato di qualcuno sul collo. Mi volto indietro e vedo un mostro con la faccia da rinoceronte. Ha un corno lungo e appuntito sulla testa e vuole infilzarmi. Accelero il passo senza urlare, senza sprecare respiro e cerco un ritmo” (p. 189).

 

   Nel gioco di specchi – due donne, due Paesi –, nella confusione della donna italiana rivive quella del Paese, la Tunisia, che Mary attraversa in questo road novel: un Paese minacciato da un rinoceronte, che è il dittatore, ma che è anche certa tradizione, un Paese alla ricerca di un suo nuovo ritmo. La scrittrice (Francesca Bellino), e la narratrice interna (Mary), in questo romanzo socio-politico e antropologico evitano il rischio evidenziato da uno dei padri dell’antropologia contemporanea, Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici: l’amore per l’altro, per il diverso da noi ci fa accettare, come dato culturale intrinseco e imprescindibile di una certa cultura, ciò che critichiamo e rifiutiamo nella nostra. Il dialogo tra le due sponde, nell’ottica femminile delle protagoniste, è anche critica bipartisan di ciò che appare, che è inaccettabile. Non a caso la Tunisia è colta nel momento in cui si sporge sul ricominciamento della propria storia. E anche il finale a sorpresa del romanzo ripropone, in questo caso nelle singole e private esistenze, un nuovo inizio. Dopo il fermo-immagine.

 


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