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al testo di Gian Piero Stefanoni
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Un testo come pochi negli ultimi anni questo di Jacopo Pellegrini, quarantenne veneto alla sua seconda pubblicazione, per l'intima disposizione a quel senso dell'attesa cui si forma e si informa il bene dell'esistere inteso come partecipata domanda di mondo. Un' attesa ovviamente non ferma nella stabilità delle acquisizioni ma caparbiamente incisa nel quotidiano operare delle situazioni e degli uffici, fra uomini e donne, fra scarti e rovesci soprattutto di un'epoca spiritualmente ed economicamente nella frana di una voracità che non si tramuta in nulla se non appunto nella compravendita (così losca e fosca e tutta così normale volendola dire dalle sue parole)e non nell'ascolto di uomini e storie. Edificazione, ascolto, attesa tutte rimesse, con umiltà e ci sembra di poter dire con fervida mitezza, nello spazio del silenzio la sola dimensione riconosciuta del riconoscibile e dell'udibile necessario di un mondo, delle sue passioni, delle sue carnali istanze altrimenti misconosciute nella mortificazione dei clamori. Un' interrogazione allora che viene dal silenzio come costume, come modalità dell'agire nella presenza discreta di un esserci anche anonimo ma vivo nella grazia di una tensione che tenta e cerca prossimità proprio dove distanza. Che poi è il dire alto perché necessario di ogni sicura poesia che qui risale dalla discesa entro un dolore, il suo come di tutti, "divenuto tormento sordo" ed offerto come parola lieve a riempire d'amore e di vita. Un silenzio dicevamo nella sua accezione di specchio e per questo allora luogo non facile in una trattativa, in una lotta a spegnersi o dire il senso nel discrimine d'ogni giorno tra la libertà e l'essere davvero con se stessi e con gli altri. È così un discorso di autenticità e di onestà nella vena di una essenzialità che si dispiega principalmente nell'agire quello che via via ci interroga, e si interroga entro le tante figure colte nel proprio quid di rottura (dal sacerdote che depone la tonaca lontano dal gregge dove si è smarrito al suicida, dalla donna persa in una vuota ripetitività della carne al giovane per infermità mai in vita e vicino alla morte). Questa accesa volontà di resistere e di esserci tra esempi di cattiva politica e di una opulenza di chi " rifiuta rimorsi e coscienza" nell'indifferenza di "cellulari accesi e volti spenti" ha l'indice allora di un credere dalla radice stessa del suo imprimere, nel suo senso di avere fiducia, nella considerazione del vero. Soprattutto nella sacralità laica della voce è il tono di dilatata e garbata discrezione della scrittura, nella fisica di una parola e di una presenza che scrutando l'annuncio dalle fragilità si fa cosciente di un "senso/ del cammino insieme" che è nel "tragitto tentato/ nell'avvicinarsi,/ e non nella meta/ mancata". Ed è proprio in questo testo dedicato al padre da cui sono tratti i versi sopracitati uno dei passaggi, la "natura/ che si deve per dignità/ ammettere", in cui si rivela nella radice il dettato di Pellegrini e di cui, forse non a caso, è figura esemplare poi quella di Giuseppe, il padre putativo di Cristo cui è dedicata una intera sezione. Un ritratto quello che esce dell'uomo di Maria certo non da santino ma di un' anima nella forza di chi ha saputo ascoltarsi, e ascoltare nel silenzio, rovesciando nel perdurare del combattimento ritrosie in presenza, oscurità e dubbi in aperture di luce. Uomo paradigma allora (lui di cui non si ha nei Vangeli una pronuncia) proprio perché dal silenzio ha saputo volgere dall'altro il timore in fiducia fuoriuscendo da sé nell'orizzonte di una strada su cui anche questa poesia è volta, l'apprendere negli altri lo stesso patimento degli occhi (nella stessa intensità terrena di Giuseppe forse in cui chiunque anche se non nella carnalità del sangue ci appartiene). Nella lezione del silenzio, in questa corrispondenza di domande e risposte, l'acquisto è dunque nella spoliazione, nella perdita del nome nei nomi, nella grazia di un anonimato cui tutto risuonando si raccoglie e accoglie, e per questo libera (quanta poesia di qui viene in mente dalle pagine dei nostri più grandi autori, tra gli altri il caro Penna nella sua maestria di luoghi e figure ignote). C'è una fede in questo abbandonarsi che sentiamo prossima e che ci ricorda, e per questo ci commuove nella resa di una mente e di un'anima "presente/avendo appoggiato nel tragitto/ il peso del superfluo" e della poesia stessa là dove tutto non può riportare se non come noi dilatarsi e distendersi in quell'"ordine consegnato/ nei silenzi della quotidianità". Ed allora grazie a Pellegrini per questi versi che ci giungono in giorni difficili e per cui, anche per questo, per questa risposta dal silenzio a un silenzio evidentemente di tenebra in cui il tradimento alla vita ed il male si annida, caldeggiamo volentieri la lettura.
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