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Il fumo uccide

Un messaggio giunto in ritardo.
La prima sigaretta fu una mentolo che oggi sarebbe nella lista dei divieti.
Avevo tredici anni. Ne avvertii il bisogno per attenuare il nauseabondo sapore di un bicchiere di latte appena munto nella stalla del vaccaro, dove mi ero recato con un amico salutista e sportivo.
Fu la prima sigaretta e l’ultimo latte della mia vita.
Ricordo la sensazione di ubriachezza succeduta alle prime tirate, una sorta di tradimento di me stesso, primi tentativi di accostamento al mondo del proibito.
Allora era facile entrare dal tabaccaio e chiedere sigarette sfuse dentro una bustina. Ne avevo comprate cinque, sicuro che quel vizio non avrebbe vinto la mia volontà di sportivo. Mi sbagliai.
Nascosi la bustina con le quattro rimaste nella segreta della mia ribaltina e le fumai tutte, una al giorno, chiuso in bagno, voluttuosamente giocando a fare cerchi di fumo e a sentirmi uomo, ma attento a non lasciare trasparire nulla, ventilando l’ambiente e, soprattutto, risciacquando la bocca con almeno una decina di gargarismi.
Un’attività che durò segretamente per alcuni anni, con la complicità della mia dolce sorellina Marina, dieci anni più piccola di me.
Quando la mia bustina era vuota ero allora costretto a ricorrere a l’unico fumatore di casa: mio padre.
Fumava tabacco forte, super senza filtro, e teneva una scorta di Gauloises Blondes nel cassetto del comodino a fianco del grande letto.
Mai ebbi il coraggio d’intaccare quei pacchetti azzurri sistemati a lato del cassetto con l’immancabile tubo di Formitrol e la scatoletta di Pasticca del Re Sole.
I padri di allora, pur essendo preda dei vizi, sapevano essere anche barbari educatori e …se avessi osato anche una sola volta…no, meglio mascherare!
L’unica possibilità di approvvigionamento rimaneva, dunque, il pacchetto di super già iniziato, che riponeva sul marmo screziato del comodino prima del riposino pomeridiano.
Quelle erano le ore del silenzio assoluto, del divieto di turbare la quiete del suo sonno; e la mamma ci raccomandava di abbassare il tono di voce.
Quel pacchetto sul comodino era calamitoso!
Mi venne un’idea brillante.
La piccola e graziosa sorellina fu quell’idea, perché poteva avere l’ardire e l’impunità, ella che rappresentava la gioia vivente del mio papà, l’arrivo più gioioso della casa, l’unica femmina dopo mia madre. Anche se si fosse destato dal sonno mio padre non avrebbe avuto nulla da dire di fronte a quella gioiosa visione.
La misi a parte della mia necessità. Marina fu inizialmente titubante. Riuscii a convincerla con una lucente monetina da dieci lire e ancor più istruendola di un metodo di avvicinamento silenzioso, come avevo letto nei meravigliosi fumetti di Blek Macigno o di Capitan Miki:
“Allora, Marina, devi muoverti al passo del giaguaro. Guardami. Pancia in giù, testa avanti e gambe a rana, così…vedi, per il movimento devi appoggiarti ai gomiti. Quando arrivi alla porta, mi raccomando, apri piano piano, senza far cigolare. Prosegui fino al comodino, sfili una…anzi no …due sigarette e fai la stessa strada di ritorno.”
La dimostrazione e la monetina, insieme, furono accettate con entusiasmo.
L’operazione ebbe successo e fu ripetuta molto spesso per un lungo periodo e senza intoppo.
Soltanto un paio di volte Marina tornò indietro a mani vuote, senza peraltro restituire la monetina.
L’idea di farsi un bel gruzzoletto con quel sistema sembrava l’ obiettivo e ogni giorno sollecitava in attesa quel momento guardandomi negli occhi durante il pranzo con un sorriso di compiacenza.
Capitarono giorni in cui mi trovavo al verde ed allora dovetti studiare un sistema convincente alternativo: Strisce ben rifilate di carta con la promessa di pagamento, scritta di mio pugno, “ Buono del valore di lire dieci più interessi legali maturati”, firma e data.
Questa strada fu percorsa infine in maniera più frequente ed ebbe successo fino a quel giorno.
Quale giorno, mi chiedete?
Quel giorno che eravamo seduti a tavola e mio padre , guardando la mia pagella, rimproverava il mio scarso impegno nello studio a vantaggio del cazzeggiare.
Marina rideva e armeggiava sotto il tavolo, tenendo sulle ginocchia una scatola di latta che apriva e richiudeva impazientemente.
Mio padre la riprese , una delle poche volte:
- Smettila, ragazzina, non vedi che sto parlando?
- Si, papà, ma anch’io voglio dire qualcosa a Salvo;
- Che cosa hai da dire?
- Salvo, mi devi dare cinquemila lire!
Lo disse mentre tirava fuori le cambiali giunte ormai a scadenza.

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