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- Poesia
Hölderlin di Stefan Zweig
Hölderlin di Stefan Zweig Nel suo saggio sul grande poeta tedesco stavolta, a differenza di quello su Verlaine, Zweig ne analizza diffusamente lo stile, la poetica. Mantiene sempre la sua impostazione sessuofobica per cui i poeti sono esseri spirituali, incontaminati, che non conoscono alcuna pulsione erotica. Ne paragona la creazione a quella dei suoi giganti contemporanei, Goethe e Schiller da cui Hölderlin trae iniziale ispirazione. Su Kant invece, secondo Zweig, bisogna avere il coraggio di dire che ha ostacolato in modo permanente la libera poetica tedesca stroncandone la sensibilità, la gioia di vivere, il libero volo della fantasia degli artisti deviandoli verso un insano e fatale criticismo estetico. Come con von Kleist, Novalis, ecc.. Con Hölderlin siamo di fronte non ad un genio artistico ma ad un miracolo di purezza, attinto dalle altezze sacre dell’ideale greco classico. Infatti i suoi poemi principali sono: Hyperion , la morte di Empedocle. La sua missione è pertanto quella di porgere agli uomini il fuoco sacro della Poesia. Deve cercare il divino, esaltare gli Dei , misurarsi con l’infinito e soffrire della bassezza degli uomini rimanendo solo nella miseria terrena . Perché per il poeta si trattava non solo di scriverlo ma di viverlo l’ideale estetico. Dei quattro elementi fondamentali a lui manca sempre la terra, così anche il suo linguaggio è scarno, personale e usa perciò solo termini eterei, evanescenti. Conseguentemente la sua creazione, legata alla lingua lo rende quasi intraducibile. A 37 anni , viene "ricoverato"per ben altri 36 anni a Tubinga presso il falegname Zimmer. Conclusione di una vita estrema che non poteva durare eternamente ad altezze siderali perchè consapevole del suo destino terreno ”Non poteva sopportare la prigionia del fuoco celeste”.
Id: 3767 Data: 02/10/2025 10:37:42
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- Storia
Savonarola. Ascesa e caduta di un profeta del Rinascimento
Savonarola. Ascesa e caduta di un profeta del Rinascimento di Donald Weinstein Giusto titolo che sottolinea la brevità della misione del frate ferrarese, infatti la sua missione fiorentina durò solo 8 anni. Differenti i giudizi su di lui. Per Franco Cordero era un “Pio terrorista, invasato e apocalittico” oppure un cialtrone... Macchiavelli sottolinea invece come la costruzione di uno Stato necessiti non solo di una visione ma anche della forza del comando per sostenersi, altrimenti il tutto si rivela una smargiassata, una falsità, un sintomo d'impotenza. Tradotto: un opportunista furbo e disonesto. Per Guicciardini invece il Frate ebbe il merito di aver salvato nel 1494 la città dal caos, con la caduta dei Medici, ed aver inaugurato un intermezzo di pace e vita cristiana. Però sulla sua legittimità profetica non si espresse mai. Creò certamente più libertà per il popolo ma con un governo transitorio e accentratore. Per Donald Weinstein, Savonarola convinse se stesso di avere recepito il messaggio divino dell'Apocalisse e di esserne il messaggero. Si immerse negli affari di stato per condurlo in un mondo migliore. Dopo la mancata produzione del miracolo promesso (la rifioritura di una Firenze più gloriosa) avrebbe ammesso di essere stato ispirato da ambizioni di gloria e potere. L'apostolo di Dio governò con le sue profezie posteriori, le sue visioni ideali e le illuminazioni divine al servizio di nuove verità che divennero il sintomo della sua crescente megalomania. Demonizzando i tiepidi e reprimendo il dissenso con la violenza e castigando ferocemente i sodomiti si convinse di trasformare Firenze nella Nuova Gerusalemme. Irascibile, puritano, guerreggiò per un mondo che, secondo Macchiavelli, adattava secondo le sue bugie. Nessuna traccia nel libro di ostilità dottrinale verso papa Alessandro VI Borgia, anche se Savonarola rifiutò sempre un confronto diretto con Roma. Rimase invece la differenza fondamentale per l'opposta collocazione politica tra Firenze ed il papato. Con la Francia contro la Santa Alleanza papale. Inacettabile comunque, nella lotta fra i due schieramenti rimase per Firenze la rinuncia al porto strategico di Pisa, occupato dalla Santa Alleanza. Importante l'irremovibilità di Firenze, anche dopo la caduta del Frate, per non consegnarlo a Roma, perchè la Repubblica, gelosa della propria autonomia, non intese sottostare al dominio papale, pur consentendo la partecipazione dell'inquisitore inviato durante il processo. Ovviamente senza che questo mutasse il tragico giudizio finale sul Profeta!
Id: 3751 Data: 16/09/2025 18:21:48
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- Letteratura
Amok di Stefan Zweig
Amok di Stefan Zweig Amok può riferirsi a diversi concetti, ma il significato più comune è una condizione di furia omicida improvvisa e incontrollabile, associata ad una profonda sofferenza psicologica. In questo celebre e breve racconto di Zweig, datato 1922, il narrante riceve da uno sconosciuto, in alcune serate, al buio sulla nave, il racconto dell'esplosione finale della sua pazzia. O meglio, Amok, una follia rabbiosa che per lui si dipana in pochi giorni con una inutile corsa pazza per un errore commesso. Si tratta di un medico, autoesiliato nella profonda foresta malese da anni, che riceve inaspettatamente la visita di una signora della comunità della borghesia bianca che gli chiede di farla abortire. Subito! Per evitare lo scandalo prima del ritorno del marito. Le conseguenze del suo rifiuto, incomprensibile anche per lui, sono tragiche. Inutile e tardivo il suo ripensamento che viene sigillato dalla sua promessa al silenzio. Ma da questo suo inconsiderato gesto l'infelice verrà travolto completamente da questa violenza che diventa ovviamente autolesionista. La maestria di Zweig ti prende facendoti vivere una furia inarrestabile, ti trascina magistralmente in questo gorgo dal finale tragico, in un paesaggio cupo, da tenebra, dove non compare mai la luce. Finale che non può non far riflettere sul finale tragico della vita stessa dello scrittore.
Id: 3736 Data: 04/09/2025 20:46:12
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- Poesia
Verlaine di Stefan Zweig
Stefan Zweig Verlaine La prima biografia, scritta da Zweig a 23, anni delude pienamente. É completamente assente il poeta e la sua opera letteraria, non bastano sparute citazioni in questo saggio di 55 pagine a riparare alla mancanza. Zweig si fa prendere la mano dalla sbornia "chimica" del personaggio e ne fa una lettura esclusivamente freudiana. Verlaine è inchiodato da subito nello stereotipo della sua infanzia: troppo felice! Una madre che lo ama troppo, una cugina adulta della quale forse lui s’innamora ed il gioco è fatto. Viene immediatamente esposto il dualismo maschile/femminile, forte/debole ed il povero Verlaine è subito incasellato nella seconda classe. Cosa può fare il soggetto in questa situazione? Ovviamente gettarsi, da subito, in braccia all’assenzio, per mancanza di prospettive future. Non come il bravo Baudelaire che invece con l’hashish allargava i suoi confini letterari! Cosa deve fare in queste condizioni l’infelice? Sposarsi ovviamente! Alla nascita del figlio però si apre un episodio, importante, ma solo un episodio precisa Zweig: Rimbaud. Piomba questo rude ragazzotto di provincia, nemmeno bello, il Shakespeare infante (Victor Hugo), ovviamente incasellato nella categoria dei forti e il tapino Verlaine è inghiottito in un solo boccone. Non sia mai, precisa il biografo, che ci si perda a stabilire se fra i due ci sia un rapporto sessuale! L’omofobia di Zweig gli impedisce di analizzare questo banale dettaglio perchè il rapporto fra i due può essere solo spirituale, etereo. Però gli impedisce pure di fare un’analisi della differente visione poetica dei due e il tutto è ridotto alle sbornie della strega verde dei poeti, ma ovviamente solo Rimbaud supera tutto, essendo nella categoria del maschile/forte. Il rapporto fra i due termina bruscamente, come si sa, e dalla prigione esce Il Verlaine convertito al cattolicesimo, perché la sua anima in tumulto approda inevitabilmente alla confessione, dopo il peccato! Poche commenti sul Verlaine cattolico, subito annullato da quello squallidamente pornografico. Si chiude così, tra gli sberleffi della plebe e delle prostitute, il saggio di Stefan Zweig sul poeta Paul Marie Verlaine.
Id: 3732 Data: 27/08/2025 21:20:16
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- Storia
Hitler Studio sulla tirannide Alan Bullok
Il ponderoso volume risulta sin da subito ben fatto e la filosofa Hannah Harend lo aveva definito il migliore su Hitler. Addirittura Bullok riesce a dargli spesso il ritmo e la struttura del thriller, pur trattandosi di fatti ben noti al lettore. Diviso in tre parti: Leader di partito, Cancelliere, Signore della guerra. Hitler nel 1934, alla morte di Hindenburg, riunirà le due cariche: Presidente e Cancelliere, conseguentemente Capo dello Stato. Senza nessuna modifica costituzionale ma solo con un referendum, ancora col corpo caldo del Feldmaresciallo, al quale partecipò il 96% degli aventi diritto che approvò col 90%, contrari 10% pari 4,5 milioni! Con questo s’introdusse il giuramento di fedeltà non al Reich, ma ad Hitler, perché il destino della Germania era lui. Permise sin da subito il poliferare di centri decisionali, spesso in conflitto fra loro: SA, SS, GESTAPO, PARTITO NAZISTA, REICHSTAG, ecc. Questa policrazia era addirittura favorita dal dittatore che poteva così assicurarsi il diritto di avere l'utima parola su tutto. Il Principe degli spergiuri all’apertura del Reichstag : “...il governo ricorrerà ai poteri straordinari solo se necessario …l’esistenza autonoma degli Stati Federali non sarà soppressa …i diritti delle Chiese non saranno intaccati …il governo apre ai partiti del Reichstag le porte della più cordiale collaborazione. Ma è pronto a proseguire nel caso di rifiuto o ostilità. A voi decidere fra guerra o pace …” Già dall’estate del 33 Hitler divenne padrone assoluto di un governo nel quale, per poco, von Papen venne a mala pena tollerato, perciò un governo indipendente dal Reichstag, dal Presidente Hindenburg e dagli alleati politici. Scrisse: “...che il Capo sia il servitore dell’Idea è una scemenza incredibile, questa è la peggiore democrazia. Per noi capo e Idea sono una cosa sola. Ciascun membro del partito deve fare ciò che gli viene ordinato” Nessun Gran Consiglio, perché Il Fuhrer doveva avere le mani libere. La parola era il suo più grande mezzo di dominio non solo sulle folle ma sul suo stesso temperamento. Parlava senza tregua, più che per comunicare il suo pensiero per far scattare la molla delle emozioni, per frustare col suono della sua voce anche l’uditorio a parossismi d’ira o di esaltazione. Incapace di discutere freddamente, anche con se stesso. Se si mettevano in dubbio le sue asserzioni andava in bestia . Non sopportava alcuna critica, di conseguenza odiava gli intellettuali, perché solo dall’istinto nasce la fede! Come oratore Hitler era eccessivamente verboso e spesso e si evolveva in frasi nebulose, però questi difetti scomparivano di fronte alla sua impressione di forza, alla passione, all’intensità di odio, alla furia della sua voce che sapeva suscitare nell’uditorio. Ma specialmente era preponderante la sua sensibilità nel captare gli umori della folla, coglierne le passioni, i rancori e le aspirazioni. La sua disordinata e fertile immaginazione era figlia del romanticismo tedesco tardo ottocentesco, imbevuto di idee caricaturali da Wagner, Nietzsche e Schopenhauer. Hermann Rauschning, uno dei primi delusi dal nazismo : “Avrebbe potuto essere inventato da Dostoevskij per il suo morboso squilibrio e per la pseudo creatività di origine isterica”. Ma l'importante è capire fino a che punto fosse convinto di essere un ispirato o, invece, sfruttasse di proposito il lato irrazionale della natura umana. In questa mistura di calcolo e fanatismo è difficile delinearne la personalità. Sir Neville Henderson, ambasciatore britannico, “La sua eccezionale autosuggestionabilità gli serviva sia a montare le proprie passioni che a convincere gli altri”. Negli impeti di collera pareva smarriva completamente il controllo. Col viso chiazzato e gonfio, urlava a pieni polmoni, scaricando sull’avversario torrenti d’insulti, agitando furiosamente le braccia e tempestando di pugni la tavola. Poi d’improvviso s’interrompeva e dopo essersi ricomposto i capelli e riaggiustato il colletto riprendeva a parlare con voce normale. La sua tattica abituale era quella di passare per aggredito. Accusava gli avversari di perfide mene ai suoi danni e, dopo avere denunciato l’oltraggio scagliava fulmini d’indignazione. Recitava la parte del capo che sapeva tutto, faceva affidamento su una notevole capacità mnemonica che gli permetteva di snocciolare lunghi elenchi di nomi, date, schieramenti di battaglie senza alcuna esitazione, non importava se talora risultavano errati. Fino all’ultimo conservò su quanti l’avvicinavano un sorta di magnetismo che molti hanno descritto come un potere ipnotico del suo sguardo. Sempre guardingo e riservato diffidava di tutti, non si comprometteva mai. Ogni cosa in lui era il risultato di un freddo calcolo. Hitler godeva di un dono raro, quello di non avere nessun ritegno morale che lo frenasse: uomo senza radici, casa, famiglia. Non conosceva fedeltà e non nutriva rispetto né per Dio ne per gli uomini. Pretese il sacrificio di milioni di vite tedesche per la sacra causa della Germania fino alla sua distruzione totale piuttosto che dichiararsi sconfitto. La sua caduta è l'esatto finale del Gotterdammerung ove non solo s'inabissano tutti gli dei ma l’intero Walhalla.
Id: 3702 Data: 28/06/2025 17:59:18
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- Politica
Il suicidio di Israele di Anna Foa
Il titolo non lascia adito a equivoci sulla linea del veloce libretto di 90 pagine. Però l’analisi parte dal sionismo ed il suo inconcepibile sviluppo. La storia, sulle spalle delle persone, ha indirizzato questa teoria ad esiti inimmaginabili alla fine del XIX secolo. Le colpe secondo l’autrice sono condivisibili fra gli attori della tragedia, anche se la parte principale è da addebitare ad Israele. La difesa iniziale si è trasformata in una politica che conosce solo l’attacco, ignorando d’essere uno stato circondato da “nemici”. Le fasi che avevano fatto ben sperare nella convivenza sono state tutte affondate dai gruppi di estremisti che alla fine sono risultati determinanti nei nuovi indirizzi. Oltre all’inevitabile bocciature della politica di Netanyhau preoccupa la presenza politica di estremisti ultraortodossi che tengono in pugno il governo con una lettura al contemporaneo dell’antico passato biblico. Ed è sulla base di questo che ormai, purtoppo, il pensiero mondiale non fa più alcuna distinzione fra le varie anime ebraiche. Sono considerati tutti, senza distinzione di geografica, israeliani guerrafondai, razzisti, xenofobi che ignorano persino la tragica lezione della Shoah.
Id: 3674 Data: 16/05/2025 11:06:06
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- Storia
Napoleone III di Eugenio di Rienzo
Napoleone III Eugenio di Rienzo Il poderoso volume, di oltre 700 pagine, inizia bene con un ritmo che incalza facendoti seguire con trepidazione l'assalto al potere del “desdichado” figlio di Ortensia di Beauharnais e di Luigi Bonaparte. Il libro si muove in maniera inconsueta perché, oltre a non citare nulla della persona, sentimenti, salute ecc , non nomina nemmeno fatti storici importanti dando tutto per saputo: il cambiamento dopo il colpo di stato del 2 dicembre ed i perimetri della “democrazia imperiale” o le battaglie della II guerra d'indipendenza italiana. In compenso vi sono pagine su pagine di diatribe parlamentari con noiosissimi elenchi di deputati delle differenti correnti politiche. Finisce alla fine per diventare non una biografia dell'imperatore ma l'analisi politica della storia di Francia dal 1808 al 1870. Una scoperta la figura del principe cugino Napoleone Giuseppe Bonaparte detto Plon Plon, genero di Vittorio Emanuele II , un radicale con una visione lungimirante, atta, inutilmente, a spingere l'immobile imperatore ad azioni più incisive. Perché la struttura imperiale non aveva contrappesi con una censura illimitata, non più al passo col nuovo. Questa struttura dava ampio spazio alla doppiezza machiavellica di Napoleone III capace di passare da un'alleanza all'altra disinvoltamente, dato che solo a lui era riservata una responsabilità politica integrale con i ministri che rispondevano solo a Lui. Ovviamente non era solo una caratteristica sua, basta analizzare il coevo comportamento di Bismarck. Interessante invece la lettura dell'unità italiana vista con gli occhi degli altri. Nella storia italiana, emerge solo Cavour, ritenuto da Napoleone III un politico doppiogiochista atto contrattare con la Francia, ostilissima all'idea di un'Italia unita. L’imperatore pensava tuttalpiù ad una confederazione di 7 stati, ostile perciò alle “brame della dinastia piemontese” e arroccato in una difesa senza tentennamenti del decrepito Stato papale. Rapida conclusione con il suicidio dell'impero, per l'infelice guerra contro la Prussia, incoscientemente voluta da tutti, stragrande maggioranza del Parlamento compresa, per addebitarne alla fine l'intera responsabilità all'imperatore.
Id: 3663 Data: 29/04/2025 10:04:50
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- Poesia
Umberto Bellintani Ovvero lessenza delle origini
Umberto Bellintani di se stesso scriverà: “Ho incominciato ad essere poeta forse troppo presto, mi pare tra gli otto o i nove anni. Fu allora che sentii poeticamente che avevo le mani, e avevo tutto il resto; fu allora che mi accorsi che avevano voce il silenzio e la solitudine, e l’avevano i campi e le acque; fu allora che sentii di parlare ad erbe e a fiori, e posai l’orecchio sul petto degli alberi”. Ecco perché è fondamentale, nella sua opera, parlare di terra nel senso pieno e delle sue radici ineliminabili, dell'unione del poeta e dell'intera vita sua con la primordialità della natura e conseguentemente con la quotidianità, senza incantamenti. Il suo rapporto con la natura non è il normale confronto come “...il rosseggiar di peschi e albicocchi...” alla Pascoli, perché la sua visione della vita è differente da ogni narrazione precedente. Nella poesia “sono un topo di campagna” infatti Bellintani disegna il suo ritratto nella bassa mantovana: con la Luna, la Casa, (tutti in maiuscolo), in quella fetta di terra, a Gorgo, dove visse la maggior parte della sua esistenza. Sono un topo di campagna Forse un giorno partirò dai campi miei, dal gorgheggio delle passere di luce per la grigia città. Me ne andrò alle pallide ombre dei vicoli, nella folla dei monotoni passaggi delle ore sui viali, alla muraglia delle case contro il cielo delle lodole. Non avvenga. Lasciatemi all’aperto mattino, al cammino sulle orme del passato, alla luna ch’è la Luna al mio paese, alla casa ch’è la Casa. Sono un topo di campagna, sono il grillo che nel cuore mi ricanta ogni sera se l’ascolto dal paterno focolare. Forse lo spaventa persino lo spazio illimitato della pianura e allora si àncora di più nel recinto amato, memore di quel che diceva il suo conterraneo Virgilio “dalle piccole cose nasce il grande”. Per questo la sua vita sottolinea il legame indelebile con le origini e gli impone di non abbandonare mai il borgo natio. Onnipresente, nella sua narrazione, è il fiume, non solo come presenza fisica ma una pienezza spirituale che lo compenetra. Ed è nominato semplicemente fiume, quello che dà la vita ma che spesso ghermisce abbozzi di esistenze lasciandone però sempre una scia a ricordare che nulla della vita è mai completamente perduto perché basta stare ”sempre lieti al core sulla riva”. Così si evidenzia il potente filo conduttore della poetica di Bellintani: la morte! La sua concezione della morte, rifiutata come finale, è unica, perché c'è sempre un'altra vita e anche se questa ti afferra lascia che il ricordo resti come testimonianza. L'eterno ritorno: giorno, notte, sole, luna, vita, morte. Ma non si trema mai davanti alla morte, “povera madre che soffre”, anche perché “in noi s'alterna timore d'essa e quieta attesa del suo riposo”. Ed è certamente nel vivere così intensamente il rapporto con la sacralità della vita che chiosa: “...soltanto un dolcissimo rapporto fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa lento e veloce” con l'inesorabilità delle stagioni, legate magneticamente all'incorruttibilità della natura in ogni suo aspetto, che resta ancora potente la spiritualità del messaggio di questo concreto visionario che nonostante il suo proverbiale silenzio ed il suo carattere ispido, ha lasciato per noi un monito duraturo da tesaurizzare. Umberto Bellintani è nato a San Benedetto Po il 10 maggio del 1914 ed è morto, dov'è nato, il 7 ottobre del 1999. Nonostante fosse appassionato di poesia sin da ragazzo, si diploma in scultura a 23 anni a Milano. Successivamente si trasferisce a Firenze dove farà parte di una cerchia di artisti fra cui i poeti Alessandro Parronchi, Giorgio Caproni ed il pittore Ottone Rosai al quale dedicherà una poesia alla sua morte. Di quella sua fase rimangono solo alcune opere che testimoniano il suo impegno per realizzarsi come scultore. La guerra e poi la prigionia in Germania per 2 anni interromperà ogni suo progetto. Ritornato a San Benedetto Po, dopo un periodo d'insegnamento del disegno, viene assunto come applicato, alla locale scuola media, dove rimarrà sino al pensionamento. Assieme al disegno e allo studio dei maestri, che non abbandonerà mai, inizia a comporre poesie. Partecipa felicemente ad alcuni importanti concorsi, facendosi presto apprezzare dalla critica. Pubblica anche alcune poesie per Elio Vittorini e Roberto Longhi. Dal 1953 al 1963 pubblica tre libri: Forse un viso tra mille, Paria e E tu che m'ascolti, vincendo anche due prestigiosi premi letterari. Nel 1963 nonostante continue sollecitazioni, smette di pubblicare, ma non certo di scrivere, pur mantenendo contatti con poeti e letterati. Si trattò quasi solamente di rapporti storici, perché in lui la ritrosia per la modernità, la famigliarità col silenzio dominavano ogni suo agire. Seguirono 35 anni di oblio editoriale, nonostante il suo nome fosse ormai ben conosciuto ed apprezzato. Quando pareva acconsentire ad incontri poi sfuggiva deciso, come quando inviò una serie di disegni ad una mostra a Firenze per poi precipitosamente ordinarne la distruzione. Oppure sfuggire ad un Quasimodo che s'era recato appositamente a San Benedetto per incontrarlo. Negli ultimi due anni della sua vita, pressato ulteriormente, pubblica “La grande pianura” un'antologia delle sue opere con un'integrazione di nuove opere e “Canto autunnale”. Rilevante fu il suo epistolario, per un credente della sacralità della terra come lui, con il suo vicino don Primo Mazzolari, “La tromba dello spirito Santo in terra mantovana”. Così come non stupisce il rapporto, anche cinematografico, con il regista Franco Piavoli, il poeta dell'immagine. Per lui partecipa a Voci nel tempo con cinque poesie ed un disegno. La poetica di Bellintani, non aderisce all'ermetismo ma non è comunque inquadrabile in nessuna delle correnti allora presenti. Si tratta di una poesia dell'essenza, scarnificata di orpelli, che va diretta al cuore dell'ispirazione. È una testimonianza del ciclo eterno della vita ed i legami esistenziali col grembo della Madre Terra che nutrono ogni essere vivente accompagnandolo sin dalla nascita, sempre. Non è affatto maligna Non è affatto maligna la morte è una povera donna infelice che ti passa la mano sul capo e gli occhi ti serra e il cuore te lo ferma e ti dice amorosa di dormire, di nulla temere. Non ha falce ne teschio la morte è una povera donna che soffre e che attende ogni figlio che muore e ogni volta che un figlio le muore e la mamma dolente che piange questa povera morte affettuosa. Dolce chiude l'ora di sera Forse non esiste Dio. Forse solo il rapporto fra noi esiste e gli alberi annosi o appena d'anni uno e le erbe e i coccodrilli e il buon tepore della sera. Non v'è che poi la morte ed altro ancora innanzi ad essa da soffrire. Ma poi tutto per lei si placa; e in noi s'alterna timore d'essa e quieta attesa del suo riposo: così oggi è da porre questo giorno fra non quelli di sofferenza e sgomento: dolce chiude l'ora di sera col risorgere di una ampia stellata. Dunque forse soltanto un dolcissimo rapporto fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa lento e veloce. Continuare Bisogna continuare a credere nella poesia, a vivere la vita. Bisogna uscire dalla folla, credere ancora in Dio, tornare fanciulli nel cuore, tornare alla contemplazione dei fiori, della luna, delle piccole e grandi cose. Lasciamoli agli altri gli stadi le macchine le fabbriche le adunate sulle piazze dove si infolla l’essere e muore. Se uccidi un grillo, quale strada può accogliere il tuo piede, quale cielo il tuo occhio? Quale cavallo la tua mano, quale fiore il tuo sorriso? Tutto è così difficile, impossibile… Ma chissà. È nel mistero il clamore bianco della gioia. Alberto Gaetano Castrini
Id: 3629 Data: 19/03/2025 11:15:06
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- Storia
Guglielmo II di Gustavo Corni
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