I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
Il ponderoso volume risulta sin da subito ben fatto e la filosofa Hannah Harend lo aveva definito il migliore su Hitler.
Addirittura Bullok riesce a dargli spesso il ritmo e la struttura del thriller, pur trattandosi di fatti ben noti al lettore.
Diviso in tre parti: Leader di partito, Cancelliere, Signore della guerra.
Hitler nel 1934, alla morte di Hindenburg, riunirà le due cariche: Presidente e Cancelliere, conseguentemente Capo dello Stato. Senza nessuna modifica costituzionale ma solo con un referendum, ancora col corpo caldo del Feldmaresciallo, al quale partecipò il 96% degli aventi diritto che approvò col 90%, contrari 10% pari 4,5 milioni!
Con questo s’introdusse il giuramento di fedeltà non al Reich, ma ad Hitler, perché il destino della Germania era lui.
Permise sin da subito il poliferare di centri decisionali, spesso in conflitto fra loro: SA, SS, GESTAPO, PARTITO NAZISTA, REICHSTAG, ecc. Questa policrazia era addirittura favorita dal dittatore che poteva così assicurarsi il diritto di avere l'utima parola su tutto.
Il Principe degli spergiuri all’apertura del Reichstag : “...il governo ricorrerà ai poteri straordinari solo se necessario …l’esistenza autonoma degli Stati Federali non sarà soppressa …i diritti delle Chiese non saranno intaccati …il governo apre ai partiti del Reichstag le porte della più cordiale collaborazione. Ma è pronto a proseguire nel caso di rifiuto o ostilità. A voi decidere fra guerra o pace …”
Già dall’estate del 33 Hitler divenne padrone assoluto di un governo nel quale, per poco, von Papen venne a mala pena tollerato, perciò un governo indipendente dal Reichstag, dal Presidente Hindenburg e dagli alleati politici.
Scrisse: “...che il Capo sia il servitore dell’Idea è una scemenza incredibile, questa è la peggiore democrazia. Per noi capo e Idea sono una cosa sola. Ciascun membro del partito deve fare ciò che gli viene ordinato”
Nessun Gran Consiglio, perché Il Fuhrer doveva avere le mani libere.
La parola era il suo più grande mezzo di dominio non solo sulle folle ma sul suo stesso temperamento. Parlava senza tregua, più che per comunicare il suo pensiero per far scattare la molla delle emozioni, per frustare col suono della sua voce anche l’uditorio a parossismi d’ira o di esaltazione.
Incapace di discutere freddamente, anche con se stesso. Se si mettevano in dubbio le sue asserzioni andava in bestia . Non sopportava alcuna critica, di conseguenza odiava gli intellettuali, perché solo dall’istinto nasce la fede!
Come oratore Hitler era eccessivamente verboso e spesso e si evolveva in frasi nebulose, però questi difetti scomparivano di fronte alla sua impressione di forza, alla passione, all’intensità di odio, alla furia della sua voce che sapeva suscitare nell’uditorio. Ma specialmente era preponderante la sua sensibilità nel captare gli umori della folla, coglierne le passioni, i rancori e le aspirazioni.
La sua disordinata e fertile immaginazione era figlia del romanticismo tedesco tardo ottocentesco, imbevuto di idee caricaturali da Wagner, Nietzsche e Schopenhauer.
Hermann Rauschning, uno dei primi delusi dal nazismo : “Avrebbe potuto essere inventato da Dostoevskij per il suo morboso squilibrio e per la pseudo creatività di origine isterica”.
Ma l'importante è capire fino a che punto fosse convinto di essere un ispirato o, invece, sfruttasse di proposito il lato irrazionale della natura umana. In questa mistura di calcolo e fanatismo è difficile delinearne la personalità.
Sir Neville Henderson, ambasciatore britannico, “La sua eccezionale autosuggestionabilità gli serviva sia a montare le proprie passioni che a convincere gli altri”.
Negli impeti di collera pareva smarriva completamente il controllo. Col viso chiazzato e gonfio, urlava a pieni polmoni, scaricando sull’avversario torrenti d’insulti, agitando furiosamente le braccia e tempestando di pugni la tavola. Poi d’improvviso s’interrompeva e dopo essersi ricomposto i capelli e riaggiustato il colletto riprendeva a parlare con voce normale.
La sua tattica abituale era quella di passare per aggredito. Accusava gli avversari di perfide mene ai suoi danni e, dopo avere denunciato l’oltraggio scagliava fulmini d’indignazione.
Recitava la parte del capo che sapeva tutto, faceva affidamento su una notevole capacità mnemonica che gli permetteva di snocciolare lunghi elenchi di nomi, date, schieramenti di battaglie senza alcuna esitazione, non importava se talora risultavano errati.
Fino all’ultimo conservò su quanti l’avvicinavano un sorta di magnetismo che molti hanno descritto come un potere ipnotico del suo sguardo.
Sempre guardingo e riservato diffidava di tutti, non si comprometteva mai. Ogni cosa in lui era il risultato di un freddo calcolo.
Hitler godeva di un dono raro, quello di non avere nessun ritegno morale che lo frenasse: uomo senza radici, casa, famiglia. Non conosceva fedeltà e non nutriva rispetto né per Dio ne per gli uomini.
Pretese il sacrificio di milioni di vite tedesche per la sacra causa della Germania fino alla sua distruzione totale piuttosto che dichiararsi sconfitto.
La sua caduta è l'esatto finale del Gotterdammerung ove non solo s'inabissano tutti gli dei ma l’intero Walhalla.
Napoleone III Eugenio di Rienzo
Il poderoso volume, di oltre 700 pagine, inizia bene con un ritmo che incalza facendoti seguire con trepidazione l'assalto al potere del “desdichado” figlio di Ortensia di Beauharnais e di Luigi Bonaparte.
Il libro si muove in maniera inconsueta perché, oltre a non citare nulla della persona, sentimenti, salute ecc , non nomina nemmeno fatti storici importanti dando tutto per saputo: il cambiamento dopo il colpo di stato del 2 dicembre ed i perimetri della “democrazia imperiale” o le battaglie della II guerra d'indipendenza italiana.
In compenso vi sono pagine su pagine di diatribe parlamentari con noiosissimi elenchi di deputati delle differenti correnti politiche.
Finisce alla fine per diventare non una biografia dell'imperatore ma l'analisi politica della storia di Francia dal 1808 al 1870.
Una scoperta la figura del principe cugino Napoleone Giuseppe Bonaparte detto Plon Plon, genero di Vittorio Emanuele II , un radicale con una visione lungimirante, atta, inutilmente, a spingere l'immobile imperatore ad azioni più incisive.
Perché la struttura imperiale non aveva contrappesi con una censura illimitata, non più al passo col nuovo. Questa struttura dava ampio spazio alla doppiezza machiavellica di Napoleone III capace di passare da un'alleanza all'altra disinvoltamente, dato che solo a lui era riservata una responsabilità politica integrale con i ministri che rispondevano solo a Lui.
Ovviamente non era solo una caratteristica sua, basta analizzare il coevo comportamento di Bismarck.
Interessante invece la lettura dell'unità italiana vista con gli occhi degli altri.
Nella storia italiana, emerge solo Cavour, ritenuto da Napoleone III un politico doppiogiochista atto contrattare con la Francia, ostilissima all'idea di un'Italia unita.
L’imperatore pensava tuttalpiù ad una confederazione di 7 stati, ostile perciò alle “brame della dinastia piemontese” e arroccato in una difesa senza tentennamenti del decrepito Stato papale.
Rapida conclusione con il suicidio dell'impero, per l'infelice guerra contro la Prussia, incoscientemente voluta da tutti, stragrande maggioranza del Parlamento compresa, per addebitarne alla fine l'intera responsabilità all'imperatore.
Umberto Bellintani di se stesso scriverà: “Ho incominciato ad essere poeta forse troppo presto, mi pare tra gli otto o i nove anni. Fu allora che sentii poeticamente che avevo le mani, e avevo tutto il resto; fu allora che mi accorsi che avevano voce il silenzio e la solitudine, e l’avevano i campi e le acque; fu allora che sentii di parlare ad erbe e a fiori, e posai l’orecchio sul petto degli alberi”.
Ecco perché è fondamentale, nella sua opera, parlare di terra nel senso pieno e delle sue radici ineliminabili, dell'unione del poeta e dell'intera vita sua con la primordialità della natura e conseguentemente con la quotidianità, senza incantamenti. Il suo rapporto con la natura non è il normale confronto come “...il rosseggiar di peschi e albicocchi...” alla Pascoli, perché la sua visione della vita è differente da ogni narrazione precedente.
Nella poesia “sono un topo di campagna” infatti Bellintani disegna il suo ritratto nella bassa mantovana: con la Luna, la Casa, (tutti in maiuscolo), in quella fetta di terra, a Gorgo, dove visse la maggior parte della sua esistenza.
Sono un topo di campagna
Forse un giorno partirò dai campi miei,
dal gorgheggio delle passere di luce
per la grigia città. Me ne andrò
alle pallide ombre dei vicoli,
nella folla dei monotoni passaggi
delle ore sui viali, alla muraglia
delle case contro il cielo delle lodole.
Non avvenga. Lasciatemi all’aperto
mattino, al cammino sulle orme del passato,
alla luna ch’è la Luna al mio paese,
alla casa ch’è la Casa.
Sono un topo di campagna, sono il grillo
che nel cuore mi ricanta ogni sera
se l’ascolto dal paterno focolare.
Forse lo spaventa persino lo spazio illimitato della pianura e allora si àncora di più nel recinto amato, memore di quel che diceva il suo conterraneo Virgilio “dalle piccole cose nasce il grande”.
Per questo la sua vita sottolinea il legame indelebile con le origini e gli impone di non abbandonare mai il borgo natio.
Onnipresente, nella sua narrazione, è il fiume, non solo come presenza fisica ma una pienezza spirituale che lo compenetra. Ed è nominato semplicemente fiume, quello che dà la vita ma che spesso ghermisce abbozzi di esistenze lasciandone però sempre una scia a ricordare che nulla della vita è mai completamente perduto perché basta stare ”sempre lieti al core sulla riva”. Così si evidenzia il potente filo conduttore della poetica di Bellintani: la morte! La sua concezione della morte, rifiutata come finale, è unica, perché c'è sempre un'altra vita e anche se questa ti afferra lascia che il ricordo resti come testimonianza.
L'eterno ritorno: giorno, notte, sole, luna, vita, morte.
Ma non si trema mai davanti alla morte, “povera madre che soffre”, anche perché “in noi s'alterna timore d'essa e quieta attesa del suo riposo”. Ed è certamente nel vivere così intensamente il rapporto con la sacralità della vita che chiosa:
“...soltanto un dolcissimo rapporto
fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa
lento e veloce”
con l'inesorabilità delle stagioni, legate magneticamente all'incorruttibilità della natura in ogni suo aspetto, che resta ancora potente la spiritualità del messaggio di questo concreto visionario che nonostante il suo proverbiale silenzio ed il suo carattere ispido, ha lasciato per noi un monito duraturo da tesaurizzare.
Umberto Bellintani è nato a San Benedetto Po il 10 maggio del 1914 ed è morto, dov'è nato, il 7 ottobre del 1999. Nonostante fosse appassionato di poesia sin da ragazzo, si diploma in scultura a 23 anni a Milano.
Successivamente si trasferisce a Firenze dove farà parte di una cerchia di artisti fra cui i poeti Alessandro Parronchi, Giorgio Caproni ed il pittore Ottone Rosai al quale dedicherà una poesia alla sua morte. Di quella sua fase rimangono solo alcune opere che testimoniano il suo impegno per realizzarsi come scultore.
La guerra e poi la prigionia in Germania per 2 anni interromperà ogni suo progetto. Ritornato a San Benedetto Po, dopo un periodo d'insegnamento del disegno, viene assunto come applicato, alla locale scuola media, dove rimarrà sino al pensionamento.
Assieme al disegno e allo studio dei maestri, che non abbandonerà mai, inizia a comporre poesie. Partecipa felicemente ad alcuni importanti concorsi, facendosi presto apprezzare dalla critica. Pubblica anche alcune poesie per Elio Vittorini e Roberto Longhi.
Dal 1953 al 1963 pubblica tre libri: Forse un viso tra mille, Paria e E tu che m'ascolti, vincendo anche due prestigiosi premi letterari. Nel 1963 nonostante continue sollecitazioni, smette di pubblicare, ma non certo di scrivere, pur mantenendo contatti con poeti e letterati.
Si trattò quasi solamente di rapporti storici, perché in lui la ritrosia per la modernità, la famigliarità col silenzio dominavano ogni suo agire.
Seguirono 35 anni di oblio editoriale, nonostante il suo nome fosse ormai ben conosciuto ed apprezzato. Quando pareva acconsentire ad incontri poi sfuggiva deciso, come quando inviò una serie di disegni ad una mostra a Firenze per poi precipitosamente ordinarne la distruzione. Oppure sfuggire ad un Quasimodo che s'era recato appositamente a San Benedetto per incontrarlo.
Negli ultimi due anni della sua vita, pressato ulteriormente, pubblica “La grande pianura” un'antologia delle sue opere con un'integrazione di nuove opere e “Canto autunnale”.
Rilevante fu il suo epistolario, per un credente della sacralità della terra come lui, con il suo vicino don Primo Mazzolari, “La tromba dello spirito Santo in terra mantovana”. Così come non stupisce il rapporto, anche cinematografico, con il regista Franco Piavoli, il poeta dell'immagine. Per lui partecipa a Voci nel tempo con cinque poesie ed un disegno.
La poetica di Bellintani, non aderisce all'ermetismo ma non è comunque inquadrabile in nessuna delle correnti allora presenti. Si tratta di una poesia dell'essenza, scarnificata di orpelli, che va diretta al cuore dell'ispirazione. È una testimonianza del ciclo eterno della vita ed i legami esistenziali col grembo della Madre Terra che nutrono ogni essere vivente accompagnandolo sin dalla nascita, sempre.
Non è affatto maligna
Non è affatto maligna la morte
è una povera donna infelice
che ti passa la mano sul capo
e gli occhi ti serra e il cuore
te lo ferma e ti dice amorosa
di dormire, di nulla temere.
Non ha falce ne teschio la morte
è una povera donna che soffre
e che attende ogni figlio che muore
e ogni volta che un figlio le muore
e la mamma dolente che piange
questa povera morte affettuosa.
Dolce chiude l'ora di sera
Forse non esiste Dio. Forse
solo il rapporto
fra noi esiste e gli alberi
annosi o appena d'anni
uno e le erbe
e i coccodrilli e il buon tepore
della sera. Non v'è
che poi la morte ed altro ancora
innanzi ad essa da soffrire. Ma poi tutto
per lei si placa; e in noi s'alterna
timore d'essa e quieta attesa
del suo riposo:
così
oggi è da porre questo giorno fra non quelli
di sofferenza e sgomento: dolce chiude
l'ora di sera col risorgere di una
ampia stellata. Dunque
forse soltanto un dolcissimo rapporto
fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa
lento e veloce.
Continuare
Bisogna continuare a credere nella poesia,
a vivere la vita.
Bisogna uscire dalla folla,
credere ancora in Dio, tornare fanciulli nel cuore,
tornare alla contemplazione dei fiori,
della luna, delle piccole e grandi cose.
Lasciamoli agli altri gli stadi
le macchine le fabbriche le adunate sulle piazze
dove si infolla l’essere e muore.
Se uccidi un grillo, quale strada
può accogliere il tuo piede, quale cielo
il tuo occhio?
Quale cavallo la tua mano, quale fiore
il tuo sorriso?
Tutto è così difficile, impossibile… Ma chissà.
È nel mistero il clamore bianco della gioia.
Alberto Gaetano Castrini