I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Poeti in dieci righe: Franco Canavesio
Poeti (di Torino) in 10 righe. 19. Franco Antonio Canavesio Franco Antonio Canavesio, è nato a Torino nel 1949, dove vive. Ingegnere di professione, dopo una lunga frequentazione come autore e lettore, e diverse pubblicazioni antologiche, giunge alla pubblicazione del suo primo volume di poesie con Custode del giardino (Ed. Aurora Boreale, 2019), con prefazione di Mario Marchisio. Suoi versi sono ospitati con regolarità nel foglio di poesia Amado mio. Nel 2020 pubblica a quattro mani con Mario Parodi la raccolta 70 e sentirli a ritmo di swing (Ed. Impremix) Poeta, a dispetto della limitata e tardiva produzione edita, Franco Canavesio, ha saputo attraverso una via mediana tra cantabilità e discorsività, scansioni rappresentative e volute immaginifiche, creare una poesia osmotica tra l’occasione estrinseca e una visionarietà onirica. “Poeta alla continua ricerca di visioni, di immagini, a caccia di pensieri […] cerca incessantemente il suo destino di poeta nelle cose che incontra […] deambula nello spazio e nel tempo: raccoglie, accarezza, trasfigura poeticamente ciò che incontra e lo sussume nella sua vasta e colorata poetica dell’immagine” (Stefano Vitale) L'anima d'un matto in volo Noi, rinchiusi, senza ali ci attirava il volo non il mistero di elitre e piume la legge che governa il battito alternato e annulla il peso. Non ci importa delle speculazioni Leonardo e i suoi eterei disegni neppure le macchine rombanti, silenti le protesi leggere e il tuffo dalla rupe. Muoverci a mezz'aria senza strumenti come a voi accade in sogno nel tempo sospeso della caduta. - Noi, che vogliamo, possiamo - si leggeva scritto sui muri sollevarci, con le nostre forze a mezza altezza dove il divisorio azzurro incontra lo spazio bianco. Avremmo preferito accadesse di giorno più netto il limite tra i due colori e sarebbe parso chiaro a noi e agli altri che non si trattava di sogno o pazzia di trasfusione aliena o innovativa sequenza di scosse ma di energia nostra. Non so degli altri a me accadde che sentissi la forza per dimenticanza tra due fiati lunghi la sedazione diventata spirito. Mi liberai della camicia come luce tra due cappelli a punte toccai l'azzurro e poi il bianco un'apparizione agli occhi delle due monache inginocchiate, l'esimio professore restò di stucco per l'effetto, sorprendente era il corpo così leggero e luminoso o l'anima, di quel matto in volo? in Custode del giardino, Ed. Aurora Boreale, 2019, pag. 30 * * * Mi chiedo da dove vengano - dalla città, dai campi - i corvi da sera, le gazze eleganti che svolazzano e beccano in cattività tra i miei versi e se si riconoscono nel ruolo: il gracchio ricorrente, il furto di diamanti falsi. Han mai provato l'abbondanza del campo la vista del rosso di una torre un nido ondeggiante sul cedro più alto? Sanno nutrire le parole, conoscono la fatica del vai e vieni incessante? O sono uccelli da gabbia anche la poiana e il nibbio con becco e piume di pappagallo a ripetere la nota di colore il verso addomesticato al taglio di luce per il té del pomeriggio? da Come in un paesaggio, in Custode del giardino, Ed. Aurora Boreale, 2019, pag. 111 Veloci in viaggio (in un paesaggio nordico) Checché ne dica Gadda pur con i segnali d'avviso, - verrà una curva a destra, rallenta prima del dosso - è sempre meraviglia quando dritto s'apre vasto un mondo di betulle e sole bianco. E' una distesa d'oro il paesaggio anche il manto della provinciale che taglia la tundra nostra, il primospazio aperto fuori porta. Su questo bolide, come freccia luccicante scagliati rasoterra sul bersaglio, prima che il sole cali bucheremo l'orizzonte. (14 novembre 2019) da 70 e sentirli a ritmo di swing, Ed. Impremix, 2020, pag. 85
Id: 2717 Data: 28/11/2020 18:26:03
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Il coraggio di non lasciare il segno di Dario Talarico
Dario Talarico Il coraggio di non lasciare il segno. Postfazione di Mauro Ferrari. puntoacapo Ed., Collana AltreScritture, 2020 Dario Talarico, giovane autore romano, classe 1990, dagli esordi precoci (“dopo aver ritirato i primi due libri dalle stampe, rimane in commercio La farfalla di piombo, LietoColle, 2013) pubblica ora per puntoacapo, nella Collana AltreScritture, una notevole raccolta Il coraggio di lasciare il segno, che, contrariamente al titolo, credo che il segno lo stia lasciando. Il volume si articola in due Parti, con relative sottosezioni: Sistole (Il vuoto che riempie il nulla, Autopsia) e Diastole (Un profilattico bucato, Non svegliarmi). Già il titolo della raccolta racchiude importanti indirizzi per una linea di lettura. Antinomia, o almeno ribaltamento (e sfiduciamento) del senso comune del dire (e, quindi, della struttura stessa del pensiero e – fatalmente – dell’agire e dell’esistere), che non è un isolato oggetto da vetrina di una bottega vuota, una curiosa esca per il lettore, ma esemplifica un modus ricorrente (e, si vedrà, una chiara visione del vivere): «Il vuoto che riempie il nulla» (p.11), «È così stupido essere intelligenti» (p.16), «A lasciare/ che a raccontarci sia il silenzio che ci tace» (p.22), «la libertà che ci lega» (p.22), «smettere di scrivere è un esercizio quotidiano» (p.27). Queste frequenti inversioni (o rinunce) di senso costellano l’intera raccolta, compresa la coinvolgente Parte Seconda, Diastole: filtrando la realtà e compiendo il «viaggio di andata e ritorno nell’esistenza», alla ricerca del suo «posto nel mondo» attraverso una dimensione personale, anche intima, in «anabasi d’amore» o monologando «al figlio che non ho» (p. 82), il metodo d’indagine ritorna: «l’unica base da cui partire/ è che non c’è un base» (p.78), «Quel momento di silenzio - era il mio concerto» (p.81) ecc. Nella seconda sottosezione Autopsia (reiterata), dove si compie una vera (auto)dissezione sulle direttrici antinomiche parola/silenzio (su cui meriterebbe tornare), essere/non essere, la densità aforismatica raggiunge il culmine: ix. È facile non essere sé. Rincorriti. Bisogna impegnarsi per essere ciò che si è. Esaudisciti: sarai felice solo quando saprai essere tutto ciò che sai. (p. 35) E se, come in questo testo, si sfiora una congestione concettuale nella contemporanea rarefazione semantica, Dario Talarico sa farne inciso ruvido in una collana di testi brevi – tutti significativi – composita, dove non mancano slanci di pura cantabilità e intuizione, come nel testo conclusivo (che – con inciso irrituale e di non ortodossa autoreferenzialità - non posso non amare e proporre, da autore della serie di Antinomie, in Simmetrie, che recavano in primo verso una doppia negazione): xxxi. Non astro, non baratro: essere piccoli per il mondo, - questa - è la salvezza. I testi, fatta eccezione per la serie in Autopsia, dei quali si è appena detto, scorrono con linearità e libertà versale, ma anche in essi si addensano grappoli di sentenze e fulminee considerazioni («lapidari paradossi apoftegmatici» scrive Mauro Ferrari nella Postfazione) o riflessioni con passo narrativo che in Sistole a volte si spogliano da qualsiasi struttura retorica e che impongono al lettore l’arresto e talora la vertigine. Uno dei passi più esemplificativi in tal senso, non a caso, chiude il componimento che reca in ultimo verso il titolo dell’opera, a p. 29: Eroi per debolezza – Sand mandala […] Perché nulla rimane. In un’inutilità come stato si tratta solo di pescare la propria inutilità scegliendo la più confacente al nostro volerci attardare. […] E se il fine di ogni cosa è nella fine, il senso della vita è il morire. Nulla di meglio. Nulla di male: siamo foglie. Bisogna solo avere il coraggio – di non lasciare il segno. Per contro in Diastole, il giovane poeta dimostra che il suo repertorio versale, lessicale e semantico sa spaziare in versi di moderno lirismo e di grande inventiva («facevi ruggire le rose», «cinguettano i tuoni», «sparecchiare le aurore», «costellazione di lacrime», «come cenere sono questi occhi di legno», «il sospiro stremato di una foglia», ecc) mantenendo una struttura tenacemente libera, a tratti monologante, ma con cospicui territori frastici fratti ed ellittici, come esemplificato bene dai testi Risveglio («[…] I primi megafoni pubblicitari. Le vetrine illuminate./ I clacson di chi torna. I clacson di chi parte./ - Ecco. È nel frastuono. Senti?»), T.S.O.- Il guerriero senza cielo (« […] C’è stata una colluttazione./ Ricordo. La barba rotta. Grida./ Legni in pezzi. Va e vieni di sirene./ Va e vieni di pigiami./ Cigolio di carrelli.» ed altri. Ma il valore portante e importante de Il coraggio di non lasciare il segno è nella unitarietà e – mi spingerei ad affermare – nella modernità degli assunti concettuali che si fanno linguaggio. Non a caso la lunga vista di Mauro Ferrari convoca «tre numi tutelari di poesia e filosofia»: Leopardi, Nietzsche e Wittgenstein. Talarico costella la sua opera di citazioni nichiliste (oso: apparentemente?) e di destituzione dell’azione (valga ad epitaffio il titolo stesso!) e ne accoglie le spietate conseguenze nel confronto con «lo stare al mondo» (e l’agire in esso) e, come vedremo, con l’essere poeta: «Tutto ciò che è/ è per essere dimenticato» (p.28) «moltiplicando inutilità/ non si avrà mai un risultato utile o migliore. […] Perché nulla rimane» (p. 29) «Siine consapevole:/ vivere – è coincidere col niente» (p. 36); «Credevamo di fare - senza sapere/ che le azioni non esistono […] questa vita – che è solo uno splendido niente» (p.52). Ma se è corollario - ovvio e coerente - l’insufficienza della ragione e del pensiero («Rimane dietro chi si prova a pensare» p. 26; «Forse ho avuto troppo tempo per pensare» p.60; «delle tante disgrazie che siano capitate/ all’uomo, la peggiore di tutte/ - è che non abbia mai perso -/ la massima libertà di pensiero» p. 61; «chi ci ha dato l’intelligenza/ di porci domande, ha dimenticato – di darci/ anche l’intelligenza di trovare risposte», p. 21), e, conseguentemente dell’agire («Credevamo di fare – senza sapere/ che le azioni non esistono», p. 52), non è per nulla scontato che il poeta reagisca e cerchi una via d’uscita compatibile con l’affermazione della vita («Ma non morire cos’ha a che fare con vivere?», p. 83) sfidandone la dispersione come i grani di sabbia colorati di un «sand mandala». Dove cercare allora di ribaltare la polarità, giacché «la vita è la cosa più bella - la più vera» (p.67)? Non pare nella fede religiosa: «Anch’io -/ mi metterò nella schiera di chi ama Dio/ d’amore non corrisposto» (p.28); «Dio mio, perché mai m’hai dato il bisogno/ di una fede e una testa nelle ossa per non credere?» (p.62). Semmai in una più dilatata spiritualità («unico modo/ per conciliare il benessere/ alla conoscenza» (p.70) che però, pur offrendo una direzione teorica, non apparecchia – nel verso successivo - soluzioni facili: «Ma è inutile fare sforzi». È qui che, accolto il movimento a dissolvere, l’«assenza di senso [che] scandisce/ ogni singolo gesto mentre un respiro/ ostinato ci costringe a quest’esistenza» (p. 64) il poeta cede nella sua battaglia, sospende la fuga e s’accolla l’onere che ora si deve «vivere per fare». Il filosofo nichilista cede il passo al poeta, colui che di fronte al nulla oppone il fare, il creare, la poiesis che, a questo punto anabasico del percorso, può rivivere solo se specchiata e purificata dalla precedente e sempre imminente morte (o, almeno, agonia) simbolica. Viene messa in scena, quindi, una ubiquitaria e densa battaglia tra la Parola e il Silenzio (maiuscole mie), elette a simboli di ogni possibile antinomia (fare/non fare, vivere/morire…) e che vedo come il più potente dettato di questa considerevole raccolta. Serve non lesinare esempi, che così estrapolati, accentuano l’intonazione sentenziosa di cui si diceva in precedenza: «Siamo condannati alla nostra bocca./ È difficile – dire qualcosa che sia meglio di niente» (p.22); «È vergognoso parlare di ciò che si ignora./ È inutile parlare di ciò che si sa.» (p.34); «Tanto più è esatta/ una parola, tanto più spazio lascia/ a ciò che non dice» (p.36); «C’è un silenzio che non è pigrizia della parola» (p.50); «[…] in un’epoca come questa/ non si può più essere poeta» (p.57); E serve anche considerare come il volume si concluda (p. 85): « - Pensa a quanti affanni per ricreare il suono adatto e poi rendersi contro che la perfezione è propria solo del silenzio. Del silenzio esatto. Intoccato. Selvaggio.» Così, con l’opinabilità insita in una qualsiasi lettura di poesia, mi sento di concludere che il messaggio attivo de Il coraggio di non lasciare il segno sia ben maggiore di quanto ci raccontino le migliaia di parole che lo compongono. E stia proprio nel silenzio, nominato e innominato, da dove un altro segno verrà, più libero e vero di quello che avremmo lasciato sotto l’egida dell’azione-che-si-deve e del fare oscuramente obbligato. Un segno del sentire più che del pensare, che oserei dire intuitivo. E che porta Dario a confessare di aver «perso tempo per portare alla luce/ cose che dentro avevano il sole» (p.84) e, ricordando che i genitori gli «avevano detto soltanto una frase semplice,/ sincera: che la vita è la cosa più bella - la più vera» (p. 67), rivela a se stesso che «la vita vera è un'idea,/ un millisecondo» (p.70) e, nel magnifico componimento Al figlio che non ho – Monologo di un pianista (p.78), porta ad augurare: «Voglio che tu viva la tua vita/ come vive un respiro.» Alfredo Rienzi, 2 Novembre 2020
Id: 2701 Data: 07/11/2020 19:11:32
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Poeti in dieci righe: Augusto Blotto
Poeti (di Torino) in 10 righe - 18. Augusto BLOTTO Augusto Blotto, è nato a Torino nel 1933 è forse il più prolifico poeta italiano, autore una sterminata serie di volumi di poesia: “59 volumi di cui 22 editi e 4 attualmente disponibili in rete” [http://www.augustoblotto.it] precisa la quarta di I mattini partivi. Poesie per un angolo di pianura 1951-2012, Nino Aragno Editore, 2013. Le biografie riferiscono dell’esordio con Magnanimità (1951), Schwarz 1958 e che tra il 1957 ed il 1968 pubblica con Rebellato 17 volumi di poesie. Dopo il citato I mattivi partivi, Blotto ha pubblicato ancora In Francia e Autunno, Ed. Coup d'Idée, 2015 e Veramente, quando, ADV Advertising Company, 2016. La questione linguistica è talmente soverchiante, in tutta la fluviale produzione di Blotto, che è stata inevitabilmente posta al centro di quasi ogni esame critico della sua poetica che, estendendosi per oltre sessant’anni, s’imbatte nei residui tardo ermetici e nelle stagioni del neorealismo e della neoavanguardia, restando fedele alla primazia di un lavoro “ lessicale più che sintattico” - scrive motivatamente G. Tesio – teso, attraverso una straordinaria inventiva verbale, alla “costruzione di un linguaggio e dar voce a uno stile”. Nelle “migliaia di pagine [nelle quali] il poeta si inventa un suo linguaggio di demenziale protervia inventiva” (U. Eco) vengono compresse, ma non tacciono, altre questioni fondamentali, quali: la cifra visiva-visionaria dell’autore e la discussa oscurità del dettato. * * * I mattini partivi quando ombra queta dalle gronde arrossate immobilmente ascoltava madrepora che andava rosa-nerastra, fiati, fumi, ultime nuvole della notte sulla città senz’uomini, tagliata coi vialetti, fontane sonore vanamente, le conchiglie di polvere alle piazze ove i passi gelati sono ricordo in navette fumose, del terriccio quasi celeste. Odore di benzina e pino nel chiaro d’alba come ricordo. Pastoso m’abbracciava litaniando l’arancio sul verde, entrambi nel cielo, ancora come buio, poi nascevano a svolti i frutti dei binari rossi e sola l’ombra d’una chiesa oltre il perdersi di fili limacciosi, le pieghe del deposito a cupola sulle tornanti locomotive, come fanciulle stanche, e le azzurre altre locomotive al focolare umide – verde cigola un pendolo di vapore e ingenuità, chiarezza d’una bambina imprevista – screziate dalla pioggia, l’ombra sola di chiesa verdeggiante alla brumale natività respirava coi passeri supini alle campane ferme. Voci d’operai rosso argento, per vie di città come alla solitudine dei campi. Poi veri campi di distesi passeri folli alle stoppie, ondulazione tinnula all’infinito di rugiade: pagliai scoloranti nell’acque di pianura, laghetti di sovrana calma ai marci solchi di nero struggente sul rosso azzurro fantasiare delle acque quasi immobili: il sericeo vento alle orecchie in cricchi duri, amato risvegliarsi di falci in alto argento oltre le siepi, ignote, come testamenti gomiti delle donne agre ancora del volume ceruleo d’appannato sonno, e alle prime erbe non potevano cantare nell’umido: fontane; discorsi legati col silenzio di finestre verdi, in paesi presto dimenticati; e le argille più scabre, la ricchezza dei castagni alle curve pure, parapetti luminosi nel mattino di querce chiare, tabernacoli, vuoti, pasciuti; già pascoli di meraviglia e sole inavveduto; prolungamento preparato di muscoli verso una vetta boschiva e di brume pesanti ancora là in bottiglione grigio sul verde… maggio 1951, da Magnanimità, Schwarz, Milano 1958, in I mattini partivi, Nino Aragno Ed., 2013, pag. 6 * * * Ma il filtro che il crogiolo del silenzio aguglia in un “è vero!” esclamato in fibula di candela, tanto le soddisfazioni oltre‑paèsano, appone i testi – da mattone – del lago cui la fattura liquida non sceglie: appièna roselline di soggiorni in grembiali di cacao, ortènsia le ghiaie che spengano un senziorino d’odore quale la bretella d’una colazione sognante o che nessuno intercida più, frutta sucida del futuro, cui padigliona l’assenza del rumore, in uno scavalchino (l’attesa) (asola bianca) E attorno generosi bastìdino il parlare, nello scottar tepore gota di “Stare!”, come sciami di afferenti: muretti, bestiole, da dio degli accenni udirli, di rumore, nel sole pavanante (un condurre...) sopra le serpicine, scricchiolo la gambina del fastello, morellato dal sole ch’è un torace riquadro di sughero e illuminato (velario come un telaio; il freddo) Lugano Gandria, febbraio 1991 da Poesie Ticinesi, alla chiara fonte, 2012, pag. 15 * * * La sciabola gonfia di un rio che oscilli spine e fronde color ramarro, presso osterie cigolanti di portelli e rinomate codardamente per trippe e crinoline di fiori che, tigli, nei bicchieri uno se le ritrovi, non lontànano (anche proprio con lo psico, col nostro sudore intraveduto, l’imbuto d’arancio carne che sovente vogliamo vederci – di sbieco -) dagli sterri spaccati che una botola di fogna, anzi un tubo di cemento che sia stato parzialmente schiacciato da un autocarro gommoso, olivìgnano, del venticello grigione-sassifraga, o mormorio, che la periferia pòlvera di carpenteria, lume di strusciare Muoversi nel colorato saporoso d’una mattina colombato da nuvole quasi da Senna che sia straripata - un pochino – ad Argenteuil, còrpora di particelle l’atmosfera primulea di enunciar vivande al cammino, ribordo di tovagl’angoli mattone e argento! L’imminenza che ci sia tempo ancora, tanto, non nega il sorbir beoto tazza di chimera e spezie, quel fin-di-labbro che indaga la notte e la cerchia di mastice a onda di gromma, infuso di cometa conoscente la coppa del buio, quel d’orlo E la ricostruzione di maneggiare rompicapo logistici, poveracci in verità, allenta e tende fettuccia delle membra destinate a portar vestito che in colloquio con la mente non la smette di camminare intanto un’idea di mondo se vuoi cominciare ad accontentarti (purché tu non disdegni i pezzetti che ti càpitano, servil imbattersi tra denti e piedi cioè) ……….. ……….. ……….. aprile 2012, da Ragioni, a piene mani, per l’”enfin!”, in I mattini partivi, cit, pag. 106
Id: 2690 Data: 05/10/2020 19:20:48
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Raffaele Piazza, Linea di poesia delle tue fragole
Raffaele Piazza. Linea di poesia delle tue fragole. LaRecherche.it, eBook n. 328, 2020 Ritroviamo in questo e-book pubblicato su LaRecherche un’ampia selezione di testi tratti da Alessia e Mirta, ultima raccolta di poesie in volume dell’Autore campano, edito da Ibiskos Ulivieri Edizioni nel 2019, che ho avuto piacere di leggere e commentare da non molto ed alla quale rimando preliminarmente: http://www.literary.it/dati/literary/rienzi_alfredo/alessia_e_mirta.html L’opera di scelta e selezione è di per sé una forte dichiarazione di poetica, sia che avvenga a distanza di tempo, sia come nel nostro caso, dopo meno di un anno. Va, tuttavia, detto che con questa operazione di editoria digitale Piazza ci obbliga a confrontarci con le pieghe della sua poetica, ormai consolidata, riconoscibile e coesa: infatti la raccolta della quale vengono riproposti una discreta quantità di testi è particolarmente monolitica e la cernita dei testi confluiti in Linea di poesia delle tue fragole non avrebbe dato esiti troppo diversificati, data la struttura narrativa, architettonica e stilistica di Alessia e Mirta, che vien qui rappresentando in scala ridotta, ma mantenendone tutte le prerogative. E’ nota da tempo l’invenzione poetica di Raffaele Piazza, poggiata sul muoversi di figure femminili, che col tempo hanno assunto le fattezze, per molti versi iconiche e atemporali di Alessia, l’eterna ragazza Alessia e di Mirta, intensa e più realistica e drammatica figura suicida. Va da sé, quindi, che l’interesse in questa raccolta vada naturaliter alle parti inedite, poste quasi tutte in apertura. Coerentemente in alcuni di questi testi Piazza cerca continuità narrativa: « Tesse una musica il marino/ fluire senza tempo, l’onda verde/ che trasparente vola nella forma/ di donna» (Tesse una musica, p. 7). Si ritrovano quindi i climi e gli stilemi, originali e riconoscibili, del poeta, ma affiora a tratti un tono più morbido e suasivo («magia duale», «incanto di sorgente», in Fiore di padre, p. 8; «il tuo di gioia pianto», in Nuvole e Alessia, p. 25). Quest’ultimo componimento citato ci dice due cose: la prima è che pare un compendio stilemico del poeta napoletano e, non a caso, è collocato nel corpo dei testi selezionati dall’ultima raccolta edita; la seconda rimanda alla precisione architettonica, alla sempre viva tensione strutturale di un poeta che riesce a scendere nel quotidiano (trasfigurato e quasi arche tipizzato) con grazia non banale. La concatenazione dei frammenti numerati di Nuvole e Alessia avviene a mezzo di e congiuntive che sembrano voler aperta e inconclusa la sequenza. Tra i testi inediti spicca quello dedicato a Pasolini, che potrebbe suonare laterale, estraneo alla poetica dominante. Ma una parola sembra accomunare l’humus pasoliniano, pur nella complessa articolazione del testo, ed è “innocenza”. La stessa che in qualche modo viene simbolicamente evocata dal titolo, che contiene uno dei lemmi più amati dall’autore, “fragola”, frutto tipicamente di primavera, che profuma, come l’eterna, gioiosa e dolente ragazza Alessia, di una stagione di semi e di speranza. Alfredo Rienzi gennaio 2020
Id: 2529 Data: 26/01/2020 18:11:54
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Incerto confine di Stefano Vitale e Albertina Bollati
Incerto confine. Albertina Bollati, Illustrazioni. Stefano Vitale, Poesie. Edizioni disegnodiverso, 2019. La poesia di Stefano Vitale si è sempre mossa su una linea di confine: quella dove l’occasione poetica che possiamo chiamare sensoriale o del mondo incontra la volontà poietica, ri-creativa dell’autore e dove, per opposto vettore, il pensiero, con la sua necessità di com-prendere, di collocarsi, porta il poeta a scandagliare gli orizzonti, i moti, i fatti che gli si offrono. Un cogito ergo video, dove non basta più, astrattamente essere. Nell’ultima prova di scrittura poetica, dal titolo chirurgico: Incerto confine, Stefano Vitale aggiunge un significativo ampliamento del concetto di limes. È da dire, innanzitutto, che il volume è una preziosa edizione pubblicata lo scorso novembre 2019 per le Edizioni disegnodiverso curata di Paola Gribaudo che unisce i versi di Vitale ai disegni di Albertina Bollati (in senso anche materico, dove alcuni versi si ripresentano, come aeree didascalie, nel corpo dell’illustrato). Simbiosi già collaudata, con fortunato esito, per un precedente volume di versi del poeta, Angeli, del 2014, ma che qui sembra ancora più stretta e paritetica, come se parole e versi fossero sorti contemporaneamente attorno all’idea che sottende il volume. Il confine sul quale si muove l’opera è certamente simbolico e polisemico, come nelle corde di Vitale (tra verità e pensiero, tra ombra e luce, tra corpo e il suo riflesso, tra un tempo e un altro tempo ecc.), ma assume qui anche una forte connotazione realistica e concreta, che si rivela fin dalla copertina, magnetica e lieve, dove un’esile figura umana sta aggrappata a un mare capovolto sopra un cielo sbiancato e stellato. E già dai primi testi Chiudere i porti (p. 8) e Il linguaggio dei muri (p. 12) si fa chiaro il tema che, coraggiosamente, viene affrontato. I rispettivi incipit: Chiudere i porti e lasciar riposare le nere coscienze marce di rabbia merce di scambio di triste rancore mentre grasse risate dilagano nelle sudice piazze deragliate ragioni Non muore il linguaggio dei muri messaggi a distanza di grafiti dispersi tra coltelli e martelli Perché “coraggiosamente”? Non certo per la valenza civile dei testi, per il nitore del proprio sentire (ancor prima che del proprio pensare), per i riflessi politici (che, per una distorta e degradata accezione, odorano di ruvidi termini quali divisivi, conflittuali, bellicosi). Questo aspetto può richiedere altri aggettivi, ma il coraggio di dire per un poeta, per un artista è essenzialmente altro, già che il semplice darsi all’arte, a una qualsiasi arte, elogio dell’In-utile, è gesto civile e politico. Il coraggio di dire di argomenti chiari e forti è essenzialmente, a mio modo di vedere, quello di lanciare la parola, «àncora/ che ci viene dal bene», senza deragliare, di condurre il verso sulla fune in equilibrio tra forma e contenuto. Per fortuna questo è capitato frequentemente ed è in virtù di questa capacità di timoniere che Stefano può permettersi di convocare nel dicibile ogni cosa, o almeno anche questa cosa. Esplorare l’impoetico, rendendone chiara voce, è grande merito, è strumento necessario per il poeta. Affrontare l’iper-poetico senza sfiorare la retorica lo è ancor di più. E l’intera raccolta ci dice questo, che l’Autore ha inserito nella sua poetica, ormai riconoscibile e consolidata, anche il tema civile (non è la prima volta, ma qui si fa titolo, emblema, copertina), inserendolo armonicamente, traducendolo, per poterne dare testimonianza, in esperienza di parola: La chiave è nella Parola Suono che resta accanto Colore della pazienza Distesa sul paesaggio delle ore Passione e destino senza nome (p.63). Nei testi riconosciamo la cifra stilistica di Stefano Vitale, bilanciata tra fluidità e soste, diretta, ma riflessiva, attenta al ritmo nella sua libertà metrica. Alcuni testi a struttura anaforica danno al componimento una qualche valenza canora. Si notano, in quanto a lessemi e figure, ricorrenti richiami al tempo: unitamente ad un certo numero di richiami negativi o di resa (di limite dell’umano) alcune presenze di bambini pare forniscano il controcanto, l’antidoto, l'alito di vento che spazza, in parte, le nuvole del dubbio e dell’impotenza della ragione. Quasi una figura semanticamente sorella di quella degli ubriachi saggi della penultima raccolta del poeta? Alfredo Rienzi gennaio 2020 CHIUDERE I PORTI Chiudere i porti e lasciar riposare le nere coscienze marce di rabbia merce di scambio di stolto rancore mentre grasse risate dilagano nelle sudice piazze, deragliate ragioni. Chiudere i porti e non dover incontrare l’orrore di occhi naufraghi in mare di corpi salvati piagati dal sole stremati da guerre monete sonanti del nostro silenzio di barbari stolti. Chiudere i porti alla fuga smarrita sul mare-sepolcro di cenere e sangue le ombre dei morti sono gelate scure radici senza più storia deserto di muri e orecchie mozzate. Chiudere i porti del mare che un tempo fu Nostro, libera onda di luce ora muro che cresce abisso di sale specchio scheggiato dal pianto di pietre posate sul fondo del cielo d’estate. ALFABETO MUTO Cerchiamo la parola esatta, àncora che ci viene dal bene che ci afferri come un destino. Cerchiamo la parola esatta, luce nella piega delle labbra nel gesto lieve delle dita. Cerchiamo la parola esatta, argine che ci renda lo splendore del silenzio senza vergogna né rassegnazione. Ma quel che abbiamo è un alfabeto muto passo senza cognizione pieno d’errori distrazioni, omissioni. (NON C’E' OROLOGIO) Non c’è orologio che batta il tempo in modo esatto avanzano le lancette seguendo un ritmo dissonante lontano dalla giusta cognizione d’una palpabile certezza il tempo è altro tempo, fuori dal calcolo della presunta precisione, passo sbilenco sull’orlo di un cornicione sentiamo che qualcosa sfugge e s’apre una ferita da dove sgorga il sangue d’una domanda: “sono io il mio tempo?”
Id: 2527 Data: 25/01/2020 18:29:28
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I masticatori di stagnola, di Guglielmo Aprile
Guglielmo Aprile I masticatori di stagnola LietoColle, 2018. Molte, tra le centinaia di raccolte di poesia che annualmente vengono proposte si presentano ben confezionate e con l’abito in ordine. Due ingredienti sono però merce rara (e lo dico da lettore generalmente benevolo e grato a molti autori per i loro versi): da una parte la capacità di emozionare, da non confondere con uno stucchevole emozionalismo, di portare la filigrana o gli squarci di sofferenze o gioie necessarie; dall’altra: il coraggio. Il coraggio di sporcarsi il vestito, di uscire fuori da un dettato misurato, di rinunciare a priori allo svolgimento di un compitino plausibile. Anche con quest’ultima raccolta, I masticatori di stagnola - scomoda già dal titolo, per la dispercezione che immediatamente genera – Guglielmo Aprile mostra invece il coraggio di una parola poco incline al modulato sussurro e percorsa dalla stessa feroce tensione che animava come un soffio rauco il Golem delle due precedenti raccolte L’assedio di Famagosta (LietoColle, 2014)[1] e Il talento dell’equilibrista (Giuliano Ladolfi Editore, 2018). La serie dei testi, un’ottantina in totale, è suddivisa in tre sezioni, ma nella raccolta la scrittura e il grigioscuro sentimento che la permea, sono piuttosto unitari. Aprile ha ormai assunto uno stile ed una poetica riconoscibile ed è facile ritrovare almeno due delle caratteristiche strutturali, già presenti nelle precedenti raccolte. La prima: il ritmo è fratto, rinuncia ad ogni musicalità, ma questo appare assolutamente funzionale a quanto espresso, perché sarebbe stridente e fuori luogo, tra “betoniere”, “catrame”, “fogne”, “ossa” ecc, una primazia lirico-musicale. Il poeta costruisce una antipoesia per narrare “l’antivita”(p. 74), per rendere il suono del ruminio di una balla di stagnola (p. 70). Attenzione, il masticatore non disconosce il dettato alto, ma lo usa deliberatamente per contrasto a quello che vuole essere il raggrumarsi della propria disperazione, nichilista e claustrofobica. Si leggano, ad esempio, alcuni eleganti versi di chiusura: «e infine un luogo da cui non si torna» (p. 27): «siamo nulla che fa ritorno al nulla» (p.36) «e correvamo fianco a fianco al fuoco» (p. 33) A una prima lettura alcuni passaggi appaiono talora enigmatici, come se il poeta seguisse riferimenti propri e per se stesso: un esempio, ne Il dio giusto (p. 94) si legge: «Gli ultimi modelli di pantaloni da donna/ sono la causa principale/ di attentati a sfondo terroristico/ e lungaggini nella richiesta di passaporti», senza che nel prosieguo del testo siano dati al lettore facili possibilità di collegamento, ma, invece, porti altri incisi slegati: «Non c’è poi da stupirsi/ per la professionalità discutibile/ dei conducenti di linee interurbane». Conoscendo la scrittura di Aprile, e approfondendola in questo ultimo volume, questo snodarsi si rivela invece uno dei meccanismi tipici delle sue composizioni. Infatti, la seconda peculiarità che si ritrova in molti testi (forse meno numerosi che ne Il talento dell’equilibrista), è la costruzione per segmenti subentranti, micrometafore inanellate, incalzanti sulla medesima incudine, con angolature diverse. Esemplare il seguente frammento (Botte bucata. II, p. 23), dove il punto e virgola si fa metronomo: «Sistematicamente li perdiamo/gli accendini appena comprati;/ la pece stagna le doghe di rovere,/ ma una striscia umida segue in scia il carro,/ svuota le scorte; la filettatura/ è usurata e non tiene, ai piani bassi/ già alcuni locali allagati/ in conseguenza di una falla; l’acqua/ che versiamo una brocca dopo l’altra/ non riempie la vasca» che poi vira, come ho prima accennato, per una conclusione netta e fulminante: «solo da morti/ passerà questa sete». La raccolta è permeata da un senso di disfatta ingloriosa, di percorso imo, ma non nell’epica della catabasi e neppure della visitazione delle gallerie ctonie del subconscio, come ne L’assedio di Famagosta. Qui siamo a un piano terra, invaso da quotidianità sperperate, da lordure e dissipazioni, senza dignità alla luce. Il ventaglio lessicale lo mostra bene, la «sabbia» («tonnellate di sabbia») si fa emblema del disfarsi, dell’inutile «annodare fiocchi rossi ai pomelli/ sciolti la sera prima». Se «sabbie», «polveri», «betoniere», «sassi», «asfalti», «ghisa», mantengono una qualche cupa valenza simbolica, da «paesaggio avvizzito», ad un livello semanticamente più diretto quanto scaduto, il «pavimento è cosparso di insetti morti», e si palesa «fra gli scorpioni» un repertorio che scende nel rifiuto, nella scoria: «discarica», «spazzatura», «fogna», «furgone dei rifiuti umidi», «chimo», «guano», «urina rappresa», «smegma» ecc. Una disperante inutile ripetitività dei gesti osservati e compiuti («la cremagliera che replica/ infinite volte il suo gesto»; «un giro dopo l’altro, intorno/ a una panchina vuota»; «lo stesso film in replica ogni sera») fa da controcanto a un nichilismo sofferto e fatalista, che l’esile diaframma dell’autoinganno non può arginare. «ci vuole coraggio a chiamarlo vivere» (p. 32) «nessuno lo crede/ che appena ieri fummo vivi» (p. 49) «premi un pulsante oppure un altro,/ tanto la destinazione è la stessa» (p.61) È un nichilismo individuale e collettivo, che assume una rassegnata valenza di biasimo al modus vivendi alienato contemporaneo: «ci accalchiamo, facciamo ressa/ per contenderci l’ombra» (p. 13) «Ruotano i cieli, senza scopo, come/ fanno le auto la domenica/ intorno ai marciapiedi già occupati» (p. 17) «Pagare il conto ritirare il resto/ la stessa frase/ un numero indefinito di volte di seguito» (p. 27) Ma la vis della parola, per quanto cruda e indigesta, come un boccone di stagnola, è ancora ciò che salva dal più mortifero livello di negazione: il silenzio. In virtù di questa parola che resiste, che si piega, si sporca, si rumina, la non perduta coscienza di un altro possibile consente ancora, spente le luci di casa e dei seminterrati, tra «fabbricati in demolizione» e «vagoni fuori uso, carbonizzati», di aggirarsi con l’esile fiamma di una candela: «Credo di meritare qualcosa di meglio/ di questo piatto scaldato ogni sera» (p. 94), perché in fondo sopravvive la coscienza che «il sole vincerà sui morti» (p. 19) e che sulla luna «c’è un pianoforte […]/ che non sa nulla/ delle nostra dita unte» (p. 14). Alfredo Rienzi Settembre 2019
[1] Del quale ho avuto piacere di scrivere ne Il sibilo della serpe nera: una lettura de L’assedio di Famagosta di Guglielmo Aprile, in La clessidra, n. 1-2/2016, pagg. 94-98).
Id: 2450 Data: 15/09/2019 18:50:21
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Poeti in dieci righe - Silvia Rosa
Poeti (di Torino) in 10 righe - 16. Silvia ROSA Silvia (Giovanna) Rosa (Torino, 1976) ha pubblicato in versi: Di sole voci (LietoColle Ed., 2010, II ediz. 2012), SoloMinuscolaScrittura (La Vita Felice, 2012); Genealogia imperfetta (La Vita Felice 2014) e Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Ed., 2019). Ha pubblicato, inoltre, libri di racconti (Del suo essere un corpo, Montedit 2010), traduzioni (Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici, Versante Ripido – LaRecherche, e-book, 2017), e-book fotopoetici esaggi (Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960), Ananke 2013). Con il suo ultimo lavoro in versi Silvia Rosa conferma la predilezione per una poetica fondata sull’io narrante, tesa via via a superare registri intimistico-diaristici e radicarsi nell’osservazione della dinamica tra realtà e rielaborazione interiore. Una parola che accoglie la propria natura “al femminile”, visita gli snodi della propria vicenda esistenziale, ma resa asciutta e interrogativa dalla riflessione netta fino alla ruvidezza e da una versificazione fluente, precisa, sorvegliata, molto raramente (ma con buoni esiti) lirica. Agosto, un giorno qualunque Ti ho portato nella mia borsa in un sacchetto di plastica bianco orologio portafogli le chiavi di casa e dell’auto tutto quello che oggi resta di te. Ho contato i passi di tua figlia (avanti e indietro freddo dopo freddo fino all’ultima stanza numerata senza finestre), ho raccolto tutte le sue lacrime ma qualcuna è rimasta in attesa dietro al vetro in cui stavi, sembravi come a Natale quando dopo mangiato ti addormentavi sulla poltrona un poco. Agosto non è che un mese qualunque e qualunque era anche questo giorno ‒ non c’è un modo migliore di andarsene, dicono, né un tempo più giusto, forse ‒, ma ho pensato al rumore delle presse, alla catena di montaggio in un tonfo metallico, allo scoppio improvviso del tuo cuore un ingranaggio imperfetto in mezzo alla perfezione d’acciaio delle altre macchine, ho pensato che non si sono fermate in questo giorno di lavoro qualunque, mentre intorno a te una frattura profonda, una crepa di ghiaccio ha infranto l’estate e il sole è diventato la luce artificiale pallida che hai visto un secondo prima che tutto avesse una fine. da Tempo di riserva, Ladolfi Ed., 2018, p. 47 Cammino a perdere E l’impostura viene meno d’aver creduto al filo teso dei giorni d’aver creduto io rinnego lo sguardo concavo ad accogliere le brevi epifanie di un sì e ogni attesa, al bandolo del tempo chiedo venia d’aver creduto il giro a vuoto – l’inconsistenza del pensiero destino autentico e pena d’aver creduto il mondo di parole d’aver ceduto leggerezza e schiena all’assedio del futuro e alla resa, d’aver creduto poco che da qui al sereno bastasse stare quieta senza sperare in niente, un passo dopo l’altro d’aver creduto questo andare meta e non cammino a perdere. da Genealogia imperfetta, La Vita Felice, 2014 sms #2 che silenzi mi si incollano addosso, a volte. non di quelli che ripassi con le dita e si scaldano dove il sangue preme più forte. ai miei silenzi mancano gesti, è un esercizio a denti stretti questo precipitare nell’ansa nuda di parole – ma tanto dico sempre le stesse cose –, senza mani e oggetti e uno sguardo uno da raccogliere per esserci di colpo corpo a corpo mi assottiglio per passare la fessura delle labbra e invece resto [muta immobile] mi confondo col bianco sporco delle pareti dei miei occhi e al centro, al centro nero lupo braccato che dilata il passo tra battiti d’eco fuggendo – sto(p) – da SoloMinuscolaScrittura, La Vita Felice, 2012
Id: 2421 Data: 09/07/2019 19:35:32
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Artigianato sentimentale di Gabriele Borgna
Gabriele Borgna, Artigianato sentimentale, puntoacapo Editrice, 2017 Prefazione di Giuseppe Conte Scorrete questa prima serie di lemmi: amore, labbra, corpo, cuore, baci, sguardi complici, passione inusitata, abbraccio. Poi questa seconda: sabbia, salsedine, vela, mare, oceano, agave, rosmarino, palme, scogli. Tornate al titolo, originale, e non faticherete, con la prima serie, a declinarne l’aggettivazione sentimentale. Per collegare la seconda, nitida e inequivocabile serie di vocaboli del poeta ligure, al sostantivo Artigianato devo fare un giro appena un po’ più largo, ed evidenziare quel “lavoro di intaglio e cesello sulla parola” che pertinentemente usa Michele Paoletti per descrivere la scrittura di Gabriele Borgna (Laboratoripoesia.it del 17 ottobre 2017). Un lavoro materico, fatto di gesti precisi, di materie prime, un lavoro di bottega, di “stanza sulla pubblica strada”, di deposito e manifattura delle merci del luogo. E il luogo, nella poetica agli esordi del poeta di San Maurizio, oltre che essere chiaramente nominato, funge da corridoio spaziotemporale per la sua poesia, da cordone con la tradizione, da voce del nume. Dalla Prefazione di Giuseppe Conte alle già numerose note critiche che il giovane poeta si è guadagnato, sono plurinominali i padri della tradizione ligustica (dai concittadini Giovanni Boine, Cesare Vivaldi, lo stesso Conte, agli imprenscidibili Novaro, Sbarbaro, Montale), per cui ritengo non vi sia, per ora, molto da aggiungere su tale aspetto, una volta che gli si sia data la giusta importanza che merita e che spinge Elio Grasso a dirne come di “un autore che fa della sopravvivenza linguistica la misura del suo scrivere.” (Blanc de ta nuque, 17 ottobre 2018). La raccolta si struttura in due sezioni Amori in rilievo e Solitudini da piombo, (anche i titoli delle sezioni sono alquanto indicativi), nelle quali sono equamente ripartiti i trenta testi complessivi della esile raccolta, i quali, per la gran parte, hanno vita e autonomia propria, pur partecipando armonicamente a un discorso ampio che riconosce due tempi o, almeno, due territori. Il testo di apertura merita una citazione integrale, perché – come un seme – contiene già tutti gli ingredienti dello sviluppo poetico dell’Autore: il luogo, la nominazione dei suoi essenziali, la tensione musicale, l’afflato emotivo, una certa distanza dalla contemporaneità. Mi colpisce, tra l’altro, quel distico centrale (Attraverso nuvole/ cariche d’incognite la natura ci parla) che pare, in questo contesto, una versione locale, detto in senso valoriale, dell’universale e baudelairiano La Nature est un temple où de vivants piliers/ laissent parfois sortir de confuses paroles di (non a caso) Correspondances A Ca’ de Jose (au port) Sdraiamoci nel ventre di questa cesta d’aspra terra, dove i nostri amori in bianco e nero dormono ancora senza respiro, senza passare. Lo senti l’odore del silenzio? Esso ti ascolta. E tutto di te scopre ed impara accovacciato, baro nascosto tra l’agave e il rosmarino. Attraverso nuvole cariche d’incognite la natura ci parla dentro agli occhi, scrivendo il cielo con rondini e ideogrammi. Aiutami a impiccare ogni singola afflizione ai fili delle stese, educate all’inchino duro dalla tramontana. Riportami per mano agli albori dei sogni di sabbia quando respirando con lentezza il mare ci promettemmo salsedine a vita… Nella prima sezione gli amori vengono posti in rilievo con differente luce, con vario sentimento, che oscilla tra speranza di ciò che si vorrebbe che sia e quanto poi in realtà è. Due polarità sembrano illuminarsi più d’altre: la speranza d’eternità (checché se ne dica importante ingrediente dei grandi amori) e le dilagate incomunicabilità e insincerità (checché se ne dica ingredienti base degli ex grandi amori). Così a versi come: «Albero del pane [antico, miracoloso pane – p. 12], acqua pura […] vela per il viaggio/ che ha rotta nel tuo nome» (p. 10), «Io per te sarò un oceano, un eterno/ flusso senza fine» (p. 13) «foglio/ non ancora scritto dove tutto/ può ricominciare» (p. 22) fanno da contraltare (conseguenza?), presagiti da un’ambigua illusione, toni ben differenti: «Amore sconosciuto e bugiardo il nostro» (p. 18) «Mentiremo/ per non sentirci bugiardi» (p. 19) «E tu […]/ inganni con giaculatorie e litanie» (p. 21) «E allora adesso/ mentimi amore, mentimi ad oltranza. Dimmi un’altra volta – t’amerò per sempre -/ dillo eternamente» (p. 23). La sezione si chiude con due testi significativi, Al figlio che verrà, grandiosamente definito «il rovescio del nulla» (p. 25) e Piazza chiesa vecchia (au Port) dove, quasi riassumendo, le eco esteriori del luogo e quelle interiori si fondono. Non mi è dato con certezza sapere se le due sezioni sono state composte in (o solo narrano di) stagioni diverse. Credo e spero di sì. Infatti, se nella prima sezione alcuni testi, o meglio: qualche verso in essi, risentono ancora di un lieve sbilanciamento tra intensità del vissuto e resa letteraria (sono certo che il giovane poeta artigiano, umile e appassionato, valuterebbe le imperfezioni del manufatto più interessanti delle parti riuscite) nei testi di Solitudini di piombo il verso si fa ancora più incisivo, le scelte lessicali e le figurae (usate a lampeggii, più che ad ampi panneggi) più dense e originali. Ricordate le due serie di nomina? Quelli “liguri” e quelli “sentimentali”? Bene, ve ne offro una terza, magari più aggettivata: burrasca, tempesta, naufragi, dolore, baratro vertiginoso del rimorso, infernale abisso, campo di croci, pianti tra i denti, atroce solitudine, smisurato orrore. Questi tinte plumbee, prevalentemente repertate nella seconda sezione, mi pare aiutino a definire bene, in sintesi, il palinsesto della narrazione del poeta, tra amori - coinvolgenti, illusori, conflittuali – e la loro assenza, tradotta in una sofferta, a tratti incredula, solitudine che, negli ultimi testi Razza e Safari, raggiunge l’acme dell’amarezza, di un dolente pessimismo, dilagante fin verso i confini della stessa umana natura. Molti sono le situazioni e i testi interessanti di questo secondo gruppo. Ne scelgo uno, vivido, nel quale bene si rappresenta, inoltre, una delle metafore più affioranti ed efficaci della raccolta del giovane poeta ligure, il deserto (p. 40): Non ci indurre Com’è difficile mio Dio, la prova a cui mi sottoponi nel Sahara di questo isolamento. Con quanti miraggi di repulsione mi spingi a urlare, rendendomi pazzo, e quanto sale mi metti sui nervi scoperti! Una borraccia piena di sete mi dai, ed è un bere crudele alla mia gola già ulcerata. Vuoi che liberi e mi fai catena vuoi che lenisca e mi fai tenaglia vuoi che punisca e mi lasci il cuore… Ma tutto ciò – poi – per quale amore? Alfredo Rienzi, giugno 2019
Id: 2412 Data: 24/06/2019 21:54:21
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Attraversamenti di Beppe Mariano
Attraversamenti di Beppe Mariano, Edizioni Interlinea, 2018) Il tempo di annotare qualche osservazione sull’ultima raccolta di Beppe Mariano, Attraversamenti, ed è già diventata la penultima. Infatti è di pochi mesi fa la pubblicazione de Il Monviso e il suo rovescio che, editato da Mursia, ne eredita la novità. Questa può apparire una mera annotazione bibliografica, ma, considerato che Mariano è del 1938, ci occhieggia, inevitabilmente, un aspetto della poetica dell’autore piemontese, ovvero la facilità d’occasione, lo sguardo pacato ma vigile sul mondo, declinato nell’ampia scala delle dimensioni, tra la saggezza dilatata e gli accadimenti quotidiani, spesso utilizzati metonimicamente e con il peculiare dettato ironico e meditativo-interrogativo. La raccolta contiene, come ci informa il sottotitolo in interno, testi scritti tra il 2011 e il 2017, quindi, a tutti gli effetti, come cospicua produzione successiva alla fondamentale antologia Il seme di un pensiero (Poesie 1964-2011), che non è stato, dunque, per citare l’Autore, esemplificandone subito l’autoironia, «come quell’altro/ il mio congedo cerimonioso» (p. 106). Mariano, che sa essere modernissimo nelle forme versali, non evita, infatti, una – serena e aspra al contempo – riflessione sul suo tempo (ad es.: «la tua vecchiezza corsara/ stride come un uccello di rupe/ a volar basso, irrasegnato:/ godrà del poco verde che rimane» (p.108). Ma, dichiarato solenne anatema a solipsismi e autoreferenzialità egoiche, la misura di questa poesia sta nella battaglia con le storture del proprio tempo o, in fondo, della natura umana sic et simpliciter. Alessandra Paganardi, in una delle più appassionate letture della raccolta che ho avuto sorte di leggere (almanacco.com del 25.4.2019) pennella: «una coscienza del proprio tempo elaborata con mezzi originali, espressa nell'assolo vigoroso, testardo e scabro di un poeta non allineato». L’architettura della raccolta richiede una considerazione: Attraversamenti è il titolo della prima delle tre sezioni (seguono Pietrærba e Sconfinamenti) e, in questa, del primo componimento, ampio e poematico. Testo che, collocato all’inizio, avrebbe potuto risultare predominante sul resto della raccolta, sottraendo luce al prezioso seguito. Mi sono interrogato su questa scelta, certamente consapevole, dell’esperto poeta. La mia abitudine a leggere le prefazioni dopo la raccolta, mi avrebbe fornito valide risposte, già che, come sottolinea Giovanni Tesio, tutta la raccolta narra di attraversamenti(/sconfinamenti): quelli che, indossando gli abiti d’occasione di una sofferta migrazione contemporanea, e alludono a uno stato dell’essere – individuale e collettivo – con tono epico-tragico e ampiezza universale (non casuale le epigrafi, tra Sofocle e l’anonimo del XXI secolo) al tempo stesso mitico e demitizzato; quelli della propria vicenda letteraria (da cui le dediche a Conte, Barberi Squarotti, Tesio, Verdino e altri, più recenti, di cui rispettiamo il semianonimato, Giampiero C., Sergio G. ecc); quella dei propri giorni e delle passate stagioni. Oltre al comune denominatore che, a questo punto, ben spiega (e rende convinti della bontà de) il titolo, la poetica di Mariano è, si è fatta, si dimostra profondamente omogenea, oltre le (e ben vengano!) forme variegate e larghe modalità espressive, che spaziano tra: l’andamento narrativo del testo eponimo, i contrappunti coreutici, nello stesso e in Epifania, il diffuso dettato lineare, prevalentemente organizzato in distici liberi, il misurato e funzionale ricorso al lemma colto/letterario o desueto (fessata, arrosa, spumeggia, appecorarsi, affoglia, ruinata, azzampato ecc). Si noti bene, mai oscurante o usato per mera esibizione, già che il verso «sempre mi deprime l’inespresso» (Versicolite, p.68) mi pare possa essere inteso anche come dichiarazione di poetica. Poetica che, consolidata in decenni di mobile scrittura, ripropone almeno due dei topoi tipici di Mariano: il Monviso «che ci corre accanto», totem, cielo e anche un po’ gabbia, sfondo e centro, pietra, infanzia, passo. Uno dei testi, a mio modo di vedere, migliori, L’avanzo, riprende l’altro topos, che potrebbe apparire curioso nel contesto, l’automobile che questa volta si fa, nel suo pezzo avanzato e non ricollocabile - arcano da interrogare ogni giorno e metafora del libero arbitrio - simbolo del fallimento della aliena perfezione (?) di macchina, dell’ingegneria asfittica dell’ordine delle cose. Con il suo consueto dettato chiaro, che sa scostarsi dal semplicismo un verso dopo che lo si sospetta tale, con la leggerezza, l’ironia, la pensosità lampeggiante entrano nella raccolta tematiche alte (filosofico-teologiche, di una teologia negativa, dice Tesio nella nota introduttiva, ma «a tanto nichilismo ci opponiamo», precisa il poeta a p. 53) e sguardi, attenti, ripetuti e interrogativi (“una seconda vista sull’orizzonte della storia”, scrive Stefano Vitale sul IlGiornalaccio.net del 30.5.2018) sull’ultimo tempo in attraversamento: quello storico di un Occidente erede delle oscurità del secolo passato, luogo di persecutori e perseguitati, di città da lasciare per rifarsi camminanti di monti, di vanità ed egoismi (come da alcuni millenni, direi), di sfiducia, di idee sconfitte, di parole balbuzienti. Ma anche quello di un’età personale, di una «vecchiezza corsara» dove fatalmente gli sconfinamenti nella memoria si fanno più frequenti, ma mai vengono resi con dimessa nostalgia o patetismi: basti leggere (incipit: «Scusate l’irriverenza») il ricordo del padre in In falegnamesco (p. 61) o Il congedo (p. 106). Una freschezza compositiva che, pur conoscendo da tempo la scrittura poetica di Beppe Mariano, mi pare fin ravvivata in questo Attraversamenti. Mi spingo a dire: soprattutto dove gli attraversamenti, potenti e dominanti, si fanno sconfinamenti, leggeri e furtivi, ognuno dei quali in piccoli universi nei quali sostare un po’. Alfredo Rienzi Giugno 2019
Id: 2408 Data: 15/06/2019 23:04:31
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Poeti in dieci righe - Luigi Di Cesare
Poeti (di Torino) in 10 righe - 15. Luigi DI CESARE Luigi Di Cesare, artista poliedrico, è soprattutto musicista (diplomato a pieni voti al Conservatorio di Torino in Composizione, Pianoforte, Musica Corale e Direzione di Coro; ha suonato su Rai Due e Tv7), con significative esperienze come attore, regista e conduttore di spettacoli teatrali e televisivi. Direttore dell’Associazione Artistico Culturale Ippogrifo che organizza il Festival artistico-musicale Demiourgos, giunto alla XXVI Edizione. È attivo anche sul versante letterario come poeta, narratore e curatore di antologie di poesia e arti figurative. In versi, ha pubblicato nel 1989 Eroi in'fan'te allora (Point Couleur Edizioni, con prefazione di M. Centini). La sua poetica, pur se sostenuta periodicamente da una riaffiorante produzione inedita, ha, al momento, testimonianza fondante nel volume Eroi in'fan'te allora. Nelle diverse sezioni della raccolta (1978-1984), l'autore utilizza - per un'esplorazione dalle forte valenza interiore - una parola ricca, tessuta in modo del tutto originale con eleganza classicheggiante, grande slancio estetizzante e risonanze musicali. Ricorrenti elementi esoterici e visionari contribuiscono, insieme a peculiari svincoli espressivi e formali, ad un'ulteriore caratterizzazione della poetica di Di Cesare. § § § «Delle gravi, al cuore assenzio, assenze lì per gambi sgregando 'mpolle melens'inganni a sedar le quote 'n procace al folle. Brennaccia addio, niego impari, giambo, f'urlato, stelo tra dei loro, mefitici gambi, assenzio. Non più quote e l'inganno procace e melens'in folle capovolto e ancora; niego dai loro impari atti. Dal buco al cosmo, giambo vergando al grido f'urlato al p'anno. Ei, stelo, azzerando chiuse assenze» da ARATRON - Elementi sparsi di Nuova Poesia e Poesia Esoterica in Eroi in'fan'te allora (Point Couleur Ed., p. 78)
§ § § Oscillante meccanismo temporale, conducendo alla chiesa del paese, ove tornare dopo le esplosioni e le conseguenti ascese al monte. Così purificato, azzerato, meditando un'altra partenza, porgerai le spoglie al cospetto dei venti... «Isole seguendo al mare in corsa al fondo pedestre riva d'ogni mancato approdo, quando a salvarti è l'ultimo richiamo.» da METROPOLI in Eroi in'fan'te allora (Point Couleur Ed., p. 113) § § § Incanalando menti nel circuito corre il filo lungo la dorsale atomica al centro in integrato. Umanoide in forma del secolo padrone prende le redini del gioco, come collettore «Princeps mundi», mentre genti intorno in orbita, in cerca d'una radiazione, seminano i gas dell'alterazione fisio-psichica, abnegando Ego, logos cosciente, Homo, perduto baricentro... Metropoli sommersa in acedia, faccia del mondo, aggrappata ad un algoritmo, quando ancora non si è spento l'ultimo rimpianto. da METROPOLI in Eroi in'fan'te allora (Point Couleur Ed., p. 125)
Id: 2063 Data: 30/01/2018 15:55:44
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Poeti in dieci righe - Valeria Rossella
Poeti (di Torino) in 10 righe - 14. Valeria ROSSELLA Valeria Rossella (Torino, 1953) è poetessa e traduttrice. Esordisce nel 1981 con Spartiti per il pifferaio di Hamelin, parabole, discanti e incanti (Genesi, Premio "Opera Prima" Biella). Pubblica, in versi, altri 4 volumi, gli ultimi dei quali sono Il luminaio (Crocetti, 2003) e La città di Kite (Aragno, 2012). È, inoltre, musicofila, pianista e traduttrice di poeti polacchi: in particolare, ha tradotto il premio Nobel Czesław Miłosz, curando un'antologia delle sue liriche (La fodera del mondo, Piazzolla, 1996) e la versione di Trattato poetico (Adelphi, 2011). Poetessa appartata, dalla produzione misurata. Alla scrittura di Valeria Rossella è riconosciuta una grande attenzione e calibratura formale, in specie alla ricercata pulizia lessicale (“scrittura che tende all’esattezza, alla trasparenza, all’essenzialità”, G. Tesio; “poesia colta, ma allo stesso tempo delicata”, L. Fontanella). La sua poesia, ispirata da intima visionarietà, si è mossa nei chiaroscuri dei territori di confine, tra natura e leggenda, osservazione e introspezione, la versificazione consapevole e mobile, disargina i recinti lirico-elegiaci e della piana narratività. Kite Apriti, porta dell’insonnia. Città che appari rovesciata sul fondo del lago non darmi pace nel tempo della veglia, la tua luce latente mi sia guida. Candele si accendono sui tigli fra tetti e strade maculati. Vedo aironi ed anatre svolare da campanili e finestre, e mani frastagliate offrire pasticcini su una tavola stile Rinascimento. Dammi appuntamento con creature che guizzano dentro il tuo specchio sfigurante. […] da La città di Kite, Nino Aragno Editore, 2012 (Aiutami, Amore. Ancora questa volta.) Aiutami, Amore. Ancora questa volta. Perché la mia fronte non è immacolata e la tua carne è luminosa come la carne dell'Angelo che nella lotta notturna mi ha sciancato aiutami. Lasciami sedere accanto a te. Offrimi di quell'uva in cui macchiai le dita. da Il luminaio, Crocetti Editore 2003 Solstizio d’inverno
In afflusso o deflusso l’acqua si chiude (acqua che illude): un piano ellittico. Ellissi, eclissi di pianto. Il moto retrogrado dell’incanto. Ludens. Elusiva, allusiva neve che refluisce tra i rami gravida di quell’altra – e tra le lame (rilucono le forbici aperte, impervie e miti). Neve che esclude, che occlude. (Tra cespugli di rose e cotone emostatico). Où sont les neiges d’antan? Feconde, incompiute. Uova di neve. Per ricongiungersi al punto (alle punte). Dischiude, dischioda. All’unisono, per moto contrario. Neve ludens, luna ludens. Tangente-tagliente. Et le ciseaux. Où sont? Uova di novilunio novilunio ovilunio. Allunìo d’uova. E un pigolìo di alfabeti etatete rosigmi enigmi e le tue sillabe, dunque? “Amore mio.” Et les ciseaux. da Spartiti per il pifferaio di Hamelin, parabole, discanti e incanti (Genesi, 1981)
Id: 2062 Data: 30/01/2018 15:48:09
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- Poesia
Poeti in dieci righe: Max Ponte
Poeti (di Torino) in 10 righe - 13. Max PONTE Max Ponte (1977) vive e lavora a Torino, dove si è laureato in Filosofia con una tesi in Estetica. Svolge attività di ricerca presso l’Università di Parigi-Nanterre. Ha pubblicato in versi: Eyeliner (Bastogi, 2010) e 56 poesie d’amore (granchiofarfalla, 2016). Nel 2015 pubblica in ebook il saggio Potere Futurista e suoi racconti e poesie sono presenti in antologie, riviste e raccolte collettive. Curatore di mostre, programmi radiofonici, incontri poetici, poetry slam, è ideatore de L’Angelico Certame (un nuovo format di gara poetica) e di Poeticilibri, rassegna di poesia contemporanea. “La poesia può essere declinata in vari modi complementari. Io stesso sono autore di poesie classiche e poesie performative, visive, sonore.” È lo stesso Max Ponte (Versante ripido, 01/2016) che ci fornisce utili coordinate per la sua poetica, altra preziosa singolarità nell’areale torinese (e non solo). Dalle densità di “allitterazioni, assonanze, polisensi [che] riescono in sagre festose” (A. Lora Totino) Ponte mesce “facondo gorgoglio linguistico” – dagli echi futuristi e visivo/sonori - “e una più posata e ragionata folgorazione del valore significante dei singoli testi” (A. Saveriano). http://www.maxponte.blogspot.it/ Ho bevuto la tua clorofilla Ho bevuto la tua clorofilla di fata silvestre ho sentito il tuo collo crescere sulle mie labbra la lingua nel solco chissà dove eran finite le tue scarpe di vernice mentre la città taceva chissà dove si trovava l’autobus numero 61 chissà le redazioni dei giornali chissà mentre tu ti muovevi su di me e i tuoi capelli i tuoi capelli facevano mentre emettevo resina i tuoi capelli facevano la fotosintesi in 56 Poesie d’amore, granchiofarfalla, 2016, pag. 14 Ho provato a star senza di te ma poi mi appassivo Ho provato a star senza di te ma poi mi appassivo il cielo diventava plumbeo plumcake plastico i giorni non sterzavano più in curva anche il mio rapporto con i gatti diventava difficile mi pareva che tutto mancasse di sostegno gli alberi si afflosciassero e anche le auto le auto se ne andassero in giro stancamente Ho provato a star senza di te ma poi mi appassivo non capivo la funzione della ghiaia e continuavo sì continuavo a pensarci senza motivo in 56 Poesie d’amore, granchiofarfalla, 2016, pag. 15 Una lunga e logorroica poesia che filtra Una una lun una lunga e allupata poesia livida lonza luppola torbida trepida tumida serpica stupida tropicana sempre e comunque logorroica brodaglia stolida ora tracimata sempre da detto prepuzio precipizio ora filtra nelle falde vocali fere fino al centro della terra infeltrita cimicia a p i p o p u p e a o i o o o u o e a e i e o e u e e a s i s o s u s e a i i i o i u i e a a i a o a u a e . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . in Offerta speciale, Numero 60, Anno XXX
Id: 2056 Data: 25/01/2018 15:29:50
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Poeti in dieci righe - Loris Maria Marchetti
Poeti (di Torino) in 10 righe - 12. Loris Maria MARCHETTI Loris Maria Marchetti (Villafranca Piemonte, 1945) è poeta, narratore, critico letterario e musicale. Già responsabile della redazione del Grande Dizionario della Lingua Italiana, curatore di diverse collane di poesia. Oltre che opere in prosa e di saggistica letteraria (ultima: Muse a Torino. Figure della cultura dell'Otto e Novecento, 2013) ha pubblicato numerosi volumi e plaquettes di versi, esordendo con Il prisma e la fenice (1977). Le ire inferme (1989) e il più recente Suite delle tenebre e del mare (2016) sono alcuni degli altri titoli. Prevale nella vasta e modulata narrazione di Loris Maria Marchetti la presenza di un io poetante, che osserva, ricorda, commenta e considera, non raramente con ironia o arguzia, tra divertimento, malinconia e distacco. Marchetti predilige un linguaggio scorrevole e registri sobri, sorvegliati sia quando flettono al «verso libero di impostazione colloquiale» (M. Ferrari) sia quando attinge a elementi colti e forme più tradizionali. Una voce controllata per accogliere sguardi e riflessioni ramificate sulle più svariate regioni del dicibile. https://it.wikipedia.org/wiki/Loris_Maria_Marchetti Strettamente riservate, personali (a ***) I. «In fondo su Dio i preti ne sanno all’incirca quanto ne so io. Concedo loro il vantaggio di studi teologici più densi e di fede (talvolta) un po’ più intensa. Ma fede non è conoscenza e uno stesso mistero ci circonda. Avessero i dotti pastori la dolce umiltà di riflettervi risulterebbe forse più leggera la dura ascensione al divino » . da Suite delle tenebre e del mare, puntoacapo Ed., 2016, p. 7 Il Tempo. Parerga a un tema alquanto inflazionato. 1. «Il Tempo è di Dio» proclamò don Michele in una memorabile omelia ai Santi Angeli Custodi, un argomento non privo di avvincenti implicazioni. 2. Certo è che il tempo perduto o sprecato mai più si recupera o risarcisce, sebbene qualcuno lo abbia creduto o lo creda possibile. 3. La lotta contro il tempo, proprio in senso quotidiano banale burocratico, ci ritrova sconfitti quasi sempre… Ma il tempo, lui, non ha età e sempre siamo noi che ce ne andiamo. 4. E che il Tempo si annienti fluendo glorioso nell’Eterno è fede rastremata e scabrosa, sempre aperta rimane l’insondabile crepa per colui che si accosta con rilassato viso. da Regesti del Cosmo, Edizioni dell'Orso, 2011, pp. 33-34 Capricci di Mnemòsine Si dimentica tutto. Ad eccezione di quanto si vorrebbe dimenticare. da Stazioni di posta, Edizioni dell'Orso, 2007, p. 36 Meditazioni di Don Giovanni al tramonto Prima Ottobre è tradizionalmente tempo di visite a castelli e a ville patrizie. E ormai la lista si è fatta alquanto lunga. Come la serie delle compagne di viaggio – sempre diverse. E di ciò non si sa più se vantarsi o malinconicamente dolersi. da Le ire inferme, Edizioni dell'Orso, 1989, p. 35
Id: 2033 Data: 28/12/2017 15:30:38
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poeti in dieci righe - Franco Pappalardo La Rosa
Poeti (di Torino) in 10 righe - 11. Franco PAPPALARDO LA ROSA Franco Pappalardo La Rosa (Giarre, 1941), laureatosi a Torino, dove vive dal 1963, oltre alla sua attività di critico letterario (uno dei più attenti al Novecento, come dimostrano i suoi studi su Pavese, Gatto, Caproni, Erba, Cattafi Ripellino, Piccolo eccetera), narratore e romanziere, giornalista italiano (ha collaborato alle pagine culturali Il Giornale del Sud, L'Umanità e Gazzetta del Popolo), ha all’attivo tre volumi di poesia: (Il cuore, la metropoli, 1969; Ultime dalla Còlchide, 1978 ed il recente L'orma di Sisifo - Poesie (1962-2012), 2017, già alla II edizione. Nei testi de L’orma di Sisifo si riannodano i principali nuclei della poetica di Pappalardo La Rosa: con una narrazione limpida, dove lo scorrere chiaro del verso testimonia della lunga frequentazione dell’autore con la poesia del XX secolo, si rappresenta un vasto panneggio di momenti e memorie personali, tra il visivo e il riflessivo, che s’intrecciano – illuminandosi e più spesso adombrandosi - con i fondali della contemporaneità, pronunciata e collocata tra l’originario Sud e la Torino, e che riverberano echi sociali, guardando con umanità i passaggi dell’esistenza. NEL GIRO DI TERRAZZE Ecco adesso le prime luci dei palazzi scintillando scintillando sul grido dei viali brulicanti. È lo stesso panneggio: che ti aspetti? Forse, laggiù, sui marciapiedi, chiusi meglio ci orienta la nozione del tempo. Qui, invece, nel giro di terrazze, solo la disarmata ostinazione resta, il groviglio più o meno logico da cui dipanare il filo dell’esistenza. Poi, magari è una giustificazione all’architettura dei pensieri, all’ordine apparente delle cose, alla prettamente animale certezza di sentirci compresi nel nostro minimo spazio vitale. Intanto, gli artigli delle nostre mani graffiano i segni della scienza vuota per inserirci qualche ordine primo nell’archivio della perfetta umanità. Tu, dunque, se sei senza peccato, scaglia la prima pietra; oppure, se mai trovasi una traccia, gridalo forte, perché gli altri ti sentano, perché gli altri si fermino: perché almeno cessi laggiù quell’assurda danza. da Il cuore e la metropoli (1962-1969), in L’orma di Sisifo, Achille e La Tartaruga, 2017, p. 38 SINTESI Cosa vuoi che m’importi della linguistica strutturale? Accorgendomi del pasticcio di cui mi rendo complice (la vita, certo!), non mi resta che il silenzio, o al più sfidarlo con catene d’atti elementari. Per questo, quando capita, in folle dribbling mi lancio tra i ragazzini che nel parco giocano a pallone; o a profitto mi metto nella piscina olimpica a contare gli scatti d’ogni muscolo del corpo. Ed è una gioia ebbra, da non credere, un recupero animale che infrange la logica comune: l’unico mezzo (forse) per raccapezzarci un poco, per resistere magari alla lenta dissolvenza che piano piano ci cancella. da Ultime dalla Còlchide, in L’orma di Sisifo, Achille e La Tartaruga, 2017, p. 76 RIPOSTO Il vento intrecciò una ghirlanda di anemoni e la depose ai tuoi piedi. Egli, Mongibello, il capo di neve scosse, terribile, in assenso, e fu stupore di stelle la notte; incantato poi, fino all'alba fumò la sua pipa eterna. Era l'estate calda, arieggiava chiare nuvole il cielo. e tu nascevi. Al respiro dell'onda più azzurra nascevi, terra di velieri, di paranze e di speranze, di indomiti nocchieri giramondo. Fu l'amore del Mostro a volerti così: con la grazia stizzosa d'una fanciulla che gioca con la spuma del mare. da Piccola suite etnea (1980-1990) in L’orma di Sisifo, Achille e La Tartaruga, 2017, p. 113
Id: 2011 Data: 22/11/2017 15:33:35
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Poeti in dieci righe: Liana De Luca
Poeti (di Torino) in 10 righe: Liana De Luca Liana de Luca, (Zara, 1931), pubblicista, scrittrice e poetessa è di origine illirico-partenopea, ma vive ed opera da lungo tempo a Torino. Ha dato alle stampe, oltre a volumi di racconti, romanzi (La magnifica desolazione, 1990), saggi (tra cui Donne di carta, 1999) e numerosi libri di poesia, da VIII casa, Mursia, 1965 a La margherita della protesi, pubblicata nel 2016 da Genesi, che ha editato gran parte delle opere del periodo torinese e che nel 2000 ha curato la raccolta antologica La grata. Liana De Luca è un’esploratrice che ha percorso oltre mezzo secolo di scrittura con una non comune tensione, «mescola[ndo] il comico con il tragico, l’antico con il moderno, il lezioso con il brutale» (S. Gros Pietro), con amplissimo ventaglio (pluri)linguistico, citazionale e formale, difficile da esemplificare in pochi testi. Un impegno eterogeneo che ne ha connotato, in definitiva, un profilo originale. Una parte rilevante nella opera e nella poetica è dedicata all’esplorazione dell’universo femminile, tra riflessione moderna e ironia. Ascolto Werther che implora Ascolto Werther che implora «e chi potrebbe non amarti amore» nel piccolo quadro della TV. tamquam haec sit nostri medicina furoris. Stasera il vento e la pioggia riempiono il tuo silenzio con un concerto di voci pure Ma il lamento rinnova sensazioni trasmesse ad un contatto delle mani sul velluto amaranto di un teatro. Il pleur dans mon coeur. Al ritmo delle gocce sulle pietre cadono i petali un poco appassiti. Il pleur dans mon coeur. da VIII casa, Mursia, 1965, ripubbl. ne La grata, Genesi, 2000, Pref. S. Gros Pietro, p. 76 Vagare nella ricerca Vagare nella ricerca di una anche precaria verità. Se morire non è peccato è peccato non vivere il tempo destinato con l’entusiasmo della gratitudine. Sono più cose in terra in cielo e in mare che i filosofi inventino per occupare le notti insonni esorcizzare l’ironico ghigno al teschio di Yorich. Ma può accogliere con braccia fraterne di zolle e di radice nella pace il posto delle ciliege. da Il posto delle ciliege, Genesi, 1995, Pref. G. Conte, p. 15 STYLE Lo stile è tutto: savoir faire bon ton style (fr.) style (ingl.) styl (ted.). Lo stile del portamento lo stile del procedimento. La classe: controllare gesti ed emozioni non abbondare in aggettivazioni. Battere le mani con discrezione seguire i modi della congiunzione. Eleganza dell’andatura scorrevolezza della scrittura moderatezza dell’abbronzatura. Musicale il timbro della voce intonato al ritmo della frase. Il passo regolare non veloce le trame di vivacità pervase. L’abbigliamento classico ispirato alla purezza della concisione può cedere qualche trasgressione con un originale risultato E per tener lontano i paparazzi non esagerare in paratassi. Diceva Buffon che le style est l’homme. Stile di vita. Stile letterario. L’abito fa il monaco. Il verso è tutto. da Della buona ventura, Genesi Ed., 2008, Pref. S. Gros Pietro, p. 28
Id: 1925 Data: 16/07/2017 20:02:39
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Poeti in dieci righe - Gian Piero Bona
Poeti (di Torino) in 10 righe - 9. Gian Piero BONA Gian Piero Bona (Carignano, 1926), ha all’attivo, dagli anni ’60, opere di narrativa (da Il soldato nudo, 1960, II ed. Longanesi, 1972, all’autobiografico L’amico ebreo, Ponte alle Grazie, 2016), sceneggiature televisive (da La monaca di Monza, film, 1965), teatro (Le tigri, Garzanti, 1983), traduzioni (portando per primo in Italia Il Profeta, di K. Gibran, Guanda, 1968), studi esoterici (celebre il suo Magia sperimentale. Manuale pratico, Ed. Mediterranee, 1977). In poesia ha esordito nel 1955 con I giorni delusi, (Mondadori); l’ultima sua raccolta edita è - dopo circa quindici volumi, tra cui Gli ospiti nascosti, Einaudi, 1990 - Le lontananze, Aragno, 2015. In una eccellente intervista di Antonio Gnoli (La Repubblica, 20.3.2016) G.P. Bona fornisce una definizione sintomatica della sua poesia: “È vivere verticalmente ciò che gli altri di solito subiscono orizzontalmente". Il viaggio biografico in geografie classiche (Egitto, Asia Minore, Grecia) si è specchiato nel viaggio tra diverse aree, registri e sentimenti dell’espressività. Anche in poesia, dove si è mosso dalle forme d’ispirazione neoclassica de I giorni delusi, allo schietto erotismo di Canzonette priapee (ES, 2005), tra tradizione e contemporaneità, esplorazione e «contraddizione». https://it.wikipedia.org/wiki/Gian_Piero_Bona Il guardiano Catalogare mostri e ombre perenni in biblioteca, e con curiosità e trucchi brutali specchiarsi indenni nell’argento della creatività; sfidare il notturno dei capitani che stracciano le pagine contenti, sporcando i tuoi quadrati asciugamani di vergine; nel cobalto dei venti attirare i più segreti accostamenti e formare il tuo spazio, è importante. Un cane c’è sempre negli spaventi che protegge il colpevole e le gare da eroe. In casa il guardiano è importante per un’opera nuova da rifare. da Sonetti maestosi e sentimentali, Scheiwiller - All’insegna del pesce d’oro, 1983 * * * Per caso, se un mattino all’alba puoi figurarti il cielo a scala tutto abitato da sapienti mondi, e nel giardino udire piante che riflettono o pietre sul sentiero intelligenti o spiriti che insegnano nell’aula di una selva, allora lasciati pur prendere per pazzo e gètta giù i tuoi libri da una rupe da Gli ospiti nascosti, Einaudi, 1989 * * * Nelle mutande del mare è una porpora: il cazzo è una tortora, è un mollusco che ci pende con grande coraggio La vita carnale è un ermetico saggio. O rosa (rosa virile s'intende) fra le gambe ti portiamo da secoli. Ma per cosa, o fantastica rosa? da Canzonette priapee, ES, 2005
Id: 1845 Data: 14/03/2017 16:16:26
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Poeti in dieci righe: Giorgio Bārberi Squarotti
Poeti (di Torino) in 10 righe - 8. Giorgio BARBERI SQUAROTTI vedi aggiornamento su https://alfredorienzi.wordpress.com/2021/01/07/poeti-di-torino-in-dieci-righe-giorgio-barberi-squarotti/ Giorgio Bárberi Squarotti (Torino, 1929), laureatosi con G. Getto all’Università di Torino, dove è stato Professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea, dal 1967 al 1999; noto per l'intensa e importante opera critica, ha dedicato attenzione anche alla letteratura contemporanea, tra rigore accademico e passione militante. Imponente anche la sua produzione poetica, con una ventina di raccolte, da La voce roca, Scheiwiller, 1960, fino al recente Le ancelle della regina Mab, Nuovi fermenti, 2016. La definizione, ricorrente, di «anche poeta», se da un lato rimarca la preminente attività di critico, tra i maggiori italiani contemporanei, non deve sminuirne la vastissima opera poetica, che ritengo meriterà presto maggiori e più sistematici studi di quelli finora ricevuti. Fin dagli esordi, in tempi di sperimentalismo, la sua scrittura si è sempre connotata per la grande attenzione formale, i rimandi colti, l’illuminante creazione di folgoranti figure, quali le fanciulle nude, proustiane jeunes filles en fleur, vestali di Storia, Verità e Natura. https://it.wikipedia.org/wiki/Giorgio_B%C3%A0rberi_Squarotti http://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-barberi-squarotti/ https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2007/11/01/poesie-giorgio-barberi-squarotti/ Gli oleandri Le tre ragazze brune in corsa sulla spiaggia verso la linea immobile del mare alternamente verde e grigio sotto il rapido passaggio degli stracci delle nuvole buie di una tempesta che non è giunta fino a questo giorno di luglio, l’acqua si richiude sopra i corpi scuri, sull’aureola nera dei capelli, un vento lento cancella poco a poco le orme sulla sabbia, e forse che una traccia vi sarebbe restata più profonda se qui Venere fosse nata dalle spume delle onde, o se ci fosse stato un candido palazzo di re o il fuoco rosso sulle torri vinte di Ilio, più alto fu forse il suono di quei popoli antichi o i baci che si scambiavano i ragazzi in un angolo quieto della scena di un giorno di vacanza, al mare: risalirono ridendo il pendio dolce della spiaggia, un po’ scotendo l’acqua dai capelli, un po’ tremando per il filo freddo d’aria, nell’ora del crepuscolo, gente passava cantando per le strade, e auto e un amaro odore di oleandri, e la storia che è già oltre, in un altro tempo e in n altro luogo Varigotti, 12 luglio 1985 da In un altro regno, Genesi, 1990, p. 43 L’origine del vento Da dove viene il vento? Ma che importa se da occidente, portando luci d’alba e viaggi di nuvole istoriate con le figure degli dei del mare che benedicono i sudditi nudi fra i picchi e le pianure e i rami d’aria, o da oriente: la ragazza si fumo sinuosa, lieve, danza oltre la cima del campanile fiammeggiante, oltre la voce cavernosa che ne esala come un rantolo d’agonia o di coito; l’angoscia è per dove andrà a morire con l’ultimo sospiro tenebroso, nel fresco sogno d’alberi o d’un fiume mosso appena da brividi che scorrono verso chi sa che oceano di pace, o in un vuoto spiazzo: qualche palma secca, una bugainvillea viola appesa al nulla di se stessa, due ragazzi si torturano, poi i capelli biondi avvolgono lunghissimi i due corpi, li nascondono all’ultimo sussulto molle, un fiato così debole che ormai non arriva a scoprire, per un attimo almeno, l’aspra smorfia dei due volti, se mai sia noia o il trionfo della conquistata conoscenza del tutto. Alghero-Roma, 23 luglio 1994 da Dal fondo del tempio, Genesi, 1999, p. 78 Quadro La donna opima lievemente dorata è distesa nell'erba luminosa e lieve, appena scossa da un astratto vento e celeste, tutta nuda, esposta sinceramente, il viso mite, un poco per pudore arrossato, gli occhi volti in basso, come per guardarsi il corpo per il dolce imbarazzo e anche per l'ansia che non ci fossero esigui segni sulla pelle perfetta: una o due gocce di rugiada, il rapidissimo velo di una minima foglia o il filo d'aria turbata: intorno, per accompagnarla con l'armonia illuminata, i colli appena sollevati come il pube pur rilevato e le mammelle colme, il taglio sfumato al di là degli alberi leggeri, verso l'annuncio immaginabile di una morbida valle e serenata, tre nuvole nel cielo, sul punto, rosse come sono nella luce, di sciogliersi o allontanarsi per lasciare libero del tutto lo splendore maturato della donna nella pienezza breve. Venezia, 12 dicembre 2002 da Le Langhe e i sogni, Joker Ed. 2003, Pref. F. Pappalardo La Rosa, p. 64
Id: 1844 Data: 14/03/2017 16:05:13
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Poeti in dieci righe: Andrea Laiolo
Poeti (di Torino) in 10 righe - 7. Andrea LAIOLO Andrea Laiolo, poeta, saggista, drammaturgo (Asti, 1971) vive a Torino. In poesia ha pubblicato, con le Ed. dell’Orso: Punctus contra punctum, (2004), I sedici soffi del martello (2007) e L'avvento della perfetta pantera (2009); con Joker L'aranceto nel marmo. Misuratezza e ludicizia. (2011); con Achille & La Tartaruga: La neve blu ( 2012) e La città della festa-icona senese (2016). La sua prima opera teatrale, scritta con D. Lessio, Le intronate, parlate per giullara sola, risale al 2008 (Joker). “Andrea è solo un rappresentante dell’antica tradizione” scriveva in una proprio nota biobibliografica Laiolo alcuni anni fa. Nel perimetro della sua poetica, che ha utilizzato diversi registri espressivi (lirico, satirico e burlesco, elegiaco, erotico-amoroso) il riferimento alla tradizione, è un punto fermo. Da qui, rigorosa e vigorosa la sua parola poetica, contro ogni trasandatezza formale, opera per ri-costruire o mantenere, con l’attenzione umile del cronista, la dicibilità del mondo. https://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Laiolo Intermezzo di Jacopo della Quercia II. La linea dell’Acca Larenzia la trovai in una ragazza del popolo, nella sua morbida muscolatura tornita dai molti carichi d’acqua che certo ebbe a portare. Eppure, non la sentivo ragazza: con le spalle di sole, i polpacci luminosi di calore e i piedi nudi sul terreno di polvere riarsa, il suo corpo già aveva solidità di madre – e questa linea già fecondata io misi nella pietra – la gioventù materna io sperai la potesse riudire in se stessa l’inerte materia che m’indugiavo a scolpire. da Punctus contra punctum, Ed. dell’Orso, 2004, p. 49. L’avvento della perfetta pantera “[…] pantheram quam sequimur adinvenimus” De vulgari eloquentia, I, XVI I. Se di te sola il mio canto donneava di tre città si univa la distanza in una rosa per la cui fragranza intorno a te ogni senso si adunava. Eri di vaghi antenati a Pistoia misterioso sentore; eri a Siena la timida gioia delle madonne, eri il loro colore; eri, celeste luoia, nella tua Senigallia luna e albore. Sei nell’eterno respiro del mondo: sono eterno io nel tuo respiro. Nel duomo gotico trova ritiro l’anima vittoriosa nel profondo del corpo e della cattedrale al cielo come preghiera sale: così tu sei tenuta dentro il velo dell’atmosfera elevata e astrale che specchia in te lo zelo con cui si mostra ad ogni essere immortale. […] da L'avvento della perfetta pantera, Ed. dell’Orso, 2009, p. 54. UNA SOSTA D'ACQUA Prima serie II. Discendo in te come nel marmo bianco: e tutto è alto, lucente, terso incanto; cingo l’ampia liscézza del tuo fianco e mi vesto del tuo abbagliante manto. Dal ventre delle montagne discende la tua bianchezza: montagne che sórte sono dal mare: il marmo le fende unendole a sé nella bianca córte. L’abbagliante chiarezza delle cime risplende sull’argentea massa d’onde: un frutto portentoso già s’imprime dove l’acqua alla roccia si confonde. Compenetrandoci fino al silenzio l’onda risana la veglia turbata. Dalla statura intatta ora licenzio quanta follia tra noi si era posata. da L’aranceto nel marmo. Misuratezza e ludicizia., Joker, 2011, p. 18.
Id: 1811 Data: 16/12/2016 14:52:02
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Poeti in dieci righe: Riccardo Olivieri
Poeti (di Torino) in 10 righe - 6. Riccardo OLIVIERI Riccardo Olivieri (San Remo, 1969) è laureato in Economia, ha lavorato in Piemonte, Lussemburgo e America Latina; vive dal 2000 a Torino, dove lavora come ricercatore di marketing. Ha pubblicato, in poesia, raccolta Diario di Knokke (Nuova Compagnia Ed., 2001, pref. di D. Rondoni), Il risultato d’azienda, (Passigli, 2006, pref. di S. Verdino), Il disgelo (Raffaelli, 2008), Difesa dei sensibili (Passigli, 2012, pref. di D. Rondoni, con nota finale di M. Morasso). Di prossima pubblicazione con Passigli: A quale ritmo, per quale regnante. La poesia di Olivieri ha mantenuto, nelle varie tappe della sua opera, sempre una felice misura tra colloquialità e sospensione. “Intimo e civile come Vittorio Sereni” (che ne è stato il primo e ne è il più forte riferimento), diceva Stefano Verdino nella prefazione a Il risultato d’azienda. E questa sua dimensione si è confermata nelle raccolte successive, dove una parola accorata e limpida, ma non passiva, si cala in una quotidianità dai larghi confini, resa con sensibilità ed assoluta sincerità. (Il lupo è un animale fedele) Il lupo è un animale fedele, capace di guaìre notti intatte e inascoltate ma convinto, soffrire certo – anche per amore - dilaniare carni in causa e piangere durante, respirare l'aria fatta sangue e non prendere più sonno. Il lupo sente tutto il polmone nella corsa, il terreno prendere l'appoggio sulle belle zampe, il ventre atterrarsi aggioiato sul cumulo di neve e tra il fiato attendere compagni. Il lupo è un animale sociale – lo si sa – ma niente peggio di quei documentari sopra i lupi fatti di leggi distinzioni regole del branco; un lupo è altro: silenzio, amore, zampe. da Diario di Knokke, Ed. La Nuova Agape, 2001 - (è che è così, ti ho vista verticale) è che è così, ti ho vista verticale tra le case, nella stanza, dal basso, irradiare seduta col tuo cioccolatino nudo, piena di caffè tra i liquidi che ti fanno viva zitta per l'ambra degli occhi che rende falso ogni parlare, a me accucciato tra i volumi hai detto Era impossibile quadrare il sogno, e adesso guarda io sono stato davanti al vetro dell'amore, tutto avuto per quei raggi dal basso, un minuto. è che è così essere vivi. da Il risultato d’azienda, Passigli, 2006 (Per fortuna che vi amo...) per Alberto, appena arrivato e Roberta, appena andata Per fortuna che vi amo, delicata mia estensione a l’universo, vi amo - in questa maestosa stanza al freddo; vi amo al telefono con le sterpaglie umane, vi amo mentre stringo i pugni, nella (mai) sacra prosecuzione della prosa, vi amo nella costruzione della casa, mentre non metto i fiori ai morti, nella volontà sicura che Roberta lo vede; vi amo se ho un biglietto di treno in tasca, a quarant’anni riscrivendo il curriculum vi amo - voi - netta consapevolezza del mio sguardo. da Difesa dei sensibili, Passigli, 2012.
Id: 1810 Data: 16/12/2016 14:48:17
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Poeti in dieci righe: Stefano Vitale
Poeti (di Torino) in 10 righe - 5. Stefano VITALE Stefano Vitale (1958), vive e lavora a Torino. Giornalista pubblicista e cultore di musica, conduce laboratori e corsi di scrittura creativa e ricerca poetica. Esordisce in poesia con Double Face (Ed. Palais d’Hiver, 2003). Tra i volumi più recenti: Le stagioni dell’istante (Joker, 2005), La traversata della notte (Joker, 2007), Il retro delle cose (Puntoacapo, 2012, pref. di G. Sica), Angeli (illustrato da A. Bollati, a cura di P. Gribaudo, Disegnodiverso, 2013), rappresentato in uno spettacolo di teatro-danza a Torino (2014). In imminente uscita, per La Vita Felice: La saggezza degli ubriachi. La «scrittura sorvegliata, mai strepitante, l'attenzione alla forma, il dialogo con la tradizione» (U. Fiori) hanno sempre consentito a Stefano Vitale una resa ottimale della sua intima, ma feroce, intensa ed inesausta indagine sul mondo, sulle cose, sulla vicenda umana. Lo sguardo e i sensi, mai disgiunti dalla lucida riflessione e da una pensosa rielaborazione, hanno saputo abbracciare, nella sua ormai ampia opera, scenari mobili, al centro dei quali, è fondamento il serio impegno per una parola profonda e dalla significazione solida. (Cade la sera) Cade la sera e noi cadiamo ai piedi della sera pregando di non cadere di restare lontana affresco oscuro del ricordo avvolta in un lenzuolo di luce che ci accechi e ci riscaldi stupidamente illusi dal chiarore del nostro Nulla in equilibrio sull’attesa di questo filo teso così desiderato e così dimenticato sfuggire al destino, incrociare le braccia dinnanzi a quel che deve venire perché la sera è dura e l’oscurità apre il nostro occhio oltre la miniera di noi stessi ora più trasparenti e lucidi in uno specchio scuro e puro, senza più ombre oltre il limite della lama grigia del giorno questa è la sera spietata coi suoi passi sicuri una botola senza fondo che spinge e ci costringe a girare in tondo a reinventare il giorno fino a quando il muto tiene. da Il retro delle cose, Puntoacapo, 2012, p. 68 (L’Angelo è un mago) L’Angelo è un mago enigmatico apparire e scomaprire sia pure con ali inutili nell’illusione otticomentale del sogno resistente salidiscensionale tra cielo e terra: ora è qui, ora è altrove in un gioco guerriero e salvatore giudice e difensore guida e punitore diavolo all’occasione eterno travestimento maschera della transizione da uno stato all’altro chimica del bisogno secondo il protocollo tra incenso e zolfo colomba dalle ali di corvo serpente dalle scaglie d’oro che ora svanisce oltre il sipario della storia tra gli applausi del pubblico incantato. da Angeli, a cura di Paola Gribaudo, Disegnodiverso, 2013, p. 21 (Tirar fuori dalla selva del tempo) Tirar fuori dalla selva del tempo una parola certa e precisa che ci rassomigli una volta per tutte per dare un senso al silenzioso scrutarsi delle cose: è questa l’incrollabile speranza che ci porta al fine di ogni arte. Ma una pioggia fitta di chiodi e lame cade vivere è un glaciale vagare attorno a mucchi di catrame. Così il respiro oscilla e nel nostro smarrimento appare la chiara imperfezione dell’ombra nella sera che stringe la gola del giorno. Lui sì che sta per morire senza rimpianto, senza alcuno sciocco incanto. da La saggezza degli ubriachi, La Vita Felice, 2017 (in corso di stampa)
Id: 1809 Data: 16/12/2016 14:40:30
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Poeti in dieci righe: Carlo Molinaro
Poeti (di Torino) in 10 righe - 4. Carlo MOLINARO Carlo Molinaro (Vercelli, 1953), vive e lavora a Torino. Premio Montale con Poesie, in Sei poeti del Premio Montale (Scheiwiller, 1986). In versi, tra l’esordio con La parola vacante (1982) e l’ultimo L’effimera commedia (Miraggi, 2016), ha pubblicato più di 15 raccolte, tra cui Tenui chiose al tempo (1992), Quaranta frammenti per Monica (1997), Entro incerti limiti (2002), Sospeso sogno (2003), l’antologico La parola rinvenuta (2006), Una città (2010), Rinfusi (2011), Le cose stesse (2013), Nel settimo anno (2016). Racchiudere in poche righe la sua poetica è impossibile: tanto vale, allora, forzare la sintesi e dire semplicemente che racconta la vita. Molinaro osserva l’amore, la società, se stesso, la quotidianità e lo fa pensando poesia, prima di scriverla. Una sincerità totale in cui l’io narrante, sempre in prima persona, e la parola sono tutt’uno. L’ultima raccolta L’effimera commedia, edito da Miraggi nella collana non a caso chiamata Voci, testimonia la vigile sensibilità della sua poetica, che ora adotta forme più discorsive, senza perdere l’innata fluidità del verso. https://carlomolinaro.net/ https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Molinaro LA PAROLA PERDUTA Ho perso una parola, scivolata dalla memoria dentro il buio avido che in densi gorghi ghermisce le cose non messe sul bloc-notes nel momento quando si può. Non tornerà mai più, è inutile che provi a ripercorrere la giornata o la vita. Tante cose passano accanto e non le afferro. Pure è maggiore la pena se un dettaglio (minore, minimo, già trascurabile) mosso nel paesaggio mi fa intendere che per un soffio ho mancato l’aggancio e quasi (quasi!) so che cosa ho perso: una parola. Forse era la chiave di tutto o forse, più probabilmente, un aggettivo inutile. Il fastidio è, nei due casi, uguale. da Allo sbocco del vortice, Joker, 1996, ristampata in La parola rinvenuta, Genesi, 2006, pag. 287 LA NEVE DI ADESSO ne viene giù di neve in questo mezzo marzo è neve un po’ molle neve sporca di città che presto si scioglie ma non ho voglia di ricordare le nevicate dell’infanzia forse erano più bianche forse è l tempo passato che lava più bianco c’è un fattore decisivo per preferire questa neve di adesso nella neve dell’infanzia e della adolescenza e della giovinezza m’aggiravo da solo turbinando nei fiocchi i miei sogni impazziti volevo nevicasse per sempre seppellisse me e il mondo ma la neve smetteva com’è naturale e restavo deluso in questa neve invece fra poco prenderò un bus per venire da te salirò le scale e nel quieto della camera fra i mobili di legno guardandoci ascoltando il respiro neanche m’accorgerò di quando smetterà. da L’effimera commedia, Miraggi Ed., 2016, p. 34 IL SECOLO Non riesco – scusatemi, o non scusatemi – a interessarmi al secolo, alle sue esigenze, ai suoi gusti, alle sue sensibilità. Il mio lettore è fra mille anni o mille anni fa – incidentalmente può essere oggi, incidentalmente – sono molto presuntuoso, lo so – scusatemi, o non scusatemi – ma è il minimo, mi sembra, per fare poesia: farei altro, se no. Poi – dico prevenendo un’obiezione – scrivo moltissimo di cose del mio secolo, ma è per strappargliele via: è perché, nel mio modo, le amo disperatissimamente e come un buono cavaliere antico le devo – da sé stesse – salvare. (da https://carlomolinaro.net/, 2016)
Id: 1782 Data: 19/10/2016 09:05:55
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Appunti su Fragilitā del silenzio di Daniela Monreale
Alcuni appunti su Dire silenzio in Fragilità del silenzio di Daniela Monreale, Joker Ed., 2016 Il silenzio, sublime/ sintesi delle tre vie, è potere/ esclusivo degli déi. A.R., da Antinomie, in Simmetrie, 2000. «Resti tu, silenzio puro/ contro le inutili farse/ le sterili divagazioni/ di chi confonde l’oro/ con la patina triste/ del risorio». A fronte di questi emblematici versi di Daniela Monreale (nella prima sezione, Dire silenzio, del volume, a pag. 19), il lettore potrà interrogarsi sulle motivazioni che spingono l’Autrice a rischiare la voce, la caduta dalla fune in equilibrio tra parola e «silenzio», key word dell’opera, sostegno sia del titolo della silloge che di quello della raccolta, nonché oggetto dei preziosissimi commenti di Armando Saveriano nella Postfazione (talmente esaustiva e precisa che è arduo aggiungere altro), il quale proprio nell’evidenza della componente di fragilità ne identifica «la provvisorietà, la labilità, l’effimero». Cosa sostiene, quindi, la poetessa nel suo violare questo spazio rarefatto del non detto, con la lieve tenacia del dialogo con un “tu” tanto presente quanto indefinito, «sia con il sé più profondo quanto con l’altro» (S. Montalto, nel risvolto di copertina)? Cosa opporre, nel recinto delle possibilità umane, a questa condizione pura? Daniela Monreale lo esprime con la chiarezza del suo dettato, dove lo scarto tra il movente e l’esito è minimo e consente al lettore un’adesione diretta e intima con la fonte del pensiero e del sentimento, senza dispersioni interpretative e decodificative che vadano oltre la suggestione di misurate immagini. Una scelta pura e fragile, preziosa e “sognata” come quella del silenzio, può essere temporaneamente valicata solo da qualcosa di altrettanto elevato: «ogni pagina quotidiana/ si tingerà di sacro/ nel cono di luce/ appena necessaria» (p. 31), nel «libro che scrivo e ancora scrivo/ [«come tessuto dorato», p. 29] quando la notte non c’è nessuno/ a soffiarmi cenere e fango» (p. 17). Sin dal testo d’apertura ammette, lucidamente: «Questo so fare e volere, scrivere come fosse/ l’ultima sillaba della mia avventura» (p.7). Forte e inequivocabile, a fronte della «sete di verità», dell’anelito ad una «vita non posticcia,/ colma di fresca luce» (p. 9), è l’avversione - resa con voce chiara, diretta, intimamente convinta e convincente – per «la finta vita [che] procede […]/ tra retorica, gabbie e indifferenza», per la «finzione oscura/ che le cose/ non descrive, ma le trascina», per «la lunga indifferenza che seppellisce le domande», per «l’autentico [che] digrada nell’effimero». Lo scarto tra la condizione autentica, sia essa frutto dell’indomabile parola sia del fragile silenzio, e quella effimera, eliottianamente svuotata, si dissemina di ferite («i malumori», «l’indifferenza e l’assenza», «la disperata attesa», «il dolore», «le paure», «la noia» e l’«insonnia») accolte a stillare amaramente, ma pronte alla speranza di una dimensione cardiaca ed altra, quella del «terzo occhio,/ quello intuisce stelle, quello che sa/ nuovamente cantare» (p. 22).
Id: 1766 Data: 22/09/2016 16:29:40
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Poeti in dieci righe - Daniele Gigli
Poeti (di Torino) in 10 righe - 3. Daniele GIGLI Daniele Gigli è nato a Torino nel 1978, lavora come archivista documentalista e consulente di comunicazione. Studioso e amante di T.S. Eliot, ne ha curato alcune traduzioni, tra cui quelle di The Hollow Men (2010) e Ash-Wednesday. Ha pubblicato le plaquette Fisiognomica (2003) e Presenze (2008) ed il volume di versi Fuoco unanime (Raffaelli, 2015 – Joker, 2016), con postfazione di Francesco Napoli. Scrive di poesia e filosofia su «Il sussidiario», «Biblioteca di via Senato» e «Studi cattolici». In Fuoco unanime, di fatto la sua opera prima, Gigli mostra una poetica già, come suol dirsi, matura e definita: una visione elevata, sacrale e religiosa della vita e della poesia viene sostenuta da una “lingua dura e tagliente [che] si muove secondo una meditazione concentrica e sempre più alta” (A. Rivali) e dalla forte tensione morale della parola, vero strumento per «ricostruire dopo la sfacelo». Lo stile e l’architettura dei versi, delle sillogi e della raccolta, sono attentamente sorvegliati, eleganti e vivi. Tre testi da Fuoco unanime, I ed. Raffaelli, 2015, II ed. Joker, 2016 CIVILTÀ DEL FUOCO Un monumento, dice Wystan, al primo che dimentico del pranzo illuminò la pietra. E chi dopo di lui rubò l’idea, chi con il fuoco non illuminò ma arse, a quelli che consumano la vita a fuoco basso, a loro quali grida, quali danze di vendetta? FUOCO UNANIME 1. L’urlo delle cornacchie squarcia l’aria. Sul piano d’orizzonte, tra i palazzi, all’ora in cui s’attardano i pensieri e sfumano parole nei racconti di giornata – diafane e imprensili, non catturanti – piega la poca luce verso sera. Convergono dal prima all’ora, ciascuno dal suo carcere, nell’ora d’aria che riscatta il tempo, nel tempo che consuma, tesi ad afferrarlo, a farne brama. Tracce di fango umido sotto le suole, si fermano alla soglia immemori, ciascuno fisso al proprio punto, attesi al corpo della polvere, votati alla schermaglia, al fremito dei gomiti sul tavolo. ALYSCAMPS 4. «Chi passa il delta muore». Uomini che s’alzano nell’alba, verde l’alba, verde la speranza. I nomi tornano alle facce, alle attese di giornata, dove riaffiora l’opera interrotta. I nomi tornano e le forme, i fili dell’intreccio sparsi si ricuciono, s’intessono nel ritmo ignoto del disegno, nell’ordine di pieno e vuoto, fioriscono le immagini, la trama esborda dall’ordito. Tempo confuso e in pena, tempo fermo, tempo senza fine. «Avremo un corpo luminoso un giorno?» Si innalzano preghiere dalle case, dai borghi che inchiodarono le assi. «Un giorno, un giorno» chiedono pietà e memoria – loro estinti, loro vinti – pietà e memoria mentre passa, mentre si dissolve questa gloria, questo mondo.
Id: 1758 Data: 15/09/2016 14:06:46
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Poeti in dieci righe: Franco Trinchero
Poeti (di Torino) in 10 righe - 2. Franco TRINCHERO Franco Trinchero è nato ad Acqui Terme nel 1957, vive a Moncalieri, dopo aver risieduto dal 1962 al 2019 a Torino. Esempio di studioso raffinato, schivo ed appartato, ha pubblicato in versi Vetrofanie inquiete (Menna, 1985), Palinsesto d’amore (1999) e, dopo un lungo silenzio, nel 2014, Verbali d’infrazione (Matisklo Ed., poi, con lievi varianti, Campanotto, 2021). Nel 1999 gli è stato assegnato il Premio Montale per la silloge Nel cerchio stretto di Elpís in Sette poeti del Premio Montale (Crocetti, 2000).Verso la metà degli anni ’90 fonda e dirige per alcuni anni la casa editrice Anaphora. La sua narrazione accoglie ventagli lessicali ampli e compositi, talora arcaicizzanti e desueti, con consapevoli scarti di registro. Poesia “inquietante” (M.L. Spaziani), ricca di stratificazioni artistiche e letterarie, di innesti filosofici, che esplora la fenomenologia del kaos, proprio e del mondo (ctonio e cosmico), avanza su tracce di un’autobiografia transustanziata, solca geografie reali e interiori, labirinti psicoerotici, spesso abitati da «figure femminili […] ora favolose, ora fin troppo carnali» (G. Barberi Squarotti). STIMMUNG «coscienzioso, la barba un poco luci- ferina, lo psichiatra fiorentino redige, rimembrando i suoi trent’anni tra carceri goyesche, «Beziehungswahn» scrive (da Kretschmer, citato da Ey), gli scrivo che, per contro, una Wahnstimmung increpò i miei giorni, ma parecchi anni addietro, l’ottantaquattro d’interminati ascolti del Concerto opera cinquantaquattro, e del Manfred nelle notti; l’ottantadue della fuga a Bolzano naufragata in panico e visioni di tregenda, l’ottantacinque dei muri parlanti, piazza Castello raggiunta correndo la notte che il bar Blu era rifugio urente di neon, un atollo emerso dai vapori a confortare col primo caffè la giornata di croce, questo scrivo all’incirca sperando che mi legga nella casa décadente dove fui, in Firenze, con lontana una taverna d’oltrarno, il pane sciapo, l’affresco sopra il desco con Beatrice vestuta di verde e Dante nel suo gesto oltre la croce, non so se suoi o miei gli occhi abbagliati» (Torino, 2009) da Verbali d’infrazione, Matisklo Ed., 2014, p. 18 ESCATOLOGIA DEL CANE Il cane che correndo fulminava coi latrati chiunque l’incrociasse, quante vite vantava al suo attivo? Era forse la timida crisalide di un àtropo nell’infanzia del sole, o magari il pavone meditante l’inutile sua specie, ma divina perché in eterno specula e conclama la gloria d’ogni sorte; o ancòra il nummulite che concorse poi alla gran mole pietrosa, e quindi traversò i climi e le arie più varie e diventò fiera e cicogna e gatto, ed aspidistra e rosa, e topazio; ed i suoi morsi, ora, non richiamano la rabbia di un’assenza di radici che non siano la stella un po’ sinistra del dolore? O forse non fu proprio nulla nel suo tragitto precipite, né sarà altro che nulla, e codesto nulla sarà dio, che infinita- mente si avvicina al suo fine da Nel cerchio stretto di Elpís in Sette poeti del Premio Montale, Crocetti, 2000 LE STOVIGLIE DEL FUOCO un po’ di labor intus, ma Sanguineti nella cólta esplosione è (era?) a modo suo troppo orfico e c’è da economizzare nella cartografia, le scelte s’impappìnano ai confini: tra l’oceano di Dio e il niente leopardiano qualche tertium strilla la sua modesta indagine, la sua inavvertita detumescenza: magro lucìgnolo, un po’ storto e sibilante, intenerisce, povera cosa che siamo, che Lui è: come fosse un cuscino, si stende sulla frase (spiegazzando la gonna) e l’accarezza, e geme, anche, “pietà della strana appendice” - il fuoco fruga, un tranquillo banchetto senza forbiti accessorî, col sangue rigirato da una bianca volontà fatta a legni secchi discontinui, che non ha peso e fini tra le righe sulla torrida, sulla mai lirica infinitezza guarnita di strappi che chiamano esistenza da Opere d’inchiostro 1991-1995, Ed. Scriptorium, a cura dell’Osservatorio giovanile di poesia della Città di Torino, 1995.
Id: 1757 Data: 15/09/2016 14:00:21
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Poeti in dieci righe: Mario Marchisio
Poeti (di Torino) in 10 righe - 1. Mario MARCHISIO Mario Marchisio (Torino, 1953), laureato in Giurisprudenza ed in Scienze Religiose, ha all’attivo anche opere di narrativa, saggistica (letteraria, pittorico, filosofica, teologica). A sua cura: Vittorio Alfieri, Antologia poetica, (Fabbri Ed., 1998). La sua opera poetica, dall’esordio con Phantasmata (1991), è raccolta nei volumi: Versi giocosi e satirici (Joker, 1999); Il viandante. Poesie d’amore (ivi, 2003), La falena sulla palpebra. Poesie gotiche, Mimesis, 2008; Tre giornate. Poesie edite e inedite (Aurora Boreale, 2013). La poesia di Marchisio si caratterizza per “la primazia e la sovranità alla causa formale”, realizzata con un verso elegante e classicheggiante, colto e limpido. Le tematiche peculiari nel corso degli anni si sono condensate – anche a livello bibliografico - in tre filoni: lirico-amoroso, gotico-visionario e ironico-satirico. Marchisio raggiunge esiti di rara originalità sia in ognuno di questi tre ambiti, sia, soprattutto, nell’opera complessiva, tra la visionarietà – verticale o abissale – e il contrappeso satirico, sempre arguto ed irridente Eros e Thanatos. https://it.wikipedia.org/wiki/Mario Marchisio http://mariomarchisio.blogspot.it/ RIME BACIATE PER UNA DONNA INNAMORATA MA OSTILE A QUALSIVOGLIA ABLUZIONE I. Quel miasma oltre la porta si effondesse… Vedremmo impallidire orchi ed orchesse! II. L’ho detto ieri, lo ripeto ancora: Tu tanfi, mia adorabile Signora. III. Tienlo a mente: “Bacco tabacco e Venere (Se san di lercio) volgon l’uomo in cenere!” da Pattumiere & Cornamuse, in Versi giocosi e satirici, Joker Ed., 1999, pag. 62 (FORSE TI CHIEDERAI PERCHE' IO ESITI A BACIARE) Forse ti chiederai perché io esiti a baciare La neve intatta delle tue mani o i tuoi occhi verdi, Acqua marina che il cielo estivo si sforza invano Di eguagliare, o il tuo sorriso come uno scrigno Traboccante dei suoi rubini, geloso delle sue perle. Guardami: sono il viandante che da lontano ravvisa Le bianche mura della patria perduta E ritrovata, benedice la polvere e la fatica Del lungo cammino e con un sussulto che quasi sembra Fermargli il cuore, va ripetendo i nomi di coloro che ama, E mentre il mattino a poco a poco illumina Il volo dei passeri tra i rami tiepidi dei tigli, Confessa alla sua anima che se fu bello vagabondare Nessuna cosa è più angelica e dolce di questo ritorno. da Alla bella silenziosa, in Il viandante, Joker Ed., 2003, pag. 69 COMMIATO Lasciatemi nel fango, la mia patria È questo frutto amaro di polvere ed acqua. Ma il vortice d’acqua aggiunge sete alla sete: Ma polvere, confusa, che al mutare delle stagioni S’inerpica nel vento, mi parla sottovoce Di nuove culle e di nuove bare Che ogni volta sembrano più simili. Ma i vermi del mondo la mia carne han divorato. Ma gli avvoltoi del mondo mi privarono dell’anima. Ma esiste l’amore, lasciatemi al fango. da Liturgie, in La falena sulla palpebra. Poesie Gotiche, Mimesis, 2008, p. 13
Id: 1756 Data: 15/09/2016 13:55:22
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