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Raccolta di articoli di Anna Laura Longo
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Arte

Il criterio di dissoluzione nell’arte di Anselm Kiefer

Nella galleria Lorcan O'Neill di Roma è attualmente in corso la mostra The Consciousness of Stones con opere di Anselm Kiefer. Vi si ritrova in particolare un ensemble di dipinti, in cui l'artista si affida, con slancio, al grande formato. La monumentalità consente di dispiegare un'ampia gamma di possibilità di stratificazioni, con formule per lo più intricate e granulose di utilizzo del colore. Un colore che vive in virtù di una mutevolezza vorticosa e quasi narrativa. L'oro "risonante" e particolareggiato, il turchese lucido-opaco, il color terra abbracciante, il bianco o beige dal risalto istantaneo, restano nell'insieme avvinti dall'oscurità e dalla spaziosità intrinseca del nero o grigio. Su diverse porzioni dei dipinti affiorano dei corposi elementi in rilievo, che capitalizzano l'energia generale, ricevendo una spinta propulsiva proprio dalla superficie che generosamente li circonda, animata a sua volta da una grande carica interna. Sarà possibile conoscere il tutto sino al 24 febbraio 2024.
Raggiungendo Vicolo dei Catinari  al civico 3 si noteranno opere impattanti e voluminose già nel vialetto e nel cortile interno. Come in una cattura tattica dello sguardo sarà possibile avvicinarsi alla tridimensionalità prescelta dall'artista, facendo esperienza di una  distribuzione degli elementi salienti, che ritroviamo nel corpo delle opere stesse, mediante ripartizioni disuguali o svianti, ma nello stesso tempo coese. 
Inizierà poi il 22 marzo 2024 una mostra ugualmente  dedicata all'artista tedesco. Si svolgerà a Firenze presso Palazzo Strozzi. Il titolo scelto sarà: Angeli caduti.
In attesa di avvicinarsi  ai nuovi allestimenti potrà essere di aiuto una rilettura del volume - a firma dello dello stesso Kiefer - intitolato Paesaggi celesti (Interviste) con traduzione di Roberta Zuppet. Il libro è stato pubblicato dalla Casa editrice Il Saggiatore nell'anno 2022.
Grazie alla lettura si potrà accumulare un buon quantitativo di informazioni e notizie, per poter sviluppare un approccio conoscitivo alquanto esaustivo.
Nel presente scritto mi concentrerò su una disamina delle prime sette interviste, offrendo quindi un'anticipazione delle tematiche affrontate. Lettori e lettrici potranno autonomamente avventurarsi nel prosieguo del libro, esplorando un più ampio numero di conversazioni da cui attingere spunti molteplici.
La prima intervista di Paesaggi celesti rievoca l'incontro tra Anselm Kiefer e  Germano Celant, avvenuto in occasione delle Biennale di Venezia nell'anno 1980. La fisicità dei dipinti fu il primo aspetto che coinvolse (e convinse) il critico nonché storico dell'arte, il quale, nel 1981 nella galleria di Salvatore Aia, in occasione di una personale milanese, fu ulteriormente sedotto dall'uso di materiali grezzi, come la paglia. Nello stesso periodo Mario Merz stava cimentandosi con l'impiego di materiali naturali come fascine e rami. Siamo nell'anno 1997 quando ci fu un incontro saliente a Barjac, presso " la Ribaute", un luogo definito molto potente: un vero e proprio studio spettacolare che si espande nello spazio circostante. E ci fu a quel punto la certezza di una possibilità di vicinanza e di collaborazione. L'arte come interazione andava sempre più affermandosi in quella particolare fase storica. Lo studio di Barjac può essere considerato senza dubbio un luogo legato alla riflessione sullo spazio.  Celant afferma come sia a volte decisivo il fatto che i curatori forzino i confini e spingano  gli artisti ad avanzare la proposta più incisiva. Senza adattarsi. E non va dimenticato il fatto che entrambi i personaggi abbiano una provenienza  effettiva dal dramma della guerra: infatti è costante il riferimento alle rovine, alla distruzione. Sono elementi sempre presenti nella memoria dei due interlocutori. Un grande rilievo assume anche la presenza dell'acqua, che rappresenta il movimento. Essa è dinamica e possiede una dimensione magica. Negli allestimenti - così come nella creazione - bisogna seguire l'istinto più della ragione. Proprio Celant  si spinge a fornire questo suggerimento, arrivando ad asserire che - nelle scelte da compiere - è auspicabile ritrovarsi a muoversi quasi come danzando, per essere favorevolmente esposti al cambiamento e agli stimoli emergenti. Va segnalato come in questa prima intervista le domande siano a cura di Waltraud Forelli. Il titolo della conversazione è il seguente: Alcune domande a Germano Celant su Anselm Kiefer.
La seconda intervista intitolata Alcune domande ad Anselm Kiefer su Germano Celant è invece di Antonella Soldaini. Nelle pagine in questione viene nuovamente messo in evidenza il frangente storico in cui avviene l'incontro tra i due. In particolare viene ricordato come si stesse affermando in Italia la transavanguardia e come Celant fosse sempre più diffidente nei confronti della corrente espressionista pittorica. Apprezzava invece le ricerche portate avanti da Mario Merz e da Jannis Kounellis, percependo in loro delle motivazioni che andavano oltre la seduzione immediata della superficie pittorica. Kiefer nelle risposte date, ricorda d'altra parte come, nella fase iniziale - tra il 1969 e il 1970 - vagasse tra gli atelier dell'Accademia gridando "smettete di dipingere". Lui stesso, pur mettendo fortemente in discussione le istanze della pittura del momento, non ha smesso di dipingere. Tuttavia - ed è ciò che Celant ha per l'appunto individuato - la sua pittura risultava essere, già in quel frangente, strettamente connessa con le sue azioni. Era dettata dunque da una ragione ulteriore. Qualcosa andava più in profondità. E si trattava propriamente di un qualcosa di archeologico "perchè ci possono essere molti strati sovrapposti e molti anni possono trascorrere proprio tra uno strato e l'altro".  Non l'art pour l'art dunque, ma un criterio più avanzato. Strada facendo viene citato il simposio organizzato nella città di Basilea da Jean-Cristophe Ammann, nel 1985, presso la Kunsthalle, con la partecipazione di Joseph Beuys, Enzo Cucchi e Jannis Kounellis accanto ad Anselm Kiefer. Un simposio dove emergono testimonianze e ipotesi legate a un modo di lavorare  di certo alternativo nella pittura. Kiefer in quella circostanza fece solo un breve intervento: Beuys risultava già molto malato a quell'epoca, ma riuscì a parlare per più di venti minuti, senza interruzioni. In ogni caso l'intervento di Beuys viene considerato da Kiefer troppo antropocentrico. Vengono poi rievocati i legami con la scena milanese e stabilito un confronto diretto tra l'atelier tedesco e quelli di Berjac e di Croissy, in Francia. In entrambi i casi lo scopo prioritario consiste di certo nello sperimentare la dimensione totalizzante dell'opera d'arte. Proprio da questo aspetto era attratto Celant. E dall'intensità drammatica. In questa seconda intervista torna alla ribalta il fatto che, per entrambi, la visione della vita sia stata influenzata dalla guerra. Kiefer afferma di "non riuscire a vedere un paesaggio in cui la guerra non abbia lasciato tracce". Viene infine rimarcato come, nel rapporto professionale tra i due, trovassero posto ampie dosi di libertà, fiducia e capacità di trovare soluzioni insieme.
Il passaggio successivo conduce verso l'intervista intitolata Nell'atelier di Anselm Kiefer di Axel Hecht e Alfred Nemeczek. Prendono consistenza, in questo caso, delle considerazioni ulteriori che mettono in evidenza come la produzione dell'artista abbia iniziato a orientarsi fondamentalmente verso la tridimensionalità, richiedendo sempre più spazio. "La letteratura e l'arte sono conseguenze di qualcosa di indicibile, un buco nero o un cratere il cui centro è irragiungibile". Il processo messo in campo da Kiefer tende a procedere dallo specifico al generale. Un punto di partenza può essere anche molto banale. In ogni caso il ragionamento successivo avviene soprattutto in termini spaziali. E non esiste probabilmente una sorta di descrizione della storia, ma solo una sua elaborazione. In modo ascientifico l'artista cerca in pratica di avvicinarsi al centro da cui si sono sviluppati gli eventi. Con un approccio, per l'appunto, completamente diverso da quello dello scienziato. L'artista genera in definitiva una coerenza che nessun altro riesce a produrre, perchè evviene in termini "altri". A proposito dei  colleghi più anziani un riferimento  specifico conduce verso le figure di Joseph Beuys, Marcel Duchamp e Andy Warhol. Quest'ultimo viene definito un artista sorprendente, capace di  affascinare più di altri rappresentanti della pop art. L'aspetto degno di nota, rilevabile in Duchamp, è invece legato all'idea di distruggere il muro tra oggetto d'arte e realtà. Questo è anche il merito della funzione intellettuale. In ogni caso al centro è collocata l'importanza e la pregnanza dell'esperienza sensoriale. Ogni opera - ribadisce Kiefer  - ha a che vedere con il sentimento, con il pensiero e con la volontà. Quando questi tre elementi sono in equlibrio il risultato è buono. Ci sono due forme di tempo che corrispondono l'una all'altra, il " piccolo" tempo umano individuale e il " grande" tempo del mondo. Questo è un rapporto osmotico in cui la tela funge da membrana.
Il vello d'oro . Un ciclo di dipinti di Anselm Kiefer è il titolo della quarta intervista di Christian  Kämmerling. Il dialogo prende le mosse da un riferimento al mito degli Argonauti. Vengono più in generale delineati i legami con la scrittura, le storie e i miti, per l'appunto. "La memoria non si costituisce nel momento in cui nasciamo, viene da più lontano, racchiude in sé esperienze fondamentali, orientamenti esistenziali che si sono accumulati nei millenni". Kiefer sottolinea come il suo scopo non sia quello di realizzare  semplicemente un'opera che sia quanto più interessante possibile. E nemmeno bella. "Non voglio nulla che sia superficialmente bello". Così asserisce. E sottolinea inoltre come non sia importante avere una produzione lineare. Possono essere realizzati molti progetti contemporaneamente. I dipinti, nel corso degli anni e dei decenni, continuano infatti a maturare. Una buona parte dell'intervista verte sulle scelte legate ai materiali. Affiora un'attrazione peculiare per il piombo. Un materiale adatto per le idee: nell'alchimia si collegava con il gradino più basso del processo di estrazione dell'oro. Da una parte era chiaramente pesante e associato a Saturno, l'uomo torvo. Dall'altra contiene argento, il che conferma già l'esistenza di altri piani spirituali. L'artista dunque si limita ad accelare la trasformazione che è già presente nella cosa, proprio come l'alchimista. E a proposito del piombo, nel gigantesco capannone che ospita il pozzo nero del mattonificio, c'è proprio un grande aereo di piombo immerso nell'argilla. Se ne sta pesante, non riesce a volare. Ma comunica che potrebbe trasportare idee. Anche la cenere è un mezzo espressivo per il pittore : è qualcosa di impalpabile, qualcosa che rimane dopo un incendio e non può essere modificato. Una parte della produzione consiste nella dissoluzione. La dissoluzione è, a tutti gli effetti, un processo creativo. L'artista afferma di voler andare sempre dove c'è il meno possibile. E aggiunge di non aver creato nulla, ma di aver  probabilmente rievocato qualcosa che esisteva già. Forse in una luce diversa.
Dalla caduta nasce il canto è il titolo della quinta intervista di Marianna Hanstein e Lothar Schmidt-Mühlisch. Si parte con una descrizione di una celebre installazione, caratterizzata da letti di piombo su cui sono sdraiate le donne della rivoluzione. Negli avvallamenti che ricordano i corpi delle donne distese si raccoglie l'acqua. Alla fine: una foto di un uomo di spalle che si allontana tra il fango e le pozzanghere. Alla base si ritrova probabilmente l'idea di disillusione.  E in effetti la conversazione si incentra proprio sul tema  della disillusione.
Quell'incerto lucore che cade dalle stelle è il titolo della sesta intervista di Bernard Comment. Dopo aver posto l'attenzione sul fatto che l'artista sia stato spesso frainteso, l'intervistatore fa notare come nello studio monumentale francese le opere possano esser considerate complete solo quando vengono rivestite della patina che deriva dall'effetto degli agenti atmosferici. Non tutte le opere tuttavia richiedono questo particolare processo. Si torna anche a parlare dell'acqua. E, sulla scorta di alcuni riferimenti al processo dell'elettrolisi, si giunge a discutere della metamorfosi. E, poco più avanti, anche della trasformazione dell'humus. Una buona componente d ironia va a caratterizzare i discorsi e talvolta anche alcuni aspetti delle opere di Anselm Kiefer, il quale afferma che "le parole si possono usare solo ironicamente perchè sono sempre incomplete". Quando poi si torna a porre l'accento sulla memoria, Kiefer ci tiene a evidenziare come la memoria collettiva superi di gran lunga quella individuale. Il tempo viene considerato un altro materiale su cui agire. Proprio come esso si ritrova ad agire su di noi. La conversazione si sposta anche sul potere mitico del fuoco e su come, nell'arte, possa apparire necessitante l'atto di bruciare, per generare purificazione, rimodellamento e trasformazione radicale.
Non lasciarsi divorare dalla chiesa di Henry- Débaille Françoisux è il titolo della settima intervista. "Entrare in una chiesa è come entrare in un campo di battaglia". Sulla base di tale affermazione Kiefer ci parla dell'incarico  per la cappella di Saint-Louis de la Salpêtrière, sostenendo come occorra in genere preservare le vestigia del passato, per poterle poi trasformare. Nell'opera realizzata per il contesto della cappella sono stati impiegati  dei riferimenti alla cabala.  E i quadri sono stati curvati in modo  da spingere contro la chiave di volta, quasi a  voler sollevare il soffitto.
Il lavoro sui grandi formati, a detta dell'artista, è questione di temperamento. Tuttavia  si possono realizzare quadri piccoli che sono monumentali e quadri monumentali che sono concretamente vuoti. La monumentalità dunque non ha a che fare propriamente con le dimensioni. Quanto allo spessore  Kiefer ritiene che, nelle sue opere, esso possa essere spesso frutto del caso. " ...talvolta lavoro talmente a lungo a un mio quadro che diventa particolarmente spesso. Non si tratta di una decisione, ma di un processo".
Paesaggi celesti prosegue dunque con grande scorrevolezza attraverso uno scavo nel visionario mondo di Anselm Kiefer e - come si legge nella quarta di copertina- tale scavo avviene in virtù delle sue parole. Può essere segnalato il fatto che l'idea della pubblicazione sia sorta nel 2019, grazie alla spinta di Germano Celant in persona. Dopo la sua scompasa, lo Studio Celant, ha portato a termine il progetto  rispettando la selezione da lui operata e aggiungendo, al posto di un iniziale saggio introduttivo previsto, due conversazioni inedite.
Mi piace chiudere con una citazione finale, ancora una volta in riferimento alle sperimentazioni pittoriche:  "I quadri sono più vicini al nulla che alla perfezione. Attraverso l'enormità e il materialismo si percepisce una trasparenza, una fragilità". 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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- Arte

Il criterio di dissoluzione nell’arte di Anselm Kiefer

Nella galleria Lorcan O'Neill di Roma è attualmente in corso la mostra The Consciousness of Stones con opere di Anselm Kiefer. Vi si ritrova in particolare un ensemble di dipinti, in cui l'artista si affida, con slancio, al grande formato. La monumentalità consente di dispiegare un'ampia gamma di possibilità di stratificazioni, con formule per lo più intricate e granulose di utilizzo del colore. Un colore che vive in virtù di una mutevolezza vorticosa e quasi narrativa. L'oro "risonante" e particolareggiato, il turchese lucido-opaco, il color terra abbracciante, il bianco o beige dal risalto istantaneo, restano nell'insieme avvinti dall'oscurità e dalla spaziosità intrinseca del nero o grigio. Su diverse porzioni dei dipinti affiorano dei corposi elementi in rilievo, che capitalizzano l'energia generale, ricevendo una spinta propulsiva proprio dalla superficie che generosamente li circonda, animata a sua volta da una grande carica interna. Sarà possibile conoscere il tutto sino al 24 febbraio 2024. Raggiungendo Vicolo dei Catinari  al civico 3 si noteranno opere impattanti e voluminose già nel vialetto e nel cortile interno. Come in una cattura tattica dello sguardo sarà possibile avvicinarsi alla tridimensionalità prescelta dall'artista, notando e facendo esperienza di una  distribuzione degli elementi salienti, che avviene nel corpo delle opere stesse, mediante ripartizioni disuguali o svianti, ma nello stesso tempo coese. 
Inizierà poi il 22 marzo 2024 una mostra ugualmente  dedicata all'artista tedesco. Si svolgerà a Firenze presso Palazzo Strozzi. Il titolo scelto sarà: Angeli caduti.
In attesa di avvicinarsi  ai nuovi allestimenti potrà essere di aiuto una rilettura del volume - a firma dello dello stesso Kiefer - intitolato Paesaggi celesti (Interviste) con traduzione di Roberta Zuppet. Il libro è stato pubblicato dalla Casa editrice Il Saggiatore nell'anno 2022.
Grazie alla lettura si potrà accumulare un buon quantitativo di informazioni e notizie, per poter sviluppare un approccio conoscitivo alquanto esaustivo.
Nel presente scritto mi concentrerò su una disamina delle prime sette interviste, offrendo quindi un'anticipazione delle tematiche affrontate. Lettori e lettrici potranno autonomamente avventurarsi nel prosieguo del libro, esplorando un più ampio numero di conversazioni da cui attingere spunti molteplici.
La prima intervista di Paesaggi celesti rievoca l'incontro tra Anselm Kiefer e  Germano Celant, avvenuto in occasione delle Biennale di Venezia nell'anno 1980. La fisicità dei dipinti fu il primo aspetto che coinvolse (e convinse) il critico nonché storico dell'arte, il quale, nel 1981 nella galleria di Salvatore Aia, in occasione di una personale milanese, fu ulteriormente sedotto dall'uso di materiali grezzi, come la paglia. Nello stesso periodo Mario Merz stava cimentandosi con l'impiego di materiali naturali come fascine e rami. Siamo nell'anno 1997 quando ci fu un incontro saliente a Barjac, presso " la Ribaute", un luogo definito molto potente: un vero e proprio studio spettacolare che si espande nello spazio circostante. E ci fu a quel punto la certezza di una possibilità di vicinanza e di collaborazione. L'arte come interazione andava sempre più affermandosi in quella particolare fase storica. Lo studio di Barjac può essere considerato senza dubbio un luogo legato alla riflessione sullo spazio.  Celant afferma come sia a volte decisivo il fatto che i curatori forzino i confini e spingano  gli artisti ad avanzare la proposta più incisiva. Senza adattarsi. E non va dimenticato il fatto che entrambi i personaggi abbiano una provenienza  effettiva dal dramma della guerra: infatti è costante il riferimento alle rovine, alla distruzione. Sono elementi sempre presenti nella memoria dei due interlocutori. Un grande rilievo assume anche la presenza dell'acqua, che rappresenta il movimento. Essa è dinamica e possiede una dimensione magica. Negli allestimenti - così come nella creazione - bisogna seguire l'istinto più della ragione. Proprio Celant  si spinge a fornire questo suggerimento, arrivando ad asserire che - nelle scelte da compiere - è auspicabile ritrovarsi a muoversi quasi come danzando, per essere favorevolmente esposti al cambiamento e agli stimoli emergenti. Va segnalato come in questa prima intervista le domande siano a cura di Waltraud Forelli. Il titolo della conversazione è il seguente: Alcune domande a Germano Celant su Anselm Kiefer.
La seconda intervista intitolata Alcune domande ad Anselm Kiefer su Germano Celant è invece di Antonella Soldaini. Nelle pagine in questione viene nuovamente messo in evidenza il frangente storico in cui avviene l'incontro tra i due. In particolare viene ricordato come si stesse affermando in Italia la transavanguardia e come Celant fosse sempre più diffidente nei confronti della corrente espressionista pittorica. Apprezzava invece le ricerche portate avanti da Mario Merz e da Jannis Kounellis, percependo in loro delle motivazioni che andavano oltre la seduzione immediata della superficie pittorica. Kiefer nelle risposte date, ricorda d'altra parte come, nella fase iniziale - tra il 1969 e il 1970 - vagasse tra gli atelier dell'Accademia gridando "smettete di dipingere". Lui stesso, pur mettendo fortemente in discussione le istanze della pittura del momento, non ha smesso di dipingere. Tuttavia - ed è ciò che Celant ha per l'appunto individuato - la sua pittura risultava essere, già in quel frangente, strettamente connessa con le sue azioni. Era dettata dunque da una ragione ulteriore. Qualcosa andava più in profondità. E si trattava propriamente di un qualcosa di archeologico "perchè ci possono essere molti strati sovrapposti e molti anni possono trascorrere proprio tra uno strato e l'altro".  Non l'art pour l'art dunque, ma un criterio più avanzato. Strada facendo viene citato il simposio organizzato nella città di Basilea da Jean-Cristophe Ammann, nel 1985, presso la Kunsthalle, con la partecipazione di Joseph Beuys, Enzo Cucchi e Jannis Kounellis accanto ad Anselm Kiefer. Un simposio dove emergono testimonianze e ipotesi legate a un modo di lavorare  di certo alternativo nella pittura. Kiefer in quella circostanza fece solo un breve intervento: Beuys risultava già molto malato a quell'epoca, ma riuscì a parlare per più di venti minuti, senza interruzioni. In ogni caso l'intervento di Beuys viene considerato da Kiefer troppo antropocentrico. Vengono poi rievocati i legami con la scena milanese e stabilito un confronto diretto tra l'atelier tedesco e quelli di Berjac e di Croissy, in Francia. In entrambi i casi lo scopo prioritario consiste di certo nello sperimentare la dimensione totalizzante dell'opera d'arte. Proprio da questo aspetto era attratto Celant. E dall'intensità drammatica. In questa seconda intervista torna alla ribalta il fatto che, per entrambi, la visione della vita sia stata influenzata dalla guerra. Kiefer afferma di "non riuscire a vedere un paesaggio in cui la guerra non abbia lasciato tracce". Viene infine rimarcato come, nel rapporto professionale tra i due, trovassero posto ampie dosi di libertà, fiducia e capacità di trovare soluzioni insieme.
Il passaggio successivo conduce verso l'intervista intitolata Nell'atelier di Anselm Kiefer di Axel Hecht e Alfred Nemeczek. Prendono consistenza, in questo caso, delle considerazioni ulteriori che mettono in evidenza come la produzione dell'artista abbia iniziato a orientarsi fondamentalmente verso la tridimensionalità, richiedendo sempre più spazio. "La letteratura e l'arte sono conseguenze di qualcosa di indicibile, un buco nero o un cratere il cui centro è irragiungibile". Il processo messo in campo da Kiefer tende a procedere dallo specifico al generale. Un punto di partenza può essere anche molto banale. In ogni caso il ragionamento successivo avviene soprattutto in termini spaziali. E non esiste probabilmente una sorta di descrizione della storia, ma solo una sua elaborazione. In modo ascientifico l'artista cerca in pratica di avvicinarsi al centro da cui si sono sviluppati gli eventi. Con un approccio, per l'appunto, completamente diverso da quello dello scienziato. L'artista genera in definitiva una coerenza che nessun altro riesce a produrre, perchè evviene in termini "altri". A proposito dei  colleghi più anziani un riferimento  specifico conduce verso le figure di Joseph Beuys, Marcel Duchamp e Andy Warhol. Quest'ultimo viene definito un artista sorprendente, capace di  affascinare più di altri rappresentanti della pop art. L'aspetto degno di nota, rilevabile in Duchamp, è invece legato all'idea di distruggere il muro tra oggetto d'arte e realtà. Questo è anche il merito della funzione intellettuale. In ogni caso al centro è collocata l'importanza e la pregnanza dell'esperienza sensoriale. Ogni opera - ribadisce Kiefer  - ha a che vedere con il sentimento, con il pensiero e con la volontà. Quando questi tre elementi sono in equlibrio il risultato è buono. Ci sono due forme di tempo che corrispondono l'una all'altra, il " piccolo" tempo umano individuale e il " grande" tempo del mondo. Questo è un rapporto osmotico in cui la tela funge da membrana.
Il vello d'oro . Un ciclo di dipinti di Anselm Kiefer è il titolo della quarta intervista di Christian  Kämmerling. Il dialogo prende le mosse da un riferimento al mito degli Argonauti. Vengono più in generale delineati i legami con la scrittura, le storie e i miti, per l'appunto. "La memoria non si costituisce nel momento in cui nasciamo, viene da più lontano, racchiude in sé esperienze fondamentali, orientamenti esistenziali che si sono accumulati nei millenni". Kiefer sottolinea come il suo scopo non sia quello di realizzare  semplicemente un'opera che sia quanto più interessante possibile. E nemmeno bella. "Non voglio nulla che sia superficialmente bello". Così asserisce. E sottolinea inoltre come non sia importante avere una produzione lineare. Possono essere realizzati molti progetti contemporaneamente. I dipinti, nel corso degli anni e dei decenni, continuano infatti a maturare. Una buona parte dell'intervista verte sulle scelte legate ai materiali. Affiora un'attrazione peculiare per il piombo. Un materiale adatto per le idee: nell'alchimia si collegava con il gradino più basso del processo di estrazione dell'oro. Da una parte era chiaramente pesante e associato a Saturno, l'uomo torvo. Dall'altra contiene argento, il che conferma già l'esistenza di altri piani spirituali. L'artista dunque si limita ad accelare la trasformazione che è già presente nella cosa, proprio come l'alchimista. E a proposito del piombo, nel gigantesco capannone che ospita il pozzo nero del mattonificio, c'è proprio un grande aereo di piombo immerso nell'argilla. Se ne sta pesante, non riesce a volare. Ma comunica che potrebbe trasportare idee. Anche la cenere è un mezzo espressivo per il pittore : è qualcosa di impalpabile, qualcosa che rimane dopo un incendio e non può essere modificato. Una parte della produzione consiste nella dissoluzione. La dissoluzione è, a tutti gli effetti, un processo creativo. L'artista afferma di voler andare sempre dove c'è il meno possibile. E aggiunge di non aver creato nulla, ma di aver  probabilmente rievocato qualcosa che esisteva già. Forse in una luce diversa.
Dalla caduta nasce il canto è il titolo della quinta intervista di Marianna Hanstein e Lothar Schmidt-Mühlisch. Si parte con una descrizione di una celebre installazione, caratterizzata da letti di piombo su cui sono sdraiate le donne della rivoluzione. Negli avvallamenti che ricordano i corpi delle donne distese si raccoglie l'acqua. Alla fine: una foto di un uomo di spalle che si allontana tra il fango e le pozzanghere. Alla base si ritrova probabilmente l'idea di disillusione.  E in effetti la conversazione si incentra proprio sul tema  della disillusione.
Quell'incerto lucore che cade dalle stelle è il titolo della sesta intervista di Bernard Comment. Dopo aver posto l'attenzione sul fatto che l'artista sia stato spesso frainteso, l'intervistatore fa notare come nello studio monumentale francese le opere possano esser considerate complete solo quando vengono rivestite della patina che deriva dall'effetto degli agenti atmosferici. Non tutte le opere tuttavia richiedono questo particolare processo. Si torna anche a parlare dell'acqua. E, sulla scorta di alcuni riferimenti al processo dell'elettrolisi, si giunge a discutere della metamorfosi. E, poco più avanti, anche della trasformazione dell'humus. Una buona componente d ironia va a caratterizzare i discorsi e talvolta anche alcuni aspetti delle opere di Anselm Kiefer, il quale afferma che "le parole si possono usare solo ironicamente perchè sono sempre incomplete". Quando poi si torna a porre l'accento sulla memoria, Kiefer ci tiene a evidenziare come la memoria collettiva superi di gran lunga quella individuale. Il tempo viene considerato un altro materiale su cui agire. Proprio come esso si ritrova ad agire su di noi. La conversazione si sposta anche sul potere mitico del fuoco e su come, nell'arte, possa apparire necessitante l'atto di bruciare, per generare purificazione, rimodellamento e trasformazione radicale.
Non lasciarsi divorare dalla chiesa di Henry- Débaille Françoisux è il titolo della settima intervista. "Entrare in una chiesa è come entrare in un campo di battaglia". Sulla base di tale affermazione Kiefer ci parla dell'incarico  per la cappella di Saint-Louis de la Salpêtrière, sostenendo come occorra in genere preservare le vestigia del passato, per poterle poi trasformare. Nell'opera realizzata per il contesto della cappella sono stati impiegati  dei riferimenti alla cabala.  E i quadri sono stati curvati in modo  da spingere contro la chiave di volta, quasi a  voler sollevare il soffitto.
Il lavoro sui grandi formati, a detta dell'artista, è questione di temperamento. Tuttavia  si possono realizzare quadri piccoli che sono monumentali e quadri monumentali che sono concretamente vuoti. La monumentalità dunque non ha a che fare propriamente con le dimensioni. Quanto allo spessore  Kiefer ritiene che, nelle sue opere, esso possa essere spesso frutto del caso. " ...talvolta lavoro talmente a lungo a un mio quadro che diventa particolarmente spesso. Non si tratta di una decisione, ma di un processo".
Paesaggi celesti prosegue dunque con grande scorrevolezza attraverso uno scavo nel visionario mondo di Anselm Kiefer e - come si legge nella quarta di copertina- tale scavo avviene in virtù delle sue parole. Può essere segnalato il fatto che l'idea della pubblicazione sia sorta nel 2019, grazie alla spinta di Germano Celant in persona. Dopo la sua scompasa, lo Studio Celant, ha portato a termine il progetto  rispettando la selezione da lui operata e aggiungendo, al posto di un iniziale saggio introduttivo previsto, due conversazioni inedite.
Mi piace chiudere con una citazione finale, ancora una volta in riferimento alle sperimentazioni pittoriche:  "I quadri sono più vicini al nulla che alla perfezione. Attraverso l'enormità e il materialismo si percepisce una trasparenza, una fragilità". 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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- Arte

Il legame connettivale tra luce e tempo in Olafur Eliasson

È prevalente nelle opere di Olafur Eliasson (Copenaghen, 1967) un’avvincente premura per lo spazio, alimentata da un interesse per la “vita” della luce, che va di pari passo con un pensiero ecologico certamente sofisticato, morbido e attento, soprattutto in movimento. Quella che prende corpo è una consacrazione sfuggente della luce stessa, che si spinge verso una consistenza libera e a tratti evanescente.

Le strutture complesse che l’artista espone a tutt’oggi nel Castello di Rivoli sono degli ingranaggi di poetica potenza, suffragati da una maestosità vistosamente contemporanea, pur essendo scaldati dal soffio della leggerezza. La solidità e la sostanziale compattezza – frutto entrambe di una cura e di un’abilità progettuale di gran lunga personale – fanno guadagnare all’insieme un risalto del tutto peculiare e un’affascinante significatività in termini di presenza.

La mostra che porta il titolo Orizzonti tremanti (Trembling horizons) è a cura di Marcella Beccaria e sarà presente fino al 2 luglio 2023. Nel terzo piano della Manica Lunga sono stati installati diversi Kaleidoramas. Si tratta di vere e proprie apparizioni che provengono dall’oscurità ricreata: sono strutture dotate di animazioni interne di luce, che si avventurano e scivolano magnificamente tra forme fluide o tra illusioni ottiche catturanti. Le opere in questione sono in parte lasciate in sospensione e in parte adagiate al suolo. Alcune si aggrappano dunque al vuoto, rivestendolo e quasi fagocitandolo senza però una reale invadenza o spinta pressoria, altre scelgono la forza del radicamento e dunque l’appoggio.

Navigation star for utopia (Stella di navigazione per l’utopia), Il tuo caleidorama curioso, Il tuo caleidorama potente, Il tuo caleidorama auto-riflettente, Il tuo caleidorama esitante, Il tuo caleidorama vivente, Il tuo amico non umano e il navigatore. Questi i titoli in sequenza delle opere per lo più concepite nei flussi dell’anno 2022.

In questa circostanza la Manica Lunga assume le fattezze di un tunnel, spicca infatti all’ingresso un avvertimento, che rimanda proprio al tema dell’oscurità. Ci vengono implicitamente offerti degli stimoli di riflessione inerenti i significati reconditi che sostengono gli avanzamenti e i possibili dispiegamenti della luce. Convergenze e intersecazioni abbondano, posizioni e disposizioni variabili fungono da traiettorie utili per lo sguardo. Il tempo di sommersione, fisico ed emozionale, resta nel complesso fluido, ma si riveste anche di una buona dose di concretezza.

 Una concretezza che rimanda alla complessità delle forme organiche. In tal senso il richiamo della ricerca scientifica risulta essere un elemento di certo estrapolabile, ma non è mai lasciato agire in assenza di un valido rigoglio artistico strutturante e, in verità connaturato. In questa prospettiva l’imponenza di ogni caleidorama riesce inevitabilmente a catturare l’attenzione del / della riguardante, emanando tuttavia – volta per volta- una certa sobrietà fluttuante. In effetti il tremore a cui fa riferimento il titolo della mostra, scorre in maniera sciolta e poetica come un punto di forza sostanziale, frutto di una gravitazione rapida e calma al contempo.

La luce movimentata e abilmente sospinta va a generare un alone di speranza che traduce probabilmente il residuo di un sogno inesplorato. La varietà dei moduli proposti produce risposte interiori che agiscono come effettive diramazioni.

Il passaggio dalla luce al tempo è produttivo, fondato su una trasmissione di sprazzi di verità fugaci. Le visioni di Eliasson convocano un presente-futuro scorrevole, sottilmente amalgamato e dotato di una voce consustanziale, che sedimenta una poeticità universale.

 

Coordinate:

Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea

Piazza Mafalda di Savoia

10098 Rivoli – Torino

Tel. +39 011.9565.222

info@castellodirivoli.org

www.castellodirivoli.org

 

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- Musica

La perfettibilità mozartiana indagata da Alfred Tomatis

"Inoltrandosi verso la struttura invisibile dell’infrasonoro, Mozart ha tradotto per noi quelle volute di suoni che smuovono dei silenzi apparenti. Ciò che egli esprime entra tangibilmente in noi.”

Sono parole di certo elogiative, tuttavia non è un mero elogio quello che scorre tra le pagine di Perché Mozart? (Ibis edizioni) di Alfred Tomatis, ma una vera e propria motivazione all’ascolto.

 Il volume è stato più volte tradotto e ripubblicato in Italia e all’estero. Il medico e otorinolaringoiatra francese ha provato a mettere in evidenza le connessioni possibili tra suono e mondo, costruendo una teoria medico-scientifica, ma anche filosofica, basata sulla centralità dell’udito.

 

Sarà quindi utile, a distanza di diverso tempo, tornare a cimentarsi in una rilettura dei principali saggi pubblicati, nella gran parte dei quali aleggia la necessità di addentrarsi nel tempo e nella sfera musicale, attraverso una risonanza con l’universo. Guardando inoltre alla materia sonora come a un qualcosa di mobilitante.

La figura mozartiana emerge con particolare forza nel percorso di Alfred Tomatis e, nel volume su indicato, vengono propriamente spiegate le scelte e le puntuali direzioni di avvicinamento. La musica mozartiana, all’interno di questa visione, è divenuta basilare per una riabilitazione dell’ascolto.

“Il suo strumento non era il piano o il violino, ma l’uomo”. Ci ricorda Tomatis.

“Non è mia intenzione fare di Mozart un essere disincarnato. Fu incarnato e molto. Ma la sua appartenenza al mondo si rivela essere un’appartenenza ad ogni tempo. Benché si sia cristallizzato in un momento, in un luogo, in un istante epicritico in cui tutto ciò doveva veramente accadere”.

L’invito principale consiste nel saper afferrare quel sottile equilibrio "che fa sì che il cosmo canti e l’uomo gli risponda, strutturandosi nelle sue molecole". Per questa ragione la musica può riguardarci così da vicino. Essa ha tradotto – e continua a saper tradurre- i ritmi eterni sapendoli adattare ai nostri neuroni.

Mozart, da questo punto di vista, si colloca oltre l’identificazione: è stato soprattutto attraversato dall’intuizione. Tomatis nel suo libro produce un fugace accostamento con la figura di Einstein: Mozart e Einstein hanno saputo scoprire il mondo della trasparenza, all’interno del loro essere visionari, nel dialogo con l’infinito.

La visione di Tomatis in ogni caso non è affatto musicologica ma, per l’appunto, motivata da ragioni neurofisiologiche e spiegata attraverso meccanismi di reazione uditiva, cerebrale, corporea.

Il metodo Tomatis è fondamentalmente una tecnica di rieducazione dell’orecchio di tipo sonico-vibrazionale. Essa affida soprattutto all’orecchio destro una funzione direttrice all’interno del circuito audio-vocale.

Tomatis ha studiato come l’ascolto di Mozart possa essere diverso non solamente sul piano musicale, ma in funzione degli effetti neuro-psico-fisiologici innescati. Nei suoi scritti ci parla dunque della profondità delle risposte corporee ai suoni, alle frequenze e ai ritmi. La musica è inquadrata nella sua interezza, vista come portatrice e, soprattutto, responsabile di una grande possibilità di integrazione con l’apparato corporeo.

Il campo di applicazione induce a modificare gradatamente la struttura psicologica per liberarla dai blocchi che ostacolano l’ascolto.

E da questo punto di vista è stato dimostrato come Mozart mobiliti il sistema nervoso affinché sia possibile integrare e “aprire”.

L’orecchio, nel metodo Tomatis,  è guidato nell’ascolto in modo tale che possa diventare capace di eseguire delle discriminazioni frequenziali, ma non è tutto: esso infatti è gradualmente spinto ad adattarsi a un processo  decisamente articolato e soprattutto vitale.

 In Perché Mozart? l’autore ci avverte tuttavia di come l’avvicinamento a un personaggio leggendario renda il discorso non privo di pericoli. Il rischio principale probabilmente può esser quello di costruire una sorta di immagine irreale. Si rivela di certo difficile cogliere la totalità di un’opera, tanto più di un soggetto d’eccezione. Quando Mozart si esprime con la musica tutto ciò che abbozza, che realizza o che tenta, si appella a regole ontologicamente presenti nell’uomo e non alterate dal sociale. Egli sa realizzare la separazione tra essenza e esistenza. Non permette interferenze tra l’invisibile e il concreto.

Il rifugio nell’invisibile avviene in ogni caso senza abbandonare il mondo.

Ci troviamo in contatto con una creatività permanente mista a provvisorietà e imprevedibilità. Ma, poiché analizzare implica la necessità di oggettivare, sarà utile pur sempre stabilire una distanza sufficiente per non avvicinarsi troppo e perdere la visione d‘insieme. E quindi lo scopo sarà quello di provare a fornire a ogni istante una sufficiente focalizzazione sulla globalità dell’opera. Questo il tentativo compiuto da Tomatis dinanzi all’esperienza del compositore salisburghese, definito multiforme e al tempo stesso meravigliosamente compatto.

In Mozart si verifica certamente una trasfigurazione della musica. Essa infatti diviene – anzi si rende-  inafferrabile: non ce ne possiamo impadronire. La direzione, come già detto, è nell’invisibile oltre l’udibile.

Mozart, in quanto promotore di una sorta di avventura iniziatica, è racchiuso dunque nell’involucro umano. La sua creazione può considerarsi incontaminata, è della stessa qualità dei silenzi che cantano in noi. Potrebbe sembrare una semplificazione. Ma non lo è affatto. Nel terreno mozartiano si ritrovano infatti dispiegate abbondanza e varietà, unite a una formidabile capacità di entrare in un ritmo limpido di progressione ideale. E nel gioco di interazioni mozartiane sarà possibile, in parte, ritrovare noi stesse e noi stessi.

 

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- Cinema

Il malinconico garbo di Ruth Beckermann

 
 
Nel film di Ruth Beckermann, intitolato Die Geträumten, risalente all’anno 2016, il carteggio tra Ingeborg Bachmann e Paul Celan risuona con malinconico garbo e, a tratti, si dilata per trovare una sorta di solidificazione passeggera.
Proiettato in lingua originale, con sottotitoli in italiano, il film è stato proposto dal Cinema Troisi, in Roma, a conclusione di tre giornate dedicate alla regista austriaca e inquadrate dal titolo L’immagine della parola.
Una masterclass nell’Aula Magna del Centro Sperimentale di Cinematografia, nella giornata del 24 novembre, ha scandito ulteriormente il percorso.
Va menzionato anche il contributo organizzativo e il sostegno di Filmmaker e del Forum Austriaco di Cultura. Quella del 23 novembre 2022 è stata in particolare la terza giornata di proiezioni.
E la data coincide con il giorno di nascita del poeta Celan, nato a Cernauţi nel 1920.
Le parole, dirette all’ascolto ma anche agli occhi coinvolti nella lettura dei sottotitoli, si depositano con efficacia e determinano l’incedere delle immagini, scandite a loro volta delle posture, dagli sguardi, dalle dinamiche interne. Sono veri e propri stati confidenziali quelli che affiorano e vanno a illuminare un tempo circoscritto, complesso ma in fondo delicato, nei cui spiragli “ogni giorno è pieno di echi”.
Nell’affiorare vorticoso di impedimenti e sospetti ma anche di amabili tenerezze e aperture, la strutturazione resta essenzialmente e caparbiamente duale: abbiamo infatti un attore (Laurence Rupp) e un’attrice (Anja Plaschg) vistosamente coinvolti nella declamazione e sinceramente toccati dall’energia interna contenuta nelle lettere. La compostezza spartana dell’impianto non dà adito a strategie narrative extra. Né prevede l’ingresso collaterale di flussi episodici più o meno accidentali, salvo pochi istanti di deviazione.
Sono gli ambienti stessi (una sala da concerto, dei corridoi da percorrere, una rosticceria per la pausa pranzo divisa da porte vetrate) e gli arredi o gli strumenti (un divano dalle tinte accese, delle sedie di design, un pianoforte a coda) a generare delle sparute digressioni, che poi finiscono per rendere accentuata e oltremodo sostanziale la focalizzazione sull’ampio - ed elegante - spazio di registrazione, dove trova pieno svolgimento quasi tutta l’azione.
Nessun cambio di abiti, nessuna interferenza a turbare l’intima ricostruzione del legame. Le toccanti domande e risposte generano dei brevi confronti tra attrice e attore: calibrati o accesi commenti sugli ostacoli, anzi sull’impossibilità della relazione. Un’impossibilità accentuata dai “tempi difficili”. Gli sguardi si mantengono vivi, comunicano e restano quasi circondati da ventate di vicinanza.  Lo scopo è probabilmente quello di dare poi spazio ai risvolti vistosi dell’incomunicabilità, purtroppo anche del dolore.
Tra alcune labili apparizioni oggettuali ed elementi visivi, gestiti a mo’ di comparse, troviamo una o più sigarette, una mela da mordere. A seguire dei tatuaggi sul braccio. Le movenze libere e dialoganti delle mani finiscono per generare una mobilitazione quasi subliminale, dove l’occhio trova un respiro, quasi una secondaria attrattiva.
Anche i microfoni, a ben vedere, assurgono a personaggi: sono quasi degli osservatori statici dotati di compartecipazione, così come i fogli sparsi, rigidi, in color crema, su cui sono stampate le lettere scelte per la lettura e dunque per la registrazione.
Si avvitano i ricordi intorno alle città salienti volta per volta raggiunte, attraversate, sfiorate o pienamente vissute: Parigi, Roma Napoli, Monaco e altre ancora. Localizzazioni essenziali per celebrare e lasciar dispiegare i singoli momenti e incontri. Con calore o freddezza, certamente con poetici collegamenti. I viaggi e le vite si sostanziano. Nel mentre le disparate sofferenze si attutiscono o si aggravano. E i disguidi si mescolano (all’amore, alla fiducia, alle stratificazioni poetiche, al dissapore, alle scelte di lontananza).
In un breve discorso introduttivo la Beckermann ha voluto dichiarare come fosse interessata a costruire nuove modalità per integrare la letteratura, arrivando a fare cinema. Quello che ha ricomposto, con tocco lieve, non appariscente, è in fondo un breve viatico, una mappa di varchi esistenziali.
La scelta del sussurro per le parole finali, pronunciate dall’attrice, va a circoscrivere probabilmente il vuoto provato da Bachmann dinanzi alla morte di Celan, la cui vita - sospensione si concluse nel fiume.
Il film ci lascia riflettere sulla qualità dell’essere sognati e, d’altra parte, sulla possibilità di trasformarci o vivere in quanto “esseri sognati”. Sono affidati alla nostra conoscenza i versi di entrambi e le diluizioni delle reciproche esistenze.
Emerge inoltre un invito: quello di saper vivere la parola, percependone l' essenza sottile, ma al contempo palpabile. Una parola che può farsi donazione e, in quanto tale, permanere seppure con una variabile e mutevole significatività.
Gli altri due film presentati all’interno della rassegna sono stati: Mutzenbacher (2022) e Waldheims walzer (2017).
 
Anna Laura Longo ( dicembre 2022)

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- Musica

Nel sussurro perdurante di Éliane Radigue

Una musica ondosa, quasi "denudata", quella di Éliane Radigue, dove un' interessante estenuazione diviene parte integrante del discorso, in vista di una costante fluidificazione degli elementi minimi, i quali risultano paradossalmente  appariscenti, pur avvalendosi di una natura eterea, quasi scorporizzata.
 
Viene data, per scelta, un’estensione al suono, continuamente coltivato, in parte anche abbracciato nella sua essenza, che pur sempre rammenta l’eco di un soffio o risucchio primordiale.
 
Il timbro anticorrosivo si unisce a un tocco di instancabilità (quasi insaziabilità) nella gestione delle durate. È in una tale prospettiva che viene a generarsi un effetto di sottile coibentazione per l’ascoltatore, che risulterà immerso in un sapore e quasi in un sussurro di carattere perdurante.
 
E così il suono, imbevuto di tali ingredienti, sembrerà sottoposto quasi a inseguimento. Risulterà essere “trasportato”, più che prodotto, dallo strumento che, volta per volta, verrà coinvolto nell’esecuzione, con movimenti e arricchimenti che tenderanno a non ledere l’imperturbabilità e l’avvenenza del gesto minimale.
 
Tra i titoli da ricordare ritroviamo sicuramente Occam Océan, un ciclo di opere strumentali su cui la compositrice lavora da circa un decennio.  È emblematica la versione orchestrale, ma di questo ciclo esistono diverse versioni per strumenti solisti o ensemble.  
 
È demandato dunque al tempo l’insaporimento del tessuto sonoro. Ci riferiamo in primis al tempo ineludibile di svolgimento.  E malgrado sembri stanziale questa musica tuttavia si mobilita felicemente proprio situandosi tra accrescimento e spaziosità, garantendo – anzi- alleanze tra le due componenti. Un vero e proprio sconfinamento sonoro che si sviluppa mediante la ricerca di una trascendenza.
 
La musica di Éliane Radigue è un corpo stabilizzato, capace di incedere con adeguata e sostanziosa lentezza, ma al contempo con sobrietà trasmissiva.
 
Ogni brano può considerarsi una lunga vicissitudine, che vive in assenza di infiltrazioni e turbamenti esogeni. L’orecchio non dovrà mancare di aver premura, addentrandosi nei circuiti interni, senza smania o pressione, senza esigenze articolatorie di tipo quantitativo.
 
È per questa ragione che il finale, il più delle volte, sembrerà non infrangersi contro il fondale del silenzio. Più che un vero arresto, esso apparirà come il frutto di un riassorbimento: una fagocitazione attuata o impressa dalla realtà circostante.
 In assenza di nodosità o deviazioni risulterà interessante assistere a una plasmazione di libertà sommesse e propizie.

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- Musica

Suono saldo, magmatico, proiettivo in Fritz Hauser

 

 

Un suono saldo, magmatico, proiettivo si ritrova in Fritz Hauser, percussionista e compositore svizzero nato nel 1953.

Le sue sono percussioni vive e trascoloranti, mai prive di fragranza e di libertà espressiva rigenerante. Affidarsi quindi alle “lavorazioni” sonore da lui create vuol dire introdursi, fondamentalmente, in una padronanza calma e multi-sfaccettata, che non disattende mai l’ascoltatore e che conduce, anzi, verso una qualità di rapporto osmotico, che riguarda il suono, il tempo, lo spazio, il silenzio. Un silenzio accarezzato da vivacità o al contrario impreziosito da un alone meditativo. Gli ingredienti messi in campo si uniscono a definire, in ogni caso, un’esperienza sonora ed estetica protesa verso una compattezza e una significanza.

Le caratteristiche appena enunciate sono nell'insieme racchiuse nel CD Spettro, apparso per l’etichetta Neu Records (2020).

Siamo abituati a pensare al suono e al gesto percussivo come a un qualcosa di fragoroso e impattante, ma, evidentemente, esso potrà esistere e delinearsi anche attraverso il sussurro, per poi sfociare in forme di dileguamento. La qualità - nello spegnimento del suono - rientra certo tra le componenti da seguire e ispezionare.

Molte delle esperienze compiute da Fritz Hauser sono per l’appunto intrise di approfondimenti e immersioni nel silenzio: sono pratiche indagatorie tese a scorgere sottigliezze e persino invisibilità.

Di fronte a tali risultati l’ascoltatore non potrà che trovare un variabile assestamento, arrivando a percepire come, in fondo, ogni suono possa emergere come una vera e propria protuberanza, in grado di liberare una risonanza emotiva adeguata. È appropriato, in fin de conti, parlare di emersione a proposito del suono forgiato da Fritz Hauser o, in alternativa, metterlo in relazione con l’immagine di una leggera detonazione.

Il tutto è accompagnato costantemente da un’esigenza di configurazione dello spazio. L’intenzione e l’invenzione sonora, in tal senso, si alleano in direzione di questo parametro al punto che lo spazio stesso, volta per volta, risulta essere re-interrogato e portato a un buon livello di esplicitazione  delle proprie potenzialità e risorse.

Accanto ai récital solistici sono molte le vicinanze stabilite e le sintonie artistiche cercate con linguaggi ulteriori, in primis la danza.

Si potrà qui ricordare la performance realizzata con la danzatrice e coreografa Anna Huber (Umwege), dai toni fortemente astratti e geometrizzanti e dove, più che mai, la componente architettonica si dimostra imperante e influente.

Restando nel novero della speculazione coreografica ma riapprodando all’oggi, si potrà menzionare il DocuFilm trasmesso per Piemonte dal Vivo e in cui Hauser, affiancato dall’ arpista Estelle Costanzo ha avuto modo di rivisitare il suo Schraffer ( Sgraffito ) unendosi agli atti performativi di Marta Ciappina, Silvia Gribaudi, Manfredi Perego, con i danzatori del Balletto Teatro di Torino.

Con Sergio Armaroli, vibrafonista e percussionista, sono stati portati a compimento ulteriori progetti, restituiti anche in veste discografica.

Anche nei lavori collaborativi resta evidente una grande permeabilità nel modo di vivere e affrontare la vicenda sonora, dal punto di vista corporeo e non solo. La morbidezza nella componente gestuale, l’uso fluido del polso o dell’avambraccio, a loro volta sostenuti dalle spalle e dal capo, celano un’interessante fluidità del pensiero.

Non resterà che disporsi in ascolto e perseguire un adeguato inabissamento nella musicalità flessibile - e direi particolarmente tangibile - di Fritz Hauser.

 

Dicembre 2020

© Anna Laura Longo - 2020

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- Danza

Un’attestazione di esistenza

Un’attestazione di esistenza nelle apparizioni corporali di Lia Rodrigues

di Anna Laura Longo

Undici performer formati a Rio de Janeiro, nel Complexo da Maré, celebrano la speranza e una gioia di natura combattiva, liberando vigore e intensità. Questo il sunto di Encantado, il nuovo lavoro coreografico di Lia Rodrigues, artista brasiliana nota a livello internazionale per il suo attivismo attraverso la danza. Costantemente toccata dalle disuguaglianze di carattere socio-economico la Rodrigues, volta per volta, porta alla ribalta alcune delle principali incongruenze sociali e politiche, provando con forza a denunciare quelle che sono le scelte improprie, restrittive e il più delle volte inadeguate dei governi, arrivando ad affermare come a tutt’oggi i valori democratici siano distrutti o decisamente in pericolo. Lo spettacolo ha esordito a Parigi, nella Salle Jean Vilar del Théâtre National de Chaillot, durante il festival d’Automne, dall’1 all’8 dicembre 2021 ed è stato riproposto a Poitiers il 10 febbraio 2022 nel Théâtre Auditorium. Il presupposto in sala è offerto da un tripudio di colorazioni adagiate in terra, pronte a dare accoglienza a una varietà di apparizioni corporali che si ammantano di un forte senso celebrativo del vivere e del resistere. Il titolo fa esplicitamente riferimento ad alcune entità tratte dalla cosmogonia afro-amerinda, che vivono tra cielo e terra e al contempo risultano essere intimamente legate alla natura. A prescindere dal valore puramente scenografico, le innumerevoli coperte dispiegate in terra raggiungono immediatamente un alone di dignità ulteriore, trasformandosi in vere e proprie presenze, soprattutto quando apprendiamo che esse stanno a ricordare a tutti gli effetti le coperture offerte ai poveri in strada come protezione. Proprio attraverso tali riquadri di stoffe i corpi si sostanziano e acquistano magnificenza e libertà, privilegiando continue forme di emersione o riemersione.  Tra vestizioni e ritmi incombenti si sviluppa in modo suadente il dettato coreografico, che agevola un’intensificazione espressiva graduale, in cui la prossimità è certamente parte integrante del discorso. Accensione e connessione (tra corpi e spazio) sono due termini che potrebbero descrivere e sintetizzare il messaggio implicito sottostante. La copiosità dei colori conduce a tratti verso un’invenzione di forme anche animali, in cui i corpi nuovamente rispondono a un imperativo saldo di aggregazione. Tutto acquista potenza e fierezza. Si avverte quasi un “odore “di fierezza incombente. Anche i copricapi si immettono nei flussi danzanti, a mo’ di raccoglitori di energia. Quell’energia si dirama dagli arti inferiori, che manifestano un forte ancoraggio al suolo. Le anche rappresentano invece una magica zona di spartizione per il realizzarsi di libere fluttuazioni, mentre le braccia in alcuni momenti cruciali si sollevano nell’atto di lanciare i tessuti e gli abiti sparsi, con estrema propensione a un rilascio di forze liberatorie. Un’apparente polarità sembra disgiungere i corpi in zone distinte. In realtà non si prospetta mai un dualismo ma, al contrario, una vera unificazione nell’impostazione costruttiva: un unicum in vista della creazione di un’insolita area paesaggistica emotivamente impattante. Elaborato nel contesto della crisi sanitaria lo spettacolo promuove e rilancia una prospettiva audace, vale a dire un’aspirazione a una dinamica collettiva, con riflessioni evidenti sul nostro avvenire. Le musiche sono degli estratti di canti di scena dei componenti del Peuple Guarani Mbya, elaborate durante le manifestazioni avvenute a Brasilia nell’agosto del 2021 per il riconoscimento delle loro terre. Ogni istante nel lavoro di Lia Rodrigues è sostanzialmente un’attestazione di esistenza. La sensazione è che il disegno coreografico possa sfuggire a un flusso regolativo stringente, spingendosi invece verso un segno oltremodo aperto e a dir poco ondoso.  Spicca accanto ai colori la dignità degli sguardi che contribuiscono di gran lunga a generare sostanziosità contenutistica. Essi riescono anzi a lasciar scorrere un’indubitabile verità, che si proietta facilmente nelle movenze. Si potrebbe parlare di una lingua naturale corporea che conduce in direzione di una trasparenza e di una “traspirazione” originaria. Quasi una possibilità di conoscenza riassuntiva del mondo, in virtù della quale il movimento diviene pronuncia. Una pronuncia estesa e persuasiva. Non riscontriamo solo un mantenimento, ma uno scorrimento di vita. In tutto ciò la spaziosità ricreata garantisce compattezza e fluidità, caratteristiche queste che possono appartenere evidentemente al nostro esistere, al nostro essere al mondo. Le stratificazioni simboliche divengono dunque una vicenda culturale unitaria. E così si fa strada la possibilità di costruire uno sfondo ideale per delle relazioni possibili e - perché no-  auspicabili. La questione dello spazio si pone qui in termini di “vibrazione” dello spazio stesso e, come già accennato, necessariamente va a generare e incrementare connessioni fluide, trasudanti, esplosive. Encantado è in sintesi uno spettacolo animato da un’urgenza di umanità, per questa ragione il tempo in cui esso va a inscriversi non può essere tenue o insapore. La costruzione architettonica non è altro che una generosa risposta all’esigenza di trasmissione del valore dell’amabilità. Una richiesta di premura per gli individui e per il loro esistere. Si avvertirà un’eco di ciò che si agita e si respira nella favela. In concomitanza con lo spettacolo portato a Parigi si è svolta la presentazione del libro intitolato La passion des possibles (éditions de l’Attribut), disponibile in lingua francese e curato da Isabelle Launay e Silvia Soter. Il volume celebra i trenta anni di carriera della coreografa e della compagnia, muovendosi tra le frontiere della creazione e dell’improvvisazione, descrivendo con dovizia di particolari un quotidiano creativo e tumultuoso, intessuto di relazioni tra le arti (danza, letteratura, arti plastiche), mai disconnesse da un possibile ruolo sociale più o meno sotteso. Si tratterà quindi di affacciarsi sul crinale di una danza che sembra in realtà non avere un compimento, ma un’impronta evolutiva toccante.

 

 

 

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- Musica

Inatteso e denso viatico

Inatteso e denso viatico

( Riflessioni sui tragitti compositivi di Edu Haubensak)

Il suggerimento di ascolto odierno vuole portare l’attenzione su un interessante brano di Edu Haubensak risalente all'anno 2013.

Octaves for four ( Klavierquartett) è propriamente una composizione che si muove tra parallelismi e stratificazioni sonore solidamente ambigue, attraverso un sostare – circostanziato- su singoli elementi, su singoli suoni, che si traducono in reiterati appoggi.

Il tessuto dialogico vede interessati gli archi (violino, viola, violoncello) e il pianoforte. Gli strumenti, con e senza scordature, sono nell’insieme coinvolti in assillanti, ma corroboranti, suoni e passaggi ripetitivi, che si accendono e si moltiplicano attraverso sostanziali forme di calibratura - a volte anche di attutimento -  dei movimenti intervallari. Si profila dunque per l’ascoltatore una percorrenza costantemente nutrita di sovrapposizioni e di originali andamenti pluri-lineari che, a loro volta, lasciano germinare una ricerca di relazioni armoniche decisamente nuove.

Musica del segmento, si potrebbe dire, che richiama alla memoria la poeticità del frazionamento, la bellezza e la singolarità racchiuse nella variabilità di un inciso. Le condizioni di avanzamento sono inoltre suffragate e alimentate da scarti dinamici il più delle volte immediati, ma non manca il fascino e il prezioso dosaggio sfoderato in vista di un magnifico crescendo, seguito da immancabile diminuendo. È proprio questa libertà dinamica, sottilmente accentuata, che offre spazio a suoni -punteggiature.

Risulta invece trattenuto su un piano alquanto minimale lo sviluppo ritmico: fatto questo che conferisce al brano una certa purezza di paesaggio, anche laddove sia stridente il tocco o squisitamente dissonante l’incastro tra le voci coinvolte.

Arrivano con effetti di sorpresa le “striature” portate dagli archi che evocano vere e proprie urla.  Le risposte pianistiche sono a volte ansimanti: è dilagante e variamente latente il sapore di una profondità del cercare. Un cercare delicatamente spasmodico, che include un desiderio di scoperta.

In tal senso potremmo definire questa musica fortemente interrogante, oltreché iterativa. Gli istanti di vuoto che vanno a plasmare le alternanze tra gli strumenti, subentrano, strada facendo, con l’elettricità viva che contraddistingue i suoni, di cui divengono infatti attraenti elementi dirimpettai. Pur nel dialogo il pianoforte conserva una sua misteriosa estraneità, quasi un’imperturbabilità sapiente. In alcuni specifici momenti il brano guadagna un taglio e una forza espansiva imprevedibile e il senso di straniamento si fa più facilmente accentuato e incalzante.

Sarà utile, di pari passo con l’ascolto di Octaves for four dedicarsi alla conoscenza di No Reality (2018) : brano apparentemente depotenziato, dal punto di vista della forza e dell’impatto sonoro, ma invece carico di fascino in virtù delle qualità implosive e delle sonorità liberamente evanescenti e poetiche. Trattasi in quest’ultimo caso di un quartetto con pianoforte e percussioni.

Tra sorprendente incisività e interessante vaghezza la musica può trasformarsi e assumere fattivamente le sembianze di un denso e inatteso viatico.

 

 

 

 

 

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- Musica

Suggestioni dal festival ManiFeste di Parigi-edizione 2021

Ariadne e dintorni: suggestioni dal festival ManiFeste di Parigi- edizione 2021

di Anna Laura Longo

L’ascolto di Ariadne di Maurizio Azzan  (per voce, 5 performers ed elettronica live), immette all’interno di una visione della composizione da concepirsi come ingranaggio. C’è un’esuberanza implosiva che accompagna il percorso strumentale, nelle cui spire la voce sopraggiunge come un corpo vivo, e sembra timbrare volta per volta lo spazio, esercitandosi a coinvolgere gli ascoltatori in imprevedibili apparizioni e scomparse. Il mantenimento di un assetto per lo più anti - declamatorio, rende riconoscibile la tensione espressiva soggiacente. In vari momenti essa viene ad essere però scaldata o corroborata dalle “incorporazioni” elettroniche. Prevalgono di fatto le sezioni che lasciano trapelare urgenza e allarme, modulate mediante un suono di taglio post-industriale, quasi iper-urbano, ma non mancano capsule di riposo e di arrotondamento delle spigolosità affioranti. Il tragitto vive, nel complesso, di interpolazioni vibranti, sostanziandosi in una durata di circa 35 minuti. Si potrebbe sinteticamente parlare di una creazione di arcipelaghi sonori, che si ritrovano ad attivare una manutenzione libera dell’inesausto fascino mitologico, portatore di possibili ascendenze e derivazioni. In un tempo in parte informe o disancorato dal sogno inseguire Arianna potrebbe voler dire inseguire (o dimenticare) se stessi? Le risposte resteranno puntualmente racchiuse o incapsulate nei vortici della musicalità generata e, di fatto, attingibile. Avvicinandosi gradatamente al varco conclusivo di questa composizione si potrà comunque notare come la voce, innalzandosi con generosa asimmetria, tenda ad apparire maggiormente lacerata, quasi volesse restituire un condensato di esperienza vitale, un approfondimento stuporoso del proprio esserci. E la vulnerabilità vocale chissà che non possa procedere di pari passo con la vulnerabilità tipica del nostro (non certo nitido) frammento epocale. Il concerto svoltosi presso il Theatre de Gennevilliers  T2G  il 17 giugno 2021  ha avuto come interpreti la cantante solista Anna Piroli (soprano), l’ensemble Schallfeld, e l’IRCAM per la realizzazione elettronica. Il programma è proseguito con il brano di Rachel Beja intitolato   Frammenti di memoria abolita. Una composizione agile, caratterizzata da integrazioni continue tra aspetti di variabilità e di invariabilità o sospensione, con sorprese uditive per lo più diluite e frammentate – come recita il titolo stesso -nel corso dei 15 minuti di durata. Il brano commissionato da IRCAM - Centre Pompidou e da Divertimento Ensemble ha inoltre ricevuto il supporto di ULYSSES. Ad arricchire il tutto ampie sezioni dedicate a Beat Furrer . Nello specifico è stato predisposto un intervallo nella prima sezione del concerto caratterizzato da Nuun per due pianoforti e ensemble (1996) in cui la vertiginosità intrigante e imbevuta fortemente di modernità viene ad essere supportata da slanci incalzanti di natura percussiva. E a seguire Fama , opera in otto scene del 2004-2005. Il brano conclusivo del concerto- ancora una volta di Beat Furrer- è stato Aria, per soprano e sei strumentiPredominante, in questo caso, l’inarrestabilità e l’impatto scalpitante e davvero dinamico generato dal fluire dei suoni. La voce è tornata ad essere il fulcro, anche da un punto di vista emotivo, apparendo scandagliata e sottilmente indagata mediante un ventaglio di possibilità inesauste, necessarie per sottolineare i momenti di separazione, di liberazione e di solitudine. Tutto sorge infatti da un testo definito dal compositore stesso “lettera d’addio”, da cui si dipana una sovrapposizione di snodi narrativi decisamente ricca ed esaustiva, con un trattamento eterogeneo dei materiali e dei codici compositivi. A partire da frammenti spesso elementari e nitidi, matura infatti, strada facendo, un processo fluido di mutamento, che conduce in direzione di una complessità funzionale  a descrivere la significatività di una  parabola di evoluzione.

 

 

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- Arte

Nuove forme di territorialità nelle pagine

Lino, garze, elastici, eco-pelle o pelle, ovatte stratificate di carattere multiforme e segmenti metallici: una vera e propria commistione di materiali assemblati nel tentativo di lasciar disciogliere forme e forze poetiche, distribuendole a ridosso di pagine inusitate, potenzialmente colme di sorprese.

Questo l’assunto di base per sviluppare itinerari di scoperta, rigenerazione e trasformabilità per quanto concerne l’oggetto –libro, coniando inoltre diciture apposite e circostanziate, destinate a offrire specificazioni in relazione a ciascun esemplare o raggruppamento. L’idea dunque è quella di passare, con disinvoltura, dai libri-organismo ai libri-radura, dalle foreste sfogliabili ai libri-insorgenze, dai libri-scrigno ai libri-dispositivo, definiti volta per volta da una territorialità esclusiva e variamente attraversabile, sul piano visivo e soprattutto sensoriale.

Sul concetto di pagina –suolo è il titolo del progetto nella sua interezza, ma ciascuna opera si ritrova ad avere un carattere decisamente a sé stante ed è quindi portatrice di un ulteriore titolo emblematico: In un singolo punto nodoso/ Studi sulla curvatura della linea-verso (2018), Atterraggio lunare n.1 (2019), Vision Blanche (2020), Cloroplasti (2020).

L’intento è sostanzialmente quello di generare un incremento di suggestioni, in direzione di una valorizzazione delle profondità percettive, contemplando un’apertura verso le aree dell’inatteso e del sommerso. La sperimentazione intorno a pagine di tipo monocromatico, strada facendo, ha condotto verso studi ulteriori riguardanti l’aspetto dimensionale, giungendo a nuove formule e teorizzazioni di libri astratti /relazionali (Avanstrutture, 2021). Una sezione a parte è dedicata ai libri-mono-pagina, dotati di bastone in legno, da parete o da sospensione, intitolati Permutazioni (Folium 1, 2 e 3), che trovano ispirazione nelle fattezze e nella sfogliabilità tipica dei quotidiani, restituendo esplorazioni inedite attraverso tipologie di scritture atipiche. Vanno infine ricordati i libri-stendardo di grande formato (tra cui Lurex, 2019), che comportano un coinvolgimento ampliato dal punto di vista della corporeità. Si potrà cogliere in ciascuno dei lavori citati una particolare impronta vibrazionale, un sottile mistero. Per alcuni esemplari è prevista un’esperienza di “avvolgenza sonora”, vale a dire la possibilità di ascoltare in cuffia un brano pianistico sperimentale, variamente associato ai contenuti del libro in questione. Molto hanno viaggiato tali libri-opere a livello internazionale, con esposizioni in Italia, Francia, Germania, Turchia, Polonia, Svezia, Messico, Martinica e Canada.

Il prossimo appuntamento è previsto a Firenze, presso Kùthà Arte & Libri (Via Celso n. 12/r), dove si potranno sfogliare le pagine di In un singolo punto nodoso e conoscere inoltre i volumi di poesia e di ricerca sulla parola-suono Procedure esfolianti (Manni) e Nuove rapide scosse retiniche (Joker). Da metà maggio 2021 siete ufficialmente inviatati a organizzare una visita in libreria e a predisporvi liberamente verso un sommovimento poetico.

                                                                                                                         

www.kutha-artelibri.com                                                                    www.annalauralongo.com

 

 

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- Musica

Strategie di agilità in Betsy Jolas

Strategie di agilità in Betsy Jolas

di Anna Laura Longo

Ritroviamo una densa integrazione esplorativa in Frauenliebe di Betsy Jolas, 10 lieder composti per viola e pianoforte, in cui la voce viene solo evocata.

Una composizione trattenuta fondamentalmente sul crinale della condensazione e inquadrabile nei margini di una poetica non espansiva, “visivamente” priva di sporgenze o eccessi di voluminosità.

È prevalente infatti una cantabilità spoglia (esente da ridondanze) e un periodare che in gran parte reinventa, ma non disintegra, il passato.  Episodi concatenati, che potremmo definire varchi sonori, ci consegnano una sorta di strategia di agilità.

Nel primo brano, intitolato Sola facta est, la vicenda sonora ripetutamente cerca un culmine provvisorio e si nutre di riprese e cadute, di postille e micro-rifacimenti svariati, che si proiettano nel complesso verso un arresto nitido e perentorio. Quest’ultimo apre facilmente la strada al secondo brano (Pochoir), che si sviluppa mediante un’atmosfera roteante, ma non vorticosa, quindi facilmente afferrabile e quasi controllabile dall’orecchio in ascolto.

Nel terzo lied, intitolato Jewels, si evidenzia invece un approccio alla materia sonora fantasiosamente diversificato, pur restando nella brevità, come se la musica avesse tratti somatici mutevoli da mostrare e da liberare. Si palesano infatti nella viola abbellimenti e frammenti multiformi, posti spesso in contrasto con la staticità dell’accompagnamento pianistico.

E arriviamo dunque al quarto squarcio musicale, Compitines, dove di pari passo con la plasticità delle articolazioni pianistiche si muove la viola tendendo con gradualità verso gli acuti, per poi recuperare territori inattesi di gravità. Gli staccati pianistici e gli accordi disseminati contribuiscono qui a lasciar disciogliere una struttura stringente che poi si stempera, ripresentando infine nuove incursioni (quasi spedizioni sonore) inattese.

In Gémeaux (n. V) l’approccio col suono diviene moderatamente languido e gli strumenti sono indotti a brillare o ad ammantarsi di mistero, valorizzando i reciproci rispecchiamenti. Cellule vaghe e lamentose lasciano risaltare la decisionalità ritmica che torna a pervadere il lied n. VI (Pochoir /duoble), dove si esplicita una particolare cura nell’impostazione della tessitura dialogica, una consapevolezza nel controllo dell’impasto duale. Molto espressivo il brano n. VII (à 2 molto espressivo): un’autentica zona di raccoglimento dove un nuovo corpus di rispondenze espressive trova maturazione, svelando un terreno decisamente dissodato e quindi un suono altrettanto libero, solcato da ampiezze e diradazioni.  Alcuni passaggi struggenti, quasi assetati di dolcezze, recuperano strada facendo stringatezza e rigore, conducendo sulla soglia della pagina inquadrata dal titolo Morning  canticles ( n. VIII) di cui ci avvince la continuità e la ricorsività affidata al pianoforte, su cui si affacciano lunghi suoni di viola –  come sfondi pianeggianti - che conducono verso un finale con effetto di scomparsa.

Con Sehr Lebhaft (n. 9), giungiamo alla penultima incursione sonora, attraversata da dinamismi di carattere episodico, da passi fibrillanti e da destabilizzazioni fraseologiche alquanto flebili. Effetti fugati e rincorse risultano essere, in questo caso, ingredienti salienti.

L’incipit di Non nova sed nove palesemente affonda nei bassi e nelle zone di oscurità pianistiche, includendo e lasciando scorrere una certa trepidazione interna. Gli strumenti sembrano a questo punto protesi verso un traguardo cercato, per possibili rivelazioni o sorprese.

Poco più di venti minuti di musica con rapidi sprazzi incendiari, volta per volta riconvertiti, rifocillati e rimodulati da spazi di cantabilità aperti e minutamente differenziati.

Una varietà suggestiva che ci offre quindi veri e propri scatti fotografici, tradotti in termini di suoni e di delineazioni ritmiche e armoniche, con una naturalezza evidente tra piani di convergenza e zone d’ombra riguardanti i due strumenti chiamati in causa.

Una musica che, nell’insieme, non rilascia alcun sovraccarico: un itinerario trasparente e rapido di apparizioni sonore.

 

 

 

 

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- Arte

Tra domesticazione ed estetiche di resistenza

Tra domesticazione ed estetiche di resistenza

Quanto l’istituzionalizzazione e la burocratizzazione pesano sulle scelte e sull’operatività artistica in generale, spingendo verso una banalizzazione delle estetiche di resistenza?

Per sfuggire a un vero e proprio addomesticamento delle arti continua ad essere necessaria un’efficacia combattiva, sul piano delle idee e delle pratiche.

Tali tematiche vengono diffusamente prese in considerazione e affrontate nel nuovo numero del Journal de l’ADC (n. 78), pubblicato dall’Association pour la Danse Contemporaine di Ginevra e disponibile in lingua francese.

Mantenendo saldo l’assetto dei numeri precedenti la rivista si presenta con un doppio dossier arricchito da rubriche, recensioni e articoli vari. Il tutto corredato dalla copertina e da alcuni disegni interni di Lisbeth Gruwez. Nell’insieme si prova a raccontare e dare testimonianza di una scena aperta, vivente, a tratti polemica, convocando artisti e non ad esprimersi su ciò che ci attraversa e ci connota artisticamente – e forse ambiguamente - nell’oggi. Una critica dell’istituzionalizzazione dell’arte intesse nel complesso il dossier intitolato Domestication.

L’intervista di Alexandre Demidoff a Luca Pattaroni viene emblematicamente intitolata Artistes en liberté conditionnelle: si ripercorrono sinteticamene le tappe della storia della controcultura, con riferimenti graduali agli anni ’60 - ’80, sino ad arrivare ai nostri giorni. Nello specifico Pattaroni espone alcune delle sue principali idee, confluite nella recente pubblicazione collettiva e riccamente documentata Art, espace et politique dans la ville gentrifiée. La contre-culture domestiqée ( Metispresses). Il potere contenstatorio - a detta di Pattaroni stesso-  è stato ampiamente indebolito o disinnescato in quanto la controcultura, in qualche modo, ha integrato un ordine che ha prodotto delle ambiguità. Soprattutto l’istituzionalizzazione ha portato a ciò. Questo processo viene chiamato, per l’appunto,  domestication. Un termine di certo terribile, ma probabilmente chiarificatore. Lo spazio ha giocato - e gioca tuttora- un ruolo essenziale. La metamorfosi spaziale e politica delle città europee diviene in tal senso un interessante oggetto di indagine.

L’ideale di autogestione - e più tardi di partecipazione- si è mosso, nel passato, di pari passo con un’ebollizione intellettuale e artistica quanto meno cangiante. Oggi paradossalmente gli spazi sono molti, ma il fatto che siano soggetti a una pressione regolamentativa, talvolta sterile e controproducente, finisce per rendere i progetti, le pratiche, le realizzazioni alquanto spente o depotenziate sul piano fattivo, con un ridimensionamento e persino con un’inibizione dello slancio ideativo e  creativo. La proliferazione di certificazioni, indicazioni, bandi, autorizzazioni, associata alla securizzazione del perimetro, ha di fatto lasciato prevalere per l’appunto un atteggiamento e una mentalità inibente, a volte nefasta. C’è da riflettere quindi su quali possano essere, soprattuto a lungo termine, le conseguenze in termini di subordinazione ideologica e operativa.

Il sistema di controllo amministrativo ha coinvolto, non sempre proficuamente, gli ambiti della formazione, promuovendo talvolta una professionalizzazione della cultura per certi versi povera, “plastificata”, purtroppo carica di energie di spegnimento. Anche i finanziamenti e le sovvenzioni hanno paradossalmente contribuito a ciò, inserendo l’intero discorso in un circuito di economizzazione o, potremmo dire, in un’esigenza di economizzazione tale da oscurare ulteriori aspetti di rilievo. Viene in sostanza ribadito nella rivista come continui ad essere davvero urgente difendere e mantenere un approccio critico e sperimentale, imbastendo nuove lotte e avviando ipotesi e ricerche.  Lo spazio dovrà ritrovare da questo punto di vista le sue  forze vive, per poter inventare libertà. L’intervista di Cécile Simonet, intitolata L’esprit des lieux a Gregory Stauffer si sofferma su tale aspetto.

Vengono analizzati e portati alla ribalta i risultati e i percorsi di alcune città, ad esempio Ginevra, Lisbona, Lubiana, attraverso le ricerche di Cecilia Carmo, la quale mette in luce un nuovo regime di post contro-cultura, nel quale le questioni urbane e culturali risultano essere indissolubilmente associate. E ancora  Jill Gasparina  si esprime  sulla particolarità di esperienze legate a Bienne, città bilingue a cavallo della frontiera linguistica tra la Svizzera tedesca e quella francese. Rinforzare la potenza e la responsabilità del gesto artistico, all’interno dei teatri, dei festival, delle scuole o dei luoghi di formazione resta un compito da perseguire, una preoccupazione di cui ci rende partecipi Anna Chirescu, intervistata da  Mathilde Monnier, con un’incitazione a riunirsi e pronunciarsi su ciò che non va. La seconda sezione del dossier Domestication ruota intorno al nome di Laurent Cauwet, di cui viene presentato il libro La domesticaion de l’ art. Politique et mécenat (La fabrique). Un contributo di Annie Suquiet conduce infine in direzione di un ripensamento delle filosofie e delle pratiche meditative zen, diffuse in occidente, tra gli altri, da J. Cage e M.Cunningham  e incentrate, com’ è noto,  su una valorizzazione del presente. L’incrocio tra le perturbazioni dell’azzardo e le possibilità di controllo disciplinato spingono a riconfigurare e radicalizzare il gesto artistico, che sempre più diviene un’operazione di comprensione del vivente. Nella danza si compie, proprio attraverso Cunningham, una degerarchizzazione  e decentralizzazione nell’utilizzo  dello spazio:  i campi di forze possono prodursi non importa in quale punto. Liberare l’immaginazione da qualsivoglia cliché si rivela un’avventura meravigliosa. E così, nell’editoriale firmato da Anne Davier e Michèle Pralong, viene suggerito di proseguire a concentrarsi sull’istante, sull’ ascolto, sull’accoglienza. Per comprendere (veramente comprendere) quale sia il senso di un processo permanente di trasformazione.

 

 

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- Cinema

Le proprietà armoniche in Ozu

Le proprietà armoniche in Ozu

di Anna Laura Longo

 

L’Istituto Giapponese di Cultura di Roma ha portato in questi giorni a conclusione la rassegna intitolata Vi racconto Ozu, dedicata al cineasta giapponese di cui ricorre il 12 dicembre l’anniversario univoco della nascita e della morte. Pur essendo sospesa l’apertura al pubblico dell’Istituto stesso, i film sono risultati disponibili in digitale, in versione originale con sottotitoli in italiano o inglese.

Le proprietà armoniche presenti nelle pellicole di Yasujirō Ozu – collocabili tra gli anni ’30 e ’60 - continuano a condurci flessibilmente tra derive e incubazioni temporali, all’interno delle quali si disciolgono in forme molteplici le vite e i contatti esistenziali. Tutto avviene nel segno del mutamento.  Tra passaggi e maturazioni più o meno significative ogni accadimento, seppur flebile, diviene uno squarcio carico di rilievo, in grado di stagliarsi dinanzi alla vista dell’osservatore, senza tracce di stravolgimento.

Nei confini di una concezione geometrica ammaliatrice si riversa un alone di pacata intensità. Quasi una mobilitazione poetica prende corpo e lascia spazio alla circolarità delle esperienze, avvolte da tracce di vaghezza o sospensione, o ancora plasmate dai risvolti temporali che si annodano tra forme di scorrimento o di apparente fissità. Il senso del divenire inquadra dunque posture umane differenziate, che perseguono o disattendono a volte i desideri e le aspettative più o meno recondite. Resistenza e arrendevolezza, dissolvimento o inseguimento delle speranze, coraggio o parvenza di libertà sono solo alcuni degli indizi rintracciabili e afferrabili nelle trame che variamente si dispiegano.

Lo sguardo resta in generale avvinto nei margini di una diramazione di gesti e sguardi, dialoghi e interazioni, dove gli ambienti, esterni e interni, connotati con sobrietà sapiente, divengono veri e propri luoghi sinergici, incunaboli di trasformazioni autentiche.

L’invito è certamente quello di tornare a scoprire ed approfondire le evoluzioni stilistiche riscontrabili in alcuni titoli salienti come Tarda primavera, Una gallina nel vento, Viaggio a Tokyo e molti altri, per situarsi e dare sostanza ad una calda e al contempo austera visione, presumibilmente rigenerante.

 

                                                                                                                                  Roma - 28 novembre 2020

 

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- Arte

Tangibilità, clamore e distanza-mistero

Tangibilità, clamore e distanza-mistero

di Anna Laura Longo

Calarsi fattivamente nella significatività o, ancor meglio, nel clamore più o meno accentuato determinato da una distanza può voler dire porsi su un piano di costante e perseverante attualizzazione dei suoi margini, dei suoi confini.

Per poter essere vissuta, conosciuta, percepita, la distanza richiede dunque di essere in qualche modo seguita e lasciata maturare nelle sue scansioni, nei suoi frammenti consequenziali. Questo fatto comporterà che si possa assistere, strada facendo, ad una vera e propria materializzazione, quasi ad un suo “farsi corpo”. La distanza del resto può riguardare primariamente i corpi, i volumi, gli oggetti, ma può trasformarsi essa stessa in entità corporea, in forma tangibile.

Potremmo in tal senso – e da subito -  ipotizzare l’esistenza di una presumibile distanza minima, tenue nel modo di presentarsi o incunearsi nella psiche e negli spazi della fisicità, (una sorta di distanza-filamento di natura evanescente) ma, di contro, considerare ed aver presente una distanza oltremodo proteiforme, massiccia, decisamente imperativa nel suo imporsi ed esplicitarsi, avente – soprattutto quest’ultima - un carico di ripercussioni evidentemente differenziate.

L’aspetto dicotomico tenderà a sorgere abbastanza spontaneamente, al punto che si potrebbe parlare della distanza come di un vero e proprio terreno di dicotomie, in parte insolubili. Di qui la possibilità di osservare come essa possa essere in taluni casi duramente imposta e in altri prescelta, possedere le fattezze di un’esperienza rigenerante o di contro dolorosa, essere in qualche modo evitata o invece perseguita e attesa.

La distanza, apertamente o nascostamente, avrà quindi un suo “schieramento”, un suo meccanismo tipico di affermazione e di svolgimento, quasi una peculiare linea di assertività interna, che emergerà in maniera per lo più netta o quanto meno distinguibile.

In riferimento alla comparsa di un grado minimo di distanza avrà qualcosa da dirci l’arte, che ha fatto spesso leva su tale elemento per porre in evidenza quei potenziali di tensione interna, degni di essere esplicitati in vista di una costruzione di espressività. Le arti visive tendono proprio a basarsi su un accentuarsi alterno di tensioni- distanze instaurabili tra forme e presenze: figure umane, oggetti, edifici e paesaggi, nei dipinti, così come negli impianti scultorei e nelle installazioni, vengono il più delle volte presentati come dirimpettai, disposti efficacemente facendo ricorso a criteri di avvicinamento o di distanziamento apposito o ancora offerti attraverso naturali o artificiose formule di sovrapponibilità.

Il celeberrimo Bevitrice d’assenzio, olio su tela realizzato da Pablo Picasso nel 1901 si basa proprio su una gestione alquanto sottile delle distanze e delle tensioni interne riguardanti le varie presenze  chiamate in causa (donna, tavolino, spazio, bottiglia ecc.) La drammaticità pittorica è conseguita in virtù di un’abile intersezione di forme e mediante uno stabilirsi preciso o apparentemente precario di relazioni emotive e al contempo spaziali. Potremmo arrivare a dire che la distanza minima sia, nell’ arte, il più delle volte un fatto di per sé vibrante, visivamente impattante.

Anche Alberto Giacometti nella sua opera L’oggetto invisibile affida alla distanza instauratasi tra le mani una pregnanza ineguagliabile. Trattasi infatti di una distanza necessaria a decretare un vuoto e tale da catturare lo sguardo dell’osservatore in modo a dir poco memorabile. Un discorso analogo potrebbe valere per Sfera sospesa, dello stesso Giacometti, in cui l’oggetto sferico è messo in relazione con una mezzaluna. I due corpi scultorei sembrano di fatto accarezzarsi, ma nella realtà producono un’impercettibile distanza, che definirei distanza-mistero, fortemente dotata di significatività.

Rosalind Krauss si è più volte soffermata su un ulteriore aspetto inerente la distanza, quello relativo alla fruizione delle opere da parte del pubblico, mettendo in evidenza i punti di svolta e i cambiamenti radicali verificatisi strada facendo.

Esemplificativa, a tale riguardo, l’installazione Sixteen Miles of Strings del 1942 realizzata da  Marcel Duchamp in collaborazione con André Breton, Sidney Ianis e R. A. Parker per la mostra First Papers of Surrealism, nella quale un intrico di fili tesi a mo’ di ragnatela va a rendere impossibilitante l’avvicinamento alle opere.

Scrive Brian O’ Doherty a proposito di quella particolarissima esperienza:

-          Quello spago che teneva i visitatori a distanza dalle opere diventò l’unica cosa che avrebbero ricordato. Anziché rappresentare un intervento, qualcosa che si frappone tra il pubblico e l’arte, a poco a poco lo spago si trasformò in un nuovo tipo di arte-.

Sono proliferate di fatto situazioni e costruzioni di allestimenti tesi a rigenerare o ingenerare nuove possibilità di senso, nuovi costrutti.

 

Ma, tornando con prontezza nei territori impervi della quotidianità e dell’esistenza, diremo che la distanza presenta, in fondo, le caratteristiche, la variabilità e l’intensità proprie di un accadimento composito: sia che ci avvolga, sia che punti duramente a fagocitarci, essa sarà dotata anche di un potenziale andamento, di una consistenza specifica.

La distanza tuttavia si insedia oltreché tra i corpi e nei gesti, nelle traiettorie variabili degli sguardi, nelle dinamiche relazionali e inoltre tra i suoni, nel campo aperto dei materiali udibili.

C’è stato un momento saliente nella storia della musica in occidente in cui di pari passo con un’emancipazione della dissonanza si è andato affermando un interessante allargamento della distanza intervallare. Fatto questo che ha condotto ad un acuirsi delle problematicità inerenti l’ascolto. Si è generato in sintesi un rafforzamento della drammaticità nel dettato melodico, che ha fatto guadagnare di certo fascino e tensione interna alla pagina musicale, generando al contempo una perdita di cantabilità. Dal Novecento in poi il sentiero si è reso oltremodo accidentato. A titolo emblematico potrei citare di Anton Webern il Klavierstück op. postuma, nel quale i cosiddetti intervalli congiunti sono radicalmente banditi: tutto avviene nel segno della disgiunzione e - appunto- dell’instaurarsi di distanza tra le altezze, tra i suoni.

Ci si potrebbe chiedere quanto – al di fuori della realtà musicale e sostando invece nei margini delle variabilissime realtà esistenziali- si possa parlare di una perdita di cantabilità proprio in presenza di uno stabilirsi di distanze più o meno accentuate. E quanto esse stesse possano (o sappiano) “risuonare”, producendo dissonanze o consonanze in relazione alla magmaticità degli eventi e dei vissuti personali.

Pierre Boulez nel suo Dialogue de l’ombre double non manca di dare un contributo ulteriore alla definizione di distanza, quando decide di far leva su una vera e propria dualità, riguardante lo stesso strumento: il brano è pensato per clarinetto solista e nastro magnetico. Il dialogo, dal punto di vista compositivo, trova svolgimento a tratti nella congiunzione, ma soprattutto nella disgiunzione e nella distanza tra le parti. Succede spesso infatti che il clarinetto solista dal vivo e il clarinetto registrato muovano e articolino le loro frasi su registri molto distanti.

Anche la danza tende a “impadronirsi” variabilmente della nozione di distanza. Trattasi di una distanza modellata sulla base di esigenze costruttive, che vanno a profilarsi di pari passo con la configurazione spaziale e con un agire sulla durata. Da questo punto di vista la distanza potrebbe essere considerata una forza motrice. Il fatto che il risultato del lavoro debba raggiungere lo spettro emozionale  conferirà margini di libertà sondabili, che sono in gran parte sconosciuti all’esperienza della quotidianità. Per contrasto, sarebbe qui utile ricordare la teorizzazione di una totale assenza di distanza sancita ad esempio dalla contact improvisation, nella quale i punti di contatto fisico tra almeno due danzatori divengono l’elemento ineludibile da cui partire per sviluppare esplorazioni fisiche e tessiture atipiche di movimenti.

La distanza andrà vista ad ogni modo anche come una procedura interna, non sempre misurabile o agevolmente scandibile e accertabile. Il suo estendersi, il suo protrarsi, potrebbe generare una naturalizzazione, un adattamento o ambientamento, come accade in alcuni semplici o complessi processi biologici. Non vi sono dubbi comunque sul fatto che essa possa essere non solo esperita, ma variamente introiettata.

Si potrebbe inoltre guardare alle distanze come a degli itinerari attraversabili. Molte sono le domande che potrebbero sorgere a tale riguardo. Anzitutto quanto tali itinerari-distanze possano essere compatti o friabili, spianati o disarticolati nel loro delinearsi, in quale misura possano produrre metamorfosi o stagnazione, come potranno essere “trascritti” o inglobati nella memoria di chi ne è - o ne è stato -protagonista e a vario modo partecipe. Volendo cercare un ulteriore appoggio in un’immagine potremo poi proporre l’ipotesi di una distanza – fondale. La dilatazione della prospettiva di sguardo aiuterebbe a far rientrare all’interno del nostro discorso una possibile coesistenza: quella tra avventura e crisi. Ritrovarsi ad essere perlustratori di distanze in definitiva potrebbe indurre ad incorporare diversamente il mondo, ad avere un ancoraggio inusitato con le cose e con le realtà esistenti, e produrre, di conseguenza, uno stanziamento di energie calibrato o adeguato per poter lavorare in vista di una stabilizzazione (o perlomeno di una titubanza momentanea), che si riveli, in qualche misura, produttiva. Il fatto che quello della distanza si configuri il più delle volte come un tempo di allarme, o corrisponda, di per sé, a un tempo di allarme, potrebbe condurre altresì a domandarsi quali siano o possano essere i criteri di percorribilità e vivibilità ipotizzabili. Non esistono di fatto risposte appropriate o dotate di validità intrinseca.

Esistono al contrario tracce di ambiguità rintracciabili, anzi vere e proprie forme di ombrosità che aleggiano e accompagnano il tutto. Il tempo precedente l’allentamento di una distanza probabilmente sarà pur sempre un tempo più o meno labile di incubazione.

Incubazione di un divenire diversamente avvincente e conoscibile.

 

 

 

 

 

 

 

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- Arte

Il colore come accerchiamento

Il colore come accerchiamento

Riflessioni sulle pratiche artistiche di Erica Mahinay

                                                                                                                        di Anna Laura Longo

 

 

Si potrebbe provare a guardare a un dipinto – o più in generale al piano pittorico – come a una sorta di podere atipico, dotato di una precisa estensione “coltivabile “ e, più che altro, di una specificità di raccolto. E tenendo fede a tale presupposto arrivare facilmente ad affermare come l’esercizio intrepido del colore, a patto che sia determinante e intensivo, possa per l’appunto rivelarsi un prezioso e ultradegno raccolto.

Nella galleria T293, situata in via Ripense in Roma, sino al 27 aprile 2019, viene dedicata una personale alla statunitense Erica Mahinay, artista che sensibilmente invita ad attraversare un itinerario basato sulla densità e peculiarità di una gamma di colorazioni, proponendole e lasciandole vivere in forma di avvincente “accerchiamento”.

Nella serie di opere presentate un tentativo costante di esplicitazione va a muoversi di pari passo con una celebrazione del recondito. Il senso quasi declamatorio delle sue “apparizioni” e condensazioni  cromatiche si affianca dunque ad una vitalità del mistero, incombente e imperioso.

Il segno si fa ad ogni modo produttivo e nel complesso si viene sospinti, ma in parte anche affidati, al coraggio di un’evidente e stabile persistenza: “celebrazione offuscata della continuità”.

Siamo soliti consegnare un attestato di esuberanza alle gradazioni del rosso, caricandolo di energia espansiva e di dichiarata assertività. Tuttavia in questo caso potremo osservare come il carminio, il rubino, lo scarlatto e il quasi-bordeaux, si facciano precursori e in parte messaggeri di ombre, catalizzatori di una qualche forma di ambiguità, certamente tangibile, anzi in grado di delineare i margini di un’affascinante e labile segretezza.

La verità transitoria delle tinte prescelte vive – e si incunea- nella semitrasparenza di un materiale come la seta, in svariati punti esposta a un trattamento di sfaldamento, con conseguente apposizione di vernici e con un’emersione di fili e impronte digitali, dove la mano - appariscente corpo/presenza- si ritrova con fermezza a custodire il contrasto flebile tra l’esangue e il vitale, il consunto e l’intatto.

Le caratteristiche fin qui elencate inquadrano e “tingono” in qualche modo anche il tempo di sosta di colui che guarda e prova a spingersi gradatamente nelle declinazioni estese della visione, immergendosi al contempo nei meandri aperti e sfuggenti della percezione stessa.  Il risultato conduce, con libertà, ad un rilevamento di aspetti oscuri o parzialmente difformi e a una possibilità di scorgere tratti tipici dell’irrisolto. Essi riconducono inevitabilmente verso l’interessante problematicità  e complessità del gesto artistico, frutto di un’intima disposizione, in questo caso  valorizzata e iper-scandita in vista di una riconsegna di sé.

Qualcosa si potrà dire anche sull’uniformità del formato, che chiaramente svela un’attitudine di caparbietà, aspetto questo che lascia in fondo guadagnare un passo più che unitario all’insieme.

A suo modo, anche la parziale visibilità del telaio, presente in ciascuna opera, sottolinea un’esigenza di apertura ulteriore verso la ricchezza e i limiti del visibile o, più in generale, verso i confini eterodossi della visibilità stessa.

Il tragitto in definitiva, tra compresenze, similarità e sorprese, accentua il nesso e le congiunture possibili che si snodano all’interno di un discorso di densità di rapporti (rapporti che interessano le opere in primis ma, a seguire, la capacità di attivazione degli sguardi).

Forme interlocutorie, ma lontane da una vera traducibilità, quelle della Mahinay: quasi delle ridefinizioni o contrazioni spurie del tracciato dell’esistente. Vicissitudini pittoriche che giustamente provano ad essere esenti da uno spegnimento di vita interna.

 

Luogo: Galleria T293

Indirizzo: Via Ripense n. 6 – Roma

Periodo di permanenza: sino al 27 aprile 2019

Orari di apertura: martedì/ venerdì h 12,00 – 19,00; sabato h 15,00 – 19,00

Sito di riferimento: www.t293.it

e -mail: info293.it

 

 

 

 

 

 

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- Arte

Echi di crudeltà

ECHI DI CRUDELTA'
(Attraversamento ondivago nelle arti)
 
Nel presente scritto verranno stabiliti dei coefficienti di correlazione tra materiali d'ascolto e possibili letture-visioni, tali da produrre nell'insieme un itinerario ondivago, che recherà tracce ed echi di crudeltà. 
Affrontare il tema terrifico della crudeltà da un'angolazione prettamente artistica, con l'intento di scorgere alcune delle sue salienti manifestazioni, vorrà dire, pur sempre, addentrarsi nel tempio immenso dell'umanità  e nei risvolti di disumanità, per scandagliarne le forze recondite  e tentare di saperne, forse di più, della natura e dell'essere (o della natura dell'essere).
Nel corso della lettura si chiederà  di " abitare " un'ipotesi di tipo fondamentalmente associativo.
Anzitutto diremo che la crudeltà, in virtù della tensione ad altissimo grado di cui  si alimenta, tenderà, per sua natura, ad imporsi con estrema vivezza sul fronte emotivo. Noteremo anche come, nel suo imporsi, essa riesca persino a fluire, disegnando un imprevedibile e sconcertante abisso, che si renderà  collegabile con sensazioni intense, dalle evidentissime conseguenze. Potremo in fondo considerare la crudeltà un plenum di radicalità dal carattere talvolta informe e scosceso o vederla come un'esplicitazione ferrea e particolarmente marcata di vicissitudini interne, dove la psiche risulterà essere continuamente oscillante tra smarrimenti,  pulsioni e obliqui aspetti decisionali. Aggiungeremo inoltre che la crudeltà avrà in genere un suo peculiare  modo di essere maniacalmente offerta e " liberata". Tale inconfondibile modalità di esplicitazione della crudeltà si tradurrà, per l'appunto, in un rilascio compatto e inequivocabile di tensione.
Dal punto di vista musicale, l'intento di avvicinarsi a un così complesso e spigoloso argomento è palesemente dichiarato, ad esempio, nei Due notturni crudeli che portano la firma di Salvatore Sciarrino. Trattasi di brani pianistici nei quali tracce di veemenza sonora si uniscono a fatidiche insistenze timbriche, dinamiche e accordali, dove l'ascoltatore si ritrova ad essere accerchiato da una  volontà di ricerca di tensione nel gesto. Musicalmente parlando è soprattutto nel gesto, infatti, che viene a dispiegarsi e a rivelarsi un chiaro esito  di suono per l'appunto "crudele" (o ancor meglio dotato di una qualche matrice simil-crudele).
Pur mancando nei titoli un esplicito riferimento al tema in questione,  potremo scorgere impronte non troppo  dissimili nelle composizioni della  britannica Rebecca Saunders. Le sue musiche facilmente si uniranno qui a formare un  possibile mosaico tematico. Potrà essere citato, a titolo emblematico, il brano Into the Blue, datato 1996 ed il Quartet del 1998. L'ascoltatore intento a fruire di queste  originali parabole di musicalità, non troverà un vero e proprio agio, giacchè l'espressività inseguita rimanderà con evidenza a mescolanze di ingredienti sonori di sommessa ferocia, con apparenti sprazzi di irrazionalità, ma il materiale risulterà nel complesso uditivamente convincente e oltremodo incisivo.
Arrivare in qualità di  ascoltatori a "sentire" e avvertire echi di crudeltà nella componente sonora vorrà dire quindi  entrare soprattutto in contatto con una motilità e con una fisicità ben specifica, generata e variamente restituita dall'interprete - esecutore. 
Una "physicalité", per usare un termine francese, che non potrà  essere occultata  o lasciata sottesa, anzi, in questi casi sarà resa tecnicamente e interpretativamente impattante, dunque memorabile.
Le tradizioni iconografiche del passato e conseguentemente la ricerca plastico- figurativa e performativa del presente hanno avuto e hanno in genere molto da dire sulla teatralizzazione dell'aspetto puramente gestuale, in un ambito di simulazione e di dispiegamento di  crudeltà. Risalendo indietro nel tempo basterebbe citare il celeberrimo dipinto caravaggesco Giuditta e Olofernegrazie al quale  potremo senza dubbio arrivare ad affermare che la crudeltà sia  da considerarsi per certi versi esente da ambiguità. Mi riferisco al fatto che  essa possa risultare indubitabilmente riconoscibile, per il suo portato di turbamento e spesso di fatica e orrore. 
L'azione di crudeltà lascia con evidenza vibrare uno sforzo. Studi sulla fisiognomica  e sull'efficacia visiva hanno infatti approfondito questa tipicità dello sforzo all'interno di una gestualità crudele, tesa ad evocare in modo drammatico peculiari comportamenti, azioni, pensieri.  
Continuando a costeggiare il tema, ma facendo un agile balzo nel presente, potremo ritrovarci a portare una fugace attenzione verso l'artista austriaco Hermann Nitsch, esponente radicale dell'azionismo viennese. L'innesco di tensione nel suo caso è garantito addirittura dalla presenza del sangue. Fra rito, inevitabile provocazione e scalpore si muove la sua ricerca, indirizzata al perseguimento di un fine catartico. A Napoli, sul finire del 2018, si è festeggiato con un nuovo allestimento un duplice anniversario: gli 80 anni della sua vita e i dieci anni dalla nascita  del museo a lui dedicato.
Anche Antonin Artaud ha trovato più che necessitante esplorare e lavorare arditamente nel solco della crudeltà . Non sarà fuori luogo ipotizzare un aggancio con la specificità dei suoi scritti. Sono celebri - e presumibilmente digerite - le ipotesi di rivitalizzazione del teatro, in special modo l'assunto secondo cui il valore stesso del teatro possa risiedere esclusivamente in un rapporto magico e atroce con la realtà e con il pericolo. Come ben sappiamo la visione artaudiana non può non inquadrarsi all'interno di un fatidico e fertile momento, che puntava categoricamente a spezzare la soggezione del teatro al testo.
E rientrerà a buon diritto nel caleidoscopio oscuro della crudeltà anche un ulteriore titolo e suggerimento di lettura: Il cinema della crudeltà. Trattasi di una raccolta di scritti firmati dal critico cinematografico André  Bazin, accorpati con cura e fatti pubblicare da François Truffaut.
Il percorso potrebbe prolungarsi e liberamente estendersi fino a toccare ulteriori ambiti e saperi. D'altra parte l'idea di fondo,  in questo contesto, voleva esser quella di suggerire e creare niente altro che un assemblage di spunti, in riferimento a un tema ampio e suscettibile di arricchimenti. 
In ogni caso volgersi verso la crudeltà sul piano della riflessione artistica condurrà a riflettere più ampiamente  sull'uomo. E poiché una riflessione sull'uomo non può che  accompagnarsi a una ponderata analisi dei suoi gesti e delle sue costruzioni  l'auspicio è che tali gesti e costruzioni umane - a prescindere dalle svolte o dalle ardite e necessarie  sperimentazioni situate nei meandri dei linguaggi artistici- possano essere impregnati di una sempre  rinnovata energia.
In una prefigurazione di futuro chissà che non possano dunque rientrare nuovi esempi di libertà e di apertura, nuove forme di complessità legate al vivere e all'agire umano. Saranno esempi o stadi di metamorfosi? Ci sarà da scoprirlo.
 
Anna Laura Longo

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- Musica

Per una mirabile ratifica dell’ esistente ( a M. Bertoncini)

PER UNA MIRABILE RATIFICA DELL'ESISTENTE
In memoria di Mario Bertoncini
 
Un dispiegamento
di fantasmagoriche ombre sonore:
semi acustici iniettati
in suoli fitti
ma proliferanti di neomagie.
Sogni ripidi e attrattivi,
dove si erge il vento
nella trasparenza
di un vissuto artistico
emergenziale,
 mai sopito
anzi offerto e maturato
nella discrepanza
col mondo.
 
Ho avuto modo di ascoltare per la prima volta Mario Bertoncini in un récital che affiancava la brillantezza e il fantasioso appeal del sonatismo scarlattiano alle personali ricerche sonore, incentrate - tra l' altro - sull' elaborazione di strumenti autocostruiti.
Con chiarezza è emerso un orizzonte ampliato e una sobrietà ideativa sconfinante in mondi di autentica e poliedrica audacia, densamente incantevoli. È raro, del resto, allontanarsi da un concerto o da una performance musicale avendo chiara la sensazione di portar via con sé i sedimenti non soltanto di una buona maestria, ma un singolare effetto di avvolgenza, che consenta poi - distintamente - di situare quel circoscritto evento all' interno di un "involucro di rilevanza" e di libertà ben specifica : un' impronta al contempo mnemonica ed esperienziale.
A ben vedere, l' applicazione di un principio estensivo ha riguardato, nel suo caso, la vicenda artistica unitamente a quella personale ed esistenziale. Come veri e propri flussi microtonali restano dunque vigenti - e magicamente dischiuse - le idee, le intuizioni, le progressive linee- guida  trasferite in incessanti traiettorie sperimentali, quasi fossero pennellate intrise di vita o ancor meglio " forme di vita " (forme di esuberanza), da ri-conoscere e osservare, prelevandone un interessante invito: impegnarsi, differentemente, per una possibile e mirabile ratifica dell' esistente.
 

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- Musica

L’ insorgenza del suono

 

L’ INSORGENZA DEL SUONO

Per un ascolto plasmabile e rigoglioso                                                               

di Anna Laura Longo

 

L’insorgenza del suono è il titolo dato a un ciclo di labirintici incontri basati sul tema dell’Ascolto, con particolare riferimento a quelli che sono gli aspetti multisfaccettati e dinamici  della contemporaneità, da vedersi nelle sue molteplici declinazioni. Parlare di contemporaneità,  attraversandola, vuol dire collocarsi a ridosso di una specificità di materiali, linguaggi, espressioni, ma vuol dire anche riscontrare delle peculiarità intriganti e mutevoli negli aspetti  collettivi del vivere,  facendo i conti con  la fluidità o magmaticità del reale.

I destinatari e le destinatarie degli incontri suddetti sono stati invitati/e a compiere, nell' insieme, passi di  approfondimento non soltanto sul piano puramente sonoro e musicale  ma, più ampiamente, sul piano della  percezione e dell’interconnessione tra forme e pratiche artistiche, con il desiderio di sviluppare possibilità integrate di approccio allo studio, seminando-  avventurosamente - ipotesi di “aperture sul mondo”.    

La necessità di affacciarsi  sull’oggi è affiorata  come  una necessità libera  e cogente al tempo stesso. La spinta, dal punto di vista della riflessione, è stata offerta dalla volontà di stabilire  una  correlatività significativa   e intensa tra l’individuo  odierno e la complessità delle sue produzioni (produzioni artistiche nella fattispecie ), affondando i passi per l’appunto nella tipicità e nella  salienza del   presente, di cui  noi stessi siamo in fondo degni e degne  rappresentanti , figure in vario modo - e a vario titolo - compartecipi.

Del resto è compito di una formazione allargata e improntata a varietà e pienezza sopperire a quella  tipica tendenza di impostazione  educativa che va a muoversi, soprattutto e purtroppo, per offuscamento, eludendo  quindi interi periodi, figure e argomenti, circoscrivendo in pratica il raggio d’azione intorno a tematiche statiche e  talvolta meramente replicative .

Dal punto di vista musicale il lavoro prospettato è stato animato da un’idea basilare :  quella di  volersi   ritrovare  a indagare e fare esperienza  di come il suono  possa , volta per volta  - e con magnifiche differenze -  insorgere e manifestarsi,  all’interno di specifiche  composizioni, ma  altresì  nella fluidità dei paesaggi e nella plasticità degli ambienti esterni. 

Ciò che  appare a mio avviso  attraente nell’espressione  “ insorgenza del suono”,  impiegata nel titolo, è  il fatto che essa  possa far riferimento al primo, improvviso e inequivocabile, manifestarsi  di un sintomo. Trasferendo dunque, con elasticità, la riflessione nell’ambito propriamente artistico essa è facilmente servita a esprimere e indicare il primo manifestarsi del sintomo di un’idea, di un’intenzione o  forma-pensiero trasformabile, per l’appunto, in fatto musicale  riconoscibile ( quindi ascoltabile, analizzabile  e variamente degustabile).

L’esigenza prioritaria è stata di certo quella di abbracciare la tematica dell’ascolto seguendo un  criterio decisamente perlustrativo, trasformando  l’ascolto  stesso  in una vicenda corposa e vivida, oltreché perlustrativa.

Accanto alla necessità di provvedere a una connotazione generale e aperta dell’ascolto stesso, per ciascuno/a si è fatta  spazio l'occasione di individuare e far propria quell’unicità che circonda il Tempo d’ascolto, da vedersi  come  tempo di profondità possibile.

Soffermandosi  soprattutto su quest’ultimo aspetto è stato possibile  invero approdare  a  un’ipotesi – anzi a una formulazione - di  una  personale plasmabilità.

È importante sottolineare infatti come il Tempo d’ascolto  possa farsi  a tutti gli effetti plasmabile, rivelandosi denso e maneggevole, affiorando, in quanto tale,  come tempo scalpitante e vivo  ma, in parte, anche “  mirabile” poiché disgiunto o non troppo sfiorato  dal rischio  incombente dell’ordinarietà.

Tempo  dunque non  soltanto approfondito e accurato ma, aggiungerei, rigoglioso.

Ogni volta che si manifesterà una qualche disponibilità a immergersi in una  valorizzazione temporale di tale natura automaticamente si sarà propensi a rivolgere un'attenzione specifica verso interessanti forme di "responsabilità", riguardanti per l'appunto il soggetto ascoltante.

E a ben vedere tra tempo d’ascolto e sua plasmabilità potrà collocarsi la produzione di un adeguato assestamento o auto-assestamento, per un’intensificazione non solo dei risultati ma, più in generale, dello stare .

In ogni caso tornando alla questione della plasmabilità del tempo d’ascolto, mi piace aggiungere che essa tenderà quasi sempre a includere anche  un aspetto ulteriore e quanto mai rilevante, quello della DESIDERABILITA' di quel tempo specifico  o quanto meno una componente minima di predisposizione verso una permeabilità possibile. 

Per meglo specificare direi una volontà  (o atteggiamento ) di permeabilità,  tale da lasciarsi lambire e attraversare.

Altra cosa sarà tuttavia il vero e proprio abbandono,  vale a dire l’affiorare di  componenti squisitamente emotive, di cui qui non parleremo diffusamente.

Ma in definitiva, l’avvicinamento a un concetto di desiderabilità potrebbe lasciar trapelare una sorta di “ fame d’ascolto “?

Non siamo lontani dal prospettarlo. Anzi restando in una costruzione di metafore legate alla magia del sensoriale non sarà fuori luogo suggerire o immaginare anche un possibile aroma o SAPORE d’ascolto. Com’è evidente  viene in questo modo  ad essere sviluppata una sottolineatura della pista degustativa e attrattiva dell’ascolto stesso.

D’altra parte poiché la prospettiva – ascolto può segnatamente  ampliarsi, ma di contro restringersi, diremo anche che, sul lato opposto di una desiderabilità e permeabilità possibili, troveremo  invece quelle soglie blande di avvicinamento al suono e ai materiali sonori, che si configurano come "soglie di attutimento" o indebolimento,  responsabili probabilmente di semplici parvenze di ascolto.

Stiamo parlando di quei  casi  in cui  potrebbe  effettivamente registrarsi  un’inclinazione o impoverimento dell’ asse d’ascolto,  non solo sul piano della dimensione attentiva, ma anche su quello dell’effervescenza qualitativa.

In ogni caso la questione di una personale plasmabilità  del Tempo d’ascolto porterà  chiaramente alla ribalta  un ben noto  passaggio: quel passaggio che conduce dall’esistenza  di un  tempo d’ascolto  da vedersi nei suoi aspetti  assolutamente generali  alla corposità  e consistenza  di quello che potremo definire “ il mio “  o “ tuo “ tempo d’ascolto, soggettivabile, vale a dire  riferibile  a una singolare e soprattutto  non neutra o vaga  esperienza.

La parola corposità ben si addice al delinearsi di una reale soggettività  ed esclusività e  difatti esclusivo è il corpo, le sue tracce e le sue  plurime esplicitazioni.

Scrive Oliver Sacks in Risvegli  (  Biblioteca Adelphi - pag. 263 ):

“ Non c’è nulla di vivo che non sia individuale: la nostra salute è nostra, le nostre malattie sono nostre, le nostre reazioni sono nostre,  non meno nostre e individuali della nostra mente e della nostra faccia. Salute, malattie e reazioni non possono essere capite in vitro, da sole; possono essere capite solo se riferite a noi, quali espressioni della nostra natura, del nostro vivere del nostro esser –ci ( Da-sein )”

L’interesse di Oliver Sacks ( neurologo, chimico e prolifico autore ) è notoriamente rivolto verso fini e scopi   terapeutici, pertanto è prevalente nei suoi scritti un  riferimento alle modalità di manifestazione, sviluppo, cura e sensibile lavorio nel terreno della malattia e dell’ uomo.  Si potrà  trascurare questo aspetto, che esula dai nostri peculiari interessi,  tuttavia  sarà utile fare riferimento e affidamento alle forme di reattività, di cui egli offre interessanti spiegazioni e delucidazioni, frutto di pratiche sperimentali.

Ad ogni modo la questione nodale resta  proprio quella dell’esser-ci, del ritrovarsi.

Dove, ci chiederemo?  Nel nostro caso lo scopo è stato e sarà quello di  ritrovarsi adeguatamente intenti  e intente a dare corpo e sostanza a una RILEVANZA personale dell’ascolto e del nostro Tempo - spazio d’ascolto. Tale attribuzione di rilevanza non coinciderà esattamente con un “ riconoscimento di  qualità “ nel tempo d’ascolto medesimo,  ma se ne  farà tuttavia,  in parte, garante.

E  diremo anche che una rilevanza  in tal senso  non soltanto è  possibile, ma è da considerarsi nettamente disgiunta e distinguibile dalla mera  dimestichezza  o abilità (  abilità col suono e con  le sue pratiche, con le sue caratteristiche e manifestazioni ).

Il tutto,  lo ribadisco, a patto che si voglia esser lontani da un’ipotesi di ascolto che sia acerbo o addirittura “ friabile “ , dunque  indebolito nei suoi aspetti  nutritivi e penetrativi.

Dare quindi  delle coloriture sostanziose, anzi un vero e proprio spessore  all’ascolto, può voler dire porsi nella condizione di cogliere, altrettanto sentitamente,  le coloriture e lo spessore che sono insiti nella pagina musicale o nell’opera in generale, anche extra - musicale,  s’intende.

Di conseguenza può  voler dire abituarsi a imbastire e generare  forme egregie  - e perché no  memorabili -  di vicinanza.    Una piacevolezza nella vicinanza.

Ma aggiunge poco più avanti Sacks nel suo saggio :

“Noi abbiamo un carattere nostro, ma partecipiamo anche del carattere del mondo: il carattere è monadico e microcosmico, mondi dentro mondi dentro mondi, mondi che esprimono mondi”.

Non può essere dunque elusa la necessità dell’affioramento di un  potere espandibile,  un potere di allargamento, che sottenda un  modello di congiunzione possibile  per l’appunto tra la (o le ) suddette  soggettività  e quelle che sono invece le ampiezze del  mondo o dei mondi  sonori possibili, racchiusi e individuabili  proprio nel novero dell’ascoltabile o dell’udibile .

Questo passaggio consentirà fattivamente di dare un’estensione non irrilevante al tema in questione, una  sorta di  reale amplificazione.

Di pari passo verrà spontaneo osservare come, a seconda dei casi e sulla scorta di quanto finora detto, possa emergere per ognuno dei soggetti in ascolto un buon grado o gradiente di scorrevolezza. Sarà anzi auspicabile ipotizzare volta per volta una garanzia di scorrevolezza dinanzi al prodotto sonoro, una scorrevolezza che riguarderà da un lato il materiale musicale vero e proprio, ma  dall’altro e per l’appunto l’ esperienza in sé, il vissuto legato all’eterogeneità  e ricchezza del  flusso d’ascolto.

A ciò si aggiunga infine la possibilità di aderire strada facendo a un compito non trascurabile : quello di essere cogeneratori e cogeneratrici di una costante e agile evoluzione  dell’ascolto stesso, evoluzione in grado di offrire segnatamente incidenza alla composita  configurazione  del gusto estetico-  musicale ( su questo fronte  contano  di gran lunga  le fatidiche  influenze esterne ).

Non ho affrontato invece la questione  del potere di cattura del suono che va ad unirsi all’importanza  e al senso di pervasività  dell’opera musicale  giacché l’attenzione, in questo caso,voleva esser portata non sull’ ingranaggio sonoro vero e  proprio, ma sul  ruolo  e sulla responsabilità  che possono e potranno avere i numerosi e variegati  costruttori e costruttrici dell’ edificio- ascolto.

Il discorso nella sua articolata e vibrante  complessità punta a raggiungere un’ideale AMPLITUDE,  termine di lingua francese che contempla  evidentemente  una vastità  di prospettive.

Ovviamente  il coraggio di una amplitude da dare al proprio ascolto potrà coincidere con un’ amplitude  da donare anche a se  stessi/e.

Stando così le cose non è escluso che il nostro personale percorso, anche esistenziale, avvalorato da adeguati tragitti e esperienze, possa essere  toccato  da connotati o segnali  di  una qualche  pregevolezza o  bellezza.

                                                                                                                                 

(Gli incontri incentrati sul tema dell'Ascolto, con particolare riferimento alle ricerche compositive e strumentali della contemporaneità, hanno avuto luogo presso lo studio-atelier Territorio di stimolazione sonora/ Polo di ricerca e formazione artistico musicale in Roma )

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- Musica

Lembi di germinazione - Musiche con aculei

LEMBI DI GERMINAZIONE

Evocazioni pianistiche e  musiche con aculei di Anna Laura Longo

                                                            

Perlustrando nei margini dell’interruzione  sonora

Esistono nella storia della musica diverse composizioni  pianistiche che vertono sul concetto di interruzione e arresto improvviso del discorso musicale. Il finale, in questi casi , va a sospendere in maniera  spesso repentina-  e talora inattesa - il libero  fluire   dei suoni.   Altre volte, invece,  quello che viene ad essere quasi raggelato è lo sviluppo di uno specifico inciso o di una frase, attraverso la  determinazione di una sorta di blocco  istantaneo e al contempo definitivo.

Si potrebbe citare a titolo di  esempio  La serenade interrompue di Claude Debussy tratta dai Préludes ( vol. I) o ancora  di  Sophia Gubaidulina la Toccata troncata per pianoforte.

Dal punto di vista strutturale-compositivo,  lungi dall’ essere sbrigativa, la chiusa di  tali brani ( o come già detto l’ interruzione volutamente  obsoleta di una frase o di un  periodo musicale)   intende  evidentemente porre l’ ascoltatore in contatto con un’ idea  lapidaria  di  contrazione musicale, inducendo o perlomeno agevolando un’  emozione di   sorpresa  o lieve sobbalzo. Anche nelle arti , così come nella letteratura,  potrebbero esser citati alcuni casi analoghi.

Traendo ispirazione da tali brani e soprattutto compiendo approfondimenti ulteriori sul significato  psicologico, allusivo, disgregativo  - e  talora trepidante  - dell’ interruzione  è stato da me avviato   il ciclo di brani che porta il titolo  LEMBI DI GERMINAZIONE  /Musiche con aculei.

 

 

Trattasi  di un’ originale indagine  sonora,  sorta  con lo scopo precipuo di  affiancare l’ installazione  artistica Nelle zone di un invalicabile grano, nella quale viene potentemente alla ribalta   il  valore intrinseco  dei passi ( passi  umani, adombrati  o al contrario fortemente emersi nei terreni intepidi  dell’ esistenza ) .  Concretamente  l’ installazione consta di una moltitudine di calzature infradito ottenute da cospicui quantitativi di  pane combusto.

È proprio in relazione al suddetto impianto artistico-visuale che   sono state  da me create delle   vere e proprie “evocazioni pianistiche”. Esse nascono  per poter  essere proposte non in forma   concertistica,  ma  volutamente in forma preregistrata , per animare e dare avvolgenza  allo scorrere e/ o stabilizzarsi del   “ tempo puramente visivo “ proprio dell’ installazione artistica in sé,   conferendo ad essa  un appoggio sostanziale,  plasmando anzi,  in forma giustappositiva, un flusso di disarticolati accadimenti ritmici  e  a-melodici, tali da incrementare i risultati della permanenza  e dello stare (  dello star dinanzi  nella fattispecie).

Trattandosi in definitiva  di brani connaturati e combacianti con l’aspetto installativo,  l’ impronta esecutiva che ne deriva  (obliquamente  pianistica nella fattispecie ) , intende   sin dall’ inizio amalgamarsi concretamente con l’ impronta pratico realizzativa e con il farsi dell’ opera  stessa (   comprendente la bruciatura del pane, la  stesura e il fissaggio delle colle viniliche etc).  Entrambe  le operazioni – quella plastico figurativa e quella musicale quindi - sono da intendersi come  procedenti di pari passo, sulla base di un  incedere puramente e marcatamente  biunivoco -costruttivo.  

“Fatti coesistenti” dunque, che puntano infine  a   protendersi  in  forma congiunta verso un possibile e ardimentoso ascoltatore- vedente.  Poiché le Vite a cui ci si riferisce nell’ installazione sono propriamente  vite  troncate  e interrotte (soprattutto  da cause esterne, come guerre, conflitti, femminicidi ), quelle che il fruitore si ritroverà ad ascoltare  nel corso dell’ esposizione potranno esser considerate  fondamentalmente delle musiche-  traiettorie, che divengono altresì metafore di traiettorie di vita.

La durata specifica  di ciascun  brano  si fa emblema infatti   della durata di un’ esistenza ( esistenza, come già detto, prematuramente interrotta , quindi marcata dal segno della brevità ). I minutaggi decrescenti attestano proprio ciò, mentre – musicalmente parlando -  tutto il discorso architettonico e costruttivo è   improntato nel complesso  a  segmentazione e restrizione o differimento  dello sviluppo prevedibile del materiale a disposizione.

 

Atipicità e trattamento  misto-cangiante del pianoforte

 

L’ idea principale è stata quella di spingersi tra le radici nascoste, negli  anfratti e  nelle cavità degli  “organi interni”  dello strumento, ponendo in special modo in  rilievo la zona  sottostante i tasti, dove  sono ubicate le cosiddette punte del bilanciere ( il sottotitolo “musiche per aculei “ fa per l’ appunto riferimento a questi piccoli   elementi metallici).

Esistono,  tra l’ altro,  nella parte interna  del pianoforte  ulteriori particelle metalliche, sia acuminate sia arrotondate, come  ad esempio   i pironi – o piroli,  che dir si voglia -  i quali risultano essere però a tutti gli effetti  in contatto con le corde, delle quali sostengono la tensione.  

In questo caso invece  l’ idea voleva essere  quella  di lasciare al di fuori la  meccanica  e le componenti  abitualmente indagate, per arrivare a scorgere nei margini e nello spazio  recondito-periferico  dello strumento delle possibili  zone coltivabili musicalmente.

 

Già nei precedenti lavori per pianoforte abissale, risalenti al 2017, venivano  da me messe in moto alcune azioni e perlustrazioni  manuali similari, ma in quel caso l’ azione avveniva servendosi  dei tasti, anzi  impugnando fattivamente  i tasti, visti come protesi, secondo una prassi in qualche modo “chirurgica” ( di qui la dicitura OPERAZIONI pianistiche ).

In questo lavoro specifico le punte del bilanciere sono state  assimilate  a  germogli veri e propri ed il pianoforte sommariamente visto come un inedito germogliatore o – potremmo anche dire – come un’ atipica piantagione pronta a  restituire segnali proliferanti e liberi  di  realistica  presenza.  Lo  sfruttamento delle punte del bilanciere è avvenuto sia manualmente ( a mani completamente libere  ) sia servendosi di lenti di ingrandimento dimezzate. Accanto ai predominanti suoni  con aculei  sono stati  inseriti inoltre  sparuti suoni  ottenuti attraverso una spinta diretta dei martelli del pianoforte verso alcune delle corde selezionate e infine sono stati  inclusi  suoni  brevi e incisivi, di tipo  legnoso.  Una volta avviata  una sistematizzazione fattiva della gamma di suoni ottenibile e/ o replicabile sullo strumento,  l’ importanza affidata all’uso della mano ha subìto lungo il percorso una metamorfosi vera e propria. Lo spunto è stato quello di operare mediante una mano prensile o in alcuni casi  nettamente agguerrita, ma con un atteggiamento fondamentalmente  riconducibile  a quello della mano  intenta ad effettuare procedure ed operazioni   tipiche della   botanica o dell’ agricoltura ( rimarcando, come già detto, la metafora della piantagione ) .

Continua dunque ad essere manifestamente presente la volontà di valorizzare avventurosamente l’ effetto dello  smontaggio parziale delle parti strutturali  dello strumento,  per conseguire-forgiare risultati indagativi inediti,  facendo leva su idee  e pensieri non privi di conseguenze  per l’ appunto germogliative.

 

                                                                                                                                     Anna Laura Longo

                                                                                                                                        ( marzo 2018 )

 

Tale scritto rientra in un corpus  intitolato " Missive al pubblico", miranti a  delucidare  ed esplicitare le intenzioni sottese ad alcuni progetti congiunti ( artistici-visivi e musicali  al contempo ), di stampo nettamente sperimentale, relativi all' ultimo biennio.

 

N.B. : Un estratto del progetto musicale LEMBI DI GERMINAZIONE qui descritto, sarà ascoltabile nel pomeriggio di domenica 13 maggio 2018  ( musica ed interpretazione  sono di Anna Laura Longo ) in concomitanza con l' installazione  di arte-visiva intitolata " Nelle zone di un invalicabile grano ", proposta presso la Casa Internazionale delle Donne in Roma ( sala mostre - piano terra ) 

 

Indirizzo : Via San Francesco di Sales n. 1a 

orario : dalle h 16,00 alle h 21,00

 

sito di riferimento per approfondimenti : 

www.annalauralongo.com

 

 

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- Musica

Il coraggio della tenuità in Toru Takemitsu

Il coraggio della tenuità in Toru Takemitsu

 

Riflessioni in prosa e versi sul CD Toward The Sea, In viaggio tra i continenti  ( ed. Nuove Tendenze / CDR7256 A070724 -  2017 )

Musiche di Brouwer, Gedda, Pieri, Takemitsu 

 

Si solleva in Takemitsu

un tempo misto-inarcato.

Nel sapore dell' inarcamento

c'è sostanza e corpo

per una duplice e larga promessa :

metallurgica distensione del suono

e sua nitida e invitante ampiezza.

 

 

L' Associazione Nuove Tendenze pubblica a conclusione dell' anno 2017 un CD interamente dedicato al compositore giapponese Toru Takemitsu. Alle scelte interpretative del chitarrista Edoardo Pieri si aggiungono alcune accensioni flautistiche da parte di Filippo Del Noce.

Dal punto di vista interpretativo è presente una restituzione di quelle che sono le interessanti e lievi dicotomie insite nel linguaggio takemitsiano: animazione e pacatezza, intensità ed etereo distanziamento, concitazione e diradamento. Trattasi propriamente di impronte ossimoriche che lasciano trapelare la presenza di un sogno sotteso.

Sogno per lo più stemperato, ma al contempo lasciato agire.

 

 Suono inteso come limpida emanazione,

come lucido addensamento filante,

il cui incedere mai tardivo

ci offre - illeso - il coraggio della tenuità,

incipiente e onnicomprensiva. 

 

Tre brani, nello specifico, si ergono a firma di Takemitsu : Toward the Sea per flauto e chitarra, nei suoi tre movimenti, agili e portatori di messaggi di sensibilità in relazione all' estinzione delle balene.

Tra atmosfere ondulate  e contrassegni acquatici fluentemente scorre la sostanza musicale anche in All in Twilight, dove lo slancio, prettamente chitarristico, scalda e plasma la natura sonora per l' intera durata del brano.

Più avanti, a conclusione del tragitto, troveremo invece Over the Rainbow ( da Twelve Songs for Guitar ), frutto di un lavoro poliedrico di trascrizione di canzoni popolari.

 

Senza incremento  e di fianco il mare,

si offre il passo a un suono-navigazione,

suono libero e depositario

di una logica distensiva.

 

In relazione al concetto di suono-navigazione poc' anzi introdotto, si potrà aggiungere che non è tanto la qualità motivica a farsene garante, ma invece la grana sonora sottostante, la valenza timbrica che si dimostra essere variamente degustabile. L' assenza di magnificenza e il contenimento dell' intensificazione interpretativa - fatti adeguati alle pagine in questione - ci lasciano affacciati sui margini di una visione che appare  essere prevalentemente interiore, quasi un " volo interiore ". A vent' anni dalla scomparsa e in alternanza ai brani suddetti, lungo l' itinerario d' ascolto si dispongono ulteriori composizioni scritte in omaggio o in memoria di Takemitsu.  Trattasi di Un éclair ...puis la nuit!  di Annachiara Gedda, la quale attinge alla significatività dei testi del teatro No giapponese, corredando il brano di aloni liberamente confluenti.  In L' anima non si nasconde di Edoardo Pieri il risultato sonoro si fa pura manifestazione di quella traccia - essenza, esclusivamente  individuale,  che in larga misura definisce e forgia l' identità personale e vocazionale, eludendo nascondimenti di sorta.  E infine, con carattere di pura filiazione rispetto alla matrice sonora del  compositore giapponese, si dischiude di Leo Brouwer il brano Hika, in memoriam  ToruTakemitsu. 

Tra un librarsi e uno scomporsi di idee e suoni ( e di idee in suoni ) resta impresso nella memoria il baluginio di una sorta di apologia del richiamo : il richiamo di una musicalità flessuosa da cui lasciarsi sommergere.

 

Anna Laura Longo