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Raccolta di articoli di Marco Galvagni
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Letteratura

Saggio su Favolesvelte, Valeria Bianchi, Golem Ed. 2016

Come scrive la psicologa, psicoterapeuta nonché scrittrice Valeria Bianchi Mian a proposito del suo notevole volume Favolesvelte:

 

“In questo libro troverete una buona parte delle trecentosessantacinque storie che io stessa ho inventato e disegnato per il blog nato a partire dal gennaio 2014 per esattamente un anno. Alcune opere sono rimaste fuori dal contenitore o perché troppo auto-referenziali o perché meno convincenti.

La maggior parte dei disegni che andrete a scoprire tra le pagine sono stati rinnovati o completamente rivisti per la pubblicazione: ho scelto di illustrare solamente alcune. Il volume è organizzato in quattro aree. Nel primo gruppo troverete le storie d’amore, un compendio d’amore, il sentimento osservato nelle sue differenti forme. Nel secondo “capitolo” incontrerete le classiche filastrocche per bambini, le fiabe e le narrazioni del mondo fantastico, onirico e della vita quotidiana; potrete leggere le poesie civili e le storie evolutive. Nella terza parte del volume si entrerà nel buio leggendo i versi più “neri. Nella quarta ed ultima parte verranno narrati i casi di Daniel Viola.

Sono filastrocche tutte notevoli che descrivono perlopiù nani e angeli, cavalieri e regine di cuori, ma non bisogna credere sia solo un’immersione immaginifica. Valeria Bianchi Mian possiede come arma descrittiva che ne fa tessuto narrante l’occhio immerso nella realtà sia azzurra che bigia perciò scrive di chi vive, sorride e piange, di chi impara e ricorda da adulto d’essere stato bambino. Di chi ama, di chi soffre e dei tanti umani strani che ci circondano, col parrucchino e gli stivali. Narra del il mondo che amiamo o odiamo per quel che di strano e folle ci regala. Perciò si riscontra tanta voglia di vivere la vita in queste filastrocche, alcune impreziosite da disegni molto belli. Usa anche la matita e i colori per illustrare ciò che la tecnica descrittiva non può esplicitare: elfi e strani personaggi.

Per cogliere qualche esempio del testo che si può trovare nella sezioni amore, a partire da Il sasso filosofico in poi, sono tutte visioni per la maggior parte oniriche e prettamente introspettive, chiaramente con forti influssi psicoanalitici junghiani. Ho citato la sezione amorosa perché è la più intensa ma anche le altre sono costruite col medesimo archetipo.

Citerei in particolare sette filastrocche (tre della sezione amorosa, altrettante della sezione Favolesvelte dell’evoluzione ed una della penultima sezione Favolesvelte nere.)

 

La filastrocca d’apertura IL SASSO FILOSOFICO E IL FIORE

 

C’era una volta un piccolo sasso

che giù dal monte in basso

nel mezzo di un prato tutto fiorito

laggiù-proprio in fondo-fino al fossato

dove un bel fiore di colore rosso

si stava lisciando il petalo mosso.

Mosso dal vento, il fiore cantava

canzoni d’amore e Amor sognava.

“Eccomi qui!” disse tosto quel sasso.

“Ti appaio forse un pochino gradasso

ma se son caduto, è il destino

a volerlo: ecco, lo vedi, il cammino

del moto muove, infatti, anche il fisso.

Ora ha mosso l’immoto-questo sasso

dal monte -ed io, sasso, starò col fiore

per cercare insieme un ponte d’amore.

Siamo coppia un po’ strana, eppure

a te offro adesso le mie buone cure:

l’ombra, il riposo ed anche il riparo

perché tu, fiore, mi sei già caro.”

Il fiore arrossì, divenne più rosso

e amò quel sasso caduto nel fosso.

 

A pag. 49 IL MATRIMONIO

 

L’incontro amoroso tra il Sole e la Luna

non avviene molto spesso ma una volta

ogni tanto, come adesso, lei è piena

di lui, e lui nel suo abbraccio l’ha accolta.

Non avviene molto spesso, come adesso

che i due s’incrocino sopra il mio tetto.

Per fortuna, chè ogni volta che fan sesso

trema il palazzo nell’abbraccio perfetto.

Sole e Luna son “momento eccezionale.”

Non tutti i giorni tu ed io siamo in cucina

a cucinare effetti da sesso astrale-

ma le parole che tu mi scrivi ogni mattina

sono favola avvolta che dice noi due.

A te-proprio te-dono una filastrocca

perché pazienza e attenzione sono le tue

carte al Sole, ed io son Luna che oro tocca.

 

A pag. 61 PERSEFONE

 

Cara amica perché ti lamenti?

Hai scelto tu stessa la tua sorte:

Regina di paure e tormenti

per sei mesi l’anno tu sei Morte.

Nell’attimo stesso in cui hai ingoiato

quei tre chicchi più rossi del sangue

col Re infernale hai suggellato

il vincolo che ti rende esangue.

Sorella, tu hai altri sei mesi

per tornar donna sulla terra.

I tuoi giorni son come archi tesi

sovrana spezzata che oggi erra.

 

A pag. 96 IL GATTO CHE VOLEVA VOLARE

 

C’era una volta un bellissimo gatto blu.

Milù era scuro come la notte sul mare

era cielo lucido, un manto senza stelle.

Quasi luce risplendeva il suo buio pelo.

Milù si arrampicava sul tetto, più su

sempre più su: saltando, voleva volare.

Desiderava toccare la Bella tra le belle

andare sulla Luna per strapparle il velo.

Forse l’astro argenteo, il celeste bijou

può rendermi allegro, può rischiarare

il mio umore triste, come le caramelle

colorate nei barattoli, le mele sul melo.

Potrà amarmi? Lei ama la notte, il blu

del cielo in cui lei stessa abita, le rare

sfumature. La Luna mi sorride, sorella

del Sole, amante lontana…ecco

Volo!

…”

Milù si ritrova sul prato: è caduto giù.

Fino al mattino se ne starà a miagolare

poi ternerà da me verso l’alba, monella

mattiniera, con i sogni di un gatto solo.

 

A pag. 104 LE OMBRE SUL MURO

 

Ombre brevissime e sagome lunghe

ombre smunte vanno ondeggiando lievi.

Ombre nerissime, grigie e opache

ombrette fuoriuscite dalla brace.

Ecco le ombre vere cercate di notte

da quella fatina sconsiderata.

Con la sua bacchetta in rosso fuoco.

Il fuoco scoppiettante, esuberante.

Lucciola brillante è il lume fioco

che coglie l’aurora con i miei racconti

di ombre che sul muro son danzanti.

Tu dormi, bambino: è giunta l’ora!

Dormi adesso

e poi dormi ancora!

 

A pag. 193 ED MONDO, la più poetica.

 

Il signor Ed Mondo scrive frasi e poesie

sui tovaglioli al bar della mia stazione.

Lui è un vagabondo con mille fantasie

ma ha perduto il filo della direzione

in cui i treni vanno e si scorda l’orario

preciso di un diretto o di un Regionale.

Il signor Ed Mondo abita sul binario

di doppi sensi in narrazione corale

fatta di pezzi di pizza e di cartacce

fuori dai bidoni della spazzatura.

Son storie di scorci di gambe e di facce

immagine passata, visione futura.

Ed Mondo, lui conosceva a menadito

il tempo dei treni, chè seguiva ogni via

sopra il tabellone, indicando col dito

al viaggiatore perduto dentro la follia.

Ecco qui ad esempio un suo appunto un po’ unto

uscito dal mio tovagliolo di carta:

“La stazione è il nostro vitale riassunto:

un passaggio prima che Morte riparta.”

 

A pag. 201 LA PALLA CON GLI OCCHI

 

La palla con gli occhi

del negozio di balocchi

occhieggia, è speranzosa

ma ancora no, non osa

balzar dallo scaffale

temendo di farsi male.

La palla con gli occhi

dice: “Io non ho sbocchi.

La vita qui è noiosa

ma fuori non é cosa…”

Osserva lungo il viale…

lacrima amara sale…

perché agli otto rintocchi

chiude il mondo di balocchi.

Nel silenzio della notte

le vetrine sono rotte.

Nello scempio della notte

la palla, un po’ per sfizio

viene presa a calci e pugni

uccisa con i suoi sogni.

 

Filastrocche scelte con cura in un registro stilistico originale e personalissimo (certo questi dettagli non sminuiscono il valore dell’opera che è notevole) filosofeggiando su svariati aspetti delle vicende umane, in un dettato limpido e preciso che si avvale del dono d’una penetrante forza di pensiero intriso di forti influenze junghiane (com’è, del resto, la formazione psicoanalitica di Valeria Bianchi Mian). Volume da leggere a poco a poco ed ovunque gustandone l’affascinante afflato poetico, descrittivo e, se così si può denominare, poliedrico.

Libro assolutamente da non perdere.

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- Letteratura

Recensione a Non č colpa mia, Valeria Bianchi, Golem 2018.

Non è colpa mia di Valeria Bianchi Mian è un romanzo ambientato a Torino le cui storie intersecate, un assemblaggio di discorsi e pensieri dei personaggi che fanno da contorno alla vicenda principale di Arturo Colzi, poi deceduto nel febbraio 2020 gettandosi nelle acque del fiume Po e suo figlio Riccardo, omosessuale, s’intersecano in maniera analitica. Riccardo Colzi è una figura debole ed Elisabetta Rospelli in Colzi, seconda moglie di Arturo, capisce benissimo che nella cioccolatteria del marito ci sono dei problemi dati sicuramente “dalla sua inefficienza, dalla sua mancanza di prospettive e da una sorta di disabilità gestionale.”

 

Arturo è un imprenditore, settantenne, padre oltre che di Riccardo anche di Stefania, deceduta per tumore fulminante come la sua prima moglie, la contessa Siccardi. Proprietario di una cioccolatteria possiede personalità eccentrica e spirito solare inconfondibile. Assiduo presenzialista alle manifestazioni culturali del capoluogo piemontese dagli anni ottanta sino a poco tempo fa, amava circondarsi di belle donne tanto da guadagnarsi il soprannome di “dongiovanni della città” ed al mattino sfrecciare sotto i portici di Via Po con uno dei primissimi modelli di monowheel. Un carattere piuttosto snob.

All’aggraziata Aisha è dedicata una bellissima poesia (Nell’anima, se fosse poesia) a pagg. 156/157 che possiede versi intensi come “L’incanto è quello del tutto e del niente”, “Donna lo è per gioco, invece è ragazzina/ed è la stessa farfalla che ballava prima” sino alla notevole chiusa “Ballavi fino al mattino che non c’è/ballavi fino a morire in onore del Re.” Aisha, la “stella stellina ballerina” che brilla e che balla con “un abito fatto di veli color perla e verde acqua.” Dedita al Cristianesimo è molto religiosa nonostante sia figlia di un musulmano, Mohamed Aasim.

Cinzia Trapani, madre di Aisha, avuta dal seme di Mohamed, aitante pusher tunisino, è una figura dolce e debole, segnata dall’abuso di sostanze “in un abbraccio soffocante durato tre anni.” Poi un amore “o forse solo un simulacro travestito da infermiere” l’aveva accompagnata al Ser.T facendole intravedere “un barlume di coscienza.”Ma la stessa Cinzia aveva continuato alternandosi fra cocaina, eroina, alcool ed hashish, “ con la faccenda di Aisha cucita nel cervello e seppellita nel cuore.”

Elisabetta Rospelli in Colzi, quarant’anni di figura statuaria, sua moglie da tredici anni, più giovane di lui di tredici anni, è una sgualdrina, amante del sesso in ogni forma, persino in chat dove si mostra nuda e fa masturbare uomini attempati e col ventre flaccido.

Il francese Raphael, dall’ex fidanzato molto muscoloso e che quindi incute timore a Riccardo, è l’uomo parigino di cui lui è innamorato. Da anni Riccardo è iscritto anche a Grindr, la più famosa piattaforma web di uomini che amano gli uomini ma non è quasi mai connesso. Raphael è mulatto (“nero fuori e dorato come il sole dentro l’anima”) e la malinconia può essere la causa principale della resistenza affettiva da parte del suo amore.

 

Causa precipua di molti avvenimenti sono i soldi, il bene ma soprattutto il male insito nelle umane vicende, come quelli che Arturo dà a Maskim per pagare la casa e a Cinzia Trapani per acquistare sostanze stupefacenti.

Anche un argomento come il sesso viene trattato in modo diretto, senza peraltro mai trascendere assolutamente in volgarità. Con una modalità eticamente ineccepibile.

I pensieri ma soprattutto i discorsi e le azioni di questi personaggi sono intrecciati in capitoli brevi (scelta ottima) sino a trascinare il lettore a pag. 214, la fine del libro. Si delineano ritratti dosati e scandagliati psicologicamente come solo una brava autrice e psicoterapeuta qual’è Valeria Bianchi Mian è in grado di fare.

 

Una storia in cui, alla resa dei conti, come si evince dal titolo stesso, la colpa dei pensieri e soprattutto degli agiti delle varie figure narrate non è di nessuno.

 

Mi permetto di dissentire dalla pagina di postfazione del Dott. Alessandro Bonansea.

Scrive come tutti i personaggi descritti abbiano un carattere forte. Non è assolutamente come da lui evidenziato (dalla “principessina” Cinzia Trapani, dedita all’abuso di sostanze al “principe” Davide, morto per overdose, per non parlare dei lati deboli dei personaggi principali. Ad esempio Riccardo Colzi per il quale “gli unici momenti in cui si sente a proprio agio è quando si trova da solo.” Non posso essere d’accordo neanche sul fatto che Valeria Bianchi Mian, nota autrice e psicoterapeuta, abbia problemi nell’intessere una trama in cui viene sottolineato “il rilievo del trattare a livello narrativo un argomento scomodo come la psicopatologia.”

 

Una scrittura emblematica per la sua rilegatura, perlopiù retroattiva, dalla cifra e dal registro stilistici di notevole spessore, omogenei, originali, anticonformistici (in antitesi coi canoni tradizionali) e che non hanno cadute di tono. Un dettato chiaro e preciso, simbolo rivelatore d’un mondo fantastico con misurata magia ma anche crudo, in un tono confidenziale e brillante che cerca negli anfratti della psiche (secondo l’orientamento junghiano) il riflesso del proprio cammino.

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- Letteratura

Saggio su L’origine, Domenico Cipriano, L’arcolaio 2017

L’origine è un libro di poesie scritte perlopiù tra il 2011 e il 2016 dell’ormai famoso poeta classe 1970 Domenico Cipriano di Guardia Lombardi (AV).

La silloge si divide in tre sezioni: Un intimo inizio, Reminescenze dal sole e a chiudere Il silenzio.

In Un intimo inizio vi è tutta la derivazione geologica ed anche rupestre della maggior parte delle poesie di Cipriano, la memoria degli oggetti terreni riportata all’attualità con tono lieve ma preciso.

Queste considerazioni si traducono in aderenza alla realtà soprattutto nella poesia Per Salvatore, che ha trovato i segni del paleolitico in Irpinia:

“Un oggetto semplice (silice scalfito),/

vorace se curvato sulla pelle di animali:”

Ma anche nell’incipit della quarta poesia della seconda sezione:

“Non conosco quale filantropico mondo vivete/

questo è alle origini vegetali/

dove licantropi troneggiano nella notte”

In Reminescenze dal sole vi sono connotati amorosi espressi con padronanza, lungi dal trascendere in volgarità. Poesie d’amore scritte con raffinatezza, esprimendo il desiderio d’annettere l’amata, di giungere a possedere “un tutto in presa diretta:”

“le tue labbra friabili e distese/

la logica imperfetta che ci unisce”

“…il bianco che scorre dal seno nudo/

mostra che non c’è vergogna e clamore nell’eternità”

“Di ogni gesto di delicatezza o gemito/

scegliamo la grazia per ricondurci al mondo.”

L’unica poesia della terza sezione, Il silenzio, è molto intensa soprattutto nei primi versi:

“Due paesi vivete/

il silenzio, il respiro/

affannoso d’inverno/

la nebbia che sfoca/

i contorni, le ore/

fredde d’assenza/

la notte muta/

dei cani, le case/

stese al sole…

Raccolta intrisa di memoria della propria terra d’origine, dell’incondizionata necessità di raggiungere vette di pensiero che consentano alla sua capacità creativa di varcare il perimetro del visibile per giungere alla Psiche della sua natura di uomo. Anche il vissuto è proprio di quei luoghi in cui è nata questa Psiche (che, come già citato, in alcuni testi sconfina in Eros), del suo bisogno di presentarsi come un’anima pura e dell’incandescenza d’ogni sillaba che nettamente soverchia ogni traccia semantica di fragilità.

La poesia di Domenico Cipriano è pietrificata, omogenea, compatta ed è dotata di quell’originalità che la pone nei canoni postmoderni. Emblema rivelatore d’un mondo a volte onirico a volte magico ma soprattutto strettamente aderente alla realtà. E’ anche una riserva di simboli (non certo con riferimenti che si rifanno al simbolismo ottocentesco francese di Baudelaire, Verlaine, Mallarmè e Rimbaud). Ed è, come si evince dalle liriche d’amore, un viatico verso la sua vita interiore, la sua anima (Psiche). Il dettato è sempre limpido preciso, con un’alta cifra stilistica e possiede il dono della levigatura.

Le poesie di questa raccolta di Domenico Cipriano possiedono “il taglio netto dello sguardo sulle cose.”

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- Letteratura

Saggio su Vit(amor)te di Valeria Bianchi Mian, Miraggi Ed.

Ha buon gioco Giordano Berti nello scrivere nella prefazione che “c’è davvero tanta alchimia in queste poesie nelle quali fanno capolino draghi e teschi, madri armate di spade e figlie disarmanti, vermi e farfalle...” Ma è davvero alchimia o non è più veritiero interpretare tutte queste figure come simboli della tangenza fra universo interiore e mondo esteriore di Valeria Bianchi Mian che, esprimendosi con versi che sono pura poesia, come sempre va a finire in tali casi si fa osmosi?

Partendo da questo presupposto si può tranquillamente affermare come quella di Vit(amor)te di Valeria Bianchi Mian sia una poesia dalla quale si evince prima di tutto la grandiosa preparazione culturale dell’autrice e poi, soprattutto, la sua predisposizione analitica forgiata in una ventennale esperienza in quanto scandaglia i recessi della psiche umana esprimendosi costantemente in versi lineari e levigati in cui non mancano, anche se a una prima occhiata potrebbero sfuggire, pregnanti metafore e immagini che dischiudono la luce sull’interiorità della scrittrice per mezzo di una sorta di lente d’ingrandimento. E’ per questo motivo che i concetti espressi vengono indirizzati con maestria dall’astrazione più assoluta alla tangibilità e si materializzano linearmente in modo concreto.

 

Una lirica importante da segnalare è a pag. 57, perché esprime la paura d’invecchiare dell’autrice; poesia in cui Valeria Bianchi Mian pensa al suo futuro temendo l’aspetto esteriore che avrà esprimendosi in versi molto taglienti come “una che un giorno avrà le caviglie gonfie”, “le borse della spesa agli occhi”, “le rughe spesse.”

 

Una poesia assolutamente non aulica né classicheggiante bensì dai canoni postmoderni, limata, levigata che senza farlo apparire ci parla della quotidianità riflettendosi nel mondo esterno senza idealizzarlo ma criticandolo e lo fa con sopraffina intelligenza facendone scaturire versi di pura poesia.

Valeria Bianchi Mian intende trascendere il neoclassicismo ma non la poesia contemporanea esprimendosi a volte in termini aperti e schietti, senza però essere mai volgare ma piuttosto riflettendo nei suoi scritti quel materialismo che la fa da padrone nell’attualità.

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- Letteratura

Nazim Hikmet, Poesie d’amore MONDADORI 1999

Nazim Hikmet nacque a Salonicco nel 1902.

Personalità eccentrica e poliedrica fu poeta, autore di teatro, romanziere, saggista e giornalista. Negli anni Venti visse in Russia dove ebbe contatti con le avanguardie e in particolare con Majakovskij. Rientrato in Turchia, causa la sua opposizione al regime di Ataturk, venne condannato a una lunga detenzione in carcere dal 1938 al 1950. Successivamente si stabilì a Mosca dove venne a mancare nel 1963.

 

Hikmet riassume nel concetto “amore” ogni aspetto della propria attività e della propria esistenza. Si può senza ombra di dubbio considerare lontanissimo da quel lirismo erotico che, oltre ad aver fatto il suo tempo, non gli appartiene considerando anche che il poeta turco definisce il proprio lavoro “colloquio con l’uomo,” “servizio”: partecipazione a tutto ciò che succede nel mondo. La sua forza e il suo spessore germinano in un incontro tra culture e mondi diversi: quello di suo “nonno pascià” e quello europeo, in particolare nella punta politicamente più avanzata. Nazim Hikmet, nelle sue poesie, ci mostra due facce della propria natura lirica ed epica saldate in un unico risultato; oltretutto questo libro di liriche d’amore (nel senso assai ampio a cui si è accennato) va da un rubai di tradizione arabo-persiana al poemetto scritto per Cuba “Uno strano viaggio, dall’Autobiografia “Sono nato nel 1902...posso dire di aver vissuto da uomo...” a Il mio funerale, datato Mosca 1963, anno del decesso dello scrittore.

Per fornire un’esatta nota introduttiva alla comprensione del libro bisogna soffermarsi sulla lettera scritta a Stoccolma il 20 dicembre 1961 dal grande poeta e autore turco a Joyce Lussu. Ne riprendo alcuni passaggi: Perché ho cominciato a scrivere poesie? Cerco di ricordare. Avevo tredici anni. Abitavamo a Istambul. Mio nonno Nazim Pascià era poeta ma scriveva in un turco che si chiamava ottomano, formato per il 75 per cento da parole arabe e persiane. Le sue poesie erano dogmatiche, didattiche e religiose. Non le capivo. Mia madre era innamorata di Baudelaire e Lamartine. Più che dalla poesia di mio nonno ero influenzato dalla poesia di Tefik Fikret, il nostro primo grande poeta umanista, anche un po’ socialista ed utopista. La mia prima poesia L’incendio la scrissi a tredici anni e aveva il ritmo che imitava quello della metrica chiusa arabo persiana e s’ispirava ad Aruz. Ecco i primi versi “Brucia brucia con terribile fracasso/quel nemico dell’umanità/che stringe fra le sue braccia/le cose le madri gli orfani...” La mia seconda poesia la scrissi a quattordici anni ma non me ne ricordo un solo verso. La scrissi sotto l’influsso del poeta Mehemet Emin, il primo che abbia scritto in turco con metriche nazionali turche, sillabiche. A sedici anni, credo, scrissi la terza poesia. A quell’epoca un altro grande poeta turco dominava la nostra letteratura e si chiamava Yaya Kemal. La poesia aveva per argomento il gattino di mia sorella. Feci leggere la poesia a Kemal e lui volle vedere il gatto di mia sorella. Yaya Kemal mi disse: “Se vuoi fare una poesia su quella bestiola, puoi diventare un grande poeta.” C’era scritto: “Aveva gli occhi verdi come le onde del mare/con i suoi peli bianchi sembrava una palla di neve...” A 17 anni ho pubblicato la mia prima poesia, largamente corretta da Kemal:

 

Ho sentito un lamento sotto i cipressi

mi son chiesto, c’è qualcuno che piange qui?

O è il vento che si ricorda d’un amore passato

in questo luogo solitario?

 

Un tempo pensavo che i morti ridessero

quando le nere cortine cadon sugli occhi

ma ora mi chiedo se i morti che amavan la vita

piangono ancora sotto i cipressi.”

 

Poi gli Alleati occuparono Istanbul ed io scrissi poesie contro l’Intesa inneggiando al movimento di liberazione in Anatolia. A 18 anni passai in Anatolia, scoprii il mio popolo e le sue lotte. Per trovare il modo giusto, a quanto pare, era necessario che passassi all’Unione Sovietica.

Era la fine del 1921.

Ho scoperto tutta un’altra umanità.

E, da allora, non posso non scrivere poesie.

 

E’ nelle poesie scritte dalla prigione di Bursa in Anatolia, denominate dal grande poeta turco “Lettere dal Carcere a Munevver,” che Hikmet trova i suoi più alti passaggi poetici d’amore: “Il più bello dei mari/è quello che non navigammo/il più bello dei nostri figli/non è ancora cresciuto/.../E quello che vorrei dirti di più bello/non te l’ho ancora detto” del 1942. Poi “guardo l’istante fiorito e azzurro/sei come la terra di primavera, amore,” del 1943. A seguire “il mio secolo che muore e rinasce/il mio secolo/ i cui ultimi giorni saranno belli/la mia terribile notte lacerata dai gridi dell’alba/il mio secolo splenderà di sole, amor mio/come i tuoi occhi...” del 1945. Ancora, alcuni versi di due poesie del 1947: l’incipit della prima “Ho sognato della mia bella/m’è apparsa sopra i rami/passava come la luna/tra una nuvola e l’altra/” La seconda è notevole: “lo stesso vento non agita/due volte lo stesso ramo di ciliegio/gli uccelli cantano nell’albero/ali che vogliono volare/la porta è chiusa/bisogna forzarla/bisogna vederti, amor mio,/sia bella come te la vita/” Altri versi da segnalare sono in una poesia del 1948: “quante volte han pianto davanti a me/rimasti tutti nudi, i tuoi occhi/nudi e immensi come gli occhi di un bimbo/un giorno han perso il loro sole/”

Sempre del 1948 è una poesia strepitosa che riporto per intero:

 

Anima mia

chiudi gli occhi

piano piano

e come s’affonda nell’acqua

immergiti nel sonno

nuda e vestita di bianco

il più bello dei sogni

ti accoglierà

 

anima mia

chiudi gli occhi

piano piano

abbandonati come nell’arco delle mie braccia

nel tuo sonno non dimenticarmi

chiudi gli occhi piano piano

i tuoi occhi marroni

dove brilla una fiamma verde

anima mia

 

Di questo poeta rivoluzionario tra i più celebri del nostro tempo ci rimangono i versi immortali che compongono un itinerario creativo svincolato da inutili orpelli, ma intensamente forte nel trasmettere il messaggio dell’amore, della libertà e, come appare in moltissime sue poesie, della bellezza della vita. Le sue poesie immediate e schiette colpiscono il lettore per la loro semplicità. Di seguito riporto una nota della scrittrice Joyce Lussu, amica e traduttrice del poeta turco.

La mescolanza di razze, di culture e di esperienze diversissime ne avevano fatto un essere ricco e originale, levigato dalle discipline ma sdegnoso di servire. Non si piegava ai compromessi, nemmeno a quelli che in generale, con sottile opportunismo, definiamo necessari. […] ha vissuto come un uomo libero, padrone sempre di sé stesso e della sua condizione consapevolmente affrontata. Che sia morto, non ha grande importanza. Il suo modo di essere si è realizzato ed espresso nella sua poesia, e tutto continua, salvo il rinnovarsi della sua personale felicità o infelicità e il battere faticoso del suo cuore tra un infarto e l’altro. I suoi amici, presenti e futuri (ne nasceranno ancora tra molto tempo), continueranno a leggerlo e a ritrovarlo.”

 

Marco Galvagni