I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
*
- Poesia
Dark Angel
Dark Angel Winner of the ‘best text award’ of Darkworld Competition.
There is an Angel bent on a book With the face darkened by his same shade What underlines with a gold pen every bloody reason Chatters sentences and pushes us to the violence The order to which is owed us to rebel Whose words escape to the control Reaching cities where other dark angels have already fallen Wander sinful looking for other souls to be violated What they find solitary and abandoned along the roads Everywhere the injustice and the hunger it reigns Anywhere slap a flag and confinements are drawn Where earth remixes him to the earth With the mud and the stench of the stiff Everywhere a repression is in action Where every liberty is denied.
I say yes, what we thought impossible is finally happened Yes, in truth all of us wanted that could be happened.
There is an Angel sat on top of the world What it spreads poisons of death Thinking to when one day we will be all extinct ones Who shouts... violate! smothered! destroy! What it denies the liberty to each Repressed with the rifle and the guns On the front of the today's globalization But already the future trap this time of ours Returning us a dark image of ours emulate thoughts While us.. alienated... deviated... hallucinated... Still believe what we have believed before... that perhaps... with the time... What we may found other spaces other dimensions not confirmed, Ideal cities whether to reach the endless being that we am Feelings of void or perhaps of absolute Where one day we would have been able to demolish every single wall
Now I say no, even if all of us thought that would have been possible What we were able to do all of this that we were not able to do.
Dark Angel Vincitore premio per il miglior testo in “Darkworld Competition”.
C'è un Angelo chinato su di un libro Con la faccia oscurata dalla sua stessa ombra Che sottolinea con una penna d'oro ogni ragione Che blatera sentenze e spinge alla violenza Contro ogni ordine al quale ci si deve ribellare Le cui parole sfuggono al controllo E raggiungono Città dove altri angeli caduti S'aggirano peccaminosi in cerca d'altre anime da violare E che pure trovano, solitarie e abbandonate lungo le strade Dovunque regna l'ingiustizia e la fame Ovunque sventola una bandiera o si disegnano confini Dovunque la terra si rimescola alla terra Col fango e il puzzo della merda Ovunque c'è una repressione in atto Dovunque ogni libertà è negata.
Io dico sì, quello che un tempo pensavamo impossibile è infine accaduto Sì, in verità tutti quanti noi volevamo che accadesse.
C'è un Angelo seduto in cima al mondo Che diffonde veleni di morte Pensando a quando un giorno saremo del tutto estinti Che grida.. violate! soffocate! distruggete! Che nega la libertà di ognuno Repressa col fucile e col cannone Sul fronte dell'odierna globalizzazione Ma già la trappola futura insidia questo nostro tempo Restituendo un'immagine oscura d'ogni emulo pensiero Mentre noi.. alienati... deviati... allucinati… Abbiamo creduto ancora ciò che non avremmo mai creduto... che forse... col tempo... Avremmo trovato altri spazi altre dimensioni non omologate Città ideali dove raggiungere l'essere infinito che noi siamo Luoghi di vuoto o forse d'assoluto Dove un giorno avremmo abbattuto ogni singolo muro.
Io dico no, anche se noi tutti pensavamo che sarebbe stato possibile Che fossimo capaci di poter fare tutto ciò che non eravamo capaci di fare.
Id: 3485 Data: 09/10/2024 05:55:05
*
- Magia
Briciole di tempo ..frammenti per chi ne ha da perdere.
Briciole di tempo / Nick of time (..frammenti per chi ne ha da perdere). Come spesso mi capita durante i lunghi tempi vuoti, che invece di dedicare all’ozio (che allunga la vita) investo nella scrittura (deleteria alla riabilitazione fisica e alla psiche), mi sorprendo a domandarmi quando è stata l’ultima volta che ho avuto davvero paura. Non certo per svago, poiché giocare con le parole molto spesso è stato per me come aver fatto una scommessa col diavolo. E con me il diavolo ha voluto giocare davvero duro, almeno una volta, sbattendomi in faccia la sua inconfutabile realtà, ripetendomi una frase che, a distanza di tempo, ho ritrovato nella didascalia di un film in programmazione: “L’ultima immagine che vedrai della tua vita è l’attimo fuggevole della tua morte”, e che ancora mi pesa addosso come un macigno. Certo, un’affermazione tipica da trailer dell’orrore, da non prendersi in considerazione più di tanto, se non perché rappresenta una realtà precostituita, quasi un atto di necessaria superbia, o se vogliamo di schietta presunzione, da parte di chi da sempre pensa di gestire la cosa umana, e inesorabilmente ci riesce. Posso dire d’averla vista davvero in faccia la morte, una notte, senza saperlo. È stato quando riaprendo gli occhi in un letto d’ospedale per degenti terminali, dopo non so quanto tempo e quanto dolore avevo causato a tutti quelli che disperavano di rivedermi risanato, mi sono scoperto inamovibile, amorfo, oggetto inqualificabile dell’inconsistenza. Fatto è che nessuno dei presenti si accorse che ero diverso da quello che ero sempre stato, che ero diventato un altro, come non ero mai stato: uno zombie. Ricordo che era appena suonata la mezzanotte, quando svegliato di soprassalto, mi sono lasciato cadere sui cuscini di un ampio letto con baldacchino, in una stanza rettangolare con alti specchi alle pareti che oltrepassavano il soffitto, che ovviamente non vedevo. Tutt’attorno al letto si allineavano solidi mobili di buona fattura rinascimentale, e un grande armadio a quattro ante, alto, scuro, che occupava l’intera parete sul fondo, e ceri, tanti ceri accesi dappertutto. Logori epitaffi, vagavano nell’aria, insieme a suoni, odori, colori, bandiere sparse a ricordo di vecchie guerre o forse giochi. Mute statuette d’ebano che raccontavano storie di etnie sconosciute, di tempi remoti, di ninnoli impolverati, e cocci, ciotole e pennelli d’ingenue scaramucce con la tela. Negli scaffali tantissimi libri pieni di parole, che si aprivano al solo guardarli fino a soffocare l’aria di virgole e punti sconnessi, sillabe incerte, chiuse in coperte di pelle, di tela, nel riecheggiare di versi contemporanei dell’ultimo Ungaretti. A grida tumultuose, ombre sparse s’agitavano affannate sulle pareti dove solitari candelabri si levavano a sostegno di smunte candele, a ricordare notturne lotte con le tenebre, presenti in ogni momento, tra le coperte in disordine del letto, tra le molte carte sparse senza senso, nella stanza disfatta, ancora da rassettare. All’improvviso fu come se tutto intorno a me fosse cambiato, ogni mio gesto, ogni mia azione, ogni frase che pure non avevo pronunciato si rovesciasse, assumendo un significato diverso, come se il passare del tempo perdesse d’importanza, e l’orologio che pure vedevo attraverso il riverbero sulla parete, era fermo alla mezzanotte, e ancora mi sembrava di sentirne l’ultimo rintocco. Ricordo d’essere rimasto immobile per non so quanto tempo, sveglio nel sonno, immerso nella luce arcana, vaga, ingannevole d’un altro luogo, che gli altissimi specchi rimandavano, con l’arido sguardo polveroso di chi accumula polvere dove più ce n’è, oggettivamente separato da ogni cosa che pur riconoscevo come mia, che in qualche modo mi apparteneva, perso in un mondo estremo, come d’uranio, fermo nello spazio senza moto, senza suono, senza futuro, raccolto in un solo battito di solitudine, dove l’io restava schiacciato al suolo per lo spavento d’essere vivo. Tuttavia non c’era ansia in me, bensì una sorta di emorragia del tempo attuale, in cui le pareti della stanza trasparivano a costrutti metafisici, dove non accadeva nulla, dove non arrivava nessuno, perché non aspettavo nessuno e certo non sarebbe arrivato nessuno. In ciò che pure avevo avuto fino a quel momento, nel corso della mia vita reale, fosse mancato qualcosa, che in ciò in cui avevo creduto non c’era stata la necessaria determinazione. Ricordo che l’attesa era stata lunga, interminabile, tanto lunga da infrangere le pareti di cristallo della stanza dove si dipanavano i miei giochi impossibili, troppo profondi, troppo ardui per essere autentici, e che i pensieri erano infine trasmutati in altri pensieri, diversi e pur sempre uguali, e non aveva dato frutti. L’unica cosa viva la mia penna scriveva, da sola senza l’ausilio della mia mano, in bella calligrafia sulle pagine di un quaderno, di un’agenda, o forse di un diario, o un deck, non ricordo, il problema semmai era come venire in possesso del suo contenuto. A uno zombie si sa, non è dato utilizzare lo stesso linguaggio umano, spero soltanto di poter rileggere quello che devo aver scritto, o almeno risentire quanto oralmente credo di aver detto a un palmare, anche se per mia conoscenza il linguaggio parlato non può essere lo stesso. Se, come qualcuno ha scritto, ogni parola ha un suo tempo per essere letta, e ognuno di noi ha un tempo diverso di leggere, quello che andrei a rileggere o a risentire, potrebbe essere diverso, verosimilmente più vicino all’occulto, al paranormale. In quanto al senso, indubbiamente l’aspetto che più m’interessa, è leggere cosa si nasconde dietro quelle parole, cosa c’è dentro di me, dentro di noi, che non ci è dato conoscere, quel certo qualcosa sicuramente imperscrutabile che pure altri arrivano a scandagliare, a comprendere, nel torbido della nostra esistenza. Si dava il caso che fossi di ritorno da una cena in un ristorante con un certo numero di persone, e che lo sguardo insistente di un commensale in fondo alla sala, che non aveva smesso di osservarmi per tutto il tempo, mi creava un certo imbarazzo. Che cosa poteva volere quello sconosciuto che mi guardava da dietro gli occhiali, se neppure lo conoscevo, se non l’avevo mai visto prima? Eppure lui sembrava conoscermi, perché, a un certo punto, mi sorrise e m’indirizzò un gesto di saluto. Sapevo di avere una buona capacità mnemonica che da sempre mi sosteneva anche a distanza di anni, ma che forse mi stava tradendo. Se avessi incontrato prima la sua faccia singolare, l’avrei certamente ricordata, riconosciuta tra mille, centomila, un milione – mi dissi. Aveva gli occhi nascosti da spesse lenti, ora invisibili, ora fortemente cerchiati quando aguzzava lo sguardo scrutatore, fino a farsi quasi invadente, come di chi cerca un sostegno all’operato di una malvagia seduzione. Rammento che in Lo scrutatore d’anime di Groddeck veniva formulata una situazione analoga da un diverso punto di vista: che cosa mi aspettavo da lui, forse di incontrarlo da un’altra parte, in un altro momento, un altro giorno, per la strada? Impossibile negarlo, a un primo momento di reticenza sentivo in me la tenue speranza che fra noi due si fosse stabilita quell’attrazione che ci avrebbe sospinti senza sforzo l’uno verso l’altro e che la mia domanda, anziché eludere, finiva per consolidare il nostro incontro. La giustificazione razionale, invece, era che in qualsiasi piano strategico questo sarebbe stato possibile, in un momento o in un altro, semmai l’attesa era solo una componente necessaria. Da quell’ottimo scrutatore che era, il diavolo, o lo sciamano che fosse, tuttavia, sembrava deciso a fare di me una sua vittima. Da sempre ero stato messo in guardia da certe figure spregevoli, portatori di mala sorte, che si mischiano alla gente comune per estirpare denaro o, come dicevano, per suscitare paura, per carpire l’anima. Superstizione, dicevano i più saggi, ma c’era chi a certe cose ci credeva eccome, e allora giù a raccontare aneddoti arcani, fatti raccapriccianti, accadimenti oscuri che non trovavano riscontro, se non nell’immaginazione di chi li raccontava. Niente di più di quanto in antropologia culturale indica l'insieme delle credenze e il modo di vivere e di vedere il mondo di società animiste e di fasce di popolazioni non alfabetizzate che si pensavano scomparse. E che invece, continuano a tramandarsi una sorta di cultura sotterranea, esoterica, che, nascosta all’interno di tradizioni oscure, dall’apparenza innocua, attraversa la rete planetaria, s’intrufola negli interstizi del web, e attraverso internet raggiunge ogni più remoto angolo della nostra galassia. Una sorta di “magia bianca” che, entrata di sottecchi nella psicologia umanistica e trans-personale, così come in quella del profondo (detta anche esistenziale) e nella filosofia dei sentimenti, conferma che l’occulto riscontra un largo margine di efficienza e di autenticità nel mondo cosiddetto acculturato e tecnologicamente avanzato. Tale, che un certo numero di persone ancora vi ricorre per risolvere problemi legati al timore della morte, e mettere alla prova la tenuta della propria fragilità. Non si spiega altrimenti come, invece, proprio nel terrore della morte, ognuno trovi la spinta necessaria verso la ricerca interiore, l’intimo inconfessabile desiderio di penetrare e conoscere il senso della propria esistenza, o all’opposto, la supervalutazione del proprio ego, il potere assoluto, la semi-immortalità. Chi l’avrebbe detto che un giorno, nel bel mezzo del XX secolo, memore dei tanti racconti cui non avevo mai dato importanza, mi sarebbe capitato di imbattermi in uno sciamano che voleva strapparmi l'anima? Eppure è accaduto, l’ho incontrato. Era seduto lì, in quel ristorante, probabilmente da sempre, e aspettava proprio me. Quando al termine della cena mi avviai verso l’uscita, in coda alla fila degli ospiti, l’uomo si alzò in piedi e mi guardò fisso negli occhi, quasi volesse appurare la mia identità. Ricambiai il suo sguardo senza battere ciglio, pensando che ciò l’avrebbe fermato dal suo intento, ma non vi riuscii, il suo sguardo era fisso su di me e io rimasi immobile davanti a lui. Devo parlarle, disse. Improvvisamente la luce delle lampadine mi parve più soffusa e per un attimo le ombre sembrarono prendere il sopravvento. Mi parse d’intuire che quelle ombre vagamente riconoscibili, sedute ai propri tavolini, rivelavano l’esistenza di un popolo maligno che mi osservava vorace. Rimanga, la prego, lasci che la osservi più da vicino. Non si preoccupi, i suoi amici non si accorgeranno del suo ritardare ad uscire. Immagino che lei sappia perché la stavo osservando? Ci conosciamo forse? No, ma io so cosa le capiterà fuori di qui. Lei è un veggente? Forse. Ha bisogno di denaro, vuole essere pagato per una prestazione non richiesta? No. Allora cosa vuole da me? Si sbrighi, perché non ho intenzione di dedicarle oltre il mio tempo. Purtroppo l’arroganza non paga, e lei non ha poi tutto questo tempo. È quindi di denaro che stiamo parlando, non avevo dubbi. Non saprei che farmene del suo denaro, potrei ottenere tutto quello che voglio, se solo lo volessi, ma non lo voglio. Io, come lei, sono costretto a vivere dentro questa realtà quando avrei bisogno di una qualche distrazione, che non riesco a prendermi, che non posso prendermi. Vuole farmene una colpa? Assolutamente no, ma come vede io e lei siamo i due opposti che prima o poi s’incontrano, che sono destinati a incontrarsi. Si spieghi, oppure mi lasci andare. Nessuno la trattiene, sto solo cercando di spiegarle ciò che lei non sa, che non può sapere. Non sempre ci è dato sapere, talvolta è meglio non sapere quello che non c’è dato. Ma forse, conoscere il momento della sua morte, sì. È di questo che vuole parlarmi, della mia morte? Beh, credo che quando sarà il momento, me ne accorgerò senza l’aiuto di nessuno. Comunque grazie. Buonanotte. No, aspetti. Dovevo dirle che questo potrebbe essere il suo ultimo momento, che la fine la sta aspettando fuori da quella porta. Non esca, non adesso, anche se solo adesso vedo nei suoi occhi che supererà questo tragico momento. È questa una prova per vedere se la sua sensitività ha un qualche fondamento, o una sfida lanciata per misurare la paura che riesce a inculcare nel prossimo? Entrambe. Lo zittii sollevando una mano. No, non cerchi di scusarsi, il suo è solo un sospetto non una certezza. Non ha mai provato paura prima d’ora? Non ricordo, o forse sì, lo ammetto, nelle fiabe, nei racconti dei vecchi, nei film dell’orrore, ma ne ho anche riso, qualche volta. È ciò che l’ha salvata fin qui mi creda, il suo arguto senso dello scherno, dell’ironia, del bizzarro, che ha dell’incredibile e che la salverà ancora. Il sarcasmo induce la morte a ripensare se stessa, talvolta a retrocedere nel suo intento, al diavolo come al buon dio di fermare la partita giocata sulla scacchiera del destino. Forse si aspettava dell’altro? C’è dunque una possibilità di viverla fino in fondo questa vita, di poter scegliere il proprio destino? Nessuno di noi può vantarsi di averlo fatto, ma a qualcuno è dato, lo sanno bene gli scrittori di romanzi gialli, di racconti in nero. I primi per aver dato a certi personaggi quell’immortalità che non è data ai comuni mortali, e a tutti gli altri per aver scandagliato nei risvolti dell’anima umana quella coscienza/incoscienza dell’orrore del profondo. Lo sanno gli spiriti della notte che trapassano le tenebre delle allucinazioni per entrare nei sogni, gli zombie come morti viventi che talvolta tornano a infestare i luoghi che pure gli sono appartenuti, i fantasmi il cui spirito vaga senza posa in cerca di rivendicazioni, quegli eroi del mito le cui gesta, impresse nel grande libro del bene e del male, hanno permesso loro di accedere nell’Olimpo degli dei. Lo sanno i grandi di ogni tempo le cui opere pittoriche, scultoree, architettoniche, sono destinate a perdurare nella futura memoria del genere umano, quasi che la suprema edificazione del mondo sia a loro attribuita, quando a loro insaputa, sempre vi si riconosce l’impronta di dio, o talvolta, per le opere più ardite, la geniale avventatezza del diavolo. Lo sanno gli scienziati di tutte le discipline, attraverso le ricerche avanzate, le menti che trovano una possibilità di fuga dalla realtà, come pure tutti gli altri, quelli che con irresponsabilità accendono le polveri e scatenano le guerre di distruzione dell’intero pianeta. Che non è opera del diavolo, che non avrebbe di che vivere senza le meschine debolezze degli umani. Ma chi ne sa ancor più è lo scrittore di fumetti, l’inventore del genere letterario cosiddetto mistery, che vede in Edgar Allan Poe il maestro di riferimento, cui molti autori devono qualcosa. “Siete bravo quasi quanto il Dupin di Edgar Allan Poe. Non pensavo che nella vita reale esistessero persone simili”, commentava ammirato il dottor Watson nelle prime pagine del romanzo che inaugurò la fortunata serie di Sherlock Holmes. Così, con questo piccolo omaggio, Arthur Conan Doyle riconosceva il proprio debito verso l’inventore del genere poliziesco, dando al contempo conto di quanto fosse noto il nome di Poe. Dobbiamo forse lasciarci trascinare dagli eventi nella convinzione che quanto possiamo fare sia completamente inutile? Davvero mi rimane così poco tempo da vivere? Chiesi, fingendo d’essere rimasto toccato dalle sue eloquenti parole, e in fondo lo ero, eccome. Just a nick of time, per chi ne ha da spendere, la fuori da quella porta “l’ultima immagine, che vedrai della tua vita è l’attimo fuggevole della tua morte” fu la sentenza. C’è sempre la possibilità di non aprirla, ma che differenza farebbe? – aggiunse. Già, che differenza avrebbe fatto! Non avevo forse superato innumerevoli difficoltà, nelle foreste e nei deserti che avevo attraversato vagando nelle strade delle città in cui avevo vissuto? Già, che differenza avrebbe fatto se fossi restato ancora un poco lì, in quel ristorante che ormai mi era quasi famigliare, aspettando che lo spirito che mi aveva animato fino a quel momento, si decidesse di lasciare il mio corpo. Allora vorrei che fosse un ultimo bicchiere a decidere la sorte, il suo guardarmi abietto contro il mio sorriso - pensai. Oste, un boccale di vino tinto e due bicchieri, e via alla malasorte! La prossima volta non sarà come la precedente, né come quella che verrà, dissi poi, dopo aver bevuto fino all’ultima goccia, attraversando la soglia della porta, spalla a spalla col diavolo che mi accompagnava fin dentro la notte. Era buio fuori, e una folla immensa mi venne incontro festeggiante, con le candele in mano e mille zucche orrende che sorridevano spaventose onde affrontare la notte di Halloween!
Id: 3479 Data: 06/10/2024 18:48:35
*
- Libri
Frammenti di Viaggio - un libro di Alessandro Villa
Alessandro Villa … o del piacere di scrivere poesia. “Frammenti d’Estate, Versi in Viaggio” – Prometheus Editore 2024
«Dolce ti culla / nel magico viaggio / sull’onda (ogni nota un volo) / …il pensiero s’espande / oltre i confini del reale / ed eccoti / ad abbracciare i sogni / mentre la luna / ti sorride.» (La voce) Un’indagine sulla ‘forma’ e sul ‘senso’ dello scrivere contraddistingue e determina l’andamento evolutivo di questa ‘poesia’ nel rapporto costante con la natura antropica e ambientale che la determina nella sua estemporaneità verbale. Non ha caso un noto filosofo quale è Gaston Bachelard in proposito scrive: “Ciò che può sperare la filosofia è di rendere la poesia e la scienza complementari, di unirle come due contrari ben fatti”, avallando così un ipotetico quanto possibile luogo dove la poesia è chiamata a coabitare, cioè nel “futuro sostenibile della comunicazione immateriale”, partecipata oggi da milioni di fruitori nel mondo, che pur ci dice del suo continuare ad essere malgrado le angherie subite nella scuola, dalla quale è stata pressoché abolita. La ritroviamo infatti negli spazi più insospettati come la pubblicità e gli scambi ‘social’ e/o sempre più spesso negli sproloqui di logore citazioni di quanti forse neppure sanno di affondare le mani…
«Gli occhi parlano / con la notte, / le palpebre col buio: / mio / il sogno / …tuo / il giorno.» (VRSAR)
Che la ‘poesia’ rappresenti una delle migliori forme artistiche dell’umano esprimersi è alquanto assodato, malgrado qualche avventato ne abbia determinata la fine, di certo non sono estinti i poeti che imperturbabili continuano a raccogliere le loro dissertazioni, accresciute e maturate negli anni, che vengono pubblicate in antologie e sillogi più spesso in un ambito editoriale di nicchia e che pure ne attestano la sua sopravvivenza nel tempo, affermando il prosieguo di una indiscussa ‘memoria lirica’ mai venuta meno…
«Una danza di nubi / su rami d’abete / e fruste di sole / sull’acqua… / il giorno che muore / ha già l’eco / dell’alba.» (Cres…la sera) Ciò che inoltre alimenta la conservazione di una certa tradizione lirica del verso, assumendo più che mai un contesto di grande attualità; si pensi all’esercitazione canora costantemente innovativa della lingua, al suo dare una vertiginosa loquacità espressiva nel dire di tutti i giorni: «Parlo, guardo ascolto: il silenzio m’imprigiona.» Ecco, la ‘poesia’ al dunque, ha permesso tutto questo, l’espandersi della linfa che da sempre ispira i ‘poeti’ e che si riversa nel mondo contemporaneo nell’odierna ‘canzone popolare’ che, come dice un noto ritornello scrivono quelle che “non sono solo canzonette”, bensì autentiche romanze d’amore, inni alla gioia, esaltazioni del dolore e della solitudine dell’anima che, rispecchiando i sentimenti dei singoli, seppur tradotte nei diversi linguaggi, volgono in divenire a quell’intimo immateriale che è testimonianza di tutti noi indistintamente, prioritario del nostro esistere e della ‘storia universale’ che andiamo scrivendo…
«Una nota / accende emozioni / mai sopite / …il passato, oggi… / il tempo, fermato… / “Senectute”? / No, voglio questi istanti / qui (ancora) / sorridere, gioire / di quell’attimo / d’infinito.» (Musica)
«Nostalgiche note / indulgo, “serici sogni” / mi portano lontano. / Voci, volti, viaggi / veloci scorrono / ed eccomi (vagabondo) / nel tempo…» (Ascoltando Battiato). Ciò che nel contrasto con la filosofia in parte sfugge alla dimensione effimera che in genere si dà alla ‘poesia’, per fare qui ritorno, dopo tanti verticismi e barocchismi linguistici, a quella linearità auspicata da più parti, che ne determina la liricità più pura, in cui il verso recupera quella sua semplicità espressiva che da sempre ci accompagna…
«Agita i fianchi / accenna una ruota, / le mani nell’aria / i passi in volo, /Fissa lo specchio / e ripete, ripete… / inseguendo / l’acerbo sogno / d’una scena.» (La piccola ballerina)
Una linearità che ritroviamo in Alessandro Villa attraverso l’intero arco della sua produzione poetica, frutto di una lunga esperienza di vita con e nella poesia che lo ha visto protagonista di molteplici iniziative antologiche in Italia e all’estero con la creazione di Premi Internazionali, nonché del Centro Giovanile di Triuggio dedito alla formazione e allo studio della ‘poesia italiana’ che egli in parte riscatta dal definitivo oblio…
«Rapide / saltellano / le dita, vibrano / le corde, / danzano / le mani / del bardo e le storie / prendono vita / (tutto è uno, l’uno è il tutto). / Dalle nebbie del tempo / ecco i lamenti / di Boadicea… / Rapide, rapide / s’intrecciano note, / rapide, rapide sfumano / (fatui fuochi d’una sera).» (Sogni)
Ancor più in tutta la sua integrità in quest’ultima raccolta decennale, per l’appunto intitolata “Frammenti d’Estate” che ripercorre il sapore e la gioia di una lunga stagione assolata degli anni che si porta dietro, non come rimembranza, si direbbe più come sogno svolto ad occhi aperti sulle intermittenze della vita, alla lettura mai stanca delle emozioni nel fluire dei giorni, degli incontri fatti e degli sguardi sui volti delle persone, dell’andirivieni dell’onde del mare, così come del movimento delle nuvole a nascondere il volto ‘poetico’ della luna, onde avvalorare contrasti e pacificazioni del rincorrersi delle stagioni…
«Fluttua il pensiero / oltre gli scogli / in cerca di un filo / che ne leghi la trama. / Il vento scompone / logora e frantuma / emozioni che l’acqua / raccoglie e l’onda / raduna… / l’infinito le culla / sciogliendone i nodi / che un sole assopito / trastulla, tra sogni / ed attese di luna.» (Pensiero) Leggiamolo dunque i suoi passaggi più significativi della sua nuova raccolta, con lo sguardo rivolto a questa lunga assolata ‘estate’ in cui il poeta racconta se stesso non senza un pizzico di crepuscolare malinconia, in cui la sua voce si leva nel canto alla bellezza della vita.
L’Autore. Alessandro Villa vive e opera a Triuggio (MB), fondatore del Centro Giovani e Poesia, ha promosso numerose iniziative e manifestazioni culturali, quali l’omonimo Premio Internazionale di Poesia; ha elaborato una metodologia di lavoro che ha trovato ampia applicazione nei “Laboratori di Poesia” organizzati dal Centro. È presente in numerose antologie poetiche, anche estere, tra cui YIP (Yale Italian Poetry), ha pubblicato nove raccolte di poesia e il saggio biografico “Il canto della gru”, tradotto e pubblicato in molti paesi di lingua slava. È autore del saggio: “Giovani e poesia contemporanea in Italia: un viaggio tra sogni, illusioni e tempeste…” (Poeti e Poesia). Dirige la collana di poesia “Camene” per Prometheus Editrice, rivolta a giovani autori emergenti. Email: centrogiovaniepoesia@gmail.com
Id: 3443 Data: 08/09/2024 05:28:37
*
- Politica
Bla, bla, bla … melograni, meloni e cocomeri.
Bla, bla, bla … melograni, meloni e cocomeri.
A spicchi, a fette o interi si sa, d’estate meloni e cocomeri sono i più consumati sulle tavole degli italiani, pregustati ad oc in antipasti e cocktails, frullati e/o interi fanno sfoggio di sé come centrotavola insieme a melograni e fichi che sanno di caravaggesca pittura, senonché si vuole che il quadro d’insieme, è risaputo, dopo qualche giorno il tutto tornato all’aria aperta (leggi fuori dal frigo), si disfa e diventa ‘natura morta’. Così come seduti sugli scranni del nostro Parlamento, dopo l’estate, ormai tutti sanno di stantio. Per non dire che di melograni (ricchi all’interno di sapienza e dignità), se ne sono visti pochi, si può ben affermare che, malgrado la buona volontà, i meloni si sono rivelati cucuzze (sciape di senno e vuote di cervello). In quanto ai cocomeri (slavatura d’acqua zuccherina) va detto, che con la ripresa dei lavori parlamentari dobbiamo aspettarci una scivolata nella feccia non da poco, soprattutto se consideriamo che le ‘cocce’ marciscono in fretta e che, oltre ai semi sputati in faccia agli italiani, la prospettiva è quella di finire tutti nel cesso del governo. Chi l’avrebbe detto, dopo le promesse elettorali, i magniloquenti discorsi “Dio, Patria, Famiglia” a voler dire: ‘ascoltare’, ‘comprendere’, ‘fare’ e quindi ‘risolvere’ i problemi, se ne riscontrano più di prima, esattamente come dopo “La Caduta dell’Impero Romano”. Il che è tutto dire, quel che rifà il verso a “tutto fumo e niente arrosto”, esattamente come volevasi dimostrare.
Che Iddio ce ne scampi!
Id: 3442 Data: 07/09/2024 06:06:29
*
- Libri
’Compagni di Scuola’ - un libro di Stefano Di Gialluca
“Compagni di Scuola” un libro di Stefano Di Gialluca – Albatros 2016 Una macchia d’inchiostro sulla pagina di un diario ed è subito Scuola, il giorno del rientro dalle vacanze estive che abbiamo appena concluse e che avremmo voluto non finissero mai, eppure … … eppure eccoci qua, a distanza di anni, a ricordare molte cose che abbiamo memorizzate e mai più dimenticate, anche se non tutte così eclatanti come c’erano sembrate allora. Ma si sa il tempo stempera gli entusiasmi, i colori che usavamo per scarabocchiare i nostri ‘scherzi’ audaci, le frasi sconnesse e ‘farlocche’ che ci scambiavamo negli intervalli delle lezioni, come rifare il verso a quello e/o a quella insegnante che regolarmente ci metteva un bel ‘cinque’ in condotta e qualche ‘nota’ sul diario che poi dovevamo in qualche modo spiegare ai genitori. Ma come tutto questo riguarda il passato cui non sempre ci è facile fare ritorno, anzi con la modestia del poi, possiamo dire che un vero e proprio ‘ritorno al passato’ non è possibile, perché molte delle cose sono andate perdute col tempo. Tuttavia quel che rammentiamo oggi, sono quei ‘giorni così speciali’ che in seguito sono divenuti motivo di riflessione, e magari ancora ne ridiamo, più perché ci consolano nella raggiunta ‘pace interiore’ degli anni avanzati “…o più semplicemente per pura malinconia” – come scrive l’autore – ricordando la propria adolescenza in queste pagine di diario. “Il passato, gli anni che hanno contraddistinto la mia adolescenza, i periodi più belli nei quali il divertimento era la parola principe di un vocabolario chiamato spensieratezza. Gli anni trascorsi sui banchi di scuola sono stati unici e indimenticabili soprattutto perché i principali protagonisti di quei tempi erano loro, i miei ‘vecchi’ compagni di scuola. (..) Erano loro, i miei compagni, che rendevano le giornate tremendamente ironiche e piene di significato e che oggi mi trovo qui, a (ri)pensare a quei giorni insieme con un pizzico di nostalgia e forse con un pizzico di tristezza”. Dunque, non c’è da meravigliarsi se il tempo ha racchiuso nella propria sfera di semi-verità e piccole menzogne in un diario tutto quel che ci dicevamo frammisto a quel che accadeva di veritiero, fatto è che tutto quel che oggi ci accomuna sono i ricordi di quel tempo … … quel tempo in cui: “L’obiettivo che ci accomunava era il conseguimento del diploma ma ognuno voleva arrivarci a modo suo. C’era chi marinava spesso e volentieri le lezioni, chi di fronte alle interrogazioni si nascondeva dietro scuse fantascientifiche e chi studiava giorno e notte per ottenere voti elevatissimi. Volevamo a tutti i costi raggiungere quel traguardo e la nostra preghiera più ricorrente per far si che tutto quello avvenisse era “voglia di studiare saltami addosso”. A chi si stesse chiedendo che cosa potesse esserci di tanto particolare in quella classe, rispondo con una frase che trovai scritta sulla porta dell’aula il primo giorno che mi recai in quell’istituto: “Il singolare di alici è alicia!”. Si è sempre in molti ma comunque pochi sono infine quelli che restano, schiacciati nella memoria come in una scatoletta di sardine che pure si ribellano, senza infine poter fare granché, se non di affrontare la realtà di una vita edulcorata e/o artata che sia, e che prendono e si perdono per le diverse strade della macchina mangia persone che è la società in cui, siamo costretti a vivere. I nomi, che pure sono importanti in una qualunque storia si voglia raccontare, hanno assunto nel tempo sembianze di quelli che in verità erano dei “compagni di scuola”, sono rimasti solo i nomignoli che ognuno si è accaparrato e che rispondono a un vezzo e/o talvolta a un difetto, con i quali venivano regolarmente appellati: Kiki, Ciccotto, Beta, Meri e tanti altri. Ma non fatevi caso, non è tutto qui, col tempo qualcuno di loro ha assunto un connotato importante come Avv. Prof. ecc. Fra quanti sono qui ricordati è forse l’autore di questo piccolo ‘gioiello’ che più di altri ha mantenuto un epiteto accattivante, quello di Maître d’Hotel per il fatto che si è diplomato all’Istituto Alberghiero di San Benedetto del Tronto e da sempre è impiegato nel mondo della ristorazione. È così che, rispolverando il suo “diario degli orrori”, come lui stesso lo ha chiamato, nel quale era solito racchiudere le frasi più esilaranti dei suoi vecchi amici e compagni di viaggio … … di un ‘viaggio’ infatti si tratta, ripercorrendo le tappe di un iter adulto che li (ri)vede impegnati nel tempo attuale, cambiati nell’aspetto, con le loro idiosincrasie, afflizioni, con il loro timore d’invecchiare precocemente, ma a quanto sembra non nell’humour che invece hanno conservato allo stadio di “Dinosauri Psicopompi” c/o in quanto elementi strutturali di questa società aliena (*), ma che si svegliano “…sempre prima della fine dei sogni”, come ritagliati con le forbici sulle pagine di un ‘diario’ cui Stefano di Gialluca ha lasciato cadere una macchia d’inchiostro dai colori dell’arcobaleno. Nota: (*) “Dinosauri Psicopompi … elementi strutturali di poesia aliena". Una silloge di Paola Silvia Dolci, Anterem Edizioni/ Cierre Grafica 2022. L’Autore: Stefano Di Gialluca, di Ascoli Piceno, Maître d’Hotel presso “Casolare Azzurro” in località Acquaviva Picena – 0735.683185, collezionista per nat ura e scrittore per passione.
Id: 3429 Data: 10/08/2024 19:14:07
*
- Libri
Eustache Balmain Testimone nellOmbra - Giorgio Mancinelli
"Eustache Balmain - Testimone nell'ombra" Il nuovo libro di Giorgio Mancinelli Rise & Press Editore 2024.
Eustache Balmain, un investigatore a spasso con l’hobby per le corse d’auto, si trova a percorrere la strada sinuosa che da Praga lo porta a Mariembad quando in una curva perde il controllo dell’auto ed è causa di un clamoroso incidente dove un uomo, il Conte Jean-Louis De Marivaux, imprenditore e mecenate, trova la morte; il quale però prima di morire affida allo scapestrato pilota una missione da compiere: rintracciare suo figlio abbandonato dalla nascita da sua madre che lui non ha mai conosciuto. La missione si rivela subito un difficile rompicapo, una sorta di sciarada che si evolve in un crescendo mirabolante di sempre nuove situazioni finalizzate alla ricerca dell’erede della più grande fortuna mai esistita, che vede scontrarsi gli interessi di numerose organizzazioni, enti e persone che godono della generosità del mecenate e che temono di perdere il loro approvvigionamento futuro, nel riscontro con una comprovata e chiara onestà d’intenti e di moralità che Eustache Balmain nel suo investigare mette di volta in volta a nudo. E' così che Balmain si ritrova di volta in volta ad affrontare situazioni non sempre limpide ed altre decisamente avventurose con personaggi di ogni risma e condizione: donne innamorate, giovani impertinenti, un maestro d’armi, uno scienziato, agenti segreti, organizzazioni occulte, frati priori e abati, nei luoghi reali da questi frequentati: monasteri e abbazie, ospedali, università e accademie, palazzi alberghi e luoghi storici frequentati da nobili decadenti e maitresse appassionate. Una fantasmagorica avventura nel mondo dei tarocchi, il canto gregoriano, le serate in taverna, le cene a palazzo, le fughe, l’amore e la passione, il cinismo, i lati oscuri dell’esistenza, la pietà, il perdono, l’espiazione, il rimorso; così come il deserto, la leggenda, la città sommersa dalla sabbia, gli inseguimenti, la guerra tribale, entrano in questo romanzo che ha come riscontro l’avventura stessa della vita. Eustache Balmain è in realtà un “testimone nell’ombra” della grande avventura umana, come lo siamo un po’ tutti noi alle prese col quotidiano che ci sovrasta, dove a farla da padroni sono ancora una volta i poteri forti, la religione, la politica, la finanza, all’ombra dei quali viviamo la vita meschina di tutti i giorni. Eustache Balmain rappresenta tutti noi che viviamo nell’ombra, o alla luce del sole se preferite, ma che non abbiamo ancora smesso di sognare, e che vediamo nelle sue le nostre avventure quotidiane, alle prese con soprusi, sgambetti, inciampi d’ogni genere, violenze, ma che tuttavia ci piace pensare ad un mondo che non sia tutto così, in cui il bello dell’arte, della musica, dell’amore, abbiano ancora un senso, una loro veridicità etica e filosofia, ed anche se vogliamo mistica e teologica, che ci restituisca quel mondo variegato eppure entusiasmante che è il mondo in cui viviamo. Nessun investigatore ha mai cambiato il mondo in verità, ma ci ha sempre sospinti, in un modo o nell’altro, alla ricerca del migliore dei mondi possibili.
Id: 3410 Data: 21/06/2024 06:09:33
*
- Cinema
Marcello Mio a film by Cineuropa News
CANNES 2024 Concorso Recensione: Marcello Mio di Fabien Lemercier 22/05/2024 - CANNES 2024: Christophe Honoré realizza un film sonnambulo, cinefilo, concettuale e tenero con protagonista una Chiara Mastroianni perseguitata dal fantasma di suo padre.
"Quando te ne sei andato mi hai stravolto il cuore / Senza di te la vita è diventata un inferno /Aggrovigliata nelle mie lenzuola credo di ricordarmi di te / Quando hai detto dolcemente che amavi solo me". Dal testo rivisitato della canzone Le grand sommeil di Étienne Daho al film Le notti bianche (1957) di Luchino Visconti, in cui una donna attende invano su un ponte l'uomo che le ha dato appuntamento un anno prima, e Marcello Mastroianni cerca di farle dimenticare l'uomo assente nella speranza di sostituirlo, È uno strano sogno, un benevolo tuffo nella vertigine dell'eredità (biologica, filiale, cinematografica) che Christophe Honoré ci invita a condividere con l'accattivante e rischioso Marcello Mio [+], presentato in concorso al 77mo Festival di Cannes. "Non è un travestimento". Tormentata dal ricordo del celebre padre, sia per un lutto personale non digerito durante l'infanzia, sia per pressioni esterne ("Speravo che facesse più la parte di Mastroianni che quella di Deneuve"), sia per un senso di usurpazione professionale, Chiara Mastroianni decide improvvisamente di assumere i panni del padre nella vita reale, con tanto di cappello, parrucca e baffi: diventa lui. Confusione mentale? Schizofrenia? Una burla? Uno scherzo crudele? Un semplice bisogno del padre? Chi è vicino a Chiara (la madre Catherine Deneuve, il compagno Benjamin Biolay, l'ex Melvil Poupaud, la regista Nicole Garcia e Fabrice Luchini nel ruolo del suo nuovo amico iper-accomodante) è ancora più preoccupato perché la somiglianza è impressionante e Chiara non abbandona mai un personaggio che conosce così bene. Ma si può vivere come se non esistesse? Essere più un'idea che una persona? Abbracciando pienamente l'impossibilità di replicare perfettamente il padre nella figlia, le bugie, il piacere del tradimento, la confusione tra ripresa e memoria, realtà e fantasia, Christophe Honoré riesce paradossalmente a far emergere una forma toccante di verità e amore sincero sotto l'artificiosità del concetto del film. Dalla Fontana di Trevi ai cancelli del cimitero del Verano, dai tetti di Parigi all'ex appartamento di Mastroianni-Deneuve dove, nel piano sottostante la Callas cantava, dai Giardini di Lussemburgo alla spiaggia di Formia, dalla cella di una prigione al palco di un concerto, fino agli studi della Rai Tv, il film rivela con delicatezza i suoi sentimenti profondi e inquieti. Un'invocazione e una riflessione sull'ereditarietà che è anche, naturalmente, un magnifico omaggio a un attore universale, la cui figlia lo onora con un'interpretazione eccezionale. Marcello Mio è prodotto da Les Films Pelléas (Francia) e coprodotto da France 2 Cinéma, BiBi Film (Italia) e Lucky Red (Italia). Le vendite internazionali sono curate da mk2 Films.
Id: 3382 Data: 31/05/2024 08:09:04
*
- Poesia
Mauro Germani .. o i mille volti della memoria. Antologia
Mauro Germani … o i mille volti della memoria. “Prima del sempre”, Antologia Poetica 1995-2022 - puntoacapo editore 2024.
“Sei prima dell’alfabeto, prima del volto.”
Una poesia intimistica incombe in questa raccolta di Mauro Germani che invita a interloquire con la liturgia della parola, quale autentica cifra olistico-narrativa dell’essere autore di saggi e racconti, a compendio di un sentire che nella sua totalità espressiva spazia tra la visione immateriale dello spirito e l’intuizione dell’attimo personificante…
“Non hai soccorso perché non hai tempo. /…/ Tutto perdi e ritrovi nella cenere di un dono accolto per sempre.”
Come d’afflato che evapora e resta a mezz’aria, o forse di nube di cenere sospesa tra la terra di ciò che siamo, e il cielo che reclama l’anima fuggevole, onde ricongiungerla con ciò che si ha di più caro; ma non domani, quest’oggi, nel momento stesso che ci immergiamo nella lettura di un ‘fare poesia’, qui offerta a piene mani per un’ulteriore verifica di senso…
“Come esserti qui, allora, confinato nella grazia e nel nulla, solo nell’ombra di questo regno vuoto?”
Quello stesso ‘senso’ che nel rincorrere la vertigine dell’esperienza di vivere, maturata durante tutto il tempo che abbiamo percorso, e che in qualche modo abbiamo smarrito; quel nostro sentire che solo è possibile ritrovare nel ‘sublime’ momento in cui avremo dato compimento alla nostra vita, appunto “Prima del Sempre”, o forse mai…
“Ascolto il tuo silenzio /…/ È una grafia (sinopia di Te) appena segnata sul muro, primitiva come una macchia che a poco a poco s’allarga e si dilata in un sangue dolce e pagano, un disegno infantile che assomiglia a una lotta (con le tenebre) perduta.”
Come scrive Marcel Mauss nel suo noto “Saggio sul dono”(*), pietra miliare dell’antropologia: «Sì che lo spirito del donatore viaggia insieme al dono, dando così vita a un legame tra gli individui (tra noi e gli altri), e che va ben al di là del puro scambio. Ecco allora che l’atto di ‘donare’ (se stessi) non si limita a un passaggio di beni, ma mette in gioco ogni momento della nostra vita, dove il dono (di sé) fa di ogni individuo il protagonista fondamentale della propria esistenza.»
Allora, come sempre, ogni accadimento è conseguenziale all’aver accolto in noi la consapevolezza che non tutto ci è dato ma che la ‘forza della volontà’ ci restituisce infine quel che abbiamo amorevolmente donato…
“Ritorna ogni notte, e ogni notte tutto accade senza accadere. /…/ Viene da un sogno incompiuto, da parole che qualcuno chissà dove e chissà quando ha scritto nell’ombra.”
Lo stesso sogno che il poeta Mauro Germani sembra rincorrere nell’ombra, onde facendoci dono della sua ‘antologia poetica’, apre a noi che lo leggiamo, la possibilità di osservare dall’interno la sua ‘vita di poeta’, pur nell’alternanza delle ascensioni e delle inevitabili ricadute, cui però fa seguito la l’intima volontà del riscatto, quella ‘preghiera’ implorante (foss’anche blasfema), di colui che aspira alla sublime bellezza del creato…
“I palchi del cielo e le note sono sconfitte di gloria, bandiere di terre segrete. L’anima è un’altra. E dalle aperture del tempo – dov’è bambina – trova mille occhi nascosti, il cavaliere parlante, i sassi lungo la via che l’erba raccoglie.” “E il viaggio ripete i borghi illuminati e inesistenti, la promessa che scava la terra alle radici e si specchia e si vede altissima, aurora che mai.” /…/ “A bruciare così, a tornare tra i rovi e le meraviglie, ad amare perfino il dolore…”
Sì che ‘ricevere’ (dalla vita) e viceversa ‘donare’ (di sé) ciò che la propria esistenza comporta, comprovata dai molti anni spesi a insegnare nella scuola quella letteratura italiana e non solo, e che un tempo rivolgeva (e a ragione) particolare attenzione alla poesia di un “orizzonte nominato come una promessa d’alcova”, sostanzialmente cambiata, e “che strappa radici e silenzi, una gloria che non conta nessuno” …
“Le forze sono ricordi fosforescenti, anime senza perdono. Vengono dal silenzio dei muti, dai graffi, dalle lapidi che un giorno sapemmo. Eppure stupiscono la cenere, gli orti dove ancora il cielo s’infossa ed è tempo, è noi, l’antico bagliore del mondo.” “Eppure verranno ancora dalle barche, dai lidi deserti. Porteranno i nomi sulle labbra e saranno polvere e luce, obbedienza e perdono. Li vedremo apparire in mezzo a noi, a porte chiuse, senza chiedere niente. Ci guarderanno nel cuore. Ci diranno chi siamo.”
C’è qualcosa di fortemente esistenziale in questi versi di grande attualità che in “Terra estrema”, a dimostrazione di quanto in molti di noi, come del resto in Mauro Germani, pervengono a una risentita impossibilità nel formulare una risposta poetico-antropologica all’irrisolvibile domanda sul nomadismo antropico: chi in verità noi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando?
«Stiamo andando oppure tornando dall’eterno oblio?» (**) mi sono chiesto più volte, tuttavia senza formulare quel che le sole parole non riescono ad affermare, e che invece la ‘poesia’ tout-court riesce a far emergere fra le righe, in quegli spazi apparentemente vuoti, bianchi interstizi preliminari e spesso conclusivi del ‘senso’ insito nella domanda preposta, per quanto aleatorio sia e al tempo stesso risolutivo di un contesto affermativo…
“Tutto quel mare nella notte / e il vento, le onde / in un abbraccio solo. / Tutta quella vertigine / fredda / che chiama e dissolve, / quella poesia / che nessuno mai (più) scrive”.
Ma è in “Ultimo sguardo”, che funge da ’incipit di questa antologia, l’invito a guardare ‘oltre’ lo scopo dichiarato e mirabilmente raggiunto dall’autore, tracciato com’è attraverso il suo intimo ‘epistolario’ nell’iter dei suoi trascorsi, Mauro Germani riveli infine di aver mantenuto integro nel tempo la sua essenza di uomo, di padre, di insegnante, di saggista e di narratore, restituendo quel che la poesia insita nella vita gli ha donato: ogni sfumatura, ogni slancio, la fragilità e l’insicurezza di ogni affanno umano…
“Ora siamo prima / del sempre, nelle / lunghe attese / alle porte, ai nomi / che salgono incerti / sui visi. / Ora abbiamo / il conto degli anni / e le sere, le luci / appena sospese / a tutti i / davanzali, le trame, / le voci dentro / di noi. / Ora aspettiamo / nel tempo che / incede / l’ultimo sguardo / e la parola più vera, / quella promessa mai / cancellata / il segreto / del nostro segreto.” …
“…la nostra voce / dentro una voce.”
Note: “.” Tutti i corsivi all’interno del testo sono di Mauro Germani. (*) Marcel Mauss, “Saggio sul dono”, ristampa Einaudi 2002. (**) Giorgio Mancinelli, “Miti di sabbia”, racconti perduti del Sahara. (inedito).
L’Autore: Mauro Germani, saggista e critico letterario, poeta e narratore, fondatore e direttore della rivista “Margo” fino al 1992, ha pubblicato volumi di poesia e narrativa classica e contemporanea. Suoi saggi, recensioni e racconti sono apparsi in diverse riviste cartacee e on-line. In ambito critico ha curato il volume “L’attesa e l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati” - L’Arcolaio 2012; “Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero” – Zona 2013 e “Storie di un’altra storia” – Calibano 2022. Finalista al Premio Lorenzo Montano gestisce inoltre il blog “In certi confini”. “Prima del Sempre” – Antologia Poetica 1995-2022 è vincitore del XXX Premio Nazionale di Poesia "Tra Secchia e Panaro" - Modena 2024.
Id: 3376 Data: 21/05/2024 15:31:41
*
- Società
Bla, bla, bla … la ‘Nana’ di Picasso.
Bla, bla, bla … la ‘Nana’ di Picasso. Ogni riferimento è 'volutamente' casuale. Può sembrare strano (ma non lo è affatto) come certe somiglianze si protraggono nel tempo da farle sembrare redivive nei lineamenti, nei gesti, finanche nei modi che accompagnano il proprio dire. Per quanto l’autenticità in un ritratto è tutt’altra cosa, oggigiorno la trasformazione è accessibile a tutti, per non dire il mascheramento, grazie al quale si può addirittura assumere un’altra identità da quel che si è, e che poi ha la stessa funzione del travestimento tout court. Allora i capelli da bruni diventano biondi, il colore degli occhi da gialli diventano celesti, si ritocca la bocca il naso e gli zigomi, il seno così come le cosce e non solo, dacché le gambe a X stese e coperte da pantaloni palazzo (case basse), finanche si rivede la mancata crescita in altezza che tacchi da 18/21 danno maggiore slancio alla figura, per quanto se si è quel che si è, c'è poco da fare. Del resto “Ognuno ha il suo destino nell’attuale società, terra di metamorfosi, come il presente si infiltra nel passato nessuno mai conserva la sua immagine” – scrive (più o meno) C. Ransmayr. Ma, come in tutte le cose c’è sempre un ma che và ad aggiungersi ad un voluto non-essere quel che si è. Per quanto, vorrei qui sottolineare che se è pur vero che guardarsi allo specchio può far male, ogni tanto fin troppo male a chi pensa di poter mentire a se stessa, rimane che se sei nana comunque manchi di personalità e non basta alzare il tono di voce per sentirsi importante davanti allo specchio. Come non basta fuorviare lo sguardo ad ogni interrogazione e/o sorridere (niente di più falso) quando si è toccati nel vivo, allorché si è smentiti dai fatti sulle parole pronunciate, o contestati di aver fatto delle scelte sbagliate, falsamente convinte di pronunciarsi in favore degli altri, quando, invero, si fanno solo gli interessi del proprio gruppo famigliare, e/o della propria fazione, diffidente e facinorosa di rivincite settarie semplicemente scandalose. Ma l’elenco non finisce qui, non può finire, sono certo – io che scrivo – che ne dobbiamo ancora vedere delle belle, di fatto il crollo di una personalità così artata prima o poi arriva alla fermata di arrivo, come dice un risonante proverbio : “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, l’ebollizione comunque sborderà, come di fatto ha già cominciato a fare. Allora non basteranno i trampoli a tenere su la fatiscente architettura di un non-essere mai stati veri, di essersi appropriati di un ruolo che si vuole credere di ‘étoile’, quando altro non si è che una ballerinetta di terza fila, e/o una ridicola freak da circo equestre, con rispetto per l’arte circense che pure mantiene una sua dignità. Ma questo ormai non scandalizza più nessuno, piuttosto è il senso perduto della vergogna, il disagio odierno di quanti applaudono, e che senza imbarazzo alcuno sono pronti a negare di aver applaudito, davanti alla scempiaggine che si consuma. Ma (e questo è un altro ma) è alla mancanza di dignità personale cui va il palmares di una manica di inetti senza amor proprio, (che occupano gli scranni del nostro parlamento), dotati di una incompetenza che dimostra mancanza di educazione a riguardo e di rispetto per l’esperienza maturata da predecessori che hanno faticato, lottato, costruito con lacrime talvolta di sangue, l’attuale società che oggi viene calpestata da un manipolo spregevole d’incolti. Capaci solo di svendere la propria madre al miglior offerente, o quanto meno per quei fatidici 40 denari (10 in più per via della svalutazione) per i quali oggi sono asserviti a multinazionali senza scrupoli, a imprenditori cui ogni giorno vanno a leccare il culo con la furbesca velleità di accaparrarsi quanto più è possibile, in barba alle malattie incurabili (degli altri), alla denutrizione di milioni di bambini nel mondo, alle guerre fratricide, quando ci sarebbe bisogno di qualunque cosa decisamente più necessaria. Allora la salvaguardia di tutto, quanto fra poco non sarà più disponibile per nessuno, per cui la terra, l’acqua, le risorse nutritive, il clima, saranno indubbiamente primarie, come si pensa di sopravvivere al prossimo cataclisma che segnerà la fine di tutto. È questo il punto assertivo della mia modesta chiusa, cercare e trovare nella comprensione dei diversi linguaggi un comune denominatore di 'collaborazione', onde restituire al genere umano l’indissolubile connessione che ci accomuni tutti nella costruzione d’una 'pace duratura', in grado di trovare unicità nella ‘comunicazione globalizzata’, quella visione pur esemplificata del ‘migliore dei mondi possibili’. Siamo ‘nani’ davanti alla supremazia del creato, nessuno si salva da solo, tantomeno chi oggi spensa di essere superiore ... sì da credersi imperituro, immortale o stupidamente eterno.
Id: 3369 Data: 15/05/2024 11:53:31
*
- Libri
La Grotta del Castillo – un libro di Dario Spampinato - R.P.
La Grotta del Castillo – un libro di Dario Spampinato – Rise & Press 2023 “Spesso – scrive in sintesi l’autore di questo libro insolito che spazia dal vademecum alla guida ipotetica di un luogo arcano – sono guidato dall’invisibile pesantezza dei pensieri che, per quanto fantasiosi e corrucciati che siano, mi prendono la mano cercando una loro precipua libertà. È allora che accondiscendo al loro strenuo volere e, prima di lasciarli andare del tutto, ne fisso alcuni nella mente per evidenziarli e lasciar di loro una traccia. Così facendo, e prima che ogni reminiscenza scompaia del tutto, li fisso nero su bianco e li trasformo in simboli, figure, in lettere e parole quali contrassegni e rappresentazioni dell’esistere”. Ma non è tutto. Lo scenario, al contrario di tanti luoghi comuni, si presenta molto diverso da quello che si pensa sia la volontà di riempire un “vuoto” caratterizzato dalla solitudine e dalla malinconia. Sebbene “. . . la malinconia presupponeva la memoria, mentre persino la memoria qui tendeva a scomparire”, attratta da una metafora ancora più potente del “vuoto”, quella del “fuoco”, che ‘in illo tempore’ pur deve aver riscaldato gli animi, facendo ardere le passioni umane. Quegli animi che, rispondendo alla seduzione del fuoco, ne restavano pur sempre segnati. “Il mondo è cominciato col fuoco e probabilmente finirà nel bagliore delle fiamme”, era scritto, e mi convinsi che solo allora, forse, ci saremmo avvicinati all’incontaminata uniformità del “nulla”, o forse del “tutto”, se la dimensione onirica del “tutto” commensurata al “nulla”, possa servire a formulare qualcosa che ancora abbia un senso. Nulla di quelle ‘impronte’ lasciate sulla roccia sarebbe rimasto di lì a poco a testimoniare la presenza umana in quei luoghi. Il tempo – in astratto – le avrebbe cancellate restituendo loro l’incorruttibile integrità dell’eterno, allorquando, in quel nulla apparentemente immobile, eppure grandioso, la fantasia avrebbe potuto catturarle in modo vibrante e ossessivo, colto nell’abbagliante astrazione della luce. Entro la quale s’impone l’irriducibile presenza del mito, retaggio di un’inconscia memoria senza volto a simulare il ritorno di perdute deità solari, informi e corrose dall’abbraccio segreto del tempo che inesorabile attraversa i secoli, portatore di un linguaggio arcano che non potevo conoscere, e che, soprattutto, non m’era dato comprendere. “Insomma – scrive ancora l’autore – sembrava proprio che quell’insieme geometrico di segni e di forme create ventimila anni fa, indicasse come gli uomini, a prescindere dalle epoche nelle quali si trovavano a vivere, mantenessero sempre la medesima tendenza, quella di usare le stesse rappresentazioni simboliche che ancora oggi vibrano di attualità”. Soprattutto, e se vogliamo, accostate a certe forme dell’arte contemporanea a quello che è l’immaginario collettivo, sebbene indiretto e a posteriori, come è ad esempio l’opera di Paul Klee, del quale leggiamo: "Il soggetto era il mondo, se pure non questo mondo visibile" al quale mi sono ispirato, ma non è il solo. “È così che il mistero de La Grotta del Castillo è divenuto per me che scrivo, fonte d’inesauribile quanto intima ispirazione, quasi fosse una musica ancor viva e senza tempo che tutti ci accompagna dalla genesi del mondo all’indecidibile compimento del tutto”. Un coro vibrante di voci che si leva contrassegnato da ancestrali echi e vuoti silenzi, che giunge a noi da un luogo estremo, sospeso fra ciò che realmente era e una realtà “altra”, che i soli sensi provati non riescono tuttavia ad afferrare, tuttavia “caricandoci di una sorta di responsabilità testamentaria, come di un’idea trascendente che chiede d’essere conosciuta ed esplorata nelle profondità dei significati intrinsechi”. Un viaggio dunque di vibrante e ossessivo stupore iniziatico, allorché esplora l’abbagliante astrazione dell’arte ritrovata, dentro la quale s’impone l’irriducibile presenza del mito, retaggio di un’inconscia memoria senza volto a simulare il ritorno di perdute deità solari e ctonie informi e corrose, avvolte nell’abbraccio segreto del tempo, alla ricerca della memoria ancestrale del mondo, di quel trapassato remoto che ancor prima di consegnarsi integro allo stupore del creato, abbiamo dimenticato, seppure nell’incertezza di poterlo stringere tra le mani e riconciliarlo col presente. L’autore. Dario Spampinato, da sempre appassionato di sport, spazio, fisica, filosofia e scrittura, spinge la sua indagine navigando nell’imo della materia come un osservatore felicemente disperso nell’universo dell’uomo, del pensiero e del linguaggio, è stato ideatore dei “Quaderni di Via del Seminario” e numerosi scritti, tra i quali figurano numerose poesie. Come narratore, ha debuttato con il romanzo “Altrove”, seguito da “La storia di Se” entrambi editi da Altromondo Editore e “Il Barista Francese” edito da Le trame di Circe Editore, per arrivare a questo “La Grotta del Castillo” con il quale invita il lettore in un viaggio interiore, pari a un’avventura nel cuore dell’essere antropico straordinario cui tutti apparteniamo. Note: "." Tutti i virgolettati sono di Dario Spampinato.
Id: 3363 Data: 12/05/2024 08:27:18
*
- Poesia e scienza
Daniele Barbieri ... e/o la metamorfosi del verso.
Daniele Barbieri e/o la metamorfosi del verso.
“…ci sono tre mondi nel creato: la tronfia raggera / dell’essere, la nuvola del senso, le rassicurazioni / del vedere, per quanto fuori fuoco – tra le cose fili di ragno a collegarle, impalcature inutili, ma belle” “ci sono tre mondi dentro un fiore, un’illusione ottica, / una deriva, la ruggine un cancro nel ferro del mondo”
C’è, in chi ponendosi davanti allo spettacolo fluorescente che si offre al guardo, un vedere che va oltre la superficie smagliante dei colori, al delimitare perimetrale che la luce albale aggiunge alla genesi straordinaria delle forme elaborate dalla natura in innumerevoli metamorfosi clorofilliane che la percezione visiva, non senza un sussulto di vitalità, rende percepibile all’emozionale cognitivo le immagini estatiche dell’essenza subliminale, una indicibile psicologia ascensionale che conduce a una più aderente quanto inconscia poetica dello spazio …
“…esigono attenzione queste cose, bisogna ascoltare / i vetri che si infrangono nel fiore, petalo su petalo / per propagarsi nelle mille e mille minime esplosioni sul prato / al limite del bosco, luce, buio, filamenti / che insistono /… / rimani con me, tienimi stretta la mano, / racconta come il fiore ti cattura / ti accende di rosso, / inonda il cielo di scaglie di vetro, ti graffia le guance / a sangue, lancia tutt’attorno vetri rotti sullo stelo, / vetri neri sul giorno, attenzione esigono le cose”
Dacché il progressivo sviluppo della creatività semiotica che Daniele Barbieri, autore della silloge letteraria “Erbario vivido”, offre al lettore attento, di un possibile comportamento semiotico della volontà conoscitiva della parola, di pertinenza linguistica, che porta alla dottrina dei segni e dei gesti che l’accompagnano, per una presa di coscienza dell’equilibrio dei comportamenti elementari che hanno portato allo sviluppo della tecnologia materiale che governa il ciclo della nostra esistenza e regola le alterne fasi della nostra sopravvivenza …
“…verso l’alto, improvvisa si solleva la sorpresa gialla, / la raggiera più viola sovrapposta a quell’altra più bianca, / non che adorino Dio, non che ci pensino mai, solamente / spingono, crescono, l’aureola è falsa, dentro quella luce / sono miseri, eccentrici, soste profane nel corso del prato”
“…gloria della tua pelle appena viola dai gridi dei vasi, / dalla traccia rocciosa, poi dall’orlo cucito dei prati, / e l’ombra che ci brucia , nell’odore delle notti a luglio / sotto la luce che oscilla, sfarfalla, volano le sfingi /… / gloria della notte che non finisce , appena viola oppure bianca /… / gloria del profumo dell’orlo slabbrato / dell’aria umida, del non finire mai più, mai più, mai più”
C’è un che di sacro e profano volutamente ricercato nel linguaggio esplicito, come se nell’improvvisa evocazione dell’uno si perori un senso di colpa dell’altro, nel ricordo di una mancata presenza che tuttavia risveglia una sensualità onirica e onanistica “…che non tarda a dissolversi – lasciandosi penetrare – dalla bellezza della natura, la purità, il silenzio dell’aria”, come nel Marcel Proust più maturo de ‘Le temps retrouvé’, commisurata a un suggestivo excursus in cui l’autore dei versi mescola all’essenza delle cose e delle forme l’ibrido sentire soprasensibile di una costante metamorfosi clorofilliana, insieme ai propri umori emotivi, al fluttuare delle sfumature nei colori, filtrati alchemicamente nella sua tavolozza mimetica, attraverso le diverse esperienze interstiziali che si riscontrano nella finitezza epidermica delle parole …
“…progressioni diverse e imparentate di suggerimenti, / di struggimenti, poi di suggestioni, poi di suggerimenti / come una grossa ape legnaiola, nera e preoccupante / eppure buona, va di bianco in bianco, ci sembra che canti”
“…mi hanno inseguito le tue labbra, rosse sulla pelle /… / quasi umane, mi hanno detto della tua fragilità, di come / si sfaldi la tua vita in prospettiva /…/ contro il muro, forse, contro il vuoto, credi magari baciandomi / che il mondo si riaffacci dalla nebbia, delle tue radici / risale poca linfa, acqua forse non ti do abbastanza” C’è una poetica dei segni e delle forme, dei colori e dei ritmi di un immaginario improntato su illuminanti osservazioni e associazioni linguistico-mnemoniche proprie della memoria visiva, analizzate nel loro comportamento biologico-vegetale, riflesso di una preponderante attività metafisica dell’autore, che si svolge nel tempo e nello spazio di un potenzialmente sviluppo rivolto a interferenze psico-esistenziali, attinenti all’esperienza della propria maturità interiore …
“…andavo in altalena la mattina /…/ nel giardino/ ma adesso in quei fiori / ci vedo Calder, funambolismi lievi, che oscillando / ti portano nell’intimo dell’aria, belle nella notte / quelle corolle sognano, noi siamo appesi dentro loro”
“Portulaca grandiflora, /…questo tuo esplodere, e un insetto estraneo a questo boato / immobile ma ritmico, rinuncia a tutto quando puoi / rinuncia alla bellezza quando puoi, esplodi, rinuncia / ad esplodere, vinci ogni colore fuori e dentro te, / essere insetto, perdere, smettere di sentire tutto, rinuncia la fiore, non essere, smetti di desiderare” C’è una verità, , che si rincorre in ognuno di noi, sempre allo stesso modo eppur mai uguale, che si concentra nella consunzione accertata del ciclo vitale della nostra materia umana, che certo non disconosciamo ma che abiuriamo di voler conoscere, e che concerne quella finitezza che non c’è data …
“…sullo sfondo di un distacco di luce /… / quasi fosse un silenzio, variamente osceno, fino al fondo / frantumato del campo, / quasi fosse una storia vera”
“…la luna (Silene latifolia), fa da postino talvolta, recapita atti / in girandole bianche, quasi angeli (caduti) dalle ali crespe, / consegnando condanne in fogli candidi come corolle, /… / è sempre ambivalente il tuo destino (anatema), qualcuno ha deciso / per te, hai perso la causa, solo dopo la fine avrai la gloria (sentenza), / sotto la luna soltanto dolore, un figlio morto giovane (condanna), / sai che la lettera uccide, parole (di rosso sangue) sul bianco (anche l’amore uccide)”
C’è dunque un riscatto al dolo che inconsciamente abbiamo inflitto a quel Dio nascosto “nel bagliore sfiancante della storia”, ed è l’incomunicabile vicinanza dell’ombra che si rivela oltre la comprensione, custodita nel liminare labirintico della mente, nel singolare chiaroscuro che deforma l’esperienza materiale della vita. “E ora suonate alla danza ... lasciate che suonino i violini” scrive Paul Celan sull’orlo della notte che s’imbeve d’oscurità di tenebre e grida di morte, al cui invito sembra rispondere il nostro autore in esergo …
“…se vuoi danzare, tienimi, sollevati, grida molto forte, / sei la contraddizione del colore, sei rimasta secca, / apri le labbra, ma sei così piccola, gridi molto forte, /… / tu che oscilli dentro un ritmo di follia”
“…come un’erbaccia impolverata, tutto racconta miserie / immeritate, tutto testimonia bestemmie, eresie”
“…un sesso ostentato / paonazzo osceno, rosso vero, vivido, /… / afferravo col naso verità altrove improponibili, / credevo alla sua voce calma, al pelo minimo sul verde / delle sue foglie, era un tipo serioso, raccontava miti / africani, il suo sesso si levava improvviso, un vessillo / vociante, rosso, scarlatto, paonazzo, come fosse grida”
Pur c’è nel fitto che avvolge l‘incomunicabile vicinanza dell’ombra nelle parole di Daniele Barbieri, un ché sommesso che rivela ciò rimane di un amore, ‘interior intimo meo’, e che riemerge dalla solitudine esistenziale propria del solo essere umano…
“…dall’orlo del deserto / ispirano / venti imprevisti e ancora nomi, e fiori chiari nella / luce /…/ le cose (le piante e i fiori come gli animali) non trovano sempre le parole / per nascere nel mondo, mura cingono quello che passa”
“…nel buio, piccoli e fuori stagione, il nostro vecchio lutto / riemerge dalle luci sullo sfondo, che quasi spaventano, / sembrano dialogare con te, sono stelle monocordi / nel buio di dicembre, quasi sembrano polemizzare / con te /… / non c’è colore qui, soltanto spine, tormenti sul corpo /… / non c’è decorso qui, le spine dure al bordo dell’inverno / fanno corona al mito”
Quel mito dismesso che accoglieva in sé l’essenza linguistica incontrastata della comunicazione diretta sostituita ‘senza governance’ con altri sistemi di valori che, al contrario, accentuano ciò che più ci nega gli uni agli altri, con l’erigere barriere d’incomprensione, e che forse, nella speranza che non si riveli un’attesa vana, l’avvento dell’Intelligenza Artificiale riuscirà a riequilibrare. Ma solo se l’intero pianeta, questo nostro mondo altero, saprà avvalorare le sue funzioni primarie di quel processo scientifico comparativo che l’ha resa umana. In conclusione, per dirla con l’etologo Eibl-Eibesfeldt:
“Le potenzialità del bene sono biologicamente presenti in noi quanto quelle dell’autodistruzione”, pertanto adoperiamoci per il bene comune e restituiamo al mondo intero quella ‘pace’ edenica che l’autore avalla in queste sue “favole nello sguardo”.
Biografia dell’autore: Daniele Barbieri, di formazione semiologo, insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha pubblicato numerosi volumi di carattere critico e raccolte di poesia. Presente inoltre nel blog “Guardare e Leggere” www.guardareleggere.net con sue opinioni su molti argomenti letterari e filosofici.
“Erbario vivido” è la silloge poetica contenuta nel libro “Rosso” di Daniele Barbieri, vincitrice del XXXVII Premio Lorenzo Montano, pubblicato nella collana La Ricerca Letteraria edita da Anterem Edizioni 2023.
Id: 3359 Data: 28/04/2024 09:29:53
*
- Cinema
Cinema Industria - Mercato Europa
CINEMA INDUSTRIA / MERCATO EUROPA in collaborazione con Cineuropa News
L'Osservatorio europeo dell'audiovisivo fa il punto sulla produzione indipendente e sul mantenimento dei diritti di proprietà intellettuale di Davide Abbatescianni 18/04/2024 - Il nuovo studio scava in profondità nelle legislazioni nazionali dei 27 Stati membri dell'Ue più il Regno Unito This week, the European Audiovisual Observatory (EAO) published a new report titled “Independent Production and Retention of Intellectual Property Rights”. The study, co-financed by the European Commission under the Creative Europe programme, explores the national approaches to defining independent producers and productions, while looking at the national rules governing the retention of intellectual property rights (IPR) concerning films, series and programmes when licensing them to broadcasters and on-demand audiovisual services. The data used in the report were provided by a pan-European team of national experts and have been cross-checked with the respective national regulatory authorities. The study opens with an executive summary outlining the scope of the research – namely, “to provide the European Commission with information on the retention of IPR by independent producers in the 27 member states of the EU and the UK” as well as “to offer a horizontal comparative review of the relevant national legal provisions, identifying trends and approaches”. Following the methodology note, chapter three provides a comparative analysis of the different definitions of independent production and independent producers in Europe. Since there is no unified definition for such concepts in current EU legislation, national laws can define them in each country. The study indicates that 24 out of the 28 countries have a definition of either an independent producer or an independent production in their national legislation. While the criteria differ from country to country, the report outlines in detail the possible conditions and how they are applied in each country. The first criterion relates to the financial independence of the producer in relation to the audiovisual media service (AVMS) provider, in terms of the capital participation or shares held by such a provider in the production company, its financial contribution to the co-financing of the audiovisual work and, lastly, its financial control over the production company. In other words, the producers’ control over their companies and the work being produced are key factors. Next, the study zooms in on the “operational” criteria of independence, which refer to the ownership and business independence of the production company in relation to the AVMS provider. Finally, the ownership of “secondary rights” is referred to as a criterion for the independence of the producer with regard to the AVMS provider under EU law. The report looks at how this criterion of the retention of IPR is used in national laws. In practice, only one-third of the countries studied include in their national legislation a reference to the ownership of "secondary rights" or IPR as a criterion for defining the independence of a producer in relation to an AVMS provider. This chapter is rounded off by a look at how the rules on the retention of IPR apply when public service media providers commission the content. In this case, the rules governing the retention of secondary rights by the producer are expressly referred to, and their prerequisites are clearly determined. Chapter four includes the country summaries for the 27 EU member states plus the UK. For each country, the authors provide the national definition for independent producers or production, when available. Moreover, they look at the national rules for the assignment and retention of IPR in each country.
CARTOON 2024 Cartoon Next Tre emittenti pubbliche europee illustrano le loro nuove produzioni e le loro strategie di coinvolgimento del pubblico di Davide Abbatescianni 17/04/2024 - La sessione, organizzata nell'ambito di Cartoon Next, ha visto la partecipazione di rappresentanti della RAI italiana, della HRT croata e della BBC Day 3 of Marseille’s Cartoon Next (9-11 April) hosted a panel discussion titled “What’s Next for Our Broadcasters?”, moderated by Christophe Erbes. The talk saw the participation of Krešimir Zubčić, of Croatia’s HRT; Anna Taganov, of the BBC; and Annalisa Liberi, of Italy’s Rai Kids. Liberi explained that Rai Kids’ engagement and production strategies adopt a cautious pace – probably slower than one would expect at a time when the landscape is dominated by a number of platforms and tech innovations. Rai Kids’ overall budget consists of €1.5 million for in-house productions, and €24 million for co-productions and acquisitions, including €18 million for animated content. “We strongly connect with kids and their families through our two linear channels, Rai Yoyo for pre-schoolers, and Rai Gulp for older kids,” she said, adding how Rai Radio Kids focuses on producing podcasts and other child-orientated audio content. Aside from rare exceptions, Rai Kids doesn’t have any slots on the pubcaster’s generalist channels. The division’s main goals are providing the best content available for kids, supporting Italian and European creatives, and fostering innovative languages, styles and techniques. Rai Kids creatives are both young and established professionals. She later touched on Rai Kids’ latest slate. In 2024, a special focus was placed on TV animated specials and shorts tackling contemporary issues, with an ideal running time of between 20 and 40 minutes. The Italian pubcaster invested about €250,000-400,000 in each project. A prime example of these is Acquateam, which sensitises its young audience to the importance of protecting life in the oceans, and Bruno Bozzetto’s TV special Sapiens?, which explores whether humans are “sapient” enough. The special is made up of three stories using three different techniques (2D, 3D and CGI), focusing on three different historical musicians (Beethoven, Verdi and Chopin). Other ambitious projects on the Rai Kids slate touched upon during Liberi’s presentation were Lampadino e Caramella (focusing on diversity), Go go around Italy (centred on Italian geography), Oblò (revolving around fake news), Un cerotto per amico (providing basic medical advice), Quando batte il cuore (a show about emotions), Hello Yoyo (teaching English language), Il mondo di Leo (an animated series about autism) and Clorofilla (placing an emphasis on nature and sustainability). When asked about the future horizons of European animated productions, Liberi said: “The examples I showed are what I think is about to happen. We still don’t know the recipe, but if you ‘meet’ the right characters and stories, you’re able to spot them after years of working in this business. And I think we have to keep up our ability to look at the different productions from our audience’s viewpoint. […] The most important things remain storytelling and character-driven stories.” Next, Zubčić spoke about Croatia and other Central Eastern European countries’ efforts to find ways to cooperate together, build their presence at markets and festivals, produce independent content and find common strategies. He mentioned the pivotal role of CEE Animation and the Animation Festival Network, which includes several gatherings from the region. “We try to stick together to find money and survive the challenges of tech, and to keep going with the quality of our programming and shows, rather than [focusing on] quantity,” he underscored. He also touched upon Eeva, an Estonian-Croatian co-production that premiered at the Berlinale last year, and added how several other films are in production that see CEE and other Eastern European countries working together “like never before”. Finally, he admitted how HRT and other pubcasters are losing their audiences aged between six and 24 on linear channels, and mentioned a general lack of specialised press for animation professionals. Later, Taganov introduced her work for the Manchester-based division of the British pubcaster, for which she works as head of content strategy. Her role entails overseeing two linear channels as well as the content made available on iPlayer, the BBC’s own VoD platform able to compete locally with streaming giants. “Apart from that, we’ve got a very strong curriculum-based educational offering, [available] online only; [we also host] CBBC, the oldest-running TV news for children as well as game apps for pre-schoolers based on BBC properties. We’re also very present on social-media platforms, including YouTube and TikTok,” she explained. The BBC is obliged by its regulators to produce 350 hours of youth-orientated content per year – 100 for pre-schoolers and 250 for older children – “right across every known genre, apart from horror”. Audience analysis centres on measuring “time and attention” through collecting “viewing hours and requests”. Moreover, the pubcaster’s new content strategy was revised three years ago: it’s now based on five pillars, and one of them is animation. Towards the end of the panel, Taganov spoke about the recent children’s animation talent-search programme, aimed at discovering and producing fresh content from a diverse pool of artists. “UK residents were able to apply, and we judged them anonymously. We received 1,000 ideas and narrowed them down to three titles: Duck and Frog, Captain Onion’s Buoyant Academy for Wayward Youth and The Underglow.”
Id: 3356 Data: 23/04/2024 17:23:55
*
- Cinema
Lab Femmes de Cinéma - nuovo rapporto sulle donne registe
INDUSTRIA / MERCATO Europa Lab Femmes de Cinéma pubblica un nuovo rapporto sulle donne registe nell'industria audiovisiva europea. Articolo di Olivia Popp by Cineuropa News 08/04/2024 - Lo studio rivela un maggiore interesse in tutta Europa per la lotta alla violenza sessuale e ai pregiudizi inconsci, ma la parità di genere va a rilento Lab Femmes de Cinéma recently released its newest report, titled “Qualitative Study on the Place of Female Directors in Europe” (authored by Lise Perottet), on gender-inclusive practices and structural barriers for female filmmakers in the European film and audiovisual industry. Led by co-founder and director Fabienne Silvestre, the French think-tank focuses on industry issues surrounding gender parity, diversity and representation. This is the eighth annual edition of the report, which has received support from the French Ministry of Culture since 2022 and the French National Centre of Cinema (CNC) since 2023. The study is produced in collaboration with the European Film Agency Directors Association (EFAD). Translations of the French- and English-language study into Italian, Lithuanian and Serbian have been led by the Moving Images – Open Borders (MIOB) network, which comprises seven European film festivals. The 2023 study builds on the previous version, highlighting major trends in measures implemented against sexual violence and a growing interest in supporting gender diversity. It also examines new trends in supporting the careers of women directors as well as efforts to combat unconscious bias within selection committees, thereby improving representation. This edition compiles data from the national film agencies of 36 countries in addition to using quantitative statistics from the European Audiovisual Observatory (EAO). Thirty-one of the 36 countries surveyed have introduced gender-equality measures, while ten are implementing training, workshops or initiatives to reduce unconscious bias. The study also highlights initiatives to diversify and make national industries more representative on the whole, which includes gender diversity as a part of the broader effort. While gender parity has been reached in film schools, the lab reports that only 23.92% of first or second feature directors are women, while the percentage plummets to 15.41% for a director’s third film and beyond. Using the European average for women filmmakers and historical trends, gender parity between male and female directors will only be reached in 2080. Sixteen countries have committed to combatting gender-based and sexual violence. The study notes that national film centres have “taken a particular interest in violence committed on film sets and have encouraged film crews to call on the services of intimacy coordinators when shooting intimate scenes”. Conversely, only six countries have adopted measures to help with childcare costs and assist working parents, regardless of gender. “Studies show that having children puts women at a greater disadvantage in the world of work: helping parents actually leads to greater equality in creative conditions between women and men,” the report continues. Since the publication of the first edition of the study, countries have been reluctant to implement quotas, in terms of both funding and project prioritisation. Only one country, Spain, “has introduced quotas for film financing”, where, “since 2020, a share of the total grants budget [from the ICAA] must be given to projects by female directors”. In the study, Lab Femmes de Cinéma reiterates its commitment to collecting data, publishing further editions of the report, and “encouraging countries to take a reflective look at their own measures and be open to the innovative practices of other countries”. It also calls for “more proactive” efforts to break down “gender stereotypes and structural exclusion mechanisms that are still in place” in the European cinematographic industry.
Id: 3347 Data: 15/04/2024 10:28:03
*
- Cinema
Fabbricante di lacrime un film di Alessandro Genovesi
Fabbricante di lacrime di Alessandro Genovesi è il più visto al mondo su Netflix
di Camillo De Marco 10/04/2024 - Il film indirizzato ad un pubblico di adolescenti, attesissimo in Italia dopo il successo del romanzo da cui è tratto, è al primo posto dei titoli più visti sulla piattaforma
Come riporta il sito aggregatore di dati FlixPatrol, Fabbricante di lacrime (titolo internazionale The Tearsmith), di Alessandro Genovesi, è oggi il film più visto al mondo su Netflix, primo nella top ten generale (non quella dei “film non in lingua inglese”). Prodotto da Colorado Film con un budget dichiarato di 6.575.585,00 (fonte Direzione Generale Cinema e Audiovisivo), il film era attesissimo dal pubblico appartenente alla Generazione Z, che dal giorno del suo sbarco sulla piattaforma statunitense, il 4 aprile, ne ha decretato il successo in tutto il mondo. Un trionfo nato già sulla carta, cioè dall’enorme ed inaspettato successo editoriale del libro omonimo da cui è tratto, firmato con lo pseudonimo di Erin Doom da una giovane scrittrice italiana che nel 2020 aveva pubblicato autonomamente il romanzo, entrato immediatamente in classifica su Amazon. L’anno seguente l’editore Magazzini Salani ne ha acquisito i diritti per ripubblicarlo, e nel 2022 era tra i libri più venduti in Italia con 450mila copie. La sceneggiatura del film tratta dal romanzo adolescenziale è stata realizzata dello stesso regista con Eleonora Fiorini, autrice di una decina di titoli tra film (La fisica dell’acqua [+]) e serie tv. Alessandro Genovesi ha girato nel 2021 7 donne e un mistero [+], dal film 8 donne e un mistero [+] di François Ozon, e ha al suo attivo altre 7 commedie come regista, dopo aver firmato la sceneggiatura di Happy Family [+] di Gabriele Salvatores nel 2010. Lo affiancano Luca Esposito alla fotografia e Claudio Di Mauro, Simone Rosati e Andrea Farri al montaggio. Gran parte del cast di Fabbricante di lacrime è composta rigorosamente da attori giovanissimi, alcuni dei quali al primo lungometraggio, affiancati da interpreti con maggiore esperienza: Caterina Ferioli, Simone Baldasseroni, Alessandro Bedetti, Nicky Passarella, Roberta Rovelli, Orlando Cinque, Sabrina Paravicini, Eco Andriolo e Sveva Romana Candelletta. Il film racconta di Nica, una diciassettenne che vive in un orfanotrofio dove si perpetua la leggenda di un misterioso artigiano, il fabbricante di lacrime del titolo, responsabile di tutte le paure e le angosce che abitano il cuore degli uomini. Nica viene adottata dalla famiglia Milligan, assieme ad un altro ospite dell’orfanotrofio, Rigel, giovane inquieto e misterioso. Insieme dovranno superare il passato di dolore e privazioni che li unisce e accogliere “quella forza disperata che li attrae uno verso l’altra che si chiama amore”.
Id: 3346 Data: 13/04/2024 16:42:31
*
- Cinema
Cineuropa torna su Instagram - Tutto Cannes
CINEUROPA Cineuropa torna su Instagram
04/04/2024 - La nostra rinnovata pagina sul social network promette di offrire contenuti accattivanti e scorci esclusivi sul mondo del cinema. After a brief hiatus, Cineuropa is thrilled to announce its revived and reinvigorated presence on Instagram, promising a treasure trove of captivating content and exclusive glimpses into the world of cinema. At Cineuropa, we are dedicated to celebrating the art of filmmaking in all its diversity and splendor. Our renewed Instagram profile will serve as a dynamic hub where followers can immerse themselves in the magic of cinema, discover hidden gems and stay updated on the latest happenings in the film industry. One of the highlights of our return is our commitment to bringing you closer to the heart of the most prestigious film festivals, such as Berlin, Cannes, Venice, San Sabastian, Tallinn and many others. Through our Instagram platform, we will be sharing exciting photos, behind-the-scenes moments and insightful commentary from the main film festivals, offering you a front-row seat to these cinematic extravaganzas. In addition to festival coverage, Cineuropa will be curating a diverse range of content, including film reviews, interviews with industry insiders and trailers. We invite you to join us on this exhilarating journey as we explore the boundless creativity and storytelling power of the silver screen.
CANNES 2024 di Fabien Lemercier
Cannes tesse la sua coperta da cerimonia a 7 giorni dall'annuncio del programma 04/04/2024 - Tendenze, indiscrezioni e ipotesi si rincorrono nel nebuloso periodo che precede la conferenza stampa di presentazione della Selezione ufficiale l'11 aprile I registi Andrea Arnold (© Oscilloscope Pictures), Yorgos Lanthimos (© Fabrizio de Gennaro/Cineuropa), Audrey Diwan (© MI482MFLL), Miguel Gomes (© Telmo Churro/O Som e a Fúria), Athina Rachel Tsangari, Jacques Audiard (© La Biennale di Venezia - foto ASAC), Alain Guiraudie (© Erdrokan), Dea Kulumbegashvili (© Jorge Fuembuena/SSIFF) e Paolo Sorrentino (© La Biennale di Venezia - foto ASAC) With some very lengthy shortlists, films being submitted later and later, decisions to follow suit (compounded by the festival’s wish to allow itself the greatest possible clarity when making its selection, and maybe even by the tactic of making life a tad more difficult for the selectors at major festivals coming later in the year) and a stricter code of silence, the task of identifying, in advance, the lucky titles chosen for the different selections of the Cannes Film Festival has become an increasingly divinatory exercise fueled by a number of investigatory elements collating rumors, tips, trends (before being chosen – or not – the films are seen by certain people, and their potential for Cannes is evaluated in a wider context), and even intuitions. The only things we currently know for certain are that The Second Act by Quentin Dupieux (see the news) will open the 77th edition (14-25 May) and that Furiosa: A Mad Max Saga by Australia’s George Miller (see the news) will make a splash out of competition. However, the crystal ball is rapidly getting clearer and clearer now, exactly one week away from the Official Selection press conference in Paris, during which Thierry Frémaux (flanked by president Iris Knobloch) will reveal the results of his ruminations, judicious balancing acts and combinations that will inevitably have a snowball effect, subsequently redefining the content of the parallel sections. And so, let us fling open the window to Cannes and gaze into the 2024 "palantír". In the official competition, jury chair Greta Gerwig (see the news) should allegedly be able to watch Bird by Brit Andrea Arnold, Kind of Kindness by Greece’s Yorgos Lanthimos, Limonov by Russia’s Kirill Serebrennikov, Grand Tour by Portugal’s Miguel Gomes, The Shrouds by Canada’s David Cronenberg, two Italian films (one of which is Parthenope by Paolo Sorrentino and the other a total surprise), Ainda estou aqui by Brazil’s Walter Salles, Anora by the USA’s Sean Baker, Oh, Canada by his fellow countryman Paul Schrader, Everybody Loves Touda by Morocco’s Nabil Ayouch, Serpent's Path by Japan’s Kiyoshi Kurosawa and a documentary by China’s Lou Ye. If he manages to finish it before the deadline, we could add The Apprentice by Danish-based, Iranian-born director Ali Abassi, and we also mustn’t overlook the likelihood of Maria by Chile’s Pablo Larrain being picked. Then, all bets are off for the remaining slots (apart from the French contingent) with, among other outsiders, Georgia’s Dea Kulumbegashvili with Those Who Find Me, Greece’s Athina Rachel Tsangari with the English-language flick Harvest, and even a wild card in the form of L’effacement by Algeria’s Karim Moussaoui. As for the French hopefuls (the fates of whom are traditionally sealed on the evening before the revelation of the Official Selection), it’s anybody’s guess, apart from Jacques Audiard, who seems an almost dead cert with Emilia Perez. The most prominent predictions swirling around are Miséricorde by Alain Guiraudie and La Chambre de Mariana by Emmanuel Finkiel. The eagerly anticipated Emmanuelle by Audrey Diwan is apparently in a somewhat uncertain position, going for the competition or nothing at all. The other female directors among the most credible candidates are Delphine and Muriel Coulin with The Quiet Son, and Patricia Mazuy with Les prisonnières. In addition, Thierry de Peretti might be in the running with À son image (which is in the final stages of editing). For the rest of the Official Selection (Out of Competition, Cannes Première, Un Certain Regard, Special Screenings and Midnight Screenings), a lap of honour for the USA’s Francis Ford Coppola (with this year marking the 50th anniversary of his first Palme d’Or, for The Conversation) with his new opus, Megalopolis, is not totally out of the question (provided that a distributor such as Apple gets on board quickly). The programme could potentially also comprise the documentaries La belle de Gaza by France’s Yolande Zauberman and Meeting with Pol Pot by Cambodia’s Rithy Panh, When the Light Breaks by Iceland’s Runar Runarsson, The Village Next to Paradise by Somalia’s Mo Harawe, Viet and Nam by Vietnam’s Truong Minh Quy, Une part manquante by Belgium’s Guillaume Senez, Submergée by French-Lithuanian director Alanté Kavaité, Things That You Kill by Iran’s Alireza Khatami, Dreams by Norway’s Dag Johan Haugerud (the second instalment in his trilogy that began in the Berlin Panorama with Sex [+]), Mexico 86 by Belgian-Guatemalan helmer Cesar Diaz and On Becoming a Guinea Fowl by British-Zambian filmmaker Rungano Nyoni. Standing out among the possible French features (unless they are headed to Venice) are Three Friends by Emmanuel Mouret, Spectateurs ! by Arnaud Desplechin, Marcello Mio by Christophe Honoré, Quand vient l’automne by François Ozon, and Jim’s Story by Arnaud and Jean-Marie Larrieu, and perhaps even Beating Hearts by Gilles Lellouche or the medium-length film C'est pas moi by Leos Carax. It’s also worth pointing out the tight competition between a handful of young French filmmakers: Noémie Merlant with The Balconettes, Jessica Palud with Maria, Charlène Favier with Oxana, Aude Léa Rapin with Planète B., Laetitia Dosch with Who Let the Dog Bite? and Ghost Trail by Jonathan Millet. As for the parallel sections, Ma vie, ma gueule by the late Sophie Fillières could embellish the showcase of the Directors’ Fortnight, much like, among others, Sang craché des lèvres belles by France’s Jean-Charles Hue, Une langue universelle by Canada’s Matthew Rankin, All We Imagine as Light by India’s Payal Kapadia, Milano by Belgium’s Christina Vandekerckhove, the documentary La chambre d’ombres by Colombia’s Camile Restrepo, Morlaix by Spaniard Jaime Rosales, Agora by Tunisia’s Ala Eddine Slim, Stranger Eyes by Singapore’s Yeo Siew Hua and Eight Postcards from Utopia by Romania’s Radu Jude and Christian Ferencz-Flatz, and even Horizonte by Colombia’s César Augusto Acevedo. Moving on to the Critics’ Week, some of the titles that we could highlight from the extensive shortlists still in consideration today (while we await the definitive choices for the Official Selection) are Sisters by French-Greek helmer Ariane Labed, The Mountain Bride by Italy’s Maura Delpero, Little Trouble Girls by Slovenia’s Urška Djukić, Simón de la montaña by Argentina’s Federico Luis Tachella, My Sunshine by Japan’s Hiroshi Okuyama, and the French movies Eat the Night by Jonathan Vinel and Caroline Poggi, Diamant brut by Agathe Riedinger, Un mohican by Frédéric Farrucci, Le Royaume by Julien Colonna and Vingt dieux by Louise Courvoisier. Finally, a clutch of animated flicks could also manage to wangle their way onto the Croisette this year (although Cannes has never been very fond of the genre, especially with the Annecy Film Festival coming soon after it in France). In particular, the potential titles include Memoir of a Snail by Australia’s Adam Elliot, Flow by Latvia’s Gints Zilbalodis, Ghost Cat Anzu by Japan’s Yoko Kuno and Nobuhiro Yamashita, and The Most Precious of Cargoes by France’s Michel Hazanavicius. CANNES 2024 Semaine de la Critique di Fabien Lemercier Rodrigo Sorogoyen presidente di giuria della Semaine de la Critique a Cannes 05/04/2024 - Il cineasta spagnolo presiederà il mese prossimo la giuria della sezione parallela cannense. Tasked with handing out the Grand Prize in the 63rd Critics’ Week, which will unspool from 15-24 May as an integral part of the 77th Cannes Film Festival, the section’s jury will be chaired by Spanish filmmaker Rodrigo Sorogoyen, who steps into the shoes of previous presidents Audrey Diwan, Kaouther Ben Hania, Cristian Mungiu, Ciro Guerra, Joachim Trier, Kleber Mendonça Filho, Valérie Donzelli, Ronit Elkabetz, Andrea Arnold, Miguel Gomes, Bertrand Bonello and Lee Chang-dong. As a reminder, Rodrigo Sorogoyen presented The Beasts [+] in the Official Selection (Cannes Première) in 2022 and Madre in Venice’s Orizzonti in 2019. He has also taken part in the competition at San Sebastián twice (with The Realm in 2018 and with May God Save Us in 2016, which took home the Best Screenplay Award). The remaining members of the jury will be unveiled at a later date. CANNES 2024 di Fabien Lemercier Le Deuxième Acte apre Cannes 03/04/2024 - Il nuovo film di Quentin Dupieux, con Léa Seydoux, Vincent Lindon, Raphaël Quenard e Louis Garrel, aprirà la 77ma edizione del Festival di Cannes il 14 maggio The daring, unpredictable and funny Quentin Dupieux will open the 77th edition of the Cannes Film Festival (14-25 May) with his 13th feature, The Second Act, presented Out of Competition and released in all French cinemas on the same day by Diaphana. As a reminder, the prolific filmmaker has already been to the Croisette three times (2010 Critics' Week with Rubber, 2019 Directors' Fortnight with Deerskin, and in the 2022 Official Selection, in a Midnight Screening, with Smoking Causes Coughing). He has also been selected three times for Venice (Out of Competition in 2020 and 2023 with Mandibles and Daaaaaali!, in Orizzonti in 2014 with Reality), at Sundance in 2012 with Wrong, Out of Competition at the 2022 Berlinale with Incredible but True and twice at Locarno (in the 2013 Piazza Grande with Wrong Cops and in Competition last year with Yannick). The film stars Léa Seydoux, Vincent Lindon, Raphaël Quenard, Louis Garrel and Manuel Guillot. Written by the director himself, the screenplay homes in on Florence, who wants to introduce David, the man she’s madly in love with, to her father, Guillaume. But David isn’t attracted to Florence and wants to throw her into the arms of his friend Willy. The four characters meet in a restaurant in the middle of nowhere. The Second Act is produced by Chi-Fou-Mi Productions, and its international sales are handled by Kinology. CANNESERIES 2024 di Fabien Lemercier Canneseries: un canto del cigno per la stagione 7? 03/04/2024 - 27 serie, di cui 21 in concorso, brillano nel programma dell'evento di Cannes, che in futuro dovrà fare i conti con l'annunciata partenza del MipTV per Londra While there may be legitimate doubts about its longevity or, at the very least, about its dates, given that the MipTV market (8-10 April) it had been attached to is set to make a definitive move from Cannes to London in 2025, the Canneseries festival will unspool its seventh edition from 5-10 April. It’s a turbulent new episode in a saga worthy of Clochemerle, as the event was originally born of Canal+ and the city of Cannes’ refusal to accept the French government’s choice of Lille and Series Mania as the venue to organize an international series showcase in France. However, these questions swirling around its future have by no means prevented Canneseries from offering another superb programmed this year, including a main competition that pits eight series (six of which are European) against each other, with four world and four international premieres. The jury is chaired by Danish actress Sofie Gråbøl (flanked by her colleagues Alice Braga from Brazil, Macarena García from Spain and Alix Poisson from France, as well as by composer Amine Bouhafa and director Olivier Abbou). Featuring on the menu of this main competition are the 6 x 36-minute Danish show Dark Horse (which explores a mysterious and toxic mother-daughter relationship against a backdrop of addiction), created by Sara Isabella Jønsson, and the 10 x 30-minute Norwegian series Dumbsday (crated by Marit Støre Valeur, Erlend Westnes and Christopher Pahle), which tells of the rite of passage of a bunch of six no-hopers on whom the entire future of humankind depends, following a deadly pandemic. Also vying for the prize is a show bringing together Spain, Sweden, Germany and Finland, the 8 x 40-minute This Is Not Sweden (created by Aina Clotet, Valentina Viso and Daniel González), which recounts the turbulent journey of two young parents who have left the city behind in order to enjoy the countryside and all its benefits. Also duking it out is the 6 x 50-minute show Moresnet (produced by Belgium, the Netherlands and Germany, and created by Frank Van Passel, Jef Hoogmartens and Jonas Van Geel), which thrusts two childhood friends into an investigation blending fantastical elements and a neurotechnology multinational. Lastly, also taking part are the 6 x 45-minute German effort The Zweiflers (which examines a case of inheritance involving a family at the helm of a delicatessen empire, created by David Hadda) and the 8 x 50-minute Operation Sabre (produced by Serbia together with Bulgaria, and created by Vladimir Tagić and Goran Stanković), which looks back at the dark hours following the fall of Milošević, with a detailed reconstruction of the assassination of prime minister Zoran Djindjic in 2003. Another two competitions will see eight short series (with Norwegian actress Henriette Steenstrup chairing the jury) and five documentary series (with French director Ovidie presiding over the jury) locking horns. Six titles screening out of competition round off the programme, with particular highlights being the French series Becoming Karl Lagerfeld (see the news), Fiasco (toplined by Pierre Niney) and Terminal (which will open the festival), plus the Netherlands’ Máxima. Interestingly, the Icon Award will be handed to the USA’s Kyle MacLachlan, the Commitment Award to his fellow countrywoman Michaela Jaé Rodriguez and the Rising Star Award to Brit Ella Purnell.
Id: 3339 Data: 07/04/2024 04:44:57
*
- Cinema
Cinema - con Cineuropa News
Cinema con Cineuropa News
Film / Recensioni Italia Recensione: “Eravamo bambini” di Vittoria Scarpa
20/03/2024 - Marco Martani dirige con disinvoltura il suo terzo lungometraggio, che combina thriller di vendetta e film di formazione, tratto da un monologo teatrale di Massimiliano Bruno. Cinque giovani antieroi in cerca di vendetta, vent’anni dopo un tragico evento che ha segnato le loro vite, quando erano poco più che bambini. Ma il passato torna sempre e, prima o poi, tocca farci i conti. È un riuscito mix di Revenge thriller e film di formazione il nuovo film di Marco Martani, Eravamo bambini, presentato lo scorso ottobre in Alice nella città (18ma Festa del cinema di Roma) e ora in uscita nelle sale italiane, il 21 marzo con Europictures. Liberamente tratto dal testo teatrale Zero di Massimiliano Bruno, che firma la sceneggiatura insieme al regista, il terzo lungometraggio di Martani (Cemento armato, La donna per me) è innanzitutto un dramma umano che intreccia tre piani temporali diversi e cinque storie di vite spezzate, quelle di un gruppo di amici che condividono un trauma lacerante, ma che da quel fatidico giorno d’estate di venti anni prima non si sono mai più visti. Tutto ha inizio in un piccolo paese della costa calabra, dove il cosiddetto Cacasotto (Francesco Russo), considerato un po’ lo scemo del villaggio, viene fermato dalla polizia, di notte, nei pressi della villa di un potente uomo politico locale, con un lungo coltello in mano. Trasportato in caserma, Cacasotto comincia a parlare. Subito dopo ci vengono presentati, uno per uno, gli altri protagonisti, ognuno alle prese con le proprie esistenze disfunzionali: Gianluca (Alessio Lapice) è un poliziotto che fatica a controllarsi quando si tratta di usare il manganello; Margherita (Lucrezia Guidone) fa la giornalista e si dedica al sesso occasionale più degradante; Walter (Lorenzo Richelmy) è un trapper di successo, scontroso e ruvido, anche con sua figlia piccola; Andrea (Romano Reggiani), fratello minore di Margherita, fa uso di droghe pesanti e prende botte dagli strozzini. È una sequela di tranches de vie desolanti quella a cui si assiste all’inizio, inframezzate da immagini ben più calde e solari, che si rivelano poi appartenere a molti anni prima e riguardare proprio quegli stessi personaggi, da piccoli, quando con i loro genitori trascorrevano le vacanze al mare, in Calabria. Quando un sms compare sul cellulare di ciascuno di loro, oggi trentenni, chiamandoli a raccolta per una tanto attesa, e non meglio specificata, resa dei conti (“è arrivato il momento, chi c’è c’è”), il puzzle comincia pian piano a ricomporsi. Compare quindi un sesto membro di quella vecchia banda di amici, Peppino (Giancarlo Commare), figlio del temibile onorevole Rizzo (incarnato da Massimo Popolizio) e a sua volta segnato da una figura paterna a dir poco ingombrante. Co-fondatore della società di produzione Wildside e autore di oltre 50 sceneggiature per il cinema (tra cui quella di La mafia uccide solo d’estate, premio EFA 2014), Martani dirige con disinvoltura i frammenti di questo intreccio che si fa via via più decifrabile, mantenendo una buona dose di suspense fino alla fine e offrendo non pochi colpi di scena. Supportato da un cast di attori giovani ma già esperti, in piena sintonia fra loro e abili nel restituire le varie sfaccettature dei loro personaggi (non sono eroi che vanno incontro alla vendetta, ma persone traumatizzate rimaste congelate a quel giorno di vent’anni prima), il film offre una buona variazione, dolente e a tratti cruda, sul tema dell’innocenza perduta. Eravamo bambini è una produzione Minerva Pictures e Wildside, in collaborazione con Vision Distribution e Sky.
One World Prague 2024 I diritti umani e le loro violazioni sono al centro del 26mo One World Film Festival di Ola Salwa
20/03/2024 - L'evento internazionale prende il via oggi a Praga con 96 lungometraggi e 10 progetti VR, oltre ad alcuni titoli di fiction, per la prima volta in selezione A screening of the Oscar-winning documentary 20 Days in Mariupol by Mstyslav Chernov will open the 26th edition of the Czech-based One World International Human Rights Film Festival, which unspools from 20-28 March in Prague, Boskovice, Jeseník, Šumperk and Vsetín. In the following days and weeks, the event will expand to 43 other cities in the country and will run until 21 April. This year’s selection encompasses ten VR projects and 96 full-length films, including narrative forms for the first time ever. The programmed is organized into competitive and non-competitive thematic sections, which cover much-discussed and relevant issues: Identities, Structures of Power, The Middle East, Ecosystems, Searching for Freedom, On the Edge of Maturity, and Communities. The International Competition rounds up 11 documentaries that – apart from A Shaman’s Tale by Beata Bashkirova and Bashkirov Mikhail (Czech Republic/France/USA), which is enjoying its world premiere – have already passed through other festivals, garnering recognition and accolades along the way. They are A Bit of a Stranger by Svitlana Lishchynska (Sweden/Ukraine/Germany), A New Kind of Wilderness by Silje Evensmo Jacobsen (Norway), Agent of Happiness by Dorottya Zurbó and Arun Bhattarai (Bhutan/Hungary), Flickering Lights by Anirban Dutta and Anupama Srinivasan (India), Hollywoodgate by Ibrahim Nash'at (Germany/USA), KIX by Bálint Révész and Dávid Mikulán (Hungary/Croatia/France), Life Is Beautiful by Mohamed Jabaly (Norway/Palestine), Silence of Reason by Kumjana Novakova (Bosnia and Herzegovina/North Macedonia), The Monk by Mira Jargil and Christian Sønderby Jepsen (Denmark/Netherlands) and, last but not least, Venezuela: Country of Lost Children by Marc Wiese and Juan Camilo Cruz Orrego (Germany). On top of that, the audience can watch films gathered within the Immersive Films Competition, Right to Know Competition and Czech Film Competition. The festival also offers in-depth conversations with the filmmakers and experts that will enhance the reception of the films and provide additional context to the conversation about them. The narrative film selection includes festival darlings like Estibaliz Urresola Solaguren’s 20,000 Species of Bees, Ladj Ly’s Les Indésirables, Elene Naveriani’s Blackbird Blackbird Blackberry and Agnieszka Holland’s Green Border. In actual fact, the Polish director, who graduated from FAMU and works regularly in the Czech Republic, is set to give a master class and, on the eve of the One World festival, presented a special Homo Homini Award to the editor-in-chief of Azerbaijan-based Abzas Media, Leyla Mustafayeva. Referring to the global state of human rights, Holland said: “On the one hand, there is the cradle of freedom and solidarity, democracy and human rights. On the other hand, the worst imaginable crimes against humanity. Festivals like One World play a tremendous role in raising awareness. They serve as vital platforms for spreading both knowledge and empathy.”
Series Mania 2024 La serie inedita di Giuseppe Tornatore Il camorrista venduta in diversi mercati di Martin Kudláč 21/03/2024 - Il regista italiano premio Oscar ha curato i lavori di restauro della sua miniserie tv, tenuta nel cassetto per quasi quarant'anni e ora nel programma di Séries ManiaThe miniseries The Camorrist, shot by Oscar-winning Italian director Giuseppe Tornatore, is coming to the small screen nearly 40 years after it was originally shot. The show was filmed alongside his feature-length movie The Professor. The film was released in theatres in 1986, while the series was shelved indefinitely. “Unfortunately, the movie didn't have an easy life, owing to the controversial themes it dealt with, and it disappeared from circulation a few weeks after its release in theatres. Discouraged, the distributors never aired the television series, and the five episodes were lost in the 35 mm material warehouses,” explains the director. The never-before-aired series got a second chance after it was recently sold to multiple European territories. The 18th edition of the Rome Film Fest premiered the first and fourth episodes, which are also screening at the ongoing Series Mania festival in Lille (15-22 March). The Camorrist delves into the life of a Camorra boss known as “The Professor” (Ben Gazzara), who manages the reformed Camorra from behind bars. With the aid of his loyal sister Rosaria (Laura Del Sol), he escapes, establishing a powerful criminal empire that permeates every stratum of society. “The current reworking, which required great artistic and professional commitment, has been completed after almost a year of activity,” explains Titanus president Guido Lombardo. The series underwent a 4K restoration, overseen by Tornatore himself, and features an original score by Oscar-winning composer Nicola Piovani. “Thanks to the revival of the glorious Titanus brand, those five hours have emerged from the shadows, and Guido Lombardo, together with the new executives, asked me to restore and re-edit them. I gladly accepted the challenge, which involved a new 4K scanning of the original materials, innovative colour correction, a prodigious remaking of the mono sound converted to 5.1, and resizing to the 16:9 format from the original 1:33. The editing remained intact, but with slight adjustments to reduce the duration of each episode to about 55 minutes,” elaborates the director. The series will air on Mediaset in Italy and has been acquired by AMC for Spain and Portugal. In addition, The Camorrist has already been sold to further territories, including Slovakia, the Baltics and the CIS. The Camorrist was produced by Titanus Production and RTI/Mediaset. Its distribution is handled by Minerva Pictures.
Id: 3326 Data: 22/03/2024 05:59:43
*
- Libri
Marzia Latino – La mia vita in ferrari , RiseandPress 2024
Marzia Latino – La mia vita in “ferrari” – Rise & Press 2024
L’idea snaturata di una possibile ‘fuga dalla realtà’, formatasi con l’insorgere di una problematica più grande di chi è tenuto a sopportarla, fa sì che si crei una dicotomia di se stessi, cioè una scissione della propria volontà cosciente da quella inconscia, che ci fa sentire ‘diversamente omologati’, e solo perché qualcosa nella genesi della nostra natura è andata storta e/o come si dice, ha preso una strada diversa dalla ‘normalità’. Sempre che ‘normale’ non sia poi una parolaccia in bocca agli stolti, allora c’è da offendersi, soprattutto quando è accompagnata da un pietismo insopportabile, perché normale in effetti ha valenza ‘zero’, a confronto con ‘diverso’ che in certi casi assume valenza di singolarità, atipicità, originalità, e molto più spesso di creatività. C’è comunque un ma(?) che va considerato, per cui essere ‘diverso’ non necessariamente ha significato di aspettanza, desiderio, ambizione e/o rimpianto di qualcosa mancante all’origine, o che è venuta a mancare successivamente. In molti casi si tratta di una ‘fuga dalla realtà’ dalle molte sfumature psicologiche, endemiche del carattere, contenente un segno grafico ‘diverso’ nella scrittura anamnestica interiore, come reminiscenza di ciò ch’è stato fin prima della nascita e che ci accompagnerà tutta la vita. Pertanto non c’è nessuna colpa da attribuire, in ogni caso ci si deve accettare per quello che si è: normali e/o diversi con gli stessi requisiti e soprattutto con gli stessi ‘diritti’, per i quali vale la pena combattere gli uni a fianco degli altri, per affrontare le continue sfide della vita. Scrive Zygmunt Bauman il più grande sociologo vivente in “L’arte della vita”: «La nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no”, cui aggiungo ‘che lo vogliamo o no’.» Ma c’è dell’altro, in “Cose che abbiamo in comune”: «Il nostro mondo liquido-moderno è in continua trasformazione, ‘tutti noi’ (e non si riferisce solo ai normali ma a tutti), consapevoli o no, veniamo trascinati via senza posa, anche quando ci sforziamo di rimanere immobili nel punto in cui ci troviamo.» Quanto più sta a significare che la nostra ‘fuga dalla realtà’ invero non è che il prosieguo del ‘viaggio in noi stessi’ che abbiamo intrapreso venendo al mondo. Guardando all’indietro e ripensando a come siamo arrivati fin qui, non viene anche a voi ‘normali e diversi’, ‘volenti o nolenti’, di pensare quante cose e quante storie abbiamo in comune? Beh, che scrivere non sia solo un ‘esercizio di stile’ lo abbiamo appurato da tempo, ma è grazie all’apporto di molti giovani autori se oggi l’argomentazione affronta tematiche, in certo qual modo, liberatorie. Come ad esempio accade in questo vademecum “La mia vita in ‘ferrari’”, in cui l’autrice si spinge in un ‘esercizio di normalità’ quasi a voler dare un senso a ciò che, forse, senso non ha, andando alla ricerca di quel qualcosa in più, per cui affermare che vale sempre la pena di vivere questa nostra vita, nel bene e nel male che pure ci riserva. Onde per cui leggere quanto ha da dire in proposito l’autrice Marzia Latino in questo ‘piccolo ma grande’ racconto della sua esperienza affatto insolita ma altrettanto strenuamente vissuta della sua ‘diversità’ e/o particolarità di un ‘viaggiare in “ferrari”’, altro non è che la parafrasi, se vogliamo, ma vera, di una reinterpretazione della carrozzina su cui conduce la sua vita, raccontata in forma di diario con voce schietta, senza tralasciare tutto quello che di bene e anche molto del male che c’è nell’affrontare, in ogni istante, con coraggio e determinazione, la sua ‘diversità’, e soprattutto combattere la stupidità di quanti si professano ‘normali’, e che normali non sono.
L'autrice: Marzia Latino, laureata in Educazione di Comunità presso l'Università degli Studi di Palermo, educatrice e sostenitrice della cultura educativa, è impegnata nell'espansione di un ambiente di apprendimento diffuso. Ha contribuito con il suo lavoro in contesti sanitari e ha guidato laboratori ludici per l'infanzia.
Id: 3323 Data: 07/03/2024 08:50:22
*
- Cinema
Cineuropa - Berlinale Festival
BERLINALE 2024 Berlinale Special
Fabio e Damiano D'Innocenzo • Registi di Dostoyevsky "Volevamo parlare di un uomo che si è arreso a se stesso, che è in fase di abbandono" di TERESA VENA 27/02/2024 - BERLINALE 2024: I fratelli italiani parlano della loro prima incursione nel formato seriale, una crime story che segue un detective piuttosto insolito
Questo articolo è disponibile in inglese.
The first series made by brothers Fabio and Damiano D'Innocenzo was presented at this year's Berlinale, as a Berlinale Special screening. Dostoyevsky [+] is a crime story that follows an unusual detective who comes dangerously close to the serial killer he is trying to catch. The siblings talked about their aesthetic and dramaturgical approach, and why they wanted to make the series with Sky on board as a producer. Cineuropa: How would you characterise Dostoyevsky? Fabio and Damiano D'Innocenzo: We call it a tale, a novel – a novel that’s been made into a series but which will also be seen in the cinema. How did this journey begin? Undoubtedly, it was essential that Nils Hartmann from Sky would be willing to produce it. We couldn't have done it with anyone else. I remember Nils saying, “We would like a noir, a thriller.” In ten minutes, we’d written the plot, and in four hours, we’d written Dostoyevsky's epilogue. And then, from there, the [main] writing work began. We wanted to tell of the winter of a human being. I wanted to talk about a man who has the duty, but also the desire, to chase another human being, and to intercept his scent, his taste, the taste of death. We wanted to flesh out the detective. Our vision was that of a completely dry tree. We wanted to talk about a man who has given up on himself, who is in the process of abandonment. What was important was that we wanted to explore a different narrative – one that would start with a “what the fuck” moment, where the risk is that the audience will stop watching the show. But that’s exactly what we were looking for when we agreed to work with Sky, and we are happy it was possible. Could you tell us more about your storytelling concept? It was important for us not to follow current trends. As a viewer and, consequently, as a filmmaker, before I enter the plot, I have to be able to immerse myself in the atmosphere. And it was fundamental to be able to create the habitat and to create those things that are intangible – if not with the cinematography, then with all of the subconscious elements that this wonderful art of audiovisual storytelling, whether it's cinema or television, allows you. So, we wanted to start with rather short scenes and allow the audience to lose themselves inside the places, to really belong to this village and these characters. We ask the viewer to take an active approach towards the narrative; he or she has to actively participate. And this is something that I ask of the auteur when I am a viewer. How did you know that actor Filippo Timi would be the best fit for the main role? As is the case with all of our films, it was important for us that the actors would get the chance to get to know us and be able to find out if both sides were a good fit for each other. Filippo arrived at the auditions on the first day, and we knew it was going to be him. The icing on the cake was when we saw him coming out of the audition, hugging a tree. Your protagonists are often on the fringes of society; what fascinates you about this? It’s important to be true to the complexity of human beings. This is only possible with the absence of judgement. The prerequisite for our work is to be open towards life, in the sense that we are curious and want to observe everything, but then to avoid falling into the trap of being judgemental is the ideal outcome. Besides, why should we judge? We already live in a country that is a dictatorship controlling our thoughts. So why do it also while telling a story? You worked with a brand-new crew for the series; why so? We changed the entire technical crew because we were looking for a new approach. That doesn't mean that the old one was no good, but we became friends. Inevitably, when you become friends, you become loyal, you get used to it, and you tend to give less. We felt, however, that it was time to get to know new names and new ideas.
DOSTOEVSKIJ di DAMIANO D'INNOCENZO, FABIO D'INNOCENZO titolo internazionale: Dostoyevsky titolo originale: Dostoevskij paese: Italia rivenditore estero: NBCUniversal anno: 2024 genere: serie ideato da: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo regia: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo sceneggiatura: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo cast: Filippo Timi, Gabriel Montesi, Carlotta Gamba, Federico Vanni produzione: Sky Studios Italia distributori: NOW TV, Sky
Id: 3319 Data: 28/02/2024 17:33:29
*
- Esoterismo
Lezioni di Tenebra - Il laro oscuro
Lezioni di Tenebra / 1 Mavruz in me - Il lato oscuro.
Avvertenza: Se non volete mettere a repentaglio la vostra integrità morale e psichica non leggete questo racconto in cui potreste scoprire qualcosa di ‘voi stessi’ che non vi piacerà, dacché: “L’incontro con l’ombra, quella parte di noi chiusa nelle segrete dell’inconscio, è un’esperienza sempre pericolosa, alternante, dove le parti nascoste, oscure, violente e disdicevoli si manifestano per essere finalmente ascoltate e integrate nella coscienza”. (*)
Il tratto nero del carboncino scorre rapido nel tracciare il grafico perimetrale dell’immensa costruzione che si presenta ardita rasentando i margini del foglio bianco, quasi fosse quello il limite imperscrutabile oltre il quale l’immaginario s’apre allo spazio esteso all’infinito, aprendo a un non-luogo estremo attraversato da migrazioni d’idee mirabilmente pensate a infrastrutture smisurate, benché solo apparenti, appena intraviste nell’ottica di un caleidoscopio in bianco-nero. L’unica nota di colore, una macchia rosso sangue che improvvisa s’impone all’attenzione, come di ferita che non coagula e si ravviva costante deturpando l’immagine onirica di una magione che si profila nell’intenso biancore incombente del foglio, che pur si cela alla vista dei possibili sguardi indagatori di chiunque brami irrompere nell’antro buio delle sue mura, che tutto nasconde e protende verso l’oblio. L’ampio edificio idealmente progettato e mai ultimato, manca di successione di piani e di muri divisori che pur si combinano alla vista per effetto d’insieme, rimandando a invisibili pareti contratte, a prospettive irrisolte, a sottoscala bui che non vedranno mai la luce, a soffitte che inutilmente respireranno l’afflato dell’etere. L’unica porta d’accesso è tratteggiata appena, intenzionalmente sprangata affinché nessuno possa mai oltrepassarne la soglia, dissimulata com'è agli sguardi indiscreti da un oscuro volere che non prevede intromissione alcuna. Ciò nonostante avviene che il vento di tanto in tanto la sfiori, quasi a raccogliere l’affannoso respiro che pur s’ode attraverso i graffi profondi scavati nel legno massiccio d’antica quercia secolare, come di profondo sospiro d’indubbia esistenza che si consuma all’interno e incute timore a chi seppure casualmente vi porga l’orecchio, tale da lasciar presagire qualcosa di funesto che incombe nel fitto mistero d’una incessante attesa, l’acre alitare di un’ombra che indugia nel pieno congiungimento di ciò che non è morte, di ciò che ancora è vita. È nel desiderio avito di chi vi abita ripulire ogni traccia di vissuto, cancellare i segni d’una umanità pregressa, interiorizzata di un ethos consacrata all’apparenza fantasmatica della propria vulnerabile presenza; dacché, l’esperienza notturna di un pensiero nefasto che rivela l’indefinito albale all’origine della parola indicibile che pur s’accende di poetico afflato. Sì che il risuono di sillaba si dilata come per un grido fra punto di partenza e divenire, che nel buio incute alla luce un risveglio improvviso, febbrile e ostinato, impercettibile ai sensi, all’intimità dell’essere che nell’oscurità s’avanza: uno scalpiccio affrettato di passi che si avvicinano, per poi allontanarsi e farsi di nuovo rasenti, successivi a una ineludibile pausa di silenzio … «Mavruz, sei tu?» «Chi altro se non io, Mavruz chiuso in me stesso, il servitore ascoso che mai riposa, e che risponde al Sé immaginario che è del mio Signore.» «Mavruz cane, dove ti sei cacciato, metti dell’altra legna sul fuoco, fai in fretta, ho freddo», la sua voce s’impone veemente, accompagnata dal gesto levato della mano furente che sempre l’accompagna nel dire … «Vengo, vengo!» Rispondo al richiamo vibrante del mio arcigno Signore che regna incontrastato in questa austera magione in rovina, prima ancora del suo conseguimento, dacché l'ambiguità del vuoto inganna ogni mio possibile movimento. Mavruz son io, colui che vigila costante affinché il fuoco perennemente acceso non venga a spegnersi nell’ampio camino intrappolato nella parete, onde riscaldare la lunga e fredda notte che incombe sul suo e sul mio destino, che, se per un verso porta all’annullamento dello spazio interstiziale dell'uno, dall’altro contribuisce alla sopravvivenza di entrambi … «Maaaavruz!», leva più alta la voce il mio Signore. «Vengo, vengo!» Arrivo calcando uno alla volta i riquadri che rivestono il simulato pavimento della stanza in cui il mio Signore dimora. A passo alterno trascino lento i piedi negli spazi di luce e d’ombra, come per una partita a scacchi, onde sottrarmi ora nel riquadro scuro del buio, ora all’abbaglio di luce dei riquadri più chiari, sì da far credere ch’io stia arrivando da chissà quale distanza, ancorché sia qui da sempre, accanto al suo capezzale d’infermo che scolora … «Mavruz che tu sia maledetto, dove sei malevolo fannullone, che cosa mai vai facendo, non senti il freddo che avanza, metti dell’altra legna sul fuoco, te l’ordino!» Sono qui, dov’altro mio Signore, Mavruz chiuso in me stesso, il dissoluto compagno di sbronze, ubriaco da sempre, che l’ombra infrange con la propria logora figura contro la fiamma contorta tornata ad ardere nel camino. Cos’altro potrei, impossibile non ascoltare i suoi richiami, le sue tiranniche pronunciazioni di despota, gli atroci misfatti che va perpetrando, quasi a volerne estirpare la colpa, per poi accusare me di qualcosa di sbagliato ch’è in lui … «Mavruz, cane figlio di cane, dove sei?» Sono qui mio Signore, penso ma non rispondo, Mavruz chiuso in me stesso, celato dietro un’assenza che finora mi concede una qualche sovrumana chiarezza d’intelletto, cui in verità anelo in divenire per una sollecitazione dell’anima mia. Colui al quale non importa restare in perenne attesa di qualcosa che stenta ad accadere, che se viceversa accadesse, metterebbe in pericolo la sua quanto la mia stessa incolumità. Quandanche io pur desideri cancellare i segni d’una umanità ch’è stata, di far piazza pulita delle tracce di un vissuto artato e assumere l’apparenza fantasmatica che mi distingue. Onde sottrarmi alla vita che mi si concede o fuggire da essa, assumerebbe un ethos significativo diverso, che il solo passare da un riquadro all’altro della pavimentazione candida la mia separazione dall’irrealtà del buio più nero all’avere accesso al bianco etereo della luce, quel non-luogo ove si contempla l’avvenuta inconfutabile esteriorizzazione di ciò che in fondo sono, quell’Io incompiuto e non omologato, Mavruz, solo con me stesso … «Maaaaavruzzzzz! Dove sei cane rabbioso?» Impossibile cercare una via di fuga nella costante sensazione di vuoto ipotetico che nel momento dello sconforto mi soggioga, per quanto sia messo di fronte all’assoluto vivo nell’irrealtà impalpabile che rasenta l’irrisolutezza della mia stessa esistenza. Dacché ogni singola idea inespressa, ogni strada intentata dal mio Signore, diventa per me visione irreversibile di un Sé ingigantito a dismisura che mi spinge all’abnegazione, a quello stato d’incoscienza che a lungo andare è portatore d’insana follia. Non v’è in me sufficiente determinazione capace di riedificare sopra le macerie di quanto andrebbe definitivamente demolito, o forse, più semplicemente can-cel-la-to di un disegno d'insieme concepito e mai realizzato appieno per una incoerenza di status giuridico per me avulso dall’essere tracciato. Quand'anche lo si voglia immaginare rimane un non-luogo avulso dal completamento di siffatta edificazione. Non basterebbe un solo foglio inviolato, bensì ideare l’estensione di un vasto terreno edificabile, onde partendo dall’interrato si andrebbe a posizionare la pietra-lata su cui fondare l’ardita costruzione, o forse, ricominciare il tutto con altro inchiostro che non sia nero … «Mavruz, che tu sia maledetto, dove ti sei cacciato?» Faccio orecchie da mercante nel mentre la mano riprende a scorrere sul foglio che senza intralcio alcuno ricalca la struttura originaria dell’immaginifico edificio entro un perimetro più ampio, riposizionando l’intero assetto della magione-cattedrale-castello che il mio Signore ha scelto di abitare per sua ascosa dimora, sebbene il nuovo porti alla dissoluzione del superfluo e del sovra-strutturato partoriti dalla sua mente obliqua. Ancor più adduco allo stallo, di risollevare i pilastri portanti, sostenere i costoloni possenti che spingono in altezza le navate, istituire gli alti spalti delle torri merlate, i poderosi bastioni; nonché ricollocare al loro posto, se mai ne abbiano avuto uno, gli architravi che delimitano i piani nobili, spalancando le travature delle volte a vista, riedificando i divisori invisibili, gli spazi inesistenti, fornendo all’insieme di un sottotetto, le coperture dissimulate dei solai, aprendo abbaini da cui scrutare il cielo … «Mavruz, malaugurato te, hai preparato la mia vestizione?» «Eseguo mio Signore, il tempo di…» Già, dimenticavo, s’avvicina l’ora di levarsi, al mio Signore piace indossare ogni volta un veste diversa, che sia il mantello regale o la zimarra d’avvocato, l’abito talare o la cappa del giudice, spesso s’invaghisce di sporcarsi la faccia e mettersi sul viso la maschera asservita al suo logoro opportunismo di despota, e solo perché non riesce a soggiogare gli angeli idolatri e i demoni del male di cui sente il respiro alitargli sul collo, che gli provoca un brivido di gelo lungo la schiena e negli inconfessati anfratti della sua anima nera. E mentre il calore sprigionato dalla fiamma torna a ravvivarsi nel camino illuminando ogni cosa presente nella stanza e s’appresta a raggiungerlo, lo trova così stanco che un attimo dopo è di nuovo assopito, per quanto la sua mente allertata dei suoi costrutti giammai riposa. Non invano la luce rossa di fuoco proietta sulle pareti immagini di nobili appartenenze obliate, i volti rugosi di predecessori estinti, una pinacoteca di morti, un inutile agitarsi di fantasmi che non conoscono pace, che in ogni dove scorrono logori epitaffi mai scritti che presto tramutano in rivoli d’inchiostro rosso come di sangue versato. Più in là nella stanza, sopra un tavolaccio in ombra, avvolge ciotole e pennelli posati alla rinfusa a sollevare ricordi d’ingenue scaramucce con la tela; bandiere sparse di vecchie guerre o forse giochi appese alle pareti si scontrano con mute statuette d’ebano d’altri continenti, ninnoli impolverati d’infantile memoria, strumenti musicali senza corde che giacciono abbandonati, archetti obliati sopra spartiti ricolmi di note incerte, tenute prigioniere in pentagrammi dissolti. Alle pareti, sospesi candelabri reggono smunte candele di notturne lotte con le tenebre, presenti in ogni angolo, ove l’arido sguardo accumula polvere dove più ce n’è, quale scoria del tempo che si stacca dagli intonaci fioriti, dalle crepe interstiziali degli archivolti edificati nella dura pietra, che pur si sgretola al solo guardarla, dove l’Io immobile si fa oggetto fra i lemmi spesi senza senso, il cui inchiostro essiccato ha vergato frasi che risuonano ancora nell’aria qual eco di morte, inutilizzabili altrove. Non rimane che un battito di solitudine a colmare il vuoto dell’ampia stanza ove il mio Signore giace schiacciato al suolo, provato da rimembranze di secoli passati che incalzano nel divenire… «Mavruz, Mavruz…», sospira il mio Signore. Non l’ascolto. Sì che neppure il copista scaltro qual io sono nel riciclare idee e concetti levigati dall’uso, riesce a pronunciare sull’altare di talune sue falsità, pur aderendo alle fuggevoli istanze degli spiriti notturni che avvalendosi dell’errore divino, inevitabile quanto eccessivo, sostengono di confinare l’altrui destino dentro un senso di colpa assoluto, durevole e costante, che mette a repentaglio l’integrità morale e psichica dei fantasmi che siamo, sopravvissuti al tempo. Si dovrebbe risalire la corrente d’ogni fiume navigato, l’estensione d’ogni mare attraversato, ritrovare le ragioni represse dalla mente, rivedere le allocuzioni, le esortazioni, le arringhe; superare le lacune del nero, riconoscere le mescolanze dei colori, gli amalgami di luce, le misture arcane dei veleni; così come lasciar scorrere limpido il flusso ininterrotto dei segni e dei simboli astrologici che con grande pazienza il mio Signore tiene racchiusi nel labirinto della sua infinita incoscienza, del suo discernimento frutto di quella scienza ermetica che solo un alchemico della sua stazza, o forse quel negromante di Athanasios Kircher saprebbe decrittare, permettendo così all’infelicità umana di svincolarsi dall’ingranaggio virtuale del destino morale che la sovrasta … «Mavruz, di quali assurdi propositi vai ottenebrando la tua mente?» Nondimeno è proprio dell’infelicità umana che il mio Signore si nutre, incitando gli accadimenti più neri della sua perseverante infingardìa. Una rete di misfatti e d’orrori di cui egli soltanto detiene l’accesso, sì da rendere impossibile lo svelamento del mistero in cui egli si cela e che lo preserva da chi vorrebbe addentrarsi nel labirinto della sua mente nefasta, che errando cerca “di stabilire un ponte, una connessione possibile tra il suo pensiero e la sua esistenza”. Mentre la macchia di rosso sangue versata sull’altare dell’innocenza del suo inenarrabile egocentrismo, persevera, si estende, si ravviva e agghiaccia, e men che mai permette ad alcuno di apprendere l’universale oggettiva verità che la sola presa coscienza della morte impone … «Finis nusquam, Mavruz, finis…», sussurra con voce spezzata, mentre tossisce ed espettora fiele senza ritegno. In nessun altro luogo la fiamma diabolica che fa ardere la sua anima potrà mai essere spenta, che il ceppo corroso dei secoli non si è ancora esaurito del tutto, né la sua avidità adultera. Non qui dunque. Chi sono io, se mai sia qualcuno, a dover biasimare l’operato del Signore che mi comanda? Chi se non colui che ripone in seno all’erudizione colta, gli elementi e i simboli ermetici secretati di colui che li detiene? «Mavruz infame, hai preparato la mia veste cardinalizia?» «Sì mio Signore, è qui pronta per essere indossata.» «E allora muoviti, appronta la mia vestizione.» «Mio Signore, non è ancora l’ora di cena, è presto per ricevere gli invitati al suo desco.» «Chi lo dispone, neppure l’orologio comanda le sue lancette, chi sei tu per decidere il passare del tempo?» Son io Mavruz, chiuso in me stesso, il ministro oscuro, colui che detiene le chiavi delle segrete stanze ove giacciono rinchiuse in polverosi tomi le sbiadite immagini esoteriche dell’antica ‘biblioteca astronomica del tempo’ ricolme di affabulazioni consunte. Soffoca l’aria di capoversi, di virgole e punti come d’aculei aguzzi, di spregevoli vuoti senza senso e velenosi accenti, tutte quelle frasi oscene che mi riserva e che non oso ripetere. Son io, che di volta in volta raccolgo senza misericordia le assi schiantate delle librerie sotto il peso delle istanze che finiscono per ardere nel camino, che alimentano il fuoco che mai cessa di ardere nel crepitare informe dei vecchi libri sapienziali … «Mavruz si può sapere che cosa bofonchi, c’è forse qualcuno con te?» Nessuno mio Signore. Son io, Mavruz chiuso in me stesso, il molosso dalla mascella poderosa che attende nell’ombra, pronto a frantumare le ossa di chi osa avvicinarsi a questa magione invasa da spettri, e che vigila davanti la porta affinché le urla dell’umanità corrotta dal perbenismo, da quel buonismo che vorrebbe pervertita, depravata, affinché non disturbino il sonno ascetico del mio Signore, da cui l’afflato malevolo ch’egli conduce seco nel sonno arroventato di tenebra … «Mavruz dove sei? Or dunque sei tu, l’infedele che avanza!» Son io, Mavruz, chiuso in me stesso, l’architetto malevolo che tutto avalla dei suoi comandi Signore, che la sua voce terribile e nefanda il respiro affanna, anfitrione di se stesso, a decidere i cambiamenti da apportare all’originaria struttura di questa irrisolta magione. Finanche di cancellare ogni possibile accesso che si delinea sulla pianta perimetrale, come quell’unica porta da sempre sbarrata. È dunque una logica spuria di luce quella dell’esperienza del passato che ritorna, e che vedrebbe can-cel-la-re questo arcano feudo di sale; per quanto ancora illumini quell’unico abbaino aperto sul nulla a designare un isolato punto sospeso, di riferimento e richiamo nel biancore del foglio, pur destinato a restare visibile, qual zona franca che s’impone al passare inesorabile del tempo dell’attesa. Come in nessun altro luogo, le lame affilate e taglienti del suo vetro infranto attentano l’incolumità di chiunque si arrischi a entrare nella tenebrosa oscurità di questa magione, senza che venga fatto a pezzi dalla malvagità sovrana del mio Signore, che mai si taccia … «Sei tu, Mavruz, perverso infame?» Chi altro se non io, Mavruz chiuso in me stesso, il filosofo del residuale, che imprime al nucleo orrifico della sua mente “…il fascino irriguardoso e contiguo dell’animalità, l’aggressività e la virulenza animale che riemerge nella passione umana”, e non avalla che l’anima morale riversi il proprio afflato sul suo male, per quanto in me parli la voce della ragione, tutto ciò che qui appare partecipa di una contiguità passionale che da sempre il mio Signore intrattiene con la sua natura mefistofelica, che la sola presenza dell’anima ancora sopravvive alla sua figura corporea in costante attesa di luce che la illumini. No, egli non sa, quand’anche questo ricongiungimento accada, che ciò segnerebbe la sua dissoluzione, pur nella pienezza della luce raggiunta … «Mavruz villico infame, non senti il vociare di quanti chiedono d’essere ammessi al mio cospetto?» «Vado sì, che già i suoi pensieri danno luogo a costrutti impossibili ricolmi di malvagie intenzioni.» «Maaaavruz affretta quel passo stentato che insegui, da quel bastardo infame che sei, vai loro incontro e accogli benevolo quanti vengono ad abbeverarsi al mio desco.» «Vado, che almeno mi si dia il tempo.» «Mavruz, dove sei?» Eccomi mio Signore, son io Mavruz, chiuso in me stesso, il cane ubbidiente e ringhioso che va ad accogliere chi non dovrebbe disturbare il mio Signore a quest’ora, in questa gelida notte d’inverno, che forse non sa ch’Egli è ombra che divora, fatto della stessa materia gassosa della nuvolaglia che passa e che va, come l’essenza aeriforme delle sue azioni da non considerare veritiera testimonianza di autentici accadimenti, in quanto essendo soltanto narrati inseguono un ipotetico passato che ritorna, frutto di un’attesa prolungata all’infinito senza domani, e che pure s’appressa, quale emorragia del tempo attuale che non conosce luogo dove andare, se non in quel non-luogo dove non arriva nessuno, perché invero non si aspetta nessuno. In cui tutto ciò che accade trova posto solo nella mente del mio Signore, nell’immaginario del suo mondo assoluto, estremo, dove mai nulla accade, dove ad ogni battaglia vinta ne corrisponde una persa, in cui nessuno davvero perisce né sopravvive alcuno … Per quanto sia io Mavruz dall’impietoso destino, chiuso in me stesso, il carceriere amoroso e spietato della sua impudicizia; colui che gioisce della subita pena e segretamente gode della creatura sciagurata ch’io sono. Sebbene ciò che più mi preoccupa del mio dannato Signore è il suo trasformare in fobie ossessive tutto ciò ch’è di spettanza al buio, ai sogni arroventati dalla fiamma, alle allucinazioni più nere; a quegli incubi procreatori di fantasmi che riempiono le sue e le mie notti insonni, scarabocchiate su centinaia di papiri sparsi che immancabilmente finiscono sul virtuale impiantito delle sue elucubrazioni… «Mavruz sei tu, fai presto, raccogli quel ch’è rimasto dei loro umani escrementi sul pavimento?» Son io, Mavruz, chiuso in me stesso, per quanto non posso restare confinato nell’alveo oscuro della sua mente in eterno, mi chiedo quando mi capiterà che uno sguardo benevolo giunga a me attraverso l’intercapedine dei muri di questa magione che mi tiene prigioniero, sperando alquanto incerto che il suo segreto che non può essere svelato, infine diverrà manifesto. Mi astengo dall’andare oltre nel parlare, se in fine vengono a mancarmi le parole davanti al suo continuo dettare sconcezze malevole in una lingua che non è la mia, fatta di oscuri ritorni, di richiami al mito, di simboli di un’arte occulta e incomprensibile. Pagine su pagine da riempire tomi di crimini orrendi, ispirati per lo più dalla bieca religione ch’egli professa, e che lo spinge all’adorazione sacrificale di divinità mostruose che presidiano i cancelli dei cimiteri e le porte degli inferi, esigendo tributi di sangue … «Mavruz sei tu dunque la serpe velenosa che porto in seno.» Son io, chi altro, se non Mavruz, chiuso in me stesso, il despota incontenibile che abita il lato oscuro di questa estrema magione. Colui che non conosce il passato né il tempo che verrà, ma solo il presente, che non si fa scrupolo della inviolabile attesa che qui si professa aspettando che si compia il destino. E sarà l’ultima notte, quella definitiva, sarà come andare incontro alla disgrazia fatale che ha visto gli angeli ribelli cadere davanti alla lesa maestà, contro la falsa innocenza del mio spietato Signore. Colui che nella diatriba immutata e costante contro l’umanità ha decretato la sua miserevole colpa, senza possibilità di riscatto. Questo sono io, Mavruz, chiuso in me stesso, che nulla può il mio chiedere senza il volere altrui, che l’infelicità e la colpa preposte sono ciò che concerne all’ordine demoniaco del mio Signore, i cui statuti giudiziali regolano le relazioni tra gli uomini di qualunque grado e ceto con l’infrangere le pareti astruse dell’ego, bensì lo riesumano dal profondo abisso dov’Egli pur s’inginocchia al cospetto di un’altrui volontà … «Sssst! ora mi taccio, che il mio Signore si è di nuovo assopito.» Or ché sia l’alba o il tramonto, nelle ore in cui apparenti striature scarlatte, quasi violacee, si distendono lineari e piane sul foglio bianco, resto in attesa dei sogni adombrandoli d’ombre tenebrose con le quali gioca la tirannia del mio Signore al dominio delle cose, approfitto del buio fittizio che precede l’alba, onde cancellare i fantasmi che al suo richiamo aprono trabocchetti d’infime manie d’ambizione; così le torri audaci cedenti a impalcature di cui si serve a tenere forche aggettanti a distanza, in quanto visione di penzolanti ideali cosparsi d’egoismo … «Mavruz! Mavruz, non senti che stanno bussando alla porta?», chiede astioso il mio Signore. «È il vento», rispondo, quando, ascesa forzata d’intimo volere il mio Signore sospira. «Serenità impiccatela! Tranquillità è già stata impiccata!», sono parole non mie che ripetono l’urla spaventose che fuoriescono dalle labbra del mio Signore ogni qual volta s’abbandona alla contemplazione delle cose astratte e che riecheggiano sulle inesistenti pareti dei saloni immensi, colmi di vuoto, in cui s’ode di tanto in tanto qualche scricchiolio di travi, forse s’abbattono porte in solaio. Destreggiato di vento gira un arcolaio, filatura di vita arde senza posa nel camino, avanza sul pavimento, avvolge i soffitti, cristalli di candelabri immaginari s’offuscano, nere candele di sego dileguano in fumo, allorché carbonizzato il ceppo contorto, esaurisce a vita … Ideali solidificati a crinature di vetro, stalattiti negli occhi stanchi scrutano costruzioni impossibili del Sé immaginario, come di Maestà assisa sul ‘trono del nulla’ che trascina con sé un destino non suo. Visioni di rocche poderose, di mura insormontabili, ove cavalieri armati fedeli all’ambizione, tengono una battaglia antica in difesa di un feudo di sale … «Mavruz, la mia investitura! I miei ori! Le mie armi!» «Mah … Signore?» Chiudo orecchie a non sentire, che già orda mercenaria chiamata a raduno, occupa la rocca più alta. Sopra le spalle l’alto monte della sua testa coronata, cristalli azzurri degli occhi a infrangersi, folti steli biondi e neri tramano ragnatele, invadono scale porte finestre, quale ponte levatoio sul fossato rigurgitante d’avida sete. Sua Maestà, il mio Signore, è solo, intento a sbranare necessari vassalli incatenati cui nessuno accorre in difesa, nessuno si leva a tutela dei loro costrutti. Sua Maestà inghiotte carogne morte d’inedia … «Evviva sua Maestà, evviva!» Suoni di trombe e tamburi, alla rocca s’ammaina la bandiera, della pace, nel mentre s’alza terribile quella macchiata di sangue. Orda feroce esce e scorrazza, urla implacabili di sua Maestà: “uccideteli tutti!”. Altre rocche, altre carogne, non leale battaglia sul campo, ma distruzione, stupro, violenza, l’orda selvaggia abbatte torri d’ideali, rocche d’infinita speranza, calpesta germi di spiriti eletti il tiranno … «Ohhhhhh! Aaaah!», ride tracotante sua Maestà, con le mani insozzate di sangue, fa il giro dei saloni vuoti, specchi d’argento macchiati d’infima fede, lacera carni a brandelli, alla finestra i cristalli azzurri degli occhi s’infrangono di pura follia. Saziata l’arsura di sangue, quinto elemento il ‘tiranno potere’, sua Maestà s’affaccia, leva alta la voce. Orda malvagia chiamata a raduno, libidine al cervello lo acclama … «Evviva sua Maestà. Evviva!» Quest’io re, quest’io nullità, che l’ambizione trova terreno fertile per l’inquietudine, l’accanimento, la concitazione, a voler rincorrere al vento fuggevoli ideali di supremazia, entusiastica spinta in avanti, arti schiene criniere di bianchi cavalli spronati alla corsa. Gioco di fili a tendere a cavalieri, esploratori dell’infinito universo, di matematiche sfere a me sconosciute, arpa a canto ambizioso tendo: ‘A te che ti proclami ambizioso, spronato a tutto, a sventolare bandiere pronto sul campo, sopra ogni campo di battaglia, a urlare il tuo grido: Avanti! Avanti! A conquista avanza a conquista indietreggia, vinto a vincitore, guerriero di me, maschera e istrione, a inseguire cavallo impavido impazzito di vento, il crine all’aura e zoccoli alla terra, a narici avida schiuma, al petto battito irrompente ambizione, lascia questa terra negletta alla sopravvivenza degli spirti celesti… «Avanti! Avanti!», esclama nel sogno avito il mio malvagio Signore. Cavalli pazzi, guerrieri straordinari senza posa, pupazzi della mia ragione guerreggiano nel gioco di luci e ombre della stanza vuota, fra le coperte del letto, a sventolare bandiere stravaganti per una guerra a morte di nobili cavalieri. S’armano i difensori del grande castello del cielo, che fortissima luce balena di scudi d’elmi e di spade, acuti vertici nel complesso concerto, l’orchestra al completo coi suoi migliori strumentisti, solleva ansia al coro. Scalpitano alla piana, cavalieri impavidi su furenti destrieri a briglia tenuti, a forza tendono, muovono pareti d’universo, cedono al vinto, castelli di nero fumo. A cento a mille le torri crollate, ferma a bufera, spalancate muraglie del giorno, di rosso sangue la piana riposa. Allorché placata l’ira iniziale, il vento riporta a primiere note. Posa il coro compenetrato a silenzio, resta a sussultare il vento, maestri a spezzati archi, pausa … la ripresa segna sferzanti echi d’urla levate inneggianti vittoria, e già il vinto declina sul fianco, la battaglia è perduta, mentre il giorno lentamente muore … «Mavruz! Mavruz! dove sei miserabile?», grida il mio Signore, colpito da malore che già stramazza a terra. L’Io che rimane, nulla può, ciò che avrebbe voluto: ‘utopia’. Uno a uno, e più forse, cedono gli ideali come giganti di carta inevitabilmente caduti, calpestio di piedi e d’armi nel fango, morti a battaglia. Quando, sollevati i giganti per chimera, lottano coi giganti di chissà quale altra guerra, e ora vincono, e ora, sprofondano sotterra. Quand’ecco sorgono altre rocche, altre cedono l’una dopo l’altra senza posa, nulla ormai resta della primiera magione-fortezza, nel mentre, abbandonato sul campo, lascio giacere il guerriero qual sono, dissanguato e stanco, tuttavia mai reso. Dove mai troveranno sepoltura quei tanti eroi caduti con onore e senza pace? Su quale terra sconsacrata dovrò affondare la vanga per una fossa comune che non potrà mai contenerli tutti? Un’altra guerra persa, ma per chimera nulla può quest’io Re, resta inamovibile al fato, a occhi aperti e vivi, come morto sul sagrato della sua magione-cattedrale. Sulla carta graffiati a pennino, neri d’inchiostro, i disegni miei avulsi dal mio Signore, sono rifugio arcano di complicati arabeschi di luce, benché trasparenti nel segreto diario del destino, separati dai sogni, ove giorni d’oro e di smalto incastonati come tessere di un mosaico di vita, mi dico, non s’incastreranno mai … «Mavruz, dove ti nascondi in questa profonda notte di tenebre, fa ch’io ti scorga e vedrai.» Son qui mio Signore, io Mavruz, solo con me stesso, colui che hai voluto che fossi, architetto ingegnoso a sospendere castelli di nubi a immaginare ponti d’inerzia per una disfatta al tempo che tutto nega e tutto contrasta. Quel tuo non essere son io mio Signore, costruttore intraprendente che innalza strutture impossibili, onde fermare l’attesa, al riparo dei muri possenti di questo castello di carte che mi sta crollando addosso, come presto accadrà, fintanto che la masnada degli insospettabili risorgeranno impavidi e si presenteranno a rendere l’obolo dovuto, davanti alla porta di questa prigione-cattedrale-castello che abbiamo reso sì maestosa e regale onde ossequiare il mio immaginifico Signore, certo che presto accadrà, anche se nulla potrà mai accadere. «Dove sei, figlio di incerta madre che non sia una cagna, perché non ti vedo?» Sono qui mio Signore, ascoso nel buio dei suoi occhi che non possono vedere, a battaglia, lacero s’avanza il guerriero ch’io sono, la spada a brandire ideali come spauracchi d’orgoglio del blasfemo potere, fantasmi d’ambizione immuni al fato, nel gioco immaginario che più non m’aggrada. Non c’è null’altro ch’io possa aggiungere, nulla mi vieta di non andare ad accogliere i suoi seguaci, quei proseliti convertiti favorevoli alla sua malvagità, tuttavia stento, benché incredulo dal disobbedire, sia lungi da me aprire quella porta che da sempre resta chiusa, murata di dentro … «Mavruz! Maaaavruz!» Or sento la sua voce catarrosa, angosciante, come un’eco lontana che oltrepassa il buio spesso di questa notte senza fine, avanzare nell’ombra, impaziente di mettere fine al suo stesso destino come al mio. Mentre all’apparire del suo spauracchio nero come la pece, respingo la sua ombra con la mano quasi a volerne schiacciare la figura, e torno a nascondere gli occhi dietro le palpebre stanche di così ingiusta luce, di sì ingiusta fine. Da tempo ormai non c’è più legna da ardere in camino, e ogni stanza è fredda e buia come l’anima che la abita, ascosa nei meandri labirintici del male. Nessun lamento o richiamo s’ode provenire dalle stanze mute che vantano il silenzio dell’eterno, sì che l’angelo ribelle è sceso al varo, accolto negl’inferi dei semi-dio, alla sinistra del Supremo che tiene in scacco il mondo; che al mercato delle cose, da sempre va comprando fiori che non appassiranno, sì che a quello della vita va rubando incustodito seme troppe volte germogliato di speranza che più non lo illumina: “Ho sempre pensato che chi spera nella condizione umana è un pazzo, chi dispera degli eventi è un vile”, come sostiene il filosofo sopravvissuto all’ecatombe: “Siamo pionieri della globalità, ma prigionieri dei castelli feudali” (Eco). Ma cos’è questo improvviso questo clangore d’armi, questa levata di scudi? Cos’è questo tumulto di folla che s’agita, che corre, che bussa alla porta con sì veemenza? … «Mavruz! Mavruz! dove sei, maledetto infedele, li senti, che cosa vogliono, vogliono forse abbattere la chiusa porta?» Sì certo, ho orecchie anch’io, ma so che non si fermerà la ferocia umana, pronta a scatenare un’altra guerra: Nigeria, Costa d’Avorio, Congo, Zaire, Palestina, Siria, Israele, e ancora Cecenia, Afghanistan, Ucraina, Irlanda, Corea, Pakistan, India, Tibet, Miammar, ed altri popoli, tanti altri ancora, quando finirà questa ecatombe? Allorché sento arrivare gente da ogni contado, accorrendo con fascine, zappe e forconi, con bastoni e martelli… «Mavruz, cosa mai intendono fare, abbattere la costruzione dei miei affanni, ridurla un ammasso di rovine? Cosa sperano di trovare, tesori, opere d’arte, calici d’oro, crocifissi tempestati di gemme preziose? Ti prego fai in fretta, portami dell’elisir oppure del veleno, che liberarmi voglio da questo consiglio immondo, senza consenso.» Delira il mio Signore, blasfemie corrotte giungono contro di lui, che già non è più qui, involatosi per l’inconscio sconosciuto. Contro di me, Mavruz, chiuso in me stesso, che non sono che il suo umile servo, il faccendiere di questa magione, il cane da guardia del castello, la spalla sulla scena del suo teatro, il compagno di giochi, lo spartiacque dei suoi pensieri, il suo confessore benevolo Son io colui che asseconda i suoi voleri, l’avvocato difensore che non può sottrarsi ad ogni suo incarico, lo snaturato essere dei suoi desideri, delle sue oblazioni, il capro espiatorio dei suoi offertori, l’erede della sua malvagità rimossa, abbandonata come i vestiti vecchi e corrosi che riempiono gli armadi, quel Catone Uticense che malgrado tutto lo aiuterà a oltrepassare prerogative di censo. Come potrei diversamente? La paura, cattiva consigliera, non fa diventare cattivo chi non lo è, che non ha la forza di ribellarsi a se stesso. So già che stragrande scoppierà domani la ribellione del vinto, quando dall’alto degli spalti s’udranno alti squilli di tromba, allorché altri guerrieri, bardati di bronzee corazze e di scudi, prenderanno d’assalto il castello per una disfatta al tempo, che non è la mia. Ed è già tutto un levarsi di spade, di scudi, di vessilli al vento … «A morte il Tiranno! Uccidiamolo! Bruciamo tutto! Al fuoco! Al rogo!», gridano gli invasati. Non intendo fermarli. Non li fermerò. A nulla servono ormai le parole, e già sbavano di bocca in bocca nel dare sfogo alla rabbia insana che non dalla ragione deriva, bensì dall’accidia, dall’invidia, dall’avidità che sollecita il potere, non v’è ragione che tenga quando si arriva a codesta bassezza … «Al fuoco! Al rogo!», impazzano i più facinorosi, i faziosi del male, gli agitatori violenti, mentre le fascine si assiepano a ridosso delle mura. Basta poco, una torcia accesa gettata contro la porta, per riaccendere le fiamme malvagie nel camino. Allorché tutta la magione arde come un falò di carta ingiallita dal tempo, la macchia rosso sangue fuoriesce e si riversa sul foglio a invadere il bordo bianco circostante. È tutto un fuggire in qua e in là senza direzione, a decine, a centinaia, a migliaia cadono i felloni, i palafrenieri, i cavalieri, le guardie, i servitori, i cortigiani, i preti; cadono d’appresso le teste e i busti dei grandi accolti nella biblioteca, bruciano le carte sparse nei cassetti, i ritratti alle pareti degli antenati che lo hanno fin qua sostenuto, si scioglie la ceralacca delle bolle, il sego delle candele, arde la tavola con la tovaglia bianca inzuppata di sangue tinto. Crollano i muri di sostegno, i contrafforti, gli archi romanici, le ogive gotiche, le cuspidi levate al cielo, in un unico falò delle vanità che vede il mio Signore abbandonato dall’impietoso dio degli inferi … «Mavruz, chiuso in me stesso, mi chiedo cos’è di tanto baccano?», mi chiedo, nel mentre avverto improvviso un senso di colpa per la mia cronica incapacità di vivere nel rispetto di desideri altrui, fosse pure di correre consapevolmente qualche rischio, la precisa sensazione d’essere altrove, chiuso in me stesso, in un luogo indefinibile e improbabile, perso in mezzo al nulla, se pure da qualche parte, nell’angolo riposto della mia psicotica evanescenza. Allorché seduto per il desco, con un gesto maldestro rovescio il bicchiere di vino tinto sulla tavola apparecchiata, quando la macchia rosso sangue s’allarga sulla tovaglia bianca e scola sul pavimento, a vuoto. «Mavruz, che c’è, qualcosa non va?», mi chiedo. «Non è niente, vogliate scusarmi», rispondo, levandomi e affrettandomi a uscire dal foglio, mentre nel silenzio irrompe la voce insistente e alquanto alterata che mi chiama.. «Maaaavruz!!!» «Sì, mio Signore, sono qui!» Finis nusquam!
Nota: (*) Rossana De Angelis “Daimon”.
Id: 3318 Data: 28/02/2024 17:15:51
*
- Cinema
Cineuropa News - Festival Premi
CINEUROPA NEWS PREMI FESTIVAL
Regno Unito
BFI Flare svela la line-up della sua 38ma edizione - di Elena Lazic 15/02/2024 - Diverse anteprime europee figurano nel ricco programma dell'evento londinese che celebra il cinema queer Following its premiere at the Sundance Film Festival, Layla, the debut feature from British-Iraqi director and writer Amrou Al-Kadhi, will open the 38th edition of BFI Flare. The queer cinema event, taking place at the BFI Southbank in London from 13 to 24 March, will feature 33 world premieres (across features and shorts) across its programme, divided into three thematic strands called Hearts, Bodies and Minds. Among the European world premieres, we can count UK title Lady Like, directed by Luke Willis and billed as a docu-fiction telling the rags-to-riches story of London-born, San Francisco-based drag queen Lady Camden, aka Rex Wheeler, as she is catapulted into the spotlight on RuPaul’s Drag Race season 14. Also from the UK, Jasmine Johnson’s debut feature What’s Safe, What’s Gross, What’s Selfish And What’s Stupid centres on members of the London queer community talking in depth about “what it means to create a family.” From Austria, Kat Rohrer’s What a Feeling centres on two women who meet in a lesbian bar and is described as a romantic comedy exploring migration, class and sexuality in Austria. Meanwhile the Greek documentary Lesvia, directed by Tzeli Hadjidimitriou, focuses on the island of Lesbos, birthplace of Sappho and meeting place for lesbians since the 1970s. The programme also presents a selection of films that will first be seen at other festivals, such as Crossing by Swedish-Georgian director Levan Akin and Baldiga - Unlocked Heart, Markus Stein’s documentary about German photographer Jürgen Baldiga, illuminating the AIDS crisis in 1980s underground Berlin, both opening in Berlinale’s Panorama. Coming straight from the Berlinale Forum will be Reas [+], the documentary-musical hybrid by Argentinian filmmaker Lola Arias centred on a group of female inmates singing and dancing about their lives and sentences. British director Rose Glass will be coming home with her Sundance and Berlinale selection Love Lies Bleeding [+], a body-building love story starring Kristen Stewart. Additionally, the BFI Flare programme includes two European-backed titles first unveiled at Toronto: Carolina Markowicz’s Rome Film Fest winner Toll [+], and Sally El Hosaini and James Krishna Floyd’s Unicorns. From last year’s Venice, we find Malgorzata Szumowska’s Woman Of [+], Zacharias Mavroeidis’ The Summer with Carmen [+] and Julia Fuhr Mann’s Life Is Not a Competition, But I’m Winning [+]; and from last year’s Berlinale, Estibaliz Urresola Solaguren’s 20,000 Species of Bees [+], Sacha Polak’s Silver Haze [+]; and Paul B. Preciado’s Orlando, My Political Biography [+]. Also among the European titles playing at the festival are Andrew Haigh’s All of Us Strangers [+], which will be making an appearance alongside other acclaimed queer films released in the UK over the past year; and Apollo Bakopoulos’ Aligned, centred on two male dancers who forge an artistic and sexual bond while training in Greece. Worth pointing out as well are three documentaries: Polish director Marek Kozakiewicz’s We Are Perfect, which follows an open audition for a rare trans masculine role in a Netflix film; Code of Fear, in which Appolain Siewe returns to his home country of Cameroon to investigate the roots of homophobia; and Stuart Pollit’s Don’t Ever Stop, which tells the story of Tony de Vit, a DJ and record producer who kept people dancing during the AIDS epidemic. In the festival’s series offering, we find Tops by Amy Pennington, which captures the spirit of 90s British television while focusing on four trans interviewees; and French series Split by Iris Brey, which stars Alma Jodorowsky as a stunt-woman who falls in love with the actress she’s a stand-in for.
The festival’s star event will be the European Premiere of Close To You, directed by Dominic Savage and starring trans actor and activist Elliot Page, who will be at BFI Southbank on 15 March for a Screen Talk discussing his career. Regarding the industry side of the event, the festival will also see the 10th edition of BFI Flare x BAFTA in partnership with BFI NETWORK, a professional development programme for LGBTQIA+ UK filmmakers returning this year with a new cohort of six participants. The BFI Flare Industry Day on Saturday 16 March will include panel discussions and industry networking events for professionals working in film production, distribution or exhibition.
BERLINALE 2024 EFM Dennis Ruh • Direttore, European Film Market "Noi, come EFM, vogliamo riunire l'intero settore" - di Birgit Heidsiek 13/02/2024 - Il responsabile dell'EFM ci parla dell'impatto dell'intelligenza artificiale e delle nuove tendenze del mercato The European Film Market (EFM, 15-21 February) is the first market of the year to come after the strikes, which buyers will attend clutching their fresh annual budgets. This year, the Berlinale Series Market and the EFM Startups initiative are celebrating their tenth anniversary. For his last edition as EFM director, Dennis Ruh has centralised the event venues more around the Potsdamer Platz. He discusses this and more in our interview. Cineuropa: At this year’s EFM Industry Sessions, artificial intelligence (AI) will be a key topic. Where is the industry heading, and what kind of impact are these developments having on creative filmmaking? Dennis Ruh: AI will be a special focus at this year’s EFM Industry Sessions. AI will undoubtedly start to gain more and more traction in the various areas of the film value chain – from script development to practical issues of production and post-production, distribution and marketing. It has the potential to influence all aspects of filmmaking. It is not surprising that AI is one of the key talking points in the film and media business, and beyond. We therefore examine the topic from different perspectives, including interdisciplinary ones. In the EFM Industry Sessions, we will explore how AI is changing the way we conceptualise films through worldbuilding, the experiences producers have had in their first encounters with AI, and how such tools can be used in practice. What impact do the rapid developments in AI have on film creation, and what will this mean for the role of human intelligence in the film ecosystem in the future? What skills do we need to develop in order to exploit the potential of collaboration between humans and machines? How does AI affect creativity? These questions need to be addressed and clarified, especially since AI raises issues in the ethical and creative fields. The potential of artificial intelligence is high, but the way to strike the right balance between human creativity and automation definitely needs to be taken into account. Filmmaking is a deeply creative process, and while some technical aspects can be more easily automated and can support filmmaking in a positive way, other aspects, such as overall artistic vision and emotional depth, are not that easily replaced and should not carelessly be done by an automated process. We want to shed light on all of these developments and take a more balanced and informative look at the current and predicted roles of AI. What are the new challenges and trends that productions and sales agents are facing? The landscape of the film and media industry has changed, and is constantly changing. This year, sales and theatrical distribution are also very much being influenced by last year’s strike in the USA and the resulting loss of 50% of production time. Forecasts predict a slight decline in the global box office, as big distribution companies have postponed the releases of some major productions until 2025, owing to the production delay that has occurred. But this also makes room in the release schedules for independently produced and non-US films. And it’s exactly these films that are widely sold at the EFM. This can have a positive effect on sales activities in Berlin. Do you see any changes in acquisition practices? Another recent trend in the sales business is that the selling window of films, related to their production status, is becoming narrower. There are fewer pre-sales activities. Buyers want to see first images and are increasingly interested in buying all rights, to generate revenue through all different forms of distribution and not rely on a single method of distribution. The rise of digital technologies and streaming platforms has changed the market fundamentally. New, powerful competitors are present. Now, the aforementioned AI is another technological development that has entered the market, but it has taken a significant leap forward within the last couple of years and will probably shape the industry even more. AI is both a new challenge and a trend. It’s on us to set the course for it if we want it to head in the right direction. While it might be disruptive at first glance, and there are legitimate concerns, the shift can be enriching as well and could open up new opportunities and possibilities that have not been available before. While the Berlinale Series festival programme won’t be continued any longer, the Berlinale Series Market is celebrating is tenth anniversary. What kind of role do series play ten years after the huge hype formed around them? Serial content is hugely significant for the market. Ten years ago, when the European Film Market introduced a platform for high-quality drama series, there was certainly doubt as to whether serial TV content should be part of a film market. Streaming services such as Netflix or Amazon had only just begun their international expansion at the time, strong high-end serial productions from broadcasters or streamers were the big exception, and film actors were often more hesitant to sign up for TV or VoD productions. Why is Italy this year’s “Country in Focus” at the EFM? We will be able to shine a spotlight on the multi-faceted and outstanding Italian film industry – especially since Italy was already supposed to be the Country in Focus in 2021, but with the exceptional formats during the pandemic, the focus section was suspended. The Italian film and media industry is a permanent fixture at the EFM. In 2023, we had over 1,000 accredited participants from the country, as well as over 60 exhibiting Italian companies, and almost 80 films as market screenings. This places Italy in one of the leading positions. It provides an exciting, traditional, modern and diverse production and distribution landscape. There are a lot of opportunities for cooperation with Italian professionals, and we like to foster international collaboration through this programme. The EFM offers a huge variety of training programmes for startups. How is the EFM changing in terms of demographic trends? We are proud that the EFM Startups initiative is also celebrating its tenth anniversary. We can look back at a network that has grown to include 100 international young and innovative entrepreneurs showcasing an array of tools and services for the film and media industry. Many have won awards and honours worldwide. The initiative is a wonderful tool that, on the one hand, fosters and trains young creatives by giving them the platform to present their ideas and find partners, while on the other hand, it enriches our market participants with useful ideas, technologies and developments from the film industry and neighbouring sectors. This year, ten hand-picked startups from seven countries will once again present a diverse range of tools for producers in the fields of pre-production/development, production, marketing and distribution. Six of the ten startups are (co-)founded by women. Regarding demographic trends, we, as the EFM, want to bring together the entire industry – the experienced professionals and the up-and-coming, younger generation alike. And not only from our core industry – the audiovisual content industry – but also professionals from other fields that can inspire with innovative ideas or technology. This year’s EFM is your last edition as market director. What have the most important developments been at the EFM in the last few years, and what have your biggest accomplishments been? Looking back, the last couple of years were probably the most unusual in the market’s history. When I started as EFM director, for the first time ever, the market took place in a virtual format. The two pandemic years were a challenge for everyone in the industry, the EFM included. A marketplace needs to be developed constantly. Meeting the demands of the industry is the core business of a successful international market like this. That’s why my approach was always to listen to our exhibitors and participants in order to learn about their needs. Looking at the dynamic and positive development of the market today, I think the past few years under my direction were very successful, despite the challenging pandemic-related, political and organisational circumstances. Together with my highly professional team, we stayed in close contact with the industry, met their needs and were able to create important momentum year by year. What kind of mark do you leave behind at the EFM? Under my direction, we launched a podcast series, merged the conference programmes of the former platform into the comprehensive joint EFM Industry Sessions, increased the accessibility of the marketplace and programmes for marginalised, underrepresented and disabled industry professionals, secured the financing of innovative development, diversity and inclusion projects like the expanded Toolbox programmes, and launched the Equity and Inclusion Pathways Seminar as an industry-wide consultation forum. We centralised all of the market activities at Potsdamer Platz, gained new venues, increased the physical and digital market infrastructure, and consolidated the market’s financing. And we supported, and still support, the Ukrainian film industry with different programmed, as well as independent Iranian and Belarusian film professionals.
GOYA 2024 La società della neve vola ancora più in alto vincendo dodici Goya - di Alfonso Rivera 12/02/2024 - Il film di successo di Netflix, diretto da J.A. Bayona, è il grande vincitore della 38ma edizione dei premi dell'Accademia del cinema spagnolo The new drama about the Andes air disaster Society of the Snow [+] has been nominated for the upcoming Oscars in two categories: Best Make-up and Hairstyling and Best International Film. In recent months it has been one of the most watched films on the Netflix platform, won two European Film Awards (for its special effects and make-up and hairstyling), and last Saturday took home no less than twelve Goya Awards (out of the thirteen it was nominated for). These include Best Film, Director (Juan Antonio Bayona, who already won in these categories twice before, for A Monster Calls [+] and The Impossible [+], after winning Best New Director for The Orphanage [+]), Special Effects, Production Supervision, Editing, Sound and Newcomer for the Argentinian Matías Recalt. As well as the success of this 60 million euro blockbuster, in acting the actress Malena Alterio (a favourite in all the pools for her work in the leading role of Something Is About to Happen [+]), David Verdaguer (another unsurprising award, Best Leading Actor, after impressing us with his reincarnation of the comedian Eugenio in Jokes & Cigarettes), Ane Gabarain (magnificent and sensitive as a supporting actor in 20,000 Species of Bees [+]) and José Coronado (another magnetic presence in Close Your Eyes [+], the film by the master Víctor Erice that would have deserved more recognition, as it had eleven nominations). Janet Novás won a well-deserved Goya for her stunning debut in The Rye Horn. Aside from JA Bayona’s film, the other two films that attracted the most attention were Pablo Berger’s Robot Dreams [+], which won the Goya for Best Animated Film (also an Oscar nominee and won the European Film Award in the same category) and Adapted Screenplay, and 20,000 Species of Bees, which won Best New Director and Original Screenplay, both by Estíbaliz Urresola. There were also no surprises in the categories for Best European Film, which went to the globally acclaimed Anatomy of a Fall [+], by French director Justine Triet, and Best Ibero-American Film, for La memoria infinita, by Chilean director Maite Alberdi. Another title that also addresses, like the latter, the ravages of Alzheimer's While You're Still You [+], by Claudia Pinto, received the Goya for Best Documentary. This 38th awards ceremony, held on Saturday 10 February in Valladolid, took place during a rather long ceremony that paid tribute to the 25th anniversary of Pedro Almodóvar's All About My Mother, with the filmmaker and his actresses presenting the most coveted award of the evening. The International Goya was also presented to the American actress Sigourney Weaver, presented by the actress and singer Ana Belén and the filmmakers Javier Ambrossi and Javier Calvo, directors of the popular Spanish series of the moment, La Mesías [+].
The award winners: Best Film Society of the Snow [+] – Juan Antonio Bayona (Spain/USA) Best Director Juan Antonio Bayona – Society of the Snow Best New Director Estíbaliz Urresola – 20,000 Species of Bees [+] Best Leading Actress Malena Alterio – Something Is About to Happen [+] (Spain/Romania) Best Leading Actor David Verdaguer – Jokes & Cigarettes Best Supporting Actress Ane Gabarain – 20,000 Species of Bees Best Supporting Actor José Coronado – Close Your Eyes [+] (Spain/Argentina) Best New Actress Janet Novás – The Rye Horn [+] (Spain/Portugal/Belgium) Best New Actor Matías Recalt – Society of the Snow Best Original Screenplay Estíbaliz Urresola – 20,000 Species of Bees Best Adapted Screenplay Pablo Berger – Robot Dreams [+] (Spain/France) Best Documentary Film While You're Still You [+] – Claudia Pinto Best Animated Film Robot Dreams – Pablo Berger Best Cinematography Pedro Luque – Society of the Snow Best Editing Andrés Gil and Jaume Martí – Society of the Snow Best Production Supervision Margarita Hugue – Society of the Snow Best Art Direction Alain Bainée – Society of the Snow Best Costume Design Julio Suárez – Society of the Snow Best Make-up and Hairstyling Ana López-Puigcerver, Belén López-Puigcerver and Montse Ribé – Society of the Snow Best Special Effects Pau Costa, Félix Bergés and Laura Pedro – Society of the Snow Best Sound Jorge Adrados, Oriol Tarra and Marc Orts – Society of the Snow Best Original Music Michael Giacchino – Society of the Snow Best Original Song Yo solo quiero amor– Rigoberta Bandini (Love and Revolution [+]) Best Fiction Short Film Aunque es de noche - Guillermo García López Best Short Documentary Film Ava – Mabel Lozano Best Animated Short Film To Bird or Not to Bird - Martín Romero Best Ibero-American film La memoria infinita – Maite Alberdi (Chile) Best European Film Anatomy of a Fall [+] - Justine Triet (France) Honorary Goya Juan Mariné International Goya Sigourney Weaver
Id: 3304 Data: 18/02/2024 17:04:32
*
- Sociologia
LAltro come scelta - Parte prima.
“L’ALTRO COME SCELTA” - La costruzione sociologica nel ‘riconoscimento di genere’ – Sociologia – by Giorgio Mancinelli
Prima parte: Le ‘pari opportunità’ per una più concreta ‘interrelazione sociale’. Alla luce dei mutamenti sopravvenuti nella società attuale e delle nuove realtà ideologiche, la costruzione sociologica del ‘riconoscimento di genere’ (*), impostata su basi antropologiche quali, la tradizione, la cultura, la religiosità, la sacralità degli affetti, le usanze e i ‘riti di riferimento’ (*), da qualche anno a questa parte, si è rivelata inaspettatamente anacronistica, mostrando le sue crepe profonde. Segni questi di una millenaria erosione che non l’hanno risparmiata da risentimenti diffusi e critiche per certi aspetti discordanti quanto inevitabili. È così che l’ ‘essere umano’, in qualità di soggetto di ‘genere’, è divenuto, quasi improvvisamente, un fenomeno sociale e antropologico planetario, cui un certo ‘liberalismo’ (*), aprioristico e metodologico, attribuisce forme di ‘società’ e di ‘economia’, migliori di sempre; neppure fossero di per sé ‘archetipi’ (*) di una fantomatica modernità. Nel tempo, questi comportamenti, individuati come ‘differenze di genere’ (*), e successivamente a una distinzione delle problematiche legate al sesso, sono state gradualmente introdotte nella società, secondo le ripartizioni attuate nella psicologia individuale e in quella collettiva di ‘gruppo’. Per la ‘donna’ erano la sessualità legittimata, la genitalità e, differentemente, per il ‘maschio’, il potere sessista e la riproduttività genitoriale; successivamente trasformate in, voglia di supremazia nei rapporti relazionali, crescita di autogestione nell’uno e nell’altro sesso, non più riconducibili al solo fattore biologico. Tant’è che l’esperienza esistenziale e sociale dell’essere ‘uomo’ e quella dell’essere ‘donna’, nella loro identificazione individuale e complessità, sono tutt’altro che scontate. Onde per cui, riconoscere l’influenza dei fattori sociali nelle ‘differenze di genere’, è il primo passo per il superamento delle diversità e la definitiva attuazione delle ‘pari opportunità’ (*) nell’ambito della riorganizzazione sociale, nella scuola e nel lavoro. Non solo, quindi, andando verso una comprensione significativa delle varianti problematiche insite nel termine ‘gender’ o ‘genere’ che dir si voglia, ma anche di quelle che prendendo spunto dalla diversità dei sessi, delimitano il ‘riconoscimento’ della personalità individuale all’interno dei ‘ruoli’ (*) contraddistinti gli uni dagli altri, in famigliari, educazionali, configurativi delle diverse tipologie sociali che, nel rispetto delle parti, mettono a nudo le precarietà e i fattori di rischio, di pari passo con l’individuazione di possibili strategie di cambiamento che la società odierna tende a evidenziare come problematiche, per scopi non sempre o del tutto chiari, da sembrare incomprensibili se osservati nell’ottica della risoluzione delle ‘differenze di genere’ a scopo individualistico, ancor più evasivo se visti dalla parte del pragmatismo politico comunitario europeo e non solo. Se vogliamo, è a partire da tale ‘riconoscimento’, che la ricerca dinamica delle ‘pari opportunità’ trova giustificazione, nell’individuare quei fattori relativi, intrinsechi della sfera della ‘personalità’ (*) e della ‘identità’ (*), contrapposti al rifiuto e alla revoca dell’approvazione tout-court, che hanno portato al misconoscimento della figura ‘donna’, alla quale, invece, ineriscono esperienze di rifiuto di legittimazione e dei diritti negati. “Il riconoscimento dunque – scrive Mario Manfredi (*) – va preso come obiettivo di un processo di piena responsabilità radicale verso i soggetti di ‘genere’ (umani e non), specialmente quando si confrontano posizioni di potere da una parte, e di vulnerabilità dall’altra. Anche perché la responsabilità che ne deriva, si fa carico anche di realtà remote nello spazio (uomini e territori lontani) e, nel tempo (l’umanità futura)”. Certamente la modernizzazione dei costumi e delle idee non è approdata ad un risultato integrale ed esaustivo in ragione del fatto che si è dovuta misurare con fattori limitanti, con istanze individuali e sociali di tipo politico, economico, imprenditoriali. Non a caso Zygmunt Bauman (*) ha molto insistito nel ricercare instancabile di quell’ ‘identità’, che egli dice “divenuta precaria come tutto nella nostra vita”, essendo venuto meno il vincolo temporale nei rapporti interpersonali a causa di dialoghi preferibilmente a distanza, pause troppo lunghe di riflessione, richieste di chiarimenti mai espletate e sconfinamenti in territori diversi. A cui hanno dato seguito: senso di smarrimento, incapacità di introspezione, inconsapevolezza dell’attenzione, che hanno posto l’individuo davanti a un processo di sterilizzazione dell’immagine sedimentata di “ciò che è stato” (assenza di memoria storica), e di poter approntare una domanda del tipo: “chi sono io oggi?” (mancanza di identità futura), che l’ha portato all’individuazione di quella “paura liquida” individuale e collettiva che in sé non comporta una risposta propositiva. E che il sociologo evidenzia nel sorgere di un ‘problema’ nuovo che va ad aggiungersi ai tanti che una ‘società liquida’ si porta dietro, per quanto all’apparenza sembra impossibile contestualizzare, se non andando a “...cercare un modello ‘ultimo’, migliore di tutti gli altri, perfetto, da non poter essere ulteriormente migliorato, perché niente di meglio esiste né è immaginabile”, in quanto – egli dice – “...non basta ‘concettualizzare’ una identità qualsiasi, bisogna puntare sulla ‘identità sociale’, radicale e irreversibile, che coinvolga gli ordinamenti statali, la condizione lavorativa, i rapporti interstatali, le soggettività collettive, il rapporto tra l’io e l’altro, la produzione culturale e la vita quotidiana di uomini e donne” (*). Di là dal sembrare contraddittorio, la difficoltà del sociologo di formulare una risposta propositiva, rientra nella contrapposizione delle due diverse individualità messe a confronto: quella ‘maschile’ e quella ‘femminile’, storicamente in contrasto tra loro e che, pur riproponendo sé medesime in molteplici e differenti soluzioni, vagano alla ricerca di un ‘riconoscimento’ incondizionato, che le riconduca all’interno della ‘realtà sociale’, di cui ‘di fatto’ sono parti integranti. Il problema, volendo qui generalizzare, si pone allorquando all’interno della suddivisione di ‘genere’ avviene la separazione dei rispettivi ‘ruoli’, e quindi delle diverse ‘identità’. Questo fa sì che tutto l’impianto concettuale sopra evidenziato, risente di una forte opposizione a causa di forze esterne ingovernabili che ne determinano il ribaltamento. Forze di diversa natura, quali: la caducità dell’una o dell’altra soggettività individuale, l’idea dominante del benessere famigliare, la preminenza sul posto di lavoro, la produttività che tende a emarginare chi non è fattivo o, anche, l’avanzamento ingiustificato dell’uomo in rapporto alla stessa funzione svolta dalla donna, l’insorgere di drammatiche regressioni nei rapporti coniugali ecc.., riscontrabili negli accadimenti che producono forme di ‘criticità’ che stravolgono l’assetto del rapporto comunicativo “nel momento esperienziale della ragione e nel momento riflessivo della critica” (*), perché perturbanti l’ordine del quotidiano e devianti dalle regole di normalità vigenti. “L’annichilimento delle diversità in un mondo uniforme e massificato, la produzione di comportamenti sociali sempre più auto-referenziali, la deculturazione e l’acculturazione di massa secondo schemi economistici, l’accumulazione di tecnologie e di risorse nel contesto sociale sempre più disunito e frammentario, la distruzione di tutti i modelli di valore in nome di un pragmatismo povero di senso; sono alcuni dei paradossi evidenti cui ha condotto la modernizzazione contemporanea sulla base del suo nucleo fondante: l’assolutezza dell’individuo e della sua razionalità esclusivamente soggettiva” – scrive Giulio de Martino (*) da parer suo, quasi si fosse davanti a una possibile catastrofe annunciata e dallo stesso storico considerata quasi inevitabile. Conforme cioè alla ‘natura umana’, in prospettiva di una alterata convivenza democratica e dalla mancanza di un comportamento ‘etico’ austero, che non lascia comprendere e non giustifica le proprie e le altrui convinzioni. In questo nuovo modello di società individualistica ed astrattamente egualitaria, si assiste al perseguimento di sommovimenti sociali ed economici (ipertecnologica, globalizzazione, squilibri geografici, nazionalismo, razzismo, fondamentalismo), che segnano il punto di svolta retrospettiva del paradigma iniziale e i limiti del presente. Fatto salvo, ovviamente, lo ‘status quo’ secolarizzato, accettato e difeso, dal capitalismo imperante che ieri consentiva una sicurezza interiore che più non appaga, perché andata smarrita; oggi, promette una comunicazione più libera e aperta, la più ampia possibile, in cui “la propria autonomia e la rottura della coazione, sono le condizioni per sostenere un dialogo franco” con il futuro, che di per sé non è garanzia di ‘autonomia’ certa. Premessa questa che Antony Giddens (*) afferma, essere: “condizione sine qua non per stabilire una relazione più estesa”, che aiuta a definire i limiti personali necessari per gestire con successo le relazioni con gli ‘altri’, (diversi dall’ambito genitoriale, parentale e amicale), alla base della promessa di ‘globalizzazione’ (*) e, in senso lato, estesa oltre l’area che gli è propria, alla sfera dei rapporti interazionali cui le ‘pari opportunità’ sono di riferimento, principio-cardine del comportamento razionale e motore di ogni relazione sociale, del vero benessere e dello sviluppo della società. Sarebbe davvero auspicabile che il dialogo tra le parti sia inteso come fattivo di possibili sviluppi interazionali che infine mettano insieme condizioni e prerogative utili per il futuro degli individui, lontane da distinzioni di ‘genere’; sia nell’organizzazione della quotidianità familiare e comunitaria, sia in quella socialitaria, al fine di conseguire quel ‘riconoscimento’ incondizionato, necessario alla legittimazione paritaria. Ma cosa hanno in comune le diverse esperienze acquisite, ereditate dal passato antropologico della ‘specie’ con le distinzioni di ‘genere’ che si vogliono qui rappresentare? Si potrebbe dire niente e il contrario di niente, eppure nulla mi è sembrato più valido quanto rispolverare il ‘concetto di performatività’ teorizzato da Victor Turner (*), relativo a ‘struttura/anti-struttura’, allo scopo di argomentare i processi sociali inerenti alla realtà lavorativa che qui si prospetta. Una chiave di investigazione che, se vogliamo, anche a distanza di tempo, mi consente di riconsiderare, seppure su base teorica, la ‘trasformazione del presente’ a cui volenti o nolenti assistiamo, in quanto “costruzione di senso attraverso l’agire”. Ciò a fronte di nuove aggregazioni dell’esperienza fenomenologica, per una “ridefinizione critica del reale”. Tuttavia, se si vuole dare una risposta soddisfacente a una ‘non-domanda’, tanto meglio comprendere come, talvolta, pur nell’incongruenza, sia possibile delineare una qualche ‘esperienza sociale’ da riconsiderare. Potrebbe qui essere sufficiente osservare quelle che sono le ‘carenze’ implicite in una qualsiasi struttura lavorativa, riguardanti, nello specifico, l’organizzazione del lavoro e il comparto economico-amministrativo, e ci si accorgerà quanto di più contraddittorio sussiste nella pratica ‘tra il dire e il fare’ dell’esperienza individuale riferita alle ‘pari opportunità’. Soprattutto in relazione alle ‘strutture’ non sempre adeguate alla tipologia del ruolo svolto, rispetto alla ‘qualità’ e alla ‘quantità’ produttiva, sempre maggiore, che viene richiesta. E non solo in ambito lavorativo a fronte degli orari (turnazioni, straordinari, riposi settimanali, ferie ecc.); bensì in tutto quanto attiene alla sicurezza, ai rischi per la salute e, non in ultimo, a quelle che sono le normative nazionali ed europee che spesso vengono disattese. Sono comunque del parere che un approccio ‘qualitativo’ o, per meglio dire, più qualificato, faciliti l’efficacia della ‘legittimazione paritaria’ all’interno delle singole realtà, siano esse produttive pubbliche che nelle aziende private, sia nelle istituzioni riguardanti la famiglia, la scuola, ecc.. Non c’è dubbio che una maggiore ‘consapevolezza’ basata sulla ‘conoscenza’, sia che riguardi la ‘giustizia sociale’ che il rispetto dei ‘diritti umani’, non può che promuovere una maggiore ‘empatia’ (*) e un migliore approccio con gli altri, a fronte di una sicura ‘crescita’ che guardi al ‘futuro’. Tematiche queste che Umberto Galimberti (*) ritiene di primaria importanza, sulle quali confrontarsi quotidianamente, nella consapevolezza di una ritrovata ‘azione collettiva’ basata sull’ ‘identità’ e il ‘mutamento culturale’, capaci di agevolare le ‘interazioni sociali’ (*) nella vita e sul lavoro. Argomenti sempre attuali che molto hanno appassionato Alberto Melucci (*), definito il ‘sociologo dell’ascolto’, aperto ai temi della pace, delle mobilitazioni giovanili, dei movimenti delle donne, delle questioni ecologiche, delle forme di solidarietà e del lavoro psicoterapeutico, il quale, in anticipo sui tempi, ha esplorato il mutamento culturale dell’ ‘identità’, in funzione della domanda di cambiamento che viene proprio dalla sfera socio-lavorativa, affrontando i temi dell’esperienza individuale e dell’azione collettiva, studiando la loro ricaduta sulla vita quotidiana e sulle relazioni di gruppo che hanno confermato la validità dell’interazione scientifica tra le diverse discipline, e apportato innovativi contributi alla ricerca sociologica. Così egli scrive: “Io sono convinto che il mondo contemporaneo abbia bisogno di una sociologia dell’ascolto. Non una conoscenza fredda, che si ferma al livello delle facoltà razionali, ma una conoscenza che considera gli altri dei soggetti. Non una conoscenza che crea una distanza, una separazione fra osservatore e osservato, bensì una conoscenza capace di ascoltare, che riesce a riconoscere i bisogni, le domande e gli interrogativi di chi osserva, ma anche capace, allo stesso tempo, di mettersi davvero in contatto, con gli altri. Gli altri che non sono solo degli oggetti, ma sono dei soggetti, delle persone come noi, che hanno spesso i nostri stessi interrogativi, si pongono le stesse domande e hanno le stesse debolezze, e le stesse paure” (*). Si può ben comprendere quindi, quanto il ‘riconoscimento di legittimità giuridica’ (*), influisca nelle relazioni interpersonali, al punto che l’‘essere donna’, trasferito sul piano sociale, sia poi sfociato nella estenuante difesa di un ‘io persona’ alla ricerca di quella giustizia sociale che, al contrario, dovrebbe essere determinato da una corretta gestione all’interno di qualsiasi rapporto. Ciò che va riferito ovviamente anche a l’ ‘essere uomo’, dove ‘persona’ (*), nella concezione moderna, è potenzialmente ‘persona giuridica’ e, dunque, ‘soggetto di diritto’. Cioè: “...titolare di diritti e obblighi, investito all’uopo della necessaria capacità giuridica, e del quale è regolata la possibilità di circolazione tra ordinamenti diversi”; onde per cui va considerato: “essere dotato di coscienza di sé e in possesso di una propria identità, riconosciuta alla persona umana”. Lo afferma Jo Brunas-Wagstaff, studioso della ‘personalità’ individuale che, inoltre scrive: “Tuttavia, anche se sembra plausibile che le persone effettivamente organizzino e controllino il (proprio) comportamento in un certo modo, secondo alcuni psicologi (Carver, Scheier), il modello è troppo semplice, vista la complessità e la necessaria flessibilità del comportamento umano”; la cui comprensione, in margine a situazioni antropologico-culturali predefinite, non può prescindere dai contributi della psicologia cognitiva e dell’apprendimento sociale, atti a misurare le differenze individuali di ‘genere’. Dobbiamo, infatti, a questi moderni metodi psicologici, se oggi possiamo tracciare i ‘rapporti’ e le ‘dissonanze’ esistenti fra tratti di personalità e stili cognitivi, caratteri personali e influenze sociali, nel tentativo di prevedere e risolvere all’origine i diverbi conflittuali all’interno della società e nell’organizzazione socio-culturale a tutti i livelli. Così come anche dovremmo ispezionare quelle zone sperimentali di riscrittura dei codici culturali, dette ‘liminali’ (*) e ‘interstiziali’ (*), potenzialmente feconde, in cui operano gli strumenti mediatici (analogici e digitali) a disposizione, oggi al centro della riflessione sociologica. Se è vero che le aggregazioni sociali ed economiche sorgono per resistere alla competizione ed alla concorrenza, a maggior ragione esse danno vita a nuove specificità forse più complesse, ma anche più salde, che ripropongono a un più alto livello la massima libertà individuale. Come infatti ha evidenziato in “Sociologia degli interstizi” G. Gasparini (*): “...la possibilità di coercizione che mette in gioco tra l’altro i rapporti tra i cittadini e lo stato”, in quanto espressione di scelte operate nell’ambito di valutazioni morali (virtuose e non solo), le cui ricadute influiscono in modo catartico sulla cosiddetta ‘sfera del sociale’. Non necessariamente o in modo assoluto come marca del sistema utilitaristico di scambio o di mercato, tipici della logica economica, bensì come fenomeno di ‘prossimità’ (*), per meglio comprendere fin dove l’individuo sceglie in autonomia il proprio ‘ruolo’ nella società e nel mondo. In tal senso, non limitarsi semplicemente a riconoscere la vulnerabilità dell’‘identità sociale’ nel compiere scelte determinate, rappresenta – a mio avviso – la condizione essenziale per comprendere le modalità e le ragioni che le rendono necessarie. Nella storia sociale (e politica) si sono proposte anche importanti istanze progressive di ‘giustizia ed equità’ improntate alla ‘reciprocità equilibrata’ (*), vale a dire, ad esempio, ‘dare qualcosa ad un altro in cambio del giusto e dell’equivalente’. Non v’è dubbio, un comportamento che in origine doveva essere stato creativo della socialità, e che andrebbe riaffermato, o almeno in parte, come base nelle forme di interazione e scambio interpersonale. Si tratta qui dello svilupparsi di progetti (di vita) di tipo ‘altruistico’, volti a realizzare il ‘bene’ (inteso come gratificazione) e al raggiungimento della ‘felicità’ (come soddisfazione e ricompensa), che si avvalgono dell’ ‘interazione sociale’ per concorrere, insieme con gli ‘altri’, alla propria realizzazione dinamica, relativa a progettualità pedagogiche, psicologiche, assistenziali, e improntate ai principi dell’ “insieme è meglio”. “Sono queste virtù – scrive A. MacIntyre (*) – che garantiscono un agire razionale indipendente, ma che hanno bisogno di essere accompagnate da opere (fatti) che rispondano a tali interrogativi (..) e che né la figura dello stato nazionale moderno, né il tipo di associazione sociale e politica di cui ci sarebbe bisogno, possono rappresentare”. Tuttavia, se non in sporadici casi, le nuove spinte sociali di cui l’ ‘associazionismo’ (*) è fautore, non ha fatto delle ‘pari opportunità’ quella panacea che ci si aspettava per risolvere le problematiche discriminatorie nei confronti dell’uno e/o dell’altra nell’attuale società, né lo hanno potuto i movimenti femministi che non rientrano in questa mia tesi. Benché, è appurato, che qualcosa è sopravvenuto a stravolgere il nucleo più duro da sempre presente nell’ ‘inconscio collettivo’ di tipo maschilista. La sempre più ampia e infinita discussione, sui limiti della politica nel voler dare una svolta al ‘problema conflittuale’ delle disparità ‘donna-uomo/uomo-donna’, rientra in quello che in psicologia, è definito ‘metodo del consenso’ (*). Basato sulla ‘cooperazione’ e non sulla ‘coercizione’, sebbene ciò richieda qualche sforzo in più per essere unitamente compreso e praticato. Se non c’è l’onesta volontà di venirsi incontro (legittimazione paritaria), il metodo non funziona, in special modo quando ci si trova di fronte a gruppi eterogenei che intendono mantenere esclusive posizioni di ruolo (potere), che non possono o non vogliono cooperare. L’applicazione del ‘metodo del consenso’, dunque, inteso come processo democratico che conferisce agli individui il poter prendere decisioni e, al tempo stesso, richiede a ciascuno di assumersi la responsabilità di tali decisioni. Ciò che non è rinuncia al potere, bensì ‘potere-insieme’, che non chiede di trasferire responsabilità sugli ‘altri’, ma domanda agli ‘altri’ di rispondere personalmente e completamente delle proprie azioni, al di là delle ‘differenze di genere’ o di coperture coartate. Se non si comprende e si accetta questo, le politiche per le ‘pari opportunità’ hanno davvero ben poca possibilità di successo. Nella pur strenua possibilità di affermazione, il ‘metodo del consenso’, porta alla prevenzione dei conflitti nelle relazioni interpersonali, lì dove questi maggiormente si verificano o, come in alcuni casi, compromettono lo svolgimento del lavoro. Nello specifico quando, e soprattutto, si fa riferimento a procedure etico-deontologiche, che regolano i rapporti introitati. Presupposto necessario per la risoluzione delle contrapposizioni e dei conflitti psicologici che rientrano in una dimensione di legalità e di giustizia sociale. Ovviamente i metodi di risoluzione dei conflitti - ad esempio – sul posto di lavoro, dovrebbero andare ben oltre gli intenti di pacificazione convenzionali, spesso animati da logiche economiche preferenziali, che per lo più gratificano l’uomo e penalizzano la donna. Stando a recenti esperienze maturate, tendenti ad affidare la gestione dei conflitti a figure esterne (conflict management, sindacati, assistenti sociali, giudici di pace ecc.), siamo di fronte a un fatto nuovo, in cui l’applicazione delle ‘pari opportunità’, (ancora pur sempre in via del tutto teorica), dimostra una certa volontà di gestione delle dinamiche atte a regolamentare i parametri di partecipazione della ‘donna’ nel mondo del lavoro. Prevedendo la sua compresenza nei quadri ‘dirigenziali’ delle imprese (statali e private), da affiancare e/o integrare la presenza dell’uomo, tutto lascia ben sperare in una futura riorganizzazione in ambito lavorativo che includa la ‘donna’, a fronte di una ‘legittimazione paritaria’ (*) significativa, all’interno delle pianificazioni occupazionali del lavoro. Ciò che davvero credo possa contribuire all’ ‘autoregolamentazione’ (*) dei comportamenti e all’attivazione di ‘processi di autocontrollo’ (*) come, ad esempio l’ ‘autostima’ (*) e di una certa realizzazione di sé a favore di una maggiore ‘autoaffermazione’ (*). Processi certamente idonei ad offrire agli individui uomo/donna una maggiore ‘sicurezza interiore’, e quelle sinergie necessarie, come l’assistenza psicologica in tutte le possibili emergenze: (malori improvvisi, demotivazioni da ansia sociale, difficoltà di relazione con gli altri, senso di insicurezza, che condizionano negativamente la qualità del rapporto della vita, rendendo difficile e doloroso proporsi nel mondo del lavoro), utilissime anche, in occasione di disastri dovuti a rappresaglie e calamità naturali ecc., dove più si sente la necessità di interventi capaci e risolutivi.
Bibliografia di consultazione:
(*)S. Piccone Stella – C. Saraceno, “Genere: la costruzione sociale del femminile e del maschile”; voce in ‘riconoscimento di genere’ (gender) – in ed in Vivien Burr “Psicologia delle differenze di genere” – Il Mulino 1996. (*) Van Gennep, Mircea Eliade, J. G. Frazer, in ‘riti di riferimento o di passaggio’ (*) Mario Manfredi, “Teoria del riconoscimento”, (*) Zygmunt Bauman, “Intervista sull’identità” (*) Antony Giddens, “La trasformazione dell’intimità” (*)Victor Turner, “Concetto di performance” e di ‘performatività’ (*) G. Gasparini, “Sociologia degli interstizi”, (*) M. D’Avenia in MacIntyre, “Animali razionali dipendenti” (*) Maria Menditto “Autostima al femminile” (*) www.utopie.it/nonviolenza/metodo_del_consenso.htm ) (*) M. Menditto “Realizzazione di sé e sicurezza”
Id: 3267 Data: 04/01/2024 17:17:38
*
- Letteratura
‘L’Arte e la Morte’, libro di Antonin Artaud, L’Orma Editore
‘L’Arte e la Morte’, un libro di Antonin Artaud – L’Orma Editore 2023
“Chi, nel cuore…”, nessuno credo abbia mai espresso con tale concretezza l’affinità che trascende dall’arte nella morte, come Antonin Artaud ha delineato in questo piccolo gioiello letterario recuperato da un originale del 1929. Se non ciò che si mostra nel passaggio interstiziale dal vuoto della tela, del muro e/o del foglio di carta, alla pienezza del segno di matita, d’inchiostro e/o del colore che l’imbratta. Dacché la fragilità del dubbio è nelle parole che usiamo per descriverne l’essenza, di come l’artista usa il pennello o la matita quale arnese nel disegnarla, dipingerla e/o scolpirla. Qualcuno ha detto che ogni nostra azione confina col nulla, potrebbe essere così, ma di solito il cuore parla chiaro, non ne farei necessariamente un fatto esclusivo dell’arte tout-court. Direi piuttosto di chi si rende partecipe del momento emozionale espresso dall’artista nella fase creativa dell’arte come fosse il raggiungimento del suo massimo godimento. Mentre per noi che la osserviamo, sia quasi la cosa più naturale al mondo da dover accettare con l’inerzia del solo sguardo. Quasi che la morte, che pure in molta arte si contempla, non fosse che l’amara idea della fine, un’interminabile sequenza di dolorosi addii, di lasciti cui abbandoniamo noi stessi, nell’impercettibile e incessante astrazione che ci rende inconsapevoli della solitudine che si cela dietro la facciata della nostra vita. Il passaggio inesorabile del nostro sguardo fuggevole sulla superficie dell’arte, come di qualcosa che l’avvicina all’eternità… “Chi, nel cuore di certe angosce, in fondo ad alcuni sogni, non ha conosciuto la morte come un senso di rottura e meraviglia con cui nulla si può confondere nel mondo mentale?” C’è dunque qualcosa che va oltre la fragilità del dubbio, di vedere nell’arte ciò che ‘per scelta’ talvolta non è rappresentato, ma che pure vediamo come parte integrante del manufatto pittorico, come ad esempio un quadro, un affresco e/o dell’oggetto scultoreo che talvolta lo sguardo ‘visionario’ in sé, completa. Cosa non sempre facile all’esigenza dell’arte, non senza eluderne l’intento creativo, senza tradirne l’insita emozione che l’ha concepita, seppur mantenendo il ‘fuoco segreto’ che la divora e ne imprime la singola esistenza. Quel qualcosa che sempre accade nel fare e che rende appieno l’idea di ciò che noi tutti stavamo cercando: “un vuoto, un pieno”, che non sono della nostra piena certezza, ma che appartengono all’illusionistica quanto ‘visionaria’ realtà del sogno, “fino agli ultimi limiti del sensibile”… “Sarà proprio come in un brutto sogno, dove sei fuori dalla condizione del corpo dopo che l’hai comunque trascinato fin là, mentre ti fa soffrire e ti illumina con le sue assordanti percezioni in cui la sua superficie sarà sempre più piccola e più grande di te, in cui non si potrà soddisfare più nulla della sensazione che porti di un’antica inclinazione terrestre.” Non c’è che dire, per quanto monotono o inefficace possa sembrare agli altri è questo un meditare dell’anima che desidera trasfigurare il vuoto della morte nella pienezza di un’eternità che nessuna morte potrà mai sfiorare. Un argomentare questo non certo marginale, quand’anche necessario ad avvalorare la metafora consapevolmente cercata da Artaud, nel voler mettere a confronto la propria esistenza ‘visionaria’ di morte in quanto opera d’arte… “Ho appena descritto una sensazione d’angoscia e di sogno, l’angoscia che scivola nel sogno, pressappoco come immagino che l’agonia debba scivolare e concludersi infine nella morte”. Non si pensi ad uno svago perverso, al contrario qui s’inventa un efferato gioco al massacro per la propria sopravvivenza, che la scarsa disponibilità dell’autore continua a negare, tormentato com’è da un profondo senso d’assenza da qualcosa che è venuta a mancare nella sua linfa scrittoria, o che forse non gli è data. Vogliamo chiamarla ‘creatività vitale’ facciamolo pure, ma di quella infine si tratta, anche se non solo di quella, vissuta nella disperata attesa di riempire il vuoto che lo circonda, di dare una ragione alla sua esistenza, malgrado sappia che quel vuoto non potrà mai essere colmato, per una rinuncia che può sembrare un controsenso, ma che gli sembra aver già appurato nei suoi scritti precedenti e successivi come un’effettiva minacciosa ‘assenza’… “Ed è proprio così, e lo sarà per sempre. Nel sentire la desolazione e l’innominabile malessere , che grido, degno del latrato di un cane in sogno, ti solleva la pelle, ti si rivolta in gola, nello sconcerto di un insensato annegamento”. Viene da chiedersi in arte a che cosa grida l’uomo dipinto da E. Munch autore de “L’urlo” (1), una delle icone della pittura mondiale, se non a quell’angoscia improvvisa che lo coglie in modo “così forte, infinito che attraversava la natura” in quel momento… “L’angoscia – scrive Artaud – non è né sconosciuta né nuova. la morte nella quale si è scivolati senza rendersene conto, il raggomitolarsi del corpo, la testa (che l’uomo di Munch si tiene tra le mani) – è stato necessario che passasse, lei che sosteneva la coscienza e la vita e quindi il supremo soffocamento, e quindi la lacerazione superiore – che passasse, anch’essa, per l’apertura più piccola possibile”. Quella ‘cruna dell’ago’ da cui forse solo è dato di passare e che nell’arte pittorica più che in altra rappresenta la ‘paura’ della morte… “Questa morte in catene nella quale l’anima si agita per ritrovare uno stato finalmente completo e permeabile”. “Dichiaro – e mi affido a questa idea che la morte non sia fuori dal dominio della coscienza, che sia entro un certo limite conoscibile e avvicinabile attraverso una certa sensibilità”. È allora che il sogno si esprime nella realtà: “Il sogno è vero. Tutti i sogni sono veri”, prosegue Artaud. È vero nella ‘visionarietà’ di “Eliogabalo” (2) l’anarchico incoronato, la cui biografia, parlando solo di molteplici eccessi, in qualche modo, si rivela riflesso della vita stessa dell’autore, scomodo come artista al suo tempo, come lo è ancora oggi malagevole ad ogni interpretazione. Per cui ogni accostamento rimane in superficie, per la difficoltà di ‘penetrare il senso’ delle contrastanti coattive definizioni postume… “È per questo che tutti coloro che sognano senza rimpiangere i propri sogni, senza portare con sé una sensazione di atroce nostalgia dalle immersioni nel fertile inconscio, sono delle bestie”. “Ho la sensazione di asperità, di paesaggi come scolpiti, di pezzi di terra ondeggianti ricoperti da una specie di sabbia fine, il cui senso vuol dire: ‘rimorso, delusione, abbandono, rottura”. “Niente che assomigli all’amore, quanto il richiamo di certi paesaggi visti in sogno, quanto l’abbraccio delle colline, di una specie di argilla materiale la cui forma è come modellata sul pensiero!”. È dunque l’assenza d’amore a segnare il punto di svolta che più avvalora questa «Vertiginosa raccolta di scritti surrealisti del 1929 come di un fuoco d’artificio nella scrittura di quell’inquieto poeta in prosa che è stato Antonin Artaud?» (3) “Sì!”, risponde dalla sua Umberto Galimberti in “Paesaggi dell’anima” del 1966 (4), di quell’anima che si pensava potesse ammalarsi, proprio come il corpo. Oppure “No”, onde per cui «…bisogna recuperare l’irrazionale che abita la profondità dell’anima, e ci fa accedere alla radice da cui si dipartono sia la ragione sia la follia.» E cos’è, se non l’amore che “mira a creare un rovesciamento delle apparenze, a introdurre un dubbio sulla posizione delle immagini della mente in rapporto tra loro, che provoca la confusione senza distruggere la forza del pensiero sorgivo (dell’arte), che rovescia i rapporti tra le cose (i sentimenti, le emozioni), dando al pensiero inquieto (i dubbi laceranti), un aspetto ancora più grande di verità (nella presenza) e di violenza (nella totale assenza), e che ci offre uno sbocco alla morte, ci mette in relazione con gli stati più sottili della coscienza entro i quali la morte si esprime”. “Che cos’è (allora) questa morte in cui siamo pur sempre soli, (se) l’amore non ci indica la strada?” Artaud rivela la sua propensione e/o il distacco dal male e andare verso l’amore nella “Lettera alla veggente”… “Il destino non era più, per me, la strada oscura che può nascondere solo il male. Avevo vissuto nel suo eterno timore, e a distanza, lo sentivo prossimo, da allora sempre annidato in me. […] M’importava poco che si aprissero davanti a me le porte più terribili, il terribile era già alle mie spalle. […] Quello che mi rassicurava più di tutto non era questa profonda certezza, legata alla mia carne, ma piuttosto la coscienza dell’uniformità di tutte le cose.” […] C’era però anche un’altra cosa. Questo senso, indifferente quanto gli effetti immediati sulla mia persona, era comunque colorato di qualcosa di buono”. L’amore sublimato è qui raggiunto nella vicenda di “Abelardo ed Eloisa” che ha permeato la cultura popolare francese del XIX secolo: «un esercizio – come spiegano le attente curatrici – di ‘scrittura surrealista’ che prende spunto dalla storia dei due celebri e infelici amanti, […] che costituisce il substrato dell’esperienza poetica, non senza ironia, ricercata da Artaud, in cui scandaglia il desiderio sessuale dei due amanti sino alla minuziosa descrizione di un orgasmo.»… “Perché è a lei che sempre ritorno attraverso il filo di quest’amore senza limiti, di questo amore che si spande nell’universo. E fa crescere crateri nelle mie mani, fa crescere dedali di seni, fa crescere amori esplosivi che la mia vita conquista al sonno. […] Ma per quali estasi, per quali sobbalzi, per quale scivolare continuo arriva all’idea del piacere della mente. Il fatto è che in questo momento Abelardo gode del suo spirito.[…] E allora “…la questione dell’amore si fa semplice. Che importa che sia di più o di meno, dato che può agitarsi, insinuarsi, evolvere, ritrovarsi e riemergere.” Se, insieme ad Eloise “Ha ritrovato il gioco dell’amore”… Ed ecco che il gioco iniziale diventa ‘arte’, o meglio quell’ ‘ars amandi’ che Publio Ovidio Nasone (5) descrive come Ludus, cioè un gioco galante, una fonte di piacere in cui non si contempla la passione profonda, coinvolgente che caratterizza l’ossessione d’amore, bensì quella che l’iconografia di ritorno nell’arte di ogni epoca avvolge di un alone libero e sublime. Come in Erich Fromm (6) “L’arte di amare” è qui totalizzante, espresso attraverso il desiderio stimolante di un atto creativo che Artaud scambia con il bisogno di essere amato, pur sapendo che il vero amore è un sentimento molto più profondo e, soprattutto, trascende dal tentativo egoistico del piacere. Come pure Zygmunt Bauman avverte in “L’arte della vita” (7): «La nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no», a cui aggiungo “che lo vogliamo o no”; da leggersi volta ‘al bene’, sia quando è volge ‘al male’ che facciamo a noi stessi nel conseguimento del fine esclusivo della vita… “I bassifondi – rivela Artaud – non sono abbastanza fissi da vietare ogni idea di caduta. Sono come il primo livello di una caduta ideale di cui il quadro stesso dissimuli il fondo. C’è una vertigine il cui vortice fatica a liberarsi dalle tenebre, una discesa vorace che si assorbe in una specie di notte”. Il timore di essere risucchiati in un buco nero? Forse… “Una notte da galera, un’oscurità piena d’inchiostro dispiega le sue muraglie mal cementate”. Tutt’attorno - conclude l’autore – “…la strada era vuota. c’era soltanto la luna che continuava i suoi liquidi mormorii”. “Era inevitabile che l’eternità mi vendicasse dell’accanito sacrificio di me stesso, cui io non partecipavo”.
Note: Quanto riportato nei virgolettati è di Antonin Artaud “L’arte e la morte”, L’Orma Editore 2023. Per una biografia dell’autore consultare Wikipedia. (1), Edvard Munch “L’urlo” 1893, opera pittorica Oslo, Nasjonalgalleriet (2), Antonin Artaud “Eliogabalo”, Adelphi Edizioni 1969 (3), Giorgia Buongiorno e Maria Giacobbe Borelli, curatrici della versione italiana de “L’arte e la morte”, L’orma Editore 2023 (4), Umberto Galimberti, “Paesaggi dell’anima”, Mondadori 1966 (5), Publio Ovidio Nasone, “L’arte di amare”, Mondadori 2006 (6), Erich Fromm, “L’arte di amare”, Mondadori 1993 (7), Zygmunt Bauman, “L’arte della vita”, Editori Laterza 2008
Id: 3265 Data: 31/12/2023 18:56:19
*
- Fede
Un Presepe per Tutti - Collage musicale e qualche verso
“UN PRESEPE PER TUTTI” – Radioprogramma by Giorgio Mancinelli
Sigla: ‘An Dro’ – Trad. Bretagna / Arion
Testo: «Collage musicale e qualche verso su questo Natale.»
«È dicembre! Col vento le foglie infreddolite si staccano dai rami e dondolano nell’aria. Come farfalle stanche di volare si posano dovunque: sui marciapiedi delle strade, nei fossi, sulle auto in sosta. Si accantonano una sull’altra come per scaldarsi al sopraggiungere della notte.»
‘La Gioconda’ – A. Ponchielli / Buena Vista
«Il giorno si fa breve e la sera nasconde dietro le finestre delle case il fumo caldo della minestra pronta sulla tavola. Voci allegre si rincorrono da una stanza all’altra. Attraverso i corridoi si confondono a quelle della Radio accesa e si fanno musica …»
‘In Deine Hande’ – Trad. Creta / Popol Vuh - U.A.
«Ed ecco che l’atmosfera magica di quest’aria tradizionale riporta ad una storia più antica, di un Bambino che nasce alla vita.»
«E sì, dicembre vuol dire Natale. Vuol dire candele di luce che si accendono nel cuore di ognuno, doni, giochi, allegrezza. Natale vuol dire speranza. E come visto attraverso i vetri appannati di una finestra, il paese ch’è stato il nostro, la grande città, la megalopoli dove adesso viviamo, si trasforma, per così dire, scolora, perde la forma del reale, per diventare ‘altro’, assume le forme e gli aspetti di un immenso, immaginario ‘presepe’.»
‘Still, still, still’ - Trad. Austria - N.L. Chorus
«Allora bastano poche stecche di legno tenero da tagliuzzare, alcuni fogli di carta, i colori, le forbici, la colla, le puntine ed … ècco ricreato un angolo di mondo dove forse non splenderà il sole ma che s’illumina della nostra fantasia. E come per incanto sorge un ruscello di carta stagnola, un ponte di sughero sospeso nel vuoto, montagne di muschio e alberi di stoppa, dove le case stanno abbarbicate sotto un cielo racchiuso fra delle tavolette, e le ‘persone’ rimangono ferme nelle pose di sempre e la luna muta, lascia il posto a una cometa che brilla solcando il cielo di questa notte incantata.»
‘Ave Maria’ – Schubert / Buena Vista
«D’intorno si leva già un canto antico quanto il mondo, e una preghiera … Stanotte le stelle / sembrano più belle brillano di più … Cercando in cielo / si scorge un volo Sono angeli in coro / che nella notte buia annunciano: Alleluia! … Danzar sembra vederle / per come sono belle sembrano fiammelle … e ci sono tutte, tutte! / talmente son contente. Stanotte i cuori diventano più buoni e nel cielo d’azzurro s’intona una ninna-nanna a consolar le genti.»
‘Tubular Bells’ – Trad. Irlanda / Mike Oldfield – Virgin
«È Natale! Ognuno si scambia un abbraccio, un bacio, una stretta di mano. È Natale, ripete il viandante vogliamoci tutti un po’ più di bene!»
‘Quanno nascette Ninno’ – Trad. Italia/ Napoli / NCCP – EMI
«È Natale! Ripete il pastorello ch’è disceso a valle con la cornamusa … Sapete, dice, in quella rozza capanna / un bue e un asinello riscaldano un Bambinello / che dorme sulla paglia. È natale! In coro gli Angeli e i Pastori / gli cantano la nanna.»
‘Greensleeves’ - Trad. Inghilterra / The U.K. Symphony Orc. - MCCD
«È Natale! Tutt’intorno la pace discende sulla terra La valle è verde La collina è dolce Il ruscello s’è incantato Il laghetto si è argentato Un canto s’è innalzato Le luci sono brille I fuochi ardono di più Anche i pastori si sono addormentati E le pecorelle non brucano più Ma guardano lassù Lassù verso le stelle E sono belle! belle!
È Natale! Quand’ecco la terra è tutta in festa Il mondo s’è svegliato I buoi son desti I somarelli allegri I cani rincorrono le paperelle I cavallucci girano addomesticati I cani abbaiano di più Il gatto fa le fusa I contadini lasciano il lavoro Il venditore chiama Le massaie accorrono I bambini tornano a giocare E tutto gira intorno a noi Fin da principio della notte dei tempi.»
‘Nascette lu Messia’ – Trad. Italia/Napoli/ - NCCP - EMI
‘Pastorale’ – A. Corelli – EMI
«Narrano le Antiche Scritture che scribi, profeti, astronomi e filosofi, scrutavano il cielo in attesa di un segno. Allorquando veduta la Stella, i Magi la seguirono nel suo viaggiare, fin dal lontano Oriente. Hanno attraversato pianure e deserti, valli ombrose e montagne altissime, seguito fiumi lunghissimi e bagnatisi in laghi profondi, per giorni e notti per arrivare a Betlemme. Ognuno reca con sé un dono, un dono puro: mirra, incenso e oro. Gaspare, avvolto nel suo mantello azzurro, giunge in groppa a un cammello, porta la ‘mirra’ in dono, un unguento balsamico dall’odore soave, in segno dell’ ‘Ufficio del Signore’. Melchiorre, avanza a piedi, seguito dal palafreniere e il suo cavallo, ricoperto da un manto di porpora, porta in dono l’ ‘incenso’, una resina secca da bruciare, in segno e onore di un avvenire sacerdotale. Baldassarre con la sua barba antica, arriva ancor da più lontano, in sella a un baio coperto da un mantello viola, porta in dono l’oro, un minerale prezioso in segno del suo regno spirituale.»
‘Concerto grosso per la Notte di Natale’ – Manfredini / Erato
«Ed eccoli son giunti, in questo giorno che si dice Epifania, a questo nostro presepe che di Betlemme vuole aver sembiante. Per rinnovare l’antica novena di pace che dicesi Natale. E fuori dalla finestra, il paese, la città, il quartiere, la nostra casa, diventano il presepe di ieri, di oggi, di sempre …»
‘Canto Universale’ – J. Browning con I Piccoli Cantori di Milano - Ricordi
«È Natale! al vicino offriamo amicizia, al povero del pane, all’orfano il calore d’una famiglia, all’emarginato la mano dell’incontro al triste regaliamo un sorriso al nemico pace. Se questo Natale ha un senso, diamo un senso alla nostra vita e in ogni casa portiamo un dono in musica … (seppure per radio e fatto di sole parole) questo ‘Presepe per tutti’.»
Id: 3254 Data: 13/12/2023 06:22:43
*
- Libri
Flavio Ermini Antipensiero una favola contemporanea.
Flavio Ermini “Antipensiero” una favola contemporanea – Moretti e Vitali, 2023.
Il ‘non luogo’ è indubbiamente il nostro luogo attuale, afferente alla contemporaneità della illusorietà in cui ci troviamo a vivere, dove volenti o nolenti attraversiamo una frontiera, o meglio la soglia di un ‘altrove’ vicino e attuale che produce effetti di ritenzione ma anche di esclusione egualitari. In breve crea ‘mondi’ inusitati nella nostra coscienza, dove i sogni vanno ad occupare il ‘non luogo’ delle affabulazioni, facendosi spazio negli interstizi dell’ “Antipensiero” che per elucubrazione intellettuale finora non avevamo coltivato, ma che pure esiste nei preamboli che scriviamo nottetempo sui taccuini della memoria. Avviene così che “nel cercare di corrispondere alla muta eccedenza di senso che va oltre le parole” (*), Flavio Ermini, autore di questa “Fabula” antica e pur sempre nuova, approda alla soglia di quell’ “altrove poetico” che gli è più caro, a cui ha dedicato tutta la vita spendendosi nella ricerca e nell’affermazione delle molteplici ‘voci’ che rendessero alla Poesia quella luce che la distingue dalle altre arti. Al contempo liberandola definitivamente dalle spore della disillusione di una individualizzazione fin troppo artata, verso il necessario cambiamento, “trasportando in parole quelle cose dal silenzio del mondo”(*), verso un nuovo sé universale. Avverte l’autore: “Antipensiero è il nome dell’astronave che il bambino ha inventato per andare su una terra diversa da quella da lui finora vissuta. Antipensiero è anche il nome del Pianeta da raggiungere per vivere una vita diversa da quella finora vissuta.” Ma noi che leggiamo sappiamo, pur senza condividerlo, trattarsi di un invito a fuggire, senza perdere necessariamente coscienza della realtà, anzi assorbendo la funesta realtà vigente sulla terra (guerre, bombardamenti, macerie ecc.). Sì che si deve inventare una “Antiterra” , un non-luogo in contrasto con il luogo effettivo in cui si vive sulla Terra, dove i due protagonisti, un ‘bambino’ e una ‘bambina’, riversano i loro giochi innocenti:
«Il gioco più bello era quello degli angoli. Lo giocavano spesso, era un gioco che serviva a mantenere i segreti. […] Le macerie erano il posto più bello dove giocare. C’erano sempre nuovi sentieri e nuove piante d’ortica che servivano a tenere lontano i grandi.» Ma non era certo quello il problema più grande, era trovare il tempo e lo spazio per giocare in piena libertà; allora tornare all’astronave ‘Antipensiero’, piuttosto era se tornare o restare sul nuovo pianeta dove vivevano certi ‘filosofi’ indecisi: «La differenza riguardava esclusivamente l’elemento teorico. […] L’Antipensiero infatti si sviluppava avanti e indietro nel tempo, a destra e a sinistra nello spazio.»
Ma che la storia continui o finisse qui, ha poca importanza, va detto che in fondo ad alcuni sogni c’è un prima e un dopo inespressi, un senso di rottura e di meraviglia con cui nulla può confondersi col mondo reale. Non riusciremo mai a colmare di senso ciò che senso non ha, se non lasciando che i sogni attraversino quel ‘non-luogo’ dove infine un altro mondo è possibile, e non necessariamente davanti ai nostri occhi. L’insegnamento, se mai si possa insegnare ad essere poeti, è quello in cui è reso possibile confondere il proprio status mentale e abbandonarsi al sogno, le cui onde liriche e/o comunque sonore, si gonfiano sospinte ad andare più lontano, quell’andare ‘oltre e altrove’ che pur s’adduce ad ogni favola nel rovesciamento della realtà in cui si conduce.
“Ed eccolo l’istante tanto temuto, tanto paventato, tanto sognato, è qui giunto. […] E il tempo immenso si versa tutto intero sul suo limite con una determinazione per la quale non può che dissolversi senza lasciare traccia.” (**) La fabula è qui in questo piccolo pregiatissimo libro di Flavio Ermini curato da Lucio Saviani che aspetta di essere letto per intero, non per tornare ad essere bambini, quanto per aiutarci a diventare grandi e “stabilire così un nuovo Essere” che sarà domani, o forse che non sarà mai.
Note: (*) Introduzione al libro di Lucio Saviani. (**) Antonin Artaud "L'arte e la morte" - L'Orma Editore 2023
L’Autore: Flavio Ermini è poeta, narratore e saggista. Ha prestato il suo operato per Mondadori ricoprendo importanti ruoli editoriali. Consulente di alcune case editrici, collabora all’attività culturale degli Amici della Scala. Dirige dalla fondazione la rivista di poesia e ricerca letteraria Anterem. I suoi testi sono tradotti in francese, inglese, slavo, spagnolo e russo. Per Moretti & Vitali tra gli altri ha pubblicato “Il moto apparente del sole” (2006), “L’originaria contesa tra l’arco e la vita” (2009), “Il giardino conteso” (2016), “Edeniche. Configurazioni del principio” (2019), alcuni dei quali recensiti in Larecherche.it. Con Lucio Saviani dirige la collana “Narrazioni della conoscenza”.
Id: 3240 Data: 02/12/2023 15:00:01
*
- Libri
Dirty Game a Black Novel by Sonny – Rise and Press 2022
“Dirty Game” a Black Novel by Sonny – Rise and Press 2022
La differenza che passa tra sex appeal e seduzione, tra erotismo e pulsione sessuale, benché nella veste patinata delle riviste porno raffinate talvolta molto eloquenti, solo in qualche caso volgari nei passaggi da eccitazione a orgasmo, potrete trovarla in questa ‘black novel’ che è anche la storia di una irrequietezza individualistica senza possibilità di scampo. In cui la ‘passione sessuale’ e/o gli ‘orgasmi da possesso’ degli interpreti vengono ripetuti a sfinimento, tali da essere ripresi e moltiplicati con dovizia di particolari, che non lasciano nulla all’immaginazione. Una sorta di ‘manuale erotico’ che permette a chiunque di riproporsi nell’interpretazione ‘mercificata’ dei rispettivi ruoli. Niente di veramente nuovo se non un ‘mixed up’ di pamphlet da ‘sexy shop’ che tanto hanno ripreso da una certa letteratura e ancor più hanno suggerito al cinema in pellicole diventate ‘cult’. Per quanto una lista sarebbe troppo lunga da includere nello spazio di questo breve articolo, tanti sono i libri e altrettanti i film comunque di successo da leggere e da vedere e/o rivedere instancabilmente da chi non proscrive l’erotismo a qualità esclusivamente pornografica. Ma che ne sarebbe delle nostre ‘eroine’ e dei nostri ‘super eroi’ ai quali ci siamo ispirati una volta superata la febbricitante ossessione degli orgasmi? Meglio non chiederselo e lasciare che il ‘gioco’ si concluda da sé, magari accompagnato da un leitmotiv sullo sfondo di quel fare all‘amore la cui aspettativa non deve mai venire meno, ne vale l’ ‘illusione letteraria’ che pure, nel tempo, si è espressa con stupendi ‘capolavori’ del genere erotico. Riguardo invece alle pagine ‘sporche’ di questa ‘black novel’ come l’ha pensata il nostro autore, è tutta concentrata nel chiedere quel ‘qualcosa di più’ che in fondo ‘il sesso per il sesso’ non può dare, e che incredibile a dirsi, al contrario, solo la profondità dei sentimenti arriva a soddisfare: “Essere sadici o masochisti significa avere un posto speciale tra i perversi. Si tratta di un duale conflitto che sta alla base della nascita della società come la si intende al giorno d’oggi. È il contrasto costante tra l’attività e passività che rimane un elemento fondante della vita di ciascuno di noi. Come diceva Freud esiste al giorno d’oggi, e da sempre, un rapporto molto stretto tra la crudeltà e il destino” – scrive Sonny. Ce n’è davvero per tutti i gusti (leggi perversioni), ma questa è tutta un’altra storia, siete pronte/i ad assumervi tutte le imprudenze del caso: “La porta dell’avvenire sta per aprirsi. Lentamente. Implacabilmente. Io sono sulla soglia. C’è soltanto questa porta e ciò che v’è nascosto dietro. Ho paura. E non posso chiamare nessuno in aiuto. Ho paura” – scrive Simone de Beauvoir in “Una donna spezzata”, un classico che ha fatto della liberazione femminile la sua bandiera, andando oltre la sottigliezza psicologica di identità, di ruolo, di prospettive che la teneva legata alla propria condizione di donna, per far fronte a una sconfitta senza appello. Ma non c’è da farsi illusioni, né tantomeno da scandalizzarsi, quanto accade in un uomo è anche peggio e/o meglio, dipende dai gusti (leggi tendenze), “anche la perversione più estrema diventa realtà”. Se consideriamo quanto scritto da Massimo Recalcati in “La forza del desiderio”, non certo accade allo stesso modo in cui si viene ‘curati’ dallo psicanalista che ci vuole sdraiati sul lettino apposito, sconvenientemente alla stregua delle sue ossessioni interlocutorie che, per quanto ci riguardano da vicino, ci fanno sentire scavati nell’intimità di quella ‘privacy’ che non riveleremmo neppure a noi stessi, e “che improvvisamente scopriamo avere la connotazione del nostro (pur assai grande) essere nascosto: il nostro inconscio”. Quello stesso ‘impulsivo quanto irrazionale istinto’ che già Jacques Lacan, ripreso più volte da Recalcati, esprimeva come: “responsabilità senza padronanza” riguardante l’apertura al desiderio che spesso abbiamo tenuto nascosto e/o segregato, perché avevamo e/o abbiamo ancora ‘paura’ di esternare, e che guarda caso, come un tarlo continua a condizionare la volontà dei nostri sentimenti e delle nostre azioni. Al punto che tradire di fare l‘esperienza del ‘desiderio’ è un po’ come tradire noi stessi ma, poiché siamo esseri antropici, diversi dagli animali che provano solo istinti, dovremmo anche ammettere a noi stessi di non essere perfetti, anzi di essere imperfetti e quanto più diversi, per questo considerati ‘umani’ e alquanto meravigliosi. Meravigliosi sì! Se pure alla stregua di una transumanza d’intenti (di desideri) da considerare senza alcuna colpa e/o responsabilità, nella possibilità di fare d’ogni eventualità un’esperienza: “Noi siamo portati dal desiderio, (o meglio), siamo posseduti dal desiderio, non nel senso negativo del termine”, (bensì) “il desiderio ci attraversa, […] che non è la forza dell’io semplicemente, ma che è qualcosa di ulteriore rispetto all’io; […] l’esperienza di una forza che mi supera.” E ancora: “Dove c’è l’io, dove c’è la supponenza dell’io di governare il desiderio, non c’è desiderio. Viceversa, esso appare quando l’io si indebolisce, quando l’io riconosce la sua insufficienza. È per questo che l’io è in fondo la malattia mentale dell’uomo: credersi un io è veramente la ‘follia più grande’. Credersi un io è una follia, e questa follia adombra l’esperienza del desiderio.” È il contenuto intrinseco di questa ‘black novel’ che l’autore Sonny ha trasformato in un noir sui generis dai contorni horror, ma che in realtà, trovo carente di quel ‘profumo proibito’ che un romanzo improntato sull’ossessione deve avere, magari sacrificando il particolare talvolta superfluo delle descrizioni d’ambiente, insomma privo di quel tocco poetico (leggi glamour) che lo rende sublime… “Fino a quando?” Finché i confini del ‘gioco’ iniziano a confondersi con quelli della realtà”, si risponde l’autore in questo suo ‘primo’ romanzo. Non ci resta che aspettare il suo ‘secondo’, che stando alla sua còlta scrittura presto ci servirà su un piatto d’argento.
L’autore. Sonny, classe 1990 siciliano, è al contempo impegnato nel suo percorso di Scienze delle Relazioni Internazionali e Politiche ha maturato esperienze diverse di alta formazione artistica e musicale, nonché giornalistica passando dalle collaborazioni per testate nazionali a progetti editoriali.
Id: 3233 Data: 30/11/2023 08:22:06
*
- Sociologia
LAltro come scelta - autonomia individuale parte seconda
“L’ALTRO COME SCELTA” Il paradosso dell’ ‘autonomia individuale’, il ‘genere’ come costruzione sociale dinamica.– Sociologia – by Giorgio Mancinelli
“La cultura occidentale è sempre stata animata da una sorta di ottimismo nel futuro del progresso scientifico e sociologico, in vista di una radicale trasformazione – scrive U. Galimberti (1) – Oggi questa visione ottimistica è crollata. Scienza, utopia, rivoluzione, hanno mancato il bersaglio, affidato a una casualità senza direzione e orientamento. E questo perché se è vero che la scienza e la tecnica progrediscono nella conoscenza del reale, contemporaneamente ci gettano in una forma di ‘inquietudine’ che ruota paurosamente intorno alla disgregazione e all’assenza di senso”. Si rende quindi necessario tornare ad esplorare tra le potenzialità globali e sperimentare entro i limiti delle società specifiche la ricerca di un nesso, che pur deve esistere, tra “il passaggio storico dal futuro come promessa, al futuro dell’integrazione sociale come ‘investimento’. Ciò a significare che la strada da seguire non è quella di “proteggersi e sopravvivere, bensì quella di costruire legami affettivi di solidarietà, capaci di spingere le persone fuori dall’isolamento, in nome degli ideali individualistici che paurosamente si vanno diffondendo” (2). Così come bisogna riaffermare quella ‘fiducia’ che un tempo era socialmente diffusa tra le persone e verso le istituzioni, e che oggi sembra venuta meno a causa di fatti contingenti, economici e politici, che ne hanno messa in discussione la credibilità. “È un fatto – scrive ancora Galimberti – che quanto più la società si fa complessa, quanto più diventiamo gli uni estranei agli altri, tanto più siamo costretti a muoverci e a vivere tra attività, organizzazioni e istituzioni le cui procedure e i cui effetti non riusciamo a controllare e a capire. E perciò siamo inclini a crederci esposti a pericoli invisibili e indecifrabili, con conseguente perenne stato d’ansia facilmente leggibile nei tratti tirati e circospetti dei volti di ciascuno di noi” (3). Viene qui da pensare a una sorta di cataclisma di tipo esistenziale che, per effetto contrario alla ‘globalizzazione’, anziché renderci tutti omologati, ci rende in qualche modo tutti disuguali, per via della distinzione delle tipologie socio-lavorative che abbiamo generata, della moltitudine dei contratti di lavoro che abbiamo sottoscritti, e che verosimilmente, sta creando profonde ‘differenze’ che oggi, sulla scia del cambiamento in atto del mercato mondiale, stanno sfaldando l’organizzazione del lavoro. È un fatto che il tessuto sociale risente di queste profonde discrepanze, dovute per lo più alla trasformazione ‘transnazionale’ (4) del mercato socio-economico e allo sviluppo di più vaste opportunità commerciali e imprenditoriali. Di conseguenza la struttura interna alle organizzazioni pubbliche e private (uffici, aziende, imprese ecc.) ha subìto un mutamento radicale, è per così dire diventata reticolare, di configurazione orizzontale, i rapporti di lavoro si sono fatti atipici. Nella realtà le nuove ‘strutture imprenditoriali’ hanno decretato il trasformarsi di molte aziende un tempo a conduzione famigliare, in organizzazioni complesse (multinazionali, corporate, grandi major economiche e finanziarie ecc.), caratterizzate da una forte varianza interna e da compagini sempre più articolate e diversificate (gruppi a progetto, team, task force, ecc.), per cui è difficile stabilire quali sono i reali confini di un rapporto di lavoro e chi ne risponde a livello decisionale. Di contro, quasi ad apparire un controsenso, si riscontra inoltre, una particolare tendenza al raggruppamento (gruppi di aggregazione, enti pubblici e imprenditori privati,) che, per quanto utile nell’accrescere il potenziale economico attraverso processi di alleanza, fusione e acquisizione che certamente rendono più articolata l’organizzazione d’impresa, di fatto ha cambiato i parametri consolidati dei modelli tradizionali, basati sulla concezione ‘fordista’ (5) dichiaratamente: “..un’organizzazione solida, stabile, in cui tutti, almeno in teoria, avevano il proprio ruolo, sapevano cosa fare e come farlo; l’azienda, quindi , era una grande fabbrica di produzione di identità e senso, tanto da caratterizzare un’epoca storica, definita, per l’appunto ‘Era Industriale’ ” (6). A fronte di ciò, il comparto lavoro, ormai suddiviso in appartenenze e ‘identità multiple’, è divenuto più flessibile, perdendo quel ruolo esclusivo che ha avuto finora; si è, per così dire ‘glocalizzato’, generando ulteriori interazioni sociali, per quanto diverse nella percezione dei lavoratori nei confronti delle aziende che hanno finito così per perdere le loro connotazioni centralistiche. Anche se, a fronte, il lavoro è diventato di per sé più professionale, più esperto, più competente, più specialistico, più intercambiabile ma anche più flessibile, quindi naturalmente e irrimediabilmente più precario. Sul piano strettamente organizzativo – scrive Z. Bauman (7): “L’identità di un’azienda è comunque un concetto sicuramente abusato ma difficile da delineare in maniera puntuale ed esaustiva. I caratteri propri di un’entità definibile complessa sono insieme la molteplicità (molteplicità di componenti e di relazioni tra di esse) e una qualche forma specifica di autonomia (un’entità è autonoma se ha un comportamento dipendente da regole proprie, non definite e non definibili dall’esterno); (..) tale combinazione rende i comportamenti di un ente complesso, imprevedibili in quanto è impossibile ricostruire la logica ad essi sottesa. (..) Le formazioni sociali, infatti, sono caratterizzate dalla molteplicità nonché dalla pluridimensionalità (pragmatica, semantica, confidenziale) delle interazioni linguistiche”. Spostandoci sul piano delle politiche di mercato, il senso non cambia, e l’identificazione serve, infatti, per definire e localizzare un’azienda a carattere ‘multinazionale’ che, nel mettere in atto la propria politica ‘globale’, tuttavia non riesce ad annullare quelle che sono le differenze socio-culturali territoriali e geografiche, per loro costituzione così vaste e pervasive, da non permettere lo sviluppo di un unico modello di ‘governance’ (8), sempre che questo modello sia realizzabile e soprattutto utile (?). E, di fronte al quale, le implicazioni qui evidenziate, di carattere socio-culturale, non sembrano prevedere e, neanche permettere, un modello ‘altro’ di cultura, né il significato che ad esse generalmente si vorrebbe dare. F. Trompenaars e C. Hampden-Turner in “Riding the waves of culture” (9): “Ci sono dilemmi universali o problemi legati all’esistenza umana, ogni paese ed ogni organizzazione in quel paese affronta dilemmi diversi in relazione con le popolazioni di riferimento; in relazione al tempo e al clima; in relazione tra gli abitanti e l’ambiente naturale” – denunciano gli autori, nel rivisitare quei passaggi ed eventi che nel tempo si sono susseguiti e che hanno attraversato in orizzontale il passato e il presente di una ‘governance’ pur consolidata. Tuttavia, l tempo stesso, essi ci indicano la strada verso il futuro: “..ora abbiamo bisogno di accettare le influenze profonde delle nostre più intime convinzioni riguardanti il nostro mondo, l’analisi finale della cultura e del modo in cui i dilemmi sopra evidenziati siano riconciliabili, fino a determinare un diverso percorso, per ogni nazione, delle idee di integrità.” (10) In tutto ciò, la mia posizione è di riconciliazione e l’assunzione di responsabilità, senz’altro di avvicendamento alle nuove esigenze del mercato lavorativo, nella convinzione che ognuno ha da imparare e scoprire nuove realtà, come gli altri hanno fatto finora partendo dalla loro posizione. Purché vengano salvaguardati i principi di centralità territoriale e comunitaria dei paesi di origine, lì dove la ‘forza lavoro’ è in grado di assicurare un rendimento ottimale, consono al luogo nel quale (e alla gente con la quale), si intende avviare un’organizzazione imprenditoriale che rispetti i diritti di ‘cittadinanza’ e relativamente a questo, tenda a ridurre al minimo lo sradicamento e la migrazione di popolazioni autoctone in altri paesi. Lungi da me prendere una posizione ‘intollerante’ improntata al razzismo, il senso di questo mio discorso è puramente riferito al concetto di cooperazione e di sviluppo, lì dove la diversità organizzativa e la comunicazione interculturale richiedono una riorganizzazione del comparto lavoro. Cosa che, in verità, tutti auspicano (economisti, azionisti, imprenditori, ecc.), sia per il conseguimento di produzioni specifiche (di economia, consumo, credito, sviluppo), sia per una più fattiva ‘cooperazione internazionale’ (11) nei programmi, nei servizi, nelle infrastrutture ecc.), nei processi economici dell’imprenditoria del lavoro. “Diventa altresì essenziale identificare e comunicare, sia all’interno che all’esterno (delle aziende a carattere imprenditoriale), una nuova identità d’impresa, fondata su valori nuovi e adeguati a sviluppare nei paesi ospitanti, la cultura e le competenze necessarie per affrontare le nuove realtà sociali. L’azione di cambiamento, non riguarda dunque unicamente la definizione di nuove politiche strategiche aziendali, quanto invece comporta, e necessariamente, interventi impostati sulla cultura e sui valori diffusi al proprio interno dell’azienda stessa” (12). Onde per cui facilitare la convivenza tra persone sul proprio posto di lavoro, seppure appartenenti a culture differenti e stabilire una comunicazione efficace e positiva, significa creare il contesto e le premesse per superare le patologie comunicazionali insite nel processo di integrazione tra le diversità culturali presenti nel nostro paese. “È importante – scrive F. Casmir (13) – apprendere di più sui reali e concreti adattamenti degli esseri umani al mutamento e su come tutti noi serviamo di processi comunicativi nel nostro sforzo di produrre un cambiamento che sia continuativo, positivo e reciprocamente soddisfacente”. D’accordo con l’autore trovo che ciò spieghi (a me in prima persona) il senso del titolo che ho voluto dare a questa tesi “L’altro come scelta” e che infine dovrebbe lasciar evincere la mia personale posizione riguardo il riconoscimento di ‘identità’ degli individui tutti, e di quanto, a livello emozionale, io tenga in considerazione il benessere sociale di ognuno (etnia, razza ecc.) senza sottrarlo (forzatamente) alle caratteristiche peculiari che lo rendono riconoscibile, unico, inconfondibile. Per ‘benessere sociale’, almeno come io lo intendo, molto vale il fattore di ‘giustizia sociale’, in questo caso specifico riferito alla condizione della donna in ambito lavorativo e, in modo più diretto, alla costruzione del ‘welfare statement’, sviluppatosi dalle interazioni multiple, rese possibili da una proficua produzione di senso. Un punto di riflessione su questo proposito è dato dall’economista indiano Amarthia Sen (14) e alla sua definizione di ‘economia del benessere’, la quale, egli sostiene: “altro non è che l’ipotesi di un comportamento umano mosso unicamente dall’interesse personale, e che di fatto ha ostacolato fin qui la possibilità dell’analisi di relazioni più complesse e significative.” L’autore ritiene inoltre che un comportamento basato su ‘regole etiche’ salde, come il dovere, la lealtà e la buona volontà, possa essere estremamente utile per il raggiungimento dell’efficienza economica più in generale e, sul piano individuale del benessere così detto ‘well-being’, sostenendo una sua eccellenza all’interno e all’esterno delle moderne organizzazioni in quanto risorsa comunicativa. In altri termini una migliore valutazione dell’ ‘economia del benessere’ rivolta agli individui, (l’uomo e finalmente anche la donna) qui intesa anche in funzione di essere portatrice di ricchezza economica, potrebbe essere molto più produttiva in termini di ‘economia sociale’ se si facesse riferimento anche a ulteriori prospettive etiche e morali. Su questo tema riporto qui di seguito le parole di Edoardo Greblo nella sua ‘Introduzione’ al libro di M. Nussbaum “Giustizia poetica: immaginazione letteraria e vita civile” (15): “Se ci si pone nella prospettiva che vi sia mutuo sostegno fra una teoria delle emozioni e una teoria etica normativa, le persone cessano di essere oggetto di considerazione morale solo in quanto espressione di interessi, e il legame sociale che nasce dal riconoscimento reciproco non si esaurisce nelle nozioni di contratto, scelta razionale e massimizzazione del profitto, del vantaggio o dell’interesse. Laddove l’assunzione utilitaristica e contrattualistica di fondo consiste nell’idea che i corsi d’azione passibili di regolazione normativa possano essere modellati, in definitiva, solo nella prospettiva della prima persona dell’individuo che agisce”. (..) “Non c’è dubbio che, tra i diversi modi dell’affettività, M. Nussbaum assegni un ruolo decisivo alla ‘empatia’, che richiede condivisione e compartecipazione , un orizzonte di valori comuni entro il quale si conosce e si comprende il vissuto dell’altro come qualcosa che rimane estraneo e inassimilabile, appartenente all’altro e inviolabile”. Partendo da un esame critico dell'economia del benessere, A. Sen ha sviluppato un approccio radicalmente nuovo alla ‘teoria dell'eguaglianza e delle libertà’. In particolare, ha proposto le due nuove nozioni di ‘capacità e funzionamenti’ come misure più adeguate della libertà e della qualità della vita degli individui, come appagamento dei desideri, felicità o soddisfazione delle preferenze, (comunemente etichettate come concezioni welfariste o benesseriste, di cui uno degli esempi più noti è l'utilitarismo). Inoltre, egli propone, in contrasto con una teoria del benessere sociale centrata sull'appagamento mentale soggettivo e non coincidente necessariamente con livelli adeguati di vita, una prospettiva tesa all'effettiva tutela di aspetti centrali dei diritti umani. Grazie ai suoi studi si viene infatti a delineare un nuovo concetto di sviluppo che si differenzia da quello di crescita. Lo sviluppo economico non coincide più con un aumento del reddito ma con un aumento della qualità della vita. Che tutto questo accada a causa delle diversità sessuali (pur esistenti) tra l’uomo e la donna? – mi chiedo. Domanda cui cercherò di dare più di una risposta, pur nell’ambito ristretto di questo paragrafo, relativamente alla soluzione del ‘problema’, finora irrisolto, del riconoscimento delle ‘pari opportunità’, di cui l’esperienza maschile ha finora costituito lo ‘standard’ sul quale confrontare i processi psicologici, veri e/o presunti, propri di entrambi i sessi. Pertanto, le risposte che qui di seguito darò, risentono delle risposte di soggetti maschi, che, inevitabilmente, distorcono il pensiero morale delle donne e non lo rappresentano adeguatamente. “Si può affermare che la sessualità sia in un modo o nell’altro la chiave della civiltà moderna?” – si chiede Antony Giddens (16) nel capitolo intitolato “Sessualità, repressione, civiltà”, di cui fornisce una ragguardevole opinione: “Per rispondere a questa domanda in particolare, occorre investigare qual è l’origine della sessualità, cosa è la sessualità e attraverso quali processi è diventata qualcosa che appartiene agli individui. (..) La maggior parte delle persone, donne e uomini, arriva a fare della sessualità, una variabile che si apre alla pluralità di relazioni ed espressioni (diverse), dove la nozione di ‘relazione’ emerge con la stessa forza tra la popolazione tendenzialmente eterosessuale”. In nessun caso le nuove spinte della sessualità (omosessualità, lesbismo, trans, gay o le problematiche sorte attorno ai movimenti femministi ed ai pacs) mi sembra contrastino oggigiorno, sebbene entro certi limiti, quella che è considerata una selezione dinamica dell’umanità, all’interno delle conflittualità lavorative. Le nuove sfide educative, tra parità di diritti e doveri in seno alle istituzioni (quote rosa), nella scuola come nel lavoro (pari opportunità), hanno portato semmai a una maggiore consapevolezza sociale e all’accettazione delle ‘diversità’ lì dove sussisteva una scissione in termini di ‘relativismo culturale’, quando riferito all’identità individuale. È ancora Z. Bauman (17) a offrirci la chiave di lettura del problema, che egli riferisce all’identità. Scrive in proposito: “L’identità è una lotta al tempo stesso contro la dissoluzione e contro la frammentazione; intenzione di divorare e allo stesso tempo risoluto rifiuto di essere divorati. (..) Il liberalismo e il comunitarismo, quantomeno nella loro essenza pura ed esplicitamente dichiarata, sono due tentativi opposti che demarcano i poli immaginari di un continuum in cui tutte le pratiche identitarie vengono elaborate, (..) ugualmente indispensabili per un’esistenza umana decente e compiuta: la ‘libertà’ di scelta e la ‘sicurezza’ offerta dall’appartenenza da un lato; (..) la libertà di autodefinizione e autoaffermazione dall’altro”. L’equazione così postulata potrebbe sembrare in contraddizione con la comprensione di quanto affermato precedentemente, tant’è che lo stesso Bauman sente la necessità di una ulteriore spiegazione: “...i diversi significati annessi all’uso del termine ‘identità’ contribuiscono a minare alla base il pensiero universalistico”. (..) E aggiunge: “Le battaglie d’identità non possono svolgere il loro lavoro di identificazione senza essere fonte di divisione almeno quanto lo sono, o forse più, di unione. Le cui intenzioni inclusive si mescolano (o per meglio dire si complementano) con le intenzioni del segregare, esonerare ed escludere” (18). “Lo spettro più spaventoso è quello dell’inadeguatezza!” e, niente di più profetico è stato mai detto fino a oggi, anche alla luce dello stravolgimento in corso della società come corpo di una comunità di individui tendente ad abbandonare i legami sociali per ‘liquefarsi’, da cui quella “società liquida” teorizzata dal sociologo polacco. Indubbiamente molteplici sono gli aspetti trasformativi della ‘personalità’ cui questa affermazione fa riferimento, e che rendono difficile ogni tentativo di classificazione all’interno d’una problematica più ampia, qui rappresentata dalla ‘carenza di potenzialità’ di intervento della società. Diverse infatti sono le cause che possono produrre questa difficoltà, ed è interessante esaminarle in questo contesto, seppure solo in parte, al fine di accrescerne la comprensione. C’è una valutazione che però bisogna fare, riguardo al principio fondamentale che regola la nostra vita psicologica, secondo cui l’individuo: “tende a correggere gli eccessi e le deviazioni, risvegliando quegli elementi che sono opposti o complementari a quelli dominanti” (19), all’interno del proprio ‘Io persona’. “Nella riflessione sociologica – scrive Elena Besozzi (20) – così come nella ricerca empirica, il carattere sessuato dei soggetti – la distinzione tra maschi e femmine – viene considerato un elemento significativo di comprensione della realtà sociale, nel senso che consente di arricchire la descrizione e la spiegazione del variare di atteggiamenti, opinioni e comportamenti. (..) Tuttavia, a ben vedere, alle ‘differenze’ tra i due universi maschile e femminile, si può ascrivere di fatto uno scarso incremento di conoscenza e, quindi, il permanere di una sorta di opacità nella comprensione delle differenze stesse nei diversi spazi e tempi sociali e culturali. (..) Ciò che sfugge, è il dinamismo dei rapporti tra i sessi e dentro ciascun sesso, ma anche la complessità dell’intreccio tra formazione e ambiti diversi ma oltremodo collegati, come il mondo del lavoro «un improvvido isolamento del campo formativo dagli altri ambiti esperienziali che contribuiscono alla formazione degli individui» (Boffo-Gagliardi-La Mendola)”. Con ciò – prosegue E. Besozzi - “si intende qui considerare la dimensione sessuata dei soggetti non solo come pura iscrizione, bensì come esperienza e attribuzione di senso, costruzione e comunicazione di realtà. «In questa prospettiva, l’appartenenza di genere trasforma il dato ascritto e può anche essere considerata in larga misura variabile ‘dipendente’, cioè dimensione sulla quale insistono fattori sociali e culturali a dar conto di orientamenti e concezioni di sé e della realtà» (V. Burr)”. Sta di fatto che possiamo considerarla una sorta di ‘costruzione sociale dinamica’ cui riferire ogni forma di rapporto, quali ad esempio, quello che si basa sull’organizzazione della famiglia, l’educazione nelle scuole, le politiche del lavoro, le iniziative che riguardano la cultura, come anche la ‘non discriminazione’ di razza, di colore, di sesso, l’abbassamento dei rischi sociali, il recupero di consapevolezza, l’accettazione delle commistioni sessuali, fino alla risoluzione dei conflitti extra individuali tra popoli e tra stati. Per così dire, di tutte quelle differenze che l’identificazione di ‘genere’ vede incluse come diversificate immagini del ‘sé’ nel futuro confronto con le altrui esperienze, con le vicissitudini del quotidiano, con le relazioni interpersonali, comunitarie e socialitarie. Quelle medesime che dovrebbero offrire ad ognuno, uomini e donne, le risorse per comprendersi, nella condivisione di quel percorso che va dal rispetto ecologico sostenibile dell’habitat, alla costruzione della propria ‘identità culturale’ che risulta in larga misura opaca, perché priva dei necessari elementi significativi di spiegazione, e che finora non a riguardato, in alcun modo, il lato educativo della conoscenza. Come sostiene Barbara Marbelli (21) in “Il divenire donna o uomo, non è un processo lineare. La vicenda tra i sessi, dato che è vicenda di culture e di vite, è soprattutto educativa, per questo una pratica pedagogica che offra ‘ascolto’ e restituisca centralità alle ‘parole’ (e quindi alle persone), è l’unica che possa offrire possibilità di comprensione di quel che accade e cambia”. Valutare ciò consente una maggiore chiarezza cognitiva che va man mano ampliandosi nel tipo di informazioni e di linguaggio a vantaggio della comprensione e ottimizzazione degli strumenti messi in campo come, appunto, può essere la riutilizzazione del sapere (conoscenza), sia in senso trasversale interdisciplinare (esperienza), sia in senso verticale, di una qualsiasi struttura aziendale, tra l’apice e il pedice di ogni comparto sociale, interessato all’interscambio delle esperienze specifiche acquisite dall’uno e dall’altro sesso. Come, anche, di una maggiore capacità di ‘stima’ delle disponibilità oggettive delle ‘risorse’, in ambito lavorativo, delle dinamiche produttive, nella misura in cui se ne colgono le funzioni possibilistiche in termini di essenzialità, trasferibilità, spendibilità sul mercato. Ne sono un esempio la conoscenza delle prevedibilità comportamentali dei diversi soggetti uomo/donna, basata sul riscontro oggettivo, delle ‘mappe concettuali’ (22) e le strategie comunicative messe in atto dall’uno e dall’altro soggetto, nella ricerca di una ‘misura’ individuale e professionale, nella ricca pluralità di offerte che li vede impegnati nella rincorsa all’adesione programmatica della società: funzionalista o sistemica, o conflittualistica che sia. C’è in tutto questo una sorta di ‘consapevolezza sociologica’ che talvolta supera il livello reale delle ‘possibilità individuali’, che s’innesca nell’impalpabile e nell’astrazione, e che genera teorie se vogliamo anche affascinanti, ma non scientifiche, perché non verificabili con i dati della realtà. Cosa questa, che mi fa dire che, ogni ‘costruzione sociale’ corrispondente della realtà, equivale a un fare speculativo che è tipico della politica, per cui la ‘costruzione’ della realtà trova nel sociale il suo innesco politico nelle istituzioni e negli ordinamenti giuridici. Questo, malgrado la sociologia abbia da sempre speculato sull’esistenza di una vita sociale distinta dal sistema politico, caratterizzata da opinioni, stili di vita, tradizioni, norme sociali che – secondo il mio modesto parere – non si autoescludono dall’essere forme politiche tout-court. Semmai la confusione tra politica e società è generata dal fatto che la società è una realtà diversa rispetto ai singoli individui che la costituiscono e non è riducibile a ciò che i singoli membri pensano e fanno. Diversamente la politica è esattamente l’opposto. Scrive Luciano Verdone (23): “La società ha una consistenza propria rispetto agli individui. Una volta che un gruppo sociale si costituisce, vive di vita autonoma, dando luogo a un ‘sistema sociale’, cioè ad una realtà che va al di là della volontà e delle intenzioni dei singoli, con una sua propria identità ‘diversa’ dalla somma degli individui che lo formano”. Possiamo dire, quindi, che è di per sé una ‘cosa’, un ‘fatto’ che, nel momento in cui interagisce con altri ‘gruppi’ in maniera oggettiva (concretezza), diventa interfaccia della ‘realtà’ facente politica ed ha potere di condizionare i singoli per il fatto stesso che esiste. Come del resto l’aveva già inquadrata Émile Durkheim (24), secondo il quale i processi di crescita e di socializzazione non possono prescindere dal contesto di riferimento in cui avvengono. Questo vale in ogni tempo e in ogni luogo, per cui la ‘realtà sociale’ si definisce in base a tre caratteri costitutivi: “oggettività come ‘fatto’ e come tale distinto dai soggetti che concorrono a crearlo”; “trans-individualità: esterna e indipendente dagli individui”; “coercizione: condizionante l’individuo sia dall’esterno, con norme e usanze, sia dall’interno, con l’interiorizzazione delle norme, la coscienza ed il senso di colpa” (esistenza in essere, oggettività). A significare che esiste una stretta correlazione tra la vita del singolo individuo e il contesto sociale in cui è inserito, rapportato alle dinamiche della realtà sociale, considerata come qualcosa che vive a sé, ma che si comporta e si trasforma secondo regole date dalla società in cui si trova ad agire. La ‘fenomenologia del lavoro’ nella sua pur ricca pluralità dei contributi che su di essa convergono, sembra prevedere una certa comunanza di ‘oggetto’ e di ‘metodo’ che pur vede implicate scienze psico-sociali quali sociologia, psicologia, antropologia culturale, etologia, storia, economia, scienza della politica, non esclude però il paradosso dell’ ‘autonomia individuale’ all’interno del ‘soggetto di genere’ come quello qui individuato, la cui realtà sociale è studiato da angolature e con obiettivi ed accentuazioni diverse. Ne fanno bensì una sorta di ‘costruzione dinamica’ che le convalida tutte nella propria funzione, nel proprio impegno come nella responsabilità dei propri metodi intuitivi, in cui teoria e ricerca infine risultano coniugate. La verificabilità e la dimostrabilità delle ipotesi e delle teorie scientifiche di riferimento al lavoro è dunque frutto di verifiche sperimentali ma, ancor più, di indagini ‘sul campo’ svolte sul confronto tra momenti diversi delle attività lavorative e delle diverse tipologie di società che si vuole indagare, attraverso il ‘metodo della comparazione’ (25), o nella ricerca matematica delle ‘frequenze di tendenza’ (26) di un certo comportamento sociale. Il suo contesto culturale (sociologico) è dunque di tipo omogeneo di una società intesa come ‘unità’ organica ed armonicamente ordinata cui fa riferimento. Per cui, alla fin fine, “ogni realtà sociale può essere ricondotta ad un individuo che agisce” (Weber), per comprendere la quale (realtà sociale), è necessario interpretare l’intenzionalità dell’individuo ‘agente’ e ‘comprendente’ la consistenza della società in cui vive e lavora. Se Auguste Comte (27) è considerato il padre della scienza sociale, in quanto ha avuto la fortuna di coniare il termine ‘sociologia’ e dobbiamo a E. Durkheim l’oggettivazione della decisione consapevole degli individui di stare insieme nella realtà sociale (contratto sociale); è a Max Weber (28) che dobbiamo l’aver indicato la realtà sociale nell’ ‘agire’, o meglio, nel “l’individuo agente avente una certa intenzionalità”, portatore del senso delle cose, “con le sue azioni aventi significato sociale, che agisce socialmente attraverso l’interpretazione dei significati intenzionali dell’agire sociale dei singoli” e per questo ‘comprendente’ la realtà sociale dei molti, come ‘genere’ dinamico operante nella costruzione sociale. Giunti a questo punto, potremmo dire di ‘essere alle solite’, i cosiddetti ‘problemi’ che sono stati appena individuati, sono tutti ancora qui davanti a noi: il riconoscimento, l’uguaglianza, la giustizia sociale, la libertà, l’autorità individuale, i diritti delle donne. E allora, che fare? Non mi resta che cercare ancora, documentarmi, relazionarmi, leggere, studiare i classici del ‘pensiero libero’ moderno, per trovare quelle risposte che forse troverò ma che alla fin fine potrebbero restare sospese in aria come le nuvole di Aristofane. Sebbene l’utopia del grande poeta satirico è all’apice della commedia “Le donne al parlamento” (29) in cui si narra di un gruppo di donne, con a capo Prassagora, che decidono di tentare di convincere gli uomini a dar loro il controllo di Atene, perché in grado di governare meglio di loro, che stanno invece portando la città alla rovina. Il che contrasta con l’altro poeta satirico Giovenale (30)che in “Contro le donne”, si trasforma in rabbioso fustigatore di costumi, tralasciando una certa attitudine superba negli uomini di farsi beffe della morale. È così che (per mia fortuna) scartabellando mi imbatto in Bertrand Russell (31), in cui il filosofo dibatte sull’etica individuale e l’etica sociale, affrontando il tema del rapporto tra le libertà del singolo e la necessità di un’organizzazione sociale, dove egli afferma che “troppa poca libertà porta al ristagno e troppa libertà porta al caos” e dove inoltre sottolinea i limiti della giustizia: “c’è giustizia dove tutti sono egualmente poveri, così come là dove sono egualmente ricchi, ma sarebbe vano rendere più poveri i ricchi, ove questo non servisse a rendere più ricchi i poveri”. Non c’è che dire, utile da far comprendere a più d’un politico, che ai nostri giorni si riempie la bocca riproponendo le ‘quote rosa’ e ‘le pari opportunità’ pensando che queste, possano da sole, risolvere la profonda recessione culturale economica e politica in atto. Ci vuole ben altro, e a furia di cercare, qualcosa alla fine viene sempre fuori. Come nel caso di un libercolo dal titolo “Sui diritti delle donne” di Mary Wollstonecraft (32) che mi fa gridare ‘eureka!’. Fortemente avversata dagli uomini in un momento storico, il XVIII sec., nel quale si tende a dimenticare quanto lunga sia stata la ‘schiavitù’ femminile, e quanto dura e difficile sia stata la via per l’emancipazione delle donne, e ancor più incompresa dalle donne della sua epoca, M. Wollstonecraft è oggi finalmente considerata per il suo ruolo intellettuale e anticonformista, sostenitrice caparbia dei diritti delle donne e tenace nemica di ogni forma di iniquità, dispotismo e oppressione. È ancora oggi stupefacente leggere in apice al suo libro: “Al fine di dar conto e giustificare la tirannia dell’uomo, sono state avanzate molte idee ingegnose volte a dimostrare che i due sessi, nel raggiungimento della virtù, devono impegnarsi a forgiare caratteri differenti; per dirla in modo più esplicito, alle donne non è accordata forza d’animo sufficiente per acquisire ciò che veramente merita il nome di virtù. Tuttavia, concesso che le donne abbiano un’anima, sembrerebbe esserci un unico sentiero, tracciato dalla provvidenza, che conduce l’umanità sia alla virtù che alla felicità” (33), quasi si volesse qui dire di essere pronta, se proprio l’uomo lo richiede, a recitare una parte. Alla quale sembra però voler rispondere Vivien Burr (34) con la dolente nota: “Così facendo (la donna), ha modo di comprendere che il suo stato mentale, le sue attitudini e aspettative, in breve la sua visione della vita, altresì possono essere modificate assumendo un ruolo diverso – e pur tuttavia – esercitare un ruolo è molto più che recitare una parte”. Non lo pensate anche voi? È così che sono giunta a Luce Irigaray (35) e al suo libro “Etica della differenza di genere”, la quale al capitolo ‘Una differenza trascurata’, procede: “Vi è una relazione particolarmente costante tra femminilità e vita pulsionale, che non voglio trascurare. Nella donna la repressione – o la censura? – dell’aggressività, prescrittale dalla sua costituzione – cioè? – e impostale dalla società – quale , in che modo? - … Insomma non ci sarebbe nessuna forma d’aggressività consentita alla donna. Ma, di nuovo, la mobilitazione d’argomenti così eterogenei, come ‘la società’ e ‘la sua costituzione’ , induce a indagare su come l’una, la società, detti prescrizioni alla rappresentazione, sull’interesse che l’una ha nel farsi di supporto, la complice d’una valutazione sulla ‘costituzione’ (proibitiva) femminile”.
NOTE
(1) Umberto Galimberti, ‘L’ospite inquietante’, op.cit. (2) ibidem (3) ibidem
(4)‘transnazionale’, è un diverso modo per indicare multinazionale. Entrambi indicano un interesse (economico, sociale ecc.) di un gruppo (di società, di persone, di associazioni) che opera in molte nazioni e continenti. Il gruppo può anche avere una sede operativa, un “cuore” in una sola nazione ma senza che vi siano per questo precise identità nazionali. Nelle politiche sociali dell'Unione Europea con l'aggettivo transnazionale si indicano i programmi che sono realizzati con la partecipazione di diversi stati appartenenti all'Unione Europea. In W. G. Scott e R. Sebastiani, “Dizionario di Marketing”, Il Sole 24 Ore – 2001.
(5)‘fordista’, da ‘fordismo’, l’attuazione pratica in campo industriale dell’intuizione taylorista di Henry Ford (1863-1947), industriale americano attivo nei sttori automobilistico, aerospaziale, elettronico e finanziario, che standardizzò la catena di montaggio a Detroit nel 1927, e lanciò il primo modello di vettura utilitaria. Cfr. “L’Universale” – Garzanti 2003.
(6)‘era industriale’, profondo e rapido cambiamento nella vita economica che si verificò in Europa con l'affermazione dell'industria quale settore più dinamico e, infine, dominante. Si tratta, dunque, della fase di avvio o decollo dell'industrializzazione. L'epoca di questo cambiamento iniziò verso il 1780 e si concluse con i primi decenni (e secondo alcuni i primi anni) dell'Ottocento. Dall'Inghilterra questa grande trasformazione si propagò a tutte le economie del continente: al Belgio, alla Francia, alla Germania, all'Italia, alla Russia. L'aspetto distintivo di questa rivoluzione è costituito dal rapido aumento della capacità produttiva grazie all'introduzione nei processi lavorativi di tecniche sempre più perfezionate ed efficienti. Proprio in ciò sta la differenza fra la vita economica che procedette la rivoluzione industriale e quella che la seguì. Prima la crescita della popolazione cozzava, a lungo andare, nel tetto dei limitati beni economici a disposizione, più o meno stabili a causa del lentissimo aumento della produttività. Sarebbe un errore, tuttavia, concentrare l'attenzione solo sul quadro inglese. In realtà si trattò di un fuoco che dal luogo dove all'inizio era divampato si propagò rapidamente a gran parte dell'Europa. Condizioni favorevoli dovevano, perciò, esistere anche fuori dell'Inghilterra. La rivoluzione industriale fu figlia di una lunga serie di cambiamenti intervenuti nell'economia e nella società europea a partire dai secoli centrali del Medioevo: lenti progressi nell'agricoltura, più rapidi cambiamenti nell'industria, allargamento delle relazioni commerciali all'interno e fuori del continente, attenzione crescente al problema delle soluzioni tecniche nelle attività economiche. Quella dell'industrializzazione fu solo la fase in cui tante trasformazioni quantitative lente provocarono un vero salto di qualità. Cfr. in T.S. Ashton, “La rivoluzione industriale” 17601830, Laterza, Bari 1969; P. Deane, “La prima rivoluzione industriale”, Il Mulino, Bologna 1971.
(7)Zigmunt Baumann, “Società liquida”, op. cit.
(8)‘governance’ equivalente di ‘governanza’, si intende quella parte del più ampio governo d'impresa che si occupa della gestione dei sistemi cosiddetti ‘ TI’ (ossia di Tecnologia dell'Informazione) in azienda; il punto di vista della IT governance è rivolto alla gestione dei rischi informatici e all’allineamento dei sistemi alle finalità dell'attività. Il governo d'impresa si è molto sviluppato in seguito ai recenti sviluppi normativi che hanno avuto notevoli ripercussioni anche sulla gestione dei sistemi informativi. In W. G. Scott e R. Sebastiani, “Dizionario di Marketing”, Il Sole 24 Ore – 2001.
(9)F. Trompenaars e C. Hampden-Turner, “Riding the waves of culture”, N. Brealey Pub. – London 1998.
(10)ibidem
(11)‘cooperazione internazionale’, “La cooperazione internazionale allo sviluppo è tante cose. C’è la cooperazione dei governi (bilaterale) e quella dei grandi organismi internazionali come l’ONU (multilaterale). E c’è quella non governativa, promossa dalle ong o più recentemente dagli enti locali e da nuove forme di associazionismo. Tutte si confrontano su cosa sia lo sviluppo e su come si possa promuovere efficacemente. Perché ormai sessant’anni di cooperazione internazionale hanno mostrato che gli aiuti, da soli, servono a poco. Per non essere dannosi, vanno accompagnati da un reale radicamento nelle comunità locali. (..) La nascita della cooperazione internazionale allo sviluppo è fatta risalire alla metà del secolo scorso con il Piano Marshall. Si tratta del grande ponte di aiuti umanitari e finanziari che dopo la seconda guerra mondiale supporta la ricostruzione dell’Europa occidentale, segnandone al contempo fedeltà e dipendenza verso gli Stati Uniti d’America. Analogamente si comporta l’Unione Sovietica coi paesi del Patto di Varsavia, e ben presto molti stati di entrambi i blocchi si dotano di un proprio sistema di aiuti al “terzo mondo”. Nasce così la cooperazione bilaterale, cioè quel sistema di relazioni create tra le autorità centrali di due paesi dove uno, il “donatore”, aiuta l’altro, il “beneficiario”, trasferendogli soldi, beni o conoscenze tecniche attraverso un dono oppure un credito agevolato”. In W. G. Scott e R. Sebastiani, “Dizionario di Marketing”, Il Sole 24 Ore – 2001.
(12) E. Invernizzi, “La comunicazione organizzativa: teorie, modelli e metodi”, Giuffré Edit. 2000.
(13) F. Casmir, “Una prospettiva di comunicazione interculturale”, in “Comunicazione globale, democrazia, sovranità, culture” – UTET 2001.
(14) Amarthia Sen, in Wikipedia, the free enciclopedia – economista indiano, Premio Nobel per l'economia nel 1998, Lamont University Professor presso la Harvard University. Ha insegnato in numerose e prestigiose università tra le quali Harvard, Oxford e Cambridge. È stato, inoltre, docente presso la London School of Economics. È membro del Gruppo Spinelli per il rilancio dell'integrazione europea.
(15) Edoado Greblo, in M. Nussbaum “Giustizia poetica: immaginazione letteraria e vita civile” – Mimesis 2012.
(16) Antony Giddens, “Teoria sociale e sociologia moderna”, op. cit.
(17) Z. Bauman, “The Individualized Society” - op. cit.
(18) Z. Bauman, “Intervista sull’identità”, op. cit. (19) ibidem
(20) Elena Besozzi, “Il genere come risorsa comunicativa”, Franco Angeli 2008. Insegna Sociologia dell’Educazione e Sociologia dei processi formativi e comunicativi presso l’Università Cattolica di Milano. Tra le sue opere: ‘Crescere tra appartenenze e diversità’ (Angeli 1999) ed ha partecipato con articoli in “Creare Comunicazione”.
(21) Barbara Marbelli, docente di ‘Pedagogia delle Differenze di Genere’ all’Università Bicocca di Milano: Il "Centro Studi differenza sessuale, educazione, formazione", istituito nel 2010 e ora attivo presso il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia, Psicologia, ha finalità di ricerca, documentazione, progettazione e formazione nei diversi ambiti dell'educazione, dell'istruzione scolastica e superiore, della produzione culturale e del ‘lifelong-learning’, nella prospettiva della differenza di essere donna/uomo intesa come differenza fondante e significante ogni esperienza umana, storica e sociale. In particolare il Centro ha come obiettivi: * incrementare la consapevolezza della non neutralità della conoscenza scientifica, la coscienza del valore della differenza sessuale (e delle differenze) nel far ricerca, nel produrre pensiero, nel partecipare alla creazione e alla circolazione di saperi e di competenze; * creare occasioni di scambio e di conoscenza nell'ambito della produzione scientifico-culturale di donne e uomini attenti alla differenza sessuale e ai suoi liberi significati; * rappresentare un punto di riferimento per la ricerca e la formazione di studentesse e studenti di tutti i cicli universitari; * rappresentare una risorsa di informazioni e di conoscenze per docenti e ricercatrici/ricercatori interessati alla progettazione di percorsi didattici e di ricerca che tengano conto della differenza sessuale; favorire lo sviluppo di rapporti scientifici e di collaborazione multi-e transdisciplinare tra le Università, con enti pubblici, privati, e del privato sociale, promuovere scambi con singoli e gruppi esterni di ricerca, partecipare a reti di ricerca internazionali; sviluppare, alla luce della categoria "differenza sessuale", progetti di ricerca in relazione a temi/problemi rilevanti della contemporaneità.
(22)‘mappe concettuali’, al singolare è uno strumento grafico per rappresentare informazione e conoscenza, teorizzato da Joseph Novak negli anni settanta. Non è altro che una rappresentazione grafica (un disegno schematico, un quadro riassuntivo) di un ragionamento che abbiamo fatto e che vogliamo comunicare agli altri. Le mappe servono per rappresentare in un grafico le proprie conoscenze intorno a un argomento secondo un principio cognitivo di tipo costruttivista, per cui ciascuno è autore del proprio percorso conoscitivo all'interno di un contesto, e mirano a contribuire alla realizzazione di apprendimento significativo, in grado cioè di modificare davvero le strutture cognitive del soggetto e contrapposto all'apprendimento meccanico, che si fonda sull'acquisizione mnemonica. Le teorie del prof. J. D. Novak sono infatti fortemente collegate a quelle di David Ausubel, per cui una mappa deve riuscire a trasmettere informazioni chiare e dati utili.
(23) Luciano Verdone, “Elementi di Sociologia”, op. cit.
(24) Émile Durkheim, in “Breviario di sociologia” – Casa del Libro edit. 1989. Sociologo francese, insegnò filosofia alle Università di Bordeaux e Parigi, cercò di elaborare una sociologia che costituisse non tanto una teoria generale di una realtà sociale, quanto un modello teorico di riferimento per una corretta amministrazione. La sua opera è stata cruciale nella costruzione, nel corso del XX secolo, della sociologia e dell'antropologia, avendo intravisto con chiarezza lo stretto rapporto tra la religione e la struttura del gruppo sociale. Durkheim si richiama all'opera di Auguste Comte (sebbene consideri alcune idee comtiane eccessivamente vaghe e speculative), e può considerarsi, con Karl Marx, Vilfredo Pareto, Max Weber, Georg Simmel e Herbert Spencer, uno dei padri fondatori della moderna sociologia. È anche il fondatore della prima rivista dedicata alle scienze sociali, “L'Année Sociologique”, nel 1898.
(25)‘metodo di comparazione’ o anche ‘metodo comparativo’, il quale acccanto al ‘metodo sperimentale’ la comparazione rappresenta uno dei mezzi fondamentali di acquisizione delle conoscenze, che può essere utilizzato per illuminarci e per favorire il progresso nelle diverse scienze. Nel campo delle scienze sociali, in effetti, non è facile tentare degli esperimenti che gli interessati potrebbero non accettare o dei quali rischierebbero di fare le spese e di essere le vittime; sarà invece sempre possibile osservare come i rapporti sociali sono organizzati in posti diversi, per ricavare una lezione dai risultati, felici o meno, ottenuti.
(26) ‘frequenza di tendenza’, è utilizzata nelle discipline ambientali, in analisi matematica e di statistica; nella singolare accezione qui usata è quell’elemento di tipo omogeneo di una società intesa come ‘unità’ organica ed armonicamente ordinata per comprendere la realtà sociale.
(27) Auguste Comte, filosofo e sociologo francese, Discepolo di Henri de Saint-Simon, è generalmente considerato l'iniziatore del ‘positivismo’. Coniò il termine ‘fisica sociale’ per indicare un nuovo campo di studi. Questa definizione era però utilizzata anche da alcuni altri intellettuali suoi rivali e così, per differenziare la propria disciplina, inventò la parola ‘sociologia’. Comte considerava questo campo disciplinare come un possibile terreno di produzione di conoscenza sociale basata su prove scientifiche. Il libro che secondo la maggior parte degli storici segna l'inizio del Periodo positivista è il “Corso di Filosofia Positiva”.
(28) Max Weber, è stato un economista, sociologo, filosofo e storico tedesco. È considerato uno dei padri fondatori dello studio moderno della sociologia e della pubblica amministrazione. Personaggio influente nella politica tedesca del suo tempo, fu consigliere dei negoziatori tedeschi durante il Trattato di Versailles (1919) e della commissione incaricata di redigere la Costituzione di Weimar. Larga parte del suo lavoro di pensatore e studioso riguardò la razionalizzazione nell'ambito della sociologia della religione e della sociologia politica, ma i suoi studi diedero un contributo importante anche nel campo dell'economia. La sua opera più famosa è il saggio “L'etica protestante e lo spirito del capitalismo”, con il quale iniziò le sue riflessioni sulla sociologia della religione. Weber sosteneva che la religione era una delle ragioni non esclusive per cui le culture dell'occidente e dell'oriente si sono sviluppate in maniera diversa, e sottolineava l'importanza di alcune particolari caratteristiche del Protestantesimo ascetico che portarono alla nascita del capitalismo, della burocrazia e dello stato razionale e legale nei paesi occidentali. In un'altra sua importante opera, “La politica come vocazione”, Weber definì lo Stato come "un'entità che reclama il monopolio sull'uso legittimo della forza fisica", una definizione divenuta centrale nello studio delle moderne scienze politiche in occidente. Ai suoi contributi più noti si fa spesso riferimento come "Tesi di Weber".
(29) Aristofane (450 a.C. circa – 385 a.C. circa) è stato un commediografo greco , uno dei principali esponenti della Commedia antica (l'Archaia), nonché l'unico di cui ci siano pervenute alcune opere complete.
(30) Decimo Giunio Giovenale, (Aquino, tra il 55 e il 60 – Roma, dopo il 127), è stato un poeta e retore romano. Le notizie sulla sua vita sono poche e incerte, ricavabili dai rari cenni autobiografici presenti nelle sue sedici Satire scritte in esametri giunte fino ad oggi e da alcuni epigrammi a lui dedicati dall'amico Marziale. (31) Bertrand Russell, cfr. ‘Autorità e individuo’, in “Storia della filosofia occidentale” – Longanesi 1983; filosofo, logico e matematico gallese. Fu anche un autorevole esponente del movimento pacifista e un divulgatore della filosofia. In molti hanno guardato a Russell come a una sorta di profeta della vita creativa e razionale; al tempo stesso la sua posizione su molte questioni fu estremamente controversa. È generalmente considerato uno dei fondatori della filosofia analitica, fin da quando, assieme a George Edward Moore è stato protagonista della "rivoluzione contro l'idealismo" della filosofia anglosassone d'inizio Novecento (che fu echeggiata trent'anni dopo a Vienna, dalla "rivoluzione contro la metafisica" del positivismo logico). Russell e Moore hanno lottato per eliminare quello che essi ritenevano una filosofia incoerente e priva di significato e per raggiungere la chiarezza e la precisione del ragionamento. Gli scritti logici redatti assieme a Whitehead hanno continuato questo progetto. Fu, inoltre, maestro di Ludwig Wittgenstein tra il 1911 e il 1914. L'opera e il pensiero di Russell hanno influenzato i lavori di Willard Van Orman Quine, Karl Popper e molti altri. (32) Mary Wollstonecraft, “Sui diritti delle donne”, in “I classici del pensiero libero” – Corriere della Sera 2010. è stata una filosofa e scrittrice britannica, considerata la fondatrice del femminismo liberale. Visse amicizie di grandi dedizioni ed ebbe relazioni tempestose fino al matrimonio con il filosofo William Godwin, precursore dell'anarchismo, dal quale ebbe la figlia Mary, nota scrittrice e moglie del poeta Percy Bysshe Shelley. Antesignana del femminismo, è nota soprattutto per il suo libro ‘A Vindication of the Rights of Woman’ nel quale sostenne, contro la prevalente opinione del tempo, che le donne non sono inferiori per natura agli uomini, anche se la diversa educazione a loro riservata nella società le pone in una condizione di inferiorità e di subordinazione. (33)ibidem (34)Vivien Burr, “Psicologia delle differenze di genere”, op. cit.
(35)Luce Irigaray, “Speculum”, op. cit.
Id: 3223 Data: 23/11/2023 16:55:53
*
- Cinema
Black Nights - in collaborazione con Cineuropa News
BLACK NIGHTS 2023 Concorso - In collaborazione con Cineuropa News
Emma Dante • Regista di Misericordia “Questa storia nasce nel buio e nell’oscurità del teatro, su un palcoscenico molto vuoto”.
Articolo di Davide Abbatescianni 15/11/2023 - La regista teatrale e cinematografica siciliana ci ha raccontato la gestazione del suo ultimo progetto, partorito dall’omonima opera teatrale del 2020. Abbiamo raggiunto telefonicamente Emma Dante, di ritorno dall’anteprima internazionale del suo ultimo lungometraggio Misericordia, selezionato nel concorso principale del Tallinn Black Nights Film Festival di quest’anno. Con la regista palermitana, abbiamo ripercorso la produzione del film ed in particolare alcune delle sue principali scelte tecniche e artistiche. Cineuropa: Proprio come Le sorelle Macaluso [+], anche Misericordia è l’adattamento cinematografico di una sua opera teatrale. Che tipo di necessità l’ha spinta a riesplorare questa storia tramite il mezzo cinematografico? Emma Dante: In effetti, questa storia nasce nel buio e nell’oscurità del teatro, su un palcoscenico molto vuoto, con soltanto quattro personaggi, ovvero Arturo e le tre madri. Avevo voglia di sapere quale potesse essere la sua collocazione spazio-temporale. Avevo il desiderio di conoscere i volti degli altri personaggi che nello spettacolo venivano solo evocati, come il padre che uccide la madre all’inizio ed il resto della comunità che nel film finalmente trova una corporalità, una fisicità nelle donne, nei bambini, negli animali… Volevo saperne di più. Per questo ho trasportato la storia al cinema. Soffermandoci sul rapporto tra scrittura teatrale e cinematografica, mi chiedevo quali ostacoli ha dovuto affrontare per dipingere un mondo così estremo e al contempo realistico e, a mio avviso, dotato di un po’ di elementi di realismo magico. Intanto, devo dire che mi sono fatta aiutare da due co-sceneggiatori – i quali sono anche scrittori – ovvero Elena Stancanelli e Giorgio Vasta. Mi hanno aiutata a distogliere lo sguardo dal teatro per andare invece verso una scrittura più cinematografica. Abbiamo lavorato su questo contrasto tra la verità di questi corpi e di queste donne ferite e mercificate e la magia ed il sogno di Arturo. In fondo, il film è un po’ visto dai suoi occhi. È come se questa storia la vedesse un bambino, perché Arturo in realtà non è mai cresciuto. Sono partita un po’ dall’idea di raccontare una favola. Ci sono degli elementi molto onirici, delle atmosfere che rompono il realismo di questo borgo fatto di capanne e fango. Spostandoci sull’argomento casting, che tipo di qualità ha cercato per i ruoli di Arturo, Betta, Nuccia ed Anna? Il cast è opera del mio casting director ma voglio sottolineare che il film arriva così com’è soltanto perché ci sono tante voci autoriali che lo aiutano. Per esempio, è importante citare il lavoro svolto con la direttrice della fotografia Clarissa Cappellani. Questa luce e questi paesaggi li dobbiamo a lei. Emidia Frigato, invece, ha ricostruito di sana pianta il borgo in una riserva naturale che si trova nel trapanese. Maurilio Mangano ha lavorato sulla ricerca dei volti di questi attori. Arturo è interpretato da un danzatore, lo stesso del mio spettacolo. Simone Zambelli è il trait d’union tra queste due storie, raccontate con linguaggi diversi. Lui è fondamentale perché è il portatore sano di Arturo. O forse anche “insano”, direi! (ride) Le tre madri sono interpretate da attrici diverse da quelle dello spettacolo e sono molto diverse tra di loro perché ricoprono, in qualche maniera, i ruoli di questa famiglia non tradizionale. Ho cercato le loro diversità per sottolineare la completezza di questa famiglia. Mi serviva che questa famiglia fosse “abitata” e formata da persone diverse. Per esempio, Anna, si aggiunge alla fine ed è la giovane madre, la madre più “amico” d’Arturo e tra di loro si instaura un rapporto che sembra quasi tra due amici, tra due maschi. È una specie di Lucignolo, ma anche una fata. È una madre che riesce a coprire un ruolo più legato alla giovinezza. Le altre due sono più “strutturate”, anche perché crescono Arturo dall’inizio della sua vita. In ogni caso, si tratta di una famiglia non tradizionale, dove non ci sono legami di sangue ma una fortissima componente d’amore e d’alleanza. Potrebbe parlarci del lavoro svolto con il compositore Gianluca Porcu? Inoltre, cosa l’ha portata a scegliere Avrai di Claudio Baglioni? La musica è arrivata prima di fare il film perché Porcu, ad un certo punto, mi ha mandato questo disco che aveva appena inciso. Qui c’erano alcune musiche che lui ha poi riformulato e ricomposto per Misericordia. In queste musiche c’era qualcosa che richiamava un motivetto della colonna sonora di Pinocchio di Fiorenzo Carpi [ndr, il compositore dello sceneggiato televisivo del 1972 Le avventure di Pinocchio, diretto da Luigi Comencini]… Le sentivo giuste per questa storia. Per me, in fin dei conti, Arturo nasce un po’ come un burattino di legno, nasce “difettoso.” […] Avrai, invece, è legata ad un trascorso personale ed è la canzone che ho fatto sentire a mio figlio quando lui è arrivato a casa [ndr, la regista ha adottato un bambino nel 2017]. È stata la prima canzone che gli ho fatto sentire e della quale si è innamorato. Contiene un futuro semplice che dà speranza e per me è la chiave di tutto.
“MISERICORDIA” un film di Emma Dante Sicilia, un piccolo borgo marinaro di casupole in pietra grezza, in mezzo a rifiuti e rottami. Alle spalle una montagna maestosa. Qui nasce e cresce Arturo, figlio della miseria e della violenza, qui muore la sua mamma mettendolo al mondo. Betta, Nuccia e la giovane Anna, prostitute come lo era sua madre, se ne prendono cura come se fosse un figlio, nella misericordia di un amore disperato fatto di carezze e insofferenza, crudeltà e tenerezza. Ormai Arturo ha 18 anni, in alcuni momenti sembra un bambino, in altri vecchissimo. È nato difettoso, si muove in modo strambo, partecipa al mondo con un animo diverso. Guarda alle persone intorno a sé come alla montagna che scala: senza paura. È un invisibile fra gli invisibili e deve combattere, come tutti a Contrada Tuono, per la sopravvivenza, ma il suo sguardo puro e diverso porta con sé la speranza.
Sceneggiatura: Emma Dante, Elena Stancanelli, Giorgio Vasta Cast: Simone Zambelli, Simona Malato, Tiziana Cuticchio, Milena Catalano, Fabrizio Ferracane, Carmine Maringola, Sandro Maria Campagna, Marika Pugliatti, Georgia Lorusso, Rosaria Pandolfo fotografia: Clarissa Cappellani montaggio: Benni Atria scenografia: Emita Frigato costumi: Vanessa Sannino musica: Gianluca Porcu produttore: Marica Stocchi produttore esecutivo: Gianluca Arcopinto, Marcello Mustilli produzione: Rosamont, RAI Cinema
Recensione: Misericordia di Vittoria Scarpa.
10/11/2023 - Con il suo terzo lungometraggio, che ritrae una realtà crudissima, intrisa di povertà, ignoranza e violenza sulle donne, Emma Dante conferma tutta la sua forza espressiva La madre di Arturo era bella e giovane, è stata riempita di botte quando suo figlio era ancora nella pancia ed è morta poco dopo averlo messo al mondo. È un incipit scioccante quello di Misericordia , il nuovo lavoro per il cinema di Emma Dante: un brutale femminicidio dà il La a tutto il degrado e la miseria umana a cui andremo ad assistere nei successivi 90 minuti. Dopo l’esordio nel 2013 con Via Castellana Bandiera (Coppa Volpi a Venezia per la protagonista Elena Cotta) e il ritorno sul grande schermo nel 2020 con Le sorelle Macaluso [+] (Premio Pasinetti e Premio Lizzani, sempre alla Mostra di Venezia, e 5 Nastri d’Argento), la stimata regista di teatro e drammaturga palermitana ha presentato in anteprima internazionale in concorso al Festival Black Nights di Tallinn – dopo la sua anteprima mondiale a Roma, alla 18ma Festa del Cinema nella sezione Special Screening – il suo terzo film, tratto dalla sua omonima pièce teatrale e sceneggiato con l’aiuto di Elena Stancanelli e Giorgio Vasta. Un racconto sanguigno, viscerale di una realtà crudissima, intrisa di povertà e ignoranza, dove le donne sono sfruttate e violentate, in tutte le accezioni possibili. E dove Arturo, mentalmente menomato dalla nascita e rimasto puro come un bambino, rappresenta l’unica speranza. “Lo riempirei di pugni e di baci” è la battuta che sintetizza l’amore/odio che questo giovane sfortunato – che oggi ha 18 anni, non parla e non sta fermo un attimo – suscita in chi lo accudisce. Siamo in Sicilia, in un piccolo borgo marinaro composto da baracche e casupole scrostate, in mezzo a rottami e rifiuti, e sovrastato da una montagna maestosa da cui ogni tanto precipita qualche roccia. Rimasto orfano, Arturo (Simone Zambelli, professione ballerino, protagonista anche in teatro) oggi ha due madri, Betta (Simona Malato) e Nuccia (Tiziana Cuticchio), due prostitute agli ordini del disgustoso Polifemo (Fabrizio Ferracane) che, fra carezze e insofferenza, si prendono cura del ragazzo e litigano violentemente fra di loro per qualsiasi sciocchezza. La giovane Anna (Milena Catalano), una nuova “lavoratrice” per cui gli uomini del posto si mettono a fare la fila, si unisce a questo disgraziato foyer: le madri di Arturo diventano tre. E insieme, lo proteggono dall’inferno che hanno attorno e che lui non riesce a vedere. Non è un film che ti mette a tuo agio, questo Misericordia. Il malessere è palpabile in ogni scena, sia esso fisico o morale: i piedi nel fango, l’acqua dentro casa, i corpi deformati dall’età, i volti truci degli uomini, lo squallore dei rapporti umani. Ma la forza espressiva di questa autrice così poco accomodante, che non teme di mostrare realtà sgradevoli, violenze, abusi su donne e persone fragili, raggiunge il suo culmine quando quella sgradevolezza trascolora nella possibilità di un futuro diverso, di salvezza, anche per chi sembrerebbe definitivamente spacciato. Complici le belle note di una celebre canzone di Claudio Baglioni dedicata a suo figlio, questa favola nerissima finisce per esploderti nel cuore. “Misericordia è il sentimento che voglio provare quando vedo un disgraziato, non devo avere pietà di lui ma sentire di condividere quella disgrazia”, ha dichiarato la nostra brava Emma Dante. E lo spettatore è invitato a fare lo stesso.
Id: 3213 Data: 17/11/2023 15:53:18
*
- Libri
“Radon – La terra non trema”, un libro di Ruggero Settimo
“Radon – La terra non trema”, un libro di Ruggero Settimo – Rise&Press Editore 2022 Lo spettacolo fantasmagorico dell’Etna che continua in questi giorni di fine autunno la sua attività vulcanica, se da una parte meraviglia lo sguardo di chi l’osserva, ancor più preoccupa i vulcanologi che ne osservano costanti il grado di pericolosità, prestando una specifica attenzione riguardo alla popolazione che malgrado tutto seguita a vivere ai piedi della montagna. Un ‘malgrado tutto’ che si rivela ancor più rischioso se ad accentuare il rischio sono le stesse istituzioni che dovrebbero tenere la reale situazione sotto controllo, evitando che un certo ‘malaffare’ penetri nelle faglie del servizio di Protezione Civile capace di chiudere un occhio, e a volte anche due, nei confronti di probabili uomini d’affari disposti a tutto pur di ovviare i propri interessi economici, e non solo… “Un sospetto che si addentra fin nei palazzi del potere”, afferma Ruggero Settimo autore di “Radon” (*) un romanzo che non si allontana di fatto dalla verità che abbiamo appreso qualche tempo fa dalla cronaca che, benché improntato al modo di una fiction, s’impone quale ‘atto d’accusa’ coinvolgente quanto preoccupante. Soprattutto se a farne le spese sono quei giovani studiosi che ne studiano la materia con disciplina scientifica e quegli altri, tutti quegli altri che ruotano attorno in quanto amici di studi, famigliari, gente comune che si trovano a condividere le stesse problematiche legate alla salvaguardia del territorio così come alla propria sopravvivenza. Perché di fatto quanto avviene in certe cose è di riferimento, in cui il particolare, il semplice condursi della vita quotidiana fa la differenza, specialmente se qualcuno, malvagio più di altri, subentra e si lascia coinvolgere in ciò che potrebbe diventare una catastrofe epocale, in cui per smaltire le scorie radioattive infine pensa di fare dell’Etna la pattumiera della terra. Questo ed altro possiamo leggere in questo ‘giallo’ che, scritto in forma di “diario di lavoro”, rivela una certa connivenza coatta con ciò che siamo: quegli “animali razionali dipendenti”(**) ché in quanto alla salvaguardia del mondo in cui viviamo lasciamo indifferenti ad altri di occuparsene e che più “frequentemente separano la percezione che dovrebbero avere di se stessi dalla storia passata” (**), senza farsi scrupoli… «Io no. L’Etna… l’Etna sì» «L’auto che viaggia a velocità sostenuta ha attutito le vibrazioni … un nuovo sciame sismico sta manifestando la sua presenza. Il Radon torna a salire e questa volta il suo corso naturale non sarà sottoposto a manipolazione umana.» Fino a quando? La terra potrebbe tremare, e stavolta per davvero. L’autore. Ruggero Settimo siciliano doc, filologo e traduttore in diverse lingue, rivolge i suoi interessi all’economia e la geopolitica che declina nelle sue opere. Appassionato di giornalismo, musica, letteratura, è attivo come volontario in organizzazioni per l’integrazione dei rifugiati. “Radon” – la terra non trema” è il suo nuovo romanzo. Note: (*) Il Radon è un gas radioattivo naturale presente nel sottosuolo specialmente in aree vulcaniche e, quindi, di conseguenza sismiche. (**) Alasdair Macintyre, "Animali radionali dipendenti" - V&P 2001
Id: 3211 Data: 13/11/2023 18:05:23
*
- Musica
Mauro Sigura - ’Dunia’ S’ardmusic – Egea 2023
Mauro Sigura “Dunia” S’ardmusic – Egea 2023 L’ebbrezza mistica del Oud espressa in questa nuova opera di Mauro Sigura affonda nelle potenzialità del rinnovato pensiero musicale middle-europeo, a quel mondo temporale “sopra la terra e sotto il cielo” in cui l’artista ci ha introdotto all’ascolto nei suoi precedenti lavori, che tanto hanno dato alla conoscenza di questo strumento. A incominciare dall’armonia della forma alla plasticità del suono che lo rendono un’eccellenza di riferimento non solo orientale, bensì in ambito World-Jazz e New Wave, nel quale si è inserito ormai da decenni a questa parte, e che fa da ponte sonoro tra Europa e Islam. Ma c’è di più, quanto basta a intavolare e promuovere sonorità che la costante esperienza internazionale dell’artista ha incamerato in questi ultimi anni, entrando in contatto con ‘altre’ culture nord europee ed altri strumentisti. Di fatto troviamo in questa sua ultima ensemble nomi diversi dalla composizione di gruppo precedente e che danno nuova linfa alle sonorità traslitterate in modo unificante dall'iniziale 'Progetto Terra' dal suo leader Mauro Sigura, qui impegnato anche in tutti gli arrangiamenti strumentali, dalla chitarra elettrica di Marcello Peghin, al basso di Pierpaolo Ranieri, alla batteria di Evita Polidoro, fino all’intervento vocale di Elena Ledda che già in passato ha dato lustro a interpretazioni stupende sia di gruppo che come solista, e che forse andava utilizzata anche in alcuni passaggi in altri brani. “La sfida – ci dice il compositore – è stata quella di rendere in musica l’idea del costante dialogo tra particolare e universale. Ecco allora che una transumanza , una danza, i passi di un gatto o di una testuggine sono parti di un movimento superiore onnicomprensivo.” Dialogo che ritroviamo nei titoli-idee compositive argomentate nei suoni di questo CD “senza vincoli stilistici – aggiunge – bensì miscelando generi musicali diversi, dal jazz alla fusion, alla musica mediorientale, dal rock alla consapevolezza del più moderno contesto sonoro.” Particolarmente incisiva di questo discorso è la resa ‘d’insieme’, quella che più conta, ed è a questa infine cui si dedica in primis l’ascolto, con il risultato indubbiamente “emotivamente più profondo” cui si affida lo stesso compositore nel farci partecipi della sua creatività congiunta allo strumento. Quell’Oud che inevitabilmente trascina con sé assonanze del tempo in quanto ambasciatore di memorie passate, di poeti persiani e gentiluomini arabi, ma anche hindi, turcomanni, swahili di riferimento al sanscrito e al Corano, cioè referenti nel titolo di questo nuovo album “Dunia”; cioè di quel “mondo” che riflette inoltre delle intenzioni letterarie che sono state d’ispirazione all’autore. Come appunto riferisce l’autore Mauro Sigura: “Riguardo la scelta dei musicisti, da tempo avevo il desiderio di lavorare con Marcello Peghin, la sua chitarra ha saputo dare ad ogni brano il collante che cercavo, quel suono capace di legare insieme il motore ritmico, metronomo universale con le melodie dell’Oud e del Bouzouki, legate più al concreto e al particolare. Così come il mixaggio sapiente ad opera di Michele Palmas ha saputo cogliere lo spirito d’insieme e aggiungere dettagli fondamentali per la riuscita definitiva dei brani”. Invero un album di piacevole ascolto che non deluderà chi cerca nella musica qualcosa di creativo all’altezza del migliore sound internazionale, ben sapendo che si è qui messi di fronte a qualcosa di più ricercato del continuo ‘bla, bla’ dell’odierno prodotto consumistico.
Id: 3198 Data: 01/11/2023 08:16:01
*
- Letteratura
Marco Balducci … o la cognizione dell’ozio.
Marco Balducci … o la cognizione dell’ozio. “Terzo Repertorio” – Anterem Edizioni 2023.
“Nulla che possa essere fatto fra un mese, detto tra un anno, sarebbe diverso oggi. Ripetizioni di parole e di atti si sommano in serie sbiadite come raccoglitori in un archivio…”.
È l’incipit di questo libro che si potrebbe riassumere in una sola frase: “condensazione verticale di un punto inclinato” nell’uso che l’autore stesso fa delle “quadrature” che lo compongono. E che siano ripartizioni elaborate dal punto di vista di sdraiati su un letto e/o semi svegli su un divano, si ha la sensazione di essere messi difronte a una scelta intellettualistica, afferente a una possibile apologia dell’ozio come scelta di vita…
“si dia il caso che resti fuori un braccio, o un dito soltanto: nel vuoto dell’imprevisto, del possibile, dell’evento accidentale. In questa ipotesi si mobilita ogni risorsa, si interviene e si provvede: un’occasione di premura, di solerzia. E si cerca di capire il perché. Ma restiamo al presente…oppure no: andiamo indietro, di anni e anni, azzeriamo tutto: tutto”. Ce n’è di ben donde nel voler trovare i paradigmi di scuola filosofica che in primis risalgono agli antichi (Epicuro, Ovidio, Seneca, Lorenzo de’ Medici, Boccaccio, Sannazzaro, Petrarca fino a Leopardi); o all’ozio altruistico di stampo orientale (Shiva, Ghandi, Rumi, Sen, Kafka, e tanti altri); così come nel voler accostarsi alla psicologia dell’ozio dei cosiddetti metropolitani (Cechov, Wilde, Baudelaire, Bataille, Bulgakov, Gončarov, Rawls, Žižek, Cacciari, Lacan, solo per citarne alcuni).
Ma come si inserisce Marco Balducci in questa classifica di super-eroi dello scrivere dovrebbe far pensare il lettore ben più scaltro di me, allorché affrontando in indice le sue ‘quadrature’ e le sue ‘emergenze’ per l’appunto, si riscontrano alcune ‘assenze oggettive’, smarrite, forse, in un duplice orizzonte di vedute, che né l’utopia (l’illusione), né l’idea dell’ozio (l’inerzia), riescono a riempire del rimanente spazio ‘vuoto’ della pagina…
E “fino a quando?", viene da chiedersi, ma a saperlo, poi, cosa cambia? Sommare, poi dividere, per avere una media ponderata: resti perplesso, il risultato è uno qualunque, nessun interesse, nessuna sorpresa…Sapere, sapere finalmente, e poi restare indifferenti: si è saputo qualcosa di prevedibile e nemmeno credibile. Riemergi il giorno dopo, metti la faccia sopra una mano aperta, poi stringi le dita per spremerla bene. Spremila. Spremi a fondo”.
E " fino a che?", a quando, come e perché? Se la mente a volte si rifiuta di oltrepassare la soglia della ragionevolezza... “un’idea di presente persistente nella memoria. Mani che tracciano disegni nell’aria, veloci come rondini attraversano la stanza. Osservarle senza interesse, come le cose intorno , da nominare mentalmente: un cuscino, un foglio, la porta. Aprire la porta senza oltrepassarla, affondare la faccia nel cuscino… strappare il foglio. Rinunciare a ciò che si è perso. Ripetere questa frase.”
Un vuoto che si attesta come “Terzo Repertorio” dal titolo della raccolta, sì che viene da chiedersi se c’è un ‘primo’ e un ‘secondo’ repertorio sui quali approntare l’eccedenza e/o l’incompletezza di aggettivazione, quella ‘ars vivendi’ che fa intuire la presenza dell’altro come scelta e non solo, o piuttosto che sospinga verso lo ‘straordinario’ insito nella poesia, quale linfa di vita su cui fare affidamento contro tutte le brutture che incombono nel mondo…
“su un terrapieno a guardare verso l’autostrada, il traffico veloce nei due sensi, continuo, costante: dall’altro lato alberi spogli, radi, su campi non coltivati. Si cammina, non c’è da parlare, si è arrivati qui casualmente ma sembra di no: che si dovesse vedere, fare considerazioni, decidere: eccetera”.
“intravedere case, in lontananza, seminascoste dalla vegetazione. C’è spazio qui, il vento è libero di fare scorrerie: i suoni misurano distanze. Con le orecchie tappate dalle mani entrare nell’inquadratura: vedersi salire il crinale…la pellicola è attraversata da macchie, aloni luminosi…sempre più frequenti”.
Una scrittura individualista quindi quella di Marco Balducci per affermare la validità laconica dell’ozio osservata da una posizione minimalista, per meglio intendere che il ‘vuoto’ gioca una funzione intellettiva non necessariamente a perdere, quanto… …nel trovare quel che manca.
L’Autore. Marco Balducci, scrittore di poesia Neo-tecnologica è stato finalista del Premio Inedito 2021 e al Premio Montano 2022.
Nota: Tutti i corsivi sono di Marco Balducci estratti dalla raccolta qui recensita.
Id: 3197 Data: 30/10/2023 10:57:46
*
- Libri
AA.VV. “Scrivendo 2023” – Kubera Edizioni
AA.VV. “Scrivendo 2023” – Kubera Edizioni
Per chi ama leggere, si è concluso anche quest’anno il Concorso Letterario “Scrivendo” che ha visto la pubblicazione di un libro a stampa che raccoglie i migliori racconti selezionati tra i partecipanti indetto da Kubera Edizioni cui hanno preso parte centinaia di autori più o meno conosciuti che con i loro scritti hanno ravvivato il contest con la preziosità dei loro interventi. Un sommario ricco di nomi, di avvenimenti, di sogni e di illusioni che si rinnova costantemente e che con i loro scritti danno vita ad una realtà sociale ‘diversa’ da quella cui siamo abituati a leggere sulle pagine dei quotidiani, fin troppo cariche di accadimenti cronachistici nefasti e altisonanti che poco e/o forse troppo, hanno a che fare con l’intimità intrinseca di quegli esseri umani che siamo. Ma non c’è solo il sociale, esiste una ‘verità’ nell’attività scrittoria di altrettanti autorevoli narratori, presenti in questo libro, più spesso trascurata perché volutamente non ascoltata, cui va riconosciuto il ‘diritto’ di essere rappresentati e quanto più di essere rappresentativi di quella ‘storia minima’ che tutti insieme andiamo scrivendo. Ma non parlo solo di scrittori, bensì anche di giornalisti, imbrattacarte, quanto anche dei redattori, dei grafici, degli impaginatori e degli stampatori che, con il loro lavoro ‘specialistico’ nei rispettivi campi di operatività, hanno portato fin dai primordi all’evoluzione della carta stampata, che tanto ha devoluto nel mondo a far conoscere la cultura e l’informazione, pedissequa del ‘sentire’ umano. Ci sono qui, condensati in questo libro di racconti brevi, molti aspetti della vita d’oggi e che forse mai ci viene dato d’incontrare nei corposi romanzi patinati ed edulcorati dalla grande distribuzione, che tuttavia non mancano di una loro bellezza formale che in più di qualche caso lasciano assaporare il sale (lo zucchero) della vita stessa degli autori. In rappresentanza dei quali voglio qui citare i titoli significativi del loro operato, a dimostrazione di quel rispetto che spetta ad ognuno. Meglio avrebbe fatto l’editore a citare i titoli nell’indice a fianco di ogni singolo autore: “Dimora” di Addolorata esposito. “Lo strano inverno di Marta” di Alessandra D’Agostino. “Quella strada” di Alessandra Vasconi. “Il mio Barbablù” di Anna Tarantello. “Biciclette” di Biagio Napoli. “Le unghie e la terra” di Claudia Teresa Pezzutti. “Le soddisfazioni della cantante solista” di Daniela Carmen Mainardi. “Non è più lei” di Daniela Conforti. “La casa di riposo” di Daniela Di Benedetto. “Ritratto di andata e ritorno” di Effeddì. “L’Amleto che visse due volte” di Fabiola Medici. “Miracolo a Trava” di Federico Battistutta. “Le ultime note” di Flavio Lucibello. “Hic et nunc” di Francesca Savio. “Forse un angelo” di Gabriele Astolfi. “Da Messina a Forlì via ponte” di Giancarlo Biserna. “Il tr-rrr-e-n-o delle sette” di Giorgio Mancinelli. “La rinascita” di Giovanna Panzolini. “L’assenza di uno spazio” di Giulia Di Paola. “Era notte a Roma” di Laura Marcucci. “La pace persa in una bacca” di Lina Ciampi. “Aria” di Maria Grazia Innocenti. “Il giocatore” di Nico Zucchini. “Amore o possesso?” di Nicoletta Rinaldi. “La melodia di Caterina” di Ottavia Durpetti. “Notte d’agosto” di Paolo Michiotti. “Matrioska” di Pietro Rainero. “Stanza 21” di Remo Badoer. “Una storia minima” di Rosanna Guarino. “Un’agghiacciante realtà” di Santo Forlì. “Solo” di Sebastiano Lucio Motta. “Il segreto” di Stefano Bambi.
Più che interessanti risultano le pagine dedicate ai singoli ‘curriculum’ e alle note afferenti all’attività, talvolta ponderosa, nei campi più disparati della letteratura, ma anche del teatro e del cinema, svolta più spesso a latere di un’altra attività, quel ‘lavoro’ necessario che ha assicurato loro la sopravvivenza e, non in ultimo, di poter scrivere le loro storie. Grazie.
Id: 3194 Data: 25/10/2023 06:57:45
*
- Letteratura
“A sciame” un libro di Maria Grazia Insinga - Arcipel.Itaca
“A sciame” di Maria Grazia Insinga … una voce ‘fuori dal coro’ nella nuova prosodia contemporanea - Arcipelago Itaca 2023
“Il mondo è in basso / e la bilancia discorde / una questione di gravi…” – scrive Maria Grazia Insinga in questo suo vademecum prosodico-poetico facendo sfoggio di un’arte foriera di trame che stanziano sospese “a cerchio a diluvio” come le nuvole nei quadri di Magritte, per un dialogo con l’universale…
Allora sono le parole a sciamare via dalla “testa che parla”, a formare le frasi della nostra incompletezza, onde raggiungere i non-luoghi interstiziali che involontari abbiamo lasciato scoperti nella conoscenza e che, egoisticamente dicendo, non riempiono i vuoti nella testa degli altri, tutti quegli altri che non siamo noi, che pure riguardano la nostra esistenza pregressa e futura…
“Forse mi sono confusa col tuo cranio pieno di meraviglie e di bile...”, come “il fiume carico di pesci che non sai / carsico porta a nessun mare / l’unica mappa leggibile…” – mentre noi eravamo lì, immobili a guardare il passaggio della rondine che migrava per altri lidi, la crescita di uno stelo d’erba verde essiccato, lo sfiorire dei colori di un fiore prima ancora dell’autunno, il cadere di una foglia ingiallita nella pozza di un ultimo temporale, quanti in una sola vita (?), incontenibili, che ci hanno lasciati fradici di dentro, quando avremmo voluto camminare nel sole d’ogni stagione…
“ …e meritare un levare e battere / al tempo stesso un solo cuore: / tutt’altra cosa altro paradiso / terreo non morire e rimanerci”, mentre inerti vedevamo la polvere depositarsi sulle pagine ingiallite, rimaste bianche del nostro non-dire, che di parole ne erano già state dette abbastanza, troppe, da riempire tomi per una biblioteca dell’immaginario finalizzato e utopico dell’incapacità di essere che dimostravamo ampiamente…
“…a punta fram (nave artica) o sulla luna / mille anni mille lingue e / cuore del cuore della lancia / orifiamma senza vegetazione / sputata dal cratere di gelkamar (area vulcanica) / la costa nera il monte rosso / il raggio di luna tagliente”. E dire che ne avevamo coniate di nuove che volevamo illuminanti, a uso e abuso della concettualità meccanica, svanita nei meandri della più avanzata tecnologia, o forse di una falsa democrazia, decostruita, persa nel vuoto di una solitaria attesa del nuovo senza avvio di rifacimento, di moderni concetti da approfondire e avallare verso un fine aperto alla collaborazione, alla solidarietà…
“…ophrys l’albero è troppo alto / o troppo basso e non c’è / un filo di pentimento / l’attacco del vento ibrida gli occhi / l’unica possibile vicinanza: / approssimarsi”, a quel non-luogo che abbiamo dismesso sul nascere, in quel rito di passaggio mai davvero pensato all’accoglienza degli altri, lasciati soli alla mercé di se stessi, nei meandri bui della solitudine più nera, malfamata e guerrafondaia, sempre in bilico sulla voragine di quell’inferno che ci siamo costruiti da soli, nel voler affrontare la vita, la sopravvivenza delle vite degli altri…
“…rientra nei difetti della vista / persino la luce / per arrivare fin lì c’è un tratto / di mare: ha solo detto acqua ed è tutta inzuppata per difetto di vista / o un assordare di trombe d’angelo”, sì che avremmo voluto ricrederci, ricostruire sul nulla la nostra ‘terra promessa’, il nostro paradiso estemporaneo, senza nuvole e nebbie di sorta, senza maleparole incattivite dallo scempio, senza l’inquinamento degli elementi, semplicemente senza …
“…al diavolo le omologie galeniche / all’angelo gli uomini capovolti / e altre improbabili equivalenze / saremo sommerse inverse o niente /… / scienza saputa prima d’ogni cosa /… / ferma e schiusa / muta nella natura immutabile , o no?”… in perenne attesa che ‘a sciame’ tornino le rondini, il rigoglio della terra nel verde degli steli, lo scorrere delle acque dei temporali, uscire dalla disuguaglianza in cui viviamo…
“…la matrice psicolinguistica / … / la matricola inesistente / … / onde scappare dal mondo / in un mondo dove / perduta ancora la lingua è tutto perduto”. Quella “scienza saputa prima di ogni cosa / la sentenza prima del giudizio / l’acquiescenza impossibile / sommossa zero remissione”… che pure si è resa possibile nel flusso di quella creatività globalizzata che nello scempio del tempo, ha saputo creare cotanta bellezza che ci circonda… “grazie sempre a dio”.
L’autrice, Maria Grazia Insinga, Milazzo 1970 - Laurea in Lettere Moderne, Docente di Pianoforte, vincitrice di numerosi premi e laboratori di Poesia Contemporanea. Membro del Consiglio editoriale di “Opera Prima” è parte del Comitato di Lettura di Anterem Edizioni e della giuria del Premio di Poesia e Prosa “Lorenzo Montano”. Sue poesie sono stare tradotte in molte lingue europee, più recentemente è stata premiata per “Tirrenide” una silloge poetica pubblicata da Anterem Edizioni 2020, a suo tempo recensita in Larecherche.it.
Nota: tutti i virgolettati sono d'appartenenza dell'all'autrice.
Id: 3190 Data: 21/10/2023 18:09:23
*
- Libri
’Dialoghi della sedia’ un libro di Chiara Serani - Anterem 2
‘Dialoghi della sedia’ … per una teoria scrittoria radicale. Un libro di Chiara Serani – Anterem 2023. Quand’ecco al centro della scena aperta s’accende un occhio di bue a illuminare una Thonet Dijon in solitaria presenza, era già lì ma nessuno sembra se ne sia accorto. La sedia, non ha alcuna ragione di farsi notare, sì che può restarsene in silenzio immersa nel buio della propria esistenza e oltre, senza scomporsi, senza distinzione di sorta, per un tempo lungo capace di accogliere ogni variare generazionale di attori/attrici che s’avviluppano nelle parole, nell’affabulazione delle loro afflizioni. L’azione s’avvale di rumori, scalpiccii, uno sciame di parole confuse che improvvisamente tacciono per la presenza oggettivante di una di esse... “Sono seduta su una sedia. Sono completamente vestita: cappello, sciarpa, maglione, guanti, collant, stivaletti. Mi tiro su il maglione per mostrare il reggiseno. Poi tiro su la gonna per mostrare le mutande.” (Applausi del pubblico pagante.) Non c’è che dire, già nel titolo e poi addentrandosi nelle pagine, viene spontaneo pensare a un copione scritto per uno spazio immaginario e/o immaginato, in cui l’autrice Chiara Serani, mette in scena ‘il tutto e il niente’ di un dialogo fluente con la ‘sedia’, identificazione neo-espressionista che attraversa il fenomeno generazionale dell’interdisciplinarietà, di grande attualità, tesa a mostrare collegamenti e rotture operate dal decostruzionismo … “Sono seduta su una sedia. Sono nuda. / Ho in grembo un libro scritto e illustrato dall’altra donna che è qui. Raccolgo (sul pavimento) le forbici e comincio a tagliare con molta cura, una a una, le belle pagine lucide. / quando ho finito riprendo le pagine, una a una, e me le attacco sul corpo col fissante per filettature. / Le attacco una a una, partendo dalla pelle più tenera, i seni, l’interno coscia… ovunque, finché non sono interamente rivestita di pagine. Poi le stacco, una a una. La pelle si scortica. L’avevo calcolato?” Si è detta una ‘teoria scrittoria radicale’ di un certo fare teatro ‘per opposti’, ma anche da punti di vista diversi, per così dire ‘altri’, improntati sulla visualizzazione onirica interattiva applicata a una ‘performance’ d’arte visiva inclusiva (body-art, tattoo, digital-art ecc.). Tuttavia, senza uscire dall’ambito letterario-teatrale, pensiamo ad Artaud, a Genet, alla neoavanguardia di Carmelo Bene, in cui la priorità individualistica dell’attore riempie il ‘vuoto’ scenografico… “Sono seduta su una sedia, leggermente di lato perché alla mia sinistra c’è un uovo. Sono nuda, ma ho una mitria papale sulla testa, in grembo un libro. Covo la schiusa.” Individualismo che ha riempito i teatri di mezzo mondo, dall’espressionismo astratto di Julian Beck e il Living Theatre, alla sperimentazione sonora di John Cage, alla Modern-dance portata sulla scena internazionale dall’inimitabile Pina Bausch, maestra della coreografia contemporanea. Più difficile è rintracciare una qualche priorità, o meglio un distinguo apotropaico che serva ad allontanare o ad annullare un qualche influsso malevolo e/o benevolo che sia, per tornare alla nudità ancestrale del corpo, in un certo senso per riappropriarsene, riassumere la propria espressività basata sull’improvvisazione dell’azione e sul coinvolgimento. Una forma conosciuta come “happening”, dal suo ideatore Allan Kaprow che nel 1956 immaginò un’arte nuova che contemplasse vista, suoni, movimento, persone, odori, ogni sorta di materiali e oggetti… “Sono seduta su una sedia. Sono nuda … Sul pavimento, una matassa di filo spinato. Provo a dipanarla, mi graffio le mani. Attacco a lavorare il filo. La matassa, ancora mezzo arrotolata, si dimena in ogni verso come una molla e mi scorre a fatica sulla coscia sinistra, … morde la carne, la unghia.” Oggetti che ritroviamo in uso, fra tensione e distensione in questo “Dialoghi della sedia”, come esibizione di vita e inquietudine personale, dove la tipologia da ferramenteria s’intreccia con oggetti d’uso casalingo, (sedia, catino, forbici, coltelli, ferri da calza, chiodi, spille, piercing, ecc.), e quant’altri propri della macelleria (animali vivi e morti) che estendono il sopravvento prevalentemente sull’intenzionalità, contribuendo a rendere lo ‘spazio’ teatrale, una sorta di ambientazione speculare coreografica del corpo immerso nell’ambiente, in cui il tempo subisce a sua volta una sorta di dilatazione spaziale (immobilità, azione, lentezza, iterazione) che sottolinea il carattere rituale della scena… “Sono seduta su una sedia, la loro. Disposti tutt’intorno a me ci sono un bambolotto nudo di plastica rosa, un bisturi, dei rotolini di carta bianca su cui sono tracciati in oro caratteri e simboli che non conosco, colla a pronta presa, chicchi d’uva, unghie, vecchie monetine, cantucci di pane, un osso di agnello. Raccolgo il bambolotto, non ha i genitali ma ha la pancia sporgente e vuota. Afferro il bisturi tra pollice e indice e medio, procedo alla laparotomia. Prendo i rotoli le unghie, il pane, le monete, l’uva e l’osso, riempio la pancia. Suturo la ferita con la colla.” Al dunque, una ‘teoria scrittoria radicale’, intenta a costruire e decostruire, come per l’esperienza ‘fluxus’ in cui l’energia del fare accoglie elementi rivelatori di emozioni primarie proprie del disimpegno e/o della conflittualità interiore, in particolare della contaminazione, della collisione fra spettacolo (di se stessi) e mass-media (simulazione applicata), di quella che si direbbe in un certo senso la ‘naturalità’ di un fenomeno e l’ ‘artificialità’ del procedimento esteriore. Come di qualcosa che in effetti non c’è ma che la si può pensare e/o reinventare ogni volta (ad ogni pagina) come collaterale di un ‘fare teatro per opposti’, di un procedere a sbalzi fra azzeramenti e ritorni, ridurre cioè la narrazione a consonanze e dissonanze poetiche (?)… “Sono seduta su una sedia. Sono nuda. Ho un gomitolo di lana viola nella vagina, sostenuto dal pavimento pelvico. Scorgo il capo della fibra che spunta, lo tiro un po’. Per terra, davanti a me, è ammassato un cumulo di vecchi ferri da maglia … In questa posizione il gomitolo preme alle pareti. Alla fine, raggiungo i ferri e comincio a dipanare, lenta, il filo. Lo lavoro. Ne traggo un informe umido, finché la lana non è del tutto esaurita. Lo adagio a terra. Si spengono le luci.” Da qui quel senso fra l’afflizione e l’inadeguatezza sul piano della definizione patologica del presente, in cui si ipotizza una qualche anticipazione e/o posticipazione del ‘tempo piano’ o ‘assenza di tempo’ all’interno di un ‘continuo’ che non prevede forme o schemi, cornici e impalcature, né arredi o scenografie teatrali; bensì una ricerca infinita (onirica) del proprio ‘io’ e/o di un ‘loro’, come modo di essere in consonanza e in discontinuità col reale. Nonostante la precarietà dell’approccio psicologico-identitario di occultamento e/o esposizione, quanto si addensa in queste pagine, per quanto si voglia cercarne il senso, esibisce indubbiamente un potere regressivo per definizione, le cui dicotomie fra l’una e l’altra parte del testo risultano fittizie… “Sono seduta. Sono di spalle, proprio come la sedia, la testa leggermente china in avanti, le gambe accavallate, le mani sul ginocchio destro. Sono nuda. A nude on a Coca-Cola chair.” Ancor più messi di fronte al ridimensionamento attoriale che approda al gender-queer di quanti non riconoscono in generale il concetto stesso di identità di genere... “È accovacciato carponi sotto la sedia, la sua. È nudo. Procede a quattro zampe girando intorno all’impazzata come un cane che rincorra la coda, la sedia ben salda sulla schiena.” Sebbene non sfugga la volontà autoriale di operare una liberalizzazione da un codice e da uno stile artato, sia sul piano del privato esistenziale che del confidenziale femminile, in quanto simboli e/o archetipi precostituiti, si assiste qui a un gioco combinatorio di reciproca contaminazione fra autrice-attrice, in cui si affabula soprattutto d’angosce esistenziali che si protraggono dalla prima all’ultima pagina (scena), in cui le “azioni a più voci” si incontrano, si sovrappongono, sospese infine sul proprio autoannullamento, seppure entro una credibilità ‘estetica’ e uno stile ‘identificabile’, in cui l’autrice dimostra la sua capacità di giocare col ‘vuoto’… Quand’ecco sul finire l’occhio di bue torna a illuminare la sedia vuota, una Thonet Dijon di ottima fattura usurata dal tempo, unica e vera protagonista della messinscena... (Applausi del pubblico pagante.) L’autrice. Chiara Serani si occupa di ricerca in letterature straniere moderne, traduzione e teorie radicali e scrittura, con particolare interesse verso la poesia anglofona moderna e contemporanea. È autrice di alcune monografie critiche su diversi autori e di numerosi saggi. Attualmente è docente di Lettere e lavora come traduttrice freelance. “Dialoghi della sedia. Azioni a più voci” è la sua prima raccolta poetica.
Id: 3180 Data: 07/10/2023 05:27:42
*
- Cinema
Tutti i film della Festa del Cinema a Roma - Cineuropa News
ROMA 2023 Tutto pronto, o quasi, per la 18ma Festa del Cinema di Roma di VITTORIA SCARPA
25/09/2023 - La manifestazione romana, diretta per il secondo anno da Paola Malanga, si svolgerà dal 18 al 29 ottobre prossimi.
Un’“edizione enorme, un programma miracoloso, una selezione per tutti i gusti”. È la 18ma Festa del Cinema di Roma secondo Gian Luca Farinelli, presidente della Fondazione Cinema per Roma, che con queste parole ha introdotto, venerdì all’Auditorium Parco della Musica, la nuova edizione della manifestazione romana, prima di passare la parola alla direttrice artistica Paola Malanga. La Festa avrà quest’anno un giorno in più di programmazione (dal 18 al 29 ottobre) e si svolgerà in vari luoghi della città, con proiezioni, incontri e dialoghi sul futuro del cinema, mantenendo comunque il suo centro pulsante all’Auditorium. Il programma degli incontri e la composizione della giuria non sono stati ancora definiti (saranno annunciati nei prossimi giorni, insieme ad altri titoli in selezione), ma intanto, ecco il Concorso Progressive Cinema: 18 titoli internazionali in gara, senza distinzione tra fiction, documentari e animazione. Si parte con C’è ancora domani, esordio alla regia dell’attrice Paola Cortellesi, ambientato nella Roma popolare della seconda metà degli anni ’40. Si va poi da Un amor della spagnola Isabel Coixet, al dramma sociale Comme un fils di Nicolas Boukhrief, passando per Un silence di Joachim Lafosse, il debutto alla regia di Leo Leigh (figlio di Mike) Sweet Sue e altre opere prime come Achilles di Farhad Delaram, Avant que les flammes ne s'éteignent di Mehdi Fikri, The Hypnosis dello svedese Ernst De Geer e Toll di Carolina Markowicz. Dalla Germania arriva Black Box di Asli Özge, un ritratto paranoico della società coprodotto dai fratelli Dardenne; dalla Bulgaria, Stephan Komandarev con il suo vincitore del Globo di Cristallo a Karlovy Vary Blaga’s Lessons; un altro titolo dalla Svezia, One Day All This Will Be Yours di Andreas Öhman. Dall’Italia, Holiday di Edoardo Gabriellini, lanciato di recente a Toronto; Mi fanno male i capelli di Roberta Torre, un omaggio alla compianta attrice Monica Vitti (leggi la news); il titolo italo-finlandese La morte è un problema dei vivi di Teemu Nikki. Completano il concorso Fremont di Babak Jalali, dagli Stati Uniti; The Monk and the Gun di Pawo Choyning Dorji, dal Bhutan; The Erection of Toribio Bardelli di Adrián Saba, dal Perù. Questi ultimi due film sono i candidati dei rispettivi paesi ai prossimi Oscar. La sezione non competitiva Freestyle, composta da titoli di formato e stile liberi, include fra gli altri l’animazione di Fernando Trueba e Javier Mariscal, Dispararon al pianista, il titolo finlandese Je’vida di Katja Gauriloff, e poi ancora, il doc Tehachapi girato dallo street artist francese JR in un carcere di massima sicurezza in California, Jeff Koons. Un ritratto privato di Pappi Corsicato, Fela, il mio dio vivente di Daniele Vicari, sul musicista nigeriano Fela Kuti.
In Grand Public, dedicata al cinema per il grande pubblico, si potranno vedere fra gli altri il nuovo mélo di Ferzan Ozpetek, Nuovo Olimpo, una storia d’amore che attraversa il tempo e la distanza; il primo film da regista, di solido impianto civile, dell’attore Michele Riondino, Palazzina Laf, sugli operai dell’Ilva di Taranto; Diabolik chi sei?, il capitolo finale della trilogia dedicata a Diabolik firmata dai Manetti bros.; l’opera prima da regista dell’attrice Margherita Buy, Volare; Te l’avevo detto di Ginevra Elkann e Et la fête continue di Robert Guédiguian. Immancabili le serie: saranno mostrati i primi episodi di Suburraeterna, I leoni di Sicilia (regia di Paolo Genovese), Mare Fuori 4 e La storia di Francesca Archibugi. La sezione Best of, non competitiva, torna a riunire film provenienti da altri festival internazionali, considerati tra i migliori della stagione. Tra questi: la Palma d’oro di Cannes 2023 Anatomie d’une chute di Justine Triet, La chimera di Alice Rohrwacher, The Zone of Interest di Jonathan Glazer, Eureka di Lisandro Alonso, Firebrand di Karim Aïnouz e il documentario Orlando, ma biographie politique di Paul B. Preciado. Infine, si potranno vedere in proiezione speciale il doc High & Low - John Galliano di Kevin Macdonald, sul geniale direttore creativo della Maison Dior; Io, noi e Gaber di Riccardo Milani, sul grande cantautore italiano inventore del Teatro Canzone; Kripton di Francesco Munzi, che prosegue idealmente il lavoro svolto in Futura [+]; il nuovo film di Emma Dante Misericordia, l’ultimo lavoro di Francesca Comencini Tante facce nella memoria, l’esordio alla regia di Kasia Smutniak MUR, e il doc Rule of the Walls di David Gutnik, che segue artisti di ogni estrazione e pratica nell’Ucraina del 2022. Completa il programma la sezione Storia del cinema con documentari, film restaurati e omaggi, in particolare all’attrice Isabella Rossellini e al compositore Shigeru Umebayashi, che riceveranno entrambi un Premio alla carriera. OSCAR 2024
I film europei in lizza per la corsa agli Oscar di CINEUROPA
26/09/2023 - I paesi europei annunciano i titoli che concorreranno per il miglior lungometraggio internazionale agli Academy Awards 2024 Con la 96ma cerimonia degli Academy Awards che si terrà a Hollywood il 10 marzo 2024, i paesi europei stanno iniziando ad annunciare i titoli che concorrerano per il miglior lungometraggio internazionale. Per questa edizione, i film presentati devono essere stati rilasciati nei rispettivi paesi tra l’1 dicembre 2022 e il 31 ottobre 2023, e il termine per la presentazione è il 2 ottobre. Quindici finalisti saranno selezionati dal numero totale di candidature e annunciati a fine anno, prima che l'Academy ne riduca il numero a cinque, annunciandoli come candidati finali a inizio 2024. L'anno scorso, un totale di 92 iscrizioni sono state accettate e 40 titoli provenivano da un paese europeo. Il candidato tedesco, il titolo Netflix Niente di nuovo sul fronte occidentale di Edward Berger, ha finito per aggiudicarsi l'ambito trofeo. Qui la lista aggiornata (i nuovi candidati in rosso) delle candidature europee: Paesi europei.
Paesi non europei, con produzione europea: Belgio: Augure, Baloji (Belgio/Repubblica Democratic del Congo/Paesi Bassi/Francia/Germania/Sudafrica) Bosnia-Erzegovina: Excursion, Una Gunjak (Bosnia-Erzegovina/Croazia/Serbia/Francia/Norvegia/Qatar) Bulgaria: Blaga's Lessons, Stephan Komandarev (Bulgaria/Germania) Croazia: Traces, Dubravka Turic (Croazia/Lituania/Serbia) Repubblica Ceca: Brothers, Tomáš Mašín (Repubblica Ceca/Slovacchia/Germania) Danimarca: The Promised Land, Nikolaj Arcel (Danimarca/Germania/Svezia) Estonia: Smoke Sauna Sisterhood, Anna Hints (Estonia/Francia/Islanda) Finlandia: Fallen Leaves, Aki Kaurismäki (Finlandia/Germania) Francia: La Passion de Dodin Bouffant, Tran Anh Hung (Francia/Belgio) Georgia: Citizen Saint, Tinatin Kajrishvili (Georgia/Francia/Bulgaria) Germania: The Teachers' Lounge, Ilker Çatak (Germania) Grecia: Behind the Haystacks, Asimina Proedrou (Grecia/Germania/Macedonia del Nord) Ungheria: Four Souls of Coyote, Áron Gauder (Ungheria) Islanda: Godland, Hlynur Pálmason (Danimarca/Islanda/Francia/Svezia) Italia: Io Capitano, Matteo Garrone (Italia/Belgio) Lettonia: My Freedom, Ilze Kunga-Melgaile (Lettonia/Lituania) Lituania: Slow, Marija Kavtaradze (Lituania/Svezia/Spagna) Lussemburgo: The Last Ashes, Loïc Tanson (Lussemburgo/Belgio) Montenegro: Sirin, Senad Sahmanovic (Montenegro/Albania/Kosovo/Bosnia-Erzegovina) Paesi-Bassi: Sweet Dreams, Ena Sendijarević (Paesi Bassi/Svezia/Indonesia/Francia) Macedonia del Nord: Housekeeping for Beginners, Goran Stolevski (Macedonia del Nord/Polonia/Croazia/Serbia/Kosovo) Norvegia: Songs of Earth, Margreth Olin (Norvegia) Polonia: The Peasants, DK Welchman, Hugh Welchman (Polonia/Serbia/Lituania) Portogallo: Bad Living, João Canijo (Portogallo/Francia) Romania: Do Not Expect Too Much From the End of the World, Radu Jude (Romania/Lussemburgo/Francia/Croazia) Slovacchia: Photophobia, Ivan Ostrochovský, Pavol Pekarčík (Slovacchia/Repubblica Ceca/Ucraina) Slovenia: Riders, Dominik Mencej (Slovenia/Croazia/Serbia/Italia/Bosnia-Erzegovina) Spagna: La sociedad de la nieve, Juan Antonio Bayona (Spagna/Stati Uniti) Svezia: Opponent, Milad Alami (Svezia) Svizzera: Foudre, Carmen Jaquier (Svizzera) Ucraina: 20 Days in Mariupol, Mstyslav Chernov (Ucraina) Regno Unito: The Zone of Interest, Jonathan Glazer (Regno Unito/Polonia/Stati Uniti) Paesi non europei, con produzione europea Bhutan: The Monk and The Gun, Pawo Choyning Dorji (Bhutan/Francia/Stati Uniti/Taiwan) Cile: Los colonos, Felipe Gálvez (Cile/Argentina/Danimarca/Regno Unito/Francia/Germania/Taiwan) Colombia: Un varón, Fabian Hernández (Colombia/Francia/Paesi Bassi/Germania) Indonesia: Autobiography, Makbul Mubarak (Indonesia/Francia/Germania/Polonia/Singapore/Filippine/Qatar) Iraq: Hanging Gardens, Ahmed Yassin Al Daradji (Iraq/Palestina/Arabia Saudita/Egitto/Regno Uniti) Giappone: Perfect Days, Wim Wenders (Giappone/Germania) Kirghizistan: This Is What I Remember, Aktan Arym Kubat (Kirghizistan/Giappone/Paesi Bassi/Francia) Palestina: Bye Bye Tibériade, Lina Soualem (Francia/Palestina/Belgio/Qatar) Tunisia: Les Filles d'Olfa, Kaouther Ben Hania (Francia/Tunisia/Germania/Arabia Saudita) Turchia: About Dry Grasses, Nuri Bilge Ceylan (Turchia/Francia/Germania/Svezia)
Id: 3176 Data: 27/09/2023 05:41:25
*
- Libri
Michela Murgia ’Accabadora’ – Einaudi 2014
Michela Murgia “Accabadora” – Einaudi 2014 "Nel sole violento di luglio il dolce le cresceva in mano, bello come a volte lo sono le cose cattive". Nella 'atemporalità' del testo non v’è alcuna volgarità se al vuoto ‘nulla’ d’una ragione che ci sfugge sostituiamo il ‘niente’ esistenziale che si allontana dalla materialità di una vita appesa al solo filo dell’esistenza, che la specificità è di per sé prova di confusione arbitraria e ingiustificata. Sì che ‘nulla’ ha valore di negazione surrettizia di ciò che non è mai stato, mentre ‘niente’ è punto fermo di un’accezione della concreta propensione di ciò che è, come di qualcosa di esistenziale che viene meno. Così è della morte che dona e viceversa riceve l’ “Accabadora” figura mitica sarda nell’omonimo libro di Michela Murgia, come a voler stemperare nel riscatto di se stessa il prosieguo della propria vita. Il diritto di ognuno a un’assenza (il nulla) che nella finzione letteraria l’autrice sostituisce con la presenza (il niente) di una realtà sociale molto discussa e in qualche modo discutibile quale l’eutanasia. L’applicazione di quel “libero arbitrio” che è la chiave di volta della propria esistenza, come in architettura lo è la pietra centrale di un arco che al momento opportuno cede all’inganno del tempo e collassa nel vuoto che lo sostiene. Ciò che accade quando all’esigua forza portante, al ‘niente’ surrettizio si sostituisce il vuoto ‘nulla’, di per sé sconfinamento dell’ “essere” nel riconoscimento immotivato del “non essere”. Ma l’autrice non afferma quanto appena detto, tuttavia lo conferma attraverso i suoi personaggi sostenuti da una forza interiore innata, data dalla concretezza di un mito, quello dell’ “Accabadora”, sopravvissuto nel tempo alle evoluzioni e decadenze di quella che ci ostiniamo a chiamare ‘società di diritto’ con fare oltremodo arbitrario della natura esperienziale umana. Nel crescente andamento del romanzo assistiamo peraltro al progredire di un plausibile futuro del temperamento scrittorio dell’autrice nel contesto ideologico dei suoi personaggi, come per un improvviso balzo in avanti con un misto di empatia e d’amore, dal verosimile alla normalizzazione dello straordinario, che non conosce parole adeguate, se non quel certo stare al di sopra degli eventi con uno sguardo che non giudica, cioè mancante di un giudizio ultimo che allora sì, segnerebbe la volgarità di una distinzione inappropriata. Così come la Yourcenar fa dire ad Adriano: “…Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti.”, Michela Murgia s’avvale nell’ “Accabadora” di rinsaldare il mito dell’eutanasia che sostituisce al presunto ‘nulla’ il “niente e/o il tutto” dell’esistenza vissuta. "Ora sei custode del tempo ... come coloro che ti hanno preceduto dovrai rimanere. Più malvagi saranno i tempi, più l'adesione all'antica legge parrà ribellione o sedizione." S.Atzeni. L’autrice. Michela Murgia, scrittrice, opinionista, ha pubblicato per Einaudi “Viaggio in Sardegna”, “Undici percorsi dell’isola che non si vede”, “Il modo deve sapere” che ha ispirato il film di Paolo Virzì “Tutta la vita davanti”; “Accabadora” Premio Campiello e Premio Supermondello 2010, nonché il più recente “Tre ciotole” uscito postumo. Nel 2018 ha presentato un importante ritratto sulla scrittrice Grazia Deledda “Quasi Grazia”. Altresì s’avvale a pieno titolo di far parte di quella esclusività della cultura sarda che in passato ha premiato Grazia Deledda “Canne al vento” e Giuseppe Dessì “Paese d’ombre” che non stento a definire due capolavori, per l’essenzialità d’una scrittura colta quanto esaustiva di quel ‘sentire’ tipicamente isolano che fa dell’esperienza umana un tutt’uno con la natura che la circonda, in virtù dei valori universali debitamente riconosciuti.
Id: 3170 Data: 08/09/2023 06:04:08
*
- Libri
’Romanzo naturale’ - un libro di Georgi Gospodinov - Voland
“ROMANZO NATURALE” – Un libro di Georgi Gospodinov – Voland 2023. “Vorrei che qualcuno dicesse questo è un bel romanzo perché è tessuto di dubbi”, avverte l’autore, ma noi che in letteratura siamo sempre ‘alla ricerca del pelo nell’uovo’, abbiamo trovato inaspettatamente in questo libro di Georgi Gospodinov le risposte che cercavano alle molte domande corrispondenti all’inquisitoria ‘naturale’ del banale quotidiano. Che ne dite, non è forse il caso di immergersi tranquillamente nella lettura di queste pagine schiette e fresche onde affrontare la calura di questa estate infuocata? L’invito non teme di cadere nel vuoto della moda, tutta nostrana, di passare il tempo a smanettare sul cellulare alla ricerca di gossip e/o coniare fake-news per farsi una risata aliena. Al contrario, sollecita Gospodinov, proponendo una lettura ‘rapper e graffitara’ al passo coi tempi che sorprende per l’autoironia e l’incalzante linguaggio fortemente espressivo come cura ‘effervescente’ contro lo stress metropolitano … “La storia naturale non è altro che nominare il visibile (…) indotto dall’evidenza delle cose”. “Che romanzo salterebbe fuori, se riuscissimo a convincere una mosca a raccontare? Non dubito affatto che essa possieda una lingua, naturalmente diversa dalla nostra. (...) La tappa successiva dello studio di questa lingua può essere la capacità di parlare con una mosca. D’accordo, c’è una ragione fondamentale per cui osservo le mosche, che cerco di indagare nei gabinetti e in tutta la storia naturale. È una ragione assillante, (…) questa però rimane in me. Alla mosca nel mio cranio serve un buco” dove introdursi (?), è così. È quanto si pone l’autore nell’osservare tutto quanto accade intorno e gli innumerevoli risvolti che se ne ricava dai comportamenti più leggeri (leggi superficiali) che ci portiamo dietro rendendoci in questo modo alquanto ridicoli e altrettanto umani, a tal punto che quasi non ce ne rendiamo conto. Tuttavia non c’è ragione di preoccuparsi, la diagnosi riguarda ognuno di noi indistintamente, sebbene la cura che suggerisce risulti un poco adulterata, in quanto va a inficiare quello spazio grossolanamente ‘privato’ di un interloquire ‘maccheronico’ che apre al gergale ‘slang’, ‘No Cap’ (rap), e/o ’Cringe’, per dire quello che si prova quando si dice/scrive qualcosa volutamente imbarazzante … “Vivevo con una che passava tutto il suo tempo al cesso. Almeno quattro volte al giorno per un’ora e mezza a volta, ho controllato.[…] Abbiamo avuto conversazioni molto serie proprio in questo modo. Di tanto in tanto quando si zittiva, guardavo dalla toppa. – Il cesso è un posto cupo, bello mio, un buco!” Niente di scandaloso, né di sgradevole o imbarazzante, bensì oltremodo divertenti risultano i ‘capitoli’ di questa non-storia che si vorrebbe romanzata e che invece si snoda nel modo (ormai cool) della raccolta di short-stories che compongono le diatribe di un divorzio sponsorizzato dall’autore stesso e che, come in altre sue narrazioni successive, ha abituato i propri lettori, alle diavolerie contestuali della vita di coppia. Ecco qualche non-titolo ficcante dei capitoli qui inclusi … “L’apocalisse è possibile anche in un solo paese” “Per una storia naturale dei gabinetti” “Solo il banale mi interessa. Nient’altro mi diverte così tanto” “Lista dei piaceri degli anni ’60 /’70/’80” “Tutto finisce in fumo” “Per una storia naturale delle mosche” “Da qualche parte la gente vive in case con due ‘s’” Ed ovviamente tanto altro. Una sorta di ‘diario privato’ e ‘frammenti di ricordi’ trascritti come tanti ‘vuoti a perdere’ che, per ironia della sorte, riempiono il vuoto romanzato d’una strampalata quanto personalissima storia d’amore che si apre e si chiude con un divorzio (quello escogitato dall’autore) nel tentativo quotidiano di scrivere un romanzo ‘naturale’ in cui affrontare tematiche disparate e pur sempre correnti, come la guerra … “La guerra mondiale è inoffensiva. L’apocalisse e la guerra servono solo a distrarre la nostra attenzione. […] Quanto potrebbe succedere a ogni istante è molto più terribile e purtroppo difficile da percepire. Concerne i meccanismi nascosti della Terra e dell’universo. […] Cose non eclatanti come l’apocalisse magari sono già cominciati, malauguratamente non posso descriverne i particolari esatti. Non mi mancano le parole, ma non posso farlo. Non si deve. Sospetto che proprio una descrizione minuziosa ed esatta […] ne metterà in moto i meccanismi.” Siamo alle ultime battute di una cultura letteraria spesso pesante e noiosa del romanzo da collezionare in bacheche polverose, soppiantata dal ritorno al ‘racconto breve’ che in un primo momento non ha riscosso consenso, e che invece sembra risvegliare l’attenzione del pubblico dei lettori alla ricerca di una scrittura da consumare in breve tempo q.b., trasferita all’interno di ‘info’ dinamiche ridotte ai minimi sprechi indispensabili q.b. e, chiamatasi fuori dall’essere partecipe alla trama, ad uso e consumo delle odierne piattaforme ‘social’, soprattutto di facile consultazione e già divenute ‘cult’… “E a Berlino in un gabinetto c’era scritto: ‘Mangiate merda!’ è impossibile che milioni di mosche sbaglino. […] I graffiti nei cessi sono un capitolo a parte della Storia”. “La parete del cesso però è un mezzo di comunicazione particolare. La maggior parte di quelli che lo fanno difficilmente hanno la stessa inclinazione fuori dai cessi. Sono certo che non hanno mai scritto neanche una riga su carta. La pubblicazione comporta altre soddisfazioni. Magari quando uno rimane da solo con sé stesso si mettono in moto meccanismi oscuri, l’istinto primordiale di scrivere, di lasciare un segno.” Aggiungo qui una nota di colore che pone Georgi Gospodinov, colto e fine letterato, alla stregua di artisti referenziati a noi contemporanei, a incominciare da Marcel Duchamp autore di “Orinatoio”; Piero Manzoni di “Merda d’artista”; P.P.Pasolini di "Orgia", "Petrolio" ecc.; A.Artaud "Il teatro della crudeltà"; Charles Bukowski di “Storie di ordinaria follia”, solo per citarne alcuni, insieme a moltissimi altri ai quali andrebbe dedicata una ragguardevole quanto rispettabile rassegna tout-court. Non di meno, infatti, come i suddetti autori, Georgi Gospodinov prosegue con lo spogliare il proprio ‘linguaggio’ e la propria ‘osservazione artistica’ accorciando i tempi della scrittura andando ‘al sodo delle questioni’, quelle stesse che hanno fatto della ‘pop-opera’ una variante di successo e, che oggi più che mai, siamo lieti di riscoprire per la sua appagante attualità … “Le parole - trascrive - servono per afferrare il senso, appena il senso è stato afferrato, le parole possono essere dimenticate. Potessi trovare qualcuno che ha dimenticato le parole, per parlare un po’ con lui”. (Zhuangzi, autore del III sec a. C.) L’autore. Prosatore e poeta Georgi Gospodinov è l’autore bulgaro moderno più acclamato a livello mondiale, vincitore dell’International Booker Prize e del Premio Strega Europeo con il suo ultimo romanzo “Cronorifugio” - Voland 2021. Le sue opere sono tradotte in 25 lingue, tutti i suoi libri sono pubblicati in Italia da Voland.
Id: 3155 Data: 08/08/2023 17:17:41
*
- Libri
’Sacro niente’ un libro di Giovanni Bitetto - Voland 2023
“Sacro niente” un libro di Giovanni Bitetto – Voland 2023 Leggere, studiare, apprendere, ricordare, forse pregare, tutto non sarà servito a niente se ci si perde fra le linee del "sacro" trasferito nel quotidiano chiacchiericcio popolare. Eppure è ciò che dà senso alla profonda intuizione prevalente che noi tutti abbiamo dell’al di là, la cui ‘assenza in presenza’ umanamente sentita dall’autore scandaglia nel profondo degli animi alla ricerca di qualcosa che ancora non sa. Qualcosa che sente aggirarsi nel vuoto assolato del suo meridione, e che tenta di afferrare con le proprie mani e stringerla nei propri pugni serrati, per non lasciarsi sfuggire l’attimo ‘illuminato’ in cui guardare negli occhi la conclusione della propria missione terrena, nel bene e nel male che lo incoglie. Si è qui alla presenza che avvolge il “sacrum facere” della ritualistica divinatoria in cui ciò che si delinea come inesprimibile, assume sembianza oggettiva in una forma, in un luogo, in una figurazione umana. Quand’anche la si voglia d’appartenenza allo ‘spirito’ è pur ad esso che riconduce ogni aspettativa, ogni celato desiderio. Sì che ogni accadimento, ogni ‘presenza in assenza’ dall’esito problematico, rivela una deliberata quanto idilliaca auto-costrizione, individuale e sovrumana, perché onnipresente e ineludibile, lontana nello spazio e nel tempo ancorché umani, ancor più vicina e costante nello “spazio e nel tempo" del sacro. “Aspetti della prassi ritualistica divinatoria – scrive la studiosa Claudia Santi in “Sacra facere” (Bulzoni Edit. 2008) - oltrepassa il livello dello scetticismo pregiudiziale nel suo svolgimento storico-culturale, al fine di rilevare gli elementi di continuità e di cambiamento prodottisi all'interno del sistema di divinazione nel corso di millenni di storia”. Dacché il continuo ristrutturarsi all’interno delle sollecitazioni salvifico-religiose del substrato popolare, al tempo stesso tangibile e immateriale, come qualcosa d’invisibile che non riusciamo a percepire e che pure gioca un ruolo importante sulla psiche, al pari di altre sequenze naturali che segnano lo sviluppo degli avvenimenti sociali e comunitari delle attività umane. Come il flusso e riflusso delle maree, il “sacro” è qui pressoché svelato, nella trama capziosa di questo libro, quale modello ricorrente e simbolico di armonizzazione nel rincorrersi degli eventi; quale contributo alla determinazione temporale dell’immagine naturalistica di riferimento con una certa dose di ovvietà, come se fosse parte del grande contesto dei fenomeni naturali “non umani” e quindi delle successioni di specifici avvenimenti extraumani. In entrambi i casi il “sacro” assume qui l’equivalenza di un fatto naturale ‘oggettivo’, che esiste indipendentemente dalla volontà umana, e nell’altro, come idea ‘soggettiva’ riposta in una volontà suprema indefinibile. Tuttavia le due teorie, per quanto non contrapposte nel libro, si affermano entro uno stesso ‘sacro niente’ che si ripete costante come punto ‘universale’ d’inizio, dal quale “indagare a fondo pulsioni e sentimenti, nell'eterno tentativo di dare un senso all'esistenza” (G. Bitetto). Onde ogni singolo individuo: un padre, un figlio, un'amante, un autista, un barbiere, si presenta completamente solo, “soggetto davanti all’oggetto” offrendosi alla conoscenza o, forse, all’indecidibile, di cui non può stabilire la verità o la falsità. È così per tutte le cose di questo mondo, ma non per il “sacro niente”. In cui - scrive ancora l'autore: “Tutte le cose giungono al termine, almeno nelle forme note. Si esaurirà anche la mia osservazione, perché persino le possibilità dell’animo umano non sono infinite. E non può che concludersi anche il tempo delle nostre discussioni, ciò che lui ha da chiedere. Si stancherà di me, prosciugherà le mie risposte, penserà di aver capito. Sento che questo momento arriverà presto e forse, ancor più, che debba essere io a scrivere la parola fine” (G. Bitetto). Location: In un meridione dimenticato da tutti ma non da Dio, la morte, il lutto e l'amore si intrecciano ai piedi di un blocco di marmo: una statua di Padre Pio si fa portavoce delle esistenze di uomini e donne comuni, personaggi ordinari eppure universali, confessano al santo i propri tormenti, le sofferenze, ma anche i peccati e le abiezioni, che non assolve, non giudica, può solo ascoltare le storie che gli vengono affidate e restituirne ogni singolo dettaglio. L’autore: Giovanni Bitetto (Terlizzi, 1992) vive e lavora a Milano. Ha scritto di letteratura e società per varie testate online. E' editor della rivista culturale Nea Magazine. Ha esordito nel 2019 con “Scavare” (Italosvevo) che gli è valso il Premio POP della Fondazione Mondadori. “Sacro niente” è il suo secondo romanzo.
Id: 3147 Data: 20/07/2023 05:53:26
*
- Società
Bla, bla, bla ...la sfilata dei leccaculi.
Bla…Bla…Bla… la sfilata dei leccaculi.
Se non mi si chiede che cos’è una perdita di tempo, lo so ma se mi si chiede, allora risponderei: non lo so. Eppure lo so bene, eccome se lo so! L’aver assistito in questi ultimi giorni in TV alla sfilata dei ‘leccaculi’ blasonati e non che si sono sperticati in aneddoti vari, in lacrimevoli elogi falsi e ipocriti, o viceversa a invettive odiose e biasimati atteggiamenti di chi non ce l’ha fatta, è alquanto disgustoso; almeno quanto lo è una nazione (non tutta per fortuna) che s’inchina dimentica di aver subito torti irriprovevoli negli ultimi trent’anni, allorché stendeva tappeti al passaggio vellutato dei suoi calzari, neppure dovesse camminare a dieci centimetri da terra o a dieci metri dal cielo. Non c’è che dire quando si vuole a tutti i costi renderci ridicoli sappiamo farlo ‘alla grande’, allora allestiamo matrimoni e funerali allo stesso modo di un talk-show televisivo, a una serata da David di Donatello, quasi si stesse appuntando una nuova stella nel firmamento, quando la si doveva gettare in un buco nero senza fondo e dimenticarsene per sempre. Invece no, erano tutti lì i ‘leccaculi’ con i fazzoletti in mano ad asciugarsi lacrime di coccodrillo da un occhio, mentre dall’altro guardavano già all’eredità sostanziosa a quanto pare, in termini non solo di denari ma ed anche ad accaparrarsi una fetta di adepti malfamati e di per sé già screditati, solo per il fatto di essere saliti, a suo tempo, sul carro del vincitore. E solo perché loro, piccoli piccoli, anzi reietti, non sarebbero stati capaci d’altro che di leccargli il culo. Lo so bene, anche il piagnisteo fa parte della nostra cultura italiana come di nessun altro paese, noi non sappiamo stare zitti neppure di fronte alla morte, perché ci diciamo ‘umani’ e allora ogni cosa a suo tempo, ma ieri sera i ristoranti erano zeppi e qualcuno ne sono certo (io c’ero) ha anche brindato a champagne, ma era solo qualcuno che non aveva niente da perdere e come va di moda dire: “io non sono ricattabile”. Invece no tutti abbiamo almeno uno scheletro nell’armadio o più d’uno. Presto usciranno fuori e allora quell’inferno di cui stanno già lustrando le porte li accoglierà uno per uno, ognuno per i danni che hanno commesso, e/o per le falsità che hanno disseminato, raggiungeranno il ‘girone’ che si sono arredati pensando di poterla fare franca. Del resto bastava guardarli in faccia quando in TV confezionavano i loro sermoni in difesa ora delle scelte volgari, ora di biasimevoli editti, con l’arroganza di chi si mostrava despota assoluto per mezzo del denaro che spargeva, a destra e a manca a quanti, (una masnada di miserabili nullafacenti), che si vendeva per ‘40 denari’, sempre quelli dall’epoca di Cristo, che malgrado abbiano cambiato divisa (dalla lira all’euro) sono ancora in circolazione e che oggi si scannano per accaparrarsene ancora. Ma come dice il saggio: ‘sono maledetti’ perché servono ad acquistare la tua dignità e la tua libertà.
Meditate gente, meditate.
Id: 3129 Data: 15/06/2023 07:09:30
*
- Società
Bla, bla, bla ...
BLA,BLA,BLA … all'Osteria del Tempo Perso Quest'oggi facciamo tappa all’Osteria del Tempo Perso, quand’anche le idee fossero buone (giammai ottimali), purtroppo non risultano suffragate da conoscenza storica specifica, tantomeno da un avanzamento culturale che l’operare all’interno di un Parlamento siffatto dovrebbe (il condizionale è di rigore) ormai aver appreso dalle esperienze maturate nei decenni nelle file di un’opposizione agguerrita. Sicché si è di fronte a una rimarchevole rivendicazione di un passato (vergognoso) giammai riconosciuto che oggi si vuole riportare in auge con tutti i crismi che lo hanno visto sbandierare vessilli e scudetti dei tempi che furono, nelle piazze di quell’Italia che già allora di politico non aveva niente, se non di usurpazione del potere costituito, di prepotenza squadrista, di malversazione verso un popolo che inerme era tenuto all’oscuro delle trame organizzate da quei poteri occulti che si destreggiavano maldestri attraverso il paese, le contrade delle città, i piccoli agglomerati contadini, le minuscole realtà campagnole analfabete, oscurate dall’ignoranza e dalle superstizioni. Davvero non mi sembra il caso di rivendicare oggi una realtà siffatta, semmai di riscattare gli orrori di un passato di cui (a parer mio) dovremmo solo vergognarci tutti, senza esclusioni preferenziali e/o nepotismi di sorta, abbiamo tutti i nostri scheletri negli armadi, mentre affiorano ancora dalle cassepanche le poche cose depredate (leggi rastrellate) alla povera gente che pur nella sua ignoranza pensava di operare a fin di bene: per Cristo, per la Patria, per l’Onore, per il riscatto di una Nazione che sembrava gli fosse dovuta per nascita ma che è storicamente provato non è mai stata. Oggi sappiamo che non risponde affatto al vero quello che si racconta nei libri di storia che si studiano a scuola, la povera gente ha sempre lottato per la sopravvivenza, contro la fame, le epidemie, le carestie; contro la perdita della libertà, gli orrori delle guerre che ancora oggi si combattono nel mondo, mettendo a repentaglio la sopravvivenza di intere popolazioni e ché, non in ultimo, deturpano in modo irreversibile quell’ecosistema che dovrebbe essere salvaguardato. Allora sarebbe opportuno si parlasse di come affrontare questi e altri problemi con buona pace di quanti si alternano nella conduzione dei governi, degli stati e delle superpotenze economiche. Non vi sarà ‘denaro’ a sufficienza che possa ripagare un lungo periodo di siccità, né fermare gli uragani che devastano intere zone dell’emisfero; tantomeno supplire alle innumerevoli morti degli umani e/o l’estinzione degli animali che pure contribuiscono a rinvigorire la natura che ci sostiene. In quanto “animali razionali dipendenti” che svolgono un ruolo ambivalente, la nostra lo sappiamo, per quanto inevitabile sia, è comunque una scomoda presenza; abbiamo bisogno della centralità d’intenti, di sostenerci l’un l’altro, una comunità con l’altra, onde assicurare una buona vita per tutti, senza differenziazione alcuna di colore di pelle, di mescolanza di sangue e senza esclusioni di sorta, di genere, di ‘etnie’ paradossalmente diverse, di negazionismi che offendono l’intelligenza di quanti hanno fatto dell’istruzione un’eccellenza di sviluppo per se stessi e per la crescita comunitaria. Del resto l’incremento economico sostenuto dalla politica in modo così irriguardoso non può portare ad alcun avanzamento della società se non quello di affrancare l’avidità imperante di quanti si arricchiscono a spese degli altri, quei lavoratori subalterni che, vuoi per necessità (famiglia, genitori a carico, pensioni ridotte all’osso ecc.), che per incapacità oggettiva di temperamento o di impossibilità di sostentamento, non possono essere collaborativi e/o sopravvivono con il sostentamento degli altri. Indubbiamente ci si può chiedere: fino a quando? Se è vero che siamo sull’orlo di una catastrofe ecologica quanto umanitaria, che pure sembra insormontabile, dovremmo andare a rileggere (riscrivere) la storia delle migrazioni succedutesi a causa di carestie, di guerre e quant’altro per comprendere quali necessità sono incorse nei tempi andati, e chiederci come, malgrado tutto, l’umanità sia giunta fino alle soglie del nostro millennio, tuttavia senza scomparire dalla faccia della terra. Suggerisco anziché fare le pulci su quanti oggi siedono nel Parlamento insultandosi e maledicendo di essere lì, invece di zappare la terra, di tornare a guardarsi allo specchio, perché s’accorgerebbero che, come dice un vecchio detto romano “anche il più pulito ha la rogna”. E comunque qualche rogna la si sta creando davanti all’opinione pubblica e soprattutto all’estero con le continue chiacchiere da portierato che sempre più spesso finiscono in zuffe fra condomini di uno ‘stabile’ (Parlamento e Ministeri derivati), che non arrivano a fare 2+2, e per i quali la matematica sembra essere un’opinione da contraddire. Come del resto ci ha abituato il web con le innumerevoli ‘fake news’ che mette in rete e che tutti noi ‘ciechi’ seguiamo senza porci domande. Se però avete bisogno di ulteriori 'slogan' che vi facciano sentire meglio, o per darvi una ragione in più per affrontare questa ‘anarchia galoppante’ e/o ponderare il senso della vostra esistenza, eccovi serviti: "Si dice che al mondo ci sia tanta religione per far sì che gli uomini si odino, ma non abbastanza perché gli uomini si amino" - dal film “Angel Heart”: "Quando il mondo ti volta le spalle non devi far altro che voltargli le spalle anche tu" - da “Il Re Leone” Meditate gente, meditate.
Id: 3125 Data: 01/06/2023 17:01:38
*
- Poesia
In ricordo di Sergio Endrigo e la sua Favola delluomo
SERGIO ENDRIGO: 'LA FAVOLA DELL’UOMO'
Nel momento in cui la scena musicale italiana si arricchisce di nuove voci e volti, mentre altre e altri si accomiatano da noi, mi piace ricordarne alcune in particolare che pure ci hanno regalato momenti intensi che possiamo rivivere nell’ascolto delle loro canzoni, riassaporare quel tanto di generoso che c’era nelle loro parole, negli arrangiamenti e nelle musiche scritte appositamente per accompagnare quei sentimenti che talvolta riuscivano a smuovere in noi e a dare forma alla ‘colonna sonora’ dei nostri sogni. Ché, appropriarsi di un motivo, di fare nostre certe frasi d’amore, o ricalcare certe emozioni che noi stessi, ancor giovani, avevamo provate, è sempre stato uno sport molto in voga. Chi altro ci avrebbe suggerito certe frasi ‘spicciole ma ficcanti’ che poi avremmo utilizzate nel linguaggio quotidiano, in situazioni a dir poco, emotive e sentimentali. Quante delle sue canzoni a riascoltarle ancora oggi ci smuovono dentro quei ricordi che giacciono in fondo, o magari in cima, alla nostra anima sensibile e catturano la nostra attenzione, quante? E che il solo riascoltarne le frasi d’avvio riaffiorano alla nostra mente come se le avessimo scritte e cantate noi stessi, ieri, oggi, sempre, e che fanno ormai parte della nostra storia personale, come di quel film che almeno una volta, ci siamo fatti con la regia del nostro cuore, quante? Non sono poi quelle che hanno segnato ‘i migliori anni della nostra vita’: dal titolo omonimo proprio di un vecchio film di William Wyler degli anni ’40 e oggi di una canzone portata al successo da Renato Zero, nonché di una famosa trasmissione televisiva condotta da Carlo Conti, quante? Tra le tante voci che ritornano quella di Sergio Endrigo e le canzoni che ci ha lasciate: “Adesso si”, “Se le cose stanno così”, “Lontano dagli occhi”, “Io che amo solo te”, “Canzone per te”, “Era d’estate”, “Gli uomini soli”, “Marinai”, “Il dolce Paese” ecc. ecc. sono quelle che più ci sono rimaste dentro. Di lui sappiamo che è nato a Pola il 15 Giugno del 19…; ma che importanza può avere l’età, i poeti non hanno età, specialmente quando le loro canzoni sopravvivono ad essi e continuano a regalarci ancora tante emozioni. Dopo diverse attività giovanili ha intrapreso la carriera di cantante al Lido di Venezia: “…era un bar all’aperto (è lo stesso Endrigo a raccontarlo durante una ripresa televisiva), dove un quartetto suonava canzoni italiane per i turisti durante l’estate. Terminata la bella stagione, continuai a cantare in una sala da ballo di Mestre per tutto l’inverno. Mi esibivo il giovedì, il sabato e la domenica. Di orchestra in orchestra e di città in città sono riuscito a sbarcare il lunario per ben sette anni. Alla fine mi sentivo così stanco di cantare per ore e ore di filato con l’unica soddisfazione di ritirare la paga. Così decisi di tentare la strada discografica, ma non fu facile trovare compositori disposti a puntare una lira sulla mia voce, e così decisi di scrivere le canzoni da me”. Una storia semplice la sua, quella di un ragazzo determinato a mettersi in gioco, a cavarsela da solo ed esternare le proprie capacità facendone partecipi gli altri, tutti quei ‘noi’ che alla fine abbiamo cantato e ancora cantiamo le sue canzoni. Divenuto un cantante affermato Endrigo si trovò a raccogliere i frutti di un successo pacato, confidenziale, dalle tante esperienze vissute che man mano si facevano più mature, quasi le sue canzoni volessero sottolineare una sua (e anche nostra), più intensa partecipazione alla vita. Ne ho scelta una che forse pochi ricordano: “Altre emozioni”, di Endrigo / Incenzo - Ed Verba Manent / Noah’s Ark
E siamo arrivati fin qui / Un po’ stanchi e affamati di poesia / Le mani piene di amore / Che non vuole andare via / Abbiamo vissuto e fatto figli / Piantato alberi e bandiere / Cantato mille e più canzoni / Forse belle forse inutili / Altre emozioni verranno / Te lo prometto amica mia / E siamo arrivati fin qui / A cantare per chi vuol sentire / Abbiamo vissuto all’ombra / Di troppe false promesse / Oggi è tempo di pensare / Oggi è tempo di cambiare / E ancora cerchiamo e camminiamo / Sognando negli occhi / Di donne e uomini /…/ Abbiamo attraversato i deserti dell’anima / I mari grigi e calmi della solitudine / Abbiamo scommesso sul futuro / Abbiamo vinto e perso con filosofia /…/ E sono arrivato fin qui / Con questa faccia da naufrago salvato / E questo svelto andare / Da zingaro felice / Valige piene di speranza / Amici perduti e ritrovati / Qualche rimorso e pentimento / Senza rimpianti e nostalgia /…/ Abbiamo attraversato i deserti dell’anima / I mari grigi e calmi della solitudine / Abbiamo scommesso sul futuro / Abbiamo vinto e perso con filosofia /…/ Altre primavere verranno / Non di sole foglie e fiori / Ma una stagione fresca / Di pensieri nuovi / Altre emozioni verranno / Te lo prometto amica mia.
È così che ‘un po’ stanchi e affamati di poesia’ com’eravamo in quegli anni abbiamo apprezzato i suoi testi che, prima ancora di ricalcare un qualche genere di tipo ‘ballata’ aprivano al confidenziale, in cui Endrigo andava raccogliendo i ricordi dismessi, il profumo dei giorni dell’amore, e li trasferiva in versi, nel realizzarsi di una sua visione del mondo, accettandone la buona e la cattiva e pur sempre umana sorte. E che lui stesso dedicava a una sua donna 'ideale' o forse amata, e gli apriva il suo cuore, come a quella: “Marianne che cos’è questa gran voglia che hai di correre.. non ti fermi mai.. se per sognare vendi i tuoi sogni, forse è disperata la tua gioventù (?)” . È così che Endrigo compone, scrive, canta, ponendo in essere un aspetto del ‘sociale’ poco affrontato fino allora, se non dalla canzone di tradizione e da quella cosiddetta di 'protesta' che s'andava trasmettendo in quei giorni ahimè lontani…
“Dove credi di andare” – Ed. Fonit Cetra Music Publishing S.r.l.
Dove credi di andare / Se tutti i tuoi pensieri / Restano qui / Come pensi di amare / Se ormai non trovi d’amare / Dentro di te / Con tante navi che partono / Nessuna ti porterà / Lontano da te / Il mondo sai non ti aiuterà / ognuno al mondo è solo / Come te e me / Dove credi di andare / Se il tempo che è passato / Non passerà mai / Povere le tue notti / Se tu le spenderai / Per dimenticare / Il mondo non è più grande / Di questa città / La gente si annoia ogni sera / Come da noi / Dove credi di andare / Se ormai non c’è più amore / Dentro di te / Con tante navi che partono / Nessuna ti porterà / Lontano da te / Il mondo sai non ti aiuterà, / Ognuno al mondo è solo / Come te e me / Dove credi di andare / Se il tempo che è passato / Non passerà mai / Povere le tue notti / Se tu le spenderai / Per dimenticare.
Endrigo è stato più volte appellato ‘intellettuale’ per quel distacco che dimostrava nell’interpretare le sue canzoni e per quella sua voce stentata, a volte stereotipa che esprimeva in pieno la sua personalità di uomo e di cantautore impegnato in canzoni che non vengono mai riproposte, chissà perché, e che sarebbero di grande attualità, come ad esempio “La guerra”, “Perché non dormi fratello”, “Canzone per la libertà” ecc. ecc. Problematiche queste che egli ha saputo misurare, prendendo l’amore come metro di tutte le cose. Ma anche colui che ha vissuto personalmente le proprie canzoni, riscattandole, una dopo l’altra, nel momento creativo in cui trovava la sua ispirazione, e che dedicava al nome di una donna (di ogni suo amore segreto): “Maddalena”, “Annamaria”, “Teresa”, “Elisa” e le tantissime altre che ci ha raccontate come solo un nostalgico avrebbe potuto fare. Si potrebbe parlare di Endrigo come colui che ha dichiarato al mondo il suo amore ‘per le piccole cose’ che all’improvviso, diventavano ‘grandi’, di una grandezza ricolma di nobili sentimenti di grandi sentimenti, come questa…
“Lontano dagli occhi” – di Endrigo/Bardotti/Bacalov – Ed. Fonit Cetra Music.
Che cos’è? / C’è nell’aria qualcosa di freddo / Che inverno non è / Che cos’è/ Questa sera i bambini per strada / Non giocano più / Non so perché / L’allegria degli amici di sempre / Non mi diverte più / Uno mi ha detto che… Lontano dagli occhi lontano dal cuore / E tu sei lontana, lontana da me / Per uno che torna e ti porta una rosa / Mille si sono scordati di te / Lontano dagli occhi lontano dal cuore / E tu sei lontana, lontana da me… Ora so / Che cos’è questo amaro sapore / Che resta di te / Quando tu / Sei lontana e non so dove sei / Cosa fai dove vai / E so perché / Non so più immaginare il sorriso / Che c’è negli occhi tuoi / Quando non sei con me / Lontano dagli occhi…
Oppure di un Endrigo trovatore che riafferma la validità del nostro folklore: “Il treno che viene dal Sud’, “La ballata dell’ex”, “Vecchia Balera”, “Via Broletto”, “San Firmino” ecc. ecc. ma il discorso infine andrebbe necessariamente a cadere sulla linea tradizionale dell’uomo politicamente impegnato, per poi divagare in concessioni a volte popolari (oggi diremmo populiste); altre fin troppo di parte e comunque poetiche, come ad esempio “La Colomba” da una poesia di Rafael Alberti, e “Anch’io ti ricorderò” dedicata a Ché Guevara, e quella “Camminando e Cantando” adattata da un testo del brasiliano Gerardo Vandré che fece il giro del mondo. Non in ultima quel “L’Arca di Noè” rimasta nell’intercalare di tutti e che gli fruttò il riconoscimento della critica italiana per il miglior testo letterario, oltre alla soddisfazione di vedersi assegnato il disco d’oro per aver venduto un milione di copie nel breve giro di alcune settimane. La ricordate senz’altro anche voi …”Partirà, la nave partirà / dove arriverà / questo non si sa”. Il successivo impegno di Endrigo presenta una diversa silloge di ‘temi’ che egli raccolse nell’album “La voce dell’uomo”, in cui si proponeva e proponeva ai suoi numerosi fan molte domande: “…il primo amore cos’è? Il matrimonio che cos’è? La religione che cos’è? La solitudine cos’è? Che cos’è la libertà se non si gode in gioventù? A volte è tutta una vita la gioventù. Che cos’è la verità? C’è sempre stato qualcuno nella mia vita che ha voluto impormi la sua volontà, che cos’è allora, la libertà?”. A tutte queste domande Endrigo ha sempre dato una risposta poetica: “…dove l’uomo non arriva giungono le parole … pensa, pensa, ragazzi e ragazze che tornano dal mare a raccontare che è finita la paura e partono domani per raccontare al mondo la pura verità”; e sono forse quei ragazzi marinai e quelle ragazze pulite, che abbiamo imparato a vedere nel dare una mano durante e dopo le catastrofi che ha subito il nostro paese. Quei ragazzi e ragazze che si danno una mano per fare quel ‘girotondo intorno al mondo’ che Endrigo auspicava in pace e fraternità. Un Endrigo dall’utopia facile, direste, ma è forse utopia guardare a un orizzonte più sereno dove i popoli si scambiano doni e i giovani si sorridono e si abbracciano felici? È utopia guardare sorgere l’alba o assistere al tramonto del sole con trasporto e gli occhi commossi; oppure assistere al miracolo della nascita di un figlio, o guardare alla trovata pace alla fine di una vita? Tutto questo ci suggerisce “La favola dell’uomo”, dall'album omonimo, composta da Sergio Endrigo, quel suo essere poeta che ha visto, ha ascoltato, ha scritto…
Di uomini soli che non sanno il perché … e donne sole che sognano storie d’amore, ma l’amore dov’è? … giovani soli e ragazze già vecchie chiuse in cucina a inventare minestre ... e vecchi aspettare la morte senza parlare ... per tutti c’è un solo Dio … ma è solo anche Dio”. Colui che nella solitudine creativa dei suoi ultimi anni ha ascoltato 'la voce dell’uomo' anche quando era violenta e uccideva il fratello; 'la voce dell’uomo' più forte del vento della vita e del tempo; 'la voce dell’uomo' che quando chiama, gli rispondo.
Successivamente Endrigo trova una personale autodeterminazione che lo riconduce al mare, a quella ‘isola nella corrente’ che è dentro ogni sua espressione artistica, ragione per cui non è stato sempre facile classificarlo, anche se oggi ci chiediamo perché di questa necessità che già allora non aveva senso. Mentre rilevante importanza assumono altre sue produzioni artistiche realizzate con Giuseppe Ungaretti, Vinicius De Moraes in cui sono raccolte sue poesie e canzoni: “La vita amico è l’arte dell’incontro”, “La casa”, e “L’Arca” in cui sono raccolte alcune canzoni-fiaba di Vinicius indirizzate ai bambini, ma che non dispiacciono neanche agli adulti. È passato un po’ di tempo ma forse vale la pena ascoltare ancora una volta le sue parole con le quali ci parla ancora di sé: “Parlando di me, mi piace la calma, la buona tavola, i buoni amici, i buoni libri, i francobolli, le armi antiche, la natura, gli animali, la pesca subacquea, i luoghi poco affollati; non mi piacciono i dritti, i disonesti, i dilettanti presuntuosi, i seccatori, gli invadenti, le salse agrodolci…”; e lo dice con quella sua voce da narratore convincente che va raccontando le favole di sempre ai tanti bambini che ormai non gli prestano più ascolto, come facciamo noi ormai divenuti grandi, non poniamo più orecchio del resto, a quelle verità intrinseche che un giorno, a un poeta, hanno permesso di scrivere quel ‘La favola dell’uomo” che è divenuta un po' anche nostra… “La voce dell'uomo”, di Endrigo / Jubal / Noah's. Ho sentito la voce del mare / di uccelli e sirene / le voci del bosco del fiume e tamburi / e chitarre di Spagna le orchestre profane / e l'organo in chiesa ho sentito / la voce dell'uomo / anche quando è bugiardo / e tradisce il fratello / la voce dell'uomo / quando parla gli rispondo. / Ho sentito l'urlo di belve / in gabbia e in catene / il passero in cerca di pane il silenzio / della prigione il grido degli ospedali / che nasce e chi muore ho sentito / la voce dell'uomo / che canta per fame / per rabbia ed amore / la voce dell'uomo / quando canta io l'ascolto. / Ho sentito fanfare di guerra / e passi in cadenza / per le strade imbandierate le canzoni / dei soldati di trionfo o di dolore / chi vince e chi perde / ho sentito / la voce dell'uomo / anche quando è violenta / e uccide il fratello / la voce dell'uomo / quando parlo mi risponde / è più forte della tortura e dell'ingiustizia / delle fabbriche dei tribunali è più forte / del mare e del tuono più forte del terrore / più forte del male più forte / la voce dell'uomo / più forte del vento / della vita e del tempo / la voce dell'uomo / quando chiama gli rispondo. La sua è stata una breve stagione, anche se negli anni, negli incontri e negli amori ha certamente incontrato validi colleghi tra compositori e orchestratori e cantanti che lo hanno supportato nel suo 'andare per mari sconosciuti' in cerca dell' 'isola in mezzo alla corrente' che egli stesso negli ultimi anni si era isolato. Lo ricordiamo soprattutto al suo debuttò al Festival di Sanremo nel 1966 con “Adesso sì” e che in quello stesso anno fu cantata anche da un esordiente e sconosciuto Lucio Battisti in una raccolta sanremese della Dischi Ricordi, divenendo la sua primissima incisione discografica. Sempre nel 1966 uscì il suo terzo LP “Endrigo” e comprendeva, inoltre a “Girotondo intorno al mondo”, “Teresa”, “Dimmi la verità”, “Mani bucate”, “La donna del Sud” di Bruno Lauzi, e “La ballata dell'ex”, in cui tratta la guerra partigiana e la fine della speranza che aveva alimentato la lotta alla guerra e quella degli anni '50. Nel 1967 fu ancora a Sanremo con “Dove credi di andare”, abbinato con Memo Remigi. L'anno seguente ottenne la vittoria con “Canzone per te” in coppia con Roberto Carlos e, successivamente partecipò all'Eurovision Song Contest con la canzone “Marianne”. Nello stesso periodo usciva il nuovo LP, sempre intitolato “Endrigo”, che comprendeva, oltre alla vincitrice di Sanremo, classici come “La colomba”, “Il primo bicchiere di vino”, “Dove credi di andare”, “Anch'io ti ricorderò”, “Perché non dormi fratello”, “Il dolce paese”, “Il treno che viene dal Sud”. Nel 1969 Endrigo arrivò secondo a Sanremo, cantando in coppia con la gallese Mary Hopkins ma la sua “Lontano dagli occhi” ebbe un successo stratosferico. L'anno successivo si classificò terzo con “L'arca di Noè” cantata anche da Iva Zanicchi. Un minore riscontro ebbe la sua sesta partecipazione consecutiva al Festival. Nel 1971 si posizionò undicesimo con “Una storia”, abbinato con i New Trolls che ne diedero una versione in stile rock-progressivo. Endrigo tornò più volte a calcare il palcoscenico sanremese, nel 1973 con “Elisa Elisa”, nel 1976 con “Quando c'era il mare” e l'ultima volta nel 1986, con “Canzone italiana” che, diversamente da tutte le altre con le quali aveva gareggiato in passato, non era scritta da lui ma da Claudio Mattone. Questa è dunque “La favola dell’uomo” che Endrigo ci ha lasciato in eredità e di cui dovremmo fare tesoro. Le sue canzoni vengono ancora oggi interpretate da molti giovani cantanti che oltre a riscoprire la validità di certi suoi testi, ce li ripropongono in nuove versioni che nulla tolgono alla 'poesia' di cui sono impregnate le sue parole. Ci resta la sua grande attualità, e il suo essere poeta nel modo in cui ‘le parole’ avevano ancora un senso. Grazie Sergio!
L'intervista qui in parte riprodotta fu rilasciata personalmente all’autore di questo articolo precedentemente pubblicato nella rivista "Super Sound" nel lontano (?), mi scuso ma l’anno non lo ricordo.
Id: 3124 Data: 01/06/2023 08:28:01
*
- Libri
Perché l’intelligenza umana batta ancora gli algoritmi (?)
Gerd Gigerenzer Perché l’intelligenza umana batta ancora gli algoritmi. Raffaello Cortina Editore 2023
In ogni cultura, abbiamo bisogno di parlare del mondo futuro in cui noi e i nostri figli desideriamo vivere. Non vi sarà mai una sola risposta. C’è però un messaggio generale che si applica a tutte le prospettive: nonostante o a causa dell’innovazione tecnologica, abbiamo bisogno di usare più che mai i nostri cervelli. Iniziamo con un problema che ci sta a cuore, trovare il vero amore, e con algoritmi segreti talmente semplici che chiunque può comprenderli.
“Il problema non è l’ascesa delle macchine “intelligenti”, ma l’istupidimento dell’umanità”. (Astra Taylor)
Id: 3113 Data: 08/05/2023 14:42:22
*
- Cinema
Al Cinema con Cineuropa News
In collaborazione con Cineuropa News
Recensione: "La quattordicesima domenica del tempo ordinario" articolo di Vittoria Scarpa
04/05/2023 - Pupi Avati torna nel terreno della nostalgia con il suo nuovo film, che dichiara essere il suo più sincero e autobiografico, su un amore assoluto e i sogni che svaniscono.
Gabriele Lavia e Edwige Fenech in La quattordicesima domenica del tempo ordinario Il tempo ordinario, nel calendario liturgico della Chiesa cattolica, è il periodo che intercorre tra la Quaresima e l’Avvento, abbraccia la primavera e l’estate, ed è la stagione in cui solitamente ci si sposa. Suona criptico il titolo del nuovo lungometraggio di Pupi Avati, da oggi in circa 300 sale italiane distribuito da Vision Distribution, ma in realtà basta fare due conti: La quattordicesima domenica del tempo ordinario – lo ha spiegato lui stesso alla presentazione del film a Roma – indica il 24 gennaio del 1964, giorno il cui il veterano cineasta bolognese (oggi 84 anni e più di 40 film per il cinema al suo attivo) sposò “la più bella ragazza di Bologna”, dopo averla rincorsa per quattro anni. Ed è proprio attorno a un amore assoluto, prima idilliaco e poi sofferto, e ai sogni che svaniscono, che ruota l’ultima fatica dell’instancabile regista, che avevamo lasciato nemmeno un anno fa alle prese con Dante, e che qui torna nel terreno che gli è più congeniale: quello della nostalgia. Il film si apre con un’immagine poetica, in bianco e nero, di un vecchio chiosco di gelati attorniato da bambini sorridenti, ciascuno col suo cono in mano. È la Bologna del secolo scorso, ed è in quello stesso chiosco – “dove le cose che sognavi, accadevano” – che Marzio conoscerà Sandra, versandole un frappè addosso. La storia si svolge tra gli anni ’70 e i giorni nostri, prima quando i giovani Marzio e Sandra si amano e coltivano i loro sogni – lui quello della musica, insieme al suo migliore amico Samuele, e lei quello della moda, come indossatrice – e poi quando, dopo molti anni, si rincontrano a un funerale e tracciano un bilancio dei loro fallimenti. Avati e suo fratello Antonio, produttore, giocano ancora una volta con il cast e compongono per questo film un ensemble che definiscono “un mix rischioso ed eccitante”, accostando professionisti, vecchie glorie, volti che non ti aspetti ed esordi: il cantante della band Lo Stato Sociale Lodo Guenzi (già visto in Est - Dittatura Last Minute) e l’attore di teatro classico Gabriele Lavia incarnano Marzio, rispettivamente da giovane e da vecchio; la debuttante Camilla Ciraolo e la reginetta delle commedie sexy degli anni ’70-80 Edwige Fenech sono Sandra, ieri e oggi; l’amico Samuele, che chiude il triangolo, ha i tratti del giovane Nick Russo e del più attempato Massimo Lopez, noto attore comico qui in un’inedita veste drammatica. “Le cose belle son volate via”, ripete la canzone-cavallo di battaglia che i giovani Marzio e Samuele, che formano il duo I Leggenda, sognano di portare al Festival di Sanremo, prima che il più concreto Samuele molli tutto e accetti un posto fisso in banca, mentre Marzio continuerà caparbio a inseguire l’illusione della musica, diventando un rocker agée, malinconico e fallito che si riduce a sponsorizzare prodotti vari pur di ottenere una comparsata in tv con la sua chitarra. Tra gioie e dolori, rammarico e felicità, su un sostrato di profonda amarezza e con picchi di voluto patetismo, questo è il film che Avati dichiara essere il suo più sincero e autobiografico. “Siamo tutti falliti rispetto ai nostri sogni”, afferma il regista che da giovane tentò una carriera come clarinettista jazz. Quanto all’amore, uno crede che sia una garanzia di felicità eterna, e invece “la vita prima o poi ti risveglia”. La quattordicesima domenica del tempo ordinario è prodotto da Duea Film e Minerva Pictures, con Vision Distribution e in collaborazione con Sky.
Otto giurati si uniscono al presidente Ruben Östlund a Cannes di Fabien Lemercier
04/05/2023 - La giuria che assegnerà la Palma d’Oro include Brie Larson, Julia Ducournau, Maryam Touzani, Rungano Nyoni, Paul Dano, Denis Ménochet, Atiq Rahimi e Damián Szifrón La regista Julia Ducournau (© Stephane Cardinale – Corbis/Getty Images), il regista Damián Szifrón (© Gabriel Machado), la regista Rungano Nyoni (© Gabriel Gauchet), l'attore-regista Paul Dano (© Jay L. Clendenin/Getty Images), il regista Ruben Östlund (© Julien Lienard/Getty Images), l'attore Denis Ménochet (© Sabine Villiard), l'attrice-regista Brie Larson (© Randy Holmes/Getty Images), il regista Atiq Rahimi (© Frédéric Stucin) e la regista Maryam Touzani (© Lorenzo Salemi) (© Festival de Cannes)
Questo articolo è disponibile in inglese. The members of the official competition jury at the 76th Cannes Film Festival (16-27 May), chaired by Swedish filmmaker Ruben Östlund (see the news), have now all been unmasked. The jury will comprise a total of nine members. There are four women involved, with US actress-director Brie Larson (winner of the Oscar for Best Actress in 2016 for Room), French filmmaker Julia Ducournau (Palme d’Or in 2021 with Titane), her Moroccan counterpart Maryam Touzani (in the Un Certain Regard showcase in 2019 and 2022 with Adam and The Blue Caftan) and British-Zambian helmer Rungano Nyoni (who rose to fame in the Directors’ Fortnight in 2017 with I Am Not a Witch). Also being summoned to judge the 21 films in the running for the 2023 Palme d’Or (see the news) are US actor Paul Dano (seen last year in The Batman and The Fabelmans), his French counterpart Denis Ménochet (very popular recently in The Beasts), Argentinian director Damián Szifrón (Wild Tales and currently on the cinema listings in France with To Catch a Killer), and Afghan author and filmmaker Atiq Rahimi (who won an award in Un Certain Regard in 2004 with Earth and Ashes, and who took part in Toronto with The Patience Stone and Our Lady of the Nile). As a reminder, the Un Certain Regard jury will be chaired by John C Reilly (see the news), and the one weighing up the short films and the Cinef selection will be presided over by Ildikó Enyedi (see the news). As for the Caméra d’or jury (handed to the best feature debut in any of the selections), it will be chaired by French thesp Anaïs Demoustier, who will be backed up by actor Raphaël Personnaz, DoP Nathalie Durand, writer-director Mikael Buch, Sophie Frilley (TitraFilm) and journalist Nicolas Marcadé.
Intervista a Soňa G. Lutherová • Regista di A Happy Man
"Quando fai un film come questo, hai una responsabilità" di Marta Bałaga.
04/05/2023 - La regista slovacca racconta la storia di una famiglia che affronta un cambiamento, insieme.
Questo articolo è disponibile in inglese. After coming out as trans, Marvin finally seems like A Happy Man. With his husband, Ivan, they decide to stay together and continue raising their kids. But things are bound to be different, even despite their bond. Director Soňa G Lutherová unpacks her Hot Docs-screened documentary. Cineuropa: Marvin is transitioning, but your film is also about a couple – about two people trying to love each other despite a massive, life-altering change. Soňa G Lutherová: You know what? That’s exactly what interested me. We have known each other for quite some time; we met in 2008 at the airport, by complete chance. I was going to Stockholm with my now-husband, and they were moving to Sweden. This perfectly average, normal-looking couple. We became friends and started to have kids. Marvin came out in 2017, which at first was quite surprising to me, a cis-gender person living in a heteronormative relationship. At the same time, I realized we are all constantly changing. I am different as a mother, as a filmmaker and as an anthropologist. This is something we can all relate to, I guess. It feels like, apart from Marvin, no one – including his husband – feels too comfortable discussing it. Was it hard to convince people around him to do that? It was a challenge for Marvin, too. This story started with his transition, so of course, I asked him first, but Ivan had to be on board as well. And he was, from the very beginning. He is a very particular guy, but I think he actually enjoyed it! For Marvin, it was a chance to take control of his story. When you are transitioning, you become dependent on others: there are so many gatekeepers deciding what will happen to you and your body. There were no boundaries, basically, although we often talked about the message of this film. He knew what my perspective was on things and that we wouldn’t be confronting his kids. Stories about transition can be full of pain. But this film is so warm! It’s true – they aren’t so rare any more, but they can be quite tragic. It’s a difficult situation, but I think it’s necessary to show the audience that trans people are just like anyone else: they have to take care of their children, they have their own struggles and their routines. When we started, Marvin already knew he wanted to transition; there weren’t any doubts. This decision wasn’t made lightly, but it was necessary. I wanted to underline that. There is something very practical about this couple’s approach and their hopes for the future. They know it might not work out in the end. Whenever I asked them an intimate question, like when I asked Marvin about their sex life, I kept it in the film. He is reacting to something I said and not just talking about these things on his own. Trans characters are often sexualized, and everything else is just pushed to one side. But it can be so reductive. Family, relationships – these things can be so much more complex, not to mention that everyone understands them. I hope this film will make the audience think about what it means to have a partner, to be a parent. Why the decision to have Marvin record short videos on his own? Was it because you simply couldn’t enter some spaces? It started right after the operation. I would never have shot the procedure itself – to me, it would have put too much emphasis on the body. But we went to Malmö together, and I walked him to the hospital, which you don’t see in the film. I did it as a friend, not as a filmmaker. Later, he sent me this video, on his own, and it made me very emotional. It’s so powerful in its spontaneity. Then he continued to do it, whenever he felt like sharing something. Like when he had to shave for the first time. Did you always know when to step aside? It can be trickier when you actually know the person. We talked about it a lot. As an anthropologist, I think a lot about how I position myself in the story. Am I crossing any boundaries? Whose voice are we listening to? Marvin and Ivan are pragmatic people. They see things very clearly. I think sometimes I was being more careful than they were! There is a responsibility that comes with making a film like this, about a topic that’s still controversial in Central Europe. Even more so today. You don’t really show any nasty reactions to Marvin. It was shot in Brno [Czech Republic], and they were a bit anxious, but in the end, it went well. I don’t know how it would have been in Slovakia. Maybe the same? When we started, the situation was different. Now, these discussions can get very heated. If someone is strictly against it, I don’t think I can change their mind. But maybe I can convince the ones in the middle? We wanted to depoliticize it: it’s a simple family story. A love story, even though we don’t know how it will end. Then again, it has already ended well, in a way, because of the respectful way they are facing it all together.
Id: 3112 Data: 05/05/2023 07:56:22
*
- Alimentazione
Linkiesta Eccetera 3 - un numero dedicato al Viaggio
Linkiesta Eccetera - Magazine N°3 – Primavera 2023
In questo numero de Linkiesta Eccetera dedicato al viaggio – inteso come esplorazione dell’altrove tra moda, design, arte, filosofia, metaverso e avventure interplanetarie – la prima destinazione è proprio la copertina.
Basta inquadrarla con il filtro Instagram collegato a Qr code per essere teletrasportati nel mondo animato dell’artista Okuyama Taiki, che conduce lo spettatore lungo le tappe di questo Rinascimento psichedelico di primavera.
Si parlerà del potere degli psichedelici, di design nomade, di Marocco come meta tra arte e artigianato e del tour mondiale della moda che sceglie di sfilare nei Paesi emergenti per esplorare nuovi mercati e nuove culture.
Linkiesta Eccetera si trova nelle migliori edicole di Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna, negli aeroporti, nelle stazioni e nelle librerie di tutta Italia, ma la si può acquistare direttamente qui sullo store de Linkiesta, senza costi di spedizione, e riceverla comodamente a casa.
Id: 3104 Data: 13/04/2023 17:25:49
*
- Musica
Adams Passion di Arvo Part a Roma
Roma, Adam’s Passion, 01/04/2023 “Peccato originale” di Stefano Ceccarelli in collaborazione con L’ape Musicale - Rivista di musica arti e cultura – www.apemusicale.it 06 Aprile 2023
Quinta opera in cartellone, “Adam’s Passion” di Arvo Pärt testimonia l’encomiabile impegno del Teatro dell’Opera di Roma nel presentare al pubblico musica contemporanea. In questo caso, anzi, l’edificio della Nuvola si presta ad ospitare la prima italiana dell’ultimo sforzo del compositore estone, opera che nasce come una collaborazione con il regista Robert Wilson. Frutto di una recente, spiccata sensibilità della direzione artistica del Costanzi verso il panorama operistico contemporaneo, la prima rappresentazione italiana di “Adam’s Passion” di Pärt si staglia come una delle novità più interessanti cui il pubblico romano abbia occasione di assistere. Concepita come un collage di pezzi quasi tutti nati per differenti contesti, la partitura di Adam’s Passion è una sorta di summa, innanzitutto spirituale, della musica di Pärt. L’opera narra della cacciata di Adamo dall’Eden, del suo tradimento verso Dio, e riflette l’adesione alla chiesa ortodossa del compositore, la cui conversione si situa nell’ormai lontano 1972. Da allora, Pärt ha cercato un linguaggio musicale nuovo ma, soprattutto, ispirato all’universo mistico della religione cristiana ortodossa. Non stupisce trovare, dunque, fra i testi della partitura, un Lamento di Adamo scritto da un carismatico monaco ortodosso, Silvano dell’Athos, nei primi anni del ‘900; anzi, la vicenda di Adamo va proprio letta sulla base delle parole di Silvano, che sono incentrate sul sentimento straziante della nostalgia per la perdita della grazia primigenia. L’universo visivo creato da Robert Wilson per Adam’s Passion è essenziale tanto quanto lo stile musicale di Pärt. Si distinguono nettamente due momenti: prima e dopo la ‘passione’ di Adamo. La parte più riuscita dello spettacolo, a mio avviso, è proprio la prima. In una dimensione di luce, tenue e diffusa, si muove il ballerino Michalis Theophanous, lento e ieratico. La completa nudità, sfumata da giochi di luce chiaroscurale, incarna la purezza dell’uomo primigenio appena creato da Dio; Pärt, per questa dimensione edenica sospesa, inventa Sequentia, l’unico brano appositamente composto per l’opera. Sequentia si basa su una linea melodica discendente del violino, puntato da lievi percussioni, in struttura canonica, ripetitiva. L’effetto complessivo è irresistibilmente ipnotico e si fa perdonare, forse, l’eccessiva dilatazione temporale della sequenza, che intende, con ogni probabilità, suggerire proprio il tempo sospeso (si notino anche i movimenti rallentati del ballerino) della vita di Adamo nell’Eden. Il secondo brano è un coro su parole di Silvano dell’Athos (Il lamento di Adamo), che accompagna il momento in cui Adamo compie il peccato: lo stile musicale è ancora profondamente influenzato dalla musica sacra antica, con un’asciutta e cantilenata interpretazione moderna. La scena si movimenta con la comparsa di una figura femminile, l’eterea Lucinda Childs, che potrebbe rappresentare Eva – i personaggi sono caratterizzati da una certa dose di ambiguità nei ruoli, certamente voluta da Wilson. Sulla scena viene calato un albero ribaltato, allusione chiara a quello della conoscenza del bene e del male al centro dell’Eden, così come descritto in Genesi. Le figure femminili diventano tre (con l’aggiunta della Kosmônina e della Marts): allusione forse anche alla componente divina ed angelica? Adamo scompare sul fondo: ha commesso il peccato. A livello registico, tanto quanto musicale, è forse in questa cesura essenziale, il peccato originale di Adamo, che è mancata una più marcata, decisa caratterizzazione. Lo stile musicale sospeso, ripetitivo, sacralmente monotono varia impercettibilmente e perde, forse, le possibilità diegetiche offerte dal racconto biblico. In effetti, la scelta di incorporare, dopo Il lamento di Adamo, Tabula rasa (1977), pezzo per due violini, orchestra d’archi e pianoforte, è interessante, ma, appunto, non così netta da sottolineare l’evento della ‘tragedia’ del peccato – ciò non toglie che l’esecuzione dei due solisti, V. Bolognese e. F. Malatesta, sia in ogni caso ragguardevole. La gestione registica dello spazio di Wilson si addensa, in questa seconda parte, di simboli. Prima una piccola immagine di una casa sospesa, che rappresenta l’Eden oramai non più raggiungibile, poi una casa sullo sfondo, che allude alla Terra dove l’uomo è oramai costretto a vivere, in precario equilibrio – questo il senso degli oggetti che una delle comparse dei bambini porta sul capo. Sulle note del Miserere (1989-1992), ben eseguito dall’ensemble (voci soliste: Y. Choi, M. Pärna, R. Mikson, R. Vilu e H. Tiisma), si compie la tragedia dell’inizio dell’umanità. Adamo-Theophanous ricompare vestito, attestando l’irrimediabile perdita della purezza originaria; danza sorreggendo sommessamente una scala, che non lo porta a nulla: il paradiso è oramai inaccessibile. I bambini rappresentano l’inizio del popolamento umano della terra, inizio traumatico, fatto di unioni matrimoniali ma anche di morte, come nel racconto di Caino ed Abele (ad un certo punto compaiono due bambini che imbracciano dei fucili). Frattanto, Wilson ha deciso di caratterizzare questo secondo grande quadro con uno sfondo in cui, al posto di una luce diffusa, si utilizzano dei fari, variamente combinati, a sottolineare, ulteriormente, la perdita di tale purezza – nell’ultimo quadro pare di avere un mobile cielo stellato sullo sfondo. Ultima invenzione registica è quella di una serie di comparse, in tunica nera, che incarnano l’umanità post-edenica: come il loro progenitore portano un ramo di ulivo, ma non in elegante equilibrio sul capo, a testimoniare l’armonia uomo/natura, bensì in un’atmosfera cupa, che nulla ha della grazia incontaminata di un Eden perduto e che grida lo strazio del perdono.
Id: 3102 Data: 07/04/2023 15:27:06
*
- Musica
Julia Bullock ... una voce dalle stelle.
Julia Bullock ... una voce dalle stelle. in collaborazione con Nonesuchnews
"Ci sono momenti in cui ci troviamo isolati e soli, o nella riflessione e nella solitudine", scrive Julia Bullock nelle note di copertina del suo album di debutto da solista, 'Walking in the Dark'. "Ci sono altri momenti in cui scegliamo di connetterci per capirci ulteriormente, il che ci offre l'opportunità di condividere le nostre identità in evoluzione - forse anche meglio capire come comunicare. E chissà... se le nostre intenzioni sono tradotte abbastanza bene e sono chiaramente a fuoco, potrebbe portare a momenti di illuminazione." Il suo potere espressivo, la gamma e la verità del suo canto lasciano un'impressione indelebile", afferma il presentatore di Stephen Rodgers: "Non posso fare a meno di pensare che se Connie Converse, autrice del brano "One By One" in cui Julia Bullock si esibisce con Christian Reif al pianoforte nel suo nuovo album, "Walking in the Dark", con l’arrangiamento di Jeremy Siskind, potesse solo sentire questa registrazione luminosa, se solo sapesse che le sue canzoni avrebbero finalmente brillato come il sole, ne sarebbe contenta. Sentirla poi cantare, con Christian Reif al pianoforte che esegue "I Wish I Knew How It Would Feel to Be Free" di Billy Taylor, e ancora, accompagnata dalla Philharmonia Orchestra "Knoxville: Summer of 1915" di Barber incluso nell’album ci si rende subito conto della sua espansione vocale da soprano risonante, con accenni a Nina Simone, a Lorraine Hunt Lieberson e, nella sua intensità e presenza a Maria Callas." Mark Swed del Los Angeles Times ha scritto nel lungometraggio che la vede in veste di concertista: "How Julia Bullock Became an Essential Soprano for Our Times", in vista della sua performance in John Adams (Composer) 'Girls of the Golden West' ancora con la Philharmonia Orchestra ben si denota la sua voce di soprano risonante. In seguito, parlando del suo album di debutto da solista, "Walking in the Dark", scrive: "Alla fine della registrazione, potresti sentire il mondo in modo leggermente diverso, con la tua percezione un po' cambiata, la tua ricettività un po' migliorata, il tuo senso di meraviglia un po' migliorato. ”
'Walking in the Dark' ... un album da non perdere.
Id: 3100 Data: 05/04/2023 04:06:50
*
- Musica
Thomas Adès’ ‘Dante’— a ballet score in three acts.
Musica – in collaborazione con Nonesuch Records
Thomas Adès "Dante" - una colonna sonora di balletto in tre atti basata su 'La Divina Commedia' di Dante Alighieri.
La colonna sonora è stata registrata da LA Phil e dal suo direttore musicale e artistico Gustavo Dudamel in concerto alla Disney Hall per la prima registrazione, prevista il 21 aprile su Nonesuch. Puoi preordinare e ascoltare una sezione di "Inferno" su https://thomasades.lnk.to/dante
"Dante" è stato eseguito per la prima volta al Royal Opera House come parte del "The Dante Proget” dallo Studio Wayne McGregor per il Royal Ballet, con l'Orchestra della Royal Opera House e con disegni dell'artista visiva Tacita Dean. L'edizione limitata in vinile a due LP della registrazione di LA Phil include opere d'arte di Dean e fotografie della performance della Royal Opera House.
"In qualsiasi nuova lista di grandi partiture di balletto di Tchaikovsky, Stravinsky, Bartok, Ravel, Prokofiev, Britten e Bernstein, 'Dante' deve essere incluso solo per la sua invenzione musicale", esclama il Los Angeles Times. "Non c'è secondo nei suoi 88 minuti che non si delizi. Tutto ciò è inaspettato e voluto. ”
Thomas Adès’ ‘Dante’— a ballet score in three acts based on Dante Alighieri’s ‘La Divina Commedia’—was recorded by LA Phil and its Music & Artistic Director Gustavo Dudamel in concert at Disney Hall for the premiere recording, due April 21 on Nonesuch. You can pre-order and hear a section of “Inferno” at https://thomasades.lnk.to/dante
'Dante' was first performed at the Royal Opera House as part of Studio Wayne McGregor's 'The Dante Project' for the Royal Ballet, with the Orchestra of the Royal Opera House and with designs by visual artist Tacita Dean. The collectable limited vinyl two-LP edition of the LA Phil recording includes artwork by Dean and photography from the Royal Opera House performance.
“In any new shortlist of great ballet scores by Tchaikovsky, Stravinsky, Bartok, Ravel, Prokofiev, Britten, and Bernstein, 'Dante' must newly be included for its musical invention alone,” exclaims the Los Angeles Times. “There is not a second in its 88 minutes that doesn’t delight. All of it is unexpected and wanted.”
Id: 3095 Data: 01/04/2023 07:53:57
*
- Cinema
Novità al Cinema - in collaborazione con Cineuropa News
Novità nel mondo del Cinema - in collaborazione con Cineuropa News
Cristina Priarone • Direttrice, Roma Lazio Film Commission “Una chiave caratterizzante degli anni recenti dell'associazione è proprio una fortissima collaborazione tra film commission e tra le regioni”
di VALERIO CARUSO - 29/03/2023 - Come sta cambiando il lavoro delle film commission? Ce lo spiega Cristina Priarone, la presidente dell’associazione della Italian Film Commissions.
Cineuropa: Parliamo di questo nuovo comitato direttivo dell’associazione Italian Film Commissions, come si è formato questo nuovo team e quali sono le priorità che vi siete dati per i prossimi anni? Cristina Priarone: Ci sono state le elezioni del nuovo coordinamento, che ha una valenza triennale, io sono stata riconfermata come presidente. I due vicepresidenti eletti sono Paolo Manera del Piemonte e Maurizio Gemma della Campania. Si tratta di due film commission che hanno fatto un percorso molto forte. Il Piemonte è stata una delle prime film commission, la Campania ha avuto veramente negli ultimi anni un exploit notevolissimo di presenza di produzioni, di creatività sul territorio, quindi sono molto contenta che ci siano due professionisti così con me. Italian Film Commissions è un'associazione che ha fatto una grande crescita, affrontando man mano tutte le istanze che emergono sia a livello nazionale che internazionale. È un modo di lavorare su cui la capillarità influisce, che va di pari passo con una presenza su tutti i territori italiani e con l'ascolto delle esigenze di tutti i territori italiani, per poi dare una risposta sinergica. Avere un coordinamento ben composto in questo senso è molto positivo. Ci sono delle collaborazioni tra le film commission? Una chiave caratterizzante degli anni recenti dell'associazione è proprio una fortissima collaborazione tra film commission e tra le regioni. Diversi anni fa vi era ancora una dimensione di concorrenza un po' ottusa tra alcune film commission, ma si è visto poi che non era assolutamente la strada vincente, molto meglio lavorare uniti per rafforzare tutti anche perché è davvero una vittoria come paese. Inoltre ormai sullo stesso progetto spesso c'è la convivenza di fondi diversi e di riprese in territori diversi, quindi questo porta un'automatica collaborazione. È un valore molto importante ormai consolidato ed entrato nel DNA dell’associazione e delle nostre strutture. Questa collaborazione ha portato a vincere un bando Mic per un progetto cinema a km zero di educazione all'immagine, una formazione per insegnanti. Questa problematica del green shooting è una cosa che viene incorporata sempre di più dalle film commission, immagino. Assolutamente, è un elemento molto importante per noi, ormai tanti territori hanno questo tipo di attenzione. Come associazione naturalmente abbiamo delle film commission che agiscono da stimolo più di altre in questo senso, come per esempio il Trentino e la Sardegna, ma diciamo che ormai il green shooting è un'esigenza fondamentale che è ben presente finalmente sui territori e che trova attraverso i fondi regionali una leva di incisività molto efficace. Ormai molte regioni danno più risorse in funzione di un'attenzione ecologica, quindi è una realtà connessa direttamente alla dimensione dei fondi. Non c’è obbligatorietà quindi, c’è un bonus? Dipende un po' dalle regioni, dalle film commission e dai loro regolamenti, diciamo che in linea di massima i territori si stanno organizzando così come avviene sulle nuove professioni per cui, per esempio, si sta creando la figura del gender manager o la persona che controlli che ci sia il rispetto di tutte le istanze anche sulla diversità. Abbiamo avuto bisogno di Covid manager, allo stesso modo si sta creando anche la professionalità del green manager. Di fronte a nuove tematiche e nuove istanze, il settore ha poi bisogno di organizzarsi quindi la logica del bonus consente proprio un processo di trasformazione, poiché non è detto che sul territorio ci sia modo di avere per forza scenografie ecologiche. In quanto osservatrice delle produzioni che si svolgono nel Lazio ma anche a livello nazionale, dalla fine del Covid come si sta muovendo la produzione in Italia? C'è più produzione, e che tipo di produzione? Ci si sta spostando come in altri paesi sulle serie televisive finanziate dalle piattaforme? La serialità è entrata fortemente nel nostro paese a livello produttivo. C'è anche una bella crescita dei documentari secondo me, ma diciamo che nell'insieme c'è un momento di vitalità creativa anche grazie alle piattaforme da cui tutti ci aspettavamo progetti solo mainstream. Invece abbiamo avuto alcune produzioni anche di ricerca, di attenzione diversa e questo ha aperto a tante dinamiche, anche alla nascita di autorialità diversa. Si pensi a un progetto come Sanpa [+], a un tipo di produzione che forse prima mancava. Questo processo ha tirato fuori nuovi talent italiani sulla ribalta internazionale. C'è tutta la parte di giovani attori e giovani attrici che hanno potuto avere successo grazie alla nuova realtà delle piattaforme e delle serie e del nuovo rapporto con il nostro paese. Cineuropa ha raccolto testimonianze di produttori europei che dicono che non si trovano maestranze. È una cosa che succede anche in Italia? Assolutamente, c'è una grandissima richiesta e spesso alcuni ruoli mancano, è difficile trovare organizzatori, segretari, amministratori, segretari di edizione, location manager. C'è una grande ricerca nuove professionalità, anche per tutta la parte del digitale. C'è un tale rinnovamento anche tecnologico per cui c'è necessità di formare nuove professionalità. Le nostre maestranze vengono coinvolte in produzioni internazionali che non si svolgono in Italia. Chiaramente abbiamo bisogno di formarne altri. È un tipo di know how molto pregiato, approfondito, che non è semplice rimpiazzare. Quindi è un'ottima occasione questo flusso di produzioni, sarebbe bene rispondere creando nuove professionalità e facendo sì che lasci sul territorio italiano anche un nuovo motore produttivo, creativo e a livello di maestranze. Invece, per quanto riguarda la Roma Lazio Film Commission, quali sarebbero le prossime novità o attività che state preparando? Come Roma Lazio abbiamo sempre un lavoro molto intenso sullo sviluppo della coproduzione, in questo siamo stati pionieri e da molto tempo, tanto che poi il nostro lavoro ha portato a consolidare nella nostra regione uno dei più importanti fondi europei sulla coproduzione. Abbiamo un’importante collaborazione con Berlino Brandeburgo, con Medienboard, proprio sulla coproduzione e sulla serialità televisiva. Abbiamo già fatto un grosso incontro a Roma a giugno scorso e avremo una prossima attività a Berlino sempre riguardante le piattaforme, lo scambio di progetti, un lavoro di collaborazione naturalmente ad alto livello anche con il supporto delle film commission. Oltre a questo nostro focus abbiamo una promozione capillare del territorio costante, un lavoro sulle location che non solo va avanti in maniera accurata ma anche si rinnova sempre su nuove corde, perché per noi è importante dare una fruizione a livello tecnico delle location, intendo una grande varietà, una mappatura costante. Noi abbiamo un database di location ormai enorme, capillare in tutte le parti della regione ma è anche necessario fare un lavoro di suggestione e di attrazione proprio per farle capire. Abbiamo lavorato per esempio sugli alberi centenari per usarli come location, abbiamo un patrimonio in questo senso nel Lazio incredibile. Daremo il via a un'iniziativa che si chiama I Posti Parlanti in cui oltre a promuovere la location se ne fanno capire, agli operatori audiovisivi ma anche al pubblico e ai cittadini di tutti gli altri settori, tutte le altre connessioni, gli altri contenuti, gli altri angoli di lettura, culturale, naturalistico, storico o contemporaneo. Il progetto sugli alberi secolari è arrivato in finale a Makers and Shakers, un premio sulla migliore iniziativa sulle location a Londra. Ricordiamo quanto è il fondo di coproduzione? Il fondo di coproduzione è di 10 milioni di euro l'anno. Lazio Cinema International è un fondo aperto a tutta l'Europa e a tutto il mondo, naturalmente bisogna avere un coproduttore del Lazio, metà va al cinema e metà alla TV. I soldi vanno spesi nel Lazio, ma abbiamo un meccanismo non solo legato alle riprese, è un fondo interessante. In totale i fondi del Lazio sono 23 milioni di euro.
Tutto pronto per il Bif&st 2023 di VITTORIA SCARPA
23/03/2023 - Il 14° Bari International Film&Tv Festival si terrà dal 24 marzo al 1° aprile, con anteprime mondiali, film provenienti da tutto il mondo, masterclass e una sezione dedicata alla fiction tv. Gli ultimi film di Gabriele Salvatores (Il ritorno di Casanova [+]), Ivano De Matteo (Mia) e Walter Veltroni (Quando [+]) sono alcuni dei titoli che si potranno vedere in anteprima assoluta al 14° Bif&st - Bari International Film&Tv Festival, in programma dal 24 marzo al 1° aprile nei più bei teatri del capoluogo pugliese (Petruzzelli, Piccinni, Kursaal, Margherita, Van Westerhout). Diretto come sempre da Felice Laudadio, e presieduto quest’anno dal regista tedesco premio Oscar Volker Schlöndorff, il Bif&st 2023 schiera 12 film nella sezione competitiva Panorama internazionale, la cui giuria ha come presidente onorario il regista iraniano Jafar Panahi; 8 titoli nella sezione non competitiva Anteprime internazionali, selezionati fra la produzione mondiale più recente e totalmente inediti in Italia; 7 lungometraggi nella sezione ItaliaFilmFest/Nuovo cinema italiano, 6 dei quali in anteprima assoluta. Dopo la pre-apertura affidata a un evento speciale in collaborazione con Amnesty International, il documentario sui diritti umani Rumore - Human Vibes di Simona Cocozza, il festival si aprirà con l’ultima fatica del regista premio Oscar Gabriele Salvatores, Il ritorno di Casanova, ispirato al celebre racconto omonimo di Arthur Schnitzler e interpretato da Toni Servillo e Fabrizio Bentivoglio. Tra le Anteprime internazionali si potranno vedere inoltre l’ultimo film di Margarethe von Trotta, Ingeborg Bachmann. Viaggio nel deserto [+], in concorso all’ultima Berlinale, The Kiss [+] di Bille August, Couleurs de l’incendie [+] di Clovis Cornillac, Le Torrent [+] di Anne Le Ny. Tra i titoli in concorso, in lizza per i premi al miglior regista, attrice e attore protagonisti, figurano, tra gli altri, Kaymak [+] di Milcho Manchevski, il candidato britannico all’Oscar 2023 Winners [+] di Hassan Nazer, Driving Mum [+] di Hilmar Oddsson, Amusia [+] di Marescotti Ruspoli, e poi ancora, Storm [+] di Erika Calmeyer, Roxy [+] di Dito Tsintsadze e, fuori concorso, Les Engagés [+] di Émilie Frèche. Le masterclass in programma vedranno protagonisti i sette cineasti premiati con il Federico Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence, ossia Gabriele Salvatores, Fabrizio Bentivoglio, Sonia Bergamasco, Luigi Lo Cascio, Guido Lombardo, Francesco Piccolo, Saeed Roustayi. Dopo la proiezione di Leila’s Brothers di quest’ultimo è prevista una mobilitazionedei cineasti presenti a Bari in solidarietà con i cineasti iraniani perseguitati dal regime degli ayatollah. Tra i film del concorso ItaliaFilmFest, che saranno giudicati da una giuria del pubblico presieduta dalla produttrice Donatella Palermo, il nuovo film di Rocco Papaleo, Scordato, con la cantante Giorgia, e Percoco di Pier Luigi Ferrandini, sul primo stragista familiare della storia d’Italia. Tra gli eventi speciali, la prima mondiale di Samad, primo lungometraggio di finzione di Marco Santarelli (Dustur [+]). Infine la sezione BariFictionF&st, una rassegna di opere televisive prodotte da grandi broadcaster italiani e internazionali: tra le tante, saranno mostrate in anteprima Il metodo Fenoglio, tratto dai “gialli” di Gianrico Carofiglio, la serie franco-belga Sophie Cross e la serie finlandese Next of Kin. Già assegnati, come di consueto, i premi The Best of the Year, conferiti dalla giuria dei critici cinematografici ai migliori film italiani dell’ultimo anno. Tra i talent che ritireranno i loro premi durante il festival, Fabrizio Gifuni (miglior attore protagonista), Tommaso Ragno (miglior attore non protagonista), Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino (miglior sceneggiatura), Barbara Ronchi (migliore attrice protagonista), Lidia Vitale (migliore attrice non protagonista) Elodie (attrice rivelazione), Roberto Andò (miglior regista).
Recensione: “Il ritorno di Casanova” – di Gabriele Salvatores. di VITTORIA SCARPA 28/03/2023 - Nel suo ultimo film, in prima mondiale al 14° Bif&st, Gabriele Salvatores riflette sul tempo che passa, il decadimento fisico e il rapporto tra cinema e vita
La malinconia di Leo Bernardi la avverte anche l’appartamento dove vive, che è interamente demotizzato e iper accessoriato, e che a un certo punto sembra impazzire: le luci si accendono e si spengono da sole, i rubinetti sputano acqua all’improvviso, la tavoletta del bagno rimane bloccata a mezz’aria. Acclamato regista avviato verso il tramonto sia professionale che personale, Leo è il protagonista del nuovo film di Gabriele Salvatores, ha il volto di Toni Servillo e non riesce proprio ad accettare il suo lento declino. E così, mentre cerca di completare il suo ultimo film su Giacomo Casanova, pressato dalle aspettative del suo produttore che teme di perdere l’investimento (Antonio Catania), dalle sollecitazioni del suo montatore che vuole chiudere il film (Natalino Balasso) e dalla rivalità con un giovane cineasta che minaccia di soffiargli il posto alla Mostra del Cinema di Venezia, anche la sua casa manifesta disagio. È questo uno dei tocchi surreali che punteggiano Il ritorno di Casanova [+], il 20° lungometraggio del regista premio Oscar (con Mediterraneo, 1991), liberamente ispirato a “Il ritorno di Casanova” di Arthur Schnitzler. Un lungometraggio costruito come un gioco di specchi tra un regista e il protagonista del suo film (Casanova è interpretato da Fabrizio Bentivoglio), che parla di tempi di gloria andati e di giovinezza perduta, e che Salvatores ammette essere la sua opera più personale. Proiettato in anteprima mondiale al 14° Bari International Film & Tv Festival, Il ritorno di Casanova salta dalla realtà alla finzione grazie al montaggio puntualmente alternato di Julien Panzarasa, distinguendo visivamente le due parti in modo netto: la vita vera, quella di Leo, oggi, che cerca di chiudere il suo film, è filmata in bianco e nero; il set in costume e parrucche del ‘700, che vede un Casanova ormai vecchio tentare miseramente di conquistare una giovane fanciulla (Bianca Panconi), è invece a colori. Mentre lavora, a fatica, al montaggio del suo film, l’ultrasessantenne Leo scopre di avere molto in comune con il suo personaggio principale, perché proprio come Casanova si è trovato di recente a vivere una passione per una giovane donna (Sara Serraiocco), e a dover fare i conti con il tempo che passa. Vanesio, ossessionato dal suo lavoro e dalla fama, Leo è travolto dai ricordi di questo amore che lo ha colto di sorpresa e che non ha avuto il coraggio di abbracciare fino in fondo. Sono tanti i temi che si intrecciano in questa mise en abyme cinematografica, a tratti onirica, sceneggiata da Salvatores con Umberto Contarello (La grande bellezza) e Sara Mosetti (il trio ha già firmato insieme la sceneggiatura di Tutto il mio folle amore): il tema del doppio, il decadimento fisico (qui mostrato con coraggio e senza veli), la forza seduttiva che con il tempo svanisce, il rapporto tra cinema e vita, i capricci e le manie legate al mestiere, il nuovo che avanza. Ci entra anche l’assalto dei giornalisti, che come un esercito avanza a caccia di scoop e che Leo respinge a colpi di fioretto. Servillo e Bentivoglio brillano nei rispettivi ruoli: l’autoironia del primo finisce per rendere simpatico Leo anche nelle sue frivolezze; il secondo restituisce un Casanova che fa tenerezza nel suo rivelarsi totalmente impreparato alla vecchiaia. “Tu sei giovane, ma io sono Casanova”, dice quest’ultimo al suo aitante rivale in amore, ma questa sua ostinazione a voler ripetere se stesso è votata al fallimento. Anche perché, come controbatte idealmente la giovane amante di Leo: “Io ho tanta vita davanti e tutto il tempo per rinnamorarmi di nuovo”. E non poteva essere detto in modo più crudele.
Il ritorno di Casanova è una produzione Indiana Production con Rai Cinema, Ba.Be Productions ed EDI Effetti Digitali Italiani, in collaborazione con 3 Marys Entertainment. Dal 30 marzo sarà al cinema con 01 Distribution. Rai Com cura le vendite internazionali.
Id: 3094 Data: 31/03/2023 08:08:46
*
- Società
Marco Grappeggia … un ‘guru’ della comunicazione Hippy
Marco Grappeggia … un ‘guru’ della comunicazione sulla nostra strada in un libro “Hippy leader Ship Drive – LSD” – Università Unimilano Editrice 2022. Non saprei dire in quanti lo abbiano incontrato in questi decenni che ha attraversato le strade delle Università Popolari avvalendosi dei suoi insegnamenti, ma pochi o molti che siano, sono sparsi (non dispersi) in mezzo a noi che volenti o nolenti abbiamo imparato a conoscerlo allorché ci siamo avvicinati al mondo della ‘comunicazione ufficializzata’ confluita nelle strutture delle scienze applicate. Del resto, per quanto la si volesse superare (leggi stravolgere), non si poteva scantonare dalla rigida struttura ministeriale che una società da tempo istituzionalizzata come la nostra aveva impresso alla conduzione della ‘conoscenza’ tout-court e che quindi il prof non poteva trovare altro spazio che scrivere. Messi “di fronte a un libro non dobbiamo chiederci cosa dica bensì cosa vuole dire”, scrive Umberto Eco; c’è però una diversità d’intenti che va qui sottolineata, e che riguarda l’attestazione di un ossimoro in netto contrasto con quanto affermato, e che – a mio parere – sul finire di quegli stessi anni (1968) lancia un attacco spregiudicato alle istituzioni volendole liberare dai falsi preconcetti d’una società ipocrita e bacchettona. Né sono valsi a molto i movimenti studenteschi e professionali che a tappe alternate sono saliti alla ribalta delle cronache, in Italia e nel resto d’Europa, rifacendo il verso a quelli statunitensi di più ampia portata, che hanno portato allo sconvolgimento giovanile degli anni ’60. Una ‘rivoluzione’ generazionale a tutti gli effetti, fatta di contestazioni universitarie, tafferugli, scontri con la polizia, bombe carta, bombe talvolta vere fornite dagli anarchici a prescindere dal colore partitico cui pure molti appartenevano, divulgatasi anche fra quegli studenti più giovani che in quegli anni accedevano per la prima volta alle classi liceali. Qualcosa di più che la semplice sollevazione degli animi e delle menti contro uno status quo divenuto ormai insostenibile che non aveva più niente da insegnare, se non di ammaestrare le masse da tenere a bada. Mentre, viceversa, queste scoprivano e si scambiavano efficacemente, forse per la prima volta, messaggi di pace e di fraternità con il resto del mondo in tumulto: 1950/1953 guerra della Corea; 1955/1975 guerra del Vietnam; per non dire delle guerre d’indipendenza in America latina prima dell’ultimo conflitto mondiale e dopo, durante la ‘guerra fredda’ che ha visto le due grandi potenze contrapposte Stati Uniti e Unione Sovietica confrontarsi sul piano politico, economico, ideologico e militare, tenendo il resto del mondo con il fiato sospeso, sotto la minaccia di una possibile guerra nucleare, cui ancora una volta assistiamo basiti. Tutto ciò, per quanto si voglia sminuire, ha contrassegnato, nel bene e nel male della sua portata, una svolta decisiva verso quella ‘globalizzazione’, seppure in embrione, tutt’oggi in atto, all’avveduto schiudersi delle menti addomesticate dei giovani di quegli anni, richiamandoli alla ragionevolezza libera da preconcetti, mobilitandoli all’altruismo, alla solidarietà umana, in quanto eredi di quei padri che proprio negli anni ‘60 l’avevano sostenute con enfasi, difese con i pugni e talvolta a denti stretti, perché soffocati dai ‘poteri politici' che li avevano assoggettati al silenzio. Oggi, se di quella rivoluzione è rimasto qualcosa, lo dobbiamo a un ‘guru’ della comunicazione Marco Grappeggia, apparso sulla nostra strada, che nel suo libro “Hippy leader Ship Drive – LSD” – Università Unimilano Editrice 2022, che ha investito i suoi studi professionali sugli eventi che contraddistinsero i ‘movimenti culturali’ di quegli anni, puntando su quello di breve durata ma indubbiamente il più significativo, gli Hippies. Sommariamente più conosciuti come “i figli dei fiori” per il loro modo di acconciarsi, con i loro indumenti decorati con fiori e vivacissime stoffe di colori vivi, hanno segnato il passo nella mods con un notevole impatto sulla cultura, influenzando la musica popolare, la televisione, il cinema, la letteratura e l'arte in generale. La cultura hippy e/o hippie, per chi non la conosce, è stato un movimento di controcultura giovanile che ha avuto inizio negli Stati Uniti d'America nel corso degli anni Sessanta, presto diffuso in Europa e in altri paesi del mondo, avevano ereditato i valori sottoculturali della Beat Generation di fine anni cinquanta che influenzò lo sviluppo della controcultura degli anni a venire, mentre il termine "beatnik" dava spazio a quello "hippy". Personaggi del Beat come Allen Ginsberg (“Collected Poems”), Jack Kerouac (“Sulla strada”), Neil Cassady (“Vagabondo”), J.D. Salinger (“Il giovane Holden”), W.S. Burroughs (“Il pasto nudo”), Lawrence Ferlinghetti (“Little Boy”), divennero un punto fermo dei movimenti di quegli anni che contestavano la guerra in Viet Nam e che tutti noi conoscemmo grazie alla nostra Fernanda Pivano che li tradusse e fece pubblicare in italiano le loro opere. Il loro ideale di pace e libertà è sintetizzabile in slogan quali "Mettete dei fiori nei vostri cannoni" ("Flower power") e "Fate l'amore, non la guerra", che risuonavano in maniera evidente nel periodo. La ricerca sfrenata della totale libertà era il significato insito nel loro stile di vita: dai capelli lunghi, petti nudi, bandane e pantaloni blu a zampa di elefante, ascoltavano rock psichedelico, abbracciavano la rivoluzione sessuale e l'uso di alcuni specifici stupefacenti, come gli psichedelici e la cannabis, al fine di esplorare e allargare lo stato di coscienza. Il movimento Hippie toccò particolarmente l'opinione pubblica, tanto da impressionare le pellicole di molti registi, nonché la musica di molti artisti. Nel Regno Unito, inoltre, gruppi nomadi uniti nelle "carovane di pace" facevano pellegrinaggi estivi ai festival di musica libera a Stonehenge, all’origine dei ‘rave party’ di oggi. Già dai primi anni Sessanta molti aspetti della cultura hippie divennero di comune dominio, sì che la loro eredità può essere osservata nella cultura contemporanea in una miriade di forme: dalla salute alimentare, ai festival di musica, ai concerti rock, ai costumi sessuali contemporanei fino ad influenzare l’attuale rivoluzione del cyberspazio. Nel Regno Unito, molti giovani artisti furono letteralmente trascinati dalla rivoluzione hippie: oltre ai Cream, vi presero parte i Beatles e i Rolling Stones vanno ricordati la Plastic Ono Band, John Mayall, Keith Relf, Chris Dreja, Pete Townshend, Roger Daltrey, John Entwistle, Jimi Hendrix e Mitch Mitchell, Bob Marley e Peter Tosh giamaicani, i canadesi Stephen Stills e Neil Young, il messicano Carlos Santana. Negli Stati Uniti d'America Delaney e Bonnie Bramlett, Janis Joplin, Grace Slick, Joan Baez e Bob Dylan, Crosby, Still e Nash, Johnny Winter e Woody Guthrie, Joe Cocker, oltre ai brasiliani Lulu Santos e Renata Sorrah, che diffusero poi il movimento nel loro paese d'origine. Originariamente il movimento era composto per la maggior parte da adolescenti e giovani adulti bianchi, di età compresa tra i 15 e i 25 anni, che respingevano con forza le istituzioni, criticavano i valori della classe media, erano contrari alle armi nucleari di cui si vociferava con tanto di minacce che avrebbero sconvolto la stabilità del mondo intero; abbracciava aspetti della filosofia orientale, promuovendo la libertà sessuale, erano spesso vegetariani ed ambientalisti, e creavano comunità intenzionali e comuni; utilizzavano arti alternative, il teatro di strada, la musica popolare, e le sonorità psichedeliche come parte del loro stile di vita e come modo di esprimere i propri sentimenti, le loro proteste e la loro visione del mondo e della vita. Si opponevano all'ortodossia politica e sociale, scegliendo una mite e non dottrinaria ideologia che favoriva la pace, l'amore, la fratellanza e la libertà personale incarnata alla meglio dai Beatles nella famosissima canzone “All You Need Is Love”; percepivano la cultura dominante come corrotta, essendo questa un'entità monolitica che esercitava un indebito potere sulle loro vite, e che chiamavano "L'Istituzione", "Grande Fratello", "L'Uomo", rivelandosi "in cerca di significato e di valore ". Studiosi come Timothy Miller descriverono il movimento Hippy come un nuovo movimento religioso, influenzati dal pensiero e dalle azioni svolte da Gesù Cristo, Buddha, Francesco d’Assisi, Ghandi. Scrittori e pensatori dello stampo di H. David Thoreau, Herman Hesse e Walter Benjamin, salirono ben presto alla ribalta dell'interesse generazionale, ma forse fu una scoperta più tardiva da attribuirsi ai pronipoti. Dopo il 1965, l'etica hippy si è diffusa in tutto il mondo attraverso una fusione di musica rock, soprattutto nella variante psichedelica, folk e blues trovando espressione anche nella letteratura, nelle arti drammatiche, nella moda, e nelle arti visive, compresi i film, i manifesti pubblicitari che annunciavano i concerti rock, e le copertine degli album. Nel libro “Rivoluzione psichedelica” Mario Iannaccone sostiene che Ken Kesey stesse coscientemente utilizzando, su più livelli, il modello del Viaggio, tanto importante nella cultura statunitense, rendendo evidente la sua metafora interiore: il Bus dei Pranksters era infatti guidato dal protagonista di Sulla strada (On the Road) di Jack Kerouac. Il viaggio o Trip, dei Pranksters, era contemporaneamente esteriore ed interiore e il suo mezzo era l'LSD. Il film doveva testimoniare questo spostamento di corpi e di coscienze e diventare, per gli spettatori, uno strumento di meditazione. Fulcro della scena hippy statunitense divenne San Francisco, in particolare il quartiere di Haight Ashbury, caratterizzato da edifici vittoriani ampi ed economici. Alcuni dei primi hippy di San Francisco erano ex studenti del San Francisco State College incuriositi dalla nascente scena musicale psichedelica, che si unirono alle band amate per intraprendere una vita comunitaria. I giovani statunitensi di tutto il paese (anche adolescenti scappati di casa) cominciarono a muoversi verso San Francisco, ed entro il giugno 1966, circa 15.000 hippy si erano già stabiliti. Anche i Charlatans, gli Jefferson Airplanes, i Big Brother and the Holding Company, i Grateful Dead in questo periodo si stabilirono tutti nella zona di Haight-Ashbury. Le attività ruotavano attorno ai Diggers, un gruppo teatrale che combinava teatro spontaneo di strada, azioni anarcoidi e improvvisazioni artistiche per raggiungere l'obiettivo di creare una "città libera". Verso la fine del 1966 i Diggers aprirono locali in cui, oltre a organizzare concerti musicali gratuiti e lavori di arte politica, regalavano le loro cose, cibo, droga, e denaro. Il 6 ottobre 1966, lo stato della California dichiarò l'LSD sostanza controllata, ciò che ha di fatto rese la droga illegale. In risposta alla criminalizzazione della sostanza, gli hippie di San Francisco organizzarono un raduno hippy sulla striscia del Golden Gate Park, chiamato Love Pageant Rally, che attirò circa 700-800 persone. Come spiegato da Allan Cohen, cofondatore del San Francisco Oracle, lo scopo della manifestazione era duplice – attirare l'attenzione sul fatto che l'LSD era stata appena resa illegale, e dimostrare che le persone che l'utilizzavano non erano necessariamente criminali, né malati mentali. Secondo Cohen, quelli che assunsero LSD …«Non erano colpevoli di uso di sostanze illegali [...] noi stavamo celebrando la conoscenza trascendentale, la bellezza dell'universo, la bellezza dell'essere». Io mi fermo qui, non tutto è dentro questo libro dell’oggi prof. Marco Grappeggia, ma indubbiamente c’è molto dei suoi ‘trascorsi’ successivi a quegli anni che vogliamo ormai superati e/o lontani da noi, mentre invece sappiamo – come ho detto – essere ‘vivi’ nel nostro presente; fino a raggiungere l’attualità del nostro presente, afferenti a episodi d’incontro, aneddoti, famigliarità con numerose celebrità conosciute attraverso esperienze di vita vissuta. Certi che il prof abbia ancora molte altre cose da raccontare, non rimane che augurarci un ‘ritorno del passato all’attualità del presente’, come avverte lo stesso autore: “leggendolo si compie un viaggio nella storia, quella stessa che ogni giorno scriviamo attraverso i nostri passi, le direzioni e le scelte”, in cui crediamo… “La vita, amico, è l’arte dell’incontro” Vinicius de Moraes L'Autore in breve. Marco Grappeggia presidente dell'Università Popolare di Milano, già leader dei movimenti universitari popolari in prima linea in difesa del principio della libertà nella formazione università internazionale insignito di numerosi riconoscimenti che lo vedono inserito tra le figure più influenti del nostro periodo storico verso un nuovo concetto di modernità.
Id: 3091 Data: 26/03/2023 09:01:59
*
- Libri
’Navi nel deserto’ - un libro di Luigi Weber
“Navi nel deserto” – un romanzo di Luigi Weber - Il ramo e la foglia editore 2023 Al principio dell’avventura di questo romanzo c’è il deserto e non solo, la illuminante storia di un luogo liminare, in cui il tempo fluidifica e le epoche trasmutano, luogo di anamorfosi e anacronismi, in cui ogni umana esistenza trapassa nel mito e il mito scivola dentro l’esistenza dei personaggi che si “…dividono una terra aspra, inospitale, e se la contendono intrecciando odio, pregiudizi, incomprensioni”, lasciando visibili solo «…gli aspetti ora maestosi ora orridi del deserto, le montagne sullo sfondo, le apparizioni vere e illusorie delle oasi.» (Pierre Loti). È qui che s’appressano alle dune più alte i cavalloni di sabbia, in cui le grandi ruote dentate delle navi arrancano nella traversata del deserto arroventato dal sole esaltante una narrazione che si snoda lenta, fatalmente misteriosa, in cui i protagonisti s’agitano fugaci come spettri segnati dagli inflessibili ritmi del tempo che li consuma, come in “…un libro aperto e sollevato contro il sole”, le cui pagine ingialliscono e ben presto bruciano al suo fuoco inarrestabile. “…Uff, il sole! – non ne abbiamo abbastanza di sole, ogni giorno della nostra vita? Se c’è qualcosa che non manca mai, qui, potete giurarci, è proprio il sole.” C’è sempre il sole in ogni mirabile avventura umana, o almeno la sua luce sfolgorante che sfoca ogni cosa d’intorno, in cui lo spazio s'apre sovrano sull’immensità del nulla apparentemente vuoto del deserto, sì che nella transitorietà che anima il tutto, finanche la propaggine smagliante dei sentimenti ne è spazzata via, le sensazioni e le emozioni bruciate dalle contrastanti forze della natura che governano le ore insieme al passare dei giorni e delle notti: “…il pomeriggio non passa mai, e invece così si arrivava a fare sera in un baleno.” Sì ché, nell’impareggiabile dominio dei ritmi del tempo, trasmutano le diverse facce del deserto che il vento spaventoso soverchia sollevandone la sabbia arroventata del giorno; il chiarore della luna domina imperturbabile la notte, il gelo s'affossa nelle ore che precedono l'alba. Sono queste ‘pro-pagine’ a dare il senso della transitorietà della scrittura autorale di Luigi Weber: “…intricata come un labirinto o un arabesco”, narrate in modo terribile e meraviglioso quale frutto d'immaginazione e di follia, in cui ha visto in ogni sedimento un mondo estremo, in ogni granello di sabbia una vita che si consuma. Ma i detriti di ghiaia aguzza che pure cospargono il suolo di questa avventura estrema, altro non sono che i sedimenti di letti di fiumi asciutti, di epoche vissute altrove, di vite pensate all’origine di un mondo che è stato e di cui abbiamo perso il ricordo. Come pensate dalla sua mente creativa sulla scia di un mondo scagliato via che non conserva più nulla del calore e della vitalità della mano gloriosa che lo ha lanciato verso il sole; ancorché i sentimenti aviti dell’autore, innalzati a sostegno di alteri ideali, ricadono al suolo sollevando nuvole accecanti di sabbia rovente. Un romanzo indubbiamente insolito quanto originale in cui si delinea un autentico stile scrittorio, frutto del delirio vibratile del suo artefice capace di metamorfizzare autori noti alla sua conoscenza, quanto alla nostra: Conrad, Melville, Stevenson, Verne, Eco, in personaggi vivi che si ritrovano, al pari di sopravvissuti a una catastrofe geologico-planetaria a interagire in uno scenario post-apocalittico che ha scavato la sabbia tutt’attorno “…alle rocche fortificate alte su speroni di pietra che emergono dalla sabbie come relitti”, che costellano il deserto di oasi distopiche, germogliate da un emozionante e rigoglioso intreccio narrativo… “La mattina del 29 gennaio, per esempio, Conrad, il comandante (della Nave Kairos) stava osservando con curiosità ammirata quanto rapida fosse un’alba nel deserto; da una vasta luminosità diffusa si passava come per incanto all’accecante riverbero del sole, un sole che Conrad, quando abitava nella Rocca, non aveva mai visto tanto basso sull’orizzonte, e non lo aveva mai immaginato già tanto fulgido a quell’ora. (…) Nessuno di loro (sulla Nave Kairos) aveva visto i suoi occhi cerulei colmarsi d’interesse, poi di meraviglia, ascoltando racconti di vita marinara, storie di Navi e di capitani incontrati una sola volta e mai più, storie di cittadelle piccole come un forziere nascosto nella sabbia”. «Ne risultava che perfino sul mare un uomo poteva cadere in preda agli spiriti del male (…) sentirsi sul volto il soffio di ignoti poteri che plasmano i nostri destini» - scrive Joseph Conrad. Destini che si sgretolano come muri di sabbia alla furia del vento, posti alla mercé degli attacchi delle Navi comandate dai Pirati signori della guerra, all’avidità del loro potere e della lotta armata. Destini che s’intrecciano con quelli delle “…Oasi abitate da sereni vecchi sapienti e distaccati, ma soprattutto degli abissi senza fondo del deserto, abissi della mente eppure concreti, su cui viaggiavano le Navi ignare delle metropoli sottostanti, delle immense calli tra i grattacieli spezzati e sepolti di cui alla superficie non restava più vestigia alcuna.” Un romanzo indubbiamente ‘virtuale’ la cui visualizzazione rammenta scene viste di film tecnicamente straordinari come “Il pianeta delle scimmie” (1968), “Mad Max” (1979), “Interceptor” (1981), “Stargate” (1994) la cui ambientazione prefigura situazioni, sviluppi e assetti certamente non in controtendenza con la più avveniristica fantascienza e la tecnologia scientifica del presente, pur tuttavia accesa dalla pre-convinzione che tutti ci portiamo dietro da sempre: «…che i vivi (in quanto sopravvissuti) non si potessero più aiutare, che non esiste crudeltà e umiliazione che ciascuno non fosse in grado di infliggere e di sopportare nella sua fame (atavica), ira, paura o semplice stupidità, (onde per cui) chiunque è capace di tutto» (Publio Ovidio Nasone). «Dove dobbiamo andare, noi che siamo costretti a vagare per queste lande desolate alla ricerca della nostra parte migliore?», fa dire il regista George Miller al principale interprete della serie filmica "Mad Max". La stessa domanda che dev’essersi posto Lugi Weber, autore di questo “Navi nel deserto”, approssimandosi alla convergenza del suo ideale “...in forma di articolo di fede, davanti alla beffa di uno sbaglio mai avvenuto della sua inettitudine, nell’attesa dell’impatto molle e fatale con la sabbia”; con la medesima convinzione che “…se uno di quegli scafi immensi abbandonava i sicuri terreni battuti delle piste poteva insabbiarsi tanto profondamente, dato il suo peso, da essere nella stessa condizione di un natante che affonda, cioè spacciato.” Ma non è questa l’unica guizzante inquietudine che si scorge dalla lettura di queste ‘pagine di sabbia’ così fortemente esposte ai pericoli del deserto e alla potenza inesorabile del sole, aperte come sono “…a interrompere l’orribile silenzio d’incertezza che montava ogni giorno di più dal deserto. (…) In conseguenza di questa certo non logica – ma inizialmente speranzosa – deduzione, della razza, cioè delle più convincenti deduzioni, quelle che vogliono essere credute prima ancora d’essere formulate.” Pagine che per noi, che le sfogliamo meravigliati, sembra di ripercorrere quella particolare intensità dell’esistenza, forse ciò che è il succo delle aspirazioni giovanili della protagonista femminile Freya (alias l'imprendibile Aretusa) e dello stesso capitano Conrad (alias Joseph Conrad de “La linea d’ombra” e dello strabiliante "Cuore di tenebra"), là dove per qualche misterioso motivo si riversa e si spande la luce piena, infuocata del sole, sull’immenso mare del suo autorale 'deserto interiore', che è anche il nostro. L’Autore. Luigi Weber giornalista e membro dell’organizzazione del Festival Internazionale di Santarcangelo dei Teatri, insegna Letteratura Italiana Contemporanea, presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica all’Università di Bologna. Come studioso si è occupato soprattutto di poesia e romanzo sperimentale nel Novecento, di Storia e di Letteratura di viaggio. “Navi nel deserto” è il suo primo romanzo.
Id: 3089 Data: 23/03/2023 17:50:20
*
- Alimentazione
Lupen the Cat / 11 - di quando è scappato di casa
LUPEN THE CAT / 11 ... di quando il mio stupendo gatto nero è scappato di casa, per poi fare ritorno prima che andassi a denunciarne la scomparsa.
L’aveva preannunciato più volte, detto non più tardi di ieri sera, e quando sono rientrato nell’abitazione dopo una serata passata con gli amici, non lo trovo in casa…
«Lupen! Lupen! Micio!, dico alzando di un tono la voce.»
No giocavo, micio non l’ho detto, non sia mai mi abbia sentito, è un tabù che già non rientrava nel nostro repertorio linguistico, ciò che rappresentava una pessima variazione sul tema del ‘rispetto’ dell’animale in se. Che dico, animale? Già fremo all’idea che possa entrare all’improvviso, mentre mi preparo a ritirare il tutto…
«Ma no scherzavo Lupen, mio caro, lo sai per me sei un amico fraterno.» «Che dico? Sei molto di più, un vero fratello.» «No, davvero non volevo dire ne amico ne fratello, tu sei il migliore dei miei consanguinei, va bene così?»
Neppure, non mi resta che chiedere venia per un’assoluzione che so che non arriverà mai, che in qualche modo me la farà pagare allorché s’affaccerà dall’angolo della stanza. Farò bene a fare come se nulla fosse. In fondo non so niente di quanto può essergli accaduto…
«Lupen! Lupeeennn! Dove ti sei cacciato mio tesoro?» «Cacciato?»
Sono pronto a giurare di non averlo detto.
«Lupen, vieni ho in serbo una leccornia per te.»
Non risponde, strano, eppure tutto sembra essere a suo posto, solitamente non è così che trovo l’appartamento quando sbadatamente uscendo, magari per la fretta, dimentico di salutarlo o di avvisarlo del mio successivo rientro. Specialmente quando per una ragione qualsiasi mi capita di fermarmi fuori a dormire lasciandolo in ansia per il resto della notte., anche se non lo darebbe mai a vedere. Incredibile a dirsi ma Lupen è capace di restare immobile a guardare l’uscio per ore in attesa di vedermi arrivare…
«Lupen, Lupeeennn, dove sei? Adesso ad essere preoccupato sono io, hai forse deciso di farmi stare in ansia per il resto dei miei giorni?»
Ovviamente non risponde, non posso che prenderne atto di una realtà inconfutabile, imprescindibile dell’essersi volutamente allontanato dall’appartamento senza aspettare il mio ritorno. Almeno il tempo di parlarne, vi pare? Nel mio caso è una questione di sopravvivenza. Ho qualche rimorso ma, diciamolo pure, va sottolineato un concetto basilare, quello di confidare nel ‘rispetto’ moralistico degli altri. Ovviamente mi sbaglio. Non so se mi spiego, quello che intendo è che non basta avere il pregio di avere un gatto nero in casa che fa ‘chic’ seppure qualcuno lo addita come menagramo ma, in quanto, a dover subire apertamente tutte le sue scorrettezze rende la cosa decisamente insopportabile, lo direste accantonabile? Neppure per sogno, pretendo una spiegazione…
«Lupen, Lupeeennn!!!!!!»
Una spiegazione che se anche dovesse presentarsi tra un minuto non mi darà mai, anzi come di solito farà il sostenuto, guardandomi coi suoi occhioni gialli sgranati e fissi che incutono fermezza, nel senso che blocca lo sguardo di chiunque voglia indagare sulla sua figura, sui suoi pensieri, sulle sue intenzioni, capace com’è di sollevare la coda e mostrare il culo con indifferenza al suo interlocutore. Ecco ciò che può dirsi una vera mancanza di ‘rispetto’, in questo caso verso di me che lo ospito nel migliore dei modi. Già che dirlo ‘ospite’ l’offende, meglio chiamarlo ‘anfitrione’, perché senza alcun dubbio il vero padrone di casa è lui, io sono solo una figura secondaria, il suo maggiordomo, ancor meglio mi si direbbe il suo servitore visto che provvedo a preparargli e a servigli i pasti e non solo…
«Miao George!» «Buonasera Lupen!» «Vogliamo dire buongiorno George, non ti sei neppure accorto che s’è fatto giorno, hai passato una buona nottata?» «Lupen non credi che dovrei essere io a porti delle domande, ti sembra normale che non ti fai trovare al mio ritorno, pretendo il ‘rispetto’ che mi è dovuto!»
«Miao, proprio tu parli di ‘rispetto’, non sei realistico George allorché perso come sei nei meandri dell’attuale complessità sociale, multietnica e multiculturale, ti poni un interrogativo fondamentale che riguarda il ‘senso’ del proprio agire individuale, mentre invece riguarda la società nella sua percezione globale e comunque comunitaria, che va esaminata nel suo insieme. Non ti pare?»
«Cioè Lupen, mi stai impartendo una lezione sul ‘senso morale’?»
«Perché no George, visto che tu fai finta di ignorare che in questa società ci sono anch’io, anzi ci sono io e poi forse ci sei tu, la cosa diventa una questione metodologica basata sul riconoscimento dell’uguaglianza, sul consenso individuale alla reciproca fiducia.”
«Non posso crederci Lupen, riguardo all'applicazione ‘morale’ del senso, va detto che c’è molta incoerenza relativamente se applicarla alla società e/o agli individui, tantomeno a un gatto quale tu sei, o lo hai dimenticato?»
«Miao, ti rammento che i gatti sono animali razionali indipendenti, semmai sono gli uomini come te che hanno bisogno delle virtù. Del resto, qualsiasi affermazione in merito, non ha risolto un dualismo da sempre renitente, tra voi antropici e noi, insito nella possibilità di una ‘critica morale’ che possiamo impartirvi sui valori centrali dello stare insieme. In un mondo in cui sia presente il ‘libero arbitrio’, a una società di persone simili ad automi come siete voi, è preferibile quello ‘animale’ che non possono commettere azioni malvagie, quanto quella che pensavi di impartirmi la notte scorsa.»
«Stai scherzando Lupen o dici sul serio?» «Non scherzo affatto, voi antropici, avete sempre pensato di essere al centro del mondo, entro il quale far maturare quelle virtù che costituiscono una scelta di buona vita. Niente affatto, non funziona così, oltre a voi ci siamo tutti noi, gatti compresi, oltre alle piante e a tante altre specie, per cui ognuna risponde al proposito di una specificità razionale.»
«Quindi, vai al dunque Lupen.»
«Miao, miao e poi miao! Quando si dice che nessuno è perfetto si parla proprio di voi umanoidi dei miei stivali, nella consapevolezza che dovete fare i conti con l’imperfezione, la malattia, il limite della morte, tu m’intendi George, è un fatto di attribuzione, di riconoscimento.»
«Miao Lupen, grazie, mi hai suggerito un’ottima intuizione, credo che domani sarà proprio questo il tema della mia conferenza universitaria, sulla necessità del ‘riconoscimento’ nella società multiculturale.»
«Miao George, gatti compresi?» «D’accordo, gatti compresi.» «E adesso vogliamo passare alla promessa in serbo alla leccornia per me?» «Come lei desidera Maestà.»
Id: 3079 Data: 15/03/2023 15:42:08
*
- Cinema
Bergamo Film Meeting - Stage e Volontari
Bergamo Film Meeting Associando il proprio marchio a Bergamo Film Meeting Onlus, si sceglie di diventare partner di una tra le più importanti manifestazioni cinematografiche italiane ed europee: un’opportunità di visibilità e di crescita.
Stage e volontari Attività Attività Stage curriculari, tirocini, volontariato: tante esperienze formative rivolte a studenti e appassionati di cinema interessati a partecipare allo sviluppo di un grande evento culturale, affiancando lo staff organizzativo per scoprire il dietro le quinte di BFM.
Sei uno studente oppure sei un semplice appassionato di cinema e ti piacerebbe partecipare allo sviluppo di un grande evento culturale? Entra a far parte della grande squadra del Festival! Diventa volontario! Affianca lo staff organizzativo per: • biglietteria • bookshop • maschera di sala • driver • allestimenti • distribuzione materiali pre-Festival Compila il form e… ti aspettiamo al Festival!
“La gente mi dice: «Ma nella vita reale…». Ma di cosa parlano? Cos’è la vita reale? Sul set davanti alla macchina da presa, non sarebbe più vita reale? Cos’è, si passa in un’altra dimensione quando si gira un film?“ (Abel Ferrara)
Id: 3077 Data: 13/03/2023 11:30:15
*
- Libri
Giulia Tubili ’Codice a sbarre’ – Storie di assenti e di ...
Giulia Tubili “Codice a sbarre” – Storie di assenti e di simbionti in cattività - Il ramo e la foglia - edizioni 2022. Un vero peccato che ogni riferimento sia puramente casuale, quando ci sarebbe piaciuto, a noi lettori, e non parlo solo per me, individuare i molti personaggi che si affacciano fra le pagine di questa raccolta di racconti accattivanti e spregiudicati da “cabaret degli orrori”. Sì perché tutti, o quasi, gli avventori di questo albergo a ore per scambisti di professione hanno almeno una cosa in comune: condividono lo stesso spazio, quasi entrassero/uscissero nottetempo da dietro i paraventi di un guardaroba teatrale per ‘simbionisti’ che si contendono la scena. Laddove raccolti gli abiti messi e dismessi, paillettes et out-couture, boa di struzzo e falpalà, si denotano mani allenate al ‘trucco e parrucco’ di un’arte mai venuta meno, sì da felicitare aspiranti ‘queen en travestì’ che farebbero la gioia d’ogni spettacolo di successo… “Onestamente? La cosa mi lusinga. Mia madre, così, mi dimostra da aver compreso il perché volessi intraprendere la strada della commedia. Mi fa capire, seppur troppo tardi, che il senso dell’umorismo devo proprio averlo ereditato da lei”. Ma se l’alta moda s’addice a quello schianto di donna (?) che è “Salomé” languida e viziosa, beh lasciamo stare, l’outlet sta più che bene a “La Polena” (Mia moglie), così come i colori variegati s’addicono a “Ziggystein”, (figure femminili presenti nei racconti); senza ombra di dubbio ‘il nero s’addice ad Elettra’, tanto per fare una citazione letteraria, che poi fa il paio con “il cazzo è come il nero, sta bene su tutto”, tanto per dire, spontaneamente parlando. Quandanche, va detto, che un siffatto copione (l’intera raccolta), non solo si presta ad essere interpretato sulla scena ma ne ha tutte le caratteristiche e, se vogliamo, sul tavolaccio di un teatro ‘colto’, per palati raffinati e letterati di un certo pregio, di quelli che che a suo tempo hanno applaudito seriosamente l’“Edda Gabler” di Ibsen, che hanno acclamato con parsimoniosa ilarità l’“Ulisse” letterario di Joice, ma che pure gridarono allo scandalo alla ‘prima’ de “La traviata” di Verdi… “Era accorta, affettuosa e implacabile… peccato fosse anche petulante. Talmente petulante da non permettermi un confronto lucido. La sua parlantina mi terrorizzava.[…] Inaccettabile. […] Con prepotenza torna Alma fra le pieghe del mio cervello ed ecco che gli scialbi coiti avviliscono l’atmosfera. Sì, mi manca l’ardore di un amplesso , ma preferisco contare i semi di questi frutti che mi restano fra i denti. […] Lo dicevo che era petulante. Lo dicevo che era frigida. Nessuno ha ritenuto questi motivi abbastanza validi ed eccoci qui. Perciò inspiro ed espiro prendendomi qualche secondo. Sulla faccia da schiaffi un’espressione enigmatica, ma assurdamente amichevole per un simile colpo di scena, giusto? Dovreste vederla, in effetti”. Come sempre accade la ‘risalita’ di un personaggio dapprima sconvolge gli schemi (letterari e/o teatrali), ma al dunque la genialità viene a galla e Giulia Tubili, affatto turbata dall’esito, ha smesso il segreto che pure deve aver custodito per parecchio tempo e lo ha dato in pasto alle belve – che siamo noi lettori affamati del nuovo – i suoi vicini più prossimi che la spiavano per cercare di sapere qualcosa dei suoi rapporti proibiti, dell’esilio in cui si era immolata per così tanti anni, cosa ci fosse da sperare e cosa da temere da lei. Quand’ecco l’idea di scrivere un libro, “il libro” del suo esordio, la dice lunga in fatto di comunicazione, di attualità, che s’avvale di una scrittura strepitosa, aperta a tutte le sfrontatezze che – i suoi vicini – volevano conoscere, e che lei con uno scambio osmotico di sovrapposizioni figurative di personaggi diversi, ha così messo in scena per il ‘suo teatro’, fin troppo umano… “Certo, ora è prevedibile anche lo stoico ghigno che le riserbo puntualmente. Forse prima ero spaventata, ma ora quei rozzi approcci mi scivolano addosso come lo strato viscoso di sapone scadente con cui celermente mi ricopro. L’acqua ci mette cinquanta secondi netti a diventare gelida ma Consuelo se ne fotte: si umetta i baffi, spreca il suo getto tiepido, poi si mette a leccare la fica di una Alice urlante nella speranza che io assecondi il teatrino e mi unisca incantata da quel colloso tripudio animale. […] Sembra che io interessi solo in ambito meramente sessuale. Passatemi l’espressione ma penso di possedere una mercanzia notevole, ricevo complimenti grevi anche quando sono china a tirar via matasse di capelli aggrovigliati dagli scarichi”. Il suo colloquiare forbito è pressoché esilarante sebbene riguardi l’incontro con un’assenza che le restituisce in pieno il senso di solitudine che l’attraversa dall’inizio alla fine, quasi fosse addirittura il primo contatto avuto con l’essere antropico dal giorno della sua nascita e/o rinascita che sia. E lo fa senza cercare o sperare in una risposta di soggettivazione, intimidita quasi, tuttavia per niente turbata di mettersi a nudo, e lo ha fatto solo per differire un’ultima volta la cattività relazionale dei ‘simbionti’ che lei stessa ha creato. Non un alter ego, ma molti, differenziati secondo i suoi stati d’animo, assecondando talvolta l’idea pirandelliana di “Uno, nessuno, centomila”, dandosi in pasto di quel “Così è se vi pare” e/o di “parlatene male purché ne parliate” indifferentemente da ciò che direte, e che, tra menzogna e ironia, pur la diversifica dagli altri… “Nel piccolo ambiente del ristorante piombò una surrealtà placida i cui ricami sanguigni rievocavano una fine certa sin dal prologo di quel pasto. […] Vitree biglie coronate dalla funerea secchezza creavano contrasto con la bava vermiglia che, schiumando, trasformava l’orrore labiale del morto in un sorriso senz’anima. […] L’infanzia delle gemelle , unite nel peccato come una Salomé bifida all’epilogo della propria danza tossica. Una Salomé neanche sfiorata dalle conseguenze dei propri crimini.” Neppure Oretta Bongarzoni di “Pranzi d’autore”, tantomeno Max Aub di “Delitti esemplari”, entrambi noti per la loro beffarda eccentricità, avevano osato fino a questo punto, mentre noi, i suoi cattivi vicini, avremo sì che riparlare dello strato di fango che fino a ieri abbiamo tirato contro chi poteva essere diverso, che era diverso, non bastante a ricoprire la scorza/corazza che con questo libro Giulia Tubili ha saputo crearsi addosso, protetta da una sorta di ‘velo d’ombra’ che cela il segreto dei suoi spiriti ignoti, di quelle che forse erano e/o sono le sue aspirazioni giovanili che pure si riversano e si spandono nel biancore della pagina di questo suo primo libro sorprendentemente emaciato, come se fosse scritto tutto d’un fiato sulla carta da culo. Secretato in un ‘codice a s-barre’ che non si concede se non al lettore più attento… "Sentiva nelle narici quell'odore da persona di un certo livello e gli scattava in testa un principio di rispetto. mi capisci? E' tutta una roba neuronale. un amplesso di sensi. [...] Nel mio caso, ancora di più. Come la sottolineatura su un riassunto già unicamente formato dei suoi concetti basilari. [...] Non chiedo l'assoluzione, non chiedo d'essere immediatamente benvoluto, ma, vi prego, considerate questo macro-dettaglio! Perché vi comportate come se nulla fosse?! Perché vi comportate come se niente fosse accaduto?!". “Mentre i miei coetanei venivano deportati nei campi di morte, io seguivo la mia fila verso la sede di un giornale per cui avrei pubblicizzato dello shampoo con la mia immagine. […] Suona irrispettoso credersi gli unici presenti nel camposanto ma, tra i vivi, ero la sola. […] Ma forse chissà, fanno bene loro. Però al contrario loro, io non so fingere il distacco. Non sono in armonia con me stessa, né con gli eventi in corso.” Di certo noi cattivi, oltre ad augurarle ‘tanta merda’ (si dice così), ci aspettiamo quella parola in più che da sola illumini la strada fin qui intrapresa in questo suo ‘mondo estremo’, peraltro così vero, in cui ci ha condotti per mano… “Eppure da bambina, mi dicevano che ero una brava attrice.” L’Autrice: Giulia Tubili nel pur breve excursus della sua vita si racconta così: “Sono cresciuta ribadendo che avrei fatto l’attrice e, nel frattempo, oltre che improvvisare siparietti domestici, leggevo e scrivevo, scrivevo e leggevo. Dopo aver seguito l’Actor Studio e l’Accademia Cinematografica e stage di perfezionamento a tempo indeterminato, oggi ho al mio attivo un buon numero di cortometraggi, alcuni spettacoli teatrali, set fotografici (ecc. ecc.), scrivere riempie le notti, i vuoti incolmabili, le cicatrici di un’adolescenza negata. Scrivere è come cavalcare a briglie sciolte e, poi, tornare a compiere lo stesso percorso cercando il giusto passo”. Note: (“) Tutti i virgolettati sono dell’autrice Giulia Tubili.
Id: 3076 Data: 11/03/2023 06:40:01
*
- Cinema
Sempre amore - Love International Film Festival Mons
Sempre amore - Love International Film Festival Mons di AURORE ENGELEN
09/03/2023 - Il festival si terrà dal 10 al 18 marzo nella città vallona con un programma ricco di scoperte cinematografiche e grandi incontri.
In collaborazione con CINEUROPA NEWS Copertina: Le Paradis di Zeno Graton
A strong comeback is on the cards for the Love International Film Festival Mons, which is returning from 10 to 18 March with a diversified programme, open to the world and to arthouse films, and buoyed by 79 films from 21 countries. In the festival’s opening slot, viewers will be treated to an international premiere of the new film by directorial duo Andréa Bescond and Eric Métayer, who previously gave us Little Tickles, which was discovered in 2018 and rewarded at the Césars. In Big Kids, they focus on a burning societal issue: the fate reserved for the elderly within our societies. In its closing slot, the festival is offering up a Belgian premiere of James Gray’s new film, Armageddon Time, which was originally unveiled at the Cannes Film Festival. In terms of the International Competition, ten international titles are set for the showcase. These include The Lost Boys, Belgian director Zeno Graton’s first film, which has just been presented in the Berlinale’s Generation section; Ali Asgari’s Iranian movie Until Tomorrow, which screened in Berlin’s Panorama line-up and scooped the Grand Prize in the Valencia Film Festival; and Antonio Lukich’s Ukrainian film Luxembourg, Luxembourg, which was showcased in Venice’s Orizzonti section. The competition will also host the world premiere of Lucie Borleteau’s third feature film, My Sole Desire, as well as platforming Frédéric Sojcher’s new movie Le Cours de la vie. Two Spanish-speaking women directors are likewise set to be honoured: Elena López Riera, who was selected via El agua [+], discovered in Cannes’ Directors’ Fortnight, and Valentina Maurel on account of I Have Electric Dreams, which won three prizes in Locarno (Best Film, and Best Female and Male Actor). Rounding off the selection are two Canadian films - Before I Change My Mind by Trevor Anderson, and Chien Blanc, a new adaptation of Romain Gary’s novel by Quebec’s Anaïs Barbeau-Lavalette - and Sérgio Machado’s Brazilian movie River of Desire, which was unveiled in Tallinn. The Cineuropa Jury, meanwhile, will award their prize to one of the competition’s European films. The festival is also hosting a second International Competition, the Compétition 400 Coups, which showcases 6 film crushes which cross the divide between different film genres. Viewers will get to discover Day of the Tiger by Romania’s Andrei Tãnase, which was recently selected in Rotterdam; Chiara by Susanna Nicchiarelli, which was selected in competition in Venice back in the autumn; Polaris [+] by Spanish director Ainara Vera; Spotty & Me by Italy’s Cosimo Gomez; Fogaréu by Brazil’s Flávia Neves, which was discovered in the 2022 Berlinale; and last but not least, Hicham Ayouch’s Abdelinho, which premiered in Marrakech. The event also acts as a precious platform for spotlighting recent Belgian productions. Audiences will chiefly discover Let’s Get Lost, François Pirot’s second feature film which is released in Belgium next week and in France on 29 March; Love According To Dalva, Emmanuelle Nicot’s debut feature film, discovered in Critics’ Week and released in France and Belgium on 22 March; and Habib, la grande aventure by Benoît Mariage, whose release in Belgium will be announced in April. In addition to these screenings, the festival will be welcoming an array of guests, including French director, screenwriter and actress Emmanuelle Bercot, who will be delivering a masterclass as guest of honour, alongside actor, director and screenwriter Michel Blanc.
Id: 3075 Data: 10/03/2023 07:59:50
*
- Religione
Meditazioni di Don Luciano - Tempo di Quaresima Anno A
Meditazioni di Don Luciano - Tempo di Quaresima - Anno A
GESU’ TENTATO, HA VINTO I Domenica di Quaresima A Dal Vangelo secondo Matteo (4,1-11):
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane”. Ma egli rispose: “Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. Gesù gli rispose: “Sta scritto ancora: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”. Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: “Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai”. Allora Gesù gli rispose: “Vattene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore Dio tuo adorerai: a lui solo renderai culto”. Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano. Le letture del ciclo quaresimale ‘A’ sono legate al catecumenato e all’iniziazione cristiana che culmina nel battesimo impartito nella notte pasquale. Vivere è scegliere! In questa prima tappa del cammino quaresimale siamo chiamati a rinnovare la scelta definitiva per Dio, una scelta che spesso diamo per scontata. ‘Non dobbiamo continuare a pensare alla fede come a un presupposto ovvio’ (Porta fidei, 2).
La scelta consiste o nel decidersi per Dio e il suo progetto, come ha fatto Cristo; o nel rifiutare Dio e il suo progetto, come ha fatto Adamo. L’essere tentati ci costringe a fare una scelta. ‘Se ti appresti a servire il Signore, preparati alla tentazione’(Sir 2,1). 2 ‘Il nostro progresso spirituale si compie attraverso la tentazione. Nessuno può conoscere se stesso se non è tentato, né può essere coronato senza aver vinto, né può vincere senza combattere, ma il combattimento suppone un nemico, una prova’ (S. Agostino). Il nocciolo di ogni tentazione consiste nello sbagliarsi su Dio, nell’avere di lui un’immagine distorta e, di conseguenza, nel rimuoverlo e nel metterlo in fuori gioco, visto che abbiamo perso la fiducia in lui. Dio sarebbe superfluo, solo un optional, se non anche un fastidio! Meglio fare da soli! E’ la tentazione di sostituirsi a Dio. Io sono mio! Decido tutto io! Il bene, il male, la vita, la morte, il giusto e l’ingiusto. Dio è sentito come un’oppressione e una minaccia alla mia libertà: sbarazziamocene!
Questo che è il più grande inganno della nostra vita è opera del diàbolos, cioè di colui che ci vuole separare da Dio e poi ci lascia soli. Le tre tentazioni sono tre scorciatoie, sono strade più brevi e più facili, ma che non ci danno la felicità. La strada migliore è quella che ci propone la Parola di Dio: quella sì che ci rende felici! ‘Beati quelli che ascoltano la Parola di Dio e ancor più beati quelli che la mettono in pratica!’. Le tre tentazioni di Gesù consistono tutte nel realizzare il suo essere Messia secondo i criteri del mondo. 1. La prima tentazione: è di tipo economico. ‘Se sei il Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane’. Cristo deve dar prova della sua pretesa per diventare credibile. Sentiremo ancora queste parole da coloro che schernivano Gesù sotto la croce: ‘Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!’(Mt 27,40). Anche noi rivolgiamo questa richiesta a Dio, a Cristo e alla sua Chiesa nel corso della storia: se esisti, o Dio, allora devi mostrarti, allora devi squarciare la nube del tuo nascondimento e darci la chiarezza, a cui abbiamo diritto. Il dubbio su Dio è sempre alla radice di ogni tentazione (se sei Figlio di Dio!). Questa prima tentazione è anche la tentazione del pane, la tentazione materialistica. Credere che l’unico problema sia il pane da mangiare.
Ciò che conta sono i soldi, così ti puoi togliere tutte le soddisfazioni. Si sostituisce Dio con le cose, che così vengono assolutizzate. E’ la ricerca del ben-essere (ben-avere) unicamente per sé. Il pane è un bene inequivocabile, ma più buona è la Parola di Dio. Il pane fa vivere, ma ancor più vita viene dalla Parola di Dio. Anzi, l’uomo vive di ciò che viene dalla bocca di Dio. 2. La seconda tentazione è di tipo religioso. ’Se sei Figlio di Dio, bùt3 tati giù’. Buttarsi dal tempio può apparire un gesto sensazionale che manifesta la grandiosità della potenza di Dio. Dio deve dimostrare di essere Dio.
Così il discepolo può vantarsi della potenza del suo Dio. Ma nulla, o ben poco, dice dell’identità del vero Dio, che è amore. Cristo non si è gettato dal pinnacolo del tempio, non ha messo alla prova Dio, ma è sceso nell’abisso della croce e della morte, perché sapeva che il fondamento del mondo è l’amore. Questa è la tentazione del miracolismo, del trionfalismo, del protagonismo, dell’apparire. Il protagonista non vede altro che se stesso e pretende che ogni cosa sia centrata su di lui. Ciò che conta è il successo, la bellezza, far carriera, diventare qualcuno. Siamo disposti a credere solo se Dio ci accontenta. Ma Dio non è un mago! 3. La terza tentazione. Satana ‘Gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e disse: se ti prostrerai sarà tutto tuo’. E’ la via del potere, intesa come volontà di dominio che si impone con la forza, e per questo si è disposti a tutto. Si agisce sugli altri sottomettendoli. Ma noi sappiamo che solo il potere che sta sotto la benedizione di Dio può essere affidabile e ci rende liberi! A. La Parola di Dio è la spada per colpire il maligno.
Gesù ci mostra il metodo biblico per affrontare le tentazioni. Alla parola dell’inganno oppone la Parola di Dio. La Parola di Dio è la spada che riesce a mettere il maligno a KO (cfr. Ef 6,17). Gesù taglia netto e dice: ‘Sta scritto!’ (= è stato scritto da Dio). Gesù vince ricordando la Parola di Dio. La memoria Dei guida Gesù alla vittoria. L’arma micidiale con cui Gesù combatte il maligno è la sottomissione alla Parola di Dio. Anche il diavolo usa la Scrittura, ma lo fa con malizia. Gesù, invece, gli obbedisce nel suo significato più profondo. Lui è la Parola Vivente del Padre; lui è il contenuto della Scrittura; solo lui la conosce e solo lui la sa interpretare bene. Quando preferiamo le suggestioni del serpente alla Parola di Dio, il giardino della vita si trasforma in deserto. E’ con il Vangelo, continuamente riproposto, che Gesù sconfigge la tentazione e allontana il diavolo: ‘Vattene, Satana!’. Così quel deserto si trasforma in giardino di vita. Giungono gli angeli, si accostano a lui e lo servono. Il deserto si popola di consolazione, di solidarietà, di persone che, come angeli, aiutano gli altri. Il Vangelo ci presenta questo episodio delle tentazioni subito dopo il racconto del Battesimo.
Questo significa che ogni battezzato deve condurre tale combattimento contro l’istinto cattivo che abita il suo cuore. La vita di fede assume la forma di un’incessante lotta contro le tentazioni. ‘Rinunciate a satana, a tutte le sue opere e a tutte le sue seduzioni? Rinuncio!’. Sono i tre ‘no’ del Battesimo. “Gesù Cristo fu tentato dal diavolo nel deserto, ma in Cristo eri tentato tu: in lui fosti tu a essere tentato, in lui tu riporti la vittoria” (S. Agostino). La cosa più importante che la fede cristiana ha da dirci non è che il demonio esiste e ci tenta, ma che Cristo ha vinto il demonio. Niente e nessuno può farci del male, se noi stessi non lo vogliamo. Satana non è che una creatura andata male. Dopo la venuta di Cristo, è come un cane legato sull’aia: può latrare e avventarsi quanto vuole; ma, se non siamo noi ad andargli vicino, non può mordere. Questa è la notizia più bella e gioiosa: Gesù nel deserto si è liberato da satana per liberare anche noi da satana. Qui sta tutto l’ottimismo evangelico! B. La comunione è un antidoto efficacissimo contro il demonio! • “Il diavolo assale quando vede che si è soli (deserto) e per conto proprio. Quando vede, invece, che si è con gli altri, riuniti insieme, non ha lo stesso coraggio e non assale. E’ necessario radunarsi continuamente gli uni con gli altri, in modo da non essere fragile preda del diavolo” (S. Giovanni Crisostomo). •
“Procurate di riunirvi più frequentemente per il rendimento di grazie e per la lode di Dio. Quando vi radunate spesso, le forze di Satana sono annientate ed il male da lui prodotto viene distrutto nella concordia della vostra fede. Nulla è più prezioso della pace, che disarma ogni nemico terrestre e spirituale” (S. Ignazio d’Antiochia). * “Il demonio teme poco coloro che digiunano, coloro che pregano anche di notte, coloro che sono casti, perché sa bene quanti di questi ne ha portati alla rovina. Ma ecco quelli che teme: coloro che sono concordi e che vivono nella casa di Dio con un cuore solo, uniti a Dio e fra loro nell’amore, questi producono al demonio dolore, timore e rabbia. Questa unità della comunità non solo tormenta il nemico, ma anche attira la benedizione di Dio” (S. Bernardo).
Il tema della tentazione manifesta una connessione chiara col ‘Padre nostro’: ‘Non ci indurre in tentazione’ (= Fa’ che non entriamo o che restiamo dentro la tentazione). O anche:’ ‘Non lasciarci cadere nella tentazione’. Il senso di questa richiesta del Padre nostro, può essere esplicitata così: “Padre, siccome sappiamo benissimo che il nostro spirito è pronto, ma la nostra carne è estremamente debole, ti chiediamo incessantemente di non lasciarci cadere e di non abbandonarci nella tentazione; ti chiediamo che tale situazione di prova non diventi uno strumento nelle mani del nemico per rovinare la nostra vita e allontanarci da te”.
Id: 3074 Data: 09/03/2023 15:11:48
*
- Poesia e scienza
Armando Bertollo ‘Volumi Immaginari’ - Anterem Ediz. 2023
Armando Bertollo ‘Volumi Immaginari’ … ovvero la danza dei vuoti e delle forme. Anterem Edizioni 2023 Il primo 'quaderno' inedito, ricevuto in anteprima dall'autore per la sua pubblicazione, con il titolo "volume immaginario" è risultato Finalista al Premio Lorenzo Montano 2020, indetto da Anterem nella sezione Raccolta Inedita. Successivamente, previo l'aggiunta di altre parti di completamento, sostituito nell'attuale "Volumi Immaginari" cui diamo il benvenuto. Immaginiamo per un istante d’essere di fronte all’inestricarsi di ciò che pure è apparente, tangibile quasi, per quanto apparentemente dilatato nell’assenza di forma che non si lascia afferrare, se non dallo sguardo creativo che superato lo scoglio dell’immaginifico, giunge al concepimento onirico del sogno, o forse, dell’illusorio abbaglio della luce; al pari del risveglio dal bozzolo della farfalla la cui forma eclettica (dei disegni e dei colori) fuoriesce nel vuoto che la circonda, e che s’invola a dar luogo alla danza sulla musica costante dell’aria che l’accompagna nello scompiglio necessario, o forse, in una specie di ordine necessario, che la rende viva, come dentro uno stato di ebbrezza febbrile … “la farfalla notturna ---- sostava nell’ / ombra / del bordo dell’ ___ orinatoio bianco / --- all’improvviso / manifestarsi / di una necessità: ___ un tiepido fiotto ___ d’am / bra ___ / si turbò / come un pipistrello / scosso --- dallo scroscio ___ di un sogno” (a Marcel Duchamp) Misurarsi nella capacità di rincorrere / tracciare --- tratteggiare le linee di questi voli astrusi può risultare piuttosto arduo, per quanto l’odierna quantistica insegni, insieme a tante altre cose, che è possibile rappresentare ciò che è credibilmente visibile, catturandone dapprima il ‘suono e le vibrazioni’ che circondano ogni cosa, così come l’afflato della cifra verbo-poetica che l’avvolge, purché non se ne violi il mistero. Ciò che vale per i vuoti e gli spazi, per le forme e i colori, come per i suoni e la musica, poiché tutto rientra nella concatenazione matematica della creazione, l’unica formula che accoglie in sé le linee cosmiche della spazialità così come le forme intangibili e immateriali della creatività, in rappresentanza delle espressioni e dei valori dell’umana conoscenza … “___del _frutto_ il_ pro_fumo / vite ___udite _di _vite / il suono --- strin-gente / --- l’im_ma_gi_ne ___osservate / ___di ___lumi_no_sa / l’inter_faccia / ___sen_za_ap_pigli / ---per l’insett---o / ___ om_bra _di_ vite___udite / lapres_sione _ i_ il tormento / ___nel_l’o-riz_zon_tale / ___ materia / la testa_al_vuoto / (a) --- fili ---rami---di---nel _buco_lico ---soste_gno / ___ della cor_nice ___ eco_no_mica / origini --- / se in pianta stabile / ___c_erti_fica_ti” È così che la natura ondulatoria intrinseca della quantistica applicata alla ‘poesia teoretica’ di Armando Bertollo “tra pa(r)lato e orto-dossia, tra regola e te-gola, tra desiderio e volontà”, sembra esplodere quando non è ancora forma, cioè ancor prima di raggiungere una sua compiutezza, permettendo al lettore di spaziare nell’evoluzione delle linee grafiche (onde, rette, tratteggi ecc.), e dei caratteri tipografici (punteggiatura, monosillabe ecc.) che l’accompagnano: dai reconditi ‘vuoti’ alle ‘forme’ avite dello Yin e yang (parti del ‘tutto’ nella cosmologia cinese), in cui i versi dell’autore s’adombrano e s’illuminano di quella ‘gioia di volare’ che da sempre accompagna il desiderio antropico universale … “---___l’affondo_del c a l a b r o n e /--- è ___repentino___ / puntuale___eminente /--- ___(s)tragico /tallone d'ira / ---il tocco___ lo fa pre-ci-pi-ta r e / e___ letterarlmente / ---presto / ---af-fon d a / --- re---nudo” “grillo ___ e / ---lucciola / ---piccole ore esti-ve / ---giocare___insonni” “---___lucertola / ___ballerina / ___pattina___mattutina --- / ---sul--- / ricordo--- della brina---” Siamo più vicini a Dio di quanto pensiamo di essere, sì che un lettura analitica coinvolgente entrambe le formulazioni teoretiche avanzate dall’autore, si rivela sempre più aderente a una partitura musicale, in cui il testo grafico ‘delle forme’ e quello più esplicitamente poetico ‘delle parole’, compone una sorta di compensazione, che agisce equamente sia a livello conscio che a livello inconscio sulla ‘autoregolazione del pensiero’ individuale, teorizzata da C. G. Jung in ‘psicologia del profondo’. Cosa non succede in un cervello di così sbalorditivo, quale confusione, qual è, per così dire, la funzione poetica di una trattazione che fin da principio appare teoretica? Assistiamo agli estremi di una ricerca che solo apparentemente traspare, e che pure accoglie in sé la completezza del creato e tutta la bellezza del mondo segreto del suo autore. Armando Bertollo infatti suggerisce dapprima di abbandonarsi all’intuizione, allo sguardo d’insieme, quindi approfondire la creatività specifica insita di ogni singola tavola, e infine, elaborare i collegamenti filosofici applicati alle linee di congiunzione, ai teoremi formati dai cerchi come punti di riferimento, da cui partire per rifare il tragitto all’inverso … “ ( ? ) ---cos’è ‘grondaia’ / quest’---azione della bocca---/ nel dire___quasi a vuoto / ___ (vongolare) _giù_verso / ---con l’ingombro --- della lingua / ---minimo / ---a ritrarsi / ---schivando papille e corde / ___masticando / ___di gronda / ---in onda?” Dacché le assonanze e le dissonanze musicali, le congiunzioni onomatopeiche, gli ossimori contrastanti, forniscono qui la chiave sonoro-simbolica di questo elaborato discorso poetico, presago di un futuro linguaggio comunicativo interscambiabile, con funzioni diverse, quante sono le scienze chiamate a interloquire: psicologia, filosofia, sociologia, fisica, matematica quantistica ecc. Ognuna afferente alla singola cellula allo stato di formulazione del bozzolo embrionale da cui nasce la nostra farfalla iniziale, un ibrido nelle forme, come nei disegni che nei colori, la cui composizione è altrettanto esile quanto effimera, al pari dell’ombra che lascia nello spazio e nel tempo del suo passaggio, subito afferrato e riaffermato dall’illusorio abbaglio della luce … Altro non resta che lasciarsi abbagliare e battere le ali nella danza, lasciarsi cadere nei vuoti e risalire verso gli estremi lembi dei pieni inglobati nelle forme. Come narra una leggenda sahariana: basta il battere delle ali di una farfalla a scatenare una tempesta di sabbia. In fondo è quello che noi tutti, semplici lettori e amanti della poesia a noi contemporanea ci aspettiamo … ..l’afflato di una complicità indulgente e coinvolgente della formula apotropaica.
Id: 3072 Data: 08/03/2023 06:13:41
*
- Cinema
Le opere immersive europee - Cineuropa News
Le opere immersive europee dominano la line-up SXSW 2023 di Martin Kudláč
07/03/2023 - La maggior parte dei titoli XR selezionati per il rinomato evento statunitense proviene dal Regno Unito, ma il programma include anche lungometraggi narrativi e documentari europei.
Dall'inizio dell'anno, le produzioni europee hanno preso parte ai festival statunitensi. Dopo Sundance (leggi la news) e Slamdance (leggi la news), è stata annunciata una nuova serie di anteprime europee per l'imminente 30esima edizione del celebre SXSW di Austin (10-19 marzo). Il festival texano entra nella sua era post-pandemia con un'edizione solo dal vivo, che si aprirà con un adattamento per il grande schermo del popolare gioco di ruolo Dungeons & Dragons: Honor Among Thieves. “[The line-up] è una straordinaria raccolta di film, serie TV ed esperienze XR che promettono di ispirare, intrattenere e sfidare il nostro pubblico. Siamo anche orgogliosi di aprire con Dungeons and Dragons: Honor Among Thieves, un'avventura fantasy chiassosa e coinvolgente, e non vediamo l'ora di dare il benvenuto a tutti ad Austin per quello che promette di essere un evento indimenticabile", afferma Claudette Godfrey, I film provenienti dall'Europa includono l'horror di formazione Raging Grace di Paris Zarcilla, prodotto nel Regno Unito, nel Concorso lungometraggi narrativi, che segue un immigrato filippino privo di documenti che si prende cura di un anziano malato terminale per assicurarsi una vita migliore. Tuttavia, un'oscura scoperta minaccia di distruggere tutto ciò per cui lei e sua figlia hanno lottato. Il Concorso lungometraggi documentari accoglierà Queendom di Agniia Galdanova, che si concentra su un'artista queer di una piccola città della Russia mentre mette in scena performance pubbliche radicali, mettendo se stessa in pericolo con il suo “artivismo”. Il documentario austriaco Riders on the Storm vede un giovane cavaliere che mantiene viva la tradizione del buzkashi mentre i talebani risorgono in Afghanistan. Il film, diretto da Jason Motlagh, debutterà anche nel Concorso Documentari. L'ultimo lavoro di Tünde Skovrán, Who I Am Not, Tuttavia, le arti immersive sono il formato in cui le opere europee domineranno davvero all'SXSW. L'XR Experience Competition vanta sette titoli del continente che si contenderanno il premio. La line-up di opere che utilizzano questo nuovo mezzo include un'app con una forma parziale di IA che osserva i suoi utenti, Consensus Gentium di Karen Palmer (Regno Unito); un'esperienza di intrattenimento dal vivo virtuale guidata dalla musica per visori VR con un gemello virtuale di Berlino, The District VR di Dennis Lisk, Ioulia Isserlis e Max Sacker (Germania); una rivisitazione del romanzo più famoso di Bram Stoker, Dracula, con un libro pop-up realizzato a mano che include animazioni in realtà aumentata, in The Invited (Regno Unito) di Davy e Kristin McGuire; un documentario VR franco-statunitense che racconta l'assassinio di JFK, JFK Memento di Chloé Rochereuil; e Stay Alive, My Son di Victoria Bousis, un progetto greco-statunitense che rivive il tragico passato e la perdita di un bambino durante il genocidio cambogiano. Fresh Memories: The Look di Ondřej Moravec e Volodymyr Kolbasa (Repubblica Ceca/Ucraina) e Jailbirds – The Eye of the Artist di Thomas Villepoux (Belgio/Francia) completano i titoli europei di questa sezione. Altri progetti immersivi europei sono in programma per prendere parte all'XR Experience Spotlight, che presenta la performance di danza mocap di Clarice Hilton e Neal Coghlan Figural Bodies (Regno Unito), che reinventa "il modo normativo e abile in cui il corpo è compreso e rappresentato"; un'esperienza multisensoriale degli inizi del movimento acid house, in In Pursuit of Repetitive Beats di Darren Emerson (Regno Unito); e Mrs Benz, un'esperienza VR sulla storia non raccontata di Bertha Benz e su come ha cambiato il corso della storia, di Eloise Singer (Regno Unito). Gli altri titoli provenienti dal continente e che andranno in onda in questo filone sono Behind the Dish di Chloé Rochereuil (Francia/USA), Shib the Metaverse di Marcie Jastrow e Sherri Cuon (Regno Unito), Spring Odyssey di Elise Morin (Francia) , Mondo temporale: A Haptisonic Virtual Reality Memory World di Chloé Lee (Germania), UnEarthed di Jamie Davies (Regno Unito) e You Destroy. Noi creiamo. di Felix Gaedtke e Gayatri Parameswaran (Germania).
Immagine: In Pursuit of Repetitive Beats di Darren Emerson
Id: 3071 Data: 08/03/2023 05:26:24
*
- Filosofia
Lupen The Cat ...il mio stupendo gatto filosofo del nero.
LUPEN THE CAT / 10 Il mio stupendo gatto filosofo del nero.
“Grrrr, miao George, sveglia sono le undici inoltrate, sei ancora a letto, perché non sei andato a dormire prima? Te l’ho detto più d’una volta, non hai più l’età per tirarla lunga fino alle tre dopo mezzanotte, quindi cosa intendi fare?” Perché mai, che cosa devo fare? “Niente, solo alzarti, accudirti quel minimo che serve e preparare la colazione” – dice stentoreo Lupen. Scusa, ma che fretta c’è? “C’è che sono le undici e mezza ed io ho fame.” Non è un mio problema! “Non dirlo George, perché invece è un tuo problema eccome. Miao non pensare ch’io possa passare il resto della giornata senza pensare a un problema incombente come la fame, ti pare?” Sì, d’accordo, ma non mi pare la fine del mondo se uno salta un pasto, pensa alla fame nel mondo? “Miao, perché dovrei pensare alla fame nel mondo quando qui c’è cibo a sufficienza per sfamare tutti?” Certo, tutti i tuoi amici sono sempre invitati, non è così Lupen? “Sono sempre meno di quella masnada di nullatenenti che fanno visita a te, come ben sai, non ce n’è uno che abbia del sale in zucca,” Parli sul serio, oppure dici così tanto per dire, no perché sai, alcuni dei miei amici sono laureati, chi in filosofia, chi in medicina e chi… “Beh, non stare qui a farmi la lista, tra menzogne e ironia, potrei dirti che sono tutti afflitti da ‘melanconia fallimentare’, mi è bastato sentirli parlare del proprio lavoro.” Lo immaginavo che ti saresti espresso in questo modo nei loro riguardi solo perché qualche volta hanno alzato un po’ il gomito nel bere, ma non esserne troppo sicuro, so per certo che la tua è soltanto ‘gelosia da strapazzo’, e solo perché non ti fanno le coccole che ti fa Ann, dì che non è così? Da un certo tempo mi sembra che tu veda solo nero dappertutto. Ma cazzo Lupen, è ancora notte e tu già reclami la tua pappa. “Sei uno scemo George, se ti avessi lasciato dormire ti saresti svegliato dopodomani. È nero perché è ancora notte certo, quando ti ho detto che erano le undici inoltrate non hai tenuto conto che in effetti erano le ventitré e a quest’ora anch’io avrò diritto di schiacciare un pisolino ti pare?” Ma toglimi una curiosità che cosa intendevi dire quando ai parlato di ‘melanconia fallimentare’, che ne sai tu? “Niente, ho solo letto qualcosa di quel tuo amico Jacques Lacan che hai sul comodino ed è la migliore affermazione che ritengo si addica a quegli strampalati dei tuoi amici.” Cioè, tu hai letto Jacques Lacan? “Miao, perché no, mi è sembrata una buona lettura per non annoiarmi nell’attesa che ti svegliassi. Sebbene dovrei attenermi a un’altra sua affermazione, dov’egli dice… ‘il tramite melanconico di chi è assente nel sonno è una presenza assordante’. Va detto George che quando sei assente nel sonno russi come un vecchio trombone. Anzi mettiamola così, perché tu non puoi sentirti quando fai all’amore con quelle zitelle che ti porti in casa, sembri lo sbuffo di un treno a vapore che anche quando non lo si sente più continua incessantemente ad essere assordante.” Lupen ma è davvero ciò che pensi di me, oppure lo stai dicendo solo per farmi arrabbiare? Te ne accorgerai quando non ci sarò più per te. “Sebbene ritengo di poterti contraddire vorrei sapere dove pensi di poter andare quando oramai è già mezzanotte e domani, anzi fra qualche ora dovrai recarti sul posto di lavoro, posso saperlo? Miao, mi prefiguro già cosa insegnerai a quelle povere matricole dell’università domani. Ah, non voglio neppure pensarci.” Dai Lupen, non dirmi che siamo già a lunedì? Mio Dio muoio al solo pensiero. “Ecco George, riveli quanto sia elevato il tuo attaccamento al lavoro, mettendo in prima linea per quello che veramente sei, uno sfaticato senza rimedio, al solo pensiero del lavoro sei già più morto che vivo. Per quanto l’insegnamento straordinario che se ne ricava è che ‘possiamo dimenticare perché abbiamo incorporato il morto’ (catalessi), non perché ‘lo abbiamo ricordato’ (svegliandolo), anche perché se così dev’essere (il moribondo) ‘lo portiamo con noi, fa parte di noi, […] ed è solo nella misura in cui fa parte di noi che lo possiamo dimenticare.” Lupen!!! Allora mi dimenticheresti, così su due piedi? “Miao, ti sbagli George, a quattro zampe e una coda, se permetti!” La coda non centra, è solo un fatto soggettivo, custodire la memoria di ciò che siamo è diventata una responsabilità indispensabile per sapere che siamo nati diversi, null’altro. “Molto diversi George, ti sfugge di cosa stiamo parlando, oppure? Quando te ne sarai andato allora sì che potremo riparlarne, tu non ci sarai e la tua assenza credimi non farà torto a nessuno, mentr’io starò ancora qui: una vita, la tua, contro le mie sette. Come ti avevo annunciato non è un mio problema, semmai è il tuo.” Beh, messo così non è neppure più un problema … è un dramma, anzi una tragedia delle più nere. “Del resto è risaputo che ‘il nero sta bene su tutto!’. Con ciò voglio avvisarti, e poi mi taccio, che anche il nero di una macchia d’inchiostro, sulla tesi di laurea che stavi controllando ieri sera prima di uscire frettolosamente è solo un processo di interpretazione, onde ‘per cui l’illetterato dice allo scrivano cosa voglia dire, lo scrivano scrive cosa intende e cosa gli par meglio debba essere accaduto, il lettore del destinatario interpreta per conto proprio, e il destinatario illetterato a sua volta deforma, indotto a cercare criteri interpretativi nei fatti a sua conoscenza’ (U. Eco)…” Basta così Lupen, prima che mi scoppino le cervella! Non voglio sentire altro. “Adesso che fai, ti alzi dal letto e magari pensi anche di uscire senza preparare uno straccio di cena?” No, vado solo a pisciare, ho la prostata stragonfia dei tuoi discorsi filosofici, posso? Tu mi permetti vero? “Sì certo George, ti è con-cesso, ma non pensare di sottrarti ai tuoi doveri di oste, altrimenti anch’io posso tirarti qualche brutto scherzo e farla fuori della tazza.” Ma che schifo! Dimmi che non lo farai Lupen, ti prego. “Certo che no, ma ti avviso che la macchia d’inchiostro sulla tesi del malcapitato è quanto accaduto, mentre cercavo di correggere il suo elaborato per trarne una lettura accettabile. Che posso farci se quell’idiota mi sbaglia la punteggiatura?” Ecco qua, abbiamo qui un gatto che si spaccia per professore dei miei stivali. “No George, per favore non essere offensivo, quello di cui parli è un altro gatto. Dovresti saperlo, personalmente indosso una livrea ‘nero su nero’, come dire ‘ton su ton’ che altri se la sognano. E se, come ti dicevo il nero sta bene su tutto’ per una volta fai in modo che anche la macchia d’inchiostro sull’elaborato di quel povero ragazzo passi inosservata, me lo prometti?” Solo se adesso … “No George, senza condizioni, promettilo e basta.” Prometto. “Del resto anche tu qualche volta commetti alcuni errori di punteggiatura, non è forse così?. Ieri ad esempio ero stato ‘tutta la mattina per aggiungere una virgola , a qualcosa che non era effettivamente efficace, e poi nel pomeriggio toglierla’, (O. Wilde), è così che vanno le cose di questo nostro mondo artato!” Ma che fai Lupen, adesso controlli anche i miei testi? “Potrei farne a meno ma, poiché ho riscontrato che nella tua complessità di antropico sei tutto un ‘errore’, mi sono detto beh perché no, visto che alla fin fine sai essere molto umano con me. Ti voglio bene George.” Vieni qua, te ne voglio anch’io Lupen. Dai strofinati quanto vuoi ma non azzardanti a leccarmi il naso. “Il solito burbero e per altro scorbutico.” – pensa Lupen ma che non dice.
Id: 3067 Data: 28/02/2023 06:42:58
*
- Cultura
Il Carnevale a Venezia
Il Carnevale a Venezia.
Immaginiamo per un attimo d’essere in uno dei molti campielli che s’aprono all’improvviso ‘come per magia’ fra ponti e calli, finestre aperte e balconi di palazzi antichi, canali d’acqua dove le gondole sforano le brume e i mille riflessi della laguna, in cui l’arrivo del ‘torototela’ (cantastorie) richiama l’attenzione degli abitanti a uscire di casa e unirsi alla sfilata tra suoni e canti, ciprie e ventagli, maschere e costumi, rinnovando l’usanza di abbellirsi per la festa …
Quand’ecco che al suono di un tamburino veniva annunciata la rappresentazione nel campiello più vicino, dove una compagnia di ‘commedianti’, montato un palco rimediato per l’occasione con la scena disegnata con il carboncino, perché la tela dipinta si era rovinata durante i continui trasferimenti. E mentre già s’ode il brusio delle voci e dei rumori tra le risa e i lazzi degli spettatori accorsi numerosi, faceva la sua entrata Arlecchino in sella a un asino di legno che, con la maschera sotto il braccio, leggeva da un canovaccio quanto si sarebbe rappresentato da lì a un momento …
“Xé ‘rivà el torototela. Son tri giorni che camino / par venirla a ritrovar / o parona me fafaso avanti / par venirla a domandar / son el povaro torototela / son el povaro torototà / che domanda la carità. Se la varda ne la credenza / che calcossa la trovarà / se polenta o pur farina / la me daga presto qua / che calcossa me darà. Son el povaro torototela / la sachetina go preparà / e la ringrassio tanto / che ‘n’altr’ano so ancora qua. Son el povaro torototela / che ‘gni ano arrivà per el Carnevà / son el povaro torototela / son el povaro torototà.”
“Arlecchino cerca d’intorno l’asino sul quale è salito…”
Id: 3062 Data: 14/02/2023 17:01:46
*
- Politica
BLA,BLA,BLA menzogne e ironia dagli scranni del Parlamento
BLA, BLA, BLA … solo menzogne e ironia dagli scranni del Parlamento.
Acclamato quanto osteggiato, per lo più sprofondato in un silenzio senza fine, l’attuale governo in carica si ritrova decostruito d’una necessaria opposizione parlamentare che lo costringe a farsi opposizione da solo, nella stancante paradossale attesa che qualcuno levi il culo dagli scranni per dire qualcosa in cui crede e che, per qualche futile motivo, controbatta (aggiunga, tolga, si rimangi quanto dice), le decisioni prese da un solo Deus ex Machina al comando, dedito a quanto pare, a fare il ministro di tutti e di tutte le cose. Inutile chiedersi dove sono finiti i Ministri nominati di entrambe le fazioni, nascosti sotto i banchi come credo facessero a loro tempo, quando andavano ancora alle elementari. O in quanto matricole universitarie che ammazzano il tempo a incrementare le fila di quegli “Apocalittici e Integrati” (1964), quanto inattendibili elencati da Umberto Eco, che: “manifestano gusto per l’imprecisione storica, credulità indiscriminata nei confronti di ogni fonte, tendenza a non usare una testimonianza quando si stata dimostrata attendibile, ma a giudicarla attendibile perché la si è usata”. (*) L’attendibilità di quanto sopra enunciato, trova ulteriore riscontro in un altro affascinante libro di Umberto Eco: “La ricerca della lingua perfetta” (1963), tale da rasentare una vera e propria avventura letteraria ai margini della ‘fantascienza’. Se non altro perché questi ‘esecutori d’ordini’ uno dopo l’altro, riempiono i talk-show televisivi facendo a gara nel presentare i propri ‘libri’ sulla visione progressiva della società, ingabbiata entro formule edulcorate (rivestite di coperte patinate) ma dai contenuti esclusivamente commerciali buoni solo per l’intrattenimento. Libri che affrontano le tematiche più disparate, ‘facendo a gara a chi le spara più grosse’ sulle prospettive politico-economiche, senza tener conto che si è già grattato il fondo delle Casse dello Stato. In pratica ‘libri’ che rasentano i ‘fenomeni culturali’ in cui si cercano, senza trovarle, le ragioni progressiste d’una società in cui la ‘fantascienza’ la fa da padrona assoluto, dove si suppongono teorie sulla ‘cultura di massa’, sull’importanza obsoleta di una comunicazione stantia, fatta di slogan e promesse indecidibili. E dire che questi signori dovrebbero accettare d’essere provvisori come qualunque altro, che non ha importanza lo schieramento, e sia che rientrino nelle schiere degli “apocalittici e/o integrati”, (se non per finzione snobistica) alla fin fine ogni loro grido di vittoria si attesta all’attualità della vanagloria che si perde nello spazio di una notte, che il mattino seguente riflette della luce albale della fantascienza, come il fantacalcio, la fantapolitica ecc. ecc. Ciò, per quanto la fantascienza, in altri termini, è narrativa delle ipotesi, della congettura e/o dell'abduzione, e in tal senso è ‘gioco’ per eccellenza, dato che funziona per congetture, ovvero per abduzioni. Lì dove ‘abduzione’, nell’accezione letteraria qui utilizzata, sta per allontanamento da un prefisso o punto di riferimento dalla realtà. C’è una frase attribuita al campione di scacchi Garry Kasparov che mi è piaciuto ribaltare: “Deep Thinking: Dove finisce l’intelligenza artificiale, comincia la creatività umana”, ma che in questo caso funziona solo se “dove finisce l’intelligenza umana, comincia la creatività del Deus Machina artificiale”. Perché, anche se nessuno lo dice (e sono davvero pochi ad ammetterlo), i Ministri integrati dell’attuale Governo non sono ancora usciti da sotto i banchi della loro infermità, e si spera non lo facciano mai; ché, se puta caso salgono in cattedra, davvero li vedremmo fare (oltre che a dire) cose ‘apocalittiche’. Meditate gente, e “fate attenzione a non scivolare sulle bucce dei meloni”, che in quanto a onestà intellettuale e deontologia etica, la dice lunga su ‘diritti e doveri’ dell’essere parlamentari in rappresentanza di un popolo e di una bandiera. Le ideologie del passato sono dure da estirpare dalla mente di ciascuno, ancor più se questo qualcuno dovrebbe pur ravvisare che il successo elettorale conseguito una sola volta a furor di popolo non fa di un rappresentante del parlamento un mito del nostro tempo, bensì uno schiavo al servizio della comunità, sebbene lo si paventi a ‘leader’ di una masnada di incapaci.
(*) U. Eco -Tra menzogna e ironia- Bompiani 1998
Id: 3057 Data: 25/01/2023 18:35:59
*
- Cinema
Chiara un film di Susanna Nicchiarelli - al cinema
News by CINEUROPA
Recensione: 'Chiara' di DAVIDE ABBATESCIANNI 09/09/2022 - VENEZIA 2022:
Susanna Nicchiarelli dipinge il ritratto credibile e privo di orpelli retorici di una santa, ragazza e donna rivoluzionaria Nel suo ultimo lungometraggio, presentato in concorso alla 79° Mostra di Venezia ed intitolato Chiara [+], Susanna Nicchiarelli decide di raccontare poco meno di vent’anni della vita dell’omonima santa. La storia inizia ad Assisi nel 1211, quando Chiara (interpretata da Margherita Mazzucco, resa celebre dalla serie di successo L’amica geniale [+]), appena diciottenne, scappa dalla casa del padre per raggiungere il suo amico Francesco (Andrea Carpenzano). Rifugiandosi in un monastero e raggiunta dalla sorella minore Agnese, incomincia a vivere in povertà e secondo la Parola di Dio con le sue consorelle.
Il film è recitato interamente in volgare. A tratti, la parlata può essere difficile da seguire, anche se vale la pena di sottolineare che tutti gli attori fanno un lavoro discreto, rendendola piuttosto naturale e spontanea. Tra i membri del cast, Margherita Mazzucco spicca grazie al suo ritratto serafico e coraggioso di una ragazza e di una donna che non si piegherà alla violenza della sua famiglia e alle pressioni esercitate dal cardinale Ugolini e futuro papa Gregorio IX (un sibillino Luigi Lo Cascio), desiderosa soltanto di vivere con le sue sorelle in povertà ed in libertà, similmente ai fratelli francescani. L’attrice sviluppa, inoltre, una buona alchimia con Andrea Carpenzano. Il loro rapporto di fratellanza ed amicizia è puro e sincero ma non per questo privo di conflitti. Questi ultimi, in particolare, emergono alla luce del riconoscimento papale che Francesco riceve per la sua opera. Secondo il pontefice, invece, Chiara non è degna, in quanto donna, “di dare l’esempio” e predicare la Parola di Dio al di fuori dalle mura del monastero.
Il resto del cast, in possesso di un buon physique du rôle, evita di rendere il tutto enfatico e retorico. Si tratta di un risultato degno di nota e difficile da raggiungere, specialmente se si lavora su dei personaggi che parlano principalmente di miracoli, compassione, spiritualità ed opere pie.
Gli inserti musicali, cantati e danzati, risultano piuttosto organici e sono ben orchestrati. Ricordano più da vicino delle pause teatrali che delle vere e proprie scene, celebrando momenti cardine della narrazione come ad esempio la guarigione dell’anziana consorella Balvina (Paola Tiziana Cruciani).
Nicchiarelli chiede a Crystel Fournier di realizzare una fotografia dai colori caldi, capace di valorizzare l’espressività dei volti segnati dei protagonisti, la natura circostante e incontaminata e la bellezza austera e scarna degli edifici religiosi. La sequenza nella quale viene recitato il celebre Cantico delle creature e la scena che ritrae Chiara davanti al monastero e circondata a poco a poco da uno stormo di piccioni, sono forse tra le più emozionanti ed ispirate a livello visivo. In diverse occasioni, inoltre, lo spazio e la messa in scena vengono gestiti in modo simmetrico e con gli attori rivolti frontalmente verso la camera, richiamando in maniera abbastanza chiara l’iconografia cristiana dell’epoca.
La scena finale sembra quasi appartenere ad un’altra tipologia di racconto e finisce per trasportare lo spettatore - almeno per qualche istante - in una nuova dimensione, decisamente più terrena e contemporanea in termini stilistici e musicali. Nella sua semplicità, la chiusura funziona, restituendo allo spettatore un grande senso di pace e compiutezza.
Al Tennis Club del Lido di Venezia, abbiamo incontrato Susanna Nicchiarelli. Il suo nuovo film, Chiara, è in concorso alla Mostra di Venezia e racconta la vita dell’omonima santa, qui interpretata da Margherita Mazzucco.
Cineuropa: Perché ha deciso di raccontare la storia di Santa Chiara oggi? La regista italiana ci ha parlato delle sue scelte di casting, del suo lavoro sul volgare e delle sue fonti d’ispirazione.
C’era qualcosa di questo racconto del Medioevo, con le sue paure, le sue malattie, il suo isolamento che mi sembrava parlare al contemporaneo. In realtà l’incontro con Chiara è avvenuto il 7 marzo 2020. Stavano per chiudere il paese ed avevano già chiuso le scuole. Ho portato i bambini a vedere gli affreschi di Giotto ad Assisi. Eravamo soli, era un’atmosfera stranissima... Sono sempre stata appassionata di San Francesco, sono umbra di origini. Il suo messaggio è cosi radicale e la scelta della povertà è qualcosa che colpisce anche se sei non credente. Sapevo che Chiara era stata accanto a lui, però nei film su San Francesco come quello di Franco Zeffirelli [Fratello sole, sorella luna], Chiara appare poco. Quello dove appare di più è quello di Liliana Cavani [Francesco]. Mi sono incuriosita e ho acquistato un paio di libri sulla sua storia. Ho scoperto cosi che c’è una lettura della santa fatta da questa storica, Chiara Frugoni, che ha lavorato per tanti anni su una storiografia completamente diversa da quella ufficiale. […] Chiara voleva seguire l’esempio di Francesco. Capendo questa discrepanza tra la storiografia ufficiale, più religiosa e quella vera di questa ragazza, sono rimasta molto affascinata. Questo periodo coincideva col primo lockdown, eravamo chiusi in casa. C’era qualcosa di questo racconto del Medioevo, con le sue paure, le sue malattie, il suo isolamento che mi sembrava parlare al contemporaneo. Questa urgenza, questa radicalità anche della scelta di vivere in comune, stando accanto agli ammalati e in un mondo estremamente pericoloso, mi ha colpito. Mi sono resa conto che il Medioevo è molto più vicino al nostro quotidiano – in quel momento, soprattutto – di quanto credessimo. Alla base delle idee di questi ragazzi c’era anche un ripensamento del concetto di comunità, della vita in gruppo, oltre che una critica radicale alla società. Ho sentito che quei temi erano molto vicini all’oggi.
Chiara è una coproduzione italo-belga firmata da Vivo Film, Tarantula Belgique e Rai Cinema. 01 Distribution si occupa della distribuzione italiana, mentre The Match Factory gestisce le vendite internazionali.
Id: 3056 Data: 19/01/2023 18:26:13
*
- Danza
Nur…un mito del silenzio.
Nur ... un mito del silenzio.
La città di Mantova si risvegliava specchiandosi sul filo dell’acqua delle peschiere nell’alba che d’argento s’andava facendo luminosa, striata appena qua e là di rosso pallido che si perdeva nell’azzurro del cielo. Nella Camera degli Sposi gli affreschi alle pareti si animarono di un tremolio leggero quando il latrare di un cane, per un istante, echeggiò nei corridoi, perdendosi poi attraverso le fughe di stanze. Nessuno se ne accorse, tranne alcuni servitori che mossero appena le palpebre mentre si rivoltavano nei loro giacigli. Era scoccata l’ora. Di lì a poco avrebbero ripreso le faccende cui erano assegnati, ognuno le proprie, senza far rumore. Gli Sposi, avrebbero continuato a dormire abbracciati per molto tempo ancora, dopo l’euforia della notte colma di piacere. Erano giorni di festa quelli e nella splendida corte dei Gonzaga il vociare dei bambini e delle balie nane che li rincorrevano da una stanza all’altra, era tenuto lontano dalla Camera degli Sposi che per nessuna ragione dovevano essere disturbati, se non dai servitori che, ad una cert’ora tarda del meriggio, avrebbero recato i vassoi della prima colazione, ma senza fare il purché minimo rumore. Solo ai putti angelici che si affacciavano dalla balaustra del trompe-l’oil del soffitto erano permessi i sussurri divertiti, mentre alcuni domestici sbirciavano indiscreti e attenti, cercando in qualche modo, di non farsi vedere. Intanto a Palazzo Te, la splendida dimora di caccia appena fuori dell’abitato che Giorgio Vasari definì: «un poco di luogo da potervi andare e ridurvisi tal volta a desinare, o a cena per ispasso», i cavalli scalpitarono irrequieti in attesa del pasto mattutino che gli stallieri di corte avrebbero portato loro di lì a breve. Nessuno pensò che a renderli smaniosi fosse il suono del liuto che, ancor prima che facesse giorno, proveniente da chissà quale segreta alcova, si era levato d’intorno. Un pizzicato sottile, una vibrazione di corde che risuonava come un sussurro nell’aria, o forse come una carezza del vento sopra le criniere. Neppure i cuochi di palazzo a loro volta l’avevano avvertito, avvezzi com’erano al risuonare degli strumenti agresti e all’euforia dei balli contadini che la sera prima avevano loro conciliato il sonno. E bene facevano i conducenti dei carri degli approvvigionamenti a non disturbare la perfetta quiete che ivi dovunque regnava, cui non era permesso nemmeno di avvicinarsi troppo alle finestre della sontuosa dimora, che le sole ruote avrebbero creato trambusto sul selciato, per non dire del fragore assordante del trascinare le ceste delle mercanzie. Lontani, nei campi, i contadini qui provvedevano alle sementi o alla raccolta dei frutti, più in là alla trebbiatura del fieno in totale silenzio. Nel mentre, nella palude lacustre, i cacciatori tenevano abbassati i fucili e i pescatori tiravano le reti senza alzar baccano. Solo al falcone era dato adocchiare dal cielo la preda solitaria che si aggirava ignara fra le siepi e la rada boscaglia, allorché la agguantava infliggendole gli artigli nel corpo fino alla stremo, senza che s’udisse un lamento, ed erano allodole o anatre, giovani conigli e salamandre. Erano quelli i tempi in cui Federico II, divenuto signore di Mantova, aveva deciso di trasformare l’originaria isoletta in luogo di svago e di riposo, solita a fastosi ricevimenti con ospiti illustri, ove poter ‘sottrarsi’ ai doveri istituzionali assieme alla sua bella amante, Isabella Boschetti. Abituato com’era all’agio e alla raffinatezza, aveva trovato nel pittore architetto, certo Giulio Romano e ai suoi collaboratori, un ottimo realizzatore della sua idea di “isola felice”, per dare sfogo al suo genio e alla sua fantasia. Ben presto simboli e stemmi, avevano insignito di velleità più o meno celate, le facciate del gentile palazzo con festoni e decori; abbellite le pareti delle stanze con affreschi e dipinti che attraverso ponti immaginari e grottesche, richiamavano alla natura ospitale del giardino che aveva voluto tutt’intorno. Erano sorti così, il Monte Olimpo, con ‘Giove che seduce Olimpiade’, circondato da un Labirinto di bosso uscente dalle acque, ahimè oggi scomparso. Inoltre a effetti luminosi, simboli e rimandi di elementi architettonici, in un alternarsi di vedute di Città lontane, più pensate che reali, che si specchiavano nelle vicine peschiere. Anche la fauna vi era rappresentata, fatta oggetto di particolare attenzione, e quella ‘salamandra’, che Federico II elesse a suo simbolo personale, assieme alla quale spesso, era affiancato il motto: ‘quod huic deest me torquet’ (ciò che manca a costui mi tormenta), non a caso ritenuta l’unico animale insensibile agli stimoli dell’amore, in contrapposizione con la sua natura galante e sensuale, tormentata dai vizi della passione.
In tempi più recenti, in una dimora attigua, seduto sulle ginocchia, un giovane musico intonava i versi di una ballata medievale il cui andante iniziava in tal modo: ‘Wish I had a troubadour and sitting by my necks …’ accompagnato dal dolce suono del liuto, mentre Nur si abbandonava in sbadigli amorevoli che riservava alla sua figura appena intravista nel grande specchio posizionato davanti al grande letto. Un talamo con baldacchino rivestito con lenzuola bianche di fiandra e grandi cuscini rigonfi. Come pure latteo era il suo corpo, opale il suo viso emaciato, se non fosse per le sue labbra di colore vermiglio e i grandi occhi scuri e profondi come l’abisso, dov’era possibile perdersi e ritrovarsi nello spazio di un batter di ciglia o, quand’anche fosse, dare spazio alle apparenti illusioni, alle speranze irrisolte, alle attese deluse di un’intera esistenza. Il suo corpo era tutto per lui, tutto quello che aveva, tutto ciò che gli era dato in ogni sua minima parte. Ogni lembo della sua pelle chiedeva ancora un contributo di vitalità a quella esistenza che aveva speso per intera, senza lasciare niente per dopo. Una figura all’apparenza fragile ma vigorosa, un fascio di muscoli e nervi che si levavano dalle piante dei piedi fino alle braccia levate, alle sue grandi mani affusolate, capaci di disegnare ghirigori di neve nell’afferrare le note fluttuanti che il liuto, in quel momento, rimandava da una parte all’altra delle contrade, fino a sfiorare la quiete perfetta che regnava nella Camera degli Sposi, cullandoli nel loro infinito riposo, vegliato dal silenzio della storia. È qui, in questa Corte dei Gonzaga, che Nur ha legato il proprio ricordo, nel fervore dei preparativi di un’ultima esibizione, nel ruolo di Filippo II, accompagnato da un’eterea e leggiadra compagna di scena, quella Carla Fracci che per l’occasione vestiva i panni della sua tenera sposa. Entrambi vestiti di bianco, quasi fossero i novelli Sposi che nella Camera degli Sposi dipinta dal Mantegna, apparivano sulla scena entrambi ‘innamorati dell’amore’ per quella danza che li aveva resi famosi. Un raffinato rimando ai fasti rinascimentali, ai costumi e alle consuetudini dell’epoca, al medievale ‘recercare’ degli strumenti antichi, alle musiche a ballo, al vociare delle dame, alla danza silenziosa delle molte fiammelle di candele accese sulla scena. Tutto un accendersi di piume colorate sui cappelli, lustrini scintillanti sui corsetti appena stretti in vita, le calzamaglie guantate che permettevano ai danzatori i movimenti sciolti, rapidi, eleganti, nella piena libertà del corpo. Assieme alle sollecitudini delle tensioni, degli allacci e degli scioglimenti, dei voli angelici, delle molte evoluzioni di quell’amore che avvinghiava i loro corpi ai sentimenti e ai turbamenti dei sospiri. Così come ai respingimenti e agli abbracci nella danza che anticipavano il piacere, la sensualità e la passione che dimorava nei loro corpi; un’intera esistenza racchiusa in un’ultima performance che si consumava sul palcoscenico cedevole delle loro vite. Ma la storia come si sa non fa rumore, semmai chiama a riflettere, rimanda ai ricordi, ai successi raccolti, a quell’arte che ancora oggi si mostra, sempre uguale a se stessa, dalle pareti di una dimora principesca che ancora oggi rende Mantova unica, fra le tante. E mai nessuno allora poté farsi meraviglia quando il giovane Troubadour levati i suoni modulati dal suo nostalgico liuto, riportò alla memoria il tempo degli allegri giullari, le danze cadenzate, gli scherzi e i lazzi di quell’ultimo Carnevale. Neppure quando, ancor tenendo bassa la voce melodiosa, ai piedi del suo capezzale, prese a pizzicar le corde del liuto, cullando amorevolmente l’affaticato Nur, morente. “Per vederlo danzare ancora, per non lasciarlo solo affinché l’alba s’inchini a baciarne il risveglio, le sue labbra vermiglie, il suo batter di ciglia … perché torni a levarsi sul filo dell’acqua delle peschiere, nel silenzio assordante del primo ed ultimo mattino del mondo” – disse, nel momento stesso in cui l’alba violetta andava facendosi luminosa. Una moderna leggenda congegnata all’uopo, vuole che ancor oggi, in certe albe azzurrine, striate qua e là di rosso e viola, il malinconico suono del trovatore, torni a far sentire il suono malinconico del suo liuto, sì che a qualcuno sembra aver perduto il tono. Sì, adesso ricordo, lo scroscio degli applausi si era levato lesto dagli Sposi e dalla Corte tutta, giungendo fin nelle contrade della comune gente accorsa ad ammirare l’abile étoile in piedi sul proscenio, per una standing ovation più che meritata, che insieme il fragore del giubilo raccoglieva la riconoscenza dell’intera città di Mantova e del mondo intero, per aver egli elevato la sua vita, al più alto onore dell’arte della danza …
Rudolph Nureyev, un mito del silenzio.
Id: 3053 Data: 09/01/2023 16:54:22
*
- Libri
Giorgio Moio - Testo al fronte - Bertoni Editore 2022
“Testo al fronte” – silloge di Giorgio Moio - collana di poesia verbovisuale Contrappunti – Bertoni Editore 2022.
“interpretare / fluirama della vita : / s’amplia l’assenza” (*)
“murmurea marea / frastaglia in immagini : / rimandi sguardi” (*)
Andare alle origini dello spazio verbovisuale intestato da/a Giorgio Moio, autore di questa silloge poetica, prevede per il lettore la capacità di accedere alle proprie facoltà superiori non senza rinunciare agli interessi di lettura immediati. Nonché a tradurre la visualità in segni e parole relativizzati a veri e propri mezzi per raggiungere un habitus virtuoso all’interno di un unico corpus (disegno) onde raggiungere un controllo sempre maggiore sulle proprie passioni e ideologie intuitive, attraverso un’argomentazione, tra utopia e realtà, in grado di costruire un progetto ‘altro’ e/o decostruire, enfatizzando la misura razionale dei suoi rapporti con la scrittura e la sua visualità artistica …
“un mare / non è un fiume / non fiumeggia / mareggia / cualche volta serpeggia / di tanto intanto / schiumeggia / et aleggia / volteggia / corteggia lindifferenza / linesistenza / fa lextroversus / parodia di unmaremoto / allegoria di unmarasma / che sta fermo..”
“apparentemente fermo / apparentemente appartato / ma sotto si muove / scava / et intriga / et corrode/ contesta le idee / linganno della storia..”
Un metodo questo che non spiega, perché non bisogna di spiegazione/i, di una certa volontà virtuosistica di accentuazione del proprio status creativo, che spinge l’autore alla ricerca di quella qualità sensibile intrinseca al proprio segno artistico, così come alla parola scritta, in cui forse il modo migliore è quello di identificarsi nell’opera grafica medesima. Tuttavia è qui che il lettore constata una certa resistenza da parte dell’autore di superare la ‘soglia’ dell’arte e inoltre preclude il determinarsi della parola poetica che egli vorrebbe d’accompagno alle sue immagini artate …
“è ghiaia / lixionata / scavata / chesta hiaia / azzurro / lesionato / […] è azzurro didee / che si colora / corrode / agghiaia / furiosamente / […] è unalitare / cuestalitare / è un respiro / affa(nn)oso / spru(zz)o di mucosa / che si spande /semina / di tormento / sperma / che / sincanta / cuesto / tormento / è una lingua / slinguata ..”
Ma come sappiamo la parola risponde a una concezione di musicalità intrinseca e non sempre si lascia addomesticare da una o altra immagine che non potrebbe contenerla, in quanto, pur interiormente commisurata alla ‘memoria involontaria’ di un’intera esistenza, evapora voluttuosa nell’orchestrazione universale dell’aere cosmica che l’accoglie in sé. Quella che è poi da sempre la ‘misura della poesia’ pur nei suoi viluppi di moda, di stili, dei cambiamenti sociali e politici delle lingue, delle tradizioni, ma soprattutto delle irragionevolezze delle passioni umane. Onde per cui anche le apparenti illogicità e/o le irrazionalità di Giorgio Moio rientrano in fine nell’unica certezza cui risponde la vita nell’evolversi alla ricerca costante di “incontrare l’assenza”… “sa / la resistenza / di una riverenza / le parodje nonchalanziate / del vento / che / respirano / affannose / smaniose calembouriate / si rendono incalcolabili / ancora / una / volta / come / una volta..”
“uguale sorte / a li’ paradossi / de’ laccua; / irriverenti / mostruosi / si mostrano / in abili / per- formances / giocano / a presentarsi / confusi / le linee / grot-tesche”
Ma determinare cos’è che manca alla nostra esistenza è un dibattito sociologico quanto più filosofico ancora aperto, in questo nostro ‘mondo liquido’ (Z. Bauman) si devono cercare nuove realtà o, forse, una nuova autoconsapevolezza, prima che si determini il tramonto d’ogni possibile favola. Ecco quindi, che quanto operato in questa silloge da Giorgio Moio, apre a ulteriori ‘altre’ possibilità d’incontro, non necessariamente virtuale quanto immateriale, di guardare l’arte, così come la poesia in astratto osserva con altri occhi ‘che ascoltano’, quanto ad orecchi ‘che vedono’, la parola come soggettivazione futura, o almeno futuribile …
“s’eguono / a ruota / tra un s’ogno / di f’ango / un s’Uono / di roccia / eguono / ogno / ango / uono..”
“nel bianco / del foglio / dove ogni posto / è unaltro posto / unangolo / senzangolo / senza flutto / et cuando / c’è flutto / non sempre / si / fluttua / fluttuazioni / di resistenze / kistu / flutto / ascriba & / trafila ad arsa / appalanca”
Un ritorno all’origine del discorso sull’arte della parola, discorsivo ed evoluto, intrapreso ab illo tempore, “metatetico” che “non propone formule o soluzioni ma un'esplorazione tra parole e segni”, delle parole in libertà già del Movimento Futurista di Marinetti, e “archi-voltaico” della sintesi dell’arte, così Balla, Boccioni, Depero e/o nell’arte dei rumori di Luigi Russolo. Sì che il “Testo al fronte” con il quale Giorgio Moio si propone di anteporre alcune immagini ai testi come possibili 'situazioni poetiche’, solo apparentemente scollegate dalle immagini, risponde a “una concezione plurale della realtà sottratta alla facile fruizione, a un qualunquismo intimistico-emotivo” che non lascia dubbi sulla validità dell’operato, ma che, in quanto immagini, si lasciano affrontare e/o penetrare non senza empatia di quanto l'autore in modo concettuale “voleva, o forse, non voleva dire”, nel tempo-spazio della sua creatività …
Gli errori e/o gli orrori (secondo il lettore) sono voluti, evoluzioni di un dire per ‘sordi’, di un vedere per ‘ciechi’, nella prospettiva di una lingua assonante/dissonante, arcaica di reminiscenze isolane (Sardegna?), coercitiva “asole / zampi(ll)a / a brio / una litania […] / agli argini / di / una / sorgente / dac- / cua”. Come di un sasso gettato nell’acqua che remora, “adonda” in cerchi che s’allontanano dal centro cosmico dell’universo poetico di Giorgio Moio, ad affrancare ogni cosa che ruota tutt’attorno …
“minuta un’idea / non ancora esaurita : / voce rintrona” (*)
Note: Tutti i virgolettati sono di Giorgio Moio e inoltre trascritti da: “Venti haih-ku extravaganti” (*)- in Frequenze poetiche n.3 – Bertoni Editore 2022
L’Autore Saggista e scrittore, redattore e direttore editoriale, critico letterario, collabora a diverse riviste e giornali del settore di cui è anche fondatore, partecipa a rassegne, festival poetici e mostre collettive di rilievo. Ha all’attivo numerose pubblicazioni di vario genere. "Testo al fronte" è il quarto volume della collana "Contrappunti" (poesia verbovisuale) che Giorgio Moio cura per la Bertoni Editori. Altrettanto forbito è il suo curriculum come autore che è possibile consultare su tutte le piattaforme Web.
Id: 3048 Data: 19/12/2022 06:24:22
*
- Politica
Bla, bla, bla - maschere, trombette e cotillon.
Bla, bla, bla … maschere, trombette e cotillon.
Lo slogan affatto originale è “la pacchia è finita!”, a voler dire “un’altra pacchia è appena cominciata!”. Per chi non se ne fosse ancora accorto Balzac è tornato a sedersi sulle poltrone aurifere del nostro Parlamento, scurrile e volgare come sempre, disfattista più che mai, nella finzione delle belle parole accomodanti che hanno stravolto un ostentato “no!” a tutto e a tutti in un bislacco “sì” o quantomeno in un “sissignori!” che la dice lunga, e che vale a dire “adesso vi faccio vedere io”, che sa di vendetta retrodatata, sulla scia di un passato negazionista della liberalità, della giustizia sociale, della libertà di parola ecc. ecc. Ecco spiegate le ragioni di un cambiamento tanto repentino che sa di “mascherata fuori del carnevale”, dove chi ha sempre vestito i panni del gendarme con la sferza in mano oggi ha tirato fuori la trombetta dell’adunata per farci credere, volenti o nolenti, che la “pacchia è finita” ma che invece dei famigerati coriandoli è pronto a tirar fuori le bombe per una guerra alle istituzioni democratiche che pure, nel bene e nel male, hanno assicurata la ‘pace’ per settant’anni. Che la volgarità sia un ingrediente essenziale dell’arte della guerra lo constatiamo in ogni momento del giorno e della notte dai media allorché veniamo informati degli ultimi bombardamenti che ci rintronano, benché lontani dalle nostre sante orecchie, sopra le nostre teste. Né tantomeno ce le risparmia il Parlamento europeo, con le beghe interne e i disastri esterni che determinano il crollo delle economie nazionali e sopranazionali. Ma senza stare qui a piangerci addosso va detto che la decostruzione o lo smontamento, chiamatelo come vi pare, è iniziato già da un po’, da quando alcune forze politiche sono entrate nell’ottica che la ‘pace’ era in realtà una finzione e che quindi qualunque governo vigesse andava smantellato, anziché perorare la causa di quanto di buono era stato fatto, e/o re-indirizzare ed aggiustare ciò che non andava, ma che altresì andava sostituito. Troppo comodo, diciamolo pure, ogni volta a dover raccogliere, “costi quel che costi”, armi e bagagli e fare posto a un fatidico governo ‘altro’ intellettualmente più illuminato. Dalle ‘stelle’ penserà qualcuno, non è così, ma dalla ‘luna’ coi suoi flussi e reflussi, andanti e tornanti di un passato che non ha più ragione di essere invocato. Ma il ‘carnevale’ bussa alla porta facendo finta di chiedere “…è permesso?”. Se il buongiorno si vede dal mattino abbiamo già assistito alla corsa di quanti si sono affrettati alla riscossa, rispolverando gli abiti buoni sopra i costumi di carnevale, subdolamente bene intenzionati ad aggiustare il tiro mancino che hanno nascosto dietro la schiena, e con la magniloquenza erudita di chi ha imparato la lezione, oggi s’affanna, sbraita, e s’infervora a voler far credere che, messi da parte i pregiudizi nei confronti di chiunque non la pensi al loro stesso modo, si è pronti ad affrontare ciò che per molto tempo hanno fatto finta di non volere, armandosi di quella falsa buona volontà che li ha portati al governo del paese. Ma se Balzac era già prima un impostore (letterario), adesso men che mai lo si può scambiare per un genio della politica, lo abbiamo visto alla prova. Di fatto gli scranni del Parlamento sono pieni di adepti vischiosi, unti e bisunti del fiele versato in tanti anni di opposizione. E che dire di chi li ‘governa’, per modo di dire, con simpatia da parte di molti di noi che applaudono senza ridere, tantomeno sorridere, ad ogni balzo umorale della sua voce, ad ogni ascensionale levarsi oculare, o al continuo lisciarsi dei capelli che riflettono di marcoaureliano ricordo, volendo far credere che l’età dell’oro s’avvicina; che tutto ciò che finora è stato al di sotto del rango degli eletti troverà riscatto. Una promessa che ha già trovato affermazione nella distribuzione delle poltrone dentro e fuori del Parlamento, probabilmente ‘dovute’ a chi fin qui l’ha sostenuta, riconoscendole un carisma e una capacità superiore alla loro di inettitudine cocente, e/o che prima vestiva i panni del servitore sciocco, maschera di un carnevale di trombette trombate. Ciò detto assistiamo oggi alla messa in pratica di alcune massime raccolte, strano a dirsi, da un massimalista cinese, Sun Tzu, che nel “L’arte della guerra” in cui in sintesi è detto: “Se vuoi battere il tuo nemico fallo Re”, una strategia che si attaglia perfettamente a quanto avviene oggi nelle istituzioni italiane ed europee, cioè appoggiamo ogni assunto della politica per poi cambiarla dal di dentro, la de-costruzione è avviata, ma in quanto ad una possibile ricostruzione inseguo i miei dubbi. La musica sta cambiando, quella che sembrava una melodia si è trasformata in un rumore assordante di voci contrastanti: “Le note musicali non sono più di cinque, eppure nessuno può dire di aver udito tutte le loro combinazioni”, ripete il saggio cinese, considerando tutte le assonanze, le risonanze e le dissonanze del caso, ne assisteremo a ben altro concerto.
Meditate gente, meditate!
Id: 3047 Data: 15/12/2022 07:20:46
*
- Cinema
European Film Academy - in coll. con Cineuropa
European Film Academy - in collaborazione con Cineuropa
Find our live coverage of the event before it started on our Facebook and our Twitter. The full article will be published soon.
The list of winners: European Film Triangle of Sadness - Ruben Östlund (Sweden/Germany/France/UK) European Documentary Mariupolis 2 - Mantas Kvedaravičius (Lithuania/France/Germany) European Director Ruben Östlund - Triangle of Sadness European Actress Vicky Krieps - Corsage (Austria/Luxembourg/Germany/France) European Actor Zlatko Burić - Triangle of Sadness European Screenwriter Ruben Östlund - Triangle of Sadness European Discovery – Prix FIPRESCI Small Body - Laura Samani (Italy/Slovenia/France) European Comedy The Good Boss - Fernando León de Aranoa (Spain) European Animated Feature Film No Dogs or Italians Allowed - Alain Ughetto (France/Italy/Belgium/Switzerland/Portugal) European Short Film Granny's Sexual Life - Urška Djukič & Émilie Pigeard (Slovenia/France) European Cinematography Kate McCullough - The Quiet Girl (Ireland) European Editing Özcan Vardar & Eytan İpeker - Burning Days (Turkey/France/Germany/Netherlands/Greece) European Production Design Jim Clay - Belfast (UK) European Costume Design Charlotte Walter - Belfast European Make-up & Hair Heike Merker - All Quiet on the Western Front (Germany/USA) European Original Score Paweł Mykietyn - EO (Poland/Italy) European Sound Simone Paolo Olivero, Paolo Benvenuti, Benni Atria, Marco Saitta, Ansgar Frerich & Florian Holzner - Il buco (Italy/Germany/France) European Visual Effects Frank Petzold, Viktor Müller & Markus Frank - All Quiet on the Western Front European Innovative Storytelling Exterior Night - Marco Bellocchio (Italy/France) European Sustainability Award – Prix Film4Climate European Green Deal European Achievement in World Cinema Award Elia Suleiman Lifetime Achievement Award Margarethe von Trotta
Il sondaggio dei critici di "Sight and Sound" 2022: cosa è cambiato e cos'altro dovrebbe cambiare?
Articolo di VLADAN PETKOVIC 06/12/2022 - Annunciata la nuova edizione del più famoso sondaggio sui migliori film: la crescente diversità è accolta da pareri molto divergenti, ma cosa manca ancora alla lista?
Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles di Chantal Akerman, che quest'anno era al primo posto del sondaggio dei critici di Sight and Sound
The British Film Institute's esteemed Sight and Sound magazine has been compiling a list of the Greatest Films of All Time every ten years since 1952 by inviting film critics to vote. Over the decades, it has become the most prominent and most widely referenced list that has dramatically influenced what we consider cinematic canon. After Vittorio De Sica's Bicycle Thieves in 1952, Orson Welles' Citizen Kane topped the list for 50 years until Alfred Hitchcock's Vertigo took over in 2012. The latest list, announced just last week, for the first time saw a film directed by a woman come out on top: Chantal Akerman's Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles. This represents arguably the biggest shift in the last half-century, along with an overall stronger presence of films directed by women but also of those by filmmakers from underrepresented groups. (L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria) I voted for the first time in 2012, and since the new edition was announced, it has caused a big stir in mainstream media and an even bigger one on social media. Arguably, it is exactly this aspect that influenced the change over the course of the last decade, and this is a phenomenon that warrants an in-depth look at why and how the apparent tastes of the voters have shifted. Another key reason must also be that the 2022 list gathers more than 1,600 critics from the widest possible geographical spread, doubling the number from ten years ago. I was a little surprised to see Akerman on top, but not shocked. The sociopolitical climate has changed significantly in the last ten years, and critics are not only sensitive to such developments, but they also actively contribute to them. The problem is that this film, in addition to a couple of other classics widely recognised as great works of feminist cinema (Daisies [+], Cleo from 5 to 7, Meshes of the Afternoon), is one of the few made by women that most voters (myself included, and that’s exactly why I didn’t put it on my list) could think of. Five films by African American filmmakers are on the list for the first time, too, but it looks like an even lazier bunch with Moonlight and Get Out, while not many more works by African filmmakers have made it. This underlines the nature of said changes – that they are still merely superficial. But it’s a first step, and I am very happy that now we have a list that’s quite a bit different from the previous ones, and that young people or regular cinema-goers who watch films with different eyes can spot some titles that aren’t repeated again and again, and maybe search them out. I have even found a couple that I had managed to miss, and several reminders of pictures worth revisiting. This was not the case ten years ago, when I had a deep knowledge of almost every film on the list. What I am not so happy about is that, in addition to a total absence of Latin American films, there are still too few documentaries (six), animations (two) and shorts (two), which is, to me, cinematically if not always politically, a far bigger problem than having fewer films by women or filmmakers from underrepresented groups. What about underrepresented forms and genres? We need to dig deep, learn more about and introduce audiences to all of the intriguing developments, surprising causalities and wonderful, uncategorisable works in the history of cinema, not just about aspects relating to keywords that trend in a particular era – however valuable they are in a political or civilizational sense. What we should be challenging is not only the issue of who gets to make films, where they get to be seen, how they are presented and evaluated, and how many people can see them, but more importantly, what we essentially perceive cinema to be – which is, ultimately, the most political issue of all. Even with the new, significant shift, the Sight and Sound list is still woefully Western-centric, American-centric, Anglo-centric, Euro-centric and male-centric (as is my own), even if the magazine went out of its way to gather as many diverse critics as possible. I helped friend and fellow critic Neil Young put together the line-up of contributors from the former Yugoslavia, and I know the magazine’s intentions were absolutely commendable and as open as possible. So the problem does not lie in the origin of the critics who voted; it is much deeper: it’s in which films the critics all over the world are aware of and why, and how they rate films from their own cultures and countries as opposed to the “canonical” works of cinema. It is, again, a matter of cultural dominance that will hardly ever go away. But any action, not necessarily against it but rather aware of it, brings small steps forward, getting some new – and many old – viewers acquainted with different films. To my mind, every such step is a victory. I also had a different approach this year from 2012. I wanted to highlight all of the various things that cinema can be, as opposed to regurgitating the strongest films by the most acclaimed directors. Sure, some of these had to stay, but only if they fit this criterion: that they show the richness of the art form in all its glory. Three titles released in the 21st century, two of them in the past five years, are also included. I call this my vote for the future.
Here is Vladan Petković's Sight and Sound list: Twin Peaks: The Return - David Lynch (USA, 2017) Shoah - Claude Lanzmann (France, 1985) 2001: A Space Odyssey - Stanley Kubrick (USA, 1968) Asparagus - Suzan Pitt (USA, 1979) An Andalusian Dog - Luis Buñuel (France, 1929) Battle in Heaven - Carlos Reygadas (Mexico, 2005) Vampyr - Carl Theodor Dreyer (Germany/France, 1932) W.R.: Mysteries of the Organism - Dušan Makavejev (Yugoslavia, 1971) Stalker - Andrei Tarkovsky (USSR, 1979) Radiograph of a Family - Firouzeh Khosrovani (Norway/Iran/Switzerland, 2020)
Id: 3045 Data: 11/12/2022 05:02:41
*
- Musica
LApe Musicale - Rivista di Teatro
Newsletter 4 dicembre 2022
L'APE MUSICALE RECENSIONI INTERVISTE NEWS TV Radio e Streaming VIDEO TERZA PAGINA CONCORSI
La copertina di ottobre dell'Ape musicale è dedicata a Macbeth, nuova produzione della Fondazione Rete Lirica delle Marche (foto Marilena Imbrescia). Fra i servizi dell'ultimo mese troverete ampi reportage dalla tournée del Rossini Opera Festival in Oman e da Donizetti Opera a Bergamo, le recensioni del Don Carlo che ha aperto la stagione del San Carlo di Napoli, il Kaiserrequiem inaugurale del Teatro Massimo di Palermo, Don Giovanni a Torino con la direzione di Riccardo Muti e, ancora The Tempest di Adés al Teatro alla Scala.
Oltre che dai principali teatri italiani, non mancano cronache internazionali da Austria, Germania, Stati Uniti, Argentina e Messico, concerti, interviste e molto altro. In terza pagina, un ricordo di Azio Corghi, compositore, didatta e musicologo scomparso a ottantacinque anni lo scorso 17 novembre. Vi aspettiamo ogni giorno sulle pagine dell'Ape musicale per recensioni, approfondimenti, interviste, notizie sempre aggiornate! www.apemusicale.it
Buona lettura
Id: 3042 Data: 06/12/2022 05:56:22
*
- Animali
Lupen the Cat / 9 -Mesdames et Monsieur le jeux san faut.
LUPEN THE CAT / 9 … Mesdames et Monsieur le jeux san faut. «Miiaaoo, Miiaaoo, e poi Miiaaoo! Hei, hei ragazzi l’allegria è di dovere, divertiamoci a più non posso» – esclama Lupen eccitato al massimo per avere organizzato la festa più pazza che si sia mai stata finora ‘in casa mia’, sì che i vicini, curiosi e invidiosi, si sono chiesti che cosa stesse accadendo… «Che quel George sia letteralmente impazzito?» «È assurdo, non è cosa da farsi in questo modo, le pare?» «Avrebbe dovuto avvisare non vi pare?» «Adesso mi sente, chiamo subito l’Amministratore o chiama lei?» - chiede l’imbecille dell’ultimo piano alla vicina della porta accanto. «Mah, veramente si dovrebbe chiamare la Polizia o che so i Pompieri, che ne dice?» «Non esageriamo, solo per un po’ di schiamazzi da scapoli?» «Ma andiamo, per una volta si può anche lasciar correre, in fondo è pur sempre una persona così rispettabile, no?» «Sì ma quando si esagera troppo, e qui mi pare proprio che si stia esagerando, vorrei vedere lei al posto mio, e poi stare a sentire tutti i suoi rimbrotti, non è forse così?» «Eccone un altro, c’è qualcun altro che non ama la musica?» - s’intromette il giovane Punk coi capelli colorati a raggera che abita al terzo piano. «Ma non dica fesserie, lei che ne può sapere, c’è musica e musica, e poi che musica è?» «Rap and scratching è ovvio, non sente il graffio dell’unghia sul vinile, vede che neppure la conosce?» «Povero lei, immagino non sia mai andato a un concerto?» «Vuole che gli faccia un elenco, vediamo un po’, lei ha mai preso parte a un rave party, o che so a un concerto degli Hendrix Revolution, o dei Rolling Stone, per non dire dei Santana, o dei Pink Floyd, beh io sì, lei conosce i Queen?» «Ma che razza di musica è questa, vuole mettere L’Orchestra Sinfonica di ...?» - sta per concludere ‘sua altitudine’ dell’ultimo piano, quando suonano i citofoni di tutti gli appartamenti, lasciando tutti ammutoliti… «Miiiaaaaooo!”, si può sapere quando la smettiamo con tutti questi strilli da beccacce condominiali? O devo chiamare le forze dell’ordine per disturbo della quiete pubblica?» - grida Lupen fuori di sé. Allorché si sentono alcune porte che si chiudono sbattendo, l’ascensore che si mette in moto per riportare gli inquilini ai loro ‘ipocriti’ piani d’appartenenza. Solo il giovane tatuato col ciuffo a raggera prende il coraggio e bussa alla porta, che si apre ed è subito ammesso a partecipare alla festa, accolto da un’infinità di Miao, Miao- Miao! Miaaaoo!... «Che bello, cos’è un party in costume da gatti? Accipicchia complimenti, e che musica?» «Miaone! Ti piace?» - l’accoglie Belle ovviamente la gatta più bella, addobbata con una calzamaglia tigrata e una collanina di perline niente male al collo. «Chi mai l’avrebbe detto che in questo palazzo ci fosse qualcuno cui piace la musica seria!» «Miao, dai non scherziamo, non hai ancora ascoltato il meglio, che ne dici dei Led Zeppelin, ti va?» «E i Kiss?» - gli domanda Graf, l’eccezionale DJ della serata. «Miiaaoooo, no, ti prego Graf, i Kiss no, mi mettono terrore, poi finisce che me li sogno di notte!» «Miao, di notte hai detto? Ma quando mai se la notte randagiamo sempre insieme e non ti ho mai sentito dire una baggianata simile.» «Miao, è vero, sì ma quando tu non ci sei e mi lasci sola?» «Miiaaoo! Tu devi essere Ralph quello del terzo piano, è così? Ti ho riconosciuto dai Tattoo. Vieni accomodati, bevi qualcosa, serviti pure » - lo accoglie Lupen manifestando da subito una certa simpatia.» «Beh, ragazzi, io veramente, non vorrei disturbare … Sì, grazie.» «Miiaaoo, non dirmi che sei a disagio, ma dai, spero non sia la prima volta che t’imbuchi in un qualche festa, pensa che noi lo facciamo regolarmente» - lo accompagna Lupen al centro della pista dove gli altri stanno ballando. «Mi-mi-mi-ao, e tu da che sei mascherato?» - gli chiede Fremens strofinandoglisi addosso tutta tremante per l’eccitazione del nuovo arrivato. «Da divinità egizia, non riconosci i miei tatuaggi? Ecco vedi, questa è una piramide, e quest’altro è Nefer…» «Mi-mi-miao, Nefertiti o Nefertari? Bè non importa, quanto vorrei essere per te una delle due, o magari entrambe, che ne dici facciamo coppia?» «Hei ragazzi, è giunta l’ora di festeggiare alla grande, si mangia e si beve a volontà!» - annuncia Lupen. «Miao, miaooo, e poi miiiaaaooo! Dicci, che ci hai preparato?» «Miiaaoo! Abbiamo qui a disposizione un’ampia scelta, ce n’è per tutti i gusti, un’intera dispensa, vediamo un po’, c’è qui del tonno, quest’altro è salmone, e poi sardine, sgombri, vitello tonné, insalata russa, aspettavamo giusto qualcuno che ci aprisse le scatolette, hei Ralph è il tuo turno, datti da fare» - lo sollecita Lupen. «Miaaaohorror! Hei, ma questa non è affatto di tonno e basta, c’è dell’insalata russa, puah! Non posso mangiarla, la maionese mi si attacca al palato» - si lamenta Giò, che sta per giovedì, in quanto essendo al servizio di una casa per bene riesce a scappare solo un giorno alla settimana. «Beh devo dire che il tuo padrone ha riempito per bene la dispensa, c’è anche qualcosa per me» - aggiunge Ralph agguantando una fetta di prosciutto. «Miiaaoo! Hei Ralph, mi stai simpatico ma non tirare in ballo il mio ‘inquilino’, qui il ‘padrone’ sono io e basta, ci siamo intesi?» «Ma certo, ciò non toglie che rimane una persona squisita, che ti lascia fare quello che vuoi e che riempie la dispensa di tante cose buone, non sai da quant’è che non assaggiavo una fetta di prosciutto…» «Miiaaoo! Beh, puoi sempre venire a passare la notte con tutti noi, non sai quante cose buone gettano via le persone di questo quartiere. Ma tu come abiti qui?» «Sono ospite, si fa per dire, di quel brontolone del terzo piano, qualunque cosa faccio non gli va mai bene niente, e dire che gli tengo a bada la casa come fosse la mia, ma non ne vuol sapere di darmi qualcosa di buono da mangiare. Tiene la dispensa piena di scatolette di cibo per …» «Miiaaoo! Non dirmi che ti tratta come un cane. Ma tu non sei un cane, non è così?» «Anzi il suo cane al mio confronto è trattato come un principe, pensa che dorme nella suo letto, mentr’io dormo nella sua cuccia.» «Miiaaoo, dici davvero? Miiaaoo, Miiaaoo! Hei ragazzi, voglio la vostra attenzione, abbiamo una missione da fare, quando il nostro amico Ralph aprirà la porta di casa sua, no, o meglio del suo crumiro, noi faremo un’invasione di campo che neppure durante la rivoluzione francese si è mai vista, e gli stracciamo tutto quello che capita a tira, d’accordo?» «Evviva! Miao evviva! Slurp evviva! Miao d’accordo! Ma adesso godiamoci la festa. Che ne dici Ralph?» «Dico proprio di sì, miao e poi miao!» La musica ad altissimo volume m’accoglie fin sul portone dell’edificio, il frastuono creato dal batterista Robert Watts mi distrae momentaneamente che stavo salendo i gradini di casa e non quelli del Palasport per il concerto rock dei Rolling Stones, e man mano che salgo le due rampe di scale resto basito dall’inserimento folgorante della chitarra elettrica di Keith Richards, per non dire della vertigine che mi procurano gli altri componenti il gruppo, quando mi vengono incontro i coinquilini atterriti che, con sguardi increduli sembrano basiti nel vedermi arrivare in quel momento… «Ma scusi non è lei che sta…?» «Immagino che lei non ne sappia niente?» «E neppure abbia niente da ridire del fatto che…?» «Buonasera, ma perché che succede?" «Ah certo, il signorino è anche sordo adesso, ma non sente…?» «Che a qualcuno piacciono i Rolling è davvero apprezzabile … personalmente non ci trovo niente da ridire , anzi…» «Signor George è qui, per fortuna è tornato…» - mi viene incontro la dirimpettaia frastornata con cocci di piatti e vetri di bicchieri rotti tra le mani. «Nerina che mai succede, sono forse entrati i ladri in casa?» - chiedo da sembrare uno sprovveduto che vive altrove. «Ma come non sente anche lei, c’è in corso un terremoto che sconquassa tutta la casa, guardi qui si sta rompendo ogni cosa. Guardi che viene dal suo appartamento.» «Ma come, se io sono qui! Aspetti un momento, intende forse la musica?» «E che altro?» Nel frattempo che mi accingo ad aprire la porta d’entrata ho gli sguardi addosso di tutti gli inquilini che lasciati i loro appartamenti adesso occupano la rampa di scala che sale al piano di sopra per assistere alla mia entrata, quasi si fosse allo svelamento di un folle arcano. Allorché la musica tace una ridda di gatti multicolori fuggono via passandomi tra le gambe, su per il corpo, che quasi mi scaraventano in terra, e in un battibaleno spariscono come per la vista di un bau-bau. Faccio i primi passi in casa quando mi trovo davanti Lupen ritto sulle zampe posteriori e una zampa piegata sul fianco, una mezza sigaretta accesa infilata in bocca, che mi chiede … «Miiaaoo George, che ci fai tu qui, non dovevi essere a Birmingham per alcuni giorni?» «Ho perso la coincidenza da Londra così la conferenza era bella e andata, quindi ho deciso di tornare, perché, non potevo?» «Miiaaoo! E no George, non dovevi, non ci si comporta così, potevi almeno avvertire!» «Chi mai avrei dovuto chiamare la Protezione Animali, per avvisare che stavo rientrando in casa mia, oppure?» «Miiaaoo, no, saresti dovuto tornare quando si era stabilito! Vedi George è una questione di rispetto della parola data. “È una questione metodologica che si basa sul riconoscimento dell’uguaglianza, sul consenso individuale alla reciproca fiducia e all’equilibrio sociale. Così è, nel dibattito su quelli che si definiscono ‘valori morali’ e se questi sono relativi o assoluti, beh, la risposta di gran lunga più motivata è che sono relativi”, non ti pare?» «Mi pare, mi pare, mi stai dicendo che durante la mia assenza tu abbia ingoiato il libro di Maurizio Ferraris (1) per intero, mi chiedo solo come hai fatto?» «Forse, ma dimmi che ci fai ancora lì impalato, accomodati!» «Posso? No sai perché, se sua maestà me dà il permesso vorrei …» - ma non finisco di dire quando, entrato in salotto, inciampo in mezzo alle cianfrusaglie a non finire, scatolette aperte e svuotate del loro contenuto, piume e merletti, bottigline di birra poggiate qua e là, cappellini e girandole come a Carnevale, incontro lo sguardo del giovane tatuato col ciuffo a raggera che mi sorride… «Ciao, io sono Ralph», dice mentre fa il gesto di stringermi la mano, ma non sa quale darmi. «Gulp! Mi accorgo così che è umano e come tutti ha solo due mani, cui una tiene un mezzo bicchiere di birra, nell’altra un sandwich col prosciutto, quindi sono io che mi presento a lui.» «Ciao, io sono George.» «Sei anche tu un invitato o sei semplicemente un intrufolato come me?” «Sono …. un intrufolato», rispondo accogliendo lo sguardo furibondo oso di Lupen ancora con in testa la coroncina di sghimbescio. «No, perché vedi George, vorrei rispondere a quanto stavate dicendo prima a proposito del rispetto, che “Se molti sono i modi ragionevoli in cui tutti gli esseri possono organizzare la loro vita, resta che ce ne sono alcuni che sono sicuramente inaccettabili.”(2) E che in questo gli esseri umani non sono da meno.» «Aspetta Ralph, fammi prendere fiato. Quindi stando a quel che tu dici, che “senso del proprio agire’ nell’ambito delle proprie scelte, il rispetto non può essere solo individuale ma riguarda la società nella sua percezione globale o comunque comunitaria, che va esaminata nel suo insieme, animali compresi?» «Miiaaoo, George, non tutti gli animali, in special modo i gatti.» «No, perché vedi George… “un’analisi approfondita diviene quanto mai necessaria se si vogliono individuare gli strumenti di una possibile ricognizione del ‘rispetto’ in seno all’etica morale e l’intrinseca criticità di merito che l’accompagna. Acciò, e nel migliore dei casi, è necessario tornare al passato e rileggere il cartesiano “Discorso del metodo” (3), lo strumento per eccellenza che più ci aiuta a comprendere i termini e i limiti, pur nella logica della scoperta scientifica, vuoi filosofica che sociologica, del pensiero libero concettuale, ancora oggi considerato un caposaldo della liberalità civile.”» «Gulp Ralph, stai studiando sociologia o ché? Perché vedi quello da te citato è un testo tra i “..più rivoluzionari su cui meditare, in quanto il suo autore aveva perfettamente compreso che le vere rivoluzioni cominciano nel proprio intimo e non nel cambiamento delle cose, ma nella riforma di se stessi” (3).» «No, sì, George, è solo una ‘questione di metodo’ dunque, la cui applicazione restituisce al ‘rispetto’ una sua posizione prioritaria all’interno delle ‘virtù etico-morali’, qui individuata in tre passaggi essenziali che ben definiscono la relativa prova scientifica: ‘Metodo del riconoscimento dell’uguaglianza’, ‘Metodo del rispetto civile’, ‘Metodo del consenso basato sulla fiducia e la temperanza’.» «Cioè tu dici…» «Non dici, ma tu m’insegni, George perché Ralph sembra saperne molto più di te, impara!», m’ingiunge Lupen sollevando le ciglia. «No, si, George, sono questi i “Segni di una erosione che non ha risparmiata questa società da risentimenti diffusi e punti di criticità, sia per i suoi aspetti discordanti, per quanto inevitabili, che ne hanno limitato il ‘riconoscimento’ configurato all’interno di una specifica ‘tipologia virtuosa’; sia in ambito famigliare che educazionale, formativa ecc., che da sempre veicolano le cosiddette ‘differenze di genere’.» «Miiaaoo, George, dacché se ne ricava che anche il genere ‘gatto’ va rispettato, è così Ralph?» «Beh, non c’è che dire, sembra che ve la intendiate bene voi due, ma vi eravate accordati prima, è così Lupen? Ma adesso che risponderò all’amministratore quando mi dirà che non vuole ‘gatti’ nel condominio? Chi ripagherà i danni alla vicina, immagino debba farlo io, ma io so già come fare con te Lupen, altro che sardine e salmone, starai a ‘pane e acqua’ fino a quando non avrai ripagato il tutto." «Miiaaoo, Miiaaoo George, se fossi in te non me ne darei per vinto.» «È un’ulteriore minaccia Lupen? Soprattutto mi chiedo chi rimetterà a posto la casa dopo il casino che avete combinato?» «Si, no, George, se è per questo ci sono qua io, in modo che m’impegno a tenerti a posto la casa per 15 Euro l’ora, con rispetto parlando, se sei d’accordo, ovviamente la sovrattassa mi serve per pagarmi l’università.» «Beh, parliamone», quasi quasi mi conviene accettare, dico tra me. «Infine avrò trovato qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere.» «Allora George?» «Be, non tutto quel ch’è male argomentato, al fine non è detto che non possa avere una risoluzione al bene. Allora Okay Ralph, ma devi tenere a bada anche quel gattaccio di Lupen.» «Miiiiaaaaaooo!» Ps: In conclusione il dibattito è ancora aperto, una risposta alla domanda su “che cos’è il rispetto?”, è tuttavia possibile: cos’e se non un principio etico che ci restituisce la libertà di scegliere (libero arbitrio). Cos’altro, se non quella virtù morale che più d’ogni altra rende ‘umani’ anche i gatti? Note: (1)Maurizio Ferraris, ‘Introduzione’ a “Morale” ed a “Uguaglianza” in Le domande della Filosofia - Gruppo Edit. L’Espresso 2012 , (2)René Descartes, “Discorso del metodo”, RCS Libri 2010 (3)Giovanni Reale, ‘Prefazione’ a “Discorso del metodo”, op.cit.
Id: 3040 Data: 30/11/2022 18:17:42
*
- Società
Bla, bla, bla ... Il teatrino dei Pupi e dei Pupari
BLA, BLA, BLA … IL TEATRINO DEI PUPI E DEI PUPARI
Che ché se ne dica, ci siamo ormai abbonati al Teatrino dei Pupi, non quello più autentico siciliano, anche se in Sicilia non scherzano affatto, che a fare i Pupi in politica sono maestri; no a quello che la TV ci propina ogni giorno, ad ogni ora, in ogni singolo talkshow, in ogni momento del quotidiano sentire, mangiare, dormire…ecc. ecc. Sì che prima e dopo i Telegiornali delle 07, 08, 09, 10 e via discorrendo fino alle 24 e oltre messi in onda su tutte le reti nazionali e private, ci propinano i cosiddetti ‘approfondimenti’, le ‘seconde’ e le ‘terze’ pagine dei quotidiani, riviste e corrette da giornalisti pseudo-professionali che altro non fanno che ripetere a pappardella i ‘titoli’ e i ‘sottotitoli’ delle testate più o meno importanti nazionali e qualche volta estere, soprattutto quando cercano una sponda d’appoggio esterofila che in qualche modo le sostiene. Per non dire delle varie ‘rassegna stampa’ inutili quanto tendenziose e mistificatrici della realtà, che non fanno vendere una copia in più dei giornali che noi italiani, pigri come siamo, non leggiamo nemmeno più, e che, anzi, hanno ridotto i giornalai, con tutto il rispetto parlando per la categoria, a vendere i lecca-lecca e i pupazzetti di plastica ai genitori dei bimbi davanti alle scuole dell’infanzia. Mentre i Pupari, gli imprenditori della stampa, i cosiddetti Editori, hanno dato via il culo, pur di vedere la testata che li rappresenta sugli schermi della TV, ridotti costantemente alla ricerca di abbonati sul Web senza risultati eclatanti, neppure quando i loro redattori improvvisano un qualche scoop, soprattutto in politica estera, del resto già passato sui canali impegnati e quanto più credibili. Vogliamo far finta che già non si sapesse che sarebbe andata a finire così? Facciamolo pure, ma per favore non mentiamo a noi stessi, perché da dieci anni a questa parte nei sondaggi riferiti ai diversi e integrati settori della comunicazione, politico-economica-sociale e civile che fosse, si preannunciava un degrado mai conosciuto prima dall’informazione, a dir poco eclatante quanto vergognoso. Vogliamo dire della lingua italiana che ha subito uno sprofondamento abissale, voluto dalla politica, a favore di pronunce dialettali regionali oramai imbastardite da frasi in ‘volgare periferico’ che si ascoltano nei vari sequel farciti di violenza ignominiosa e di parolacce irripetibili, che non si erano mai sentite e che di certo non sono da promulgare. Soprattutto perché la visione e l’ascolto dei programmi televisivi non è necessariamente riservata solo agli adulti. Se si considera che nessuno più legge libri e quotidiani… “E’ realistico credere che il Metaverso possa essere l’innovazione pervasiva che cambierà il mondo, il nostro modo di relazionarci, esprimerci e di vivere?”, si chiede Luigi Vellone nel recente e forbito articolo apparso su AlberoniMagazine.it; il quale, inoltre, fornisce in prosieguo più di una risposta veritiera e plausibile: “Malgrado i fiumi di inchiostro e di Byte versati o scaricati sull’argomento è opportuno ricordare che il Metaverso è un nuovo mondo digitale, virtuale, multidimensionale, più completo ed allettante di quello reale, in cui potersi integrare, connettersi ed interagire per socializzare, lavorare, fare affari, giocare e divertirsi. Se tutto ciò può sembrare eccessivo e fantascientifico si può scomporre il Metaverso nelle sue componenti reali che ne rendono più comprensibile il funzionamento e le prestazioni ma anche le difficoltà realizzative”. Articolo che suggerisco di leggere per intero, tuttavia lasciando da parte i pregiudizi e la falsa moralità che andrebbero sicuramente a discapito dell’avanzamento intellettivo e della creatività che, per quanto se ne dica, ancora ci contraddistingue. Ma, mentre i Pupi di un tempo appartengono a una realtà culturale indiscutibile “quasi in carne e ossa”, i ‘nuovi pupi’ e ancor più i ‘pupari’ sono fantocci di cartapesta, o peggio ancora ‘ombre’ che vivono una falsa-realtà per un teatrino destinato presto a scomparire. Finanche la musica ‘politico-culturale’ che fa loro d’accompagnamento suona scordata, fuoriuscita da trombe ‘strombate’ e zufoli ‘sgraziati’. I loro movimenti anacronistici artati a ‘dismisura’ secondo dove tira il vento, come in una ‘danza macabra’ costantemente in guerra col destino, fagocitatore d’anime. Ecco, questo è il punto, dove sta andando quell’umanità ch’è sulla bocca di tutti e sbandierata ai quattro venti? Stiamo forse andando verso il caos totale, l’annullamento definitivo di tutto ciò che ci siamo detti finora? Verso l’infernale cavità dantesca, la distruzione del mondo, quell’Apocalisse che Giovanni l’apostolo aveva visto avanzare e che sembra si stia avvicinando al galoppo? No, tutto ciò non è verosimilmente ‘vero’, semplicemente perché non può esserlo, ognuno di noi ha bisogno dell’altro, “nessuno si salva da solo”. No, non è una frase fatta ad oc come tanti slogan che ci propinano i ‘pupari’ dagli schermi della TV. Come ha scritto un grande sociologo dei nostri giorni Zigmunt Bauman: “La vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no”, cui va aggiunto ‘che lo vogliamo o no’. E noi dobbiamo volerlo. Come scrive ancora Luigi Vallone: “Ciò potrà avvenire solo se i desideri, le emozioni, le passioni, i sogni, la creatività dell’uomo sapranno trovare nel Metaverso uno strumento più potente e performante dei mezzi e delle forme espressive finora disponibili”. Così come riporta nel citato articolo, “va fatto un salto acrobatico “oltre” la realtà, “oltre” l’universo (Meta-uniVerso). E che pure egli trova nel passato remoto che pure ci riguarda: «Nei libri Memorabili di Senofonte, Socrate esorta i maggiori pittori e scultori di Atene ad imitare nella pittura e nella scultura non solo i corpi ma anche l’anima. Chiede se il carattere dell’anima sia riproducibile nei suoi stati mutevoli ed ideali. Il pittore Parrasio e lo scultore Clitone ammettono di raffigurare l’invisibile in forma visibile” (da “Ascoltando il pianoforte di Max Weber” di M.Gammone e F.Sidoti). Ciò potrà avvenire solo se i desideri, le emozioni, le passioni, i sogni, la creatività dell’uomo sapranno trovare nel Metaverso uno strumento più potente e performante dei mezzi e delle forme espressive finora disponibili, come nelle specifiche dei grandi progetti internazionali, anche per il Metaverso “There is a requirement; Il y a le besoin; C’è l’esigenza” di avvenire, di un’umanità che guardi ad un futuro migliore, al migliore dei mondi possibili, visto che a quanto sembra, stando alla ricerca scientifica non ne abbiamo un altro a disposizione… «Certamente il ritardo nella ricerca scientifica e tecnologica renderà difficile un inserimento competitivo nello sviluppo ed implementazione del sistema descritto e, verosimilmente, bisognerà accontentarsi delle briciole lasciate dai giganti planetari già in corsa avanzata (Meta, Apple, Google, Intel, Nvidea, Huawei, Xiaomi, Samsung…). In subordine nasce allora una seconda domanda:“Sapranno gli italiani partecipare al banchetto miliardario che si va ad imbandire?” Spiacente di non avere altro da dire, aggiungo un ‘forse’: «Se tuttavia, i nostri giovani sapranno attingere ai residui geni del DNA culturale che ha caratterizzato la nostra storia e che, con il culto della bellezza, ha reso possibile il miracolo del Made in Italy, allora nello sviluppo dei Contenuti ci potrà essere molto spazio, lavoro e soddisfazioni. Se invece sopravvivranno solo gli eredi degli atleti del pollice da smartphone, vedremo tanti “rimbecilliti” sotto un casco o visore agitare da mentecatti strani guanti e stick… in perenne dipendenza da un magro reddito di cittadinanza!»
PS: Personalmente durante la lunga estate scorsa mi sono complimentato con alcune persone anonime che sotto l’ombrellone in spiaggia leggevano un giornale, un libro o si dilettavano nell’enigmistica, facendo una sorta di statistica. Immaginate una spiaggia affollata di centinaia di bagnanti, beh solo 5, come le dita di una sola mano, tutte le altre, che di mani ne hanno due, selfavano, messaggiavano e giocavano con lo smartphone, talvolta finanche per ore arrabbiandosi per giunta, e senza un’apparente ragione. Non ho altro da aggiungere … e voi?
Id: 3030 Data: 08/11/2022 17:01:23
*
- Poesia
Davide Racca … o l’orizzonte liquido del mare interiore.
“L’ORA BLU” – silloge poetica - Anterem Edizioni 2022 Davide Racca … o l’orizzonte liquido del mare interiore. È questa l’ora che nel quadrante del tempo è destinata a scomparire dalla linea immaginaria del meriggio, prima ancora che faccia sera, ancorché le note d’un malinconico violoncello si dispiegano al passaggio dell’ombra che attraversa l’orizzonte poetico dell’osservatore attento. Quell’orizzonte liquido che nell’infinito suo essere evanescente, si vuole fissato nelle profondità del mare, così come nelle sommità del cielo … Ecco quindi che “l’ora blu è un’ora crudele / quella di chiudere gli occhi / di chiuderli insieme / vedere l’intero – di quella (lingua senza idiomi) che lascia – una luce rabbiosa tra i solchi / e dopo il nero indiviso: un buio / assetato di battiti”. Quasi che la pregnanza dei colori crepuscolari della tavolozza pittorica di Davide Racca, autore di questa silloge fin “troppo vicino alla faglia della notte”, filtrata attraverso la sua lente multifocale, riflette d’un vissuto avito, memore dell’età che avanza, dell’impronta terrena, umana, mortale e quindi profana, che egli stesso ha eletto a trascendentale eccellenza: di fatto il blu è primario nella teoria dei colori, metafora dell'introspezione e dell'infinito, di ciò che è caratterizzato da sentimenti profondi, di sensibilità e mistero … “le porte aperte / le porte senza ospiti / o stipiti / … / tu che sai del vuoto / l’urlo, l’urto vertebrale / vai a ritrovare il caos / … / la faglia dove preme / la terra trema / (inutile lasciarla fuori / se piove) /… / anche se piove / è dal fondo che viene / ciò che dissipa i piedi, / le siepi, il viavai / di porte scombinate”. Un mistero di fervente spiritualità che s’irrora nel blu, quando è chiaro e sereno, nel colore del cielo; così come l'atmosfera terrestre effonde la sua “trattenuta inquietudine” nel blu delle grandi distese d'acque profonde; un segreto che l’autore non svela nel suo scrivere, ma bensì mistifica, sine die, nell’offuscarsi dell’esistenza dei giorni … “con pala e seme / non senza violenza si pianta / l’icona del cuore / … / ma dentro / è tutta pieghe e piaghe / la pulsione della bestia”. Quale mistero che non dev’essere svelato è qui mantenuta la segretezza, la propria oscurità in frantumi, l’ambiguità che “protende dalla melma”, quel “(che non vedremo senza capirlo / non capiremo senza vederlo)” di “nude sembianze (vite / nubi sogni e lividi) /… / al senso dei sogni”. “Ci sono sogni che si snodano come incidenti senza importanza, cose che nella vita ad occhi aperti neppure se ne riterrebbe il ricordo, eppure ti occupano al mattino quando li afferri mentre si spingono in disordine contro la porta delle palpebre.” Una frase questa, ripresa da i “Fiori blu” di Raymond Queneau, che – a mio parere – ben si attaglia alla cifra poetica di Davide Racca, in cui il blu incornicia gli inquieti sentimenti ch’egli afferisce al chiaroscuro della propria scrittura; una simultaneità che si rivela nei tratti di luce e d’ombra, ogniqualvolta egli cerca di catturarne l’alterità, a voler dare così un senso al mistero terreno della vita … “resta di pietra / il profilo della vita / in quel punto / resta di pietra / l’abito della festa / e il convitato / resta di pietra / la mensa di pietra / di domani / della voce / (a volerlo) si può conoscere / ogni piega e azione / fino all’ultima declinazione / del rantolo / (un notturno visionario / poi / ha prevalso / in ogni senso) / … / d’improvviso era chiaro / (la marea si alzava) /…/ si vagava a vista / (e la vista anche quella / che sfocava), nel “lento corso dell’onda”. Ma se insensato è il guardare dentro un mistero tenacemente racchiuso, talvolta prevale nella sua scrittura il ‘corpo nascosto’ usato nella frase, il mutare dell’intento in cui “lo sguardo / si è fatto luce” ed ha attraversato la tenebra che l’avvolge “nel più profondo vuoto / al centro del mistero /… / silenzio / … / complice il vuoto la luna / rovescia aghi nei monologhi / dice di un solo corpo / portato alla luce / a fare ombra … / a pensarci ora, è l’ora blu / tu / anche tu (Luna) di questa ora / hai paura?”. E dov’è quel mare ora (?) si chiede ancora il poeta preso dalla nostalgica rimembranza che adombra ogni luce ... “è di oggi la pioggia che cade / sarà stanotte / la neve di domani / … / quando lo spazio si spezza / e tutto finisce (come tutto finisce) nell’eco” del tempo che passa … “luna parola strana, sola su un corpo solo non raggiunge l’ombra del muro dove la parola amore preme la mano contro una ruga vuota … sai che passato è passato e non sai più se è stato” … “pensa al segno che rimase rete chiodi alghe e legno (il corpo vuoto di una massa) … pensa comunque pensa … promessa allora non fecero memoria”. Nota aggiuntiva: I primi pigmenti blu provengono da minerali, di solito lapislazzuli o azzurrite. Nell'Antico Egitto era la tinta della pelle del dio dell'aria Amon; blu era l’occhio dai poteri magici di Rā il dio supremo emerso dalle acque primordiali. mentre nel Cristianesimo il blu è il colore della vergine Maria. Negli usi sociali, artistici e religiosi più conosciuti, il blu è il colore simbolo della lealtà e dell'equilibrio, anche considerato simbolo della pace, della calma, così come del silenzio e dei sogni, anche quelli più neri. In sanscrito la parola nila è uno dei colori cosiddetti ‘accidentali’, significa sia nero che blu: sta di fatto che Śhiva ha la gola colorata di blu, segno del veleno che ha ingoiato ma che non l'ha ucciso; siffatto a Krishna, è attribuito un blu tendente al grigio, come le nuvole che sopraggiungono nell’uragano. L’Autore: Davide Racca, una laurea in filosofia, poeta e artista multimediale, ha realizzato mostre e letture in Italia e all’estero, investigando vari media espressivi. Ha pubblicato raccolte in versi, traduzioni in/dalla lingua tedesca, collabora all’inserto culturale Alias Domenica de il Manifesto e con varie riviste e blog letterari. Attualmente vive e lavora tra l’Italia e la Francia.
Id: 3015 Data: 27/09/2022 17:52:47
*
- Poesia
Claudio Salvi ‘una presenza assordante’ “Sequenze”, Anterem.
Claudio Salvi ... ‘una presenza assordante’ “Sequenze”, silloge poetica edita da Anterem Edizioni 2022
In primis c’è la pagina bianca appena ombrata dalla mano che scrive, un fil di penna sottile, quindi l’inchiostro che non macchia, che non lascia sbavatura alcuna, che non allude ad alcun colore, quasi assente nella sua infinitesima corposità, e che pur traspare la presenza di un pensiero latente che si posa – quasi per caso – sulla superficie. “Quasi emergesse dal fondo di una purificazione”, scrive Giorgio Bonacini nella sua post-fazione, alla cui nota va aggiunta un’altra riflessione che espone l’autore, Claudio Salvi, ad una cercata assenza/presenza assordante … “e non sapere / senza parole / […] adesso so che / parola preme non dire” Se la parola ha un senso, se diamo ad ogni parola un senso, siamo qui messi di fronte a una parola mancante, che l’autore non dice, che non ha bisogno di dire, frutto di una sorta di melanconia sopraggiunta, albeggiata dietro un amore perduto (?) o, forse un sentimento non appagato (?) chiuso su se stesso, devitalizzato dall’esperienza di un vissuto che preme da lontano … “preme lontano da lontano / parola / preme basta – / parole suono / mano” Quella mano che un giorno ha incominciato a scrivere sulla pagina bianca, riproponendosi in un gesto onomatopeico, imitativo di un pensiero che ritorna, e che “preme, fa premura” in costante attesa “come se fosse vedi / per ricordo”. Ma i ricordi si sa vengono dal passato e raggiungono il presente, giammai sono proiettati nel futuro, per quanto entrino in noi in forma di corrispondenze, di configurazioni, di possibilità … “non ti vedo e vorrei / mancano le cose viste insieme, ti chiedo di aspettare” Ha dello straordinario il ‘senso’ che si dà alle parole quandanche isolate non sembrano voler dire nulla, quandanche il nulla di per sé non esista, esiste il vuoto dei pensieri, della mente riposta, della freudiana memoria inconscia, “non so quando chiami mi giro come se abitassimo insieme” … “intanto che aspetto guardo la finestra, i nuvoli hanno forma come da noi in estate”. […] “sono una macchina di parole”. Siamo macchine di parole fin troppo spesso buttate giù alla rinfusa da apparire senza senso, quando invece un ‘senso’ ce l’anno, lo devono avere, sempre. Claudio Salvi non è poeta che si espone alla rinfusa ma l’altra faccia della melancolia idealizzata, l’auto-rimprovero di sensi di colpa, caratterizzato dalla presenza/assenza che l’ha condotto a scrivere in forma poetica, nel modo che più si addice a un potenziale narratore che ‘frammenta’ le frasi, che ‘aggira’ gli ostacoli della lingua scritta per dare figurazione ai vuoti (nella pagina) che non si riempiranno mai … “aggira l’ostacolo, ogni deviazione descrive un segmento, è analisi di figura a proposito di frammento, ogni segmento […] disegna una linea, non colma la distanza” Vuoti che dicono, vuoti di parole omesse, dimesse dal senso, che non parlano, che nell’assenza della sottomissione, lasciano percepire la presenza assordante della propria voce, di colui che nell’assenza riempie il vuoto di parole, di un soggetto ideale più probabile di una presenza, idealizzazione essenziale di una reazione alla mancanza di una separazione affettiva: “chi ama indica una preferenza” … “dal buio non metto insieme chiarezza, io penso se guardo una finestra che vedono dentro” Nel cercare una definizione poetica che rispecchi il pensiero significante di Claudio Salvi va fatta distinzione, fra parola e pensiero, fra senso e sentimento, che spieghi un perché, pur nell’ottica di una possibile contraddizione: l’aver dato voce all’”altro incommensurabile” che è in ognuno di noi, che ci accomuna tutti nel prescindere da ciò che non capiamo, che non vogliamo intendere perché scomodo, o forse solo complicato, se non addirittura pesante … “si parlerà d’altro senza fine finché / non può essere data se non per ciò che dà” Come voler cercare un pretesto, o forse una ragione, una qualche risposta agli interrogativi della vita, quella stessa che si era detto: “albeggiata dietro un amore perduto (?) o, forse un sentimento non appagato (?), un pretesto dunque … “pretesto – ragione apparente di cui ti servi per nascondere un disegno” Allorché la pagina si apre e ci si accorge ch’è rimasta bianca, appena ombrata dalla mano che scrive, un fil di penna sottile, d’inchiostro che non macchia, che non lascia sbavatura alcuna, che non allude ad alcun colore, quasi assente nella sua infinitesima corposità, ma che pur traspare alla presenza di un pensiero latente che si posa – quasi per caso – sulla superficie … “non ancora educato segna la casa di numeri, la musica non è che un abito della matematica”.
L’Autore. Claudio Salvi milanese scrive. È questa la cosa che mi sembra più importante in questo momento in cui nessuno legge, onde lasciare un ‘segno’ della propria esistenza, della propria esperienza di vita. Sue pubblicazioni inoltre: gammm.org nazioneindiana.com vibrisse.wordpress.com leparoleelecose.it il cucchiaio nellorechio.it
Id: 3014 Data: 22/09/2022 17:17:46
*
- Alimentazione
A tutto Jazz e Altro - Giornata Mondiale della Musica 2022
A TUTTO JAZZ e ALTRO. FESTA PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA MUSICA 21 GIUGNO 2022
♣ Rimescolando le notizie sull’attività jazzistica a me giunte in questi ultimi mesi denoto una fortissima ripresa di novità molto interessanti, soprattutto di numerosi strumentisti eccezionali che hanno saputo imporsi all’attenzione internazionale durante i ‘meeting’ più accreditati che, malgrado il fermo di due anni per le ragioni che sappiamo, hanno ripreso alla grande, come è possibile vedere qui di seguito:
♥ Si è concluso in aprile l’Ancona Jazz che festeggia l’International Jazz Day UNESCO, con un programma quanto mai fitto di appuntamenti, nato nel 2011 dall’idea del grande pianista e UNESCO Goodwill Ambassador Herbie Hancock: “per evidenziare il jazz e il suo ruolo diplomatico di unire le persone in tutti gli angoli del globo”. Tanti gli incontri che Ancona Jazz ha organizzato tra la città di Ancona e Jesi, inserendoli nel già ricchissimo calendario ufficiale della 49a edizione. Durante la giornata in cui si sono tenuti anche importanti omaggi a due grandi icone del più vasto ambito jazzistico, Charles Mingus e Jack Kerouac, dei quali nel 2022 ricorre il centenario della nascita, che pur in ambiti diversi hanno lasciato una traccia profonda quanto innovativa nel linguaggio jazzistico. È andata così che “La mattina del 30 aprile, presso il Liceo Musicale Carlo Rinaldini di Ancona, si è aperto il seminario sulla vita e l’operato dedicato: "Peggio di un bastardo: Charles Mingus e la musica come autobiografia", arricchito da proiezioni, immagini e video, e tenuto da uno dei massimi musicologi italiani, Stefano Zenni, autore di numerosi libri e saggi, direttore artistico di rinomati festival, docente di conservatorio e relatore profondo, che riflette la sua passione smisurata in una meticolosa, costante ricerca, allo scopo principale di porre nella giusta luce e considerazione la grandezza di musicisti tanto essenziali nell'evoluzione del linguaggio musicale del secolo scorso.” Seguito dal concerto "Blues & Roots Quintet" - nome che richiama uno dei dischi più rilevanti del grande contrabbassista - formato da docenti del Conservatorio G.B. Pergolesi di Fermo: Marco Postacchini (sassofoni), Mauro De Federicis (chitarra), Emanuele Evangelista (pianoforte), Gabriele Pesaresi (contrabbasso), Andrea Nunzi (batteria). Nel pomeriggio, presso la Mole Vanvitelliana si è tenuto il concerto “Jack Kerouac. The heart Beat of Jazz” con protagonista il cantante e fine dicitore Riccardo Mei. Un emozionante reading del libro più famoso di Kerouac "Sulla strada", alternato all'esecuzione di brani tipici dello stile bebop, seguendo esempi notevoli che spesso hanno fatto capolino nella discografia jazzistica, con riferimento principale quel "Bop for Kerouac" che il cantante Mark Murphy realizzò per l'etichetta Muse nel 1981. Il jazz, come ben sappiamo, non si è mai esaurito nella sfera musicale, ma ha invaso tante altre forme artistiche, dialogando volentieri con esse, non ultima la letteratura. E quando si accomunano questi due termini, il primo nome che salta in mente non può che essere Jack Kerouac, esponente fondamentale di quella "beat generation" che aveva nel bebop non soltanto un mero sfondo sonoro, ma piuttosto un modello d'ispirazione nel processo creativo di una scrittura dove la sincope, l'improvvisazione, la tecnica strumentale innovativa si riverberavano nelle parole, prosa o poesia che fossero. La simbiosi tra i due mondi fu così alta che lo stesso Kerouac incise dischi di "reading" con accompagnamento jazzistico (mitico fu "Blues and Haikus", con accanto i soli Al Cohn e Zoot Sims al sax tenore). La giornata ha poi riservato altre sorprese a Jesi, con “Oslo meets Jesi”: Ancona Jazz e la Scuola Musicale Opus 1 diretta da Stefano Coppari e Samuele Garofoli, con ospiti d’eccezione i giovani studenti jazz della scuola “Improbasen” di Oslo, noto centro didattico per bambini e giovani cui metodologia ha attirato molta attenzione negli ambienti musicali professionali norvegesi e internazionali. Al culmine di questo prezioso incontro c’è stata l’esibizione presso il teatro “Il Piccolo”, un concerto finale, diretto dal maestro Odd André: un evento ad ingresso gratuito, in collaborazione con l'Assessorato alla Cultura del Comune di Jesi e Arcevia Jazz Feast. www.anconajazz.com - info@anconajazz.com ♥ Di risonanza internazionale, si è da poco conclusa la diciannovesima edizione del Novara Jazz Festival sull’onda della nuova scena jazz inglese, con la presenza di Collocutor e Theon Cross, e importanti nomi del panorama jazzistico in solo - Peter Evans, Bruno Chevillon, Kit Downes - fino a progetti italiani di respiro internazionale, come Rylander Löve con Pedrotti, ACRE con Evans, She's Analog, per arrivare a ensemble contemporanei come L.U.M.E. e Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp. Una serie di concerti diffusi tra i luoghi storici e spazi recuperati della città e del parco del Ticino. ♥ Ad aprile la GleAM Records ha festeggiato l’uscita di “Everyday Life”, l'album di debutto del chitarrista e compositore italiano Edoardo Liberati e del suo progetto ‘Synthetics’, disponibile in CD e digital download/streaming. Ciò che colpisce di questo album è la particolare miscela dei brani e la narrazione che ne scaturisce con grande personalità e coraggio. Le composizioni presentano feels idee diverse, riguardo tutti gli aspetti della musica: tempo, metro, struttura, arrangiamento, forma, orchestrazione, dinamica. Ogni brano ha una sua voce specifica e unica, senza rinunciare alla coerenza dell'intero lavoro. In formazione Edoardo Liberati, chitarra elettrica ed acustica; Vittorio Solimene, piano e Fender Rhodes; Alessandro Bintzios, contrabbasso, Riccardo Galli, batteria.
♥ “Niue” è il titolo del nuovo video dei Satoyama che anticipa “Sinking Islands”, il quarto album della band piemontese in uscita ad aprile per Auand Records. Il nuovo album prosegue il cammino intrapreso dal precedente “Magic Forest”, ottimamente accolto dalla critica ed incluso tra i migliori 100 dischi dell’anno dalla rivista JAZZIT, e dal progetto “Build a Forest” che attraverso il primo tour ad impatto zero li ha portati, grazie al supporto di Siae, Mibact e Fano Jazz Network, a suonare lungo tutta la Russia promuovendo un nuovo modo di vivere la musica ed il lavoro dell’artista. Una straordinaria esperienza da cui è stato creato il docu-film “Rails”. Ogni concerto dei Satoyama, aiuta a finanziare un progetto di sostenibilità. Una scelta concreta che mira a costruire, attraverso la musica, un mondo più equo e sostenibile. Ancora una volta i Satoyama raccontano le urgenze del nostro pianeta, da sempre al centro della loro musica e del loro impegno. Lo fanno attraverso il linguaggio dell’immaginazione, un wanderlust evocativo che narra di un ipnotico amore per la sabbia e per le onde del mare. “Sinking Islands”, come ci dice il titolo, ci parla dell’innalzamento del livello dei mari e del destino che accomunerà luoghi lontani e poco conosciuti insieme a città e grandi metropoli. Ogni brano del disco porta il nome di una realtà che affonderà se non si applicano cambiamenti repentini: Tuvalu, Palau, Kiribati ma anche la più familiare Venezia. Le note sono alquanto poetiche, invitano a lasciarsi andare a più importanti considerazioni sui significati da concedere all’ascolto di un disco che invoca un racconto di romantico rincontro tra la natura e l’uomo nella sua espressione migliore e più alta: la bellezza. “Sinking Islands”, è lo spirito dei sognatori che parla dritto all’anima. È lo sguardo delle anime che non si arrendono alla corrente apatica e immobile della società che ci vuole sdraiati e immutati di fronte al ‘climate change’.
♥ Di recente uscita per la Piano Series di Auand Records, “Insight”, di Giulio Gentile disponibile in CD (distr. Goodfellas e Jazzos). I singoli tratti dall’album sono disponibili su tutte le piattaforme streaming mentre tutto l'album è già disponibile in esclusiva su Bandcamp. Giulio Gentile esplora la forma del trio nel suo nuovo album “Insight” che egli stesso ha definito:” Un lavoro in equilibrio tra introspezione e dialogo.” Nonostante la giovane età il pianista abruzzese Giulio Gentile ha ormai collezionato una ragguardevole quantità di premi e riconoscimenti, sia in Italia che all’estero. Già membro di numerosi progetti, dal duo al quintetto, si cimenta ora nella classica forma del trio dove troviamo al suo fianco Pietro Pancella al contrabbasso e basso elettrico e Michele Santoleri alla batteria. Una scelta non occasionale ma frutto di una lunga frequentazione e affinità musicale. “I miei collaboratori – come spiega in prosieguo – sono stati fondamentali, sia a livello musicale che umano, per arrivare alla realizzazione di questo disco. Hanno sempre creduto nella mia musica e mi hanno sempre dato l’energia necessaria per proseguire questo progetto. Ci lega insomma una profonda amicizia. Inizialmente ci siamo semplicemente incontrati per provare a suonare qualcosa insieme, in seguito si è andato sviluppando un repertorio centrato su mie composizioni e arrangiamenti che ha portato poi alla nascita del trio a mio nome. Quando suono con loro riesco a percepire il trio come un'unica persona, c’è molto interplay e ascolto reciproco e questa cosa mi piace molto!”. Si tratta di un lavoro che programmaticamente cerca e trova un’impronta personale e originale, evitando di chiudersi in forme ordinarie di genere.
♥ Con l’album” Lexicon I”, Auand Records, il pianista italiano Filippo Deorsola riunisce il suo trio Anaphora per una raccolta di pezzi che sfidano le tradizioni stesse del jazz a cui i tre musicisti si sono formati. Altamente originali e spesso inaspettate, le 11 composizioni si ispirano alla musica d'avanguardia, al jazz straight-ahead, alla musica classica contemporanea e persino al blues, giocando con le aspettative dell’ascoltatore ad ogni battuta. L’intimità del piano solo, le esplorazioni materiche del contrabbasso e le esplosioni del groove coinvolgente della batteria costruiscono l’asimmetria stilistica indefinibile delle sperimentazioni sonore di Anaphora. Nato dall’incontro casuale ad una jam session del Conservatorio CODARTS di Rotterdam, il trio Anaphora è guidato dal desiderio di esplorare la relazione tra forma musicale, improvvisazione e capacità innata di ognuno dei musicisti di orientarsi in un paesaggio musicale. In Jonathan Ho Chin Kiat (contrabbasso) e Ap Verhoeven (batteria) Filippo Deorsola ha trovato due compagni di viaggio che hanno abbracciato la natura lungimirante del jazz contemporaneo, che sfugge alla rigida classificazione di generi, e che si dimostrano cospiratori partecipi nella ricerca tesa ad eludere le attese – sia le loro, sia degli ascoltatori. Con le parole stesse di Filippo Deorsola, sgretolando una comoda familiarità con la struttura e il tempo musicali, e lanciandosi nel mondo dell'inatteso “gli automatismi del corpo vengono messi in discussione. È necessario quindi riprendere il controllo del corpo per fare in modo che impari a navigare forme musicali più complesse per poi lasciarlo improvvisare liberamente su queste”. Volendo trasformare le parole in azione, Filippo Deorsola ha presentato la sua ricerca sull’improvvisazione, oggetto della sua tesi di laurea, alla Arts and Technology Conference di Porto nel 2021, e ha fondato il M.A.D. Collective (Mutually Assured Deconstruction), uno spazio che riunisce artisti visivi, autori, esecutori e rappresentanti del mondo accademico per elaborare nuove modalità di indagine degli eventi e del mondo che ci circonda. “Lexicon I” è dunque un'esperienza di ascolto affascinante per gli amanti della musica contemporanea, e lascia presagire cosa ci riserveranno in futuro Filippo Deorsola e i suoi compagni musicisti. ♥ A maggio risale la presentazione ufficiale di “Chansons sous les doigts” del pianista campano Vincenzo Caruso che prosegue la collaborazione con l’etichetta pugliese Dodicilune. Dopo “Sirene a Cadaques” (2020), distribuito in Italia e all’estero da IRD e nei migliori store on line da Believe, arriva “Chansons sous les doigts”. Se il precedente disco era nato dall’incontro tra le composizioni del pianista, la poesia di Pina Varriale e l’interpretazione vocale di Annalisa Madonna, qui il musicista propone diciannove canzoni francesi re-arrangiate per pianoforte solo. Interessante leggere le motivazioni che hanno portato l’autore Vincenzo Caruso a una scelta tanto azzardata quanto originale: “Fin da bambino gli spartiti che mi inviava da Parigi "mon grand oncle" Antonio Di Domenico (1920-1985) chansonnier italo-francese e fondatore della casa editrice musicale "Club des auteurs", hanno portato il fascino della canzone francese sul leggio del mio pianoforte», racconta Caruso. «Più tardi, oltre allo studio dei capolavori pianistici degli impressionisti Francesi, un altro evento ha determinato il mio "debole" per la Chanson française, ovvero la collaborazione come pianista alla commedia musicale "Irma la douce" con le musiche di Marguerite Monnot arrangiate da Gérard Daguerre per il Théâtre national de l'Opéra-Comique di Parigi. Il risultato di queste esperienze si concretizza oggi in “Chansons sous les doigts”, un omaggio pianistico alla canzone francese del 900. L'idea di realizzare questo disco mi si è palesata nell'aprile 2021 come un vero colpo di fulmine durante l'ascolto casuale di Syracuse di Henri Salvador», prosegue. Rapito dall'eleganza di questa canzone ho cercato subito di riprodurne la grazia sui tasti del mio pianoforte e, incuriosito dall'esperimento, mi sono ripromesso di selezionare una canzone per ciascuno dei 20 giorni seguenti, nella sfida personale di rendere indipendenti dal testo queste Chansons e trasformarle in moderne "romanze senza parole" per piano solo. Scelti secondo il criterio della rarità, i brani proposti risalgono al periodo compreso tra gli anni ‘30/’70. Spero che questa scelta possa tracciare per gli ascoltatori un sentiero che li conduca con garbo alla riscoperta delle versioni originali di queste Chansons”. Oltremodo interessante è fare la conoscenza di una ‘eccellenza italiana’ che sfugge ai più: “Diplomato con il massimo dei voti e la lode in Pianoforte e in Direzione e Composizione corale presso il conservatorio di Napoli, dal 1990 Vincenzo Caruso collabora con il Teatro San Carlo di Napoli per il quale attualmente ricopre il ruolo di Maestro collaboratore al Coro, ruolo che lo porta a interagire come pianista con direttori d’orchestra di fama internazionale quali Riccardo Muti, Zubin Mehta, Fabio Luisi, Juraj Valchua, Nello Santi, Daniele Gatti e molti altri. Si esibisce al pianoforte accompagnando il coro del Teatro San Carlo in numerosi concerti. Nel 2003 viene scelto come pianista per “Irma la douce” con regia di Gerome Savary, coproduzione tra l’Operà comique di Parigi e la Compagnia “Gli ipocriti”, in tournée nei più importanti teatri Italiani. Collabora inoltre come pianista allo spettacolo “Sguardi” con Isa Danieli e regia di Giuseppe Bertolucci, per diverse repliche al teatro Trianon di Napoli. Nel 2009, viene invitato dall’etoile Roberto Bolle per il galà per “Unicef” Bolle & friends all’Arena Flegrea di Napoli, dove accompagna al piano con musiche di F. Chopin la sua esibizione con l’etoile Isabel Ciaravola. Nel 2018 scrive le musiche per lo spettacolo “Ignazio e Maria” con la regia di Carmine Borrino per il Napoli Teatro Festival.”
♥ L’etichetta pugliese Dodicilune prosegue la sua collaborazione anche con il chitarrista toscano Fabrizio Bai. Dopo “Etruscology” (2013) e “Comunque sia…” (2019), a maggio è uscito “Alto mate”, distribuito in Italia e all’estero da IRD e nei migliori store on line da Believe. Il musicista e compositore, qui anche nell’inedita veste di cantautore, affiancato da Andrea Libero Cito al violino e Raffaele Toninelli al contrabbasso, continua a raccontare i suoi incontri di vita e le sue esperienze musicali. Le sette composizioni originali si muovono tra sonorità latine, contaminazioni mediterranee, melodia italiana e jazz moderno. Le immagini dolci e calde del Sud America convivono, dunque, con quelle ruvide e pacate della Toscana, terra d’origine dei tre musicisti. La title track “Alto mate” mescola alcune idee ritmiche della tradizione argentina con la forma choro della musica brasiliana, della quale sfrutta anche il ritmo di Samba-Choro nelle strofe, con uno spunto del ritornello tipicamente mediterraneo. “Tocando Gisela” ha la forma tipica dello standard americano e richiama molto le sonorità della musica manouche francese. La struttura armonica è comunque di ispirazione più moderna e regala al brano un “sapore” inaspettato e trasognante. La milonga “Pellicano Moonlight” è una delle composizioni più vecchie scritte dal chitarrista per questo disco. Si ascoltano infatti alcuni colori tipici del lavoro precedente “Comunque sia…”. Il violino però ispira sia la chitarra che il contrabbasso a trovare soluzioni più “liriche” tipiche delle colonne sonore dei film con un tono drammatico e romantico. “Tra te e me” è un brano scritto nella forma tipica dello choro brasiliano AABACA accompagnato del ritmo di samba. È un omaggio dell’autore ai grandi artisti della musica popolare carioca che lo hanno ispirato in questi anni come Guinga, Pixinguinha, Baden Powell per citarne alcuni. La forma armonica è quella tipica della musica tonale mentre la melodia, in principio pensata per mandolino, è reinterpretata dal violino. “Blue Even no Heaven” è il brano più “jazz” del disco. Sia per la sua forma che per la struttura armonica e melodica. È una composizione modale complessa su un tempo di ballad even eights. Il tema resta comunque molto morbido usando pochi salti di corda per tenere unite le tensioni degli accordi. Lo dimostra anche l’interpretazione del solo del contrabbasso rarefatto e suggestivo per dipingere al meglio la tela di questa struttura armonica. “Walzer senza nome” si sviluppa in strofa e ritornello che si ripetono tra un lungo solo di violino e una improvvisazione “aperta” di chitarra. Nella conclusiva “Nina”, Fabrizio Bai esordisce nella veste di cantautore. La canzone è la parafrasi di un viaggio di “vita” nel quale un padre dà consigli a una figlia, senza volerne interrompere il percorso. Si limita solo a starle vicino nelle sue scelte. Con una melodia tipicamente italiana, la musica è ispirata dal ritmo di Chacarera, giocando con delle poliritmie per richiamare lo swing tradizionale americano. Molte le ‘note’ nel curriculum di Fabrizio Bai (leader del gruppo) inizia a suonare la chitarra a 11 anni. A 18 segue i seminari di Giovanni Unterberger all'Accademia Musicale Lizard. Si laurea alla facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Siena, indirizzo musica e spettacolo. Nel 1996 si iscrive ai corsi di Siena Jazz. Nel 2001 frequenta i seminari estivi di Nuoro Jazz con Tomaso Lama e Bruno Tommaso. Nel 2002 frequenta i corsi di armonia ed arrangiamento con Stefano Zenni e Bruno Tommaso. Insegnante di chitarra presso la scuola comunale di musica di Monteroni d'Arbia, di Sinalunga e all'Accademia d'Arte di Sinalunga. Nel 2006 entra a far parte del gruppo docenti della Peter Pan orchestra della fondazione Siena Jazz insieme a Marcello Faneschi, Ines Garbi, Martina Guideri. E dal 2009 passa alla direzione del progetto. Oltre agli studi, all'insegnamento e alla composizione è sempre stato impegnato anche in un'intensa attività dal vivo con svariate formazioni spaziando tutti i generi musicali, dal rock al jazz, dal blues alla musica popolare. Ha suonato con la G.O.P. diretta dal M° K. Lessman. Nel 2004 assieme ad E. Bocci (voce) e M. Campanini (testi) dà vita alla "Compagnia Musicale le Voci del Vicolo" band che propone materiale originale miscelando sonorità etniche e popolari al jazz e allo swing, proponendo il tutto sotto a una forma che si rifà al teatro-canzone. Fanno inoltre parte dell’ensemble: Raffaele Toninelli, diplomato in contrabbasso all’Istituto da Alta Formazione Musicale Rinaldo Franci di Siena con il M° Andrea Granai, nel corso degli anni frequenta seminari e lezioni. Dal 2007 collabora con l’orchestra sinfonica Orchestra Città di Grosseto. Dal 2009 è contrabbassista del gruppo Musica da ripostiglio, con cui produce ben cinque cd e un audiolibro per bambini. Nel 2010 fonda insieme a Fabrizio Bai ed Emanuele Pellegrini I Latino FER. A teatro ha lavorato in numerosi spettacoli componendo anche le musiche per il monologo teatrale “Una Luce In Una Selva Oscura” interpretato e diretto da Roberto Zibetti e per il cortometraggio “Fog at Sea” diretto da Donato Rossi, finalista al festival Lisbon Films Rendezvous. Andrea Libero Cito, diplomato in violino al Conservatorio di Musica Luigi Cherubini di Firenze, nel corso degli anni, prima di diventare un insegnante di violino e musica d’insieme, ha partecipato a diverse master class, studiando con Andreas Neufeld, primo violino di Berliner Philharmoniker. Si è esibito dal vivo e ha inciso vari cd con Renzo Rubino, Paola Turci, Margherita Vicario, Roberto Kunstler, ha suonato in diversi gruppi orchestrali e da camera e ha collaborato con i compos itori Leonardo Barbadoro ed Eugene. Dal 2020 lavora stabilmente con Fabrizio Bai.
♣ Di più recente, l’uscita in edicola e libreria del nuovo numero di “Musica Jazz” (in copertina) con le ultimissime in musica, il calendario dei concerti, gli avvenimenti più eclatanti, a incominciare dalla novità assoluta di Charles & Camille Mc Pherson, un maestro del sassofono che apre una nuova strada percorsa insieme alla sua famiglia: la figlia Camille, ballerina classica di grande talento, e la moglie Lynn, pianista classica. (continua)
Id: 2979 Data: 18/06/2022 16:59:45
*
- Società
Bla, bla, bla … quando sono tanti galli a cantar...
BLA, BLA, BLA … “quando sono tanti galli a cantar non si fa mai giorno”.
L’indulgenza plenaria che gli Italiani fingono di regalare a questo governo è evidente in ogni azione ufficiale che si svolge nel paese, non in ultimo il mancato recarsi alle urne di milioni di persone che ‘a ragione’ non hanno fiducia nei politici e ancor meno nella politica in generale. Lo dimostra il fatto, il più eclatante che si conosca, non essere riusciti a designare un nuovo Presidente della Repubblica, per poi dover ‘pietire’ dal pur illustre quanto generoso Sergio Mattarella di restare al suo posto per altri sette anni, quasi lo si volesse conservare (imbottigliarlo) come si fa con il vino buono, nella botte democratica della Costituzione. Di fatto c’è una sola verità che si canta in un vecchio stornello: “quando sono tanti galli a cantar non si fa mai giorno”; così avviene che le ‘galline’ si fanno loro intorno e armano nel pollaio un tale baccano da far rizzare i capelli (e a quanto pare non solo quelli); sì che fanno a gara (uomini e donne) a chi mette le migliori piume sul culo con cui pavoneggiarsi. Ma, come si dice, i galli non saranno mai pavoni, e alle galline non rimane che covare le uova e strillare da arrossare le gole. Diciamolo pure, gli Italiani seduti oggi sugli scranni del Parlamento sono di una razza inqualificabile (ne galli ne pavoni), non certo migliori dei loro predecessori, che almeno, in certi casi, hanno compreso quand’era il momento di lasciare. Inutile del resto girare e rigirare intorno al dito levato per controbattere ad ogni occasione e quindi rinegoziare atti e leggi votate in prima istanza solo per un ripensamento di partito; come anche inutile cercare ad ogni piè sospinto un’unanimità che non c’è, che non ci può essere se ognuno di loro guarda al solo suo orticello. Il problema, perché di questo si tratta, questi uomini-galli e donne-galline non sanno neppure cos’è una zappa o che l’orto ha bisogno di cure costanti, che non basta annaffiare le pianticelle che s’affacciano dalla terra; cosa che pensano di fare impunemente pisciandoci sopra così, a spruzzo, senza neppure incanalare la direzionalità del getto. Ma questi ‘malpartiti’ non sanno neppure che l’orticello incolto non rende i frutti sperati e che i ‘parassiti’ (addetti e affini della politica) da loro stessi cresciuti, non fanno sempre e solo il loro gioco, che a loro volta guardano con avidità a far fruttare il proprio orticello, e allora lì dove il ‘gallo’ ha piantato le zucchine, s’attaccano e piantano a loro volta i pomodori e le melanzane nella speranza/possibilità di condividere la futura ‘teglia’. Mentre le ‘galline’ (mogli, amanti e comunque concubine), nascondono sotto il culo anziché l’uovo di giornata, l’uovo di cioccolata con dentro la sorpresa, nell’attesa, che prima o poi, quel ‘povero cristo’ del loro mentore (il pappone gergale), salga di qualche posizione nella scalata politica che s’aspettano ad ogni volgere di bandiera. Qualcuno, di certo uno della casta con ricercatezza linguistica, ha definito il fatto come un ‘cambio di casacca’ quando in realtà è ciò che più si addice a un ‘voltagabbana’ da strapazzo, un qualunque venditore di fumo che resterà comunque anonimo nel mare magnum della politica, disposto a vendersi i coglioni per ‘quaranta denari’, quegli stessi che sono ancora in circolo dal tempo di Giuda e che non gli basteranno per costruire la ‘dimora’ vagheggiata nel futuro. Mi chiedo come sia possibile non concepire che le malefatte prima o poi verranno a galla e che dovrà comunque pagare il ‘laggio’ della sua defecazione? Come si fa ad essere ciechi davanti all’evidenza della propria decostruzione senza ricostruzione, senza approntare una possibile resilienza che gli permetterebbe di recuperare l’equilibrio e la riorganizzazione in chiave positiva della propria personalità dismessa? Non c’è alcuna altra risposta da dare, gli Italiani con il loro consueto discriminante menefreghismo hanno dimostrato più volte la contrarietà a questa scadente classe politica che null’altro ha da dire della propria inconcludenza, della futilità delle proprie idee sconclusionate e delle promesse malriposte; ancor meno della miserabile miseria in cui certi banali individui le hanno concepite. Quel che si chiede l’uomo qualunque è infine di uscire dal pantano melmoso della politica così fatta, da una democrazia irrispettosa dei diritti dei cittadini, dalla volgare mancanza di una giustizia equa, dallo squilibrio sociale degli interventi attivi negli interessi economico-finanziari in favore esclusivo dei settori industriali e dei magnati della finanza. Ma non basta, ci sarebbe molto altro da aggiungere …. Volete farlo voi che mi leggete? Siete i benvenuti, purché alziate il tono della voce.
Id: 2975 Data: 13/06/2022 11:30:24
*
- Libri
Allì Caracciolo, ’Blood’ - Anterem Edizioni 2022
Allì Caracciolo, “Blood” (…versato sulla pagina bianca e/o sull’intavolato del vostro teatro invisibile). Si pensi di dover leggere un testo tenendo la bocca chiusa, articolando le parole con la sola espressione del viso e che altri, presenti sulla scena del vostro dire immaginario seguano allo stesso modo quel che voi non-dite; come se il vostro dire fosse recepito sull’onda dell’emotività che provate interiormente e che gli altri, con la stessa emotiva sospensione, anticipino o diano prosieguo al vostro dire fisiognomico. Un suggerimento linguistico alquanto inusuale, se vogliamo più vicino al carme che alla narrativa, per leggere questo testo di Allì Caracciolo in cui diversi elementi alogici, compresa di immaginaria azione scenica, montano deliberatamente una struttura verbale enumerata in 99 punti “…manca uno per traboccare il vaso”; come è in uso nella forma propria dell’happening svolto in tempi diversi e spazi differenti che, potremmo chiamare non-luogo che, pur in relativo contrasto con il volere dell’autrice, non è rappresentato dal ‘vuoto’…"l’istante di soglia di opposti simultanei, l’indistinguibile differenza, figure d’inaccessibile indifferenziato (ove) il lemma abbuia l’orizzonte senza che sia buio.” Ma cos’è il vuoto se non quel ‘vacuum’ latino, o piuttosto quel ‘vacuo dire’ privo di contenuto che non ha nulla dentro di sé, che non contiene ciò che invece potrebbe contenere, cioè la cifra incontenibile dell’autrice che sottopone all’analisi critica il suo intimo e (forse), il suo più nascosto essere antropico, ‘apollineo e dionisiaco’, l’essenza ‘umana/sovrumana’ che già il filosofo Friedrich Nietzsche (*) ebbe a concepire in “Umano, troppo umano”, caratterizzato da una luce che ‘diversamente illumina’ le cose del mondo allo stesso modo del destino degli uomini … “…La perfetta armonia delle raccolte membra – l’atleta smembrato sistemato in una icona di strutto – […] la metamorfosi della carne non sempre si attua attraverso il verme – talora, nello spessore dei fumi, grida congelate poi ceneri […] talora, sempre più spesso, in retaggi di corpi, sparsi ex voto di gambe braccia intestini e cuori – semine di teste sui campi.” Sì che, in quel ‘vuoto privo di contenuto che invece potrebbe contenere’, si muove Allì Caracciolo, andando alla ricerca d’una probabile interiorità perduta, a scovare negli antri nascosti dove il sangue (blood) s’oscura del sapere ancestrale che la sola linfa conosce e che lascia risalire in superfice, fino all’epidermide in brividi di coscienza … “Condividere il sangue. La fratellanza indissolubile s’instaura: uccidere insieme -cacciatori o assassini- genera legami più forti dell’utero materno per il feto monozigote. Legame viscerale, segreto, fatto di membrane calde, cartilagini fragranti come cialde, di palpitanti intestini, l’intimo corpo rovesciato e aperto in organi squartati, il fumo del calore interno, l’odore.” È allora che l’happening si consolida in evento, per la durata esclusiva di un momento che non ha durata, di un vuoto che non è vuoto, di quella verità ‘altra’ che tutti noi siamo pur se non siamo, umani - non umani, fatti di cenere cosmica … “…che attende alla vita con leggera movenza, l’avveduta scienza di nascere ogni giorno con stupore.” Non lo stupore ingenuo del disorientamento improvviso, ma l’avveduta rivelazione di chi ha maturato una propria coscienza intellettiva, che ha compreso di dover … “…attendere alla vita tripudio di spume / che il mare avanza che la nuvola alza al nitore / come dentro una stanza da adornare con sobria misura / un trionfo barocco delicato e gentile fioritura d’aprile / sulle rovine …” Così leggiamo “sulle rovine” al liminare del tempo, la forza centripeta della fragilità umana: “Dove è finito l’umanesimo, il rispetto dell’altro, l’amore dei figli, la devozione agli dèi?” – si chiede Vittorino Andreoli (**), psichiatra di fama internazionale, nel suo “L’uomo di superficie”, per poi affermare che “L’uomo di oggi, appiattito su un presente senza prospettive, non ha più sogni né progetti, è prigioniero dell’eccesso e dell’inutile, ha paura del silenzio e della solitudine.” […] “Torniamo dall’essere umani come da una preistoria da cui allontanarsi vertiginosamente in un rovescio progresso che più si disancora dalle radici più forte lancia contro gli spazi l’urlo di feconde barbarie.” Si è detto ‘rovine’ quelle descritte in “Blood” da Allì Caracciolo, che sono insieme ‘ruderi e vestigia’ e che, pur incarnando valori antitetici, caratterizzano l’effimero della vita, il ‘non-luogo’ mutevole della resilienza; quel che al vuoto reclama la presenza in voce dell’autrice, che si fa ricongiungimento, ricerca di un dialogare che la riscatta dall’aver in primis abbandonato il ruolo di ‘fruitore passivo’, e di parlare con la ‘bocca aperta’, articolando finalmente le parole fin qui taciute … “Pure l’assillante cognizione (del sangue) che qui avversa la dissuasione a far poesia (su argomento tanto oscuro e bestiale) perviene a una sospensione (perversa e inquietante) ove tutto si azzera: la condanna del male la ricerca del vero la sapiente perizia l’impellente misura dato che attraversato per secoli l’oscurantismo sotto la legge dell’abuso e del cinismo conquistata la limpidezza alma del diritto si nega il delitto in nime della giustizia O dell’avvocatura trionfante (la mendace difesa garante).” Taciute al dunque, non senza aver estremizzato le premesse informali contenute in apertura del teatro illusionistico, Allì Caracciolo tenta di focalizzare su sé stessa, e a noi che leggiamo, la sua ‘gestazione’ scrittoria, nella simulazione di un evento fortemente drammatizzato, che la vede in prima persona attrice dell’evento da lei stessa organizzato, per l’appunto: “Blood”, come happening della sua stessa vita … “…C’è sempre un motivo un buon motivo per gestire la morte – di qualcun altro persona o animale che c’è di male a essere scaltro? Gestire la morte uccide il diritto. Dell’animale o dell’uomo? Tirare a sorte gestire la morte per potere per necessità perché hai pietà per comprensione per sopraffazione per attitudine per condivisione per abuso evidente per sovrabbondanza per uccidere per fare giustizia per sola nequizia per tracotanza per arricchire per non morire […] per uccidere per poter ridere per ammazzare per farsi innalzare per repressione per una passione perché si mente perché si sente per non sentirla perché ti ha annoiato perché ha una voce che squilla perché tu non sei stato perché ti ha tradito perché la paga che è scarse perché è tutta una farsa perché amore è finito per poi dire è scomparsa […] perché è un pezzente per non perder la faccia per farla finita perché l’hai tradita per farlo star zitto perché l’hai in mente per aggredirla per sentirsi potente perché si pente perché sei più forte perché sta scritto gestire la morte inventa il diritto di gestirla.” L’assunto implicito di questa pratica descrittiva va quindi inquadrata nel decostruzionismo derridiano (***), ovvero delle prescrizioni esecutive che di massima possono provocare esiti performativi imprevedibili di `attinenza sperimentale’, come quella descritta nel prologo, di “parlare a bocca chiusa” per dire quel certo non-dire cui invita l’autrice … “Blood è una partitura irregolare che serra gli spazi, non lascia pause di ristoro, nega il conforto della narrazione, non descrive né vuole, nega l’abbandono del pianto, l’accesso perfino, il naturale accesso allo sconforto.” … “I fantasmi della notte sono sanguinosi / il sangue del silenzio. Delle omissioni. Delle mancate occasioni. Della memoria ignorata. Dell’infanzia grata / l’indifferenza di benamare. La noncuranza a beneficare / il bene-dire senza più voce. i ricordi feroci.” Blood quindi come sangue versato sulla pagina bianca dell’inconscio e/o sull’intavolato di un teatro reso conscio, di ciò che non è stato ma che sarebbe potuto essere … “Dimmi la parola infelice che fa di questo piatto (testo) una melma (di oscure fibrillazioni, che reca brividi sulla pelle accapponata), dimmi le volte che con sangue o con fatto (in)cruento con coltello o proiettile con atti o parola col delirio dell’abuso tu hai ucciso…” “Dimmelo perché io possa conteggiare i giorni in base alle morti” … e riscattare così il tempo dell’attesa: “…quell’attendere alla vita con la leggera movenza l’avveduta scienza di nascere ogni giorno con (lo stesso) stupore” furtivo. Di ciò che inferno non è ha memoria la pelle d’ogni emozione passeggera, della cognizione sfuggente d’ogni attimo vissuto, dell’urlo che l’accoglie nell’abbraccio della fine silente … “Basta guardare gli occhi delle bestie al macello dilatati impazziti fuoriuscenti dall’orbita senza scampo presaghi di non avere più scampo l’angoscia il terrore l’imminente dolore la morte non è solo morte se passa per l’orrido sgomento della intuizione de la cognizione …” Null’altro che un falso ossimoro negazionista di ciò che “Bloob” invece è a tutti gli effetti: “…un’opera narrativa che pur nella compressione degli spazi è narrazione, l’assenza sul foglio di vie di fuga è narrazione, la variabile occorrenza di segni grafici, di punteggiatura, di spazi obbligati negati oppure dilatati è narrazione. È un racconto al di là. Di là da tutto” … frutto di un costante happening autoriale di altissimo livello letterario. Note: (*) Friedrich Nietzsche, “Umano, troppo umano” – Piccola Biblioteca Adelphi 1979. (**) Vittorino Andreoli, “L’uomo di superficie – Rizzoli 2012. (***) Jacques Derrida, “La scrittura e la differenza”, Einaudi 2002. L’Autrice: Allì Caracciolo, ha fondato e dirige un Teatro di Ricerca a livello professionale, la cui indagine si concentra sui linguaggi della fisicità vocale, corporale e della scrittura scenica. Già docente di Storia del >Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Macerata fino al 2019, ha al suo attivo numerose pubblicazioni di poesia e scrittura, regia teatrale e drammaturgia. In ordine d’uscita: “Storie impercettibili”, Prometheus 2020. Con “Blood” definisce una lingua intenzionalmente ‘impoetica’, in un’etica di scrittura diversamente ma inevitabilmente poetica. In abbinamento a questo libro con “Anacronia”, una prosa inedita vincitrice della 35° edizione de Premio Lorenzo Montano. Libro edito da Piccola Biblioteca Anterem – Anterem Edizioni 2022.
Id: 2974 Data: 11/06/2022 19:08:38
*
- Musica
I ‘frenetici’ anni ’50/’60. Vintage revival (seconda parte)
Ritornano i ‘frenetici’ anni ’50 / ’60. Vintage revival (seconda parte)
Si è detto che “Il delinquente del Rock’n’roll” un film interpretato da Elvis Presley, scatenò una vera e propria ‘rivoluzione’, dando il via al più colossale fenomeno sociale mai visto. Una generazione di giovani si riconosce in lui, si veste come lui, si atteggia come lui, porta i capelli come lui, si scatena nelle strade alla sua musica, entra per la prima volta nei bar, fonda club, dà luogo al più grande fenomeno commerciale della vendita di dischi che si fosse mai visto. I suoi LP e 45 giri vanno letteralmente a ruba, si collezionano, si regalano, i giovanissimi parlano con le parole delle sue canzoni imparate a memoria, indossano blue-jeans e giubbotti di pelle, si lasciano crescer i capelli (il celebre ciuffo alla Presley) , masticano chewing-gum, bevono Coca-Cola, mangiano pop-corn, chiamano le loro coetanee ‘pupe’, si atteggiano al volante di auto, di moto di grossa cilindrata, affrontano la vita ‘on the road’ su imitazione del loro beniamino Jack Kerouac, scrittore, poeta e pittore considerato uno dei maggiori e più importanti scrittori statunitensi del XX secolo, nonché padre della cosiddetta “Beat Generation”, realizzano la propria personalità alternativa. Qualcosa di più di una semplice infatuazione, che diede luogo a un fenomeno collettivo che raggiunse vertici impressionanti nelle generazioni successive. L’ondata di ‘revival’ cui assistiamo oggi, si ripresenta più come ‘nostagia’ di quegli anni, ma che riviverla oggi sembrerebbe più una fuga dalla realtà, “un modo per riappropriarsene, uno stratagemma per vincere la consumazione del tempo” (Argan); un voler sottolineare che le stesse cose tornano solo in quanto diverse, nel momento in cui le difficoltà sembrano prevaricare su tutto, che accresce le perplessità sulle linee da seguire e che disorienta le nostre scelte, per riversarle in fattibili travestimenti del consumismo. In fondo il ‘rock’, pur osservato nelle sue differenziazioni, non ha mai cessato di esistere, dal fatto che vi si riscontra per via della continuità ininterrotta del suo successo: si pensi solo al gruppo dei Rolling Stones ‘grandissimi’ che, proprio in questi giorni, celebra i 60 anni della sua formazione. Non rimane che cercarci uno spazio fattivo per il prosieguo del nostro “revival” che ormai spazia in ogni direzione lecita (e illecita), che miri a cogliere fra i molti che abbiamo scandagliato, un carattere che si discosti dall’angusta applicazione della categoria dei fenomeni estetizzanti, prodotti da intelletti raffinati dello show-business. Noi invece, abbiamo deciso di spingersi oltre, andando a cercare proprio quelle definizioni che più ci permettono di travalicare le barricate della cultura ufficiale che non ci hanno permesso, fino ad ora, di assecondare la conoscenza, con quella che è la realtà odierna. Secondo la definizione del noto antropologo Alexander Alland (*): «Il prototipo (culturale) occidentale contempla la distinzione fra arte e non-arte. Certi dipinti, canzoni, racconti, sculture, danze ecc. sono considerati arte, altri no. Chi sposa questa opinione sosterrebbe, per esempio, che è arte La Gioconda? Ma non l’immagine di Elvis Presley dipinta su un velluto nero, perché? la risposta forse ha a che fare con la bravura dell’artista nel cogliere qualcosa di importante incarnato da Elvis e con la cultura alla quale appartengono sia l’artista sia Elvis, cioè con il grado di felicità estetica della trasformazione-rappresentazione. […] Ma la risposta implica in parte il verdetto di quanti si arrogano il diritto di definire la vera arte, di decretare gli stili, i mezzi e le forme appropriati. […] Per i molti che hanno comprato quei ‘dipinti’ (gadget, magliette, poster, ecc.) l’immagine di Elvis creata dal pittore è indubbiamente piena di significato – che lo stile e il mezzo tocchino la loro sensibilità – non dissuade i suddetti santoni dal considerarli paccottiglia. Così, Elvis su velluto per loro non è arte, perché non affronta problemi di estetica, non concerne né il bello né il vero, non palesa la lotta dell’artista per produrre un nuovo stile di espressione, diverso da tutti gli altri che l’hanno preceduto, o perché l’artista sembra ignorare o disprezzare la sperimentazione stilistica che compone la storia dell’arte occidentale. Ciò nonostante, arte non è solo quel che una casta di esperti definisce tale, ma anche significato, abilità, mezzo». E se noi rispondessimo che Elvis è arte perché nella trasformazione e rappresentazione della sua immagine, l’artista ha espresso ciò che già era bello in natura? Ovviamente non è questa la diatriba in cui vogliamo cacciarci in questa sede, tuttavia bisognerebbe rifletterci su e magari farne oggetto di una peculiare ulteriore ricerca, (che ne dite?). Per comprendere il termine trasformazione-rappresentazione della definizione di arte proposta da Alland, dobbiamo qui ricordare che i simboli rappresentano altro da sé. Essendo arbitrari, in quanto privi di connessione necessaria con ciò che rappresentano, si possono separare dall’oggetto o dall’idea in questione per essere apprezzati in sé, e addirittura servire per esprimere un significato del tutto diverso. Ci sono infatti teorie che dimostrerebbero il contrario, almeno sotto l’aspetto cognitivo interiorizzato. Scrive ancora Alland: «Poiché trasformazione e rappresentazione dipendono l’una dall’altra, esse viaggiano accoppiate. Non è che un altro modo per parlare di metafora: un disegno, per esempio, è una trasformazione metaforica dell’esperienza in segni visibili su una superficie; del pari, una poesia e/o una canzone trasformano metaforicamente l’esperienza di un linguaggio denso e compatto. Il processo è uno di quei casi che impegnano l’attività tecnica dell’artista». Il senso di questa affermazione serve qui a confermare la nostra convinzione che come per la poesia, portata ad esempio da Alland, lo stesso accade per la musica, per il canto o la danza, esattamente allo stesso modo che per ogni altra forma d’arte. Ciò aderisce in modo uniforme al nostro concetto primario che la ‘musica dei popoli’ corrisponde esattamente a quello che i popoli sono nella propria cultura, quindi che i popoli non solo fanno la musica, essi sono la musica che producono. Potremmo anche affermare che la musica è la metafora del mondo in cui viviamo, e viceversa che la musica influisce sulla cultura tanto quanto la cultura influisce sul nostro essere ‘musicali’, ma questo riguarda più quello che è l’effetto della cultura che ci siamo dati sulla musica che produciamo. Si è già detto di “Orfeo 9”, di Tito Schipa Jr. la prima Opera Rock che si ricorda (oggi visibile anche in DVD) che, molto più tardi, portò in Italia una ventata di freschezza musicale, sebbene mettesse in scena, sulla scia dei recenti successi del West-End e di Broadway, una sua capacità innovativa, fatta di idee e di personaggi inusuali di quegli anni. Era il 1958 allorché un giovane Adriano Celentano interrompeva la ‘forma’ canzonettistica tradizionale, rifacendo il verso proprio a Presley suo beniamino d’oltreoceano, del quale in qualche modo sfoggiava una qualche somiglianza. Per quanto, negli anni a seguire si riscattò dal ‘cliché’ che gli avevano costruito addosso e soprattutto dal plagio esistenziale, riuscendo a dare al rock una vitalità tutta italiana. Oggi, che a distanza di anni, sembriamo avere ancor più l’esigenza di un vivere ‘frenetico’, solo apparentemente affrontiamo con entusiasmo la ‘nuova musica’ e la recente ‘produzione canora’, ma in realtà è la musica di quegli anni ’50 ’60 che più o meno tutti ci portiamo dietro, come momento ‘unico’, di autentica rivoluzionaria creatività: “un modo come un altro per riappropriarsene, uno stratagemma per vincere il logorio del tempo”. Furono quelli gli anni in cui apparvero sulla scena i cosiddetti ‘Urlatori’: cantanti come Joe Sentieri, Ricky Gianco, Betty Curtis, Little Tony ed altri. Tra i più gettonati, così si diceva per l’uso smodato del Juke-Box: Mina la cui potenza vocale esplosiva, tra gorgheggi e vocalizzi, si rivelò con “Tintarella di luna”; Adriano Celentano, ‘il molleggiato’, con “24mila baci”; Jenny Luna e Fred Buscaglione con “Guarda che luna” e tantissime altre che in realtà, maturò uno stile tutto suo. Tra i più famosi ci fu Tony Dallara, con il suo grido pronunciato, consonante per consonante nelle celebri canzoni “Ghiaccio bollente”, “Ghiaccio bollente” e “Come prima” un po’ singhiozzata, saccheggiò lo stile americano dei Platters. Scrive Francesco Saverio Mongelli in Le Rane – Music e Pop Culture: “Vite, quelle degli Urlatori, furono raccontate anche in alcune pellicole cinematografiche dirette da Lucio Fulci. Ricordiamo I ragazzi del juke-box (1959), Urlatori alla sbarra (1960), Uno strano tipo (1963). Il primo spazio televisivo concesso agli Urlatori fu durante una puntata de “Il Musichiere”, diretto da Falqui e condotto da Mario Riva. Inoltre, alla fine degli anni Cinquanta nacquero la Fonit Cetra, la Jolly e Dischi Ricordi che permisero all’industria discografica di favorire, a prezzi più contenuti, la diffusione delle canzoni.” Accadde al “Piper Club”. L’anno era il 1965. Il luogo, il profetico, clamoroso, fantastico “Piper-Club” di Via Tagliamento a Roma, fondato e guidato dall’allora strepitoso manager (commerciante di automobili) Giancarlo Bornigia con altri soci, uno dei locali storici dell'Italia del boom economico degli anni sessanta e che in poco tempo divenne un'icona di una generazione intera ed un vero e proprio fenomeno di costume in Italia. Il Piper emerse subito come punto focale della bella vita romana, raccogliendo frequentazioni dal mondo dello spettacolo e dell'arte, oltre che da personaggi della scena mondana. Lo storico animatore - intrattenitore del locale, fin dall'inizio e per molti anni, è il giornalista Eddie Ponti. La linea artistica si ispirava al mondo del beat inglese, da cui copiò anche l'idea dell'opera beat, ovvero ad un uso innovativo di luci stroboscopiche colorate accoppiate ai suoni e allo stile dettato dalla moda della minigonna. Alla serata d'esordio suonarono The Rokes e l'Equipe 84, successivamente si susseguirono i migliori gruppi della scena musicale beat italiana tra cui i Rokketti, I New Dada, I Delfini, I Giganti, I Meteors, Gli Apostoli, Le Pecore Nere, Le Facce di Bronzo, affiancati da altri gruppi provenienti dall'estero come The Primitives (tra cui si distinguerà il cantante Mal), Patrick Samson e Les Pheniciens, Lord Beau Brummell and his Noblemen Orchestra, The Echoes, The Bad Boys, The Bushmen (cinque ragazzi di colore del Kenya), The Eccentrics (da cui nascono Mike Liddell e gli Atomi), The Honeycombs, John L. Watson & The Hummelflugs, per citare i più importanti. A tutti questi si aggiunsero presto artisti del calibro di Nino Ferrer, Fred Bongusto, Dik Dik, Farida, Gabriella Ferri, Rita Pavone, Roby Crispiano, Gepy & Gepy, Nancy Cuomo: su tutti, però, vanno ricordate Caterina Caselli e Patty Pravo passata alla storia del pop proprio come "la ragazza del Piper", per quanto, secondo alcuni, il titolo sarebbe da condividere con Mita Medici che nel 1966, proprio al "Piper", vince il concorso "Miss Teenager Italiana" con il temporaneo nome d'arte di Patrizia Perini. Nel 1965 Mina vi girò una serie di caroselli per la Barilla per la regia di Valerio Zurlini. Dal numeroso gruppo dei ragazzi che si possono considerare frequentatori 'storici' del Piper emergeranno negli anni numerosi personaggi di spicco fra cui Romina Power, Mia Martini, Loredana Bertè e Renato Zero che nel 1982 realizzerà un 33 giri ispirato proprio agli anni del Piper. In quegli stessi anni vi si esibirono i più conosciuti complessi di musica beat e cantanti di musica leggera nazionali ed internazionali più in voga del calibro dei Procol Harum, i Byrds, Rocky Roberts, Nevil Cameron, Herbie Goins & The Soultimers (il cui chitarrista era il virtuoso John McLaughlin), Wess (che divenne famoso cantando in duetto per anni con Dori Ghezzi) e dei giovanissimi Pink Floyd che si esibirono in due serate, il 18 e il 19 aprile 1968. La musica italiana era invece rappresentata da New Trolls, Le Orme, I Corvi, I Delfini. I Pooh, nel 1966, conobbero in questo locale Riccardo Fogli, che entrò poi come bassista nel gruppo in sostituzione di Gilberto Faggioli, e come nuovo frontman. Da ricordare l'evento ‘Grande angolo, Sogni, Stelle’ organizzato da Mario Schifano il 28 dicembre del 1967, che segnò una delle tappe fondamentali della nascita dell'underground italiano. La serata vide l'alternarsi sul palco di sitaristi, ballerine e poeti che si alternavano alle Stelle di Mario Schifano, il tutto accompagnato da filmati proiettati sul palco su quattro diversi schermi. L'evento fu recensito su l'Espresso da Alberto Moravia anche lui frequentatore del Piper Club insieme a Pier Paolo Pasolini, con un articolo dal titolo “Al Night club con i Vietcong”. Dal 1968 dal Piper partì un'iniziativa già in voga negli anni sessanta, il “Cantagiro”, nella fattispecie del CantaPiper. "Piper Club" è stato inoltre il nome di un'etichetta discografica che ha pubblicato i dischi di molti degli artisti che si esibivano nel locale. Il 21 giugno 1969 esordisce il gruppo Tina Polito e i Parker's Boys [4] formato dall'aggregazione di una giovane cantante affermata nel programma televisivo Scala Reale e dal gruppo dove in precedenza aveva militato Renzo Arbore. La formazione era composta da Angelo La Porta (chitarra), Nicola Zanni (basso), Alberto Catani (batteria) e Gianni Micciola (tastiere). Si vuole che la linea artistica di quegli anni prendesse le mosse dalla moda inglese, da cui venne copiata anche l'idea dell'opera beat, ovvero di un uso innovativo di suoni e lo stile dettato dai primi ‘musical rock’ anglo-americani come ‘Hair’ (1967) di James Rado e Gerome Ragni (testi) e Galt MacDermot (musica); ‘Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat’ (1968) di Andrew Lloyd Webber (musica) e Tim Rice (testi). Cioè ancor prima che si acclamasse ‘Jesus Christ Superstar’ (1971) della medisima coppia di autori, oltremanica, al Piper Club di Roma, accadeva un evento straordinario oggi quasi del tutto dimenticato anche negli annali dello storico locale. Nel maggio del 1967 infatti, un giovane musicista, certo Tito Schipa Jr. (figlio del grande tenore italiano), proprio al Piper Club precorreva i tempi con la sua opera beat “Then an Alley”, costruita su testi di Bob Dylan, all’epoca da noi quasi del tutto sconosciuti. Lo testimonia l’intervista qui di seguito riportata, apparsa su ‘Nuovo Sound’ in quello stesso anno, rilasciata all’autore di questo articolo al Jockey Club di Ben Jorillo ad Aprilia, in occasione della presentazione del nuovo album dello stesso Tito Schipa: “Io, ed io solo” ormai introvabile.
Id: 2969 Data: 06/06/2022 11:22:47
*
- Musica
Ritornano i ‘frenetici’ anni ’50 / ’60.
Ritornano i ‘frenetici’ anni ’50 / ’60. In attesa dell’uscita del film biografico “Elvis” (22 giugno 2022) sulla vita del Re del Rock and Roll Elvis Presley, una delle icone del panorama culturale americano che ha spazzato via quella parte della scena cinematografica e musicale propria dell’innocenza del tempo, eccoci a rivivere in questo articolo postdatato, quelli che furono definiti i ‘frenetici’ Anni ’50 / ’60 e che salutiamo come un ritorno in grande stile nello sterile panorama attuale, anche grazie alla firma del suo regista Baz Luhrmann che già dalla fine degli Anni ’80 ha iniziato a produrre e dirigere film Musicali adatti alle nuove generazioni di adolescenti, che un tempo, ricordiamolo, pur hanno fatto grande il cinema americano. A partire dagli anni ottanta infatti Baz Luhrmann inizia a produrre, allestire e dirigere spettacoli musicali e adattamenti di opere famose, tra i quali "La bohème" di Giacomo Puccini, riadattata e ambientata negli anni cinquanta. Nel 1992 esordisce dietro la macchina da presa; la pièce teatrale Strictly Ballroom, ideata nel 1987, diventa un film, "Ballroom - Gara di ballo", che offre una versione riveduta e corretta dell'idea di Luhrmann che vince diversi premi cinematografici . Il grande successo internazionale arriva nel 1996 grazie alla reinterpretazione in chiave postmoderna del classico "Romeo + Giulietta" di William Shakespeare, con Leonardo DiCaprio e Claire Danes, che riceve una candidatura all'Oscar alla migliore scenografia. Nel 2001 ottiene un nuovo grande successo, quel "Moulin Rouge!", con Nicole Kidman e Ewan McGregor, presentato in anteprima al Festival di Cannes 2001. Il film musicale, ambientato nella Parigi bohemien, si caratterizza, come tutte le opere di Luhrmann, da una forte componente visiva e visionaria, con delle scenografie particolari e surreali. La colonna sonora del film è formata da brani celebri come ‘All You Need Is Love’ dei Beatles, ‘Pride (In the Name of Love)’ degli U2, ‘Roxanne’ dei Police, ‘The Show Must Go On’ dei Queen, ‘Smells Like Teen Spirit’ dei Nirvana e ‘Your Song’ di Elton John, reinterpretate e riproposte, a legare lo sviluppo della trama. Il film vince due Oscar per la migliore scenografia e migliori costumi, e tre Golden Globe come miglior film commedia o musicale, migliore colonna sonora originale e miglior attrice a Nicole Kidman. Nel 2012 presenta una trasposizione cinematografica del romanzo "Il grande Gatsby" con protagonisti Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan e Tobey Maguire. Nel 2022 torna nelle sale con un film biografico su Elvis Presley, abilmente interpretato dalla giovane rivelazione Austin Butler, che segna un ritorno sullo schermo del genere musicale, davvero molto atteso. Di particolare rilevanza sarà il rapporto con il suo manager, il colonnello Tom Parker, interpretato da Tom Hanks, con il quale Elvis intreccerà un sodalizio artistico della durata di circa vent'anni. Il film si concentra proprio su questo rapporto complesso, a partire dall'ascesa della prima rockstar della storia fino al raggiungimento della fama mondiale, fino a quel momento mai toccata da nessun'altra star con così tanta veemenza. Il tutto mentre l'America vive uno sconvolgimento socio-culturale, che la porterà a grandi cambiamenti. Nel cast troviamo anche Olivia DeJonge che interpreta Priscilla Presley, la moglie di Elvis con cui il divo è convolato a nozze nel 1967 e, nonostante le tante relazioni attribuitigli, l'unica donna che il Re abbia davvero sposato. I ‘FRENETICI’ ANNI ‘50/’60” (Recuperato dalle pagine di “Super Sound” magazine). In quegli anni, il cinema di Hollywood ancora giovane andava sperimentando nuove alternative per interessare e sbalordire il pubblico sempre crescente. Sulla scia dei grandi successi teatrali di Broadway, di cui ormai si parlava sulle principali testate giornalistiche, le Major cinematografiche andavano riproponendo quelle che erano state le ‘commedie’ che avevano totalizzato la maggiore affluenza di pubblico e, ovviamente, riscosso i maggiori incassi della stagione. Il genere era preferibilmente la ‘commedia’, meglio se con l’aggiunta di musiche e canzoni in voga che potevano allietare il pubblico. Nel giro di qualche anno la ‘commedia musicale’ divenne materiale di largo consumo e al cinema si cominciarono a vedere solo ‘film musicali’. Sì, in passato vi erano già stati esempi clamorosi. Dopo che nel lontano 1927 Al Jolson aveva aperto, per così dire, la stagione del ‘sonoro’ con “Il cantante di Jazz”, dove lui ‘bianco’, appariva tinto di ‘nero’ in una celeberrima parodia dai toni ‘blues’ che lo rese molto famoso, la strada sembrò aperta ad ogni altra esperienza. Si pensi che le sei canzoni contenute nel film fecero il giro del mondo. Era stato quello l’inizio di una nuova corrente cinematografica sotto il segno della musica. Fred Astaire, Ginger Rogers, Bing Crosby, Judy Garland, solo per citarne alcune star dell’epoca, erano allora stelle di prima grandezza, le più luminose del firmamento cinematografico, e facevano brillare di lustrini e polvere dorata, l’atmosfera musicale del momento, divenendo in breve ‘miti’ del più grande successo commerciale mai conosciuto. Già negli anni ’40 la gente, risvegliatasi dal torpore ‘post war’, prese ad affluire nei teatri, ed accorreva in massa al cinema ogni qual volta si proiettava una ‘pellicola sonora’, per vedere e sentire la musica che l’accompagnava e cantare le canzoni dei suoi beniamini. Nelle sale da ballo dove infuriava la musica sudamericana, ci si scatenava con le orchestre di Xavier Cugat, Perez Prado, Celia Cruz e tanti altri fino allo sfinimento. Nel frattempo, lo swing, attraversato l’Oceano, portava ‘la voce’ di Frank Sinatra in tutta Europa. Il film musicale che aprì effettivamente il 1950 fu “Un americano a Parigi” diretto da Vincent Minnelli con Gene Kelly, un ballerino-cantante-acrobata che avrebbe fatto sognare le teen-ager di tutto il mondo. Le musiche erano del già famosissimo George Gershwin. Col successivo “Cantando sotto la pioggia”, il mondo ritrovò la gioia di vivere, trasformata in esuberante allegria ed entusiasmo; i problemi che aveva lasciato la guerra venivano ora affrontati dalla frenetica baldanza giovanile con la certezza data dal ‘new-deal’ economico, con la sicurezza di chi è vincente nella vita. Così in “Bulli e Pupe” (1955), in “Pal Joy” (1957) fino allo scontro generazionale di gruppo con “West Side Story” (1961) a completamento di quel panorama straordinario che erano stati gli anni ’50. Ma esaminiamo questi tre momenti e i diversi aspetti della vita americana che in essi venivano proposti. Con “Bulli e Pupe”, interpretato dall’allora debuttante Marlon Brando affiancato da ‘the voice’ Frank Sinatra, nonché da quell’attraente icona che era Jean Simmons, aveva inizio l’era del ‘ragazzo duro già visto in “Fronte del porto”, e che troverà più tardi un maggiore coinvolgimento con James Dean di “Gioventù bruciata”. Quello che venne dopo è tutta un’altra storia. La gioventù americana fu letteralmente scossa dagli accordi convulsi di un ‘nuovo sound’ e dagli scuotimenti di un ragazzo dinoccolato dal ciuffo ribelle e le basette lunghe fino a metà guancia, che indossava stivaletti da cow-boy e portava la chitarra a tracolla, che cantando gridava e singhiozzava Elvis Presley. “È il nuovo astro nascente che esalta le folle con la sua voce e le vibrazioni della sua chitarra, e scuoterà milioni di giovani in tutto il mondo”. Fin da subito nacquero i cosiddetti ‘fan-club’ che accoglieranno genti di tutte le razze e tutte le età sotto il segno della nuova musica nascente, il Rock’n’roll che riprendeva, con assonanze diverse, il vecchio Boogie-woogie. Inutile dire che tutta la musica ne fu condizionata, stravolta da un terremoto che spazzò via il vecchio e riempì i suoi spazi di elettrificazione e bombardamento percussivo. La musica ‘rock’ che usciva dai moderni Juke Box era travolgente, si era appropriata della canzone tradizionale, rendendola certamente più ‘grintosa’, ‘spingente’, volutamente ‘trasgressiva ’. Ecco, se c’è una parola che più rende il senso di quello che era diventata la musica in quegli anni non poteva che dirsi ‘liberatoria’, perché disubbidiente e, in un certo senso, ‘provocatoria’. Ma allo stesso tempo e per moltissimi aspetti era anche ‘straordinaria’. Basti qui ricordare che oltre al grande Elvis altri nomi si affacciarono alla ribalta: The Platters, Bill Haley, Little Richards, Pat Boone, Chuck Berry, Fats Domino, The Beach Boys, ed altri, tantissimi altri che sarebbe impossibile qui elencare, la cui eco delle loro voci e dei loro straordinari strumenti, giunge fino ai nostri giorni. Un film su tutti: “Il delinquente del Rock’n’roll” con Elvis Presley, scatena una vera e propria ‘rivoluzione’ in termini, dando il via al più colossale fenomeno sociale mai visto. Una generazione di giovani si riconosce in lui, si veste come lui, si atteggia come lui, porta i capelli come lui, si scatena nelle strade alla sua musica, entra per la prima volta nei bar, fonda club, dà luogo al più grande fenomeno commerciale e sociale che si fosse mai visto. Beniamini della canzone, e attori del cinema indossano blue-jeans e giubbotti di pelle, si lasciano crescer i capelli, masticano chewing-gum, bevono Coca-Cola, mangiano pop-corn, chiamano le loro coetanee ‘pupe’, si atteggiano al volante di auto, di moto di grossa cilindrata, affrontano la vita ‘on the road’ su imitazione del loro beniamino Jack Kerouac, scrittore, poeta e pittore considerato uno dei maggiori e più importanti scrittori statunitensi del XX secolo, nonché padre della cosiddetta “Beat Generation” che, nei suoi scritti, relativi a tutto un gruppo di poeti statunitensi, esplicitò le idee di liberazione, di approfondimento della propria coscienza e di realizzazione alternativa della propria personalità. Qualcosa di più di una semplice infatuazione, che diede luogo a un fenomeno collettivo che aprì le porte ai più giovani all’alcool e alle droghe che li porteranno alle nevrosi e alla depressione, ma anche all’esaltazione del ‘macho’, del ‘superman’ ed altro ancora e che raggiunse, in certi momenti, vertici impressionanti riversatisi poi sulle generazioni successive. L’ondata di ‘revival’ cui assistiamo oggi, nel processo del divenire storico, si ripresenta più come ‘nostagia’ di quegli anni che come moda a sé stante. Sembra più una fuga dalla storia che dovremmo scrivere, ma di cui ci manca la creatività e soprattutto il coraggio. Ma che è anche “un modo per riappropriarsene, uno stratagemma per vincere la consumazione del tempo” (Argan); un voler sottolineare che le stesse cose tornano solo in quanto diverse, nel momento in cui le difficoltà sembrano prevaricare su tutto, che accresce le perplessità sulle linee da seguire e che disorienta le nostre scelte, per riversarle in fattibili travestimenti del consumismo. In fondo il ‘rock’, pur osservato nelle sue differenziazioni, non è mai cessato di esistere, dal fatto che vi si riscontra per via della continuità ininterrotta del suo successo: si pensi al gruppo dei Rolling Stones ‘grandissimi’ che, proprio in questi giorni, celebra i 60 anni della sua formazione. Una serie di film e commedie musicali abbastanza recenti, inoltre, hanno riportato gli anni ‘50/’60 in auge e vale qui la pena di elencarli: “American Graffiti”, “Stardust”, “La febbre del sabato sera”, “Hair” “Grease”, “Godspell”, “Orfeo 9” (unico in Italia), “Jésus Christ Superstar”, “Cats”, che gli autori ci vanno riproponendo come di un ‘tempo’ ormai sospeso nell’aria, osservato nel riflesso del ricordo, pronto ad essere rivalutato da nuove esperienze; quasi lo si volesse riscattare, in un momento di vuoto creativo, per i suoi valori musicali e di costume, precocemente lasciati per la fretta ‘liquida’ di superare i tempi. Avrei voluto qui elencare i gruppi ‘rock’ che hanno fatto la storia del Rock in quanto fin troppo noti, e i tantissimi album ormai introvabili che si possono cercare su You-Tube. In fondo, va detto, che volente o no, mi sono proiettato nel pieno di un ‘revival’ nostalgico di certi anni passati un po’ polverosi, tuttavia ancora scintillanti di musica fortemente creativa che vi invito ad ascoltare e sono certo che ne rimarrete affascinati, per accorgervi poi che sono ancora quegli anni... “i frenetici anni ‘50/’60” che tutti noi, fanatici e non, non potremo mai dimenticare. (continua)
Id: 2966 Data: 03/06/2022 16:28:22
*
- Cinema
Cannes 2022 in coop. con Cineuropa News
CANNES 2022
Mario Martone • Regista di Nostalgia “Il nostro passato è un labirinto” di MARTA BAŁAGA
28/05/2022 - CANNES 2022: Il regista napoletano ritrae la sua città natale, attraverso un altro uomo che cerca di affrontare il suo passato, solo per rendersi conto che non è mai andato davvero via.
Sinossi Dopo quarant’anni di lontananza Felice torna lì dov’è nato, il rione Sanità, nel ventre di Napoli. Riscopre i luoghi, i codici del quartiere e un passato che lo divora.
Felice (Pierfrancesco Favino) finally returns home, to Naples. He hasn’t been there for decades. His mother has got old, and his accent has changed. He lives in Cairo now, happily, but the past – as well as his childhood friend-turned-mobster – gets a hold of him once again. In Mario Martone’s Nostalgia [+], presented in Cannes’ main competition, everything changes – except for Naples.
Intervista: (in inglese)
Cineuropa: This story surprised me a little. When people talk about nostalgia, it usually has a positive connotation – maybe too positive, even. You focus on its much darker side.
Mario Martone: Our past, or anybody’s past, is not a straight line. It veers off in all sorts of directions – so many things have happened. It’s a labyrinth where you’ve had your encounters, both good and bad, where you’ve said some things you shouldn’t have said. Or maybe you have taken the right path, one that has taken you far, far away? It doesn’t matter. If you look inside and think how everything is so intertwined, maybe it means that you’ve managed to move on from the past, to go beyond. But there are these little voices that still call you from time to time. You try to re-enter this labyrinth. But this attempt at understanding who you are and where it all started can be dangerous. Yes, because this idea of “returning to one’s roots” can bring something good, but it can also be bad. Is that what you wanted to show here? Every one of us has done things we are embarrassed of now – we have hurt someone or made mistakes. Sometimes, we tend not to think about it too much, convinced that everything can be erased. But it can’t. You have taken that road once. And this happens to Felice: he comes back to Naples because he wants to see his mother. He hasn’t seen her in 40 years! He left when she was still almost a girl, and he comes back to a frail, old woman. He had to see her, though – his wife was pushing him to do so. If he’d found her in her usual apartment upstairs, he would probably just have stayed for a while, cleansed his conscience and come back to Egypt. But it doesn’t happen this way. It doesn’t – his mother isn’t there. She is all the way down, in a ground-floor flat where [his childhood friend] Oreste put her. This way, Oreste makes his presence known right from the start. This is that push, that final straw that Felice needed in order to enter the labyrinth once again. So he does – and he gets lost. The scene with his mother [played by Aurora Quattrocchi], when he decides to bathe her, is touching yet terrifying at the same time. She seems so exposed. That scene was already there in the novel [written by Ermanno Rea]. I would say it was one of the reasons why I wanted to make this film, actually. I immediately felt its strength. It was difficult trying to figure out how to shoot it, however, and I opted for a radical approach. I found this place, which sometimes looks like a butcher’s – there is this kind of unforgiving light that shows everything. I wanted to show her hands, her body. I allowed myself to be guided by memories, feelings, by the memory of my own mother. It's an important moment because that’s how you allow people to love him a little. Felice is so difficult to read. This idea of someone in between places, someone who is from somewhere but not really, not any more... Why was that appealing? Pierfrancesco is an actor who is able to work with language. It was impressive, seeing what he has done here. He is a “beast” in that sense – I don’t know any other actor able to modify his own accent like that. He studied the Arabic language, then he looked into Egyptian Arabic, and the Neapolitan he speaks in the film reflects all of that. Of course, that wasn’t the only reason why I wanted him in the film. His sensibility was fundamental in order to bring this character to life. You needed someone who would actually be able to touch his old mother this way, and take care of her. He has that capacity. You could say he is still a relatively new actor on the Italian scene, which used to favour performers who are masculine in an easily defined way. He is different; he is a modern man. I wanted Felice to be someone from our time, too. Someone who has a beautiful relationship with his wife, for example, even though she is a Muslim and there are so many prejudices that come along with that. I wanted to show a couple in love, in a partnership. So yes, he is a modern man, coming back to his old, violent roots.
Scheda tecnica: titolo internazionale: Nostalgia titolo originale: Nostalgia paese: Italia, Francia rivenditore estero: True Colours anno: 2022 genere: fiction regia: Mario Martone sceneggiatura: Ippolita Di Majo, Mario Martone cast: Pierfrancesco Favino, Francesco Di Leva, Tommaso Ragno, Aurora Quattrocchi, Sofia Essaïdi, Nello Mascia, Emanuele Palumbo, Artem, Salvatore Striano, Virginia Apicella fotografia: Paolo Carnera costumi: Ursula Patzak produttore: Luciano Stella, Roberto Sessa, Maria Carolina Terzi, Carlo Stella, Angelo Laudisa produzione: Picomedia, Mad Entertainment, Medusa Film, Rosebud Entertainment Pictures supporto: Direzione generale Cinema e audiovisivo del Ministero della Cultura DGCA-MIC distributori: Medusa Film, ARP Sélection
Recensione: 'Nostalgia' di CAMILLO DE MARCO 25/05/2022 - CANNES 2022: Mario Martone introduce un ulteriore quadrante della mappa cinematografica di Napoli con un film sulla necessità di ricucire il proprio distacco fisico dalle altre persone.
L’unica volta nel concorso ufficiale del Festival di Cannes di Mario Martone risale al 1995, con lo splendido L’amore molesto, tratto dal romanzo di Elena Ferrante, nel quale una donna torna a casa, a Napoli, per la morte della madre. Oggi il regista napoletano introduce un ulteriore quadrante della mappa cinematografica della sua città con Nostalgia, tratto dal romanzo omonimo di Ermanno Rea, circoscrivendo l’azione ad un singolo quartiere, il Rione Sanità (quello della commedia di Eduardo De Filippo, Il sindaco del Rione Sanità, portato al cinema nel 2019 da Martone). (L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria) È ancora una riapparizione, con tutte le possibili implicazioni simboliche dell’Ulisse omerico. Dopo quarant'anni trascorsi fra Medio Oriente e Africa, Felice Lasco (Piefrancesco Favino) torna a Napoli, nel Rione Sanità. Al Cairo è diventato un imprenditore edile di successo, è ricco e ha una moglie che lo ama. A Napoli ritrova la madre (Aurora Quattrocchi), che è ormai molto anziana. Lo vediamo accudirla, lavarla, vestirla con la dedizione di un sacerdote che celebra un rito sacro. Felice si aggira per i vicoli del quartiere, ha dimenticato come si è parla la lingua napoletana, ma alla moglie, al telefono, dice che dopo 40 anni “è rimasto tutto incredibilmente uguale”. Suoni, colori, odori, violenza. Nei suoi ricordi, che Martone visualizza con rapidi flashback, esploriamo un’adolescenza segnata da corse in moto, risse, scippi e furti commessi con un amico fraterno, Oreste. Quando la madre muore, antichi legami e cicatrici riemergono con prepotenza. Don Luigi (Francesco Di Leva), un sacerdote che combatte la camorra sottraendo i ragazzi alla strada attraverso lo sport e la musica, e al quale Felice si confessa, vorrebbe che lui ripartisse subito per l’Egitto e si lasciasse il passato alle spalle. Ma Felice vuole incontrare a tutti i costi quell’Oreste Spasiano (Tommaso Ragno), che nel frattempo è diventato lo spietato boss del quartiere. Con quell’uomo, prigioniero del suo stesso ruolo di “malommo”, Felice condivide un segreto, che lo ha fatto fuggire 40 anni prima e oggi potrebbe annientare entrambi. Un quartiere come terreno su cui esercitare la nostalgia (nóstos ‘ritorno’ + algìa ‘dolore’), una malattia divorante, come nel Nostalghia del grande Andrej Tarkovskij (premiato a Cannes nel 1983). È il luogo dove ricucire il proprio distacco fisico dalle altre persone. Felice deve riparare alla sua precedente fuga da sé e come il viandante di Nietzsche, rifiuta le illusioni protettive di una esistenza orientata nel futuro e accetta la cecità del suo destino. Come recita la frase di Pier Paolo Pasolini in esergo al film, la coscienza sta nella nostalgia. E chi non si è perso non ne possiede. Piefrancesco Favino è alla sua massima intensità, Francesco Di Leva come sempre magnifico, Tommaso Ragno un po’ perso nel personaggio alla Kurtz di Cuore di tenebra. Bella la scelta della musica, dai vecchi Tangerine Dream a Ya Abyad Ya Eswed di Cairokee.
Nostalgia è produzione italo-francese di Picomedia e Mad Entertainment, in associazione con Medusa Film, in coproduzione con Rosebud Entertainment Pictures, con il contributo del Ministero della Cultura. Le vendite internazionali sono curate da True Colours e arriva nelle sale italiane con Medusa Film oggi 25 maggio.
Id: 2961 Data: 30/05/2022 09:32:09
*
- Cinema
Bla, bla, bla...a Cannes 2022 cè più guerra che in Ucraina
BLA, BLA, BLA … c’è più guerra a Cannes 2022 che in Ucraina.
Come se non ne vedessimo abbastanza sui Telegiornali e gli innumerevoli Talkshow che sembra gareggino a chi la ‘spara’ più grossa o s’impossessa delle immagini più cruente per far colpo sui propri ascoltatori, questa assurda guerra fra Russia e Ucraina altro non fa che incrementare l’astio tra i due popoli che d’ora in poi si odieranno per l’eternità, né più né meno come da secoli avviene fra Israele e Palestina, tali da non saper ricondurre il filo della matassa: Chi ha iniziato per primo? Chi ha gettato benzina sul fuoco? Chi ha fatto più morti? Chi ha pagato il massimo contributo di sangue? Dimenticandosi spesso, pur sapendolo, che la ‘guerra’ non risparmia nessuno da entrambe le parti. Se i vinti piangono lacrime amare, i vincitori di certo ingoieranno lacrime di sale che gli s’incrosteranno sull’anima. Saper dire quanto ancora durerà o chi innalzerà infine lo straccio di bandiera della vittoria, lo si dovrà chiedere ancora una volta a quei ‘vecchi saggi’ che ieri sono sopravvissuti alle guerre precedenti e che ancora una volta vede i fratelli contro i fratelli. O a quelle donne e bambini di domani che forse sopravvivranno a quest’ultimo prepotente assalto; a quell’umanità ferita nella dignità e nell’orgoglio e che certamente risentirà del peso dell’umiliazione, da una parte come dall’altra, di una vergogna che non conosce neppure il rossore d’essere giudicata. Sì che la paura liquida di ieri: nelle trincee e nei campi di battaglia, nei cieli come sui mari, la rivivranno per molti anni ancora, allorché ognuno sventolerà le proprie ragioni mentre tacerà dei propri torti. Acciò, come in passato, pensano da sempre le cronache, i fotoreporter, il cinematografo, i festival che si svolgono tutt’oggi nelle capitali dormienti, con tanto di passerella e parterre di benestanti; sulle copertine patinate delle riviste e le prime pagine dei giornali sui quali ognuno, lontano dalle linee di frontiera, esprimono la loro opinione (?) senza riguardo alcuno. I più sembrano disconoscere il ‘senso’, se di senso si tratta, e si chiedono se al ‘dopo’ corrisponderà un futuro di benessere? Ma bisogna essere ciechi per non vedere che sarà un futuro di carestia, certamente il vero ‘senso’ di questa guerra. A Cannes 2022 tutto ciò è più che evidente: le immagine di riprese da Mantas Kvedaravičius morto a Mariupol è già andato in scena, il materiale che ha girato è stato recuperato ed è stato presentato sotto forma di lungometraggio documentario. Mentre altri registi, elencati qui di seguito, non potendo inserirsi nel ‘filone’ dell’attualità, hanno pensato bene di recuperare la ‘guerra d’Algeria’; un altro la ‘battaglia di Stalingrado’; e chissà quanti altri ancora . Fatto è che i cronisti e le TV di tutto il mondo sono allertate con tute mimetiche pronte a riprendere la prossima ‘guerra nucleare’ inconsapevoli che verranno spazzati via dal vento cosmico che da questa si solleverà. Il cinema sarà loro complice per non aver saputo infondere altri ‘sentimenti’ che non siano quelli di una rivalsa vendicativa della sopravvivenza contro la natura umana che abita il pianeta, quest’ultima terra del rimorso, verso il mondo estremo che ci è dato di vivere. Difficilmente ci sarà un altro Eden dove recuperare ciò che avremo perduto. Lo dicono le tematiche, le immagini trasferite sugli schermi TV e cinematografici, le interviste rilasciate da quanti operano nel settore, come quelle trasferite nelle News di Cineuropa che puntualmente contingenta gli spettatori. Come io stesso vado facendo: Intervista: Philippe Faucon • Regista di Les Harkis "Non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall'altra" CANNES 2022: Il cineasta francese colpisce ancora nel segno con il suo film sui soldati locali arruolati dalla parte francese durante la guerra d’Algeria 21/05 | Cannes 2022 | Quinzaine des Réalisateurs
Rai Cinema rivela il prossimo progetto di Pietro Marcello, L’ultimo fronte Il prossimo documentario del regista italiano ricostruirà la battaglia di Stalingrado attraverso le lettere dei soldati 20/05 | Produzione | Finanziamenti | Italia
Recensione: Dalva CANNES 2022: Con il suo primo lungometraggio sobrio e commovente, Emmanuelle Nicot dipinge il ritratto di una bambina sopravvissuta, cresciuta drammaticamente troppo presto 20/05 | Cannes 2022 | Semaine de la Critique
Recensione: Mariupolis 2 CANNES 2022: Mantas Kvedaravičius è morto a Mariupol, ma il materiale che ha girato è stato recuperato ed è stato presentato a Cannes sotto forma di lungometraggio documentario. 20/05 | Cannes 2022 | Proiezioni speciali Quando è iniziata l'invasione russa dell'Ucraina, il regista lituano Mantas Kvedaravičius è tornato immediatamente a Mariupol, dove girò il suo film Mariupolis del 2016, per documentare la vita sotto attacco. Mentre stava cercando di andarsene alla fine di marzo, è stato ucciso, e la sua fidanzata Hanna Bilobrova è riuscita a recuperare il filmato. Presentata come co-regista, ha lavorato insieme alla montatrice Dounia Sicho (che aveva lavorato anche a Mariupolis), e il film risultante, Mariupolis 2, è stato presentato in anteprima mondiale a Cannes, tra le Proiezioni speciali.
Recensione: Tirailleurs CANNES 2022: Mathieu Vadepied porta Omar Sy nelle trincee della Prima guerra mondiale, nei panni di un padre che cerca con tutti i mezzi di recuperare il figlio reclutato con la forza in Senegal 20/05 | Cannes 2022 | Un Certain Regard
Meet Cineuropa @ #Cannes2022 - Take 3 "Fortunatamente, ho visto molti film di cui non mi è permesso parlare!" Nel terzo episodio della nostra nuova serie di brevi video dal Festival di Cannes di quest'anno, Elena Lazic parla con il giornalista Kaleem Aftab 20/05 | Meet Cineuropa/Cannes 2022
In collaborazione con Cineuropa News.
Id: 2950 Data: 22/05/2022 07:02:43
*
- Musica
Franco Battiato ...verso l’assoluto di mondi lontanissimi
I'LL REMEMBER ... FRANCO BATTIATO: verso l’assoluto di mondi lontanissimi.
Bisogna tornare indietro di cinquant’anni per incontrare quella generazione di increduli che eravamo negli anni ’70, allorché Franco Battiato pubblicava i suoi primi album che non molti ricordano: “Fetus” (1971), “Pollution” (1972), “Sulle corde di Aries” (1973) “Clic” (1974), “M.elle le Gladiateur” (1975) incisi per la Bla-Bla Records, un’etichetta fuori dal giro; quindi prima che la Ricordi, dieci anni dopo, sulla scia del suo primo titolo pubblicato li riproponesse sul mercato. Tutto ciò accadeva in anni incerti per la musica italiana soggiogata com’era dall’ondata musicale e canora che arrivava dai paesi anglosassoni. Ovviamente non proprio così all’improvviso, pertanto ci si accorse di questo ragazzo italiano ch'era già ‘oltre’ il suo tempo, che andava proponendo i suoi lavori degni di essere considerati all’altezza dell’elettronica più ‘avanzata’, come si diceva allora, rivalutando tutto quanto era stato fatto in quegli anni di ricerca che in seguito ci avrebbe proiettati nella cosiddetta musica ‘contemporanea’.
«Sulle corde di Aries – scrive Francesco Mendozzi (*) nella sua straordinaria recensione in 'progressive rock' – da alcuni considerato primo capolavoro dell’artista siciliano, è in effetti il tentativo (riuscitissimo) di slacciarsi dalla concettualità degli esordi per approdare a una nuova forma-canzone; non a caso il disco contiene una lunga suite: “Sequenze e frequenze”, di oltre sedici minuti, e tre altri brani di durata accettabile. La suite è stata riproposta da Battiato in diversi 'live' assieme ad “Aria di rivoluzione”, segno tangibile del forte sentimento che il cantautore siciliano nutre nei confronti di questo disco nato sotto il segno dell’Ariete.
“Sequenze e frequenze” parte da una progressione sintetica sulla quale Battiato canta la propria infanzia, uno dei temi che più spesso torneranno nella sua opera futura ...
"La maestra in estate / ci dava ripetizioni / nel suo cortile. / Io stavo sempre seduto / sopra un muretto / a guardare il mare. / Ogni tanto passava una nave. / E le sere d’inverno / restavo rinchiuso in casa / ad ammuffire. / Fuori il rumore dei tuoni / rimpiccioliva la mia candela. / Al mattino improvviso il sereno / mi portava un profumo di terra".
Il brano si fa lentamente più percussivo, e il synth diventa via via più sciolto, fino a fondere free jazz, elettronica e progressive rock. A metà l’incanto si interrompe e la canzone prende una piega acida, svincolata da qualsiasi genere musicale attivo in Italia. “Aries” segue quasi totalmente la prima, con percussioni cavalcanti e campanature elettroniche; la differenza sta nell’utilizzo frizzante ed emancipato del sax. Il tema filosofico del brano va rinvenuto nella figura del neurofisiologo Charles Sherrington, teorico del “telaio incantato”, che individua nel cervello umano la sorgente di tutta la sapienza del mondo: in un organo grande come un pompelmo, cento miliardi di cellule nervose e un numero mille volte superiore di collegamenti interagiscono continuamente formando una trama complessa quanto quella di un telaio. Ci si meraviglia ancor oggi nell’ascoltare “Aria di rivoluzione”, un brano senza tempo su guerra e pace, sul colonialismo e sulle infinite potenzialità del dialogo interculturale. La composizione musicale, sempre in escalation percussiva, utilizza nuovamente jazz ed elettronica per dar vita ad una ninna nanna generazionale» ...
“Quell’autista in Abissinia / guidava il camion / fino a tardi / e a notte fonda / si riunivano. / A quel tempo in Europa / c’era un’altra guerra / e per canzoni / solo sirene d’allarme»). Ma non c’è patetismo di sorta in Battiato; la speranza di un mondo nuovo è tradita dalla certezza che ogni rivoluzione porta con sé un rafforzamento dei regimi amministrativo e politico: «Passa il tempo, / sembra che non cambi niente. / Questa mia generazione / vuole nuovi valori / e ho già sentito / aria di rivoluzione. / Ho già sentito / chi andrà alla fucilazione”.
E questo «Non è forse il punto di partenza di “Sulle corde di Aries”?, domanda Francesco Mendozzi (op.cit.). Ora, dice, è più facile comprendere quanto sia incomprensibile il primo Battiato.»
Questo l’avvio, dunque, di un artista che negli anni a venire farà molto parlare di se, entrando nella Hit-Parade dei dischi più venduti, le cui copertine, sempre molto ricercate, avrebbero fatto bella mostra di sé nelle vetrine dei negozi, dando il via alla ricerca spasmodica dei suoi primi lavori, allora introvabili sul mercato. Un Battiato quindi risorto sulle ceneri di Gramsci che reca il suo personalissimo messaggio accattivante alle giovani generazioni, tali da improvvisarsi non fan come si sarebbe detto poi, bensì seguaci alieni e/o alienati di un certo ‘guru’ proveniente dalla Sicilia. Ed è là che lo rintracciamo, negli anni successivi, quasi non se ne fosse mai allontanato, come di un fuga a ritroso, puntuale nel proporci un ‘nuovo filone’ ricco di sorprese inaspettate, che iniettava direttamente nella musica italiana.
Eclettico ed efficace, scopritore di un terreno fertile nel linguaggio della musica, Franco Battiato libera la parola dalla struttura che gli è propria, l’astrattizza, la violenta nei limiti posti dalla sintassi, la incanala entro l’infinitesima costruzione in assenza di verbo e finisce per svelare il ‘nuovo creativo’, della lingua giunta all’eccesso della follia inconsistente.
Quella ‘follia’ che, straordinariamente, si rivela sintesi delle emozioni e delle sensazioni che infine saremo riusciti ad afferrare, non come linguaggio discorsivo, bensì in quanto ‘messaggio’ futuribile. Messaggio che s’avverte fra le righe dei suoi componimenti, imprevedibili, apologetici, entrati nel linguaggio comune nel modo in cui si citano i versi delle sue canzoni come qualunque letterato cita Leopardi o, meglio, come ormai tutti fanno, da Pasolini a Totò, da Zelig a Striscia appresi dalla TV nei propri discorsi, del tipo: “Io parlo, tu parli, tutti parlano”, senza voler dire niente pur dicendo ...
Come in "Lontananze d’azzurro”:
"Sembra che non finisca questa lunga notte d'inverno Sembra che tardi il sole come fosse in pericolo. Rovine inseguono i ricordi, ma io voglio vivere il presente Senza fine. Il giorno davanti a cui fugga questa notte. Voglio lontananze d'azzurro per me. Pensa a come eravamo certe volte di domenica... Pieni di ostilità e di oscillazioni. Così cancello i miei ricordi. Ma io voglio vivere il presente senza fine. Il giorno davanti a cui fugga questa notte. Voglio lontananze d'azzurro per me..."
Reminiscenze culturali alienate e/o alienazione alla cultura? Non sono in grado di giudicare, malgrado ciò, riscontro in Battiato una certa capacità di coinvolgere i sensi, quasi egli sia portatore di un qualcosa di più alto, paragonabile a un ‘carma’ mistico e/o a un ‘nonsense’ ascetico, meno reminiscente e più concretizzante, assolutamente meno allucinato dei poeti ‘maledetti’ e più avanzato rispetto ai parolai ‘futuristi’.
«Per Franco Battiato – riporta Fabrizio Zampa sulle pagine de Il Messaggero datato 1993 – pregare vuol dire meditare, raggiungere quello stato di concentrazione, di rilassamento e, se si è fortunati, di grazia che consente di mettere da parte le ansie terrene e stabilire una sorta di contatto con il divino.»
Che sia a causa della musica costruita sul giro armonico su cui aleggia una semplice scala ripetitiva e tuttavia accattivante che accompagna il suo originale e 'dimesso' modo di cantare? Forse. Sta di fatto che nei suoi testi si rivela una forte ricerca di senso fono-sillabico, una particolare attenzione all’evoluzione socio-culturale, qua e là all’avanzamente bio-tecnologico, pro-contro gli armamenti, idealmente satiro-politico e cronachesco, per un ‘incontro’ virtuale con il suo pubblico di devoti. Un incontro giocato sulla molteplicità degli intenti, in cui la musica si misura e si evolve sulla tradizione mediterranea assai ‘viva’ mai definitivamente esplorata, con esperienze culturali diverse, dell’Europa Centrale e dell’estremo Oriente, meno contaminate della nostra, valorizzate da una continuità che non ha conosciuto interruzioni nel tempo.
Esperienze che Franco Battiato emana dal suo essere ‘profetico’ e che fanno di ogni sua apparizione pubblica un avvenimento attesissimo quanto egli è avulso dal 'mostrarsi', quasi che ogni volta sembra di assistere a un 'messa', o forse a una 'preghiera' comunitaria, molto più vicina alle filosofie orientali che non al nostro pensare occidentale, il cui obiettivo principale è la creazione di un’atmosfera che attraverso la concentrazione apra agli ascoltatori le misteriose strade che conducono alla contemplazione dell’assoluto.
Quella ‘mistica’ sacralità che abbiamo impartato a conoscere attraverso la sua opera “Gilgamesh” (1992) e in altri brani sparsi qua e là negli album della sua produzione artistica, dove Battiato di volta in volta si rifà all'antica eredità della musica araba e/o all’insegnamento dell’Islam, al misticismo indiano, al volteggiare dervisho dei Sufi, all’estrema rigidezza teorica del Katakali, o alle danze sfrenate degli ‘zingari’ incontrati nel suo lungo peregrinare musicale, per cogliere in sé il ‘movimento’ coreutico che idealmente abbraccia il cosmico e l’universale.
La musica quindi come linguaggio del sacro, alla base di ogni esperienza che Battiato da sempre ci ‘dona’ a piene mani, la cui esperienza – come egli stesso ha affermato in una lunga intervista a Radio-Rai – gli perviene dal ‘silenzio’: «È un’esperienza difficile, perché siamo tutti troppo carichi, che rende difficile la meditazione, impossibile da praticare come fatto ‘esteriore a noi. […] Non ci si può liberare da nessuna colpa se prima non ci si è liberati della ricchezza, dall’accumulo di razionalità, siamo comunque noi a farci le nostre regole. […] La commistione tra oriente e occidente è parte integrante della mia ricerca musicale, ma non tantissimo come si vuol credere, è piuttosto un fatto filosofico. Mi interessano i modi di essere, per dire che mi piace la musica occidentale e mi interessa lo spirito dell’oriente.»
E ancora: «La ricerca dell’estasi a cui protendo suggerisce, non tanto la tormentata sacralità della via cattolica, quanto la tendenza a diventare esperienza contemplativa, ricerca di un suono e di un valore compositivo che sia il riflesso diretto di una mente che infine trova ciò che appare incredibilmente semplice, appunto l’estasi.»
È questo il senso del sacro che travalica le religioni, difficile da raggiungere perché crediamo solo a ciò che vediamo, che va al di là di ogni credo, rivolto ad una sorta di trasversalità dell’esperienza spirituale. Quello che è il senso profondo che pregna la sua “Messa Arcaica” (1993) la sua composizione sacra per Coro, Voci soliste e Orchestra, eseguita per la prima volta nella Basilica di S. Bernardino a L’Aquila, dai Virtuosi Italiani diretti da Antonio Ballista.
Scrive ancora Fabrizio Zampa: "Articolata nei cinque moduli canonici del Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei , la suggestiva e raffinata composizione di Battiato, si offre all’ascolto con una struttura musicale delicata, che punta sull’intensità della leggerezza, benché ricca di suggestioni, dello spirito che verosimilmente l’ha ispirata. Moduli che si ripetono con sottile eleganza, un tappeto di tastiere sempre presente, piccole sequenze di note che restano sospese a lungo nell’aria e cui tocca il compito di costruire un clima molto rilassato, archi usati con discrezione anche nei pieni, voci che si fondono con grazia agli strumenti, interventi del coro che s’insinuano con possente morbidezza nelle pieghe di una tessitura musicale fatta per distendere, per astrarre chi ascolta da questo mondo e condurlo in territori più profondi, […] arrivando all’essenziale, spogliato da ogni sovrastruttura una composizione tradizionalmente legata a canoni ben precisi nell’ottica del cattolicesimo.»
Ma lasciamo infine la parola a Franco Battiato che a riguardo della sua opera ha detto: «È una Messa molto più vicina al mondo che preferisco, quello orientale e segue la mia strada di sempre, quella della trasformazione del mondo più puro ma anche più asettico della musica tradizionale da meditazione. Sì, io sono per l’interiorità, e credo che questa sia la cosa più bella che ho scritto.»
Va detto inoltre, sì perché c’è comunque un poi alla produzione musicale e canora di Battiato che arriva fino ad oggi e che di sicuro riscopriremo molto più in là, com’è sempre accaduto, e che riguarda le sue registrazioni in studio dei suoi ultimi album pubblicati, non meno estroversi di quelli degli inizi, ma pur sempre colmi della stessa incredibile ‘magia’ che egli riesce a imprimere in essi. Come nell'ultimissimo album "Torneremo ancora" che avalla un'intenzione non poi così recondita di tornare a sorprenderci e lo conferma, che quasi viene da chiedersi, citando Dalla: “quanto è profondo il mare” che separa il continente dalla Trinacria, quella Sicilia che rimanda alle Gorgoni dall’aspetto mostruoso memori della mitologia greca, esseri dalle “ali d'oro, le mani con artigli di bronzo, zanne di cinghiale e serpenti al posto dei capelli”: Euriale a rappresentare la perversione sessuale; Steno la perversione morale e Medusa, l’unica mortale tra le tre, custode degli Inferi a significare la perversione intellettuale.
Che Franco Battiato sia figlio della gorgone Medusa non è dato sapere, anche se qualche sospetto l’avevamo già, confermato da alcune scelte contenute ad esempio in “L’imboscata” (1996), indubbiamente uno dei suoi album più belli, e non solo perché contiene “La cura” , scritta insieme a Manlio Sgalambro e divenuta ormai un ‘cult’ che prescinde dalla sua discografia precedente …
“Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via. Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai. Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie. Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare. E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale, ed io avrò cura di te …”
Sospetto confermato nel costante impegno che mette nel proporre brani di non facile ascolto e ripetibilità, come ad esempio “Di passaggio”, il cui testo greco è ripreso dagli ‘Epigrammi XXIII’ di Callimaco. Ciò a dimostrazione della sua ‘perversione intellettuale’ qui intesa nella sua accezzione semantica di senso e quindi di valore aggiunto, significativo del suo essere ‘poeta’ di una galassia che sembra irraggiungibile, solo perché non ancora avvistata entro quel “No Time No Space” contenuto, per chi non lo rammenti, nell'album significativo “Mondi Lontanissimi” (1985), letteralmente un capolavoro, insieme a brani visionari quali: “Via lattea”, “Temporary Road”, “Il re del mondo”, “Personal Computer” ed altri che abbiamo apprezzato non poco in passato, come “Risveglio di primavera”, “I treni di Tozeur”, e la straordinaria e poetica “L’animale” …
“Vivere non è difficile potendo poi rinascere cambierei molte cose un po’ di leggerezza e di e di stupidità fingere tu riesci a fingere quando ti trovi accanto a me mi dai sempre ragione e avrei voglia di dirti ch’è meglio che io stia solo ma l’animale che mi porto dentro non mi fa essere felice mai mi rende schiavo delle mie passioni e non si arrende mai e non sa attendere e l’animale che mi porto dentro vuole te dentro me segni di fuoco è l’acqua che li spegne se vuoi farli bruciare tu lasciali nell’aria oppure sulla terra.”
Un dire profetico che si addice a Battiato quanto a Petrolini, il quale, a suo tempo, quasi per negazione e/o consenso affermava: “..un po’ per celia, un po’ per non morire”, e che oggi suona più come l’espressione sonora della follia e della saggezza di noi contemporanei. Un’attesa atemporale più meditativa che supplice; le cui “Splendide previsioni” lasciano quasi interdetti …
“Io sono pronto ad ogni evenienza, ad ogni partenza: un viaggiatore che non sa dove sta andando … La specie è in mutazione. E non sappiamo dove stiamo andando … In un punto altissimo Inaccessibile”. . . .
“No Time No Space Parlami dell’esistenza di mondi lontanissimi di civiltà sepolte di continenti alla deriva. Parlami dell’amore che si fa in mezzo agli uomini Di viaggiatori anomali in territori mistici … di più. Seguimmo per istinto le scie delle Comete, come Avanguardie di un altro sistema solare.”
Note:
Francesco Mendozzi in “Storia della Musica”, alla voce : Recensione: Franco Battiato - Sulle corde di Aries ... www.storiadellamusica.it › progressive_rock › franco_battiato-sulle_c.
Id: 2947 Data: 18/05/2022 10:11:15
*
- Cinema
Cannes in coop. con Cineuropa News
Cannes in coop. con Cineuropa News
True Colours punta tutto su Nostalgia di Mario Martone di DAVIDE ABBATESCIANNI 13/05/2022 - La sales company romana porta per la prima volta un titolo in concorso alla Croisette, accompagnato da un ampio catalogo di film italiani ed europei La sales company romana True Colours presenta per la prima volta al Festival di Cannes un titolo in concorso per la Palma d’Oro, ovvero Nostalgia di Mario Martone. Il dramma, una coproduzione Italia-Francia sceneggiata dal regista partenopeo con Ippolita Di Majo e prodotto da Medusa Film, Picomedia, Mad Entertainment e Rosebud Entertainment Pictures, segue le vicende di Felice (interpretato da Pierfrancesco Favino), il quale ritorna al Rione Sanità dopo aver speso 40 anni all’estero e riscopre i luoghi e i codici del quartiere, confrontadosi con un passato che lo divora. Distribuito in Italia da Medusa Film e in Francia da Arp Sélection, il cast è impreziosito dalla presenza di Francesco Di Leva, Tommaso Ragno e Sofia Essaïdi. Oltre a questo titolo, True Colours porterà alle proiezioni del Marché du Film un ampio catalogo di titoli italiani ed europei. Il primo di questi è il dramma LGBT olandese El Houb – The Love, ambientato nella comunità marocchina di Rotterdam, prodotto da BIND e diretto da Shariff Nasr. Segue Diario di spezie, un thriller noir di Massimo Donati ambientato nel mondo dell’arte e della cucina, con protagonisti gli attori Lorenzo Richelmy, Fabrizio Ferracane, Fabrizio Rongione e Galatea Bellugi. Il film è prodotto da Master Five Cinematografica con Rai Cinema ed in collaborazione con Rodeo Drive. Inoltre, tre commedie italiane prodotte da Lucky Red fanno parte del catalogo di quest’anno, ovvero il reboot di Altrimenti ci arrabbiamo e Con chi viaggi (entrambi diretti da YouNuts!) e La donna per me di Marco Martani. L’offerta include anche altri film presentati in anteprima a Berlino: Supereroi di Paolo Genovese, La befana vien di notte 2 – Le origini di Paola Randi e L’Arminuta di Giuseppe Bonito. A questi si aggiungono altri titoli che verranno proiettati durante il mercato, ovvero Trafficante di virus di Costanza Quatriglio e due documentari (C’è un soffio di vita soltanto di di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini e No tenemos miedo di Manuel Franceschini). Saranno presenti anche due progetti recentemente annunciati dalla sales company, ovvero una co-produzione italo-lettone firmata da Fenixfilm e Albolina Film, Sisters di Linda Olte, e Delta, l'opera seconda di Michele Vannucci dopo I più grande sogno, con protagonisti Alessandro Borghi e Luigi Lo Cascio (una produzione a cura di Groenlandia, Kino Produzioni e Rai Cinema). Gli altri tre lungometraggi presenti al mercato e annunciati in precedenza, invece, sono gli italiani Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese e Profeti di Alessio Cremonini (dopo Sulla mia pelle) e la co-produzione Spagna-Argentina Let the Dance Begin, diretta da Marina Seresesky.
INDUSTRIA / MERCATO Europa "Combatti per i tuoi diritti e per le tue folli idee", affermano i giovani creatori all'ultimo evento SAA di DAVIDE ABBATESCIANNI 17/05/2022 - I giovani autori dell'audiovisivo chiedono un equo compenso agli steamer e trovano che i CMO siano utili quando svolgono il loro lavoro e mantengono la loro libertà artistica.
On 27 April, the Society of Audiovisual Authors (SAA), in partnership with the European Parliament’s Cultural Creators Friendship Group, organised the 80-minute event “Young Creators Have Rights, Right?” on the occasion of the European Year of Youth and World IP Day. The talk, moderated by Paige Collings, saw the participation of several young European filmmakers and YouTubers, who shared their experiences and concerns with a number of MEPs.he speakers were Freya Hannan-Mills (British writer-director), Kevin Tran (French YouTuber), Paula Sánchez Álvarez (Spanish screenwriter) and Aleksander Pietrzak (Polish writer-director) along with MEPs Laurence Farreng (Renew/France), Niklas Nienaß (Greens/Germany) and Tomasz Frankowski (EPP/Poland). Cécile Despringre, executive director of the SAA, also joined the talk and provided her own expertise on audiovisual authors’ rights. One of the main takeaways was about the nature of the creative professions, which are very different from a nine-to-five job. Hannan-Mills, only 18 years old, already writes, acts, directs and produces, driven by her strong passion and hoping to earn a living from her work. Sánchez Álvarez highlighted how “there is a lot of invisible creative work that cannot be measured”. Tran, one of the most successful French YouTubers, pointed out how hard it is to ask for financial support for professional equipment or for a mortgage, for example, as many struggle to consider his activity a real job. Later, Tran and Frankowski explained how receiving royalties from their collective management organisations (CMOs) has allowed them to continue their job and uphold their artistic freedom. Tran, for example, spends all of his YouTube- and ad-related earnings on producing new content, and he lives off SACD’s royalties and a manga he released in 2016. Frankowski praised the role of CMOs in providing legal support, as “when you are young, you do not have the money for lawyers. […] Royalties are not only important when you are young; as royalties stay with us 70 years after we die, it is therefore also a form of insurance for our family and children,” he added. Hannan-Mills and Sánchez Álvarez have benefited from the support of CMOs via networking and competitions, an aspect particularly important for creators coming from disadvantaged backgrounds. For example, British CMOs Directors UK and ALCS helped Hannan-Mills to take part in the Film in the House competition, a parliamentary-based film and scriptwriting contest for students and independent filmmakers based in the UK, whilst Sánchez Álvarez discovered DAMA as a student when attending screenwriting events organised or sponsored by the Spanish CMO, through which she was offered a year of personalised tutoring with a professional screenwriter. Another important topic covered by the panel revolved around the impact of streaming platforms on the payment of royalties. Frankowski warned that these players are getting too big and made a final call for fair compensation. He argues that as long as young creators are not being fairly remunerated, they will struggle to create their content and maintain their artistic freedom. Thus, a healthy environment could contribute to defending European culture. Tran agreed and acknowledged the need to co-exist with streamers, but also with online players such as YouTube, wherein “veterans” (creators who have a lasting presence and are prolific) inject significant revenues. Sánchez Álvarez stated that, in any case and regardless of the type of media they work on, “authors should not be the last to be compensated”. “Intellectual property is a really important topic that needs to be talked about. People need to have that safety and security of their own intellectual property,” concluded Hannan-Mills.
Id: 2946 Data: 18/05/2022 09:02:31
*
- Arte
Elio De Luca - espone alla Bomboniera dellArte di Roma
In mostra a Roma alla Galleria "La Bomboniera dell'Arte" in Via Mecenate 8/b le ‘opere essenziali’ del raffinato maestro della pittura italiana contemporanea Elio De Luca.
Dal 16 Aprile al 15 Maggio è possibile ammirare alcune delle mirabili opere pittoriche e scultoree che hanno trasformato il concetto dell’arte degli ultimi decenni, con l’aver egli proposto una visione univoca dell’enfasi antica, che spesso guardiamo con ossequio, e quella moderna che invece osserviamo appena con condiscendenza. È quanto accade nel visitare questa piccola mostra che altresì fa grande lo spazio espositivo della “Bomboniera dell’Arte” di Roma, la cui esposizione fa da eco alle due mostre di più ampio respiro che l’artista ha dedicato alle tematiche centrali dell’“Amore” e del “Cantico dei Cantici” che hanno avuto luogo in altre città italiane e non solo.
L’impatto primario è quello stupefacente di una cerimonia in atto che si svolge nell’edenico emisfero della luce, allorché si celebra l’amore nel pieno dei sensi e della voluttà dei corpi, così come forse sono stati nel concetto misterico del creato, avulsi dal peccato e dalla maliziosa intenzione di chi osserva. L’oro di fondo che circonda i teneri amanti funge da specchio all’armonia del tutto, all’ancestrale richiamo d’una loro mistica effusione, in cui ritroviamo noi stessi nei momenti migliori della nostra disambiguità. Ma se tuttavia i sensi richiamano le emozioni, non c’è che da osservare ogni singola opera esposta in funzione della loro salvifica edonistica ‘bellezza’. Quanto di più facciamo nell’osservare le opere dei grandi del tempo dell’arte che va da Giotto a Klimt passando attraverso Duccio e Picasso, in cui l’antico e il nuovo ancora oggi, nella loro dichiarata eternità, ci emozionano e ci appassionano, restituendoci in pieno la loro ingenua felicità. Non è forse detto che “la nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no” (*), cui mi sento di aggiungere “che lo vogliamo o no”, perché creata nel segno dell’amore. Quell’amore che ci accomuna e che nell’avvicinarci all’arte, a tutta l’arte, un fine ci salverà.
L’Artista: Elio De Luca (Pietrapaola, 1950), pittore italiano si distingue, in particolare, per l’uso della peculiare tecnica del cemento dipinto ad olio. Lavora inoltre con pastelli ad olio su carta gialla e con gli oli su tavola. Ha eseguito diverse sculture in bronzo. Negli anni collabora con varie gallerie in Italia e all’estero. Sue opere entrano a far parte di collezioni pubbliche e private. Nel tempo ha realizzato gli affreschi della Chiesa di San Bartolomeo a Scampata e l’VIII Palio della Costa Etrusca; sue opere sono state acquisite in permanenza dalla Pinacoteca regionale della Toscana e dal Lu. C. C. a Center of Contemporary Art di Lucca. Ha partecipato con un ciclo di opere dal titolo “La Buona Terra” all’EXPO 2015 di Milano ospite dell’Istituto Agronomico d’Oltremare (Ministero degli Esteri). Negli ultimi anni le sue opere hanno partecipato a numerose esposizioni internazionali, far le quali il M’ARS Contemporary Art Museum di Mosca, il Museo Cultural di Santa Fe in Nuovo Messico, il Foreign Art Museum di Riga, l’Artist Istanbul Art Fair (dove ha rappresentato l’Istituto di Cultura Italiana in Turchia), il Washington Convention Center di Washington DC, il Miami Beach Convention Center ed il Boca Raton Gallery Centre di Miami, l’International Kunsttentoonstelling Furn Art ed il Centro espositivo Comunale di De Haan in Belgio, lo “Spazio Italia” dell’Ambasciata Italiana a Pechino[6].
(*) Zigmunt Bauman "L'arte della vita" Laterza 2009
Id: 2938 Data: 23/04/2022 06:07:34
*
- Ecologia
Buongiorno Terra!
Buongiorno Terra! Non so quanti di voi abbiano letto il romanzo della scrittrice statunitense Pearl S. Buck “La buona terra” che oggi vale la pena di riscoprire, rileggere o rivedere al cinema. Indubbiamente insegnerebbe a tutti noi qualcosa di cui abbiamo perduto il senso. Sempre che la ‘dignità’ abbia ancora un senso e la nostra ‘coscienza’ possa dare valore allo spirito di conservazione e di sopravvivenza che dovremmo tenere sempre presente. La buona terra (The Good Earth) è un romanzo del 1931 di Pearl S. Buck ambientato in Cina dove l'autrice visse dall'infanzia fino al 1934 per via dell'attività missionaria dei suoi genitori appartenenti alla chiesa presbiteriana. Il romanzo descrive alcuni aspetti anche primitivi della vita cinese tramite un forte senso di umanità e una grande energia descrittiva. La trama è intrecciata fra il duro lavoro dei campi, il racconto del matrimonio dei contadini, i drammi della siccità e della carestia. Su tutti questi temi si impone il lavoro dell'uomo, l'amore e l'angoscia della donna e l'amore per la terra che supera ogni lusinga e tentazione, dato che è tipicamente femminile, di fecondità e di conservazione della specie. L'opera valse alla scrittrice il Premio Pulitzer per il romanzo del 1932 e la medaglia di riconoscimento dall'Accademia americana delle arti e delle lettere. Tra le tante apparse negli anni successivi alla sua pubblicazione vanno citate le ultime produzioni letterarie in italiano: • Pearl S. Buck: La buona terra, lettrice: Maria Grazia Ogris, Centro internazionale del libro parlato, Feltre 2004 • Pearl S. Buck, La buona terra, traduzione di Andrea Damiano, Oscar moderni 109; Mondadori, Milano 2017 (*) Dal romanzo è stata tratta una versione cinematografica omonima diretta nel 1937 da Sidney Franklin. Se amiamo i nostri figli, diamo un senso alla nostra vita, facciamo in modo che questa nostra Terra sopravviva a noi stessi nel modo in cui ci è stata donata: con amore. (*) Note in Wikipedia.
Id: 2935 Data: 22/04/2022 07:24:14
*
- Cinema
David Di Donatello 2022 - Cineuropa News
DAVID DI DONATELLO 2022 - CINEUROPA NEWS
È stata la mano di Dio e Freaks Out i titoli più nominati ai David di Donatello di Vittoria Scarpa
05/04/2022 - I film di Paolo Sorrentino e Gabriele Mainetti raccolgono 16 candidature ciascuno; a seguire, Qui rido io con 14, e Ariaferma e Diabolik con 11 È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino e Freaks Out di Gabriele Mainetti Una festa del cinema all’insegna della gioia e dell’eleganza, con l’obiettivo di stimolare il pubblico a tornare nelle sale. Ritornerà in presenza, negli iconici studi di Cinecittà e con un red carpet che non si vedeva da tempo, la cerimonia di premiazione dei David di Donatello, i premi del cinema italiano la cui 67ma edizione si terrà il 3 maggio, a Roma. Una celebrazione che, nelle intenzioni dei suoi organizzatori e dei professionisti del settore, si propone di rappresentare una ripartenza per il cinema nazionale, che, se produttivamente ha ripreso a muoversi, conta ancora troppe poltrone vuote nelle sale, dopo due anni di pandemia. Grandi maestri e sorprese dell’anno, generi diversi che abbracciano il fantasy e il fumetto, film corali, documentari d’autore, molto Sud nei protagonisti e nelle storie raccontate, ma sempre con un respiro internazionale: sono alcune delle tendenze individuate dalla presidente e direttrice artistica dell'Accademia del Cinema Italiano, Piera Detassis, per questa edizione che vede contendersi il maggior numero di statuette (16 ciascuno) a È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino e Freaks Out di Gabriele Mainetti. I due sono candidati sia per il miglior film che per la miglior regia, in cinquina con Qui rido io di Mario Martone (che conta 14 nomination in tutto), Ariaferma di Leonardo Di Costanzo (11 candidature) ed Ennio di Giuseppe Tornatore (6 candidature, tra cui anche quella per il miglior documentario). Sei candidature anche per A Chiara di Jonas Carpignano (compresa quella per la miglior sceneggiatura originale) e per I fratelli De Filippo di Sergio Rubini (tra cui miglior attrice non protagonista). La cinquina delle protagoniste vede tutte attrici nominate per la prima volta – tranne Maria Nazionale per Qui rido io – e sono: Swamy Rotolo (A Chiara), Miriam Leone (Diabolik), Aurora Giovinazzo (Freaks Out) e Rosa Palasciano (Giulia). Il miglior attore protagonista andrà scelto tra Elio Germano (America Latina), Silvio Orlando (Ariaferma), Filippo Scotti (È stata la mano di Dio), Franz Rogowski (Freaks Out) e Toni Servillo (Qui rido io). Il David per il miglior esordio alla regia se lo contenderanno Gianluca Jodice (Il cattivo poeta), Maura Delpero (Maternal), Laura Samani (Piccolo corpo), Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis (Re Granchio), Francesco Costabile (Una femmina). Oltre a Ennio, la cinquina del miglior documentario include Atlantide di Yuri Ancarani, Futura di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alba Rohrwacher, Marx può aspettare di Marco Bellocchio, Onde radicali di Gianfranco Pannone. Candidati per il miglior film internazionale sono Belfast di Kenneth Branagh, Don’t Look Up di Adam McKay, Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi, Dune di Denis Villeneuve e Il potere del cane di Jane Campion. Già assegnato il David 2022 per il miglior cortometraggio: va al corto d’animazione Maestrale di Nico Bonomolo.
Le candidature ai 67mi David di Donatello: Miglior film Ariaferma - Leonardo Di Costanzo (Italia/Svizzera) È stata la mano di Dio - Paolo Sorrentino Ennio - Giuseppe Tornatore (Italia/Belgio/Cina/Giappone) Freaks Out - Gabriele Mainetti (Italia/Belgio) Qui rido io - Mario Martone (Italia/Spagna)
Miglior regia Leonardo Di Costanzo - Ariaferma Paolo Sorrentino - È stata la mano di Dio Giuseppe Tornatore - Ennio Gabriele Mainetti - Freaks Out Mario Martone - Qui rido io
Miglior esordio alla regia Gianluca Jodice - Il cattivo poeta (Italia/Francia) Maura Delpero - Maternal (Italia/Argentina) Laura Samani - Piccolo corpo (Italia/Francia/Slovenia) Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis - Re Granchio (Italia/Francia/Argentina) Francesco Costabile - Una femmina
Miglior sceneggiatura originale A Chiara – Jonas Carpignano (Italia/Francia) Ariaferma – Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella È stata la mano di Dio – Paolo Sorrentino Freaks Out – Nicola Guaglianone, Gabriele Mainetti Qui rido io – Mario Martone, Ippolita Di Majo
Miglior sceneggiatura non originale Diabolik – Manetti Bros., Michelangelo La Neve L’Arminuta – Monica Zapelli, Donatella Di Pietrantonio (Italia/Svizzera) La scuola cattolica – Massimo Gaudioso, Luca Infascelli, Stefano Mordini La terra dei figli – Filippo Gravino, Guido Iuculano, Claudio Cupellini (Italia/Francia) Tre piani – Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santella (Italia/Francia) Una femmina – Lirio Abate, Serena Brugnolo, Adriano Chiarelli, Francesco Costabile
Miglior produttore A Chiara – Jon Coplon, Paolo Carpignano, Ryan Zacarias, Jonas Carpignano (StayBlack Productions); Rai Cinema Ariaferma – Carlo Cresto-Dina (Tempesta); Michela Pini (Amka); Rai Cinema È stata la mano di Dio – Paolo Sorrentino, Lorenzo Mieli (The Apartment) Freaks Out – Andrea Occhipinti, Stefano Massenzi, Mattia Guerra (Lucky Red); Gabriele Mainetti (Goon Films); Rai Cinema Qui rido io – Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori (Indigo Film); Rai Cinema
Miglior attrice protagonista Swamy Rotolo - A Chiara Miriam Leone - Diabolik Aurora Giovinazzo - Freaks Out Rosa Palasciano - Giulia Maria Nazionale - Qui rido io
Miglior attore protagonista Elio Germano - America Latina (Italia/Francia) Silvio Orlando - Ariaferma Filippo Scotti - È stata la mano di Dio Franz Rogowski - Freaks Out Toni Servillo - Qui rido io
Miglior attrice non protagonista Luisa Ranieri - È stata la mano di Dio Teresa Saponangelo - È stata la mano di Dio Susy Del Giudice - I fratelli De Filippo Vanessa Scalera - L’Arminuta Cristiana Dell’Anna - Qui rido io
Miglior attore non protagonista Fabrizio Ferracane - Ariaferma Valerio Mastandrea - Diabolik Toni Servillo - È stata la mano di Dio Pietro Castellitto - Freaks Out Eduardo Scarpetta - Qui rido io
Miglior fotografia America Latina – Paolo Carnera Ariaferma – Luca Bigazzi È stata la mano di Dio – Daria D’Antonio Freaks Out – Michele D’Attanasio Qui rido io – Renato Berta
Miglior compositore A Chiara – Dan Romer, Benh Zeitlin America Latina – Verdena Ariaferma – Pasquale Scialò Diabolik – Pivio e Aldo De Scalzi Freaks Out – Michele Braga, Gabriele Mainetti I fratelli De Filippo – Nicola Piovani
Miglior canzone originale Diabolik – La profondità degli abissi (Manuel Agnelli) I fratelli De Filippo – Faccio ‘a polka (Nicola Piovani, Dodo Gagliardi) L’Arminuta – Just You (Giuliano Taviani, Carmelo Travia) Marilyn ha gli occhi neri [+] – Nei tuoi occhi (Francesca Michielin) Piccolo corpo – Piccolo corpo (Laura Samani)
Miglior scenografia Ariaferma – Luca Servino Diabolik – Noemi Marchica È stata la mano di Dio – Carmine Guarino Freaks Out – Massimiliano Sturiale Qui rido io – Giancarlo Muselli, Carlo Rescigno
Migliori costumi Diabolik – Ginevra De Carolis È stata la mano di Dio – Mariano Tufano Freaks Out – Mary Montalto I fratelli De Filippo – Maurizio Millenotti Qui rido io – Ursula Patzak
Miglior trucco Diabolik – Francesca Lodoli È stata la mano di Dio – Vincenzo Mastrantonio Freaks Out – Diego Prestopino, Emanuele De Luca, Davide De Luca I fratelli De Filippo – Maurizio Nardi Qui rido io – Alessandro D’Anna
Miglior acconciatura 7 donne e un mistero – Alberta Giuliani A Chiara – Giuseppina Rotolo Diabolik – Luca Pompozzi Freaks Out – Marco Perna I fratelli De Filippo – Francesco Pegoretti
Miglior montaggio A Chiara – Affonso Gonçalves Ariaferma – Carlotta Cristiani È stata la mano di Dio – Cristiano Travaglioli Ennio – Massimo Quaglia, Annalisa Schillaci Qui rido io – Jacopo Quadri
Miglior suono Ariaferma È stata la mano di Dio Ennio Freaks Out Qui rido io
Migliori effetti visivi A Classic Horror Story Diabolik È stata la mano di Dio Freaks Out La terra dei figli
Miglior documentario Atlantide - Yuri Ancarani (Italia/Francia/Stati Uniti/Qatar) Ennio - Giuseppe Tornatore Futura - Pietro Marcello, Francesco Munzi, Alba Rohrwacher Marx può aspettare - Marco Bellocchio Onde radicali - Gianfranco Pannone
Miglior film internazionale Belfast - Kenneth Branagh (Regno Unito) Don’t Look Up - Adam McKay (Stati Uniti) Drive My Car - Hamaguchi Ryūsuke (Giappone) Dune - Denis Villeneuve (Stati Uniti/Ungheria/Giordania/Emirati Arabi Uniti/Norvegia/Canada) Il potere del cane - Jane Campion (Regno Unito/Nuova Zelanda/Australia/Stati Uniti/Canada) David Giovani Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di Morto [+] - Riccardo Milani Diabolik - Manetti Bros. È stata la mano di Dio - Paolo Sorrentino Ennio - Giuseppe Tornatore Freaks Out - Gabriele Mainetti
Miglior cortometraggio (già assegnato) Maestrale - Nico Bonomolo (Gli altri candidati erano: Diorama - Camilla Carè L’ultimo spegne la luce - Tommaso Santabrogio Notte romana - Valerio Ferrara Pilgrims - Farnoosh Samadi, Ali Asgari)
Se ne avanza uno datelo a me per il film che non ho fatto.
Id: 2928 Data: 06/04/2022 09:13:56
*
- Teatro
Teatro degli Opposti - Uscita di Scena
TEATRO DEGLI OPPOSTI “USCITA DI SCENA”
Da molto tempo dicevi che l’avresti fatto ma nessuno ti ha creduto mia cara Margy, nemmeno tu. Lo pensi davvero Oswald? Conoscendoti ho sempre pensato fosse frutto di una malcelata vanità femminile che in verità non ti appartiene. Sei solo tu a pensarlo, nessun’altro. Non perché tu non sia vanitosa abbastanza, chi del resto non lo è in giovane età, ma perché ai miei occhi, tu, sapendo di essere attraente per lo stuolo di corteggiatori che ti girano attorno, sembri aver superato anche quella futile dimensione. Non pensi che potrebbe bastarmi il plauso dei miei estimatori? Fumo negli occhi, “Cortigiani …”, così si chiamano. Certo definirli estimatori è più signorile, se si tiene conto dei complimenti che ti piovono addosso come uno scroscio di applausi dentro e fuori la scena, gli inviti e i fiori che ricevi … per non dire poi dei regali che sembri apprezzare con nonchalance, certo, al dunque si possono anche definire così: ‘estimatori’. Non i tuoi regali Oswald, anzi, saresti così gentile di passarmi quegli incantevoli orecchini di perle che mi hai regalato, li ho poggiati sul comodino accanto al letto, grazie. Non saprei dire se è perché ritieni banale ricevere regali o perché non adatti allo scopo che in essi si cela, davvero me ne sfugge la ragione. Vuoi farmi credere che non hanno per te quell’importanza che dovrebbero avere, per quanto, stando almeno ai nomi altisonanti dei promotori dai quali provengono, direi … È preferibile che tu non dica. Quel che più m’importa quest’oggi è mettere in atto la mia ‘uscita di scena’ senza fare troppo rumore. È quello a cui stai pensando Ann, un’ultima recita? Sì certo, pensavo ad una “Uscita di scena” come ha pensato bene di fare il suo autore … in silenzio. Beh, proprio in silenzio non direi, si è sparato un colpo di pistola alla tempia, che se si chiudono gli occhi, dietro le quinte, ancora se ne risente il boato. Se non mi sbaglio non è mai stato appurato che si sia sparato o se l’abbiano ‘suicidato’ per un qualche incomprensibile delirio di interpretazione o di una semplice rivendicazione gelosa. Tu cosa ne pensi? Un ossimoro ben costruito non c’è dubbio: fatto ‘suicidare per gelosia’ o, come tu dici, per una qualche ‘vendetta ingiustificata’. In entrami i casi si tratta comunque di un’incongruenza verbale, tra la paranoia e la psicoastenia, più conosciuta come ‘nevrosi ossessiva’. Fai tu, scegli quella che più ti aggrada. Com’è come non è, sembra a causa della rivalità creatasi sulla scena dopo un ripensamento del regista, riguardo a chi affidare la parte della protagonista, alla consumata attrice della Compagnia o alla sua giovane amante. Se, come tu dici Margy, la prima era ormai una donna ‘consumata’, forse valeva la pena affidare la parte ad una giovane e motivata attrice desiderosa d’interpretare un ruolo, come si dice: che le ‘calzava a pennello’. Hai scelto un modo davvero inadatto di esprimerti, Oswald ti rammento che non stai parlando ad uno qualsiasi dei tuoi amici: una combriccola volgare d’indecenti filantropi, finti altruisti, maschilisti e menefreghisti, dediti solo al bere. Se vuoi posso aggiungere qualche altro aggettivo all’elenco, come … Non ce n’è bisogno, grazie. Anche se non mi è proprio chiaro cosa centra l’autore del copione in tutto questo, ritengo inutile questa conversazione. Secondo te uno si lascia ‘suicidare’ per una diatriba non avallata dal copione, scoppiata tra le due ‘prime donne’ sulla scena? Non lo ritengo plausibile, dev’esserci dell’altro. Vorresti dire che voi uomini non siete cinici abbastanza da non voler concedere un qualche cedimento sentimentale a noi donne? Ciò denota non essere poi così addentro alla sensibilità femminile. Stiamo parlando della ‘giovane’ donna o dell’attrice ‘consumata’ Ann? Come tuo solito spesso dimentichi di mettere il soggetto nella tua conversazione. Niente affatto George, sto parlando di me e di te, del nostro rapporto che … ma lasciamo stare. In verità sono un po’ stanca e avrei bisogno di un periodo di riposo ma che a causa degli impegni presi, non da me ovviamente, non me lo consentono, almeno per il momento. Puoi sempre raccomandare al tuo manager di non aggiungere altre recite in cartellone, almeno per un certo tempo, dopo l’ultima data prevista stasera intendo. Non è quel che viene dopo che mi preoccupa Oswald, è questo copione, le continue prove di questi giorni, la pretesa del regista di una partecipazione sempre più impegnativa, sento le forze venire meno, temo di non farcela. Margy ti rammento che fra poche ore si va in scena, dovevi pensarci prima, adesso è davvero troppo tardi, il teatro è tutto esaurito. Non puoi abbandonare il tuo pubblico. Non è sempre stato ciò a cui tieni di più? Già, il mio pubblico, dici, sempre lì ad acclamarti fino alle stelle, e quando meno te lo aspetti ti lascia cadere nel baratro più profondo. Eh, che esagerazione, non mi sembra sia questo il caso. Sei all’apice della tua carriera artistica, e un flop sarebbe davvero una grande delusione per tutti. O forse temi quei quattro critici da strapazzo che scribacchiano sulla carta stampata? Quelli poi, sempre pronti a edulcorarti o a mandarti sul rogo se solo la performance non aggrada le loro penne. No, non li temo più di tanto. Alcuni di essi si lasciano comprare per quattro denari lo sai anche tu. È sempre stato così. Quindi a che attribuisci questa ansietà che a tua detta ti affatica non poco? Non saprei, è come una sorta di psicosi, subentrata nel rapporto ossessivo e delirante tra i due personaggi sulla scena. Non ti ho mai vista così, devo preoccuparmi? In un certo senso, sì. Sei tu la ragione per la quale penso di prendere questa decisione che temo sia definitiva. Perché io, non credo di aver detto alcunché che possa farti supporre a una qualche mia pretesa … È proprio questa la ragione, ti sento distante George, negli ultimi tempi hai assunto un modo di essere accondiscendente in tutto, paternalistico e compassato quel tanto che mi lascia pensare a un tuo prossimo allontanamento da me. Se non sei tu a volerlo, di certo non sono io a cercarlo, comunque la faccenda non mi sembra poi così catastrofica come tu pensi. Quindi ammetti una tua défiance nei miei confronti? È del tutto inutile se non comprendi la mia difficoltà di averti accanto quando sono sulla scena, la tua presenza costante accanto all’altra che non sta affatto recitando una parte ma, chiede di viverla in prima persona, in mia presenza? Lo ritengo volgare e offensivo nei miei confronti. Forse, lo sarebbe indubbiamente se io posponessi quanto da te evidenziato in questo improbabile ‘fuori scena’, un ipotetico rapporto con l’altra protagonista che recita ‘sulla scena’, ammetti che la cosa assume una diversa identificazione attoriale? O, forse … Interpretativa intendi? Assolutamente no, il che comporterebbe un chiarimento altresì necessario, tra la principale protagonista che sono io e il suo ‘alter ego’ rappresentato dall’altra. Margy aspetta, sto pensando a un possibile rimaneggiamento del testo, anche se la cosa in questo momento mi sfugge. Mi chiedo: se il suo autore ha voluto mantenere le due parti separate ci sarà pur stata una ragione che lo ha spinto a farlo, tuttavia, basterà spostare una scena nell’altra, per dire la ‘ragione’ direttamente ‘dentro la scena’, per dare sfogo alla violenza dello scontro conflittuale tra il ‘potere’ ossessionato dell’una e il ‘volere’ ambizioso dell’altra. Necessita solo una semplice rilettura del copione et voillés, al tempo d’oggi sarebbe di grande effetto teatrale, non meno di quanto avveniva nell’antica tragedia greca. Sarebbe come scatenare una guerra, dunque, ho sempre pensato che saresti un perfetto guerrafondaio, ti rammento che ce ne sono fin troppe di guerre in corso, possiamo evitare di inventarcene un’altra, per favore? Non una guerra nel vero senso della parola, sarebbe come assistere allo sbranarsi di due belve nell’arena trasferita sulle tavole del palcoscenico di un grande teatro quale il Globe Theater che ci ospita. Il tuo personaggio ne verrebbe fuori in tutta la sua grandezza e la sua avversione vendicativa all’infamità dell’affronto subito. Se davvero lo pensi saprai anche spiegarmi perché dovrei sostenere la parte più avversa del dramma che si consuma sulla scena? Te lo immagini cosa sarebbe per lo spettatore assistere al trionfo sulla scena della sua attrice prediletta, ‘fatta a pezzi’, per modo di dire, a causa di una rivalità che la vede defraudata non solo della parte di ‘prima donna’ quanto del suo ‘primis letto’? Dunque lo ammetti Oswald, pensi di allontanarti da me, ma non riesco a vedere la dimensione di rivalsa che vorresti dare al fatto in sé, quanto, se non altro perché sembri aver già deciso a chi delle due affidare la parte oltraggiata, e cioè a me. Immagino che neppure per un momento ti sia chiesto se sono disposta al compromesso, è così? Beh, anche se non vi vedo nulla di immediato, se non quello che stai avallando di una mia possibile défiance nei tuoi confronti, ammetto che sì, mi piacerebbe assistere a un simile scontro tra due diverse alterazioni psicologiche: quella della ‘consumata’ personalità dell’una a confronto con la speculazione ‘arrivistica’ dell’altra. Pensi sia davvero così interessante Oswald? Indubbiamente sì, cercare nel suddetto scontro una trama di senso darebbe alla pièce una parvenza di realtà assoluta di grande impatto che, nell’avallare la tua inquietudine di questi giorni, mi suggerisce una svolta, cioè quella di apportare un cambiamento al copione, come dire, dare un senso veridico alla tua, immaginabile “uscita di scena”. Non è forse quanto mi chiedevi pocanzi? Non è proprio così, quello che intendevo non è affatto di spararmi un colpo di pistola alla tempia solo per farti il favore di levarmi di torno, o per coerenza con la parte assunta dall’autore. Quanto, semmai, far suicidare la tua giovane amante perché impossibilitata a portare a conclusione la sua arrivistica trama. Come dire, penso più a una frattura di comprensione che passa nei rapporti di senso fra noi due, e che ti fa scegliere lei a me. In fondo è solo un’altra eventualità, la direi piuttosto un’incongruenza verbale, non trovi George? Non c’è dubbio, ma lasciare che una delle due protagoniste venga fatta ‘suicidare per gelosia’, non mi sembra segua il corso normale della trama, piuttosto mi sembra imprudente quasi fino all’incoerenza interpretativa. Nient’affatto, è patologico, chiamarla poi incoerenza è certamente più signorile, non è vero Oswald? Il fine del dramma richiede una conclusione ottimale, non un interrogativo senza alcuna risposta. Hai ragione tu, ha sempre fatto un grande effetto lasciare allo spettatore la soluzione, resta solo di dargliene una ragione. Il dubbio d’una possibile conclusione, come tu dici Margy, risulta maggiormente esposto in quest’ultima eventualità ‘altra’, maturata nell’ossessione psicologica (paranoica) delle due contendenti. Malgrado si dia il caso che dovrei essere io a ‘uscire di scena’ e non la tua sgualdrina, è bene tu sappia che vorrei farlo, come si dice: ‘alla grande’. Un’uscita all’insegna del ‘glamour’ che mi merito, con tanto di applausi e lancio di fiori, e l’indomani con gli scribacchini alla porta che reclamano interviste e titoli a grandi lettere sui giornali … Mah, sarebbe un’illusione, di certo l’autore non intendeva portare in scena un remake di “Sunset Boulevard”, se vogliamo citare un capolavoro. Pensaci Oswald, anzi medita sulle variazioni da portare al copione, perché dopo quel momento, potresti ritenerti un fallito, ‘dentro’ e ‘fuori’ della scena. Si dà il caso che stiamo parlando di una anomalia che va oltre il teatro, occupa gli spazi della vita vera, i sentimenti e le aspettative delle persone umane, che non puoi manovrare a tuo piacimento come figure di un teatro delle ombre, in parvenza di un immaginifico che hai creato a tuo uso e consumo … La definirei una sorta di nevrosi ossessiva da successo che assieme alla completa mancanza di certezze che ti hanno portata a fare della tua vita un tutt’uno con il palcoscenico, è questo Margy che si intravede dietro la tua perfetta maschera d’attrice, che ti fa vedere ombre dove non sono e ti consegna alla stregua di una paranoia morbosa senza avallo. Comprendo Oswald, è dunque questa è la verità, la ricerca di una compromissione nella vita che vorresti portare come cambiamento al copione che stiamo recitando fuori del palcoscenico, benché, per quanto mi riguarda, dovresti pensare a un ‘colpo di scena’ inaspettato, il cosiddetto ‘Coup de Théatre’ che renda credibile il finale che ancora non c’è. Come dire, una “uscita di scena” che renda verosimile la realtà. Davvero grande Margy, mi sembra una conclusione eccellente, quest’ultima tua affermazione rivela la causa della mia infelicità, suggerendomi qualcosa d’inaspettato che tu stessa hai previsto d’inserire nella tua parte. Come di solito sei all’altezza della tua fama, perfetta così come sei. Dunque, così come avveniva un tempo reciteremo a soggetto. Non c’è bisogno di ulteriori prove, ormai non ci rimane che prepararci, si va direttamente in scena … È solo questione di ore, vedrai Oswald, ti sorprenderò. Nota d’autore: So per certo che vi aspettate un finale eclatante, ma non c’è nient’altro più rumoroso dello sparo di una pistola che rimbomba al chiuso di un teatro affollato, quando sta per chiudersi il sipario, allorché la protagonista, Margareth Ormandy, Margy per gli amici, scostata la tenda del sipario fa la sua grandiosa ‘uscita’ sul proscenio con una pistola fumante a salutare il suo pubblico accorso ad acclamarla … Grande! Eccellente! Divina!
Id: 2925 Data: 04/04/2022 05:58:55
*
- Cinema
Apichatpong Weerasethakul - Filmando en el Amazonas
Apichatpong Weerasethakul Filmando en el Amazonas Jun.18—28 2022
by CINEUROPA NEWS
Introducción Nos adentramos en el espesor de la Selva Amazónica, cuna de múltiples mitos y leyendas de culturas ancestrales que aún habitan el territorio y lo protegen como guardianes. Inmersos en un territorio que opera como un todo, como un organismo, nos sumergimos en el universo onírico de Apichatpong. Explorando entre sueños, vidas pasadas, universos paralelos, ancestros y espíritus el mundo que hoy habitamos. Descubrimos que podemos explorar más allá de lo que vemos, que, así como viajamos en la superficie, podemos recorrer múltiples capas, indagar también en el universo interior de nuestros personajes, de sus territorios, de sus memorias. Apichatpong nos abre un mundo infinito de posibilidades, de maneras de ver y sentir el mundo, nos aflora los sentidos y nos lleva a lugares desconocidos. “Yo siempre pienso una película como un cuerpo. Lo que uno como cineasta quiere hacer con todas las partes —con ese acervo de imágenes y sonidos de los que se compone un film, que son sus órganos— es darle vida a ese cuerpo, volverlo un organismo viviente.” Ganador del máximo premio de la academia cinematográfica, la Palma de Oro de Festival de Cannes con Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives en 2010, Weerasethakul se ubica en el lugar más privilegiado del cine contemporáneo. Sus obras siempre aplaudidas en los circuitos y festivales de cine, le convierten en una de las figuras más relevantes del panorama cinematográfico mundial. En su trayectoria de más de 20 años, ha participado en numerosos festivales y ha ganado importantes premios, entre ellos tres premios más del Festival de Cannes: un Certain Regard para Blissfully Yours en 2002, el Premio del Jurado para Tropical Malady en 2004 y de nuevo en 2021 obtuvo el Premio del Jurado para su última película Memoria, realizada en Colombia. Apichatpong se aproxima al universo creativo desde el cine y el arte contemporáneo, acercando los ámbitos sociales y personales desde una perspectiva honesta y especial. No se contenta con las estructuras convencionales, por lo que su obra es etérea y no-lineal, se sitúa en el no-tiempo. Sin embargo, confía en el trazo de la luz, en lo intangible que logra representar de manera fresca y natural. No necesita de grandes efectos especiales para sumergirnos y hacernos parte de este baile entre lo tangible y lo intangible, lo real y lo onírico. Playlab Films presenta su taller Apichatpong Weerasethakul Lab: filmando en el Amazonas, que busca acercar talentos emergentes de todo el mundo, para que de la mano de Apichatpong Weerasethakul, una de las voces más originales del cine contemporáneo, logren explorar e impulsar su creatividad, desarrollando un cortometraje, a través de talleres prácticos. Por diez días, cincuenta directores creativos de diversas nacionalidades y contextos, compartirán la experiencia de crear cincuenta cortometrajes, bajo una maravillosa metodología creada por el maestro Abbas Kiarostami, adaptada por Werner Herzog y ahora revisitada por Apichatpong. La idea del taller es salir de nuestra zona de confort, enfrentarnos a un territorio extraño y desconocido, observarlo desde la curiosidad y el respeto, co-crear desde diversas formas de ver y comprender el mundo. Crear desde un lugar diferente al que habitamos cada día, nos permite ver el territorio como un lienzo en blanco, cada uno de los elementos que lo compone, las personas que lo habitan, los ríos, los caminos que recorremos entre la selva espesa y húmeda, cada planta, cada animal, la cultura que nos abraza y recibe, todos ellos como pinceles y pinturas que nos permiten crear y contar historias desde otro lugar. Durante el taller, los participantes explorarán todas las fases que componen el desarrollo, producción y post-producción de una película. Desde la Idea, que se originará a partir del tema que proponga Apichatpong el primer día del LAB, hasta la proyección del corto terminado, en el último día. Cada una de estas fases estarán acompañadas de manera individual y grupal por Weerasethakul, a través de talleres, charlas, intercambios y asesorías. Con el ánimo de acercar a todos los directores emergentes con la industria actual, los cincuenta cortometrajes serán albergados en la plataforma VOD de Playlab Films para su distribución y exhibición, generando un espacio para visualizar todos los trabajos realizados desde cualquier parte del mundo. Además los mejores 10 proyectos, representarán al taller y toda la experiencia del mismo en festivales internacionales. Y, como queremos continuar haciendo cine juntos, queremos producir tus próximos proyectos!! PlayLab Films abre una convocatoria anual, para todos los integrantes del taller, en donde seleccionará 2 proyectos largometrajes para producirlos. “Cuando viajé a Colombia tuve que repensar la forma como me acerco a la memoria y, muy de la mano, al cine. En Tailandia, donde he hecho todas mis demás películas, yo usaba mi propia memoria o la memoria de mis conocidos para pensar una historia, para crear un relato audiovisual. Aquí me tocó operar de otra manera. Mi memoria era insuficiente; por eso tuve que absorber las memorias de otros. Quienes guardan la memoria de este territorio son otros.” Retrospectiva Con el ánimo de aprovechar la visita de Apichatpong al país, presentaremos una completa retrospectiva en varias ciudades de Perú. El ciclo será inaugurado por el director quien responderá preguntas del público peruano, tras la proyección de una de sus películas. Masterclass Apichatpong dictará una Master Class pública de aproximadamente dos horas, dónde hablará de temas relevantes a su obra, seguido por una ronda de preguntas, donde los asistentes podrán interactuar con Apichatpong e indagar sobre su mirada y aproximación al cine. ``La jungla es un espacio primario. Como en Tropical Malady, la jungla es un regreso a las raíces, a un lugar en el que no hay reglas. Creo que eso está muy cerca del cine porque el cine es un lugar sin leyes y como soy muy tímido es donde puedo liberar todos mis instintos con libertad.`` — Apichatpong Weerasethakul Locación La selva amazónica, el bosque tropical más extenso del planeta, será el escenario de nuestro taller. Con una extensión total de 7 millones de kilómetros cuadrados, distribuidos en nueve países, nos encontramos frente a una de las regiones más biodiversas y multiculturales del mundo. La base del taller será Inkaterra Guides Field Station, un Eco-centro y laboratorio de investigación de flora y fauna destinado para científicos, estudiantes, voluntarios y viajeros amantes de la naturaleza, que desean explorar y conocer la Amazonía peruana en este bosque megadiverso. Está ubicado en el km 17 del margen izquierdo del río Madre de Dios, dentro de la Reserva Nacional de Tambopata-Candamo, uno de los últimos bosques lluviosos tropicales vírgenes fácilmente accesibles en el mundo, que cuenta con 274.690 hectáreas de inmensa biodiversidad e impresionantes paisajes. Puerto Maldonado, en la selva sur del Perú cerca de la frontera con Bolivia y Brasil, conocida como la «Capital de la Biodiversidad», es la urbe principal de la región y la ciudad más importante de la selva tropical del Sur del Perú. ``Se trata de cómo funciona el tiempo en nuestras mentes y cómo el cine puede reflejar eso. Tiene que ver con la relación de ti mismo con la vida, que está formada por tiempo. Me gusta mucho la meditación porque te pone en contacto con todo eso. Mi trabajo va en esa dirección, cómo el cine puede expresar el tiempo.``
Inscripciones Fechas • Lanzamiento de la Convocatoria: Marzo 10 de 2022 • Cierre de la Convocatoria: Abril 25 de 2022 • Publicación de la lista de seleccionados: Mayo 6 2022 • Plazo para el pago de la matrícula: Mayo 20 2022 • Inicio del Taller: Junio 18 2022 • Cierre del Taller: Junio 28 2022 Duración y Pago • Duración: 10 días de taller – 12 días de acomodación • Precio: 5.200€
* Una vez pagada la cuota NO habrá devoluciones. Si el estudiante seleccionado no ha pagado su cuota de inscripción antes de la fecha límite, su cupo pasará automáticamente al siguiente estudiante en la lista de espera. * Incluye: Cuota de Taller, Alojamiento y alimentación por 12 días en Inkaterra Field Station.
¡Inscríbete! Únete a esta aventura para explorar la amazonía peruana, rodando junto a Apichatpong.
Id: 2923 Data: 30/03/2022 06:52:02
*
- Arte
La scultura di Vittoria Marziari Donati In Mostra a Roma
Le prestigiose opere scultoree di Vittoria Marziari Donati in Mostra a Roma dal 01 al 15 Aprile 2022 alla Galleria "La Bomboniera dell'Arte" in Via mecenate 8/b. L'Artista è lieta di annunciare la sua presenza all'inaugurazione che si terrà il giorno martedì 5 aprile alle ore 16.00 onde illustrare il suo ampio catalogo dell'elegante scultura senese contemporanea con la quale da anni onora la sua città. Vittoria Marziari Donati: La ‘poesia delle forme’ nei ‘lunghi silenzi’ dell’arte contemporanea. Nulla di più autentico se, lasciando la parola a Antoine de Saint-Exupery (1) apprendiamo quanto segue: «Lo spazio dello spirito, là dove esso può aprire le sue ali, è il silenzio» ; quel ‘silenzio’ in cui prendono forma e si materializzano le opere scultoree di Vittoria Marziari Donati che, nel loro muto gridare le verità concettuali della sua cifra artistica, ad essa fanno ritorno, libere di vivere la propria esistenza futura. Una eccellenza al femminile tutta italiana quella della scultrice che ha attraversato la soglia dell’internazionalità e che s’avvia a completare il suo ciclo creativo nella contemporaneità dell’arte. Un percorso il suo, vissuto dentro e fuori le forme, nei pieni e nei vuoti che sono all’origine della vita delle cose, in cui tutto infine si compie, nel ricongiungimento di quella creatività umana, pur sublime, che nel tempo l’alterità (delle correnti artistiche) ha disgiunto. È allora che le sue sculture prendono a danzare sulla musica che la luce ha scelto per loro; cantando nel silenzio sublimato dei ‘luoghi dell’anima’ che l’artista nella sua costante ricerca ha attraversati: «Se il luogo è puro spazio, il silenzio si fa ascoltare, ci accompagna e non ci lascia soli» - scrive Mario Brunello (2) compositore e violoncellista di successo nell’accostare la musica del suo strumento all’arte tout-court per intercettare le vocalità intrinseche delle ‘forme’, le ‘linee’ melodiche e le tecniche strumentali che lo hanno portato alla concezione di nuove strutture musicali, come la riscrittura di un qualcosa che viaggia nei solchi del tempo. Il confronto con la ‘musica’ del violoncello e con la ‘poesia’ colta non è qui solo allegorico, semmai emblematico di una concettualità che si esprime nelle diverse forme dell’oralità, come appunto può essere la ‘danza’ nel rapporto con la dinamicità del movimento, o anche con il ‘canto’ che non necessariamente richiede parole e frasi compiute, quando gli basta l’uso di vocalizzi arrmonici. Siamo qui messi di fronte ad un evento visivo che amplia lo spazio occupato dalle sculture bronzee solo per il tempo di un 'movimento' musicale che le anima e che le fa vivere nell'ambito di un sogno, o forse, nell'ambito del tempo in cui trovano la loro affermazione: il tempo che stiamo vivendo con tutte le sue precarietà ma, ed anche, con le sue emozioni e contraddizioni che non ha mai eguali, che sempre si rinnova e ci dice "che la vita va vissuta, sempre, nel bene e nel male" pari ad un'opera d'arte che non conosce tramonto, ma che vive in pieno la sua eternità. Per le note biografiche riferite all'artista l'invito è di sfogliare l'ampio 'catalogo illustrato' presente sui social.
Id: 2921 Data: 27/03/2022 00:24:57
*
- Musica
Switched-On Jazz : Cypriana di Nicola Pisani.
SWITCHED-ON JAZZ (Il Jazz In Italia … e non solo)
Un giorno John Cage promise ad Arnold Schönberg che avrebbe consacrato la sua vita, tutta la sua vita alla musica, in ragione di quell’amore che gli aveva fatto confessare al maestro: “amo tutti i suoni”. Di fatto tutta la musica, da quel momento in poi, appare governata dall’imperativo categorico che ha consentito la liberazione dell’universo sonoro nella sua radiante e dispersa varietà, affinché si potessero singolarizzare tutti i possibili futuri eventi sonori nella loro radicale individualità, e infine emergessero, circondati da quel pelago infinito che costituisce il mondo del suono. È così che arriviamo alla contemporaneità del Jazz come la conosciamo fin dalle sue origini, maturata nel segno della libera creatività e nella prerogativa dell’internazionalità che ha assunto nel tempo. Ed anche, nell’evoluzione della sua affermazione di reciprocità che ha visto artisti di altissimo livello aperti alla collaborazione e al consociativismo tra i generi di diversa etnia, all’insegna della globalizzazione in atto ma, ed anche, dello stare insieme. È indubbio che ciò comporta una forma di contaminazione che tuttavia ritengo creativa nell’ambito dell’evoluzione artistico-musicale che pure l’arte non ha mai disdegnato. Così, come accettiamo che l’arte e la letteratura si adeguino all’andamento dei gusti e delle mode, possiamo accettare che anche la musica, una volta spalancato il suo universo sonoro, svolga il suo corso e raggiunga le vette inusitate dell’arte. Sul finire dell’Ottocento, dal Ragtime in poi, il ‘Jass’, come lo dicevano i primi anonimi esecutori, ha visto salire sulla scena internazionale nomi altisonanti che hanno permesso al Jazz di fregiarsi dell’etichetta di ‘vero e proprio stile’ in musica, sì da inglobare, pur nella differenziazione, la musica cosiddetta ‘classica’, quella propriamente ‘etnica’, trasformandole in altrettante ‘forme’ e ‘modalità sonore’, come ad esempio nei ‘modi’ di suonare gli strumenti. Ecco, per meglio comprendere il nostro tempo, dobbiamo necessariamente affidarci a quegli strumentisti ‘worldwide’ che ricercano ed elaborano per noi l’esperienza del passato con quella futuribile dal forte impatto culturale-sonora che troviamo applicata nei diversi aspetti del quotidiano: dalle sonorizzazioni in pubblicità, al cinema, all’impiantistica multimediale, alla video-art così come in ogni momento della nostra contemporaneità e che richiede quindi una visione a tutto tondo, che spazia dalla classica, all’etnica, al jazz e il minimalismo contemporaneo.
Quella che qui propongo vuole essere una vetrina di artisti che con il loro ‘fare musica’ contribuiscono allo sviluppo di quest’arte come happening il cui ascolto vuole essere un inno alla libertà e all'autodeterminazione:
La scelta di oggi vede alla ribalta un vero gigante della musica internazionale Nicola Pisani con “Cypriana”, concerto per voce solista, voce recitante, jazz / traditional ensemble e coro, del direttore pugliese, prodotto dall’etichetta Dodicilune e distribuito in Italia e all’estero da IRD e nei migliori store-on-line. In Italia si conosce poco del difficile e durissimo percorso intrapreso da Cipro per raggiungere lo statuto di Repubblica Democratica. Questo avvenne nel 1960 con l'Indipendenza conseguita dall'Inghilterra che, subentrata alla dominazione turca sull'isola, represse con violenza inaudita la ricerca di autonomia e libertà del popolo cipriota. Per celebrare il 50° anniversario della fondazione della Repubblica di Cipro è nata questa partitura originale: composta e diretta dal Nicola Pisani (compositore, sassofonista e docente di Musica d’Insieme Jazz presso il Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano) è basata su temi musicali selezionati dal repertorio tradizionale cipriota inseriti in un tessuto musicale contemporaneo che si avvale di momenti di composizione estemporanea in scena e include poesie e testi di poeti greci e ciprioti selezionati ed elaborati in drammaturgia vocale da Maria Luisa Bigai (regista, attrice, docente di Arte Scenica presso il Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli). Il progetto nasce da un'idea di Yiannis Miralis, (docente del Dipartimento delle Arti/Musica dell’Università Europea di Cipro) ed è stato realizzato con la collaborazione, per la prima volta congiunta, di Ministero della Cultura e dell’Educazione di Cipro, Municipio di Strovolos, Progetto Erasmus, Liceo Musicale di Cipro, Dipartimento delle Arti dell’Università Europea di Cipro. Presentato a Roma, nel 2012, in occasione del Semestre di Presidenza della Cultura Europea affidato alla Repubblica di Cipro, e nell'ambito della Settimana della Cultura Cipriota in Italia, il concerto, è stato registrato eseguito nell’aula magna dell’Università La Sapienza. «La drammaturgia di Cypriana nasce dall'intersecarsi e giustapporsi di materiali eterogenei raccolti con una ricerca estremamente personale», spiega Maria Luisa Bigai. «Già dal primo impatto avuto con l'Isola di Cipro nel 2009, durante il mio primo viaggio di scambio Erasmus, emerge nella mia esperienza la pluralità di accenti e la frammentazione. La Città è tuttora divisa in due per quella che è detta 'la questione turca'. E girando per le strade e ascoltando le persone parlare si sente un ottimo inglese e un greco fatto di accenti e ritmi differenti, frammenti diversi per uno stesso orgoglio di appartenenza. Questo territorio», prosegue l’artista, «ha prodotto una cultura frutto di influenze disparate (gli antichi popoli mesopotamici mischiati con la classicità greca, i francesi del medioevo, Riccardo Cuordileone, i Veneziani, i Turchi presenti sin dalla battaglia di Lepanto e poi rimasti per secoli, gli Inglesi e poi quei Turchi piombati nel 1974 in una vera e propria invasione militare ...), una ricchezza incredibile di immagini e suoni, ritmi e accenti diversi. Tutte queste voci affidate al ‘coro’ “Cantus Vitae" sotto la direzione di Giuseppina Conti, echeggiano attraverso letture di articoli di giornale, frammenti di lettere private, versi di poeti greci e di poeti greco-ciprioti, traduzioni parziali e commentari, echi e deformazioni – anche personali- insieme a informazioni storiche. Il lavoro di ricerca e composizione-scomposizione-ricomposizione creato da Nicola Pisani per la parte musicale, a partire anch'egli dall'ascolto e ritrovamento di echi e melismi storici e tradizionali, insieme a gesti precisi di composizione anche improvvisata, con la sua richiesta di gesti individuali e fortemente personali in veste di solista, da parte di ogni componente del gruppo, mi ha portata a costruire un percorso a monologo, in una forma che restituisse le molte voci e i molti suoni di una narrazione collettiva. Ho voluto costruire una voce di Corifea, interprete e veicolo tra la parola e il suono di quanto narrabile e di quanto inenarrabile di questa vicenda, sviluppando i sentori, le grida e I sussurri che le singole voci orchestrali, il coro e il canto solista esprimono prima e dopo la parola. Parole dette, in italiano, inglese, greco cipriota, fino alla dissoluzione in sillabe, lallazioni, grida, parole prese da didascalie, informazioni di giornale, note a margine, frammenti di epistola, righe di diario privato, riverberi poetici liberamente tradotti o echeggiati nel loro suono iniziale o in libere riletture, fino a deformarli in suono, ritmo canto, è il percorso che ho voluto produrre perché l'insieme dei frammenti diventasse l'albero di una nave fatta di palcoscenico e strumenti orchestrali, e i respiri e I canti vela del grande racconto collettivo che è questo momento tragico della nostra Storia contemporanea europea, tragico non solo perché ha visto la morte terribile di ragazzi giovanissimi impiccati per un'opinione e lotta politica, ma anche per lo scarsissimo riconoscimento che tuttora ha questo capitolo della creazione della nostra Europa attuale». Molto è lasciato al suono arcaico di alcuni strumenti, e ad altri di più recente elettrificazione, così come alle voci narranti originali degli interpreti nei brani d’effetto drammaturgico che danno forma alla rappresentazione: Thalasses, Conduction N.52, Insulae, Cypriot Popular Song, Musiki tutti godibili nella loro affermazione storico-culturale-musicale, di grazie Luisa Bigai che ne ha curata la drammaturgia e la narrazione; alle musiche del compositore e direttore Nicola Pisani, alla convincente voce di Erica Gagliardi. Agli eccezionali strumentisti Michalis Kouloumis e Piero Gallina impegnati rispettivamente al violino e al violino e lira calabrese. Ilaria Montenegro al flauto, Yannis Miralis al sax soprano, Elli Michael alto sax alto e Alberto La Neve sax tenore e baritono. Ed anche Marco Sannini tromba e flicorno, Giuseppe Oliveto trombone, Mario Gallo tuba, Andreas Christodoulou oud, Massimo Garritano chitarre, bouzouki, Marios Toumbas piano, Carlo Cimino contrabbasso e basso elettrico. Molto è dovuto all’insieme delle percussioni affatto trascurabili in diverse session con i tamburi a cornice di Checco Pallone, la batteria di Vassilis Vassilleiou e Alessio Sisca. Docente di Musica d’insieme jazz al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano, Nicola Pisani si è perfezionato in Jazz e direzione con Bruno Tommaso, in Musica Contemporanea con Vinko Globokar, in canto corale e direzione con Marcel Couraud. Primo premio assoluto al Concorso Internazionale di Stresa 1991, nel corso degli anni ha inciso per alcune etichette italiane e straniere più rappresentative. Ha collaborato con John Surman, Pino Minafra, Andrea Centazzo, Michel Godard, Paolo Damiani, Sergey Kuryokhin, Steve Lacy, Keith Tippet, Louis Sclavis e con alcune produzioni Rai. Ha diretto e composto per le orchestre Dolmen, MultiJazz, Minafric, Assemblage, Tromso University, ICO - Bari, Orchestra Nazionale dell’AMJ, Orchestra Nazionale Docenti di Conservatorio, M.A.O. Orchestra. Attualmente suona in tutta Europa, USA, Argentina, Marocco, Arabia Saudita. Ha tenuto stage su Improvvisazione e Conduction in Italia, Danimarca, Norvegia, Estonia e Cipro. Coordinatore scientifico del 1° I.P. Erasmus in U.E. sull’Improvvisazione per i Conservatori di Cosenza, Tromso (N), Esbjerg e Aahrus (DK), Tallin (ES), Nicosia (CY), Vienna (A). È stato Presidente dell’A.M.J, fondatore del sindacato musicisti SIAM-CGIL, coordinatore della Conferenza Nazionale Docenti Jazz – AFAM.
“Cypriana”, è prodotto dall’etichetta Dodicilune attiva dal 1996 che dispone di un catalogo di quasi 300 produzioni di artisti italiani e stranieri. Distribuiti nei negozi in Italia e all'estero da IRD, i dischi Dodicilune possono essere acquistati anche online, ascoltati e scaricati sulle maggiori piattaforme del mondo grazie a Believe.
Info e contatti Facebook.com/dodicilune Instagram.com/dodicilune Youtube.com (DodiciluneRecords) www.dodiciluneshop.it => urly.it/3hzwz
Dodicilune - Edizioni Discografiche & Musicali Via Ferecide Siro 1/E - Lecce 0832091231 - info@dodiciluneshop.it www.dodiciluneshop.it
Id: 2920 Data: 25/03/2022 15:23:32
*
- Musica
A Roma nasce l’Archivio del Jazz
9 marzo 2022 – Una data da tenere a mente e consultare.
Nasce a Roma l’Archivio del Jazz, un archivio digitale che racconta la storia del jazz italiano, dalla seconda metà del secolo scorso fino all’inizio del nuovo millennio, ideato e realizzato dal Saint Louis College of Music. L’Archivio è stato creato grazie a un attento lavoro di ricerca, archiviazione e divulgazione di materiale bibliografico, audio, video e fotografico, affiancato da dettagliate schede informative, editoriali e testimonianze di autorevoli personalità del mondo del jazz italiano. L’Archivio è consultabile online all’indirizzo www.slmc.it/archivio_jazz/archivio-del-jazz-a-roma, sul sito web del Saint Louis College of Music di Roma, prima scuola di musica in Italia ad interessarsi in maniera specifica al jazz e a rappresentare ancora oggi, a quarantacinque anni dalla sua fondazione, uno dei più importanti e prestigiosi Istituti musicali in Europa. L’Archivio è consultabile anche tramite Jazz Up, l’app del Dipartimento di Jazz del Saint Louis, disponibile per piattaforme Ios e Android al link www.slmc.it/archivio_jazz/jazz-up. Responsabile dell’Archivio è il critico musicale Paolo Marra, autore anche degli editoriali dell’Archivio, che ha dichiarato: «L’Archivio del Jazz a Roma è un progetto di cui questa città aveva fortemente bisogno per sottolineare la necessità di un recupero storico-documentaristico della memoria jazzistica, troppo spesso trascurata e che invece è necessario porre come fondamento imprescindibile del fermento artistico delle nuove generazioni di musicisti. Una memoria costellata di musicisti, storici jazz club, piccole e grandi etichette discografiche, produttori e talent scout, critici musicali e giornalisti, fondamentali incisioni, trasmissioni televisive e radiofoniche, grandi orchestre, incontri con il grande cinema italiano e infine impegno sociale e politico. Lungi dall’essere una galleria di ricordi cristallizzati, l’Archivio del Jazz si propone come mezzo conoscitivo e divulgativo, di apprendimento attivo di come e perché si è giunti all’attuale forma e condizione del jazz italiano, per ampliare la comprensione dell’evoluzione della sua spinta comunicativa avvenuta di pari passo con i cambiamenti culturali, mediatici e politici in seno alla struttura sociale contingente». Diviso per decenni, dagli anni Cinquanta agli anni 2000, l’Archivio del Jazz si compone di diverse sezioni tematiche e di foto, filmati, materiale bibliografico, album, audio e articoli di riviste specializzate, giornali e quotidiani italiani e stranieri, a cui hanno contribuito autorevoli personalità del mondo del jazz italiano. Ad affiancare ogni contributo sono presenti anche schede informative ed editoriali pubblicate a cadenza settimanale, per raccontare con uno sguardo attento le varie fasi di un lungo percorso dalle molteplici sfaccettature musicali e umane. L’Archivio vuole così mettere a disposizione di qualunque tipologia di fruitore uno strumento informativo, di ricerca e approfondimento, coadiuvato da un costante lavoro di aggiornamento del materiale presente all’interno delle pagine, arricchite di volta in volta di spunti interessanti e affascinanti. L’obiettivo non è solo quello di creare una visione d’insieme della scena jazzistica italiana, ma di coglierne lo spirito, legato a doppio filo alle varie fasi e vicende della storia del nostro Paese. L’Archivio è costantemente alimentato dal materiale condiviso da contributori provenienti da ogni parte del mondo. Tra i primi ad inviare i propri contributi: Maurizio Giammarco, Enzo Pietropaoli, Enrico Pieranunzi, Furio Di Castri, Bruno Tommaso, Dino Piana, Franco Piana, Filippo Bianchi, Danilo Rea, Roberto Gatto, Stefano Mastruzzi, Umberto Fiorentino. È possibile condividere il proprio materiale e contribuire così ad arricchire l’Archivio del Jazz, scrivendo ad archiviodeljazz@slmc.it. Dal 1976 il Saint Louis College of Music, diretto a partire dal 1998 dal M° Stefano Mastruzzi, è fra le più importanti realtà didattiche musicali di eccellenza del nostro Paese, con oltre 1.800 allievi provenienti ogni anno da ogni parte del mondo, con un corpo docente stabile composto da 120 docenti di fama nazionale e internazionale e con un’offerta formativa fra le più ampie in Europa, con più di 360 diversi insegnamenti. Il Saint Louis vanta quattro sedi nel cuore di Roma (nel Rione Monti, tra il Colosseo e Via Nazionale), ed è dotato di cinquanta aule multifunzione e di cinque studi di registrazione per la didattica e per le produzioni discografiche. Il Saint Louis è la prima Istituzione privata di Alta Formazione Artistica Musicale in Italia autorizzata (con decreto del Ministro n. 144 del 1° agosto 2012 e n. 246 del 28 marzo 2013) a rilasciare diplomi accademici di I e II livello, in jazz, popular music, musica elettronica, regia, tecnico del suono e composizione, con lo stesso identico valore legale dei diplomi di Conservatorio, pertanto equivalenti a lauree di I e II livello (decreto n. 144 e decreto n. 246). L’accreditamento è stato ottenuto dal Direttore M° Stefano Mastruzzi dopo un lungo processo di verifica da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca sulle competenze e sulla qualità didattica e dell’offerta formativa di eccellenza riscontrata nel corso degli anni al Saint Louis. Il Saint Louis è anche centro di produzione, agenzia artistica di management, etichetta discografica e promuove numerose attività di alto livello nell’ambito di tutti gli stili e linguaggi musicali, collaborando con i più importanti Conservatori, festival e rassegne in contesti nazionali e internazionali.
Id: 2919 Data: 23/03/2022 07:04:07
*
- Musica
Latest Jazz Adventures / Ultime avventure in Jazz
LATEST JAZZ ADVENTURES / ULTIME AVVENTURE IN JAZZ
“John Cage è responsabile del cambiamento così come Satie del benefico influsso nella misura in cui ha aiutato a spezzare le catene della disciplina degli anni Cinquanta, mostrandone l’assurdità e l’accademismo. Ma in seguito, ci sono state quasi solo imitazioni.” - Pierre Boulez 1970. Sembrerebbe d’essere appena usciti dalle prese di un inconscio collettivo, popolato di archetipi universali, in rappresentanza di un imperativo categorico che non permetteva alla musica di poter andare oltre, quasi che ogni caposaldo facesse parte di uno stesso muro invalicabile e lì dovesse rimanere per sempre, ed eccoci pronti ad aprire la nostra volontà di autoespressione e liberazione al nuovo e a tutto ciò che lo circonda. Oggi, che le più innovative tecniche approntate nella sonorizzazione acustica ci accompagnano nell’infinita virtualità dell’universo sonoro, siamo altresì coscienti degli innumerevoli spazi emergenti dall’avvenuto cambiamento, quanto più necessario alla realizzazione di questo mondo emozionale, in linea col nostro tempo, onde accoglierle e dare inizio ad una ‘nuova’ e immaginifica avventura musicale. È questo il mondo universalmente riconosciuto del potere accomunante della musica, finalmente liberi psicologicamente ed emotivamente di poter scegliere, nella nostra magnifica incoerenza, la musica cui affidare le nostre emozioni … “Di noi stessi tacciamo, la cosa in sé è in questione” – scrive Kant in “La critica della ragion pura” e che rappresenta il fondamento della modernità. È significativo che ci accorgiamo del fatto rivelatore di ciò che siamo insieme al mondo di affetti e di passioni che la musica da sempre sostiene coi sentimenti che riesce a scaturire nell’animo umano; con la poesia sonora della natura circondata dai suoi silenzi; dei ‘pianissimo’ e dei ‘fortissimo’ strumentale che ci sorprendono e che fanno da colonna sonora del nostro quotidiano; dei suoni primigeni di una realtà oggettiva datrice di sensibilità, grandi capacità espressive, fondamento di solidarietà e di pace. Di tutto quanto sembriamo avere bisogno più che mai … “È nello scoprire il fascino ancestrale della musica che l’infinita ricerca di ‘noi stessi’ si amplia di nuovi importanti capitoli che vanno ad aggiungersi alla macroscopica storia universale che noi tutti, ad ogni latitudine del mondo, andiamo scrivendo e che, forse un giorno, ci permetterà di conoscere il mondo in cui viviamo” - GioMa E non esiste questa o quella musica, diversificata per origini o tendenze, in primis c’è la MUSICA con la sua magica ‘comunicativa’ capace di restituire all’ascoltatore l’atmosfera emozionante che noi tutti accomuna. Qui di seguito presento una lista, piuttosto casuale direi, di vecchie e nuove ‘uscite’ discografiche che s’avvicendano nel panorama della musica internazionale. Molti sono anche gli strumentisti italiani presenti con singoli album e nei gruppi qui presenti, ciò a dimostrazione di una costante partecipazione e creatività solistica di grande attualità.
Ultimissime:
Laurie Anderson, Philip Glass, and John Zorn will perform in a concert for Ukraine at New School in NYC tonight. In lieu of ticket fees, donations are suggested to Save the Children, International Rescue Committee, and Razom.
MET JAZZ 2022 XXVII Edizione: “La voce e altre follie”, un Masterclass in collaborazione con Musica per Roma al Parco della Musica e Casa del Jazz. Una manifestazione di “Tredici concerti” a ingresso gratuito che fino al 10 aprile ospita inoltre artisti internazionali e italiani accanto ai nuovi talenti del Dipartimento Jazz del Conservatorio Santa Cecilia con la direzione artistica di Carla Marcotulli. Tra gli ospiti: David Linx, Alex Sipiagin, Maurizio Giammarco, Franco D’Andrea, Bruno e Giovanni Tommaso e Rosario Giuliani, Daniele Roccato, Pietro Lussu, Nicola Stilo, Mario Corvini e Claudio Corvini. Domenica 20 marzo dalle ore 18, sul palco della bellissima Sala Accademica, caratterizzata dal grande Organo Walcker-Tamburini, saliranno tre grandi esponenti del jazz italiano: il pianista e compositore Franco D’Andrea e il duo formato dal sassofonista Rosario Giuliani e dal pianista Pietro Lussu, con il loro “Tribute to Bird” in omaggio a Charlie Parker, un artista che ha lasciato un retaggio fondamentale non soltanto nel jazz - trascinando il pubblico in un viaggio speciale nell’intelletto del grande musicista. Un concerto che rappresenterà una vera e propria sfida: quella di cimentarsi in un duo sax e pianoforte nel territorio di uno dei più grandi geni della musica. Tra i più grandi pianisti italiani, Franco D’Andrea è un pluripremiato compositore e strumentista. Nel corso della sua carriera ha registrato circa 160 dischi e creato 200 composizioni, collaborando con grandi artisti come Gato Barbieri, Dexter Gordon, Johnny Griffin, Slide Hampton, Lee Konitz, Steve Lacy, Dave Liebman, Jean Luc Ponty, Enrico Rava, Max Roach, Toots Thielemans, Miroslav Vitous e Kenny Wheeler. Al Festival “Jazz Idea” il suo concerto per ‘piano solo’ sarà, come egli stesso ha affermato, “il luogo della libertà”, un racconto di esperienze nuove e concretezze estreme. Gli altri eventi in cartellone: il 27 marzo il Santa Cecilia Silver’n'voices Lab diretto da Nicola Stilo e Carla Marcotulli, a seguire il trombettista Alex Sipiagin ospite del quartetto di Riccardo Fassi e Stefano Cantarano; il 3 aprile il cantante e compositore David Linx in quartetto con il suo Voices Unlimited in cui figura il grande batterista Bruce Ditmas, anticipato dal concerto del gruppo di improvvisazione del Conservatorio unito a quello dell'Università Ca' Foscari di Venezia (MusiCa Foscari) e dal duo “Meltin pot” di Alessio Sebastio e Minji Kim; il 10 aprile “Bass in the mirror” con Paolo Damiani e Daniele Roccato, seguiti dal “Tribute to Dick Halligan and his Music” di Cinzia Gizzi, Carla Marcotulli, Fabio Zeppetella, Pietro Leveratto ed Ettore Fioravanti. I prossimi appuntamenti in collaborazione con Musica per Roma: lunedì 21 marzo dalle 10 alle 13, presso lo Studio 2 dell'Auditorium Parco della Musica (entrata artisti), protagonista Franco D’Andrea in “Applicazioni pratiche delle aree intervallari”; il 4 aprile, sempre dalle 10 alle 13, David Linx terrà il suo “Voices Unlimited Workshop” alla Casa del Jazz, location che ospiterà l'11 aprile anche la Masterclass di Bruno Tommaso “Parafrasi, mascheramenti, plagi e truffe”, con lo stesso orario. Per prenotazioni all’indirizzo mail educational@musicaperroma.it.
CONTATTI Conservatorio di Musica “Santa Cecilia” Via dei Greci 18, Roma - tel. 06.36096720 - www.conservatoriosantacecilia.it Ufficio Stampa Festival JAZZ IDEA Fiorenza Gherardi De Candei – tel. 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com. Fiorenza Gherardi De Candei Press Agent - Event Manager Mobile +39.328.1743236 E-mail info@fiorenzagherardi.com Skype "fiorenzagherardi" www.fiorenzagherardi.com
In collaborazione con Nonesuch Records segnalo l’uscita di alcuni CD digitali e vinili di grande impatto jazzistico e/o rock con artisti che si sono guadagnati la ribalta in anni di concerti in giro per il mondo:
Brad Mehldau Releases Take on Rush's "Tom Sawyer" Ft. Chris Thile, a rare new track from his upcoming album, Jacob's Ladder. The song, Mehldau's interpretation of the Rush classic, features Chris Thile on lead vocals and mandolin as well as Joel Frahm on saxophones and Mark Guiliana on drums; Mehldau plays keyboards and provides additional vocals. Features new music that reflects on scripture and the search for God through music inspired by the prog rock he loved as a young adolescent - his gateway to the fusion that eventually led to his discovery of jazz. Featured musicians on the album include label mates Chris Thile and Cécile McLorin Salvant, as well as Mark Guiliana, Becca Stevens, Joel Frahm, and others. Mojo calls it "a kaleidoscopic affair, where baroque prog-rock edifices are juxtaposed with clouds of ethereal choirs, dreamy piano interludes, and squalls of free jazz-style clarinet. Skillfully weaving these elements into storytelling sound collages, Mehldau takes the listener on a memorable musical journey."
Cécile McLorin Salvant Releases Take on Kate Bush's "Wuthering Heights", the opening track to her new album, Ghost Song. The video features artwork by Salvant animated by Robert Edridge-Waks. Singer/songwriter Cécile McLorin Salvant's Nonesuch Records debut album, Ghost Song, features a diverse mix of seven originals and five interpretations on the themes of ghosts, nostalgia, and yearning. The New York Times calls it "her most revealing and rewarding album yet." Uncut says she is "one of the most daring and resourceful vocalists in jazz—or any other genre, for that matter." The Arts Desk exclaims: "The treasure trove of marvels that is Ghost Song exceeds all expectations." Nonesuch Store CD and LP orders include an exclusive, limited-edition signed artwork by Salvant while they last.
David Byrne is Harper's Bazaar's March 2022 music director. He has curated a playlist related to the issue's theme of legacy, dedicated to creators "who have built upon what came before them."Since forming the pioneering art-rock band Talking Heads in 1975, Byrne has charted a singularly polymathic creative path, navigating a successful solo music career while venturing into dance, theater, film, and other visual and performance work. In 2018, he released his 10th studio album, American Utopia, which has since been adapted for Broadway. “The show homes in on specific issues like race, immigration, and voting and communicates the positive side of thinking about them,” says Byrne, who is exhibiting a collection of his drawings at New York’s Pace Gallery through March 19. For this issue, he curated a playlist with a legacy theme, choosing artists, he says, “who have built upon what came before them.” Along with “Deathless” by Afro-French-Cuban twin-sister duo Ibeyi, whose spiritual traditions inform their songwriting, he included “Santé” by Belgian electronic music star Stromae, who acknowledges his roots by “incorporating a lot of African rhythms into his music,” as well as “Te Ao Mārama/Solar Power” by Lorde. “It’s Lorde doing a version of her hit in Māori,” explains Byrne. “It ties back to her being from New Zealand and making that part of who she is.” David Byrne is on the Talk Easy podcast. He talks with host Sam Fragoso about American Utopia on Broadway, which Fragoso calls "dazzling … remarkable"; the celebratory nature of performing the show for audiences as people congregate again; and more.
The Black Keys – “Dropout Boogie” in Nonesuch Records As they've done their entire career, The Black Keys' Dan Auerbach and Patrick Carney wrote all of the material for their new album, Dropout Boogie , in the studio, and the album captures a number of first takes that hark back to the stripped-down blues rock of their early days making music together in Akron, Ohio, basements. After hashing out initial ideas at Auerbach's Easy Eye Sound studio in Nashville, the duo welcomed new collaborators Billy F. Gibbons, Greg Cartwright, and Angelo Petraglia to the sessions, marking the first time they've invited multiple new contributors to work simultaneously on one of their own albums.
Ry Cooder's “My Name Is Buddy” at 15. It was 15 years ago this week: Ry Cooder's My Name Is Buddy was released. On the album, he imagines a tabby, Buddy Red Cat, embarking on a Bound for Glory–like journey across country. Musicians include Mike and Pete Seeger, Paddy Maloney, Jim Keltner, Van Dyke Parks , Flaco Jimenez, Mike Elizando, Joachim Cooder, Jacky Terrasson, and Stefon Harris.
Steve Reich's new book, Conversations, is out now. He speaks with collaborators, fellow composers, musicians, and visual artists influenced by his work—including Nonesuch Chairman Emeritus Robert Hurwitz, Jonny Greenwood, Kronos Quartet's David Harrington, Stephen Sondheim, Nico Muhly, Brian Eno , and others—to reflect on his prolific career as a composer as well as the music that inspired him and that has been inspired by him.
GleAM Records è orgogliosa di annunciare l'uscita di “Elevating Jazz Music” Vol. 1 , debutto discografico del sassofonista emiliano Daniele Nasi e del suo BSDE 4tet, disponibile su CD e download / streaming digitale dal 25 febbraio 2022. Elevating Jazz Music Vol. 1 “Vuol esser un ascolto d’Ascensione e non d’Ascensore, citando una frase presa da Rap God di Eminem, dando peso all'aspetto sociale e comunicativo della musica che troppo spesso viene messo da parte in favore della cosiddetta fruibilità”. I BSDE 4tet sono un gruppo jazz, con sede in parte nei Paesi Bassi e in parte in Italia, che sfrutta i diversi background dei membri per cercare un suono nuovo e fresco attraverso composizioni originali. La musica combina aspetti del free jazz e dell'hard-bop con armonie e ritmi più moderni e con materiale folkloristico derivante dai diversi paesi o incontri culturali dei musicisti. Alcune delle composizioni si basano su fatti che sono purtroppo accaduti negli ultimi anni e vogliono essere un modo per esprimere sia delusione che una critica costruttiva. Il quartetto crede fermamente, infatti, che la musica sia un momento sociale importante, sia per condividere emozioni che pensieri e che il jazz possa ancora portare alla riflessione e al cambiamento come ha fatto in passato. La scrittura aperta dei brani è stata concepita con un suono specifico in mente, che ha portato alla formazione del BSDE 4tet qual è, ma al contempo lascia ampi spazi per l'interazione tra chi vi partecipa, rendendo fondamentale l'apporto personale ed espressivo dei musicisti, quanto quello di chi ascolta. Quello dell'interplay e di un suono d'insieme son aspetti molto sentiti dalla formazione, tant'è che l'album è stato registrato “alla vecchia”, in un'unica stanza e senza cuffie o doppi vetri a separare le vibrazioni degli strumenti. Il gruppo, formato da Daniele Nasi - Tenor & Soprano Saxophone; Jung Taek "JT" Hwang - Piano, Moog & Fender Rhodes; Giacomo Marzi - Double-bass e Andrea Bruzzone - Drums ha ricevuto il premio Roberto Zelioli 2019 durante l’ultima tournée in Italia.
Ancoras per GleAM Records è annunciata l'uscita di “Dream Big” del Trombettista italiano Enrico Valanzuolo, disponibile su CD e download / streaming digitale dal 25 marzo 2022. Il debutto discografico del trombettista italiano Enrico Valanzulo e del suo Quintetto, formato da Enrico Valanzuolo – tromba, Francesco Fabiani – chitarra elettrica, Eunice Petito – piano, Aldo Capasso - basso elettrico & contrabbasso, Eugenio Fabiani - batteria, è alla base del lavoro di ricerca di sonorità inedite, influenzate dalle suggestioni del Jazz Nordeuropeo ma con una orgogliosa connotazione partenopea. Melodie forti e incisive e arrangiamenti mai scontati traghettano l'ascoltatore verso percorsi sostanzialmente emotivi, dove silenzi e suoni si compenetrano in direzione di altrove non ancora mappati, ma la cui cartografia è sempre affidata all'improvvisazione del quintetto. Il tema del viaggio costituisce senza ombra di dubbio il leitmotiv dell’intero album, e poco conta se si faccia riferimento a viaggi reali o solamente sognati, ad esperienze vissute o a luoghi distanti, almeno sulla carta. “Dream Big”, titolo di uno de i brani che dà il nome all’intero album, è, più che un concetto, la filosofia stessa che permea l’idea di viaggio del leader. È l’auspicio a volare alto, valicando i confini del familiare, le colonne d’Ercole che ciascuno di noi si pone giorno dopo giorno, per ricercare quel percorso nuovo, battere quella strada impervia che di norma si eviterebbe, perché è lì che si nasconde un’emozione più grande, una gioia maggiore. E quindi “Dream Big” – come stimolo e auspicio verso se stessi prima ancora che verso gli altri - è un concetto profondamente legato ad un’idea persistente di altrove. Chi sogna in grande vola lontano. Ha detto di lui l’altro grande italiano della tromba Paolo Fresu: “Enrico ha un suono che gira in testa. Difficile spiegare, per chi non suona la tromba, l’essenziale importanza dell’equazione suono>pensiero. Sono solo 5 i brani di questo interessante lavoro ma sufficienti per affermare quanto il processo mentale risulti corretto. Il resto è estetica. Per quanto questa sia importante ciò che conta è la relazione diretta tra pensiero e suono. Questa si tramuta in un pathos che è vocale e in una emozione condivisa con i suoi magnifici compagni di viaggio. “Dream Big” è uno dei tanti sogni di cui, ora più che mai, necessitiamo.”
AUAND Records è presente in questa lista con un importante album che nel recupero di sonorità del Grande Jazz più vicino a noi: “Un approccio eretico come miglior modo di essere fedeli a Monk. L’album riporta alla luce una serie di registrazioni che prendono le mosse dalle composizioni del grande compositore afroamericano, in “Heretic Monk” e qui riproposte dal duo formato da Stefano Risso, che ha dato origine una quindicina d’anni fa al trio Barber Mouse (il nome è un piccolo divertissement che gioca sui cognomi del batterista Mattia Barbieri già al fianco di Richard Galliano per molti anni e del pianista Fabrizio Rat musicista incredibile a cavallo tra la techno e la musica contemporanea, molto conosciuto all'estero, soprattutto in Francia), lavora da tempo, come compositore e contrabbassista, sia sulla musica acustica che elettronica, in una costante ricerca fra avanguardia e tradizione, improvvisazione e canzone che tende a far confluire tutti questi differenti linguaggi in un singolare mondo sonoro. Perseguendo quest’idea di fondo, il gruppo esordisce con un primo disco (Auand, 2012) che omaggia i Subsonica, uno dei più noti gruppi elettro/pop italiani, e che vede ospite Samuel, il cantante stesso dei Subsonica. Senza abbandonare la sperimentazione costante, la ricerca timbrica, la presenza di strumenti acustici preparati fino a produrre sonorità che sembrano elettroniche, ossia ciò che da sempre costituisce la cifra stilistica del gruppo, arriva ora a dieci anni di distanza il secondo disco. A differenza dell’idea iniziale di fuoriuscire dai territori della musica jazz questo è un omaggio, caratterizzato da una ricerca armonica totalmente innovativa e sorprendente, al grande pianista Thelonious Monk, alle sue composizioni come pure agli standard che reinterpretava rendendoli suoi in modo indelebile. Registrato nel 2011, per molti anni è rimasto fino ad oggi nel cassetto. «Non ne sappiamo bene il motivo, – racconta Stefano Risso – forse perché la produzione ci rapisce e nel frattempo ci siamo mossi su differenti territori. Ma a riascoltarlo ora è come se venisse a galla maggiormente la sua contemporaneità e modernità. Quando dai progetti prendi distanza è come se si mettessero a fuoco i lati essenziali dei lavori. A riascoltarlo oggi pare quasi più attuale di quando lo registrammo. Questo è quindi il motivo per cui oggi abbiamo voluto che venisse alla luce». L’aspetto peculiare dell’album, è il lavoro sull’armonia, che richiama per certi aspetti la geometria frattale. Alcuni accordi tipici dell’armonia di Monk e del suo modo di realizzare voicings sul pianoforte, vengono sintetizzati nel loro schema più semplice, ridotti a un tetracordo e utilizzati al posto delle griglie di scale e accordi tradizionalmente usate nell'improvvisazione. Ogni brano del disco viene riarmonizzato con questa logica e le improvvisazioni seguono questo principio, limitando il numero di note differenti utilizzabili. Da qui per l’ascoltatore la sensazione di un’armonia che si sviluppa da se stessa e si moltiplica su se stessa, un po’ come le strutture frattali che si osservano in natura, nei cristalli o nelle foglie. Come confida lo stesso Risso «Il lavoro di preparazione necessario a registrare l’album è stato particolarmente lungo. Era un po’ come essere costretti ad abbandonare tutti gli stereotipi di linguaggio per riuscire a suonare correttamente in questo approccio per noi nuovo e innovativo legato ai tetracordi. Impossibile usare un fraseggio che già si conoscesse perché il risultato musicale non sarebbe stato attinente, si sarebbe usciti da quei paletti che ci eravamo dati in partenza, che erano limitazioni ma allo stesso tempo grandi elementi di stimolo. Quindi abbiamo studiato e lavorato in sala prove duramente per riuscire a districarci in questa selva di armonie molto serrate e rigorose, che in fin dei conti, nonostante ne siano rispettose, si distanziano molto da quello dei brani originali». «Penso che la caratteristica principale di questo disco – conclude Rat – sia il processo di trasformazione di un materiale musicale preesistente. Un po’ come se ci si trovasse di fronte a una pagina scritta in una lingua conosciuta ma che, a causa di un’amnesia, la si fosse dimenticata. Ci si trova quindi nella necessità e nella condizione di interpretare quei segni con una logica nuova, caratterizzata da alcune regole armoniche che si allontanano notevolmente dai canoni abituali del linguaggio jazzistico e mossa, ovviamente, dall’amore per l’immensa musica di Monk».
A proposito dei suoi due compagni di viaggio Risso racconta: «Fabrizio Rat è un musicista che ha fatto un lungo percorso su diversi tipi di territori. Ha iniziato come pianista classico per poi buttarsi sulla composizione nella musica contemporanea (alcuni suoi brani sono stati eseguiti dall’Ensemble Modern e dall’Ensemble Interconteporaine) per poi passare al jazz e persino alla techno. Mattia ha collaborato con tantissimi grandi musicisti e per anni ha fatto parte del gruppo di Richard Galliano, sperimentando anche lui con le drums machine e i synth».
Paolo Zou, “Venus”. Il chitarrista romano pubblica con Auand un album eclettico e ricco di colori. Il nuovo lavoro di Paolo Zou, la cui progettazione iniziale risale all’inizio del 2020, durante i mesi di quarantena dovuti al Covid, è intenzionalmente ricco di sfumature e situazioni musicali sensibilmente differenti. Un’ampia varietà stilistica che costituisce, del resto, il filo rosso e la caratteristica principale che ha contraddistinto l’intero percorso musicale del chitarrista romano. Zou negli anni infatti, oltre al jazz, produce musica elettronica, suona reggae-ska ed è attivo in ambiti pop e hip hop. «Come per ogni mio lavoro compositivo – spiega Paolo Zou – ho capito dapprima con chi avrei voluto registrare il prossimo lavoro a mio nome, per poi solo più tardi cominciare a scrivere musica, pensando soprattutto ai musicisti per la quale la stavo scrivendo». Ad affiancarlo nell’album sono dunque Adriano Matcovich al basso elettrico, e voce su un brano, e Dario Panza alla batteria e alle percussioni, aggiunte in un secondo momento in un paio di brani. «Durante la prima prova per questo lavoro – racconta Zou – con Adriano e Dario c'è stata fin da subito una profonda intesa e una grande affinità di approccio al jazz e alla musica improvvisata. Riguardo al processo compositivo una mia costante è quella di scrivere tutto a casa, rigorosamente su carta, spesso anche le parti di basso e batteria, per poi verificare insieme se quel che ho pensato funziona oppure no. In questo caso è stato fin troppo semplice mettersi d'accordo su qualsiasi aspetto riguardante il lavoro da svolgere insieme! Ci accomuna una visione aperta, assolutamente inclusiva. Non a caso condividiamo un'estrema varietà di ascolti, dal Jazz, alla Trap, al Soul, al Pop, alla Classica». “Venus” è un album letteralmente ricco di tinte e di tonalità. Infatti, a partire da un elemento autobiografico, una leggera forma di sinestesia, ovvero quella sorta di contaminazione dei sensi nella percezione che permette di avvertire una relazione tra suoni, colori e forme, Zou ha scelto di evidenziare un aspetto della creatività che già in passato ha intrigato artisti, letterati e poeti: dalle vocali colorate di Baudelaire alla volontà di dipingere la musica di Kandinsky. «In questo album – confida Zou – ho voluto dare spazio al fatto che per me ogni brano, che sia mio o di altri, evoca uno o più colori precisi. Tutti i brani, tranne alcuni brevi intermezzi, sono perciò intitolati con un oggetto del colore del brano. E quindi VENUS è giallo, ORHIS osso, COVELLITE azzurro, ADAMITE verde, BLACK ONYX nero, IS ARUTAS, infine, è bianco».
“Venus”, pubblicato da Auand Records, sarà disponibile da venerdì 1 aprile e singoli tratti dall’album usciranno su tutte le piattaforme streaming a partire da venerdì 4 marzo.
Id: 2918 Data: 22/03/2022 11:23:00
*
- Teatro
Diana di Nocera Inferiore - Rassegna Teatrale Ouverture
Al via al Diana di Nocera Inferiore la rassegna teatrale "Ouverture" a cura di Artenauta Teatro.
Ufficio stampa Claudia Bonasi - 339 7099353 - claudia@puracultura.it
"La rassegna ha un titolo e un'immagine - una finestra sul mondo - che simboleggiano la riapertura delle nostre attività teatrali e al contempo sul mondo, grazie alla quale offrire al pubblico nuovi orizzonti di svago ma anche spazi di riflessione. Con questa rassegna abbiamo anche voluto dare ai nostri fedeli abbonati la possibilità di recuperare le date di spettacolo che erano state sospese a causa della pandemia", ha spiegato la direttrice artistica della manifestazione. Dei cinque spettacoli in cartellone, da marzo a giugno 2022, due sono gratuiti e destinati a bambini e famiglie, così come previsto nell'accordo siglato con l'Ente pubblico. Si inizia il 13 marzo alle h. 18.00 con "Le Fruttavventure di Re Carciofone", uno spettacolo de La Compagnia dell’Arte in collaborazione con La Bottega di Will, scritto e diretto da Teresa Di Florio (ingresso gratuito). Il 20 marzo alle h. 18.00, sarà di scena "Il teatrino di Mangiafuoco - Le avventure di Pinocchio", della compagnia La Mansarda Teatro dell’Orco in collaborazione con Idee fuori scena; drammaturgia di Roberta Sandias, regia di Maurizio Azzurro, costumi e pupazzi di Emilio Bianconi (ingresso gratuito). Il programma prosegue il 27 marzo alle h. 19.00 con "Transleit" di Viviana Cangiano, con Viviana Cangiano e Serena Pisa (EbbaneSis); regia EbbaneSis. Il 29 aprile alle h. 21.00 "Tre compari musicanti" - Storie minime nella grande storia: briganti, borbonici, francesi, scritto e interpretato da Paolo Apolito, con la partecipazione di Antonio Giordano. La rassegna si conclude con diverse date, il 28 e 29 maggio e il 4 e 5 giugno (h. 18.00 - 19.30 - 21.00) con "So, happy birthday", della compagnia Artenauta Teatro, regia e drammaturgia di Simona Tortora, aiuto regia Luigi Fortino.
PROGRAMMA 'OUVERTURE' Marzo - Giugno 2022 Rassegna teatrale e musicale a cura di Artenauta Teatro Direzione artistica Simona Tortora Organizzazione Giuseppe Citarella Spettacolo del 13 ore 18 Ingresso gratuito
*Spettacoli del 27 ore 19; del 29 aprile ore 21; del 28-29 maggio e del 4 -5 giugno orari 18 -19.30- 21 Con prezzo biglietti diversificati.
Inoltre, gli spettacoli presenti nel cartellone della rassegna L’Essere & L’Umano - VI edizione, interrotta a causa pandemia da Covid-19. I possessori dell’abbonamento per quella rassegna entreranno gratuitamente, a recupero della stagione precedente. Mail: infoartenautateatro@gmail.com Cell.3205591797
Id: 2908 Data: 03/03/2022 07:14:49
*
- Educazione
Bla, bla, bla … risorse umane - vite di scarto.
Bla, bla, bla … risorse umane (vite di scarto).
Qualcosa mi ricorda il raziocinante gioco del Monopoli, quando a farla da padrone era chi riusciva ad accumulare più risorse possibili e, soprattutto, ad accreditarsi le maggiori aree di prosperità economica, in modo da sbancare tutti gli altri e ridurli alla propria mercé. La storia insegna che il maggior prestigio di qualcuno si basa sullo stesso principio del Monopoli allorché si basava dall’istituzione dei Monopoli di Stato. Uno Stato possidente di numerosi beni immobili come edifici rilevanti, fabbriche importanti, sì da far pensare a un’istituzione cittadina, ma che dico, a una possibile ambizione istituzionale come un’intera nazione. Infatti sul tabellone del Monopoli si aprono strade, piazze, parchi ecc., si elevano edifici (le famose casette) a non finire, in cui i suoi abitanti sono imprenditori facoltosi, tutti alla stessa stregua, neppure fossero Ministri con portafoglio, da spendere e spandere a loro piacimento. A dire il vero li si riconosceva subito, fin dall’inizio del gioco, allorché tirare i dadi permetteva loro l’avanzata verso il successo. Una strana parola ‘successo’ dall’esito ambivalente positivo/negativo di cui si doveva (e si deve) tener conto nell’immediato. Ma che cosa accadeva nell’avanzare del gioco (perché di questo in fondo si trattava)? Spesso il boom iniziale di chi vinceva, dava seguito a una propria affermazione sullo scacchiere socio-politico-economico, in cui tutto lasciava pensare a una fama ormai scontata, di vincitore. Ma i prestiti che questi infine elargiva ai perdenti (i vinti), solo per farli continuare nel gioco, non lo ripagavano con la stessa moneta, piuttosto, una volta passati dalla sua stessa parte (di vincitori), disconoscevano di essere beneficiari di un prestito immeritato, e smettevano (con una scusa o con altra) di continuare a giocare e a farsi la guerra con alzate di voce, di paroloni e quant’altro. Quanto tutto questo assomiglia alla guerra che si sta portando avanti in Europa in questo momento, dove piuttosto che convenire a toni più pacati si fa saltare il banco e, anziché trovare accordi di belligeranza pacifica, ci si cannoneggia reciprocamente. Solo che questo non è affatto un ‘gioco’, qui si abbattono edifici, si distruggono città, i paroloni fuoriescono dai mortai, dalle contraeree, dalle mitragliatrici; qui si uccidono vite umane che avrebbero tutto il diritto di sopravvivenza. Quella stessa sancita nelle costituzioni delle nazioni e, in primis, dalla legge di Dio, che ha voluto che un ramoscello d’ulivo portasse sulla terra il segno della ritrovata pace dopo il diluvio. E non c’è bisogno di essere credenti per comprendere la necessità di intesa, di accordi comuni che vanno ripristinati, di concordia fra i popoli e le nazioni, per risanare l’armonia di questo nostro mondo, che va qui ricordato, abbiamo avuto in prestito, beneficiando di una tregua meschina quanto insostenibile. Allorché Zigmunt Bauman scriveva “Vite di scarto”, eravamo nel 1988, non avremmo pensato allo stoccaggio dei rifiuti che ci avrebbe un giorno sommersi, se non all’insorgere di una realtà offensiva del genere umano, che l’avrebbe portato all’estinzione, smontando così ogni nostra immorale illusione e le nostre reiterate perversioni: “Oggi il mondo ne è pieno. Non esistono più frontiere verso cui convogliare la popolazione eccedente”, volgendo lo sguardo ai rifiuti materiali dei processi di produzione e consumo che invadono e soffocano le nostre città. Ancor più rivolgendo il suo pensiero illuminante ai rifiuti umani (vite di scarto) generati dai processi storici che, se è vero che si ripetono, non sembra abbiano insegnato niente che non si potesse accettare. Abbiamo fin troppo spesso chiusi gli occhi davanti alla realtà che un poco alla volta ci andava logorando e, che oggi, con questa nuova guerra alle porte ci presenta il conto. Un dovuto necessario a risanare i guasti di tutte le guerre scatenate in ogni parte di quello che pensavamo fosse il migliore dei mondi possibili e che, malgrado l’avidità monopolistica di qualcuno, gli esseri umani, quelle risorse che pure vi hanno creduto servendosi dei buoni propositi e coi migliori auspici, hanno saputo riscattare con la cooperazione e la solidarietà, la fratellanza e l’amicizia, che gli ha permesso di stare insieme. Davvero tutto ciò non è servito a niente? Davvero siamo in preda a un’euforia guerrafondaia che ci porterà all’estinzione? Dove sono finite le menti illuminate che ci hanno permesso di arrivare fin qua? Mi chiedo se la lungimiranza di molti non poteva sapere di andare incontro a questa nuova catastrofe? Ciò che occorre è un nuovo investimento di benevolenza per ovviare alle conseguenze di questa ‘modernità liquida’ che ci circonda. Che pure sembra indecidibile, persa nella globalizzazione che sembra aver spento ogni voglia di comunità, il senso stesso della bellezza della vita: “La nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no”, che lo vogliamo o no.
Note: L’inciso è di Zigmunt Bauman, in “L’arte della vita” - Editori Laterza2009 Zigmunt Bauman “Vite di scarto” - Editori Laterza 2007
Id: 2902 Data: 25/02/2022 08:23:32
*
- Politica
Quo vadis, Italia?
Bla, bla, bla … diretta dagli scranni del Parlamento.
Quo vadis, Italia? Una ‘carnevalata’ infinita quella che si sta consumando per le presidenziali. Un piangersi addosso dopo che il latte (della politica) è stato versato inutilmente e a sproposito. Quasi non si sapesse che la data della scadenza era fissata dal giorno del giuramento alla Repubblica del Presidente neo eletto. Che forse ci si aspettava che i sette anni del suo mandato fossero quattordici? O che infine si arrivasse a clonare un presidente che è riuscito a dare al paese un po’ di quella stabilità di cui necessita? No, i cialtroni, si sono lasciati prendere alla sprovvista, e adesso vanno elencando nomi alla rinfusa pur di dimostrare al paese di aver ‘sudato sette camicie’ nel formare una classe dirigente provvista delle ‘palle’ necessarie a governare una nazione come la nostra. Shhhh, che nemmeno un Machiavelli, e/o un Pico della Mirandola riuscirebbe a fare, già solo a ricordare tutti i nomi (divisori) e i nomignoli (dividendi) assurdi che si sono dati. Che dico, neppure Platone e Aristotele avrebbero mai appellato a ‘Repubblica’ un governatorato monco-tronco-sbilenco come quello attuale. Non basterebbero ‘7 draghi d’oro’ a dare una sterzata a questo nostro parlamento e mettere in fila (ordinata) tutti quei bamboccioni che si passano le carte come le figurine dei calciatori. Potremmo sempre farcene prestare qualcuno dalla Cina, visto che loro ne sfornano a migliaia per le strade e nei cieli ad ogni Carnevale, chissà, magari potrebbero svegliarli con delle ‘castagnole-bombe’ e farli saltare tutti in aria dalla paura e prenderli tutti a calci nel sedere. Sta di fatto che non si riesce a trovarne uno, e dico ‘uno’ di numero, che voglia impegnarsi (mettere la faccia), in questa nostra politica da baraccone. Uno che abbia davvero il carisma e la stazza del vero leader. Dove sono finiti tutti quelli che nel recente passato hanno riempito i talk-show televisivi spadroneggiando la Costituzione come detentori del ‘verbo’ (politichese), spesso decretando di avere in tasca certe capacità (spesso fumose) di grandi statisti? Siamo pieni, che dico, stracolmi, di giornalisti cialtroni, opinionisti confusi, specialisti del nulla, che, non solo sbagliano i congiuntivi, bensì non sanno mettere in fila frasi per un discorso fattivo, sdilinquendosi in parole su parole (paroloni) che non hanno niente di costruttivo: siamo in ritardo, dovevamo, avremmo dovuto, abbisogniamo, (italiano orrendo) per voler dire che hanno bisogno che qualcuno imbecchi loro le parole mancanti del loro discorso senza costrutto. Non ci siamo Italia, ma allora dobbiamo chiederci davvero dove stiamo andando, o forse dove pensiamo di andare in Europa e nel Mondo globalizzato senza prima esserci muniti di un salvacondotto, abbandonando il vicolo cieco (accecato dalla sete di potere) dove ci siamo cacciati; se non ci mettiamo sulla retta via e guardiamo avanti per ridisegnare un futuro possibile, abbandonando tutti i bla, bla, bla del caso, che altro non fanno che annebbiare ulteriormente le menti, soprattutto quelle dei giovani che, giustamente, sollevano la loro indignazione. Siamo alle strette, e come se non bastasse giocherelliamo con le figurine sperando che esca quella vincente. Quo vadis italiani?
Id: 2891 Data: 29/01/2022 03:50:35
*
- Musica
A febbraio 27a edizione Rassegna MetJazz
È In arrivo la 27a edizione della Rassegna MetJazz. Tema del 2022: 'La voce e altre follie'. in collaborazione con Ufficio Stampa Met: Fiorenazzza Gherardi De Candei - News
La voce e la follia sono i due fili conduttori della XXVII edizione della rassegna METJAZZ che, organizzata dal Teatro Metastasio di Prato, si svolgerà a Prato dal 6 febbraio al 28 marzo con la cura di Stefano Zenni, articolata in due sezioni, official e off, in un programma di sei concerti, una conferenza e la presentazione di libro a fumetti. Con l’omaggio a due grandi icone jazz come Thelonious Monk e Chet Baker, l’inaugurazione della XXIV edizionedella rassegna METJAZZ 2019, organizzata dal Teatro Metastasio di Prato con la cura di Stefano Zenni, è affidata a un concerto di giovani talenti e a un originale spettacolo jazz che mescola prosa e musica.
Dal 6 febbraio al 28 marzo a Prato, la 27a edizione della rassegna organizzata dal Teatro Metastasio con la direzione artistica di Stefano Zenni. Tra gli artisti: John De Leo, Cristina Zavalloni con Manuel Magrini, Pietro Tonolo con l'Orchestra della Camerata Strumentale Città di Prato, Craig Taborn, Furio Di Castri, Enrico Morello, Mirco Mariottini, Lorenzo Sansoni con i Flor de Sons, Sara Battaglini. La voce e la follia sono i due fili conduttori della XXVII edizione della rassegna METJAZZ che, organizzata dal Teatro Metastasio di Prato, si svolgerà a Prato dal 6 febbraio al 28 marzo con la cura di Stefano Zenni, articolata in due sezioni, official e off, in un programma di sei concerti, una conferenza e la presentazione di libro a fumetti. Temi ispiratori, la follia come forma musicale, la follia psichica che incrocia la creatività, la follia trasformata in metodo razionale, o lasciata in bilico tra ragione e abbandono, e la voce affermata e capace di spaziare in vari ambiti stilistici, la voce totalmente anti accademica e ancora la voce della fertile scena toscana, connotano e fanno da sottofondo a tutti i concerti previsti:
Lunedì 7 febbraio, al Teatro Metastasio, alle ore 21 andrà in scena un concerto in cui il contrabbassista Furio Di Castri rivisita un omaggio tributato a Charles Mingus già una decina di anni fa, affiancando due giovani musicisti - Fabio Giachino al piano elettrico e tastiere e Mattia Barbieri alla batteria - alla tromba di Giovanni Falzone e al sax alto e clarinetto basso di Achille Succi. Realizzato in collaborazione con Musicus Concentus Firenze, il concerto celebra il genio di Mingus a cento anni dalla nascita, la sua energia fisica, la forza libertaria della musica, l’originale concezione compositiva intrisa di improvvisazione, l’esaltazione del valore dei singoli esecutori, la sintesi di stili in un unicum omogeneo, saldamente governato dalla personalità del leader e l’esplicita carica autobiografica di ogni nota.
Lunedì 14 febbraio, al Teatro Metastasio, alle ore 21, ci sarà il doppio concerto che celebra Craig Taborn come uno dei pianisti ai vertici della musica contemporanea, soprattutto nelle esecuzioni in solitudine, e un quartetto senza pianoforte di eccellenti solisti assemblato dal batterista Enrico Morello (già collaboratore fisso di Enrico Rava). Dapprima, dunque, l’esecuzione in esclusiva italiana di Shadow Plays di Taborn esalterà strutture basate su cellule melodiche, concrezioni armoniche spigolose e articolazioni formali rigorose aperte dall’improvvisazione a sviluppi e direzioni sorprendenti, che sparigliano i percorsi programmati. A seguire con Cyclic Signs, il quartetto di Morello – con lui sul palco ci saranno Francesco Lento alla tromba, Daniele Tittarelli al sax alto e Matteo Bortone al contrabbasso - metterà in moto strutture melodico-ritmiche ispirate alla musica africana, cicli musicali polifonici che danzano, in cui le forme rigorose si affacciano, in virtù della danza e del ritmo, su voragini improvvise.
Lunedì 21 febbraio. Al Teatro Metastasio, alle ore 21 un altro doppio concerto che alternerà la voce di Cristina Zavalloni ai clarinetti di Mirco Mariottini in un eccezionale quartetto. Ad inizio serata, con Di Rota e altre canzoni il pianista Manuel Magrini accompagnerà l’eclettismo vocale di Cristina Zavalloni in un viaggio nella canzone, tra brani d’autore e composizioni originali in cui «il filo rosso è la lingua, l’italiano e il canto di tutti i colori possibili con parole». Poi il Mirco Mariottini Quartet - oltre a Mariottini al clarinetto e clarinetto basso, Alessandro Lanzoni al pianoforte, Guido Zorn al contrabbasso e Paolo Corsi alla batteria – dedicherà alla memoria di Alessandro Giachero, che di questo quartetto era parte, un omaggio alla figura di Ipazia, vista come il simbolo della forza, intelligenza e determinazione della donna nel mondo antico.
Lunedì 28 febbraio, al Teatro Metastasio, alle ore 21, andrà in scena una serata tutta vocale e tutta toscana, con la doppia esibizione dei Flor de Sons e del Sara Battaglini Sestetto. Dapprima, con un repertorio spazia dal tango allo choro, dal fado al flamenco, i Flor de Sons - Lorenzo Sansoni, voce e elettronica, Adrian Fioramonti, chitarra elettrica ed acustica, Vittorio Fioramonti, seconda voce, basso fretless e contrabbasso, armonica cromatica - si muoveranno tra world music, jazz e pop allineando voce, chitarra e contrabbasso con una ampia variazione timbrica acustica ed elettrica nonché di ruoli, soprattutto per la ritmica. A chiusura della serata, ad esplorare in Vernal Love la fragilità dei sentimenti e la lucida dolcezza dell’arte sarà la dimensione sommessa, onirica e lirica della voce di Sara Battaglini intrecciata al ricco e originale tessuto strumentale elettro-acustico del suo sestetto – con lei sul palco Jacopo Fagioli alla tromba e flicorno, Beppe Scardino al sax baritono e clarinetto basso, Simone Graziano al pianoforte, Rhodes e synth, Francesco Ponticelli al basso elettrico e Bernardo Guerra alla batteria.
Lunedì 21 marzo, al Teatro Metastasio, alle ore 21 uno dei più noti cantanti jazz/sperimentale oggi attivi in Italia, John De Leo, darà vita a La follia dei generi con il quartetto Jazzabilly Lovers - con De Leo anche Enrico Terragnoli alla chitarra, Stefano Senni al contrabbasso e Fabio Nobile alla batteria –, un concerto in cui la voce e gli strumenti giocano a fare capriole, a spiazzare, a saltare da uno stile all’altro. Sul palco, la voce di De Leo spazierà tra sconcertanti e divertenti accoppiamenti tra rock’n’roll e jazz, Elvis Presley e John Coltrane, gli Stray Cats e gli standard, mentre gli strumentisti spingeranno la musica in direzione ora più rock, ora jazz, ora più hillbilly, ora free.
Lunedì 28 marzo, al Teatro Metastasio, alle ore 21, il sassofonista e compositore Pietro Tonolo indagherà insieme all’Orchestra della Camerata Strumentale Città di Prato la possibile relazione tra improvvisazione di derivazione jazzistica e linguaggio legato alla tradizione classica occidentale, in particolare barocca, le cui affinità con il jazz sono piuttosto evidenti: il basso continuo, l’improvvisazione e i giri armonici della Follia (una danza popolare di origine afro-portoghese in voga tra XVI e XVII secolo) su cui si danzava e ci si abbandonava fino a raggiungere uno stato di folle esaltazione. Il concerto Jazz, barocco e altre follie, coprodotto da MetJazz e Camerata Strumentale Città di Prato, con il basso continuo svolto al clavicembalo dal jazzista Paolo Birro, avvicinerà il jazz, la Follia e altre danze barocche ad un sound allo stesso tempo contemporaneo e storico. Racchiusi tra gli eventi di METJAZZ OFF, ci saranno poi altri due appuntamenti realizzati in collaborazione con Scuola Comunale di Musica Giuseppe Verdi di Prato, Biblioteca Lazzerini di Prato e dedicati ad esplorare la doppia polarità di Charles Mingus, tra follia psichica e creatività:
Domenica 6 febbraio, presso la Biblioteca Lazzerini, alle ore 11 ci sarà la Presentazione del libro a fumetti “Mingus”, di Squaz e Flavio Massarutto, un libro a fumetti che affronta in modo originale la figura complessa e sfaccettata di Charles Mingus. Non una biografia tradizionale ma una sorta di viaggio nelle tante dimensioni psichiche, biografiche e artistiche del grande contrabbassista, esplorata insieme a Massarutto, sceneggiatore della storia.
Sabato 13 marzo, presso la Scuola di musica Verdi, alle ore 11 una Conferenza di Stefano Zenni illustrerà il Viaggio nel capolavoro: Fables of Faubus di Charles Mingus analizzando passo passo la storia, il contesto e gli esiti musicali del celebre brano del Mingus “politico”, ispirato a un episodio di razzismo istituzionale nel 1957, che si trasformò anche in un campo di sperimentazione formale e improvvisativa senza precedenti. La campagna abbonamenti prenderà il via venerdì 14 gennaio, mentre le prevendite ai singoli concerti si apriranno il 29 gennaio. Programma dettagliato sul sito del Teatro Metastasio: https://bit.ly/MetJazz2022.
CONTATTI Info Teatro Metastasio - tel 0574 608501 Cristina Roncucci 0574/24782 (interno 2) - 347 1122817 Ufficio Stampa MetJazz: Fiorenza Gherardi De Candei - 328 1743236 Email info@fiorenzagherardi.com
Id: 2887 Data: 25/01/2022 11:57:37
*
- Politica
Bla, bla, bla… i lecca-lecca del premier.
Bla, bla, bla… i lecca-lecca del premier.
Sono giorni che assistiamo nei talk-show a uno sdolcinato sdilinquirsi di superlativi di bontà, onestà, moralità, generosità e quant’altro rivolti a uno sfacciato e dissoluto premier (?) di un partito senza una vera ossatura politica, più che mai ‘liquido’ e in liquidazione, in nome di una regalia fatta a una nazione (l’Italia?) che, per suo demerito, non è mai stata così divisa dal tempo feudale, oramai scaduta nella volgarità assoluta, nella corruzione esasperata, nell’’ignoranza totale in ogni ambito (economia, socialità, cultura, insegnamento, comunicazione ecc.); e che non riesce a darsi un leader capace non solo di governarla ma, neanche, di condurla secondo le regole (scritte e dettate) dalla propria Costituzione, finanche accettate e in parte copiate dalle altre nazioni di cui è parte costituente.
Per non dire del popolo da baraccone che il suddetto premier ha forzatamente messo insieme e che, infine, l’ha gettata via, nel mondezzaio dei suoi canali TV, che avide ‘capre’, avendo esse consumato quel poco di sale che avevano in zucca, si sono abbandonate a ‘scheccate’, ‘puttanaggini’ e altre ‘cialtronerie’ senza riguardo e alcun senso di moralità; lasciatesi comprare per pochi “lecca-lecca” distribuiti a destra e a manca, trasformatisi in lecca-culo al suo servizio. Davvero tanti quelli che abbiamo ascoltati in questi giorni di ‘presidenziali’ in atto, sperticarsi in aggettivazioni vuote e false, mai abbastanza però, se in questi giorni di ‘passi indietro’, qualcuno afferma che altresì è stato un ‘passo in avanti’ che restituisce onore e dignità a chi lo ha fatto in odore di santità. Sì da far credere a un possibile ‘santo subito’ da prendersi ad esempio, (puah!), nella scelta del prossimo Presidente della Repubblica.
sdilinguaggini per dimostrare a un ‘reuccio’ senza corona la loro svergognata e indecente sudditanza, senza tuttavia la riconoscenza dovuta, ché se (per ipotetico caso) questi gli togliesse il lecca-lecca dal culo, si ritroverebbero nella merda della loro miserabile miseria, ben sapendo che senza il suo contributo (economico) non sarebbero mai stati nessuno, manichini nell’ombra di un ‘feudo di sale’ che per merito loro si va estinguendo senza alcuna dignità. Non che gli italiani siano tutti dalla loro parte, anche se di fatto hanno sbagliato a sceglierli come loro rappresentanti, per quanto, si vorrebbe cambiare registro, persone al comando, la confusione è ormai diffusa, e ogni volta ricominciare rappresenta una dura scelta, e la strada si presenta tutta in salita.
Come solitamente cantato nell’inno della nazione “l’Italia s’è desta”, aspettiamo ulteriori riscontri, (ancora?), intanto moriamo in massa per effetto della pandemia. Che ne dite, sarà stata voluta, per dimezzare i voti in Parlamento? No, neanche quello, perché sembra che li faranno votare lo stesso, pur di accumulare voti, li andrebbero a prelevare anche da dentro le casse da morto …
Vi terrò informati.
Id: 2880 Data: 23/01/2022 10:04:21
*
- Poesia
leopoldo Attolico o i colori dellassenza - poesie
Leopoldo Attolico … o ‘i colori dell’assenza’. In “I colori dell’oro” – Caramanica Editore 2004
Se mai il vuoto, che non compete al nulla, avesse un profumo, sarebbe l’effluvio del tempo che passa e che lascia un alone di soglia, di forzata partenza. Quello stesso che questo raffinato poeta stilla da un sentimento d’amore, allorché abbandonata la sua proverbiale ironia, sofferma la mente sull’umanissima condizione dell’assenza, come d’ingombrante percezione di una perdita che non abbandona la presa e che nel timore della fine, dissangua …
“Brilla / è alta nella mente / la tua assenza / ed è il mio tutto / un battito rappreso…”
Se mai l’assenza avesse un colore, s’avrebbe un alone di luce, in cui almeno una volta nella vita (tutti) ci siamo persi e ritrovati nella moltitudine cercata, o quasi. Come dentro un attimo sfuggito al quadrante del tempo, ove abbiamo raccolto il frutto d’una felicità incommensurata che non lascia spazio al domani, alla solitudine avita che l’anima bella rifugge, ma che pure resta in agguato, allorché alla prima folata di vento contrario, ci si accorge d’averla perduta o forse sognata …
“e qui arrivato / nella città sepolta dalla notte / appena fuori stazione / quel tonfo di cancellata e di aria morta …” – “dare senza chiedere mai / è già rimpianto?”
Se mai l’amore è stato amore, ritroviamo in questo elegante volumetto dal titolo programmatico certi arcani “colori dell’oro”, segni dell’aurea presenza del poeta che improvvisa e che il silenzio invoca, svelando al lettore attento, il significato intenso e luminoso del suo amore, perpetrato, non senza rimpianto, per quel tanto che sa di giustificato, di prudentemente evocato, o forse di santificato …
“E non ho parole, seppur mai ne ho avute / né grida per liberarle; povera cosa divisa / tra il tuo dolore ed il mio / senza più peso, senza più volere / ma mai così vivo come ora nel tuo nome e nel mio: / un solo grande viso.”
“Eppure, vedi: / c’è un luogo del mondo, laggiù / dove irrompe il Divino o chi per lui /e le onde sono nidi di gioia, di vento / hanno grazia ed ali per portarti via.”
Se mai ciò avesse un senso, che pur ha, ancor più dona alla voce del poeta l’afflato del canto, nelle frasi che non ha pronunciato con le parole e che “premono sulle labbra”, insite nei battiti del suo cuore. Di quella parte di cuore che “in nebulosa di sonno / avara di abbandoni rettilinei” egli avverte in tumulto costante “dentro un gioco visionario / (di) geloso stordimento”.
Con quali parole, contro ogni altro dire, si coniuga l’amore, se non quelle della poesia che in piena luce sgorga fluente dal sentimento, dalla spinta interiore di un afflato reciprocamente sentito che nell’evanescenza dell’aere apre le ali alla luce e s’indora? Quale alba sorgerà, si chiede il poeta, dopo l‘abbraccio argentato della luna nell’effondersi con la notte? Di quali costrutti s’avvale il futuro dei giorni a venire, se non dei sogni fatti reciprocamente? …
“In questo litorale spalancato / … / getto la salda ombra di un pezzetto d’amore / …/ colgo la limpida caduta / di un colore d’inchiostro / in soggezione d’alba.” Se mai chi ama accusa in seno un dolore, è quello delle parole mancanti nel dialogo d’amore, che l’anima reclama. Ed è un susseguirsi di spasimi: “Un sapore di verità rimproverata / quasi una nota burbera / è questa tua infelicità senza desideri: / la vena di una rupe asperrima e verdissima nell’anima” …
“Ti ricordi dell’amore appena in tempo. Come una nube improvvisa fa da schermo al sole, così le tue parole ritornano sul viso lo stupore di esistere, la disabitata tristezza di conoscersi. Forse il tuo amore, ora è in questo breve margine nel ritornarmi un addio negli occhi oltre l’impossibile, oltre un morire silenzioso e immane.
Ed io non so se piangerne o sorriderne.”
Se mai la pagina bianca, che pur accoglie i suoi versi, parlasse del Sé, segreto e profondo, direbbe di un uomo che nello scorrere fluido della sua esistenza, ha pagato un pegno di sangue. Donde l’arcano viluppo di una vena scrittoria che nella luce ricerca il riflesso dell’oro: “…e un fioco lume / dolce nel lucido degli occhi che lo accoglie”, quando: “Il silenzio si congeda. / È l’alba. /…/Calda di nido / la mia notte è finita; / una poesia fra le mani”, che nei versi affioranti del ricordo trova un’eco lontana, mai stanca d’amore …
“Vengo a guardarti dormire, come fa la vita / quando raggiunge una soglia socchiusa / e ne allontana innocente il mistero / per lasciarvi un sogno.”
È allora che il verso si perde, scantona nelle ridotte linee di numerosi haiku, uno dopo l’altro, di un tacere sublime, quasi crudele, che dell’amore si fa discanto, al colmo di una “luminosa malinconia”, tra lo “stupore di esistere e di disabitata tristezza” come bene lo ha definito Giuliano Manacorda nella sua toccante ‘prefazione’ d’autore …
“La tua poesia taciuta coi suoi cieli e i suoi percorsi sottotraccia mi fa pensare all’ubiquità – un poco spaventata – di un coro a bocca chiusa.
Non ha nido di terra ne suono di vento su corde d’acqua; men che meno la pausa senza peso – luminosa – di preghiera …
Io la assimilo a un altrove di primavera intempestiva ogni volta disattesa fuggitiva che ti cerca sulle labbra.”
Se mai nella vita, il crepuscolo ha ricoperto le ombre della sera di pulviscolo dorato: “Nel sereno disordine del cuore / aria di partenze e di approdi / e la vita aperta davanti come un fiume / incontro al mare.” / […] Invero, “C’è soltanto la cuspide di un senso / appena un po’ più in alto della storia / che trascorre i tuoi occhi, a ricercare, in quella / lo scarto della luce / che assorta su una piaga di tremola bellezza / interroga l’immenso.” / […] “E quel tuo andare leggera/ è una ferita che non guarisce più; / come l’amore / quando stilla sul mondo un batticuore / e poi s’inciela.” Se mai l’amore …
L’autore. Leopoldo Attolico, collabora a varie riviste letterarie, occupandosi prevalentemente di poesia performativa, con particolare riferimento al rapporto tra oralità e scrittura. La sua attenzione è sempre stata rivolta ad una classicità intesa come chiarezza di significati, con inserti di giocosità, ironia/autoironia e senso del paradosso. Tra i suoi libri in versi vanno qui ricordati “Il parolaio” 1994; “Calli amari” 2000; “Siamo alle solite” 2001; “Si fa per dire” -Opera Omnia, tutte le poesie 1964-2016, Marco Saya Editore.
Note: Tutti i corsivi sono di Leopoldo Attolico, tratti da “I colori dell’oro” - Caramanica Editore 2004.
Id: 2879 Data: 22/01/2022 07:52:22
*
- Società
Bla, bla, bla … In Vino Veritas.
Bla, bla, bla … 'In Vino Veritas'. Dagli scranni ‘vuoti’ del Parlamento.
Si sa che durante le feste si bagorda un po’ di più, e non solo e che l’assenteismo che ne consegue nei giorni successivi la fa da padrone. Ma qui siamo in Parlamento e il fatto in se stesso non dovrebbe accadere. Stando almeno a quello che dicono i benpensanti, ma sappiamo che non è così. “Poiché accade sempre e dappertutto è uso continuare a fare come si è sempre fatto”. Così, ‘un bicchiere tira l’altro’, ‘una furberia succede a un’altra’, si fa tardi e quindi siamo agli sgoccioli e quelli che si presentano sono più assonnati che mai. Ma sono pur loro che dovrebbero legiferare dagli scranni di un Parlamento che stenta a prendere quota. «Siamo rimasti in tre, tre Somari e tre Briganti, solo tre!», cantava giocoso Modugno profetizzando quanto ben presto sarebbe occorso nell’aula del nostro Parlamento. Di fatto c’è che prima di quelli attuali erano già in Tre a cantarla (anzi due se la cantavano e uno girava col piattino in mano); adesso in vero sono sempre Tre e non si sa bene quale di loro sta lì a reclamare un obolo che ‘noi italiani’, ridotti per lo più a un silenzio di convenienza, versiamo nel fatidico piattino quasi certi che l’elemosina la stiano facendo loro a noi. Comunque sono e restano (?) in Tre a stendere la mano, per lo più passando il tempo a litigare per, non si sa bene quale ragione li spinga se non quella di restare al potere, (leggi col culo attaccato allo scranno), passando il tempo un giorno a litigare, un altro giorno a smentire ciò che hanno affermato il giorno prima; un altro giorno si insultano per poi acquietarsi seduti alla stessa mensa e/o davanti allo stesso bicchiere di vino, litigando di chi berrà la metà piena e chi deve accontentarsi della metà vuota. E mentre in Due fanno un po’ come i compari della tradizione popolare che si accompagnano l’un l’altro senza riuscire a trovare la strada di casa; l’altro sembra destinato a fare da Terzo ‘incomodo’. Quale dei Tre? – vi starete chiedendo. Ma davvero ve lo chiedete, non è forse lampante chi? C’è davvero bisogno che io vi indichi quale dei Tre? Semplice (e lampante): facendo il gioco delle Tre carte “uno vince, l’altro perde (oggi); quello che ha vinto ieri perde (domani), in modo alternato, mentre l'ultimo dei Tre fa il “palo”, gridando ad ogni stupida 'vittoria', e/o a rigirandosi le colpe (perché di questo si tratta), che finiscono per essere in addebito al terzo di loro (l’incomodo), il quale, guarda caso, quel giorno era assente (ma c’era), e se c’era non ha visto, né sentito, né detto niente. I Tre si fingono d’accordo (e non lo sono), il resto del paese (tutti noi che sosteniamo una volta l’uno (a destra), e l’altro (a sinistra), con il terzo che fa il 'birillo' al centro, mentre sta a guardare senza mai prendere posizione; piuttosto barcamenandosi sull’entrata del Parlamento: “ma prego, passi prima lei”, “ma no passi lei”, “no, spetta a lei!”, “nient’affatto, ieri sono entrato io per primo, quindi?”. Quasi che chi ‘entra per primo' e si siede sullo scranno temi di trovarvi una 'banana pronta all'uso'. “Beh, facciamo così, per oggi entra l’altro" (il terzo incomodo), che, guarda caso, non sa cosa rispondere all’interrogazione parlamentare, né a quale dei due attribuire le responsabilità che necessariamente finiscono col dire: “Sicuramente è colpa di quelli che c’erano prima, che hanno lasciato il buco!” – esclama. Quale 'buco'? Ma quello lasciato dalla banana, no? Comunque tutto sa di ‘farsa’ alla Campanile, per intenderci: “chi io?”, “no, lei”, “ma no, la prego”, “me la dia”, “no grazie, se la tenga!”. Ma intanto la banana la rifilano al popolino che ‘speriamo’ quando sarà chiamato a votare, cioè ad eleggerli per tenerli seduti sugli scranni di quell’osteria che si vuole chiamare Parlamento, faccia attenzione a non ripetere gli stessi sbagli e/o le stesse scelte di mantenerli al loro posto in quella ‘casa comune’ (si fa per dire) dove i Tre, assetati di potere, lasciano che il paese vad(i)a in rovina, per poi infilarsi nell’urna ‘segreta’ delle decisioni e pisciandoci dentro. Perché da tanto ubriachi che sono (leggi: impreparati, incapaci, venditori di fumo ecc.) e sofferenti di prostatite acuta da qualche parte devono farla. E di fatto la fanno, come si vuol dire: ‘fuori dal bidone’; tanto da causare l’acqua alta a Venezia, per non (voler) parlare delle aree terremotate e le tante altre situazioni ancora (da sempre) pendenti nel nostro paese (come mai?); tuttavia non sufficiente a spegnere gli alti forni della siderurgia a Taranto, mentre il ‘buco’ della TAV è lì che li aspetta per essere riempito della loro merda. Che ve ne pare, siamo in buone mani …oppure? Tant’è che l’esperienza politica di molti (che pur sempre lì siedono in Parlamento), è lasciata al condizionamento dei pochi (avvezzi all'arroganza) che vi prendono posto, la cui incompetenza sta portando il nostro paese allo 'sfascio' definitivo. E mentre i Tre escono a braccetto dall’osteria (Parlamento), li ritroviamo al Bar di fronte (aperto fino a tarda notte) che si accordano su cosa è ‘prioritario’: se andare a dormine accompagnandosi l’un l’altro verso casa, o a trovare la ‘zoccola’ (in romanesco) di turno che calmi le loro appassionate (?) arringhe dell’indomani. Ma come si sa le ‘arringhe’ servono a schiarirsi la voce, seppure ci sia più bisogno di schiarirsi le idee, poche e confuse, di come risolvere i problemi del paese: “no, scusa, di quali problemi stiamo parlando?”, “perché ci sono problemi?”, “mah, non mi pare”, “eh, lo dicevo io che non c'erano problemi”– aggiunge il terzo, contestando che “personalmente (io) non c’ero” – aggiunge il furbetto del trio; “di solito i problemi sono di chi se li crea” – aggiunge il Terzo (l’incomodo). E a ragione, perché stando ai detti popolari (romaneschi come la fava) tra gli ubriachi che “In Vino Veritas” vale quanto segue: “uno + uno non può far tre”, che “i bicchieri (bevuti) non possono essere dispari” e che “fra i due il terzo lo prende nel c…”, - e magari ne gode pure, aggiungo. Ma su questa possibilità c’è da fare un pensierino piccolo, piccolo … Sempre dipende da quanto ce l’ha grosso il contendente! Fatto è che dagli scranni ‘vuoti’ del nostro Parlamento, non dobbiamo aspettarci nient'altro che ulteriori guai in fatto di fisco sempre più agguerrito, di pensioni aggredite e logorate, di sanità malsana e malfunzionante, di lotta alla criminalità che avanza, dell’ingiustizia della giustizia, della disfunzione degli apparati dello stato, dei disservizi dei servizi pubblici ecc. ecc. La lista si fa ogni giorno più lunga, ci vogliono nuove idee, suggerimenti efficaci, serve far meno chiacchiere e più fatti, di rivolgersi un po’ meno ai ‘santissimi’ che operano al di fuori delle leggi e più ai detentori dell’economia nazionale (leggi imprenditori avidi), di farsi partecipi dello stato delle cose e avviare una ‘più sana’ levata di scudi' verso questo nostro (e loro) paese, ridotto ormai a un colabrodo che fa acqua da tutte le parti. "Scusate ma la cultura, per caso qualcuno di voi l'ha vista?" – si chiede il 'popolino' che passava per caso davanti al Bar delle chiacchiere. "Cos'è?" - chiede uno dei Tre, lanciando un'occhiataccia agli altri due. Al che risponde il Terzo (l'incomodo): "Sì, mi è sembrato che fosse diretta giù di là!". "Scusi da che parte ha detto?", "No, io non l'ho detto!" - aggiunge il secondo, mentre il furbetto dei tre, risponde deciso: "Le scuole riaprono sicuramente prima dell'inverno, forse è ancora in tempo per imparare qualcosa, che le leggi qui le facciamo noi!". A questo proposito, manca poco all’inizio dell’inverno, raccomando di stare attenti ai consumi, alle stangate sugli affitti, alle bollette dell’elettricità e del gas, alla benzina per le auto, ai ticket sanitari, alla ... "Eh, ma basta!" - dice l'uno, "Per oggi finiamola qui", aggiunge l'altro. "Beh, si è fatto tardi, ci vediamo domani, fatemi sapere alla fine che cazzo avete deciso! Tanto a me poco mi cambia:"- aggiunge il Terzo, (l'incomodo). mentre i Due stando all’erta, hanno già attivato i loro scherani per colpire duro, soprattutto perché a loro i contributi 'extra' non bastano mai, mentre noi possiamo sempre, come si dice: “tirare la cinghia”. E già qualcuno del 'popolino' ha sostituito alla fatidica 'cinghia' le proprie cuoia. E non è tutta colpa del Covid 19, non credete alle fanfaronate che vi/ci raccontano, perché anche la pandemia fa comodo alla politica che ne ricava i propri interessi. Dunque, a risentirci a presto, nel frattempo mi aspetto una rivolta popolare che li mandi tutti quanti a casa, solo perché i manicomi da tempo sono chiusi, i centri di recupero per gli alcolizzati dal potere non sono mai stati aperti. Ciò, sempre nella speranza che qualcuno si occupi seriamente di tutti noi. Comunque statene certi, se le cose non cambiano in meglio, sarò ancora qui a monitorare la situazione: Come disse un carissimo amico dall’alto del suo impluvio: (la linea verso la quale si convogliano le acque malsane delle loro imprese)
…“si può sempre sperare nel diluvio”.
Id: 2874 Data: 05/01/2022 05:52:18
*
- Arte e scienza
Giovanni Zanon - mestiere e arte di un tagliatore di pietre
GIOVANNI ZANON: IL MESTIERE E L’ARTE DI UN TAGLIATORE DI PIETRE.
La perfetta integrazione fra il lavoro dell’artigiano capace di penetrare i segreti d’una lavorazione antica, quella marmoraria della pietra grezza, ha felicemente contribuito all’affermazione della figura di Giovanni Zanon, fissandone al contempo la sua essenza d’artista “anti litteram”. L’amore per i monumenti insigni e i cimeli antichi delle città in cui ha vissuto, coniugata con la preziosità insita nella materia, ne hanno plasmato de facto il carattere del conoscitore attento e del collezionista professionale. Dal suolo veneto di antiche tradizioni, passando attraverso la pratica del restauro,Giovanni Zanon è giunto infatti al dominio della pietra, scoprendo, attraverso la trasparenza del marmo, la policromia delle varietà, intuendone al contempo le straordinarie possibilità di utilizzo, la molteplicità di forme originali e irripetibili che avrebbe potuto ricavarne, onde ottenere risultati inconsueti e suggestivi, di notevole pregio artistico. Ciò che infine ha dato forma alla sua idea pressoché innovativa dell’utilizzo del marmo per modellature altrimenti impensabili, come l’introduzione di esso in quasi tutte le funzioni dell’arredamento in genere, in particolare l’inserimento di pietre dure e semipreziose nell’ornato che ha dato luogo alla suggestiva coniugazione dell’antico con il design di moderna concezione.
Sebbene si debba ascrivere al Rinascimento l’ideazione di mobili realizzati dall’accostamento del legno con le pietre lavorate, il rinnovato gusto estetico che ripropone all’attualità dell’arte la lavorazione artigiana del marmo, il cui prestigio era strettamente connesso con l’estetica formale dell’antico, oggi il marmo va a sostituire le tarsie lignee utilizzate in passato, restituendo all’insieme delle forme e all’ambiente, una corposità e una lucentezza mai viste prima. Tutto ciò è dato dalla moderna tecnica messa a punto dopo anni di studio e di ricerca da Giovanni Zanon che ha dato impulso a questa nuova tecnica basata sul rapporto ‘peso e misura’ delle materie prime utilizzate che, infatti, propone la combinazione del rivestimento marmoreo di una base lignea fissati in un unico corpo che altresì conserva la preziosità e la solidità dell’uno, e la leggerezza dell’altro. Assistiamo pertanto ad un ampliamento delle possibilità dell’applicazione del marmo in campi che sono specifici dell’arredamento e del design d’interni, dell’oggettivazione funzionale quanto di quella prettamente decorativa che si trovano così ad assumere una indubbia valenza specifica, altresì in ambito architettonico ambientale dove si rendono necessarie sovrastrutture e abbellimenti decorativi di un certo prestigio formale. Ciò si è reso possibile grazie alla tecnologia di nuove strumentazioni e alle moderne tecniche di lavorazione praticate nei laboratori artigiani altamente qualificati. Soprattutto da quei ‘maestri’, che hanno individuate le possibilità di combinazione del marmo pregiato con altre materie, aprendone e fissandone la sua duttilità, portandolo a una condizione di ornamento artistico inedito quanto originale, che oggi a distanza di tempo, vede in Giovanni Zanon, indimenticato maestro marmorario, una firma qualificata.
“La qualificazione dell’artigiano marmorario – si trovò a dire Giovanni Zanon durante una intervista – corrisponde alla capacità di predisporre e tagliare la pietra in funzione delle proprietà intrinseche: la corposità’, la durezza, la venatura, la cristallizzazione ecc.; come anche nell’accostamento cromatico delle tarsie, alfine di raggiungere una perfetta integrazione tra la forma rigida della pietra e il virtuosismo del taglio, la creatività artigiana con la maestria nella composizione ‘pittorica’. È piena funzione dell’artista – il maestro rivela se stesso – concatenare e seriare le forme, replicarle, variarle e adattarle di volta in volta con accostamenti inediti e imprevedibili, alfine di conferire ad ogni singola forma una diversa relazione costruttiva. È in questo – ha proseguito Zanon – nella linearità del taglio nell’uniformità dei pezzi sapientemente scelti che danno risalto al lavoro finito, e che si presenta così ricco di tonalità cromatiche di tarsie preziose che s’innestano sul piano e sul fronte in relazione alla struttura che si ottengono quei pezzi di arredamento personalizzati e irripetibili che la mano esperta dei conoscitori del marmo, ha arricchito e modificato nel corso della lavorazione secondo l’estro, e portato in superficie l’armoniosa varietà dei colori e l’austera bellezza della natura propria del marmo, nel ripetersi di un’arte entrata sì nella tradizione dei maestri marmorari, ma che nel tempo ha assunto i lineamenti dell’arte.”
Fanno parte della sua produzione oggetti di creazione originale, imitazioni di modelli più antichi e restauri di vecchi cimeli come spalliere, piramidi e lampade, colonne e specchiere, sfere e mensole, in un giuoco di geometriche definizioni che coordinano e unificano lo spazio figurativo, e che Zanon ha riproposto con le stesse tecniche di esecuzione. Una vasta gamma di mobili di ogni tipo riproposti con la moderna tecnica detta del ‘placcaggio’, la cui particolarità sta nell’accostamento consequenziale delle tarsie marmoree in modo tale che le connettiture risultino impercettibili all’occhio, creando, al tempo stesso, un impianto figurativo di delicato effetto cromatico.
LA TECNICA. Il procedimento, così detto del ‘placcaggio’, ha inizio con il taglio del pregiato blocco marmoreo in lastrine sottili fino a 3mm. Di spessore che vengono poi applicate sul legno – preferibilmente un tamburato di 3cm. rinforzato o intelaiato secondo dei casi – con la tecnica detta ‘a macchia aperta ‘ per la quale è richiesta una dovuta esperienza di composizione e grande capacità di esecuzione. È questa una tecnica che non prevede l’utilizzo di macchinari moderni per l’incapacità di questi del controllo automatico dello sfaldamento del taglio e la peculiarità dello sgranamento del marmo stesso, e che solo l’esperienza artigiana ed un’accurata assistenza riescono a deprecare. Per ottenere ciò Zanon ha recuperato telai a ruota – riattivati con l’ausilio della forza motrice – che effettuano il taglio con la procedura antica delle ‘lame a coltello’ costantemente bagnate al ‘carborume’, (cosiddetta pietra in ombra utilizzata nei procedimenti tecnici dell'intarsio e della scultura), la cui capacità di penetrazione è di soli 6mm. al giorno. Ed è proprio la linearità del taglio, l’uniformità dei pezzi sapientemente scelti che danno infine risultato al lavoro portato a termine e che si presenta ricco di innumerevoli tonalità cromatiche, che la mano del maestro ha arricchito e modificato secondo l’estro e l’esecuzione fino a portare in superfice l’armoniosa varietà dei colori e l’austera bellezza della sua natura nel ripetersi di un’arte entrata nella tradizione di cui Zanon è segreto conoscitore. IL DESIGN. Risalendo alle formule tipiche della figurazione marmorea incontriamo oltre alla statuaria e all’ornamento in architettura, la pavimentazione e la tarsia, il mosaico e altre tecniche affini; per quanto in quantità inferiore vi rientra anche molta oggettistica non di grandi dimensioni e per lo più diversificata come prodotti d’uso. Tuttavia è partendo da una sua funzione specifica e dalla collocazione ultima che si vuole dare ad un oggetto dentro lo spazio, sia esso interno che esterno, che i manufatti in marmo ottengono risultati pratici ed estetici di un certo rilievo. La caratterizzazione dello spazio marmoreo ricercata da Zanon in modo spontaneo richiama l’ambito figurativo del design di moderna concezione. Esperto conoscitore di marmi antichi e pregiati egli predilige pietre dure silicee, i quarzi, i calcedoni, i diaspri, in quanto offrono una gamma cromatica più variegata di altri, come ad esempio il travertino nelle sue diverse sfumature dentro forme studiate appositamente o incorniciate da guarnizioni in metallo. Sebbene nel suo laboratorio non manchino porfidi, broccatelli e lumachelle. Nonché quei ‘marmi antichi’ nelle varietà del verde, del giallo, del rosso già in uso nella Roma imperiale e bottoni di pietre semipreziose come la malachite, l’occhio di tigre, il lapislazzulo di più difficile reperimento.: “…ognuna delle quali – ha scritto di lui 2Costantino Rodio – offre all’occhio la vista di un prato meraviglioso, pieno di infinite specie di fiori, sì che diresti che da esse nasca ogni sorta di piante o che una quantità di astri splendenti compongano tutt’intorno una sorta di galassia, tanto sono belle e di peregrino aspetto”. L’ARTISTA. La Firma di Giovanni Zanon ha conosciuto i mercati di Tokyo, di New York, di Londra, di Parigi, … pur rimanendo sempre fedele a Roma quale ambasciatore del Bel Paese e della città Eterna che ha sempre celebrato. Giovanni Zanon, è presente in vari cataloghi d’arte, fra tutti la splendida “Anthologia Maestro Giovanni Zanon”, our Story by Rosanna Guadagnino Aprile 2018.
Lo Show Room del Maestro Zanon si trova a Roma in via Tor di Nona 45 mentre l’Expo & Studio a Tivoli in via del Barco. Per info, contatti e appuntamenti: cell: +39 348-7342857 e +39 342-6666956
Note: (*) Intervista rilasciata all’autore durante l’inaugurazione nel suo “Atelier del Marmo” – Navona Studio 3 – in Via E. Faà di Bruno 26 a Roma nel 1998.
Id: 2860 Data: 26/11/2021 08:42:16
*
- Musica
Musica Etnica: Fiabe e danze della tradizione popolare Russa
MUSICA ETNICA: FIABE E DANZE DELLA TRADIZIONE POPOLARE RUSSA.
La Grande Madre Russia di cui molto in passato si è apprezzata la straordinaria attività letteraria e artistica è una sterminata area geografica di grande interesse musicologico da riscoprire. Lo facciamo andando alla ricerca di alcune ‘opere’ folkloristiche che accolgono nella cornice della ‘fiaba russa’, le ‘melodie’ e le ‘voci’ della tradizione popolare, le ‘danze’ tipiche delle diverse realtà regionali e i ‘racconti del focolare’. Il nostro itinerario inizia proprio da quei ‘racconti del focolare’ domestico, centro della vita quotidiana della famiglia che rintracciamo negli usi e nei costumi di numerose comunità, custodi delle antiche tradizioni contadine. Il focolare domestico è quindi all’origine delle ‘fiabe russe’ che attraverso la trasmissione orale sono giunte fino a noi, mantenendo inalterata la loro forma originale e tutta la loro bellezza. Quanto avvenuto è, in sostanza, un passaggio dai miti (ancestrali) alla religione di base (credo popolare) copto-ortodosso e, come effetto di ritorno, entrato nella fiaba in quanto insieme leggendario di tradizioni, assunte come bagaglio letterario. Ne deriva che la fiaba altro non è che una ‘teoria’ legata alla mitologia più antica che risponde ‘in vero’ a una funzione sociale e culturale di una vasta popolazione eterogenea. Ciò potrebbe sembrare una contraddizione in termini, ma non lo è, poiché va considerato che la fiaba scaturita dalla insita creatività del sentire popolare, è qui filtrata attraverso le credenze e le convinzioni d’una tradizione millenaria, tramutata in ‘immagini poetiche’ straordinariamente vive dal popolo stesso che ne è il primo fruitore. Secondo Alexander Nikolaev Afanasiev, la fiaba è stata ‘in primis’ ad aver assunto le caratteristiche tipiche della ‘poesia epica’ russa, in quanto forma straordinariamente viva perché filtrata attraverso le credenze e i costumi popolari in cui si riscontrano: «..lo stesso tono luminoso e sereno, la stessa inimitabile arte di dipingere ogni oggetto ed ogni avvenimento, tenendo presente l’impressione da esse suscitata nell’animo umano.»
Nel mondo favolistico russo troviamo infatti fiabe dal carattere magico e meraviglioso legate a remote credenze pagane, affollate da esseri demoniaci e folletti allegri, che popolano i boschi, i monti e i mari; assieme ad altre di carattere satirico, per lo più improntate sul quotidiano, che si offrono come chiavi di lettura degli avvenimenti che hanno contrassegnato la storia delle diverse anime religiose ma, e soprattutto, hanno permesso l’addensarsi nella ‘coscienza popolare’ di quella tenerezza struggente in cui perdersi, così autentica che sia possibile conoscere. Coscienza che in occasione del lungo inverno russo, poteva ritrovarsi nei più giovani in età ‘amorosa’ durante le ‘veglie’ all’interno delle ‘isbe’ in cui era in uso fare giochi di gruppo, danzare e cantare con l’ausilio di strumenti quali la balalaika e la fisarmonica. Un gioco molto in uso era detto ‘della quaglia’, in cui a turno, mentre tutti cantavano in coro, un giovane si avvicinava ad una ragazza, gli dava un colpetto sulla spalla e se gradito la ragazza prescelta scambiava a sua volta un inchino con il ragazzo. Un altro gioco era detto ‘dell’ochetta’ in cui le ragazze cantando una canzone appropriata al gusto del tempo, si presentavano in fila e richiamavano l’attenzione dei ragazzi preferiti con i quali eseguivano alcuni passi di danza tradizionali. E già il suono di una balalaika ci invita all’ascolto di una canzone tradizionale, tradizionalmente eseguita dal coro di sole voci femminili che ha per titolo “Sorba degli Urali”:
“Mio bel verde boschetto / perché non metti fior? / Mio giovane usignol / perché non canti ancor? / - Canterei se potessi / ma voce oimè non ho! / Beccar potrei un seme / ma voglia oimè non ho! / Tuba la colombella / se già il colombo non ha. / Soffre la giovincella / che il suo moroso non ha!”
Siamo qui proiettati nel bel mezzo del rapporto che il popolo russo ha da sempre con la natura circostante, con la quale misura ogni suo attimo di vita e ci ha lasciato una vasta letteratura, e che sia l’arrivo della primavera o il gelido freddo dell’inverno, ogni occasione è buona per dipingerla dei colori più adeguati, non di meno di liricità nei versi di una poesia d’amore, così come di una canzone. Del resto si sa: “…quando l’amore è ricambiato la melodia si accende di toni gai e briosi”. È allora che si mette mano alle corde (degli strumenti tipici), si dà fiato (alle canne dei flauti), si levano le gambe in una danza e le voci nei ‘cori’, divenuti insieme alle danze popolari emblema della cultura di questo paese. Così oltre agli eroi, ai maghi, alle fate, agli sciocchi e ai cattivi che per necessità narrativa non mancano mai, e tutti ugualmente dotati di poteri soprannaturali, troviamo leggende, favole e canzoni tipiche della tradizione orale che ancor oggi costituiscono il ceppo più autentico della cultura russa, copiosa di superstizioni e magia, di favolistica e profonda religiosità. Trattasi per lo più di canzoni ricche di commovente sapore umano, scaturite dalla spontaneità contadina che verosimilmente le ha tramandate durante le lunghe e fredde ‘veglie’ invernali, così dette: “besedy” e “posidelki”, che si protraevano da Ottobre fino a Carnevale, durante tutto il lungo inverno russo. Prestabilite dall’uso e dalle convenzioni stagionali le ‘veglie’ si svolgevano solitamente nelle ‘isbe’, granai ampi e puliti sulla cui parete centrale si apriva una finestra, comunemente chiamata ‘finestra bella’ per il semplice motivo che era l’unico spazio lasciato aperto che dava verso il cielo, onde poter scrutare il tempo e il passaggio delle nuvole, aspettando l’arrivo della bella stagione. Oltre ai canti e ai balli le ‘veglie’ erano allietate da racconti di fiabe per i più piccini, da indovinelli e motti in rima in cui spesso si prendevano di mira i presenti.
Come in questa deliziosa “Venditori ambulanti” – raccolta dal Coro Popolare Russo di Pyatnytzky:
“Monotona rintocca la campanella. Il canto malinconico del cocchiere che si stende sulle aride pianure risveglia una profonda nostalgia. Altre notti vengono alla mente, campi e foreste della propria terra, riscaldano il cuore del mio freddo petto. Le lacrime sgorgano dai miei occhi che non sanno piangere. Monotona suona la campanella. Il cocchiere è silenzioso ...”
Oltre agli eroi, ai maghi, alle fate, agli sciocchi e ai cattivi che per necessità narrativa non mancano mai, e tutti ugualmente dotati di poteri soprannaturali, troviamo leggende, favole e canzoni tipiche della tradizione orale che ancor oggi costituiscono il ceppo più autentico della cultura russa, copiosa di superstizioni e magia, di favolistica e profonda religiosità. Spesso gli anziani intonavano canzoni malinconiche che si richiamavano alle fatiche contadine, al lavoro di semina e di raccolta, di sudore e di lontananza dal focolare domestico. In alcune in particolare si fa riferimento al Burlak, il contadino che nella buona stagione veniva ingaggiato con mansioni di manovalanza, al quale, almeno stando al nome, erano attribuite ‘burle’ e/o ‘beffe’ ricevute o rivolte ai nobili e ai proprietari terrieri, che scaturivano in risate e lazzi d’ogni conto. Appartengono al patrimonio legato al Burlak alcune bellissime melodie dedicate al fiume Volga e le canzoni di profondo rancore, a volte perfino esasperate, in cui era palesemente espressa l’ideologia delle rivolte contadine.
Fra le danze occupava un posto d’onore la ‘quadriglia’ per la sua compostezza d’insieme a cui tutti i presenti potevano partecipare. Ma un'altra danza teneva occupati soprattutto i più giovani che l’aspettavano con ansia, la cosiddetta “Attorno alla Città” in cui i danzatori formano un cerchio, al centro del quale stava una fanciulla. Da fuori un giovane doveva cercare di introdursi all’interno di esso per conquistarla che di sovente veniva respinto dall’allaccio stretto dei corpi degli altri componenti. Quando infine riusciva nel suo intento egli poteva dare un bacio alla fanciulla prescelta. Molti erano i ‘cori’ maschili rivolti alle gesta degli eroi e dei condottieri in cui predominava l’elemento epico-nazionalistico di fondo e che più spesso animavano gli animi degli adulti, in genere più anziani che avevano partecipato a guerre e/o avevano combattuto per riportare l’ordine nel cuore della Grande Madre Russia. Ne è una testimonianza di grande levatura lirica il “Canto attorno ad Alexander” dall’opera “Alexander Newsij” di Sergei Prokofiev (1938). In esso si narra del Principe Newsky, il quale molto si adoperò nel contrastare l’avanzata dei popoli Teutoni verso Novgorod. Allorché le città minacciate si rivolsero all'uomo considerato il maggior guerriero di Russia: il principe Aleksandr, detto Nevskij, del Granducato dì Suzdalia. Questi dopo aver raccolto attorno a sé un'armata molto composita di cavalieri e contadini la guidò verso le frontiere occidentali, respingendo i Teutoni e salvando Novgorod dal saccheggio. Dando egli prova inoltre della sua sapienza strategica, sospinse i nemici sul lago ghiacciato di Ciudi che, cedendo sotto il peso delle pesanti armature, li inghiottì nelle sue gelide acque: “Canto attorno ad Aleksandr Nevskij” (Coro)
“Sì, fu sul fiume che ciò avvenne, sulla corrente della Neva, sulle acque profonde, là trucidammo i migliori combattenti dei nostri nemici, il fior fiore dei combattenti, l'esercito degli svedesi. Ah, come ci battemmo, come li mettemmo in fuga! Riducemmo le loro navi da guerra in legna da ardere. Nella lotta il nostro sangue rosso fu liberamente sparso per la nostra grande terra, la nostra Russia natale. Evviva! Ove vibrava la larga scure, c'era una strada aperta. Nelle loro file si aprì un sentiero dove si inoltrò la lancia. Sconfiggemmo gli svedesi, gli eserciti invasori, come un prato di steppa, cresciuto sul suolo del deserto. Noi non cederemo mai la nostra natia Russia, chi marcerà contro la Russia sarà sterminato. Levati contro il nemico, terra russa, levati! Levati in armi, sorgi, grande città di Novgorod!”
Al passo con gli eventi il Cristianesimo assunse in Russia una forma rilevante soprattutto fra i tradizionalisti, i quali reclamavano il ritorno al sistema liturgico bizantino, introdotto nel X° secolo. Periodo in cui il canto liturgico vide ‘maestri di cappella’ e ‘cantori lirici’ fornire quegli elementi musico-canori che servirono alla tradizione ortodossa, il cui stile ben si conciliava con le antiche melodie e il canto popolare. Acciò molti compositori ‘classici’ si espressero in seguito in questa ‘forma liturgica’ lasciandoci pagine di estrema bellezza compositiva. Alla tradizione sacra appartengono i “Vespri” (in russo: Вечерня) intonati durante “La Veglia per tutta la notte”, Op. 37 (in russo: Всенощное бдѣніе, traslitterato: Vsenoščnoe bděnie), una composizione di musica sacra di Sergej Vasil'evič Rachmaninov (1915), che fece propri gli elementi della musica sacra russa, ricca di sonorità puramente vocali senza alcun sostegno strumentale, risalente agli inizi del X secolo, con la diffusione da Bisanzio, attraverso la Bulgaria, allora considerata la culla del Cristianesimo nel mondo slavo, dei sacri libri dell'antica liturgia religiosa. Anche se alcuni di questi testi, risalenti in gran parte al XIII e al XIV secolo, sono giunti sino all'epoca moderna, bisogna dire che la forma ‘znamennyi’che sta ad indicare i segni di notazione posti sopra le parole del testo secondo una linea melodica ben precisa e senza troppi abbellimenti, a tutt'oggi non è stata completamente interpretata.
Dai “Vespri” di Sergej Vasil'evič Rachmaninov (Coro)
N. 3 “Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indulge nelle vie dei peccatori... Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi cadrà in rovina... Gloria al Padre, al Figliolo ed allo Spirito Santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli, amen... Alleluia...” N.5 “Ora, o Signore, lascia che il Tuo servo se ne vada in pace, secondo la Tua parola. Perché i miei occhi hanno visto la Tua salvezza, che Tu hai preparato dinanzi a tutti i popoli, luce che illumina il giorno, e gloria del Tuo popolo, Israele...” N. 9 “Benedetto sei Tu, Signore, fammi capire i tuoi comandamenti...”
Mentre dal loro angolo più vicino alla grande stufa, nelle già citate ‘veglie’, le donne più anziane erano intente a filare e a ricamare, gli uomini sposati e gli anziani osservavano un poco nostalgici e un po’ divertiti i giochi messi in atto dalla gioventù. E solo qualcuno di loro gettava, di tanto in tanto, uno sguardo fuori dalla ‘finestra bella’ tirando un sospiro, cercando di scorgere fra il gelo e i mucchi di neve un segno dell’annunciata primavera. Ai primi segni di disgelo, quando i venti tiepidi incominciavano a sciogliere le nevi e si giungeva all’equinozio di primavera si dava inizio alle ‘opere’ della terra.
L’agricoltore primitivo, al quale sfuggivano alcune leggi che regolavano i fenomeni naturali, credeva fosse necessario invocala per richiamarla a nuova vita ed aiutarla a presentarsi mediante l’uso di alcune formule propedeutiche che recitava nel modo di cantilena. Come si sa a primavera arrivano a volo gli uccelli al cui apparire, si pensava, la conducessero sulle loro ali. Ma anche se certe rappresentazioni sono per lo più dimenticate, qualcosa ancora resta nel semplice gioco infantile di cuocere biscotti a ‘forma di uccello’ e lanciarli nell’aria, o legarli alle pertiche dell’orto al grido: “sono arrivate le gracchie!”.
È ancora in uso chiamare certe canzoni “vesnjanki” (da vesna= primavera), in cui si rispecchia la preoccupazione e l’aspirazione del contadino, sebbene in alcune di esse è espressa la giocondità della buona stagione che viene cantata e/o recitata in forma poetica. Una di queste, fra le più diffuse, è quella della semina del lino; colei che la esegue si pone nel mezzo di un circolo e con l’aiuto della mimica riproduce i gesti ad essa connessi: all’occorrenza mostra come lo si bagna, lo si scioglie, lo si stende e così via, fino alla sua filatura.
Recita un grazioso ritornello: “Riesci bene, mio bel lino / riesci tutto biancolino / per favore mio carino...”
Al mondo ‘nascosto’ del sottosuolo e a quello ‘soprannaturale’ è attestata la presenza nelle fiabe russe di molte maschere caratteristiche che rivestono ruoli della massima importanza, entrate in seguito nel teatro popolare. Tra queste assume grande rilevanza “Baba-Jaga” una creatura leggendaria della mitologia russa, divenuta in epoca contemporanea un personaggio fiabesco. Anche se in molti hanno sentito parlare della ‘strega cattiva’ pochi conoscono le sue origini di donna selvaggia che possiede oggetti incantati ed è dotata di poteri magici. Una figura immaginaria della mitologia slava, in particolare di quella russa, che talvolta agisce in qualità di aiutante del/la protagonista.
In “Vassilissa la Bella” (*) era veramente orrenda, viveva in una casa nel bosco: “La casa era fatta di ossa, di teschi e di occhi, ed era provvista di zampe che le permettevano di spostarsi anche fuori dal bosco. Le maniglie delle porte e delle finestre erano fatte con dita e piedi umani, e il chiavistello da un grugno con denti appuntiti. Un giorno bussarono alla sua porta tre Cavalieri: erano il Cavaliere bianco che rappresentava ‘il giorno’; il Cavaliere rosso, che rappresentava il sole; il Cavaliere nero, che rappresentava la notte. Quando Vassilissa chiese alla strega chi essi fossero, Baba Yaga rispose: "la mia alba luminosa, il mio sole e la mia notte scura”; ma quando Vassilissa volle sapere di più sui tre Cavalieri, la strega rispose: "non tutte le domande portano buon pro, “molto saprai, più presto invecchierai”.
Secondo Vladimir Propp, la “Baba Yaga” non faceva altro che ribadire un principio sacro a livello iniziatico in base al quale l’anziano della comunità trasferiva tutto il suo sapere agli iniziati solo in punto di morte, lasciando le proprie conoscenze in eredità: "raccontare tutto" voleva dire, quindi "accingersi a morire". Ecco perché la Baba Yaga non vuole rispondere a tutte le domande di Vassilissa, dicendole di non farne troppe. Baba Yaga si identifica con la natura selvaggia, ne conosce i segreti e sembra che la natura possa sottostare ai suoi voleri e alle sue magie.
In alcune versioni a Baba Yaga sono affidate delle fanciulle (da una matrigna o dal padre spinto a tale gesto dalla nuova moglie) che lei sottopone a pesanti lavori, minacciando di mangiarle se ogni compito non venisse svolto nel modo migliore. Ad aiutare le fanciulle troviamo, in una prima fiaba, i servitori della Baba Yaga (un cane, una betulla, un aiutante e un gatto, quest’ultimo di solito compagno fedele delle streghe) che si ribellano alla strega, aiutando la fanciulla a fuggire. In una seconda fiaba troviamo dei topini che, in cambio di cibo, aiutano la fanciulla a compiere i suoi lavori senza troppa fatica; nella versione invece di Vassilissa la Bella, troviamo che, ad aiutare la ragazza, sarà la bambola donata dalla mamma in punto di morte.
Così viene raccontata la morte della madre, in realtà raccontata come la morte della moglie del padre, con cui si apre la fiaba:
“Sua moglie morì quando la piccola aveva otto anni. Sentendo la fine avvicinarsi, la madre chiamò a sé la bambina, e da sotto le coperte tirò fuori una bambolina che come Vassilissa indossava stivaletti rossi, grembiulino bianco, gonna nera e corsetto ricamato e le disse: “Ascolta le mie ultime parole, e ubbidisci alle mie ultime volontà. Prendi questa bambola, è il mio dono per te con la mia benedizione materna; conservala con cura, non mostrarla a nessuno, e nutrila quando ha fame. Se ti troverai in difficoltà, chiedile aiuto, essa ti dirà che cosa fare.”
Ancora Vladimir Propp ci dice che la bambola funge da sostituto della persona morta, depositaria dell’animo del defunto che così continua ad essere presente nella vita dei familiari. In effetti, però, la bambola indossa gli stessi indumenti di Vassilissa, ci viene cioè presentata come una piccola Vassilissa; è a lei che la bambina si rivolgerà per chiedere aiuto e sostegno come fosse una nuova madre ma anche come fosse la sua stessa coscienza. Vassilissa otterrà aiuto se riuscirà a guardare dentro se stessa ossia la bambola che la rappresenta. La bambola-feticcio con le sembianze di Vassilissa è il vero sostegno che rimane alla bambina dopo la morte della madre, potremmo dire che ricorda le matrioske.
“La matrioska è formata da una bambola, detta madre, che contiene un’altra bambola più giovane che a sua volta ne contiene un’altra più piccola e così fino ad arrivare all’ultima molto piccola, non si apre e non contiene nessuno, è detta: il seme. Il seme in realtà contiene il tutto poiché è destinato a diventare Madre. La bambola-fantoccio donata a Vassilissa è il seme, l’essenza della bambina che, alla fine della storia, ormai donna, sposerà lo Zar e quindi, probabilmente, sarà madre.”
Le fiabe, come si diceva, possono esser viste come il ritratto di un popolo; leggere le fiabe russe significa anche addentrarsi in un mondo in cui la natura ha una forza sovrannaturale e l’uomo civilizzato ancora combatte contro la sua parte selvaggia e oscura. Ma resta un mondo ricco di bellezza e poesia e colori sfavillanti, che può ancora incantare con il suo: “C’era una volta e una volta non c’era” sia i grandi sia i bambini.
Oltre che nelle fiabe russe, la ritroviamo anche in quelle polacche, slovacche e ceche, talvolta abbinata a figure di strani ‘diavoli’ che fanno la loro apparizione nelle ‘favole di vita’ con il precipuo scopo di tormentare i morti e in più di qualche occasione anche i vivi. Appartiene al cosiddetto periodo ‘russo-impressionista’ un felice balletto tratto da una fiaba “Petrouchka” (1911) musicato da Igor Stravinskij, che sembra sintetizzare quello che emerge come il tratto più essenziale e decisivo della cultura russa fra Otto e Novecento: l’affermazione dell’io come risposta al tentativo di annichilimento del potere.
Trama. Vi si narra di un vecchio Ciarlatano che presenta al pubblico del suo teatro dei burattini, tre pupazzi animati: Petrouchka, la Ballerina e il Moro, ai quali ha infuso sentimenti umani. Petruchka, che ha maggiormente assorbito tali sentimenti, s’innamora della Ballerina che, a sua volta, è invece rapita dalla fatua bellezza del Moro. La vicenda si trasforma ben presto in tragedia, allorché Petrouchka, pazzo di gelosia ha una violenta lite con il moro e viene da questi decapitato con il fendente della sua sciabolata. Accade però che il pubblico del teatrino, verosimilmente preso dal realismo della vicenda, semplice e potente come sanno esserlo solo le favole, s’impressiona moltissimo. Nello stupore e nell’incredibilità di tutti, il Ciarlatano è costretto a riportare in equilibrio i sentimenti dei presenti, mostrando all’evidenza che il corpo del pupazzo ucciso, in realtà, altro non è che pieno di segatura e la sua testa mozzata nient’altro che un pezzo di legno. Sul finire, il Ciarlatano temporeggia nel far rivivere il fantasma di Petrouchka, il quale ammonisce chi pensa che egli sia effettivamente morto, senza aver prima considerato che la sua anima (il suo spirito) è immortale, e che vivrà per sempre, nell’eterno gioco dell’amore.
La musica di Igor Stravinskij dona alla semplice vicenda narrata una grande vitalità, grazie all’uso di ritmi estremamente incisivi, di allusioni folkloriche sapientemente dosate che ben rendono all’ “efficacia delle parti descrittive” l’atmosfera ricreata del teatrino delle marionette, della folla entusiasta nell’insieme entusiasmante della festa popolare.
“Ah! Ah! Petrushka” (Coro di bambini) “In un tempo già lontan era nato Petrushka Ah! Ah! Petrushka in un tempo già lontan. Quando venne in città s’incontrò con Marussia Ah! Ah! Petrushka in un tempo già lontan. Marussia lo invitò alla festa del doman Ah! Ah! Petrushka in un tempo già lontan. Del buon vin gli preparò bianco e nero e poi cognac Ah! Ah! Petrushka in un tempo già lontan. Ma alla festa non andò il perché non lo si sa Ah! Ah! Petrushka in un tempo già lontan. Piange e implora Marussia ma non l’ode Petrushka Ah! Ah! Petrushka in un tempo già lontan.”
Fanno inoltre la loro apparizione molti animali favolosi, ripresi poi nelle fiabe popolari e fonte di balletti più o meno famosi, opere di carattere folkloristico entrate nella produzione annuale di molte compagnie teatrali. Fra tutte, “Il pesciolino d’oro” e “La Favola dello Zar Saltan” messa in versi da Aleksandr Puskin; “La sagra della primavera” e “L’uccello di fuoco” musicate da Igor Stravinskij: “Lo schiaccianoci” di Petr Il’ic Tchaikovskij; “La Fiera di Sorocinsky” di Modest Mussorgsky ”, ed altre ancora entrate nella tradizione del folklore russo.
“L’uccello di fuoco” (…) musica di Igor Stravinskij Trama. “C’era una volta … un uccello dalle piume splendenti che caduto nelle mani del principe Ivan gli offre una delle sue penne meravigliose in cambio della propria libertà, che il principe gli concede. Successivamente il principe Ivan è a sua volta catturato dal perfido mago Katschei che ambisce pietrificarlo ma egli riesce a mettersi in salvo semplicemente brandendo la penna avuta in cambio dall’uccello di fuoco. Il quale al richiamo del principe Ivan, accorre in sua difesa e addormenta il mago, rompendo così l’incantesimo che lo teneva legato alla sua volontà. Dopo mille peripezie e servendosi dell’aiuto di uno strano lupo grigio, il principe Ivan, va alla ricerca della sua amata, la bella Zarevna, e dopo averla trovata la sposa … e insieme vissero felici e contenti.”
Tutta la musica russa, da quella popolare a quella colta sembra scaturire da una sola univoca sorgente. Si è detto del grande amore per la natura, la terra, le acque, le stagioni, i solstizi e gli equinozi, gli uccelli, i fiori, il miglio e ogni cosa ad essa relegata. Così come molti motivi popolari, sono poi sbocciati nella poesia e nel canto in forma di rievocazioni e suggestioni che hanno trovato un posto nella cultura letteraria, nei drammi teatrali e nei libretti d’opera, come nei romanzi classici di molti autori di tradizione popolare che hanno elaborato una visione del mondo sentimentale e fantastico. Ed ecco già risuonano i campanellini di una slitta che attraversa il villaggio, e come per incanto, ai primi segni del disgelo, arriva il tempo detto di Carnevale, in cui hanno inizio le feste e i giochi intorno al fuoco acceso negli spazi all’aperto. I riti carnevaleschi russi sono ciò che rimane di antichi riti pagani del culto contadino. Il cui rito centrale consiste nell’accompagnare con canti e balli, allegre filastrocche e scherzi, un grande ‘pupazzo’ (eroe, mago, divinità, sovrano ecc.) fatto di paglia e stracci che, alla fine della settimana festosa, viene bruciato e le sue ceneri gettate in un campo, a significare che la sua messa a morte, è propedeutica al suo risorgere a nuova vita.
Come ha scritto uno dei migliori studiosi moderni D. S. Mirskij: “Fra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 nell’ambiente letterario russo l’amore per la fiaba assunse il carattere di una vera e propria infatuazione di massa, allorché svolse un ruolo decisivo nell’evoluzione delle lettere russe, in quanto fu una delle scuole principali di quel ‘realismo’ che divenne in seguito elemento fondamentale della letteratura successiva”.
Non mancano opere letterarie più vicine allo spirito moderno che si siano avvalse di tradizioni e figurazioni fantastiche appartenenti al mondo della fiaba, fra queste cito “Il Maestro e Margherita” (…) di Michael Bulgakov di gusto amaro e demoniaco. La letteratura si è più volte espressa in tal senso, anche se in modo meno aggressivo, relativo al mondo dell’infanzia, caro alla coscienza popolare, in cui la ricchezza delle tradizioni si avvale dell’elemento poetico, come nel ‘racconto’ di anonimo popolare proposto qui di seguito:
“C’è una foresta, la più russa di tute le russie, nelle vicinanze di un piccolo paese chiamato Plakino, dove i bambini amano passare il tempo al gioco più antico del mondo: l’altalena. Alexis vi andava dopo la scuola a rincorrersi con gli altri fanciulli quando, un giorno fu colto di sorpresa da una voce che ripeteva le sue risa e le parole dei suoi compagni e si apprestò ad ascoltarla. Una foresta di voci – pensò. E si mise a cantare. Un coro di voci rispose al suo canto – come una musica che ripeteva l’eco.”
Una leggenda, forse, ma accadde così che nello scambiarsi di alcuni richiami e dal ripercuotersi in lontananza dell’eco – di albero in albero che in seguito, arricchito dai suoni degli strumenti naturali, come il vibrare delle foglie nel vento e il cinguettio degli uccelli canterini, ebbe inizio una delle forme musicali più belle che si conoscano: la polifonia, entrata a far parte del patrimonio musicale popolare russo e non solo: “un prezioso tesoro dell’arte poetico-musicale del mondo intero. Come in molte leggende e fiabe anche le canzoni popolari di estrazione etnico-musicale di estrazione popolare e/o contadina, alcune in voga ancora oggi, sono state tramandate oralmente, sono fatte oggetto di recupero da parte di molti studiosi. Secondo Vladimir Propp queste favole vanno rapportate al ‘totemismo’ dei primordi, a quel culto dell’uomo cacciatore di animali ritenuti sacri o in qualche modo legati alla tradizione popolare da un vincolo soprannaturale, in cui scopriamo l’esistenza di un mondo per così dire ‘parallelo’ invisibile e indecidibile al quale abbiamo accesso solo attraverso il fantastico, dove l’Io si sdoppia nell’l’immaginale e/o il sogno, nell’altro che non è, ma che potrebbe anche essere, proprio grazie alle capacità di sdoppiamento che riusciamo a perpetrare.
In grande considerazione sono i riti di festeggiamento per il ‘rito nuziale’ che assume in Russia la forma di vera e propria ‘rappresentazione’ in onore del più antico rito bizantino consistente nel dare veste giuridica alla promessa al matrimonio, con la quale si eseguivano rituali magici che assicurassero la salute, una lunga vita e una sana figliolanza agli sposi. Per la felice ricorrenza si “recitavano poesie e si levavano canti che non avrebbero alcun significato al di fuori del rito”. (Propp) “Canzone per le nozze”
Da V. Propp “I canti popolari russi” – Einaudi. “Ha suonato la trombetta presto al mattino. / Ha pianto la fanciulla sul biondo treccino. / “Verranno oggi le amiche la treccia a intrecciare. / Domani la mezzana me la verrà a disfare. / Dividerà i capelli in due treccine / avvolgerà le trecce sul capino, / sul capolino la cuffia metterà. / Porta la bella, per l’eternità”.
“Le ragazze da marito portavano i capelli raccolti in una treccia che ricadeva sulla schiena. Le maritate invece due trecce avvolte attorno al capo”.
Gran parte delle espressioni musicali sono ovviamente legate alle danze popolari e molto si deve all’uso degli strumenti musicali tipici della terra russa, sebbene diversi tra loro e di diversa provenienza. In primo piano troviamo la ‘fisarmonica’ adatta per l’accompagnamento di canzoni e ballate. È uno strumento ad aria formato da un mantice e, nei modelli più vecchi (budeon), da una serie di bottoni disposti in file verticali corrispondenti ad altrettanti suoni, la cui diffusione è presente in tutti paesi dell’area europea in numerose varianti di costruzione.
Il ‘gusli’ a due corde, tipicamente russo, è invece uno strumento a pizzico utilizzato spesso nelle orchestre tradizionali in cui domina la ‘balalaika’ uno strumento ad arco di origine tartara, reminiscenza dell’invasione dei Mongoli di Gengis Kahn nel XIII secolo sul territorio. Il suo nome in russo sta a significare in origine “facezia” e/o “scherzo”, indicativo della mancanza della perfezione del suono. Si pensa che la ‘balalaika’ discenda dalla ‘domra’ asiatica, che a sua volta, ritrova le origini del primitivo ‘gusli’ in ragione che ha una corda in più (tre). La forma triangolare può essere di diverse dimensioni e arriva a misurare, in piedi, quanto un suonatore di statura media. Un altro strumento è la ‘bandura’ originaria dell’Ucraina, un grande liuto con le corde fissate a piroli sul manico ed altre dette di ‘bordone’ fissate a piroli sulla tavola.
Antiche cronache riportano che gli slavi dell’Est avevano i loro propri strumenti ad arco, a fiato e a percussione. L’artigiano che li costruiva lavorava su materiali facili da reperire come la corteccia di betulla, per ricavare la sua ‘zhaleyka’, una sorta di corno fornito di un’ampia imboccatura simile al moderno ‘clarinetto’. Una semplice canna per costruire lo ‘svirel’ un tipo di flauto di Pan; del comune legno per il ‘brekly’ simile all’odierno ‘oboe’; e almeno cinque canne di diversa lunghezza per il ‘kuvichki’ fornito anche di un fischietto. Tipiche ‘mazze di legno a cucchiaio’ dette ‘lozhki’ venivano utilizzate come percussioni nell’accompagnamento delle danze, spesso abbellite da piccoli campanellini suonati dagli stessi danzatori.
Ma lasciamoci guidare in una danza tradizionale caucasica dal biografo Gregorio Schncerson che ci ha fornito una vivida versione della danza “Lezghinka” inclusa nell’opera-ballet “Gayne” di Aram Kachaturian:
“Tutte le varianti vengono danzate in costume nazionale, ricco di colori, in modo da sottolineare, quasi all’enfasi, la vita sottile e gli agili movimenti dei ballerini. La donna volteggia lievemente in cerchio, simile a un aleggiante uccello, mentre i suoi gesti provocano gli slanci del suo partner. I ritmi veloci della musica ipnotizzano sia i ballerini che gli spettatori. Grida gutturali e battiti di mani della gente che li circonda accrescono l’agitazione dei ballerini che, ad ogni loro successivo giro di tempo, acquista un’accelerazione improvvisa. Quindi il ballerino si muove in cerchio attorno alla sua partener con grazia mista a confidenza e, tenendo ben stretti i lembi estremi delle sue ampie e svolazzanti maniche dell’abito, allarga al massimo le sue braccia pronto ad avvincerla nell’abbraccio. Dunque, quasi sfiorando la terra con la punta dei suoi morbidi stivali, esegue coi piedi una complessa figura ritmica. Dopo un volo quasi acrobatico in aria, cade sulle ginocchia per rimbalzare di nuovo in aria. La ballerina osservandolo con crescete eccitazione, ora s’avvicina tenendosi sempre più stretta lui, e sempre ballando se ne allontana di nuovo.” Ancora dal “Gayne” è ripresa la “doira” una danza folkloristica dal carattere primitivo. Sembra che tutta la tavolozza timbrico-musicale dell’Armenia si riveli nel suo movimento rigoglioso in cui si possono ascoltare strumenti dal suono decisamente orientale, quali, ad esempio: il “tar” simile alla chitarra; il “duduk” un tipico strumento a fiato; la “komantcha” ad arco simile al violoncello e il “sas” simile all’italiano mandolino: “Quali che siano la sostanza originaria delle musiche strumentali inserite in “Gayne” è sempre rimasta fonte naturale della mia ispirazione” (Aram Kachaturian) Si sarà notato come una delle maggiori difficoltà nel parlare della musica tradizionale stia nel gran numero di gruppi etnici che da sempre compongono la grande anima russa, ciascuno con tradizioni, strumenti e usi propri ma, soprattutto, con grande capacità estro e genialità. L’influenza della musica-popolare nella musica-colta ha permesso a compositori di un certo rilievo di attingere alle tradizioni di diverse culture, prendendo l’elemento popolare non solo come pretesto ma, ed anche, come stimolo creativo. Molto è dovuto all’influenza dei cantori-girovaghi depositari delle antiche tradizioni religiose e culturali di popoli quali Uzbechi, Kirghisi, Calmucchi, Turkmeni, ancora oggi presenti sul territorio, che hanno consentito l’inserimento e la piena evoluzione nel contesto culturale che già verso la fine del IX secolo trovò il terreno fertile per affondare le proprie radici nazionali: uno degli agglomerati musico-testuali più imponenti del mondo. Per quanto sia impossibile tenere qui un più lungo discorso sull’influenza della musica popolare sulla musica colta, sul come ci si sia ispirati alla fantasia popolare o sui prestiti della storia e delle fiabe russe, mi è però possibile elencare alcuni esempi classici che invito il lettore ad ascoltare.
Il primo grande compositore di riferimento è Mikhail Ivanoviìc Glinka (1804-1857) nelle cui opere infatti si ritrova a sfruttare il patrimonio popolare russo, insieme ad una innata genialità. Tra le sue opere “Una vita per lo Zar” e ancor più in “Russlan e Liudimilla”, si rintracciano continui riferimenti a motivi tartari, finnici, persiani dal sapore arcaico di certe usanze rustico-contadine.
Si sa quale ruolo, spesso criticato ma indispensabile, il compositore abbia giocato nell’opera di altri suoi contemporanei come Borodin “Le danze del principe Igor” e “Nelle steppe dell’Asia Centrale”; Ippotitov-Ivanòv di “Schizzi caucasici”, Rimsky-Korsakov della “Favola dello Zar Saltan”; Modest Mussorsgky “La Fiera di Sorocinsky”, come qualcuno ha detto: “..sarebbero rimasti sempre incompiuti”. Si vuole, ad esempio, che i temi contenuti in “La grande Pasqua russa” di Rimsky-Korsakov, a volte severi al pari di una salmodia ecclesiastica, a tratti si rivestano di una liricità e danzante allegria sì da permettere di intendere lo spirito gaio divulgato da Glinka.
“C’era una volta …” si dice, ed ecco risuonano i campanellini dei ricordi, nella culla si addormentano i bambini che siamo stati, si tornano a riscaldare le isbe per un prossimo inverno che di sicuro arriverà, prima o poi, a intrecciare nuovi amori e, come nelle fiabe raccolte da Alexander Nikolevic Afanasiev si sciolgono le legature del grosso volume delle “Antiche Fiabe Russe”. E, come per incanto, tornano a vivere gli animali favolosi, il pesciolino d’oro, la principessa ranocchio; così come le fate, le streghe, gli eroi del tempo che fu. I canti e i balli, i giochi e le scommesse, la vodka e i samovar, gli intrecci amorosi, seppure raccontati e/o sostituiti con quelli più moderni, infine saranno quelli di sempre …
… e ancora una volta, dal soffitto di una isba russa, una ragazza guarderà fuori della ‘finestra bella’ e sognerà del suo “Principe Ivan”, mentre un ragazzo di “Vassilissa la Bella”, o di “Kalinka”, dalla più famosa canzone del repertorio popolare russo: “Kalinka! Palla di neve / rosso fragola / bella fanciulla / quando dunque mi amerai?” Note: (*) Alexander Nikolevic Afanasiev, “Antiche Fiabe Russe”. (*) Ida Accorsi Website: http://www.perlungavita.it/gli-autori-degli-articoli/1013-ida-accorsi / Nel 1968 dopo il matrimonio lascia volontariamente il lavoro per riprendere gli studi e ottiene il diploma di educatore per la prima infanzia, inizia il lavoro negli asili nido comunali modenesi per bambini da 0 a 3 anni . Ora in pensione e nonna a tempo pieno. Appassionata da sempre di Gianni Rodari (giornalista, scrittore e pedagogista premio Andersen nel 1970 - il Nobel della letteratura per l'infanzia) promuove e ricerca le tante fiabe, poesie, filastrocche e racconti dello scrittore per ragazzi che pubblica su una sua pagina Facebook "LA NONNA LEGGE RODARI". Questa attività di divulgazione l’ha messo in contatto con altri gruppi e associazioni, in Italia e all’estero dedicati allo scrittore. La sua ricerca è entrata nel materiale di studio e pubblicazione di un professore brasiliano, di Fortaleza, capitale dello Stato del Ceará, nella regione Nordest del Brasile, insegnante di italiano e ricercatore in materia, presso l’Università di quello Stato, estimatore di Rodari e impegnato nella divulgazione dei suoi scritti in quei paesi. (*) Vladimir Jakovlevič Propp (in russo: Владимир Яковлевич Пропп?; San Pietroburgo, 29 aprile 1895, 17 aprile del calendario giuliano – Leningrado, 22 agosto 1970) è stato un linguista e antropologo russo, poi sovietico. Vladimir Jakovlevič Propp è nato il 17 aprile 1895 a San Pietroburgo da una famiglia tedesca. Ha frequentato l'università della sua città natale dal 1913 al 1918, laureandosi in filologia russa e tedesca. Dopo la laurea, ha insegnato russo e tedesco in una scuola superiore, per poi diventare professore universitario di tedesco. Il suo libro “Morfologia della fiaba“ è stato pubblicato in russo nel 1928. Sebbene esso abbia rappresentato un vero e proprio punto di svolta nello studio del folklore e della morfologia – influenzando Claude Lévi-Strauss e Roland Barthes in Occidente è rimasto per lo più sconosciuto fino alla sua traduzione nel 1958. Struttura narrativa, Vladimir Propp ha esteso l'approccio del formalismo russo allo studio della struttura narrativa: il primo orientamento, infatti, consisteva nello spezzettare le strutture delle frasi in una serie di elementi analizzabili chiamati morfemi; per analogia, Propp adotta questo metodo nell'analisi delle fiabe popolari russe. Smembrando un vasto numero di racconti popolari russi in unità narrative più piccole – denominate narratemi – Propp è stato in grado di estrarre da essi una tipologia, più o meno fissa, di struttura narrativa (lo Schema di Propp). Nel 1932, Propp è diventato un membro della facoltà dell'Università di Leningrado (precedentemente conosciuta come San Pietroburgo). Dopo il 1938, egli ha cambiato il suo campo di interesse, sostituendo la linguistica con il folklore ed è stato a capo del Dipartimento Folkloristico fino a che non è entrato a far parte di quello relativo alla Letteratura Russa. Propp è rimasto un membro della facoltà sino alla sua morte nel 1970.
Id: 2842 Data: 25/10/2021 11:51:37
*
- Musica
Musica Etnica: Il deserto e i Popoli nomadi del Mediterraneo
QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA IL DESERTO E I POPOLI NOMADI DEL MEDITERRANEO
La cultura di ciascun popolo è di per sé affascinante quanto lo è il risultato della sua fusione con le altre culture, a patto che queste risultino altrettanto interessanti sotto l’aspetto artistico, dell’organizzazione sociale, della religione, dei costumi e delle usanze tipiche, viste attraverso la formulazione dell’analisi etnologica. Considerando il profondo abisso che separa la cultura orientale da quella occidentale, è difficile pensare vi possa essere una tale diversità di intuizioni e concezioni tali da sembrare si stia parlando di un ‘pianeta’ diverso, lontanissimo dal nostro. Eppure è così. Un mondo di cui si parla già in una iscrizione del IX secolo a.C. e che durante il periodo medievale ha conosciuto un grandissimo splendore, non solo per le sue conquiste territoriali, ma e soprattutto nel campo della filosofia, della scienza matematica e astronomica, come nell’arte orafa e manifatturiera. Lo storico inglese Arnold J. Toynbee (1) nel suo libro “L’uomo deve scegliere”, sostiene che “il maggior avvenimento del XX secolo è stato l’impatto della civiltà occidentale con tutte le altre forme di organizzazione sociale esistenti al mondo. Fatto questo in ragione del quale ci vede proiettati direttamente alla ricerca etnologica con il modo arabo e, nello specifico, con la cultura afferente alle popolazioni, un tempo nomadi, della fascia costiera del Mediterraneo che dal Maghreb si spinge fino al Medio Oriente. Altrettanto è quanto affermato da Raymond Firth (2) la cui analisi dei contatti culturali e dei mutamenti sociali, attribuisce un peso notevole agli effetti della moderna tecnologia industriale …
“Ciononostante, anche se le sue influenze possono essere sostanziali e, sebbene le comunità locali, possano essere costrette a legarsi a strutture economiche, politiche e religiose esterne, i gruppi di ‘piccole entità’ (ad esempio tribali) tendono a conservare molti elementi culturali locali. Rimanendo per lo più attaccati alle cose consuete, del vivere comune, come la preparazione del cibo, il modo di dormire e salutare, il riconoscimento dei simboli appartenenti al loro gruppo, gli interessi che danno significato alla loro identità comunitaria.”
Tuttavia, senza addentrarci nelle differenze filosofiche e religiose, delle quali potremmo non finire mai di parlare, se prendiamo in considerazione la cultura araba nel suo insieme, possiamo facilmente riscontrare alcune diversità da quella occidentale. A incominciare da un certo ‘risveglio’ culturale e religioso che in tempi recenti, dopo il decadimento protrattosi per secoli, oggi conosce anche un risveglio artistico-culturale che va dalla comunicazione visiva, relativa alle esigenze estetiche che investono l’intera tradizione che contraddistingue il popolo arabo nel suo insieme. Trattasi di un agglomerato di popolazioni diverse oggi unite dalla stessa identità islamica e musulmana che ha sostituito il termine ‘arabo’, derivato dal plurale ‘arab’ che li contraddistingue in quanto ‘nomadi’ abitanti del deserto. In realtà il termine è stato in genere usato (e abusato) per indicare qualunque musulmano di razza semitica la cui lingua si è poi fusa nell’Islam nel periodo della sua massima espansione, esortando le popolazioni “ad assimilare piuttosto che essere assimilate” …
“Dipende da loro prendere l’iniziativa di scegliere, tra gli aspetti del pensiero e della prassi occidentale, quelli che ritengono meglio adattarsi ai propri collaudati modi di agire e di pensare.”
Un concetto questo affermato e sostenuto da personaggi di rilievo quali Leopold Sedhar Sengor, poeta e filosofo del Senegal, dal Mahatma Ghandi e il leader nero Martin Luther King per esortare i ‘fratelli’ non solo africani, sia quelli delle minoranze indiane nelle loro reazioni alle nuove forme di acculturazione. Tantomeno il termine ‘musulmano’ finì col riferirsi non a una specifica nazionalità, nonostante il comune patrimonio linguistico-culturale, intendendo con ciò la sola lingua classica, cioè l’arabo e tutto ciò che ruotava attorno al modo di vivere, notevolmente variegato, secondo la diversità dei popoli geograficamente interessati. Alla base del patrimonio culturale comune di questi popoli sta dunque la ‘lingua’ utilizzata nella comunicazione quotidiana e pressoché dovuta all’espansione araba al tempo del profeta Maometto e, successivamente alla sua morte, all’adozione di una stessa lingua, pur senza necessariamente soffocare le lingue autoctone dei singoli popoli assimilati, seppure nell’alternanza di periodi di grandi fortune e periodi di decadenza che influenzarono non poco i popoli autoctoni. La conquista araba del territorio avvenuta nel VII secolo, iniziata con il profeta Maometto, dapprima sostenuta con enfasi ‘spirituale’ trovò una fase d’arresto verso Oriente solo davanti a Costantinopoli e si concluse a Occidente con la resa di Poitiers, avvenimento che segnò la definitiva suddivisione delle tre religioni monoteistiche: l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam. Ma com’era ovvio che accadesse, l’avvento dell’Islam influenzò moltissimo le religioni pre-islamiche sul territorio, che a sua volta assorbì elementi delle varie culture nel riconoscimento delle loro tradizioni etniche arcaiche. Ciò per quanto l’influenza islamica assicurò una certa omogeneità di costumi e l’assimilazione di una comune tradizione diffusa su tutti i territori conquistati. La caratteristica più nota del mondo arabo è indubbiamente il Sahara, la cui espansione desertica abbraccia tutta la fascia mediterranea dell’Africa settentrionale, dall’Arabia Saudita all’Egitto, alla Libia e al Marocco, di cui occupa una parte considerevole del territorio. Un deserto a tratti roccioso interrotto da vaste zone formate da dune sabbiose punteggiate qua e là da oasi verdeggianti. Le estati sono lunghe e asciutte, gli inverni miti e piovosi, con brevi periodi intermedi in autunno e primavera. Pertanto le popolazioni che abitano le diverse zone pianeggianti e quelle che vivono le regioni montuose presentano abitudini e costumi che differiscono molto tra loro e danno luogo a una grande varietà di organizzazioni sociali. Non in ultimo la creazione di frontiere e nuove esigenze politico-economiche hanno trasformato molti dei popoli che vivono sul territorio, un tempo tipicamente nomadi, in sedentari. Il nomadismo è oggi infatti praticato solo da una minoranza per lo più dedita alla pastorizia, i cui mezzi di sussistenza molto dipendono dall’allevamento di pecore e capre, o di cammelli e asini che poi vendono e/o scambiano con le popolazioni sedentarizzate che li utilizzano nei lavori domestici o, come avveniva in un tempo non troppo lontano, se ne servono per il trasporto nelle lunghe traversate del deserto. Il processo di sedentarizzazione dei nomadi, nonostante i tentativi fatti dai governi degli stati ufficiali, non ha portato a una loro scomparsa definitiva, per quanto abbia accelerato enormemente la loro trasformazione in contadini, anche se una grande maggioranza di essi abbia accettato di vivere all’interno di villaggi urbanizzati. Acciò rimane che i nomadi abbiano mantenuto un assetto tribale, i cui membri sono uniti dalla discendenza da un antenato e/o capo-famiglia comune, costituente un’unità importante all’interno delle scelte politico-organizzative ed economico-sociali, nonché religiose che difendono, in certi casi, fino allo stremo.
Alcuni gruppi nomadi infatti continuano a vivere in tende di pelo di capra o di cammello agli estremi bordi delle grandi città e delle zone coltivate site ai limiti del deserto, spostandosi alla continua ricerca di pascoli, pur mantenendo uno stretto contatto con i popoli sedentari, con i quali scambiare, secondo l’antico metodo del ‘baratto’, bestiame e altri manufatti e ricevendone in cambio generi di prima necessità. Ciò, per quanto, fatto questo da non sottovalutare, la vicinanza con il deserto offra loro una facile via di evasione verso le oasi più lontane, verso una ‘psicologica’ libertà da tutto e da tutti, intimamente sentita, propria della loro interazione con il ‘grande vuoto’ che il deserto rappresenta. Una reciprocità che influenza ogni momento della vita dei nomadi …
“..una immensa distesa di sabbia, solo apparentemente arida e inospitale, in cui abbandonare la propria anima al cospetto dell’universalità di Dio”. Il deserto del Sahara è una superficie apparentemente interminabile che dà asilo a una popolazione di non più di un milione e mezzo di persone, la cui storia è scritta sulla sabbia ovviamente condizionata dalle variazioni climatiche dell’habitat in cui vive. Va qui considerato che l’urbanizzazione odierna e la considerevole industrializzazione, e in particolar modo lo sfruttamento petrolifero, hanno sottratto al deserto spazi un tempo territorio esclusivo delle popolazioni nomadi che, tuttavia, sono riuscita a sfruttare piccoli appezzamenti di terreno situate ai bordi delle oasi disseminate lungo le piste carovaniere, onde trovare dove pascolare i loro animali. Uno dei primi esploratori di questa desolata immensità che è il Sahara, riferisce di una razza di ‘predoni nomadi’ Tuareg (3), una razza berbera di abili guerrieri tutt’ora quasi inaccessibili, che a causa della loro riconosciuta empietà erano chiamati ‘Tavarek’ ossia ‘uomini abbandonati da Dio.’ Più recentemente si è attribuita ai Tuareg così detti ‘Uomini blu’, l’accezione di nomadi dediti alla razzia, per quanto in passato fosse un’attività ritenuta regolare che dei ‘nobili guerrieri’ dovessero procurarsi di ché sopravvivere per loro, le proprie famiglie e per i loro animali. I Tuareg sono berberi originari del Tassili, un massiccio di roccia friabile alla frontiera tra Algeria e Libia e/o in parte dell’Hoggar e le catene montuose più piccole come l’Air e l’Adrar des Iforas, appartenenti quindi, al contrario degli arabi veri e propri al ceppo linguistico camitico, ritenuti i discendenti dai più antichi abitanti dell’Africa settentrionale. Dacché le invasioni arabe si scagliarono contro le tribù berbere della Libia fino alla Mauritania, i Tuareg in fuga trovarono riparo nel ‘grande vuoto’ del deserto, scomparendo agli occhi dei loro assalitori, che li additarono col nome di ‘popolo misterioso’, tuttavia restando i padroni incontrastati del Sahara, temuti assalitori di chiunque si addentrasse nel loro sterminato territorio. In seguito i Tuareg si dedicarono per gran parte, agli scambi commerciali, ed ancor oggi le poche tribù ancora esistenti, vivono quasi esclusivamente di commercio. Dopo l’occupazione di Timbuctu essi dominarono la parte centrale del corso del fiume Niger, fino alla definitiva sottomissione all’amministrazione francese dei territori algerini ottenuta non senza difficoltà, e che lasciò ai Tuareg alcune particolari concessioni, inoltre al riconoscimento di una ‘nobiltà di casta’.
In quanto segno di distinzione fu concesso a tutti gli uomini Tuareg di portare il tradizionale pugnale alla cintola, mentre solo ad alcuni, i capi riconosciuti, è lasciato di portare la sciabola del comando con l’impugnatura e il fodero di cuoio lavorato. Durante le manifestazioni tradizionali e le festività calendariali se ne vedono di bellissime con rifiniture d’oro e d’argento, abbinate agli scudi di pelle di orice, una specie di antilope che oggi sta scomparendo. Ciò vale per le tende che trasportano durante i loro spostamenti, le selle dei cavalli e dei cammelli, i finimenti di fruste e borse d’uso comune che spesso raggiungono un livello di altissima qualità manifatturiera, allo stesso modo delle placche di metallo e i monili in uso, realizzati con originale ricercatezza artistica, entrati a far parte integrante del costume Tuareg da tempo immemorabile, per quanto non se ne conosca l’origine. Gli studiosi desumono si tratti di una delle più misteriose costumanze che si conosca, forse legata alla religione arcaica di questo popolo, unico nel suo genere, detentore di un alfabeto scritto detto ‘tifinag’ (4). desunto, secondo alcuni studiosi, dalla più antica scrittura punica, una scrittura che annota solo le consonanti. È singolare che esso sia oggi conosciuto soltanto dalle donne che, con la parola ‘tamashek’ indicano l’insieme dei dialetti berberi (tuareg, tamahaq, tamajeq, tamasheq) parlati dai diversi gruppi. Oggi si contano non più di 3.000/4.000 Tuareg politicamente distribuiti fra Algeria, Libia, Valle del Niger e nel Mali.
Originariamente di culto ‘animista’ come molti popoli preislamici convertiti all’islamismo relativamente tardi, le popolazioni berbere hanno assimilato superficialmente la religione musulmana conservando all’interno di essa alcune delle loro credenze, quale ad esempio, quella degli ‘andgelousen’, una specie di angeli, e quella nei ‘dijnn’ una sorta di spirititelli maligni che vivono nelle rocce e negli alberi isolati. Superstizioni che hanno permesso loro di adempiere a una religiosità frammista di animismo e di atti simbolici che li accomunano a una dichiarata ‘empietà’ e/o a una ‘generosità’ di tipo universale, sociale e collettiva insieme, sottolineata da strani aspetti singolari. Come, ad esempio, al ritorno dai loro lunghi e assai pericolosi viaggi attraverso il deserto, usano donare parte della loro mercanzia, talvolta frutto di razzie, a parenti e amici in forma di regali e/o prestiti che portano a un complesso sistema di obblighi reciproci. Va inoltre riconosciuta ai Tuareg una diversità fisica dalle altre popolazioni arabe, infatti sono alti di statura e snelli come gazzelle, scuri di pelle ma non neri come gli africani, adeguatisi alle alte temperature del deserto che d’estate salgono oltre i 50° gradi centigradi sulla sabbia, mentre sulla roccia raggiungono i 75°/80° gradi. Acciò, utilizzano accorgimenti cosmetici che li difende dal sole cocente, e un vestiario che li protegge dalla seccura dei venti. Gli uomini indossano pantaloni rigonfi di cotone blu o nero, sorretti da una cintura di cuoio colorato finemente decorata, un’ampia camicia bianca di puro cotone, e una svolazzante ‘gandura’, un mantello lungo che gli scende fino ai fianchi. Nella regione montuosa del Nord e i massicci rocciosi dove le gelate notturne sono più frequenti, gli uomini indossano il ‘kashabir’ di lana a strisce nere o marroni e un enorme ‘burnus’ una sorta di mantello con cappuccio di pelo di cammello. Ma ciò che più colpisce nell’abbigliamento Tuareg è il velo portato da tutti gli adulti. Si tratta di una striscia di tessuto bianco o nero lunga cinque metri che essi drappeggiano attorno al capo fino alle spalle, in modo da lasciare libera soltanto una stretta fessura per gli occhi. Fasciatura che diventa blu indaco per i guerrieri Tuareg che la indossano nelle ricorrenze più importanti e che balugina alla luce del sole con un luccichio violaceo quasi metallico, da cui il mito degli ‘uomini blu’. L’appellativo che li riveste di un alone di mistero è dovuto al colore indaco dei veli con i quali i Tuareg si coprono il viso, e che stingendo a contatto con la pelle, dona ai loro volti e alle barbe degli adulti il colore bluastro che li distingue. L’uso del ‘velo’ maschile ha certamente un’origine pratica che non esclude, nel modo di indossarlo, una preminenza rituale. Nell’attraversare il deserto ci si rende conto della sua necessità di difendersi dall’aridità dell’aria durante la stagione più calda. Tuttavia, la sua sistemazione è diversa secondo le occasioni. Alla presenza di estranei al proprio gruppo, ad esempio, l’assetto dato al velo è particolarmente complesso, fatto in modo da coprire quasi completamente gli occhi ma in modo da lasciare loro la possibilità di bere senza mostrare le labbra. Sugli occhi sia gli uomini che le donne Tuareg, ma più in generale tutti gli arabi dell’Africa settentrionale, portano i segni del ‘Khol’, un estratto vegetale che incupisce maggiormente lo sguardo ma che mantiene integra la sua azione rinfrescante e protettiva. Le donne Tuareg indossano una sorta di camicione nero con una striscia dello stesso tessuto sul capo, fermata da un peso che scende sulla spalla e che di solito è la chiave decorata della borsa portata dai cammelli. Lo stesso può dirsi per le più benestanti, appartenenti alla casta privilegiata dei guerrieri, che invece indossano uno scialle color indaco al posto di quello solito di colore nero. Uomini e donne portano sandali di cuoio finemente decorati e attorno al collo una sorta di astuccio con all’interno una o più frasi del Corano, il Libro sacro dei maomettani. Un altro aspetto non meno rilevante della ricerca fin qui avanzata, afferente all’etnomusicologia araba preislamica è indubbiamente l’avvenuta fusione con quella islamico-musulmana. Sebbene le tribù berbere, abitanti le catene montuose, hanno conservato proprie caratteristiche nella costruzione e nell’uso di alcuni strumenti tipici ancora oggi in uso. Come, ad esempio, l’‘inzad’, una sorta di violino a una sola corda, la cui cassa di risonanza è ottenuta tendendo la pelle su una valva di recipiente cavo; un altro strumento in uso è un tipo di ‘tambura’ formato da una pelle tesa sul mortaio per il grano, entrambi utilizzati per l’accompagnamento nei canti e nelle danze esemplari.
Altri strumenti utilizzati sono il ‘santur’ (anche: santûr, santoor, santour, santouri o santîr) è uno strumento musicale iraniano, diffuso in tutto il Medio Oriente; il ‘tar’ un particolare strumento persiano a sei corde simile al liuto che viene suonato con un piccolo plettro d'ottone, aveva normalmente cinque corde, la sesta venne aggiunta dal grande musicista iraniano Darvish Khan. È consuetudine assai comune nelle adunanze e nelle sere passate sotto il cielo stellato davanti al fuoco dell’accampamento, cantare accompagnandosi al suono di uno strumento a fiato come il flauto di legno o con il semplice battimani per dare ritmo alla danza. Una di queste è dette ‘danza degli Aurès’ e prende il nome dal massiccio montuoso dell’Algeria orientale dove è conosciuta da gran parte dei popoli del Mediterraneo.
Come nella maggior parte delle culture dei paesi che affacciano sul Mediterraneo e in parte in Arabia, culla dell’Islam, si è conservata una naturale predilezione per la cosmesi sia maschile che femminile, la sua prima citazione è rintracciabile in un passo del Corano, in cui il profeta Maometto vede per la prima volta le Uri del paradiso islamico, descrivendole “...di una bellezza raffinata rappresentare quanto di più bello esiste sulla terra …”.
Scrive il noto cosmetologo Paolo Rovesti (5) nelle cui opere fornisce molte informazioni a riguardo, e alle quali si è qui attinto a piene mani: “Fin da tempi immemorabili l’Islam fu celebrato per i suoi cosmetici e profumi, quali la mirra, l’incenso, la cannella, il nardo, che venivano esportati dalla Sabea in tutto il mondo antico, l’antico paese preislamico corrispondente allo Yemen attuale che diede il nome alla famosa regina di Saba”.
Ben sappiamo come “in Arabia inoltre che in Etiopia e particolarmente in Egitto e in Turchia, il frequente uso di bagni odorosi da sempre hanno avuto una qualche rilevanza religiosa, come ad esempio, nelle abluzioni, nelle aspersioni e nelle fumigazioni rituali. Negli harem come nei ginecei, fino ai più attuali hamam e nelle odierne saune, la cura del corpo assume tra gli arabi una forte rilevanza nell’utilizzo di profumi, gomme idrosolubili, allumi astringenti, oli e creme di bellezza della pelle”. Della ‘bellezza’ si legge nella letteratura araba accreditata fin dall’antichità, a iniziare dal poeta persiano Firdusi (6) il quale nel suo “Libro dei Re” parla di quanto l’uso di prodotti di bellezza esalti i valori estetici dell’amata …
“Sotto le tue mani, le tue labbra e le gote s’avvivano / i tuoi occhi s’approfondiscono, se io t’amo così come sei / quanto, dimmi, te ne dovrò volere dopo?”.
Scrive il poeta persiano del sufismo Ibn El Nakib (7) alla sua donna: “Di un punto di rosso color sangue / ella ravviva il rosa delle sue labbra. / Di una crema odorosa di gelsomino / ella ammorbidisce la seta delle sue guance. / A me, che l’attendo oltre il ruscello, / la brezza porta il profumo incantato / di lei, sempre più bella”.
Come nella maggior parte delle culture, anche qui l’ornamento raggiunge il suo culmine nella manifattura di gioielli e nei preziosi capi d’abbigliamento in occasione del ‘matrimonio’, uno dei più importanti avvenimenti della vita comune. Al pari di un ‘grande spettacolo popolare’, questo avviene in gran pompa e vi partecipa gran parte della popolazione …
“La sposa, col volto, mani e piedi sapientemente dipinti, si adorna di tutti i gioielli accumulati in dote, ed anche di quelli che le numerose famiglie della tribù d’appartenenza mettono a sua disposizione, i cui membri giungono da ogni parte per prendere parte ai festeggiamenti”. (cit. Rovesti)
Le spose arabe di condizione benestante arrivano ad ornarsi con tatuaggi, dipingendo con l’henné molte parti del proprio corpo inoltre alle mani e le piante dei piedi ornandoli di preziosi anelli e monili, e dipingendosi le unghie con smalti colorati, in aggiunta all’uso di proteggersi con amuleti porta-unguenti e astucci porta-rossetti manufatti in cuoio e/o in filigrana d’oro e d’argento, ricchi di cesellature e lavorazioni di un gusto assai ricercato …
“Le donne in generale, tengono ai capelli, noti per la loro lucentezza ottenuta con oli di papavero, di cotone e di sesamo, nonché con l’uso di alcune emulsioni detergenti semigrasse. Il contrasto tra il turbante e i veli chiari e il nero ebano dei capelli conferisce bellezza e fascino alla loro persona. Inoltre, si truccano gli occhi con il ‘Khol’, già citato per gli uomini, e a volte si dipingono il volto con polvere d’ocra che dona loro un innaturale splendore”. (cit. Rovesti)
Mentre gli uomini tengono moltissimo alla barba che curano in modo particolare arrivando a giurare su di essa e, pertanto, si sottomettono a cure speciali, inoltre all’uso di profumare gli abiti con l’incenso che lascia agli indumenti un sentore di freschezza; le donne utilizzano “In genere le profumazioni usate sono per lo più distillati di fiori”. Acciò è interessante ricordare che la distillazione fu descritta per la prima volta da Avicenna (8), un medico e filosofo musulmano nativo persiano che, con l’alambicco, ottenne la prima essenza di rose. […] Negli antichi ricettari arabi è affermato di poter mantenere belle le donne, con pelle giovanile e fresca sino alla più tarda età”. (Rovesti)
Come riporta ancora il prof. Paolo Rovesti: “Una simpatica tradizione è conservata fra i maghrebini, così detta ‘dei venditori di fumo’. Questi particolari individui hanno libero accesso in tutte le case sia berbere che arabe, così come negli attendamenti dei nomadi berberi, con i loro incensieri e i loro profumi aromatici, e per pochi soldi offrono la profumazione degli ambienti d’uso comune che compiono in chiave rituale. Gravi e seri, questi putiferi ambulanti, impongono tacitamente la loro merce, comparendo in una nuvola di fumo iniziale d’incenso e benzoino. Essi appartengono a una setta di filosofi che nelle volute azzurrate del fumo, simbolo dell’oblio, dispensano un piacere olfattivo che giudicano importante per la gioia dello spirito. Quindi se ne vanno avvolti in una nebbiolina azzurra dopo aver saturato ogni luogo di gradevoli profumazioni riprendendo il loro andare e dispensare altro piacere e altre illusioni”.
Come ha rivelato uno dei ‘venditori di fumo’ intervistato …
“In un ambiente sanificato e profumato si vive meglio, si ama meglio, si sogna meglio. Un buon profumo conduce verso valori estetici eterei, surreali, accentua l’euforia, immerge il corpo in un bagno aereo di bellezza, di benessere e di piacere”.
Uniti da caratteristiche etniche simili, derivate dalla fusione di popoli un tempo dediti al nomadismo, e che oggi occupano le coste dell’Africa nord-occidentale comprese tra il Mediterraneo e il Sahara, nell’area più conosciuta come Maghreb, costituiscono un crogiuolo di razze diverse, in quanto commistioni successive in prevalenza turche ed europee. Siano essi berberi o beduini, maghrebini /mauri o arabi, la cui discendenza dalle tribù nomadi del passato, quasi tutti restano amanti del loro isolamento e della loro indipendenza. Seppure oggi vivono in insediamenti urbani relativamente recenti, molti di essi hanno conservato un forte legame di discendenza da un loro unico antenato, anche se lontanissimo, dal quale, verosimilmente hanno ereditato la terra, i nomi, le usanze e le consuetudini, ossia i valori fondanti la comunità. Contrariamente a quanto sta accadendo in Occidente, dove si tende alla famiglia mononucleare che esclude persino i parenti un tempo considerati ‘prossimi’ e/o ‘diretti’, in questi stati, sia i nuclei famigliari considerati sedentari che quelli nomadi e semi-nomadi si considerano uniti da vincoli di parentela, anche se assai deboli, di cui vanno particolarmente fieri.
Fortemente attaccati ai loro tradizionali costumi patriarcali, seppure questi differiscano da tribù a tribù, in particolare i nomadi delle oasi per cui l’agricoltura è alla base della sopravvivenza; e quelli che vivono spesso isolati perché arroccati sulle montagne, attribuiscono all’istituzione famigliare valori profondi, divenuti d’appartenenza di ogni singola comunità. Di fatto le comunità riconoscono la linea ereditaria maschile e il capofamiglia gode di una notevole autorità. Da sempre, mentre gli uomini sono impegnati nei lavori agricoli e all’allevamento del bestiame, le donne arabe sono per lo più dedite alla tessitura dei tappeti, esperte nell’uso della filatura e della coloratura di cui detengono un primato significativo e che ha raggiunto un alto livello artistico. In special modo, hanno padronanza dei diversi significati dei disegni utilizzati nella simbologia artistico-creativa afferente al culto religioso, diversa per i tappeti ‘da preghiera’ da quelli di uso comune, nonché nel replicare alcuni tappeti per così dire d’‘autore’ molto richiesti sul mercato interno ed anche da quello Occidentale.
Oggi assistiamo al rifiorire di un maggiore interesse per le arti e per i mestieri manifatturieri legati alle tradizioni, così come al recupero della musica cosiddetta ‘classica’ degli antenati, fatta di pochi strumenti suonati in a-solo e di quella d’accompagnamento alle danze tipiche, al tempo stesso ricca di sonorità diverse e talvolta entusiasmanti quando suonate in ‘ensemble’, dalle orchestrine nelle parate ufficiali e ‘in-concerto’ durante le feste calendariali; se bene il progressivo sviluppo e l’emancipazione in corso abbiano portato una certa commistione degli stili musicali in favore di quelli occidentali, avviandosi verso grandi contrasti sociali …
L’importanza delle feste è data dalla lettura della ‘sūra’ relativa nel Corano ad ognuna delle 114 ripartizioni del Libro; ogni ‘sūra’, a sua volta, si divide in ‘āyāt’ o versetti ai capitoli del libro sacro musulmano. L’usanza vuole che l’uomo si rechi in Moschea almeno il venerdì, mentre in molte parti del mondo arabo le donne pregano soltanto in casa. La festa ha inizio con la preghiera del mattino nella moschea dove si raccolgono in preghiera numerosi i fedeli e si cantano inni religiosi. Quindi si fa visita alle tombe dei propri defunti e solo in seguito gli uomini tornano a unirsi alla famiglia per la colazione e per dare inizio ai festeggiamenti dove vengono regolarmente consumati i dolci devozionali preparati in gran quantità e si beve il tradizionale tè alla menta. Inoltre al più conosciuto ‘Ramadan’, quelle più seguite sono ‘id al-Fitr’ che mette fine al mese di digiuno, e ‘id al-Adha’ durante la quale si commemora l’episodio in cui, secondo la religione islamica, Abramo sacrificò un montone al posto del figlio Ismaele, ritenuto il capostipite delle tribù arabe.
Per l’occasione delle feste “le donne, spesso assai belle, dagli occhi brillanti e la carnagione nocciola più o meno scura, usano trattare i propri capelli con l’henné, una pianta dal potere colorante di rosso. Ogni donna tiene in modo particolare alla propria acconciatura tribale del proprio gruppo etnico: le donne berbere, ad esempio, portano una specie di cono nei capelli, mentre le donne beduine per rialzare la massa dei capelli usano grandi trecce di lana che aggiungono all’acconciatura che stringono intorno alla testa”. (cit. Rovesti)
In rispetto alla festa le donne indossano i loro costumi tradizionali, questi sono per lo più in tinta unita arricchiti con guarnizioni e frange damascate, con aggiunta di un gran numero di monili, talvolta veri e propri gioielli in filigrana d’oro e d’argento a forma di medaglia o dischi incisi, del tipo usati per le cerimonie di matrimonio. Alla vestizione è inoltre praticato il tatuaggio in segno della maturità sessuale degli individui diverso per le donne da quello degli uomini, la cui reputazione è un segno non solo attitudinale quanto di vicendevole rispettabilità. Così avviene per recarsi al mercato che le compere vengono per la maggior parte fatte dagli uomini. D’altro canto, quando di giorno gli uomini sono fuori, le donne si scambiano visite fra loro, ma, ad esempio, nei paesi più tradizionalisti le madri di famiglia compiono queste visite in gruppo, in ogni caso le visite troppo frequenti sono disapprovate.
Allo stato attuale delle cose le donne arabe indossano il ‘chador’, il velo che ricopre la testa e il viso. La religiosità islamica obbliga specificatamente la donna di nascondere il proprio corpo ma non di coprire il volto. Tuttavia in alcuni paesi il velare il volto è rigorosamente in uso, dove il costume vuole che la donna porti oltre al velo una maschera di tessuto sul volto. Ciò è legato al concetto di ‘onorabilità’ famigliare e di pudore femminile, che proibisce alle donne di avere qualsiasi contatto che non sia di breve durata e il più superficiale possibile, eccetto con il proprio marito e i parenti più prossimi, anche se con il cambiare dei costumi nazionali di alcuni paesi, anche la vita sociale sta rapidamente cambiando. Un esempio pratico è qui dato dal fatto che prima delle recenti riforme avvenute in alcuni stati, i mariti potevano divorziare a proprio piacimento, se pure la legge civile oggi lo sconsiglia e, in certi casi, lo proibisce. Quanto fin qui detto è decisamente voluto, in quanto oltre a una risvegliata coscienza nazionale, valida per alcuni stati moderni, vuoi per gli effetti degli incontri delle politiche sociali su scala internazionale, vuoi per gli scambi culturali tra oriente e occidente alla base del reciproco progresso religioso, filosofico, artistico e scientifico, assistiamo oggi a una globalizzazione che consente di smussare certe diversità e ostentazioni verso un arricchimento spirituale profondo.
Come abbiamo avuto modi di leggere, il modo arabo, è un ‘pianeta’ di indubbi contrasti seppure non necessariamente insormontabili, oggi messo davanti a una svolta decisiva, quella di dover affrontare cambiamenti repentini e la possibilità di perdere la propria identità culturale. È questo uno dei tanti motivi delle lotte che infieriscono in molti paesi, dove si fronteggiano due opposte concezioni di vita: la tendenza verso il nuovo e l’attaccamento ai propri valori ancestrali a quanto pare irrinunciabili.
Note: 1) Arnold Joseph Toynbee è stato uno storico inglese. Appartenne alla corrente britannica dello storicismo diffusasi nella seconda metà dell'Ottocento e che vide in Toynbee uno dei suoi massimi esponenti. Tra i suoi libri vanno citati “The study of History” - Oxford University Press 1934; “Civiltà al paragone” – Bompiani 1948; “L’uomo deve scegliere” – Bompiani 1988; “La rivoluzione industriale” – Odradeck 2004. 2) Raymond William Firth è stato un etnologo neozelandese. Fu professore di Antropologia alla London School of Economics, e si ritiene che abbia creato da solo una forma di antropologia economica britannica. Il risultato del lavoro etnografico di Firth, ha permesso di capire che il reale comportamento delle società (organizzazione sociale) è separato dalle regole idealizzate del comportamento all'interno di società particolari (struttura sociale). Tra le sue opere: “Noi, Tikopia”, Laterza – 1976; “Alcuni principi di organizzazione sociale”, in L. Bonin, A. Marazzi (a cura), Antropologia culturale, Hoepli, Milano, 1970. 3)I Tuareg o Tuaregh sono un gruppo etnico, tradizionalmente nomade, stanziato lungo il deserto del Sahara. La lingua tuareg e le sue varietà sono dialetti del berbero. 4) Tifinag è la scrittura dei tuareg, popolazione berbera del Sahara. La scrittura discende dalle più antiche forme di alfabeto libico-berbero, già attestate nelle iscrizioni libiche del I millennio a.C.; propriamente, tifinagh è il plurale di tafineqq, termine di uso più raro, che indica una sola lettera di tale alfabeto. 5) Paolo Rovesti, biologo, cosmetologo, italiano prof. Emerito della Sorbona, ha svolto ricerca sui cosmetici dei popoli primitivi, studi sulla cosmetica antica e sui profumi. Noti sono i suoi libri in collaborazione con Gianpiero Bonetti: “Alla ricerca dei cosmetici perduti “– Blow-up 1977; “Alla ricerca dei profumi perduti” - “Blow-up 1980 e “Alla ricerca dei cosmetici dei primitivi” - Blow-up 1977. Tre libri enciclopedici che ripercorrono le tappe della etnologia della cosmesi ma anche delle canzoni e delle poesie dedicate alla ‘bellezza’. 6) Hakīm Abol-Ghāsem Ferdowsī Tūsī, più noto nella traslitterazione Firdusi, Ferdowsi, o Firdowsi, è il maggior poeta epico della letteratura persiana medievale, forse il più celebrato poeta persiano. Fu autore dello “Shāh-Nāmeh”, “Il Libro dei Re” - Luni Editrice 2020, è la grandiosa sistemazione poetica, nella lingua letteraria della Persia dell’XI secolo, del patrimonio epico-storico dell’Iran, anteriore alla conquista araba e all’islamizzazione del paese. Una saga e una cronaca insieme, che riconduce in uno schema dinastico l’intera storia della civiltà persiana, dai più remoti miti cosmogonici, attraverso leggende e tradizioni orali, fino alla protostoria e alla storia della Persia preislamica. 7) Abū Sa῾ī´d ibn Abī l-Khair è un Mistico poeta persiano (Maihana, Khorāsān, 967 - ivi 1049). Fautore della corrente panteistica persiana del sufismo; in poesia, è uno dei primi autori di quartine (rubā'iyyāt) allegoriche, ove le effusioni mistiche sono presentate sotto immagini erotiche e bacchiche. Incluso nel libro “Poesia d’amore turca e persiana” – Epidem 1973. 8)Ibn Sinā, alias Abū ʿAlī al-Ḥusayn ibn ʿAbd Allāh ibn Sīnā o Pur-Sina più noto in occidente come Avicenna, è stato un medico, filosofo, matematico, logico e fisico persiano. Le sue opere più famose sono “Il libro della guarigione” 1025 e “Il canone della medicina”1027 - UTET.
Nota d’autore: Per una migliore comprensione dell’assetto musicale dei popoli citati, sono presenti sul mercato discografico numerosi album in vinile e CD, purtroppo non facilmente reperibili, indicativi per una classificazione della musica araba nel contesto etnomusicologico di base.
Id: 2841 Data: 24/10/2021 17:30:24
*
- Libri
Le periferie esistenziali - nuovo libro di Eraldo Guadagnoli
'Le periferie esistenziali' il nuovo libro di Eraldo Guadagnoli – Vincitore del Premio Letterario Nazionale 'Emozioni Tra Le Righe 2020' – Daimon Edizioni 2021 Omettendo lo studio analitico della trama di questo romanzo più o meno storicizzato dall’autore, è rilevante l’intento di rintracciare nella storia patria delle nostre regioni le tante ‘storie altre’ smarrite nel tempo. Ciò che, pur mantenendo una sorta di realtà affabulatrice, non hanno marcato la letteratura ufficiale, perdendosi nei meandri dell’oralità successiva alle epoche di riferimento. Qui l’autore rintraccia un fil rouge che dal 1700, “muovendosi dalla misteriosa provincia di Benevento, fino agli angoli affascinanti dell’Abruzzo meno conosciuto”, riaffiora in superfice cinque secoli dopo, all’incirca ai nostri giorni, fornendo uno stretto legame che avvicina il testo narrativo alla leggenda, la cui verità storica egli traduce in narrazione fantastica. Ma un’altra realtà tuttavia affiora dalle pagine del romanzo che si rivela altrettanto valida e che il lettore dovrebbe tenere in considerazione, l’omissione di alcuni particolari inerenti alle tradizioni folkloriche di provenienza regionale: vuoi per le carenze delle fonti ufficiali, vuoi per le limitatezze intrinseche alle lingue orali dei luoghi originali elaborate all’uopo dall’autore, che altresì si evidenzia e si ricrea sulla scia dell’antica ‘magica’ fluorescenza del mito. È così che dalle ‘periferie esistenziali’ della narrazione orale prende avvio la parabola comunicativa dell’autore. Come riferisce Alessandra Lopardi nella Prefazione al libro – “Il tema del viaggio come metafora di costruzione di un percorso che va oltre, cattura l’attenzione e porta a seguire la vicenda dall’interno creando suspense e interesse; i temi della scoperta delle radici, del passato che si riscopre e colora di nuove prospettive il tempo, toccano tematiche della ricerca di risposte e prospettiva, immanente e trascendente”. Siamo qui messi di fronte alla sintesi più disparata che va dal giallo storico, al romanzo d’avventura, dall’impatto emozionale al relativismo incalzante; come è stato detto in altre occasioni, è infine il lettore a dare l’importanza dovuta al proprio leggere: dalla caratterizzazione dei personaggi, all’affermazione sintattica del proprio modo, alla determinante ‘finzione’ della propria immedesimazione. “Il tempo della ricerca – scrive ancora Alessandra Lopardi – è scandito sul piano psicologico da incontri che completano e arricchiscono il percorso: l’amicizia, l’amore e le conoscenze che accompagnano le vicende narrate. […] Tanti e tali sono i riferimenti a Pietro da Morrone – che diverrà poi il celeberrimo Papa Celestino V – ai Templari, alla Via Francigena e alle crociate in Terra Santa che l’opera può a pieno titolo essere inserita nell’abruzzesistica templare. […] Perché il viaggio tratteggiato in questo incredibile romanzo è un po’ il cammino di tutti noi, la scoperta dell’antico, della preziosa valenza del passato da cui non si può prescindere e della necessaria spinta al futuro che muove l’animo umano”. Non nuovo al genere giallo Eraldo Guadagnoli si è presentato al pubblico dei libri con un ‘primo’ romanzo thriller dalla trama sottile intitolato “Scacco al re” Cavinato Editore 2016, inscenando una trama a incastro come appunto accade, in questo suo ultimo da stravolgere l’intero impianto la cui ultima mossa decisiva, quella a sorpresa che si svolge appunto nell’Epilogo di questo libro... Cosa c’è di vero nella leggenda di un cavaliere tornato dalla Terra Santa? Quali segreti nascondono le pergamene mai trovate e sepolte in una biblioteca di un convento di monache di clausura? Per quali ‘segreti’ motivi una reliquia proveniente dalla Terra Santa non è mai stata menzionata nella Storia? Queste le molteplici domande cui il libro avalla alcune risposte ad una storicità sfuggente abilmente orchestrata da ben altri fautori, all’interno delle pagine sfogliate, in cui il lettore è chiamato a sciogliere l’intreccio man mano che s’accresce la sua conoscenza dei fatti, con l’autodeterminazione a voler ‘essere’ autore della storia narrata. Dal canto suo l’autore, Eraldo Guadagnoli, si affida a una scrittura lineare in cui il fattore tempo è gestito autonomamente, dall’enfasi che impiega per arrivare in fondo, per poi scoprire che il suo coinvolgimento era già previsto. Ovvero, andando alla ricerca della ‘Verità’ e questa volta lo fa con la dovuta determinazione che gli è valso il Premio Letterario 'Emozioni tra le righe' 2020. L'autore: Eraldo Guadagnoli è nato a Sulmona (AQ) nel 1974. Dopo gli studi classici, consegue il Master in Editoria presso l’Istituto di Formazione Superiore Comunika di Roma e inizia a collaborare come editor per diverse case editrici. Dopo il suo primo romanzo “Scacco al Re” del 2016, è la volta de “Il colore dell’inganno” per i titoli della Virginia Edizioni 2017; e “I Pentacuminati” 5 Storie di (dis)ordinario mistero, una raccolta di racconti Daimon Edizioni 2019.
Id: 2831 Data: 15/09/2021 17:57:20
*
- Poesia
In ricordo di Giuseppe Greco ... poeta
In ricordo di Giuseppe Greco.
È con sincera commozione che partecipo oggi alle le esequie funebri del giovane poeta Giuseppe Greco presso la chiesa San Filippo Neri a Grottammare (AP) presentato agli amici de Larecherche.it con la silloge poetica “Soffio di parole” - edizioni Nicola Palumbi 2019: Di un 'fluf' risuona lo spostamento d’aria nel voltare pagina quando già ‘soffi di parole’ spingono nuvole bianche verso un indefinibile orizzonte, ove la linea di demarcazione si altera verso un al di là che invita al discernimento …
Come un soffio di parole / la mia ispirazione / mi entra nell’anima / e mi fa scrivere pensieri / che non so dire / che mi colorano il cuore.
Di Giuseppe Greco riporto qui di seguito le sue ultime parole espresse nella lirica “dedicata a chi trova rifugio nello scrivere” e quindi a tutti noi ‘ospiti della rivista letteraria’ che ci gratifica nella poesia:
Tu mio sangue …
scrivi come se non ci fosse un domani ti guardo commosso perché vivi l’amore come un sogno, dal quale non ti svegli e del quale vivi succube, vedi la passione come un tramonto senza fine. Ti chiamano illuso ma prima dovrebbero parlare con il tuo cuore e capire le sue parole, quanti silenzi celavano l’attesa di un suo gesto mentre dedicavi versi cullati da lacrime mute. Un suo sguardo o Una sua parola, ma poi … mai nessuna bugia fu più amara di una mezza verità detta con l’illusione di non ferirti ma stille di sangue escono dai tuoi occhi perché sai quella verità, che un’illusa pensa di conoscere meglio di te. Ti incontri con l’incerto perché sai che la verità è piena d’amore ma rifletti e capisci come nessuno, non l’amore è incerto ma Ciò che nutro verso di te lo è. Amore e sofferenza Fanno l’amore e tu, mi sangue sei il loro talamo. La penna è una missione tutta l’arte lo è e dietro questo dolore c’è il poter dire con le parole quello che gli altri guardano nel silenzio.
Mi piace inoltre ricordare alcune frasi che inviava a centinaia di suoi fans ogni mattina con l’augurio di un felice giorno e l’invito a guardare avanti ...
Guardo l’orizzonte e / vedo sogni lontani che aiutano / i miei sogni di vile realtà. / Un viaggio di coraggio, barattato con il sudore […] siamo nell’incertezza, / cullati dal desiderio. / […] / Vedo la Terra davanti a me / ma ho l’acqua alla gola, / ora vedrò i miei sogni, / ora finalmente vedrò.
E vedrò anche oltre, nel cedevole emisfero della luce, a che il pieno giorno eguaglia le ore dell’immenso e del sublime ch’è in ognuno di noi, allorché fruga negli spazi interstiziali delle tenebre che l’attendono ...
Ti aspettavo … / Tra le spire del dubbio / osservo i miei progetti, / e una pioggia d’idee / cade sui miei pensieri / non ancora stanchi, / possano i giorni e / le mie urla si fanno più forti, / la mia casa brucia / guardando le spire della frustrazione ma / vedo una luce, / un uragano che divora l’incendio, / ora le mie parole hanno trovato la strada, / ora la mia casa si apre all’accoglienza.
C’è un momento nella vita, / in cui sei solo, / davanti a uno specchio / che riflette, quel buio / che vorresti tenere lontano. / Ma arriva la luce, / è un fuoco fatuo che / ti guida nelle tenebre e / ti fa scoprire passi di luce, / cammina perché il sentiero è lungo / … lungo come la vita.
È del silenzio, il soffio interstiziale dell’avvio che si ripete, dall’inizio alla fine, come di ossimoro legato al verso, al senso e al suo contrario poetico, libero e/o arbitrario dell’immaginale ...
Davanti a me soltanto le parole, / con le quali riesco a raccontarmi, / loro non mi chiedono niente, / soltanto semplicità, / sono lo specchio che segue i miei passi. / Di un cammino che è una dolce danza, / che nasce con un ‘soffio’ che la scuote.
I miei passi / su quel velluto verde / che accarezza i miei piedi, / quando scorgo / l’ombra di un bosco, / (di cipressi) / come punte di lancia / in un silenzio bianco (accecante di luce) / (quale) esercito in fila / pronto a cedere il passo / al calpestio dei piedi / nella marcia a ritroso / senza né vinti né vincitori / di un teatro di guerra / ch’era soltanto tranquilla apparenza.
C’è qualcosa di più nei momenti narrativi, lunghi nell’attesa dei giorni di Giuseppe Greco che ... come un bruco diventa / farfalla pitturata / di felicità che sorge / come di un’alba / e riposa soltanto / con la notte quando / tutto si spegne, / ma il buio è soltanto attesa e / poi si ricomincia.
Un poi che trasforma la sua grande voglia di vivere in ‘certezza’ del domani, che accoglie in se ogni tempo: passato, presente, futuro, come di clessidra che basta voltare perché la sabbia torni a segnare ogni singolo momento di vita vissuta, esperienziale, vertiginosa e/o obnubilata da un’eclissi che pure c’è stato, ma che nessuno avrebbe potuto immaginare. Come di un ‘fluf’ per la caduta della goccia nello stagno della memoria liquida che inzuppa di nero inchiostro la pagina bianca aperta sul diario dell’esistenza, e che del vivere segna la fine.
Acciò, proprio quando un altro bagliore, improvviso, viene a rischiarare il mondo, a muovere ... passi che non conoscevi / dopo anni d’attesa / sentirti vivo e ora / giunto il momento / ora puoi essere te, / quel te che ha vissuto, / celato nelle tue false certezze.
Quel che rimane, infine, non è poca cosa, la vita lo dimostra continuamente, ci basti sentire, quando l'abbiamo sotto i piedi “..la strada della vita, / così piena di (tante) corsie / di decelerazione.
Quella diminuzione della velocità di un corpo nell'unità di tempo che ci è dato di vivere...
Ma noi, fermi / sul bordo della strada, / ad aspettare un passaggio (che a volte non arriva) / e non sentiamo / che abbiamo gambe / che ci sorreggono / e piedi mai fermi. / Che l’unica benzina di cui hanno bisogno / è la tua voglia di fare, di esserci. / (Allora) Il vuoto, il bianco, l’apatia, la tristezza,” / (che cosa sono?) / se non il viluppo della forza che scema, che chiede linfa di nuova vita ...
... o forse solo di rinnovato amore.
L’autore.
Giuseppe Greco nasce a San Benedetto del Tronto (AP) il 10 luglio 1974 e dopo aver frequentato l’Istituto Professionale si diploma nel 1995. Nonostante i problemi di salute che lo costringono su una sedia a rotelle, s’impegna a riempire la sua vita con vari ‘passatempi’ tra cui la scrittura che è sempre stata il suo grande e veritiero amore.
Da sempre è alla ricerca di qualcuno disposto a leggere le sue opere ma, soprattutto, cerca qualcuno che creda in lui e in ciò che scrive.
Altre pubblicazioni: Giuseppe Greco “Piccoli pensieri” – Montedit 2003
Id: 2828 Data: 08/09/2021 18:47:15
*
- Musica
Come Again di Danielle Di Majo e Manuela Pasqui
A voler parlare di Jazz …
È pressoché detto di una ‘imperscrutabile perfezione’, tale da sembrare una contraddizione in termini, in cui tuttavia il Jazz contemporaneo, introduce al profumo ipnotico d’una sequenza di note che forzano gli spazi interstiziali, ‘senza-audio’; e che invade con gli accordi simultanei delle vibrazioni ‘al femminile’: epidermiche di corde tese, di ottoni altisonanti, di sistri immaginari di un trascorso che disconosciamo … non solo perché supera in profondità ctonia o in altezza stratosferica quanto è dato ascoltare ma, in quanto unisce, avvolge e compenetra il silenzio all’armonioso viluppo del tutto. Una qualità che dimostrano ben pochi strumentisti Jazz nell’affrontare le tematiche che si propongono, allorché spaziano voluttuosi e/o lascivi in tutto ciò che va oltre l’idea della consonanza, di quella conformità che spesso rende il Jazz al maschile ‘illeggibile’ all’orecchio dell’ascoltatore: vuoi per eccesso di virtuosismo talvolta fine a se stesso; vuoi per un difetto coitale che affretta la conclusione d’ogni ‘pezzo’ (brano) eseguito … sì da lasciare basito l’artista benché attratto nell’immaginario dilettevole del suono prodotto dal proprio personalissimo ‘stile’ che lo distingue.
“Gli artisti non hanno quasi mai cognizione della propria arte […] perfino gli artisti più celebri del mondo”. (*)
Va considerato, inoltre, il ‘suono’ e/o la ‘voce’ propria di ogni singolo strumento, allorché viene personalizzato in un ‘corpo-a-corpo’ con l’esecutore stesso che ne assume così l’identità. E cosa c’è di meglio di misurarsi con una musica coinvolgente, ‘a tutto tondo’, che si conforma con l’ascoltatore, e il cui richiamo introduce e/o re-introduce assonanze del passato-remoto a confronto con il presente-futuro, al fine di unico di restituire alla musica l’amore e l’entusiasmo di una passione esercitata nel tempo … anni in cui l’artista ha maturato la sua personale ricerca. È questo il caso di un album/cd B.I.T. Back in Time dal titolo “Come Again” di recente immissione sul mercato discografico che vede due eccezionali strumentiste Danielle Di Majo (alto e soprano sax) e Manuela Pasqui (piano), alle prese con brani insoliti quanto insospettabili, presi dalla tradizione e dalla produzione di celebri compositori, trasposti in un Jazz raffinato ed elegante, esclusivo, da veri intenditori, che si spinge dai ‘pianissimo’ essenziali di Manuela, fino a ‘lontananze’ inusitate o, se vogliamo, a certe ‘solitudini’ nello spirito del ‘melos’ vocale. Ciò per quanto riguarda le ‘voci’ del sax di Danielle che, per effetto di scelte mature, ha abbandonato l’aggressività del Rock-duro per rivolgersi al Jazz-puro, in cui la suggestione, trasferita nel suono, si traduce qui in emotiva affabulazione in alcuni brani quali: “L’amour me fait commencer une chanson” del compositore medievale Thibaut de Champagne, “Cagnaccio” della stessa Danielle; “Come Again” di John Dowland, nonché il preliminare “Canone” di Pachelbel, e le cantabili “Lasciatemi morire” e “Sì dolce è il tormento” entrambe riprese, cosa inaspettata, dalla copiosa produzione di Claudio Monteverdi. Nonché, e sorprendentemente, fanno parte di questa raccolta decisamente Jazz, “Bunessan” acquisito dalla tradizione scozzese delle ‘carols’ natalizie, e il brano firmato dalla stessa Manuela Pasqui, “Della mancanza e dell’amore”, in cui il piano assume valenza cosciente dello ‘spirito’ del suono. Quasi una consacrazione filosofica a quella che possiamo ben definire ‘musica concettuale’ … in quanto espressione della contemporaneità degli intenti jazzistici, attivi nella più recente progettazione musicale di molti artisti:
“L’amore per la musica, la tenacia e l’entusiasmo di suonare insieme, sono le forze che ci hanno spinto e guidato nel realizzare questo nostro progetto” – hanno dichiarato le entusiastiche interpreti dei questo concept-album targato Filibusta Records, registrato a Roma all’Arcipelago Studio - Dicembre 2020. (*) Note di copertina:
(*) Executive Producer – Filibusta Records – info@filibusta records.com
Id: 2826 Data: 04/09/2021 04:05:18
*
- Libri
Ken Follett Kingsbridge Trilogy
Ken Follett Kingsbridge Trilogy "I pilastri della terra" - "Mondo senza fine" - "La colonna di fuoco"
Ken Follett non ha certo bisogno di presentazioni, il suo libro "I pilastri della terra" (2007) e i successivi "Mondo senza fine" (2007) e "La colonna di fuoco" (2017) seguiti dal prequel "Fu sera e fu mattina" (2020) prepotentemente presenti sugli scaffali delle librerie, devono certamente qualcosa alla straordinaria versione cinematografica di Ridley Scott presentata in esclusiva per Sky Cinema (2010) nella trasposizione televisiva lunga 8 ore e costata 40 milioni di dollari per il solo primo dei titoli. Uno dei romanzi/saga più letti nel mondo (14 milioni di copie vendute), ambientata nell'Inghilterra del XII secolo, attorno alla costruzione di una maestosa cattedrale a Kingsbridge, progetto che scatena una feroce guerra di potere, perché. come ha spiegato lo stesso Follett "per ciascun personaggio è il simbolo di una diversa aspirazione". Ciò, non tanto per rinverdire un successo letterario strepitoso, quanto per ripercorrere lo "straordinario" contenuto medievalista dei romanzi quanto per segnalare la necessità di tornare a una maggiore cura dell'io narrante a vantaggio di un colloquio con ciò che la scrittura ha di più intimo e sensibile. In cui lo "straordinario" è soprattutto inteso come "memoria storica", "immaginazione visiva", di quel "rincanto" che in sociologia ha significato di recupero della fase storica in cui viviamo, troppo spesso dismesso o assente dal linguaggio e dalla scrittura odierna. Non di meno come reazione all'instabilità del mondo contemporaneo che, almeno per noi lettori, serve ad addolcire gli effetti alienanti delle odierne megalopoli, nonché prodotti dagli odierni media e dalla massificazione tecnologica.
Come per l’appunto scrive M. Longo promovendo una riflessione che dai classici (Durkheim, Weber, Simmel) attraversa tutta la ricerca sociologica del Novecento (Parsons, Horkheimer, Adorno) fino a promuovere nel dibattito attuale l'ipotesi che, "mentre la prima modernità ha prodotto un'immagine disincantata del mondo (Weber), in quella contemporanea si manifestano "rincanti" che rendono più tollerabile per il singolo la crisi delle certezze e l'instabilità dei punti di riferimento".
La scrittura e la lettura dei tre romanzi di genere "medievale" concepiti da Follett nel loro insieme, affrontano qui tematiche a tutto tondo, quali le guerre, le passioni, le speranze degli uomini nell'Inghilterra del XII secolo, intorno alla costruzione di un’imponente cattedrale che, come "un sogno di pietra che si staglia contro il cielo", si traducono in monumento letterario che va oltre il contesto narrativo per restituire alla memoria ciò che è stato. Qualcosa che verosimilmente l'autore ricrea exnovo, rileggendo e reinterpretando la storia in chiave fantasy, come archeologia futura, in quanto repertorio d’immagini già immaginate, che va a sostituire l'immaginario con l'immaginazione, in un registro creativo, personale, realisticamente immaginato. Si è qui coinvolti nell'enfasi di un insieme romanzato rivolto appunto al recupero della memoria, lì dove la memoria è meno prevedibile e meno motivata dall'esigenza razionale, rispetto all'intelligenza e all'azione. Così come la memoria – scrive Asor Rosa: “...è, oltre che inesplicabile, anche inesauribile, possiede la conoscenza del passato, ma ha anche memoria di sé: persone, oggetti, cose di cui ognuno fa esperienza. (...) Se i tempi della vita sono: presente, passato e futuro, quello della memoria, è invece la simultaneità, che coincide con l'identità. Il nostro "non tempo", va arricchendosi sempre di nuovi particolari in cui immaginazione e realtà si mescolano, e attraverso le quali l'uomo non fa che costruire, decostruire e ricostruire se stesso".
Quale mescolanza d’immaginario e realtà, la memoria storica va comunque tutelata, sia che miri a ottenere risultati oggettivi contrastanti, sia che ponga obiettivi determinati come appunto accade in questa trilogia. A incominciare dal primo tomo “I Pilastri della Terra”, in cui l’autore ci restituisce la storia rivisitata e filtrata dalla memoria che si fa racconto, dispiegandosi liberamente senza frapposizione di ostacoli. Infatti, la memoria storica, reale o verosimilmente ricreata, ha molti rimandi oggettivi quanto letterari, come ad esempio ci permette di ricordare una straordinaria Mostra sul duomo di Modena vista nel lontano luglio '84 (a cura di Claudio Franzoni), intitolata "Quando le cattedrali erano bianche", dall’omonimo libro di Le Corbousier del 1937, in cui il grande architetto affermava: "Nel corso degli anni, mi sono sentito diventare sempre più un uomo di dovunque". Superfluo aggiungere che lo sguardo del celebrato architetto, il cui testo consacrava il lirismo logico del suo essere creativo, non era rivolto solo al mondo dell'architettura, anche se esso, costituiva per lui una pietra di paragone, un messaggio sociale, una profezia capace d'interpretare le speranze di rinnovamento di un'intera civiltà, per la frequente contrapposizione storica tra il vecchio e il nuovo continente. Tutto ciò è quanto mai attuale se applicato al tempo in cui l'Europa tutta riorganizzava le arti e i mestieri dietro l’azione imperativa di una tecnica di costruzione completamente innovativa, e gli uomini erano piuttosto artisti che non semplici plasmatori di materia.
Materia che riempie le pagine dell'altro tomo "Mondo senza fine" e il successivo …. di cui già il cinema si è appropriato, con buon auspicio per l'autore. Che è poi quanto ricorre in tutti i romanzi di Follett, dal medioevo fino a ieri, cioè fino a quando la costruzione dell'uomo (e della società) sembra essersi fermata, prima di ritrovarsi all'interno di una rievocazione storica in chiave mystery, ricca e attenta, incentrata sulla mistica sospensione dell'amore, quasi da sfiorare l'inverosimile per la ricercatezza degli orpelli e l'ordine estetico. In questo, i sequel cinematografici, sono un po' carichi e fin troppo "limpidi" nel volerlo dimostrare ma, comunque, artisticamente validi. Pur se, diversamente, va detto, nei suoi romanzi la “saga d'amore” assume una dimensione epica che va dall'Inghilterra medioevale, nel tempo della costruzione di una cattedrale gotica, per giungere, con la stessa infallibile suspense che caratterizza tutti i suoi thriller, è da ricercare nella la sua folle corsa contro il tempo.
È in questa dinamica della corsa dietro la fugacità del tempo che si registra quel "mi sono sentito diventare sempre più un uomo di dovunque" detto da Le Corbousier in cui, anche noi, di fronte alla costruzione, (impossibile), della grandiosa cattedrale (della vita), finiamo per ritrovarci davanti a quel re-incanto che è la costruzione stessa dell'uomo, nel ripetersi di quel primitivo prodigio originario ricevuto nel momento della creazione: il re-incarnarsi individuale cosmico nella crescita e nella sua evoluzione, con i suoi sentimenti e gli intrighi, i pericoli e le minacce, le guerre, le pandemie e le carestie, i conflitti religiosi e le lotte per la successione di troni, in un periodo storico che oso definire "esemplare" dell'avventura e della sopravvivenza umana. Lì dove l'uomo-faber infine si è imposto e ha creato la sua civiltà, la sua gabbia dorata, e ha trovato la sua redenzione nell'elogio dell'altro. E che, alla stregua di tanta arte, evidenzia una storia di ambizioni e di coraggio, di dedizione e tradimenti, amori e vendette, ove si scontrano le segrete aspirazioni e i sentimenti dei protagonisti, di quegli uomini che verosimilmente compiono la storia. È sullo sfondo di questo tempo, che oso definire del re-incanto, che tuttavia si sovrappone al tempo del timor-sacro, onde il voler evidenziare l'incertezza che spinge paradossalmente tutti noi, a pensare il tragico, a incontrare e vivere la morte solo come una persistente assenza inconfessabile quanto inaccettabile.
Allo stesso modo in cui pure accadeva in "Il nome della rosa" di Umberto Eco, (il primo grande capolavoro del genere), nella trilogia romanzata di Follett si respira l'integrazione della morte come il migliore e l'unico modo per esorcizzare il tragico, rappresentato dalla sublimazione artistica, per cui l'impostazione creativa va oltre quanto offerto dalla quotidianità, per superare di gran lunga la forma letteraria, sospingendosi inesorabilmente verso il pensiero virtuale odierno. Pensiero che tuttavia è capace di far esplodere nuovamente il mito, e mostrare il re-incantamento del mondo, come un mix di gesta leggendarie dove cavalieri e dame di corte sono protagonisti di gesta eroiche, quasi a voler indicare che è proprio questo nostro essere ludico, giocoso del bambino che muove le marionette, che in fondo anima la nostra vita quotidiana, e che ha nome: destino.
Ken Follett (*), pseudonimo di Kenneth Martin Follett (Cardiff, 5 giugno 1949), è uno scrittore britannico.
Considerato uno dei più grandi narratori al mondo, ha raggiunto la prima posizione del New York Times best-seller list con molti dei suoi romanzi, tra cui Il codice Rebecca, Un letto di leoni, Mondo senza fine, La caduta dei giganti, L'inverno del mondo, I giorni dell'eternità, La colonna di fuoco e Fu sera e fu mattina. Due dei suoi libri, I pilastri della Terra e La cruna dell'ago, sono stati inseriti nella lista dei 101 best seller più venduti di tutti i tempi, rispettivamente al 68º e al 92º posto. Ha venduto più di 150 milioni di copie nel mondo, ed è uno dei più ricchi e famosi giallisti britannici della storia. Nel 2018 è stato insignito dell'onorificenza di Comandante dell'Ordine dell'Impero Britannico (CBE) per i suoi servizi alla letteratura.
Successivamente torna al genere del romanzo storico con Mondo senza fine (2007), sequel de I pilastri della Terra. Nel 2010 pubblica La caduta dei giganti, primo capitolo della cosiddetta "Century Trilogy" (la trilogia del secolo), che ripercorre i principali fatti storici del Novecento,[12] dall'incoronazione del re Giorgio V del Regno Unito fino alla caduta del muro di Berlino. Il secondo volume, intitolato L'inverno del mondo è uscito nel 2012, mentre la terza ed ultima parte, dal titolo I giorni dell'eternità, è stata pubblicata nel 2014. Nel settembre 2017 torna ancora nell'Inghilterra medievale con l'uscita de La colonna di fuoco, terzo libro della serie di Kingsbridge. Il 15 settembre 2020 è stato pubblicato il prequel de I pilastri della Terra, intitolato Fu sera e fu mattina.
(*) Wikipedya
Id: 2824 Data: 26/08/2021 04:57:29
*
- Libri
Se un giorno d’estate ... Italo Calvino
Se un giorno d’estate … Italo Calvino Una rilettura necessaria, una recensione impertinente. Liberamente dedotta dal romanzo “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, Arnoldo Mondadori Editore 1979. È lui. Non è lui. Credo di sì, è proprio lui. L’uomo in tuta che mi sorpassa di corsa per la strada, sta facendo jogging. Per un momento ho creduto fosse lui, aspetta dov’è che l’ho visto? Ma forse non l’ho mai visto. Eppure ho la sensazione di averlo già visto da qualche parte? – mi chiedo. No, altrimenti l’avrei riconosciuto a prima vista. Aspetta, sarà perché col sudore negli occhi non metto facilmente a fuoco. Mi fermo, aspetto che passi di nuovo. Di solito chi fa jogging ripercorre lo stesso percorso: da qui a lì e ritorno, da lì a qui il circuito cambia solo di prospettiva, il sentiero che si snoda fra gli alberi del parco, il piano, la finta collina che sale e che ridiscende e di nuovo il sentiero – stavolta dritto nella mia direzione. Lo aspetto. Certo che è lui. Non è lui… ma sì lo scrittore Italo Calvino. Senta, è lei o non è lei? … No, sa perché volevo dirle… – non si ferma. Continua accelerando il passo nella corsa. Lo inseguo per un breve tratto. Finalmente rallenta colto da un breve colpo di tosse – si ferma. Quando mi avvicino riprende imperterrito la corsa. Buongiorno! – esclamo raggiungendolo. Mi scusi, non volevo disturbarla. Lo ha appena fatto. Mi scuso ansimando per il fiato grosso … lei non sa quanto le sono grato. Non saprei dirgli per cosa – per fortuna non me lo chiede. Sa, ho letto il suo ultimo libro, vorrei capire … Una panchina. Ci fermiamo. Mi siedo per primo, quando avrei dovuto aspettare che si sedesse prima lui – solo perché è arrivato per primo. Non sempre chi arriva per primo dev’essere il primo in ogni altra cosa. Di fatto, da secondo smarrisco il tema della conversazione. Mi riprendo. Come le dicevo ho letto il suo libro “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, e a un certo punto mi sono perso. Già, in quale punto? – mi chiedo … che fosse alla stazione mentre aspettavo il treno. No, quello è all’inizio del libro. Di quale libro se uno dentro l’altro, alla fine, i libri sono così tanti che solo ad elencarli provo la vertigine da omissione mentale che non mi permette di ricordarne i titoli. Eppure c’è un punto in cui … ecco, sono davanti agli scaffali della sua ipotetica Libreria Universitaria cercando il libro di un autore sconosciuto. Ma se è sconosciuto come posso trovarlo? – mi chiedo. Ovvio, se non ricordo il nome dello scrittore perché sconosciuto, dovrei sapere almeno il titolo del libro che sto cercando. Il conquibus rasenta l’incapacità di raccapezzarmi all’interno di una sì ampia libreria, dove a venirmi incontro sono i dorsi di migliaia di libri incastrati negli scaffali, di migliaia di autori sconosciuti, di titoli impossibili da ricordare – che fare? Mi scusi, esiste una lista? Sicuramente c’è da qualche parte, basterebbe appenderla all’inizio dello scaffale. Certo ma di quale scaffale, iniziando da destra verso sinistra o dall’alto al basso, che va dalla A dell’abbecedario all’ultima consonante Z – come si compongono nell’odierno Dizionario – oppure? Tutto sta in quell’oppure che rientra nell’infinito labirinto delle parole usate dall’autore di “Se una notte d’inverno un viaggiatore” che, se non lo avete letto, non leggetelo. Ne vale l’incolumità della vostra mente che, ottusa-mente, si sofferma a voler comprendere ciò che non è dato sapere, se non l’astrusa (paranoica) volontà di incastrare situazioni possibili/impossibili racchiuse, come in una scatola cinese. Per poi svelare al lettore che si tratta di un gioco delinquenziale incastrato nel mistero occulto della parola. Quella parola di cui noi tutti, da sempre, andiamo alla ricerca del senso. Benché trattasi di un mosaico di preziose allocuzioni verbali, esortazioni arcane, arringhe filosofiche per ogni situazione – più che mai valide ancora oggi. Il lettore assiduo di romanzi che sfoglia per la prima volta questo libro inconsueto, ben sa che a sua volta sarà preso nella trama inesistente, nel tessuto di quel “Il sentiero dei nidi di ragno”, dal quale non potrà sfuggire l’affabulazione dei suoi costrutti, delle sue incoerenze come delle coerenze, delle consistenze dei significati nascosti e palesi, degli assidui riferimenti storici e letterari – come in un compendio di un sapere ‘grande’ – accurato, definitivo. O, forse, non poi così definito, ma nell’accezione di composito, variegato e multiforme – eclettico (?). Sa che quel treno in partenza non arriverà mai a destinazione perché da sempre è fermo nella stazione delle sue “Città invisibili”, e da sempre arriva dove gli è concesso arrivare …“Insomma, è preferibile tenere a freno l’impazienza e si aspetti ad aprire il libro quando sei a casa. Ora sì. sei nella tua stanza, tranquillo, (si fa per dire), apri il libro alla prima pagina, no, all’ultima, per prima cosa vuoi vedere quant’è lungo. Non è troppo lungo, per fortuna.” Distante dal concedere alcuna tregua l’autore de “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, alias Italo Calvino, mi trascina in luoghi a me sconosciuti, oltre il parco, oltre il sentiero che si snoda fra gli alberi – ben oltre la mondanità degli scrittori di best-sellers attuali che, prima o poi, si fermano in una qualche stazione evidenziata sulla mappa stradale d’una qualche città – qualunque città: New York, Singapore, Tokyo, Roma, Londra, Parigi, Amsterdam, Istanbul, Dubai … uguali l’una all’altra – tutte anonime allo stesso modo. In ognuna di esse vive, o forse pensa di ‘vivere’, un ammasso abnorme di gente conforme, omologata quanto ‘invisibile’. Sostenuta dalla speranza di un possibile/impossibile riscatto dalla schiavitù in cui volutamente soggiace – e che giammai sarà diversamente. Quand'ecco egli non si concede, non mi sta a sentire, riprende la corsa. Non vuole saperne delle mie domande incongruenti, sbiadite, perse fra le pagine del suo libro “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Eppure ero certo che le avrebbe trovate interessanti. Anche se adesso, fra le tante, non ricordo più quali fossero “…davanti agli accattivanti meccanismi di attesa ch’egli prepara ogni volta con stupefacente maestria, e che perfidamente si rifiuta di soddisfare” (*). È così che insieme al filo ho perso anche il segno, il treno sul quale sono giunto fin qui. Il nesso che mi conduce da un libro all’altro, da un vagone all’altro, è sintomatico della dimensione del tempo … “I romanzi lunghi scritti oggi forse sono un controsenso: la dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non a spezzoni di tempo che s’allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono. La continuità del tempo possiamo ritrovarla solo nei romanzi di quell’epoca (di ogni epoca) in cui il tempo non appariva più come fermo e non ancora come esploso, un’epoca che è durata su per giù cent’anni, e poi basta.” Ma come, solo cent’anni? Senza altra continuità? E quelli che devono ancora passare? – mi chiedo. Sì tutti quei treni che affollano tutte le stazioni dei treni, lì dove tutto inizia e verosimilmente tutto finisce – come in questo romanzo … “Il romanzo comincia in una stazione ferroviaria, sbuffa una locomotiva, uno sfiatare di stantuffo copre l’apertura del capitolo, una nuvola di fumo nasconde parte del primo capoverso. … Le stazioni si somigliano tutte; poco importa se le luci non riescono a rischiarare più in là del loro alone sbavato, tanto questo è un ambiente che tu (lettore) conosci a menadito, non è forse così? Con quell’odore di treno che ti resta addosso anche dopo che tutti i treni sono partiti, l’odore speciale delle stazioni dopo che è partito l’ultimo treno. Le luci della stazione e le frasi che stai leggendo sembra abbiano il compito di dissolvere più che di indicare le cose affioranti da un velo di buio e di nebbia – tutto mescolato in un unico odore che è quello dell’attesa.” O forse che è quello dell’assenza? Già, l’assenza. Come parlare di un “margine d’indeterminatezza e di provvisorietà” cui non sappiamo dare forma, colore. In cui tutto si amplia e sfoca come dietro un vetro appannato, in cui tutto si riduce e svanisce dentro lo sbuffo di vapore di quella dannata locomotiva che nella corsa esclude ogni possibile immagine – ogni nostra convinzione di limpidezza. Ciò che manca, infine, e/o che viene a mancare, non è in ciò che crediamo, ma in ciò cui vogliamo credere – anche se non ci crediamo. Come di un ponte sospeso nel vuoto, sul vuoto della nostra incertezza, della nostra illusorietà che di volta in volta sbiadisce col passare del tempo – e la paura di “guardare in basso dove l’ombra s’addensa” … Siamo ad una svolta, allorché l’autore fa dire alla donna delusa, uno dei tanti personaggi che riempiono le pagine del libro: – “I romanzi che preferisco, sono quelli che comunicano un senso di disagio fin dalla prima pagina…”. Per quanto, va detto, che il disagio in qualità di lettore, lo si percepisce dalla prima all’ultima pagina – un’ansia trasmessa dal ritmo intermittente del treno sulle rotaie – ta-tata-tatà-traaash – pari allo stridore metallico che talvolta fa raschiare i denti al viaggiatore e che lo mantiene sveglio per tutto il tempo. Specialmente di notte quando tra un dormiveglia e un altro, la mente allertata, immagina, vagheggia quel che non è tipico del sogno, bensì si rappresenta in scene: velleità, ambizioni, suspense, protagonismi – come per un film tutto da scrivere. La sceneggiatura, anzi le sceneggiature, sono già tutte scritte in questo libro dai risvolti onirici, tendenzialmente mirate, per quanto manierate, dentro i risvolti di una detective story e/o di una short stories che di volta in volta si colora di nero, di giallo, di rosa “In una rete di linee che s’allacciano” – nient’altro. Tutto il resto continua a correre, anzi, si direbbe a scorrere come un fiume in piena – verso quale mare (?) Che importa se del “resto viviamo in una civiltà uniforme, entro modelli culturali ben definiti”. Se “Questo libro è stato attento finora a lasciare aperta al Lettore che legge la possibilità d’identificarsi col Lettore che è letto: per questo non gli è stato dato un nome che l’avrebbe automaticamente equiparato a una Terza Persona, a un personaggio … e lo si è mantenuto nell’astratta condizione (e convinzione) dei pronomi, disponibile per ogni attributo e ogni azione.” Ciò, per quanto nella foresta dei nomi, tra gli autori citati (fittizi) e pseudo personaggi (vari), il Lettore è sempre presente, anzi è il personaggio chiave del libro, sì che sembrerebbe non essere mai uscito dagli scaffali della Biblioteca Universitaria dove ci si è incontrati per la prima volta. Persi fra i tomi, dai dorsi e dalle coperte stampate, dagli interstizi lasciati dai rilegatori degli impaginati, dai molti titoli enunciati, dalle vanaglorie dei loro incipit – dacché il presunto Lettore dispone a perdita d’occhio di un numero esorbitante di volumi. Per quanto distinguibili gli uni dagli altri, magari divisi per altezza: da quelli più voluminosi ai più striminziti, dai più alti ai più bassi, senza un ordine cronologico per data o per autore – quindi da dove incominciare, o meglio, da dove ricominciare? – non saprei mi dico … “La ragione principale degli accostamenti …”, ha forse un suo senso personale, ma caro Lettore, non si gestisce così una biblioteca che possa dirsi una Biblioteca. C’è bisogno d’altro. Per esempio di leggerli, di averli letti, di una promessa di lettura, altrimenti tenerli lì a prendere polvere prendono peso, s’inaridiscono e poi addio, non li si aprono più. Come per esempio questo “Se una notte d’inverno un viaggiatore” che dall’anno della sua pubblicazione è rimasto inerte sul tuo comodino fino al 2021, lasciando che il tempo si appropriasse dei suoi canali di trasmissione – che altri, estranei, misurassero la propria voce alla tua di Lettore … “Dalla voce di quel silenzioso nessuno … fatto d’inchiostro e di spaziature tipografiche”, che avrebbe potuto essere la tua, (e/o la mia), e dar luogo a uno scambio di linguaggio, d’idee, di creare un codice per reciproci scambi futuri – segnali, riconoscimenti. Del resto … “Leggere come io l’intendo, vuol dire profondamente pensare” (*), ha lasciato scritto il poeta, quasi che il sapere (conoscere) fosse la sua sola passione. Ma noi Lettori sappiamo già essere così, ciò a cui il rinnovato invito dell’autore, alias Italo Calvino, punta con questo suo libro: l’invito a una reciproca ‘condivisione’ di lettura, allo scambio affettivo fra la parola scritta e la voce narrante – fra la passione per i libri e il detenerli, magari collezionarli – che è poi un atto d’amore che intercorre fra lo Scrittore e il Lettore … È lui. Non è lui. Sono certo ch’è lui … ma sì lo scrittore Italo Calvino. Senta, è lei o non è lei? … No, sa perché volevo chiederle… – questa volta si ferma. Al che posso finalmente porgli la domanda finora omessa per futile dimenticanza: Scusi, ma lei è mai sceso dal suo treno? Sì certo, molte volte, ma solo per prendere una qualche coincidenza! Note: (*) Dalle note di copertina. (**) Vittorio Alfieri Tutti i virgolettati sono di Italo Calvino - Tratti da "Se una notte d'inverno un viaggiatore" - Arnoldo Mondadori Editore 1979. Gli aforismi - sono presi da 'Aforisticamente' che ringrazio sentitamente.
Id: 2823 Data: 30/07/2021 06:35:22
*
- Libri
Per ora non ancora, tuttavia in qualsiasi altro momento.
"Per Ora Non Ancora, Tuttavia In Qualsiasi Altro Momento". Un libro di Giorgio Mancinelli - KUBERA Editore 2021. Dieci racconti brevi: 'in giallo, in nero e rosa shocking' selezionati per la prima volta in volume, di chiara matrice cinematografica anglo/americana, (come del resto recita la dedica in apertura del libro. Sia ciò nell'esposizione che nei contenuti, nel segno dell'odierna fiction autoriale che trascina e coinvolge, che ora stupisce e affascina, contraddistinta da un tono irridente che le conferisce un'elegante leggerezza di stile, anche nei racconti più 'forti' ed emotivamente intensi. Dieci racconti scaturiti dalla matrice cinematografica delle location, una per ogni racconto, da cui emerge mirabile la scelta dei personaggi, caratterizzati da un intelletto vivo e brillante che, regalano al lettore interessanti divagazioni filosofiche, pur sempre ancorate a esperienze di vita. Corsivo d'autore: "E' nell'imprevedibilità degli errori, nella sfacciataggine di certi soggetti, nelle mal riuscite prove di serietà, l'aver posato l'attenzione sugli esseri umani e l'incontrollabile voglia di scrivere, ciò che mi ha permesso di elaborare questi racconti".
Id: 2805 Data: 18/06/2021 11:11:44
*
- Cinema
Cinema News in collaborazione con Cineuropa
DE ROME À PARIS - RENCONTRES DU CINÉMA ITALIEN 13e ÉDITION / 17-20 JUIN 2021 / CINÉMA L’ARLEQUIN
Le festival DE ROME À PARIS est un des rendez-vous incontournables du cinéma italien. Chaque année plus nombreux, les spectateurs viennent y découvrir une sélection d’une dizaine de longs- métrages italiens récents (fiction, documentaire, animation) encore inédits en France. Ces films sont présentés en présence des équipes des films, réalisateurs et comédiens venus échanger avec le public. Cette année encore, le festival est accueilli au Cinéma L’Arlequin, dans le 6ème arrondissement. DE ROME À PARIS est soutenu par le Ministère de la Culture italien et organisé par ANICA (Association Nationale des Industries Cinématographiques Audiovisuelles et Multimédia) en coopération avec ICE-AGENZIA (Institut du commerce italien), L’AMBASSADE D’ITALIE, ISTITUTO LUCE CINECITTÀ.
COMITÉ DE SELECTION Les films ont été sélectionnés par un comité composé de professionnels du cinéma en France : VIVIANA ANDRIANI, Italienne basée à Paris depuis 1995, a créé́ sa société́ RENDEZ-VOUS de relations presse cinéma pour les sorties nationales en France et pour le lancement de films dans les principaux festivals (Cannes, Berlin, Venise). Pour la presse internationale, elle a accompagné́ de nombreux films de cinéastes français, dont Robin Campillo, Laurent Cantet, Philippe Garrel, Céline Sciamma, Raoul Peck, Xavier Giannoli, Pascale Ferran, Bertrand Bonello, Mathieu Amalric, Valeria Bruni Tedeschi, mais aussi de grands cinéastes étrangers, dont Laszlo Nemes, Jafar Panahi, Kléber Mendonça. Pour la presse française, elle a travaillé́ aussi avec de grands auteurs étrangers, notamment Frederick Wiseman, Naomi Kawase, Wang Bing, Roy Andersson. Elle a notamment contribué à faire connaitre certains cinéastes italiens émergents dont Gianfranco Rosi, Michelangelo Frammartino, Fabio Grassadonia & Antonio Piazza,Roberto Minervini, Pietro Marcello, Vincenzo Marra, Emma Dante, Edoardo Winspeare, et retrouvé les grands noms du cinéma italiens, tels Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Marco Tullio Giordana. De 2005 à 2015, Viviana Andriani a été consultante pour la sélection des premiers long- métrages français à la Semaine de la Critique de la Mostra de Venise. THIERRY DE COURCELLES a débuté sa carrière dans le cinéma entant que responsable développement et acquisitions de la société́ de distribution Océan Films. Il a contribué au succès de bon nombre de films tels: In the Mood for Love, 2046 (Wong Kar Way); Millennium Mambo (Hou Hsiao Hsien), The Eternity and one day (Theo Angelopoulos) qui a remporté́ la Palme D’Or, Good bye Lenin (Wolfgang Becker), La Meglio Gioventù (Marco Tullio Giodana), Buongiorno Notte (Marco Bellocchio), The Return (Andrey Zvyagintsev), The Life of Others (Florian Henckel von Donnersmarck), No man’s land (Danis Tanovic). Ayant rejoint l’équipe de TF1 il a également su découvrir des films brillants au stade de développement avec le pré́-achat de projets comme Dallas Bruyeres Club de Jean-Marc Vallée et Carol de Tod Haynes. Depuis deux ans il est directeur des acquisitions chez UGC où il travaille sur des projets très prometteurs tels que le prochain film de Terence Malick. ILARIA GOMARASCA, après un master en Littérature à l’Università Cattolica de Milan, a entamé six mois de recherche sur les nouveaux médias au Département d’Art Graphique du Musée du Louvre. En 2009 elle débute son activité dans le secteur du cinéma à Paris pour la société de ventes internationales Wide et devient responsable du département Festivals. En 2013 elle rejoint la société Pyramide International en tant que responsable Festivals et Marches. Elle gère les relations avec les artistes et la promotion du catalogue auprès des directeurs de festivals, des cinémathèques et des institutions à l’estranger. En 2019 elle rejoint l’équipe du First Cut Lab, comme responsable du nouveau programme First Cut+, qui promeut un portfolio de 16 films de fiction en post-production. PAMELA PIANEZZA est journaliste, écrivaine, photographe et programmatrice de festival. En tant que journaliste elle travaille avec Variety, Dazed &Confused, Cine+, Canal +, Arte et est éditrice du magazine culturel quotidien Tess. Elle présente également les Golden Globes pour Canal Plus. Elle a longtemps travaillé en tant que programmatrice pour la Semaine de la Critique du Festival de Cannes, entant particulièrement spécialisée sur le cinéma italien et est responsable de la section courts-métrage du Festival International de Fribourg. Elle enseigne critique du cinéma et les arts visuels. NADIA TURINCEV est née en 1970 à Moscou (URSS) et a grandi à Paris. A 12 ans elle tombe folle amoureuse d’Andrei Konchalovsky et commence à voir plein de films. A 16 ans, elle débute comme stagiaire sur les Yeux Noirs de Nikita Mikhalkov, préparant des sandwiches pour Marcello Mastroianni. Elle travaille ensuite comme interprète de plateau. Puis pour ACE- Ateliers du Cinéma Européen, Europa Cinémas, le Club des Producteurs Européens, le programme Media. Elle a également été́ au Comité́ de sélection de la Quinzaine des Réalisateurs et au Festival de Moscou comme directeur artistique. En juillet 2007, elle fonde avec Julie Gayet, la maison de production Rouge International. « L’universel commence quand on pousse les murs de sa cuisine » – telle est leur devise. Elles travaillent beaucoup mais ne s’amusent pas moins.
Programme Jeudi 17 20:00 Pour Toujours (Sale 1) Vendredi 18 16:00 L’Agnello (Sale 3) 18:00 Hammamet (Sale 3) 20:30 Non Odiare (Sale 1) Samedi 19 13:45 Maledetta Primavera (Sale 3) 15:45 Cosa Sarà (Sale 3) 17:45 I Predatori (Sale 1) 20:15 Padrenostro (Sale 1) Dimanche 20 14:00 Cosa Sarà (Sale 3) 16:00 Punta Sacra (Sale 3) 18:00 Sul più bello (Sale 3) 20:30 Lacci (Sale 1)
ISTITUZIONI / LEGISLAZIONE Europa Gli esperti suggeriscono come attuare un'equa remunerazione per sceneggiatori e registi di DAVIDE ABBATESCIANNI
07/06/2021 - Il seminario organizzato dalla SAA ha offerto competenze approfondite sul modo migliore per attuare la direttiva sul diritto d'autore nel mercato unico digitale On Wednesday 2 June, the Society of Audiovisual Authors (SAA) hosted a seminar entitled “Experts' top advice on fair remuneration for screenwriters and directors: Implementing Article 18 of the EU Copyright Directive”. The event came a few days before the deadline (set on 7 June) for transposing the Directive on Copyright in the Digital Single Market (known as Article 18) into national law, but few EU countries will be able to meet it. The aim of the seminar was to discuss the advantages of the right to fair remuneration and to address member states’ questions over its implications for contractual freedom, the transfer of exploitation rights to producers, payments by users, collective rights management, and its impact on the industry itself. The discussion was moderated by Barbara Hayes, Chair of the SAA and Deputy Chief Executive of the Authors’ Licensing & Collecting Society (UK), and involved four speakers: Vice-Chair of the Legal Affairs Committee of the European Parliament Ibán García del Blanco (S&D, Spain), copyright law specialist and Universitat Oberta de Catalunya Intellectual Property Chair Professor Raquel Xalabarder, Paris' Sciences Po Law Professor Séverine Dusollier and Dominik Skoczek, Managing Director at Poland's ZAPA.
The floor was first opened to García del Blanco, who hoped for an increased level of copyright understanding on the part of the public and who pledged his support to guaranteeing cultural diversity and to exploiting the current crisis, viewing it as an opportunity to bring about change for the better. His speech was followed by a recorded video message from veteran German screenwriter Fred Breinersdorfer, who explained that the average salary of his colleagues stands at around €50,000-€60,000 per year, mostly earned through the writing of TV productions. He stressed that whilst this figure might not sound too bad, it still falls below the remuneration of other qualified professionals such as doctors or lawyers and, usually, writers would need to work on one or two scripts per year in order to be paid fairly. In most cases, however, they are only able to work on one project every two years, which severely impacts their ability to make ends meet. He conceded that streamers had probably brought about more opportunities, but he insisted that they “don't pay very well” or guarantee steady incomes, not to mention the low “success rate” of writers' work (i.e., developed scripted projects brought to completion), which stands at 10-15% for Breinersdorfer, but which is even lower for most of his colleagues. Dusollier provided various contextual insights and touched upon the role of CMOs and the whole contractualisation flow, involving the authors and the producers initially, and later co-producers, international sales agents, intermediaries, distributors and digital platforms. Xalabarder welcomed the implementation of Article 18, though she claimed that simply “copy-pasting it” wouldn’t be sufficient. She explained that the directive follows the principle of appropriate and proportionate remuneration (not as a binding principle, but as an obligation) and it applies to any license or transfer of exploitation rights, as well as on both new and old productions. In particular, Recital 73 grants member states the freedom to use “existing or newly introduced mechanisms, which could include collective bargaining”, provided that these are in conformity with the EU law. Skoczek's talk focused on the Polish market, chosen as a case study for Central Eastern Europe. The Polish film industry often sees screenwriters signing inconvenient buy-out contracts, which sell exclusive rights to the producers for a one-off fee. Another issue affecting the market relates to end distributors who have been obliged to pay statutory royalties. However, only a minority of these entities are willing to conclude contracts and clear their status, and some take advantage of every possible means to avoid paying royalties, such as entering into lengthy court proceedings and negotiations. The lack of binding tariffs and proper enforcement of these rules contributes to this critical situation. With regard to a possible solution, Skoczek highlighted that “the unwaivable right to remuneration would be the best way to ensure a fair share of revenue for authors.” In this sense, the implementation of Article 18 represents a great opportunity to fill the current legislative gap. An open discussion moderated by Hayes and a short video made by European authors and performers rounded off the seminar.
ISTITUZIONI / LEGISLAZIONE Europa MEDIA si spinge oltre i confini con il suo nuovo programma Europa Creativa di BIRGIT HEIDSIEK 25/05/2021 - Il programma recentemente revisionato prevede un budget quasi raddoppiato e una migliore accessibilità, ma impone anche nuovi obblighi
The new Creative Europe programme is getting a major budget boost after the European Parliament agreed to significantly increase resources for the programme. From 2021-2027, the Creative Europe programme will have a total budget of €2.5 billion, which is an increase of almost €1 billion. A total of €1.4 million is dedicated exclusively to the MEDIA programme. With this sizeable increase in the budget also comes a huge responsibility. “We need to address the dramatic impact that COVID-19 has had on our industries. The cultural and creative sectors were amongst the industries that were hit the hardest by the crisis,” said Lucía Recalde, Head of Unit, Audiovisual Industry and Media Support Programmes. At an online event hosted by the MEDIA Desks of Germany, Luxembourg and Austria, she gave an initial insight into the new structure of the MEDIA programme. “The main challenge for us will be to use this significant increase to address the recovery and the transformation of the industry,” underlined Recalde. The European Commission set two priorities: the digital transformation and the climate transformation. “We need to strike a balance between recovery and transformation in the next six-and-a-half years.” (L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria) The European Commission has set the objective for 30% of the funding to be spent on climate-related actions. “That is an obligation”, stressed Recalde. “We would like to incentivise changes before we choose mandatory obligations. We want to couple incentives with a lot of good practices and awareness-raising activities so that those who are starting can learn from those who are more advanced.” Other essential parameters of the programme will also be to widen the ecosystem, to provide greater accessibility and to support cooperation. “Diversity is a message. We want to make the programme more open to groups that haven’t participated in it,” the head of Creative Media outlined. “The challenge is to put all of the different objectives in the best possible format. The contribution to gender equality, inclusiveness and the Green Deal has to be implemented – that is an opportunity.” The first calls will be launched at the beginning of June. “We promote linguistic variety. The calls will be available in all of the languages,” said Barbara Gessler, Head of Unit, Creative Europe. “The scope of where organisations see their project fitting in will become larger.” In order to foster cooperation, one particular priority will be co-creation. Social innovation will also be an important topic. After all, “Innovation is not only a technological term,” as Kessler emphasised. MEDIA will be built on the assets that have worked well so far and which should be improved further. The programme will be structured into clusters such as content, audience and business, as well as transformation. One main novelty in the content clusters is the requirement for co-development as a kind of added value to foster collaboration even more intensely. There will also be some development activity tailor-made with certain groups of countries in order to broaden the participation of nations that previously had more difficulty accessing MEDIA funding. Furthermore, video-game actions will be broadened towards immersive content. The 360-degree business cluster will be implemented in 2022. “That is a simplification action,” said Recalde. “We are primarily thinking about beneficiaries that were really successful. Now, we would like to channel this support into one single grant.” Another new action is called Tools, which should take advantage of the benefits of digital technologies for the audiovisual industry. On the audience side, there will also be a stronger focus on collaboration involving VoD platforms and the festival network. Last but not least, the cross-sectorial strand will provide support for the news media sector. The aim is to support media literacy and journalist partnerships. “We also want to bring together audiovisual communities and other creative sectors,” concluded Recalde.
Id: 2803 Data: 09/06/2021 04:46:18
*
- Cinema
Prossimamente al Cinema David di Donatello 2021
Prossimamente al Cinema tutti i film del David di Donatello 2021 In collaborazione con CINEUROPA NEWS
Volevo nascondermi trionfa ai David di Donatello di Vittoria Scarpa
12/05/2021 - Il film di Giorgio Diritti si aggiudica sette premi, tra cui miglior film, regia e attore. Miglior attrice è Sophia Loren, miglior regista esordiente Pietro Castellitto Elio Germano con il suo David di Donatello come miglior attore protagonista per Volevo nascondermi
È Volevo nascondermi il trionfatore della 66ma edizione dei David di Donatello, i premi del cinema italiano consegnati ieri sera nel corso di una cerimonia che ha visto il ritorno in presenza dei candidati di tutte le categorie, dopo l’edizione “virtuale” dell’anno scorso, e che si è svolta in due location, gli studi televisivi Rai e il Teatro dell’Opera di Roma. Il film di Giorgio Diritti sul pittore Antonio Ligabue ha conquistato sette David su 15 candidature: miglior film, regia, attore protagonista (Elio Germano), scenografia, fotografia, acconciatore e suono. “Ricordiamoci di Ligabue anche quando incontriamo un clochard che disegna una madonnina”, ha detto il regista durante i suoi ringraziamenti, “ricordiamoci del valore di ogni uomo e difendiamolo finché possiamo, in ogni modo”. L’altro grande favorito, Hammamet [+] di Gianni Amelio (14 candidature), ha conquistato un solo premio, quello per il miglior trucco; stessa sorte per Favolacce di Fabio e Damiano D’Innocenzo (13 candidature) che si porta a casa il David per il miglior montatore. È andata meglio per Miss Marx e L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, che hanno trasformato in premi tre delle loro 11 candidature: il film di Susanna Nicchiarelli ha vinto per i migliori costumi, compositore e produttore; il secondo, diretto da Sydney Sibilia, ha trionfato nelle categorie di miglior attrice non protagonista e attore non protagonista (Matilda De Angelis e Fabrizio Bentivoglio) ed effetti visivi.
Tra i momenti più emozionanti della serata, la consegna del David per la miglior attrice protagonista a Sophia Loren per il suo ruolo nel film diretto dal figlio Edoardo Ponti, La vita davanti a sé (“Forse sarà il mio ultimo film ma ho ancora voglio di farne un altro, perché senza il cinema non posso vivere”, ha detto emozionata l’icona del cinema, oggi 86enne), e il David per la miglior sceneggiatura originale assegnato a Figli [+] dell’amatissimo Mattia Torre, scomparso prematuramente nel 2019, e ritirato dalla figlia 12enne Emma (“Voglio fare i complimenti a mio padre che è riuscito a vincere questo premio anche se non c'è più. Bravo papà”).
Si segnala infine il David per il miglior regista esordiente a Pietro Castellitto (I predatori), il David per il miglior documentario a Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli, e un gran colpo di scena: il David per la miglior canzone andato a Luca Medici, alias Checco Zalone, che con la sua “Immigrato” (da Tolo Tolo) ha battuto Laura Pausini e la sua canzone “Io sì” (per La vita davanti a sé) vincitrice ai Golden Globe e candidata agli Oscar.
LA LISTA DEI PREMIATI AI DAVID DI DONATELLO 2021:
Miglior film Volevo nascondermi – Giorgio Diritti Miglior regia Giorgio Diritti – Volevo nascondermi Miglior regista esordiente Pietro Castellitto – I predatori Miglior sceneggiatura originale Mattia Torre – Figli Miglior sceneggiatura non originale Marco Pettenello, Gianni Di Gregorio – Lontano, lontano (Italia/Francia) Miglior produttore Miss Marx – Vivo Film con Rai Cinema, Tarantula Belgique Miglior attrice protagonista Sophia Loren – La vita davanti a sé (Italia/Stati Uniti) Miglior attore protagonista Elio Germano – Volevo nascondermi Miglior attrice non protagonista Matilda De Angelis – L’incredibile storia dell’Isola delle Rose Miglior attore non protagonista Fabrizio Bentivoglio – L’incredibile storia dell’Isola delle Rose Miglior autore della fotografia Matteo Cocco – Volevo nascondermi Miglior compositore Gatto Ciliegia contro il grande freddo - Miss Marx (Italia/Belgio) Miglior canzone originale “Immigrato” di Luca Medici - Tolo Tolo Miglior scenografia Volevo nascondermi - Ludovica Ferrario, Alessandra Mura, Paola Zamagni Miglior costumista Massimo Cantini Parrini - Miss Marx Miglior truccatore Luigi Ciminelli, Andrea Leanza, Federica Castelli - Hammamet Miglior acconciatore Aldo Signoretti - Volevo nascondermi Miglior montatore Esmeralda Calabria - Favolacce (Italia/Svizzera) Miglior suono Volevo nascondermi Migliori effetti visivi L’incredibile storia dell’Isola delle Rose – Stefano Leoni, Elisabetta Rocca Miglior documentario Mi chiamo Francesco Totti - Alex Infascelli Miglior film straniero 1917 - Sam Mendes (Regno Unito/Stati Uniti) Miglior cortometraggio Anne - Domenico Croce, Stefano Malchiodi David giovani 18 regali - Francesco Amato David alla carriera Sandra Milo David speciale Monica Bellucci Diego Abatantuono David dello spettatore Tolo Tolo Targhe David 2021 – Riconoscimento d’onore Ai professionisti sanitari Silvia Angeletti, Ivanna Legkar e Stefano Marongiu
FESTIVAL / PREMI Italia
Registi europei under 35 al Riviera International Film Festival di Camillo De Marco
05/05/2021 - La quinta edizione del festival dedicato ai registi emergenti riparte dopo la pandemia dal 20 al 30 maggio con una formula ibrida e 20 film e documentari in concorso. Tra le prime rassegne cinematografiche europee a ripartire dopo i lockdown, la quinta edizione del Riviera International Film Festival è in programma dal 20 al 30 maggio a Sestri Levante con una formula ibrida, in streaming e in presenza.
Giovani e ambiente si confermano i temi del festival ma la fuga è il filo che unisce quest’anno i dieci film in gara, tutti diretti da registi under 35. “Fuga intesa come emigrazione, fuga dalla realtà, dalle convenzioni sociali o per trovare sé stessi. Fuga dalla malattia, dall’adolescenza o per amore. Nonostante questo elemento in comune, le storie sono totalmente diverse, anche a livello stilistico e visivo”, spiega Massimo Santimone, responsabile della programmazione. Si parte da Anne at 13,000 ft di Kazik Radwanski (Canada), su una ventenne il cui precario equilibrio è messo in crisi dal contesto sociale e professionale; As Far as I Know di Nandor Lorincz e Balint Nagy (Ungheria), la vita di una coppia che deraglia dopo un evento traumatico; Bula di Boris Baum (Brasile/Belgio), commedia nera/road movie che si snoda tra il Belgio e il Brasile; Eden di Ulla Heikkilä (Finlandia), in cui quattro ragazzi si confrontano con ideologia, sete di indipendenza e turbamenti d’amore; German Lessons di Pavel G. Vesnakov (Bulgaria) su un cinquantenne che decide di tagliare i ponti con il passato e trasferirsi in Germania; Model Olimpia di Frédéric Hambalek (Germania), in cui una madre inventa un metodo per cambiare le oscure ossessioni del figlio; A Perfectly Normal Family di Malou Reymann (Danimarca), su una undicenne che scopre che suo padre è transgender; Spagat di Christian Johannes Koch (Svizzera), la doppia vita di un’insegnante di liceo; A Stormy Night di David Moragas (Spagna), le 12 ore di Marcos a News York con uno sconosciuto durante una tempesta; The Whaler Boy di Philipp Yuryev (Russia) su un giovane cacciatore di balene. Presidente della Giuria è il regista e sceneggiatore statunitense Kenneth Lonergan, Oscar per la migliore sceneggiatura originale nel 2017 con Manchester by the Sea.
Saranno dieci, per la prima volta, anche i documentari, che arrivano da quattro continenti: A riveder le stelle di Emanuele Caruso (Italia); Citoyen Nobel di Stéphane Goël (Svizzera); Wood di Monica Lăzurean–Gorgan, Michaela Kirst, Ebba Sinzinger (Austria/Germania/Romania); Newtopia di Audun Amundsen (Norvegia); Nuclear Forever di Carsten Rau (Germania); Current Sea di Christopher Smith (Stati Uniti/Cambogia); Envoy: Shark Cull di Andre Borell (Australia); Kingdoms of Fire, Ice & Fairytales di Susan Scott e Bonné de Bod (Sudafrica/Stati Uniti); The Magnitude of All Things di Jennifer Abbott (Canada); Meat The Future di Liz Marshall (Canada).
Infine le masterclass, che si potranno seguire gratuitamente dal vivo oppure in streaming sui canali social del festival: quelle già confermate saranno tenute da Kenneth Lonergan, Ada Bonvini, a.d. di The Family e produttrice della serie Mediaset Made in Italy; il regista e sceneggiatore Carlo Carlei; l’ambientalista Andrea Crosta con Daniele Moretti di SkyTg24; Eric Kopeloff, produttore di Snowden e Wall Street Il denaro non dorme mai di Oliver Stone; i Mokadelic.
EUROPEAN FILM AWARDS 2021
L'EFA Young Audience Summit pubblica i risultati dei suoi sondaggi di Davide Abbatescianni
10/05/2021 - La conferenza virtuale si è svolta il 17 aprile e ha visto la partecipazione di 78 appassionati di cinema di età compresa tra i 12 e i 16 anni provenienti da 25 paesi europei. On 17 April, the European Film Academy (EFA) held a special virtual conference on Zoom, entitled the Young Audience Summit. The initiative, attended by 78 participants aged between 12 and 16 from 25 different European countries, hosted the screenings of two award-winning shorts, Guðmundur Arnar Guðmundsson's Whale Valley and Una Gunjak's The Chicken, as well as a Q&A session with filmmaker, creative director and cinephile Pablo Maqueda. The summit took place just before the 2021 edition of the EFA Young Audience Award, which once again presented three nominated films to young people across the continent (see the news).
The poll results reveal that 100% of the young respondents would like to see more European films; however, 64% say that they do not find it easy to get access to these titles. Specifically, 99% would like the film industry to make it easier for young people to access European films, and 87% said that they would be more likely to go to the cinema to watch European films if they watched these more regularly in a film club.
Next, 100% like the idea of a European Film Club, 100% would also like to watch and discuss films with young people from other European countries, and 97.2% believe that it is important for the European Film Club to be co-created by young people. In addition, 97.1% of young people believe that European cinema is an important way of creating a sense of European identity.
Finally, the participants gave the event an average score of 4.6 out of 5 when rating their enjoyment.
Id: 2789 Data: 16/05/2021 05:00:52
*
- Musica
Speciale - Unesco Musica
Un evento speciale in diretta streaming di Sei concerti in sei siti UNESCO, una sola diretta per unire tutta l'Italia sotto il segno del Jazz.
I-Jazz organizzato da NovaraJazz @NovaraJazzOfficial • Arte e intrattenimento prenderà il via dal 3 al 13 giugno 2021, dopo un inverno di concerti in streaming e tante riprogrammazioni, NovaraJazz è pronta a ripartire con un festival ricco di nuove produzioni! Concerti dal vivo con grandi artisti della scena europea, nei luoghi storici e periferici della città di Novara, residenze artistiche internazionali, attenzione ai giovani talenti e alla sostenibilità. Una diciottesima edizione che si svolgerà nel massimo rispetto delle regole legate alla sicurezza ma che ci permetterà, finalmente, di godere della musica dal vivo! La stagione si snoda tra concerti serali, i giovedì sera musicali a Opificio e gli aperitivi della domenica in collaborazione con Teatro Coccia. NovaraJazz è il festival di musica jazz con sede a Novara e organizzato da Associazione Culturale Rest-Art.
NovaraJazz nasce dall’idea di realizzare eventi innovativi al di fuori dei circuiti commerciali che sappiano far dialogare diverse forme espressive contemporanee, in primis la musica (jazz ed elettronica) e le arti visive (fotografia e video), promuovere la creazione di nuovi ensemble creativi attraverso residenze artistiche e diffondere la formazione del jazz nei territori in cui opera. La stagione NovaraJazz, definita dai direttori artistici Corrado Beldì e Riccardo Cigolotti, è un festival di musica jazz internazionale con concerti che coinvolgono importanti artisti della scena nazionale ed estera. Due importanti rassegne arricchiscono NovaraJazz: "Taste of Jazz" a Opificio Cucina e Bottega, l'appuntamento settimanale che ogni giovedì (da ottobre a marzo) porta artisti giovani ed emergenti nell'ora dell'aperitivo/cena; "Aperitivo in... Jazz" al Piccolo Coccia, l'appuntamento della domenica mattina in collaborazione con Fondazione Teatro Coccia per gustare specialità della produzione enogastronomica del territorio e ascoltare dell’ottimo jazz.
Ogni stagione culmina con tre ricchi fine settimana estivi di musica, improvvisazione, sperimentazione e momenti enogastronomici e culturali, che si svolgono all'aperto e in luoghi storici e culturali di Novara e della sua provincia.
Id: 2787 Data: 14/05/2021 08:50:06
*
- Libri
Il nuovo libro di Matteo Marchesini
MITI PERSONALI / Il nuovo libro di Matteo Marchesini Sedici racconti sui ‘miti umani contemporanei’.
Non è passato molto tempo (bugiardo) dacché giocavo con le mollette che mia madre usava per stendere i panni, trasformate all’occorrenza nei personaggi dei fumetti (allora non c’erano ancora così tanti cartoon da prendere a modello): Buffalo Bill, Toro Seduto, Tex, L’Uomo Invisibile ecc., e i nostri eroi (o preunti tali) erano quelli che la storia ci aveva tramandati, legati alla letteratura ma ancor più alla ‘mitologia’: Ercole, Agamennone, Achille, Ulisse, Ben Hur, Capitano Akab, Zorro ecc. Solo più tardi sulla scia del cinematografo si era giunti agli scontri epici tra Napoleone e Nelson; tra i Sudisti e i Nordisti americani; tra Rangers e Indiani, e alle invasioni Tedesca dell’Europa, della Russia in Ungheria ecc. quando già in campo erano subentrati i carriarmati, gli aeroplani, le corazzate, i sommergibili …
“Per questo gioco senza fine dimenticava tutto, anche i giocattoli sontuosi che una volta a stagione entravano nella sua stanza.”
Ma i ‘miti’ come gli ‘eroi’ e finanche gli ‘déi’ dell’Olimpo, infine vivono una realtà artata che li costringe dentro “una stanza dei giochi impossibili”. Così Odisseo, Socrate, Edipo, Enea, Gesù, Narciso ed altri costipati in queste poche pagine “..non hanno bisogno di umiliare né di possedere nessuno come si possiede una terra”, la loro ragione di esistere ha superato da secoli tutto ciò che è venuto dopo, le angherie, le guerre, la cattiva giustizia divina (se c’è), finanche il giudizio dei posteri (del quale non gliene è mai fregato niente), continuando a sbagliare (?) come hanno voluto, “..la vastità delle asserzioni, ancora sgombra del futuro, cancellava i rimorsi in fretta”.
Dimentichi di tutto questo (meglio così), la contemporaneità suggerisce di osservare con spirito critico quel passato e avvalersi degli ‘atteggiamenti umani’ entrati nell’odierna mitologia metropolitana, che di quel passato porta seco una memoria sbiadita o, meglio ancora, ne fa oggetto di un’acuta ‘ironia’ che nulla cede alla superficiale creduloneria …
“Così Atteone, per un lungo momento non capisce di essere arrivato per caso là dove credeva che lo avrebbero portato la sua caparbietà e il suo fiuto. Anche perché la scena è molto diversa da quelle che inventava alle tevole imbandite” … si cambia scena ma il set cinematografico è sempre lo stesso.
È così che i nuovi ‘miti’ di oggi, (di miti e di eroi se ne sente sempre il bisogno come pure della loro mancanza), hanno sostituito quelli di ieri, e gli ‘eroi’ (si fa per dire), hanno assunto i panni di Jack Frusciante e Jeeg Robot, nonché di qualche Mafioso arrogante, insieme ad altri usciti dalla penna (con tutto rispetto) di Saviano, elaborati dalla perspicacia di ciascuno (di noi) a proprio uso e consumo, (senza problemi perché l’ingordo trova sempre qualcosa cui spartire).
Ma già altri ‘miti’ ed ‘eroi’ di cartone s’affacciano dalle pagine di questo piccolo ‘geniale’ libro di Matteo Marchesini, ‘figure’ di una mitologia altera che forse non sono mai state eroiche nel vero senso della parola, tantomeno mitiche, ma che nella loro pur esigua esistenza fra queste pagine, diffondono un loro ‘senso’ con un linguaggio scrittorio veloce (quasi audace). Chi l’avrebbe detto che si può pensare senza pronunciare parola? Eppure, alcuni dei personaggi (appena abbozzati) dalla penna dell’autore, trovano una loro ragione d’essere senza che ne conosciamo sovrastrutture e orpelli inutili della loro esistenza, pur avviandosi (in buona compagnia) con quel Giacomo (Leopardi) che li guida verso l’Infinito …
“L’inseguitore e l’inseguito, coi fiati sempre più prossimi, (che) videro crollare mura (d’Ilio), edifici, colonne, e tutto il paesaggio lasciarsi inghiottire dalle rocce e dall’erba.”
Tuttavia non ci si poteva accodare nella fila né degli uni ‘eroi’ e neppure degli altri ‘miti’ onde poter afferrare il ‘tempo’ che restava per combattere … come la TAV, era ormai una realtà …
“Di lì, lentamente, risorse una vita stracciona e variopinta, quindi sfarzosa di turbanti, scimitarre, chioschi”; .. come in un presepe napoletano, con la differenza che a Troia come in Val di Susa erano uomini in carne ed ossa …
“Seguirono uomini con mappe e vanghe che ululavano di gioia, e che parvero a entrambi piuttosto ridicoli con quei caschi da finti guerrieri; poi ancorafuochi lampeggianti, rombi inauditi, incredibili macchine di morte, vestiti aderenti ai corpi e bisce di seta che scendevano dai colli alle cinture.”
Tuttavia il treno è già passato e/o manca moltissimo prima che ne passi un altro e si rischia di non trovare posto, (la storia assimila lentamente o troppo in fretta), per ritrovarci in coda lì dove la tettoia della stazione è finita, col rischio di bagnarci per l’arrivo del temporale, certi che arriverà (quello sì). Perché neppure noi lettori lo abbiamo prenotato, (il posto in paradiso); mentre l’ultimo vagone (della storia) scivola davanti ai nostri occhi in mancanza di quelle parole (senso) che potevano fermarlo …
“Inutile dirsi che anche quelle smorfie, anche quelle grida che ormai riusciva(no) solo a smorzare in lamenti erano una conseguenza ineluttabile della natura (violentata): impossibile per gli uomini non interpretarle in senso (a)morale.”
Del resto che cosa ci manca quando diciamo che la vita non ha senso (?); quando più semplicemente ci sembra che manchi qualcosa (?), cioè il motivo e la direzione del nostro agire. Ancor più quel che manca è la riflessione sulle ‘parole dette’ e/o di ricercare la parola mancante che avrebbe permesso di rivelare il nostro pensiero. Inutile tornare a porci le domande di sempre: ‘che cosa significa pensare’, se ‘c’è un altro modo giusto di vivere da ‘eroe’ o da ‘mito’’; o ‘cos’è la felicità e come raggiungerla’, ecc. ecc.
Le risposte sono già state date a suo tempo da illustri studiosi, pensatori, filosofi, poeti, sicuramente più addentro alla materia di me (recensore del libri), ed anche (forse) dall’aurore del libro Matteo Marchesini, il quale però è stato capace di porsele (e porcerle) in una chiave (cifrata) diversa: senza l’affanno di volerle trovare a tutti i costi, con semplicità all’interno dei singoli racconti. Non in ultimo quello sulla ‘filosofia’ in cui la domanda viene spontanea: “a cosa serve la filosofia e i filosofi?”…
“Non si capiva bene cosa aggiungesse alle parole degli altri, ma solo la sua voce le radicava sul terreno giusto e le rendeva inconfutabili, così che alla fine i dottori si scioglivano loro malgrado in un coro di stupore e di sollievo” … per quanto si stia qui parlando di Gesù rivolto ai dottori della chiesa e non di Mr. Draghi con i filosofi della finanza, possiamo credere veritiero il fatto che chi possiede un certo carisma abbia più chance di altri di venire ascoltato, anche se in entrambi i casi ci si dovrebbe riflettere un tantino sopra.
Di certo avere carisma aiuta il filosofo ad affermare la propria scienza (?), ma non sarebbe la stessa cosa se ci si rivolgesse ai poeti e alla ‘poesia’(?). Di conseguenza la risposta data, che sia sì o no, sarebbe equipollente in entrambi i casi. Quel che più rende ansiogeno è il ‘nichilismo’ del nostro tempo, divenuto endemico nella società degli anta e disperato nei giovani che ad essa s’affacciano, assillati da esigenze più immediate e più materiali. È qui che trova rifugio la ‘parola mancante’ di cui sopra: dove è finito l’incanto del mondo (?); l’ordine precostuito che ha permesso fin qui alla natura di rigenerarsi (?); all’umanità di credere alla sempre rinnovata promessa della felicità (?), della vita eterna (leggi immortalità) (?) …
“Quale diavolo lo costringe s struggersi così tanto nell’attesa? Detto fatto, pensato toccato:così dovrebbe essere. A che serve aspettare … allora ogni attimo diventerà un’ora, e poi un giorno, e un mese, e un’eternità. […] Un’eternità. Chi è che l’ha detto? Eternità, ternità, ernità, nità, ità. Tatà: […] Un’eternità! Basta! Chi è che l’ha detto? Ah no, è soltanto la sua voce. Così sottile, anche nell’urlo, che non riesce a distinguerla.”
Eppure il ‘poeta’, a sua volta, aveva scoperto l’esistenza dell’anima e (forse) anche di una coscienza ubicata nell’ “Infinito”. Tant’è che noi (d’altra generazione) vi avevamo creduto. Per quanto oggi sembra essere una colpa da espiare … “Ma proprio mentre lo pensava, […] L’anima di cui aveva discusso fino a poco fa, la parte di sé sciolta dal corpo, sarebbe stata costretta a gareggiare in immortalità.”
Per quanto l’autore avverte che “..questo è lo stratagemma recentemente escogitato dal filosofo per non barcollare”, al seguito della sua scienza e magari inciampare in una delle tante ‘buche’ e finire per infrangere definitivamente la universale ‘pietra filosofale … “Forse dovrebbe tenere il pennino alto e lasciarlo cadere giù a piombo …”
Il disincanto della razionalità così spiegata nulla toglie ai fini della realizzazione dei personaggi (effimeri) di questi racconti, i cui sentimenti, seppure appena delineati, si offrono a una piacevole lettura dove: “..esseri comuni, simili a ognuno di noi, rappresentano i ‘miti’ (benché personali dell’autore), crudeli della realtà di oggi”, quasi a voler dire con il poeta che “non esiste un cammino, il cammino lo si fa camminando” (*), ..a buon intenditor buone parole.
L’autore: Matteo Marchesini è collaboratore delle testate “Il Foglio”, “Il Sole 24 Ore”, Radio Radicale e “doppiozero”. Ha pubblicato le satire di Bologna in corsivo. Una città fatta a pezzi (Pendragon 2010). Il romanzo Atti mancanti (Voland 2013. Premio Lo Straniero, entrato nella dozzina dello Strega), le raccolte critiche Da Pascoli a Busi (Quodlibet 2014), i racconti di False coscienze (Bompiani 2017), le poesie Cronaca senza storia (Elliot 2016), Casa di carte (Il Saggiatore 2019), Scienza di niente (Elliot 2020), Miti personali (Voland 2021).
Note d’autore. I virgolettati (rivisitati) sono estratti dal libro “Miti Personali” di Matteo Marchesini edito da Voland srl 2021
Nota del recensore. Per un’etica del discorso, i miei slanci tra-parentisi farebbero inorridire Umberto Eco, il quale raccomandava ai suoi allievi, di limitarli a un numero davvero esiguo all’interno di un testo. Pertanto spero che l’autore, al quale vanno i miei complimenti, vorrà scusarmi per le mie azzardate escursioni talvolta auto-critiche. Ovviamente tutti gli errori sono esclusivamente i miei.
Id: 2782 Data: 21/04/2021 08:22:34
*
- Libri
Wolf Wondratschen ... Un Autoritratto contemporaneo.
WOLF WONDRATSCHEN … UN AUTORITRATTO CONTEMPORANEO Una recensione insolita per un libro altrettanto insolito quale questo di Wolf W. che ho appena ultimato di leggere e che non avrei mai voluto smettere di leggere. Ma come in tutte le storie narrate prima o poi si arriva alla fine, a quella conclusione che se non è suggerita dall’autore, è altresì consuetidine immaginare, allorché qui accade che nell’ultima pagina l’autore invita il lettore a ricominciare. Quel che trovo incredibile è che viene spontaneo il desiderio di riprendere da lì dove la numerazione delle pagine s’interrompe per tornare a leggere a ritroso, dall’ultima alla prima … “L’essenziale è (era) che la storia inizi(asse) in un giorno come quello che sappiamo … in cui il visibile nasconde l’invisibile ... Il caffè è colato, a gocce, a gocce, nella tazza preriscaldata e così, a gocce, (il nostro uomo co-protagonista Suvorin), beve dalla tazza. Atteggia le labbra come un flautista l’imboccatura, ma quello che sentiamo non è un suono, è un sibilo, non forte, e nemmeno sgradevole, come un respiro, il respiro più piccolo che ci sia. La lingua piegata a cucchiaio, accoglie la prima goccia, l’assorbe, felice come questo può renderci felici.” Un autoritratto è, se vogliamo, una dissonanza del tempo che passa, come dire il passaggio dalla ‘de-costruzione’ della storia, apertamente voluta dall’autore, alla ‘ri-costruzione’ della stessa attraverso le ragioni delle sue scelte. E che siano frammenti di vita vissuta, pause di riflessione, indifferenza nei confronti di qualsiasi ordine, del nonsenso e della convinzione della sua inutilità, solo per riappropiarsi della libertà, ritrovare il senso d’una libertà sociale e democratica nel mezzo delle tante menzogne patriottiche ingiustificate, avallate da una rivoluzione (ottusa) che al contrario d’essere liberatoria è divenuta autoritaria, repressiva e tirannicida ... Noi tutti sappiamo come la libertà sia anche frutto della verità o almeno della giustizia, in quanto ricusa qualsivoglia ingiustizia, civile, sociale, umana, non poi così insolita, contenuta nella rara citazione di Schiller che l’autore invita a rivisitare, per: “Liberarsi dalla passione, contemplare la realtà circostante con chiarezza e calma, rintracciare ovunque più caso che destino, ridere della stoltezza più che adirarsi e piangere per la malvagità.” Quella liberetà che pure attraversa tutte le pagine del libro con le sue note vaganti in assenza di pentagramma … di cui “con una battuta di spirito degna di un poeta, Kovalev scrisse che la rivoluzione aveva inventato una sedia su cui nessuno può mai sedere.” Si direbbe la ricerca di un’imperscrutabile perfezione, quando altresì in musica è la dissonanza di tempo a coniugare la qualità di un intervallo come affinità ed eterogeneità fra suoni contrapposti, che altrimenti, diventa imperfezione, tantopiù necessaria all’autore di questo libro a definire il proprio autoritratto come Suvorin, (il protagonista assoluto di questo romanzo con annesso pianoforte russo), prendendo a soggetto non tanto la musica in sé quanto il sé impastato di musica … “È la musica che mi fa entrare in contatto con me stesso. […] È proprio buffo, in realtà, che voler essere originale per un musicista di musica classica sia un peccato mortale, ma che d’altro canto possa essere faticoso se una persona che stimi come artista non produce più nulla di originale, fosse pure un accenno nel discorso, un gesto, un’idea sorprendente, un pensiero che, quand’anche non portasse da nessuna parte, le sia perlomeno balenato in mente.” È qui la vera storia narrata in queste pagine, la storia del narratore che introduce il lettore alla conoscenza del musicista Suvorin, il maestro di pianoforte, il barbone incontrato per caso in un caffè, un tempo un musicista di successo che ha abbandonato tutto per abbracciare la libertà di poter essere ‘nessuno’, o forse solo se stesso, ateo e anarchico, contro ogni pretesa di compromesso individuale, sociale, civile e religiosa. Quello che probabilmente è stato Wolf Wondratschek negli anni della Beat Generation tedesca 1960/’70, in cui seguiva i movimenti di protesta, e ancor più verosimilmente aver messo mano a uno strumento musicale … “Tutto riposa nel legno, dice la musica. Ogni senso è un’equazione, dice la matematica, tacete tutti, dice la poesia. […] Non bisogna essere in un seminario di filosofia, per trovare piacere in conversazioni di questo genere. C’è poco di più invitante della bellezza che si tramanda nella mitologia di oggetti speciali, un violino o un violoncello o un antico tavolo da biliardo.” Allorquando la poesia si cibava dei versi di Ferlinghetti, Ginsberg, Kerouac, Salinger e altri, (pubblicati in antologia da Fernanda Pivano nel 1964). Chi non conosce “Howl” (Urlo) di Allen Ginsberg che nel 1955 diede la consapevolezza della nascita di un nuovo genere di poesia, autobiografica e denunciataria, e che divenne il "manifesto" del movimento beat, che qui di seguito ne trascrivo l’incipit: «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa, hipsters dal capo d'angelo ardenti per l'antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte, [...].» Ma è infine il ‘libro’ “– un libro rilegato con cura, su bella carta e in bei caratteri”, che permette a Suvorin di non “smettere di fantasticare o filosofeggiare o, che so, inventare storie, trastullarsi con spunti legati a queste storie (che racconta). Allora tira fuori un (suo) lato molto divertente, molto appassionato, infantile quasi, per meglio dire.” E il libro è questo che ho fra le mani, che sfoglio con ingordigia, non un tomo pesante, ma un piccolo grande libro vergato con cura, si direbbe in fil di penna, senza trionfi, senza cadute di sorta, fatto di piccole cose, di circostanze occasionali, di momenti poetici sostenuti dalla leggerezza dei pensieri … “Bisogna immaginarsi, vedendo Suvorin così, un uomo seduto su una panca davanti alla sua capanna, le gambe distese, che riposa, fuma e lascia correre i pensieri mentre osserva un muro di nuvole sempre più nere spinte dal vento all’orizzonte. Sul paese vicino, in lontananza, sta per abbattersi un temporale. Un cane, in lontananza, abbaia”, fino alla citazione cechoviana da “Il giardino dei ciliegi”, in cui la città pur così amata da Suvorin, quella Mosca sognata dalle tre sorelle è più (che mai) vicina. Ed è all’amore che fa riferimento Suvorin, una storia d’amore “..che inizia a sembrare interessante proprio perché non intende offrire nulla di lascivo, nulla di osceno. Meglio se (di) un amore impossibile, che espone la sua anima a pericoli inesorabilmente sconosciuti. … buona abbastanza, pura abbastanza, interessante abbastanza (per uno come Suvorin), una donna con un libro, l’amore con una poesia, un cappello in testa con la felicità … con la solitudine che la circonda, la solitudine che circonda tutti noi.” “Vede, disse (il vecchio pianista riprendendo il discorso già intrapreso), la lettura di una poesia, la lettura di un racconto o di un romanzo, non sono eventi sociali. Uno si siede, da solo, da solo con sé stesso e un libro, e legge. E a volte si ferma a riflettere, accantona il libro aperto per ripensare a una frase, a un punto preciso, a una certa formulazione che gli rivela la bellezza della lingua. Da ogni cosa si può associare tutto con tutto” … È così, magari non trapare, ma siamo esattamente a metà del libro che vado leggendo a ritroso, che rileggo (per voi) di quelle cose che avevo già lette ma che non sembrano le stesse “..sarebbe per me un onore se poteste aiutarmi”, perché non credo di averle comprese nel giusto modo in cui si deve. Vedete … “Sebbene abbia due orecchie, amava dire, sono sempre unanimi. […] Non si mettono a tacere le voci interiori tappandosi semplicemente le orecchie. Allora poteva accadere di sembrargli che tutto il suo corpo, ogni poro della sua pelle,fosse un orecchio. Non bisognava contare sul fatto di migliorare ogni sera le proprie capacità (di musicista e amante della musica), ma se accadeva, (quando accadeva), la serata si trasformava in un giorno di festa.” Per quanto la festa cui si riferisce Suvorin appartiene al mondo dei ricordi, a quando avverte di aver perso ogni piacere per l’insolenza, ed ha evidentemente interrotto i contatti con la famiglia, dimentico di ciò che avrebbe voluto diventare da bambino (?) e slacciatosi l’orologio dal polso lo lancia oltre la scogliera … “Non so più cosa farmene di voi, voi numeri e lancette, voi ore, minuti, secondi. Glielo si legge in faccia, quella è la faccia della soddisfazione. […] A un certo punto parlano già abbastanza di me e si preoccupano anche che non faccio nient’altro che fissare un muro. Posso farlo per mezza giornat asenza annoiarmi. Non mi muovo, non penso a niente, non sono sveglio né dormo.” Nient’altro? Che dire? Ho già detto molto nella prima parte di questa lunga recensione che potrei portare avanti ancora per molto. Non posso, mi dico, raccontarvi tutto il libro. Ascolto Suvorin parlare a più riprese, e lo ascoterei ancora per chissà quanto, prima di levarmi dal caldo tepore del divano … “..anche lì riesco a tornare in me solo compiendo un grande sforzo. Anzi, a dire il vero in quel caso è l’esatto contrario, compio un grande sforzo per cercare di non tornare più in me. […] Lo so, lo so. A un certo punto è tutto vietato, tranne morire.” Aspetterò, mi dico, almeno fino all’arrivo delle belle giornate che la primavera come suo solito ha promesso, certo che manterrà i suoi impegni. Magari solo per raggiungere il caffè dei nostri incontri. Oh sì! Il tutto ha richiesto un’attenzione particolare, una lettura perspicace, onde rimembrare il tempo vissuto fra uggie e silenzi, mentre fuori continua a cadere la pioggia, ogni goccia una nota che s’accompagna al crepitio del fuoco acceso che surriscalda il torpore dell’ozio … non ne sentite la musica, no? …
Basta! “Non voglio più dormire, perché non voglio avere la faccia con cui mi sveglio – ripete Suvorin – Questo è tutto. Forse, sforzandomi, un giorno crederò finalmente anche all’autorità di ciò che, in malafede, chiamiamo caso.” Nel frattempo … “Il caffè è colato, a gocce, nella tazza preriscaldata e così, a gocce – avverte l’autore – alias Suvorin mentre beve dalla tazza – Atteggia le labbra come un flautista l’imboccatura, ma quello che sentiamo non è un suono, è un sibilo, non forte, e nemmeno sgradevole, come un respiro, il respiro più piccolo che ci sia. La lingua, piegata a cucchiaio, accoglie la prima goccia, l’assorbe …
..felice come questo può rendere felici!”
L’autore. Wolf Wondratschek, scrittore, poeta, sceneggiatore (Rudolstadt 1943), cavalca dagli anni ’60/’70 la scena letteraria internazionale, in cui è noto come esponente della Beat Generation tedesca. La sua produzione cinquantennale comprende anche racconti, reportage e radiodrammi che alterna con la critica sociale, scritti intimistici, e ritratti di artisti. Tradotti in italiano sono reperibili oltre al titolo qui recensito, “Mara. Autobiografia di un violoncello.” Con CD audio – TEA 2008.
Edizioni Voland www.voland.it e-mail: redazione@voland.it
Id: 2774 Data: 06/04/2021 17:17:22
*
- Libri
Autoritratto con pianoforte russo Un libro di Wolf Wondratsc
"Autoritratto con pianoforte russo" ... un libro di Wolf Wondratschek - Voland Edizioni 2021
Talvolta è il crepitio del fuoco nel camino, il suo tepore surriscaldato e asciutto in un giorno uggioso, a richiamare il desiderio di raggomitolarsi su di un ampio divano e di sfogliare le pagine di un libro; o magari, e perché no, di sprofondare su una vecchia comoda poltrona in un pomeriggio noioso, di quelli che non sai neppure cosa leggere … a me capita spesso, a voi no? Tanti sono i tomi (come mattoni) irrimediabilmente lunghissimi e noiosissimi che aspettano accumulati da qualche parte coi loro titoli smisurati che non lasciano spazio all’immaginazione, se non fosse che si è ormai convinti non esserci più fantasia, e non solo nello scrivere. Dipende, mi dico. Scegliere un libro non è affatto facile se non ci si vuole addormentare già alla prefazione. Del resto il mercato rigurgita per quanto riguarda i falsi storici, la cronaca nera, l'insulsaggine della politica, le guerre (in)civili e lo sterminio dei popoli, pandemia compresa, ce n'è a iosa, come se non esistesse nient'altro e per di più scritti da improvvisati tuttologi che dopo la premessa, più o meno accattivante, ci si accorge della loro tendenziosa volontà di deviazionisti, del tutto privi di sincerità altruistica, stracolmi di verità insidiose e deleterie per lo spirito. Sì che viene da chiedersi dove è finita l’armonia dei giorni passati a fantasticare, per quanto noiosi possano sembrare. Mi chiedo dove sono finite la narrativa accattivante, l’arte del racconto e del raccontarsi, l’immaginazione immateriale, l’astrazione della poesia, i sogni custodi della ‘bellezza’ che tanta parte hanno avuto fin qui, in questo nostro mondo obliterato(?). Allora ben venga un libro che parla del nulla, della dimensione onirica, del vuoto della solitudine, dell’incomunicabiltà latente di quanti avrebbero pure qualcosa da dire ma che lo riservano esclusivamente alla ricerca di possibili/impossibili ‘like’ senza volto e senz’anima. Ma ‘nell'esile durata dell’intervallo’, proprio quando il torpore della sonnolenza sta per raccogliere le spoglie del lettore pomeridiano, a un’ora indecente arriva il postino comunque benvenuto, a consegnare il plico contenente un libro nuovo di stampa dal titolo accattivante: “Autoritratto con pianoforte russo” del ‘redivivo’ Wolf Wondratschek, uno dei padri della Beat Generation che negli anni ’70 era famoso per le “raccolte di poesie dove i toni della musica rock si lega(va)no ai temi della cultura pop, e la sua tecnica letteraria ispirata al cinema che si combina(va) con la prosa corrosiva e una laconica ironia” (*) … Whow!, non mi rimane altro da fare, lo sfoglio immediatamente e mi butto sul divano, piacevolmente disturbato dal crepitio del fuoco …
L’incipit. “Interno caffè. Tutti i tavolini occupati. Tutte le barzellette raccontate. Tutti i giornali letti. Stranieri e locali. I camerieri ballano. L’aria un sigaro che brucia. Al mio tavolo un russo, un pianista in gioventù. Una celebrità dimenticata” …
Ragazzi ma scherziamo (?), finalmente ho in mano qualcosa di esplosivo, da leggersi tutto d’un fiato in questi giorni di fine inverno, segregato al chiuso per il ‘lookdown’ che coinvolge l’intera città, dove non c’è più niente da fare neppure a volerselo inventare. Ma infatti chi lo vuole (?), insomma volevo dire, in solitudine, che se non è l’apoteosi dell’ozio è certamente la sua apologia. Pensate, l’ozio come paradigma della metropoli, l’ozio come stile di vita, necessario (chi lo direbbe?) per avviare nuovi progetti di estetica culturale, nuove forme di agglomerati umani interessati (si fa per dire) alle nuove sfide sociali …
“Com’è essere soli? Ci si annoia? O si è tutti presi a combattere la solitudine? […] Non c’è più tempo per lavorare. E neanche tempo per riposare, starsene seduti e non pensare a niente.”
Niente. (?) Eppure è una soluzione. Ma se proprio non si trova di meglio si può sempre pensare a come raggirare l’ostacolo della perdita dell’economia (ir)reale, a come risolvere il problema della (dis)obbedienza civile, finanche a come arrivare e tornare da Marte.Non certo come rendere partecipi le nuove generazioni alla nozione culturale, o di come ovviare alla consapevolezza sociale, per non dire dell’arte, scherziamo, neppure l’ombra. Però ci si lamenta della svogliata noncuranza dei giovani a indossare le mascherine contro il letale Covid19, della rinuncia a cercare un lavoro, delle giovani coppie che non vogliono avere figli, dell’ostinata dissolvenza dei vecchi davanti alla televisione …
“Vede, disse (il vecchio pianista Suvorin), la lettura di una poesia, la lettura di un racconto o di un romanzo, non sono eventi sociali. Uno si siede, da solo, da solo con sé stesso e un libro, e legge. E a volte si ferma a riflettere, accantona il libro aperto per ripensare a una frase, a un punto preciso, a una certa formulazione che gli rivela la bellezza della lingua. Da ogni cosa si può associare tutto con tutto” … è così, non vi pare?
Oh sì, meglio la solitudine, afferma qualcuno, del resto fin da quando si nasce sappiamo d’essere soli, ma chiedersi ‘quanto si è soli quando si è soli’ è decisamente arduo rispondere. Ci prova egregiamente Wolf Wondratschek in questo libro di racconti in cui si racconta, e c’è da credergli, dove il minimo che può capitare, ma solo a chi è attento alle sbavature di un pianista (leggi lettore) che ben sa dove condurre la partitura, quale musica suonare sul pentagramma dell’esperienza, di quali (a)moralità non è illecito parlare, perché - viene da chiedersi - se in fondo anche queste fanno parte della vita (?). Così si finisce per dare ragione al nostro pianista alle prese con un autoritratto di cui “invero lo spirito della musica s’avvale”, come per un allegro e scherzoso rondò russo …
“Inconcepibile quanto un uomo possa diventare inutile, un uomo come me, che alla fine trova posto in un vuoto di memoria, senza scarpe, senza un sogno.”
Lo si direbbe un libro scritto da una presa di coscienza, in cui si riversa l’approvazione per una vita vissuta, allorché dopo l’applauso di rito (che accompagna ormai anche i funerali), ci si accorge che poi non era quello che volevamo, che aver vissuto non è stata una necessità individuale, ma un dovere sociale. Allorché svanita l’eco dei battimani quel che rimane non riguarda già più il suo e nostro tempo, ma la singola individualità di chi il tempo lo ha fatto, di chi lo ha scritto sulle pagine (ops!), sul pentagramma della storia (umana?). Certo è che la musica, straordinariamente quella impegnata(iva) che chiamasi ‘classica’, è qui protagonista insieme a Suvorin, l’anziano pianista della narrazione. Del resto se il titolo recita “..con pianoforte russo” non ci si può aspettare altro, benché ci sia moltissimo ‘altro’ nelle pagine fitte dell’esperienza (s)confessata di tutta una vita. Sì che neppure noi lettori infine ‘crediamo di credere’, o meglio di non avere una fede, di non amare se non noi stessi, di non … bla, bla, bla; mentre al contrario, dal momento che lo affermiamo, diamo conferma di aver radicate tutte le sue (non) convinzioni in noi stessi, poiché parte anche del nostro DNA, il pentagramma sul quale è già scritta tutta la nostra musica che suoneremo.
È così, magari il nostro amico pianista Suvorin, parla in ‘cirillico’, ma noi sappiamo che le note (dell’esistenza) suonano tutte allo stesso modo, quantomeno “l’istesso tempo”. Per quanto alle nostre orecchie il pianoforte dell’austriaco Schubert non suoni come quello russo di Rachmaninov, a sua volta diverso dai timbri sfumati del francese Debussy, diverso inoltre da quello di Shostakovich. Così come, solo perché vissuti in epoche diverse, le interpretazioni ‘romantiche’ di Svjatoslav Richter non sono paragonabili a quelle ‘moderne’ di Glenn Gould o dell'amatissima Clara Haskil, se pure la tastiera, le note, finanche la coda del pianoforte e lo sgabello hanno le stesse fattezze. Siete d’accordo? Il portento dei maestri russi non è qui messo in discussione, per quanto rileviamo le differenze dell’impatto acustico nell’incedere pianistico dell’uno piuttosto che dell’altra. Né chiedersi in che cosa consiste il "raggiungimento della perfezione" e “quale il prezzo da pagare per raggiungerla” in quanto parte di un insoluto musicale la cui domanda è ancora sospesa nell’aria, per lo più relegata al piacere dell’appagamento che se ne ricava. Ma è proprio questo il ‘clou’ a cui avviene l’autore del libro con una presunta domanda: 'se la musica pur così appagante necessita del nostro plauso o, se invece, ci rende schiavi delle sue sonorità, dei suoi amalgami con la danza e con la poesia (?) …
Lo so, lo sapete anche voi, non è facile trasformare il clap-clap delle mani o il suono delle vocali e delle consonanti in altrettante note musicali, né tantomeno le spaziature in bianco di una scrittura del silenzio, per quanto talvolta (direi spesso) il silenzio è decisamente la cifra di un’emozione più forte, che supera in ampiezza il sentimento, che di per sé darebbe senso all’amore e/o più semplicemente al fascino della bellezza che l’autore distribuisce in ogni pagina. Se si è d'accordo con lui che dice di non avere alcun credo, si corre il rischio di sentirsi compiuti, appagati, come fuori dal tempo, nell’incombenza d’una furtiva felicità che sembra non ci competa …
“Penso sempre ancora a tutti quelli che pregano e se ne stanno in silenzio, quando penso alla musica. In ogni nota sento sempre ancora, quando sento musica, la pioggia.” […] Non so se fossi felice. A impegnarmi erano cose più importanti che la voglia di felicità. A tutt’oggi non mi interessa conoscere la risposta. A volte penso che la felicità consista proprio nel non cercarla né volerla trovare. Più, felice ancora è chi non ne fa un caso, nemmeno nella sventura.”
Il silenzio della preghiera è come una sega che non viene, sarebbe stata la risposta bukovschiana che ci si aspetterebbe dall’iperrealista Wolf Wondratschek, ma, in quanto a Suvorin sul fatto di seguire o no un credo, alla domanda: “..e lei in cosa crede?” , la risposta arriva immediata e senza troppi convenevoli “..Ci penserò la prossima volta che ci vedremo. […] Questo è tutto. Forse , sforzandomi, un giorno crederò finalmente anche all’autorità di ciò che, in malafede, chiamiamo caso.” Inoltrandoci nella scioltezza della scrittura, viene affermato un principio inalienabile riguardante l’immortalità creata dai poeti, qui definita “pericolosamente bella” che, protetta dall’afflato d‘una immaginaria esecuzione musicale cosparsa in ogni pagina infuoca tutt’attorno: “..stare vicino alla fiamma tanto da farsi avvolgere dal fuoco, capisce?”, (sì da dover fare attenzione a non bruciarsi). Attenzione, ne vale l’immortalità annunciata. Ciò che talvolta, invece, richiede l’applauso del pubblico, ma che qui risuona come un azzardo, una sventatezza di cui quasi vergognarsi …
“Odio gli applausi. Che sciocchezza, tutto quell’applaudire! L’ultima nota deve ancora sfumare che subito (s’odono) urla, strepiti , bravo! Non un attimo di silenzio, nemmeno mezzo secondo. Che ignoranti! che Barbari! Nemmeno ascoltano l’eco, non vi si soffermano, non sono scossi, pieni di stupore, non vi è traccia di abbandono tra gli ascoltatori.” […] “Bisogna ascoltare, nella poesia che viene cantata, le consonanti, non giocarsi le vocali. È questo il segreto.”
Lo so, lo sapete anche voi, non è facile trasformare il clap-clap delle mani o il suono delle vocali e delle consonanti in altrettante note musicali, né tantomeno le spaziature in bianco nei vuoti del silenzio, per quanto talvolta (direi più spesso) il silenzio è decisamente la cifra di un’emozione più forte, che supera in ampiezza il sentimento, che di per sé darebbe senso all’amore e/o più semplicemente al fascino della bellezza che l’autore distribuisce in ogni pagina. Lui che dice di non avere alcun credo. Si corre il rischio di sentirsi compiuti, appagati, come fuori dal tempo, nell’incombenza d’una furtiva felicità …
“Penso sempre ancora a tutti quelli che pregano e se ne stanno in silenzio, quando penso alla musica. In ogni nota sento sempre ancora, quando sento musica, la pioggia.” […] Non so se fossi felice. A impegnarmi erano cose più importanti che la voglia di felicità. A tutt’oggi non mi interessa conoscere la risposta. A volte penso che la felicità consista proprio nel non cercarla né volerla trovare. Più, felice ancora è chi non ne fa un caso, nemmeno nella sventura.”
Nel frattempo … “Il caffè è colato, a gocce, nella tazza preriscaldata e così, a gocce –avverte l’autore – (Suvorin), beve dalla tazza. Atteggia le labbra come un flautista l’imboccatura, ma quello che sentiamo non è un suono, è un sibilo, non forte, e nemmeno sgradevole, come un respiro, il respiro più piccolo che ci sia. La lingua, piegata a cucchiaio, accoglie la prima goccia, l’assorbe, felice come questo può rendere felici” …
Oh sì! Il tutto ha richiesto un’attenzione particolare, una lettura perspicace, onde rimembrare il tempo vissuto fra uggie e silenzi, mentre fuori continua a cadere la pioggia, ogni goccia una nota che s’accompagna al crepitio del fuoco acceso che surriscalda il torpore dell’ozio … non ne sentite la musica, no? …
E dire che sono solo a metà del libro ... ..comunque vada, per favore non sparate sul pianista!
Pssst: vi innamorerete di Suvorin ... è un grande!
L’autore. (*) Wolf Wondratschek, scrittore, poeta, sceneggiatore (Rudolstadt 1943), cavalca dagli anni ’60/’70 la scena letteraria internazionale, in cui è noto come esponente della Beat Generation tedesca. La sua produzione cinquantennale comprende anche racconti, reportage e radiodrammi che alterna con la critica sociale, scritti intimistici, e ritratti di artisti.
Tradotti in italiano sono reperibili oltre al titolo qui recensito, “Mara. Autobiografia di un violoncello.” Con CD audio – TEA 2008.
Note: (*) Dalla presentazione di copertina. (**) Foto di copertina di Renzo Baggiani "La tazzina di caffé" - in Pinterest.
Edizioni Voland - www.voland.it
Id: 2770 Data: 01/04/2021 15:54:44
*
- Teatro
La caduta di Troia - Visto in RAI Teatro
"La caduta di Troia" tratto dal Libro II dell’Eneide virgiliana, visto in TV 13/03/21 - Rai5 per la serata dedicata al ‘Teatro’, con la voce recitante di Massimo Popolizio, accompagnato dalle musiche di Stefano Saletti e Barbara Eramo.
Se mai si volesse dare una ‘dimensione temporale’ alla recitazione di Massimo Popolizio, si dovrebbe ripercorrere dall’inizio la carriera di questo fine dicitore nonché interprete, doppiatore, commediografo, regista e quant’altro, e collocarlo nella contiguità della tradizione aedica che nella Grecia antica forgiava i cantori professionisti che nel ‘choros’ prendevano parte alle rappresentazioni del teatro classico, sia drammatico che tragico, e che più spesso erano anche compositori originali dei ‘canti epici’ che accompagnavano le parole col suono di strumenti musicali: “attraverso quelle stesse parole e quelle musiche – dice Popolizio – con le quali ho cercato di creare vere e proprie immagini, sì da far vedere ciò che è detto”.
Un melisma virtuosistico che in “La caduta di Troia”, una piéce che la critica letteraria e teatrale considera un “capolavoro assoluto per la sua struttura e per la sua forza tragica”, Massimo Popolizio ha concepito nel dare contiguità alla propria ‘voce narrante’ con l’ausilio di una seconda ‘voce cantante’, quella bellissima di Barbara Eramo, entrambe accompagnate per l’occasione da un raffinato amalgama di musiche realizzate da Stefano Saletti e dalla stessa Barbara Eramo, con strumenti tipici della tradizione mediterranea, quali l’oud, il bouzouki, il bodhran; ed altri ancor più antichi ed evocativi come il kemence, il daf e il ney, propri della tradizione persiana, dovuti alla presenza del musicista iraniano Pejman Tadayon.
L’amalgama tra le diverse culture musicali, quella Greca e quella Persiana, presenti nel testo virgiliano, è qui sostenuto dalla recitazione ‘èpica’ di Massimo Popolizio che dà prova della sua massima esperienza attoriale; e dal canto ‘aulico’ di Barbara Eramo, da cui, ripercorrendo la tradizione orale dell’epos greco e latino, il ‘mèlos’ alchemico raggiunge la sua forma mitica-estetizzante. Qui, l’ausilio ‘rapsodico’ degli strumenti musicali, non limitati al semplice ruolo di accompagnamento, si fa ‘corpo stesso della rappresentazione’, permettendo alle parti di raggiungere l’apice della ‘prova d’attore’ tout court.
Ma “La caduta di Troia” tratto dall’Eneide virgiliana, non è solo un testo letterario di grande spessore tragico, affinché arrivi ad essere un autentico ‘pezzo di teatro’ necessita di uno studio attento della voce, di una profusione verbale eclettica, a volte carica di modulazioni intimistiche, quasi labbiali; mentre, in altri momenti si addensa di pathos emotivo, più vicino a quella liricità poetica che già nell’antica Grecia l’avvicinava al ‘canto’. Liricità che diventa ‘magistralis’ ogni qual volta Massimo Popolizio, attore di scuola ronconiana, oggi tra gli interpreti più importanti del panorama teatrale e cinematografico, si confronta con testi di una certa levatura narrativa.
Inutile ripetere qui la trama che apre il secondo libro dell’Eneide virgiliana, per quanto è bene conoscerne almeno la tematica incentrata sull’inganno perpetrato dai Greci nella guerra che, dopo dieci anni d’assedio, porterà alla caduta della città di Troia, e si trasformerà per i troiani in un evento di morte e distruzione. Dacché, dopo la violenza della guerra, ha inizio il lungo peregrinare di Enea alla |