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Raccolta di articoli di Giorgio Mancinelli
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Libri

La Grotta del Castillo – un libro di Dario Spampinato - R:P:

La Grotta del Castillo – un libro di Dario Spampinato – Rise & Press 2023

 

“Spesso – scrive in sintesi l’autore di questo libro insolito che spazia dal vademecum alla guida ipotetica di un luogo arcano – sono guidato dall’invisibile pesantezza dei pensieri che, per quanto fantasiosi e corrucciati che siano, mi prendono la mano cercando una loro precipua libertà. È allora che accondiscendo al loro strenuo volere e, prima di lasciarli andare del tutto, ne fisso alcuni nella mente per evidenziarli e lasciar di loro una traccia.

Così facendo, e prima che ogni reminiscenza scompaia del tutto, li fisso nero su bianco e li trasformo in simboli, figure, in lettere e parole quali contrassegni e rappresentazioni dell’esistere”.

Ma non è tutto. Lo scenario, al contrario di tanti luoghi comuni, si presenta molto diverso da quello che si pensa sia la volontà di riempire un “vuoto” caratterizzato dalla solitudine e dalla malinconia. Sebbene “. . . la malinconia presupponeva la memoria, mentre persino la memoria qui tendeva a scomparire”, attratta da una metafora ancora più potente del “vuoto”, quella del “fuoco”, che ‘in illo tempore’ pur deve aver riscaldato gli animi, facendo ardere le passioni umane.

Quegli animi che, rispondendo alla seduzione del fuoco, ne restavano pur sempre segnati. “Il mondo è cominciato col fuoco e probabilmente finirà nel bagliore delle fiamme”, era scritto, e mi convinsi che solo allora, forse, ci saremmo avvicinati all’incontaminata uniformità del “nulla”, o forse del “tutto”, se la dimensione onirica del “tutto” commensurata al “nulla”, possa servire a formulare qualcosa che ancora abbia un senso.

Nulla di quelle ‘impronte’ lasciate sulla roccia sarebbe rimasto di lì a poco a testimoniare la presenza umana in quei luoghi. Il tempo – in astratto – le avrebbe cancellate restituendo loro l’incorruttibile integrità dell’eterno, allorquando, in quel nulla apparentemente immobile, eppure grandioso, la fantasia avrebbe potuto catturarle in modo vibrante e ossessivo, colto nell’abbagliante astrazione della luce.

Entro la quale s’impone l’irriducibile presenza del mito, retaggio di un’inconscia memoria senza volto a simulare il ritorno di perdute deità solari, informi e corrose dall’abbraccio segreto del tempo che inesorabile attraversa i secoli, portatore di un linguaggio arcano che non potevo conoscere, e che, soprattutto, non m’era dato comprendere.

“Insomma – scrive ancora l’autore – sembrava proprio che quell’insieme geometrico di segni e di forme create ventimila anni fa, indicasse come gli uomini, a prescindere dalle epoche nelle quali si trovavano a vivere, mantenessero sempre la medesima tendenza, quella di usare le stesse rappresentazioni simboliche che ancora oggi vibrano di attualità”.

Soprattutto, e se vogliamo, accostate a certe forme dell’arte contemporanea a quello che è l’immaginario collettivo, sebbene indiretto e a posteriori, come è ad esempio l’opera di Paul Klee, del quale leggiamo: "Il soggetto era il mondo, se pure non questo mondo visibile" al quale mi sono ispirato,  ma non è il solo. “È così che il mistero de La Grotta del Castillo è divenuto per me che scrivo, fonte d’inesauribile quanto intima ispirazione, quasi fosse una musica ancor viva e senza tempo che tutti ci accompagna dalla genesi del mondo all’indecidibile compimento del tutto”.

Un coro vibrante di voci che si leva contrassegnato da ancestrali echi e vuoti silenzi, che giunge a noi da un luogo estremo, sospeso fra ciò che realmente era e una realtà “altra”, che i soli sensi provati non riescono tuttavia ad afferrare, tuttavia “caricandoci di una sorta di responsabilità testamentaria, come di un’idea trascendente che chiede d’essere conosciuta ed esplorata nelle profondità dei significati intrinsechi”.

Un viaggio dunque di vibrante e ossessivo stupore iniziatico, allorché esplora l’abbagliante astrazione dell’arte ritrovata, dentro la quale s’impone l’irriducibile presenza del mito, retaggio di un’inconscia memoria senza volto a simulare il ritorno di perdute deità solari e ctonie informi e corrose, avvolte nell’abbraccio segreto del tempo, alla ricerca della memoria ancestrale del mondo, di quel trapassato remoto che  ancor prima di consegnarsi integro allo stupore del creato, abbiamo dimenticato, seppure nell’incertezza di poterlo stringere tra le mani e riconciliarlo col presente.

 

L’autore. Da sempre appassionato di sport, spazio, fisica, filosofia e scrittura, spinge la sua indagine navigando nell’imo della materia come un osservatore felicemente disperso nell’universo dell’uomo, del pensiero e del linguaggio, è stato ideatore dei “Quaderni di Via del Seminario” e numerosi scritti, tra i quali figurano numerose poesie. Come narratore, ha debuttato con il romanzo “Altrove”, seguito da “La storia di Se” entrambi editi da Altromondo Editore e “Il Barista Francese” edito da Le trame di Circe Editore, per arrivare a questo “La Grotta del Castillo” con il quale invita il lettore in un viaggio interiore, pari a un’avventura nel cuore dell’essere antropico straordinario cui tutti apparteniamo. 

 

Note: "." Tutti i virgolettati sono di Dario Spampinato.

 

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- Poesia e scienza

Daniele Barbieri ... e/o la metamorfosi del verso.

Daniele Barbieri e/o la metamorfosi del verso.

“…ci sono tre mondi nel creato: la tronfia raggera / dell’essere, la nuvola del senso, le rassicurazioni / del vedere, per quanto fuori fuoco – tra le cose fili di ragno a collegarle, impalcature inutili, ma belle”
“ci sono tre mondi dentro un fiore, un’illusione ottica, / una deriva, la ruggine un cancro nel ferro del mondo”

C’è, in chi ponendosi davanti allo spettacolo fluorescente che si offre al guardo, un vedere che va oltre la superficie smagliante dei colori, al delimitare perimetrale che la luce albale aggiunge alla genesi straordinaria delle forme elaborate dalla natura in innumerevoli metamorfosi clorofilliane che la percezione visiva, non senza un sussulto di vitalità, rende percepibile all’emozionale cognitivo le immagini estatiche dell’essenza subliminale, una indicibile psicologia ascensionale che conduce a una più aderente quanto inconscia poetica dello spazio …

“…esigono attenzione queste cose, bisogna ascoltare / i vetri che si infrangono nel fiore, petalo su petalo / per propagarsi nelle mille e mille minime esplosioni sul prato / al limite del bosco, luce, buio, filamenti / che insistono /… / rimani con me, tienimi stretta la mano, / racconta come il fiore ti cattura / ti accende di rosso, / inonda il cielo di scaglie di vetro, ti graffia le guance / a sangue, lancia tutt’attorno vetri rotti sullo stelo, / vetri neri sul giorno, attenzione esigono le cose”

Dacché il progressivo sviluppo della creatività semiotica che Daniele Barbieri, autore della silloge letteraria “Erbario vivido”, offre al lettore attento, di un possibile comportamento semiotico della volontà conoscitiva della parola, di pertinenza linguistica, che porta alla dottrina dei segni e dei gesti che l’accompagnano, per una presa di coscienza dell’equilibrio dei comportamenti elementari che hanno portato allo sviluppo della tecnologia materiale che governa il ciclo della nostra esistenza e regola le alterne fasi della nostra sopravvivenza …

“…verso l’alto, improvvisa si solleva la sorpresa gialla, / la raggiera più viola sovrapposta a quell’altra più bianca, / non che adorino Dio, non che ci pensino mai, solamente / spingono, crescono, l’aureola è falsa, dentro quella luce / sono miseri, eccentrici, soste profane nel corso del prato”

“…gloria della tua pelle appena viola dai gridi dei vasi, / dalla traccia rocciosa, poi dall’orlo cucito dei prati, / e l’ombra che ci brucia , nell’odore delle notti a luglio / sotto la luce che oscilla, sfarfalla, volano le sfingi /… / gloria della notte che non finisce , appena viola oppure bianca /… / gloria del profumo dell’orlo slabbrato / dell’aria umida, del non finire mai più, mai più, mai più”

C’è un che di sacro e profano volutamente ricercato nel linguaggio esplicito, come se nell’improvvisa evocazione dell’uno si perori un senso di colpa dell’altro, nel ricordo di una mancata presenza che tuttavia risveglia una sensualità onirica e onanistica “…che non tarda a dissolversi – lasciandosi penetrare – dalla bellezza della natura, la purità, il silenzio dell’aria”, come nel Marcel Proust più maturo de ‘Le temps retrouvé’, commisurata a un suggestivo excursus in cui l’autore dei versi mescola all’essenza delle cose e delle forme l’ibrido sentire soprasensibile di una costante metamorfosi clorofilliana, insieme ai propri umori emotivi, al fluttuare delle sfumature nei colori, filtrati alchemicamente nella sua tavolozza mimetica, attraverso le diverse esperienze interstiziali che si riscontrano nella finitezza epidermica delle parole …

“…progressioni diverse e imparentate di suggerimenti, / di struggimenti, poi di suggestioni, poi di suggerimenti / come una grossa ape legnaiola, nera e preoccupante / eppure buona, va di bianco in bianco, ci sembra che canti”

“…mi hanno inseguito le tue labbra, rosse sulla pelle /… / quasi umane, mi hanno detto della tua fragilità, di come / si sfaldi la tua vita in prospettiva /…/ contro il muro, forse, contro il vuoto, credi magari baciandomi / che il mondo si riaffacci dalla nebbia, delle tue radici / risale poca linfa, acqua forse non ti do abbastanza”

C’è una poetica dei segni e delle forme, dei colori e dei ritmi di un immaginario improntato su illuminanti osservazioni e associazioni linguistico-mnemoniche proprie della memoria visiva, analizzate nel loro comportamento biologico-vegetale, riflesso di una preponderante attività metafisica dell’autore, che si svolge nel tempo e nello spazio di un potenzialmente sviluppo rivolto a interferenze psico-esistenziali, attinenti all’esperienza della propria maturità interiore …

“…andavo in altalena la mattina /…/ nel giardino/ ma adesso in quei fiori / ci vedo Calder, funambolismi lievi, che oscillando / ti portano nell’intimo dell’aria, belle nella notte / quelle corolle sognano, noi siamo appesi dentro loro”

“Portulaca grandiflora, /…questo tuo esplodere, e un insetto estraneo a questo boato / immobile ma ritmico, rinuncia a tutto quando puoi / rinuncia alla bellezza quando puoi, esplodi, rinuncia / ad esplodere, vinci ogni colore fuori e dentro te, / essere insetto, perdere, smettere di sentire tutto, rinuncia la fiore, non essere, smetti di desiderare”
C’è una verità, , che si rincorre in ognuno di noi, sempre allo stesso modo eppur mai uguale, che si concentra nella consunzione accertata del ciclo vitale della nostra materia umana, che certo non disconosciamo ma che abiuriamo di voler conoscere, e che concerne quella finitezza che non c’è data …

“…sullo sfondo di un distacco di luce /… / quasi fosse un silenzio, variamente osceno, fino al fondo / frantumato del campo, / quasi fosse una storia vera”

“…la luna (Silene latifolia), fa da postino talvolta, recapita atti / in girandole bianche, quasi angeli (caduti) dalle ali crespe, / consegnando condanne in fogli candidi come corolle, /… / è sempre ambivalente il tuo destino (anatema), qualcuno ha deciso / per te, hai perso la causa, solo dopo la fine avrai la gloria (sentenza), / sotto la luna soltanto dolore, un figlio morto giovane (condanna), / sai che la lettera uccide, parole (di rosso sangue) sul bianco (anche l’amore uccide)”

C’è dunque un riscatto al dolo che inconsciamente abbiamo inflitto a quel Dio nascosto “nel bagliore sfiancante della storia”, ed è l’incomunicabile vicinanza dell’ombra che si rivela oltre la comprensione, custodita nel liminare labirintico della mente, nel singolare chiaroscuro che deforma l’esperienza materiale della vita. “E ora suonate alla danza ... lasciate che suonino i violini” scrive Paul Celan sull’orlo della notte che s’imbeve d’oscurità di tenebre e grida di morte, al cui invito sembra rispondere il nostro autore in esergo …

“…se vuoi danzare, tienimi, sollevati, grida molto forte, / sei la contraddizione del colore, sei rimasta secca, / apri le labbra, ma sei così piccola, gridi molto forte, /… / tu che oscilli dentro un ritmo di follia”

“…come un’erbaccia impolverata, tutto racconta miserie / immeritate, tutto testimonia bestemmie, eresie”

“…un sesso ostentato / paonazzo osceno, rosso vero, vivido, /… / afferravo col naso verità altrove improponibili, / credevo alla sua voce calma, al pelo minimo sul verde / delle sue foglie, era un tipo serioso, raccontava miti / africani, il suo sesso si levava improvviso, un vessillo / vociante, rosso, scarlatto, paonazzo, come fosse grida”

Pur c’è nel fitto che avvolge l‘incomunicabile vicinanza dell’ombra nelle parole di Daniele Barbieri, un ché sommesso che rivela ciò rimane di un amore, ‘interior intimo meo’, e che riemerge dalla solitudine esistenziale propria del solo essere umano…

“…dall’orlo del deserto / ispirano / venti imprevisti e ancora nomi, e fiori chiari nella / luce /…/ le cose (le piante e i fiori come gli animali) non trovano sempre le parole / per nascere nel mondo, mura cingono quello che passa”

“…nel buio, piccoli e fuori stagione, il nostro vecchio lutto / riemerge dalle luci sullo sfondo, che quasi spaventano, / sembrano dialogare con te, sono stelle monocordi / nel buio di dicembre, quasi sembrano polemizzare / con te /… / non c’è colore qui, soltanto spine, tormenti sul corpo /… / non c’è decorso qui, le spine dure al bordo dell’inverno / fanno corona al mito”

Quel mito dismesso che accoglieva in sé l’essenza linguistica incontrastata della comunicazione diretta sostituita ‘senza governance’ con altri sistemi di valori che, al contrario, accentuano ciò che più ci nega gli uni agli altri, con l’erigere barriere d’incomprensione, e che forse, nella speranza che non si riveli un’attesa vana, l’avvento dell’Intelligenza Artificiale riuscirà a riequilibrare. Ma solo se l’intero pianeta, questo nostro mondo altero, saprà avvalorare le sue funzioni primarie di quel processo scientifico comparativo che l’ha resa umana. In conclusione, per dirla con l’etologo Eibl-Eibesfeldt:

“Le potenzialità del bene sono biologicamente presenti in noi quanto quelle dell’autodistruzione”, pertanto adoperiamoci per il bene comune e restituiamo al mondo intero quella ‘pace’ edenica che l’autore avalla in queste sue “favole nello sguardo”.

Biografia dell’autore:
Daniele Barbieri, di formazione semiologo, insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha pubblicato numerosi volumi di carattere critico e raccolte di poesia. Presente inoltre nel blog “Guardare e Leggere” www.guardareleggere.net con sue opinioni su molti argomenti letterari e filosofici.

“Erbario vivido” è la silloge poetica contenuta nel libro “Rosso” di Daniele Barbieri, vincitrice del XXXVII Premio Lorenzo Montano, pubblicato nella collana La Ricerca Letteraria edita da Anterem Edizioni 2023.






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- Cinema

Cinema Industria - Mercato Europa

CINEMA INDUSTRIA / MERCATO EUROPA
in collaborazione con Cineuropa News

L'Osservatorio europeo dell'audiovisivo fa il punto sulla produzione indipendente e sul mantenimento dei diritti di proprietà intellettuale
di Davide Abbatescianni
18/04/2024 - Il nuovo studio scava in profondità nelle legislazioni nazionali dei 27 Stati membri dell'Ue più il Regno Unito
This week, the European Audiovisual Observatory (EAO) published a new report titled “Independent Production and Retention of Intellectual Property Rights”. The study, co-financed by the European Commission under the Creative Europe programme, explores the national approaches to defining independent producers and productions, while looking at the national rules governing the retention of intellectual property rights (IPR) concerning films, series and programmes when licensing them to broadcasters and on-demand audiovisual services.
The data used in the report were provided by a pan-European team of national experts and have been cross-checked with the respective national regulatory authorities.
The study opens with an executive summary outlining the scope of the research – namely, “to provide the European Commission with information on the retention of IPR by independent producers in the 27 member states of the EU and the UK” as well as “to offer a horizontal comparative review of the relevant national legal provisions, identifying trends and approaches”.
Following the methodology note, chapter three provides a comparative analysis of the different definitions of independent production and independent producers in Europe. Since there is no unified definition for such concepts in current EU legislation, national laws can define them in each country. The study indicates that 24 out of the 28 countries have a definition of either an independent producer or an independent production in their national legislation. While the criteria differ from country to country, the report outlines in detail the possible conditions and how they are applied in each country.
The first criterion relates to the financial independence of the producer in relation to the audiovisual media service (AVMS) provider, in terms of the capital participation or shares held by such a provider in the production company, its financial contribution to the co-financing of the audiovisual work and, lastly, its financial control over the production company. In other words, the producers’ control over their companies and the work being produced are key factors.
Next, the study zooms in on the “operational” criteria of independence, which refer to the ownership and business independence of the production company in relation to the AVMS provider.
Finally, the ownership of “secondary rights” is referred to as a criterion for the independence of the producer with regard to the AVMS provider under EU law. The report looks at how this criterion of the retention of IPR is used in national laws. In practice, only one-third of the countries studied include in their national legislation a reference to the ownership of "secondary rights" or IPR as a criterion for defining the independence of a producer in relation to an AVMS provider.
This chapter is rounded off by a look at how the rules on the retention of IPR apply when public service media providers commission the content. In this case, the rules governing the retention of secondary rights by the producer are expressly referred to, and their prerequisites are clearly determined.
Chapter four includes the country summaries for the 27 EU member states plus the UK. For each country, the authors provide the national definition for independent producers or production, when available. Moreover, they look at the national rules for the assignment and retention of IPR in each country.


CARTOON 2024 Cartoon Next
Tre emittenti pubbliche europee illustrano le loro nuove produzioni e le loro strategie di coinvolgimento del pubblico
di Davide Abbatescianni
17/04/2024 - La sessione, organizzata nell'ambito di Cartoon Next, ha visto la partecipazione di rappresentanti della RAI italiana, della HRT croata e della BBC
Day 3 of Marseille’s Cartoon Next (9-11 April) hosted a panel discussion titled “What’s Next for Our Broadcasters?”, moderated by Christophe Erbes. The talk saw the participation of Krešimir Zubčić, of Croatia’s HRT; Anna Taganov, of the BBC; and Annalisa Liberi, of Italy’s Rai Kids.
Liberi explained that Rai Kids’ engagement and production strategies adopt a cautious pace – probably slower than one would expect at a time when the landscape is dominated by a number of platforms and tech innovations. Rai Kids’ overall budget consists of €1.5 million for in-house productions, and €24 million for co-productions and acquisitions, including €18 million for animated content. “We strongly connect with kids and their families through our two linear channels, Rai Yoyo for pre-schoolers, and Rai Gulp for older kids,” she said, adding how Rai Radio Kids focuses on producing podcasts and other child-orientated audio content. Aside from rare exceptions, Rai Kids doesn’t have any slots on the pubcaster’s generalist channels.
The division’s main goals are providing the best content available for kids, supporting Italian and European creatives, and fostering innovative languages, styles and techniques. Rai Kids creatives are both young and established professionals.
She later touched on Rai Kids’ latest slate. In 2024, a special focus was placed on TV animated specials and shorts tackling contemporary issues, with an ideal running time of between 20 and 40 minutes. The Italian pubcaster invested about €250,000-400,000 in each project. A prime example of these is Acquateam, which sensitises its young audience to the importance of protecting life in the oceans, and Bruno Bozzetto’s TV special Sapiens?, which explores whether humans are “sapient” enough. The special is made up of three stories using three different techniques (2D, 3D and CGI), focusing on three different historical musicians (Beethoven, Verdi and Chopin).
Other ambitious projects on the Rai Kids slate touched upon during Liberi’s presentation were Lampadino e Caramella (focusing on diversity), Go go around Italy (centred on Italian geography), Oblò (revolving around fake news), Un cerotto per amico (providing basic medical advice), Quando batte il cuore (a show about emotions), Hello Yoyo (teaching English language), Il mondo di Leo (an animated series about autism) and Clorofilla (placing an emphasis on nature and sustainability).
When asked about the future horizons of European animated productions, Liberi said: “The examples I showed are what I think is about to happen. We still don’t know the recipe, but if you ‘meet’ the right characters and stories, you’re able to spot them after years of working in this business. And I think we have to keep up our ability to look at the different productions from our audience’s viewpoint. […] The most important things remain storytelling and character-driven stories.”
Next, Zubčić spoke about Croatia and other Central Eastern European countries’ efforts to find ways to cooperate together, build their presence at markets and festivals, produce independent content and find common strategies. He mentioned the pivotal role of CEE Animation and the Animation Festival Network, which includes several gatherings from the region. “We try to stick together to find money and survive the challenges of tech, and to keep going with the quality of our programming and shows, rather than [focusing on] quantity,” he underscored. He also touched upon Eeva, an Estonian-Croatian co-production that premiered at the Berlinale last year, and added how several other films are in production that see CEE and other Eastern European countries working together “like never before”. Finally, he admitted how HRT and other pubcasters are losing their audiences aged between six and 24 on linear channels, and mentioned a general lack of specialised press for animation professionals.
Later, Taganov introduced her work for the Manchester-based division of the British pubcaster, for which she works as head of content strategy. Her role entails overseeing two linear channels as well as the content made available on iPlayer, the BBC’s own VoD platform able to compete locally with streaming giants.
“Apart from that, we’ve got a very strong curriculum-based educational offering, [available] online only; [we also host] CBBC, the oldest-running TV news for children as well as game apps for pre-schoolers based on BBC properties. We’re also very present on social-media platforms, including YouTube and TikTok,” she explained.
The BBC is obliged by its regulators to produce 350 hours of youth-orientated content per year – 100 for pre-schoolers and 250 for older children – “right across every known genre, apart from horror”. Audience analysis centres on measuring “time and attention” through collecting “viewing hours and requests”. Moreover, the pubcaster’s new content strategy was revised three years ago: it’s now based on five pillars, and one of them is animation.
Towards the end of the panel, Taganov spoke about the recent children’s animation talent-search programme, aimed at discovering and producing fresh content from a diverse pool of artists. “UK residents were able to apply, and we judged them anonymously. We received 1,000 ideas and narrowed them down to three titles: Duck and Frog, Captain Onion’s Buoyant Academy for Wayward Youth and The Underglow.”

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- Cinema

Lab Femmes de Cinéma - nuovo rapporto sulle donne registe

INDUSTRIA / MERCATO Europa
Lab Femmes de Cinéma pubblica un nuovo rapporto sulle donne registe nell'industria audiovisiva europea. Articolo di Olivia Popp by Cineuropa News

08/04/2024 - Lo studio rivela un maggiore interesse in tutta Europa per la lotta alla violenza sessuale e ai pregiudizi inconsci, ma la parità di genere va a rilento
Lab Femmes de Cinéma recently released its newest report, titled “Qualitative Study on the Place of Female Directors in Europe” (authored by Lise Perottet), on gender-inclusive practices and structural barriers for female filmmakers in the European film and audiovisual industry. Led by co-founder and director Fabienne Silvestre, the French think-tank focuses on industry issues surrounding gender parity, diversity and representation.
This is the eighth annual edition of the report, which has received support from the French Ministry of Culture since 2022 and the French National Centre of Cinema (CNC) since 2023. The study is produced in collaboration with the European Film Agency Directors Association (EFAD). Translations of the French- and English-language study into Italian, Lithuanian and Serbian have been led by the Moving Images – Open Borders (MIOB) network, which comprises seven European film festivals.
The 2023 study builds on the previous version, highlighting major trends in measures implemented against sexual violence and a growing interest in supporting gender diversity. It also examines new trends in supporting the careers of women directors as well as efforts to combat unconscious bias within selection committees, thereby improving representation.
This edition compiles data from the national film agencies of 36 countries in addition to using quantitative statistics from the European Audiovisual Observatory (EAO). Thirty-one of the 36 countries surveyed have introduced gender-equality measures, while ten are implementing training, workshops or initiatives to reduce unconscious bias. The study also highlights initiatives to diversify and make national industries more representative on the whole, which includes gender diversity as a part of the broader effort.
While gender parity has been reached in film schools, the lab reports that only 23.92% of first or second feature directors are women, while the percentage plummets to 15.41% for a director’s third film and beyond. Using the European average for women filmmakers and historical trends, gender parity between male and female directors will only be reached in 2080.
Sixteen countries have committed to combatting gender-based and sexual violence. The study notes that national film centres have “taken a particular interest in violence committed on film sets and have encouraged film crews to call on the services of intimacy coordinators when shooting intimate scenes”.
Conversely, only six countries have adopted measures to help with childcare costs and assist working parents, regardless of gender. “Studies show that having children puts women at a greater disadvantage in the world of work: helping parents actually leads to greater equality in creative conditions between women and men,” the report continues.
Since the publication of the first edition of the study, countries have been reluctant to implement quotas, in terms of both funding and project prioritisation. Only one country, Spain, “has introduced quotas for film financing”, where, “since 2020, a share of the total grants budget [from the ICAA] must be given to projects by female directors”.
In the study, Lab Femmes de Cinéma reiterates its commitment to collecting data, publishing further editions of the report, and “encouraging countries to take a reflective look at their own measures and be open to the innovative practices of other countries”. It also calls for “more proactive” efforts to break down “gender stereotypes and structural exclusion mechanisms that are still in place” in the European cinematographic industry.


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- Cinema

Fabbricante di lacrime un film di Alessandro Genovesi

Fabbricante di lacrime di Alessandro Genovesi è il più visto al mondo su Netflix

di Camillo De Marco
10/04/2024 - Il film indirizzato ad un pubblico di adolescenti, attesissimo in Italia dopo il successo del romanzo da cui è tratto, è al primo posto dei titoli più visti sulla piattaforma

Come riporta il sito aggregatore di dati FlixPatrol, Fabbricante di lacrime (titolo internazionale The Tearsmith), di Alessandro Genovesi, è oggi il film più visto al mondo su Netflix, primo nella top ten generale (non quella dei “film non in lingua inglese”). Prodotto da Colorado Film con un budget dichiarato di 6.575.585,00 (fonte Direzione Generale Cinema e Audiovisivo), il film era attesissimo dal pubblico appartenente alla Generazione Z, che dal giorno del suo sbarco sulla piattaforma statunitense, il 4 aprile, ne ha decretato il successo in tutto il mondo.
Un trionfo nato già sulla carta, cioè dall’enorme ed inaspettato successo editoriale del libro omonimo da cui è tratto, firmato con lo pseudonimo di Erin Doom da una giovane scrittrice italiana che nel 2020 aveva pubblicato autonomamente il romanzo, entrato immediatamente in classifica su Amazon. L’anno seguente l’editore Magazzini Salani ne ha acquisito i diritti per ripubblicarlo, e nel 2022 era tra i libri più venduti in Italia con 450mila copie. La sceneggiatura del film tratta dal romanzo adolescenziale è stata realizzata dello stesso regista con Eleonora Fiorini, autrice di una decina di titoli tra film (La fisica dell’acqua [+]) e serie tv. Alessandro Genovesi ha girato nel 2021 7 donne e un mistero [+], dal film 8 donne e un mistero [+] di François Ozon, e ha al suo attivo altre 7 commedie come regista, dopo aver firmato la sceneggiatura di Happy Family [+] di Gabriele Salvatores nel 2010. Lo affiancano Luca Esposito alla fotografia e Claudio Di Mauro, Simone Rosati e Andrea Farri al montaggio.
Gran parte del cast di Fabbricante di lacrime è composta rigorosamente da attori giovanissimi, alcuni dei quali al primo lungometraggio, affiancati da interpreti con maggiore esperienza: Caterina Ferioli, Simone Baldasseroni, Alessandro Bedetti, Nicky Passarella, Roberta Rovelli, Orlando Cinque, Sabrina Paravicini, Eco Andriolo e Sveva Romana Candelletta. Il film racconta di Nica, una diciassettenne che vive in un orfanotrofio dove si perpetua la leggenda di un misterioso artigiano, il fabbricante di lacrime del titolo, responsabile di tutte le paure e le angosce che abitano il cuore degli uomini. Nica viene adottata dalla famiglia Milligan, assieme ad un altro ospite dell’orfanotrofio, Rigel, giovane inquieto e misterioso. Insieme dovranno superare il passato di dolore e privazioni che li unisce e accogliere “quella forza disperata che li attrae uno verso l’altra che si chiama amore”.

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- Cinema

Cineuropa torna su Instagram - Tutto Cannes


CINEUROPA
Cineuropa torna su Instagram

04/04/2024 - La nostra rinnovata pagina sul social network promette di offrire contenuti accattivanti e scorci esclusivi sul mondo del cinema.
After a brief hiatus, Cineuropa is thrilled to announce its revived and reinvigorated presence on Instagram, promising a treasure trove of captivating content and exclusive glimpses into the world of cinema.
At Cineuropa, we are dedicated to celebrating the art of filmmaking in all its diversity and splendor. Our renewed Instagram profile will serve as a dynamic hub where followers can immerse themselves in the magic of cinema, discover hidden gems and stay updated on the latest happenings in the film industry.
One of the highlights of our return is our commitment to bringing you closer to the heart of the most prestigious film festivals, such as Berlin, Cannes, Venice, San Sabastian, Tallinn and many others. Through our Instagram platform, we will be sharing exciting photos, behind-the-scenes moments and insightful commentary from the main film festivals, offering you a front-row seat to these cinematic extravaganzas.
In addition to festival coverage, Cineuropa will be curating a diverse range of content, including film reviews, interviews with industry insiders and trailers. We invite you to join us on this exhilarating journey as we explore the boundless creativity and storytelling power of the silver screen.


CANNES 2024 di Fabien Lemercier

Cannes tesse la sua coperta da cerimonia a 7 giorni dall'annuncio del programma
04/04/2024 - Tendenze, indiscrezioni e ipotesi si rincorrono nel nebuloso periodo che precede la conferenza stampa di presentazione della Selezione ufficiale l'11 aprile
I registi Andrea Arnold (© Oscilloscope Pictures), Yorgos Lanthimos (© Fabrizio de Gennaro/Cineuropa), Audrey Diwan (© MI482MFLL), Miguel Gomes (© Telmo Churro/O Som e a Fúria), Athina Rachel Tsangari, Jacques Audiard (© La Biennale di Venezia - foto ASAC), Alain Guiraudie (© Erdrokan), Dea Kulumbegashvili (© Jorge Fuembuena/SSIFF) e Paolo Sorrentino (© La Biennale di Venezia - foto ASAC)
With some very lengthy shortlists, films being submitted later and later, decisions to follow suit (compounded by the festival’s wish to allow itself the greatest possible clarity when making its selection, and maybe even by the tactic of making life a tad more difficult for the selectors at major festivals coming later in the year) and a stricter code of silence, the task of identifying, in advance, the lucky titles chosen for the different selections of the Cannes Film Festival has become an increasingly divinatory exercise fueled by a number of investigatory elements collating rumors, tips, trends (before being chosen – or not – the films are seen by certain people, and their potential for Cannes is evaluated in a wider context), and even intuitions. The only things we currently know for certain are that The Second Act by Quentin Dupieux (see the news) will open the 77th edition (14-25 May) and that Furiosa: A Mad Max Saga by Australia’s George Miller (see the news) will make a splash out of competition.
However, the crystal ball is rapidly getting clearer and clearer now, exactly one week away from the Official Selection press conference in Paris, during which Thierry Frémaux (flanked by president Iris Knobloch) will reveal the results of his ruminations, judicious balancing acts and combinations that will inevitably have a snowball effect, subsequently redefining the content of the parallel sections. And so, let us fling open the window to Cannes and gaze into the 2024 "palantír".
In the official competition, jury chair Greta Gerwig (see the news) should allegedly be able to watch Bird by Brit Andrea Arnold, Kind of Kindness by Greece’s Yorgos Lanthimos, Limonov by Russia’s Kirill Serebrennikov, Grand Tour by Portugal’s Miguel Gomes, The Shrouds by Canada’s David Cronenberg, two Italian films (one of which is Parthenope by Paolo Sorrentino and the other a total surprise), Ainda estou aqui by Brazil’s Walter Salles, Anora by the USA’s Sean Baker, Oh, Canada by his fellow countryman Paul Schrader, Everybody Loves Touda by Morocco’s Nabil Ayouch, Serpent's Path by Japan’s Kiyoshi Kurosawa and a documentary by China’s Lou Ye. If he manages to finish it before the deadline, we could add The Apprentice by Danish-based, Iranian-born director Ali Abassi, and we also mustn’t overlook the likelihood of Maria by Chile’s Pablo Larrain being picked. Then, all bets are off for the remaining slots (apart from the French contingent) with, among other outsiders, Georgia’s Dea Kulumbegashvili with Those Who Find Me, Greece’s Athina Rachel Tsangari with the English-language flick Harvest, and even a wild card in the form of L’effacement by Algeria’s Karim Moussaoui.
As for the French hopefuls (the fates of whom are traditionally sealed on the evening before the revelation of the Official Selection), it’s anybody’s guess, apart from Jacques Audiard, who seems an almost dead cert with Emilia Perez. The most prominent predictions swirling around are Miséricorde by Alain Guiraudie and La Chambre de Mariana by Emmanuel Finkiel. The eagerly anticipated Emmanuelle by Audrey Diwan is apparently in a somewhat uncertain position, going for the competition or nothing at all. The other female directors among the most credible candidates are Delphine and Muriel Coulin with The Quiet Son, and Patricia Mazuy with Les prisonnières. In addition, Thierry de Peretti might be in the running with À son image (which is in the final stages of editing).
For the rest of the Official Selection (Out of Competition, Cannes Première, Un Certain Regard, Special Screenings and Midnight Screenings), a lap of honour for the USA’s Francis Ford Coppola (with this year marking the 50th anniversary of his first Palme d’Or, for The Conversation) with his new opus, Megalopolis, is not totally out of the question (provided that a distributor such as Apple gets on board quickly). The programme could potentially also comprise the documentaries La belle de Gaza by France’s Yolande Zauberman and Meeting with Pol Pot by Cambodia’s Rithy Panh, When the Light Breaks by Iceland’s Runar Runarsson, The Village Next to Paradise by Somalia’s Mo Harawe, Viet and Nam by Vietnam’s Truong Minh Quy, Une part manquante by Belgium’s Guillaume Senez, Submergée by French-Lithuanian director Alanté Kavaité, Things That You Kill by Iran’s Alireza Khatami, Dreams by Norway’s Dag Johan Haugerud (the second instalment in his trilogy that began in the Berlin Panorama with Sex [+]), Mexico 86 by Belgian-Guatemalan helmer Cesar Diaz and On Becoming a Guinea Fowl by British-Zambian filmmaker Rungano Nyoni. Standing out among the possible French features (unless they are headed to Venice) are Three Friends by Emmanuel Mouret, Spectateurs ! by Arnaud Desplechin, Marcello Mio by Christophe Honoré, Quand vient l’automne by François Ozon, and Jim’s Story by Arnaud and Jean-Marie Larrieu, and perhaps even Beating Hearts by Gilles Lellouche or the medium-length film C'est pas moi by Leos Carax. It’s also worth pointing out the tight competition between a handful of young French filmmakers: Noémie Merlant with The Balconettes, Jessica Palud with Maria, Charlène Favier with Oxana, Aude Léa Rapin with Planète B., Laetitia Dosch with Who Let the Dog Bite? and Ghost Trail by Jonathan Millet.
As for the parallel sections, Ma vie, ma gueule by the late Sophie Fillières could embellish the showcase of the Directors’ Fortnight, much like, among others, Sang craché des lèvres belles by France’s Jean-Charles Hue, Une langue universelle by Canada’s Matthew Rankin, All We Imagine as Light by India’s Payal Kapadia, Milano by Belgium’s Christina Vandekerckhove, the documentary La chambre d’ombres by Colombia’s Camile Restrepo, Morlaix by Spaniard Jaime Rosales, Agora by Tunisia’s Ala Eddine Slim, Stranger Eyes by Singapore’s Yeo Siew Hua and Eight Postcards from Utopia by Romania’s Radu Jude and Christian Ferencz-Flatz, and even Horizonte by Colombia’s César Augusto Acevedo.
Moving on to the Critics’ Week, some of the titles that we could highlight from the extensive shortlists still in consideration today (while we await the definitive choices for the Official Selection) are Sisters by French-Greek helmer Ariane Labed, The Mountain Bride by Italy’s Maura Delpero, Little Trouble Girls by Slovenia’s Urška Djukić, Simón de la montaña by Argentina’s Federico Luis Tachella, My Sunshine by Japan’s Hiroshi Okuyama, and the French movies Eat the Night by Jonathan Vinel and Caroline Poggi, Diamant brut by Agathe Riedinger, Un mohican by Frédéric Farrucci, Le Royaume by Julien Colonna and Vingt dieux by Louise Courvoisier.
Finally, a clutch of animated flicks could also manage to wangle their way onto the Croisette this year (although Cannes has never been very fond of the genre, especially with the Annecy Film Festival coming soon after it in France). In particular, the potential titles include Memoir of a Snail by Australia’s Adam Elliot, Flow by Latvia’s Gints Zilbalodis, Ghost Cat Anzu by Japan’s Yoko Kuno and Nobuhiro Yamashita, and The Most Precious of Cargoes by France’s Michel Hazanavicius.
CANNES 2024 Semaine de la Critique di Fabien Lemercier
Rodrigo Sorogoyen presidente di giuria della Semaine de la Critique a Cannes
05/04/2024 - Il cineasta spagnolo presiederà il mese prossimo la giuria della sezione parallela cannense. Tasked with handing out the Grand Prize in the 63rd Critics’ Week, which will unspool from 15-24 May as an integral part of the 77th Cannes Film Festival, the section’s jury will be chaired by Spanish filmmaker Rodrigo Sorogoyen, who steps into the shoes of previous presidents Audrey Diwan, Kaouther Ben Hania, Cristian Mungiu, Ciro Guerra, Joachim Trier, Kleber Mendonça Filho, Valérie Donzelli, Ronit Elkabetz, Andrea Arnold, Miguel Gomes, Bertrand Bonello and Lee Chang-dong.
As a reminder, Rodrigo Sorogoyen presented The Beasts [+] in the Official Selection (Cannes Première) in 2022 and Madre in Venice’s Orizzonti in 2019. He has also taken part in the competition at San Sebastián twice (with The Realm in 2018 and with May God Save Us in 2016, which took home the Best Screenplay Award).
The remaining members of the jury will be unveiled at a later date.
CANNES 2024 di Fabien Lemercier
Le Deuxième Acte apre Cannes
03/04/2024 - Il nuovo film di Quentin Dupieux, con Léa Seydoux, Vincent Lindon, Raphaël Quenard e Louis Garrel, aprirà la 77ma edizione del Festival di Cannes il 14 maggio
The daring, unpredictable and funny Quentin Dupieux will open the 77th edition of the Cannes Film Festival (14-25 May) with his 13th feature, The Second Act, presented Out of Competition and released in all French cinemas on the same day by Diaphana.
As a reminder, the prolific filmmaker has already been to the Croisette three times (2010 Critics' Week with Rubber, 2019 Directors' Fortnight with Deerskin, and in the 2022 Official Selection, in a Midnight Screening, with Smoking Causes Coughing). He has also been selected three times for Venice (Out of Competition in 2020 and 2023 with Mandibles and Daaaaaali!, in Orizzonti in 2014 with Reality), at Sundance in 2012 with Wrong, Out of Competition at the 2022 Berlinale with Incredible but True and twice at Locarno (in the 2013 Piazza Grande with Wrong Cops and in Competition last year with Yannick).
The film stars Léa Seydoux, Vincent Lindon, Raphaël Quenard, Louis Garrel and Manuel Guillot. Written by the director himself, the screenplay homes in on Florence, who wants to introduce David, the man she’s madly in love with, to her father, Guillaume. But David isn’t attracted to Florence and wants to throw her into the arms of his friend Willy. The four characters meet in a restaurant in the middle of nowhere.
The Second Act is produced by Chi-Fou-Mi Productions, and its international sales are handled by Kinology.
CANNESERIES 2024 di Fabien Lemercier
Canneseries: un canto del cigno per la stagione 7?
03/04/2024 - 27 serie, di cui 21 in concorso, brillano nel programma dell'evento di Cannes, che in futuro dovrà fare i conti con l'annunciata partenza del MipTV per Londra
While there may be legitimate doubts about its longevity or, at the very least, about its dates, given that the MipTV market (8-10 April) it had been attached to is set to make a definitive move from Cannes to London in 2025, the Canneseries festival will unspool its seventh edition from 5-10 April. It’s a turbulent new episode in a saga worthy of Clochemerle, as the event was originally born of Canal+ and the city of Cannes’ refusal to accept the French government’s choice of Lille and Series Mania as the venue to organize an international series showcase in France.
However, these questions swirling around its future have by no means prevented Canneseries from offering another superb programmed this year, including a main competition that pits eight series (six of which are European) against each other, with four world and four international premieres. The jury is chaired by Danish actress Sofie Gråbøl (flanked by her colleagues Alice Braga from Brazil, Macarena García from Spain and Alix Poisson from France, as well as by composer Amine Bouhafa and director Olivier Abbou).
Featuring on the menu of this main competition are the 6 x 36-minute Danish show Dark Horse (which explores a mysterious and toxic mother-daughter relationship against a backdrop of addiction), created by Sara Isabella Jønsson, and the 10 x 30-minute Norwegian series Dumbsday (crated by Marit Støre Valeur, Erlend Westnes and Christopher Pahle), which tells of the rite of passage of a bunch of six no-hopers on whom the entire future of humankind depends, following a deadly pandemic. Also vying for the prize is a show bringing together Spain, Sweden, Germany and Finland, the 8 x 40-minute This Is Not Sweden (created by Aina Clotet, Valentina Viso and Daniel González), which recounts the turbulent journey of two young parents who have left the city behind in order to enjoy the countryside and all its benefits.
Also duking it out is the 6 x 50-minute show Moresnet (produced by Belgium, the Netherlands and Germany, and created by Frank Van Passel, Jef Hoogmartens and Jonas Van Geel), which thrusts two childhood friends into an investigation blending fantastical elements and a neurotechnology multinational. Lastly, also taking part are the 6 x 45-minute German effort The Zweiflers (which examines a case of inheritance involving a family at the helm of a delicatessen empire, created by David Hadda) and the 8 x 50-minute Operation Sabre (produced by Serbia together with Bulgaria, and created by Vladimir Tagić and Goran Stanković), which looks back at the dark hours following the fall of Milošević, with a detailed reconstruction of the assassination of prime minister Zoran Djindjic in 2003.
Another two competitions will see eight short series (with Norwegian actress Henriette Steenstrup chairing the jury) and five documentary series (with French director Ovidie presiding over the jury) locking horns. Six titles screening out of competition round off the programme, with particular highlights being the French series Becoming Karl Lagerfeld (see the news), Fiasco (toplined by Pierre Niney) and Terminal (which will open the festival), plus the Netherlands’ Máxima.
Interestingly, the Icon Award will be handed to the USA’s Kyle MacLachlan, the Commitment Award to his fellow countrywoman Michaela Jaé Rodriguez and the Rising Star Award to Brit Ella Purnell.



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- Cinema

Cinema - con Cineuropa News

Cinema con Cineuropa News

Film / Recensioni Italia
Recensione: “Eravamo bambini”
di Vittoria Scarpa

20/03/2024 - Marco Martani dirige con disinvoltura il suo terzo lungometraggio, che combina thriller di vendetta e film di formazione, tratto da un monologo teatrale di Massimiliano Bruno. Cinque giovani antieroi in cerca di vendetta, vent’anni dopo un tragico evento che ha segnato le loro vite, quando erano poco più che bambini. Ma il passato torna sempre e, prima o poi, tocca farci i conti. È un riuscito mix di Revenge thriller e film di formazione il nuovo film di Marco Martani, Eravamo bambini, presentato lo scorso ottobre in Alice nella città (18ma Festa del cinema di Roma) e ora in uscita nelle sale italiane, il 21 marzo con Europictures. Liberamente tratto dal testo teatrale Zero di Massimiliano Bruno, che firma la sceneggiatura insieme al regista, il terzo lungometraggio di Martani (Cemento armato, La donna per me) è innanzitutto un dramma umano che intreccia tre piani temporali diversi e cinque storie di vite spezzate, quelle di un gruppo di amici che condividono un trauma lacerante, ma che da quel fatidico giorno d’estate di venti anni prima non si sono mai più visti. Tutto ha inizio in un piccolo paese della costa calabra, dove il cosiddetto Cacasotto (Francesco Russo), considerato un po’ lo scemo del villaggio, viene fermato dalla polizia, di notte, nei pressi della villa di un potente uomo politico locale, con un lungo coltello in mano. Trasportato in caserma, Cacasotto comincia a parlare. Subito dopo ci vengono presentati, uno per uno, gli altri protagonisti, ognuno alle prese con le proprie esistenze disfunzionali: Gianluca (Alessio Lapice) è un poliziotto che fatica a controllarsi quando si tratta di usare il manganello; Margherita (Lucrezia Guidone) fa la giornalista e si dedica al sesso occasionale più degradante; Walter (Lorenzo Richelmy) è un trapper di successo, scontroso e ruvido, anche con sua figlia piccola; Andrea (Romano Reggiani), fratello minore di Margherita, fa uso di droghe pesanti e prende botte dagli strozzini.
È una sequela di tranches de vie desolanti quella a cui si assiste all’inizio, inframezzate da immagini ben più calde e solari, che si rivelano poi appartenere a molti anni prima e riguardare proprio quegli stessi personaggi, da piccoli, quando con i loro genitori trascorrevano le vacanze al mare, in Calabria. Quando un sms compare sul cellulare di ciascuno di loro, oggi trentenni, chiamandoli a raccolta per una tanto attesa, e non meglio specificata, resa dei conti (“è arrivato il momento, chi c’è c’è”), il puzzle comincia pian piano a ricomporsi. Compare quindi un sesto membro di quella vecchia banda di amici, Peppino (Giancarlo Commare), figlio del temibile onorevole Rizzo (incarnato da Massimo Popolizio) e a sua volta segnato da una figura paterna a dir poco ingombrante.
Co-fondatore della società di produzione Wildside e autore di oltre 50 sceneggiature per il cinema (tra cui quella di La mafia uccide solo d’estate, premio EFA 2014), Martani dirige con disinvoltura i frammenti di questo intreccio che si fa via via più decifrabile, mantenendo una buona dose di suspense fino alla fine e offrendo non pochi colpi di scena. Supportato da un cast di attori giovani ma già esperti, in piena sintonia fra loro e abili nel restituire le varie sfaccettature dei loro personaggi (non sono eroi che vanno incontro alla vendetta, ma persone traumatizzate rimaste congelate a quel giorno di vent’anni prima), il film offre una buona variazione, dolente e a tratti cruda, sul tema dell’innocenza perduta.
Eravamo bambini è una produzione Minerva Pictures e Wildside, in collaborazione con Vision Distribution e Sky.


One World Prague 2024
I diritti umani e le loro violazioni sono al centro del 26mo One World Film Festival
di Ola Salwa

20/03/2024 - L'evento internazionale prende il via oggi a Praga con 96 lungometraggi e 10 progetti VR, oltre ad alcuni titoli di fiction, per la prima volta in selezione
A screening of the Oscar-winning documentary 20 Days in Mariupol by Mstyslav Chernov will open the 26th edition of the Czech-based One World International Human Rights Film Festival, which unspools from 20-28 March in Prague, Boskovice, Jeseník, Šumperk and Vsetín. In the following days and weeks, the event will expand to 43 other cities in the country and will run until 21 April. This year’s selection encompasses ten VR projects and 96 full-length films, including narrative forms for the first time ever. The programmed is organized into competitive and non-competitive thematic sections, which cover much-discussed and relevant issues: Identities, Structures of Power, The Middle East, Ecosystems, Searching for Freedom, On the Edge of Maturity, and Communities.
The International Competition rounds up 11 documentaries that – apart from A Shaman’s Tale by Beata Bashkirova and Bashkirov Mikhail (Czech Republic/France/USA), which is enjoying its world premiere – have already passed through other festivals, garnering recognition and accolades along the way. They are A Bit of a Stranger by Svitlana Lishchynska (Sweden/Ukraine/Germany), A New Kind of Wilderness by Silje Evensmo Jacobsen (Norway), Agent of Happiness by Dorottya Zurbó and Arun Bhattarai (Bhutan/Hungary), Flickering Lights by Anirban Dutta and Anupama Srinivasan (India), Hollywoodgate by Ibrahim Nash'at (Germany/USA), KIX by Bálint Révész and Dávid Mikulán (Hungary/Croatia/France), Life Is Beautiful by Mohamed Jabaly (Norway/Palestine), Silence of Reason by Kumjana Novakova (Bosnia and Herzegovina/North Macedonia), The Monk by Mira Jargil and Christian Sønderby Jepsen (Denmark/Netherlands) and, last but not least, Venezuela: Country of Lost Children by Marc Wiese and Juan Camilo Cruz Orrego (Germany).
On top of that, the audience can watch films gathered within the Immersive Films Competition, Right to Know Competition and Czech Film Competition. The festival also offers in-depth conversations with the filmmakers and experts that will enhance the reception of the films and provide additional context to the conversation about them.
The narrative film selection includes festival darlings like Estibaliz Urresola Solaguren’s 20,000 Species of Bees, Ladj Ly’s Les Indésirables, Elene Naveriani’s Blackbird Blackbird Blackberry and Agnieszka Holland’s Green Border. In actual fact, the Polish director, who graduated from FAMU and works regularly in the Czech Republic, is set to give a master class and, on the eve of the One World festival, presented a special Homo Homini Award to the editor-in-chief of Azerbaijan-based Abzas Media, Leyla Mustafayeva.
Referring to the global state of human rights, Holland said: “On the one hand, there is the cradle of freedom and solidarity, democracy and human rights. On the other hand, the worst imaginable crimes against humanity. Festivals like One World play a tremendous role in raising awareness. They serve as vital platforms for spreading both knowledge and empathy.”


Series Mania 2024
La serie inedita di Giuseppe Tornatore Il camorrista venduta in diversi mercati
di Martin Kudláč
21/03/2024 - Il regista italiano premio Oscar ha curato i lavori di restauro della sua miniserie tv, tenuta nel cassetto per quasi quarant'anni e ora nel programma di Séries ManiaThe miniseries The Camorrist, shot by Oscar-winning Italian director Giuseppe Tornatore, is coming to the small screen nearly 40 years after it was originally shot. The show was filmed alongside his feature-length movie The Professor.
The film was released in theatres in 1986, while the series was shelved indefinitely. “Unfortunately, the movie didn't have an easy life, owing to the controversial themes it dealt with, and it disappeared from circulation a few weeks after its release in theatres. Discouraged, the distributors never aired the television series, and the five episodes were lost in the 35 mm material warehouses,” explains the director.
The never-before-aired series got a second chance after it was recently sold to multiple European territories. The 18th edition of the Rome Film Fest premiered the first and fourth episodes, which are also screening at the ongoing Series Mania festival in Lille (15-22 March).
The Camorrist delves into the life of a Camorra boss known as “The Professor” (Ben Gazzara), who manages the reformed Camorra from behind bars. With the aid of his loyal sister Rosaria (Laura Del Sol), he escapes, establishing a powerful criminal empire that permeates every stratum of society. “The current reworking, which required great artistic and professional commitment, has been completed after almost a year of activity,” explains Titanus president Guido Lombardo.
The series underwent a 4K restoration, overseen by Tornatore himself, and features an original score by Oscar-winning composer Nicola Piovani. “Thanks to the revival of the glorious Titanus brand, those five hours have emerged from the shadows, and Guido Lombardo, together with the new executives, asked me to restore and re-edit them. I gladly accepted the challenge, which involved a new 4K scanning of the original materials, innovative colour correction, a prodigious remaking of the mono sound converted to 5.1, and resizing to the 16:9 format from the original 1:33. The editing remained intact, but with slight adjustments to reduce the duration of each episode to about 55 minutes,” elaborates the director.
The series will air on Mediaset in Italy and has been acquired by AMC for Spain and Portugal. In addition, The Camorrist has already been sold to further territories, including Slovakia, the Baltics and the CIS.
The Camorrist was produced by Titanus Production and RTI/Mediaset. Its distribution is handled by Minerva Pictures.






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- Libri

Marzia Latino – La mia vita in ’ferrari’ , RiseandPress 2024

Marzia Latino – La mia vita in “ferrari” – Rise & Press 2024

L’idea snaturata di una possibile ‘fuga dalla realtà’, formatasi con l’insorgere di una problematica più grande di chi è tenuto a sopportarla, fa sì che si crei una dicotomia di se stessi, cioè una scissione della propria volontà cosciente da quella inconscia, che ci fa sentire ‘diversamente omologati’, e solo perché qualcosa nella genesi della nostra natura è andata storta e/o come si dice, ha preso una strada diversa dalla ‘normalità’. Sempre che ‘normale’ non sia poi una parolaccia in bocca agli stolti, allora c’è da offendersi, soprattutto quando è accompagnata da un pietismo insopportabile, perché normale in effetti ha valenza ‘zero’, a confronto con ‘diverso’ che in certi casi assume valenza di singolarità, atipicità, originalità, e molto più spesso di creatività.
C’è comunque un ma(?) che va considerato, per cui essere ‘diverso’ non necessariamente ha significato di aspettanza, desiderio, ambizione e/o rimpianto di qualcosa mancante all’origine, o che è venuta a mancare successivamente. In molti casi si tratta di una ‘fuga dalla realtà’ dalle molte sfumature psicologiche, endemiche del carattere, contenente un segno grafico ‘diverso’ nella scrittura anamnestica interiore, come reminiscenza di ciò ch’è stato fin prima della nascita e che ci accompagnerà tutta la vita. Pertanto non c’è nessuna colpa da attribuire, in ogni caso ci si deve accettare per quello che si è: normali e/o diversi con gli stessi requisiti e soprattutto con gli stessi ‘diritti’, per i quali vale la pena combattere gli uni a fianco degli altri, per affrontare le continue sfide della vita.
Scrive Zygmunt Bauman il più grande sociologo vivente in “L’arte della vita”: «La nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no”, cui aggiungo ‘che lo vogliamo o no’.» Ma c’è dell’altro, in “Cose che abbiamo in comune”: «Il nostro mondo liquido-moderno è in continua trasformazione, ‘tutti noi’ (e non si riferisce solo ai normali ma a tutti), consapevoli o no, veniamo trascinati via senza posa, anche quando ci sforziamo di rimanere immobili nel punto in cui ci troviamo.» Quanto più sta a significare che la nostra ‘fuga dalla realtà’ invero non è che il prosieguo del ‘viaggio in noi stessi’ che abbiamo intrapreso venendo al mondo. Guardando all’indietro e ripensando a come siamo arrivati fin qui, non viene anche a voi ‘normali e diversi’, ‘volenti o nolenti’, di pensare quante cose e quante storie abbiamo in comune?
Beh, che scrivere non sia solo un ‘esercizio di stile’ lo abbiamo appurato da tempo, ma è grazie all’apporto di molti giovani autori se oggi l’argomentazione affronta tematiche, in certo qual modo, liberatorie. Come ad esempio accade in questo vademecum “La mia vita in ‘ferrari’”, in cui l’autrice si spinge in un ‘esercizio di normalità’ quasi a voler dare un senso a ciò che, forse, senso non ha, andando alla ricerca di quel qualcosa in più, per cui affermare che vale sempre la pena di vivere questa nostra vita, nel bene e nel male che pure ci riserva.
Onde per cui leggere quanto ha da dire in proposito l’autrice Marzia Latino in questo ‘piccolo ma grande’ racconto della sua esperienza affatto insolita ma altrettanto strenuamente vissuta della sua ‘diversità’ e/o particolarità di un ‘viaggiare in “ferrari”’, altro non è che la parafrasi, se vogliamo, ma vera, di una reinterpretazione della carrozzina su cui conduce la sua vita, raccontata in forma di diario con voce schietta, senza tralasciare tutto quello che di bene e anche molto del male che c’è nell’affrontare, in ogni istante, con coraggio e determinazione, la sua ‘diversità’, e soprattutto combattere la stupidità di quanti si professano ‘normali’, e che normali non sono.

L'autrice:
Marzia Latino, laureata in Educazione di Comunità presso l'Università degli Studi di Palermo, educatrice e sostenitrice della cultura educativa, è impegnata nell'espansione di un ambiente di apprendimento diffuso. Ha contribuito con il suo lavoro in contesti sanitari e ha guidato laboratori ludici per l'infanzia.

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- Cinema

Cineuropa - Berlinale Festival

BERLINALE 2024 Berlinale Special

Fabio e Damiano D'Innocenzo • Registi di Dostoyevsky
"Volevamo parlare di un uomo che si è arreso a se stesso, che è in fase di abbandono"
di TERESA VENA
27/02/2024 - BERLINALE 2024: I fratelli italiani parlano della loro prima incursione nel formato seriale, una crime story che segue un detective piuttosto insolito

Questo articolo è disponibile in inglese.

The first series made by brothers Fabio and Damiano D'Innocenzo was presented at this year's Berlinale, as a Berlinale Special screening. Dostoyevsky [+] is a crime story that follows an unusual detective who comes dangerously close to the serial killer he is trying to catch. The siblings talked about their aesthetic and dramaturgical approach, and why they wanted to make the series with Sky on board as a producer.
Cineuropa: How would you characterise Dostoyevsky?
Fabio and Damiano D'Innocenzo: We call it a tale, a novel – a novel that’s been made into a series but which will also be seen in the cinema.
How did this journey begin?
Undoubtedly, it was essential that Nils Hartmann from Sky would be willing to produce it. We couldn't have done it with anyone else. I remember Nils saying, “We would like a noir, a thriller.” In ten minutes, we’d written the plot, and in four hours, we’d written Dostoyevsky's epilogue. And then, from there, the [main] writing work began. We wanted to tell of the winter of a human being. I wanted to talk about a man who has the duty, but also the desire, to chase another human being, and to intercept his scent, his taste, the taste of death.
We wanted to flesh out the detective. Our vision was that of a completely dry tree. We wanted to talk about a man who has given up on himself, who is in the process of abandonment. What was important was that we wanted to explore a different narrative – one that would start with a “what the fuck” moment, where the risk is that the audience will stop watching the show. But that’s exactly what we were looking for when we agreed to work with Sky, and we are happy it was possible.
Could you tell us more about your storytelling concept?
It was important for us not to follow current trends. As a viewer and, consequently, as a filmmaker, before I enter the plot, I have to be able to immerse myself in the atmosphere. And it was fundamental to be able to create the habitat and to create those things that are intangible – if not with the cinematography, then with all of the subconscious elements that this wonderful art of audiovisual storytelling, whether it's cinema or television, allows you. So, we wanted to start with rather short scenes and allow the audience to lose themselves inside the places, to really belong to this village and these characters. We ask the viewer to take an active approach towards the narrative; he or she has to actively participate. And this is something that I ask of the auteur when I am a viewer.
How did you know that actor Filippo Timi would be the best fit for the main role?
As is the case with all of our films, it was important for us that the actors would get the chance to get to know us and be able to find out if both sides were a good fit for each other. Filippo arrived at the auditions on the first day, and we knew it was going to be him. The icing on the cake was when we saw him coming out of the audition, hugging a tree.
Your protagonists are often on the fringes of society; what fascinates you about this?
It’s important to be true to the complexity of human beings. This is only possible with the absence of judgement. The prerequisite for our work is to be open towards life, in the sense that we are curious and want to observe everything, but then to avoid falling into the trap of being judgemental is the ideal outcome. Besides, why should we judge? We already live in a country that is a dictatorship controlling our thoughts. So why do it also while telling a story?
You worked with a brand-new crew for the series; why so?
We changed the entire technical crew because we were looking for a new approach. That doesn't mean that the old one was no good, but we became friends. Inevitably, when you become friends, you become loyal, you get used to it, and you tend to give less. We felt, however, that it was time to get to know new names and new ideas.

DOSTOEVSKIJ
di DAMIANO D'INNOCENZO, FABIO D'INNOCENZO
titolo internazionale: Dostoyevsky
titolo originale: Dostoevskij
paese: Italia
rivenditore estero: NBCUniversal
anno: 2024
genere: serie
ideato da: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo
regia: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo
sceneggiatura: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo
cast: Filippo Timi, Gabriel Montesi, Carlotta Gamba, Federico Vanni
produzione: Sky Studios Italia
distributori: NOW TV, Sky

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- Esoterismo

Lezioni di Tenebra - Il laro oscuro


Lezioni di Tenebra / 1
Mavruz in me - Il lato oscuro.

Avvertenza:
Se non volete mettere a repentaglio la vostra integrità morale e psichica non leggete questo racconto in cui potreste scoprire qualcosa di ‘voi stessi’ che non vi piacerà, dacché: “L’incontro con l’ombra, quella parte di noi chiusa nelle segrete dell’inconscio, è un’esperienza sempre pericolosa, alternante, dove le parti nascoste, oscure, violente e disdicevoli si manifestano per essere finalmente ascoltate e integrate nella coscienza”. (*)

Il tratto nero del carboncino scorre rapido nel tracciare il grafico perimetrale dell’immensa costruzione che si presenta ardita rasentando i margini del foglio bianco, quasi fosse quello il limite imperscrutabile oltre il quale l’immaginario s’apre allo spazio esteso all’infinito, aprendo a un non-luogo estremo attraversato da migrazioni d’idee mirabilmente pensate a infrastrutture smisurate, benché solo apparenti, appena intraviste nell’ottica di un caleidoscopio in bianco-nero. L’unica nota di colore, una macchia rosso sangue che improvvisa s’impone all’attenzione, come di ferita che non coagula e si ravviva costante deturpando l’immagine onirica di una magione che si profila nell’intenso biancore incombente del foglio, che pur si cela alla vista dei possibili sguardi indagatori di chiunque brami irrompere nell’antro buio delle sue mura, che tutto nasconde e protende verso l’oblio.
L’ampio edificio idealmente progettato e mai ultimato, manca di successione di piani e di muri divisori che pur si combinano alla vista per effetto d’insieme, rimandando a invisibili pareti contratte, a prospettive irrisolte, a sottoscala bui che non vedranno mai la luce, a soffitte che inutilmente respireranno l’afflato dell’etere. L’unica porta d’accesso è tratteggiata appena, intenzionalmente sprangata affinché nessuno possa mai oltrepassarne la soglia, dissimulata com'è agli sguardi indiscreti da un oscuro volere che non prevede intromissione alcuna. Ciò nonostante avviene che il vento di tanto in tanto la sfiori, quasi a raccogliere l’affannoso respiro che pur s’ode attraverso i graffi profondi scavati nel legno massiccio d’antica quercia secolare, come di profondo sospiro d’indubbia esistenza che si consuma all’interno e incute timore a chi seppure casualmente vi porga l’orecchio, tale da lasciar presagire qualcosa di funesto che incombe nel fitto mistero d’una incessante attesa, l’acre alitare di un’ombra che indugia nel pieno congiungimento di ciò che non è morte, di ciò che ancora è vita.
È nel desiderio avito di chi vi abita ripulire ogni traccia di vissuto, cancellare i segni d’una umanità pregressa, interiorizzata di un ethos consacrata all’apparenza fantasmatica della propria vulnerabile presenza; dacché, l’esperienza notturna di un pensiero nefasto che rivela l’indefinito albale all’origine della parola indicibile che pur s’accende di poetico afflato. Sì che il risuono di sillaba si dilata come per un grido fra punto di partenza e divenire, che nel buio incute alla luce un risveglio improvviso, febbrile e ostinato, impercettibile ai sensi, all’intimità dell’essere che nell’oscurità s’avanza: uno scalpiccio affrettato di passi che si avvicinano, per poi allontanarsi e farsi di nuovo rasenti, successivi a una ineludibile pausa di silenzio …
«Mavruz, sei tu?»
«Chi altro se non io, Mavruz chiuso in me stesso, il servitore ascoso che mai riposa, e che risponde al Sé immaginario che è del mio Signore.»
«Mavruz cane, dove ti sei cacciato, metti dell’altra legna sul fuoco, fai in fretta, ho freddo», la sua voce s’impone veemente, accompagnata dal gesto levato della mano furente che sempre l’accompagna nel dire …
«Vengo, vengo!»
Rispondo al richiamo vibrante del mio arcigno Signore che regna incontrastato in questa austera magione in rovina, prima ancora del suo conseguimento, dacché l'ambiguità del vuoto inganna ogni mio possibile movimento. Mavruz son io, colui che vigila costante affinché il fuoco perennemente acceso non venga a spegnersi nell’ampio camino intrappolato nella parete, onde riscaldare la lunga e fredda notte che incombe sul suo e sul mio destino, che, se per un verso porta all’annullamento dello spazio interstiziale dell'uno, dall’altro contribuisce alla sopravvivenza di entrambi …
«Maaaavruz!», leva più alta la voce il mio Signore.
«Vengo, vengo!»
Arrivo calcando uno alla volta i riquadri che rivestono il simulato pavimento della stanza in cui il mio Signore dimora. A passo alterno trascino lento i piedi negli spazi di luce e d’ombra, come per una partita a scacchi, onde sottrarmi ora nel riquadro scuro del buio, ora all’abbaglio di luce dei riquadri più chiari, sì da far credere ch’io stia arrivando da chissà quale distanza, ancorché sia qui da sempre, accanto al suo capezzale d’infermo che scolora …
«Mavruz che tu sia maledetto, dove sei malevolo fannullone, che cosa mai vai facendo, non senti il freddo che avanza, metti dell’altra legna sul fuoco, te l’ordino!»
Sono qui, dov’altro mio Signore, Mavruz chiuso in me stesso, il dissoluto compagno di sbronze, ubriaco da sempre, che l’ombra infrange con la propria logora figura contro la fiamma contorta tornata ad ardere nel camino. Cos’altro potrei, impossibile non ascoltare i suoi richiami, le sue tiranniche pronunciazioni di despota, gli atroci misfatti che va perpetrando, quasi a volerne estirpare la colpa, per poi accusare me di qualcosa di sbagliato ch’è in lui …
«Mavruz, cane figlio di cane, dove sei?»
Sono qui mio Signore, penso ma non rispondo, Mavruz chiuso in me stesso, celato dietro un’assenza che finora mi concede una qualche sovrumana chiarezza d’intelletto, cui in verità anelo in divenire per una sollecitazione dell’anima mia. Colui al quale non importa restare in perenne attesa di qualcosa che stenta ad accadere, che se viceversa accadesse, metterebbe in pericolo la sua quanto la mia stessa incolumità. Quandanche io pur desideri cancellare i segni d’una umanità ch’è stata, di far piazza pulita delle tracce di un vissuto artato e assumere l’apparenza fantasmatica che mi distingue. Onde sottrarmi alla vita che mi si concede o fuggire da essa, assumerebbe un ethos significativo diverso, che il solo passare da un riquadro all’altro della pavimentazione candida la mia separazione dall’irrealtà del buio più nero all’avere accesso al bianco etereo della luce, quel non-luogo ove si contempla l’avvenuta inconfutabile esteriorizzazione di ciò che in fondo sono, quell’Io incompiuto e non omologato, Mavruz, solo con me stesso …
«Maaaaavruzzzzz! Dove sei cane rabbioso?»
Impossibile cercare una via di fuga nella costante sensazione di vuoto ipotetico che nel momento dello sconforto mi soggioga, per quanto sia messo di fronte all’assoluto vivo nell’irrealtà impalpabile che rasenta l’irrisolutezza della mia stessa esistenza. Dacché ogni singola idea inespressa, ogni strada intentata dal mio Signore, diventa per me visione irreversibile di un Sé ingigantito a dismisura che mi spinge all’abnegazione, a quello stato d’incoscienza che a lungo andare è portatore d’insana follia.
Non v’è in me sufficiente determinazione capace di riedificare sopra le macerie di quanto andrebbe definitivamente demolito, o forse, più semplicemente can-cel-la-to di un disegno d'insieme concepito e mai realizzato appieno per una incoerenza di status giuridico per me avulso dall’essere tracciato. Quand'anche lo si voglia immaginare rimane un non-luogo avulso dal completamento di siffatta edificazione. Non basterebbe un solo foglio inviolato, bensì ideare l’estensione di un vasto terreno edificabile, onde partendo dall’interrato si andrebbe a posizionare la pietra-lata su cui fondare l’ardita costruzione, o forse, ricominciare il tutto con altro inchiostro che non sia nero …
«Mavruz, che tu sia maledetto, dove ti sei cacciato?»
Faccio orecchie da mercante nel mentre la mano riprende a scorrere sul foglio che senza intralcio alcuno ricalca la struttura originaria dell’immaginifico edificio entro un perimetro più ampio, riposizionando l’intero assetto della magione-cattedrale-castello che il mio Signore ha scelto di abitare per sua ascosa dimora, sebbene il nuovo porti alla dissoluzione del superfluo e del sovra-strutturato partoriti dalla sua mente obliqua.
Ancor più adduco allo stallo, di risollevare i pilastri portanti, sostenere i costoloni possenti che spingono in altezza le navate, istituire gli alti spalti delle torri merlate, i poderosi bastioni; nonché ricollocare al loro posto, se mai ne abbiano avuto uno, gli architravi che delimitano i piani nobili, spalancando le travature delle volte a vista, riedificando i divisori invisibili, gli spazi inesistenti, fornendo all’insieme di un sottotetto, le coperture dissimulate dei solai, aprendo abbaini da cui scrutare il cielo …
«Mavruz, malaugurato te, hai preparato la mia vestizione?»
«Eseguo mio Signore, il tempo di…»
Già, dimenticavo, s’avvicina l’ora di levarsi, al mio Signore piace indossare ogni volta un veste diversa, che sia il mantello regale o la zimarra d’avvocato, l’abito talare o la cappa del giudice, spesso s’invaghisce di sporcarsi la faccia e mettersi sul viso la maschera asservita al suo logoro opportunismo di despota, e solo perché non riesce a soggiogare gli angeli idolatri e i demoni del male di cui sente il respiro alitargli sul collo, che gli provoca un brivido di gelo lungo la schiena e negli inconfessati anfratti della sua anima nera.
E mentre il calore sprigionato dalla fiamma torna a ravvivarsi nel camino illuminando ogni cosa presente nella stanza e s’appresta a raggiungerlo, lo trova così stanco che un attimo dopo è di nuovo assopito, per quanto la sua mente allertata dei suoi costrutti giammai riposa. Non invano la luce rossa di fuoco proietta sulle pareti immagini di nobili appartenenze obliate, i volti rugosi di predecessori estinti, una pinacoteca di morti, un inutile agitarsi di fantasmi che non conoscono pace, che in ogni dove scorrono logori epitaffi mai scritti che presto tramutano in rivoli d’inchiostro rosso come di sangue versato.
Più in là nella stanza, sopra un tavolaccio in ombra, avvolge ciotole e pennelli posati alla rinfusa a sollevare ricordi d’ingenue scaramucce con la tela; bandiere sparse di vecchie guerre o forse giochi appese alle pareti si scontrano con mute statuette d’ebano d’altri continenti, ninnoli impolverati d’infantile memoria, strumenti musicali senza corde che giacciono abbandonati, archetti obliati sopra spartiti ricolmi di note incerte, tenute prigioniere in pentagrammi dissolti. Alle pareti, sospesi candelabri reggono smunte candele di notturne lotte con le tenebre, presenti in ogni angolo, ove l’arido sguardo accumula polvere dove più ce n’è, quale scoria del tempo che si stacca dagli intonaci fioriti, dalle crepe interstiziali degli archivolti edificati nella dura pietra, che pur si sgretola al solo guardarla, dove l’Io immobile si fa oggetto fra i lemmi spesi senza senso, il cui inchiostro essiccato ha vergato frasi che risuonano ancora nell’aria qual eco di morte, inutilizzabili altrove. Non rimane che un battito di solitudine a colmare il vuoto dell’ampia stanza ove il mio Signore giace schiacciato al suolo, provato da rimembranze di secoli passati che incalzano nel divenire…
«Mavruz, Mavruz…», sospira il mio Signore.
Non l’ascolto. Sì che neppure il copista scaltro qual io sono nel riciclare idee e concetti levigati dall’uso, riesce a pronunciare sull’altare di talune sue falsità, pur aderendo alle fuggevoli istanze degli spiriti notturni che avvalendosi dell’errore divino, inevitabile quanto eccessivo, sostengono di confinare l’altrui destino dentro un senso di colpa assoluto, durevole e costante, che mette a repentaglio l’integrità morale e psichica dei fantasmi che siamo, sopravvissuti al tempo.
Si dovrebbe risalire la corrente d’ogni fiume navigato, l’estensione d’ogni mare attraversato, ritrovare le ragioni represse dalla mente, rivedere le allocuzioni, le esortazioni, le arringhe; superare le lacune del nero, riconoscere le mescolanze dei colori, gli amalgami di luce, le misture arcane dei veleni; così come lasciar scorrere limpido il flusso ininterrotto dei segni e dei simboli astrologici che con grande pazienza il mio Signore tiene racchiusi nel labirinto della sua infinita incoscienza, del suo discernimento frutto di quella scienza ermetica che solo un alchemico della sua stazza, o forse quel negromante di Athanasios Kircher saprebbe decrittare, permettendo così all’infelicità umana di svincolarsi dall’ingranaggio virtuale del destino morale che la sovrasta …
«Mavruz, di quali assurdi propositi vai ottenebrando la tua mente?»
Nondimeno è proprio dell’infelicità umana che il mio Signore si nutre, incitando gli accadimenti più neri della sua perseverante infingardìa. Una rete di misfatti e d’orrori di cui egli soltanto detiene l’accesso, sì da rendere impossibile lo svelamento del mistero in cui egli si cela e che lo preserva da chi vorrebbe addentrarsi nel labirinto della sua mente nefasta, che errando cerca “di stabilire un ponte, una connessione possibile tra il suo pensiero e la sua esistenza”. Mentre la macchia di rosso sangue versata sull’altare dell’innocenza del suo inenarrabile egocentrismo, persevera, si estende, si ravviva e agghiaccia, e men che mai permette ad alcuno di apprendere l’universale oggettiva verità che la sola presa coscienza della morte impone …
«Finis nusquam, Mavruz, finis…», sussurra con voce spezzata, mentre tossisce ed espettora fiele senza ritegno.
In nessun altro luogo la fiamma diabolica che fa ardere la sua anima potrà mai essere spenta, che il ceppo corroso dei secoli non si è ancora esaurito del tutto, né la sua avidità adultera. Non qui dunque. Chi sono io, se mai sia qualcuno, a dover biasimare l’operato del Signore che mi comanda? Chi se non colui che ripone in seno all’erudizione colta, gli elementi e i simboli ermetici secretati di colui che li detiene?
«Mavruz infame, hai preparato la mia veste cardinalizia?»
«Sì mio Signore, è qui pronta per essere indossata.»
«E allora muoviti, appronta la mia vestizione.»
«Mio Signore, non è ancora l’ora di cena, è presto per ricevere gli invitati al suo desco.»
«Chi lo dispone, neppure l’orologio comanda le sue lancette, chi sei tu per decidere il passare del tempo?»
Son io Mavruz, chiuso in me stesso, il ministro oscuro, colui che detiene le chiavi delle segrete stanze ove giacciono rinchiuse in polverosi tomi le sbiadite immagini esoteriche dell’antica ‘biblioteca astronomica del tempo’ ricolme di affabulazioni consunte. Soffoca l’aria di capoversi, di virgole e punti come d’aculei aguzzi, di spregevoli vuoti senza senso e velenosi accenti, tutte quelle frasi oscene che mi riserva e che non oso ripetere. Son io, che di volta in volta raccolgo senza misericordia le assi schiantate delle librerie sotto il peso delle istanze che finiscono per ardere nel camino, che alimentano il fuoco che mai cessa di ardere nel crepitare informe dei vecchi libri sapienziali …
«Mavruz si può sapere che cosa bofonchi, c’è forse qualcuno con te?»
Nessuno mio Signore. Son io, Mavruz chiuso in me stesso, il molosso dalla mascella poderosa che attende nell’ombra, pronto a frantumare le ossa di chi osa avvicinarsi a questa magione invasa da spettri, e che vigila davanti la porta affinché le urla dell’umanità corrotta dal perbenismo, da quel buonismo che vorrebbe pervertita, depravata, affinché non disturbino il sonno ascetico del mio Signore, da cui l’afflato malevolo ch’egli conduce seco nel sonno arroventato di tenebra …
«Mavruz dove sei? Or dunque sei tu, l’infedele che avanza!»
Son io, Mavruz, chiuso in me stesso, l’architetto malevolo che tutto avalla dei suoi comandi Signore, che la sua voce terribile e nefanda il respiro affanna, anfitrione di se stesso, a decidere i cambiamenti da apportare all’originaria struttura di questa irrisolta magione. Finanche di cancellare ogni possibile accesso che si delinea sulla pianta perimetrale, come quell’unica porta da sempre sbarrata.
È dunque una logica spuria di luce quella dell’esperienza del passato che ritorna, e che vedrebbe can-cel-la-re questo arcano feudo di sale; per quanto ancora illumini quell’unico abbaino aperto sul nulla a designare un isolato punto sospeso, di riferimento e richiamo nel biancore del foglio, pur destinato a restare visibile, qual zona franca che s’impone al passare inesorabile del tempo dell’attesa. Come in nessun altro luogo, le lame affilate e taglienti del suo vetro infranto attentano l’incolumità di chiunque si arrischi a entrare nella tenebrosa oscurità di questa magione, senza che venga fatto a pezzi dalla malvagità sovrana del mio Signore, che mai si taccia …
«Sei tu, Mavruz, perverso infame?»
Chi altro se non io, Mavruz chiuso in me stesso, il filosofo del residuale, che imprime al nucleo orrifico della sua mente “…il fascino irriguardoso e contiguo dell’animalità, l’aggressività e la virulenza animale che riemerge nella passione umana”, e non avalla che l’anima morale riversi il proprio afflato sul suo male, per quanto in me parli la voce della ragione, tutto ciò che qui appare partecipa di una contiguità passionale che da sempre il mio Signore intrattiene con la sua natura mefistofelica, che la sola presenza dell’anima ancora sopravvive alla sua figura corporea in costante attesa di luce che la illumini. No, egli non sa, quand’anche questo ricongiungimento accada, che ciò segnerebbe la sua dissoluzione, pur nella pienezza della luce raggiunta …
«Mavruz villico infame, non senti il vociare di quanti chiedono d’essere ammessi al mio cospetto?»
«Vado sì, che già i suoi pensieri danno luogo a costrutti impossibili ricolmi di malvagie intenzioni.»
«Maaaavruz affretta quel passo stentato che insegui, da quel bastardo infame che sei, vai loro incontro e accogli benevolo quanti vengono ad abbeverarsi al mio desco.»
«Vado, che almeno mi si dia il tempo.»
«Mavruz, dove sei?»
Eccomi mio Signore, son io Mavruz, chiuso in me stesso, il cane ubbidiente e ringhioso che va ad accogliere chi non dovrebbe disturbare il mio Signore a quest’ora, in questa gelida notte d’inverno, che forse non sa ch’Egli è ombra che divora, fatto della stessa materia gassosa della nuvolaglia che passa e che va, come l’essenza aeriforme delle sue azioni da non considerare veritiera testimonianza di autentici accadimenti, in quanto essendo soltanto narrati inseguono un ipotetico passato che ritorna, frutto di un’attesa prolungata all’infinito senza domani, e che pure s’appressa, quale emorragia del tempo attuale che non conosce luogo dove andare, se non in quel non-luogo dove non arriva nessuno, perché invero non si aspetta nessuno. In cui tutto ciò che accade trova posto solo nella mente del mio Signore, nell’immaginario del suo mondo assoluto, estremo, dove mai nulla accade, dove ad ogni battaglia vinta ne corrisponde una persa, in cui nessuno davvero perisce né sopravvive alcuno …
Per quanto sia io Mavruz dall’impietoso destino, chiuso in me stesso, il carceriere amoroso e spietato della sua impudicizia; colui che gioisce della subita pena e segretamente gode della creatura sciagurata ch’io sono. Sebbene ciò che più mi preoccupa del mio dannato Signore è il suo trasformare in fobie ossessive tutto ciò ch’è di spettanza al buio, ai sogni arroventati dalla fiamma, alle allucinazioni più nere; a quegli incubi procreatori di fantasmi che riempiono le sue e le mie notti insonni, scarabocchiate su centinaia di papiri sparsi che immancabilmente finiscono sul virtuale impiantito delle sue elucubrazioni…
«Mavruz sei tu, fai presto, raccogli quel ch’è rimasto dei loro umani escrementi sul pavimento?»
Son io, Mavruz, chiuso in me stesso, per quanto non posso restare confinato nell’alveo oscuro della sua mente in eterno, mi chiedo quando mi capiterà che uno sguardo benevolo giunga a me attraverso l’intercapedine dei muri di questa magione che mi tiene prigioniero, sperando alquanto incerto che il suo segreto che non può essere svelato, infine diverrà manifesto. Mi astengo dall’andare oltre nel parlare, se in fine vengono a mancarmi le parole davanti al suo continuo dettare sconcezze malevole in una lingua che non è la mia, fatta di oscuri ritorni, di richiami al mito, di simboli di un’arte occulta e incomprensibile. Pagine su pagine da riempire tomi di crimini orrendi, ispirati per lo più dalla bieca religione ch’egli professa, e che lo spinge all’adorazione sacrificale di divinità mostruose che presidiano i cancelli dei cimiteri e le porte degli inferi, esigendo tributi di sangue …
«Mavruz sei tu dunque la serpe velenosa che porto in seno.»
Son io, chi altro, se non Mavruz, chiuso in me stesso, il despota incontenibile che abita il lato oscuro di questa estrema magione. Colui che non conosce il passato né il tempo che verrà, ma solo il presente, che non si fa scrupolo della inviolabile attesa che qui si professa aspettando che si compia il destino. E sarà l’ultima notte, quella definitiva, sarà come andare incontro alla disgrazia fatale che ha visto gli angeli ribelli cadere davanti alla lesa maestà, contro la falsa innocenza del mio spietato Signore.
Colui che nella diatriba immutata e costante contro l’umanità ha decretato la sua miserevole colpa, senza possibilità di riscatto. Questo sono io, Mavruz, chiuso in me stesso, che nulla può il mio chiedere senza il volere altrui, che l’infelicità e la colpa preposte sono ciò che concerne all’ordine demoniaco del mio Signore, i cui statuti giudiziali regolano le relazioni tra gli uomini di qualunque grado e ceto con l’infrangere le pareti astruse dell’ego, bensì lo riesumano dal profondo abisso dov’Egli pur s’inginocchia al cospetto di un’altrui volontà …
«Sssst! ora mi taccio, che il mio Signore si è di nuovo assopito.»
Or ché sia l’alba o il tramonto, nelle ore in cui apparenti striature scarlatte, quasi violacee, si distendono lineari e piane sul foglio bianco, resto in attesa dei sogni adombrandoli d’ombre tenebrose con le quali gioca la tirannia del mio Signore al dominio delle cose, approfitto del buio fittizio che precede l’alba, onde cancellare i fantasmi che al suo richiamo aprono trabocchetti d’infime manie d’ambizione; così le torri audaci cedenti a impalcature di cui si serve a tenere forche aggettanti a distanza, in quanto visione di penzolanti ideali cosparsi d’egoismo …
«Mavruz! Mavruz, non senti che stanno bussando alla porta?», chiede astioso il mio Signore.
«È il vento», rispondo, quando, ascesa forzata d’intimo volere il mio Signore sospira.
«Serenità impiccatela! Tranquillità è già stata impiccata!», sono parole non mie che ripetono l’urla spaventose che fuoriescono dalle labbra del mio Signore ogni qual volta s’abbandona alla contemplazione delle cose astratte e che riecheggiano sulle inesistenti pareti dei saloni immensi, colmi di vuoto, in cui s’ode di tanto in tanto qualche scricchiolio di travi, forse s’abbattono porte in solaio. Destreggiato di vento gira un arcolaio, filatura di vita arde senza posa nel camino, avanza sul pavimento, avvolge i soffitti, cristalli di candelabri immaginari s’offuscano, nere candele di sego dileguano in fumo, allorché carbonizzato il ceppo contorto, esaurisce a vita …
Ideali solidificati a crinature di vetro, stalattiti negli occhi stanchi scrutano costruzioni impossibili del Sé immaginario, come di Maestà assisa sul ‘trono del nulla’ che trascina con sé un destino non suo. Visioni di rocche poderose, di mura insormontabili, ove cavalieri armati fedeli all’ambizione, tengono una battaglia antica in difesa di un feudo di sale …
«Mavruz, la mia investitura! I miei ori! Le mie armi!»
«Mah … Signore?»
Chiudo orecchie a non sentire, che già orda mercenaria chiamata a raduno, occupa la rocca più alta. Sopra le spalle l’alto monte della sua testa coronata, cristalli azzurri degli occhi a infrangersi, folti steli biondi e neri tramano ragnatele, invadono scale porte finestre, quale ponte levatoio sul fossato rigurgitante d’avida sete. Sua Maestà, il mio Signore, è solo, intento a sbranare necessari vassalli incatenati cui nessuno accorre in difesa, nessuno si leva a tutela dei loro costrutti. Sua Maestà inghiotte carogne morte d’inedia …
«Evviva sua Maestà, evviva!»
Suoni di trombe e tamburi, alla rocca s’ammaina la bandiera, della pace, nel mentre s’alza terribile quella macchiata di sangue. Orda feroce esce e scorrazza, urla implacabili di sua Maestà: “uccideteli tutti!”.
Altre rocche, altre carogne, non leale battaglia sul campo, ma distruzione, stupro, violenza, l’orda selvaggia abbatte torri d’ideali, rocche d’infinita speranza, calpesta germi di spiriti eletti il tiranno …
«Ohhhhhh! Aaaah!», ride tracotante sua Maestà, con le mani insozzate di sangue, fa il giro dei saloni vuoti, specchi d’argento macchiati d’infima fede, lacera carni a brandelli, alla finestra i cristalli azzurri degli occhi s’infrangono di pura follia. Saziata l’arsura di sangue, quinto elemento il ‘tiranno potere’, sua Maestà s’affaccia, leva alta la voce. Orda malvagia chiamata a raduno, libidine al cervello lo acclama …
«Evviva sua Maestà. Evviva!»
Quest’io re, quest’io nullità, che l’ambizione trova terreno fertile per l’inquietudine, l’accanimento, la concitazione, a voler rincorrere al vento fuggevoli ideali di supremazia, entusiastica spinta in avanti, arti schiene criniere di bianchi cavalli spronati alla corsa. Gioco di fili a tendere a cavalieri, esploratori dell’infinito universo, di matematiche sfere a me sconosciute, arpa a canto ambizioso tendo: ‘A te che ti proclami ambizioso, spronato a tutto, a sventolare bandiere pronto sul campo, sopra ogni campo di battaglia, a urlare il tuo grido: Avanti! Avanti!
A conquista avanza a conquista indietreggia, vinto a vincitore, guerriero di me, maschera e istrione, a inseguire cavallo impavido impazzito di vento, il crine all’aura e zoccoli alla terra, a narici avida schiuma, al petto battito irrompente ambizione, lascia questa terra negletta alla sopravvivenza degli spirti celesti…
«Avanti! Avanti!», esclama nel sogno avito il mio malvagio Signore.
Cavalli pazzi, guerrieri straordinari senza posa, pupazzi della mia ragione guerreggiano nel gioco di luci e ombre della stanza vuota, fra le coperte del letto, a sventolare bandiere stravaganti per una guerra a morte di nobili cavalieri. S’armano i difensori del grande castello del cielo, che fortissima luce balena di scudi d’elmi e di spade, acuti vertici nel complesso concerto, l’orchestra al completo coi suoi migliori strumentisti, solleva ansia al coro. Scalpitano alla piana, cavalieri impavidi su furenti destrieri a briglia tenuti, a forza tendono, muovono pareti d’universo, cedono al vinto, castelli di nero fumo.
A cento a mille le torri crollate, ferma a bufera, spalancate muraglie del giorno, di rosso sangue la piana riposa. Allorché placata l’ira iniziale, il vento riporta a primiere note. Posa il coro compenetrato a silenzio, resta a sussultare il vento, maestri a spezzati archi, pausa … la ripresa segna sferzanti echi d’urla levate inneggianti vittoria, e già il vinto declina sul fianco, la battaglia è perduta, mentre il giorno lentamente muore …
«Mavruz! Mavruz! dove sei miserabile?», grida il mio Signore, colpito da malore che già stramazza a terra. L’Io che rimane, nulla può, ciò che avrebbe voluto: ‘utopia’. Uno a uno, e più forse, cedono gli ideali come giganti di carta inevitabilmente caduti, calpestio di piedi e d’armi nel fango, morti a battaglia. Quando, sollevati i giganti per chimera, lottano coi giganti di chissà quale altra guerra, e ora vincono, e ora, sprofondano sotterra.
Quand’ecco sorgono altre rocche, altre cedono l’una dopo l’altra senza posa, nulla ormai resta della primiera magione-fortezza, nel mentre, abbandonato sul campo, lascio giacere il guerriero qual sono, dissanguato e stanco, tuttavia mai reso. Dove mai troveranno sepoltura quei tanti eroi caduti con onore e senza pace? Su quale terra sconsacrata dovrò affondare la vanga per una fossa comune che non potrà mai contenerli tutti? Un’altra guerra persa, ma per chimera nulla può quest’io Re, resta inamovibile al fato, a occhi aperti e vivi, come morto sul sagrato della sua magione-cattedrale.
Sulla carta graffiati a pennino, neri d’inchiostro, i disegni miei avulsi dal mio Signore, sono rifugio arcano di complicati arabeschi di luce, benché trasparenti nel segreto diario del destino, separati dai sogni, ove giorni d’oro e di smalto incastonati come tessere di un mosaico di vita, mi dico, non s’incastreranno mai …
«Mavruz, dove ti nascondi in questa profonda notte di tenebre, fa ch’io ti scorga e vedrai.»
Son qui mio Signore, io Mavruz, solo con me stesso, colui che hai voluto che fossi, architetto ingegnoso a sospendere castelli di nubi a immaginare ponti d’inerzia per una disfatta al tempo che tutto nega e tutto contrasta. Quel tuo non essere son io mio Signore, costruttore intraprendente che innalza strutture impossibili, onde fermare l’attesa, al riparo dei muri possenti di questo castello di carte che mi sta crollando addosso, come presto accadrà, fintanto che la masnada degli insospettabili risorgeranno impavidi e si presenteranno a rendere l’obolo dovuto, davanti alla porta di questa prigione-cattedrale-castello che abbiamo reso sì maestosa e regale onde ossequiare il mio immaginifico Signore, certo che presto accadrà, anche se nulla potrà mai accadere.
«Dove sei, figlio di incerta madre che non sia una cagna, perché non ti vedo?»
Sono qui mio Signore, ascoso nel buio dei suoi occhi che non possono vedere, a battaglia, lacero s’avanza il guerriero ch’io sono, la spada a brandire ideali come spauracchi d’orgoglio del blasfemo potere, fantasmi d’ambizione immuni al fato, nel gioco immaginario che più non m’aggrada. Non c’è null’altro ch’io possa aggiungere, nulla mi vieta di non andare ad accogliere i suoi seguaci, quei proseliti convertiti favorevoli alla sua malvagità, tuttavia stento, benché incredulo dal disobbedire, sia lungi da me aprire quella porta che da sempre resta chiusa, murata di dentro …
«Mavruz! Maaaavruz!»
Or sento la sua voce catarrosa, angosciante, come un’eco lontana che oltrepassa il buio spesso di questa notte senza fine, avanzare nell’ombra, impaziente di mettere fine al suo stesso destino come al mio. Mentre all’apparire del suo spauracchio nero come la pece, respingo la sua ombra con la mano quasi a volerne schiacciare la figura, e torno a nascondere gli occhi dietro le palpebre stanche di così ingiusta luce, di sì ingiusta fine. Da tempo ormai non c’è più legna da ardere in camino, e ogni stanza è fredda e buia come l’anima che la abita, ascosa nei meandri labirintici del male.
Nessun lamento o richiamo s’ode provenire dalle stanze mute che vantano il silenzio dell’eterno, sì che l’angelo ribelle è sceso al varo, accolto negl’inferi dei semi-dio, alla sinistra del Supremo che tiene in scacco il mondo; che al mercato delle cose, da sempre va comprando fiori che non appassiranno, sì che a quello della vita va rubando incustodito seme troppe volte germogliato di speranza che più non lo illumina: “Ho sempre pensato che chi spera nella condizione umana è un pazzo, chi dispera degli eventi è un vile”, come sostiene il filosofo sopravvissuto all’ecatombe: “Siamo pionieri della globalità, ma prigionieri dei castelli feudali” (Eco).
Ma cos’è questo improvviso questo clangore d’armi, questa levata di scudi? Cos’è questo tumulto di folla che s’agita, che corre, che bussa alla porta con sì veemenza? …
«Mavruz! Mavruz! dove sei, maledetto infedele, li senti, che cosa vogliono, vogliono forse abbattere la chiusa porta?»
Sì certo, ho orecchie anch’io, ma so che non si fermerà la ferocia umana, pronta a scatenare un’altra guerra: Nigeria, Costa d’Avorio, Congo, Zaire, Palestina, Siria, Israele, e ancora Cecenia, Afghanistan, Ucraina, Irlanda, Corea, Pakistan, India, Tibet, Miammar, ed altri popoli, tanti altri ancora, quando finirà questa ecatombe? Allorché sento arrivare gente da ogni contado, accorrendo con fascine, zappe e forconi, con bastoni e martelli…
«Mavruz, cosa mai intendono fare, abbattere la costruzione dei miei affanni, ridurla un ammasso di rovine? Cosa sperano di trovare, tesori, opere d’arte, calici d’oro, crocifissi tempestati di gemme preziose? Ti prego fai in fretta, portami dell’elisir oppure del veleno, che liberarmi voglio da questo consiglio immondo, senza consenso.»
Delira il mio Signore, blasfemie corrotte giungono contro di lui, che già non è più qui, involatosi per l’inconscio sconosciuto. Contro di me, Mavruz, chiuso in me stesso, che non sono che il suo umile servo, il faccendiere di questa magione, il cane da guardia del castello, la spalla sulla scena del suo teatro, il compagno di giochi, lo spartiacque dei suoi pensieri, il suo confessore benevolo
Son io colui che asseconda i suoi voleri, l’avvocato difensore che non può sottrarsi ad ogni suo incarico, lo snaturato essere dei suoi desideri, delle sue oblazioni, il capro espiatorio dei suoi offertori, l’erede della sua malvagità rimossa, abbandonata come i vestiti vecchi e corrosi che riempiono gli armadi, quel Catone Uticense che malgrado tutto lo aiuterà a oltrepassare prerogative di censo.
Come potrei diversamente? La paura, cattiva consigliera, non fa diventare cattivo chi non lo è, che non ha la forza di ribellarsi a se stesso. So già che stragrande scoppierà domani la ribellione del vinto, quando dall’alto degli spalti s’udranno alti squilli di tromba, allorché altri guerrieri, bardati di bronzee corazze e di scudi, prenderanno d’assalto il castello per una disfatta al tempo, che non è la mia. Ed è già tutto un levarsi di spade, di scudi, di vessilli al vento …
«A morte il Tiranno! Uccidiamolo! Bruciamo tutto! Al fuoco! Al rogo!», gridano gli invasati. Non intendo fermarli. Non li fermerò. A nulla servono ormai le parole, e già sbavano di bocca in bocca nel dare sfogo alla rabbia insana che non dalla ragione deriva, bensì dall’accidia, dall’invidia, dall’avidità che sollecita il potere, non v’è ragione che tenga quando si arriva a codesta bassezza …
«Al fuoco! Al rogo!», impazzano i più facinorosi, i faziosi del male, gli agitatori violenti, mentre le fascine si assiepano a ridosso delle mura. Basta poco, una torcia accesa gettata contro la porta, per riaccendere le fiamme malvagie nel camino. Allorché tutta la magione arde come un falò di carta ingiallita dal tempo, la macchia rosso sangue fuoriesce e si riversa sul foglio a invadere il bordo bianco circostante.
È tutto un fuggire in qua e in là senza direzione, a decine, a centinaia, a migliaia cadono i felloni, i palafrenieri, i cavalieri, le guardie, i servitori, i cortigiani, i preti; cadono d’appresso le teste e i busti dei grandi accolti nella biblioteca, bruciano le carte sparse nei cassetti, i ritratti alle pareti degli antenati che lo hanno fin qua sostenuto, si scioglie la ceralacca delle bolle, il sego delle candele, arde la tavola con la tovaglia bianca inzuppata di sangue tinto. Crollano i muri di sostegno, i contrafforti, gli archi romanici, le ogive gotiche, le cuspidi levate al cielo, in un unico falò delle vanità che vede il mio Signore abbandonato dall’impietoso dio degli inferi …
«Mavruz, chiuso in me stesso, mi chiedo cos’è di tanto baccano?», mi chiedo, nel mentre avverto improvviso un senso di colpa per la mia cronica incapacità di vivere nel rispetto di desideri altrui, fosse pure di correre consapevolmente qualche rischio, la precisa sensazione d’essere altrove, chiuso in me stesso, in un luogo indefinibile e improbabile, perso in mezzo al nulla, se pure da qualche parte, nell’angolo riposto della mia psicotica evanescenza. Allorché seduto per il desco, con un gesto maldestro rovescio il bicchiere di vino tinto sulla tavola apparecchiata, quando la macchia rosso sangue s’allarga sulla tovaglia bianca e scola sul pavimento, a vuoto.
«Mavruz, che c’è, qualcosa non va?», mi chiedo.
«Non è niente, vogliate scusarmi», rispondo, levandomi e affrettandomi a uscire dal foglio, mentre nel silenzio irrompe la voce insistente e alquanto alterata che mi chiama..
«Maaaavruz!!!»
«Sì, mio Signore, sono qui!»

Finis nusquam!


Nota: (*) Rossana De Angelis “Daimon”.

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- Cinema

Cineuropa News - Festival Premi


CINEUROPA NEWS
PREMI FESTIVAL

Regno Unito

BFI Flare svela la line-up della sua 38ma edizione - di Elena Lazic
15/02/2024 - Diverse anteprime europee figurano nel ricco programma dell'evento londinese che celebra il cinema queer
Following its premiere at the Sundance Film Festival, Layla, the debut feature from British-Iraqi director and writer Amrou Al-Kadhi, will open the 38th edition of BFI Flare. The queer cinema event, taking place at the BFI Southbank in London from 13 to 24 March, will feature 33 world premieres (across features and shorts) across its programme, divided into three thematic strands called Hearts, Bodies and Minds.
Among the European world premieres, we can count UK title Lady Like, directed by Luke Willis and billed as a docu-fiction telling the rags-to-riches story of London-born, San Francisco-based drag queen Lady Camden, aka Rex Wheeler, as she is catapulted into the spotlight on RuPaul’s Drag Race season 14. Also from the UK, Jasmine Johnson’s debut feature What’s Safe, What’s Gross, What’s Selfish And What’s Stupid centres on members of the London queer community talking in depth about “what it means to create a family.” From Austria, Kat Rohrer’s What a Feeling centres on two women who meet in a lesbian bar and is described as a romantic comedy exploring migration, class and sexuality in Austria. Meanwhile the Greek documentary Lesvia, directed by Tzeli Hadjidimitriou, focuses on the island of Lesbos, birthplace of Sappho and meeting place for lesbians since the 1970s.
The programme also presents a selection of films that will first be seen at other festivals, such as Crossing by Swedish-Georgian director Levan Akin and Baldiga - Unlocked Heart, Markus Stein’s documentary about German photographer Jürgen Baldiga, illuminating the AIDS crisis in 1980s underground Berlin, both opening in Berlinale’s Panorama. Coming straight from the Berlinale Forum will be Reas [+], the documentary-musical hybrid by Argentinian filmmaker Lola Arias centred on a group of female inmates singing and dancing about their lives and sentences.
British director Rose Glass will be coming home with her Sundance and Berlinale selection Love Lies Bleeding [+], a body-building love story starring Kristen Stewart. Additionally, the BFI Flare programme includes two European-backed titles first unveiled at Toronto: Carolina Markowicz’s Rome Film Fest winner Toll [+], and Sally El Hosaini and James Krishna Floyd’s Unicorns. From last year’s Venice, we find Malgorzata Szumowska’s Woman Of [+], Zacharias Mavroeidis’ The Summer with Carmen [+] and Julia Fuhr Mann’s Life Is Not a Competition, But I’m Winning [+]; and from last year’s Berlinale, Estibaliz Urresola Solaguren’s 20,000 Species of Bees [+], Sacha Polak’s Silver Haze [+]; and Paul B. Preciado’s Orlando, My Political Biography [+].
Also among the European titles playing at the festival are Andrew Haigh’s All of Us Strangers [+], which will be making an appearance alongside other acclaimed queer films released in the UK over the past year; and Apollo Bakopoulos’ Aligned, centred on two male dancers who forge an artistic and sexual bond while training in Greece. Worth pointing out as well are three documentaries: Polish director Marek Kozakiewicz’s We Are Perfect, which follows an open audition for a rare trans masculine role in a Netflix film; Code of Fear, in which Appolain Siewe returns to his home country of Cameroon to investigate the roots of homophobia; and Stuart Pollit’s Don’t Ever Stop, which tells the story of Tony de Vit, a DJ and record producer who kept people dancing during the AIDS epidemic.
In the festival’s series offering, we find Tops by Amy Pennington, which captures the spirit of 90s British television while focusing on four trans interviewees; and French series Split by Iris Brey, which stars Alma Jodorowsky as a stunt-woman who falls in love with the actress she’s a stand-in for.

The festival’s star event will be the European Premiere of Close To You, directed by Dominic Savage and starring trans actor and activist Elliot Page, who will be at BFI Southbank on 15 March for a Screen Talk discussing his career.
Regarding the industry side of the event, the festival will also see the 10th edition of BFI Flare x BAFTA in partnership with BFI NETWORK, a professional development programme for LGBTQIA+ UK filmmakers returning this year with a new cohort of six participants. The BFI Flare Industry Day on Saturday 16 March will include panel discussions and industry networking events for professionals working in film production, distribution or exhibition.

BERLINALE 2024 EFM
Dennis Ruh • Direttore, European Film Market
"Noi, come EFM, vogliamo riunire l'intero settore" - di Birgit Heidsiek
13/02/2024 - Il responsabile dell'EFM ci parla dell'impatto dell'intelligenza artificiale e delle nuove tendenze del mercato
The European Film Market (EFM, 15-21 February) is the first market of the year to come after the strikes, which buyers will attend clutching their fresh annual budgets. This year, the Berlinale Series Market and the EFM Startups initiative are celebrating their tenth anniversary. For his last edition as EFM director, Dennis Ruh has centralised the event venues more around the Potsdamer Platz. He discusses this and more in our interview.
Cineuropa: At this year’s EFM Industry Sessions, artificial intelligence (AI) will be a key topic. Where is the industry heading, and what kind of impact are these developments having on creative filmmaking?
Dennis Ruh: AI will be a special focus at this year’s EFM Industry Sessions. AI will undoubtedly start to gain more and more traction in the various areas of the film value chain – from script development to practical issues of production and post-production, distribution and marketing. It has the potential to influence all aspects of filmmaking. It is not surprising that AI is one of the key talking points in the film and media business, and beyond. We therefore examine the topic from different perspectives, including interdisciplinary ones.
In the EFM Industry Sessions, we will explore how AI is changing the way we conceptualise films through worldbuilding, the experiences producers have had in their first encounters with AI, and how such tools can be used in practice. What impact do the rapid developments in AI have on film creation, and what will this mean for the role of human intelligence in the film ecosystem in the future? What skills do we need to develop in order to exploit the potential of collaboration between humans and machines?
How does AI affect creativity?
These questions need to be addressed and clarified, especially since AI raises issues in the ethical and creative fields. The potential of artificial intelligence is high, but the way to strike the right balance between human creativity and automation definitely needs to be taken into account. Filmmaking is a deeply creative process, and while some technical aspects can be more easily automated and can support filmmaking in a positive way, other aspects, such as overall artistic vision and emotional depth, are not that easily replaced and should not carelessly be done by an automated process. We want to shed light on all of these developments and take a more balanced and informative look at the current and predicted roles of AI.
What are the new challenges and trends that productions and sales agents are facing?
The landscape of the film and media industry has changed, and is constantly changing. This year, sales and theatrical distribution are also very much being influenced by last year’s strike in the USA and the resulting loss of 50% of production time. Forecasts predict a slight decline in the global box office, as big distribution companies have postponed the releases of some major productions until 2025, owing to the production delay that has occurred. But this also makes room in the release schedules for independently produced and non-US films. And it’s exactly these films that are widely sold at the EFM. This can have a positive effect on sales activities in Berlin.
Do you see any changes in acquisition practices?
Another recent trend in the sales business is that the selling window of films, related to their production status, is becoming narrower. There are fewer pre-sales activities. Buyers want to see first images and are increasingly interested in buying all rights, to generate revenue through all different forms of distribution and not rely on a single method of distribution.
The rise of digital technologies and streaming platforms has changed the market fundamentally. New, powerful competitors are present. Now, the aforementioned AI is another technological development that has entered the market, but it has taken a significant leap forward within the last couple of years and will probably shape the industry even more. AI is both a new challenge and a trend. It’s on us to set the course for it if we want it to head in the right direction. While it might be disruptive at first glance, and there are legitimate concerns, the shift can be enriching as well and could open up new opportunities and possibilities that have not been available before.
While the Berlinale Series festival programme won’t be continued any longer, the Berlinale Series Market is celebrating is tenth anniversary. What kind of role do series play ten years after the huge hype formed around them?
Serial content is hugely significant for the market. Ten years ago, when the European Film Market introduced a platform for high-quality drama series, there was certainly doubt as to whether serial TV content should be part of a film market. Streaming services such as Netflix or Amazon had only just begun their international expansion at the time, strong high-end serial productions from broadcasters or streamers were the big exception, and film actors were often more hesitant to sign up for TV or VoD productions.
Why is Italy this year’s “Country in Focus” at the EFM?
We will be able to shine a spotlight on the multi-faceted and outstanding Italian film industry – especially since Italy was already supposed to be the Country in Focus in 2021, but with the exceptional formats during the pandemic, the focus section was suspended. The Italian film and media industry is a permanent fixture at the EFM. In 2023, we had over 1,000 accredited participants from the country, as well as over 60 exhibiting Italian companies, and almost 80 films as market screenings. This places Italy in one of the leading positions. It provides an exciting, traditional, modern and diverse production and distribution landscape. There are a lot of opportunities for cooperation with Italian professionals, and we like to foster international collaboration through this programme.
The EFM offers a huge variety of training programmes for startups. How is the EFM changing in terms of demographic trends?
We are proud that the EFM Startups initiative is also celebrating its tenth anniversary. We can look back at a network that has grown to include 100 international young and innovative entrepreneurs showcasing an array of tools and services for the film and media industry. Many have won awards and honours worldwide. The initiative is a wonderful tool that, on the one hand, fosters and trains young creatives by giving them the platform to present their ideas and find partners, while on the other hand, it enriches our market participants with useful ideas, technologies and developments from the film industry and neighbouring sectors. This year, ten hand-picked startups from seven countries will once again present a diverse range of tools for producers in the fields of pre-production/development, production, marketing and distribution. Six of the ten startups are (co-)founded by women.
Regarding demographic trends, we, as the EFM, want to bring together the entire industry – the experienced professionals and the up-and-coming, younger generation alike. And not only from our core industry – the audiovisual content industry – but also professionals from other fields that can inspire with innovative ideas or technology.
This year’s EFM is your last edition as market director. What have the most important developments been at the EFM in the last few years, and what have your biggest accomplishments been?
Looking back, the last couple of years were probably the most unusual in the market’s history. When I started as EFM director, for the first time ever, the market took place in a virtual format. The two pandemic years were a challenge for everyone in the industry, the EFM included. A marketplace needs to be developed constantly. Meeting the demands of the industry is the core business of a successful international market like this. That’s why my approach was always to listen to our exhibitors and participants in order to learn about their needs. Looking at the dynamic and positive development of the market today, I think the past few years under my direction were very successful, despite the challenging pandemic-related, political and organisational circumstances. Together with my highly professional team, we stayed in close contact with the industry, met their needs and were able to create important momentum year by year.
What kind of mark do you leave behind at the EFM?
Under my direction, we launched a podcast series, merged the conference programmes of the former platform into the comprehensive joint EFM Industry Sessions, increased the accessibility of the marketplace and programmes for marginalised, underrepresented and disabled industry professionals, secured the financing of innovative development, diversity and inclusion projects like the expanded Toolbox programmes, and launched the Equity and Inclusion Pathways Seminar as an industry-wide consultation forum. We centralised all of the market activities at Potsdamer Platz, gained new venues, increased the physical and digital market infrastructure, and consolidated the market’s financing. And we supported, and still support, the Ukrainian film industry with different programmed, as well as independent Iranian and Belarusian film professionals.

GOYA 2024
La società della neve vola ancora più in alto vincendo dodici Goya - di Alfonso Rivera
12/02/2024 - Il film di successo di Netflix, diretto da J.A. Bayona, è il grande vincitore della 38ma edizione dei premi dell'Accademia del cinema spagnolo
The new drama about the Andes air disaster Society of the Snow [+] has been nominated for the upcoming Oscars in two categories: Best Make-up and Hairstyling and Best International Film. In recent months it has been one of the most watched films on the Netflix platform, won two European Film Awards (for its special effects and make-up and hairstyling), and last Saturday took home no less than twelve Goya Awards (out of the thirteen it was nominated for). These include Best Film, Director (Juan Antonio Bayona, who already won in these categories twice before, for A Monster Calls [+] and The Impossible [+], after winning Best New Director for The Orphanage [+]), Special Effects, Production Supervision, Editing, Sound and Newcomer for the Argentinian Matías Recalt.
As well as the success of this 60 million euro blockbuster, in acting the actress Malena Alterio (a favourite in all the pools for her work in the leading role of Something Is About to Happen [+]), David Verdaguer (another unsurprising award, Best Leading Actor, after impressing us with his reincarnation of the comedian Eugenio in Jokes & Cigarettes), Ane Gabarain (magnificent and sensitive as a supporting actor in 20,000 Species of Bees [+]) and José Coronado (another magnetic presence in Close Your Eyes [+], the film by the master Víctor Erice that would have deserved more recognition, as it had eleven nominations). Janet Novás won a well-deserved Goya for her stunning debut in The Rye Horn.
Aside from JA Bayona’s film, the other two films that attracted the most attention were Pablo Berger’s Robot Dreams [+], which won the Goya for Best Animated Film (also an Oscar nominee and won the European Film Award in the same category) and Adapted Screenplay, and 20,000 Species of Bees, which won Best New Director and Original Screenplay, both by Estíbaliz Urresola.
There were also no surprises in the categories for Best European Film, which went to the globally acclaimed Anatomy of a Fall [+], by French director Justine Triet, and Best Ibero-American Film, for La memoria infinita, by Chilean director Maite Alberdi. Another title that also addresses, like the latter, the ravages of Alzheimer's While You're Still You [+], by Claudia Pinto, received the Goya for Best Documentary.
This 38th awards ceremony, held on Saturday 10 February in Valladolid, took place during a rather long ceremony that paid tribute to the 25th anniversary of Pedro Almodóvar's All About My Mother, with the filmmaker and his actresses presenting the most coveted award of the evening. The International Goya was also presented to the American actress Sigourney Weaver, presented by the actress and singer Ana Belén and the filmmakers Javier Ambrossi and Javier Calvo, directors of the popular Spanish series of the moment, La Mesías [+].

The award winners:
Best Film
Society of the Snow [+] – Juan Antonio Bayona (Spain/USA)
Best Director
Juan Antonio Bayona – Society of the Snow
Best New Director
Estíbaliz Urresola – 20,000 Species of Bees [+]
Best Leading Actress
Malena Alterio – Something Is About to Happen [+] (Spain/Romania)
Best Leading Actor
David Verdaguer – Jokes & Cigarettes
Best Supporting Actress
Ane Gabarain – 20,000 Species of Bees
Best Supporting Actor
José Coronado – Close Your Eyes [+] (Spain/Argentina)
Best New Actress
Janet Novás – The Rye Horn [+] (Spain/Portugal/Belgium)
Best New Actor
Matías Recalt – Society of the Snow
Best Original Screenplay
Estíbaliz Urresola – 20,000 Species of Bees
Best Adapted Screenplay
Pablo Berger – Robot Dreams [+] (Spain/France)
Best Documentary Film
While You're Still You [+] – Claudia Pinto
Best Animated Film
Robot Dreams – Pablo Berger
Best Cinematography
Pedro Luque – Society of the Snow
Best Editing
Andrés Gil and Jaume Martí – Society of the Snow
Best Production Supervision
Margarita Hugue – Society of the Snow
Best Art Direction
Alain Bainée – Society of the Snow
Best Costume Design
Julio Suárez – Society of the Snow
Best Make-up and Hairstyling
Ana López-Puigcerver, Belén López-Puigcerver and Montse Ribé – Society of the Snow
Best Special Effects
Pau Costa, Félix Bergés and Laura Pedro – Society of the Snow
Best Sound
Jorge Adrados, Oriol Tarra and Marc Orts – Society of the Snow
Best Original Music
Michael Giacchino – Society of the Snow
Best Original Song
Yo solo quiero amor– Rigoberta Bandini (Love and Revolution [+])
Best Fiction Short Film
Aunque es de noche - Guillermo García López
Best Short Documentary Film
Ava – Mabel Lozano
Best Animated Short Film
To Bird or Not to Bird - Martín Romero
Best Ibero-American film
La memoria infinita – Maite Alberdi (Chile)
Best European Film
Anatomy of a Fall [+] - Justine Triet (France)
Honorary Goya
Juan Mariné
International Goya
Sigourney Weaver

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- Sociologia

L’Altro come scelta - Parte prima.

“L’ALTRO COME SCELTA” -
La costruzione sociologica nel ‘riconoscimento di genere’ – Sociologia – by Giorgio Mancinelli

Prima parte: Le ‘pari opportunità’ per una più concreta ‘interrelazione sociale’.
Alla luce dei mutamenti sopravvenuti nella società attuale e delle nuove realtà ideologiche, la costruzione sociologica del ‘riconoscimento di genere’ (*), impostata su basi antropologiche quali, la tradizione, la cultura, la religiosità, la sacralità degli affetti, le usanze e i ‘riti di riferimento’ (*), da qualche anno a questa parte, si è rivelata inaspettatamente anacronistica, mostrando le sue crepe profonde. Segni questi di una millenaria erosione che non l’hanno risparmiata da risentimenti diffusi e critiche per certi aspetti discordanti quanto inevitabili. È così che l’ ‘essere umano’, in qualità di soggetto di ‘genere’, è divenuto, quasi improvvisamente, un fenomeno sociale e antropologico planetario, cui un certo ‘liberalismo’ (*), aprioristico e metodologico, attribuisce forme di ‘società’ e di ‘economia’, migliori di sempre; neppure fossero di per sé ‘archetipi’ (*) di una fantomatica modernità.
Nel tempo, questi comportamenti, individuati come ‘differenze di genere’ (*), e successivamente a una distinzione delle problematiche legate al sesso, sono state gradualmente introdotte nella società, secondo le ripartizioni attuate nella psicologia individuale e in quella collettiva di ‘gruppo’. Per la ‘donna’ erano la sessualità legittimata, la genitalità e, differentemente, per il ‘maschio’, il potere sessista e la riproduttività genitoriale; successivamente trasformate in, voglia di supremazia nei rapporti relazionali, crescita di autogestione nell’uno e nell’altro sesso, non più riconducibili al solo fattore biologico. Tant’è che l’esperienza esistenziale e sociale dell’essere ‘uomo’ e quella dell’essere ‘donna’, nella loro identificazione individuale e complessità, sono tutt’altro che scontate. Onde per cui, riconoscere l’influenza dei fattori sociali nelle ‘differenze di genere’, è il primo passo per il superamento delle diversità e la definitiva attuazione delle ‘pari opportunità’ (*) nell’ambito della riorganizzazione sociale, nella scuola e nel lavoro.
Non solo, quindi, andando verso una comprensione significativa delle varianti problematiche insite nel termine ‘gender’ o ‘genere’ che dir si voglia, ma anche di quelle che prendendo spunto dalla diversità dei sessi, delimitano il ‘riconoscimento’ della personalità individuale all’interno dei ‘ruoli’ (*) contraddistinti gli uni dagli altri, in famigliari, educazionali, configurativi delle diverse tipologie sociali che, nel rispetto delle parti, mettono a nudo le precarietà e i fattori di rischio, di pari passo con l’individuazione di possibili strategie di cambiamento che la società odierna tende a evidenziare come problematiche, per scopi non sempre o del tutto chiari, da sembrare incomprensibili se osservati nell’ottica della risoluzione delle ‘differenze di genere’ a scopo individualistico, ancor più evasivo se visti dalla parte del pragmatismo politico comunitario europeo e non solo.
Se vogliamo, è a partire da tale ‘riconoscimento’, che la ricerca dinamica delle ‘pari opportunità’ trova giustificazione, nell’individuare quei fattori relativi, intrinsechi della sfera della ‘personalità’ (*) e della ‘identità’ (*), contrapposti al rifiuto e alla revoca dell’approvazione tout-court, che hanno portato al misconoscimento della figura ‘donna’, alla quale, invece, ineriscono esperienze di rifiuto di legittimazione e dei diritti negati. “Il riconoscimento dunque – scrive Mario Manfredi (*) – va preso come obiettivo di un processo di piena responsabilità radicale verso i soggetti di ‘genere’ (umani e non), specialmente quando si confrontano posizioni di potere da una parte, e di vulnerabilità dall’altra. Anche perché la responsabilità che ne deriva, si fa carico anche di realtà remote nello spazio (uomini e territori lontani) e, nel tempo (l’umanità futura)”.
Certamente la modernizzazione dei costumi e delle idee non è approdata ad un risultato integrale ed esaustivo in ragione del fatto che si è dovuta misurare con fattori limitanti, con istanze individuali e sociali di tipo politico, economico, imprenditoriali. Non a caso Zygmunt Bauman (*) ha molto insistito nel ricercare instancabile di quell’ ‘identità’, che egli dice “divenuta precaria come tutto nella nostra vita”, essendo venuto meno il vincolo temporale nei rapporti interpersonali a causa di dialoghi preferibilmente a distanza, pause troppo lunghe di riflessione, richieste di chiarimenti mai espletate e sconfinamenti in territori diversi. A cui hanno dato seguito: senso di smarrimento, incapacità di introspezione, inconsapevolezza dell’attenzione, che hanno posto l’individuo davanti a un processo di sterilizzazione dell’immagine sedimentata di “ciò che è stato” (assenza di memoria storica), e di poter approntare una domanda del tipo: “chi sono io oggi?” (mancanza di identità futura), che l’ha portato all’individuazione di quella “paura liquida” individuale e collettiva che in sé non comporta una risposta propositiva.
E che il sociologo evidenzia nel sorgere di un ‘problema’ nuovo che va ad aggiungersi ai tanti che una ‘società liquida’ si porta dietro, per quanto all’apparenza sembra impossibile contestualizzare, se non andando a “...cercare un modello ‘ultimo’, migliore di tutti gli altri, perfetto, da non poter essere ulteriormente migliorato, perché niente di meglio esiste né è immaginabile”, in quanto – egli dice – “...non basta ‘concettualizzare’ una identità qualsiasi, bisogna puntare sulla ‘identità sociale’, radicale e irreversibile, che coinvolga gli ordinamenti statali, la condizione lavorativa, i rapporti interstatali, le soggettività collettive, il rapporto tra l’io e l’altro, la produzione culturale e la vita quotidiana di uomini e donne” (*).
Di là dal sembrare contraddittorio, la difficoltà del sociologo di formulare una risposta propositiva, rientra nella contrapposizione delle due diverse individualità messe a confronto: quella ‘maschile’ e quella ‘femminile’, storicamente in contrasto tra loro e che, pur riproponendo sé medesime in molteplici e differenti soluzioni, vagano alla ricerca di un ‘riconoscimento’ incondizionato, che le riconduca all’interno della ‘realtà sociale’, di cui ‘di fatto’ sono parti integranti. Il problema, volendo qui generalizzare, si pone allorquando all’interno della suddivisione di ‘genere’ avviene la separazione dei rispettivi ‘ruoli’, e quindi delle diverse ‘identità’. Questo fa sì che tutto l’impianto concettuale sopra evidenziato, risente di una forte opposizione a causa di forze esterne ingovernabili che ne determinano il ribaltamento.
Forze di diversa natura, quali: la caducità dell’una o dell’altra soggettività individuale, l’idea dominante del benessere famigliare, la preminenza sul posto di lavoro, la produttività che tende a emarginare chi non è fattivo o, anche, l’avanzamento ingiustificato dell’uomo in rapporto alla stessa funzione svolta dalla donna, l’insorgere di drammatiche regressioni nei rapporti coniugali ecc.., riscontrabili negli accadimenti che producono forme di ‘criticità’ che stravolgono l’assetto del rapporto comunicativo “nel momento esperienziale della ragione e nel momento riflessivo della critica” (*), perché perturbanti l’ordine del quotidiano e devianti dalle regole di normalità vigenti.
“L’annichilimento delle diversità in un mondo uniforme e massificato, la produzione di comportamenti sociali sempre più auto-referenziali, la deculturazione e l’acculturazione di massa secondo schemi economistici, l’accumulazione di tecnologie e di risorse nel contesto sociale sempre più disunito e frammentario, la distruzione di tutti i modelli di valore in nome di un pragmatismo povero di senso; sono alcuni dei paradossi evidenti cui ha condotto la modernizzazione contemporanea sulla base del suo nucleo fondante: l’assolutezza dell’individuo e della sua razionalità esclusivamente soggettiva” – scrive Giulio de Martino (*) da parer suo, quasi si fosse davanti a una possibile catastrofe annunciata e dallo stesso storico considerata quasi inevitabile. Conforme cioè alla ‘natura umana’, in prospettiva di una alterata convivenza democratica e dalla mancanza di un comportamento ‘etico’ austero, che non lascia comprendere e non giustifica le proprie e le altrui convinzioni.
In questo nuovo modello di società individualistica ed astrattamente egualitaria, si assiste al perseguimento di sommovimenti sociali ed economici (ipertecnologica, globalizzazione, squilibri geografici, nazionalismo, razzismo, fondamentalismo), che segnano il punto di svolta retrospettiva del paradigma iniziale e i limiti del presente. Fatto salvo, ovviamente, lo ‘status quo’ secolarizzato, accettato e difeso, dal capitalismo imperante che ieri consentiva una sicurezza interiore che più non appaga, perché andata smarrita; oggi, promette una comunicazione più libera e aperta, la più ampia possibile, in cui “la propria autonomia e la rottura della coazione, sono le condizioni per sostenere un dialogo franco” con il futuro, che di per sé non è garanzia di ‘autonomia’ certa.
Premessa questa che Antony Giddens (*) afferma, essere: “condizione sine qua non per stabilire una relazione più estesa”, che aiuta a definire i limiti personali necessari per gestire con successo le relazioni con gli ‘altri’, (diversi dall’ambito genitoriale, parentale e amicale), alla base della promessa di ‘globalizzazione’ (*) e, in senso lato, estesa oltre l’area che gli è propria, alla sfera dei rapporti interazionali cui le ‘pari opportunità’ sono di riferimento, principio-cardine del comportamento razionale e motore di ogni relazione sociale, del vero benessere e dello sviluppo della società. Sarebbe davvero auspicabile che il dialogo tra le parti sia inteso come fattivo di possibili sviluppi interazionali che infine mettano insieme condizioni e prerogative utili per il futuro degli individui, lontane da distinzioni di ‘genere’; sia nell’organizzazione della quotidianità familiare e comunitaria, sia in quella socialitaria, al fine di conseguire quel ‘riconoscimento’ incondizionato, necessario alla legittimazione paritaria.
Ma cosa hanno in comune le diverse esperienze acquisite, ereditate dal passato antropologico della ‘specie’ con le distinzioni di ‘genere’ che si vogliono qui rappresentare?
Si potrebbe dire niente e il contrario di niente, eppure nulla mi è sembrato più valido quanto rispolverare il ‘concetto di performatività’ teorizzato da Victor Turner (*), relativo a ‘struttura/anti-struttura’, allo scopo di argomentare i processi sociali inerenti alla realtà lavorativa che qui si prospetta. Una chiave di investigazione che, se vogliamo, anche a distanza di tempo, mi consente di riconsiderare, seppure su base teorica, la ‘trasformazione del presente’ a cui volenti o nolenti assistiamo, in quanto “costruzione di senso attraverso l’agire”. Ciò a fronte di nuove aggregazioni dell’esperienza fenomenologica, per una “ridefinizione critica del reale”. Tuttavia, se si vuole dare una risposta soddisfacente a una ‘non-domanda’, tanto meglio comprendere come, talvolta, pur nell’incongruenza, sia possibile delineare una qualche ‘esperienza sociale’ da riconsiderare.
Potrebbe qui essere sufficiente osservare quelle che sono le ‘carenze’ implicite in una qualsiasi struttura lavorativa, riguardanti, nello specifico, l’organizzazione del lavoro e il comparto economico-amministrativo, e ci si accorgerà quanto di più contraddittorio sussiste nella pratica ‘tra il dire e il fare’ dell’esperienza individuale riferita alle ‘pari opportunità’. Soprattutto in relazione alle ‘strutture’ non sempre adeguate alla tipologia del ruolo svolto, rispetto alla ‘qualità’ e alla ‘quantità’ produttiva, sempre maggiore, che viene richiesta. E non solo in ambito lavorativo a fronte degli orari (turnazioni, straordinari, riposi settimanali, ferie ecc.); bensì in tutto quanto attiene alla sicurezza, ai rischi per la salute e, non in ultimo, a quelle che sono le normative nazionali ed europee che spesso vengono disattese.
Sono comunque del parere che un approccio ‘qualitativo’ o, per meglio dire, più qualificato, faciliti l’efficacia della ‘legittimazione paritaria’ all’interno delle singole realtà, siano esse produttive pubbliche che nelle aziende private, sia nelle istituzioni riguardanti la famiglia, la scuola, ecc.. Non c’è dubbio che una maggiore ‘consapevolezza’ basata sulla ‘conoscenza’, sia che riguardi la ‘giustizia sociale’ che il rispetto dei ‘diritti umani’, non può che promuovere una maggiore ‘empatia’ (*) e un migliore approccio con gli altri, a fronte di una sicura ‘crescita’ che guardi al ‘futuro’. Tematiche queste che Umberto Galimberti (*) ritiene di primaria importanza, sulle quali confrontarsi quotidianamente, nella consapevolezza di una ritrovata ‘azione collettiva’ basata sull’ ‘identità’ e il ‘mutamento culturale’, capaci di agevolare le ‘interazioni sociali’ (*) nella vita e sul lavoro.
Argomenti sempre attuali che molto hanno appassionato Alberto Melucci (*), definito il ‘sociologo dell’ascolto’, aperto ai temi della pace, delle mobilitazioni giovanili, dei movimenti delle donne, delle questioni ecologiche, delle forme di solidarietà e del lavoro psicoterapeutico, il quale, in anticipo sui tempi, ha esplorato il mutamento culturale dell’ ‘identità’, in funzione della domanda di cambiamento che viene proprio dalla sfera socio-lavorativa, affrontando i temi dell’esperienza individuale e dell’azione collettiva, studiando la loro ricaduta sulla vita quotidiana e sulle relazioni di gruppo che hanno confermato la validità dell’interazione scientifica tra le diverse discipline, e apportato innovativi contributi alla ricerca sociologica.
Così egli scrive: “Io sono convinto che il mondo contemporaneo abbia bisogno di una sociologia dell’ascolto. Non una conoscenza fredda, che si ferma al livello delle facoltà razionali, ma una conoscenza che considera gli altri dei soggetti. Non una conoscenza che crea una distanza, una separazione fra osservatore e osservato, bensì una conoscenza capace di ascoltare, che riesce a riconoscere i bisogni, le domande e gli interrogativi di chi osserva, ma anche capace, allo stesso tempo, di mettersi davvero in contatto, con gli altri. Gli altri che non sono solo degli oggetti, ma sono dei soggetti, delle persone come noi, che hanno spesso i nostri stessi interrogativi, si pongono le stesse domande e hanno le stesse debolezze, e le stesse paure” (*).
Si può ben comprendere quindi, quanto il ‘riconoscimento di legittimità giuridica’ (*), influisca nelle relazioni interpersonali, al punto che l’‘essere donna’, trasferito sul piano sociale, sia poi sfociato nella estenuante difesa di un ‘io persona’ alla ricerca di quella giustizia sociale che, al contrario, dovrebbe essere determinato da una corretta gestione all’interno di qualsiasi rapporto. Ciò che va riferito ovviamente anche a l’ ‘essere uomo’, dove ‘persona’ (*), nella concezione moderna, è potenzialmente ‘persona giuridica’ e, dunque, ‘soggetto di diritto’. Cioè: “...titolare di diritti e obblighi, investito all’uopo della necessaria capacità giuridica, e del quale è regolata la possibilità di circolazione tra ordinamenti diversi”; onde per cui va considerato: “essere dotato di coscienza di sé e in possesso di una propria identità, riconosciuta alla persona umana”.
Lo afferma Jo Brunas-Wagstaff, studioso della ‘personalità’ individuale che, inoltre scrive: “Tuttavia, anche se sembra plausibile che le persone effettivamente organizzino e controllino il (proprio) comportamento in un certo modo, secondo alcuni psicologi (Carver, Scheier), il modello è troppo semplice, vista la complessità e la necessaria flessibilità del comportamento umano”; la cui comprensione, in margine a situazioni antropologico-culturali predefinite, non può prescindere dai contributi della psicologia cognitiva e dell’apprendimento sociale, atti a misurare le differenze individuali di ‘genere’. Dobbiamo, infatti, a questi moderni metodi psicologici, se oggi possiamo tracciare i ‘rapporti’ e le ‘dissonanze’ esistenti fra tratti di personalità e stili cognitivi, caratteri personali e influenze sociali, nel tentativo di prevedere e risolvere all’origine i diverbi conflittuali all’interno della società e nell’organizzazione socio-culturale a tutti i livelli.
Così come anche dovremmo ispezionare quelle zone sperimentali di riscrittura dei codici culturali, dette ‘liminali’ (*) e ‘interstiziali’ (*), potenzialmente feconde, in cui operano gli strumenti mediatici (analogici e digitali) a disposizione, oggi al centro della riflessione sociologica. Se è vero che le aggregazioni sociali ed economiche sorgono per resistere alla competizione ed alla concorrenza, a maggior ragione esse danno vita a nuove specificità forse più complesse, ma anche più salde, che ripropongono a un più alto livello la massima libertà individuale. Come infatti ha evidenziato in “Sociologia degli interstizi” G. Gasparini (*): “...la possibilità di coercizione che mette in gioco tra l’altro i rapporti tra i cittadini e lo stato”, in quanto espressione di scelte operate nell’ambito di valutazioni morali (virtuose e non solo), le cui ricadute influiscono in modo catartico sulla cosiddetta ‘sfera del sociale’.
Non necessariamente o in modo assoluto come marca del sistema utilitaristico di scambio o di mercato, tipici della logica economica, bensì come fenomeno di ‘prossimità’ (*), per meglio comprendere fin dove l’individuo sceglie in autonomia il proprio ‘ruolo’ nella società e nel mondo. In tal senso, non limitarsi semplicemente a riconoscere la vulnerabilità dell’‘identità sociale’ nel compiere scelte determinate, rappresenta – a mio avviso – la condizione essenziale per comprendere le modalità e le ragioni che le rendono necessarie. Nella storia sociale (e politica) si sono proposte anche importanti istanze progressive di ‘giustizia ed equità’ improntate alla ‘reciprocità equilibrata’ (*), vale a dire, ad esempio, ‘dare qualcosa ad un altro in cambio del giusto e dell’equivalente’. Non v’è dubbio, un comportamento che in origine doveva essere stato creativo della socialità, e che andrebbe riaffermato, o almeno in parte, come base nelle forme di interazione e scambio interpersonale.
Si tratta qui dello svilupparsi di progetti (di vita) di tipo ‘altruistico’, volti a realizzare il ‘bene’ (inteso come gratificazione) e al raggiungimento della ‘felicità’ (come soddisfazione e ricompensa), che si avvalgono dell’ ‘interazione sociale’ per concorrere, insieme con gli ‘altri’, alla propria realizzazione dinamica, relativa a progettualità pedagogiche, psicologiche, assistenziali, e improntate ai principi dell’ “insieme è meglio”. “Sono queste virtù – scrive A. MacIntyre (*) – che garantiscono un agire razionale indipendente, ma che hanno bisogno di essere accompagnate da opere (fatti) che rispondano a tali interrogativi (..) e che né la figura dello stato nazionale moderno, né il tipo di associazione sociale e politica di cui ci sarebbe bisogno, possono rappresentare”.
Tuttavia, se non in sporadici casi, le nuove spinte sociali di cui l’ ‘associazionismo’ (*) è fautore, non ha fatto delle ‘pari opportunità’ quella panacea che ci si aspettava per risolvere le problematiche discriminatorie nei confronti dell’uno e/o dell’altra nell’attuale società, né lo hanno potuto i movimenti femministi che non rientrano in questa mia tesi. Benché, è appurato, che qualcosa è sopravvenuto a stravolgere il nucleo più duro da sempre presente nell’ ‘inconscio collettivo’ di tipo maschilista. La sempre più ampia e infinita discussione, sui limiti della politica nel voler dare una svolta al ‘problema conflittuale’ delle disparità ‘donna-uomo/uomo-donna’, rientra in quello che in psicologia, è definito ‘metodo del consenso’ (*).
Basato sulla ‘cooperazione’ e non sulla ‘coercizione’, sebbene ciò richieda qualche sforzo in più per essere unitamente compreso e praticato. Se non c’è l’onesta volontà di venirsi incontro (legittimazione paritaria), il metodo non funziona, in special modo quando ci si trova di fronte a gruppi eterogenei che intendono mantenere esclusive posizioni di ruolo (potere), che non possono o non vogliono cooperare. L’applicazione del ‘metodo del consenso’, dunque, inteso come processo democratico che conferisce agli individui il poter prendere decisioni e, al tempo stesso, richiede a ciascuno di assumersi la responsabilità di tali decisioni.
Ciò che non è rinuncia al potere, bensì ‘potere-insieme’, che non chiede di trasferire responsabilità sugli ‘altri’, ma domanda agli ‘altri’ di rispondere personalmente e completamente delle proprie azioni, al di là delle ‘differenze di genere’ o di coperture coartate. Se non si comprende e si accetta questo, le politiche per le ‘pari opportunità’ hanno davvero ben poca possibilità di successo. Nella pur strenua possibilità di affermazione, il ‘metodo del consenso’, porta alla prevenzione dei conflitti nelle relazioni interpersonali, lì dove questi maggiormente si verificano o, come in alcuni casi, compromettono lo svolgimento del lavoro.
Nello specifico quando, e soprattutto, si fa riferimento a procedure etico-deontologiche, che regolano i rapporti introitati. Presupposto necessario per la risoluzione delle contrapposizioni e dei conflitti psicologici che rientrano in una dimensione di legalità e di giustizia sociale. Ovviamente i metodi di risoluzione dei conflitti - ad esempio – sul posto di lavoro, dovrebbero andare ben oltre gli intenti di pacificazione convenzionali, spesso animati da logiche economiche preferenziali, che per lo più gratificano l’uomo e penalizzano la donna.
Stando a recenti esperienze maturate, tendenti ad affidare la gestione dei conflitti a figure esterne (conflict management, sindacati, assistenti sociali, giudici di pace ecc.), siamo di fronte a un fatto nuovo, in cui l’applicazione delle ‘pari opportunità’, (ancora pur sempre in via del tutto teorica), dimostra una certa volontà di gestione delle dinamiche atte a regolamentare i parametri di partecipazione della ‘donna’ nel mondo del lavoro. Prevedendo la sua compresenza nei quadri ‘dirigenziali’ delle imprese (statali e private), da affiancare e/o integrare la presenza dell’uomo, tutto lascia ben sperare in una futura riorganizzazione in ambito lavorativo che includa la ‘donna’, a fronte di una ‘legittimazione paritaria’ (*) significativa, all’interno delle pianificazioni occupazionali del lavoro.
Ciò che davvero credo possa contribuire all’ ‘autoregolamentazione’ (*) dei comportamenti e all’attivazione di ‘processi di autocontrollo’ (*) come, ad esempio l’ ‘autostima’ (*) e di una certa realizzazione di sé a favore di una maggiore ‘autoaffermazione’ (*). Processi certamente idonei ad offrire agli individui uomo/donna una maggiore ‘sicurezza interiore’, e quelle sinergie necessarie, come l’assistenza psicologica in tutte le possibili emergenze: (malori improvvisi, demotivazioni da ansia sociale, difficoltà di relazione con gli altri, senso di insicurezza, che condizionano negativamente la qualità del rapporto della vita, rendendo difficile e doloroso proporsi nel mondo del lavoro), utilissime anche, in occasione di disastri dovuti a rappresaglie e calamità naturali ecc., dove più si sente la necessità di interventi capaci e risolutivi.


Bibliografia di consultazione:

(*)S. Piccone Stella – C. Saraceno, “Genere: la costruzione sociale del femminile e del maschile”; voce in ‘riconoscimento di genere’ (gender) – in ed in Vivien Burr “Psicologia delle differenze di genere” – Il Mulino 1996.
(*) Van Gennep, Mircea Eliade, J. G. Frazer, in ‘riti di riferimento o di passaggio’
(*) Mario Manfredi, “Teoria del riconoscimento”,
(*) Zygmunt Bauman, “Intervista sull’identità”
(*) Antony Giddens, “La trasformazione dell’intimità”
(*)Victor Turner, “Concetto di performance” e di ‘performatività’
(*) G. Gasparini, “Sociologia degli interstizi”,
(*) M. D’Avenia in MacIntyre, “Animali razionali dipendenti”
(*) Maria Menditto “Autostima al femminile”
(*) www.utopie.it/nonviolenza/metodo_del_consenso.htm )
(*) M. Menditto “Realizzazione di sé e sicurezza”




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- Letteratura

‘L’Arte e la Morte’, libro di Antonin Artaud, L’Orma Editore

‘L’Arte e la Morte’, un libro di Antonin Artaud – L’Orma Editore 2023

“Chi, nel cuore…”, nessuno credo abbia mai espresso con tale concretezza l’affinità che trascende dall’arte nella morte, come Antonin Artaud ha delineato in questo piccolo gioiello letterario recuperato da un originale del 1929. Se non ciò che si mostra nel passaggio interstiziale dal vuoto della tela, del muro e/o del foglio di carta, alla pienezza del segno di matita, d’inchiostro e/o del colore che l’imbratta. Dacché la fragilità del dubbio è nelle parole che usiamo per descriverne l’essenza, di come l’artista usa il pennello o la matita quale arnese nel disegnarla, dipingerla e/o scolpirla. Qualcuno ha detto che ogni nostra azione confina col nulla, potrebbe essere così, ma di solito il cuore parla chiaro, non ne farei necessariamente un fatto esclusivo dell’arte tout-court. Direi piuttosto di chi si rende partecipe del momento emozionale espresso dall’artista nella fase creativa dell’arte come fosse il raggiungimento del suo massimo godimento. Mentre per noi che la osserviamo, sia quasi la cosa più naturale al mondo da dover accettare con l’inerzia del solo sguardo. Quasi che la morte, che pure in molta arte si contempla, non fosse che l’amara idea della fine, un’interminabile sequenza di dolorosi addii, di lasciti cui abbandoniamo noi stessi, nell’impercettibile e incessante astrazione che ci rende inconsapevoli della solitudine che si cela dietro la facciata della nostra vita. Il passaggio inesorabile del nostro sguardo fuggevole sulla superficie dell’arte, come di qualcosa che l’avvicina all’eternità…
“Chi, nel cuore di certe angosce, in fondo ad alcuni sogni, non ha conosciuto la morte come un senso di rottura e meraviglia con cui nulla si può confondere nel mondo mentale?”
C’è dunque qualcosa che va oltre la fragilità del dubbio, di vedere nell’arte ciò che ‘per scelta’ talvolta non è rappresentato, ma che pure vediamo come parte integrante del manufatto pittorico, come ad esempio un quadro, un affresco e/o dell’oggetto scultoreo che talvolta lo sguardo ‘visionario’ in sé, completa. Cosa non sempre facile all’esigenza dell’arte, non senza eluderne l’intento creativo, senza tradirne l’insita emozione che l’ha concepita, seppur mantenendo il ‘fuoco segreto’ che la divora e ne imprime la singola esistenza. Quel qualcosa che sempre accade nel fare e che rende appieno l’idea di ciò che noi tutti stavamo cercando: “un vuoto, un pieno”, che non sono della nostra piena certezza, ma che appartengono all’illusionistica quanto ‘visionaria’ realtà del sogno, “fino agli ultimi limiti del sensibile”…
“Sarà proprio come in un brutto sogno, dove sei fuori dalla condizione del corpo dopo che l’hai comunque trascinato fin là, mentre ti fa soffrire e ti illumina con le sue assordanti percezioni in cui la sua superficie sarà sempre più piccola e più grande di te, in cui non si potrà soddisfare più nulla della sensazione che porti di un’antica inclinazione terrestre.”
Non c’è che dire, per quanto monotono o inefficace possa sembrare agli altri è questo un meditare dell’anima che desidera trasfigurare il vuoto della morte nella pienezza di un’eternità che nessuna morte potrà mai sfiorare. Un argomentare questo non certo marginale, quand’anche necessario ad avvalorare la metafora consapevolmente cercata da Artaud, nel voler mettere a confronto la propria esistenza ‘visionaria’ di morte in quanto opera d’arte…
“Ho appena descritto una sensazione d’angoscia e di sogno, l’angoscia che scivola nel sogno, pressappoco come immagino che l’agonia debba scivolare e concludersi infine nella morte”.
Non si pensi ad uno svago perverso, al contrario qui s’inventa un efferato gioco al massacro per la propria sopravvivenza, che la scarsa disponibilità dell’autore continua a negare, tormentato com’è da un profondo senso d’assenza da qualcosa che è venuta a mancare nella sua linfa scrittoria, o che forse non gli è data. Vogliamo chiamarla ‘creatività vitale’ facciamolo pure, ma di quella infine si tratta, anche se non solo di quella, vissuta nella disperata attesa di riempire il vuoto che lo circonda, di dare una ragione alla sua esistenza, malgrado sappia che quel vuoto non potrà mai essere colmato, per una rinuncia che può sembrare un controsenso, ma che gli sembra aver già appurato nei suoi scritti precedenti e successivi come un’effettiva minacciosa ‘assenza’…
“Ed è proprio così, e lo sarà per sempre. Nel sentire la desolazione e l’innominabile malessere , che grido, degno del latrato di un cane in sogno, ti solleva la pelle, ti si rivolta in gola, nello sconcerto di un insensato annegamento”.
Viene da chiedersi in arte a che cosa grida l’uomo dipinto da E. Munch autore de “L’urlo” (1), una delle icone della pittura mondiale, se non a quell’angoscia improvvisa che lo coglie in modo “così forte, infinito che attraversava la natura” in quel momento…
“L’angoscia – scrive Artaud – non è né sconosciuta né nuova. la morte nella quale si è scivolati senza rendersene conto, il raggomitolarsi del corpo, la testa (che l’uomo di Munch si tiene tra le mani) – è stato necessario che passasse, lei che sosteneva la coscienza e la vita e quindi il supremo soffocamento, e quindi la lacerazione superiore – che passasse, anch’essa, per l’apertura più piccola possibile”.
Quella ‘cruna dell’ago’ da cui forse solo è dato di passare e che nell’arte pittorica più che in altra rappresenta la ‘paura’ della morte…
“Questa morte in catene nella quale l’anima si agita per ritrovare uno stato finalmente completo e permeabile”. “Dichiaro – e mi affido a questa idea che la morte non sia fuori dal dominio della coscienza, che sia entro un certo limite conoscibile e avvicinabile attraverso una certa sensibilità”.
È allora che il sogno si esprime nella realtà: “Il sogno è vero. Tutti i sogni sono veri”, prosegue Artaud. È vero nella ‘visionarietà’ di “Eliogabalo” (2) l’anarchico incoronato, la cui biografia, parlando solo di molteplici eccessi, in qualche modo, si rivela riflesso della vita stessa dell’autore, scomodo come artista al suo tempo, come lo è ancora oggi malagevole ad ogni interpretazione. Per cui ogni accostamento rimane in superficie, per la difficoltà di ‘penetrare il senso’ delle contrastanti coattive definizioni postume…
“È per questo che tutti coloro che sognano senza rimpiangere i propri sogni, senza portare con sé una sensazione di atroce nostalgia dalle immersioni nel fertile inconscio, sono delle bestie”. “Ho la sensazione di asperità, di paesaggi come scolpiti, di pezzi di terra ondeggianti ricoperti da una specie di sabbia fine, il cui senso vuol dire: ‘rimorso, delusione, abbandono, rottura”.
“Niente che assomigli all’amore, quanto il richiamo di certi paesaggi visti in sogno, quanto l’abbraccio delle colline, di una specie di argilla materiale la cui forma è come modellata sul pensiero!”.
È dunque l’assenza d’amore a segnare il punto di svolta che più avvalora questa «Vertiginosa raccolta di scritti surrealisti del 1929 come di un fuoco d’artificio nella scrittura di quell’inquieto poeta in prosa che è stato Antonin Artaud?» (3)
“Sì!”, risponde dalla sua Umberto Galimberti in “Paesaggi dell’anima” del 1966 (4), di quell’anima che si pensava potesse ammalarsi, proprio come il corpo. Oppure “No”, onde per cui «…bisogna recuperare l’irrazionale che abita la profondità dell’anima, e ci fa accedere alla radice da cui si dipartono sia la ragione sia la follia.»
E cos’è, se non l’amore che “mira a creare un rovesciamento delle apparenze, a introdurre un dubbio sulla posizione delle immagini della mente in rapporto tra loro, che provoca la confusione senza distruggere la forza del pensiero sorgivo (dell’arte), che rovescia i rapporti tra le cose (i sentimenti, le emozioni), dando al pensiero inquieto (i dubbi laceranti), un aspetto ancora più grande di verità (nella presenza) e di violenza (nella totale assenza), e che ci offre uno sbocco alla morte, ci mette in relazione con gli stati più sottili della coscienza entro i quali la morte si esprime”. “Che cos’è (allora) questa morte in cui siamo pur sempre soli, (se) l’amore non ci indica la strada?”
Artaud rivela la sua propensione e/o il distacco dal male e andare verso l’amore nella “Lettera alla veggente”…
“Il destino non era più, per me, la strada oscura che può nascondere solo il male. Avevo vissuto nel suo eterno timore, e a distanza, lo sentivo prossimo, da allora sempre annidato in me. […] M’importava poco che si aprissero davanti a me le porte più terribili, il terribile era già alle mie spalle. […] Quello che mi rassicurava più di tutto non era questa profonda certezza, legata alla mia carne, ma piuttosto la coscienza dell’uniformità di tutte le cose.” […] C’era però anche un’altra cosa. Questo senso, indifferente quanto gli effetti immediati sulla mia persona, era comunque colorato di qualcosa di buono”.
L’amore sublimato è qui raggiunto nella vicenda di “Abelardo ed Eloisa” che ha permeato la cultura popolare francese del XIX secolo: «un esercizio – come spiegano le attente curatrici – di ‘scrittura surrealista’ che prende spunto dalla storia dei due celebri e infelici amanti, […] che costituisce il substrato dell’esperienza poetica, non senza ironia, ricercata da Artaud, in cui scandaglia il desiderio sessuale dei due amanti sino alla minuziosa descrizione di un orgasmo.»…
“Perché è a lei che sempre ritorno attraverso il filo di quest’amore senza limiti, di questo amore che si spande nell’universo. E fa crescere crateri nelle mie mani, fa crescere dedali di seni, fa crescere amori esplosivi che la mia vita conquista al sonno. […] Ma per quali estasi, per quali sobbalzi, per quale scivolare continuo arriva all’idea del piacere della mente. Il fatto è che in questo momento Abelardo gode del suo spirito.[…] E allora “…la questione dell’amore si fa semplice. Che importa che sia di più o di meno, dato che può agitarsi, insinuarsi, evolvere, ritrovarsi e riemergere.” Se, insieme ad Eloise “Ha ritrovato il gioco dell’amore”…
Ed ecco che il gioco iniziale diventa ‘arte’, o meglio quell’ ‘ars amandi’ che Publio Ovidio Nasone (5) descrive come Ludus, cioè un gioco galante, una fonte di piacere in cui non si contempla la passione profonda, coinvolgente che caratterizza l’ossessione d’amore, bensì quella che l’iconografia di ritorno nell’arte di ogni epoca avvolge di un alone libero e sublime. Come in Erich Fromm (6) “L’arte di amare” è qui totalizzante, espresso attraverso il desiderio stimolante di un atto creativo che Artaud scambia con il bisogno di essere amato, pur sapendo che il vero amore è un sentimento molto più profondo e, soprattutto, trascende dal tentativo egoistico del piacere. Come pure Zygmunt Bauman avverte in “L’arte della vita” (7): «La nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no», a cui aggiungo “che lo vogliamo o no”; da leggersi volta ‘al bene’, sia quando è volge ‘al male’ che facciamo a noi stessi nel conseguimento del fine esclusivo della vita…
“I bassifondi – rivela Artaud – non sono abbastanza fissi da vietare ogni idea di caduta. Sono come il primo livello di una caduta ideale di cui il quadro stesso dissimuli il fondo. C’è una vertigine il cui vortice fatica a liberarsi dalle tenebre, una discesa vorace che si assorbe in una specie di notte”.
Il timore di essere risucchiati in un buco nero? Forse…
“Una notte da galera, un’oscurità piena d’inchiostro dispiega le sue muraglie mal cementate”. Tutt’attorno - conclude l’autore – “…la strada era vuota. c’era soltanto la luna che continuava i suoi liquidi mormorii”. “Era inevitabile che l’eternità mi vendicasse dell’accanito sacrificio di me stesso, cui io non partecipavo”.


Note:
Quanto riportato nei virgolettati è di Antonin Artaud “L’arte e la morte”, L’Orma Editore 2023. Per una biografia dell’autore consultare Wikipedia.
(1), Edvard Munch “L’urlo” 1893, opera pittorica Oslo, Nasjonalgalleriet
(2), Antonin Artaud “Eliogabalo”, Adelphi Edizioni 1969
(3), Giorgia Buongiorno e Maria Giacobbe Borelli, curatrici della versione italiana de “L’arte e la morte”, L’orma Editore 2023
(4), Umberto Galimberti, “Paesaggi dell’anima”, Mondadori 1966
(5), Publio Ovidio Nasone, “L’arte di amare”, Mondadori 2006
(6), Erich Fromm, “L’arte di amare”, Mondadori 1993
(7), Zygmunt Bauman, “L’arte della vita”, Editori Laterza 2008










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- Fede

Un Presepe per Tutti - Collage musicale e qualche verso

“UN PRESEPE PER TUTTI” – Radioprogramma by Giorgio Mancinelli

Sigla: ‘An Dro’ – Trad. Bretagna / Arion

Testo: «Collage musicale e qualche verso su questo Natale.»

«È dicembre!
Col vento le foglie infreddolite si staccano dai rami e dondolano nell’aria.
Come farfalle stanche di volare si posano dovunque:
sui marciapiedi delle strade, nei fossi, sulle auto in sosta.
Si accantonano una sull’altra come per scaldarsi al sopraggiungere della notte.»

‘La Gioconda’ – A. Ponchielli / Buena Vista

«Il giorno si fa breve e la sera nasconde dietro le finestre delle case il fumo caldo della minestra pronta sulla tavola.
Voci allegre si rincorrono da una stanza all’altra.
Attraverso i corridoi si confondono a quelle della Radio accesa e si fanno musica …»

‘In Deine Hande’ – Trad. Creta / Popol Vuh - U.A.

«Ed ecco che l’atmosfera magica di quest’aria tradizionale
riporta ad una storia più antica, di un Bambino che nasce alla vita.»

«E sì, dicembre vuol dire Natale.
Vuol dire candele di luce che si accendono nel cuore di ognuno,
doni, giochi, allegrezza.
Natale vuol dire speranza.
E come visto attraverso i vetri appannati di una finestra,
il paese ch’è stato
il nostro, la grande città, la megalopoli dove adesso viviamo,
si trasforma, per così dire, scolora,
perde la forma del reale, per diventare ‘altro’,
assume le forme e gli aspetti di un immenso, immaginario ‘presepe’.»

‘Still, still, still’ - Trad. Austria - N.L. Chorus

«Allora bastano poche stecche di legno tenero da tagliuzzare,
alcuni fogli di carta, i colori, le forbici, la colla, le puntine ed …
ècco ricreato un angolo di mondo dove forse non splenderà il sole
ma che s’illumina della nostra fantasia.
E come per incanto sorge un ruscello di carta stagnola,
un ponte di sughero sospeso nel vuoto,
montagne di muschio e alberi di stoppa,
dove le case stanno abbarbicate sotto un cielo racchiuso fra delle tavolette,
e le ‘persone’ rimangono ferme nelle pose di sempre
e la luna muta, lascia il posto a una cometa che brilla
solcando il cielo di questa notte incantata.»

‘Ave Maria’ – Schubert / Buena Vista

«D’intorno si leva già un canto antico quanto il mondo,
e una preghiera …
Stanotte le stelle / sembrano più belle
brillano di più …
Cercando in cielo / si scorge un volo
Sono angeli in coro / che nella notte buia
annunciano: Alleluia! …
Danzar sembra vederle / per come sono belle
sembrano fiammelle …
e ci sono tutte, tutte! / talmente son contente.
Stanotte i cuori diventano più buoni
e nel cielo d’azzurro s’intona
una ninna-nanna a consolar le genti.»

‘Tubular Bells’ – Trad. Irlanda / Mike Oldfield – Virgin

«È Natale!
Ognuno si scambia un abbraccio, un bacio, una stretta di mano.
È Natale, ripete il viandante
vogliamoci tutti un po’ più di bene!»

‘Quanno nascette Ninno’ – Trad. Italia/ Napoli / NCCP – EMI

«È Natale!
Ripete il pastorello ch’è disceso a valle con la cornamusa …
Sapete, dice, in quella rozza capanna / un bue e un asinello
riscaldano un Bambinello / che dorme sulla paglia.
È natale!
In coro gli Angeli e i Pastori / gli cantano la nanna.»

‘Greensleeves’ - Trad. Inghilterra / The U.K. Symphony Orc. - MCCD

«È Natale!
Tutt’intorno la pace
discende sulla terra
La valle è verde
La collina è dolce
Il ruscello s’è incantato
Il laghetto si è argentato
Un canto s’è innalzato
Le luci sono brille
I fuochi ardono di più
Anche i pastori si sono addormentati
E le pecorelle non brucano più
Ma guardano lassù
Lassù verso le stelle
E sono belle! belle!

È Natale!
Quand’ecco la terra è tutta in festa
Il mondo s’è svegliato
I buoi son desti
I somarelli allegri
I cani rincorrono le paperelle
I cavallucci girano addomesticati
I cani abbaiano di più
Il gatto fa le fusa
I contadini lasciano il lavoro
Il venditore chiama
Le massaie accorrono
I bambini tornano a giocare
E tutto gira intorno a noi
Fin da principio della notte dei tempi.»

‘Nascette lu Messia’ – Trad. Italia/Napoli/ - NCCP - EMI

‘Pastorale’ – A. Corelli – EMI

«Narrano le Antiche Scritture che scribi, profeti, astronomi e filosofi, scrutavano il cielo in attesa di un segno.
Allorquando veduta la Stella, i Magi la seguirono nel suo viaggiare, fin dal lontano Oriente.
Hanno attraversato pianure e deserti, valli ombrose e montagne altissime, seguito fiumi lunghissimi e bagnatisi in laghi profondi, per giorni e notti per arrivare a Betlemme.
Ognuno reca con sé un dono, un dono puro: mirra, incenso e oro.
Gaspare, avvolto nel suo mantello azzurro, giunge in groppa a un cammello,
porta la ‘mirra’ in dono, un unguento balsamico dall’odore soave, in segno dell’ ‘Ufficio del Signore’.
Melchiorre, avanza a piedi, seguito dal palafreniere e il suo cavallo,
ricoperto da un manto di porpora, porta in dono l’ ‘incenso’, una resina secca da bruciare, in segno e onore di un avvenire sacerdotale.
Baldassarre con la sua barba antica, arriva ancor da più lontano, in sella a un baio coperto da un mantello viola, porta in dono l’oro, un minerale prezioso in segno del suo regno spirituale.»

‘Concerto grosso per la Notte di Natale’ – Manfredini / Erato

«Ed eccoli son giunti,
in questo giorno che si dice Epifania, a questo nostro presepe che di Betlemme vuole aver sembiante.
Per rinnovare l’antica novena di pace che dicesi Natale.
E fuori dalla finestra, il paese, la città, il quartiere, la nostra casa,
diventano il presepe di ieri, di oggi, di sempre …»

‘Canto Universale’ – J. Browning con I Piccoli Cantori di Milano - Ricordi

«È Natale!
al vicino offriamo amicizia,
al povero del pane,
all’orfano il calore d’una famiglia,
all’emarginato la mano dell’incontro
al triste regaliamo un sorriso
al nemico pace.
Se questo Natale ha un senso,
diamo un senso alla nostra vita
e in ogni casa portiamo un dono in musica …
(seppure per radio e fatto di sole parole)
questo ‘Presepe per tutti’.»

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- Libri

Flavio Ermini ’Antipensiero’ una favola contemporanea.


Flavio Ermini “Antipensiero” una favola contemporanea – Moretti e Vitali, 2023.

Il ‘non luogo’ è indubbiamente il nostro luogo attuale, afferente alla contemporaneità della illusorietà in cui ci troviamo a vivere, dove volenti o nolenti attraversiamo una frontiera, o meglio la soglia di un ‘altrove’ vicino e attuale che produce effetti di ritenzione ma anche di esclusione egualitari. In breve crea ‘mondi’ inusitati nella nostra coscienza, dove i sogni vanno ad occupare il ‘non luogo’ delle affabulazioni, facendosi spazio negli interstizi dell’ “Antipensiero” che per elucubrazione intellettuale finora non avevamo coltivato, ma che pure esiste nei preamboli che scriviamo nottetempo sui taccuini della memoria.
Avviene così che “nel cercare di corrispondere alla muta eccedenza di senso che va oltre le parole” (*), Flavio Ermini, autore di questa “Fabula” antica e pur sempre nuova, approda alla soglia di quell’ “altrove poetico” che gli è più caro, a cui ha dedicato tutta la vita spendendosi nella ricerca e nell’affermazione delle molteplici ‘voci’ che rendessero alla Poesia quella luce che la distingue dalle altre arti. Al contempo liberandola definitivamente dalle spore della disillusione di una individualizzazione fin troppo artata, verso il necessario cambiamento, “trasportando in parole quelle cose dal silenzio del mondo”(*), verso un nuovo sé universale.
Avverte l’autore: “Antipensiero è il nome dell’astronave che il bambino ha inventato per andare su una terra diversa da quella da lui finora vissuta. Antipensiero è anche il nome del Pianeta da raggiungere per vivere una vita diversa da quella finora vissuta.” Ma noi che leggiamo sappiamo, pur senza condividerlo, trattarsi di un invito a fuggire, senza perdere necessariamente coscienza della realtà, anzi assorbendo la funesta realtà vigente sulla terra (guerre, bombardamenti, macerie ecc.). Sì che si deve inventare una “Antiterra” , un non-luogo in contrasto con il luogo effettivo in cui si vive sulla Terra, dove i due protagonisti, un ‘bambino’ e una ‘bambina’, riversano i loro giochi innocenti:

«Il gioco più bello era quello degli angoli. Lo giocavano spesso, era un gioco che serviva a mantenere i segreti. […] Le macerie erano il posto più bello dove giocare. C’erano sempre nuovi sentieri e nuove piante d’ortica che servivano a tenere lontano i grandi.»

Ma non era certo quello il problema più grande, era trovare il tempo e lo spazio per giocare in piena libertà; allora tornare all’astronave ‘Antipensiero’, piuttosto era se tornare o restare sul nuovo pianeta dove vivevano certi ‘filosofi’ indecisi: «La differenza riguardava esclusivamente l’elemento teorico. […] L’Antipensiero infatti si sviluppava avanti e indietro nel tempo, a destra e a sinistra nello spazio.»

Ma che la storia continui o finisse qui, ha poca importanza, va detto che in fondo ad alcuni sogni c’è un prima e un dopo inespressi, un senso di rottura e di meraviglia con cui nulla può confondersi col mondo reale. Non riusciremo mai a colmare di senso ciò che senso non ha, se non lasciando che i sogni attraversino quel ‘non-luogo’ dove infine un altro mondo è possibile, e non necessariamente davanti ai nostri occhi. L’insegnamento, se mai si possa insegnare ad essere poeti, è quello in cui è reso possibile confondere il proprio status mentale e abbandonarsi al sogno, le cui onde liriche e/o comunque sonore, si gonfiano sospinte ad andare più lontano, quell’andare ‘oltre e altrove’ che pur s’adduce ad ogni favola nel rovesciamento della realtà in cui si conduce.

“Ed eccolo l’istante tanto temuto, tanto paventato, tanto sognato, è qui giunto. […] E il tempo immenso si versa tutto intero sul suo limite con una determinazione per la quale non può che dissolversi senza lasciare traccia.” (**)

La fabula è qui in questo piccolo pregiatissimo libro di Flavio Ermini curato da Lucio Saviani che aspetta di essere letto per intero, non per tornare ad essere bambini, quanto per aiutarci a diventare grandi e “stabilire così un nuovo Essere” che sarà domani, o forse che non sarà mai.


Note:
(*) Introduzione al libro di Lucio Saviani.
(**) Antonin Artaud "L'arte e la morte" - L'Orma Editore 2023

L’Autore:
Flavio Ermini è poeta, narratore e saggista. Ha prestato il suo operato per Mondadori ricoprendo importanti ruoli editoriali. Consulente di alcune case editrici, collabora all’attività culturale degli Amici della Scala. Dirige dalla fondazione la rivista di poesia e ricerca letteraria Anterem. I suoi testi sono tradotti in francese, inglese, slavo, spagnolo e russo. Per Moretti & Vitali tra gli altri ha pubblicato “Il moto apparente del sole” (2006), “L’originaria contesa tra l’arco e la vita” (2009), “Il giardino conteso” (2016), “Edeniche. Configurazioni del principio” (2019), alcuni dei quali recensiti in Larecherche.it. Con Lucio Saviani dirige la collana “Narrazioni della conoscenza”.

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- Libri

’Dirty Game’ a Black Novel by Sonny – Rise and Press 2022

“Dirty Game” a Black Novel by Sonny – Rise and Press 2022

La differenza che passa tra sex appeal e seduzione, tra erotismo e pulsione sessuale, benché nella veste patinata delle riviste porno raffinate talvolta molto eloquenti, solo in qualche caso volgari nei passaggi da eccitazione a orgasmo, potrete trovarla in questa ‘black novel’ che è anche la storia di una irrequietezza individualistica senza possibilità di scampo. In cui la ‘passione sessuale’ e/o gli ‘orgasmi da possesso’ degli interpreti vengono ripetuti a sfinimento, tali da essere ripresi e moltiplicati con dovizia di particolari, che non lasciano nulla all’immaginazione. Una sorta di ‘manuale erotico’ che permette a chiunque di riproporsi nell’interpretazione ‘mercificata’ dei rispettivi ruoli.
Niente di veramente nuovo se non un ‘mixed up’ di pamphlet da ‘sexy shop’ che tanto hanno ripreso da una certa letteratura e ancor più hanno suggerito al cinema in pellicole diventate ‘cult’. Per quanto una lista sarebbe troppo lunga da includere nello spazio di questo breve articolo, tanti sono i libri e altrettanti i film comunque di successo da leggere e da vedere e/o rivedere instancabilmente da chi non proscrive l’erotismo a qualità esclusivamente pornografica. Ma che ne sarebbe delle nostre ‘eroine’ e dei nostri ‘super eroi’ ai quali ci siamo ispirati una volta superata la febbricitante ossessione degli orgasmi? Meglio non chiederselo e lasciare che il ‘gioco’ si concluda da sé, magari accompagnato da un leitmotiv sullo sfondo di quel fare all‘amore la cui aspettativa non deve mai venire meno, ne vale l’ ‘illusione letteraria’ che pure, nel tempo, si è espressa con stupendi ‘capolavori’ del genere erotico.
Riguardo invece alle pagine ‘sporche’ di questa ‘black novel’ come l’ha pensata il nostro autore, è tutta concentrata nel chiedere quel ‘qualcosa di più’ che in fondo ‘il sesso per il sesso’ non può dare, e che incredibile a dirsi, al contrario, solo la profondità dei sentimenti arriva a soddisfare: “Essere sadici o masochisti significa avere un posto speciale tra i perversi. Si tratta di un duale conflitto che sta alla base della nascita della società come la si intende al giorno d’oggi. È il contrasto costante tra l’attività e passività che rimane un elemento fondante della vita di ciascuno di noi. Come diceva Freud esiste al giorno d’oggi, e da sempre, un rapporto molto stretto tra la crudeltà e il destino” – scrive Sonny.
Ce n’è davvero per tutti i gusti (leggi perversioni), ma questa è tutta un’altra storia, siete pronte/i ad assumervi tutte le imprudenze del caso: “La porta dell’avvenire sta per aprirsi. Lentamente. Implacabilmente. Io sono sulla soglia. C’è soltanto questa porta e ciò che v’è nascosto dietro. Ho paura. E non posso chiamare nessuno in aiuto. Ho paura” – scrive Simone de Beauvoir in “Una donna spezzata”, un classico che ha fatto della liberazione femminile la sua bandiera, andando oltre la sottigliezza psicologica di identità, di ruolo, di prospettive che la teneva legata alla propria condizione di donna, per far fronte a una sconfitta senza appello.
Ma non c’è da farsi illusioni, né tantomeno da scandalizzarsi, quanto accade in un uomo è anche peggio e/o meglio, dipende dai gusti (leggi tendenze), “anche la perversione più estrema diventa realtà”. Se consideriamo quanto scritto da Massimo Recalcati in “La forza del desiderio”, non certo accade allo stesso modo in cui si viene ‘curati’ dallo psicanalista che ci vuole sdraiati sul lettino apposito, sconvenientemente alla stregua delle sue ossessioni interlocutorie che, per quanto ci riguardano da vicino, ci fanno sentire scavati nell’intimità di quella ‘privacy’ che non riveleremmo neppure a noi stessi, e “che improvvisamente scopriamo avere la connotazione del nostro (pur assai grande) essere nascosto: il nostro inconscio”.
Quello stesso ‘impulsivo quanto irrazionale istinto’ che già Jacques Lacan, ripreso più volte da Recalcati, esprimeva come: “responsabilità senza padronanza” riguardante l’apertura al desiderio che spesso abbiamo tenuto nascosto e/o segregato, perché avevamo e/o abbiamo ancora ‘paura’ di esternare, e che guarda caso, come un tarlo continua a condizionare la volontà dei nostri sentimenti e delle nostre azioni. Al punto che tradire di fare l‘esperienza del ‘desiderio’ è un po’ come tradire noi stessi ma, poiché siamo esseri antropici, diversi dagli animali che provano solo istinti, dovremmo anche ammettere a noi stessi di non essere perfetti, anzi di essere imperfetti e quanto più diversi, per questo considerati ‘umani’ e alquanto meravigliosi.
Meravigliosi sì! Se pure alla stregua di una transumanza d’intenti (di desideri) da considerare senza alcuna colpa e/o responsabilità, nella possibilità di fare d’ogni eventualità un’esperienza: “Noi siamo portati dal desiderio, (o meglio), siamo posseduti dal desiderio, non nel senso negativo del termine”, (bensì) “il desiderio ci attraversa, […] che non è la forza dell’io semplicemente, ma che è qualcosa di ulteriore rispetto all’io; […] l’esperienza di una forza che mi supera.” E ancora: “Dove c’è l’io, dove c’è la supponenza dell’io di governare il desiderio, non c’è desiderio. Viceversa, esso appare quando l’io si indebolisce, quando l’io riconosce la sua insufficienza. È per questo che l’io è in fondo la malattia mentale dell’uomo: credersi un io è veramente la ‘follia più grande’. Credersi un io è una follia, e questa follia adombra l’esperienza del desiderio.”
È il contenuto intrinseco di questa ‘black novel’ che l’autore Sonny ha trasformato in un noir sui generis dai contorni horror, ma che in realtà, trovo carente di quel ‘profumo proibito’ che un romanzo improntato sull’ossessione deve avere, magari sacrificando il particolare talvolta superfluo delle descrizioni d’ambiente, insomma privo di quel tocco poetico (leggi glamour) che lo rende sublime…
“Fino a quando?” Finché i confini del ‘gioco’ iniziano a confondersi con quelli della realtà”, si risponde l’autore in questo suo ‘primo’ romanzo. Non ci resta che aspettare il suo ‘secondo’, che stando alla sua còlta scrittura presto ci servirà su un piatto d’argento.

L’autore.
Sonny, classe 1990 siciliano, è al contempo impegnato nel suo percorso di Scienze delle Relazioni Internazionali e Politiche ha maturato esperienze diverse di alta formazione artistica e musicale, nonché giornalistica passando dalle collaborazioni per testate nazionali a progetti editoriali.






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- Sociologia

L’Altro come scelta - ’autonomia individuale’ parte seconda


“L’ALTRO COME SCELTA”
Il paradosso dell’ ‘autonomia individuale’, il ‘genere’ come costruzione sociale dinamica.– Sociologia – by Giorgio Mancinelli

“La cultura occidentale è sempre stata animata da una sorta di ottimismo nel futuro del progresso scientifico e sociologico, in vista di una radicale trasformazione – scrive U. Galimberti (1) – Oggi questa visione ottimistica è crollata. Scienza, utopia, rivoluzione, hanno mancato il bersaglio, affidato a una casualità senza direzione e orientamento. E questo perché se è vero che la scienza e la tecnica progrediscono nella conoscenza del reale, contemporaneamente ci gettano in una forma di ‘inquietudine’ che ruota paurosamente intorno alla disgregazione e all’assenza di senso”.
Si rende quindi necessario tornare ad esplorare tra le potenzialità globali e sperimentare entro i limiti delle società specifiche la ricerca di un nesso, che pur deve esistere, tra “il passaggio storico dal futuro come promessa, al futuro dell’integrazione sociale come ‘investimento’. Ciò a significare che la strada da seguire non è quella di “proteggersi e sopravvivere, bensì quella di costruire legami affettivi di solidarietà, capaci di spingere le persone fuori dall’isolamento, in nome degli ideali individualistici che paurosamente si vanno diffondendo” (2). Così come bisogna riaffermare quella ‘fiducia’ che un tempo era socialmente diffusa tra le persone e verso le istituzioni, e che oggi sembra venuta meno a causa di fatti contingenti, economici e politici, che ne hanno messa in discussione la credibilità.
“È un fatto – scrive ancora Galimberti – che quanto più la società si fa complessa, quanto più diventiamo gli uni estranei agli altri, tanto più siamo costretti a muoverci e a vivere tra attività, organizzazioni e istituzioni le cui procedure e i cui effetti non riusciamo a controllare e a capire. E perciò siamo inclini a crederci esposti a pericoli invisibili e indecifrabili, con conseguente perenne stato d’ansia facilmente leggibile nei tratti tirati e circospetti dei volti di ciascuno di noi” (3).
Viene qui da pensare a una sorta di cataclisma di tipo esistenziale che, per effetto contrario alla ‘globalizzazione’, anziché renderci tutti omologati, ci rende in qualche modo tutti disuguali, per via della distinzione delle tipologie socio-lavorative che abbiamo generata, della moltitudine dei contratti di lavoro che abbiamo sottoscritti, e che verosimilmente, sta creando profonde ‘differenze’ che oggi, sulla scia del cambiamento in atto del mercato mondiale, stanno sfaldando l’organizzazione del lavoro. È un fatto che il tessuto sociale risente di queste profonde discrepanze, dovute per lo più alla trasformazione ‘transnazionale’ (4) del mercato socio-economico e allo sviluppo di più vaste opportunità commerciali e imprenditoriali.
Di conseguenza la struttura interna alle organizzazioni pubbliche e private (uffici, aziende, imprese ecc.) ha subìto un mutamento radicale, è per così dire diventata reticolare, di configurazione orizzontale, i rapporti di lavoro si sono fatti atipici. Nella realtà le nuove ‘strutture imprenditoriali’ hanno decretato il trasformarsi di molte aziende un tempo a conduzione famigliare, in organizzazioni complesse (multinazionali, corporate, grandi major economiche e finanziarie ecc.), caratterizzate da una forte varianza interna e da compagini sempre più articolate e diversificate (gruppi a progetto, team, task force, ecc.), per cui è difficile stabilire quali sono i reali confini di un rapporto di lavoro e chi ne risponde a livello decisionale.
Di contro, quasi ad apparire un controsenso, si riscontra inoltre, una particolare tendenza al raggruppamento (gruppi di aggregazione, enti pubblici e imprenditori privati,) che, per quanto utile nell’accrescere il potenziale economico attraverso processi di alleanza, fusione e acquisizione che certamente rendono più articolata l’organizzazione d’impresa, di fatto ha cambiato i parametri consolidati dei modelli tradizionali, basati sulla concezione ‘fordista’ (5) dichiaratamente: “..un’organizzazione solida, stabile, in cui tutti, almeno in teoria, avevano il proprio ruolo, sapevano cosa fare e come farlo; l’azienda, quindi , era una grande fabbrica di produzione di identità e senso, tanto da caratterizzare un’epoca storica, definita, per l’appunto ‘Era Industriale’ ” (6).
A fronte di ciò, il comparto lavoro, ormai suddiviso in appartenenze e ‘identità multiple’, è divenuto più flessibile, perdendo quel ruolo esclusivo che ha avuto finora; si è, per così dire ‘glocalizzato’, generando ulteriori interazioni sociali, per quanto diverse nella percezione dei lavoratori nei confronti delle aziende che hanno finito così per perdere le loro connotazioni centralistiche. Anche se, a fronte, il lavoro è diventato di per sé più professionale, più esperto, più competente, più specialistico, più intercambiabile ma anche più flessibile, quindi naturalmente e irrimediabilmente più precario.
Sul piano strettamente organizzativo – scrive Z. Bauman (7): “L’identità di un’azienda è comunque un concetto sicuramente abusato ma difficile da delineare in maniera puntuale ed esaustiva. I caratteri propri di un’entità definibile complessa sono insieme la molteplicità (molteplicità di componenti e di relazioni tra di esse) e una qualche forma specifica di autonomia (un’entità è autonoma se ha un comportamento dipendente da regole proprie, non definite e non definibili dall’esterno); (..) tale combinazione rende i comportamenti di un ente complesso, imprevedibili in quanto è impossibile ricostruire la logica ad essi sottesa. (..) Le formazioni sociali, infatti, sono caratterizzate dalla molteplicità nonché dalla pluridimensionalità (pragmatica, semantica, confidenziale) delle interazioni linguistiche”.
Spostandoci sul piano delle politiche di mercato, il senso non cambia, e l’identificazione serve, infatti, per definire e localizzare un’azienda a carattere ‘multinazionale’ che, nel mettere in atto la propria politica ‘globale’, tuttavia non riesce ad annullare quelle che sono le differenze socio-culturali territoriali e geografiche, per loro costituzione così vaste e pervasive, da non permettere lo sviluppo di un unico modello di ‘governance’ (8), sempre che questo modello sia realizzabile e soprattutto utile (?). E, di fronte al quale, le implicazioni qui evidenziate, di carattere socio-culturale, non sembrano prevedere e, neanche permettere, un modello ‘altro’ di cultura, né il significato che ad esse generalmente si vorrebbe dare.
F. Trompenaars e C. Hampden-Turner in “Riding the waves of culture” (9): “Ci sono dilemmi universali o problemi legati all’esistenza umana, ogni paese ed ogni organizzazione in quel paese affronta dilemmi diversi in relazione con le popolazioni di riferimento; in relazione al tempo e al clima; in relazione tra gli abitanti e l’ambiente naturale” – denunciano gli autori, nel rivisitare quei passaggi ed eventi che nel tempo si sono susseguiti e che hanno attraversato in orizzontale il passato e il presente di una ‘governance’ pur consolidata. Tuttavia, l tempo stesso, essi ci indicano la strada verso il futuro: “..ora abbiamo bisogno di accettare le influenze profonde delle nostre più intime convinzioni riguardanti il nostro mondo, l’analisi finale della cultura e del modo in cui i dilemmi sopra evidenziati siano riconciliabili, fino a determinare un diverso percorso, per ogni nazione, delle idee di integrità.” (10)
In tutto ciò, la mia posizione è di riconciliazione e l’assunzione di responsabilità, senz’altro di avvicendamento alle nuove esigenze del mercato lavorativo, nella convinzione che ognuno ha da imparare e scoprire nuove realtà, come gli altri hanno fatto finora partendo dalla loro posizione. Purché vengano salvaguardati i principi di centralità territoriale e comunitaria dei paesi di origine, lì dove la ‘forza lavoro’ è in grado di assicurare un rendimento ottimale, consono al luogo nel quale (e alla gente con la quale), si intende avviare un’organizzazione imprenditoriale che rispetti i diritti di ‘cittadinanza’ e relativamente a questo, tenda a ridurre al minimo lo sradicamento e la migrazione di popolazioni autoctone in altri paesi.
Lungi da me prendere una posizione ‘intollerante’ improntata al razzismo, il senso di questo mio discorso è puramente riferito al concetto di cooperazione e di sviluppo, lì dove la diversità organizzativa e la comunicazione interculturale richiedono una riorganizzazione del comparto lavoro. Cosa che, in verità, tutti auspicano (economisti, azionisti, imprenditori, ecc.), sia per il conseguimento di produzioni specifiche (di economia, consumo, credito, sviluppo), sia per una più fattiva ‘cooperazione internazionale’ (11) nei programmi, nei servizi, nelle infrastrutture ecc.), nei processi economici dell’imprenditoria del lavoro.
“Diventa altresì essenziale identificare e comunicare, sia all’interno che all’esterno (delle aziende a carattere imprenditoriale), una nuova identità d’impresa, fondata su valori nuovi e adeguati a sviluppare nei paesi ospitanti, la cultura e le competenze necessarie per affrontare le nuove realtà sociali. L’azione di cambiamento, non riguarda dunque unicamente la definizione di nuove politiche strategiche aziendali, quanto invece comporta, e necessariamente, interventi impostati sulla cultura e sui valori diffusi al proprio interno dell’azienda stessa” (12). Onde per cui facilitare la convivenza tra persone sul proprio posto di lavoro, seppure appartenenti a culture differenti e stabilire una comunicazione efficace e positiva, significa creare il contesto e le premesse per superare le patologie comunicazionali insite nel processo di integrazione tra le diversità culturali presenti nel nostro paese.
“È importante – scrive F. Casmir (13) – apprendere di più sui reali e concreti adattamenti degli esseri umani al mutamento e su come tutti noi serviamo di processi comunicativi nel nostro sforzo di produrre un cambiamento che sia continuativo, positivo e reciprocamente soddisfacente”. D’accordo con l’autore trovo che ciò spieghi (a me in prima persona) il senso del titolo che ho voluto dare a questa tesi “L’altro come scelta” e che infine dovrebbe lasciar evincere la mia personale posizione riguardo il riconoscimento di ‘identità’ degli individui tutti, e di quanto, a livello emozionale, io tenga in considerazione il benessere sociale di ognuno (etnia, razza ecc.) senza sottrarlo (forzatamente) alle caratteristiche peculiari che lo rendono riconoscibile, unico, inconfondibile.
Per ‘benessere sociale’, almeno come io lo intendo, molto vale il fattore di ‘giustizia sociale’, in questo caso specifico riferito alla condizione della donna in ambito lavorativo e, in modo più diretto, alla costruzione del ‘welfare statement’, sviluppatosi dalle interazioni multiple, rese possibili da una proficua produzione di senso. Un punto di riflessione su questo proposito è dato dall’economista indiano Amarthia Sen (14) e alla sua definizione di ‘economia del benessere’, la quale, egli sostiene: “altro non è che l’ipotesi di un comportamento umano mosso unicamente dall’interesse personale, e che di fatto ha ostacolato fin qui la possibilità dell’analisi di relazioni più complesse e significative.”
L’autore ritiene inoltre che un comportamento basato su ‘regole etiche’ salde, come il dovere, la lealtà e la buona volontà, possa essere estremamente utile per il raggiungimento dell’efficienza economica più in generale e, sul piano individuale del benessere così detto ‘well-being’, sostenendo una sua eccellenza all’interno e all’esterno delle moderne organizzazioni in quanto risorsa comunicativa. In altri termini una migliore valutazione dell’ ‘economia del benessere’ rivolta agli individui, (l’uomo e finalmente anche la donna) qui intesa anche in funzione di essere portatrice di ricchezza economica, potrebbe essere molto più produttiva in termini di ‘economia sociale’ se si facesse riferimento anche a ulteriori prospettive etiche e morali. Su questo tema riporto qui di seguito le parole di Edoardo Greblo nella sua ‘Introduzione’ al libro di M. Nussbaum “Giustizia poetica: immaginazione letteraria e vita civile” (15):
“Se ci si pone nella prospettiva che vi sia mutuo sostegno fra una teoria delle emozioni e una teoria etica normativa, le persone cessano di essere oggetto di considerazione morale solo in quanto espressione di interessi, e il legame sociale che nasce dal riconoscimento reciproco non si esaurisce nelle nozioni di contratto, scelta razionale e massimizzazione del profitto, del vantaggio o dell’interesse. Laddove l’assunzione utilitaristica e contrattualistica di fondo consiste nell’idea che i corsi d’azione passibili di regolazione normativa possano essere modellati, in definitiva, solo nella prospettiva della prima persona dell’individuo che agisce”. (..) “Non c’è dubbio che, tra i diversi modi dell’affettività, M. Nussbaum assegni un ruolo decisivo alla ‘empatia’, che richiede condivisione e compartecipazione , un orizzonte di valori comuni entro il quale si conosce e si comprende il vissuto dell’altro come qualcosa che rimane estraneo e inassimilabile, appartenente all’altro e inviolabile”.
Partendo da un esame critico dell'economia del benessere, A. Sen ha sviluppato un approccio radicalmente nuovo alla ‘teoria dell'eguaglianza e delle libertà’. In particolare, ha proposto le due nuove nozioni di ‘capacità e funzionamenti’ come misure più adeguate della libertà e della qualità della vita degli individui, come appagamento dei desideri, felicità o soddisfazione delle preferenze, (comunemente etichettate come concezioni welfariste o benesseriste, di cui uno degli esempi più noti è l'utilitarismo). Inoltre, egli propone, in contrasto con una teoria del benessere sociale centrata sull'appagamento mentale soggettivo e non coincidente necessariamente con livelli adeguati di vita, una prospettiva tesa all'effettiva tutela di aspetti centrali dei diritti umani. Grazie ai suoi studi si viene infatti a delineare un nuovo concetto di sviluppo che si differenzia da quello di crescita. Lo sviluppo economico non coincide più con un aumento del reddito ma con un aumento della qualità della vita.
Che tutto questo accada a causa delle diversità sessuali (pur esistenti) tra l’uomo e la donna? – mi chiedo. Domanda cui cercherò di dare più di una risposta, pur nell’ambito ristretto di questo paragrafo, relativamente alla soluzione del ‘problema’, finora irrisolto, del riconoscimento delle ‘pari opportunità’, di cui l’esperienza maschile ha finora costituito lo ‘standard’ sul quale confrontare i processi psicologici, veri e/o presunti, propri di entrambi i sessi. Pertanto, le risposte che qui di seguito darò, risentono delle risposte di soggetti maschi, che, inevitabilmente, distorcono il pensiero morale delle donne e non lo rappresentano adeguatamente.
“Si può affermare che la sessualità sia in un modo o nell’altro la chiave della civiltà moderna?” – si chiede Antony Giddens (16) nel capitolo intitolato “Sessualità, repressione, civiltà”, di cui fornisce una ragguardevole opinione: “Per rispondere a questa domanda in particolare, occorre investigare qual è l’origine della sessualità, cosa è la sessualità e attraverso quali processi è diventata qualcosa che appartiene agli individui. (..) La maggior parte delle persone, donne e uomini, arriva a fare della sessualità, una variabile che si apre alla pluralità di relazioni ed espressioni (diverse), dove la nozione di ‘relazione’ emerge con la stessa forza tra la popolazione tendenzialmente eterosessuale”.
In nessun caso le nuove spinte della sessualità (omosessualità, lesbismo, trans, gay o le problematiche sorte attorno ai movimenti femministi ed ai pacs) mi sembra contrastino oggigiorno, sebbene entro certi limiti, quella che è considerata una selezione dinamica dell’umanità, all’interno delle conflittualità lavorative. Le nuove sfide educative, tra parità di diritti e doveri in seno alle istituzioni (quote rosa), nella scuola come nel lavoro (pari opportunità), hanno portato semmai a una maggiore consapevolezza sociale e all’accettazione delle ‘diversità’ lì dove sussisteva una scissione in termini di ‘relativismo culturale’, quando riferito all’identità individuale.
È ancora Z. Bauman (17) a offrirci la chiave di lettura del problema, che egli riferisce all’identità. Scrive in proposito: “L’identità è una lotta al tempo stesso contro la dissoluzione e contro la frammentazione; intenzione di divorare e allo stesso tempo risoluto rifiuto di essere divorati. (..) Il liberalismo e il comunitarismo, quantomeno nella loro essenza pura ed esplicitamente dichiarata, sono due tentativi opposti che demarcano i poli immaginari di un continuum in cui tutte le pratiche identitarie vengono elaborate, (..) ugualmente indispensabili per un’esistenza umana decente e compiuta: la ‘libertà’ di scelta e la ‘sicurezza’ offerta dall’appartenenza da un lato; (..) la libertà di autodefinizione e autoaffermazione dall’altro”.
L’equazione così postulata potrebbe sembrare in contraddizione con la comprensione di quanto affermato precedentemente, tant’è che lo stesso Bauman sente la necessità di una ulteriore spiegazione: “...i diversi significati annessi all’uso del termine ‘identità’ contribuiscono a minare alla base il pensiero universalistico”. (..) E aggiunge: “Le battaglie d’identità non possono svolgere il loro lavoro di identificazione senza essere fonte di divisione almeno quanto lo sono, o forse più, di unione. Le cui intenzioni inclusive si mescolano (o per meglio dire si complementano) con le intenzioni del segregare, esonerare ed escludere” (18).
“Lo spettro più spaventoso è quello dell’inadeguatezza!” e, niente di più profetico è stato mai detto fino a oggi, anche alla luce dello stravolgimento in corso della società come corpo di una comunità di individui tendente ad abbandonare i legami sociali per ‘liquefarsi’, da cui quella “società liquida” teorizzata dal sociologo polacco. Indubbiamente molteplici sono gli aspetti trasformativi della ‘personalità’ cui questa affermazione fa riferimento, e che rendono difficile ogni tentativo di classificazione all’interno d’una problematica più ampia, qui rappresentata dalla ‘carenza di potenzialità’ di intervento della società.
Diverse infatti sono le cause che possono produrre questa difficoltà, ed è interessante esaminarle in questo contesto, seppure solo in parte, al fine di accrescerne la comprensione. C’è una valutazione che però bisogna fare, riguardo al principio fondamentale che regola la nostra vita psicologica, secondo cui l’individuo: “tende a correggere gli eccessi e le deviazioni, risvegliando quegli elementi che sono opposti o complementari a quelli dominanti” (19), all’interno del proprio ‘Io persona’.
“Nella riflessione sociologica – scrive Elena Besozzi (20) – così come nella ricerca empirica, il carattere sessuato dei soggetti – la distinzione tra maschi e femmine – viene considerato un elemento significativo di comprensione della realtà sociale, nel senso che consente di arricchire la descrizione e la spiegazione del variare di atteggiamenti, opinioni e comportamenti. (..) Tuttavia, a ben vedere, alle ‘differenze’ tra i due universi maschile e femminile, si può ascrivere di fatto uno scarso incremento di conoscenza e, quindi, il permanere di una sorta di opacità nella comprensione delle differenze stesse nei diversi spazi e tempi sociali e culturali. (..) Ciò che sfugge, è il dinamismo dei rapporti tra i sessi e dentro ciascun sesso, ma anche la complessità dell’intreccio tra formazione e ambiti diversi ma oltremodo collegati, come il mondo del lavoro «un improvvido isolamento del campo formativo dagli altri ambiti esperienziali che contribuiscono alla formazione degli individui» (Boffo-Gagliardi-La Mendola)”.
Con ciò – prosegue E. Besozzi - “si intende qui considerare la dimensione sessuata dei soggetti non solo come pura iscrizione, bensì come esperienza e attribuzione di senso, costruzione e comunicazione di realtà. «In questa prospettiva, l’appartenenza di genere trasforma il dato ascritto e può anche essere considerata in larga misura variabile ‘dipendente’, cioè dimensione sulla quale insistono fattori sociali e culturali a dar conto di orientamenti e concezioni di sé e della realtà» (V. Burr)”.
Sta di fatto che possiamo considerarla una sorta di ‘costruzione sociale dinamica’ cui riferire ogni forma di rapporto, quali ad esempio, quello che si basa sull’organizzazione della famiglia, l’educazione nelle scuole, le politiche del lavoro, le iniziative che riguardano la cultura, come anche la ‘non discriminazione’ di razza, di colore, di sesso, l’abbassamento dei rischi sociali, il recupero di consapevolezza, l’accettazione delle commistioni sessuali, fino alla risoluzione dei conflitti extra individuali tra popoli e tra stati.
Per così dire, di tutte quelle differenze che l’identificazione di ‘genere’ vede incluse come diversificate immagini del ‘sé’ nel futuro confronto con le altrui esperienze, con le vicissitudini del quotidiano, con le relazioni interpersonali, comunitarie e socialitarie. Quelle medesime che dovrebbero offrire ad ognuno, uomini e donne, le risorse per comprendersi, nella condivisione di quel percorso che va dal rispetto ecologico sostenibile dell’habitat, alla costruzione della propria ‘identità culturale’ che risulta in larga misura opaca, perché priva dei necessari elementi significativi di spiegazione, e che finora non a riguardato, in alcun modo, il lato educativo della conoscenza.
Come sostiene Barbara Marbelli (21) in “Il divenire donna o uomo, non è un processo lineare. La vicenda tra i sessi, dato che è vicenda di culture e di vite, è soprattutto educativa, per questo una pratica pedagogica che offra ‘ascolto’ e restituisca centralità alle ‘parole’ (e quindi alle persone), è l’unica che possa offrire possibilità di comprensione di quel che accade e cambia”.
Valutare ciò consente una maggiore chiarezza cognitiva che va man mano ampliandosi nel tipo di informazioni e di linguaggio a vantaggio della comprensione e ottimizzazione degli strumenti messi in campo come, appunto, può essere la riutilizzazione del sapere (conoscenza), sia in senso trasversale interdisciplinare (esperienza), sia in senso verticale, di una qualsiasi struttura aziendale, tra l’apice e il pedice di ogni comparto sociale, interessato all’interscambio delle esperienze specifiche acquisite dall’uno e dall’altro sesso. Come, anche, di una maggiore capacità di ‘stima’ delle disponibilità oggettive delle ‘risorse’, in ambito lavorativo, delle dinamiche produttive, nella misura in cui se ne colgono le funzioni possibilistiche in termini di essenzialità, trasferibilità, spendibilità sul mercato.
Ne sono un esempio la conoscenza delle prevedibilità comportamentali dei diversi soggetti uomo/donna, basata sul riscontro oggettivo, delle ‘mappe concettuali’ (22) e le strategie comunicative messe in atto dall’uno e dall’altro soggetto, nella ricerca di una ‘misura’ individuale e professionale, nella ricca pluralità di offerte che li vede impegnati nella rincorsa all’adesione programmatica della società: funzionalista o sistemica, o conflittualistica che sia. C’è in tutto questo una sorta di ‘consapevolezza sociologica’ che talvolta supera il livello reale delle ‘possibilità individuali’, che s’innesca nell’impalpabile e nell’astrazione, e che genera teorie se vogliamo anche affascinanti, ma non scientifiche, perché non verificabili con i dati della realtà.
Cosa questa, che mi fa dire che, ogni ‘costruzione sociale’ corrispondente della realtà, equivale a un fare speculativo che è tipico della politica, per cui la ‘costruzione’ della realtà trova nel sociale il suo innesco politico nelle istituzioni e negli ordinamenti giuridici. Questo, malgrado la sociologia abbia da sempre speculato sull’esistenza di una vita sociale distinta dal sistema politico, caratterizzata da opinioni, stili di vita, tradizioni, norme sociali che – secondo il mio modesto parere – non si autoescludono dall’essere forme politiche tout-court. Semmai la confusione tra politica e società è generata dal fatto che la società è una realtà diversa rispetto ai singoli individui che la costituiscono e non è riducibile a ciò che i singoli membri pensano e fanno. Diversamente la politica è esattamente l’opposto.
Scrive Luciano Verdone (23): “La società ha una consistenza propria rispetto agli individui. Una volta che un gruppo sociale si costituisce, vive di vita autonoma, dando luogo a un ‘sistema sociale’, cioè ad una realtà che va al di là della volontà e delle intenzioni dei singoli, con una sua propria identità ‘diversa’ dalla somma degli individui che lo formano”. Possiamo dire, quindi, che è di per sé una ‘cosa’, un ‘fatto’ che, nel momento in cui interagisce con altri ‘gruppi’ in maniera oggettiva (concretezza), diventa interfaccia della ‘realtà’ facente politica ed ha potere di condizionare i singoli per il fatto stesso che esiste.
Come del resto l’aveva già inquadrata Émile Durkheim (24), secondo il quale i processi di crescita e di socializzazione non possono prescindere dal contesto di riferimento in cui avvengono. Questo vale in ogni tempo e in ogni luogo, per cui la ‘realtà sociale’ si definisce in base a tre caratteri costitutivi: “oggettività come ‘fatto’ e come tale distinto dai soggetti che concorrono a crearlo”; “trans-individualità: esterna e indipendente dagli individui”; “coercizione: condizionante l’individuo sia dall’esterno, con norme e usanze, sia dall’interno, con l’interiorizzazione delle norme, la coscienza ed il senso di colpa” (esistenza in essere, oggettività). A significare che esiste una stretta correlazione tra la vita del singolo individuo e il contesto sociale in cui è inserito, rapportato alle dinamiche della realtà sociale, considerata come qualcosa che vive a sé, ma che si comporta e si trasforma secondo regole date dalla società in cui si trova ad agire.
La ‘fenomenologia del lavoro’ nella sua pur ricca pluralità dei contributi che su di essa convergono, sembra prevedere una certa comunanza di ‘oggetto’ e di ‘metodo’ che pur vede implicate scienze psico-sociali quali sociologia, psicologia, antropologia culturale, etologia, storia, economia, scienza della politica, non esclude però il paradosso dell’ ‘autonomia individuale’ all’interno del ‘soggetto di genere’ come quello qui individuato, la cui realtà sociale è studiato da angolature e con obiettivi ed accentuazioni diverse. Ne fanno bensì una sorta di ‘costruzione dinamica’ che le convalida tutte nella propria funzione, nel proprio impegno come nella responsabilità dei propri metodi intuitivi, in cui teoria e ricerca infine risultano coniugate.
La verificabilità e la dimostrabilità delle ipotesi e delle teorie scientifiche di riferimento al lavoro è dunque frutto di verifiche sperimentali ma, ancor più, di indagini ‘sul campo’ svolte sul confronto tra momenti diversi delle attività lavorative e delle diverse tipologie di società che si vuole indagare, attraverso il ‘metodo della comparazione’ (25), o nella ricerca matematica delle ‘frequenze di tendenza’ (26) di un certo comportamento sociale. Il suo contesto culturale (sociologico) è dunque di tipo omogeneo di una società intesa come ‘unità’ organica ed armonicamente ordinata cui fa riferimento. Per cui, alla fin fine, “ogni realtà sociale può essere ricondotta ad un individuo che agisce” (Weber), per comprendere la quale (realtà sociale), è necessario interpretare l’intenzionalità dell’individuo ‘agente’ e ‘comprendente’ la consistenza della società in cui vive e lavora.
Se Auguste Comte (27) è considerato il padre della scienza sociale, in quanto ha avuto la fortuna di coniare il termine ‘sociologia’ e dobbiamo a E. Durkheim l’oggettivazione della decisione consapevole degli individui di stare insieme nella realtà sociale (contratto sociale); è a Max Weber (28) che dobbiamo l’aver indicato la realtà sociale nell’ ‘agire’, o meglio, nel “l’individuo agente avente una certa intenzionalità”, portatore del senso delle cose, “con le sue azioni aventi significato sociale, che agisce socialmente attraverso l’interpretazione dei significati intenzionali dell’agire sociale dei singoli” e per questo ‘comprendente’ la realtà sociale dei molti, come ‘genere’ dinamico operante nella costruzione sociale.
Giunti a questo punto, potremmo dire di ‘essere alle solite’, i cosiddetti ‘problemi’ che sono stati appena individuati, sono tutti ancora qui davanti a noi: il riconoscimento, l’uguaglianza, la giustizia sociale, la libertà, l’autorità individuale, i diritti delle donne. E allora, che fare? Non mi resta che cercare ancora, documentarmi, relazionarmi, leggere, studiare i classici del ‘pensiero libero’ moderno, per trovare quelle risposte che forse troverò ma che alla fin fine potrebbero restare sospese in aria come le nuvole di Aristofane. Sebbene l’utopia del grande poeta satirico è all’apice della commedia “Le donne al parlamento” (29) in cui si narra di un gruppo di donne, con a capo Prassagora, che decidono di tentare di convincere gli uomini a dar loro il controllo di Atene, perché in grado di governare meglio di loro, che stanno invece portando la città alla rovina.
Il che contrasta con l’altro poeta satirico Giovenale (30)che in “Contro le donne”, si trasforma in rabbioso fustigatore di costumi, tralasciando una certa attitudine superba negli uomini di farsi beffe della morale. È così che (per mia fortuna) scartabellando mi imbatto in Bertrand Russell (31), in cui il filosofo dibatte sull’etica individuale e l’etica sociale, affrontando il tema del rapporto tra le libertà del singolo e la necessità di un’organizzazione sociale, dove egli afferma che “troppa poca libertà porta al ristagno e troppa libertà porta al caos” e dove inoltre sottolinea i limiti della giustizia: “c’è giustizia dove tutti sono egualmente poveri, così come là dove sono egualmente ricchi, ma sarebbe vano rendere più poveri i ricchi, ove questo non servisse a rendere più ricchi i poveri”.
Non c’è che dire, utile da far comprendere a più d’un politico, che ai nostri giorni si riempie la bocca riproponendo le ‘quote rosa’ e ‘le pari opportunità’ pensando che queste, possano da sole, risolvere la profonda recessione culturale economica e politica in atto. Ci vuole ben altro, e a furia di cercare, qualcosa alla fine viene sempre fuori. Come nel caso di un libercolo dal titolo “Sui diritti delle donne” di Mary Wollstonecraft (32) che mi fa gridare ‘eureka!’. Fortemente avversata dagli uomini in un momento storico, il XVIII sec., nel quale si tende a dimenticare quanto lunga sia stata la ‘schiavitù’ femminile, e quanto dura e difficile sia stata la via per l’emancipazione delle donne, e ancor più incompresa dalle donne della sua epoca, M. Wollstonecraft è oggi finalmente considerata per il suo ruolo intellettuale e anticonformista, sostenitrice caparbia dei diritti delle donne e tenace nemica di ogni forma di iniquità, dispotismo e oppressione.
È ancora oggi stupefacente leggere in apice al suo libro: “Al fine di dar conto e giustificare la tirannia dell’uomo, sono state avanzate molte idee ingegnose volte a dimostrare che i due sessi, nel raggiungimento della virtù, devono impegnarsi a forgiare caratteri differenti; per dirla in modo più esplicito, alle donne non è accordata forza d’animo sufficiente per acquisire ciò che veramente merita il nome di virtù. Tuttavia, concesso che le donne abbiano un’anima, sembrerebbe esserci un unico sentiero, tracciato dalla provvidenza, che conduce l’umanità sia alla virtù che alla felicità” (33), quasi si volesse qui dire di essere pronta, se proprio l’uomo lo richiede, a recitare una parte. Alla quale sembra però voler rispondere Vivien Burr (34) con la dolente nota: “Così facendo (la donna), ha modo di comprendere che il suo stato mentale, le sue attitudini e aspettative, in breve la sua visione della vita, altresì possono essere modificate assumendo un ruolo diverso – e pur tuttavia – esercitare un ruolo è molto più che recitare una parte”. Non lo pensate anche voi?
È così che sono giunta a Luce Irigaray (35) e al suo libro “Etica della differenza di genere”, la quale al capitolo ‘Una differenza trascurata’, procede: “Vi è una relazione particolarmente costante tra femminilità e vita pulsionale, che non voglio trascurare. Nella donna la repressione – o la censura? – dell’aggressività, prescrittale dalla sua costituzione – cioè? – e impostale dalla società – quale , in che modo? - … Insomma non ci sarebbe nessuna forma d’aggressività consentita alla donna. Ma, di nuovo, la mobilitazione d’argomenti così eterogenei, come ‘la società’ e ‘la sua costituzione’ , induce a indagare su come l’una, la società, detti prescrizioni alla rappresentazione, sull’interesse che l’una ha nel farsi di supporto, la complice d’una valutazione sulla ‘costituzione’ (proibitiva) femminile”.

NOTE

(1) Umberto Galimberti, ‘L’ospite inquietante’, op.cit.
(2) ibidem
(3) ibidem

(4)‘transnazionale’, è un diverso modo per indicare multinazionale. Entrambi indicano un interesse (economico, sociale ecc.) di un gruppo (di società, di persone, di associazioni) che opera in molte nazioni e continenti. Il gruppo può anche avere una sede operativa, un “cuore” in una sola nazione ma senza che vi siano per questo precise identità nazionali. Nelle politiche sociali dell'Unione Europea con l'aggettivo transnazionale si indicano i programmi che sono realizzati con la partecipazione di diversi stati appartenenti all'Unione Europea. In W. G. Scott e R. Sebastiani, “Dizionario di Marketing”, Il Sole 24 Ore – 2001.

(5)‘fordista’, da ‘fordismo’, l’attuazione pratica in campo industriale dell’intuizione taylorista di Henry Ford (1863-1947), industriale americano attivo nei sttori automobilistico, aerospaziale, elettronico e finanziario, che standardizzò la catena di montaggio a Detroit nel 1927, e lanciò il primo modello di vettura utilitaria. Cfr. “L’Universale” – Garzanti 2003.

(6)‘era industriale’, profondo e rapido cambiamento nella vita economica che si verificò in Europa con l'affermazione dell'industria quale settore più dinamico e, infine, dominante. Si tratta, dunque, della fase di avvio o decollo dell'industrializzazione. L'epoca di questo cambiamento iniziò verso il 1780 e si concluse con i primi decenni (e secondo alcuni i primi anni) dell'Ottocento. Dall'Inghilterra questa grande trasformazione si propagò a tutte le economie del continente: al Belgio, alla Francia, alla Germania, all'Italia, alla Russia. L'aspetto distintivo di questa rivoluzione è costituito dal rapido aumento della capacità produttiva grazie all'introduzione nei processi lavorativi di tecniche sempre più perfezionate ed efficienti. Proprio in ciò sta la differenza fra la vita economica che procedette la rivoluzione industriale e quella che la seguì. Prima la crescita della popolazione cozzava, a lungo andare, nel tetto dei limitati beni economici a disposizione, più o meno stabili a causa del lentissimo aumento della produttività. Sarebbe un errore, tuttavia, concentrare l'attenzione solo sul quadro inglese. In realtà si trattò di un fuoco che dal luogo dove all'inizio era divampato si propagò rapidamente a gran parte dell'Europa. Condizioni favorevoli dovevano, perciò, esistere anche fuori dell'Inghilterra. La rivoluzione industriale fu figlia di una lunga serie di cambiamenti intervenuti nell'economia e nella società europea a partire dai secoli centrali del Medioevo: lenti progressi nell'agricoltura, più rapidi cambiamenti nell'industria, allargamento delle relazioni commerciali all'interno e fuori del continente, attenzione crescente al problema delle soluzioni tecniche nelle attività economiche. Quella dell'industrializzazione fu solo la fase in cui tante trasformazioni quantitative lente provocarono un vero salto di qualità. Cfr. in T.S. Ashton, “La rivoluzione industriale” 17601830, Laterza, Bari 1969; P. Deane, “La prima rivoluzione industriale”, Il Mulino, Bologna 1971.

(7)Zigmunt Baumann, “Società liquida”, op. cit.

(8)‘governance’ equivalente di ‘governanza’, si intende quella parte del più ampio governo d'impresa che si occupa della gestione dei sistemi cosiddetti ‘ TI’ (ossia di Tecnologia dell'Informazione) in azienda; il punto di vista della IT governance è rivolto alla gestione dei rischi informatici e all’allineamento dei sistemi alle finalità dell'attività. Il governo d'impresa si è molto sviluppato in seguito ai recenti sviluppi normativi che hanno avuto notevoli ripercussioni anche sulla gestione dei sistemi informativi. In W. G. Scott e R. Sebastiani, “Dizionario di Marketing”, Il Sole 24 Ore – 2001.

(9)F. Trompenaars e C. Hampden-Turner, “Riding the waves of culture”, N. Brealey Pub. – London 1998.

(10)ibidem

(11)‘cooperazione internazionale’, “La cooperazione internazionale allo sviluppo è tante cose. C’è la cooperazione dei governi (bilaterale) e quella dei grandi organismi internazionali come l’ONU (multilaterale). E c’è quella non governativa, promossa dalle ong o più recentemente dagli enti locali e da nuove forme di associazionismo. Tutte si confrontano su cosa sia lo sviluppo e su come si possa promuovere efficacemente. Perché ormai sessant’anni di cooperazione internazionale hanno mostrato che gli aiuti, da soli, servono a poco. Per non essere dannosi, vanno accompagnati da un reale radicamento nelle comunità locali. (..) La nascita della cooperazione internazionale allo sviluppo è fatta risalire alla metà del secolo scorso con il Piano Marshall. Si tratta del grande ponte di aiuti umanitari e finanziari che dopo la seconda guerra mondiale supporta la ricostruzione dell’Europa occidentale, segnandone al contempo fedeltà e dipendenza verso gli Stati Uniti d’America. Analogamente si comporta l’Unione Sovietica coi paesi del Patto di Varsavia, e ben presto molti stati di entrambi i blocchi si dotano di un proprio sistema di aiuti al “terzo mondo”. Nasce così la cooperazione bilaterale, cioè quel sistema di relazioni create tra le autorità centrali di due paesi dove uno, il “donatore”, aiuta l’altro, il “beneficiario”, trasferendogli soldi, beni o conoscenze tecniche attraverso un dono oppure un credito agevolato”. In W. G. Scott e R. Sebastiani, “Dizionario di Marketing”, Il Sole 24 Ore – 2001.

(12) E. Invernizzi, “La comunicazione organizzativa: teorie, modelli e metodi”, Giuffré Edit. 2000.

(13) F. Casmir, “Una prospettiva di comunicazione interculturale”, in “Comunicazione globale, democrazia, sovranità, culture” – UTET 2001.

(14) Amarthia Sen, in Wikipedia, the free enciclopedia – economista indiano, Premio Nobel per l'economia nel 1998, Lamont University Professor presso la Harvard University. Ha insegnato in numerose e prestigiose università tra le quali Harvard, Oxford e Cambridge. È stato, inoltre, docente presso la London School of Economics. È membro del Gruppo Spinelli per il rilancio dell'integrazione europea.

(15) Edoado Greblo, in M. Nussbaum “Giustizia poetica: immaginazione letteraria e vita civile” – Mimesis 2012.

(16) Antony Giddens, “Teoria sociale e sociologia moderna”, op. cit.

(17) Z. Bauman, “The Individualized Society” - op. cit.

(18) Z. Bauman, “Intervista sull’identità”, op. cit.
(19) ibidem

(20) Elena Besozzi, “Il genere come risorsa comunicativa”, Franco Angeli 2008. Insegna Sociologia dell’Educazione e Sociologia dei processi formativi e comunicativi presso l’Università Cattolica di Milano. Tra le sue opere: ‘Crescere tra appartenenze e diversità’ (Angeli 1999) ed ha partecipato con articoli in “Creare Comunicazione”.

(21) Barbara Marbelli, docente di ‘Pedagogia delle Differenze di Genere’ all’Università Bicocca di Milano: Il "Centro Studi differenza sessuale, educazione, formazione", istituito nel 2010 e ora attivo presso il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia, Psicologia, ha finalità di ricerca, documentazione, progettazione e formazione nei diversi ambiti dell'educazione, dell'istruzione scolastica e superiore, della produzione culturale e del ‘lifelong-learning’, nella prospettiva della differenza di essere donna/uomo intesa come differenza fondante e significante ogni esperienza umana, storica e sociale. In particolare il Centro ha come obiettivi: * incrementare la consapevolezza della non neutralità della conoscenza scientifica, la coscienza del valore della differenza sessuale (e delle differenze) nel far ricerca, nel produrre pensiero, nel partecipare alla creazione e alla circolazione di saperi e di competenze; * creare occasioni di scambio e di conoscenza nell'ambito della produzione scientifico-culturale di donne e uomini attenti alla differenza sessuale e ai suoi liberi significati; * rappresentare un punto di riferimento per la ricerca e la formazione di studentesse e studenti di tutti i cicli universitari; * rappresentare una risorsa di informazioni e di conoscenze per docenti e ricercatrici/ricercatori interessati alla progettazione di percorsi didattici e di ricerca che tengano conto della differenza sessuale; favorire lo sviluppo di rapporti scientifici e di collaborazione multi-e transdisciplinare tra le Università, con enti pubblici, privati, e del privato sociale, promuovere scambi con singoli e gruppi esterni di ricerca, partecipare a reti di ricerca internazionali; sviluppare, alla luce della categoria "differenza sessuale", progetti di ricerca in relazione a temi/problemi rilevanti della contemporaneità.

(22)‘mappe concettuali’, al singolare è uno strumento grafico per rappresentare informazione e conoscenza, teorizzato da Joseph Novak negli anni settanta. Non è altro che una rappresentazione grafica (un disegno schematico, un quadro riassuntivo) di un ragionamento che abbiamo fatto e che vogliamo comunicare agli altri. Le mappe servono per rappresentare in un grafico le proprie conoscenze intorno a un argomento secondo un principio cognitivo di tipo costruttivista, per cui ciascuno è autore del proprio percorso conoscitivo all'interno di un contesto, e mirano a contribuire alla realizzazione di apprendimento significativo, in grado cioè di modificare davvero le strutture cognitive del soggetto e contrapposto all'apprendimento meccanico, che si fonda sull'acquisizione mnemonica. Le teorie del prof. J. D. Novak sono infatti fortemente collegate a quelle di David Ausubel, per cui una mappa deve riuscire a trasmettere informazioni chiare e dati utili.

(23) Luciano Verdone, “Elementi di Sociologia”, op. cit.

(24) Émile Durkheim, in “Breviario di sociologia” – Casa del Libro edit. 1989. Sociologo francese, insegnò filosofia alle Università di Bordeaux e Parigi, cercò di elaborare una sociologia che costituisse non tanto una teoria generale di una realtà sociale, quanto un modello teorico di riferimento per una corretta amministrazione. La sua opera è stata cruciale nella costruzione, nel corso del XX secolo, della sociologia e dell'antropologia, avendo intravisto con chiarezza lo stretto rapporto tra la religione e la struttura del gruppo sociale. Durkheim si richiama all'opera di Auguste Comte (sebbene consideri alcune idee comtiane eccessivamente vaghe e speculative), e può considerarsi, con Karl Marx, Vilfredo Pareto, Max Weber, Georg Simmel e Herbert Spencer, uno dei padri fondatori della moderna sociologia. È anche il fondatore della prima rivista dedicata alle scienze sociali, “L'Année Sociologique”, nel 1898.

(25)‘metodo di comparazione’ o anche ‘metodo comparativo’, il quale acccanto al ‘metodo sperimentale’ la comparazione rappresenta uno dei mezzi fondamentali di acquisizione delle conoscenze, che può essere utilizzato per illuminarci e per favorire il progresso nelle diverse scienze. Nel campo delle scienze sociali, in effetti, non è facile tentare degli esperimenti che gli interessati potrebbero non accettare o dei quali rischierebbero di fare le spese e di essere le vittime; sarà invece sempre possibile osservare come i rapporti sociali sono organizzati in posti diversi, per ricavare una lezione dai risultati, felici o meno, ottenuti.

(26) ‘frequenza di tendenza’, è utilizzata nelle discipline ambientali, in analisi matematica e di statistica; nella singolare accezione qui usata è quell’elemento di tipo omogeneo di una società intesa come ‘unità’ organica ed armonicamente ordinata per comprendere la realtà sociale.

(27) Auguste Comte, filosofo e sociologo francese, Discepolo di Henri de Saint-Simon, è generalmente considerato l'iniziatore del ‘positivismo’. Coniò il termine ‘fisica sociale’ per indicare un nuovo campo di studi. Questa definizione era però utilizzata anche da alcuni altri intellettuali suoi rivali e così, per differenziare la propria disciplina, inventò la parola ‘sociologia’. Comte considerava questo campo disciplinare come un possibile terreno di produzione di conoscenza sociale basata su prove scientifiche. Il libro che secondo la maggior parte degli storici segna l'inizio del Periodo positivista è il “Corso di Filosofia Positiva”.

(28) Max Weber, è stato un economista, sociologo, filosofo e storico tedesco. È considerato uno dei padri fondatori dello studio moderno della sociologia e della pubblica amministrazione. Personaggio influente nella politica tedesca del suo tempo, fu consigliere dei negoziatori tedeschi durante il Trattato di Versailles (1919) e della commissione incaricata di redigere la Costituzione di Weimar. Larga parte del suo lavoro di pensatore e studioso riguardò la razionalizzazione nell'ambito della sociologia della religione e della sociologia politica, ma i suoi studi diedero un contributo importante anche nel campo dell'economia. La sua opera più famosa è il saggio “L'etica protestante e lo spirito del capitalismo”, con il quale iniziò le sue riflessioni sulla sociologia della religione. Weber sosteneva che la religione era una delle ragioni non esclusive per cui le culture dell'occidente e dell'oriente si sono sviluppate in maniera diversa, e sottolineava l'importanza di alcune particolari caratteristiche del Protestantesimo ascetico che portarono alla nascita del capitalismo, della burocrazia e dello stato razionale e legale nei paesi occidentali. In un'altra sua importante opera, “La politica come vocazione”, Weber definì lo Stato come "un'entità che reclama il monopolio sull'uso legittimo della forza fisica", una definizione divenuta centrale nello studio delle moderne scienze politiche in occidente. Ai suoi contributi più noti si fa spesso riferimento come "Tesi di Weber".

(29) Aristofane (450 a.C. circa – 385 a.C. circa) è stato un commediografo greco , uno dei principali esponenti della Commedia antica (l'Archaia), nonché l'unico di cui ci siano pervenute alcune opere complete.

(30) Decimo Giunio Giovenale, (Aquino, tra il 55 e il 60 – Roma, dopo il 127), è stato un poeta e retore romano. Le notizie sulla sua vita sono poche e incerte, ricavabili dai rari cenni autobiografici presenti nelle sue sedici Satire scritte in esametri giunte fino ad oggi e da alcuni epigrammi a lui dedicati dall'amico Marziale.

(31) Bertrand Russell, cfr. ‘Autorità e individuo’, in “Storia della filosofia occidentale” – Longanesi 1983; filosofo, logico e matematico gallese. Fu anche un autorevole esponente del movimento pacifista e un divulgatore della filosofia. In molti hanno guardato a Russell come a una sorta di profeta della vita creativa e razionale; al tempo stesso la sua posizione su molte questioni fu estremamente controversa. È generalmente considerato uno dei fondatori della filosofia analitica, fin da quando, assieme a George Edward Moore è stato protagonista della "rivoluzione contro l'idealismo" della filosofia anglosassone d'inizio Novecento (che fu echeggiata trent'anni dopo a Vienna, dalla "rivoluzione contro la metafisica" del positivismo logico). Russell e Moore hanno lottato per eliminare quello che essi ritenevano una filosofia incoerente e priva di significato e per raggiungere la chiarezza e la precisione del ragionamento. Gli scritti logici redatti assieme a Whitehead hanno continuato questo progetto. Fu, inoltre, maestro di Ludwig Wittgenstein tra il 1911 e il 1914. L'opera e il pensiero di Russell hanno influenzato i lavori di Willard Van Orman Quine, Karl Popper e molti altri.
(32) Mary Wollstonecraft, “Sui diritti delle donne”, in “I classici del pensiero libero” – Corriere della Sera 2010. è stata una filosofa e scrittrice britannica, considerata la fondatrice del femminismo liberale. Visse amicizie di grandi dedizioni ed ebbe relazioni tempestose fino al matrimonio con il filosofo William Godwin, precursore dell'anarchismo, dal quale ebbe la figlia Mary, nota scrittrice e moglie del poeta Percy Bysshe Shelley. Antesignana del femminismo, è nota soprattutto per il suo libro ‘A Vindication of the Rights of Woman’ nel quale sostenne, contro la prevalente opinione del tempo, che le donne non sono inferiori per natura agli uomini, anche se la diversa educazione a loro riservata nella società le pone in una condizione di inferiorità e di subordinazione.
(33)ibidem
(34)Vivien Burr, “Psicologia delle differenze di genere”, op. cit.

(35)Luce Irigaray, “Speculum”, op. cit.



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- Cinema

Black Nights - in collaborazione con Cineuropa News

BLACK NIGHTS 2023 Concorso - In collaborazione con Cineuropa News

Emma Dante • Regista di Misericordia
“Questa storia nasce nel buio e nell’oscurità del teatro, su un palcoscenico molto vuoto”.

Articolo di Davide Abbatescianni
15/11/2023 - La regista teatrale e cinematografica siciliana ci ha raccontato la gestazione del suo ultimo progetto, partorito dall’omonima opera teatrale del 2020.
Abbiamo raggiunto telefonicamente Emma Dante, di ritorno dall’anteprima internazionale del suo ultimo lungometraggio Misericordia, selezionato nel concorso principale del Tallinn Black Nights Film Festival di quest’anno. Con la regista palermitana, abbiamo ripercorso la produzione del film ed in particolare alcune delle sue principali scelte tecniche e artistiche.
Cineuropa: Proprio come Le sorelle Macaluso [+], anche Misericordia è l’adattamento cinematografico di una sua opera teatrale. Che tipo di necessità l’ha spinta a riesplorare questa storia tramite il mezzo cinematografico?
Emma Dante: In effetti, questa storia nasce nel buio e nell’oscurità del teatro, su un palcoscenico molto vuoto, con soltanto quattro personaggi, ovvero Arturo e le tre madri. Avevo voglia di sapere quale potesse essere la sua collocazione spazio-temporale. Avevo il desiderio di conoscere i volti degli altri personaggi che nello spettacolo venivano solo evocati, come il padre che uccide la madre all’inizio ed il resto della comunità che nel film finalmente trova una corporalità, una fisicità nelle donne, nei bambini, negli animali… Volevo saperne di più. Per questo ho trasportato la storia al cinema.
Soffermandoci sul rapporto tra scrittura teatrale e cinematografica, mi chiedevo quali ostacoli ha dovuto affrontare per dipingere un mondo così estremo e al contempo realistico e, a mio avviso, dotato di un po’ di elementi di realismo magico.
Intanto, devo dire che mi sono fatta aiutare da due co-sceneggiatori – i quali sono anche scrittori – ovvero Elena Stancanelli e Giorgio Vasta. Mi hanno aiutata a distogliere lo sguardo dal teatro per andare invece verso una scrittura più cinematografica. Abbiamo lavorato su questo contrasto tra la verità di questi corpi e di queste donne ferite e mercificate e la magia ed il sogno di Arturo. In fondo, il film è un po’ visto dai suoi occhi. È come se questa storia la vedesse un bambino, perché Arturo in realtà non è mai cresciuto. Sono partita un po’ dall’idea di raccontare una favola. Ci sono degli elementi molto onirici, delle atmosfere che rompono il realismo di questo borgo fatto di capanne e fango.
Spostandoci sull’argomento casting, che tipo di qualità ha cercato per i ruoli di Arturo, Betta, Nuccia ed Anna?
Il cast è opera del mio casting director ma voglio sottolineare che il film arriva così com’è soltanto perché ci sono tante voci autoriali che lo aiutano. Per esempio, è importante citare il lavoro svolto con la direttrice della fotografia Clarissa Cappellani. Questa luce e questi paesaggi li dobbiamo a lei. Emidia Frigato, invece, ha ricostruito di sana pianta il borgo in una riserva naturale che si trova nel trapanese. Maurilio Mangano ha lavorato sulla ricerca dei volti di questi attori. Arturo è interpretato da un danzatore, lo stesso del mio spettacolo. Simone Zambelli è il trait d’union tra queste due storie, raccontate con linguaggi diversi. Lui è fondamentale perché è il portatore sano di Arturo. O forse anche “insano”, direi! (ride)
Le tre madri sono interpretate da attrici diverse da quelle dello spettacolo e sono molto diverse tra di loro perché ricoprono, in qualche maniera, i ruoli di questa famiglia non tradizionale. Ho cercato le loro diversità per sottolineare la completezza di questa famiglia. Mi serviva che questa famiglia fosse “abitata” e formata da persone diverse. Per esempio, Anna, si aggiunge alla fine ed è la giovane madre, la madre più “amico” d’Arturo e tra di loro si instaura un rapporto che sembra quasi tra due amici, tra due maschi. È una specie di Lucignolo, ma anche una fata. È una madre che riesce a coprire un ruolo più legato alla giovinezza. Le altre due sono più “strutturate”, anche perché crescono Arturo dall’inizio della sua vita. In ogni caso, si tratta di una famiglia non tradizionale, dove non ci sono legami di sangue ma una fortissima componente d’amore e d’alleanza.
Potrebbe parlarci del lavoro svolto con il compositore Gianluca Porcu? Inoltre, cosa l’ha portata a scegliere Avrai di Claudio Baglioni?
La musica è arrivata prima di fare il film perché Porcu, ad un certo punto, mi ha mandato questo disco che aveva appena inciso. Qui c’erano alcune musiche che lui ha poi riformulato e ricomposto per Misericordia. In queste musiche c’era qualcosa che richiamava un motivetto della colonna sonora di Pinocchio di Fiorenzo Carpi [ndr, il compositore dello sceneggiato televisivo del 1972 Le avventure di Pinocchio, diretto da Luigi Comencini]… Le sentivo giuste per questa storia. Per me, in fin dei conti, Arturo nasce un po’ come un burattino di legno, nasce “difettoso.” […] Avrai, invece, è legata ad un trascorso personale ed è la canzone che ho fatto sentire a mio figlio quando lui è arrivato a casa [ndr, la regista ha adottato un bambino nel 2017]. È stata la prima canzone che gli ho fatto sentire e della quale si è innamorato. Contiene un futuro semplice che dà speranza e per me è la chiave di tutto.

“MISERICORDIA” un film di Emma Dante
Sicilia, un piccolo borgo marinaro di casupole in pietra grezza, in mezzo a rifiuti e rottami. Alle spalle una montagna maestosa. Qui nasce e cresce Arturo, figlio della miseria e della violenza, qui muore la sua mamma mettendolo al mondo. Betta, Nuccia e la giovane Anna, prostitute come lo era sua madre, se ne prendono cura come se fosse un figlio, nella misericordia di un amore disperato fatto di carezze e insofferenza, crudeltà e tenerezza. Ormai Arturo ha 18 anni, in alcuni momenti sembra un bambino, in altri vecchissimo. È nato difettoso, si muove in modo strambo, partecipa al mondo con un animo diverso. Guarda alle persone intorno a sé come alla montagna che scala: senza paura. È un invisibile fra gli invisibili e deve combattere, come tutti a Contrada Tuono, per la sopravvivenza, ma il suo sguardo puro e diverso porta con sé la speranza.

Sceneggiatura: Emma Dante, Elena Stancanelli, Giorgio Vasta
Cast: Simone Zambelli, Simona Malato, Tiziana Cuticchio, Milena Catalano, Fabrizio Ferracane, Carmine Maringola, Sandro Maria Campagna, Marika Pugliatti, Georgia Lorusso, Rosaria Pandolfo
fotografia: Clarissa Cappellani
montaggio: Benni Atria
scenografia: Emita Frigato
costumi: Vanessa Sannino
musica: Gianluca Porcu
produttore: Marica Stocchi
produttore esecutivo: Gianluca Arcopinto, Marcello Mustilli
produzione: Rosamont, RAI Cinema

Recensione: Misericordia di Vittoria Scarpa.

10/11/2023 - Con il suo terzo lungometraggio, che ritrae una realtà crudissima, intrisa di povertà, ignoranza e violenza sulle donne, Emma Dante conferma tutta la sua forza espressiva La madre di Arturo era bella e giovane, è stata riempita di botte quando suo figlio era ancora nella pancia ed è morta poco dopo averlo messo al mondo. È un incipit scioccante quello di Misericordia , il nuovo lavoro per il cinema di Emma Dante: un brutale femminicidio dà il La a tutto il degrado e la miseria umana a cui andremo ad assistere nei successivi 90 minuti. Dopo l’esordio nel 2013 con Via Castellana Bandiera (Coppa Volpi a Venezia per la protagonista Elena Cotta) e il ritorno sul grande schermo nel 2020 con Le sorelle Macaluso [+] (Premio Pasinetti e Premio Lizzani, sempre alla Mostra di Venezia, e 5 Nastri d’Argento), la stimata regista di teatro e drammaturga palermitana ha presentato in anteprima internazionale in concorso al Festival Black Nights di Tallinn – dopo la sua anteprima mondiale a Roma, alla 18ma Festa del Cinema nella sezione Special Screening – il suo terzo film, tratto dalla sua omonima pièce teatrale e sceneggiato con l’aiuto di Elena Stancanelli e Giorgio Vasta. Un racconto sanguigno, viscerale di una realtà crudissima, intrisa di povertà e ignoranza, dove le donne sono sfruttate e violentate, in tutte le accezioni possibili. E dove Arturo, mentalmente menomato dalla nascita e rimasto puro come un bambino, rappresenta l’unica speranza.
“Lo riempirei di pugni e di baci” è la battuta che sintetizza l’amore/odio che questo giovane sfortunato – che oggi ha 18 anni, non parla e non sta fermo un attimo – suscita in chi lo accudisce. Siamo in Sicilia, in un piccolo borgo marinaro composto da baracche e casupole scrostate, in mezzo a rottami e rifiuti, e sovrastato da una montagna maestosa da cui ogni tanto precipita qualche roccia. Rimasto orfano, Arturo (Simone Zambelli, professione ballerino, protagonista anche in teatro) oggi ha due madri, Betta (Simona Malato) e Nuccia (Tiziana Cuticchio), due prostitute agli ordini del disgustoso Polifemo (Fabrizio Ferracane) che, fra carezze e insofferenza, si prendono cura del ragazzo e litigano violentemente fra di loro per qualsiasi sciocchezza. La giovane Anna (Milena Catalano), una nuova “lavoratrice” per cui gli uomini del posto si mettono a fare la fila, si unisce a questo disgraziato foyer: le madri di Arturo diventano tre. E insieme, lo proteggono dall’inferno che hanno attorno e che lui non riesce a vedere.
Non è un film che ti mette a tuo agio, questo Misericordia. Il malessere è palpabile in ogni scena, sia esso fisico o morale: i piedi nel fango, l’acqua dentro casa, i corpi deformati dall’età, i volti truci degli uomini, lo squallore dei rapporti umani. Ma la forza espressiva di questa autrice così poco accomodante, che non teme di mostrare realtà sgradevoli, violenze, abusi su donne e persone fragili, raggiunge il suo culmine quando quella sgradevolezza trascolora nella possibilità di un futuro diverso, di salvezza, anche per chi sembrerebbe definitivamente spacciato. Complici le belle note di una celebre canzone di Claudio Baglioni dedicata a suo figlio, questa favola nerissima finisce per esploderti nel cuore. “Misericordia è il sentimento che voglio provare quando vedo un disgraziato, non devo avere pietà di lui ma sentire di condividere quella disgrazia”, ha dichiarato la nostra brava Emma Dante. E lo spettatore è invitato a fare lo stesso.



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- Libri

“Radon – La terra non trema”, un libro di Ruggero Settimo

“Radon – La terra non trema”, un libro di Ruggero Settimo – Rise&Press Editore 2022

 

Lo spettacolo fantasmagorico dell’Etna che continua in questi giorni di fine autunno la sua attività vulcanica, se da una parte meraviglia lo sguardo di chi l’osserva, ancor più preoccupa i vulcanologi che ne osservano costanti il grado di pericolosità, prestando una specifica attenzione riguardo alla popolazione che malgrado tutto seguita a vivere ai piedi della montagna. Un ‘malgrado tutto’ che si rivela ancor più rischioso se ad accentuare il rischio sono le stesse istituzioni che dovrebbero tenere la reale situazione sotto controllo, evitando che un certo ‘malaffare’ penetri nelle faglie del servizio di Protezione Civile capace di chiudere un occhio, e a volte anche due, nei confronti di probabili uomini d’affari disposti a tutto pur di ovviare i propri interessi economici, e non solo… “Un sospetto che si addentra fin nei palazzi del potere”, afferma Ruggero Settimo autore di “Radon” (*) un romanzo che non si allontana di fatto dalla verità che abbiamo appreso qualche tempo fa dalla cronaca che, benché improntato al modo di una fiction, s’impone quale ‘atto d’accusa’ coinvolgente quanto preoccupante. Soprattutto se a farne le spese sono quei giovani studiosi che ne studiano la materia con disciplina scientifica e quegli altri, tutti quegli altri che ruotano attorno in quanto amici di studi, famigliari, gente comune che si trovano a condividere le stesse problematiche legate alla salvaguardia del territorio così come alla propria sopravvivenza. Perché di fatto quanto avviene in certe cose è di riferimento, in cui il particolare, il semplice condursi della vita quotidiana fa la differenza, specialmente se qualcuno, malvagio più di altri, subentra e si lascia coinvolgere in ciò che potrebbe diventare una catastrofe epocale, in cui per smaltire le scorie radioattive infine pensa di fare dell’Etna la pattumiera della terra. Questo ed altro possiamo leggere in questo ‘giallo’ che, scritto in forma di “diario di lavoro”, rivela una certa connivenza coatta con ciò che siamo: quegli “animali razionali dipendenti”(**) ché in quanto alla salvaguardia del mondo in cui viviamo lasciamo indifferenti ad altri di occuparsene e che più “frequentemente separano la percezione che dovrebbero avere di se stessi dalla storia passata” (**), senza farsi scrupoli… «Io no. L’Etna… l’Etna sì» «L’auto che viaggia a velocità sostenuta ha attutito le vibrazioni … un nuovo sciame sismico sta manifestando la sua presenza. Il Radon torna a salire e questa volta il suo corso naturale non sarà sottoposto a manipolazione umana.» Fino a quando? La terra potrebbe tremare, e stavolta per davvero. L’autore. Ruggero Settimo siciliano doc, filologo e traduttore in diverse lingue, rivolge i suoi interessi all’economia e la geopolitica che declina nelle sue opere. Appassionato di giornalismo, musica, letteratura, è attivo come volontario in organizzazioni per l’integrazione dei rifugiati. “Radon” – la terra non trema” è il suo nuovo romanzo. Note: (*) Il Radon è un gas radioattivo naturale presente nel sottosuolo specialmente in aree vulcaniche e, quindi, di conseguenza sismiche. (**) Alasdair Macintyre, "Animali radionali dipendenti" - V&P 2001

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- Musica

Mauro Sigura - ’Dunia’ S’ardmusic – Egea 2023

Mauro Sigura “Dunia” S’ardmusic – Egea 2023

 

L’ebbrezza mistica del Oud espressa in questa nuova opera di Mauro Sigura affonda nelle potenzialità del rinnovato pensiero musicale middle-europeo, a quel mondo temporale “sopra la terra e sotto il cielo” in cui l’artista ci ha introdotto all’ascolto nei suoi precedenti lavori, che tanto hanno dato alla conoscenza di questo strumento. A incominciare dall’armonia della forma alla plasticità del suono che lo rendono un’eccellenza di riferimento non solo orientale, bensì in ambito World-Jazz e New Wave, nel quale si è inserito ormai da decenni a questa parte, e che fa da ponte sonoro tra Europa e Islam.

Ma c’è di più, quanto basta a intavolare e promuovere sonorità che la costante esperienza internazionale dell’artista ha incamerato in questi ultimi anni, entrando in contatto con ‘altre’ culture nord europee ed altri strumentisti. Di fatto troviamo in questa sua ultima ensemble nomi diversi dalla composizione di gruppo precedente e che danno nuova linfa alle sonorità traslitterate in modo unificante dall'iniziale 'Progetto Terra' dal suo leader Mauro Sigura, qui impegnato anche in tutti gli arrangiamenti strumentali, dalla chitarra elettrica di Marcello Peghin, al basso di Pierpaolo Ranieri, alla batteria di Evita Polidoro, fino all’intervento vocale di Elena Ledda che già in passato ha dato lustro a interpretazioni stupende sia di gruppo che come solista, e che forse andava utilizzata anche in alcuni passaggi in altri brani.

“La sfida – ci dice il compositore – è stata quella di rendere in musica l’idea del costante dialogo tra particolare e universale. Ecco allora che una transumanza , una danza, i passi di un gatto o di una testuggine sono parti di un movimento superiore onnicomprensivo.” Dialogo che ritroviamo nei titoli-idee compositive argomentate nei suoni di questo CD “senza vincoli stilistici – aggiunge – bensì miscelando generi musicali diversi, dal jazz alla fusion, alla musica mediorientale, dal rock alla consapevolezza del più moderno contesto sonoro.”

Particolarmente incisiva di questo discorso è la resa ‘d’insieme’, quella che più conta, ed è a questa infine cui si dedica in primis l’ascolto, con il risultato indubbiamente “emotivamente più profondo” cui si affida lo stesso compositore nel farci partecipi della sua creatività congiunta allo strumento. Quell’Oud che inevitabilmente trascina con sé assonanze del tempo in quanto ambasciatore di memorie passate, di poeti persiani e gentiluomini arabi, ma anche hindi, turcomanni, swahili di riferimento al sanscrito e al Corano, cioè referenti nel titolo di questo nuovo album “Dunia”; cioè di quel “mondo” che riflette inoltre delle intenzioni letterarie che sono state d’ispirazione all’autore.

Come appunto riferisce l’autore Mauro Sigura: “Riguardo la scelta dei musicisti, da tempo avevo il desiderio di lavorare con Marcello Peghin, la sua chitarra ha saputo dare ad ogni brano il collante che cercavo, quel suono capace di legare insieme il motore ritmico, metronomo universale con le melodie dell’Oud e del Bouzouki, legate più al concreto e al particolare. Così come il mixaggio sapiente ad opera di Michele Palmas ha saputo cogliere lo spirito d’insieme e aggiungere dettagli fondamentali per la riuscita definitiva dei brani”.

Invero un album di piacevole ascolto che non deluderà chi cerca nella musica qualcosa di creativo all’altezza del migliore sound internazionale, ben sapendo che si è qui messi di fronte a qualcosa di più ricercato del continuo ‘bla, bla’ dell’odierno prodotto consumistico.

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- Letteratura

Marco Balducci … o la cognizione dell’ozio.

Marco Balducci … o la cognizione dell’ozio.
“Terzo Repertorio” – Anterem Edizioni 2023.

“Nulla che possa essere fatto fra un mese, detto tra un anno, sarebbe diverso oggi. Ripetizioni di parole e di atti si sommano in serie sbiadite come raccoglitori in un archivio…”.

È l’incipit di questo libro che si potrebbe riassumere in una sola frase: “condensazione verticale di un punto inclinato” nell’uso che l’autore stesso fa delle “quadrature” che lo compongono. E che siano ripartizioni elaborate dal punto di vista di sdraiati su un letto e/o semi svegli su un divano, si ha la sensazione di essere messi difronte a una scelta intellettualistica, afferente a una possibile apologia dell’ozio come scelta di vita…

“si dia il caso che resti fuori un braccio, o un dito soltanto: nel vuoto dell’imprevisto, del possibile, dell’evento accidentale. In questa ipotesi si mobilita ogni risorsa, si interviene e si provvede: un’occasione di premura, di solerzia. E si cerca di capire il perché. Ma restiamo al presente…oppure no: andiamo indietro, di anni e anni, azzeriamo tutto: tutto”.

Ce n’è di ben donde nel voler trovare i paradigmi di scuola filosofica che in primis risalgono agli antichi (Epicuro, Ovidio, Seneca, Lorenzo de’ Medici, Boccaccio, Sannazzaro, Petrarca fino a Leopardi); o all’ozio altruistico di stampo orientale (Shiva, Ghandi, Rumi, Sen, Kafka, e tanti altri); così come nel voler accostarsi alla psicologia dell’ozio dei cosiddetti metropolitani (Cechov, Wilde, Baudelaire, Bataille, Bulgakov, Gončarov, Rawls, Žižek, Cacciari, Lacan, solo per citarne alcuni).

Ma come si inserisce Marco Balducci in questa classifica di super-eroi dello scrivere dovrebbe far pensare il lettore ben più scaltro di me, allorché affrontando in indice le sue ‘quadrature’ e le sue ‘emergenze’ per l’appunto, si riscontrano alcune ‘assenze oggettive’, smarrite, forse, in un duplice orizzonte di vedute, che né l’utopia (l’illusione), né l’idea dell’ozio (l’inerzia), riescono a riempire del rimanente spazio ‘vuoto’ della pagina…

E “fino a quando?", viene da chiedersi, ma a saperlo, poi, cosa cambia? Sommare, poi dividere, per avere una media ponderata: resti perplesso, il risultato è uno qualunque, nessun interesse, nessuna sorpresa…Sapere, sapere finalmente, e poi restare indifferenti: si è saputo qualcosa di prevedibile e nemmeno credibile. Riemergi il giorno dopo, metti la faccia sopra una mano aperta, poi stringi le dita per spremerla bene. Spremila. Spremi a fondo”.

E " fino a che?", a quando, come e perché? Se la mente a volte si rifiuta di oltrepassare la soglia della ragionevolezza...

“un’idea di presente persistente nella memoria. Mani che tracciano disegni nell’aria, veloci come rondini attraversano la stanza. Osservarle senza interesse, come le cose intorno , da nominare mentalmente: un cuscino, un foglio, la porta. Aprire la porta senza oltrepassarla, affondare la faccia nel cuscino… strappare il foglio. Rinunciare a ciò che si è perso. Ripetere questa frase.”

Un vuoto che si attesta come “Terzo Repertorio” dal titolo della raccolta, sì che viene da chiedersi se c’è un ‘primo’ e un ‘secondo’ repertorio sui quali approntare l’eccedenza e/o l’incompletezza di aggettivazione, quella ‘ars vivendi’ che fa intuire la presenza dell’altro come scelta e non solo, o piuttosto che sospinga verso lo ‘straordinario’ insito nella poesia, quale linfa di vita su cui fare affidamento contro tutte le brutture che incombono nel mondo…

“su un terrapieno a guardare verso l’autostrada, il traffico veloce nei due sensi, continuo, costante: dall’altro lato alberi spogli, radi, su campi non coltivati. Si cammina, non c’è da parlare, si è arrivati qui casualmente ma sembra di no: che si dovesse vedere, fare considerazioni, decidere: eccetera”.

“intravedere case, in lontananza, seminascoste dalla vegetazione. C’è spazio qui, il vento è libero di fare scorrerie: i suoni misurano distanze. Con le orecchie tappate dalle mani entrare nell’inquadratura: vedersi salire il crinale…la pellicola è attraversata da macchie, aloni luminosi…sempre più frequenti”.

Una scrittura individualista quindi quella di Marco Balducci per affermare la validità laconica dell’ozio osservata da una posizione minimalista, per meglio intendere che il ‘vuoto’ gioca una funzione intellettiva non necessariamente a perdere, quanto…
…nel trovare quel che manca.

L’Autore.
Marco Balducci, scrittore di poesia Neo-tecnologica è stato finalista del Premio Inedito 2021 e al Premio Montano 2022.

Nota: Tutti i corsivi sono di Marco Balducci estratti dalla raccolta qui recensita.

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- Libri

AA.VV. “Scrivendo 2023” – Kubera Edizioni

AA.VV. “Scrivendo 2023” – Kubera Edizioni

Per chi ama leggere, si è concluso anche quest’anno il Concorso Letterario “Scrivendo” che ha visto la pubblicazione di un libro a stampa che raccoglie i migliori racconti selezionati tra i partecipanti indetto da Kubera Edizioni cui hanno preso parte centinaia di autori più o meno conosciuti che con i loro scritti hanno ravvivato il contest con la preziosità dei loro interventi. Un sommario ricco di nomi, di avvenimenti, di sogni e di illusioni che si rinnova costantemente e che con i loro scritti danno vita ad una realtà sociale ‘diversa’ da quella cui siamo abituati a leggere sulle pagine dei quotidiani, fin troppo cariche di accadimenti cronachistici nefasti e altisonanti che poco e/o forse troppo, hanno a che fare con l’intimità intrinseca di quegli esseri umani che siamo. Ma non c’è solo il sociale, esiste una ‘verità’ nell’attività scrittoria di altrettanti autorevoli narratori, presenti in questo libro, più spesso trascurata perché volutamente non ascoltata, cui va riconosciuto il ‘diritto’ di essere rappresentati e quanto più di essere rappresentativi di quella ‘storia minima’ che tutti insieme andiamo scrivendo. Ma non parlo solo di scrittori, bensì anche di giornalisti, imbrattacarte, quanto anche dei redattori, dei grafici, degli impaginatori e degli stampatori che, con il loro lavoro ‘specialistico’ nei rispettivi campi di operatività, hanno portato fin dai primordi all’evoluzione della carta stampata, che tanto ha devoluto nel mondo a far conoscere la cultura e l’informazione, pedissequa del ‘sentire’ umano. Ci sono qui, condensati in questo libro di racconti brevi, molti aspetti della vita d’oggi e che forse mai ci viene dato d’incontrare nei corposi romanzi patinati ed edulcorati dalla grande distribuzione, che tuttavia non mancano di una loro bellezza formale che in più di qualche caso lasciano assaporare il sale (lo zucchero) della vita stessa degli autori. In rappresentanza dei quali voglio qui citare i titoli significativi del loro operato, a dimostrazione di quel rispetto che spetta ad ognuno. Meglio avrebbe fatto l’editore a citare i titoli nell’indice a fianco di ogni singolo autore:
“Dimora” di Addolorata esposito.
“Lo strano inverno di Marta” di Alessandra D’Agostino.
“Quella strada” di Alessandra Vasconi.
“Il mio Barbablù” di Anna Tarantello.
“Biciclette” di Biagio Napoli.
“Le unghie e la terra” di Claudia Teresa Pezzutti.
“Le soddisfazioni della cantante solista” di Daniela Carmen Mainardi.
“Non è più lei” di Daniela Conforti.
“La casa di riposo” di Daniela Di Benedetto.
“Ritratto di andata e ritorno” di Effeddì.
“L’Amleto che visse due volte” di Fabiola Medici.
“Miracolo a Trava” di Federico Battistutta.
“Le ultime note” di Flavio Lucibello.
“Hic et nunc” di Francesca Savio.
“Forse un angelo” di Gabriele Astolfi.
“Da Messina a Forlì via ponte” di Giancarlo Biserna.
“Il tr-rrr-e-n-o delle sette” di Giorgio Mancinelli.
“La rinascita” di Giovanna Panzolini.
“L’assenza di uno spazio” di Giulia Di Paola.
“Era notte a Roma” di Laura Marcucci.
“La pace persa in una bacca” di Lina Ciampi.
“Aria” di Maria Grazia Innocenti.
“Il giocatore” di Nico Zucchini.
“Amore o possesso?” di Nicoletta Rinaldi.
“La melodia di Caterina” di Ottavia Durpetti.
“Notte d’agosto” di Paolo Michiotti.
“Matrioska” di Pietro Rainero.
“Stanza 21” di Remo Badoer.
“Una storia minima” di Rosanna Guarino.
“Un’agghiacciante realtà” di Santo Forlì.
“Solo” di Sebastiano Lucio Motta.
“Il segreto” di Stefano Bambi.

Più che interessanti risultano le pagine dedicate ai singoli ‘curriculum’ e alle note afferenti all’attività, talvolta ponderosa, nei campi più disparati della letteratura, ma anche del teatro e del cinema, svolta più spesso a latere di un’altra attività, quel ‘lavoro’ necessario che ha assicurato loro la sopravvivenza e, non in ultimo, di poter scrivere le loro storie. Grazie.






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- Letteratura

“A sciame” un libro di Maria Grazia Insinga - Arcipel.Itaca

“A sciame” di Maria Grazia Insinga … una voce ‘fuori dal coro’ nella nuova prosodia contemporanea - Arcipelago Itaca 2023

“Il mondo è in basso / e la bilancia discorde / una questione di gravi…” – scrive Maria Grazia Insinga in questo suo vademecum prosodico-poetico facendo sfoggio di un’arte foriera di trame che stanziano sospese “a cerchio a diluvio” come le nuvole nei quadri di Magritte, per un dialogo con l’universale…

Allora sono le parole a sciamare via dalla “testa che parla”, a formare le frasi della nostra incompletezza, onde raggiungere i non-luoghi interstiziali che involontari abbiamo lasciato scoperti nella conoscenza e che, egoisticamente dicendo, non riempiono i vuoti nella testa degli altri, tutti quegli altri che non siamo noi, che pure riguardano la nostra esistenza pregressa e futura…

“Forse mi sono confusa col tuo cranio pieno di meraviglie e di bile...”, come “il fiume carico di pesci che non sai / carsico porta a nessun mare / l’unica mappa leggibile…” – mentre noi eravamo lì, immobili a guardare il passaggio della rondine che migrava per altri lidi, la crescita di uno stelo d’erba verde essiccato, lo sfiorire dei colori di un fiore prima ancora dell’autunno, il cadere di una foglia ingiallita nella pozza di un ultimo temporale, quanti in una sola vita (?), incontenibili, che ci hanno lasciati fradici di dentro, quando avremmo voluto camminare nel sole d’ogni stagione…

“ …e meritare un levare e battere / al tempo stesso un solo cuore: / tutt’altra cosa altro paradiso / terreo non morire e rimanerci”, mentre inerti vedevamo la polvere depositarsi sulle pagine ingiallite, rimaste bianche del nostro non-dire, che di parole ne erano già state dette abbastanza, troppe, da riempire tomi per una biblioteca dell’immaginario finalizzato e utopico dell’incapacità di essere che dimostravamo ampiamente…

“…a punta fram (nave artica) o sulla luna / mille anni mille lingue e / cuore del cuore della lancia / orifiamma senza vegetazione / sputata dal cratere di gelkamar (area vulcanica) / la costa nera il monte rosso / il raggio di luna tagliente”. E dire che ne avevamo coniate di nuove che volevamo illuminanti, a uso e abuso della concettualità meccanica, svanita nei meandri della più avanzata tecnologia, o forse di una falsa democrazia, decostruita, persa nel vuoto di una solitaria attesa del nuovo senza avvio di rifacimento, di moderni concetti da approfondire e avallare verso un fine aperto alla collaborazione, alla solidarietà…

“…ophrys l’albero è troppo alto / o troppo basso e non c’è / un filo di pentimento / l’attacco del vento ibrida gli occhi / l’unica possibile vicinanza: / approssimarsi”, a quel non-luogo che abbiamo dismesso sul nascere, in quel rito di passaggio mai davvero pensato all’accoglienza degli altri, lasciati soli alla mercé di se stessi, nei meandri bui della solitudine più nera, malfamata e guerrafondaia, sempre in bilico sulla voragine di quell’inferno che ci siamo costruiti da soli, nel voler affrontare la vita, la sopravvivenza delle vite degli altri…

“…rientra nei difetti della vista / persino la luce / per arrivare fin lì c’è un tratto / di mare: ha solo detto acqua ed è tutta inzuppata per difetto di vista / o un assordare di trombe d’angelo”, sì che avremmo voluto ricrederci, ricostruire sul nulla la nostra ‘terra promessa’, il nostro paradiso estemporaneo, senza nuvole e nebbie di sorta, senza maleparole incattivite dallo scempio, senza l’inquinamento degli elementi, semplicemente senza …

“…al diavolo le omologie galeniche / all’angelo gli uomini capovolti / e altre improbabili equivalenze / saremo sommerse inverse o niente /… / scienza saputa prima d’ogni cosa /… / ferma e schiusa / muta nella natura immutabile , o no?”… in perenne attesa che ‘a sciame’ tornino le rondini, il rigoglio della terra nel verde degli steli, lo scorrere delle acque dei temporali, uscire dalla disuguaglianza in cui viviamo…

“…la matrice psicolinguistica / … / la matricola inesistente / … / onde scappare dal mondo / in un mondo dove / perduta ancora la lingua è tutto perduto”. Quella “scienza saputa prima di ogni cosa / la sentenza prima del giudizio / l’acquiescenza impossibile / sommossa zero remissione”… che pure si è resa possibile nel flusso di quella creatività globalizzata che nello scempio del tempo, ha saputo creare cotanta bellezza che ci circonda…
“grazie sempre a dio”.

L’autrice,
Maria Grazia Insinga, Milazzo 1970 - Laurea in Lettere Moderne, Docente di Pianoforte, vincitrice di numerosi premi e laboratori di Poesia Contemporanea. Membro del Consiglio editoriale di “Opera Prima” è parte del Comitato di Lettura di Anterem Edizioni e della giuria del Premio di Poesia e Prosa “Lorenzo Montano”. Sue poesie sono stare tradotte in molte lingue europee, più recentemente è stata premiata per “Tirrenide” una silloge poetica pubblicata da Anterem Edizioni 2020, a suo tempo recensita in Larecherche.it.

Nota: tutti i virgolettati sono d'appartenenza dell'all'autrice.

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- Libri

’Dialoghi della sedia’ un libro di Chiara Serani - Anterem 2

‘Dialoghi della sedia’ … per una teoria scrittoria radicale.

Un libro di Chiara Serani – Anterem 2023.

 

Quand’ecco al centro della scena aperta s’accende un occhio di bue a illuminare una Thonet Dijon in solitaria presenza, era già lì ma nessuno sembra se ne sia accorto. La sedia, non ha alcuna ragione di farsi notare, sì che può restarsene in silenzio immersa nel buio della propria esistenza e oltre, senza scomporsi, senza distinzione di sorta, per un tempo lungo capace di accogliere ogni variare generazionale di attori/attrici che s’avviluppano nelle parole, nell’affabulazione delle loro afflizioni. L’azione s’avvale di rumori, scalpiccii, uno sciame di parole confuse che improvvisamente tacciono per la presenza oggettivante di una di esse...

 

Sono seduta su una sedia. Sono completamente vestita: cappello, sciarpa, maglione, guanti, collant, stivaletti. Mi tiro su il maglione per mostrare il reggiseno. Poi tiro su la gonna per mostrare le mutande.

(Applausi del pubblico pagante.)

 

Non c’è che dire, già nel titolo e poi addentrandosi nelle pagine, viene spontaneo pensare a un copione scritto per uno spazio immaginario e/o immaginato, in cui l’autrice Chiara Serani, mette in scena ‘il tutto e il niente’ di un dialogo fluente con la ‘sedia’, identificazione neo-espressionista che attraversa il fenomeno generazionale dell’interdisciplinarietà, di grande attualità, tesa a mostrare collegamenti e rotture operate dal decostruzionismo …

 

Sono seduta su una sedia. Sono nuda. / Ho in grembo un libro scritto e illustrato dall’altra donna che è qui. Raccolgo (sul pavimento) le forbici e comincio a tagliare con molta cura, una a una, le belle pagine lucide. / quando ho finito riprendo le pagine, una a una, e me le attacco sul corpo col fissante per filettature. / Le attacco una a una, partendo dalla pelle più tenera, i seni, l’interno coscia… ovunque, finché non sono interamente rivestita di pagine. Poi le stacco, una a una. La pelle si scortica. L’avevo calcolato?

 

Si è detta una ‘teoria scrittoria radicale’ di un certo fare teatro ‘per opposti’, ma anche da punti di vista diversi, per così dire ‘altri’, improntati sulla visualizzazione onirica interattiva applicata a una ‘performance’ d’arte visiva inclusiva (body-art, tattoo, digital-art ecc.). Tuttavia, senza uscire dall’ambito letterario-teatrale, pensiamo ad Artaud, a Genet, alla neoavanguardia di Carmelo Bene, in cui la priorità individualistica dell’attore riempie il ‘vuoto’ scenografico…

 

Sono seduta su una sedia, leggermente di lato perché alla mia sinistra c’è un uovo. Sono nuda, ma ho una mitria papale sulla testa, in grembo un libro. Covo la schiusa.

 

Individualismo che ha riempito i teatri di mezzo mondo, dall’espressionismo astratto di Julian Beck e il Living Theatre, alla sperimentazione sonora di John Cage, alla Modern-dance portata sulla scena internazionale dall’inimitabile Pina Bausch, maestra della coreografia contemporanea. Più difficile è rintracciare una qualche priorità, o meglio un distinguo apotropaico che serva ad allontanare o ad annullare un qualche influsso malevolo e/o benevolo che sia, per tornare alla nudità ancestrale del corpo, in un certo senso per riappropriarsene, riassumere la propria espressività basata sull’improvvisazione dell’azione e sul coinvolgimento. Una forma conosciuta come “happening”, dal suo ideatore Allan Kaprow che nel 1956 immaginò un’arte nuova che contemplasse vista, suoni, movimento, persone, odori, ogni sorta di materiali e oggetti…

 

Sono seduta su una sedia. Sono nuda … Sul pavimento, una matassa di filo spinato. Provo a dipanarla, mi graffio le mani. Attacco a lavorare il filo. La matassa, ancora mezzo arrotolata, si dimena in ogni verso come una molla e mi scorre a fatica sulla coscia sinistra, … morde la carne, la unghia.”

 

Oggetti che ritroviamo in uso, fra tensione e distensione in questo “Dialoghi della sedia”, come esibizione di vita e inquietudine personale, dove la tipologia da ferramenteria s’intreccia con oggetti d’uso casalingo, (sedia, catino, forbici, coltelli, ferri da calza, chiodi, spille, piercing, ecc.), e quant’altri propri della macelleria (animali vivi e morti) che estendono il sopravvento prevalentemente sull’intenzionalità, contribuendo a rendere lo ‘spazio’ teatrale, una sorta di ambientazione speculare coreografica del corpo immerso nell’ambiente, in cui il tempo subisce a sua volta una sorta di dilatazione spaziale (immobilità, azione, lentezza, iterazione) che sottolinea il carattere rituale della scena…

 

Sono seduta su una sedia, la loro. Disposti tutt’intorno a me ci sono un bambolotto nudo di plastica rosa, un bisturi, dei rotolini di carta bianca su cui sono tracciati in oro caratteri e simboli che non conosco, colla a pronta presa, chicchi d’uva, unghie, vecchie monetine, cantucci di pane, un osso di agnello. Raccolgo il bambolotto, non ha i genitali ma ha la pancia sporgente e vuota. Afferro il bisturi tra pollice e indice e medio, procedo alla laparotomia. Prendo i rotoli le unghie, il pane, le monete, l’uva e l’osso, riempio la pancia. Suturo la ferita con la colla.

 

Al dunque, una ‘teoria scrittoria radicale’, intenta a costruire e decostruire, come per l’esperienza ‘fluxus’ in cui l’energia del fare accoglie elementi rivelatori di emozioni primarie proprie del disimpegno e/o della conflittualità interiore, in particolare della contaminazione, della collisione fra spettacolo (di se stessi) e mass-media (simulazione applicata), di quella che si direbbe in un certo senso la ‘naturalità’ di un fenomeno e l’ ‘artificialità’ del procedimento esteriore. Come di qualcosa che in effetti non c’è ma che la si può pensare e/o reinventare ogni volta (ad ogni pagina) come collaterale di un ‘fare teatro per opposti’, di un procedere a sbalzi fra azzeramenti e ritorni, ridurre cioè la narrazione a consonanze e dissonanze poetiche (?)…

 

Sono seduta su una sedia. Sono nuda. Ho un gomitolo di lana viola nella vagina, sostenuto dal pavimento pelvico. Scorgo il capo della fibra che spunta, lo tiro un po’. Per terra, davanti a me, è ammassato un cumulo di vecchi ferri da maglia … In questa posizione il gomitolo preme alle pareti. Alla fine, raggiungo i ferri e comincio a dipanare, lenta, il filo. Lo lavoro. Ne traggo un informe umido, finché la lana non è del tutto esaurita. Lo adagio a terra. Si spengono le luci.”

 

Da qui quel senso fra l’afflizione e l’inadeguatezza sul piano della definizione patologica del presente, in cui si ipotizza una qualche anticipazione e/o posticipazione del ‘tempo piano’ o ‘assenza di tempo’ all’interno di un ‘continuo’ che non prevede forme o schemi, cornici e impalcature, né arredi o scenografie teatrali; bensì una ricerca infinita (onirica) del proprio ‘io’ e/o di un ‘loro’, come modo di essere in consonanza e in discontinuità col reale. Nonostante la precarietà dell’approccio psicologico-identitario di occultamento e/o esposizione, quanto si addensa in queste pagine, per quanto si voglia cercarne il senso, esibisce indubbiamente un potere regressivo per definizione, le cui dicotomie fra l’una e l’altra parte del testo risultano fittizie…

 

Sono seduta. Sono di spalle, proprio come la sedia, la testa leggermente china in avanti, le gambe accavallate, le mani sul ginocchio destro. Sono nuda. A nude on a Coca-Cola chair.

 

Ancor più messi di fronte al ridimensionamento attoriale che approda al gender-queer di quanti non riconoscono in generale il concetto stesso di identità di genere...

 

È accovacciato carponi sotto la sedia, la sua. È nudo. Procede a quattro zampe girando intorno all’impazzata come un cane che rincorra la coda, la sedia ben salda sulla schiena.

 

Sebbene non sfugga la volontà autoriale di operare una liberalizzazione da un codice e da uno stile artato, sia sul piano del privato esistenziale che del confidenziale femminile, in quanto simboli e/o archetipi precostituiti, si assiste qui a un gioco combinatorio di reciproca contaminazione fra autrice-attrice, in cui si affabula soprattutto d’angosce esistenziali che si protraggono dalla prima all’ultima pagina (scena), in cui le “azioni a più voci” si incontrano, si sovrappongono, sospese infine sul proprio autoannullamento, seppure entro una credibilità ‘estetica’ e uno stile ‘identificabile’, in cui l’autrice dimostra la sua capacità di giocare col ‘vuoto’…

 

Quand’ecco sul finire l’occhio di bue torna a illuminare la sedia vuota, una Thonet Dijon di ottima fattura usurata dal tempo, unica e vera protagonista della messinscena...

 

(Applausi del pubblico pagante.)

 

L’autrice. Chiara Serani si occupa di ricerca in letterature straniere moderne, traduzione e teorie radicali e scrittura, con particolare interesse verso la poesia anglofona moderna e contemporanea. È autrice di alcune monografie critiche su diversi autori e di numerosi saggi. Attualmente è docente di Lettere e lavora come traduttrice freelance. “Dialoghi della sedia. Azioni a più voci” è la sua prima raccolta poetica.

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- Cinema

Tutti i film della Festa del Cinema a Roma - Cineuropa News


ROMA 2023
Tutto pronto, o quasi, per la 18ma Festa del Cinema di Roma
di VITTORIA SCARPA

25/09/2023 - La manifestazione romana, diretta per il secondo anno da Paola Malanga, si svolgerà dal 18 al 29 ottobre prossimi.

Un’“edizione enorme, un programma miracoloso, una selezione per tutti i gusti”. È la 18ma Festa del Cinema di Roma secondo Gian Luca Farinelli, presidente della Fondazione Cinema per Roma, che con queste parole ha introdotto, venerdì all’Auditorium Parco della Musica, la nuova edizione della manifestazione romana, prima di passare la parola alla direttrice artistica Paola Malanga. La Festa avrà quest’anno un giorno in più di programmazione (dal 18 al 29 ottobre) e si svolgerà in vari luoghi della città, con proiezioni, incontri e dialoghi sul futuro del cinema, mantenendo comunque il suo centro pulsante all’Auditorium.
Il programma degli incontri e la composizione della giuria non sono stati ancora definiti (saranno annunciati nei prossimi giorni, insieme ad altri titoli in selezione), ma intanto, ecco il Concorso Progressive Cinema: 18 titoli internazionali in gara, senza distinzione tra fiction, documentari e animazione. Si parte con C’è ancora domani, esordio alla regia dell’attrice Paola Cortellesi, ambientato nella Roma popolare della seconda metà degli anni ’40. Si va poi da Un amor della spagnola Isabel Coixet, al dramma sociale Comme un fils di Nicolas Boukhrief, passando per Un silence di Joachim Lafosse, il debutto alla regia di Leo Leigh (figlio di Mike) Sweet Sue e altre opere prime come Achilles di Farhad Delaram, Avant que les flammes ne s'éteignent di Mehdi Fikri, The Hypnosis dello svedese Ernst De Geer e Toll di Carolina Markowicz. Dalla Germania arriva Black Box di Asli Özge, un ritratto paranoico della società coprodotto dai fratelli Dardenne; dalla Bulgaria, Stephan Komandarev con il suo vincitore del Globo di Cristallo a Karlovy Vary Blaga’s Lessons; un altro titolo dalla Svezia, One Day All This Will Be Yours di Andreas Öhman. Dall’Italia, Holiday di Edoardo Gabriellini, lanciato di recente a Toronto; Mi fanno male i capelli di Roberta Torre, un omaggio alla compianta attrice Monica Vitti (leggi la news); il titolo italo-finlandese La morte è un problema dei vivi di Teemu Nikki. Completano il concorso Fremont di Babak Jalali, dagli Stati Uniti; The Monk and the Gun di Pawo Choyning Dorji, dal Bhutan; The Erection of Toribio Bardelli di Adrián Saba, dal Perù. Questi ultimi due film sono i candidati dei rispettivi paesi ai prossimi Oscar.
La sezione non competitiva Freestyle, composta da titoli di formato e stile liberi, include fra gli altri l’animazione di Fernando Trueba e Javier Mariscal, Dispararon al pianista, il titolo finlandese Je’vida di Katja Gauriloff, e poi ancora, il doc Tehachapi girato dallo street artist francese JR in un carcere di massima sicurezza in California, Jeff Koons. Un ritratto privato di Pappi Corsicato, Fela, il mio dio vivente di Daniele Vicari, sul musicista nigeriano Fela Kuti.

In Grand Public, dedicata al cinema per il grande pubblico, si potranno vedere fra gli altri il nuovo mélo di Ferzan Ozpetek, Nuovo Olimpo, una storia d’amore che attraversa il tempo e la distanza; il primo film da regista, di solido impianto civile, dell’attore Michele Riondino, Palazzina Laf, sugli operai dell’Ilva di Taranto; Diabolik chi sei?, il capitolo finale della trilogia dedicata a Diabolik firmata dai Manetti bros.; l’opera prima da regista dell’attrice Margherita Buy, Volare; Te l’avevo detto di Ginevra Elkann e Et la fête continue di Robert Guédiguian. Immancabili le serie: saranno mostrati i primi episodi di Suburraeterna, I leoni di Sicilia (regia di Paolo Genovese), Mare Fuori 4 e La storia di Francesca Archibugi.
La sezione Best of, non competitiva, torna a riunire film provenienti da altri festival internazionali, considerati tra i migliori della stagione. Tra questi: la Palma d’oro di Cannes 2023 Anatomie d’une chute di Justine Triet, La chimera di Alice Rohrwacher, The Zone of Interest di Jonathan Glazer, Eureka di Lisandro Alonso, Firebrand di Karim Aïnouz e il documentario Orlando, ma biographie politique di Paul B. Preciado.
Infine, si potranno vedere in proiezione speciale il doc High & Low - John Galliano di Kevin Macdonald, sul geniale direttore creativo della Maison Dior; Io, noi e Gaber di Riccardo Milani, sul grande cantautore italiano inventore del Teatro Canzone; Kripton di Francesco Munzi, che prosegue idealmente il lavoro svolto in Futura [+]; il nuovo film di Emma Dante Misericordia, l’ultimo lavoro di Francesca Comencini Tante facce nella memoria, l’esordio alla regia di Kasia Smutniak MUR, e il doc Rule of the Walls di David Gutnik, che segue artisti di ogni estrazione e pratica nell’Ucraina del 2022.
Completa il programma la sezione Storia del cinema con documentari, film restaurati e omaggi, in particolare all’attrice Isabella Rossellini e al compositore Shigeru Umebayashi, che riceveranno entrambi un Premio alla carriera.
OSCAR 2024

I film europei in lizza per la corsa agli Oscar
di CINEUROPA

26/09/2023 - I paesi europei annunciano i titoli che concorreranno per il miglior lungometraggio internazionale agli Academy Awards 2024
Con la 96ma cerimonia degli Academy Awards che si terrà a Hollywood il 10 marzo 2024, i paesi europei stanno iniziando ad annunciare i titoli che concorrerano per il miglior lungometraggio internazionale.
Per questa edizione, i film presentati devono essere stati rilasciati nei rispettivi paesi tra l’1 dicembre 2022 e il 31 ottobre 2023, e il termine per la presentazione è il 2 ottobre. Quindici finalisti saranno selezionati dal numero totale di candidature e annunciati a fine anno, prima che l'Academy ne riduca il numero a cinque, annunciandoli come candidati finali a inizio 2024.
L'anno scorso, un totale di 92 iscrizioni sono state accettate e 40 titoli provenivano da un paese europeo. Il candidato tedesco, il titolo Netflix Niente di nuovo sul fronte occidentale di Edward Berger, ha finito per aggiudicarsi l'ambito trofeo.
Qui la lista aggiornata (i nuovi candidati in rosso) delle candidature europee:
Paesi europei.

Paesi non europei, con produzione europea:
Belgio: Augure, Baloji (Belgio/Repubblica Democratic del Congo/Paesi Bassi/Francia/Germania/Sudafrica)
Bosnia-Erzegovina: Excursion, Una Gunjak (Bosnia-Erzegovina/Croazia/Serbia/Francia/Norvegia/Qatar)
Bulgaria: Blaga's Lessons, Stephan Komandarev (Bulgaria/Germania)
Croazia: Traces, Dubravka Turic (Croazia/Lituania/Serbia)
Repubblica Ceca: Brothers, Tomáš Mašín (Repubblica Ceca/Slovacchia/Germania)
Danimarca: The Promised Land, Nikolaj Arcel (Danimarca/Germania/Svezia)
Estonia: Smoke Sauna Sisterhood, Anna Hints (Estonia/Francia/Islanda)
Finlandia: Fallen Leaves, Aki Kaurismäki (Finlandia/Germania)
Francia: La Passion de Dodin Bouffant, Tran Anh Hung (Francia/Belgio)
Georgia: Citizen Saint, Tinatin Kajrishvili (Georgia/Francia/Bulgaria)
Germania: The Teachers' Lounge, Ilker Çatak (Germania)
Grecia: Behind the Haystacks, Asimina Proedrou (Grecia/Germania/Macedonia del Nord)
Ungheria: Four Souls of Coyote, Áron Gauder (Ungheria)
Islanda: Godland, Hlynur Pálmason (Danimarca/Islanda/Francia/Svezia)
Italia: Io Capitano, Matteo Garrone (Italia/Belgio)
Lettonia: My Freedom, Ilze Kunga-Melgaile (Lettonia/Lituania)
Lituania: Slow, Marija Kavtaradze (Lituania/Svezia/Spagna)
Lussemburgo: The Last Ashes, Loïc Tanson (Lussemburgo/Belgio)
Montenegro: Sirin, Senad Sahmanovic (Montenegro/Albania/Kosovo/Bosnia-Erzegovina)
Paesi-Bassi: Sweet Dreams, Ena Sendijarević (Paesi Bassi/Svezia/Indonesia/Francia)
Macedonia del Nord: Housekeeping for Beginners, Goran Stolevski (Macedonia del Nord/Polonia/Croazia/Serbia/Kosovo)
Norvegia: Songs of Earth, Margreth Olin (Norvegia)
Polonia: The Peasants, DK Welchman, Hugh Welchman (Polonia/Serbia/Lituania)
Portogallo: Bad Living, João Canijo (Portogallo/Francia)
Romania: Do Not Expect Too Much From the End of the World, Radu Jude (Romania/Lussemburgo/Francia/Croazia)
Slovacchia: Photophobia, Ivan Ostrochovský, Pavol Pekarčík (Slovacchia/Repubblica Ceca/Ucraina)
Slovenia: Riders, Dominik Mencej (Slovenia/Croazia/Serbia/Italia/Bosnia-Erzegovina)
Spagna: La sociedad de la nieve, Juan Antonio Bayona (Spagna/Stati Uniti)
Svezia: Opponent, Milad Alami (Svezia)
Svizzera: Foudre, Carmen Jaquier (Svizzera)
Ucraina: 20 Days in Mariupol, Mstyslav Chernov (Ucraina)
Regno Unito: The Zone of Interest, Jonathan Glazer (Regno Unito/Polonia/Stati Uniti)
Paesi non europei, con produzione europea
Bhutan: The Monk and The Gun, Pawo Choyning Dorji (Bhutan/Francia/Stati Uniti/Taiwan)
Cile: Los colonos, Felipe Gálvez (Cile/Argentina/Danimarca/Regno Unito/Francia/Germania/Taiwan)
Colombia: Un varón, Fabian Hernández (Colombia/Francia/Paesi Bassi/Germania)
Indonesia: Autobiography, Makbul Mubarak (Indonesia/Francia/Germania/Polonia/Singapore/Filippine/Qatar)
Iraq: Hanging Gardens, Ahmed Yassin Al Daradji (Iraq/Palestina/Arabia Saudita/Egitto/Regno Uniti)
Giappone: Perfect Days, Wim Wenders (Giappone/Germania)
Kirghizistan: This Is What I Remember, Aktan Arym Kubat (Kirghizistan/Giappone/Paesi Bassi/Francia)
Palestina: Bye Bye Tibériade, Lina Soualem (Francia/Palestina/Belgio/Qatar)
Tunisia: Les Filles d'Olfa, Kaouther Ben Hania (Francia/Tunisia/Germania/Arabia Saudita)
Turchia: About Dry Grasses, Nuri Bilge Ceylan (Turchia/Francia/Germania/Svezia)

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- Libri

Michela Murgia ’Accabadora’ – Einaudi 2014

Michela Murgia “Accabadora” – Einaudi 2014

 

"Nel sole violento di luglio il dolce le cresceva in mano, bello come a volte lo sono le cose cattive".

 

Nella 'atemporalità' del testo non v’è alcuna volgarità se al vuoto ‘nulla’ d’una ragione che ci sfugge sostituiamo il ‘niente’ esistenziale che si allontana dalla materialità di una vita appesa al solo filo dell’esistenza, che la specificità è di per sé prova di confusione arbitraria e ingiustificata. Sì che ‘nulla’ ha valore di negazione surrettizia di ciò che non è mai stato, mentre ‘niente’ è punto fermo di un’accezione della concreta propensione di ciò che è, come di qualcosa di esistenziale che viene meno. Così è della morte che dona e viceversa riceve l’ “Accabadora” figura mitica sarda nell’omonimo libro di Michela Murgia, come a voler stemperare nel riscatto di se stessa il prosieguo della propria vita. Il diritto di ognuno a un’assenza (il nulla) che nella finzione letteraria l’autrice sostituisce con la presenza (il niente) di una realtà sociale molto discussa e in qualche modo discutibile quale l’eutanasia. L’applicazione di quel “libero arbitrio” che è la chiave di volta della propria esistenza, come in architettura lo è la pietra centrale di un arco che al momento opportuno cede all’inganno del tempo e collassa nel vuoto che lo sostiene. Ciò che accade quando all’esigua forza portante, al ‘niente’ surrettizio si sostituisce il vuoto ‘nulla’, di per sé sconfinamento dell’ “essere” nel riconoscimento immotivato del “non essere”. Ma l’autrice non afferma quanto appena detto, tuttavia lo conferma attraverso i suoi personaggi sostenuti da una forza interiore innata, data dalla concretezza di un mito, quello dell’ “Accabadora”, sopravvissuto nel tempo alle evoluzioni e decadenze di quella che ci ostiniamo a chiamare ‘società di diritto’ con fare oltremodo arbitrario della natura esperienziale umana. Nel crescente andamento del romanzo assistiamo peraltro al progredire di un plausibile futuro del temperamento scrittorio dell’autrice nel contesto ideologico dei suoi personaggi, come per un improvviso balzo in avanti con un misto di empatia e d’amore, dal verosimile alla normalizzazione dello straordinario, che non conosce parole adeguate, se non quel certo stare al di sopra degli eventi con uno sguardo che non giudica, cioè mancante di un giudizio ultimo che allora sì, segnerebbe la volgarità di una distinzione inappropriata. Così come la Yourcenar fa dire ad Adriano: “…Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti.”, Michela Murgia s’avvale nell’ “Accabadora” di rinsaldare il mito dell’eutanasia che sostituisce al presunto ‘nulla’ il “niente e/o il tutto” dell’esistenza vissuta.

 

"Ora sei custode del tempo ... come coloro che ti hanno preceduto dovrai rimanere. Più malvagi saranno i tempi, più l'adesione all'antica legge parrà ribellione o sedizione."

S.Atzeni.

 

L’autrice.

Michela Murgia, scrittrice, opinionista, ha pubblicato per Einaudi “Viaggio in Sardegna”, “Undici percorsi dell’isola che non si vede”, “Il modo deve sapere” che ha ispirato il film di Paolo Virzì “Tutta la vita davanti”; “Accabadora” Premio Campiello e Premio Supermondello 2010, nonché il più recente “Tre ciotole” uscito postumo. Nel 2018 ha presentato un importante ritratto sulla scrittrice Grazia Deledda “Quasi Grazia”. Altresì s’avvale a pieno titolo di far parte di quella esclusività della cultura sarda che in passato ha premiato Grazia Deledda “Canne al vento” e Giuseppe Dessì “Paese d’ombre” che non stento a definire due capolavori, per l’essenzialità d’una scrittura colta quanto esaustiva di quel ‘sentire’ tipicamente isolano che fa dell’esperienza umana un tutt’uno con la natura che la circonda, in virtù dei valori universali debitamente riconosciuti.

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- Libri

’Romanzo naturale’ - un libro di Georgi Gospodinov - Voland

“ROMANZO NATURALE” – Un libro di Georgi Gospodinov – Voland 2023.

 

“Vorrei che qualcuno dicesse questo è un bel romanzo perché è tessuto di dubbi”, avverte l’autore, ma noi che in letteratura siamo sempre ‘alla ricerca del pelo nell’uovo’, abbiamo trovato inaspettatamente in questo libro di Georgi Gospodinov le risposte che cercavano alle molte domande corrispondenti all’inquisitoria ‘naturale’ del banale quotidiano. Che ne dite, non è forse il caso di immergersi tranquillamente nella lettura di queste pagine schiette e fresche onde affrontare la calura di questa estate infuocata?

L’invito non teme di cadere nel vuoto della moda, tutta nostrana, di passare il tempo a smanettare sul cellulare alla ricerca di gossip e/o coniare fake-news per farsi una risata aliena. Al contrario, sollecita Gospodinov, proponendo una lettura ‘rapper e graffitara’ al passo coi tempi che sorprende per l’autoironia e l’incalzante linguaggio fortemente espressivo come cura ‘effervescente’ contro lo stress metropolitano …

“La storia naturale non è altro che nominare il visibile (…) indotto dall’evidenza delle cose”. “Che romanzo salterebbe fuori, se riuscissimo a convincere una mosca a raccontare? Non dubito affatto che essa possieda una lingua, naturalmente diversa dalla nostra. (...) La tappa successiva dello studio di questa lingua può essere la capacità di parlare con una mosca. D’accordo, c’è una ragione fondamentale per cui osservo le mosche, che cerco di indagare nei gabinetti e in tutta la storia naturale. È una ragione assillante, (…) questa però rimane in me. Alla mosca nel mio cranio serve un buco” dove introdursi (?), è così.

È quanto si pone l’autore nell’osservare tutto quanto accade intorno e gli innumerevoli risvolti che se ne ricava dai comportamenti più leggeri (leggi superficiali) che ci portiamo dietro rendendoci in questo modo alquanto ridicoli e altrettanto umani, a tal punto che quasi non ce ne rendiamo conto. Tuttavia non c’è ragione di preoccuparsi, la diagnosi riguarda ognuno di noi indistintamente, sebbene la cura che suggerisce risulti un poco adulterata, in quanto va a inficiare quello spazio grossolanamente ‘privato’ di un interloquire ‘maccheronico’ che apre al gergale ‘slang’, ‘No Cap’ (rap), e/o ’Cringe’, per dire quello che si prova quando si dice/scrive qualcosa volutamente imbarazzante …

“Vivevo con una che passava tutto il suo tempo al cesso. Almeno quattro volte al giorno per un’ora e mezza a volta, ho controllato.[…] Abbiamo avuto conversazioni molto serie proprio in questo modo. Di tanto in tanto quando si zittiva, guardavo dalla toppa. – Il cesso è un posto cupo, bello mio, un buco!” Niente di scandaloso, né di sgradevole o imbarazzante, bensì oltremodo divertenti risultano i ‘capitoli’ di questa non-storia che si vorrebbe romanzata e che invece si snoda nel modo (ormai cool) della raccolta di short-stories che compongono le diatribe di un divorzio sponsorizzato dall’autore stesso e che, come in altre sue narrazioni successive, ha abituato i propri lettori, alle diavolerie contestuali della vita di coppia.

Ecco qualche non-titolo ficcante dei capitoli qui inclusi … “L’apocalisse è possibile anche in un solo paese” “Per una storia naturale dei gabinetti” “Solo il banale mi interessa. Nient’altro mi diverte così tanto” “Lista dei piaceri degli anni ’60 /’70/’80” “Tutto finisce in fumo” “Per una storia naturale delle mosche” “Da qualche parte la gente vive in case con due ‘s’” Ed ovviamente tanto altro. Una sorta di ‘diario privato’ e ‘frammenti di ricordi’ trascritti come tanti ‘vuoti a perdere’ che, per ironia della sorte, riempiono il vuoto romanzato d’una strampalata quanto personalissima storia d’amore che si apre e si chiude con un divorzio (quello escogitato dall’autore) nel tentativo quotidiano di scrivere un romanzo ‘naturale’ in cui affrontare tematiche disparate e pur sempre correnti, come la guerra …

“La guerra mondiale è inoffensiva. L’apocalisse e la guerra servono solo a distrarre la nostra attenzione. […] Quanto potrebbe succedere a ogni istante è molto più terribile e purtroppo difficile da percepire. Concerne i meccanismi nascosti della Terra e dell’universo. […] Cose non eclatanti come l’apocalisse magari sono già cominciati, malauguratamente non posso descriverne i particolari esatti. Non mi mancano le parole, ma non posso farlo. Non si deve. Sospetto che proprio una descrizione minuziosa ed esatta […] ne metterà in moto i meccanismi.”

Siamo alle ultime battute di una cultura letteraria spesso pesante e noiosa del romanzo da collezionare in bacheche polverose, soppiantata dal ritorno al ‘racconto breve’ che in un primo momento non ha riscosso consenso, e che invece sembra risvegliare l’attenzione del pubblico dei lettori alla ricerca di una scrittura da consumare in breve tempo q.b., trasferita all’interno di ‘info’ dinamiche ridotte ai minimi sprechi indispensabili q.b. e, chiamatasi fuori dall’essere partecipe alla trama, ad uso e consumo delle odierne piattaforme ‘social’, soprattutto di facile consultazione e già divenute ‘cult’…

“E a Berlino in un gabinetto c’era scritto: ‘Mangiate merda!’ è impossibile che milioni di mosche sbaglino. […] I graffiti nei cessi sono un capitolo a parte della Storia”. “La parete del cesso però è un mezzo di comunicazione particolare. La maggior parte di quelli che lo fanno difficilmente hanno la stessa inclinazione fuori dai cessi. Sono certo che non hanno mai scritto neanche una riga su carta. La pubblicazione comporta altre soddisfazioni. Magari quando uno rimane da solo con sé stesso si mettono in moto meccanismi oscuri, l’istinto primordiale di scrivere, di lasciare un segno.”

Aggiungo qui una nota di colore che pone Georgi Gospodinov, colto e fine letterato, alla stregua di artisti referenziati a noi contemporanei, a incominciare da Marcel Duchamp autore di “Orinatoio”; Piero Manzoni di “Merda d’artista”; P.P.Pasolini di "Orgia", "Petrolio" ecc.; A.Artaud "Il teatro della crudeltà"; Charles Bukowski di “Storie di ordinaria follia”, solo per citarne alcuni, insieme a moltissimi altri ai quali andrebbe dedicata una ragguardevole quanto rispettabile rassegna tout-court. Non di meno, infatti, come i suddetti autori, Georgi Gospodinov prosegue con lo spogliare il proprio ‘linguaggio’ e la propria ‘osservazione artistica’ accorciando i tempi della scrittura andando ‘al sodo delle questioni’, quelle stesse che hanno fatto della ‘pop-opera’ una variante di successo e, che oggi più che mai, siamo lieti di riscoprire per la sua appagante attualità …

“Le parole - trascrive - servono per afferrare il senso, appena il senso è stato afferrato, le parole possono essere dimenticate. Potessi trovare qualcuno che ha dimenticato le parole, per parlare un po’ con lui”. (Zhuangzi, autore del III sec a. C.)

 

L’autore.

Prosatore e poeta Georgi Gospodinov è l’autore bulgaro moderno più acclamato a livello mondiale, vincitore dell’International Booker Prize e del Premio Strega Europeo con il suo ultimo romanzo “Cronorifugio” - Voland 2021. Le sue opere sono tradotte in 25 lingue, tutti i suoi libri sono pubblicati in Italia da Voland.

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- Libri

’Sacro niente’ un libro di Giovanni Bitetto - Voland 2023

“Sacro niente” un libro di Giovanni Bitetto – Voland 2023

 

Leggere, studiare, apprendere, ricordare, forse pregare, tutto non sarà servito a niente se ci si perde fra le linee del "sacro" trasferito nel quotidiano chiacchiericcio popolare. Eppure è ciò che dà senso alla profonda intuizione prevalente che noi tutti abbiamo dell’al di là, la cui ‘assenza in presenza’ umanamente sentita dall’autore scandaglia nel profondo degli animi alla ricerca di qualcosa che ancora non sa. Qualcosa che sente aggirarsi nel vuoto assolato del suo meridione, e che tenta di afferrare con le proprie mani e stringerla nei propri pugni serrati, per non lasciarsi sfuggire l’attimo ‘illuminato’ in cui guardare negli occhi la conclusione della propria missione terrena, nel bene e nel male che lo incoglie. Si è qui alla presenza che avvolge il “sacrum facere” della ritualistica divinatoria in cui ciò che si delinea come inesprimibile, assume sembianza oggettiva in una forma, in un luogo, in una figurazione umana.

Quand’anche la si voglia d’appartenenza allo ‘spirito’ è pur ad esso che riconduce ogni aspettativa, ogni celato desiderio. Sì che ogni accadimento, ogni ‘presenza in assenza’ dall’esito problematico, rivela una deliberata quanto idilliaca auto-costrizione, individuale e sovrumana, perché onnipresente e ineludibile, lontana nello spazio e nel tempo ancorché umani, ancor più vicina e costante nello “spazio e nel tempo" del sacro.

“Aspetti della prassi ritualistica divinatoria – scrive la studiosa Claudia Santi in “Sacra facere” (Bulzoni Edit. 2008) - oltrepassa il livello dello scetticismo pregiudiziale nel suo svolgimento storico-culturale, al fine di rilevare gli elementi di continuità e di cambiamento prodottisi all'interno del sistema di divinazione nel corso di millenni di storia”. Dacché il continuo ristrutturarsi all’interno delle sollecitazioni salvifico-religiose del substrato popolare, al tempo stesso tangibile e immateriale, come qualcosa d’invisibile che non riusciamo a percepire e che pure gioca un ruolo importante sulla psiche, al pari di altre sequenze naturali che segnano lo sviluppo degli avvenimenti sociali e comunitari delle attività umane.

Come il flusso e riflusso delle maree, il “sacro” è qui pressoché svelato, nella trama capziosa di questo libro, quale modello ricorrente e simbolico di armonizzazione nel rincorrersi degli eventi; quale contributo alla determinazione temporale dell’immagine naturalistica di riferimento con una certa dose di ovvietà, come se fosse parte del grande contesto dei fenomeni naturali “non umani” e quindi delle successioni di specifici avvenimenti extraumani. In entrambi i casi il “sacro” assume qui  l’equivalenza di un fatto naturale ‘oggettivo’, che esiste indipendentemente dalla volontà umana, e nell’altro, come idea ‘soggettiva’ riposta in una volontà suprema indefinibile.

Tuttavia le due teorie, per quanto non contrapposte nel libro, si affermano entro uno stesso ‘sacro niente’ che si ripete costante come punto ‘universale’ d’inizio, dal quale “indagare a fondo pulsioni e sentimenti, nell'eterno tentativo di dare un senso all'esistenza” (G. Bitetto). Onde ogni singolo individuo: un padre, un figlio, un'amante, un autista, un barbiere, si presenta completamente solo, “soggetto davanti all’oggetto” offrendosi alla conoscenza o, forse, all’indecidibile, di cui non può stabilire la verità o la falsità. È così per tutte le cose di questo mondo, ma non per il “sacro niente”. 

In cui - scrive ancora l'autore: “Tutte le cose giungono al termine, almeno nelle forme note. Si esaurirà anche la mia osservazione, perché persino le possibilità dell’animo umano non sono infinite. E non può che concludersi anche il tempo delle nostre discussioni, ciò che lui ha da chiedere. Si stancherà di me, prosciugherà le mie risposte, penserà di aver capito. Sento che questo momento arriverà presto e forse, ancor più, che debba essere io a scrivere la parola fine” (G. Bitetto).

 

Location:

In un meridione dimenticato da tutti ma non da Dio, la morte, il lutto e l'amore si intrecciano ai piedi di un blocco di marmo: una statua di Padre Pio si fa portavoce delle esistenze di uomini e donne comuni, personaggi ordinari eppure universali, confessano al santo i propri tormenti, le sofferenze, ma anche i peccati e le abiezioni, che non assolve, non giudica, può solo ascoltare le storie che gli vengono affidate e restituirne ogni singolo dettaglio.

 

L’autore:

Giovanni Bitetto (Terlizzi, 1992) vive e lavora a Milano. Ha scritto di letteratura e società per varie testate online. E' editor della rivista culturale Nea Magazine. Ha esordito nel 2019 con “Scavare” (Italosvevo) che gli è valso il Premio POP della Fondazione Mondadori. “Sacro niente” è il suo secondo romanzo.

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- Società

Bla, bla, bla ...la sfilata dei leccaculi.

Bla…Bla…Bla… la sfilata dei leccaculi.

Se non mi si chiede che cos’è una perdita di tempo, lo so ma se mi si chiede, allora risponderei: non lo so. Eppure lo so bene, eccome se lo so! L’aver assistito in questi ultimi giorni in TV alla sfilata dei ‘leccaculi’ blasonati e non che si sono sperticati in aneddoti vari, in lacrimevoli elogi falsi e ipocriti, o viceversa a invettive odiose e biasimati atteggiamenti di chi non ce l’ha fatta, è alquanto disgustoso; almeno quanto lo è una nazione (non tutta per fortuna) che s’inchina dimentica di aver subito torti irriprovevoli negli ultimi trent’anni, allorché stendeva tappeti al passaggio vellutato dei suoi calzari, neppure dovesse camminare a dieci centimetri da terra o a dieci metri dal cielo. Non c’è che dire quando si vuole a tutti i costi renderci ridicoli sappiamo farlo ‘alla grande’, allora allestiamo matrimoni e funerali allo stesso modo di un talk-show televisivo, a una serata da David di Donatello, quasi si stesse appuntando una nuova stella nel firmamento, quando la si doveva gettare in un buco nero senza fondo e dimenticarsene per sempre. Invece no, erano tutti lì i ‘leccaculi’ con i fazzoletti in mano ad asciugarsi lacrime di coccodrillo da un occhio, mentre dall’altro guardavano già all’eredità sostanziosa a quanto pare, in termini non solo di denari ma ed anche ad accaparrarsi una fetta di adepti malfamati e di per sé già screditati, solo per il fatto di essere saliti, a suo tempo, sul carro del vincitore. E solo perché loro, piccoli piccoli, anzi reietti, non sarebbero stati capaci d’altro che di leccargli il culo. Lo so bene, anche il piagnisteo fa parte della nostra cultura italiana come di nessun altro paese, noi non sappiamo stare zitti neppure di fronte alla morte, perché ci diciamo ‘umani’ e allora ogni cosa a suo tempo, ma ieri sera i ristoranti erano zeppi e qualcuno ne sono certo (io c’ero) ha anche brindato a champagne, ma era solo qualcuno che non aveva niente da perdere e come va di moda dire: “io non sono ricattabile”. Invece no tutti abbiamo almeno uno scheletro nell’armadio o più d’uno. Presto usciranno fuori e allora quell’inferno di cui stanno già lustrando le porte li accoglierà uno per uno, ognuno per i danni che hanno commesso, e/o per le falsità che hanno disseminato, raggiungeranno il ‘girone’ che si sono arredati pensando di poterla fare franca. Del resto bastava guardarli in faccia quando in TV confezionavano i loro sermoni in difesa ora delle scelte volgari, ora di biasimevoli editti, con l’arroganza di chi si mostrava despota assoluto per mezzo del denaro che spargeva, a destra e a manca a quanti, (una masnada di miserabili nullafacenti), che si vendeva per ‘40 denari’, sempre quelli dall’epoca di Cristo, che malgrado abbiano cambiato divisa (dalla lira all’euro) sono ancora in circolazione e che oggi si scannano per accaparrarsene ancora. Ma come dice il saggio: ‘sono maledetti’ perché servono ad acquistare la tua dignità e la tua libertà.

Meditate gente, meditate.

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- Società

Bla, bla, bla ...

BLA,BLA,BLA … all'Osteria del Tempo Perso

 

Quest'oggi facciamo tappa all’Osteria del Tempo Perso, quand’anche le idee fossero buone (giammai ottimali), purtroppo non risultano suffragate da conoscenza storica specifica, tantomeno da un avanzamento culturale che l’operare all’interno di un Parlamento siffatto dovrebbe (il condizionale è di rigore) ormai aver appreso dalle esperienze maturate nei decenni nelle file di un’opposizione agguerrita. Sicché si è di fronte a una rimarchevole rivendicazione di un passato (vergognoso) giammai riconosciuto che oggi si vuole riportare in auge con tutti i crismi che lo hanno visto sbandierare vessilli e scudetti dei tempi che furono, nelle piazze di quell’Italia che già allora di politico non aveva niente, se non di usurpazione del potere costituito, di prepotenza squadrista, di malversazione verso un popolo che inerme era tenuto all’oscuro delle trame organizzate da quei poteri occulti che si destreggiavano maldestri attraverso il paese, le contrade delle città, i piccoli agglomerati contadini, le minuscole realtà campagnole analfabete, oscurate dall’ignoranza e dalle superstizioni. Davvero non mi sembra il caso di rivendicare oggi una realtà siffatta, semmai di riscattare gli orrori di un passato di cui (a parer mio) dovremmo solo vergognarci tutti, senza esclusioni preferenziali e/o nepotismi di sorta, abbiamo tutti i nostri scheletri negli armadi, mentre affiorano ancora dalle cassepanche le poche cose depredate (leggi rastrellate) alla povera gente che pur nella sua ignoranza pensava di operare a fin di bene: per Cristo, per la Patria, per l’Onore, per il riscatto di una Nazione che sembrava gli fosse dovuta per nascita ma che è storicamente provato non è mai stata. Oggi sappiamo che non risponde affatto al vero quello che si racconta nei libri di storia che si studiano a scuola, la povera gente ha sempre lottato per la sopravvivenza, contro la fame, le epidemie, le carestie; contro la perdita della libertà, gli orrori delle guerre che ancora oggi si combattono nel mondo, mettendo a repentaglio la sopravvivenza di intere popolazioni e ché, non in ultimo, deturpano in modo irreversibile quell’ecosistema che dovrebbe essere salvaguardato. Allora sarebbe opportuno si parlasse di come affrontare questi e altri problemi con buona pace di quanti si alternano nella conduzione dei governi, degli stati e delle superpotenze economiche. Non vi sarà ‘denaro’ a sufficienza che possa ripagare un lungo periodo di siccità, né fermare gli uragani che devastano intere zone dell’emisfero; tantomeno supplire alle innumerevoli morti degli umani e/o l’estinzione degli animali che pure contribuiscono a rinvigorire la natura che ci sostiene. In quanto “animali razionali dipendenti” che svolgono un ruolo ambivalente, la nostra lo sappiamo, per quanto inevitabile sia, è comunque una scomoda presenza; abbiamo bisogno della centralità d’intenti, di sostenerci l’un l’altro, una comunità con l’altra, onde assicurare una buona vita per tutti, senza differenziazione alcuna di colore di pelle, di mescolanza di sangue e senza esclusioni di sorta, di genere, di ‘etnie’ paradossalmente diverse, di negazionismi che offendono l’intelligenza di quanti hanno fatto dell’istruzione un’eccellenza di sviluppo per se stessi e per la crescita comunitaria. Del resto l’incremento economico sostenuto dalla politica in modo così irriguardoso non può portare ad alcun avanzamento della società se non quello di affrancare l’avidità imperante di quanti si arricchiscono a spese degli altri, quei lavoratori subalterni che, vuoi per necessità (famiglia, genitori a carico, pensioni ridotte all’osso ecc.), che per incapacità oggettiva di temperamento o di impossibilità di sostentamento, non possono essere collaborativi e/o sopravvivono con il sostentamento degli altri. Indubbiamente ci si può chiedere: fino a quando? Se è vero che siamo sull’orlo di una catastrofe ecologica quanto umanitaria, che pure sembra insormontabile, dovremmo andare a rileggere (riscrivere) la storia delle migrazioni succedutesi a causa di carestie, di guerre e quant’altro per comprendere quali necessità sono incorse nei tempi andati, e chiederci come, malgrado tutto, l’umanità sia giunta fino alle soglie del nostro millennio, tuttavia senza scomparire dalla faccia della terra. Suggerisco anziché fare le pulci su quanti oggi siedono nel Parlamento insultandosi e maledicendo di essere lì, invece di zappare la terra, di tornare a guardarsi allo specchio, perché s’accorgerebbero che, come dice un vecchio detto romano “anche il più pulito ha la rogna”. E comunque qualche rogna la si sta creando davanti all’opinione pubblica e soprattutto all’estero con le continue chiacchiere da portierato che sempre più spesso finiscono in zuffe fra condomini di uno ‘stabile’ (Parlamento e Ministeri derivati), che non arrivano a fare 2+2, e per i quali la matematica sembra essere un’opinione da contraddire. Come del resto ci ha abituato il web con le innumerevoli ‘fake news’ che mette in rete e che tutti noi ‘ciechi’ seguiamo senza porci domande. Se però avete bisogno di ulteriori 'slogan' che vi facciano sentire meglio, o per darvi una ragione in più per affrontare questa ‘anarchia galoppante’ e/o ponderare il senso della vostra esistenza, eccovi serviti: "Si dice che al mondo ci sia tanta religione per far sì che gli uomini si odino, ma non abbastanza perché gli uomini si amino" - dal film “Angel Heart”: "Quando il mondo ti volta le spalle non devi far altro che voltargli le spalle anche tu" - da “Il Re Leone”

 

Meditate gente, meditate.

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- Poesia

In ricordo di Sergio Endrigo e la sua ’Favola dell’uomo’

SERGIO ENDRIGO: 'LA FAVOLA DELL’UOMO'

Nel momento in cui la scena musicale italiana si arricchisce di nuove voci e volti, mentre altre e altri si accomiatano da noi, mi piace ricordarne alcune in particolare che pure ci hanno regalato momenti intensi che possiamo rivivere nell’ascolto delle loro canzoni, riassaporare quel tanto di generoso che c’era nelle loro parole, negli arrangiamenti e nelle musiche scritte appositamente per accompagnare quei sentimenti che talvolta riuscivano a smuovere in noi e a dare forma alla ‘colonna sonora’ dei nostri sogni. Ché, appropriarsi di un motivo, di fare nostre certe frasi d’amore, o ricalcare certe emozioni che noi stessi, ancor giovani, avevamo provate, è sempre stato uno sport molto in voga. Chi altro ci avrebbe suggerito certe frasi ‘spicciole ma ficcanti’ che poi avremmo utilizzate nel linguaggio quotidiano, in situazioni a dir poco, emotive e sentimentali.
Quante delle sue canzoni a riascoltarle ancora oggi ci smuovono dentro quei ricordi che giacciono in fondo, o magari in cima, alla nostra anima sensibile e catturano la nostra attenzione, quante? E che il solo riascoltarne le frasi d’avvio riaffiorano alla nostra mente come se le avessimo scritte e cantate noi stessi, ieri, oggi, sempre, e che fanno ormai parte della nostra storia personale, come di quel film che almeno una volta, ci siamo fatti con la regia del nostro cuore, quante? Non sono poi quelle che hanno segnato ‘i migliori anni della nostra vita’: dal titolo omonimo proprio di un vecchio film di William Wyler degli anni ’40 e oggi di una canzone portata al successo da Renato Zero, nonché di una famosa trasmissione televisiva condotta da Carlo Conti, quante?
Tra le tante voci che ritornano quella di Sergio Endrigo e le canzoni che ci ha lasciate: “Adesso si”, “Se le cose stanno così”, “Lontano dagli occhi”, “Io che amo solo te”, “Canzone per te”, “Era d’estate”, “Gli uomini soli”, “Marinai”, “Il dolce Paese” ecc. ecc. sono quelle che più ci sono rimaste dentro.
Di lui sappiamo che è nato a Pola il 15 Giugno del 19…; ma che importanza può avere l’età, i poeti non hanno età, specialmente quando le loro canzoni sopravvivono ad essi e continuano a regalarci ancora tante emozioni. Dopo diverse attività giovanili ha intrapreso la carriera di cantante al Lido di Venezia: “…era un bar all’aperto (è lo stesso Endrigo a raccontarlo durante una ripresa televisiva), dove un quartetto suonava canzoni italiane per i turisti durante l’estate. Terminata la bella stagione, continuai a cantare in una sala da ballo di Mestre per tutto l’inverno. Mi esibivo il giovedì, il sabato e la domenica. Di orchestra in orchestra e di città in città sono riuscito a sbarcare il lunario per ben sette anni. Alla fine mi sentivo così stanco di cantare per ore e ore di filato con l’unica soddisfazione di ritirare la paga. Così decisi di tentare la strada discografica, ma non fu facile trovare compositori disposti a puntare una lira sulla mia voce, e così decisi di scrivere le canzoni da me”.
Una storia semplice la sua, quella di un ragazzo determinato a mettersi in gioco, a cavarsela da solo ed esternare le proprie capacità facendone partecipi gli altri, tutti quei ‘noi’ che alla fine abbiamo cantato e ancora cantiamo le sue canzoni. Divenuto un cantante affermato Endrigo si trovò a raccogliere i frutti di un successo pacato, confidenziale, dalle tante esperienze vissute che man mano si facevano più mature, quasi le sue canzoni volessero sottolineare una sua (e anche nostra), più intensa partecipazione alla vita. Ne ho scelta una che forse pochi ricordano: “Altre emozioni”, di Endrigo / Incenzo - Ed Verba Manent / Noah’s Ark

E siamo arrivati fin qui / Un po’ stanchi e affamati di poesia / Le mani piene di amore / Che non vuole andare via / Abbiamo vissuto e fatto figli / Piantato alberi e bandiere / Cantato mille e più canzoni / Forse belle forse inutili / Altre emozioni verranno / Te lo prometto amica mia / E siamo arrivati fin qui / A cantare per chi vuol sentire / Abbiamo vissuto all’ombra / Di troppe false promesse / Oggi è tempo di pensare / Oggi è tempo di cambiare / E ancora cerchiamo e camminiamo / Sognando negli occhi / Di donne e uomini /…/ Abbiamo attraversato i deserti dell’anima / I mari grigi e calmi della solitudine / Abbiamo scommesso sul futuro / Abbiamo vinto e perso con filosofia /…/ E sono arrivato fin qui / Con questa faccia da naufrago salvato / E questo svelto andare / Da zingaro felice / Valige piene di speranza / Amici perduti e ritrovati / Qualche rimorso e pentimento / Senza rimpianti e nostalgia /…/ Abbiamo attraversato i deserti dell’anima / I mari grigi e calmi della solitudine / Abbiamo scommesso sul futuro / Abbiamo vinto e perso con filosofia /…/ Altre primavere verranno / Non di sole foglie e fiori / Ma una stagione fresca / Di pensieri nuovi / Altre emozioni verranno / Te lo prometto amica mia.

È così che ‘un po’ stanchi e affamati di poesia’ com’eravamo in quegli anni abbiamo apprezzato i suoi testi che, prima ancora di ricalcare un qualche genere di tipo ‘ballata’ aprivano al confidenziale, in cui Endrigo andava raccogliendo i ricordi dismessi, il profumo dei giorni dell’amore, e li trasferiva in versi, nel realizzarsi di una sua visione del mondo, accettandone la buona e la cattiva e pur sempre umana sorte. E che lui stesso dedicava a una sua donna 'ideale' o forse amata, e gli apriva il suo cuore, come a quella: “Marianne che cos’è questa gran voglia che hai di correre.. non ti fermi mai.. se per sognare vendi i tuoi sogni, forse è disperata la tua gioventù (?)” . È così che Endrigo compone, scrive, canta, ponendo in essere un aspetto del ‘sociale’ poco affrontato fino allora, se non dalla canzone di tradizione e da quella cosiddetta di 'protesta' che s'andava trasmettendo in quei giorni ahimè lontani…

“Dove credi di andare” – Ed. Fonit Cetra Music Publishing S.r.l.

Dove credi di andare / Se tutti i tuoi pensieri / Restano qui / Come pensi di amare / Se ormai non trovi d’amare / Dentro di te / Con tante navi che partono / Nessuna ti porterà / Lontano da te / Il mondo sai non ti aiuterà / ognuno al mondo è solo / Come te e me / Dove credi di andare / Se il tempo che è passato / Non passerà mai / Povere le tue notti / Se tu le spenderai / Per dimenticare / Il mondo non è più grande / Di questa città / La gente si annoia ogni sera / Come da noi / Dove credi di andare / Se ormai non c’è più amore / Dentro di te / Con tante navi che partono / Nessuna ti porterà / Lontano da te / Il mondo sai non ti aiuterà, / Ognuno al mondo è solo / Come te e me / Dove credi di andare / Se il tempo che è passato / Non passerà mai / Povere le tue notti / Se tu le spenderai / Per dimenticare.

Endrigo è stato più volte appellato ‘intellettuale’ per quel distacco che dimostrava nell’interpretare le sue canzoni e per quella sua voce stentata, a volte stereotipa che esprimeva in pieno la sua personalità di uomo e di cantautore impegnato in canzoni che non vengono mai riproposte, chissà perché, e che sarebbero di grande attualità, come ad esempio “La guerra”, “Perché non dormi fratello”, “Canzone per la libertà” ecc. ecc. Problematiche queste che egli ha saputo misurare, prendendo l’amore come metro di tutte le cose. Ma anche colui che ha vissuto personalmente le proprie canzoni, riscattandole, una dopo l’altra, nel momento creativo in cui trovava la sua ispirazione, e che dedicava al nome di una donna (di ogni suo amore segreto): “Maddalena”, “Annamaria”, “Teresa”, “Elisa” e le tantissime altre che ci ha raccontate come solo un nostalgico avrebbe potuto fare. Si potrebbe parlare di Endrigo come colui che ha dichiarato al mondo il suo amore ‘per le piccole cose’ che all’improvviso, diventavano ‘grandi’, di una grandezza ricolma di nobili sentimenti di grandi sentimenti, come questa…

“Lontano dagli occhi” – di Endrigo/Bardotti/Bacalov – Ed. Fonit Cetra Music.

Che cos’è? / C’è nell’aria qualcosa di freddo / Che inverno non è / Che cos’è/ Questa sera i bambini per strada / Non giocano più / Non so perché / L’allegria degli amici di sempre / Non mi diverte più / Uno mi ha detto che…
Lontano dagli occhi lontano dal cuore / E tu sei lontana, lontana da me / Per uno che torna e ti porta una rosa / Mille si sono scordati di te / Lontano dagli occhi lontano dal cuore / E tu sei lontana, lontana da me…
Ora so / Che cos’è questo amaro sapore / Che resta di te / Quando tu / Sei lontana e non so dove sei / Cosa fai dove vai / E so perché / Non so più immaginare il sorriso / Che c’è negli occhi tuoi / Quando non sei con me /
Lontano dagli occhi…

Oppure di un Endrigo trovatore che riafferma la validità del nostro folklore: “Il treno che viene dal Sud’, “La ballata dell’ex”, “Vecchia Balera”, “Via Broletto”, “San Firmino” ecc. ecc. ma il discorso infine andrebbe necessariamente a cadere sulla linea tradizionale dell’uomo politicamente impegnato, per poi divagare in concessioni a volte popolari (oggi diremmo populiste); altre fin troppo di parte e comunque poetiche, come ad esempio “La Colomba” da una poesia di Rafael Alberti, e “Anch’io ti ricorderò” dedicata a Ché Guevara, e quella “Camminando e Cantando” adattata da un testo del brasiliano Gerardo Vandré che fece il giro del mondo. Non in ultima quel “L’Arca di Noè” rimasta nell’intercalare di tutti e che gli fruttò il riconoscimento della critica italiana per il miglior testo letterario, oltre alla soddisfazione di vedersi assegnato il disco d’oro per aver venduto un milione di copie nel breve giro di alcune settimane. La ricordate senz’altro anche voi …”Partirà, la nave partirà / dove arriverà / questo non si sa”.
Il successivo impegno di Endrigo presenta una diversa silloge di ‘temi’ che egli raccolse nell’album “La voce dell’uomo”, in cui si proponeva e proponeva ai suoi numerosi fan molte domande: “…il primo amore cos’è? Il matrimonio che cos’è? La religione che cos’è? La solitudine cos’è? Che cos’è la libertà se non si gode in gioventù? A volte è tutta una vita la gioventù. Che cos’è la verità? C’è sempre stato qualcuno nella mia vita che ha voluto impormi la sua volontà, che cos’è allora, la libertà?”.
A tutte queste domande Endrigo ha sempre dato una risposta poetica: “…dove l’uomo non arriva giungono le parole … pensa, pensa, ragazzi e ragazze che tornano dal mare a raccontare che è finita la paura e partono domani per raccontare al mondo la pura verità”; e sono forse quei ragazzi marinai e quelle ragazze pulite, che abbiamo imparato a vedere nel dare una mano durante e dopo le catastrofi che ha subito il nostro paese. Quei ragazzi e ragazze che si danno una mano per fare quel ‘girotondo intorno al mondo’ che Endrigo auspicava in pace e fraternità.
Un Endrigo dall’utopia facile, direste, ma è forse utopia guardare a un orizzonte più sereno dove i popoli si scambiano doni e i giovani si sorridono e si abbracciano felici? È utopia guardare sorgere l’alba o assistere al tramonto del sole con trasporto e gli occhi commossi; oppure assistere al miracolo della nascita di un figlio, o guardare alla trovata pace alla fine di una vita? Tutto questo ci suggerisce “La favola dell’uomo”, dall'album omonimo, composta da Sergio Endrigo, quel suo essere poeta che ha visto, ha ascoltato, ha scritto…

Di uomini soli che non sanno il perché … e donne sole che sognano storie d’amore, ma l’amore dov’è? … giovani soli e ragazze già vecchie chiuse in cucina a inventare minestre ... e vecchi aspettare la morte senza parlare ... per tutti c’è un solo Dio … ma è solo anche Dio”. Colui che nella solitudine creativa dei suoi ultimi anni ha ascoltato 'la voce dell’uomo' anche quando era violenta e uccideva il fratello; 'la voce dell’uomo' più forte del vento della vita e del tempo; 'la voce dell’uomo' che quando chiama, gli rispondo.

Successivamente Endrigo trova una personale autodeterminazione che lo riconduce al mare, a quella ‘isola nella corrente’ che è dentro ogni sua espressione artistica, ragione per cui non è stato sempre facile classificarlo, anche se oggi ci chiediamo perché di questa necessità che già allora non aveva senso. Mentre rilevante importanza assumono altre sue produzioni artistiche realizzate con Giuseppe Ungaretti, Vinicius De Moraes in cui sono raccolte sue poesie e canzoni: “La vita amico è l’arte dell’incontro”, “La casa”, e “L’Arca” in cui sono raccolte alcune canzoni-fiaba di Vinicius indirizzate ai bambini, ma che non dispiacciono neanche agli adulti.
È passato un po’ di tempo ma forse vale la pena ascoltare ancora una volta le sue parole con le quali ci parla ancora di sé: “Parlando di me, mi piace la calma, la buona tavola, i buoni amici, i buoni libri, i francobolli, le armi antiche, la natura, gli animali, la pesca subacquea, i luoghi poco affollati; non mi piacciono i dritti, i disonesti, i dilettanti presuntuosi, i seccatori, gli invadenti, le salse agrodolci…”; e lo dice con quella sua voce da narratore convincente che va raccontando le favole di sempre ai tanti bambini che ormai non gli prestano più ascolto, come facciamo noi ormai divenuti grandi, non poniamo più orecchio del resto, a quelle verità intrinseche che un giorno, a un poeta, hanno permesso di scrivere quel ‘La favola dell’uomo” che è divenuta un po' anche nostra…

“La voce dell'uomo”, di Endrigo / Jubal / Noah's.

Ho sentito la voce del mare / di uccelli e sirene / le voci del bosco del fiume e tamburi / e chitarre di Spagna le orchestre profane / e l'organo in chiesa ho sentito / la voce dell'uomo / anche quando è bugiardo / e tradisce il fratello / la voce dell'uomo / quando parla gli rispondo. / Ho sentito l'urlo di belve / in gabbia e in catene / il passero in cerca di pane il silenzio / della prigione il grido degli ospedali / che nasce e chi muore ho sentito / la voce dell'uomo / che canta per fame / per rabbia ed amore / la voce dell'uomo / quando canta io l'ascolto. / Ho sentito fanfare di guerra / e passi in cadenza / per le strade imbandierate le canzoni / dei soldati di trionfo o di dolore / chi vince e chi perde / ho sentito / la voce dell'uomo / anche quando è violenta / e uccide il fratello / la voce dell'uomo / quando parlo mi risponde / è più forte della tortura e dell'ingiustizia / delle fabbriche dei tribunali è più forte / del mare e del tuono più forte del terrore / più forte del male più forte / la voce dell'uomo / più forte del vento / della vita e del tempo / la voce dell'uomo / quando chiama gli rispondo.

La sua è stata una breve stagione, anche se negli anni, negli incontri e negli amori ha certamente incontrato validi colleghi tra compositori e orchestratori e cantanti che lo hanno supportato nel suo 'andare per mari sconosciuti' in cerca dell' 'isola in mezzo alla corrente' che egli stesso negli ultimi anni si era isolato. Lo ricordiamo soprattutto al suo debuttò al Festival di Sanremo nel 1966 con “Adesso sì” e che in quello stesso anno fu cantata anche da un esordiente e sconosciuto Lucio Battisti in una raccolta sanremese della Dischi Ricordi, divenendo la sua primissima incisione discografica. Sempre nel 1966 uscì il suo terzo LP “Endrigo” e comprendeva, inoltre a “Girotondo intorno al mondo”, “Teresa”, “Dimmi la verità”, “Mani bucate”, “La donna del Sud” di Bruno Lauzi, e “La ballata dell'ex”, in cui tratta la guerra partigiana e la fine della speranza che aveva alimentato la lotta alla guerra e quella degli anni '50. Nel 1967 fu ancora a Sanremo con “Dove credi di andare”, abbinato con Memo Remigi. L'anno seguente ottenne la vittoria con “Canzone per te” in coppia con Roberto Carlos e, successivamente partecipò all'Eurovision Song Contest con la canzone “Marianne”.
Nello stesso periodo usciva il nuovo LP, sempre intitolato “Endrigo”, che comprendeva, oltre alla vincitrice di Sanremo, classici come “La colomba”, “Il primo bicchiere di vino”, “Dove credi di andare”, “Anch'io ti ricorderò”, “Perché non dormi fratello”, “Il dolce paese”, “Il treno che viene dal Sud”. Nel 1969 Endrigo arrivò secondo a Sanremo, cantando in coppia con la gallese Mary Hopkins ma la sua “Lontano dagli occhi” ebbe un successo stratosferico. L'anno successivo si classificò terzo con “L'arca di Noè” cantata anche da Iva Zanicchi.
Un minore riscontro ebbe la sua sesta partecipazione consecutiva al Festival. Nel 1971 si posizionò undicesimo con “Una storia”, abbinato con i New Trolls che ne diedero una versione in stile rock-progressivo. Endrigo tornò più volte a calcare il palcoscenico sanremese, nel 1973 con “Elisa Elisa”, nel 1976 con “Quando c'era il mare” e l'ultima volta nel 1986, con “Canzone italiana” che, diversamente da tutte le altre con le quali aveva gareggiato in passato, non era scritta da lui ma da Claudio Mattone.
Questa è dunque “La favola dell’uomo” che Endrigo ci ha lasciato in eredità e di cui dovremmo fare tesoro. Le sue canzoni vengono ancora oggi interpretate da molti giovani cantanti che oltre a riscoprire la validità di certi suoi testi, ce li ripropongono in nuove versioni che nulla tolgono alla 'poesia' di cui sono impregnate le sue parole. Ci resta la sua grande attualità, e il suo essere poeta nel modo in cui ‘le parole’ avevano ancora un senso. Grazie Sergio!

L'intervista qui in parte riprodotta fu rilasciata personalmente all’autore di questo articolo precedentemente pubblicato nella rivista "Super Sound" nel lontano (?), mi scuso ma l’anno non lo ricordo.

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- Libri

Perché l’intelligenza umana batta ancora gli algoritmi (?)

Gerd Gigerenzer
Perché l’intelligenza umana batta ancora gli algoritmi.
Raffaello Cortina Editore 2023

In ogni cultura, abbiamo bisogno di parlare del mondo futuro in cui noi e i nostri figli desideriamo vivere. Non vi sarà mai una sola risposta. C’è però un messaggio generale che si applica a tutte le prospettive: nonostante o a causa dell’innovazione tecnologica, abbiamo bisogno di usare più che mai i nostri cervelli. Iniziamo con un problema che ci sta a cuore, trovare il vero amore, e con algoritmi segreti talmente semplici che chiunque può comprenderli.

“Il problema non è l’ascesa delle macchine “intelligenti”, ma l’istupidimento dell’umanità”. (Astra Taylor)

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- Cinema

Al Cinema con Cineuropa News

In collaborazione con Cineuropa News

Recensione: "La quattordicesima domenica del tempo ordinario"
articolo di Vittoria Scarpa

04/05/2023 - Pupi Avati torna nel terreno della nostalgia con il suo nuovo film, che dichiara essere il suo più sincero e autobiografico, su un amore assoluto e i sogni che svaniscono.

Gabriele Lavia e Edwige Fenech in La quattordicesima domenica del tempo ordinario
Il tempo ordinario, nel calendario liturgico della Chiesa cattolica, è il periodo che intercorre tra la Quaresima e l’Avvento, abbraccia la primavera e l’estate, ed è la stagione in cui solitamente ci si sposa. Suona criptico il titolo del nuovo lungometraggio di Pupi Avati, da oggi in circa 300 sale italiane distribuito da Vision Distribution, ma in realtà basta fare due conti: La quattordicesima domenica del tempo ordinario – lo ha spiegato lui stesso alla presentazione del film a Roma – indica il 24 gennaio del 1964, giorno il cui il veterano cineasta bolognese (oggi 84 anni e più di 40 film per il cinema al suo attivo) sposò “la più bella ragazza di Bologna”, dopo averla rincorsa per quattro anni. Ed è proprio attorno a un amore assoluto, prima idilliaco e poi sofferto, e ai sogni che svaniscono, che ruota l’ultima fatica dell’instancabile regista, che avevamo lasciato nemmeno un anno fa alle prese con Dante, e che qui torna nel terreno che gli è più congeniale: quello della nostalgia.
Il film si apre con un’immagine poetica, in bianco e nero, di un vecchio chiosco di gelati attorniato da bambini sorridenti, ciascuno col suo cono in mano. È la Bologna del secolo scorso, ed è in quello stesso chiosco – “dove le cose che sognavi, accadevano” – che Marzio conoscerà Sandra, versandole un frappè addosso. La storia si svolge tra gli anni ’70 e i giorni nostri, prima quando i giovani Marzio e Sandra si amano e coltivano i loro sogni – lui quello della musica, insieme al suo migliore amico Samuele, e lei quello della moda, come indossatrice – e poi quando, dopo molti anni, si rincontrano a un funerale e tracciano un bilancio dei loro fallimenti.
Avati e suo fratello Antonio, produttore, giocano ancora una volta con il cast e compongono per questo film un ensemble che definiscono “un mix rischioso ed eccitante”, accostando professionisti, vecchie glorie, volti che non ti aspetti ed esordi: il cantante della band Lo Stato Sociale Lodo Guenzi (già visto in Est - Dittatura Last Minute) e l’attore di teatro classico Gabriele Lavia incarnano Marzio, rispettivamente da giovane e da vecchio; la debuttante Camilla Ciraolo e la reginetta delle commedie sexy degli anni ’70-80 Edwige Fenech sono Sandra, ieri e oggi; l’amico Samuele, che chiude il triangolo, ha i tratti del giovane Nick Russo e del più attempato Massimo Lopez, noto attore comico qui in un’inedita veste drammatica.
“Le cose belle son volate via”, ripete la canzone-cavallo di battaglia che i giovani Marzio e Samuele, che formano il duo I Leggenda, sognano di portare al Festival di Sanremo, prima che il più concreto Samuele molli tutto e accetti un posto fisso in banca, mentre Marzio continuerà caparbio a inseguire l’illusione della musica, diventando un rocker agée, malinconico e fallito che si riduce a sponsorizzare prodotti vari pur di ottenere una comparsata in tv con la sua chitarra.
Tra gioie e dolori, rammarico e felicità, su un sostrato di profonda amarezza e con picchi di voluto patetismo, questo è il film che Avati dichiara essere il suo più sincero e autobiografico. “Siamo tutti falliti rispetto ai nostri sogni”, afferma il regista che da giovane tentò una carriera come clarinettista jazz. Quanto all’amore, uno crede che sia una garanzia di felicità eterna, e invece “la vita prima o poi ti risveglia”.
La quattordicesima domenica del tempo ordinario è prodotto da Duea Film e Minerva Pictures, con Vision Distribution e in collaborazione con Sky.


Otto giurati si uniscono al presidente Ruben Östlund a Cannes
di Fabien Lemercier

04/05/2023 - La giuria che assegnerà la Palma d’Oro include Brie Larson, Julia Ducournau, Maryam Touzani, Rungano Nyoni, Paul Dano, Denis Ménochet, Atiq Rahimi e Damián Szifrón
La regista Julia Ducournau (© Stephane Cardinale – Corbis/Getty Images), il regista Damián Szifrón (© Gabriel Machado), la regista Rungano Nyoni (© Gabriel Gauchet), l'attore-regista Paul Dano (© Jay L. Clendenin/Getty Images), il regista Ruben Östlund (© Julien Lienard/Getty Images), l'attore Denis Ménochet (© Sabine Villiard), l'attrice-regista Brie Larson (© Randy Holmes/Getty Images), il regista Atiq Rahimi (© Frédéric Stucin) e la regista Maryam Touzani (© Lorenzo Salemi) (© Festival de Cannes)

Questo articolo è disponibile in inglese.
The members of the official competition jury at the 76th Cannes Film Festival (16-27 May), chaired by Swedish filmmaker Ruben Östlund (see the news), have now all been unmasked. The jury will comprise a total of nine members.
There are four women involved, with US actress-director Brie Larson (winner of the Oscar for Best Actress in 2016 for Room), French filmmaker Julia Ducournau (Palme d’Or in 2021 with Titane), her Moroccan counterpart Maryam Touzani (in the Un Certain Regard showcase in 2019 and 2022 with Adam and The Blue Caftan) and British-Zambian helmer Rungano Nyoni (who rose to fame in the Directors’ Fortnight in 2017 with I Am Not a Witch).
Also being summoned to judge the 21 films in the running for the 2023 Palme d’Or (see the news) are US actor Paul Dano (seen last year in The Batman and The Fabelmans), his French counterpart Denis Ménochet (very popular recently in The Beasts), Argentinian director Damián Szifrón (Wild Tales and currently on the cinema listings in France with To Catch a Killer), and Afghan author and filmmaker Atiq Rahimi (who won an award in Un Certain Regard in 2004 with Earth and Ashes, and who took part in Toronto with The Patience Stone and Our Lady of the Nile).
As a reminder, the Un Certain Regard jury will be chaired by John C Reilly (see the news), and the one weighing up the short films and the Cinef selection will be presided over by Ildikó Enyedi (see the news). As for the Caméra d’or jury (handed to the best feature debut in any of the selections), it will be chaired by French thesp Anaïs Demoustier, who will be backed up by actor Raphaël Personnaz, DoP Nathalie Durand, writer-director Mikael Buch, Sophie Frilley (TitraFilm) and journalist Nicolas Marcadé.


Intervista a Soňa G. Lutherová • Regista di A Happy Man

"Quando fai un film come questo, hai una responsabilità"
di Marta Bałaga.

04/05/2023 - La regista slovacca racconta la storia di una famiglia che affronta un cambiamento, insieme.

Questo articolo è disponibile in inglese.
After coming out as trans, Marvin finally seems like A Happy Man. With his husband, Ivan, they decide to stay together and continue raising their kids. But things are bound to be different, even despite their bond. Director Soňa G Lutherová unpacks her Hot Docs-screened documentary.
Cineuropa: Marvin is transitioning, but your film is also about a couple – about two people trying to love each other despite a massive, life-altering change.
Soňa G Lutherová: You know what? That’s exactly what interested me. We have known each other for quite some time; we met in 2008 at the airport, by complete chance. I was going to Stockholm with my now-husband, and they were moving to Sweden. This perfectly average, normal-looking couple. We became friends and started to have kids. Marvin came out in 2017, which at first was quite surprising to me, a cis-gender person living in a heteronormative relationship. At the same time, I realized we are all constantly changing. I am different as a mother, as a filmmaker and as an anthropologist. This is something we can all relate to, I guess.
It feels like, apart from Marvin, no one – including his husband – feels too comfortable discussing it. Was it hard to convince people around him to do that?
It was a challenge for Marvin, too. This story started with his transition, so of course, I asked him first, but Ivan had to be on board as well. And he was, from the very beginning. He is a very particular guy, but I think he actually enjoyed it! For Marvin, it was a chance to take control of his story. When you are transitioning, you become dependent on others: there are so many gatekeepers deciding what will happen to you and your body. There were no boundaries, basically, although we often talked about the message of this film. He knew what my perspective was on things and that we wouldn’t be confronting his kids.
Stories about transition can be full of pain. But this film is so warm!
It’s true – they aren’t so rare any more, but they can be quite tragic. It’s a difficult situation, but I think it’s necessary to show the audience that trans people are just like anyone else: they have to take care of their children, they have their own struggles and their routines. When we started, Marvin already knew he wanted to transition; there weren’t any doubts. This decision wasn’t made lightly, but it was necessary. I wanted to underline that.
There is something very practical about this couple’s approach and their hopes for the future. They know it might not work out in the end.
Whenever I asked them an intimate question, like when I asked Marvin about their sex life, I kept it in the film. He is reacting to something I said and not just talking about these things on his own. Trans characters are often sexualized, and everything else is just pushed to one side. But it can be so reductive. Family, relationships – these things can be so much more complex, not to mention that everyone understands them. I hope this film will make the audience think about what it means to have a partner, to be a parent.
Why the decision to have Marvin record short videos on his own? Was it because you simply couldn’t enter some spaces?
It started right after the operation. I would never have shot the procedure itself – to me, it would have put too much emphasis on the body. But we went to Malmö together, and I walked him to the hospital, which you don’t see in the film. I did it as a friend, not as a filmmaker. Later, he sent me this video, on his own, and it made me very emotional. It’s so powerful in its spontaneity. Then he continued to do it, whenever he felt like sharing something. Like when he had to shave for the first time.
Did you always know when to step aside? It can be trickier when you actually know the person.
We talked about it a lot. As an anthropologist, I think a lot about how I position myself in the story. Am I crossing any boundaries? Whose voice are we listening to? Marvin and Ivan are pragmatic people. They see things very clearly. I think sometimes I was being more careful than they were! There is a responsibility that comes with making a film like this, about a topic that’s still controversial in Central Europe. Even more so today.
You don’t really show any nasty reactions to Marvin.
It was shot in Brno [Czech Republic], and they were a bit anxious, but in the end, it went well. I don’t know how it would have been in Slovakia. Maybe the same? When we started, the situation was different. Now, these discussions can get very heated. If someone is strictly against it, I don’t think I can change their mind. But maybe I can convince the ones in the middle? We wanted to depoliticize it: it’s a simple family story. A love story, even though we don’t know how it will end. Then again, it has already ended well, in a way, because of the respectful way they are facing it all together.


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- Alimentazione

Linkiesta Eccetera 3 - un numero dedicato al ’Viaggio’

Linkiesta Eccetera - Magazine N°3 – Primavera 2023

In questo numero de Linkiesta Eccetera dedicato al viaggio – inteso come esplorazione dell’altrove tra moda, design, arte, filosofia, metaverso e avventure interplanetarie – la prima destinazione è proprio la copertina.

Basta inquadrarla con il filtro Instagram collegato a Qr code per essere teletrasportati nel mondo animato dell’artista Okuyama Taiki, che conduce lo spettatore lungo le tappe di questo Rinascimento psichedelico di primavera.

Si parlerà del potere degli psichedelici, di design nomade, di Marocco come meta tra arte e artigianato e del tour mondiale della moda che sceglie di sfilare nei Paesi emergenti per esplorare nuovi mercati e nuove culture.

Linkiesta Eccetera si trova nelle migliori edicole di Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna, negli aeroporti, nelle stazioni e nelle librerie di tutta Italia, ma la si può acquistare direttamente qui sullo store de Linkiesta, senza costi di spedizione, e riceverla comodamente a casa.

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- Musica

Adam’s Passion di Arvo Part a Roma


Roma, Adam’s Passion, 01/04/2023
“Peccato originale” di Stefano Ceccarelli in collaborazione con L’ape Musicale -
Rivista di musica arti e cultura – www.apemusicale.it
06 Aprile 2023

Quinta opera in cartellone, “Adam’s Passion” di Arvo Pärt testimonia l’encomiabile impegno del Teatro dell’Opera di Roma nel presentare al pubblico musica contemporanea. In questo caso, anzi, l’edificio della Nuvola si presta ad ospitare la prima italiana dell’ultimo sforzo del compositore estone, opera che nasce come una collaborazione con il regista Robert Wilson. Frutto di una recente, spiccata sensibilità della direzione artistica del Costanzi verso il panorama operistico contemporaneo, la prima rappresentazione italiana di “Adam’s Passion” di Pärt si staglia come una delle novità più interessanti cui il pubblico romano abbia occasione di assistere. Concepita come un collage di pezzi quasi tutti nati per differenti contesti, la partitura di Adam’s Passion è una sorta di summa, innanzitutto spirituale, della musica di Pärt. L’opera narra della cacciata di Adamo dall’Eden, del suo tradimento verso Dio, e riflette l’adesione alla chiesa ortodossa del compositore, la cui conversione si situa nell’ormai lontano 1972. Da allora, Pärt ha cercato un linguaggio musicale nuovo ma, soprattutto, ispirato all’universo mistico della religione cristiana ortodossa. Non stupisce trovare, dunque, fra i testi della partitura, un Lamento di Adamo scritto da un carismatico monaco ortodosso, Silvano dell’Athos, nei primi anni del ‘900; anzi, la vicenda di Adamo va proprio letta sulla base delle parole di Silvano, che sono incentrate sul sentimento straziante della nostalgia per la perdita della grazia primigenia. L’universo visivo creato da Robert Wilson per Adam’s Passion è essenziale tanto quanto lo stile musicale di Pärt. Si distinguono nettamente due momenti: prima e dopo la ‘passione’ di Adamo. La parte più riuscita dello spettacolo, a mio avviso, è proprio la prima. In una dimensione di luce, tenue e diffusa, si muove il ballerino Michalis Theophanous, lento e ieratico. La completa nudità, sfumata da giochi di luce chiaroscurale, incarna la purezza dell’uomo primigenio appena creato da Dio; Pärt, per questa dimensione edenica sospesa, inventa Sequentia, l’unico brano appositamente composto per l’opera. Sequentia si basa su una linea melodica discendente del violino, puntato da lievi percussioni, in struttura canonica, ripetitiva. L’effetto complessivo è irresistibilmente ipnotico e si fa perdonare, forse, l’eccessiva dilatazione temporale della sequenza, che intende, con ogni probabilità, suggerire proprio il tempo sospeso (si notino anche i movimenti rallentati del ballerino) della vita di Adamo nell’Eden. Il secondo brano è un coro su parole di Silvano dell’Athos (Il lamento di Adamo), che accompagna il momento in cui Adamo compie il peccato: lo stile musicale è ancora profondamente influenzato dalla musica sacra antica, con un’asciutta e cantilenata interpretazione moderna. La scena si movimenta con la comparsa di una figura femminile, l’eterea Lucinda Childs, che potrebbe rappresentare Eva – i personaggi sono caratterizzati da una certa dose di ambiguità nei ruoli, certamente voluta da Wilson. Sulla scena viene calato un albero ribaltato, allusione chiara a quello della conoscenza del bene e del male al centro dell’Eden, così come descritto in Genesi. Le figure femminili diventano tre (con l’aggiunta della Kosmônina e della Marts): allusione forse anche alla componente divina ed angelica? Adamo scompare sul fondo: ha commesso il peccato. A livello registico, tanto quanto musicale, è forse in questa cesura essenziale, il peccato originale di Adamo, che è mancata una più marcata, decisa caratterizzazione. Lo stile musicale sospeso, ripetitivo, sacralmente monotono varia impercettibilmente e perde, forse, le possibilità diegetiche offerte dal racconto biblico. In effetti, la scelta di incorporare, dopo Il lamento di Adamo, Tabula rasa (1977), pezzo per due violini, orchestra d’archi e pianoforte, è interessante, ma, appunto, non così netta da sottolineare l’evento della ‘tragedia’ del peccato – ciò non toglie che l’esecuzione dei due solisti, V. Bolognese e. F. Malatesta, sia in ogni caso ragguardevole. La gestione registica dello spazio di Wilson si addensa, in questa seconda parte, di simboli. Prima una piccola immagine di una casa sospesa, che rappresenta l’Eden oramai non più raggiungibile, poi una casa sullo sfondo, che allude alla Terra dove l’uomo è oramai costretto a vivere, in precario equilibrio – questo il senso degli oggetti che una delle comparse dei bambini porta sul capo. Sulle note del Miserere (1989-1992), ben eseguito dall’ensemble (voci soliste: Y. Choi, M. Pärna, R. Mikson, R. Vilu e H. Tiisma), si compie la tragedia dell’inizio dell’umanità. Adamo-Theophanous ricompare vestito, attestando l’irrimediabile perdita della purezza originaria; danza sorreggendo sommessamente una scala, che non lo porta a nulla: il paradiso è oramai inaccessibile. I bambini rappresentano l’inizio del popolamento umano della terra, inizio traumatico, fatto di unioni matrimoniali ma anche di morte, come nel racconto di Caino ed Abele (ad un certo punto compaiono due bambini che imbracciano dei fucili). Frattanto, Wilson ha deciso di caratterizzare questo secondo grande quadro con uno sfondo in cui, al posto di una luce diffusa, si utilizzano dei fari, variamente combinati, a sottolineare, ulteriormente, la perdita di tale purezza – nell’ultimo quadro pare di avere un mobile cielo stellato sullo sfondo. Ultima invenzione registica è quella di una serie di comparse, in tunica nera, che incarnano l’umanità post-edenica: come il loro progenitore portano un ramo di ulivo, ma non in elegante equilibrio sul capo, a testimoniare l’armonia uomo/natura, bensì in un’atmosfera cupa, che nulla ha della grazia incontaminata di un Eden perduto e che grida lo strazio del perdono.


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- Musica

Julia Bullock ... una voce dalle stelle.


Julia Bullock ... una voce dalle stelle.
in collaborazione con Nonesuchnews

"Ci sono momenti in cui ci troviamo isolati e soli, o nella riflessione e nella solitudine", scrive Julia Bullock nelle note di copertina del suo album di debutto da solista, 'Walking in the Dark'. "Ci sono altri momenti in cui scegliamo di connetterci per capirci ulteriormente, il che ci offre l'opportunità di condividere le nostre identità in evoluzione - forse anche meglio capire come comunicare. E chissà... se le nostre intenzioni sono tradotte abbastanza bene e sono chiaramente a fuoco, potrebbe portare a momenti di illuminazione."
Il suo potere espressivo, la gamma e la verità del suo canto lasciano un'impressione indelebile", afferma il presentatore di Stephen Rodgers: "Non posso fare a meno di pensare che se Connie Converse, autrice del brano "One By One" in cui Julia Bullock si esibisce con Christian Reif al pianoforte nel suo nuovo album, "Walking in the Dark", con l’arrangiamento di Jeremy Siskind, potesse solo sentire questa registrazione luminosa, se solo sapesse che le sue canzoni avrebbero finalmente brillato come il sole, ne sarebbe contenta.
Sentirla poi cantare, con Christian Reif al pianoforte che esegue "I Wish I Knew How It Would Feel to Be Free" di Billy Taylor, e ancora, accompagnata dalla Philharmonia Orchestra "Knoxville: Summer of 1915" di Barber incluso nell’album ci si rende subito conto della sua espansione vocale da soprano risonante, con accenni a Nina Simone, a Lorraine Hunt Lieberson e, nella sua intensità e presenza a Maria Callas."
Mark Swed del Los Angeles Times ha scritto nel lungometraggio che la vede in veste di concertista: "How Julia Bullock Became an Essential Soprano for Our Times", in vista della sua performance in John Adams (Composer) 'Girls of the Golden West' ancora con la Philharmonia Orchestra ben si denota la sua voce di soprano risonante. In seguito, parlando del suo album di debutto da solista, "Walking in the Dark", scrive: "Alla fine della registrazione, potresti sentire il mondo in modo leggermente diverso, con la tua percezione un po' cambiata, la tua ricettività un po' migliorata, il tuo senso di meraviglia un po' migliorato. ”

'Walking in the Dark' ... un album da non perdere.

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- Musica

Thomas Adès’ ‘Dante’— a ballet score in three acts.

Musica – in collaborazione con Nonesuch Records

Thomas Adès "Dante" - una colonna sonora di balletto in tre atti basata su 'La Divina Commedia' di Dante Alighieri.

La colonna sonora è stata registrata da LA Phil e dal suo direttore musicale e artistico Gustavo Dudamel in concerto alla Disney Hall per la prima registrazione, prevista il 21 aprile su Nonesuch. Puoi preordinare e ascoltare una sezione di "Inferno" su https://thomasades.lnk.to/dante

"Dante" è stato eseguito per la prima volta al Royal Opera House come parte del "The Dante Proget” dallo Studio Wayne McGregor per il Royal Ballet, con l'Orchestra della Royal Opera House e con disegni dell'artista visiva Tacita Dean. L'edizione limitata in vinile a due LP della registrazione di LA Phil include opere d'arte di Dean e fotografie della performance della Royal Opera House.

"In qualsiasi nuova lista di grandi partiture di balletto di Tchaikovsky, Stravinsky, Bartok, Ravel, Prokofiev, Britten e Bernstein, 'Dante' deve essere incluso solo per la sua invenzione musicale", esclama il Los Angeles Times. "Non c'è secondo nei suoi 88 minuti che non si delizi. Tutto ciò è inaspettato e voluto. ”

Thomas Adès’ ‘Dante’— a ballet score in three acts based on Dante Alighieri’s ‘La Divina Commedia’—was recorded by LA Phil and its Music & Artistic Director Gustavo Dudamel in concert at Disney Hall for the premiere recording, due April 21 on Nonesuch. You can pre-order and hear a section of “Inferno” at https://thomasades.lnk.to/dante

'Dante' was first performed at the Royal Opera House as part of Studio Wayne McGregor's 'The Dante Project' for the Royal Ballet, with the Orchestra of the Royal Opera House and with designs by visual artist Tacita Dean. The collectable limited vinyl two-LP edition of the LA Phil recording includes artwork by Dean and photography from the Royal Opera House performance.

“In any new shortlist of great ballet scores by Tchaikovsky, Stravinsky, Bartok, Ravel, Prokofiev, Britten, and Bernstein, 'Dante' must newly be included for its musical invention alone,” exclaims the Los Angeles Times. “There is not a second in its 88 minutes that doesn’t delight. All of it is unexpected and wanted.”



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- Cinema

Novità al Cinema - in collaborazione con Cineuropa News


Novità nel mondo del Cinema - in collaborazione con Cineuropa News

Cristina Priarone • Direttrice, Roma Lazio Film Commission
“Una chiave caratterizzante degli anni recenti dell'associazione è proprio una fortissima collaborazione tra film commission e tra le regioni”

di VALERIO CARUSO - 29/03/2023 -
Come sta cambiando il lavoro delle film commission? Ce lo spiega Cristina Priarone, la presidente dell’associazione della Italian Film Commissions.

Cineuropa: Parliamo di questo nuovo comitato direttivo dell’associazione Italian Film Commissions, come si è formato questo nuovo team e quali sono le priorità che vi siete dati per i prossimi anni?
Cristina Priarone: Ci sono state le elezioni del nuovo coordinamento, che ha una valenza triennale, io sono stata riconfermata come presidente. I due vicepresidenti eletti sono Paolo Manera del Piemonte e Maurizio Gemma della Campania. Si tratta di due film commission che hanno fatto un percorso molto forte. Il Piemonte è stata una delle prime film commission, la Campania ha avuto veramente negli ultimi anni un exploit notevolissimo di presenza di produzioni, di creatività sul territorio, quindi sono molto contenta che ci siano due professionisti così con me. Italian Film Commissions è un'associazione che ha fatto una grande crescita, affrontando man mano tutte le istanze che emergono sia a livello nazionale che internazionale. È un modo di lavorare su cui la capillarità influisce, che va di pari passo con una presenza su tutti i territori italiani e con l'ascolto delle esigenze di tutti i territori italiani, per poi dare una risposta sinergica. Avere un coordinamento ben composto in questo senso è molto positivo.
Ci sono delle collaborazioni tra le film commission?
Una chiave caratterizzante degli anni recenti dell'associazione è proprio una fortissima collaborazione tra film commission e tra le regioni. Diversi anni fa vi era ancora una dimensione di concorrenza un po' ottusa tra alcune film commission, ma si è visto poi che non era assolutamente la strada vincente, molto meglio lavorare uniti per rafforzare tutti anche perché è davvero una vittoria come paese. Inoltre ormai sullo stesso progetto spesso c'è la convivenza di fondi diversi e di riprese in territori diversi, quindi questo porta un'automatica collaborazione. È un valore molto importante ormai consolidato ed entrato nel DNA dell’associazione e delle nostre strutture. Questa collaborazione ha portato a vincere un bando Mic per un progetto cinema a km zero di educazione all'immagine, una formazione per insegnanti.
Questa problematica del green shooting è una cosa che viene incorporata sempre di più dalle film commission, immagino.
Assolutamente, è un elemento molto importante per noi, ormai tanti territori hanno questo tipo di attenzione. Come associazione naturalmente abbiamo delle film commission che agiscono da stimolo più di altre in questo senso, come per esempio il Trentino e la Sardegna, ma diciamo che ormai il green shooting è un'esigenza fondamentale che è ben presente finalmente sui territori e che trova attraverso i fondi regionali una leva di incisività molto efficace. Ormai molte regioni danno più risorse in funzione di un'attenzione ecologica, quindi è una realtà connessa direttamente alla dimensione dei fondi.
Non c’è obbligatorietà quindi, c’è un bonus?
Dipende un po' dalle regioni, dalle film commission e dai loro regolamenti, diciamo che in linea di massima i territori si stanno organizzando così come avviene sulle nuove professioni per cui, per esempio, si sta creando la figura del gender manager o la persona che controlli che ci sia il rispetto di tutte le istanze anche sulla diversità. Abbiamo avuto bisogno di Covid manager, allo stesso modo si sta creando anche la professionalità del green manager. Di fronte a nuove tematiche e nuove istanze, il settore ha poi bisogno di organizzarsi quindi la logica del bonus consente proprio un processo di trasformazione, poiché non è detto che sul territorio ci sia modo di avere per forza scenografie ecologiche.
In quanto osservatrice delle produzioni che si svolgono nel Lazio ma anche a livello nazionale, dalla fine del Covid come si sta muovendo la produzione in Italia? C'è più produzione, e che tipo di produzione? Ci si sta spostando come in altri paesi sulle serie televisive finanziate dalle piattaforme?
La serialità è entrata fortemente nel nostro paese a livello produttivo. C'è anche una bella crescita dei documentari secondo me, ma diciamo che nell'insieme c'è un momento di vitalità creativa anche grazie alle piattaforme da cui tutti ci aspettavamo progetti solo mainstream. Invece abbiamo avuto alcune produzioni anche di ricerca, di attenzione diversa e questo ha aperto a tante dinamiche, anche alla nascita di autorialità diversa. Si pensi a un progetto come Sanpa [+], a un tipo di produzione che forse prima mancava. Questo processo ha tirato fuori nuovi talent italiani sulla ribalta internazionale. C'è tutta la parte di giovani attori e giovani attrici che hanno potuto avere successo grazie alla nuova realtà delle piattaforme e delle serie e del nuovo rapporto con il nostro paese.
Cineuropa ha raccolto testimonianze di produttori europei che dicono che non si trovano maestranze. È una cosa che succede anche in Italia?
Assolutamente, c'è una grandissima richiesta e spesso alcuni ruoli mancano, è difficile trovare organizzatori, segretari, amministratori, segretari di edizione, location manager. C'è una grande ricerca nuove professionalità, anche per tutta la parte del digitale. C'è un tale rinnovamento anche tecnologico per cui c'è necessità di formare nuove professionalità. Le nostre maestranze vengono coinvolte in produzioni internazionali che non si svolgono in Italia. Chiaramente abbiamo bisogno di formarne altri. È un tipo di know how molto pregiato, approfondito, che non è semplice rimpiazzare. Quindi è un'ottima occasione questo flusso di produzioni, sarebbe bene rispondere creando nuove professionalità e facendo sì che lasci sul territorio italiano anche un nuovo motore produttivo, creativo e a livello di maestranze.
Invece, per quanto riguarda la Roma Lazio Film Commission, quali sarebbero le prossime novità o attività che state preparando?
Come Roma Lazio abbiamo sempre un lavoro molto intenso sullo sviluppo della coproduzione, in questo siamo stati pionieri e da molto tempo, tanto che poi il nostro lavoro ha portato a consolidare nella nostra regione uno dei più importanti fondi europei sulla coproduzione. Abbiamo un’importante collaborazione con Berlino Brandeburgo, con Medienboard, proprio sulla coproduzione e sulla serialità televisiva. Abbiamo già fatto un grosso incontro a Roma a giugno scorso e avremo una prossima attività a Berlino sempre riguardante le piattaforme, lo scambio di progetti, un lavoro di collaborazione naturalmente ad alto livello anche con il supporto delle film commission. Oltre a questo nostro focus abbiamo una promozione capillare del territorio costante, un lavoro sulle location che non solo va avanti in maniera accurata ma anche si rinnova sempre su nuove corde, perché per noi è importante dare una fruizione a livello tecnico delle location, intendo una grande varietà, una mappatura costante. Noi abbiamo un database di location ormai enorme, capillare in tutte le parti della regione ma è anche necessario fare un lavoro di suggestione e di attrazione proprio per farle capire. Abbiamo lavorato per esempio sugli alberi centenari per usarli come location, abbiamo un patrimonio in questo senso nel Lazio incredibile. Daremo il via a un'iniziativa che si chiama I Posti Parlanti in cui oltre a promuovere la location se ne fanno capire, agli operatori audiovisivi ma anche al pubblico e ai cittadini di tutti gli altri settori, tutte le altre connessioni, gli altri contenuti, gli altri angoli di lettura, culturale, naturalistico, storico o contemporaneo.
Il progetto sugli alberi secolari è arrivato in finale a Makers and Shakers, un premio sulla migliore iniziativa sulle location a Londra.
Ricordiamo quanto è il fondo di coproduzione?
Il fondo di coproduzione è di 10 milioni di euro l'anno. Lazio Cinema International è un fondo aperto a tutta l'Europa e a tutto il mondo, naturalmente bisogna avere un coproduttore del Lazio, metà va al cinema e metà alla TV. I soldi vanno spesi nel Lazio, ma abbiamo un meccanismo non solo legato alle riprese, è un fondo interessante. In totale i fondi del Lazio sono 23 milioni di euro.


Tutto pronto per il Bif&st 2023
di VITTORIA SCARPA

23/03/2023 - Il 14° Bari International Film&Tv Festival si terrà dal 24 marzo al 1° aprile, con anteprime mondiali, film provenienti da tutto il mondo, masterclass e una sezione dedicata alla fiction tv.
Gli ultimi film di Gabriele Salvatores (Il ritorno di Casanova [+]), Ivano De Matteo (Mia) e Walter Veltroni (Quando [+]) sono alcuni dei titoli che si potranno vedere in anteprima assoluta al 14° Bif&st - Bari International Film&Tv Festival, in programma dal 24 marzo al 1° aprile nei più bei teatri del capoluogo pugliese (Petruzzelli, Piccinni, Kursaal, Margherita, Van Westerhout). Diretto come sempre da Felice Laudadio, e presieduto quest’anno dal regista tedesco premio Oscar Volker Schlöndorff, il Bif&st 2023 schiera 12 film nella sezione competitiva Panorama internazionale, la cui giuria ha come presidente onorario il regista iraniano Jafar Panahi; 8 titoli nella sezione non competitiva Anteprime internazionali, selezionati fra la produzione mondiale più recente e totalmente inediti in Italia; 7 lungometraggi nella sezione ItaliaFilmFest/Nuovo cinema italiano, 6 dei quali in anteprima assoluta.
Dopo la pre-apertura affidata a un evento speciale in collaborazione con Amnesty International, il documentario sui diritti umani Rumore - Human Vibes di Simona Cocozza, il festival si aprirà con l’ultima fatica del regista premio Oscar Gabriele Salvatores, Il ritorno di Casanova, ispirato al celebre racconto omonimo di Arthur Schnitzler e interpretato da Toni Servillo e Fabrizio Bentivoglio. Tra le Anteprime internazionali si potranno vedere inoltre l’ultimo film di Margarethe von Trotta, Ingeborg Bachmann. Viaggio nel deserto [+], in concorso all’ultima Berlinale, The Kiss [+] di Bille August, Couleurs de l’incendie [+] di Clovis Cornillac, Le Torrent [+] di Anne Le Ny.
Tra i titoli in concorso, in lizza per i premi al miglior regista, attrice e attore protagonisti, figurano, tra gli altri, Kaymak [+] di Milcho Manchevski, il candidato britannico all’Oscar 2023 Winners [+] di Hassan Nazer, Driving Mum [+] di Hilmar Oddsson, Amusia [+] di Marescotti Ruspoli, e poi ancora, Storm [+] di Erika Calmeyer, Roxy [+] di Dito Tsintsadze e, fuori concorso, Les Engagés [+] di Émilie Frèche.
Le masterclass in programma vedranno protagonisti i sette cineasti premiati con il Federico Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence, ossia Gabriele Salvatores, Fabrizio Bentivoglio, Sonia Bergamasco, Luigi Lo Cascio, Guido Lombardo, Francesco Piccolo, Saeed Roustayi. Dopo la proiezione di Leila’s Brothers di quest’ultimo è prevista una mobilitazionedei cineasti presenti a Bari in solidarietà con i cineasti iraniani perseguitati dal regime degli ayatollah.
Tra i film del concorso ItaliaFilmFest, che saranno giudicati da una giuria del pubblico presieduta dalla produttrice Donatella Palermo, il nuovo film di Rocco Papaleo, Scordato, con la cantante Giorgia, e Percoco di Pier Luigi Ferrandini, sul primo stragista familiare della storia d’Italia. Tra gli eventi speciali, la prima mondiale di Samad, primo lungometraggio di finzione di Marco Santarelli (Dustur [+]).
Infine la sezione BariFictionF&st, una rassegna di opere televisive prodotte da grandi broadcaster italiani e internazionali: tra le tante, saranno mostrate in anteprima Il metodo Fenoglio, tratto dai “gialli” di Gianrico Carofiglio, la serie franco-belga Sophie Cross e la serie finlandese Next of Kin.
Già assegnati, come di consueto, i premi The Best of the Year, conferiti dalla giuria dei critici cinematografici ai migliori film italiani dell’ultimo anno. Tra i talent che ritireranno i loro premi durante il festival, Fabrizio Gifuni (miglior attore protagonista), Tommaso Ragno (miglior attore non protagonista), Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino (miglior sceneggiatura), Barbara Ronchi (migliore attrice protagonista), Lidia Vitale (migliore attrice non protagonista) Elodie (attrice rivelazione), Roberto Andò (miglior regista).

Recensione: “Il ritorno di Casanova” – di Gabriele Salvatores.
di VITTORIA SCARPA
28/03/2023 - Nel suo ultimo film, in prima mondiale al 14° Bif&st, Gabriele Salvatores riflette sul tempo che passa, il decadimento fisico e il rapporto tra cinema e vita

La malinconia di Leo Bernardi la avverte anche l’appartamento dove vive, che è interamente demotizzato e iper accessoriato, e che a un certo punto sembra impazzire: le luci si accendono e si spengono da sole, i rubinetti sputano acqua all’improvviso, la tavoletta del bagno rimane bloccata a mezz’aria. Acclamato regista avviato verso il tramonto sia professionale che personale, Leo è il protagonista del nuovo film di Gabriele Salvatores, ha il volto di Toni Servillo e non riesce proprio ad accettare il suo lento declino. E così, mentre cerca di completare il suo ultimo film su Giacomo Casanova, pressato dalle aspettative del suo produttore che teme di perdere l’investimento (Antonio Catania), dalle sollecitazioni del suo montatore che vuole chiudere il film (Natalino Balasso) e dalla rivalità con un giovane cineasta che minaccia di soffiargli il posto alla Mostra del Cinema di Venezia, anche la sua casa manifesta disagio. È questo uno dei tocchi surreali che punteggiano Il ritorno di Casanova [+], il 20° lungometraggio del regista premio Oscar (con Mediterraneo, 1991), liberamente ispirato a “Il ritorno di Casanova” di Arthur Schnitzler. Un lungometraggio costruito come un gioco di specchi tra un regista e il protagonista del suo film (Casanova è interpretato da Fabrizio Bentivoglio), che parla di tempi di gloria andati e di giovinezza perduta, e che Salvatores ammette essere la sua opera più personale.
Proiettato in anteprima mondiale al 14° Bari International Film & Tv Festival, Il ritorno di Casanova salta dalla realtà alla finzione grazie al montaggio puntualmente alternato di Julien Panzarasa, distinguendo visivamente le due parti in modo netto: la vita vera, quella di Leo, oggi, che cerca di chiudere il suo film, è filmata in bianco e nero; il set in costume e parrucche del ‘700, che vede un Casanova ormai vecchio tentare miseramente di conquistare una giovane fanciulla (Bianca Panconi), è invece a colori. Mentre lavora, a fatica, al montaggio del suo film, l’ultrasessantenne Leo scopre di avere molto in comune con il suo personaggio principale, perché proprio come Casanova si è trovato di recente a vivere una passione per una giovane donna (Sara Serraiocco), e a dover fare i conti con il tempo che passa. Vanesio, ossessionato dal suo lavoro e dalla fama, Leo è travolto dai ricordi di questo amore che lo ha colto di sorpresa e che non ha avuto il coraggio di abbracciare fino in fondo.
Sono tanti i temi che si intrecciano in questa mise en abyme cinematografica, a tratti onirica, sceneggiata da Salvatores con Umberto Contarello (La grande bellezza) e Sara Mosetti (il trio ha già firmato insieme la sceneggiatura di Tutto il mio folle amore): il tema del doppio, il decadimento fisico (qui mostrato con coraggio e senza veli), la forza seduttiva che con il tempo svanisce, il rapporto tra cinema e vita, i capricci e le manie legate al mestiere, il nuovo che avanza. Ci entra anche l’assalto dei giornalisti, che come un esercito avanza a caccia di scoop e che Leo respinge a colpi di fioretto. Servillo e Bentivoglio brillano nei rispettivi ruoli: l’autoironia del primo finisce per rendere simpatico Leo anche nelle sue frivolezze; il secondo restituisce un Casanova che fa tenerezza nel suo rivelarsi totalmente impreparato alla vecchiaia. “Tu sei giovane, ma io sono Casanova”, dice quest’ultimo al suo aitante rivale in amore, ma questa sua ostinazione a voler ripetere se stesso è votata al fallimento. Anche perché, come controbatte idealmente la giovane amante di Leo: “Io ho tanta vita davanti e tutto il tempo per rinnamorarmi di nuovo”. E non poteva essere detto in modo più crudele.

Il ritorno di Casanova è una produzione Indiana Production con Rai Cinema, Ba.Be Productions ed EDI Effetti Digitali Italiani, in collaborazione con 3 Marys Entertainment. Dal 30 marzo sarà al cinema con 01 Distribution. Rai Com cura le vendite internazionali.




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- Società

Marco Grappeggia … un ‘guru’ della comunicazione Hippy

Marco Grappeggia … un ‘guru’ della comunicazione sulla nostra strada in un libro “Hippy leader Ship Drive – LSD” – Università Unimilano Editrice 2022.

 

Non saprei dire in quanti lo abbiano incontrato in questi decenni che ha attraversato le strade delle Università Popolari avvalendosi dei suoi insegnamenti, ma pochi o molti che siano, sono sparsi (non dispersi) in mezzo a noi che volenti o nolenti abbiamo imparato a conoscerlo allorché ci siamo avvicinati al mondo della ‘comunicazione ufficializzata’ confluita nelle strutture delle scienze applicate. Del resto, per quanto la si volesse superare (leggi stravolgere), non si poteva scantonare dalla rigida struttura ministeriale che una società da tempo istituzionalizzata come la nostra aveva impresso alla conduzione della ‘conoscenza’ tout-court e che quindi il prof non poteva trovare altro spazio che scrivere.

Messi “di fronte a un libro non dobbiamo chiederci cosa dica bensì cosa vuole dire”, scrive Umberto Eco; c’è però una diversità d’intenti che va qui sottolineata, e che riguarda l’attestazione di un ossimoro in netto contrasto con quanto affermato, e che – a mio parere – sul finire di quegli stessi anni (1968) lancia un attacco spregiudicato alle istituzioni volendole liberare dai falsi preconcetti d’una società ipocrita e bacchettona. Né sono valsi a molto i movimenti studenteschi e professionali che a tappe alternate sono saliti alla ribalta delle cronache, in Italia e nel resto d’Europa, rifacendo il verso a quelli statunitensi di più ampia portata, che hanno portato allo sconvolgimento giovanile degli anni ’60.

Una ‘rivoluzione’ generazionale a tutti gli effetti, fatta di contestazioni universitarie, tafferugli, scontri con la polizia, bombe carta, bombe talvolta vere fornite dagli anarchici a prescindere dal colore partitico cui pure molti appartenevano, divulgatasi anche fra quegli studenti più giovani che in quegli anni accedevano per la prima volta alle classi liceali. Qualcosa di più che la semplice sollevazione degli animi e delle menti contro uno status quo divenuto ormai insostenibile che non aveva più niente da insegnare, se non di ammaestrare le masse da tenere a bada. Mentre, viceversa, queste scoprivano e si scambiavano efficacemente, forse per la prima volta, messaggi di pace e di fraternità con il resto del mondo in tumulto: 1950/1953 guerra della Corea; 1955/1975 guerra del Vietnam; per non dire delle guerre d’indipendenza in America latina prima dell’ultimo conflitto mondiale e dopo, durante la ‘guerra fredda’ che ha visto le due grandi potenze contrapposte Stati Uniti e Unione Sovietica confrontarsi sul piano politico, economico, ideologico e militare, tenendo il resto del mondo con il fiato sospeso, sotto la minaccia di una possibile guerra nucleare, cui ancora una volta assistiamo basiti.

Tutto ciò, per quanto si voglia sminuire, ha contrassegnato, nel bene e nel male della sua portata, una svolta decisiva verso quella ‘globalizzazione’, seppure in embrione, tutt’oggi in atto, all’avveduto schiudersi delle menti addomesticate dei giovani di quegli anni, richiamandoli alla ragionevolezza libera da preconcetti, mobilitandoli all’altruismo, alla solidarietà umana, in quanto eredi di quei padri che proprio negli anni ‘60 l’avevano sostenute con enfasi, difese con i pugni e talvolta a denti stretti, perché soffocati dai ‘poteri politici' che li avevano assoggettati al silenzio. Oggi, se di quella rivoluzione è rimasto qualcosa, lo dobbiamo a un ‘guru’ della comunicazione Marco Grappeggia, apparso sulla nostra strada, che nel suo libro “Hippy leader Ship Drive – LSD” – Università Unimilano Editrice 2022, che ha investito i suoi studi professionali sugli eventi che contraddistinsero i ‘movimenti culturali’ di quegli anni, puntando su quello di breve durata ma indubbiamente il più significativo, gli Hippies.

Sommariamente più conosciuti come “i figli dei fiori” per il loro modo di acconciarsi, con i loro indumenti decorati con fiori e vivacissime stoffe di colori vivi, hanno segnato il passo nella mods con un notevole impatto sulla cultura, influenzando la musica popolare, la televisione, il cinema, la letteratura e l'arte in generale. La cultura hippy e/o hippie, per chi non la conosce, è stato un movimento di controcultura giovanile che ha avuto inizio negli Stati Uniti d'America nel corso degli anni Sessanta, presto diffuso in Europa e in altri paesi del mondo, avevano ereditato i valori sottoculturali della Beat Generation di fine anni cinquanta che influenzò lo sviluppo della controcultura degli anni a venire, mentre il termine "beatnik" dava spazio a quello "hippy".

Personaggi del Beat come Allen Ginsberg (“Collected Poems”), Jack Kerouac (“Sulla strada”), Neil Cassady (“Vagabondo”), J.D. Salinger (“Il giovane Holden”), W.S. Burroughs (“Il pasto nudo”), Lawrence Ferlinghetti (“Little Boy”), divennero un punto fermo dei movimenti di quegli anni che contestavano la guerra in Viet Nam e che tutti noi conoscemmo grazie alla nostra Fernanda Pivano che li tradusse e fece pubblicare in italiano le loro opere. Il loro ideale di pace e libertà è sintetizzabile in slogan quali "Mettete dei fiori nei vostri cannoni" ("Flower power") e "Fate l'amore, non la guerra", che risuonavano in maniera evidente nel periodo.

La ricerca sfrenata della totale libertà era il significato insito nel loro stile di vita: dai capelli lunghi, petti nudi, bandane e pantaloni blu a zampa di elefante, ascoltavano rock psichedelico, abbracciavano la rivoluzione sessuale e l'uso di alcuni specifici stupefacenti, come gli psichedelici e la cannabis, al fine di esplorare e allargare lo stato di coscienza. Il movimento Hippie toccò particolarmente l'opinione pubblica, tanto da impressionare le pellicole di molti registi, nonché la musica di molti artisti. Nel Regno Unito, inoltre, gruppi nomadi uniti nelle "carovane di pace" facevano pellegrinaggi estivi ai festival di musica libera a Stonehenge, all’origine dei ‘rave party’ di oggi.

Già dai primi anni Sessanta molti aspetti della cultura hippie divennero di comune dominio, sì che la loro eredità può essere osservata nella cultura contemporanea in una miriade di forme: dalla salute alimentare, ai festival di musica, ai concerti rock, ai costumi sessuali contemporanei fino ad influenzare l’attuale rivoluzione del cyberspazio. Nel Regno Unito, molti giovani artisti furono letteralmente trascinati dalla rivoluzione hippie: oltre ai Cream, vi presero parte i Beatles e i Rolling Stones vanno ricordati la Plastic Ono Band, John Mayall, Keith Relf, Chris Dreja, Pete Townshend, Roger Daltrey, John Entwistle, Jimi Hendrix e Mitch Mitchell, Bob Marley e Peter Tosh giamaicani, i canadesi Stephen Stills e Neil Young, il messicano Carlos Santana. Negli Stati Uniti d'America Delaney e Bonnie Bramlett, Janis Joplin, Grace Slick, Joan Baez e Bob Dylan, Crosby, Still e Nash, Johnny Winter e Woody Guthrie, Joe Cocker, oltre ai brasiliani Lulu Santos e Renata Sorrah, che diffusero poi il movimento nel loro paese d'origine.

Originariamente il movimento era composto per la maggior parte da adolescenti e giovani adulti bianchi, di età compresa tra i 15 e i 25 anni, che respingevano con forza le istituzioni, criticavano i valori della classe media, erano contrari alle armi nucleari di cui si vociferava con tanto di minacce che avrebbero sconvolto la stabilità del mondo intero; abbracciava aspetti della filosofia orientale, promuovendo la libertà sessuale, erano spesso vegetariani ed ambientalisti, e creavano comunità intenzionali e comuni; utilizzavano arti alternative, il teatro di strada, la musica popolare, e le sonorità psichedeliche come parte del loro stile di vita e come modo di esprimere i propri sentimenti, le loro proteste e la loro visione del mondo e della vita.

Si opponevano all'ortodossia politica e sociale, scegliendo una mite e non dottrinaria ideologia che favoriva la pace, l'amore, la fratellanza e la libertà personale incarnata alla meglio dai Beatles nella famosissima canzone “All You Need Is Love”; percepivano la cultura dominante come corrotta, essendo questa un'entità monolitica che esercitava un indebito potere sulle loro vite, e che chiamavano "L'Istituzione", "Grande Fratello", "L'Uomo", rivelandosi "in cerca di significato e di valore ". Studiosi come Timothy Miller descriverono il movimento Hippy come un nuovo movimento religioso, influenzati dal pensiero e dalle azioni svolte da Gesù Cristo, Buddha, Francesco d’Assisi, Ghandi. Scrittori e pensatori dello stampo di H. David Thoreau, Herman Hesse e Walter Benjamin, salirono ben presto alla ribalta dell'interesse generazionale, ma forse fu una scoperta più tardiva da attribuirsi ai pronipoti.

Dopo il 1965, l'etica hippy si è diffusa in tutto il mondo attraverso una fusione di musica rock, soprattutto nella variante psichedelica, folk e blues trovando espressione anche nella letteratura, nelle arti drammatiche, nella moda, e nelle arti visive, compresi i film, i manifesti pubblicitari che annunciavano i concerti rock, e le copertine degli album. Nel libro “Rivoluzione psichedelica” Mario Iannaccone sostiene che Ken Kesey stesse coscientemente utilizzando, su più livelli, il modello del Viaggio, tanto importante nella cultura statunitense, rendendo evidente la sua metafora interiore: il Bus dei Pranksters era infatti guidato dal protagonista di Sulla strada (On the Road) di Jack Kerouac. Il viaggio o Trip, dei Pranksters, era contemporaneamente esteriore ed interiore e il suo mezzo era l'LSD. Il film doveva testimoniare questo spostamento di corpi e di coscienze e diventare, per gli spettatori, uno strumento di meditazione.

Fulcro della scena hippy statunitense divenne San Francisco, in particolare il quartiere di Haight Ashbury, caratterizzato da edifici vittoriani ampi ed economici. Alcuni dei primi hippy di San Francisco erano ex studenti del San Francisco State College incuriositi dalla nascente scena musicale psichedelica, che si unirono alle band amate per intraprendere una vita comunitaria. I giovani statunitensi di tutto il paese (anche adolescenti scappati di casa) cominciarono a muoversi verso San Francisco, ed entro il giugno 1966, circa 15.000 hippy si erano già stabiliti. Anche i Charlatans, gli Jefferson Airplanes, i Big Brother and the Holding Company, i Grateful Dead in questo periodo si stabilirono tutti nella zona di Haight-Ashbury. Le attività ruotavano attorno ai Diggers, un gruppo teatrale che combinava teatro spontaneo di strada, azioni anarcoidi e improvvisazioni artistiche per raggiungere l'obiettivo di creare una "città libera".

Verso la fine del 1966 i Diggers aprirono locali in cui, oltre a organizzare concerti musicali gratuiti e lavori di arte politica, regalavano le loro cose, cibo, droga, e denaro. Il 6 ottobre 1966, lo stato della California dichiarò l'LSD sostanza controllata, ciò che ha di fatto rese la droga illegale. In risposta alla criminalizzazione della sostanza, gli hippie di San Francisco organizzarono un raduno hippy sulla striscia del Golden Gate Park, chiamato Love Pageant Rally, che attirò circa 700-800 persone. Come spiegato da Allan Cohen, cofondatore del San Francisco Oracle, lo scopo della manifestazione era duplice – attirare l'attenzione sul fatto che l'LSD era stata appena resa illegale, e dimostrare che le persone che l'utilizzavano  non erano necessariamente criminali, né malati mentali.

Secondo Cohen, quelli che assunsero LSD …«Non erano colpevoli di uso di sostanze illegali [...] noi stavamo celebrando la conoscenza trascendentale, la bellezza dell'universo, la bellezza dell'essere». Io mi fermo qui, non tutto è dentro questo libro dell’oggi prof. Marco Grappeggia, ma indubbiamente c’è molto dei suoi ‘trascorsi’ successivi a quegli anni che vogliamo ormai superati e/o lontani da noi, mentre invece sappiamo – come ho detto – essere ‘vivi’ nel nostro presente; fino a raggiungere l’attualità del nostro presente, afferenti a episodi d’incontro, aneddoti, famigliarità con numerose celebrità conosciute attraverso esperienze di vita vissuta.

Certi che il prof abbia ancora molte altre cose da raccontare, non rimane che augurarci un ‘ritorno del passato all’attualità del presente’, come avverte lo stesso autore: “leggendolo si compie un viaggio nella storia, quella stessa che ogni giorno scriviamo attraverso i nostri passi, le direzioni e le scelte”, in cui crediamo…

 

“La vita, amico, è l’arte dell’incontro” Vinicius de Moraes

 

L'Autore in breve. Marco Grappeggia presidente dell'Università Popolare di Milano, già leader dei movimenti universitari popolari in prima linea in difesa del principio della libertà nella formazione università internazionale insignito di numerosi riconoscimenti che lo vedono inserito tra le figure più influenti del nostro periodo storico verso un nuovo concetto di modernità.

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- Libri

’Navi nel deserto’ - un libro di Luigi Weber

“Navi nel deserto” – un romanzo di Luigi Weber - Il ramo e la foglia editore 2023

 

Al principio dell’avventura di questo romanzo c’è il deserto e non solo, la illuminante storia di un luogo liminare, in cui il tempo fluidifica e le epoche trasmutano, luogo di anamorfosi e anacronismi, in cui ogni umana esistenza trapassa nel mito e il mito scivola dentro l’esistenza dei personaggi che si “…dividono una terra aspra, inospitale, e se la contendono intrecciando odio, pregiudizi, incomprensioni”, lasciando visibili solo «…gli aspetti ora maestosi ora orridi del deserto, le montagne sullo sfondo, le apparizioni vere e illusorie delle oasi.» (Pierre Loti).

È qui che s’appressano alle dune più alte i cavalloni di sabbia, in cui le grandi ruote dentate delle navi arrancano nella traversata del deserto arroventato dal sole esaltante una narrazione che si snoda lenta, fatalmente misteriosa, in cui i protagonisti s’agitano fugaci come spettri segnati dagli inflessibili ritmi del tempo che li consuma, come in “…un libro aperto e sollevato contro il sole”, le cui pagine ingialliscono e ben presto bruciano al suo fuoco inarrestabile. “…Uff, il sole! – non ne abbiamo abbastanza di sole, ogni giorno della nostra vita? Se c’è qualcosa che non manca mai, qui, potete giurarci, è proprio il sole.”

C’è sempre il sole in ogni mirabile avventura umana, o almeno la sua luce sfolgorante che sfoca ogni cosa d’intorno, in cui lo spazio s'apre sovrano sull’immensità del nulla apparentemente vuoto del deserto, sì che nella transitorietà che anima il tutto, finanche la propaggine smagliante dei sentimenti ne è spazzata via, le sensazioni e le emozioni bruciate dalle contrastanti forze della natura che governano le ore insieme al passare dei giorni e delle notti: “…il pomeriggio non passa mai, e invece così si arrivava a fare sera in un baleno.”

Sì ché, nell’impareggiabile dominio dei ritmi del tempo, trasmutano le diverse facce del deserto che il vento spaventoso soverchia sollevandone la sabbia arroventata del giorno; il chiarore della luna domina imperturbabile la notte, il gelo s'affossa nelle ore che precedono l'alba. Sono queste ‘pro-pagine’ a dare il senso della transitorietà della scrittura autorale di Luigi Weber: “…intricata come un labirinto o un arabesco”, narrate in modo terribile e meraviglioso quale frutto d'immaginazione e di follia, in cui ha visto in ogni sedimento un mondo estremo, in ogni granello di sabbia una vita che si consuma.

Ma i detriti di ghiaia aguzza che pure cospargono il suolo di questa avventura estrema, altro non sono che i sedimenti di letti di fiumi asciutti, di epoche vissute altrove, di vite pensate all’origine di un mondo che è stato e di cui abbiamo perso il ricordo. Come pensate dalla sua mente creativa sulla scia di un mondo scagliato via che non conserva più nulla del calore e della vitalità della mano gloriosa che lo ha lanciato verso il sole; ancorché i sentimenti aviti dell’autore, innalzati a sostegno di alteri ideali, ricadono al suolo sollevando nuvole accecanti di sabbia rovente.

Un romanzo indubbiamente insolito quanto originale in cui si delinea un autentico stile scrittorio, frutto del delirio vibratile del suo artefice capace di metamorfizzare autori noti alla sua conoscenza, quanto alla nostra: Conrad, Melville, Stevenson, Verne, Eco, in personaggi vivi che si ritrovano, al pari di sopravvissuti a una catastrofe geologico-planetaria a interagire in uno scenario post-apocalittico che ha scavato la sabbia tutt’attorno “…alle rocche fortificate alte su speroni di pietra che emergono dalla sabbie come relitti”, che costellano il deserto di oasi distopiche, germogliate da un emozionante e rigoglioso intreccio narrativo…

“La mattina del 29 gennaio, per esempio, Conrad, il comandante (della Nave Kairos) stava osservando con curiosità ammirata quanto rapida fosse un’alba nel deserto; da una vasta luminosità diffusa si passava come per incanto all’accecante riverbero del sole, un sole che Conrad, quando abitava nella Rocca, non aveva mai visto tanto basso sull’orizzonte, e non lo aveva mai immaginato già tanto fulgido a quell’ora. (…) Nessuno di loro (sulla Nave Kairos) aveva visto i suoi occhi cerulei colmarsi d’interesse, poi di meraviglia, ascoltando racconti di vita marinara, storie di Navi e di capitani incontrati una sola volta e mai più, storie di cittadelle piccole come un forziere nascosto nella sabbia”.

«Ne risultava che perfino sul mare un uomo poteva cadere in preda agli spiriti del male (…) sentirsi sul volto il soffio di ignoti poteri che plasmano i nostri destini» - scrive Joseph Conrad. Destini che si sgretolano come muri di sabbia alla furia del vento, posti alla mercé degli attacchi delle Navi comandate dai Pirati signori della guerra, all’avidità del loro potere e della lotta armata. Destini che s’intrecciano con quelli delle “…Oasi abitate da sereni vecchi sapienti e distaccati, ma soprattutto degli abissi senza fondo del deserto, abissi della mente eppure concreti, su cui viaggiavano le Navi ignare delle metropoli sottostanti, delle immense calli tra i grattacieli spezzati e sepolti di cui alla superficie non restava più vestigia alcuna.”

Un romanzo indubbiamente ‘virtuale’ la cui visualizzazione rammenta scene viste di film tecnicamente straordinari come “Il pianeta delle scimmie” (1968), “Mad Max” (1979), “Interceptor” (1981), “Stargate” (1994) la cui ambientazione prefigura situazioni, sviluppi e assetti certamente non in controtendenza con la più avveniristica fantascienza e la tecnologia scientifica del presente, pur tuttavia accesa dalla pre-convinzione che tutti ci portiamo dietro da sempre: «…che i vivi (in quanto sopravvissuti) non si potessero più aiutare, che non esiste crudeltà e umiliazione che ciascuno non fosse in grado di infliggere e di sopportare nella sua fame (atavica), ira, paura o semplice stupidità, (onde per cui) chiunque è capace di tutto» (Publio Ovidio Nasone).

«Dove dobbiamo andare, noi che siamo costretti a vagare per queste lande desolate alla ricerca della nostra parte migliore?», fa dire il regista George Miller al principale interprete della serie filmica "Mad Max". La stessa domanda che dev’essersi posto Lugi Weber, autore di questo “Navi nel deserto”, approssimandosi alla convergenza del suo ideale “...in forma di articolo di fede, davanti alla beffa di uno sbaglio mai avvenuto della sua inettitudine, nell’attesa dell’impatto molle e fatale con la sabbia”; con la medesima convinzione che “…se uno di quegli scafi immensi abbandonava i sicuri terreni battuti delle piste poteva insabbiarsi tanto profondamente, dato il suo peso, da essere nella stessa condizione di un natante che affonda, cioè spacciato.”

Ma non è questa l’unica guizzante inquietudine che si scorge dalla lettura di queste ‘pagine di sabbia’ così fortemente esposte ai pericoli del deserto e alla potenza inesorabile del sole, aperte come sono “…a interrompere l’orribile silenzio d’incertezza che montava ogni giorno di più dal deserto. (…) In conseguenza di questa certo non logica – ma inizialmente speranzosa – deduzione, della razza, cioè delle più convincenti deduzioni, quelle che vogliono essere credute prima ancora d’essere formulate.”

Pagine che per noi, che le sfogliamo meravigliati, sembra di ripercorrere quella particolare intensità dell’esistenza, forse ciò che è il succo delle aspirazioni giovanili della protagonista femminile Freya (alias l'imprendibile Aretusa) e dello stesso capitano Conrad (alias Joseph Conrad de “La linea d’ombra” e dello strabiliante "Cuore di tenebra"), là dove per qualche misterioso motivo si riversa e si spande la luce piena, infuocata del sole, sull’immenso mare del suo autorale 'deserto interiore', che è anche il nostro.

 

L’Autore.

Luigi Weber giornalista e membro dell’organizzazione del Festival Internazionale di Santarcangelo dei Teatri, insegna Letteratura Italiana Contemporanea, presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica all’Università di Bologna. Come studioso si è occupato soprattutto di poesia e romanzo sperimentale nel Novecento, di Storia e di Letteratura di viaggio. “Navi nel deserto” è il suo primo romanzo.

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- Alimentazione

Lupen the Cat / 11 - di quando è scappato di casa

LUPEN THE CAT / 11
... di quando il mio stupendo gatto nero è scappato di casa, per poi fare ritorno prima che andassi a denunciarne la scomparsa.

L’aveva preannunciato più volte, detto non più tardi di ieri sera, e quando sono rientrato nell’abitazione dopo una serata passata con gli amici, non lo trovo in casa…

«Lupen! Lupen! Micio!, dico alzando di un tono la voce.»

No giocavo, micio non l’ho detto, non sia mai mi abbia sentito, è un tabù che già non rientrava nel nostro repertorio linguistico, ciò che rappresentava una pessima variazione sul tema del ‘rispetto’ dell’animale in se. Che dico, animale? Già fremo all’idea che possa entrare all’improvviso, mentre mi preparo a ritirare il tutto…

«Ma no scherzavo Lupen, mio caro, lo sai per me sei un amico fraterno.»
«Che dico? Sei molto di più, un vero fratello.»
«No, davvero non volevo dire ne amico ne fratello, tu sei il migliore dei miei consanguinei, va bene così?»

Neppure, non mi resta che chiedere venia per un’assoluzione che so che non arriverà mai, che in qualche modo me la farà pagare allorché s’affaccerà dall’angolo della stanza. Farò bene a fare come se nulla fosse. In fondo non so niente di quanto può essergli accaduto…

«Lupen! Lupeeennn! Dove ti sei cacciato mio tesoro?»
«Cacciato?»

Sono pronto a giurare di non averlo detto.

«Lupen, vieni ho in serbo una leccornia per te.»

Non risponde, strano, eppure tutto sembra essere a suo posto, solitamente non è così che trovo l’appartamento quando sbadatamente uscendo, magari per la fretta, dimentico di salutarlo o di avvisarlo del mio successivo rientro. Specialmente quando per una ragione qualsiasi mi capita di fermarmi fuori a dormire lasciandolo in ansia per il resto della notte., anche se non lo darebbe mai a vedere. Incredibile a dirsi ma Lupen è capace di restare immobile a guardare l’uscio per ore in attesa di vedermi arrivare…

«Lupen, Lupeeennn, dove sei? Adesso ad essere preoccupato sono io, hai forse deciso di farmi stare in ansia per il resto dei miei giorni?»

Ovviamente non risponde, non posso che prenderne atto di una realtà inconfutabile, imprescindibile dell’essersi volutamente allontanato dall’appartamento senza aspettare il mio ritorno. Almeno il tempo di parlarne, vi pare? Nel mio caso è una questione di sopravvivenza. Ho qualche rimorso ma, diciamolo pure, va sottolineato un concetto basilare, quello di confidare nel ‘rispetto’ moralistico degli altri. Ovviamente mi sbaglio. Non so se mi spiego, quello che intendo è che non basta avere il pregio di avere un gatto nero in casa che fa ‘chic’ seppure qualcuno lo addita come menagramo ma, in quanto, a dover subire apertamente tutte le sue scorrettezze rende la cosa decisamente insopportabile, lo direste accantonabile? Neppure per sogno, pretendo una spiegazione…

«Lupen, Lupeeennn!!!!!!»

Una spiegazione che se anche dovesse presentarsi tra un minuto non mi darà mai, anzi come di solito farà il sostenuto, guardandomi coi suoi occhioni gialli sgranati e fissi che incutono fermezza, nel senso che blocca lo sguardo di chiunque voglia indagare sulla sua figura, sui suoi pensieri, sulle sue intenzioni, capace com’è di sollevare la coda e mostrare il culo con indifferenza al suo interlocutore. Ecco ciò che può dirsi una vera mancanza di ‘rispetto’, in questo caso verso di me che lo ospito nel migliore dei modi. Già che dirlo ‘ospite’ l’offende, meglio chiamarlo ‘anfitrione’, perché senza alcun dubbio il vero padrone di casa è lui, io sono solo una figura secondaria, il suo maggiordomo, ancor meglio mi si direbbe il suo servitore visto che provvedo a preparargli e a servigli i pasti e non solo…

«Miao George!»
«Buonasera Lupen!»
«Vogliamo dire buongiorno George, non ti sei neppure accorto che s’è fatto giorno, hai passato una buona nottata?»
«Lupen non credi che dovrei essere io a porti delle domande, ti sembra normale che non ti fai trovare al mio ritorno, pretendo il ‘rispetto’ che mi è dovuto!»

«Miao, proprio tu parli di ‘rispetto’, non sei realistico George allorché perso come sei nei meandri dell’attuale complessità sociale, multietnica e multiculturale, ti poni un interrogativo fondamentale che riguarda il ‘senso’ del proprio agire individuale, mentre invece riguarda la società nella sua percezione globale e comunque comunitaria, che va esaminata nel suo insieme. Non ti pare?»

«Cioè Lupen, mi stai impartendo una lezione sul ‘senso morale’?»

«Perché no George, visto che tu fai finta di ignorare che in questa società ci sono anch’io, anzi ci sono io e poi forse ci sei tu, la cosa diventa una questione metodologica basata sul riconoscimento dell’uguaglianza, sul consenso individuale alla reciproca fiducia.”

«Non posso crederci Lupen, riguardo all'applicazione ‘morale’ del senso, va detto che c’è molta incoerenza relativamente se applicarla alla società e/o agli individui, tantomeno a un gatto quale tu sei, o lo hai dimenticato?»

«Miao, ti rammento che i gatti sono animali razionali indipendenti, semmai sono gli uomini come te che hanno bisogno delle virtù. Del resto, qualsiasi affermazione in merito, non ha risolto un dualismo da sempre renitente, tra voi antropici e noi, insito nella possibilità di una ‘critica morale’ che possiamo impartirvi sui valori centrali dello stare insieme. In un mondo in cui sia presente il ‘libero arbitrio’, a una società di persone simili ad automi come siete voi, è preferibile quello ‘animale’ che non possono commettere azioni malvagie, quanto quella che pensavi di impartirmi la notte scorsa.»

«Stai scherzando Lupen o dici sul serio?»
«Non scherzo affatto, voi antropici, avete sempre pensato di essere al centro del mondo, entro il quale far maturare quelle virtù che costituiscono una scelta di buona vita. Niente affatto, non funziona così, oltre a voi ci siamo tutti noi, gatti compresi, oltre alle piante e a tante altre specie, per cui ognuna risponde al proposito di una specificità razionale.»

«Quindi, vai al dunque Lupen.»

«Miao, miao e poi miao! Quando si dice che nessuno è perfetto si parla proprio di voi umanoidi dei miei stivali, nella consapevolezza che dovete fare i conti con l’imperfezione, la malattia, il limite della morte, tu m’intendi George, è un fatto di attribuzione, di riconoscimento.»

«Miao Lupen, grazie, mi hai suggerito un’ottima intuizione, credo che domani sarà proprio questo il tema della mia conferenza universitaria, sulla necessità del ‘riconoscimento’ nella società multiculturale.»

«Miao George, gatti compresi?»
«D’accordo, gatti compresi.»
«E adesso vogliamo passare alla promessa in serbo alla leccornia per me?»
«Come lei desidera Maestà.»




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- Cinema

Bergamo Film Meeting - Stage e Volontari


Bergamo Film Meeting
Associando il proprio marchio a Bergamo Film Meeting Onlus, si sceglie di diventare partner di una tra le più importanti manifestazioni cinematografiche italiane ed europee: un’opportunità di visibilità e di crescita.

Stage e volontari
Attività
Attività
Stage curriculari, tirocini, volontariato: tante esperienze formative rivolte a studenti e appassionati di cinema interessati a partecipare allo sviluppo di un grande evento culturale, affiancando lo staff organizzativo per scoprire il dietro le quinte di BFM.

Sei uno studente oppure sei un semplice appassionato di cinema e ti piacerebbe partecipare allo sviluppo di un grande evento culturale?
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“La gente mi dice: «Ma nella vita reale…». Ma di cosa parlano? Cos’è la vita reale? Sul set davanti alla macchina da presa, non sarebbe più vita reale? Cos’è, si passa in un’altra dimensione quando si gira un film?“ (Abel Ferrara)

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- Libri

Giulia Tubili ’Codice a sbarre’ – Storie di assenti e di ...

Giulia Tubili “Codice a sbarre” – Storie di assenti e di simbionti in cattività - Il ramo e la foglia - edizioni 2022.

 

Un vero peccato che ogni riferimento sia puramente casuale, quando ci sarebbe piaciuto, a noi lettori, e non parlo solo per me, individuare i molti personaggi che si affacciano fra le pagine di questa raccolta di racconti accattivanti e spregiudicati da “cabaret degli orrori”. Sì perché tutti, o quasi, gli avventori di questo albergo a ore per scambisti di professione hanno almeno una cosa in comune: condividono lo stesso spazio, quasi entrassero/uscissero nottetempo da dietro i paraventi di un guardaroba teatrale per ‘simbionisti’ che si contendono la scena. Laddove raccolti gli abiti messi e dismessi, paillettes et out-couture, boa di struzzo e falpalà, si denotano mani allenate al ‘trucco e parrucco’ di un’arte mai venuta meno, sì da felicitare aspiranti ‘queen en travestì’ che farebbero la gioia d’ogni spettacolo di successo…

 

“Onestamente? La cosa mi lusinga. Mia madre, così, mi dimostra da aver compreso il perché volessi intraprendere la strada della commedia. Mi fa capire, seppur troppo tardi, che il senso dell’umorismo devo proprio averlo ereditato da lei”.

 

Ma se l’alta moda s’addice a quello schianto di donna (?) che è “Salomé” languida e viziosa, beh lasciamo stare, l’outlet sta più che bene a “La Polena” (Mia moglie), così come i colori variegati s’addicono a “Ziggystein”, (figure femminili presenti nei racconti); senza ombra di dubbio ‘il nero s’addice ad Elettra’, tanto per fare una citazione letteraria, che poi fa il paio con “il cazzo è come il nero, sta bene su tutto”, tanto per dire, spontaneamente parlando. Quandanche, va detto, che un siffatto copione (l’intera raccolta), non solo si presta ad essere interpretato sulla scena ma ne ha tutte le caratteristiche e, se vogliamo, sul tavolaccio di un teatro ‘colto’, per palati raffinati e letterati di un certo pregio, di quelli che che a suo tempo hanno applaudito seriosamente l’“Edda Gabler” di Ibsen, che hanno acclamato con parsimoniosa ilarità l’“Ulisse” letterario di Joice, ma che pure gridarono allo scandalo alla ‘prima’ de “La traviata” di Verdi…

 

“Era accorta, affettuosa e implacabile… peccato fosse anche petulante. Talmente petulante da non permettermi un confronto lucido. La sua parlantina mi terrorizzava.[…] Inaccettabile. […] Con prepotenza torna Alma fra le pieghe del mio cervello ed ecco che gli scialbi coiti avviliscono l’atmosfera. Sì, mi manca l’ardore di un amplesso , ma preferisco contare i semi di questi frutti che mi restano fra i denti. […] Lo dicevo che era petulante. Lo dicevo che era frigida. Nessuno ha ritenuto questi motivi abbastanza validi ed eccoci qui. Perciò inspiro ed espiro prendendomi qualche secondo. Sulla faccia da schiaffi un’espressione enigmatica, ma assurdamente amichevole per un simile colpo di scena, giusto? Dovreste vederla, in effetti”.

 

Come sempre accade la ‘risalita’ di un personaggio dapprima sconvolge gli schemi (letterari e/o teatrali), ma al dunque la genialità viene a galla e Giulia Tubili, affatto turbata dall’esito, ha smesso il segreto che pure deve aver custodito per parecchio tempo e lo ha dato in pasto alle belve – che siamo noi lettori affamati del nuovo – i suoi vicini più prossimi che la spiavano per cercare di sapere qualcosa dei suoi rapporti proibiti, dell’esilio in cui si era immolata per così tanti anni, cosa ci fosse da sperare e cosa da temere da lei. Quand’ecco l’idea di scrivere un libro, “il libro” del suo esordio, la dice lunga in fatto di comunicazione, di attualità, che s’avvale di una scrittura strepitosa, aperta a tutte le sfrontatezze che – i suoi vicini – volevano conoscere, e che lei con uno scambio osmotico di sovrapposizioni figurative di personaggi diversi, ha così messo in scena per il ‘suo teatro’, fin troppo umano…

 

“Certo, ora è prevedibile anche lo stoico ghigno che le riserbo puntualmente. Forse prima ero spaventata, ma ora quei rozzi approcci mi scivolano addosso come lo strato viscoso di sapone scadente con cui celermente mi ricopro. L’acqua ci mette cinquanta secondi netti a diventare gelida ma Consuelo se ne fotte: si umetta i baffi, spreca il suo getto tiepido, poi si mette a leccare la fica di una Alice urlante nella speranza che io assecondi il teatrino e mi unisca incantata da quel colloso tripudio animale. […] Sembra che io interessi solo in ambito meramente sessuale. Passatemi l’espressione ma penso di possedere una mercanzia notevole, ricevo complimenti grevi anche quando sono china a tirar via matasse di capelli aggrovigliati dagli scarichi”.

 

Il suo colloquiare forbito è pressoché esilarante sebbene riguardi l’incontro con un’assenza che le restituisce in pieno il senso di solitudine che l’attraversa dall’inizio alla fine, quasi fosse addirittura il primo contatto avuto con l’essere antropico dal giorno della sua nascita e/o rinascita che sia. E lo fa senza cercare o sperare in una risposta di soggettivazione, intimidita quasi, tuttavia per niente turbata di mettersi a nudo, e lo ha fatto solo per differire un’ultima volta la cattività relazionale dei ‘simbionti’ che lei stessa ha creato. Non un alter ego, ma molti, differenziati secondo i suoi stati d’animo, assecondando talvolta l’idea pirandelliana di “Uno, nessuno, centomila”, dandosi in pasto di quel “Così è se vi pare” e/o di “parlatene male purché ne parliate” indifferentemente da ciò che direte, e che, tra menzogna e ironia, pur la diversifica dagli altri…

 

“Nel piccolo ambiente del ristorante piombò una surrealtà placida i cui ricami sanguigni rievocavano una fine certa sin dal prologo di quel pasto. […] Vitree biglie coronate dalla funerea secchezza creavano contrasto con la bava vermiglia che, schiumando, trasformava l’orrore labiale del morto in un sorriso senz’anima. […] L’infanzia delle gemelle , unite nel peccato come una Salomé bifida all’epilogo della propria danza tossica. Una Salomé neanche sfiorata dalle conseguenze dei propri crimini.”

 

Neppure Oretta Bongarzoni di “Pranzi d’autore”, tantomeno Max Aub di “Delitti esemplari”, entrambi noti per la loro beffarda eccentricità, avevano osato fino a questo punto, mentre noi, i suoi cattivi vicini, avremo sì che riparlare dello strato di fango che fino a ieri abbiamo tirato contro chi poteva essere diverso, che era diverso, non bastante a ricoprire la scorza/corazza che con questo libro Giulia Tubili ha saputo crearsi addosso, protetta da una sorta di ‘velo d’ombra’ che cela il segreto dei suoi spiriti ignoti, di quelle che forse erano e/o sono le sue aspirazioni giovanili che pure si riversano e si spandono nel biancore della pagina di questo suo primo libro sorprendentemente emaciato, come se fosse scritto tutto d’un fiato sulla carta da culo. Secretato in un ‘codice a s-barre’ che non si concede se non al lettore più attento…

 

"Sentiva nelle narici quell'odore da persona di un certo livello e gli scattava in testa un principio di rispetto. mi capisci? E' tutta una roba neuronale. un amplesso di sensi. [...] Nel mio caso, ancora di più. Come la sottolineatura su un riassunto già unicamente formato dei suoi concetti basilari. [...] Non chiedo l'assoluzione, non chiedo d'essere immediatamente benvoluto, ma, vi prego, considerate questo macro-dettaglio! Perché vi comportate come se nulla fosse?! Perché vi comportate come se niente fosse accaduto?!".

 

“Mentre i miei coetanei venivano deportati nei campi di morte, io seguivo la mia fila verso la sede di un giornale per cui avrei pubblicizzato dello shampoo con la mia immagine. […] Suona irrispettoso credersi gli unici presenti nel camposanto ma, tra i vivi, ero la sola. […] Ma forse chissà, fanno bene loro. Però al contrario loro, io non so fingere il distacco. Non sono in armonia con me stessa, né con gli eventi in corso.”

 

Di certo noi cattivi, oltre ad augurarle ‘tanta merda’ (si dice così), ci aspettiamo quella parola in più che da sola illumini la strada fin qui intrapresa in questo suo ‘mondo estremo’, peraltro così vero, in cui ci ha condotti per mano… “Eppure da bambina, mi dicevano che ero una brava attrice.”

  

L’Autrice: Giulia Tubili nel pur breve excursus della sua vita si racconta così: “Sono cresciuta ribadendo che avrei fatto l’attrice e, nel frattempo, oltre che improvvisare siparietti domestici, leggevo e scrivevo, scrivevo e leggevo. Dopo aver seguito l’Actor Studio e l’Accademia Cinematografica e stage di perfezionamento a tempo indeterminato, oggi ho al mio attivo un buon numero di cortometraggi, alcuni spettacoli teatrali, set fotografici (ecc. ecc.), scrivere riempie le notti, i vuoti incolmabili, le cicatrici di un’adolescenza negata. Scrivere è come cavalcare a briglie sciolte e, poi, tornare a compiere lo stesso percorso cercando il giusto passo”.

 

Note: (“) Tutti i virgolettati sono dell’autrice Giulia Tubili.

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- Cinema

Sempre amore - Love International Film Festival Mons

Sempre amore - Love International Film Festival Mons
di AURORE ENGELEN

09/03/2023 - Il festival si terrà dal 10 al 18 marzo nella città vallona con un programma ricco di scoperte cinematografiche e grandi incontri.

In collaborazione con CINEUROPA NEWS
Copertina: Le Paradis di Zeno Graton

A strong comeback is on the cards for the Love International Film Festival Mons, which is returning from 10 to 18 March with a diversified programme, open to the world and to arthouse films, and buoyed by 79 films from 21 countries. In the festival’s opening slot, viewers will be treated to an international premiere of the new film by directorial duo Andréa Bescond and Eric Métayer, who previously gave us Little Tickles, which was discovered in 2018 and rewarded at the Césars. In Big Kids, they focus on a burning societal issue: the fate reserved for the elderly within our societies. In its closing slot, the festival is offering up a Belgian premiere of James Gray’s new film, Armageddon Time, which was originally unveiled at the Cannes Film Festival.
In terms of the International Competition, ten international titles are set for the showcase. These include The Lost Boys, Belgian director Zeno Graton’s first film, which has just been presented in the Berlinale’s Generation section; Ali Asgari’s Iranian movie Until Tomorrow, which screened in Berlin’s Panorama line-up and scooped the Grand Prize in the Valencia Film Festival; and Antonio Lukich’s Ukrainian film Luxembourg, Luxembourg, which was showcased in Venice’s Orizzonti section. The competition will also host the world premiere of Lucie Borleteau’s third feature film, My Sole Desire, as well as platforming Frédéric Sojcher’s new movie Le Cours de la vie. Two Spanish-speaking women directors are likewise set to be honoured: Elena López Riera, who was selected via El agua [+], discovered in Cannes’ Directors’ Fortnight, and Valentina Maurel on account of I Have Electric Dreams, which won three prizes in Locarno (Best Film, and Best Female and Male Actor). Rounding off the selection are two Canadian films - Before I Change My Mind by Trevor Anderson, and Chien Blanc, a new adaptation of Romain Gary’s novel by Quebec’s Anaïs Barbeau-Lavalette - and Sérgio Machado’s Brazilian movie River of Desire, which was unveiled in Tallinn. The Cineuropa Jury, meanwhile, will award their prize to one of the competition’s European films.
The festival is also hosting a second International Competition, the Compétition 400 Coups, which showcases 6 film crushes which cross the divide between different film genres. Viewers will get to discover Day of the Tiger by Romania’s Andrei Tãnase, which was recently selected in Rotterdam; Chiara by Susanna Nicchiarelli, which was selected in competition in Venice back in the autumn; Polaris [+] by Spanish director Ainara Vera; Spotty & Me by Italy’s Cosimo Gomez; Fogaréu by Brazil’s Flávia Neves, which was discovered in the 2022 Berlinale; and last but not least, Hicham Ayouch’s Abdelinho, which premiered in Marrakech.
The event also acts as a precious platform for spotlighting recent Belgian productions. Audiences will chiefly discover Let’s Get Lost, François Pirot’s second feature film which is released in Belgium next week and in France on 29 March; Love According To Dalva, Emmanuelle Nicot’s debut feature film, discovered in Critics’ Week and released in France and Belgium on 22 March; and Habib, la grande aventure by Benoît Mariage, whose release in Belgium will be announced in April.
In addition to these screenings, the festival will be welcoming an array of guests, including French director, screenwriter and actress Emmanuelle Bercot, who will be delivering a masterclass as guest of honour, alongside actor, director and screenwriter Michel Blanc.


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- Religione

Meditazioni di Don Luciano - Tempo di Quaresima Anno A

Meditazioni di Don Luciano - Tempo di Quaresima - Anno A

GESU’ TENTATO, HA VINTO I Domenica di Quaresima A Dal Vangelo secondo Matteo (4,1-11):

In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane”. Ma egli rispose: “Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. Gesù gli rispose: “Sta scritto ancora: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”. Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: “Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai”. Allora Gesù gli rispose: “Vattene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore Dio tuo adorerai: a lui solo renderai culto”. Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano. Le letture del ciclo quaresimale ‘A’ sono legate al catecumenato e all’iniziazione cristiana che culmina nel battesimo impartito nella notte pasquale. Vivere è scegliere! In questa prima tappa del cammino quaresimale siamo chiamati a rinnovare la scelta definitiva per Dio, una scelta che spesso diamo per scontata. ‘Non dobbiamo continuare a pensare alla fede come a un presupposto ovvio’ (Porta fidei, 2).

La scelta consiste o nel decidersi per Dio e il suo progetto, come ha fatto Cristo; o nel rifiutare Dio e il suo progetto, come ha fatto Adamo. L’essere tentati ci costringe a fare una scelta. ‘Se ti appresti a servire il Signore, preparati alla tentazione’(Sir 2,1). 2 ‘Il nostro progresso spirituale si compie attraverso la tentazione. Nessuno può conoscere se stesso se non è tentato, né può essere coronato senza aver vinto, né può vincere senza combattere, ma il combattimento suppone un nemico, una prova’ (S. Agostino). Il nocciolo di ogni tentazione consiste nello sbagliarsi su Dio, nell’avere di lui un’immagine distorta e, di conseguenza, nel rimuoverlo e nel metterlo in fuori gioco, visto che abbiamo perso la fiducia in lui. Dio sarebbe superfluo, solo un optional, se non anche un fastidio! Meglio fare da soli! E’ la tentazione di sostituirsi a Dio. Io sono mio! Decido tutto io! Il bene, il male, la vita, la morte, il giusto e l’ingiusto. Dio è sentito come un’oppressione e una minaccia alla mia libertà: sbarazziamocene!

Questo che è il più grande inganno della nostra vita è opera del diàbolos, cioè di colui che ci vuole separare da Dio e poi ci lascia soli. Le tre tentazioni sono tre scorciatoie, sono strade più brevi e più facili, ma che non ci danno la felicità. La strada migliore è quella che ci propone la Parola di Dio: quella sì che ci rende felici! ‘Beati quelli che ascoltano la Parola di Dio e ancor più beati quelli che la mettono in pratica!’. Le tre tentazioni di Gesù consistono tutte nel realizzare il suo essere Messia secondo i criteri del mondo. 1. La prima tentazione: è di tipo economico. ‘Se sei il Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane’. Cristo deve dar prova della sua pretesa per diventare credibile. Sentiremo ancora queste parole da coloro che schernivano Gesù sotto la croce: ‘Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!’(Mt 27,40). Anche noi rivolgiamo questa richiesta a Dio, a Cristo e alla sua Chiesa nel corso della storia: se esisti, o Dio, allora devi mostrarti, allora devi squarciare la nube del tuo nascondimento e darci la chiarezza, a cui abbiamo diritto. Il dubbio su Dio è sempre alla radice di ogni tentazione (se sei Figlio di Dio!). Questa prima tentazione è anche la tentazione del pane, la tentazione materialistica. Credere che l’unico problema sia il pane da mangiare.

Ciò che conta sono i soldi, così ti puoi togliere tutte le soddisfazioni. Si sostituisce Dio con le cose, che così vengono assolutizzate. E’ la ricerca del ben-essere (ben-avere) unicamente per sé. Il pane è un bene inequivocabile, ma più buona è la Parola di Dio. Il pane fa vivere, ma ancor più vita viene dalla Parola di Dio. Anzi, l’uomo vive di ciò che viene dalla bocca di Dio. 2. La seconda tentazione è di tipo religioso. ’Se sei Figlio di Dio, bùt3 tati giù’. Buttarsi dal tempio può apparire un gesto sensazionale che manifesta la grandiosità della potenza di Dio. Dio deve dimostrare di essere Dio.

Così il discepolo può vantarsi della potenza del suo Dio. Ma nulla, o ben poco, dice dell’identità del vero Dio, che è amore. Cristo non si è gettato dal pinnacolo del tempio, non ha messo alla prova Dio, ma è sceso nell’abisso della croce e della morte, perché sapeva che il fondamento del mondo è l’amore. Questa è la tentazione del miracolismo, del trionfalismo, del protagonismo, dell’apparire. Il protagonista non vede altro che se stesso e pretende che ogni cosa sia centrata su di lui. Ciò che conta è il successo, la bellezza, far carriera, diventare qualcuno. Siamo disposti a credere solo se Dio ci accontenta. Ma Dio non è un mago! 3. La terza tentazione. Satana ‘Gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e disse: se ti prostrerai sarà tutto tuo’. E’ la via del potere, intesa come volontà di dominio che si impone con la forza, e per questo si è disposti a tutto. Si agisce sugli altri sottomettendoli. Ma noi sappiamo che solo il potere che sta sotto la benedizione di Dio può essere affidabile e ci rende liberi! A. La Parola di Dio è la spada per colpire il maligno.

Gesù ci mostra il metodo biblico per affrontare le tentazioni. Alla parola dell’inganno oppone la Parola di Dio. La Parola di Dio è la spada che riesce a mettere il maligno a KO (cfr. Ef 6,17). Gesù taglia netto e dice: ‘Sta scritto!’ (= è stato scritto da Dio). Gesù vince ricordando la Parola di Dio. La memoria Dei guida Gesù alla vittoria. L’arma micidiale con cui Gesù combatte il maligno è la sottomissione alla Parola di Dio. Anche il diavolo usa la Scrittura, ma lo fa con malizia. Gesù, invece, gli obbedisce nel suo significato più profondo. Lui è la Parola Vivente del Padre; lui è il contenuto della Scrittura; solo lui la conosce e solo lui la sa interpretare bene. Quando preferiamo le suggestioni del serpente alla Parola di Dio, il giardino della vita si trasforma in deserto. E’ con il Vangelo, continuamente riproposto, che Gesù sconfigge la tentazione e allontana il diavolo: ‘Vattene, Satana!’. Così quel deserto si trasforma in giardino di vita. Giungono gli angeli, si accostano a lui e lo servono. Il deserto si popola di consolazione, di solidarietà, di persone che, come angeli, aiutano gli altri. Il Vangelo ci presenta questo episodio delle tentazioni subito dopo il racconto del Battesimo.

Questo significa che ogni battezzato deve condurre tale combattimento contro l’istinto cattivo che abita il suo cuore. La vita di fede assume la forma di un’incessante lotta contro le tentazioni. ‘Rinunciate a satana, a tutte le sue opere e a tutte le sue seduzioni? Rinuncio!’. Sono i tre ‘no’ del Battesimo. “Gesù Cristo fu tentato dal diavolo nel deserto, ma in Cristo eri tentato tu: in lui fosti tu a essere tentato, in lui tu riporti la vittoria” (S. Agostino). La cosa più importante che la fede cristiana ha da dirci non è che il demonio esiste e ci tenta, ma che Cristo ha vinto il demonio. Niente e nessuno può farci del male, se noi stessi non lo vogliamo. Satana non è che una creatura andata male. Dopo la venuta di Cristo, è come un cane legato sull’aia: può latrare e avventarsi quanto vuole; ma, se non siamo noi ad andargli vicino, non può mordere. Questa è la notizia più bella e gioiosa: Gesù nel deserto si è liberato da satana per liberare anche noi da satana. Qui sta tutto l’ottimismo evangelico! B. La comunione è un antidoto efficacissimo contro il demonio! • “Il diavolo assale quando vede che si è soli (deserto) e per conto proprio. Quando vede, invece, che si è con gli altri, riuniti insieme, non ha lo stesso coraggio e non assale. E’ necessario radunarsi continuamente gli uni con gli altri, in modo da non essere fragile preda del diavolo” (S. Giovanni Crisostomo). •

“Procurate di riunirvi più frequentemente per il rendimento di grazie e per la lode di Dio. Quando vi radunate spesso, le forze di Satana sono annientate ed il male da lui prodotto viene distrutto nella concordia della vostra fede. Nulla è più prezioso della pace, che disarma ogni nemico terrestre e spirituale” (S. Ignazio d’Antiochia). * “Il demonio teme poco coloro che digiunano, coloro che pregano anche di notte, coloro che sono casti, perché sa bene quanti di questi ne ha portati alla rovina. Ma ecco quelli che teme: coloro che sono concordi e che vivono nella casa di Dio con un cuore solo, uniti a Dio e fra loro nell’amore, questi producono al demonio dolore, timore e rabbia. Questa unità della comunità non solo tormenta il nemico, ma anche attira la benedizione di Dio” (S. Bernardo).

Il tema della tentazione manifesta una connessione chiara col ‘Padre nostro’: ‘Non ci indurre in tentazione’ (= Fa’ che non entriamo o che restiamo dentro la tentazione). O anche:’ ‘Non lasciarci cadere nella tentazione’. Il senso di questa richiesta del Padre nostro, può essere esplicitata così: “Padre, siccome sappiamo benissimo che il nostro spirito è pronto, ma la nostra carne è estremamente debole, ti chiediamo incessantemente di non lasciarci cadere e di non abbandonarci nella tentazione; ti chiediamo che tale situazione di prova non diventi uno strumento nelle mani del nemico per rovinare la nostra vita e allontanarci da te”.

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- Poesia e scienza

Armando Bertollo ‘Volumi Immaginari’ - Anterem Ediz. 2023

Armando Bertollo ‘Volumi Immaginari’ … ovvero la danza dei vuoti e delle forme. Anterem Edizioni 2023

 

Il primo 'quaderno' inedito, ricevuto in anteprima dall'autore per la sua pubblicazione, con il titolo "volume immaginario" è risultato Finalista al Premio Lorenzo Montano 2020, indetto da Anterem nella sezione Raccolta Inedita. Successivamente, previo l'aggiunta di altre parti di completamento, sostituito nell'attuale "Volumi Immaginari" cui diamo il benvenuto.

  

Immaginiamo per un istante d’essere di fronte all’inestricarsi di ciò che pure è apparente, tangibile quasi, per quanto apparentemente dilatato nell’assenza di forma che non si lascia afferrare, se non dallo sguardo creativo che superato lo scoglio dell’immaginifico, giunge al concepimento onirico del sogno, o forse, dell’illusorio abbaglio della luce; al pari del risveglio dal bozzolo della farfalla la cui forma eclettica (dei disegni e dei colori) fuoriesce nel vuoto che la circonda, e che s’invola a dar luogo alla danza sulla musica costante dell’aria che l’accompagna nello scompiglio necessario, o forse, in una specie di ordine necessario, che la rende viva, come dentro uno stato di ebbrezza febbrile …

 

“la farfalla notturna ---- sostava nell’ / ombra / del bordo dell’ ___ orinatoio bianco / --- all’improvviso / manifestarsi / di una necessità: ___ un tiepido fiotto ___ d’am / bra ___ / si turbò / come un pipistrello / scosso --- dallo scroscio ___ di un sogno” (a Marcel Duchamp)

 

Misurarsi nella capacità di rincorrere / tracciare --- tratteggiare le linee di questi voli astrusi può risultare piuttosto arduo, per quanto l’odierna quantistica insegni, insieme a tante altre cose, che è possibile rappresentare ciò che è credibilmente visibile, catturandone dapprima il ‘suono e le vibrazioni’ che circondano ogni cosa, così come l’afflato della cifra verbo-poetica che l’avvolge, purché non se ne violi il mistero. Ciò che vale per i vuoti e gli spazi, per le forme e i colori, come per i suoni e la musica, poiché tutto rientra nella concatenazione matematica della creazione, l’unica formula che accoglie in sé le linee cosmiche della spazialità così come le forme intangibili e immateriali della creatività, in rappresentanza delle espressioni e dei valori dell’umana conoscenza …

 

“___del _frutto_ il_ pro_fumo / vite ___udite _di _vite / il suono --- strin-gente / --- l’im_ma_gi_ne ___osservate / ___di ___lumi_no_sa / l’inter_faccia / ___sen_za_ap_pigli / ---per l’insett---o / ___ om_bra _di_ vite___udite / lapres_sione _ i_ il tormento / ___nel_l’o-riz_zon_tale / ___ materia / la testa_al_vuoto / (a) --- fili ---rami---di---nel _buco_lico ---soste_gno / ___ della cor_nice ___ eco_no_mica / origini --- / se in pianta stabile / ___c_erti_fica_ti”

 

È così che la natura ondulatoria intrinseca della quantistica applicata alla ‘poesia teoretica’ di Armando Bertollo “tra pa(r)lato e orto-dossia, tra regola e te-gola, tra desiderio e volontà”, sembra esplodere quando non è ancora forma, cioè ancor prima di raggiungere una sua compiutezza, permettendo al lettore di spaziare nell’evoluzione delle linee grafiche (onde, rette, tratteggi ecc.), e dei caratteri tipografici (punteggiatura, monosillabe ecc.) che l’accompagnano: dai reconditi ‘vuoti’ alle ‘forme’ avite dello Yin e yang (parti del ‘tutto’ nella cosmologia cinese), in cui i versi dell’autore s’adombrano e s’illuminano di quella ‘gioia di volare’ che da sempre accompagna il desiderio antropico universale …

 

“---___l’affondo_del c a l a b r o n e /--- è ___repentino___ / puntuale___eminente /--- ___(s)tragico /tallone d'ira / ---il tocco___ lo fa pre-ci-pi-ta r e / e___ letterarlmente / ---presto / ---af-fon d a / --- re---nudo” “grillo ___ e / ---lucciola / ---piccole ore esti-ve / ---giocare___insonni” “---___lucertola / ___ballerina / ___pattina___mattutina --- / ---sul--- / ricordo--- della brina---”

 

Siamo più vicini a Dio di quanto pensiamo di essere, sì che un lettura analitica coinvolgente entrambe le formulazioni teoretiche avanzate dall’autore, si rivela sempre più aderente a una partitura musicale, in cui il testo grafico ‘delle forme’ e quello più esplicitamente poetico ‘delle parole’, compone una sorta di compensazione, che agisce equamente sia a livello conscio che a livello inconscio sulla ‘autoregolazione del pensiero’ individuale, teorizzata da C. G. Jung in ‘psicologia del profondo’. Cosa non succede in un cervello di così sbalorditivo, quale confusione, qual è, per così dire, la funzione poetica di una trattazione che fin da principio appare teoretica? Assistiamo agli estremi di una ricerca che solo apparentemente traspare, e che pure accoglie in sé la completezza del creato e tutta la bellezza del mondo segreto del suo autore. Armando Bertollo infatti suggerisce dapprima di abbandonarsi all’intuizione, allo sguardo d’insieme, quindi approfondire la creatività specifica insita di ogni singola tavola, e infine, elaborare i collegamenti filosofici applicati alle linee di congiunzione, ai teoremi formati dai cerchi come punti di riferimento, da cui partire per rifare il tragitto all’inverso …

 

“ ( ? ) ---cos’è ‘grondaia’ / quest’---azione della bocca---/ nel dire___quasi a vuoto / ___ (vongolare) _giù_verso / ---con l’ingombro --- della lingua / ---minimo / ---a ritrarsi / ---schivando papille e corde / ___masticando / ___di gronda / ---in onda?”

 

Dacché le assonanze e le dissonanze musicali, le congiunzioni onomatopeiche, gli ossimori contrastanti, forniscono qui la chiave sonoro-simbolica di questo elaborato discorso poetico, presago di un futuro linguaggio comunicativo interscambiabile, con funzioni diverse, quante sono le scienze chiamate a interloquire: psicologia, filosofia, sociologia, fisica, matematica quantistica ecc. Ognuna afferente alla singola cellula allo stato di formulazione del bozzolo embrionale da cui nasce la nostra farfalla iniziale, un ibrido nelle forme, come nei disegni che nei colori, la cui composizione è altrettanto esile quanto effimera, al pari dell’ombra che lascia nello spazio e nel tempo del suo passaggio, subito afferrato e riaffermato dall’illusorio abbaglio della luce …

 

Altro non resta che lasciarsi abbagliare e battere le ali nella danza, lasciarsi cadere nei vuoti e risalire verso gli estremi lembi dei pieni inglobati nelle forme. Come narra una leggenda sahariana: basta il battere delle ali di una farfalla a scatenare una tempesta di sabbia. In fondo è quello che noi tutti, semplici lettori e amanti della poesia a noi contemporanea ci aspettiamo …

 

..l’afflato di una complicità indulgente e coinvolgente della formula apotropaica.

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- Cinema

Le opere immersive europee - Cineuropa News

Le opere immersive europee dominano la line-up SXSW 2023
di Martin Kudláč


07/03/2023 - La maggior parte dei titoli XR selezionati per il rinomato evento statunitense proviene dal Regno Unito, ma il programma include anche lungometraggi narrativi e documentari europei.

Dall'inizio dell'anno, le produzioni europee hanno preso parte ai festival statunitensi. Dopo Sundance (leggi la news) e Slamdance (leggi la news), è stata annunciata una nuova serie di anteprime europee per l'imminente 30esima edizione del celebre SXSW di Austin (10-19 marzo). Il festival texano entra nella sua era post-pandemia con un'edizione solo dal vivo, che si aprirà con un adattamento per il grande schermo del popolare gioco di ruolo Dungeons & Dragons: Honor Among Thieves. “[The line-up] è una straordinaria raccolta di film, serie TV ed esperienze XR che promettono di ispirare, intrattenere e sfidare il nostro pubblico. Siamo anche orgogliosi di aprire con Dungeons and Dragons: Honor Among Thieves, un'avventura fantasy chiassosa e coinvolgente, e non vediamo l'ora di dare il benvenuto a tutti ad Austin per quello che promette di essere un evento indimenticabile", afferma Claudette Godfrey,
I film provenienti dall'Europa includono l'horror di formazione Raging Grace di Paris Zarcilla, prodotto nel Regno Unito, nel Concorso lungometraggi narrativi, che segue un immigrato filippino privo di documenti che si prende cura di un anziano malato terminale per assicurarsi una vita migliore. Tuttavia, un'oscura scoperta minaccia di distruggere tutto ciò per cui lei e sua figlia hanno lottato. Il Concorso lungometraggi documentari accoglierà Queendom di Agniia Galdanova, che si concentra su un'artista queer di una piccola città della Russia mentre mette in scena performance pubbliche radicali, mettendo se stessa in pericolo con il suo “artivismo”. Il documentario austriaco Riders on the Storm vede un giovane cavaliere che mantiene viva la tradizione del buzkashi mentre i talebani risorgono in Afghanistan. Il film, diretto da Jason Motlagh, debutterà anche nel Concorso Documentari. L'ultimo lavoro di Tünde Skovrán, Who I Am Not,
Tuttavia, le arti immersive sono il formato in cui le opere europee domineranno davvero all'SXSW. L'XR Experience Competition vanta sette titoli del continente che si contenderanno il premio. La line-up di opere che utilizzano questo nuovo mezzo include un'app con una forma parziale di IA che osserva i suoi utenti, Consensus Gentium di Karen Palmer (Regno Unito); un'esperienza di intrattenimento dal vivo virtuale guidata dalla musica per visori VR con un gemello virtuale di Berlino, The District VR di Dennis Lisk, Ioulia Isserlis e Max Sacker (Germania); una rivisitazione del romanzo più famoso di Bram Stoker, Dracula, con un libro pop-up realizzato a mano che include animazioni in realtà aumentata, in The Invited (Regno Unito) di Davy e Kristin McGuire; un documentario VR franco-statunitense che racconta l'assassinio di JFK, JFK Memento di Chloé Rochereuil; e Stay Alive, My Son di Victoria Bousis, un progetto greco-statunitense che rivive il tragico passato e la perdita di un bambino durante il genocidio cambogiano. Fresh Memories: The Look di Ondřej Moravec e Volodymyr Kolbasa (Repubblica Ceca/Ucraina) e Jailbirds – The Eye of the Artist di Thomas Villepoux (Belgio/Francia) completano i titoli europei di questa sezione.
Altri progetti immersivi europei sono in programma per prendere parte all'XR Experience Spotlight, che presenta la performance di danza mocap di Clarice Hilton e Neal Coghlan Figural Bodies (Regno Unito), che reinventa "il modo normativo e abile in cui il corpo è compreso e rappresentato"; un'esperienza multisensoriale degli inizi del movimento acid house, in In Pursuit of Repetitive Beats di Darren Emerson (Regno Unito); e Mrs Benz, un'esperienza VR sulla storia non raccontata di Bertha Benz e su come ha cambiato il corso della storia, di Eloise Singer (Regno Unito). Gli altri titoli provenienti dal continente e che andranno in onda in questo filone sono Behind the Dish di Chloé Rochereuil (Francia/USA), Shib the Metaverse di Marcie Jastrow e Sherri Cuon (Regno Unito), Spring Odyssey di Elise Morin (Francia) , Mondo temporale: A Haptisonic Virtual Reality Memory World di Chloé Lee (Germania), UnEarthed di Jamie Davies (Regno Unito) e You Destroy. Noi creiamo. di Felix Gaedtke e Gayatri Parameswaran (Germania).

Immagine: In Pursuit of Repetitive Beats di Darren Emerson

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- Filosofia

Lupen The Cat ...il mio stupendo gatto filosofo del nero.

LUPEN THE CAT / 10
Il mio stupendo gatto filosofo del nero.

“Grrrr, miao George, sveglia sono le undici inoltrate, sei ancora a letto, perché non sei andato a dormire prima? Te l’ho detto più d’una volta, non hai più l’età per tirarla lunga fino alle tre dopo mezzanotte, quindi cosa intendi fare?”
Perché mai, che cosa devo fare?
“Niente, solo alzarti, accudirti quel minimo che serve e preparare la colazione” – dice stentoreo Lupen.
Scusa, ma che fretta c’è?
“C’è che sono le undici e mezza ed io ho fame.”
Non è un mio problema!
“Non dirlo George, perché invece è un tuo problema eccome. Miao non pensare ch’io possa passare il resto della giornata senza pensare a un problema incombente come la fame, ti pare?”
Sì, d’accordo, ma non mi pare la fine del mondo se uno salta un pasto, pensa alla fame nel mondo?
“Miao, perché dovrei pensare alla fame nel mondo quando qui c’è cibo a sufficienza per sfamare tutti?”
Certo, tutti i tuoi amici sono sempre invitati, non è così Lupen?
“Sono sempre meno di quella masnada di nullatenenti che fanno visita a te, come ben sai, non ce n’è uno che abbia del sale in zucca,”
Parli sul serio, oppure dici così tanto per dire, no perché sai, alcuni dei miei amici sono laureati, chi in filosofia, chi in medicina e chi…
“Beh, non stare qui a farmi la lista, tra menzogne e ironia, potrei dirti che sono tutti afflitti da ‘melanconia fallimentare’, mi è bastato sentirli parlare del proprio lavoro.”
Lo immaginavo che ti saresti espresso in questo modo nei loro riguardi solo perché qualche volta hanno alzato un po’ il gomito nel bere, ma non esserne troppo sicuro, so per certo che la tua è soltanto ‘gelosia da strapazzo’, e solo perché non ti fanno le coccole che ti fa Ann, dì che non è così? Da un certo tempo mi sembra che tu veda solo nero dappertutto. Ma cazzo Lupen, è ancora notte e tu già reclami la tua pappa.
“Sei uno scemo George, se ti avessi lasciato dormire ti saresti svegliato dopodomani. È nero perché è ancora notte certo, quando ti ho detto che erano le undici inoltrate non hai tenuto conto che in effetti erano le ventitré e a quest’ora anch’io avrò diritto di schiacciare un pisolino ti pare?”
Ma toglimi una curiosità che cosa intendevi dire quando ai parlato di ‘melanconia fallimentare’, che ne sai tu?
“Niente, ho solo letto qualcosa di quel tuo amico Jacques Lacan che hai sul comodino ed è la migliore affermazione che ritengo si addica a quegli strampalati dei tuoi amici.”
Cioè, tu hai letto Jacques Lacan?
“Miao, perché no, mi è sembrata una buona lettura per non annoiarmi nell’attesa che ti svegliassi. Sebbene dovrei attenermi a un’altra sua affermazione, dov’egli dice… ‘il tramite melanconico di chi è assente nel sonno è una presenza assordante’. Va detto George che quando sei assente nel sonno russi come un vecchio trombone. Anzi mettiamola così, perché tu non puoi sentirti quando fai all’amore con quelle zitelle che ti porti in casa, sembri lo sbuffo di un treno a vapore che anche quando non lo si sente più continua incessantemente ad essere assordante.”
Lupen ma è davvero ciò che pensi di me, oppure lo stai dicendo solo per farmi arrabbiare? Te ne accorgerai quando non ci sarò più per te.
“Sebbene ritengo di poterti contraddire vorrei sapere dove pensi di poter andare quando oramai è già mezzanotte e domani, anzi fra qualche ora dovrai recarti sul posto di lavoro, posso saperlo? Miao, mi prefiguro già cosa insegnerai a quelle povere matricole dell’università domani. Ah, non voglio neppure pensarci.”
Dai Lupen, non dirmi che siamo già a lunedì? Mio Dio muoio al solo pensiero.
“Ecco George, riveli quanto sia elevato il tuo attaccamento al lavoro, mettendo in prima linea per quello che veramente sei, uno sfaticato senza rimedio, al solo pensiero del lavoro sei già più morto che vivo. Per quanto l’insegnamento straordinario che se ne ricava è che ‘possiamo dimenticare perché abbiamo incorporato il morto’ (catalessi), non perché ‘lo abbiamo ricordato’ (svegliandolo), anche perché se così dev’essere (il moribondo) ‘lo portiamo con noi, fa parte di noi, […] ed è solo nella misura in cui fa parte di noi che lo possiamo dimenticare.”
Lupen!!! Allora mi dimenticheresti, così su due piedi?
“Miao, ti sbagli George, a quattro zampe e una coda, se permetti!”
La coda non centra, è solo un fatto soggettivo, custodire la memoria di ciò che siamo è diventata una responsabilità indispensabile per sapere che siamo nati diversi, null’altro.
“Molto diversi George, ti sfugge di cosa stiamo parlando, oppure? Quando te ne sarai andato allora sì che potremo riparlarne, tu non ci sarai e la tua assenza credimi non farà torto a nessuno, mentr’io starò ancora qui: una vita, la tua, contro le mie sette. Come ti avevo annunciato non è un mio problema, semmai è il tuo.”
Beh, messo così non è neppure più un problema … è un dramma, anzi una tragedia delle più nere.
“Del resto è risaputo che ‘il nero sta bene su tutto!’. Con ciò voglio avvisarti, e poi mi taccio, che anche il nero di una macchia d’inchiostro, sulla tesi di laurea che stavi controllando ieri sera prima di uscire frettolosamente è solo un processo di interpretazione, onde ‘per cui l’illetterato dice allo scrivano cosa voglia dire, lo scrivano scrive cosa intende e cosa gli par meglio debba essere accaduto, il lettore del destinatario interpreta per conto proprio, e il destinatario illetterato a sua volta deforma, indotto a cercare criteri interpretativi nei fatti a sua conoscenza’ (U. Eco)…”
Basta così Lupen, prima che mi scoppino le cervella! Non voglio sentire altro.
“Adesso che fai, ti alzi dal letto e magari pensi anche di uscire senza preparare uno straccio di cena?”
No, vado solo a pisciare, ho la prostata stragonfia dei tuoi discorsi filosofici, posso? Tu mi permetti vero?
“Sì certo George, ti è con-cesso, ma non pensare di sottrarti ai tuoi doveri di oste, altrimenti anch’io posso tirarti qualche brutto scherzo e farla fuori della tazza.”
Ma che schifo! Dimmi che non lo farai Lupen, ti prego.
“Certo che no, ma ti avviso che la macchia d’inchiostro sulla tesi del malcapitato è quanto accaduto, mentre cercavo di correggere il suo elaborato per trarne una lettura accettabile. Che posso farci se quell’idiota mi sbaglia la punteggiatura?”
Ecco qua, abbiamo qui un gatto che si spaccia per professore dei miei stivali.
“No George, per favore non essere offensivo, quello di cui parli è un altro gatto.
Dovresti saperlo, personalmente indosso una livrea ‘nero su nero’, come dire ‘ton su ton’ che altri se la sognano. E se, come ti dicevo il nero sta bene su tutto’ per una volta fai in modo che anche la macchia d’inchiostro sull’elaborato di quel povero ragazzo passi inosservata, me lo prometti?”
Solo se adesso …
“No George, senza condizioni, promettilo e basta.”
Prometto.
“Del resto anche tu qualche volta commetti alcuni errori di punteggiatura, non è forse così?. Ieri ad esempio ero stato ‘tutta la mattina per aggiungere una virgola , a qualcosa che non era effettivamente efficace, e poi nel pomeriggio toglierla’, (O. Wilde), è così che vanno le cose di questo nostro mondo artato!”
Ma che fai Lupen, adesso controlli anche i miei testi?
“Potrei farne a meno ma, poiché ho riscontrato che nella tua complessità di antropico sei tutto un ‘errore’, mi sono detto beh perché no, visto che alla fin fine sai essere molto umano con me. Ti voglio bene George.”
Vieni qua, te ne voglio anch’io Lupen. Dai strofinati quanto vuoi ma non azzardanti a leccarmi il naso.

“Il solito burbero e per altro scorbutico.” – pensa Lupen ma che non dice.


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- Cultura

Il Carnevale a Venezia

Il Carnevale a Venezia.

Immaginiamo per un attimo d’essere in uno dei molti campielli che s’aprono all’improvviso ‘come per magia’ fra ponti e calli, finestre aperte e balconi di palazzi antichi, canali d’acqua dove le gondole sforano le brume e i mille riflessi della laguna, in cui l’arrivo del ‘torototela’ (cantastorie) richiama l’attenzione degli abitanti a uscire di casa e unirsi alla sfilata tra suoni e canti, ciprie e ventagli, maschere e costumi, rinnovando l’usanza di abbellirsi per la festa …

Quand’ecco che al suono di un tamburino veniva annunciata la rappresentazione nel campiello più vicino, dove una compagnia di ‘commedianti’, montato un palco rimediato per l’occasione con la scena disegnata con il carboncino, perché la tela dipinta si era rovinata durante i continui trasferimenti. E mentre già s’ode il brusio delle voci e dei rumori tra le risa e i lazzi degli spettatori accorsi numerosi, faceva la sua entrata Arlecchino in sella a un asino di legno che, con la maschera sotto il braccio, leggeva da un canovaccio quanto si sarebbe rappresentato da lì a un momento …

“Xé ‘rivà el torototela.
Son tri giorni che camino / par venirla a ritrovar / o parona me fafaso avanti / par venirla a domandar / son el povaro torototela / son el povaro torototà / che domanda la carità.
Se la varda ne la credenza / che calcossa la trovarà / se polenta o pur farina / la me daga presto qua / che calcossa me darà.
Son el povaro torototela / la sachetina go preparà / e la ringrassio tanto / che ‘n’altr’ano so ancora qua.
Son el povaro torototela / che ‘gni ano arrivà per el Carnevà / son el povaro torototela / son el povaro torototà.”

“Arlecchino cerca d’intorno l’asino sul quale è salito…”






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- Politica

BLA,BLA,BLA menzogne e ironia dagli scranni del Parlamento

BLA, BLA, BLA … solo menzogne e ironia dagli scranni del Parlamento.

Acclamato quanto osteggiato, per lo più sprofondato in un silenzio senza fine, l’attuale governo in carica si ritrova decostruito d’una necessaria opposizione parlamentare che lo costringe a farsi opposizione da solo, nella stancante paradossale attesa che qualcuno levi il culo dagli scranni per dire qualcosa in cui crede e che, per qualche futile motivo, controbatta (aggiunga, tolga, si rimangi quanto dice), le decisioni prese da un solo Deus ex Machina al comando, dedito a quanto pare, a fare il ministro di tutti e di tutte le cose. Inutile chiedersi dove sono finiti i Ministri nominati di entrambe le fazioni, nascosti sotto i banchi come credo facessero a loro tempo, quando andavano ancora alle elementari. O in quanto matricole universitarie che ammazzano il tempo a incrementare le fila di quegli “Apocalittici e Integrati” (1964), quanto inattendibili elencati da Umberto Eco, che: “manifestano gusto per l’imprecisione storica, credulità indiscriminata nei confronti di ogni fonte, tendenza a non usare una testimonianza quando si stata dimostrata attendibile, ma a giudicarla attendibile perché la si è usata”. (*)
L’attendibilità di quanto sopra enunciato, trova ulteriore riscontro in un altro affascinante libro di Umberto Eco: “La ricerca della lingua perfetta” (1963), tale da rasentare una vera e propria avventura letteraria ai margini della ‘fantascienza’. Se non altro perché questi ‘esecutori d’ordini’ uno dopo l’altro, riempiono i talk-show televisivi facendo a gara nel presentare i propri ‘libri’ sulla visione progressiva della società, ingabbiata entro formule edulcorate (rivestite di coperte patinate) ma dai contenuti esclusivamente commerciali buoni solo per l’intrattenimento. Libri che affrontano le tematiche più disparate, ‘facendo a gara a chi le spara più grosse’ sulle prospettive politico-economiche, senza tener conto che si è già grattato il fondo delle Casse dello Stato. In pratica ‘libri’ che rasentano i ‘fenomeni culturali’ in cui si cercano, senza trovarle, le ragioni progressiste d’una società in cui la ‘fantascienza’ la fa da padrona assoluto, dove si suppongono teorie sulla ‘cultura di massa’, sull’importanza obsoleta di una comunicazione stantia, fatta di slogan e promesse indecidibili.
E dire che questi signori dovrebbero accettare d’essere provvisori come qualunque altro, che non ha importanza lo schieramento, e sia che rientrino nelle schiere degli “apocalittici e/o integrati”, (se non per finzione snobistica) alla fin fine ogni loro grido di vittoria si attesta all’attualità della vanagloria che si perde nello spazio di una notte, che il mattino seguente riflette della luce albale della fantascienza, come il fantacalcio, la fantapolitica ecc. ecc. Ciò, per quanto la fantascienza, in altri termini, è narrativa delle ipotesi, della congettura e/o dell'abduzione, e in tal senso è ‘gioco’ per eccellenza, dato che funziona per congetture, ovvero per abduzioni. Lì dove ‘abduzione’, nell’accezione letteraria qui utilizzata, sta per allontanamento da un prefisso o punto di riferimento dalla realtà. C’è una frase attribuita al campione di scacchi Garry Kasparov che mi è piaciuto ribaltare: “Deep Thinking: Dove finisce l’intelligenza artificiale, comincia la creatività umana”, ma che in questo caso funziona solo se “dove finisce l’intelligenza umana, comincia la creatività del Deus Machina artificiale”.
Perché, anche se nessuno lo dice (e sono davvero pochi ad ammetterlo), i Ministri integrati dell’attuale Governo non sono ancora usciti da sotto i banchi della loro infermità, e si spera non lo facciano mai; ché, se puta caso salgono in cattedra, davvero li vedremmo fare (oltre che a dire) cose ‘apocalittiche’. Meditate gente, e “fate attenzione a non scivolare sulle bucce dei meloni”, che in quanto a onestà intellettuale e deontologia etica, la dice lunga su ‘diritti e doveri’ dell’essere parlamentari in rappresentanza di un popolo e di una bandiera. Le ideologie del passato sono dure da estirpare dalla mente di ciascuno, ancor più se questo qualcuno dovrebbe pur ravvisare che il successo elettorale conseguito una sola volta a furor di popolo non fa di un rappresentante del parlamento un mito del nostro tempo, bensì uno schiavo al servizio della comunità, sebbene lo si paventi a ‘leader’ di una masnada di incapaci.

(*) U. Eco -Tra menzogna e ironia- Bompiani 1998

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- Cinema

’Chiara’ un film di Susanna Nicchiarelli - al cinema

News by CINEUROPA

Recensione: 'Chiara' di DAVIDE ABBATESCIANNI
09/09/2022 - VENEZIA 2022:

Susanna Nicchiarelli dipinge il ritratto credibile e privo di orpelli retorici di una santa, ragazza e donna rivoluzionaria
Nel suo ultimo lungometraggio, presentato in concorso alla 79° Mostra di Venezia ed intitolato Chiara [+], Susanna Nicchiarelli decide di raccontare poco meno di vent’anni della vita dell’omonima santa. La storia inizia ad Assisi nel 1211, quando Chiara (interpretata da Margherita Mazzucco, resa celebre dalla serie di successo L’amica geniale [+]), appena diciottenne, scappa dalla casa del padre per raggiungere il suo amico Francesco (Andrea Carpenzano). Rifugiandosi in un monastero e raggiunta dalla sorella minore Agnese, incomincia a vivere in povertà e secondo la Parola di Dio con le sue consorelle.

Il film è recitato interamente in volgare. A tratti, la parlata può essere difficile da seguire, anche se vale la pena di sottolineare che tutti gli attori fanno un lavoro discreto, rendendola piuttosto naturale e spontanea.
Tra i membri del cast, Margherita Mazzucco spicca grazie al suo ritratto serafico e coraggioso di una ragazza e di una donna che non si piegherà alla violenza della sua famiglia e alle pressioni esercitate dal cardinale Ugolini e futuro papa Gregorio IX (un sibillino Luigi Lo Cascio), desiderosa soltanto di vivere con le sue sorelle in povertà ed in libertà, similmente ai fratelli francescani. L’attrice sviluppa, inoltre, una buona alchimia con Andrea Carpenzano. Il loro rapporto di fratellanza ed amicizia è puro e sincero ma non per questo privo di conflitti. Questi ultimi, in particolare, emergono alla luce del riconoscimento papale che Francesco riceve per la sua opera. Secondo il pontefice, invece, Chiara non è degna, in quanto donna, “di dare l’esempio” e predicare la Parola di Dio al di fuori dalle mura del monastero.

Il resto del cast, in possesso di un buon physique du rôle, evita di rendere il tutto enfatico e retorico. Si tratta di un risultato degno di nota e difficile da raggiungere, specialmente se si lavora su dei personaggi che parlano principalmente di miracoli, compassione, spiritualità ed opere pie.

Gli inserti musicali, cantati e danzati, risultano piuttosto organici e sono ben orchestrati. Ricordano più da vicino delle pause teatrali che delle vere e proprie scene, celebrando momenti cardine della narrazione come ad esempio la guarigione dell’anziana consorella Balvina (Paola Tiziana Cruciani).

Nicchiarelli chiede a Crystel Fournier di realizzare una fotografia dai colori caldi, capace di valorizzare l’espressività dei volti segnati dei protagonisti, la natura circostante e incontaminata e la bellezza austera e scarna degli edifici religiosi. La sequenza nella quale viene recitato il celebre Cantico delle creature e la scena che ritrae Chiara davanti al monastero e circondata a poco a poco da uno stormo di piccioni, sono forse tra le più emozionanti ed ispirate a livello visivo. In diverse occasioni, inoltre, lo spazio e la messa in scena vengono gestiti in modo simmetrico e con gli attori rivolti frontalmente verso la camera, richiamando in maniera abbastanza chiara l’iconografia cristiana dell’epoca.

La scena finale sembra quasi appartenere ad un’altra tipologia di racconto e finisce per trasportare lo spettatore - almeno per qualche istante - in una nuova dimensione, decisamente più terrena e contemporanea in termini stilistici e musicali. Nella sua semplicità, la chiusura funziona, restituendo allo spettatore un grande senso di pace e compiutezza.

Al Tennis Club del Lido di Venezia, abbiamo incontrato Susanna Nicchiarelli. Il suo nuovo film, Chiara, è in concorso alla Mostra di Venezia e racconta la vita dell’omonima santa, qui interpretata da Margherita Mazzucco.

Cineuropa: Perché ha deciso di raccontare la storia di Santa Chiara oggi?
La regista italiana ci ha parlato delle sue scelte di casting, del suo lavoro sul volgare e delle sue fonti d’ispirazione.

C’era qualcosa di questo racconto del Medioevo, con le sue paure, le sue malattie, il suo isolamento che mi sembrava parlare al contemporaneo. In realtà l’incontro con Chiara è avvenuto il 7 marzo 2020. Stavano per chiudere il paese ed avevano già chiuso le scuole. Ho portato i bambini a vedere gli affreschi di Giotto ad Assisi. Eravamo soli, era un’atmosfera stranissima... Sono sempre stata appassionata di San Francesco, sono umbra di origini. Il suo messaggio è cosi radicale e la scelta della povertà è qualcosa che colpisce anche se sei non credente. Sapevo che Chiara era stata accanto a lui, però nei film su San Francesco come quello di Franco Zeffirelli [Fratello sole, sorella luna], Chiara appare poco. Quello dove appare di più è quello di Liliana Cavani [Francesco]. Mi sono incuriosita e ho acquistato un paio di libri sulla sua storia. Ho scoperto cosi che c’è una lettura della santa fatta da questa storica, Chiara Frugoni, che ha lavorato per tanti anni su una storiografia completamente diversa da quella ufficiale. […] Chiara voleva seguire l’esempio di Francesco. Capendo questa discrepanza tra la storiografia ufficiale, più religiosa e quella vera di questa ragazza, sono rimasta molto affascinata. Questo periodo coincideva col primo lockdown, eravamo chiusi in casa. C’era qualcosa di questo racconto del Medioevo, con le sue paure, le sue malattie, il suo isolamento che mi sembrava parlare al contemporaneo. Questa urgenza, questa radicalità anche della scelta di vivere in comune, stando accanto agli ammalati e in un mondo estremamente pericoloso, mi ha colpito. Mi sono resa conto che il Medioevo è molto più vicino al nostro quotidiano – in quel momento, soprattutto – di quanto credessimo. Alla base delle idee di questi ragazzi c’era anche un ripensamento del concetto di comunità, della vita in gruppo, oltre che una critica radicale alla società. Ho sentito che quei temi erano molto vicini all’oggi.

Chiara è una coproduzione italo-belga firmata da Vivo Film, Tarantula Belgique e Rai Cinema. 01 Distribution si occupa della distribuzione italiana, mentre The Match Factory gestisce le vendite internazionali.

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- Danza

Nur…un mito del silenzio.

Nur ... un mito del silenzio.

La città di Mantova si risvegliava specchiandosi sul filo dell’acqua delle peschiere nell’alba che d’argento s’andava facendo luminosa, striata appena qua e là di rosso pallido che si perdeva nell’azzurro del cielo. Nella Camera degli Sposi gli affreschi alle pareti si animarono di un tremolio leggero quando il latrare di un cane, per un istante, echeggiò nei corridoi, perdendosi poi attraverso le fughe di stanze. Nessuno se ne accorse, tranne alcuni servitori che mossero appena le palpebre mentre si rivoltavano nei loro giacigli. Era scoccata l’ora. Di lì a poco avrebbero ripreso le faccende cui erano assegnati, ognuno le proprie, senza far rumore. Gli Sposi, avrebbero continuato a dormire abbracciati per molto tempo ancora, dopo l’euforia della notte colma di piacere.
Erano giorni di festa quelli e nella splendida corte dei Gonzaga il vociare dei bambini e delle balie nane che li rincorrevano da una stanza all’altra, era tenuto lontano dalla Camera degli Sposi che per nessuna ragione dovevano essere disturbati, se non dai servitori che, ad una cert’ora tarda del meriggio, avrebbero recato i vassoi della prima colazione, ma senza fare il purché minimo rumore. Solo ai putti angelici che si affacciavano dalla balaustra del trompe-l’oil del soffitto erano permessi i sussurri divertiti, mentre alcuni domestici sbirciavano indiscreti e attenti, cercando in qualche modo, di non farsi vedere.
Intanto a Palazzo Te, la splendida dimora di caccia appena fuori dell’abitato che Giorgio Vasari definì: «un poco di luogo da potervi andare e ridurvisi tal volta a desinare, o a cena per ispasso», i cavalli scalpitarono irrequieti in attesa del pasto mattutino che gli stallieri di corte avrebbero portato loro di lì a breve. Nessuno pensò che a renderli smaniosi fosse il suono del liuto che, ancor prima che facesse giorno, proveniente da chissà quale segreta alcova, si era levato d’intorno. Un pizzicato sottile, una vibrazione di corde che risuonava come un sussurro nell’aria, o forse come una carezza del vento sopra le criniere.
Neppure i cuochi di palazzo a loro volta l’avevano avvertito, avvezzi com’erano al risuonare degli strumenti agresti e all’euforia dei balli contadini che la sera prima avevano loro conciliato il sonno. E bene facevano i conducenti dei carri degli approvvigionamenti a non disturbare la perfetta quiete che ivi dovunque regnava, cui non era permesso nemmeno di avvicinarsi troppo alle finestre della sontuosa dimora, che le sole ruote avrebbero creato trambusto sul selciato, per non dire del fragore assordante del trascinare le ceste delle mercanzie.
Lontani, nei campi, i contadini qui provvedevano alle sementi o alla raccolta dei frutti, più in là alla trebbiatura del fieno in totale silenzio. Nel mentre, nella palude lacustre, i cacciatori tenevano abbassati i fucili e i pescatori tiravano le reti senza alzar baccano. Solo al falcone era dato adocchiare dal cielo la preda solitaria che si aggirava ignara fra le siepi e la rada boscaglia, allorché la agguantava infliggendole gli artigli nel corpo fino alla stremo, senza che s’udisse un lamento, ed erano allodole o anatre, giovani conigli e salamandre.
Erano quelli i tempi in cui Federico II, divenuto signore di Mantova, aveva deciso di trasformare l’originaria isoletta in luogo di svago e di riposo, solita a fastosi ricevimenti con ospiti illustri, ove poter ‘sottrarsi’ ai doveri istituzionali assieme alla sua bella amante, Isabella Boschetti. Abituato com’era all’agio e alla raffinatezza, aveva trovato nel pittore architetto, certo Giulio Romano e ai suoi collaboratori, un ottimo realizzatore della sua idea di “isola felice”, per dare sfogo al suo genio e alla sua fantasia. Ben presto simboli e stemmi, avevano insignito di velleità più o meno celate, le facciate del gentile palazzo con festoni e decori; abbellite le pareti delle stanze con affreschi e dipinti che attraverso ponti immaginari e grottesche, richiamavano alla natura ospitale del giardino che aveva voluto tutt’intorno.
Erano sorti così, il Monte Olimpo, con ‘Giove che seduce Olimpiade’, circondato da un Labirinto di bosso uscente dalle acque, ahimè oggi scomparso. Inoltre a effetti luminosi, simboli e rimandi di elementi architettonici, in un alternarsi di vedute di Città lontane, più pensate che reali, che si specchiavano nelle vicine peschiere. Anche la fauna vi era rappresentata, fatta oggetto di particolare attenzione, e quella ‘salamandra’, che Federico II elesse a suo simbolo personale, assieme alla quale spesso, era affiancato il motto: ‘quod huic deest me torquet’ (ciò che manca a costui mi tormenta), non a caso ritenuta l’unico animale insensibile agli stimoli dell’amore, in contrapposizione con la sua natura galante e sensuale, tormentata dai vizi della passione.

In tempi più recenti, in una dimora attigua, seduto sulle ginocchia, un giovane musico intonava i versi di una ballata medievale il cui andante iniziava in tal modo: ‘Wish I had a troubadour and sitting by my necks …’ accompagnato dal dolce suono del liuto, mentre Nur si abbandonava in sbadigli amorevoli che riservava alla sua figura appena intravista nel grande specchio posizionato davanti al grande letto. Un talamo con baldacchino rivestito con lenzuola bianche di fiandra e grandi cuscini rigonfi. Come pure latteo era il suo corpo, opale il suo viso emaciato, se non fosse per le sue labbra di colore vermiglio e i grandi occhi scuri e profondi come l’abisso, dov’era possibile perdersi e ritrovarsi nello spazio di un batter di ciglia o, quand’anche fosse, dare spazio alle apparenti illusioni, alle speranze irrisolte, alle attese deluse di un’intera esistenza.
Il suo corpo era tutto per lui, tutto quello che aveva, tutto ciò che gli era dato in ogni sua minima parte. Ogni lembo della sua pelle chiedeva ancora un contributo di vitalità a quella esistenza che aveva speso per intera, senza lasciare niente per dopo. Una figura all’apparenza fragile ma vigorosa, un fascio di muscoli e nervi che si levavano dalle piante dei piedi fino alle braccia levate, alle sue grandi mani affusolate, capaci di disegnare ghirigori di neve nell’afferrare le note fluttuanti che il liuto, in quel momento, rimandava da una parte all’altra delle contrade, fino a sfiorare la quiete perfetta che regnava nella Camera degli Sposi, cullandoli nel loro infinito riposo, vegliato dal silenzio della storia.
È qui, in questa Corte dei Gonzaga, che Nur ha legato il proprio ricordo, nel fervore dei preparativi di un’ultima esibizione, nel ruolo di Filippo II, accompagnato da un’eterea e leggiadra compagna di scena, quella Carla Fracci che per l’occasione vestiva i panni della sua tenera sposa. Entrambi vestiti di bianco, quasi fossero i novelli Sposi che nella Camera degli Sposi dipinta dal Mantegna, apparivano sulla scena entrambi ‘innamorati dell’amore’ per quella danza che li aveva resi famosi. Un raffinato rimando ai fasti rinascimentali, ai costumi e alle consuetudini dell’epoca, al medievale ‘recercare’ degli strumenti antichi, alle musiche a ballo, al vociare delle dame, alla danza silenziosa delle molte fiammelle di candele accese sulla scena.
Tutto un accendersi di piume colorate sui cappelli, lustrini scintillanti sui corsetti appena stretti in vita, le calzamaglie guantate che permettevano ai danzatori i movimenti sciolti, rapidi, eleganti, nella piena libertà del corpo. Assieme alle sollecitudini delle tensioni, degli allacci e degli scioglimenti, dei voli angelici, delle molte evoluzioni di quell’amore che avvinghiava i loro corpi ai sentimenti e ai turbamenti dei sospiri. Così come ai respingimenti e agli abbracci nella danza che anticipavano il piacere, la sensualità e la passione che dimorava nei loro corpi; un’intera esistenza racchiusa in un’ultima performance che si consumava sul palcoscenico cedevole delle loro vite.
Ma la storia come si sa non fa rumore, semmai chiama a riflettere, rimanda ai ricordi, ai successi raccolti, a quell’arte che ancora oggi si mostra, sempre uguale a se stessa, dalle pareti di una dimora principesca che ancora oggi rende Mantova unica, fra le tante. E mai nessuno allora poté farsi meraviglia quando il giovane Troubadour levati i suoni modulati dal suo nostalgico liuto, riportò alla memoria il tempo degli allegri giullari, le danze cadenzate, gli scherzi e i lazzi di quell’ultimo Carnevale. Neppure quando, ancor tenendo bassa la voce melodiosa, ai piedi del suo capezzale, prese a pizzicar le corde del liuto, cullando amorevolmente l’affaticato Nur, morente.
“Per vederlo danzare ancora, per non lasciarlo solo affinché l’alba s’inchini a baciarne il risveglio, le sue labbra vermiglie, il suo batter di ciglia … perché torni a levarsi sul filo dell’acqua delle peschiere, nel silenzio assordante del primo ed ultimo mattino del mondo” – disse, nel momento stesso in cui l’alba violetta andava facendosi luminosa.
Una moderna leggenda congegnata all’uopo, vuole che ancor oggi, in certe albe azzurrine, striate qua e là di rosso e viola, il malinconico suono del trovatore, torni a far sentire il suono malinconico del suo liuto, sì che a qualcuno sembra aver perduto il tono.
Sì, adesso ricordo, lo scroscio degli applausi si era levato lesto dagli Sposi e dalla Corte tutta, giungendo fin nelle contrade della comune gente accorsa ad ammirare l’abile étoile in piedi sul proscenio, per una standing ovation più che meritata, che insieme il fragore del giubilo raccoglieva la riconoscenza dell’intera città di Mantova e del mondo intero, per aver egli elevato la sua vita, al più alto onore dell’arte della danza …

Rudolph Nureyev, un mito del silenzio.


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- Libri

Giorgio Moio - ’Testo al fronte’ - Bertoni Editore 2022

“Testo al fronte” – silloge di Giorgio Moio - collana di poesia verbovisuale Contrappunti – Bertoni Editore 2022.

“interpretare / fluirama della vita : / s’amplia l’assenza” (*)

“murmurea marea / frastaglia in immagini : / rimandi sguardi” (*)

Andare alle origini dello spazio verbovisuale intestato da/a Giorgio Moio, autore di questa silloge poetica, prevede per il lettore la capacità di accedere alle proprie facoltà superiori non senza rinunciare agli interessi di lettura immediati. Nonché a tradurre la visualità in segni e parole relativizzati a veri e propri mezzi per raggiungere un habitus virtuoso all’interno di un unico corpus (disegno) onde raggiungere un controllo sempre maggiore sulle proprie passioni e ideologie intuitive, attraverso un’argomentazione, tra utopia e realtà, in grado di costruire un progetto ‘altro’ e/o decostruire, enfatizzando la misura razionale dei suoi rapporti con la scrittura e la sua visualità artistica …

“un mare / non è un fiume / non fiumeggia / mareggia / cualche volta serpeggia / di tanto intanto / schiumeggia / et aleggia / volteggia / corteggia lindifferenza / linesistenza / fa lextroversus / parodia di unmaremoto / allegoria di unmarasma / che sta fermo..”

“apparentemente fermo / apparentemente appartato / ma sotto si muove / scava / et intriga / et corrode/ contesta le idee / linganno della storia..”

Un metodo questo che non spiega, perché non bisogna di spiegazione/i, di una certa volontà virtuosistica di accentuazione del proprio status creativo, che spinge l’autore alla ricerca di quella qualità sensibile intrinseca al proprio segno artistico, così come alla parola scritta, in cui forse il modo migliore è quello di identificarsi nell’opera grafica medesima. Tuttavia è qui che il lettore constata una certa resistenza da parte dell’autore di superare la ‘soglia’ dell’arte e inoltre preclude il determinarsi della parola poetica che egli vorrebbe d’accompagno alle sue immagini artate …

“è ghiaia / lixionata / scavata / chesta hiaia / azzurro / lesionato / […] è azzurro didee / che si colora / corrode / agghiaia / furiosamente / […] è unalitare / cuestalitare / è un respiro / affa(nn)oso / spru(zz)o di mucosa / che si spande /semina / di tormento / sperma / che / sincanta / cuesto / tormento / è una lingua / slinguata ..”

Ma come sappiamo la parola risponde a una concezione di musicalità intrinseca e non sempre si lascia addomesticare da una o altra immagine che non potrebbe contenerla, in quanto, pur interiormente commisurata alla ‘memoria involontaria’ di un’intera esistenza, evapora voluttuosa nell’orchestrazione universale dell’aere cosmica che l’accoglie in sé. Quella che è poi da sempre la ‘misura della poesia’ pur nei suoi viluppi di moda, di stili, dei cambiamenti sociali e politici delle lingue, delle tradizioni, ma soprattutto delle irragionevolezze delle passioni umane. Onde per cui anche le apparenti illogicità e/o le irrazionalità di Giorgio Moio rientrano in fine nell’unica certezza cui risponde la vita nell’evolversi alla ricerca costante di “incontrare l’assenza”…

“sa / la resistenza / di una riverenza / le parodje nonchalanziate / del vento / che / respirano / affannose / smaniose calembouriate / si rendono incalcolabili / ancora / una / volta / come / una volta..”

“uguale sorte / a li’ paradossi / de’ laccua; / irriverenti / mostruosi / si mostrano / in abili / per- formances / giocano / a presentarsi / confusi / le linee / grot-tesche”

Ma determinare cos’è che manca alla nostra esistenza è un dibattito sociologico quanto più filosofico ancora aperto, in questo nostro ‘mondo liquido’ (Z. Bauman) si devono cercare nuove realtà o, forse, una nuova autoconsapevolezza, prima che si determini il tramonto d’ogni possibile favola. Ecco quindi, che quanto operato in questa silloge da Giorgio Moio, apre a ulteriori ‘altre’ possibilità d’incontro, non necessariamente virtuale quanto immateriale, di guardare l’arte, così come la poesia in astratto osserva con altri occhi ‘che ascoltano’, quanto ad orecchi ‘che vedono’, la parola come soggettivazione futura, o almeno futuribile …

“s’eguono / a ruota / tra un s’ogno / di f’ango / un s’Uono / di roccia / eguono / ogno / ango / uono..”

“nel bianco / del foglio / dove ogni posto / è unaltro posto / unangolo / senzangolo / senza flutto / et cuando / c’è flutto / non sempre / si / fluttua / fluttuazioni / di resistenze / kistu / flutto / ascriba & / trafila ad arsa / appalanca”

Un ritorno all’origine del discorso sull’arte della parola, discorsivo ed evoluto, intrapreso ab illo tempore, “metatetico” che “non propone formule o soluzioni ma un'esplorazione tra parole e segni”, delle parole in libertà già del Movimento Futurista di Marinetti, e “archi-voltaico” della sintesi dell’arte, così Balla, Boccioni, Depero e/o nell’arte dei rumori di Luigi Russolo. Sì che il “Testo al fronte” con il quale Giorgio Moio si propone di anteporre alcune immagini ai testi come possibili 'situazioni poetiche’, solo apparentemente scollegate dalle immagini, risponde a “una concezione plurale della realtà sottratta alla facile fruizione, a un qualunquismo intimistico-emotivo” che non lascia dubbi sulla validità dell’operato, ma che, in quanto immagini, si lasciano affrontare e/o penetrare non senza empatia di quanto l'autore in modo concettuale “voleva, o forse, non voleva dire”, nel tempo-spazio della sua creatività …

Gli errori e/o gli orrori (secondo il lettore) sono voluti, evoluzioni di un dire per ‘sordi’, di un vedere per ‘ciechi’, nella prospettiva di una lingua assonante/dissonante, arcaica di reminiscenze isolane (Sardegna?), coercitiva “asole / zampi(ll)a / a brio / una litania […] / agli argini / di / una / sorgente / dac- / cua”. Come di un sasso gettato nell’acqua che remora, “adonda” in cerchi che s’allontanano dal centro cosmico dell’universo poetico di Giorgio Moio, ad affrancare ogni cosa che ruota tutt’attorno …

“minuta un’idea / non ancora esaurita : / voce rintrona” (*)

Note:
Tutti i virgolettati sono di Giorgio Moio e inoltre trascritti da:
“Venti haih-ku extravaganti” (*)- in Frequenze poetiche n.3 – Bertoni Editore 2022

L’Autore
Saggista e scrittore, redattore e direttore editoriale, critico letterario, collabora a diverse riviste e giornali del settore di cui è anche fondatore, partecipa a rassegne, festival poetici e mostre collettive di rilievo. Ha all’attivo numerose pubblicazioni di vario genere. "Testo al fronte" è il quarto volume della collana "Contrappunti" (poesia verbovisuale) che Giorgio Moio cura per la Bertoni Editori. Altrettanto forbito è il suo curriculum come autore che è possibile consultare su tutte le piattaforme Web.




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- Politica

Bla, bla, bla - maschere, trombette e cotillon.

Bla, bla, bla … maschere, trombette e cotillon.

Lo slogan affatto originale è “la pacchia è finita!”, a voler dire “un’altra pacchia è appena cominciata!”. Per chi non se ne fosse ancora accorto Balzac è tornato a sedersi sulle poltrone aurifere del nostro Parlamento, scurrile e volgare come sempre, disfattista più che mai, nella finzione delle belle parole accomodanti che hanno stravolto un ostentato “no!” a tutto e a tutti in un bislacco “sì” o quantomeno in un “sissignori!” che la dice lunga, e che vale a dire “adesso vi faccio vedere io”, che sa di vendetta retrodatata, sulla scia di un passato negazionista della liberalità, della giustizia sociale, della libertà di parola ecc. ecc. Ecco spiegate le ragioni di un cambiamento tanto repentino che sa di “mascherata fuori del carnevale”, dove chi ha sempre vestito i panni del gendarme con la sferza in mano oggi ha tirato fuori la trombetta dell’adunata per farci credere, volenti o nolenti, che la “pacchia è finita” ma che invece dei famigerati coriandoli è pronto a tirar fuori le bombe per una guerra alle istituzioni democratiche che pure, nel bene e nel male, hanno assicurata la ‘pace’ per settant’anni. Che la volgarità sia un ingrediente essenziale dell’arte della guerra lo constatiamo in ogni momento del giorno e della notte dai media allorché veniamo informati degli ultimi bombardamenti che ci rintronano, benché lontani dalle nostre sante orecchie, sopra le nostre teste. Né tantomeno ce le risparmia il Parlamento europeo, con le beghe interne e i disastri esterni che determinano il crollo delle economie nazionali e sopranazionali. Ma senza stare qui a piangerci addosso va detto che la decostruzione o lo smontamento, chiamatelo come vi pare, è iniziato già da un po’, da quando alcune forze politiche sono entrate nell’ottica che la ‘pace’ era in realtà una finzione e che quindi qualunque governo vigesse andava smantellato, anziché perorare la causa di quanto di buono era stato fatto, e/o re-indirizzare ed aggiustare ciò che non andava, ma che altresì andava sostituito. Troppo comodo, diciamolo pure, ogni volta a dover raccogliere, “costi quel che costi”, armi e bagagli e fare posto a un fatidico governo ‘altro’ intellettualmente più illuminato. Dalle ‘stelle’ penserà qualcuno, non è così, ma dalla ‘luna’ coi suoi flussi e reflussi, andanti e tornanti di un passato che non ha più ragione di essere invocato. Ma il ‘carnevale’ bussa alla porta facendo finta di chiedere “…è permesso?”. Se il buongiorno si vede dal mattino abbiamo già assistito alla corsa di quanti si sono affrettati alla riscossa, rispolverando gli abiti buoni sopra i costumi di carnevale, subdolamente bene intenzionati ad aggiustare il tiro mancino che hanno nascosto dietro la schiena, e con la magniloquenza erudita di chi ha imparato la lezione, oggi s’affanna, sbraita, e s’infervora a voler far credere che, messi da parte i pregiudizi nei confronti di chiunque non la pensi al loro stesso modo, si è pronti ad affrontare ciò che per molto tempo hanno fatto finta di non volere, armandosi di quella falsa buona volontà che li ha portati al governo del paese. Ma se Balzac era già prima un impostore (letterario), adesso men che mai lo si può scambiare per un genio della politica, lo abbiamo visto alla prova. Di fatto gli scranni del Parlamento sono pieni di adepti vischiosi, unti e bisunti del fiele versato in tanti anni di opposizione. E che dire di chi li ‘governa’, per modo di dire, con simpatia da parte di molti di noi che applaudono senza ridere, tantomeno sorridere, ad ogni balzo umorale della sua voce, ad ogni ascensionale levarsi oculare, o al continuo lisciarsi dei capelli che riflettono di marcoaureliano ricordo, volendo far credere che l’età dell’oro s’avvicina; che tutto ciò che finora è stato al di sotto del rango degli eletti troverà riscatto. Una promessa che ha già trovato affermazione nella distribuzione delle poltrone dentro e fuori del Parlamento, probabilmente ‘dovute’ a chi fin qui l’ha sostenuta, riconoscendole un carisma e una capacità superiore alla loro di inettitudine cocente, e/o che prima vestiva i panni del servitore sciocco, maschera di un carnevale di trombette trombate. Ciò detto assistiamo oggi alla messa in pratica di alcune massime raccolte, strano a dirsi, da un massimalista cinese, Sun Tzu, che nel “L’arte della guerra” in cui in sintesi è detto: “Se vuoi battere il tuo nemico fallo Re”, una strategia che si attaglia perfettamente a quanto avviene oggi nelle istituzioni italiane ed europee, cioè appoggiamo ogni assunto della politica per poi cambiarla dal di dentro, la de-costruzione è avviata, ma in quanto ad una possibile ricostruzione inseguo i miei dubbi. La musica sta cambiando, quella che sembrava una melodia si è trasformata in un rumore assordante di voci contrastanti: “Le note musicali non sono più di cinque, eppure nessuno può dire di aver udito tutte le loro combinazioni”, ripete il saggio cinese, considerando tutte le assonanze, le risonanze e le dissonanze del caso, ne assisteremo a ben altro concerto.

Meditate gente, meditate!

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- Cinema

European Film Academy - in coll. con Cineuropa


European Film Academy - in collaborazione con Cineuropa

Find our live coverage of the event before it started on our Facebook and our Twitter. The full article will be published soon.

The list of winners:
European Film
Triangle of Sadness - Ruben Östlund (Sweden/Germany/France/UK)
European Documentary
Mariupolis 2 - Mantas Kvedaravičius (Lithuania/France/Germany)
European Director
Ruben Östlund - Triangle of Sadness
European Actress
Vicky Krieps - Corsage (Austria/Luxembourg/Germany/France)
European Actor
Zlatko Burić - Triangle of Sadness
European Screenwriter
Ruben Östlund - Triangle of Sadness
European Discovery – Prix FIPRESCI
Small Body - Laura Samani (Italy/Slovenia/France)
European Comedy
The Good Boss - Fernando León de Aranoa (Spain)
European Animated Feature Film
No Dogs or Italians Allowed - Alain Ughetto (France/Italy/Belgium/Switzerland/Portugal)
European Short Film
Granny's Sexual Life - Urška Djukič & Émilie Pigeard (Slovenia/France)
European Cinematography
Kate McCullough - The Quiet Girl (Ireland)
European Editing
Özcan Vardar & Eytan İpeker - Burning Days (Turkey/France/Germany/Netherlands/Greece)
European Production Design
Jim Clay - Belfast (UK)
European Costume Design
Charlotte Walter - Belfast
European Make-up & Hair
Heike Merker - All Quiet on the Western Front (Germany/USA)
European Original Score
Paweł Mykietyn - EO (Poland/Italy)
European Sound
Simone Paolo Olivero, Paolo Benvenuti, Benni Atria, Marco Saitta, Ansgar Frerich & Florian Holzner - Il buco (Italy/Germany/France)
European Visual Effects
Frank Petzold, Viktor Müller & Markus Frank - All Quiet on the Western Front
European Innovative Storytelling
Exterior Night - Marco Bellocchio (Italy/France)
European Sustainability Award – Prix Film4Climate
European Green Deal
European Achievement in World Cinema Award
Elia Suleiman
Lifetime Achievement Award
Margarethe von Trotta


Il sondaggio dei critici di "Sight and Sound" 2022: cosa è cambiato e cos'altro dovrebbe cambiare?

Articolo di VLADAN PETKOVIC
06/12/2022 - Annunciata la nuova edizione del più famoso sondaggio sui migliori film: la crescente diversità è accolta da pareri molto divergenti, ma cosa manca ancora alla lista?

Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles di Chantal Akerman, che quest'anno era al primo posto del sondaggio dei critici di Sight and Sound

The British Film Institute's esteemed Sight and Sound magazine has been compiling a list of the Greatest Films of All Time every ten years since 1952 by inviting film critics to vote. Over the decades, it has become the most prominent and most widely referenced list that has dramatically influenced what we consider cinematic canon.
After Vittorio De Sica's Bicycle Thieves in 1952, Orson Welles' Citizen Kane topped the list for 50 years until Alfred Hitchcock's Vertigo took over in 2012. The latest list, announced just last week, for the first time saw a film directed by a woman come out on top: Chantal Akerman's Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles. This represents arguably the biggest shift in the last half-century, along with an overall stronger presence of films directed by women but also of those by filmmakers from underrepresented groups.
(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)
I voted for the first time in 2012, and since the new edition was announced, it has caused a big stir in mainstream media and an even bigger one on social media. Arguably, it is exactly this aspect that influenced the change over the course of the last decade, and this is a phenomenon that warrants an in-depth look at why and how the apparent tastes of the voters have shifted. Another key reason must also be that the 2022 list gathers more than 1,600 critics from the widest possible geographical spread, doubling the number from ten years ago.
I was a little surprised to see Akerman on top, but not shocked. The sociopolitical climate has changed significantly in the last ten years, and critics are not only sensitive to such developments, but they also actively contribute to them. The problem is that this film, in addition to a couple of other classics widely recognised as great works of feminist cinema (Daisies [+], Cleo from 5 to 7, Meshes of the Afternoon), is one of the few made by women that most voters (myself included, and that’s exactly why I didn’t put it on my list) could think of. Five films by African American filmmakers are on the list for the first time, too, but it looks like an even lazier bunch with Moonlight and Get Out, while not many more works by African filmmakers have made it.
This underlines the nature of said changes – that they are still merely superficial. But it’s a first step, and I am very happy that now we have a list that’s quite a bit different from the previous ones, and that young people or regular cinema-goers who watch films with different eyes can spot some titles that aren’t repeated again and again, and maybe search them out. I have even found a couple that I had managed to miss, and several reminders of pictures worth revisiting. This was not the case ten years ago, when I had a deep knowledge of almost every film on the list.
What I am not so happy about is that, in addition to a total absence of Latin American films, there are still too few documentaries (six), animations (two) and shorts (two), which is, to me, cinematically if not always politically, a far bigger problem than having fewer films by women or filmmakers from underrepresented groups. What about underrepresented forms and genres?
We need to dig deep, learn more about and introduce audiences to all of the intriguing developments, surprising causalities and wonderful, uncategorisable works in the history of cinema, not just about aspects relating to keywords that trend in a particular era – however valuable they are in a political or civilizational sense. What we should be challenging is not only the issue of who gets to make films, where they get to be seen, how they are presented and evaluated, and how many people can see them, but more importantly, what we essentially perceive cinema to be – which is, ultimately, the most political issue of all.
Even with the new, significant shift, the Sight and Sound list is still woefully Western-centric, American-centric, Anglo-centric, Euro-centric and male-centric (as is my own), even if the magazine went out of its way to gather as many diverse critics as possible. I helped friend and fellow critic Neil Young put together the line-up of contributors from the former Yugoslavia, and I know the magazine’s intentions were absolutely commendable and as open as possible.
So the problem does not lie in the origin of the critics who voted; it is much deeper: it’s in which films the critics all over the world are aware of and why, and how they rate films from their own cultures and countries as opposed to the “canonical” works of cinema. It is, again, a matter of cultural dominance that will hardly ever go away. But any action, not necessarily against it but rather aware of it, brings small steps forward, getting some new – and many old – viewers acquainted with different films. To my mind, every such step is a victory.
I also had a different approach this year from 2012. I wanted to highlight all of the various things that cinema can be, as opposed to regurgitating the strongest films by the most acclaimed directors. Sure, some of these had to stay, but only if they fit this criterion: that they show the richness of the art form in all its glory. Three titles released in the 21st century, two of them in the past five years, are also included. I call this my vote for the future.

Here is Vladan Petković's Sight and Sound list:
Twin Peaks: The Return - David Lynch (USA, 2017)
Shoah - Claude Lanzmann (France, 1985)
2001: A Space Odyssey - Stanley Kubrick (USA, 1968)
Asparagus - Suzan Pitt (USA, 1979)
An Andalusian Dog - Luis Buñuel (France, 1929)
Battle in Heaven - Carlos Reygadas (Mexico, 2005)
Vampyr - Carl Theodor Dreyer (Germany/France, 1932)
W.R.: Mysteries of the Organism - Dušan Makavejev (Yugoslavia, 1971)
Stalker - Andrei Tarkovsky (USSR, 1979)
Radiograph of a Family - Firouzeh Khosrovani (Norway/Iran/Switzerland, 2020)





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- Musica

L’Ape Musicale - Rivista di Teatro

Newsletter 4 dicembre 2022

L'APE MUSICALE
RECENSIONI INTERVISTE NEWS TV Radio e Streaming VIDEO TERZA PAGINA CONCORSI

La copertina di ottobre dell'Ape musicale è dedicata a Macbeth, nuova produzione della Fondazione Rete Lirica delle Marche (foto Marilena Imbrescia).

Fra i servizi dell'ultimo mese troverete ampi reportage dalla tournée del Rossini Opera Festival in Oman e da Donizetti Opera a Bergamo, le recensioni del Don Carlo che ha aperto la stagione del San Carlo di Napoli, il Kaiserrequiem inaugurale del Teatro Massimo di Palermo, Don Giovanni a Torino con la direzione di Riccardo Muti e, ancora The Tempest di Adés al Teatro alla Scala.

Oltre che dai principali teatri italiani, non mancano cronache internazionali da Austria, Germania, Stati Uniti, Argentina e Messico, concerti, interviste e molto altro.
In terza pagina, un ricordo di Azio Corghi, compositore, didatta e musicologo scomparso a ottantacinque anni lo scorso 17 novembre.
Vi aspettiamo ogni giorno sulle pagine dell'Ape musicale per recensioni, approfondimenti, interviste, notizie sempre aggiornate! www.apemusicale.it

Buona lettura

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- Animali

Lupen the Cat / 9 -Mesdames et Monsieur le jeux san faut.

LUPEN THE CAT / 9 … Mesdames et Monsieur le jeux san faut.

 

«Miiaaoo, Miiaaoo, e poi Miiaaoo! Hei, hei ragazzi l’allegria è di dovere, divertiamoci a più non posso» – esclama Lupen eccitato al massimo per avere organizzato la festa più pazza che si sia mai stata finora ‘in casa mia’, sì che i vicini, curiosi e invidiosi, si sono chiesti che cosa stesse accadendo…

«Che quel George sia letteralmente impazzito?»

«È assurdo, non è cosa da farsi in questo modo, le pare?»

«Avrebbe dovuto avvisare non vi pare?»

«Adesso mi sente, chiamo subito l’Amministratore o chiama lei?» - chiede l’imbecille dell’ultimo piano alla vicina della porta accanto.

«Mah, veramente si dovrebbe chiamare la Polizia o che so i Pompieri, che ne dice?»

«Non esageriamo, solo per un po’ di schiamazzi da scapoli?»

«Ma andiamo, per una volta si può anche lasciar correre, in fondo è pur sempre una persona così rispettabile, no?»

«Sì ma quando si esagera troppo, e qui mi pare proprio che si stia esagerando, vorrei vedere lei al posto mio, e poi stare a sentire tutti i suoi rimbrotti, non è forse così?»

«Eccone un altro, c’è qualcun altro che non ama la musica?» - s’intromette il giovane Punk coi capelli colorati a raggera che abita al terzo piano.

«Ma non dica fesserie, lei che ne può sapere, c’è musica e musica, e poi che musica è?»

«Rap and scratching è ovvio, non sente il graffio dell’unghia sul vinile, vede che neppure la conosce?»

«Povero lei, immagino non sia mai andato a un concerto?»

«Vuole che gli faccia un elenco, vediamo un po’, lei ha mai preso parte a un rave party, o che so a un concerto degli Hendrix Revolution, o dei Rolling Stone, per non dire dei Santana, o dei Pink Floyd, beh io sì, lei conosce i Queen?» 

«Ma che razza di musica è questa, vuole mettere L’Orchestra Sinfonica di ...?» - sta per concludere ‘sua altitudine’ dell’ultimo piano, quando suonano i citofoni di tutti gli appartamenti, lasciando tutti ammutoliti…

«Miiiaaaaooo!”, si può sapere quando la smettiamo con tutti questi strilli da beccacce condominiali? O devo chiamare le forze dell’ordine per disturbo della quiete pubblica?» - grida Lupen fuori di sé.

Allorché si sentono alcune porte che si chiudono sbattendo, l’ascensore che si mette in moto per riportare gli inquilini ai loro ‘ipocriti’ piani d’appartenenza. Solo il giovane tatuato col ciuffo a raggera prende il coraggio e bussa alla porta, che si apre ed è subito ammesso a partecipare alla festa, accolto da un’infinità di Miao, Miao- Miao! Miaaaoo!...

«Che bello, cos’è un party in costume da gatti? Accipicchia complimenti, e che musica?»

«Miaone! Ti piace?» - l’accoglie Belle ovviamente la gatta più bella, addobbata con una calzamaglia tigrata e una collanina di perline niente male al collo.

«Chi mai l’avrebbe detto che in questo palazzo ci fosse qualcuno cui piace la musica seria!»

«Miao, dai non scherziamo, non hai ancora ascoltato il meglio, che ne dici dei Led Zeppelin, ti va?»

«E i Kiss?» - gli domanda Graf, l’eccezionale DJ della serata.

«Miiaaoooo, no, ti prego Graf, i Kiss no, mi mettono terrore, poi finisce che me li sogno di notte!»

«Miao, di notte hai detto? Ma quando mai se la notte randagiamo sempre insieme e non ti ho mai sentito dire una baggianata simile.»

«Miao, è vero, sì ma quando tu non ci sei e mi lasci sola?»

«Miiaaoo! Tu devi essere Ralph quello del terzo piano, è così? Ti ho riconosciuto dai Tattoo. Vieni accomodati, bevi qualcosa, serviti pure » - lo accoglie Lupen manifestando da subito una certa simpatia.»

«Beh, ragazzi, io veramente, non vorrei disturbare … Sì, grazie.»

«Miiaaoo, non dirmi che sei a disagio, ma dai, spero non sia la prima volta che t’imbuchi in un qualche festa, pensa che noi lo facciamo regolarmente» - lo accompagna Lupen al centro della pista dove gli altri stanno ballando.

«Mi-mi-mi-ao, e tu da che sei mascherato?» - gli chiede Fremens strofinandoglisi addosso tutta tremante per l’eccitazione del nuovo arrivato.

«Da divinità egizia, non riconosci i miei tatuaggi? Ecco vedi, questa è una piramide, e quest’altro è Nefer…»

«Mi-mi-miao, Nefertiti o Nefertari? Bè non importa, quanto vorrei essere per te una delle due, o magari entrambe, che ne dici facciamo coppia?»

«Hei ragazzi, è giunta l’ora di festeggiare alla grande, si mangia e si beve a volontà!» - annuncia Lupen.

«Miao, miaooo, e poi miiiaaaooo! Dicci, che ci hai preparato?»

«Miiaaoo! Abbiamo qui a disposizione un’ampia scelta, ce n’è per tutti i gusti, un’intera dispensa, vediamo un po’, c’è qui del tonno, quest’altro è salmone, e poi sardine, sgombri, vitello tonné, insalata russa, aspettavamo giusto qualcuno che ci aprisse le scatolette, hei Ralph è il tuo turno, datti da fare» - lo sollecita Lupen.

«Miaaaohorror! Hei, ma questa non è affatto di tonno e basta, c’è dell’insalata russa, puah! Non posso mangiarla, la maionese mi si attacca al palato» - si lamenta Giò, che sta per giovedì, in quanto essendo al servizio di una casa per bene riesce a scappare solo un giorno alla settimana.

«Beh devo dire che il tuo padrone ha riempito per bene la dispensa, c’è anche qualcosa per me» - aggiunge Ralph agguantando una fetta di prosciutto.

«Miiaaoo! Hei Ralph, mi stai simpatico ma non tirare in ballo il mio ‘inquilino’, qui il ‘padrone’ sono io e basta, ci siamo intesi?»

«Ma certo, ciò non toglie che rimane una persona squisita, che ti lascia fare quello che vuoi e che riempie la dispensa di tante cose buone, non sai da quant’è che non assaggiavo una fetta di prosciutto…»

«Miiaaoo! Beh, puoi sempre venire a passare la notte con tutti noi, non sai quante cose buone gettano via le persone di questo quartiere. Ma tu come abiti qui?»

«Sono ospite, si fa per dire, di quel brontolone del terzo piano, qualunque cosa faccio non gli va mai bene niente, e dire che gli tengo a bada la casa come fosse la mia, ma non ne vuol sapere di darmi qualcosa di buono da mangiare. Tiene la dispensa piena di scatolette di cibo per …»

«Miiaaoo! Non dirmi che ti tratta come un cane. Ma tu non sei un cane, non è così?»

«Anzi il suo cane al mio confronto è trattato come un principe, pensa che dorme nella suo letto, mentr’io dormo nella sua cuccia.»

«Miiaaoo, dici davvero? Miiaaoo, Miiaaoo! Hei ragazzi, voglio la vostra attenzione, abbiamo una missione da fare, quando il nostro amico Ralph aprirà la porta di casa sua, no, o meglio del suo crumiro, noi faremo  un’invasione di campo che neppure durante la rivoluzione francese si è mai vista, e gli stracciamo tutto quello che capita a tira, d’accordo?»

«Evviva! Miao evviva! Slurp evviva! Miao d’accordo! Ma adesso godiamoci la festa. Che ne dici Ralph?»

«Dico proprio di sì, miao e poi miao!»

 

La musica ad altissimo volume m’accoglie fin sul portone dell’edificio, il frastuono creato dal batterista Robert Watts mi distrae momentaneamente che stavo salendo i gradini di casa e non quelli del Palasport per il concerto rock dei Rolling Stones, e man mano che salgo le due rampe di scale resto basito dall’inserimento folgorante della chitarra elettrica di Keith Richards, per non dire della vertigine che mi procurano gli altri componenti il gruppo, quando mi vengono incontro i coinquilini atterriti che, con sguardi increduli sembrano basiti nel vedermi arrivare in quel momento…

«Ma scusi non è lei che sta…?»

«Immagino che lei non ne sappia niente?»

«E neppure abbia niente da ridire del fatto che…?»

«Buonasera, ma perché che succede?"

«Ah certo, il signorino è anche sordo adesso, ma non sente…?»

«Che a qualcuno piacciono i Rolling è davvero apprezzabile … personalmente non ci trovo niente da ridire , anzi…»

«Signor George è qui, per fortuna è tornato…» - mi viene incontro la dirimpettaia frastornata con cocci di piatti e vetri di bicchieri rotti tra le mani.

«Nerina che mai succede, sono forse entrati i ladri in casa?» - chiedo da sembrare uno sprovveduto che vive altrove.

«Ma come non sente anche lei, c’è in corso un terremoto che sconquassa tutta la casa, guardi qui si sta rompendo ogni cosa. Guardi che viene dal suo appartamento.»

«Ma come, se io sono qui! Aspetti un momento, intende forse la musica?» «E che altro?»

Nel frattempo che mi accingo ad aprire la porta d’entrata ho gli sguardi addosso di tutti gli inquilini che lasciati i loro appartamenti adesso occupano la rampa di scala che sale al piano di sopra per assistere alla mia entrata, quasi si fosse allo svelamento di un folle arcano. Allorché la musica tace una ridda di gatti multicolori fuggono via passandomi tra le gambe, su per il corpo, che quasi mi scaraventano in terra, e in un battibaleno spariscono come per la vista di un bau-bau.

Faccio i primi passi in casa quando mi trovo davanti Lupen ritto sulle zampe posteriori e una zampa piegata sul fianco, una mezza sigaretta accesa infilata in bocca, che mi chiede …

«Miiaaoo George, che ci fai tu qui, non dovevi essere a Birmingham per alcuni giorni?»

«Ho perso la coincidenza da Londra così la conferenza era bella e andata, quindi ho deciso di tornare, perché, non potevo?»

«Miiaaoo! E no George, non dovevi, non ci si comporta così, potevi almeno avvertire!»

«Chi mai avrei dovuto chiamare la Protezione Animali, per avvisare che stavo rientrando in casa mia, oppure?»

«Miiaaoo, no, saresti dovuto tornare quando si era stabilito! Vedi George è una questione di rispetto della parola data. “È una questione metodologica che si basa sul riconoscimento dell’uguaglianza, sul consenso individuale alla reciproca fiducia e all’equilibrio sociale. Così è, nel dibattito su quelli che si definiscono ‘valori morali’ e se questi sono relativi o assoluti, beh, la risposta di gran lunga più motivata è che sono relativi”, non ti pare?»

«Mi pare, mi pare, mi stai dicendo che durante la mia  assenza tu abbia ingoiato il libro di Maurizio Ferraris (1) per intero, mi chiedo solo come hai fatto?»

«Forse, ma dimmi che ci fai ancora lì impalato, accomodati!»

«Posso? No sai perché, se sua maestà me dà il permesso vorrei …» - ma non finisco di dire quando, entrato in salotto, inciampo in mezzo alle cianfrusaglie a non finire, scatolette aperte e svuotate del loro contenuto, piume e merletti, bottigline di birra poggiate qua e là, cappellini e girandole come a Carnevale, incontro lo sguardo del giovane tatuato col ciuffo a raggera che mi sorride…

«Ciao, io sono Ralph», dice mentre fa il gesto di stringermi la mano, ma non sa quale darmi.

«Gulp! Mi accorgo così che è umano e come tutti ha solo due mani, cui una tiene un mezzo bicchiere di birra, nell’altra un sandwich col prosciutto, quindi sono io che mi presento a lui.»

«Ciao, io sono George.»

«Sei anche tu un invitato o sei semplicemente un intrufolato come me?” «Sono …. un intrufolato», rispondo accogliendo lo sguardo furibondo oso di Lupen ancora con in testa la coroncina di sghimbescio.

«No, perché vedi George, vorrei rispondere a quanto stavate dicendo prima a proposito del rispetto, che “Se molti sono i modi ragionevoli in cui tutti gli esseri possono organizzare la loro vita, resta che ce ne sono alcuni che sono sicuramente inaccettabili.”(2) E che in questo gli esseri umani non sono da meno.»

«Aspetta Ralph, fammi prendere fiato. Quindi stando a quel che tu dici, che “senso del proprio agire’ nell’ambito delle proprie scelte, il rispetto non può essere solo individuale ma riguarda la società nella sua percezione globale o comunque comunitaria, che va esaminata nel suo insieme, animali compresi?»

«Miiaaoo, George, non tutti gli animali, in special modo i gatti.»

«No, perché vedi George… “un’analisi approfondita diviene quanto mai necessaria se si vogliono individuare gli strumenti di una possibile ricognizione del ‘rispetto’ in seno all’etica morale e l’intrinseca criticità di merito che l’accompagna. Acciò, e nel migliore dei casi, è necessario tornare al passato e rileggere il cartesiano “Discorso del metodo” (3), lo strumento per eccellenza che più ci aiuta a comprendere i termini e i limiti, pur nella logica della scoperta scientifica, vuoi filosofica che sociologica, del pensiero libero concettuale, ancora oggi considerato un caposaldo della liberalità civile.”»

«Gulp Ralph, stai studiando sociologia o ché? Perché vedi quello da te citato è un testo tra i “..più rivoluzionari su cui meditare, in quanto il suo autore aveva perfettamente compreso che le vere rivoluzioni cominciano nel proprio intimo e non nel cambiamento delle cose, ma nella riforma di se stessi” (3).»

«No, sì, George, è solo una ‘questione di metodo’ dunque, la cui applicazione restituisce al ‘rispetto’ una sua posizione prioritaria all’interno delle ‘virtù etico-morali’, qui individuata in tre passaggi essenziali che ben definiscono la relativa prova scientifica: ‘Metodo del riconoscimento dell’uguaglianza’, ‘Metodo del rispetto civile’, ‘Metodo del consenso basato sulla fiducia e la temperanza’.»

«Cioè tu dici…»

«Non dici, ma tu m’insegni, George perché Ralph sembra saperne molto più di te, impara!», m’ingiunge Lupen sollevando le ciglia.

«No, si, George, sono questi i “Segni di una erosione che non ha risparmiata questa società da risentimenti diffusi e punti di criticità, sia per i suoi aspetti discordanti, per quanto inevitabili, che ne hanno limitato il ‘riconoscimento’ configurato all’interno di una specifica ‘tipologia virtuosa’; sia in ambito famigliare che educazionale, formativa ecc., che da sempre veicolano le cosiddette ‘differenze di genere’.»

«Miiaaoo, George, dacché se ne ricava che anche il genere ‘gatto’ va rispettato, è così Ralph?»

«Beh, non c’è che dire, sembra che ve la intendiate bene voi due, ma vi eravate accordati prima, è così Lupen? Ma adesso che risponderò all’amministratore quando mi dirà che non vuole ‘gatti’ nel condominio? Chi ripagherà i danni alla vicina, immagino debba farlo io, ma io so già come fare con te Lupen, altro che sardine e salmone, starai a ‘pane e acqua’ fino a quando non avrai ripagato il tutto."

«Miiaaoo, Miiaaoo George, se fossi in te non me ne darei per vinto.»

«È un’ulteriore minaccia Lupen? Soprattutto mi chiedo chi rimetterà a posto la casa dopo il casino che avete combinato?»

«Si, no, George, se è per questo ci sono qua io, in modo che m’impegno a tenerti a posto la casa per 15 Euro l’ora, con rispetto parlando, se sei d’accordo, ovviamente la sovrattassa mi serve per pagarmi l’università.»

«Beh, parliamone», quasi quasi mi conviene accettare, dico tra me. «Infine avrò trovato qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere.»

«Allora George?»

«Be, non tutto quel ch’è male argomentato, al fine non è detto che non possa avere una risoluzione al bene. Allora Okay Ralph, ma devi tenere a bada anche quel gattaccio di Lupen.»

«Miiiiaaaaaooo!»

 

Ps: In conclusione il dibattito è ancora aperto, una risposta alla domanda su “che cos’è il rispetto?”, è tuttavia possibile: cos’e se non un principio etico che ci restituisce la libertà di scegliere (libero arbitrio). Cos’altro, se non quella virtù morale che più d’ogni altra rende ‘umani’ anche i gatti?

 

Note: (1)Maurizio Ferraris, ‘Introduzione’ a “Morale” ed a “Uguaglianza” in Le domande della Filosofia - Gruppo Edit. L’Espresso 2012 ,

(2)René Descartes, “Discorso del metodo”, RCS Libri 2010

(3)Giovanni Reale, ‘Prefazione’ a “Discorso del metodo”, op.cit.

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- Società

Bla, bla, bla ... Il teatrino dei Pupi e dei Pupari

BLA, BLA, BLA … IL TEATRINO DEI PUPI E DEI PUPARI

Che ché se ne dica, ci siamo ormai abbonati al Teatrino dei Pupi, non quello più autentico siciliano, anche se in Sicilia non scherzano affatto, che a fare i Pupi in politica sono maestri; no a quello che la TV ci propina ogni giorno, ad ogni ora, in ogni singolo talkshow, in ogni momento del quotidiano sentire, mangiare, dormire…ecc. ecc. Sì che prima e dopo i Telegiornali delle 07, 08, 09, 10 e via discorrendo fino alle 24 e oltre messi in onda su tutte le reti nazionali e private, ci propinano i cosiddetti ‘approfondimenti’, le ‘seconde’ e le ‘terze’ pagine dei quotidiani, riviste e corrette da giornalisti pseudo-professionali che altro non fanno che ripetere a pappardella i ‘titoli’ e i ‘sottotitoli’ delle testate più o meno importanti nazionali e qualche volta estere, soprattutto quando cercano una sponda d’appoggio esterofila che in qualche modo le sostiene. Per non dire delle varie ‘rassegna stampa’ inutili quanto tendenziose e mistificatrici della realtà, che non fanno vendere una copia in più dei giornali che noi italiani, pigri come siamo, non leggiamo nemmeno più, e che, anzi, hanno ridotto i giornalai, con tutto il rispetto parlando per la categoria, a vendere i lecca-lecca e i pupazzetti di plastica ai genitori dei bimbi davanti alle scuole dell’infanzia. Mentre i Pupari, gli imprenditori della stampa, i cosiddetti Editori, hanno dato via il culo, pur di vedere la testata che li rappresenta sugli schermi della TV, ridotti costantemente alla ricerca di abbonati sul Web senza risultati eclatanti, neppure quando i loro redattori improvvisano un qualche scoop, soprattutto in politica estera, del resto già passato sui canali impegnati e quanto più credibili. Vogliamo far finta che già non si sapesse che sarebbe andata a finire così? Facciamolo pure, ma per favore non mentiamo a noi stessi, perché da dieci anni a questa parte nei sondaggi riferiti ai diversi e integrati settori della comunicazione, politico-economica-sociale e civile che fosse, si preannunciava un degrado mai conosciuto prima dall’informazione, a dir poco eclatante quanto vergognoso. Vogliamo dire della lingua italiana che ha subito uno sprofondamento abissale, voluto dalla politica, a favore di pronunce dialettali regionali oramai imbastardite da frasi in ‘volgare periferico’ che si ascoltano nei vari sequel farciti di violenza ignominiosa e di parolacce irripetibili, che non si erano mai sentite e che di certo non sono da promulgare. Soprattutto perché la visione e l’ascolto dei programmi televisivi non è necessariamente riservata solo agli adulti. Se si considera che nessuno più legge libri e quotidiani… “E’ realistico credere che il Metaverso possa essere l’innovazione pervasiva che cambierà il mondo, il nostro modo di relazionarci, esprimerci e di vivere?”, si chiede Luigi Vellone nel recente e forbito articolo apparso su AlberoniMagazine.it; il quale, inoltre, fornisce in prosieguo più di una risposta veritiera e plausibile: “Malgrado i fiumi di inchiostro e di Byte versati o scaricati sull’argomento è opportuno ricordare che il Metaverso è un nuovo mondo digitale, virtuale, multidimensionale, più completo ed allettante di quello reale, in cui potersi integrare, connettersi ed interagire per socializzare, lavorare, fare affari, giocare e divertirsi. Se tutto ciò può sembrare eccessivo e fantascientifico si può scomporre il Metaverso nelle sue componenti reali che ne rendono più comprensibile il funzionamento e le prestazioni ma anche le difficoltà realizzative”. Articolo che suggerisco di leggere per intero, tuttavia lasciando da parte i pregiudizi e la falsa moralità che andrebbero sicuramente a discapito dell’avanzamento intellettivo e della creatività che, per quanto se ne dica, ancora ci contraddistingue. Ma, mentre i Pupi di un tempo appartengono a una realtà culturale indiscutibile “quasi in carne e ossa”, i ‘nuovi pupi’ e ancor più i ‘pupari’ sono fantocci di cartapesta, o peggio ancora ‘ombre’ che vivono una falsa-realtà per un teatrino destinato presto a scomparire. Finanche la musica ‘politico-culturale’ che fa loro d’accompagnamento suona scordata, fuoriuscita da trombe ‘strombate’ e zufoli ‘sgraziati’. I loro movimenti anacronistici artati a ‘dismisura’ secondo dove tira il vento, come in una ‘danza macabra’ costantemente in guerra col destino, fagocitatore d’anime. Ecco, questo è il punto, dove sta andando quell’umanità ch’è sulla bocca di tutti e sbandierata ai quattro venti? Stiamo forse andando verso il caos totale, l’annullamento definitivo di tutto ciò che ci siamo detti finora? Verso l’infernale cavità dantesca, la distruzione del mondo, quell’Apocalisse che Giovanni l’apostolo aveva visto avanzare e che sembra si stia avvicinando al galoppo? No, tutto ciò non è verosimilmente ‘vero’, semplicemente perché non può esserlo, ognuno di noi ha bisogno dell’altro, “nessuno si salva da solo”. No, non è una frase fatta ad oc come tanti slogan che ci propinano i ‘pupari’ dagli schermi della TV. Come ha scritto un grande sociologo dei nostri giorni Zigmunt Bauman: “La vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no”, cui va aggiunto ‘che lo vogliamo o no’. E noi dobbiamo volerlo. Come scrive ancora Luigi Vallone: “Ciò potrà avvenire solo se i desideri, le emozioni, le passioni, i sogni, la creatività dell’uomo sapranno trovare nel Metaverso uno strumento più potente e performante dei mezzi e delle forme espressive finora disponibili”. Così come riporta nel citato articolo, “va fatto un salto acrobatico “oltre” la realtà, “oltre” l’universo (Meta-uniVerso). E che pure egli trova nel passato remoto che pure ci riguarda: «Nei libri Memorabili di Senofonte, Socrate esorta i maggiori pittori e scultori di Atene ad imitare nella pittura e nella scultura non solo i corpi ma anche l’anima. Chiede se il carattere dell’anima sia riproducibile nei suoi stati mutevoli ed ideali. Il pittore Parrasio e lo scultore Clitone ammettono di raffigurare l’invisibile in forma visibile” (da “Ascoltando il pianoforte di Max Weber” di M.Gammone e F.Sidoti).
Ciò potrà avvenire solo se i desideri, le emozioni, le passioni, i sogni, la creatività dell’uomo sapranno trovare nel Metaverso uno strumento più potente e performante dei mezzi e delle forme espressive finora disponibili, come nelle specifiche dei grandi progetti internazionali, anche per il Metaverso “There is a requirement; Il y a le besoin; C’è l’esigenza” di avvenire, di un’umanità che guardi ad un futuro migliore, al migliore dei mondi possibili, visto che a quanto sembra, stando alla ricerca scientifica non ne abbiamo un altro a disposizione… «Certamente il ritardo nella ricerca scientifica e tecnologica renderà difficile un inserimento competitivo nello sviluppo ed implementazione del sistema descritto e, verosimilmente, bisognerà accontentarsi delle briciole lasciate dai giganti planetari già in corsa avanzata (Meta, Apple, Google, Intel, Nvidea, Huawei, Xiaomi, Samsung…).
In subordine nasce allora una seconda domanda:“Sapranno gli italiani partecipare al banchetto miliardario che si va ad imbandire?”
Spiacente di non avere altro da dire, aggiungo un ‘forse’: «Se tuttavia, i nostri giovani sapranno attingere ai residui geni del DNA culturale che ha caratterizzato la nostra storia e che, con il culto della bellezza, ha reso possibile il miracolo del Made in Italy, allora nello sviluppo dei Contenuti ci potrà essere molto spazio, lavoro e soddisfazioni. Se invece sopravvivranno solo gli eredi degli atleti del pollice da smartphone, vedremo tanti “rimbecilliti” sotto un casco o visore agitare da mentecatti strani guanti e stick… in perenne dipendenza da un magro reddito di cittadinanza!»

PS: Personalmente durante la lunga estate scorsa mi sono complimentato con alcune persone anonime che sotto l’ombrellone in spiaggia leggevano un giornale, un libro o si dilettavano nell’enigmistica, facendo una sorta di statistica. Immaginate una spiaggia affollata di centinaia di bagnanti, beh solo 5, come le dita di una sola mano, tutte le altre, che di mani ne hanno due, selfavano, messaggiavano e giocavano con lo smartphone, talvolta finanche per ore arrabbiandosi per giunta, e senza un’apparente ragione. Non ho altro da aggiungere … e voi?


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- Poesia

Davide Racca … o l’orizzonte liquido del mare interiore.

“L’ORA BLU” – silloge poetica - Anterem Edizioni 2022 Davide Racca … o l’orizzonte liquido del mare interiore.

 

È questa l’ora che nel quadrante del tempo è destinata a scomparire dalla linea immaginaria del meriggio, prima ancora che faccia sera, ancorché le note d’un malinconico violoncello si dispiegano al passaggio dell’ombra che attraversa l’orizzonte poetico dell’osservatore attento. Quell’orizzonte liquido che nell’infinito suo essere evanescente, si vuole fissato nelle profondità del mare, così come nelle sommità del cielo …

 

Ecco quindi che “l’ora blu è un’ora crudele / quella di chiudere gli occhi / di chiuderli insieme / vedere l’intero – di quella (lingua senza idiomi) che lascia – una luce rabbiosa tra i solchi / e dopo il nero indiviso: un buio / assetato di battiti”.

 

Quasi che la pregnanza dei colori crepuscolari della tavolozza pittorica di Davide Racca, autore di questa silloge fin “troppo vicino alla faglia della notte”, filtrata attraverso la sua lente multifocale, riflette d’un vissuto avito, memore dell’età che avanza, dell’impronta terrena, umana, mortale e quindi profana, che egli stesso ha eletto a trascendentale eccellenza: di fatto il blu è primario nella teoria dei colori, metafora dell'introspezione e dell'infinito, di ciò che è caratterizzato da sentimenti profondi, di sensibilità e mistero …

 

“le porte aperte / le porte senza ospiti / o stipiti / … / tu che sai del vuoto / l’urlo, l’urto vertebrale / vai a ritrovare il caos / … / la faglia dove preme / la terra trema / (inutile lasciarla fuori / se piove) /… / anche se piove / è dal fondo che viene / ciò che dissipa i piedi, / le siepi, il viavai / di porte scombinate”.

 

Un mistero di fervente spiritualità che s’irrora nel blu, quando è chiaro e sereno, nel colore del cielo; così come l'atmosfera terrestre effonde la sua “trattenuta inquietudine” nel blu delle grandi distese d'acque profonde; un segreto che l’autore non svela nel suo scrivere, ma bensì mistifica, sine die, nell’offuscarsi dell’esistenza dei giorni …

 

“con pala e seme / non senza violenza si pianta / l’icona del cuore / … / ma dentro / è tutta pieghe e piaghe / la pulsione della bestia”. Quale mistero che non dev’essere svelato è qui mantenuta la segretezza, la propria oscurità in frantumi, l’ambiguità che “protende dalla melma”, quel “(che non vedremo senza capirlo / non capiremo senza vederlo)” di “nude sembianze (vite / nubi sogni e lividi) /… / al senso dei sogni”.

 

“Ci sono sogni che si snodano come incidenti senza importanza, cose che nella vita ad occhi aperti neppure se ne riterrebbe il ricordo, eppure ti occupano al mattino quando li afferri mentre si spingono in disordine contro la porta delle palpebre.”

 

Una frase questa, ripresa da i “Fiori blu” di Raymond Queneau, che – a mio parere – ben si attaglia alla cifra poetica di Davide Racca, in cui il blu incornicia gli inquieti sentimenti ch’egli afferisce al chiaroscuro della propria scrittura; una simultaneità che si rivela nei tratti di luce e d’ombra, ogniqualvolta egli cerca di catturarne l’alterità, a voler dare così un senso al mistero terreno della vita …

 

“resta di pietra / il profilo della vita / in quel punto / resta di pietra / l’abito della festa / e il convitato / resta di pietra / la mensa di pietra / di domani / della voce / (a volerlo) si può conoscere / ogni piega e azione / fino all’ultima declinazione / del rantolo / (un notturno visionario / poi / ha prevalso / in ogni senso) / … / d’improvviso era chiaro / (la marea si alzava) /…/ si vagava a vista / (e la vista anche quella / che sfocava), nel “lento corso dell’onda”.

 

Ma se insensato è il guardare dentro un mistero tenacemente racchiuso, talvolta prevale nella sua scrittura il ‘corpo nascosto’ usato nella frase, il mutare dell’intento in cui “lo sguardo / si è fatto luce” ed ha attraversato la tenebra che l’avvolge “nel più profondo vuoto / al centro del mistero /… / silenzio / … / complice il vuoto la luna / rovescia aghi nei monologhi / dice di un solo corpo / portato alla luce / a fare ombra … / a pensarci ora, è l’ora blu / tu / anche tu (Luna) di questa ora / hai paura?”.

 

E dov’è quel mare ora (?) si chiede ancora il poeta preso dalla nostalgica rimembranza che adombra ogni luce ...

 

“è di oggi la pioggia che cade / sarà stanotte / la neve di domani / … / quando lo spazio si spezza / e tutto finisce (come tutto finisce) nell’eco” del tempo che passa … “luna parola strana, sola su un corpo solo non raggiunge l’ombra del muro dove la parola amore preme la mano contro una ruga vuota … sai che passato è passato e non sai più se è stato” … “pensa al segno che rimase rete chiodi alghe e legno (il corpo vuoto di una massa) … pensa comunque pensa … promessa allora non fecero memoria”.

 

Nota aggiuntiva: I primi pigmenti blu provengono da minerali, di solito lapislazzuli o azzurrite. Nell'Antico Egitto era la tinta della pelle del dio dell'aria Amon; blu era l’occhio dai poteri magici di Rā il dio supremo emerso dalle acque primordiali. mentre nel Cristianesimo il blu è il colore della vergine Maria. Negli usi sociali, artistici e religiosi più conosciuti, il blu è il colore simbolo della lealtà e dell'equilibrio, anche considerato simbolo della pace, della calma, così come del silenzio e dei sogni, anche quelli più neri. In sanscrito la parola nila è uno dei colori cosiddetti ‘accidentali’, significa sia nero che blu: sta di fatto che Śhiva ha la gola colorata di blu, segno del veleno che ha ingoiato ma che non l'ha ucciso; siffatto a Krishna, è attribuito un blu tendente al grigio, come le nuvole che sopraggiungono nell’uragano.

 

L’Autore: Davide Racca, una laurea in filosofia, poeta e artista multimediale, ha realizzato mostre e letture in Italia e all’estero, investigando vari media espressivi. Ha pubblicato raccolte in versi, traduzioni in/dalla lingua tedesca, collabora all’inserto culturale Alias Domenica de il Manifesto e con varie riviste e blog letterari. Attualmente vive e lavora tra l’Italia e la Francia.

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- Poesia

Claudio Salvi ‘una presenza assordante’ “Sequenze”, Anterem.



Claudio Salvi ... ‘una presenza assordante’
“Sequenze”, silloge poetica edita da Anterem Edizioni 2022

In primis c’è la pagina bianca appena ombrata dalla mano che scrive, un fil di penna sottile, quindi l’inchiostro che non macchia, che non lascia sbavatura alcuna, che non allude ad alcun colore, quasi assente nella sua infinitesima corposità, e che pur traspare la presenza di un pensiero latente che si posa – quasi per caso – sulla superficie. “Quasi emergesse dal fondo di una purificazione”, scrive Giorgio Bonacini nella sua post-fazione, alla cui nota va aggiunta un’altra riflessione che espone l’autore, Claudio Salvi, ad una cercata assenza/presenza assordante …
“e non sapere / senza parole / […] adesso so che / parola preme non dire”
Se la parola ha un senso, se diamo ad ogni parola un senso, siamo qui messi di fronte a una parola mancante, che l’autore non dice, che non ha bisogno di dire, frutto di una sorta di melanconia sopraggiunta, albeggiata dietro un amore perduto (?) o, forse un sentimento non appagato (?) chiuso su se stesso, devitalizzato dall’esperienza di un vissuto che preme da lontano …
“preme lontano da lontano / parola / preme basta – / parole suono / mano”
Quella mano che un giorno ha incominciato a scrivere sulla pagina bianca, riproponendosi in un gesto onomatopeico, imitativo di un pensiero che ritorna, e che “preme, fa premura” in costante attesa “come se fosse vedi / per ricordo”. Ma i ricordi si sa vengono dal passato e raggiungono il presente, giammai sono proiettati nel futuro, per quanto entrino in noi in forma di corrispondenze, di configurazioni, di possibilità …
“non ti vedo e vorrei / mancano le cose viste insieme, ti chiedo di aspettare”
Ha dello straordinario il ‘senso’ che si dà alle parole quandanche isolate non sembrano voler dire nulla, quandanche il nulla di per sé non esista, esiste il vuoto dei pensieri, della mente riposta, della freudiana memoria inconscia, “non so quando chiami mi giro come se abitassimo insieme” …
“intanto che aspetto guardo la finestra, i nuvoli hanno forma come da noi in estate”. […] “sono una macchina di parole”.
Siamo macchine di parole fin troppo spesso buttate giù alla rinfusa da apparire senza senso, quando invece un ‘senso’ ce l’anno, lo devono avere, sempre. Claudio Salvi non è poeta che si espone alla rinfusa ma l’altra faccia della melancolia idealizzata, l’auto-rimprovero di sensi di colpa, caratterizzato dalla presenza/assenza che l’ha condotto a scrivere in forma poetica, nel modo che più si addice a un potenziale narratore che ‘frammenta’ le frasi, che ‘aggira’ gli ostacoli della lingua scritta per dare figurazione ai vuoti (nella pagina) che non si riempiranno mai …
“aggira l’ostacolo, ogni deviazione descrive un segmento, è analisi di figura a proposito di frammento, ogni segmento […] disegna una linea, non colma la distanza”
Vuoti che dicono, vuoti di parole omesse, dimesse dal senso, che non parlano, che nell’assenza della sottomissione, lasciano percepire la presenza assordante della propria voce, di colui che nell’assenza riempie il vuoto di parole, di un soggetto ideale più probabile di una presenza, idealizzazione essenziale di una reazione alla mancanza di una separazione affettiva: “chi ama indica una preferenza” …
“dal buio non metto insieme chiarezza, io penso se guardo una finestra che vedono dentro”
Nel cercare una definizione poetica che rispecchi il pensiero significante di Claudio Salvi va fatta distinzione, fra parola e pensiero, fra senso e sentimento, che spieghi un perché, pur nell’ottica di una possibile contraddizione: l’aver dato voce all’”altro incommensurabile” che è in ognuno di noi, che ci accomuna tutti nel prescindere da ciò che non capiamo, che non vogliamo intendere perché scomodo, o forse solo complicato, se non addirittura pesante …
“si parlerà d’altro senza fine finché / non può essere data se non per ciò che dà”
Come voler cercare un pretesto, o forse una ragione, una qualche risposta agli interrogativi della vita, quella stessa che si era detto: “albeggiata dietro un amore perduto (?) o, forse un sentimento non appagato (?), un pretesto dunque …
“pretesto – ragione apparente di cui ti servi per nascondere un disegno”
Allorché la pagina si apre e ci si accorge ch’è rimasta bianca, appena ombrata dalla mano che scrive, un fil di penna sottile, d’inchiostro che non macchia, che non lascia sbavatura alcuna, che non allude ad alcun colore, quasi assente nella sua infinitesima corposità, ma che pur traspare alla presenza di un pensiero latente che si posa – quasi per caso – sulla superficie …
“non ancora educato segna la casa di numeri, la musica non è che un abito della matematica”.

L’Autore.
Claudio Salvi milanese scrive. È questa la cosa che mi sembra più importante in questo momento in cui nessuno legge, onde lasciare un ‘segno’ della propria esistenza, della propria esperienza di vita.
Sue pubblicazioni inoltre:
gammm.org
nazioneindiana.com
vibrisse.wordpress.com
leparoleelecose.it
il cucchiaio nellorechio.it


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- Alimentazione

A tutto Jazz e Altro - Giornata Mondiale della Musica 2022

A TUTTO JAZZ e ALTRO.
FESTA PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA MUSICA 21 GIUGNO 2022

♣ Rimescolando le notizie sull’attività jazzistica a me giunte in questi ultimi mesi denoto una fortissima ripresa di novità molto interessanti, soprattutto di numerosi strumentisti eccezionali che hanno saputo imporsi all’attenzione internazionale durante i ‘meeting’ più accreditati che, malgrado il fermo di due anni per le ragioni che sappiamo, hanno ripreso alla grande, come è possibile vedere qui di seguito:

♥ Si è concluso in aprile l’Ancona Jazz che festeggia l’International Jazz Day UNESCO, con un programma quanto mai fitto di appuntamenti, nato nel 2011 dall’idea del grande pianista e UNESCO Goodwill Ambassador Herbie Hancock: “per evidenziare il jazz e il suo ruolo diplomatico di unire le persone in tutti gli angoli del globo”. Tanti gli incontri che Ancona Jazz ha organizzato tra la città di Ancona e Jesi, inserendoli nel già ricchissimo calendario ufficiale della 49a edizione. Durante la giornata in cui si sono tenuti anche importanti omaggi a due grandi icone del più vasto ambito jazzistico, Charles Mingus e Jack Kerouac, dei quali nel 2022 ricorre il centenario della nascita, che pur in ambiti diversi hanno lasciato una traccia profonda quanto innovativa nel linguaggio jazzistico. È andata così che “La mattina del 30 aprile, presso il Liceo Musicale Carlo Rinaldini di Ancona, si è aperto il seminario sulla vita e l’operato dedicato: "Peggio di un bastardo: Charles Mingus e la musica come autobiografia", arricchito da proiezioni, immagini e video, e tenuto da uno dei massimi musicologi italiani, Stefano Zenni, autore di numerosi libri e saggi, direttore artistico di rinomati festival, docente di conservatorio e relatore profondo, che riflette la sua passione smisurata in una meticolosa, costante ricerca, allo scopo principale di porre nella giusta luce e considerazione la grandezza di musicisti tanto essenziali nell'evoluzione del linguaggio musicale del secolo scorso.” Seguito dal concerto "Blues & Roots Quintet" - nome che richiama uno dei dischi più rilevanti del grande contrabbassista - formato da docenti del Conservatorio G.B. Pergolesi di Fermo: Marco Postacchini (sassofoni), Mauro De Federicis (chitarra), Emanuele Evangelista (pianoforte), Gabriele Pesaresi (contrabbasso), Andrea Nunzi (batteria). Nel pomeriggio, presso la Mole Vanvitelliana si è tenuto il concerto “Jack Kerouac. The heart Beat of Jazz” con protagonista il cantante e fine dicitore Riccardo Mei. Un emozionante reading del libro più famoso di Kerouac "Sulla strada", alternato all'esecuzione di brani tipici dello stile bebop, seguendo esempi notevoli che spesso hanno fatto capolino nella discografia jazzistica, con riferimento principale quel "Bop for Kerouac" che il cantante Mark Murphy realizzò per l'etichetta Muse nel 1981. Il jazz, come ben sappiamo, non si è mai esaurito nella sfera musicale, ma ha invaso tante altre forme artistiche, dialogando volentieri con esse, non ultima la letteratura. E quando si accomunano questi due termini, il primo nome che salta in mente non può che essere Jack Kerouac, esponente fondamentale di quella "beat generation" che aveva nel bebop non soltanto un mero sfondo sonoro, ma piuttosto un modello d'ispirazione nel processo creativo di una scrittura dove la sincope, l'improvvisazione, la tecnica strumentale innovativa si riverberavano nelle parole, prosa o poesia che fossero. La simbiosi tra i due mondi fu così alta che lo stesso Kerouac incise dischi di "reading" con accompagnamento jazzistico (mitico fu "Blues and Haikus", con accanto i soli Al Cohn e Zoot Sims al sax tenore). La giornata ha poi riservato altre sorprese a Jesi, con “Oslo meets Jesi”: Ancona Jazz e la Scuola Musicale Opus 1 diretta da Stefano Coppari e Samuele Garofoli, con ospiti d’eccezione i giovani studenti jazz della scuola “Improbasen” di Oslo, noto centro didattico per bambini e giovani cui metodologia ha attirato molta attenzione negli ambienti musicali professionali norvegesi e internazionali. Al culmine di questo prezioso incontro c’è stata l’esibizione presso il teatro “Il Piccolo”, un concerto finale, diretto dal maestro Odd André: un evento ad ingresso gratuito, in collaborazione con l'Assessorato alla Cultura del Comune di Jesi e Arcevia Jazz Feast.
www.anconajazz.com - info@anconajazz.com
♥ Di risonanza internazionale, si è da poco conclusa la diciannovesima edizione del Novara Jazz Festival sull’onda della nuova scena jazz inglese, con la presenza di Collocutor e Theon Cross, e importanti nomi del panorama jazzistico in solo - Peter Evans, Bruno Chevillon, Kit Downes - fino a progetti italiani di respiro internazionale, come Rylander Löve con Pedrotti, ACRE con Evans, She's Analog, per arrivare a ensemble contemporanei come L.U.M.E. e Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp. Una serie di concerti diffusi tra i luoghi storici e spazi recuperati della città e del parco del Ticino.
♥ Ad aprile la GleAM Records ha festeggiato l’uscita di “Everyday Life”, l'album di debutto del chitarrista e compositore italiano Edoardo Liberati e del suo progetto ‘Synthetics’, disponibile in CD e digital download/streaming. Ciò che colpisce di questo album è la particolare miscela dei brani e la narrazione che ne scaturisce con grande personalità e coraggio. Le composizioni presentano feels idee diverse, riguardo tutti gli aspetti della musica: tempo, metro, struttura, arrangiamento, forma, orchestrazione, dinamica. Ogni brano ha una sua voce specifica e unica, senza rinunciare alla coerenza dell'intero lavoro. In formazione Edoardo Liberati, chitarra elettrica ed acustica; Vittorio Solimene, piano e Fender Rhodes; Alessandro Bintzios, contrabbasso, Riccardo Galli, batteria.

♥ “Niue” è il titolo del nuovo video dei Satoyama che anticipa “Sinking Islands”, il quarto album della band piemontese in uscita ad aprile per Auand Records. Il nuovo album prosegue il cammino intrapreso dal precedente “Magic Forest”, ottimamente accolto dalla critica ed incluso tra i migliori 100 dischi dell’anno dalla rivista JAZZIT, e dal progetto “Build a Forest” che attraverso il primo tour ad impatto zero li ha portati, grazie al supporto di Siae, Mibact e Fano Jazz Network, a suonare lungo tutta la Russia promuovendo un nuovo modo di vivere la musica ed il lavoro dell’artista. Una straordinaria esperienza da cui è stato creato il docu-film “Rails”. Ogni concerto dei Satoyama, aiuta a finanziare un progetto di sostenibilità. Una scelta concreta che mira a costruire, attraverso la musica, un mondo più equo e sostenibile. Ancora una volta i Satoyama raccontano le urgenze del nostro pianeta, da sempre al centro della loro musica e del loro impegno. Lo fanno attraverso il linguaggio dell’immaginazione, un wanderlust evocativo che narra di un ipnotico amore per la sabbia e per le onde del mare. “Sinking Islands”, come ci dice il titolo, ci parla dell’innalzamento del livello dei mari e del destino che accomunerà luoghi lontani e poco conosciuti insieme a città e grandi metropoli. Ogni brano del disco porta il nome di una realtà che affonderà se non si applicano cambiamenti repentini: Tuvalu, Palau, Kiribati ma anche la più familiare Venezia. Le note sono alquanto poetiche, invitano a lasciarsi andare a più importanti considerazioni sui significati da concedere all’ascolto di un disco che invoca un racconto di romantico rincontro tra la natura e l’uomo nella sua espressione migliore e più alta: la bellezza. “Sinking Islands”, è lo spirito dei sognatori che parla dritto all’anima. È lo sguardo delle anime che non si arrendono alla corrente apatica e immobile della società che ci vuole sdraiati e immutati di fronte al ‘climate change’.

♥ Di recente uscita per la Piano Series di Auand Records, “Insight”, di Giulio Gentile disponibile in CD (distr. Goodfellas e Jazzos). I singoli tratti dall’album sono disponibili su tutte le piattaforme streaming mentre tutto l'album è già disponibile in esclusiva su Bandcamp. Giulio Gentile esplora la forma del trio nel suo nuovo album “Insight” che egli stesso ha definito:” Un lavoro in equilibrio tra introspezione e dialogo.” Nonostante la giovane età il pianista abruzzese Giulio Gentile ha ormai collezionato una ragguardevole quantità di premi e riconoscimenti, sia in Italia che all’estero. Già membro di numerosi progetti, dal duo al quintetto, si cimenta ora nella classica forma del trio dove troviamo al suo fianco Pietro Pancella al contrabbasso e basso elettrico e Michele Santoleri alla batteria. Una scelta non occasionale ma frutto di una lunga frequentazione e affinità musicale. “I miei collaboratori – come spiega in prosieguo – sono stati fondamentali, sia a livello musicale che umano, per arrivare alla realizzazione di questo disco. Hanno sempre creduto nella mia musica e mi hanno sempre dato l’energia necessaria per proseguire questo progetto. Ci lega insomma una profonda amicizia. Inizialmente ci siamo semplicemente incontrati per provare a suonare qualcosa insieme, in seguito si è andato sviluppando un repertorio centrato su mie composizioni e arrangiamenti che ha portato poi alla nascita del trio a mio nome. Quando suono con loro riesco a percepire il trio come un'unica persona, c’è molto interplay e ascolto reciproco e questa cosa mi piace molto!”. Si tratta di un lavoro che programmaticamente cerca e trova un’impronta personale e originale, evitando di chiudersi in forme ordinarie di genere.

♥ Con l’album” Lexicon I”, Auand Records, il pianista italiano Filippo Deorsola riunisce il suo trio Anaphora per una raccolta di pezzi che sfidano le tradizioni stesse del jazz a cui i tre musicisti si sono formati. Altamente originali e spesso inaspettate, le 11 composizioni si ispirano alla musica d'avanguardia, al jazz straight-ahead, alla musica classica contemporanea e persino al blues, giocando con le aspettative dell’ascoltatore ad ogni battuta. L’intimità del piano solo, le esplorazioni materiche del contrabbasso e le esplosioni del groove coinvolgente della batteria costruiscono l’asimmetria stilistica indefinibile delle sperimentazioni sonore di Anaphora. Nato dall’incontro casuale ad una jam session del Conservatorio CODARTS di Rotterdam, il trio Anaphora è guidato dal desiderio di esplorare la relazione tra forma musicale, improvvisazione e capacità innata di ognuno dei musicisti di orientarsi in un paesaggio musicale. In Jonathan Ho Chin Kiat (contrabbasso) e Ap Verhoeven (batteria) Filippo Deorsola ha trovato due compagni di viaggio che hanno abbracciato la natura lungimirante del jazz contemporaneo, che sfugge alla rigida classificazione di generi, e che si dimostrano cospiratori partecipi nella ricerca tesa ad eludere le attese – sia le loro, sia degli ascoltatori. Con le parole stesse di Filippo Deorsola, sgretolando una comoda familiarità con la struttura e il tempo musicali, e lanciandosi nel mondo dell'inatteso “gli automatismi del corpo vengono messi in discussione. È necessario quindi riprendere il controllo del corpo per fare in modo che impari a navigare forme musicali più complesse per poi lasciarlo improvvisare liberamente su queste”. Volendo trasformare le parole in azione, Filippo Deorsola ha presentato la sua ricerca sull’improvvisazione, oggetto della sua tesi di laurea, alla Arts and Technology Conference di Porto nel 2021, e ha fondato il M.A.D. Collective (Mutually Assured Deconstruction), uno spazio che riunisce artisti visivi, autori, esecutori e rappresentanti del mondo accademico per elaborare nuove modalità di indagine degli eventi e del mondo che ci circonda. “Lexicon I” è dunque un'esperienza di ascolto affascinante per gli amanti della musica contemporanea, e lascia presagire cosa ci riserveranno in futuro Filippo Deorsola e i suoi compagni musicisti.
♥ A maggio risale la presentazione ufficiale di “Chansons sous les doigts” del pianista campano Vincenzo Caruso che prosegue la collaborazione con l’etichetta pugliese Dodicilune. Dopo “Sirene a Cadaques” (2020), distribuito in Italia e all’estero da IRD e nei migliori store on line da Believe, arriva “Chansons sous les doigts”. Se il precedente disco era nato dall’incontro tra le composizioni del pianista, la poesia di Pina Varriale e l’interpretazione vocale di Annalisa Madonna, qui il musicista propone diciannove canzoni francesi re-arrangiate per pianoforte solo. Interessante leggere le motivazioni che hanno portato l’autore Vincenzo Caruso a una scelta tanto azzardata quanto originale: “Fin da bambino gli spartiti che mi inviava da Parigi "mon grand oncle" Antonio Di Domenico (1920-1985) chansonnier italo-francese e fondatore della casa editrice musicale "Club des auteurs", hanno portato il fascino della canzone francese sul leggio del mio pianoforte», racconta Caruso. «Più tardi, oltre allo studio dei capolavori pianistici degli impressionisti Francesi, un altro evento ha determinato il mio "debole" per la Chanson française, ovvero la collaborazione come pianista alla commedia musicale "Irma la douce" con le musiche di Marguerite Monnot arrangiate da Gérard Daguerre per il Théâtre national de l'Opéra-Comique di Parigi. Il risultato di queste esperienze si concretizza oggi in “Chansons sous les doigts”, un omaggio pianistico alla canzone francese del 900. L'idea di realizzare questo disco mi si è palesata nell'aprile 2021 come un vero colpo di fulmine durante l'ascolto casuale di Syracuse di Henri Salvador», prosegue. Rapito dall'eleganza di questa canzone ho cercato subito di riprodurne la grazia sui tasti del mio pianoforte e, incuriosito dall'esperimento, mi sono ripromesso di selezionare una canzone per ciascuno dei 20 giorni seguenti, nella sfida personale di rendere indipendenti dal testo queste Chansons e trasformarle in moderne "romanze senza parole" per piano solo. Scelti secondo il criterio della rarità, i brani proposti risalgono al periodo compreso tra gli anni ‘30/’70. Spero che questa scelta possa tracciare per gli ascoltatori un sentiero che li conduca con garbo alla riscoperta delle versioni originali di queste Chansons”. Oltremodo interessante è fare la conoscenza di una ‘eccellenza italiana’ che sfugge ai più: “Diplomato con il massimo dei voti e la lode in Pianoforte e in Direzione e Composizione corale presso il conservatorio di Napoli, dal 1990 Vincenzo Caruso collabora con il Teatro San Carlo di Napoli per il quale attualmente ricopre il ruolo di Maestro collaboratore al Coro, ruolo che lo porta a interagire come pianista con direttori d’orchestra di fama internazionale quali Riccardo Muti, Zubin Mehta, Fabio Luisi, Juraj Valchua, Nello Santi, Daniele Gatti e molti altri. Si esibisce al pianoforte accompagnando il coro del Teatro San Carlo in numerosi concerti. Nel 2003 viene scelto come pianista per “Irma la douce” con regia di Gerome Savary, coproduzione tra l’Operà comique di Parigi e la Compagnia “Gli ipocriti”, in tournée nei più importanti teatri Italiani. Collabora inoltre come pianista allo spettacolo “Sguardi” con Isa Danieli e regia di Giuseppe Bertolucci, per diverse repliche al teatro Trianon di Napoli. Nel 2009, viene invitato dall’etoile Roberto Bolle per il galà per “Unicef” Bolle & friends all’Arena Flegrea di Napoli, dove accompagna al piano con musiche di F. Chopin la sua esibizione con l’etoile Isabel Ciaravola. Nel 2018 scrive le musiche per lo spettacolo “Ignazio e Maria” con la regia di Carmine Borrino per il Napoli Teatro Festival.”

♥ L’etichetta pugliese Dodicilune prosegue la sua collaborazione anche con il chitarrista toscano Fabrizio Bai. Dopo “Etruscology” (2013) e “Comunque sia…” (2019), a maggio è uscito “Alto mate”, distribuito in Italia e all’estero da IRD e nei migliori store on line da Believe. Il musicista e compositore, qui anche nell’inedita veste di cantautore, affiancato da Andrea Libero Cito al violino e Raffaele Toninelli al contrabbasso, continua a raccontare i suoi incontri di vita e le sue esperienze musicali. Le sette composizioni originali si muovono tra sonorità latine, contaminazioni mediterranee, melodia italiana e jazz moderno. Le immagini dolci e calde del Sud America convivono, dunque, con quelle ruvide e pacate della Toscana, terra d’origine dei tre musicisti. La title track “Alto mate” mescola alcune idee ritmiche della tradizione argentina con la forma choro della musica brasiliana, della quale sfrutta anche il ritmo di Samba-Choro nelle strofe, con uno spunto del ritornello tipicamente mediterraneo. “Tocando Gisela” ha la forma tipica dello standard americano e richiama molto le sonorità della musica manouche francese. La struttura armonica è comunque di ispirazione più moderna e regala al brano un “sapore” inaspettato e trasognante. La milonga “Pellicano Moonlight” è una delle composizioni più vecchie scritte dal chitarrista per questo disco. Si ascoltano infatti alcuni colori tipici del lavoro precedente “Comunque sia…”. Il violino però ispira sia la chitarra che il contrabbasso a trovare soluzioni più “liriche” tipiche delle colonne sonore dei film con un tono drammatico e romantico. “Tra te e me” è un brano scritto nella forma tipica dello choro brasiliano AABACA accompagnato del ritmo di samba. È un omaggio dell’autore ai grandi artisti della musica popolare carioca che lo hanno ispirato in questi anni come Guinga, Pixinguinha, Baden Powell per citarne alcuni. La forma armonica è quella tipica della musica tonale mentre la melodia, in principio pensata per mandolino, è reinterpretata dal violino. “Blue Even no Heaven” è il brano più “jazz” del disco. Sia per la sua forma che per la struttura armonica e melodica. È una composizione modale complessa su un tempo di ballad even eights. Il tema resta comunque molto morbido usando pochi salti di corda per tenere unite le tensioni degli accordi. Lo dimostra anche l’interpretazione del solo del contrabbasso rarefatto e suggestivo per dipingere al meglio la tela di questa struttura armonica. “Walzer senza nome” si sviluppa in strofa e ritornello che si ripetono tra un lungo solo di violino e una improvvisazione “aperta” di chitarra. Nella conclusiva “Nina”, Fabrizio Bai esordisce nella veste di cantautore. La canzone è la parafrasi di un viaggio di “vita” nel quale un padre dà consigli a una figlia, senza volerne interrompere il percorso. Si limita solo a starle vicino nelle sue scelte. Con una melodia tipicamente italiana, la musica è ispirata dal ritmo di Chacarera, giocando con delle poliritmie per richiamare lo swing tradizionale americano. Molte le ‘note’ nel curriculum di Fabrizio Bai (leader del gruppo) inizia a suonare la chitarra a 11 anni. A 18 segue i seminari di Giovanni Unterberger all'Accademia Musicale Lizard. Si laurea alla facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Siena, indirizzo musica e spettacolo. Nel 1996 si iscrive ai corsi di Siena Jazz. Nel 2001 frequenta i seminari estivi di Nuoro Jazz con Tomaso Lama e Bruno Tommaso. Nel 2002 frequenta i corsi di armonia ed arrangiamento con Stefano Zenni e Bruno Tommaso. Insegnante di chitarra presso la scuola comunale di musica di Monteroni d'Arbia, di Sinalunga e all'Accademia d'Arte di Sinalunga. Nel 2006 entra a far parte del gruppo docenti della Peter Pan orchestra della fondazione Siena Jazz insieme a Marcello Faneschi, Ines Garbi, Martina Guideri. E dal 2009 passa alla direzione del progetto. Oltre agli studi, all'insegnamento e alla composizione è sempre stato impegnato anche in un'intensa attività dal vivo con svariate formazioni spaziando tutti i generi musicali, dal rock al jazz, dal blues alla musica popolare. Ha suonato con la G.O.P. diretta dal M° K. Lessman. Nel 2004 assieme ad E. Bocci (voce) e M. Campanini (testi) dà vita alla "Compagnia Musicale le Voci del Vicolo" band che propone materiale originale miscelando sonorità etniche e popolari al jazz e allo swing, proponendo il tutto sotto a una forma che si rifà al teatro-canzone. Fanno inoltre parte dell’ensemble: Raffaele Toninelli, diplomato in contrabbasso all’Istituto da Alta Formazione Musicale Rinaldo Franci di Siena con il M° Andrea Granai, nel corso degli anni frequenta seminari e lezioni. Dal 2007 collabora con l’orchestra sinfonica Orchestra Città di Grosseto. Dal 2009 è contrabbassista del gruppo Musica da ripostiglio, con cui produce ben cinque cd e un audiolibro per bambini. Nel 2010 fonda insieme a Fabrizio Bai ed Emanuele Pellegrini I Latino FER. A teatro ha lavorato in numerosi spettacoli componendo anche le musiche per il monologo teatrale “Una Luce In Una Selva Oscura” interpretato e diretto da Roberto Zibetti e per il cortometraggio “Fog at Sea” diretto da Donato Rossi, finalista al festival Lisbon Films Rendezvous. Andrea Libero Cito, diplomato in violino al Conservatorio di Musica Luigi Cherubini di Firenze, nel corso degli anni, prima di diventare un insegnante di violino e musica d’insieme, ha partecipato a diverse master class, studiando con Andreas Neufeld, primo violino di Berliner Philharmoniker. Si è esibito dal vivo e ha inciso vari cd con Renzo Rubino, Paola Turci, Margherita Vicario, Roberto Kunstler, ha suonato in diversi gruppi orchestrali e da camera e ha collaborato con i compos itori Leonardo Barbadoro ed Eugene. Dal 2020 lavora stabilmente con Fabrizio Bai.

♣ Di più recente, l’uscita in edicola e libreria del nuovo numero di “Musica Jazz” (in copertina) con le ultimissime in musica, il calendario dei concerti, gli avvenimenti più eclatanti, a incominciare dalla novità assoluta di Charles & Camille Mc Pherson, un maestro del sassofono che apre una nuova strada percorsa insieme alla sua famiglia: la figlia Camille, ballerina classica di grande talento, e la moglie Lynn, pianista classica.

(continua)


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- Società

Bla, bla, bla … quando sono tanti galli a cantar...



BLA, BLA, BLA … “quando sono tanti galli a cantar non si fa mai giorno”.


L’indulgenza plenaria che gli Italiani fingono di regalare a questo governo è evidente in ogni azione ufficiale che si svolge nel paese, non in ultimo il mancato recarsi alle urne di milioni di persone che ‘a ragione’ non hanno fiducia nei politici e ancor meno nella politica in generale. Lo dimostra il fatto, il più eclatante che si conosca, non essere riusciti a designare un nuovo Presidente della Repubblica, per poi dover ‘pietire’ dal pur illustre quanto generoso Sergio Mattarella di restare al suo posto per altri sette anni, quasi lo si volesse conservare (imbottigliarlo) come si fa con il vino buono, nella botte democratica della Costituzione.
Di fatto c’è una sola verità che si canta in un vecchio stornello: “quando sono tanti galli a cantar non si fa mai giorno”; così avviene che le ‘galline’ si fanno loro intorno e armano nel pollaio un tale baccano da far rizzare i capelli (e a quanto pare non solo quelli); sì che fanno a gara (uomini e donne) a chi mette le migliori piume sul culo con cui pavoneggiarsi. Ma, come si dice, i galli non saranno mai pavoni, e alle galline non rimane che covare le uova e strillare da arrossare le gole. Diciamolo pure, gli Italiani seduti oggi sugli scranni del Parlamento sono di una razza inqualificabile (ne galli ne pavoni), non certo migliori dei loro predecessori, che almeno, in certi casi, hanno compreso quand’era il momento di lasciare.
Inutile del resto girare e rigirare intorno al dito levato per controbattere ad ogni occasione e quindi rinegoziare atti e leggi votate in prima istanza solo per un ripensamento di partito; come anche inutile cercare ad ogni piè sospinto un’unanimità che non c’è, che non ci può essere se ognuno di loro guarda al solo suo orticello. Il problema, perché di questo si tratta, questi uomini-galli e donne-galline non sanno neppure cos’è una zappa o che l’orto ha bisogno di cure costanti, che non basta annaffiare le pianticelle che s’affacciano dalla terra; cosa che pensano di fare impunemente pisciandoci sopra così, a spruzzo, senza neppure incanalare la direzionalità del getto.
Ma questi ‘malpartiti’ non sanno neppure che l’orticello incolto non rende i frutti sperati e che i ‘parassiti’ (addetti e affini della politica) da loro stessi cresciuti, non fanno sempre e solo il loro gioco, che a loro volta guardano con avidità a far fruttare il proprio orticello, e allora lì dove il ‘gallo’ ha piantato le zucchine, s’attaccano e piantano a loro volta i pomodori e le melanzane nella speranza/possibilità di condividere la futura ‘teglia’. Mentre le ‘galline’ (mogli, amanti e comunque concubine), nascondono sotto il culo anziché l’uovo di giornata, l’uovo di cioccolata con dentro la sorpresa, nell’attesa, che prima o poi, quel ‘povero cristo’ del loro mentore (il pappone gergale), salga di qualche posizione nella scalata politica che s’aspettano ad ogni volgere di bandiera.
Qualcuno, di certo uno della casta con ricercatezza linguistica, ha definito il fatto come un ‘cambio di casacca’ quando in realtà è ciò che più si addice a un ‘voltagabbana’ da strapazzo, un qualunque venditore di fumo che resterà comunque anonimo nel mare magnum della politica, disposto a vendersi i coglioni per ‘quaranta denari’, quegli stessi che sono ancora in circolo dal tempo di Giuda e che non gli basteranno per costruire la ‘dimora’ vagheggiata nel futuro. Mi chiedo come sia possibile non concepire che le malefatte prima o poi verranno a galla e che dovrà comunque pagare il ‘laggio’ della sua defecazione? Come si fa ad essere ciechi davanti all’evidenza della propria decostruzione senza ricostruzione, senza approntare una possibile resilienza che gli permetterebbe di recuperare l’equilibrio e la riorganizzazione in chiave positiva della propria personalità dismessa?
Non c’è alcuna altra risposta da dare, gli Italiani con il loro consueto discriminante menefreghismo hanno dimostrato più volte la contrarietà a questa scadente classe politica che null’altro ha da dire della propria inconcludenza, della futilità delle proprie idee sconclusionate e delle promesse malriposte; ancor meno della miserabile miseria in cui certi banali individui le hanno concepite. Quel che si chiede l’uomo qualunque è infine di uscire dal pantano melmoso della politica così fatta, da una democrazia irrispettosa dei diritti dei cittadini, dalla volgare mancanza di una giustizia equa, dallo squilibrio sociale degli interventi attivi negli interessi economico-finanziari in favore esclusivo dei settori industriali e dei magnati della finanza. Ma non basta, ci sarebbe molto altro da aggiungere ….
Volete farlo voi che mi leggete? Siete i benvenuti, purché alziate il tono della voce.

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- Libri

Allì Caracciolo, ’Blood’ - Anterem Edizioni 2022

Allì Caracciolo, “Blood”

(…versato sulla pagina bianca e/o sull’intavolato del vostro teatro invisibile).

 

Si pensi di dover leggere un testo tenendo la bocca chiusa, articolando le parole con la sola espressione del viso e che altri, presenti sulla scena del vostro dire immaginario seguano allo stesso modo quel che voi non-dite; come se il vostro dire fosse recepito sull’onda dell’emotività che provate interiormente e che gli altri, con la stessa emotiva sospensione, anticipino o diano prosieguo al vostro dire fisiognomico.

Un suggerimento linguistico alquanto inusuale, se vogliamo più vicino al carme che alla narrativa, per leggere questo testo di Allì Caracciolo in cui diversi elementi alogici, compresa di immaginaria azione scenica, montano deliberatamente una struttura verbale enumerata in 99 punti “…manca uno per traboccare il vaso”; come è in uso nella forma propria dell’happening svolto in tempi diversi e spazi differenti che, potremmo chiamare non-luogo che, pur in relativo contrasto con il volere dell’autrice, non è rappresentato dal ‘vuoto’…"l’istante di soglia di opposti simultanei, l’indistinguibile differenza, figure d’inaccessibile indifferenziato (ove) il lemma abbuia l’orizzonte senza che sia buio.”

Ma cos’è il vuoto se non quel ‘vacuum’ latino, o piuttosto quel ‘vacuo dire’ privo di contenuto che non ha nulla dentro di sé, che non contiene ciò che invece potrebbe contenere, cioè la cifra incontenibile dell’autrice che sottopone all’analisi critica il suo intimo e (forse), il suo più nascosto essere antropico, ‘apollineo e dionisiaco’, l’essenza ‘umana/sovrumana’ che già il filosofo Friedrich Nietzsche (*) ebbe a concepire in “Umano, troppo umano”, caratterizzato da una luce che ‘diversamente illumina’ le cose del mondo allo stesso modo del destino degli uomini …

 

“…La perfetta armonia delle raccolte membra – l’atleta smembrato sistemato in una icona di strutto – […] la metamorfosi della carne non sempre si attua attraverso il verme – talora, nello spessore dei fumi, grida congelate poi ceneri […] talora, sempre più spesso, in retaggi di corpi, sparsi ex voto di gambe braccia intestini e cuori – semine di teste sui campi.”

 

Sì che, in quel ‘vuoto privo di contenuto che invece potrebbe contenere’, si muove Allì Caracciolo, andando alla ricerca d’una probabile interiorità perduta, a scovare negli antri nascosti dove il sangue (blood) s’oscura del sapere ancestrale che la sola linfa conosce e che lascia risalire in superfice, fino all’epidermide in brividi di coscienza …

 

“Condividere il sangue. La fratellanza indissolubile s’instaura: uccidere insieme -cacciatori o assassini- genera legami più forti dell’utero materno per il feto monozigote. Legame viscerale, segreto, fatto di membrane calde, cartilagini fragranti come cialde, di palpitanti intestini, l’intimo corpo rovesciato e aperto in organi squartati, il fumo del calore interno, l’odore.”

 

È allora che l’happening si consolida in evento, per la durata esclusiva di un momento che non ha durata, di un vuoto che non è vuoto, di quella verità ‘altra’ che tutti noi siamo pur se non siamo, umani - non umani, fatti di cenere cosmica … “…che attende alla vita con leggera movenza, l’avveduta scienza di nascere ogni giorno con stupore.”

 

Non lo stupore ingenuo del disorientamento improvviso, ma l’avveduta rivelazione di chi ha maturato una propria coscienza intellettiva, che ha compreso di dover … “…attendere alla vita tripudio di spume / che il mare avanza che la nuvola alza al nitore / come dentro una stanza da adornare con sobria misura / un trionfo barocco delicato e gentile fioritura d’aprile / sulle rovine …”

 

Così leggiamo “sulle rovine” al liminare del tempo, la forza centripeta della fragilità umana: “Dove è finito l’umanesimo, il rispetto dell’altro, l’amore dei figli, la devozione agli dèi?” – si chiede Vittorino Andreoli (**), psichiatra di fama internazionale, nel suo “L’uomo di superficie”, per poi affermare che “L’uomo di oggi, appiattito su un presente senza prospettive, non ha più sogni né progetti, è prigioniero dell’eccesso e dell’inutile, ha paura del silenzio e della solitudine.” […] “Torniamo dall’essere umani come da una preistoria da cui allontanarsi vertiginosamente in un rovescio progresso che più si disancora dalle radici più forte lancia contro gli spazi l’urlo di feconde barbarie.”

 

Si è detto ‘rovine’ quelle descritte in “Blood” da Allì Caracciolo, che sono insieme ‘ruderi e vestigia’ e che, pur incarnando valori antitetici, caratterizzano l’effimero della vita, il ‘non-luogo’ mutevole della resilienza; quel che al vuoto reclama la presenza in voce dell’autrice, che si fa ricongiungimento, ricerca di un dialogare che la riscatta dall’aver in primis abbandonato il ruolo di ‘fruitore passivo’, e di parlare con la ‘bocca aperta’, articolando finalmente le parole fin qui taciute …

 

“Pure l’assillante cognizione (del sangue) che qui avversa la dissuasione a far poesia (su argomento tanto oscuro e bestiale) perviene a una sospensione (perversa e inquietante) ove tutto si azzera: la condanna del male la ricerca del vero la sapiente perizia l’impellente misura dato che attraversato per secoli l’oscurantismo sotto la legge dell’abuso e del cinismo conquistata la limpidezza alma del diritto si nega il delitto in nime della giustizia O dell’avvocatura trionfante (la mendace difesa garante).”

 

Taciute al dunque, non senza aver estremizzato le premesse informali contenute in apertura del teatro illusionistico, Allì Caracciolo tenta di focalizzare su sé stessa, e a noi che leggiamo, la sua ‘gestazione’ scrittoria, nella simulazione di un evento fortemente drammatizzato, che la vede in prima persona attrice dell’evento da lei stessa organizzato, per l’appunto: “Blood”, come happening della sua stessa vita …

 

“…C’è sempre un motivo un buon motivo per gestire la morte – di qualcun altro persona o animale che c’è di male a essere scaltro? Gestire la morte uccide il diritto. Dell’animale o dell’uomo? Tirare a sorte gestire la morte per potere per necessità perché hai pietà per comprensione per sopraffazione per attitudine per condivisione per abuso evidente per sovrabbondanza per uccidere per fare giustizia per sola nequizia per tracotanza per arricchire per non morire […] per uccidere per poter ridere per ammazzare per farsi innalzare per repressione per una passione perché si mente perché si sente per non sentirla perché ti ha annoiato perché ha una voce che squilla perché tu non sei stato perché ti ha tradito perché la paga che è scarse perché è tutta una farsa perché amore è finito per poi dire è scomparsa […] perché è un pezzente per non perder la faccia per farla finita perché l’hai tradita per farlo star zitto perché l’hai in mente per aggredirla per sentirsi potente perché si pente perché sei più forte perché sta scritto gestire la morte inventa il diritto di gestirla.”

 

L’assunto implicito di questa pratica descrittiva va quindi inquadrata nel decostruzionismo derridiano (***), ovvero delle prescrizioni esecutive che di massima possono provocare esiti performativi imprevedibili di `attinenza sperimentale’, come quella descritta nel prologo, di “parlare a bocca chiusa” per dire quel certo non-dire cui invita l’autrice …

 

“Blood è una partitura irregolare che serra gli spazi, non lascia pause di ristoro, nega il conforto della narrazione, non descrive né vuole, nega l’abbandono del pianto, l’accesso perfino, il naturale accesso allo sconforto.” … “I fantasmi della notte sono sanguinosi / il sangue del silenzio. Delle omissioni. Delle mancate occasioni. Della memoria ignorata. Dell’infanzia grata / l’indifferenza di benamare. La noncuranza a beneficare / il bene-dire senza più voce. i ricordi feroci.”

 

Blood quindi come sangue versato sulla pagina bianca dell’inconscio e/o sull’intavolato di un teatro reso conscio, di ciò che non è stato ma che sarebbe potuto essere …

 

“Dimmi la parola infelice che fa di questo piatto (testo) una melma (di oscure fibrillazioni, che reca brividi sulla pelle accapponata), dimmi le volte che con sangue o con fatto (in)cruento con coltello o proiettile con atti o parola col delirio dell’abuso tu hai ucciso…” “Dimmelo perché io possa conteggiare i giorni in base alle morti” … e riscattare così il tempo dell’attesa: “…quell’attendere alla vita con la leggera movenza l’avveduta scienza di nascere ogni giorno con (lo stesso) stupore” furtivo.

 

Di ciò che inferno non è ha memoria la pelle d’ogni emozione passeggera, della cognizione sfuggente d’ogni attimo vissuto, dell’urlo che l’accoglie nell’abbraccio della fine silente …

 

“Basta guardare gli occhi delle bestie al macello dilatati impazziti fuoriuscenti dall’orbita senza scampo presaghi di non avere più scampo l’angoscia il terrore l’imminente dolore la morte non è solo morte se passa per l’orrido sgomento della intuizione de la cognizione …”

 

Null’altro che un falso ossimoro negazionista di ciò che “Bloob” invece è a tutti gli effetti: “…un’opera narrativa che pur nella compressione degli spazi è narrazione, l’assenza sul foglio di vie di fuga è narrazione, la variabile occorrenza di segni grafici, di punteggiatura, di spazi obbligati negati oppure dilatati è narrazione. È un racconto al di là. Di là da tutto” … frutto di un costante happening autoriale di altissimo livello letterario.

 

Note:

(*) Friedrich Nietzsche, “Umano, troppo umano” – Piccola Biblioteca Adelphi 1979.

(**) Vittorino Andreoli, “L’uomo di superficie – Rizzoli 2012.

(***) Jacques Derrida, “La scrittura e la differenza”, Einaudi 2002.

 

L’Autrice:

Allì Caracciolo, ha fondato e dirige un Teatro di Ricerca a livello professionale, la cui indagine si concentra sui linguaggi della fisicità vocale, corporale e della scrittura scenica. Già docente di Storia del >Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Macerata fino al 2019, ha al suo attivo numerose pubblicazioni di poesia e scrittura, regia teatrale e drammaturgia. In ordine d’uscita: “Storie impercettibili”, Prometheus 2020. Con “Blood” definisce una lingua intenzionalmente ‘impoetica’, in un’etica di scrittura diversamente ma inevitabilmente poetica. In abbinamento a questo libro con “Anacronia”, una prosa inedita vincitrice della 35° edizione de Premio Lorenzo Montano. Libro edito da Piccola Biblioteca Anterem – Anterem Edizioni 2022.

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I ‘frenetici’ anni ’50/’60. Vintage revival (seconda parte)

Ritornano i ‘frenetici’ anni ’50 / ’60.
Vintage revival (seconda parte)

Si è detto che “Il delinquente del Rock’n’roll” un film interpretato da Elvis Presley, scatenò una vera e propria ‘rivoluzione’, dando il via al più colossale fenomeno sociale mai visto. Una generazione di giovani si riconosce in lui, si veste come lui, si atteggia come lui, porta i capelli come lui, si scatena nelle strade alla sua musica, entra per la prima volta nei bar, fonda club, dà luogo al più grande fenomeno commerciale della vendita di dischi che si fosse mai visto. I suoi LP e 45 giri vanno letteralmente a ruba, si collezionano, si regalano, i giovanissimi parlano con le parole delle sue canzoni imparate a memoria, indossano blue-jeans e giubbotti di pelle, si lasciano crescer i capelli (il celebre ciuffo alla Presley) , masticano chewing-gum, bevono Coca-Cola, mangiano pop-corn, chiamano le loro coetanee ‘pupe’, si atteggiano al volante di auto, di moto di grossa cilindrata, affrontano la vita ‘on the road’ su imitazione del loro beniamino Jack Kerouac, scrittore, poeta e pittore considerato uno dei maggiori e più importanti scrittori statunitensi del XX secolo, nonché padre della cosiddetta “Beat Generation”, realizzano la propria personalità alternativa. Qualcosa di più di una semplice infatuazione, che diede luogo a un fenomeno collettivo che raggiunse vertici impressionanti nelle generazioni successive. L’ondata di ‘revival’ cui assistiamo oggi, si ripresenta più come ‘nostagia’ di quegli anni, ma che riviverla oggi sembrerebbe più una fuga dalla realtà, “un modo per riappropriarsene, uno stratagemma per vincere la consumazione del tempo” (Argan); un voler sottolineare che le stesse cose tornano solo in quanto diverse, nel momento in cui le difficoltà sembrano prevaricare su tutto, che accresce le perplessità sulle linee da seguire e che disorienta le nostre scelte, per riversarle in fattibili travestimenti del consumismo.
In fondo il ‘rock’, pur osservato nelle sue differenziazioni, non ha mai cessato di esistere, dal fatto che vi si riscontra per via della continuità ininterrotta del suo successo: si pensi solo al gruppo dei Rolling Stones ‘grandissimi’ che, proprio in questi giorni, celebra i 60 anni della sua formazione. Non rimane che cercarci uno spazio fattivo per il prosieguo del nostro “revival” che ormai spazia in ogni direzione lecita (e illecita), che miri a cogliere fra i molti che abbiamo scandagliato, un carattere che si discosti dall’angusta applicazione della categoria dei fenomeni estetizzanti, prodotti da intelletti raffinati dello show-business. Noi invece, abbiamo deciso di spingersi oltre, andando a cercare proprio quelle definizioni che più ci permettono di travalicare le barricate della cultura ufficiale che non ci hanno permesso, fino ad ora, di assecondare la conoscenza, con quella che è la realtà odierna. Secondo la definizione del noto antropologo Alexander Alland (*):
«Il prototipo (culturale) occidentale contempla la distinzione fra arte e non-arte. Certi dipinti, canzoni, racconti, sculture, danze ecc. sono considerati arte, altri no. Chi sposa questa opinione sosterrebbe, per esempio, che è arte La Gioconda? Ma non l’immagine di Elvis Presley dipinta su un velluto nero, perché? la risposta forse ha a che fare con la bravura dell’artista nel cogliere qualcosa di importante incarnato da Elvis e con la cultura alla quale appartengono sia l’artista sia Elvis, cioè con il grado di felicità estetica della trasformazione-rappresentazione. […] Ma la risposta implica in parte il verdetto di quanti si arrogano il diritto di definire la vera arte, di decretare gli stili, i mezzi e le forme appropriati. […] Per i molti che hanno comprato quei ‘dipinti’ (gadget, magliette, poster, ecc.) l’immagine di Elvis creata dal pittore è indubbiamente piena di significato – che lo stile e il mezzo tocchino la loro sensibilità – non dissuade i suddetti santoni dal considerarli paccottiglia. Così, Elvis su velluto per loro non è arte, perché non affronta problemi di estetica, non concerne né il bello né il vero, non palesa la lotta dell’artista per produrre un nuovo stile di espressione, diverso da tutti gli altri che l’hanno preceduto, o perché l’artista sembra ignorare o disprezzare la sperimentazione stilistica che compone la storia dell’arte occidentale. Ciò nonostante, arte non è solo quel che una casta di esperti definisce tale, ma anche significato, abilità, mezzo».
E se noi rispondessimo che Elvis è arte perché nella trasformazione e rappresentazione della sua immagine, l’artista ha espresso ciò che già era bello in natura?
Ovviamente non è questa la diatriba in cui vogliamo cacciarci in questa sede, tuttavia bisognerebbe rifletterci su e magari farne oggetto di una peculiare ulteriore ricerca, (che ne dite?).
Per comprendere il termine trasformazione-rappresentazione della definizione di arte proposta da Alland, dobbiamo qui ricordare che i simboli rappresentano altro da sé. Essendo arbitrari, in quanto privi di connessione necessaria con ciò che rappresentano, si possono separare dall’oggetto o dall’idea in questione per essere apprezzati in sé, e addirittura servire per esprimere un significato del tutto diverso. Ci sono infatti teorie che dimostrerebbero il contrario, almeno sotto l’aspetto cognitivo interiorizzato. Scrive ancora Alland: «Poiché trasformazione e rappresentazione dipendono l’una dall’altra, esse viaggiano accoppiate. Non è che un altro modo per parlare di metafora: un disegno, per esempio, è una trasformazione metaforica dell’esperienza in segni visibili su una superficie; del pari, una poesia e/o una canzone trasformano metaforicamente l’esperienza di un linguaggio denso e compatto. Il processo è uno di quei casi che impegnano l’attività tecnica dell’artista».
Il senso di questa affermazione serve qui a confermare la nostra convinzione che come per la poesia, portata ad esempio da Alland, lo stesso accade per la musica, per il canto o la danza, esattamente allo stesso modo che per ogni altra forma d’arte. Ciò aderisce in modo uniforme al nostro concetto primario che la ‘musica dei popoli’ corrisponde esattamente a quello che i popoli sono nella propria cultura, quindi che i popoli non solo fanno la musica, essi sono la musica che producono. Potremmo anche affermare che la musica è la metafora del mondo in cui viviamo, e viceversa che la musica influisce sulla cultura tanto quanto la cultura influisce sul nostro essere ‘musicali’, ma questo riguarda più quello che è l’effetto della cultura che ci siamo dati sulla musica che produciamo.
Si è già detto di “Orfeo 9”, di Tito Schipa Jr. la prima Opera Rock che si ricorda (oggi visibile anche in DVD) che, molto più tardi, portò in Italia una ventata di freschezza musicale, sebbene mettesse in scena, sulla scia dei recenti successi del West-End e di Broadway, una sua capacità innovativa, fatta di idee e di personaggi inusuali di quegli anni. Era il 1958 allorché un giovane Adriano Celentano interrompeva la ‘forma’ canzonettistica tradizionale, rifacendo il verso proprio a Presley suo beniamino d’oltreoceano, del quale in qualche modo sfoggiava una qualche somiglianza. Per quanto, negli anni a seguire si riscattò dal ‘cliché’ che gli avevano costruito addosso e soprattutto dal plagio esistenziale, riuscendo a dare al rock una vitalità tutta italiana.
Oggi, che a distanza di anni, sembriamo avere ancor più l’esigenza di un vivere ‘frenetico’, solo apparentemente affrontiamo con entusiasmo la ‘nuova musica’ e la recente ‘produzione canora’, ma in realtà è la musica di quegli anni ’50 ’60 che più o meno tutti ci portiamo dietro, come momento ‘unico’, di autentica rivoluzionaria creatività: “un modo come un altro per riappropriarsene, uno stratagemma per vincere il logorio del tempo”. Furono quelli gli anni in cui apparvero sulla scena i cosiddetti ‘Urlatori’: cantanti come Joe Sentieri, Ricky Gianco, Betty Curtis, Little Tony ed altri. Tra i più gettonati, così si diceva per l’uso smodato del Juke-Box: Mina la cui potenza vocale esplosiva, tra gorgheggi e vocalizzi, si rivelò con “Tintarella di luna”; Adriano Celentano, ‘il molleggiato’, con “24mila baci”; Jenny Luna e Fred Buscaglione con “Guarda che luna” e tantissime altre che in realtà, maturò uno stile tutto suo. Tra i più famosi ci fu Tony Dallara, con il suo grido pronunciato, consonante per consonante nelle celebri canzoni “Ghiaccio bollente”, “Ghiaccio bollente” e “Come prima” un po’ singhiozzata, saccheggiò lo stile americano dei Platters.
Scrive Francesco Saverio Mongelli in Le Rane – Music e Pop Culture: “Vite, quelle degli Urlatori, furono raccontate anche in alcune pellicole cinematografiche dirette da Lucio Fulci. Ricordiamo I ragazzi del juke-box (1959), Urlatori alla sbarra (1960), Uno strano tipo (1963). Il primo spazio televisivo concesso agli Urlatori fu durante una puntata de “Il Musichiere”, diretto da Falqui e condotto da Mario Riva. Inoltre, alla fine degli anni Cinquanta nacquero la Fonit Cetra, la Jolly e Dischi Ricordi che permisero all’industria discografica di favorire, a prezzi più contenuti, la diffusione delle canzoni.”
Accadde al “Piper Club”.
L’anno era il 1965. Il luogo, il profetico, clamoroso, fantastico “Piper-Club” di Via Tagliamento a Roma, fondato e guidato dall’allora strepitoso manager (commerciante di automobili) Giancarlo Bornigia con altri soci, uno dei locali storici dell'Italia del boom economico degli anni sessanta e che in poco tempo divenne un'icona di una generazione intera ed un vero e proprio fenomeno di costume in Italia. Il Piper emerse subito come punto focale della bella vita romana, raccogliendo frequentazioni dal mondo dello spettacolo e dell'arte, oltre che da personaggi della scena mondana. Lo storico animatore - intrattenitore del locale, fin dall'inizio e per molti anni, è il giornalista Eddie Ponti. La linea artistica si ispirava al mondo del beat inglese, da cui copiò anche l'idea dell'opera beat, ovvero ad un uso innovativo di luci stroboscopiche colorate accoppiate ai suoni e allo stile dettato dalla moda della minigonna. Alla serata d'esordio suonarono The Rokes e l'Equipe 84, successivamente si susseguirono i migliori gruppi della scena musicale beat italiana tra cui i Rokketti, I New Dada, I Delfini, I Giganti, I Meteors, Gli Apostoli, Le Pecore Nere, Le Facce di Bronzo, affiancati da altri gruppi provenienti dall'estero come The Primitives (tra cui si distinguerà il cantante Mal), Patrick Samson e Les Pheniciens, Lord Beau Brummell and his Noblemen Orchestra, The Echoes, The Bad Boys, The Bushmen (cinque ragazzi di colore del Kenya), The Eccentrics (da cui nascono Mike Liddell e gli Atomi), The Honeycombs, John L. Watson & The Hummelflugs, per citare i più importanti.
A tutti questi si aggiunsero presto artisti del calibro di Nino Ferrer, Fred Bongusto, Dik Dik, Farida, Gabriella Ferri, Rita Pavone, Roby Crispiano, Gepy & Gepy, Nancy Cuomo: su tutti, però, vanno ricordate Caterina Caselli e Patty Pravo passata alla storia del pop proprio come "la ragazza del Piper", per quanto, secondo alcuni, il titolo sarebbe da condividere con Mita Medici che nel 1966, proprio al "Piper", vince il concorso "Miss Teenager Italiana" con il temporaneo nome d'arte di Patrizia Perini. Nel 1965 Mina vi girò una serie di caroselli per la Barilla per la regia di Valerio Zurlini. Dal numeroso gruppo dei ragazzi che si possono considerare frequentatori 'storici' del Piper emergeranno negli anni numerosi personaggi di spicco fra cui Romina Power, Mia Martini, Loredana Bertè e Renato Zero che nel 1982 realizzerà un 33 giri ispirato proprio agli anni del Piper. In quegli stessi anni vi si esibirono i più conosciuti complessi di musica beat e cantanti di musica leggera nazionali ed internazionali più in voga del calibro dei Procol Harum, i Byrds, Rocky Roberts, Nevil Cameron, Herbie Goins & The Soultimers (il cui chitarrista era il virtuoso John McLaughlin), Wess (che divenne famoso cantando in duetto per anni con Dori Ghezzi) e dei giovanissimi Pink Floyd che si esibirono in due serate, il 18 e il 19 aprile 1968. La musica italiana era invece rappresentata da New Trolls, Le Orme, I Corvi, I Delfini. I Pooh, nel 1966, conobbero in questo locale Riccardo Fogli, che entrò poi come bassista nel gruppo in sostituzione di Gilberto Faggioli, e come nuovo frontman.
Da ricordare l'evento ‘Grande angolo, Sogni, Stelle’ organizzato da Mario Schifano il 28 dicembre del 1967, che segnò una delle tappe fondamentali della nascita dell'underground italiano. La serata vide l'alternarsi sul palco di sitaristi, ballerine e poeti che si alternavano alle Stelle di Mario Schifano, il tutto accompagnato da filmati proiettati sul palco su quattro diversi schermi. L'evento fu recensito su l'Espresso da Alberto Moravia anche lui frequentatore del Piper Club insieme a Pier Paolo Pasolini, con un articolo dal titolo “Al Night club con i Vietcong”. Dal 1968 dal Piper partì un'iniziativa già in voga negli anni sessanta, il “Cantagiro”, nella fattispecie del CantaPiper. "Piper Club" è stato inoltre il nome di un'etichetta discografica che ha pubblicato i dischi di molti degli artisti che si esibivano nel locale. Il 21 giugno 1969 esordisce il gruppo Tina Polito e i Parker's Boys [4] formato dall'aggregazione di una giovane cantante affermata nel programma televisivo Scala Reale e dal gruppo dove in precedenza aveva militato Renzo Arbore. La formazione era composta da Angelo La Porta (chitarra), Nicola Zanni (basso), Alberto Catani (batteria) e Gianni Micciola (tastiere).
Si vuole che la linea artistica di quegli anni prendesse le mosse dalla moda inglese, da cui venne copiata anche l'idea dell'opera beat, ovvero di un uso innovativo di suoni e lo stile dettato dai primi ‘musical rock’ anglo-americani come ‘Hair’ (1967) di James Rado e Gerome Ragni (testi) e Galt MacDermot (musica); ‘Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat’ (1968) di Andrew Lloyd Webber (musica) e Tim Rice (testi). Cioè ancor prima che si acclamasse ‘Jesus Christ Superstar’ (1971) della medisima coppia di autori, oltremanica, al Piper Club di Roma, accadeva un evento straordinario oggi quasi del tutto dimenticato anche negli annali dello storico locale.
Nel maggio del 1967 infatti, un giovane musicista, certo Tito Schipa Jr. (figlio del grande tenore italiano), proprio al Piper Club precorreva i tempi con la sua opera beat “Then an Alley”, costruita su testi di Bob Dylan, all’epoca da noi quasi del tutto sconosciuti. Lo testimonia l’intervista qui di seguito riportata, apparsa su ‘Nuovo Sound’ in quello stesso anno, rilasciata all’autore di questo articolo al Jockey Club di Ben Jorillo ad Aprilia, in occasione della presentazione del nuovo album dello stesso Tito Schipa: “Io, ed io solo” ormai introvabile.

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Ritornano i ‘frenetici’ anni ’50 / ’60.

Ritornano i ‘frenetici’ anni ’50 / ’60.

 

In attesa dell’uscita del film biografico “Elvis” (22 giugno 2022) sulla vita del Re del Rock and Roll Elvis Presley, una delle icone del panorama culturale americano che ha spazzato via quella parte della scena cinematografica e musicale propria dell’innocenza del tempo, eccoci a rivivere in questo articolo postdatato, quelli che furono definiti i ‘frenetici’ Anni ’50 / ’60 e che salutiamo come un ritorno in grande stile nello sterile panorama attuale, anche grazie alla firma del suo regista Baz Luhrmann che già dalla fine degli Anni ’80 ha iniziato a produrre e dirigere film Musicali adatti alle nuove generazioni di adolescenti, che un tempo, ricordiamolo, pur hanno fatto grande il cinema americano. A partire dagli anni ottanta infatti Baz Luhrmann inizia a produrre, allestire e dirigere spettacoli musicali e adattamenti di opere famose, tra i quali "La bohème" di Giacomo Puccini, riadattata e ambientata negli anni cinquanta. Nel 1992 esordisce dietro la macchina da presa; la pièce teatrale Strictly Ballroom, ideata nel 1987, diventa un film, "Ballroom - Gara di ballo", che offre una versione riveduta e corretta dell'idea di Luhrmann che vince diversi premi cinematografici . Il grande successo internazionale arriva nel 1996 grazie alla reinterpretazione in chiave postmoderna del classico "Romeo + Giulietta" di William Shakespeare, con Leonardo DiCaprio e Claire Danes, che riceve una candidatura all'Oscar alla migliore scenografia. Nel 2001 ottiene un nuovo grande successo, quel "Moulin Rouge!", con Nicole Kidman e Ewan McGregor, presentato in anteprima al Festival di Cannes 2001. Il film musicale, ambientato nella Parigi bohemien, si caratterizza, come tutte le opere di Luhrmann, da una forte componente visiva e visionaria, con delle scenografie particolari e surreali. La colonna sonora del film è formata da brani celebri come ‘All You Need Is Love’ dei Beatles, ‘Pride (In the Name of Love)’ degli U2, ‘Roxanne’ dei Police, ‘The Show Must Go On’ dei Queen, ‘Smells Like Teen Spirit’ dei Nirvana e ‘Your Song’ di Elton John, reinterpretate e riproposte, a legare lo sviluppo della trama. Il film vince due Oscar per la migliore scenografia e migliori costumi, e tre Golden Globe come miglior film commedia o musicale, migliore colonna sonora originale e miglior attrice a Nicole Kidman. Nel 2012 presenta una trasposizione cinematografica del romanzo "Il grande Gatsby" con protagonisti Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan e Tobey Maguire. Nel 2022 torna nelle sale con un film biografico su Elvis Presley, abilmente interpretato dalla giovane rivelazione Austin Butler, che segna un ritorno sullo schermo del genere musicale, davvero molto atteso. Di particolare rilevanza sarà il rapporto con il suo manager, il colonnello Tom Parker, interpretato da Tom Hanks, con il quale Elvis intreccerà un sodalizio artistico della durata di circa vent'anni. Il film si concentra proprio su questo rapporto complesso, a partire dall'ascesa della prima rockstar della storia fino al raggiungimento della fama mondiale, fino a quel momento mai toccata da nessun'altra star con così tanta veemenza. Il tutto mentre l'America vive uno sconvolgimento socio-culturale, che la porterà a grandi cambiamenti. Nel cast troviamo anche Olivia DeJonge che interpreta Priscilla Presley, la moglie di Elvis con cui il divo è convolato a nozze nel 1967 e, nonostante le tante relazioni attribuitigli, l'unica donna che il Re abbia davvero sposato.

 

I ‘FRENETICI’ ANNI ‘50/’60”

(Recuperato dalle pagine di “Super Sound” magazine).

 

In quegli anni, il cinema di Hollywood ancora giovane andava sperimentando nuove alternative per interessare e sbalordire il pubblico sempre crescente. Sulla scia dei grandi successi teatrali di Broadway, di cui ormai si parlava sulle principali testate giornalistiche, le Major cinematografiche andavano riproponendo quelle che erano state le ‘commedie’ che avevano totalizzato la maggiore affluenza di pubblico e, ovviamente, riscosso i maggiori incassi della stagione. Il genere era preferibilmente la ‘commedia’, meglio se con l’aggiunta di musiche e canzoni in voga che potevano allietare il pubblico. Nel giro di qualche anno la ‘commedia musicale’ divenne materiale di largo consumo e al cinema si cominciarono a vedere solo ‘film musicali’. Sì, in passato vi erano già stati esempi clamorosi. Dopo che nel lontano 1927 Al Jolson aveva aperto, per così dire, la stagione del ‘sonoro’ con “Il cantante di Jazz”, dove lui ‘bianco’, appariva tinto di ‘nero’ in una celeberrima parodia dai toni ‘blues’ che lo rese molto famoso, la strada sembrò aperta ad ogni altra esperienza. Si pensi che le sei canzoni contenute nel film fecero il giro del mondo. Era stato quello l’inizio di una nuova corrente cinematografica sotto il segno della musica. Fred Astaire, Ginger Rogers, Bing Crosby, Judy Garland, solo per citarne alcune star dell’epoca, erano allora stelle di prima grandezza, le più luminose del firmamento cinematografico, e facevano brillare di lustrini e polvere dorata, l’atmosfera musicale del momento, divenendo in breve ‘miti’ del più grande successo commerciale mai conosciuto. Già negli anni ’40 la gente, risvegliatasi dal torpore ‘post war’, prese ad affluire nei teatri, ed accorreva in massa al cinema ogni qual volta si proiettava una ‘pellicola sonora’, per vedere e sentire la musica che l’accompagnava e cantare le canzoni dei suoi beniamini. Nelle sale da ballo dove infuriava la musica sudamericana, ci si scatenava con le orchestre di Xavier Cugat, Perez Prado, Celia Cruz e tanti altri fino allo sfinimento. Nel frattempo, lo swing, attraversato l’Oceano, portava ‘la voce’ di Frank Sinatra in tutta Europa. Il film musicale che aprì effettivamente il 1950 fu “Un americano a Parigi” diretto da Vincent Minnelli con Gene Kelly, un ballerino-cantante-acrobata che avrebbe fatto sognare le teen-ager di tutto il mondo. Le musiche erano del già famosissimo George Gershwin. Col successivo “Cantando sotto la pioggia”, il mondo ritrovò la gioia di vivere, trasformata in esuberante allegria ed entusiasmo; i problemi che aveva lasciato la guerra venivano ora affrontati dalla frenetica baldanza giovanile con la certezza data dal ‘new-deal’ economico, con la sicurezza di chi è vincente nella vita. Così in “Bulli e Pupe” (1955), in “Pal Joy” (1957) fino allo scontro generazionale di gruppo con “West Side Story” (1961) a completamento di quel panorama straordinario che erano stati gli anni ’50. Ma esaminiamo questi tre momenti e i diversi aspetti della vita americana che in essi venivano proposti. Con “Bulli e Pupe”, interpretato dall’allora debuttante Marlon Brando affiancato da ‘the voice’ Frank Sinatra, nonché da quell’attraente icona che era Jean Simmons, aveva inizio l’era del ‘ragazzo duro già visto in “Fronte del porto”, e che troverà più tardi un maggiore coinvolgimento con James Dean di “Gioventù bruciata”. Quello che venne dopo è tutta un’altra storia. La gioventù americana fu letteralmente scossa dagli accordi convulsi di un ‘nuovo sound’ e dagli scuotimenti di un ragazzo dinoccolato dal ciuffo ribelle e le basette lunghe fino a metà guancia, che indossava stivaletti da cow-boy e portava la chitarra a tracolla, che cantando gridava e singhiozzava Elvis Presley. “È il nuovo astro nascente che esalta le folle con la sua voce e le vibrazioni della sua chitarra, e scuoterà milioni di giovani in tutto il mondo”. Fin da subito nacquero i cosiddetti ‘fan-club’ che accoglieranno genti di tutte le razze e tutte le età sotto il segno della nuova musica nascente, il Rock’n’roll che riprendeva, con assonanze diverse, il vecchio Boogie-woogie. Inutile dire che tutta la musica ne fu condizionata, stravolta da un terremoto che spazzò via il vecchio e riempì i suoi spazi di elettrificazione e bombardamento percussivo. La musica ‘rock’ che usciva dai moderni Juke Box era travolgente, si era appropriata della canzone tradizionale, rendendola certamente più ‘grintosa’, ‘spingente’, volutamente ‘trasgressiva ’. Ecco, se c’è una parola che più rende il senso di quello che era diventata la musica in quegli anni non poteva che dirsi ‘liberatoria’, perché disubbidiente e, in un certo senso, ‘provocatoria’. Ma allo stesso tempo e per moltissimi aspetti era anche ‘straordinaria’. Basti qui ricordare che oltre al grande Elvis altri nomi si affacciarono alla ribalta: The Platters, Bill Haley, Little Richards, Pat Boone, Chuck Berry, Fats Domino, The Beach Boys, ed altri, tantissimi altri che sarebbe impossibile qui elencare, la cui eco delle loro voci e dei loro straordinari strumenti, giunge fino ai nostri giorni. Un film su tutti: “Il delinquente del Rock’n’roll” con Elvis Presley, scatena una vera e propria ‘rivoluzione’ in termini, dando il via al più colossale fenomeno sociale mai visto. Una generazione di giovani si riconosce in lui, si veste come lui, si atteggia come lui, porta i capelli come lui, si scatena nelle strade alla sua musica, entra per la prima volta nei bar, fonda club, dà luogo al più grande fenomeno commerciale e sociale che si fosse mai visto. Beniamini della canzone, e attori del cinema indossano blue-jeans e giubbotti di pelle, si lasciano crescer i capelli, masticano chewing-gum, bevono Coca-Cola, mangiano pop-corn, chiamano le loro coetanee ‘pupe’, si atteggiano al volante di auto, di moto di grossa cilindrata, affrontano la vita ‘on the road’ su imitazione del loro beniamino Jack Kerouac, scrittore, poeta e pittore considerato uno dei maggiori e più importanti scrittori statunitensi del XX secolo, nonché padre della cosiddetta “Beat Generation” che, nei suoi scritti, relativi a tutto un gruppo di poeti statunitensi, esplicitò le idee di liberazione, di approfondimento della propria coscienza e di realizzazione alternativa della propria personalità. Qualcosa di più di una semplice infatuazione, che diede luogo a un fenomeno collettivo che aprì le porte ai più giovani all’alcool e alle droghe che li porteranno alle nevrosi e alla depressione, ma anche all’esaltazione del ‘macho’, del ‘superman’ ed altro ancora e che raggiunse, in certi momenti, vertici impressionanti riversatisi poi sulle generazioni successive. L’ondata di ‘revival’ cui assistiamo oggi, nel processo del divenire storico, si ripresenta più come ‘nostagia’ di quegli anni che come moda a sé stante. Sembra più una fuga dalla storia che dovremmo scrivere, ma di cui ci manca la creatività e soprattutto il coraggio. Ma che è anche “un modo per riappropriarsene, uno stratagemma per vincere la consumazione del tempo” (Argan); un voler sottolineare che le stesse cose tornano solo in quanto diverse, nel momento in cui le difficoltà sembrano prevaricare su tutto, che accresce le perplessità sulle linee da seguire e che disorienta le nostre scelte, per riversarle in fattibili travestimenti del consumismo. In fondo il ‘rock’, pur osservato nelle sue differenziazioni, non è mai cessato di esistere, dal fatto che vi si riscontra per via della continuità ininterrotta del suo successo: si pensi al gruppo dei Rolling Stones ‘grandissimi’ che, proprio in questi giorni, celebra i 60 anni della sua formazione. Una serie di film e commedie musicali abbastanza recenti, inoltre, hanno riportato gli anni ‘50/’60 in auge e vale qui la pena di elencarli: “American Graffiti”, “Stardust”, “La febbre del sabato sera”, “Hair” “Grease”, “Godspell”, “Orfeo 9” (unico in Italia), “Jésus Christ Superstar”, “Cats”, che gli autori ci vanno riproponendo come di un ‘tempo’ ormai sospeso nell’aria, osservato nel riflesso del ricordo, pronto ad essere rivalutato da nuove esperienze; quasi lo si volesse riscattare, in un momento di vuoto creativo, per i suoi valori musicali e di costume, precocemente lasciati per la fretta ‘liquida’ di superare i tempi. Avrei voluto qui elencare i gruppi ‘rock’ che hanno fatto la storia del Rock in quanto fin troppo noti, e i tantissimi album ormai introvabili che si possono cercare su You-Tube. In fondo, va detto, che volente o no, mi sono proiettato nel pieno di un ‘revival’ nostalgico di certi anni passati un po’ polverosi, tuttavia ancora scintillanti di musica fortemente creativa che vi invito ad ascoltare e sono certo che ne rimarrete affascinati, per accorgervi poi che sono ancora quegli anni... “i frenetici anni ‘50/’60” che tutti noi, fanatici e non, non potremo mai dimenticare.

(continua)

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- Cinema

Cannes 2022 in coop. con Cineuropa News


CANNES 2022

Mario Martone • Regista di Nostalgia
“Il nostro passato è un labirinto”
di MARTA BAŁAGA

28/05/2022 - CANNES 2022: Il regista napoletano ritrae la sua città natale, attraverso un altro uomo che cerca di affrontare il suo passato, solo per rendersi conto che non è mai andato davvero via.

Sinossi
Dopo quarant’anni di lontananza Felice torna lì dov’è nato, il rione Sanità, nel ventre di Napoli. Riscopre i luoghi, i codici del quartiere e un passato che lo divora.

Felice (Pierfrancesco Favino) finally returns home, to Naples. He hasn’t been there for decades. His mother has got old, and his accent has changed. He lives in Cairo now, happily, but the past – as well as his childhood friend-turned-mobster – gets a hold of him once again. In Mario Martone’s Nostalgia [+], presented in Cannes’ main competition, everything changes – except for Naples.

Intervista: (in inglese)

Cineuropa: This story surprised me a little. When people talk about nostalgia, it usually has a positive connotation – maybe too positive, even. You focus on its much darker side.

Mario Martone: Our past, or anybody’s past, is not a straight line. It veers off in all sorts of directions – so many things have happened. It’s a labyrinth where you’ve had your encounters, both good and bad, where you’ve said some things you shouldn’t have said. Or maybe you have taken the right path, one that has taken you far, far away? It doesn’t matter. If you look inside and think how everything is so intertwined, maybe it means that you’ve managed to move on from the past, to go beyond. But there are these little voices that still call you from time to time. You try to re-enter this labyrinth. But this attempt at understanding who you are and where it all started can be dangerous.
Yes, because this idea of “returning to one’s roots” can bring something good, but it can also be bad. Is that what you wanted to show here?
Every one of us has done things we are embarrassed of now – we have hurt someone or made mistakes. Sometimes, we tend not to think about it too much, convinced that everything can be erased. But it can’t. You have taken that road once. And this happens to Felice: he comes back to Naples because he wants to see his mother. He hasn’t seen her in 40 years! He left when she was still almost a girl, and he comes back to a frail, old woman. He had to see her, though – his wife was pushing him to do so. If he’d found her in her usual apartment upstairs, he would probably just have stayed for a while, cleansed his conscience and come back to Egypt.
But it doesn’t happen this way.
It doesn’t – his mother isn’t there. She is all the way down, in a ground-floor flat where [his childhood friend] Oreste put her. This way, Oreste makes his presence known right from the start. This is that push, that final straw that Felice needed in order to enter the labyrinth once again. So he does – and he gets lost.
The scene with his mother [played by Aurora Quattrocchi], when he decides to bathe her, is touching yet terrifying at the same time. She seems so exposed.
That scene was already there in the novel [written by Ermanno Rea]. I would say it was one of the reasons why I wanted to make this film, actually. I immediately felt its strength. It was difficult trying to figure out how to shoot it, however, and I opted for a radical approach. I found this place, which sometimes looks like a butcher’s – there is this kind of unforgiving light that shows everything. I wanted to show her hands, her body. I allowed myself to be guided by memories, feelings, by the memory of my own mother.
It's an important moment because that’s how you allow people to love him a little. Felice is so difficult to read. This idea of someone in between places, someone who is from somewhere but not really, not any more... Why was that appealing?
Pierfrancesco is an actor who is able to work with language. It was impressive, seeing what he has done here. He is a “beast” in that sense – I don’t know any other actor able to modify his own accent like that. He studied the Arabic language, then he looked into Egyptian Arabic, and the Neapolitan he speaks in the film reflects all of that.
Of course, that wasn’t the only reason why I wanted him in the film. His sensibility was fundamental in order to bring this character to life. You needed someone who would actually be able to touch his old mother this way, and take care of her. He has that capacity. You could say he is still a relatively new actor on the Italian scene, which used to favour performers who are masculine in an easily defined way. He is different; he is a modern man. I wanted Felice to be someone from our time, too. Someone who has a beautiful relationship with his wife, for example, even though she is a Muslim and there are so many prejudices that come along with that. I wanted to show a couple in love, in a partnership. So yes, he is a modern man, coming back to his old, violent roots.

Scheda tecnica:
titolo internazionale: Nostalgia
titolo originale: Nostalgia
paese: Italia, Francia
rivenditore estero: True Colours
anno: 2022
genere: fiction
regia: Mario Martone
sceneggiatura: Ippolita Di Majo, Mario Martone
cast: Pierfrancesco Favino, Francesco Di Leva, Tommaso Ragno, Aurora Quattrocchi, Sofia Essaïdi, Nello Mascia, Emanuele Palumbo, Artem, Salvatore Striano, Virginia Apicella
fotografia: Paolo Carnera
costumi: Ursula Patzak
produttore: Luciano Stella, Roberto Sessa, Maria Carolina Terzi, Carlo Stella, Angelo Laudisa
produzione: Picomedia, Mad Entertainment, Medusa Film, Rosebud Entertainment Pictures
supporto: Direzione generale Cinema e audiovisivo del Ministero della Cultura DGCA-MIC
distributori: Medusa Film, ARP Sélection

Recensione: 'Nostalgia' di CAMILLO DE MARCO
25/05/2022 - CANNES 2022: Mario Martone introduce un ulteriore quadrante della mappa cinematografica di Napoli con un film sulla necessità di ricucire il proprio distacco fisico dalle altre persone.

L’unica volta nel concorso ufficiale del Festival di Cannes di Mario Martone risale al 1995, con lo splendido L’amore molesto, tratto dal romanzo di Elena Ferrante, nel quale una donna torna a casa, a Napoli, per la morte della madre. Oggi il regista napoletano introduce un ulteriore quadrante della mappa cinematografica della sua città con Nostalgia, tratto dal romanzo omonimo di Ermanno Rea, circoscrivendo l’azione ad un singolo quartiere, il Rione Sanità (quello della commedia di Eduardo De Filippo, Il sindaco del Rione Sanità, portato al cinema nel 2019 da Martone).
(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)
È ancora una riapparizione, con tutte le possibili implicazioni simboliche dell’Ulisse omerico. Dopo quarant'anni trascorsi fra Medio Oriente e Africa, Felice Lasco (Piefrancesco Favino) torna a Napoli, nel Rione Sanità. Al Cairo è diventato un imprenditore edile di successo, è ricco e ha una moglie che lo ama. A Napoli ritrova la madre (Aurora Quattrocchi), che è ormai molto anziana. Lo vediamo accudirla, lavarla, vestirla con la dedizione di un sacerdote che celebra un rito sacro. Felice si aggira per i vicoli del quartiere, ha dimenticato come si è parla la lingua napoletana, ma alla moglie, al telefono, dice che dopo 40 anni “è rimasto tutto incredibilmente uguale”. Suoni, colori, odori, violenza. Nei suoi ricordi, che Martone visualizza con rapidi flashback, esploriamo un’adolescenza segnata da corse in moto, risse, scippi e furti commessi con un amico fraterno, Oreste.
Quando la madre muore, antichi legami e cicatrici riemergono con prepotenza. Don Luigi (Francesco Di Leva), un sacerdote che combatte la camorra sottraendo i ragazzi alla strada attraverso lo sport e la musica, e al quale Felice si confessa, vorrebbe che lui ripartisse subito per l’Egitto e si lasciasse il passato alle spalle. Ma Felice vuole incontrare a tutti i costi quell’Oreste Spasiano (Tommaso Ragno), che nel frattempo è diventato lo spietato boss del quartiere. Con quell’uomo, prigioniero del suo stesso ruolo di “malommo”, Felice condivide un segreto, che lo ha fatto fuggire 40 anni prima e oggi potrebbe annientare entrambi.
Un quartiere come terreno su cui esercitare la nostalgia (nóstos ‘ritorno’ + algìa ‘dolore’), una malattia divorante, come nel Nostalghia del grande Andrej Tarkovskij (premiato a Cannes nel 1983). È il luogo dove ricucire il proprio distacco fisico dalle altre persone. Felice deve riparare alla sua precedente fuga da sé e come il viandante di Nietzsche, rifiuta le illusioni protettive di una esistenza orientata nel futuro e accetta la cecità del suo destino. Come recita la frase di Pier Paolo Pasolini in esergo al film, la coscienza sta nella nostalgia. E chi non si è perso non ne possiede.
Piefrancesco Favino è alla sua massima intensità, Francesco Di Leva come sempre magnifico, Tommaso Ragno un po’ perso nel personaggio alla Kurtz di Cuore di tenebra. Bella la scelta della musica, dai vecchi Tangerine Dream a Ya Abyad Ya Eswed di Cairokee.

Nostalgia è produzione italo-francese di Picomedia e Mad Entertainment, in associazione con Medusa Film, in coproduzione con Rosebud Entertainment Pictures, con il contributo del Ministero della Cultura. Le vendite internazionali sono curate da True Colours e arriva nelle sale italiane con Medusa Film oggi 25 maggio.

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- Cinema

Bla, bla, bla...a Cannes 2022 c’è più guerra che in Ucraina


BLA, BLA, BLA … c’è più guerra a Cannes 2022 che in Ucraina.

Come se non ne vedessimo abbastanza sui Telegiornali e gli innumerevoli Talkshow che sembra gareggino a chi la ‘spara’ più grossa o s’impossessa delle immagini più cruente per far colpo sui propri ascoltatori, questa assurda guerra fra Russia e Ucraina altro non fa che incrementare l’astio tra i due popoli che d’ora in poi si odieranno per l’eternità, né più né meno come da secoli avviene fra Israele e Palestina, tali da non saper ricondurre il filo della matassa: Chi ha iniziato per primo? Chi ha gettato benzina sul fuoco? Chi ha fatto più morti? Chi ha pagato il massimo contributo di sangue? Dimenticandosi spesso, pur sapendolo, che la ‘guerra’ non risparmia nessuno da entrambe le parti. Se i vinti piangono lacrime amare, i vincitori di certo ingoieranno lacrime di sale che gli s’incrosteranno sull’anima.
Saper dire quanto ancora durerà o chi innalzerà infine lo straccio di bandiera della vittoria, lo si dovrà chiedere ancora una volta a quei ‘vecchi saggi’ che ieri sono sopravvissuti alle guerre precedenti e che ancora una volta vede i fratelli contro i fratelli. O a quelle donne e bambini di domani che forse sopravvivranno a quest’ultimo prepotente assalto; a quell’umanità ferita nella dignità e nell’orgoglio e che certamente risentirà del peso dell’umiliazione, da una parte come dall’altra, di una vergogna che non conosce neppure il rossore d’essere giudicata. Sì che la paura liquida di ieri: nelle trincee e nei campi di battaglia, nei cieli come sui mari, la rivivranno per molti anni ancora, allorché ognuno sventolerà le proprie ragioni mentre tacerà dei propri torti. Acciò, come in passato, pensano da sempre le cronache, i fotoreporter, il cinematografo, i festival che si svolgono tutt’oggi nelle capitali dormienti, con tanto di passerella e parterre di benestanti; sulle copertine patinate delle riviste e le prime pagine dei giornali sui quali ognuno, lontano dalle linee di frontiera, esprimono la loro opinione (?) senza riguardo alcuno.
I più sembrano disconoscere il ‘senso’, se di senso si tratta, e si chiedono se al ‘dopo’ corrisponderà un futuro di benessere? Ma bisogna essere ciechi per non vedere che sarà un futuro di carestia, certamente il vero ‘senso’ di questa guerra. A Cannes 2022 tutto ciò è più che evidente: le immagine di riprese da Mantas Kvedaravičius morto a Mariupol è già andato in scena, il materiale che ha girato è stato recuperato ed è stato presentato sotto forma di lungometraggio documentario. Mentre altri registi, elencati qui di seguito, non potendo inserirsi nel ‘filone’ dell’attualità, hanno pensato bene di recuperare la ‘guerra d’Algeria’; un altro la ‘battaglia di Stalingrado’; e chissà quanti altri ancora . Fatto è che i cronisti e le TV di tutto il mondo sono allertate con tute mimetiche pronte a riprendere la prossima ‘guerra nucleare’ inconsapevoli che verranno spazzati via dal vento cosmico che da questa si solleverà.
Il cinema sarà loro complice per non aver saputo infondere altri ‘sentimenti’ che non siano quelli di una rivalsa vendicativa della sopravvivenza contro la natura umana che abita il pianeta, quest’ultima terra del rimorso, verso il mondo estremo che ci è dato di vivere. Difficilmente ci sarà un altro Eden dove recuperare ciò che avremo perduto. Lo dicono le tematiche, le immagini trasferite sugli schermi TV e cinematografici, le interviste rilasciate da quanti operano nel settore, come quelle trasferite nelle News di Cineuropa che puntualmente contingenta gli spettatori. Come io stesso vado facendo:
Intervista: Philippe Faucon • Regista di Les Harkis
"Non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall'altra"
CANNES 2022: Il cineasta francese colpisce ancora nel segno con il suo film sui soldati locali arruolati dalla parte francese durante la guerra d’Algeria
21/05 | Cannes 2022 | Quinzaine des Réalisateurs

Rai Cinema rivela il prossimo progetto di Pietro Marcello, L’ultimo fronte
Il prossimo documentario del regista italiano ricostruirà la battaglia di Stalingrado attraverso le lettere dei soldati
20/05 | Produzione | Finanziamenti | Italia

Recensione: Dalva
CANNES 2022: Con il suo primo lungometraggio sobrio e commovente, Emmanuelle Nicot dipinge il ritratto di una bambina sopravvissuta, cresciuta drammaticamente troppo presto
20/05 | Cannes 2022 | Semaine de la Critique

Recensione: Mariupolis 2
CANNES 2022: Mantas Kvedaravičius è morto a Mariupol, ma il materiale che ha girato è stato recuperato ed è stato presentato a Cannes sotto forma di lungometraggio documentario.
20/05 | Cannes 2022 | Proiezioni speciali
Quando è iniziata l'invasione russa dell'Ucraina, il regista lituano Mantas Kvedaravičius è tornato immediatamente a Mariupol, dove girò il suo film Mariupolis del 2016, per documentare la vita sotto attacco. Mentre stava cercando di andarsene alla fine di marzo, è stato ucciso, e la sua fidanzata Hanna Bilobrova è riuscita a recuperare il filmato. Presentata come co-regista, ha lavorato insieme alla montatrice Dounia Sicho (che aveva lavorato anche a Mariupolis), e il film risultante, Mariupolis 2, è stato presentato in anteprima mondiale a Cannes, tra le Proiezioni speciali.

Recensione: Tirailleurs
CANNES 2022: Mathieu Vadepied porta Omar Sy nelle trincee della Prima guerra mondiale, nei panni di un padre che cerca con tutti i mezzi di recuperare il figlio reclutato con la forza in Senegal
20/05 | Cannes 2022 | Un Certain Regard

Meet Cineuropa @ #Cannes2022 - Take 3
"Fortunatamente, ho visto molti film di cui non mi è permesso parlare!"
Nel terzo episodio della nostra nuova serie di brevi video dal Festival di Cannes di quest'anno, Elena Lazic parla con il giornalista Kaleem Aftab
20/05 | Meet Cineuropa/Cannes 2022

In collaborazione con Cineuropa News.

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- Musica

Franco Battiato ...verso l’assoluto di mondi lontanissimi

I'LL REMEMBER ...
FRANCO BATTIATO: verso l’assoluto di mondi lontanissimi.

Bisogna tornare indietro di cinquant’anni per incontrare quella generazione di increduli che eravamo negli anni ’70, allorché Franco Battiato pubblicava i suoi primi album che non molti ricordano: “Fetus” (1971), “Pollution” (1972), “Sulle corde di Aries” (1973) “Clic” (1974), “M.elle le Gladiateur” (1975) incisi per la Bla-Bla Records, un’etichetta fuori dal giro; quindi prima che la Ricordi, dieci anni dopo, sulla scia del suo primo titolo pubblicato li riproponesse sul mercato. Tutto ciò accadeva in anni incerti per la musica italiana soggiogata com’era dall’ondata musicale e canora che arrivava dai paesi anglosassoni. Ovviamente non proprio così all’improvviso, pertanto ci si accorse di questo ragazzo italiano ch'era già ‘oltre’ il suo tempo, che andava proponendo i suoi lavori degni di essere considerati all’altezza dell’elettronica più ‘avanzata’, come si diceva allora, rivalutando tutto quanto era stato fatto in quegli anni di ricerca che in seguito ci avrebbe proiettati nella cosiddetta musica ‘contemporanea’.

«Sulle corde di Aries – scrive Francesco Mendozzi (*) nella sua straordinaria recensione in 'progressive rock' – da alcuni considerato primo capolavoro dell’artista siciliano, è in effetti il tentativo (riuscitissimo) di slacciarsi dalla concettualità degli esordi per approdare a una nuova forma-canzone; non a caso il disco contiene una lunga suite: “Sequenze e frequenze”, di oltre sedici minuti, e tre altri brani di durata accettabile. La suite è stata riproposta da Battiato in diversi 'live' assieme ad “Aria di rivoluzione”, segno tangibile del forte sentimento che il cantautore siciliano nutre nei confronti di questo disco nato sotto il segno dell’Ariete.

“Sequenze e frequenze” parte da una progressione sintetica sulla quale Battiato canta la propria infanzia, uno dei temi che più spesso torneranno nella sua opera futura ...

"La maestra in estate / ci dava ripetizioni / nel suo cortile. / Io stavo sempre seduto / sopra un muretto / a guardare il mare. / Ogni tanto passava una nave. / E le sere d’inverno / restavo rinchiuso in casa / ad ammuffire. / Fuori il rumore dei tuoni / rimpiccioliva la mia candela. / Al mattino improvviso il sereno / mi portava un profumo di terra".

Il brano si fa lentamente più percussivo, e il synth diventa via via più sciolto, fino a fondere free jazz, elettronica e progressive rock. A metà l’incanto si interrompe e la canzone prende una piega acida, svincolata da qualsiasi genere musicale attivo in Italia. “Aries” segue quasi totalmente la prima, con percussioni cavalcanti e campanature elettroniche; la differenza sta nell’utilizzo frizzante ed emancipato del sax. Il tema filosofico del brano va rinvenuto nella figura del neurofisiologo Charles Sherrington, teorico del “telaio incantato”, che individua nel cervello umano la sorgente di tutta la sapienza del mondo: in un organo grande come un pompelmo, cento miliardi di cellule nervose e un numero mille volte superiore di collegamenti interagiscono continuamente formando una trama complessa quanto quella di un telaio. Ci si meraviglia ancor oggi nell’ascoltare “Aria di rivoluzione”, un brano senza tempo su guerra e pace, sul colonialismo e sulle infinite potenzialità del dialogo interculturale. La composizione musicale, sempre in escalation percussiva, utilizza nuovamente jazz ed elettronica per dar vita ad una ninna nanna generazionale» ...

“Quell’autista in Abissinia / guidava il camion / fino a tardi / e a notte fonda / si riunivano. / A quel tempo in Europa / c’era un’altra guerra / e per canzoni / solo sirene d’allarme»). Ma non c’è patetismo di sorta in Battiato; la speranza di un mondo nuovo è tradita dalla certezza che ogni rivoluzione porta con sé un rafforzamento dei regimi amministrativo e politico: «Passa il tempo, / sembra che non cambi niente. / Questa mia generazione / vuole nuovi valori / e ho già sentito / aria di rivoluzione. / Ho già sentito / chi andrà alla fucilazione”.

E questo «Non è forse il punto di partenza di “Sulle corde di Aries”?, domanda Francesco Mendozzi (op.cit.). Ora, dice, è più facile comprendere quanto sia incomprensibile il primo Battiato.»

Questo l’avvio, dunque, di un artista che negli anni a venire farà molto parlare di se, entrando nella Hit-Parade dei dischi più venduti, le cui copertine, sempre molto ricercate, avrebbero fatto bella mostra di sé nelle vetrine dei negozi, dando il via alla ricerca spasmodica dei suoi primi lavori, allora introvabili sul mercato. Un Battiato quindi risorto sulle ceneri di Gramsci che reca il suo personalissimo messaggio accattivante alle giovani generazioni, tali da improvvisarsi non fan come si sarebbe detto poi, bensì seguaci alieni e/o alienati di un certo ‘guru’ proveniente dalla Sicilia. Ed è là che lo rintracciamo, negli anni successivi, quasi non se ne fosse mai allontanato, come di un fuga a ritroso, puntuale nel proporci un ‘nuovo filone’ ricco di sorprese inaspettate, che iniettava direttamente nella musica italiana.

Eclettico ed efficace, scopritore di un terreno fertile nel linguaggio della musica, Franco Battiato libera la parola dalla struttura che gli è propria, l’astrattizza, la violenta nei limiti posti dalla sintassi, la incanala entro l’infinitesima costruzione in assenza di verbo e finisce per svelare il ‘nuovo creativo’, della lingua giunta all’eccesso della follia inconsistente.

Quella ‘follia’ che, straordinariamente, si rivela sintesi delle emozioni e delle sensazioni che infine saremo riusciti ad afferrare, non come linguaggio discorsivo, bensì in quanto ‘messaggio’ futuribile. Messaggio che s’avverte fra le righe dei suoi componimenti, imprevedibili, apologetici, entrati nel linguaggio comune nel modo in cui si citano i versi delle sue canzoni come qualunque letterato cita Leopardi o, meglio, come ormai tutti fanno, da Pasolini a Totò, da Zelig a Striscia appresi dalla TV nei propri discorsi, del tipo: “Io parlo, tu parli, tutti parlano”, senza voler dire niente pur dicendo ...

Come in "Lontananze d’azzurro”:

"Sembra che non finisca questa lunga notte d'inverno
Sembra che tardi il sole come fosse in pericolo.
Rovine inseguono i ricordi, ma io voglio vivere il presente
Senza fine. Il giorno davanti a cui fugga questa notte.
Voglio lontananze d'azzurro per me.
Pensa a come eravamo certe volte di domenica...
Pieni di ostilità e di oscillazioni.
Così cancello i miei ricordi.
Ma io voglio vivere il presente senza fine.
Il giorno davanti a cui fugga questa notte.
Voglio lontananze d'azzurro per me..."

Reminiscenze culturali alienate e/o alienazione alla cultura? Non sono in grado di giudicare, malgrado ciò, riscontro in Battiato una certa capacità di coinvolgere i sensi, quasi egli sia portatore di un qualcosa di più alto, paragonabile a un ‘carma’ mistico e/o a un ‘nonsense’ ascetico, meno reminiscente e più concretizzante, assolutamente meno allucinato dei poeti ‘maledetti’ e più avanzato rispetto ai parolai ‘futuristi’.

«Per Franco Battiato – riporta Fabrizio Zampa sulle pagine de Il Messaggero datato 1993 – pregare vuol dire meditare, raggiungere quello stato di concentrazione, di rilassamento e, se si è fortunati, di grazia che consente di mettere da parte le ansie terrene e stabilire una sorta di contatto con il divino.»

Che sia a causa della musica costruita sul giro armonico su cui aleggia una semplice scala ripetitiva e tuttavia accattivante che accompagna il suo originale e 'dimesso' modo di cantare? Forse. Sta di fatto che nei suoi testi si rivela una forte ricerca di senso fono-sillabico, una particolare attenzione all’evoluzione socio-culturale, qua e là all’avanzamente bio-tecnologico, pro-contro gli armamenti, idealmente satiro-politico e cronachesco, per un ‘incontro’ virtuale con il suo pubblico di devoti. Un incontro giocato sulla molteplicità degli intenti, in cui la musica si misura e si evolve sulla tradizione mediterranea assai ‘viva’ mai definitivamente esplorata, con esperienze culturali diverse, dell’Europa Centrale e dell’estremo Oriente, meno contaminate della nostra, valorizzate da una continuità che non ha conosciuto interruzioni nel tempo.

Esperienze che Franco Battiato emana dal suo essere ‘profetico’ e che fanno di ogni sua apparizione pubblica un avvenimento attesissimo quanto egli è avulso dal 'mostrarsi', quasi che ogni volta sembra di assistere a un 'messa', o forse a una 'preghiera' comunitaria, molto più vicina alle filosofie orientali che non al nostro pensare occidentale, il cui obiettivo principale è la creazione di un’atmosfera che attraverso la concentrazione apra agli ascoltatori le misteriose strade che conducono alla contemplazione dell’assoluto.

Quella ‘mistica’ sacralità che abbiamo impartato a conoscere attraverso la sua opera “Gilgamesh” (1992) e in altri brani sparsi qua e là negli album della sua produzione artistica, dove Battiato di volta in volta si rifà all'antica eredità della musica araba e/o all’insegnamento dell’Islam, al misticismo indiano, al volteggiare dervisho dei Sufi, all’estrema rigidezza teorica del Katakali, o alle danze sfrenate degli ‘zingari’ incontrati nel suo lungo peregrinare musicale, per cogliere in sé il ‘movimento’ coreutico che idealmente abbraccia il cosmico e l’universale.

La musica quindi come linguaggio del sacro, alla base di ogni esperienza che Battiato da sempre ci ‘dona’ a piene mani, la cui esperienza – come egli stesso ha affermato in una lunga intervista a Radio-Rai – gli perviene dal ‘silenzio’: «È un’esperienza difficile, perché siamo tutti troppo carichi, che rende difficile la meditazione, impossibile da praticare come fatto ‘esteriore a noi. […] Non ci si può liberare da nessuna colpa se prima non ci si è liberati della ricchezza, dall’accumulo di razionalità, siamo comunque noi a farci le nostre regole. […] La commistione tra oriente e occidente è parte integrante della mia ricerca musicale, ma non tantissimo come si vuol credere, è piuttosto un fatto filosofico. Mi interessano i modi di essere, per dire che mi piace la musica occidentale e mi interessa lo spirito dell’oriente.»

E ancora: «La ricerca dell’estasi a cui protendo suggerisce, non tanto la tormentata sacralità della via cattolica, quanto la tendenza a diventare esperienza contemplativa, ricerca di un suono e di un valore compositivo che sia il riflesso diretto di una mente che infine trova ciò che appare incredibilmente semplice, appunto l’estasi.»

È questo il senso del sacro che travalica le religioni, difficile da raggiungere perché crediamo solo a ciò che vediamo, che va al di là di ogni credo, rivolto ad una sorta di trasversalità dell’esperienza spirituale. Quello che è il senso profondo che pregna la sua “Messa Arcaica” (1993) la sua composizione sacra per Coro, Voci soliste e Orchestra, eseguita per la prima volta nella Basilica di S. Bernardino a L’Aquila, dai Virtuosi Italiani diretti da Antonio Ballista.

Scrive ancora Fabrizio Zampa: "Articolata nei cinque moduli canonici del Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei , la suggestiva e raffinata composizione di Battiato, si offre all’ascolto con una struttura musicale delicata, che punta sull’intensità della leggerezza, benché ricca di suggestioni, dello spirito che verosimilmente l’ha ispirata. Moduli che si ripetono con sottile eleganza, un tappeto di tastiere sempre presente, piccole sequenze di note che restano sospese a lungo nell’aria e cui tocca il compito di costruire un clima molto rilassato, archi usati con discrezione anche nei pieni, voci che si fondono con grazia agli strumenti, interventi del coro che s’insinuano con possente morbidezza nelle pieghe di una tessitura musicale fatta per distendere, per astrarre chi ascolta da questo mondo e condurlo in territori più profondi, […] arrivando all’essenziale, spogliato da ogni sovrastruttura una composizione tradizionalmente legata a canoni ben precisi nell’ottica del cattolicesimo.»

Ma lasciamo infine la parola a Franco Battiato che a riguardo della sua opera ha detto: «È una Messa molto più vicina al mondo che preferisco, quello orientale e segue la mia strada di sempre, quella della trasformazione del mondo più puro ma anche più asettico della musica tradizionale da meditazione. Sì, io sono per l’interiorità, e credo che questa sia la cosa più bella che ho scritto.»

Va detto inoltre, sì perché c’è comunque un poi alla produzione musicale e canora di Battiato che arriva fino ad oggi e che di sicuro riscopriremo molto più in là, com’è sempre accaduto, e che riguarda le sue registrazioni in studio dei suoi ultimi album pubblicati, non meno estroversi di quelli degli inizi, ma pur sempre colmi della stessa incredibile ‘magia’ che egli riesce a imprimere in essi. Come nell'ultimissimo album "Torneremo ancora" che avalla un'intenzione non poi così recondita di tornare a sorprenderci e lo conferma, che quasi viene da chiedersi, citando Dalla: “quanto è profondo il mare” che separa il continente dalla Trinacria, quella Sicilia che rimanda alle Gorgoni dall’aspetto mostruoso memori della mitologia greca, esseri dalle “ali d'oro, le mani con artigli di bronzo, zanne di cinghiale e serpenti al posto dei capelli”: Euriale a rappresentare la perversione sessuale; Steno la perversione morale e Medusa, l’unica mortale tra le tre, custode degli Inferi a significare la perversione intellettuale.

Che Franco Battiato sia figlio della gorgone Medusa non è dato sapere, anche se qualche sospetto l’avevamo già, confermato da alcune scelte contenute ad esempio in “L’imboscata” (1996), indubbiamente uno dei suoi album più belli, e non solo perché contiene “La cura” , scritta insieme a Manlio Sgalambro e divenuta ormai un ‘cult’ che prescinde dalla sua discografia precedente …

“Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore,
dalle ossessioni delle tue manie.
Supererò le correnti gravitazionali,
lo spazio e la luce
per non farti invecchiare.
E guarirai da tutte le malattie,
perché sei un essere speciale,
ed io avrò cura di te …”

Sospetto confermato nel costante impegno che mette nel proporre brani di non facile ascolto e ripetibilità, come ad esempio “Di passaggio”, il cui testo greco è ripreso dagli ‘Epigrammi XXIII’ di Callimaco. Ciò a dimostrazione della sua ‘perversione intellettuale’ qui intesa nella sua accezzione semantica di senso e quindi di valore aggiunto, significativo del suo essere ‘poeta’ di una galassia che sembra irraggiungibile, solo perché non ancora avvistata entro quel “No Time No Space” contenuto, per chi non lo rammenti, nell'album significativo “Mondi Lontanissimi” (1985), letteralmente un capolavoro, insieme a brani visionari quali: “Via lattea”, “Temporary Road”, “Il re del mondo”, “Personal Computer” ed altri che abbiamo apprezzato non poco in passato, come “Risveglio di primavera”, “I treni di Tozeur”, e la straordinaria e poetica “L’animale” …

“Vivere non è difficile potendo poi rinascere
cambierei molte cose un po’ di leggerezza e di e di stupidità
fingere tu riesci a fingere quando ti trovi accanto a me
mi dai sempre ragione e avrei voglia di dirti
ch’è meglio che io stia solo
ma l’animale che mi porto dentro
non mi fa essere felice mai
mi rende schiavo delle mie passioni
e non si arrende mai e non sa attendere
e l’animale che mi porto dentro vuole te
dentro me segni di fuoco è l’acqua che li spegne
se vuoi farli bruciare tu lasciali nell’aria
oppure sulla terra.”

Un dire profetico che si addice a Battiato quanto a Petrolini, il quale, a suo tempo, quasi per negazione e/o consenso affermava: “..un po’ per celia, un po’ per non morire”, e che oggi suona più come l’espressione sonora della follia e della saggezza di noi contemporanei. Un’attesa atemporale più meditativa che supplice; le cui “Splendide previsioni” lasciano quasi interdetti …

“Io sono pronto ad ogni evenienza,
ad ogni partenza:
un viaggiatore che non sa dove sta andando …
La specie è in mutazione.
E non sappiamo dove stiamo andando …
In un punto altissimo
Inaccessibile”.
. . .

“No Time No Space
Parlami dell’esistenza di mondi lontanissimi
di civiltà sepolte di continenti alla deriva.
Parlami dell’amore che si fa in mezzo agli uomini
Di viaggiatori anomali in territori mistici … di più.
Seguimmo per istinto le scie delle Comete,
come Avanguardie di un altro sistema solare.”

Note:

Francesco Mendozzi in “Storia della Musica”, alla voce :
Recensione: Franco Battiato - Sulle corde di Aries ...
www.storiadellamusica.it › progressive_rock › franco_battiato-sulle_c.

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- Cinema

Cannes in coop. con Cineuropa News


Cannes in coop. con Cineuropa News

True Colours punta tutto su Nostalgia di Mario Martone
di DAVIDE ABBATESCIANNI
13/05/2022 - La sales company romana porta per la prima volta un titolo in concorso alla Croisette, accompagnato da un ampio catalogo di film italiani ed europei
La sales company romana True Colours presenta per la prima volta al Festival di Cannes un titolo in concorso per la Palma d’Oro, ovvero Nostalgia di Mario Martone. Il dramma, una coproduzione Italia-Francia sceneggiata dal regista partenopeo con Ippolita Di Majo e prodotto da Medusa Film, Picomedia, Mad Entertainment e Rosebud Entertainment Pictures, segue le vicende di Felice (interpretato da Pierfrancesco Favino), il quale ritorna al Rione Sanità dopo aver speso 40 anni all’estero e riscopre i luoghi e i codici del quartiere, confrontadosi con un passato che lo divora. Distribuito in Italia da Medusa Film e in Francia da Arp Sélection, il cast è impreziosito dalla presenza di Francesco Di Leva, Tommaso Ragno e Sofia Essaïdi.
Oltre a questo titolo, True Colours porterà alle proiezioni del Marché du Film un ampio catalogo di titoli italiani ed europei. Il primo di questi è il dramma LGBT olandese El Houb – The Love, ambientato nella comunità marocchina di Rotterdam, prodotto da BIND e diretto da Shariff Nasr.
Segue Diario di spezie, un thriller noir di Massimo Donati ambientato nel mondo dell’arte e della cucina, con protagonisti gli attori Lorenzo Richelmy, Fabrizio Ferracane, Fabrizio Rongione e Galatea Bellugi. Il film è prodotto da Master Five Cinematografica con Rai Cinema ed in collaborazione con Rodeo Drive.
Inoltre, tre commedie italiane prodotte da Lucky Red fanno parte del catalogo di quest’anno, ovvero il reboot di Altrimenti ci arrabbiamo e Con chi viaggi (entrambi diretti da YouNuts!) e La donna per me di Marco Martani.
L’offerta include anche altri film presentati in anteprima a Berlino: Supereroi di Paolo Genovese, La befana vien di notte 2 – Le origini di Paola Randi e L’Arminuta di Giuseppe Bonito. A questi si aggiungono altri titoli che verranno proiettati durante il mercato, ovvero Trafficante di virus di Costanza Quatriglio e due documentari (C’è un soffio di vita soltanto di di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini e No tenemos miedo di Manuel Franceschini).
Saranno presenti anche due progetti recentemente annunciati dalla sales company, ovvero una co-produzione italo-lettone firmata da Fenixfilm e Albolina Film, Sisters di Linda Olte, e Delta, l'opera seconda di Michele Vannucci dopo I più grande sogno, con protagonisti Alessandro Borghi e Luigi Lo Cascio (una produzione a cura di Groenlandia, Kino Produzioni e Rai Cinema). Gli altri tre lungometraggi presenti al mercato e annunciati in precedenza, invece, sono gli italiani Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese e Profeti di Alessio Cremonini (dopo Sulla mia pelle) e la co-produzione Spagna-Argentina Let the Dance Begin, diretta da Marina Seresesky.


INDUSTRIA / MERCATO Europa
"Combatti per i tuoi diritti e per le tue folli idee", affermano i giovani creatori all'ultimo evento SAA
di DAVIDE ABBATESCIANNI
17/05/2022 - I giovani autori dell'audiovisivo chiedono un equo compenso agli steamer e trovano che i CMO siano utili quando svolgono il loro lavoro e mantengono la loro libertà artistica.

On 27 April, the Society of Audiovisual Authors (SAA), in partnership with the European Parliament’s Cultural Creators Friendship Group, organised the 80-minute event “Young Creators Have Rights, Right?” on the occasion of the European Year of Youth and World IP Day. The talk, moderated by Paige Collings, saw the participation of several young European filmmakers and YouTubers, who shared their experiences and concerns with a number of MEPs.he speakers were Freya Hannan-Mills (British writer-director), Kevin Tran (French YouTuber), Paula Sánchez Álvarez (Spanish screenwriter) and Aleksander Pietrzak (Polish writer-director) along with MEPs Laurence Farreng (Renew/France), Niklas Nienaß (Greens/Germany) and Tomasz Frankowski (EPP/Poland). Cécile Despringre, executive director of the SAA, also joined the talk and provided her own expertise on audiovisual authors’ rights.
One of the main takeaways was about the nature of the creative professions, which are very different from a nine-to-five job. Hannan-Mills, only 18 years old, already writes, acts, directs and produces, driven by her strong passion and hoping to earn a living from her work. Sánchez Álvarez highlighted how “there is a lot of invisible creative work that cannot be measured”. Tran, one of the most successful French YouTubers, pointed out how hard it is to ask for financial support for professional equipment or for a mortgage, for example, as many struggle to consider his activity a real job.
Later, Tran and Frankowski explained how receiving royalties from their collective management organisations (CMOs) has allowed them to continue their job and uphold their artistic freedom. Tran, for example, spends all of his YouTube- and ad-related earnings on producing new content, and he lives off SACD’s royalties and a manga he released in 2016.
Frankowski praised the role of CMOs in providing legal support, as “when you are young, you do not have the money for lawyers. […] Royalties are not only important when you are young; as royalties stay with us 70 years after we die, it is therefore also a form of insurance for our family and children,” he added.
Hannan-Mills and Sánchez Álvarez have benefited from the support of CMOs via networking and competitions, an aspect particularly important for creators coming from disadvantaged backgrounds. For example, British CMOs Directors UK and ALCS helped Hannan-Mills to take part in the Film in the House competition, a parliamentary-based film and scriptwriting contest for students and independent filmmakers based in the UK, whilst Sánchez Álvarez discovered DAMA as a student when attending screenwriting events organised or sponsored by the Spanish CMO, through which she was offered a year of personalised tutoring with a professional screenwriter.
Another important topic covered by the panel revolved around the impact of streaming platforms on the payment of royalties. Frankowski warned that these players are getting too big and made a final call for fair compensation. He argues that as long as young creators are not being fairly remunerated, they will struggle to create their content and maintain their artistic freedom. Thus, a healthy environment could contribute to defending European culture. Tran agreed and acknowledged the need to co-exist with streamers, but also with online players such as YouTube, wherein “veterans” (creators who have a lasting presence and are prolific) inject significant revenues. Sánchez Álvarez stated that, in any case and regardless of the type of media they work on, “authors should not be the last to be compensated”. “Intellectual property is a really important topic that needs to be talked about. People need to have that safety and security of their own intellectual property,” concluded Hannan-Mills.

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- Arte

Elio De Luca - espone alla Bomboniera dell’Arte di Roma


In mostra a Roma alla Galleria "La Bomboniera dell'Arte" in Via Mecenate 8/b le ‘opere essenziali’ del raffinato maestro della pittura italiana contemporanea

Elio De Luca.

Dal 16 Aprile al 15 Maggio è possibile ammirare alcune delle mirabili opere pittoriche e scultoree che hanno trasformato il concetto dell’arte degli ultimi decenni, con l’aver egli proposto una visione univoca dell’enfasi antica, che spesso guardiamo con ossequio, e quella moderna che invece osserviamo appena con condiscendenza. È quanto accade nel visitare questa piccola mostra che altresì fa grande lo spazio espositivo della “Bomboniera dell’Arte” di Roma, la cui esposizione fa da eco alle due mostre di più ampio respiro che l’artista ha dedicato alle tematiche centrali dell’“Amore” e del “Cantico dei Cantici” che hanno avuto luogo in altre città italiane e non solo.

L’impatto primario è quello stupefacente di una cerimonia in atto che si svolge nell’edenico emisfero della luce, allorché si celebra l’amore nel pieno dei sensi e della voluttà dei corpi, così come forse sono stati nel concetto misterico del creato, avulsi dal peccato e dalla maliziosa intenzione di chi osserva. L’oro di fondo che circonda i teneri amanti funge da specchio all’armonia del tutto, all’ancestrale richiamo d’una loro mistica effusione, in cui ritroviamo noi stessi nei momenti migliori della nostra disambiguità. Ma se tuttavia i sensi richiamano le emozioni, non c’è che da osservare ogni singola opera esposta in funzione della loro salvifica edonistica ‘bellezza’.

Quanto di più facciamo nell’osservare le opere dei grandi del tempo dell’arte che va da Giotto a Klimt passando attraverso Duccio e Picasso, in cui l’antico e il nuovo ancora oggi, nella loro dichiarata eternità, ci emozionano e ci appassionano, restituendoci in pieno la loro ingenua felicità. Non è forse detto che “la nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no” (*), cui mi sento di aggiungere “che lo vogliamo o no”, perché creata nel segno dell’amore. Quell’amore che ci accomuna e che nell’avvicinarci all’arte, a tutta l’arte, un fine ci salverà.

L’Artista:
Elio De Luca (Pietrapaola, 1950), pittore italiano si distingue, in particolare, per l’uso della peculiare tecnica del cemento dipinto ad olio. Lavora inoltre con pastelli ad olio su carta gialla e con gli oli su tavola. Ha eseguito diverse sculture in bronzo. Negli anni collabora con varie gallerie in Italia e all’estero. Sue opere entrano a far parte di collezioni pubbliche e private. Nel tempo ha realizzato gli affreschi della Chiesa di San Bartolomeo a Scampata e l’VIII Palio della Costa Etrusca; sue opere sono state acquisite in permanenza dalla Pinacoteca regionale della Toscana e dal Lu. C. C. a Center of Contemporary Art di Lucca. Ha partecipato con un ciclo di opere dal titolo “La Buona Terra” all’EXPO 2015 di Milano ospite dell’Istituto Agronomico d’Oltremare (Ministero degli Esteri).
Negli ultimi anni le sue opere hanno partecipato a numerose esposizioni internazionali, far le quali il M’ARS Contemporary Art Museum di Mosca, il Museo Cultural di Santa Fe in Nuovo Messico, il Foreign Art Museum di Riga, l’Artist Istanbul Art Fair (dove ha rappresentato l’Istituto di Cultura Italiana in Turchia), il Washington Convention Center di Washington DC, il Miami Beach Convention Center ed il Boca Raton Gallery Centre di Miami, l’International Kunsttentoonstelling Furn Art ed il Centro espositivo Comunale di De Haan in Belgio, lo “Spazio Italia” dell’Ambasciata Italiana a Pechino[6].

(*) Zigmunt Bauman "L'arte della vita" Laterza 2009

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- Ecologia

Buongiorno Terra!

Buongiorno Terra!

Non so quanti di voi abbiano letto il romanzo della scrittrice statunitense Pearl S. Buck “La buona terra” che oggi vale la pena di riscoprire, rileggere o rivedere al cinema. Indubbiamente insegnerebbe a tutti noi qualcosa di cui abbiamo perduto il senso. Sempre che la ‘dignità’ abbia ancora un senso e la nostra ‘coscienza’ possa dare valore allo spirito di conservazione e di sopravvivenza che dovremmo tenere sempre presente. 

La buona terra (The Good Earth) è un romanzo del 1931 di Pearl S. Buck ambientato in Cina dove l'autrice visse dall'infanzia fino al 1934 per via dell'attività missionaria dei suoi genitori appartenenti alla chiesa presbiteriana. Il romanzo descrive alcuni aspetti anche primitivi della vita cinese tramite un forte senso di umanità e una grande energia descrittiva.

La trama è intrecciata fra il duro lavoro dei campi, il racconto del matrimonio dei contadini, i drammi della siccità e della carestia. Su tutti questi temi si impone il lavoro dell'uomo, l'amore e l'angoscia della donna e l'amore per la terra che supera ogni lusinga e tentazione, dato che è tipicamente femminile, di fecondità e di conservazione della specie.

L'opera valse alla scrittrice il Premio Pulitzer per il romanzo del 1932 e la medaglia di riconoscimento dall'Accademia americana delle arti e delle lettere. Tra le tante apparse negli anni successivi alla sua pubblicazione vanno citate le ultime produzioni letterarie in italiano:

 

• Pearl S. Buck: La buona terra, lettrice: Maria Grazia Ogris, Centro internazionale del libro parlato, Feltre 2004

• Pearl S. Buck, La buona terra, traduzione di Andrea Damiano, Oscar moderni 109; Mondadori, Milano 2017

 

(*) Dal romanzo è stata tratta una versione cinematografica omonima diretta nel 1937 da Sidney Franklin. Se amiamo i nostri figli, diamo un senso alla nostra vita, facciamo in modo che questa nostra Terra sopravviva a noi stessi nel modo in cui ci è stata donata: con amore.

(*) Note in Wikipedia.

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- Cinema

David Di Donatello 2022 - Cineuropa News

DAVID DI DONATELLO 2022 - CINEUROPA NEWS

È stata la mano di Dio e Freaks Out i titoli più nominati ai David di Donatello
di Vittoria Scarpa

05/04/2022 - I film di Paolo Sorrentino e Gabriele Mainetti raccolgono 16 candidature ciascuno; a seguire, Qui rido io con 14, e Ariaferma e Diabolik con 11
È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino e Freaks Out di Gabriele Mainetti
Una festa del cinema all’insegna della gioia e dell’eleganza, con l’obiettivo di stimolare il pubblico a tornare nelle sale. Ritornerà in presenza, negli iconici studi di Cinecittà e con un red carpet che non si vedeva da tempo, la cerimonia di premiazione dei David di Donatello, i premi del cinema italiano la cui 67ma edizione si terrà il 3 maggio, a Roma. Una celebrazione che, nelle intenzioni dei suoi organizzatori e dei professionisti del settore, si propone di rappresentare una ripartenza per il cinema nazionale, che, se produttivamente ha ripreso a muoversi, conta ancora troppe poltrone vuote nelle sale, dopo due anni di pandemia.
Grandi maestri e sorprese dell’anno, generi diversi che abbracciano il fantasy e il fumetto, film corali, documentari d’autore, molto Sud nei protagonisti e nelle storie raccontate, ma sempre con un respiro internazionale: sono alcune delle tendenze individuate dalla presidente e direttrice artistica dell'Accademia del Cinema Italiano, Piera Detassis, per questa edizione che vede contendersi il maggior numero di statuette (16 ciascuno) a È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino e Freaks Out di Gabriele Mainetti. I due sono candidati sia per il miglior film che per la miglior regia, in cinquina con Qui rido io di Mario Martone (che conta 14 nomination in tutto), Ariaferma di Leonardo Di Costanzo (11 candidature) ed Ennio di Giuseppe Tornatore (6 candidature, tra cui anche quella per il miglior documentario).
Sei candidature anche per A Chiara di Jonas Carpignano (compresa quella per la miglior sceneggiatura originale) e per I fratelli De Filippo di Sergio Rubini (tra cui miglior attrice non protagonista).
La cinquina delle protagoniste vede tutte attrici nominate per la prima volta – tranne Maria Nazionale per Qui rido io – e sono: Swamy Rotolo (A Chiara), Miriam Leone (Diabolik), Aurora Giovinazzo (Freaks Out) e Rosa Palasciano (Giulia). Il miglior attore protagonista andrà scelto tra Elio Germano (America Latina), Silvio Orlando (Ariaferma), Filippo Scotti (È stata la mano di Dio), Franz Rogowski (Freaks Out) e Toni Servillo (Qui rido io).
Il David per il miglior esordio alla regia se lo contenderanno Gianluca Jodice (Il cattivo poeta), Maura Delpero (Maternal), Laura Samani (Piccolo corpo), Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis (Re Granchio), Francesco Costabile (Una femmina). Oltre a Ennio, la cinquina del miglior documentario include Atlantide di Yuri Ancarani, Futura di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alba Rohrwacher, Marx può aspettare di Marco Bellocchio, Onde radicali di Gianfranco Pannone.
Candidati per il miglior film internazionale sono Belfast di Kenneth Branagh, Don’t Look Up di Adam McKay, Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi, Dune di Denis Villeneuve e Il potere del cane di Jane Campion.
Già assegnato il David 2022 per il miglior cortometraggio: va al corto d’animazione Maestrale di Nico Bonomolo.

Le candidature ai 67mi David di Donatello:
Miglior film
Ariaferma - Leonardo Di Costanzo (Italia/Svizzera)
È stata la mano di Dio - Paolo Sorrentino
Ennio - Giuseppe Tornatore (Italia/Belgio/Cina/Giappone)
Freaks Out - Gabriele Mainetti (Italia/Belgio)
Qui rido io - Mario Martone (Italia/Spagna)

Miglior regia
Leonardo Di Costanzo - Ariaferma
Paolo Sorrentino - È stata la mano di Dio
Giuseppe Tornatore - Ennio
Gabriele Mainetti - Freaks Out
Mario Martone - Qui rido io

Miglior esordio alla regia
Gianluca Jodice - Il cattivo poeta (Italia/Francia)
Maura Delpero - Maternal (Italia/Argentina)
Laura Samani - Piccolo corpo (Italia/Francia/Slovenia)
Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis - Re Granchio (Italia/Francia/Argentina)
Francesco Costabile - Una femmina

Miglior sceneggiatura originale
A Chiara – Jonas Carpignano (Italia/Francia)
Ariaferma – Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella
È stata la mano di Dio – Paolo Sorrentino
Freaks Out – Nicola Guaglianone, Gabriele Mainetti
Qui rido io – Mario Martone, Ippolita Di Majo

Miglior sceneggiatura non originale
Diabolik – Manetti Bros., Michelangelo La Neve
L’Arminuta – Monica Zapelli, Donatella Di Pietrantonio (Italia/Svizzera)
La scuola cattolica – Massimo Gaudioso, Luca Infascelli, Stefano Mordini
La terra dei figli – Filippo Gravino, Guido Iuculano, Claudio Cupellini (Italia/Francia)
Tre piani – Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santella (Italia/Francia)
Una femmina – Lirio Abate, Serena Brugnolo, Adriano Chiarelli, Francesco Costabile

Miglior produttore
A Chiara – Jon Coplon, Paolo Carpignano, Ryan Zacarias, Jonas Carpignano (StayBlack Productions); Rai Cinema
Ariaferma – Carlo Cresto-Dina (Tempesta); Michela Pini (Amka); Rai Cinema
È stata la mano di Dio – Paolo Sorrentino, Lorenzo Mieli (The Apartment)
Freaks Out – Andrea Occhipinti, Stefano Massenzi, Mattia Guerra (Lucky Red); Gabriele Mainetti (Goon Films); Rai Cinema
Qui rido io – Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori (Indigo Film); Rai Cinema

Miglior attrice protagonista
Swamy Rotolo - A Chiara
Miriam Leone - Diabolik
Aurora Giovinazzo - Freaks Out
Rosa Palasciano - Giulia
Maria Nazionale - Qui rido io

Miglior attore protagonista
Elio Germano - America Latina (Italia/Francia)
Silvio Orlando - Ariaferma
Filippo Scotti - È stata la mano di Dio
Franz Rogowski - Freaks Out
Toni Servillo - Qui rido io

Miglior attrice non protagonista
Luisa Ranieri - È stata la mano di Dio
Teresa Saponangelo - È stata la mano di Dio
Susy Del Giudice - I fratelli De Filippo
Vanessa Scalera - L’Arminuta
Cristiana Dell’Anna - Qui rido io

Miglior attore non protagonista
Fabrizio Ferracane - Ariaferma
Valerio Mastandrea - Diabolik
Toni Servillo - È stata la mano di Dio
Pietro Castellitto - Freaks Out
Eduardo Scarpetta - Qui rido io

Miglior fotografia
America Latina – Paolo Carnera
Ariaferma – Luca Bigazzi
È stata la mano di Dio – Daria D’Antonio
Freaks Out – Michele D’Attanasio
Qui rido io – Renato Berta

Miglior compositore
A Chiara – Dan Romer, Benh Zeitlin
America Latina – Verdena
Ariaferma – Pasquale Scialò
Diabolik – Pivio e Aldo De Scalzi
Freaks Out – Michele Braga, Gabriele Mainetti
I fratelli De Filippo – Nicola Piovani

Miglior canzone originale
Diabolik – La profondità degli abissi (Manuel Agnelli)
I fratelli De Filippo – Faccio ‘a polka (Nicola Piovani, Dodo Gagliardi)
L’Arminuta – Just You (Giuliano Taviani, Carmelo Travia)
Marilyn ha gli occhi neri [+] – Nei tuoi occhi (Francesca Michielin)
Piccolo corpo – Piccolo corpo (Laura Samani)

Miglior scenografia
Ariaferma – Luca Servino
Diabolik – Noemi Marchica
È stata la mano di Dio – Carmine Guarino
Freaks Out – Massimiliano Sturiale
Qui rido io – Giancarlo Muselli, Carlo Rescigno

Migliori costumi
Diabolik – Ginevra De Carolis
È stata la mano di Dio – Mariano Tufano
Freaks Out – Mary Montalto
I fratelli De Filippo – Maurizio Millenotti
Qui rido io – Ursula Patzak

Miglior trucco
Diabolik – Francesca Lodoli
È stata la mano di Dio – Vincenzo Mastrantonio
Freaks Out – Diego Prestopino, Emanuele De Luca, Davide De Luca
I fratelli De Filippo – Maurizio Nardi
Qui rido io – Alessandro D’Anna

Miglior acconciatura
7 donne e un mistero – Alberta Giuliani
A Chiara – Giuseppina Rotolo
Diabolik – Luca Pompozzi
Freaks Out – Marco Perna
I fratelli De Filippo – Francesco Pegoretti

Miglior montaggio
A Chiara – Affonso Gonçalves
Ariaferma – Carlotta Cristiani
È stata la mano di Dio – Cristiano Travaglioli
Ennio – Massimo Quaglia, Annalisa Schillaci
Qui rido io – Jacopo Quadri

Miglior suono
Ariaferma
È stata la mano di Dio
Ennio
Freaks Out
Qui rido io

Migliori effetti visivi
A Classic Horror Story
Diabolik
È stata la mano di Dio
Freaks Out
La terra dei figli

Miglior documentario
Atlantide - Yuri Ancarani (Italia/Francia/Stati Uniti/Qatar)
Ennio - Giuseppe Tornatore
Futura - Pietro Marcello, Francesco Munzi, Alba Rohrwacher
Marx può aspettare - Marco Bellocchio
Onde radicali - Gianfranco Pannone

Miglior film internazionale
Belfast - Kenneth Branagh (Regno Unito)
Don’t Look Up - Adam McKay (Stati Uniti)
Drive My Car - Hamaguchi Ryūsuke (Giappone)
Dune - Denis Villeneuve (Stati Uniti/Ungheria/Giordania/Emirati Arabi Uniti/Norvegia/Canada)
Il potere del cane - Jane Campion (Regno Unito/Nuova Zelanda/Australia/Stati Uniti/Canada)
David Giovani
Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di Morto [+] - Riccardo Milani
Diabolik - Manetti Bros.
È stata la mano di Dio - Paolo Sorrentino
Ennio - Giuseppe Tornatore
Freaks Out - Gabriele Mainetti

Miglior cortometraggio (già assegnato)
Maestrale - Nico Bonomolo
(Gli altri candidati erano:
Diorama - Camilla Carè
L’ultimo spegne la luce - Tommaso Santabrogio
Notte romana - Valerio Ferrara
Pilgrims - Farnoosh Samadi, Ali Asgari)

Se ne avanza uno datelo a me per il film che non ho fatto.


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- Teatro

Teatro degli Opposti - ’Uscita di Scena’



TEATRO DEGLI OPPOSTI
“USCITA DI SCENA”

Da molto tempo dicevi che l’avresti fatto ma nessuno ti ha creduto mia cara Margy, nemmeno tu.
Lo pensi davvero Oswald?
Conoscendoti ho sempre pensato fosse frutto di una malcelata vanità femminile che in verità non ti appartiene.
Sei solo tu a pensarlo, nessun’altro.
Non perché tu non sia vanitosa abbastanza, chi del resto non lo è in giovane età, ma perché ai miei occhi, tu, sapendo di essere attraente per lo stuolo di corteggiatori che ti girano attorno, sembri aver superato anche quella futile dimensione.
Non pensi che potrebbe bastarmi il plauso dei miei estimatori?
Fumo negli occhi, “Cortigiani …”, così si chiamano. Certo definirli estimatori è più signorile, se si tiene conto dei complimenti che ti piovono addosso come uno scroscio di applausi dentro e fuori la scena, gli inviti e i fiori che ricevi … per non dire poi dei regali che sembri apprezzare con nonchalance, certo, al dunque si possono anche definire così: ‘estimatori’.
Non i tuoi regali Oswald, anzi, saresti così gentile di passarmi quegli incantevoli orecchini di perle che mi hai regalato, li ho poggiati sul comodino accanto al letto, grazie.
Non saprei dire se è perché ritieni banale ricevere regali o perché non adatti allo scopo che in essi si cela, davvero me ne sfugge la ragione. Vuoi farmi credere che non hanno per te quell’importanza che dovrebbero avere, per quanto, stando almeno ai nomi altisonanti dei promotori dai quali provengono, direi …
È preferibile che tu non dica. Quel che più m’importa quest’oggi è mettere in atto la mia ‘uscita di scena’ senza fare troppo rumore.
È quello a cui stai pensando Ann, un’ultima recita?
Sì certo, pensavo ad una “Uscita di scena” come ha pensato bene di fare il suo autore … in silenzio.
Beh, proprio in silenzio non direi, si è sparato un colpo di pistola alla tempia, che se si chiudono gli occhi, dietro le quinte, ancora se ne risente il boato. Se non mi sbaglio non è mai stato appurato che si sia sparato o se l’abbiano ‘suicidato’ per un qualche incomprensibile delirio di interpretazione o di una semplice rivendicazione gelosa.
Tu cosa ne pensi?
Un ossimoro ben costruito non c’è dubbio: fatto ‘suicidare per gelosia’ o, come tu dici, per una qualche ‘vendetta ingiustificata’. In entrami i casi si tratta comunque di un’incongruenza verbale, tra la paranoia e la psicoastenia, più conosciuta come ‘nevrosi ossessiva’. Fai tu, scegli quella che più ti aggrada.
Com’è come non è, sembra a causa della rivalità creatasi sulla scena dopo un ripensamento del regista, riguardo a chi affidare la parte della protagonista, alla consumata attrice della Compagnia o alla sua giovane amante.
Se, come tu dici Margy, la prima era ormai una donna ‘consumata’, forse valeva la pena affidare la parte ad una giovane e motivata attrice desiderosa d’interpretare un ruolo, come si dice: che le ‘calzava a pennello’.
Hai scelto un modo davvero inadatto di esprimerti, Oswald ti rammento che non stai parlando ad uno qualsiasi dei tuoi amici: una combriccola volgare d’indecenti filantropi, finti altruisti, maschilisti e menefreghisti, dediti solo al bere.
Se vuoi posso aggiungere qualche altro aggettivo all’elenco, come …
Non ce n’è bisogno, grazie.
Anche se non mi è proprio chiaro cosa centra l’autore del copione in tutto questo, ritengo inutile questa conversazione. Secondo te uno si lascia ‘suicidare’ per una diatriba non avallata dal copione, scoppiata tra le due ‘prime donne’ sulla scena? Non lo ritengo plausibile, dev’esserci dell’altro.
Vorresti dire che voi uomini non siete cinici abbastanza da non voler concedere un qualche cedimento sentimentale a noi donne? Ciò denota non essere poi così addentro alla sensibilità femminile.
Stiamo parlando della ‘giovane’ donna o dell’attrice ‘consumata’ Ann? Come tuo solito spesso dimentichi di mettere il soggetto nella tua conversazione.
Niente affatto George, sto parlando di me e di te, del nostro rapporto che … ma lasciamo stare. In verità sono un po’ stanca e avrei bisogno di un periodo di riposo ma che a causa degli impegni presi, non da me ovviamente, non me lo consentono, almeno per il momento.
Puoi sempre raccomandare al tuo manager di non aggiungere altre recite in cartellone, almeno per un certo tempo, dopo l’ultima data prevista stasera intendo.
Non è quel che viene dopo che mi preoccupa Oswald, è questo copione, le continue prove di questi giorni, la pretesa del regista di una partecipazione sempre più impegnativa, sento le forze venire meno, temo di non farcela.
Margy ti rammento che fra poche ore si va in scena, dovevi pensarci prima, adesso è davvero troppo tardi, il teatro è tutto esaurito. Non puoi abbandonare il tuo pubblico. Non è sempre stato ciò a cui tieni di più?
Già, il mio pubblico, dici, sempre lì ad acclamarti fino alle stelle, e quando meno te lo aspetti ti lascia cadere nel baratro più profondo.
Eh, che esagerazione, non mi sembra sia questo il caso. Sei all’apice della tua carriera artistica, e un flop sarebbe davvero una grande delusione per tutti. O forse temi quei quattro critici da strapazzo che scribacchiano sulla carta stampata?
Quelli poi, sempre pronti a edulcorarti o a mandarti sul rogo se solo la performance non aggrada le loro penne. No, non li temo più di tanto. Alcuni di essi si lasciano comprare per quattro denari lo sai anche tu. È sempre stato così.
Quindi a che attribuisci questa ansietà che a tua detta ti affatica non poco?
Non saprei, è come una sorta di psicosi, subentrata nel rapporto ossessivo e delirante tra i due personaggi sulla scena.
Non ti ho mai vista così, devo preoccuparmi?
In un certo senso, sì. Sei tu la ragione per la quale penso di prendere questa decisione che temo sia definitiva.
Perché io, non credo di aver detto alcunché che possa farti supporre a una qualche mia pretesa …
È proprio questa la ragione, ti sento distante George, negli ultimi tempi hai assunto un modo di essere accondiscendente in tutto, paternalistico e compassato quel tanto che mi lascia pensare a un tuo prossimo allontanamento da me.
Se non sei tu a volerlo, di certo non sono io a cercarlo, comunque la faccenda non mi sembra poi così catastrofica come tu pensi.
Quindi ammetti una tua défiance nei miei confronti? È del tutto inutile se non comprendi la mia difficoltà di averti accanto quando sono sulla scena, la tua presenza costante accanto all’altra che non sta affatto recitando una parte ma, chiede di viverla in prima persona, in mia presenza? Lo ritengo volgare e offensivo nei miei confronti.
Forse, lo sarebbe indubbiamente se io posponessi quanto da te evidenziato in questo improbabile ‘fuori scena’, un ipotetico rapporto con l’altra protagonista che recita ‘sulla scena’, ammetti che la cosa assume una diversa identificazione attoriale? O, forse …
Interpretativa intendi? Assolutamente no, il che comporterebbe un chiarimento altresì necessario, tra la principale protagonista che sono io e il suo ‘alter ego’ rappresentato dall’altra.
Margy aspetta, sto pensando a un possibile rimaneggiamento del testo, anche se la cosa in questo momento mi sfugge.
Mi chiedo: se il suo autore ha voluto mantenere le due parti separate ci sarà pur stata una ragione che lo ha spinto a farlo, tuttavia, basterà spostare una scena nell’altra, per dire la ‘ragione’ direttamente ‘dentro la scena’, per dare sfogo alla violenza dello scontro conflittuale tra il ‘potere’ ossessionato dell’una e il ‘volere’ ambizioso dell’altra. Necessita solo una semplice rilettura del copione et voillés, al tempo d’oggi sarebbe di grande effetto teatrale, non meno di quanto avveniva nell’antica tragedia greca.
Sarebbe come scatenare una guerra, dunque, ho sempre pensato che saresti un perfetto guerrafondaio, ti rammento che ce ne sono fin troppe di guerre in corso, possiamo evitare di inventarcene un’altra, per favore?
Non una guerra nel vero senso della parola, sarebbe come assistere allo sbranarsi di due belve nell’arena trasferita sulle tavole del palcoscenico di un grande teatro quale il Globe Theater che ci ospita. Il tuo personaggio ne verrebbe fuori in tutta la sua grandezza e la sua avversione vendicativa all’infamità dell’affronto subito.
Se davvero lo pensi saprai anche spiegarmi perché dovrei sostenere la parte più avversa del dramma che si consuma sulla scena?
Te lo immagini cosa sarebbe per lo spettatore assistere al trionfo sulla scena della sua attrice prediletta, ‘fatta a pezzi’, per modo di dire, a causa di una rivalità che la vede defraudata non solo della parte di ‘prima donna’ quanto del suo ‘primis letto’?
Dunque lo ammetti Oswald, pensi di allontanarti da me, ma non riesco a vedere la dimensione di rivalsa che vorresti dare al fatto in sé, quanto, se non altro perché sembri aver già deciso a chi delle due affidare la parte oltraggiata, e cioè a me. Immagino che neppure per un momento ti sia chiesto se sono disposta al compromesso, è così?
Beh, anche se non vi vedo nulla di immediato, se non quello che stai avallando di una mia possibile défiance nei tuoi confronti, ammetto che sì, mi piacerebbe assistere a un simile scontro tra due diverse alterazioni psicologiche: quella della ‘consumata’ personalità dell’una a confronto con la speculazione ‘arrivistica’ dell’altra.
Pensi sia davvero così interessante Oswald?
Indubbiamente sì, cercare nel suddetto scontro una trama di senso darebbe alla pièce una parvenza di realtà assoluta di grande impatto che, nell’avallare la tua inquietudine di questi giorni, mi suggerisce una svolta, cioè quella di apportare un cambiamento al copione, come dire, dare un senso veridico alla tua, immaginabile “uscita di scena”. Non è forse quanto mi chiedevi pocanzi?
Non è proprio così, quello che intendevo non è affatto di spararmi un colpo di pistola alla tempia solo per farti il favore di levarmi di torno, o per coerenza con la parte assunta dall’autore. Quanto, semmai, far suicidare la tua giovane amante perché impossibilitata a portare a conclusione la sua arrivistica trama. Come dire, penso più a una frattura di comprensione che passa nei rapporti di senso fra noi due, e che ti fa scegliere lei a me. In fondo è solo un’altra eventualità, la direi piuttosto un’incongruenza verbale, non trovi George?
Non c’è dubbio, ma lasciare che una delle due protagoniste venga fatta ‘suicidare per gelosia’, non mi sembra segua il corso normale della trama, piuttosto mi sembra imprudente quasi fino all’incoerenza interpretativa.
Nient’affatto, è patologico, chiamarla poi incoerenza è certamente più signorile, non è vero Oswald?
Il fine del dramma richiede una conclusione ottimale, non un interrogativo senza alcuna risposta.
Hai ragione tu, ha sempre fatto un grande effetto lasciare allo spettatore la soluzione, resta solo di dargliene una ragione.
Il dubbio d’una possibile conclusione, come tu dici Margy, risulta maggiormente esposto in quest’ultima eventualità ‘altra’, maturata nell’ossessione psicologica (paranoica) delle due contendenti.
Malgrado si dia il caso che dovrei essere io a ‘uscire di scena’ e non la tua sgualdrina, è bene tu sappia che vorrei farlo, come si dice: ‘alla grande’. Un’uscita all’insegna del ‘glamour’ che mi merito, con tanto di applausi e lancio di fiori, e l’indomani con gli scribacchini alla porta che reclamano interviste e titoli a grandi lettere sui giornali …
Mah, sarebbe un’illusione, di certo l’autore non intendeva portare in scena un remake di “Sunset Boulevard”, se vogliamo citare un capolavoro.
Pensaci Oswald, anzi medita sulle variazioni da portare al copione, perché dopo quel momento, potresti ritenerti un fallito, ‘dentro’ e ‘fuori’ della scena. Si dà il caso che stiamo parlando di una anomalia che va oltre il teatro, occupa gli spazi della vita vera, i sentimenti e le aspettative delle persone umane, che non puoi manovrare a tuo piacimento come figure di un teatro delle ombre, in parvenza di un immaginifico che hai creato a tuo uso e consumo …
La definirei una sorta di nevrosi ossessiva da successo che assieme alla completa mancanza di certezze che ti hanno portata a fare della tua vita un tutt’uno con il palcoscenico, è questo Margy che si intravede dietro la tua perfetta maschera d’attrice, che ti fa vedere ombre dove non sono e ti consegna alla stregua di una paranoia morbosa senza avallo.
Comprendo Oswald, è dunque questa è la verità, la ricerca di una compromissione nella vita che vorresti portare come cambiamento al copione che stiamo recitando fuori del palcoscenico, benché, per quanto mi riguarda, dovresti pensare a un ‘colpo di scena’ inaspettato, il cosiddetto ‘Coup de Théatre’ che renda credibile il finale che ancora non c’è. Come dire, una “uscita di scena” che renda verosimile la realtà.
Davvero grande Margy, mi sembra una conclusione eccellente, quest’ultima tua affermazione rivela la causa della mia infelicità, suggerendomi qualcosa d’inaspettato che tu stessa hai previsto d’inserire nella tua parte. Come di solito sei all’altezza della tua fama, perfetta così come sei. Dunque, così come avveniva un tempo reciteremo a soggetto. Non c’è bisogno di ulteriori prove, ormai non ci rimane che prepararci, si va direttamente in scena …
È solo questione di ore, vedrai Oswald, ti sorprenderò.
Nota d’autore:
So per certo che vi aspettate un finale eclatante, ma non c’è nient’altro più rumoroso dello sparo di una pistola che rimbomba al chiuso di un teatro affollato, quando sta per chiudersi il sipario, allorché la protagonista, Margareth Ormandy, Margy per gli amici, scostata la tenda del sipario fa la sua grandiosa ‘uscita’ sul proscenio con una pistola fumante a salutare il suo pubblico accorso ad acclamarla …

Grande! Eccellente! Divina!








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- Cinema

Apichatpong Weerasethakul - Filmando en el Amazonas

Apichatpong Weerasethakul
Filmando en el Amazonas
Jun.18—28 2022

by CINEUROPA NEWS

Introducción
Nos adentramos en el espesor de la Selva Amazónica, cuna de múltiples mitos y leyendas de culturas ancestrales que aún habitan el territorio y lo protegen como guardianes. Inmersos en un territorio que opera como un todo, como un organismo, nos sumergimos en el universo onírico de Apichatpong. Explorando entre sueños, vidas pasadas, universos paralelos, ancestros y espíritus el mundo que hoy habitamos.
Descubrimos que podemos explorar más allá de lo que vemos, que, así como viajamos en la superficie, podemos recorrer múltiples capas, indagar también en el universo interior de nuestros personajes, de sus territorios, de sus memorias. Apichatpong nos abre un mundo infinito de posibilidades, de maneras de ver y sentir el mundo, nos aflora los sentidos y nos lleva a lugares desconocidos.
“Yo siempre pienso una película como un cuerpo. Lo que uno como cineasta quiere hacer con todas las partes —con ese acervo de imágenes y sonidos de los que se compone un film, que son sus órganos— es darle vida a ese cuerpo, volverlo un organismo viviente.”
Ganador del máximo premio de la academia cinematográfica, la Palma de Oro de Festival de Cannes con Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives en 2010, Weerasethakul se ubica en el lugar más privilegiado del cine contemporáneo. Sus obras siempre aplaudidas en los circuitos y festivales de cine, le convierten en una de las figuras más relevantes del panorama cinematográfico mundial. En su trayectoria de más de 20 años, ha participado en numerosos festivales y ha ganado importantes premios, entre ellos tres premios más del Festival de Cannes: un Certain Regard para Blissfully Yours en 2002, el Premio del Jurado para Tropical Malady en 2004 y de nuevo en 2021 obtuvo el Premio del Jurado para su última película Memoria, realizada en Colombia.
Apichatpong se aproxima al universo creativo desde el cine y el arte contemporáneo, acercando los ámbitos sociales y personales desde una perspectiva honesta y especial. No se contenta con las estructuras convencionales, por lo que su obra es etérea y no-lineal, se sitúa en el no-tiempo. Sin embargo, confía en el trazo de la luz, en lo intangible que logra representar de manera fresca y natural. No necesita de grandes efectos especiales para sumergirnos y hacernos parte de este baile entre lo tangible y lo intangible, lo real y lo onírico.
Playlab Films presenta su taller Apichatpong Weerasethakul Lab: filmando en el Amazonas, que busca acercar talentos emergentes de todo el mundo, para que de la mano de Apichatpong Weerasethakul, una de las voces más originales del cine contemporáneo, logren explorar e impulsar su creatividad, desarrollando un cortometraje, a través de talleres prácticos. Por diez días, cincuenta directores creativos de diversas nacionalidades y contextos, compartirán la experiencia de crear cincuenta cortometrajes, bajo una maravillosa metodología creada por el maestro Abbas Kiarostami, adaptada por Werner Herzog y ahora revisitada por Apichatpong.
La idea del taller es salir de nuestra zona de confort, enfrentarnos a un territorio extraño y desconocido, observarlo desde la curiosidad y el respeto, co-crear desde diversas formas de ver y comprender el mundo. Crear desde un lugar diferente al que habitamos cada día, nos permite ver el territorio como un lienzo en blanco, cada uno de los elementos que lo compone, las personas que lo habitan, los ríos, los caminos que recorremos entre la selva espesa y húmeda, cada planta, cada animal, la cultura que nos abraza y recibe, todos ellos como pinceles y pinturas que nos permiten crear y contar historias desde otro lugar.
Durante el taller, los participantes explorarán todas las fases que componen el desarrollo, producción y post-producción de una película. Desde la Idea, que se originará a partir del tema que proponga Apichatpong el primer día del LAB, hasta la proyección del corto terminado, en el último día. Cada una de estas fases estarán acompañadas de manera individual y grupal por Weerasethakul, a través de talleres, charlas, intercambios y asesorías.
Con el ánimo de acercar a todos los directores emergentes con la industria actual, los cincuenta cortometrajes serán albergados en la plataforma VOD de Playlab Films para su distribución y exhibición, generando un espacio para visualizar todos los trabajos realizados desde cualquier parte del mundo. Además los mejores 10 proyectos, representarán al taller y toda la experiencia del mismo en festivales internacionales.
Y, como queremos continuar haciendo cine juntos, queremos producir tus próximos proyectos!! PlayLab Films abre una convocatoria anual, para todos los integrantes del taller, en donde seleccionará 2 proyectos largometrajes para producirlos.
“Cuando viajé a Colombia tuve que repensar la forma como me acerco a la memoria y, muy de la mano, al cine. En Tailandia, donde he hecho todas mis demás películas, yo usaba mi propia memoria o la memoria de mis conocidos para pensar una historia, para crear un relato audiovisual. Aquí me tocó operar de otra manera. Mi memoria era insuficiente; por eso tuve que absorber las memorias de otros. Quienes guardan la memoria de este territorio son otros.”
Retrospectiva
Con el ánimo de aprovechar la visita de Apichatpong al país, presentaremos una completa retrospectiva en varias ciudades de Perú. El ciclo será inaugurado por el director quien responderá preguntas del público peruano, tras la proyección de una de sus películas.
Masterclass
Apichatpong dictará una Master Class pública de aproximadamente dos horas, dónde hablará de temas relevantes a su obra, seguido por una ronda de preguntas, donde los asistentes podrán interactuar con Apichatpong e indagar sobre su mirada y aproximación al cine.
``La jungla es un espacio primario. Como en Tropical Malady, la jungla es un regreso a las raíces, a un lugar en el que no hay reglas. Creo que eso está muy cerca del cine porque el cine es un lugar sin leyes y como soy muy tímido es donde puedo liberar todos mis instintos con libertad.``
— Apichatpong Weerasethakul
Locación
La selva amazónica, el bosque tropical más extenso del planeta, será el escenario de nuestro taller. Con una extensión total de 7 millones de kilómetros cuadrados, distribuidos en nueve países, nos encontramos frente a una de las regiones más biodiversas y multiculturales del mundo.
La base del taller será Inkaterra Guides Field Station, un Eco-centro y laboratorio de investigación de flora y fauna destinado para científicos, estudiantes, voluntarios y viajeros amantes de la naturaleza, que desean explorar y conocer la Amazonía peruana en este bosque megadiverso. Está ubicado en el km 17 del margen izquierdo del río Madre de Dios, dentro de la Reserva Nacional de Tambopata-Candamo, uno de los últimos bosques lluviosos tropicales vírgenes fácilmente accesibles en el mundo, que cuenta con 274.690 hectáreas de inmensa biodiversidad e impresionantes paisajes. Puerto Maldonado, en la selva sur del Perú cerca de la frontera con Bolivia y Brasil, conocida como la «Capital de la Biodiversidad», es la urbe principal de la región y la ciudad más importante de la selva tropical del Sur del Perú.
``Se trata de cómo funciona el tiempo en nuestras mentes y cómo el cine puede reflejar eso. Tiene que ver con la relación de ti mismo con la vida, que está formada por tiempo. Me gusta mucho la meditación porque te pone en contacto con todo eso. Mi trabajo va en esa dirección, cómo el cine puede expresar el tiempo.``

Inscripciones
Fechas
• Lanzamiento de la Convocatoria: Marzo 10 de 2022
• Cierre de la Convocatoria: Abril 25 de 2022
• Publicación de la lista de seleccionados: Mayo 6 2022
• Plazo para el pago de la matrícula: Mayo 20 2022
• Inicio del Taller: Junio 18 2022
• Cierre del Taller: Junio 28 2022
Duración y Pago
• Duración: 10 días de taller – 12 días de acomodación
• Precio: 5.200€

* Una vez pagada la cuota NO habrá devoluciones. Si el estudiante seleccionado no ha pagado su cuota de inscripción antes de la fecha límite, su cupo pasará automáticamente al siguiente estudiante en la lista de espera.
* Incluye: Cuota de Taller, Alojamiento y alimentación por 12 días en Inkaterra Field Station.

¡Inscríbete!
Únete a esta aventura para explorar la amazonía peruana,
rodando junto a Apichatpong.


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- Arte

La scultura di Vittoria Marziari Donati In Mostra a Roma

Le prestigiose opere scultoree di Vittoria Marziari Donati in Mostra a Roma dal 01 al 15 Aprile 2022 alla Galleria "La Bomboniera dell'Arte" in Via mecenate 8/b.

 

L'Artista è lieta di annunciare la sua presenza all'inaugurazione che si terrà il giorno martedì 5 aprile alle ore 16.00 onde illustrare il suo ampio catalogo dell'elegante scultura senese contemporanea con la quale da anni onora la sua città.

 

Vittoria Marziari Donati: La ‘poesia delle forme’ nei ‘lunghi silenzi’ dell’arte contemporanea.

Nulla di più autentico se, lasciando la parola a Antoine de Saint-Exupery (1) apprendiamo quanto segue: «Lo spazio dello spirito, là dove esso può aprire le sue ali, è il silenzio» ; quel ‘silenzio’ in cui prendono forma e si materializzano le opere scultoree di Vittoria Marziari Donati che, nel loro muto gridare le verità concettuali della sua cifra artistica, ad essa fanno ritorno, libere di vivere la propria esistenza futura.

Una eccellenza al femminile tutta italiana quella della scultrice che ha attraversato la soglia dell’internazionalità e che s’avvia a completare il suo ciclo creativo nella contemporaneità dell’arte. Un percorso il suo, vissuto dentro e fuori le forme, nei pieni e nei vuoti che sono all’origine della vita delle cose, in cui tutto infine si compie, nel ricongiungimento di quella creatività umana, pur sublime, che nel tempo l’alterità (delle correnti artistiche) ha disgiunto.

È allora che le sue sculture prendono a danzare sulla musica che la luce ha scelto per loro; cantando nel silenzio sublimato dei ‘luoghi dell’anima’ che l’artista nella sua costante ricerca ha attraversati: «Se il luogo è puro spazio, il silenzio si fa ascoltare, ci accompagna e non ci lascia soli» - scrive Mario Brunello (2) compositore e violoncellista di successo nell’accostare la musica del suo strumento all’arte tout-court per intercettare le vocalità intrinseche delle ‘forme’, le ‘linee’ melodiche e le tecniche strumentali che lo hanno portato alla concezione di nuove strutture musicali, come la riscrittura di un qualcosa che viaggia nei solchi del tempo.

Il confronto con la ‘musica’ del violoncello e con la ‘poesia’ colta non è qui solo allegorico, semmai emblematico di una concettualità che si esprime nelle diverse forme dell’oralità, come appunto può essere la ‘danza’ nel rapporto con la dinamicità del movimento, o anche con il ‘canto’ che non necessariamente richiede parole e frasi compiute, quando gli basta l’uso di vocalizzi arrmonici.

Siamo qui messi di fronte ad un evento visivo che amplia lo spazio occupato dalle sculture bronzee solo per il tempo di un 'movimento' musicale che le anima e che le fa vivere nell'ambito di un sogno, o forse, nell'ambito del tempo in cui trovano la loro affermazione: il tempo che stiamo vivendo con tutte le sue precarietà ma, ed anche, con le sue emozioni e contraddizioni che non ha mai eguali, che sempre si rinnova e ci dice "che la vita va vissuta, sempre, nel bene e nel male" pari ad un'opera d'arte che non conosce tramonto, ma che vive in pieno la sua eternità.

 

Per le note biografiche riferite all'artista l'invito è di sfogliare l'ampio 'catalogo illustrato' presente sui social.  

 

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- Musica

Switched-On Jazz : ’Cypriana’ di Nicola Pisani.

SWITCHED-ON JAZZ
(Il Jazz In Italia … e non solo)

Un giorno John Cage promise ad Arnold Schönberg che avrebbe consacrato la sua vita, tutta la sua vita alla musica, in ragione di quell’amore che gli aveva fatto confessare al maestro: “amo tutti i suoni”. Di fatto tutta la musica, da quel momento in poi, appare governata dall’imperativo categorico che ha consentito la liberazione dell’universo sonoro nella sua radiante e dispersa varietà, affinché si potessero singolarizzare tutti i possibili futuri eventi sonori nella loro radicale individualità, e infine emergessero, circondati da quel pelago infinito che costituisce il mondo del suono.
È così che arriviamo alla contemporaneità del Jazz come la conosciamo fin dalle sue origini, maturata nel segno della libera creatività e nella prerogativa dell’internazionalità che ha assunto nel tempo. Ed anche, nell’evoluzione della sua affermazione di reciprocità che ha visto artisti di altissimo livello aperti alla collaborazione e al consociativismo tra i generi di diversa etnia, all’insegna della globalizzazione in atto ma, ed anche, dello stare insieme.
È indubbio che ciò comporta una forma di contaminazione che tuttavia ritengo creativa nell’ambito dell’evoluzione artistico-musicale che pure l’arte non ha mai disdegnato. Così, come accettiamo che l’arte e la letteratura si adeguino all’andamento dei gusti e delle mode, possiamo accettare che anche la musica, una volta spalancato il suo universo sonoro, svolga il suo corso e raggiunga le vette inusitate dell’arte.
Sul finire dell’Ottocento, dal Ragtime in poi, il ‘Jass’, come lo dicevano i primi anonimi esecutori, ha visto salire sulla scena internazionale nomi altisonanti che hanno permesso al Jazz di fregiarsi dell’etichetta di ‘vero e proprio stile’ in musica, sì da inglobare, pur nella differenziazione, la musica cosiddetta ‘classica’, quella propriamente ‘etnica’, trasformandole in altrettante ‘forme’ e ‘modalità sonore’, come ad esempio nei ‘modi’ di suonare gli strumenti.
Ecco, per meglio comprendere il nostro tempo, dobbiamo necessariamente affidarci a quegli strumentisti ‘worldwide’ che ricercano ed elaborano per noi l’esperienza del passato con quella futuribile dal forte impatto culturale-sonora che troviamo applicata nei diversi aspetti del quotidiano: dalle sonorizzazioni in pubblicità, al cinema, all’impiantistica multimediale, alla video-art così come in ogni momento della nostra contemporaneità e che richiede quindi una visione a tutto tondo, che spazia dalla classica, all’etnica, al jazz e il minimalismo contemporaneo.

Quella che qui propongo vuole essere una vetrina di artisti che con il loro ‘fare musica’ contribuiscono allo sviluppo di quest’arte come happening il cui ascolto vuole essere un inno alla libertà e all'autodeterminazione:

La scelta di oggi vede alla ribalta un vero gigante della musica internazionale Nicola Pisani con “Cypriana”, concerto per voce solista, voce recitante, jazz / traditional ensemble e coro, del direttore pugliese, prodotto dall’etichetta Dodicilune e distribuito in Italia e all’estero da IRD e nei migliori store-on-line.
In Italia si conosce poco del difficile e durissimo percorso intrapreso da Cipro per raggiungere lo statuto di Repubblica Democratica. Questo avvenne nel 1960 con l'Indipendenza conseguita dall'Inghilterra che, subentrata alla dominazione turca sull'isola, represse con violenza inaudita la ricerca di autonomia e libertà del popolo cipriota. Per celebrare il 50° anniversario della fondazione della Repubblica di Cipro è nata questa partitura originale: composta e diretta dal Nicola Pisani (compositore, sassofonista e docente di Musica d’Insieme Jazz presso il Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano) è basata su temi musicali selezionati dal repertorio tradizionale cipriota inseriti in un tessuto musicale contemporaneo che si avvale di momenti di composizione estemporanea in scena e include poesie e testi di poeti greci e ciprioti selezionati ed elaborati in drammaturgia vocale da Maria Luisa Bigai (regista, attrice, docente di Arte Scenica presso il Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli).
Il progetto nasce da un'idea di Yiannis Miralis, (docente del Dipartimento delle Arti/Musica dell’Università Europea di Cipro) ed è stato realizzato con la collaborazione, per la prima volta congiunta, di Ministero della Cultura e dell’Educazione di Cipro, Municipio di Strovolos, Progetto Erasmus, Liceo Musicale di Cipro, Dipartimento delle Arti dell’Università Europea di Cipro. Presentato a Roma, nel 2012, in occasione del Semestre di Presidenza della Cultura Europea affidato alla Repubblica di Cipro, e nell'ambito della Settimana della Cultura Cipriota in Italia, il concerto, è stato registrato eseguito nell’aula magna dell’Università La Sapienza.
«La drammaturgia di Cypriana nasce dall'intersecarsi e giustapporsi di materiali eterogenei raccolti con una ricerca estremamente personale», spiega Maria Luisa Bigai. «Già dal primo impatto avuto con l'Isola di Cipro nel 2009, durante il mio primo viaggio di scambio Erasmus, emerge nella mia esperienza la pluralità di accenti e la frammentazione. La Città è tuttora divisa in due per quella che è detta 'la questione turca'. E girando per le strade e ascoltando le persone parlare si sente un ottimo inglese e un greco fatto di accenti e ritmi differenti, frammenti diversi per uno stesso orgoglio di appartenenza. Questo territorio», prosegue l’artista, «ha prodotto una cultura frutto di influenze disparate (gli antichi popoli mesopotamici mischiati con la classicità greca, i francesi del medioevo, Riccardo Cuordileone, i Veneziani, i Turchi presenti sin dalla battaglia di Lepanto e poi rimasti per secoli, gli Inglesi e poi quei Turchi piombati nel 1974 in una vera e propria invasione militare ...), una ricchezza incredibile di immagini e suoni, ritmi e accenti diversi.
Tutte queste voci affidate al ‘coro’ “Cantus Vitae" sotto la direzione di Giuseppina Conti, echeggiano attraverso letture di articoli di giornale, frammenti di lettere private, versi di poeti greci e di poeti greco-ciprioti, traduzioni parziali e commentari, echi e deformazioni – anche personali- insieme a informazioni storiche. Il lavoro di ricerca e composizione-scomposizione-ricomposizione creato da Nicola Pisani per la parte musicale, a partire anch'egli dall'ascolto e ritrovamento di echi e melismi storici e tradizionali, insieme a gesti precisi di composizione anche improvvisata, con la sua richiesta di gesti individuali e fortemente personali in veste di solista, da parte di ogni componente del gruppo, mi ha portata a costruire un percorso a monologo, in una forma che restituisse le molte voci e i molti suoni di una narrazione collettiva.
Ho voluto costruire una voce di Corifea, interprete e veicolo tra la parola e il suono di quanto narrabile e di quanto inenarrabile di questa vicenda, sviluppando i sentori, le grida e I sussurri che le singole voci orchestrali, il coro e il canto solista esprimono prima e dopo la parola. Parole dette, in italiano, inglese, greco cipriota, fino alla dissoluzione in sillabe, lallazioni, grida, parole prese da didascalie, informazioni di giornale, note a margine, frammenti di epistola, righe di diario privato, riverberi poetici liberamente tradotti o echeggiati nel loro suono iniziale o in libere riletture, fino a deformarli in suono, ritmo canto, è il percorso che ho voluto produrre perché l'insieme dei frammenti diventasse l'albero di una nave fatta di palcoscenico e strumenti orchestrali, e i respiri e I canti vela del grande racconto collettivo che è questo momento tragico della nostra Storia contemporanea europea, tragico non solo perché ha visto la morte terribile di ragazzi giovanissimi impiccati per un'opinione e lotta politica, ma anche per lo scarsissimo riconoscimento che tuttora ha questo capitolo della creazione della nostra Europa attuale».
Molto è lasciato al suono arcaico di alcuni strumenti, e ad altri di più recente elettrificazione, così come alle voci narranti originali degli interpreti nei brani d’effetto drammaturgico che danno forma alla rappresentazione: Thalasses, Conduction N.52, Insulae, Cypriot Popular Song, Musiki tutti godibili nella loro affermazione storico-culturale-musicale, di grazie Luisa Bigai che ne ha curata la drammaturgia e la narrazione; alle musiche del compositore e direttore Nicola Pisani, alla convincente voce di Erica Gagliardi. Agli eccezionali strumentisti Michalis Kouloumis e Piero Gallina impegnati rispettivamente al violino e al violino e lira calabrese. Ilaria Montenegro al flauto, Yannis Miralis al sax soprano, Elli Michael alto sax alto e Alberto La Neve sax tenore e baritono. Ed anche Marco Sannini tromba e flicorno, Giuseppe Oliveto trombone, Mario Gallo tuba, Andreas Christodoulou oud,
Massimo Garritano chitarre, bouzouki, Marios Toumbas piano, Carlo Cimino contrabbasso e basso elettrico. Molto è dovuto all’insieme delle percussioni affatto trascurabili in diverse session con i tamburi a cornice di Checco Pallone, la batteria di
Vassilis Vassilleiou e Alessio Sisca.
Docente di Musica d’insieme jazz al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano, Nicola Pisani si è perfezionato in Jazz e direzione con Bruno Tommaso, in Musica Contemporanea con Vinko Globokar, in canto corale e direzione con Marcel Couraud. Primo premio assoluto al Concorso Internazionale di Stresa 1991, nel corso degli anni ha inciso per alcune etichette italiane e straniere più rappresentative. Ha collaborato con John Surman, Pino Minafra, Andrea Centazzo, Michel Godard, Paolo Damiani, Sergey Kuryokhin, Steve Lacy, Keith Tippet, Louis Sclavis e con alcune produzioni Rai. Ha diretto e composto per le orchestre Dolmen, MultiJazz, Minafric, Assemblage, Tromso University, ICO - Bari, Orchestra Nazionale dell’AMJ, Orchestra Nazionale Docenti di Conservatorio, M.A.O. Orchestra.
Attualmente suona in tutta Europa, USA, Argentina, Marocco, Arabia Saudita. Ha tenuto stage su Improvvisazione e Conduction in Italia, Danimarca, Norvegia, Estonia e Cipro. Coordinatore scientifico del 1° I.P. Erasmus in U.E. sull’Improvvisazione per i Conservatori di Cosenza, Tromso (N), Esbjerg e Aahrus (DK), Tallin (ES), Nicosia (CY), Vienna (A). È stato Presidente dell’A.M.J, fondatore del sindacato musicisti SIAM-CGIL, coordinatore della Conferenza Nazionale Docenti Jazz – AFAM.

“Cypriana”, è prodotto dall’etichetta Dodicilune attiva dal 1996 che dispone di un catalogo di quasi 300 produzioni di artisti italiani e stranieri. Distribuiti nei negozi in Italia e all'estero da IRD, i dischi Dodicilune possono essere acquistati anche online, ascoltati e scaricati sulle maggiori piattaforme del mondo grazie a Believe.

Info e contatti
Facebook.com/dodicilune
Instagram.com/dodicilune
Youtube.com (DodiciluneRecords)
www.dodiciluneshop.it => urly.it/3hzwz

Dodicilune - Edizioni Discografiche & Musicali
Via Ferecide Siro 1/E - Lecce
0832091231 - info@dodiciluneshop.it
www.dodiciluneshop.it

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- Musica

A Roma nasce l’Archivio del Jazz

9 marzo 2022 – Una data da tenere a mente e consultare.

Nasce a Roma l’Archivio del Jazz, un archivio digitale che racconta la storia del jazz italiano, dalla seconda metà del secolo scorso fino all’inizio del nuovo millennio, ideato e realizzato dal Saint Louis College of Music.
L’Archivio è stato creato grazie a un attento lavoro di ricerca, archiviazione e divulgazione di materiale bibliografico, audio, video e fotografico, affiancato da dettagliate schede informative, editoriali e testimonianze di autorevoli personalità del mondo del jazz italiano.
L’Archivio è consultabile online all’indirizzo www.slmc.it/archivio_jazz/archivio-del-jazz-a-roma, sul sito web del Saint Louis College of Music di Roma, prima scuola di musica in Italia ad interessarsi in maniera specifica al jazz e a rappresentare ancora oggi, a quarantacinque anni dalla sua fondazione, uno dei più importanti e prestigiosi Istituti musicali in Europa.
L’Archivio è consultabile anche tramite Jazz Up, l’app del Dipartimento di Jazz del Saint Louis, disponibile per piattaforme Ios e Android al link www.slmc.it/archivio_jazz/jazz-up. Responsabile dell’Archivio è il critico musicale Paolo Marra, autore anche degli editoriali dell’Archivio, che ha dichiarato: «L’Archivio del Jazz a Roma è un progetto di cui questa città aveva fortemente bisogno per sottolineare la necessità di un recupero storico-documentaristico della memoria jazzistica, troppo spesso trascurata e che invece è necessario porre come fondamento imprescindibile del fermento artistico delle nuove generazioni di musicisti.
Una memoria costellata di musicisti, storici jazz club, piccole e grandi etichette discografiche, produttori e talent scout, critici musicali e giornalisti, fondamentali incisioni, trasmissioni televisive e radiofoniche, grandi orchestre, incontri con il grande cinema italiano e infine impegno sociale e politico.
Lungi dall’essere una galleria di ricordi cristallizzati, l’Archivio del Jazz si propone come mezzo conoscitivo e divulgativo, di apprendimento attivo di come e perché si è giunti all’attuale forma e condizione del jazz italiano, per ampliare la comprensione dell’evoluzione della sua spinta comunicativa avvenuta di pari passo con i cambiamenti culturali, mediatici e politici in seno alla struttura sociale contingente».
Diviso per decenni, dagli anni Cinquanta agli anni 2000, l’Archivio del Jazz si compone di diverse sezioni tematiche e di foto, filmati, materiale bibliografico, album, audio e articoli di riviste specializzate, giornali e quotidiani italiani e stranieri, a cui hanno contribuito autorevoli personalità del mondo del jazz italiano.
Ad affiancare ogni contributo sono presenti anche schede informative ed editoriali pubblicate a cadenza settimanale, per raccontare con uno sguardo attento le varie fasi di un lungo percorso dalle molteplici sfaccettature musicali e umane.
L’Archivio vuole così mettere a disposizione di qualunque tipologia di fruitore uno strumento informativo, di ricerca e approfondimento, coadiuvato da un costante lavoro di aggiornamento del materiale presente all’interno delle pagine, arricchite di volta in volta di spunti interessanti e affascinanti.
L’obiettivo non è solo quello di creare una visione d’insieme della scena jazzistica italiana, ma di coglierne lo spirito, legato a doppio filo alle varie fasi e vicende della storia del nostro Paese.
L’Archivio è costantemente alimentato dal materiale condiviso da contributori provenienti da ogni parte del mondo. Tra i primi ad inviare i propri contributi: Maurizio Giammarco, Enzo Pietropaoli, Enrico Pieranunzi, Furio Di Castri, Bruno Tommaso, Dino Piana, Franco Piana, Filippo Bianchi, Danilo Rea, Roberto Gatto, Stefano Mastruzzi, Umberto Fiorentino.
È possibile condividere il proprio materiale e contribuire così ad arricchire l’Archivio del Jazz, scrivendo ad archiviodeljazz@slmc.it.
Dal 1976 il Saint Louis College of Music, diretto a partire dal 1998 dal M° Stefano Mastruzzi, è fra le più importanti realtà didattiche musicali di eccellenza del nostro Paese, con oltre 1.800 allievi provenienti ogni anno da ogni parte del mondo, con un corpo docente stabile composto da 120 docenti di fama nazionale e internazionale e con un’offerta formativa fra le più ampie in Europa, con più di 360 diversi insegnamenti.
Il Saint Louis vanta quattro sedi nel cuore di Roma (nel Rione Monti, tra il Colosseo e Via Nazionale), ed è dotato di cinquanta aule multifunzione e di cinque studi di registrazione per la didattica e per le produzioni discografiche.
Il Saint Louis è la prima Istituzione privata di Alta Formazione Artistica Musicale in Italia autorizzata (con decreto del Ministro n. 144 del 1° agosto 2012 e n. 246 del 28 marzo 2013) a rilasciare diplomi accademici di I e II livello, in jazz, popular music, musica elettronica, regia, tecnico del suono e composizione, con lo stesso identico valore legale dei diplomi di Conservatorio, pertanto equivalenti a lauree di I e II livello (decreto n. 144 e decreto n. 246).
L’accreditamento è stato ottenuto dal Direttore M° Stefano Mastruzzi dopo un lungo processo di verifica da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca sulle competenze e sulla qualità didattica e dell’offerta formativa di eccellenza riscontrata nel corso degli anni al Saint Louis.
Il Saint Louis è anche centro di produzione, agenzia artistica di management, etichetta discografica e promuove numerose attività di alto livello nell’ambito di tutti gli stili e linguaggi musicali, collaborando con i più importanti Conservatori, festival e rassegne in contesti nazionali e internazionali.


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- Musica

Latest Jazz Adventures / Ultime avventure in Jazz


LATEST JAZZ ADVENTURES / ULTIME AVVENTURE IN JAZZ

“John Cage è responsabile del cambiamento così come Satie del benefico influsso nella misura in cui ha aiutato a spezzare le catene della disciplina degli anni Cinquanta, mostrandone l’assurdità e l’accademismo. Ma in seguito, ci sono state quasi solo imitazioni.” - Pierre Boulez 1970.
Sembrerebbe d’essere appena usciti dalle prese di un inconscio collettivo, popolato di archetipi universali, in rappresentanza di un imperativo categorico che non permetteva alla musica di poter andare oltre, quasi che ogni caposaldo facesse parte di uno stesso muro invalicabile e lì dovesse rimanere per sempre, ed eccoci pronti ad aprire la nostra volontà di autoespressione e liberazione al nuovo e a tutto ciò che lo circonda.
Oggi, che le più innovative tecniche approntate nella sonorizzazione acustica ci accompagnano nell’infinita virtualità dell’universo sonoro, siamo altresì coscienti degli innumerevoli spazi emergenti dall’avvenuto cambiamento, quanto più necessario alla realizzazione di questo mondo emozionale, in linea col nostro tempo, onde accoglierle e dare inizio ad una ‘nuova’ e immaginifica avventura musicale. È questo il mondo universalmente riconosciuto del potere accomunante della musica, finalmente liberi psicologicamente ed emotivamente di poter scegliere, nella nostra magnifica incoerenza, la musica cui affidare le nostre emozioni …
“Di noi stessi tacciamo, la cosa in sé è in questione” – scrive Kant in “La critica della ragion pura” e che rappresenta il fondamento della modernità.
È significativo che ci accorgiamo del fatto rivelatore di ciò che siamo insieme al mondo di affetti e di passioni che la musica da sempre sostiene coi sentimenti che riesce a scaturire nell’animo umano; con la poesia sonora della natura circondata dai suoi silenzi; dei ‘pianissimo’ e dei ‘fortissimo’ strumentale che ci sorprendono e che fanno da colonna sonora del nostro quotidiano; dei suoni primigeni di una realtà oggettiva datrice di sensibilità, grandi capacità espressive, fondamento di solidarietà e di pace. Di tutto quanto sembriamo avere bisogno più che mai …
“È nello scoprire il fascino ancestrale della musica che l’infinita ricerca di ‘noi stessi’ si amplia di nuovi importanti capitoli che vanno ad aggiungersi alla macroscopica storia universale che noi tutti, ad ogni latitudine del mondo, andiamo scrivendo e che, forse un giorno, ci permetterà di conoscere il mondo in cui viviamo” - GioMa
E non esiste questa o quella musica, diversificata per origini o tendenze, in primis c’è la MUSICA con la sua magica ‘comunicativa’ capace di restituire all’ascoltatore l’atmosfera emozionante che noi tutti accomuna. Qui di seguito presento una lista, piuttosto casuale direi, di vecchie e nuove ‘uscite’ discografiche che s’avvicendano nel panorama della musica internazionale. Molti sono anche gli strumentisti italiani presenti con singoli album e nei gruppi qui presenti, ciò a dimostrazione di una costante partecipazione e creatività solistica di grande attualità.

Ultimissime:

Laurie Anderson, Philip Glass, and John Zorn will perform in a concert for Ukraine at New School in NYC tonight. In lieu of ticket fees, donations are suggested to Save the Children, International Rescue Committee, and Razom.

MET JAZZ 2022 XXVII Edizione:
“La voce e altre follie”, un Masterclass in collaborazione con Musica per Roma al Parco della Musica e Casa del Jazz.
Una manifestazione di “Tredici concerti” a ingresso gratuito che fino al 10 aprile ospita inoltre artisti internazionali e italiani accanto ai nuovi talenti del Dipartimento Jazz del Conservatorio Santa Cecilia con la direzione artistica di Carla Marcotulli.
Tra gli ospiti: David Linx, Alex Sipiagin, Maurizio Giammarco, Franco D’Andrea, Bruno e Giovanni Tommaso e Rosario Giuliani, Daniele Roccato, Pietro Lussu, Nicola Stilo, Mario Corvini e Claudio Corvini.
Domenica 20 marzo dalle ore 18, sul palco della bellissima Sala Accademica, caratterizzata dal grande Organo Walcker-Tamburini, saliranno tre grandi esponenti del jazz italiano: il pianista e compositore Franco D’Andrea e il duo formato dal sassofonista Rosario Giuliani e dal pianista Pietro Lussu, con il loro “Tribute to Bird” in omaggio a Charlie Parker, un artista che ha lasciato un retaggio fondamentale non soltanto nel jazz - trascinando il pubblico in un viaggio speciale nell’intelletto del grande musicista. Un concerto che rappresenterà una vera e propria sfida: quella di cimentarsi in un duo sax e pianoforte nel territorio di uno dei più grandi geni della musica. Tra i più grandi pianisti italiani, Franco D’Andrea è un pluripremiato compositore e strumentista. Nel corso della sua carriera ha registrato circa 160 dischi e creato 200 composizioni, collaborando con grandi artisti come Gato Barbieri, Dexter Gordon, Johnny Griffin, Slide Hampton, Lee Konitz, Steve Lacy, Dave Liebman, Jean Luc Ponty, Enrico Rava, Max Roach, Toots Thielemans, Miroslav Vitous e Kenny Wheeler. Al Festival “Jazz Idea” il suo concerto per ‘piano solo’ sarà, come egli stesso ha affermato, “il luogo della libertà”, un racconto di esperienze nuove e concretezze estreme.
Gli altri eventi in cartellone: il 27 marzo il Santa Cecilia Silver’n'voices Lab diretto da Nicola Stilo e Carla Marcotulli, a seguire il trombettista Alex Sipiagin ospite del quartetto di Riccardo Fassi e Stefano Cantarano; il 3 aprile il cantante e compositore David Linx in quartetto con il suo Voices Unlimited in cui figura il grande batterista Bruce Ditmas, anticipato dal concerto del gruppo di improvvisazione del Conservatorio unito a quello dell'Università Ca' Foscari di Venezia (MusiCa Foscari) e dal duo “Meltin pot” di Alessio Sebastio e Minji Kim; il 10 aprile “Bass in the mirror” con Paolo Damiani e Daniele Roccato, seguiti dal “Tribute to Dick Halligan and his Music” di Cinzia Gizzi, Carla Marcotulli, Fabio Zeppetella, Pietro Leveratto ed Ettore Fioravanti.
I prossimi appuntamenti in collaborazione con Musica per Roma: lunedì 21 marzo dalle 10 alle 13, presso lo Studio 2 dell'Auditorium Parco della Musica (entrata artisti), protagonista Franco D’Andrea in “Applicazioni pratiche delle aree intervallari”; il 4 aprile, sempre dalle 10 alle 13, David Linx terrà il suo “Voices Unlimited Workshop” alla Casa del Jazz, location che ospiterà l'11 aprile anche la Masterclass di Bruno Tommaso “Parafrasi, mascheramenti, plagi e truffe”, con lo stesso orario.
Per prenotazioni all’indirizzo mail educational@musicaperroma.it.

CONTATTI
Conservatorio di Musica “Santa Cecilia”
Via dei Greci 18, Roma - tel. 06.36096720 - www.conservatoriosantacecilia.it
Ufficio Stampa Festival JAZZ IDEA Fiorenza Gherardi De Candei – tel. 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com.
Fiorenza Gherardi De Candei
Press Agent - Event Manager
Mobile +39.328.1743236 E-mail info@fiorenzagherardi.com Skype "fiorenzagherardi"
www.fiorenzagherardi.com

In collaborazione con Nonesuch Records segnalo l’uscita di alcuni CD digitali e vinili di grande impatto jazzistico e/o rock con artisti che si sono guadagnati la ribalta in anni di concerti in giro per il mondo:

Brad Mehldau Releases Take on Rush's "Tom Sawyer" Ft. Chris Thile, a rare new track from his upcoming album, Jacob's Ladder. The song, Mehldau's interpretation of the Rush classic, features Chris Thile on lead vocals and mandolin as well as Joel Frahm on saxophones and Mark Guiliana on drums; Mehldau plays keyboards and provides additional vocals.
Features new music that reflects on scripture and the search for God through music inspired by the prog rock he loved as a young adolescent - his gateway to the fusion that eventually led to his discovery of jazz. Featured musicians on the album include label mates Chris Thile and Cécile McLorin Salvant, as well as Mark Guiliana, Becca Stevens, Joel Frahm, and others. Mojo calls it "a kaleidoscopic affair, where baroque prog-rock edifices are juxtaposed with clouds of ethereal choirs, dreamy piano interludes, and squalls of free jazz-style clarinet. Skillfully weaving these elements into storytelling sound collages, Mehldau takes the listener on a memorable musical journey."

Cécile McLorin Salvant Releases Take on Kate Bush's "Wuthering Heights", the opening track to her new album, Ghost Song. The video features artwork by Salvant animated by Robert Edridge-Waks. Singer/songwriter Cécile McLorin Salvant's Nonesuch Records debut album, Ghost Song, features a diverse mix of seven originals and five interpretations on the themes of ghosts, nostalgia, and yearning. The New York Times calls it "her most revealing and rewarding album yet." Uncut says she is "one of the most daring and resourceful vocalists in jazz—or any other genre, for that matter." The Arts Desk exclaims: "The treasure trove of marvels that is Ghost Song exceeds all expectations." Nonesuch Store CD and LP orders include an exclusive, limited-edition signed artwork by Salvant while they last.

David Byrne is Harper's Bazaar's March 2022 music director. He has curated a playlist related to the issue's theme of legacy, dedicated to creators "who have built upon what came before them."Since forming the pioneering art-rock band Talking Heads in 1975, Byrne has charted a singularly polymathic creative path, navigating a successful solo music career while venturing into dance, theater, film, and other visual and performance work. In 2018, he released his 10th studio album, American Utopia, which has since been adapted for Broadway. “The show homes in on specific issues like race, immigration, and voting and communicates the positive side of thinking about them,” says Byrne, who is exhibiting a collection of his drawings at New York’s Pace Gallery through March 19. For this issue, he curated a playlist with a legacy theme, choosing artists, he says, “who have built upon what came before them.” Along with “Deathless” by Afro-French-Cuban twin-sister duo Ibeyi, whose spiritual traditions inform their songwriting, he included “Santé” by Belgian electronic music star Stromae, who acknowledges his roots by “incorporating a lot of African rhythms into his music,” as well as “Te Ao Mārama/Solar Power” by Lorde. “It’s Lorde doing a version of her hit in Māori,” explains Byrne. “It ties back to her being from New Zealand and making that part of who she is.” David Byrne is on the Talk Easy podcast. He talks with host Sam Fragoso about American Utopia on Broadway, which Fragoso calls "dazzling … remarkable"; the celebratory nature of performing the show for audiences as people congregate again; and more.

The Black Keys – “Dropout Boogie” in Nonesuch Records
As they've done their entire career, The Black Keys' Dan Auerbach and Patrick Carney wrote all of the material for their new album, Dropout Boogie , in the studio, and the album captures a number of first takes that hark back to the stripped-down blues rock of their early days making music together in Akron, Ohio, basements. After hashing out initial ideas at Auerbach's Easy Eye Sound studio in Nashville, the duo welcomed new collaborators Billy F. Gibbons, Greg Cartwright, and Angelo Petraglia to the sessions, marking the first time they've invited multiple new contributors to work simultaneously on one of their own albums.

Ry Cooder's “My Name Is Buddy” at 15.
It was 15 years ago this week: Ry Cooder's My Name Is Buddy was released. On the album, he imagines a tabby, Buddy Red Cat, embarking on a Bound for Glory–like journey across country. Musicians include Mike and Pete Seeger, Paddy Maloney, Jim Keltner, Van Dyke Parks , Flaco Jimenez, Mike Elizando, Joachim Cooder, Jacky Terrasson, and Stefon Harris.

Steve Reich's new book, Conversations, is out now. He speaks with collaborators, fellow composers, musicians, and visual artists influenced by his work—including Nonesuch Chairman Emeritus Robert Hurwitz, Jonny Greenwood, Kronos Quartet's David Harrington, Stephen Sondheim, Nico Muhly, Brian Eno , and others—to reflect on his prolific career as a composer as well as the music that inspired him and that has been inspired by him.


GleAM Records è orgogliosa di annunciare l'uscita di “Elevating Jazz Music” Vol. 1 , debutto discografico del sassofonista emiliano Daniele Nasi e del suo BSDE 4tet, disponibile su CD e download / streaming digitale dal 25 febbraio 2022.
Elevating Jazz Music Vol. 1
“Vuol esser un ascolto d’Ascensione e non d’Ascensore, citando una frase presa da Rap God di Eminem, dando peso all'aspetto sociale e comunicativo della musica che troppo spesso viene messo da parte in favore della cosiddetta fruibilità”.
I BSDE 4tet sono un gruppo jazz, con sede in parte nei Paesi Bassi e in parte in Italia, che sfrutta i diversi background dei membri per cercare un suono nuovo e fresco attraverso composizioni originali. La musica combina aspetti del free jazz e dell'hard-bop con armonie e ritmi più moderni e con materiale folkloristico derivante dai diversi paesi o incontri culturali dei musicisti.
Alcune delle composizioni si basano su fatti che sono purtroppo accaduti negli ultimi anni e vogliono essere un modo per esprimere sia delusione che una critica costruttiva. Il quartetto crede fermamente, infatti, che la musica sia un momento sociale importante, sia per condividere emozioni che pensieri e che il jazz possa ancora portare alla riflessione e al cambiamento come ha fatto in passato.
La scrittura aperta dei brani è stata concepita con un suono specifico in mente, che ha portato alla formazione del BSDE 4tet qual è, ma al contempo lascia ampi spazi per l'interazione tra chi vi partecipa, rendendo fondamentale l'apporto personale ed espressivo dei musicisti, quanto quello di chi ascolta. Quello dell'interplay e di un suono d'insieme son aspetti molto sentiti dalla formazione, tant'è che l'album è stato registrato “alla vecchia”, in un'unica stanza e senza cuffie o doppi vetri a separare le vibrazioni degli strumenti. Il gruppo, formato da Daniele Nasi - Tenor & Soprano Saxophone; Jung Taek "JT" Hwang - Piano, Moog & Fender Rhodes; Giacomo Marzi - Double-bass e Andrea Bruzzone - Drums ha ricevuto il premio Roberto Zelioli 2019 durante l’ultima tournée in Italia.

Ancoras per GleAM Records è annunciata l'uscita di “Dream Big” del Trombettista italiano Enrico Valanzuolo, disponibile su CD e download / streaming digitale dal 25 marzo 2022. Il debutto discografico del trombettista italiano Enrico Valanzulo e del suo Quintetto, formato da Enrico Valanzuolo – tromba, Francesco Fabiani – chitarra elettrica, Eunice Petito – piano, Aldo Capasso - basso elettrico & contrabbasso, Eugenio Fabiani - batteria, è alla base del lavoro di ricerca di sonorità inedite, influenzate dalle suggestioni del Jazz Nordeuropeo ma con una orgogliosa connotazione partenopea.
Melodie forti e incisive e arrangiamenti mai scontati traghettano l'ascoltatore verso percorsi sostanzialmente emotivi, dove silenzi e suoni si compenetrano in direzione di altrove non ancora mappati, ma la cui cartografia è sempre affidata all'improvvisazione del quintetto. Il tema del viaggio costituisce senza ombra di dubbio il leitmotiv dell’intero album, e poco conta se si faccia riferimento a viaggi reali o solamente sognati, ad esperienze vissute o a luoghi distanti, almeno sulla carta.
“Dream Big”, titolo di uno de i brani che dà il nome all’intero album, è, più che un concetto, la filosofia stessa che permea l’idea di viaggio del leader. È l’auspicio a volare alto, valicando i confini del familiare, le colonne d’Ercole che ciascuno di noi si pone giorno dopo giorno, per ricercare quel percorso nuovo, battere quella strada impervia che di norma si eviterebbe, perché è lì che si nasconde un’emozione più grande, una gioia maggiore. E quindi “Dream Big” – come stimolo e auspicio verso se stessi prima ancora che verso gli altri - è un concetto profondamente legato ad un’idea persistente di altrove. Chi sogna in grande vola lontano. Ha detto di lui l’altro grande italiano della tromba Paolo Fresu: “Enrico ha un suono che gira in testa. Difficile spiegare, per chi non suona la tromba, l’essenziale importanza dell’equazione suono>pensiero. Sono solo 5 i brani di questo interessante lavoro ma sufficienti per affermare quanto il processo mentale risulti corretto. Il resto è estetica. Per quanto questa sia importante ciò che conta è la relazione diretta tra pensiero e suono. Questa si tramuta in un pathos che è vocale e in una emozione condivisa con i suoi magnifici compagni di viaggio. “Dream Big” è uno dei tanti sogni di cui, ora più che mai, necessitiamo.”

AUAND Records è presente in questa lista con un importante album che nel recupero di sonorità del Grande Jazz più vicino a noi: “Un approccio eretico come miglior modo di essere fedeli a Monk. L’album riporta alla luce una serie di registrazioni che prendono le mosse dalle composizioni del grande compositore afroamericano, in “Heretic Monk” e qui riproposte dal duo formato da Stefano Risso, che ha dato origine una quindicina d’anni fa al trio Barber Mouse (il nome è un piccolo divertissement che gioca sui cognomi del batterista Mattia Barbieri già al fianco di Richard Galliano per molti anni e del pianista Fabrizio Rat musicista incredibile a cavallo tra la techno e la musica contemporanea, molto conosciuto all'estero, soprattutto in Francia), lavora da tempo, come compositore e contrabbassista, sia sulla musica acustica che elettronica, in una costante ricerca fra avanguardia e tradizione, improvvisazione e canzone che tende a far confluire tutti questi differenti linguaggi in un singolare mondo sonoro.
Perseguendo quest’idea di fondo, il gruppo esordisce con un primo disco (Auand, 2012) che omaggia i Subsonica, uno dei più noti gruppi elettro/pop italiani, e che vede ospite Samuel, il cantante stesso dei Subsonica.
Senza abbandonare la sperimentazione costante, la ricerca timbrica, la presenza di strumenti acustici preparati fino a produrre sonorità che sembrano elettroniche, ossia ciò che da sempre costituisce la cifra stilistica del gruppo, arriva ora a dieci anni di distanza il secondo disco. A differenza dell’idea iniziale di fuoriuscire dai territori della musica jazz questo è un omaggio, caratterizzato da una ricerca armonica totalmente innovativa e sorprendente, al grande pianista Thelonious Monk, alle sue composizioni come pure agli standard che reinterpretava rendendoli suoi in modo indelebile.
Registrato nel 2011, per molti anni è rimasto fino ad oggi nel cassetto.
«Non ne sappiamo bene il motivo, – racconta Stefano Risso – forse perché la produzione ci rapisce e nel frattempo ci siamo mossi su differenti territori. Ma a riascoltarlo ora è come se venisse a galla maggiormente la sua contemporaneità e modernità. Quando dai progetti prendi distanza è come se si mettessero a fuoco i lati essenziali dei lavori. A riascoltarlo oggi pare quasi più attuale di quando lo registrammo. Questo è quindi il motivo per cui oggi abbiamo voluto che venisse alla luce».
L’aspetto peculiare dell’album, è il lavoro sull’armonia, che richiama per certi aspetti la geometria frattale. Alcuni accordi tipici dell’armonia di Monk e del suo modo di realizzare voicings sul pianoforte, vengono sintetizzati nel loro schema più semplice, ridotti a un tetracordo e utilizzati al posto delle griglie di scale e accordi tradizionalmente usate nell'improvvisazione. Ogni brano del disco viene riarmonizzato con questa logica e le improvvisazioni seguono questo principio, limitando il numero di note differenti utilizzabili. Da qui per l’ascoltatore la sensazione di un’armonia che si sviluppa da se stessa e si moltiplica su se stessa, un po’ come le strutture frattali che si osservano in natura, nei cristalli o nelle foglie.
Come confida lo stesso Risso «Il lavoro di preparazione necessario a registrare l’album è stato particolarmente lungo. Era un po’ come essere costretti ad abbandonare tutti gli stereotipi di linguaggio per riuscire a suonare correttamente in questo approccio per noi nuovo e innovativo legato ai tetracordi. Impossibile usare un fraseggio che già si conoscesse perché il risultato musicale non sarebbe stato attinente, si sarebbe usciti da quei paletti che ci eravamo dati in partenza, che erano limitazioni ma allo stesso tempo grandi elementi di stimolo. Quindi abbiamo studiato e lavorato in sala prove duramente per riuscire a districarci in questa selva di armonie molto serrate e rigorose, che in fin dei conti, nonostante ne siano rispettose, si distanziano molto da quello dei brani originali».
«Penso che la caratteristica principale di questo disco – conclude Rat – sia il processo di trasformazione di un materiale musicale preesistente. Un po’ come se ci si trovasse di fronte a una pagina scritta in una lingua conosciuta ma che, a causa di un’amnesia, la si fosse dimenticata. Ci si trova quindi nella necessità e nella condizione di interpretare quei segni con una logica nuova, caratterizzata da alcune regole armoniche che si allontanano notevolmente dai canoni abituali del linguaggio jazzistico e mossa, ovviamente, dall’amore per l’immensa musica di Monk».

A proposito dei suoi due compagni di viaggio Risso racconta: «Fabrizio Rat è un musicista che ha fatto un lungo percorso su diversi tipi di territori. Ha iniziato come pianista classico per poi buttarsi sulla composizione nella musica contemporanea (alcuni suoi brani sono stati eseguiti dall’Ensemble Modern e dall’Ensemble Interconteporaine) per poi passare al jazz e persino alla techno.
Mattia ha collaborato con tantissimi grandi musicisti e per anni ha fatto parte del gruppo di Richard Galliano, sperimentando anche lui con le drums machine e i synth».

Paolo Zou, “Venus”. Il chitarrista romano pubblica con Auand un album eclettico e ricco di colori. Il nuovo lavoro di Paolo Zou, la cui progettazione iniziale risale all’inizio del 2020, durante i mesi di quarantena dovuti al Covid, è intenzionalmente ricco di sfumature e situazioni musicali sensibilmente differenti. Un’ampia varietà stilistica che costituisce, del resto, il filo rosso e la caratteristica principale che ha contraddistinto l’intero percorso musicale del chitarrista romano. Zou negli anni infatti, oltre al jazz, produce musica elettronica, suona reggae-ska ed è attivo in ambiti pop e hip hop.
«Come per ogni mio lavoro compositivo – spiega Paolo Zou – ho capito dapprima con chi avrei voluto registrare il prossimo lavoro a mio nome, per poi solo più tardi cominciare a scrivere musica, pensando soprattutto ai musicisti per la quale la stavo scrivendo».
Ad affiancarlo nell’album sono dunque Adriano Matcovich al basso elettrico, e voce su un brano, e Dario Panza alla batteria e alle percussioni, aggiunte in un secondo momento in un paio di brani.
«Durante la prima prova per questo lavoro – racconta Zou – con Adriano e Dario c'è stata fin da subito una profonda intesa e una grande affinità di approccio al jazz e alla musica improvvisata. Riguardo al processo compositivo una mia costante è quella di scrivere tutto a casa, rigorosamente su carta, spesso anche le parti di basso e batteria, per poi verificare insieme se quel che ho pensato funziona oppure no. In questo caso è stato fin troppo semplice mettersi d'accordo su qualsiasi aspetto riguardante il lavoro da svolgere insieme! Ci accomuna una visione aperta, assolutamente inclusiva. Non a caso condividiamo un'estrema varietà di ascolti, dal Jazz, alla Trap, al Soul, al Pop, alla Classica».
“Venus” è un album letteralmente ricco di tinte e di tonalità. Infatti, a partire da un elemento autobiografico, una leggera forma di sinestesia, ovvero quella sorta di contaminazione dei sensi nella percezione che permette di avvertire una relazione tra suoni, colori e forme, Zou ha scelto di evidenziare un aspetto della creatività che già in passato ha intrigato artisti, letterati e poeti: dalle vocali colorate di Baudelaire alla volontà di dipingere la musica di Kandinsky.
«In questo album – confida Zou – ho voluto dare spazio al fatto che per me ogni brano, che sia mio o di altri, evoca uno o più colori precisi. Tutti i brani, tranne alcuni brevi intermezzi, sono perciò intitolati con un oggetto del colore del brano. E quindi VENUS è giallo, ORHIS osso, COVELLITE azzurro, ADAMITE verde, BLACK ONYX nero, IS ARUTAS, infine, è bianco».

“Venus”, pubblicato da Auand Records, sarà disponibile da venerdì 1 aprile e singoli tratti dall’album usciranno su tutte le piattaforme streaming a partire da venerdì 4 marzo.
























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- Teatro

Diana di Nocera Inferiore - Rassegna Teatrale ’Ouverture’


Al via al Diana di Nocera Inferiore la rassegna teatrale "Ouverture" a cura di Artenauta Teatro.

Ufficio stampa Claudia Bonasi - 339 7099353 - claudia@puracultura.it

"La rassegna ha un titolo e un'immagine - una finestra sul mondo - che simboleggiano la riapertura delle nostre attività teatrali e al contempo sul mondo, grazie alla quale offrire al pubblico nuovi orizzonti di svago ma anche spazi di riflessione. Con questa rassegna abbiamo anche voluto dare ai nostri fedeli abbonati la possibilità di recuperare le date di spettacolo che erano state sospese a causa della pandemia", ha spiegato la direttrice artistica della manifestazione. Dei cinque spettacoli in cartellone, da marzo a giugno 2022, due sono gratuiti e destinati a bambini e famiglie, così come previsto nell'accordo siglato con l'Ente pubblico. Si inizia il 13 marzo alle h. 18.00 con "Le Fruttavventure di Re Carciofone", uno spettacolo de La Compagnia dell’Arte in collaborazione con La Bottega di Will, scritto e diretto da Teresa Di Florio (ingresso gratuito). Il 20 marzo alle h. 18.00, sarà di scena "Il teatrino di Mangiafuoco - Le avventure di Pinocchio", della compagnia La Mansarda Teatro dell’Orco in collaborazione con Idee fuori scena; drammaturgia di Roberta Sandias, regia di Maurizio Azzurro, costumi e pupazzi di Emilio Bianconi (ingresso gratuito). Il programma prosegue il 27 marzo alle h. 19.00 con "Transleit" di Viviana Cangiano, con Viviana Cangiano e Serena Pisa (EbbaneSis); regia EbbaneSis. Il 29 aprile alle h. 21.00 "Tre compari musicanti" - Storie minime nella grande storia: briganti, borbonici, francesi, scritto e interpretato da Paolo Apolito, con la partecipazione di Antonio Giordano. La rassegna si conclude con diverse date, il 28 e 29 maggio e il 4 e 5 giugno (h. 18.00 - 19.30 - 21.00) con "So, happy birthday", della compagnia Artenauta Teatro, regia e drammaturgia di Simona Tortora, aiuto regia Luigi Fortino.

PROGRAMMA 'OUVERTURE'
Marzo - Giugno 2022
Rassegna teatrale e musicale a cura di Artenauta Teatro
Direzione artistica Simona Tortora
Organizzazione Giuseppe Citarella
Spettacolo del 13 ore 18
Ingresso gratuito

*Spettacoli del 27 ore 19; del 29 aprile ore 21; del 28-29 maggio
e del 4 -5 giugno orari 18 -19.30- 21
Con prezzo biglietti diversificati.

Inoltre, gli spettacoli presenti nel cartellone della rassegna L’Essere & L’Umano - VI edizione, interrotta a causa pandemia da Covid-19. I possessori dell’abbonamento per quella rassegna entreranno gratuitamente, a recupero della stagione precedente.
Mail: infoartenautateatro@gmail.com
Cell.3205591797

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- Educazione

Bla, bla, bla … ’risorse umane’ - vite di scarto.

Bla, bla, bla … risorse umane (vite di scarto).

Qualcosa mi ricorda il raziocinante gioco del Monopoli, quando a farla da padrone era chi riusciva ad accumulare più risorse possibili e, soprattutto, ad accreditarsi le maggiori aree di prosperità economica, in modo da sbancare tutti gli altri e ridurli alla propria mercé. La storia insegna che il maggior prestigio di qualcuno si basa sullo stesso principio del Monopoli allorché si basava dall’istituzione dei Monopoli di Stato. Uno Stato possidente di numerosi beni immobili come edifici rilevanti, fabbriche importanti, sì da far pensare a un’istituzione cittadina, ma che dico, a una possibile ambizione istituzionale come un’intera nazione. Infatti sul tabellone del Monopoli si aprono strade, piazze, parchi ecc., si elevano edifici (le famose casette) a non finire, in cui i suoi abitanti sono imprenditori facoltosi, tutti alla stessa stregua, neppure fossero Ministri con portafoglio, da spendere e spandere a loro piacimento. A dire il vero li si riconosceva subito, fin dall’inizio del gioco, allorché tirare i dadi permetteva loro l’avanzata verso il successo.
Una strana parola ‘successo’ dall’esito ambivalente positivo/negativo di cui si doveva (e si deve) tener conto nell’immediato. Ma che cosa accadeva nell’avanzare del gioco (perché di questo in fondo si trattava)? Spesso il boom iniziale di chi vinceva, dava seguito a una propria affermazione sullo scacchiere socio-politico-economico, in cui tutto lasciava pensare a una fama ormai scontata, di vincitore. Ma i prestiti che questi infine elargiva ai perdenti (i vinti), solo per farli continuare nel gioco, non lo ripagavano con la stessa moneta, piuttosto, una volta passati dalla sua stessa parte (di vincitori), disconoscevano di essere beneficiari di un prestito immeritato, e smettevano (con una scusa o con altra) di continuare a giocare e a farsi la guerra con alzate di voce, di paroloni e quant’altro.
Quanto tutto questo assomiglia alla guerra che si sta portando avanti in Europa in questo momento, dove piuttosto che convenire a toni più pacati si fa saltare il banco e, anziché trovare accordi di belligeranza pacifica, ci si cannoneggia reciprocamente. Solo che questo non è affatto un ‘gioco’, qui si abbattono edifici, si distruggono città, i paroloni fuoriescono dai mortai, dalle contraeree, dalle mitragliatrici; qui si uccidono vite umane che avrebbero tutto il diritto di sopravvivenza. Quella stessa sancita nelle costituzioni delle nazioni e, in primis, dalla legge di Dio, che ha voluto che un ramoscello d’ulivo portasse sulla terra il segno della ritrovata pace dopo il diluvio. E non c’è bisogno di essere credenti per comprendere la necessità di intesa, di accordi comuni che vanno ripristinati, di concordia fra i popoli e le nazioni, per risanare l’armonia di questo nostro mondo, che va qui ricordato, abbiamo avuto in prestito, beneficiando di una tregua meschina quanto insostenibile.
Allorché Zigmunt Bauman scriveva “Vite di scarto”, eravamo nel 1988, non avremmo pensato allo stoccaggio dei rifiuti che ci avrebbe un giorno sommersi, se non all’insorgere di una realtà offensiva del genere umano, che l’avrebbe portato all’estinzione, smontando così ogni nostra immorale illusione e le nostre reiterate perversioni: “Oggi il mondo ne è pieno. Non esistono più frontiere verso cui convogliare la popolazione eccedente”, volgendo lo sguardo ai rifiuti materiali dei processi di produzione e consumo che invadono e soffocano le nostre città. Ancor più rivolgendo il suo pensiero illuminante ai rifiuti umani (vite di scarto) generati dai processi storici che, se è vero che si ripetono, non sembra abbiano insegnato niente che non si potesse accettare. Abbiamo fin troppo spesso chiusi gli occhi davanti alla realtà che un poco alla volta ci andava logorando e, che oggi, con questa nuova guerra alle porte ci presenta il conto.
Un dovuto necessario a risanare i guasti di tutte le guerre scatenate in ogni parte di quello che pensavamo fosse il migliore dei mondi possibili e che, malgrado l’avidità monopolistica di qualcuno, gli esseri umani, quelle risorse che pure vi hanno creduto servendosi dei buoni propositi e coi migliori auspici, hanno saputo riscattare con la cooperazione e la solidarietà, la fratellanza e l’amicizia, che gli ha permesso di stare insieme. Davvero tutto ciò non è servito a niente? Davvero siamo in preda a un’euforia guerrafondaia che ci porterà all’estinzione? Dove sono finite le menti illuminate che ci hanno permesso di arrivare fin qua? Mi chiedo se la lungimiranza di molti non poteva sapere di andare incontro a questa nuova catastrofe? Ciò che occorre è un nuovo investimento di benevolenza per ovviare alle conseguenze di questa ‘modernità liquida’ che ci circonda. Che pure sembra indecidibile, persa nella globalizzazione che sembra aver spento ogni voglia di comunità, il senso stesso della bellezza della vita:
“La nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no”, che lo vogliamo o no.


Note:
L’inciso è di Zigmunt Bauman, in “L’arte della vita” - Editori Laterza2009
Zigmunt Bauman “Vite di scarto” - Editori Laterza 2007


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- Politica

Quo vadis, Italia?



Bla, bla, bla … diretta dagli scranni del Parlamento.

Quo vadis, Italia?
Una ‘carnevalata’ infinita quella che si sta consumando per le presidenziali. Un piangersi addosso dopo che il latte (della politica) è stato versato inutilmente e a sproposito. Quasi non si sapesse che la data della scadenza era fissata dal giorno del giuramento alla Repubblica del Presidente neo eletto. Che forse ci si aspettava che i sette anni del suo mandato fossero quattordici? O che infine si arrivasse a clonare un presidente che è riuscito a dare al paese un po’ di quella stabilità di cui necessita? No, i cialtroni, si sono lasciati prendere alla sprovvista, e adesso vanno elencando nomi alla rinfusa pur di dimostrare al paese di aver ‘sudato sette camicie’ nel formare una classe dirigente provvista delle ‘palle’ necessarie a governare una nazione come la nostra. Shhhh, che nemmeno un Machiavelli, e/o un Pico della Mirandola riuscirebbe a fare, già solo a ricordare tutti i nomi (divisori) e i nomignoli (dividendi) assurdi che si sono dati. Che dico, neppure Platone e Aristotele avrebbero mai appellato a ‘Repubblica’ un governatorato monco-tronco-sbilenco come quello attuale. Non basterebbero ‘7 draghi d’oro’ a dare una sterzata a questo nostro parlamento e mettere in fila (ordinata) tutti quei bamboccioni che si passano le carte come le figurine dei calciatori. Potremmo sempre farcene prestare qualcuno dalla Cina, visto che loro ne sfornano a migliaia per le strade e nei cieli ad ogni Carnevale, chissà, magari potrebbero svegliarli con delle ‘castagnole-bombe’ e farli saltare tutti in aria dalla paura e prenderli tutti a calci nel sedere.
Sta di fatto che non si riesce a trovarne uno, e dico ‘uno’ di numero, che voglia impegnarsi (mettere la faccia), in questa nostra politica da baraccone. Uno che abbia davvero il carisma e la stazza del vero leader. Dove sono finiti tutti quelli che nel recente passato hanno riempito i talk-show televisivi spadroneggiando la Costituzione come detentori del ‘verbo’ (politichese), spesso decretando di avere in tasca certe capacità (spesso fumose) di grandi statisti? Siamo pieni, che dico, stracolmi, di giornalisti cialtroni, opinionisti confusi, specialisti del nulla, che, non solo sbagliano i congiuntivi, bensì non sanno mettere in fila frasi per un discorso fattivo, sdilinquendosi in parole su parole (paroloni) che non hanno niente di costruttivo: siamo in ritardo, dovevamo, avremmo dovuto, abbisogniamo, (italiano orrendo) per voler dire che hanno bisogno che qualcuno imbecchi loro le parole mancanti del loro discorso senza costrutto.
Non ci siamo Italia, ma allora dobbiamo chiederci davvero dove stiamo andando, o forse dove pensiamo di andare in Europa e nel Mondo globalizzato senza prima esserci muniti di un salvacondotto, abbandonando il vicolo cieco (accecato dalla sete di potere) dove ci siamo cacciati; se non ci mettiamo sulla retta via e guardiamo avanti per ridisegnare un futuro possibile, abbandonando tutti i bla, bla, bla del caso, che altro non fanno che annebbiare ulteriormente le menti, soprattutto quelle dei giovani che, giustamente, sollevano la loro indignazione.

Siamo alle strette, e come se non bastasse giocherelliamo con le figurine sperando che esca quella vincente. Quo vadis italiani?

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- Musica

A febbraio 27a edizione Rassegna MetJazz



È In arrivo la 27a edizione della Rassegna MetJazz. Tema del 2022: 'La voce e altre follie'. in collaborazione con Ufficio Stampa Met: Fiorenazzza Gherardi De Candei - News

La voce e la follia sono i due fili conduttori della XXVII edizione della rassegna METJAZZ che, organizzata dal Teatro Metastasio di Prato, si svolgerà a Prato dal 6 febbraio al 28 marzo con la cura di Stefano Zenni, articolata in due sezioni, official e off, in un programma di sei concerti, una conferenza e la presentazione di libro a fumetti.
Con l’omaggio a due grandi icone jazz come Thelonious Monk e Chet Baker, l’inaugurazione della XXIV edizionedella rassegna METJAZZ 2019, organizzata dal Teatro Metastasio di Prato con la cura di Stefano Zenni, è affidata a un concerto di giovani talenti e a un originale spettacolo jazz che mescola prosa e musica.

Dal 6 febbraio al 28 marzo a Prato, la 27a edizione della rassegna organizzata dal Teatro Metastasio con la direzione artistica di Stefano Zenni. Tra gli artisti: John De Leo, Cristina Zavalloni con Manuel Magrini, Pietro Tonolo con l'Orchestra della Camerata Strumentale Città di Prato, Craig Taborn, Furio Di Castri, Enrico Morello, Mirco Mariottini, Lorenzo Sansoni con i Flor de Sons, Sara Battaglini.
La voce e la follia sono i due fili conduttori della XXVII edizione della rassegna METJAZZ che, organizzata dal Teatro Metastasio di Prato, si svolgerà a Prato dal 6 febbraio al 28 marzo con la cura di Stefano Zenni, articolata in due sezioni, official e off, in un programma di sei concerti, una conferenza e la presentazione di libro a fumetti.
Temi ispiratori, la follia come forma musicale, la follia psichica che incrocia la creatività, la follia trasformata in metodo razionale, o lasciata in bilico tra ragione e abbandono, e la voce affermata e capace di spaziare in vari ambiti stilistici, la voce totalmente anti accademica e ancora la voce della fertile scena toscana, connotano e fanno da sottofondo a tutti i concerti previsti:

Lunedì 7 febbraio, al Teatro Metastasio, alle ore 21 andrà in scena un concerto in cui il contrabbassista Furio Di Castri rivisita un omaggio tributato a Charles Mingus già una decina di anni fa, affiancando due giovani musicisti - Fabio Giachino al piano elettrico e tastiere e Mattia Barbieri alla batteria - alla tromba di Giovanni Falzone e al sax alto e clarinetto basso di Achille Succi. Realizzato in collaborazione con Musicus Concentus Firenze, il concerto celebra il genio di Mingus a cento anni dalla nascita, la sua energia fisica, la forza libertaria della musica, l’originale concezione compositiva intrisa di improvvisazione, l’esaltazione del valore dei singoli esecutori, la sintesi di stili in un unicum omogeneo, saldamente governato dalla personalità del leader e l’esplicita carica autobiografica di ogni nota.

Lunedì 14 febbraio, al Teatro Metastasio, alle ore 21, ci sarà il doppio concerto che celebra Craig Taborn come uno dei pianisti ai vertici della musica contemporanea, soprattutto nelle esecuzioni in solitudine, e un quartetto senza pianoforte di eccellenti solisti assemblato dal batterista Enrico Morello (già collaboratore fisso di Enrico Rava). Dapprima, dunque, l’esecuzione in esclusiva italiana di Shadow Plays di Taborn esalterà strutture basate su cellule melodiche, concrezioni armoniche spigolose e articolazioni formali rigorose aperte dall’improvvisazione a sviluppi e direzioni sorprendenti, che sparigliano i percorsi programmati. A seguire con Cyclic Signs, il quartetto di Morello – con lui sul palco ci saranno Francesco Lento alla tromba, Daniele Tittarelli al sax alto e Matteo Bortone al contrabbasso - metterà in moto strutture melodico-ritmiche ispirate alla musica africana, cicli musicali polifonici che danzano, in cui le forme rigorose si affacciano, in virtù della danza e del ritmo, su voragini improvvise.

Lunedì 21 febbraio. Al Teatro Metastasio, alle ore 21 un altro doppio concerto che alternerà la voce di Cristina Zavalloni ai clarinetti di Mirco Mariottini in un eccezionale quartetto. Ad inizio serata, con Di Rota e altre canzoni il pianista Manuel Magrini accompagnerà l’eclettismo vocale di Cristina Zavalloni in un viaggio nella canzone, tra brani d’autore e composizioni originali in cui «il filo rosso è la lingua, l’italiano e il canto di tutti i colori possibili con parole». Poi il Mirco Mariottini Quartet - oltre a Mariottini al clarinetto e clarinetto basso, Alessandro Lanzoni al pianoforte, Guido Zorn al contrabbasso e Paolo Corsi alla batteria – dedicherà alla memoria di Alessandro Giachero, che di questo quartetto era parte, un omaggio alla figura di Ipazia, vista come il simbolo della forza, intelligenza e determinazione della donna nel mondo antico.

Lunedì 28 febbraio, al Teatro Metastasio, alle ore 21, andrà in scena una serata tutta vocale e tutta toscana, con la doppia esibizione dei Flor de Sons e del Sara Battaglini Sestetto. Dapprima, con un repertorio spazia dal tango allo choro, dal fado al flamenco, i Flor de Sons - Lorenzo Sansoni, voce e elettronica, Adrian Fioramonti, chitarra elettrica ed acustica, Vittorio Fioramonti, seconda voce, basso fretless e contrabbasso, armonica cromatica - si muoveranno tra world music, jazz e pop allineando voce, chitarra e contrabbasso con una ampia variazione timbrica acustica ed elettrica nonché di ruoli, soprattutto per la ritmica. A chiusura della serata, ad esplorare in Vernal Love la fragilità dei sentimenti e la lucida dolcezza dell’arte sarà la dimensione sommessa, onirica e lirica della voce di Sara Battaglini intrecciata al ricco e originale tessuto strumentale elettro-acustico del suo sestetto – con lei sul palco Jacopo Fagioli alla tromba e flicorno, Beppe Scardino al sax baritono e clarinetto basso, Simone Graziano al pianoforte, Rhodes e synth, Francesco Ponticelli al basso elettrico e Bernardo Guerra alla batteria.

Lunedì 21 marzo, al Teatro Metastasio, alle ore 21 uno dei più noti cantanti jazz/sperimentale oggi attivi in Italia, John De Leo, darà vita a La follia dei generi con il quartetto Jazzabilly Lovers - con De Leo anche Enrico Terragnoli alla chitarra, Stefano Senni al contrabbasso e Fabio Nobile alla batteria –, un concerto in cui la voce e gli strumenti giocano a fare capriole, a spiazzare, a saltare da uno stile all’altro. Sul palco, la voce di De Leo spazierà tra sconcertanti e divertenti accoppiamenti tra rock’n’roll e jazz, Elvis Presley e John Coltrane, gli Stray Cats e gli standard, mentre gli strumentisti spingeranno la musica in direzione ora più rock, ora jazz, ora più hillbilly, ora free.

Lunedì 28 marzo, al Teatro Metastasio, alle ore 21, il sassofonista e compositore Pietro Tonolo indagherà insieme all’Orchestra della Camerata Strumentale Città di Prato la possibile relazione tra improvvisazione di derivazione jazzistica e linguaggio legato alla tradizione classica occidentale, in particolare barocca, le cui affinità con il jazz sono piuttosto evidenti: il basso continuo, l’improvvisazione e i giri armonici della Follia (una danza popolare di origine afro-portoghese in voga tra XVI e XVII secolo) su cui si danzava e ci si abbandonava fino a raggiungere uno stato di folle esaltazione. Il concerto Jazz, barocco e altre follie, coprodotto da MetJazz e Camerata Strumentale Città di Prato, con il basso continuo svolto al clavicembalo dal jazzista Paolo Birro, avvicinerà il jazz, la Follia e altre danze barocche ad un sound allo stesso tempo contemporaneo e storico.
Racchiusi tra gli eventi di METJAZZ OFF, ci saranno poi altri due appuntamenti realizzati in collaborazione con Scuola Comunale di Musica Giuseppe Verdi di Prato, Biblioteca Lazzerini di Prato e dedicati ad esplorare la doppia polarità di Charles Mingus, tra follia psichica e creatività:

Domenica 6 febbraio, presso la Biblioteca Lazzerini, alle ore 11 ci sarà la Presentazione del libro a fumetti “Mingus”, di Squaz e Flavio Massarutto, un libro a fumetti che affronta in modo originale la figura complessa e sfaccettata di Charles Mingus. Non una biografia tradizionale ma una sorta di viaggio nelle tante dimensioni psichiche, biografiche e artistiche del grande contrabbassista, esplorata insieme a Massarutto, sceneggiatore della storia.

Sabato 13 marzo, presso la Scuola di musica Verdi, alle ore 11 una Conferenza di Stefano Zenni illustrerà il Viaggio nel capolavoro: Fables of Faubus di Charles Mingus analizzando passo passo la storia, il contesto e gli esiti musicali del celebre brano del Mingus “politico”, ispirato a un episodio di razzismo istituzionale nel 1957, che si trasformò anche in un campo di sperimentazione formale e improvvisativa senza precedenti.
La campagna abbonamenti prenderà il via venerdì 14 gennaio, mentre le prevendite ai singoli concerti si apriranno il 29 gennaio. Programma dettagliato sul sito del Teatro Metastasio: https://bit.ly/MetJazz2022.

CONTATTI Info Teatro Metastasio - tel 0574 608501
Cristina Roncucci 0574/24782 (interno 2) - 347 1122817
Ufficio Stampa MetJazz: Fiorenza Gherardi De Candei - 328 1743236 Email info@fiorenzagherardi.com

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- Politica

Bla, bla, bla… i lecca-lecca del premier.



Bla, bla, bla… i lecca-lecca del premier.

Sono giorni che assistiamo nei talk-show a uno sdolcinato sdilinquirsi di superlativi di bontà, onestà, moralità, generosità e quant’altro rivolti a uno sfacciato e dissoluto premier (?) di un partito senza una vera ossatura politica, più che mai ‘liquido’ e in liquidazione, in nome di una regalia fatta a una nazione (l’Italia?) che, per suo demerito, non è mai stata così divisa dal tempo feudale, oramai scaduta nella volgarità assoluta, nella corruzione esasperata, nell’’ignoranza totale in ogni ambito (economia, socialità, cultura, insegnamento, comunicazione ecc.); e che non riesce a darsi un leader capace non solo di governarla ma, neanche, di condurla secondo le regole (scritte e dettate) dalla propria Costituzione, finanche accettate e in parte copiate dalle altre nazioni di cui è parte costituente.

Per non dire del popolo da baraccone che il suddetto premier ha forzatamente messo insieme e che, infine, l’ha gettata via, nel mondezzaio dei suoi canali TV, che avide ‘capre’, avendo esse consumato quel poco di sale che avevano in zucca, si sono abbandonate a ‘scheccate’, ‘puttanaggini’ e altre ‘cialtronerie’ senza riguardo e alcun senso di moralità; lasciatesi comprare per pochi “lecca-lecca” distribuiti a destra e a manca, trasformatisi in lecca-culo al suo servizio. Davvero tanti quelli che abbiamo ascoltati in questi giorni di ‘presidenziali’ in atto, sperticarsi in aggettivazioni vuote e false, mai abbastanza però, se in questi giorni di ‘passi indietro’, qualcuno afferma che altresì è stato un ‘passo in avanti’ che restituisce onore e dignità a chi lo ha fatto in odore di santità. Sì da far credere a un possibile ‘santo subito’ da prendersi ad esempio, (puah!), nella scelta del prossimo Presidente della Repubblica.

sdilinguaggini per dimostrare a un ‘reuccio’ senza corona la loro svergognata e indecente sudditanza, senza tuttavia la riconoscenza dovuta, ché se (per ipotetico caso) questi gli togliesse il lecca-lecca dal culo, si ritroverebbero nella merda della loro miserabile miseria, ben sapendo che senza il suo contributo (economico) non sarebbero mai stati nessuno, manichini nell’ombra di un ‘feudo di sale’ che per merito loro si va estinguendo senza alcuna dignità. Non che gli italiani siano tutti dalla loro parte, anche se di fatto hanno sbagliato a sceglierli come loro rappresentanti, per quanto, si vorrebbe cambiare registro, persone al comando, la confusione è ormai diffusa, e ogni volta ricominciare rappresenta una dura scelta, e la strada si presenta tutta in salita.

Come solitamente cantato nell’inno della nazione “l’Italia s’è desta”, aspettiamo ulteriori riscontri, (ancora?), intanto moriamo in massa per effetto della pandemia. Che ne dite, sarà stata voluta, per dimezzare i voti in Parlamento? No, neanche quello, perché sembra che li faranno votare lo stesso, pur di accumulare voti, li andrebbero a prelevare anche da dentro le casse da morto …

Vi terrò informati.

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- Poesia

leopoldo Attolico o ’ i colori dell’assenza’ - poesie

Leopoldo Attolico … o ‘i colori dell’assenza’.
In “I colori dell’oro” – Caramanica Editore 2004

Se mai il vuoto, che non compete al nulla, avesse un profumo, sarebbe l’effluvio del tempo che passa e che lascia un alone di soglia, di forzata partenza. Quello stesso che questo raffinato poeta stilla da un sentimento d’amore, allorché abbandonata la sua proverbiale ironia, sofferma la mente sull’umanissima condizione dell’assenza, come d’ingombrante percezione di una perdita che non abbandona la presa e che nel timore della fine, dissangua …

“Brilla / è alta nella mente / la tua assenza / ed è il mio tutto / un battito rappreso…”

Se mai l’assenza avesse un colore, s’avrebbe un alone di luce, in cui almeno una volta nella vita (tutti) ci siamo persi e ritrovati nella moltitudine cercata, o quasi. Come dentro un attimo sfuggito al quadrante del tempo, ove abbiamo raccolto il frutto d’una felicità incommensurata che non lascia spazio al domani, alla solitudine avita che l’anima bella rifugge, ma che pure resta in agguato, allorché alla prima folata di vento contrario, ci si accorge d’averla perduta o forse sognata …

“e qui arrivato / nella città sepolta dalla notte / appena fuori stazione / quel tonfo di cancellata e di aria morta …” – “dare senza chiedere mai / è già rimpianto?”

Se mai l’amore è stato amore, ritroviamo in questo elegante volumetto dal titolo programmatico certi arcani “colori dell’oro”, segni dell’aurea presenza del poeta che improvvisa e che il silenzio invoca, svelando al lettore attento, il significato intenso e luminoso del suo amore, perpetrato, non senza rimpianto, per quel tanto che sa di giustificato, di prudentemente evocato, o forse di santificato …

“E non ho parole, seppur mai ne ho avute / né grida per liberarle; povera cosa divisa / tra il tuo dolore ed il mio / senza più peso, senza più volere / ma mai così vivo come ora nel tuo nome e nel mio: / un solo grande viso.”

“Eppure, vedi: / c’è un luogo del mondo, laggiù / dove irrompe il Divino o chi per lui /e le onde sono nidi di gioia, di vento / hanno grazia ed ali per portarti via.”

Se mai ciò avesse un senso, che pur ha, ancor più dona alla voce del poeta l’afflato del canto, nelle frasi che non ha pronunciato con le parole e che “premono sulle labbra”, insite nei battiti del suo cuore. Di quella parte di cuore che “in nebulosa di sonno / avara di abbandoni rettilinei” egli avverte in tumulto costante “dentro un gioco visionario / (di) geloso stordimento”.

Con quali parole, contro ogni altro dire, si coniuga l’amore, se non quelle della poesia che in piena luce sgorga fluente dal sentimento, dalla spinta interiore di un afflato reciprocamente sentito che nell’evanescenza dell’aere apre le ali alla luce e s’indora?
Quale alba sorgerà, si chiede il poeta, dopo l‘abbraccio argentato della luna nell’effondersi con la notte? Di quali costrutti s’avvale il futuro dei giorni a venire, se non dei sogni fatti reciprocamente? …

“In questo litorale spalancato / … / getto la salda ombra di un pezzetto d’amore / …/ colgo la limpida caduta / di un colore d’inchiostro / in soggezione d’alba.”

Se mai chi ama accusa in seno un dolore, è quello delle parole mancanti nel dialogo d’amore, che l’anima reclama. Ed è un susseguirsi di spasimi: “Un sapore di verità rimproverata / quasi una nota burbera / è questa tua infelicità senza desideri: / la vena di una rupe asperrima e verdissima nell’anima” …

“Ti ricordi dell’amore appena in tempo.
Come una nube improvvisa fa da schermo al sole,
così le tue parole ritornano sul viso
lo stupore di esistere,
la disabitata tristezza di conoscersi.
Forse il tuo amore, ora
è in questo breve margine nel ritornarmi
un addio negli occhi oltre l’impossibile,
oltre un morire silenzioso e immane.

Ed io non so se piangerne o sorriderne.”

Se mai la pagina bianca, che pur accoglie i suoi versi, parlasse del Sé, segreto e profondo, direbbe di un uomo che nello scorrere fluido della sua esistenza, ha pagato un pegno di sangue. Donde l’arcano viluppo di una vena scrittoria che nella luce ricerca il riflesso dell’oro: “…e un fioco lume / dolce nel lucido degli occhi che lo accoglie”, quando: “Il silenzio si congeda. / È l’alba. /…/Calda di nido / la mia notte è finita; / una poesia fra le mani”, che nei versi affioranti del ricordo trova un’eco lontana, mai stanca d’amore …

“Vengo a guardarti dormire, come fa la vita / quando raggiunge una soglia socchiusa / e ne allontana innocente il mistero / per lasciarvi un sogno.”

È allora che il verso si perde, scantona nelle ridotte linee di numerosi haiku, uno dopo l’altro, di un tacere sublime, quasi crudele, che dell’amore si fa discanto, al colmo di una “luminosa malinconia”, tra lo “stupore di esistere e di disabitata tristezza” come bene lo ha definito Giuliano Manacorda nella sua toccante ‘prefazione’ d’autore …

“La tua poesia taciuta
coi suoi cieli
e i suoi percorsi sottotraccia
mi fa pensare all’ubiquità – un poco spaventata –
di un coro a bocca chiusa.

Non ha nido di terra
ne suono di vento su corde d’acqua;
men che meno
la pausa senza peso – luminosa – di preghiera …

Io la assimilo a un altrove
di primavera intempestiva
ogni volta disattesa
fuggitiva
che ti cerca sulle labbra.”

Se mai nella vita, il crepuscolo ha ricoperto le ombre della sera di pulviscolo dorato: “Nel sereno disordine del cuore / aria di partenze e di approdi / e la vita aperta davanti come un fiume / incontro al mare.” / […] Invero, “C’è soltanto la cuspide di un senso / appena un po’ più in alto della storia / che trascorre i tuoi occhi, a ricercare, in quella / lo scarto della luce / che assorta su una piaga di tremola bellezza / interroga l’immenso.” / […] “E quel tuo andare leggera/ è una ferita che non guarisce più; / come l’amore / quando stilla sul mondo un batticuore / e poi s’inciela.”
Se mai l’amore …


L’autore.
Leopoldo Attolico, collabora a varie riviste letterarie, occupandosi prevalentemente di poesia performativa, con particolare riferimento al rapporto tra oralità e scrittura. La sua attenzione è sempre stata rivolta ad una classicità intesa come chiarezza di significati, con inserti di giocosità, ironia/autoironia e senso del paradosso. Tra i suoi libri in versi vanno qui ricordati “Il parolaio” 1994; “Calli amari” 2000; “Siamo alle solite” 2001; “Si fa per dire” -Opera Omnia, tutte le poesie 1964-2016, Marco Saya Editore.

Note:
Tutti i corsivi sono di Leopoldo Attolico, tratti da “I colori dell’oro” - Caramanica Editore 2004.


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- Società

Bla, bla, bla … ’In Vino Veritas’.

Bla, bla, bla … 'In Vino Veritas'.
Dagli scranni ‘vuoti’ del Parlamento.

Si sa che durante le feste si bagorda un po’ di più, e non solo e che l’assenteismo che ne consegue nei giorni successivi la fa da padrone. Ma qui siamo in Parlamento e il fatto in se stesso non dovrebbe accadere. Stando almeno a quello che dicono i benpensanti, ma sappiamo che non è così. “Poiché accade sempre e dappertutto è uso continuare a fare come si è sempre fatto”. Così, ‘un bicchiere tira l’altro’, ‘una furberia succede a un’altra’, si fa tardi e quindi siamo agli sgoccioli e quelli che si presentano sono più assonnati che mai. Ma sono pur loro che dovrebbero legiferare dagli scranni di un Parlamento che stenta a prendere quota.
«Siamo rimasti in tre, tre Somari e tre Briganti, solo tre!», cantava giocoso Modugno profetizzando quanto ben presto sarebbe occorso nell’aula del nostro Parlamento. Di fatto c’è che prima di quelli attuali erano già in Tre a cantarla (anzi due se la cantavano e uno girava col piattino in mano); adesso in vero sono sempre Tre e non si sa bene quale di loro sta lì a reclamare un obolo che ‘noi italiani’, ridotti per lo più a un silenzio di convenienza, versiamo nel fatidico piattino quasi certi che l’elemosina la stiano facendo loro a noi.
Comunque sono e restano (?) in Tre a stendere la mano, per lo più passando il tempo a litigare per, non si sa bene quale ragione li spinga se non quella di restare al potere, (leggi col culo attaccato allo scranno), passando il tempo un giorno a litigare, un altro giorno a smentire ciò che hanno affermato il giorno prima; un altro giorno si insultano per poi acquietarsi seduti alla stessa mensa e/o davanti allo stesso bicchiere di vino, litigando di chi berrà la metà piena e chi deve accontentarsi della metà vuota.
E mentre in Due fanno un po’ come i compari della tradizione popolare che si accompagnano l’un l’altro senza riuscire a trovare la strada di casa; l’altro sembra destinato a fare da Terzo ‘incomodo’. Quale dei Tre? – vi starete chiedendo. Ma davvero ve lo chiedete, non è forse lampante chi? C’è davvero bisogno che io vi indichi quale dei Tre? Semplice (e lampante): facendo il gioco delle Tre carte “uno vince, l’altro perde (oggi); quello che ha vinto ieri perde (domani), in modo alternato, mentre l'ultimo dei Tre fa il “palo”, gridando ad ogni stupida 'vittoria', e/o a rigirandosi le colpe (perché di questo si tratta), che finiscono per essere in addebito al terzo di loro (l’incomodo), il quale, guarda caso, quel giorno era assente (ma c’era), e se c’era non ha visto, né sentito, né detto niente.
I Tre si fingono d’accordo (e non lo sono), il resto del paese (tutti noi che sosteniamo una volta l’uno (a destra), e l’altro (a sinistra), con il terzo che fa il 'birillo' al centro, mentre sta a guardare senza mai prendere posizione; piuttosto barcamenandosi sull’entrata del Parlamento: “ma prego, passi prima lei”, “ma no passi lei”, “no, spetta a lei!”, “nient’affatto, ieri sono entrato io per primo, quindi?”. Quasi che chi ‘entra per primo' e si siede sullo scranno temi di trovarvi una 'banana pronta all'uso'. “Beh, facciamo così, per oggi entra l’altro" (il terzo incomodo), che, guarda caso, non sa cosa rispondere all’interrogazione parlamentare, né a quale dei due attribuire le responsabilità che necessariamente finiscono col dire: “Sicuramente è colpa di quelli che c’erano prima, che hanno lasciato il buco!” – esclama. Quale 'buco'? Ma quello lasciato dalla banana, no?
Comunque tutto sa di ‘farsa’ alla Campanile, per intenderci: “chi io?”, “no, lei”, “ma no, la prego”, “me la dia”, “no grazie, se la tenga!”. Ma intanto la banana la rifilano al popolino che ‘speriamo’ quando sarà chiamato a votare, cioè ad eleggerli per tenerli seduti sugli scranni di quell’osteria che si vuole chiamare Parlamento, faccia attenzione a non ripetere gli stessi sbagli e/o le stesse scelte di mantenerli al loro posto in quella ‘casa comune’ (si fa per dire) dove i Tre, assetati di potere, lasciano che il paese vad(i)a in rovina, per poi infilarsi nell’urna ‘segreta’ delle decisioni e pisciandoci dentro. Perché da tanto ubriachi che sono (leggi: impreparati, incapaci, venditori di fumo ecc.) e sofferenti di prostatite acuta da qualche parte devono farla. E di fatto la fanno, come si vuol dire: ‘fuori dal bidone’; tanto da causare l’acqua alta a Venezia, per non (voler) parlare delle aree terremotate e le tante altre situazioni ancora (da sempre) pendenti nel nostro paese (come mai?); tuttavia non sufficiente a spegnere gli alti forni della siderurgia a Taranto, mentre il ‘buco’ della TAV è lì che li aspetta per essere riempito della loro merda. Che ve ne pare, siamo in buone mani …oppure?
Tant’è che l’esperienza politica di molti (che pur sempre lì siedono in Parlamento), è lasciata al condizionamento dei pochi (avvezzi all'arroganza) che vi prendono posto, la cui incompetenza sta portando il nostro paese allo 'sfascio' definitivo. E mentre i Tre escono a braccetto dall’osteria (Parlamento), li ritroviamo al Bar di fronte (aperto fino a tarda notte) che si accordano su cosa è ‘prioritario’: se andare a dormine accompagnandosi l’un l’altro verso casa, o a trovare la ‘zoccola’ (in romanesco) di turno che calmi le loro appassionate (?) arringhe dell’indomani.
Ma come si sa le ‘arringhe’ servono a schiarirsi la voce, seppure ci sia più bisogno di schiarirsi le idee, poche e confuse, di come risolvere i problemi del paese: “no, scusa, di quali problemi stiamo parlando?”, “perché ci sono problemi?”, “mah, non mi pare”, “eh, lo dicevo io che non c'erano problemi”– aggiunge il terzo, contestando che “personalmente (io) non c’ero” – aggiunge il furbetto del trio; “di solito i problemi sono di chi se li crea” – aggiunge il Terzo (l’incomodo).
E a ragione, perché stando ai detti popolari (romaneschi come la fava) tra gli ubriachi che “In Vino Veritas” vale quanto segue: “uno + uno non può far tre”, che “i bicchieri (bevuti) non possono essere dispari” e che “fra i due il terzo lo prende nel c…”, - e magari ne gode pure, aggiungo. Ma su questa possibilità c’è da fare un pensierino piccolo, piccolo …
Sempre dipende da quanto ce l’ha grosso il contendente!
Fatto è che dagli scranni ‘vuoti’ del nostro Parlamento, non dobbiamo aspettarci nient'altro che ulteriori guai in fatto di fisco sempre più agguerrito, di pensioni aggredite e logorate, di sanità malsana e malfunzionante, di lotta alla criminalità che avanza, dell’ingiustizia della giustizia, della disfunzione degli apparati dello stato, dei disservizi dei servizi pubblici ecc. ecc. La lista si fa ogni giorno più lunga, ci vogliono nuove idee, suggerimenti efficaci, serve far meno chiacchiere e più fatti, di rivolgersi un po’ meno ai ‘santissimi’ che operano al di fuori delle leggi e più ai detentori dell’economia nazionale (leggi imprenditori avidi), di farsi partecipi dello stato delle cose e avviare una ‘più sana’ levata di scudi' verso questo nostro (e loro) paese, ridotto ormai a un colabrodo che fa acqua da tutte le parti.
"Scusate ma la cultura, per caso qualcuno di voi l'ha vista?" – si chiede il 'popolino' che passava per caso davanti al Bar delle chiacchiere. "Cos'è?" - chiede uno dei Tre, lanciando un'occhiataccia agli altri due. Al che risponde il Terzo (l'incomodo): "Sì, mi è sembrato che fosse diretta giù di là!". "Scusi da che parte ha detto?", "No, io non l'ho detto!" - aggiunge il secondo, mentre il furbetto dei tre, risponde deciso: "Le scuole riaprono sicuramente prima dell'inverno, forse è ancora in tempo per imparare qualcosa, che le leggi qui le facciamo noi!".
A questo proposito, manca poco all’inizio dell’inverno, raccomando di stare attenti ai consumi, alle stangate sugli affitti, alle bollette dell’elettricità e del gas, alla benzina per le auto, ai ticket sanitari, alla ... "Eh, ma basta!" - dice l'uno, "Per oggi finiamola qui", aggiunge l'altro. "Beh, si è fatto tardi, ci vediamo domani, fatemi sapere alla fine che cazzo avete deciso! Tanto a me poco mi cambia:"- aggiunge il Terzo, (l'incomodo). mentre i Due stando all’erta, hanno già attivato i loro scherani per colpire duro, soprattutto perché a loro i contributi 'extra' non bastano mai, mentre noi possiamo sempre, come si dice: “tirare la cinghia”. E già qualcuno del 'popolino' ha sostituito alla fatidica 'cinghia' le proprie cuoia.
E non è tutta colpa del Covid 19, non credete alle fanfaronate che vi/ci raccontano, perché anche la pandemia fa comodo alla politica che ne ricava i propri interessi.
Dunque, a risentirci a presto, nel frattempo mi aspetto una rivolta popolare che li mandi tutti quanti a casa, solo perché i manicomi da tempo sono chiusi, i centri di recupero per gli alcolizzati dal potere non sono mai stati aperti. Ciò, sempre nella speranza che qualcuno si occupi seriamente di tutti noi. Comunque statene certi, se le cose non cambiano in meglio, sarò ancora qui a monitorare la situazione: Come disse un carissimo amico dall’alto del suo impluvio:
(la linea verso la quale si convogliano le acque malsane delle loro imprese)

…“si può sempre sperare nel diluvio”.

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- Arte e scienza

Giovanni Zanon - mestiere e arte di un tagliatore di pietre


GIOVANNI ZANON: IL MESTIERE E L’ARTE DI UN TAGLIATORE DI PIETRE.

La perfetta integrazione fra il lavoro dell’artigiano capace di penetrare i segreti d’una lavorazione antica, quella marmoraria della pietra grezza, ha felicemente contribuito all’affermazione della figura di Giovanni Zanon, fissandone al contempo la sua essenza d’artista “anti litteram”. L’amore per i monumenti insigni e i cimeli antichi delle città in cui ha vissuto, coniugata con la preziosità insita nella materia, ne hanno plasmato de facto il carattere del conoscitore attento e del collezionista professionale.
Dal suolo veneto di antiche tradizioni, passando attraverso la pratica del restauro,Giovanni Zanon è giunto infatti al dominio della pietra, scoprendo, attraverso la trasparenza del marmo, la policromia delle varietà, intuendone al contempo le straordinarie possibilità di utilizzo, la molteplicità di forme originali e irripetibili che avrebbe potuto ricavarne, onde ottenere risultati inconsueti e suggestivi, di notevole pregio artistico.
Ciò che infine ha dato forma alla sua idea pressoché innovativa dell’utilizzo del marmo per modellature altrimenti impensabili, come l’introduzione di esso in quasi tutte le funzioni dell’arredamento in genere, in particolare l’inserimento di pietre dure e semipreziose nell’ornato che ha dato luogo alla suggestiva coniugazione dell’antico con il design di moderna concezione.

Sebbene si debba ascrivere al Rinascimento l’ideazione di mobili realizzati dall’accostamento del legno con le pietre lavorate, il rinnovato gusto estetico che ripropone all’attualità dell’arte la lavorazione artigiana del marmo, il cui prestigio era strettamente connesso con l’estetica formale dell’antico, oggi il marmo va a sostituire le tarsie lignee utilizzate in passato, restituendo all’insieme delle forme e all’ambiente, una corposità e una lucentezza mai viste prima.
Tutto ciò è dato dalla moderna tecnica messa a punto dopo anni di studio e di ricerca da Giovanni Zanon che ha dato impulso a questa nuova tecnica basata sul rapporto ‘peso e misura’ delle materie prime utilizzate che, infatti, propone la combinazione del rivestimento marmoreo di una base lignea fissati in un unico corpo che altresì conserva la preziosità e la solidità dell’uno, e la leggerezza dell’altro.
Assistiamo pertanto ad un ampliamento delle possibilità dell’applicazione del marmo in campi che sono specifici dell’arredamento e del design d’interni, dell’oggettivazione funzionale quanto di quella prettamente decorativa che si trovano così ad assumere una indubbia valenza specifica, altresì in ambito architettonico ambientale dove si rendono necessarie sovrastrutture e abbellimenti decorativi di un certo prestigio formale.
Ciò si è reso possibile grazie alla tecnologia di nuove strumentazioni e alle moderne tecniche di lavorazione praticate nei laboratori artigiani altamente qualificati. Soprattutto da quei ‘maestri’, che hanno individuate le possibilità di combinazione del marmo pregiato con altre materie, aprendone e fissandone la sua duttilità, portandolo a una condizione di ornamento artistico inedito quanto originale, che oggi a distanza di tempo, vede in Giovanni Zanon, indimenticato maestro marmorario, una firma qualificata.

“La qualificazione dell’artigiano marmorario – si trovò a dire Giovanni Zanon durante una intervista – corrisponde alla capacità di predisporre e tagliare la pietra in funzione delle proprietà intrinseche: la corposità’, la durezza, la venatura, la cristallizzazione ecc.; come anche nell’accostamento cromatico delle tarsie, alfine di raggiungere una perfetta integrazione tra la forma rigida della pietra e il virtuosismo del taglio, la creatività artigiana con la maestria nella composizione ‘pittorica’. È piena funzione dell’artista – il maestro rivela se stesso – concatenare e seriare le forme, replicarle, variarle e adattarle di volta in volta con accostamenti inediti e imprevedibili, alfine di conferire ad ogni singola forma una diversa relazione costruttiva.
È in questo – ha proseguito Zanon – nella linearità del taglio nell’uniformità dei pezzi sapientemente scelti che danno risalto al lavoro finito, e che si presenta così ricco di tonalità cromatiche di tarsie preziose che s’innestano sul piano e sul fronte in relazione alla struttura che si ottengono quei pezzi di arredamento personalizzati e irripetibili che la mano esperta dei conoscitori del marmo, ha arricchito e modificato nel corso della lavorazione secondo l’estro, e portato in superficie l’armoniosa varietà dei colori e l’austera bellezza della natura propria del marmo, nel ripetersi di un’arte entrata sì nella tradizione dei maestri marmorari, ma che nel tempo ha assunto i lineamenti dell’arte.”

Fanno parte della sua produzione oggetti di creazione originale, imitazioni di modelli più antichi e restauri di vecchi cimeli come spalliere, piramidi e lampade, colonne e specchiere, sfere e mensole, in un giuoco di geometriche definizioni che coordinano e unificano lo spazio figurativo, e che Zanon ha riproposto con le stesse tecniche di esecuzione. Una vasta gamma di mobili di ogni tipo riproposti con la moderna tecnica detta del ‘placcaggio’, la cui particolarità sta nell’accostamento consequenziale delle tarsie marmoree in modo tale che le connettiture risultino impercettibili all’occhio, creando, al tempo stesso, un impianto figurativo di delicato effetto cromatico.

LA TECNICA.
Il procedimento, così detto del ‘placcaggio’, ha inizio con il taglio del pregiato blocco marmoreo in lastrine sottili fino a 3mm. Di spessore che vengono poi applicate sul legno – preferibilmente un tamburato di 3cm. rinforzato o intelaiato secondo dei casi – con la tecnica detta ‘a macchia aperta ‘ per la quale è richiesta una dovuta esperienza di composizione e grande capacità di esecuzione. È questa una tecnica che non prevede l’utilizzo di macchinari moderni per l’incapacità di questi del controllo automatico dello sfaldamento del taglio e la peculiarità dello sgranamento del marmo stesso, e che solo l’esperienza artigiana ed un’accurata assistenza riescono a deprecare.
Per ottenere ciò Zanon ha recuperato telai a ruota – riattivati con l’ausilio della forza motrice – che effettuano il taglio con la procedura antica delle ‘lame a coltello’ costantemente bagnate al ‘carborume’, (cosiddetta pietra in ombra utilizzata nei procedimenti tecnici dell'intarsio e della scultura), la cui capacità di penetrazione è di soli 6mm. al giorno. Ed è proprio la linearità del taglio, l’uniformità dei pezzi sapientemente scelti che danno infine risultato al lavoro portato a termine e che si presenta ricco di innumerevoli tonalità cromatiche, che la mano del maestro ha arricchito e modificato secondo l’estro e l’esecuzione fino a portare in superfice l’armoniosa varietà dei colori e l’austera bellezza della sua natura nel ripetersi di un’arte entrata nella tradizione di cui Zanon è segreto conoscitore.

IL DESIGN.
Risalendo alle formule tipiche della figurazione marmorea incontriamo oltre alla statuaria e all’ornamento in architettura, la pavimentazione e la tarsia, il mosaico e altre tecniche affini; per quanto in quantità inferiore vi rientra anche molta oggettistica non di grandi dimensioni e per lo più diversificata come prodotti d’uso. Tuttavia è partendo da una sua funzione specifica e dalla collocazione ultima che si vuole dare ad un oggetto dentro lo spazio, sia esso interno che esterno, che i manufatti in marmo ottengono risultati pratici ed estetici di un certo rilievo.
La caratterizzazione dello spazio marmoreo ricercata da Zanon in modo spontaneo richiama l’ambito figurativo del design di moderna concezione. Esperto conoscitore di marmi antichi e pregiati egli predilige pietre dure silicee, i quarzi, i calcedoni, i diaspri, in quanto offrono una gamma cromatica più variegata di altri, come ad esempio il travertino nelle sue diverse sfumature dentro forme studiate appositamente o incorniciate da guarnizioni in metallo.
Sebbene nel suo laboratorio non manchino porfidi, broccatelli e lumachelle. Nonché quei ‘marmi antichi’ nelle varietà del verde, del giallo, del rosso già in uso nella Roma imperiale e bottoni di pietre semipreziose come la malachite, l’occhio di tigre, il lapislazzulo di più difficile reperimento.: “…ognuna delle quali – ha scritto di lui 2Costantino Rodio – offre all’occhio la vista di un prato meraviglioso, pieno di infinite specie di fiori, sì che diresti che da esse nasca ogni sorta di piante o che una quantità di astri splendenti compongano tutt’intorno una sorta di galassia, tanto sono belle e di peregrino aspetto”.

L’ARTISTA.
La Firma di Giovanni Zanon ha conosciuto i mercati di Tokyo, di New York, di Londra, di Parigi, … pur rimanendo sempre fedele a Roma quale ambasciatore del Bel Paese e della città Eterna che ha sempre celebrato.
Giovanni Zanon, è presente in vari cataloghi d’arte, fra tutti la splendida
“Anthologia Maestro Giovanni Zanon”, our Story by Rosanna Guadagnino Aprile 2018.

Lo Show Room del Maestro Zanon si trova a Roma in via Tor di Nona 45 mentre l’Expo & Studio a Tivoli in via del Barco. Per info, contatti e appuntamenti: cell: +39 348-7342857 e +39 342-6666956

Note:
(*) Intervista rilasciata all’autore durante l’inaugurazione nel suo “Atelier del Marmo” – Navona Studio 3 – in Via E. Faà di Bruno 26 a Roma nel 1998.

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- Musica

Musica Etnica: Fiabe e danze della tradizione popolare Russa



MUSICA ETNICA: FIABE E DANZE DELLA TRADIZIONE POPOLARE RUSSA.

La Grande Madre Russia di cui molto in passato si è apprezzata la straordinaria attività letteraria e artistica è una sterminata area geografica di grande interesse musicologico da riscoprire. Lo facciamo andando alla ricerca di alcune ‘opere’ folkloristiche che accolgono nella cornice della ‘fiaba russa’, le ‘melodie’ e le ‘voci’ della tradizione popolare, le ‘danze’ tipiche delle diverse realtà regionali e i ‘racconti del focolare’.
Il nostro itinerario inizia proprio da quei ‘racconti del focolare’ domestico, centro della vita quotidiana della famiglia che rintracciamo negli usi e nei costumi di numerose comunità, custodi delle antiche tradizioni contadine. Il focolare domestico è quindi all’origine delle ‘fiabe russe’ che attraverso la trasmissione orale sono giunte fino a noi, mantenendo inalterata la loro forma originale e tutta la loro bellezza.
Quanto avvenuto è, in sostanza, un passaggio dai miti (ancestrali) alla religione di base (credo popolare) copto-ortodosso e, come effetto di ritorno, entrato nella fiaba in quanto insieme leggendario di tradizioni, assunte come bagaglio letterario. Ne deriva che la fiaba altro non è che una ‘teoria’ legata alla mitologia più antica che risponde ‘in vero’ a una funzione sociale e culturale di una vasta popolazione eterogenea. Ciò potrebbe sembrare una contraddizione in termini, ma non lo è, poiché va considerato che la fiaba scaturita dalla insita creatività del sentire popolare, è qui filtrata attraverso le credenze e le convinzioni d’una tradizione millenaria, tramutata in ‘immagini poetiche’ straordinariamente vive dal popolo stesso che ne è il primo fruitore.
Secondo Alexander Nikolaev Afanasiev, la fiaba è stata ‘in primis’ ad aver assunto le caratteristiche tipiche della ‘poesia epica’ russa, in quanto forma straordinariamente viva perché filtrata attraverso le credenze e i costumi popolari in cui si riscontrano: «..lo stesso tono luminoso e sereno, la stessa inimitabile arte di dipingere ogni oggetto ed ogni avvenimento, tenendo presente l’impressione da esse suscitata nell’animo umano.»


Nel mondo favolistico russo troviamo infatti fiabe dal carattere magico e meraviglioso legate a remote credenze pagane, affollate da esseri demoniaci e folletti allegri, che popolano i boschi, i monti e i mari; assieme ad altre di carattere satirico, per lo più improntate sul quotidiano, che si offrono come chiavi di lettura degli avvenimenti che hanno contrassegnato la storia delle diverse anime religiose ma, e soprattutto, hanno permesso l’addensarsi nella ‘coscienza popolare’ di quella tenerezza struggente in cui perdersi, così autentica che sia possibile conoscere.
Coscienza che in occasione del lungo inverno russo, poteva ritrovarsi nei più giovani in età ‘amorosa’ durante le ‘veglie’ all’interno delle ‘isbe’ in cui era in uso fare giochi di gruppo, danzare e cantare con l’ausilio di strumenti quali la balalaika e la fisarmonica. Un gioco molto in uso era detto ‘della quaglia’, in cui a turno, mentre tutti cantavano in coro, un giovane si avvicinava ad una ragazza, gli dava un colpetto sulla spalla e se gradito la ragazza prescelta scambiava a sua volta un inchino con il ragazzo. Un altro gioco era detto ‘dell’ochetta’ in cui le ragazze cantando una canzone appropriata al gusto del tempo, si presentavano in fila e richiamavano l’attenzione dei ragazzi preferiti con i quali eseguivano alcuni passi di danza tradizionali.
E già il suono di una balalaika ci invita all’ascolto di una canzone tradizionale, tradizionalmente eseguita dal coro di sole voci femminili che ha per titolo “Sorba degli Urali”:

“Mio bel verde boschetto / perché non metti fior? / Mio giovane usignol / perché non canti ancor? / - Canterei se potessi / ma voce oimè non ho! / Beccar potrei un seme / ma voglia oimè non ho! / Tuba la colombella / se già il colombo non ha. / Soffre la giovincella / che il suo moroso non ha!”

Siamo qui proiettati nel bel mezzo del rapporto che il popolo russo ha da sempre con la natura circostante, con la quale misura ogni suo attimo di vita e ci ha lasciato una vasta letteratura, e che sia l’arrivo della primavera o il gelido freddo dell’inverno, ogni occasione è buona per dipingerla dei colori più adeguati, non di meno di liricità nei versi di una poesia d’amore, così come di una canzone. Del resto si sa: “…quando l’amore è ricambiato la melodia si accende di toni gai e briosi”. È allora che si mette mano alle corde (degli strumenti tipici), si dà fiato (alle canne dei flauti), si levano le gambe in una danza e le voci nei ‘cori’, divenuti insieme alle danze popolari emblema della cultura di questo paese.
Così oltre agli eroi, ai maghi, alle fate, agli sciocchi e ai cattivi che per necessità narrativa non mancano mai, e tutti ugualmente dotati di poteri soprannaturali, troviamo leggende, favole e canzoni tipiche della tradizione orale che ancor oggi costituiscono il ceppo più autentico della cultura russa, copiosa di superstizioni e magia, di favolistica e profonda religiosità. Trattasi per lo più di canzoni ricche di commovente sapore umano, scaturite dalla spontaneità contadina che verosimilmente le ha tramandate durante le lunghe e fredde ‘veglie’ invernali, così dette: “besedy” e “posidelki”, che si protraevano da Ottobre fino a Carnevale, durante tutto il lungo inverno russo.
Prestabilite dall’uso e dalle convenzioni stagionali le ‘veglie’ si svolgevano solitamente nelle ‘isbe’, granai ampi e puliti sulla cui parete centrale si apriva una finestra, comunemente chiamata ‘finestra bella’ per il semplice motivo che era l’unico spazio lasciato aperto che dava verso il cielo, onde poter scrutare il tempo e il passaggio delle nuvole, aspettando l’arrivo della bella stagione. Oltre ai canti e ai balli le ‘veglie’ erano allietate da racconti di fiabe per i più piccini, da indovinelli e motti in rima in cui spesso si prendevano di mira i presenti.

Come in questa deliziosa “Venditori ambulanti” – raccolta dal Coro Popolare Russo di Pyatnytzky:

“Monotona rintocca la campanella. Il canto malinconico del cocchiere che si stende sulle aride pianure risveglia una profonda nostalgia. Altre notti vengono alla mente, campi e foreste della propria terra, riscaldano il cuore del mio freddo petto. Le lacrime sgorgano dai miei occhi che non sanno piangere. Monotona suona la campanella. Il cocchiere è silenzioso ...”

Oltre agli eroi, ai maghi, alle fate, agli sciocchi e ai cattivi che per necessità narrativa non mancano mai, e tutti ugualmente dotati di poteri soprannaturali, troviamo leggende, favole e canzoni tipiche della tradizione orale che ancor oggi costituiscono il ceppo più autentico della cultura russa, copiosa di superstizioni e magia, di favolistica e profonda religiosità. Spesso gli anziani intonavano canzoni malinconiche che si richiamavano alle fatiche contadine, al lavoro di semina e di raccolta, di sudore e di lontananza dal focolare domestico. In alcune in particolare si fa riferimento al Burlak, il contadino che nella buona stagione veniva ingaggiato con mansioni di manovalanza, al quale, almeno stando al nome, erano attribuite ‘burle’ e/o ‘beffe’ ricevute o rivolte ai nobili e ai proprietari terrieri, che scaturivano in risate e lazzi d’ogni conto. Appartengono al patrimonio legato al Burlak alcune bellissime melodie dedicate al fiume Volga e le canzoni di profondo rancore, a volte perfino esasperate, in cui era palesemente espressa l’ideologia delle rivolte contadine.

Fra le danze occupava un posto d’onore la ‘quadriglia’ per la sua compostezza d’insieme a cui tutti i presenti potevano partecipare. Ma un'altra danza teneva occupati soprattutto i più giovani che l’aspettavano con ansia, la cosiddetta “Attorno alla Città” in cui i danzatori formano un cerchio, al centro del quale stava una fanciulla. Da fuori un giovane doveva cercare di introdursi all’interno di esso per conquistarla che di sovente veniva respinto dall’allaccio stretto dei corpi degli altri componenti. Quando infine riusciva nel suo intento egli poteva dare un bacio alla fanciulla prescelta.
Molti erano i ‘cori’ maschili rivolti alle gesta degli eroi e dei condottieri in cui predominava l’elemento epico-nazionalistico di fondo e che più spesso animavano gli animi degli adulti, in genere più anziani che avevano partecipato a guerre e/o avevano combattuto per riportare l’ordine nel cuore della Grande Madre Russia.

Ne è una testimonianza di grande levatura lirica il “Canto attorno ad Alexander” dall’opera “Alexander Newsij” di Sergei Prokofiev (1938).
In esso si narra del Principe Newsky, il quale molto si adoperò nel contrastare l’avanzata dei popoli Teutoni verso Novgorod. Allorché le città minacciate si rivolsero all'uomo considerato il maggior guerriero di Russia: il principe Aleksandr, detto Nevskij, del Granducato dì Suzdalia. Questi dopo aver raccolto attorno a sé un'armata molto composita di cavalieri e contadini la guidò verso le frontiere occidentali, respingendo i Teutoni e salvando Novgorod dal saccheggio. Dando egli prova inoltre della sua sapienza strategica, sospinse i nemici sul lago ghiacciato di Ciudi che, cedendo sotto il peso delle pesanti armature, li inghiottì nelle sue gelide acque:
“Canto attorno ad Aleksandr Nevskij” (Coro)

“Sì, fu sul fiume che ciò avvenne,
sulla corrente della Neva, sulle acque profonde,
là trucidammo i migliori combattenti dei nostri nemici,
il fior fiore dei combattenti, l'esercito degli svedesi.
Ah, come ci battemmo, come li mettemmo in fuga!
Riducemmo le loro navi da guerra in legna da ardere.
Nella lotta il nostro sangue rosso fu liberamente sparso
per la nostra grande terra, la nostra Russia natale. Evviva!
Ove vibrava la larga scure, c'era una strada aperta.
Nelle loro file si aprì un sentiero dove si inoltrò la lancia.
Sconfiggemmo gli svedesi, gli eserciti invasori,
come un prato di steppa, cresciuto sul suolo del deserto.
Noi non cederemo mai la nostra natia Russia,
chi marcerà contro la Russia sarà sterminato.
Levati contro il nemico, terra russa, levati!
Levati in armi, sorgi, grande città di Novgorod!”

Al passo con gli eventi il Cristianesimo assunse in Russia una forma rilevante soprattutto fra i tradizionalisti, i quali reclamavano il ritorno al sistema liturgico bizantino, introdotto nel X° secolo. Periodo in cui il canto liturgico vide ‘maestri di cappella’ e ‘cantori lirici’ fornire quegli elementi musico-canori che servirono alla tradizione ortodossa, il cui stile ben si conciliava con le antiche melodie e il canto popolare. Acciò molti compositori ‘classici’ si espressero in seguito in questa ‘forma liturgica’ lasciandoci pagine di estrema bellezza compositiva.
Alla tradizione sacra appartengono i “Vespri” (in russo: Вечерня) intonati durante “La Veglia per tutta la notte”, Op. 37 (in russo: Всенощное бдѣніе, traslitterato: Vsenoščnoe bděnie), una composizione di musica sacra di Sergej Vasil'evič Rachmaninov (1915), che fece propri gli elementi della musica sacra russa, ricca di sonorità puramente vocali senza alcun sostegno strumentale, risalente agli inizi del X secolo, con la diffusione da Bisanzio, attraverso la Bulgaria, allora considerata la culla del Cristianesimo nel mondo slavo, dei sacri libri dell'antica liturgia religiosa. Anche se alcuni di questi testi, risalenti in gran parte al XIII e al XIV secolo, sono giunti sino all'epoca moderna, bisogna dire che la forma ‘znamennyi’che sta ad indicare i segni di notazione posti sopra le parole del testo secondo una linea melodica ben precisa e senza troppi abbellimenti, a tutt'oggi non è stata completamente interpretata.

Dai “Vespri” di Sergej Vasil'evič Rachmaninov (Coro)

N. 3
“Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indulge nelle vie dei peccatori... Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi cadrà in rovina... Gloria al Padre, al Figliolo ed allo Spirito Santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli, amen... Alleluia...”
N.5
“Ora, o Signore, lascia che il Tuo servo se ne vada in pace, secondo la Tua parola. Perché i miei occhi hanno visto la Tua salvezza, che Tu hai preparato dinanzi a tutti i popoli, luce che illumina il giorno, e gloria del Tuo popolo, Israele...”
N. 9
“Benedetto sei Tu, Signore, fammi capire i tuoi comandamenti...”

Mentre dal loro angolo più vicino alla grande stufa, nelle già citate ‘veglie’, le donne più anziane erano intente a filare e a ricamare, gli uomini sposati e gli anziani osservavano un poco nostalgici e un po’ divertiti i giochi messi in atto dalla gioventù. E solo qualcuno di loro gettava, di tanto in tanto, uno sguardo fuori dalla ‘finestra bella’ tirando un sospiro, cercando di scorgere fra il gelo e i mucchi di neve un segno dell’annunciata primavera. Ai primi segni di disgelo, quando i venti tiepidi incominciavano a sciogliere le nevi e si giungeva all’equinozio di primavera si dava inizio alle ‘opere’ della terra.

L’agricoltore primitivo, al quale sfuggivano alcune leggi che regolavano i fenomeni naturali, credeva fosse necessario invocala per richiamarla a nuova vita ed aiutarla a presentarsi mediante l’uso di alcune formule propedeutiche che recitava nel modo di cantilena. Come si sa a primavera arrivano a volo gli uccelli al cui apparire, si pensava, la conducessero sulle loro ali. Ma anche se certe rappresentazioni sono per lo più dimenticate, qualcosa ancora resta nel semplice gioco infantile di cuocere biscotti a ‘forma di uccello’ e lanciarli nell’aria, o legarli alle pertiche dell’orto al grido: “sono arrivate le gracchie!”.

È ancora in uso chiamare certe canzoni “vesnjanki” (da vesna= primavera), in cui si rispecchia la preoccupazione e l’aspirazione del contadino, sebbene in alcune di esse è espressa la giocondità della buona stagione che viene cantata e/o recitata in forma poetica. Una di queste, fra le più diffuse, è quella della semina del lino; colei che la esegue si pone nel mezzo di un circolo e con l’aiuto della mimica riproduce i gesti ad essa connessi: all’occorrenza mostra come lo si bagna, lo si scioglie, lo si stende e così via, fino alla sua filatura.

Recita un grazioso ritornello:
“Riesci bene, mio bel lino / riesci tutto biancolino / per favore mio carino...”

Al mondo ‘nascosto’ del sottosuolo e a quello ‘soprannaturale’ è attestata la presenza nelle fiabe russe di molte maschere caratteristiche che rivestono ruoli della massima importanza, entrate in seguito nel teatro popolare. Tra queste assume grande rilevanza “Baba-Jaga” una creatura leggendaria della mitologia russa, divenuta in epoca contemporanea un personaggio fiabesco. Anche se in molti hanno sentito parlare della ‘strega cattiva’ pochi conoscono le sue origini di donna selvaggia che possiede oggetti incantati ed è dotata di poteri magici. Una figura immaginaria della mitologia slava, in particolare di quella russa, che talvolta agisce in qualità di aiutante del/la protagonista.

In “Vassilissa la Bella” (*) era veramente orrenda, viveva in una casa nel bosco: “La casa era fatta di ossa, di teschi e di occhi, ed era provvista di zampe che le permettevano di spostarsi anche fuori dal bosco. Le maniglie delle porte e delle finestre erano fatte con dita e piedi umani, e il chiavistello da un grugno con denti appuntiti. Un giorno bussarono alla sua porta tre Cavalieri: erano il Cavaliere bianco che rappresentava ‘il giorno’; il Cavaliere rosso, che rappresentava il sole; il Cavaliere nero, che rappresentava la notte. Quando Vassilissa chiese alla strega chi essi fossero, Baba Yaga rispose: "la mia alba luminosa, il mio sole e la mia notte scura”; ma quando Vassilissa volle sapere di più sui tre Cavalieri, la strega rispose: "non tutte le domande portano buon pro, “molto saprai, più presto invecchierai”.

Secondo Vladimir Propp, la “Baba Yaga” non faceva altro che ribadire un principio sacro a livello iniziatico in base al quale l’anziano della comunità trasferiva tutto il suo sapere agli iniziati solo in punto di morte, lasciando le proprie conoscenze in eredità: "raccontare tutto" voleva dire, quindi "accingersi a morire". Ecco perché la Baba Yaga non vuole rispondere a tutte le domande di Vassilissa, dicendole di non farne troppe. Baba Yaga si identifica con la natura selvaggia, ne conosce i segreti e sembra che la natura possa sottostare ai suoi voleri e alle sue magie.

In alcune versioni a Baba Yaga sono affidate delle fanciulle (da una matrigna o dal padre spinto a tale gesto dalla nuova moglie) che lei sottopone a pesanti lavori, minacciando di mangiarle se ogni compito non venisse svolto nel modo migliore. Ad aiutare le fanciulle troviamo, in una prima fiaba, i servitori della Baba Yaga (un cane, una betulla, un aiutante e un gatto, quest’ultimo di solito compagno fedele delle streghe) che si ribellano alla strega, aiutando la fanciulla a fuggire. In una seconda fiaba troviamo dei topini che, in cambio di cibo, aiutano la fanciulla a compiere i suoi lavori senza troppa fatica; nella versione invece di Vassilissa la Bella, troviamo che, ad aiutare la ragazza, sarà la bambola donata dalla mamma in punto di morte.

Così viene raccontata la morte della madre, in realtà raccontata come la morte della moglie del padre, con cui si apre la fiaba:

“Sua moglie morì quando la piccola aveva otto anni. Sentendo la fine avvicinarsi, la madre chiamò a sé la bambina, e da sotto le coperte tirò fuori una bambolina che come Vassilissa indossava stivaletti rossi, grembiulino bianco, gonna nera e corsetto ricamato e le disse: “Ascolta le mie ultime parole, e ubbidisci alle mie ultime volontà. Prendi questa bambola, è il mio dono per te con la mia benedizione materna; conservala con cura, non mostrarla a nessuno, e nutrila quando ha fame. Se ti troverai in difficoltà, chiedile aiuto, essa ti dirà che cosa fare.”

Ancora Vladimir Propp ci dice che la bambola funge da sostituto della persona morta, depositaria dell’animo del defunto che così continua ad essere presente nella vita dei familiari. In effetti, però, la bambola indossa gli stessi indumenti di Vassilissa, ci viene cioè presentata come una piccola Vassilissa; è a lei che la bambina si rivolgerà per chiedere aiuto e sostegno come fosse una nuova madre ma anche come fosse la sua stessa coscienza. Vassilissa otterrà aiuto se riuscirà a guardare dentro se stessa ossia la bambola che la rappresenta. La bambola-feticcio con le sembianze di Vassilissa è il vero sostegno che rimane alla bambina dopo la morte della madre, potremmo dire che ricorda le matrioske.

“La matrioska è formata da una bambola, detta madre, che contiene un’altra bambola più giovane che a sua volta ne contiene un’altra più piccola e così fino ad arrivare all’ultima molto piccola, non si apre e non contiene nessuno, è detta: il seme. Il seme in realtà contiene il tutto poiché è destinato a diventare Madre. La bambola-fantoccio donata a Vassilissa è il seme, l’essenza della bambina che, alla fine della storia, ormai donna, sposerà lo Zar e quindi, probabilmente, sarà madre.”

Le fiabe, come si diceva, possono esser viste come il ritratto di un popolo; leggere le fiabe russe significa anche addentrarsi in un mondo in cui la natura ha una forza sovrannaturale e l’uomo civilizzato ancora combatte contro la sua parte selvaggia e oscura. Ma resta un mondo ricco di bellezza e poesia e colori sfavillanti, che può ancora incantare con il suo: “C’era una volta e una volta non c’era” sia i grandi sia i bambini.

Oltre che nelle fiabe russe, la ritroviamo anche in quelle polacche, slovacche e ceche, talvolta abbinata a figure di strani ‘diavoli’ che fanno la loro apparizione nelle ‘favole di vita’ con il precipuo scopo di tormentare i morti e in più di qualche occasione anche i vivi. Appartiene al cosiddetto periodo ‘russo-impressionista’ un felice balletto tratto da una fiaba “Petrouchka” (1911) musicato da Igor Stravinskij, che sembra sintetizzare quello che emerge come il tratto più essenziale e decisivo della cultura russa fra Otto e Novecento: l’affermazione dell’io come risposta al tentativo di annichilimento del potere.

Trama.
Vi si narra di un vecchio Ciarlatano che presenta al pubblico del suo teatro dei burattini, tre pupazzi animati: Petrouchka, la Ballerina e il Moro, ai quali ha infuso sentimenti umani. Petruchka, che ha maggiormente assorbito tali sentimenti, s’innamora della Ballerina che, a sua volta, è invece rapita dalla fatua bellezza del Moro. La vicenda si trasforma ben presto in tragedia, allorché Petrouchka, pazzo di gelosia ha una violenta lite con il moro e viene da questi decapitato con il fendente della sua sciabolata. Accade però che il pubblico del teatrino, verosimilmente preso dal realismo della vicenda, semplice e potente come sanno esserlo solo le favole, s’impressiona moltissimo. Nello stupore e nell’incredibilità di tutti, il Ciarlatano è costretto a riportare in equilibrio i sentimenti dei presenti, mostrando all’evidenza che il corpo del pupazzo ucciso, in realtà, altro non è che pieno di segatura e la sua testa mozzata nient’altro che un pezzo di legno. Sul finire, il Ciarlatano temporeggia nel far rivivere il fantasma di Petrouchka, il quale ammonisce chi pensa che egli sia effettivamente morto, senza aver prima considerato che la sua anima (il suo spirito) è immortale, e che vivrà per sempre, nell’eterno gioco dell’amore.

La musica di Igor Stravinskij dona alla semplice vicenda narrata una grande vitalità, grazie all’uso di ritmi estremamente incisivi, di allusioni folkloriche sapientemente dosate che ben rendono all’ “efficacia delle parti descrittive” l’atmosfera ricreata del teatrino delle marionette, della folla entusiasta nell’insieme entusiasmante della festa popolare.

“Ah! Ah! Petrushka” (Coro di bambini)
“In un tempo già lontan
era nato Petrushka
Ah! Ah! Petrushka
in un tempo già lontan.
Quando venne in città
s’incontrò con Marussia
Ah! Ah! Petrushka
in un tempo già lontan.
Marussia lo invitò
alla festa del doman
Ah! Ah! Petrushka
in un tempo già lontan.
Del buon vin gli preparò
bianco e nero e poi cognac
Ah! Ah! Petrushka
in un tempo già lontan.
Ma alla festa non andò
il perché non lo si sa
Ah! Ah! Petrushka
in un tempo già lontan.
Piange e implora Marussia
ma non l’ode Petrushka
Ah! Ah! Petrushka
in un tempo già lontan.”

Fanno inoltre la loro apparizione molti animali favolosi, ripresi poi nelle fiabe popolari e fonte di balletti più o meno famosi, opere di carattere folkloristico entrate nella produzione annuale di molte compagnie teatrali. Fra tutte, “Il pesciolino d’oro” e “La Favola dello Zar Saltan” messa in versi da Aleksandr Puskin; “La sagra della primavera” e “L’uccello di fuoco” musicate da Igor Stravinskij: “Lo schiaccianoci” di Petr Il’ic Tchaikovskij; “La Fiera di Sorocinsky” di Modest Mussorgsky ”, ed altre ancora entrate nella tradizione del folklore russo.

“L’uccello di fuoco” (…) musica di Igor Stravinskij
Trama.
“C’era una volta … un uccello dalle piume splendenti che caduto nelle mani del principe Ivan gli offre una delle sue penne meravigliose in cambio della propria libertà, che il principe gli concede. Successivamente il principe Ivan è a sua volta catturato dal perfido mago Katschei che ambisce pietrificarlo ma egli riesce a mettersi in salvo semplicemente brandendo la penna avuta in cambio dall’uccello di fuoco. Il quale al richiamo del principe Ivan, accorre in sua difesa e addormenta il mago, rompendo così l’incantesimo che lo teneva legato alla sua volontà. Dopo mille peripezie e servendosi dell’aiuto di uno strano lupo grigio, il principe Ivan, va alla ricerca della sua amata, la bella Zarevna, e dopo averla trovata la sposa … e insieme vissero felici e contenti.”

Tutta la musica russa, da quella popolare a quella colta sembra scaturire da una sola univoca sorgente. Si è detto del grande amore per la natura, la terra, le acque, le stagioni, i solstizi e gli equinozi, gli uccelli, i fiori, il miglio e ogni cosa ad essa relegata. Così come molti motivi popolari, sono poi sbocciati nella poesia e nel canto in forma di rievocazioni e suggestioni che hanno trovato un posto nella cultura letteraria, nei drammi teatrali e nei libretti d’opera, come nei romanzi classici di molti autori di tradizione popolare che hanno elaborato una visione del mondo sentimentale e fantastico.
Ed ecco già risuonano i campanellini di una slitta che attraversa il villaggio, e come per incanto, ai primi segni del disgelo, arriva il tempo detto di Carnevale, in cui hanno inizio le feste e i giochi intorno al fuoco acceso negli spazi all’aperto. I riti carnevaleschi russi sono ciò che rimane di antichi riti pagani del culto contadino. Il cui rito centrale consiste nell’accompagnare con canti e balli, allegre filastrocche e scherzi, un grande ‘pupazzo’ (eroe, mago, divinità, sovrano ecc.) fatto di paglia e stracci che, alla fine della settimana festosa, viene bruciato e le sue ceneri gettate in un campo, a significare che la sua messa a morte, è propedeutica al suo risorgere a nuova vita.

Come ha scritto uno dei migliori studiosi moderni D. S. Mirskij: “Fra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 nell’ambiente letterario russo l’amore per la fiaba assunse il carattere di una vera e propria infatuazione di massa, allorché svolse un ruolo decisivo nell’evoluzione delle lettere russe, in quanto fu una delle scuole principali di quel ‘realismo’ che divenne in seguito elemento fondamentale della letteratura successiva”.

Non mancano opere letterarie più vicine allo spirito moderno che si siano avvalse di tradizioni e figurazioni fantastiche appartenenti al mondo della fiaba, fra queste cito “Il Maestro e Margherita” (…) di Michael Bulgakov di gusto amaro e demoniaco.
La letteratura si è più volte espressa in tal senso, anche se in modo meno aggressivo, relativo al mondo dell’infanzia, caro alla coscienza popolare, in cui la ricchezza delle tradizioni si avvale dell’elemento poetico, come nel ‘racconto’ di anonimo popolare proposto qui di seguito:

“C’è una foresta, la più russa di tute le russie, nelle vicinanze di un piccolo paese chiamato Plakino, dove i bambini amano passare il tempo al gioco più antico del mondo: l’altalena. Alexis vi andava dopo la scuola a rincorrersi con gli altri fanciulli quando, un giorno fu colto di sorpresa da una voce che ripeteva le sue risa e le parole dei suoi compagni e si apprestò ad ascoltarla. Una foresta di voci – pensò. E si mise a cantare. Un coro di voci rispose al suo canto – come una musica che ripeteva l’eco.”

Una leggenda, forse, ma accadde così che nello scambiarsi di alcuni richiami e dal ripercuotersi in lontananza dell’eco – di albero in albero che in seguito, arricchito dai suoni degli strumenti naturali, come il vibrare delle foglie nel vento e il cinguettio degli uccelli canterini, ebbe inizio una delle forme musicali più belle che si conoscano: la polifonia, entrata a far parte del patrimonio musicale popolare russo e non solo: “un prezioso tesoro dell’arte poetico-musicale del mondo intero.
Come in molte leggende e fiabe anche le canzoni popolari di estrazione etnico-musicale di estrazione popolare e/o contadina, alcune in voga ancora oggi, sono state tramandate oralmente, sono fatte oggetto di recupero da parte di molti studiosi. Secondo Vladimir Propp queste favole vanno rapportate al ‘totemismo’ dei primordi, a quel culto dell’uomo cacciatore di animali ritenuti sacri o in qualche modo legati alla tradizione popolare da un vincolo soprannaturale, in cui scopriamo l’esistenza di un mondo per così dire ‘parallelo’ invisibile e indecidibile al quale abbiamo accesso solo attraverso il fantastico, dove l’Io si sdoppia nell’l’immaginale e/o il sogno, nell’altro che non è, ma che potrebbe anche essere, proprio grazie alle capacità di sdoppiamento che riusciamo a perpetrare.

In grande considerazione sono i riti di festeggiamento per il ‘rito nuziale’ che assume in Russia la forma di vera e propria ‘rappresentazione’ in onore del più antico rito bizantino consistente nel dare veste giuridica alla promessa al matrimonio, con la quale si eseguivano rituali magici che assicurassero la salute, una lunga vita e una sana figliolanza agli sposi. Per la felice ricorrenza si “recitavano poesie e si levavano canti che non avrebbero alcun significato al di fuori del rito”. (Propp)
“Canzone per le nozze”

Da V. Propp “I canti popolari russi” – Einaudi.
“Ha suonato la trombetta presto al mattino. / Ha pianto la fanciulla sul biondo treccino. / “Verranno oggi le amiche la treccia a intrecciare. / Domani la mezzana me la verrà a disfare. / Dividerà i capelli in due treccine / avvolgerà le trecce sul capino, / sul capolino la cuffia metterà. / Porta la bella, per l’eternità”.

“Le ragazze da marito portavano i capelli raccolti in una treccia che ricadeva sulla schiena. Le maritate invece due trecce avvolte attorno al capo”.

Gran parte delle espressioni musicali sono ovviamente legate alle danze popolari e molto si deve all’uso degli strumenti musicali tipici della terra russa, sebbene diversi tra loro e di diversa provenienza. In primo piano troviamo la ‘fisarmonica’ adatta per l’accompagnamento di canzoni e ballate. È uno strumento ad aria formato da un mantice e, nei modelli più vecchi (budeon), da una serie di bottoni disposti in file verticali corrispondenti ad altrettanti suoni, la cui diffusione è presente in tutti paesi dell’area europea in numerose varianti di costruzione.

Il ‘gusli’ a due corde, tipicamente russo, è invece uno strumento a pizzico utilizzato spesso nelle orchestre tradizionali in cui domina la ‘balalaika’ uno strumento ad arco di origine tartara, reminiscenza dell’invasione dei Mongoli di Gengis Kahn nel XIII secolo sul territorio. Il suo nome in russo sta a significare in origine “facezia” e/o “scherzo”, indicativo della mancanza della perfezione del suono. Si pensa che la ‘balalaika’ discenda dalla ‘domra’ asiatica, che a sua volta, ritrova le origini del primitivo ‘gusli’ in ragione che ha una corda in più (tre). La forma triangolare può essere di diverse dimensioni e arriva a misurare, in piedi, quanto un suonatore di statura media. Un altro strumento è la ‘bandura’ originaria dell’Ucraina, un grande liuto con le corde fissate a piroli sul manico ed altre dette di ‘bordone’ fissate a piroli sulla tavola.

Antiche cronache riportano che gli slavi dell’Est avevano i loro propri strumenti ad arco, a fiato e a percussione. L’artigiano che li costruiva lavorava su materiali facili da reperire come la corteccia di betulla, per ricavare la sua ‘zhaleyka’, una sorta di corno fornito di un’ampia imboccatura simile al moderno ‘clarinetto’. Una semplice canna per costruire lo ‘svirel’ un tipo di flauto di Pan; del comune legno per il ‘brekly’ simile all’odierno ‘oboe’; e almeno cinque canne di diversa lunghezza per il ‘kuvichki’ fornito anche di un fischietto. Tipiche ‘mazze di legno a cucchiaio’ dette ‘lozhki’ venivano utilizzate come percussioni nell’accompagnamento delle danze, spesso abbellite da piccoli campanellini suonati dagli stessi danzatori.

Ma lasciamoci guidare in una danza tradizionale caucasica dal biografo Gregorio Schncerson che ci ha fornito una vivida versione della danza “Lezghinka” inclusa nell’opera-ballet “Gayne” di Aram Kachaturian:

“Tutte le varianti vengono danzate in costume nazionale, ricco di colori, in modo da sottolineare, quasi all’enfasi, la vita sottile e gli agili movimenti dei ballerini. La donna volteggia lievemente in cerchio, simile a un aleggiante uccello, mentre i suoi gesti provocano gli slanci del suo partner. I ritmi veloci della musica ipnotizzano sia i ballerini che gli spettatori. Grida gutturali e battiti di mani della gente che li circonda accrescono l’agitazione dei ballerini che, ad ogni loro successivo giro di tempo, acquista un’accelerazione improvvisa. Quindi il ballerino si muove in cerchio attorno alla sua partener con grazia mista a confidenza e, tenendo ben stretti i lembi estremi delle sue ampie e svolazzanti maniche dell’abito, allarga al massimo le sue braccia pronto ad avvincerla nell’abbraccio. Dunque, quasi sfiorando la terra con la punta dei suoi morbidi stivali, esegue coi piedi una complessa figura ritmica. Dopo un volo quasi acrobatico in aria, cade sulle ginocchia per rimbalzare di nuovo in aria. La ballerina osservandolo con crescete eccitazione, ora s’avvicina tenendosi sempre più stretta lui, e sempre ballando se ne allontana di nuovo.”

Ancora dal “Gayne” è ripresa la “doira” una danza folkloristica dal carattere primitivo. Sembra che tutta la tavolozza timbrico-musicale dell’Armenia si riveli nel suo movimento rigoglioso in cui si possono ascoltare strumenti dal suono decisamente orientale, quali, ad esempio: il “tar” simile alla chitarra; il “duduk” un tipico strumento a fiato; la “komantcha” ad arco simile al violoncello e il “sas” simile all’italiano mandolino: “Quali che siano la sostanza originaria delle musiche strumentali inserite in “Gayne” è sempre rimasta fonte naturale della mia ispirazione” (Aram Kachaturian)
Si sarà notato come una delle maggiori difficoltà nel parlare della musica tradizionale stia nel gran numero di gruppi etnici che da sempre compongono la grande anima russa, ciascuno con tradizioni, strumenti e usi propri ma, soprattutto, con grande capacità estro e genialità. L’influenza della musica-popolare nella musica-colta ha permesso a compositori di un certo rilievo di attingere alle tradizioni di diverse culture, prendendo l’elemento popolare non solo come pretesto ma, ed anche, come stimolo creativo.

Molto è dovuto all’influenza dei cantori-girovaghi depositari delle antiche tradizioni religiose e culturali di popoli quali Uzbechi, Kirghisi, Calmucchi, Turkmeni, ancora oggi presenti sul territorio, che hanno consentito l’inserimento e la piena evoluzione nel contesto culturale che già verso la fine del IX secolo trovò il terreno fertile per affondare le proprie radici nazionali: uno degli agglomerati musico-testuali più imponenti del mondo. Per quanto sia impossibile tenere qui un più lungo discorso sull’influenza della musica popolare sulla musica colta, sul come ci si sia ispirati alla fantasia popolare o sui prestiti della storia e delle fiabe russe, mi è però possibile elencare alcuni esempi classici che invito il lettore ad ascoltare.

Il primo grande compositore di riferimento è Mikhail Ivanoviìc Glinka (1804-1857) nelle cui opere infatti si ritrova a sfruttare il patrimonio popolare russo, insieme ad una innata genialità. Tra le sue opere “Una vita per lo Zar” e ancor più in “Russlan e Liudimilla”, si rintracciano continui riferimenti a motivi tartari, finnici, persiani dal sapore arcaico di certe usanze rustico-contadine.

Si sa quale ruolo, spesso criticato ma indispensabile, il compositore abbia giocato nell’opera di altri suoi contemporanei come Borodin “Le danze del principe Igor” e “Nelle steppe dell’Asia Centrale”; Ippotitov-Ivanòv di “Schizzi caucasici”, Rimsky-Korsakov della “Favola dello Zar Saltan”; Modest Mussorsgky “La Fiera di Sorocinsky”, come qualcuno ha detto: “..sarebbero rimasti sempre incompiuti”. Si vuole, ad esempio, che i temi contenuti in “La grande Pasqua russa” di Rimsky-Korsakov, a volte severi al pari di una salmodia ecclesiastica, a tratti si rivestano di una liricità e danzante allegria sì da permettere di intendere lo spirito gaio divulgato da Glinka.

“C’era una volta …” si dice, ed ecco risuonano i campanellini dei ricordi, nella culla si addormentano i bambini che siamo stati, si tornano a riscaldare le isbe per un prossimo inverno che di sicuro arriverà, prima o poi, a intrecciare nuovi amori e, come nelle fiabe raccolte da Alexander Nikolevic Afanasiev si sciolgono le legature del grosso volume delle “Antiche Fiabe Russe”. E, come per incanto, tornano a vivere gli animali favolosi, il pesciolino d’oro, la principessa ranocchio; così come le fate, le streghe, gli eroi del tempo che fu. I canti e i balli, i giochi e le scommesse, la vodka e i samovar, gli intrecci amorosi, seppure raccontati e/o sostituiti con quelli più moderni, infine saranno quelli di sempre …

… e ancora una volta, dal soffitto di una isba russa, una ragazza guarderà fuori della ‘finestra bella’ e sognerà del suo “Principe Ivan”, mentre un ragazzo di “Vassilissa la Bella”, o di “Kalinka”, dalla più famosa canzone del repertorio popolare russo:
“Kalinka! Palla di neve / rosso fragola / bella fanciulla / quando dunque mi amerai?”

Note:
(*) Alexander Nikolevic Afanasiev, “Antiche Fiabe Russe”.
(*) Ida Accorsi Website: http://www.perlungavita.it/gli-autori-degli-articoli/1013-ida-accorsi / Nel 1968 dopo il matrimonio lascia volontariamente il lavoro per riprendere gli studi e ottiene il diploma di educatore per la prima infanzia, inizia il lavoro negli asili nido comunali modenesi per bambini da 0 a 3 anni . Ora in pensione e nonna a tempo pieno. Appassionata da sempre di Gianni Rodari (giornalista, scrittore e pedagogista premio Andersen nel 1970 - il Nobel della letteratura per l'infanzia) promuove e ricerca le tante fiabe, poesie, filastrocche e racconti dello scrittore per ragazzi che pubblica su una sua pagina Facebook "LA NONNA LEGGE RODARI". Questa attività di divulgazione l’ha messo in contatto con altri gruppi e associazioni, in Italia e all’estero dedicati allo scrittore. La sua ricerca è entrata nel materiale di studio e pubblicazione di un professore brasiliano, di Fortaleza, capitale dello Stato del Ceará, nella regione Nordest del Brasile, insegnante di italiano e ricercatore in materia, presso l’Università di quello Stato, estimatore di Rodari e impegnato nella divulgazione dei suoi scritti in quei paesi.
(*) Vladimir Jakovlevič Propp (in russo: Владимир Яковлевич Пропп?; San Pietroburgo, 29 aprile 1895, 17 aprile del calendario giuliano – Leningrado, 22 agosto 1970) è stato un linguista e antropologo russo, poi sovietico.
Vladimir Jakovlevič Propp è nato il 17 aprile 1895 a San Pietroburgo da una famiglia tedesca. Ha frequentato l'università della sua città natale dal 1913 al 1918, laureandosi in filologia russa e tedesca. Dopo la laurea, ha insegnato russo e tedesco in una scuola superiore, per poi diventare professore universitario di tedesco.
Il suo libro “Morfologia della fiaba“ è stato pubblicato in russo nel 1928. Sebbene esso abbia rappresentato un vero e proprio punto di svolta nello studio del folklore e della morfologia – influenzando Claude Lévi-Strauss e Roland Barthes in Occidente è rimasto per lo più sconosciuto fino alla sua traduzione nel 1958. Struttura narrativa, Vladimir Propp ha esteso l'approccio del formalismo russo allo studio della struttura narrativa: il primo orientamento, infatti, consisteva nello spezzettare le strutture delle frasi in una serie di elementi analizzabili chiamati morfemi; per analogia, Propp adotta questo metodo nell'analisi delle fiabe popolari russe. Smembrando un vasto numero di racconti popolari russi in unità narrative più piccole – denominate narratemi – Propp è stato in grado di estrarre da essi una tipologia, più o meno fissa, di struttura narrativa (lo Schema di Propp).
Nel 1932, Propp è diventato un membro della facoltà dell'Università di Leningrado (precedentemente conosciuta come San Pietroburgo). Dopo il 1938, egli ha cambiato il suo campo di interesse, sostituendo la linguistica con il folklore ed è stato a capo del Dipartimento Folkloristico fino a che non è entrato a far parte di quello relativo alla Letteratura Russa. Propp è rimasto un membro della facoltà sino alla sua morte nel 1970.



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- Musica

Musica Etnica: Il deserto e i Popoli nomadi del Mediterraneo

QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA
IL DESERTO E I POPOLI NOMADI DEL MEDITERRANEO

La cultura di ciascun popolo è di per sé affascinante quanto lo è il risultato della sua fusione con le altre culture, a patto che queste risultino altrettanto interessanti sotto l’aspetto artistico, dell’organizzazione sociale, della religione, dei costumi e delle usanze tipiche, viste attraverso la formulazione dell’analisi etnologica. Considerando il profondo abisso che separa la cultura orientale da quella occidentale, è difficile pensare vi possa essere una tale diversità di intuizioni e concezioni tali da sembrare si stia parlando di un ‘pianeta’ diverso, lontanissimo dal nostro. Eppure è così. Un mondo di cui si parla già in una iscrizione del IX secolo a.C. e che durante il periodo medievale ha conosciuto un grandissimo splendore, non solo per le sue conquiste territoriali, ma e soprattutto nel campo della filosofia, della scienza matematica e astronomica, come nell’arte orafa e manifatturiera.
Lo storico inglese Arnold J. Toynbee (1) nel suo libro “L’uomo deve scegliere”, sostiene che “il maggior avvenimento del XX secolo è stato l’impatto della civiltà occidentale con tutte le altre forme di organizzazione sociale esistenti al mondo. Fatto questo in ragione del quale ci vede proiettati direttamente alla ricerca etnologica con il modo arabo e, nello specifico, con la cultura afferente alle popolazioni, un tempo nomadi, della fascia costiera del Mediterraneo che dal Maghreb si spinge fino al Medio Oriente.
Altrettanto è quanto affermato da Raymond Firth (2) la cui analisi dei contatti culturali e dei mutamenti sociali, attribuisce un peso notevole agli effetti della moderna tecnologia industriale …

“Ciononostante, anche se le sue influenze possono essere sostanziali e, sebbene le comunità locali, possano essere costrette a legarsi a strutture economiche, politiche e religiose esterne, i gruppi di ‘piccole entità’ (ad esempio tribali) tendono a conservare molti elementi culturali locali. Rimanendo per lo più attaccati alle cose consuete, del vivere comune, come la preparazione del cibo, il modo di dormire e salutare, il riconoscimento dei simboli appartenenti al loro gruppo, gli interessi che danno significato alla loro identità comunitaria.”

Tuttavia, senza addentrarci nelle differenze filosofiche e religiose, delle quali potremmo non finire mai di parlare, se prendiamo in considerazione la cultura araba nel suo insieme, possiamo facilmente riscontrare alcune diversità da quella occidentale. A incominciare da un certo ‘risveglio’ culturale e religioso che in tempi recenti, dopo il decadimento protrattosi per secoli, oggi conosce anche un risveglio artistico-culturale che va dalla comunicazione visiva, relativa alle esigenze estetiche che investono l’intera tradizione che contraddistingue il popolo arabo nel suo insieme.
Trattasi di un agglomerato di popolazioni diverse oggi unite dalla stessa identità islamica e musulmana che ha sostituito il termine ‘arabo’, derivato dal plurale ‘arab’ che li contraddistingue in quanto ‘nomadi’ abitanti del deserto. In realtà il termine è stato in genere usato (e abusato) per indicare qualunque musulmano di razza semitica la cui lingua si è poi fusa nell’Islam nel periodo della sua massima espansione, esortando le popolazioni “ad assimilare piuttosto che essere assimilate” …

“Dipende da loro prendere l’iniziativa di scegliere, tra gli aspetti del pensiero e della prassi occidentale, quelli che ritengono meglio adattarsi ai propri collaudati modi di agire e di pensare.”

Un concetto questo affermato e sostenuto da personaggi di rilievo quali Leopold Sedhar Sengor, poeta e filosofo del Senegal, dal Mahatma Ghandi e il leader nero Martin Luther King per esortare i ‘fratelli’ non solo africani, sia quelli delle minoranze indiane nelle loro reazioni alle nuove forme di acculturazione. Tantomeno il termine ‘musulmano’ finì col riferirsi non a una specifica nazionalità, nonostante il comune patrimonio linguistico-culturale, intendendo con ciò la sola lingua classica, cioè l’arabo e tutto ciò che ruotava attorno al modo di vivere, notevolmente variegato, secondo la diversità dei popoli geograficamente interessati.
Alla base del patrimonio culturale comune di questi popoli sta dunque la ‘lingua’ utilizzata nella comunicazione quotidiana e pressoché dovuta all’espansione araba al tempo del profeta Maometto e, successivamente alla sua morte, all’adozione di una stessa lingua, pur senza necessariamente soffocare le lingue autoctone dei singoli popoli assimilati, seppure nell’alternanza di periodi di grandi fortune e periodi di decadenza che influenzarono non poco i popoli autoctoni.
La conquista araba del territorio avvenuta nel VII secolo, iniziata con il profeta Maometto, dapprima sostenuta con enfasi ‘spirituale’ trovò una fase d’arresto verso Oriente solo davanti a Costantinopoli e si concluse a Occidente con la resa di Poitiers, avvenimento che segnò la definitiva suddivisione delle tre religioni monoteistiche: l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam. Ma com’era ovvio che accadesse, l’avvento dell’Islam influenzò moltissimo le religioni pre-islamiche sul territorio, che a sua volta assorbì elementi delle varie culture nel riconoscimento delle loro tradizioni etniche arcaiche. Ciò per quanto l’influenza islamica assicurò una certa omogeneità di costumi e l’assimilazione di una comune tradizione diffusa su tutti i territori conquistati.

La caratteristica più nota del mondo arabo è indubbiamente il Sahara, la cui espansione desertica abbraccia tutta la fascia mediterranea dell’Africa settentrionale, dall’Arabia Saudita all’Egitto, alla Libia e al Marocco, di cui occupa una parte considerevole del territorio. Un deserto a tratti roccioso interrotto da vaste zone formate da dune sabbiose punteggiate qua e là da oasi verdeggianti. Le estati sono lunghe e asciutte, gli inverni miti e piovosi, con brevi periodi intermedi in autunno e primavera. Pertanto le popolazioni che abitano le diverse zone pianeggianti e quelle che vivono le regioni montuose presentano abitudini e costumi che differiscono molto tra loro e danno luogo a una grande varietà di organizzazioni sociali.
Non in ultimo la creazione di frontiere e nuove esigenze politico-economiche hanno trasformato molti dei popoli che vivono sul territorio, un tempo tipicamente nomadi, in sedentari. Il nomadismo è oggi infatti praticato solo da una minoranza per lo più dedita alla pastorizia, i cui mezzi di sussistenza molto dipendono dall’allevamento di pecore e capre, o di cammelli e asini che poi vendono e/o scambiano con le popolazioni sedentarizzate che li utilizzano nei lavori domestici o, come avveniva in un tempo non troppo lontano, se ne servono per il trasporto nelle lunghe traversate del deserto.
Il processo di sedentarizzazione dei nomadi, nonostante i tentativi fatti dai governi degli stati ufficiali, non ha portato a una loro scomparsa definitiva, per quanto abbia accelerato enormemente la loro trasformazione in contadini, anche se una grande maggioranza di essi abbia accettato di vivere all’interno di villaggi urbanizzati. Acciò rimane che i nomadi abbiano mantenuto un assetto tribale, i cui membri sono uniti dalla discendenza da un antenato e/o capo-famiglia comune, costituente un’unità importante all’interno delle scelte politico-organizzative ed economico-sociali, nonché religiose che difendono, in certi casi, fino allo stremo.

Alcuni gruppi nomadi infatti continuano a vivere in tende di pelo di capra o di cammello agli estremi bordi delle grandi città e delle zone coltivate site ai limiti del deserto, spostandosi alla continua ricerca di pascoli, pur mantenendo uno stretto contatto con i popoli sedentari, con i quali scambiare, secondo l’antico metodo del ‘baratto’, bestiame e altri manufatti e ricevendone in cambio generi di prima necessità.
Ciò, per quanto, fatto questo da non sottovalutare, la vicinanza con il deserto offra loro una facile via di evasione verso le oasi più lontane, verso una ‘psicologica’ libertà da tutto e da tutti, intimamente sentita, propria della loro interazione con il ‘grande vuoto’ che il deserto rappresenta. Una reciprocità che influenza ogni momento della vita dei nomadi …

“..una immensa distesa di sabbia, solo apparentemente arida e inospitale, in cui abbandonare la propria anima al cospetto dell’universalità di Dio”.

Il deserto del Sahara è una superficie apparentemente interminabile che dà asilo a una popolazione di non più di un milione e mezzo di persone, la cui storia è scritta sulla sabbia ovviamente condizionata dalle variazioni climatiche dell’habitat in cui vive. Va qui considerato che l’urbanizzazione odierna e la considerevole industrializzazione, e in particolar modo lo sfruttamento petrolifero, hanno sottratto al deserto spazi un tempo territorio esclusivo delle popolazioni nomadi che, tuttavia, sono riuscita a sfruttare piccoli appezzamenti di terreno situate ai bordi delle oasi disseminate lungo le piste carovaniere, onde trovare dove pascolare i loro animali.
Uno dei primi esploratori di questa desolata immensità che è il Sahara, riferisce di una razza di ‘predoni nomadi’ Tuareg (3), una razza berbera di abili guerrieri tutt’ora quasi inaccessibili, che a causa della loro riconosciuta empietà erano chiamati ‘Tavarek’ ossia ‘uomini abbandonati da Dio.’ Più recentemente si è attribuita ai Tuareg così detti ‘Uomini blu’, l’accezione di nomadi dediti alla razzia, per quanto in passato fosse un’attività ritenuta regolare che dei ‘nobili guerrieri’ dovessero procurarsi di ché sopravvivere per loro, le proprie famiglie e per i loro animali.

I Tuareg sono berberi originari del Tassili, un massiccio di roccia friabile alla frontiera tra Algeria e Libia e/o in parte dell’Hoggar e le catene montuose più piccole come l’Air e l’Adrar des Iforas, appartenenti quindi, al contrario degli arabi veri e propri al ceppo linguistico camitico, ritenuti i discendenti dai più antichi abitanti dell’Africa settentrionale. Dacché le invasioni arabe si scagliarono contro le tribù berbere della Libia fino alla Mauritania, i Tuareg in fuga trovarono riparo nel ‘grande vuoto’ del deserto, scomparendo agli occhi dei loro assalitori, che li additarono col nome di ‘popolo misterioso’, tuttavia restando i padroni incontrastati del Sahara, temuti assalitori di chiunque si addentrasse nel loro sterminato territorio.
In seguito i Tuareg si dedicarono per gran parte, agli scambi commerciali, ed ancor oggi le poche tribù ancora esistenti, vivono quasi esclusivamente di commercio. Dopo l’occupazione di Timbuctu essi dominarono la parte centrale del corso del fiume Niger, fino alla definitiva sottomissione all’amministrazione francese dei territori algerini ottenuta non senza difficoltà, e che lasciò ai Tuareg alcune particolari concessioni, inoltre al riconoscimento di una ‘nobiltà di casta’.

In quanto segno di distinzione fu concesso a tutti gli uomini Tuareg di portare il tradizionale pugnale alla cintola, mentre solo ad alcuni, i capi riconosciuti, è lasciato di portare la sciabola del comando con l’impugnatura e il fodero di cuoio lavorato. Durante le manifestazioni tradizionali e le festività calendariali se ne vedono di bellissime con rifiniture d’oro e d’argento, abbinate agli scudi di pelle di orice, una specie di antilope che oggi sta scomparendo. Ciò vale per le tende che trasportano durante i loro spostamenti, le selle dei cavalli e dei cammelli, i finimenti di fruste e borse d’uso comune che spesso raggiungono un livello di altissima qualità manifatturiera, allo stesso modo delle placche di metallo e i monili in uso, realizzati con originale ricercatezza artistica, entrati a far parte integrante del costume Tuareg da tempo immemorabile, per quanto non se ne conosca l’origine.
Gli studiosi desumono si tratti di una delle più misteriose costumanze che si conosca, forse legata alla religione arcaica di questo popolo, unico nel suo genere, detentore di un alfabeto scritto detto ‘tifinag’ (4). desunto, secondo alcuni studiosi, dalla più antica scrittura punica, una scrittura che annota solo le consonanti. È singolare che esso sia oggi conosciuto soltanto dalle donne che, con la parola ‘tamashek’ indicano l’insieme dei dialetti berberi (tuareg, tamahaq, tamajeq, tamasheq) parlati dai diversi gruppi. Oggi si contano non più di 3.000/4.000 Tuareg politicamente distribuiti fra Algeria, Libia, Valle del Niger e nel Mali.

Originariamente di culto ‘animista’ come molti popoli preislamici convertiti all’islamismo relativamente tardi, le popolazioni berbere hanno assimilato superficialmente la religione musulmana conservando all’interno di essa alcune delle loro credenze, quale ad esempio, quella degli ‘andgelousen’, una specie di angeli, e quella nei ‘dijnn’ una sorta di spirititelli maligni che vivono nelle rocce e negli alberi isolati. Superstizioni che hanno permesso loro di adempiere a una religiosità frammista di animismo e di atti simbolici che li accomunano a una dichiarata ‘empietà’ e/o a una ‘generosità’ di tipo universale, sociale e collettiva insieme, sottolineata da strani aspetti singolari.
Come, ad esempio, al ritorno dai loro lunghi e assai pericolosi viaggi attraverso il deserto, usano donare parte della loro mercanzia, talvolta frutto di razzie, a parenti e amici in forma di regali e/o prestiti che portano a un complesso sistema di obblighi reciproci.
Va inoltre riconosciuta ai Tuareg una diversità fisica dalle altre popolazioni arabe, infatti sono alti di statura e snelli come gazzelle, scuri di pelle ma non neri come gli africani, adeguatisi alle alte temperature del deserto che d’estate salgono oltre i 50° gradi centigradi sulla sabbia, mentre sulla roccia raggiungono i 75°/80° gradi. Acciò, utilizzano accorgimenti cosmetici che li difende dal sole cocente, e un vestiario che li protegge dalla seccura dei venti. Gli uomini indossano pantaloni rigonfi di cotone blu o nero, sorretti da una cintura di cuoio colorato finemente decorata, un’ampia camicia bianca di puro cotone, e una svolazzante ‘gandura’, un mantello lungo che gli scende fino ai fianchi.
Nella regione montuosa del Nord e i massicci rocciosi dove le gelate notturne sono più frequenti, gli uomini indossano il ‘kashabir’ di lana a strisce nere o marroni e un enorme ‘burnus’ una sorta di mantello con cappuccio di pelo di cammello. Ma ciò che più colpisce nell’abbigliamento Tuareg è il velo portato da tutti gli adulti. Si tratta di una striscia di tessuto bianco o nero lunga cinque metri che essi drappeggiano attorno al capo fino alle spalle, in modo da lasciare libera soltanto una stretta fessura per gli occhi.
Fasciatura che diventa blu indaco per i guerrieri Tuareg che la indossano nelle ricorrenze più importanti e che balugina alla luce del sole con un luccichio violaceo quasi metallico, da cui il mito degli ‘uomini blu’. L’appellativo che li riveste di un alone di mistero è dovuto al colore indaco dei veli con i quali i Tuareg si coprono il viso, e che stingendo a contatto con la pelle, dona ai loro volti e alle barbe degli adulti il colore bluastro che li distingue.
L’uso del ‘velo’ maschile ha certamente un’origine pratica che non esclude, nel modo di indossarlo, una preminenza rituale. Nell’attraversare il deserto ci si rende conto della sua necessità di difendersi dall’aridità dell’aria durante la stagione più calda. Tuttavia, la sua sistemazione è diversa secondo le occasioni. Alla presenza di estranei al proprio gruppo, ad esempio, l’assetto dato al velo è particolarmente complesso, fatto in modo da coprire quasi completamente gli occhi ma in modo da lasciare loro la possibilità di bere senza mostrare le labbra. Sugli occhi sia gli uomini che le donne Tuareg, ma più in generale tutti gli arabi dell’Africa settentrionale, portano i segni del ‘Khol’, un estratto vegetale che incupisce maggiormente lo sguardo ma che mantiene integra la sua azione rinfrescante e protettiva.
Le donne Tuareg indossano una sorta di camicione nero con una striscia dello stesso tessuto sul capo, fermata da un peso che scende sulla spalla e che di solito è la chiave decorata della borsa portata dai cammelli. Lo stesso può dirsi per le più benestanti, appartenenti alla casta privilegiata dei guerrieri, che invece indossano uno scialle color indaco al posto di quello solito di colore nero. Uomini e donne portano sandali di cuoio finemente decorati e attorno al collo una sorta di astuccio con all’interno una o più frasi del Corano, il Libro sacro dei maomettani.
Un altro aspetto non meno rilevante della ricerca fin qui avanzata, afferente all’etnomusicologia araba preislamica è indubbiamente l’avvenuta fusione con quella islamico-musulmana. Sebbene le tribù berbere, abitanti le catene montuose, hanno conservato proprie caratteristiche nella costruzione e nell’uso di alcuni strumenti tipici ancora oggi in uso. Come, ad esempio, l’‘inzad’, una sorta di violino a una sola corda, la cui cassa di risonanza è ottenuta tendendo la pelle su una valva di recipiente cavo; un altro strumento in uso è un tipo di ‘tambura’ formato da una pelle tesa sul mortaio per il grano, entrambi utilizzati per l’accompagnamento nei canti e nelle danze esemplari.

Altri strumenti utilizzati sono il ‘santur’ (anche: santûr, santoor, santour, santouri o santîr) è uno strumento musicale iraniano, diffuso in tutto il Medio Oriente; il ‘tar’ un particolare strumento persiano a sei corde simile al liuto che viene suonato con un piccolo plettro d'ottone, aveva normalmente cinque corde, la sesta venne aggiunta dal grande musicista iraniano Darvish Khan.
È consuetudine assai comune nelle adunanze e nelle sere passate sotto il cielo stellato davanti al fuoco dell’accampamento, cantare accompagnandosi al suono di uno strumento a fiato come il flauto di legno o con il semplice battimani per dare ritmo alla danza. Una di queste è dette ‘danza degli Aurès’ e prende il nome dal massiccio montuoso dell’Algeria orientale dove è conosciuta da gran parte dei popoli del Mediterraneo.

Come nella maggior parte delle culture dei paesi che affacciano sul Mediterraneo e in parte in Arabia, culla dell’Islam, si è conservata una naturale predilezione per la cosmesi sia maschile che femminile, la sua prima citazione è rintracciabile in un passo del Corano, in cui il profeta Maometto vede per la prima volta le Uri del paradiso islamico, descrivendole “...di una bellezza raffinata rappresentare quanto di più bello esiste sulla terra …”.

Scrive il noto cosmetologo Paolo Rovesti (5) nelle cui opere fornisce molte informazioni a riguardo, e alle quali si è qui attinto a piene mani: “Fin da tempi immemorabili l’Islam fu celebrato per i suoi cosmetici e profumi, quali la mirra, l’incenso, la cannella, il nardo, che venivano esportati dalla Sabea in tutto il mondo antico, l’antico paese preislamico corrispondente allo Yemen attuale che diede il nome alla famosa regina di Saba”.

Ben sappiamo come “in Arabia inoltre che in Etiopia e particolarmente in Egitto e in Turchia, il frequente uso di bagni odorosi da sempre hanno avuto una qualche rilevanza religiosa, come ad esempio, nelle abluzioni, nelle aspersioni e nelle fumigazioni rituali. Negli harem come nei ginecei, fino ai più attuali hamam e nelle odierne saune, la cura del corpo assume tra gli arabi una forte rilevanza nell’utilizzo di profumi, gomme idrosolubili, allumi astringenti, oli e creme di bellezza della pelle”.
Della ‘bellezza’ si legge nella letteratura araba accreditata fin dall’antichità, a iniziare dal poeta persiano Firdusi (6) il quale nel suo “Libro dei Re” parla di quanto l’uso di prodotti di bellezza esalti i valori estetici dell’amata …

“Sotto le tue mani, le tue labbra e le gote s’avvivano / i tuoi occhi s’approfondiscono, se io t’amo così come sei / quanto, dimmi, te ne dovrò volere dopo?”.

Scrive il poeta persiano del sufismo Ibn El Nakib (7) alla sua donna:
“Di un punto di rosso color sangue / ella ravviva il rosa delle sue labbra. / Di una crema odorosa di gelsomino / ella ammorbidisce la seta delle sue guance. / A me, che l’attendo oltre il ruscello, / la brezza porta il profumo incantato / di lei, sempre più bella”.

Come nella maggior parte delle culture, anche qui l’ornamento raggiunge il suo culmine nella manifattura di gioielli e nei preziosi capi d’abbigliamento in occasione del ‘matrimonio’, uno dei più importanti avvenimenti della vita comune. Al pari di un ‘grande spettacolo popolare’, questo avviene in gran pompa e vi partecipa gran parte della popolazione …

“La sposa, col volto, mani e piedi sapientemente dipinti, si adorna di tutti i gioielli accumulati in dote, ed anche di quelli che le numerose famiglie della tribù d’appartenenza mettono a sua disposizione, i cui membri giungono da ogni parte per prendere parte ai festeggiamenti”. (cit. Rovesti)

Le spose arabe di condizione benestante arrivano ad ornarsi con tatuaggi, dipingendo con l’henné molte parti del proprio corpo inoltre alle mani e le piante dei piedi ornandoli di preziosi anelli e monili, e dipingendosi le unghie con smalti colorati, in aggiunta all’uso di proteggersi con amuleti porta-unguenti e astucci porta-rossetti manufatti in cuoio e/o in filigrana d’oro e d’argento, ricchi di cesellature e lavorazioni di un gusto assai ricercato …

“Le donne in generale, tengono ai capelli, noti per la loro lucentezza ottenuta con oli di papavero, di cotone e di sesamo, nonché con l’uso di alcune emulsioni detergenti semigrasse. Il contrasto tra il turbante e i veli chiari e il nero ebano dei capelli conferisce bellezza e fascino alla loro persona. Inoltre, si truccano gli occhi con il ‘Khol’, già citato per gli uomini, e a volte si dipingono il volto con polvere d’ocra che dona loro un innaturale splendore”. (cit. Rovesti)

Mentre gli uomini tengono moltissimo alla barba che curano in modo particolare arrivando a giurare su di essa e, pertanto, si sottomettono a cure speciali, inoltre all’uso di profumare gli abiti con l’incenso che lascia agli indumenti un sentore di freschezza; le donne utilizzano “In genere le profumazioni usate sono per lo più distillati di fiori”.
Acciò è interessante ricordare che la distillazione fu descritta per la prima volta da Avicenna (8), un medico e filosofo musulmano nativo persiano che, con l’alambicco, ottenne la prima essenza di rose. […] Negli antichi ricettari arabi è affermato di poter mantenere belle le donne, con pelle giovanile e fresca sino alla più tarda età”. (Rovesti)

Come riporta ancora il prof. Paolo Rovesti: “Una simpatica tradizione è conservata fra i maghrebini, così detta ‘dei venditori di fumo’. Questi particolari individui hanno libero accesso in tutte le case sia berbere che arabe, così come negli attendamenti dei nomadi berberi, con i loro incensieri e i loro profumi aromatici, e per pochi soldi offrono la profumazione degli ambienti d’uso comune che compiono in chiave rituale. Gravi e seri, questi putiferi ambulanti, impongono tacitamente la loro merce, comparendo in una nuvola di fumo iniziale d’incenso e benzoino. Essi appartengono a una setta di filosofi che nelle volute azzurrate del fumo, simbolo dell’oblio, dispensano un piacere olfattivo che giudicano importante per la gioia dello spirito. Quindi se ne vanno avvolti in una nebbiolina azzurra dopo aver saturato ogni luogo di gradevoli profumazioni riprendendo il loro andare e dispensare altro piacere e altre illusioni”.

Come ha rivelato uno dei ‘venditori di fumo’ intervistato …

“In un ambiente sanificato e profumato si vive meglio, si ama meglio, si sogna meglio. Un buon profumo conduce verso valori estetici eterei, surreali, accentua l’euforia, immerge il corpo in un bagno aereo di bellezza, di benessere e di piacere”.

Uniti da caratteristiche etniche simili, derivate dalla fusione di popoli un tempo dediti al nomadismo, e che oggi occupano le coste dell’Africa nord-occidentale comprese tra il Mediterraneo e il Sahara, nell’area più conosciuta come Maghreb, costituiscono un crogiuolo di razze diverse, in quanto commistioni successive in prevalenza turche ed europee. Siano essi berberi o beduini, maghrebini /mauri o arabi, la cui discendenza dalle tribù nomadi del passato, quasi tutti restano amanti del loro isolamento e della loro indipendenza.
Seppure oggi vivono in insediamenti urbani relativamente recenti, molti di essi hanno conservato un forte legame di discendenza da un loro unico antenato, anche se lontanissimo, dal quale, verosimilmente hanno ereditato la terra, i nomi, le usanze e le consuetudini, ossia i valori fondanti la comunità.
Contrariamente a quanto sta accadendo in Occidente, dove si tende alla famiglia mononucleare che esclude persino i parenti un tempo considerati ‘prossimi’ e/o ‘diretti’, in questi stati, sia i nuclei famigliari considerati sedentari che quelli nomadi e semi-nomadi si considerano uniti da vincoli di parentela, anche se assai deboli, di cui vanno particolarmente fieri.

Fortemente attaccati ai loro tradizionali costumi patriarcali, seppure questi differiscano da tribù a tribù, in particolare i nomadi delle oasi per cui l’agricoltura è alla base della sopravvivenza; e quelli che vivono spesso isolati perché arroccati sulle montagne, attribuiscono all’istituzione famigliare valori profondi, divenuti d’appartenenza di ogni singola comunità. Di fatto le comunità riconoscono la linea ereditaria maschile e il capofamiglia gode di una notevole autorità.
Da sempre, mentre gli uomini sono impegnati nei lavori agricoli e all’allevamento del bestiame, le donne arabe sono per lo più dedite alla tessitura dei tappeti, esperte nell’uso della filatura e della coloratura di cui detengono un primato significativo e che ha raggiunto un alto livello artistico. In special modo, hanno padronanza dei diversi significati dei disegni utilizzati nella simbologia artistico-creativa afferente al culto religioso, diversa per i tappeti ‘da preghiera’ da quelli di uso comune, nonché nel replicare alcuni tappeti per così dire d’‘autore’ molto richiesti sul mercato interno ed anche da quello Occidentale.

Oggi assistiamo al rifiorire di un maggiore interesse per le arti e per i mestieri manifatturieri legati alle tradizioni, così come al recupero della musica cosiddetta ‘classica’ degli antenati, fatta di pochi strumenti suonati in a-solo e di quella d’accompagnamento alle danze tipiche, al tempo stesso ricca di sonorità diverse e talvolta entusiasmanti quando suonate in ‘ensemble’, dalle orchestrine nelle parate ufficiali e ‘in-concerto’ durante le feste calendariali; se bene il progressivo sviluppo e l’emancipazione in corso abbiano portato una certa commistione degli stili musicali in favore di quelli occidentali, avviandosi verso grandi contrasti sociali …

L’importanza delle feste è data dalla lettura della ‘sūra’ relativa nel Corano ad ognuna delle 114 ripartizioni del Libro; ogni ‘sūra’, a sua volta, si divide in ‘āyāt’ o versetti ai capitoli del libro sacro musulmano. L’usanza vuole che l’uomo si rechi in Moschea almeno il venerdì, mentre in molte parti del mondo arabo le donne pregano soltanto in casa. La festa ha inizio con la preghiera del mattino nella moschea dove si raccolgono in preghiera numerosi i fedeli e si cantano inni religiosi. Quindi si fa visita alle tombe dei propri defunti e solo in seguito gli uomini tornano a unirsi alla famiglia per la colazione e per dare inizio ai festeggiamenti dove vengono regolarmente consumati i dolci devozionali preparati in gran quantità e si beve il tradizionale tè alla menta. Inoltre al più conosciuto ‘Ramadan’, quelle più seguite sono ‘id al-Fitr’ che mette fine al mese di digiuno, e ‘id al-Adha’ durante la quale si commemora l’episodio in cui, secondo la religione islamica, Abramo sacrificò un montone al posto del figlio Ismaele, ritenuto il capostipite delle tribù arabe.

Per l’occasione delle feste “le donne, spesso assai belle, dagli occhi brillanti e la carnagione nocciola più o meno scura, usano trattare i propri capelli con l’henné, una pianta dal potere colorante di rosso. Ogni donna tiene in modo particolare alla propria acconciatura tribale del proprio gruppo etnico: le donne berbere, ad esempio, portano una specie di cono nei capelli, mentre le donne beduine per rialzare la massa dei capelli usano grandi trecce di lana che aggiungono all’acconciatura che stringono intorno alla testa”. (cit. Rovesti)

In rispetto alla festa le donne indossano i loro costumi tradizionali, questi sono per lo più in tinta unita arricchiti con guarnizioni e frange damascate, con aggiunta di un gran numero di monili, talvolta veri e propri gioielli in filigrana d’oro e d’argento a forma di medaglia o dischi incisi, del tipo usati per le cerimonie di matrimonio. Alla vestizione è inoltre praticato il tatuaggio in segno della maturità sessuale degli individui diverso per le donne da quello degli uomini, la cui reputazione è un segno non solo attitudinale quanto di vicendevole rispettabilità. Così avviene per recarsi al mercato che le compere vengono per la maggior parte fatte dagli uomini. D’altro canto, quando di giorno gli uomini sono fuori, le donne si scambiano visite fra loro, ma, ad esempio, nei paesi più tradizionalisti le madri di famiglia compiono queste visite in gruppo, in ogni caso le visite troppo frequenti sono disapprovate.

Allo stato attuale delle cose le donne arabe indossano il ‘chador’, il velo che ricopre la testa e il viso. La religiosità islamica obbliga specificatamente la donna di nascondere il proprio corpo ma non di coprire il volto. Tuttavia in alcuni paesi il velare il volto è rigorosamente in uso, dove il costume vuole che la donna porti oltre al velo una maschera di tessuto sul volto. Ciò è legato al concetto di ‘onorabilità’ famigliare e di pudore femminile, che proibisce alle donne di avere qualsiasi contatto che non sia di breve durata e il più superficiale possibile, eccetto con il proprio marito e i parenti più prossimi, anche se con il cambiare dei costumi nazionali di alcuni paesi, anche la vita sociale sta rapidamente cambiando.
Un esempio pratico è qui dato dal fatto che prima delle recenti riforme avvenute in alcuni stati, i mariti potevano divorziare a proprio piacimento, se pure la legge civile oggi lo sconsiglia e, in certi casi, lo proibisce. Quanto fin qui detto è decisamente voluto, in quanto oltre a una risvegliata coscienza nazionale, valida per alcuni stati moderni, vuoi per gli effetti degli incontri delle politiche sociali su scala internazionale, vuoi per gli scambi culturali tra oriente e occidente alla base del reciproco progresso religioso, filosofico, artistico e scientifico, assistiamo oggi a una globalizzazione che consente di smussare certe diversità e ostentazioni verso un arricchimento spirituale profondo.

Come abbiamo avuto modi di leggere, il modo arabo, è un ‘pianeta’ di indubbi contrasti seppure non necessariamente insormontabili, oggi messo davanti a una svolta decisiva, quella di dover affrontare cambiamenti repentini e la possibilità di perdere la propria identità culturale. È questo uno dei tanti motivi delle lotte che infieriscono in molti paesi, dove si fronteggiano due opposte concezioni di vita: la tendenza verso il nuovo e l’attaccamento ai propri valori ancestrali a quanto pare irrinunciabili.

Note:
1) Arnold Joseph Toynbee è stato uno storico inglese. Appartenne alla corrente britannica dello storicismo diffusasi nella seconda metà dell'Ottocento e che vide in Toynbee uno dei suoi massimi esponenti. Tra i suoi libri vanno citati “The study of History” - Oxford University Press 1934; “Civiltà al paragone” – Bompiani 1948; “L’uomo deve scegliere” – Bompiani 1988; “La rivoluzione industriale” – Odradeck 2004.
2) Raymond William Firth è stato un etnologo neozelandese. Fu professore di Antropologia alla London School of Economics, e si ritiene che abbia creato da solo una forma di antropologia economica britannica. Il risultato del lavoro etnografico di Firth, ha permesso di capire che il reale comportamento delle società (organizzazione sociale) è separato dalle regole idealizzate del comportamento all'interno di società particolari (struttura sociale). Tra le sue opere: “Noi, Tikopia”, Laterza – 1976; “Alcuni principi di organizzazione sociale”, in L. Bonin, A. Marazzi (a cura), Antropologia culturale, Hoepli, Milano, 1970.
3)I Tuareg o Tuaregh sono un gruppo etnico, tradizionalmente nomade, stanziato lungo il deserto del Sahara. La lingua tuareg e le sue varietà sono dialetti del berbero.
4) Tifinag è la scrittura dei tuareg, popolazione berbera del Sahara. La scrittura discende dalle più antiche forme di alfabeto libico-berbero, già attestate nelle iscrizioni libiche del I millennio a.C.; propriamente, tifinagh è il plurale di tafineqq, termine di uso più raro, che indica una sola lettera di tale alfabeto.
5) Paolo Rovesti, biologo, cosmetologo, italiano prof. Emerito della Sorbona, ha svolto ricerca sui cosmetici dei popoli primitivi, studi sulla cosmetica antica e sui profumi. Noti sono i suoi libri in collaborazione con Gianpiero Bonetti: “Alla ricerca dei cosmetici perduti “– Blow-up 1977; “Alla ricerca dei profumi perduti” - “Blow-up 1980 e “Alla ricerca dei cosmetici dei primitivi” - Blow-up 1977. Tre libri enciclopedici che ripercorrono le tappe della etnologia della cosmesi ma anche delle canzoni e delle poesie dedicate alla ‘bellezza’.
6) Hakīm Abol-Ghāsem Ferdowsī Tūsī, più noto nella traslitterazione Firdusi, Ferdowsi, o Firdowsi, è il maggior poeta epico della letteratura persiana medievale, forse il più celebrato poeta persiano. Fu autore dello “Shāh-Nāmeh”, “Il Libro dei Re” - Luni Editrice 2020, è la grandiosa sistemazione poetica, nella lingua letteraria della Persia dell’XI secolo, del patrimonio epico-storico dell’Iran, anteriore alla conquista araba e all’islamizzazione del paese. Una saga e una cronaca insieme, che riconduce in uno schema dinastico l’intera storia della civiltà persiana, dai più remoti miti cosmogonici, attraverso leggende e tradizioni orali, fino alla protostoria e alla storia della Persia preislamica.
7) Abū Sa῾ī´d ibn Abī l-Khair è un Mistico poeta persiano (Maihana, Khorāsān, 967 - ivi 1049). Fautore della corrente panteistica persiana del sufismo; in poesia, è uno dei primi autori di quartine (rubā'iyyāt) allegoriche, ove le effusioni mistiche sono presentate sotto immagini erotiche e bacchiche. Incluso nel libro “Poesia d’amore turca e persiana” – Epidem 1973.
8)Ibn Sinā, alias Abū ʿAlī al-Ḥusayn ibn ʿAbd Allāh ibn Sīnā o Pur-Sina più noto in occidente come Avicenna, è stato un medico, filosofo, matematico, logico e fisico persiano. Le sue opere più famose sono “Il libro della guarigione” 1025 e “Il canone della medicina”1027 - UTET.

Nota d’autore:
Per una migliore comprensione dell’assetto musicale dei popoli citati, sono presenti sul mercato discografico numerosi album in vinile e CD, purtroppo non facilmente reperibili, indicativi per una classificazione della musica araba nel contesto etnomusicologico di base.


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- Libri

Le periferie esistenziali - nuovo libro di Eraldo Guadagnoli

'Le periferie esistenziali' il nuovo libro di Eraldo Guadagnoli – Vincitore del Premio Letterario Nazionale 'Emozioni Tra Le Righe 2020' – Daimon Edizioni 2021

 

Omettendo lo studio analitico della trama di questo romanzo più o meno storicizzato dall’autore, è rilevante l’intento di rintracciare nella storia patria delle nostre regioni le tante ‘storie altre’ smarrite nel tempo. Ciò che, pur mantenendo una sorta di realtà affabulatrice, non hanno marcato la letteratura ufficiale, perdendosi nei meandri dell’oralità successiva alle epoche di riferimento. Qui l’autore rintraccia un fil rouge che dal 1700, “muovendosi dalla misteriosa provincia di Benevento, fino agli angoli affascinanti dell’Abruzzo meno conosciuto”, riaffiora in superfice cinque secoli dopo, all’incirca ai nostri giorni, fornendo uno stretto legame che avvicina il testo narrativo alla leggenda, la cui verità storica egli traduce in narrazione fantastica.

Ma un’altra realtà tuttavia affiora dalle pagine del romanzo che si rivela altrettanto valida e che il lettore dovrebbe tenere in considerazione, l’omissione di alcuni particolari inerenti alle tradizioni folkloriche di provenienza regionale: vuoi per le carenze delle fonti ufficiali, vuoi per le limitatezze intrinseche alle lingue orali dei luoghi originali elaborate all’uopo dall’autore, che altresì si evidenzia e si ricrea sulla scia dell’antica ‘magica’ fluorescenza del mito.

È così che dalle ‘periferie esistenziali’ della narrazione orale prende avvio la parabola comunicativa dell’autore. Come riferisce Alessandra Lopardi nella Prefazione al libro – “Il tema del viaggio come metafora di costruzione di un percorso che va oltre, cattura l’attenzione e porta a seguire la vicenda dall’interno creando suspense e interesse; i temi della scoperta delle radici, del passato che si riscopre e colora di nuove prospettive il tempo, toccano tematiche della ricerca di risposte e prospettiva, immanente e trascendente”.

Siamo qui messi di fronte alla sintesi più disparata che va dal giallo storico, al romanzo d’avventura, dall’impatto emozionale al relativismo incalzante; come è stato detto in altre occasioni, è infine il lettore a dare l’importanza dovuta al proprio leggere: dalla caratterizzazione dei personaggi, all’affermazione sintattica del proprio modo, alla determinante ‘finzione’ della propria immedesimazione.

“Il tempo della ricerca – scrive ancora Alessandra Lopardi – è scandito sul piano psicologico da incontri che completano e arricchiscono il percorso: l’amicizia, l’amore e le conoscenze che accompagnano le vicende narrate. […] Tanti e tali sono i riferimenti a Pietro da Morrone – che diverrà poi il celeberrimo Papa Celestino V – ai Templari, alla Via Francigena e alle crociate in Terra Santa che l’opera può a pieno titolo essere inserita nell’abruzzesistica templare. […] Perché il viaggio tratteggiato in questo incredibile romanzo è un po’ il cammino di tutti noi, la scoperta dell’antico, della preziosa valenza del passato da cui non si può prescindere e della necessaria spinta al futuro che muove l’animo umano”.

Non nuovo al genere giallo Eraldo Guadagnoli si è presentato al pubblico dei libri con un ‘primo’ romanzo thriller dalla trama sottile intitolato “Scacco al re” Cavinato Editore 2016, inscenando una trama a incastro come appunto accade, in questo suo ultimo da stravolgere l’intero impianto la cui ultima mossa decisiva, quella a sorpresa che si svolge appunto nell’Epilogo di questo libro... Cosa c’è di vero nella leggenda di un cavaliere tornato dalla Terra Santa? Quali segreti nascondono le pergamene mai trovate e sepolte in una biblioteca di un convento di monache di clausura? Per quali ‘segreti’ motivi una reliquia proveniente dalla Terra Santa non è mai stata menzionata nella Storia?

Queste le molteplici domande cui il libro avalla alcune risposte ad una storicità sfuggente abilmente orchestrata da ben altri fautori, all’interno delle pagine sfogliate, in cui il lettore è chiamato a sciogliere l’intreccio man mano che s’accresce la sua conoscenza dei fatti, con l’autodeterminazione a voler ‘essere’ autore della storia narrata. Dal canto suo l’autore, Eraldo Guadagnoli, si affida a una scrittura lineare in cui il fattore tempo è gestito autonomamente, dall’enfasi che impiega per arrivare in fondo, per poi scoprire che il suo coinvolgimento era già previsto. Ovvero, andando alla ricerca della ‘Verità’ e questa volta lo fa con la dovuta determinazione che gli è valso il Premio Letterario 'Emozioni tra le righe' 2020.

L'autore: Eraldo Guadagnoli è nato a Sulmona (AQ) nel 1974. Dopo gli studi classici, consegue il Master in Editoria presso l’Istituto di Formazione Superiore Comunika di Roma e inizia a collaborare come editor per diverse case editrici. Dopo il suo primo romanzo “Scacco al Re” del 2016, è la volta de “Il colore dell’inganno” per i titoli della Virginia Edizioni 2017; e “I Pentacuminati” 5 Storie di (dis)ordinario mistero, una raccolta di racconti Daimon Edizioni 2019.

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- Poesia

In ricordo di Giuseppe Greco ... poeta

In ricordo di Giuseppe Greco.

È con sincera commozione che partecipo oggi alle le esequie funebri del giovane poeta Giuseppe Greco presso la chiesa San Filippo Neri a Grottammare (AP) presentato agli amici de Larecherche.it con la silloge poetica “Soffio di parole” - edizioni Nicola Palumbi 2019:
Di un 'fluf' risuona lo spostamento d’aria nel voltare pagina quando già ‘soffi di parole’ spingono nuvole bianche verso un indefinibile orizzonte, ove la linea di demarcazione si altera verso un al di là che invita al discernimento …

Come un soffio di parole / la mia ispirazione / mi entra nell’anima / e mi fa scrivere pensieri / che non so dire / che mi colorano il cuore.

Di Giuseppe Greco riporto qui di seguito le sue ultime parole espresse nella lirica “dedicata a chi trova rifugio nello scrivere” e quindi a tutti noi ‘ospiti della rivista letteraria’ che ci gratifica nella poesia:

Tu mio sangue …

scrivi come se
non ci fosse un domani
ti guardo commosso
perché vivi l’amore
come un sogno,
dal quale non ti svegli
e del quale vivi succube,
vedi la passione
come un tramonto senza fine.
Ti chiamano illuso
ma prima dovrebbero parlare
con il tuo cuore e
capire le sue parole,
quanti silenzi celavano
l’attesa di un suo
gesto mentre dedicavi
versi cullati da lacrime mute.
Un suo sguardo o
Una sua parola, ma poi …
mai nessuna bugia
fu più amara
di una mezza verità
detta con l’illusione
di non ferirti ma
stille di sangue escono
dai tuoi occhi perché
sai quella verità,
che un’illusa pensa
di conoscere meglio di te.
Ti incontri con l’incerto
perché sai che la verità
è piena d’amore ma
rifletti e capisci come nessuno,
non l’amore è incerto ma
Ciò che nutro verso di te lo è.
Amore e sofferenza
Fanno l’amore e tu,
mi sangue sei
il loro talamo.
La penna è una missione
tutta l’arte lo è
e dietro questo dolore
c’è il poter dire con le parole
quello che gli altri guardano
nel silenzio.

Mi piace inoltre ricordare alcune frasi che inviava a centinaia di suoi fans ogni mattina con l’augurio di un felice giorno e l’invito a guardare avanti ...

Guardo l’orizzonte e / vedo sogni lontani che aiutano / i miei sogni di vile realtà. / Un viaggio di coraggio, barattato con il sudore […] siamo nell’incertezza, / cullati dal desiderio. / […] / Vedo la Terra davanti a me / ma ho l’acqua alla gola, / ora vedrò i miei sogni, / ora finalmente vedrò.

E vedrò anche oltre, nel cedevole emisfero della luce, a che il pieno giorno eguaglia le ore dell’immenso e del sublime ch’è in ognuno di noi, allorché fruga negli spazi interstiziali delle tenebre che l’attendono ...

Ti aspettavo … / Tra le spire del dubbio / osservo i miei progetti, / e una pioggia d’idee / cade sui miei pensieri / non ancora stanchi, / possano i giorni e / le mie urla si fanno più forti, / la mia casa brucia / guardando le spire della frustrazione ma / vedo una luce, / un uragano che divora l’incendio, / ora le mie parole hanno trovato la strada, / ora la mia casa si apre all’accoglienza.

C’è un momento nella vita, / in cui sei solo, / davanti a uno specchio / che riflette, quel buio / che vorresti tenere lontano. / Ma arriva la luce, / è un fuoco fatuo che / ti guida nelle tenebre e / ti fa scoprire passi di luce, / cammina perché il sentiero è lungo / … lungo come la vita.

È del silenzio, il soffio interstiziale dell’avvio che si ripete, dall’inizio alla fine, come di ossimoro legato al verso, al senso e al suo contrario poetico, libero e/o arbitrario dell’immaginale ...

Davanti a me soltanto le parole, / con le quali riesco a raccontarmi, / loro non mi chiedono niente, / soltanto semplicità, / sono lo specchio che segue i miei passi. / Di un cammino che è una dolce danza, / che nasce con un ‘soffio’ che la scuote.

I miei passi / su quel velluto verde / che accarezza i miei piedi, / quando scorgo / l’ombra di un bosco, / (di cipressi) / come punte di lancia / in un silenzio bianco (accecante di luce) / (quale) esercito in fila / pronto a cedere il passo / al calpestio dei piedi / nella marcia a ritroso / senza né vinti né vincitori / di un teatro di guerra / ch’era soltanto tranquilla apparenza.

C’è qualcosa di più nei momenti narrativi, lunghi nell’attesa dei giorni di Giuseppe Greco che ... come un bruco diventa / farfalla pitturata / di felicità che sorge / come di un’alba / e riposa soltanto / con la notte quando / tutto si spegne, / ma il buio è soltanto attesa e / poi si ricomincia.

Un poi che trasforma la sua grande voglia di vivere in ‘certezza’ del domani, che accoglie in se ogni tempo: passato, presente, futuro, come di clessidra che basta voltare perché la sabbia torni a segnare ogni singolo momento di vita vissuta, esperienziale, vertiginosa e/o obnubilata da un’eclissi che pure c’è stato, ma che nessuno avrebbe potuto immaginare. Come di un ‘fluf’ per la caduta della goccia nello stagno della memoria liquida che inzuppa di nero inchiostro la pagina bianca aperta sul diario dell’esistenza, e che del vivere segna la fine.

Acciò, proprio quando un altro bagliore, improvviso, viene a rischiarare il mondo, a muovere ... passi che non conoscevi / dopo anni d’attesa / sentirti vivo e ora / giunto il momento / ora puoi essere te, / quel te che ha vissuto, / celato nelle tue false certezze.

Quel che rimane, infine, non è poca cosa, la vita lo dimostra continuamente, ci basti sentire, quando l'abbiamo sotto i piedi “..la strada della vita, / così piena di (tante) corsie / di decelerazione.

Quella diminuzione della velocità di un corpo nell'unità di tempo che ci è dato di vivere...

Ma noi, fermi / sul bordo della strada, / ad aspettare un passaggio (che a volte non arriva) / e non sentiamo / che abbiamo gambe / che ci sorreggono / e piedi mai fermi. / Che l’unica benzina di cui hanno bisogno / è la tua voglia di fare, di esserci. / (Allora) Il vuoto, il bianco, l’apatia, la tristezza,” / (che cosa sono?) / se non il viluppo della forza che scema, che chiede linfa di nuova vita ...

... o forse solo di rinnovato amore.



L’autore.

Giuseppe Greco nasce a San Benedetto del Tronto (AP) il 10 luglio 1974 e dopo aver frequentato l’Istituto Professionale si diploma nel 1995. Nonostante i problemi di salute che lo costringono su una sedia a rotelle, s’impegna a riempire la sua vita con vari ‘passatempi’ tra cui la scrittura che è sempre stata il suo grande e veritiero amore.

Da sempre è alla ricerca di qualcuno disposto a leggere le sue opere ma, soprattutto, cerca qualcuno che creda in lui e in ciò che scrive.

Altre pubblicazioni:
Giuseppe Greco “Piccoli pensieri” – Montedit 2003















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- Musica

’Come Again’ di Danielle Di Majo e Manuela Pasqui

A voler parlare di Jazz …

È pressoché detto di una ‘imperscrutabile perfezione’, tale da sembrare una contraddizione in termini, in cui tuttavia il Jazz contemporaneo, introduce al profumo ipnotico d’una sequenza di note che forzano gli spazi interstiziali, ‘senza-audio’; e che invade con gli accordi simultanei delle vibrazioni ‘al femminile’: epidermiche di corde tese, di ottoni altisonanti, di sistri immaginari di un trascorso che disconosciamo … non solo perché supera in profondità ctonia o in altezza stratosferica quanto è dato ascoltare ma, in quanto unisce, avvolge e compenetra il silenzio all’armonioso viluppo del tutto.
Una qualità che dimostrano ben pochi strumentisti Jazz nell’affrontare le tematiche che si propongono, allorché spaziano voluttuosi e/o lascivi in tutto ciò che va oltre l’idea della consonanza, di quella conformità che spesso rende il Jazz al maschile ‘illeggibile’ all’orecchio dell’ascoltatore: vuoi per eccesso di virtuosismo talvolta fine a se stesso; vuoi per un difetto coitale che affretta la conclusione d’ogni ‘pezzo’ (brano) eseguito … sì da lasciare basito l’artista benché attratto nell’immaginario dilettevole del suono prodotto dal proprio personalissimo ‘stile’ che lo distingue.

“Gli artisti non hanno quasi mai cognizione della propria arte […] perfino gli artisti più celebri del mondo”. (*)

Va considerato, inoltre, il ‘suono’ e/o la ‘voce’ propria di ogni singolo strumento, allorché viene personalizzato in un ‘corpo-a-corpo’ con l’esecutore stesso che ne assume così l’identità. E cosa c’è di meglio di misurarsi con una musica coinvolgente, ‘a tutto tondo’, che si conforma con l’ascoltatore, e il cui richiamo introduce e/o re-introduce assonanze del passato-remoto a confronto con il presente-futuro, al fine di unico di restituire alla musica l’amore e l’entusiasmo di una passione esercitata nel tempo … anni in cui l’artista ha maturato la sua personale ricerca.
È questo il caso di un album/cd B.I.T. Back in Time dal titolo “Come Again” di recente immissione sul mercato discografico che vede due eccezionali strumentiste Danielle Di Majo (alto e soprano sax) e Manuela Pasqui (piano), alle prese con brani insoliti quanto insospettabili, presi dalla tradizione e dalla produzione di celebri compositori, trasposti in un Jazz raffinato ed elegante, esclusivo, da veri intenditori, che si spinge dai ‘pianissimo’ essenziali di Manuela, fino a ‘lontananze’ inusitate o, se vogliamo, a certe ‘solitudini’ nello spirito del ‘melos’ vocale.
Ciò per quanto riguarda le ‘voci’ del sax di Danielle che, per effetto di scelte mature, ha abbandonato l’aggressività del Rock-duro per rivolgersi al Jazz-puro, in cui la suggestione, trasferita nel suono, si traduce qui in emotiva affabulazione in alcuni brani quali: “L’amour me fait commencer une chanson” del compositore medievale Thibaut de Champagne, “Cagnaccio” della stessa Danielle; “Come Again” di John Dowland, nonché il preliminare “Canone” di Pachelbel, e le cantabili “Lasciatemi morire” e “Sì dolce è il tormento” entrambe riprese, cosa inaspettata, dalla copiosa produzione di Claudio Monteverdi.
Nonché, e sorprendentemente, fanno parte di questa raccolta decisamente Jazz, “Bunessan” acquisito dalla tradizione scozzese delle ‘carols’ natalizie, e il brano firmato dalla stessa Manuela Pasqui, “Della mancanza e dell’amore”, in cui il piano assume valenza cosciente dello ‘spirito’ del suono. Quasi una consacrazione filosofica a quella che possiamo ben definire ‘musica concettuale’ … in quanto espressione della contemporaneità degli intenti jazzistici, attivi nella più recente progettazione musicale di molti artisti:

“L’amore per la musica, la tenacia e l’entusiasmo di suonare insieme, sono le forze che ci hanno spinto e guidato nel realizzare questo nostro progetto” – hanno dichiarato le entusiastiche interpreti dei questo concept-album targato Filibusta Records, registrato a Roma all’Arcipelago Studio - Dicembre 2020. (*)
Note di copertina:

(*) Executive Producer – Filibusta Records – info@filibusta records.com

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- Libri

Ken Follett Kingsbridge Trilogy

Ken Follett Kingsbridge Trilogy
"I pilastri della terra" - "Mondo senza fine" - "La colonna di fuoco"

Ken Follett non ha certo bisogno di presentazioni, il suo libro "I pilastri della terra" (2007) e i successivi "Mondo senza fine" (2007) e "La colonna di fuoco" (2017) seguiti dal prequel "Fu sera e fu mattina" (2020) prepotentemente presenti sugli scaffali delle librerie, devono certamente qualcosa alla straordinaria versione cinematografica di Ridley Scott presentata in esclusiva per Sky Cinema (2010) nella trasposizione televisiva lunga 8 ore e costata 40 milioni di dollari per il solo primo dei titoli. Uno dei romanzi/saga più letti nel mondo (14 milioni di copie vendute), ambientata nell'Inghilterra del XII secolo, attorno alla costruzione di una maestosa cattedrale a Kingsbridge, progetto che scatena una feroce guerra di potere, perché. come ha spiegato lo stesso Follett "per ciascun personaggio è il simbolo di una diversa aspirazione".
Ciò, non tanto per rinverdire un successo letterario strepitoso, quanto per ripercorrere lo "straordinario" contenuto medievalista dei romanzi quanto per segnalare la necessità di tornare a una maggiore cura dell'io narrante a vantaggio di un colloquio con ciò che la scrittura ha di più intimo e sensibile. In cui lo "straordinario" è soprattutto inteso come "memoria storica", "immaginazione visiva", di quel "rincanto" che in sociologia ha significato di recupero della fase storica in cui viviamo, troppo spesso dismesso o assente dal linguaggio e dalla scrittura odierna. Non di meno come reazione all'instabilità del mondo contemporaneo che, almeno per noi lettori, serve ad addolcire gli effetti alienanti delle odierne megalopoli, nonché prodotti dagli odierni media e dalla massificazione tecnologica.

Come per l’appunto scrive M. Longo promovendo una riflessione che dai classici (Durkheim, Weber, Simmel) attraversa tutta la ricerca sociologica del Novecento (Parsons, Horkheimer, Adorno) fino a promuovere nel dibattito attuale l'ipotesi che, "mentre la prima modernità ha prodotto un'immagine disincantata del mondo (Weber), in quella contemporanea si manifestano "rincanti" che rendono più tollerabile per il singolo la crisi delle certezze e l'instabilità dei punti di riferimento".

La scrittura e la lettura dei tre romanzi di genere "medievale" concepiti da Follett nel loro insieme, affrontano qui tematiche a tutto tondo, quali le guerre, le passioni, le speranze degli uomini nell'Inghilterra del XII secolo, intorno alla costruzione di un’imponente cattedrale che, come "un sogno di pietra che si staglia contro il cielo", si traducono in monumento letterario che va oltre il contesto narrativo per restituire alla memoria ciò che è stato. Qualcosa che verosimilmente l'autore ricrea exnovo, rileggendo e reinterpretando la storia in chiave fantasy, come archeologia futura, in quanto repertorio d’immagini già immaginate, che va a sostituire l'immaginario con l'immaginazione, in un registro creativo, personale, realisticamente immaginato.
Si è qui coinvolti nell'enfasi di un insieme romanzato rivolto appunto al recupero della memoria, lì dove la memoria è meno prevedibile e meno motivata dall'esigenza razionale, rispetto all'intelligenza e all'azione. Così come la memoria – scrive Asor Rosa: “...è, oltre che inesplicabile, anche inesauribile, possiede la conoscenza del passato, ma ha anche memoria di sé: persone, oggetti, cose di cui ognuno fa esperienza. (...) Se i tempi della vita sono: presente, passato e futuro, quello della memoria, è invece la simultaneità, che coincide con l'identità. Il nostro "non tempo", va arricchendosi sempre di nuovi particolari in cui immaginazione e realtà si mescolano, e attraverso le quali l'uomo non fa che costruire, decostruire e ricostruire se stesso".

Quale mescolanza d’immaginario e realtà, la memoria storica va comunque tutelata, sia che miri a ottenere risultati oggettivi contrastanti, sia che ponga obiettivi determinati come appunto accade in questa trilogia. A incominciare dal primo tomo “I Pilastri della Terra”, in cui l’autore ci restituisce la storia rivisitata e filtrata dalla memoria che si fa racconto, dispiegandosi liberamente senza frapposizione di ostacoli. Infatti, la memoria storica, reale o verosimilmente ricreata, ha molti rimandi oggettivi quanto letterari, come ad esempio ci permette di ricordare una straordinaria Mostra sul duomo di Modena vista nel lontano luglio '84 (a cura di Claudio Franzoni), intitolata "Quando le cattedrali erano bianche", dall’omonimo libro di Le Corbousier del 1937, in cui il grande architetto affermava: "Nel corso degli anni, mi sono sentito diventare sempre più un uomo di dovunque".
Superfluo aggiungere che lo sguardo del celebrato architetto, il cui testo consacrava il lirismo logico del suo essere creativo, non era rivolto solo al mondo dell'architettura, anche se esso, costituiva per lui una pietra di paragone, un messaggio sociale, una profezia capace d'interpretare le speranze di rinnovamento di un'intera civiltà, per la frequente contrapposizione storica tra il vecchio e il nuovo continente. Tutto ciò è quanto mai attuale se applicato al tempo in cui l'Europa tutta riorganizzava le arti e i mestieri dietro l’azione imperativa di una tecnica di costruzione completamente innovativa, e gli uomini erano piuttosto artisti che non semplici plasmatori di materia.

Materia che riempie le pagine dell'altro tomo "Mondo senza fine" e il successivo …. di cui già il cinema si è appropriato, con buon auspicio per l'autore. Che è poi quanto ricorre in tutti i romanzi di Follett, dal medioevo fino a ieri, cioè fino a quando la costruzione dell'uomo (e della società) sembra essersi fermata, prima di ritrovarsi all'interno di una rievocazione storica in chiave mystery, ricca e attenta, incentrata sulla mistica sospensione dell'amore, quasi da sfiorare l'inverosimile per la ricercatezza degli orpelli e l'ordine estetico.
In questo, i sequel cinematografici, sono un po' carichi e fin troppo "limpidi" nel volerlo dimostrare ma, comunque, artisticamente validi. Pur se, diversamente, va detto, nei suoi romanzi la “saga d'amore” assume una dimensione epica che va dall'Inghilterra medioevale, nel tempo della costruzione di una cattedrale gotica, per giungere, con la stessa infallibile suspense che caratterizza tutti i suoi thriller, è da ricercare nella la sua folle corsa contro il tempo.

È in questa dinamica della corsa dietro la fugacità del tempo che si registra quel "mi sono sentito diventare sempre più un uomo di dovunque" detto da Le Corbousier in cui, anche noi, di fronte alla costruzione, (impossibile), della grandiosa cattedrale (della vita), finiamo per ritrovarci davanti a quel re-incanto che è la costruzione stessa dell'uomo, nel ripetersi di quel primitivo prodigio originario ricevuto nel momento della creazione: il re-incarnarsi individuale cosmico nella crescita e nella sua evoluzione, con i suoi sentimenti e gli intrighi, i pericoli e le minacce, le guerre, le pandemie e le carestie, i conflitti religiosi e le lotte per la successione di troni, in un periodo storico che oso definire "esemplare" dell'avventura e della sopravvivenza umana.
Lì dove l'uomo-faber infine si è imposto e ha creato la sua civiltà, la sua gabbia dorata, e ha trovato la sua redenzione nell'elogio dell'altro. E che, alla stregua di tanta arte, evidenzia una storia di ambizioni e di coraggio, di dedizione e tradimenti, amori e vendette, ove si scontrano le segrete aspirazioni e i sentimenti dei protagonisti, di quegli uomini che verosimilmente compiono la storia. È sullo sfondo di questo tempo, che oso definire del re-incanto, che tuttavia si sovrappone al tempo del timor-sacro, onde il voler evidenziare l'incertezza che spinge paradossalmente tutti noi, a pensare il tragico, a incontrare e vivere la morte solo come una persistente assenza inconfessabile quanto inaccettabile.

Allo stesso modo in cui pure accadeva in "Il nome della rosa" di Umberto Eco, (il primo grande capolavoro del genere), nella trilogia romanzata di Follett si respira l'integrazione della morte come il migliore e l'unico modo per esorcizzare il tragico, rappresentato dalla sublimazione artistica, per cui l'impostazione creativa va oltre quanto offerto dalla quotidianità, per superare di gran lunga la forma letteraria, sospingendosi inesorabilmente verso il pensiero virtuale odierno.
Pensiero che tuttavia è capace di far esplodere nuovamente il mito, e mostrare il re-incantamento del mondo, come un mix di gesta leggendarie dove cavalieri e dame di corte sono protagonisti di gesta eroiche, quasi a voler indicare che è proprio questo nostro essere ludico, giocoso del bambino che muove le marionette, che in fondo anima la nostra vita quotidiana, e che ha nome: destino.

Ken Follett (*), pseudonimo di Kenneth Martin Follett (Cardiff, 5 giugno 1949), è uno scrittore britannico.

Considerato uno dei più grandi narratori al mondo, ha raggiunto la prima posizione del New York Times best-seller list con molti dei suoi romanzi, tra cui Il codice Rebecca, Un letto di leoni, Mondo senza fine, La caduta dei giganti, L'inverno del mondo, I giorni dell'eternità, La colonna di fuoco e Fu sera e fu mattina. Due dei suoi libri, I pilastri della Terra e La cruna dell'ago, sono stati inseriti nella lista dei 101 best seller più venduti di tutti i tempi, rispettivamente al 68º e al 92º posto. Ha venduto più di 150 milioni di copie nel mondo, ed è uno dei più ricchi e famosi giallisti britannici della storia. Nel 2018 è stato insignito dell'onorificenza di Comandante dell'Ordine dell'Impero Britannico (CBE) per i suoi servizi alla letteratura.

Successivamente torna al genere del romanzo storico con Mondo senza fine (2007), sequel de I pilastri della Terra. Nel 2010 pubblica La caduta dei giganti, primo capitolo della cosiddetta "Century Trilogy" (la trilogia del secolo), che ripercorre i principali fatti storici del Novecento,[12] dall'incoronazione del re Giorgio V del Regno Unito fino alla caduta del muro di Berlino. Il secondo volume, intitolato L'inverno del mondo è uscito nel 2012, mentre la terza ed ultima parte, dal titolo I giorni dell'eternità, è stata pubblicata nel 2014. Nel settembre 2017 torna ancora nell'Inghilterra medievale con l'uscita de La colonna di fuoco, terzo libro della serie di Kingsbridge. Il 15 settembre 2020 è stato pubblicato il prequel de I pilastri della Terra, intitolato Fu sera e fu mattina.

(*) Wikipedya











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- Libri

Se un giorno d’estate ... Italo Calvino

Se un giorno d’estate … Italo Calvino

Una rilettura necessaria, una recensione impertinente. Liberamente dedotta dal romanzo “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, Arnoldo Mondadori Editore 1979.

 

È lui. Non è lui. Credo di sì, è proprio lui. L’uomo in tuta che mi sorpassa di corsa per la strada, sta facendo jogging. Per un momento ho creduto fosse lui, aspetta dov’è che l’ho visto? Ma forse non l’ho mai visto. Eppure ho la sensazione di averlo già visto da qualche parte? – mi chiedo. No, altrimenti l’avrei riconosciuto a prima vista. Aspetta, sarà perché col sudore negli occhi non metto facilmente a fuoco. Mi fermo, aspetto che passi di nuovo. Di solito chi fa jogging ripercorre lo stesso percorso: da qui a lì e ritorno, da lì a qui il circuito cambia solo di prospettiva, il sentiero che si snoda fra gli alberi del parco, il piano, la finta collina che sale e che ridiscende e di nuovo il sentiero – stavolta dritto nella mia direzione. Lo aspetto. Certo che è lui. Non è lui… ma sì lo scrittore Italo Calvino. Senta, è lei o non è lei? … No, sa perché volevo dirle… – non si ferma. Continua accelerando il passo nella corsa. Lo inseguo per un breve tratto. Finalmente rallenta colto da un breve colpo di tosse – si ferma. Quando mi avvicino riprende imperterrito la corsa.

Buongiorno! – esclamo raggiungendolo. Mi scusi, non volevo disturbarla. Lo ha appena fatto. Mi scuso ansimando per il fiato grosso … lei non sa quanto le sono grato. Non saprei dirgli per cosa – per fortuna non me lo chiede. Sa, ho letto il suo ultimo libro, vorrei capire … Una panchina. Ci fermiamo. Mi siedo per primo, quando avrei dovuto aspettare che si sedesse prima lui – solo perché è arrivato per primo. Non sempre chi arriva per primo dev’essere il primo in ogni altra cosa. Di fatto, da secondo smarrisco il tema della conversazione. Mi riprendo. Come le dicevo ho letto il suo libro “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, e a un certo punto mi sono perso. Già, in quale punto? – mi chiedo … che fosse alla stazione mentre aspettavo il treno. No, quello è all’inizio del libro.

Di quale libro se uno dentro l’altro, alla fine, i libri sono così tanti che solo ad elencarli provo la vertigine da omissione mentale che non mi permette di ricordarne i titoli. Eppure c’è un punto in cui … ecco, sono davanti agli scaffali della sua ipotetica Libreria Universitaria cercando il libro di un autore sconosciuto. Ma se è sconosciuto come posso trovarlo? – mi chiedo. Ovvio, se non ricordo il nome dello scrittore perché sconosciuto, dovrei sapere almeno il titolo del libro che sto cercando. Il conquibus rasenta l’incapacità di raccapezzarmi all’interno di una sì ampia libreria, dove a venirmi incontro sono i dorsi di migliaia di libri incastrati negli scaffali, di migliaia di autori sconosciuti, di titoli impossibili da ricordare – che fare?

Mi scusi, esiste una lista? Sicuramente c’è da qualche parte, basterebbe appenderla all’inizio dello scaffale. Certo ma di quale scaffale, iniziando da destra verso sinistra o dall’alto al basso, che va dalla A dell’abbecedario all’ultima consonante Z – come si compongono nell’odierno Dizionario – oppure? Tutto sta in quell’oppure che rientra nell’infinito labirinto delle parole usate dall’autore di “Se una notte d’inverno un viaggiatore” che, se non lo avete letto, non leggetelo. Ne vale l’incolumità della vostra mente che, ottusa-mente, si sofferma a voler comprendere ciò che non è dato sapere, se non l’astrusa (paranoica) volontà di incastrare situazioni possibili/impossibili racchiuse, come in una scatola cinese. Per poi svelare al lettore che si tratta di un gioco delinquenziale incastrato nel mistero occulto della parola. Quella parola di cui noi tutti, da sempre, andiamo alla ricerca del senso. Benché trattasi di un mosaico di preziose allocuzioni verbali, esortazioni arcane, arringhe filosofiche per ogni situazione – più che mai valide ancora oggi.

Il lettore assiduo di romanzi che sfoglia per la prima volta questo libro inconsueto, ben sa che a sua volta sarà preso nella trama inesistente, nel tessuto di quel “Il sentiero dei nidi di ragno”, dal quale non potrà sfuggire l’affabulazione dei suoi costrutti, delle sue incoerenze come delle coerenze, delle consistenze dei significati nascosti e palesi, degli assidui riferimenti storici e letterari – come in un compendio di un sapere ‘grande’ – accurato, definitivo. O, forse, non poi così definito, ma nell’accezione di composito, variegato e multiforme – eclettico (?). Sa che quel treno in partenza non arriverà mai a destinazione perché da sempre è fermo nella stazione delle sue “Città invisibili”, e da sempre arriva dove gli è concesso arrivare …“Insomma, è preferibile tenere a freno l’impazienza e si aspetti ad aprire il libro quando sei a casa. Ora sì. sei nella tua stanza, tranquillo, (si fa per dire), apri il libro alla prima pagina, no, all’ultima, per prima cosa vuoi vedere quant’è lungo. Non è troppo lungo, per fortuna.”

Distante dal concedere alcuna tregua l’autore de “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, alias Italo Calvino, mi trascina in luoghi a me sconosciuti, oltre il parco, oltre il sentiero che si snoda fra gli alberi – ben oltre la mondanità degli scrittori di best-sellers attuali che, prima o poi, si fermano in una qualche stazione evidenziata sulla mappa stradale d’una qualche città – qualunque città: New York, Singapore, Tokyo, Roma, Londra, Parigi, Amsterdam, Istanbul, Dubai … uguali l’una all’altra – tutte anonime allo stesso modo. In ognuna di esse vive, o forse pensa di ‘vivere’, un ammasso abnorme di gente conforme, omologata quanto ‘invisibile’. Sostenuta dalla speranza di un possibile/impossibile riscatto dalla schiavitù in cui volutamente soggiace – e che giammai sarà diversamente.

Quand'ecco egli non si concede, non mi sta a sentire, riprende la corsa. Non vuole saperne delle mie domande incongruenti, sbiadite, perse fra le pagine del suo libro “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Eppure ero certo che le avrebbe trovate interessanti. Anche se adesso, fra le tante, non ricordo più quali fossero “…davanti agli accattivanti meccanismi di attesa ch’egli prepara ogni volta con stupefacente maestria, e che perfidamente si rifiuta di soddisfare” (*). È così che insieme al filo ho perso anche il segno, il treno sul quale sono giunto fin qui. Il nesso che mi conduce da un libro all’altro, da un vagone all’altro, è sintomatico della dimensione del tempo … “I romanzi lunghi scritti oggi forse sono un controsenso: la dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non a spezzoni di tempo che s’allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono. La continuità del tempo possiamo ritrovarla solo nei romanzi di quell’epoca (di ogni epoca) in cui il tempo non appariva più come fermo e non ancora come esploso, un’epoca che è durata su per giù cent’anni, e poi basta.”

Ma come, solo cent’anni? Senza altra continuità? E quelli che devono ancora passare? – mi chiedo. Sì tutti quei treni che affollano tutte le stazioni dei treni, lì dove tutto inizia e verosimilmente tutto finisce – come in questo romanzo … “Il romanzo comincia in una stazione ferroviaria, sbuffa una locomotiva, uno sfiatare di stantuffo copre l’apertura del capitolo, una nuvola di fumo nasconde parte del primo capoverso. … Le stazioni si somigliano tutte; poco importa se le luci non riescono a rischiarare più in là del loro alone sbavato, tanto questo è un ambiente che tu (lettore) conosci a menadito, non è forse così? Con quell’odore di treno che ti resta addosso anche dopo che tutti i treni sono partiti, l’odore speciale delle stazioni dopo che è partito l’ultimo treno. Le luci della stazione e le frasi che stai leggendo sembra abbiano il compito di dissolvere più che di indicare le cose affioranti da un velo di buio e di nebbia – tutto mescolato in un unico odore che è quello dell’attesa.”

O forse che è quello dell’assenza? Già, l’assenza. Come parlare di un “margine d’indeterminatezza e di provvisorietà” cui non sappiamo dare forma, colore. In cui tutto si amplia e sfoca come dietro un vetro appannato, in cui tutto si riduce e svanisce dentro lo sbuffo di vapore di quella dannata locomotiva che nella corsa esclude ogni possibile immagine – ogni nostra convinzione di limpidezza. Ciò che manca, infine, e/o che viene a mancare, non è in ciò che crediamo, ma in ciò cui vogliamo credere – anche se non ci crediamo. Come di un ponte sospeso nel vuoto, sul vuoto della nostra incertezza, della nostra illusorietà che di volta in volta sbiadisce col passare del tempo – e la paura di “guardare in basso dove l’ombra s’addensa” … Siamo ad una svolta, allorché l’autore fa dire alla donna delusa, uno dei tanti personaggi che riempiono le pagine del libro: – “I romanzi che preferisco, sono quelli che comunicano un senso di disagio fin dalla prima pagina…”.

Per quanto, va detto, che il disagio in qualità di lettore, lo si percepisce dalla prima all’ultima pagina – un’ansia trasmessa dal ritmo intermittente del treno sulle rotaie – ta-tata-tatà-traaash – pari allo stridore metallico che talvolta fa raschiare i denti al viaggiatore e che lo mantiene sveglio per tutto il tempo. Specialmente di notte quando tra un dormiveglia e un altro, la mente allertata, immagina, vagheggia quel che non è tipico del sogno, bensì si rappresenta in scene: velleità, ambizioni, suspense, protagonismi – come per un film tutto da scrivere. La sceneggiatura, anzi le sceneggiature, sono già tutte scritte in questo libro dai risvolti onirici, tendenzialmente mirate, per quanto manierate, dentro i risvolti di una detective story e/o di una short stories che di volta in volta si colora di nero, di giallo, di rosa “In una rete di linee che s’allacciano” – nient’altro.

Tutto il resto continua a correre, anzi, si direbbe a scorrere come un fiume in piena – verso quale mare (?) Che importa se del “resto viviamo in una civiltà uniforme, entro modelli culturali ben definiti”. Se “Questo libro è stato attento finora a lasciare aperta al Lettore che legge la possibilità d’identificarsi col Lettore che è letto: per questo non gli è stato dato un nome che l’avrebbe automaticamente equiparato a una Terza Persona, a un personaggio … e lo si è mantenuto nell’astratta condizione (e convinzione) dei pronomi, disponibile per ogni attributo e ogni azione.” Ciò, per quanto nella foresta dei nomi, tra gli autori citati (fittizi) e pseudo personaggi (vari), il Lettore è sempre presente, anzi è il personaggio chiave del libro, sì che sembrerebbe non essere mai uscito dagli scaffali della Biblioteca Universitaria dove ci si è incontrati per la prima volta.

Persi fra i tomi, dai dorsi e dalle coperte stampate, dagli interstizi lasciati dai rilegatori degli impaginati, dai molti titoli enunciati, dalle vanaglorie dei loro incipit – dacché il presunto Lettore dispone a perdita d’occhio di un numero esorbitante di volumi. Per quanto distinguibili gli uni dagli altri, magari divisi per altezza: da quelli più voluminosi ai più striminziti, dai più alti ai più bassi, senza un ordine cronologico per data o per autore – quindi da dove incominciare, o meglio, da dove ricominciare? – non saprei mi dico … “La ragione principale degli accostamenti …”, ha forse un suo senso personale, ma caro Lettore, non si gestisce così una biblioteca che possa dirsi una Biblioteca. C’è bisogno d’altro. Per esempio di leggerli, di averli letti, di una promessa di lettura, altrimenti tenerli lì a prendere polvere prendono peso, s’inaridiscono e poi addio, non li si aprono più. Come per esempio questo “Se una notte d’inverno un viaggiatore” che dall’anno della sua pubblicazione è rimasto inerte sul tuo comodino fino al 2021, lasciando che il tempo si appropriasse dei suoi canali di trasmissione – che altri, estranei, misurassero la propria voce alla tua di Lettore …

“Dalla voce di quel silenzioso nessuno … fatto d’inchiostro e di spaziature tipografiche”, che avrebbe potuto essere la tua, (e/o la mia), e dar luogo a uno scambio di linguaggio, d’idee, di creare un codice per reciproci scambi futuri – segnali, riconoscimenti. Del resto … “Leggere come io l’intendo, vuol dire profondamente pensare” (*), ha lasciato scritto il poeta, quasi che il sapere (conoscere) fosse la sua sola passione. Ma noi Lettori sappiamo già essere così, ciò a cui il rinnovato invito dell’autore, alias Italo Calvino, punta con questo suo libro: l’invito a una reciproca ‘condivisione’ di lettura, allo scambio affettivo fra la parola scritta e la voce narrante – fra la passione per i libri e il detenerli, magari collezionarli – che è poi un atto d’amore che intercorre fra lo Scrittore e il Lettore … È lui. Non è lui. Sono certo ch’è lui … ma sì lo scrittore Italo Calvino.

Senta, è lei o non è lei? … No, sa perché volevo chiederle… – questa volta si ferma. Al che posso finalmente porgli la domanda finora omessa per futile dimenticanza: Scusi, ma lei è mai sceso dal suo treno? Sì certo, molte volte, ma solo per prendere una qualche coincidenza!

 

Note: (*)

Dalle note di copertina. (**) Vittorio Alfieri Tutti i virgolettati sono di Italo Calvino - Tratti da "Se una notte d'inverno un viaggiatore" - Arnoldo Mondadori Editore 1979. Gli aforismi - sono presi da 'Aforisticamente' che ringrazio sentitamente.

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- Libri

Per ora non ancora, tuttavia in qualsiasi altro momento.

"Per  Ora Non Ancora, Tuttavia In Qualsiasi Altro Momento". Un libro di Giorgio Mancinelli - KUBERA Editore 2021.

 

Dieci racconti brevi: 'in giallo, in nero e rosa shocking' selezionati per la prima volta in volume, di chiara matrice cinematografica anglo/americana, (come del resto recita la dedica in apertura del libro.

Sia ciò nell'esposizione che nei contenuti, nel segno dell'odierna fiction autoriale che trascina e coinvolge, che ora stupisce e affascina, contraddistinta da un tono irridente che le conferisce un'elegante leggerezza di stile, anche nei racconti più 'forti' ed emotivamente intensi.

Dieci racconti scaturiti dalla matrice cinematografica delle location, una per ogni racconto, da cui emerge mirabile la scelta dei personaggi, caratterizzati da un intelletto vivo e brillante che, regalano al lettore interessanti divagazioni filosofiche, pur sempre ancorate a esperienze di vita.

 

Corsivo d'autore: "E' nell'imprevedibilità degli errori, nella sfacciataggine di certi soggetti, nelle mal riuscite prove di serietà, l'aver posato l'attenzione sugli esseri umani e l'incontrollabile voglia di scrivere, ciò che mi ha permesso di elaborare questi racconti".

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- Cinema

Cinema News in collaborazione con Cineuropa

DE ROME À PARIS - RENCONTRES DU CINÉMA ITALIEN
13e ÉDITION / 17-20 JUIN 2021 / CINÉMA L’ARLEQUIN

Le festival DE ROME À PARIS est un des rendez-vous incontournables du cinéma italien. Chaque année plus nombreux, les spectateurs viennent y découvrir une sélection d’une dizaine de longs- métrages italiens récents (fiction, documentaire, animation) encore inédits en France. Ces films sont présentés en présence des équipes des films, réalisateurs et comédiens venus échanger avec le public.
Cette année encore, le festival est accueilli au Cinéma L’Arlequin, dans le 6ème arrondissement.
DE ROME À PARIS est soutenu par le Ministère de la Culture italien et organisé par ANICA (Association Nationale des Industries Cinématographiques Audiovisuelles et Multimédia) en coopération avec ICE-AGENZIA (Institut du commerce italien), L’AMBASSADE D’ITALIE, ISTITUTO LUCE CINECITTÀ.

COMITÉ DE SELECTION
Les films ont été sélectionnés par un comité composé de professionnels du cinéma en France :
VIVIANA ANDRIANI, Italienne basée à Paris depuis 1995, a créé́ sa société́ RENDEZ-VOUS de relations presse cinéma pour les sorties nationales en France et pour le lancement de films dans les principaux festivals (Cannes, Berlin, Venise). Pour la presse internationale, elle a accompagné́ de nombreux films de cinéastes français, dont Robin Campillo, Laurent Cantet, Philippe Garrel, Céline Sciamma, Raoul Peck, Xavier Giannoli, Pascale Ferran, Bertrand Bonello, Mathieu Amalric, Valeria Bruni Tedeschi, mais aussi de grands cinéastes étrangers, dont Laszlo Nemes, Jafar Panahi, Kléber Mendonça. Pour la presse française, elle a travaillé́ aussi avec de grands auteurs étrangers, notamment Frederick Wiseman, Naomi Kawase, Wang Bing, Roy Andersson. Elle a notamment contribué à faire connaitre certains cinéastes italiens émergents dont Gianfranco Rosi, Michelangelo Frammartino, Fabio Grassadonia & Antonio Piazza,Roberto Minervini, Pietro Marcello, Vincenzo Marra, Emma Dante, Edoardo Winspeare, et retrouvé les grands noms du cinéma italiens, tels Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Marco Tullio Giordana. De 2005 à 2015, Viviana Andriani a été consultante pour la sélection des premiers long- métrages français à la Semaine de la Critique de la Mostra de Venise.
THIERRY DE COURCELLES a débuté sa carrière dans le cinéma entant que responsable développement et acquisitions de la société́ de distribution Océan Films. Il a contribué au succès de bon nombre de films tels: In the Mood for Love, 2046 (Wong Kar Way); Millennium Mambo (Hou Hsiao Hsien), The Eternity and one day (Theo Angelopoulos) qui a remporté́ la Palme D’Or, Good bye Lenin (Wolfgang Becker), La Meglio Gioventù (Marco Tullio Giodana), Buongiorno Notte (Marco Bellocchio), The Return (Andrey Zvyagintsev), The Life of Others (Florian Henckel von Donnersmarck), No man’s land (Danis Tanovic). Ayant rejoint l’équipe de TF1 il a également su découvrir des films brillants au stade de développement avec le pré́-achat de projets comme Dallas Bruyeres Club de Jean-Marc Vallée et Carol de Tod Haynes. Depuis deux ans il est directeur des acquisitions chez UGC où il travaille sur des projets très prometteurs tels que le prochain film de Terence Malick.
ILARIA GOMARASCA, après un master en Littérature à l’Università Cattolica de Milan, a entamé six mois de recherche sur les nouveaux médias au Département d’Art Graphique du Musée du Louvre. En 2009 elle débute son activité dans le secteur du cinéma à Paris pour la société de ventes internationales Wide et devient responsable du département Festivals. En 2013 elle rejoint la société Pyramide International en tant que responsable Festivals et Marches. Elle gère les relations avec les artistes et la promotion du catalogue auprès des directeurs de festivals, des cinémathèques et des institutions à l’estranger. En 2019 elle rejoint l’équipe du First Cut Lab, comme responsable du nouveau programme First Cut+, qui promeut un portfolio de 16 films de fiction en post-production.
PAMELA PIANEZZA est journaliste, écrivaine, photographe et programmatrice de festival. En tant que journaliste elle travaille avec Variety, Dazed &Confused, Cine+, Canal +, Arte et est éditrice du magazine culturel quotidien Tess. Elle présente également les Golden Globes pour Canal Plus. Elle a longtemps travaillé en tant que programmatrice pour la Semaine de la Critique du Festival de Cannes, entant particulièrement spécialisée sur le cinéma italien et est responsable de la section courts-métrage du Festival International de Fribourg. Elle enseigne critique du cinéma et les arts visuels.
NADIA TURINCEV est née en 1970 à Moscou (URSS) et a grandi à Paris. A 12 ans elle tombe folle amoureuse d’Andrei Konchalovsky et commence à voir plein de films. A 16 ans, elle débute comme stagiaire sur les Yeux Noirs de Nikita Mikhalkov, préparant des sandwiches pour Marcello Mastroianni. Elle travaille ensuite comme interprète de plateau. Puis pour ACE- Ateliers du Cinéma Européen, Europa Cinémas, le Club des Producteurs Européens, le programme Media. Elle a également été́ au Comité́ de sélection de la Quinzaine des Réalisateurs et au Festival de Moscou comme directeur artistique. En juillet 2007, elle fonde avec Julie Gayet, la maison de production Rouge International. « L’universel commence quand on pousse les murs de sa cuisine » – telle est leur devise. Elles travaillent beaucoup mais ne s’amusent pas moins.

Programme
Jeudi 17
20:00
Pour Toujours (Sale 1)
Vendredi 18
16:00
L’Agnello (Sale 3)
18:00
Hammamet (Sale 3)
20:30
Non Odiare (Sale 1)
Samedi 19
13:45
Maledetta Primavera (Sale 3)
15:45
Cosa Sarà (Sale 3)
17:45
I Predatori (Sale 1)
20:15
Padrenostro (Sale 1)
Dimanche 20
14:00
Cosa Sarà (Sale 3)
16:00
Punta Sacra (Sale 3)
18:00
Sul più bello (Sale 3)
20:30
Lacci (Sale 1)





ISTITUZIONI / LEGISLAZIONE Europa
Gli esperti suggeriscono come attuare un'equa remunerazione per sceneggiatori e registi
di DAVIDE ABBATESCIANNI

07/06/2021 - Il seminario organizzato dalla SAA ha offerto competenze approfondite sul modo migliore per attuare la direttiva sul diritto d'autore nel mercato unico digitale
On Wednesday 2 June, the Society of Audiovisual Authors (SAA) hosted a seminar entitled “Experts' top advice on fair remuneration for screenwriters and directors: Implementing Article 18 of the EU Copyright Directive”. The event came a few days before the deadline (set on 7 June) for transposing the Directive on Copyright in the Digital Single Market (known as Article 18) into national law, but few EU countries will be able to meet it.
The aim of the seminar was to discuss the advantages of the right to fair remuneration and to address member states’ questions over its implications for contractual freedom, the transfer of exploitation rights to producers, payments by users, collective rights management, and its impact on the industry itself. The discussion was moderated by Barbara Hayes, Chair of the SAA and Deputy Chief Executive of the Authors’ Licensing & Collecting Society (UK), and involved four speakers: Vice-Chair of the Legal Affairs Committee of the European Parliament Ibán García del Blanco (S&D, Spain), copyright law specialist and Universitat Oberta de Catalunya Intellectual Property Chair Professor Raquel Xalabarder, Paris' Sciences Po Law Professor Séverine Dusollier and Dominik Skoczek, Managing Director at Poland's ZAPA.

The floor was first opened to García del Blanco, who hoped for an increased level of copyright understanding on the part of the public and who pledged his support to guaranteeing cultural diversity and to exploiting the current crisis, viewing it as an opportunity to bring about change for the better. His speech was followed by a recorded video message from veteran German screenwriter Fred Breinersdorfer, who explained that the average salary of his colleagues stands at around €50,000-€60,000 per year, mostly earned through the writing of TV productions. He stressed that whilst this figure might not sound too bad, it still falls below the remuneration of other qualified professionals such as doctors or lawyers and, usually, writers would need to work on one or two scripts per year in order to be paid fairly. In most cases, however, they are only able to work on one project every two years, which severely impacts their ability to make ends meet. He conceded that streamers had probably brought about more opportunities, but he insisted that they “don't pay very well” or guarantee steady incomes, not to mention the low “success rate” of writers' work (i.e., developed scripted projects brought to completion), which stands at 10-15% for Breinersdorfer, but which is even lower for most of his colleagues.
Dusollier provided various contextual insights and touched upon the role of CMOs and the whole contractualisation flow, involving the authors and the producers initially, and later co-producers, international sales agents, intermediaries, distributors and digital platforms. Xalabarder welcomed the implementation of Article 18, though she claimed that simply “copy-pasting it” wouldn’t be sufficient. She explained that the directive follows the principle of appropriate and proportionate remuneration (not as a binding principle, but as an obligation) and it applies to any license or transfer of exploitation rights, as well as on both new and old productions. In particular, Recital 73 grants member states the freedom to use “existing or newly introduced mechanisms, which could include collective bargaining”, provided that these are in conformity with the EU law.
Skoczek's talk focused on the Polish market, chosen as a case study for Central Eastern Europe. The Polish film industry often sees screenwriters signing inconvenient buy-out contracts, which sell exclusive rights to the producers for a one-off fee. Another issue affecting the market relates to end distributors who have been obliged to pay statutory royalties. However, only a minority of these entities are willing to conclude contracts and clear their status, and some take advantage of every possible means to avoid paying royalties, such as entering into lengthy court proceedings and negotiations. The lack of binding tariffs and proper enforcement of these rules contributes to this critical situation. With regard to a possible solution, Skoczek highlighted that “the unwaivable right to remuneration would be the best way to ensure a fair share of revenue for authors.” In this sense, the implementation of Article 18 represents a great opportunity to fill the current legislative gap.
An open discussion moderated by Hayes and a short video made by European authors and performers rounded off the seminar.


ISTITUZIONI / LEGISLAZIONE Europa
MEDIA si spinge oltre i confini con il suo nuovo programma Europa Creativa
di BIRGIT HEIDSIEK
25/05/2021 - Il programma recentemente revisionato prevede un budget quasi raddoppiato e una migliore accessibilità, ma impone anche nuovi obblighi

The new Creative Europe programme is getting a major budget boost after the European Parliament agreed to significantly increase resources for the programme. From 2021-2027, the Creative Europe programme will have a total budget of €2.5 billion, which is an increase of almost €1 billion. A total of €1.4 million is dedicated exclusively to the MEDIA programme.
With this sizeable increase in the budget also comes a huge responsibility. “We need to address the dramatic impact that COVID-19 has had on our industries. The cultural and creative sectors were amongst the industries that were hit the hardest by the crisis,” said Lucía Recalde, Head of Unit, Audiovisual Industry and Media Support Programmes. At an online event hosted by the MEDIA Desks of Germany, Luxembourg and Austria, she gave an initial insight into the new structure of the MEDIA programme. “The main challenge for us will be to use this significant increase to address the recovery and the transformation of the industry,” underlined Recalde. The European Commission set two priorities: the digital transformation and the climate transformation. “We need to strike a balance between recovery and transformation in the next six-and-a-half years.”
(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)
The European Commission has set the objective for 30% of the funding to be spent on climate-related actions. “That is an obligation”, stressed Recalde. “We would like to incentivise changes before we choose mandatory obligations. We want to couple incentives with a lot of good practices and awareness-raising activities so that those who are starting can learn from those who are more advanced.”
Other essential parameters of the programme will also be to widen the ecosystem, to provide greater accessibility and to support cooperation. “Diversity is a message. We want to make the programme more open to groups that haven’t participated in it,” the head of Creative Media outlined. “The challenge is to put all of the different objectives in the best possible format. The contribution to gender equality, inclusiveness and the Green Deal has to be implemented – that is an opportunity.”
The first calls will be launched at the beginning of June. “We promote linguistic variety. The calls will be available in all of the languages,” said Barbara Gessler, Head of Unit, Creative Europe. “The scope of where organisations see their project fitting in will become larger.” In order to foster cooperation, one particular priority will be co-creation. Social innovation will also be an important topic. After all, “Innovation is not only a technological term,” as Kessler emphasised.
MEDIA will be built on the assets that have worked well so far and which should be improved further. The programme will be structured into clusters such as content, audience and business, as well as transformation. One main novelty in the content clusters is the requirement for co-development as a kind of added value to foster collaboration even more intensely. There will also be some development activity tailor-made with certain groups of countries in order to broaden the participation of nations that previously had more difficulty accessing MEDIA funding. Furthermore, video-game actions will be broadened towards immersive content.
The 360-degree business cluster will be implemented in 2022. “That is a simplification action,” said Recalde. “We are primarily thinking about beneficiaries that were really successful. Now, we would like to channel this support into one single grant.” Another new action is called Tools, which should take advantage of the benefits of digital technologies for the audiovisual industry. On the audience side, there will also be a stronger focus on collaboration involving VoD platforms and the festival network. Last but not least, the cross-sectorial strand will provide support for the news media sector. The aim is to support media literacy and journalist partnerships. “We also want to bring together audiovisual communities and other creative sectors,” concluded Recalde.

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- Cinema

Prossimamente al Cinema David di Donatello 2021

Prossimamente al Cinema tutti i film del David di Donatello 2021
In collaborazione con CINEUROPA NEWS

Volevo nascondermi trionfa ai David di Donatello
di Vittoria Scarpa

12/05/2021 - Il film di Giorgio Diritti si aggiudica sette premi, tra cui miglior film, regia e attore. Miglior attrice è Sophia Loren, miglior regista esordiente Pietro Castellitto
Elio Germano con il suo David di Donatello come miglior attore protagonista per Volevo nascondermi

È Volevo nascondermi il trionfatore della 66ma edizione dei David di Donatello, i premi del cinema italiano consegnati ieri sera nel corso di una cerimonia che ha visto il ritorno in presenza dei candidati di tutte le categorie, dopo l’edizione “virtuale” dell’anno scorso, e che si è svolta in due location, gli studi televisivi Rai e il Teatro dell’Opera di Roma. Il film di Giorgio Diritti sul pittore Antonio Ligabue ha conquistato sette David su 15 candidature: miglior film, regia, attore protagonista (Elio Germano), scenografia, fotografia, acconciatore e suono. “Ricordiamoci di Ligabue anche quando incontriamo un clochard che disegna una madonnina”, ha detto il regista durante i suoi ringraziamenti, “ricordiamoci del valore di ogni uomo e difendiamolo finché possiamo, in ogni modo”.
L’altro grande favorito, Hammamet [+] di Gianni Amelio (14 candidature), ha conquistato un solo premio, quello per il miglior trucco; stessa sorte per Favolacce di Fabio e Damiano D’Innocenzo (13 candidature) che si porta a casa il David per il miglior montatore. È andata meglio per Miss Marx e L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, che hanno trasformato in premi tre delle loro 11 candidature: il film di Susanna Nicchiarelli ha vinto per i migliori costumi, compositore e produttore; il secondo, diretto da Sydney Sibilia, ha trionfato nelle categorie di miglior attrice non protagonista e attore non protagonista (Matilda De Angelis e Fabrizio Bentivoglio) ed effetti visivi.

Tra i momenti più emozionanti della serata, la consegna del David per la miglior attrice protagonista a Sophia Loren per il suo ruolo nel film diretto dal figlio Edoardo Ponti, La vita davanti a sé (“Forse sarà il mio ultimo film ma ho ancora voglio di farne un altro, perché senza il cinema non posso vivere”, ha detto emozionata l’icona del cinema, oggi 86enne), e il David per la miglior sceneggiatura originale assegnato a Figli [+] dell’amatissimo Mattia Torre, scomparso prematuramente nel 2019, e ritirato dalla figlia 12enne Emma (“Voglio fare i complimenti a mio padre che è riuscito a vincere questo premio anche se non c'è più. Bravo papà”).

Si segnala infine il David per il miglior regista esordiente a Pietro Castellitto (I predatori), il David per il miglior documentario a Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli, e un gran colpo di scena: il David per la miglior canzone andato a Luca Medici, alias Checco Zalone, che con la sua “Immigrato” (da Tolo Tolo) ha battuto Laura Pausini e la sua canzone “Io sì” (per La vita davanti a sé) vincitrice ai Golden Globe e candidata agli Oscar.

LA LISTA DEI PREMIATI AI DAVID DI DONATELLO 2021:

Miglior film
Volevo nascondermi – Giorgio Diritti
Miglior regia
Giorgio Diritti – Volevo nascondermi
Miglior regista esordiente
Pietro Castellitto – I predatori
Miglior sceneggiatura originale
Mattia Torre – Figli
Miglior sceneggiatura non originale
Marco Pettenello, Gianni Di Gregorio – Lontano, lontano (Italia/Francia)
Miglior produttore
Miss Marx – Vivo Film con Rai Cinema, Tarantula Belgique
Miglior attrice protagonista
Sophia Loren – La vita davanti a sé (Italia/Stati Uniti)
Miglior attore protagonista
Elio Germano – Volevo nascondermi
Miglior attrice non protagonista
Matilda De Angelis – L’incredibile storia dell’Isola delle Rose
Miglior attore non protagonista
Fabrizio Bentivoglio – L’incredibile storia dell’Isola delle Rose
Miglior autore della fotografia
Matteo Cocco – Volevo nascondermi
Miglior compositore
Gatto Ciliegia contro il grande freddo - Miss Marx (Italia/Belgio)
Miglior canzone originale
“Immigrato” di Luca Medici - Tolo Tolo
Miglior scenografia
Volevo nascondermi - Ludovica Ferrario, Alessandra Mura, Paola Zamagni
Miglior costumista
Massimo Cantini Parrini - Miss Marx
Miglior truccatore
Luigi Ciminelli, Andrea Leanza, Federica Castelli - Hammamet
Miglior acconciatore
Aldo Signoretti - Volevo nascondermi
Miglior montatore
Esmeralda Calabria - Favolacce (Italia/Svizzera)
Miglior suono
Volevo nascondermi
Migliori effetti visivi
L’incredibile storia dell’Isola delle Rose – Stefano Leoni, Elisabetta Rocca
Miglior documentario
Mi chiamo Francesco Totti - Alex Infascelli
Miglior film straniero
1917 - Sam Mendes (Regno Unito/Stati Uniti)
Miglior cortometraggio
Anne - Domenico Croce, Stefano Malchiodi
David giovani
18 regali - Francesco Amato
David alla carriera
Sandra Milo
David speciale
Monica Bellucci
Diego Abatantuono
David dello spettatore
Tolo Tolo
Targhe David 2021 – Riconoscimento d’onore
Ai professionisti sanitari Silvia Angeletti, Ivanna Legkar e Stefano Marongiu


FESTIVAL / PREMI Italia

Registi europei under 35 al Riviera International Film Festival
di Camillo De Marco

05/05/2021 - La quinta edizione del festival dedicato ai registi emergenti riparte dopo la pandemia dal 20 al 30 maggio con una formula ibrida e 20 film e documentari in concorso.
Tra le prime rassegne cinematografiche europee a ripartire dopo i lockdown, la quinta edizione del Riviera International Film Festival è in programma dal 20 al 30 maggio a Sestri Levante con una formula ibrida, in streaming e in presenza.

Giovani e ambiente si confermano i temi del festival ma la fuga è il filo che unisce quest’anno i dieci film in gara, tutti diretti da registi under 35. “Fuga intesa come emigrazione, fuga dalla realtà, dalle convenzioni sociali o per trovare sé stessi. Fuga dalla malattia, dall’adolescenza o per amore. Nonostante questo elemento in comune, le storie sono totalmente diverse, anche a livello stilistico e visivo”, spiega Massimo Santimone, responsabile della programmazione.
Si parte da Anne at 13,000 ft di Kazik Radwanski (Canada), su una ventenne il cui precario equilibrio è messo in crisi dal contesto sociale e professionale; As Far as I Know di Nandor Lorincz e Balint Nagy (Ungheria), la vita di una coppia che deraglia dopo un evento traumatico; Bula di Boris Baum (Brasile/Belgio), commedia nera/road movie che si snoda tra il Belgio e il Brasile; Eden di Ulla Heikkilä (Finlandia), in cui quattro ragazzi si confrontano con ideologia, sete di indipendenza e turbamenti d’amore; German Lessons di Pavel G. Vesnakov (Bulgaria) su un cinquantenne che decide di tagliare i ponti con il passato e trasferirsi in Germania; Model Olimpia di Frédéric Hambalek (Germania), in cui una madre inventa un metodo per cambiare le oscure ossessioni del figlio; A Perfectly Normal Family di Malou Reymann (Danimarca), su una undicenne che scopre che suo padre è transgender; Spagat di Christian Johannes Koch (Svizzera), la doppia vita di un’insegnante di liceo; A Stormy Night di David Moragas (Spagna), le 12 ore di Marcos a News York con uno sconosciuto durante una tempesta; The Whaler Boy di Philipp Yuryev (Russia) su un giovane cacciatore di balene. Presidente della Giuria è il regista e sceneggiatore statunitense Kenneth Lonergan, Oscar per la migliore sceneggiatura originale nel 2017 con Manchester by the Sea.

Saranno dieci, per la prima volta, anche i documentari, che arrivano da quattro continenti: A riveder le stelle di Emanuele Caruso (Italia); Citoyen Nobel di Stéphane Goël (Svizzera); Wood di Monica Lăzurean–Gorgan, Michaela Kirst, Ebba Sinzinger (Austria/Germania/Romania); Newtopia di Audun Amundsen (Norvegia); Nuclear Forever di Carsten Rau (Germania); Current Sea di Christopher Smith (Stati Uniti/Cambogia); Envoy: Shark Cull di Andre Borell (Australia); Kingdoms of Fire, Ice & Fairytales di Susan Scott e Bonné de Bod (Sudafrica/Stati Uniti); The Magnitude of All Things di Jennifer Abbott (Canada); Meat The Future di Liz Marshall (Canada).

Infine le masterclass, che si potranno seguire gratuitamente dal vivo oppure in streaming sui canali social del festival: quelle già confermate saranno tenute da Kenneth Lonergan, Ada Bonvini, a.d. di The Family e produttrice della serie Mediaset Made in Italy; il regista e sceneggiatore Carlo Carlei; l’ambientalista Andrea Crosta con Daniele Moretti di SkyTg24; Eric Kopeloff, produttore di Snowden e Wall Street Il denaro non dorme mai di Oliver Stone; i Mokadelic.


EUROPEAN FILM AWARDS 2021

L'EFA Young Audience Summit pubblica i risultati dei suoi sondaggi
di Davide Abbatescianni

10/05/2021 - La conferenza virtuale si è svolta il 17 aprile e ha visto la partecipazione di 78 appassionati di cinema di età compresa tra i 12 e i 16 anni provenienti da 25 paesi europei.
On 17 April, the European Film Academy (EFA) held a special virtual conference on Zoom, entitled the Young Audience Summit. The initiative, attended by 78 participants aged between 12 and 16 from 25 different European countries, hosted the screenings of two award-winning shorts, Guðmundur Arnar Guðmundsson's Whale Valley and Una Gunjak's The Chicken, as well as a Q&A session with filmmaker, creative director and cinephile Pablo Maqueda.
The summit took place just before the 2021 edition of the EFA Young Audience Award, which once again presented three nominated films to young people across the continent (see the news).

The poll results reveal that 100% of the young respondents would like to see more European films; however, 64% say that they do not find it easy to get access to these titles. Specifically, 99% would like the film industry to make it easier for young people to access European films, and 87% said that they would be more likely to go to the cinema to watch European films if they watched these more regularly in a film club.

Next, 100% like the idea of a European Film Club, 100% would also like to watch and discuss films with young people from other European countries, and 97.2% believe that it is important for the European Film Club to be co-created by young people. In addition, 97.1% of young people believe that European cinema is an important way of creating a sense of European identity.

Finally, the participants gave the event an average score of 4.6 out of 5 when rating their enjoyment.


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- Musica

Speciale - Unesco Musica

Un evento speciale in diretta streaming di Sei concerti in sei siti UNESCO, una sola diretta per unire tutta l'Italia sotto il segno del Jazz.

I-Jazz organizzato da NovaraJazz @NovaraJazzOfficial • Arte e intrattenimento
prenderà il via dal 3 al 13 giugno 2021, dopo un inverno di concerti in streaming e tante riprogrammazioni, NovaraJazz è pronta a ripartire con un festival ricco di nuove produzioni!
Concerti dal vivo con grandi artisti della scena europea, nei luoghi storici e periferici della città di Novara, residenze artistiche internazionali, attenzione ai giovani talenti e alla sostenibilità.
Una diciottesima edizione che si svolgerà nel massimo rispetto delle regole legate alla sicurezza ma che ci permetterà, finalmente, di godere della musica dal vivo!
La stagione si snoda tra concerti serali, i giovedì sera musicali a Opificio e gli aperitivi della domenica in collaborazione con Teatro Coccia.
NovaraJazz è il festival di musica jazz con sede a Novara e organizzato da Associazione Culturale Rest-Art.

NovaraJazz nasce dall’idea di realizzare eventi innovativi al di fuori dei circuiti commerciali che sappiano far dialogare diverse forme espressive contemporanee, in primis la musica (jazz ed elettronica) e le arti visive (fotografia e video), promuovere la creazione di nuovi ensemble creativi attraverso residenze artistiche e diffondere la formazione del jazz nei territori in cui opera.
La stagione NovaraJazz, definita dai direttori artistici Corrado Beldì e Riccardo Cigolotti, è un festival di musica jazz internazionale con concerti che coinvolgono importanti artisti della scena nazionale ed estera.
Due importanti rassegne arricchiscono NovaraJazz: "Taste of Jazz" a Opificio Cucina e Bottega, l'appuntamento settimanale che ogni giovedì (da ottobre a marzo) porta artisti giovani ed emergenti nell'ora dell'aperitivo/cena; "Aperitivo in... Jazz" al Piccolo Coccia, l'appuntamento della domenica mattina in collaborazione con Fondazione Teatro Coccia per gustare specialità della produzione enogastronomica del territorio e ascoltare dell’ottimo jazz.

Ogni stagione culmina con tre ricchi fine settimana estivi di musica, improvvisazione, sperimentazione e momenti enogastronomici e culturali, che si svolgono all'aperto e in luoghi storici e culturali di Novara e della sua provincia.

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- Libri

Il nuovo libro di Matteo Marchesini

MITI PERSONALI / Il nuovo libro di Matteo Marchesini
Sedici racconti sui ‘miti umani contemporanei’.

Non è passato molto tempo (bugiardo) dacché giocavo con le mollette che mia madre usava per stendere i panni, trasformate all’occorrenza nei personaggi dei fumetti (allora non c’erano ancora così tanti cartoon da prendere a modello): Buffalo Bill, Toro Seduto, Tex, L’Uomo Invisibile ecc., e i nostri eroi (o preunti tali) erano quelli che la storia ci aveva tramandati, legati alla letteratura ma ancor più alla ‘mitologia’: Ercole, Agamennone, Achille, Ulisse, Ben Hur, Capitano Akab, Zorro ecc. Solo più tardi sulla scia del cinematografo si era giunti agli scontri epici tra Napoleone e Nelson; tra i Sudisti e i Nordisti americani; tra Rangers e Indiani, e alle invasioni Tedesca dell’Europa, della Russia in Ungheria ecc. quando già in campo erano subentrati i carriarmati, gli aeroplani, le corazzate, i sommergibili …

“Per questo gioco senza fine dimenticava tutto, anche i giocattoli sontuosi che una volta a stagione entravano nella sua stanza.”

Ma i ‘miti’ come gli ‘eroi’ e finanche gli ‘déi’ dell’Olimpo, infine vivono una realtà artata che li costringe dentro “una stanza dei giochi impossibili”. Così Odisseo, Socrate, Edipo, Enea, Gesù, Narciso ed altri costipati in queste poche pagine “..non hanno bisogno di umiliare né di possedere nessuno come si possiede una terra”, la loro ragione di esistere ha superato da secoli tutto ciò che è venuto dopo, le angherie, le guerre, la cattiva giustizia divina (se c’è), finanche il giudizio dei posteri (del quale non gliene è mai fregato niente), continuando a sbagliare (?) come hanno voluto, “..la vastità delle asserzioni, ancora sgombra del futuro, cancellava i rimorsi in fretta”.

Dimentichi di tutto questo (meglio così), la contemporaneità suggerisce di osservare con spirito critico quel passato e avvalersi degli ‘atteggiamenti umani’ entrati nell’odierna mitologia metropolitana, che di quel passato porta seco una memoria sbiadita o, meglio ancora, ne fa oggetto di un’acuta ‘ironia’ che nulla cede alla superficiale creduloneria …

“Così Atteone, per un lungo momento non capisce di essere arrivato per caso là dove credeva che lo avrebbero portato la sua caparbietà e il suo fiuto. Anche perché la scena è molto diversa da quelle che inventava alle tevole imbandite” … si cambia scena ma il set cinematografico è sempre lo stesso.

È così che i nuovi ‘miti’ di oggi, (di miti e di eroi se ne sente sempre il bisogno come pure della loro mancanza), hanno sostituito quelli di ieri, e gli ‘eroi’ (si fa per dire), hanno assunto i panni di Jack Frusciante e Jeeg Robot, nonché di qualche Mafioso arrogante, insieme ad altri usciti dalla penna (con tutto rispetto) di Saviano, elaborati dalla perspicacia di ciascuno (di noi) a proprio uso e consumo, (senza problemi perché l’ingordo trova sempre qualcosa cui spartire).

Ma già altri ‘miti’ ed ‘eroi’ di cartone s’affacciano dalle pagine di questo piccolo ‘geniale’ libro di Matteo Marchesini, ‘figure’ di una mitologia altera che forse non sono mai state eroiche nel vero senso della parola, tantomeno mitiche, ma che nella loro pur esigua esistenza fra queste pagine, diffondono un loro ‘senso’ con un linguaggio scrittorio veloce (quasi audace). Chi l’avrebbe detto che si può pensare senza pronunciare parola? Eppure, alcuni dei personaggi (appena abbozzati) dalla penna dell’autore, trovano una loro ragione d’essere senza che ne conosciamo sovrastrutture e orpelli inutili della loro esistenza, pur avviandosi (in buona compagnia) con quel Giacomo (Leopardi) che li guida verso l’Infinito …

“L’inseguitore e l’inseguito, coi fiati sempre più prossimi, (che) videro crollare mura (d’Ilio), edifici, colonne, e tutto il paesaggio lasciarsi inghiottire dalle rocce e dall’erba.”

Tuttavia non ci si poteva accodare nella fila né degli uni ‘eroi’ e neppure degli altri ‘miti’ onde poter afferrare il ‘tempo’ che restava per combattere … come la TAV, era ormai una realtà …

“Di lì, lentamente, risorse una vita stracciona e variopinta, quindi sfarzosa di turbanti, scimitarre, chioschi”; .. come in un presepe napoletano, con la differenza che a Troia come in Val di Susa erano uomini in carne ed ossa …

“Seguirono uomini con mappe e vanghe che ululavano di gioia, e che parvero a entrambi piuttosto ridicoli con quei caschi da finti guerrieri; poi ancorafuochi lampeggianti, rombi inauditi, incredibili macchine di morte, vestiti aderenti ai corpi e bisce di seta che scendevano dai colli alle cinture.”

Tuttavia il treno è già passato e/o manca moltissimo prima che ne passi un altro e si rischia di non trovare posto, (la storia assimila lentamente o troppo in fretta), per ritrovarci in coda lì dove la tettoia della stazione è finita, col rischio di bagnarci per l’arrivo del temporale, certi che arriverà (quello sì). Perché neppure noi lettori lo abbiamo prenotato, (il posto in paradiso); mentre l’ultimo vagone (della storia) scivola davanti ai nostri occhi in mancanza di quelle parole (senso) che potevano fermarlo …

“Inutile dirsi che anche quelle smorfie, anche quelle grida che ormai riusciva(no) solo a smorzare in lamenti erano una conseguenza ineluttabile della natura (violentata): impossibile per gli uomini non interpretarle in senso (a)morale.”

Del resto che cosa ci manca quando diciamo che la vita non ha senso (?); quando più semplicemente ci sembra che manchi qualcosa (?), cioè il motivo e la direzione del nostro agire. Ancor più quel che manca è la riflessione sulle ‘parole dette’ e/o di ricercare la parola mancante che avrebbe permesso di rivelare il nostro pensiero.
Inutile tornare a porci le domande di sempre: ‘che cosa significa pensare’, se ‘c’è un altro modo giusto di vivere da ‘eroe’ o da ‘mito’’; o ‘cos’è la felicità e come raggiungerla’, ecc. ecc.

Le risposte sono già state date a suo tempo da illustri studiosi, pensatori, filosofi, poeti, sicuramente più addentro alla materia di me (recensore del libri), ed anche (forse) dall’aurore del libro Matteo Marchesini, il quale però è stato capace di porsele (e porcerle) in una chiave (cifrata) diversa: senza l’affanno di volerle trovare a tutti i costi, con semplicità all’interno dei singoli racconti. Non in ultimo quello sulla ‘filosofia’ in cui la domanda viene spontanea: “a cosa serve la filosofia e i filosofi?”…

“Non si capiva bene cosa aggiungesse alle parole degli altri, ma solo la sua voce le radicava sul terreno giusto e le rendeva inconfutabili, così che alla fine i dottori si scioglivano loro malgrado in un coro di stupore e di sollievo” … per quanto si stia qui parlando di Gesù rivolto ai dottori della chiesa e non di Mr. Draghi con i filosofi della finanza, possiamo credere veritiero il fatto che chi possiede un certo carisma abbia più chance di altri di venire ascoltato, anche se in entrambi i casi ci si dovrebbe riflettere un tantino sopra.

Di certo avere carisma aiuta il filosofo ad affermare la propria scienza (?), ma non sarebbe la stessa cosa se ci si rivolgesse ai poeti e alla ‘poesia’(?). Di conseguenza la risposta data, che sia sì o no, sarebbe equipollente in entrambi i casi. Quel che più rende ansiogeno è il ‘nichilismo’ del nostro tempo, divenuto endemico nella società degli anta e disperato nei giovani che ad essa s’affacciano, assillati da esigenze più immediate e più materiali. È qui che trova rifugio la ‘parola mancante’ di cui sopra: dove è finito l’incanto del mondo (?); l’ordine precostuito che ha permesso fin qui alla natura di rigenerarsi (?); all’umanità di credere alla sempre rinnovata promessa della felicità (?), della vita eterna (leggi immortalità) (?) …

“Quale diavolo lo costringe s struggersi così tanto nell’attesa? Detto fatto, pensato toccato:così dovrebbe essere. A che serve aspettare … allora ogni attimo diventerà un’ora, e poi un giorno, e un mese, e un’eternità. […] Un’eternità. Chi è che l’ha detto? Eternità, ternità, ernità, nità, ità. Tatà: […] Un’eternità! Basta! Chi è che l’ha detto? Ah no, è soltanto la sua voce. Così sottile, anche nell’urlo, che non riesce a distinguerla.”

Eppure il ‘poeta’, a sua volta, aveva scoperto l’esistenza dell’anima e (forse) anche di una coscienza ubicata nell’ “Infinito”. Tant’è che noi (d’altra generazione) vi avevamo creduto. Per quanto oggi sembra essere una colpa da espiare …
“Ma proprio mentre lo pensava, […] L’anima di cui aveva discusso fino a poco fa, la parte di sé sciolta dal corpo, sarebbe stata costretta a gareggiare in immortalità.”

Per quanto l’autore avverte che “..questo è lo stratagemma recentemente escogitato dal filosofo per non barcollare”, al seguito della sua scienza e magari inciampare in una delle tante ‘buche’ e finire per infrangere definitivamente la universale ‘pietra filosofale … “Forse dovrebbe tenere il pennino alto e lasciarlo cadere giù a piombo …”

Il disincanto della razionalità così spiegata nulla toglie ai fini della realizzazione dei personaggi (effimeri) di questi racconti, i cui sentimenti, seppure appena delineati, si offrono a una piacevole lettura dove: “..esseri comuni, simili a ognuno di noi, rappresentano i ‘miti’ (benché personali dell’autore), crudeli della realtà di oggi”,
quasi a voler dire con il poeta che “non esiste un cammino, il cammino lo si fa camminando” (*), ..a buon intenditor buone parole.



L’autore:
Matteo Marchesini è collaboratore delle testate “Il Foglio”, “Il Sole 24 Ore”, Radio Radicale e “doppiozero”. Ha pubblicato le satire di Bologna in corsivo. Una città fatta a pezzi (Pendragon 2010). Il romanzo Atti mancanti (Voland 2013. Premio Lo Straniero, entrato nella dozzina dello Strega), le raccolte critiche Da Pascoli a Busi (Quodlibet 2014), i racconti di False coscienze (Bompiani 2017), le poesie Cronaca senza storia (Elliot 2016), Casa di carte (Il Saggiatore 2019), Scienza di niente (Elliot 2020), Miti personali (Voland 2021).

Note d’autore.
I virgolettati (rivisitati) sono estratti dal libro “Miti Personali” di Matteo Marchesini edito da Voland srl 2021

Nota del recensore.
Per un’etica del discorso, i miei slanci tra-parentisi farebbero inorridire Umberto Eco, il quale raccomandava ai suoi allievi, di limitarli a un numero davvero esiguo all’interno di un testo. Pertanto spero che l’autore, al quale vanno i miei complimenti, vorrà scusarmi per le mie azzardate escursioni talvolta auto-critiche. Ovviamente tutti gli errori sono esclusivamente i miei.


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- Libri

Wolf Wondratschen ... Un Autoritratto contemporaneo.


WOLF WONDRATSCHEN … UN AUTORITRATTO CONTEMPORANEO

Una recensione insolita per un libro altrettanto insolito quale questo di Wolf W. che ho appena ultimato di leggere e che non avrei mai voluto smettere di leggere. Ma come in tutte le storie narrate prima o poi si arriva alla fine, a quella conclusione che se non è suggerita dall’autore, è altresì consuetidine immaginare, allorché qui accade che nell’ultima pagina l’autore invita il lettore a ricominciare. Quel che trovo incredibile è che viene spontaneo il desiderio di riprendere da lì dove la numerazione delle pagine s’interrompe per tornare a leggere a ritroso, dall’ultima alla prima …
“L’essenziale è (era) che la storia inizi(asse) in un giorno come quello che sappiamo … in cui il visibile nasconde l’invisibile ... Il caffè è colato, a gocce, a gocce, nella tazza preriscaldata e così, a gocce, (il nostro uomo co-protagonista Suvorin), beve dalla tazza. Atteggia le labbra come un flautista l’imboccatura, ma quello che sentiamo non è un suono, è un sibilo, non forte, e nemmeno sgradevole, come un respiro, il respiro più piccolo che ci sia. La lingua piegata a cucchiaio, accoglie la prima goccia, l’assorbe, felice come questo può renderci felici.”
Un autoritratto è, se vogliamo, una dissonanza del tempo che passa, come dire il passaggio dalla ‘de-costruzione’ della storia, apertamente voluta dall’autore, alla ‘ri-costruzione’ della stessa attraverso le ragioni delle sue scelte. E che siano frammenti di vita vissuta, pause di riflessione, indifferenza nei confronti di qualsiasi ordine, del nonsenso e della convinzione della sua inutilità, solo per riappropiarsi della libertà, ritrovare il senso d’una libertà sociale e democratica nel mezzo delle tante menzogne patriottiche ingiustificate, avallate da una rivoluzione (ottusa) che al contrario d’essere liberatoria è divenuta autoritaria, repressiva e tirannicida ...
Noi tutti sappiamo come la libertà sia anche frutto della verità o almeno della giustizia, in quanto ricusa qualsivoglia ingiustizia, civile, sociale, umana, non poi così insolita, contenuta nella rara citazione di Schiller che l’autore invita a rivisitare, per: “Liberarsi dalla passione, contemplare la realtà circostante con chiarezza e calma, rintracciare ovunque più caso che destino, ridere della stoltezza più che adirarsi e piangere per la malvagità.” Quella liberetà che pure attraversa tutte le pagine del libro con le sue note vaganti in assenza di pentagramma … di cui “con una battuta di spirito degna di un poeta, Kovalev scrisse che la rivoluzione aveva inventato una sedia su cui nessuno può mai sedere.”
Si direbbe la ricerca di un’imperscrutabile perfezione, quando altresì in musica è la dissonanza di tempo a coniugare la qualità di un intervallo come affinità ed eterogeneità fra suoni contrapposti, che altrimenti, diventa imperfezione, tantopiù necessaria all’autore di questo libro a definire il proprio autoritratto come Suvorin, (il protagonista assoluto di questo romanzo con annesso pianoforte russo), prendendo a soggetto non tanto la musica in sé quanto il sé impastato di musica …
“È la musica che mi fa entrare in contatto con me stesso. […] È proprio buffo, in realtà, che voler essere originale per un musicista di musica classica sia un peccato mortale, ma che d’altro canto possa essere faticoso se una persona che stimi come artista non produce più nulla di originale, fosse pure un accenno nel discorso, un gesto, un’idea sorprendente, un pensiero che, quand’anche non portasse da nessuna parte, le sia perlomeno balenato in mente.”
È qui la vera storia narrata in queste pagine, la storia del narratore che introduce il lettore alla conoscenza del musicista Suvorin, il maestro di pianoforte, il barbone incontrato per caso in un caffè, un tempo un musicista di successo che ha abbandonato tutto per abbracciare la libertà di poter essere ‘nessuno’, o forse solo se stesso, ateo e anarchico, contro ogni pretesa di compromesso individuale, sociale, civile e religiosa. Quello che probabilmente è stato Wolf Wondratschek negli anni della Beat Generation tedesca 1960/’70, in cui seguiva i movimenti di protesta, e ancor più verosimilmente aver messo mano a uno strumento musicale …
“Tutto riposa nel legno, dice la musica. Ogni senso è un’equazione, dice la matematica, tacete tutti, dice la poesia. […] Non bisogna essere in un seminario di filosofia, per trovare piacere in conversazioni di questo genere. C’è poco di più invitante della bellezza che si tramanda nella mitologia di oggetti speciali, un violino o un violoncello o un antico tavolo da biliardo.”
Allorquando la poesia si cibava dei versi di Ferlinghetti, Ginsberg, Kerouac, Salinger e altri, (pubblicati in antologia da Fernanda Pivano nel 1964). Chi non conosce “Howl” (Urlo) di Allen Ginsberg che nel 1955 diede la consapevolezza della nascita di un nuovo genere di poesia, autobiografica e denunciataria, e che divenne il "manifesto" del movimento beat, che qui di seguito ne trascrivo l’incipit:
«Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa, hipsters dal capo d'angelo ardenti per l'antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte, [...].»
Ma è infine il ‘libro’ “– un libro rilegato con cura, su bella carta e in bei caratteri”, che permette a Suvorin di non “smettere di fantasticare o filosofeggiare o, che so, inventare storie, trastullarsi con spunti legati a queste storie (che racconta). Allora tira fuori un (suo) lato molto divertente, molto appassionato, infantile quasi, per meglio dire.”
E il libro è questo che ho fra le mani, che sfoglio con ingordigia, non un tomo pesante, ma un piccolo grande libro vergato con cura, si direbbe in fil di penna, senza trionfi, senza cadute di sorta, fatto di piccole cose, di circostanze occasionali, di momenti poetici sostenuti dalla leggerezza dei pensieri …
“Bisogna immaginarsi, vedendo Suvorin così, un uomo seduto su una panca davanti alla sua capanna, le gambe distese, che riposa, fuma e lascia correre i pensieri mentre osserva un muro di nuvole sempre più nere spinte dal vento all’orizzonte. Sul paese vicino, in lontananza, sta per abbattersi un temporale. Un cane, in lontananza, abbaia”, fino alla citazione cechoviana da “Il giardino dei ciliegi”, in cui la città pur così amata da Suvorin, quella Mosca sognata dalle tre sorelle è più (che mai) vicina.
Ed è all’amore che fa riferimento Suvorin, una storia d’amore “..che inizia a sembrare interessante proprio perché non intende offrire nulla di lascivo, nulla di osceno. Meglio se (di) un amore impossibile, che espone la sua anima a pericoli inesorabilmente sconosciuti. … buona abbastanza, pura abbastanza, interessante abbastanza (per uno come Suvorin), una donna con un libro, l’amore con una poesia, un cappello in testa con la felicità … con la solitudine che la circonda, la solitudine che circonda tutti noi.”
“Vede, disse (il vecchio pianista riprendendo il discorso già intrapreso), la lettura di una poesia, la lettura di un racconto o di un romanzo, non sono eventi sociali. Uno si siede, da solo, da solo con sé stesso e un libro, e legge. E a volte si ferma a riflettere, accantona il libro aperto per ripensare a una frase, a un punto preciso, a una certa formulazione che gli rivela la bellezza della lingua. Da ogni cosa si può associare tutto con tutto” …
È così, magari non trapare, ma siamo esattamente a metà del libro che vado leggendo a ritroso, che rileggo (per voi) di quelle cose che avevo già lette ma che non sembrano le stesse “..sarebbe per me un onore se poteste aiutarmi”, perché non credo di averle comprese nel giusto modo in cui si deve. Vedete …
“Sebbene abbia due orecchie, amava dire, sono sempre unanimi. […] Non si mettono a tacere le voci interiori tappandosi semplicemente le orecchie. Allora poteva accadere di sembrargli che tutto il suo corpo, ogni poro della sua pelle,fosse un orecchio. Non bisognava contare sul fatto di migliorare ogni sera le proprie capacità (di musicista e amante della musica), ma se accadeva, (quando accadeva), la serata si trasformava in un giorno di festa.”
Per quanto la festa cui si riferisce Suvorin appartiene al mondo dei ricordi, a quando avverte di aver perso ogni piacere per l’insolenza, ed ha evidentemente interrotto i contatti con la famiglia, dimentico di ciò che avrebbe voluto diventare da bambino (?) e slacciatosi l’orologio dal polso lo lancia oltre la scogliera …
“Non so più cosa farmene di voi, voi numeri e lancette, voi ore, minuti, secondi. Glielo si legge in faccia, quella è la faccia della soddisfazione. […] A un certo punto parlano già abbastanza di me e si preoccupano anche che non faccio nient’altro che fissare un muro. Posso farlo per mezza giornat asenza annoiarmi. Non mi muovo, non penso a niente, non sono sveglio né dormo.”
Nient’altro? Che dire? Ho già detto molto nella prima parte di questa lunga recensione che potrei portare avanti ancora per molto. Non posso, mi dico, raccontarvi tutto il libro. Ascolto Suvorin parlare a più riprese, e lo ascoterei ancora per chissà quanto, prima di levarmi dal caldo tepore del divano … “..anche lì riesco a tornare in me solo compiendo un grande sforzo. Anzi, a dire il vero in quel caso è l’esatto contrario, compio un grande sforzo per cercare di non tornare più in me. […] Lo so, lo so. A un certo punto è tutto vietato, tranne morire.”
Aspetterò, mi dico, almeno fino all’arrivo delle belle giornate che la primavera come suo solito ha promesso, certo che manterrà i suoi impegni. Magari solo per raggiungere il caffè dei nostri incontri. Oh sì! Il tutto ha richiesto un’attenzione particolare, una lettura perspicace, onde rimembrare il tempo vissuto fra uggie e silenzi, mentre fuori continua a cadere la pioggia, ogni goccia una nota che s’accompagna al crepitio del fuoco acceso che surriscalda il torpore dell’ozio … non ne sentite la musica, no? …

Basta! “Non voglio più dormire, perché non voglio avere la faccia con cui mi sveglio – ripete Suvorin – Questo è tutto. Forse, sforzandomi, un giorno crederò finalmente anche all’autorità di ciò che, in malafede, chiamiamo caso.”
Nel frattempo … “Il caffè è colato, a gocce, nella tazza preriscaldata e così, a gocce – avverte l’autore – alias Suvorin mentre beve dalla tazza – Atteggia le labbra come un flautista l’imboccatura, ma quello che sentiamo non è un suono, è un sibilo, non forte, e nemmeno sgradevole, come un respiro, il respiro più piccolo che ci sia. La lingua, piegata a cucchiaio, accoglie la prima goccia, l’assorbe …

..felice come questo può rendere felici!”


L’autore.
Wolf Wondratschek, scrittore, poeta, sceneggiatore (Rudolstadt 1943), cavalca dagli anni ’60/’70 la scena letteraria internazionale, in cui è noto come esponente della Beat Generation tedesca. La sua produzione cinquantennale comprende anche racconti, reportage e radiodrammi che alterna con la critica sociale, scritti intimistici, e ritratti di artisti.
Tradotti in italiano sono reperibili oltre al titolo qui recensito, “Mara. Autobiografia di un violoncello.” Con CD audio – TEA 2008.

Edizioni Voland
www.voland.it
e-mail: redazione@voland.it

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- Libri

Autoritratto con pianoforte russo Un libro di Wolf Wondratsc

"Autoritratto con pianoforte russo" ...
un libro di Wolf Wondratschek - Voland Edizioni 2021

Talvolta è il crepitio del fuoco nel camino, il suo tepore surriscaldato e asciutto in un giorno uggioso, a richiamare il desiderio di raggomitolarsi su di un ampio divano e di sfogliare le pagine di un libro; o magari, e perché no, di sprofondare su una vecchia comoda poltrona in un pomeriggio noioso, di quelli che non sai neppure cosa leggere … a me capita spesso, a voi no? Tanti sono i tomi (come mattoni) irrimediabilmente lunghissimi e noiosissimi che aspettano accumulati da qualche parte coi loro titoli smisurati che non lasciano spazio all’immaginazione, se non fosse che si è ormai convinti non esserci più fantasia, e non solo nello scrivere.
Dipende, mi dico. Scegliere un libro non è affatto facile se non ci si vuole addormentare già alla prefazione. Del resto il mercato rigurgita per quanto riguarda i falsi storici, la cronaca nera, l'insulsaggine della politica, le guerre (in)civili e lo sterminio dei popoli, pandemia compresa, ce n'è a iosa, come se non esistesse nient'altro e per di più scritti da improvvisati tuttologi che dopo la premessa, più o meno accattivante, ci si accorge della loro tendenziosa volontà di deviazionisti, del tutto privi di sincerità altruistica, stracolmi di verità insidiose e deleterie per lo spirito.
Sì che viene da chiedersi dove è finita l’armonia dei giorni passati a fantasticare, per quanto noiosi possano sembrare. Mi chiedo dove sono finite la narrativa accattivante, l’arte del racconto e del raccontarsi, l’immaginazione immateriale, l’astrazione della poesia, i sogni custodi della ‘bellezza’ che tanta parte hanno avuto fin qui, in questo nostro mondo obliterato(?).
Allora ben venga un libro che parla del nulla, della dimensione onirica, del vuoto della solitudine, dell’incomunicabiltà latente di quanti avrebbero pure qualcosa da dire ma che lo riservano esclusivamente alla ricerca di possibili/impossibili ‘like’ senza volto e senz’anima.
Ma ‘nell'esile durata dell’intervallo’, proprio quando il torpore della sonnolenza sta per raccogliere le spoglie del lettore pomeridiano, a un’ora indecente arriva il postino comunque benvenuto, a consegnare il plico contenente un libro nuovo di stampa dal titolo accattivante: “Autoritratto con pianoforte russo” del ‘redivivo’ Wolf Wondratschek, uno dei padri della Beat Generation che negli anni ’70 era famoso per le “raccolte di poesie dove i toni della musica rock si lega(va)no ai temi della cultura pop, e la sua tecnica letteraria ispirata al cinema che si combina(va) con la prosa corrosiva e una laconica ironia” (*) … Whow!, non mi rimane altro da fare, lo sfoglio immediatamente e mi butto sul divano, piacevolmente disturbato dal crepitio del fuoco …

L’incipit.
“Interno caffè. Tutti i tavolini occupati. Tutte le barzellette raccontate. Tutti i giornali letti. Stranieri e locali. I camerieri ballano. L’aria un sigaro che brucia. Al mio tavolo un russo, un pianista in gioventù. Una celebrità dimenticata” …

Ragazzi ma scherziamo (?), finalmente ho in mano qualcosa di esplosivo, da leggersi tutto d’un fiato in questi giorni di fine inverno, segregato al chiuso per il ‘lookdown’ che coinvolge l’intera città, dove non c’è più niente da fare neppure a volerselo inventare. Ma infatti chi lo vuole (?), insomma volevo dire, in solitudine, che se non è l’apoteosi dell’ozio è certamente la sua apologia. Pensate, l’ozio come paradigma della metropoli, l’ozio come stile di vita, necessario (chi lo direbbe?) per avviare nuovi progetti di estetica culturale, nuove forme di agglomerati umani interessati (si fa per dire) alle nuove sfide sociali …

“Com’è essere soli? Ci si annoia? O si è tutti presi a combattere la solitudine? […] Non c’è più tempo per lavorare. E neanche tempo per riposare, starsene seduti e non pensare a niente.”

Niente. (?) Eppure è una soluzione. Ma se proprio non si trova di meglio si può sempre pensare a come raggirare l’ostacolo della perdita dell’economia (ir)reale, a come risolvere il problema della (dis)obbedienza civile, finanche a come arrivare e tornare da Marte.Non certo come rendere partecipi le nuove generazioni alla nozione culturale, o di come ovviare alla consapevolezza sociale, per non dire dell’arte, scherziamo, neppure l’ombra. Però ci si lamenta della svogliata noncuranza dei giovani a indossare le mascherine contro il letale Covid19, della rinuncia a cercare un lavoro, delle giovani coppie che non vogliono avere figli, dell’ostinata dissolvenza dei vecchi davanti alla televisione …

“Vede, disse (il vecchio pianista Suvorin), la lettura di una poesia, la lettura di un racconto o di un romanzo, non sono eventi sociali. Uno si siede, da solo, da solo con sé stesso e un libro, e legge. E a volte si ferma a riflettere, accantona il libro aperto per ripensare a una frase, a un punto preciso, a una certa formulazione che gli rivela la bellezza della lingua. Da ogni cosa si può associare tutto con tutto” … è così, non vi pare?

Oh sì, meglio la solitudine, afferma qualcuno, del resto fin da quando si nasce sappiamo d’essere soli, ma chiedersi ‘quanto si è soli quando si è soli’ è decisamente arduo rispondere. Ci prova egregiamente Wolf Wondratschek in questo libro di racconti in cui si racconta, e c’è da credergli, dove il minimo che può capitare, ma solo a chi è attento alle sbavature di un pianista (leggi lettore) che ben sa dove condurre la partitura, quale musica suonare sul pentagramma dell’esperienza, di quali (a)moralità non è illecito parlare, perché - viene da chiedersi - se in fondo anche queste fanno parte della vita (?). Così si finisce per dare ragione al nostro pianista alle prese con un autoritratto di cui “invero lo spirito della musica s’avvale”, come per un allegro e scherzoso rondò russo …

“Inconcepibile quanto un uomo possa diventare inutile, un uomo come me, che alla fine trova posto in un vuoto di memoria, senza scarpe, senza un sogno.”

Lo si direbbe un libro scritto da una presa di coscienza, in cui si riversa l’approvazione per una vita vissuta, allorché dopo l’applauso di rito (che accompagna ormai anche i funerali), ci si accorge che poi non era quello che volevamo, che aver vissuto non è stata una necessità individuale, ma un dovere sociale. Allorché svanita l’eco dei battimani quel che rimane non riguarda già più il suo e nostro tempo, ma la singola individualità di chi il tempo lo ha fatto, di chi lo ha scritto sulle pagine (ops!), sul pentagramma della storia (umana?).
Certo è che la musica, straordinariamente quella impegnata(iva) che chiamasi ‘classica’, è qui protagonista insieme a Suvorin, l’anziano pianista della narrazione. Del resto se il titolo recita “..con pianoforte russo” non ci si può aspettare altro, benché ci sia moltissimo ‘altro’ nelle pagine fitte dell’esperienza (s)confessata di tutta una vita. Sì che neppure noi lettori infine ‘crediamo di credere’, o meglio di non avere una fede, di non amare se non noi stessi, di non … bla, bla, bla; mentre al contrario, dal momento che lo affermiamo, diamo conferma di aver radicate tutte le sue (non) convinzioni in noi stessi, poiché parte anche del nostro DNA, il pentagramma sul quale è già scritta tutta la nostra musica che suoneremo.

È così, magari il nostro amico pianista Suvorin, parla in ‘cirillico’, ma noi sappiamo che le note (dell’esistenza) suonano tutte allo stesso modo, quantomeno “l’istesso tempo”. Per quanto alle nostre orecchie il pianoforte dell’austriaco Schubert non suoni come quello russo di Rachmaninov, a sua volta diverso dai timbri sfumati del francese Debussy, diverso inoltre da quello di Shostakovich. Così come, solo perché vissuti in epoche diverse, le interpretazioni ‘romantiche’ di Svjatoslav Richter non sono paragonabili a quelle ‘moderne’ di Glenn Gould o dell'amatissima Clara Haskil, se pure la tastiera, le note, finanche la coda del pianoforte e lo sgabello hanno le stesse fattezze. Siete d’accordo?
Il portento dei maestri russi non è qui messo in discussione, per quanto rileviamo le differenze dell’impatto acustico nell’incedere pianistico dell’uno piuttosto che dell’altra. Né chiedersi in che cosa consiste il "raggiungimento della perfezione" e “quale il prezzo da pagare per raggiungerla” in quanto parte di un insoluto musicale la cui domanda è ancora sospesa nell’aria, per lo più relegata al piacere dell’appagamento che se ne ricava. Ma è proprio questo il ‘clou’ a cui avviene l’autore del libro con una presunta domanda: 'se la musica pur così appagante necessita del nostro plauso o, se invece, ci rende schiavi delle sue sonorità, dei suoi amalgami con la danza e con la poesia (?) …

Lo so, lo sapete anche voi, non è facile trasformare il clap-clap delle mani o il suono delle vocali e delle consonanti in altrettante note musicali, né tantomeno le spaziature in bianco di una scrittura del silenzio, per quanto talvolta (direi spesso) il silenzio è decisamente la cifra di un’emozione più forte, che supera in ampiezza il sentimento, che di per sé darebbe senso all’amore e/o più semplicemente al fascino della bellezza che l’autore distribuisce in ogni pagina. Se si è d'accordo con lui che dice di non avere alcun credo, si corre il rischio di sentirsi compiuti, appagati, come fuori dal tempo, nell’incombenza d’una furtiva felicità che sembra non ci competa …

“Penso sempre ancora a tutti quelli che pregano e se ne stanno in silenzio, quando penso alla musica. In ogni nota sento sempre ancora, quando sento musica, la pioggia.” […] Non so se fossi felice. A impegnarmi erano cose più importanti che la voglia di felicità. A tutt’oggi non mi interessa conoscere la risposta. A volte penso che la felicità consista proprio nel non cercarla né volerla trovare. Più, felice ancora è chi non ne fa un caso, nemmeno nella sventura.”

Il silenzio della preghiera è come una sega che non viene, sarebbe stata la risposta bukovschiana che ci si aspetterebbe dall’iperrealista Wolf Wondratschek, ma, in quanto a Suvorin sul fatto di seguire o no un credo, alla domanda: “..e lei in cosa crede?” , la risposta arriva immediata e senza troppi convenevoli “..Ci penserò la prossima volta che ci vedremo. […] Questo è tutto. Forse , sforzandomi, un giorno crederò finalmente anche all’autorità di ciò che, in malafede, chiamiamo caso.”
Inoltrandoci nella scioltezza della scrittura, viene affermato un principio inalienabile riguardante l’immortalità creata dai poeti, qui definita “pericolosamente bella” che, protetta dall’afflato d‘una immaginaria esecuzione musicale cosparsa in ogni pagina infuoca tutt’attorno: “..stare vicino alla fiamma tanto da farsi avvolgere dal fuoco, capisce?”, (sì da dover fare attenzione a non bruciarsi). Attenzione, ne vale l’immortalità annunciata. Ciò che talvolta, invece, richiede l’applauso del pubblico, ma che qui risuona come un azzardo, una sventatezza di cui quasi vergognarsi …

“Odio gli applausi. Che sciocchezza, tutto quell’applaudire! L’ultima nota deve ancora sfumare che subito (s’odono) urla, strepiti , bravo! Non un attimo di silenzio, nemmeno mezzo secondo. Che ignoranti! che Barbari! Nemmeno ascoltano l’eco, non vi si soffermano, non sono scossi, pieni di stupore, non vi è traccia di abbandono tra gli ascoltatori.” […] “Bisogna ascoltare, nella poesia che viene cantata, le consonanti, non giocarsi le vocali. È questo il segreto.”

Lo so, lo sapete anche voi, non è facile trasformare il clap-clap delle mani o il suono delle vocali e delle consonanti in altrettante note musicali, né tantomeno le spaziature in bianco nei vuoti del silenzio, per quanto talvolta (direi più spesso) il silenzio è decisamente la cifra di un’emozione più forte, che supera in ampiezza il sentimento, che di per sé darebbe senso all’amore e/o più semplicemente al fascino della bellezza che l’autore distribuisce in ogni pagina. Lui che dice di non avere alcun credo. Si corre il rischio di sentirsi compiuti, appagati, come fuori dal tempo, nell’incombenza d’una furtiva felicità …

“Penso sempre ancora a tutti quelli che pregano e se ne stanno in silenzio, quando penso alla musica. In ogni nota sento sempre ancora, quando sento musica, la pioggia.” […] Non so se fossi felice. A impegnarmi erano cose più importanti che la voglia di felicità. A tutt’oggi non mi interessa conoscere la risposta. A volte penso che la felicità consista proprio nel non cercarla né volerla trovare. Più, felice ancora è chi non ne fa un caso, nemmeno nella sventura.”

Nel frattempo … “Il caffè è colato, a gocce, nella tazza preriscaldata e così, a gocce –avverte l’autore – (Suvorin), beve dalla tazza. Atteggia le labbra come un flautista l’imboccatura, ma quello che sentiamo non è un suono, è un sibilo, non forte, e nemmeno sgradevole, come un respiro, il respiro più piccolo che ci sia. La lingua, piegata a cucchiaio, accoglie la prima goccia, l’assorbe, felice come questo può rendere felici” …

Oh sì! Il tutto ha richiesto un’attenzione particolare, una lettura perspicace, onde rimembrare il tempo vissuto fra uggie e silenzi, mentre fuori continua a cadere la pioggia, ogni goccia una nota che s’accompagna al crepitio del fuoco acceso che surriscalda il torpore dell’ozio … non ne sentite la musica, no? …

E dire che sono solo a metà del libro ...
..comunque vada, per favore non sparate sul pianista!

Pssst: vi innamorerete di Suvorin ... è un grande!

L’autore. (*)
Wolf Wondratschek, scrittore, poeta, sceneggiatore (Rudolstadt 1943), cavalca dagli anni ’60/’70 la scena letteraria internazionale, in cui è noto come esponente della Beat Generation tedesca. La sua produzione cinquantennale comprende anche racconti, reportage e radiodrammi che alterna con la critica sociale, scritti intimistici, e ritratti di artisti.

Tradotti in italiano sono reperibili oltre al titolo qui recensito, “Mara. Autobiografia di un violoncello.” Con CD audio – TEA 2008.

Note:
(*) Dalla presentazione di copertina.
(**) Foto di copertina di Renzo Baggiani "La tazzina di caffé" - in Pinterest.

Edizioni Voland - www.voland.it

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- Teatro

’La caduta di Troia’ - Visto in RAI Teatro

"La caduta di Troia"
tratto dal Libro II dell’Eneide virgiliana, visto in TV 13/03/21 - Rai5 per la serata dedicata al ‘Teatro’, con la voce recitante di Massimo Popolizio, accompagnato dalle musiche di Stefano Saletti e Barbara Eramo.

Se mai si volesse dare una ‘dimensione temporale’ alla recitazione di Massimo Popolizio, si dovrebbe ripercorrere dall’inizio la carriera di questo fine dicitore nonché interprete, doppiatore, commediografo, regista e quant’altro, e collocarlo nella contiguità della tradizione aedica che nella Grecia antica forgiava i cantori professionisti che nel ‘choros’ prendevano parte alle rappresentazioni del teatro classico, sia drammatico che tragico, e che più spesso erano anche compositori originali dei ‘canti epici’ che accompagnavano le parole col suono di strumenti musicali: “attraverso quelle stesse parole e quelle musiche – dice Popolizio – con le quali ho cercato di creare vere e proprie immagini, sì da far vedere ciò che è detto”.

Un melisma virtuosistico che in “La caduta di Troia”, una piéce che la critica letteraria e teatrale considera un “capolavoro assoluto per la sua struttura e per la sua forza tragica”, Massimo Popolizio ha concepito nel dare contiguità alla propria ‘voce narrante’ con l’ausilio di una seconda ‘voce cantante’, quella bellissima di Barbara Eramo, entrambe accompagnate per l’occasione da un raffinato amalgama di musiche realizzate da Stefano Saletti e dalla stessa Barbara Eramo, con strumenti tipici della tradizione mediterranea, quali l’oud, il bouzouki, il bodhran; ed altri ancor più antichi ed evocativi come il kemence, il daf e il ney, propri della tradizione persiana, dovuti alla presenza del musicista iraniano Pejman Tadayon.

L’amalgama tra le diverse culture musicali, quella Greca e quella Persiana, presenti nel testo virgiliano, è qui sostenuto dalla recitazione ‘èpica’ di Massimo Popolizio che dà prova della sua massima esperienza attoriale; e dal canto ‘aulico’ di Barbara Eramo, da cui, ripercorrendo la tradizione orale dell’epos greco e latino, il ‘mèlos’ alchemico raggiunge la sua forma mitica-estetizzante. Qui, l’ausilio ‘rapsodico’ degli strumenti musicali, non limitati al semplice ruolo di accompagnamento, si fa ‘corpo stesso della rappresentazione’, permettendo alle parti di raggiungere l’apice della ‘prova d’attore’ tout court.

Ma “La caduta di Troia” tratto dall’Eneide virgiliana, non è solo un testo letterario di grande spessore tragico, affinché arrivi ad essere un autentico ‘pezzo di teatro’ necessita di uno studio attento della voce, di una profusione verbale eclettica, a volte carica di modulazioni intimistiche, quasi labbiali; mentre, in altri momenti si addensa di pathos emotivo, più vicino a quella liricità poetica che già nell’antica Grecia l’avvicinava al ‘canto’. Liricità che diventa ‘magistralis’ ogni qual volta Massimo Popolizio, attore di scuola ronconiana, oggi tra gli interpreti più importanti del panorama teatrale e cinematografico, si confronta con testi di una certa levatura narrativa.

Inutile ripetere qui la trama che apre il secondo libro dell’Eneide virgiliana, per quanto è bene conoscerne almeno la tematica incentrata sull’inganno perpetrato dai Greci nella guerra che, dopo dieci anni d’assedio, porterà alla caduta della città di Troia, e si trasformerà per i troiani in un evento di morte e distruzione. Dacché, dopo la violenza della guerra, ha inizio il lungo peregrinare di Enea alla ricerca di una nuova terra, che pure per volere degli déi di allora egli raggiungerà, seppure con la stessa disperazione di quanti oggi affrontano il lungo viaggio per la sopravvivenza.

Viaggio che ha inizio nell’incognita di raggiungere un approdo sicuro e che porterà molti degli emigranti che l’intraprendono a subire lo stesso inganno a monte delle loro speranze avite, e solo per aver dato laggio alle voci di una felicità irraggiungibile e senza possibilità di riscatto alcuno. Ma se l’eroe Enea poteva contare sull’aiuto degli déi, il destino dei migranti di oggi, che pure fuggono dalla violenza della guerra e di tutto quel che ne concerne, trovano ahimé una terra disastrata, dilaniata dagli interessi politici ed economici, senza ricevere quell’accoglienza agevolata che in quanto esseri umani necessitano.

Acciò il misurarsi con la ‘tragedia’ antica di tutto un popolo e la determinante drammaticità dei singoli protagonisti di questo testo, accresce nello spettatore odierno la consapevolezza della immane catastrofe umana cui andiamo incontro, per quanto virtuale attraverso i media audiovisivi, di un’esposizione che amplifichi più che mai la necessaria divulgazione in ambito formativo: per una ‘presa di coscienza’ che permetta di affrontare le sfide del domani. Ciò che poi era quanto concerneva all’istituzione del Theatron nell’età classica della Grecia antica, quello di formare i futuri ipocrites, quegli ‘attori’, nel senso più ampio di commediografi, le cui opere oggi sono parte del patrimonio culturale dell’umanità.

Registrato al Teatro India di Roma nel dicembre 2020, che Rai Cultura ha proposto in prima visione sabato 13 marzo alle 21.15 su Rai5, con la regia televisiva di Marco Odetto, su un progetto editoriale di Felice Cappa, produttore esecutivo Serena Semprini, a cura di Giulia Morelli, “La caduta di Troia”, per la Produzione Compagnia Orsini, rappresenta inoltre una prova d’autore afferente all’accompagnemento musicale di Stefano Saletti e Barbara Eramo, su musiche eseguite dal vivo con strumenti originali e non solo. Degna di nota è anche la ricerca dei canti utilizzati nella forma originale dei paesi di prvenienza: infatti le lingue cantate sono il ladino, l’aramaico, l’ebraico e il sabir, antiche lingue del Mediterraneo, per meglio risaltare le atmosfere animate da Massimo Popolizio e dalla voce limpida di Barbara Eramo che si muove tra melismi e scale di derivazione mediorientale.

Il plauso pur accreditato dal pubblico seduto davanti allo schermo televisivo non rende giustizia all’atmosfera ‘mitica’ ricreata dall’ensemble vocale-strumentale formato da Massimo Popolizio, accompagnato dalle musiche di Stefano Saletti e Barbara Eramo che altresì anelano di poter tornare a esibirsi in teatro, in quel Theatron che nell’antichità accoglieva per l’occasione le genti festanti che giungevano da ogni parte per poi restarne coivolte, al pari dell’aver scritto una pagina di storia individuale e collettiva. Ciò che è nell’anima di ogni attore e compagnia teatrale in attesa di poter riprendere il ‘lavoro’, una delle categorie più bistrattate in assoluto, la cua decaduta affermazione dell’istituzione del teatro, ancor prima della pandemia, ha ridotto bruscamente l’impatto culturale del nostro paese.

Come ha recentemente affermato Popolizio: “Il teatro dovrà riaprire ma in modo maestoso!”, alla cui voce mi permetto di aggiungere: Sì, al più presto!


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- Poesia

Cristiano Poletti … o il ‘lato oscuro’ della poesia d’autore

Cristiano Poletti … o il ‘lato oscuro’ della poesia d’autore.
Marcos Y Marcos Editore 2019.

“Con le mani cerco, mani che hanno pensato, che hanno toccato, hanno preso. Forse trovando la verità: non nel passato, dov’era già scritta, nemmeno nel futuro, impossibile, il futuro è un luogo vuoto” …

… come vuoto da inondare di realtà pensante che sgorga liquida e invade ogni nostro spazio espanso, onde fecondare ogni possibile/impossibile connubio di relazione, accordo, corrispondenza, ma ed anche d’amicizia, di rapporto palese, di alleanza come di separazione, che non tiene conto della misura del tempo, di ogni ‘tempo’. Allora cosa importa se era ieri, oggi o se sarà domani nel “… la ferma solitudine dei giorni” (?); se “… un eccesso di tristezza, o di gioia”, o se “… l’avere amato mai e sempre” (?).

Niente cambia o cambierà di quanto ci saremo detti, saranno giorni assolati d’intensa luce ritrovata, o forse giorni di pioggia da stare insieme gli uni con gli altri, saranno comunque giorni che avremo vissuti intensamente nell’estatica visione dell’amore che avremo donato, della nostra vicendevole emozione … “Sono uguali inchiostri i nostri debiti d’amore”, “… È in luce che ci giudica la terra.”

Se vogliamo, forse, un temporale, ogni temporale, equivale a una emorragia che non sappiamo come arginare. È allora che dalle nuvole fratte scendono miriadi di gocciole liquide che accogliamo festanti, quasi che bagnandoci si risvegli in noi l’ancestrale vigore d’una qualche rinascita. Oppure è il solido grandinare a sorprenderci, come se volesse svegliarci dall’oziosa sonnolenza dei sentimenti; o anche di quando intende stupirci, dopo averle impastate di leggera neve …

“Nulla era prima, e dopo. Ma tra due sponde questo è il punto, scritto nell’infinito alfabeto del sempre. Qui in mezzo, come per gioia del limite l’anima ha inizio, inizia la sua frase, imparata e scordata, quante volte, e mai dimenticata.” […] “Non si replica l’anima?”

Un’emorragia che si sprigiona da antichi umori retratti, intrisi di emozioni diverse, astenute, ferite, de-costruzione di gioie inespresse, o forse solo incomprese, frattali di donazioni restituite senza un perché, se mai, invero solo poco apprezzate. Né tradimenti né immaginate fughe, ma lasciti e abbandoni, troppi da sostenere in una sola esistenza di continui ‘temporali’, che se solo avessero smesso di pioverci addosso avrebbero lasciato spazio a mille arcobaleni …

Arcobaleni che avrebbero illuminato di spensieratezza mille e più tele e immancabilmente riempito di colori molti dei giorni a venire “Di una poesia (costante) che … senza scrivere sapevate, già avevate amato per sempre. Altrove è un’eternità il lavoro dell’acqua, dare al prato l’ortica, all’uomo il muschio che bacia la pietra … Oltre il momento d’acqua, il corridoio di pioggia che fu specchio, se ne vanno nel timore di amare, gli uomini.”

È dell’emorragia del cuore l’inarrestabile silenzio che si consuma in questo scorrere di parole, di frasi, di grida che implodono nelle pagine in questa silloge poetica di Cristiano Poletti, scritta al culmine d’una passione segreta che ha consumata nel tempo, come di neve macchiata di rosso sangue versato, che pur s’arresta sul ciglio prima della sua scesa nell’Averno degli anni. E si vorrebbe sapere perché d’ogni cosa, d’ogni azione inconclusa, dei mille perché che ottenebrano le notti dei suoi come dei nostri ‘temporali’. Così come le ragioni nascoste della nostra esistenza, ad esempio, e perché no di conoscere le incognite d’una filosofia ormai compiuta, di come raggiungiere quell’assoluto che sempre ci sfugge, e/o le verità che si nascondono dietro quell’ultima parola che ha nome ‘fine’…

Ma non si da fine alle ‘Altitudini’, (una sezione della silloge), semmai si … “Preparano le pire, (per) una via, l’altra.” … Allorché “..forse avremo amato, alla fine”, onde … “..risaliremo il destino tra la tomba degli angeli e quella degli uomini” …
«Nulla è dunque la morte per noi, e per niente ci riguarda.» Recita un veso di Tito Lucrezio Caro, e noi, noi non saremo che rugiada che di primo mattino si posa sulle piante odorose del nuovo edenico Giardino “..sotto il velo nelle ragioni del bianco del cielo”, spalancato per accoglierci colà, dove la vita si slarga e ritorna l’antica stagione della rimembranza…

Dove, mi chiedi? “Dove … fiume e nebbia, nostro inverno che fa scuri i segreti e i rami (di) questa pianura, la nostra fine, fiume e vita”, finirà per ridisegnare un viso che conosciamo, di cui aspettavamo da sempre il suo ‘ritorno’ …

*Ritorno - interno giorno.
“In un’idea di stelle e nervi la notte è passata, come altre e sono solo mimiche di anni. Ed ecco,nel giro di poco le nuvole che screpolano il cielo fanno dell’alba e sul volto una ruga. Nel molto del sangue gira l’età, mescola nelle vene un sorriso, dentro quel viso la risposta che è dolore che piega nel dolore. Ormai è giorno e nella sua magia chiede ancora la pagina infinita e che il suo nome sia tempo, punto, vita.”

*Così ti annuvoli
“..sei attesa e sei temporale” … “arrivi sulle scale dell’estate dove molti lavarono gli anni dove dicono la gioia dura. Entri, e lo sai. Aspetti lo spavento dove sei nato. Così sul fronte di una grandine in una nube nuovamente tu ti avvicendi e gridi il suo urlo e la luce seguente.”

*Una persona
“Dalla luce, dal tempo sei qui tornato nella fiamma di chi ti ama e che ti amò. Ti amò la polvere dove sono, dove s’inseguono e rivivono la quercia e il vento di un pensiero stretti nel rettangolo del giardino. Torni e hai con te il mattino, il nuovo inizio di una casa, questa sullo sfondo, e dentro sei nella pendola ferma che tiene, ha trattenuto in silenzio il silenzio delle mani, l’umiltà delle vene. Tu canti adesso una canzone di puro mattino. Il catalogo delle finestre sulla notte tanto aperto si è chiuso. Istante della voce, voce del sempre, lettere. Mandate lettere al loro indirizzo. Lì chiara l’anima tornò … il sogno è solo un’ombra tra le dita.”

«Che fu quel punto acerbo che di vita ebbe nome?», recita un verso di Giacomo Leopardi che non conosce fine, ché nella sospensione dell’interrogativo prende linfa per nuovi versi. Quegli stessi a cui Cristiano Poletti s’abbevera, sì da sembrare quasi che l’audacia dei ‘temporali’ lo spinga ad andare oltre, fra le nuvole buie dove s’incammina non senza affanno, fino al raggiungimento del crinale della sua ricerca interiore, ben sapendo che dopo il temporale c’è da sperare solo nel diluvio, eppure disposto, e comunque, a pagare il laggio di quanto non sia riuscito a esternare dentro i suoi fluidi Temporali …

“È in luce che ci giudica la terra.”

Ritagli poetici:

*Segmento
“È in un gesto il tuo perderti, e qui. In un verso, è questo il faticoso sempre sconosciuto valico della morte vera” ...

*Otto anni
“Intorno i libri, una sera che ha un nome. Da tanto non piove. Ma un temporale ascolta si prepara nell’aria, cedono l’alta pressione e gli anni. Ti chiamo. Chiama” …

*Fine temporale
“Ho pregato un riflesso in te, forse era il mio ma credendo solo a questo tavolino sparecchiato è stato inutile. Eppure non sono materiale, guarda, neanche la spesa ho sistemato e nel ripostiglio è caduto tutto. Penso sia anche piovuto. Era annunciato per oggi, previsto che venisse e smettesse. Su questo tavolino scrivo a te, riscrivo se possibile, felice di questo fine temporale.”

*Un cerchio
“Quest’acqua è così, è un cerchio, e tu devi girarci dentro. Intorno cornici, uomini e terra con tutto il tempo che hanno nel piano di Dio. Entro in questo cerchio anch’io e senza contare seguo le volontà. In uno strappo dei polmoni non si tocca.” […]
“.. Io nel più semplice polso mi trovo dentro queste parole l’infinito della fine.” Sono io quello: “.. uno che aspetta, nel grigio tra il suo terrazzo e il cielo.”

*Lettera dallo stesso luogo
“Vivo qui, mi racconti, dove porta a un solco doloroso il mercato dei giorni: chi in settembre assente si mescola nel giro a vuoto di un vinile; chi toglie dal fuoco un’ombra prolungata nel genio antico della casa; chi nello stesso luogo si abbandona già al gelo di uno specchio e sputa sul quaderno della ‘fine’ aperto sempre, e ora. Ora, non credere, niente si è perso, niente in filigrana. Le perdite tornano, sono qui coi miei anni in un solco doloroso, e felice, dici, tornano i loro visi. Da qui vivi, ti dico. È tutto.”




Note:
“.” I corsivi, le perifrasi, sono dell’autore Cristiano Poletti
“?” I sunti sono arbitrariamente interpretati da GioMa

L’Autore, bibliografia essenziale.
Cristiano Poletti (Treviglio, 1976) è autore della raccolta di poesie Porta a ognuno (L’arcolaio, 2012); del saggio Trovandomi in inviti superflui, in L’attesa e l’ignoto - L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio, 2012); delle prose critiche raccolte in dei poeti (Carteggi Letterari, 2019); del libro-DVD (documentario di Francesco Ferri dedicato alla figura e al lavoro di Fabio Pusterla) Libellula gentile (Marcos y Marcos, 2019); della raccolta di poesie Temporali (poesia, Marcos y Marcos, 2019). Dal 2007 al 2017 ha diretto Trevigliopoesia, festival di poesia e videopoesia. Dal 2013 è redattore del lit-blog Poetarum Silva (poetarumsilva.com). Lavora presso l’Università di Bergamo.

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- Cinema

Film / Recensioni - by Cineuropa News

FILM / RECENSIONI in collaborazione con Cineuropa News

'L’incredibile storia dell’Isola delle Rose'
di Vittoria Scarpa

09/12/2020 - Approda oggi su Netflix il nuovo film di Sydney Sibilia, che racconta la storia vera di un’utopia straordinaria, calcando però troppo la mano sul grottesco e smorzando l’effetto epico. Elio Germano nei panni di Giorgio Rosa ne 'L'incredibile storia dell'Isola delle Rose'.
Ci sono delle storie che appena le senti ti dici 'bisognerebbe farci un film'. Così è stato per Sydney Sibilia quando è venuto a conoscenza della vicenda incredibilmente vera, ma poco ricordata, della Repubblica Esperantista dell'Isola delle Rose, fondata nel maggio del 1968 al largo di Rimini e affondata (letteralmente) pochi mesi dopo, nel febbraio del ’69. La storia di un’utopia partorita dalla mente di un visionario ingegnere bolognese, Giorgio Rosa, e che il regista della trilogia di 'Smetto quando voglio', complice il suo sodale in produzione Matteo Rovere, ha deciso di portare sullo schermo per Netflix, realizzando L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, un film ambizioso e ben fatto, ma forse con un tocco di grottesco di troppo che rischia di non rendere onore all’impresa straordinaria a cui si ispira.
La storia è di per sé folle: negli anni in cui i giovani lottavano per cambiare il mondo (la fine degli anni ’60 del secolo scorso), il giovane ingegnere incarnato da Elio Germano (miglior attore all’ultima Berlinale per il suo ruolo in 'Volevo nascondermi') il mondo che voleva se lo costruì direttamente da solo, creando una piattaforma/isola di acciaio di 400 metri quadrati a 6 miglia dalla costa romagnola, in acque extraterritoriali, dove l’unica regola vigente era quella di essere liberi da ogni regola. Rosa chiese alle Nazioni Unite che la cosiddetta Isola delle Rose, che nel frattempo era diventata meta dei sognatori di mezzo mondo, venisse riconosciuta come Stato indipendente. Al governo italiano l’iniziativa non piacque per niente, e con la forza mise fine all’avventura di Rosa facendo saltare in aria la piattaforma, in quella che viene definita l’unica guerra di aggressione mai combattuta dalla Repubblica italiana.
Sibilia, affiancato in scrittura da Francesca Manieri (già sua collaboratrice per 'Smetto quando voglio' - 'Masterclass' e 'Ad honorem'), sceglie di dare all’intera vicenda un tono comico, fin dalla prima sequenza in cui vediamo l’ingegnere italiano infreddolito nella hall del palazzo del Consiglio d’Europa a Strasburgo, in attesa da giorni di essere ricevuto da qualcuno per esporre il suo caso e far valere le sue ragioni contro uno Stato italiano che, secondo lui, conosce una sola forma di libertà, quella 'condizionata'. Quello che segue è un lungo flashback che ripercorre le tappe che precedono la fondazione del piccolo Stato indipendente di cui Rosa si è autoproclamato presidente: dalla sua laurea in ingegneria alla costruzione di 'giocattoli per cui sistematicamente ti fai arrestare', come la sua ex fidanzata arrabbiata Gabriella (Matilda De Angelis) chiama le sue invenzioni, fino alla scintilla che scocca quando l’anarchico e idealista Giorgio posa il suo sguardo sul cartellone pubblicitario di una società petrolifera ('La nostra piattaforma, la tua libertà').
Girato con grande sapienza e visivamente accattivante, con la sua ricostruzione patinata degli anni Sessanta, a base di colori pastello e le hit musicali dell’epoca, il film rischia in alcuni passaggi di risultare poco credibile, e questo è un paradosso visto che, per quanto sia assurda, la storia alla base è vera. Romanzando parecchio l’avventura di Rosa, gli autori hanno voluto calcare la mano sull’aspetto grottesco della vicenda, e meno sul suo lato epico, finendo per confondere lo spettatore sulle reali motivazioni all’origine dell’impresa. Il film è piacevole e leggero, ma il dubbio che viene è se fosse questo il tono giusto per raccontare una storia così eccezionale.
L’incredibile storia dell’Isola delle Rose è prodotto da Groenlandia per Netflix; il film è disponibile sulla piattaforma di streaming dal 9 dicembre.

Sydney Sibilia sul set per 'L’incredibile storia dell’Isola delle Rose'
di Camillo De Marco

01/10/2019 - Dopo il successo della trilogia Smetto quando voglio, il regista torna con un film originale Netflix prodotto da Groenlandia. Protagonista Elio Germano
La squadra di L’incredibile storia dell’Isola delle Rose (Duccio Giordano/Netflix)
E’ Elio Germano il protagonista de 'L’incredibile storia dell’Isola delle Rose', diretto da Sydney Sibilia, le cui riprese sono iniziate il 16 settembre e si sposteranno per altre otto settimane da Roma a Malta, da Rimini a Bologna.
Sybilia torna dietro alla macchina da presa dopo il grande successo della trilogia 'Smetto quando voglio' (un totale di 10,8 milioni di euro al box office) con una co-produzione internazionale di Groenlandia e Netflix, che ne ha annunciato oggi il cast. Scritto dallo stesso regista con Francesca Manieri, il film è tratto dalla storia vera di Giorgio Rosa e dello stato indipendente che fondò nel 1968 al largo di Rimini, fuori dalle acque territoriali, incarnando il sogno di una generazione.
Elio Germano veste i panni di Giorgio Rosa, affiancato da Matilda De Angelis ('Veloce come il vento'), Fabrizio Bentivoglio, Luca Zingaretti, il francese François Cluzet (visto recentemente in 'Grandi bugie tra amici' e 'Il medico di campagna'), il tedesco Tom Wlaschiha ('Game of Thrones', 'Rush'), Leonardo Lidi, Alberto Astorri, Violetta Zironi. La fotografia del film è di Valerio Azzali, la scenografia di Tonino Azzera, i costumi di Nicoletta Taranta.

Questo film '..è un progetto unico, ambizioso', dice il produttore Matteo Rovere, 'non solo perché racconta una pagina fondamentale del nostro Paese che sono in pochi a ricordare, ma perché lo fa tirando in ballo ideali e argomenti universali. Una storia di libertà, fratellanza, partecipazione, che non può che parlare a tutti. È per questo che siamo orgogliosi di aver trovato un partner internazionale così importante, che ha deciso di sostenere un film complesso e di dimensioni viste raramente nel nostro paese. Con Netflix abbiamo garanzia di qualità e diffusione internazionale. Possiamo parlare al mondo, certi che il mondo si riconoscerà in questa storia tutta italiana, e ne sarà conquistato'. Per Netflix, Teresa Moneo (director International Original Films) ribatte: 'Siamo davvero emozionati di lavorare con Sydney, Matteo e tutto il team di Groenlandia e di poter dare vita alla loro visione ambiziosa e affascinante. Siamo entusiasti che un progetto di queste dimensioni venga dall’Italia e siamo sicuri che questa storia così universale possa piacere agli spettatori di Netflix in tutto il mondo'.


'IL MIO CORPO'
di Michele Pennetta.

In una Sicilia profonda e abbandonata Oscar, il figlio di un rigattiere, e Stanley, un giovane immigrato, vivono ai margini della società. Oscar e il fratello maggiore, Roberto, lavorano con il padre raccogliendo ferraglia dalle discariche abusive. Ogni metallo ha il suo valore e la famiglia di Oscar sopravvive trasformando i rifiuti altrui in una nuova merce di scambio. È un lavoro estenuante, svolto per un padre-padrone incontentabile. Oscar e Roberto sono legati da una storia comune ma il maggiore, impegnato a primeggiare per sopravvivere, si sottrae al ruolo di alleato, lasciando Oscar da solo. Per Stanley il peggio sembra essere alle spalle: ha un piccolo appartamento per sé, un permesso di soggiorno di due anni e un amico con cui dividere un piatto di banku e qualche ricordo. Potrebbe lasciare la Sicilia e tentare la fortuna in un paese che gli dia una vera chance, ma qualcosa lo trattiene in questo limbo. Un lavoro stagionale lo porta nell’entroterra profondo, in terre di vecchie miniere abbandonate e pascoli. In questo luogo dimenticato, tra detriti e ferraglia, le solitudini di Oscar e di Stanley si sfioreranno per un breve momento.

Recensione: 'Il mio corpo'
di Muriel Del Don

27/04/2020 - Il terzo lungometraggio di Michele Pennetta mette in scena con rispetto ed eleganza formale l’intimità di due personaggi alla ricerca di sé stessi. Il regista italiano ma svizzero d’adozione Michele Pennetta presenta in competizione internazionale a Visions du réel il suo ultimo lavoro 'Il mio corpo', che parla del lato oscuro di una Sicilia che grazie alla sua cinepresa si rivela in tutta la sua crudele bellezza. L’ultimo lungometraggio di Pennetta può essere considerato come il capitolo conclusivo di una trilogia dedicata a una Sicilia nascosta e crudele, lontana anni luce dai cliché acchiappaturisti che la vorrebbero perennemente soleggiata e sorridente.
Oscar non è più un bambino ma non ancora un adulto. Si trova in quella fase della vita in cui il futuro attira e spaventa, affascina e angoscia. Il mondo dell’infanzia ha lasciato il posto a estenuanti giornate di lavoro durante le quali recupera ferraglia che suo padre vende poi per racimolare qualche soldo. Oscar passa la sua vita nelle discariche alla ricerca di qualche tesoro (una statua della Madonna o un imponente carcassa di ferro) che possa portare un po’ di luce in un quotidiano dai toni oscuri. Agli antipodi del suo mondo, ma geograficamente e umanamente molto vicino, Stanley cerca di sopravvivere al di fuori della sua terra natale: la Nigeria in un’Italia che da oasi si trasforma poco a poco in prigione dei sentimenti. Stanley fa le pulizie in chiesa in cambio di un’ospitalità monetizzata, raccoglie frutta nei campi e porta al pascolo le mandrie, intraprende qualsiasi cosa gli permetta di occupare il suo corpo in transizione. Niente in apparenza sembra unire Oscar, il ragazzino siciliano e Stanley, anche lui ancora ragazzo ma venuto da lontano, tranne il sentimento opprimente di essere stati dimenticati da un mondo che li rifiuta spingendoli ai margini, sempre più lontano. Il loro destino sembra sfuggirgli di mano, come delle marionette manovrate da un’entità superiore che le vuole docili e sottomesse.
Pennetta filma la vita in apparenza banale di questi personaggi a fior di pelle come se non ci fosse un domani. Il presente della loro esistenza è tutto quello che gli rimane essendo il futuro un lusso che gli è negato. L’intimità di Oscar (potente la scena in cui è a tavola con il padre e il fratello, sguardo sfuggente e silenzi pesanti malgrado si parli degli abusi che hanno subito) e quella di Stan (toccante il momento in cui sta cucinando per il suo amico, tra la volontà di mettere a nudo i propri sentimenti e il pudore che blocca la parola) sono messe in parallelo come se il cinema tentasse di unire quello che la realtà tiene violentemente a distanza. Malgrado questo parallelismo, Pennetta non cade nella trappola del sentimentalismo evitando un happy end edulcorato e indubbiamente stonato. Oscar e Stan non si incontrano mai veramente se non protetti dal filtro della notte, del sogno. Emblematica da questo punto di vista la scena finale che ci mostra Oscar, addormentato nella baracca di Stan, mentre quest’ultimo, in penombra, osserva il buio. Il mio corpo è un film dove i silenzi e gli sguardi contano forse più delle parole stesse, un film al contempo violentemente diretto e poetico nel quale la luce diventa accecante e le ombre rifugio effimero per due corpi alla deriva.
'Il mio corpo' è prodotto, come tutti gli altri suoi lungometraggi, dalla ginevrina Close Up Films insieme all’italiana Kino Produzioni, RAI Cinema e la RSI Radiotelevisione svizzera. Sweet Spot Docs si occupa delle vendite all’internazionale.


TORINO FESTIVAL 2020
Recensione: 'Billie'
di Vittoria Scarpa

01/12/2020 - James Erskine racconta la straordinaria vita di Billie Holiday basandosi sulle vecchie interviste di una giornalista morta suicida, in un doc ricco e coinvolgente che assume i toni del noir.
'Una voce vera e autentica, un gemito roco dall’oltretomba. Dovevo scoprire da dove provenisse”. È così che la giornalista americana Linda Lipnack Kuehl descriveva l’effetto folgorante che ebbe su di lei il primo ascolto, a 14 anni, di un disco di Billie Holliday, la più grande cantante jazz di tutti i tempi. Il materiale delle sue indagini – 200 ore di interviste realizzate nell’arco di dieci anni, che dovevano servire da ossatura a una biografia della cantante mai portata a termine – sono oggi il cuore pulsante di Billie di James Erskine, un documentario ricco e coinvolgente, presentato fuori concorso al 38° Torino Film Festival, che racconta la straordinaria vita della leggenda della musica nera scomparsa nel 1959 a soli 44 anni, e in parallelo la storia della giornalista, morta suicida nel 1978, per la quale Billie era diventata un’ossessione.
È un’immersione quasi fantasmatica quella che ci offre il regista inglese, che ha costruito il suo lavoro basandosi sullo sterminato materiale audio raccolto da Lipnack Kuehl negli anni ’70 con il suo registratore amatoriale: 125 nastri, più o meno integri, recuperati presso un collezionista e mai ascoltati finora. Le voci degli amici d’infanzia di Billie, dei grandi musicisti che hanno lavorato con lei, dei suoi innumerevoli amanti, e persino degli agenti dell’FBI che arrestarono la cantante per droga, riemergono da queste registrazioni imperfette e gracchianti – realizzate per strada, in caffè o locali notturni dell’epoca – con un potere suggestivo notevole. Il tutto accompagnato da una vecchia intervista radiofonica in cui è la stessa Billie a parlare di sé, e da un nutrito archivio di fotografie e filmati di performance dal vivo della celebre cantante, colorizzate per l’occasione dall’artista brasiliana Marina Amaral.
E non poteva essere altrimenti, per un’icona che nonostante esistessero di lei solo immagini in bianco e nero, ha vissuto una vita decisamente a colori. L’infanzia povera a Baltimora, la prostituzione e i maltrattamenti (nel film ascoltiamo la testimonianza del suo magnaccia, spiazzante nella sua manifesta brutalità), poi il successo ma anche le difficoltà di essere di una donna nel mondo ultra maschilista dei night club, e di essere un’artista nera nell’America della segregazione razziale. E poi i suoi tanti amanti, sia uomini che donne, i suoi problemi con la droga, il suo carattere fiero e ribelle, e il suo grido di protesta contro la discriminazione, in particolare quella stupefacente canzone Strange Fruit che nessuno riusciva a impedirle di cantare, nonostante i bianchi “perbene” presenti ai suoi concerti inorridissero a sentir parlare di uomini neri appesi agli alberi del Sud come strani frutti.
Tra segreti e retroscena, dichiarazioni appassionate e smentite furiose, le interviste di Lipnack Kuehl sono un tesoro prezioso che rendono il film di Erskine diverso dai soliti documentari su artisti famosi del passato, lo rendono vivo, vibrante e schietto. E non dispiace l’idea del regista di dare spazio anche alla storia della giornalista che aveva indagato sulla vita di Billie, una bianca che si era addentrata in un mondo di neri (e di malavita) e la cui misteriosa scomparsa, archiviata ufficialmente come suicidio, dà al film un tocco di noir e mistero che lo rende ancora più avvincente.
Billie è prodotto da Altitude, BBC Music e Motion Picture, e realizzato con il sostegno della Billie Holiday Estate. Il film è distribuito in Italia da Feltrinelli Real Cinema.

VENEZIA 2021 Biennale College Cinema
Scelti i 4 progetti del Biennale College Cinema che saranno presentati alla Mostra di Venezia,
di Camillo De Marco

02/12/2020 - Progetti da Argentina, Ecuador, Italia, Usa. E per la prima volta un film di Biennale College è presentato agli Oscar: This Is Not a Burial, It’s a Resurrection per il Lesotho
La regista italiana Beatrice Baldacci, cui progetto La Tana è stato selezionato
Provengono da Argentina, Ecuador, Italia e Usa i quattro progetti che accedono alle fasi di realizzazione dei film della 9a edizione (2020 – 2021) di Biennale College – Cinema. I quattro team, formati da un regista e un produttore, partecipano da oggi, mercoledì 2, fino a domenica 6 dicembre al primo di due workshop. I lungometraggi realizzati parteciperanno alla 78ma Mostra di Venezia 2021. I quattro progetti finali sono stati scelti dopo il primo workshop fra 12 progetti selezionati da tutto il mondo, provenienti quest’anno da Argentina, Cina, Ecuador, Gran Bretagna, Kazakhstan, Italia, Serbia, Svizzera, Usa.
Si tratta di 'Al Oriente', opera seconda della regista ecuadoriana José María Avilés, con la produzione di Julieta Juncadella (Argentina); 'La Tana' dell’italiana Beatrice Baldacci (opera prima), produttrice Aurora Alma Bartiromo (Italia); 'Nuestros Días Más Felices', regia di Sol Berruezo Pichon-Rivière (Argentina, opera seconda) e produzione dell’argentina Laura Mara Tablón; 'The Cathedral', opera seconda del regista statunitense Ricky D’Ambrose, produttore Graham Swon (Usa).
I quattro team scelti parteciperanno a un ulteriore workshop dal 12 al 18 gennaio 2021. Questo darà il via alla realizzazione vera e propria di quattro lungometraggi a microbudget tramite un contributo della Biennale di 150mila euro ciascuno. I 4 film saranno presentati alla Mostra di Venezia 2021, insieme ai 2 film provenienti dall’8a edizione, la cui presentazione è slittata di un anno: La Santa Piccola, regista Silvia Brunelli, produttrice Francesca Maria Scanu (Italia) e Mon Père, le Diable, regista Ellie Foumbi (Usa), produttore Joseph Mastantuono (Francia).
Dall’8a edizione di Biennale College – Cinema il numero dei film sostenuti dalla Biennale è stato esteso a quattro progetti, e di essi almeno due devono essere di registe. Complessivamente dal 2012, nel corso delle sue prime otto edizioni, il laboratorio della Biennale di Venezia ha realizzato 24 lungometraggi di registi emergenti.
Da ricordare che il film presentato all’Oscar 2021 per il Lesotho nella categoria Miglior film internazionale, 'This Is Not a Burial, It’s a Resurrection' di Jeremiah Mosese, è stato sostenuto e realizzato nell’ambito della 7a edizione 2018-19 di Biennale College – Cinema. E’ la prima volta che un paese sceglie un film di Biennale College – Cinema per essere presentato all'Oscar.
Biennale College, realizzato dalla Biennale di Venezia, ha il sostegno del MiBac - Direzione Generale Cinema ed il contributo di Eurimages, che copre le spese di viaggio, ospitalità e formazione per una regista (Eurimages Residency Grant). Nel 2020, la regista selezionata è stata Patricia Pérez Fernandez. Il suo progetto di lungometraggio 'The Foreign Woman' ha partecipato al primo workshop di sviluppo di questa 9a edizione di Biennale College – Cinema.


Ciak per 'Sulla giostra' di Giorgia Cecere
di Camillo De Marco

10/12/2020 - Due generazioni a confronto nel nuovo film della regista di In un posto bellissimo, che si gira nei dintorni di Lecce. Nel cast Claudia Gerini e Lucia Sardo
Claudia Gerini e Lucia Sardo sul set del film 'Sulla giostra'.
Ad Alessano (Lecce) e dintorni sono iniziate le riprese di Sulla giostra, il nuovo film di Giorgia Cecere con Claudia Gerini e Lucia Sardo e con Alessio Vassallo e la partecipazione straordinaria di Paolo Sassanelli.
Due donne profondamente diverse, due generazioni a confronto che si ritrovano dopo anni in una vecchia ed elegante casa di campagna nel profondo Salento e che giorno dopo giorno, senza quasi rendersene conto, trasformano questo accidentale incontro nel punto di partenza per una nuova, inattesa vita. 4 settimane di set per una commedia al femminile, dai toni ironici e leggeri, sull’accettazione del proprio destino e di quella “giostra” chiamata vita.
'Il film racconta il viaggio di formazione di Irene e di (ri)scoperta di se stessa: giorno dopo giorno, grazie allo scontro e al confronto con Ada, questa donna così determinata e concentrata sui suoi obiettivi sceglierà di salire anche lei sulla ‘giostra’ dell’anziana governante, quella dell’accettazione dei giochi del destino e di saperne sorridere. Si ritroverà così più forte e allo stesso tempo anche più tenera e, soprattutto, più libera'. Così la regista e sceneggiatrice Giorgia Cecere, già allieva e pupilla di Gianni Amelio, che da regista ha firmato 'Il primo incarico' nel 2010, 'In un posto bellissimo' nel 2015 e da sceneggiatrice 'Il ladro di bambini' di Gianni Amelio (1992), 'Sangue vivo' (primo premio a San Sebastian nel 2000) e 'Il miracolo'(in concorso al Festival di Venezia nel 2003), entrambi di Edoardo Winspeare.
'Sulla giostra' è scritto da Giorgia Cecere e Pier Paolo Pirone, prodotto da Anele con Rai Cinema, in associazione con Notorious Pictures e Luigi de Vecchi, con il sostegno di Apulia Film Commission. Sarà distribuito da Notorious Pictures.

Negli Usa “Cinema Italian Style” in edizione virtuale
di Camillo De Marco

10/12/2020 - L’appuntamento annuale visibile in tutti gli Stati Uniti da oggi fino al 17 dicembre. Dieci titoli tra cui il film candidato per l’Italia agli Oscar, Notturno
Notturno di Gianfranco Rosi
Il cinema Italiano è visibile in tutti gli Stati Uniti da oggi giovedì 10 dicembre, per una settimana, con Cinema Italian Style, la rassegna promossa e organizzata da Istituto Luce-Cinecittà che ha scelto di non fermarsi e, grazie alla collaborazione con il Seattle International Film Festival, rilancia con un’edizione speciale online dedicata a Federico Fellini nell’anno del Centenario.
Fino al 17 dicembre l’appuntamento annuale di Los Angeles, San Francisco e Seattle si trasforma in un’edizione visibile in tutto il territorio degli Stati Uniti, dando ai film selezionati l’opportunità di essere visti su un territorio fondamentale del mercato globale.
Come ogni anno, Cinema Italian Style sostiene e lancia simbolicamente negli USA il film scelto dall’Italia per concorrere agli Oscar: 'Notturno' di Gianfranco Rosi, che sta compiendo il suo percorso nei principali festival internazionali (e ieri è entrato nella cinquina dei British Independent Film Award, per il Miglior film indipendente internazionale).
In selezione film premiati in festival internazionali come 'Volevo nascondermi' di Giorgio Diritti con la notevole performance di Elio Germano, vincitore alla Berlinale, e 'Padrenostro' di Claudio Noce, Coppa Volpi per il protagonista Pierfrancesco Favino a Venezia; commedie con tematiche di attualità sociale come 'Figli' di Giuseppe Bonito e 'Cosa sarà' di Francesco Bruni, film di chiusura all’ultima Festa del Cinema di Roma. Due titoli firmati da autori più giovani come 'Gli uomini d’oro' di Vincenzo Alfieri e 'Il Campione' di Leonardo D’Agostini, interpretato dal promettente Andrea Carpenzano.
In rassegna anche 'La dea fortuna', da un regista apprezzato anche in America come Ferzan Ozpetek, e 'Lacci' di Daniele Luchetti, applaudito film d’apertura di Venezia 2020. Infine, sempre dal Lido, 'Assandira' di Salvatore Mereu.
In selezione anche 4 cortometraggi: Inverno di Giulio Mastromauro, vincitore del David di Donatello, Giorgio di Arianna Mattioli e Solitaire di Edoardo Natoli, visti a Venezia, Il muro bianco di Andrea Brusa e Marco Scotuzzi, selezionato in molti festival tra i quali Clermont-Ferrand.
I film saranno accompagnati da interviste e commenti video degli autori e dei protagonisti, a disposizione in streaming della platea accreditata, per raccontare impressioni e segreti dei set.

*

- Alimentazione

’Fratelli tutti’ - sull’Enciclica di Papa Francesco

FRATELLI TUTTI - (sull' Enciclica di Papa Francesco)
"... sforziamoci tutti per liberare il futuro da questa pandemia."

Triste notte la mia.

Perdonate
se mi trema la voce
nel dirvi ciò che vi dico
che a stento riesco a trovare le parole
per andare avanti
dispiaciuto di non lasciarvi un mondo migliore
come avrei voluto che fosse
come vorreste che fosse.

Credetemi
poche cose nel grande disegno del creato
sono lasciate agli uomini
malgrado la buona volontà vi si possa mettere
nell’assicurare una qualche coerenza
che non sempre le cose
riescono come noi vorremmo
o meglio, come nel giusto vorremmo che fossero.

Mia la colpa
se di colpa si tratta
per questo e di tanto altro mi scuso col dire
di non sentirsi mai soli né
abbandonarsi all'indifferenza altrui
che si fa fatica a conquistare un posto
in questo nostro mondo obliterato
che non altro ci è dato.

Acciò
con fatica e sovrumano impegno
dobbiamo infine lottare
onde ottenere ciò che solo la 'libertà'
e la 'giustizia' possono dare
che non v'è limite alcuno
nell'affrontare con umiltà la pena che ne viene
affinché risorgere.

Né l’odio
può farsi limite nel rispetto reciproco
di far valere le ragioni altrui
fianco a fianco di quanti con affezione ricambiano
il dono di veritiera promessa
nel riscatto della redenzione 'in Dio'
che non conosce limite o scadenza alcuna
che non conosce età.

E già mi viene meno la voce
nel dire ciò che dico
che nel bene e nel male questa vita va vissuta
fino in fondo
senza chiedere nulla in cambio o forse
pretendere il tutto, chissà (?)
ché viverla è diritto di ognuno
ma anche un doveroso rispetto.

Che non sempre in questo nostro mondo
nella pena in cui noi tutti ci andiamo addentrando
riescono come noi vorremmo
o meglio, come nel giusto vorremmo che fosse
come anch'io avrei voluto che fosse
ché amara assai è la verità, di fiele la giustizia
tanto quanto è di gioia voler vivere questa nostra vita

...ché nel silenzio d'amore s'appaga la parola.

*

- Libri

Paolo Donini - Nuovo Libro ’La scatola di latta’


Paolo Donini “La scatola di latta” … alchimia di una fiaba moderna.
Edizioni Voland - Finestre 2019


"Nello sperduto paesino di Ics, fra morbide colline ondulate come le pagine di un libro..."

Quando l’amico Armando Bertollo mi ha suggerito di leggere il libro di Paolo Donini mi sono chiesto che cosa avesse mai trovato in una 'scatola di latta' in cui di solito si riponevano i ricordi d’infanzia o al massimo le vecchie foto di famiglia? Poi mi sono ricordato che anch’io in passato avevo riposto in una di quelle ‘scatole’ alcuni oggetti che mi erano stati cari. E allora mi sono detto di andarla a cercare e a curiosarvi dentro, 'chissà non si sa mai?' Comunque mai avrei pensato di trovarvi ‘sorpresa! sorpresa!’ un ‘vuoto da colmare’ con dentro tante lettere dell’alfabeto, qualcuna davvero inusitata, che si presentavano a me per la prima volta: segni, interpunzioni, simboli astrali, 'e che dire delle parentesi?' Che oltre a quel che stava al di 'fuori', quanto vi era contenuto 'dentro' significava qualcosa di inconsueto, di strano, o magari di eccezionale, 'e perché no di straordinario?'

Così, al contrario della delusione, mi sono chiesto se non fosse possibile riempirla di fantasia? 'Certo che sì'. Come dire che un ‘vuoto’ (che vuoto non è) potrebbe raccogliere una, cento, mille storie, che non si è avuto il coraggio di scrivere (e/o di raccontare). Di quei ricordi che ci portavamo dietro fin dall’infanzia: le filastrocche, i ritornelli, le storielle che inventavamo per tenerci compagnia, le piccolissime bugie che raccontavamo a noi stessi per nascondere le delusioni (piccole o grandi che fossero) dell’età.

E già solo quel ‘poco’ èccolo diventato un ‘molto', finanche un 'troppo’ che non stava più dentro la scatola. Ma poi, giungeva sempre il momento che bisognava richiudere il coperchio, nascondere la ‘scatola di latta’ in un luogo sicuro, 'sì ma dove? In cantina? Brrrr!' No, troppo fredda e umida, col timore che i ‘ricordi’ (quei ricordi) potessero arrugginirsi. 'Nella soffitta dei nonni?' Ops! Troppo polverosa e stantia per il troppo caldo. E se qualcuno, per caso, l’avesse trovata?
Scatola di latta da collezione.
Scatola di latta da collezione.

"Mette conto però annotare, a questo punto , uno sgradevole inconveniente..."

No, ricordo che infine decisi di riporre il ‘tutto’ nella ‘scatola’ che sempre portavo con me: la mia testa. Mi dissi che in fondo anche la scatola cranica era una scatola, decisamente la più sicura, la più attendibile, dove avrei potuto attingere in ogni momento, cercando, rimestando, avvalendomi della mia capacità intellettiva, non solo fra i ricordi, i possibili segreti e le verosimili bugie, e tornare a giocare, come avevo fatto in passato, mescolando ogni cosa vissuta nell’insieme degli anni: le emozioni, i sentimenti, le scoperte che col passare del tempo avevo accumulate fin dai tempi dell'andata a scuola.

Solo allora mi tornarono alla mente la maestra C. che per prima mi aveva insegnato a trasformare i suoni in ‘vocali’ e ‘consonanti’; il maesto B. che per primo mi aveva insegnato a trasformare in ‘segni’ i numeri ed a giocare con essi. Scopersi così che si potevano addizionare, sottrarre, dividere, moltiplicare, farci persino un ‘quadro’ unendone gli estremi.

Tutto aveva dello straordinario, così come adesso ha dell’eccezionale la tastiera del computer con le nuove ‘forme’ e i ‘simboli’ evoluzionistici con i quali costruire un personale ‘avatar’ fantastico: @&”- %§ …Ɣ. Ww*

Scommetto che non ci avevate ancora pensato? Ci ha pensato invece l’amico Bertollo (con un nome così sembrerebbe uscito da una fiaba di Gianni Rodari). Sì che nel propormi “La scatola di latta” di Paolo Donini forse non sapeva di farmi un regalo, e che regalo! Perché è dall’amore per le fiabe che prende spunto la mia passione per la scrittura, l’alchimia che mette in simbiosi la ‘parola detta’ con i ‘suoni onomatopeici’ che ne derivano, e con le ‘forme sempre magiche’ che assumono i caratteri nello scrivere, e/o quelle che vogliamo dargli.
Una immagine del Museo delle Scatole di Latta
Una immagine del Museo delle Scatole di Latta

"In quei giorni così gravidi di dubbi e forieri di conseguenze..."

Così come ha fatto l’autore di questo ‘delizioso’ piccolo libro (nel formato), ma grande per contenuto che è “La scatola di latta”, enome, immensa quanto l'universo.

Tuttavia più che raccontarvi la ‘fiaba’ adatta a grandi e piccini, ho scelto di parlare delle ‘tavole sinottiche’ (i disegni) che Paolo Donini ha incluso nel suo libro a incominciare dalla copertina … la storia narrata verrà poi da se e/o potrete sempre leggerla direttamente, ma non senza esporvi a un qualche ripensamento sull’evoluzione della vostra crescita, sulla maturità acquisita, sul rapporto con gli altri e col mondo che vi sta attorno.

'Siete pronti? Allora andiamo a incominciare!'

Tutto ha inizio con un punto, anzi da 'il punto' (((.]]] Certo così incorniciato può sembrare di stare a parlare di un’opera d’arte. Ma è così, forse non avete considerato che ‘lui’ è all’inizio di tutte le cose, il ‘punto’ focale di ogni dimensione: in algebra, in geometria, in architettura, nell’arte più in generale, ma anche nel linguaggio scritto e/o in qualche modo sottinteso, allo stesso modo del linguaggio parlato, di cui 'il punto' sta al centro dell’Universo. Si pensi per un istante a come Michelangelo Buonarroti ha suddiviso in riquadri, vele e rombi la Cappella Sistina, se non fosse partito da un punto 'iniziale' del suo capolavoro (?), c’è da rimanere sbalorditi.

Il pregio di Donini (così come pure dell’amico Bertollo che di queste cose se ne intende), sta nell’aver individuato una ‘formula grafica’ che coglie l’occhio e ci dice che siamo approdati in territorio alieno: analogico, semiotico, ermeneutico, simbolico, filosofico, immaginale.

Non c'è niente di più significativo dell’anima cosmica cui il ‘punto’ appartiene, nel suo insieme ordinato che si esplica nel significante, pur restando nei limiti dell’interpretazione linguistica e della scrittura grafica.

Un 'significare' le cui coordinate si dipartono “..frementi di virtualità, suscettibili di prendere forma” (*) nell’ordine del linguaggio che compongono, dando luogo a una sequenza e a una dipendenza ritmica: mettere/levare – pieno/vuoto – presenza/assenza: quale oggetto e/o soggetto di un sostantivo che apre a nuove prospettive simboliche, e che rimandano “..come suggeriva la definizione classica, ad una facoltà del conoscere”. (*) Dacché ‘il punto’ prima ancora d’essere un segno grafico ha un potere figurativo da cui nascono le figurazioni costruttive della nostra creatività.


"Quella sera il piccolo poeta cenò prima del solito, si infilò a letto e si addormentò ..."

È qui che l’immaginale creativo riflette della genesi polimorfa dei segni/simboli che appaiono oggi sulla nostra tastiera visiva, fuoriusciti dall’ “ermeneutica formale” con cui abbiamo riempito il ‘vuoto’ (solo apparente) della nostra “scatola di latta”. Ma torniamo per un momento al ‘gioco’ iniziale: cioè all’interpretazione del ‘punto’ nell’immanenza del senso, e concepirlo come qualcosa che va oltre il significare di ogni contenuto concreto. Proviamo dunque a leggere la ‘tavola sinottica’ di copertina, incrociandone e traducendone i simboli contenuti, pertanto:

“Quando @ incrocia sulla sua strada asterisco * gli sovviene qualche dubbio …. che fin da subito si trasforma in domanda? V vuoi vedere che dalle parentesi ( ) sono fuggite le doppie virgolette " " cui fa seguito, in percentuale %, che @ si preoccupa non poco di dove siano andate. V vuoi vedere che certi loro compagni & un poco birichini, veduta la bella giornata di sole hanno boicottato la Scuola per andare a giocare sui prati delle colline di Ics? Ò, che qui sta per ‘ops’, e si vuole che sia proprio così. E mentre di notte c'è un Poeta che s'ispira all'amata luna, di giorno c'è un grillo che canta senza posa. Così, fra una nuvoletta bianca che vaga nel cielo, c'è un certo Vento che arriva a scombinar le fila delle Parole, e volendo, compare un aquilone Д (intravisto di profilo) che zigzagando innalza i loro cuori e rende festosa l’allegra & compagnia.” ©
Locandina della presentazione/evento.
Locandina della presentazione/evento.

Potete anche non crederci ma “Ics” (non X), la bella ‘favola di latta’ di Paolo Donini esiste davvero, ma non cercatela in nessuna cartina geografica, perché non la troverete. Anche se, per un giorno, come recita la locandina sopra riportata, sarà possibile fermarsi a meditare nel "Bosco con l'Autore" in località Angelo di Monte Summano. Altrimenti, cercatela nella soffitta dei ricordi, allorché sfogliando le pagine, forse solo un poco impolverate, v’accorgerete di non aver mai smesso di scrivere di voi, dei vostri sogni, delle illusioni, delle sconfitte e delle risalite, e che infine converrete con me, che il confronto con le brutte favole di oggi, vale una rilettura critica, per quanto benevola su ‘chi siamo?’ e ‘dove stiamo andando?’ in questo nostro mondo altero.


L’autore, Paolo Donini

Scritore di saggistica e critica d'arte e letteraria per monografie, riviste, blog. Si occupa di curatela di mostre e di spazi espositivi, è inoltre autore dei disegni presenti nel volume, e che bene si incastrano con la grafica, il formato, nonché la cura editoriale di questa pubblicaszione. Ha pubblicato tre raccolte di poesia “Incipitaria” (Genesi Edit. 2005); “L’ablazione” (La vita felice 2010); “Mise en abîme” (Anterem Edizioni 2016). È vincitore inoltre del del Premio Lorenzo Montano ‘Opera Edita’ 2011.


Note:
(*) I corsivi sono di Carlo Di Legge in Stanislas Breton "Simbolo, schema, immaginazione" - Ripostes Editore 2020.



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- Cinema

Watch In Cineuropa News


WATCH IN CINEUROPA NEWS – I FILM CHE NON VEDREMO MAI IN ITALIA

Dal 13al 29 novembre si svolge la 24esima edizione del Tallinn Black Nights Film Festival in arte PÖFF. La piattaforma affiliata dell'industria audiovisiva del PÖFF, Industry@Tallinn & Baltic Event si svolgerà praticamente quest'anno dal 23 al 27 novembre.
Come uno dei principali festival cinematografici del Nord Europa e l'unico festival di lungometraggi competitivo accreditato FIAPF nella regione, Black Nights offre una selezione di oltre 200 lungometraggi e documentari e oltre 300 animazioni e cortometraggi nel suo programma principale e festival collaterali - festival di cortometraggi e film d'animazione PÖFF Shorts e festival di film per giovani e bambini Just Film.
Per la prima volta in assoluto, tutti gli eventi virtuali e una grande selezione dei nuovi film in anteprima a Black Nights - il festival proietta oltre 60 anteprime mondiali e internazionali - sono disponibili per la stampa e i professionisti indipendentemente dalla posizione geografica.

Recensione: ‘Bestie’
Vincitore di un'etichetta Cannes 2020 e portato da eccellenti performance, l'esperto secondo lungometraggio di Naël Marandin è una storia di dominio tra le sfide economiche dell'allevamento animale.

"Young people with ambition and ideas, that’s exactly what our region needs, you can count on my support." When your family farm is going into administration and close to being sold, when the market prices of animals keep going down and strangling you, and when your project for getting back on your feet must get the green light of the Safer (Land Development and Rural Establishment Companies) through a preemption within the framework of support for young farmers, every extended hand should be welcome. But people in weak positions sometimes awaken the appetite of ill-intentioned individuals, especially if you happen to be a beautiful young woman working in a very macho environment. This is the starting point of Beasts, the second feature from Naël Marandin (after She walks in 2016), recipient of the 2020 Critics’ Week label of the 2020 Cannes Film Festival, and having its European premiere in competition at the 24th Tallinn Black Nights International Film Festival. An accomplished film, both in its original layering of two topics that have often been in the news these past few years (economic difficulties in the agricultural world, and abuses of power as the means to sexual assault), and for its very realistic, almost documentary-like approach, credibly complimented by the cast within a dramatic but perfectly controlled story.
The mooing and the delivery of cows: in the local auctioning arena (“Lot n.2, six-year-old cow, IBR certified, vaccinated more than 60 days ago, 776 kilos, starting price: €1,230”), Constance (the impressive Diane Rouxel) is faced with the implacable reality of the market. The breeding farm she controls with her father Bernard (Olivier Gourmet) and her future husband Bruno (Finnegan Oldfield) cannot survive in its current form, and already a few “vulture” neighbors are circling it, waiting for her bankruptcy. But the young woman has a plan for the future: “to produce what we need to feed our animals, work in a more environment-friendly way and sell our products directly so as not to give away our profits to the big distributors.” A project which requires the green light from the administration counsel of the organization regulating rural land in the sector. The owner of the marketplace Sylvain Rousseau (Jalil Lespert) heads the organisation and suggests to Constance that her dream might come true. But as his wife, the local vet, herself says about him, when this forty-something family man “sets his mind on something, not many people can stop him” and his interest soon reveals itself to go far beyond a professional work relation. Constance soon finds herself trapped, the silent victim to a manipulating pervert…Very well informed about the conflicts in the world of animal farmers (maneuvers to seize union power, strategies of modernization or expansion) and about the everyday difficulties of the job, Beasts unfolds with an excellent script (written by Naël Marandin together with Marion Doussot and Marion Desseigne-Ravel), a dynamic mise-en-scene and a beautiful, very organic cinematography by Noé Bach. Solid on every level, the film makes no mistakes in terms of rhythm, in the vein of fascinating social realist cinema and following in the footsteps of a female heroine facing the dark forces of male domination ("this isn’t a world for you, can’t you see that?", "it will be your word against his"), but who won’t give up without a fight.
Produced by Diligence Films, Beasts was co-produced by France 3 Cinéma and K’ien Productions. The release in French cinemas will be handled by Ad Vitam on 3 February 2021 and international sales are handled by Kinology.

Recensione: ‘Il pittore dei segni’
Viesturs Kairiss mostra che puoi dipingere sulla storia tutto ciò che vuoi, ma sarà sempre lì.

Also known for The Chronicles of Melanie, Latvian director Viesturs Kairiss still has war on his mind in The Sign Painter, playing in Competition at this year's Tallinn Black Nights Film Festival. This time, it affects a lovely little town and while changes are initially slow – with the good first 20 minutes of the film spent by a lake – they soon pick up the pace, and good-natured painter Ansis (Davis Suharevskis) can no longer look away. The sweetness of this setting, miles away from The Chronicles' relentless gloom, doesn't come without a bitter aftertaste. Although everyone here seems pretty decent, Ansis' crush on a Jewish girl still comes with the side of “don't you meddle with Jews, they killed Jesus”. As the Second World War approaches, old prejudices remain firmly in place, but new ideologies come and go and the young man is forced to change street names so often that the paint barely has the time to dry. Those changes reveal what used to be hidden to such an extent that the town just can't fit in no more.
The Sign Painter – based on a novel by Gunars Janovskis – is engaging enough, although it does feel overlong and old-fashioned, with some of the shots way too calculated, the kind of proper historical drama that Golden Globe voters seem to enjoy the most. What's interesting however is Kairiss' choice of protagonist, a naive man way too unsure to really stand up for his or any choices, and who instead follows much more dominant girls around like a little doe. Anises might be in love with Zisele (Brigita Cmuntová), making use of his painting ladders to knock on her window at night, but his passiveness and the fact that at one point he literally drops his paintbrush on somebody else's skirt understandably come in the way.
This is a story about a failed love triangle as much as anything else, and for the most part, Kairiss keeps the mood generally upbeat – with the help of a soundtrack that feels as if an exceptionally brisk village band was following one around at all times. Soon, however, Ansis' hands start to ache from all the sign painting and nastiness prevails as the increasingly hostile community tries to make sense of the ever-changing authority, carrying yet another bust of a political leader up and down the stairs. That includes the girls in his life, with Jewish Zisele “siding with the Russians” and Naiga (Agnese Cirule) responding better to the Nazi ideology, while Anises himself tries to stay neutral, echoing Agnieszka Holland's recent statement about her film Charlatan [+]: “Even someone who believes he is beyond politics will eventually find out that politics is interested in him – that it’s using him and it can destroy him.” Not to mention it will make his hands ache. The Sign Painter was produced by Guntis Trekteris for Artbox, and is sold internationally by EastWest Filmdistribution.

BLACK NIGHTS 2020 Competition
Review: ‘Caged Birds’
by Giorgia Del Don

18/11/2020 - Joel Basman and Marie Leuenberger prove an exciting pair who inject most welcome energy into Oliver Rihs’ latest film. Based in Berlin, Swiss director Oliver Rihs (mostly known for his cult film Black Sheep and for 2014’s Ready, Steady Ommm!, which enjoyed resounding commercial success for a Swiss film) uses his latest work Caged Birds, which was presented in an international premiere at Tallin’s Black Nights Film Festival and selected for the Camerimage Festival’s International Competition, to explore a key period in Switzerland’s history. Known for being the cradle of human rights and praised for its stability and integrity (as well as its rather bothersome reputation for chocolate box scenery), the Swiss Confederacy also conceals some darker moments within its past which have, over time, proved necessary drivers of the freedom that we take for granted today. And it is precisely this period of the 1980s, with its fierce protests and social uprisings against the restrictive and smothering nature of everyday life, which Oliver Rihs explores in the present film. Emblematic of these struggles, albeit motivated by very different causes, are the radical lawyer Barbara Hug who fights for prisoners’ rights with a view to securing an overhaul of the antiquated and inhumane penitentiary system, and the “Fugitive king” Walter Stürm, a symbol of an uncompromising, extremely left-wing outlook.
Based on real events, the film recounts the meeting of these two complex characters who are driven by the same desire: freedom - but it doesn’t hold the same meaning for both of them. Whilst lawyer Hug believes that freedom cannot exist outside of a utopian world grafted onto a socio-political landscape which isn’t always entirely friendly, Walter Stürm - known for his tongue-in-cheek crimes which laugh in the face of the privileged world into which he was born, as well as his successive jailbreaks - sees it as a veritable way of life, a raison d’être: escaping from prison allows him to escape his own self, to get away from his privileges, the original sin with which he is branded and which goes by the name of “middle-class”.
The real-life characters on which the film is based already hold plenty of intrigue, but Caged Birds also benefits from two actors who confer all the gloss of the Swiss celebrity world: Joel Basman … Caged Bird reminds us of the degree to which our present is indebted to a past composed of “ordinary” people who knew how to follow their own ideals, to the point of becoming extraordinary; “beautiful losers” who have won us a freedom which we should never take for granted.
Mainly produced by Zurich’s Contrast Film (whose team-member Ivan Madeo is also one of the movie’s co-screenwriters, alongside the director himself, Dave Tucker, Norbert Maass and Oliver Keidel), the title was shot in Switzerland, Germany and Spain, and is co-produced by Berlin-based Port au Prince and Stuttgart’s Niama Film, together with SRF Swiss television/SRG SSR, Teleclub AG, ARTE, Bayerischer Rundfunk and Hessischer Rundfunk.

Oliver Rihs begins shooting ‘Caged Birds’
by Muriel Del Don
03/05/2019 - Three years after the comedy Monkey King, the Swiss director is starting principal photography on his new feature, which is being produced by Contrast Film
Besides the involvement of Zurich-based outfit Contrast Film as the majority producer, Caged Birds (working title: Storm) is being co-produced by Germany’s Port-au-prince Films (Berlin) and Niama Film Stuttgard. ARTE, Swiss Television SRF, Bayerische Rundfunk and Teleclub have also boarded this particular venture. Oliver Rihs made a name for himself among audiences thanks to his cult 2006 movie Black Sheep, the box-office smash Ready, Steady, Ommm! (Solothurn Film Festival in 2013) and the more recent Monkey King (Zurich Film Festival in 2016). Boasting a budget of €4.2 million, his new effort, Caged Birds, is one of the biggest film productions to be shot in Switzerland this year. The main character in Caged Birds is idealistic lawyer Barbara Hug, who devotes her life to fighting back against the deplorable prison system in Switzerland in the 1980s. During her struggle, Barbara comes across an unexpected ally: international criminal Walter Storm, nicknamed “the jailbreak king”. One thing leads to another and – who knows? – perhaps the feelings that bind these unlikely partners will start to run deeper. Caged Birds is an unconventional love story in which the fight for freedom and the characters’ emotions unashamedly intertwine.
Walter Storm is played by Joel Basman, one of today’s most sought-after Swiss actors, who won the 2019 Swiss Film Award for Best Actor (for Wolkenbruch's Wondrous Journey into the Arms of a Shiksa)…
The director of photography will be Felix von Muralt (winner of the Swiss Film Award for Best Cinematography for 2016’s Little Mountain Boy), while musician and electronic music producer Beat Solèr will compose the score. The Swiss distribution of the film is being handled by Ascot-Elite Entertainment Group.

BLACK NIGHTS 2020 First Feature Competition
Review: ‘The Translator’ by Kaleem Aftab

Rana Kazkaz e Anas Khalaf raccontano la recente turbolenta storia della Siria in un thriller ricco di azione che ha echi di Costa-Gavras.

18/11/2020 - Rana Kazkaz and Anas Khalaf recount the recent turbulent history of Syria in an action-packed thriller that has echoes of Costa-Gavras.
Showing in the First Feature Competition at the Tallinn Black Nights Film Festival, The Translator is a thriller in the Costa-Gavras mould. The Arab Spring and the strong-arm tactics of President Bashar al-Assad to stay in power serve as the backdrop to this tale of guilt, exile and family from first-time directors Rana Kazkaz and Anas Khalaf, who themselves fled Syria, rather than live under al-Assad's regime.
The central premise is so well thought out and believable that it's surprising that it's made up. At the Sydney Olympics in 2000, Sami (Ziad Bakri, the star of the directors' award-winning short film Mare Nostrum) is working as an interpreter for the 14-member Syrian Olympic team. When a reporter asks a boxer about his reaction to Bashar al-Assad succeeding his father, President Hafez al-Assad, the fighter repeats what the official Syrian handler tells him to say. However, Sami slightly mistranslates the answer, leading to him going into exile in Australia. The power of words and the need to report the truth are central themes in the film, so it's especially intriguing that the directors start by showing the protagonist's failure to uphold this basic tenet of reporting.
A decade later, and images of the Arab Spring and demonstrations in Sami's home town start to haunt him. When his brother goes missing, Sami decides that he has to return "home" to try to discover the truth and relieve some of the guilt that he feels for living a comfortable life in Australia, while his former friends and family take to the streets.
While the fast-paced introduction to the film and its themes seems overly driven by the needs of the narrative and plot, the filmmakers find better pacing once Sami lands in Syria, where demonstrations demanding human rights are taking place. That's not to say that the thrills stop there: The Translator continues to be a densely plotted thriller with plenty of twists and turns involving journalists, lawyers, broken friendships and family, and there is even a surprising cameo by leading Arab filmmaker Annemarie Jacir as a beaten-up protestor.
It's also noteworthy to see a Syrian-set tale told as a genre film, rather than a haunting refugee drama or a heart-breaking documentary. While the results are occasionally uneven, the film does a sterling job of relating the sense of confusion, fear and hope of the time, helped by the cinematography of Éric Devin (who also shot Soudade Kaadan's Syrian-set The Day I Lost My Shadow, which was awarded the Venice Lion of the Future for Best First Feature).
Like Costa-Gavras’ Missing, The Translator is concerned with highlighting how war gets reported and how the truth is often in the eye of the beholder. The strongest moments of The Translator are when it veers into thought-provoking and challenging statements on the power of peaceful protest. The film’s coup de grâce happens when it holds five United Nations Security Council permanent member states to account not just for their failures over Syria, but also for the way that they report and deal with peaceful demonstrations in their own countries.
The Translator is a Syrian-French-Swiss-Belgian-Qatari co-production staged by Georges Films and Synéastes Films, in co-production with Tipi’mages Productions, Artémis Productions, Arte France Cinéma, RTS-Radio Télévision Suisse, SRG SSR, Ad Vitam, Proximus and Shelter Prod. Its international sales are handled by Charades.

BLACK NIGHTS 2020 First Feature Competition
Rana Kazkaz and Anas Khalaf • Directors of The Translator
“It's like every government has learned this playbook, a way to delegitimize the peaceful protester” by Kaleem Aftab
19/11/2020 - Filmmakers Rana Kazkaz and Anas Khalaf talk to Cineuropa about their debut feature, The Translator, playing in the First Feature Competition at Tallinn Black Nights
Filmmakers Rana Kazkaz and Anas Khalaf reveal how their personal guilt about leaving Syria led to them making The Translator, now screening in the First Feature Competition at Tallinn Black Nights, and what they’ve discovered about the power of peaceful protest.
Cineuropa: The story of an interpreter making a minor slip-up when talking about the Syrian regime feels so real that it's surprising to learn that this part of the film is fabricated. How did you come up with the idea?
Anas Khalaf: Well, all of the dates are real for the beginning of the revolution, and the Syrian Olympic team did go to Sydney in 2000, with 14 athletes. There was a translator, a boxer and a regime guy making sure that everything went smoothly because the regime makes sure that every word is the right one. So we really played on that.

BLACK NIGHTS 2020 Baltic Film Competition
Review: ‘The Last Ones’ by Fabien Lemercier

Recensione: ‘Gli ultimi’
Il nuovo film di Veiko Õunpuu, la sottomissione dell'Estonia agli Oscar 2021, è un moderno western ricco di testosterone in lapponia dove il capitalismo si scontra con l'ecologia, sogna con la realtà.

16/11/2020 - Veiko Õunpuu’s new film, Estonia’s submission for the 2021 Oscars, is a modern Lapland-set western rich in testosterone where capitalism clashes with ecology, dreams with reali
“As soon as you're born they make you feel small / By giving you no time instead of it all / 'Til the pain is so big you feel nothing at all.” Sung at the local bar, a sinister tavern where miners get drunk surrounded by the gigantic natural expanses of Lapland, John Lennon’s Working Class Hero sets the troubled tone for Veiko Õunpuu’s The Last Ones, which had its international premiere in the Baltic Competition section of the 24th Tallinn Black Nights Film Festival and was selected as Estonia’s submission for the 2021 Oscars. In setting his camera in Finnish land, the director of Autumn Ball (Orizzonti prize winner in Venice in 2007), The Temptation of St. Tony (in competition in Sundance and Rotterdam in 2010) as well as Free Range (Berlinale Forum 2014) has found a territory fit for the rugged exploration of a topic close to his heart: the grey areas of Good and Evil. “We can dig a little more and we will dig.” Owner of a mine that is falling apart, Kari (the charismatic Tommi Korpela) commands the days and nights of his workers, who he secretly supplies with drugs so that their drunken evenings and their dreams of faraway places can help them forget a little about the bitterness of their existence, the narrowness of their mobile homes, the dangerous tunnels filling with water. However, at surface level, a completely different way of life subsists, that of the reindeer breeders, a small community struggling to make ends meet and progressively disappearing, its last members gathering around campfires while the explosions from the mine echoe in the distance (“the world is becoming a strange place”).
Between these two universes is Rupi (Pääru Oja), worker at the mine and dealer for Kari, who uses him (“do you want to rise up or do you want to fall down to the side like the others in their own shit?”) to retrieve pieces of land which Rupi’s aging father refuses to sell. A shrewd leader of men (ready to sacrifice the lives of others without scrupules), an alpha male and a perverse manipulator who alternates between corrupting seduction and humiliating violence, Kari (who is secretly planning to sell the mine to Chinese buyers) has another target in his sights: Riitta (Laura Birn), a beautiful girl who lives with former rock musician Lietmanen (Elmer Bäck). Dreaming of escaping from her everyday life as a cleaning lady, she has also caught the eye of Rupi. A time for life-changing choices is coming for the latter, as events soon escalate…
Playing with strong contrasts between a majestic landscape of tundra and mountains, and the mediocre and almost hellish life in the savage capitalism of mining, The Last Ones paints a brutal portrait of the other side of the Lapland dream, very far from the touristic cliches of snowmobile and canoe adventures. Using the codes of the western, with its cunning, corrupted and secretly cruel villain, its coquettish saloon girl, its outcast “natives”, its smuggling, and its quiet hero/antihero (at the heart of local contradictions) driving around on his motorcycle, the film relies on the atmosphere of a decadent society in a faraway outpost of civilization to create a dusky and ferocious moral tale dotted with explosions, very manly words of advice (“seven chunks of raw celery in the morning, followed by five minutes of icy water on the testicles: your testosterone levels will rise naturally”), and invitations to “get the rubble out of the well” in the hope of being born again.
Produced by Estonian company Homeless Bob with Finnish company BUFO and Dutch company PRPL, The Last Ones is sold internationally by French company Loco Films.






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- Cinema

Il cinema internazionale riparte da Venezia

Il cinema internazionale riparte da Venezia
in collaborazione con Cineuropa News.

28/07/2020 - Dal 2 al 12 settembre la Mostra propone un'edizione post-covid fisica e più snella ma come sempre variegata e internazionale.

Un'edizione "fisica", più snella ma come sempre ricca e internazionale, questa numero 77 promessa e confezionata dal direttore artistico Alberto Barbera, nonostante il mondo stia ancora affrontando la pandemia del Covid-19. La Mostra Internazionale del Cinema di Venezia presenterà dal 2 al 12 settembre nelle sue sale 62 lungometraggi da 50 Paesi (leggi la news sui film fuori concorso). 8 dei 18 titoli in concorso, tiene a sottolineare Barbera durante la presentazione in streaming di stamattina, sono firmati da registe.
'Le Sorelle Macaluso' di Emma Dante è il primo dei quattro film italiani che saranno valutati dalla giuria del concorso presieduto da Cate Blanchett. E' tratto da una piece teatrale della stessa regista e drammaturga, che ha esordito nel cinema a Venezia nel 2012 con Via Castellana Bandiera. Secondo italiano, 'Miss Marx' di Susanna Nicchiarelli (che con 'Nico', 1988 vinse Orizzonti) potrebbe confermare il nuovo grande talento del cinema italiano al femminile. Italiano anche il terzo film di Claudio Noce 'Padre Nostro' ispirato a fatti reali durante gli anni del terrorismo, prodotto e interpretato da Pierfrancesco Favino. Attesissimo è 'Notturno' di Gianfranco Rosi, girato tra le devastazioni della Siria con l'occhio originale del regista di 'Sacro GRA', Leone d’oro nel 2013, e 'Fuocoammare' Orso d'oro a Berlino nel 2016.

Nicole Garcia è tra i pochissimi autori francesi che non hanno rinunciato a uscire in sala dopo il lockdown: il suo nuovo thriller 'Lovers' sarà in concorso a Venezia. Orso d'argento nel 2018 con 'Un'altra vita - Mug' e in giuria a Venezia lo scorso anno, la regista polacca Małgorzata Szumowska torna con 'Never Gonna Snow Again', firmato con Michal Englert. Tornano invece gli "anni di piombo" in Germania con 'And Tomorrow the Entire World' di Julia Von Heinz, mentre 'Quo Vadis, Aida?' della bosniaca Jasmila Zbanic ricorda il genocidio di Srebrenica. "Dramma familiare di rara potenza" viene definito 'Pieces of a Woman' dell'ungherese Kornél Mundruczó (solitamente in concorso a Cannes), interpretato da attori americani.
L'habitué Amos Gitai torna con Laila in 'Haifa', girato tutto in una discoteca frequentata da israeliani e palestinesi nella sua città natale, la più aperta di Israele. Un altro maestro del cinema, il russo Andrei Konchalovsky, ricostruisce con 'Dear Comrades' un episodio reale, il primo sciopero in una fabbrica, represso nel sangue dal regime sovietico. E' grazie a Carlos Reygadas che Barbera ha conosciuto il regista dell'Azerbaijan Hilal Baydarov in concorso con il suo secondo film 'In Between Dying', "doloroso e struggente, un'autentica sorpresa". "Ricco di colpi di scena" 'Wife of a Spy' di Kiyoshi Kurosawa, per la prima volta in concorso ufficiale. Prima volta in concorso anche per Majid Majidi con il suo nuovo film, Sun Children, sui bambini di strada in Iran. La musica classica indiana è al centro di The Disciple, della premiata regista Chaitanya Tamhane.
'Nuevo orden'del messicano Michel Franco, selezionato due volte a Cannes con i suoi precedenti film, è descritto da Barbera come "fantascienza distopica, duro e angoscioso, denso di riferimenti cinematografici e letterari". Secondo film per Mona Fastvold, che con 'The World to Come' racconta una storia d'amore tra due donne vicine di a casa a fine Ottocento, tra duro lavoro quotidiano e l'incomprensione maschile. Infine Nomadland, uno di titoli più attesi del cinema indipendente americano, il terzo lungometraggio della regista Chloé Zhao, prodotto e interpretato dall'attrice premio Oscar Frances McDormand. Il film è in condivisione con i Festival di Toronto, Telluride e New York.

La sezione Orizzonti quest'anno non comprende solo opere prime e registi poco noti. Ci sono 6 esordi e alcuni ritorni eccellenti. Come quello di Uberto Pasolini, a sette anni da 'Still Life', con 'Nowhere Special', ispirato a una storia vera e interpretato da James Norton. O quello di Lav Diaz, Leone d'Oro 2013 con 'The Woman Who Left', che presenterà il nuovo 'Genus Pan'. Torna, con il triangolo amoroso di 'Mainstream', Gia Coppola, che era stata a Orizzonti nel 2013 con Palo Alto. Tornano anche i documentaristi italiani Martina Parenti and Massimo D'Anolfi con 'Guerra e pace'.
Tra i nomi nuovi, il greco Christos Nikou con 'Apples', in cui un misterioso malessere colpisce la popolazione privandola della memoria. Giovanni Aloi propone la sua opera prima 'La troisième guerre', mentre Ivan Ayr con ''Milestone' affronta la violenza sulle donne nella società indiana. 'The Wasteland' è l'esordio in un rigoroso bianco e nero dell’iraniano Ahmad Bahrami. "Esordio promettente", dice Barbera, anche per l'italiano Pietro Castellitto con 'I Predatori'. "Eccentrico e scatenato" è l'esordio del marocchino Ismaël El Iraki, 'Zanka Contact'. Arriva dall'Australia 'The Furnace' di Roderick Mackay, protagonista un avventuriero che ha rubato i lingotti d'oro della Corona. Ancora una giovane regista, Ana Rocha de Sousa, con il dramma socio-familiare 'Listen', mentre 'The Best Is Yet to Come' è l'esordio di Wang Jing prodotto da una delle punte di diamante del cinema cinese, Jia Zhangke.
Il secondo iraniano nella sezione è 'Careless Crime', la terza opera di Shahram Mokri. La tunisina Kaouther Ben Hania, che aveva presentato i suoi primi due film a Cannes, arriva a Venezia con 'The Man Who Sold His Skin'. Unico film dall'africa subsahariana, 'La nuit des rois' è firmato dall'ivoriano Philippe Lacôte, mentre arriva della Palestina il film di denuncia con i toni lievi della commedia è 'Gaza mon amour' di Tarzan e Arab Nasser. Dal Messico 'Selva trágica' di Yulene Olaizola, dalla Cinefondation di Cannes. Chiude la lista la "comicità slapstick tra le steppe del Kazakistan" di 'Yellow Cat', diretto da Adilkhan Yerzhanov.

I film in Concorso:
In Between Dying - Hilal Baydarov (Azerbaigian/Messico/Stati Uniti)
Le Sorelle Macaluso - Emma Dante (Italia)
The World to Come - Mona Fastvold (Stati Uniti)
Nuevo orden - Michel Franco (Messico/Francia)
Amants - Nicole Garcia (Francia)
Laila in Haifa - Amos Gitai (Israele/Francia)
Dear Comrades - Andrei Konchalovsky (Russia)
Wife of a Spy - Kiyoshi Kurosawa (Giappone)
Sun Children - Majid Majidi (Iran)
Pieces of a Woman - Kornél Mundruczó (Canada/Ungheria)
Miss Marx - Susanna Nicchiarelli (Italia/Belgio)
Padre Nostro - Claudio Noce (Italia)
Notturno - Gianfranco Rosi (Italia/Francia/Germania)
Never Gonna Snow Again - Malgorzata Szumowska, Michał Englert (Polonia/Germania)
The Disciple - Chaitanya Tamhane (India)
And Tomorrow the Entire World - Julia Von Heinz (Germania/Francia)
Quo Vadis, Aida? - Jasmila Zbanic (Bosnia-Eerzegovina/Austria/Romania/Paesi Bassi/Germania/Polonia/Francia/Norvegia)
Nomadland - Chloé Zhao (Stati Uniti)

Orizzonti:
Apples - Christos Nikou (Grecia/Polonia/Slovenia)
La Troisième Guerre - Giovanni Aloi (Francia)
Milestone - Ivan Ayr (India)
The Wasteland - Ahmad Bahrami (Iran)
The Man Who Sold His Skin - Kaouther Ben Hania (Tunisia/Francia/Germania/Belgio/Svezia)
The Predators - Pietro Castellitto (Italia)
Mainstream - Gia Coppola (Stati Uniti)
Genus Pan - Lav Diaz (Filippine)
Zanka Contact - Ismaël El Iraki (Francia/Marocco/Belgio)
Guerra e pace - Martina Parenti, Massimo D'Anolfi (Italia/Svizzera)
La Nuit des rois - Philippe Lacôte (Costa d'Avorio/Francia/Canada)
The Furnace - Robert Mackay (Australia)
Careless Crime - Shahram Mokri (Iran)
Gaza mon amour - Tarzan and Arab Nasser (Palestina/Francia/Germania/Portogallo/Qatar)
Selva trágica - Yulene Olaizola (Messico/Francia/Colombia)
Nowhere Special - Uberto Pasolini (Italia/Romania/Regno Unito)
Listen - Ana Rocha de Sousa (Regno Unito/Portogallo)
The Best Is Yet to Come - Wang Jing (Cina)
Yellow Cat - Adilkhan Yerzhanov (Kazakistan/Francia)

Recensione:
'Molecole' di Davide Abbatescianni
01/09/2020 - VENEZIA 2020: Il nuovo film di Andrea Segre è un racconto intimo, malinconico e commovente girato prima e durante la quarantena. Andrea Segre torna con un nuovo titolo a Venezia, Molecole [+], presentato fuori concorso come il precedente Il pianeta in mare (2019). Il nuovo documentario del regista veneto è il film di pre-apertura della Mostra di Venezia di quest’anno.

Il film si apre con una citazione tratta dal romanzo "Lo Straniero" (1942) di Albert Camus: “Dal fondo del mio avvenire, durante tutta questa vita assurda che avevo vissuto, un soffio oscuro risaliva verso di me attraverso annate che non erano ancora venute.” Con poesia e semplicità, il regista alterna immagini dell’affollata e vivace Venezia pre-coronavirus ed altre tratte dagli archivi di famiglia. La citazione d’apertura e, in maniera ancora più esplicita, la voce fuori campo di Segre, incominciano a toccare i temi principali del film, girato poco prima dell’inizio della crisi sanitaria mondiale e durante la successiva quarantena. I temi cardine di Molecole sono il personale rapporto del regista con la città lagunare e la sua complessa relazione con il padre Ulderico, vero protagonista dell’opera.
Il lockdown ha inaspettatamente bloccato il regista (il quale risiede a Roma) a Venezia. Segre stava lavorando su due progetti sulle grandi ferite della città, ovvero l’acqua alta ed il turismo. La particolare condizione atemporale causata dalla pandemia ha stimolato una profonda riflessione sul passato e consentito al regista di cogliere pienamente le atmosfere di una Venezia spoglia e irreale. Le sue riflessioni sono accompagnate da diversi interventi di cittadini veneziani: questi contributi, inseriti in maniera organica nel contesto narrativo, rappresentano un efficace trait d’union tra i temi dei progetti originari del regista e il “nuovo tempo” esperito durante la quarantena.
La fotografia, realizzata da Matteo Calore (Il pianeta in mare, Dove bisogna stare [+]) e dal regista stesso, traduce visivamente la malinconia e la sensazione di attesa permanente attraverso i colori pallidi degli edifici cittadini, la nebbia, le strade buie, l’imponente cielo uggioso ed il mare quasi privo di imbarcazioni. Alle suggestive immagini si aggiungono le musiche di Teho Teardo (Tuttinsieme, Il nido), incredibilmente evocative e atte a sottolineare la sensazione di fragilità che permea lo spirito del film. Inoltre, lodevole risulta il lavoro sul paesaggio sonoro (ad opera di Alberto Cagol, Marco Zambrano e Riccardo Spagnol), nonché il montaggio di Chiara Russo (Il pianeta in mare, Selfie), misurato e coinvolgente.
La sequenza finale è indubbiamente la parte più potente e magica del documentario. Il monologo di chiusura parla di “imparare a dialogare con l’inevitabile”, apre diverse chiavi di lettura sulla vita e sulla natura e tocca ancora una volta, con candore e sincerità, il rapporto tra padre e figlio.
Molecole è una produzione firmata dalla padovana ZaLab Film e Rai Cinema, in associazione con Vulcano e Istituto Luce Cinecittà. Il film arriverà nelle sale cinematografiche italiane il 3 settembre. La distribuzione è curata da ZaLab Film in collaborazione con Lucky Red.


'Lacci' di Daniele Luchetti apre la 77ma Mostra di Venezia
di Vittoria Scarpa
25/08/2020 - In pre-apertura Molecole di Andrea Segre, girato a Venezia durante il lockdown. Annunciata la composizione delle giurie
Sarà 'Lacci' di Daniele Luchetti ad aprire, fuori concorso, la 77ma edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (2-12 settembre). Prodotto da Beppe Caschetto per IBC Movie con Rai Cinema, il nuovo film del regista di 'Mio fratello è figlio unico' e 'La nostra vita', è tratto da un romanzo di Domenico Starnone e si presenta come “un giallo sui sentimenti, una storia di lealtà ed infedeltà, di rancore e vergogna”. Protagonisti sono Aldo (Luigi Lo Cascio, da poco vincitore di un David di Donatello come miglior attore non protagonista per 'Il traditore') e Vanda (Alba Rohrwacher), nella Napoli dei primi anni ’80. Il loro matrimonio entra in crisi quando Aldo si innamora della giovane Lidia. Trent’anni dopo, Aldo e Vanda sono ancora sposati. Dichiara il regista: “Lacci racconta i danni che l'amore causa quando ci fa improvvisamente cambiare strada e quelli – peggiori – di quando smette di accompagnarci”. Nel cast anche Laura Morante, Silvio Orlando, Giovanna Mezzogiorno, Adriano Giannini e Linda Caridi. L’ultima volta che un film italiano aveva aperto la Mostra di Venezia era stata nel 2009, con 'Baaria' di Giuseppe Tornatore.

La pre-apertura di quest’anno, il 1° settembre, è affidata invece al film documentario di Andrea Segre 'Molecole', prodotto da ZaLab Film con Rai Cinema in associazione con Vulcano e Istituto Luce Cinecittà. Il regista di 'Io sono Li' ha girato questo film durante il lockdown, quando è rimasto bloccato a Venezia la città di suo padre e solo in parte anche sua. Lì stava lavorando a due progetti di teatro e cinema sulle grandi ferite della città: il turismo e l’acqua alta. Mentre girava il virus ha congelato e svuotato la città davanti ai suoi occhi, riconsegnandola alla sua natura e alla sua storia, e in qualche modo anche a lui. Ha raccolto appunti visivi e storie e ha trascorso quei giorni nella casa di famiglia, dove ha avuto modo di scavare nei ricordi di ragazzo e di figlio, che lo hanno trascinato più a fondo di quanto pensasse. "Per fare un film bisogna pensarlo, scriverlo, organizzarlo, girarlo”, dichiara Segre. “Per 'Molecole' non c’è stato nulla di tutto ciò. Non mi sono nemmeno accorto di girarlo. L’ho vissuto ed è uscito da solo, in un tempo e una dimensione che non potevo prevedere. Molecole è sgorgato. Come l’acqua”.

Annunciata infine la composizione delle giurie della Mostra di quest’anno. Per il concorso Venezia 77, la presidente Cate Blanchett sarà affiancata dalle registe e sceneggiatrici Veronika Franz (Austria) e Joanna Hogg (Gran Bretagna), lo scrittore italiano Nicola Lagioia, i registi e sceneggiatori Christian Petzold (Germania) e Cristi Puiu (Romania), e l’attrice francese Ludivine Sagnier. La giuria Orizzonti sarà composta dalla regista, sceneggiatrice e attrice francese Claire Denis (presidente), il regista spagnolo Oskar Alegria, la regista, sceneggiatrice e scrittrice italiana Francesca Comencini, e i produttori Katriel Schory (Israele) e Christine Vachon (Usa). Il Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis” sarà invece assegnato da una giuria composta dal regista e sceneggiatore italiano Claudio Giovannesi, il direttore e programmatore di festival internazionali Remi Bonhomme (Francia), e la produttrice e direttrice di festival Dora Bouchoucha (Tunisia). Infine, la giuria Venice Virtual Reality vedrà schierati la regista e sceneggiatrice statunitense Celine Tricart (presidente), il regista britannico Asif Kapadia e l’autore di videogiochi giapponese Hideo Kojima.

AGGIORNAMENTO (25 August): L’attore statunitense Matt Dillon entra a far parte della giuria internazionale a causa dell'assenza di Cristi Puiu, impossibilitato a partecipare al festival.

Quentin Dupieux, Luca Guadagnino, Abel Ferrara selezionati fuori concorso al Lido
di Vittoria Scarpa.
11/08/2020 - 'Lasciami andare' di Stefano Mordini sarà il film di chiusura della Mostra. Tra gli eventi speciali, la serie diretta da Álex de la Iglesia, '30 Monedas'
Otto film di finzione e undici di non fiction, più tre proiezioni speciali, compongono il nutrito programma Fuori concorso della 77ma Mostra del cinema di Venezia (2-12 settembre), come annunciato dal direttore Alberto Barbera questa mattina durante una conferenza stampa in diretta streaming (leggi la news sui concorsi Venezia 77 e Orizzonti).
Rientra in questa lista, tra le opere di finzione, oltre al già annunciato film di apertura ('Lacci' di Daniele Luchetti - news) anche il film di chiusura della Mostra di quest’anno: è un altro titolo italiano, 'Lasciami andare' di Stefano Mordini, un thriller psicologico girato durante il periodo di acqua alta a Venezia, con Valeria Golino, Stefano Accorsi, Maya Sansa e Serena Rossi. Nella stessa sezione, 'Assandira' di Salvatore Mereu, un film “da non perdere” secondo Barbera, con Fabrizio Rongione, Barbora Bobulova e lo scrittore e poeta Gavino Ledda, ambientato nella Sardegna rurale e che ruota attorno a un agriturismo destinato a fare rivivere, soprattutto ai turisti nordeuropei, l’esperienza di vita nel mondo pastorale sardo tradizionale. Dal Regno Unito arriva 'The 'Duke' di Roger Michell (Notting Hill), storia vera di un tassista che nel 1961 rubò un ritratto di Goya dalla National Gallery per ottenere un insolito riscatto, “un film con spunti alla Ken Loach” specifica Barbera, con Helen Mirren e Jim Broadbent; dalla Polonia, Mosquito State di Filip Jan Rymsza, un film “curioso, inclassificabile, tra fantascienza e horror”; dalla Francia, il “surreale e grottesco” 'Mandibules'di Quentin Dupieux.

Tra i titoli non fiction fuori concorso, oltre al film di pre-apertura di Andrea Segre (leggi la news) spicca Salvatore: Shoemaker of Dreams diretto da Luca Guadagnino, un “biopic spericolato” che ricostruisce l'appassionante storia umana, artistica e imprenditoriale del calzolaio delle star Salvatore Ferragamo, dall’infanzia a Bonito (Avellino), dove ha realizzato le sue prime scarpe, al viaggio in America in cerca di fortuna, dalle esperienze a Hollywood al ritorno in Italia, dal rischio del fallimento alla rinascita nel suo laboratorio di Firenze fino alla definitiva consacrazione.
Annunciati poi, sempre fuori concorso, 'Greta' di Nathan Grosmann, sulla giovane attivista svedese Greta Thunberg; 'La verità su La Dolce Vita' di Giuseppe Pedersoli, racconto inedito della nascita, del disastro annunciato, e del mito del film italiano più famoso nel mondo; 'Sportin' Life' di Abel Ferrara, un’ode al cinema e alla musica, che conferma il sodalizio tra il regista americano e l’attore Willem Dafoe; il britannico 'Final Account' di Luke Holland, “un racconto denso e originale sull’Olocausto”, e 'Paolo Conte, via con me' di Giorgio Verdelli, ritratto ironico di uno dei più grandi autori della musica italiana, attraverso musica, interviste esclusive e materiali inediti. Tra i titoli extraeuropei, 'Crazy, Not Insane' di Alex Gibney (Stati Uniti), sull’avventura professionale di una criminologa americana alle prese con dei serial killer registrati sotto ipnosi, e City Hall di Frederick Wiseman.
Tra le proiezioni speciali, si segnala l’episodio 1 di '30 Monedas', la serie horror diretta da Álex de la Iglesia per HBO Spagna.

AGGIORNAMENTO 3 agosto: Due nuovi titoli si aggiungono al programma Fuori Concorso The Human Voice di Pedro Almodóvar e One Night in Miami di Regina King.
AGGIORNAMENTO 11 agosto: Due nuovi titoli si aggiungono al programma Fuori Concorso Fiori, Fiori, Fiori! di Luca Guadagnino e Run Hide Fight di Kyle Rankin.

La lista dei titoli:Fuori concorso
Fiction
Lacci - Daniele Luchetti (Italia) (film d’apertura)
Lasciami andare - Stefano Mordini (Italia) (film di chiusura)
Mandibules - Quentin Dupieux (Francia/Belgio)
Love After Love - Ann Hui (Cina)
Assandira - Salvatore Mereu (Italia)
The Duke - Roger Michell (Regno Unito)
Night in Paradise - Park Hoon-Jung (Corea del Sud)
Mosquito State - Filip Jan Rymsza (Polonia)
The Human Voice - Pedro Almodóvar (Spagna) (cortometraggio)
One Night in Miami - Regina King (Stati Uniti)
Run Hide Fight - Kyle Rankin (Stati Uniti)
Fiction - Proiezioni speciali
30 Monedas - Álex de la Iglesia (Spagna) (serie)
Princesse Europe - Camille Lotteau (Francia)
Omelia contadina - Alice Rohrwacher, JR (Italia/Francia) (cortometraggio)
Non-fiction
Molecole - Andrea Segre (Italia) (film di preapertura)
Sportin' Life - Abel Ferrara (Italia)
Crazy, Not Insane - Alex Gibney (Stati Uniti)
Greta - Nathan Grossman (Svezia)
Salvatore: Shoemaker of Dreams - Luca Guadagnino (Italia)
Final Account - Luke Holland (Regno Unito)
La verità su La Dolce Vita - Giuseppe Pedersoli (Italia)
Narciso em férias - Renato Terra, Ricardo Calil (Brasile)
Paolo Conte, via con me - Giorgio Verdelli (Italia)
Hopper/Welles - Orson Welles (Stati Uniti)
City Hall - Frederick Wiseman (Stati Uniti)
Fiori, Fiori, Fiori! - Luca Guadagnino (Italia) (cortometraggio)

Biennale College Cinema
El arte de volver - Pedro Collantes (Spagna/Italia)
Fucking with Nobody - Hannaleena Hauru (Finlandia/Italia)

Gabriele Salvatores batte il primo ciak per Comedians
di Camillo De Marco.
01/09/2020
Sono iniziate a Trieste le riprese del nuovo film di Gabriele Salvatores Comedians, adattamento per lo schermo del testo teatrale omonimo che ha consacrato il drammaturgo britannico Trevor Griffiths. Scritto agli inizi degli anni 70, la pièce era ambientata in una scuola serale di Manchester, dove un gruppo di aspiranti comici si riunisce per una prova finale prima di esibirsi per un agente di Londra. La prima produzione dell'opera fu diretta da Richard Eyre, allora direttore artistico del teatro di Nottingham, e fu rappresentata per la prima volta il 20 febbraio 1975 (in scena c’erano anche Jonathan Pryce e Stephen Rea). La prima americana venne allestita a Broadway per la regia di Mike Nichols e da allora la pièce è stata rappresentata in tutto il mondo.
“Molti anni fa misi in scena Comedians per il Teatro dell'Elfo di Milano”, spiega Salvatores. “Lo spettacolo, interpretato da giovani attori, che in seguito sono diventati molto famosi, venne replicato per tre anni di seguito e Griffiths ne fu molto contento e quando recentemente gli ho proposto di adattare il testo per lo schermo con grande entusiasmo mi ha risposto “Go ahead with all speed. You'll do it well’”.
In scena, in una riflessione sul significato della comicità e sull'importanza di rimanere fedeli alle scelte fatte, ci saranno Ale e Franz, Natalino Balasso, Demetra Bellina, Marco Bonadei, Elena Callegari, Aram Kian, Walter Leonardi, Riccardo Maranzana, Giulio Pranno, Vincenzo Zampa, con la partecipazione straordinaria di Christian De Sica.
Il regista Premio Oscar per Mediterraneo (1991) ha annunciato quest’anno il doc collettivo Viaggio in Italia, che raccoglie emozioni e paure durante la pandemia (leggi la news). Precedentemente, Salvatores aveva diretto 'Il ragazzo invisibile' (2014) e 'Il ragazzo invisibile - Seconda generazione' (2018), e anche 'Tutto il mio folle amore' (2019).

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- Musica

Val Bonetti - Nuovo disco.

VAL BONETTI
HIDDEN STAR
DODICILUNE / IRD

Prodotto da Dodicilune, distribuito in Italia e all’estero da IRD e nei migliori store on line da Believe Digital, sabato 22 agosto esce “Hidden Star” di Val Bonetti. In solo nei due brani "Tram 5 Rag" e "Little Dancer", nelle altre sette composizioni originali, il chitarrista milanese è affiancato da Marco Ricci al contrabbasso ("Igor", "A Few Steps", "Duck is Duck is Duck is" e "Sunday Noon"), dal percussionista senegalese Cheikh Fall alla kora ("Hidden Star" e in "The Star is Calling") e dall'armonicista Giulio Brouzet ("To Caress a Snake"). Sabato 22 agosto (ore 21 - ingresso libero) proporrà alcuni brani del nuovo disco, con Marco Ricci, nel Cortile del Municipio di Cressa, in provincia di Novara.

«La musica di questo disco è stata composta con la chitarra; lo strumento su cui sviluppo tutte le mie idee esplorandone le possibilità polifoniche e poliritmiche», racconta Val Bonetti. «Le sei corde possono sembrare sei strumenti dive rsi che possono essere accarezzati, solleticati o pizzicati in una varietà infinita di modi. Questo è ciò che mi affascina e mi riporta, ogni giorno, a sedermi con la chitarra, la mia porta verso le infinite possibilità che la musica può offrire», prosegue. «È stato un privilegio lavorare con tre ospiti molto speciali per questo progetto, coinvolgendoli in incontri che non erano solo duetti ma veri e propri dialoghi. Come compositore ho fornito la traccia, ma la magia è avvenuta durante le registrazioni Sono molto grato a Marco Ricci, Cheikh Fall e Giulio Brouzet, la cui creatività mi ha permesso di dare vita a ciò che esisteva solo sulla carta. Preferisco non preoccuparmi delle designazioni stilistiche della mia musica, ma questo non vuol dire che altri non possano cercare di rintracciare le molte influenze di questo lavoro».

Val Bonetti è un chitarrista compositore milanese. Terminati gli studi di Chitarra Jazz alla Civica Scuola di Musica di Milano nel 2005, Bonetti ha approfondito le sue competenze nell’ambito del Blues Fingerpicking e Fingerstyle Jazz sia da autodidatta sia frequentando seminari con artisti internazionali di rifermento completando poi gli studi presso il Centro Studi Fingerstyle, di cui ora è docente. Alcune sue composizioni hanno vinto prestigiosi premi nell'ambito della chitarra acustica (2009, Premio New Sounds al Guitar Meeting di Sarzana e Miglior Arrangiamento al Guitar festival di San Benedetto PO) e i suoi lavori precedenti (“Wait” e “Tales” pubblicati da indipendente) sono stati ottimamente recensiti dalla stampa specializzata internazionale. Nel corso della sua carriera ha affinato il proprio stile sulla chitarra partendo dalla root music americana ma portando avanti un discorso personale e aperto a influenze musicali molto dive rse. Le tecniche del fingerpicking infatti sono alla base del suo approccio sulla chitarra mettendo in evidenza le potenzialità polifoniche e poliritmiche di questo strumento quando suonato a dita. Se nel tocco e nel suono sono evidenti i richiami agli “eroi” del country blues di prima generazione e ad alcuni chitarristi folk inglesi, le sue composizioni si ispirano sia ai grandi classici del jazz sia ad autori più recenti.

“Hidden Star”, suo terzo lavoro discografico, rappresenta bene questa eterogeneità di influenze e il suo sviluppo stilistico. Brani come “Igor” e “Duck is Duck…” (tributo al chitarrista americano Duck Baker) richiamano alle sonorità classiche del jazz, in particolare a due pianisti di riferimento, Horace Silver e Thelonious Monk. “Tram 5”, invece, è un vero e proprio omaggio a l ragtime, al jazz degli albori e ai grandi chitarristi pionieri della chitarra blues e jazz come Rev Gary Davis, Lonnie Johnson e Blind Blake; così come “Little Dancer” deve molto al chitarrismo di John Renbourn. La titletrack “Hidden Star” è un abbraccio al blues africano dell’amatissimo Ali Farka Tourè mentre “Few Steps” e “Sunday Noon”, sono due milonghe che devono molto ad Astor Piazzolla, ai Buena Vista Social Club così come ai nostri classici autori per il cinema. Senza dubbio ciò che accomuna queste tracce è la ricerca della polifonia e poliritmia sulla chitarra che permette di coprire più ruoli simultaneamente. In “Hidden Star” o “Caress a Snake”, brani in cui questo è ancor più evidente, possiamo infatti distintamente sentire una linea melodica in evidenza e una parte di accompagnamento uno strato sotto.

Tutti i brani infatti sono stati composti sulla chitarra pensando a più strumenti dentro di essa, a strati appunto; vi è un grosso lavoro sul tocco e sulla dinamica nell’esecuzione. Questa ricerca sullo strumento non vuole mai essere fine a se stessa; la scelta di introdurre altri strumenti va proprio nella direzione di conferire maggiore naturalezza alle esecuzioni, ingaggiando delle parti di improvvisazione, e nel contempo di caratterizzare maggiormente ogni traccia coi colori di altri strumenti. Con Marco Ricci è stato fatto un grosso lavoro per affinare l’incastro fra i due strumenti, dando alle volte al contrabbasso ruoli e registri meno usuali. Gli interventi di Cheikh Fall alla kora e Giulio Brouzet all’armonica diatonica sono invece frutto di improvvisazioni nate durante le sessioni in studio. Attivo in diverse collaborazioni fra cui spiccano quella con Duck Baker (leggendario chitarrista americano con cui ha in programma un tour in Italia a ottobre 2020), con Aronne Dell'Oro (con il quale rivisita la tradizione mediterranea nostrana in chiave folk-blues), con il progetto IlZenDelSwing del cantautore Claudio Sanfilippo con Massimo Gatti al mandolino, con l’armonicista Beppe Semeraro per un duo bues/Ragtime/Swing. Infine va ricordata la ormai decennale collaborazione nella didattica con Davide Mastrangelo, fondatore del CentroStudiFingerstyle. Nel 2017 è uscito Pareto Sketches ( Bar Code Records) un album di musiche scritte da Duck Baker in cui (oltre a Val) hanno suonato diversi affermati chitarristi. Val ha avviato da pochi anni a Milano un centro dedicato alla didattica per chitarra acustica (www.goodthumb.com), dove organizza corsi di avviamento e specializzazione in chitarra fingerstyle e workshop con ospiti illustri. www.valbonetti.com

L’etic hetta Dodicilune, fondata da Gabriele Rampino e Maurizio Bizzochetti è attiva dal 1996 e dispone di un catalogo di oltre 250 produzioni di artisti italiani e stranieri. Distribuiti nei negozi in Italia e all'estero da IRD, i dischi Dodicilune possono essere acquistati anche online, ascoltati e scaricati sulle maggiori piattaforme del mondo grazie a Believe Digital.

Dodicilune - Edizioni Discografiche & Musicali
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- Poesia

“Soffio di parole” … una silloge poetica di Giuseppe Greco

“Soffio di parole” … una silloge poetica di Giuseppe Greco – edizioni Nicola Palumbi 2019.

Di un ‘fluf’ risuona lo spostamento dell’aria nel voltare pagina quando già soffi di parole spingono nuvole bianche verso un indefinibile orizzonte, ove la linea di demarcazione si altera verso un al di là che invita al discernimento …

“Come un soffio di parole / la mia ispirazione / mi entra nell’anima / e mi fa scrivere pensieri / che non so dire / che mi colorano il cuore.”

“Guardo l’orizzonte e / vedo sogni lontani che aiutano / i miei sogni di vile realtà. / Un viaggio di coraggio, barattato con il sudore […] siamo nell’incertezza, / cullati dal desiderio. / […] / Vedo la Terra davanti a me / ma ho l’acqua alla gola, / ora vedrò i miei sogni, / ora finalmente vedrò.”

E vedrò anche oltre, nel cedevole emisfero della luce, a che il pieno giorno eguaglia l’ore dell’immenso e del sublime ch’è in ognuno di noi, allorché fruga negli spazi interstiziali delle tenebre che l’attendono …

“Ti aspettavo … / Tra le spire del dubbio / osservo i miei progetti, / e una pioggia d’idee / cade sui miei pensieri / non ancora stanchi, / pssano i giorni e / le mie urla si fanno più forti, / la mia casa brucia / guardando le spire della frustrazione ma / vedo una luce, / un uragano che divora l’incendio, / ora le mie parole hanno trovato la strada, / ora la mia casa si apre all’accoglienza.”

“C’è un momento nella vita, / in cui sei solo, / davanti a uno specchio / che riflette, quel buio / che vorresti tenere lontano. / Ma arriva la luce, / è un fuoco fatuo che / ti guida nelle tenebre e / ti fa scoprire passi di luce, / cammina perché il sentiero è lungo / … lungo come la vita.”

Siamo qui di fronte a un’ostinata ricerca di senso, il perché della vita (?) dell’amore (?) della morte che ogni cosa sublima, in cui Giuseppe Greco evidenzia il pensiero filosofico che si pone come metafora della solitudine dell'uomo. Allorché la vita e la morte si eguagliano nella danza in cerchio che inneggia al sole, la cui rinascita mattutina avalla una speranza di luce senza laggio del domani, che egli, danzatore immaginario di una ineludibile messinscena, ripercorre spinto dall’eco delle sue stesse parole …

Come di parole “.. Sono i giorni che trascorro, tra parole dette e pensieri scritti”, recita in un suo canto. Ma la notte del mondo non è ancora giunta, si spengono gli ultimi fuochi all’apparire dell’alba, al primo raggio di sole che infrange il cupo pensiero avverso nascosto nell’oscurità dell’oblio. È allora che un eroico battito d’ali solleva lo spirito umano e il corpo s’invola nell’emisfero di luce ch’era sembrato amorfo e stanco, indifferente al caso, già esperito …

“Mi sento come in un vortice / (preso), / di velluto e amore / … perché l’amore è arte / assenza di silenzio.”

È del silenzio, il soffio interstiziale dell’avvio che si ripete, dall’inizio alla fine, come di ossimoro legato al verso, al senso e al suo contrario poetico, libero e/o arbitrario dell’immaginale …

“Davanti a me soltanto le parole, / con le quali riesco a raccontarmi, / loro non mi chiedono niente, / soltanto semplicità, / sono lo specchio che segue i miei passi. / Di un cammino che è una dolce danza, / che nasce con un ‘soffio’ che la scuote.”

“I miei passi / su quel velluto verde / che accarezza i miei piedi, / quando scorgo / l’ombra di un bosco, / (di cipressi) / come punte di lancia / in un silenzio bianco (accecante di luce) / (quale) esercito in fila / pronto a cedere il passo / al calpestio dei piedi / nella marcia a ritroso / senza né vinti né vincitori / di un teatro di guerra / ch’era soltanto tranquilla apparenza.

C’è qualcosa di più nei momenti narrativi, lunghi nell’attesa dei giorni di Giuseppe Greco che … “come un bruco diventa / farfalla pitturata / di felicità che sorge / come di un’alba / e riposa soltanto / con la notte quando / tutto si spegne, / ma il buio è soltanto attesa e / poi si ricomincia.”

Un poi che trasforma la sua grande voglia di vivere in ‘certezza’ del domani, che accoglie in se ogni tempo: passato, presente, futuro, come di clessidra che basta voltare perché la sabbia torni a segnare ogni singolo momento di vita vissuta, esperienziale, vertiginosa e/o obnubilata da un’eclissi che pure c’è stato, ma che nessuno avrebbe potuto immaginare.
Come di un ‘pluf’ per la caduta della goccia nello stagno della memoria liquida che inzuppa di nero inchiostro la pagina bianca aperta sul diario dell’esistenza, e che del vivere segna la fine.

Acciò, proprio quando un altro bagliore, improvviso, viene a rischiarare il mondo, a muovere “..passi che non conoscevi / dopo anni d’attesa / sentirti vivo e ora / giunto il momento / ora puoi essere te, / quel te che ha vissuto, / celato nelle tue false certezze.”

Quel che rimane, infine, non è poca cosa, la vita lo dimostra continuamente, ci basti sentire, quando l'abbiamo sotto i piedi “..la strada della vita, / così piena di (tante) corsie / di decelerazione.”

Quella diminuzione della velocità di un corpo nell'unità di tempo che ci è dato di vivere:

“Ma noi, fermi / sul bordo della strada, / ad aspettare un passaggio (che a volte non arriva) / e non sentiamo / che abbiamo gambe / che ci sorreggono / e piedi mai fermi. / Che l’unica benzina di cui hanno bisogno / è la tua voglia di fare, di esserci. / (Allora) Il vuoto, il bianco, l’apatia, la tristezza,” / (che cosa sono?) / se non il viluppo della forza che scema, che chiede linfa di nuova vita ...

… o forse solo di rinnovato amore.



L’autore.

Giuseppe Greco nasce a San Benedetto del Tronto (AP) il 10 luglio 1974 e dopo aver frequentato l’Istituto Professionale si diploma nel 1995. Nonostante i problemi di salute che lo costringono su una sedia a rotelle, s’impegna a riempire la sua vita con vari ‘passatempi’ tra cui la scrittura che è sempre stata il suo grande e veritiero amore.

Da sempre è alla ricerca di qualcuno disposto a leggere le sue opere ma, soprattutto, cerca qualcuno che creda in lui e in ciò che scrive.

Altre pubblicazioni:

Giuseppe Greco “Piccoli pensieri” – Montedit 2003

e-mail personale : peppe@runner74.it


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- Cinema

Al Cinema con Cineuropa News 2

VENEZIA 2020
Programma ridotto ma le sezioni principali confermate alla Mostra di Venezia
Articolo di Camillo De Marco / Cineuropa News

07/07/2020 - Il festival rinuncia alla sezione Sconfini, ma conferma le sezioni competitive Venezia 77 e Orizzonti, Fuori Concorso e Biennale College Cinema. Il concorso di RV sarà online.

“Il primo festival internazionale dopo la forzata interruzione imposta dalla pandemia assume il significato di un’auspicata celebrazione della ripartenza, e di messaggio di concreto ottimismo per l’intero mondo del cinema duramente colpito dalla crisi”. Questo il commento del direttore artistico della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera, dopo l’annuncio oggi di alcune novità dettate dall’emergenza Covid-19.

Per la prossima edizione della Mostra del Cinema, in programma dal 2 al 12 settembre il numero complessivo dei film della selezione ufficiale sarà leggermente ridotto. Il programma prevede infatti la conferma delle sezioni competitive Venezia 77 e Orizzonti, che si terranno secondo le modalità e le dimensioni consuete, allo stesso modo della sezione Fuori Concorso, come pure Biennale College Cinema. Le proiezioni si terranno nelle sale tradizionalmente allestite al Lido, con l’adozione di tutte le misure di sicurezza sanitaria stabilite dalle autorità competenti alla data dell’evento. Il concorso Venezia Virtual Reality invece, anziché sull’isola del Lazzaretto Vecchio, sarà interamente fruibile online, grazie a una piattaforma innovativa a esso dedicata, accessibile a tutti gli accreditati, in collaborazione con VRChat e HTC Vive Pro.
Per quanto riguarda la sezione Venezia Classici, sarà ospitata all’interno del programma del festival Il Cinema Ritrovato, promosso dalla Cineteca di Bologna, che si svolgerà dal 25 al 31 agosto nella città emiliana. Questa collaborazione tra i due festival offre una soluzione senza precedenti a una situazione straordinaria. La selezione di Classici restaurati, arricchita di ulteriori titoli, verrà poi replicata a Venezia nei mesi successivi.

La 77. Mostra del Cinema rinuncia invece per quest’anno a organizzare la sezione Sconfini, allo scopo di garantire il maggior numero di posti disponibili alle repliche dei film delle sezioni principali testé confermate.
Si segnala infine che saranno disponibili anche due arene all’aperto, una ai Giardini della Biennale e una al pattinodromo del Lido. La maggior parte dei film del programma ufficiale sarà inoltre replicata ai Cinema Rossini di Venezia e al Centro Culturale Candiani di Mestre, nell’ambito del programma Esterno Notte organizzato dal Circuito Cinema del Comune di Venezia.

“La Selezione Ufficiale di Venezia 77”, ha aggiunto Barbera, con i suoi 50-55 film provenienti da tutto il mondo, offrirà la consueta panoramica di quanto di meglio l’industria cinematografica ha prodotto negli ultimi mesi, grazie alla risposta straordinaria che registi e produttori hanno saputo dare, pur nelle difficili condizioni di lavoro di questi ultimi mesi. Una nutrita presenza di autori e attori accompagnerà i film al Lido, mentre collegamenti via internet consentiranno la realizzazione di conferenze stampa per tutti coloro che non potranno partecipare di persona, a seguito delle restrizioni di viaggio tuttora attive”.

Per quanto riguarda il Venice Production Bridge, la 5a edizione (3 - 11 settembre) si terrà sia in presenza al Lido con le strutture abituali al terzo piano dell’Hotel Excelsior, sia online con progetti specifici. Incontri one-to-one saranno organizzati anche online, permettendo che alcuni progetti in presenza siano seguiti anche da quegli accreditati che non potranno raggiungere Venezia.
E’ confermata l’organizzazione in presenza del Venice Gap Financing Market (VGFM, lungometraggi) e del Book Adaptation Rights Market, che offriranno anche molte possibilità di partecipare da remoto (VGFM per tutti i progetti di Realtà Virtuale, Final Cut in Venice, le proiezioni del Mercato e l’European Film Forum). Convegni ed eventi si terranno fisicamente all’Hotel Excelsior e saranno per la prima volta visibili in streaming sul sito web del Venice Production Bridge, sul quale potrà essere trovato ogni altro dettaglio sul programma.

Il programma completo, con maggiori dettagli sulla Mostra, sarà svelato in occasione della conferenza stampa del 28 luglio.

The Book of Vision film d'apertura della Settimana della Critica di Venezia
di Camillo De Marco.

06/07/2020 - L'opera visionaria di Carlo S. Hintermann con la produzione esecutiva di Terrence Malick aprirà la 35° edizione della sezione parallela della Mostra di Venezia
The Book of Vision di Carlo S. Hintermann.
Sarà The Book of Vision di Carlo S. Hintermann il film d'apertura 35° edizione della Settimana Internazionale della Critica, sezione autonoma e parallela organizzata dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) nell'ambito della 77. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.
L'opera visionaria di Hintermann, al suo primo lungometraggio di fiction dopo alcuni documentari, si avvale della produzione esecutiva del maestro statunitense Terrence Malick e racconta "la storia di un viaggio affascinante attraverso il passato e il presente, la vita e la morte, il dolore più profondo e l’amore incondizionato", come si legge nel comunicato della produzione. The Book of Vision è interpretato da un cast internazionale: Charles Dance (Game of Thrones) Lotte Verbeek (Blacklist, Outlander, I Borgia), Sverrir Gudnason (Borg/McEnroe) Isolda Dychauk (I Borgia, Faust) e Filippo Nigro (La Dea Fortuna). Direttore della fotografia è Jörg Widmer, collaboratore di Malick in cinque film, incluso il più recente, A Hidden Life.
Il film, una produzione Citrullo International, è co-prodotto da Entre Chien et Loup (Belgio) e Luminous Arts Productions (UK) con Rai Cinema e il sostegno della Direzione Generale Cinema e la Provincia di Trento.

FESTIVAL / PREMI Italia
Il Taormina FilmFest torna con 11 produzioni indipendenti europee
di Camillo De Marco.

10/07/2020 - Dall’11 al 19 luglio il festival in edizione fisica e virtuale offre 14 opere prime o seconde nel Concorso principale, dodici documentarie e l’omaggio di Giuseppe Tornatore a Ennio Morricone.
Quattordici opere prime o seconde nel Concorso principale, dodici documentari, undici produzioni indipendenti europee e 4 eventi speciali. Riparte da una Selezione Ufficiale di oltre 40 anteprime il 66° Taormina FilmFest, diretto da Leo Gullotta e Francesco Calogero, che dall’11 al 19 luglio torna in sala e debutta in streaming. Il Palazzo dei Congressi di Taormina ospiterà giornalmente la duplice proiezione alle 19 e alle 21.30 del Concorso internazionale, dedicato agli esordi, mentre il palinsesto online su MYmovies.it offrirà un’ancora più ricca programmazione, disponibile per 24 ore, con una striscia quotidiana di approfondimento, documenti video, immagini di archivio, interventi di ospiti.

La selezione rispetta pienamente nelle tre sezioni competitive la parità di genere tra i registi delle opere scelte – il 50% esatto degli autori è costituito da donne – e propone gli europei Oskar & Lilli - Where No One Knows Us [+] di Arash T. Riahi (Austria); Jiyan di Süheyla Schwenk (Germania), premiato dalla Giuria Ecumenica al Max Ophüls Prize Festival 2020 e dal pubblico allo Entrevues Belfort Film Festival; Mater di Jure Pavlović (Croazia/Serbia/Francia/Bosnia ed Erzegovina), premiato al Festival di Belgrado a marzo scorso; Charter di Amanda Kernell (Svezia), selezionato a Sundance 2020; Uncle di Frelle Petersen (Danimarca); A Thief's Daughter di Belén Funes (Spagna), in concorso a San Sebastián 2019 dove la protagonista Greta Fernández è stata premiata; Perfumes di Grégory Magne (Francia) e Il Re Muore di Laura Angiulli (Italia). Quest’ultimo, dall'opera teatrale "Riccardo II" di William Shakespeare ha conquistato il London Independent Film Awards 2019 per la Miglior Regista Donna.

A questi titoli si aggiungono Our Own di Jeanne Leblanc (Canada), Critical Thinking di John Leguizamo (USA), The Lunchroom di Ezequiel Radusky (Argentina), The Cloud In Her Room di Xinyuan Zheng Lu (Cina/Hong Kong), The Alien di Nader Saeivar (Iran), Heart And Bones di Ben Lawrence (Australia).
Tra le opere fuori Concorso, nello spazio denominato “Filmmaker in Sicilia”, le proiezioni speciali di Io lo so chi siete di Alessandro Colizzi, docufilm dedicato alla vittima di mafia Antonino Agostino; La storia vergognosa di Nella Condorelli, sulla grande emigrazione italiana nelle Americhe del primo Novecento; e infine il film di chiusura del festival La regola d’oro, opera seconda di Alessandro Lunardelli, in buona parte girata a Taormina, con Simone Liberati, Edoardo Pesce, Barbora Bobulova, Hadas Yaron.

Il Teatro Antico, nuovamente fruibile, ospiterà il 18 luglio l’anteprima mondiale di Devotion, diretto da Giuseppe Tornatore, con le musiche inedite di Ennio Morricone e prodotto da Dolce&Gabbana. Tra gli ospiti della cerimonia di chiusura Emmanuelle Seigner, il Premio Oscar Vittorio Storaro, che ritirerà il Cariddi d’Oro alla Carriera, Willem Dafoe e Nikolaj Coster-Waldau, che riceveranno il tradizionale Taormina Arte Award.

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- Cinema

Al Cinema ... Suggerimenti e Novità


INDUSTRIA / MERCATO Europa
I cineasti europei scrivono al Commissario Thierry Breton.

Articolo di Cineuropa / News
16/06/2020 - Il commissario europeo per il mercato interno è interpellato in merito alla regolamentazione dei GAFAN. Tra i firmatari, Pedro Almodovar, Luc Dardenne, Costa Gavras e Cristian Mungiu.

“Dear Commissioner Breton,
We are European filmmakers and, like you, it is clear to us that after this global health crisis, Europe has a date with history. What will remain of Europe’s culture if it fails to catch up with non-European digital giants? We refuse to take the risk of being reduced to a colony, and maintain that Europe will not survive without its culture, as it is defined less by its geography than by the community of cultures which unites its peoples.
America understood these cultural and economic stakes when it imposed its films on other countries with the Marshall Plan. But today, the GAFAN companies have grown a thousand times more powerful. And the national lockdowns have allowed them to become wealthier than ever, as other nations and their industries collapsed.
But European states, through their solidarity, can still control this growth, with courage and with their citizens’ support. The pandemic will have enabled European nations to realize the danger posed by a loss of autonomy and to understand the need for cultural sovereignty. And they also understood that by avoiding taxes, the GAFAN companies contributed very little to the funding of hospitals, education and all the vital apparatuses of European democracies. Because of this, European nations are prepared to offer their support.
As for courage, the duties the representatives of European states must fulfil will require bravery. Navigating strict regulations, imposing appropriate sanctions for what is at stake, and maintaining diplomatic power relations will be no easy task, but it is nevertheless essential. You have suggested that you were ready to assume those vital further steps so that we can continue telling our stories to our own people and to other nations. Original, unexpected stories, unique dramaturgies, and creative prototypes straying from the narrow paths set by platforms and their big data analytics.
Surrendering now means opening the way to “Big Brothers” and accepting the insidious disappearance of European culture in favour of permanent distraction, reducing citizens to mere consumers. This cultural destruction will leave European minds colonized and allow digital giants, whether Chinese or American, thanks to “Soft power”, to freely expand in other fields.
And without “spirit”, what is Europe worth? Jean Cocteau once said “Ta différence, cultive-là, c’est toi” (“Cultivate your difference, for you are your difference”). Europe owes its difference to the variety of its cultures.
As you suggested by referring to “a naïve Europe” we can’t get something for nothing. In 1990, Europe had to make brave decisions in order to implement cultural exception, which has since been enacted by 183 countries. Like South Korea that has had to fight to impose quotas protecting its filmmakers. But the movie Parasite’s worldwide success makes it a formidable ambassador for its country’s cultural power.
Commissioner, we have heard, and we appreciate the strong message you sent to the CEO of Facebook. But we more believe in combined forces than in verticality, even if virtuous. It is why we, as European filmmakers, field citizens, are asking to meet with you and invent together innovative, daring and concrete solutions to enable European films and culture to lead the way to a bright future.”

The signatories:
Pedro Almodovar
Cristina Comencini
Luc Dardenne
Costa Gavras
Hugo Gelin
Jeanne Herry
Pierre Jolivet
Kamen Kalev
Claude Lelouch
Radu Mihaileanu
Cristian Mungiu
Olivier Nakache
Eric Toledano



Luís Froes • Distributore, Outsider Films

"Una delle misure potrebbe essere quella di far sì che i canali TV gratuiti supportino i distributori indipendenti"
di Jesús Silva

18/06/2020 - Luís Froes, direttore generale di Outsider Films, parla del mercato della distribuzione portoghese dopo la pandemia e della loro strategia per le prossime uscite.
Luís Froes, General Manager of Outsider Films, talks about the situation of the Portuguese distribution market after the pandemic and their strategy for upcoming releases.
Cineuropa: Can you tell us about your line-up and editorial policy?
Luís Froes: We focus on commercial quality movies, feel-good titles and animation films for children and adults. When we started, the major studios and the more important independent distributors were focusing mainly on big American productions, while small independent distributors took care of the arthouse titles. However, we felt there was a gap between those two, so that’s where we started looking for our films, with a special interest in European productions. We try to make a difference by finding innovative ways to reach the audience.
What are the complexities of the Portuguese market for distribution?
It is a very tough market. A single company [NOS] controls more than 80% of the market share in film distribution. Apart from releasing films by Disney, Paramount, Dreamworks and Warner, they also distribute more than 100 independent titles every year. They also have a 65% market share in the exhibition side, so they basically control the cinemas and the business. On top of that, the only Portuguese Pay-TV channel belongs to them, so you can imagine how dependent we are. As for the size of the market, we have 10 million people, with an average of 1.6 cinema tickets per person every year.
What is the most successful promotional campaign for a European film that you had so far? What was the secret ingredient?
We had a few good examples over the last few years. We released Serial (Bad) Weddings [+] (Philippe de Chauveron, 2014), the biggest French success of the last decade, building our campaign around a strong promotion in cinemas and TV. It was a commercial hit with over 100k admissions in theatres. For the Italian movie Perfect Strangers [+] (Paolo Genovese, 2016), we launched a viral campaign with short videos we filmed on the streets, based on the main theme of the film. We also had the director coming to the premiere during La Fiesta del Cine Italiano in Portugal, which is not that common for a small territory like ours. With Ozzy [+] (Alberto Rodríguez, 2016), the Spanish animation film, we organized a strong campaign during Christmas, producing merchandising for children that we gave away in cinemas. Eventually, the film made roughly 103,000 admissions. Finally, for The Bookshop [+] (Isabel Coixet, 2017), we worked with the actual book publisher and promoted the film during the Lisbon Book Fair. The secret ingredients were picking up wisely the release dates and being creative with the promotion.
What is the usual repartition of income between each window for your films?
Theatrical is always crucial, and having good results in cinemas means higher revenues from TV and home entertainment as well. The repartition of income changes a lot depending on the type of film, but on average I would say around 53% comes from theatrical, 31% from VOD, Pay and Free TV; and the other 16% from home entertainment. With the arrival of the big streaming platforms like Netflix and HBO, we noticed a big decrease in the transactional market. Let’s see if the revised AVMS [Audiovisual Media Service] EU directive contributes to change a little bit the current situation, forcing platforms to include at least 30% of European productions within their catalogues.
What measures have been put in place in your country to help distributors getting on their feet in the current COVID situation?
The impact until now has been extremely hard because our revenue comes basically from theatrical. So far, the only measures implemented by the government have been a support scheme for salaries, a delay in our taxes and some credit lines with a small interest. We still don’t know what will happen after the pandemic, but one of the measures they could take is giving directions to the Free TV channels to support independent distributors.
What is the situation with cinema reopenings in Portugal? Do you plan to release yourself?
The Portuguese government decided to open on 1 June, but we don’t think that was a good idea. We are still lifting some of the general restrictions in the country, and a lot of people don’t follow the rules, so we don’t know what will happen. Opening in June without big blockbusters to support the industry is a mistake. In the Lisbon region cinemas are still closed, but some small arthouse theatres opened across the country - with very bad results. A lot of cinemas plan to reopen in early-July because they are expecting some big releases such as Tenet (Christopher Nolan, 2020) or Mulan (Niki Caro, 2020). These are the kind of movies that can bring people to the cinemas. On our side, we usually work for a more adult audience, and these will be more reluctant to go back to the theatres. Therefore, our first release is scheduled for the second week of July.
What kind of films will you release? How will you manage with the restrictions and the promotion?
We are going to release Proxima [+] (Alice Winocour, 2019) on 9 July, and the Danish animation Checkered Ninja [+] (Anders Matthesenon, 2018) on 30 July. Cinemas will only be allowed to open at 50% of capacity by then, so we will have to be very careful. No one knows how long will it take for the numbers to be the same as before. We can see that in other countries things are going very slow.
As for the promotion, we are taking risks with our own money. Considering the situation, and based on the results from other countries, we will be much more careful with the upcoming campaigns. For Proxima, we are doing a social media campaign with Gruvi, a digital marketing agency we usually work with. We will launch the trailer in all cinemas a week before the release. As for Checkered Ninja, it will be a bit different because we have to aim at children’s media. We will have some promotional material to give away in the cinemas and create some buzz around the movie.
What brought you to distribution? Are you optimistic about the future?
I started in this business in 1986, working for different companies such as LNK Audiovisuais and VC Multimedia, and in 2012 I decided to start Outsider Films with two other partners. At the time we used to acquire 6-8 movies every year, but now we are realising between 15 and 18. As for the future, I have no idea. I’m not optimistic or pessimistic, I’m just expectant. I think it will all depend on people’s choices and how they behave.

Recensione: 'La nostra strada' di Vittoria Scarpa
17/06/2020 - Il doc di Pierfrancesco Li Donni, miglior film italiano al Biografilm Festival, tratta con delicatezza ed empatia il tema dell’abbandono scolastico e di un’adolescenza senza sogni.

“Non siamo più bambini, che pensiamo ai sogni. Ora dobbiamo pensare ai soldi”. Una frase amara e disincantata che, se pronunciata da una ragazzina di 13 anni, suona mille volte più dura. È questa la realtà in cui si cala il regista Pierfrancesco Li Donni (Loro di Napoli) con il suo nuovo documentario, La nostra strada [+], proclamato miglior film del concorso italiano al recente Biografilm Festival, la cui 16ma edizione si è svolta online. La realtà dell’abbandono scolastico e dell’adolescenza senza sogni, in un quartiere popolare di Palermo, la Zisa, dove la disoccupazione tocca punte del 50%, dove molti ragazzi lasciano gli studi una volta superata l’età dell’obbligo, se non prima, e con il record cittadino di minori segnalati per reati.
Li Donni segue con la sua telecamera tre adolescenti in particolare – Daniel, Desirée e Simone – durante il loro ultimo anno alle scuole medie inferiori. Un momento di passaggio molto delicato nelle vite di questi giovani dei quartieri “difficili” e con ambizioni limitate, per i quali la scuola è vissuta come un ostacolo al lavoro, qualunque esso sia. “Voglio essere indipendente e libera”, è la convinzione della giovanissima Desirée, lunghi capelli biondi e un temperamento da guerriera. Il progetto di Simone è invece comprarsi un’Ape e vendere la frutta per strada. Mentre Daniel vuole fare l’orafo, ma forse anche l’elettricista. A ricordare a questi ragazzi che hanno l’obbligo di studiare, almeno fino a 16 anni, è il professor Mannara, uno di quei professori che oltre a insegnarti Dante e i poeti maledetti, ti insegna qualcosa della vita. Mannara è molto rispettato dai suoi studenti, e le scene più interessanti sono quelle in classe, in cui stimola il loro pensiero su temi come la schiavitù e l’omosessualità, e poi, per alleggerire un po’, li invita a “rappare” le terzine della Divina Commedia.
Il regista pedina i tre ragazzi anche fuori dalla scuola: Desirée e le sue uscite con l’amica Morena, Daniel e il suo apprendistato da orafo, Simone e il suo allevamento di capre e cavalli incorniciato dai palazzi di via Colonna Rotta. Le tradizionali “vampe” di San Giuseppe (falò rituali che si celebrano ogni anno nei vicoli del centro storico e nei quartieri di periferia, in nome dell’omonimo santo) diventano l’occasione, per i ragazzini della Zisa, per aggredire poliziotti e carabinieri. “E questo vi fa sentire forti?”, chiede il professor Mannara, incredulo davanti a Daniel e Simone che esultano alla notizia che il loro è l’unico quartiere dove si sono registrati disordini.
È in questa lotta costante tra le derive pericolose di una comunità svantaggiata e il richiamo alla cultura come strumento per aspirare a un futuro migliore che si muove il doc di Li Donni, che oltre alla delicatezza e all’empatia con cui tratta l’argomento, ha il pregio di ricordare il ruolo capitale della scuola nella costruzione di una società sana, specialmente in un momento in cui, per dirla con lo stesso regista, “il lockdown ha aumentato le disuguaglianze e la didattica a distanza ha scoperchiato i già noti problemi di chi prova a fare didattica in territori di frontiera”.
La nostra strada è prodotto da Ladoc con il sostegno di Mibact e Siae nell’ambito del programma “Per Chi Crea”, e con il contributo della Sicilia Film Commission nell'ambito del progetto Sensi Contemporanei. Dopo la partecipazione al Biografilm, sarà presentato in concorso alla prossima edizione del Sole Luna Doc Film Festival che si svolgerà dal 6 al 12 luglio a Palermo.

True Colours scommette sul D.N.A. di Lillo & Greg.
di Camillo De Marco.

16/06/2020 - L’esilarante commedia sullo scambio di personalità, è uno dei titoli su cui punta la società italiana di vendite internazionali al Marché du Film Online.
D.N.A. Decisamente Non Adatti [+] è una delle commedia su cui punta maggiormente la società italiana di vendite internazionali True Colours al Marché du Film Online del Festival di Cannes, che si terrà dal 22 al 26 giugno. Il film esordio alla regia di Lillo & Greg ha debuttato il 30 aprile scorso, durante il lockdown dovuto alla pandemia da Covid-19, sulle piattaforme Sky Primafila, Chili, Infinity, Rakuten Tv, CG Digital e TIMVISION.
Prodotto da Lucky Red e Vision Distribution con la collaborazione di Sky e Amazon Prime Video, distribuito da Vision Distribution, il film è scritto da Edoardo Falcone, ferratissimo e prolifico regista e sceneggiatore specializzato in commedie, con Greg (Claudio Gregori) e Lillo (Lillo Petrolo). Il duo è affiancato da Anna Foglietta (Perfetti sconosciuti [+]), che per questo ruolo è entrata nella cinquina delle Attrici di Commedia candidate ai Nastri d'Argento, i premi del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani che verranno assegnati il prossimo 6 luglio. Con l'eclettica Anna Foglietta, che nel film veste i panni di tre diversi personaggi, nel cast compaiono Max Paiella e Marco Marzocca. I giovani Alessio di Domenicantonio e Federico Jahier sono rispettivamente Nando (Lillo) ed Ezechiele (Greg) da bambini.
I due sono ex compagni di scuola elementare, molto diversi tra loro. Nando ed Ezechiele si rincontrano da adulti e decidono di scambiarsi i codici genetici per migliorare le proprie vite. Tra esperimenti scientifici maldestri e hackeraggi del D.N.A. dagli effetti nefasti, i due risulteranno Decisamente Non Adatti a queste nuove vite.
E’ piuttosto evidente il riferimento alla parodia di Dr. Jekyll e di Mr. Hyde fatta da Jerry Lewis nel 1963 con The Nutty Professor, ripetuta da Eddie Murphy nel 1996. Greg dichiara di aver pensato per molto tempo ad una rivisitazione del capolavoro di Robert Louis Stevenson, nella quale si incontrano un brillante professore di genetica, nerd da sempre vittima di burle e vessazioni, e un bullo di periferia alle prese con la piccola criminalità di quartiere, in un bizzarro esperimento di scambio di personalità.
La comicità surreale e originalissima dei due - nati come come autori di fumetti comici per poi passare alla musica con una band di rock demenziale, e infine approdare alla radio e alla tv - è fatta di gag rapide e tagliente, spesso basate su giochi di parole e privazioni di significato, ma in grado di raccontare il contemporaneo in modo esilarante. Nello stralunato universo di Lillo & Greg ci sono vizi e virtù degli italiani: il rapporto uomo-donna, l’ossessione per il sesso, l’ambizione e le mania di protagonismo, in una feroce osservazione degli esseri umani, delle loro piccolezze e meschinità.
E a proposito del passaggio dietro la macchina da presa, spiegano: “Era doveroso e imprescindibile per noi per poter dedicare al nostro primo film quella cura dei dettagli che desideravamo. Sappiamo che la commedia ha registri e tempi particolari per veicolare bene le gag; ma sappiamo anche che maestri come Gene Wilder, Mel Brooks o Woody Allen ci sono riusciti. Volevamo che la nostra creatura fosse una storia divertente, ma davvero gradevole e piacevole a vedersi, con una fotografia suggestiva, fatta di contrasti anche forti, con inquadrature mai banali, ma anzi, azzardate e icastiche. Abbiamo sfruttato tutti i mezzi che la produzione ci ha messo a disposizione: steady cam, droni, cherry picker, dolly, ma dosati ad arte, abbiamo scomodato i già citati maestri e in più Kubrick, Almodovar, Abrahams, Zucker and Zucker e gli abbiamo dato giù con tutta l’euforia e il cimento che la nostra opera prima ci scatenava”.

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- Cinema

Si torna al Cinema con Cineuropa News

CINEUROPA NEWS

NASCE TRUE COLORS VIRTUAL CINEMA
di Camillo De Marco
28/04/2020 - La piattaforma creata in collaborazione con MYmovies permetterà a festival e rassegne di continuare a programmare i titoli della società di vendite estere anche durante il periodo di lockdown.
Festival, rassegne, sale cinematografiche, cineclub, scuole, università e istituti di cultura in tutto il mondo potranno programmare dal 1 maggio i titoli del catalogo di True Colours. La società di distribuzione internazionale del cinema italiano fondata circa cinque anni fa da Lucky Red e Indigo Film ha infatti creato per i partner internazionali una screening room online, in risposta all’emergenza Covid-19.
“True Colours Virtual Cinema” sarà una vera e propria sala virtuale a disposizione di qualsiasi operatore del settore che voglia creare eventi di cinema online. Nel catalogo di True Colours ci sono alcuni tra i titoli più interessanti della passata stagione: Il sindaco del Rione Sanità di Mario Martone e Nevia di Nunzia De Stefano, premiato all’ultima Mostra di Venezia, Il ladro di giorni di Guido Lombardi, La Dea Fortuna di Ferzan Ozpetek, le commedie Il colpo del cane di Fulvio Risuleo, 10 giorni senza mamma di Alessandro Genovesi, Bentornato Presidente di Giancarlo Fontana, Ma cosa ci dice il cervello di Riccardo Milani o film di genere come l’horror In the Trap di Alessio Liguori o l’action thriller Ride di Jacopo Rondinelli. Tra quelli meno recenti, Sembra mio figlio di Costanza Quatriglio, Euforia di Valeria Golino, Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis, Fortunata di Sergio Castellitto.
“Siamo stati tutti colpiti dall’improvvisa e globale diffusione della pandemia – sottolinea Gaetano Maiorino, Managing Director della True Colours – ma questa situazione drammatica ci ha costretto anche a pensare a una nuova modalità di circolazione per i nostri film. True Colours Virtual Cinema non è un canale VOD ma un servizio a disposizione dei nostri partner locali, per noi importantissimi sui vari territori, per continuare a portare nel mondo le storie che ci sono state affidate dai produttori con cui collaboriamo. Con questa iniziativa il pubblico appassionato di cinema italiano, avrà modo di continuare a ridere con le nostre commedie, emozionarsi con i nostri film d’autore, intrattenersi in piena sicurezza grazie ad una modalità di proiezione alternativa, in attesa di poter tornare tutti insieme in sala, che per noi è comunque il naturale canale di fruizione del prodotto cinematografico”. Il servizio è stato messo a punto con la partnership tecnica di MYmovies. Per verificare la disponibilità dei titoli desiderati nei vari territori, gli operatori che vorranno usufruire del servizio potranno contattare il Festival Manager di True Colours, Fabio Tucci attraverso il sito della società.

PREMIO LUX 2020
Il premio LUX aiuta il pubblico ad affrontare l'isolamento
di Cineuropa
21/04/2020 - Una nuova iniziativa promossa dal premio del Parlamento europeo mappa la disponibilità in VoD dei film finalisti di ciascuna edizione del Premio LUX
Il Premio LUX del Parlamento europeo si aggiunge alla lista dei principali attori che avviano iniziative speciali al fine di rendere questi tempi difficili un po' più sopportabili a chi è costretto a rimanere a casa. Per affrontare questo periodo di lockdown in tutta Europa, il premio sta mappando la disponibilità dei film di tutte le sue edizioni, dal 2007 allo scorso anno, su tutte le piattaforme VoD nell'Unione europea e nel Regno Unito. Questa iniziativa integra le campagne #Europeansagainstcovid19 messe in atto dal Parlamento europeo.
L'iniziativa parte con i tre titoli finalisti di ogni anno, inclusi i vincitori di ogni edizione del premio. I film sono: Dio è donna e si chiama Petrunya [+] di Teona Strugar Mitevska, Cold Case Hammarskjöld [+] di Mads Brügger e El reino [+] di Rodrigo Sorogoyen dall’edizione 2019; La donna elettrica [+] di Benedikt Erlingsson, Styx [+] di Wolfgang Fischer e The Other Side of Everything [+] di Mila Turajlic dal 2018; Sámi Blood [+] di Amanda Kernell, 120 battiti al minuto [+] di Robin Campillo e Western [+] di Valeska Grisebach dal 2017; Toni Erdmann [+] di Maren Ade, A peine j'ouvre les yeux [+] di Leyla Bouzid e La mia vita da zucchina [+] di Claude Barras dal 2016; Mustang [+] di Denis Gamze Ergüven, Mediterranea [+] di Jonas Carpignano e The Lesson [+] di Kristina Grozeva e Petar Valchanov dal 2015; Ida [+] di Pawel Pawlikowski, Bande de filles [+] di Céline Sciamma e Class Enemy [+] di Rok Bicek dal 2014; Alabama Monroe - Una storia d’amore [+] di Felix van Groeningen, Miele [+] di Valeria Golino e The Selfish Giant [+] di Clio Barnard dal 2013; Io sono Li [+] di Andrea Segre, Just the Wind [+] di Benedek Fliegauf e Tabu [+] di Miguel Gomes dal 2012; Le nevi del Kilimanjaro [+] di Robert Guédiguian, Attenberg [+] di Athina Rachel Tsangari e Play [+] di Ruben Östlund dal 2011; When We Leave [+] di Feo Aladag e Illegal [+] di Olivier Masset-Depasse dal 2010; Welcome [+] di Philippe Lioret, Eastern Plays [+] di Kamen Kalev e Storm [+] di Hans-Christian Schmid dal 2009; Il matrimonio di Lorna [+] di Jean-Pierre e Luc Dardenne e Citizen Havel [+] di Miroslav Janek e Pavel Koutecký dal 2008; e infine, Ai confini del paradiso [+] di Fatih Akin, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni [+] di Cristian Mungiu e Belle toujours [+] di Manoel de Oliveira del 2007.
I film sono elencati sul sito LUX Prize Films on Demand, che verrà continuamente aggiornato con i titoli offerti. Successivamente, verrà aggiunta anche la lista completa dei titoli in Selezione ufficiale (fino a dieci per ogni anno).
Il Premio LUX fornirà inoltre questo contenuto agli Uffici di collegamento del Parlamento europeo (EPLO) di ciascun paese in modo che possano spostare il focus dai loro eventi in sala a iniziative online, sfruttando così i film LUX che sono già disponibili nei loro territori.


FESTIVAL / PREMI Europa / Stati Uniti
I festival cinematografici europei e internazionali lanceranno un evento online globale We Are One
di Davide Abbatescianni
27/04/2020 - Il festival, che prenderà il via il 29 maggio, è organizzato da Cannes, Venezia, Berlino, San Sebastián, Karlovy Vary, Londra, Locarno, Sarajevo e Annecy, tra gli altri partner
Over the last few months, the unprecedented pandemic has thrown the film industry and the international festival circuit into chaos. Today, as a response to the ongoing crisis, US outfit Tribeca Enterprises and YouTube have announced the creation of a unique international online festival, called We Are One: A Global Film Festival and set to kick off on 29 May. The initiative, first reported by the trade publication Screen International, will be made possible thanks to the close co-operation between a number of prestigious festival partners, including Cannes, Venice, the Berlinale, Toronto, New York, San Sebastián, Karlovy Vary, London, Locarno, Guadalajara, Macao, Jerusalem, Mumbai, Marrakesh, Sarajevo, Sydney, Tokyo, Annecy and, obviously, Tribeca.
The full line-up will be announced in due course, but it has been confirmed that it will include a wide selection of features, shorts, music, comedy and conversations. The entire programme will be streamed free of charge, and the audience’s voluntary donations will be aimed at supporting the World Health Organisation’s COVID-19 Solidarity Response Fund as well as the local relief partners’ efforts in fighting the outbreak.
Speaking about this new venture, Cannes president Pierre Lescure and Artistic Director and General Delegate Thierry Frémaux said: “We are proud to be joining with our partner festivals to spotlight truly extraordinary films and talent, allowing audiences to experience both the nuances of storytelling from around the world and the artistic personalities of each festival.” Meanwhile, Tribeca Enterprises and Tribeca Film Festival co-founder and CEO Jane Rosenthal added: “All of the world needs healing right now. We Are One: A Global Film Festival unites curators, artists and storytellers to entertain and provide relief to audiences worldwide. In working with our extraordinary festival partners and YouTube, we hope that everyone gets a taste of what makes each festival so unique, and appreciates the art and power of film.” Watch this space.

FESTIVAL / PREMI Europa
Mio fratello rincorre i dinosauri vince l'EFA Young Audience Award 2020
di Cineuropa
27/04/2020 - 2000 giovani giurati da 32 Paesi hanno decretato vincitore il film di Stefano Cipani online a causa dell'emergenza per la pandemia Coronavirus.
Ragazzi tra i 22 e i 14 anni hanno scelto Mio fratello rincorre i dinosauri [+] del regista italiano Stefano Cipani come il vincitore dell'EFA Young Audience Award 2020.
A causa dell'emergenza per la pandemia Coronavirus, le proiezioni originariamente previste in sala hanno dovuto essere cancellate (leggi la news). La giuria ha visto i tre film (leggi la news) sulla piattaforma Festival Scope, e ha avuto la possibilità di discuterne in vari video gruppi per poi esprimere il proprio voto online. Moderata anche quest'anno dall'ex giurata dell'EFA YAA, Ivana Noa, la Cerimonia di premiazione della durata di 30 minuti è stata trasmessa live su yaa.europeanfilmawards.eu, dove resterà a disposizione per coloro che l'avessero persa. Visibilmente emozionato il regista Stefano Cipani ha ringraziato tutti color che l'anno sostenuto e i produttori esclamando "Non so davvero che dire, sono felicissimo!" L'EFA YAA continua a includere varie piattaforme per il grande pubblico per poter guardare i film: EFA Productions, la casa di produzione interna dell'EFA, porterà i film dell'EFA Young Audience Award in tutta Europa su piattaforme Video-on-Demand (T-VoD), come iTunes, Google Play, Microsoft e Pantaflix, sulla piattaforma regionale balcanica Cinesquare, oltre che su piattaforme locali come Filmin! EFA Productions ha collaborato per questa iniziativa con Under The Milky Way e ha avuto il supporto di Europa Creativa Sotto-Programma Media dell'Unione Europea, così da poter per rendere disponibili i film nominati ai giovani spettatori lungo tutto l'anno. Coloro che non hanno potuto partecipare direttamente all'evento avranno ora la possibilità di vedere comunque i film nominati online.
MIO FRATELLO RINCORRE I DINOSAURI
Winner 2020
Italy, Spain 2020
102 min.
Jack has a brother, Gio, who has Down syndrome. As a child, Jack believed the tender lie his parents told him, that Gio was a special being with superpowers. Now that he is about to go to high school, however, Jack no longer believes that his brother is a superhero, in fact, he is almost ashamed of him, especially since he met Arianna, the first love of his life. Jack cannot allow himself to make any gaffes of bad impressions with the girl of his dreams and looking after his little brother and his unpredictable behavior soon becomes a burden, to the point that Jack pretends not to have any brother and hides the existence of Gio from the eyes of his new classmates and, above all, of Arianna. But you cannot be loved by someone as you are, if you cannot love someone despite his faults and this is a life-lesson that Jack will have to learn: it will be his brother Gio to teach him that, with his straight ways, his unique point of view and his simple but surprisingly wise words.
• Director: Stefano Cipani
• Producer: Isabella Cocuzza, Arturo Paglia, Antonia Nava
• Screenwriter: Fabio Bonifacci, Giacomo Mazzariol
• Director of photography: Sergi Bartrolì
• Main Cast: Alessandro Gassmann, Isabella Ragonese, Rossy De Palma, Francesco Gheghi, Lorenzo Sisto
• Editor (Cut): Massimo Quaglia
• Production Design: Ivana Gargiulo
• Costume Design: Gemma Mascagni


EVENTI / PROMOZIONE
Cineuropa collabora con eyelet per offrirti il meglio del cinema indipendente
di Eyelet
27/04/2020 - Una nuova rubrica bisettimanale, Watch on Cineuropa, offrirà una serie di film stimolanti curati da noi in collaborazione con il team di eyelet.
Cineuropa has partnered with eyelet, a game-changing streaming technology, to give you the chance to stream some of the best in independent cinema directly through our site - on our editorials and in our forthcoming VOD area.
Designed to give cinephiles around the world access to a vast and ever-growing catalogue of terrific independent films, eyelet has developed & deployed the world’s only film license linking system (read news), which allows online film publications to turn into their own VOD.
Websites like Cineuropa can embed films on their pages and make them available for rent and sales to their readers, resulting in significant revenue opportunities while still respecting the film licensing landscape.
For cinephiles around the world, this translates into a unique chance to stream their favourite films directly through their favourite film websites.
Thanks to eyelet, readers of Cineuropa will now be able to watch a selection of films we’ve written about over the years, including rare gems that may be difficult – if not outright impossible – to watch outside the film festival circuit.
A new VOD section will soon be created, where we’ll be listing all eyelet films currently available for streaming on our pages. On top of that, a new biweekly column, Watch on Cineuropa, will offer thought-provoking film lists curated by us in conjunction with the eyelet team.
Want to find out more about eyelet and the international community of cinephiles they’re creating? Sign up here today, browse through their catalogue, and take a peek at the eyelet “User-hub,” where you’ll be able to see what’s on offer, and discover new films, outstanding publications, film lists and special interest channels.
Watch this space, and remember: the first two films you’ll watch with an eyelet account will be free of charge.

VISIONS DU RÉEL 2020
Recensione: Punta sacra
di Vittoria Scarpa
27/04/2020 - Il documentario di Francesca Mazzoleni sulla comunità che abita all’Idroscalo di Ostia è un buon pezzo di cinema del reale che combina autenticità e visione estetica

“Se Ostia la vedi con gli occhi dell’appartenenza, la vedi bella”. Nessuno se ne vuole andare dall’Idroscalo di Ostia, frazione litoranea di Roma. Striscia di terra dove il fiume Tevere incontra il mare, l’Idroscalo è dove fu ritrovato morto Pierpaolo Pasolini e dove da sessant’anni sorge un intero quartiere abusivo, con case di fortuna e strade non asfaltate. Nel 2010, alcune di queste abitazioni sono state sgomberate e demolite, ma attualmente, all’Idroscalo di Ostia, continuano ad abitare circa 500 famiglie. E nonostante le precarie condizioni di vita e l’assenza totale di servizi, nessuno sembra aver intenzione di abbandonare questo strano posto, stretto tra il fiume e il mare: “il paradiso” per alcuni, il luogo delle proprie radici per tutti.
È quanto emerge forte dal documentario Punta Sacra [+], opera seconda di Francesca Mazzoleni (Succede [+]), che debutta al Festival Visions du Réel di quest’anno, edizione online, nel Concorso lungometraggi internazionali. La regista 31enne, formatasi alla New York Film Academy e al Centro Sperimentale di Cinematografia, punta il suo obiettivo in particolare sulle donne di questa comunità alla foce del Tevere, un gruppo di vere e proprie guerriere capeggiate dalla carismatica Franca, nonna 58enne che ammira Pasolini e Che Guevara; su bambini e adolescenti, che rappresentano “il futuro dell’Idroscalo”; e su un promettente rapper di origine cilena, Chiky Realeza, che dà voce a questa gente che resiste con orgoglio e dignità.
Mazzoleni entra nelle case e nella quotidianità di queste persone, e sembra sparire. Conversazioni tra amici, alterchi tra madre e figlia, discussioni sul comunismo e i suoi valori, confidenze tra amiche: tutto avviene davanti alla macchina da presa con naturalezza e libertà. Il senso di comunità è forte, tagliarsi i capelli o farsi un tatuaggio diventa un evento collettivo, da vivere tutti insieme. E poi ci sono le feste – Natale, Carnevale e commemorazioni varie – i preparativi, le prove di canto e di ballo, le maschere, le scenografie, tutte attività che Franca e i suoi vicini organizzano con impegno ed entusiasmo. Il senso di desolazione che può prendere guardando le immagini di questo lembo di terra ripreso dal drone, con le sue strade allagate e le case improvvisate, cala non appena la vitalità degli individui che ci abitano riconquista la scena.
Infine, il mare. Una presenza forte, minacciosa (“hanno fatto uscire la gente dalle loro case dicendo che stava arrivando un’onda altissima dalla Sardegna. Quest’onda non si è mai vista”), è un mare d’inverno, agitato e fragoroso, che la regista sa come filmare e rendere cinematografico. La ricchezza delle inquadrature, in particolare quelle esterne che danno respiro al tutto, insieme alle belle musiche originali di Lorenzo Tomio e alle composizioni dell’inconfondibile Theo Teardo, fanno di Punta Sacra un’opera anche bella da vedere e da ascoltare, un buon pezzo di cinema del reale che combina autenticità e visione estetica, a cui si augura di approdare presto nel suo contesto più naturale e appropriato: il grande schermo.
Prodotto da Alessandro Greco per Morel Film, in collaborazione con Patroclo Film, Punta Sacra è venduto da True Colours.

WATCH ON CINEUROPA: DONNE DIETRO LA CINEPRESA
di eyelet
30/04/2020 - Per la prima puntata della nostra serie Watch on Cineuropa, ecco una selezione di alcuni film eccezionali diretti da donne che ti aiuteranno ad addolcire la tua quarantena. Notwithstanding the changes ushered in by the #MeToo movement, the number of women directors working today remains appallingly low. While the film industry struggles to address issues of representation in front and behind the camera, we’re proud to present a few gems from established and emerging women cineastes for you to watch and enjoy on our pages.
These titles are brought to you in partnership with eyelet (read news), a streaming platform designed to give cinephiles around the world access to the very best in independent cinema. In conjunction with eyelet, we are now able to showcase films we’ve been reviewing over the years - titles you can stream and read about on Cineuropa.
For the first instalment in our Watch on Cineuropa series, here’s a selection of some outstanding films that will help you sweeten your quarantine. Enjoy, and stay tuned for the new movies coming your way soon.

'Eden'
Co-written with her brother and former DJ Sven, Mia Hansen-Løve’s stupefying and electric Eden unspools as a kind of ethnography of 1990s French club life, chronicling a few years in the life of a Parisian DJ on his quest to fame. And yet, for all its intoxicating cocktail of drugs and timeless tunes (courtesy of Daft Punk, who also grace the screen as the hero’s pals), this remains a profoundly melancholic tale. Hardly a rags-to-riches, and more a moving, shattering take on the interplay between reality and fantasy on one’s road to maturity.

'Chocolat'
Drawing on her own childhood memories of life in colonial Cameroon, Claire Denis’s engrossing first feature tells the story of a friendship between a white girl, France, and a native Cameroonian, Protee, whom her parents hired as household help. Returned to Cameroon to exhume her past, twenty-something France chaperones us into a gorgeous, sensual and deeply lyrical memoir.

'Too Late to Die Young'
If the name of Chilean prodigy Dominga Sotomayor has escaped your radars, jot it down at once. Having nabbed the top award at the 2012 International Film Festival Rotterdam with her debut feature Thursday Till Sunday, she went on to win a Best Director award in Locarno for her 2018 Too Late to Die Young. A heartrending coming of age set in a rural commune nearby Santiago in 1990s Chile, this is as much an elegy to teenage angst and freedom as it is a portrait of a country venturing into adulthood, captured in the midst of its post-Pinochet transition.

'Godless'
Bulgarian Ralitza Petrova’s assured debut feature Godless delves into the world of her home country’s less fortunate, following a nurse who traffics the ID cards of her patients in exchange for quick cash. A raw, unflinching portrait of life in the New East, drenched in that gritty aesthetic now synonymous with post-soviet social realism, Godless is tour de force permeated with despair, but there’s plenty in it to suggest a promising future for Bulgarian cinema: in 2016, Godless earned Petrova the Golden Leopard at the 69th Locarno Film Festival.

'Anishoara'
Moldovan Ana-Felicia Scutelnicu sets a coming-of-age tale in an unnamed, ancient-looking village from her homeland, a world seemingly devoid of adults and populated almost exclusively by children and elderly. In it, 15-year-old Anishoara struggles to make ends meet while grappling with the pangs of first love. A film that feels and looks like a time capsule, Anishoara doubles as a tribute to a dying way of life, and a lyrical testament to the mysteries of adolescence.

NASCE MAPS TO THE STARS, la app dei festival italiani
di Vittoria Scarpa
29/04/2020 - Lanciata da AFIC - Associazione Festival Italiani di Cinema, consente di muoversi tra oltre 75 eventi sparsi su tutta la penisola, con schede, aggiornamenti e un calendario interattivo.
Un’applicazione gratuita per scoprire e orientarsi tra tutti i festival cinematografici presenti sul territorio italiano. Si chiama Map to the Stars e a lanciarla è AFIC - Associazione Festival Italiani di Cinema, che riunisce più di 75 eventi sparsi su tutta la penisola. Una naturale prosecuzione dello sforzo di promozione e divulgazione dei festival che l’Associazione porta avanti sin dalla sua nascita nel 2003, e ancora più importante nell’attuale contesto di incertezza generale causato dall’emergenza sanitaria, che finora ha costretto 16 festival AFIC a rimandare o sospendere le proprie edizioni.
Disponibile su Google Play (qui) e Apple Store (qui), la nuova app AFIC consente una rapida consultazione di schede dettagliate per ogni evento (concorsi, premi, contatti e tante altre informazioni) e un calendario interattivo in grado di mostrare subito il prossimo festival e quello più vicino sul territorio. Inoltre, consente di essere aggiornati sulle novità di settore e presto sarà dotata di una funzione che consentirà al pubblico di valutare il festival al quale sta partecipando.
Indicata come uno strumento indispensabile nell’ottica di una sempre maggiore interconnessione tra le manifestazioni cinematografiche che si adeguano alle nuove tecnologie, Map to the Stars è realizzata con il contributo e il patrocinio della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo - Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo.




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- Cinema

Giovanni Pompili - best producer on the move

CINEUROPA NEWS: PRODUCERS ON THE MOVE 2020
Giovanni Pompili • Produttore, Kino Produzioni

"In futuro conterà chi riesce ad aggiungere alla visione un valore di esperienza emotiva"
articolo di Camillo De Marco.

12/05/2020 - Selezionato tra i Producers on the Move 2020 dell'EFP, l'italiano Giovanni Pompili, di Kino Produzioni, ci parla delle sfide che sta affrontando in questo momento di crisi.

Giovanni Pompili ha assunto la direzione di Kino Produzioni nel 2012, cambiando il core business dell'azienda dalla produzione di servizi TV al cinema. Ha lavorato con talenti emergenti come Carlo Sironi, Laura Luchetti, Ali Asgari e Farnoosh Samadi. Ora sta coproducendo nuovi film di Carla Simòn, Aga Woszczynska e Cristina Picchi. Come produttore di maggioranza, Giovanni sta attualmente raccogliendo finanziamenti per La Bella Estate di Laura Luchetti e Delta di Michele Vannucci. Selezionato alora tra i Producers on the Move 2020 dell'EFP, ci parla delle sfide che sta affrontando in questo momento di crisi Cineuropa: La pandemia si sta rivelando una vera sfida per l’intera industria del cinema.

Come stai vivendo la crisi?
Giovanni Pompili: Prima del lockdown eravamo in preparazione come coproduttori minoritari di due film che avremmo dovuto girare tra aprile e luglio: Dry Land, opera prima di Aga Woszczynska coprodotto con Lava Films (Polonia) e Alcarràs di Carla Simòn coprodotto con Avalon e Vilaut (Spagna). Oggi, non sapendo quando e come potremmo tornare a girare, stiamo concentrando le energie sullo sviluppo di nuove storie e nuovi formati. La crisi è la scelta che, volenti o nolenti, si è chiamati a fare. Si acquisiscono nuove competenze e si mette in discussione quello che è già noto. L’inventiva si risveglia, è il periodo delle scoperte e delle grandi strategie. Sicuramente questa crisi ci ha fatto riscoprire il significato di essere resilienti, la capacità di affrontare le avversità e superarle. Speriamo di uscirne rafforzati. Tuttavia, in questa fase di grande incertezza, spero che i sostegni finanziari, per i lavoratori dello spettacolo e per l'esercizio, arrivino quanto prima.

L'edizione di quest'anno di Producers on the Move sarà completamente digitale, senza alcun contatto personale e bicchieri di rosé. Cosa ti aspetti da questi incontri virtuali? Pensi che rappresenti comunque una chance per te?
È la declinazione del BYO: farò gli incontri su Zoom con il mio rosé accanto, anzi meglio uno chardonnay. Scherzi a parte, credo che EFP abbia colto questa sfida e nella situazione di emergenza abbia visto l'opportunità per disegnare una nuova forma di networking. Sicuramente non ci sarà la dimensione di empatia e contatto umano ma di contro saremo molto più attenti e concentrati sui progetti che ognuno di noi presenterà negli incontri. La grande sfida per me sarà conciliarli con le lezioni online dei miei figli! (ride, n.d.r.)

Che idee e progetti proponi?
Ho due progetti che sono nella fase di financing: La Bella Estate, il nuovo film di Laura Luchetti tratto da un racconto di Cesare Pavese, e Delta, un western contemporaneo, opera seconda di Michele Vannucci. Due film molto diversi tra loro ma che sono parte di un percorso che ho iniziato con gli autori. Di idee poi ce ne sono molte altre che vanno oltre le storie e guardano al settore a 360°.

Qual è stato in questi anni il problema più difficile da risolvere come produttore?
Il problema principale è stato essere accreditato dal sistema. Ho iniziato come assistente operatore per la produzione di documentari tv e poi ho girare cose mie come filmmaker. Con Kino abbiamo dimostrato, con il valore ed i risultati dei progetti che abbiamo prodotto, che siamo in grado di realizzare un buon cinema. Ma essere riconosciuti per il proprio valore non è scontato e a volte è più facile fuori del proprio Paese. Sicuramente poi le notti insonni sono state create dai problemi di cash flow...

Hai all'attivo documentari impegnativi, film che affrontano temi etici molto forti come Sole, di Carlo Sironi. Partecipi agli aspetti creativi e artistici dei tuoi film?
Sempre. Mi piace pensare che il lavoro del produttore debba svolgersi in una dimensione maieutica con gli autori, un rapporto dialogico che aiuti a costruire il miglior progetto possibile. Sono sempre partito dalle motivazioni, del regista e mie. Produrre un film può essere un percorso lungo e faticoso e l'obiettivo ed i compagni di viaggio devono essere scelti con cura: è una traversata a remi dell'Oceano Atlantico, non puoi renderti conto a metà tragitto di esserti sbagliato. Produrre per me ha un'accezione politica, nel senso puro del termine. Bisogna cercare storie che possano istillare dubbi, cambiare punti di vista, svelare quello che è davanti ai nostri occhi ma spesso non riusciamo a vedere.

Come ti vedi tra 10 anni e come vorresti che si evolvessero il cinema e l’audiovisivo in futuro?
Fra 10 anni mi vedo con i figli maggiorenni e qualche chilo in più! In realtà non importa quello che vorrei, io sono romantico, vorrei continuare ad andare al cinema e viverlo come un’esperienza sempre nuova. Ma la tecnologia si evolve e con questa anche le forme narrative e le capacità di racconto. Non ha senso cercare di mantenere il mondo così come lo abbiamo conosciuto, impauriti di quello che potrà essere. Dobbiamo invece capire come i cambiamenti sociali e tecnologici stanno cambiando le possibilità di fruizione e sfruttarle senza cercare di opporci. In questo momento abbiamo molteplici possibilità di accesso ai contenuti, tanta offerta e una fruizione bulimica. Sono pochi però in percentuale i prodotti che rimangono nell’immaginario collettivo. Nel futuro conterà chi riuscirà ad aggiungere alla visione un valore di esperienza emotiva.


DAVID DI DONATELLO 2020
David di Donatello, miglior film e regia per "Il traditore"
articolo di Vittoria Scarpa.
09/05/2020 - Il film di Marco Bellocchio vince sei premi. Cinque David per Pinocchio e tre per Il primo re, per un’edizione insolita con candidati e vincitori in collegamento da casa.

La prima (e si spera ultima) edizione dei David di Donatello dell’era Covid-19 e del distanziamento sociale ha visto il trionfo di Il traditore [+] di Marco Bellocchio, al quale i giurati dell’Accademia del cinema italiano hanno assegnato sei premi, e di gran peso: miglior film, regia, attore protagonista (Pierfrancesco Favino) e non protagonista (Luigi Lo Cascio), sceneggiatura originale e montaggio. Condotta da Carlo Conti da solo in studio, in diretta su Rai1 con i candidati in collegamento da casa, la cerimonia si è svolta solo con qualche piccolo difetto di connessione, ma in modo tutto sommato fluido e veloce, in alcuni casi con la simpatica irruzione sullo schermo di figli e mogli dei vincitori durante i discorsi di ringraziamento.

Il secondo film più premiato di questa anomala 65ma edizione dei David è Pinocchio [+] di Matteo Garrone, al quale vanno cinque riconoscimenti tecnici: miglior scenografia, effetti visivi, trucco, costumi e acconciatura. L’altro film che figurava tra i favoriti, Il primo re di Matteo Rovere, si aggiudica la fotografia (Daniele Ciprì), la produzione e il suono. Per quanto riguarda le attrici, vince come miglior protagonista Jasmine Trinca per La dea fortuna e come non protagonista Valeria Golino per 5 è il numero perfetto. Martin Eden di Pietro Marcello riceve un David per la sceneggiatura non originale. Il miglior regista esordiente è Phaim Bhuiyan per Bangla, il David del miglior documentario va a Selfie di Agostino Ferrente. Il primo Natale di Ficarra e Picone è il film più amato dagli spettatori.

Tra un premio e l’altro, il messaggio di incoraggiamento e solidarietà del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a tutti i lavoratori dello spettacolo (“il cinema è l’arte del sogno e per ricostruire il nostro paese dopo questa drammatica epidemia bisognerà tornare a sognare”), l’intervento del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini che ha garantito il suo impegno a non lasciare nessuno indietro in questo momento di difficoltà ("lunedì incontrerò il mondo del cinema e insieme stabiliremo come e quando riaprire le sale e i set”) e il saluto della presidente dell'Accademia del cinema italiano Piera Detassis, che ha ricordato il progetto Moviement Village (leggi la news) per riportare gli spettatori a vedere film sul grande schermo, all’aperto e in sicurezza. In contemporanea con la cerimonia dei David, l’Anec ha organizzato un flash mob, con l'hashtag #riaccendilcinema: le sale cinematografiche italiane hanno riacceso, per una sera, le insegne e gli schermi, per dire che ci sono e attendono il momento giusto per riaprire.

La lista completa dei vincitori dei David di Donatello 2020:

Miglior film
Il traditore [+] - Marco Bellocchio (Italia/Francia/Germania/Brasile)
Miglior regia
Marco Bellocchio - Il traditore
Miglior regista esordiente
Phaim Bhuiyan - Bangla [+]
Miglior sceneggiatura originale
Marco Bellocchio, Ludovica Rampoldi, Valia Santella, Francesco Piccolo - Il traditore
Miglior sceneggiatura non originale
Maurizio Braucci, Pietro Marcello - Martin Eden [+] (Italia/Francia/Germania)
Miglior produttore
Grøenlandia, Rai Cinema, Gapbusters, Roman Citizen con Rai Cinema - Il primo re [+] (Italia/Belgio)
Miglior attrice protagonista
Jasmine Trinca - La dea fortuna [+]
Miglior attore protagonista
Pierfrancesco Favino - Il traditore
Miglior attrice non protagonista
Valeria Golino - 5 è il numero perfetto [+] (Italia/Belgio/Francia)
Miglior attore non protagonista
Luigi Lo Cascio - Il traditore
Miglior fotografia
Daniele Ciprì - Il primo re
Miglior musica
L’Orchestra di Piazza Vittorio - Il flauto magico di Piazza Vittorio [+] (Italia/Francia)
Miglior canzone originale
“Che Vita Meravigliosa” parole e musica di Antonio Diodato, interpretata da Diodato - La dea fortuna
Miglior scenografia
Dimitri Capuani - Pinocchio [+] (Italia/Francia)
Miglior costumista
Massimo Cantini Parrini - Pinocchio
Miglior truccatore
Dalia Colli, Mark Coulier (trucco prostetico) - Pinocchio
Miglior acconciatore
Francesco Pegoretti - Pinocchio
Miglior montatore
Francesca Calvelli - Il traditore
Miglior suono
Angelo Bonanni, Davide D’Onofrio, Mirko Perri, Mauro Eusepi, Michele Mazzucco - Il primo re
Migliori effetti visivi
Theo Demeris, Rodolfo Migliari - Pinocchio
Miglior documentario
Selfie [+] - Agostino Ferrente (Francia/Italia)
David giovani
Mio fratello rincorre i dinosauri [+] - Stefano Cipani (Italia/Spagna)
David dello spettatore
Il primo Natale [+] - Salvo Ficarra e Valentino Picone
David speciale
Franca Valeri
Miglior cortometraggio
Inverno - Giulio Mastromauro
Miglior film straniero
Parasite - Bong Joon-ho (Corea del Sud)

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- Società

Bla, bla, bla … ’tarocchi e taroccati’

BLA, BLA, BLA … TAROCCHI E TAROCCATI

Pensare che l’Europa potesse fare della beneficienza è stato da ingenui o da poveri ‘tarocchi’ (?), anche perché chi lo ha pensato forse si era distratto un momentino alzandosi dal tavolo dove stava giocando a Monopoli, dove ogni giocatore sì può far credito all’altro (in famiglia, fra amici) e comunque che in cambio di qualcosa si deve cedere qualcos’altro, sempre di possederlo nelle mani, come ad esempio: ‘materie prime’, ‘titoli riconosciuti’, ‘tecnologie all’avanguardia’ ecc. Fatto è che nel ‘dout e des’ ci si rimette sempre o quasi.
Comodo minimamente anche pensare che l’Europa potesse farci dei regali senza chiedersi perché? Se anche noi contribuiamo alla ‘gestione’ di quella che sembra piuttosto una ‘cassa comune’, mi sembra scontato poi chiedere il laggio. Soprattutto se non si è stati chiari fin dall’inizio, ponendo sì delle regole ma anche dei paletti uguali per tutti. Pretendere una regalia solo perché noi non siamo in grado di farcela da soli, mi sembra inappropriato, e a quale titolo? O forse qualcuno ha pensato che sarebbe bastata l’apparenza: “perché noi siamo più belli?, perché siamo più intelliggenti?, o perché sappiamo più male che bene come spendere i miliardi che oggi chiediamo “..a fondo perduto”?

Stando a quanto dimostriamo di essere ogni giorno, il quadro della nostra politica interna e internazionale, è piuttosto quella di ‘taroccati’ mica male, capaci soltanto di blaterare diritti fittizi, senza preoccuparci di quelli che sono i doveri verso una società di diritto. Non basta dare credito all’apparenza, non è mai bastato sul lungo termine, non si può indossare felpe sponsorizzate (a costo zero, anzi pagate per la publicità fatta), e così mascherarsi da operaio e andare sui cantieri (scortati a distanza) dove non si è mai pensato di mettere piede. E solo perché scendono i consensi partitici, adeguarsi alla media su come ci si presenta e ci si comporta all’interno delle istituzioni e in Parlamento: cioè facendosi vedere in ‘giacca e cravatta’ quando anche uno sciocco denota che la veste è davvero inappropriata, e che ‘l’abito non fa il monaco’.
Così come non ci si veste con tacchi alti e lunghe mantelle che strusciano per terra solo per poi chiedere al sindaco della città di occuparsi della pulizia delle strade. Cosa che anche un sindaco non può far abbassare i marciapiedi perché la signora scendendo ci batte sopra con il culo. Come pure è facile chiedere (leggi pretendere) di dare uno stipendio a tutti, anche a chi non ha mai contribuito alla spesa pubblica sperando di farla franca per non aver pagato le tasse. Dovremmo ormai sapere che nella società tutto ha un costo, o almeno che nella vita tutto si paga. Da sempre si dice che ‘Cristo non paga fino al Venerdì, ma che il Sabato ha già pagato tutti’. Lo hanno capito pure gli abitanti del deserto che contribuire alla spesa pubblica è necessario allo stato come all’individuo: tant’è che hanno fatto propria la battuta ch’è ormai entrata nell’uso comune: “pagare vedere cammello!”.

Ma a noi ‘taroccati’ che credevamo in quest’ultima tornata di consultazioni, quando l’Europa sembra aver detto no, che siamo matti e che il Covit19 così come ce lo siamo prucurati ‘facendo i belli’ in giro per il mondo, allo stesso modo dobbiamo sbrigarcela da soli, accettando il laggio di quanti oggi ci offrono aiuti (?) ‘tarocchi’ per poi doverli restituire, in un modo o nell’altro, e in più con gli interessi. Questo ci tocca e questo dobbiamo prenderci se vogliamo, e lo vogliamo fermamente, far parte di quell’Europa che abbiamo contribuito a fondare. Di certo l’interesse a rimanere in Europa, almeno per noi sono è essenziale, se non vogliamo venir classificati come un certo ‘terzo mondo’.
È anche vero che abbiamo aperto la porta a tutti quelli che hanno bussato, ma allora mi chiedo perché non aprirla pure all’Egitto e alla Libia così tutti si sentirebbero a casa? Perché no a Israele e alla Palestina così da mettere fine a quella guerra fratricida che dura da secoli? E perché no includere la Turchia e l’Afganistan, la Siria e il Libano ecc. ecc. Visto che fin’ora abbiamo avallato solo per sporchi interessi di mercato la ‘fratellanza’ (ipocrita) di tutti i popoli? Non più né meno di quanto va divulgando Papa Francesco con la sua ‘Casa Comune’, dove tutti, ma davvero tutti, profughi, naufraghi, clandestini, derelitti, morti di fame ecc. ecc. possono trovare asilo in questo grande calderone che è l’Europa Planet, sperando almeno di farla finita una volta per tutte, e con tutti.
Dopo la peste, la spagnola, l’Andrea Doria, la diga del Vajont, i terremoti del Friuli, dell’Emilia, delle Marche, il crollo del ponte di Genova, le valanghe a iosa, i treni in fiamme, i ghiacciai che si sciolgono, le pioggie acide, l’inquinamento delle acque, del suolo, dell’aria e l’inquinamento acustico, che altro dobbiamo aspettare? Visto che il diluvio c’è già stato, non ci resta altro da fare se non che aspettare l’Apocalisse? Non vorrei che il padreterno mi prendesse in parola. Però questo virus? Certo il Covid/19 che nella tombola è il numero dell’ubriacone, sta facendo di tutta l’erba un fascio del tipo “ ‘ndo cojo cojo”, anche se, cinismo vuole, che con il numero dei morti e tutti sopra gli ‘anta’, l’INPS ben presto avrà pareggiato i conti con le pensioni.

Adesso il problema preoccupante viene dall’agricoltura …”Chi vuole andare a cogliere i tuberi?”, “Chi i cavoli?”, “Chi i pomodori?”, la stagione avanza e migliaia di tonnellate di frutta e verdura stanno aspettando mani volenterose, e i prezzi salgono sul mercato. Ma sembra non ce ne siano. Possibile che nessuno abbia pensato di utilizzare i galeotti ‘a chiamata’, come si sta facendo con i medici e gli infermieri ospedalieri? Magari con uno sconto di pena e qualche soldo in tasca (4 euro al giono mi sembrano pochi anche per loro), potrebbero uscire e rifarsi una vita? Potremmo così sgonfiare l’esubero delle carceri, e nelle celle libere metterci tutti quegli ‘altri’ (vedi politici, assessori, azzeccagarbugli ecc.).
Tutti quelli che giornalmente si arrampicano sugli scranni del Parlamento e gli schermi televisivi a voler ‘dire la loro’, e che farebbero meglio a stare zitti. A tal punto che in certi momenti non basta neppure la ‘mascherina’, (quella la mettiamo noi poveri taroccati), bensì ci vuole la ‘museruola’ perché si mordono (per finta) come cani rabbiosi. Falsi loro e falsi gli scopi a cui si aggrappano per ragioni di partito, anche se abbiamo assistito ad uno di loro, prendo a caso, uno che all’inizio sembrava un avvocatino da strapazzo, un bel giorno si è svegliato ‘conte’ facendo valere le sue credenziali.
A tal punto che da quanto non si capiva di che cosa parlava, dev’essersi messo a prendere lezioni di dizione, dando così lezioni a tutti gli altri ‘tarocchi’ al governo del paese, non solo d’italiano ma ed anche di giurisprudenza ed economia. Bene, bravo, 7+! Era ora, diciamo noi miseri taroccati. Giuseppi, continua così, e magari, anziché ritovarci con le pezze al culo, saremo in grado di sollevare la testa e finalmente guardare a testa alta questa Europa …

FIERI DI ESSERE ITALIANI.

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- Cinema

Al Cinema con Cineuropa News

"SE NON LO SO, POSSO INVENTARLO"

Con questa frase incredibilmente vera Catarina Vasconcelos, Regista di The Metamorphosis of Birds", offre l'opportunità di dare una dimensione a ciò che il Cinema rappresenta nella storia dell'Arte della fotografia, maestra di tutte le arti, e che oggi abbiamo a disposizione per il nostro piacere e la nostra 'meraviglia'. Perché il Cinema è la meraviglia che coglie e spesso sorprende tutti i nostri sensi e va oltre investendo anche quelli che sono i moti dell'anima, dal pensiero della mente, alle sensazioni più nascoste, dai sentimenti ai nostri sogni più volubili, fino a raggiungere quella sensibilità che spesso si rivela creativa.

Ma seguimo l'evoluzione di questa creatività dalle parole della stessa regista Catarina Vasconcelos intervistata per noi da Marta Balaga critica cinematografica per Cineuropa:

VILNIUS 2020
Catarina Vasconcelos • Regista di The Metamorphosis of Birds
"Se non lo so, posso inventarlo" di Marta Bałaga.

03/04/2020 - Cineuropa ha parlato con Catarina Vasconcelos di The Metamorphosis of Birds, il vincitore del Vilnius Film Festival, subito dopo la cerimonia di premiazione online
“I was happy that they managed to have a festival anyway, in such complicated and singular times,” Lisbon-born Catarina Vasconcelos told Cineuropa after her hybrid documentary The Metamorphosis of Birds [+] was named Best Film at the Vilnius Film Festival (see the news) for its portrayal of loss and family relations combined with gentle, poetic narration. “We need to keep on going!”

Cineuropa: When watching your film, you feel as if you could just close your eyes and listen to it instead. What was your thinking behind combining these stories with visual equivalents that are not always obvious?

Catarina Vasconcelos: It took me six years to make this film. I started with something personal, with my family, and then I got quite concerned – I didn’t want it to be just some family story that no one else could connect to. At the same time, I don’t come from a cinema background, so I had nothing to lose. I was able to try things out. I come from fine arts, and suddenly, I started to have all these visions, taking me back to paintings, for example. You know when you are completing a jigsaw puzzle and all of these elements start to come together? That’s how it happened here, in a very weird way.

You talk about people not understanding the concept of birds’ migration at first, but “what human beings can’t explain, they invent”. Is that something you also wanted to do with your family?

Definitely. My family was extremely generous when I started. I interviewed my uncles and aunts, but there were some things they wouldn’t tell me. At the beginning, it felt a bit harsh. “Why are they keeping these secrets?” And then I understood that’s how it works in families. There are some things you don’t say. But if I don’t know it, I can invent it. That’s what we do! Even when trying to find a cure for the coronavirus. I think there is a sense of that in the film: sometimes you have to invent things in order for them to exist.
You show a certain balance in the way nature reflects people’s lives. But nowadays, this balance is certainly off.

Thinking about death made me think about our relationship with nature. Because in nature, it’s something that just happens – death connects us all. Human beings, animals, plants. So is the experience of loss, as the elephants bury their own, too! Nature gave me hope, mostly because of its cycles. You have autumn, winter, but then comes the spring, and it feels like you are born again. One day, I was just staring at the leaves, thinking how similar they look to our skin, to what we are. I could relate to it so easily and make all these parallels – also between the funeral of the bird [shown in the film] and what we normally do when somebody passes away. I don’t know if you remember the first time you realised we are going to die. It can be quite shocking. Thinking about the bird makes these kids think about their father, but in that moment, they are surrounded by nature. That gives them some consolation, I think.

Despite all the seriousness, there are moments when you show your sense of humour. Like when a list of things women were “supposed” to do, like knitting, cooking or “taking care of the houses that belonged to men”, is interrupted by the noise of the hairdryer.
When I was doing the research about my grandmother, it ended up being research about women in the 1950s and 1960s in Portugal, during the dictatorship. Today, things are still quite unfair, but back then, it was just unbelievable. There was this idea that men ruled everything: their word was the word of God. But in my family, my grandmother was the one keeping everything together – my grandfather was always at sea! In the scene that you mention, the narrator also says, “Women get pregnant and they abort.” It was something that would happen all the time, but nobody would talk about it. Women just had to deal with it. I wanted to talk about it all even more.

You decided to share some very specific details, like your grandfather’s dying wish to burn all the letters addressed to your grandmother. Is it harder when you can’t hide behind some creative invention?

That’s a really good question. It was very hard to deal with his decision. From the moment I found out to the moment the letters were burnt, it took two years, but at the beginning, I was very angry. Then you go through all these stages of grief [laughs]. It was important to have it in the film as something beautiful, also because the actual burning wasn’t very special. But, as you know, if I can’t have it the way I want, I will invent it. I will make a memory I would like to keep. I showed the film to my family before all the festivals, and I was afraid of their reaction. But then one of my uncles told me something nice. He said: “Some things weren’t like this, but maybe they were.”


Vediamo ora cosa accade in casa nostra aspettando la Mostra del Cinema di Venezia, nell'articolo di Camillo De Marco per Cineuropa News:


VENEZIA 2020
Alberto Barbera, sulla 77. Mostra di Venezia: "Continuiamo a lavorare"
di Camillo De Marco.

07/04/2020 - Il festival è in standby per l'emergenza Covid19 ma non si ferma, pensa ad alcune iniziative virtuali e prevede diversi scenari. A maggio la decisone sulle date
La Mostra di Venezia va per la sua strada. Previsto dal 2 al 12 settembre, il festival è ancora in standby a causa dell'emergenza Covid19 ma lavora alla prossima edizione, con Cate Blanchett presidente di giuria (leggi la news), valutando anche la possibilità di usare le nuove tecnologie.

"Potrebbero esserci alcune iniziative virtuali, ma non certamente un intero festival virtuale, del resto una decisione in tal senso è prematura", riferisce a Cinecittà News l'ufficio stampa della Biennale. E lo stesso direttore artistico Alberto Barbera risponde all'agenzia giornalistica ANSA che gli chiede se intende seguire l'esempio del Toronto Film Festival (10-20 settembre), che prevede limitati eventi in sala e una più ampia rassegna solo digitale:

"Toronto è un'altra tipologia di festival non paragonabile a Cannes e Venezia e oggi poi non si può essere che generici sul futuro. Solo quando sapremo in tempi utili quello che si può fare e non fare prenderemo una decisione, ma una cosa è certa: qualsiasi cosa sia saremo pronti".

"Da parte nostra”, sottolinea Barbera, "continuiamo a lavorare esattamente come gli anni scorsi. Mancano ancora due mesi e davanti ci sono tre scenari possibili: quello più pessimistico con la pandemia ancora attiva che ci costringe a prendere un bell'anno sabbatico e mettere questa edizione 2020 tra parentesi. C'è poi lo scenario più ottimista, la pandemia si arresta e tutto torna come prima e, infine, quello intermedio che prevede dei vincoli che ora non possiamo prevedere e con i quali ci dovremo confrontare. Insomma sono variabili non da poco che richiederanno decisioni condivise, ma di fronte a dati certi. E questo prima di fine maggio".

Il direttore artistico di Venezia commenta quanto scritto su Le Monde qualche giorno fa, cioè che il ritardo di una rinuncia definitiva del Festival di Cannes da parte di Thierry Frémaux dipenda da una "partita a scacchi" tra lui e Barbera, per non rivelare, se non all'ultimo momento, i film acquisiti in selezione e non avvantaggiare l'antagonista: "Non è vero. Tutti gli anni cominciamo a vedere film da selezionare e sappiamo che molti sono stati proposti anche a Cannes. Il criterio per il quale il film approdi da noi o sulla Croisette sono altri, ci si divide i film secondo altre cose tra cui la loro disponibilità temporale e non".


(continua)

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- Cinema

Cineuropa News - Al Cinema x il Cinema

AL CINEMA X IL CINEMA - in collaborazione con CINEUROPA NEWS

Torniamo al Cinema! Il Cinema non può morire, ne valgono i nostri sogni, le nostre emozioni, le nostre ambizioni, il nostro sorridere, il nostro sopravvivere, il nostro futuro. Non è solo un modo di dire o di compiacersi per dire che il Cinema ci ha insegnato innumerevoli cose, dall'essere romantici e innamorati, a saper piangere nelle affezioni della vita, a saper conoscersi e difendersi dalle anomalie del quotidiano; ci ha fatto conoscere la vita strepitosa dell'arte e degli artisti, i luoghi conosciuti e quelli sconosciuti, il mondo reale e quello virtuale; ha scandagliato dentro di noi, nel nostro essere speciali.

Il Cinema ci ha insegnato e messo in guardia nell'uso della tecnologia, l'utilizzo della giustizia, della bontà e della pace, contro ogni infamità della sopraffazione e della guerra. Ci ha fatto ridere e sorridere di noi stessi con la comicità e il ridicolo di cui siamo capaci e/o incapaci a nostra volta di renderci uman; ha dato luogo e fatto crescere il mondo della tecnologia, ad alcune specializzazioni afferenti alla scenografia, alla technica delle luci e delle ombre, all'uso del 'sonoro' e della 'voce', alla creatività registica e del montaggio, dando luogo a posti di lavoro a attrezzisti, costumisti, truccatori, parrucchieri e quant'altro, che hanno contribuito a far grande la nostra miserabile miseria nei confronti della natura.

Va detto che la natuta umana non è solo imitazione ma creatività e l'Arte di fare Cinema lo ha dimostrato in pieno, pertanto studiare Cinema nelle sedi opportune richiede un impegno delle proprie capacità che supera dsi gran lunga la visione della vita che abbiamo imparato sui libri e secondo le nostre esperienze, per aprirsi verso il mondo, verso gli altri, in un abbraccio costante e duraturo nell'ammirazione 'meravigliata' e partecipe di ciò che ci gira attorno: il Creato, il dono stragrande della Vita, il siperamento della nostra dimensione corporea per risalire la scala che porta al 'paradiso' della conoscenza.
Per cui tornare e restituire al Cinema ciò che è andato perdendo in questi ultimi anni è da considerarsi riacquistare la padronza di noi stessi e di tutto quello che siamo stati capaci a nostra volta di creare, di espandere questo 'piccolo mondo in cui ci è dato da vivere'.

Tornare al Cinema X il Cinema, significa anche regalarsi momenti di svago da questa stupenda/orrenda vicissitudine di vivere.


INDUSTRIA / MERCATO Italia

Anica chiede di non escludere dai benefici i film penalizzati dal Covid-19
di Camillo De Marco
06/04/2020 - Distributori, produttori ed esercenti hanno chiesto al Mibact una deroga al decreto sull'accesso ai contributi pubblici nel caso in cui un film non possa uscire nelle sale per l'emergenza.

L’Anica, Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Multimediali, ha chiesto al ministero dei Beni culturali una deroga al Decreto Bonisoli, il cosiddetto "decreto esclusioni", per non penalizzare i film che non possono uscire in sala a causa della chiusura dovuta all'emergenza coronavirus. Per accedere ai benefici della Legge Franceschini - tax credit, contributi automatici e selettivi - è infatti necessario il requisito dell’uscita nella sale del film (leggi l'articolo). La richiesta da parte dell’industria si intende limitata al periodo di chiusura obbligatoria delle sale dovuta all’emergenza.

La lettera indirizzata al ministro Dario Franceschini contiene in particolare la richiesta di una deroga parziale all’art. 2 del DM MiBACT n. 303 del 14 luglio 2017 e successive modifiche, che regola l’accesso alle agevolazioni per le pellicole italiane. La richiesta è stata firmata da Luigi Lonigro, presidente della sezione distributori ANICA; Francesca Cima, presidente della sezione produttori ANICA, e Mario Lorini, presidente di ANEC Associazione nazionale esercenti cinema.

Per Francesco Rutelli, Presidente ANICA, la richiesta firmata dai rappresentanti dell'industria audiovisiva "è stato il frutto di un confronto responsabile ed equilibrato, particolarmente apprezzabile in un momento così difficile per il Paese e, in particolare, per la filiera cinematografica e audiovisiva gravemente colpita dalle necessarie restrizioni a tutela della salute pubblica".

Un virtual market per RaiCom: nuovi titoli disponibili per i buyers
di Camillo De Marco.
03/04/2020 - Il braccio commerciale della tv pubblica ha rafforzato la tecnologia della sua piattaforma per compensare la cancellazione di mercati e festival a causa del Covid-19
RaiCom, braccio commerciale del pubcaster italiano Rai, ha rafforzato la tecnologia della sua piattaforma virtuale già esistente per mantenere attive le vendite internazionali e compensare la cancellazione dei vari mercati e festival che dovevano tenersi nei prossimi mesi.

Prima che il mondo si fermasse per fronteggiare l'emergenza dell'epidemia di Covid-19, RaiCom ha lanciato le vendite internazionali del film Volevo nascondermi [+] di Giorgio Diritti, premiato alla Berlinale. Il film è già stato venduto in in diversi territori, in attesa della riapertura dei cinema: Cina, Svizzera, Austria, Ungheria, Taiwan, America Latina.

Le proiezioni virtuali dei listini sono disponibili per i buyers internazionali sul virtual market della RaiCom, la Videolibrary di vendite internazionali della RaiCom. La piattaforma digitale, già testata per gli "Screenings" annuali, viene aggiornato e rinnovato per presentare le nuove uscite online, poiché gli Screenings RaiCom (che si dovevano tenere dal 25 al 28 marzo a Torino) sono stati rinviati a causa dell'emergenza virus al 7-20 ottobre sempre a Torino. La piattaforma offre a tutti i potenziali clienti la possibilità di vedere in anteprima i nuovi film, programmi televisivi, documentari e arte - oltre alla possibilità di visionare l'intero catalogo di RaiCom. I buyers internazionali possono anche prenotare appuntamenti online con il team di vendita RaiCom delle varie aree tematiche.

Tra i nuovi titoli ci sarà il trailer in anteprima del tanto atteso Commissario Ricciardi televisivo in Crime – Investigation, (6x100') basato sui best-seller internazionali di Maurizio De Giovanni: il "dono" del detective di vedere i fantasmi di persone uccise e ascoltare i loro ultimi pensieri lo aiutano a risolvere i crimini nella splendida cornice di una Napoli Anni 30. L'Alligatore (8x50') è un noir sulle esperienze reali nel mondo del carcere: il protagonista, interpretato da Matteo Martari, è un ex detenuto ossessionato dalla giustizia che si sente più a suo agio nel mondo marginale dell'illegalità che non tra poliziotti e magistrati. La serie è basata sui romanzi best seller di Massimo Carlotto.

Serie tv su un detective poco convenzionale che ha conquistato un ottimo share è certamente Imma Tataranni - Sostituto procuratore (12x50'), una donna con un'intelligenza brillante e una personalità schietta, diretta e impulsiva, a volte troppo per il mondo dominato dagli uomini della procura di Matera. Il period drama Vita Promessa (stagioni 1-2) torna con una seconda stagione: dopo il grande successo della prima, la seconda racconta la storia della famiglia Rizzo in un diverso periodo storico: la Grande Depressione negli Stati Uniti. Tra "coming of age" e dramedy, La Compagnia del Cigno (24x50') è una nuova colorata serie in 2 stagioni: sette giovani musicisti di talento, iscritti al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, sono costretti a misurarsi con la vita, le regole e la disciplina.

Oltre le serie, ci sono on line anche i lungometraggi. Dopo il successo della distribuzione delle vendite di Volevo nascondermi il modello di business si sta espandendo alle piattaforme e sul panorama televisivo, in attesa che il mercato theatrical riprenda in tutto il mondo dopo l'arresto forzato. I film più richiesti per lo sfruttamento sui canali televisivi lineari sono Tutto il mio folle amore [+] del regista premio Oscar Gabriele Salvatores, Momenti di trascurabile felicità [+] di Daniele Luchetti e Un figlio di nome Erasmus di Alberto Ferrari, assieme al film TV Piaggio (100') che racconta l'affascinante storia di una delle icone più conosciute del design italiano: la Vespa.

Netflix e Italian Film Commissions lanciano un fondo per l’emergenza COVID-19
di Vittoria Scarpa.
03/04/2020 - L'obiettivo è di fornire supporto ai lavoratori dell’industria cinematografica e televisiva italiana colpiti dallo stop alle produzioni sul territorio per la crisi del coronavirus.
Un Fondo di Sostegno per la TV e il Cinema nell'emergenza COVID-19 con l'obiettivo di fornire supporto emergenziale a breve termine alle maestranze e alle troupe dell'industria audiovisiva italiana direttamente colpite dallo stop alle produzioni sul territorio per la crisi legata al coronavirus. Ad annunciarlo sono il gigante dell’intrattenimento in streaming Netflix e Italian Film Commissions, l’associazione che riunisce le 19 film commission presenti sul territorio italiano.

Il fondo, dotato di un milione di euro stanziato da Netflix, sarà gestito da Italian Film Commissions. “In questo momento che chiama tutti noi a sforzi speciali, le film commission italiane, con la loro dinamicità e presenza sul territorio, porteranno con Netflix il sostegno verso le figure professionali maggiormente colpite dal blocco delle attività”, dichiara Cristina Priarone, Presidente di IFC - Italian Film Commissions, aggiungendo che “dedicare questo fondo alle maestranze è un'azione importante, ci auguriamo che altri player di settore vogliano condividerla con noi”. “Le maestranze e le troupe sono sempre state di vitale importanza per il successo di Netflix”, è il commento di Felipe Tewes, direttore delle Serie originali per Europa e Africa del colosso americano, “e ora vogliamo fare la nostra parte e aiutare coloro che ne hanno maggiormente bisogno in un momento senza precedenti come quello che stiamo vivendo”.

L'istituzione del Fondo di Sostegno per la TV e il Cinema nell'emergenza COVID-19 in Italia rientra nella più ampia iniziativa globale che Netflix ha annunciato lo scorso 20 marzo, con la creazione di un fondo di 100 milioni di dollari per il supporto dei lavoratori dell'audiovisivo in tutto il mondo (leggi la news). Questo fondo globale va inoltre ad aggiungersi alle due settimane di paga a cast e crew coinvolti nelle produzioni Netflix sospese in Italia e in tutti gli altri paesi che erano già state accordate prima dell'istituzione del fondo stesso.

Ulteriori dettagli sul fondo e sui criteri per accedervi sono in fase di definizione e saranno resi noti nelle prossime settimane sul sito di Italian Film Commissions.

(continua)

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- Musica

Itaca 4et - a Progressive Album Project

ITACA 4ET : ‘Vortex’ a Progressive Album Project.

 

Approntare un nuovo album di ricerca spesso richiede un impegno non indifferente, soprattutto se misurato su molecole di note frante che si spostano nell’iperspazio, fino a giungere a noi entro i solchi di una realtà supertecnologica che dobbiamo abituarci a condividere e con la quale convivere. Preparando il terreno culturale per un nuovo e più eclatante confronto i componenti ITACA 4et, in questo presente album, viaggiano attraverso un certo Jazz ancora non consolidato, in quanto riflesso di campi spaziali-culturali specifici e/o inusitati, tuttavia necessari per captare sonorità che navigano ad altissime quote, ‘oltre il silenzio’ apparente del sonoro cosmico, attraversando allocuzioni bioclimatiche e cibernetiche decisamente impressive.

Ciò che qui si offre all’ascolto, nella totale assenza di costruzione armonica, fa da ulteriore spinta nel recupero del tempo attuale, urbano e metropolitano, onde ottimizzare e riorganizzare volumi e frammenti di un discorso musicale frantumato e fin troppo dispersivo cui l’attuale Jazz ci ha abituati, almeno quello di matrice quantistica e acufenide, recentemente sfociato in un ibrido non sempre motivato. ITACA 4et attraversa questo spazio aprendo a dimensioni ‘altre’, alla ricerca di ‘suoni in fuga’ attraversando una prima fase creativa nei brani d’apertura accattivanti quali ‘Sketch’ e ‘Saturno’ di efficace presa, grazie alla copiosa prova delle percussioni affidate a Nick Fraser comprovato didatta a livello internazionale. E non solo come tenuta del ‘tempo’ (ritmico-acustico), bensì come qualità di suono che, mai come in questo caso, fa da contenitore agli interventi successivi degli altri strumenti.

Di fatto già in ‘Saturno’ assistiamo a una prova esaustiva degli ottoni con Nicola Fazzini sassofonista innovativo ma ben collaudato sul territorio del Jazz tradizionale, e François Houle clarinettista temprato dall’impatto sensational. Due musicisti tra i più creativi del panorama attuale, la cui competenza si rivela nell’aprirsi dell’uno verso l’altro, si evolve, trascende, turba ed emoziona, fino a farsi scoperta e invenzione nei brani successivi, come nel raffinato impasto ‘fonosimbolico’ di ‘Chorale’: come di gouache che si espande colorando lintera partitura narrativa. Non in ultimo di eccellente effetto il recupero sonoro in chiave striking, ovvero emozionale della chiusa finale.

Ma è l’avvio in particolare di ‘Calanque’ ad emozionare, la cui andatura liquida ‘di ruscello in paesaggio naturale’, cresce, tralascia, si trasforma, per diventare ‘altro’ e approdare 'altrove', in luoghi spesso sconosciuti e accidentati, attraverso mondi estremi dai quali è poi difficile fare ritorno. Sempre che lo si voglia, poiché dall’odierno approdo cui è giunto ITACA 4et con questo primo disco ‘ensamble’, risultato di una più aderente personalizzazione che lo distingue da altre formazioni, siamo già al raggiungimento del delinearsi del ‘classicismo minimalista’. Qui in particolar modo sottolineato dalla presenza acustica di Alessandro Fedrigo bassista, compositore e didatta, che meglio ascoltiamo in ‘Raquesh’ confermandosi tra i migliori specialisti del basso fretless (senza tasti), la cui libera improvvisazione determina il ‘senso’ di una ricerca che tuttavia si rivela ancora di tipo sperimentale.

Ciò che si deduce dalle azioni individuali presenti all’interno dell’album, nei brani ‘The third murder’ e ‘Nette’ a cui si deve, in ultima analisi, la dominante di assonanze vicine all’essenzialità spaziale, alla valorizzazione conforme all’habitat urbanistico, l’utilizzazione di risorse sonore interstiziali fin troppo abusate nelle pellicole cinematografiche e nei sequel TV, nei quali si determina una certa ‘impronta’ (luci ed ombre) che la trasparenza dell’atmosfera (l’effimero) concede alla musica. Mentre dovrebbe essere esattamente il contrario, in cui la musica acquisisce un valore intrinseco, come in molte colonne sonore, fruibile a sé stante, per un ascolto che susciti l’immaginale insito nello spettatore.

In questo caso che suggerisce una chiave di lettura al racconto sostanziale, preso appunto a-solo pur dentro il componimento Jazz.

L’odierno approdo di ITACA 4et, comprensibile di non rari verticalismi ascensionali che s’incastrano come soluzioni epicentriche nello spazio sonoro che si va delineando nell’odierno Jazz, per cui il ‘tempo sonoro’ è la cifra matematica di un ‘quantismo’ astratto che va assumendo diverse identità, e i cui confini si spostano verosimilmente tra separazione e transizione di ‘nuova creatività’, riconducibile in quanto ‘impronta’ originale, comprensibile nel formulare ulteriori e accessibili spazi sonori.

 

NOTE:

Nuovo CD: "Vortex" per Nusica.org, album debutto di ITACA 4et, una Una collaborazione tra quattro stimati artisti della scena internazionale dell'avant-jazz e della musica improvvisata: François Houle e Nick Fraser, insieme a Nicola Fazzini e Alessandro Fedrigo. Una band affiatata, imprevedibile e originale, un progetto da scoprire che è stato realizzato anche grazie alla collaborazione con l’Istituto di Cultura di Toronto e con il Council Of Arts of Canada.

 

Contatti: bianca.baumberger@nusica.org

 

ITACA 4et si avvale del connubio transatlantico tra Italia e Canada, da cui nasce il nome (ITA-CA). Il progetto artistico inizia nel 2016 grazie ad una residenza a Novara Jazz e a Sile Jazz, proseguita con due tour in Canada nel 2017 e nel 2019. Il quartetto si è esibito al Toronto Jazz Festival, all’Ottawa Jazz Festival al Vancouver Jazz Festival. Proprio a Vancouver, nel luglio del 2019, vede la luce l’album ‘Vortex’. Un sodalizio artistico che si concretizza ora in un album e in un primo tour italiano ed europeo nel 2020.

Ciascun componente della band ha firmato due delle otto composizioni presenti nell’album a testimonianza di un modus operandi democratico, che si rispecchia negli equilibri dell’ensemble anche dal punto di vista musicale, lì dove il suono collettivo e corale prevale su quello solistico. Una musica, dinamica, fortemente ritmica e ricca di possibilità improvvisative.

 

BIO:

François Houle, clarinettista affermato, uno dei musicisti più creativi del panorama attuale, in tutte le diverse sfere musicali che abbraccia. Ispirato dalle sue collaborazioni con i più importanti pioneri della musica mondiale, François ha sviluppato un linguaggio di improvvisazione davvero unico, virtuosistico e arricchito da estensioni soniche e tecniche. Ha lavorato con Dave Douglas, Mark Dresser, Joëlle Léandre, Benoît Delbecq, Evan Parker, Samuel Blaser, Gerry Hemingway, Marilyn Crispell, Myra Melford, René Lussier, Alecander Hawkins e molti altri ancora tra i maggiori musicisti del panorama Canadese. I suoi numerosi tour sono stati caratterizzati da apparizioni soliste presso i maggiori festivals del mondo. Un artista davvero produttivo che ha realizzato ben oltre trenta registrazioni discografiche come leader.

 

Nicola Fazzini è un sassofonista e compositore milanese di nascita ma veneziano di adozione con una riconosciuta esperienza musicale live in Italia e all’estero e più di trenta registrazioni discografiche alle spalle. Da anni si dedica a progetti musicali innovativi e di ricerca (XYQuartet, Hyper +, CREI, ITACA 4et), collaborando inoltre con l’Università degli Studi Ca’ Foscari per attività didattiche ed educative e con molte istituzioni venete per progetti speciali e direzioni artistiche (Jazz Area Metropolitana, Sile Jazz, Musicafoscari/S.Servolo Jazz Fest).

 

Alessandro Fedrigo è bassista, compositore e didatta. Tra i migliori specialisti del basso fretless (senza i tasti), nella sua carriera ha attraversato varie musiche e stili, dalla libera improvvisazione alla musica contemporanea, dal jazz classico all’elettronica. Una trentina di cd con vari ensemble e performance con i più diversi organici in tutta Europa ne fanno un artista esperto e apprezzato. Con Nicola Fazzini condivide l’attenzione alla sperimentazione (XYQuartet, Hyper+), la propensione alla didattica e la direzione artistica e organizzativa di nusica.org e dei diversi festival in Veneto (Jazz Area Metropolitana, Sile Jazz).

 

Nick Fraser (batteria)è da più di 20 anni una presenza affermata ed attiva della comunità di jazz ed improvvisazione di Toronto. Interpreta l’autentico ‘who’s who’ del jazz canadese e lo annoverano per performance di jazz ed improvvisazione con artisti di calibro internazionale quali Tony Malaby, Kris Davis, William Parker, Roscoe Mitchell, Marilyn Crispell e Anthony Braxton. Primo vincitore del premio JUNO, è stato inoltre premiato dalla compagnia Chalmers Arts Fellowship nel 2017. In aggiunta ai vari progetti di cui è responsabile per la realizzazione lo vediamo membro di Peripheral Vision, Eucalyptus, Titanium Riot, Ugly Beauties e Lina Allemano Fou.

 

http://www.nusica.org/web/

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- Società

Bla, bla, bla … ’Chi li ha visti?’

Bla, bla, bla … Chi li ha visti?

Dialogo nell’era del CoronaVirus19 mentre si è in fila per entrare al Supermercato.

 

Non sia mai che a qualcuno salti in mente di informarsi dove sono finiti i ‘migranti’ che sbarcano clandestini sulle nostre coste?

O i ‘clochards’ che nottetempo dormono avvolti nei cartoni raccolti nei cassonetti dell’immondizia? E neppure chiedere degli ‘zingari’ che a piccoli gruppi disturbano la visuale estetica delle citta?

E quante domande tutte in una sola volta!

Troppe è vero, fatto è che non se ne vedono più in giro, chissà che fine hanno fatto?

Perché lei è forse preoccupato?

Beh sì, la cosa un po’ mi preoccupa.

Può sempre chiamare “Chi lo ha visto?”

E perché no  il 118 nazionale visto che il CoronaVirus19 non fa distinzione di genere, né di colore di pelle e ormai neppure di età.

Va detto però che più di qualcuno attribuisce a questi soggetti la colpa della sua virulenta propagazione.

Sì, mi sembra di averlo sentito, ma fatto è che non se ne parla più, chissa come mai?

È che di sicuro ci si investirà la prossima campagna eletterale.

Pensa?

Di più, lo affermo con certezza, così passeremo tutti per essere razzisti.

Io non lo sono.

Apparentemente non lo è nessuno, vuole vedere chese chiedo altre persone che stanno qui in fila diranno tutte che non è vero. Stia a vedere che adesso chi vuole cacciarli dal nostro paese sono solo io.

Questo non lo so.

Stando a quel che si dice anche lei dirà che i migranti vengono a toglierci il ‘nostro’ lavoro e che violentano le ‘nostre’ donne; che i ‘clochards’ così detti, usando un francesismo per mascherare quelli che in gergo chiamiamo ‘barboni’, sporcano la ‘nostre’ città; che gli zingari vengono a rubare nelle ‘nostre' case, oppure non lo sa e me io lo sto inventando a proposito?

La storia ci insegna …

Ma lasci da parte la storia e guardiamo al presente, la domanda è che fine hanno fatto tutti quanti, adesso che hanno chiuso i parchi e non si può neppure sedersi sulle panchine, costoro dove andranno? Dopo averli sfrattatti da sotto le arcate delle piazze e dagli anfratti delle costuzioni civiche, dove li abbiamo messi? C’è forse stata una deportazione di massa? Che forse qualcuno ha chiamato il 118 per uno di loro che moriva di freddo o di fame lungo la strada?

La storia ci dice …

Dice che nel medioevo si alzavano i roghi nelle pubbliche piazze per bruciare i morti durante la peste nera. Adesso che non c’è posto nei cimiteri per nessuno di noi, pensa che dovremmo riaprire una pratica che avevamo chiusa nel lontano passato, è questo che mi sta dicendo?

Nel frattempo ci siamo evoluti, oppure no? Non ho detto nulla di simile, in quanto ad esserci evoluti beh, ho qualche riserva nel pronunciarmi.

Vuole dire che c’è una regressione in atto?

Beh, questa storia del CoronaVirus19 lo conferma.

In che senso mi scusi?

Nel senso che se la cosa fosse stata presa per tempo non avremmo una tale situazione.

Vuole forse dire che qualcuno avrebbe dovuto prevederla, cioè fare prevenzione. Ma se non arriviamo neppure a coprire i problemi sanitari che già conosciamo, secondo lei avremmo dovuto preoccuparci di un qualcosa di subdolo che sarebbe potuto capitare, di cui non si conosce tuttora l’esistenza?

Beh, sì!

Potrebbe suggerirmi come fare?

Ha pensato che potrebbero essere proprio i cadaveri dei migranti, dei clochards e degli zingari che infestano l’aria delle nostre città ad aver divulgato la pandemia del CoronaVirus19?

Perché, mi dica, che forse i loro cadaveri infestano più del mio e del suo una volta che saremo morti?

Non saprei, personalmente dedico molto più tempo di loro all’igiene della mia persona.

Una risposta apprezzabile, magari potrebbe suggerirmi quali prodotti usare, così ci ritroveremo entrambi in paradiso.

Comunque una riflessone sul perché non si vedono più in giro, mentre se ne parlava l’ho fatta.

Ha pensato che se tutta questa gente che esce dal Supermercato con i carrelli stracolmi è per dar da mangiare a qualche migrante e/o qualche clochards, che ha preso in casa, così per solidarietà.

Davvero encomiabile che lo abbia pensato, personalmente sono più propenso a credere che questo qualcuno lo abbia reclutato per poi farlo lavorare in nero presso la propria azienda, o come si dice qui al Nord in qualche ‘fabbrichetta’.

Nel frattempo la fila si è ingigantita a dismisura, sembra che nessuno qui abbia timore del CoronaVirus24.

Ma non è il CoronaVirus19?

Di questo passo, se aggiungiamo al novero dei potenziali ammalati anche il numero di quanti sono considerati ‘inesistenti’ per la società la cifra aumenta  a dismisura.

Oh guardi, è il nostro turno d’entrata.

Grazie io non entro, per oggi rinuncio, che so, magari digiuno.

Io ho trovato che andare qualche volta a pranzare alla Caritas è una fonte di risparmio.

Già, a togliere il pane di bocca a chi ne ha più bisogno.

 

Buona spesa!

 

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- Scienza e fede

Scienza e Conoscenza - Il manifesto per una nuova scienza.


In collaborazione con "Scienza e Conoscenza"
mer 04/03/2020 17:15

Il Manifesto per una NUOVA SCIENZA - Aderisci anche tu!

Una riflessione su Scienza, pseudoscienza e fondamentalismo scientista.
Articolo di Gioacchino Pagliaro


La libertà di parola è un diritto, uno dei diritti più preziosi. La libertà di parola è poter dire tutto ciò che può far bene all’uomo e alla vita.
La libertà di parola comporta il buon senso di ascoltare chi passa la vita a studiare, a sperimentare, a verificare la conoscenza. La libertà di parola implica anche il silenzio. Silenzio per tacere, per riflettere e per documentarsi. Al contrario ripetere quel che si sente in giro, quel che si legge qui e là in Internet, pensando di dire qualcosa di importante, è solo spreco della parola e danno per chi ascolta. In questo modo si alimenta solo la pessima informazione e una pericolosa confusione.

Spacciare per scientifiche cose che la scienza sta ancora studiando, fare collegamenti impropri e inadeguati, usare termini scientifici per darsi un tono senza conoscere bene il loro significato, non è scienza, non è divulgazione, è mistificazione e ciarlataneria o, come si suol dire, pseudoscienza.
Tutto ciò distorce la conoscenza e fa un danno alla scienza e alla comunità.
Tuttavia va precisato che la pseudo-scienza non è costituita solo dallo spacciare per scientifiche cose che non hanno basi scientifiche. La pseudoscienza è anche il rifiuto pregiudiziale e denigratorio verso ogni nuova forma di ricerca e di applicazione che possa alterare interessi consolidati di parte.
La scienza deve poter discutere liberamente l’esito dei suoi studi.

La scienza è il complesso organico delle conoscenze che si possiedono intorno a uno o più ordini di fenomeni naturali, ma è anche l’insieme delle conoscenze che permettono di strutturare nuove teorie.
La scienza è pertanto l’insieme delle discipline basate sull’osservazione, il calcolo, la verificabilità, che studiano l’universo, la terra e gli esseri viventi, per comprenderne il funzionamento e migliorare la loro vita.
La scienza utilizzando linguaggi formalizzati, descrive l’insieme delle conoscenze che consentono di comprendere la realtà. A partire da Galileo Galilei la scienza, intesa come acquisizione di conoscenze verificabili, è libera di discutere al suo interno gli esiti dei suoi studi, liberandoli da ogni principio di autorità, da ogni forma di autoritarismo.
La scienza opera per favorire l’evoluzione dell’uomo e perciò, per sua natura, è democratica, e per questo va tutelata. Nella scienza ci sono modelli dominanti e modelli marginali, e ognuno di questi è più o meno soggetto a continue pressioni.

Le piaghe della scienza.
La purezza incontaminata della scienza, resta purtroppo inviolata solo nei testi fondamentali dei suoi fondatori.
Alla luce delle dichiarazioni e delle denunce di autorevoli scienziati, non si può negare l’ingerenza nel mondo scientifico di interessi e poteri che nulla hanno a che fare con essa. I finanziamenti che pilotano i risultati, la manipolazione dei dati, le collusioni con i poteri forti di coloro che pensano solo al profitto e non a produrre benessere, sono le piaghe della scienza.
Ciò detto, è però molto limitativo ed erroneo confondere gli interessi di chi, dentro e fuori la scienza, opera per il proprio tornaconto, con il lavoro accurato e rigoroso della stragrande maggioranza degli scienziati. Da molti secoli la storia ci dimostra che la migliore delle istituzioni ha sempre in sé il germe che la può danneggiare.

Oltre alla pseudoscienza e agli interessi di potere esiste un’altra piaga: lo scientismo.
Lo scientismo, o per meglio dire, il fenomeno del fondamentalismo totalitario scientista a cui assistiamo oggi, è la visione dogmatica e innaturale della scienza che non ammette la discussione, l’intuizione creativa e la transitorietà della conoscenza.
Come ha mirabilmente spiegato T. Kuhn il cambio di paradigma implica necessariamente del tempo e delle precise fasi di reazione prima che il paradigma dominante lasci il posto a un nuovo paradigma (T. Kuhn 1977), ma un conto è la discussione scientifica serrata e rigorosa e un conto sono i furori e gli strali del dogmatismo, tipici dello scientismo fondamentalista.

Il fondamentalismo scientista occupa per fortuna un piccolo spazio nella comunità scientifica, che, al suo contrario, è invece protesa verso quella curiosità e creatività che accompagna lo scienziato nell’applicazione del metodo scientifico...

Essai da Scienza e Conoscenza - N.71 - "Genetica & Karma"

Gioacchino Pagliaro
Psicologo e Psicoterapeuta, per 17 anni professore a Contratto di Psicologia Clinica presso l’Università di Padova.È Direttore dell’U.O.C. di Psicologia Ospedaliera nel Dipartimento Oncologico dell’Ospedale Bellaria dell’AUSL di Bologna. Ha introdotto l’applicazione dei principi quantistici in Psicologia e nell’ambito dei processi.(seguici su facebook).

Scienza e Conoscenza
di Macro Edizioni. Tutti i diritti sono riservati P.I. 03 733 990 406.


LA COERENZA CUORE-CERVELLO: UNA DINAMICA QUANTISTICA.
Un recente articolo di Carmen Di Muro.


La ricerca ha ormai largamente mostrato il ruolo chiave del cuore quale centro dell’afflusso spirituale, capace di generare un campo elettromagnetico talmente ampio da mettere in coerenza il sistema psiche-soma:
cerchiamo di capire meglio come accade tutto questo.

La ricerca ha ormai largamente mostrato il ruolo chiave del cuore quale centro dell’afflusso spirituale, capace di generare un campo elettromagnetico talmente ampio da mettere in coerenza il sistema psiche-soma, armonizzando i ritmi biologici con il movimento della realtà in una danza perenne tra interno ed esterno che attira e genera a sé, per risonanza, altro potenziale. E le emozioni positive rappresentano la pietra angolare nella generazione di questo campo altamente organizzato che ci fa entrare in quella famosa condizione di “flusso di coerenza” con l’anima. Durante questo stato il sistema corporeo funziona con un alto grado di sincronizzazione ed efficienza, producendo modelli altamente strutturati di feedback elettrochimici ed elettromagnetici, tali da permettere al biocampo di riallineare l’insieme di frequenze che orbitano nel suo raggio d’azione.

La serenità, la fiducia, l’amore che possiamo mettere in ogni nostro piccolo atto di preghiera sono le più sottili e potenti possibilità che abbiamo di portare tutta l’energia di creazione della nostra coscienza nella materia. Il panorama interno muta e la nostra vibrazione si innalza verso frequenze più alte ed armoniche. Tutti gli atomi si eccitano e iniziano a irradiare un campo elettromagnetico con un potenziale trasformativo talmente grande da riuscire a destrutturare e influenzare positivamente i campi delle singole unità viventi. E questo accade soltanto quado i pensieri sono in massimo allineamento con gli stati affettivi. Infatti ogni pensiero in risonanza con le emozioni genera dei segnali di campo che oscillano all’unisono con ogni particella presente nell’universo, permettendo agli infiniti potenziali di collassare in esperienze reali. I pensieri diventano materia e la materia, in questo caso, corrisponde alla guarigione di chi ha creduto.

L’attenzione diviene fattore indispensabile nel processo di creazione, essa è frequenza informata che permette di indirizzare consapevolmente l’intenzione dall’interno all’esterno, ricongiungendoli in un unico afflato divino. Ed è proprio quando ci ricongiungiamo al Campo infinito di possibilità abbiamo accesso al massimo potere insito in noi e le cose iniziano ad accadere.

Carmen Di Muro.
Psicologa clinica, psicoterapeuta ad orientamento Cognitivo Post-Razionalista e ISTDP, quantum trainer e scrittrice, vive ed opera in Puglia.
Aperta alla più ampia visione integrata dell’essere umano nella sua inscindibile unità di psiche-soma, unisce la formazione accademica con i suoi interessi nel campo della biologia, delle neuroscienze, della medicina, della meccanica e fisica quantistica che le hanno consentito di sviluppare un personale metodo di lavoro interdisciplinare quantico-emozionale©.

Da sempre attratta dal mondo spirituale dell’uomo e dall’essenza profonda dell’esistenza, orienta i suoi studi e le sue indagini scientifiche verso un tema speciale: “La guarigione dell’anima”. È referente per la regione Puglia dell’EFP- Group di Milano e oltre a svolgere l’attività clinica, divulga il suo pensiero tenendo convegni e seminari in tutta Italia. Autrice del libro “Essere è Amore. Dal Pensiero alla Materia. Viaggio Scientifico nella Pura Essenza”, Gagliano Edizioni e “Anima Quantica. Nuovi orizzonti della psiche e della guarigione” Anima Edizioni, è membro del comitato scientifico e autore per la Rivista Nazionale “Scienza e Conoscenza” di Macro Edizioni e autore di articoli e video per AnimaTV.

Per informazioni visita il sito: www.carmendimuro.com
Per contatti: info@carmendimuro.com

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- Cinema

Al Berlinale Festival del Cinema con Cineuropa News

BERLINALE 2020 I Premi

There Is No Evil di Mohammad Rasoulof trionfa alla Berlinale
di Vladan Petkovic.

29/02/2020 - BERLINALE 2020: Gran Premio della Giuria a Never Rarely Sometimes Always, Hong Sangsoo miglior regista, Paula Beer ed Elio Germano migliori interpreti. Favolacce vince per la sceneggiatura.

Il miglior attore Elio Germano, l'attrice del film vincitore dell'Orso d'oro There Is No Evil Baran Rasoulof e la miglior attrice Paula Beer con i loro premi sul palco del Berlinale Palast.

There Is No Evil [+] del regista iraniano Mohammad Rasoulof ha trionfato alla 70ma Berlinale, aggiudicandosi l’Orso d’oro. Il regista non era presente alla cerimonia, né al festival. Bandito dal cinema nel suo paese dal 2017, Rasoulof ha realizzato il film vincitore dell'Orso d'oro mentre era in corso l’appello a questa sentenza. Successivamente è stato condannato a un anno di prigione, confermata tre settimane fa (leggi di più qui).
There Is No Evil è stato percepito, dopo la sua prima alla Berlinale, come la critica più diretta del regista al governo iraniano fino ad oggi, e in particolare alle sue politiche di pena di morte. “Quattro storie che mostrano la rete di un regime autoritario che si infiltra tra le persone comuni, attirandole verso la disumanità, un film che pone domande sulla nostra responsabilità e sulle scelte che facciamo tutti nella vita”, ha dichiarato Jeremy Irons, che quest'anno presiedeva la giuria della Berlinale.

Il premio è stato ritirato dalla figlia del regista, l'attrice Baran Rasoulof, che interpreta uno dei ruoli nel film, e dai produttori Farzan Pak e Kaveh Farnam. "Ho avuto un'esperienza unica e magnifica dopo la proiezione del film nel grande e bellissimo teatro [del Berlinale Palast], quando le persone hanno applaudito per Mr. Rasoulof", ha detto Farnam. "È stata una sensazione molto speciale e ho guardato il suo posto. Il suo posto era vuoto. Poi ho guardato gli altri posti e ho scoperto che lui era ovunque. C'erano volti molto intensi, che dicevano un grande ‘no’ alla censura".

“Mohammad è stato con noi ieri, e Mohammad è con noi anche adesso. E ho pensato a come tutto ciò stia accadendo a Berlino. Penso che questa storia ci ricordi qualcosa: non esiste un muro al mondo che possa fermare le nostre idee, le nostre convinzioni: il nostro amore si sta diffondendo ovunque".

Farnam si è rivolto quindi alla statuetta dell'Orso d'oro che teneva in mano, chiamandola il suo nuovo amico che avrebbe viaggiato molto presto nel suo bellissimo paese: “Abbraccio Mohammad, abbraccio il mio maestro, il mio insegnante, il mio amico. Mohammad vi mostrerà l'Iran. E scoprirete che gente gentile, pacifica e adorabile siamo. La mia gente sta solo dando un messaggio di pace e amore a tutto il genere umano. Amiamo tutti. Siamo persone adorabili, lo vedrete. Grazie!".

Prima dell'Orso d'oro, la giuria ha annunciato il secondo premio non ufficiale, il Gran Premio della Giuria, assegnato a Never Rarely Sometimes Always della regista statunitense Eliza Hittman.

L’Orso d’argento - Premio speciale 70ma Berlinale, recentemente istituito per sostituire il tradizionale Premio Alfred Bauer, che è stato ritirato a causa della recente rivelazione del passato nazista del fondatore della Berlinale, è andato a Effacer l'historique [+] di Benoît Delépine e Gustave Kervern.

Il regista coreano Hong Sangsoo ha ottenuto l'Orso d'argento come miglior regista per The Woman Who Ran, mentre la miglior attrice è Paula Beer per il suo ruolo in Undine [+] di Christian Petzold, ed Elio Germano si è aggiudicato il premio del miglior attore per Volevo nascondermi [+] di Giorgio Diritti.

Damiano e Fabio D'Innocenzo hanno ricevuto l’Orso d’argento alla miglior sceneggiatura per Favolacce [+], mentre l’Orso d'argento per il miglior contributo artistico è andato al DoP Jürgen Jürges per il suo lavoro in DAU. Natasha [+] di Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel.

Nella neonata sezione Encounters, The Works and Days (of Tayoko Shiojiri in the Shiotani Basin) [+] di C.W. Winter e Anders Edström ha vinto come miglior film, mentre Cristi Puiu è emerso come miglior regista per Malmkrog [+]. Sandra Wollner ha vinto il Premio Speciale della Giuria per The Trouble With Being Born [+], e una menzione speciale è andata a Isabella [+] di Matías Piñeiro.

Il premio per il miglior documentario, assegnato a uno dei 21 titoli di non-fiction mostrati nelle sezioni chiave della Berlinale, è stato conferito a Rithy Panh per Irradiés [+], presentato in concorso, mentre una menzione speciale è stata assegnata a Notes from the Underworld [+] di Tizza Covi e Rainer Frimmel, proiettato in Panorama.

Allo stesso modo, il Premio della miglior opera prima GWFF è stato assegnato a un film da una rosa di 21 titoli presentati nelle varie sezioni, e sia il vincitore, Los conductos [+] di Camilo Restrepo, sia il destinatario di una menzione speciale, Naked Animals [+] di Melanie Waelde, sono stati proiettati nella neonata Encounters, confermando che l’introduzione della sezione è stata una buona decisione da parte del nuovo management della Berlinale.

I premi in concorso:

Orso d'oro al miglior film
There Is No Evil [+] - Mohammad Rasoulof (Germania/Repubblica Ceca/Iran)

Orso d'argento - Gran premio della giuria
Never Rarely Sometimes Always - Eliza Hittman (Stati Uniti)

Orso d'argento al miglior regista
Hong Sangsoo - The Woman Who Ran (Corea del Sud)

Orso d'argento alla miglior attrice
Paula Beer - Undine [+] (Germania/Francia)

Orso d'argento al miglior attore
Elio Germano - Volevo nascondermi [+] (Italia)

Orso d'argento alla miglior sceneggiatura
Damiano e Fabio D'Innocenzo - Favolacce [+] (Italia/Svizzera)

Orso d'argento al miglior contributo artistico
Jürgen Jürges, direttore della fotografia - DAU. Natasha [+] (Germania/Ucraina/Regno Unito/Russia)

Orso d'argento - Premio speciale 70ma Berlinale
Effacer l'historique [+] - Benoît Delépine, Gustave Kervern (Francia/Belgio)
Encounters

Miglior film
The Works and Days (of Tayoko Shiojiri in the Shiotani Basin) [+] - CW Winter, Anders Edström (Stati Uniti/Svezia/Giappone/Hong Kong/Regno Unito)

Premio speciale della giuria
The Trouble With Being Born [+] - Sandra Wollner (Austria/Germania)

Miglior regista
Malmkrog [+] - Cristi Puiu (Romania/Serbia/Svizzera/Svezia/Bosnia-Erzegovina/Macedonia del Nod)

Menzione speciale
Isabella [+] - Matías Piñeiro (Argentina/Francia)

Premio al miglior documentario
Irradiés [+] - Rithy Panh (Francia/Cambogia)

Menzione speciale
Notes from the Underworld [+] - Tizza Covi, Rainer Frimmel (Austria)

Premio alla miglior opera prima GWFF
Los conductos [+] - Camilo Restrepo (Francia/Colombia/Brasile)

Menzione speciale
Naked Animals [+] - Melanie Waelde (Germania)

Berlinale Shorts
Orso d'oro al miglior cortometraggio
T - Keisha Rae Witherspoon (Stati Uniti)

Orso d'argento - Premio della giuria al cortometraggio
Filipiñana - Rafael Manuel (Filippine/Regno Unito)
Audi Short Film Award
Genius Loci - Adrien Mérigeau (Francia)

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- Musica

Tai Chi e ispirazione musicale.

Tai Chi e ispirazione musicale.

In anteprima su Musica Jazz il nuovo videoclip di Stefania Tallini “Nell’intramente”.
E’ uscito in anteprima su Musica Jazz il videoclip dell’affascinante brano "Nell'intramente" della pianista e compositrice Stefania Tallini, visibile al link https://www.musicajazz.it/stefania-tallini-nellintramente-video/.

Tratto dal nuovo e decimo album “Uneven” prodotto da AlfaMusic, “Nell’intramente” narra di una visione onirica e di una corrispondenza tra il pianismo di Stefania Tallini e la pratica del Taij, che porta avanti con grande passione da diversi anni. Occupa un grande ruolo, dunque, nel nuovo disco che rappresenta una svolta energetica importante, raccontando una personalità istintiva ed emozionale in grado di firmare pagine di raffinata maestria compositiva. “Il Taiji, la lentezza dei gesti, l’essere dentro al movimento...così come immergermi nella profondità della musica e l’essere dentro al suono".

Un brano originale, il 7° nella tracklist del disco in cui Stefania Tallini ha voluto accanto a sé due grandi musicisti, per formare quello che ha poi scoperto essere "il trio dei suoi sogni". Il batterista statunitense Gregory Hutchinson, definito da Jazz Magazine the drummer of his generation è difatti una delle figure più richieste nel panorama mondiale, che ha collaborato (e collabora) con nomi illustri come Dianne Reeves, Wynton Marsalis, John Scofield, Roy Hargrove, Diana Krall, Joshua Redman, Christian McBride e Maria Schneider. Tra i migliori contrabbassisti Europei, Matteo Bortone è un raffinato strumentista e compositore, vincitore del Top Jazz 2015, che vanta collaborazioni con Kurt Rosenwinkel, Ben Wendel, Tigran Hamasyan, Ralph Alessi e Roberto Gatto.

“L’imprevedibilità, la sorpresa di percorrere insieme nuove vie, l’esplorazione di diverse soluzioni possibili attraverso una libertà totale nel pensare la musica, il senso del gioco unitamente ad una fantasia viva, mi danno la misura di quanto questo sia il trio dei miei sogni, il cui profondo respiro artistico è ciò che libera la mia musica facendola volare in alto.”

Stella del jazz italiano, Stefania Tallini ha saputo esprimere il suo talento in diversi percorsi stilistici: dalla classica, al jazz, alla musica popolare brasiliana, anche attraverso importanti collaborazioni con grandi musicisti come Guinga, Bruno Tommaso, Enrico Pieranunzi, Andy Gravish, Gabriel Grossi, Javier Girotto, Gabriele Mirabassi, Corrado Giuffredi, Enrico Intra e la Civica Jazz Band.

Oltre ai progetti in “solo” e alla guida di ensemble su grandi palchi del panorama mondiale, Stefania Tallini ha portato le sue composizioni anche in ambito cinematografico e teatrale, dove ha collaborato con artisti del calibro di Mariangela Melato e Michele Placido.

LINK
www.stefaniatallini.com
Amazon http://bit.ly/UNEVENamazon
iTunes http://bit.ly/stefaniatalliniITUNES
Spotify http://bit.ly/stefaniatalliniSPOTIFY

CONTATTI
Info e management info@stefaniatallini.com
Ufficio Stampa: Fiorenza Gherardi De Candei tel. 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com

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- Filosofia

Cinesophia 2020 ad Ascoli Piceno

CINESOPHIA 2020 - Un'esperienza da non mancare.

CINESOPHIA LA POPSOPHIA DEL CINEMA AD ASCOLI PICENO.

La quarta edizione del festival si declina in due giornate (venerdì 6 e sabato 7 marzo 2020) e anima gli spazi del Teatro Ventidio Basso dal pomeriggio a notte inoltrata con proiezioni, conferenze interattive e spettacoli filosofico-musicali. “Cinesophia” è l’unico festival nazionale dedicato alla “Pop Filosofia del Cinema” che richiama filosofi, registi, musicisti e artisti in appuntamenti originali, prodotti in esclusiva da Popsophia, dedicati alla riflessione pop-filosofica sul cinema e sulle fiction contemporanee.Gli incontri hanno valore di aggiornamento per gli insegnanti (DDG 1561 16 settembre 2019) e di credito formativo per gli studenti.

Cinesophia, alla sua quarta edizione, è ormai evento di prestigio del nostro ricco panorama culturale. Un appuntamento caratterizzante di Ascoli, dove tutta la cittadinanza viene trasportata in una serie di riflessioni che portano pubblico e ospiti al centro di un ragionamento sulla filosofia del cinema, convinti che i suoi spunti possano giovare al già altissimo spirito della nostra comunità.Marco Fioravanti sindacoCinesophia torna a colorare di rosso il teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno per la quarta edizione, avendo al suo attivo il grande favore del pubblico degli anni precedenti. Si aprirà dunque anche nel 2020 quel magico spazio fatto di immagini cinematografiche, di musica dal vivo, di riflessioni filosofiche che per due giorni ci terrà inchiodati alle rosse poltrone. E il tema che quest’anno legherà con un fil rouge gli interventi, è come sempre molto centrato sulla contemporaneità, il tema dell’eroe nel modo in cui il poliedrico, novantenne Clint Eastwood lo interpreta e rappresenta nell’arco della sua lunghissima carriera. C’è ancora spazio per l’eroismo oggi, e di che eroismo si può parlare? Un affascinante interrogativo da indagare insieme al rutilante mondo di Cinesophia il 6 e 7 marzo.

Donatella Ferretti Assessore alla Cultura.

GLI EROI SONO STANCHI

"Giustizia e Giustizieri": questo il filo che unirà gli appuntamenti di venerdì 6 e sabato 7 marzo nella meravigliosa cornice del Teatro Ventidio Basso.
Gli eroi sono una cosa che creiamo noi, una cosa di cui abbiamo bisogno. È un modo per capire ciò che è quasi incomprensibile.

Flags of our Fathers di Clint Eastwood.
Nel 2020 si festeggiano i 90 anni di Clint Eastwood e Popsophia non vuole mancare l’occasione di celebrare questo regista-filosofo che ha saputo interpretare le istanze del mondo contemporaneo. Il tema della quarta edizione di Cinesophia, il festival di pop filosofia del cinema promosso dall’Amministrazione Comunale di Ascoli Piceno, si ispira alla sua poetica. “Gli eroi sono stanchi - Giustizia e Giustizieri”: questo il filo che unirà gli appuntamenti di venerdì 6 e sabato 7 marzo nella meravigliosa cornice del Teatro Ventidio Basso.

“I protagonisti degli ultimi film di Clint Eastwood sono eroi sconfitti - ha spiegato la direttrice artistica di Popsophia, Lucrezia Ercoli - malinconici, soli e senza speranza. Eroi disobbedienti che, giunti al crepuscolo della loro vita, rimettono in discussione le loro scelte. Eroi del dubbio. Capaci di riscrivere il nostro codice morale attraverso atti etici che sfuggono alle maglie delle norme sociali e riscattano la loro umanità, da ‘Gran Torino’ all’ultima opera ‘Richard Jewell’. L’occasione sarà utile per riflettere proprio sulla parabola dell’eroismo contemporaneo. Un tema che non ha mai abbandonato la cultura visiva cinematografica e televisiva dell’Occidente. Ma chi sono gli eroi di cui l’immaginario contemporaneo sembra avere ancora bisogno?”.

Due giornate e tantissimi ospiti con incontri, videoconferenze e proiezioni che animano gli spazi del Teatro Ventidio Basso dal pomeriggio a notte inoltrata. Con gran finale con uno spettacolo filosofico-musicale.

Venerdì 6 marzo il taglio del nastro è alle 16, con i saluti dell’autorità e Donatella Ferretti, assessore alla Cultura e docente di Filosofia, che tesserà il filo del discorso su Gli eroi sono stanchi - Filosofia di Clint Eastwood.
Sempre nel pomeriggio, Salvatore Patriarca parla dell’eroismo laico con Gran Torino e l’azione del sacrificio, e a seguire Cesare Catà con L’eroe di fronte all’addio ne I ponti di Madison County.

C’è il primo spazio di Philofiction, contenitore che ci mette in rapporto con i nuovi linguaggi delle serie tv contemporanee. Riccardo Dal Ferro analizza I giustizieri, e lo fa mettendo assieme l’ispettore Callaghan con i supereroi di Watchmen.
La Lectio Pop di Patrizia Giancotti su In principio era la dea madre - La storia dimenticata delle eroine conclude la prima giornata. Nel foyer un arrivederci con un calice della Cantina Borgo Paglianetto e con la degustazione dei prodotti Gela.
Sabato 7 marzo si alza il sipario sempre alle 16, con Umberto Curi che ragiona su La vecchiaia dell’Eroe, da J. Edgar a The Mule. Ilaria Gaspari parla invece di Brivido nella notte, prima opera di Eastwood dietro alla cinepresa.

Tommaso Ariemma cura la seconda Philofiction, su quella Legge del Far West, il mito fondativo americano, che raggiunge il moderno con la serie Westworld. Andrea Colamedici e Maura Gancitano, ideatori del progetto Tlon, chiudono il pomeriggio con un’apologia dei secondi, dal suggestivo titolo Nessuno vuole essere Robin.
Ci incontriamo di nuovo alle 21.15 con la Lectio Brevis di Massimo Arcangeli sulla libertà di pensiero incarnata da Clint Eastwood. E il Philoshow, lo spettacolo filosofico musicale ideato e diretto da Lucrezia Ercoli, e che mixa la filosofia con svariate arti visive e sonore. Simone Regazzoni trasporta così il pubblico con Sfortunato il paese che non ha Eroi - da Platone a Million Dollar Baby, accompagnato dalle esecuzioni dal vivo dell’ensemble musicale Factory, con la voce recitante di Rebecca Liberati.

Tutti gli ingressi sono gratuiti, la frequenza agli appuntamenti del Festival ha valore di aggiornamento per gli insegnanti e credito formativo per gli studenti.
I PHILOSHOW DI POPSOPHIA / ENSEMBLE MUSICALE FACTORY

I Philoshow sono spettacoli filosofico-musicali inediti prodotti da Popsophia, ideati e condotti da Lucrezia Ercoli. I brani musicali sono eseguiti dal vivo dalla band di Popsophia. L’Ensemble Musicale Factory è composta da dieci giovani professionisti: Andrea Angeloni trombone, Riccardo Catria tromba, Luca Cerigioni tastiera e voce, Luca Cingolani batteria, Ludovica Gasparri voce, Anna Greta Giannotti chitarra, Matteo Moretti basso e direzione musicale, Sally Moriconi voce, Gianluca Pierini tastiera e voce, Leonardo Rosselli sassofono, e con la voce recitante di Rebecca Liberati.

INTERVENGONO

MASSIMO ARCANGELI
Professore ordinario di Linguistica italiana presso l’Università di Cagliari. Numerose le collaborazioni con testate nazionali. Tra le sue ultime pubblicazioni “Sciacquati la bocca. Parole, gesti e segni dalla pancia degli italiani” (2018); “Una pernacchia vi seppellirà. Contro il politicamente corretto” (2019).

TOMMASO ARIEMMA
Docente di Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce. Tra le sue pubblicazioni più recenti: “Anatomia della bellezza. Cura di sé, arte, spettacolo da Platone al selfie” (2015); “Niente resterà intatto, introduzione non convenzionale alla filosofia” (2016); “La filosofia spiegata con le serie tv” (2018); “Filosofia degli anni '80” (2019); “L’occidente messo a nudo” (2020).

CESARE CATÀ
Filosofo e performer teatrale, si esibisce regolarmente con monologhi e lezioni-spettacolo sia in teatro che in luoghi inusuali come spiagge, pub, boschi, montagne. Dottore di ricerca in Filosofia, ha avuto esperienze accademiche all’University of Hawaii, al Cusanus Institut di Trier, all’EPHE di Parigi. Per Liberilibri ha curato “La sapienza segreta delle api” di Pamela L. Travers

UMBERTO CURI
Professore emerito di Storia della filosofia presso l’Università degli Studi di Padova. Si è occupato del rapporto tra filosofia e narrazione in riferimento al cinema. Al tema ha dedicato numerosi lavori da “Lo schermo del pensiero. Cinema e Filosofia” (2000) fino a “L’immagine-pensiero. Tra Fellini, Winder e Wenders: un viaggio filosofico” (2009).

RICCARDO DAL FERRO
Filosofo, scrittore ed esperto di comunicazione. Porta avanti il suo progetto di divulgazione culturale attraverso il suo canale Youtube “Rick DuFer” e il podcast “Daily cogito”. Performer ed autore teatrale, insegna scrittura creativa presso “Accademia Orwell”. Tra le sue ultime pubblicazioni “Elogio dell’idiozia” (2018); “Spinoza e popcorn” (2019).

LUCREZIA ERCOLI
Docente di Storia dello Spettacolo presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria e di Filosofia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Filosofia della crudeltà. Etica ed estetica di un enigma” (2015); “Filosofia dell’Umorismo” (2016); “Che la forza sia con te! Esercizi di popsophia dei mass media” (2017).

DONATELLA FERRETTI
Laureata in Filosofia e in Pedagogia, è docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Classico “F. Stabili” di Ascoli Piceno. Tiene un corso di Filosofia Morale presso l’Istituto di Scienze Religiose “Mater Gratiae” di Ascoli Piceno. Parallelamente alla responsabilità politica, è da sempre impegnata in attività culturali e sociali, promuovendo associazioni e realizzando convegni di grande interesse nazionale.

ILARIA GASPARI
Ha studiato filosofia alla Normale di Pisa e si è addottorata a Parigi. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, “Etica dell’acquario”, e nel 2018 ha pubblicato “Ragioni e sentimenti”, un conte philosophique sull’amore, del 2019 il suo “Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita”. Collabora con diversi giornali e tiene corsi di scrittura alla Scuola Holden.

PATRIZIA GIANCOTTI
Antropologa, fotografa, giornalista, autrice e conduttrice per Radio3. Ha effettuato ricerche nell’ambito delle tradizioni popolari italiane e in diversi paesi del mondo, sfociate in libri, in oltre cento reportage pubblicati e in più di cinquanta mostre. È docente di Antropologia culturale presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

SALVATORE PATRIARCA
Dottore di ricerca in filosofia all’Università “La Sapienza” e giornalista de “Il Sole 24 ore”. È autore di numerosi testi dedicati all’analisi filosofica di fenomeni televisivi e cinematografici: “Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi e la televisione” (2012); “Digitale quotidiano. Così si trasforma l’essere umano” (2018); “Pop Giornalismo” (2019).

SIMONE REGAZZONI
Allievo di Jacques Derrida, direttore della casa editrice “Il Melangolo” e docente presso la Scuola Holden. È autore di diversi saggi sul rapporto tra filosofia, cinema e fenomeni di massa. È autore di due romanzi “Abyss” (2014) e “Foresta di Tenebra” (2017). Del 2018 “Iperomanzo. Filosofia come narrazione complessa” e “Jacques Derrida. Il desiderio della scrittura”.

TLON
Andrea Colamedici e Maura Gancitano, filosofi e scrittori, sono gli ideatori del progetto Tlon (Scuola di Filosofia, Casa Editrice e Libreria Teatro). Insieme hanno scritto “Lezioni di Meraviglia” (2017); “La società della performance” (2018); e “Liberati della brava bambina” (2019). Hanno realizzato per Amazon Audible i podcast “Scuola di Filosofie".


#Popsophia20 #Cinesophia20


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- Cinema

Povero ’zio’ Oscar! - 2020

OSCAR 2020

Il trionfo di Parasite lascia poco spazio agli europei agli Oscar
Articolo di David González
10/02/2020 - '1917' spicca tra i pochi rappresentanti europei nel palmarès

Last night’s edition was a historic one for the Academy Awards. For the first time in the 92 years they have been organised, the Oscars awarded their Best Picture statuette to a film not in the English language, as the awards juggernaut 'Parasite', directed by South Korea’s Bong Joon-ho, received four of the six awards it had been vying for. The Oscars for Best Picture, Director, Original Screenplay and International Film put the cherry on top of a historic run that started last May with the win of the Palme d’Or at Cannes. This meant that Parasite’s main competitor, Sam Mendes’ UK-US co-production 1917, left the ceremony with three awards (Best Cinematography for Roger Deakins, Best Sound Mixing and Best Visual Effects).

Besides this, in the already very US-dominated acting categories, only one nominee who performed in a film with European backing managed to pocket an award: Renée Zellweger, for her role as Judy Garland in the biopic 'Judy', directed by Rupert Goold and co-produced by the UK. Despite the universal acclaim for Antonio Banderas for his work in Pedro Almodóvar’s 'Pain & Glory', the Spanish actor couldn’t quite pip Joaquin Phoenix to the post, and nor could the 'The Two Popes' duo, Jonathan Pryce and Anthony Hopkins.

Sadly, non-European titles outshone the films produced on this side of the Atlantic in the two categories boasting a higher number of the latter. The Oscar for Best International Film went to Bong Joon-ho’s 'Parasite', as widely expected, beating Pedro Almodóvar’s 'Pain & Glory', Ladj Ly’s 'Les Misérables', Jan Komasa’s 'Corpus Christi', and Tamara Kotevska and Ljubomir Stefanov’s 'Honeyland', while in the Best Documentary category, the award went to the US Netflix title American Factory, directed by Steven Bognar and Julia Reichert, which triumphed over Feras Fayyad’s 'The Cave', and Waad Al Khateab and Edward Watts’ 'For Sama', as well as Honeyland, also nominated in this category.

It's worth noting that in the video presenting the new Best International Film category, narrated by Penélope Cruz, who also introduced the award, several films from around the world were thrust into the spotlight, thus showing off the Hollywood Academy's willingness to embrace films from outside the English-speaking territories this year. In the words of Cruz, “Sometimes the answer could be hidden in a film that represents our global language of cinema.” When collecting the award, Bong Joon-ho declared, “I’m proud to be the first winner of this newly named category, and I applaud and support the direction that this change symbolises.” This is no doubt a thought that occurred to him again when he later went on to win the top gong of the evening.

In the Best Animated Film category, despite the promising prospects for 'Klaus', the Spanish-produced Netflix title directed by Sergio Pablos, after its multiple Annie wins (no fewer than seven, including Best Picture), the Academy voters opted for a more conventional winner, Pixar’s 'Toy Story 4', thus also leaving Jérémy Clapin’s Cannes Critics’ Week winner 'I Lost My Body' empty-handed.

As for the European talent that was nominated in other categories, only the music awards brought any good news. Elton John received the second Oscar for Best Original Song of his career, for “I’m Gonna Love Me Again“, the song he co-wrote and sang for his own biopic, Dexter Fletcher’s 'Rocketman', while Icelandic composer Hildur Guðnadóttir triumphed in the Best Original Score category with her work for Todd Phillips’ Joker, a US-only production. Other names such as Alexandre Desplat (who was nominated for his score for Greta Gerwig’s Little Women) and set decorator Nora Sopková (nominated for her work on the Czech Republic-based shoot for 'Taika Waititi’s Jojo Rabbit' - see the news) left the ceremony with nothing to show.

Lastly, there was only one European-produced short film that took home a statuette: the UK’s Learning to Skateboard in a Warzone (If You're a Girl), directed by Carol Dysinger, which triumphed in the Best Documentary (Short Subject) category.

Here is the list of winners:
Best Picture
Parasite - Bong Joon-ho (South Korea)
Best Director
Bong Joon Ho - Parasite

Best Actor
Joaquin Phoenix - Joker
Best Actress
Renee Zellweger - Judy (UK/USA)
Best Supporting Actor
Brad Pitt - Once Upon a Time in Hollywood
Best Supporting Actress
Laura Dern - Marriage Story
Best Adapted Screenplay
Taika Waititi - Jojo Rabbit (USA/New Zealand/Czech Republic)
Best Original Screenplay
Bong Joon Ho, Han Jin Won - Parasite
Best Animated Feature
Toy Story 4 – Josh Cooley
Best International Feature Film
Parasite – Bong Joon-ho
Best Documentary
American Factory - Steven Bognar, Julia Reichert
Best Cinematography
Roger Deakins - 1917 (UK/USA)
Best Costume Design
Jacqueline Durran - Little Women
Best Film Editing
Michael McCusker, Andrew Buckland - Ford v Ferrari
Best Makeup and Hairstyling
Kazu Hiro, Anne Morgan, Vivian Baker - Bombshell
Best Original Score
Hildur Guðnadóttir - Joker
Best Original Song
“I’m Gonna Love Me Again“ - Rocketman (UK/USA)
Best Production Design
Barbara Ling, Nancy Haigh - Once Upon a Time in Hollywood
Best Sound Editing
Donald Sylvester - Ford v Ferrari
Best Sound Mixing
Mark Taylor, Stuart Wilson - 1917
Best Visual Effects
Guillaume Rocheron, Greg Butler, Dominic Tuohy - 1917
Best Short Film (Live Action)
The Neighbors’ Window - Marshall Curry
Best Short Film (Animated)
Hair Love - Matthew A Cherry, Everett Downing Jr, Bruce W Smith
Best Documentary (Short Subject)
Learning to Skateboard in a Warzone (If You're a Girl) - Carol Dysinger (UK)




SUNDANCE 2020 Concorso World Cinema Dramatic

Massoud Bakhshi • Regista di Yalda, a Night for Forgiveness
"Il mondo è diviso tra una ricca minoranza che vuole tutto e una maggioranza che non ha nulla"

Articolo di Fabien Lemercier
10/02/2020 - Il regista iraniano Massoud Bakhshi parla di Yalda, a Night for Forgiveness, una produzione maggioritaria europea incoronata al Sundance e in viaggio verso la Berlinale.

Rivelatosi alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2012 con A Respectable Family [+], l'iraniano Massoud Bakhshi ha messo a segno un bel colpo al 36° Festival di Sundance dove Yalda, a Night for 'Forgiveness', suo secondo lungometraggio, si è aggiudicato il Gran Premio della giuria del concorso World Cinema Dramatic. Venduto da Pyramide e guidato in produzione dai francesi della JBA con Germania, Svizzera, Lussemburgo, Iran e Libano, il film sarà proiettato nella sezione Generation della 70ma Berlinale (dal 20 febbraio al 1° marzo).

Cineuropa: Da dove viene l'idea di Yalda, a Night for Forgiveness? Quanto è stato ispirato dalla realtà?
Massoud Bakhshi: L'idea originale del film è nata da film documentari sulle donne condannate per l'omicidio dei loro mariti. Vengo dal cinema documentario e questi film mi hanno davvero toccato. Il realismo sociale è molto presente nel cinema iraniano. Mentre scrivevo e riscrivevo la sceneggiatura, ho parlato con molti avvocati ed esperti e ho imparato molto sulla legge e sulla situazione di queste donne.

Perché il tema del perdono e della vendetta la interessava così tanto? Come ha voluto affrontarlo?
Questo è un tema abbastanza comune nella società iraniana. Gli omicidi e i delitti passionali avvengono soprattutto nelle classi sociali svantaggiate e spesso i condannati cercano di ottenere il perdono dalle famiglie delle vittime. Ma non possono permettersi il prezzo del sangue, ossia i soldi che la persona condannata deve pagare alla famiglia della vittima in caso di perdono. Di conseguenza, l'elite della società, le ONG, gli attivisti, nonché i giornalisti, le star del cinema e i campioni dello sport cercano questo denaro dai loro benefattori, al fine di promuovere la cultura del perdono. E anche per il sistema giudiziario è importante ridurre il tasso di esecuzioni.

La questione della differenza di classi sociali tra i due protagonisti emerge durante il film. Perché ha voluto esplorare anche questo tema?
Questo problema è molto importante e comune nell'attuale società iraniana, è anche un tema universale nel nostro mondo. Penso che il mondo sia diviso tra una ricca minoranza che vuole tutto e una maggioranza che non ha nulla, che è infuriata e che cerca giustizia e pari diritti. Viviamo in un mondo in cui un danese può viaggiare in oltre 100 paesi senza la necessità di un visto, mentre un afghano o un iracheno possono recarsi in soli tre o quattro paesi con il loro passaporto.

Come ha gestito il registro altamente emotivo del soggetto e il ritmo del film?
Ho lavorato alla sceneggiatura per più di quattro anni. E con le attrici, abbiamo provato molti avvenimenti del passato dei protagonisti, di backstory, in modo che incarnassero al meglio ogni personaggio.

Quali erano le sue intenzioni principali in termini di messa in scena e di lavoro sulla fotografia e sul suono?
Sapevo che era difficile realizzare un huis clos senza mantenere un'armonia di ritmo e di messa in scena. Nella sceneggiatura ho suddiviso le scene dello show e del backstage, e sapevo che dovevo girarle con due stili diversi. Lo show è troppo luminoso e colorato, il backstage è scuro con colori opachi e smorti; e abbiamo parlato con il direttore della fotografia per trovare le luci e i movimenti appropriati. Abbiamo anche girato il reportage televisivo prima delle riprese principali, è stata una preparazione efficace per l'attrice principale e la squadra.

Come è stato il processo di finanziamento del film?
Molto lungo e complicato. Dato il divieto del mio primo film nel mio paese, era impossibile trovare finanziamenti in Iran, e in Europa non è facile trovare finanziamenti per un film in lingua straniera con un cast e una squadra per lo più iraniani, destinato oltretutto a essere girato solo in Iran perché non esiste un accordo di coproduzione con questo paese. I miei produttori hanno impiegato due anni per trovare i partner e i finanziamenti necessari per questo film.

In collaborazione con CINEUROPA NEWS

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- Cinema

Al Cinema con Cineuropa


AL CINEMA CON CINEUROPA NEWS -

"Il ladro di giorni"
Articolo di Vittoria Scarpa.

21/10/2019 - Guido Lombardi porta al cinema una storia di doppia educazione sentimentale su sfondo criminale con protagonisti un padre e un figlio che si ritrovano dopo molti anniUna storia rimasta in cantiere per molto tempo (il soggetto vinse il Premio Solinas nel lontano 2007), diventata prima un romanzo e poi una sceneggiatura che nel corso degli anni si sono alimentati a vicenda, e che oggi, finalmente, approda sul grande schermo. Il ladro di giorni [+], terzo lungometraggio di Guido Lombardi (Là-bas - Educazione criminale [+]), presentato in selezione ufficiale alla 14ma Festa del Cinema di Roma, è un film che racchiude molte cose: un racconto di formazione, di vendetta e di sentimenti, un road movie con protagonisti un padre e suo figlio piccolo che si ritrovano dopo molti anni, un melodramma a sfondo criminale con qualche tocco di umorismo.

“Ti avevo detto di rimanere in macchina!”. Vincenzo (Riccardo Scamarcio) lo ripete a suo figlio undicenne Salvo (Augusto Zazzaro) ogni volta che compie un’azione criminale e non vuole che il bambino lo veda. Uscito di prigione dopo sette anni, è andato a riprendersi suo figlio in Trentino, dove è in custodia dalla zia, per passare qualche giorno con lui, ma anche per portare a termine una missione (il trasporto di un grosso quantitativo di droga, fatta passare per “farina”) da Nord a Sud, fino a Bari, in Puglia, la loro terra natale. Se incappi in un posto di blocco della polizia, “un bambino è meglio di una pistola”, è il credo di Vincenzo, convinto che la presenza di suo figlio lo terrà lontano dagli sbirri. All’inizio i due, che sono praticamente estranei, sono diffidenti l’uno dell’altro, in particolare il bambino, molto ben educato (è il primo della classe), è spaventato da questo padre “pirata” ricoperto di tatuaggi.

Ma come ogni road movie che si rispetti, la fine del viaggio li vedrà entrambi del tutto cambiati, e ritrovati. Niente di nuovo sotto il sole, è lecito pensare. A un certo punto, però, la storia vira in un’altra direzione, sulle tracce del presunto traditore, un professore d’arte (Carlo Cerciello) che sette anni prima spedì Vincenzo dritto in carcere, dopo essere stato prelevato da due carabinieri davanti agli occhi increduli di suo figlio, all’epoca di appena cinque anni, mentre erano sulla spiaggia intenti a farsi un tuffo in mare. Interessante l’elemento che questo filone della trama introduce: la banalità del crimine. Così come Vincenzo è un delinquente, sì, ma non un grande stratega, bensì un uomo sempliciotto, del Sud, capace anche di buoni sentimenti, vedremo come a volte dietro a un presunto tradimento possa esserci semplicemente un errore, una leggerezza che in pochi minuti può cambiare irrimediabilmente il corso degli eventi e di un’esistenza.

Il “ladro di giorni” è colui che ha privato Vincenzo di sette anni di vita con suo figlio, e suo figlio della presenza di un padre che gli infondesse il coraggio che gli manca. Leggiamo negli occhi di questo bambino la preoccupazione per la vita che conduce questo suo scellerato genitore, ma allo stesso tempo, per farsi amare e accettare da lui, lo segue nelle sue azioni fuorilegge e comincia a emularlo, nonostante il padre gli dica di girarsi dall’altra parte e di non guardare. Peccato che alcuni passaggi del film risultino poco chiari, che il personaggio di Scamarcio oscilli troppo tra cupezza e guasconeria rendendo difficile capire chi sia veramente, e che l’atto finale non trovi alcuna giustificazione, smorzando l’efficacia di tutto il resto.

Il ladro di giorni è una produzione Indigo Film, Bronx Film con Rai Cinema e Minerva Pictures Group. La distribuzione è affidata a Vision Distribution, le vendite internazionali a True Colours. Il romanzo “Il ladro di giorni” è stato pubblicato da Feltrinelli nell’aprile 2019.


Elio Germano è il protagonista di “Favolacce”
Articolo di Camillo De Marco.

04/02/2020 - L’attesa opera seconda dei fratelli D'Innocenzo sarà in concorso alla prossima Berlinale, dove esordì la loro opera prima La terra dell’abbastanza nel 2018.
Elio Germano è protagonista di Favolacce, attesa opera seconda dei fratelli Damiano e Fabio D'Innocenzo il cui brillante esordio, La terra dell'abbastanza, ricevette il battesimo internazionale al Festival di Berlino 2018, nella sezione Panorama. Sceneggiato dai due registi, il film è una favola nera, tra Italo Calvino e Gianni Rodari, che racconta senza filtri le dinamiche che legano i rapporti umani all'interno di una comunità di famiglie nella periferia Sud di Roma, dove cova un silenzioso e sottile sadismo dei padri, la passività delle madri, la rabbia dei ragazzi in un groviglio oscuro gravido di conseguenze drammatiche. Come spiegano gli autori, è “una storia corale nella comunità borghese della provincia laziale, lo sguardo è quello di un gruppo di undicenni. Il titolo è la crasi tra favole e parolacce, la chiave è quella del racconto grottesco".

Favolacce sarà in Concorso alla Berlinale 2020. Il neo-direttore Carlo Chatrian sottolinea che i gemelli D’Innocenzo sono i registi più giovani della competizione e definisce il film “un paesaggio con rovine. Non come i film del neorealismo e sulla seconda guerra mondiale, ma sulla distruzione della famiglia, tema universale e non solo legato alla società italiana". Ad affiancare Elio Germano ci sono Barbara Chichiarelli, Lino Musella, Gabriel Montesi, Max Malatesta, Tommaso Di Cola, Giulietta Rebeggiani, Justin Korovkin, Giulia Melillo, Laura Borgioli, Giulia Galiani, Barbara Ronchi, Ileana D'Ambra, Cristina Pellegrino, Aldo Ottobrino, Sara Bertelà. La fotografia del film è di Paolo Carnera, il montaggio di Esmeralda Calabria, la scenografia di Emita Frigato e Paola Peraro, i costumi di Massimo Cantini Parrini.

"Favolacce" è una produzione targata Italia-Svizzera di Pepito Produzioni con Rai Cinema, in coproduzione con Vision Distribution, in associazione con QMI, in coproduzione con Amka Films e RSI Radio Televisione Svizzera/SRG SSR e sarà distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 16 aprile 2020 da Vision Distribution. La tedesca The Match Factory cura le vendite internazionali.


"The Man Who Sold His Skin" un film di Kaouther Ben Hania in post-produzione
Articolo di Davide Abbatescianni.

04/02/2020 - Il nuovo dramma della regista tunisina avrà come protagonisti Yahya Mahayni, Monica Bellucci, Koen de Bouw, Dea Liane e Wim Delvoye Kaouther. Ben Hania’s new project is now in post-production, as confirmed by Nadim Cheikhrouha, producer at Tanit Films (Dear Son, Beauty and the Dogs). The Tunisian director is best known for her previous features Challat of Tunis (2013), selected as the opening movie of the 2014 programme of screenings organised by the ACID (Association for Independent Film Distribution) in Cannes, and Beauty and the Dogs, chosen for the Un Certain Regard section of the 2017 Cannes Film Festival. The latter was also the Tunisian entry for the Academy Award for Best Foreign-language Film.

The story of this new film, penned in its entirety by the director herself, tells of the vicissitudes of Sam Ali, a Syrian refugee. In order to be able to travel to Europe and get back the love of his life, the man agrees to have his back tattooed by one of the most sulphurous contemporary artists of the moment. He then becomes a highly rated work on the art market. The stellar main cast chosen by Ben Hania includes actors Yahya Mahayni, Monica Bellucci, Koen de Bouw, Dea Liane and Wim Delvoye.

"The Man Who Sold His Skin" is being produced by Tanit Films (France), Cinétéléfilms (Tunisia), Twenty Twenty Vision (Germany), Kwassa Films (Belgium) and Laika Film & Television (Sweden), and co-produced by Canada’s Guillaume Rambourg, Istanbul-based firm Metafora Production (Turkey), and Tunisian brothers Lassaad and Rafik Kilani. Paris-based outfit BAC Films is in charge of its world sales. The film will be ready for theatrical release in autumn 2020.




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- Cinema

’La dea Fortuna’ - un film di Ferzan ozpetek

“LA DEA FORTUNA” , un film di Ferzan Ozpetek.

 

Il nuovo atteso film di Ozpetek arriva dopo anni di vagabondaggio cinematografico del regista quando tutti (in verità nessuno) ha quasi dimenticato il fortunatissimo “Le fate ignoranti” come di un 'sequel’ dovuto di quello che a suo tempo abbiamo apprezzato e amato. In realtà oltre agli anni, non passati invano, nulla sembra cambiato: la stessa atmosfera, le stesse facce, finanche la terrazza sembra la stessa, nonché i colori e le luci della tavolozza pittorica del regista, come a voler descrivere una medesima umanità che si muove ‘dietro la benda che acceca la Dea Fortuna’ a sua volta accecata dai sentimenti e dalle emozioni di cui l’animo umano si nutre.

E se talvolta quest'ultime prendono il sopravvento e non si riesce a gestirle ciò che ne consegue è paragonabile a un momento di sospensione (molti nella chiave registica di Ozpetek), in cui il fiato si fa corto (tale che i suoi personaggi sembrano non respirare), la saliva amara (ancor più quella degli spettatori). È allora che ci si accorge d’essere nel film, protagonisti della ‘cieca magia’ che emana dalla Dea Fortuna, al tempo stesso succubi del segreto leggendario che dà senso all'intera storia:

 

Come fare a tenere per sempre con te qualcuno a cui vuoi molto bene? Devi guardarlo fisso, catturi la sua immagine, poi chiudi di scatto gli occhi, li tieni ben chiusi. E lui ti scende fino al cuore e da quel momento quella persona sarà per sempre con te.

 

Ma condannare oltremodo ciò che dalla ‘fortuna’ proviene del bene o del male sarebbe l’errore più grave, un errore saddirittura fatale, in quanto impedirebbe di comprendere la ragione della sopravvivenza di quell’umanità feconda (che tutti noi rappresentiamo) e che Ozpetek, con ostinata capacità immaginativa, trasferisce nel quotidiano filmico. Una quotidianità epidermica, quasi tattile, di una sensualità vigorosa eppure pacata, afferente agli sguardi e ai silenzi, che è in sé poetica e musicale, anche quando s’irrora di risentimento, di quella malinconia contenuta in procinto di trasformarsi in meschina angustia di rivalsa.

Come accade sul finire del film allorché il rapporto fra i protagonisti si deteriora a tal punto da pervenire a una situazione irrimediabile, giocata egregiamente dal regista sul filo sottile della riflessione occulta che la leggenda riferita alla Dea Fortuna emana: in cui i protagonisti e gli spettatori, una volta entrati nel suo 'cerchio magico’, si trovano a raggiungere altezze e/o bassezze (in questo caso altezze) di autocoscienza, a volte semplicistiche, a volte più elaborate, che impediscono la consapevolezza della propria finitudine.

 

La soluzione sarà un gesto folle. "Ma d’altronde l’amore è uno stato di piacevole follia", si legge nelle note di produzione.

 

Scheda del film:

Dalla ‘recensione’ di Vittoria Scarpa – Cineuropa News 19/12/2019 -

Ferzan Ozpetek torna a Roma con il suo nuovo film tenero e malinconico sulle evoluzioni dell’amore, incentrato su una coppia di uomini in crisi che non prova più passione, con gli effetti tragicomici che ne conseguono, e la possibilità di un nuovo inizio, inaspettato e a dir poco travolgente, sono al centro del toccante, divertente e personalissimo film di Ferzan Ozpetek, “La Dea Fortuna” , che segna il ritorno del regista italiano di origine turca a Roma (dopo aver girato a Napoli e a Istanbul le sue ultime pellicole), alle famiglie allargate, all’amore in tutte le sue forme e alle emozioni pure.

È fra le braccia di un’umanità variegata, autentica e gioiosa, un vero trionfo della diversità, che veniamo introdotti all’inizio del film, dopo un inquietante prologo tra i corridoi di una sontuosa dimora aristocratica, che rivedremo solo più tardi. Siamo su una bella terrazza romana dove si sta festeggiando un matrimonio gay, e tutti i personaggi principali sono lì, primi fra tutti i padroni di casa, Arturo e Alessandro (Stefano Accorsi, già in “Le fate ignoranti” e “Saturno contro”, e Edoardo Leo), una coppia di quasi cinquantenni visibilmente in crisi.

All’improvviso irrompe Annamaria (Jasmine Trinca), amica del cuore ed ex fidanzata di Alessandro, con valigie e due bambini al seguito. Lei non si tratterrà molto (la aspetta un ricovero in ospedale per accertamenti su sospetti mal di testa), invece i suoi figli Martina (Sara Ciocca) e Alessandro (Edoardo Brandi) sono lì per restare, che i due uomini lo vogliano o no. Seguiamo così il quotidiano di Arturo e Alessandro, catapultati nella dimensione di 'genitori' nel momento peggiore della loro relazione quindicennale.

Accorsi e Leo sono perfettamente intonati, il primo nei panni di un intellettuale e professore mancato, il secondo in quelli di un più concreto e risolto idraulico (che parla con i rubinetti), risucchiati nel vortice di recriminazioni e tradimenti.

 

Ozpetek racconta con sincerità e una buona dose di battute fulminanti (il regista firma la sceneggiatura con il produttore Gianni Romoli e Silvia Ranfagni) l’agonia di un amore profondo, pronto a riaccendersi con uno sguardo, una risata, con la complicità di due persone che condividono la vita da anni e ora confrontate con responsabilità più grandi di loro.

Trinca irradia amore e coraggio nelle vesti di Annamaria, una giovane donna libera e ribelle, di origini nobili e in rotta con la sua arcigna madre (incarnata con sorprendente incisività dalla scrittrice Barbara Alberti), che arriva come un terremoto a sconquassare l’equilibrio sclerotizzato della coppia protagonista. Nel cast anche l’immancabile Serra Yilmaz, la transgender Cristina Bugatty, Filippo Nigro e Pia Lanciotti, gli ultimi due nei panni di una coppia che invece si rinnamora ogni giorno, poiché lui, malato di Alzheimer, rivede ogni giorno la sua compagna come se fosse la prima volta.

 

CineCuriosità:

Il film è girato in gran parte a Roma ma anche in Sicilia e in particolare a Bagheria. Il titolo, ‘La dea Fortuna’, fa riferimento al Santuario della Fortuna Primigenia che si trova a Roma.

 

Gradevolissima la scena in cui tutti ballano sotto la pioggia sul tema di una canzone tradizionale turca, unica concessione che Ferzan Ozpetek fa alla sua terra.

 

La colonna sonora si avvale delle musiche originali di Pasquale Catalano (già collaboratore di Ozpetek in vari film, e di Sorrentino) e dell’inserimento di ben due cammei eseguiti dalla voce inconfondibile di Mina firmati con Ivano Fossati: “Luna diamante” e “Meraviglioso è tutto, qui” che chiude i titoli di coda.

 

Discutibile l’inserimento (seppure comprensibile nel messaggio) della pur bella canzone ‘Veinte Anos’ portata al successo dalla cantante cubana di son e habanera Omara Portuondo nel film “Buena Vista Social Club” di Wim Wenders, e qui cantata da due bambini in lingua spagnola.

 

Bravi tutti gli interpreti e nel loro genere le seconde figure, un film da vedere assolutamente.

 

 

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- Società

Un Brindisi dunque ... per questo Natale.

Un Brindisi dunque...per questo Natale.

Signore e Signori
Cavalieri e Nobil Dame
di brindar è questo il tempo
in questi giorni allegri festosi e belli
che ognor chiaman noi a far da testimoni.

Rallegriamoci or dunque
per quanto dell’Amor e/o dell'Amicizia
qui credito si dia
orsù leviamo in alto i calici ricolmi
e facciamo un brindisi in coro:

“Vino, vinèllo, quanto sei buono quanto sei bello!
A fidarsi di te resta l’inganno
che da solo vieppiù vo’ discorrendo.
Da una mano ti prendo dall’antra ti lascio
ogni volta due dita più in basso
e strizzo l’occhio all’oste lasso
che di quello buono porti ancor un fiasco!”. (*)

Pe questo amore che ci tiene al mondo
prima di cantar insieme uno ritornello
di questo bicchiere voglio vedere il fondo!

Brindiamo dunque: “Alla vita!”.

(*) (Tradizionale, elab. Giorgio Mancinelli)

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- Cinema

Cineuropa News - Al Cinema x il Cinema

ArteKino Festival: 10 film europei gratuiti in digitale
di Fabien Lemercier

29/11/2019 -
The ArteKino Festival, launched in 2016 by ARTE and Festival Scope with the support of Europe Créative in order to showcase and promote European arthouse cinema, is back for its 4th edition, set to take place from Sunday 1 to Tuesday 31 December.
50.000 posti disponibili per vedere dieci film d'autore in digitale, in dieci lingue e in 45 paesi europei, dal 1° dicembre - in inglese.

On the menu are ten features (helmed by five female and five male directors), including seven feature debuts, which will be available online, free of charge with a total of 50,000 tickets (5,000 per film) available, to be requested via artekinofestival.com and the ArteKino app. The line-up is accessible in 45 countries and in ten languages (French, German, English, Italian, Spanish, Portuguese, Romanian, Hungarian, Polish and Ukrainian).
Standing out from the programme is the explosive politico-familial thriller Sons of Denmark [+] by Ulaa Salim (discovered in competition at Rotterdam) and the disturbing psychological drama Stitches from Serbian director Miroslav Terzic (winner among other prizes of the Label Europa Cinemas award in the Panorama section of the Berlinale and of the Golden Antigone award for Best Film at the Cinemed festival in Montpellier).

Also in the programme are German production Thirty from Bulgarian director Simona Kostova (in competition earlier this year in the Bright Future section at Rotterdam), Psychobitch from Norwegian director Martin Lund, Ruth from Portuguese director Antonio Pinhão Botelho, Thirst from Bulgarian director Svetla Tsotsorkova (shown in the New Directors section at San Sebastian) and Messi and Maud from Dutch director Marleen Jonkman (which screened in Toronto).
The selection also features three documentaries, two of which were discovered in the Panorama section of the Berlinale (the extremely endearing Selfie from Italian director Agostino Ferrente, which is among the five films nominated for the European Film Award 2019 for Best Documentary, and Normal from fellow country woman Adele Tulli), as well as Sad Song from French director Louise Narboni (winner at FIDMarseille).

Two awards (adding up to a total of €30,000) will be handed out: Internet viewers will be able to vote for the Audience Award, and a brand new Youth Jury Prize will be bestowed by a panel of young Europeans aged between 18 and 25 years old.
Finally, it is worth noting that the ArteKino Foundation also supports feature projects, with the ArteKino International Prize, a development award handed out in a dozen of major film festivals. With ArteKino Selection, one film or one cycle is now programmed every month for free, on Arte’s three cinema internet offerings (artekinofestival.com, arte.tv and the YouTube channel Arte Cinéma).

The complete selection of ArteKino 2019 :
Sad Song – Louise Narboni (France)
Messi and Maud – Marleen Jonkman (Netherlands/Germany)
Normal - Adele Tulli (Italy)
Psychobitch – Martin Lund (Norway)
Ruth - Antonio Pinhão Botelho (Portugal)
Selfie – Agostino Ferrente (France/Italy)
Sons of Denmark – Ulaa Salim (Denmark)
Stitches – Miroslav Terzić (Serbia/Slovenia/Bosnia and Herzegovina)
Thirst – Svetla Tsotsorkova (Bulgaria)
Thirty – Simona Kostova (Germany)

Recensione: "Pastrone!"
di Vittoria Scarpa

04/12/2019 - Il doc di Lorenzo De Nicola porta a galla lati sorprendenti e poco noti del regista del kolossal del 1914 Cabiria, Giovanni Pastrone, un inventore e sperimentatore a tutto tondo.
Nella foto: Il regista Lorenzo De Nicola in "Pastrone!"

La figura di Giovanni Pastrone è di quelle che meritano di essere conosciute e studiate a tutto tondo, perché fonte di ispirazione e meraviglia. Uomo del ‘900, ricco di ingegno, avido di conoscenza, diplomatosi ragioniere ma studioso anche di musica, fisica e meccanica, nella Torino dei primi del ‘900, capitale italiana del neonato cinema, cavalcò tutte le innovazioni della sua epoca, spingendo sempre oltre i limiti delle sue sperimentazioni. Pastrone è noto soprattutto per essere stato il pioniere del cinema muto italiano – autore nel 1914 del primo vero kolossal della settima arte, Cabiria – e per aver reinventato lo spazio del cinema attraverso l’utilizzo delle carrellate e delle scenografie in tre dimensioni. Ma il documentario che gli dedica Lorenzo De Nicola, Pastrone! (proclamato miglior doc al 18° RIFF - Rome Independent Film Festival e film d’apertura, oggi, dell’Asti Film Festival) scava più a fondo nell’opera di questo genio eclettico e ne restituisce un’immagine ampia e sfaccettata.

Il punto di partenza di questa nuova indagine di De Nicola, studioso di Pastrone sin dal 2000 e oggi riconosciuto come suo biografo ufficiale, è stato il ritrovamento di un manoscritto autobiografico che ha schiuso al ricercatore un universo fino ad allora sconosciuto, fatto di riflessioni, ricordi – in breve, il Pastrone uomo – ma che è anche il diario inedito di un regista. “Un giocattolo scientifico”, questo era per Pastrone il cinema, un connubio di intrattenimento e arti applicate. Il cinema racchiudeva tutte le sue passioni del tempo, dal lato artistico e scientifico, e con Itala Film realizzò e produsse centinaia di film, molti di genere peplum, tra cui (oltre a Cabiria, straordinario successo internazionale) La caduta di Troia e la nota serie di film su Maciste. Ma ciò che di particolare emerge dal manoscritto, intitolato Virus et homo, è soprattutto l’altro oggetto di studio di Pastrone, al quale si dedicherà ossessivamente dai 36 anni in poi, dopo la morte di sua madre e dopo essersi ritirato dai set cinematografici: la medicina.

Pastrone rincorre così, nella seconda parte della sua vita, quello che lui stesso definisce “il più scandaloso dei sogni”: quello di curare tutte le malattie dell’uomo, compresi i tumori, con “fucilate elettriche” emesse da un apposito macchinario da lui inventato e costruito a seguito di approfondite ricerche da autodidatta su virus e batteri. Un macchinario che sognava di mettere a disposizione di tutti, ricchi e poveri, gratuitamente, e che di fatto testò su un gran numero di persone (nel doc parlano alcuni suoi pazienti dell’epoca, oggi molto anziani) ottenendo risultati incredibilmente positivi. Ma nonostante ciò, le scoperte di Pastrone non furono mai riconosciute dalla medicina ufficiale, e questa sua più grande utopia si trasformò anche nel suo più grande fallimento: Pastrone diede disposizione di distruggere la macchina dopo la sua morte (ma verso la fine del film c’è un colpo di scena).

Il doc di De Nicola ha il pregio di farci scoprire, attraverso una ricca quantità di materiali inediti e testimonianze, il genio multiforme di questo grande innovatore, la sua dedizione totale alla scienza e alla conoscenza, ma anche il suo tormento interiore, la sua piccola e salutare vena di follia. E il dialogo che si instaura idealmente tra le nuove generazioni (qui sono i giovani “amanuensi 2.0”, collaboratori del regista incaricati di trascrivere in digitale l’intero manoscritto) e questa mente creativa del ‘900, è uno degli aspetti più belli del film, di grande ispirazione. La voce di Pastrone è di Fabrizio Bentivoglio.

Pastrone! è prodotto da Clean Film e coprodotto da Lab 80 film, con il sostegno del Mibac e di Film Commission Torino Piemonte. La distribuzione è affidata a Lab 80 film.

FESTIVAL / PREMI Italia
Il RIFF compie 18 anni
di Vittoria Scarpa

14/11/2019 - Dal 15 al 22 novembre torna il Rome Independent Film Festival con 90 film, tra cui 15 anteprime mondiali e 10 europee, e focus sulla Spagna e l’Ucraina
Il documentario sulla diva de La Dolce Vita Anita Ekberg (Ciao Anita), quello su uno dei più grandi fotografi del XX secolo, Peter Lindbergh - Women’s Stories, e The World According to Amazon, sul fondatore della piattaforma di e-commerce globale Jeff Bezos, sono tra i titoli più attesi al RIFF - Rome Independent Film Festival, la cui 18ma edizione è in programma dal 15 al 22 novembre al Nuovo Cinema Aquila di Roma. In tutto 90 film, 15 anteprime mondiali, 10 anteprime europee e oltre 60 anteprime italiane, tra lungometraggi e documentari, saranno proposti al pubblico del festival internazionale di cinema indipendente diretto da Fabrizio Ferrari, che si aprirà quest’anno con il film premiato al Sundance Nancy di Christina Choe.

Tra i 9 titoli nel Concorso internazionale lungometraggi, By a Sharp Knife dello slovacco Teodor Kuhn che racconta la storia di un padre che ha perso il figlio, Negative Numbers del georgiano Uta Beria su un centro di detenzione giovanile post sovietico, e poi El despertar de las hormigas di Antonella Sudasassi e Temblores di Jayro Bustamante. I film italiani in anteprima sono Affittasi vita di Stefano Usardi, con Massimiliano Varrese nei panni di un artista in crisi d’ispirazione con dei vicini di casa molto stravaganti, e Tensione superficiale di Giovanni Aloi, su una giovane madre italiana che decide di prostituirsi part-time in Austria. Fuori concorso sarà proiettata la coproduzione italo-russa Di tutti i colori di Max Nadari, una commedia ambientata nel mondo della moda con Nino Frassica, Alessandro Borghi e Giancarlo Giannini.

Nella sezione Documentari italiani si segnalano Pastrone! di Lorenzo De Nicola sull’emblematico regista di cinema muto Giovanni Pastrone, Moby Dick o il Teatro dei Venti di Raffaele Manco sull’epica messa in scena del capolavoro di Herman Melville a Modena, e Un uomo deve essere forte, opera LGBTQ di Ilaria Ciavattini e Elsi Perino, che sullo sfondo della provincia del Nord Italia, porta sul grande schermo un toccante percorso di transizione. Tra i Documentari internazionali, la saga familiare Madame [+] dello svizzero Stéphane Riethauser, vincitore del Premio della Giuria al Festival del Documentario di Madrid, e il poetico Mr. Dimitris e Mrs. Dimitrula della greca Tzeli Hadjidimitriou, su cosa significhi essere diversi in una comunità tradizionale. Questi ultimi tre titoli faranno parte, insieme ad altri, del “Focus LGBT - Love & Pride Day - Il valore della diversità”.

Tra gli Eventi Speciali, “Il nuovo cinema ucraino: la realtà che ispira” con 6 film di giovani registi ucraini che rappresentano diversità nei temi e nei mezzi espressivi, tra cui la commedia drammatica The Strayed (Pryputni) di Arkadiy Nepytaliuk, Premio per la regia a Odessa, e il doc My Father Is My Mother’s Brother di Vadym Ilkov. Torna anche il “Focus Spagna - L’animazione Valenciana” in cui il Cortoons Gandia Festival e l'IVAC, Istituto Valenciano di Cultura, presentano una proiezione speciale dedicata ai cortometraggi di animazione realizzati nella Comunitá Valenciana.

CANNES 2019 Concorso
Recensione: "Il paradiso probabilmente"
di Kaleem Aftab

25/05/2019 - CANNES 2019: Elia Suleiman è in competizione con un ritratto divertente e assurdo su cosa significhi essere un palestinese Elia Suleiman è uno dei preferiti del Festival di Cannes. Il paradiso probabilmente è il suo quarto lungometraggio a partecipare al grande evento nel sud della Francia, e il suo terzo in concorso. Alcune cose non cambiano mai: Suleiman interpreta ancora una volta una versione silenziosa di se stesso sullo schermo (che per chiunque sappia quanto è loquace il regista, è ironico di per sé) e guarda al caos della vita che si aggira intorno a lui con divertimento. C'è un tocco di Jacques Tati nel tono e nello stile del suo lavoro, e questo nuovo sforzo, con la sua messa in scena in stile tableaux, ha un tocco di Roy Andersson.

It Must Be Heaven è il film più divertente e accessibile di Suleiman fino ad oggi, soprattutto perché il regista porta se stesso fuori dalla sua terra natale palestinese dopo il primo atto e sposta l'azione a Parigi e New York. Non affrontando direttamente il conflitto israelo-palestinese, Suleiman è in grado di fare i conti con una domanda altrettanto pertinente: cosa significa essere un palestinese? L'erba del vicino è sempre più verde?

Il film inizia nei dintorni familiari di Nazareth. Vestito con il suo cappello tipico e il cappotto a tre quarti, Suleiman beve vino e guarda qualcuno cogliere un limone dall'albero del suo vicino. Costui sostiene che va bene così perché di solito chiede il permesso e questo gli viene concesso: "Non sto rubando". Eppure ogni giorno l’uomo invade un po' di più, abbattendo gli alberi e coltivando la terra – tanto da farci chiedere se in realtà non sia il proprietario. La scena è divertente in sé, ma fa pensare anche agli insediamenti in un film pieno di doppi significati. Il regista è consapevole di essere stato già su questo territorio prima, quindi è una mossa intelligente da parte sua quella di affrontare direttamente questa minaccia, e fare quello che hanno fatto molti palestinesi: lasciare il paese. Come regista, ha il privilegio di poter andare e venire, e non dover andare in esilio.

Quando arriva a Parigi, si siede in un bar e osserva la belle vie. Passano graziose modelle, e sembra una versione da cartolina della città, realizzata da una casa di moda. Ma le cose cambiano mano a mano che Suleiman trascorre più tempo nella capitale francese. Le strade sono stranamente vuote al mattino, e quello che vede sono neri che puliscono dappertutto, la burocrazia della polizia e una presenza militare. Quando si incontra con un finanziatore francese per il suo film, gli viene detto: "Non è abbastanza palestinese".
Quindi se ne va a New York, dove non riesce nemmeno a entrare in una casa di produzione cinematografica per presentare il suo progetto. Ovunque guardi, vede gli americani trasportare armi; è una situazione tanto negativa quanto quella che ha lasciato in Palestina. Suleiman prende di mira Trump e l'imperialismo americano semplicemente ritraendo fucili estratti dalle macchine e appesi alle spalle. Le assurdità e le gag visive contenute in It Must Be Heaven sono alcuni degli sketch più divertenti che Suleiman abbia mai messo sullo schermo, rendendo questo film il suo film più gradevole e divertente fino ad oggi.

Il paradiso probabilmente è prodotto dalla francese Rectangle Productions e Nazira Films, la tedesca Pallas Film, la canadese Possibles Media e la turca ZeynoFilm, in associazione con il Doha Film Institute, Wild Bunch, Le Pacte, Schortcut Films, Maison 4:3, l’Arab Fund for Arts and Culture e KNM. Le vendite internazionali sono gestite da Wild Bunch.

CANNES 2019 Concorso
Elia Suleiman • Regista di Il paradiso probabilmente
"Il divario di classe ed economico, la migrazione, l'ansia e la violenza: di questo parla il film, fondamentalmente" di Kaleem Aftab

25/05/2019 - CANNES 2019: Abbiamo incontrato il regista palestinese Elia Suleiman per parlare del suo film in corsa per la Palma d'Oro, Il paradiso probabilmente.

Il paradiso probabilmente è il terzo lungometraggio di Elia Suleiman a partecipare in concorso al Festival di Cannes. Il film prosegue le avventure del personaggio muto che lo stesso Suleiman interpreta, e che va in giro osservando le molte assurdità del mondo che lo circonda. Nei suoi lavori precedenti, questo Jacques Tati palestinese era rimasto in patria, invece in It Must Be Heaven viaggia per Parigi e New York, solo per scoprire che altrove è tutto altrettanto strano e complesso quanto a casa.
Cineuropa: Il paradiso probabilmente la vede tentare di arrivare all'essenza di ciò che significa essere non solo palestinesi, ma outsider. Ha sentito che doveva allontanarsi dal conflitto arabo-israeliano in questo film?

Elia Suleiman: No, non l'ho sentito affatto. Penso che stavo solo cercando di dire che il conflitto ha esteso i suoi tentacoli a qualsiasi altra parte del mondo e che c'è una "palestinizzazione" globale dello stato delle cose. È in pratica ciò che questo film cerca di indicare, in realtà. Voglio dire, lo stato di eccezione, lo stato di polizia e la violenza sono ora come un terreno comune ovunque andiamo. La tensione e l'ansia sono praticamente ovunque, e non è più solo un conflitto locale.

Perché ha scelto Parigi e New York?
Per la ragione molto, molto semplice – quasi semplice quanto lo sono io – che non volevo fare il film in posti che non mi sono familiari. L'ho fatto una volta, ed è stato fantastico. New York e Parigi sono due luoghi in cui ho vissuto a lungo –14 anni lì e 14 anni là – quindi ho familiarità con l'umorismo e l'atmosfera di quei luoghi.

Le scene a Parigi spiccano perché ha girato con le strade completamente prive di persone e automobili. Perché ha fatto questa scelta?

Mostrare le ossa nude di Parigi è rivelare il sottoproletariato, rivelare gli oppressi, i senzatetto, i poveri, gli arabi inseguiti dalla polizia, lo stato di polizia. Volevo renderlo davvero evidente e non realistico, ovviamente, e per farlo, avevo bisogno di fare ciò che ho fatto. In qualche modo, speravo sempre che, se l'avessi fatto, la domanda da porre sullo stato delle cose sarebbe diventata più importante di quanto sarebbe stato se lo avessi fatto con l'animazione, o con un realismo di qualche tipo.

La prima volta che vediamo Parigi è in una versione da cartolina, e poi mostra gli addetti alle pulizie. Voleva dimostrare che esiste una diaspora collettiva di persone che vengono schiacciate dall'Europa e dall'America?

Non intendevo dirlo; è semplicemente evidente. Fondamentalmente, il divario di classe ed economico, la migrazione, l'ansia e la violenza – di questo parla il film. Parla di discriminazione. Parla di declassamento in base al colore. È ciò che questo film cerca di rivelare, e collega tutto questo al colonialismo.

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- Scienza

Dialoghi Matematici -Auditorium Parco della Musica di Roma


MATEMATICA
GENERE FEMMINILE, NUMERO SINGOLARE

Una nuova edizione dei Dialoghi matematici, in collaborazione con la Fondazione Musica per Roma, per ripercorrere le storie individuali di alcune donne, importanti figure della ricerca, pioniere di una disciplina che per ragioni storico culturali conta una tradizione prevalentemente al maschile. Prevalente ma non esclusiva.


ANTEPRIMA
domenica 8 dicembre, ore 11
Roma, Auditorium Parco della Musica, Viale Pietro de Coubertin

ILDEGARDA DI BINGEN
Quando la matematica si faceva in musica

con Silvia Colasanti e Piergiorgio Odifreddi
e con la partecipazione di alcuni elementi del Coro Musica Reservata

Introduce e modera Pino Donghi



Programma 2020:

domenica 19 gennaio 2020, ore 11
SOPHIE GERMAIN e SONJA KOVALEVSKAJA
Storie avventurose di equazioni, teoremi, di vocazioni letterarie e di donne che devono fingersi uomo
con Silvia Benvenuti e Umberto Bottazzini

domenica 9 febbraio 2020, ore 11
EMMA CASTELNUOVO
La rivoluzione nell'insegnamento
con Marco Andreatta e Paola Gario

domenica 23 febbraio 2020, ore 11
CATHY O'NEIL
L'arma di distruzione matematica
con Chiara Valerio e Paolo Zellini

domenica 15 marzo 2020, ore 11
MARYAM MIRZAKHANI
Prima donna, prima iraniana... le geodetiche della Medaglia Fields
con Alessio Figalli, Roberto Natalini e Corinna Ulcigrai

domenica 5 aprile 2020, ore 11
EMMY NOETHER
La teoria degli anelli e la matematica tra Parmenide e Eraclito
con Vincenzo Barone e Elena Castellani

domenica 10 maggio 2020, ore 18
IPAZIA
Verità e leggende di un'egiziana di genio
con Piergiorgio Odifreddi e Silvia Ronchey


Tutti gli incontri sono introdotti e moderati da Pino Donghi


Infoline
06 802412281

www.mulino.it
www.auditorium.com


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- Politica

Bla, bla, bla … “In vino veritas”.


Bla, bla, bla … “In vino veritas”.
Dagli scranni ‘vuoti’ del Parlamento.

«Siamo rimasti in tre, tre Somari e tre Briganti, solo tre!», cantava giocoso Modugno profetizzando quanto ben presto sarebbe occorso nell’aula del nostro Parlamento. Di fatto c’è che prima di quelli attuali erano già in Tre a cantarla (anzi due se la cantavano e uno girava col piattino in mano); adesso in vero sono sempre Tre e non si sa bene quale di loro sta lì a reclamare un obolo che ‘noi italiani’, ridotti per lo più a un silenzio di convenienza, versiamo nel fatidico piattino quasi certi che l’elemosina la stiano facendo loro a noi.
Comunque sono e restano (?) in Tre a stendere la mano, per lo più passando il tempo a litigare per, non si sa bene quale ragione li spinga se non quella di restare al potere, (leggi col culo attaccato allo scranno), passando il tempo un giorno a litigare, un altro giorno a smentire ciò che hanno affermato il giorno prima; un altro giorno si insultano per poi acquietarsi seduti alla stessa mensa e/o davanti allo stesso bicchiere di vino, litigando di chi berrà la metà piena e chi deve accontentarsi della metà vuota.

E mentre in Due fanno un po’ come i compari della tradizione poplare che si accompagnano l’un l’altro senza riuscire a trovare la strada di casa; l’altro sembra destinato a fare da Terzo ‘incomodo’. Quale dei Tre? – vi starete chiedendo. Ma davvero ve lo chiedete, non è forse lampante chi? C’è davvero bisogno che io vi indichi quale dei Tre? Semplice (e lampante): facendo il gioco delle Tre carte “uno vince, l’altro perde (oggi); quello che ha vinto ieri perde (domani), in modo alternato, mentre l'ultimo dei Tre fa 'il palo' ”, gridando ad ogni stupida 'vittoria', e/o a rigirandosi le colpe (perché di questo si tratta), che finiscono per essere in addebito al terzo di loro (l’incomodo), il quale, guarda caso, quel giorno era assente (ma c’era), e se c’era non ha visto, né sentito, né detto niente.
I Tre si fingono d’accordo (e non lo sono), il resto del paese (tutti noi che sosteniamo una volta l’uno (a destra), e l’altro (a sinistra), con il terzo che fà il 'birillo' al centro, mentre sta a guardare senza mai prendere posizione; piuttosto barcamenandosi sull’entrata del Parlamento: “ma prego, passi prima lei”, “ma no passi lei”, “no, spetta a lei!”, “nient’affatto, ieri sono entrato io per primo, quindi?”. Quasi che chi ‘entra per primo' e si siede sullo scranno temi di trovarvi una 'banana pronta all'uso'. “Beh, facciamo così, per oggi entra l’altro" (il terzo incomodo), che, guarda caso, non sa cosa rispondere all’interrogazione parlamentare, né a quale dei due attribuire le responsabilità che necessariamente finiscono col dire: “Sicuramente è colpa di quelli che c’erano prima, che hanno lasciato il buco!” – esclama. Quale 'buco'? Ma quello lasciato dalla banana, no?

Comunque tutto sà di ‘farsa’ alla Achille Campanile, per intenderci: “chi io?”, “no, lei”, “ma no, la prego”, “me la dia”, “no grazie, se la tenga!”. Ma intanto la banana la rifilano al popolino che ‘speriamo’ vad(i)a a votare, cioè ad eleggerli per tenerli seduti sugli scranni di quell’osteria che si vuole chiamare Parlamento. Dove i Tre, assetati di potere, lasciano che il paese vad(i)a in rovina, per poi infilarsi nell’urna ‘segreta’ delle decisioni e pisciandoci dentro. Perché da tanto ubriachi che sono (leggi: impreparati, incapaci, venditori di fumo ecc.) e sofferenti di prostatite acuta da qualche parte devono farla. E di fatto la fanno, come si suol dire: ‘fuori dal bidone’; tanto da causare l’acqua alta a Venezia, per non (voler) parlare di Matera (come mai?); tuttavia non sufficiente a spegnere gli alti forni della siderurgia a Taranto, mentre il ‘buco’ della TAV è lì che li aspetta per essere riempito della loro merda. Che ve ne pare? Siamo in buone mani, oppure?
Tant’è che l’esperienza politica di molti (che pure sempre lì siedono in Parlamento), è lasciata al condizionamento dei pochi (avvezzi all'arroganza) che vi prendono posto, la cui incompetenza sta portando il nostro paese allo 'sfascio' definitivo. E mentre i Tre escono a braccetto dall’osteria (Parlamento), li ritroviamo al Bar di fronte (aperto fino a tarda notte) che si accordano su cosa è ‘prioritario’: se andare a dormine accompagnandosi l’un l’altro verso casa, o a trovare la ‘zoccola’ (in romanesco) di turno che calmi le loro appassionate (?) arringhe dell’indomani.

Ma come si sà le ‘arringhe’ servono a schiarisi la voce, seppure ci sia più bisogno di schiarirsi le idee, poche e confuse, di come risolvere i problemi del paese: “no, scusa, di quali problemi stiamo parlando?”, “perché ci sono problemi?”, “mah, non mi pare”, “eh, lo dicevo io che non c'erano problemi”– aggiunge il terzo, contestando che “personalmente (io) non c’ero” – aggiunge il furbetto del trio; “di solito i problemi sono di chi se li crea” – aggiunge il Terzo (l’incomodo). E a ragione, perche stando ai detti popolari (romaneschi come la fava) tra gli ubriachi che “in vino veritas” vale quanto segue: “uno + uno non può far tre”, che “i bicchieri (bevuti) non possono essere dispari” e che “fra i due il terzo lo prende nel c…”, - e magari gode, aggiungo. Ma su questa possibilità c’è da fare un pensierino piccolo, piccolo …
Sempre dipende da quanto ce l’ha grosso il contendente!
Fatto è che dagli scranni ‘vuoti’ del nostro Parlamento, non dobbiamo aspettarci nient'altro che ulteriori guai in fatto di fisco sempre più agguerrito, di pensioni aggredite e logorate, di sanità malsana e malfunzionante, di lotta alla criminalità che avanza, dell’ingiustizia della giustizia, della disfunsione degli apparati dello stato, dei disservizi dei servizi pubblici ecc. ecc. La lista si fa ogni giorno più lunga, ci vogliono delle idee nuove, dei suggerimenti efficaci, di far meno chiacchiere e più fatti, di rivolgersi un po’ meno ai ‘santissimi’ che operano al di fuori delle leggi e più ai detentori dell’economia nazionale, (leggi gli avidi imprenditori ) di farsi partecipi dello stato delle cose e avviare una ‘più sana’ levata di scudi' verso questo nostro (e loro) paese, ridotto ormai a un colabrodo che fa acqua da tutte le parti.

"Scusate ma la cultura, per caso qualcuno di voi due l'ha vista?" - chiede il 'popolino' che passava per caso davanti al Bar delle chiacchiere. "Cos'è?" - chiede uno dei Tre, lanciando un'occhiataccia agli altri due. Al che risponde il Terzo (l'incomodo): "Sì, mi è sembrato che fosse diretta giù di là!". "Scusi da che parte ha detto?", "No, io non l'ho detto!" - aggiunge il secondo, mentre il furbetto dei tre, risponde deciso: "Le scuole riaprono sicuramente prima dell'inverno, forse è ancora in tempo per imparare qualcosa, che le leggi qui le facciamo noi!".
A questo proposito, manca poco all’inizio dell’inverno, raccomando di stare attenti ai consumi, alle stangate sugli affitti, alle bollette dell’elettricità e del gas, alla benzina per le auto, ai ticket sanitari, alla ... "Eh, ma basta!" - dice l'uno, "Per oggi finiamola quì", aggiunge l'altro. "Beh, si è fatto tardi, ci vediamo domani, fatemi sapere alla fine che cazzo avete deciso! Tanto a me poco mi cambia:"- aggiunge il Terzo, (l'incomodo). mentre i Due stando all’erta, hanno già attivato i loro scherani per colpire duro, soprattutto perché a loro i contributi 'extra' non bastano mai, mentre noi possiamo sempre, come si dice: “tirare le cinghia”. E già qualcuno del 'popolino' ha sostituito alla 'fatidica 'cinghia' con le cuoia'.

Dunque, a risentirci a presto, nel frattempo mi aspetto una rivolta popolare che li mandi tutti quanti a casa, solo perché i manicomi da tempo sono chiusi, i centri di recupero per gli alcolizzati dal potere non sono mai stati aperti. Ciò, sempre nella speranza che qualcuno si occupi seriamente di tutti noi. Comunque statene certi, se le cose non cambiano in meglio, sarò ancora qui a monitorare la situazione: Come disse un carissimo amico da sopra il muro ...

“si può sempre sperare nel diluvio”.

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- Musica

A Ferrara con la Tower Jazz Composers Orchestra


A FERRARA CON LA TOWER JAZZ COMPOSERS ORCHESTRA

TJCO ovvero “Tower Jazz Composers Orchestra”, omonimo album d’esordio dell’apprezzata resident band del Jazz Club Ferrara da il via il Tour di presentazione. L’album prodotto da Over Studio Records e distribuito da Jazzos.com - Goodfellas ed è stato realizzato grazie alla collaborazione tra Jazz Club Ferrara e Bologna Jazz Festival, con il contributo di Regione Emilia-Romagna e Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna.

Il Jazz Club Ferrara e Over Studio Recording sono orgogliosi di annunciare l’uscita di Tower Jazz Composers Orchestra, omonimo album d’esordio dell’apprezzata resident band del Torrione. Il progetto nuovo di zecca sarà presentato al pubblico lunedì 11 novembre in occasione della consueta residenza mensile dell’ampio organico. Scelti da un book di oltre sessanta arrangiamenti originali, i quattordici brani incisi offrono una visione ad ampio raggio sulle diverse sfaccettature compositive e performative dell’ensemble, restituendone un’immagine completa.
L’esperienza condotta al Jazz Club Ferrara da tre anni a questa parte, unita ai diversi concerti fuori dalle mura del Torrione, si è concretizzata in questo primo album prodotto dalla neonata Over Studio Records, etichetta emanazione dell’omonimo studio discografico che si è occupato della registrazione e produzione del disco, registrato a fine settembre al Teatro De Micheli di Copparo (FE) e distribuito da Jazzos.com - Goodfellas. La realizzazione è stata possibile grazie alla collaborazione del Jazz Club Ferrara con Bologna Jazz Festival e al sostegno di Regione Emilia Romagna e la Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna.

La TJCO intraprenderà altresì un tour italiano ed europeo di presentazione dell’album (ancora in fase di definizione). Oltre al Jazz Club Ferrara (13 dicembre 2019 e 24 gennaio 2020), l’ensemble farà tappa al Musicus Concertus di Firenze nell’ambito della rassegna ‘A Jazz Supreme’ (29/11), all’Ancona Jazz Festival (25/02) e al Teatro Ristori di Verona (30/04 in occasione della Giornata internazionale del jazz Unesco).
Già tra i dieci migliori gruppi dell’anno al Top Jazz 2018 di Musica Jazz, la Tower Jazz Composers Orchestra ha preso forma nel 2016 come naturale evoluzione di due progetti didattici (The Unreal Book e The Tower Jazz Workshop Orchestra) organizzati al Jazz Club Ferrara negli anni scorsi.
Affidati alla direzione di Piero Bittolo Bon e Alfonso Santimone, gli oltre venti elementi che la costituiscono mettono in gioco collettivamente le proprie idee musicali con creatività e sorprendente empatia, eseguendo partiture pensate per l’orchestra stessa e rivisitazioni di brani provenienti da varie tradizioni.

È così possibile definire la TJCO come un’esperienza orizzontale a dimensione variabile e con un regime partecipativo. Ogni componente più o meno stabile dell’organico, in veste di compositore e improvvisatore, contribuisce alla ricerca a tutto campo che è propria dell’attitudine artistica di questa formazione.
In questi anni l’orchestra ha costruito un repertorio piuttosto vasto e variegato, dove le voci dei vari compositori si confrontano tra loro nella ricerca di un’identità riconoscibile e di un percorso teso a sconfinare oltre, pur attraversandolo in lungo e in largo, l’idioma classico della big-band jazzistica.
Al di fuori del Torrione San Giovanni, in cui si esibisce mensilmente nell’ambito delle stagioni di “Ferrara In jazz”, la TJCO ha calcato i palcoscenici di prestigiosi festival quali Bologna Jazz Festival (a fianco di David Murray), Correggio Jazz nell’ambito di Crossroads jazz e altro in Emilia-Romagna ed Euphonie festival di suoni in natura, nella suggestiva cornice dei Trepponti di Comacchio.

Tower Jazz Composers Orchestra
Over Studio Records – 001
overstudiorecording.bandcamp.com/releases
www.overstudio.it
www.jazzos.com

Line up:
Alfonso Santimone – direttore, direzione musicale e live electronics
Pietro Bittolo Bon – direzione musicale, sax alto, clarinetto basso, flauto basso
Marta Raviglia – voce

Sandro Tognazzo – flauto e flauto alto
Gianluca Fortini – clarinetto e clarinetto basso
Filippo Orefice – sax tenore, clarinetto, flauto
Tobia Bondesan – sax tenore e soprano
Giulia Barba – sax alto e baritono, clarinetto basso
Mirko Cisilino – tromba, corno francese
Gabriele Cancelli – tromba e cornetta
Paolo Malacarne – tromba e flicorno
Andrea Del Vescovo – tromba e flicorno
Federico Pierantoni – trombone
Lorenzo Manfredini – trombone
Max Ravanello – trombone
Fabio De Cataldo – trombone basso
Glauco Benedetti – tuba

Luca Chiari – chitarra elettrica ed acustica
Federico Rubin – pianoforte
Stefano Dallaporta – contrabbasso e basso elettrico
Simone Sferruzza – batteria (3, 4, 6, 7, 9, 10, 11, 12)
Andrea Grillini – batteria
 (1, 2, 5, 8, 11, 13, 14)
William Simone – percussioni

Tracklist:
01. Okapi, Pt. I (Piero Bittolo Bon) - 01:03
02. Lucid Dream (Stefano Dallaporta) – 07:35
03. High Tension Store (Alfonso Santimone) - 08:01
04. Trova L'Intruso, Pt. I (Giulia Barba) - 02:06
05. Tammorra (Lorenzo Manfredini) – 07:03
06. Provvisorio (Filippo Vignato) - 06:03
07. Yellow Trip (Simone Sferruzza) - 05:42
08. B - Brisbane (Piero Bittolo Bon) – 05.44
09. Trova L'Intruso, Pt. II (Giulia Barba) 0.30
10. Transitions (Filippo Orefice) – 05.48
11. 81 (Alfonso Santimone) – 06:38
12. Tower War (Federico Pierantoni) – 04:38
13. Ecce Combo (Alfonso Santimone) 07:10
14. Iuvenes Doom Sumus / Okapi, Pt. II (Piero Bittolo Bon) – 09.24

Totale 1:17:33

B-Brisbane – testo di Piero Bittolo Bon
Provvisorio – testo di Filippo Vignato
Lucid Dream – testo liberamente ispirato da “Psicomagia” di Alejandro Jodorowsky
High Tension Store – testo liberamente ispirato da “Silence” di Antonin Artaud

Tour:
29 novembre ’19 - ‘A Jazz Supreme’, Musicus Concertus, Firenze
24 gennaio ’20 - ‘Ferrara In Jazz’, Jazz Club Ferrara
25 febbraio ’20 - Ancona Jazz Festival, Ridotto Teatro Duse, Ancona
30 aprile ’20 - Teatro Ristori, Verona

Ufficio Stampa
Eleonora Sole Travagli
e-mail: solejazzclubferrara@gmail.com ; press@jazzclubferrara.com
cell. + 39 339 6116217

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- Libri

Momenti d’Autunno / 4 foglie, musica,castagne, vino e libri

Momenti d’Autunno / 4
(..foglie gialle e buona musica, castagne arrostite, film, vino e pagine di libri).

'foglie'

esauste
hanno vibrato nel vento
nelle sere della torrida estate
per poi sfronzolarsi
e ingiallire …
silenziose
hanno atteso la pioggia
sperando
in una concessione di vita
che non potevano ottenere
(GioMa)

Le osservo cadere mentre affacciato dalla porta finestra che guarda al giardino, ricoprono di un tappeto giallo e bruno la terra che le reclama …
«Per l’intera giornata d’Autunno le nuvole hanno pesato grevi e basse nel cielo […] ed in fine, mentre s’avvicinavano le ombre della sera, mi trovai in vista della malinconica Casa Usher …», quella di E.A.Poe, per intenderci.
Sì, proprio quella, tradotta da Decio Cinti dal francese, nella versione di Charles Baudelaire. Il piccolo ed elegante libro era in cima alla pila dei desiderata, anche se in verità è solo una rilettura, successiva alla visione del film omonimo del 1928, per la regia di Jean Epstein (*) in DVD e mai visto prima.

Come tutti sappiamo “Per avere paura non occorre un motivo preciso, [...] ma quando si ha paura è bene sapere perché” recita un aforisma di Èmile Ajar (alias Romain Gary) che bene si adatta all’atmosfera ricreata in questo libro postumo, ‘assemblato’ a distanza di centocinquanta anni circa dalla morte di Poe, in “I viaggi immaginari”: Esplorazioni stravaganti e impossibili in giro per questo e altri mondi. (*)
Un libro che raccoglie numerosi racconti, tra i meno conosciuti dell’autore, e sottotitolato da una ipotizzabile quanto insolita chiave di lettura che ne permette per intero la godibilità. Con questa raccolta, infatti, si delinea l’importanza di un’operazione editoriale che restituisce al lettore un altrettanto valido ‘materiale letterario’, altrimenti destinato al macero, in una nuova veste critica e rispettiva traduzione. Lo ‘sgomento’ su cui E. A. Poe fa leva in questi racconti, e che ben possiamo definire ‘paura’ in nuce, a uso e consumo per i successivi racconti ‘horror’ più complessi che segneranno la sua produzione di maggior respiro, è qui fruita come ‘esercizio di stile’ più propriamente detto, cui l’autore si rifarà costantemente nei suoi scritti successivi.
In realtà non c’è una ragione specifica che lega questi racconti all’ ‘orrifico’, pur tuttavia in essi si discopre quella che è la ‘madre di tutte le paure’, la ragione fondamentale della ‘paura’, e cioè ‘il timore del male’ che porta in sé la morte:
"Ah, la Morte, lo spettro che si sazia a tutti i banchetti! Quante volte ci siamo persi in considerazioni sulla sua natura! Che mistero quel suo frenare la felicità umana dicendole «fin qui, ma non oltre!»” Come pure è detto nel racconto “Colloquio di Monos e Una”, presente in questa raccolta, e che, ancora oggi, suona di grande attualità – chi mai l’avrebbe detto? – soprattutto quando Poe affronta il suo avvicinamento a Dio:
«Come è facile ipotizzare dall’origine del disordine, chi era stato contagiato dal sistema e dall’astrazione si era avvolto nelle generalità. Fra le altre idee strane, aveva guadagnato terreno quella dell’uguaglianza universale e di fronte all’analogia e a Dio, a dispetto dell’alta voce ammonitrice delle leggi [...] che pervadono così vivamente ogni cosa del Cielo e della Terra, nei tentativi selvaggi fatti per far prevalere la ‘democrazia’ su tutto. Purtroppo questo male era scaturito fatalmente dal male principale, la ‘Conoscenza’.
Per poi riscontrare che: “L’uomo non poteva che conoscere e soccombere. [...] In verità, l’uomo che vuole ammirare nel modo giusto la gloria di Dio sulla terra deve ammirare quella gloria in solitudine”. [...] E dal momento che noi vediamo chiaramente che la vitalità di cui è dotata la materia è un principio, anzi a voler estendere il nostro giudizio, è il principio fondamentale dell’opera di Dio, mi sembra quasi illogico immaginare che sia limitato alle regioni dell’infinitamente piccolo, dove quotidianamente lo rintracciamo, e non si estenda a quelle dell’infinitamente grande.»

Ma forse all’epoca di riferimento di questo racconto la ‘purificazione’ doveva ancora avvenire e Poe non sembra qui andare alla ricerca di un riscatto che non arriverà: “Le parole «..sono cose vaghe [...] e l’uomo, come razza, per non estinguersi del tutto doveva ‘rinascere’ [...] e si trasformerebbe, alla fine, nell’uomo purificato dalla morte, dell’uomo il cui intelletto sublimato non sarebbe più avvelenato dalla conoscenza, dell’uomo redento, rigenerato, beato e immortale, ma pur sempre dell’uomo materiale” – afferma. Per poi andare incontro alla propria ‘morte spirituale’ dicendo: “Il dolore era poco, molto era il piacere. Ma nessun dolore o piacere era di natura morale” e il termine ‘purificazione’ qui usato fa riferimento alla radice greca ‘fuoco’ divoratore, ...la fine di tutto”».
«Siamo destinati ad avanzare nelle tenebre. Siamo noi stessi elementi di tenebra. Strisciamo nel fango e mormoriamo affannosi salmi tra inesauribili smarrimenti di senso. […] L’essere umano non attende più la resurrezione né altro compimento. È la notte senza illusione quella che qui viene narrata. È la sofferenza che ritorna sul confine oscillante tra dolore e angoscia» – scrive Flavio Ermini (*) nel suo “Della fine: la notte senza mattino”.

Come avverte Zigmunt Bauman (*) in “Paura liquida”: «Esiste uno e un solo evento che renda metaforico ogni altro impiego delle parole, l’evento che conferisce a certi termini il loro significato primario, originario, incontaminato e non diluito –Quell’evento è la ‘morte’. [...] La morte incute paura per via di quella sua qualità diversa da ogni altra: la qualità di rendere ogni altra qualità non più superabile. Ogni evento che conosciamo o di cui siamo a conoscenza – ogni evento, eccetto la morte – ha un passato e un futuro. Ogni evento – eccetto la morte – reca una promessa, scritta con inchiostro indelebile anche se a caratteri piccolissimi, secondo cui la vicenda «continua». [...] Soltanto la morte significa che d’ora in poi niente accadrà più, niente potrà accadere, niente che possa piacere o dispiacere. È per questa ragione che la ‘morte’ è destinata a restare incomprensibile a chi vive, e anzi non ha rivali quando si tratta di tracciare un limite realmente invalicabile per l’immaginazione umana.
L’unica e la sola cosa che non possiamo e non potremo mai raffigurarci è un mondo che non contenga noi che ce lo raffiguriamo”. È dunque questa la vera leva su cui fa pressione Poe nei suoi racconti e romanzi più apprezzati: la ‘paura della morte’. Ecco che allora, per dirla ancora con Bauman, quella ‘materialità’ instabile che Poe prende qui a riferimento, si trasforma in ‘immaterialità liquida’ del suo e del nostro tempo. A voler dire che in fine nulla è cambiato, che la ‘rinascita’ dell’uomo è ancora sospesa nelle alte sfere di un ‘di là a divenire’ di cui non siamo che spettatori estatici e sgomenti. E così resteremo fino ai nostri giorni, irrimediabilmente, fatalmente, inevitabilmente. Ma a che cosa fa riferimento Poe in questi suoi “Viaggi Immaginari”, improbabili quanto incredibili (?) – ci si chiede. E la risposta ci giunge immediata, essendo la più scontata che ci si possa aspettare: ‘al sogno’.

Quel sogno che non rinnega i suoi risvolti visionari, allucinati, deliranti, che lo tengono legato al vagheggiamento, alla brama utopica, alla chimerica bellezza, sinonimi specifici della visione onirica; e che lo proiettano nell’incubo ‘orrifico’ d’una bellezza illusoria, irraggiungibile, il cui splendore abbaglia la ‘realtà’, trasformandola in desiderio, speranza, aspirazione, fino allo stordimento, all’accettazione dell’irreale, del soprannaturale ch’è nel ‘profondo’ di ognuno di noi. Per cui le esplorazioni potrebbero non finire mai e, infatti, non finiscono mai e ‘l’immaginale’ di riferimento insito in questi racconti diventa la realtà di una scoperta affascinante che Poe svolge all’interno di se stesso:
“Allora questo non è un sogno..” – fa dire l’autore ad Eiros personaggio metafisico di un altro felice racconto intitolato “Conversazione di Eiros e Charmion” dal risvolto ‘mitologico’ che, come nei “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese (*), successivi di almeno un secolo, si narra di un ‘mistero racchiuso nel mistero della morte’. Per lo più derivati dalla fascinazione, tipica dell’epoca, del ‘mesmerismo’ di Franz Anton Mesmer (*) vissuto nel Settecento, che ne aveva elaborato la teoria basata sul ‘fluido’ magnetico (fisico) e che, secondo le sue teorie, era all’origine del corretto funzionamento del’organismo umano, in armonia con quello universale.

Fascino che ritroviamo nel racconto “Rivelazione mesmerica”, presente in questa raccolta di Poe, in cui un soggetto ‘mesmerizzato’ in punto di morte descrive la vita nell’aldilà, parlando del regno delle ombre, e che lo scrittore riprenderà in “La verità sul caso di Mr. Valdemar” cui farà riferimento ricorrente nella sua produzione letteraria. Mitologia dell’aldilà, regno delle ombre, enigma e ‘suspense’ della vita, mistero dell’esistenza, non sono che mondi estremi di cui Poe scrive riciclando un modello poi divenuto ‘archetipo’ del romanzo ‘poliziesco’, del ‘giallo enigmatico’, dell’ ‘incompiuto gotico’ caratterizzato dal carattere ‘misterioso’ o ‘macabro’ delle vicende descritte, o meglio, verosimilmente ‘sognate’, in cui logora la propria breve vita di scrittore.
Sviluppatosi dopo la seconda metà del Settecento, il genere narrativo ‘romantico / orrifico’ era caratterizzato dall’unione di elementi romanzeschi della letteratura cosiddetta ‘gotica’, riferita alla tendenza culturale anglosassone di ambientazione tenebrosa del ‘romanzo nero’ (noir), i cui temi portanti sono l’amore perduto, i conflitti interiori, il soprannaturale, il cui iniziatore è considerato Horace Walpole (*) con il suo romanzo “Il Castello di Otranto” del 1764. Dopo H. Walpole (*), la cui influenza è inequivocabile negli scrittori polizieschi, e non solo, fin dalle origini, E. A. Poe si pone come diretto continuatore del genere. Fin dal suo "I delitti della Rue Morgue", pubblicato per la prima volta su Graham's Magazine nel 1841, è considerato uno dei primi racconti polizieschi.

Al quale faranno seguito l’inglese R. L. Stevenson “Lo strano caso del dott. Jekyll e del signor Hyde” (1886), l’irlandese Bram Stoker “Dracula il vampiro” (1897), lo scozzese A. Conan Doyle, “Le avventure di Sherlock Holmes” (1892); gli americani Agatha Christie “Assassinio sull’Orient Express” (1934); e Rex Stout “Orchidee Nere” (1942), solo per citare i più noti, per giungere infine agli scrittori statunitensi H. P. Lovecraft con “L’ombra venuta dal tempo” (1934) considerato il ‘Poe cosmico’. E inoltre Stephen King “Le notti di Salem” (1979), Patricia Highsmith (*) di “Sconosciuti in treno” (1987) nei quali vi è un’esplicita metafora dell’eterna lotta fra il bene e il male:
«Hai mai avuto voglia di ammazzare qualcuno? – da questa fatidica domanda prenderà l'avvio un'inquietante vicenda al limite del surreale, il cui esito, secondo il piano preciso di Charles, sarebbe stato un duplice omicidio in cui ciascuno avrebbe dovuto uccidere per l'altro.»
Un thriller avvincente che analizza parallelamente la meccanica del delittoe la psicologia dei due uomini che finiranno per essere legati l'uno all'altro da un rapporto morboso che li condurra definitivamente alla rovina. Da questo libro Alfred Hitchcock (*) trasse il film “L’altro uomo” 1951, riproposto successivamente con il titolo “Delitto per delitto”. Di Hitchcock, voglio qui suggerire la visione di almeno due film poco frequentati dai critici e dal pubblico “I 39 scalini” (1935) e “Notorius” (1946), almeno non di recente.

Ecco l’altro punto critico di ogni thriller: “l’orrore universale”. Nel contesto ‘liquido-moderno’ innescato dal grande sociologo Z. Bauman (op.cit.), il pensiero metodologico rincorre la ‘paura’ e ne sviscera i numerosi aspetti: dalla sua origine (la paura della morte e la paura del male), alla dinamica d’uso (volontà e necessità della paura); dall’orrore dell’ingestibile (precarietà e insicurezza come derivati della paura), al terrore globale (problematicità e catastrofismo insiti nella paura): arrivando, nella sua efficace analisi, a proporci i ‘rimedi’ o, perlomeno, le precauzioni e i suggerimenti per affrontare quelle che sono le ‘paure’ più diffuse, che egli ritiene nate e alimentate dalla nostra costante insicurezza.
Aspetti questi che interagiscono e s’influenzano a vicenda, con la conseguenza che le emozioni costituiscono esperienze multiformi, anche conflittuali e ambigue, che attraversano tutto il nostro potenziale investigativo e che ci spingono alla crescita culturale e all’evoluzione conoscitiva. Perché, ammettiamolo, il ‘richiamo del viaggio’, per sfuggire sia al ‘sogno’ come ‘allucinazione’ in cui si confonde «..il piacere che deriva dalla dolcezza dei suoni con la capacità di crearli», è per Poe innegabilmente affascinante e rigenerante: «La musica, infatti, più di ogni altra attitudine, è in grado di dare completo godimento per i suoi vantaggi spirituali, ma c’è un godimento che si trova sempre alla portata degli sconsolati mortali, ed è forse l’unico che ha bisogno del sentimento accessorio della solitudine.»

Per quanto, nella scoperta dei diversi significati del ‘viaggio’, ci siamo abbandonati a quello che ‘lo spirito’ in libertà ci riserva, e cioè a quella ‘musica’ che pur sentiamo ‘dentro e attorno a noi’ come un richiamo, senza chiederci il perché del suo fluttuare nell’universo sonoro che ci circonda, e che infine ci permette di comprendere e utilizzare al meglio la nostra esistenza, tra ‘l’essere e il divenire’, di quei viaggiatori instancabili che in fondo noi siamo.
Decisamente ‘emozionali’ sono i due album del gruppo rock Enigma “MCMXC a.D.” (1990) loro album d’esordio che includeva brani di canto gregoriano, e “The Cross of Changes” (1993), e “Voyageur”, quinto album del gruppo pubblicato nel 2003, cui seguiranno altri non allo stesso livello. La firma del gruppo (flauti shakuhachi), mix di canti gregoriani e canti tribali, che tanto hanno caratterizzato i primi album sono sparite in “Voyageur”. Rispetto ai primi quattro album, infatti, la loro produzione musicale ha segnato un vero cambiamento nello stile del gruppo. In compenso, la maggior parte delle canzoni sono indirizzate verso il mondo del pop. Infatti Michael Cretu, il producer di Enigma ha affermato che a partire da di “Voyageur'” la loro colocazione sarebbe stata nel "pop più sofisticato".

Ma se «Il sentiero dell'eccesso conduce alla torre della saggezza.» (W. Blake).
Se « Il piacere di soddisfare un istinto selvaggio non dominato dall'ego, è incomparabilmente molto più intenso di quello di soddisfare un istinto addomesticato. Il motivo sta diventando il nemico che ci presenta molte possibilità di piacere.» (Freud)
«Se tu credi nella luce, è a causa dell'oscurità, se credi nella felicità è a causa dell'infelicità, se credi in Dio, allora devi credere nel diavolo.» (Father X – Exorcist Church of Notre Dame, Paris).
Al diavolo devono aver creduto quei Cantores medievali che raccolsero dalla tradizione i canti contenuti nei “Carmina Burana” (*), nella loro forma mistico-religiosa originale, basata sul culto Gregoriano (*), solo successivamente riproposti nella versione ‘gogliardica’ da Carl Orff (*) (1974), col sottotitolo ‘Cantiones profanae’; nonché la versione rock proposta da Ray Manzareck (*) (1983). Al linguaggio della liturgia ufficiale si rifà molta della produzione musicale contemporanea di altissimo livello: The Hilliard Ensamble (*) in “Officium” (1993) con la partecipazione del saxofonista Jan Garbarek.
Ancora the Hilliard Ensamble con “Morimur” 2001 di grande rilievo formale, dedicato alla ‘Passione di Cristo’ di J. S. Bach (Partita D Minor per violino solista, accompagnata dal violinista barocco Christoph Poppen. Ma è con Arvo Pӓrt: “Passio” (1988), “Miserere” (1991), “Litany” (1996), “Lamentate” (2005) ed altre composizioni, che si raggiunge la vetta finora inusitata della concertazione ed esecuzione … ‘autore di opere sublimi, di straordinaria profondità e bellezza compositiva’.

Inoltre, e non in ultimo, propongo l’ascolto di due compositrici davvero ‘ispirate’ alle tematiche fin qui espresse: la georgiana Giya Kancheli (*) con “Caris Mere” (1997) dal significato in tema con questo scritto – ‘After the wind’, cui prendono parte fra gli altri Kim Kashkashian (viola), e Jan Garbarec (soprano saxophone), con la Stuttgarter Kammerochester D. Russell-Davies. Nonché la compositrice greca Eleni Karaindrou (*) con “Music for Films” … dalla potenza musicale dirompente.
Come dirompente è l’esecuzione pianistica del geniale Ezio Bosso (*) nel suo “The 12th Room” in cui propone oltre a sue composizioni, brani di Bach ‘il filosofo dell’armonia’, passando per Chopin e Gluck ovviamente rivisitati nel suo modo interpretativo; fino al decostruzionismo (derridiano) del contemporaneo Cage, quasi a formare un'unica partitura per ‘piano solo’, senza presunzione di sospensione e di contaminazione.
Può sembrare incredibile come qui la fusione dei diversi stili dia forma a un unicum la cui rivisitazione ‘colta’ offre spunti di intervento per assoli jazzistici alla Ellington, al minimalismo di Newman o alla miscellanea quantistica di Glass. Tuttavia possiamo credere all’evoluzione musicale di un genio della nostra era, la cui versatilità stilistica nell’uso del piano ‘accelerato’ ricorda il Glenn Gould delle ‘Variazioni Goldberg’ (Bach) e delle strenue ‘3 Piano Sonatas’ (Hindemith), ma ed anche, le ‘variations in jazz’ elaborate da Keith Jarrett e da Cick Corea.
Ciò a cui personalmente tendo, quale recensore di musica e di libri, non censore di generi, a far sì che la ‘poesia’ insita nella parola che lega la letteratura alla musica, il sogno all’illusione di viaggiare, ‘che sia in questo o in altri mondi’, si aggiunga al piacere sottile che viene dallo ‘spirito del viaggio’ ché, finalmente libero dagli orpelli del quotidiano, si libra ‘in solitudine’ e prende a volare.

“Molti viaggeranno, e la conoscenza ne sarà accresciuta” – scriveva il Profeta Daniele (circa 610 a.C.) (*). Di fatto, l’esperienza del ‘viaggiare’ insita in questi racconti restituisce al lettore quanto ho già avuto modo di esprimere in “Lo spirito del viaggio” (Etnomusica n.10 su questo stesso sito), è di tipo antropologico, e pone in risalto alcune verità della ragione che valgono per ognuno di noi come per uno sdoppiamento della personalità, quel “dentro di me, fuori di me” che ci permette di confrontarci con ciò che ci sta attorno, e che ci procura quel ‘brivido di bellezza’ che a volte ci fa trasalire, all’origine dell’entusiasmo che releghiamo al ‘vivere insieme’. Quell’emozione momentanea e passeggera che dà senso ai perché della vita, congiuntamente al nostro sistema neurobiologico, soggettivo, relazionale e culturale, che carica di importanti significati l’idea che abbiamo del ‘viaggio’ in musica e poesia’.
“La musica, per come la conosciamo oggi – ci rammenta Bosso – è sostanzialmente il risultato di ciò che siamo stati in grado di conservare nella cultura della musica scritta e trascritta, perché era quello sostanzialmente l’unico strumento a disposizione per poter conservarne tutta la bellezza. È acclarato che Bach, Mozart e Beethoven fossero degli eccezionali improvvisatori, tuttavia questo non significa che fossero semplicemente dei filosofi trasposti in musica, capaci di dedicarsi esclusivamente alle composizioni scritte sulla carta in quanto più vicino ai massimi sistemi, già propri della cultura classica”. […]Una ‘stanza’ “..che non è solo dei poeti, a chi non è capitato di chiudersi in camera propria a piangere un amore, o di ascoltare la musica ad alto volume per isolarsi dal mondo esterno, ed entrare nel piano dell'immaginazione guardando al di fuori della finestra della camera, del treno, del pullman, o dell'auto, e scoprire di non vedere l'orizzonte, (..) ma ciò che rende possibile l'appropriazione, in forma di visione e di parola, ciò di cui altrimenti il soggetto mai potrebbe appropriarsi.” […] Nel suo insieme, è la concretizzazione e il simbolo di tale dimensione, lo spazio che contiene e rende possibile la relazione fra il poeta e i fantasmi del suo desiderio, lo spazio attraverso il quale l'esperienza esistenziale comunica con il suo ‘oltre’, e cioè con quel tessuto di visioni, immagini e parole che è il rovescio della trama del reale e la materia prima della poesia” (*).

Inoltre la ‘stanza’ in sé, contiene tre diverse dimensioni: l'ambiente in cui il poeta si ritira per creare, lo spazio della dinamica interiore da cui la parola poetica scaturisce e la forma che essa assume traducendosi in scrittura. In essa, quindi: “..è dato cogliere, sul piano figurale, l'unità di un'esperienza che si presenta contemporaneamente come esistenziale, visionaria e verbale; in altre parole come reciproca implicazione e reversibilità di realtà, fantasma e parola in seno all'atto creativo” (*).
È qui, in questa esatta dimensione che s’inserisce Ezio Bosso compositore ed esecutore, attraverso le sue esibizioni ‘uniche e irripetibili’, che possiamo attribuire ad ogni suo singolo incontro dal vivo con la musica e con il pubblico. Con “The 12th Room” Ezio Bosso avanza supposizioni musicali ‘altre’ che vanno dal razionalismo al minimalismo per quanto rimangano indubbiamente letterarie e poetiche, lì dove la letteratura e la poesia classiche sposano l’inquietudine e la solitudine individualista della cultura dei nostri giorni.

“Allora George, sei pronto alla partenza?” – domanda Ann (mia moglie) al telefono.
“Sono sveglio e non mi sembra poco.” – rispondo io.
“È sicuramente un segno. Bene, quindi passo a prenderti e partiamo subito, diciamo fra mezzora.”
“Stai dicendo sul serio? Vedo che sta ancora piovendo, facciamo fra un’ora, o magari più tardi, quando smetterà di piovere!” – prendo tempo per finire di bere un’ultimo calice di buon rosso e di leggere una poesia di Umberto Morello (*) tratta da”Nuvolas”:

“Sola suite”

Tra figure angolari e piovane
Che offuscano uno scomodo risveglio,
e non credono che aprire gli occhi
sia chiudere
uno strumento sbagliato,
due porte non sempre
s’innamorano di una distanza.

E proseguire nell’ascolto di “Landscape” di Cage-Bosso mentre mi preparo.
Sarà, ma sembra «Come se Virgilio avesse preconizzato il mondo virtuale del quale ci stiamo conducendo …», che potrebbe essere l’incipit del libro di Eco . Ma non lo è. Rimando alla prossima puntata.

Note:

Libri.
(*) Edgar Allan Poe, “La caduta di Casa Usher” – cofanetto 2volumi + 10 tavole illustrate di A. Alexeieff – Stampa Alternativa (anno?)
(*) Jean Epstein, “La caduta di Casa Usher” – film DVD – Griffe 1928/ 2004
(*) Edgar Allan Poe, “I viaggi immaginari” – Gargoyle 2013
(*) Flavio Ermini, “Della fine: la notte senza mattino” –Formebrevi Edizioni 2016
(*) Zigmunt Bauman, “Paura liquida” – Laterza 2009
(*) Cesare Pavese, “Dialoghi con Leucò” – Mondadori 1982
(*) Horace Walpole, “Il Castello di Otranto” – Marsilio 2008
(*) Alfred Hitchcock, film “L’altro uomo” – film DVD Warner Bros 1951
(*) Umberto Morello, ‘Sola suite’ in “Nuvolas” – Anterem Edizioni / Cierre Grafica 2018
(*) Ezio Bosso, “The 12th Room Tour” – Sferisterio di Macerata, Agosto 2016 –
Giorgio Mancinelli – articolo in Larecherche.it.
(*) Note su 'stanza' in 'Letteratura Italiana' - Einaudi e 'Storia della Musica' - Oxfors-Feltrinelli.

Musica.
(*) Gruppo ‘ENIGMA’, “MCMXC a.D.” (1990) “The Cross of Changes” (1993), e “Voyageur” (2003)
(*) Sator Musicae, “Musicals Scientia” – CD Tactus (1987)
(*) Clemencic Consor, “Carmina Burana”, 2CD Harmonia Mundi (1990)
(*) Kantores 96, “Il Gregoriano”, 3CD EMI (1996)
(*) Carl Orff, “Carmina burana - Cantiones profanae – CD Philips (1974)
(*) Ray Manzareck, “Carmina Burana” – CD AM + (1983)
(*) The Hilliard Ensamble / Jan Garbarek, “Officium” CD ECM (1993)
(*) Hilliard Ensamble / Christoph Poppen, “Morimur” CD ECM (2001)
(*) Hilliard Ensamble / Arvo Pӓrt, “Passio” CD ECM (1988), “Miserere” CD ECM (1991), “Litany” CD ECM (1996), “Lamentate” CD ECM (2005)
(*) Giya Kancheli, “Caris Mere” – CD ECM (1997)
(*) Eleni Karaindrou, “Music for Films” – CD ECM (1991)
(*) Schola Hungarica Janka Szendrei, “Ludus Danielis” – CD Hungaroton (1983)
(*) Ezio Bosso, (*) dal booklet incluso nell'album "The 12th Room" - Incipit Music (?)



*

- Libri

Momenti d’Autunno / 3 foglie, musica,castagne, vino e libri

Momenti d’Autunno / 3
(..foglie gialle e buona musica, castagne arrostite, film, vino e pagine di libri).

‘dias in luminis oras’
(Lucrezio: “De rerum natura”)

viviamo
‘nelle divine regioni della luce’
avvolti
dell'alone immanente delle cose
create
nell’imprevedibile ricchezza d’ogni dove
nell’aria

(GioMa

«Rileggendo alcuni classici greco-romani – scrive Giovanni Teresi (*), metterei ora nel baule alcuni testi di storia e filosofia greca che hanno ben descritto la condizione umana. […] Oggi sarebbe bene rileggere ed analizzare il pensiero di alcuni famosi autori greci e latini per assaporare la loro intramontabile attualità. Poi, la nascita della commedia greca è stata una espressione del pensiero libero di molti commediografi. […] Ad esempio la commedia Νεφέλαι / “Le nuvole” di Aristofane (*), grazie ad una scoppiettante successione di trovate, si chiude con un finale amaro che lascia tutti beffati e punisce imbroglioni e imbrogliati, disonesti e aspiranti truffatori. Quindi, considerati i tempi di alcune crisi bancarie italiane, direi che la trama di Aristofane calza bene nel contesto socio-economico.»

“Certamente più veritieri delle notizie politico-economiche che si leggono sui Quotidiani!” – penso, ma non trattengo le parole che mi escono di bocca.
“Ma George di cosa vai farfugliando?” – chiede lei.
“Niente, stavo leggendo che il cielo non promette nulla di buono!” – dico io.
“George, ma che dici, è una giornata splendida, non vorrai mica restare in casa? – chiede lei.
“Ma no, ma si … uscirei pure … però!”
“Siamo alle solite, piuttosto perché non dici che non hai voglia di uscire?”
“Di certo il tempo cambierà, lo dice Goethe (*) osservando ‘La forma delle nuvole’.”
“Goethe chi?”

Vi risparmio il seguito. Fatto è che sono rimasto in casa a leggere il sempre valido vademecum-meteorologico sopracitato. Quando mi accorgo che la data riferita al giorno, non corrisponde con quella di oggi, e neppure l’anno. Infatti recita quanto segue:

«Mattinata serena, nuvole lievi durante la giornata. Notevole corteo di nubi provenienti da sud-ovest nella regione superiore. Molto caldo, serata tranquilla. Magnifica notte di luna.»

Per quanto, credo che il cielo d’Autunno non possa cambiare di anno in anno, mantenendosi conforme alla norma, anche se nel testo leggo Giovedì 25 Maggio, e ora siamo al 19 Ottobre. Credo di aver fatto un po’ di confusione con le stagioni. Tutta colpa di Vivaldi (*) – dico io, poiché alla Radio stanno passando i brani delle sue “Quattro Stagioni” e, senza che me ne accorgessi, sono passati da ‘L’Autunno’ a ‘L’Inverno’, mentre ancora mi adagiavo, dopo ‘Il ballo e canto de’ villanelli’, su ‘Gli ubriachi dormienti’. Ma la musica preannuncia cattivo tempo, mentre leggo il meteo del giorno in arrivo:

«Come ieri (oggi è prevista) una maggiore tendenza alla pioggia e, di tanto in tanto, pioggia accompagnata da tuoni. Questo si protrasse oltre mezzogiorno fin verso le 5, come scoprimmo. Poi si rasserenò e alle 8 di sera la luna splendeva chiara nel cielo, successivamente incupito da leggerissimed nuvolette.»

Posso sempre sperare nel diluvio – mi dico, nel mentre mi ostino di continuare a leggere, prendendo a caso tra i libri accatastati sul piccolo tavolo accanto alla poltrona. Nulla di inquietante, direi piuttosto adeguato, mi si lasci passare il termine, allo spirito di quell’ipotetico viaggio che la lettura spesso invita a fare, pur nell’inerzia dello sfogliare le pagine. Come nel caso di “La traversata infinita” di Margherita Orsino (*) con testo spagnolo a fronte, accompagnata dalle visioni ‘oniriche’ dei dipinti di Josè Scacco:

“Attraversare / pietra dopo pietra / fino al limite ultimo / fino a che il raggio / prima di scomparire, / solo, tracci un orizzonte di luce. // Non c’è un sentiero in questo finis terrae. / Il camminoè la linea / ma è anche la pietrta, suo punto, / e la sua ombra incerta.”

Il narrare che segue è di Angelo Maria Pellegrino (*) che “In Transiberiana” avverte fin dalla partenza una: «Sensazione di assenza corporea, di mancanza di peso e d’esistenza reale, in un luogo greve e noto, quello del quotidiano … mi trascina, già tutto intirizzito da questo primo acquazzone d’autunno. Chissà perché venuto giù proprio oggi che sto per partire. È un cattivo auspicio? Se ne avessi la certezza tornerei subito indietro … Non so se avrei più la forza domani o dopo, di ripartire ancora: 12.503 chilometri di sola andata sino a Pechino, e sono ancora imbottigliato nel traffico nero, fango, asfalto, pioggia di Roma.»
Di certo non si sta parlando di quella Roma due volte imperiale, feudale e papalina, romanica e rinascimentale, manieristica e barocca, sopravvissuta ai secoli, attraverso la compresenza e la sovrapposizione dei suoi molteplici aspetti. Al dunque elaborata e accresciuta nelle tele e nelle immagini dei molti artisti che l’hanno immortalata, nelle penne dei poeti che l’hanno inneggiata, fino ai tanti cantori spontanei, colti e di strada, che hanno saputo cogliere il fiore del suo vernacolare prosaico e scanzonato, come quella descritta da Giorgio Mancinelli (*) sulla pagine della rivista letteraria Larecherche.it.

«Sebbene sia questa un’altra Roma, che per contrasto possiamo dire ‘sommersa’, attende ancora d’essere narrata, meno conosciuta e meno fotografata, capace di una facezia pungente e villana ad ogni angolo di strada. Talvolta ironica e beffarda, talaltra bonaria e sorniona, ludica e trasognata, che pur chiede d’essere evocata dal ceppo della tradizione annosa che sempre si rinnova e che qui assume forme imprevedibili di grande fantasia, consapevole al tempo stesso di appartenere alla storia e al mito che ne rivendicano la sorte.»

Come sempre si dice: “un libro è un viaggio al seguito delle nuvole sospinte verso l’infinito”. Di mezzo, per chiunque s’impegni nel leggerlo, c’è che si visitano luoghi insoliti, ci si misura con le diverse realtà climatiche e le diverse altitudini, si fanno incontri straordinari, si conoscono le trame della storia, i resoconti di cronache sempre diverse ecc., prima di tornare indietro, una volta chiuse le pagine del libro, a sedersi sulla stessa poltrona. Come del resto, da qualche tempo, vado facendo anch’io, travolto dalla commozione e del ricordo di tante letture del passato. Ed è come un risvegliarsi improvviso dalla fiaba alla realtà: “..come nel mezzo di un sogno, quando si ha paura di dimenticarlo”.
La frase non è mia ma di Pinar Selek (*) che nel suo libro “La Casa sul Bosforo” si lascia trasportare dalle emozioni, conducendolo il lettore in un continuo ‘viaggiare’, solo apparentemente senza meta, all’interno dei propri sentimenti, quelli più reconditi che scaturiscono dalla sensibilità profonda dell’animo umano. Quella incontestabile quanto vilubile ‘sensibilità’ di donna che nel comune pensare riscontriamo come sostanziale ‘leggerezza’, tuttavia mai banale e quindi da non sottovalutare, perché confidenzialmente ‘passionale’, per lo più legata all‘incertezza’ che l’odierna società produce. Che non è quella dell’inizio del libro, dove le ‘certezze’ sono ben altre, legate alla terra, così come lo erano i costumi e le tradizioni secolarizzate che costituiscono la spina dorsale di un popolo, e ne definiscono la sua dignità.

“Noi siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni”, ricordate?

E allora non ci resta che chiudere gli occhi e tornare a sognare sul “La via della seta” di Franco Cardini e Alessandro Vanoli (*) e/o l’omonimo libro di Luce Boulnois (*), e affrontiamo il nostro prossimo viaggio nella leggenda. Un lunghissimo viaggio tra Oriente e Occidente ed a ritroso in compagnia di questi due libri che coprono un arco di tempo che dal Medioevo arriva fino ai nostri giorni; o meglio un meraviglioso viaggiare sulle ali del mito di Marco Polo (*) che ha suggestionato milioni di lettori in tutto il mondo, ma che è anche l'inizio di un'avventura entusiamante che ci consente oggi di intraprendere un cammino molto più agevole del suo e di gustare appieno quanto c'è di 'favoloso' nel suo racconto diaristico, trasformato per l'occasione in un vademecum suggestivo di rivisitazioni stupefacenti.
C’è tutto questo e moltissimo altro in questi due 'grandi libri' citati che, al confronto di quanto vi si può trovare, diventano taccuini piccolissimi, dove pure si parla in modo approfondito di città come Aleppo, Babilonia, Baghdad, Bukhara, Costantinopoli, Damasco, Edessa, Esfahan, Herat, Gerusalemme, Palmira, Samarcanda, Khotan o Chang’an, ed anche Alessandria, Petra, Goa, Malabar, Patna; ma anche Pechino e il Cathai, Aquileia, Palermo e la serenissima Venezia, luogo di partenza dell’intraprendente Marco Polo,, del cui viaggiare abbiamo appreso ne “Il milione” (op.cit.), e del suo modo stravagante di raccontare romanzato, divenuto meta ambitadi ogni reporter.

La musica più adatta ad accompagnarne questo genere di lettura spazia, per gli amanti del Jazz fusion contemporaneo, dall’incontro di Jack De-Johnette con Michael Cain e Steve Gorn (*) partecipi dell’elaborata chemistry dell’album “Dancin Wit Nature Spirits”; ai suoni ‘ricercati’, talvolta neutri come di voci a-cappella, di strumenti inusuali, nelle elaborate e quanto più originali composizioni di Stephan Micus (*), da “Passing Cloud” (tanto per restare in tema) a “As I Crossed a Bridge of Deams”; da “Before Sunrise” a “Equinox”, ai numerosi bani dedicati ad altrettanti “Desert Poems”; da “Listen to the rain” allo strepitoso intero CD “Ocean” (*).

Sullo stesso genere, ma diversamente Jazz, inconriamo Anouar Brahem (*) autore del bellissimo “Conte de l’incroyable amour”, intimistico e raffinato i cui suoni ricavati dagli strumenti originali bene introducono e accompagnano il ‘viaggiatore estemporaneo’, che come me ama vagare ‘solitario’ nei luoghi da visitare, scoprendo i molti riferimenti etnici dei paesi attraversati nel nostro ipotetico viaggio letterario e documentaristico che, suggerisco di cercare nelle esecuzioni originali, strumentali e vocali, nonché nelle tradizioni corali dei diversi popoli. Come pure nelle opere di un altro autore da seguire con attenzione: Armand Amar (*) le cui ‘colonne sonore’ accompagnano tra i migliori documentari che si sono visti in questi ultima annida “Faces” a “Human” ed altri, i cui brani accolgono voci e suoni provenienti da ogni angolo della terra, mixati ed elaborati con mestria suprema.

È il caso di citare l’ormai classico libro “Orient Express” di John Dos Passos (*), Un 'lungometraggio' di Km di scrittura dinamica come solo può esserlo lo scorrere della pellicola sullo schermo, eppure non è un film, bensì il reportage autentico di un dopoguerra visto attraverso lo sguardo, un tantino cinico e distaccato, del viaggiatore eclettico quale doveva essere John Dos Passos nel 1922. Ma non immaginatevi un percorso visto soltanto attraverso il finestrino del treno, in quegli anni, almeno fino a oltre il 1950, l’Orient Express non era ancora la gloria delle ferrovie nel mondo, piuttosto rappresentava un viaggio nel segno dell’avventura, che il guizzo rapido dell’autore, con una scrittura lineare e avulsa da pregiudizi di sorta, racconta con brio e un pizzico di ironia, senza lasciarsi prendere da facili sentimentalismi o piagnistei sulle cause e le conseguenze di un sfacelo imperiale che stravolse il mondo.
Lo si direbbe un diario di viaggio, e almeno in parte lo è, se non fosse per quella trama sottile che l’autore insegue in ogni pagina, quasi come in un romanzo noir, e che porta a fare del suo viaggio, un costante avvenimento di situazioni e circostanze che arricchiscono il viaggiatore di notizie sugli usi e i costumi della gente che incontra, sui modi di essere e di comportarsi di intere popolazioni viste attraverso il caleidoscopio del reporter colto e raffinato che serba la sua dignità sulla punta della penna. Chissà se forse la vecchia ricaricabile col pennino d’oro non abbia influenzato la sua scrittura (?), tant’è che risulta erudita ed efficace ad ogni passaggio, senza urti e scossoni di sorta. Tale da far pensare che seppure qua e là può risultare un poco approssimativa, lo si deve senz'altro a un difetto di traduzione.

Ma come si sa il passaggio da una lingua all’altra necessariamente lascia indietro qualcosa. Il percorso ferroviario che, solo ipoteticamente all’epoca era ‘diretto’ da Venezia attraverso i Balcani fino a Costantinopoli, e di lì attraverso i Balcani fino a Baghdad e Damasco, non corre su un binario unico o preferenziale. Come nel “giro del mondo” di Verne si è qui alle prese con interruzioni e soste improvvise, personaggi che entrano ed escono dalla scena in un battibaleno, giusto il tempo di prendere un tè, una volta nell’antica Bisanzio, un altra a Trebisonda o lungo le pendici dell’Ararat, un’altra a Baghdad e ancora a Damasco “in nome della Libertà, dell’Uguaglianza e della Fraternità”.
Ma non sono questi i temi della Marsigliese, come lo erano un tempo della Rivoluzione? Di quel passato e di quegli sfaceli non poi così remoto che sembra non averci insegnato niente, se ancora oggi stiamo qui a combattere gli uni contro gli altri, per la supremazia di questo e l’altro stato, per la subordinazione di uno o l’altro popolo, come se non fossimo tutti uguali, tutti quanti bisognosi di pace e di serenità. Che cosa ci facciamo noi qui? Dove stiamo andando? Lo stesso Dos Passos se lo chiedeva già allora se scrive: “Con il passare dei giorni, le colline si fanno sempre più aride e spoglie, [...] e poi ci ritroviamo a serpeggiare tra un mare verde brillante e promontori gialli riarsi dal sole. D’un tratto il treno è intrappolato in mezzo a mura fatiscenti color senape, e le rotaie si infilano tra cipressi e cumuli di immondizia, […] e poi si arresta impercettibilmente come a un binario morto”. E dire ch’era solo ieri, e il tempo davvero sembra essere passato invano.

Non resta che riprendere il cammino intrapreso mentre sognavo ad occhi aperti, di là dalle apparenze tomistische dei due rispettivi volumi “La via della seta” citati precedentemente, e che, per aspetti diversi, si intersecano e si completano a vicenda, senza necessariamente limitarsi al puro nozionismo storico, non senza una certa curiosità intrinseca del viaggiare. Se non altro, in certo qual modo, per dare seguito al fluire costante della ‘poesia orale’, popolare e colta, in gran parte da noi ancora così poco frequentata, che pure ha svolto e continua a svolgere un ruolo importante nella scena culturale, oggi patrimonio incontestabile dell'eredità del passato, favorente l'incontro e l'interazione tra Oriente e Occidente.
Per quanto, tutto ciò non sia meno entusiamante dei racconti contenuti in “Le mille e una notte” (*), ripresi dalla tradizione orale-letteraria Orientale in cui sono narrate le avventure di personaggi (forse) leggendari, è della massima importanza venire a conoscenza di quanti in passato ci hanno tramandato la ‘storia’ così come essi stessi l’hanno vissuta e/o conosciuta attraverso la voce dei loro contemporanei. Nomi noti certo ma oggigiorno così poco letti che quasi ci sembrano sconosciuti, come: Strabone, Plinio il Vecchio, Claudiano, Pausania, Erodoto, Galeno, Hu Han shu, Menandro, Plutarco, Procopio di Cesarea, Niceta Coniata.

Autori letterari questi che vanno ad aggiungersi a una pletora di scrittori fra condorrieri, sovrani, imperatori, apostoli, missionari, santi che, in un modo o nell’altro, hanno percorso a tratti la ‘via della seta’ lasciandone memoria in testi e lettere, encomi e anatemi, destinati a personaggi autorevoli come Gengis Khan, Solimano, Tamerlano, Gran Kan, Alessandro Magno, Carlo Magno e i tanti altri che sarebbe qui impossibile stilarne una lista prioritaria. «Il libro delle “Mille e una notte” è, come tutti sanno, un labirinto dai mille ingressi. Qualche volta quel labirinto appare concentrico e un centro potrebbe essere – come un tempo era l’enigma di uno specchio – la desolata e sibillina leggenda di un luogo difficile da raggiungere.

Come accade in questa “Storia della Città di Rame” (*), raccontata dalla bella Sharazade a ora tarda, nella 556° notte. Ma questa sta solo per introdurre una piccola curiosità che spesso è sfuggita agli insigni studiosi e critici d’ogni epoca che si sono occupati degli innumerevoli ‘viaggi’ di Simbad il favoloso marinaio che incontriamo nella leggenda (?).
Leggenda o no, «..solo gli occhi dei viaggiatori che vanno incontro alla ‘Città di Rame’ (*) (Cristina Campo traduttore), che inutilmente oggi cercheremmo di trovare, lì dove il mortale capriccio dei sensi non sia più, che la traccia dolente di una musica, la memoria di un’ombra tramontata da secoli sul quadrante del tempo. […] Come nei sogni oracolari l’aria non è che un vuoto senza confini, e insieme spessa come una nube ardente.»
Ed io, come Borges (*) in “L’immortale” … «Ignoro se credetti mai alla Città di Rame, penso che allora mi bastasse il compito di cercarla.»

E voi, sì tutti voi che mi leggete, l’avete mai cercata?

All’ epopea narrativo-letterario, musicale e teatrale ispirata alle ‘Mille e una notte’, si abbina felicemente l’ascolto della straordinaria composizione musicale in forma di suite sinfonica’ “Shahrazād” Op. 35 (in russo “Шехерезада”) di Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov nel 1888.

Un attimo e poi inserisco nell'Hi-fi il CD della Concertgebouw Orchestra Amsterdam magistralmente diretta da Kiril Kondrashin, quando, sulle prime note della splendida “The Sea and Sindbad’s Ship” subentra la voce fuori campo: (indovinate di chi?)…

“George! Non dirmi che sei rimasto tutto il tempo a non fare nulla?”
“Ma veramente io …”
“Non c’è nessun ma che valga, non hai messo neppure su la pentola dell’acqua per la pasta, vuol dire che oggi starai all’asciutto. Se vuoi puoi mangiare un hamburgher e un po’ di formaggio … e nient’altro.”

Di solito mantengo le promesse, non disperate, è mia intenzione di scrivere una recensione al libro di Jean-Claude Carrière e Umberto Eco: “Non sperate di liberarvi dei libri” – beh, prima o poi lo farò. Nel frattempo ascoltate anche voi la bellissima partitura di Rimskij-Korsakov e … continuate a viaggiare, seppure con la fantasia.


Note:
Libri.
(*) Giovanni Teresi, poeta contemporaneo e scrittore benemerito dell'Istituto Italiano di Cultura di Napoli è docente di Economia Aziendale e Discipline Giuridiche, e Accademico di Sicilia.
(*) Aristofane, Νεφέλαι / “Le nuvole”
(*) J.W.Goethe, “La forma delle nuvole” – Archinto 2017
(*) Margherita Orsino, “La traversata infinita”, in ‘Limina’ – Anterem Edizioni / Cierre Grafica 2019
(*) Angelo Maria Pellegrino, “In Transiberiana” – Stampa Alternativa 1985
(*) Giorgio Mancinelli, “Roma in fabula” , articoli in Larecherche.it. 2018/19
(*) Pinar Selek, “La Casa sul Bosforo” – Fandango 2018
(*) Franco Cardini - Alessandro Vanoli, “La via della seta” – Il Mulino 2017
(*) Luce Boulnois, “La via della seta” – Bompiani 2005
(*) Marco Polo, “Il Milione” – collana ‘I Millenni’ – Einaudi 1954
(*) Anonimo, “Le mille e una notte” – collana ‘I Millenni’ – Einaudi 1964
(*) Anonimo, “Storia della Città di Rame” – All’Insegna del Pesce d’Oro 1963
(*) Cristina Campo, nota a “La Città di Rame” – (op.cit.)
(*) J. L. Borges, “L’immortale” – in ‘L’Aleph’ – Adelphi 1998

Musiche:
(*) Antonio Vivaldi, “Le Quattro Stagioni” Op. 8, Concerto n.3 “L’Autunno” - Musici/ Pina Carminelli – CD Philips 1982
(*) Jack De-Johnette / Michael Cain e Steve Gorn, “Dancin Wit Nature Spirits” – CD ECM - 1996
(*) Stephan Micus, “Passing Cloud” – CD ECM - 1992 / “As I Crossed a Bridge of Deams” – JAPO 60045 - 1983
(*) Stephan Micus, “Ocean” – CD ECM -1986
(*) Anouar Brahem, “Conte de l’incroyable amour” – CD ECM - 1992
(*) Armand Amar, “Human” – CD ERATO – 2016
(*) Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov, “Shahrazād”, op. 35, Concertgebouw Orchestra Amsterdam / Kiril Kondrashin, CD Philips – 400021-2 -1979




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- Libri

Momenti d’Autunno / 2 foglie, musica,castagne, vino e libri

Momenti d’Autunno / 2
(..foglie ingiallite e buona musica, castagne arrostite, vino e pagine di libri).

‘pluf’
(…caduta della goccia d’inchiosto)
sulla carta che inzuppa di nero
la pagina bianca
della memoria liquida
aperta nel diario della vita
che del vivere
conserva la macchia

Si protrae il tratto d’inchiostro blu sul filo dell’orizzonte immateriale come impalpabile confine tra sogno e realtà, punto focale di partenza e d’arrivo del viaggio che vorremmo intraprendere inseguendo le nuvole nei ‘quadri’ di Magritte (*), osservando “La forma delle Nuvole” di Goethe (*), e librarci in quelle “Sequenze di vento” di Bonacini (*), attraverso cadenze che dalla luce all’oscurità mutano verso il crepuscolo fino alla notte e oltre, di nuovo dall’aurora al pieno giorno in un ‘andare’ che assecondi ‘lo spirito del viaggio’ che noi, nomadi e migranti del mondo, ci portiamo dentro. La più evidente determinazione che si possa attribuire alla conoscenza senza porsi il problema della sua realtà.

«Come, più non s’inarca la vastità sovraterrena, ricca di forme, a tratti di forme priva?» (Goethe)
«E questo, che sembra concedere / un sogno di sogni a qualcosa che vedi / da un vetro in un velo, cos’è?» (Bonacini)

All’occorrenza le immagini del sogno e della fantasia vengono ordinate secondo il desiderio di evasione che sussiste in ognuno di noi, che è al tempo stesso fantastico e soggettivo come realtà identica a quella oggettiva dell’esperienza più concreta. Come dire che «..la coscienza sta al di là di questa opposizione, poiché non riconosce l’illusione come illusione, né la realtà come realtà, ma conosce solo il ‘contenuto’ della propria coscienza, che può essere tanto un dato reale quanto un’immagine fantastica.» (*) (Simmel).
Posta così la cosa, in questa assenza di alternativa, l’apparenza irreale risulta immediatamente intrecciata alla vita che verosimilmente concorre, a livello inconscio, a farci scoprire, senza distinzione alcuna, tanto l’ ‘essere’ quanto il ‘divenire’ della nostra esperienziale consapevolezza in cui lo ‘spirito del viaggio’ si manifesta. Quand’ecco allungarsi davanti ai nostri occhi, la linea che segna il confine con tutto ciò che si trova oltre la nostra identità, che va oltre il finestrino del treno, l’oblò dell'aereo, o della nave su cui stiamo viaggiando, per addentrarsi in ciò che esiste al di là del tempo e dello spazio, verso lo ‘sconosciuto’ che, forse, cambierà il nostro destino.

Composta da un ignoto autore in latino e pervenuta attraverso un numero considerevole di codici, databili dalla fine del IX al XV secolo, “La navigazione di San Brandano” (*) di autore anonimo, rifacente alla tradizione celtica dell’Irlanda evangelizzata. Diffusa secondo il genere letterario degli Echtrai, affine all’altro, detto degli Imram, l’autore affida allo ‘spirito del viaggio’ la sua andata per mare, che lo porterà verso ‘l’isola dei beati’ attraverso numerosi avvenimenti fantastici in una sorta di fusione biblica della Terra Promessa.
Allora che c’è di meglio di mettersi all’ascolto di “The Brendan Voyage”, la prima grande suite orchestrale di Shaun Davey (*) condotta da Noel Kelehan, composta per uilleann tubi e suonata da Liam O'Flynn, in cui sono presenti musicisti come Paul MacAteer, Garvan Gallagher e Tommy Hayes. La suite ben descrive la traversata atlantica del VI secolo di Saint Brendan fino al suo arrivo nel Nuovo Mondo.

Quanto basta per immergersi in una avventura oltre i confini della realtà. Un ‘viaggio’ si immaginario quanto magico, in cui la musica affronta il ‘mistero’ dell'imprevisto, dell'inatteso, dell'inspiegabile, quell’infinito e infinitamente vario che è nell’essere del mondo: «..il fatto semplice e immediato di ciò che le cose sono; e in questo senso, che l’essere è l’universale comune a tutti i contenuti del mondo, per quanto essi siano differenti e opposti.» (Simmel).
All’immaginario è dedicata una “Antologia della letteratura fantastica” curata da J.L.Borges, S. Ocampo, A.Bioy Casares (*) ricca di nomi prestigiosi della letteratura mondiale ed altri che riservano al lettore una gradita sorpresa, in cui è detto: «Forse la sua edizione in lingua italiana non produrrà miracoli o evocherà fantasmi. Pure, leggerla o rileggerla farà constatare, come gli ‘spettri’ non vengono solo dal passato remoto o prossimo, bensì richiama a un’identità (umanissima) posta al di fuori del tempo.»

In quel “..assieme schiariscono / i vetri d’acqua, riassorbiti in nuvole, / o da poco voltati, / come chi brilla fuori da quel nembo / impensierito / che il brusio lo bagni freddo; / e non lo dice spesso ma spesso non è, / non ha il sempre desiderato”.

«Così si ritorna alla poesia, all’ondulazione del senso… – nel modo in cui Giorgio Bonacini abbandona alla carta la sua riflessione critica a “Nuvolas” di Umberto Morello (*) – all’ondulazione del senso per incertezza di suoni, vacillamento della voce, incostanza del corpo che scrive ; e alla fine (sempre iniziale, sempre incompiuta) ci si trova, per metamorfosi del movimento umano, in quell’altalenante esistenza linguistica cui il poeta si affida e di cui è lucidamente , ma anche visionariamente, consapevole.»

La consapevolezza visionaria di ciò che non è (o che non c’è), che ha spinto Umberto Eco (*), nei suoi numerosi ‘romanzi’ a sfondo fantastico, alla compilazione di una “Storia delle Terre e dei Luoghi Leggendari” che l’autore stesso attribuisce alla fantasia di un narratore o di un poeta, riconoscendo così alla Poesia un precipuo ruolo culturale, per nulla inferiore a tanta letteratura pseudo-storica, e del suo preminente legame con la musica.
È così che Eco, inseguendo una, cento, mille, illusioni ha elencato in questo libro tutti quei luoghi di cui spesso abbiamo sentito parlare, ed altri che, entrati nella memoria collettiva dei popoli, appartengono oggi al ‘patrimonio universale delle cose materiali e immateriali’ che compongono il nostro bagaglio culturale, e che ancora sostengono ‘lo spirito del viaggio’ nella ricerca del migliore dei mondi possibili.

Un po’ come dire che: «..per viaggiare basta esistere” (Pessoa); così come lo è lo stesso vivere, ma anche scrivere di sé o di quello che sta attorno al sé dal punto di vista della molteplicità, nella sua forma universale. «È necessario comprendere quale prodigioso lavoro ‘spirituale’ sia raccolto in questo concetto, giacché l’infinita ricchezza del mondo, la cui molteplicità nessuno può pensare in una sintesi reale che, la disparità dei suoi contenuti sono un solo disegno, sotto la forza di questo unico pensiero che tutto è: l’astratta significazione dell’essere.» (Simmel).

Né puo mancare in una lista sul ‘fantastico’ che si rispetti “La Ballata del Vecchio Marinaio” di Samuel T. Coleridge (*) illustrata da Gustave Doré, qui presentata in tutta la sua potenza visionaria e fantastica nella versione di Mario Luzi, il quale, pur nella sua aderenza all’originale con testo a fronte, ne ha saputo dare un’interpretazione creativa più vicina alla sensibilità moderna. Inclusa nelle “Lyrical Ballads” nel 1798 insieme ai poemi di Wordswort, è considerata uno dei capolavori della letteratura romantica.
Si narra di come un vascello, oltrepassato l’Equatore, fu spinto dalle tempeste fino alla fredda regione del Polo Sud; e come di là fece rotta verso la linea dei Tropici nell’Oceano Pacifico; e delle cose meravigliose che avvennero e in che modo il Vecchio Marinaio fece ritorno al suo paese. Gustare le stupende incisioni di Gustavo Doré asseconda non poco la lettura di questo prezioso testo:

«Il marinaio racconta come la nave salpò verso sud con vento favorevole e tempo chiaro, finché raggiunse l’Equatore.»

“Il sole si levò dalla sinistra,
venne fuori dal mare!
E lucido rifulse, e sulla destra
si rituffò nel mare.
[…]
E si levò in quel punto la tempesta
furiosa, prpotente;
percossi dalle sue ali ci spinse
lungamente verso Sud …”

Agli amanti della musica ma, soprattutto ai ricercatori più fini, suggerisco l’ascolto del vinile “The Rime of the Ancient Mariner” in lingua inglese, musicato da David Bedford (*) narrato da Pobert Powell con il supporto di Mike Oldfield alla chitarra, per rinfrancarsi con l’originalità della narrazione. Un modo come un altro (meglio d’ogni altro) di spendere il proprio tempo libero in forma intelligente.

Dacché il cinema passa ripetutamente sui teleschermi di casa si è anche perso il gusto di guadarlo nella sua essenza artistica. Un po’ come il continuo passaggio delle ‘notizie stampa’ hanno destituito la lettura dei giornali cartacei, riducendo drasticamente l’importanza della lettura quotidiana che permetteva all’individuo un maggiore apprendimento della cultura tout-court.
Per quanto, poiché il meteo annuncia una certa ‘nuvolaglia’ in arrivo, tanto vale prepararsi per la pioggia, sopraffatto dall’attesa spasmodica dell’acqua che cade dal cielo per placare il ‘deserto della solitudine’ in cui, con gli anni si finisce per soccombere all’aridità dei nostri cuori, la sete di giustizia e finalmente andare incontro alla pace di questo nostro mondo frantumato dalle guerre. Ma non sarà l’Autunno con le sue foglie cadute, che hanno perso il loro colore, a restituirci la tranquillà tanto agognata, a placare quest’arsura che con la pioggia si posa sulla nostra anima in questo giorno imprigionato dall’inquietudine.

“Pioverà? Forse sì, forse no!” – mi chiedo.
Fuori della finestra, le foglie ingiallite volteggiano nel vento, come le nuvole ondose sembrano mettersi in moto, lentamente, come per partire …

‘nuvolaglia’ … a mystic’s dream (*)

vanno (penso riflessivo)
sospinte dai venti
fin dove aspirano andare
nella sospensione effimera del giorno
mutevoli
nella danza senza posa
nell’inseguito emisfero di luce
che ne svela l’arcano delle trame …

Nel frattempo, il calice (solo mezzo pieno) di vino rosso (del colore delle foglie che cadono) è adesso ricolmo in attesa dell’aperitivo serale. Nell’attesa che si avvicini l’ora di cena, inserisco nel lettore DVD “La tempesta” di William Shakespeare (*) della BBC Television Production, nella traduzione di Salvatore Quasimodo, con un cast di attori inglesi di prima grandezza. È così che mi metto subito comodo e dalla lettura delle note introduttive alla ‘collana delle opere shakespiriane’ (*), apprendo quanto segue:

“Nell’universo intertestuale generato dall’opera di Shakespeare, ‘La tempesta’ occupa un posto privilegiato. Rappresentato per la prima volta a Corte nell’estate del 1611 è l’ultima opera dovuta inteamente al maestro, dopo la quale egli si ritirò a Stratford-upon-Avon per morirvi qualche anno dopo, nel 1616. […] Scritta quindi in forma psicologia e poetica forse testamentaria della vecchiaia, ‘La tempesta’, dopo tante esperienze umane e teatrali, è così ricca e problematica, così densa e polivalente da sfuggire a ogni definizione che ne assottigli lo spessore, ne attenui la suggestione, ne soffochi la voce.”
Fin dalle prime immagini della presentazione è il vento che soffia a scatenare ‘La tempesta’di mare che poi s’abbatte furiosa sulla nave e nei versi di Shakespeare all’apice della sua potenza espressiva, fornendo un’acuta indagine sui conflitti fra potere e controllo, illusione e realtà, natura e società, e tutto ciò che ne segue. E già ci sembra di affogare con tutto il bagaglio che ci portiamo dietro, per poi ritrovarci, infine, naufraghi su di un isola fantastica:

«Quante creature perfette son qui! E, come è bello il genere umano! Magnifico mondo nuovo, che ospita una tal gente!» (Shakespeare/Quasimodo)

E quasi ci beiamo, persi in quellEden ritrovato dove tutto è ancora possibile, perché tutto deve ancora accadere. Qui dove il vento non ci è nemico, bensì carezzevole.
Ma il racconto del vento riporta ad antiche note, onde ascoltarne la musica è insieme ascoltare la poesia, un ‘vocalizzo’ prolungato che sale dalle radici degli alberi e accarezzando le foglie le fa vibrare nell’aria, nel canto che dell’Autunno spinge la parola a quell’amore per la verità che ne definisce il pensiero, sicuramente il momento poetico più alto.

“George! Ti pare questo il momento di guardare un film alla TV, quando è quasi pronto in tavola?”
“Certo che no, veramente stavo appena guardando i titoli, la presentazione di un’opera di …”
“Ma per favore, delle volte mi meraviglio di te, sai essere talmente inopportuno, che guarda … tanto-tanto avessi messo su della musica, lo capirei.”
“Detto fatto, amore!” – dico, preso dall’inquietudine di Pessoa (*) già citato nel testo. Poi ripenso alle nuvole di Magritte (*): «Il mondo è cosi totalmente e meravigliosamente privo di senso che riuscire ad essere felici non è una fortuna: è arte allo stato puro.»

A questo punto mi dilungo un po’ e piazzo sul piatto dell’hi-fi il CD “Prospero’s Book” che Michael Nyman ha composto per la colonna sonora del film “L’ultima Tempesta”, di Peter Geenaway (*), una rivisitazione dell’opera di Shakespeare davvero inquietante.

Continua, in riferimento a:
“Non sperate di liberarvi dei libri”, il libro di Jean-Claude Carrière – Umberto Eco - Bompiani 2011 seguirà nella prossima puntata.


NOTE:

1)René Magritte, “Scritti” – Abscondita 2003
2)J.W. von Goethe, “La forma delle Nuvole” - Archinto 2017
3)Giorgio Bonacini, “Sequenze di vento” – Le Voci della Luna 2011
4)Georg Simmel, “Ventura e sventura della modernità” – Boringhieri 2003
5)Anonimo, “La navigazione di San Brandano” – Sellerio Edit. 1992
6)Shaun Davey, “The Brendan Voyage”, (vinile) Tara 3008
7)J.L.Borges, S. Ocampo, A.Bioy Casares, “Antologia della letteratura fantastica” – Editori Riuniti 1992
8)Umberto Morello, “Nuvolas” - Vincitore della XXXii edizione del Premio 'Lorenzo Montano' – Anterem Edizioni / Cierre Grafica 2018
9)Umberto Eco, “Storia delle Terre e dei Luoghi Leggendari” – Bompiani 2013
10)Samuel T. Coleridge, “La Ballata del Vecchio Marinaio” – Rizzoli 1973
11)David Bedford, “The Rime of the Ancient Mariner” (vinile) Virgin Rec. 1975
12)Giorgio Mancinelli, ‘nuvolaglia’ … a mystic’s dream, dalla silloge poetica “Arcana memoria dell’acqua” – Premio 'Opera Prima' - Anterem Edizioni / Cierre Grafica 2019
13)Fernando Pessoa, “Il libro dell’inquietudine” – La Feltrinelli Editore 1986
14)René Magritte, (op.cit.)
15)Peter Geenaway, “Prospero’s Books” – (film) DVD CG HOME VIDEO 199

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- Libri

Momenti d’Autunno / 1 foglie, musica,castagne, vino e libri

Momenti d’Autunno / 1
(..foglie ingiallite e buona musica, castagne arrostite, vino e pagine di libri).

‘fluf’
(..spostamento dell’aria nel voltare pagina)
soffio interstiziale d’avvio
ab initio fino alla fine di un libro
afferente al verso sciolto
come alla frase di un componimento in prosa
libero e arbitrario
dell’immaginale contenuto in ogni trama

«Alcune sere fa, procacciatami una bracciata di legna, rimisi in attività un vecchio camino di casa. Dopo che la stanza si fu convenientemente riempita di fumo e di frammenti bruciacchiati di carta, che svolazzavano qua e là come folletti, le legna cominciarono ad ardere e a riscaldare; trascinai una poltrona innanzi al camino, mi ci accomodai nel miglior modo possibile, e mi abbandonai alla mia lettura preferita …»
È questo l’inizio del ‘prezioso’ libricino di Gino Doria (*) dal titolo assai programmatico: “Sogno di un bibliofilo”, ripescato nella bacheca d’angolo della libreria, tra quelli più vecchi e nuovi, meno in vista e, chissà perché, tenuti in minor conto, sebbene tra essi figurino autori di pregio, editori un tempo stimatissimi, e non in ultimo di buona fattura tipografica.

Fra i quali, sono di sicuro spicco un Seneca (*) tratto dai “Dialoghi” afferente al ‘Tempo’ in cui ci invita a «..non sprecarlo, a tenerlo ben stretto, tutto per noi. Ma dissipiamo ogni ambiguità, […] appropriarsi del tempo significa acquistare libertà e indipendenza, vivere senza falsità e compromessi, meditare su ciò che si è.» Una copia della “Divina Commedia” (*) in formato estremamente ridotto, edita da Hoepli con postille e cenni introduttivi.
Un “Hortulus Litterarum” ossia ‘Magia delle Lettere’ di Paolo Santarcangeli (*), una divagazione e venticinque variazioni sui segni, sui significati e sui simboli ideografici. Seguito dal “Taccuino del fortuito e del non detto” di Guillaume Apollinaire (*) fedele e segreto in cui custodire nel tempo gli appunti presi secondo le circostanze e le opportunità, raccolte con nonchalance.
Nonché una “Guide a l’usage d’un voyageur en Italie” di Stendhal (*), nel quale è detto : «Quali sono i piaceri di un Viaggio in Italia? Almeno sette: respirare un’aria dolce e pura; vedere paesaggi superbi; vedere belle chiese; vedere dei bei quadri; vedere belle statue; sentire della buona musica e ‘to have a bit of a lover’, (in inglese nel testo), corrispondente a ‘farsi corteggiare’».

Nell’attesa di tirar fuori dal fuoco le prime castagne che scoppiettano e lanciano nell’aria il loro profumo, affondo le dita nella ciotola ricolma di uvetta e pinoli che di tanto in tanto porto alla bocca, così, un modo per ammazzare il tempo, mentre fuori … beh, fuori il tempo lascia un po’ a desiderare, s’ode in lontananza l’abbaiare di un cane.
Il piano in sottofondo ripete in musica “Les sons et les parfums tournent dans l’air du soir” di Claude Debussy (*), un suono alquanto moderato che si ripete nel “Feuilles mortes” (*) lento e malinconico che accompagna il cadere delle foglie gialle e rosse che osservo attraverso la portafinestra aperta che dà sul cortile. L’odore che emerge dalla terra mi fa pensare che forse arriverà la pioggia.
Per quanto le foglie cadendo eseguono strane volute, circonvoluzioni, spirali talvolta allegre. «Senza perdermi in vani giri di parole, racconterò (se ne sarò capace), senza per altro dimenticare la pungente ironia che inevitabilmente suggerisce lo spettacolo del (loro volteggiare sulle bellezze e/o miserie) del mondo moderno» … scrive J. Luis Borges (*) in “Le notti di Goliadkin”.

Architetture fantastiche disegnate entro “Archi Voltaici” delle Parole in libertà e sintesi teatrali delle Edizioni Futuriste (*) del 1916; a seguire “L’arte della Macchina” di Enrico Prampolini Futurista (*) e dal “Paradiso Lungo” di Sergio Dangelo (*) animatore del ‘Movimento Nucleare’ per la difesa delle forme libere, fondato dalla rivista “Il Gesto” che portò all’Esposizione omonima del 1955. Per quanto con le castagne arrostite ben bene che provo a togliere dal fuoco (del tempo) si accompagni un buon calice di vino.
La musica mi dice che “La puerta del vino” composta da Debussy sul tema dell’Habanera che il vino dev’essere corposo, aromatizzato ai frutti di bosco (?)o, come si dice, tinto, magari un Porto «..Vivace e brillantissimo, forte di una dialettica suadente e ironica, che il nostro (autore) anonimo […] intesse in una serrata apologia della vite, del vino e delle bevute, dimostrando come l’uomo dabbene non possa fare a meno di Bacco e dell’ebbrezza.» (*)

Il libro successivo, (successivo a chi?) è del dimenticato (di già?) Umberto Eco (*) che, in “Stelle e stellette”, ci ha lasciato una satira bonaria (dice lui), «...di alcuni generali piemontesi di antico stampo, che può essere riletta oggi (tra servizi segreti e ondate migratorie) come un ritratto del nostro apparato statale nel suo complesso – o forse di tutta l’Europa che sta avviandosi al 2000(20) tornando a una situazione ante ’14-’18.»
A seguire un elegante cofanetto, (sempre in formato ridotto), dal titolo “Nudi d’Autore” che raccoglie in tavole a colori i disegni di tre grandi artisti dell’Europa fin de siecle: Klimt/Schiele/Rodin (*) a confronto sul tema dell’eros. Tre diversi e ‘diversamente rivoluzionari’ modi di tradurre in segno originale il mito del corpo umano. Peccato che il cofanetto è ancora sigillato onde per cui non posso citare l’autore né l’anno di stampa.

Meglio non lasciarsi prendere da strane voglie, in una giornata come questa, in cui sento giungere dalla cucina un certo trambusto sospettoso. Che ci siano degli arrivi improvvisi? – mi chiedo. Spero proprio di no. È così che le castagne bruciano, e se non fosse per l’improvviso salire della musica che mi tiene sveglio, potrebbe bruciare anche tutta la casa, me compreso, con tutti i libri che, in forma quasi maniacale, accatasto accanto al letto pensando di leggeri tutti.
Tant’è che non riesco neppure a dare una risposta esaustiva a quanti mi porgono la domanda: “Ma li hai letti tutti?” La mia risposta è delle più semplici si possa immaginare: “So di averli, quanto basta, m’inebriano, mi consolano con il loro odore”. È così, quello dei libri stampati ha un odore particolare, per via dell’inchiostro usato, l’asciugatura della carta, l’alchimia dei colori delle copertine, la colla usata per le rilegature. Sta di fatto che non so spiegarlo, che finisco per sentirlo addosso.

L’originalità di un autore si misura anche in quello che fa, è così che Alfredo Accatino (*), classe 19.. (?), non mi è dato conoscere quanti anni sono passati da ché ha pubblicato il suo “Gli Aforismi che Non hanno cambiato il Mondo”, (ovvero, se non lo dite voi, lo dico io). Un sottotitolo gogliardico e spiritoso derivato dalla sua occupazione quale Direttore Creativo della Winner International Communication e docente di ‘varia umanità’ presso l’Istituto Superiore di Comunicazione Luiss.
Che cosa s’intenda per ‘varia umanità’ mi sfugge del tutto, mi riprometto di indagare. Sebbene il contenuto del libercolo che segue, di un certo Blaise Pascal (*) (vi dice qualcosa?), “Della necessità della scommessa”, approcci una plausibile risposta: «Ho scoperto che l’infelicità umana deriva da una sola causa, quella cioè di non saper restarsene quieti in una stanza.» Fobia della solitudine?

Non so quanti di voi mentre leggono amano ascoltare musica in sottofondo, io sì, e mi beo quando questa addirittura si fonde con l’andamento della scrittura, quasi da suggerire all’occhio il passo da tenere, né troppo lento, né troppo scaltro, tale da scavalcare alcune frasi, oppure facendomi abbassare le palpebre e magari sonnicchiare, crogiolandomi al caldo tepore del camino.
In quanto alla musica, beh la scelta è alquanto discrezionale, come dire, intrinseca della preferenza di ognuno, afferente alla propria sensibilità di ascoltatore. I suggerimenti alla scelta, perché di questo si tratta, sono sempre relativi al genere musicale che si è prescelto come colonna sonora del proprio tempo. Ad esempio, nello scrivere da sempre preferisco l’ascolto del Jazz per la sostanziale libertà improvvisativa che mi concede:

In quel tempo Martha, protagonista del romanzo inedito di chi scrive, aveva un debole per un pianista, un certo Bud Powell (*) … «per quel suo scorrere veloce delle dita sulla tastiera che gli permetteva di ricavare toni molto brillanti – diceva.
Sulla cui musica Blasco (il protagonista maschile del romanzo) s’inseriva con la sua vecchia e gloriosa Remington, arricchendola d’improvvisazioni che riflettevano spesso del suo particolare stato d’animo – quasi volesse contribuire a evocare una qualche divinità marina.»
Per poi proseguire sull’ascolto della musica: «A volte gli capitava di alzare al massimo il volume del giradischi, affinché la musica si sentisse fino alle ultime dune e oltre, fin sull’aperto mare, e poi gettarsi a capofitto nel lavoro e martellare a più non posso sui tasti della macchina per scrivere, quasi a voler infondere alla scrittura un particolare ritmo percussivo».

Un romanzo suggerito dal racconto breve “L’uomo dalla macchina per scrivere” dell’enigmatico e soprendente Fernando Campos (*), sull’alchimia della scrittura: «A dire la verità, il soggetto non ha importanza. Verrà fuori da sé. Quello che importa è avere un buon titolo... e la costruzione del futuro romanzo si realizza, passo dopo passo, ma alla rovescia, nella lieve surrealtà delle pagine.»
Surreale è anche quanto accade nei momenti che dedico alla lettura. Ad esempio, abbino spesso le tematiche affermate nel titolo e sottotitolo del libro, in modo che musica e letteratura si compenitrino l’un l’altra, permettendo alle parole di fluire nella mente allo stesso tempo e allo stesso modo, silenziosamente, apprezzarla. Per questo più spesso opto per la musica inopportunamente detta ‘classica’.

Allora opto per autori meno frequentati come Cesar Franck (*) della “Symphonie in ré mineur” e le “Variations symphoniques” che più si confanno allo spirito più intimo che mi accompagna. Del resto è come scegliere un vino adatto alle vivande che si mettono in tavola il cui abbinamento è sempre dubbio, relativo al ‘bianco’ per certi tipi di alimenti, o il ‘rosso’ per altri; quando tutti sappiamo che è l’aroma dell’uva e l’annata della sua produzione a fare la differenza, benché gli esperti facciano a gara con i suggerimenti e gli abbinamenti, talvolta davvero azzardati.
Allo stesso modo che gli alchimisti profumieri da sempre inventano nuove fragranze pur di acquisire un certo numero di proseliti, mentre sanno perfettamente che tutto dipende dalle specificità della pelle di ognuno quanto sia adeguata all’individuo che la indossa una data essenza. Più speso è l’odore stesso della pelle (nei momenti peculiari), a esprimere l’attrattiva sensuale tra i sessi. Un po’ come voler parlare della moda. Di quale moda? – viene da chiedersi.

Oppure discutere sui quotidiani di politica – per carità! È meglio soprassedere e tuffarsi nella lettura di un libro, magari di filosofia spicciola come il saggio su “La responsabiltà dello scrittore” un inedito di Jean-Paul Sartre (*) del 1946, nel quale l’autore «..delinea la nota teoria dell’engagement dell’intellettuale che, nello scegliere l’argomento di cui parlare, deve assumersi la responsabilità di tralasciare tutti gli altri: dopo la guerra lo scrittore non ha più l’alibi dell’ignoranza e tacere un’ingiustizia significa rendersene complici.»
Per quanto “L’alleanza tra la poesia e la musica” scrive Yves Bonnefoy (*), ci proietti in una «riflessione intorno all’origine dell’emozione estetica che ci conduce ad analizzare l’inestricabile rapporto tra musica e poesia, individuando nelle risorse specifiche di quest’ultima il luogo di formazione di un «accadimento del suono» che è il seme stesso da cui germoglia la musica.»

Intanto fuori è iniziato a piovere, sento il rumore ovattato della pioggia che scende leggera. Temo che la temperatura si sia abbassata di colpo perché i vetri della finestra si sono appannati. Un po’ come la mia vista affaticata dal troppo leggere, tuttavia mai stanca di iniziare un nuovo libro o di ripescarne uno acquistato molto tempo prima e che non ho ancora letto, quale ad esempio il “Il linguaggio del canarino” di Regina (*), una macchina istruttiva e intelligente, con due scritti di Luigi Bracchi e Silvio Ceccato sul Linguaggio e la Comunicazione.
A proposito di ‘letto’ – che è stata la mia più grande affermazione negli anni della giovinezza, oggi preferisco il divano per guardare la TV o la poltrona davanti al camino dove – finalmente – posso crogiolarmi, non senza dappocaggine, e dedicarmi preferibilmente alla lettura di libri di ‘Poesia’ (necessariamente con la maiuscola), gli unici che mi permettono di penetrare, psicologicamente parlando, la mente e la sensibilità degli individui e, per quanto suoni – strano a dirsi – comprendere le diverse sfaccettature dell’animo umano …

Quand’ecco risuona altisonante la voce ‘del padrone’ che mi richiama al dovere:

“Ma George sei ancora lì a leggere? Fai in fretta, sai che dobbiamo uscire, per passare alla posta, fare la spesa al supermercato, spedire le ricette in farmacia e preparaci ad accogliere gli amici che si fermano per il panzo”.
“Quando, oggi?”
“No, non oggi, ora!”
“Proprio adesso, sul più bello. Pensavo avessimo tempo di farlo …”
“No George, c’è che per te non è mai il momento di fare qualcosa. C’è che sei diventato pigro.”
“Ma veramente … mi ritengo più semplicemente un comodo!”

Continua ma: “Non sperate di liberarvi dei libri” – è una minaccia che riprendo dal titolo del libro di Jean-Claude Carrière e Umberto Eco – Bompiani 2011

Note:
1)Gino Doria, “Sogno di un Bibliofilo” – Biblioteca del Vascello 1993
2)Seneca, “Dialoghi” –
3)Dante Alighieri, “Divina Commedia” – Hoepli Milano 1985
4)Paolo Santarcangeli. “Hortulus Litterarum” – All’Insegna del Pesce d’Oro 1965
5)Guillaume Apollinaire, “Taccuino del fortuito e del non detto” – Biblioteca del Vascello 1993
6)Stendhal, “Guide a l’usage d’un voyageur en Italie” – ristampa del quaderno manoscritto e illustrato di 64 pagine in lingua originale e un volume di 72 pagine con il testo tradotto e commentato, riferito a un ‘viaggio italiano’ del 1828 – Biblioteca del Vascello 1987
7)Claude Debussy, “Les sons et les parfums tournent dans l’air du soir” , “Feuilles mortes” – Arturo Benedetti Michelangeli – disco DG 413 450-2 vol. 1 – 2
8)Luis Borges, “Le notti di Goliadkin” – Edizioni Studio Tesi 1993
9)“Archi Voltaici” di Parole in libertà e sintesi teatrali, apparso nelle Edizioni Futuriste 1916
10)Enrico Prampolini Futurista, “L’arte della Macchina” – All’Insegna del Pesce d’Oro 1962
11)Sergio Dangelo, “Paradiso Lungo” – All’Insegna del Pesce d’Oro 1966
12)Anonimo, “Sermone in onore di Bacco e a beneficio dei bevitori” – Archinto (?)
13)Umberto Eco, “Stelle e stellette” – Il melangolo 1991
14)Alfredo Accatino, “Gli Aforismi che Non hanno cambiato il Mondo” – Agendo
15)Blaise Pascal, “Della necessità della scommessa” – Edizioni Studio Tesi 1994
16) Bud Powel, “Inner Fires” , disco Elektra 1046-71007-2
17) Fernando Campos, “L’uomo dalla macchina per scrivere” – Biblioteca del
Vascello (?)
18) Cesar Franck, “Symphonie in ré mineur” e “Variations symphoniques”, disco DECCA 436 382-2
19)Jean-Paul Sartre, “La responsabiltà dello scrittore” – Archinto
20)Yves Bonnefoy, “L’alleanza tra la poesia e la musica” – Archinto
21)Regina (la macchina parlante), “Il linguaggio del Canarino” – All’insegna del Pesce d’Oro -1971


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- Società

Bla,bla,bla parole, parolacce, per non dire delle pantegane.

Bla, bla, bla … parole, parolacce, per non dire delle pantegane.

 

La deprecabile governabilità del binomio giallorosso da poco instauratosi sugli scranni del Parlamento si è già arenata sul ‘fondo melmoso’ delle medesime idiosincrasie che sentiamo ripetere da tempo immemore, come il ritornello della nota canzone: “..parole, parole, parole”. Tant’è che è diventata ormai sinonimo di smaccata ironia: “parole, parolacce e sproloqui” giornalieri, ed eseguita in tutti gli spalti da una parte e dall’altra, come mai prima si era ripetere, neppure dai garzoni (leggi borgatari) dei più malfamati mercati rionali. Ma gli insulti tra i due (anche tre, quattro e cinque) non sembrano bastare mentre i fatti, che stentano ancora a prendere il via, sembrano arenatisi sul fondo stavolta ‘merdoso’ degli intenti lasciati sulla carta, la cui puzza invade le strade e le piazze della Capitale, di quella Roma definita ‘la più bella città del mondo’.

Un’immagine se vogliamo romantica della città resa però invivibile dalla sporcizia riversata che si va accumulando giorno dopo giorno e che ormai arriva all’altezza dei primi piani dei palazzi. Quindi dentro e fuori dal Parlamento lasciata da chi: rossi, gialli, verdi e turchini, tutti assieme, di volta in volta vi si alternano. Venuti da chissà dove, come si suol dire, a ‘cagare’ fuori dal bidone; tant’è che l’hanno trasformata in una discarica a cielo aperto e, come se non bastasse, abbandonata a se stessa senza ispezioni e manutenzioni di quelle aree di giurisdizione che più abbisognano di cure specifiche. Ma non basta. Tutti ricordiamo quando Venditti cantava: “..quanto sei bella Roma quanno è sera” e continuava con “..quanno piove”. Quando piove?, che ne volete sapere Voi se non siete mai capitati a Roma “quanno piove”, quando agli ombrelli colorati vengono sostituiti dalle calosce e le mascherine diventano mute da palombari.

Cioè, è tutto un dire: quando la ‘monnezza’ comincia a sciogliersi in liquami puzzolenti negli acquitrini che hanno riempito le innumerevoli buche stradali; quando le fogne incontinenti straripano e si trasformano in fossati maleodoranti e sprofondano nel sottosuolo. Per non dire delle ‘pantegane’ (leggi ‘sorche’ in romanesco), grasse come porcelli che si arrampicano fin sulle auto in sosta per farsi una doccia d’acqua pulita. E di quei gabbiani cosiddetti ‘reali’ per la loro grossa costituzione che, lasciate le sponde del biondo Tevere s’intrufolano nelle case e incominciano a volteggiare attorno ai frigoriferi. Entrambi ‘sorche’ e ‘gabbiani’ non sono poi così diversi da quei parlamentari che ben si nutrono, a nostre spese, di cibi prelibati e manicaretti, ‘alla faccia di quanti tirano a campare’ con quattro baiocchi di pensione, raccimolati dopo aver sputato amaro per 40anni nei posti di lavoro. Di quanti, haimè, si ritrovano oggi a frugare nei cassonetti dell’immondizia … quella sì davvero ‘indifferenziata’.

 

 

 

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- Poesia

SanPellegrino Festival Nazionale di Poesia per e dei Bambini


SanPellegrino Festival Nazionale di Poesia per e dei Bambini.

Giunto quest'anno alla sua 10^ edizione, incontrando sempre grande interesse e partecipazione, anche grazie al patrocinio dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia, prende il via il “SanPellegrino Festival Nazionale di Poesia per e dei Bambini”, iniziativa che si propone di creare occasioni in cui bambini e ragazzi dalla 3a elementare alla prima media e gli adulti possano esprimersi, nell’ambito scolastico e familiare, attraverso la lettura e la composizione di poesie, rime e filastrocche.

Il tema proposto è di grande attualità: La Terra. Il “pianeta azzurro”, nostra casa comune, ospita e alimenta l’infinita bellezza e il mistero della vita e di ogni vita. È potente ma non invulnerabile, ci sostiene ma ha anche bisogno di noi e del nostro sguardo fraterno e protettivo.”

L’uomo si arroga il diritto di essere il dominatore e lo sfruttatore senza limite delle risorse naturali, mettendo in pericolo la sopravvivenza delle specie vegetali e animali e il suo stesso futuro. Ma se ci accostiamo alla natura e all’ambiente con il giusto rispetto non possiamo che provare stupore e meraviglia per la sua bellezza e sentirci ispirati da sentimenti di fraternità e di responsabilità nella nostra relazione con il mondo.

Possono partecipare al Concorso sia bambini (individualmente o per gruppi) che adulti con poesie inedite che vanno consegnate entro sabato 14 dicembre 2019. Le premiazioni si svolgeranno presso il Casinò di San Pellegrino Terme (BG) il 20 marzo 2020.
Si potranno trovare tutte le informazioni, il bando di concorso, i moduli di iscrizione e la documentazione delle precedenti edizioni del festival sul sito:
www.culturabrembana.com/sanpellegrinofestival

Di grande rilevanza è Inoltre il“Concorso di Fotografia Marco Fusco”:

Il Centro Storico Culturale Valle Brembana "Felice Riceputi" indice il “Concorso di Fotografia Marco Fusco” intitolato “Eleganza discreta di una Valle” -
per ricordare la figura di Marco Fusco nativo e amante della Val Brembana.

Con questa iniziativa il Centro Storico Culturale Valle Brembana si propone di contribuire a far conoscere e valorizzare aspetti non usuali dell’area valligiana, auspicando che le immagini presentate sappiano evidenziare elementi di particolare rilevanza ambientale e bellezza formale.
L’organizzazione del concorso è curata dal Centro Storico Culturale in collaborazione con fotografi brembani.

Il concorso si svolge via Internet sul sito del Centro Storico Culturale Valle Brembana "Felice Riceputi". Le opere devono essere in formato digitale e presentate unitamente al modulo di partecipazione. Il periodo utile per la presentazione delle opere inizia il 10 febbraio e termina il 31 marzo 2020. Saranno premiati gli autori delle prime cinque opere classificate.

La premiazione si terrà a Piazza Brembana il 5 giugno 2020.

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- Cinema

CinEuropa News -

CANNES 2019 Cannes Classics / by CINEUROPA/News
Review: 'Forman vs. Forman' by Vladan Petkovic

20/05/2019 - CANNES 2019: Helena Třeštíková and Jakub Hejna's documentary about Miloš Forman juxtaposes the director's life and creative output in Czechoslovakia and the USA.
Forman vs. Forman [+], the latest biographical documentary made as a collaborative effort by Czech filmmakers Helena Třeštíková and Jakub Hejna (after 2016's Doomed Beauty, on actress Lída Baarová), about great Czech director Miloš Forman, has just world-premiered in the Cannes Classics section of the Cannes Film Festival.
Taking a chronological approach and using archive footage from Forman's films, earlier interviews and documentaries (including Vera Chtylova's 1982 title Chtylova vs. Forman), private archives, and the director's own words from his autobiography What Do I Know?, narrated by his son Petr, Třeštíková and Hejna frame the director's life and creative output predominantly with reference to the relationship between his Czechoslovak years and subsequent exile in the USA.

Starting off with Forman's childhood, which he spent without parents, who died in Auschwitz, and moving on to his early years at FAMU, the filmmakers weave a complex but easy-to-follow story of a man who was as engaging a talker as he was a filmmaker.
"Our biggest inspiration was reacting to this enormous bullshit that was produced back then… It was the essence of boredom!" says Forman about the Czechoslovak cinema of the 1960s. He was instead impressed by Italian neorealism, and Audition and his second feature, Black Peter, reflect this in their presentation of real people with real problems, and their use of non-professional actors.
His international breakthrough, Loves of a Blonde (1965), was the first film to wake Western critics up to cinema made behind the Iron Curtain, and Firemen's Ball was one example of the unbelievable things that were happening in his life. First banned at home, and then released after Dubček's rise to power, it was invited to Cannes in 1968 – which was cancelled on the very day of its premiere. This segment also includes some priceless footage of the director being interviewed in swimming trunks on a Cannes beach.
In 1970, he was invited to the USA to "make a film about hippies" and instead came up with Taking Off, about the clueless parents of kids gone wild, which flopped at the box office but won a Grand Prix at Cannes. Forman relates how he spent two years living in the famous New York Chelsea Hotel, grappling with depression, until Michael Douglas and Saul Zaentz invited him to direct One Flew Over the Cuckoo's Nest, which brought him his first Oscars for Best Director and Best Picture.
Forman explains how he found the story of individual versus an institution very familiar: "The Communist Party was our big nurse telling us what we could and couldn’t do," and Třeštíková and Hejna utilise this mix of biographical and political approach to comment on each of his films. Ragtime was a movie about a man's pride and dignity, The People vs. Larry Flynt was about freedom of speech, and the story of the shooting of Amadeus in Prague would make for a great documentary in its own right, with its mix of politics, art, culture clashes, and the relationship between the creator and his creation.
Forman saw himself more as a Salieri than a Mozart: "Always envying Bergman, Fellini, Antonioni…" A down-to-earth, pragmatic but immensely creative artist, he was also a man whose life included two sets of twin sons with two wives, and whose biggest flop, Valmont, was released at the same time as the start of the Velvet Revolution, led by his schoolmate Václav Havel. Třeštíková and Hejna's biographical-political approach might seem overly convenient, but it is certainly close enough to home and perfectly adequate for a 78-minute biopic.
Forman vs. Forman is a co-production by Prague-based Negativ and French company Alegria Productions, with the participation of Czech Television and ARTE France. Negativ also has the international rights.

BIAFF – BATUMI 2019 Awards International Art-house Film Festival, which has reached its 14th edition, has just presented around 65 films from 35 countries both in its competitive and non-competitive sections. The BIAFF industry platform, “Alternative Wave”, welcomed eight projects from Georgia, Ukraine and Turkey.

'Let There Be Light' wins at Batumi by Vladan Petkovic

23/09/2019 - Other winners include A Tale of Three Sisters, End of Season, Shooting the Mafia, Lovemobil, Forman vs. Forman and Reza Mirkarimi's Castle of Dreams.
The 14th Batumi International Arthouse Film Festival (15-22 September) wrapped last night with a ceremony in the Black Sea city's State Musical Centre. Marko Škop's Karlovy Vary title Let There Be Light [+] picked up the Grand Prix, just two days after winning the same, main award at the Almaty Film Festival.
Iran's Reza Mirkarimi received the Best Director gong for Castle of Dreams, as well as the Award of the Georgian Film Critics’ Jury. Emin Alper's A Tale of Three Sisters [+] won both accolades in the acting categories: Best Actress for Ece Yüksel and Best Actor for Kayhan Açikgöz. Finally, the Jury's Special Prize went to Elmar Imanov's Rotterdam title End of Season [+] (Germany/Azerbaijan/Georgia).
n the Documentary Competition, Kim Longinotto's Shooting the Mafia [+] won the Best Film Award, and Special Mentions were given to Helena Treštikova and Jakub Hejna's Forman vs. Forman [+] and Elke Margarete Lehrenkrauss' Lovemobil [+].
Georgian filmmaker Amiran Dolidze's Locarno hit Animal won the Best Short Film Award, while Hope by Belarus' Aleksandra Markova and Watermelon Juice by Spain's Irene Moray received Special Mentions.

Earlier in the festival, the Lifetime Achievement Awards for Contribution to Cinema were bestowed upon Paul Schrader, Denis Lavant, Krzysztof Zanussi and veteran Georgian actor Manuchar Shervashidze, while on the closing night, the president of the jury, Russian director Alexander Mindadze, received the same honour.

Here is the full list of award winners:
Feature Competition
Grand Prix
Let There Be Light [+] - Marko Škop (Slovakia/Czech Republic)
Best Director
Reza Mirkarimi - Castle of Dreams (Iran)
Best Actress
Ece Yüksel - A Tale of Three Sisters [+] (Turkey/Germany/Netherlands/Greece)
Best Actor
Kayhan Açikgöz - A Tale of Three Sisters
Jury’s Special Prize
End of Season [+] - Elmar Imamov (Germany/Azerbaijan/Georgia)
Georgian Film Critics’ Jury Prize
Castle of Dreams - Reza Mirkarimi
Documentary Competition
Best Film
Shooting the Mafia [+] - Kim Longinotto (Ireland)
Special Mentions
Forman vs. Forman [+] - Helena Treštikova, Jakub Hejna (Czech Republic/France)
Lovemobil [+] - Elke Margarete Lehrenkrauss (Germany)
Short Film Competition
Best Film
Animal - Amiran Dolidze (Georgia)
Special Mentions
Hope - Aleksandra Markova (Belarus)
Watermelon Juice - Irene Moray (Spain)
Lifetime Achievement Award for Contribution to Cinema
Paul Schrader (USA)
Denis Lavant (France)
Krzysztof Zanussi (Poland)
Alexander Mindadze (Russia)
Manuchar Shervashidze (Georgia)

ALMATY 2019 Awards
Let There Be Light wins the second Almaty Film Festival
by Vassilis Economou
23/09/2019 - The Grand Prix was bestowed upon Marko Škop’s drama at the up-and-coming Kazakh gathering, while Maryam Touzani received the Best Director Award for Adam
The fresh-faced and dynamic Almaty Film Festival has wrapped after a successful seven-day run (14-20 September), and ended on Friday night with the awards ceremony, which was held at the Palace of the Republic in Kazakhstan’s largest city.
The triumphant film of the night was Marko Škop’s Let There Be Light [+], which won the Grand Prix in the Official Selection, focused on films that were co-produced by at least two countries. The prizes were dished out by the International Jury, headed up by British director-producer Hugh Hudson, and comprising Russian producer Natalya Ivanova, Portuguese producer António Costa Valente, president of the Tokyo International Film Festival Takeo Hisamatsu and Kazakh actress Samal Yeslyamova.
The Best Director Award went to Maryam Touzani’s feature debut, Adam [+], while Elia Suleiman’s It Must Be Heaven [+] was awarded with the Jury’s Special Prize. The Best Actor trophy went to two thesps ex aequo, as Valentin Novopolskij and Dawid Ogrodnik, who star in Oleg [+] by Juris Kursietis, shared the award, while Georgian actress Salome Demuria was presented with the Best Actress Award for her performance in Dito Tsintsadze’s Inhale-Exhale.
In the non-competitive documentary section, which is organised in collaboration with UNESCO and this year focused on “Women in Cinema”, Women of the Silk Road by Yassamin Maleknasr won the special UNESCO Main Award. Also, Hepi Meti’s Merata, How Mum Decolonized the Screen and Barbara Miller’s #Female Pleasure [+] received the UNESCO Recognition Award.
Finally, at the Alatau Film Awards, which are dedicated to commercial Kazakh films that have been particularly appreciated by the local audience, Best Film was bestowed upon Holidays Offline by Ruslan Akun, as decided via a secret ballot procedure on the Almaty Film Festival website. The other major winner of the local awards was Financier: Playoff Game by Elena Lisasina, which picked up four awards, including Best Director and Best Script.
Finally, jury president and Almaty Film Festival special guest Hugh Hudson received the Lifetime Achievement Award from the president of the festival, Akan Satayev.
Here is the complete list of winners at the second Almaty Film Festival:

Official Selection
Grand Prix
Let There Be Light [+] - Marko Škop (Slovakia/Czech Republic)
Best Director
Maryam Touzani - Adam [+] (Morocco/France/Belgium/Qatar)
Special Jury Prize
It Must Be Heaven [+] - Elia Suleiman (France/Germany/Canada/Turkey/Qatar)
Best Actor
Valentin Novopolskij and Dawid Ogrodnik - Oleg [+] (Latvia/Belgium/Lithuania/France)
Best Actress
Salome Demuria - Inhale-Exhale (Georgia/Russia/Sweden)
Documentary Films
UNESCO Main Award
Women of the Silk Road - Yassamin Maleknasr (Iran/Oman/Tajikistan/Turkey)
UNESCO Recognition Award
Merata, How Mum Decolonized the Screen - Hepi Meti (New Zealand)
#Female Pleasure [+] - Barbara Miller (Switzerland/Germany)

Alatau Film Awards
Best Film
Holidays Offline - Ruslan Akun (Kazakhstan)
Best Director
Elena Lisasina - Financier: Playoff Game (Kazakhstan)
Best Script
Dmitriy Bogomolov - Financier: Playoff Game
Best Actor
Chingiz Kapin and Asylkhan Tolepov - Financier: Playoff Game
Best Actress
Kuralay Anarbekova - Brother or Marriage 2 (Kazakhstan)
Best Cinematographer
Azamat Dulatov - Lift (Kazakhstan)
Best Composer
Alim Zairov and Roman Vishnevskiy - Businessmen (Kazakhstan)
Best Editor
Sergey Bergugin - Financier: Playoff Game

KARLOVY VARY 2019 Competition
Review: 'Let There Be Light' by Vladan Petkovic
02/07/2019 - The relationship between fathers and sons is at the heart of Marko Škop's second feature, which deals with the rise of the extreme right wing in Slovakia
It turns out that both youths belong to the paramilitary organisation The Guard, in which they are trained to "protect their family and homeland". And apparently, Peter was gay. But Adam denies he has any knowledge of what might have pushed his friend to take his own life.
Meanwhile, we come to realise that the family is very religious, and that Milan himself has a collection of rifles and machine guns that he enjoys cleaning – but is trying to make sure the kids don't go anywhere near them. After Sunday Mass, the Denišes go to visit Milan's tough, zealously religious father (Ľubomír Paulovič), who mentions how the rule of the fascist Slovak puppet state during World War II was the only time the country had it good, and in addition humiliates his son for being too soft.

But Milan is a good man at heart, and maybe that is a problem – fascism gains momentum not because too many people are evil, but because too many good people do not act. So he goes to visit Peter's parents and learns that the boy told them he was raped on the day he committed suicide. As he starts to investigate, pressuring his son, the family is threatened. Milan turns to a young priest (an appropriately irritating Daniel Fischer) only to learn that the church condones The Guard's acts even more than the local police.
Those who have seen Jan Gebert's When the War Comes [+], a documentary about a real such organisation called Slovak Recruits, will have no problem recognising the story as ringing very true. And more important than the factual reality of the topic is Škop's straightforward but nuanced script, in which small details reveal much more about modern-day Slovak society than is explicitly shown. However, Let There Be Light is, at its heart, a story about how sons perpetuate their fathers' mistakes by copying their patterns in relationships with their own sons and, in turn, how this eventually creates the incendiary and hateful atmosphere in society that brings scum to the top.

Let There Be Light is a co-production between the two biggest independent production companies in Slovakia and the Czech Republic, Artileria and Negativ, respectively, with the participation of both national broadcasters, Radio and Television Slovakia and Czech Television. Although such a production structure may have led to the film being somewhat less ambiguous than a more arthouse-spirited approach would allow for, the topic it deals with is huge and very important, and it deserves a healthy level of exhibition, both in theatres and on television. Paris-based Loco Films has the international rights.



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- Arte

Settimana della moda a Brera - Milano

SPECIALE SETTIMANA DELLA MODA A BRERA 2019, MILANO — 2019

L'ANNO DI LEONARDO

Leonardo fashion stylist alla corte del Moro.

Costantemente aperta a ogni influenza e grata a ogni ispirazione, la moda ha sempre accettato suggerimenti e accolte nuove tendenze nel suo scorrere lungimirante, ciò per quanto la storia dell’abbigliamento in realtà non sia mai stata scritta per intero o, comunque, ancora non abbia potuto misurarsi con l’evoluzione del ‘costume’ nelle sue accezioni di abbellimento, e perché no di utilità e di praticità, riferite al quotidiano adornarsi. E chissà che non debba ancora passare del tempo prima che una tale storia possa essere scritta.

Acciò ha pensato la Pinacoteca di Brera con questa speciale e ‘immaginifica’ “Settimana della Moda”, l’esposizione dedicata al “Leonardo fashion stylist alla corte del Moro” che inizia oggi 18 Settembre a Milano.

«Forse non tutti sanno che la corte milanese era una capitale della moda, del lusso e dell’arte. Il duca Ludovico il Moro aveva chiamato infatti presso di sé l’architetto e pittore Donato Bramante e soprattutto Leonardo da Vinci che di fatto cambiò per sempre il corso della pittura milanese, influenzando sia allievi diretti che seguaci grazie alla sua pittura sperimentale. Ma alla corte del Moro Leonardo era anche regista di feste celebri come quella del Paradiso del 1491 e addirittura fashion stylist, avendo curato e progettato nei dettagli il costume da torneo del conte Galeazzo Sanseverino.»

Più spesso le ‘Corti’ della Moda tout court hanno dato originali contributi alla trasformazione dell’abbigliamento. Seppure, è indubbio, essa sia da considerarsi un prodotto privilegiato di una società elitaria, in quanto «..fenomeno collettivo che nel modo più immediato ci fornisce la rivelazione che vi è del sociale nei nostri comportamenti» (Stoetzel), e che presenta «una dialettica del conformismo e del cambiamento spiegabile solo sociologicamente» (Barthes); pretesti che permisero a Francesco Alziator (*) di rendere manifesta una prerogativa assoluta della moda: «..per cui la singolarità delle fogge si è sempre distinta in quanto motivo di curiosità e attenzione da parte di studiosi di filologia linguistica, mito, fiaba, narrativa e del folklore.»

La moda dunque vi appare come fenomeno di processi evolutivi tendenzialmente collegabili a questo o a quell’ordine di idee estetiche ‘psicologiche nonché sociologiche ed etnologiche’, che va registrata come tendenza nella continua invenzione ‘fantasiosa e arbitraria’ della quotidianità, per quanto sia entrata a far parte del patrimonio ereditario delle diverse culture dei popoli. Non di meno vanno tenute in conto la manualità artigianale, la merceologia, la chimica e la tecnologia dei tessuti, la sartoria, la progettazione e il design, che trova nell’originalità dell’arte, così come nell’immaginario collettivo, proprie linee ‘poetico-strutturali’, tipiche della cultura elitaria e non di meno popolare. Per quanto è ancora oggi riscontrabile nei musei, nelle raccolte private e quantaltro; ricostruibile attraverso le varie fonti a disposizione, a incominciare dalle Biblioteche Universitarie di molte città italiane.

Non sembri quindi azzardato supporre che la moda, nei fondamentali aspetti che la caratterizzano, è di fatto nata con l’uomo storico, sebbene è con l’avvento della società capitalistica che si fa coincidere l’insorgere di quella specie di ossessione per il nuovo o ‘neomania’ di cui l’abbigliamento rappresenta uno degli aspetti più eclatanti. È interessante ricordare come un altro storico del costume, Jules Quicherat (*), abbia fissato intorno al 1750 i canbiamenti più rilevanti della moda nella prospettiva storica più ampia. La cui evoluzione si è svolta: «..secondo un ordine proprio tendenzialmente autonomo, a conferma di come le ragioni attraverso le quali ogni novità s’impone, siano da ricercarsi sul piano dei significati sociali necessariamente insiti al fenomeno collettivo.»

È a questo punto che al fascino leonardesco, che permea di sé tutta Milano, non sfuggano gli aspetti più nascosti e segreti dell’arte del costume, sollecitando in chi osserva oggi le sue ‘opere’ la curiosità e il mistero intrinseco di alcuni elementi personali talvolta colti nell’intimità degli sguardi, da stimolare le più recondite sollecitazioni di misurata bellezza e immacolata simbiosi fra corpo e abito, concellando quasi gli artifici e le costrizioni dell’arte. Affermazione questa che rende possibile ripercorrere a grandi linee la storia di almeno un secolo di intima ‘fashionable’ eloquenza della moda, quella simbolica e luminosa di ‘essere’, ma anche quella imperfetta e misteriosa del ‘l’apparire’, inscindibili l’una dall’altra, e che pure permette a noi post-moderni, di porci, per così dire, davanti allo specchio coperti del candore della nostra intima nudità, prima di rivelarci all’amore e di lasciarci andare ai turbamenti della sensualità.

«A dettar legge in fatto di moda a Milano è (all’epoca) però la duchessa Beatrice d’Este, sempre impegnata a festeggiare matrimoni, nascite, giostre, ospiti, attorniata dai suoi nobili cortigiani ma anche da artisti, letterati, poeti e musici. Celebre è del resto la sua passione in questo campo: nel solo 1491 si fa confezionare 83 abiti, sotto le sue direttive, in un ideale gara tra regine del gusto, oggi diremmo modaiole o ancor meglio influencers, tra lei e la sorella, quella Isabella d’Este, duchessa di Mantova, che non a caso ospiterà anche lei Leonardo. A loro si devono non per nulla l’invenzione di acconciature e di tante altre innovazioni della moda dell’ultimo Quattrocento. Si narra addirittura che Beatrice sopportò la presenza di Cecilia Gallerani, l’amante ufficiale del marito Ludovico finchè il duca non ebbe la sventatezza di regalare due abiti identici a lei e alla moglie. La celebre dama ritratta da Leonardo ‘con l’ermellino’ fu di conseguenza prontamente cacciata dalla corte sforzesca.»

C’è in questo ritratto così tanta femminilità che improvvisamente, e sotto i nostri occhi attoniti, è recuperata per intero una certa ‘grazia’ dell’essere donna che, in certo qual senso, ci fa ricredere delle ‘mode’ che si sono susseguite nel tempo, tale da sembrare oggi andata perduta. Soprattutto recentemente, allorché la globalizzazione ha portato sulla scena metropolitana qualcosa che di ‘femminilità’ ha davvero poco, anzi niente.
Non di meno «..lo sfarzo e l’eleganza della corte di Ludovico Sforza detto il Moro sono manifeste nell’incidenza politica degli elementi di moda che concorrono all’elaborazione dell’immagine ufficiale destinata a celebrare quel diploma di investitura imperiale, arrivato finalmente nel 1494, che ne riconosceva il potere ducale su Milano, esercitato ufficiosamente ormai da anni. […] Il magnifico guardaroba del Moro ha la caratteristica di essere contraddistinto da una vasta fantasia decorativa di imprese: disegni e motti di famiglia che servono a comunicare il proprio potere e la propria continuità dinastica, ribadendone la legittimità di governo.»

Tuttavia in questo ipotetico viaggio nella moda Leonardo evidenzia una sua particolare chiave di lettura che va oltre le avvenute variazioni del semplice vestire, annotando come il costume sia adatto a tutte le varianti possibili e le molte interpretazioni che di volta in volta si sono succedute fino a noi contemporanei sia in ambito femminile che in quello maschile. Come, ad esempio, che si può essere diverse/i conservando la propria femminilità in concomitanza con quella dei propri partners. Infatti sempre più spesso l'utilizzo e il dichiarato scambio dei ruoli, così come appare sulle pagine dei rotocalchi e ancor più nel cinema, ciò che permette ormai di dire che c’è più motivo di nascondere o mistificare la propria immagine. Non che le donne o gli uomini non conoscessero e frequentassero le piacevolezze delle letterarie “amicizie particolari”, o “pericolose” che dir si voglia. Quelle stesse che Roland Barthes (*) analizza secondo i canoni dello strutturalismo, nel linguaggio usato da un campione di stampa femminile (strumento senza il quale la moda sarebbe ormai inconcepibile) che gli permette di ravvisare nella moda un ‘sistema’ indipendente a tutti gli effetti.

Per quanto a promuovere questo sistema e la sua annessa retorica è ovviamente l’esigenza di trasformare gli oggetti dell’abbigliamento, in beni di consumo originariamente durevoli, in prodotti di rapida usura, alquanto psicologica, così è nel darsi la possibilità di eccepire il superfluo, fare le proprie esperienze, adattarsi alle convenienze concettuali, riconoscersi nella realtà che ci circonda, perché, va detto, la moda è dentro e fuori di noi e ci consegna a quell’effervescenza della modernità in cui, volenti o nolenti, ci conduciamo. O almeno così sembra, ma è vero semmai anche il contrario: la moda contemporanea determina, sia pure a livelli nuovi e diversi, una costrizione tanto più rigorosa quanto meno dichiarata, spinta dalla sua stessa dinamica ad aumentare costantemente l’ampiezza della scelta e ad accelerare i tempi del consumo. Va detto che se un giorno la moda dovesse tornare a rispondere anzitutto ai naturali criteri di protezione, pudore, economicità, non potrebbe non guadagnarne anche in ogni altro senso.

L’importante è mantenere una certa ‘identità nella dignità' che serve alla conservazione della specie, nella continuità che ci vede umani allo stesso modo, con le nostre defiance, i nostri dubbi, la nostra diversità (talvolta negata), pur nella somiglianza e nella similitudine, al di dentro dei mutamenti sociali e delle mode. Mi chiedo se non sembra anche a voi visitatori di Brera di sentire l’effervescenza di quella vanità che fuoriuscire dalle opere leonardesche che si lascia leggere come un’intima promessa d’amore? Di percepire l'effluvio soporoso di una certa corporeità, promessa in sé di un corpoche si svela? Beh, provate di tanto in tanto a chiudere gli occhi per un istante e ben presto il suo profumo presto vi ammalierà.



NOTE:
(*) Francesco Alziator, storico del costume popolare scrisse a fronte de “La collezione Luzzietti”, (libro illustrato De Luca Editore 1963): «Per una storia dell’abbigliamento popolare in Sardegna».

(*) Jules Quicherat ,archeologo e storico francese,"Histoire du costume en France depuis les temps les plus réculés jusqu'à la fin du XVIIIe siècle" (1875).

(*) Roland Barthes, ‘Système de la Mode’- L'intera opera di Roland Barthes è cosparsa di acute osservazioni sui significati sociali dell'abbigliamento e del costume:"Il senso della moda. Forme e significati dell'abbigliamento" - Einaudi 1967.

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- Musica

Novara - European Jazz Conference

Tutto pronto a Novara per la European Jazz Conference 2019

 

.. la massima conferenza a tema jazz a livello mondiale, che ospita in città da giovedì 12 a domenica 15 settembre 380 delegati provenienti da 40 Paesi.

 

La manifestazione è un momento di incontro con momenti di formazione, di incontro e musicali di alto livello. Il programma musicale della European Jazz Conference 2019 ha il suo culmine venerdì 13 settembre alle ore 21:30 al Teatro Coccia di Novara con il Gala Concert, con protagonisti d'eccezione Franco D’Andrea Octet in “INTERVALS” e Gianluca Petrella in “COSMIC RENAISSANCE”,  davvero "imperdibili!" e ai 'concerti' Fringe.

 

Il Gala Concert vede protagonisti Franco D'Andrea e Gianluca Petrella con due progetti straordinari che esemplificano la sperimentazione e la ricchezza di stili delle varie generazioni del jazz italiano, prevede un biglietto minimo d'ingresso, acquistabile presso la biglietteria del Teatro Coccia oppure sulla biglietteria online.

 

Il programma musicale della European Jazz Conference 2019 non finisce qui e il calendario prevede anche una serie di Fringe Concerts aperti anche a coloro che non sono iscritti alla conferenza e ad ingresso libero, al Piccolo Coccia di Novara e in altri affascinanti luoghi della città.

 

Calendario:

• mercoledì 11 settembre, ore 21:30 - 22:15 - Piccolo Coccia

FRINGE: Eloisa Manera "Duende"

• mercoledì 11 settembre, ore 22:15 - 23:00 - Piccolo Coccia FRINGE: Mirko Signorile "Trio Trip"

• giovedì 12 settembre, ore 22:30 - 23:15 - Piccolo Coccia FRINGE: WE3 (Francesco Chiapperini, Luca Pissavini, Stefano Grasso)

• giovedì 12 settembre, ore 23:15 - 00:00 - Piccolo Coccia FRINGE: Raffaele Casarano & Mirko Signorile

• venerdì 13 settembre, ore 23:00 - 23:45 - Teatro Coccia FRINGE: Roberto Ottaviano "Eternal Love"

• sabato 14 settembre, ore 09:30 - 10:00 - Basilica di San Gaudenzio FRINGE: Marco Colonna solo (nella foto)

• sabato 14 settembre, ore 21:30 - 22:15 - Piccolo Coccia FRINGE: XY Quartet (Nicola Fazzini, Alessandro Fedrigo, Saverio Tasca, Luca Colussi)

• sabato 14 settembre, ore 22:15 - 23:00 - Piccolo Coccia FRINGE: Andrea Grossi "Songs & Poems"

• sabato 14 settembre, ore 23:00 - 23:45 - Piccolo Coccia FRINGE: Enzo Favata "Crossing Quartet"

• domenica 15 settembre, ore 13:00 - 13:45 - Chiostro della Canonica del Duomo FRINGE: con Federica Michisanti "Horn Trio"

 

Our mailing address is: info@novarajazz.org

Novara Jazz - Via Mameli 8 - Novara.

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- Politici

Bla, bla, bla … Conte-ntiamoci!?

Bla, bla, bla … Conte-ntiamoci ! ? ! ? !?!?!?!?

 

E due. Bugia + bugia (al governo del paese) non fa 2 bugie, bensì confeziona una ‘farsa’ senza ritegno che ci saremmo risparmiati volentieri. D’altro canto un perdente + perdente (all’opposizione) non fa 2 perdenti, consegue piuttosto una volgare demagogia politica.

 

Con ciò la democrazia s’avvia alla sua apostasia finale, al tradimento definitivo della supremazia popolare in fatto di governo, assicurando con ciò, e senza possibilità di smentita, lo ‘sfascio’ ideologico-politico di una realtà democratica sovrana che chiede un confronto reale; sia sul piano economico, che guardi alle misure di crescita e di sviluppo, che alle politiche sul lavoro e al debito pubblico; sia rivolto al welfare e alla cultura, così come alla ricerca e alla salute, tematiche queste che destano molta preoccupazione negli italiani, prima ancora che in Europa e nel resto del Mondo.

 

La ‘nuova intesa’, (che nuova non è perché se ne favoleggia da tempo), non è apprezzabile né convincente sotto nessun punto di vista, per mancanza di quella ‘dignità’ necessaria al ricambio reciproco da entrambe le parti: di chi sta-va al governo e di chi si affaccia ex-novo a governare. C’è da chiedersi dove sta andando questo paese? Dove ci porterà questa nuova gestione tanto approssimativa?

 

Quale forza di contrattazione politica potrà avere l’Italia in Europa? Allorché assistiamo alla sottomissione della sovranità nazionale alle politiche discriminanti di ‘comici’ sovranazionali e/o dei ‘poteri forti’ che occultamente governano il paese.

 

Perché, per quanto si metta la testa sotto la sabbia, di questo si tratta, anche quando si invoca il ‘diritto al voto’ dei cittadini, mentre, in realtà, si vota in parlamento ‘a scrutinio segreto’ per ogni singola proposta (bugiarda e ingannevole), sui ‘giochi’ decisi e consumati nelle stanze segrete del Parlamento, e nel mancato rispetto della Costituzione.

 

“Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati!”

 

È durante questo ‘vuoto governatorato’ che qualcuno si dice molto preoccupato delle ‘nuove politiche’, mentre altri decidono ‘a tavolino’ quali sono le priorità necessarie a risolvere la crisi istituzionale in corso, senza misurarsi e/o confrontarsi con le piazze reali e con il voto popolare. Ma chi andrà per primo a comprare il gelato, chi ci metterà la faccia, e chi si drogherà della maggioranza dei voti? E' ancora tutto da verificare.

 

Perdere la faccia o mantenere la poltrona (?) è diventato ormai il gioco di società più in voga, in cui i politici (da una parte e dall’altra) credono di farla franca, senza aver chiesto prima il prezzo del ‘cono’ che pretendono ‘ad ogni costo’ di far loro. Benché sappiano che alla chiamata alle urne gli italiani talvolta hanno uno scatto isterico di sana ribellione.

 

E non presentandosi alle urne (o meglio ancora votando scheda bianca), il 'popolino' come lo chiamano loro, potrebbe capovolgere la situazione e così facendo, infilargli il ‘cono’ nel c..o, stravolgendo tutte le loro aspettative. E ben gli starebbe, perché il problema in realtà è un altro, come da sempre accade, sono proprio loro, i signori politici (si fa per dire) che poi finiscono per prenderci gusto.

 

L’interrogativo vero è se riusciranno a sacrificare le proprie ‘ambizioni velleitarie’ di ‘potere assoluto’, che mettono gli uni contro gli altri, smarcando definitivamente il Nord dal Sud, dopo le promesse (e che promesse!) fatte: sia di carattere assistenziale, sia di attuazione di servizi e di risorse che (secondo loro) dovrebbero assicurare non più la semplice sopravvivenza, ma la restituzione al Sud della ‘dignità della vita’.

 

La chiamata alla piazza da parte delle future opposizioni può avere un senso se indirizzata a contrastare alcune ‘irregolatezze parlamentari’ che, a loro volta, i politici di tutte le fazioni hanno attuate pro-loro, ogni qual volta che hanno occupato gli scranni del Parlamento, senza tener conto che su quelle poltrone, li ha  messi quel ‘popolino’, come lo chiamano loro, che ‘svegliandosi’ potrebbe tornare ad alzare la mannaia in Piazza del Popolo (la bella piazza della capitale) e far cadere le tanto prezzolate teste di c... che, dopo essersene dette di tutti i colori, adesso si scambiano i favori.

 

Conte-ntiamoci … ma anche no. Grazie.

 

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- Politica

’Bla, bla, bla ...cercasi leader disperatamente’

“Bla, bla, bla … cercasi leader disperatamente”

Peccato che sia finita la cenere, altrimenti avremmo assistito a uno spolvero straordinario sul capo di molti parlamentari fintamente pentiti che oggi si recano a Canossa. Li avrei osservati piacevolmente piangere lacrime amare … per i lasciti sanciti dal nuovo corso della politica fallimentare che hanno messo in atto.

Spiacevolmente i Talebani fermano il passo a quanti si prostrano contriti sulla via di Damasco impedendo loro di bagnare di lacrime le strade del deserto che, tanto faticosamente, hanno contribuito a sollevare con le loro azioni distruttive … ma ciò che si è consumato sul ‘vuoto’ politico non può che risolversi nel ‘nulla’ istituzionale.

Né l’una né l’altra ipotesi però sta in piedi, poiché, mancando un autentico ‘leader’ che la storia nazionale richiede, il sipario rischia di non apririsi sulla scena, lasciando che la platea in parlamento si azzuffi … mentre, dietro le quinte, i così chiamati ‘protagonisti’, si scambiano le casacche politiche, i belletti e i lustrini da prime donne.

Chi si arrufferà i capelli e le idee; chi li tingerà per ringiovanirsi inseguendo le proprie bugie; chi spalancherà gli occhi ‘vuoti’ sul mondo del lavoro; chi perseguirà la propria arroganza e volgarità al servizio di quanti non si sono mai realizzati nella vita; e/o che stringendo le immagini religiose dichiara apertamente la sua blasfemia.

La verità è invece più imbarazzante, nessuno di loro, non avendo la stoffa del ‘leader’ si lanciano in promesse meravigliose quanto assurde: lavoro, giustizia, famiglia, aiuti sociali, accordi internazionali, denaro (pro –loro) ecc. ecc. … “abbiamo sconfitto la povertà”.

Ma si avverte quanto le promesse dei nuovi ‘messia’ suonino false alle loro stesse orecchie, tant’è che se le rimangiano spesso e le sostituiscono con altre che non porteranno mai a conclusione … i cosiddetti ‘partiti del fare’, non considerando la carenza delle disponibilità economiche, semplicemente, non faranno un bel niente.

Arriviamo così alla “Caduta dell’Impero Romano”, dopo gli insulti reciproci, gli attacchi personali, le minacce giuridiche, gli approcci confusi e le conraddizioni con la stampa e nei talk-show TV … che hanno dato uno spettacolo scandaloso di un’Italia ‘stracciona e cialtrona’, resa ancor più indecente da una conduzione politica volgare.

La “Caduta” è infine arrivata più che aspettata, cercata, voluta, inevitabile. Le cause sono sotto gli occhi di tutti; la ragione, se di ragione può dirsi, è che non sembra fermarsi. Sembra che il fondo non sia ancora stato toccato ma che non sia poi così lontano … aspettiamoci di peggio.

Se quello che si sta prospettando si attuerà, ben presto finiremo nel panico istituzionale, e assisteremo a connubi insoliti quanto improponibili; il ‘minestrone politico’ che non abbiamo ancora digerito, lascerà il passo al rigurgito di tipo influenzale … a livello nazionale e la ‘gente’, più che mai decisa, abbandonerà le urne in massa delusa.

La convalescenza potrebbe essere lunga se non si trova, fin da subito, un ‘personaggio’ altolocato, politicamente preparato, giuridicamente trasparente, che va cercato disperatamente quanto immediatamente …

Ma dov’è? Se mi guardo attorno, non vedo nessuno.

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- Cinema

Cineuropa a Locarno - intervista a Fabrice du Welz

CINEUROPA NEWS : LOCARNO 2019 Piazza Grande

Fabrice du Welz • Regista di Adoration: "Sono un regista istintivo. Lavoro rozzamente, sul momento”.

Intervista di Aurore Engelen.
16/08/2019 - Cineuropa ha incontrato Fabrice du Welz in occasione della prima internazionale del suo nuovo film, Adoration, nella Piazza Grande di Locarno
Adoration, che chiude la trilogia di Fabrice du Welz dopo Calvaire e Alleluia, questa volta è ambientato nelle Ardenne ed enfatizza l’amore dissennato di un giovanotto semplice e innocente per una giovane ragazza psicotica. Il regista belga segue la fuga folle di Paul e Gloria, diventati inseparabili. Lo abbiamo incontrato in occasione della prima internazionale nella Piazza Grande del Locarno Film Festival.

Cineuropa : Il tuo giovane eroe, Paul, vive intensamente e in maniera assoluta una storia d’amore che sembra sfuggire al suo raziocinio.

Fabrice du Welz : L’idea era di approcciare questa storia nella maniera più semplice e viscerale possibile. Sono giovani ragazzi che devono affrontare emozioni troppo grandi per loro, e vi si perdono. Durante l’adolescenza le storie d’amore ci annientano, la sensazione di essere innamorati è totale. Ho voluto trattare l’amore come un risveglio spirituale che tende al misticismo.

Detesto il realismo nel cinema, nonostante io ami l’iperrealismo. Ciò che sto cercando è una sorta di astrazione, in tutto. Cerco di spingere i codici del film drammatico verso qualcosa che è tanto astratto quanto fisico.
Ma allo stesso tempo è un film in cui mi sono messo a nudo molto più di quanto faccia di solito. Di norma mi nascondo un po’ dietro il grottesco e a scene sanguinolente. Qui c’è stato un reale desiderio di purificazione. Il film si affida interamente a questo ragazzo, tutto è visto da una prospettiva in prima persona, con lo sguardo di un essere gentile e innocente. Qualcuno che è profondamente buono.

Con Paul è la prima volta che si trova un soggetto così gentile al centro della tua storia. L’accesso alle emozioni è una cosa che ho ricercato per tanto tempo. Ho sentito che era il momento di provare qualcosa di nuovo, di superare la mia timidezza. I grandi registi che amo, da Bergman ad Almodóvar, sono quelli che non esitano a fare uso della propria intimità, delle proprie emozioni private, per farne dei film. Lo trovo ammirevole, ma allo stesso tempo mi spaventa. In un certo senso mi trovo a un incrocio con questo film. Ho bisogno di misurare me stesso con qualcosa di più semplice, e di mettermi a rischio.

Mentre il film si sviluppa avviene una sorta di rovesciamento: i due adolescenti sono sempre meno reali?

I miei film trattano sempre di frontiere. Andiamo da un ciclo a un altro, è più difficile orientarci, le cose diventano quasi spettrali. Ciò che mi interessava era farle evolvere in un paradiso, poi in un purgatorio e poi in uno spazio infernale, sino a una specie di liberazione che è soggetta all’interpretazione di ogni spettatore.
Hai un approccio molto strutturato durante le riprese. Giri a 360 gradi, quanto più vicino possibile ai corpi degli attori, a cui dai molte indicazioni durante ogni ripresa.
Lavoro come un artista visivo. Abbiamo inquadrato il film e utilizzato molto lo zoom. Non riesco a non vivere le sequenze, ho bisogno di essere un attore. Sono proprio lì con gli attori, e lavoro insieme a loro. Bè, a volte mi agito davvero troppo, forse mi manca un po’ di distanza! Ammiro i registi cerebrali che sanno visualizzare l’organizzazione di tutto. Ma io son un regista istintivo. Lavoro rozzamente, sul momento. Ho bisogno di rimpastare il materiale, il discorso con i miei attori, di dargli una spinta qua e là, di vivere qualcosa con loro.

La colonna sonora e la direzione artistica del film hanno particolarmente risalto all’inizio dei titoli di coda. Perché?

Il nostro intento con Adoration era quello di realizzare un film che sarebbe ritornato al realismo poetico degli anni ‘30 e ‘50 del secolo scorso, quando il cinema francese produceva grandi film di genere: Cocteau, Carné, Franju, Melville…
Oggi questo è un genere completamente scomparso in Francia. Il cinema di genere attualmente è legato al cinema americano, al cinema di sfruttamento degli anni ‘70. E ci siamo dimenticati che, negli anni ‘50, in Francia c’era un genere florido: il realismo poetico. Persino a casa, in Belgio, prima dei fratelli Dardenne, c’era André Delvaux. Abbiamo voluto fare un film che si sbarazzasse della patina americana di genere, e che non avesse paura di finire nella poesia. A tale scopo, avevamo bisogno di collaboratori che andassero in quella direzione. Sul set, il trio tra la messa in scena, gli scenari e la direzione fotografica era forte.

Io sono ossessionato dalle cose che risplendono, che hanno consistenza. A volte mi sconvolge vedere il cinema che guardano i nostri figli. Forse sono io che sto diventando un vecchio imbranato, ma è tutto patinato, freddo. Credo che gli scenari abbiano un’anima. E che quest’anima si mostri, in un modo o nell’altro, nel film. Tutto ciò deve essere orchestrato visivamente, e nella musica. Specialmente in questo caso, dato che ci occupiamo delle scintille dell’amore. Il cinema è un’arte profondamente sensuale, c’è la bellezza delle ambientazioni, delle emozioni, della natura.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?
In autunno girerò il mio nuovo film Inexorable. Sarà caratterizzato da un’unità di tempo, spazio e azione. Tutto si svolge nella stessa casa. È la storia di una coppia, uno scrittore senza successo e una donna che si prende cura di ogni cosa per lui e che ne è perdutamente innamorata. Un giorno, una donna di 20 anni, fastidiosa e turbolenta, farà tutto ciò che può per entrare nella casa. L’idea è di fare un thriller, più cerebrale, ma che possa solo essere uno studio del personaggio.
Sinossi:
Il dodicenne Paul vive con sua madre nell’istituto dove lei lavora come infermiera. Quando incontra Gloria, decide di fuggire con lei...

titolo originale: Adoration
paese: Belgio, Francia

rivenditore estero: Memento Films International
anno: 2019
genere: fiction
regia: Fabrice du Welz
durata: 98'
sceneggiatura: Fabrice du Welz, Vincent Tavier, Romain Protat

cast: Thomas Gioria, Fantine Harduin, Benoît Poelvoorde, Laurent Lucas
fotografia: Manu Dacosse
montaggio: Anne-Laure Guégan
scenografia: Manu Demeulemeester
costumi: Florence Scholtes, Christophe Pidré
musica: Vincent Cahay
produttore: Manuel Chiche, Violaine Barbaroux, Vincent Tavier
produzione: Panique, The Jokers, Savage Film
supporto: Centre du Cinéma et de l’audiovisuel de la Fédération Wallonie-Bruxelles (BE), Eurimages
distributori: Imagine, The Jokers, Adok Films


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- Cinema

Locarno - Festa del Cinema in Piazza Grande


Con CINEUROPA a LOCARNO 2019 Piazza Grande / Cineasti del presente / Moving Ahead / Fuori concorso / Semaine de la critique.

La Piazza Grande di Locarno tra film d’autore e grande pubblico
articolo di Muriel Del Don.

17/07/2019 - La 72esima edizione del Locarno Festival vede presenti numerosi film europei nelle sezioni parallele ma anche sulla prestigiosa Piazza Grande:

“C’è anzitutto la sfida della Piazza Grande che abbiamo affrontato con la volontà di farne un trait d’union tra intense visioni d’autore e il grande pubblico”, ecco cosa ci dice Lili Hinstin, la nuova direttrice de Locarno Film Festival, che a desvelato oggi il programma della nuova edizione del festival (leggi la news sul concorso internazionale), a proposito della programmazione della prestigiosa Piazza locarnese. Una volontà quella di Hinstin di toccare la sensibilità del grande pubblico ma anche di stuzzicare l’appetito di cinefili sempre più esigenti alla ricerca di qualità ma anche e soprattutto di novità.
Presenti sulla Piazza Grande film che spaziano dal genere thriller psicologico quale Instinct della regista olandese Halina Reijn, all’action movie angosciante 7500 di Patrick Vollrath (presenti a Locarno con il suo primo film) passando dal genere film giudiziario con il franco belga La Fille au bracelet di Stéphane Demoustier (news), senza dimenticare la sana e rigenerante comicità di Valérie Donzelli che presenterà Notre Dame.

Impossibile non citare anche l’ultimo lavoro di Quentin Tarantino (presentato a Cannes) Once Upon a Time… in Hollywood. Numerosi per non dire maggioritari i film europei che sfileranno sulla Piazza Grande, segno della diversità e qualità di una cinematografia decisamente in buona salute: gli italiani Magari di Ginevra Elkann (film d’apertura) e Il Nido di Roberto De Feo, la produzione francese Camille di Boris Lojkine, il cortometraggio franco svizzero New Acid di Basim Magdy e la coproduzione belgo francese Adoration di Fabrice Du Welz, la commedia svizzera Die fruchtbaren Jahre sind vorbei di Natascha Beller e le produzioni venute dalla Gran Bretagna Days of the Bagnold Summer di Simon Bird e Diego Maradona di Asif Kapadia.

Per quanto riguarda l’attesa programmazione della sezione Cineasti del presente, Lili Hinstin sottolinea la volontà di spaziare nella selezione “di opere estreme, spesso al confine tra cinema documentario e finzione, che inventano un nuovo modo di fare cinema e ci fanno guardare il mondo da una diversa prospettiva”. Numerose in effetti le opere sorprendenti di registi pronti a rompere gli schemi : l’opera seconda dell’attrice Jeanne Balibar Merveilles à Montfermeil, Space Dogs di Elsa Kremser e Levin Peter che da voce al primo cane (Leika) mandato sulla luna, fino al surreale e incisivo film svizzero Love Me Tender di Klaudia Reynicke. Altro sorprendente film svizzero presente è L’île aux oiseaux del duo Maya Kosa e Sergio da Costa.

Anche per questa sezione locarnese ritroviamo numerose produzioni e coproduzioni europee: Here For Life di Andrea Luka Zimmerman e Adrian Jackson (Gran Bretagna), Ivana the Terrible di Ivana Mladenović (Romania/Serbia), gli italiani L’apprendistato di Davide Maldi e The Cold Raising the Cold di Rong Guang Rong, la coproduzione belgo francese Overseas di Yoon Sung-a ma anche 143 rue du désert di Hassen Ferhani (Algeria/Francia/Qatar), Oroslan di Matjaž Ivanišin (Slovenia/Repubblica Ceca) e The Tree House di Minh Quý Trương (Singapore/Vietnam/Germania/Francia/Cina).

La sezione dedicata al cinema di ricerca ha cambiato nome diventando quest’anno Moving Ahead, omaggio a Jonas Mekas (e al suo film As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty del 2000), scomparso il 23 gennaio del 2019. Lo spirito e gli obiettivi rimangono però immutati e le opere selezionate sempre destabilizzanti, sperimentali e innovative. Forte anche qui la presenza europea grazie ad opere di registi confermati ma anche di giovani leve: Black Hole di Emmanuel Grimaud e Arnaud Deshayes (Francia), Color-Blind del regista sperimentale Ben Russell (Francia/Germania), In Memoriam di Jean-Claude Rousseau (Francia), la coproduzione tra Gran Bretagna e Tailandia Krabi, 2562 del famoso artista e cineasta Ben Rivers e Anocha Suwichakornpong, Ralf's Colors di Lukas Marxt (Austria/Germania/Spagna/Francia), The Giverny Document (Single Channel) di Ja’Tovia M Gary (Stati Uniti/Francia), la coproduzione tra Cina e Germania The Invisible Hand di Omer Fast, Those That, at a Distance, Resemble Another di Jessica Sarah Rinland (Gran Bretagna/Argentina/Spagna) e Un film dramatique del francese Eric Baudelaire.

Piazza Grande
Magari – Ginevra Elkann (Italia/Francia) (film di apertura)
Lettre à Freddy Buache - Jean-Luc Godard (Svizzera) (cortometraggio, 1982)
New Acid – Basim Magdy (Francia/Svizzera) (cortometraggio)
La Fille au bracelet – Stéphane Demoustier (Francia/Belgio)
7500 – Patrick Vollrath (Germania/Austria)
Greener Grass – Jocelyn DeBoer, Dawn Luebbe (Stati Uniti)
Once Upon A Time… In Hollywood – Quentin Tarantino (Stati Uniti)
Coffy – Jack Hill (Stati Uniti) (1973)
Notre Dame – Valérie Donzelli (Francia/Belgio)
Die fruchtbaren Jahre sind vorbei – Natascha Beller (Svizzera)
Instinct– Halina Reijn (Paesi Bassi)
Memories of Murder – Bong Joon-ho (Corea del Sud) (2003)
Camille – Boris Lojkine (Francia)
Days of The Bagnold Summer – Simon Bird (Gran Bretagna)
Diego Maradona – Asif Kapadia (Gran Bretagna)
Il Nido – Roberto De Feo (Italia)
Adoration – Fabrice Du Welz (Belgio/Francia)
Cecil B. Demented – John Waters (Stati Uniti/Francia) (2000)
To the Ends of the Earth – Kiyoshi Kurosawa (Giappone/Uzbekistan/Qatar)
Cineasti del presente
143 rue du désert - Hassen Ferhani (Algeria/Francia/Qatar)
Nafi’s Father – Mamadou Dia (Senegal)
Ham On Rye – Tyler Taormina (Stati Uniti)
Here For Life – Andrea Luka Zimmerman, Adrian Jackson (Gran Bretagna)
Ivana the Terrible – Ivana Mladenović (Romania/Serbia)
L’apprendistato – Davide Maldi (Italia)
L’Île aux oiseaux – Maya Kosa, Sergio da Costa (Svizzera)
La paloma y el lobo – Carlos Lenin (Massico)
The Cold Raising the Cold – Rong Guang Rong (Italia)
Love Me Tender – Klaudia Reynicke (Svizzera)
Mariam – Sharipa Urazbayeva (Kazakistan)
Merveilles à Montfermeil – Jeanne Balibar (Francia)
The Tree House - Minh Quý Trương (Singapore/Vietnam/Germania/Francia/Cina)
Oroslan - Matjaž Ivanišin (Slovenia/Repubblica Ceca)
Overseas – Yoon Sung-a (Belgio/Francia)
Space Dogs – Elsa Kremser, Levin Peter (Austria/Germania)

Moving Ahead
(Tourism Studies) – Joshua Gen Solondz (Stati Uniti) (cortometraggio)
A Topography Of Memory – Burak Cevik (Turchia/Canada) (mediometraggio)
Black Hole – Emmanuel Grimaud, Arnaud Deshayes (Francia)
Color-Blind – Ben Russell (Francia/Germania) (mediometraggio)
Distancing – Miko Ravereza (Stati Uniti) (cortometraggio)
In Memoriam – Jean-Claude Rousseau (Francia) (cortometraggio)
Kasiterit – Riar Rizaldi (Indonesia) (cortometraggio)
Krabi, 2562 – Ben Rivers, Anocha Suwichakornpong (Gran Bretagna/Tailandia)
Lore – Sky Hopinka (Stati Uniti) (cortometraggio)
Ralf's Colors – Lukas Marxt (Austria/Germania/Spagna/Francia)
Osmosis – Zhou Tao (Cina)
Swinguerra – Barbara Wagner, Benjamin de Burca (Brasile) (cortometraggio)
The Giverny Document (Single Channel) – Ja’Tovia M Gary (Stati Uniti/Francia) (cortometraggio)
The Invisible Hand – Omer Fast (Cina/Germania) (cortometraggio)
Those That, at a Distance, Resemble Another [+] – Jessica Sarah Rinland (Gran Bretagna/Argentina/Spagna)
Un film dramatique – Eric Baudelaire (Francia)
Fuori concorso
Arguments – Olivier Zabat (Francia)
Baghdad In My Shadow – Samir (Svizzera/Germania/Gran Bretagna/Iraq)
Etre Jérôme Bel – Sima Khatani, Aldo Lee (Francia)
Felix In Wonderland – Marie Losier (Francia/Germania) (mediometraggio)
Giraffe – Anna Sofie Hartmann (Germania/Danimarca)
La Sainte Famille – Louis-Do de Lencquesaing (Francia)
Le Voyage du prince – Jean-François Laguionie, Xavier Picard (Francia/Lussemburgo)
Non è sogno – Giovanni Cioni (Italia)
Prazer, camaradas! – José Filipe Costa (Portogallo)
Under The God – Dino Longo Sabanovic, Ana Shametaj, Pier Lorenzo Pisano, Valentina Manzoni, Zhannat Alshanova, Ariel Gutiérrez Flores, Giulio Pettenò, Salvator Tinajero, Hayk Matevosyan, George Varsimashvili, Arthur Theyskens, Alex Takàcs, Naomi Waring, Grieco Rafael, Anna Spacio (film collettivo realizzato sotto la supervisione di Béla Tarr) (Svizzera)
Wilcox – Denis Côté (Canada)
Wir Eltern – Eric Bergkraut, Ruth Schweikert (Svizzera)
De una isla – José Luis Guerin (Spagna) (cortometraggio)
Lonely Rivers – Mauro Herce (Spagna/Francia) (cortometraggio)
Mi piel, luminosa – Nicolás Pereda, Gabino Rodríguez (Messico/Canada) (cortometraggio)
Nimic – Yorgos Lanthimos (Germany/United Kingdom/Stati Uniti) (cortometraggio)
San Vittore – Yuri Ancarani (Italia/Svizzera) (cortometraggio)
Sapphire Crystal – Virgil Vernier (Francia/Svizzera) (cortometraggio)
Semaine de la Critique
The Euphoria of Being - Réka Szabó (Ungheria)
Adolescentes - Sébastien Lifshitz (Francia)
Another Reality - Noël Dernesch, Olli Waldhauer (Germania/Svizzera)
Der grüne Berg (The Green Mountain) - Fredi M. Murer (Svizzera) (1990)
Lovemobil - Elke Margarete Lehrenkrauss (Germania)
Murghab - Martin Saxer, Daler Kaziev, Marlen Elders (Germania)
Notha -ye- mesi yek roya (Copper Notes of a Dream) - Reza Farahmand (Canada/Iran)
Shalom Allah - David Vogel (Svizzera)

‘Magari’
di Kaleem Aftab
07/08/2019 - Locarno apre con un’emozionante storia dal gusto popolare, diretta da Ginevra Elkann, sui figli del divorzio.

Il film di apertura della 72° edizione del Locarno Film Festival è una storia famigliare raccontata squisitamente. Magari [+] di Ginevra Elkann descrive una moderna famiglia italiana attraverso gli occhi di una bambina di sei anni di nome Alma (Oro De Commarque). Alma è una narratrice inaffidabile, più interessata ai propri sogni che alla realtà. Mentre sogna a occhi aperti durante un sermone in una chiesa ortodossa, ha due cose per la testa: il cibo, e vedere i suoi genitori biologici insieme nello stesso posto. Con una divertente voce fuori campo, Alma racconta di come i genitori si siano separati quando aveva un anno. Passati altri cinque anni, sua madre Charlotte (Céline Sallette) sta progettando di trasferirsi con la famiglia da Parigi al Canada.
Prima che partano davvero, però, Charlotte manda Alma e i suoi due fratelli maggiori, Jean (Ettore Giustiniani) e Seba (Milo Roussel), a passare il Natale a Roma con il padre biologico Carlo (Riccardo Scamarcio). Mentre Alma è una narratrice inaffidabile, di Carlo semplicemente non ci si può fidare. È più interessato alla sua sceneggiatura, e alla co-sceneggiatrice Benedetta (Alba Rohrwacher), piuttosto che alla cura dei figli. Dopo il loro arrivo la prima cosa che fa è andare in visita alla casa di produzione in cui sta pitchando un film, nel cui cast spera che partecipi Marcello Mastroianni. Finito l’incontro, scarica i figli dai suoi genitori increduli.

In lui c’è un tocco del George Bailey di James Stewart, in quel suo fallire nel non considerare la famiglia più importante del lavoro, specialmente sotto Natale. Ma questo film tratta dei tre figli e di come fanno i conti con il fatto di esser parte di una famiglia divisa: Jean, il fratello di mezzo, ama giocare con il Game Boy, mentre Seba sente il peso di essere il più grande. Un aspetto ragguardevole del film d’esordio di Ginevra Elkann è il modo in cui mantiene la narrazione immersa nella realtà, mentre la narratrice sfocia continuamente nella fantasia. Qui non ci sono fantasmi, solo una vita meravigliosa. Si deve credere a tutto ciò che accade? Alma non vede i difetti di Carlo. Per tutta la sua breve vita ha sognato di far ricongiungere i genitori, ed è anche disposta a bere un bicchiere di urina del fratello per far sì che questo avvenga. O no?
L’ossessione di Alma è divertente perché è evidente che i suoi genitori non siano fatti l’uno per l’altra. Benedetta, la nuova musa di Carlo, è molto più adatta a lui anche se è una bugiarda cronica che ruba vestiti di seconda mano. Il suo guardaroba suggerisce che abbia un certo gusto per l’abbigliamento vintage, così come per gli uomini vintage. Benedetta va d’accordo con i figli di Carlo e addirittura porta in vacanza per un giorno Seba: una vacanza destinata a finire male.

Sebbene Scamarcio e la Rohrwacher siano all’altezza della loro magnifica reputazione, grazie a delle interpretazioni piene di sfumature e piccole stravaganze, è Oro De Commarque nel ruolo di Alma a rubare la scena.

La regista Elkann dimostra un’incredibile capacità di maneggiare temi pesanti in modo leggero. Le osservazioni di Alma e i dialoghi sono sistematicamente divertenti. Alcune scene sono un po’ un cliché ma si dimenticano facilmente una volta arrivati al gran finale, che si svolge attorno al tavolo della cena sotto il sole romano. Nel corso del film ci sono miriadi di osservazioni raffinate che elevano situazioni semplici, in particolare quando le donne della vita di Carlo condividono una sigaretta in macchina. Attenendosi a una struttura classica, addirittura il cane domestico ne esce premiato. È il film divertente, leggero e sentimentale sul divorzio che si stava aspettando senza saperlo.

'Magari' è una coproduzione italo-francese, prodotta da Wildside con RAI Cinema, e coprodotta da Tribus P Films e Iconoclast Films. La vendite internazionali sono gestite da RAI Com.

L'INTERVISTA DI CINEUROPA di Davide Abbatescianni.

Davide Maldi • Regista di L’apprendistato
“Nei miei lavori parto sempre dallo studio di un rito antico e ne cerco una trasposizione nella società di oggi”

08/08/2019 - Abbiamo intervistato Davide Maldi e parlato del suo ultimo film L’apprendistato, il quale segue il difficile percorso di formazione di un gruppo di studenti di un collegio alberghiero
Abbiamo colloquiato con Davide Maldi, regista del documentario L’apprendistato [+] in concorso nella sezione Cineasti del Presente del Festival di Locarno di quest’anno. La nostra conversazione si è soffermata sui protagonisti della pellicola, sul processo di ricerca ed osservazione che ha portato alla realizzazione del documentario, nonché sui temi dell’adolescenza, delle disciplina e del lavoro.

Cineuropa: Il suo film segue il duro apprendistato di Luca Tufano e dei suoi compagni, studenti di un prestigioso collegio alberghiero. Perché è importante raccontare questa storia oggi?

Davide Maldi: Volevo trovare un contesto reale nel quale un ragazzo era portato ad accelerare il suo processo di crescita imparando da subito un lavoro. L’Istituto alberghiero mi è sembrato il luogo adatto dove muovermi perché la professione del cameriere è fatta di regole e disciplina col fine di servire il cliente. Imparare a quattordici anni le regole del mondo del lavoro mi è sembrato inusuale. Luca proviene da un piccolo borgo di montagna, ha un animo selvaggio e libero e ho scelto lui come protagonista perché attraverso la sua esperienza potevo raccontare meglio le difficoltà nell’apprendere la professione a quell’età.

Nel film la disciplina ed il rigore sono elementi centrali. Che significato hanno per lei queste due parole nel mondo odierno, specialmente per i più giovani?

Disciplina e rigore sono parole austere e forti oggi, lontane dalla vita comune. Nel film il maître/insegnante della scuola esige disciplina e rigore perché sono elementi alla base del mestiere ed è diretto e onesto con i suoi alunni. Non prende in giro l’adolescente, bensì lo tratta da adulto e lo mette di fronte alle proprie responsabilità, con possibilità di riuscita o fallimento, perché la vita che lo aspetta sarà faticosa.

Qual è stato il suo approccio registico sul set? Per quanto tempo ha seguito i soggetti e com’è riuscito a guadagnarsi la loro fiducia?

Ho passato molto tempo nella scuola senza filmare, osservando solo lo svolgimento delle lezioni. Ho atteso per poi essere più sicuro. Volevo realizzare un film che trasmettesse nella regia e nell’estetica un rigore vicino a quello della scuola e del mestiere. Lo spettatore vive questa storia attraverso l’esperienza di Luca. Mi sono sempre posto dalla parte degli alunni, instaurando col loro un rapporto di fiducia e complicità che ha permesso poi di lavorare in piena sintonia. Ho cercato di fargli capire che non ero né un docente e né li volevo giudicare idonei o meno alla scuola o alla vita.

Quali sono stati i principali ostacoli, tecnici e umani, riscontrati nel corso della lavorazione del film?

In realtà, ambientare il film all’interno di un istituto mi ha facilitato molto. Solitamente lavoro da solo, quindi muovermi e agire in un luogo così circoscritto in solitaria è più facile. Mi sembrava di avere sempre tutto sotto controllo grazie anche alla lunga preparazione fatta. Le difficoltà sono state nel mantenere vive e salde le relazioni umane, come con Luca e i suoi compagni, capire il loro linguaggio e rispettare i loro codici.

Quali temi le piacerebbe trattare in futuro nel suo lavoro cinematografico?

Nei miei lavori parto sempre dallo studio di un rito antico e ne cerco una trasposizione nella società di oggi. Mi piace unire alla realtà elementi legati al sovrannaturale. Non mi sento un documentarista classico: mi piace avere il controllo di ciò che faccio lasciando aperta la porta all’imprevisto. In futuro mi piacerebbe realizzare un film di fantascienza, una fantascienza accennata, sottile ed educata e sempre in relazione con la realtà.

Al momento sta lavorando su altri progetti?

L’apprendistato è inteso come secondo capitolo di una trilogia sull’adolescenza, iniziata con il film precedente, Frastuono, e che proseguirà con un altro lavoro, più strutturato, legato a un fallimento familiare, il tutto visto sempre attraverso gli occhi e l’esperienza di un ragazzo. Ho incominciato a fare ricerca per capire dove e come sviluppare il lavoro ma sono ancora agli inizi.

Sinossi.
D'ora in avanti i capelli devono essere corti e ben pettinati, le unghie devono rimanere pulite e le dita non devono diventare gialle per la nicotina. Il lavoro impegnerà molto sia mentalmente che fisicamente, il consiglio che viene dato è quello di venire il meno possibile influenzati dall'atmosfera festaiola che regna attorno. Queste sono alcune delle regole che Luca, un quattordicenne timido e dall'animo selvaggio, deve imparare a rispettare per sopravvivere all'interno del collegio Alberghiero.


titolo internazionale: The Young Observant
titolo originale: L’apprendistato
paese: Italia
anno: 2019
genere: fiction
regia: Davide Maldi

durata: 84'
sceneggiatura: Davide Maldi, Micol Roubini

cast: Luca Tufano, Mario Burlone, Lorenzo Campani, Enrico Colombini, Cristian Dellamora, Damiano Oberoffer, Ernesto Alberti Violetti

fotografia: Davide Maldi
montaggio: Enrica Gatto
musica: Freddie Murphy, Chiara Lee
produttore: Gabriella Manfrè, Davide Maldi, Micol Roubini, Fabio Scamoni
produttore esecutivo: Gabriella Manfrè, Micol Roubini
produzione: Invisibile Film, L'Altauro, Red House Produzione



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- Arte

I Cinque Sensi della Pinacoteca di Brera

Il museo non ha un senso?
Alla Pinacoteca di Brera ne abbiamo cinque!

Grazie all’ingegno e alla passione di Lorenzo Villoresi, uno dei “nasi” più famosi al mondo e fondatore a Firenze del primo museo italiano del profumo, è stato infatti possibile introdurre in Pinacoteca il primo passo in un avventuroso percorso sensoriale, capace di stimolare la parte più profonda delle nostre emozioni, restituendoci gli odori e le fragranze di un mondo di per sé impalpabile e volatile.

Raggiungendo l’Adorazione dei Magi di Gaudenzio Ferrari esposta nella sala X, si possono ora incontrare, accostandosi a un apposito diffusore, le note acri dell’esotica mirra, come ugualmente intense e coinvolgenti suoneranno le dolci note del Lilium candidum, a disposizione tra le didascalie dedicate alla Madonna della Candeletta di Crivelli nella sala XXII. E a breve anche l’incenso sarà “annusabile”.

Si completa così lo spettro di coinvolgimento sensoriale che ha in parte caratterizzato il rinnovamento del museo: dal connubio di note e dipinti proposto con il programma Brera/Musica, al vedere tramite la parola del progetto “Descrivedendo”, alla percezione tattile offerta da alcune didascalie tessili che permettono ai visitatori di accarezzare dal vivo i pregiati tessuti dipinti nelle opere (i damascati di Crivelli e presto il raso di seta della fanciulla in blu dipinta da Hayez nel suo famosissimo bacio), fino alle voci del menu creativo ispirate ai capolavori di Brera del Caffè Fernanda, parte integrante del museo non solo dal punto di vista stilistico e architettonico e divenuto in breve un punto di eccellenza nella realtà milanese.

La Pinacoteca di Brera copre dunque con questa intrigante introduzione al mondo delle fragranze e degli odori i cinque sensi nell’intento di coinvolgere il visitatore in un’esperienza in cui il “vedere”, l’”osservare” diviene un momento di contemplazione sociale della bellezza, della natura e del suo rifiorire, attraverso il coinvolgimento di tutti i sensi.

Immagine, dettaglio
Madonna col Bambino e i Santi Pietro e Paolo, Ansovino e Gerolamo (Madonna della Candeletta)
Carlo Crivelli - 1488 – 1490

Ferragosto con Brera/Musica
Come ogni terzo giovedì del mese torna l’appuntamento musicale della Pinacoteca, grazie alla collaborazione con il Maestro Clive Britton. Una serata in musica con i giovani musicisti della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado per celebrare il dialogo tra le arti e il dialogo tra i musicisti e il pubblico. In occasione del 210° compleanno della

Pinacoteca l’ingresso è gratuito.
Orario: Dalle ore 18.00 alle 22.15 (chiusura biglietteria ore 21.40)

Dove: Pinacoteca di Brera
Ingresso: gratuito

Dalle 18 alle 22.15 al costo di 3 euro sarà possibile ammirare l’intera collezione, visitare le splendide sale riallestite e, nello stesso tempo, ascoltare gli allievi della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado.

Come sempre la serata musicale offre al pubblico l’occasione di ammirare l’intera collezione, visitare le splendide sale riallestite e naturalmente ascoltare i giovani interpreti, che si collocheranno in diverse sale all’interno della Pinacoteca: la scelta del programma, anche per gennaio, scaturisce dalle emozioni suggerite dai dipinti.
Gli studenti saranno inoltre disponibili a rispondere alle domande del pubblico, in un inconsueto, dinamico scambio tra le arti.
Nella Sala 8, grazie al generoso appoggio di Yamaha, si potranno ascoltare alcuni brani eseguiti al pianoforte.

In Mostra: DEL ’900 A BRERA

Da Boccioni a Carrà, da de Pisis a Morandi, da Modigliani a Sironi fino a Picasso.
100 delle opere più amate della Pinacoteca, appartenenti alle collezioni e donazioni Jesi e Vitali, sono di nuovo esposte nel cuore del museo, al centro dei saloni napoleonici, nelle sale IX e XV e nel deposito a vista della sala XXIII.





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- Musica

Omar Pedrini in ’Timoria’ - Belluno

Belluno di Sera - Giovedì 8 agosto 2019 dalle ore 21:30 alle 23:30

Omar Pedrini in "Timoria (viaggio senza vento)"
giovedì 8 agosto 2019 - Piazza dei Martiri | Belluno
ingresso gratuito.

Omar Pedrini sarà in tour durante l'estate 2019 per riproporre dal vivo “Viaggio Senza Vento”, lo storico album dei Timoria uscito nel 1993.
Il desiderio di riportare sui palchi “Viaggio Senza Vento” è maturato in Omar dopo aver constatato con quale affetto ed entusiasmo i fan hanno accolto l’edizione celebrativa per il 25° Anniversario del disco concepito e composto principalmente da Omar Pedrini, uscita lo scorso 26 ottobre per Universal Music. Proprio durante il mini tour instore di presentazione della reissue di “Viaggio Senza Vento”, infatti, Omar ha incontrato il suo pubblico, che ha richiesto a gran voce altri appuntamenti per rivivere e celebrare dal vivo lo storico concept album dei Timoria.
Esclusa la possibilità di una reunion della band, sarà “il capitano della nave” a riportare sui palchi brani come “Senza Vento”, “Sangue Impazzito”, “Piove” e molti altri. Il Viaggio di Joe raccontato in questo concept album continua, 25 anni dopo, ad emozionare i fan storici dei Timoria, ma anche a farsi conoscere dalle generazioni successive, confermando il proprio posto tra i dischi che hanno fatto la storia della musica italiana.

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- Poesia

’Arcana memoria dell’acqua’ - premio ’Opera Prima’

'Arcana memoria dell'acqua' Premio 'Opera Prima' 2019 a Giorgio Mancinelli - Cierre Grafica / Anterem Edizioni.

 

Riflessione critica di Giorgio Bonacini: 'Scrivere con l'acqua'.

 

Ci sono luoghi, forme, figure, elementi, mondi che da sempre appartengono alla storia dell’immaginazione umana: archetipi che rappresentano il vero e reale farsi di ogni vita fondando il nostro essere, in quanto materia di natura e sostanza pensante. Se poi questo viene sentito come corpo sensibile e mentale, fisico e tangibile, e si trova dentro un’elaborazione poetica, allora la scena che si apre si muove in un territorio vastissimo, indefinibile e nello stesso tempo pertinente e inequivocabile, per effetto della diramazione di un senso diffuso, oltre il significato evidente. E l’acqua, nel caso specifico, è il costituente primo (e primordiale) che ci designa e ci nutre, nella cui esperienza configuriamo la nostra bio-grafia.

 

In questa raccolta di poesie (distinte per titoli, ma che si può dire formino un’unica ode) Giorgio Mancinelli svolge un canto per l’acqua e con l’acqua, attraverso una sapiente ondulazione avvolgente, in cui la scrittura poetica, segnata dal fluire di un dire il cui movimento è vocale e interiormente consonante, nasce da un respiro che ondeggia nell’estensione liquida che ne designa l’ambiente e ne disegna l’orizzonte di veduta. Anche visivamente (e non è un dato secondario, perché in poesia forma-sostanza-struttura aderiscono in un unico lavoro di significanza testuale) i versi si presentano, nella loro necessaria quanto voluta mancanza di punteggiatura (puntini di respiro sospensivo a parte), e di lettere maiuscole (tranne i nomi propri) come qualcosa che scorre – dopo un precedente e sconosciuto inizio – proprio come un fiume: non con linearità, ma con svolte, arresti e sospensioni lì dove si “protrae il tratto di blu”, verso una conclusione ulteriore.

 

Un estremo non pronunciato, forse indicibile o inimmaginabile, forse toccato dopo “la morte per esempio”, prova a chiedersi l’autore, nel mutismo pensieroso, inquieto e perplesso che non propone risposte. Né potrebbero esserci, quando le domande sono la sintesi di una meditazione che interroga se stessa, consapevole che ogni risposta è solo un piccolo brandello di sapere per l’intelletto inquieto e nostalgico. Nondimeno l’acqua, in tutte le sue modalità d’esistenza, anche immateriali (perché immaginative, ma non meno reali) è ciò che può sostenere - inarcando l’andamento della voce o rivolgendosi al silenzio - la linea del poema, partendo da un gesto propulsivo che dà origine a un moto sostenuto da una doppia natura: l’esperienza che trae da una visione emotiva e concettuale multipla (acqua di mare, di fiume, ma anche di nuvola) e la parola che, scrivendone, giunge a inarrivabili sviluppi, tra svolgimenti, pieghe, ricadute e tutto ciò che la scrittura nutre, concerne e sente.

 

Prendono così si forma architetture liquide che solo una mente in atto di lirica coesione può concepire: rendendo reale anche la figurazione impressa e fuggevole nello sguardo del miraggio. Ma è proprio da qui, da questa frattura che si crea, tra ciò che il poeta estrae da una realtà grezza e la riparazione estetica ed etica che il pensiero ispirato opera a partire da quella apparenza, un nuovo modo di rappresentare che è immagine, metamorfosi e sogno: musica visiva di una “possibile/impossibile sopravvivenza”. Certo, questo attraversamento che s’insinua, s’immerge e risale fluttuando tra la realtà e le sue metafore, potrebbe rischiare di portare la parola ad accarezzare il sollievo di una pacificazione con l’attrito del mondo.

 

Ma l’autore che pure a volte sfiora, (come anche nella vita accade, forse per sfinitezza o per momentaneo segno di tenerezza verso il mondo) “una pacata speranza di luce”, è però attento a non farsi sorprendere e avvolgere, perché sa che la poesia deve aprire varchi, sgranare la voce trasportando l’immedesimazione percettiva (si può essere “mare e gabbiano” nello stesso momento) fino al punto estremo in cui sembra avvenga una rottura insanabile: dove il mare diventa deserto, la schiuma d’acqua un vento di sabbia e le ombre appaiono insormontabili dune. È solo così, però, in questo continuo mutamento, che la parola poetica si fa pensiero di lacerazione e ricostruzione, complessità e semplicità: ossimori esistenziali necessari per ridisegnare il sintagma delle onde, il gocciolare delle sillabe. E anche se non sempre il testo manifesta in superficie questo stato di fibrillazione, è il suo “spostarsi silenzioso” che Giorgio Mancinelli muove nell’ oscurità di una tensione interna, modificando incessantemente l’armonia e la disarmonia del mondo in poesia.

 

Ed è proprio in questa forza che penetra il tentativo ineludibile di raggiungere la propria forma spuria (perché la poesia non ambisce a purezza intoccabile) di un dire essenziale che possiede e sente la memoria, pur nella dimensione arcana del dolore umano dove “urla straziate si levano” fra le turbolenze naturali che tremano quando “sussulta il mare/in solitario pianto”. È questa esondazione sofferente ci ricorda quanto la poesia sia costante domanda che indica un sovvertimento: non chiarezza, seppur elusiva, e nemmeno nascondimento, ma un intenso andirivieni che, antecedendo il prima, va oltre il dopo, senza mai sapere se si sta “andando o tornando dall’eterno oblio”.

 

Sono questi scorrimenti, queste fuoriuscite di correnti del corpo-mente che trasportano i linguaggi nel loro formarsi e deformarsi, tra le onde foniche che sollecitano e a volte rigurgitano i sensi di un sentimento a cui il poeta prova a dare una direzione. Un tragitto la cui modificazione, nonostante sia sempre irreversibile (come avverte l’autore in modo energico), non ha mai lo stesso inizio, mai la stessa fine. Così, ciò che rimane è la contraddizione vitale di un “limite impraticabile” che ci “rivela tutto il suo incanto”.

 

Dalla silloge poetica di Giorgio Mancinelli - Cierre Grafica / Anterem Edizioni 2019 - Premio 'Opera Prima' collana di poesia a cura di Flavio Ermini.

 

'arcana memoria dell’acqua' … Urubamba - Perù

 

ricordo di un fiume che scorreva lento

anzi lentissimo

e tutti scendemmo dal treno fermo nella valle

lungo la rotaia che costeggiava la sponda

qualcuno prese un sasso e lo gettò nell’acqua

altri s’inginocchiarono con religiosa mestizia

intenti a pregare protèsi come per bere

sussurrarono al fiume una supplica

o forse una cantilena dai poteri magici

e comunicare all’acqua inenarrabili segreti

una giovane donna rimasta in solitaria attesa

si chinò sfiorando con le labbra

l’acqua limpida trasparente del fiume

vi bisbigliò un messaggio

capace di risvegliare gli spiriti ancestrali

che lo custodisse fin oltre il possibile

negli alvei delle profondità nascoste

e lo portasse al suo perduto amore

dovunque - disse

fin dove giunge l’arcana memoria dell’acqua

 

'squarci di cielo'

 

come somigliano a stralci di poesie quegli squarci di cielo azzurri

che al diradarsi del buio sembrano spalancare

momenti di un’alba ritrovata

allorché gabbiani lunghi al volo inseguono la linea marcata

dell’orizzonte

e quelle vele bianche rigonfie di vento

come assomigliano alla rinnovata speranza del domani …

e quelle nuvole astanti allineate sulla tela di fondo

sospese come volute di panna e caramello

che pure tengono alla luce che s’indora

nell’ora del mattino prima del levar del sole

quando già s’apre al risveglio la palpebra stanca

nel sogno avverato d’esser tornata alla vita …

eppur quasi che l’acqua specchiata del mare

s’intorbida a sprazzi

e in altri lascia spiare il buio delle profondità

ove acquattate sul fondo giacciono dormienti le deità marine

che gli occhi splendenti di sale

riflettono di lacrime vive

a proseguire la grande corsa dell’onde sulla sabbia

prima di morire

 

'maree'

 

ho viaggiato a lungo sul limitare del mare

affrancando nei porti le bianche vele della giovinezza

lì dove il susseguirsi delle maree

mi conducean nell’avventura dei giorni

allorché l’adulta età ritrovasse il canto delle onde

ove appresi a conoscere

al cambiare di sponde altri luoghi e altre genti

nel giubilo danzante della vita

tutte diverse eppur tutte uguali

creature che nell’insieme avevano concepito

un’unica velleità di sopravvivenza

altresì compresi che il canto poteva farsi preghiera

levata al misterioso Iddio che s’ovvede

d’ogni cosa dell’andamento umano

ciò che all’arbitrio reclama il continuo riscatto

d’una cercata felicità

che di maree la vetusta età ricolma

allorché lasciata la sponda amica all’onda ritorna

a ritrovare l’altra che d’apprima avea lasciata

sì che la senile età delle burrasche e delle tempeste

solo ricordar vuole le nuvole che

come bianche vele un dì vide passare

sul limitare dell’immenso mare.

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- Musica

Woodstock ’69 - Ernesto Assante


Accade ad Altroquando‎ - Woodstock '69 by Ernesto Assante

Via Del Governo Vecchio 82, 83
Roma

Chiama 06 6889 2200

www.altroquando.com

GIU22 sabato dalle ore 19:30 alle 22:30
Woodstock '69 - Ernesto Assante

Libreria artigianale con birre indipendenti e cinema, fotografia, tandem, architettura, magneti, graphic novel, locandine, live music.

Come spiegare il festival di Woodstock a cinquant'anni di distanza e a quanti non hanno avuto la fortuna di parteciparvi? Il concerto che ha cambiato la storia del rock, e di un'intera generazione, non si conclude nelle immagini d'epoca che ci restituiscono la visione dei 500mila giovani giunti a Bethel da ogni angolo del mondo.

In questo libro, curato dal giornalista e critico musicale Ernesto Assante e pubblicato dai tipi di White Star Libri, saranno proprio alcuni dei protagonisti di quei giorni indimenticabili a prendere voce, attraverso le interviste esclusive che l'autore ha realizzato nel corso della sua carriera.

Come se non bastasse, Roberto ci porterà dei veri cimeli dell'evento: biglietti del festival, giornali d'epoca, libri vari.
Per rivivere, anche grazie alle straordinarie immagini d'epoca che accompagnano il volume, il più grande evento rock della storia, i tre giorni di musica, trasgressione e di libertà che segnarono quell'agosto del 1969 e ancora fanno risentire la loro eco.

'Altroquando'
la piattaforma è nata per condividere e rendere disponibili i cataloghi e gli eventi, e per questo ci servono altri fondi per implementare funzioni come:
- l'unificazione delle tessere fedeltà
- il collegamento con le biblioteche
- l'e-commerce

Vogliamo aggregare un pubblico ampio intorno a questo tema per rafforzare l’idea che le librerie indipendenti non sono solo negozi in cui si comprano libri, ma sono presidi culturali, sono i luoghi in cui si accoglie e si include, sono isole in cui ci si incontra, in cui si scambiano idee, in cui si cresce.
Rilanciamo insieme il ruolo delle librerie indipendenti, dei librai, dei libri e della cultura!"

SALVA LE PAROLE, SALVA IL MONDO.

Librerie di Roma è una rete di 40 librai romani che si sono uniti per collaborare, condividere e sostenersi a vi...

Storia
Librerie di Roma è una rete di 40 librai romani che si sono uniti per collaborare, condividere e sostenersi a vicenda.
Lo sapevi che tra il 2010 e il 2016 hanno chiuso il 12% delle librerie italiane e la lettura è calata dell'11%?
Nonostante questo, abbiamo deciso di non chiudere e di mettere insieme le nostre idee e le nostre risorse. In un anno abbiamo fatto moltissimo, ma per continuare sulla strada tracciata fino a oggi abbiamo bisogno del sostegno di tutti voi!
Abbiamo costruito una piattaforma (www.libreriediroma.it) in modo che i lettori possano trovare facilmente i libri che cercano e gli eventi a cui vogliono partecipare.
Ora dobbiamo mettere a punto le ultime funzionalità e per farlo abbiamo bisogno della collaborazione di tutti!"

Tra le vendite online, le grandi catene di librerie, i pochi lettori e diversi altri fattori, la situazione delle librerie indipendenti è a dir poco critica.
E quindi cosa succede? Le piccole librerie indipendenti chiudono e i giganti editoriali crescono.
L’obiettivo di Librerie di Roma, allora, è quello di coinvolgere il maggior numero di persone a sostegno di queste realtà culturali senza le quali i quartieri e i territori sarebbero sicuramente più poveri.
Anche perché oggi se ci guardiamo indietro, ci rendiamo conto che in pochi mesi abbiamo fatto moltissimo.
Nell'ultimo anno, abbiamo organizzato più di 2.000 presentazioni di libri e incontri con autori, più di 200 corsi di formazione, quasi 500 concerti di musica live, più di 500 incontri per ragazzi nelle nostre librerie e nelle scuole.

Sono solo numeri? Per noi è molto di più.

Per noi questi numeri significano che abbiamo condiviso, coinvolto, conosciuto, significano che ci abbiamo messo cuore e passione, che abbiamo amato ogni momento di questo impegno costante e che vogliamo continuare a lavorare.
Utilizzeremo i fondi raccolti per continuare a offrire in modo capillare ai quartieri di Roma in corsi di formazione multitematici, laboratori didattici, incontri con autori, concerti e spettacoli.

Ma non solo! Perché la piattaforma è nata per condividere e rendere disponibili i cataloghi e gli eventi, e per questo ci servono altri fondi per implementare funzioni come:
- l'unificazione delle tessere fedeltà
- il collegamento con le biblioteche
- l'e-commerce

Vogliamo aggregare un pubblico ampio intorno a questo tema per rafforzare l’idea che le librerie indipendenti non sono solo negozi in cui si comprano libri, ma sono presidi culturali, sono i luoghi in cui si accoglie e si include, sono isole in cui ci si incontra, in cui si scambiano idee, in cui si cresce.

Rilanciamo insieme il ruolo delle librerie indipendenti, dei librai, dei libri e della cultura!

La cultura ci rende liberi, la cultura salverà il nostro mondo.
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Paola Di Blasi • 15 giugno 2019

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- Arte

Grazie Maestro - mostra-evento su Modigliani


Grande Evento alla Pinacoteca di Brera.

Grazie Maestro!

"La stagione di Ettore e Fernanda"
Ettore Modigliani fu direttore della Pinacoteca di Brera dal 1908 al 1935, soprintendente della Lombardia dal 1910 al 1935 e organizzatore della mostra più importante sull’arte antica italiana a Londra nel 1930. Modigliani ha anche avuto il privilegio di vivere in prima persona alcuni esaltanti momenti professionali, come l’esposizione a Brera della Gioconda di Leonardo da Vinci (1913) (link a Brera Story Quando Modigliani dormì con la Gioconda), il recupero delle opere d’arte trafugate dall’Austria all’Italia (1920), il grande riordino della Pinacoteca Braidense (1925) e la fondazione dell’Associazione degli Amici di Brera (1926).

L’incontro con Fernanda Wittgens
Il rapporto di Modigliani con Fernanda Wittgens, fu uno dei più importanti nella storia di Brera. Si incontrarono per la prima volta nel 1928 quando lei arrivò come assistente a soli 25 anni e lavorarono insieme per diciannove anni collaborando anche per la mostra londinese del 1930.
Nè posso, in una occasione come questa, tacere dello spirito di organizzazione
della signorina, spirito di cui ottima prova anche durante la preparazione
e il corso della mostra di antica arte italiana a Londra nel 1930;
sì che l’opera sua, venuta a conoscenza del Governo britannico,
fu premiata con una onorificenza; onorificenza che solo in straordinarissime
circostanze è conferita ad una donna, per di più, straniera.

Per concludere: io posso in piena coscienza dichiarare all’on. Commissione
che se si fosse oggi al punto di giudicare un concorso a un posto non di Ispettore,
ma di Direttore, il mio giudizio e la mia dichiarazione
di maturità e di merito, circa la signorina, non muterebbero.

12 aprile 1933.
Lettera alla Sovrintendenza all’arte Med. E Mod. Milano di Ettore Modigliani.

E ancora lei fu al suo fianco durante la ricerca e il successivo acquisto del capolavoro, ora esposto alla Pinacoteca di Brera, di Caravaggio La cena in Emmaus.
Modigliani sta sulle piste di un quadro insegue (un Caravaggio)
col quale gli Amici di Brera potrebbero fare splendida figura.
Ella [sa come] ´è cosa ardua e delicata, conviene per ora
non parlarne, specialmente a Chierici e Moratti.
Quando sarà sicuro che si tratta di un Caravaggio
e che lo si può avere, verrò da Lei a darle spiegazioni
e a concretare il piano per conquistare il quadro.

24 ottobre 1938
Lettera di Fernanda Wittgens al Senatore Ettore Conti di Verampio, Presidente degli Amici di Brera.

Modigliani era un direttore di talento e in Fernanda Wittgens trovò qualcuno al suo stesso livello
Qualcuno che pensava come lui, che condivideva i suoi dubbi, che risolveva problemi difficili, che lo proteggeva dall’indignazione e dall’irritazione provocata dai limiti degli altri con le critiche schiette che solo un’amica vera può muovere.
L’esilio
Insieme affrontarono anche gli anni difficilissimi in cui Modigliani, di origini ebraiche, fu costretto a lasciare Brera (1935) proprio una settimana prima della pensione e fu trasferito all’Aquila per gli effetti delle leggi razziali.

1936
Appunto durante l’inizio delle indagini del Giudice istruttore
il Ministro De Vecchi m’inferse il colpo della defenestrazione
in Aquila.

Non c’era da temere assai che esso potesse influire
sul Magistrato, perché la Magistratura giudica su fatti
e non su chiacchere, ma c’era da temere, e gravemente,
che l’opinione pubblica italiana legasse quelle accuse
alla mia altrimenti inesplicabile punizione,
e finisse per dubitare della mia rispettabilità.
E questo mi straziava il cuore.
[…]
Tutto fu tentato contro di me all’udienza, forti dell’appoggio
di Roma: dalle insinuazioni alle invettive plebee lanciatemi
contro dai due luminari del foro – uno, un magno gerarca fascista –
e punteggiate ad ogni istante, per smontarmi,
dagli scherni e dalle prevedibili grida:
“Lei è stato cacciato da Brera! Cacciato da Brera!
..., alle “testimonianze” accattate dovunque e comunque.
Il magno gerarca non si peritò infatti dal portare in udienza
alcuni numeri del “Popolo d’Italia” in cui ero stato violentemente
attaccato per antifascismo a causa di un incidente avvenuto
un giorno a Brera, e dall’urlare che, in fondo,
il processo doveva essere considerato un processo politico.
[da Ettore Modigliani, Le Memorie, 1947]

Il Mentore
Durante il suo esilio forzato, Modigliani scrisse il classico di storia dell’arte, Il Mentore, volume che non potè firmare sempre a causa delle leggi razziali e che uscì nel 1940 a firma di Fernanda Wittgens.
Sul finire del ’38 il “Mentore” – poiché mi parve opportuno che anche dal titolo
il volume rilevasse subito il suo fine di fornire i primi insegnamenti scientifici
per orientarci nel campo della materia – era finito e in gran parte composto
nelle sue più che seicento pagine.
Ma scoppiarono le leggi razziali e apparve la conseguente impossibilità di attuare
qualsiasi provvidenza per una diffusione: non esposizione nelle vetrine,
non una recensione, non pubblicità di alcun genere, non uso del libro
nell’insegnamento scolastico, insomma il vuoto pneumatico di una pubblicazione
stampata alla macchia, e perciò il fallimento del volume.[…]

E allora?
Doveva rabberciare la situazione una cara amica mia e della mia famiglia,
una valorosa scrittrice d’arte, la Dott. Fernanda Wittgens, la quale,
animata sempre dal desiderio di alleviare la sorte di un perseguitato e mossa anche
da un qualche sentimento di gratitudine per quel tanto che forse ella poteva
avere appreso al mio fianco nei lunghi anni d’ispettorato a Brera, si offerse
di nascondere col suo il mio nome sul libro, come qualche altro
aveva già fatto in casi simili per le leggi razziali.

Incurante del rischio, cui ella si esponeva, di dover pagare almeno col suo posto
a Brera la sua generosità e del fatto che ella si sarebbe preclusa la via
a partecipare più a concorsi per l’impossibilità, al tempo stesso, di presentare
e di non presentare quale titolo il “Mentore”; incurante del tormento
che avrebbe dovuto affrontare di vedersi eventualmente tributate lodi
per un opera non sua, non volle consentirmi di respingere un atto
di sì disinteressata bontà; accettai e il libro è apparso al pubblico col nome della Wittgens.

Soltanto chi ha udito di fronte a qualche giudizio di approvazione,
le proteste di questa nobile creatura che la spinsero in qualche caso
fino al punto di spiattellare la pericolosa verità, soltanto chi ha veduto
il suo volto sbiancarsi dinanzi a un telegramma, o a una lettera, o alla pagina
di un periodico con una recensione favorevole, può essere giudice di quel tormento,
prodotto di una raffinata sensibilità e originato da una onesta coscienza
intollerante del vestire le penne altrui...

A Fernanda Wittgens, verace amica nella favorevole e nell’avversa fortuna,
l’espressione del mio animo riconoscente.
[da Ettore Modigliani, Le Memorie, 1947]

Nel 1940 Wittgens partecipò e vinse un concorso ottenendo la nomina per la Pinacoteca di Brera: fu la prima donna in Italia a ricoprire tale incarico nel ruolo del personale dei Musei e Gallerie. Fernanda Wittgens continuò l’opera di Modigliani, informando costantemente il maestro.

“… Io combatto: anche se non potrò vincere avrò fatto il mio dovere.
Ma vi sono ore in cui la nausea mi soffoca!
Specialmente quando vedo la meschinità degli uomini”.

Lettera di Fernanda Wittgens a Ettore Modigliani, maggio 1945
Ed ora mi permetto di dirle il mio pensiero; e non sorrido se sarò forse un po’ troppo
nelle nuvole della spiritualità. Ci sono cose di cui non si ama parlare:
ma in fondo è triste pensare che un giorno si può anche scomparire senza
che le persone più care sappiano cosa si aveva nel fondo dell’anima.
[…] Badi, non è il luogo e l’ora che fanno meditare.
Qui intorno si chiacchiera come in un salotto;
e da due ora siamo qui senza provare alcuna emozione.

Lettera di Fernanda Wittgens a Ettore Modigliani scritta a proposito di Guerra e pace durante un allarme aereo [1943]

Inaugurazione della Pinacoteca di Brera ricostruita, in prima piano Fernanda Wittgens e il Ministro Gonella, 1950

La fine della guerra e la ricostruzione
Dopo la guerra e il ritorno di Modigliani a Milano, lavorarono insieme per ricostruire la Pinacoteca di Brera gravemente danneggiata dai bombardamenti.
E sta bene.
Voi bombardate e incendiate spietatamente le nostre città più illustri,
storiche e monumentali, anche perché, noi,
non siamo in grado di rispondervi, ammesso che volessimo farlo.
È - si dice - la legge della guerra, e fino a un certo punto
può essere vero se prendono per buoni i motivi
dei cosiddetti obbiettivi militari.[…]
Chi non sa quale rancore covi ancora a Venezia, dopo 28 anni,
per le scempio austriaco del prodigio Tiepolesco del soffitto
degli Scalzi, scempio che è ancora oggi additato
come un abominevole atto di barbarie?
E gli Scalzi erano a due passi della stazione ferroviaria;
ma la Filarmonica, ma S. Chiara, ma la Scala, colpita
dagli spezzoni incendiari, ma Brera, ma S. Ambrogio,
il Palazzo Reale Normanno e S. Simpliciano
e cento palazzi fra i più meravigliosi d’Italia?
No: questo no, mille volte no.

Caro Direttore Brandi,
Le chiedo perdono se mi permetto scriverLe, uscendo dal ranghi
della subordinazione con un accento di semplice ed umana verità.
Non vorrei che Ella pensasse ad uno scontro dell’ambizione
di Modigliani con l’ambizione di Pacchioni.
Non vi è mai stata ambizione in Modigliani, ma il senso altissimo
della responsabilità che ha ispirato tutta la sua vita e il suo lavoro,
e che lo ha spinto a supplicare il Ministero di provvedere subito
al restauro del ‘Cenacolo’: di valersi di un’esperienza concreta,
non idoleggiando chimerici tentativi per esporre nel frattempo
il cimelio a prove che non furono - per grazie di Dio -
ma potevano essere mortali…

Non è ambizione quella di Modigliani, ma passione.
Pura.
Modigliani è ormai lontano da queste vicende.
Egli si sta lentamente spegnendo: saranno giorni o forse ore.
Sorriderebbe di questa mia lettera.
Ma io ho sentito il dovere di compiere quest’ultimo gesto
di lealtà verso chi è stato per anni maestro.
E sempre ci rimarrà esempio.
Scusa l’ardire.

18 giugno 1947
Lettera di Fernanda Wittgens a Cesare Brandi
Ettore Modigliani morì il 22 giugno 1947,
quattro giorni dopo questa lettera.
Fu la Wittgens che riaprì il Museo teatrale alla Scala, creato da Modigliani decenni prima e chiuso durante la guerra.

E ancora fu Fernanda Wittgens che finalmente inaugurò la Grande Brera in nome di Modigliani, il 9 giugno 1950, con tutte le trentotto sale completamente riallestite da Pietro Portaluppi.

In contrapposto, queste sale serene, accoglienti
intatto il tesoro della collezione Napoleonica
di pittura veneta e lombarda, possono darvi
la coscienza di quello che fu l’orrore della guerra
e di quella che é la vittoria spirituale della rinascita.
Un’altra voce doveva cantare questo miracolo:
la voce animatrice del suo primo artefice:
Ettore Modigliani.

9 giugno 1950
Fernanda Wittgens
Discorso pronunciato all’inaugurazione della Pinacoteca.

Dal momento in cui si conobbero, nel 1928, fino alla morte di Modigliani, nel 1947, il rapporto di Ettore Modigliani con Fernanda Wittgens – pur sempre platonico – crebbe ben oltre quello di semplice maestro e allievo.

Il rispetto e l'affetto che provavano l'uno per l'altra poteva solo essere chiamato amore.
Le tracce scritte del loro legame sono poche e nei lunghi anni di forzata assenza di Modigliani da Brera, ovviamente la loro corrispondenza era clandestina.
Tuttavia, il loro lavoro, guidato dall’amore comune
per la cultura, per Milano e per Brera, vive ancora davanti agli occhi di tutti noi!

Un ringraziamento speciale alla famiglia Pontremoli e a Marco Carminati.
Di prossima uscita, giugno 2019, il fumetto Ettore e Fernanda
di Paolo Bacilieri edito da Coconino Press/Fandango Editore.
Dalle Memorie di Ettore Modigliani (Biblioteca dell’Arte, Skira)
Design e sviluppo: Viva!

L'esposizione che si svolge su più sale fornisce una ricca documentazione fotografica degli interpreti e dei guasti della guerra, ma anche della ricostruzione che 'visitandola' è possibile seguire quali siano stati i lavori che l'hanno riportata alla sua immagine attuale. Quella che noi tutti apprezziamo ed amiamo, milanesi e no, come me che vi scrivo.

L’immagine.
Da sinistra, il maggiore Longden, il comandante Sturlese ed Ettore Modigliani sul ponte della «Leonardo da Vinci» carica di capolavori italiani per la mostra di Londra del 1930.





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- Cultura

Nuovi spazi per la Cultura.

NUOVI SPAZI PER LA CULTURA.

 

"Passaggio a Sud-Ovest", diretta da Peppe Servillo. Arena del Fuenti con Paolo Fresu, Danilo Rea, Toni Servillo, Avitabile, Dee Dee Bridgewater e l'Orchestra di Piazza Vittorio con Mario Incudine.

 

"PASSAGGIO A SUD-OVEST"

La rassegna presentata a Salerno, a Palazzo Sant'Agostino, sede della Provincia, con l'Arena del Fuenti che ospiterà quest'estate, dal 28 giugno al 13 settembre 2019, nella prestigiosa location della Costiera amalfitana. La direzione artistica della manifestazione è affidata a Peppe Servillo, cantante, attore, compositore e voce storica degli Avion Travel e a Michelangelo Busco, direttore del teatro "Forma" di Bari e del Teatro Comunale "Fusco" di Taranto, che ha al proprio attivo l'organizzazione di moltissimi concerti in tutta Italia.

Sei gli appuntamenti in programma, tutti alle ore 21. Il primo concerto si terrà venerdì 28 giugno. Sul palco dell'Arena del Fuenti si esibiranno due dei più grandi talenti del jazz italiano: Paolo Fresu e Danilo Rea che, in "Duo 2019", spazieranno da brani di autori e cantautori italiani agli standard di jazz, per un'esibizione all'insegna di un dialogo musicale a forte vibrazione, che cattura per la sua grande generosità. La magia di Fresu e della sua tromba incontra i virtuosismi di Rea al pianoforte per uno spettacolo degno di un pubblico in cerca di forti ed indimenticabili emozioni.

Venerdì 5 luglio un evento straordinario: il grande attore Toni Servillo, vincitore di 5 David di Donatello, 4 Nastro d'Oro, 3 Ciak d'Oro e 2 European Film Awards, senza tralasciare l'Oscar come migliore film straniero assegnato a "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino che lo ha visto protagonista assoluto della pellicola, sarà all'Arena del Fuenti con "Servillo legge Napoli", un sentito omaggio alla cultura partenopea, che l’attore rende immergendosi nella sostanza verbale di dieci poeti e scrittori che di Napoli hanno conosciuto bene la carne e il cuore.

Giovedì 18 luglio con la cantante americana Dee Dee Bridgewater, che proporrà al pubblico dell'Arena del Fuenti lo spettacolo "J'ai Deux Amours", ispirato a Josephine Baker. La cantante icona del jazz, vincitrice di Grammy e Tony Award, nel corso della sua folgorante carriera è stata custode della tradizione musicale ed esploratrice del jazz, del quale ha abilmente rivisitato i classici.

Dee Dee si è esibita con artisti del calibro di Max Roach, Sonny Rollins, Dexter Gordon e Dizzy Gillespie. Venerdì 26 luglio Peppe Servillo ed Enzo Avitabile presentano "Acoustic World". Enzo Avitabile, cantante, compositore e polistrumentista, ha nel sangue il Neapolitan Sound che ha abilmente rivisitato alla ricerca di un suono inedito e originale, contaminato dalle sue esperienze di studio, fatte di conservatorio, musica pop e ritmo afro-americano. Vincitore di due David di Donatello, ha collaborato con artisti pop e rock di tutto il mondo, da James Brown a Tina Turner, a David Crosby. All'Arena, con Avitabile, Gianluigi Di Fenza e Emidio Ausiello e l'inconfondibile voce di Peppe Servillo, special guest della serata.

Venerdì 9 agosto sarà il cantante Mario Incudine, con lo spettacolo "Mimì", a trascinare il pubblico sull'onda delle suggestioni e della nostalgia. Mimì è un viaggio da sud a sud, sulle note delle canzoni di Domenico Modugno, uno spettacolo denso di emozioni ideato da Sabrina Petix, per la regia di Moni Ovadia e Giuseppe Cutino: dedicato a chi desidera Volare ma non sempre sa di avere le ali per poterlo fare. Chiude la rassegna venerdì 13 settembre l'Orchestra di Piazza Vittorio con "OPV all'Opera", ovvero 12 straordinari musicisti e cantanti che, con la direzione artistica e musicale di Mario Tronco, propongono una versione del tutto nuova di alcune opere, come Il Flauto Magico, e il Don Giovanni di Mozart o la Carmen di Bizet, mettendo a nudo le composizioni liriche, esaltando le zone delle partiture di maggiore ispirazione popolare, per uno spettacolo di grande intensità.

 

Ufficio Stampa: Claudia Bonasi | tel. 339 7099353 | e.mail claudia@puracultura.it __________________________________________________________

 

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BERGAMO – DIPARTIMENTO DI LINGUA CULTURA E LETTERATURE STRANIERE

 

Presenta un seminario dal titolo "Le riviste Europee di Poesia e la Traduzione" il 23 Maggio 2019, introdotto e curato da Fabio Scotto.   Il seminario intende fare il punto sul ruolo e sull’importanza della traduzione tra le pagine delle riviste europee, soffermandosi in modo particolare sulle linee di poetica alla base dei criteri di selezione e il peso della traduzione negli indici. Le riviste selezionate sono tra le più significative nel panorama europeo: per "Anterem", una delle riviste europee di poesia invitate a partecipare ne parleranno Angela Urbano, Isabelle Raviolo, Elisa Primavera-Lévi, Fiona Sampson, Rafael Ballesteros, Pietro Taravacci, Lelio Scanavini, Francesco Fava, già promulgatori del CISAM (Centro Internazionale per gli Studi sulle Avanguardie e la Modernità), diretto da Flavio Ermini.

 

Per ulteriori informazioni e il Calendario dei lavori è possibile visualizzare il tutto sul sito :www.anteremedizioni.it/le_riviste_di_poesia_e_la_traduzione.

 

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SILE JAZZ 2019 INFORMA:

 

L'uscita della rivista on-line, un'edizione dai grandi numeri di: "Suoni senza frontiere" - VIII edizione - 13 giugno / 28 luglio 2019.

Si festeggia l'ottavo compleanno di Sile Jazz con tante e importanti novità per il  nuovo traguardo: 42 musicisti provenienti da 13 paesi diversi; 16 concerti in 12 comuni coinvolti, la crociera nella laguna e - per la prima volta - nuovi percorsi di cicloturismo sulla pista ciclabile che costeggia il fiume e l'ospitalità nei ristoranti tipici con il menù dedicato, ricco di pietanze tradizionali del territorio.

Non "solo" musica quindi,  ma un vero porto di suoni "senza frontiere" che unisce le più nuove proposte musicali di tutto il mondo con la voglia e la curiosità di conoscere un territorio ricco di storia e di tradizioni che ha ancora il fascino dell'inesplorato: la meraviglia del Sile, dei paesi che lo circondano, dei centri storici e delle antiche Ville Venete.

Si può anche arrivarci in bicicletta, gustando i piatti tipici e rivivendo le antiche abitudini, allora è davvero un'esperienza (turistica, umana e artistica) unica!

 

R.S.V.P. - claragiangaspero@gmail.com - press@jazzareametropolitana.com -

+39 338 4543975

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VIETRI SUL MARE 2019: UN NUOVO SPAZIO PER LA CULTURA.

 

Si apre a Vietri sul Mare la nuova:

"Installazione del pontile per l'attracco dei traghetti, realizzazione della funicolare Vietri città e Marina e destinazione della ìTorre Vito Bianchi ad attività culturali. Sono stati questi gli argomenti principali dell'incontro che il candidato a sindaco di Vietri sul Mare, Giovanni De Simone, sostenuto dalla lista civica "Uniti per Vietri", ha tenuto lunedì scorso nella frazione della cittadina costiera.

"L'installazione del pontile consentirà di avere un maggior numero di presenze turistiche che, grazie alla fermata del traghetto anche a Marina, arriveranno da Salerno e dalla Costiera direttamente via mare. L'arrivo dei traghetti servirà anche a snellire il traffico che si crea da Vietri città in direzione mare.

Altro intervento, sempre per favorire lo snellimento del traffico di auto, è la realizzazione della funicolare Vietri città - Marina", ha affermato De Simone che ha illustrato anche la destinazione della Torre Vito Bianchi, acquisita di recente dal Comune di Vietri sul Mare. "Poche settimane fa ho firmato un accordo per l'acquisizione della Torre Vito Bianchi di Marina, di epoca vicereale. Così la nostra cittadina si dota di un nuovo prestigioso contenitore che avrà come destinazione le attività culturali".

Costruita dai Saraceni nel 1564, è stata negli anni più recenti utilizzata come edificio della Guardia di Finanza. Ora verrà restituita alla fruizione da parte di tutti i vietresi, dei turisti e di quanti vorranno utilizzare i servizi che l'edificio ospiterà, ha detto De Simone. "Creeremo nella Torre un'area da destinare a biblioteca e archivio comunale, uno spazio polivalente che possa ospitare convegni e mostre ed altre attività culturali, un servizio di book sharing e un info point con un museo multimediale dedicato al mare e alla storia dell'antica Marina. Nella Torre troverà spazio anche l'associazionismo: l'edificio storico diventerà un punto di attrazione turistico culturale, uno spazio al chiuso fruibile tutto l'anno che in questa frazione è più che mai necessario". Info e contatti:

 

e.mail: giovannidesimonesindaco@gmail.com

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PESCO SANNITA, ETHNOI 2019 -

 

"Festival delle minoranze culturali ed etnolinguistiche" diretto dal prof. Ugo Vuoso. Associazione puraCULTura - periodico on-line di conoscenze eventi press Editore: Direttore responsabile: Antonio Dura - Vietri Sul Mare (SA)tel. 0892867705 - mob. 3662596090 email: info@puracultura.it Stampa: Poligrafica Fusco.

 

ARTICOLI:

IL BORGO

CULTURE DI MINORANZA

IL CEICLE SEZIONI DEL FESTIVAL

LA FAMIGLIA MARAVIGLIA CUNTI, CANTI E FIABE

TAMMARO & POMPEO - UN PONTE TRA EUROPA E AFRICA

LE VOCI DIVERSE

PROGRAMMA ETHNOI 2019

 

“CULTURE DI MINORANZA”

Ethnoi nasce con l’intento di pro-muovere e valorizzare i patrimoni culturali immateriali delle cultu-re di minoranza. Sono dodici le minoranze etnolinguistiche rico-nosciute in Italia e tutelate dalla legge. Gli albanofoni o arbereshe sono oggi circa 100mila, diffusi in molti comuni dell’Italia meridio-nale, in corrispondenza dell’anti-co territorio del Regno delle Due Sicilie, punto di arrivo – fra il Quattrocento e il Settecento – di antiche migrazioni dall’Albania. San Marzano di San Giuseppe (Taranto) è un comune arbëreshë dalle antiche tradizioni espressive e coreutiche. Ethnoi, festival delle minoranze culturali ed etnolingui-stiche, progetto culturale promos-so dal Ceic - Istituto di Studi Stori-ci e Antropologici, è giunto ormai alla XII edizione e si tiene anche quest’anno a Pesco Sannita dall’8 al 12 maggio 2019.

Il Festival è nato nel 2007 a Greci (Av) ed ha mantenuto nel tempo il suo carat-tere di festival tematico e di appro-fondimento dedicato alle minoran-ze culturali ed etnolinguistiche. Nel corso della manifestazione si susseguono incontri, lezioni, ta-vole rotonde, laboratori, mo-stre, proiezioni, spettacoli teatrali, concerti dedicati all’enorme varie-tà di forme ed espressioni del pa-trimonio culturale immateriale che l’Unesco riconosce nelle arti dello spettacolo, nelle feste, nei saperi, nell’artigiana to, nei lavori tradi-zionali e, soprattutto, nel la lingua, veicolo fondamentale della cultura immateriale.

Ogni anno il festival conferisce il 'Premio internazionale Ethnoi' per i diritti dei Popoli. L’iniziativa è nata nell’intento di offrire in dono ad insigni personalità, enti o gruppi, l’artistica riproduzione dell’“uomo selvatico” – logo del nostro festival, nella elaborazio-ne scultorea in argenti vivo, opera del maestro Enrico Fiore –, quale riconoscimento pubblico (e del pubblico della manifestazione) per l’impegno da loro profuso a favore delle culture e dei popoli minoritari.

Il Premio è composto da tre sezioni: per la difesa dei di-ritti dei popoli indigeni e delle di-versità culturali; per la difesa dei diritti delle minoranze culturali, religiose ed etnolinguistiche; per la salvaguardia e la valorizzazio-ne dei patrimoni culturali immateriali.

I Premi Ethnoi sono stati assegnati a: Roberto De Simone, Cittadini di Lampedusa, Moni Ovadia, As-sociazione Manitese di Morcone, Pierfranco Bruni, Edizione Squi-libri di Roma, Associazione per i Popoli Minacciati di Bolzano, Ambrogio Sparagna.Antonio Michele, sindaco di Pesco Sannita, ospita il Festival Ethnoi, partecipando in prima persona alle numerose attività della kermesse culturale, convinto che la manife-stazione sia molto efficace per la valorizzazione e la promozione del piccolo borgo beneventano.

 

“CUNTI, CANTI E FIABE”

Il cuntista Fioravante Rea è uno dei protagonisti del Festival Ethnoi; ogni anno torna a Pesco Sannita per ammaliare bambini ed adulti con la sua narrazione magica. Autore, attore, regista, storyteller, esperto in teatro di figura, operatore e formatore di-dattico, sarà al Festival Ethnoi per “La tradizione dell’ascolto”, insieme ad Irene Isolani, Ciro Formisano e Mimmo Angrisano, giovedì 9 maggio alle ore 19,30, nell’ambito di Linguaggi / Tra-dizioni musicali, presso il Teatro comunale, nel segmento: I Teatri-ni presentano: suoni, canti e cunti. Venerdì 10 maggio l’attore andrà in scena per Linguaggi / Fabula, alle ore 17,00 al Teatro comuna-le. I Teatrini presentano: Le fiabe sono vere e non sono per bambini. Storie e racconti tradizionali nel-la narrazione di Fioravante Rea e Angela Dionisia Severino. Infine per Linguaggi / Fabula sabato 11 maggio, alle ore 16,00 al Teatro comunale “Cuntisti e storie di mare". La tradizione dei cuntisti, sempre a cura di Fioravante Rea.

 

Info e contatti: www.puracultura.it

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- Cinema

Il cinema che aspettiamo di vedere.


Il cinema che abbiamo visto, che aspettiamo di vedere, che non avremmo voluto vedere sui nostri schermi.

In collaborazione con Cineuropa News

PRODUCERS ON THE MOVE 2019 Nadia Trevisan • Produttore, Nefertiti Film.
“Lavorare in una terra di confine mi ha portato a pensare ai progetti in un contesto internazionale”

Articolo di Camillo De Marco.
07/05/2019 - Abbiamo discusso con il produttore italiano Nadia Trevisan della sua esperienza e delle aspettative come Producer on the Move dell'EFP a Cannes
Nata dieci anni fa dall’incontro tra Nadia Trevisan e il regista Alberto Fasulo, la Nefertiti Film è una società di produzione cinematografica indipendente, radicata nel territorio del Friuli Venezia Giulia ma ormai inserita in un panorama cinematografico internazionale. Oltre ai titoli firmati da Fasulo, come Rumore Bianco, TIR, Genitori e il recente Menocchio - che è stato selezionato nel concorso ufficiale del 71mo Festival di Locarno - Nefertiti ha realizzato History of Love della regista slovena Sonja Prosenc, entrando in coproduzione con Slovenia (Monoo) e Norvegia (Incitus) e ha ora in cantiere un nuovo progetto con la Francia. Trevisan è stato selezionata per i Producers on the Move 2019 dell'European Film Promotion.

Cineuropa: TIR vinse l’edizione 2013 del Festival di Roma. Arrivando poi nelle sale, ha per così dire sdoganato il documentario in Italia, assieme a Sacro GRA, facendo conoscere ad un pubblico più largo il cosiddetto docufiction. Un grande merito nel difficile panorama della circolazione di alcuni generi.

Nadia Trevisan: Produrre TIR è stata un’esperienza formativa. Ancora oggi mi si chiede se sia un documentario o un film di finzione. Credo sia bello poter parlare semplicemente di film, un film che ha permesso di far conoscere una realtà sommersa sebbene sotto gli occhi di tutti, come il mondo dei camionisti. Dall’altra parte il gran parlare della critica, anche se non sempre favorevole nei confronti di questo film, ha permesso che si discutesse del film stesso e del suo autore Alberto Fasulo. A posteriori, dopo tanti anni, ti posso dire che il fatto che se ne sia parlato così tanto è perché ha scosso e smosso la critica, e di ciò non posso che esserne contenta.

Menocchio è stato un progetto finanziato e sviluppato attraverso importanti soggetti europei, come ad esempio EAVE, e con una Menzione speciale all’Eurimages Co-production Development Award. Ed è un film coraggioso e intenso, che forse non ha avuto la distribuzione che meritava. E’ uno storico problema dei film di qualità italiani. Qual è stata la vostra strategia?

Il film ha avuto un buon percorso produttivo che ha fatto crescere anche me come produttore, oltre che permettere al film di essere sviluppato e prodotto in un contesto internazionale. Non sono totalmente d’accordo nell’affermare che non ha avuto una distribuzione adeguata, almeno per quanto riguarda la distribuzione italiana. In questo caso abbiamo deciso di auto-distribuirlo. Siamo usciti in sala a fine ottobre 2018 e ad oggi il film è ancora nelle sale italiane. La strategia distributiva è stata cucita addosso al film, prendendosi cura di ogni minimo aspetto. Abbiamo seguito il processo distributivo sala per sala, accogliendo le richieste degli esercenti e condividendo con loro le modalità migliori di uscita per ogni singolo cinema. Le proiezioni sono state seguite dal regista o dagli attori principali nonché dagli storici, con cui si è aperto un interessante dialogo. Il riscontro del pubblico è stato molto positivo, e abbiamo trovato una grande partecipazione anche nei numerosi Q&A organizzati durante il tour.

Come società nata e attiva nel Friuli Venezia Giulia, Nefertiti Film ha una naturale predisposizione alla coproduzione con i Paesi dell’Est, e lo dimostra anche History of Love della slovena Sonja Prosenc. Uno dei prossimi progetti, Piccolo Corpo, è in coproduzione con la Francia. Ci parli di queste esperienze?

Piccolo Corpo è una co produzione con la Francia, ma siamo in attesa di avere risposte anche dalla Slovenia. History of Love è la prima coproduzione tra Slovenia, Italia e Norvegia. Menocchio è una coproduzione con la Romania. Vivere e lavorare in una terra di confine mi ha portato naturalmente a pensare ai progetti di Nefertiti in un contesto internazionale. Grazie anche al grande lavoro di internazionalizzazione fatta dal Fondo Audiovisivo del Friuli Venezia Giulia, che assieme alla Film Commission FVG, ha permesso che un territorio come il nostro fosse al centro del panorama europeo. Dal punto di vista prettamente produttivo, credo che le coproduzioni internazionali siano altamente formative, perché ti obbligano a rapportati con realtà industriali diverse dalla nostre, e inoltre danno al film una visibilità e un respiro che altrimenti non avrebbe.

Quali sono le tue aspettative a Cannes come “Producer on the Move”?

Sono molto felice di essere stata selezionata per Producers on the Move. Ringrazio Istituto Luce Cinecittà per la possibilità che mi ha dato candidando me come produttore italiano. Sono onorata di poter condividere dei momenti con i colleghi produttori selezionati in questa edizione. Sicuramente avrò la possibilità di crescere professionalmente e di potermi confrontare con un alto livello di professionisti dell’industria cinematografica. Spero di aumentare ulteriormente la mia rete di contatti, e magari aprirmi a qualche nuovo progetto in coproduzione internazionale.


CANNES 2019 Marché du Film 'True Colours': nuovi titoli, direttamente dalla sala al Marché du Film.
Articolo di Camillo De Marco
08/05/2019 - Nel listino della società italiana di vendite internazionali a Cannes Il Campione, con Stefano Accorsi, e il prossimo film di Mario Martone, Il sindaco del rione Sanità
True Colours arriva al Marché du Film di Cannes 2019 con alcuni titoli freschissimi, alcuni dei quali stanno attualmente superando il test della sala: Il Campione di Leonardo D’Agostini, prodotto da Groenlandia con Rai Cinema in associazione con 3 Marys Entertainment, è una dramedy a sfondo calcistico con Stefano Accorsi e Andrea Carpenzano che si sta avvicinando al milione d’incasso a due settimane dall’uscita con 01 Distribution. La commedia Ma cosa ci dice il cervello di Riccardo Milani, produzione Vision Distribution e Wildside con Sky e TIMVision, ha invece conquistato la vetta del box office nei giorni di Pasqua e si è assestato ora al quinto posto della top ten con 4.5 milioni di euro d’incasso.

Market Premiere al Riviera di Cannes anche per Croce e delizia, commedia dai toni LGBT diretta da Simone Godano con Alessandro Gassmann, Fabrizio Bentivoglio e Jasmine Trinca, prodotta da Warner Bros. Entertainment Italia, Picomedia e Groenlandia e distribuita in Italia da Warner Bros. Pictures a fine febbraio con un incasso di 1,2 milioni di euro in 9 settimane di programmazione.

Attesissimo il prossimo film di Mario Martone, che porta sul grande schermo la commedia in tre atti Il sindaco del rione Sanità del grande Eduardo De Filippo. Il film, prodotto da Indigo Film, vedrà nel cast Francesco Di Leva, Roberto De Francesco, Adriano Pantaleo e Massimiliano Gallo.

Viene proposto nella versione originale in lingua inglese l’horror psicologico In the Trap firmato da Alessio Liguori e co-prodotto da DreamWorldMovies e Mad Rocket Entertainment. Philip, un giovane correttore di bozze (Jamie Paul, Black Mirror), è intrappolato da due anni nel suo appartamento, torturato da un’entità malvagia che gli impedisce di uscire. Nel cast anche Sonya Cullingford (The Danish Girl) e David Bailie (The House That Jack Built).

Un’altra novità in listino è la riuscita commedia Bentornato Presidente! di Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi, sequel del campione d’incassi del 2013 Benvenuto Presidente! di Riccardo Milani (8,5 milioni di euro in totale e una candidatura agli European Film Awards). Il film prodotto da Indigo Film con Vision Distribution, che vede ancora protagonista Claudio Bisio, ha incassato nelle prime 5 settimane di programmazione 1,5 milioni di euro.

Tra gli altri titoli proposti da True Colours, 10 giorni senza mamma di Alessandro Genovesi, Il testimone invisibile di Stefano Mordini, Moschettieri del Re di Giovanni Veronesi, Un’avventura di Marco Danieli, Ti presento Sofia di Guido Chiesa, Genitori quasi perfetti di Laura Chiossone. La società di vendita italiana offre ai buyer del mercato cannense le proiezioni dei promo reel del prossimo film di Guido Lombardi (Take Five) intitolato Il ladro di giorni (Indigo Film, Bronx Film con Rai Cinema), protagonista Riccardo Scamarcio, di Freaks Out di Gabriele Mainetti, attualmente in produzione (True Colours vende solo in alcuni territori selezionati i diritti del film prodotto da Lucky Red, Goon Films e Rai Cinema in co-produzione con Gapfinders), e del biopic Io, Leonardo di Jesus Garces Lambert (Sky Italia e Progetto Immagine).

PRODUZIONE ITALIA
"Tutto il mio folle amore" è il titolo del nuovo Gabriele Salvatores.
Articolo di Camillo De Marco
09/05/2019 - Il nuovo film del premio Oscar, attualmente in postproduzione, è liberamente tratto dal romanzo Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas. Nel cast, Claudio Santamaria, Valeria Golino. Tutto il mio folle amore è il titolo definitivo del nuovo film di Gabriele Salvatores, attualmente in postproduzione, liberamente tratto dal romanzo Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas, edito in Italia da Marcos y Marcos. Nel cast, Claudio Santamaria, Valeria Golino, Diego Abatantuono e il giovane Giulio Pranno.
Il film è la straordinaria avventura on the road, dall’Italia dell’est fino alle strade deserte dei Balcani, di un padre e un figlio e il loro rapporto tenero, divertente, problematico e fuori dagli schemi. “Uno dei protagonisti del film, il padre naturale del ragazzo, è un cantante”, scrive Gabriele Salvatores nelle note di regia diffuse dalla produzione. “Canta le canzoni di Domenico Modugno nei matrimoni e nelle feste in giro per la Dalmazia. Il testo di una di queste canzoni, ‘Cosa sono le nuvole’, è stato scritto da Pier Paolo Pasolini. Una frase di quel testo mi ha colpito particolarmente: ‘E tutto il mio folle amore lo soffia il vento, così’. Ho sempre pensato al nostro ragazzo protagonista come a un ’fool’ di Shakespeare, uno di quei folli buffoni che riescono a tirarsi dietro re e regine costringendoli a fare i conti con se stessi. E, nel nostro caso, a far ricorso a tutto l'amore che hanno ancora a disposizione. ‘Folle’ e ‘Amore’. Ecco il titolo del film. Tutto il mio folle amore”.

La sceneggiatura del film è firmata da Umberto Contarello e Sara Mosetti. Italo Petriccione ha curato la fotografia, il montaggio è affidato a Massimo Fiocchi, mentre la scenografia è di Rita Rabassini e le musiche sono composte dal maestro Mauro Pagani.
Tutto il mio folle amore è una produzione Indiana Production con Rai Cinema in co-produzione con EDI Effetti Digitali Italiani, e sarà distribuito da 01 Distribution. Rai Com si occupa delle vendite internazionali. Impacto Cine ha già comprato i diritti del film per Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Messico, Paraguay, Uruguay e Venezuela.

TRIBECA 2019
Recensione: "Run"
Articolo di Vladan Petkovic
09/05/2019 - Il terzo lungometraggio di Scott Graham è una storia di genitori che guardano i bambini ripetere i loro errori, e il conflitto tra libertà adolescenziale e responsabilità degli adulti.

In his third feature, Run, which recently world-premiered in Tribeca's International Narrative Competition, Scottish director Scott Graham (Iona, Shell) takes his cue from Bruce Springsteen and his songs about growing up in a small town – quite literally. In addition to the movie opening with a quote from "Born to Run", the title of the song is also, fleetingly but unmistakeably, seen scrawled as a tattoo on the bodies of two of the protagonists. These are Finnie (Mark Stanley, from Euphoria and Ready Player One) and Katie (Amy Manson, from T2 Trainspotting), a married couple in their late thirties living in a small Scottish coastal town. Finnie works at the fish factory, together with his elder son Kid (Anders Hayward), and at home they also have a younger son, Stevie. At the beginning, Kid gets fired from the job (which he hates anyway), despite Finnie trying to convince the boss to keep him on, as the boy's girlfriend Kelly (Marli Siu, from Anna and the Apocalypse) is pregnant. Graham treats this scene, and indeed the whole first act, in keeping with the best tradition of British kitchen-sink realism, but Run is not just a film about social circumstances. Rather, it is a treatise on wanting to run away from boredom and a limited, small-town existence, but never actually doing it, and how parents' lives and mistakes are subsequently replicated by their children. Moreover, it is about how the parents perceive themselves through the choices their offspring make.
Similarly to the world of Springsteen's songs, in small-town Scotland, youngsters get their kicks from racing their pimped-up, mid-range cars. Finnie, it transpires, used to be one of the street-racing heroes.

After a difficult evening when he manages to get into an argument with all of the members of his family, Finnie gets into Kid's car and takes it for a ride. On the way, he picks up Kelly, and the unlikely pair will spend almost the whole night together, driving around and racing.It is not easy to make an engaging film with such a bleak set-up, especially when its central part is limited to two characters sitting in a car on a dark, rainy night. Graham pulls this off through a well-planned and -edited sequence of creatively lit shots, and a rich sound design that incorporates traffic noises, snippets of songs from other cars and, in a particularly effective scene, the waves crashing against the harbour.
All of the elements needed for Graham to get his point across are there. Finnie's state of feeling nostalgia for the past but also being painfully aware of being shackled by it, exacerbated by seeing his son grow up to become exactly the same person as him, is presented in a clear and convincing manner. However, the film as a whole leaves an impression of a well thought-out draft, rather than a complete cinematic work.

As there can hardly be much of a plot in such a stripped-down approach to the subject, Graham relies on details, atmosphere and the actors’ performances. All of these aspects work, but something is missing in order for the viewer to be able to fully relate to the characters. Maybe a more ambitious plot would have given the heroes more opportunities to show their human qualities and flaws, and the audience more to engage with. As things stand, Finnie and Katie – and, in future, Kid and Kelly as well – are just good people who have never lived up to their belief that they were born to run. Run is a co-production by London-based bard entertainments and Glasgow’s barry crear. The UK's Film Constellation handles the international rights.

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- Scienza

Mind l’interazione sociale e i cervelli sincronizzati.


LE SCIENZE NEWS : MIND – Mente e Cervello memoria / Antropologia / Cervello

20 aprile 2019
L'interazione sociale e i cervelli sincronizzati.

L'analisi dell'attività cerebrale di persone impegnate in un'interazione sociale ha rilevato i segnali di una sincronizzazione dei loro cervelli. La scoperta è stata ottenuta attraverso una nuova metodologia di imaging cerebrale, denominata "iperscanning", che coinvolge più soggetti contemporaneamentedi Lydia Denworth/Scientific American
neuroscienze comportamento.

La stragrande maggioranza degli studi di neuroscienze si basa su tre elementi: una persona, un compito cognitivo e una macchina ad alta tecnologia in grado di vedere all'interno del cervello. Questa semplice ricetta può produrre una scienza potente. Tali studi ora producono regolarmente immagini che fino a poco tempo fa un neuroscienziato poteva solo sognare. Permettono ai ricercatori di delineare la complessa macchina neurale che dà un senso alle immagini e ai suoni, elabora il linguaggio e trae un significato dall'esperienza.

Ma qualcosa manca in gran parte di questi studi: le altre persone. Noi esseri umani siamo intrinsecamente sociali, eppure neanche le neuroscienze sociali, un campo creato appositamente per esplorare la neurobiologia dell'interazione umana, sono state sociali come si potrebbe pensare. Solo un esempio: nessuno ha ancora catturato la ricca complessità dell'attività cerebrale di due persone mentre parlano insieme. "Trascorriamo le nostre vite conversando tra noi e stabilendo legami", dice il neuroscienziato Thalia Wheatley del Dartmouth College. "Ma capiamo ben poco di come effettivamente le persone si connettano tra loro. Non sappiamo quasi nulla su come si accoppiano le menti".

Impronte cerebrali di gruppo
La situazione sta cominciando a cambiare. Un gruppo sempre più numeroso di neuroscienziati utilizza una tecnologia sofisticata e una matematica molto complessa per catturare ciò che accade in uno, due o anche 12 o 15 cervello, nel momento in cui le persone sono impegnate nel contatto visivo, nella narrazione, nell'attenzione congiunta focalizzata su un argomento o su un oggetto, o qualsiasi altra attività che richieda uno scambio sociale di dare e avere.

Anche se il campo delle neuroscienze sociali interattive è ancora agli inizi, la speranza è che l'identificazione delle basi
neuronali del vero scambio sociale possa cambiare la nostra comprensione di base della comunicazione, e in definitiva migliorare l'educazione o influenzare il trattamento dei molti disturbi psichiatrici che coinvolgono disabilità sociali.

Durante le interazioni sociali, i cervelli accoppiano la loro attivazione (© AGF)In precedenza, i limiti della tecnologia hanno rappresentato un grosso ostacolo allo studio dell'interazione umana reale. L'imaging cerebrale richiede l’immobilità del soggetto e il rigore scientifico richiede un livello di controllo sperimentale tutt'altro che naturale. Di conseguenza, è difficile ottenere dati di alta qualità da un cervello; farlo con due cervelli "vuol dire più che raddoppiare", spiega il neuroscienziato David Poeppel della New York University. "Devi sincronizzare i macchinari, i dati e l'acquisizione dei dati".

Tuttavia, il primo studio che ha monitorato con successo due cervelli contemporaneamente risale a circa 20 anni fa. Il fisico Read Montague, ora al Virginia Tech, e i suoi colleghi, hanno messo due persone dentro macchine per la risonanza magnetica funzionale (fMRI) separate e hanno osservato la loro attività cerebrale mentre erano impegnate in un semplice gioco competitivo in cui un giocatore (il mittente) doveva trasmettere un segnale non appena avesse visto il colore rosso o verde e l'altro giocatore (il ricevente) doveva decidere se il mittente stesse dicendo la verità o mentendo. Le ipotesi corrette determinavano l'attribuzione di una ricompensa. Montague ha chiamato la tecnica "iperscanning", e il suo lavoro ha dimostrato la possibilità di osservare due cervelli contemporaneamente.

All'inizio, la direzione intrapresa da Montague è stato seguita principalmente dai neuroeconomisti invece che che dai neuroscienziati sociali. Ma il termine iperscanning ora viene applicato a qualsiasi ricerca di imaging cerebrale che coinvolge più di una persona. Attualmente, le tecniche che vi si adattano includono l'elettroencefalografia (EEG), la magnetoencefalografia e la spettroscopia funzionale nel vicino infrarosso. L'uso di queste varie tecniche, molte delle quali piuttosto nuove, ha ampliato la gamma di possibili esperimenti e ha reso l'iperscanning meno ingombrante e, di conseguenza, molto più popolare.

Il coinvolgimento conta
Al di là delle sfide pratiche delle neuroscienze interattive, è emersa una domanda più filosofica, vale a dire se le informazioni neurali raccolte monitorando le persone durante l'interazione sociale sono significativamente diverse dalle scansioni effettuate quando i soggetti sono soli o agiscono solo come osservatori. E' importante che la persona che stiamo guardando ci guardi a sua volta? C'è differenza tra pronunciare una frase e rivolgerla a qualcuno che sta ascoltando?

Sì, a quanto pare una differenza c'è. Stanno aumentando, spiega lo psichiatra e neuroscienziato sociale Leonhard Schilbach del Max-Planck-Institut per la Psichiatria di Monaco di Baviera, che "la cognizione sociale differisce fondamentalmente quando si è coinvolti direttamente con un'altra persona rispetto a quando si osserva un'altra persona".

Dimostrare queste differenze non richiede per forza studi su più di un cervello alla volta, ma esige esperimenti relativamente naturalistici, che sono difficili da progettare entro i limiti imposti ai protocolli di laboratorio standard.

La psicologa Elizabeth Redcay dell'Università del Maryland studia l'interazione sociale nell'autismo, con particolare attenzione alla prima infanzia. Nel 2010, quando occupava una posizione di postdottorato e lavorava con Rebecca Saxe al Massachusetts Institute of Technology, ha realizzato un esperimento pionieristico che includeva un partecipante all'interno dello scanner e un altro (in realtà un ricercatore) al di fuori, che interagivano in tempo reale attraverso un video. I video registrati di un altro interlocutore facevano da controllo. Redcay ha rilevato nelle interazioni in tempo reale, rispetto a quelle registrate, una maggiore attivazione delle aree cerebrali coinvolte nella cognizione sociale e nella ricompensa.

I suoi studi successivi hanno continuato a documentare differenze nel modo in cui risponde il cervello coinvolto in un'interazione.

Nei cervelli dei bambini, le regioni coinvolte nel pensare agli stati mentali degli altri – nel “mentalizzare”, in altri termini – sono più attive quando credono di interagire con un coetaneo rispetto a quando non lo sono. In studi di attenzione congiunta, una componente critica dell'interazione sociale, Redcay ha scoperto che le regioni coinvolte nella mentalizzazione cerebrale, come la giunzione parietale temporale, rispondevano in modo diverso quando i soggetti condividevano l'attenzione rispetto a quando guardavano qualcosa in modo indipendente.

Ora la ricercatrice vuole sapere se ci sono ulteriori differenze nel modo in cui interagisce il cervello degli individui con autismo. "Il grado di coinvolgimento delle regioni di mentalizzazione è legato al successo delle persone nell'interazione sociale?" si chiede. "E' troppo presto per dirlo", ma è chiaro, spiega, che "non hai il quadro completo se ti affidi solo agli approcci degli osservatori".

Schilbach è stato uno dei principali fautori di quella che ldefinisce la neuroscienza in seconda persona. I suoi studi hanno incluso personaggi virtuali che sembrano rispondere allo sguardo di un partecipante. In quelle situazioni, "i cosiddetti network di mentalizzazione e network di osservazione dell'azione sembrano connessi molto più strettamente di quanto pensassimo", afferma. "Si influenzano a vicenda, a volte in modo complementare e talvolta in modo inibitorio”. Schilbach ha scoperto inoltre che anche azioni molto semplici, come guardare un'altra persona e credere che questa stia ricambiando lo sguardo – un'interazione in cui percepisci che il tuo comportamento ha un effetto su un'altra persona – stimolano l'attività nel circuito di ricompensa del cervello, in particolare nello striato ventrale. E quanto più gratificante troviamo un comportamento, tanto più è probabile che lo ripeteremo.

Gli occhi lo sanno
Che cosa sta succedendo nel cervello dell'altra persona? Il contatto visivo era il posto più logico dove cercare.

Avere un contatto visivo attiva il cervello sociale e segnala a un'altra persona che stiamo prestando attenzione. È un modo con cui condividiamo intenzioni ed emozioni. All'inizio del 2019, Norihiro Sadato dell'Istituto nazionale di scienze fisiologiche in Giappone, e i suoi colleghi, hanno usato l'iperscanning per mostrareche il contatto visivo prepara il cervello sociale a entrare in empatia attivando contemporaneamente le stesse aree del cervello di ogni persona: il cervelletto, che aiuta a predire il conseguenze sensoriali delle azioni, e il sistema limbico dei neuroni a specchio, un insieme di aree cerebrali che si attivano sia quando muoviamo qualsiasi parte del corpo (inclusi gli occhi) sia quando osserviamo i movimenti di qualcun altro.

Guardarsi negli occhi prepara il cervello all'interazione sociale (© iStock)Il sistema limbico, in generale, è alla base della nostra capacità di riconoscere e condividere le emozioni. In altre parole, è fondamentale per regolare la nostra capacità di empatia.

Le storie che ci raccontiamo sono il mezzo ideale per esplorare il collante sociale che ci lega. Il neuroscienziato Uri Hasson della Princeton University ha condotto esperimenti pionieristici sull'accoppiamento dei cervelli usando la narrazione.

In uno di questi studi, ha posto un soggetto in uno scanner e gli ha chiesto di raccontare una storia. In seguito ha inserito un'altra persona nello scanner e gli ha fatto ascoltare una registrazione della storia raccontata dalla prima persona. Hasson ha confrontato l'elaborazione del cervello di chi parlava con quella di chi ascoltava nel corso del test, abbinando la loro attività cerebrale momento per momento e ha trovato la prova dell'accoppiamento dei due cervelli. "Il cervello dell'ascoltatore diventa simile al cervello di chi parla", dice Hasson. E più i cervelli erano allineati, maggiore era la comprensione riferita dall'ascoltatore. Afferma Hasson, "Il tuo cervello come individuo è determinato dal cervello a cui sei connesso."

Di recente Hasson ha unito le forze con Wheatley di Dartmouth per vedere se riuscivano a misurare l'accoppiamento dei cervelli durante la conversazione.

Una buona conversazione, dice Wheatley, significa "creare nuove idee insieme ed esperienze che non avresti potuto avere da solo". Vuole vedere quell'esperienza nel cervello. Il loro studio prevede l’uso di scanner in diverse università collegati online. (La maggior parte dei dipartimenti di psicologia ha solo uno scanner.) Con una persona in ogni scanner, i soggetti completano una storia a turno: un partecipante pronuncia alcune frasi e l'altro riprende da dove il compagno si è interrotto. Se gli scienziati possono catturare gli stati cerebrali durante questa interazione, dice Wheatley, potrebbero essere in grado di vedere come due cervelli si avvicinano e poi si allontanano l'uno dall'altro durante la conversazione.

Oltre le coppie
Forse inevitabilmente, i neuroscienziati sono passati a studiare non solo due, ma molti cervelli contemporaneamente. Questi esperimenti richiedono l'uso dell'EEG perché è portatile.

I primi studi hanno dimostrato che quando ci impegniamo in attività di gruppo come concerti o film, le nostre onde cerebrali si sincronizzano: l'attenzione rapita del pubblico significa che gli spettatori elaborano allo stesso modo il finale sinfonico o una scena d'amore o di lotta. Ciò non è poi così sorprendente, ma ora gli scienziati stanno applicando lo stesso approccio nelle aule scolastiche, dove i risultati potrebbero aggiungere ciò che sappiamo su come gli studenti possono apprendono meglio.

In una serie di studi nelle scuole superiori di New York, un gruppo di ricercatori dell'Università di New York tra cui Poeppel, Suzanne Dikker e Ido Davidesco ha fatto ripetute registrazioni EEG di ogni studente in una classe di biologia nel corso di un semestre. Hanno scoperto che le onde cerebrali degli studenti erano più in sintonia tra loro quando erano più impegnati in classe. La sincronia da cervello a cervello riflette anche quanto gli studenti si piacciono tra loro e quanto apprezzano l'insegnante: relazioni più strette portano a una maggiore sincronizzazione. Il loro studio attuale sta esaminando se i livelli di sincronia cerebrale durante la lezione predicono la conservazione dei contenuti appresi. "Penso che quello che stiamo facendo è molto utile", dice Poeppel. "Ma come usare queste tecniche in modo mirato per l'apprendimento STEM?”.

"Schilbach crede che le neuroscienze interattive abbiano anche applicazioni nella vita reale in psichiatria. Potrebbero rendere possibile prevedere quale terapeuta funzionerà meglio con quale paziente, per esempio. E l'attenzione alle situazioni della vita reale aiuta a garantire che ogni scoperta abbia un valore per i pazienti. "Come psichiatra", dice Schilbach, "non sono interessato ad aiutare una persona a migliorare in un particolare compito sociale cognitivo. Sto cercando di aiutare quella persona a condurre una vita felice e soddisfacente”.

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato su "Scientific American" il 10 aprile 2019. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

Si ringrazia la redazione di Scienze/Mente.

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- Letteratura

Napoli: quando la Storia fa Spettacolo

Napoli: quando la Storia fa spettacolo.

Dal 25 al 28 aprile, Napoli si trasformerà nella Woodstock della storiografia con "Lezioni di Storia Festival". Saranno 4 Lezioni di Storia Festival in cui i più grandi storici italiani - Carandini, Barbero, Cantarella, Canfora e tanti altri - racco

IL PASSATO È PRESENTE
A Napoli il primo Festival delle Lezioni di Storia Dai Maestri ai Miti, cento ore di racconti.
Trenta appuntamenti, quindici eventi collaterali, alcuni tra i più autorevoli e conosciuti storici italiani: le Lezioni di Storia che da dieci anni registrano il tutto esaurito nei grandi teatri italiani diventano un Festival, grazie all’inc ontro tra l’editore Laterza e la Regione Campania. Un evento che trasforma la città di Napoli dal 25 al 28 aprile nella Woodstock della storiografia, con ospiti eccezionali e con sede principale al Teatro Bellini ed incontri al MANN, al museo Madre, al Conservatoriodi San Pietro a Majella,all’Accademiadi Belle Artie al Liceo Genovesi, prestigiosi partner di Laterza nella progettazione di questa iniziativa. Tema di questa prima edizione:Il passato è presente.
Perché se è vero che viviamo in un’epoca in cui il passato, la memoria, hanno spesso lasciato il posto alla continua narrazione del presente, è altrettanto vero che questa narrazione è sempre più insufficiente per quanti vogliano individuare le radici, lecause delle grandi questioni del nostro tempo. Per farlo abbiamo bisogno della riflessione storica. Insomma, il quando delle cose ci aiuta a decifrarne il perché.
Per aiutare il pubblico ad orientarsi e scegliere tra dialoghi, lezioni, performance teatrali, incontri in libreria il festival è stato suddiviso in una serie di percorsi tematici: I maestri, La storia nell'arte, Noi e gli antichi, I volti del potere, Grandi Racconti, Il tempo della musica, Orizzonti e In questione. In ognuna di queste sezioni si predilige un aspetto: il ritratto di chi ha fatto la storia di questa disciplina, il racconto del potere e il potere del racconto, le arti come fonti storiche, la nostra relazione con il mondo antico, la storia come strumento di comprensione dell’attualità.

Per Napoli e la sua fortissima identità è stato pensatoun percorso specifico:L'invenzione di Napoli.Sul palco, nelle sale, nelle aule magne, nelle librerie di Napoli come fossimo in una Woodstock della storiografia si alterneranno i più autorevoli storici italiani e stranieri.
Andrea Carandini racconterà la lotta di Agrippina per il potere nella Roma antica;
Alessandro Barbero le tre visioni dell’Europa di Carlo Magno, Napoleone ed Hitler;
Franco Cardini spiegherà come si è formata (ed è arrivata fino ai nostri giorni) l’immagine del cattivo saraceno;
Eva Cantarella condurrà il pubblico nel mondo del mito greco;
Luciano Canfora terrà una lezione sul tirannicidio nella suggestiva cornice del Mann; Emilio Gentile affronterà un tema oggi di estrema attualità Chi è fascista;
Luigi Mascilli Migliorini regalerà al pubblico il ritratto di un grande maestro: Giuseppe Galasso;
John Dickie racconterà la massoneria; in occasione del 25 aprile Gabriella Gribaudi e Simona Colarizi proporranno una riflessione sulla Liberazione assieme a Marino Sinibaldi e Maria Filippone;
con Paolo Macry si affronterà il tema del populismo attraverso il ritratto di Achille Lauro,mentre Paolo Frascani farà un affresco della società napoletana da Carosello napoletano a Reality.
John Foot offrirà il racconto di una delle più grandi e inscalfibili icone napoletane: Diego Armando Maradona.
Alessandro Vanoli suggerirà un viaggio nel tempo e nello spazio alla scoperta delle tracce della presenza islamica in Italia.
E poi Loris Zanatta su Eva Perón, Fidel Castro e Bergoglio e sul populismo in chiave gesuita; Carlo Greppi su Bob Marley, Amedeo Feniellosulla “via della seta” oggi tornata di grande attualità.
Questi sono solo alcuni degli incontri previsti nei quattro giorni del Festival, a essi si aggiungono appuntamenti collaterali, visite guidate ed eventi di musica e spettacolo.

L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti.
Tutte le info su www.lezionidistoriafestival.it
Il Festival è progettato e ideato dall’editore Laterza con la Regione Campania ed è organizzato dall’Associazione “A voce alta” e dalla Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini, con la partnership di MANN Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Madre • museo d’arte contemporanea Donnaregina / FondazioneDonnaregina per le arti contemporanee, Accademia di Belle Arti di Napoli,Conservatorio di Musica San Pietro a Majella e Liceo Antonio Genovesi.

Promozione e Comunicazione sono a cura della Scabec, società inhouse della Regione Campania. Media partner, Rai Cultura e Radio 3 Rai. Partner tecnico, Ferrarelle. Ufficio Stampa Editori Laterza per Lezioni di Storia Festival Nicola Attadio.
Napoliinfo@lezionidistoriafestival.ittel.
Ospitalità e Informazioni turistiche Punto di accoglienza -spazio libreria Laterzagorà nel Teatro Bellinivia Conte di Ruvo, 14 mail: info@lezionidistoriafestival.ittel: 377 3818055 (10:00-13:00/16:00-19:00)Le librerie del FestivalUBIKVia Benedetto Croce, 28Tel. 081 4203308 LA FELTRINELLI Piazza dei Martiri, 23Tel. 02 91947777 IOCISTO Via Domenico Cimarosa, 20Tel. 081 5780421 MONDADORIBOOKSTORE Via Luca Giordano, 158Tel. 081 18639570 MONDADORIBOOKSTORE Piazza Vanvitelli, 10A Tel. 081 556 4756.

Marc Bloch
Apologia della storia o mestiere di storico, in "Apologia della storia", Einaudi.

Senza dubbio, anche se la storia dovesse essere giudicata incapace d’altri compiti, rimarrebbe da far valere, in suo favore, ch’essa è divertente. O, per essere più esatti –dal momento che ognuno cerca le sue distrazioni dove gli piace –, ch’essa, incontestabilmente, pare esser tale per un gran numero di esseri umani. Personalmente, per quanto all’indietro me ne rammenti, mi ha sempre divertito molto. Come tutti gli storici, penso. Altrimenti, per quali motivi avrebbero scelto questo mestiere? Per chiunquenon sia completamente sciocco, tutte le scienze sono interessanti. Ma ogni studioso non ne trova se non una sola la cui pratica lo diverta. Scoprirla per consacrarvisi è, propriamente, quel che si chiama “vocazione”. D’altronde, questo innegabile fascino della storia merita già, in sé, di attirare la riflessione. Come germe e come pungolo, il suo ruolo è stato e resta fondamentale. Prima del desiderio di conoscenza, il semplice gusto; prima dell’opera di scienza, pienamente conscia dei suoi fini, l’istinto che vi conduce; l’evoluzione del nostro comportamento intellettuale abbonda in filiazioni di questo tipo. Persino i primi passi della fisica debbono non poco ai “musei di curiosità”. Abbiamo visto, pari pari, le piccole gioie del bric-à-brac figurare alla culla di più d’un orientamento di studi che s’è, poco a poco, caricato di seriosità. Tale la genesi dell’archeologia e, più vicino a noi, del folclore. I lettori di Alexandre Dumas non sono forse altro che storici in potenza, cui difetta solo l’esser stati orientati a godere di un piacere più puro e, a mio giudizio, più acuto: quello delle tinte autentiche. Che, d’altra parte, questo fascino sia ben lungi dal dissolversi, una volta intrapresa la ricerca metodica, con le sue indispensabili asprezze; che anzi proprio allora ne guadagni ancora –tutti gli storici (veri) possono attestarlo –in vivacità e in pienezza: nulla v’è qui, a mio avviso, che non sia vero per qualunque attività dello spirito. La storia, tuttavia, nessuno potrebbe dubitarne, ha i propri godimenti estetici, che non assomigliano a quelli di nessun’altra disciplina. Il fatto è che la rappresentazione delle attività umane, che costituisce il suo oggetto specifico, è, più di ogni altra, fatta per sedurre l’immaginazione degli uomini. Soprattutto quando, grazie al loro distanziamento nel tempo e nello spazio, il loro dispiegarsi si colora delle sottili seduzioni del diverso. Il grande Leibniz in persona ce ne ha lasciato la confessione: allorché dalle astratte speculazioni matematiche o dalla teodicea passava alla decifrazione delle vecchie carte o delle antiche cronache dellaGermania imperiale, provava, proprio come noi, questa «voluttà d’apprendere cose singolari». Guardiamoci dal togliere alla nostra scienza la sua parte di poesia. Guardiamoci soprattutto, come ne ho sorpreso il sentimento in taluni, dall’arrossirne. Sarebbe una straordinaria sciocchezza il credere che essa, per esercitare sulla sensibilità un richiamo così potente, debba essere meno capace di soddisfare altresì la nostra intelligenza.


APERTURA ore11.00 Teatro Bellini
VINCENZO DE LUCA dialoga con ALESSANDRO BARBANO su STORIA E POLITICA introduce GIUSEPPE LATERZA

I MAESTRI ore 12.00 Teatro Bellini
LUIGI MASCILLI MIGLIORINI, GIUSEPPE GALASSO, LASTORIA E NAPOLI - Introduce ALESSANDRO BARBANO
Partendo da una città in cui –come scrisse Benedetto Croce –storia e vita si confondono, Galassol’ha restituita ai più vasti spazi del Mezzogiorno, dell’Italia e dell’Europa.

IN QUESTIONE ore 16.00
Liceo Genovesi SIMONA COLARIZI, GABRIELLA GRIBAUDI
QUALE LIBERAZIONE? introduce MARIA FILIPPONE, coordina MARINO SINIBALDI
Dalla prima insurrezione napoletana contro i tedeschi alla memoria divisa su fascismo e resistenza, il significato della Liberazione è da ritrovare nel dibattito storico in pubblico.

ORIZZONTIore 17.30 Archivio fotografico Parisio
Mostra fotografica:“NAPOLI OCCUPATA, DAI TEDESCHI AGLI ALLEATI”
La mostra, attraverso le immagini dell'Archivio Troncone, documenta un periodo triste della città di Napoli, legato agli avvenimenti della guerra, dall'occupazione nazista alla presenza degli alleati (1942-1944) introduce STEFANO FITTIPALDI
orari: 25 aprile 17:30-19:00; dal 26 al 28 aprile: 10:00-13:00/16:00-19:00

GRANDI RACCONTI ore 19.00 Museo Madre
ALESSANDRO VANOLI “DA PALERMO A NAPOLI A VENEZIA. UN VIAGGIO NELL'ITALIA ARABA” introduce LAURA VALENTE.
Un viaggio nel tempo e nello spazio, alla scoperta delle tracce della presenza islamica in Italia. Il racconto di una lunga avventura tra luoghi, arte e sogni d’Oriente per riscoprire i tanti fili che ci legano nel vasto spazio mediterraneo.

GRANDI RACCONTI ore 21.00 Teatro Bellini
GIOVANNA BOZZOLO, EVA CANTARELLA “STORIE DELL'ODISSEA. RITORNO A ITACA: STRAGE E RICONOSCIMENTO”
Tornato a Itaca, Ulisse stermina i Proci in una scena di rara truculenza che rispecchia il valore sociale della vendetta. Ulisse poi si rivela a Penelope in un incontro d’amore memorabile.

Ma c’è tanto, moltissimo altro ancora. Intervenite!

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- Società

Bla, bla, bla … Tra menzogna e irrealtà.

Bla, bla, bla … Tra menzogna e irrealtà.
Diretta dagli scranni del Parlamento.

Il mondo reale esiste e anche quello irreale. Così come esiste un mondo presente fermo sulla realtà e uno parallelo che guarda in avanti alla irrealtà che i signori (ovvio eufemismo) della politica vogliono farci credere. Il gioco di parole proviene da un libercolo che ho recuperato in questi giorni, dal titolo “Tra menzogna e ironia” di Umberto Eco (Bompiani 1998).
La sottigliezza del filologo passa in rassegna quattro ‘scritti’ decisamente letterari, riuniti – egli scrive – presumendo che avessero qualcosa in comune. E di fatto ce l’hanno, come del resto sempre accade leggendo Eco, vanno oltre la data di pubblicazione, per entrare, dopo poco più di venti anni, nel nostro quotidiano (fallimentare): Cagliostro, Manzoni, Campanile, Pratt.

«In un certo senso essi hanno tutti a che fare con strategie di menzogna, travestimento, abusi del linguaggio, capovolgimento ironico di questi abusi.»

L’ironia (della sorte) è d’obbligo se inoltre ad ‘abusi del linguaggio’, si legga ‘abusi di potere’; con la differenza che mentre a suo tempo il professore poteva più o meno scandagliare ‘con ironia letteraria’ in detti scritti; oggi, dagli scranni del Parlamento, gli ‘abusi’ sia del linguaggio che di potere, non divertono nessuno. E più che a rallegrare le orecchie di qualcuno, servono piuttosto a distrarre i molti dai veri problemi quotidiani:

«Che i discorsi mentano, o non possano mai dire abbastanza, pare chiaro. Prova ne è che tanti lettori hanno (ben) capito (e se non hanno capito è solo per ingiustificata pigrizia) […] tutti gli esempi di discorsi inconcludenti, ambigui, confusi, che vivono parassitariamente l’uno sull’altro: le gride.»

Quanto sopra, ripreso da “Il linguaggio mendace in Manzoni”, serve qui da introduzione, per meglio comprendere la mendace posizione dei ‘due’ che siedono in Parlamento se li paragoniamo ai ‘Bravi’ manzoniani; oppure ai ‘Tre Moschettieri’ dumasiani, e se, a quel che spesso si sente dire: “Uno per tutti e tutti per uno”, ma il confronto non regge.
Quindi direi dei due ‘Bravi’ qui presi ad esempio, in fatto di arroganza, turpitudine, limitatezza e meschinità, per così dire di povertà morale. Proprio come i personaggi manzoniani – afferma Eco:

«..parlano col deliberato proposito di usare il linguaggio per mentire, confondere, occultare i giusti rapporti tra le cose, o si scusano e si dolgono per non essere capaci di dire quello che sanno.»

Né di fare quel che fanno in maniera del tutto approssimativa e/o suggerita da ‘altrui’ menti occulte che dietro le quinte manovrano, non poi così segretamente, l’andamento (mai così disastrato) della politica nostrana che vaga tra un’opposizione continua verso tutto e tutti «tra segno visivo e segno linguistico»; e tra raccontare e dare credito a: «..un’evidenza, a una traccia, a un sintomo, a un indizio, a un reperto» che si configuri come una ‘prova certa’ e certificata del loro operato.

«A questo punto (un anno è già passato dal loro insediamento) occorrerebbe ripercorrere tutto “il loro operato” per verificare se l’ipotesi (di governare) tenga, e se a ogni passo si dipani un’opposizione evidente tra semiosi naturale e linguaggio. Basterà, come primo approccio, verificare in qualche episodio essenziale.»

Gli episodi sono sotto gli occhi di tutti e non serve qui elencarli di nuovo e buttare ulteriore benzina sul fuoco, anche se la tentazione di criticare e/o se volete polemizzare su quanto detto e fatto dai due Bravi. È così che negli incontri/scontri tra i due: «...le parole cortesi nel colloquio sono smentite da “il modo in cui erano proferite”» (Manzoni).

Siamo qui in presenza di una incapacità retroattiva agli anni dello studio, alla conoscenza quanto alla coscienza che, non potendo essere mediato verbalmente, viene trasformato nell’evidente mancanza di cultura e quel tanto di esperienza, capacità naturale necessarie per sostenere una dimensione di leader in qualsiasi settore.

Siamo «al delirio e alla pubblica follia», direbbe il professore Eco, (dico io cercando di estrapolare dai suoi scritti una semiotica implicita alla mia tesi di portare acqua al mio mulino:

«..ma immediatamente il linguaggio interviene per coprire la realtà, […] nel raccontare di come il contagio si diffonda (riferito alla peste bubbonica del romanzo manzoniano), e la società intera ne rimuova l’idea, del male.» O di come e quando si costruisca, «..nel senso in cui la stampa può costruire un mostro o un complotto, una vicenda di falsificazione di significati e di sostituzione di significati.»

«L’opposizione tra sintomi-segni e nomi (propri) è evidente. Il significato visivo e naturale viene occultato da un significante verbale che ne impedissce il riconoscimento. In questo intrico di segni visivi confusi da definizioni verbali, pare finalmente a qualcuno che solo la pubblica evidenza visiva possa contrastare i maneggi della parola (e della politica). […] Qui pare che, invece di dispor parole a mascherare evidenze visive, la cattiva coscienza sociale incominci a lavorare per messa in scena (leggi campagna elettorale) di evidenze visive» (personalistiche)».

E i Bravi se la ridono sotto o sopra i baffi, credendo, (meschini loro), d’essere creduti da tutti. Ma tutti non sono affatto paragonabili ai ‘chicchessia’; in molti casi i tutti fanno finta di credere a ciò che ascoltano solo per interessi personali o di per sé inetti a fare diversamente. Così come accettare l’alterazione totale del significato, usando la possibilità che il linguaggio offre loro di modificare la naturale effabilità dei segni visivi e dei sintomi naturali delle espressioni.

Basta una semplice lezione di Cesare Lombroso a dirci che mentono per primi a se stessi, a inficiare coi loro ‘vezzi e lazzi’ fisiognomici di quale pasta son fatti: «..quel comporre la faccia a quiete e ilarità»; significativa di una memoria involontaria che li separa dal dire e fare una minaccia o una promessa che sanno di non poter soddisfare, ora sventolando i fantasmi, ora gli angeli rimossi dei loro puerili desideri di rivincita da un’esistenza miserabile “..nella (pur loro) rara elargizione di follia cosciente” (Proust).

«Sarà, ma io non mi fido degli autori (di se stessi, né dei politici), che sovente mentono. Mi fido solo dei testi» (come degli atti che fanno). Tuttavia, quello che credevo fosse un parallelo non proprio riuscito con i ‘Tre Moschettieri’, ritengo sia invece azzeccato se guardiamo al Trio che abusivamente occupa gli scranni in Parlamento. È un fatto che il ‘terzo incomodo’, alias il ‘signor bugia’ ritiene di aver ultimato anzitempo la sua esperienza di governo, così facendo dando conferma della sua incapacità di ‘affermazione politica’ in contrasto con la parola data con un giuramento. E, cosa davvero di poco conto ormai, celebrando la sua definitiva disfatta di ‘uomo d’onore’.

(Buona giornata, ma fino al prossimo bla, bla, bla dal sapore amaro di cicuta).



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- Musica

Popsound Press


POPSOUND infiamma l'Annibal Caro
“Senza musica, la vita sarebbe un errore” Friedrich Nietzsche

Un Annibal Caro gremito all’inverosimile ha celebrato con balli e canti al ritmo dei Beatles e dei Rolling Stones la chiusura del secondo appuntamento di PopSound.
La serata si era aperta con una sorpresa: l’omaggio ai cinquant’anni di Abbey Road con l’esecuzione fuori programma di “Come together” interpretato dai Talk Radio di Ettore Basili e Piero Cappella.

Un Annibal Caro gremito all’inverosimile ha celebrato con balli e canti al ritmo dei Beatles e dei Rolling Stones la chiusura del secondo appuntamento di PopSound.
La serata si era aperta con una sorpresa: l’omaggio ai cinquant’anni di Abbey Road con l’esecuzione fuori programma di “Come together” interpretato dai Talk Radio di Ettore Basili e Piero Cappella. Da lì è partito un viaggio filosofico dedicato al fascino e alla suggestione dei classici delle due band che hanno segnato il destino della musica internazionale e la vita culturale degli anni sessanta.

Dal successo planetario del travolgente “Love me do”, che apre definitivamente l’era della popolarità dei quattro ragazzi di Liverpool, alla dolcezza di “Hey Jude”. Per passare al grido di guerra “I can’t get no satisfaction” dei Rolling Stones e approdare infine alla struggente tristezza della loro “Angie”. Uno spettacolo musicale reso possibile dalla bravura e dal talento della Band di Popsophia, Factory.

La serata ha visto anche la partecipazione appassionata del filosofo Massimo Donà che, ha intrattenuto il pubblico con riferimenti filosofici e racconti legati alla musica e alla vita pubblica e privata di queste due geniali e rivoluzionarie Band.
“Se i Beatles - dice Massimo Donà - sono l'archetipo della musica Pop, i Rolling Stones sono contrari al Pop e alle sale da ballo. La loro ambizione era quella di diventare la migliore Blues Band di Londra”.

Lo spettacolo ha cercato di decodificare e raccontare la magia e la genialità delle due band musicali che hanno segnato un'epoca e ispirato le generazioni a venire.

“Tra luce e ombra, bene e male - ha concluso la Direttrice Artistica di Popsophia Lucrezia Ercoli - la canzone d’amore ha dispiegato la pura potenza dell’immaginazione. Siamo ancora oggi eredi della creatività di due band musicali che hanno reinventato e posto le basi di una nuova era, cambiando per sempre non soltanto la musica ma anche lo “sguardo” dei loro contemporanei e di tutti quei giovani che nei cinquant’anni successivi hanno cercato la colonna sonora della loro vita”.

La rassegna si chiuderà con l’ultimo appuntamento di giovedì 11 aprile alle 21.30 con il terzo e ultimo spettacolo filosofico-musicale dal titolo “ROCK REVOLUTION a cinquant’anni da Woodstock” con il filosofo della musica Alessandro Alfieri.

Per prenotarsi scrivere a info@popsophia.it
Maggiori informazioni sul sito www.popsophia.it, su Facebook @Popsophia Festival del Contemporaneo e su Instagram @Popsophia

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- Sociologia

Il paradosso di essere giovani 2 - Inchiesta

IL PARADOSSO DI ESSERE GIOVANI - 2
(inchiesta sul disagio giovanile e sul condizionamento critico del bullismo)

Tema di grande attualità e sicuramente di grande interesse, quale quello mostrato dai media riguardo al fenomeno del disagio giovanile, è qui di seguito ripreso al fine di favorirne la comprensione e promuoverne un’adeguata consapevolezza, cioè di elaborare e predisporre in seno alla famiglia e sul piano sociale, piani operativi di prevenzione e intervento. È indubbio che, alla base di questa indagine, una più approfondita conoscenza del ‘fenomeno’, riveli una qualche delegittimazione del fenomeno stesso a causa, non sempre appropriata, dei termini che ne distinguono i diversi aspetti, a loro volta indicati come ‘atti di bullismo’ pur non presentandone questi le medesime caratteristiche.

Di fatto, la sua complessità è qui evidenziata non solo dalle caratteristiche dinamiche sociali che contraddistinguono azioni di tal fatta, ma dalla definizione del fenomeno stesso che, in questo modo, rischia di non coincidere in modo preponderante con l’accezione in cui esso evoca prevaricazioni prevalentemente di tipo psico-fisico e di violenza-verbale. Questo in sintesi il concetto da cui questa inchiesta ha preso avvio: “Al fine - scrive la dott.sa Sabina Lauria (1) - di analizzare la presenza del fenomeno nel nostro paese, può essere significativo considerare i dati forniti dall’Ottavo Rapporto Nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, in cui è inoltre riportato quanto segue:

“Su un campione rappresentativo di 1680 bambini e 1950 adolescentidi 52 scuole italiane di ogni ordine e grado, il 25,2% degli alunni affermava di essere stata vittima di brutti scherzi da parte dei coetanei; il 27,5% dichiarava di essere stato provocato e preso in giro con azioni reiterate nel tempo, mentre il 23,2% dichiarava di essere stato offeso ripetutamente e senza chiara motivazione. Si presentavano, inoltre, situazioni più gravi: l’11,5% era stato vittima di minacce, il 10,9% dichiarava di essere stato vittima di percosse inflitte dai compagni.”(2)

“Si tratta quindi – scrivono Menesini e Fonzi (3) – di una particolare forma di aggressività che viene estrnalizzata nel gruppo dei pari la cui espressione è facilitata in tutti quei contesti dove una tacita accettazione o una sottovalutazione del fenomeno facilitano l’instaurarsi e il perpetrarsi del fenomeno stesso. […] Ciò non include occasionali azioni negative fatte per scherzo o sotto un impeto di rabbia, ma viene usata come una specie di script, cioè come una sequenza, tutto sommato abbastanza stereotipata, nella quale gli attori svolgono ruoli stabiliti (bullo, vittima, oservatore, sostenitore, difensore). Pertanto esistono diverse forme di attuazione di comportamenti di prevaricazione che il bullo può esercitare sulla vittima”.

Indubbiamente la prevaricazione e/o la prepotenza attivata dal bullo sulla vittima dipende dall’appartenenza più o meno ad un substrato sociale di degrado, seppure non sempre il binomio bullismo-periferia-degrado regge, poiché si conoscono realtà simili anche in ambienti socialmente benestanti: “Infatti, il rapporto bullismo-svantaggio sociale – scrivono ancora gli autori – non è avallato da tutte le ricerche avviate sul territorio. piuttosto che il degrado sociale e lo svantaggio economico sembrano influire variabili come il tessuto ambientale in cui il soggetto cresce e struttura le proprie conoscenze. Inoltre il ruolo delle dinamiche familiari non va sottovalutato. […] Tuttavia, non è ancora chiarito, in modo univoco, (dagli studiosi del problema), quale possa essere lo stile educativo incriminabile: autoritarismo ed eccessiva severità si contrappongono ad una educazione troppo permissiva. Risultano meno controversi i dati che riportano soggetti con autostima indebolita da atteggiamenti genitoriali iperprotettivi e da un nucleo familiare troppo coeso”. (4)

La famiglia a soqquadro: il paradigma dell’incongruenza.

La costruzione sociale della famiglia, posta in essere dalla società giuridica evolutasi all’interno del rapporto relazionale e legittimata come identità di gruppo, si è rivelata inaspettatamente anacronistica, mostrando i segni di una millenaria erosione che non l’ha risparmiata dalla catastrofe attuale. Tuttavia, senza qui dover necessariamente ripercorrerne la storia: dalle profonde crepe manifestatesi fin dal momento esperienziale della ragione, il punto critico riflessivo della sua entrata in crisi e il suo successivo decadimento; andrebbero altresì valutate tutte le digressioni intermedie sopravvenute nello stato giuridico in cui ha visto allargarsi il dibattito liberal-comunitario, a fronte delle nuove realtà che si sono affacciate nella società in trasformazione.

Non è per caso che la concezione di ‘famiglia’ si ponga oggi come paradigma incongruente, quanto inevitabile, di una trasformazione che la mette in discussione fin nelle sue fondamenta. Il problema si pone quando all’interno del nucleo famigliare la divisione dei ruoli dà luogo a divaricazioni in contrasto fra loro che ne determinano il ribaltamento. Altresì quando ne avviene l’esaurimento in seno alla sua originaria estensione, producendo all’interno di essa una situazione oltremodo stravolgente e ingovernabile. Per cui la gestibilità dei rispettivi ruoli viene a decadere, in quanto non più corrispondente alla ‘natura umana’ che si richiedeva conforme alla prospettiva di una convivenza sociale e democratica, al comportamento etico che aveva consentito alla comunità di comprenderne le proprie e le altrui convinzioni e di giustificarne le corrispettive azioni.

Si comprende così il perché della caduta di certezze che sembravano consolidate, accettate e difese in cambio di una sicurezza più interiore che reale, che più non appaga, che è forse andata smarrita, persa nella fitta rete delle relazioni dall’attuale globalizazzione e dall’avanzamento tecnologico che permette oggi una maggiore interazione fra conoscenze e opinioni. Fatto questo che, se da una parte comporta alcuni benefici di carattere culturale, dall’altra corrompe l’ambito sociale (al quale eravamo abituati). Permette cioè l’imperativo di una comunicazione più libera e aperta: “condizione sine qua non per stabilire una rete di relazioni anche più estesa”, la più ampia possibile, in cui però viene a verificarsi una frattura in seno alla famiglia, in cui: “la propria autonomia (individuale del figlio/a) e la rottura della coazione (dei genitori), sono le condizioni per sostenere un dialogo franco” (5), al fine del formarsi di una più realistica ‘identità’ individuale degli appartenenti al medesimo gruppo.

Autonomia che va intesa come ‘realizzazione di se stessi’ e quindi poter ‘prendere decisioni’ individuali come: “..deliberare, giudicare ed agire scegliendo (pro moto proprio) fra diverse azioni possibili”. Fatto questo che contrasta con il principio della famiglia istituzionale genitori-figli sconvolgendone lo ‘status sociale’, sia nella famiglia di tipo patriarcale che matriarcale; sia anche di altre forme di relazione che si equivalgono all’interno della premessa giuridica, nel rispetto della ‘individualità’ e nell’affermazione ‘democratica’ del gruppo.

Se vale che l’autonomia aiuta a definire i limiti personali (individuali) necessari per gestire con successo le relazioni con gli altri, la base strutturale della premessa di democrazia va estesa non solo all’intima relazione genitori o tra genitori e figli, ma va altresì estesa alle altre forme relazionali messe in atto tra individui consenzienti come, ad esempio, le coppie di fatto, i cosiddetti pacs ecc., inoltre in quei rapporti interrazionali di parentela e amicizia, nonché di gruppo, che si equivalgono nella solidarietà e nella promessa reciproca dello statre insieme comunitario.

In proposito interviene il sociologo moderno per eccellenza Zigmunt Bauman (6), il quale ravvisa il rischio per le giovani generazioni, relativamente a: “..quando la solidarietà viene sostituita dalla competizione, gli individui si sentono abbandonati a se stessi, affidati alle proprie – penosamente scarse e chiaramente inadeguate – risorse. Lo sperpero e la dissoluzione dei legami comunitari, hanno fatto di loro senza chiederne il consenso, degli individui ‘de jure’; ma opprimenti persistenti circostanze ostacolano il raggiungimento dell’implicito status di individuo ‘de facto’. […] Lo spettro più spaventoso è quello dell’inadeguatezza”, nello stare al mondo.

C’è comunque chi vede l’autonomia generazionale come un’apertura fin troppo permissiva di affrontare il fenomeno del disagio giovanile, quasi se ne voglia attribuire la causa primaria alla sola famiglia. Non è così, la problematica va affrontata con responsabilità dalla società degli individui e dalle istituzioni preposte a farlo, benché nessuno ritiene opportuno esprimere la propria opinione a riguardo, tanto meno in ambito governativo si è legiferato in proposito. Per quanto ciò richieda di dover ripartire da alcuni punti fermi, è oggi necessario, da parte di quanti si trovano nelle condizioni di dover prendere delle decisioni in proposito, di convincere in primis le giovani generazioni, che non si tratta ‘decisioni prese dagli altri’; bensì, per meglio intendere, prese nell’interesse comune da coloro che operano e sono coinvolti nella strenua opportunità di esercitare quel ‘riconoscimento incondizionato’ che permette la legittimazione di programmi e prerogative atte a determinare la vita sociale di tutti.

Possiamo anche dire che la famiglia, come si è accertato più volte, vive oggi i suoi contrasti in costante crisi di identità; incoerente e contraddittoria, presenta tutti i suoi guasti nella mancanza di autorevolezza, quasi che nella sua incessante trasformazione, abbia perduta la sua struttura narrativa, cioè non riesca più a trovare un suo adattamento con il presente. E ciò, proprio in quei processi di integrazione necessari al formarsi di una società coerente con i tempi, con quella realtà pluralistica comparata, uniformata dall’analisi qualitativa che va sotto il nome di ‘evoluzione’, i cui sinonimi trovano riscontro in educazione, cultura, ma anche civilizzazione, progresso, nel rispetto delle leggi.

In nessun altro aspetto della storicità, che abbraccia la naturale essenza umana, si riscontra una visione d’insieme così affermativa della ‘famiglia’ – seppure a livello inconscio – che va dalle emozioni ai sentimenti, alle passioni, alle argomentazioni spinte verso quelle “virtù che hanno reso la vita migliore di quella che è.” (7) Ancor più se la rapportiamo ai suoi elementi determinanti relazionati a fattori politico-economici ed ideologico-religiosi che più ne hanno rivelate le tendenze solidali con il concetto di società. Va tuttavia riconosciuta l’esistenza virtuosa su base famigliare diverse dalla nostra, di quelle ‘altre’ forme di ‘identità’ presenti nel mondo, come ad esempio nel mondo islamico, seppure in asincronia rispetto di altre che, in funzione di non so di quale parametro, vengono considerate più o meno ‘civilizzate’ senza ragione alcuna.

Non c’è a mio avviso nulla di più grande dell’insegnamento dato dalla famiglia in tal senso, nel riscoprire cioè l’esperienza virtuosa in seno alla propria natura. Che forse non sono anche le piante suddivise in specie, o gli animali suddivisi in famiglie? Cosa hanno in comune le diverse esperienze acquisite in una vita di relazione con i progressi ottenuti dal costituirsi della famiglia (qui intesa come genere)? Che cosa non è avvenuto in ambito scientifico nel ruolo della medicina, (qui intesa come cura), nel confronto con l’odierna psicoanalisi? Direbbesi niente e tutto ma, se si vuole trovare una risposta soddisfacente a una non-domanda, per comprendere appieno l’opinione formulata in questa tesi, è necessario rifarsi al concetto di ‘performatività’ teorica elaborata da Victor Turner (8), considerato un’esponente di punta dell’antropologia sociale, la cui opera “Il processo rituale”, relativa a ‘struttura e anti-struttura’ dei processi universali, fornisce a noi la possibilità di approfondire la struttura e la trasformazione avvenuta di gruppi e società in molti luoghi e periodi dell’esperienza umana.

Un concetto quello di ‘performatività’ che può essere utilizzato ancora oggi come “chiave interpretativa di alcuni caratteri archetipi”, avanzati da Carl Jung (9), in uso nelle nuove tecnologie di ricerca e, in particolar modo, utile nella connotazione in veste teorica della “costruzione di senso attraverso l’agire”, nonché favorita dagli strumenti mediatici (digitali e non) oggi a disposizione. La riflessione teorica di Turner è indubbiamente quella che meglio si adatta al riguardo, vuoi perché permette di interpretare l’idea che si ha di “performance, come pratica corporea necessaria a una ridefinizione critica del reale”, potenziale di un ‘non-luogo’ di margine o di passaggio e la più adeguata a situazioni sociali e culturali definite. Vuoi perché promuove nuove aggregazioni (anche sperimentali) di gruppo nello studio delle fenomenologie liminali (ovvero della liminalità, anche dette interstiziali): in quanto zone potenzialmente feconde di riscrittura dei codici culturali, da cui la trasformazione sociale in atto. (10)

Che esiste di fatto in psicologia e fisiologia un riscontro oggettivo del fenomeno ‘liminale’ al livello della soglia della coscienza e della percezione, ce ne da conferma G. Gasparini (11) dell’Università Cattolica di Milano, nel suo libro “Sociologia degli interstizi”, in cui sviluppa un’analisi acuta, per quanto insolita, di quei fenomeni, così detti appunto ‘interstiziali’, che sottolineano il carattere sintomatico e rivelatore al centro di una approfondita riflessione: “Si tratta di esperienze che ‘stanno fra’ e che, di solito, si trovano in posizione marginale […] nelle pieghe riposte della nostra esperienza sociale […] cui raramente le scienze sociali hanno dedicato interesse”.
Esperienze, inoltre, atte a interpretare fenomeni come l’attesa, il silenzio, il viaggio, la sorpresa, in cui si torna a parlare del significato del ‘dono’ , già eleborato da M. Mauss (12) nel suo “Saggio sul dono”, seppure non come marca della logica utilitaristica di scambio o di mercato, tipici della logica di potere, per quanto si: “allude alla possibilità di coercizione e mette in gioco tra l’altro i rapporti tra cittadini e lo stato”; bensì, come espressione di scelte operate nell’ambito di valutazioni morali (virtuose e non solo) e culturali, le cui ricadute molto influiscono nella sfera del sociale così detta, in fatto di interscambio fra potere ed economia, educazione e istruzione, conoscenza e acculturazione, non esclusa l’interazione sociale fra genitori e figli.

“Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere” è scritto nel Vangelo di Matteo (25, 35-45); frase con la quale si propone qui una riflessione sul fenomeno educazionale del ‘dono’. Con queste parole riferite dal Cristo e redatte allo scopo dello sviluppo storico del cristianesimo, così come di: “vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare i prigionieri e gli infermi, seppellire i morti ecc.” si intende accentuare il preciso fondamento delle “Opere di misericordia” (13) al centro della predicazione cristiana, più che mai valida ancor oggi, allorché assistiamo agli sconvolgimenti mondiali in atto.

“Opere che – scrive Luigi Accattoli (14) in “Cerco fatti di Vangelo” – in ogni fase storica in cui avvengono – acquistano contenuti e valenze nuove, di cui non solo i singoli fedeli ma le stesse comunità ecclesiali (ordini religiosi, associazioni culturali e movimenti vari), sono chiamate a farsi carico […] Nell’osservare la realtà contemporanea, troviamo d’esse nuove interpretazioni e nuove traduzioni riguardanti l’accoglienza dei migranti e degli stranieri più in generale, dei quali ci dobbiamo far carico di dare assistenza ai drogati, ai malati di Aids, dell’adozione dei bambini rimasti offesi dalle bombe o orfani delle tante guerre che imperversano in molte parti del mondo.”

Ecco che, al dunque, riaffiora in superficie il ruolo preponderante del ‘dono’ in seno alla famiglia come paradigma interpretatito di relazioni (si vuole morali), per cui si ritiene necessario educare i figli all’accoglienza degli ‘altri’, degli umili e degli offesi in termini di assistenza e di cura; in casa come in ospedale o in carcere per effetto di detenzione; nello Stato come termine di ospitalità sul territorio; ed a quanti rifugiati e fuggitivi da calamità e guerre, in termini di asilo umanitario e politico. Onde per cui le ‘opere di misericordia’ rappresentano un dono a salvaguardia della vita, e del corpo ‘santo in se stesso’ come la Chiesa cristiana da sempre la considera nei suoi precipui insegnamenti.

Opere che non dovrebbero mai venir meno negli insegnamenti in seno alla famiglia di un ‘donare’ autentico che rinsalda i legami della stessa con la collettività sociale a diversi livelli: “Lo stesso dono unilaterale a sconosciuti che si fa come ‘opera di bene’ e che si esprime con l’adesione a progetti di solidarietà che travalgono la logica della partecipazione ai problemi, ai disagi e alle sofferenze delle persone, accomunati da una stessa condizione umana, indipendentemente dal gruppo etnico o razziale di appartenenza.” (15)

In un certo senso, l’importanza morale del non limitarsi a riconoscere la vulnerabilità sociale nel compiere determinate scelte, rappresenta la condizione essenziale per comprendere le ragioni e le modalità che le rendono necessarie in seno alla comunità, inoltre che essenziali all’individuo per conoscere fin dove spingersi a scegliere in autonomia il proprio ruolo nella vita e nel mondo. Si tratta qui di sviluppare un progetto di vita comunitario e realizzare il proprio ‘bene’ (inteso come gratificazione) al raggiungimento del ‘bene’ degli altri (inteso come soddisfazione e ricompensa); di tutti quegli ‘altri’ i quali concorrono – in virtù della donazione di se stessi – alla sua realizzazione. Il ‘dono’ non è completo senza la benevolenza di chi lo riceve.

Scrive in proposito Alasdair MacIntyre: “Sono quelle virtù che garantiscono un agire razionale indipendente che hanno bisogno di essere accompagnate […] da opere (fatti), che rispondano a tali interrogativi […] e che né la figura dello stato nazionale moderno, né la famiglia così come essa è intesa al giorno d’oggi, né il tipo di associazione sociale e politica di cui ci sarebbe bisogno, possono rappresentare.” (16) Serve la solidarietà di tutti per dare luogo a una comune forma di cooperazione per la sopravvivenza dell’umana specie, soggiogata dagli sconvolgimenti, naturali e non, in atto.

Dacché le numerose domande che da questa indagine scaturiscono sulle cause del disagio giovanile, e che sono sia di tipo antropico-individualistico, sia socio-psicologico, per quanto tutte risultano pressoché lecite o, almeno, proponibili: Che sia per l’allontanamento della madre dalla prole, per un lavoro a tempo pieno chela distoglie dal sopravvedere ai figli? Che sia a causa del distacco del padre in altre faccende affaccendato? Oppure a causa della necessaria decisione ‘politica’ del ‘figlio unico’ o alla rinuncia di nessun figlio? Al superamento dei problemi relativi al budget economico famigliare, in parte dovuto alla continua sfida delle nuove tecnologie che hanno soppiantato l’uomo/la donna nel lavoro? Oppure dovuta a una maggiore consapevolezza di sentirsi infinitamente piccoli di fronte alle variazioni climatiche che stanno mettendo in difficoltà l’intero sistema cosmico? O forse all’innata, perché mai venuta meno, paura della morte che condiziona il presente e il futuro di tutti noi? Forse tutte queste insieme e nessuna di esse in particolare, non pretendo di conoscere le risposte.

La realtà è che non abbiamo imparato a volare, né siamo più in grado di farlo. È così che non imparando a volare abbiamo perso il controllo di noi stessi e siamo finiti per cadere rovinosamente. E dire che c’è stato un tempo in cui davvero sembrava che gli angeli volassero sopra le città. Finanche su una città costretta dietro un muro come era prima Berlino (17) da sembrare perduta per sempre. Con la caduta degli angeli da quel Paradiso così tanto agognato, abbiamo perso definitivamente la fede nella vita oltre la morte, che era uno dei capisaldi della promessa cristiana. La religiosità dei padri ha lasciato il posto al cambiamento, all’emergere di nuove concezioni religiose e filosofiche, all’enunciazione esponenziale di nuovi credi. Dalla teosofia esoterica, alla magia bianca degli oroscopi e dei filtri d’amore, alla magia nera delle moderne sette sataniche, alle stereotipe visioni paranoiche dell’ ‘Arte’, oggi destrutturata nei suoi riti, nel costume, nell’abbandono delle sue tradizioni, in cui ha espresso, in forme più o meno ingenue, quella che era l’aspirazione umana alla ‘felicità’ eterna.

Una risposta credibilmente vera, paradossalmente inaccettabile, ci viene proprio dall’incongruenza d’una ingenuità (s’intenda genuinità) che aspirava a qualcosa, a qualunque cosa avesse a che fare con la ‘bellezza’, con l’amore, con la musica, con la poesia, con i colori dell’arte, con la letteratura, con le scoperte della scienza (non con la sua sperequazione), con la grandiosa avventura della vita. Quella vita ch’era sul nascere veritiera promessa, il dono più grande – recita il poeta – alle cui parole lascio l’azione significante.

“Dopo aver impiegato alcuni anni a studiare nel libro del mondo e a farne esperienza , presi un giorno la risoluzione di studiare anche in me stesso e d’impiegare tutte le forze del mio ingegno a scegliere il cammino da seguire. Questo a mio avviso mi riuscì meglio che se non mi fossi allontanato mai dal mio paese né dai miei libri” – scriveva René Descartes alias Cartesio (18) nel lontano 1637. … nel suo costante cercare di comprendere la totalità del suo tempo, lontano dal pensare di dover assistere alla catastrofe finale, peraltro annunciata, nel momento in cui lo scibile umano si trova a confrontarsi con l’universo della globalità, e tuttavia lontano dall’autorevolezza della sua eredità culturale, posto davanti alla rappresentazione infinitesima della sua stupidità.


Ulteriori ‘possibili’ risposte, fra breve nella terza parte di questa stessa inchiesta.


Note:
1)Dott.sa Sabina Lauria, Giudice Onorario presso il Tribunale dei Minori di Catania con specializzazione in neuropsichiatria Infantile, in ‘Bullismo’ articolo apparso sulla rivista di aggiornamento scientifico e cultura medica “Il Caduceo” vol.20, n°3 – 2018.
2) “Ottavo Rapporto Nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza”, in Sabina Lauria – “Il Caduceo” op.cit.
3) 4)Menesini e Fonzi – (cit. Sabina Lauria op.cit.)
5) Antony Giddens (elab. del concetto redatto in) “La trasformazione dell’identità”, il Mulino 1995.
6) Zigmunt Bauman, “The Individualized Society”, Polity Press – Cambridge 2001.
7) Aristotele “Etica Nicomachea”, cfr. ‘virtù cardinali’, ‘virtù teologali’.
8) Victor Turner, “Il processo rituale”, Morcelliana 1972.
9) Carl Gustav Jung, “Gli archetipi e l’inconscio collettivo” – Bollati Boringhieri 1977.
10) Cyberpunk Culture, “Victor Turner e il concetto di performance”, 2014.
11) Giovanni Gasparini, “Sociologia degli interstizi”, Bruno Mondadori 1998.
12) Marcel Mauss, “Saggio sul dono”, Einaudi ristampa 2012.
13) “Opere di misericordia” - sono quelle richieste da Gesù nel Vangelo (Matteo 25) per trovare misericordia (ossia perdono per i nostri peccati) ed entrare quindi nel suo Regno. La tradizione cattolica ne elenca due gruppi di sette: corporali e spirituali. (cfr in Wikipedia).
14) 15) Luigi Accattoli, “Cerco fatti di Vangelo”, EDIZIONI Dehoniane 1995.
16) Alasdair MacIntyre, “Animali razionali indipendenti”, Vita e Pensiero 2001.
17) Wim Wenders “Il cielo sopra Berlino” film del 1987.
18) René Descartes – Cartesio in “Meditazioni metafisiche”, Laterza 1997.

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- Società

Il paradosso di essere giovani - Inchiesta

“IL PARADOSSO DI ESSERE GIOVANI” - 1
(inchiesta sul disagio e sul condizionamento critico dei giovani).

“Siamo davvero ciò che siamo, o siamo quello che la società vuole che noi siamo?”

È la domanda che più spesso ci si sente rivolgere da molti giovani che solleva non poche perplessità sulle possibili risposte da dare al ‘problema’, perché di questo si tratta, che una domanda siffatta accende nel dibattito costante tra famiglia e società. Come del resto provoca l’andare alla ricerca di una causa e/o di una colpa da attribuire al fenomeno scatenante – ad esempio – del ‘bullismo’, quale degenerazione di un autentico disagio sociale. Oppure l’esercizio di una effettiva provocazione, per cui i giovani, presa coscienza della pressante difficoltà generazionale, si sono dati una risposta a prescindere: “Noi non siamo chi la società pretende che noi siamo”.

Ciò che equivale a rispondere a una domanda con una domanda ‘altra’ che va nella stessa direzione e che lascia insorgere un ulteriore problema su chi deve e/o dovrebbe gestire il complesso fenomeno del ‘bullismo’ sul piano sociale, se la famiglia o la scuola o se entrambe? Se non altro per il sempre maggior numero di aggressioni apparentemente senza scopo e talvolta di perdite di vite umane che riempiono le cronache dei quotidiani e dei networks , divenute in breve tempo una consuetudine sconcertante che allarma e preoccupa l’opinione pubblica. Sia riguardo alla scolarizzazione (se è utile mandare o no i propri figli a scuola?); e le istituzioni, riguardo a nuove formule d’istruzione (se serve una regolamentazione giuridica e interventi propedeutici alla giustizia sui minori), visto che il fenomeno riguarda per lo più gruppi organizzati presenti nelle scuole e, nei centri urbani giovanissime gang di quartiere.

Sarebbe alquanto ingenuo, nell’evolversi di questa analisi, pensare che alle difficoltà evidenziate, si possano dare risposte semplici o superficiali che ne attribuiscano le cause al solo ‘paradosso di essere giovani’. Non è certo colpa dei giovani se la ‘storia’ loro l’hanno subita, non l’hanno mica scritte loro le regole del vivere comune cui non sentono di appartenere. Se non altro per il fatto che i dettami che regolano la società, la vita comunitaria ecc. loro sono chiamati a rispettarle, anche se finora nessuno (né la fimiglia, né la scuola, né le istituzioni), gli le ha mai spiegate; almeno da quando a scuola è stata abolita l’educazione civica. Quante volte si è sentiti rispondere che: "no, noi non c'eravamo", e che la loro limitata conoscenza delle regole (dei diritti e dei doveri dei cittadini), è fatta di parole tramandate, ‘le quali potrebbero non avere nulla a che vedere con la realtà d’oggi. Che lquelle che spacciamo per ‘verità della storia’ ce le siamo inventate noi delle generazioni precedenti per instaurare una società di diritto come piaceva a noi; che gli abbiamo sottaciuto, in modo da nascondere cento, mille altre verità, sui guasti che abbiamo creato noi (dalle guerre, alla fame nel mondo, al buco nell’ozono ecc.). Come se la verità della storia si possa nascondere, quando i guasti fatti sono sotto gli occhi di tutti.

Ma la verità infine viene sempre a galla, e mentre noi non ammettiamo ancora oggi, nell’era delle macroscopica interazione comunicativa, i nostri madornali errori e non sappiamo ancora chi siamo e dove stiamo andando; loro (i giovani) si sentono autorizzati a non credere a niente e a nessuno, tantomeno alla società, come alla politica, e in molti casi anche alla religione. Sta di fatto che quelli che dovevano essere i ‘valori’ (le virtù morali, il rispetto per la vita, ecc.) che avremmo dovuto trasmettergli, noi per primi li abbiamo dapprima messi sotto i piedi, poi gettati nei cassonetti insieme alla spazzatura, senza neppure rendercene conto.

Altre sono invece le domande che dovremmo porci ancor prima di studiare la fenomenologia del problema che risente di un autentico disagio sociale, al quale, nell’era super tecnologica che stiamo attraversando, si guarda con particolare attenzione, seppure da prospettive diverse, uguali e/o disuguali a seconda dei contesti sociali in cui si propagano e, solo in parte contrassegnati dalla trasformazione in atto che ne attesta le cause. Quali – ad esempio – la multiculturalità, la globalizazzione e, non in ultimo, la svolta prodotta dalle nuove componenti di rischio, come l’abuso di alcolici e di droghe più o meno pesanti, ed a quelli che vengono considerati ‘i nuovi sballi’ come i video giochi, gli sport estremi, in cui prevale l’aggressività nelle forme di violenza gratuita, l’uso delle armi, l’emulazione di atti vandalici, il bullismo ecc.

Sarebbe comunque un modo fin troppo semplicistico di spiegare le cause di un fenomeno che si presenta piuttosto ampio e, per certi aspetti, incongruente quanto inevitabile, più che mai ‘diversificato’ in molti lati oscuri ancora tutti da osservare, se
l’obiettivo di questa analisi non fosse quello di comprendere se il fenomeno sia o no paragonabile ad altre attitudini ben più gravi, come le corse folli sulle auto, le stragi del sabato sera, lo stupro di gruppo, i sassi dal cavalcavia, che riempiono indifferentemente le cronache; e se tutto ciò sia da considerare, oltre che un fenomeno sociale, una ‘anomalia individuale’ radicata e nascosta nella zona più oscura della psiche, prima ancora che collettiva, dai risvolti inquietanti. Oppure un ‘problema’ sommerso da guardare con preoccupazione e diffidenza, quest’ultima in senso di apprensione, dubbio, timore, ma anche cautela nell’affrontare il nocciolo duro di una questione di per sé ostica.è tempo di guardare in faccia la realtà come a un intrico di somiglianze e differenze che implicano interventi razionali e assidui di cui in primis la società tutta dovrebbe farci carico.

L’idea portante è dunque quella di investigare il fenomeno nei suoi molteplici aspetti: sia culturali e gestionali, sia formativi che relazionali, di specifica competenza della famiglia, della scuola che delle istituzioni. Di avviare una profonda riflessione sulle infinite ‘diversità’ e di nuovo ‘somiglianza’ che distinguono e legano certi avvenimenti all’amiente oggettivo: sia quello in cui si vive (la città, la periferia, la comunità ecc.), sia quello profondamente umano (welfare, salute, abitudini ecc. ), che forse bisogna rivedere nella sua completezza. Nel contempo, sostenere l’efficacia delle scienze socio-antropologiche, nonché psicologico-culturali, messe in campo per affrontare quelle che sembrano essere le concause di scelte generazionali che, in qualche modo, stanno cambiando il volto della società, negli aspetti più radicali del costume, delle usanze e delle tradizioni.

Certo l’applicazione del concetto di ‘parità culturale’, sia a livello individuale sia a livello collettivo e anche comunitario, potrebbe oggi portare a una certa congruenza di vedute, più ampie rispetto al passato, verso l’unione, la stabilità e la tolleranza, nonché il riconoscimento comune di appartenenza sociale, tali da riempire un nuovo vademecum della coesistenza, pur nel mantenimento di quella ‘identità antropica’ naturale oggi messa al bando che molti studiosi vedrebbero come concausa degli ‘orrori’ di cui si è sopra tragicamente parlato. È questo l’aspetto indubbiamente più rilevante del ‘problema’ in cui s’innestano le difficoltà più dure da affrontare, proprie della sfera relazionale, attribuibili, seppure in parte, alla più recente contestazione giovanile tutt’ora in atto, nei confronti di una società e, più in generale, delle sue regole.

Quelle stesse che i giovani, compresi nella fascia di età che va dai 14 ai 18 anni, considerano troppo rigide, inibitrici della libertà d’espressione e causa di una dissonanza cognitiva complessa, in bilico tra aspettative sempre più illusorie, e una realtà fatta solo di impedimenti e contrasti, spiegabile con l’anomia, ossia la mancanza e/o l’assenza di figure e di precisi punti di riferimento. Onde per cui, andare “incontro agli altri” o “conoscere se stessi”, secondo la formula dell’empatia che permetterebbe loro di superare e gestire il ‘paradosso della propria età’, si rivela infine un qualcosa che intralcia la loro crescita mentale e che quindi sentono come non indispensabile al raggiungimento della loro maturità. Più spesso abbandonandosi alla sola esperienza del proprio corpo (fisicità) che permette loro di comunicare con gli altri in modo assai più diretto, all’interno di una società che considerano non conforme alle proprie esigenze e, del tutto incapace a rispondere alle importanti ‘sfide’ che questa mette in campo e che si trovano a dover affrontare.

Un ‘problema’ dunque, prima ancora che un fenomeno, che rivela aspetti complessi e che, in alcuni casi, presenta ‘forme di trasgressione’ difficili da arginare, contrasti: “che hanno prodotto una qualche criticità, introdotta e/o causata da forze esterne travolgenti e ingovernabili” (1)(Alasdair MacIntyre, in “Animali razionali dipendenti” – ed. Vita e Pensiero 2001). Trasgressione che segna un punto focale ove convergono i diversi obiettivi di questa analisi, qui osservata anche dal punto di vista della comunicazione e della prevenzione, messe in atto dalla società nel tentativo di contrastare quegli atteggiamenti di tipo virile, al limite dell’autolesionionismo espressi soprattutto nelle ‘prove di coraggio’.

Aspetti questi di quel disagio di fondo cui solitamente non si parla, ma che sempre più spesso agitano il campanello dell’allarme sociale, inquanto lanciano messaggi di evidente difficoltà, soprattutto d’inquietudini latenti che chiedono di essere interpretati, o quantomeno ascoltate e comprese, alle quali, a fronte delle problematiche rilevate, si cerca qui di capirne la portata, con l’ausilio delle scienze che gli sono proprie in termini di sociologia, psicologia e psichiatria, tendenti a conoscere, pur se entro certi limiti, i comportamenti individuali dei giovani nel vivere il paradosso della loro età, di un sé proiettato alla ricerca di se stessi e/o di altri modi di essere, e di vivere il rapporto con gli altri in funzione di esplorare trame di vita diverse.

Aspetti psicologici e sociali del fenomeno.

Andando oltre la semplicistica comprensione del fenomeno accertato come ‘problema sociale’, che trova una sua esemplificata rispondenza nell’opinione pubblica, si cerca qui di analizzare i diversi risvolti socio-psicologici che ne sono all’origine, privilegiando gli aspetti trasformativi e conflittuali, connaturati e quelli in netta contrapposizione rispetto all’assetto strutturale dell’attuale società. Aspetti questi che riconducono il fenomeno sul terreno del concetto di ‘struttura e anti-struttura’ elaborato da Victor Turner (2), detto di ‘performatività’, implicito nei processi sociali, e che ancor oggi permette di rilevare le strutture portanti e le successive trasformazioni di gruppi e società in molti luoghi e periodi dell’esperienza umana. Così come di: “riconoscere, in certo qual modo, la vulnerabilità dell’identità sociale nel compiere determinate scelte, come condizione essenziale per comprendere le ragioni e le modalità che le rendono necessarie; sostanziale per capire fin dove il genere umano arriva a scegliere in piena autonomia il proprio ruolo nella vita e nel mondo”.
(2) (Concetto di ‘performatività’ elaborato da Victor Turner in “Il processo rituale”, Morcelliana 1972).

È infatti il non poter scegliere in piena libertà e completa autonomia il proprio ruolo nella società che ‘paradossalmente’ fa la differenza. Spesso i giovani interrogati sui rischi che si corrono nel mettersi alla guida dopo aver bevuto fuor di misura, o voler fare comunque le ore piccole, rispondono con l’impudenza che li distingue, che “non vedono il problema”; che semmai, si tratta di nuove virtù (una sorta di plus-valore), il cui raggiungimento concorre, secondo tali e ineludibili necessità, alla loro piena realizzazione in autonomia. Autonomia che si vuole abbia la capacità di far riflettere gli individui sulle loro stesse capacità e/o possibilità, cosa che permette loro “di deliberare, giudicare, ed agire scegliendo fra diverse azioni possibili - per quanto - deve essere limitata, senza che ciò costituisca la negazione della libertà degli altri”. (3), (Antony Giddens, in “la trasformazione dell’intimità” – Il Mulino 1995).

Un principio fondamentale di democrazia che, preso ad esempio, sul piano istituzionale, sconvolge non poco lo status di relazione sociale di appartenenza. Pertanto, se vale che l’autonomia aiuta a definire i contorni della personalità, necessari per gestire con successo le relazioni con gli altri, la base strutturale della promessa di democrazia va estesa non solo all’area relazionale della società, ma anche a quella più intima dell’ambito famigliare, genitoriale o tra genitori e figli, altresì alle ulteriori forme di relazione nei rapporti interrazionali, di parentela, di amicizia e di gruppo, che trovano nella solidarietà e nella promessa reciproca dello stare insieme comunitario un medesimo rapporto equivalente. A questo proposito si ravvisa comunque un rischio, cioè che: “quando la solidarietà viene sostituita dalla competizione, gli individui si sentono abbandonati a se stessi, affidati alle proprie - penosamente scarse e chiaramente inadeguate – risolse. Lo sperpero e la dissoluzione dei legami comunitari, hanno fatto di loro senza chiederne il consenso, degli individui de jure; ma opprimenti persistenti circostanze ostacolano il raggiungimento dell’implicato status di individuo de facto. […] Lo spettro più spaventoso è quello dell’inadeguatezza”. (4) (Zigmunt Bauman in “The Individualized Society”, Polity Press Cambridge 2005).

Niente di più profetico è stato detto fino ad oggi, anche alla luce dello stravolgimento in corso della società – qui intesa come corpo di una comunità di individui – tendente ad abbandonare, volendo qui usare un concetto del sociologo polacco Zigmunt Bauman; i legami sociali per liquefarsi. Resta il fatto che un fenomeno come quello che stiamo analizzando preclude tutto quanto detto fin qui, per aprire invece connessioni parallele che vanno, nei soggetti più giovani, dalla superficialità nel valutare i rischi, alla irresponsabilità di fronte ai pericoli e alla mancanza di consapevolezza del valore della propria vita e di quella altrui.

Indubbiamente molteplici sono gli aspetti trasformativi della personalità che il problema presenta e che rendono difficile il tentativo di classificazione. Diverse infatti sono le cause che possono produrre questa difficoltà, ed è interessante esaminarle, seppure solo in parte, in modo da accrescere la comprensione dell’argomento. Tuttavia c’è una valutazione che fin d’ora è possibile fare, e che riguarda il principio fondamentale della nostra ‘vita psicologica’, secondo cui l’individuo: “tende a correggere gli eccessi e le deviazioni, risvegliando quegli elementi che sono oppposti o complementari a quelli dominanti”, all’interno del proprio sé. Per diverse ragioni, però, questo potere di auto-regolazione di compensazione non sempre funziona alla perfezione, sia nella nostra ‘vita’ fisica che in quella psicologica: “talvolta è insufficiente, in altri casi opera all’eccesso, producendo reazioni esagerate, o ciò che potrebbe essere chiamato iper-conpensazione, per cui la tendenza a sopravvalutare le qualità che gli mancano”. (5). (Roberto Assagioli, in “I tipi umani”, Istituto di Psicosintesi – Giuntina 1987).

È quanto accade in genere quando si avviene a uno stato di incapacità di percepire il pericolo e, in modo specifico, quando ci si adopera, consciamente o inconsciamente, ad andare oltre nella fluttuante dimensione dove il tutto e il niente si equivalgono: “la negazione della morte”, diversamente dall’affermazione dell’amore per la vita, che dovrebbe essere come fin’ora è stato, fondamentale per la sopravvivenza del genere umano. Fenomeno quello della ‘morte’, che tutt’oggi conserva il suo aspetto di “livella sociale” che tutto appiana e conforma, e che da sempre costituisce, così come avveniva fra le popolazioni primitive, un “fatto sociale” che determinava una crisi non solo all’interno del gruppo famigliare ove si verificava, quanto in quello più ampio della stirpe, della discendenza, del clan e della tribù per cui “le strutture sociali reagivano ad essa attraverso una serie di mezzi mitici e rituali che inducevano gli individui a vivere la morte secondo i paradigmi offerti dalla società”. (6) (Jean-Didier Urbain in ‘Morte’, “Enciclopedia” - Einaudi 1980). E in “Enciclopedia di Filosofia” – Garzanti 1995).

Tra le diverse definizioni proposte riguardo al fenomeno, si fa qui riferimento alla distinzione “astratta” della morte violenta, intesa più come denuncia della fine dell’esistenza, e consistente nell’assunzione di comportamenti ed opinioni congruenti con questo titpo di evenienza. Fondamentalmente, si rilevano almeno tre variabili strettamente influenti fra loro: una prima riguarda “l’incoscienza” che si annida nel senso di insicurezza-sicurezza tipico del fenomeno legato in parte al caso, alla fatalità e quant’altro; una seconda , dovuta alla sfrenata corsa ad andarle incontro “in spregio del pericolo” e della propria sopravvivenza; e una terza detta “di rottura” con il mondo interiore (la propria identità) e, non in ultimo con la società di appartenenza.

A questo proposito va detto che la diretta conoscenza degli accadimenti e delle vittime, coglie soltanto una minima parte dei cittadini, quelli che per caso si trovano sul posto degli incidenti, e i più vicini affettivamente colpiti, come parenti e amici; la maggior parte riduce l’evento ad un fatto di cronaca, da catalogare assieme con le altre notizie di morte, di guerre, attentati, affondamenti delle carrette del mare e bambini che muoiono di fame in ogni parte del mondo, e che giornalmente affollano le cronache radiotelevisive e dei quotidiani. La consapevolezza delle dimensioni del fenomeno cresce (quando trattasi di incidenti occorsi nel proprio circondario o di persone che ne sono state vittime, tanto più se verificatesi nel proprio quartiere. La cosiddetta “vittimizzazione vicaria” è infatti più probabile e frequente della diretta esperienza personale, e quindi incide più spesso sul livello di ansia (e di paura) della collettività, così come ampiamente dimostrato negli studi pubblicati su “Neighbourhood Watch” il report della Polizia metropolitana britannica sulla Sicurezza Pubblica, rapportato alle esigenze effettive di intervento sul territorio. (7)

In ogni caso, per la società, si tratta comunque di voler salvaguardare (ad ogni costo) la sopravvivenza e l’integrità di un individuo ( quale esso sia), che va accettato e difeso in cambio di una sicurezza interezza interiore che più non appaga, che è andata smarrita, persa nella fitta “rete” dei modern mass media, e della tecnologia che avanza. E che, se da una parte corrompe e degrada il sistema “natura” al quale eravamo abituati, d’ltra parte ci permette l’imperativo di una comunicazione libera e aperta. “Condizione sine qua non, per stabilire una relazione più estesa”, la più ampia possibile, in cui “la propria autonomia e la rottura della coazione sono le condizioni per sostenere un dialogo franco”, con il futuro (8) (op.cit.)

Per completare il quadro, destinato per il momento a restare senza cornice, non bisogna sottovalutare l’attuale cultura dell’immagine diffusa dai mass-media, che spinge ad assegnare il primato all’apparire piuttosto che all’essere, alla quale si accompagna generalmente l’imperativo consumistico, per cui: “l’individuo vale più di ciò che ha che per ciò che è”, che non è uno slogan, ma una constatazione sulla quale almeno si dovrebbe meditare.

Viaggiatori sulla coda del tempo.

Con l’avanzare della spinta individualista-materialistica nella società relazionale che mina alla base la responsabilità della persona verso gli altri, è fondamentale la scelta sociale di una maggiore e collaborativa solidarietà con le nuove generazioni, quale probabile risposta al problema del disagio e della devianza giovanile, e più che mai orientata alla ‘cura’, come antidoto a orientamenti di tipo soggettocentrico – qui di seguito analizzati nell’ottica più ampia possibile che i moderni mezzi conoscitivi mettono a disposizione. Cura in sé diversificata, di tipo ‘informale’ oppure ‘istituzionale’, espressa in termini di comunicazione e prevenzione, nel difficile ma non impossibile rapporto tra società e mondo giovanile, e in grado di garantire una maggiore equità di giudizio da entrambe le parti, necessario ad arginare il problema che le ‘devianze più aggressive’ rappresentano per la società.

Interventi tra privato (informale) e pubblico (istituzionale) che vedono impegnata una pluralità di forze organizzative che vanno dalla sanità, alle forze dell’ordine, al volontariato, ai mass media, agli apparati locali (assistenti sociali, consultori ecc.), tutte ugualmente impegnate a sostegno di campagne di prevenzione sul territorio che stanno dando i loro frutti. Va detto che l’emergere delle urgenze (necessità), a cui le organizzazioni sociali sono chiamate a rispondere, si è particolarmente ampliato in corrispondenza dei drammatici esiti statistici rilevati. Notiamo come le attese risposte (sopra elencate) richiedono una rivalorizzazione, sia a livello locale che periferico, delle aree individuate cosiddette a rischio. Nonché la responsabilizzazione dei soggetti intermedi che operano all’interno e all’esterno dei locali pubblici (gestori di bar, vinerie, discoteche, addetti alla sicurezza ecc.).

In quanto preposta a dare determinate risposte, una migliore organizzazione sociale può fornire un valido contributo alla realizzazione dell’attività preventiva attraverso gli operatori (forze dell’ordine e altre istituzioni) che, per competenze e capacità, sono preposti a mantenere l’ordine ed a far rispettare le disposizioni di legge a riguardo. Alla luce dei mutamenti sopravvenuti e delle nuove realtà che affacciatesi sulla scena quotidiana, la società attuale si è rivelata inaspettatamente anacronistica, mostrando nelle sue crepe profonde i segni di una erosione annosa che non l’ha risparmiata dalla catastrofe, peraltro annunciata, sopraggiunta proprio “nel momento esperienziale della ragione e nel momento riflessivo della critica” (9) (M. D’Avenia, in MacIntyre op.cit.).

Momento in cui le nuove generazioni hanno reagito – e continuano a farlo – andando all’inseguimento di una identificazione diversa, giocata sul piano di “quelli che contano”, e combattere così l’insignificanza del nostro tempo. Non in ultimo, per volersi riappropriare della legittima indiovidualità che compete loro e, al tempo stesso, la pretesa necessità di un protagonismo che li vede uniti, nel riscattare la posizione di semplici spettatori di se stessi nell’evolversi di una società come loro vorrebbero nel compiacimento di ‘una rappresentazione esteriore e narcisistica di sé’. La difficoltà individuata è senz’altro di tipo ‘relazionale’, scollegata (e contraria) dal concetto di auto dominio (padronanza e controllo assoluto di sé), che vede inglobato in un tutt’uno (edoniostico e narcisista) tutto ciò che questo nostro mondo globalizzato e massimamente tecnicizzato mette a disposizione. Il paradosso è quanto più evidente, insito dell’andamento mutato e mutevole di una natura (quella adolescenziale) di per sé ibrida “che oscilla tra la ricerca della propria identità e la proiezione di un futuro ancora incerto, mentre vive il proprio tempo presente nel segno della precarietà e della drammaticità” (10) (Federico D’Agostino, “La metafora giovanile” – Ed.Seam 2001).

L’aspetto più evidente di quella che possiamo definire “una latente crescita individuale”, s’incontra nel complessivo rifiuto che i giovani in età adolescenziale hanno nei confronti della cultura e la carenza generazionale del rispetto degli altri e delle cose referenziali della società in cui vivono (luoghi di aggregazione in genere, edifici pubblici, di culto, monumenti, ecc.) . Due aspetti di una stessa medaglia attribuibili alla mancanza di volontà di crescita, quindi di maturazione; altresì nel ripudio di una presa di coscienza di sé che oscilla tra l’appartenere a una data collettività e lo svincolarsi da essa, tra brame di ribellione e desiderio di libertà che, talvolta, degenera e si trasforma in occasione di conflitto e di scontro violento.

Già negli anni ’50 il filosofo tedesco M. Heidegger annotava che: “Nessuna epoca ha avuto, come l’attuale, nozioni così numerose e svariate sull’uomo. Ed è anche vero che nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l’uomo. Mai l’uomo ha assunto un aspetto così problematico come ai nostri giorni”; (11) (M.Heidegger, “Vita, pensiero, opere scelte” – Ed. Il Sole 24 Ore 2006). Allorché il virus della post-modernità aveva infettato gli animi delle generazioni di allora. Quando cioè: “La situazione emotiva apriva l’uomo al nudo fatto del suo ‘essere gettato’ nel mondo; mentre la comprensione era la proiezione attiva e ‘progetto’ o ‘interpretazione’ di qualcosa in quanto tale”. (12)(M. H. op.cit.)

Un voler re-acquisire una propria ’identità’ ex-novo, una qualsiasi insomma, nei pensieri e nelle riflessioni, buona o cattiva che sia, per quanto tutto ciò conservi l’illusione che, una volta acquisita, possa rimanere simile nel tempo, pur nella consapevolezza che essa mantiene un aspetto effimero che è sempre assolutamente identico: l’essere ‘mortale’. Ècco quindi che ritorna l’evocato ‘vuoto’ iniziale che si viene a creare proprio in concomitanza col dover fare una e/o più scelte che condizionano la ‘realtà’ giovanile, vista dal loro punto di vista: di mancanza d’identità. “Certo, l’identità genera automaticamente ‘alterità’, chiusura, limitazione o annullamento degli scambi e un senso goffo di superiorità – scrive Adriano Favole (13) , (in ‘La Lettura’ – supplemento de Il Corriere della Sera – 10 Febbraio 2019). “L’identità – aggiunge – difficilmente consente di pensare le trasformazioni e persino il futuro , è come una roccia che si oppone al cambiamento (dello stasus quo?). A livello collettivo, […] tralasciando gli ‘orrori’ del disprezzo e scherno, segregazione, respingimento di chi è bollato come ‘altro’, sussiste (in alcuni studiosi), il pensiero interposto al concetto di identità del ‘vuoto’ assoluto”; cioè l’impossibilità nell’individuo per una condivisione socialitaria “e culturale dell’io e del noi, i quali, privati della identità, sarebbero (facili) prede di alterità più forti, consistenti e voraci”.

È il caso di Francesco Remotti (14) che in “Somiglianze. Una via per la convivenza.” – (Laterza 2018 citaz. in A. Favole op.cit.), “il quale prefigura soggetti e collettività destinate a decadere e infrangersi davanti a portatori di sostanze culturali granitiche”, ponendo al centro la questione del ‘con-dividuo’ come soggetto umano; “una sorta di ‘atomo spirituale’ che percorreva già le pagine di Horkheimer e Adorno quando scrivevano: «Se nel fondamento stesso del suo esistere l’uomo è attraverso altri, che sono i suoi simili, e solo per essi è ciò che è, allora la sua definizione ultima non è quella di una originaria indivisibilità e singolarità, ma piuttosto quella di una necessaria partecipazione e comunicazione agli altri.»

In conclusione si afferma che il ‘con-dividuo’ umano è fatto di relazioni che “aprono la strada non solo alla molteplicità delle ralazioni in cui è coinvolto, ma anche al carattere irripetibile o unico delle loro manifestazioni e delle loro combinazioni: “La convivenza non è soltanto una questione che riguarda i gruppi, ma è già dentro il soggetto umano. […] Che il soggetto umano è già di per sé una convivenza organizzata, da un punto di vista sociale, neurologico, immunologico, ecologico: attraversato dai suoi simili, a cui si legano i diritto persona, […] non necessariamente il frutto di una ‘identità’ predefinita, ma di un’opera di tessitura e intreccio di relazioni che crea ogni con-dividuo un po’ simile e un po’ diverso dagli altri.”

Quali spiegazioni dare al disagio e ai fatti del condizionamento sociale nelle giovani generazioni in fatto di bullismo e quant’altro?

Alcune ‘possibili’ risposte, fra breve nella seconda parte di questa stessa inchiesta.





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- Poesia

San Pellegrino Festival premia i Bambini

LA CITTÀ DI SAN PELLEGRINO TERME
Promotrice per l'anno scolastico 2018-2019 la 9a Edizione del Festival Nazionale di Poesia
per e dei Bambini, è lieta di comunicarela cinquina delle poesie vincitrici del concorso sul tema : “La solitudine”.

Il festival si è svolto attraverso la lettura e la composizione di poesie, rime e filastrocche a partecipazione gratuita per ‘bambini e ragazzi dalla terza elementare alla prima media’, e inoltre per gli adulti (purché si sentano ancora bambini) con poesie inedite adatte a un pubblico infantile, con poesie individuali o di gruppo.

Poesia vincitrice
Arianna Bianchi Mozzo (BG)

Le altre finaliste, in ordine di presentazione delle poesie, sono:
Monica Sorti Mozzo (BG)
Laura Mapelli Monza (MB)
Maria Cannito S. Martino iin Pensilis (CB)
Elena Manenti Telgate (BG)

Le poesie sono state lette e votate da 322 alunni di 22 classi di scuole primarie e secondarie di primo grado.
La premiazione si svolgerà sabato 16 marzo alle ore 16 presso il Teatro del Casinò di San Pellegrino.
Complimenti alla giovanissima poetessa vincitrice e anche a tutti voi che avete partecipato per la vostra passione per la poesia.
Allego la poesia vincitrice e le altre della cinquina.

POESIA VINCITRICE

‘FILASTROCCA DEL TOPO DI STRADA’
Vicolo Lercio, bidone Ottantuno,
non è colpa mia se non piaccio a nessuno,
chiunque mi incrocia dà fuori di matto
e urla chiamandomi “quel brutto ratto”.
Dicon che puzzo da fare paura:
certo, io vivo nella spazzatura!
Dentro il bidone ci ho fatto la tana
ma cambio il mobilio ogni settimana,
perché un omone, grande e forzuto,
lo svuota ed elimina ogni rifiuto.
Son fortunati quel gatto e quel cane
che vedo spiando da quelle persiane.
Mangiano un sacco di prelibatezze,
ricevono coccole, baci e carezze.
Vorrei che una fata mi desse una mano
e mi trasformasse in “topo da divano”.
Son bravo, ubbidiente, ho dieci in condotta,
qualcuno di voi per favore mi adotta?
Arianna Bianchi Mozzo (BG)


LE ALTRE POESIE FINALISTE

‘JACK MUSOLUNGO’
A Bosco Incantato, in un grosso fungo,
vive lo Gnomo Jack Musolungo.
La sua casetta è bella davvero,
con tanti confort, ma ospiti zero,
perché in quel fungo sotto il nocciòlo
Jack preferisce restare da solo.
Lui non ha amici né conoscenti
e tiene alla larga vicini e parenti,
ma in una notte di zucche e vampiri
un pipistrello un po’ su di giri
con una manovra alquanto maldestra
plana veloce sulla sua finestra.
Il vetro si rompe e la sua zampa pure,
il poveretto ha bisogno di cure,
così da Jack Musolungo si accampa
finché non avrà guarita la zampa.
I primi giorni son liti e minacce,
fanno paura le loro facce,
poi Jack impara che, con la pazienza,
può esser fantastica la convivenza.
I due si scambiano sogni e progetti,
pezzi di cuore, pregi e difetti,
e quando l’amico riprende il suo volo
Jack dice: “Da oggi mai più starò solo”.
Monica Sorti Mozzo (BG)

‘LA SOLITUDINE’
Solitudine vuol dire
aver voglia di capire,
di guardar dentro noi stessi
rimanendo disconnessi
da quel mondo che là fuori,
con i mille suoi colori,
gira gira e sempre piace
soprattutto quando è in pace.
Solitudine è il tuo io
che non riesce a dirti addio,
e se questo troppo dura
impedisce l’avventura
di una vita che ha valore
se si dà e riceve amore,
se un pianto od un sorriso
è con gli altri condiviso.
Solitudine è parola
che t’insegnan anche a scuola:
cinque sillabe contate,
dieci lettere affiancate;
dille sì se hai l’esigenza,
dille no se vuoi far senza.
Scegli tu liberamente
se star solo o fra la gente!
Laura Mapelli Monza (MB)

‘STELLA’
Per quanto sia solitaria una stella
brilla
e tante solitudini
creano il firmamento.
Maria Cannito S. Martino iin Pensilis (CB)

‘I COLORI DELLA SOLITUDINE’
Nero di ombra che ti cattura
se stare da solo ti mette paura,
quando chi ami è troppo lontano
non serve a nulla tender la mano.
Grigio di nebbia che toglie il fiato come il vuoto di un abbraccio mai dato,
come il rumore di parole mai dette
chiuse nel cuore strette strette.
Ma pensaci bene, non è solo questo
solitudine è anche ascoltare te stesso.
A volte fuori c’è troppo rumore
e restare soli ha un altro colore.
Verde di prato che sa di riposo
dopo un giorno assai faticoso.
Giallo di sole che splende e riscalda
come i segnali che il cuore ti manda.
Azzurro di onde che muovono il mare
culla pensieri, fa desiderare.
Blu di cielo di stelle vestito
illumina sogni, anche il più ardito.
Elena Manenti Telgate (BG)

Non rimane che fare i più sentiti complimenti a tutti i partecipanti e ad invitare quanti volessero partecipare all’avvenimento a San Pellegrino Terme.

Si ringrazia inoltre la rivista di poesia on-line La Recherche.it per l'ospitalità elargita al Festival dedicato ai bambini.

Il coordinatore prof. Bonaventura Foppolo.

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- Cinema

Festival del Cinema Italia - Regno Unito

FESTIVAL Italia / Regno Unito
In collaborazxione con Cineuropa News

Cinema Made in Italy, edizione numero 9 di Vittoria Scarpa

26/02/2019 - Dal 26 febbraio al 3 marzo, torna il meglio del cinema italiano recente a Londra. Apre 'Loro' di Paolo Sorrentino
Si terrà oggi , dal 26 febbraio, a domenica 3 marzo, al Ciné Lumière di Londra, la nona edizione di Cinema Made in Italy, lo speciale appuntamento organizzato da Istituto Luce Cinecittà e dall'Istituto italiano di cultura di Londra che porta nel Regno Unito alcune delle migliori produzioni italiane recenti in anteprima assoluta.
Sono nove i titoli in programma quest’anno. Ad aprire la rassegna sarà il ritratto di Silvio Berlusconi del regista premio Oscar Paolo Sorrentino, Loro – il film uscirà nelle sale britanniche il 19 aprile distribuito da Curzon Artificial Eye. Gli altri titoli in selezione sono: Euforia di Valeria Golino e Troppa grazia di Gianni Zanasi, presentati rispettivamente al Certain Regard e alla Quinzaine des Réalisateurs dell’ultimo Festival di Cannes; Ricordi? di Valerio Mieli, selezionato alle Giornate degli Autori di Venezia; Ovunque proteggimi di Bonifacio Angius (visto al Torino Film Festival), L’ospite di Duccio Chiarini (debutto a Locarno) e Notti magiche di Paolo Virzì (film di chiusura della Festa del cinema di Roma); infine, Saremo giovani e bellissimi di Letizia Lamartire (Venezia, Settimana della Critica) e la commedia surreale di Paolo Zucca, L’uomo che comprò la luna.
Ai nove titoli recenti selezionati, si affiancherà la proiezione di Il conformista, capolavoro del 1970 del compianto Bernardo Bertolucci, scomparso lo scorso novembre.
Come nelle passate edizioni, saranno ospiti di Cinema Made in Italy molti dei registi che presenteranno i loro film al pubblico del festival e parteciperanno a sessioni di Q&A.

FESTIVAL Belgio
The Most Beautiful Couple e Jellyfish premiati a Mons di Aurore Engelen
25/02/2019 - Il film di Sven Taddicken si è aggiudicato il Gran Premio e il Premio per l'interpretazione, mentre il lungometraggio di James Gardner ha ricevuto il Premio alla sceneggiatura e il Premio Cineuropa.
The 34th Mons International Film Festival drew to a close on Friday night with the unveiling of its winners’ list and the triumph of both The Most Beautiful Couple and Jellyfish. In The Most Beautiful Couple, German director Sven Taddicken follows the journey of a couple traumatised by a sexual assault that takes place while they are on holiday in Majorca. Liv is raped by a group of men right in front of her helpless partner, Malte. Two years later, Malte bumps into one of the assailants in the street, which reawakens a memory in the couple that almost proves to be more destructive than the assault itself. The movie pocketed the Grand Prix as well as the Best Acting Award for Maximilian Brückner, Luise Heyer, Jasna Fritzi Bauer and Florian Bartholomaï.

There was another film that went home clutching two prizes: Jellyfish by James Gardner. In line with the great British tradition of films rooted in social topics, which explore the trials and tribulations of day-to-day life using humour, Jellyfish follows Sarah, a 15-year-old girl who is mistreated both at school and at home. Then she has an epiphany and finds her niche by trying her hand at stand-up. The movie picked up the Best Screenplay Award in addition to the Cineuropa Prize.
The Audience Award was bestowed upon the French film Head Above Water, the feature debut by director Margot Bonhomme, which tells the story of Elisa, a hot-headed and passionate teenage girl who finds herself alone with her father after her mother leaves home – together, they must look after her disabled sister. The cast includes Cédric Kahn and Diane Rouxel, a young French actress who rose to fame in Larry Clark’s The Smell of Us. The Be TV Award was presented to another French film set against a backdrop of separation and adolescence: Real Love by Claire Burger, toplined by Bouli Lanners.

THE MONS International Film Festival, which took a year off in 2018, should unspool again in 2020, as announced by its new general delegate, Maxime Dieu.
Here is the complete list of winners:
Festival Grand Prix
The Most Beautiful Couple - Sven Taddicken (Germany/France)
Best Director Award
Night Comes On - Jordana Spiro (USA)
Best Screenplay Award
Jellyfish - James Gardner (UK)
Best Acting Award
Maximilian Brückner, Luise Heyer, Jasna Fritzi Bauer and Florian Bartholomaï – The Most Beautiful Couple
Cineuropa Jury Prize
Jellyfish – James Gardner
City of Mons Audience Award
Head Above Water – Margaux Bonhomme (France)
BeTV Award
Real Love - Claire Burger (France/Belgium)
Best Short Film Award
Vihta - François Bierry (France/Belgium)
Belgian Critics’ Award
Accord Parental – Benjamin Belloir

James Gardner • Regista di Jellyfish
"Jellyfish è parte del dibattito che promuove una maggiore comprensione di come possiamo migliorare la nostra società"
di Valerio Caruso
25/02/2019 - Abbiamo parlato con il regista britannico James Gardner, il cui film d'esordio, Jellyfish, ha vinto il Premio Cineuropa al Mons International Film Festival
Beyond its indisputable acting quality, James Gardner's Jellyfish is a testament to the filmmaker's talent, demonstrating a real sense of atmosphere and accuracy, and a promising mastery of shots, lighting and music. He is an emerging talent whose career development we await with eager curiosity.

CINEUROPA PRIZE at the 34th MONS International Film Festival
LES ARCS 2018

Review: Jellyfish by Fabien Lemercier
19/12/2018 - The British director James Gardner shows promising talent with a first film that features some stinging social realism "Are you looking for something easy?", "Anyone can learn a routine and stick to it, but that's not what we're looking for here. It needs to come from somewhere deeper." It’s with these words, placed in the mouth of one of his main characters, that the British filmmaker James Gardner somehow manages to distil the colour and ambition of Jellyfish, his first feature. The film does admittedly travel the beaten path of a coming-of-age story, but focuses its plot on a teenager and her dysfunctional family against a backdrop of uncompromising social realism (in true Ken Loach style), delving into the daily life of the working class in a seaside city bathed in grey skies and the flashing lights and sounds of arcade games, all while trying to find an original means of escaping the doldrums of life via self-taught stand-up comedy.

Screened in the Playtime programme at the 10th Les Arcs Film Festival, Jellyfish has already garnered numerous awards since its premiere at Tribeca, including at Edinburgh (Best Actress Awards for Liv Hill and Sinéad Matthews), Dinard (four trophies including the Grand Prix, Best Screenplay and Critics' Prize) and Rome (Best Film in the Alice Nella Cittá section). The younger of its two major actresses has won numerous awards, has been nominated for Best Breakthrough Performance at the British Independent Film Awards and has received special mentions at both Dinard and Rome.
"Mum doesn't feel well." At 15, Sarah (Hill) finds herself, as we are soon to discover, with some pretty serious responsibilities, as her mother, Karen (Matthews), practically mute, doesn't seem to leave her bed or the sofa, sitting in front of the television as if she were hypnotised. And as for her father, he doesn’t seem to be on the scene, leaving the teenager entirely responsible for the daily lives of her siblings: her brother, Marcus (Henry Lile) and her sister, Lucy (Jemima Newman), who she must take and collect from primary school, pick up, dress, feed, reassure, etc. As money is tight, Sarah also works part-time at a nursery, where her boss (Angus Barnett) operates shamelessly and where various customers offer her extra cash in exchange for a quick hand job.
A precarious existence, which fails to improve when the girl realises that the family owes three months’ rent and that her mother's benefits have been suspended – the latter revealing herself to be bipolar and subject to enthusiastic spending sprees, especially at Dreamland Amusement Park. Grappling with an increasingly serious situation, which she continues to hide from the outside world, Sarah, who is very strong-willed, is encouraged (a lot) by her drama teacher (Cyril Nri) to pursue her potential in stand-up comedy. She begins to write a skit while struggling desperately to keep her family afloat. But the boat starts to sink, and the world is a cruel place...
Beyond the film's indisputable general acting quality (and by proxy excellent direction of the film’s cast, which includes numerous novices) and a plot that fails (as is often the case with first films) to pick up the pace somewhat in its home stretch, Jellyfish is a testament to James Gardner's filmmaking talent, demonstrating a real sense of atmosphere and accuracy, and a promising mastery of shots, light (Peter Riches is the film’s director of photography) and music (composed by Victor Hugo Fumagalli). An emerging talent, whose career development we await with eager curiosity.
Jellyfish is due to be released in the UK on 15 February by Republic Film Distribution. International sales are being handled by Bankside Films.
Cineuropa News: We chatted to British director James Gardner, (nella foto) whose debut feature, Jellyfish, premiered at Tribeca last year and has just won the Cineuropa Prize at the Mons International Film Festival.

CINEUROPA: What was the main motivation for making this film?
James Gardner: The initial idea behind Jellyfish was to tell the story of a teenage girl who discovers a hidden talent and examine how her family circumstances suffocate it. I had the idea for Sarah, her family and Margate… That all came as one, but it took a little time before I realised I was telling the story of a young carer. I knew what a young carer was, but it wasn’t until I really started developing the idea and researching properly that I came to realise to what extent it is an indisputable crisis. There are more than 800,000 young carers – young people between the ages of 11 and 18, looking after one or more family members, unpaid – in England alone, and it is unacceptable that we’re not supporting these vulnerable young people better. It saddens me to say it, but despite Jellyfish being a work of fiction, everything that was written into the film was inspired by incidents that actually happened.
Do you see your film as delivering a political message?
I think it’s virtually impossible to create art that is completely apolitical, as it will always exist within a context dictated by time and space. As a filmmaker, you have to embrace that, but I wouldn’t go so far as to say that Jellyfish delivers an overtly political message, as it is not a propaganda film, and nor was it conceived to make a political point; it just evolved and is being viewed that way because of the day and age we live in. Jellyfish is part of the conversation that promotes a better understanding of how we can improve our society.
How did you work with the actors, especially the astonishing Liv Hill?
Because of how low-budget the film is, I had no real hope of scheduling any rehearsal time with the cast all together. Therefore, a large part of my preparation with the actors was just the one-on-one conversations we had prior to the shoot. I was very lucky to be able to cast the wonderful actors I did, because there was no financial incentive for them to work on the film, as to make the film possible, we conceived of the entire production as a socialist enterprise, where everyone, from the top down, would be offered deferred payment only. It was the only way we could afford to make it. As for Sarah, it was incredibly difficult to find a young actor capable of carrying the weight of an entire feature film on her shoulders. And after about seven months of searching, I thought that perhaps we had written an impossible screenplay. In the end, after all the auditions, self-tapes, showcases, emails, phone calls and so on, it came down to a piece of luck. Cyril Nri [Mr Hale] had been offered a job that clashed with our shooting window, and his agent called to ask what was happening with the film and if I’d found Sarah. I hadn’t, and I was on the verge of postponing the shoot for the second time, when the agent offered up a self-tape for a client they had just signed. It was Liv. And it may sound like a cliché, but it’s true that within the first five seconds of watching that self-tape, I knew I’d found Sarah. And the reason I’m telling this story is to highlight just how easy it was working with her, because she’s truly gifted. She is the definition of a natural.
The film has quite a dark atmosphere. Can you tell us more about how you worked with the lighting?
I really wanted the movie to have as much of a naturalistic aesthetic as possible. Jellyfish is a drama that deals with confrontational real-world issues, and I knew that I would create the most compelling, strongest version of the story by doing everything I could to make the film feel as “real” to the audience as possible. One of my favourite scenes is the showdown between Karen and Sarah, where Sarah is in darkness and Karen is lit so brightly that you can see the detailing in the whites of her eyes. It’s magnetic. And actually, for a long time in the edit, we weren’t with Sarah enough in that scene, because the editor and I had completely fallen under Karen’s spell, and I think that’s definitely to do with the way she is lit. It’s that contrast between the light and the dark, and comedy and tragedy, that defines this scene. It runs through the entire film and characterises its tonal quality.


LECCE 2019
Dodici film in lizza per il 10° Premio Mario Verdone a Lecce
di Vittoria Scarpa

22/02/2019 - Il riconoscimento, riservato ad autori di opere prime che si siano contraddistinti nell’ultima stagione, sarà consegnato durante il 20° Festival del Cinema Europeo di Lecce (8-13 aprile)
Annunciati i 12 titoli in lizza per il Premio Mario Verdone, che quest’anno festeggia il suo decimo anniversario. Il riconoscimento, rivolto a giovani autori italiani di opera prima che si siano particolarmente contraddistinti nell'ultima stagione cinematografica, sarà consegnato come ogni anno nell’ambito del Festival del Cinema Europeo di Lecce, la cui 20ma edizione si terrà dall’8 al 13 aprile 2019.
I concorrenti di quest’anno (tra cui saranno scelti i tre finalisti) sono: Pietro Belfiore, Davide Bonacina, Andrea Fadenti, Andrea Mazzarella, Davide Rossi per Si muore tutti democristiani; Alessandro Capitani per In viaggio con Adele; Ciro D'Emilio per Un giorno all’improvviso; Damiano e Fabio D'Innocenzo per La terra dell’abbastanza; Margherita Ferri per Zen sul ghiaccio sottile; Letizia Lamartire per Saremo giovani e bellissimi; Matteo Martinez per Tonno spiaggiato; Francesca Mazzoleni per Succede; Daniele Misischia per The End? L’inferno fuori; Fulvio Risuleo per Guarda in alto, Antonio Pisu per Nobili bugie; Emanuele Scaringi per La profezia dell’armadillo.

Come ogni anno saranno Carlo, Luca e Silvia Verdone a scegliere il vincitore dell’edizione 2019 tra gli autori individuati in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia e il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani. “Il Premio Mario Verdone continua a mantenere, con rigore, scelte di assoluta qualità riguardanti i nuovi autori del cinema italiano”, sottolineano i tre fratelli. “L’abbondanza di ottime pellicole spesso sfuggite al grande pubblico, renderà il nostro compito assai delicato e probabilmente tormentato”.

Le precedenti edizioni del premio sono state vinte da: Susanna Nicchiarelli per Cosmonauta, Aureliano Amadei per 20 sigarette, Andrea Segre per Io sono Li, Claudio Giovannesi per Alì ha gli occhi azzurri, Matteo Oleotto per Zoran, il mio nipote scemo, Sebastiano Riso per Più buio di mezzanotte, Duccio Chiarini per Short Skin, Marco Danieli per La ragazza del mondo e, l'anno scorso, da Roberto De Paolis per Cuori puri.

bUON CINEMA A TUTTI.

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- Cinema

Berlinale Festival del Cinema – tutti i premiati

BERLINO 2019 Concorso
“Synonymes” vince l'Orso d'oro
in collaborazione con Cineuropa News

16/02/2019 - BERLINO 2019: L'israeliano Nadav Lapid ha conquistato l'Orso più importante con la sua storia parigina di trasformazione, nel corso di una cerimonia in cui hanno brillato l'Europa e la Germania
La 69ma edizione del Festival del cinema di Berlino (7-17 febbraio) si è conclusa con una cerimonia in cui il cinema europeo ha brillato, anche attraverso fruttuose collaborazioni con talenti di altre regioni, come nel caso del vincitore dell'Orso d'oro, l’unico e assolutamente magnifico Synonymes [+] di Nadav Lapid. Alla fine del suo discorso, il regista ha sottolineato che mentre il film potrebbe generare qualche forma di sdegno sia nel suo paese d'origine, Israele, sia in Francia, dove è ambientato, è davvero inteso come una celebrazione – del cinema, tra le altre cose.
Il Gran Premio della Giuria è andato a un altro titolo ambientato in Francia, Grâce à Dieu di François Ozon. Mentre ritirava il trofeo, il regista ha avuto parole di ammirazione per la lotta condotta dalle ex vittime di pedofilia che hanno ispirato il suo film.
L'Orso d'argento per la miglior sceneggiatura è andato a uno scrittore il cui lavoro è servito come base di molte grandi storie cinematografiche sulla camorra napoletana: Roberto Saviano (autore di Gomorra), per la sceneggiatura di La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, scritta insieme al regista e a Maurizio Braucci, e basata su uno dei suoi romanzi.
Il regista norvegese Hans Petter Moland, un habitué del concorso berlinese, è stato premiato grazie al lavoro del suo direttore della fotografia, Rasmus Videbæk, nel magnifico e commovente Out Stealing Horses.
Il palmarès celebra anche la Germania, paese (co-)produttore di due dei vincitori nella categoria cortometraggi, del vincitore del premio alla miglior opera prima (Oray di Mehmet Akif Büyükatalay) e del premio al miglior documentario (Talking About Trees di Suhaib Gasmelbari). La Germania è inoltre rappresentata da tre vincitori di un Orso nella competizione internazionale lungometraggi, tra cui il miglior film; gli altri due sono Angela Schanelec, proclamata miglior regista per I Was at Home, but, e Nora Fingscheidt, Premio Alfred Bauer per System Crasher.
Juliette Binoche, presidente di giuria, ha ricordato l'assenza del film di Zhang Yimou, One Second, in concorso, essendo il film stato ritirato all'ultimo momento, ma il suo forte rimpianto è stato compensato dall'entusiasmo della sua giuria per le performance degli attori di So Long, My Son del connazionale Wang XiaoShuai, che ha dominato nelle categorie di miglior attrice e miglior attore.
La cerimonia si è contraddistinta anche per il saluto sincero al direttore uscente della manifestazione, Dieter Kosslick, e per la consegna di altri due Orsi, uno peloso e uno occhialuto, per celebrare questa speciale occasione.
I vincitori dei premi della 69ma edizione del Festival di Berlino:
Orso d'oro del miglior film
Synonymes - Nadav Lapid (Francia/Israele/Germania)

Orso d'argento - Gran premio della giuria
Grâce à Dieu - François Ozon (Francia/Belgio)

Orso d'argento - Premio Alfred Bauer
System Crasher - Nora Fingscheidt (Germania)

Orso d'argento del miglior regista
Angela Schanelec - I Was at Home, but (Germania/Serbia)

Orso d'argento della miglior attrice
Yong Mei - So Long, My Son (Cina)

Orso d'argento del miglior attore
Wang Jingchun - So Long, My Son

Orso d'argento della miglior sceneggiatura
Maurizio Braucci, Claudio Giovannesi, Roberto Saviano - La paranza dei bambini (Italia)

Orso d'argento del miglior contributo artistico
Rasmus Videbæk, direttore della fotografia - Out Stealing Horses [+] (Norvegia/Svezia/Danimarca)

Premio del miglior documentario
Talking About Trees - Suhaib Gasmelbari (Francia/Sudan/Germania/Qatar/Ciad)

Premio della miglior opera prima
Oray - Mehmet Akif Büyükatalay (Germania)

Berlinale Shorts
Orso d'oro al miglior cortometraggio
Umbra - Florian Fischer, Johannes Krell (Germania)

Orso d'argento - Premio della giuria al cortometraggio
Blue Boy - Manuel Abramovich (Argentina/Germania)

Audi Short Film Award
Rise - Bárbara Wagner, Benjamin de Burca (Brasile/Stati Uniti/Canada)
Nadav Lapid • Regista di Synonymes
“La mia motivazione ultima è quella di catturare una sorta di verità rispetto ai momenti”
di Bénédicte Prot

15/02/2019 - BERLINO 2019: Cineuropa incontra Nadav lapid - intervista

Abbiamo incontrato il regista israeliano Nadav Lapid per parlare di Synonymes, in concorso al 69° Festival di Berlino
Il regista israeliano Nadav Lapid ci parla del suo quarto lungometraggio, candidato all’Orso della 69ma Berlinale: il formidabile e singolare Synonymes, un film espansivo, sia verbale che fisico, in cui un personaggio non molto lontano da quello che lui stesso fu 17 anni fa arriva a Parigi, pieno di storie, per diventare francese ed essere sepolto a Père Lachaise.
Cineuropa: Yoav sembre essere più un concetto che un personaggio in senso stretto, una figura gettata in un universo beckettiano, o dall'altra parte dello specchio...
Nadav Lapid: È vero, nel senso che adotta un programma esistenziale a partire da un'idea che porterà avanti fino alla fine. Di fatto, vive la sua trasformazione a tutti i livelli, mentalmente, fisicamente e intellettualmente, e su base giornaliera, camminando per le strade di Parigi mentre mormora sinonimi. Detto questo, penso che come regista, ciò che mi affascina è creare un cinema che sia anche molto fisico e crudo, concreto e talvolta brutale, per rianimare un po’ le idee, per seminare il caos, evitare che ci si ritrovi solo con un concetto che incontra un altro concetto.
In effetti, rispetto alla coppia francese, molto cerebrale, che lo prende sotto la propria ala, Yoav è molto fisico. Il suo corpo esprime una rabbia che è quasi uno stress post-traumatico.
Soffre senza dubbio di una sorta di stress post-traumatico, ma il trauma è la sua identità, non qualcosa di concreto. Certo, è legato all'esercito, al servizio militare, ma è la vita che lo ha reso post-traumatico, la vita lì come un israeliano, e quindi cerca di staccarsi dal suo passato, rinuncia alle parole ebraiche e trova le parole in francese... Allo stesso tempo, la sua identità israeliana è ancorata nel suo corpo, che è molto israeliano. Questo è forse il motivo per cui tenta di annientarlo sin dall'inizio: prima lo congela, che è una specie di morte simbolica, poi lo affama e, infine, si prostituisce. Ma il corpo si rifiuta di scomparire e quando lo ha umiliato per bene, stranamente, le parole in ebraico sorgono di nuovo dalla sua bocca. Quindi, sì, penso che questo personaggio sia una specie di ferita ambulante, e deriva dal fatto che odia ciò che è.
Aveva già in mente dall’inizio la struttura che ha appena descritto?
Corrisponde alla mia esperienza personale di 17 anni fa. Quasi tutte le scene del film sono realmente accadute. Non mi piacciono molto i registi che fanno cose complesse e dicono "In realtà è molto semplice", ma qui devo fare lo stesso perché è proprio ciò è successo a me. C'è qualcosa di molto primitivo in questo film a livello narrativo: non ci sono molti punti di svolta, è la storia di un ragazzo che arriva, che vive la sua vita e se ne va. La complessità del film sta nel fatto che quasi ogni momento ed evento è intriso di ogni genere di cose che sono spesso contraddittorie.
Tutte le "storie" che Yoav porta con sé sono sue o le ha raccolte altrove?
La mia motivazione ultima è quella di catturare una sorta di verità rispetto ai momenti, non di fare auto-finzione. Sono convinto, inoltre, che ogni esperienza umana possa servire come finestra per osservare l'esistenza, e la mia esperienza personale non è così specifica, ma conoscere intimamente la mia mi ha permesso di entrare nel dettaglio. In questo senso, sì, mi è successo tutto quello che succede nel film, ma tutte queste questioni di identità (in che misura siamo schiavi del nostro passato e del nostro luogo di nascita, o al contrario siamo creature libere? Desideriamo davvero questa libertà? Ci si può davvero trasformare in qualcun altro?), penso che le affrontiamo tutti.
Cosa l’ha portata a scegliere questo approccio visivo molto vario, a volte colorato e mobile, a volte bianco e architettonico, con variazioni di angoli e distanze?
L'idea era di cercare di raggiungere la verità del momento. In questo senso, è una sorta di formalismo nudo e crudo che usa tutti i mezzi disponibili: suono, scenografia, costumi, cinepresa – perché non vedo perché la cinepresa debba rimanere emotivamente oggettiva: io metto in scena anche il corpo del capo operatore, perché per me i sentimenti passano attraverso il suo corpo e attraverso la sua mano che tiene la camera, e li vediamo sullo schermo, e anche loro sono importanti. Questo è il motivo per cui esiste davvero una sorta di diversità visiva, ma che cerca sempre di aderire a ciò che accade in scena, o di dare la visione opposta a ciò che vi accade.

Il PREMIO FIPRESCI di Berlino va a 'Synonyms'
di Cineuropa

16/02/2019 - BERLINO 2019: Dafne ottiene il FIPRESCI della sezione Panorama, il cui pubblico premia 37 Seconds e Talking About Trees. Europa Cinemas Label per Stitches
The International Federation of Film Critics (FIPRESCI) has handed out its trophies ahead of the awards ceremony of the 69th Berlin Film Festival. For the competition, the International Critics' Prize was bestowed upon Synonyms by Israeli director Nadav Lapid. For the Panorama selection, victory was claimed by Dafne by Italian director Federico Bondi, and as for the Forum section, the awarded film was Austria’s Die Kinder der Toten by Kelly Copper and Pavol Liska.
This year, the Audience Awards in the Panorama section went to Japanese film 37 Seconds, directed by HIKARI, and Sudanese director Suhaib Gasmelbari’s Talking About Trees in the documentaries section.

Lastly, the Europa Cinemas Label for Best European Film in the Panorama section, the award was given to Stitches [+] by Serbian filmmaker Miroslav Terzić, while the CICAE Art Cinema Award went to HIKARI’s 37 Seconds and French director Jean-Gabriel Périot’s Our Defeats.
Find the most relevant prizes of the independent juries here:

FIPRESCI Prize, Competition
Synonyms – Nadav Lapid (France/Israel/Germany)
FIPRESCI Prize, Panorama
Dafne – Federico Bondi (Italy)
FIPRESCI Prize, Forum
Die Kinder der Toten - Kelly Copper, Pavol Liska (Austria)
Audience Award, Panorama
37 Seconds – HIKARI (Japan)
Audience Award, Panorama Dokumente
Talking About Trees - Suhaib Gasmelbari (France/Sudan/Germany/Qatar/Chad)
Europa Cinemas Label
Stitches - Miroslav Terzić (Serbia/Slovenia/Croatia/Bosnia and Herzegovina)
CICAE Art Cinema Award, Panorama
37 Seconds – HIKARI
CICAE Art Cinema Award, Forum
Our Defeats - Jean-Gabriel Périot (France)
Ecumenical Jury Prize, Competition
God Exists, Her Name Is Petrunija - Teona Strugar Mitevska (Macedonia/Belgium/Slovenia/Croatia/France)
Ecumenical Jury Prize, Panorama
Buoyancy - Rodd Rathjen (Australia)
Special Mention
Midnight Traveler - Hassan Fazili (US/Qatar/UK/Canada)
Ecumenical Jury Prize, Forum
Earth - Nikolaus Geyrhalter (Austria)
Teddy Award - Feature Film
Brief Story from the Green Planet - Santiago Loza (Argentina/Brazil/Germany/Spain)
Teddy Award - Documentary Film
Lemebel - Joanna Reposi Garibaldi (Chile/Colombia)


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- Cinema

Berlinale Special Gala – Cineuropa News

Berlinale Special Gala – Cineuropa News

Abbiamo incontrato la superstar francese Juliette Binoche per parlare dei suoi ultimi due ruoli, in Celle que vous croyez e come presidente di giuria alla Berlinale 2019.
Juliette Binoche • Attrice

"C'è una libertà che viene con l'età, soprattutto davanti alla cinepresa"
di Marta Bałaga.
14/02/2019 - BERLINO 2019: Abbiamo incontrato la superstar francese Juliette Binoche per parlare dei suoi ultimi due ruoli, in Celle que vous croyez e come presidente di giuria alla Berlinale 2019.
Juliette Binoche sta facendo il doppio lavoro al Festival di Berlino di quest'anno, sia come presidente di giuria che come protagonista di Celle que vous croyez [+] di Safy Nebbou, basato sul romanzo omonimo di Camille Laurens. Presentato nell’ambito del Berlinale Special Gala, il film vede Binoche interpretare una cinquantenne divorziata di nome Claire, che avvia una relazione amorosa online con Alex, molto più giovane di lei. Ma il problema è che Claire usa un profilo falso, e le sue bugie cominciano ad avere le gambe corte.

Cineuropa: Claire è un’insegnante di successo; ha bei figli e una carriera avviata. Cosa la porta improvvisamente a fingere di avere 20 anni?

Juliette Binoche: Da come l’ho intesa io, la sensazione di abbandono è insopportabile per lei. È stata abbandonata dal marito per una donna più giovane, abbandonata dal suo amante, a cui non importa molto di lei. Cerca un modo per non sentirlo, aggrappandosi a qualcosa che non funziona più. Facebook è uno dei mezzi che usa, ma arriva al punto in cui deve distruggere l'illusione. È doloroso capire che sei una perdente, ma ciò le dà una nuova forza. Non ha più paura: raggiunge un luogo in cui si apre a nuove cose ed è in grado di andare avanti. Questa sensazione di abbandono è semplicemente orribile. La sentiamo molto presto da bambini, ma sentirla di nuovo da adulti...
Si nasconde dietro testi e messaggi. Ma esprimere le emozioni in questo modo non è esattamente più sicuro, vero?
Sembra sicuro, ma questo film ti mostra che non lo è; è un'illusione. La fisicità è qualcosa che può confermare i sentimenti, il corpo ha bisogno di essere coinvolto. E quando non succede, è più pericoloso, in un certo senso. Sei intrappolato in quella illusione.
Eppure, in qualche modo è anche un film che non evita di mostrare la sessualità femminile, anche la gente probabilmente pensa che non dovrebbe più sentirsi così.
Mio padre ha 85 anni e continua a flirtare con tutte le infermiere! Non va mai via. Il bisogno di desiderio è sempre lì, ma sta a te scegliere come esprimerlo. Con il tempo, puoi imparare a conviverci in un modo diverso – un modo migliore, se sei fortunato. Non ne sei dipendente come quando avevi 20 anni.

Quindi, quando si affronta una relazione, bisognerebbe essere pronti a lasciar andare?

O lasciare che non sia niente, che non è facile. Quando cresci emotivamente, sembra che stai morendo. Ed è così – c'è una parte di te che muore per raggiungere quello strato più profondo. L'età può essere uno strumento meraviglioso per questo. Ci lamentiamo sempre dell'età e ne abbiamo paura, ma è l'età che ti porta serenità, e io ci credo davvero. C'è una libertà che viene con l'età, soprattutto di fronte alla cinepresa. Mostra la verità di ciò che stai vivendo come essere umano. Ecco perché questo ruolo è stato fonte di gioia per me, perché la vita è apprendimento, e impari quando sei giovane e quando sei vecchio.

C’è qualcosa che cerca come presidente di giuria?

È più ciò che sembra importante dare al mondo. Questo è il potere che abbiamo: concentrarci su temi specifici. La Berlinale sceglie film politici che hanno soggetti molto contemporanei, che ci fanno pensare e crescere come società. Abbiamo bisogno di sentire voci diverse, e credo che avremo sempre più registe ai festival. Stanno già dimostrando la loro abilità artistica e capacità, ma Dieter [Kosslick, il direttore del festival] mi ha detto: "Non ho scelto questi film perché erano fatti da donne; li ho scelti perché erano buoni".

Claire è un personaggio complicato perché mente tutto il tempo: al suo amante, alla sua terapeuta, interpretata da Nicole Garcia, e persino a se stessa. Da attrice esperta, pensa di sapere già cosa porta le persone a comportarsi così?

Interpretare un ruolo non significa dire bugie; significa dire la verità. Ma il mio personaggio cerca di evitarlo, quindi è un gioco a nascondino. Gli attori sono abituati ad analizzare le emozioni; sai dove andare per esprimere o ricreare la vita – un po' come un pianista che sa dove si trova il Re minore. Fa parte del mio mestiere.


Sinossi di Safy Nebbou

Claire è una donna di 50 anni che lavora come insegnante. È divorziata e madre di due figli. La sua vita sentimentale con il giovane amante Ludo funziona bene ma Claire decide di creare un falso profilo Facebook per tenerlo d'occhio Si trasforma così nell'attraente ventiquattrenne Clara. Ludo resiste e si comporta bene ma ci casca invece il suo miglior amico Alex. Tra i due inizia una strana relazione.
titolo internazionale: Who You Think I Am
titolo originale: Celle que vous croyez
paese: Francia, Belgio
genere: fiction
regia: Safy Nebbou
durata: 101'
data di uscita: FR 27/02/2019, BE 6/03/2019
sceneggiatura: Safy Nebbou, Julie Peyr

cast: Juliette Binoche, François Civil, Nicole Garcia, Charles Berling, Guillaume Gouix, Marie-Ange Casta, Claude Perron, Jules Houplain

fotografia: Gilles Porte
montaggio: Stéphane Pereira
scenografia: Cyril Gomez-Mathieu
costumi: Alexandra Charles
musica: Ibrahim Maalouf
produttore: Michel Saint-Jean
produzione: Diaphana, France 3 Cinéma, Scope Pictures
supporto: Canal+ (FR), Ciné+ (FR), Sofica La Banque Postale Image (FR), Sofica Manon (FR), Sofica Cinécapital (FR)
distributori: Diaphana Distribution, Cinéart, Rosebud Motion Pictures Enterprises - Rosebud21, Alamode Film, Camera Film

Recensione: Celle que vous croyez di Fabien Lemercier
11/02/2019 - BERLINO 2019: Juliette Binoche è una cinquantenne assetata d’amore che si ringiovanisce nell'universo virtuale. Un adattamento del romanzo di Camille Laurens firmato Safy Nebbou.

"I social network, per gente come me, sono al contempo il naufragio e la zattera". E’ un ruolo difficile, di donna risucchiata nel vortice di uno sdoppiamento d’identità che le offre l’illusione della giovinezza e dell'amore, che il regista francese Safy Nebbou ha offerto a Juliette Binoche con Celle que vous croyez [+], adattato dall’omonimo romanzo di Camille Laurens.
Presentato in proiezione di gala alla 69ma Berlinale, il lungometraggio deve molto alla performance della sua attrice principale perché nonostante una trama articolata, non è certo scontato mettere in scena con intensità una storia durante la quale la protagonista trascorre molto tempo davanti allo schermo del suo computer o chinata su quello del suo cellulare, essendo gli scambi di messaggi su Facebook la materia prima del film. Ci voleva dunque una grande attrice per tenere il film e anche per accettare di incarnare una donna abbandonata dal marito, in preda a una profonda tristezza, a notti insonni arginate dal Valium, al deserto sentimentale e alla voragine che le si apre davanti allo specchio a oltre 50 anni, quando la capacità di suscitare desiderio svanisce con il passare inesorabile del tempo.
"Una donna come me, con le palpebre un po’ pesanti e la carnagione che sfiorisce". È così che Claire (Juliette Binoche) parla di se stessa alla sua nuova psicologa (Nicole Garcia), aprendo un lungo flashback che vede questa insegnante di francese all'università umiliata da Ludo (Guillaume Gouix), suo amante occasionale ("non capisco perché mi chiami, potrei essere il fratello dei tuoi figli"), tentare di avvicinarsi a lui simpatizzando su Facebook con il suo amico Alex (François Civil). A tal fine, si inventa un profilo: Clara Antunes, 24 anni. Un alter-ego virtuale che diventerà sempre più importante ("ogni parola era scelta con cura, un errore di linguaggio e la magia rischiava di svanire"), a mano a mano che si sviluppa un flirt. Seguono una foto (quella di "una sconosciuta") e scambi vocali che diventano rapidamente incessanti, invasivi, sessuali. Perché Claire è dipendente da questa relazione a distanza ("con lui, mi sento viva") al punto di trascurare i suoi doveri di madre e quasi scivolare completamente nella fantasia ("non fingevo di avere 24 anni, avevo 24 anni"; "mi sentivo più Clara di Claire"). Fino al giorno in cui Alex non ne può più: vuole vederla in carne ed ossa...
Scritto da Safy Nebbou e Julie Peyr, la sceneggiatura riserva più sorprese (più o meno verosimili) di quanto sembri, con le menzogne che si incastrano le une nelle altre fino a traboccare nell'immaginario, dando al film una punta di thriller che si dispiega nelle gelide atmosfere degli alti edifici parigini ornati da grosse vetrate. Attraverso queste confidenze di una donna che affoga in una relazione virtuale e in un amore artificiale la realtà della sua disperata solitudine, il regista traccia il quadro di una società della comunicazione moderna e influente in cui il sogno ad occhi aperti non è lontano dalla tragedia.

Prodotto da Diaphana Films e coprodotto da France 3 Cinéma e dai belgi di Scope Pictures, Celle que vous croyez è venduto nel mondo da Playtime.

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- Musica

Don’t call it Justice - Arcadia Trio


DON'T CALL IT JUSTICE - Arcadia Trio

Fatti, persone e idee che lasciano il segno: è l’impegno dell'Arcadia Trio nell'album
"Don't call it justice" uscito l’8 febbraio(AlfaMusic) di Leonardo Radicchi, impegnato nel tour italiano insieme a uno dei più importanti trombonisti del panorama mondiale, vincitore di 2 Grammy Awards: Robin Eubanks.

Il suo è un disco che racconta storie che energizzano il pensiero e la coscienza: dalla dedica a Gino Strada, con cui Radicchi ha collaborato durante il suo impegno con Emergency per il progetto Ebola in Sierra Leone e il progetto War Surgery in Afghanistan, alla dichiarazione di una 'rabbia piena di gioia'.

"La bellezza senza dubbio non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di bellezza.”

E’ proprio da questo stesso concetto di Albert Camus che qualche anno fa ha preso vita il progetto del sassofonista Leonardo Radicchi: Arcadia Trio, di cui l’8 febbraio è uscito con l'etichetta AlfaMusic l'album "Don't call it Justice" (distr. EGEA Music/Believe digital).

Talentuoso ed eclettico musicista, uno dei più attivi e apprezzati a livello nazionale, Radicchi ha scelto di percorrere una strada alternativa a quella di molti suoi colleghi: dopo gli eccellenti studi presso il Berklee College of Music di Boston, di cui è stato Student Ambassador con la sua band Creative Music Front, è tornato in Italia evolvendosi in una ricerca musicale parallela alla crescita della sua consapevolezza come individuo nella società civile. Le sue attività in ambito sociale, tra cui una lunga esperienza in prima linea con Emergency per il progetto Ebola (in Sierra Leone) e il progetto War Surgery (in Afghanistan), hanno contribuito a conferire un significato 'politico' alla sua musica. Non attraverso uno schieramento partitico, ma con una maturata consapevolezza dell’ingiustizia sociale e delle contraddizioni da cui essa deriva.

Secondo Radicchi: “La musica ha il dovere di contribuire, anche se in minima parte, alla massa critica che ci permette ogni giorno di essere umani. Il mondo è un posto complesso, ci serve una musica in grado di raccontarlo.” Le esperienze che ha scelto di vivere, e di condividere attraverso questo album, hanno cambiato il suo modo di vedere la vita, rafforzando un sentimento di riscossa e operatività.

Così l’Arcadia Trio, formato insieme al contrabbassista Ferdinando Romano e al batterista Giovanni Paolo Liguori, racconta la sua musica come un manifesto, articolato in 10 brani: 10 storie che raccontano fatti, persone e idee che lasciano il segno: il brano "Child Song", ad esempio, racconta di bambini che "devono" essere adulti e di altri che potrebbero non diventarlo mai; la titletrack "Don’t call it Justice" urla forte che una legge non fa giustizia se rende illegale un essere umano; "Necessary Illusions" è un omaggio alla visione dell'intellettuale e filosofo statunitense Noam Chomsky. I titoli degli altri brani: “Utopia - A song for Gino Strada”, “Stop selling lies”, “Peace”, “Change and Necessity - Pointless Evolution”, “In memory of Idy Diene”, “Our anger is full of joy”, “Salim of Lash”.

Prodotto da Leonardo Radicchi insieme a Rosso Fiorentino, l’album è stato registrato dal trio, insieme a un piccolo ensemble, lo scorso giugno presso la Sala del Rosso di Firenze e masterizzato alla White Sound Mastering Studio. Ospite del disco è Marco Colonna, impegnato al clarinetto basso.

Il tour
Le prime date di presentazione del disco vedono la presenza di un grande special guest: Robin Eubanks, uno dei più importanti trombonisti del panorama mondiale, vincitore di 2 Grammy Awards: dopo una anteprima il 7 febbraio al Padova Jazz Club @Cockney London Pub, l’8 febbraio live a Il Birraio di Perugia, il 9 febbraio allo Smallet Jazz Club di Modena, il 10 febbraio al Teatro Sant'Andrea di Pisa per il festival Pisa Jazz, il 12 febbraio alla Casa del Jazz di Roma, il 13 febbraio al Teatro Dante Carlo Monni - Campi Bisenzio (Firenze), il 14 febbraio all’Argo16 di Mestre.

Leonardo Radicchi, che negli ultimi anni è impegnato in un centro per richiedenti asilo della Toscana, ha raccontato le sue storie anche nel libro “In fuga”, pubblicato nel 2016 da Rupe Mutevole (collana Letteratura di Confine) e attualmente in ristampa.
Con questo disco, e quindi attraverso il jazz, vuole raccontare, far riflettere, incitare a un senso di riscossa della mente e del cuore di fronte a una costante di ogni società: l'ingiustizia. Tutto questo attraverso il jazz e la musica, con note portatrici di energia e di un messaggio positivo, che ritroviamo nella track n. 3: our anger is full of joy - la nostra rabbia è piena di gioia.

Che impatto può avere una musica non di massa sulle grandi dinamiche del nostro tempo? La stessa dei saggi, della poesia, della letteratura, dell’arte in generale. Questo è ciò che muove l'Arcadia Trio.

PRESSKIT CON FILE AUDIO> http://bit.ly/arcadiatrioPRESSKIT

CONTATTI
Amazon > https://amzn.to/2E4xUip iTunes > http://bit.ly/ARCADIATRIOitunes
Info album > http://www.ijm.it/component/music/display/796
Facebook > Leonardo Radicchi Music
Ufficio stampa > Fiorenza Gherardi De Candei info@fiorenzagherardi.com tel. 3281743236
Booking > leonardoradicchi@gmail.com - arcadiatriobooking@gmail.com tel. 320.4233404



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- Cinema

Tutto il Cinema in collaborazione con Cineuropa News

Tutto il Cinema in collaborazione con Cineuropa News

TRIESTE 2019 Premi in collaborazione con Cineuropa News.
The Delegation vince il 30° Trieste Film Festival
di Vassilis Economou

24/01/2019 - The Load si è aggiudicato il Premio Cineuropa, mentre Želimir Žilnik, Milcho Manchevski e Mirsad Purivatra hanno ricevuto premi onorari
The Delegation di Bujar Alimani.

Il Trieste Film Festival ha annunciato i vincitori della sua importante edizione del 30° anniversario, con la vittoria di The Delegation di Bujar Alimani che ha ricevuto il Premio Trieste per il miglior lungometraggio, come votato dal pubblico, e il Premio della giuria PAG. Il Premio Alpe Adria Cinema per il miglior film documentario è stato conferito ad Anja Kofmel per il suo Chris the Swiss; il premio, sempre votato dal pubblico, è anche accompagnato. Chris the Swiss ha inoltre vinto il Premio Osservatorio Balcani e Caucaso - Transeuropa. Il Premio Cineuropa, assegnato a un film partecipante allo stesso concorso, è andato al secondo lungometraggio di Ognjen Glanović, The Load.

Nella competizione Corso Salani riservata ai nuovi lungometraggi italiani, assegnato da una giuria composta da Caterina Mazzucato, Judit Pinter e Rino Sciarretta, è stato attribuito a My Home, In Libya di Martina Melilli. Inoltre, il Premio del pubblico per il miglior cortometraggio in concorso, del valore, supportato dalla Fondazione Osiride Brovedani, è andato al titolo ungherese Last Call di Hajni Kis.

Il premio onorario Eastern Star è stato conferito all'acclamato regista macedone Milcho Manchevski, mentre il direttore del Sarajevo Film Festival Mirsad Purivatra ha ricevuto il Premio Cinema Warrior. Il leggendario regista serbo Želimir Žilnik, una delle figure chiave della Black Wave jugoslava, è stato premiato con il Central European Initiative Award.

L'elenco completo dei vincitori del 30° Trieste Film Festival: Premio Trieste per il miglior lungometraggio.
The Delegation - Bujar Alimani (Albania/Francia/Grecia/Kosovo)
Premio Cineuropa
The Load - Ognjen Glanović (Serbia/Francia/Croazia/Iran/Qatar)
Premio Alpe Adria Cinema
Chris the Swiss - Anja Kofmel (Svizzera/Germania/Croazia/Finlandia)
Premio Corso Salani
My Home, In Libya - Martina Melilli (Italia)
Premio Fondazione Osiride Brovedani
Last Call - Hajni Kis (Ungheria)
Premio Sky Arte
Ruben Brandt, Collector - Milorad Krstić (Ungheria)
Premio Osservatorio Balcani e Caucaso - Transeuropa
Chris the Swiss - Anja Kofmel
Premio SNCCI per il miglior film
Phantom Thread - Paul Thomas Anderson (Stati Uniti/Regno Unito)
Premio SNCCI per il miglior film italiano
Dogman - Matteo Garrone (Italia/Francia)
Premio della giuria PAG
The Delegation - Bujar Alimani
VR Hackathon Contest
Voci di Trieste - Giulia Massolino, Anna Violato (Italia)
Premio Eastern Star
Milcho Manchevski
Premio Cinema Warrior
Mirsad Purivatra
Central European Initiative Award
Želimir Žilnik

Cineuropa Prize at the 30th Trieste Film Festival.
Ognjen Glavonić's The Load is an artistically excellent treatment of one generation's view of how its predecessors, whether actively or passively, destroyed lives and societies in the Balkans, by a first-time filmmaker who possesses the talent and creativity to transcend judgment and achieve catharsis.

CANNES 2018 Directors’ Fortnight
Review: The Load
by Vladan Petkovic

13/05/2018 - CANNES 2018: Ognjen Glavonić's first fiction feature is a stark look at a war crime from the Kosovo War and its implications, with Leon Lučev giving an amazing performance in the main role.
Serbian filmmaker Ognjen Glavonić's first fiction feature, The Load , has just world-premiered in the Cannes Directors’ Fortnight. Following up on his 2016 Berlinale Forum documentary Depth Two [+], this road drama with strong thriller elements picks up on the same subject of a war crime from the Kosovo War in 1999, during the NATO bombing of Yugoslavia.
However, while Depth Two was chock-full of information, in The Load, Glavonić forsakes it in favour of an atmospheric piece that implies much more than it shows, focusing on truck driver Vlada (Croatian star Leon Lučev), who is taking a cargo of a nature unknown to him from Kosovo to Belgrade.
From the moment Vlada picks up the truck at a compound in Kosovo until he drops it off in Belgrade, DoP Tatjana Krstevski's camera is mostly pointed at the driver in his truck cabin and his face, which tells of his inner anguish and pain in response to his situation, but also his memories and the questions that this situation is forcing him to ask himself. He does not know what it is he is transporting, but the secrecy in which he has to operate, having been told not to stop anywhere before he reaches his destination, tells him his load is not simple, everyday goods. However, Vlada has a family to feed during a war, and this is his absolute top priority.

On the way, he will pick up a teenage hitchhiker, Paja (Pavle Čemerikić), who is on his way to a better life in Germany. Paja knows the road and helps to navigate when it is blocked by a burning car. A document in a blue envelope given to Vlada by his employers quickly sends a police officer who stops them running for the hills while apologising profusely.
Paja is also a kind of stand-in for Glavonić's generation, which grew up during the war. Paja had a punk band, something that kids in Serbia were still doing in the 1990s, and he plays a song to Vlada, who has a teenage son back at home. This segment adds the crucial generational context to the film, as does a side story about a lighter given to Vlada by his father, who fought in the Second World War. But make no mistake: there is no sentimentality in Glavonić's stark and inevitably dark film. With a washed-out, grey-beige colour palette and the decaying houses, muddy soil and rusty cars strewn along the road, the tone the filmmaker goes for is very low – almost the growl of a wounded, but dangerous, animal.
Throughout the film, the war remains in the background – in the beginning, we can see the flares of anti-aircraft missiles over the hills in the distance, but we barely hear their sound. In contrast with Depth Two and its fact-based investigation of the war crime, in The Load, Glavonić gives us a picture of society and the destiny of real human beings during a war, as well as his own take on what his generation inherited from the previous one.
The greatest accomplishment of the film is how it manages to transmit all of these issues to the audience through such scarce means. And this took a very special actor in the main role: it is Lučev's almost unbelievable performance that makes the execution of Glavonić's vision not only possible, but remarkably clear.
The Load was co-produced by Serbia's Non-Aligned Films, France's Cinéma Defacto, Croatia's Kinorama and Iran's Three Garden Films. Warsaw-based New Europe Film Sales has the international rights.

CANNES 2018 Directors’ Fortnight
Ognjen Glavonić • Director of The Load
“Paths are made by walking”
by Vladan Petkovic

12/05/2018 - CANNES 2018: Serbian filmmaker Ognjen Glavonić tells us about how his first fiction feature, The Load, came into being
Serbian filmmaker Ognjen Glavonić is competing in the Cannes Directors’ Fortnight with his first fiction feature, The Load [+], which tackles a crime from the Kosovo War that he first visited in his documentary Depth Two , but in a very different way. Glavonić tells Cineuropa about how the two films came into being and influenced each other.
Cineuropa: Why did you decide to tell this particular story, and in two films? Why is it so important to you?
Ognjen Glavonić: The subject matter that I'm dealing with is still conspicuously absent from the public discourse. I wasn't curious just about the theme of the crime and the silence surrounding it; I was interested in the possibility of telling the story in what I think is an exciting way.
Depth Two came out of research I did for The Load, and it was made when I realized that it was impossible to force the huge amount of material I had found into a fiction film, because that's not where it belongs. Eventually, Depth Two changed The Load from what I had originally imagined. I modified the script and shifted the focus to other things, changing the context to avoid any repetition. I wanted this film to be a personal reflection, an amalgam of my memories and research, which often collided with each other.

I wanted to emphasize the significance of a conversation about responsibility, instead of looking for alibis and pointing fingers at the "Other". I think it's necessary for cinema to speak to, as Pasolini put it, young fascists, those who are on the way to becoming ones – to educate them, teach them, jolt them out of their delusions and crack the national mythomania. A film should be a mirror of society, whatever the reflection we get.

This film is as much about the city, government and society that I am now living in as it is about the one I grew up in. But it is also about Yugoslavia and its remains, about the lessons that we can learn from it and its dissolution, and about my growing up and experiences during the NATO bombing. Above all, this is a film about what kind of inheritance a generation leaves to the next one. It's about stories that people did not want, or were not brave enough, to tell. This is the first step through the jungle of noise and lies, and as Kafka says, paths are made by walking.

How did you arrive at this form for the film, with very little actual war in it and a focus on one character?
I never thought about The Load as a war film, and nor did I want to make an action film. For me, it was an intimate, personal drama, where we feel the consequences of the war more in the face of the main character, rather than around him. It was also always supposed to be a story about him discovering not only what’s in the back of his truck but, through that, some truths about himself as a human being.

I wanted people to get this feeling of a war being fought in the background and an overwhelming danger looming somewhere nearby. I didn’t want hundreds of different shots and camera angles; it was more important to spend time with the character and the sound of the truck, to see what he sees and to feel what he feels. Through his senses, I wanted to show how my country looked at that time, without explaining the context too much or distributing information, messages and theses. I wanted to show the metaphysical, inner journey of my character, but also a society at a very specific moment of its decay.

How did you pick Leon Lučev for the main role?
I chose Leon after I saw him portray very different characters in several good films. We started working on the movie three years before we started shooting, and the experience he brought not only to his own character and the film itself, but also to the actual shoot, gave me, a distracted young director, a sense of security. Thanks to him, I started to believe that perhaps everything would turn out fine in the end.

PREMI Spagna
Rodrigo Sorogoyen trionfa ai Feroz
di Alfonso Rivera

21/01/2019 - Il regista madrileno è stato il gran vincitore dei premi dell'Associazione degli Informatori Cinematografici di Spagna con cinque riconoscimenti ottenuti per il suo thriller politico El reino
La squadra di El reino con i suoi Premi Feroz (© Premios Feroz)
On 19 January, the city of Bilbao hosted the sixth edition of the Feroz Awards, the trophies handed out every year by the Spanish Association of Film Journalists (AICE), at which there was one man who went up on stage a total of three times: filmmaker Rodrigo Sorogoyen. His latest movie, The Realm, earned him the Awards for Best Director, Best Screenplay (which he co-wrote with Isabel Peña) and Best Drama of 2018.

In addition, his actors Antonio de la Torre, who plays the lead role (and who was absent from the ceremony), and Luis Zahera, performing in a supporting role, were triumphant in their respective categories. All in all, five Feroz Awards were bestowed upon this corruption-themed thriller that was first presented at the most recent San Sebastián Film Festival. The movie has so far grossed almost €1.5 million, and was co-produced (with France) by Atresmedia Cine and Tornasol Films, among other outfits. Gerardo Herrero, a seasoned industry professional who heads up the latter company, was clearly moved as he took to the microphone and dedicated his award to young producers. He also urged those present to continue supporting excellent films – as exemplified by two of his rivals, Carmen & Lola and Journey to a Mother’s Room.

As a matter of fact, one of the actresses in the latter film, Anna Castillo, picked up the Best Supporting Actress Award (which she dedicated to her colleague on the Celia Rico film, Lola Dueñas): the Catalonian thesp actually pulled off a double win on Saturday night, as she also collected the Feroz for Best Supporting Actress in a TV Series, Arde Madrid, produced by Movistar + and directed by Paco León, which was also considered to be the Best Comedy Series and saw its lead, Andalusia’s Inma Cuesta, pick up a gong.

Quién te cantará, the third movie by Carlos Vermut, which previously won the Feroz Award at the most recent edition of the San Sebastian Film Festival, garnered four prizes: Best Poster (designed by Vermut himself), Best Trailer, Best Soundtrack (composed by Alberto Iglesias, a musician who regularly works on the films of Pedro Almodóvar) and Best Lead Actress for Eva Llorach, who, after also scooping the Forqué Award a few days ago, is clearly on course for victory at the Goyas, which will be handed out on 2 February.

At the ceremony presented by actress Ingrid García-Jonsson – which was more entertaining and spirited than proceedings usually are at events like this, and which was fuelled by an abundance of alcohol, some savage humour and a handful of indelicate remarks – the Special Feroz Award was bestowed upon Between Two Waters, a film helmed by Isaki Lacuesta; the Honorary Feroz Award (with a huge accompanying round of applause) upon the great José Luis Cuerda (“my film teacher”, as he was described by Alejandro Amenábar, who handed him the statuette); the Best Documentary Feroz upon the film Notes for a Heist Film by León Siminiani; and the Best Comedy Feroz upon Champions by Javier Fesser. The ceremony unfolded before the gaze of around 3,000 people who attended the gala, plus guests such as the mayor of Bilbao, Juan Mari Aburto, the director of the ICAA, Beatriz Navas, and the president of the Spanish Academy of Film Arts and Sciences, director Mariano Barroso (who, incidentally, was nominated for his TV series El día de mañana).

Here is the full list of film award winners:
Best Drama
The Realm – Rodrigo Sorogoyen (Spain/France)
Best Comedy
Champions – Javier Fesser
Best Director
Rodrigo Sorogoyen – The Realm
Best Lead Actress
Eva Llorach – Quién te cantará [+] (Spain/France)
Best Lead Actor
Antonio de la Torre – The Realm
Best Supporting Actress
Anna Castillo – Journey to a Mother’s Room (Spain/France)
Best Supporting Actor
Luis Zahera – The Realm
Best Screenplay
Isabel Peña and Rodrigo Sorogoyen – The Realm
Best Documentary
Notes for a Heist Film – León Siminiani
Best Original Score
Quién te cantará – Alberto Iglesias
Best Trailer
Miguel Ángel Trudu – Quién te cantará
Best Poster
Carlos Vermut – Quién te cantará
Special Feroz Award
Between Two Waters – Isaki Lacuesta (Spain/Switzerland/Romania)
Honorary Feroz Award
José Luis Cuerda

Emir Kusturica • Fondatore e regista del Küstendorf Film and Music Festival.
"Non c'è modo per i film che amo di avvicinarsi al pubblico, essere artistici e commerciali allo stesso tempo"
di Bénédicte Prot

24/01/2019 - Cineuropa ha incontrato Emir Kusturica durante il 12° Küstendorf Film and Music Festival per discutere le sue preoccupazioni sul futuro del cinema
At the 12th Küstendorf Film and Music Festival, Cineuropa met up with its founder and head, Serbian director Emir Kusturica, to talk about several recent phenomena that need to be acknowledged, and how they may affect the future of the cinema.

Cineuropa: At this year’s edition of Küstendorf, the motto of which ("The perfect dozen") is all about perfection, in your inaugural speech, you voiced quite a few concerns.
Emir Kusturica: Those are the questions and themes that I think are relevant to the continuation of the cinema today. I am positive that the cinema is going to survive. The only thing is that we don't know in which way, and for those people who are very attached to theatres, as I am, it is unsettling to see that the future of film is home cinema, movies on television or cineplexes, and that we are going to lose this kind of passion, or that it will be killed off by the market. This is why festivals are important: they will remain the principal supporter of the classical way of screening films. Even the language of the auteurs now seems to be compromising, visually and formally, between the theatrical format and the fact that a film will be watched on other screens.

You talked about the electronic image, scrolling and ads as worrisome adversaries for the cinema. Small-screen-native content in general seems to have imposed a more linear and simplistic type of narration.

Ads are awful because they kill the perception of time, and if you look at good movies like Dogman or Happy as Lazzaro [screened as part of the Contemporary Trends programme and followed by workshops], you can see that they operate with time, in two different ways. The style of a great director is in fact defined by the way they work with space and time. Unfortunately, I don't know to what extent these films will succeed in cinemas. Today, I don't believe that you can make it when you’re up against all the movies that are produced for multiplexes, unless you have a stupid Hollywood-type story conceived to please the masses worldwide, supported by aggressive advertising to create that audience.

The language of commercial cinema has been simplified, and the length of time that every artist has to reach the audience is short. Take the French-Belgian movie we screened here, Close Enemies: what a good film! I was amazed when I saw it! And also shocked, because for me, this incredible film is as close as it gets to having the best possible chance of reaching a huge audience, and yet it didn't reach it, and this is a dangerous sign for the future. More and more movies will get made as time goes on, but unfortunately, more and more good movies will go undiscovered. Back in 1985 and 1995, when I presented movies at Cannes, it was possible to be well received both by the critics and in theatres, but it is difficult to gain acceptance from both nowadays.

So there was a rift? Do you see a glimmer of hope that this situation will be resolved in years to come?
What I have noticed is that there is no way for the movies I love the most to get close to the audience, to be artistic and commercial at the same time. Now the public is divided: auteur and mainstream films are two separate things. Zhang Yimou recently told me, "I've just done a commercial movie; now I'm going back to art." When I was growing as a filmmaker, the best approach was to combine both, but today I don't think it's possible. The problem, with human history as well as culture, is that however clear your vision of the conditions that the future will be built on may be, you cannot predict it. The way cinema will develop cannot be predicted, especially not on the basis of the good movies that you see. What dominates is the cinema that people accept and, in a way, expect. An American sociologist named Stark said something that made a big impression on me: that the perfection of the image has been substituted for God, and that we are not moving towards a holy trinity, but rather towards ourselves. We have become part of an ideology, or part of an advertisement of some kind.

In spite of it all, you ended your speech with a universal, simple and pure definition of what a good film is: one that speeds up the heart rate.
I mentioned I was amazed and in shock after seeing Close Enemies, but Happy as Lazzaro, too, is the work of a very talented director, influenced by the best traditions from different periods in Italian cinema: Antonioni, Rossellini, De Sica, with his need to show that there are, in this world, some people who are so good that they are invincible, and could be the heroes of our time. The perfection of this film lies in Alice Rohrwacher's political engagement and her ideas about life, which are very strong.

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- Cinema

Accade al Cinema con Cineuropa News


Accade al Cinema by Cineuropa News.

PRODUZIONE Italia
Un’Avventura per Marco Danieli sulle note di Lucio Battisti
di Camillo De Marco

16/01/2019 - Laura Chiatti e Michele Riondino alle prese per la prima volta con un musical. Nelle sale italiane a San Valentino, il 14 febbraio con 01 Distribution
Mai prima d’ora le celeberrime canzoni di Lucio Battisti e Mogol erano state protagoniste al cinema. Sarà ora possibile ascoltarle nel secondo film di Marco Danieli, giovane regista che si era fatto notare nel 2016 con La ragazza del mondo, Miglior Opera Prima ai Gobi d’Oro italiani, Miglior regista esordiente ai David di Donatello 2017 e premiatissimo nei numerosi festival a cui ha partecipato. Il titolo del film, prodotto da Fabula Pictures di Nicola e Marco De Angelis e Lucky Red con Rai Cinema, è Un’Avventura, come l’omonima canzone uscita nel gennaio del 1969. E negli Anni 70 è ambientato il film, interpretato da Laura Chiatti e Michele Riondino, alle prese per la prima volta con un musical, protagonisti di una storia d’amore struggente e universale.

Sulle note dei più grandi successi musicali di Battisti e Mogol, Matteo (Michele Riondino) e Francesca (Laura Chiatti) scoprono l’amore, si perdono, si ritrovano, si rincorrono, ognuno inseguendo il proprio sogno: lei vuole essere una donna libera, lui vuole diventare un musicista. Francesca gira il mondo per cinque anni, mentre Matteo rimane a scrivere canzoni d’amore. Quando Francesca ritorna porta con sé il vento di cambiamento degli anni 70, fatto di emancipazione, progresso ed evasione. I due si ritrovano e il loro amore rinasce più forte di prima, ma la loro storia seguirà sentieri inaspettati.

Le coreografie del film sono state realizzate da Luca Tommassini, uno degli art director italiani più apprezzati, che ha lavorato con grandi star della musica e dello spettacolo come Madonna e Kylie Minogue, ed è conosciuto al pubblico televisivo per X Factor Italia. La sceneggiatura del film è di Isabella Aguilar, la fotografia di Ferran Paredes Rubio, il montaggio di Davide Vizzini, la scenografia di Giada Calabria, i costumi di Catia Dottori, le musiche di Pivio e Ando De Scalzi. Il film arriverà nelle sale italiane a San Valentino, il 14 febbraio con 01 Distribution. Le vendite internazionali sono affidate a True Colours, che a dicembre scorso ha partecipato a Parigi ad una sessione di Work In Progress, riservata ai compratori, nell’ambito degli Incontri del Cinema Italiano “De Rome à Paris”.

FESTIVAL Francia / Italia
10 opere italiane inedite in Francia in programma a "De Rome à Paris"
di Fabien Lemercier

03/12/2018 - Dal 7 all'11 dicembre si terrà l'11ma edizione di un evento che mette in vetrina alcuni lungometraggi italiani ancora senza distribuzione francese
Con sempre maggior successo e le sale dell'Arlequin piene, gli Incontri del cinema italiano "De Rome à Paris" organizzati a Parigi dall'ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche, Audiovisive e Multimediali) in collaborazione con l'Istituto Luce Cinecittà, l’UNEFA (esportatori di film), ICE (Istituto per il Commercio Estero), l'Ambasciata italiana e l'Istituto di cultura italiana, con il sostegno del Ministero della Cultura italiano e con partner il CNC e UniFrance, vedrà la sua 11ma edizione svolgersi dal 7 all'11 dicembre a Parigi, con un giorno in più in programma.

Nel menù dell'evento intitolato "De Rome à Paris" ci sono 11 film: 10 ancora senza distribuzione francese ed Euforia di Valeria Golino (scoperto a Cannes, al Certain Regard, e che sarà lanciato il 20 febbraio nelle sale francesi da Paname Distribution). Da notare anche, in anteprima e a chiusura della manifestazione, i primi due episodi della serie televisiva L'amica geniale, un adattamento della famosa saga di romanzi best-seller mondiali di Elena Ferrante, che erano stati anche presentati in prima mondiale alla Mostra di Venezia.

Tra gli altri dieci film inediti in cartellone spiccano altri tre titoli passati per Venezia: Un giorno all’improviso [+] di Ciro d’Emilio e la commedia La profezia dell’armadillo [+] di Emanuele Scaringi, che avevano avuto la loro première al Lido nella sezione competitiva Orizzonti, e Il ragazzo il piu felice del mondo di Gianni Pacinotti (aka Gipi) che era selezionato nel programma Sconfini. Il programma include inoltre due lungometraggi presentati a Locarno: Menocchio di Alberto Fasulo (ammirato in competizione) e Sembra mio figlio di Costanza Quatriglio (fuori concorso).

In cartellone figurano infine Fiore gemello di Laura Luchetti (selezionato a Toronto), le commedie Benedetta follia di Carlo Verdone (che sarà proiettato in apertura della manifestazione) e Metti la nonna in freezer [+] del duo Giancarlo Fontana - Giuseppe Stasi, così come due film di cineasti ben affermati sulla scena europea: Nome di donna di Marco Tullio Giordana e Napoli velata di Ferzan Ozpetek.
L’evento sarà preceduto dagli incontri professionali (leggi la news) con un Work In Progress, un mercato di coproduzione e una conferenza sulla cooperazione franco-italiana.

FESTIVAL Italia
Sudestival, a Monopoli otto opere prime italiane in concorso
di Camillo De Marco

17/01/2019 - Dal 25 gennaio la 20ma edizione della rassegna che si articolerà nella città pugliese nell’arco di 10 weekend. Tra le novità la sezione Sudestival Doc
Sarà l’ospite d’onore Pupi Avati, che festeggia i sui 50 anni di cinema, ad inaugurare venerdì25 gennaio la 20ma edizione di Sudestival, rassegna diretta da Michele Suma che si articolerà nella città pugliese di Monopoli nell’arco di 10 weekend, fino al 30 marzo 2019. La giornata di sabato 26 gennaio sarà interamente dedicata agli eventi speciali, con la proiezione di Chi scriverà la nostra Storia, docufilm della regista Roberta Grossman prodotto da Nancy Spielberg, che uscirà nelle sale italiane ed europee il giorno successivo, inomaggio alla Giornata della Memoria. Seguirà la proiezione di Ride, esordio alla regia dell’attore Valerio Mastandrea presentato all’ultimo Torino Film Festival. Mastandrea e l’attrice protagonista Chiara Martegiani saranno presenti in sala per incontrare il pubblico.

L’ormai consolidato Concorso Lungometraggi vede protagoniste otto opere prime italiane, tutte accompagnate in sala da autori, registi e attori. Venerdì 1 febbraio aprirà la gara il road-movie In viaggio con Adele di Alessandro Capitani, che vede protagonisti Sara Serraiocco e Alessandro Haber, mentre il 22 marzo chiuderà Un giorno all’improvviso di Ciro D’Emilio, presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Tra le opere in concorso anche il film di 2015 Asino Vola, esordio alla regia dell’attore Marcello Fonte (pluripremiato protagonista di Dogman) e codiretto da Paolo Tripodi; Zen sul ghiaccio sottile di Margherita Ferri; Beate di Samad Zarmandili, commedia che vede protagonista Donatella Finocchiaro. Saranno presentati in anteprima anche due film mai usciti in sala: La Fuga, esordio al lungometraggio della regista Sandra Vannucchi, con Donatella Finocchiaro e Filippo Nigro, che racconta la storia di una ragazzina (Lisa Ruth Andreozzi) che scappa di casa per visitare Roma e del suo incontro con una coetanea rom, e La partita del regista Francesco Carnesecchi, con Francesco Pannofino, Alberto Di Stasio e Giorgio Colangeli.

Tra le novità, Giornata Gemellaggio Italia-Armenia e la sezione Sudestival Doc, competitiva, con otto titoli selezionati dalla più recente produzione italiana. A inaugurare la sezione, il documentario presentato alla 75^ Mostra del Cinema di Venezia Arrivederci Saigon di Wilma Labate. Fabio Martina torna al Sudestival con il nuovo docu-film L’estate di Gino, su Don Gino Rigoldi, cappellano dell’Istituto di Detenzione Minorile di Milano Beccaria. Il terzo appuntamento è con Una gloriosa delegazione a Pyongyang di Pepi Romagnoli, si prosegue con La regina di Casetta di Francesco Fei, 1938 - Diversi di Giorgio Treves con Roberto Herlitzka, L’estate più bella di Gianni Vukaj, Il clan dei ricciai di Pietro Mereu, per concludere con Camorra di Francesco Patierno.

FILM Italia
Recensione: L’agenzia dei bugiardi
di Vittoria Scarpa

17/01/2019 - Volfango De Biasi riadatta liberamente il successo francese Alibi.com per una gradevole commedia degli equivoci che gioca con le bugie e l’arte dell’inganno
Al suo decimo lungometraggio da regista, tra fiction di vario genere e documentari (tra cui Crazy for Football, premiato con il David di Donatello), Volfango De Biasi conferma la sua abilità nell’intessere action comedy dinamiche e brillanti, così come è stato per la sua triade natalizia composta da Un Natale stupefacente, Natale col boss e Natale a Londra – Dio salvi la regina. Il suo nuovo film, L’agenzia dei bugiardi, non esce a Natale ma poco dopo (e ad appena tre mesi dal romantico e non riuscitissimo Nessuno come noi), ed è un libero adattamento della fortunata commedia francese di Philippe Lacheau Alibi.com, “meno giovanilistico rispetto all’originale e più incentrato sulla storia d’amore”, secondo il regista che ha riscritto la sceneggiatura con Fabio Bonifacci (Loro chi?). Una commedia degli equivoci, tra il sentimentale e il demenziale, dal ritmo incessante e scorretta al punto giusto, che gioca con le bugie e l’arte dell’inganno.

“Meglio una bella bugia che una brutta verità” è il motto della diabolica agenzia Sos Alibi diretta dal bel Fred (la star di Ammore e malavita Giampaolo Morelli), specializzata nel coprire le menzogne dei propri clienti infedeli fornendo ingegnosi alibi su misura. Con l’aiuto dell’esperto di tecnologia Diego (Herbert Ballerina) e del neo assunto Paolo (Paolo Ruffini), Fred ha una soluzione rapida per ogni caso, a colpi di travestimenti, documenti falsi, depistaggi sui social e molto altro. La situazione però si complica quando si innamora di Clio (Alessandra Mastronardi), giurista e paladina della verità, che si rivela essere anche la figlia di uno dei clienti dell’agenzia, ossia Alberto (Massimo Ghini), il quale ha urgente bisogno di coprire una scappatella con la sua amante aspirante rapper Cinzia (Diana Del Bufalo, attualmente nelle sale anche in Attenti al gorilla) proprio nel giorno del suo anniversario di matrimonio con Irene (Carla Signoris). Per uno scherzo del destino, si ritroveranno tutti in vacanza insieme nello stesso resort, e le bugie da inventare saranno infinite.

Tradimenti, sotterfugi, scambi d’identità e di stanze d’albergo: il film vira presto verso la pochade e situazioni un po’ da cinepanettone, ma gli incastri tra i personaggi funzionano e gli espedienti pittoreschi che di volta in volta vengono trovati per ingannare strappano più di un sorriso (vuoi far credere alla tua fidanzata che sei in Senegal? Mettiti sotto una palma accanto a un venditore ambulante nero per una videochiamata, oppure vai allo zoo e fatti una foto con una zebra, ed è fatta). Nonostante qualche gag irrilevante ai fini della trama (la narcolessia di Paolo, ad esempio, così come l’ingiustificato sviluppo del suo rapporto con il collega Diego), il film intrattiene per i suoi 100 minuti di durata con leggerezza e fantasia, un tocco surreale e un azzeccato cast di attori, tra cui si segnala anche Paolo Calabresi, nel ruolo dell’accorato amico di famiglia abbandonato dalla moglie e custode di torbidi segreti, e il simpatico cameo della rockstar italiana Piero Pelù nei panni di se stesso.
L’agenzia dei bugiardi, prodotto da Picomedia in collaborazione con Medusa Film, e con il contributo di Regione Puglia e Regione Lazio, esce in Italia oggi, 17 gennaio, distribuito da Medusa in 400 copie.

PRODUZIONE Italia
Volfango De Biasi 'Bugiardi'
di Camillo De Marco

Scritto dallo stesso regista con Fabio Bonifacci, il film è interpretato da Giampaolo Morelli, Massimo Ghini, Alessandra Mastronardi, Paolo Ruffini, Carla Signoris, Herbert Ballerina, Diana Del Bufalo, Paolo Calabresi, Antonello Fassari e Raiz. La commedia racconta del seducente Fred (Giampaolo Morelli), l’esperto di tecnologia Diego (Herbert Ballerina) e l'apprendista narcolettico Paolo (Paolo Ruffini) sono i componenti di una diabolica e geniale agenzia che fornisce alibi ai propri clienti e il cui motto è “ Meglio una bella bugia che una brutta verità.” Fred si innamora di Clio (Alessandra Mastronardi), paladina della sincerità a tutti i costi, alla quale quindi non può svelare qual è il suo vero lavoro. La situazione si complica quando Fred scopre che il padre di Clio, Alberto (Massimo Ghini) è un suo cliente, che si è rivolto all’agenzia per nascondere alla moglie Irene (Carla Signoris) una scappatella con la sua giovane amante Cinzia (Diana Del Bufalo). Accidentalmente, per una distrazione di Alberto, si ritroveranno in vacanza tutti insieme: Carla, Clio, Alberto e Cinzia in una situazione esplosiva.

Prodotto da Roberto Sessa per Picomedia in collaborazione con Medusa Film, L'Agenzia dei bugiardi ha ricevuto il contributo di Apulia Film Fund di Regione Puglia e il sostegno di Apulia Film Commission e sarà distribuito da Medusa Film.

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- Società

Bla, bla, bla … la compagnia dei somari.

Bla, bla, bla … la ‘Compagnia dei Somari’.

Brividi d’immoralità quando ci aspettavamo sussulti di moralità, destabilizzazione al posto dell’ordine, eversione in opposizione al pacifismo, sussulti di rinnovato razzismo, ma forse siamo stati troppo ingenui nel pensare che un gruppo di selvaggi fuoriusciti dai banchi di scuola, quella scuola atea e anarchica da cui già i loro professori prendevano le mosse nel lontano‘68 / ’70, incuranti di guardare con un più ampio spettro oltre il proprio naso e fregarsene delle conseguenze che a medio-lungo raggio si sarebbero avute in ogni campo. Ci si aspettava un’esplosione di democrazia e sovranità popolare (non il populismo) e siamo qui a sventolare bandiere di assolutismo gretto e facinoroso. La retrocessione culturale è avanzata a passi da gigante a spese delle professionalità più operose, dell’economia generale, della giustizia, dei servizi essenziali come la sanità, la scuola, il mondo del lavoro ridotto ai minimi termini.

Sì, ci si aspettava un ‘manuale di ritrovata armonia’ politica ed assistiamo a zuffe d’ogni conto, degne di stadi e osterie, a baruffe diverbiali dove ogni fazione coglie il prestesto per dire male dell’altra, sputarsi in faccia le riproposte malefatte che né da una parte, né dall’altra, hanno ragione di essere. Ma è sempre stato così, dice qualcuno, che dalla ragione si passa al torto, soprattutto quando si vuole strafare e il torto diventa endemico, come in questo caso in cui oltre a far esplodere l’Italia, assistiamo alla depauperazione dell’Europa tutta. Miopia se non addirittura cecità della ‘compagnia dei somari’ imperanti che non hanno una visione d’insieme e arrancano come su di una scacchiera dalla luce al buio e viceversa, senza riuscire a scansare di sbattere la testa al primo spigolo che gli si pone davanti, nel nome di una ragione di stato che ripete una solfa stantia come ‘il popolo tutto ce lo chiede’, ‘facciamo gli interessi degli italiani’, ecc.

Basta! Non ci siamo, ma a questo punto il cambiamento deve avvenire, è un imperativo che richiede una certa accelerazione altrimenti non si sa dove andiamo a finire. Basta con le urne parlamentari ‘a scrutigno segreto’, che ognuno metta la propria faccia e la propria firma sulle leggi che vengono emanate non ‘sulla fiducia’ ma a pieno titolo, se non altro tenendo conto del fatto che nessuono ha raggiunto una ‘maggioranza elettorale’ degna di questo titolo; e che, al dunque, si compongano le commissioni di lavoro formate da tutte le forze in campo, e su base costruttiva, degna di un paese moderno, civile e democratico. Basta con ‘le regioni a statuto speciale’, con i ‘diritti’ v/s ‘doveri’ differenziati, e di leggi che permettono di ‘farla franca’ a soprusi inauditi di territorialità, di competenze amministrative, di ordine pubblico che richiede interventi sempre ‘speciali’ come se tutto il paese fosse impegnato in una guerra costante e infinita.

Sappiamo che ‘il buon senso’ spolverato a più non posso nei talkshow nostrani è solo una frase fatta e utilizzata ad ogni pié sospinto da quanti vi prendono parte: politologi e intellettuali menagramo, politici improvvisati indegni di poter fare gli amministratori di condominio, illetterati incapaci di esprimersi finanche in italiano corretto, fantocci che non hanno diritto di ‘firma’ delle leggi che emanano e che vengono regolarmente ‘dictate’ da qualche ‘mente esterna’ alla giurisdizione parlamentare ecc. ecc. Possibile non ci si renda conto delle carenze di questa pletora d’improvvisatori da ‘mercato rionale’, di arrampicatori sociali senza arte né parte, che non possono fare altro che creare ‘danni irreparabili’ che a medio/lungo termine porteranno al disastro totale l’intero paese Italia? Perché diciamocelo, come sempre dice qualcuno, volenti o nolenti siamo un ‘paese liquido’ (non di liquidità come vogliono farci credere), ma di dubbi interessi economici per i mercati esteri. E qui le domande sul come e perché si sprecherebbero.

Tuttavia, per voler restare coi piedi per terra, possiamo pur dire che non ci mancano le risorse di cervelli competenti che potremmo utilizzare se, addirittura, li esportiamo all’estero; di edificatori capaci in grado di ‘pensare’ e mettere in piedi una società di diritto in grado di risolvere le ambigue questioni territoriali, faziose e obsolete che si potrebbero estirpare in breve, tali che basterebbe volerlo. Il problema è che ‘non lo si vuole’, perché fa comodo a entrambi ‘da una parte e dall’altra’ della barricata poter sollevare il ‘popolo’ in una guerra di biechi quanto sporchi interessi di parte. Ed alla fine dei ‘giochi’, perché di giochi di potere si tratta, non vi saranno né vinti né vincitori, ma saremo tutti disillusi dagli ideali imperanti, più poveri e malmessi di fronte a una Europa in frantumi.

Se queste sono le premesse, il ‘medioevo futuro’ non è poi così lontano, aspettiamoci il ritorno della barbarie più agguerrita e violenta di prima, gli Unni, i Lanzichenecchi, gli Ottomani, gli Emirati, ognuno per un desiderio di supremazia che ben conosciamo, vorranno impossessarsi dei nostri tesori d’arte, distruggere la nostra cultura, affrancarci al servilismo dei poteri economici imperanti che hanno già acquisito/acquistato tutte le nostre aziende manifatturiere, le raggiunte alte tecnologie scientifiche e meccaniche, agro alimentari, le programmate distribuzioni dei prodotti su scala mondiale, finanche le nostre ‘acque sorgive’ trasformate in multinazionali delle acque minerali. Possibile non ci si chieda a quale ‘entità’ potremmo rivolgerci infine, se non a quel ‘pezzo grosso’ del Padreterno stesso, affinché getti un occhio benevolo su di noi diseredati.

Nell’oscurità del ‘medioevo futuro’ di certo non basterà il calendario con tutti i Santi agli sproloqui che s’eleveranno al cielo contro i futuri ‘reucci’ della politica, i ‘conti’ da strapazzo, e i ‘marchesi’ della pezza, che vediamo ridere da ebeti sugli schermi TV. Ma poiché la storia non perdona e al dunque presenta il conto, stiano attenti a non ridere troppo forte che le risa infine sgorgano in lacrime e le frasi abbandonate al vento somigliano sempre più a rabbiosi ragli di somari, e i somari che ragliano troppo prima o poi finiscono sempre bastonati.

Alla prossima puntata.





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- Cinema

Torna Cinesophia , un evento!

IL 18 E IL 19 GENNAIOIL PROGRAMMA DI CINESOPHIA
Al TEATRO VENTIDIO BASSO DI ASCOLI PICENO
INGRESSO GRATUITO.

“Utopia e Distopia” è il tema delle due giornate di Cinesophia, il festival sulla “popsophia del cinema” organizzato dall’Associazione culturale Popsophia, che si terrà venerdì 18 e sabato 19 gennaio al Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno: l’apparente perfezione dell’utopia e i mostruosi incubi della distopia rappresentati dall’universo cinematografico, saranno indagati attraverso conferenze, proiezioni e spettacoli filosofico musicali alla presenza di giornalisti, filosofi e artisti di spicco del panorama nazionale.

La presenza al festival rientra nell’attività riconosciuta dall’Ufficio Scolastico Regionale come valida ai fini dell’aggiornamento dei docenti (DDG 1329 - 7, settembre, 2018). Per gli studenti la presenza agli appuntamenti decreterà l’acquisizione di crediti formativi e di ore di alternanza scuola lavoro.
INGRESSO LIBERO E GRATUITO
Ti aspettiamo su www.popsophia.it

IL PROGRAMMA COMPLETO:

VENERDÌ 18 GENNAIO

Gli incontri hanno valore di aggiornamento per gli insegnanti (DDG 1329 7 settembre 2018)
e di credito formativo per gli studenti.

Ore 16.00
INAUGURAZIONE E SALUTI AUTORITÀ
con Guido Castelli e con Donatella Ferretti

16.30 CINESOPHIA
L’ALBA DELLE MACCHINE VIVENTI
da Blade Runner a Black Mirror con Tommaso Ariemma

17.30 PHILOFICTION
IL 1984 NON SARÀ COME “1984” videodistopie con
Alessandro Alfieri

18.30
LECTIO POP - FILOSOFIA ALLA FINE DEL MONDO
pensare con la saga “The Terminator” con
Simone Regazzoni

19.30
Un calice - Degustazione dei prodotti Gela e vini della
Cantina Borgo Paglianetto

21.30 PHILOSHOW
FUGA DALLA LIBERTÀ
da “Metropolis” a “Il racconto dell’ancella”
spettacolo filosofico-musicale ideato e diretto da Lucrezia Ercoli
intervengono Adriano Fabris e Andrea Minuz
ensemble musicale Factory
voce recitante Pamela Olivieri
regia tecnica Riccardo Minnucci
regia e video Marco Bragaglia

SABATO 19 GENNAIO
Gli incontri hanno valore di aggiornamento per gli insegnanti (DDG 1329 7 settembre 2018)
e di credito formativo per gli studenti.

SCATTI PREZIOSI
di Giuseppe Di Caro
Un omaggio all’arte cinematografica. Nel foyer del Teatro Ventidio Basso, durante
le giornate di Cinesophia, viene allestita una esposizione di scatti d’autore
dedicati ai grandi protagonisti del cinema italiano. Opere dell’archivio del
fotografo Giuseppe De Caro, uno straordinario Cartier Bresson ascolano. Dopo
aver immortalato per anni le bellezze di Miss Italia, nel 2006 Gian Luigi Rondi lo
arruola come fotografo del prestigioso premio David di Donatello. Una piccola
selezione a Cinesophia dei suoi ritratti in ricordo di una stagione importante della
cultura e del cinema del Novecento.

ALESSANDRO ALFIERI
Dottore di ricerca in Filosofia e pubblicista, insegna Teoria e metodo dei mass media presso
l’Accademia delle Belle Arti di Roma. Collabora con diverse testate. Tra i suoi libri “Vasco, il
Male. Il trionfo della logica dell’identico” (2012); “Musica dei tempi bui. Nuove band italiane dinanzi alla catastrofe” (2015); “Il cinismo dei media. Desiderio, destino e religione dalla pubblicità
alle serie tv” (2017); “Dal simulacro alla storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino” (2018);
“Lady Gaga. La seduzione del mostro” (2018).

TOMMASO ARIEMMA
Ha insegnato Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, ora insegna storia e filosofia nei
licei. Tra le sue pubblicazioni più recenti: “Canone inverso. Per una teoria generale dell’arte” (2014), “Sul filo del rasoio. Estetica e filosofia del taglio” (2014), “Anatomia della bellezza. Cura di s. arte, spettacolo da Platone al selfie” (2015), “Niente resterà intatto, introduzione non convenzionale alla filosofia” (2016), “La filosofia spiegata con le serie tv” (2018).

ANGELA AZZARO
Giornalista, femminista, buonista. È nata a Nuoro 52 anni fa. Si è laureata in storia e critica del
cinema all’università Cattolica di Milano. Non è più certa, come un tempo, di preferire Godard a
Truffaut, Buster Keaton a Chaplin, Antonioni a Fellini. Ha lavorato per i quotidiani Liberazione, Gli Altri (poi settimanale), Il Garantista, Il Dubbio. Tra i libri che non ha mai scritto ma avrebbe voluto scrivere “Fenomenologia di una spettatrice”. Detesta il giustizialismo.

RICCARDO DAL FERRO
Filosofo, scrittore ed esperto di comunicazione e divulgazione. Direttore delle riviste di filosofia
contemporanea Endoxa e Filosofarsogood, porta avanti il suo progetto di divulgazione culturale attraverso il suo canale Youtube “Rick DuFer” e lo show podcast “Filosofarsogood”. Performer ed autore teatrale, insegna scrittura creativa presso la scuola da lui fondata a Schio (VI) “Accademia Orwell”. Nel 2014 esce il suo romanzo d’esordio “I Pianeti Impossibili” e nel 2018 esce il suo nuovo saggio filosofico “Elogio dell’idiozia”.

LUCREZIA ERCOLI
Dottore di ricerca in filosofia presso l’Università Roma Tre. Docente di “Storia dello spettacolo
e filosofia del teatro” presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria e di “Storia della
televisione” e “Filosofia dell’arte” presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. È direttrice
artistica di Popsophia dal 2011. Editorialista presso diversi quotidiani nazionali, è direttrice
editoriale della rivista “PopMag”. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Filosofia della crudeltà.
Etica ed estetica di un enigma” (2015); “Filosofia dell’Umorismo” (2016); “Che la forza sia con te!
Esercizi di popsophia dei mass media” (2017).

ADRIANO FABRIS
Professore ordinario di Filosofia morale all’Università di Pisa dove insegna Filosofia
delle religioni ed Etica della comunicazione; attualmente dirige la rivista “Teoria” e le collane
“Parva Philosophica” e “Comunicazione e oltre” presso le Edizioni ETS di Pisa. Tra le sue ultime
pubblicazioni sui temi della pop filosofia: “Etica delle nuove tecnologie” (2012); “Fiction mortale:
CSI – Crime Scene Investigation” (2014) e “Twitter e la filosofia” (2016).

INTERVENGONO
IVO GERMANO
Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università del Molise e titolare
di ‘T@ginBo’ rubrica quotidiana di prima pagina dell’edizione locale del Corriere della Sera. Si
occupa di cose inutili come il dono, lo sport, i piccoli e grandi tic delle strutture simboliche
dell’immaginario nei social media. Ha parlato e scritto di sociologia pop in tempi non sospetti con:
“Barbie. Il fascino irresistibile di una bambola leggendaria” (2000); “New Gold Dream e altre
storie degli anni Ottanta” (2013); “Aside Story. La fatica delle vacanze” (2017).

ANDREA MINUZ
Professore associato di Storia del Cinema presso l’Università di Roma La Sapienza. Dottore di
ricerca in “Il cinema nelle sue interrelazione con il teatro e le altre arti” all’Università Roma Tre.
È membro del comitato scientifico della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro
e direttore artistico del Sapienza Short Film Fest. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Viaggio
al termine dell’Italia. Fellini politico” (2012); “L’attore nel cinema italiano contemporaneo.
Storia, performance, immagine” (2017).

SALVATORE PATRIARCA
Dottore di ricerca in filosofia all’Università di Roma “La Sapienza” e responsabile editoriale
del portale “Salute24” de “Il Sole 24 ore”. È direttore responsabile della rivista “PopMag”.
Autore di numerosi testi dedicati all’analisi filosofica di fenomeni televisivi e cinematografici
da “Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi e la televisione” (2012) a “The walking dead o il
male dentro” (2013) fino al suo ultimo “Digitale quotidiano. Così si trasforma l’essere umano”
(2018).

SIMONE REGAZZONI
Allievo di Jacques Derrida, direttore della casa editrice “Il Melangolo” e docente presso
l’Università di Pavia. È autore di diversi saggi sul rapporto tra filosofia e fenomeni di massa da “La
filosofia di Lost” (2009) a “Ti amo filosofia come dichiarazione d’amore” (2017). È autore di due
romanzi “Abyss” (2014) e “Foresta di Tenebra” (2017). Nel 2018 è in libreria con due nuovi
saggi “Iperomanzo. Filosofia come narrazione complessa” e “Jacques Derrida. Il desiderio della
scrittura”.

PIERO SANSONETTI
Giornalista di politica italiana e di esteri. Inizia a l’Unità nel 1975, prima come cronista, poi come
notista politico, caporedattore, vicedirettore e codirettore. Corrispondente fino al 1996 dagli
Stati Uniti. Dirige poi Liberazione e collabora con Il Riformista. Nel 2010 conduce Calabria Ora.
Lavora anche alla nascita del quotidiano Gli Altri e di Cronache del Garantista. Sempre ispirato al
garantismo, direttore della prestigiosa testata giornalistica Il Dubbio, che fa capo al Consiglio
Nazionale Forense.

PATROCINI:
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
COLLABORAZIONI CULTURALI
Istituto d’Istruzione Superiore “Celso Ulpiani”
Istituto d’Istruzione Superiore “Mazzocchi – Umberto I”
Istituto d’Istruzione Superiore “E. Fermi – Sacconi - Ceci””
Istituto d’Istruzione Superiore “Orsini - Licini”
Liceo Classico “Stabili”
Istituto Paritario Liceo delle Scienze Umane “Tecla Relucenti”
ISC Ascoli Centro
ISC Borgo Solestà
ISC Luciani-SS Filippo e Giacomo
ISC Don Giussani
ISC Villa S. Antonio

CONTRIBUTI:
Arianna Berroni, Veronica Damiani, Pierandrea Farroni, Giulia Lazzari,
Giandomenico Lupi, Francesco Macarra, Maria Chiara Lorenzini,
Angela Angelini Marinucci, Cinzia Maroni, Barbara Pennacchietti, Lorena Rossi,
Silvia Ruggeri, Carla Sagretti, Vando Scheggia, Dolly Tempera, Sofia Tomassoni,
Viola Vanella.

#cinesophia19 #popsophia19

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- Libri

4 Christmas happiness / natale con voi - libri, relax

4 CHRISTMAS HAPPINESS / NATALE CON VOI

In cerca del regalo perfetto da fare agli altri (soprattutto a se stessi): qualche libro, un certo evento, quanto basta di poesia, qualche mostra, forse un concerto, e un po’ di cinema (q. b.) e perché no un viaggio o una sosta in un ‘maso’ di montagna per un sicuro periodo di relax? Il resto suggeritelo Voi lettori … in fondo il Natale è anche Vostro, o no?

Ɣ - “Novità dall'agriturismo in Alto Adige”, quando le giornate si accorciano, nei masi altoatesini torna la- tranquillità. Durante questo periodo dell'anno i contadini trovano finalmente il tempo per tessere, lavorare il feltro, scolpire e intagliare. Se un tempo le materie prime locali servivano a realizzare gli strumenti di lavoro e gli abiti di tutti i giorni, oggi queste vengono invece utilizzate dai contadini per esprimere la loro creatività: pezzi di legno diventano sculture, gomitoli di lana assumono le sembianze di borse di feltro e rami di vite si trasformano in lampade di design. In questo modo si cerca di preservare il tradizionale artigianato contadino. I 10 artigiani contadini del marchio di qualità "Gallo Rosso" creano pezzi unici a partire da materie prime locali, come lana e legno.

Il Natale è alle porte e nella nuova edizione della brochure "Artigianato contadino" troverete sicuramente moltissime idee regalo! Artigianato contadino - Preziosi esemplari unici dall’Alto Adige. Si può richiedere il catalogo gratuito all’indirizzo che segue:
Gallo Rosso | Südtiroler Bauernbund
Via C. M.-Gamper 5 | I-39100 Bolzano/Alto Adige
Tel. 0039 0471 999325 | Fax 0039 0471 981171
info@gallorosso.it | www.gallorosso.it

Ɣ- Cercavate un autentico Libro Strenna? Si tratta di un libro antico e pur sempre nuovo. Per chi ama il sommo Dante Alighieri, ècco una nuova veste ‘originale’ della “La Divina Commedia” a cura di Gherardo Del Lungo - Eventi Pagliai s.r.l. 2018 .
Illustrata da Attilio Razzolini: dalla collezione di cartoline d’epoca di Andrea e Fabrizio Petrioli, con la trascrizione del Poema «secondo l’antica vulgata» a cura di Giorgio Petrocchi. Il volume restituisce in fedele stampa anastatica a colori le cento cartoline, una per ciascun canto della Commedia, realizzate alla fine dell’Ottocento dal pittore toscano Attilio Razzolini, con la tecnica rinascimentale della miniatura su cartapecora. Ciascuna cartolina illustra un canto e ne offre una raffinata trascrizione in caratteri gotici, ulteriormente impreziosita da capilettera fregiati in rosso, blu e oro con ornati vari. Completano l’opera di Razzolini tre tavole per i frontespizi di Inferno, Purgatorio e Paradiso. La collezione di cartoline postali, effettivamente utilizzate come tali all’inizio del Novecento, è conservata integra presso l’archivio dei fratelli Andrea e Fabrizio Petrioli a Firenze. Il volume fornisce anche il canonico testo del capolavoro dantesco, nella trascrizione di Giorgio Petrocchi, per permetterne una facile lettura. press@eventipagliai.com.

Ɣ - ANTEREM - Rivista Di Ricerca Letteraria, annuncia la Trentatreesima Edizione del Premio di Poesia e Prosa “Lorenzo Montano” 2019.
Per ogni sezione sono previsti rilevanti riconoscimenti. Gli autori segnalati, finalisti e vincitori saranno invitati a leggere i propri testi nel corso del Forum Anterem 2019, manifestazione che come di consueto si inaugurerà e si concluderà con due mostre e che coinvolgerà critici letterari e filosofi, musicisti, esponenti di case editrici, di riviste specializzate e di siti web. Per ognuno di questi autori la redazione di “Anterem” scriverà una nota critica, che sarà letta al Forum e pubblicata sul periodico on-line “Carte nel vento”.
Agli autori che saranno ritenuti meritevoli di menzione la Giuria del Premio darà evidenza sul sito www.anteremedizioni.it con la pubblicazione di un loro testo.
Tutte le opere pervenute al Premio saranno catalogate e conservate presso il Centro di Documentazione sulla Poesia Contemporanea “Lorenzo Montano”. Tale Istituto è stato fondato nel 1991 presso la Biblioteca Civica di Verona e accoglie collezioni e lasciti di alcuni tra i più importanti autori del Novecento.

Ɣ - “Opera prima” è una collana di poesia dedicata ad autori che ancora non hanno pubblicato le loro poesie in volume. La collana (fondata nel 2003) viene pubblicata in coedizione da Anterem e Cierre Grafica ed è diretta da Flavio Ermini.
È sostenuta criticamente ed economicamente da un Consiglio editoriale formato da note personalità della critica letteraria e della filosofia, oltre che da poeti e artisti. Tale comitato è affiancato da un Consiglio dei garanti costituito da Eugenio Borgna, Umberto Galimberti, Vincenzo Vitiello.
Tale gesto editoriale ha un’ambizione: non far ricadere i costi editoriali e di distribuzione sull’autore. A questo proposito la Direzione, il Consiglio editoriale e il Consiglio dei garanti mettono a disposizione la loro esperienza gratuitamente. Di rilievo è il supporto organizzativo del sito Poesia 2.0, sul quale i nostri lettori potranno leggere le condizioni per aderire all’iniziativa sul sito: www.poesia2punto0.com/2018/05/20/opera-prima-2018-2019-modalita-di-partecipazione. Se non avete mai pubblicato un libro di poesie, scriveteci! Attendiamo i vostri testi! La scadenza è il 31 dicembre 2018.

Ɣ - “Conversazioni con Dio” – articolo di Claudia Bonasi in Puracultura anno VI - n° 91 - 18 novembre 2018.www.puracultura.it (digital edition)
Premiati Antonella Quaranta e Rodolfo Fornario nell’ambito del Festival Nazionale di Corti teatrali, dove si sono confrontate compagnie provenienti dall’intero territorio nazionale. La manifestazione dal titolo “OCurto” - giunta quest’anno alla sua terza edizione si è tenuta a San Giorgio a Cremano, al CTS, Centro Teatro Spazio, quello che fu la culla del grande Massimo Troisi, che proprio in questo spazio mosse i suoi primi passi nel mondo dell’arte.
Antonella Quaranta ha presentato il monologo “Brutta”, tratto da uno spettacolo di Fornario intitolato “Conversazioni con Dio”, una storia incentrata sul dramma di una donna dall’aspetto assolutamente non gradevole, in un mondo dominato dalla bellezza ad ogni costo. I due hanno ottenuto il premio per la migliore drammaturgia
originale, dalla giuria di esperti capitanata dall’attrice Rosaria De Cicco, e l’attrice ha avuto anche il plauso dalla giuria popolare per la sua interpretazione.
Un estratto tratto dallo spettacolo “Conversazioni con Dio” è andato in scena l’11
novembre scorso presso la sede del Lab in via San Massimo a Salerno, dove sono stati presentati quattro monologhi, scelti tra i nove che compongono l’intero spettacolo, interpretati da Rodolfo Fornario, Roberto De Angelis, Rosaria La Femina
e Antonella Quaranta.

Antonella Quaranta, salernitana, è oramai da diversi anni impegnata in attività a carattere artistico e culturale tra Salerno e provincia. La sua storia artistica parte da
lontano, negli anni passati a fianco di Annabella Schiavone, indimenticata e indimenticabile attrice salernitana. Dopo la scomparsa di Annabella il rapporto dell’attrice con il teatro si intensifica: la Quaranta fonda una sua Compagnia intitolata a quella che fu suo mentore nel mondo del teatro, e comincia ad interessarsi anche all’aspetto organizzativo. Prima una rassegna teatrale a Giffoni, poi Itineranda, altra rassegna che si svolgeva nell’area dei Monti Picentini.
Venti anni fa fonda l’Associazione Teatrale Arcoscenico, con la quale produce tantissimi spettacoli, che raccolgono plausi sia dalla critica specializzata che dal pubblico. Da sette anni ha stretto un sodalizio artistico e di vita con l’attore e regista napoletano Rodolfo Fornario, e da quattro anni dirigono un laboratorio teatrale a
Salerno, dove gli allievi approcciano il mondo del teatro in maniera fattiva ed esperienziale, venendo non di rado, coinvolti in prima persona in spettacoli prodotti da Arcoscenico e rappresentati all’interno della regione.
Da due anni il duo Quaranta/ Fornario è impegnato in animazione teatralizzata nel Museo di Capodimonte. Info: 329.1606593.

Ɣ- Roberto Capuzzo / Carlo Guarienti, “Senza vera regola” , “Sparire … apparire”, libro “d’arte e di poesia" - RC Editore - collana Gli Ori 2018.
Se siete alla ricerca di un regalo raffinato e di estrema eleganza, alla cui realizzazione molto contribuisce la mano esperta di tipografi conoscitori delle tecniche di stampa e della composizione grafica, tali da far ritrovare il piacere della lettura: vuoi per la cura nella scelta della carta, l'elegante impaginato che lascia il giusto spazio allo scritto, i cratteri tipografici morbidi, il 'seppia' dei disegni sullo sfondo begie della pagina, quasi da farlo sembrare antico e al tempo stesso attuale, quasi epidermico, la cui preziosità fa sì da renderlo oggetto da collezionare. Notevoli le immagini (stupende) ivi contenute dell’artista Carlo Guarienti: “Il procedimento è tanto sofisticato intellettualmente quanto tecnicamente […] fino a creare un’immagine anche evanescente, che presume di essere l’equivalente dei versi di Roberto Capuzzo” … a darci l’illusione che sulla carta appare l’ombra , il fantasma dell’artista.” (Vittorio Sgarbi).
“Abbiamo scritto spesso parole / senza nominarle. / Nessuna in quelle occasioni / venne più scritta. / Segni a matita in luce radente.” … che pure, ogni volta, suscitano in noi, momenti di pura bellezza estetica.

Ɣ – Maria Luisa Mazzarini, “Vetri che rispecchiano il cielo”, e-book – EEE Edizioni Esordienti E-book. La raccolta forse più “mistica” di Maria Luisa Mazzarini e riprende i temi a lei cari dell’Altrove, dell’Oltre. C’è un istante di pura magia in cui l’Anima riesce a cogliere la Bellezza: un profumo, un fiore, una stilla di rugiada, un battito d’ali di farfalla… E cogliere l’attimo in cui la meraviglia accade, quel brevissimo inizio, frammento infinitesimale di tempo, è Creazione. È la Poesia che “crea nel creato”, è il luogo d’incanto e di stupore che permette di vedere oltre il buio, fusione perfetta con la Natura, e capace di liberare l’essere umano da se stesso e dal suo “corpo d’edera”.
Siamo ben oltre la visione della Poesia come semplice chiave per decodificare l’indicibile e l’invisibile: entriamo in una dimensione di sacralità, al di là dell’apparenza, al di là della ragione, al di là della paura, perché nella pura immaterialità dell’Oltre “oggi ogni paura si dissolve”.
L’Oltre è una memoria che precede la memoria. È qualcosa di così vasto e profondo che si può cogliere soltanto a frammenti, attraverso profumi “d’uva e melagrane”, o “tra i crochi e i silenzi di farfalle”. Chi vince, sul terreno della Verità? La Filosofia o la Poesia? Certamente quest’ultima. E c’è una densità incredibile, mascherata dietro l’apparente, ariosa leggerezza dei versi. La Poetessa si guarda mentre prova delle sensazioni, cerca la sua Anima, poi vuole affacciarsi sull’Oltre. Ma non le basta ancora. Si fa ‘veggente’ attraverso tutti i sensi, e alla fine, inevitabilmente, si pone la domanda che l’essere umano si pone dall’inizio dei tempi:

-Chi sono io?-
E tutto diventa Mistero.
Poi un raggio di sole
accennato,
e io sono presente.

Eccomi,
oltre la paura, la minaccia,
il silenzio,
Io esisto,
e qui, in questo luogo
io tendo l’orecchio
e ascolto.
Guardo.
Nell’imminenza del nulla
-Qualcosa-
accade comunque.

C’è quell’attimo “nell’imminenza del nulla” che segna l’inizio.
Quell’attimo in cui finalmente ci si ritrova e ci si riconosce.
Quell’attimo in cui si smette di vivere la vita e si diventa la vita.

Ɣ - “Spiritual Mind” di Carmen di Muro, in “Scienza e Conoscwnza” Novembre 2018.
Estratto: “L'acqua è solamente quella che vediamo? In questo articolo tratto dal libro “Spiritual Mind” di Carmen di Muro scopriamo ciò che può comunicare l'acqua e perché è così importante ascoltarla. L’acqua è una sostanza onnipresente e per noi usuale che in realtà possiede proprietà davvero speciali per la salute e il nostro benessere globale. Non esiste vita senz’acqua. Essa è fondamentale per tutti i processi metabolici, ovvero l’insieme delle trasformazioni chimiche che avvengono nelle cellule degli organismi viventi. Ed è proprio questa semplice combinazione di idrogeno e ossigeno (H2O) a nascondere qualcosa di molto più complesso rispetto a ciò che siamo abituati a pensare.
I numerosi ricercatori – tra cui i noti L. Montagnier, E. Del Giudice, Emoto, R. Sheldrake – che nel corso del tempo si sono dedicati allo studio delle proprietà dell’acqua hanno constatato che questa, in determinate condizioni, ha la capacità di assorbire, immagazzinare e trasmettere informazioni, sia genetiche che ambientali, a livello vibrazionale, essendo essa sensibile alle onde elettromagnetiche. (…)

Noi uomini siamo immersi in uno spazio di strutture, dalle particelle alle galassie, che vibrano e risuonano insieme come note armoniche della stessa melodia. Ciò significa che non solo siamo influenzati dall’ambiente, ma che noi stessi influenziamo tutto ciò che ci circonda. Alla base della spiegazione di queste straordinarie dinamiche invisibili, che hanno catturato lo sguardo di diversi studiosi, troviamo la teoria dei Campi Morfogenetici, come pure la teoria della Coerenza Elettrodinamica Quantistica (o QED, dall’inglese Quantum Electro-Dynamics) che si basa sul concetto di risonanza e che afferma che in alcune sostanze, come l’acqua, si formi una sorta di sintonia vibratoria tra le molecole che la compongono e un campo elettromagnetico, grazie alla cui correlazione avviene la formazione di una struttura molto particolare, ossia il dominio di coerenza, che è capace di assorbire dall’ambiente energia ad alto contenuto informativo quantistico. Emilio Del Giudice sosteneva che le molecole d’acqua comunicano tra loro solo se vibrano alla stessa frequenza, risuonando insieme. Quando ciò accade si crea la base per una fitta rete di scambio di informazioni.

I sorprendenti progressi scientifici raggiunti negli ultimi anni in questo campo di indagine non possono non far sorgere nelle menti più ricettive alcune domande fondamentali. Se il nostro corpo è costituito prevalentemente d’acqua è possibile che l’ambiente esterno influenzi l’acqua di cui siamo composti? Ma soprattutto è possibile che i nostri stati d’animo e i pensieri la plasmino fino a conferirle proprietà curative?
Masaru Emoto ideò un procedimento che ha permesso di fotografare l’acqua cristallizzata, costatando che la bellezza e la simmetria dei cristalli sarebbe proporzionale all’esperienza che l’acqua ha vissuto a livello vibrazionale. Negli esperimenti di Emoto quando l’acqua si trovava a vivere esperienze ad alto contenuto energetico positivo, i cristalli fotografati erano di forme armoniche, simmetrici e perfetti.

Se invece l’acqua si trovava a vivere in un ambiente vibrazionalmente negativo i cristalli risultavano deformati quasi fossero sottoposti a stress. Si è notato, dunque, che a seconda del trattamento subito, l’acqua forma strutture specifiche di cluster, in quanto l’elettromagnetismo del luogo e di chi lo popola, ha un effetto modellante sulla sua struttura, la quale assume conformazioni diverse in virtù della carica energetica presente. Ma la cosa strabiliante è che sono proprio i moti del nostro animo, come le emozioni e i pensieri, a esercitare l’influenza più marcata sulle sue proprietà. Amore, gioia e gratitudine sono vibrazioni potentissime a cui l’acqua risponde in modo molto particolare, lasciando al suo interno tracce permanenti in grado di risuonare con le frequenze dei sistemi biologici, così da riequilibrare l’organismo umano fiaccato da una malattia e l’ambiente, se contaminato energeticamente. Inoltre si è visto che in queste acque gli agenti patogeni perdono la loro aggressività, com’è stato dimostrato con diversi test.

Carmen Di Muro,
Psicologa clinica, psicoterapeuta ad orientamento Cognitivo Post-Razionalista e ISTDP, quantum trainer e scrittrice, vive ed opera in Puglia.
“Aperta alla più ampia visione integrata dell’essere umano nella sua inscindibile unità di psiche-soma, unisce la formazione accademica con i suoi interessi nel campo della biologia, delle neuroscienze, della medicina, della meccanica e fisica quantistica che le hanno consentito di sviluppare un personale metodo di lavoro interdisciplinare quantico-emozionale”©. Da sempre attratta dal mondo spirituale dell’uomo e dall’essenza profonda dell’esistenza, orienta i suoi studi e le sue indagini scientifiche verso un tema speciale: “La guarigione dell’anima”. È referente per la regione Puglia dell’EFP- Group di Milano e oltre a svolgere l’attività clinica, divulga il suo pensiero tenendo convegni e seminari in tutta Italia. Autrice del libro “Essere è Amore. Dal Pensiero alla Materia. Viaggio Scientifico nella Pura Essenza”, Gagliano Edizioni e “Anima Quantica. Nuovi orizzonti della psiche e della guarigione” Anima Edizioni, è membro del comitato scientifico e autore per la Rivista Nazionale “Scienza e Conoscenza” di Macro Edizioni e autore di articoli e video per AnimaTV.
Per maggiori informazioni: www.carmendimuro.com
Per contatti: info@carmendimuro.com

Ɣ – In occasione del 70° anniversario della “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”, ècco alcuni testi d’importanza capitale : Alessandra Facchi, “Breve storia dei diritti umani, dai diritti dell'uomo ai diritti delle donne”. il Mulino 2018.
A partire dalla «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» del 1948 i diritti umani sono al centro della politica globale e del diritto sovranazionale. Nel dibattito politico e sociale contemporaneo ci si richiama ai diritti, vecchi e nuovi, per contrastare o invocare interventi pubblici, per difendere valori o interessi, per sostenere differenti concezioni morali. L’idea di diritti universali dell’uomo appare tuttavia in Europa già all’inizio dell’età moderna: questo volume propone una sintetica ricostruzione storica dell’affermazione dei diritti, dalla teoria giuridica e politica del XVI e del XVII secolo fino alle Dichiarazioni internazionali della seconda metà del XX secolo. Attraverso la confluenza di teorie, movimenti sociali, documenti giuridici si delineano gli sviluppi di diritti civili, politici, economico-sociali e i differenti percorsi seguiti dai diritti degli uomini e dai diritti delle donne.

Indice del volume: Introduzione. - I. Tra Cinquecento e Seicento: teorizzazione dei diritti. - II. Il Settecento: dichiarazione dei diritti. - III. L’Ottocento: positivizzazione dei diritti. - IV. Il Novecento: moltiplicazione e internazionalizzazione dei diritti. - Riferimenti bibliografici. - Indice dei nomi.
Alessandra Facchi insegna Filosofia del diritto e Teorie dei diritti fondamentali presso la Facoltà di Scienze politiche, economiche e sociali dell’Università degli Studi di Milano. Per il Mulino ha curato (con C. Faralli e T. Pitch) il volume di L. Gianformaggio «Eguaglianza, donne e diritti» (2005).

Ɣ- Vladimiro Zagrebelsky, Roberto Chenal, Laura Tomasi - “Manuale dei diritti fondamentali in Europa”, il Mulino 2018.
"Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti"
Il manuale, con specifica attenzione ai riflessi sull’ordinamento italiano, descrive il sistema europeo di protezione dei diritti e libertà che sono comuni alla Convenzione europea dei diritti umani e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La prima vincola i 47 Stati del Consiglio d’Europa, la seconda i 28 Stati che sono anche membri dell’Unione. Il contenuto dei diritti considerati è definito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, di cui tiene conto la Corte di giustizia dell’Unione europea. Il manuale illustra le nozioni generali del diritto dei diritti umani in Europa e i singoli diritti ed espone la disciplina dei ricorsi e della procedura della Corte europea.

Pubblico qui di seguito l'indice del volume, perché rappresentativo dell'escursus degli interessi che riguardano davvero tutti quanti noi: Prefazione. - Parte prima: Il sistema europeo e il movimento internazionale per il riconoscimento dei diritti umani. - I. Il sistema europeo e il movimento internazionale per il riconoscimento internazionale dei diritti umani. - Parte seconda: La protezione dei diritti umani in Europa. Il sistema del Consiglio d’Europa e l’ordinamento italiano. - II. La Corte europea dei diritti umani. Natura ed efficacia della sua giurisprudenza. - III. La Convenzione europea dei diritti umani nell’ordinamento italiano. - Parte terza: La protezione dei diritti umani in Europa. Il sistema dell’Unione Europea. - IV. Origine e struttura del sistema. - V. Diritti umani e diritto dell’Unione Europea nell’applicazione dei giudici nazionali. - Parte quarta: Il giudizio della Corte europea. Applicabilità della Convenzione e giustificazione della condotta dello Stato. - VI. L’applicabilità della Convenzione. - VII. La giustificazione dell’interferenza. - Parte quinta: I diritti fondamentali considerati dalla Convenzione europea dei diritti umani e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. - VIII. Diritto alla vita. - IX. Divieto di tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti. - X. Divieto di schiavitù, di servitù e di lavori forzati od obbligatori. - XI. Diritto alla libertà e alla sicurezza. - XII. Diritto a un processo equo. - XIII. Legalità dei delitti e delle pene. - XIV. Diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza. Diritto al matrimonio e uguaglianza dei coniugi. - XV. Libertà di circolazione e divieto di espulsione del cittadino. - XVI. Libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Diritto all’istruzione. - XVII. Libertà di espressione. - XVIII. Libertà di riunione e di associazione. - XIX. Diritto a elezioni libere. - XX. Diritti e divieti nell’espulsione degli stranieri. - XXI. Protezione della proprietà. - Parte sesta: I ricorsi alla Corte europea. Procedura ed esecuzione delle sentenze. - XXII. L’introduzione del ricorso e la ricevibilità. - XXIII. La Corte europea e la procedura. - XXIV. Le sentenze e la fase dell’esecuzione. - Bibliografia. - Indice analitico.

Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte Europea dei Diritti Umani, dirige ora il Laboratorio dei Diritti Fondamentali di Torino. Roberto Chenal, dottore di ricerca in Diritto penale, master in Filosofia del diritto a NYU, è giurista presso la Corte europea dei diritti umani. Laura Tomasi, magistrato, è dottore di ricerca in Diritto internazionale, già giurista assistente presso la Corte europea dei diritti umani.

Ɣ - Roberto Maggiani, “Affinità divergenti” – Italic (Collana Pequod) 2018.
Lieto di proporvi la più recente pubblicazione del direttore e mentore della rivista on-line che mi ospita Larecherche.it, al suo esordio come romanziere, e che costituisce davvero una piacevole sorpresa per tutti noi, addetti ai lavori e non, con la speranza che lo sia anche per voi. Dal risvolto di copertina:

“Roma ai giorni nostri. Il trentenne Tommaso stringe amicizia con la dirimpettaia e coetanea Elisa. Nei loro ripetuti incontri, i due giovani affinano la reciproca conoscenza. Tommaso si confida, le racconta, in particolare, del forte legame con Nathan, ragazzo conosciuto sui banchi di scuola, affetto da diplegia, restio ad affacciarsi a una vita che lo spaventa. La loro amicizia attraversa l’adolescenza e tutta l’età adulta. Tommaso si allontana da Roma per circa un anno, durante il quale conoscerà Aadil, presunto terrorista. Tornato nella sua città, si renderà conto che tra lui e Aadil si è instaurata una relazione profonda di cui farà partecipe Elisa, rivelandole anche il lato segreto della sua vita”.

Con “Affinità divergenti” Roberto Maggiani affronta tematiche sociali e politiche ‘scomode’ di stretta attualità, una tematica non nuova per un esordio, ma che vuole stabilire un punto fermo nella sua decennale attività di lettore attento della società contemporanea.“D’altronde – esgli scrive – l’amore è così: un posto in cui ci siamo persi, dove non pensavamo mai di andare o in cui qualcuno ci portasse.”
http://www.robertomaggiani.it/affinita_divergenti.asp
http://www.robertomaggiani.it / https://www.larecherche.it

Ɣ – ma c’è dell’altro, Roberto Maggiani, vi invita a partecipare al Premio Letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, per opere inedite, giunto alla sua Va edizione, anno 2019 - In memoria di Luciano Ferrari .
Scadenza 15 gennaio 2019, ore 24:00
Sezione A: Poesia | Sezione B: Racconto breve
La partecipazione è completamente gratuita o previo la raccolta fondi da destinare al Premio stesso.
Si dovrà proporre la propria Opera attraverso il sito www.larecherche.it, in particolare
Dalla pagina dedicata al Premio www.larecherche.it/premio.asp. dalla quale si può scaricare il Bando di concorso.
La premiazione avverrà in data domenica 7 aprile 2019 dalle ore 15:30 alle ore 18:30 (con inizio dell'accoglienza alle 15.00) in luogo da decidere.

Non mi rimane che augurarvi Buon Natale e Giorni Felici in compagnia di quanti amate ... ma non dimenticate che un buon libro regalato o ricevuto è di per sé già un Buon Natale.





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- Vari

3 Christmas happiness / Natale con voi - musica e altro

3 CHRISTMAS HAPPINESS / NATALE CON VOI
In cerca del regalo perfetto da fare agli altri (soprattutto a se stessi): qualche libro, un certo evento, quanto basta di poesia, qualche mostra, forse un concerto, un po’ di cinema (q.b.), e perché no un viaggio? Il resto suggeritelo Voi lettori … in fondo il Natale è anche Vostro, o no?

VIAGGI e altro:
Natale a Malta, inizia la festa più attesa dell’anno. Gli eventi si susseguono …
Din! Din! Din! Le campanelle natalizie annunciano liete la stagione delle feste. In questo periodo a Malta tutte le chiese organizzano una miriade di eventi, allestiscono il proprio presepe e spesso inscenano processioni dedicate alla natività, ma non mancano i mercatini e gli appuntamenti gastronomici tutti pensati per festeggiare il Natale. Per questo Malta Tourism Authority ha deciso di appuntarvi qui un elenco di attività che potrete fare a Malta per prepararvi al meglio al periodo più gioioso dell’anno.
MILIED IMDAWWAL FL-IMQABBA
Tra i tanti paesini dell’arcipelago che si preparano al Natale, il primo ad organizzarsi a Malta è Mqabba. In questo week-end sarà allestito un mercatino di prodotti artigianali e di cibo tradizionale, ma anche un angolo dedicato ai bambini che potranno farsi scattare una foto in braccio a Babbo Natale.
ITALIAN TASTE EVENT
Che siate o no turisti che non possono fare a meno della cucina italiana quando viaggiano, l’appuntamento merita attenzione anche per il solo fatto di essere organizzato al is-Suq tal-Belt di Valletta, una delle opere più interessanti frutto dei lavori eseguiti nella capitale in occasione di Valletta 2018.
MERCATO DEGLI ARTIGIANI MALTESI
Nel calendario degli appuntamenti che periodicamente organizzano gli artigiani maltesi per questo mercatino, quello in vista del Natale è fissato a Floriana nel Magazino Hall. L’appuntamento giusto dove trovare i migliori produttori di artigianato locale: filigrana, oggetti in legno, ricami, ma anche prelibatezze maltesi come olio, birra e dolci.
IL VILLAGGIO DI NATALE AL VALLETTA WATERFRONT
Nell’area rinnovata e ricca di vita del porto di Valletta conosciuta come il Waterfront, un appuntamento che è diventato un classico del periodo delle feste in cui immergersi per un mix di decorazioni, musica, cibo e tante attività legate a questa stagione magica. Sotto ad un albero di 10 metri d’altezza si alterneranno bande musicali, cori, scene di natività e laboratori, soprattutto dedicati ai più piccoli.
MERCATO DI NATALE DEI CONTADINI E DEGLI ARTIGIANI
Nei giardini di Villa Bologna ad Attard ancora un mercatino dove sbizzarrirsi con lo shopping e abbuffarsi di delizie più o meno natalizie.
NATALIS NOTABILIS
Nel centro storico di Rabat, tra i vicoli medievali, vi aspettano oltre 100 stand di golosità e prodotti tipici maltesi che strizzano un occhio al Natale, ma anche uno al vostro appetito.

FESTIVAL DEI CANTI DI NATALE
Cosa offre più l’atmosfera del Natale di un canto tradizionale? Nella chiesa di Ta’ Giezu a Rabat, antica di 500 anni, tre giorni da dedicare alle delicate note dei cori natalizi.
CONCERTO DI NATALE DI BENEFICIENZA
Presso il Santuario della Divina Grazia di Naxxar, un concerto in cui si esibiranno i giovani cantori della scuola di musica di Malta e la Malta Concert Orchestra diretti dal Maestro Paul Abela. L’ingresso è gratuito, ma saranno raccolti fondi in favore della Fondazione Puttinu Cares
IL MUSICAL GHOSTS OF CHRISTMAS PAST
Un’opera rock dedicata al Natale? Eccola al Valletta Campus Theater!
CAROLS CANDELIGHT
Un concerto della Schola Cantorum Junìbilate a cui farà seguito una deliziosa cena di 5 portate preparata dagli chef di uno dei ristoranti più celebri di Gozo, il Ta’ French.
FIERA DI NATALE DELL’ARTIGIANATO MALTESE
Nella centralissima St. George’s Square di Valletta, un altro mercatino dell’artigianato maltese per il vostro shopping last minute prima di Natale.
MALTA CHRISTMAS FESTIVAL
Natale è già passato, ma volete tenere i piedi saldi nell’atmosfera delle feste? Vi consigliamo di non perdere questo festival durante il quale si esibiranno bande, majorette e gruppi folkloristici.

L’elenco completo di tutto quello che succederà a Malta nella prossime settimane lo trovate nel calendario eventi di Visit Malta e se non avete ancora prenotato il vostro viaggio delle feste a Malta provate a cercare tra le offerte di Malta Vacanze!
MUŻA, un nuovo museo a Malta tutto da scoprire.
L’anno di Valletta 2018 Capitale Europea della Cultura sta per terminare. È stato un anno entusiasmante e ricco di attività di ogni genere che ha visto Malta rendersi protagonista della scena culturale internazionale. Cosa resterà di questa bellissima esperienza? Sicuramente una capitale rinnovata e in pieno fermento creativo che saprà continuare ad accogliere e offrire stimoli. Più nel tangibile, tra i maggiori lasciti di quest’anno glorioso ci sarà il MUŻA, il nuovissimo museo nazionale comunitario di Malta che aprirà le porte al pubblico il prossimo 15 dicembre. La nuova sede del MUŻA è lo storico Auberge d’Italie in Merchants Street, palazzo risalente all’epoca dei Cavalieri di San Giovanni il cui valore culturale intrinseco sarà ancora più esaltato dalla presenza del museo all’interno dei suoi spazi. Per maggiori informazioni consultate il sito https://muza.heritagemalta.org/


LIBRI e MUSICA:
Ɣ - Hans Tuzzi “Libro antico libro moderno” - Collana: Sfere extra - Carocci Editore 2018.
Con stile discorsivo ma senza rinunciare alla precisione scientifica, l’autore narra la storia delle componenti fisiche e concettuali del libro spiegando come sono cambiate dal torchio a mano di Gutenberg a oggi: l’invenzione del titolo, del numero di pagina, della punteggiatura, tecnica e uso delle illustrazioni... Tuzzi accompagna il lettore alla conoscenza del libro in quanto oggetto, sottolineando gli elementi di continuità fra libro antico e libro moderno, pur nel mutare delle tecnologie.
Ɣ - Adriano Angelucci “Che cos'è un esperimento mentale” - Collana: Bussole - Carocci Editore 2018.
Per quanto i filosofi non utilizzino laboratori, sarebbe scorretto affermare che essi non ricorrano a esperimenti. Nel corso delle loro indagini, infatti, i filosofi si affidano da sempre a esperimenti mentali per vagliare la correttezza delle teorie che stanno formulando. Negli ultimi decenni, in particolare, l’utilizzo di questi preziosi strumenti per riflettere si è imposto come uno dei metodi fondamentali della filosofia di tradizione analitica e, in diversi ambiti di quest’ultima, l’attività di elaborazione teorica è divenuta pressoché inscindibile da un vasto repertorio di ingegnosi scenari ipotetici.
Ɣ- Francesca Fava “Il teatro come metodo educativo” - Tascabili - Carocci Editore 2018.
Una guida per educatori e professionisti sociosanitari. Il testo illustra necessità e peculiarità del laboratorio teatrale come strumento formativo per le professioni sociosanitarie ed educative, nell'attuale contesto di rinnovamento delle Medical Humanities. Dopo un inquadramento teorico, focalizzato sugli ultimi studi che fanno dialogare il teatro e la medicina con le neuroscienze, ogni capitolo presenta, in forma di guida didattica, alcuni obiettivi-chiave (empatia, ascolto, relazione, effetto placebo, scoperta delle emozioni ecc.) da perseguire in ambiti specifici (medico, ambulatoriale, comunitario) corredati di agili schede illustrate ed esercizi pratici.

Ɣ – “Mambo Sinuendo” – CD di Ry Cooder & Manuel Galbán a film by / The Complete Soundtrack. Nonesuch Records 2018.
Mambo Sinuendo, Ry Cooder's 2003 Grammy-winning collaboration with Cuban guitar legend Manuel Galbán, has returned on vinyl for the first time in some fifteen years. "Mambo Sinuendo creates a time-warped neverland where unhurried melodies hover above subtly swaying Cuban rhythms," says the New York Times, "as the two guitar masters trade slides and twangs with a droll sense of romance." "An exquisite album," Uncut exclaimed. "One of the musical highlights of the year." The two-LP set was pressed from lacquers cut by Abbey Road Studios on vinyl at Record Industry with a custom etching on side D, and housed in an old-style, tip-on gatefold jacket.

Ɣ - Francesco Diodati con gli Yellow Squeeds "Never The Same"- CD Auand AU9080, 2018.
“Never The Same”, il nuovo album da leader di Francesco Diodati con i suoi Yellow Squeeds. Dopo l’acclamato “Flow, Home”, l’ultimo attesissimo lavoro del chitarrista è già stato protagonista al JAZZMI di Milano e al London Jazz Festival
con Enrico Zanisi (pianoforte, synth), Francesco Lento (tromba),
Glauco Benedetti (basso tuba, trombone), ed Enrico Morello (batteria).
A tre anni di distanza dal lavoro precedente (“Flow, Home”, 2015), Francesco Diodati pubblica“Never The Same”: il suo nuovo, attesissimo album da leader. E lo fa con la stessa formazione, gli Yellow Squeeds, ovvero Enrico Zanisi (pianoforte, synth), Francesco Lento (tromba), Glauco Benedetti (basso tuba, trombone a valvole), ed Enrico Morello (batteria), e la stessa casa discografica, Auand Records. Il nome del chitarrista romano è ormai uno dei più brillanti della scena italiana ed europea: se con Enrico Rava ha calcato palchi internazionali grazie a una collaborazione consolidata, gli album da leader stanno mostrando la personalità e la capacità innovativa di Diodati. La fibrillazione per questa nuova uscita è stata palpabile anche nelle due anteprime al JAZZMI di Milano, il 9 novembre, e al London Jazz Festival, dove “Never The Same” è stato presentato il 18 novembre.
Al centro del nuovo lavoro c’è una profonda riflessione sulle percezioni soggettive, sul lavoro d’insieme e sulle infinite trasformazioni che questi due elementi possono generare persino nella più semplice linea melodica. A dominare l’aspetto compositivo è «la sovrapposizione – dice Diodati – di diversi strati sonori, di linee che si intrecciano e che, pur mantenendo una propria indipendenza, diventano imprescindibili le une dalle altre. Questo modo di costruire la musica fa sì, per esempio, che lo stesso brano possa essere percepito in riferimento a un andamento ritmico diverso per ognuno. È un po’ come guardare lo stesso oggetto tridimensionale da diversi punti di vista, girandolo tra le mani o sospeso nello spazio». È questo approccio che genera l’effetto apparentemente straniante di “Entanglement”, dove la ritmica cambia continuamente.
Questa tensione al cambiamento, questa spinta verso qualcosa che prima non c’era, è anche la cifra stilistica del gruppo: «Sono tutti molto dinamici e nel corso del tempo cercano nuovi suoni, nuovi approcci – continua il chitarrista – Zanisi sul primo disco suonava il piano, qui suona piano, Fender Rhodes, synth modulare e bass synth. A Morello ho dato una montagna di gong birmani, accumulati negli anni durante i miei viaggi e concerti in Myanmar, e li abbiamo suonati insieme nell’intro di “Simple Lights”. Glauco Benedetti si è rivelato sorprendente anche con il trombone a pistoni, tanto che ho riscritto appositamente alcune parti per inserirlo. Francesco Lento tira fuori suoni sempre diversi dalla tromba portando all’estremo le possibilità timbriche, oltre a dilettarsi con bottiglie di vetro! Sa essere molto lirico oppure diventare più angolare e aspro. Con lui spesso dialoghiamo in modo serrato, una pratica che si è fatta sempre più intensa nel corso degli anni. Sono tutti musicisti formidabili. Ho scelto loro perché sono capaci di rompere le barriere, andare oltre i limiti del già sentito». E come dimostra un brano come “River”, è facile che dall’interplay si sviluppi un flusso sonoro coinvolgente, nato dalla melodia e sfociato in una densa improvvisazione collettiva.
Tra giochi sonori con una chitarra scordata, attenzione per la timbrica e scambi di ruoli nella formazione, anche la grafica riesce a condensare il senso dell’intero album in un’immagine: «La copertina è frutto di un’opera di Sara Bernabucci, artista con cui collaboro da due anni nella ricerca di un incontro fra musica e arti visive, e di Alberto Timossi. È la stratificazione di due arti diverse (la scultura e la pittura) nate da due menti diverse alle quali si è aggiunto il mio punto di vista con la macchina fotografica, rendendo l’opera irriconoscibile. È quello che intendevo: vedere lo stesso oggetto da punti diversi, e farlo non a priori, in modo astratto, ma con la prassi, la passione intuitiva di chi vive di arte».
Questo mese ancora quattro concerti per Yellow Squeeds prima dell’uscita ufficiale, prevista il 25 gennaio 2019. Sarà possibile ascoltare il progetto dal vivo in anteprima domani 11 dicembre a Belmonte Piceno per Marche in Vita, giovedì 13 al prestigioso Bimhuis di Amsterdam, domenica 16 alla Casa del Jazz di Roma e giovedì 27 al Paradox di Tilburg (sempre in Olanda).

Francesco Diodati Bio
Chitarrista, compositore e improvvisatore, inizia gli studi musicali incontrando il Jazz. Subito dopo la laurea in Statistica Economica decide di dedicare la sua vita alla musica: inizia a scrivere musica per i propri gruppi, a viaggiare soffermandosi soprattutto a New York e Parigi dove approfondisce lo studio del Jazz tramite borse di studio e collaborazioni importanti, ampliando ulteriormente la sua visione musicale. Nel 2015 il quartetto di Enrico Rava, con il quale collabora dal 2013, ha ottenuto il Top Jazz (Musica Jazz) come miglior gruppo. E’ dello stesso anno Wild Dance, inciso dal quartetto per ECM.
Oggi è uno dei più importanti improvvisatori della sua generazione e ha collaborato con personalità del calibro di Gianluca Petrella, Bobby Previte, Antonello Salis, Jim Black, Francesco Bearzatti, Shane Endsley, Dave Binney, Fabrizio Bosso, Paolo Fresu, Nils Landgren e molti altri.
Ha inoltre preso parte per 6 anni al progetto MyanmarMeetsEurope, con il supporto del Goethe Institute, con il quale ha partecipato a festival in tutta Europa e Asia.
I suoi album da leader hanno ottenuto riscontri entusiastici di critica e pubblico ed è stato votato come miglior chitarrista dal 2013 al 2018 dalla rivista JazzIt.
Lo stile di Francesco non è confinato a un singolo genere musicale: negli anni la sua curiosità lo ha portato a collaborare con danzatori, artisti visuali, coreografi e progetti multidisciplinari. Oltre ai progetti Yellow Squeeds, Blackline, Floors, collabora infatti con la danzatrice contemporanea Roberta Racis e con l’artista Sara Bernabucci. Il risultato è una personalità musicale caleidoscopica ma fortemente identitaria.


CD e CINEMA:

Ɣ- David Byrne: “True Stories”, a film by / CD The Complete Soundtrack. Nonesuch Records 2018.
On True Stories (1986), his sole foray into feature-film directing, David Byrne was inspired by tabloid headlines to make an ode to the extraordinariness of ordinary American life, using his songs to stitch together pop iconography, voodoo rituals, and a singular variety show. This comprehensive soundtrack contains 23 songs, collected for the first time in one package and in film sequence. "I always imagined that the music written for True Stories should be heard as it is in the film," says Byrne. "It makes the most sense this way. Me singing the song that was written for John Goodman's character always felt weird to me."
In conjunction with The Criterion Collection's special-edition DVD and Blu-ray release of David Byrne's 1986 film True Stories, Nonesuch and Todomundo Records release a comprehensive soundtrack, collected for the first time in one package and in film sequence: True Stories, A Film by David Byrne: The Complete Soundtrack is now available on vinyl LP, CD, and digital formats. The CD also is included with Criterion’s Blu-ray of the film. Get the soundtrack now at your local independent record store, iTunes , Amazon, and the Nonesuch Store, where CD and vinyl orders include a download of the complete album at checkout. The album can also be heard on Spotify and Apple Music.
David Byrne was inspired by tabloid headlines to make his sole foray into feature-film directing, an ode to the extraordinariness of ordinary American life and a distillation of what was in his own idiosyncratic mind. Byrne plays a visitor to Virgil, Texas, who introduces us to the citizens of the town during preparations for its Celebration of Specialness. As shot by cinematographer Ed Lachman, Texas becomes a hyper-realistic late-capitalist landscape of endless vistas, shopping malls, and prefab metal buildings. In True Stories, Byrne uses his songs to stitch together pop iconography, voodoo rituals, and a singular variety show.
Byrne calls the record “An immersive audio voyage into the little town of Virgil, Texas, in the mid-eighties.” He continues, “I always imagined that the music written for True Stories should be heard as it is in the film. It makes the most sense this way. Me singing the song that was written for John Goodman’s character, Louis Fine, always felt weird to me. It was written for that character, not for me.”
“True Stories”, A film by David Byrne: The Complete Soundtrack includes twenty-three songs, many of which are on CD and digital formats for the first time:
• one previously unreleased version of Talking Heads’ “Dream Operator,” from the film, with Annie McEnroe on lead vocals;
• three songs from the film that have previously been released only on the Talking Heads sets Dual Brick or Bonus Rarities & Outtakes;
• five songs from the companion 1986 Talking Heads studio album True Stories;
• fourteen songs from the 1986 film soundtrack album Sounds from True Stories: Music for Activities Freaks—previously released only on LP and cassette—performed by a wide range of artists from Kronos Quartet to Meredith Monk to Pops Staples to John Goodman.
The full album track list is below. More information about the Criterion release—which features a new, restored 4K digital transfer, supervised by director Byrne and cinematographer Ed Lachman, with 5.1 surround DTS-HD Master Audio soundtrack, supervised by Byrne, along with several other rare items—is available at criterion.com.

NAPOLI e altri Libri:

Ɣ - Paolo Macry, Libro “Napoli. Nostalgia di domani” - il Mulino 2018.
Napoli è una sorpresa che deve essere cercata senza pigrizie nella carne viva del suo corpo affollato, accettando le tensioni di un viaggio in territori ignoti. È un catalogo di possibilità che la storia ha reso talvolta drammatico. Uno specchio di intelligenze, passioni, ferite, in cui a ciascuno è dato ritrovare qualcosa di se stesso. Napoli è una sorpresa che deve essere cercata senza pigrizie nella carne viva del suo corpo affollato, accettando le tensioni di un viaggio in territori ignoti. È un catalogo di possibilità che la storia ha reso talvolta drammatico. Uno specchio di intelligenze, passioni, ferite, in cui a ciascuno è dato ritrovare qualcosa di se stesso.
Napoli è uno di quei luoghi che ciascuno crede di conoscere anche se non li ha mai visti. Un immaginario spesso ideologico, fatto di stereotipi, di racconti ossificati, di un’infinita aneddotica. La città si giudica continuamente e viene continuamente giudicata. Sconta il pessimismo indulgente che non di rado gli stessi «nativi» si cuciono addosso e sconta la lontananza culturale, arcigna o paternalistica, di chi la osserva dall’esterno.
Di Paolo Macry, storico dell’età contemporanea e commentatore politico. Tra i suoi libri per il Mulino ricordiamo «Ottocento» (2002), «Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell’Europa del Novecento» (2009) e «Unità a Mezzogiorno» (2012). Con “Napoli”, Paolo Macry tocca le nervature profonde, ripercorre i segni di un tessuto urbano bimillenario, i comportamenti di lungo periodo della popolazione. Insegue le fratture drammatiche della sua storia, le esperienze politiche che l’hanno segnata, fino alle vicende di tre sindaci-sovrani, Lauro, Bassolino e de Magistris. Ci trasmette la suggestione di una città difficile e mai rassegnata. Napoli, per chi voglia conoscerla, capirla, ritrovarla, continua a essere un mondo. Un mondo da pensare o, forse, un modo di pensare.

Ɣ- Biagio Cipolletta – Libro “Il sogno delle nuvole” - Augh! Edizioni 2018.
Le liriche di Cipolletta si muovono lungo innumerevoli percorsi: la solitudine, il senso di fratellanza, il silenzio, lo stupore, l’amore, l’amicizia, la vita e la morte, ma più forte di tutti è il tema che riguarda la poesia stessa, o meglio, il fare poesia, il cercare la melodia della parola poetica, nella quale si nasconde il senso della vita, cioè le gioie, le ansie e i dolori che percorrono l’esistenza dell’uomo.
(dalla prefazione di Vincenzo Esposito)
Biagio Cipolletta, già ordinario di Italiano e Latino nel Liceo Linguistico e di Scienze Umane a Roma, scrive per riviste letterarie ed è presente in diverse antologie. Membro di giuria in concorsi poetici nazionali (Concorso “L’ho scrittoIO” presso “La Sapienza”), recensore, prefatore e saggista, tiene conferenze in molti circoli culturali romani e nei laboratori di scrittura creativa. Ha già pubblicato quattro libri di poesie: "Brividi di sole" (Fabio Croce Editore, 2004), "Destination Norway" (Edizioni Libreria Croce, 2009), "Di città in città" con M. Anastasi e L. Fulci (Edizioni Libreria Croce, 2011), "La Traversina e il Melograno" (Alter Ego Edizioni, 2014) e "Il gol del portiere" (Augh!, 2017).

CONTEST:
Ɣ - Invito a partecipare al prossimo numero della rivista "Euterpe" Rivista di poesia e critica letteraria sul tema: "Musica e letteratura: influenze e contaminazioni" - scadenza di invio: 20-12-2018.
Presentazione di Lorenzo Spurio.
Per parlare del rapporto tra musica e poesia dovremmo ripercorrere le pagine della storia dell’antichità quando la poesia, sia in contesti conviviali che retorici, veniva recitata oralmente accompagnata da varie tipologie di strumenti musicali. La poesia greca ne è un chiaro esempio ma anche le chanson de geste e, ancora, tutti quei componimenti poetici ed epigrammatici che venivano condivisi pubblicamente, in situazioni di festa o più formali.
Non va neppure dimenticata la letteratura per l’infanzia dove, nelle favole, racconti e ninne-nanne, fa uso di ritornelli, forme onomatopeiche, canzoncine, forme ballate e tanti altri stratagemmi che hanno una funzione e un intendimento musicale e allitterativo. Si pensi ad esempio a Edoardo Bennato il cui successo musicale è derivato forse in gran parte dai suoi album d’esordio “Burattino senza fili” (1977) e “Sono solo canzonette” (1980) ispirati rispettivamente a “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi e “Le avventure di Peter Pan” di J.M Barrie.
La musica, più che rappresentare un “accompagnamento” era una sorta di ingrediente fondamentale e imprescindibile: chi recitava modellava i suoi versi anche in base alle tonalità e all’andamento della musica che veniva proposta.
Pensando a un poeta dell’età contemporanea quale Federico Garcia Lorca dovremmo chiederci se le sue tante baladas, baladillas e romances, non siano, forse, prima che poesia, dei testi effettivamente dall’impronta musicale. L’autore granadino, grande amante della cultura popolare andalusa, fu anche attento musico e tutte le sue composizione localizzabili nelle opere magistrali de “Poema del Cante Jondo” e “Romancero gitano” hanno una strutturazione, un’impalcatura e un’origine che non può non dirsi radicata nel folklorismo musicale gitano (si pensi agli altri generi del zorongo e della seguidilla da lui spesso usate). Chiaramente si tratta solo di un esempio e numerosi altri potrebbero essere portati per mostrare come il testo (sia esso scritto che orale, anzi, dovremmo dire più genericamente “la parola”) e la musica abbiano avuto un connubio assai radicato, stretto e di successo in varie circostanze.
Trasportandoci all’età contemporanea risulta piuttosto dire se alcuni testi di Fabrizio De André e di Franco Battiato (solo per citare due delle maggiori voci cantautori ali nostrane) abbiano fatto musica o poesia. La risposta più plausibile è che abbiano fatto, congiuntamente, entrambe e nel modo più alto. C’è poi tutto un altro filone di esperienze, che vanno senz’altro tenute in considerazione, che riguardano quei testi musicali che nascono a partire da influenze letterarie vale a dire opere, autori, poesie che in alcuni cantautori hanno motivato alla scrittura di testi dedicati, ad essi ispirati, celebrativi, e via discorrendo.
La giornalista Ilaria Liparoti in un interessante articolo apparso su “Il Libraio” nel 2016 così osservava: “L’ispirazione può essere palese sin dal titolo e ritornello oppure più velata. Veri e propri “metatesti” o più semplicemente parole che attraverso le note conoscono nuova vita”. Se si pensa che la canzone “Elemosina” inserita come traccia nel cd “Max Gazzè” (2000) dell’omonimo artista non è che la traduzione in italiano (arrangiata dal musicista) della poesia di Mallarmé, ben comprendiamo come il legame tra poesia e musica sia forte e reversibile, continuo e prospero. Il fatto che l’artista romano sia influenzato o in qualche modo attratto dalla figura del poeta maledetto francese è rimarcata dal fatto che lo cita in un’altra sua canzone, divenuta molto celebre, “Su un ciliegio esterno”, gioiosamente cantabile nei concerti. Chiaramente non è solo la poesia a influenzare, motivare, intrecciare o determinare contesti musicali ma ogni altro genere della letteratura.
Il prossimo numero della rivista “Euterpe”, la cui scadenza di invio dei materiali è fissata al 20 dicembre 2018, proporrà come tema proprio “Musica e letteratura: influenze e contaminazioni”. Per prendere parte alla selezione di materiali si ricorda di prendere visione delle “norme redazionali” presenti nel recente riammodernamento della rivista nelle sue rubriche di Poesia, Aforismi, Saggistica (Articoli, Critica Letteraria, Recensioni).
www.associazioneeuterpe.com - associazioneeuterpe@gmail.com
PEC: ass.culturale.euterpe@pec.it
Rivista: rivistaeuterpe@gmail.com

POESIA:
Ɣ - Gianmaria Ferrante, “Abissi”, raccolta lirico-narrativa – Golden Press 2018.
Gianmaria Ferrante … un poeta immerso negli ‘abissi’ del quotidiano –recensione di Giorgio Mancinelli.
Il fascino del linguaggio ‘poetico-letterario’ che la poesia ha esercitato sugli scrittori innovativi del Novecento è andato assumendo sempre più un ruolo del tutto singolare, affermandosi preferibilmente come ‘composizione musicale’ in fatto di ‘ritmo’ e di ‘timbro’, contro il primato romantico del genere ‘melodico’ protrattosi fino alla metà del secolo scorso. Esclusa dall’insegnamento scolastico e dal linguaggio quotidiano, dove sembrava si fosse definitivamente inabissata, la poesia sembra oggi ritrovare una qualche attestazione nella forma ‘poetico-narrativa’, sia nei racconti che nei romanzi di molti giovani scrittori contemporanei. Altresì recepita dalla viva voce dei ‘cantautori’, ormai anch’essi superati nell’epiteto ma non nei fatti, inoltre sciorinata da una fiumana di ’rappers’ che ne fanno un uso, spesso indiscriminato, nei loro infiniti e impegnati scioglilingua, riscoprendo talvolta la piacevolezza della ‘rima baciata’, ancorché sincopata in digressioni verbali.
Guardata con sospetto e fatta oggetto di una tenace opera di demitizzazione da parte dei difensori dell’aulicità della forma e dello stile, l’attuale ‘forma poetica’, quella dell’Universo Iperconnesso, tanto per intenderci, va mostrando sempre più la sua vera essenza di ‘linguaggio primario’ sopra tutte le altre forme, fino a provocare un brivido negli amanti del ‘chiaro di luna’ che si sentono oltremodo diseredati della contestualità letteraria. Il nuovo linguaggio infatti, ancorché si possa dire nuovo, fa uso dell’essenzialità verbale che sfrutta la chiave onomatopeica dei ‘frattali’ per coniugare frasi e parole in contrazione, formazioni di nuovi sillogismi e deduzioni conflittuali che, per quanto insolite al nostro orecchio e alla nostra mente figurativa, possiamo definire ‘geomorfologiche’, benché immateriali, cioè teorizzate in senso ‘’ideale”, non per questo più valide di altre nel rapporto con l’attualità.
Se ne ha riscontro nelle tematiche polivalenti aggettivate con ‘iper’ e ‘super’ che trasformano gli eroi e i miti del passato in supereroi ‘Cyborg’ freschi di conio, che s’ergono comunque vittoriosi ancor prima di aver dato inizio alla battaglia sociale che hanno soltanto simulato sulla playstation. Tuttavia, incredibile a dirsi, riuscendo a dare una spiegazione ‘matematica’ alla ciclicità del ‘giro armonico’, sul quale in illo tempore si è costruita la scala musicale, la cui struttura si ripete sempre uguale su tutte le possibili scale di riproduzione. Ma, ed anche, a tutto quanto concepiamo come ‘comportamento caotico del nostro tempo’, indubbiamente di più difficile trascrizione narrativa che non sul pentagramma musicale. In quanto ‘composizione dodecafonica’ che, essendo esterna alla composizione stessa, risulta infine senza soluzione di continuità.
“Abissi”, conferma lo scrittore Gianmaria Ferrante, che di fatto non si dice ‘poeta’, per quanto comunque lo sia, costruisce e/o ri-costruisce in forma di ‘variazione poetica’ non tradizionale, la propria immagine di narratore del quotidiano, rivelando le sue potenzialità di fondo, nella cosiddetta ‘forma-a-specchio’ con la quale conferma la sua cifra costante. In cui l’autore, riemergendo dagli ‘abissi’ profondi della sua ricerca autobiografica, si sofferma perplesso sui significati non più scindibili dell’odierna società in cui viviamo …
“Io sono un testimone solitario / cultore di passato e futuro / vago tra le rovine di / città senz’anima / raccolgo a piene mani / il disastro di quanto l’uomo ha lasciato..” . “Solitario viaggiatore / giunto senza invito in questa notte aperta alla conoscenza, il racconto è già iniziato, lo spettacolo in pieno svolgimento, non ho (trovato) sedia alcuna, nemmeno un posto / riservato per l’ospite inatteso”.
Perplessità motivata dagli stravolgimenti che si trova ad affrontare sia sul piano individuale, sia sul piano sociale, afferente agli antefatti e agli accadimenti che si susseguono scomposti. Come per una recita teatrale senza copione dove, i personaggi s’agitano a vuoto sulla scena come burattini manovrati da un potere senza volto ma solo apparentemente senza velleità. Mentre dietro le quinte sollevano infinite guerre che noi eterni assenti non vediamo e/o che non vogliamo vedere, in cui l’ospite che arriva, c’è sempre un intruso nella commedia dell’arte, arreca solo inquietudine, timore, paura. La sua mano tesa alla cordialità non incontra la nostra comprensione e la necessaria solidarietà umana.
Infine la trama comunque si rivela, drammaticamente, nella definizione stessa di ‘abissi’ in quanto ‘buchi profondi’ che inghiottono in una dinamica assai complessa intere galassie, ovvero lasciano alla libera interpretazione degli scienziati, e non solo, d’immaginare altri ‘mondi paralleli’ in cui cercare il migliore dei mondi possibili. È in questo modo che Gianmaria Ferrante si lancia, fin con troppo rispetto del linguaggio poetico-narrativo che utilizza, nelle profondità pur intellettive dell’universo umano; e lo fa con la serenità dell’esperienza, di conoscitore delle pieghe amare della vita e che, al dunque, portano alla rivelazione, lì dove per una sorta dell’ironia della vita, non sempre ci è dato penetrare …
“Il mio vagare inconsulto (?), ti porgo un documento orfico, ispirato da un gatto cieco e un cane anchilosato; sono i baldi cavalieri di questo (nostro) tempo arcigno, due compari sbucati da un pertugio a caccia del solito sprovveduto”. “..di un qualche messaggio ispirato, (o forse) soltanto dello scarto di un lavorio continuo, un ammasso di parole consunte stese a macerare sopra il pavimento (dei ricordi?), il meglio gettato alla rinfusa / sul mucchio del compostaggio”.
Nei passi virgolettati qui riproposti, troviamo forse quelli che sono i momenti più significativi di “Abissi”, questo ‘dramma-minimo’ che ha il carattere di una ‘improvvisazione sul tema’ di ciò che è andato perduto, una sorta di rivisitazione risalente alle profondità più intime, frammenti che sono di volta in volta germinati dalla continua osservazione della materia umana, secondo la peculiarità che distingue il Gianmaria Ferrante poeta, dallo scrittore di romanzi impegnativi, come quelli, ad esempio, improntati sulle minoranze etniche. Ma, ed anche, da altri suoi scritti, dove egli guarda con nostalgia agli aspetti laterali della ‘storia’; svelando, di volta in volta, le ragioni della sua infinita ricerca, come a dar luogo a una stretta dipendenza operativa della realtà dei nostri giorni, di quella ‘storia universale’ che noi tutti, indipendentemente dagli accadimenti, andiamo scrivendo…
“Un possente turbine oscuro / sovverte ogni pensiero in questo giorno maledetto, si agita dal basso mostrando ai quattro testimoni (i quattro cavalieri dell’apocalisse?), l’avanzo nefasto di un intero millennio (trascorso), nel gorgo ruotano dei fasulli in concerto / i Grandi del passato bloccati contro il muro”.
“..ho visto troppo / per quanto mi compete e non potrò varcare / in futuro i confini eretti dal Tempo / un messale ho sottratto di nascosto, lo mostro orgoglioso / all’amico prudente rimasto in disparte / durante il viaggio”.
Che si voglia qui re-interpretare il passato per andare incontro all’incerto futuro? O, forse, si cerca di riscattare il passato che pure abbiamo vissuto senza averlo compreso fino in fondo? O magari soltanto affrancare, perché no, questo nostro mondo altero? Per quanto non ci è data risposta alcuna, il poeta Gianmaria Ferrante ci dice che: la ‘conoscenza’ è il solo grande motore dello sviluppo personale e comunitario che ci distingue in quanto esseri umani; che il futuro è però di chi prova almeno ad immaginarlo. E non solo per ciò che ci è dato apprezzare come dono ricevuto, ma per valorizzare al meglio ciò che dobbiamo conoscere del mondo che ci circonda, con spirito di dedizione e senso di appartenenza, in linea con le sfide che la società globale ci pone davanti.
In questo ‘poetico nulla’ incapace di giustificare il ‘vuoto olistico’ che il poeta ha creato attorno a sé, in quanto ‘abisso’ da cui non gli è possibile risalire, cosciente che la filosofia applicata al ‘nulla’ lo lascia indenne nella caduta. Viene da chiedersi a cos’altro appellarsi quando l’Empireo tutto, scende dal soffitto dipinto nella volta della Cattedrale che abbiamo elevata con così tanto affanno? Quali parole, quali verbi e, ancora, quali aggettivi deve imparare ad usare l’uomo, affinché egli comprenda che non nel ‘nulla’, né tantomeno nel ‘vuoto’ troverà infine il ‘senso’ della propria esistenza?

L’autore, Gianmaria Ferrante,
a 22 anni si reca in Inghilterra per mezzo di una borsa di studio e si diploma agli studi, con particolare riguardo alla letteratura Inglese. Tornato in Italia continua i propri studi e da inizio alla sua attività letteraria. Successivamente al suo ritorno in Italia pubblica "Una pallida notte", cesura ideale tra il passato ormai annullato e un ventennio di invenzione artistica e letteraria. Fa seguito la ‘Trilogia della Pietra’: “La Città Bianca”, “Mediterranea” e “Metropolis”, tradotte integralmente in Inglese da Peter De Ville; quindi il secondo romanzo "Un Uomo di Successo " (per video, book trailer e intervista vedi YouTube Gianmaria Ferrante). Quindi prosegue nella revisione di quanto realizzato con la stesura della ‘Trilogia del Magico’: “Vento del Nord”, “Il Cerchio Magico” premiato nel 2014 a Lecce, e “Notte a teatro”. Della successiva 'Trilogia del Sogno', nel mese di Febbraio 2015 viene pubblicata a Genova la silloge ‘I Cavalieri di Groen’. In Aprile 2016 esce per Golden Press “La Soglia”. Ritiratosi anzitempo dalla vita attiva per dedicarsi completamente alla letteratura, vive principalmente nella propria azienda biologica, visitata da volontari provenienti da ogni parte del mondo, situata nel Parco degli Ulivi di Puglia, in territorio di Ostuni.
Sul web: www.gianmariaferrantescrittore.it - www.ipoderidelsole.it.

Ɣ - Franca Maria Catri … O l’altrove indicibile della Poesia Contemporanea
“Ti chiedo al vento” – Anterem Edizioni / Cierre Grafica 2018.
Con un’espressione finemente poetica in apertura della sua silloge di recente publicazione “Ti chiedo al vento”, Franca Maria Catri ne offre al lettore un esempio tangibile: “..tra petali di libri / il tramestio di foglie / il giusto e l’ingiusto del fiore”. C’è un tempo di frattura minimale in cui si misura lo spazio restante da quello che precede l’attimo successivo, anche detto crack-up*, che si offre come spazio liminare all’impulso creativo da cui scaturisce la ‘luce’ primordiale e avveniristica dell’idea, dell’arte, della composizione musicale come della poesia. Impulso propulsivo che permette alla parola poetica di disgiungersi dalla materia letteraria e divenire pura essenza dispersa nell’aere della concettualità estetica e percettiva. Ciò che nulla toglie alla scrittura poetica allorché, nell’interscambio modale con il poeta, il lettore interpone la propria empatia a quella dell’autore/trice. In cui la chiave di lettura ‘psicologica’ è fissata nello stato d’animo del poeta in quello che è il suo momento creativo, nel coinvolgere emotivamente il lettore nel suo messaggio: lì dove l’amore per i libri, connaturale alla sostanza fibrosa della materia, si scioglie/sfoglia in petali di fiori che s’aprono alla nascente/morente stagione; in cui il frusciare delle pagine coincide con il tramestio delle foglie al vento/aere che l’accompagna attraverso l’arco/soglia posto tra l’inizio e la fine, al limitare de “il giusto e l’ingiusto del fiore”.
Quindi non la ricerca di una soluzione al crack-up iniziale, bensì il responso imperscrutabile di un ‘altrove indicibile’ che trova luogo nell’assenza, nel pieno/vuoto cosmico della sua proiezione filosofica nella poesia contemporanea; di un ultimo grado di investigazione cui sottoporre ogni intima certezza/incertezza della relatività umana. Una ‘immagine inadeguata del morire – scrive Flavio Ermini nella postfazione che accompagna la silloge poetica – in cui lo splendore essenziale, si fa strada attraverso l’inerzia della materia visibile e si riverbera proprio su quell’invisibile alfabeto che immaginiamo ..a un passo dal cuore’. Al dunque, “se la fine ha un principio” – rivela l’autrice Franca Maria Catri – la vita è ciò che sta nel mezzo, quanto ci concerne di apprezzare in quanto dono, nel bene e nel male di un ‘principio che contempla la fine’ quale mezzo di affrancamento al nostro pur meraviglioso esistere.

Ɣ – CINEUROPA – The Best of European Cinema –
Distribution tra maestri e nuovi talenti, articolo di Camillo De Marco.
04/12/2018 - Paolo Del Brocco presenta il listino, in linea con la tradizionale offerta di Rai Cinema fatta di commistione di generi. In produzione ci sono Igort, Bellocchio, Garrone, Amelio, Salvatores
01 Distribution, il braccio distributivo di Rai Cinema, registra in questa stagione una quota di mercato superiore al 12% , che conferma la media del 10-13% degli ultimi anni. Una quota che significa 70 milioni di incasso per 10-11 milioni di spettatori che scelgono prevalentemente cinema italiano. “Un dato importante che ci suggerisce, e in qualche senso ci impone, di continuare sulla stessa strada”, commenta Paolo Del Brocco, a.d. di Rai Cinema, che ha presentato la line up di 01 durante il Torino Film Festival. “Un listino ancora una volta costruito sotto il segno della varietà e della qualità, composto sostanzialmente da opere di grandi autori, esordienti di talento, pochi e selezionati titoli internazionali, che ci permetterà di dialogare con diversi segmenti di mercato”. Nei nove anni sotto guida di Del Brocco, Rai Cinema ha coprodotto 530 film, di cui solo il 12% di commedie. Tra i nomi che hanno arricchito il panorama dell’industria cinematografica italiana ci sono quelli di Sydney Sibilia, Matteo Rovere, Pif, Giancarlo Fontana e Giuseppe Stasi, Valerio Mastandrea, i Manetti Bros - il cui prossimo film sarà sul famoso personaggio dei fumetti Diabolik - e ora il maestro della graphic novel Igort.
Il film di Igort, intitolato 5 è “Il numero perfetto” (dalla sua omonima graphic novel), è una coproduzione Italia/Belgio/Francia. Nel cast di questo piccolo affresco napoletano nell'Italia anni Settanta ci sono Toni Servillo, Valeria Golino, Carlo Buccirosso.
“Uno dei segni predominanti è senz’altro la varietà e la commistione di generi. Alcuni registi giocano a distanza ravvicinata con le regole del genere puro”. Il film di Fausto Brizzi Modalità aereo è una commedia, ma anche un family. Non ci resta che il crimine di Massimiliano Bruno è una commedia girata con i toni di un gangster movie (leggi la news), Gli uomini d’oro di Vincenzo Alfieri è un noir metropolitano, Il campione di Leonardo D’Agostini è il classico coming of age (news), Dolceroma di Fabio Resinaro un giallo puro. E ancora Non sono un assassino di Andrea Zaccariello, un legal thriller tratto dall’omonimo romanzo di Francesco Caringella (news), Il grande spirito di Sergio Rubini il racconto di un’amicizia con i toni della commedia amara.
“E poi abbiamo anche alcuni autori che amano utilizzare i codici e i linguaggi del genere”. Gabriele Muccino torna con I migliori anni; Francesca Archibugi, anche lei maestra nel declinare i sentimenti, con Vivere, un’intensa storia familiare (news), e Gabriele Salvatores, di nuovo on the road con Se ti abbraccio non aver paura, questa volta per raccontare la storia di un padre e un figlio toccando temi come il disagio e l’handicap.
I maestri fanno una scelta che curiosamente li accomuna. “Marco Bellocchio, Matteo Garrone, Gianni Amelio, Mario Martone. Ognuno di loro sceglie di raccontare in modo assolutamente personale storie vere, personaggi storici, fatti realmente accaduti o storie universali conosciute in tutto il mondo”. Così fa Marco Bellocchio con Il traditore (news), Matteo Garrone con Pinocchio (news), Gianni Amelio con Hammamet, Mario Martone con Capri – Revolution [+]. E infine i titoli stranieri, tra cui Anna di Luc Besson, Le Prince oublié di Michel Hazanavicius (news), Beautiful Boy di Felix Van Groeningen.
Ɣ - Emma Dante e Daniele Luchetti supportati da Sicilia Film Commission
Articolo di Vittoria Scarpa per Cineuropa News.
12/12/2018 - Tra i 34 progetti cofinanziati dalla Regione, ci sono anche i nuovi lavori di Franco Maresco e Pasquale Scimeca, e i registi Emma Dante e Daniele Luchetti.
Trentaquattro produzioni audiovisive, tra lungometraggi, documentari, corti, fiction e serie TV, riceveranno un finanziamento dalla Regione Siciliana, attraverso l’Ufficio Speciale per il Cinema e l’Audiovisivo/Sicilia Film Commission, nell'ambito del programma Sensi Contemporanei Cinema. “Le istanze pervenute erano più di 70”, spiega Alessandro Rais, direttore di Sicilia Film Commission, “tra queste, sono stati selezionati 20 lungometraggi, 9 documentari, 5 corti, per un importo totale di cofinanziamento di €1.525.000 che, come verificato già negli anni precedenti, è in grado di generare una spesa diretta sul territorio siciliano pari al quintuplo”. Il primo tra i lungometraggi in graduatoria è Il Charleston, opera seconda di Emma Dante (dopo Via Castellana Bandiera [+]), sceneggiata da lei stessa insieme allo scrittore palermitano Giorgio Vasta e alla giornalista e scrittrice Elena Stancanelli. Tratto da uno dei più fortunati spettacoli teatrali della Dante (Le sorelle Macaluso), Il Charleston sarà prodotto da Minimum Fax Media. In graduatoria anche il film diretto da Franco Maresco, A 25 anni dalle stragi di mafia, prodotto da Ila Palma, con un nuovo, grottesco sguardo sulla Sicilia di oggi e il ritorno di alcuni memorabili personaggi del suo precedente lungometraggio Belluscone.
Fra le opere cofinanziate dalla Regione Siciliana anche il nuovo film di Pasquale Scimeca, L’isola delle meraviglie (Inno alla pace), un film sulla tradizione musicale siciliana che vede la collaborazione, tra gli altri, di Mario Crispi, storico componente della band degli Agricantus. E, sempre nella categoria lungometraggi, c’è il film diretto da Daniele Luchetti Momenti di trascurabile felicità e infelicità, trasposizione dell’omonimo romanzo del Premio Strega Francesco Piccolo, girato nei mesi scorsi a Palermo. Tra gli interpreti, Pif e Renato Carpentieri.
Tra i lungometraggi che saranno realizzati in Sicilia figura inoltre la produzione inglese The Winter’s Tale, trasposizione dell’omonimo dramma shakespeariano, con la regia dell’attore e regista britannico Sacha Bennett. Girato in larga parte in Sicilia, il film sarà realizzato dalla casa di produzione Three Wise Monkeys Productions. Si segnala poi il lungometraggio d’esordio del regista palermitano Paolo Licata, che ha iniziato da poco le riprese a Favignana di Picciridda, trasposizione dell’omonimo romanzo di Catena Fiorello.
Tra i nove documentari selezionati, torna il nome di Franco Maresco, che dirigerà anche Goffredo felicissimo, prodotto dall’Associazione Lumpen, ripercorrendo il sodalizio ultradecennale che lo lega a Goffredo Fofi, intellettuale, saggista e critico di punta (e “di culto”) nel panorama nazionale. Tra i film per la televisione, oltre a Il commissario Montalbano 17 prodotto da Palomar, si segnala Lacrime di sale, ispirato al libro-testimonianza del medico lampedusano Pietro Bartolo (reso noto da Fuocoammare di Gianfranco Rosi) con Sergio Castellitto nel ruolo del protagonista e la regia di Maurizio Zaccaro, e la seconda stagione di Il cacciatore, serie che si è aggiudicata il premio della miglior interpretazione (per Francesco Montanari) alla prima edizione di Canneséries, il Festival internazionale delle serie tv di Cannes.

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- Arte

2 Christmas happiness / Natale con voi a Brera

2 CHRISTMAS HAPPINESS / NATALE CON VOI

In cerca del regalo perfetto da fare agli altri (soprattutto a se stessi): qualche libro, un certo evento, quanto basta di poesia, qualche mostra, forse un concerto, il resto createlo Voi lettori … in fondo il Natale è anche Vostro, o no?

LA BELLEZZA DI ASPETTARE IL NATALE

Quante cose possono succedere in una notte? Figuriamoci se si tratta della notte di Natale!Alla Pinacoteca di Brera ascolterai i racconti dei protagonisti e scoprirai tutto ciò che è accaduto. Insieme costruiremo la capanna, la mangiatoia, il viaggio della stella cometa… Sarà il tuo presepe.

QUEL PIANOFORTE A BRERA:

Brera di Sera per Milano – La Pinacoteca di Brera propone una serie di aperture serali per e con la città di Milano.
In questo appuntamento Brera/Musica, Archivio Storico Ricordi e Yamaha Music Europe presentano un concerto pianistico dedicato alla riscoperta del vastissimo catalogo musicale di Casa Ricordi.
Orario: Concerto: dalle ore 19:30 alle 20:30; apertura serale Pinacoteca di Brera fino alle ore 22.15 (chiusura biglietteria ore 21.40)

Ingresso: Il concerto è compreso nel costo del biglietto d'ingresso della Pinacoteca di Brera. L’iniziativa muove i passi dal patrimonio musicale del celebre editore milanese, il cui patrimonio storico dal 2003 è ospitato nel Palazzo di Brera, per “rivitalizzare” composizioni più o meno note attraverso l’esecuzione nelle meravigliose sale del Palazzo di Brera.

I concerti saranno inoltre arricchiti da “pillole” d’archivio, ovvero brevi approfondimenti divulgativi che permetteranno, grazie ai materiali dell’Archivio, di contestualizzare le creazioni artistiche nel tessuto sociale del loro tempo.

Programma:
R. Wagner, Sinfonia “Il vascello Fantasma”, da “L’olandese volante”
R. Wagner, Sinfonia, da “Tannhauser” (riduzione a 4mani di H. von Bulow)
C. Gounod, Coro dei soldati, da “Faust” (riduzione a 8mani di G. Trombetta)
G. Rossini, Sinfonia, da “La gazza ladra” (riduzione a 8 mani di M. Decourcelle)
G. Rossini, Sinfonia, da “Guglielmo Tell” (riduzione a 8mani di F. Fasanotti)

I SERVIZI EDUCATIVI:

Qual è il nostro ruolo?
Crediamo che il Museo sia un luogo di crescita culturale, scoperta, confronto, integrazione e inclusione sociale. Lo immaginiamo aperto alla città e al mondo. Vogliamo che sia per tutti un posto piacevole e gioioso: un luogo di cui innamorarsi.
Esiste un diritto al patrimonio culturale, che va conquistato abbattendo tutte le barriere, visibili ed invisibili. Lo affermano sia l’articolo 9 della Costituzione italiana che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Noi dei servizi educativi della Pinacoteca di Brera lavoriamo per aprire le porte del museo, per renderlo accessibile al più ampio numero possibile di persone.

Cosa facciamo?
Proponiamo – per adulti, bambini, singoli e famiglie – visite e approfondimenti gratuiti (Brera si racconta).
Cerchiamo strade nuove per raggiungervi in modo inedito (#breraunaltrastoria e #raccontamibrera e fra poco arriveranno nuove proposte… curiosi?).
Dedichiamo progetti specifici alle scuole di vario ordine e grado (Alla scoperta di Brera, A Brera anch’io).
Coordiniamo le attività di divulgazione del concessionario di servizi (Aster) e condividiamo anche le attività didattiche dell’Associazione Amici di Brera (Il Museo, una risorsa per la scuola)

Il personale dei Servizi Educativi lavora per valorizzare il museo come ambiente educativo dotato di proprie specifiche caratteristiche e per renderlo accessibile al più ampio numero possibile di persone.
Lo Staff, personale interno qualificato della Pinacoteca di Brera, organizza ogni mese, da giovedì a sabato, laboratori e percorsi gratuiti, compresi nel prezzo del biglietto d’ingresso:

BRERA SI RACCONTA: alla scoperta della Pinacoteca e delle sue collezioni.

• ITINERARI al sabato che offrono al visitatore uno sguardo attento e dettagliato sulle collezioni della Pinacoteca di Brera.
• ITINERARI-LABORATORI, il sabato pomeriggio, per bambini da 5 a 12 anni, per avvicinare i più giovani al mondo dell’arte e del museo.
• MEZZ’ORA CON… vengono proposti al pubblico dei brevi approfondimenti su opere e artisti della Pinacoteca in occasione delle mostre temporanee.

OFFERTA AMICI DI BRERA:

L’Associazione Amici di Brera e dei Musei Milanesi, fondata nel 1926 per sostenere la Pinacoteca di Brera e diffondere la conoscenza del patrimonio artistico, offre percorsi rivolti ad ogni tipo di pubblico.
• PER GLI ADULTI: visite guidate a Brera, in lingua italiana – inglese – francese – tedesco e spagnolo. Le visite possono essere rivolte ai maggiori capolavori o rivolgersi approfonditamente solo ad alcune opere richieste.

PER LE SCUOLE:

• SCUOLA DELL’INFANZIA: percorsi che prevedono una visita guidata in Pinacoteca alla scoperta del luogo “museo”seguiti da un approfondimento delle tematiche della visita grazie ad un laboratorio appositamente costruito.
• SCUOLA PRIMARIA E SECONDARIA: la visita guidata prevede la distribuzione di materiale didattico a ciascun allievo, a seconda dell’itinerario prescelto dall’insegnante.
• LICEI E GLI ISTITUTI SUPERIORI: oltre a sensibilizzare gli studenti al rispetto del patrimonio culturale ed alla sua conoscenza, i percorsi offrono gli strumenti per comprendere il fenomeno artistico nelle sue varie articolazioni.
• CORSO D’AGGIORNAMENTO “IL MUSEO, UNA RISORSA PER LA SCUOLA”: da 17 anni l’Associazione sostiene il corso d’aggiornamento rivolto agli insegnanti delle scuole secondarie inferiori e superiori, riconosciuto dall’ufficio scolastico regionale. Il corso ed il materiale in distribuzione sono completamente gratuiti e le lezioni sono tenute da esperti di storia dell’arte e di didattica.

OFFERTA ASTER:

Aster è una società specializzata nella didattica museale, incaricata dei servizi di guida e assistenza didattica presso la Pinacoteca di Brera, in italiano o in lingua straniera. Tutte le attività didattiche sono concordate con i Servizi educativi della Pinacoteca di Brera, che ne curano la correttezza dei contenuti ed il rispetto delle specificità. E’ possibile scegliere un percorso itinerante, relativo a un determinato periodo storico o storico-artistico, che viene affrontato con la visita di opere della Pinacoteca e di monumenti ed edifici limitrofi al Palazzo di Brera.

• PER GLI ADULTI: percorsi guidati attraverso le collezioni del Museo – incentrati o sui capolavori della Pinacoteca, o su opere relative ad un preciso arco cronologico o sulla storia degli allestimenti – per contribuire ad approfondire le competenze e a fornire strumenti di lettura che arricchiscano il proprio bagaglio culturale.

• PER LA SCUOLA DELL’INFANZIA: visite guidate accompagnate da attività semplici ed interattive, per avvicinare i più piccoli al mondo dell’arte stimolando curiosità e partecipazione.

• PER LA SCUOLA PRIMARIA: visite dedicate alle opere più significative delle collezioni, viste con l’occhio del pittore e con l’ausilio di materiale didattico, ma anche percorsi rivolti alla scoperta delle istituzioni ospitate nel Palazzo di Brera e delle diverse attività di conservazione, ricerca e divulgazione che vi si svolgono. Per il primo e il secondo ciclo della scuola primaria l’offerta è differenziata, con percorsi incentrati su tematiche particolari come il colore, il ritratto o il paesaggio, che possono essere approfonditi anche attraverso un’attività di laboratorio.

• PER LA SCUOLA SECONDARIA: visite guidate alle collezioni, che possono, su richiesta, essere o incentrate su un determinato arco cronologico e sviluppate con diverso grado di complessità, per accompagnare il percorso di studio di storia dell’arte condotto dagli studenti, oppure circoscritte all’approfondimento “sul campo” di argomenti affrontati in varie discipline del programma scolastico.

DA NON PERDERE A DICEMBRE:

01/12/2018 | 02/12/2018 | 06/12/2018 | 12/12/2018 Giovani e adulti
Chiacchierata tra le sale di Brera.
Percorso dedicato a: tutti Quando: 01/12/2018 | 02/12/2018 | 06/12/2018 | 12/12/2018 Orario: sabato 1 dicembre, ore 11.00; domenica 2 dicembre, ore 9.30 e 12.00; giovedì 6 dicembre, ore 20.30; mercoledì 12 dicembre, ore 11.00.
Brera propone ai suoi visitatori un tour gratuito della Pinacoteca (incluso nel biglietto d’ingresso) che racconterà la storia del museo e delle sue collezioni, con speciale attenzione ai grandi capolavori.
Un excursus storico-artistico volto a far conoscere uno dei più importanti musei nazionali che, con il riallestimento in corso, vuole raccontarsi a tutti in modo nuovo.

SPECIALE RESTAURO
Il restauro trasparente è a cura dei restauratori della Pinacoteca di Brera.
Percorso dedicato a: tutti Quando: 13/12/2018 Orario: 12.00.
Nel corso dell’incontro sarà presentato il laboratorio nella sua struttura, con approfondimenti relativi alle attività di conservazione e ai restauri in corso, lasciando spazio alle domande dei visitatori.

SPECIALE OSPITE: "La Cena in Emmaus" di Rembrandt
Percorso dedicato a: tutti Quando: 15/12/2018 Orario: 11.30 Durata: 45'.
Visita dedicata alla Cena in Emmaus di Rembrandt, in prestito dal Musée Jacquemart-André di Parigi, tra le opere più significative del periodo in cui il grande maestro olandese tenne bottega nella natia Leida, prima di trasferirsi nella più ricca Amsterdam.
Cristo è una silhouette scura, generata da una forte luce della quale non vediamo l’origine: è una luce simbolica che ai discepoli stupiti manifesta il Risorto e a noi quanto Rembrandt sia già poeta di luce.

TALKS IN THE GALLERY:
Reserved for: all When: 15/12/2018 Hour: 11.00 a.m.
We offer to our visitors a free guided tour (all included in the ticket cost) that will lead you through the gallery rooms, telling you the history of Brera Museum and its collections, with special attention to the great masterpieces. It is a historical and artistic excursus to know one of the most important national museums in Italy.

13/12/2018 Pinacoteca di Brera, Sala della Passione
Guido Crepax 'Lanterna Magica'
Bottega Brera – La Pinacoteca di Brera e Skira editore hanno il piacere di invitarla alla presentazione della nuova prestigiosa LIMITED EDITION.
Orario: 17.30
Ingresso: ingresso libero fino ad esaurimento posti
Partecipano
Antonio, Caterina e Giacomo Crepax
Interviene
Paolo Barcucci
esperto di fumetto d’autore

Pubblicato per rendere omaggio alla prima edizione della graphic novel datata 1978, la Limited Edition di Lanterna Magica è un libro di grande formato impreziosito da tre serigrafie numerate e autenticate dall’Archivio Guido Crepax e da una tavola artistica autografata da Lorenzo Mattotti. La storia, interamente disegnata da Crepax, è esempio di grafica modernissima e di ambientazioni e contesti “fuori dalle dimensioni storiche”. La prima edizione era stata introdotta da un testo di Gillo Dorfles che qui viene riportato integralmente e che riposiziona il valore delle tavole di Valentina non solo all’interno della prospettiva creativa di Guido Crepax ma, soprattutto, nel conte- sto artistico del panorama europeo.

Scrive Gillo Dorfles: “Quali vicende attendono, ancora una volta, Valentina nelle tavole di questa nuovissima Lanterna Magica? Ancora le catene, le torture, le fustigazioni, gli adescamenti? O, invece, Crepax intraprende una ulteriore vivisezione del suo personaggio e lo immerge nel limbo della memoria per finalmente redimerlo? Valentina vive in un tempo e in uno spazio mitico, fuori dalle dimensioni storiche, dalle concatenazioni causali, ma tuttavia sottoposta a tutte le lusinghe, le attese, le ripulse, che nel mondo reale potrebbero aggredirla e invischiarla… In questo libro Crepax ci dà un quadro più complesso, forse il più completo della sua eroina… Infatti, scorrendo uno dopo l’altro questi fogli, ci addentriamo in un racconto che possiede un suo intreccio, un principio, una fine…
Mentre il costante ed ambiguo sorriso di Valentina, sotto la frangetta impeccabile alla Louise Brooks, continua ad ammaliare il lettore, forse troppo affascinato per riuscire a discernere di quali sottili astuzie si valga l’autore, per ottenere la costante palingenesi del suo personaggio”.

Le 216 pagine dell’opera sono stampate su preziosa carta avorio e arricchite da un omaggio autografo di Lorenzo Mattotti espressamente realizzato per il volume.
Il progetto Lanterna Magica, Skira Limited Edition, è tirato a 300 copie e diviso in tre varianti caratterizzate, ognuna, da una serigrafia autenticata dall’Archivio Crepax: Imitazioni, Riflesso e Bambole.
Il volume è contenuto in una scatola a pozzetto, interamente rivestita in tela, con tavola applicata e trancia bianca; ogni serigrafia è inserita in una cartella rivestita in tela posta sopra il volume.
La scatola è contenuta in un canneté protettivo.

PINACOTECA DI BRERA
Via Brera, 28
20121 Milano
fax: +39 02 720 011 40
pin-br@beniculturali.it
Segreteria della direzione
Amedea Fariello
tel. +39 02 722 63 203
PRENOTAZIONI
www.vivaticket.it
tel. 02 92 800 361

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- Libri

Christmas happiness / Natale con voi - libri e altro

CHRISTMAS HAPPINESS / NATALE CON NOI

In cerca del regalo perfetto da fare agli altri (soprattutto a se stessi): qualche libro, un certo evento, quanto basta di poesia, qualche mostra, forse un concerto, il resto createlo Voi lettori … in fondo il Natale è anche Vostro, o no?

Quello riproposto qui di seguito è un articolo datato al Natale 2017 (rivisto e aggiornato) che penso possa interessare quanti oggi si pongono domande sulla validità dei simboli di questa festa ormai millenaria con la quale onoriamo la sacralità dell’Avvento, che non è solo d’appartenenza alla religiosiotà cristiana, bensì all’intera comunità antropica che vede nella famiglia un approccio di ricongiungimento con la natura umana.
L’articolo non da risposte, in qualche caso semmai, suscita ulteriori domande; per quanto io credo possa entrare nelle argomentazioni dei molti, a incominciare proprio da quella fede cristiana che in parte ha contribuito alla creazione di tanta storia che ci riguarda da molto vicino: dalla letteratura, all’intrattenimento, alla visualizzazione di tanta arte che ancora oggi illumina il mondo.

Ɣ - MEDITAZIONE DI DON LUCIANO - III Domenica di Avvento, ci vuole un segnale luminoso!
“Dal Vangelo secondo Giovanni” (1,6-8. 19-28):

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: “Tu chi sei?”. Egli confessò e non negò. Confessò: “Io non sono il Cristo”. Allora gli chiesero: “Chi sei, dunque? Sei tu Elia?”. “Non lo sono”, disse. “Sei tu il profeta?”. “No”, rispose. Gli dissero allora: “Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?”. Rispose: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia”. Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: “Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?”. Giovanni rispose loro: “Io battezzo nell’acqua in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me; a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo”. Questo avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

La dimensione dell’attesa del Signore non può concludersi con la festa di Natale, ma la testimonianza del Signore che viene deve durare per tutta la nostra vita. La liturgia non ci parla mai in astratto. Ci dà degli esempi concreti; passa la parola ai testimoni.
In questa terza domenica di Avvento tocca ancora a Giovanni Battista: il primo vero testimone di Gesù. Dice l’evangelista Giovanni: il Battista venne come testimone; venne per rendere testimonianza alla luce (Cristo è la luce). La nostra felicità di uomini sta tutta nel vivere una bella relazione con Dio e in particolare con il Signore Gesù.
Mi piace allora soffermarmi un po’ sulla relazione stretta che intercorre
tra il Battista e Gesù:

Partiamo dal Vangelo. Sacerdoti e levìti, inviati da Gerusalemme, interrogarono Giovanni: ‘Chi sei tu?’ Giovanni risponde con tre ‘no’: Io non sono il Cristo! Io non sono Elia! Io non sono il profeta! Dicendo: ‘Io non sono!’, in un certo senso Giovanni dimostra di non avere una sua identità. La sua identità è quella di non avere identità. L’identità di Giovanni consiste in una sorta di progressiva autoriduzione, così da occupare il minor spazio possibile; Lui deve crescere, io devo diminuire (Gv 3,30). Invece di scegliere la via dell’addizione (titoli, competenze), come spesso facciamo noi, preoccupati di gettare luce su noi stessi (identità narcisistica), lui sceglie la via della sottrazione: ‘Io non sono!’. Ma la sua non è una testimonianza negativa, come di un depresso, che dice di non valere niente, con il complesso di inferiorità a fior di pelle.

Perché subito dà di sé una testimonianza positiva:‘Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore!’. Come dire: io non sono quello che gli altri credono di me; io non sono il mio ruolo e neanche il mio peccato. Io sono voce, un Altro è la Parola; io sono trasparenza di qualcosa che viene da oltre. Io sono persona=suono che cresce, voce che sale. Io sono al secondo posto, Perché so chi tiene il primo posto! Giovanni ha trovato la sua identità non in se stesso, ma in un Altro.La sua identità è tutta relativa a Cristo, sta tutta nella relazione con Cristo. Il Battista non lavora per se stesso, ma per un Altro. È voce che prospera e che indicherà il Cristo ai suoi discepoli. E i suoi discepoli seguiranno il Signore.

Del resto, a pensarci bene, solo Cristo può dire: ‘IO SONO’ (eco del nome divino: JHWH). Per cui, la nostra identità ci rimanda oltre a noi, ad un Altro; si fonda tutta sull’IO SONO di Cristo. Se noi non siamo ben collegati con l’identità di Cristo, noi ‘non siamo’, anzi, non siamo niente! Senza di me non potete far (essere) niente!La Chiesa deve preoccuparsi di indicare il Cristo e non se stessa. La tentazione del prestigio e del potere è sempre presente. Mi pare che il compito essenziale della Chiesa e del cristiano sia indicare Cristo e fare in modo che gli uomini incontrino lui personalmente, che interiorizzino la sua presenza. L’azione rappresentativa è ciò che conta e non l’azione produttiva. […]

Forse oggi l’annuncio del Vangelo spesso non è capace di conquistare e di accendere il cuore delle persone, perché viene dispensato dall’alto, da chi ama dire ‘io’ e si atteggia a professionista della Parola di Dio, invece di sentirsi discepoli e servitori. Giovanni Battista ammonisce la Chiesa e gli evangelizzatori a non esigere sguardi su di loro, a non parlare di se stessi, a non trattenere presso di sé chi deve essere condotto solo a Cristo! In questo tempo di narcisismo religioso, Giovanni è una presenza che ci interroga e ci giudica.Facciamo in modo che la nostra relazione con Cristo diventi talmente stretta da arrivare a dire anche noi con S. Paolo: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me! Non agisco più secondo la mia coscienza, ma secondo la coscienza e l’Io di Cristo”. Solo così il cristiano è uno che ‘fa problema’ agli occhi degli altri. È uno che con la sua presenza interpella, scuote, sconcerta, mette in crisi le certezze abituali e costringe a cercarne delle altre.

‘Dicono gli empi: “Tendiamo insidie al giusto, che è per noi di incomodo... è diventato per noi una condanna dei nostri pensieri; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita non è come quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade...’ (Sap 2, 12. 14-15).Se siamo presenza neutre e insignificanti, perché pienamente omologate al mondo circostante, integrate nei gusti, nelle scelte, nei rituali mondani di tutti, abbiamo già fallito la nostra identità di cristiani. Ciò che importa è essere in mezzo ai fratelli con la massima naturalezza, ‘da cristiani’. Questo sicuramente porterà gli altri a interrogarsi sul segreto di questa diversità. Proclamare la differenza cristiana in mezzo agli altri nella massima naturalezza.

È ben giusto che Giovanni, inviato per annunciare l’imminente venuta del supremo giudice, riceva il titolo di angelo, di messaggero, perché il suo nome non deve essere indegno della missione che svolge. […] E che nessuno mi venga a dire: “Io non sono capace!”. Se credete di aver fatto qualche passo avanti, cercate di trascinare anche gli altri con voi; guardatevi dal rifiutare al prossimo l’elemosina della parola. E’ su di lui, il giudice sovrano, che dovete fissare lo sguardo del vostro cuore; è lui che dovete rendere presente allo spirito di coloro che vi circondano. In questo modo, se non trascurate di annunciare la sua venuta per quanto siete capaci di farlo, meriterete di essere annoverati da lui, come Giovanni, nel numero degli angeli’ (S. Gregorio Magno).
a cura di Mirella Clementi miry.clemy@gmail.com


Ɣ - GLI INTELLETTUALI GIUDICANO LA RELIGIONE
Da "Almanacco di filosofia" - MicroMega newsletter | 14 dicembre 2017 | www.micromega.net

l rapporto fra gli intellettuali e la religione è il tema principale dell’Almanacco di filosofia di MicroMega,ebook [Amazon Apple BookRepublic Feltrinelli] e iPad.
A distanza di quasi settant’anni, la rivista diretta da Paolo Flores d'Arcais ripubblica il questionario che la storica rivista della sinistra americana Partisan Review sottopose nel 1950 ad alcune delle più importanti personalità dell’epoca. Per la prima volta sono presentate oggi al lettore italiano le risposte che diedero allora il poeta W.H. Auden e i filosofi John Dewey e J.A. Ayer, i quali si interrogavano sui motivi di ciò che appariva come un ritorno della religione.

Tra gli autori contemporanei che hanno risposto ora allo stesso questionario riproposto da MicroMega corredato da un addendum, Ian Tattersall, Jack Miles, Silvio Garattini e Giulio Giorello si concentrano sul difficile rapporto che ha sempre caratterizzato fede e scienza. È invece più direttamente il connubio fra religione e politica al centro di un altro gruppo di risposte:

Niles Eldredge ricostruisce dal punto di vista della biologia evoluzionistica la relazione fra organizzazione socio-economica e dimensione teologica; Paula Fredriksen delinea una breve genealogia della relazione fra fenomeno religioso e istituzioni politiche a partire dal pluralismo pratico pagano; Siri Hustvedt rileva un dualismo manicheo, che caratterizza la società contemporanea, denunciando i limiti di una cultura fondata sulla paura della contaminazione. Infine, secondo Boualem Sansal, la crisi delle ideologie del XX secolo è una delle ragioni di un revival della religione che sfocia in quei fenomeni sempre più noti quali fondamentalismo, integralismo e settarismo, mentre Ayaan Hirsi Ali mette a confronto l’evoluzione storico-filosofica del cristianesimo e dell’islam, sottolineando come quest’ultimo sia la cartina al tornasole di una sfida che l’Occidente deve affrontare.

Il numero ospita anche la voce di Roger Lenaers, rappresentante della ricerca teologica di frontiera nota come paradigma post-religionale, che si esprime sul rapporto fra modernità e fede. In conversazione con Claudia Fanti, il gesuita belga racconta il suo impegno per una riformulazione completa della dottrina cattolica e per una religione senza dogmi né gerarchie. È ancora la religione il tema di uno dei due inediti pubblicati per la prima volta in italiano: alcuni estratti da "Il Sacro Contagio" scritto dal barone Paul-Henri Thiry d’Holbach – accompagnati da una presentazione di Paolo Quintili – opera chiave della battaglia filosofica dell’Illuminismo e uno tra i testi fondatori dell’ateismo contemporaneo.

Il secondo inedito è una conferenza di Theodor W. Adorno, La cultura risorta, scritta nel 1949 in occasione del ritorno a Francoforte dall’esilio americano, in cui, come spiega l’introduzione di Leonardo V. Distaso, l’autore si interroga sulle reali condizioni di una rinascita, sul futuro della Germania e, più in generale, dell’Europa. In omaggio uno dei maggiori filosofi italiani del dopoguerra, MicroMega ripubblica inoltre il saggio di Guido Calogero, Leggendo Heidegger, serrata critica all’autore di Essere e Tempo, il cui pensiero si caratterizza – come sottolinea nella sua presentazione Giorgio Cesarale – per una commistione fra gnoseologia moderna e ontologia antica, risultando così ostile a una mentalità scientifica.

Arricchisce il numero una sezione dedicata all’“antifemminismo dei gender studies”, la quale comprende tre testi – di Vojin Saša Vukadinovic, Judith Butler e Sabine Hark, e infine Alice Schwarzer – che hanno animato ad inizio anno il dibattito in Germania sulla deriva identitaria e settaria degli studi di genere, sul rapporto fra sessismo e razzismo, emancipazione e appartenenza, diritti e politiche identitarie, interrogandosi su cosa vuol dire oggi esser femminista.

A dieci anni dall’uscita del volume "The Lucifer Effect" pubblicato dallo psicologo P. Zimbardo e dallo scandalo di Abu Ghraib, Carlo Scognamiglio ritorna nel suo saggio sul tema dei processi di deumanizzazione, che trasformano l’uomo in carnefice e chiamano a una riflessione sull’origine del male. Chiude il numero lo scambio fra la psicoanalista Simona Argentieri e il premio Nobel per la letteratura J.M. Coetzee: un dialogo che affronta la questione della verità e della narrazione, si allarga dalla dimensione individuale a quella collettiva e tocca i nodi salienti delle società contemporanee, come il pregiudizio, le illusioni trascendenti, le culture post-coloniali fino all'aggressività umana e ai tentativi di controllarla.

Il Sommario:
“Heri Dicebamus”
Guido Calogero con una presentazione di Giorgio Cesarale - Leggendo Heidegger
Oggi c'è chi, con aria di novità, afferma che la filosofia di Heidegger sia contro la scienza. Una critica perfettamente condivisibile, che però non è affatto nuova. Già nel 1942 Guido Calogero analizzava con lucidità e una punta di sarcasmo tutti i nodi critici del pensiero heideggeriano. A partire dalla intollerabile commistione fra gnoseologia moderna e ontologia antica. Un testo, pubblicato nel 1950 dalla Rivista di Filosofia, che riproponiamo al lettore come omaggio a un filosofo ingiustamente trascurato.

ICEBERG 1 - gli intellettuali e la religione (2)
W.H. Auden – “La religione minacciata dall’arte”:
“Viviamo in un periodo storico di rivalità tra diversi fanatismi religiosi”, “vivremo in un mondo sempre più contraddistinto da una sola cultura ma da tante fedi (assumendo, beninteso, che il comunismo non conquisti infine l’intero pianeta)”. Nel pensare il rapporto fra religione e intellettuali si è portati a ragionare sulla maggiore o minore compatibilità della prima con la scienza. Ma per il grande poeta anglo-americano, interpellato nel 1950 dalla Partisan Review nell’ambito della sua inchiesta su ‘intellettuali e religione’ quello con la scienza non è affatto il rapporto più problematico, perché la Chiesa avrebbe ormai imparato ad accettare le acquisizioni della scienza. Il vero conflitto è fra religione e arti, per le quali dogmi e miti sono la stessa cosa.

A.J. AYER – “L'illusione consolatoria della religione”:
A molti risulta insopportabile l'idea che ciò che esiste e accade – inclusi noi stessi – sia del tutto contingente, con la conseguenza che il valore e il senso della vita dipendono interamente da noi. E per questo trovano consolatoria l'illusione fornita dalla religione che ci possa essere una risposta alle domande di senso. Eppure, concludeva quasi settant'anni fa uno dei capiscuola della filosofia analitica interpellato dalla Partisan Review, prendere coscienza della propria finitezza avrebbe una conseguenza della massima importanza: riconoscere che, “se la vita dev’esser degna di essere vissuta, sta a noi renderla tale”.

John Dewey - La scienza nell'epoca della sfiducia
Le due guerre mondiali hanno rappresentato uno spartiacque nella storia, mettendo in crisi la fiducia, prima piuttosto diffusa, in un costante progresso dell'umanità. Questa crisi ha travolto anche la scienza, che ha dimostrato di poter servire anche la causa della morte e della distruzione. Questa, secondo il celebre filosofo statunitense, la ragione del ritorno del religioso sperimentato agli inizi degli anni Cinquanta, quando la Partisan Review propose la sua inchiesta. Anche se le stesse religioni – e la storia lo dimostra – sono state foriere di conflitti e violenze.

Boualem Sansal – “Vuoto esistenziale, violenza e ritorno della religione”:
La religione si caratterizza da sempre per la sua forza evocativa, la sua capacità di mobilitazione e il potere di rispondere a un bisogno di senso. Radicata nella realtà antropica in virtù della prospettiva escatologica che consola l’essere umano dalla paura della morte, implica però dinamiche di potere e si costituisce come sistema di governo e organizzazione. A seguito della crisi delle ideologie del XX secolo, della delusione della promessa democratica, della cultura dell’eccesso assurta a hybris edonista, e delle conseguenti frustrazioni, assistiamo ad un revival della religione: che nella società contemporanea riconquista una centralità come violenza apocalittica e purificatrice, con i caratteri del fondamentalismo, dell’integralismo e del settarismo.

Silvio Garattini – “L'amore per l'altro che unisce scienza e fede”:
Se scienza e religione si fondano su princìpi completamente diversi e dunque in sé non possono ‘dialogare’, scienziati e ricercatori possono – e sarebbe auspicabile che lo facessero – mettersi in reciproco ascolto. Perché quel che muove – o dovrebbe muovere – entrambi è l'amore per il prossimo e per il nostro pianeta. Su temi come la salute e l'ambiente, pertanto, un simile dialogo non può che portare frutti positivi.

Siri Hustvedt – “Contaminazione vs dogma”:
Le tesi psicoanalitiche di Melanie Klein e Otto Kernberg e la cibernetica di Norbert Wiener – così come i discorsi demenziali del senatore McCarthy settant’anni fa e di Donald Trump oggi – mettono in luce come la nostra cultura si fondi su un dualismo comune a politica, religione e scienza. Teso ad assicurare purificazione, ordine e immortalità, tale dualismo rischia di produrre una concezione manichea che, attraversando la società in generale, mette al bando ogni forma di contaminazione, ambiguità o compromesso. Contro ogni dogma sembra allora opportuno, come afferma l’autrice attraverso il riferimento a Mary Douglas, prendere coscienza del fatto che la purezza è nemica del cambiamento e augurarsi un allentamento di confini netti fra ordine e caos, bene e male.

Ian Tattersall – “Quel pendolo che oscilla tra scienza e fede”:
La recente rinascita della religione negli Stati Uniti – e la sua rinnovata espressione nella sfera politica – ha radici profondamente economiche. La fase di espansione senza precedenti che caratterizzò la seconda metà del XX secolo, vide scienza e secolarismo avanzare, mano nella mano, verso quello che si pensava un futuro migliore e più razionale per il genere umano. Oggi che l'economia mondiale procede a tentoni verso l'ignoto, vediamo un'attività religiosa fondamentalista militante non solo proliferare negli Stati Uniti, ma espandersi progressivamente da una parte all'altra del nostro già sovrappopolato pianeta. In tempi buoni, a quanto pare, abbiamo meno bisogno di Dio. E viceversa.

Jack Miles – “La scienza non spiega tutto”:
Quando la Partisan Review pubblicò la sua indagine sul rapporto tra intellettuali e religione, l’adesione alle varie Chiese aveva raggiunto livelli mai registrati prima (e mai più raggiunti). In Europa, i partiti dichiaratamente cattolici andavano al potere giocando un ruolo fondamentale nella ripresa dal fascismo. Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Robert Schuman: erano tutti politici accomunati da un cattolicesimo condiviso, tra i quali, naturalmente, occorre annoverare anche Charles de Gaulle. Oggi invece né da una parte né dall’altra dell’Atlantico è dato trovare un loro equivalente contemporaneo, antifascista e formato su ideali religiosi. A contrastare il declino verso la disintegrazione sociale non sono emerse ideologie laiche o nuove visioni religiose. Il panorama è dominato da una desolante ipocrisia spirituale.

Paula Fredriksen – “Dal pluralismo pagano al Dio totalitario. Breve storia del rapporto fra religione e politica”:
La storia ci insegna che tra religione e politica c’è sempre stato un rapporto inscindibile, tanto che l’Illuminismo rappresenta una breve parentesi di secolarismo che non mette però in questione questo legame che caratterizza l’Occidente. A partire dalle forme di evangelicalismo della destra americana e del jihadismo islamico contemporaneo, l’autrice delinea una breve genealogia dei rapporti fra fenomeno religioso e organizzazione politica: risalendo fino al pluralismo pratico dell’antica Grecia, il saggio ripercorre le tappe che hanno condotto alle persecuzioni e al mondo moderno per mostrare così le implicazioni fra istituzioni e fede.

Giulio Giorello – “La scienza antidoto al fanatismo”:
Se da un lato ciascuno, dunque anche gli scienziati, può credere in quel che vuole – credenze che sono libere finché però non nuocciono agli altri – dall'altro, chi lavora nel campo della scienza non dovrebbe permettere che la sua eventuale fede interferisca con la sua ricerca. Peraltro, al contrario di quel che di solito si sostiene, scienza e tecnologia “sono riuscite a realizzare, seppur con non poche 'contorsioni', una profonda unità spirituale, ben superiore a quella tentata senza successo da troppi 'folli di Dio'”.

Niles Eldredge – “La genesi della religione spiegata dalla biologia evoluzionistica”:
L’intreccio fra scienza, religione e politica caratterizza la cultura americana, che si distingue, non solo negli ultimi anni, per un diffuso atteggiamento antiscientifico e per la persistenza di posizioni creazioniste. Eppure scienza e religione hanno due ambiti di pertinenza separati: la prima si occupa dei dati naturali e dei processi causali sottostanti, mentre la seconda concerne lo spirituale. L’ ripercorre il processo evolutivo dagli ecosistemi locali alla rivoluzione agricola per mostrare come la religione abbia sempre a che fare, allora come oggi, con il dominio sulla natura, con il nostro posto nel mondo e con la nostra auto-comprensione come specie.

Ayaan Hirsi Ali – “Islam senza libertà e cristianesimo secolarizzato”:
Riflettere sul ruolo della religione nella nostra società o sul suo rapporto con la cultura implica declinare ‘religione’ al plurale poiché, per limitarsi a un esempio, cristianesimo e islam sono molto diverse tra loro. La scrittrice somala autrice di Infedele e della sceneggiatura del film ‘Submission’, costretta ad abbandonare l’Olanda dopo l’assassinio del regista Theo van Gogh, ripercorre le tappe storico-filosofiche di entrambe le confessioni per evidenziarne le differenze – le dichiarazioni di papa Gelasio I e trattati di Vestfalia per il cristianesimo, il passaggio da La Mecca a Medina per l’islam. Per concludere che, mentre la tara dell’islam è il disconoscimento del singolo, il mondo occidentale ha conquistato con Locke e l’Illuminismo libertà di espressione e di coscienza come secolarizzazione del cristianesimo.

INEDITO 1
Paul-Henri Thiry d'Holbach con una presentazione di Paolo Quintili – “Il Sacro Contagio, o storia naturale della superstizione”:
Chimera nociva, albero dai frutti nefasti, vaso di pandora colmo dei peggiori mali: sono solo alcune delle metafore con cui l’ descrive la religione, foriera di superstizione, menzogne e schiavitù. Attraverso l’espediente della dissimulazione, nel XVIII secolo il barone d’Holbach pubblica sotto falso nome una vera e propria requisitoria contro la religione (fin qui inedita in italiano) mettendone in luce le incongruenze, i limiti e le imposture. Dalla questione della teodicea alle contraddizioni di una presunta rivelazione fino alle conseguenze politiche come l’idolatria, la religione appare, da un punto di vista teorico, incoerente e illogica e, nei suoi effetti pratici, strumento di potere e giogo dei popoli. Il principale scopo raggiunto nel corso dei secoli è l’aver soffocato la capacità di giudizio e impedito il libero uso della ragione umana.

ERESIA CATTOLICA
Roger Lenaers in conversazione con Claudia Fanti – “Un gesuita contro il Dio Onnipotente”:
È possibile pensare a una religione senza dogmi, senza gerarchie, senza la pretesa di possedere la verità assoluta? È la domanda alla base della ricerca teologica di frontiera nota come paradigma post-religionale, che negli ultimi anni ha visto un fiorire di riflessioni a opera di teologi come John Shelby Spong, José Maria Vigil e molti altri. Una ricerca che intende riformulare ogni aspetto della dottrina, a cominciare dalla stessa immagine divina, perché nel mondo moderno non c'è più posto per un Dio concepito come un essere con un potere soprannaturale che dimora al di fuori dell'universo. Parla il gesuita belga autore de Il sogno di Nabucodonosor. La fine di una Chiesa medievale, tra i libri apripista in materia.

INEDITO 2
Theodor W. Adorno con una presentazione di Leonardo Distaso – “La cultura risorta”:
In questo testo, pubblicato qui per la prima volta in italiano e scritto in occasione del suo ritorno a Francoforte nel 1949 dopo il periodo di esilio, Adorno prende in esame la situazione tedesca e il clima intellettuale dell’epoca attraverso un confronto con l’esperienza vissuta negli Stati Uniti e, soprattutto, con gli anni successivi alla prima guerra mondiale. La stagnazione della cultura, l’aridità e l’isolamento che il nazionalsocialismo ha lasciato dietro di sé spingono il filosofo a una riflessione sulle reali condizioni di una rinascita culturale, sul concetto di spirito, sul futuro del pensiero critico, nonché sul destino della Germania e, più in generale, dell’Europa. L’analisi di uno dei teorici più importanti del secolo scorso fra barbarie ed emancipazione, passato e utopia, conformismo e libertà.

ICEBERG 2 - l'antifemminismo dei “gender studies”.
Vojin Saša Vukadinovic – “Dall’emancipazione della donna alla difesa del burqa”:
La deriva che stanno avendo i gender studies è paradossale. Il punto di partenza di questo nuovo ambito di ricerca, infatti, era la completa emancipazione dell'essere umano da ogni vincolo, fosse anche quello del genere biologico. Il punto di approdo, invece, sembra oggi essere quello della censura e del politicamente corretto. Fino all'assurda e incomprensibile giustificazione del burqa e delle mutilazioni genitali femminili da parte di Butler&Co.

Judith Butler e Sabine Hark – “Diffamazione”:
Judith Butler, insieme alla collega tedesca Sabine Hark, risponde con veemenza alle critiche che da più parti vengono rivolte ai gender studies, accusati di aver perso la bussola del femminismo. Nella loro replica, Butler e Hark arrivano a denunciare le critiche subite come trumpismo e ad accusare i loro detrattori di aver deliberatamente ignorato la complessità degli studi di genere, utilizzando spudoratamente una 'grammatica della violenza'.

Alice Schwarzer – “Razzista a chi?”:
Con la retorica del rispetto ‘dell'alterità dell'altro’ molti esponenti dei gender studies, Judith Butler in testa, finiscono per giustificare intollerabili violazioni dei diritti umani in generale, e dei diritti delle donne in particolare, quando queste vengono perpetrate in contesti ‘altri’ dal nostro. Ma per una femminista, come spiega la fondatrice e direttrice della rivista tedesca Emma, i diritti universali delle donne devono essere l'unico faro, contro l’intimidazione rappresentata delle accuse di razzismo e islamofobia.

SAGGIO
Carlo Scognamiglio – “La normalità del mostro: a dieci anni dall’‘Effetto Lucifero’”:
Una decina di anni fa, durante il processo a uno dei militari statunitensi accusati di abusi in Iraq, il team della difesa coinvolse il celebre psicologo statunitense Philip Zimbardo al fine di dimostrare come vi fossero delle responsabilità non direttamente imputabili al loro assistito, bensì alla catena di comando che aveva in qualche modo predeterminato quegli esiti distruttivi. Da quella esperienza nacque il famoso The Lucifer Effect: How Good People Turn Evil nel quale Zimbardo – che già aveva familiarità con la questione, essendo stato l’ideatore del celebre esperimento carcerario di Stanford del 1971 – analizza i modi in cui ciascun individuo può trasformarsi in carnefice. Lo scopo non è quello di sottrarre il singolo alle proprie responsabilità ma di allargare la platea dei responsabili in modo da limitare il più possibile l’esercizio di tutti quei potenti condizionamenti situazionali che incidono sulla capacità di decisione dell’individuo.

FUORI SACCO
Simona Argentieri – “La verità come mestiere”:
Qual è il rapporto tra il racconto di sé – in letteratura e in psicoanalisi – e la verità? Che ruolo gioca l'ambiguità nella dimensione psicologica individuale e in quella collettiva? Quale valore attribuire al perdono, nella storia personale di ciascuno di noi e anche in quella dei popoli, che inevitabilmente ciascuno di noi si porta appresso? Sono solo alcune delle sollecitazioni che la psicoanalista italiana Simona Argentieri propone sulla scorta della lettura dei testi del premio Nobel per la letteratura Coetzee.

J.M. Coetzee – “Il vero, il buono, il bello”:
Perché continuiamo a raccontare ai nostri bambini la storia di Babbo Natale, pur sapendo perfettamente che è falsa? Perché non si vive di sola verità: ‘La verità è troppo misera e nuda per coprirci’. Il premio Nobel per la letteratura Coetzee, di opere come Vergogna e Terre al crepuscolo, riprende in queste note alcune delle riflessioni proposte dalla psicoanalista italiana Simona Argentieri.

Ɣ - IL DIO IGNOTO – recensione libro di G. Napolitano, G. Ravasi, coord. F. De Bortoli ed. Corriere della Sera - Instant Book 2013.

In apertura di questo piccolo quanto interessantissimo libro è riportata una breve epistola del non ancora dimenticato Papa Benedetto XVI, risalente al 21 dicembre 2009 poco conosciuta o forse sottovalutata e che qui trascrivo per l'importanza profonda del messaggio lasciato da questo Apostolo di Pietro. Non in quanto teologica, bensì per il suo rapporto interno alla Chiesa, che risponde a una domanda che ci si poneva prima delle sue improvvise dimissioni che hanno lasciato tutti stupefatti: ‘dove sta andando la Chiesa?’
In realtà quanto in essa enunciato, esponeva a chiare lettere quella che Papa Benedetto XVI, in ragione di una possibile apertura ‘spirituale’ della Chiesa, rivolgeva a tutte le genti cui riferiva il suo ‘messaggio apostolico'. Una missiva che, nell’abbraccio con le altre confessioni, guardava a un possibile colloquio ‘aperto’ con gli atei e quindi con i non credenti, con i diseredati e con tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, erano (e sono) tenuti lontani dalla Chiesa, anche se non necessariamente dalla fede:
“Penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di «cortile dei Gentili» dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa.

Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto”. (S.S. Benedetto XVI).Il riferimento è storico culturale, lo rivela Armando Torno nella postfazione al libro: “I Gentili nell’Antico Testamento erano gli appartenenti a stirpe non giudaica. Il termine corrisponde all’ebraico goyim. Indica, appunto, nazioni, popoli o etnie diversi da quella ebraica. Nel Nuovo Testamento, senza allontanarsi dalla sua accezione, diventa sinonimo di pagani, tanto che Paolo, impegnato a diffondere ovunque la parola di Cristo, è chiamato«Apostolo delle Genti». Nel Tempio di Gerusalemme, eretto durante i giorni e per volere di Erode il Grande, c’era un porticato esterno denominato Atrio dei Gentili. Si trattava dell’unica zona accessibile anche ai non ebrei. In essa, pur non potendo superarne i limiti, era possibile ritrovarsi, discutere, verificare le proprie tesi. Insomma, era un luogo dove la fede di coloro che si sentivano i veri credenti e quella degli altri aveva la possibilità di confrontarsi”.

È dunque questo il messaggio ultimo e forse il primo importante segno del pensiero di questo Papa dimissionario che tutti noi credevamo solamente concentrato nel far rispettare le ‘regole’ ferree di una Chiesa d’altri tempi e che, al contrario, ci lascia una grande importante eredità, cui la Chiesa, ma ancor prima tutti noi, dovremmo tener fede: la ri-costruzione oggettiva di quel ‘Cortile dei Gentili’ non più relegato al passato storico, quanto di apertura che guarda al futuro, che auspica l’incontro e il colloquio con le Genti.“Papa Benedetto XVI ha pensato a questo spazio sito nell’antica Gerusalemme – scrive ancora Armando Torno – per favorire la nascita di una serie di incontri culturali che, sparsi nel mondo, si adoperino per rinnovare la consuetudine al dialogo. L’iniziativa è stata affidata al Pontificio Consiglio della Cultura e al cardinale Gianfranco Ravasi in particolare, volutamente chiamata «Cortile dei Gentili». Il 5 e il 6 ottobre del 2012, dopo importanti tappe a Parigi, Svezia, Spagna Albania, gli incontri sono avvenuti in Italia a Bologna, a Firenze e ad Assisi. (..) L’invito di papa Benedetto XVI si è concretizzato con eventi che si svolgono ormai, per l’intensità dei contenuti, nel desiderio di «raccogliere e dae forma al grido spesso silenzioso e spezzato dell’uomo contemporaneo» verso Dio. Che , per un numero crescente di persone, rimane uno “sconosciuto”.

Va detto che ‘il fatto’ di per sé sorprende non poco se, a una tale corposità di intenti, riscontriamo aver partecipato personaggi di rilievo quali il Presidente Giorgio Napolitano, in un confronto diretto con il cardinal Gianfranco Ravasi, condotto da Ferruccio de Bortoli nelle due giornate che hanno avuto come tema, appunto ‘Dio, questo sconosciuto’. Un titolo che, nato nell’ambito del Pontificio Consiglio della Cultura, sotto l’egida di Papa Benedetto XVI, ha in sé una lieve provocazione e, al tempo stesso, riflette una problematica di non poco conto. In quell’occasione il conduttore F. de Bortoli ha posto domande sia a Napolitano sia a Ravasi, portando le due esperienze in una sorta dio zona franca, dove entrambi hanno potuto parlare del loro rapporto con Dio senza preoccuparsi dei rispettivi ruoli istituzionali.

È dunque in questo la forza di questo piccolo libro (poco più di 100 pagine) in cui il dibattito si discioglie in affermazioni di tipo ‘personale’ che mettono in luce sì le diverse e pur rispettabili posizioni ma, ancor più, si evidenzia lo spessore ‘umano’ la gentilezza d’animo dei due personaggi che, non in ultimo e lo si sente attraverso le righe, documentano perorare la stessa fede, anche se osservata e ‘vissuta’ da punti di vista diversi. Laurent Mazas che ha curato la prefazione al libro avverte essere “in questa prospettiva che s’intende l’aprirsi del Cortile dei Gentili come luogo di dialogo tra credenti e non credenti” e con “le altre religioni”, “soprattutto con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto, (..) cercando di scavare nel cuore delle questioni aprendosi alle ragioni dell’altro, fecondando il confronto con la coerenza della propria visione dell’essere e il rispetto per la visione altrui, a cui si riservano attenzione e verifica”.

Di particolare interesse sono i riferimenti testamentari all’Antico come al Nuovo Testamento (Ravasi), e quelli bibliografici ai contemporanei Bobbio, Bufalino, De Benedetti, Elia, ma anche a Nietzsche a Mann (Napolitano, De Bortoli) ed a personaggi della nostra storia-politica più recente (Napolitano), che destano non poche sorprese. La circostanza del tutto eccezionale – riferisce De Bortoli – cade nell’anno della Fede,il fatto che questa si svolga ad Assisi, luogo dello spirito e del messaggio francescano, la cattedra del dialogo interreligioso, il cenacolo della pace tra i popoli, aggiunge un significato particolare: il segno di un evento che resterà nella memoria di molti. Noi, non possiamo che ringraziare Ferruccio De Bortoli per aver permesso con questo libro, la testimonianza di un evento degno di essere ricordato che arricchisce di significato questo nostro tempo.

Recensione/saggio di Giorgio Mancinelli apparso in la recherche.it la rivista on-line che potete sfogliare gratuitamente che si avvale di numerosi autori, poeti, saggisti, giornalisti che raccolgono il plauso di tanti stimati lettori. Ai quali va il mio personale augurio di buona lettura e di Giorni Felici.


Ɣ AUDIOLIBRI E STORIE DI NATALE

Ψ – libro - AA.VV. “Racconti di Natale” - Lindau 2018
“Evviva! Arriva Natale! Esiste una festa più bella?” Ci sono le vacanze e le grandi riunioni di famiglia, i regali che è bello aspettare oltreché ricevere, i giochi insieme agli amici e ai parenti e qualche storia sui Natali di un tempo che nonni e zii raccontano con un po’ di nostalgia. Anche i grandi autori della letteratura italiana raccolti in questo volume ci raccontano il Natale di un tempo passato, e certo allora i regali erano molto diversi da quelli di oggi. Quello che però non è cambiato è il sentimento di gioia profonda che pervade ogni casa durante questa festa commovente e suggestiva che colma il cuore di speranza. I racconti raccolti in questo volume:
Grazia Deledda (1871-1936), “Comincia a nevicare e Il dono di Natale” , Premio Nobel per la Letteratura nel 1926.
Emma Perodi (1850-1918,) “Lo scettro del re Salomone e la corona della Regina di Saba, La storia del turbante e L’ombra del Sire di Narbona” , giornalista e scrittrice, importante autrice per l’infanzia.
Carlo Collodi (1826-1890), “La festa di Natale” , giornalista e scrittore, noto soprattutto come autore di “Pinocchio”.
Renato Fucini (1843-1921), “Il rublo fatato” , poeta e scrittore.

Ψ - eBook - Grazia Deledda – “Il Natale del consigliere” – La Case Books - Durata: 27Min
Narratore: Gaetano Marino.
"Il Natale del consigliere" è un racconto intriso di poesia e romanticismo. Un uomo torna nella sua Sardegna dopo aver fatto fortuna, ma più si avvicina all'isola amata e più si rende conto di essere profondamente solo. Appena sbarcato andrà alla ricerca di un suo vecchio amore per provare a costruire un nuovo futuro”. Un classico titolo natalizio per vivere la magia del Natale tra le parole e le emozioni della grande letteratura.

Ψ - libro - Massimo Cacciari “Generare Dio” – Il Mulino 2018
La figura della Vergine col suo bambino ha svolto un ruolo straordinario nella civiltà europea. Attraverso questa immagine, che assume forme diversissime, che è chiamata e invocata con nomi anche contrastanti, questa civiltà non ha pensato soltanto il proprio rapporto col divino, la relazione di Dio con la storia umana, ma l’essenza stessa di Dio. Perché Dio è generato da una donna? Pensare quella Donna costituisce una via necessaria per cogliere quell’essenza. E le grandi icone di quella Donna, come la Madonna Poldi Pezzoli del Mantegna, non sono illustrazioni di idee già in sé definite, bensì tracce del nostro procedere verso il problema che la sua presenza incarna.

Massimo Cacciari è professore emerito di Filosofia nell’Università San Raffaele di Milano. Tra i suoi libri più recenti ricordiamo «Il potere che frena» (2013), «Labirinto filosofico» (2014), entrambi per Adelphi; per il Mulino: con P. Coda «Io sono il Signore Dio tuo» (2010); con E. Bianchi «Ama il prossimo tuo» (2011); con P. Prodi «Occidente senza utopie» (2016).

Ψ - libro - AA.VV. “Poesia Europea Contemporanea” – Cierre Grafica 20001
L'antologia Poesia Europea Contemporanea è un volume che promuove una meditata ricognizione sulla molteplicità di esperienze letterarie messe in opera nell’Europa del secondo Novecento; chiama in causa autori e testi che nella contemporaneità non temono di esporsi alle pulsioni in atto nella parola, al mistero di un’alterità che sfugge a qualsiasi presa e possesso. Le voci poetiche convocate costituiscono veri e propri exempla della necessità oggi di prendere congedo da illusorie conciliazioni in una forma e di accedere alla lingua che crea e al suo lacerante pensiero.

Il volume, edito nel 2001 e curato da Agostino Contò e da Flavio Ermini, è il risultato di una stretta collaborazione editoriale tra la Biblioteca Civica di Verona, Cierre Grafica e Anterem Edizioni. Raccoglie le voci di trenta poeti europei. I testi sono proposti in lingua originale - talora anche in forma autografa - con traduzione a fronte. Traduzione operata da più autori e sempre destinata a restituirecompiutamente la passione per la verità che, in ognuna di queste voci, si apre all’origine, all’inizio, secondo leggi di necessità interiore. Il libro, infine, non vuole comunque essere un contenitore esaustivo dell’intera costellazione delle “poetiche delle origini” in terra europea, bensì – mi sembra – un’ennesima occasione per riflettere sul senso della scrittura contemporanea, a partire dalla convinzione che, da qualche tempo, non esiste luogo che salvi se non quello in cui già da sempre siamo, quella zolla di terra caduca e senza altrove dalla quale gridiamo o sussurriamo il desiderio di conciliare l’inevitabile infondatezza con la necessità di collocarci stabilmente: i testi di B. Simeone, Cr. Wolf, Y. Bonnefoy, S. Kirsch, S. Martini – per citare i nomi più noti – lo stanno a dimostrare.

Ψ – Rivista di Ricerca Letteraria “Anterem n.97” Dicembre 2018, un volume di grande rilievo, destinato come i precedenti a suscitare riflessioni e appassionati dibattiti nelle università italiane e straniere. Il tema cui è dedicato è “Per oscuri sentieri”. I poeti presenti in antologia sono: Trakl, Llansol, Pizarnik, Ducros, Teti, Mansour, Cini, Hubin, Furia, Bonnefoy. I saggisti sono: Zaccaria, Vitiello, Giannetto, Jesenská, Berardini, Tatasciore, Tomatis, Pinciroli, Novello.

Ψ – libro - Giovanni Filoramo “Il grande racconto delle religioni” - Il Mulino: Grandi illustrati 2018.
Nella straordinaria varietà di miti, simboli, forme, riti e valori in cui nelle diverse culture storiche trova espressione il sentimento religioso, il nucleo fondamentale è sempre lo stesso: il rapporto dell’uomo con il cosmo e con le sue forze potenti, misteriose e ingovernabili. Che si tratti di aborigeni, di nativi americani, di sumeri, cinesi, di cultura hindu, o di antichi greci, del credo mazdeo, di ebraismo, cristianesimo o islam, la visione religiosa del mondo garantisce ai credenti un punto di vista unitario sulla realtà, una bussola per orientarsi tra il bene e il male. Mentre alcune visioni hanno al loro centro il problema del rapporto con una natura selvaggia e minacciosa, altre insegnano all’uomo a vivere in armonia con il cosmo che lo circonda, lo ha creato e lo nutre. In altre ancora, ordinatrice del cosmo è una figura di sovrano divinamente ispirato. Tra VIII e VII secolo a.C. si fa strada una visione religiosa nuova: il monoteismo. Il divino non si manifesta più nella natura, non ha tratti antropomorfi, ma trascende radicalmente l’uomo. Con il Cristianesimo la concezione del Dio incarnato opera una svolta antropologica destinata a segnare la storia del pensiero occidentale. È di tutto questo che parla il libro: dell’eterno, inesausto bisogno umano di realizzare la pienezza dell’essere attraverso il sacro.

Giovanni Filoramo è professore emerito di Storia del cristianesimo dell’Università di Torino. Fra i suoi libri ricordiamo «Il sacro e il potere. Il caso cristiano» (Einaudi, 2009), «La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori» (Laterza, 2011) e, per il Mulino, «Ipotesi Dio. Il divino come idea necessaria» (2016).

Ψ – libro ed e-Book - Patrizia Valduga - “Per sguardi e per parole” – Il Mulino 2018
Nella Cena in Emmaus di Caravaggio, esposta alla Pinacoteca di Brera, tutti guardano Gesù e Gesù ha gli occhi chini. È da questo non sguardo che comincia una riflessione prima sui poteri dello sguardo, e poi sui due sguardi, quello della ragione e quello del sentimento, che corrispondono alle due strategie, spesso in guerra fra loro, che la mente umana adotta per conoscere il mondo. Ma nella creazione artistica - sia essa un dipinto, una poesia, un romanzo – questi due sguardi trovano un miracoloso equilibrio. Un testo raffinato in cui poeti, scrittori, pensatori di ogni tempo sono convocati a portare la propria testimonianza.

Patrizia Valduga è poetessa e traduttrice. Tra le raccolte di versi si ricordano «Medicamenta» (Guanda, 1982), e «Requiem» (1994), «Libro delle laudi» (2012), «Poesie erotiche» (2018), tutte edite da Einaudi; ha tradotto, fra l’altro, «Riccardo III» di Shakespeare e «Poesie» di Carlo Porta. Nel 1988 ha fondato il mensile «Poesia». In prosa ha pubblicato «Italiani, imparate l’italiano!» (Edizioni D’If, 2010).

Ψ – e-Book e libro – Davide Fiscaletti, “Universo iperconnesso” in “Scienza e Conoscenza” – Macro Edizioni 2018.
Il percorso della conoscenza – sosteneva Anassimandro nel VI sec. a.C. – deve essere basato sulla ribellione contro certezze che appaiono ovvie, sul fatto che la nostra immagine del mondo può essere sempre perfezionata, che il mondo può essere diverso da come ci appare, che il nostro punto di vista sul mondo è limitato dalla piccolezza della nostra esperienza.
La scienza nasce da ciò che non sappiamo («che cosa c’è dietro la collina?») e dalla messa in discussione di qualcosa che credevamo di sapere, in altre parole la scienza consiste nel guardare più lontano, nell’esplorazione continua di nuove forme di pensiero per concettualizzare il mondo – sosteneva Anassimandro – Compatibilmente con la visione della scienza come entità dinamica, che è in costante evoluzione e riorganizzazione, in grado di generare percorsi evolutivi i quali si possono intrecciare l’uno con l’altro, i saggi pubblicati in questo libro intendono mostrare come, pur partendo dalla convinzione che nel corso della storia la scienza ci ha portato teorie d’immane bellezza ed eleganza con enormi benefici sul piano tecnologico, sia possibile investigare nuovi scenari, in particolare si possano aprire nuove prospettive riguardo all’immagine del mondo, alla visione della realtà che ci circonda, le quali mettono in discussione idee che, nell’ambito del nostro approccio limitato all’esperienza, appaiono ovvie.

Davide Fiscaletti,laureato in fisica all’università di Bologna, è docente di matematica e fisica e membro ricercatore del centro di ricerca indipendente SpaceLife Institute (San Lorenzo in Campo). Si occupa di fondamenti della fisica teorica, segnatamente di interpretazioni della meccanica quantistica, relatività, teoria quantistica dei campi e gravità quantistica. È autore dei libri “I fondamenti nella meccanica quantistica. Un’analisi critica dell’interpretazione ortodossa, della teoria di Bohm e della teoria GRW” (CLEUP, Padova, 2003), “I gatti di Schrödinger” (1° edizione: Muzzio, Roma, 2007; nuova edizione aggiornata: Editori Riuniti University Press, Roma, 2015).

Ψ – e-Book e libro – François Noudemann - “Il genio della menzogna: I ilosofi sono dei gran bugiardi?” – Raffaello Cortina Editore – 2018.
Affermare una teoria e vivere il contrario è una contraddizione, una menzogna, una libertà? E se un genio, maligno, animasse la produzione dei grandi pensieri? Rousseau scrive un trattato sull’educazione, non malgrado, ma grazie all’abbandono dei suoi cinque figli. Kierkegaard redige i suoi testi religiosi mentre vive da libertino. Simone de Beauvoir fonda la filosofia del femminismo pur godendo di una relazione servile con il suo amante americano. Foucault celebra il coraggio della verità e organizza il segreto della sua malattia… Nessuna compensazione, ma scissione di un pensiero che si nutre con la forza del diniego. Chi siamo quando pensiamo? Molteplici, senza dubbio. Invece di denunciare le loro ipocrisie, François Noudelmann mostra come i grandi filosofi possano creare le loro personalità multiple grazie alle loro teorie. Analizza la menzogna più complessa, quella che si dice a se stessi, attraverso le angosce, le fughe e le metamorfosi di questi pensatori dal doppio Io.

François Noudelmann insegna al dipartimento di Letteratura francese e francofona dell’Università di Paris-VIII e alla New York University. Ha pubblicato numerosi testi di letteratura e filosofia, tradotti in dodici lingue, ed è produttore e conduttore di “Le Journal de la philosophie”, una trasmissione di France Culture.

Ψ – libro - Georgia Briata - “Ricordati chi sei Anima antica” – Melchisedek Edizioni 2018.
Questo non è un romanzo, ma senza dubbio è una storia. È la storia del viaggio umano che l’Anima antica fa di vita in vita per ricordarsi di Sé. Madre Terra si sta risvegliando e noi con lei ed è di questo tempo in cui viviamo che il libro parla, del tempo del compimento, ma racconta di mutamenti interiori comuni alle anime risvegliate di tutti i tempi. Questo libro è per te Anima antica, che ti sei destata dal sonno di un’esistenza che non ti rispecchia più. Per te che nel profondo sai di arrivare da molto lontano e di essere molto altro rispetto a ciò che conosci. Per te che ora senti la terra tremarti sotto ai piedi e il cuore tremarti nel petto. Per te che se anche non comprendi cosa ti stia capitando, non cedi alla mente che ti dice che stai solo inventando. Per te che senti che, se anche la realtà ti dice il contrario, non sei sola in questo movimento e se pure non ricordi ancora chi sei e cosa sei venuta a fare, sai di far parte di una grande onda che sta tornando al mare.

Georgia Briata si è avvicinata alle discipline olistiche intorno ai trent'anni, quando, sentendo forte il richiamo della sua anima, ha lasciato un lavoro «sicuro» per realizzare il sogno di scrivere e viaggiare. Oggi è scrittrice, Master Reiki e Life Coach, oltre che un'attiva blogger olistica e un'operatrice di diversi tipi di massaggi. Ma, soprattutto, come ama dire di sé, è «una Ricercatrice di Sogni e parole» convinta che «i Sogni si possono realizzare» e proprio per questo aiuta le persone a ricordare il vero Sogno della loro anima. Tra i suoi libri ricordiamo: “L'arte del realizzare il Sogno dell'anima”; “Basta il mare”; “Il Perdono Energetico”.


Ψ – libro illustrato con inserto fotografico a colori - Michele Proclamato - “I Sigilli di Gioacchino da Fiore”, – Melchisedek Edizioni 2018.
Opera apocalittica del XII secolo di Gioacchino da Fiore. L’essenza del messaggio dell’abate calabrese è espressa nei suoi simboli, magistralmente disegnati, ma sorprendentemente ignorati nel corso dei secoli, forse perché il loro autore li usò per esporre – per l’ultima volta nella storia dell’umanità − ciò che i figli della Radix sapevano a proposito della possibilità di tradurre ogni desiderio in realtà. Attraverso le frequenze di tre sole virtù, rese numericamente frattali nei suoi alberi genealogici, si possono variare gli schemi tridimensionali di questa realtà per far posto a un’altra realtà, da Gioacchino studiata e ricercata per tutta la vita. È il celeberrimo «terzo tempo», quello dello Spirito Santo, che mai prima di lui era stato invocato per l’umanità cristiana, qui… sulla Terra. Attraverso l’esame dei suoi protocolli frattali cogliamo l’ennesima applicazione dell’Ottava, oggi comprensibile anche a chi non è iniziato, un passo avanti di straordinaria portata per quanti vogliono cambiare la realtà in cui vivono attraverso la piena realizzazione di sé stessi.

Michele Proclamato, studioso appasionato della Tradizione, vive a L’Aquila dove, da alcuni anni, si è fatto promotore di iniziative che hanno come finalità quella di svelare al pubblico quanto grande sia il lascito «misterico» del piccolo capoluogo e del territorio abruzzese. Per primo ha decodificato il linguaggio dei Rosoni e ha ideato il Tour del Mistero, basato sui siti sacri più importanti della città e della regione. www.micheleproclamato.com.

Ψ – libro – Vito Mancuso, “La via della bellezza è la via della salvezza” – Garzanti 2018.
Perché ci viene spontaneo raccogliere sulla spiaggia del mare le conchiglie e i sassolini più belli? Perché rimaniamo incantati davanti a un volto umano o a un dipinto, o avvertiamo un'inesprimibile dolcezza interiore ascoltando musica, o ci soffermiamo con gli occhi spalancati a contemplare un tramonto? Perché, in altre parole, ricerchiamo quella rivelazione, quell'epifania che definiamo bellezza? Vito Mancuso affronta in questo nuovo affascinante libro un mi-stero che è tipico dell'uomo, e ne interpreta le profondità per farne la bussola capace di orientare il cammino verso la verità. Superando l'aspetto esteriore dei nostri corpi per approfondire il senso dell'interiorità della nostra anima fatta di armonia e fascino, eleganza e grazia, questa riflessione diventa un'avventura alla ricerca delle sorgenti della bellezza in grado di indicarci quali pratiche concrete possiamo mettere in atto per rendere quotidiano il nostro rapporto con essa: solo in questo modo infatti potremo superare ogni indifferenza e tornare, o addirittura iniziare, a gioire al cospetto di quelle opere e di quegli eventi capaci di stringerci il cuore. Perché ricercare e custodire la bellezza è la via privilegiata per onorare il compito che attende la nostra vita.

Vito Mancuso, teologo italiano, docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.Al centro del suo lavoro sta la costruzione di una teologia laica, nel senso di un rigoroso discorso su Dio, tale da poter sussistere di fronte alla filosofia e alla scienza. Mancuso è al centro di aspre polemiche per la presunta incompatibilità di alcune sue tesi con il nucleo teologico-dogmatico tradizionale della fede cristiana. Mancuso si è pronunciato a favore della contraccezione "per prevenire la tragedia dell'aborto". Ha pubblicato, tra gli altri, “Il dolore innocente” (2002), “Per amore” (2005), “L'anima e il suo destino” (2007), “Obbedienza e libertà” (2012). Insieme a Corrado Augias ha scritto “Disputa su Dio e dintorni” (2009). Per Garzanti ha pubblicato Io e Dio. Una guida per perplessi (2011), Il principio passione (2013), Io amo. Piccola filosofia dell'amore (2014), Questa vita (2015), Dio e il suo destino (2015), Il coraggio di essere liberi (2016) e Il bisogno di pensare (2017). Assieme ad Elido Fazi è direttore della collana dedicata a un'interpretazione laica della spiritualità pubblicata da Fazi, Campo dei fiori. Dal 2009 collabora con la Repubblica. (da Il Libraio Dicembre 2018).


Buona lettura e Giorni felici per tutti voi.









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- Poesia e scienza

Gianmaria Ferrante un poeta tra gli ‘abissi’ del quotidiano.

Gianmaria Ferrante … un poeta immerso negli ‘abissi’ del quotidiano.

“Abissi”, raccolta lirico-narrativa – Golden Press 2018.
Il fascino del linguaggio ‘poetico-letterario’ che la poesia ha esercitato sugli scrittori innovativi del Novecento è andato assumendo sempre più un ruolo del tutto singolare, affermandosi preferibilmente come ‘composizione musicale’ in fatto di ‘ritmo’ e di ‘timbro’, contro il primato romantico del genere ‘melodico’ protrattosi fino alla metà del secolo scorso. Esclusa dall’insegnamento scolastico e dal linguaggio quotidiano, dove sembrava si fosse definitivamente inabissata, la poesia sembra oggi ritrovare una qualche attestazione nella forma ‘poetico-narrativa’, sia nei racconti che nei romanzi di molti giovani scrittori contemporanei. Altresì recepita dalla viva voce dei ‘cantautori’, ormai anch’essi superati nell’epiteto ma non nei fatti, inoltre sciorinata da una fiumana di ’rappers’ che ne fanno un uso, spesso indiscriminato, nei loro infiniti e impegnati scioglilingua, riscoprendo talvolta la piacevolezza della ‘rima baciata’, ancorché sincopata in digressioni verbali …

“..voci stonate da un altare / dismesso”.

“..scomposti sciabordano nel fango, pallidi attori risorti dal passato remoto, sbucano da frantoi ipogei affondati nel tufo, portano in spalla consunte sacche da viaggio, s’adunano infine nel punto convenuto”.

“..nella vana ricerca di una verità nascosta”.

Guardata con sospetto e fatta oggetto di una tenace opera di demitizzazione da parte dei difensori dell’aulicità della forma e dello stile, l’attuale ‘forma poetica’, quella dell’Universo Iperconnesso, tanto per intenderci, va mostrando sempre più la sua vera essenza di ‘linguaggio primario’ sopra tutte le altre forme, fino a provocare un brivido negli amanti del ‘chiaro di luna’ che si sentono oltremodo diseredati della contestualità letteraria. Il nuovo linguaggio infatti, ancorché si possa dire nuovo, fa uso dell’essenzialità verbale che sfrutta la chiave onomatopeica dei ‘frattali’ per coniugare frasi e parole in contrazione, formazioni di nuovi sillogismi e deduzioni conflittuali che, per quanto insolite al nostro orecchio e alla nostra mente figurativa, possiamo definire ‘geomorfologiche’, benché immateriali, cioè teorizzate in senso ‘’ideale”, non per questo più valide di altre nel rapporto con l’attualità …

“..in quanto cascame sfatto del Nulla di una civiltà fasulla, che scarica immondizia e liquame orrido”.

“..che scopre una verità velata da troppo tempo: […] un cimitero immane disteso a perdita d’occhio”.

Se ne ha riscontro nelle tematiche polivalenti aggettivate con ‘iper’ e ‘super’ che trasformano gli eroi e i miti del passato in supereroi ‘Cyborg’ freschi di conio, che s’ergono comunque vittoriosi ancor prima di aver dato inizio alla battaglia sociale che hanno soltanto simulato sulla playstation …

“I labari /spezzati di un epico / scontro garriscono invano sull’eredità dell’uomo, satrapi in nero s’adunano in cerchio per l’ultimo duello”.

“..nel riquadro violento del prossimo futuro / forse qualcuno recise con forza il mio volo notturno / le ali spezzate da un grido metallico / spaventato caddi a terra / ai piedi del letto”.

“La statua di marmo spiaggiata / dall’Egeo dopo l’ultima tempesta / si erge maestosa / […] la mano tesa verso la piana rinsecchita / testimone silenziosa di una guerra fratricida, / chiama a raccolta / i resti dell’armata tradita”.

Tuttavia, incredibile a dirsi, riuscendo a dare una spiegazione ‘matematica’ alla ciclicità del ‘giro armonico’, sul quale in illo tempore si è costruita la scala musicale, la cui struttura si ripete sempre uguale su tutte le possibili scale di riproduzione. Ma, ed anche, a tutto quanto concepiamo come ‘comportamento caotico del nostro tempo’, indubbiamente di più difficile trascrizione narrativa che non sul pentagramma musicale. In quanto ‘composizione dodecafonica’ che, essendo esterna alla composizione stessa, risulta infine senza soluzione di continuità …

Ed eccoli … “I nuovi déi / appaiono sulle terre emerse con rulli di tamburo, squilli di trombe e penosi strimpelli di chitarre; folle osannanti s’adunano festose sotto i fari violenti di mnoderni altari, le braccia tese / al cielo abbagliante”.

“Come troverai la strada / popolo volgare, fagocitato da lumi accecanti e ritornelli bolsi; solo grida fasulle nel mondo artificiale di un concerto famoso, attorno escrementi sparsi nel paese intero, in piacevole (?) ricordo / di un memorabile evento”.

“..lasciano sberleffi insani / ai pini divelti nell’ultimo fortunale estivo, vibrano inconsulte le colonne di tufo, gli occhi sbarrati si accendono ad arco, fissano il centro dell’abisso sconvolto da un maglio, / che rigurgita intruglio umano”.

“Abissi”, conferma lo scrittore Gianmaria Ferrante, che di fatto non si dice ‘poeta’, per quanto comunque lo sia, costruisce e/o ri-costruisce in forma di ‘variazione poetica’ non tradizionale, la propria immagine di narratore del quotidiano, rivelando le sue potenzialità di fondo, nella cosiddetta ‘forma-a-specchio’ con la quale conferma la sua cifra costante. In cui l’autore, riemergendo dagli ‘abissi’ profondi della sua ricerca autobiografica, si sofferma perplesso sui significati non più scindibili dell’odierna società in cui viviamo …

“Io sono un testimone solitario / cultore di passato e futuro / vago tra le rovine di / città senz’anima / raccolgo a piene mani / il disastro di quanto l’uomo ha lasciato..”

“Solitario viaggiatore / giunto senza invito in questa notte aperta alla conoscenza, il racconto è già iniziato, lo spettacolo in pieno svolgimento, non ho (trovato) sedia alcuna, nemmeno un posto / riservato per l’ospite inatteso”.

Perplessità motivata dagli stravolgimenti che si trova ad affrontare sia sul piano individuale, sia sul piano sociale, afferente agli antefatti e agli accadimenti che si susseguono scomposti. Come per una recita teatrale senza copione dove, i personaggi s’agitano a vuoto sulla scena come burattini manovrati da un potere senza volto ma solo apparentemente senza velleità. Mentre dietro le quinte sollevano infinite guerre che noi eterni assenti non vediamo e/o che non vogliamo vedere, in cui l’ospite che arriva, c’è sempre un intruso nella commedia dell’arte, arreca solo inquietudine, timore, paura. La sua mano tesa alla cordialità non incontra la nostra comprensione e la necessaria solidarietà umana …

“..lo sconosciuto attore di questo misero palcoscenico, (l’ultimo arrivato) si erge a difesa di un evento sotterraneo, rimasto senza uditorio, […] e arranca furtivo nel trullo diroccato, eretto a rifugio nel secolo trascorso, ne prende possesso quale erede consapevole di un lontano passato, […] raccoglie gli scritti […] di un poeta ridotto a fantasma ignorato”.

Infine la trama comunque si rivela, drammaticamente, nella definizione stessa di ‘abissi’ in quanto ‘buchi profondi’ che inghiottono in una dinamica assai complessa intere galassie, ovvero lasciano alla libera interpretazione degli scienziati, e non solo, d’immaginare altri ‘mondi paralleli’ in cui cercare il migliore dei mondi possibili. È in questo modo che Gianmaria Ferrante si lancia, fin con troppo rispetto del linguaggio poetico-narrativo che utilizza, nelle profondità pur intellettive dell’universo umano; e lo fa con la serenità dell’esperienza, di conoscitore delle pieghe amare della vita e che, al dunque, portano alla rivelazione, lì dove per una sorta dell’ironia della vita, non sempre ci è dato penetrare …

“Il mio vagare inconsulto (?), ti porgo un documento orfico, ispirato da un gatto cieco e un cane anchilosato; sono i baldi cavalieri di questo (nostro) tempo arcigno, due compari sbucati da un pertugio a caccia del solito sprovveduto”.

“..di un qualche messaggio ispirato, (o forse) soltanto dello scarto di un lavorio continuo, un ammasso di parole consunte stese a macerare sopra il pavimento (dei ricordi?), il meglio gettato alla rinfusa / sul mucchio del compostaggio”.

Nei passi virgolettati qui proposti, troviamo forse quelli che sono i momenti più significativi di “Abissi”, questo ‘dramma-minimo’ che ha il carattere di una ‘improvvisazione sul tema’ di ciò che è andato perduto, una sorta di rivisitazione risalente alle profondità più intime, frammenti che sono di volta in volta germinati dalla continua osservazione della materia umana, secondo la peculiarità che distingue il Gianmaria Ferrante poeta, dallo scrittore di romanzi impegnativi, come quelli, ad esempio, improntati sulle minoranze etniche. Ma, ed anche, da altri suoi scritti, dove egli guarda con nostalgia agli aspetti laterali della ‘storia’; svelando, di volta in volta, le ragioni della sua infinita ricerca, come a dar luogo a una stretta dipendenza operativa della realtà dei nostri giorni, di quella ‘storia universale’ che noi tutti, indipendentemente dagli accadimenti, andiamo scrivendo …

“Un possente turbine oscuro / sovverte ogni pensiero in questo giorno maledetto, si agita dal basso mostrando ai quattro testimoni (i quattro cavalieri dell’apocalisse?), l’avanzo nefasto di un intero millennio (trascorso), nel gorgo ruotano dei fasulli in concerto / i Grandi del passato bloccati contro il muro”.

“Resta il povero cantore (lo sconosciuto viaggiatore) / mandato allo sbaraglio tra gente folle e attori inetti vestiti da saltimbanchi / che aspirano uno sbuffo di polvere, / sollevato al cielo i calici del festino / poi ballano impazziti / nell’atrio dell’ingresso”.

“..i ricchi offrono quello che possono / il retaggio taciturno di un affronto consapevole, / una sacca bisunta per il viandante anonimo, / il teschio silenzioso all’anacoreta di passaggio, / gli avanzi di un ultimo pasto”.

“Un velo rosso ascende / dal territorio riarso e sigilla con ceralacca di fuoco / il teatro agostano; / il fine dicitore inarca appena le labbra, / si agita parecchio, / parla da un mondo asfittico disciolto in frastuono prolungato / emette in fine un editto”:

“..ho visto troppo / per quanto mi compete e non potrò varcare / in futuro i confini eretti dal Tempo / un messale ho sottratto di nascosto, lo mostro orgoglioso / all’amico prudente rimasto in disparte / durante il viaggio”.

Che si voglia qui re-interpretare il passato per andare incontro all’incerto futuro? O, forse, si cerca di riscattare il passato che pure abbiamo vissuto senza averlo compreso fino in fondo? O magari, più semplicemente, soltanto affrancare questo nostro mondo altero? Per quanto non ci è data risposta alcuna, il poeta Gianmaria Ferrante ci dice che: la ‘conoscenza’ è il solo grande motore dello sviluppo personale e comunitario che ci distingue in quanto esseri umani; che il futuro è però di chi prova almeno ad immaginarlo. E non solo per ciò che ci è dato apprezzare come dono ricevuto, ma per valorizzare al meglio ciò che dobbiamo conoscere del mondo che ci circonda, con spirito di dedizione e senso di appartenenza, in linea con le sfide che la società globale ci pone davanti …

“Vago nella notte gelida / per i monti dell’infanzia, ascoltoogni voce del passato (provenire dagli abissi) che bisbiglia furtiva all’orecchio, ne prendo idealmente possesso, la trasformo in avvertimento, in ordine perentorio, poi / ricompongo il passo incerto / in questo dirupo / sconfinato”.

“Nulla trova l’ultimo profeta / investito da una pioggia di fuoco protegge la faccia a malapena; si altera alla vista dell’opera umana, rinuncia alla missione divina, chiede perdono alla Madre Terra, […] pietoso ad ogni misero / inciampo”.

Mi fermo qui. In questo ‘poetico nulla’ incapace di giustificare il ‘vuoto olistico’ che il poeta ha creato attorno a sé, in quanto ‘abisso’ da cui non gli è possibile risalire, cosciente che la filosofia applicata al ‘nulla’ lo lascia indenne nella caduta. Viene da chiedersi a cos’altro appellarsi quando l’Empireo tutto, scende dal soffitto dipinto nella volta della Cattedrale che abbiamo elevata con così tanto affanno? Quali parole, quali verbi e, ancora, quali aggettivi deve imparare ad usare l’uomo, affinché egli comprenda che non nel ‘nulla’, né tantomeno nel ‘vuoto’ troverà infine il ‘senso’ della propria esistenza?

Come ci rammenta Davide Fiscaletti dalle pagine di “Scienza e Conoscenza” (*): “Il percorso della conoscenza – sosteneva Anassimandro nel VI sec. a.C. – deve essere basato sulla ribellione contro certezze che appaiono ovvie, sul fatto che la nostra immagine del mondo può essere sempre perfezionata, che il mondo può essere diverso da come ci appare, che il nostro punto di vista sul mondo è limitato dalla piccolezza della nostra esperienza. […] La scienza nasce da ciò che non sappiamo (che cosa c’è dietro la china) e dalla messa in discussione di qualcosa che credevamo di sapere. In altre parole la scienza consiste nel guardare più lontano, nell’esplorazione continua di nuove forme di pensiero per concettualizzare il mondo”.

E inoltre: “Compatibilmente con la visione della scienza come entità dinamica, che è in costante evoluzione e riorganizzazione, in grado di generare percorsi evolutivi i quali si possono intrecciare l’uno con l’altro – prosegue l’autore del’articolo – intende mostrare come, pur partendo dalla convinzione che nel corso della storia la scienza ci ha portato teorie d’immane bellezza ed eleganza con enormi benefici sul piano tecnologico, sia possibile investigare nuovi scenari, si possano aprire nuove prospettive riguardo all’immagine del mondo, alla visione della realtà che ci circonda, le quali sì mettono in discussione idee che nell’ambito del nostro approccio limitato all’esperienza, appaiono ovvie. Ma che pure indagano sulla ‘bellezza’ del creato”.

L’autore, Gianmaria Ferrante,
a 22 anni si reca in Inghilterra per mezzo di una borsa di studio e si diploma agli studi, con particolare riguardo alla letteratura Inglese. Tornato in Italia continua i propri studi e da inizio alla sua attività letteraria. Successivamente al suo ritorno in Italia pubblica "Una pallida notte", cesura ideale tra il passato ormai annullato e un ventennio di invenzione artistica e letteraria. Fa seguito la ‘Trilogia della Pietra’: “La Città Bianca”, “Mediterranea” e “Metropolis”, tradotte integralmente in Inglese da Peter De Ville; quindi il secondo romanzo "Un Uomo di Successo " (per video, book trailer e intervista vedi YouTube Gianmaria Ferrante). Quindi prosegue nella revisione di quanto realizzato con la stesura della ‘Trilogia del Magico’: “Vento del Nord”, “Il Cerchio Magico” premiato nel 2014 a Lecce, e “Notte a teatro”. Della successiva 'Trilogia del Sogno', nel mese di Febbraio 2015 viene pubblicata a Genova la silloge ‘I Cavalieri di Groen’. In Aprile 2016 esce per Golden Press “La Soglia”. Ritiratosi anzitempo dalla vita attiva per dedicarsi completamente alla letteratura, vive principalmente nella propria azienda biologica, visitata da volontari provenienti da ogni parte del mondo, situata nel Parco degli Ulivi di Puglia, in territorio di Ostuni.

Sul web: www.gianmariaferrantescrittore.it - www.ipoderidelsole.it.

Nota:
(*) Davide Fiscaletti, “Universo Iperconnesso”, in Scienza e Conoscienza, Novembre 2018. Docente di matematica e fisica e membro ricercatore del centro di ricerca indipendente SpaceLife Institute (San Lorenzo in Campo). Si occupa di fondamenti della fisica teorica, segnatamente di interpretazioni scientifiche della teoria quantistica nei campi della meccanica e della gravità quantistica. Autore inoltre di numerosi libri e articoli apparsi in numerose riviste scientifiche : “I fondamenti nella meccanica quantistica della teoria di Bohm e della teoria GRW “ (CLEUP, Padova, 2003); “The timeless approach: frontier perspectives in 21st century physics (World Scientific, Singapore, 2015); “The geometry of quantum potential. Entropic information of the vacuum” (World Scientific, Singapore, 2018). Mail: info@scienzaeconoscenza.it

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- Cultura

Etnomusicologia: l’incanto sottile della musica giapponese

QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA XIV – prima parte
L’incanto sottile della tradizione musicale del Giappone. (1)

Immagino possa sembrare disagevole per il lettore affrontare il ‘racconto’ che mi accingo a fare in questo contesto sulla musica giapponese di per sé ‘incomprensibile’ all’orecchio di noi occidentali, iniziando proprio dalla forma più difficile da comprendere dei generi di intrattenimento del Giappone, il ‘teatro’ Noh. Tuttavia è nell’espressione di tale forma che ho trovato, per così dire, lo spunto iniziale, da cui partire. È nel teatro infatti, che si sprigiona non solo la musica ma tutta l’arte di questo popolo immaginifico, la cui fantasia creativa ha trovato nella conservazione dei suoi forti ideali estetici, la propria ‘filosofia di vita’.
Si diceva un tempo, e a ragione, che per sapere che cosa saremmo stati in un prossimo futuro, bisognava guardare al Giappone, alla sua estetica aulica e popolare delle arti, alla raffinata eleganza del suo modo di vivere, alla sua tradizione letteraria e poetica, musicale e teatrale, al millenario e filosofico uso delle arti marziali. Quest’ultime non tanto per il loro condizionamento ‘offensivo’, quanto per l’insieme altresì ‘difensivo’, maturato nel rispetto di un eventuale nemico irrispettoso delle regole fondanti del suo comune vivere ordinato e silenzioso, necessario alla salvaguardia della sua cultura millenaria, tra le massime espressioni estetiche del suo popolo.

“Uguisu ni – / “Ah! L’usignolo –
yumesama sareshi / esco da un sogno al suo canto
asage kana”. / (2) riso del mattino”.

È scritto che la consapevolezza di qualsiasi gesto, di qualsiasi parola, di qualsiasi accadimento è di per se stesso una forma di meditazione, un ponderare della mente che tende ad acuire i sensi, nel fluire cosmico dell’esistenza. Un meditare che Ryōkan (3), monaco buddista del Sútú Zen, uno dei massimi poeti e calligrafi giapponesi, ha perseguito nei suoi componimenti poetici che fanno da ‘intermezzo’ al testo di questa ricerca letteraria, nella particolare forma dell’ ‘Hayku’.
Una forma diversa dai modelli stilistici tradizionali della struttura narrativa, in cui prevale il linguaggio scarno, privo di abbellimenti lessicali e di strutture complicate, sebbene, al tempo stesso, profondo e semplice nel contenuto, la cui forza evocativa è originata dalla suggestione propria del sentimento umano nei confronti dei fenomeni interstiziali dei sogni, e di quelli naturali come il trascorrere delle stagioni.
Anche per questo Ryōkan è chiamato “Il poeta dello Zen”, perché nel leggere le sue poesie ci si può fare un’idea della dottrina, della pratica e dei risultati riportati in ambito della cultura orientale, nel perseguimento del ‘sentiero di luce dell’uomo in cammino’, i cui insegnamenti fondamentali si possono riassumere proprio nella meditazione, così come nella libertà interiore, la comprensione, la partecipazione e l’ indulgenza. Insegnamenti questi che vanno al di fuori dei testi scritti, che non si basano sulle parole, ragione per cui lo Zen in Giappone è considerato più che una vera e propria religione: una disciplina di vita.

“Machō shite / “Cima raggiunta
hitoridachi keri / da solo mi alzo in piedi
aki no kaze” / vento d’autunno”

Tuttavia chi vuole vedere nella pratica Zen una mera disciplina solo meditativa, ne tradirebbe l’intrinseca natura, che predilige l’azione diretta e un modo di mettersi in contatto con un’esperienza di vita che non siano vincolati ai dogmi e agli insegnamenti standardizzati. “I Maestri Zen sono a volte personaggi austeri, duri con i propri allievi al punto da usare come sistema educativo il bastone o ogni altra forma di umiliazione, che li impegni in questioni. I cosiddetti ‘koan’, in chiave di domande a volte senza risposta, perché imparino ad arginare la verbosità che contraddistingue i normali esseri umani e, inizino a incanalare ogni loro energia al raggiungimento di un unico scopo, al fine che questo avvenga in una sorta di rinascita interiore, che permetta loro di vedere il mondo con occhi nuovi. Il mondo è sempre quello, ma sono gli occhi a vederlo diverso, rinnovato”. (4)
“Di particolare interesse è il concetto di vacuità (mu), che diversamente dal nichilismo dell’odierna filosofia occidentale, non è di per sé un termine negativo, di privazione (o sottrazione di qualcosa), piuttosto uno stato di germinale possibilità dell’essere, una condizione che rende plasmabile qualsiasi verità successiva. Il suo simbolo, ‘Ensō’, è raffigurato da un segno circolare chiuso, tra i più potenti dello Zen. La meditazione si pratica preferibilmente nella posizione seduta, ‘zazen’, per quanto ogni scuola ha la sua pratica di meditazione e di concentrazione: ‘portare la mente alla calma interiore’, ‘raggiungere uno stato di profonda consapevolezza’, ‘pervenire alla capacità di osservazione e autoanalisi’” (5).

“Kakitsubata / “Un giaggiolo
ware kono tei ni yoi / accanto al mio capanno –
ni keri” / inebriante”.

“Ognuna di esse, comunque, indirizzata a scopi diversi: ‘meditazione del non-coinvolgimento’ che tende a superare i problemi del quotidiano in forma equanime e compassionevole; ‘meditazione profonda e più impegnativa’ che prevede la rinuncia alle comodità e alle distrazioni mondane’, che conduce alla liberazione completa dai condizionamenti e alla realizzazione di uno stato sereno, illuminato e compassionevole, detto anche ‘Nirvana’.” (6) Pratiche queste che hanno portato la meditazione Zen ad alcune ‘varianti’ all’interno delle diverse discipline, e di alcune espressioni artistiche, inclusa la musica.
Non è difficile, infatti, trovare accostati mondi musicali diversi, anche lontanissimi tra loro nel tempo e nello spazio, commistioni di generi inconsueti nel pop, nel punk-rock, e perfino nel bluegrass e nel salsa, sfruttando i mezzi tecnologici più sofisticati, finanche l’uso di strumenti elettrificati e computerizzati nell’elaborazione di composizioni tradizionali, e negli strumenti come il tamburo ‘taiko’ e il ‘koto’ a corde, lo ‘shamisen’ e le campane ‘tubular bells’. Si spiega così il perché nella musica contemporanea del Giappone, sono rintracciabili elementi diversi che sono serviti di base all’attuale cultura musicale.

“Mahiru naka horori / “A mezzogiorno
horori to / appaiono un po’ ovunque
keshi no hana” / i papaveri”.

Vale qui la pena di apprendere che il ‘nucleo orbitante’ della millenaria cultura musicale giapponese, è presente in molte varietà di stili e ancora oggi praticata in numerose occasioni comunitarie. Almeno una parte consistente di essa, che va dall’VIII al XVI secolo, è parte costitutiva del ‘Gagaku’ (7), una forma di ‘musica di corte’ semi-classica, elegante e raffinata, riservata al cerimoniale della Casa Imperiale, che presenta una certa ricercatezza nello stile e nella struttura melodica, pur avendo mantenute le coloriture di base e i timbri preminenti della musica popolare. Lo strumento principale di questa musica è il ‘koto’ introdotto dalla Cina nell’ VIII secolo spesso usato in chiave solistica.
Si tratta di una lunga cetra di prezioso legno di paulonia, specifico nella costruzione degli strumenti musicali, con tredici o diciassette corde di seta, tese agli estremi del corpo incavato che fa da cassa di risonanza. Ogni corda attraversa un ponticello mobile rigorosamente d’avorio, necessario a determinare la lunghezza della parte vibrante. Il musicista stimola le corde con tre linguette d’avorio fissate nelle tre dita: il pollice, l’indice e il medio della mano destra procurando al tempo stesso le diverse vibrazioni sonore di diverse corde. La stessa musica per ‘koto’ venne successivamente utilizzata per l’accompagnamento nei canti appartenenti alla tradizione ‘shamisen’, una sorta di ‘liuto’, che ha dato origine all’ ‘ensamble koto-shamisen’, sulla cui musica in seguito, si sono sviluppate forme di polifonia più sofisticate, a suo tempo codificate su manoscritti di difficile interpretazione, il cui segreto è conosciuto da pochi maestri.
Rientra nella medesima formazione classica detta ‘koto-shamisen’ un strumento ricavato dalla canna di bambù, si tratta di un flauto dritto lungo almeno 54 cm. che prende il nome di ‘shakuachi’, in origine utilizzato dai monaci buddisti erranti della setta ‘Fuke’, il quale, conservato a sua volta da possibili contaminazioni, ha dato forma al genere ‘kinko-shakuachi’ di alta levatura musicale che trova nella particolare tecnica di soffio nello strumento, effetti sonori di un colore molto delicato, quasi onirico, artisticamente misurato sul respiro della natura. La grazia e la rafinata eleganza prevalentemente poetica e musicale di tanti suoni melodiosi, talvolta sfumati e quasi evanescenti, non a caso si confonde con lo ‘spirito creativo naturalistico’ della concezione estetica di questa antica ‘terra dei ciliegi in fiore’.

“Mizu no mo / “Superfice d’acqua
ni ayaori midaru / ornata come seta
haru no ame” / pioggia di primavera”.

Quando nel 1984 Takeo Kuwabara (8), professore emerito dell’Università di Kyoto e Membro dell’Accademia d’Arte del Giappone, confermò la sua assistenza alla delegazione culturale del Giappone in occasione della rappresentazione di uno spettacolo del teatro Noh, alla presenza di S.S. Giovanni Paolo II da parte della Scuola Takigi-Noh diretta dal Maestro Iwao Kongoh, l’avvenimento rese gran parte dei rappresentanti culturali intervenuti, meravigliati e senza parole. Non tanto per l’avvenimento in sé, quanto perché la messa in scena di “Hagoromo” (L’abito di piume) sarebbe avvenuta di notte e all’aperto, con l’illuminazione di un falò che riprendeva in senso letterale la forma drammatica del Takigi-Noh, il cui significato è “Noh con legna da ardere”, tra le più antiche dell’arte del teatro giapponese.
Le cronache dell’epoca riportarono che l’evento serviva a formalizzare l’incontro delle due diverse culture, quella italiana e quella giapponese, e che fu un grande onore per entrambe le delegazioni delle due diverse culture, caratterizzate da una medesima volontà di ravvivare l’antica amicizia nel segno della pace e della fratellanza tra i popoli. Il fatto che un dramma proprio della tradizione giapponese venisse eseguito non solo sui palcoscenici di Kyoto e Tokyo ma anche a Roma e a Firenze, in quanto predominanti città d’arte, forniva inoltre l’occasione per un incontro dello spirito orientale con quello occidentale, lo spirito del Noh con il misticismo del Cristianesimo. Di fatto la rappresentazione si svolse in notturna nei giardini della residenza papale estiva di Castelgandolfo, avendo come sfondo non la tradizionale ‘casa’ del Nō, ma un giardino di tipo europeo e alla luce di un grande falò. Come Takeo Kuwabara (9) ebbe a dire in quell’occasione: “È di grande significato per la storia della cultura universale il fatto che il Noh venga altamente apprezzato e che trovi anche qui una sua specifica affermazione e un suo eccellente consenso, al pari di molte altre forme di spettacolo”. (9)

“Yama wa hana / “Montagna in fiore
Sakeya sakeya / solo un grido: sake, sake!
no sufibayashi” / l’eco dei boschi”.

Il Noh in quanto forma di teatro-danza è considerato ufficialmente una cerimonia rituale, l’esempio più tipico del teatro drammatico giapponese pressoché unico al mondo. Nel periodo Tokugama ricevette una speciale protezione da parte governativa e tenuto al riparo da ogni sorta di contaminazione esterna. Nei suoi 600 anni di storia è sempre stato eseguito al chiuso durante le cerimonie di stato e in quelle più rappresentative della cultura propria del Giappone. Come si rileva dai testi narrativi che privilegiano in tutto e per tutto la forma lirico-poetica, nell’uso dei costumi tradizionali di pregevole fattura indossati durante le rappresentazioni, nelle trame dai disegni di natura simbolica e nelle decorazioni di stravagante bellezza. Il tutto di una delicatezza piena di sensibilità per il dettaglio e una percettibilità artistica non comune ad altri popoli, come dire, più raffinata, sebbene in Cina e forse in Corea si respiri una corrispondenza molto affine e tuttavia diversa.
L’antica arte del Noh si caratterizza per il simbolismo molto accentuato, spesso di difficile interpretazione per i suoi toni aspri, talvolta violenti, coadiuvati da una gestualità affine alla cultura dell’epoca in cui si è affermato, di fatto conserva intatta la sua vitalità del teatro aulico medievale. Si svolge su un palcoscenico essenziale, cioè scarno di elementi scenografici, sotto una struttura architettonica che rappresenta la ‘casa’ tipica, con il pavimento ricoperto da uno strato di stuoie di paglia di riso, dette ‘tatami’, comuni in tutte le case giapponesi. Non si fa uso di una scenografia mobile, bensì solo di un fondale con il disegno stilizzato di un pino, quanto basta a eludere ogni tentativo di creare l’illusione ‘teatrale’, contrariamente del teatro occidentale, non minimalista.

“Yamashigure sakaya / “Pioggia di motagna
no kura / nel magazzino di sake
ni nami fukashi” / grandi pozze d’acqua”.

Eppure l’illusione drammatica è resa intensamente, allorché nel repertorio del Noh si conoscono almeno 250 caratterizzazioni che distinte in cinque categorie: Divinità, Uomo, Donna, Pazzia, Demonio, che agiscono in continuo contrasto con la vita e la morte, a cui si fa spesso riferimento nei testi. Un teatro questo caratterizzato dall’uso di maschere dai caratteri spesso terrificanti, seppure di una bellezza straordinaria, che s’avvale della genialità del gesto cόlto nell’attimo riflessivo che lo determina, reso altresì vitale dai movimenti/atteggiamenti dei corpi in movimento. L’espressività ‘austera ed aulica’ delle maschere gioca in questo caso un ruolo catartico essenziale, peculiare dei sentimenti dei diversi personaggi che gli attori si trovano a interpretare, al cui servizio operano per ogni spettacolo portato in scena, decine di insegnanti di ‘stile’, per quanto riguarda la gestualità; e altrettanti per la ‘modalità’ del canto e l’utilizzo della musica sempre misurata al gesto che accompagna.
Ciò, per assecondare i movimenti stereotipi del corpo, studiati fin nei minimi dettagli, del protagoniosta principale, lo ‘Shite’, il quale porta sul volto una maschera priva di espressione emotiva, tuttavia utilizzata in chiave mimica sulle emozioni e i più reconditi sentimenti umani. La rigidità dell’abito che indossa, lo mantiene in una postura innaturale che facilita il suo corpo, protratto leggermente in avanti col busto, nel trovarsi pronto per il movimento successivo. Di fatto all’interno della figura ‘stilisticamente esagerata’ modellata dalla linea severa dell’abito, il corpo dell’attore vi si conforma, nascondendo così l’esistenza visibile della propria persona, avvicinandosi così al personaggio verosimilmente reale che interpreta.
Va inoltre considerato che ciascun movimento eseguito dall’attore sulla scena serve a esprimere un’emozione convincente, intrinseca della ‘filosofia estetica’ di ogni forma tetarale giapponese, di cui il Noh rappresenta la massima espressione: sia per la sua portata di ‘bellezza’, il cui splendore si vuole sia assoluto ‘privilegio dei vivi’; sia perché in netto contrasto con la staticità della morte che, per quanto possa essere equilibrata, sia comunque ‘privilegio dei morti’ e non merita l’appellativo di bellezza.

“Ake mado no / “A vetri schiusi
mukashi oshinobu / m’assale il passato –
sugure yume” / sogno reale”

Il ruolo principale tenuto dallo ‘Shite’ (che letteralmente significa ‘ombra’), prevede un compagno di scena, lo ‘Tsure’, in rappresentanza di un suo probabile ‘doppio’, i quali, di sovente rappresentano fantasmi o incarnano spiriti di uomini del passato, oppure un animale o talvolta una creatura sovrumana. Altra figura importante, seppure ricoprente un ruolo secondario, è il ‘Waki’ che a sua volta ha un compagno, il ‘Wachi-Tsure’ che, diversamente dall’aulico Shite e dal suo doppio Tsure, non indossano la maschera mostrando in tal mondo di vivere nel presente, e la cui presenza in scena funziona da collegamento tra il mondo astratto con il mondo reale.
Come neppure indossa una maschera il ‘Kokata’ l’attore che interpreta il ruolo del ragazzo, e che interviene di tanto in tanto sulla scena, a portare una ventata di freschezza giovanile e richiama all’attualità rinvigorita del costume tradizionale.
Il perché di questa differenza si spiega col fatto che in un’opera Noh, soltanto lo Shite è il personaggio centrale del dramma, mentre tutti gli altri non hanno in realtà alcuna influenza sulla vicenda che si svolge sulla scena, sebbene la loro presenza serva a sottolineare la cancellazione dell’individualità (maschile) dell’attore che si trova a sostenere anche i ruoli femminili, ne imita i gesti e le movenze, la voce nei dialoghi e nel canto.
Molto quindi è lasciato alla bravura degli attori, veri e propri professionisti che con la loro eccellenza artistica rappresentano l’anima del Noh, resi famosi su tutto il territorio e i cui nomi sono tenuti in grande considerazione dal cόlto popolo giapponese. Prendiamo ad esempio un attengiamento tipico di un personaggio quale appunto lo Shite: avviene che durante la rappresentazione egli dia con la testa un piccolo colpo in avanti, e la sua maschera subito riflette un’espressione di profonda disperazione; solleva il mento e la sua maschera diffonde una gioia impetuosa, a sottolineare l’alone misterioso che circonda il teatro Noh.

“Aki hiyori senba / “Cielo chiaro d’autunno
suzume no / tutti quei passeri –
haoto kana” / frullare d’ali”

“Hagoromo” (10), l’abito di piume (10), è uno dei più affascinanti e più apprezzati fra tutti i drammi Noh, si basa su un racconto popolare di pregevole fattura. In esso si narra, in una forma molto semplice, la storia di una Vergine Lunare che esegue una danza per un pescatore di nome Hakuryo, allo scopo di riavere il suo abito di piume che egli ha trovato in riva al mare nel quale si era immersa per nuotare, ancorché, essendo lei una creatura del cielo deve ad esso fare ritorno. La scena ha luogo nella baia di Mio a Suruga, un luogo noto per la bellezza del litorale e la veduta del monte Fuji:
“È una mattina di primavera e Hakuryo se ne sta immobile a godere la limpidezza del giorno quando improvvisamente avverte ‘una musica nel cielo, una pioggia di fiori, una fragranza celeste diffusa in tutti i lati’. Allorché, scoperto un meraviglioso abito di piume, lo raccoglie e si accinge a tornare a casa rallegrandosi della sua fortuna, una voce che lo chiama, chiedendone la restituzione. Avviene però che una voce ‘fantasma’ l’avverte della peculiarità dell’indumento, in quanto si tratta di un abito sacro, la cui perdita getta nella disperazione la fanciulla, senza il quale avrebbe perso la sua divinità. Quindi, posto davanti all’afflizione della fanciulla, Hakuryo, si dice disposto a restituirlo solo se ella acconsentirà ad eseguire per lui una danza celeste.
La fanciulla acconsente ma dice che prima deve avere il vestito per mostrargli una tale danza. Timoroso che la fanciulla lo inganni e che una volta riavuto l’abito voli subito via, Hakuryo rifiuta di nuovo, venendo sul momento ammonito dalla voce che: “il dubbio è per i mortali, in cielo non c’è inganno. Al dunque egli, rosso di vergogna le restituisce l’abito di piume col quale ella si appresta alla danza in una constante esaltazione della meravigliosa scena primaverile, accentuata dalla lirica salmodiata del testo eseguita dal coro, sulla musica ‘naturalisticamente astratta’ degli strumenti”.

“Yoi fushi no kotoro / “Dove assopirmi
wa koko ka / in questo stato d’ebbrezza –
hasu no hana” / fiore di loto”.

Il canto qui utilizzato si avvale di un testo antichissimo, tramandato di generazione in generazione, improntato sulla creazione del mondo e delle meraviglie del Palazzo della Luna, dove trenta fanciulle, metà vestite di bianco e metà di nero, eseguono i propri compiti a rotazione, determinando le fasi della luna, da quella nuova a quella piena, di pari passo con l’avanzare del racconto: “Nel frattempo appare in scena lo ‘Shite’ (voce altera del destino) con la maschera, e rivela le trame oscure del dramma (e del testo al pubblico presente). La bella maschera ‘zoh-onna’ dai lineamenti molto raffinati, talvolta maturi e gravi usata per i ruoli di creature celesti, incoronata da un diadema di metallo filigranato con un lòto bianco, fa il resto. La fanciulla, dopo aver reso omaggio a Seishi, il Monarca della Luna e alla Trinità Amida, manifestazione di saggezza, inizia una lenta danza accompagnata dalla musica, sostenuta dal coro, ‘Jiutai’, che si unisce nell’esecuzione per aggiungere alla stessa un tocco di colore e di appassionato sentore”.

Mi soffermo qui affinché si possa solo immaginare questo ‘bagno di bellezza’ in tutta la sua apparente semplicità, in cui la parola ‘immobile’ riferita ad Hakuryo disegna un quadro di pura limpidezza, un’assenza di sofisticata somiglianza che temporeggia nel ‘vuoto’ momentaneo, che di fatto non appartiene al ‘nulla’ assoluto. Immersi in questo incanto, immaginiamo quali sottigliezze avalla la mistica avvenenza del fatto soprannaturale descritto, quale raffinata arte scaturisce da una simile padronanza di linguaggio musicale, gestuale, rappresentativo, che la cultura giapponese ha verosimilmente regalato al mondo intero.

“Onajiku ba / “In questo posto
hana no moto / sotto il ciliegio in fiore
ni te hito yonen” / dormire una notte intera”.

Sono detti ‘Hayashi’ gli artisti che si esibiscono in musica nei quattro strumenti utilizzati nel teatro Noh: il flauto ‘shakuachi’, detto anche ‘nōkan o nohkan’; il tamburo ‘kotsuzumi’ o ‘ōtsuzumi’ ‘tamburo celeste’. Una tipica performance Noh deve coinvolgere questi elementi, il canto dello Shite e del Waki e il coro. L’esecuzione si avvale del tono alto del flauto che, con ingegnosi cambiamenti di tempo, serve ad accompagnare i passi di danza, in cui l’attore consumato (ricordo qui che anche la parte femminile è ricoperta da un attore uomo), fa sfoggio di un’ampia serie di sottigliezze mimiche, muovendosi all’unisono con la musica ‘stereotipata e minimalista’; fatta talvolta di brevi suoni pizzicati e/o stirati, seguiti da lunghe pause di silenzio meditativo. Quello stesso ‘silenzio’ – ad esempio – che abbiamo letto nel testo, lì dove Hakuryo immobile, si gode la limpidezza del giorno di primavera, quando improvvisamente avverte “una musica nel cielo, una pioggia di fiori, una fragranza celeste diffusa in tutti i lati”.

In una lettera citta da Arthur Waley (11) nel suo più noto reportage dal Giappone, un inssolito spettatore, dopo aver assistito al+ questo stesso dramma in Giappone, scrisse quanto segue: “Certamente più io guardavo la fanciulla divina, più mi appariva in azione, benché a volte l’azione se realmente avveniva, era così lieve che poteva soltanto darsi che essa ci avesse portati al punto da notare il suo respiro. C’è stato solo un movimento rapido nella danza (forse a causa di un leggero soffio di vento) da poter ricordare: il lancio della rigida larga manica al di sopra della corona con il suo loto e i campanelli pendenti. La cosa più bella che abbia mai visto.”

“Inabune ya / “La barca del riso
sashi yuku kata ya / si dirige dritta verso
mikka no tsuki”. / la falce di luna”.

Ma ècco che il tempo della musica accelera prima della fine della danza, “..allorché la fanciulla celeste, avendo mantenuto la promessa fatta ad Hakuryo, si accinge a lasciare la terra e a tornare alla sua casa sulla Luna. Quindi, fatto il giro del palcoscenico eseguendo le sue esemplari evoluzioni col ventaglio, onde spargere il suo ‘tesoro di bellezza’ sulla terra, inizia la sua ascesa al di sopra delle montagne di Ashitaka, mentre la sua immagine svanisce assorbita dalla bruma celeste sull’alto picco del Fuji yama”. L’esecuzione è accompagnata dal Coro che sottolinea descrivendole le diverse danze delle sue compagne lunari”.
Come un fiore austero ed elegante che trascorre sulla corrente di oltre 600 anni di storia attraverso periodi di turbolenza e di calma, l’arte del Noh è diventata il simbolo della caducità e insieme dell’eterno rinnovarsi della ricerca più profonda della manifestazione e dell’intelligenza, della bellezza e dell’essenza della realtà: un arazzo d’immagini e di suoni tessuti insieme con le trame più belle, accuratamente scelte in fatto di scrittura e di poesia, di musica, di danza, nonché delle arti più semplici elevate qui alla ‘nobiltà’ del vivere quotidiano, come la tessitura e l’artigianato, l’estetica di disporre i fiori ‘ikebana’, e la cerimonia del tè, in cui nulla è lasciato alla casualità. Ciò, per quanto il Giappone sia oggi anche uno dei paesi più industrializzati del pianeta, che ha conservato la sua millenaria tradizione insieme ad altri aspetti del suo passato, continuando a vivere con naturalezza, pur in mezzo a tanta frenesia tecnologica.

“Yoshi ya nen / “Che piacere dormire
Suma no ura / sulle rive del Suma
no nami makura” / le onde come cuscino”.

Altri generi di arte teatrale giapponese sono il ‘Kyogen’ (12) (lett. "parole della follia"), è una forma di teatro risalente al XIV secolo. In cui si fa uso di maschere. Essendosi sviluppato assieme al Noh ed essendo rappresentato sullo stesso palcoscenico, come intermezzo tra un nō e l'altro, viene anche chiamato ‘nō-kyōgen’. I suoi contenuti sono tuttavia diversi rispetto a quelli del teatro Noh: il Kyōgen è una forma comica, il cui scopo è produrre nel pubblico il ‘warai’ (lett. ‘riso, risata’). Ma è il popolare ‘Kabuki’ (13) il cui significato letterale è ‘canto-danza-teatro’ e che quindi è in grado di accogliere la musica in tutti i suoi più svariati aspetti di utilizzo e a tenere la scena nell’attuale teatrale in Giappone. Non a caso il ‘Kabuki’, in quanto sintesi spettacolarizzata ha contrassegnato, negli anni ’70 del millennio appena conclusosi, un forte richiamo sulle giovani generazioni e un seguito ambivalente sulla scena nazionale e internazionale nell’evoluzione della musica contemporanea.
Occorre però fare un salto nel tempo prima di giungere ai nostri giorni, cioè prima di affrontare un esame comparativo che richiede uno spazio descrittivo a se stante, di cui nondimeno proverò a relazionare più avanti. Per ora soffermiamoci sul teatro Kabuchi in quanto forma di spettacolo ‘totale’ e sul vasto repertorio in fatto di danza, canto, musica e recitazione, che ha permesso e continua a sfornare una gran varietà di drammi sia di carattere narrativo storico-mistico, sia comico-musicale, nelle forme di danza-balletto con o senza narrazione, e che si fondono insieme nello ‘spirito’ innato, improntato sul fantastico, proprio dei popoli orientali in genere, in cui si rispecchiano le usanze e le tradizioni tutt’oggi in uso. Cosicché anche la musica, usata come sottofondo per i diversi generi di spettacolo cui fa da accompagnamento, trova una sua forma di comunicazione collettiva e di trasmissione della cultura.

“Ikiseki to noborite / “Piccoli stormi d’aironi
kuru ya / solcano il cielo –
iwashi uri” / crepuscolo d’autunno”.

È parte preponderante del tatro Kabuki il dramma danzato dal titolo “Kanjincho” portato in scena dalla Compagnia di teatro Popolare Kinoshita-Kabuki (14), in cui si narra la storia di un eroe mitologico: Minamoto Yoshitsune, il quale, a causa di un conflitto col fratello, fugge dalla città di Kyoto per cercare rifugio nel Nord del paese. Quella qui di seguito narrata riguarda la scena finale che si apre in presenza dell’eroe, il quale non avendo con sé i documenti necessari, viene fermato a un posto di blocco militare e dimostrare chi egli sia. Al racconto delle sue mirabolanti avventure e delle sue più realistiche vicissitudini uno dei gendarmi si riconosce come suo ex compagno. Questi è ‘uno degli onesti’, che si vuole lì presente per intercessione del ‘fato’, inscena una danza che richiede grande virtuosismo, e che serve a distrarre l’ufficiale dal suo proposito di tenere l’eroe prigioniero. Infine tutti ormai ubriachi dal vino offerto proprio dall’ufficiale, viene concesso all’eroe di passare al di là del blocco e superare così il confine, e salvarsi”.
La musica, del tipo ‘shamisen-naganta’ è qui usata per esprimere l’intensità drammatica del momento più critico di tutta la messinscena, ricca di spunti tradizionali, ed offre l’occasione per parlare delle misteriose forze della natura che contrastano l’eroe nel suo lungo cammino attraverso le montagne per raggiungere il nord del paese. Le percussioni esuberanti del tamburo tendono a ricreare l’impressionante avanzare di un ciclone che sta per abbattersi su di lui con tutta la forza del tuono, in un crescendo percussivo quasi ossessionante a imitazione del battito agitato del suo cuore. Per quanto credo sia più che mai evidente che l’arte comunicativa del Kabuki necessiti di tutto un apparato scenico che qui non è possibile elencare: dalle suppellettili agli strumenti di scena, ai costumi sfarzosi, alle maschere e ai trucchi estetici, ispirati dalla fantasia e dall’estro creativo che trova nel teatro giapponese un ‘nesso’ costitutivo tra l’irreale e il reale.

“”Yo no naka / “Tutto attorno a noi
wa sakura no hana ni / il mondo non è altro
nari ni keri” / che fiori di ciliegio”.

Al contrario del Noh nel teatro Kabuki il trucco dell’attore è piuttosto lungo e complicato poiché non indossando una maschera, se non raramente (allorché la maschera investe tutto il suo corpo), questi recita a viso nudo seppure attentamente tinto di bianco in contrasto con il colore della pelle. La ragione per cui il trucco giunge fino a metà del petto è che gli attori per lo più maschili spesso interpretano uno scambio di ruolo con quelli femminili. Esistono regole minuziose per accentuare col bistro e matite colorate le linee degli occhi e le sopracciglia, il naso, le labbra e la bocca. Il personaggio del ‘delinquente’ userà una tinta più scura per le labbra; mentre per i ruoli più ‘truci’, dei segni blu e rossi accentueranno le linee del volto e talora anche delle braccia e delle gambe. Mentre il ‘libidinoso’ accentuerà la sua figura con il belletto intorno agli occhi; segno più scuro caratterizzerà di volta in volta il ‘traditore’ e il ‘pensieroso’; sopracciglia ampiamente marcate denunceranno un volto esprimente crudeltà o dolore; un rosa pallido sarà adatto al ruolo di ‘adolescente’.
Appaiono chiari i legami molto forti che la disciplina Zen ha con ognuna di queste espressioni artistiche, in passato considerate manifestazioni spirituali e meditative, e che oggi inflenza ancora in modo assolutistico tutta la cultura contemporanea.Per intenrci faccio qui un esempio: se il pittore di paesaggi si identifica col paesaggio che ha davanti a sé, il cultore Zen è parte integrante del paesaggio, in ragione di una conzione mentale-filosofica che si può comprendere in modo univoco nel teatro Giapponese, onde coglierne la bellezza intrinseca, propria di quella qualità che si manifesta spontanea, e che si riflette in ogni spirito elevato.

“Yuku aki no / “L’autunno finisce
aware o dare / a chi poter confidare
ni katara mashi”. / la mia malinconia”.



Note:

1)I testi qui racolti in forma letteraria sono il frutto di ricerche svolte per il programma radiofonico “Folkoncerto” e in seguito per “Maschere rituali” entrambi andati in onda negli anni 70/80 sul canale RAI3 diretti da Antonio Tabasso, con la partecipazione della giornalista Landa Ketoff che ringrazio per la loro attenta e favorevole collaborazione, alle cui memorie dedico questa mia più recente riscrittura.

2) 3) I testi poetici che corredano questa ricerca e qui riprodotti appartengono al monaco giapponese Ryōkan (1758-1831), e sono tratti da “Novantanove Haiku” – La vita felice Editore- 2012.

4) 5) 6) In “Sentieri di luce”, Storie Zen - Edizioni del Baldo 2009.

7) Takeo Kuwabara, in ‘Catalogo Evento’ di “Takigi-Noh”, The Japan Foundation - Happodo Co., Ltd. 1984.

8) 9) The Pontifical Council for Culture – Radio Vatican TV Center – Japanese Embassy, Vatican – Japanese Institute of Culture of Kyoto – The Italian-Japanese Association.

10) “Hagoromo”, (l’abito di piume), è riassuntivo del testo tradotto dal giapponese, presente nel Catalogo (op.cit.).

11) Arthur Waley , grande trasmettitore dell'alta cultura letteraria di Cina e Giappone inoltre ambasciatore d'Oriente nell'Occidente durante il XX secolo. (Wikipedia) “NO Plays of Japan: an Anthology”, citato nel ‘Catalogo Evento’ (op.cit.).

12) 13) in Wikipedia, alle voci: “Teatro giapponese Kyogen” e “Teatro Kabuki”.

14) “Kanjincho” portato in scena dalla Compagnia di teatro Popolare Kinoshita-Kabuki, in “Cenni sulla cultura giapponese tradizionale”, redatto da Kokusai, Bunka, Shinkokai – Società per lo Sviluppo delle Relazioni Culturali Internazionali – Tokyo 1967.


Discografia utilizzata durante la messa in onda:

“Sunrise” – in Stomu Yamashta – Island 19228
“O-Fune-Matsuri Nekiromi – Bayashi” – O Suwa-Dako – in Philips 6586029
“Suite Kyushiu Folk Song” – in Toshiba 95003
“Il Sole tramonta sul Tempio” – Gruppo Str. Trad. Giapponese – in Arion 1016
“Hatoma-Bushi” - Yamairi Tsuru – in Atlas - EMI-Odeon 17967
“Chidori-no-Kyoku” – Traditional – in His Master Voice HLP2
“Awa- odori” – Traditional – in Atlas - EMI-Odeon 17967
“Sanbaso” – Traditional – in Toshiba 95004

Buon ascolto!







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- Filosofia/Scienza

Convegno-Evento a Roma

Convegno / Evento ‘IL RITORNO DEGLI DEI’ - Riconnessione con le civiltà perdute,
con Graham Hancock e Corrado Malanga.

Graham Hancock, noto giornalista scozzese e autore del famoso best seller ‘Impronte degli Dei’, sarà in Italia sabato 3 Novembre per un convegno realizzato con Corrado Malanga, professore e stimato ricercatore, autore di alcune pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali, incentrato sulle nuove scoperte inerenti alle grandi civiltà del passato e sui misteri non divulgati dalla storia ufficiale che svelano prospettive rivoluzionarie sull’origine e l’evoluzione della nostra specie.

Il programma è suddiviso in tre momenti divulgativi che avranno luogo nello stesso giorno: sabato 3 Novembre presso l’Hotel Capannelle in Via Siderno 37, nella magnifica cornice della città di Roma.
* 10.30 - “La Piramide di Cheope”, conferenza condotta da Corrado Malanga.
* 15.00 – in cui si offre la grande opportunità di incontrare Graham Hancock per uno speciale Meet and Greet.
* 17.00 conferenza condotta da Graham Hancock dal titolo “I Maghi degli Dei”, in lingua inglese con simultanea in italiano.


Gli autori:

Graham Hancock (Edimburgo 1950) è autore di alcuni dei maggiori bestseller internazionali di saggistica, fra cui il ‘Segno ed il Sigillo’, ‘Impronte degli Dei’, ‘Il Messaggio della Sfinge’, ‘Civiltà Sommerse e Sciamani’, e dei romanzi d'avventura epica ‘Entangled and War God’. I suoi libri hanno venduto oltre sette milioni di copie in tutto il mondo e sono stati tradotti in oltre trenta lingue. Le sue conferenze pubbliche, le numerose apparizioni radiofoniche e televisive, tra cui serie TV importanti quali ‘Quest For The Lost Civilization’, ‘Flooded Kingdoms of the Ice Age’ e ‘Ancient Aliens’, così come la sua partecipazione al documentario Netflix ‘DMT: La Molecola dello Spirito’ e la sua forte presenza su Internet, lo hanno reso una delle voci più note nel panorama del sapere alternativo e hanno fatto sì che le sue idee siano ascoltate da decine di milioni di persone in tutto il mondo. Hancock è universalmente riconosciuto come un pensatore non convenzionale, capace di sollevare domande di fondamentale importanza sul passato dell'umanità e sulla nostra attuale situazione. Il suo libro più recente, ‘Il Ritorno degli Dei’, è già un bestseller e l’autore sta attualmente lavorando a un nuovo libro-seguito incentrato sull’America antica.

Corrado Malanga (La Spezia 1951) è stato Ricercatore in Chimica organica presso il dipartimento di Chimica e Chimica industriale dell’Università degli Studi di Pisa, nonché autore di diverse pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali. La sua grande fama nasce dalla ricerca nel campo degli UFO, che porta avanti da oltre trent’anni, nell’ambito della quale ha formulato tesi di straordinaria originalità e importante stimolo, in particolare in merito al fenomeno delle ‘abduction aliene’.
Di grande interesse e coadiuvate da un grande successo di pubblico le sue conferenze ch’è possibile seguire su YouTube: ‘L’universo è un ologramma: la chiave per gestirlo’; ‘I segreti del Vaticano’. Tra le sue pubblicazioni più note: ‘Gli UFO nella mente’, ‘Evideon. L’anima dei colori’, ‘La geometria sacra in Evideon’.

Elisa Fantinel
Ufficio Stampa e Comunicazione
cell. 3358160566
e-mail elisafantinel@yahoo.it
www.elisafantinel.it

Spazio Interiore
Via Vincenzo Coronelli 42
00146 ROMA
Info: www.spaziointeriore.com/ilritornodeglidei/. in collaborazione con In&Out
eventi@spaziointeriore.com
cell. 366.4224150

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- Cultura

Festival del Mondo Antico a Rimini

XX edizione del Festival del Mondo Antico
12-13-14 Ottobre 2018

La manifestazione è realizzata in collaborazione con il Comune di Rimini, i Musei Comunali di Rimini, la Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna, l'Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna e con l’Ufficio scolastico provinciale di Rimini.

Questa edizione del Festival conclude le celebrazioni per l'anniversario della morte di Sigismondo Malatesta, un personaggio che ha incarnato in sé i principi del costante scambio e confronto tra Oriente e Occidente propri del mondo antico. Come nello spirito di Antico/Presente, si spazierà attraverso le epoche, fino al contemporaneo, affrontando l'argomento-guida sotto molteplici punti di vista.

Tra gli altri protagonisti: Marco Bertozzi, Marco Biscione, Giovanni Brizzi, Franco Cardini, Giuseppe Cascarino, Silvio Castiglioni, Lia Celi, Monica Centanni, Jonny Costantino, Roberto M. Danese, Oreste Delucca, Alberto De Simone, Marcello Di Bella, Massimo Donattini, Johnny Farabegoli, Massimo Giuliani, Marco Guidi, Panagiotis Kourniakos, Mario Lentano, Vito Mancuso, Valerio Massimo Manfredi, Adolfo Morganti, Maria Giuseppina Muzzarelli, Alireza Nasser Eslami, Angelo Panebianco, Vittorio Emanuele Parsi, Patrizia Passerini, Antonella Prenner, Giorgio Ravegnani, Giovanni Ricci, Luigi Russo, Silvia Ronchey, Andrea Santangelo, Angelo Scarabel, Elisa Tosi Brandi, Natalino Valentini, Laurent Vissière, Michael W. Wyatt.

Dialoghi nel Tempo, il programma:

LE COSE DI SIGISMONDO
L’inventario dei beni del castello redatto da Isotta il 13 ottobre 1468. A cura di Elisa Tosi Brandi, in collaborazione con l’Archivio di Stato di Rimini
da 9 Ottobre 2018 a 25 Novembre 2018 - Mostre

OLTRE GLI SGUARDI
Istantanee etnografiche dai depositi del Museo degli Sguardi di Rimini. In collaborazione con Italia Nostra Sez. Rimini, a cura di Guido Bartolucci, Sonia Fabbrocino, Sonia Migani e Massimo Pulini da 11 Ottobre 2018 a 25 Novembre 2018 - Mostre

MUSEI IN CONNESSIONE. IL MAO DI TORINO
A cura di Generoso Urciuoli (MAO) Mostre da 12 Ottobre 2018 a 25 Novembre 2018

RIFLESSI D’ORIENTE …
Visite guidate riservate alla Scuola secondaria di I grado
12 Ottobre 2018 - Visite guidate e itinerari

LE RADICI DEL DIALOGO TRA I FIGLI DI ABRAMO. L’ATTUALITÀ DEL MODELLO FILONIANO
Convegno Internazionale di Studi su Filone Alessandrino (Firenze 10, 11 ottobre 2018 – Rimini 12 ottobre 2018), III Sessione
12 Ottobre 2018 - Conferenze

AL CASTELLO CON SIGISMONDO E ISOTTA
Visita teatralizzata - Evento riservato alla Scuola Primaria
12 Ottobre 2018- Spettacoli

COSTRUIAMO UN PAVIMENTO ROMANO
Laboratorio teorico pratico sui moduli pavimentali romani
12 Ottobre 2018 - Laboratori

CHE COS’È ORIENTE? CHE COS’È OCCIDENTE?
Una riflessione tra filologia, letteratura, antropologia, Mario Lentano. Evento riservato alla Scuola Secondaria di II grado
12 Ottobre 2018 - Conferenze

L’UMANESIMO CRISTIANO DEL TEMPIO MALATESTIANO PERCORSI DI RISCOPERTA ARTISTICA, TEOLOGICA E SAPIENZIALE
Presentazione del volume a cura di Johnny Farabegoli e Natalino Valentini
12 Ottobre 2018 - Conferenze

GIUSTIZIA E MITO
Lectio magistralis di apertura del Festival
12 Ottobre 2018 - Conferenze

MALATESTA
Spettacolo teatrale itinerante 12 / 13 Ottobre 2018

OCCIDENTE ADDIO
La Turchia volta pagina. Valerio Massimo Manfredi e Marco Guidi
12 Ottobre 2018 - Conferenze

DIDO’S SONGS: ECHOES CAFÉ
Concerto parlato. Armida Loffredo (canto), Marcello Iiriti (fisarmonica), Simone Mauri e Maria Rossi (voci narranti)
12 Ottobre 2018 - Spettacoli

SIGISMONDO MALATESTA FRA OCCIDENTE E ORIENTE
13 Ottobre 2018 - Conferenze

SCENE DI VITA QUOTIDIANA. PROFUMI D’ORIENTE
Con ricostruzione scenica Il culto di Mitra (ore 11.30)
13 Ottobre 2018
Conferenze

TENEBRE
Antonella Prenner. Dialoga con l’Autore Lia Celi
13 Ottobre 2018 - Aperitivo con l'autore

MASCHERE DELL’IO E DELL’ALTROVE
Workshop a cura di Sonia Fabbrocino
13 Ottobre 2018 - Laboratori

VISITE GUIDATE ALLE SALE ANTICHE
13 Ottobre 2018 - Visite guidate e itinerari

LE MEDAGLIE DI SIGISMONDO
Percorso guidato fra sale malatestiane del Museo e monumenti cittadini, a cura di Michela Cesarini
13 Ottobre 2018 - Visite guidate e itinerari

RIFLESSI D’ORIENTE NELLA RIMINI IMPERIALE E BIZANTINA
13 Ottobre 2018 - Visite guidate e itinerari

CAVALIERI FRA ORIENTE E OCCIDENTE: LA VERA STORIA DEI TEMPLARI
13 Ottobre 2018 - Conferenze

ALLE RADICI DELL’EUROPA E DEL MONDO MEDITERRANEO
Antonella Prenner con Giovanni Brizzi
13 Ottobre 2018 - Conferenze

PERSONE E MONDI
Angelo Panebianco. Dialoga con l’autore Vittorio Emanuele Parsi. Coordina Marco Guidi
13 Ottobre 2018 - Aperitivo con l'autore

SULL’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA
Con Vito Mancuso. Introduce Marco Bertozzi
13 Ottobre 2018 - Conferenze

TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Dialogo tra Giovanni Brizzi e Franco Cardini
14 Ottobre 2018 - Conferenze

SCENE DI VITA QUOTIDIANA. PROFUMI D’ORIENTE
A cura dell’Ass.Cult. Legio XIII Gemina-Rubico
14 Ottobre 2018 - Conferenze

NEMICI O ALLEATI? I TURCHI E I PRINCIPI ITALIANI DEL RINASCIMENTO
Giovanni Ricci. Dialoga con l’Autore Franco Cardini
14 Ottobre 2018 - Aperitivo con l'autore

CLEOPA MALATESTA
Silvia Ronchey 14 Ottobre 2018- Conferenze

LEGIONARI IN MARCIA
A cura dell’Ass.Cult. Legio XIII Gemina-Rubico
14 Ottobre 2018 - Conferenze

GOTHIC FASHION: UNA STORIA, ANZI UN’INVENZIONE DI LUNGA DURATA
Elisa Tosi Brandi
14 Ottobre 2018 - Conferenze

IN VISITA ALLA DOMUS
Percorso guidato fra sito archeologico e sale del Museo
14 Ottobre 2018 - Visite guidate e itinerari

SCAMBI CULTURALI IN AMBITO BELLICO NEL MEDIOEVO. DALLE CROCIATE ALLE LOTTE TRA MALATESTA E MONTEFELTRO
14 Ottobre 2018 - Conferenze

I LEGIONARI E - LE STRADE DELL’IMPERO
14 Ottobre 2018 Conferenze

SIGISMONDO PANDOLFO MALATESTA TOUCH
14 Ottobre 2018 Visite guidate e itinerari

ORIENTE E MODA: EVOCAZIONI FANTASTICHE E SPUNTI DALLA REALTÀ
Maria Giuseppina Muzzarelli
14 Ottobre 2018 - Conferenze

AMORE E PSYCHE O L’ANIMA ABBANDONATA
Concerto-spettacolo per voce, canto e musica elettronica
14 Ottobre 2018 - Spettacoli

ATATURK ADDIO
14 Ottobre 2018 - Il festival altrove

DANZE ANTICHE
A cura dell’Ass.Cult. Legio XIII Gemina-Rubico e della Scuola di danza orientale Leyla Nur
14 Ottobre 2018 - Conferenze

I CROCIATI IN TERRASANTA
14 Ottobre 2018 Conferenze

IMAGO BUDDHA. IL LINGUAGGIO DEI SIMBOLI NELL’ARTE BUDDHISTA
A cura di Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa ISUR Rimini
14 Ottobre 2018 - Conferenze

ANDAR PER VINI
14 Ottobre 2018 - Aperitivo con l'autore

SCRIPTA PAVENT (SIC!): LETTURE SPIRITICHE
con Fabrizio Loffredo, Vincenzo Aulizio, Armida Loffredo e le voci dei suoi studenti di fisiologia vocale (gruppo di lavoro Klangwelt)
14 Ottobre 2018 - Conferenze

Contatti
Musei Comunali di Rimini
Direzione-Uffici
via dei Cavalieri, 26 - 47921 Rimini
tel 0541 704422 - fax 0541 704410
musei@comune.rimini.it
festival.antico@comune.rimini.it

Museo della Città "Luigi Tonini"
via L. Tonini, 1 - 47921 Rimini
tel. 0541 793851

Domus e Chirurgo
Piazza Ferrari - 47921 Rimini
tel. 0541 793856 - Siti tematici
•Museo della Città
•Comune di Rimini

Il Festival rientra nel programma di enERgie diffuse ed è uno degli eventi nell'agenda dell'Anno Europeo del Patrimonio culturale 2018.

Ufficio relazioni esterne.

Società editrice il Mulino Spa
Strada Maggiore 37 - 40125 Bologna
tel. 051 256011; fax 051 256034
email: info@mulino.it
http://www.mulino.it

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- Libri

Nonni come Angeli - Invito alla lettura d’autunno

NONNI COME ANGELI - INVITO ALLA LETTURA D’AUTUNNO

L’autunno è ormai alle porte e qualcuno, ormai da qualche anno, si è inventato ‘la festa dei nonni’ relegandola al 2 Ottobre, una ricorrenza civile diffusa in gran parte del mondo. L'evento è celebrato in onore della figura dei nonni e della loro influenza sociale. Una data scelta nel 2005 dal nostro Parlamento per sottolineare l'importanza del loro ruolo in famiglia e nella società. E non sono forse loro, i nonni italiani, gli angeli custodi di ogni famiglia? Nel calendario liturgico cattolico il 2 ottobre è la ‘festa degli angeli custodi’, già festeggiata alla fine di settembre con ampia partecipazione ad Assisi presso la Basilica Papale di Santa Maria degli Angeli e della Porziuncola di San Francesco. Ma anche se le attenzioni degli Angeli/Nonni per i nipoti non hanno prezzo è proprio la società che li deve ringraziare ricordandosi di loro in questo giorno e nei mesi successivi, col regalare loro un libro ‘significativo’ come segno della nostra/vostra considerazione.

Per quanto individuare un titolo che possa essere in qualche modo ‘speciale’ va indubbiamente valutato l’impegno sociale, il tempo a disposizione, il potenziale culturale individuale. Tuttavia nell’ampia gamma delle pubblicazioni più recenti o in uscita, la scelta è più che facilitata: si passa dal romanzo ‘classico’ (sempre valido), al nuovo ‘romanzo giallo / noire / thriller’ (in cui l’adrenalina è assicurata), al ‘saggio’ distensivo (acculturante), al ‘libro d’arte’ (icononografico illustrato). Di grande utilità sono sul mercato 14 nuovi ‘audiolibri’ per una collana che punta a far riscoprire il fascino e l’incredibile attualità della ‘mitologia classica greca’.

SAGGISTICA
"Gli antichi greci ci hanno lasciato un patrimonio inestimabile di storie. Vogliamo farle rivivere tornando alla dimensione originale dell'ascolto – scrive Giacomo Brunoro direttore editoriale di LA CASE Books 2018.
L'Antica Grecia ci ha lasciato un'eredità infinita di storie, un enorme immaginario collettivo che ha letteralmente plasmato la cultura occidentale. Storie da riscoprire e che a distanza di millenni sono ancora attualissime. Storie che sono nate migliaia di anni fa nel cuore del Mediterraneo in forma orale, e che per secoli sono state raccontante e tramandate a voce. Proprio per questo motivo LA CASE Books presenta una nuova collana di audiolibri : “Con questa nuova collana inauguriamo un filone inedito per noi, ma siamo sicuri che la potenza dell’immaginario creato dagli antichi greci sia ancora attualissimo. Sono storie perfette per essere ascoltate, storie che possono affascinare tantissimo anche gli uomini e le donne del ventunesimo secolo”.

‘MITOLOGIA GRECA’, i titoli della collana di audiolibri:
La nuova collana dedicata alla Mitologia Greca, distribuita in streaming in esclusiva su Audible di Amazon e in digital download in esclusiva su iTunes Store di Apple, è composta da 14 titoli: “Edipo Re”, “Cassanda”, “Medusa”, “Odisseo e le Sirene”, “Odisseo e Calipso”, “Odisseo e il ciclope Polifemo”, “Una fatica di Sisifo”, “La guerra di Troia - L’ultima battaglia”, “Apollo innamorato”, “Achille contro Ettore”, “Atena contro Poseidone”, “Polifemo e l’amore per Galatea”, “La fuga di Enea” e “Mida, storia un re ingordo”,

Finalmente in edizione paperback i primi due titoli della serie «Grandi racconti», libri riccamente illustrati da leggere e da guardare editi da il Mulino Biblioteca Storica:
‘IL GRANDE RACCONTO DEI MITI CLASSICI’ a cura di Maurizio Bettini – il Mulino 2018.
Per i Greci i miti sono in primo luogo racconti: narrazioni meravigliose, che mescolano il divino e l’umano, il quotidiano e lo straordinario, suscitando davanti ai nostri occhi immagini di eroi, dèi, fanciulle, mostri e personaggi fiabeschi. Una schiera interminabile, perché più ci si addentra in questo fantastico mondo - attraverso l’ausilio della voce, della scrittura o delle immagini - più ci si accorge che ciascuno di questi racconti non è mai concluso in sé, ma rinvia sempre ad altri eventi, altri personaggi, altri luoghi, in un raccontare infinito che chiede solo di diventare a sua volta immagine o scrittura. La mitologia ha infatti la forma di una rete, in cui si intrecciano mille nodi. Nel corso del tempo, questa rete con i suoi molteplici richiami narrativi è stata calata infinite volte nel mare della cultura e, trascinata sul fondo, ha raccolto nomi, fatti, rituali, usi, costumi, regole, atteggiamenti, visioni del mondo. Per questo, raccontare o ri-raccontare oggi i miti degli antichi significa entrare dalla porta principale nella memoria della loro, della nostra cultura.

l'AUTORE: Maurizio Bettini, classicista e scrittore, è stato professore ordinario di Filologia classica nell’Università di Siena. Per Einaudi è curatore della serie «Mythologica». Per il Mulino dirige la collana «Antropologia del mondo antico» e ha pubblicato, oltre a «Viaggio nella terra dei sogni» (2017), «Affari di famiglia. La parentela nella letteratura e nella cultura antica» (2009), «Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche» (2014), «Radici. Tradizione, identità, memoria» (2016); ha inoltre curato con W.M. Short «Con i Romani. Un’antropologia della cultura antica» (2014).

‘IL GRANDE RACCONTO DELL'EVOLUZIONE UMANA’ di Giorgio Manzi – il Mulino 2018.
Tentare di comprendere l’uomo attraverso la sua storia è una delle sfide più affascinanti della conoscenza scientifica. È nel tempo profondo che ritroviamo il nostro posto nella natura, è da lì che possiamo disegnare la genesi della biodiversità umana. Una storia prima della storia, ricomposta a partire da ossa fossili, manufatti, siti preistorici e dati di biologia molecolare. In questo libro si racconta il grande viaggio nel mondo dei primati che ci riporta a quel gruppo di scimmie antropomorfe bipedi che, all’inizio del Pliocene, intrapresero in Africa il percorso evolutivo che ha poi dato origine alla nostra specie. Incontreremo Lucy, assisteremo all’emergere del genere Homo, vedremo evolvere i Neanderthal e comparire infine sulla scena Homo sapiens, la specie destinata ad affermare il proprio dominio sull’intero pianeta.

l'AUTORE: Giorgio Manzi è professore ordinario di Antropologia alla Sapienza - Università di Roma, dove insegna Ecologia ed evoluzione umana, Storia naturale dei primati e Museologia; è direttore del Museo di Antropologia «Giuseppe Sergi». Per il Mulino ha pubblicato «Homo sapiens» (2006), «L’evoluzione umana» (2007), «Uomini e ambienti» (con A. Vienna, 2009), «Scimmie» (con J. Rizzo, 2011) e «Ultime notizie sull’evoluzione umana» (2017).

‘INTORNO AGLI UNICORNI’ Supercazzole, ornitorinchi e ircocervi, di Maurizio Ferraris – il Mulino 2018.

«Non sempre il trapasso dall’essere al sapere ha luogo, e magari non è neanche una rovina, giacché il mondo può funzionare, nella maggior parte dei casi, in assenza di pensiero e in balìa di supercazzole». Perché ci sono così tanti bicorni e nessun unicorno, se un corno è più semplice di due? Heidegger raccomandava ai suoi uditori di accostarsi a quella immensa e candida supercazzola che è lo Zarathustra con la stessa dedizione e pensosità riservata ai trattati aristotelici. Ferraris avanza analoga richiesta per unicorni, bicorni, ornitorinchi, e per la supercazzola vera e propria, quella di Tognazzi in Amici miei. Margini o briciole di filosofia, queste entità minori riservano più scoperte che Essere, Nulla e Divenire.

L'AUTORE: Maurizio Ferraris insegna Filosofia teoretica all’Università di Torino, dove è presidente del Laboratorio di Ontologia (LabOnt) e vicerettore alla ricerca in area umanistica. Internazionalmente noto per i suoi studi, ha pubblicato oltre cinquanta libri. Per il Mulino, tra l’altro, «L’imbecillità è una cosa seria» (2016) e «Postverità e altri enigmi» (2017).

ROMANZI
Dall’autrice del bestseller "La collezionista di libri proibiti" Cinzia Giorgio, Newton Compton Editori 2018, una delle autrici italiane più amate dalle lettrici, ecco ‘La piccola bottega di Parigi’ - presentata con successo alla Libreria "Pagina 272" di Roma.
La trama: Un’eredità inaspettata, un viaggio a Parigi, un passato tutto da scoprire. Corinne Mistral è un giovane avvocato che non perde mai una causa. Vive a Roma e lavora presso il prestigioso studio legale della famiglia del fidanzato. Si sta dedicando anima e corpo a una causa molto importante quando la raggiunge la notizia della morte di sua nonna e dell’eredità che le ha lasciato: un atelier di alta moda a Parigi, nel bellissimo quartiere del Marais. Corinne parte immediatamente, decisa a sistemare il più presto possibile la faccenda e tornare poi al suo lavoro. Ma, una volta lì, resta affascinata dalla straordinaria storia di sua nonna, una donna che lei ha potuto conoscere pochissimo e che è stata persino allieva e amica della grande Coco Chanel. Il ritorno a Roma è rallentato ulteriormente dalla presenza dell’esecutore testamentario: qualcuno che Corinne conosce bene, troppo bene… Che non si tratti di un incontro casuale? No, «Cinzia Giorgio ha compiuto l’impresa: presentare nel panorama della contemporanea narrativa italiana un libro che costruisce un ponte tra romanzo storico, romanzo di formazione e romanzo d’amore.» www.sulromanzo.it

L'AUTRICE:Cinzia Giorgio è dottore di ricerca in Culture e Letterature Comparate, conduce il gruppo di lettura "Book Club 272" presso la Libreria "Pagina 272" di Roma. Si è specializzata in Women’s Studies e in Storia Moderna, compiendo studi anche all’estero. Organizza salotti letterari, è direttore editoriale del periodico "Pink Magazine Italia" e insegna "Storia delle Donne" all’Uni.Spe.D. È autrice di saggi scientifici e romanzi. Con la Newton Compton ha pubblicato "Storia erotica d’Italia", "Storia pettegola d’Italia", "È facile vivere bene a Roma se sai cosa fare" e i romanzi "La collezionista di libri proibiti", "La piccola libreria di Venezia" e "La piccola bottega di Parigi".

Con ‘OMNILAND’ – Edizioni Esordienti E-book 2018, Giancarlo Ibba si è cimentato questa volta con un thriller molto particolare, ma avvincente come sempre. La trama: Uno spietato cacciatore di taglie, un apache in fuga, un pilota di astronavi, un investigatore privato nei guai, due belle ragazze confuse, un casanova palestrato, un uomo senza memoria di cui si conosce solo l’iniziale del nome, K., una sarta maltrattata dal marito alcolista, un bambino che sembra molto più maturo della sua età: personaggi che vengono da epoche differenti e luoghi diversi, senza spiegazione e all’improvviso, si trovano misteriosamente proiettati in un nuovo, strano “mondo”. Un insieme eterogeneo e mutevole di ambienti, dove c’è sempre un dettaglio che “non torna”, non in sintonia con le leggi della fisica e della natura. Come se non bastasse, un’oscura minaccia sembra incombere costantemente su tutti loro, in un crescendo di tensione che farà emergere i lati migliori o peggiori di ciascuno. Ma la realtà è ancora più terribile e difficile da accettare...

SCIENZA E ALTRO
Raffaello COrtina Editore presente al Festivaletteratura di Mantova 2018 ha presentato un certo numero di autori agli eventi che li vedono protagonisti sulla scena della letteratura contemporanea con saggi sulle diverse sociopatologie afferenti a ‘QUALE CURA PER LA MEMORIA?’. Un libro che ha segnato l’icontro con Arnaldo Benini con Agnese Codignola e Luciano Orsi intervenuti alla manifestazione.
Al Palazzo Ducale - Basilica Palatina di Santa Barbara …
‘Tra le forme più comuni di demenza degenerativa, il morbo di Alzheimer è senza dubbio il disturbo neurocognitivo più terribile. Secondo un dato del 2017, ne soffre il 4% della popolazione italiana over 65 e, nonostante alcune statistiche mondiali sembrino indicare una relativa diminuzione percentuale del rischio, è anche vero che l'aumento delle aspettative di vita comporta una crescita delle persone colpite. Al momento non esiste trattamento che arresti o rallenti il decorso della sindrome demenziale e la gestione dei pazienti incide a vari livelli sui sistemi sanitari e sulle famiglie. Arnaldo Benini (La mente fragile. L'enigma dell'Alzheimer), docente di Neurochirurgia e Neurologia, discute insieme al palliativista Luciano Orsi e ad Agnese Codignola (Il corpo anticancro) delle future sfide che attendono medici e ricercatori, provando a fare luce sul disorientamento che ancora oggi caratterizza il dibattito su questa malattia’.

‘Un incendio per un cuore di paglia’ ha segnato un incontro con Antonio Prete e Luigi Zoja, tenutosi al Teatro Bibiena, sul tema ‘NOSTALGIA - STORIA DI UN SENTIMENTO’ – Libro 2018.

‘Nella tesi Dissertazione medica sulla nostalgia, presentata a Basilea nel 1688 dallo studente di medicina Johannes Hofer, apparve per la prima volta il termine che ancora oggi indica il rimpianto per la lontananza da persone o luoghi cari. Una parola moderna per un sentimento antico e obliquo, che passa da Ulisse a Proust e tocca da sempre i cuori di esuli e migranti. Sul suo passaggio da malattia a sentimento, a partire dall'Europa ottocentesca, si confrontano Antonio Prete e Luigi Zoja (Nella mente di un terrorista), studiando la rappresentazione nel linguaggio poetico e l'evoluzione clinica e letteraria di una "melanconia umana resa possibile dalla coscienza del contrasto tra passato e presente", un concetto dalle mille sfaccettature, nella ricerca di un'ideale e salvifica Itaca, un "ritorno a casa" che possa portare conforto’.

‘MINDSCAPES: IL PAESAGGIO DENTRO DI NOI’ è la tematica affrontata nell’ incontro con Vittorio Lingiardi al Tenda Sordello: ‘Laghi, vallate, paesi inerpicati sulle montagne, distese marine abitano nella nostra mente e nei nostri sogni: come oggetti psichici sono impressi nella nostra memoria che Vittorio Lingiardi ‘Mindscapes’ – Collana Minima della Raffaello Cortina Editore 2018, compie nel viaggio lungo il sottile crinale tra psiche e ambiente, alla ricerca del paesaggio elettivo. Quale è dunque il vostro? Semplice, vi basterà leggerlo per scoprirlo.

MUSICA E SUONI
Il fascino de ‘IL SUONO. L’ESPERIENZA UDITIVA E I SUOI OGGETTI’. Libro di Elvira Di Bona e Vincenzo Santarcangelo, Raffaello Cortina Editore 2018, introduce il lettore nel mondo effimero dei suoni. Che cosa sono i suoni? Messaggeri di informazioni cruciali per il riconoscimento degli oggetti che ci circondano o entità evanescenti e distinte da essi? Perché, pur essendo sempre sommersi da suoni di cui non siamo consapevoli, ci accorgiamo immediatamente della loro assenza nelle situazioni di più totale silenzio? Come li percepiamo? Dove si trovano? E qual è la loro dimensione temporale? Queste sono alcune delle domande a cui risponde Il suono, un’inedita introduzione a temi che possono interessare tanto il lettore esperto quanto quello curioso. Scoprire cosa si nasconde dietro la percezione uditiva rivela il fascino di una modalità sensoriale davvero sorprendente che dà accesso al misterioso regno del suono e della musica.

GLI AUTORI:Elvira Di Bona è ricercatrice alla Polonsky Academy del Van Leer Institute di Gerusalemme. Ha conseguito il dottorato in Filosofia e Scienze cognitive presso l’Università Vita-Salute San Raffaele (Milano) e l’Institut Jean Nicod (Parigi). Si è diplomata all’Accademia nazionale di alto perfezionamento di studi musicali di Santa Cecilia. I suoi ambiti di ricerca sono la filosofia della mente, la filosofia della percezione e l’estetica.

Vincenzo Santarcangelo insegna al Politecnico di Torino ed è membro del Labont - Università degli Studi di Torino. Ha conseguito il dottorato in Filosofia del linguaggio e della mente presso l’Università di Torino. Scrive di musica per il Corriere della Sera, la Lettura, il giornale della musica e Artribune. Si occupa di filosofia della percezione, filosofia della musica ed estetica.

Alla musica Jazz è dedicato il libro di Anna Harwell Celenza ‘JAZZ ALL’ITALIANA’ Da New Orleans all'Italia fascista e a Sinatra. Pubblicato da Carocci Editore nella collana ‘Sfere’, per scoprire l’influenza di una musica che ha stravolto la nostra musica popolare e quella di tutta Europa.

‘Arrivato in Italia alla fine della Prima guerra mondiale, il jazz fu accolto, almeno in parte, come una forma artistica “indigena”. I futuristi ne lodavano l’energia virile, Mussolini lo descriveva come la voce della gioventù italiana e i musicisti, ipnotizzati da quei suoni nuovi, riempivano le sale da ballo e i night club.
Il jazz italiano prosperò fino alla fine della Seconda guerra mondiale grazie al sostegno del Duce, ma dopo la sua caduta e la fine della guerra, molti musicisti cominciarono a riscrivere la propria storia nel tentativo di cancellare ogni traccia delle scomode relazioni intessute con le politiche e le pratiche del fascismo, causando così la rimozione di quest’epoca dalla storia del jazz’.
Un libro da leggere ma anche da ascoltare che fa rivivere quelle che sono state le eccellenze italiane nel Jazz.

TUTTO AL FEMMINILE
Ma ci sono anche ‘le nonne’ non dimentichiamolo e chissà se gli Angeli che sicuramente le proteggono per il calore che ‘doppiamente’ restituiscono ai propri nipoti, ci ricordano di spendere un pensiero e magari un piccolo dono anche per loro?

Intervistiamo Daniela Carelli, dopo il successo ottenuto al BookFestivalBar di Cernusco sul Naviglio dove ha presentato il suo nuovo romanzo ‘Mosaico napoletano’ – Segmenti Editori 2018.

D. Grazie Daniela per la tua disponibilità, qualche giorno fa hai presentato per la prima volta Mosaico napoletano al pubblico del BookFestivalBar, in realtà è appena iniziato un vero e proprio tour che ti vedrà a Monza e poi a Napoli...
Il tuo romanzo è stato pubblicato da poche settimane, vorremmo quindi parlare con te di Mosaico napoletano e di Daniela Carelli scrittrice e lettrice.
Com’è nata l’idea che ha dato vita al libro?

R. Circa quattro anni fa, durante una telefonata Parigi-Milano con Jean Nöel Schifano.
Erano anni che non lo sentivo, dai tempi in cui, come direttore del Grenoble rappresentò il fulcro di un grande fermento culturale napoletano. Lo conoscevo perché mi invitò a dare un concerto all’auditorio dell’Istituto. Un’esperienza incancellabile.
Potere di Internet, e grazie ad Angelo Forgione, riuscii a ottenere la sua mail.
Il giorno dopo mi chiamò, mi fece i complimenti per la “bella lettera” che gli avevo inviato e mi chiese se avessi mai pensato di darmi alla scrittura. Timidamente gli confidai che a giorni sarebbe uscito il mio secondo romanzo “Vado a Napoli e poi... MUOIO!”.
Si congratulò e di punto in bianco disse:
“Il prossimo che scrivi dovresti intitolarlo: Mosaico napoletano.”
Il suggerimento mi colse di sorpresa, ma nei giorni a venire continuai a chiedermi di cosa avrebbe potuto parlare un libro così intitolato e, anche se mi sembrò folle, decisi che un episodio tanto insolito non poteva essere ignorato.
Ed eccoci qui.
Quanto tempo hai impiegato per la stesura?
R. Un paio d’anni circa. Purtroppo ho dovuto combattere un cancro al colon, e questo ha rallentato la stesura.
In questi giorni ho messo la parola fine al capitolo cancro e vedere anche il mio libro, finalmente, pubblicato, mi ripaga di tutto.

D. Quali sono i personaggi principali?
R. Giuseppe è il protagonista. Intorno a lui ruotano una serie di figure: la famiglia; Giacomo e Salvio i suoi amici di sempre, e le donne.

D. Come è strutturato il romanzo, qual è la sua originalità?
R. Ogni capitolo del libro è un ricordo. Ogni ricordo è legato a colori e sfumature fino ad arrivare al bianco, che è la somma di tutti i colori, e quindi la rivelazione finale.
Inoltre è un libro con una colonna sonora: Pino Daniele, nelle cui canzoni Giuseppe si identifica, così come è stato per molti che hanno vissuto quegli anni a Napoli.

D. Quando è ambientato il romanzo e perché proprio in quel periodo?
R. Il romanzo è ambientato prevalentemente nel periodo che va dagli anni ‘60 ai ‘90. E torna ai giorni nostri ogni volta che Giuseppe, ricordando, fa delle considerazioni.
Volevo descrivere la città in quegli anni e il sentimento che ci legava ad essa.

D. Quali sono i temi trattati?
R. Parla della crescita personale di Giuseppe che, per diventare adulto, come tutti noi, passa attraverso molte esperienze, felici e dolorose. Parla del suo rapporto con l’amicizia; del primo amore e di come si sviluppano nel tempo le sue relazioni con le donne.
Parla della famiglia che, nonostante dissidi e contraddizioni, resta sempre un porto sicuro.
Parla di Napoli, della sua storia in quegli anni, dei suoi miti e delle tragedie che hanno funestato questa città affascinante e problematica, che non smetterà mai di ispirare chi la ama.

D. Quanto c'è di autobiografico nel romanzo?
R. Questa volta molto poco, praticamente niente, se non alcune situazioni vissute da molti in quegli anni, come il terremoto, o l’amore per astri nascenti come Pino Daniele… anche se, come disse Mario Pomilio: "Un romanzo è sempre una metafora alla quale soggiace un'autobiografia del profondo."

D. Perché il titolo: Mosaico napoletano?
R. Perché il Mosaico sarà parte della rivelazione finale.

D. Le vicende narrate sono strettamente legate alla città di Napoli, sembra quasi che la Napoli descritta nel romanzo sia essa stessa la protagonista principale. Mosaico napoletano è anche un atto d'amore nei confronti della tua città? Cosa si dovrebbe fare per comprendere realmente Napoli?
R. Bisognerebbe viverla senza preconcetti. Questo vale sia per chi la visita che per chi ci abita.

In entrambi i casi, infatti, ho notato che la gente si fa fuorviare dalla cattiva pubblicità che i mass-media perpetrano a danno della città che, da un lato non invoglia il turismo e dall’altro fa credere ai napoletani di essere gli unici ad avere problemi.
Oggi, grazie a Internet e ai social si possono vedere le bellezze di Napoli e comprendere che tutto il mondo è paese.
Da quando vivo a Milano, riesco a vedere le cose più chiaramente. A volte allontanarsi permette di cambiare prospettiva e di avere una visione d’insieme.
Anche se... Napoli non si può lasciare, te la porti dentro.
Inoltre, quasi tutta la mia famiglia vive in città, e questo accentua la nostalgia. Alla fine è lì che tornerò a vivere.

D. 'Mosaico napoletano' si può definire una storia d'amore?
R. Più che “d’amore" la definirei "di amori", al plurale. L’amore ha molti aspetti; è in ogni cosa. È vita.

D. Attraverso il romanzo hai descritto anche la vita dei giovani negli anni 80/90, le speranza, le illusioni, i progetti, la gioia di vivere, la voglia di cambiare. Come è cambiata la tua città? Com'è Napoli oggi? E come la vivono i giovani oggi?
R. Credo che i giovani napoletani, come tutti i giovani, risentano del progresso informatico che ha segnato, a mio parere, un regresso sociale.
I ragazzi di quei tempi sono cresciuti senza i computer e senza telefonini. I rapporti interpersonali erano reali e non virtuali. Si incontravano, si guardavano negli occhi quando parlavano, erano assetati di conoscenza. Cercavano di comprendere il mondo circostante.
Oggi, paradossalmente, con le nuove tecnologie abbiamo la possibilità di accedere a qualsiasi informazione. Per alcuni della mia età è il bengodi, ma sembra che per i ragazzi l’accesso immediato a qualsiasi informazione sia coinciso con la perdita della curiosità.
Il “tutto e subito” non sta poi funzionando così bene.

D. Raccontaci qualcosa di te e della tua passione per la scrittura...
R. La scrittura è un dono tardivo, ricevuto inaspettatamente.
Io amo i libri da sempre e non potrei vivere senza, ma non avrei mai immaginato di poterli anche scrivere.
In realtà è stato il mio inconscio che, nelle ore di dormiveglia, mi suggerì di raccontare una storia intitolata “Volevo fare la segretaria”, poiché da bambina era il mio gioco preferito, ma crescendo sono diventata una cantante, contrariamente a quanto accade di solito. Era una storia buffa, una riflessione curiosa, mai fatta da sveglia. Alla fine ho ceduto ed è nato il mio primo romanzo (autobiografico), che è stato pubblicato grazie alle insistenze delle mie amiche che mi spinsero a trovare un editore. Cosa che avvenne con mia grande sorpresa. E oggi... eccoci qua.

D. Cosa significa per te essere scrittrice?
R. È una sensazione unica ed eccitante: rifugiarsi in mondi paralleli e inventare storie. Conoscere alcuni dei personaggi, mai immaginati, che si affacciano a sorpresa durante la scrittura è un’esperienza incredibile.

D. Come lettrice, quale genere preferisci, da chi ti senti ispirata, quali sono i tuoi autori romanzi, saggi ecc. preferiti?
R. Per me la lettura è evasione e riflessione. Amo tutti i generi della narrativa; meno i saggi. Spazio da Azimov a Dickens, dalla Rowling a Dostoevsky. Sono una libro-dipendente.
A questo proposito ho creato un blog in cui recensisco brevemente i libri che mi sono piaciuti. Lo faccio senza rivelare niente, o spoilerare (come si usa dire oggi). Cerco di incuriosire il lettore per spingerlo all’acquisto.
Credo che un blog letterario debba servire a questo: a dare un piccolo contributo alla cultura.

D. Puoi raccontarci un aneddoto o qualcosa di particolare legato alla nascita di Mosaico napoletano e poi in generale alla tua scrittura?
R. Al liceo avevo un professore di letteratura ispirato; un uomo dalla cultura spropositata che mi ha fatto amare le lettere, più di quanto già non fosse. Era apprezzato da tutti noi studenti per il suo essere diretto, sprovvisto di filtri: se ti doveva fare un appunto, anche sgradevole, lo faceva senza indorare la pillola.
Un giorno lo incontrai a Napoli. Ci fermammo a chiacchierare e mi disse che aveva letto il mio primo romanzo. Immaginatevi il panico; ero preparata al peggio quando, a sorpresa... mi porse le sue scuse!
Alla mia espressione attonita rispose che si sentiva in colpa per non avere intuito il mio dono, per non avere incoraggiato il mio talento.
Una cosa simile mi è capitata con 'Mosaico napoletano': quando ho terminato di scriverlo, impiegai settimane per decidermi a farlo leggere a Schifano e, credetemi, ho dovuto dare fondo a tutto il mio coraggio per sottoporglielo, ma mi sembrava giusto e doveroso.
La sua risposta (che potete leggere in quarta di copertina) ha rappresentato uno dei momenti più emozionanti della mia vita.

’Cuori nudi’ è una raccolta di racconti di Lucia Iasio edito da Segmenti Editore, da oggi in tutte le librerie.Intervistiamo l'autrice per parlare di questo suo esordio letterario, ‘Cuori nudi’ – Segmenti Editore 2018, e della sua passione per la scrittura.

Cuori nudi concede l'opportunità di misurarsi con grandi emozioni nello spazio sintetico di sei racconti, le cui trame si aprono al lettore attraverso uno stile elegante, trasparente ed essenziale, dove alcuna parola è superflua e ciascuna si mostra necessaria.
Proprio la ricerca dell'essenzialità, del significato puro della verità sembra guidare i protagonisti in ogni storia, di cui non si può ignorare il comune denominatore: nella vulnerabilità di un cuore messo a nudo risiede la sua forza, nella lealtà il coraggio per percorrere senza paure quelle zone grigie in cui l'esistenza può inciampare.
Lucia Iasio di origine partenopea, ha vissuto in diverse città tra il Centro e Sud Italia. Attualmente vive a Perugia.

D.Musicoterapista ed educatrice ambientale, conduce laboratori presso scuole ed enti di varia natura. Come nasce Cuori nudi?
R. Cuori nudi è una raccolta di storie brevi nata dal desiderio di raccontare quanto lontana possa essere la quotidianità dal vero “sentire” di un individuo.
Il processo che ha nutrito la stesura del manoscritto è stata la semplice osservazione di ciò che accade alle persone cosiddette comuni, come me come noi, che ad un certo punto, tuttavia, decidono di andare oltre, di emanciparsi.

D. Hai descritto il tuo libro come una raccolta di storie brevi. Ognuna ha un suo R. Sì. Ogni racconto è un'istantanea di un preciso momento della vita di ciascun protagonista, che si caratterizza per età, genere, contesto ambientale e culturale, esperienze. È proprio questa la peculiarità di Cuori nudi: non sono gli anni, il luogo dove si nasce e cresce, il lavoro che si fa a determinare chi si è; bensì il coraggio nel riconoscere la propria vulnerabilità, la lealtà nel mettersi a nudo ed attraversare senza bugie quel tratto di sofferenza che limita ed ingabbia.

D. Parli di vulnerabilità, coraggio, sofferenza e forza come ingredienti per elevarsi ad uno stato di maggiore emancipazione e libertà. Il dolore, dunque, rende migliori? È questo il messaggio che possono trovare i lettori in Cuori nudi?
R. Scrivere è una delle possibili espressioni estetiche che, in quanto tale, suscita emozioni nel lettore che le percepisce indipendentemente dalla volontà dell'autore. Un manoscritto, nel momento in cui si decide di renderlo pubblico, è un dono in cui ognuno può trovare quelle piccole o grandi verità di cui è alla ricerca. Non ho la presunzione di dare risposte, ma il desiderio di condividere esperienze che possono appartenere a chiunque.

D. Hai privilegiato la forma del racconto, più rara rispetto a quella del romanzo. In cosa si differenzia l'iter creativo?
R. Personalmente ritengo che il processo di scrittura sia simile per entrambe le forme espressive. In ogni caso l'autore lavora sull'idea originaria modellandola con i propri strumenti, affinando quegli aspetti che reputa incisivi per la trama ed incalzanti per il ritmo che deve sempre sostenere la lettura. È un gioco di equilibri che in una storia breve avviene in un intervallo di tempo e di spazio minore rispetto a quanto avvenga in un romanzo.

D. Per concludere, dove possono contattarti i lettori?
R. È possibile interagire con me e continuare a leggere i miei “momenti” di scrittura visitando i seguenti siti web: lamisuradelleemozioni.wordpress.com, www.facebook.com/dentroleparole, www.facebook.com/cuori.


Ce n'è per tutti i gusti, Buona Lettura!



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- Poesia

Gian Giacomo Menon, o la poesia del tempo lineare

Gian Giacomo Menon … o la poesia del tempo lineare.
Essai su “Geologia di silenzi” – Anterem Edizioni / Cierre Grafica 2018.

Il contenuto di questa raccolta poetica, rappresenta solo un breve sapiente assaggio dell’autore di ‘migliaia di carte, foglietti, appunti contenuti nei 25 contenitori trovati nella casa del poeta e confluiti nel Fondo Menon della Biblioteca comunale Vincenzo Joppi di Udine …

«..geologia di silenzi / il mare fermato nelle conchiglie / i fuochi nella terra / anni o secoli il tempo della nostra pietà»

«..l’altrove dei giorni / pozzi di erba nessuno specchio di luna / ed era ieri l’incontro di carissime mani / palestra della mia forza per cortili obbligati / campo liberato di passeri»

«..come suoni come suoni / quelle carte fra i raggi / e passare e ripassare le attese / e oggetti di morte le stelle / e sempre più lontani / aghi e teli e vetri / sempre più antichi / i ritorni».

Ed ecco che per chi ama la poesia, conoscere Gian Giacomo Menon (1910-2000), insegnante emerito di storia patria e filosofia, stimato e rispettato dai suoi allievi, diventa quasi un requisito indispensabile alla comprensione del nostro tempo. Se mai si è amato il proprio professore di lettere questa raccolta di suoi scritti costituisce il ‘dono più sentito e più grande’ da parte dei suoi ex allievi di diverse generazioni che hanno voluto rendere omaggio a colui che ha fatto dell’insegnamento e dello scrivere l’unica sua ragione di vita, e noi tutti non possiamo che essergliene grati. “Geologia di silenzi” riunisce in un unico volume – con il titolo che l’autore avrebbe desiderato – una minima parte del suo capitale poetico dal 1988 al 1998. Sono diverse, infatti, le date di composizione e cifra stilistica delle singole raccolte da cui il libro è desunto, e che pure presentano una comune caratteristica: di essere state personalmente selezionate dall’autore all’interno della sua sterminata produzione in vista di pubblicazione …

«..non più di una e di quella / ed era al principio / ed era la parola / non più di una / quando l’arco si tese sopra la terra / quella / quando la terra fu campo di artemisie / e sempre parola»

«..non si doveva nella presenza impreziosire il discorso con stanche / metafore / ed erano già stati consultati gli orari / i calendari messi fra parentesi / e sapere la faccia bucata dai continui tramonti / paura delle pulizie solitarie / repulsione»

«..il candore e una ruga […] stanchezza più della terra / un delirio sintattico / un verbo che scarta l’accento / un aggettivo perduto / e chiederti il nome»
«..aghi verdi filtrano cotoni / una serie antica e rotonda / e incrostare il ricordo / distaccarsi di uccelli e di rami / i deserti della pioggia / integri e conflittuali / ed è come essere privati»

La raccolta, apparsa di recente nella collana ‘Itinera’ da Anterem Edizioni 2018, rende omaggio a un personaggio così poco conosciuto (direi misconosciuto), portandolo alla ribalta di quanti, ad esempio, si adoperano in ambito poetico, alla divulgazione e alla conoscenza di quella che potremmo definire ‘l’essenza stessa della vita’, o se preferite, in egual misura ‘il sale dell’esistenza’, ciò che rende alla ‘nuda parola’ il colore e la forza dei suoi più reconditi sentimenti: la poesia: “non più di un bisbiglio nella pena dell’essere”…

«..non il pugno e la verga / la schiuma del disprezzo / l’ammonimento della pena / tuoni si gettano per lunghe spaccature / risucchio di acque / il lepre spia dalle cove l’abbandono dei volti / la comune storia girotondo di alleanze / lotta di chiodi ed evasioni solari / spinta del silenzio / il tempo è la nostra siepe / dietro si affonda in antichi solchi / di rimorsi e di rabbia / occhio di scorpioni e bave di lumaca»

«..scambiati zodiaci / sostituire corde del cielo / è passata una luna ebbra di danza / tagliente nelle sue falci / verde scarlatta candida rigata di nero / un’altra luna è venuta / giusta nelle sue gobbe absidi e nodi / rotonda di stupori / bilancia di giusto mezzo / bere i suoi chiari silenzi»

Molto dobbiamo all’oculata e dotta biografia di Cesare Sartori che ci introduce alla conoscenza dell’autore: “che per un’ostinata, sofferta ‘decisione di assenza’ praticata con coerenza e determinazione, ha trascorso più della metà della sua vita praticamente tappato in casa […] accuratamente nascosto agli occhi dei più, sfuggendo ogni anche pur minimo côté sociale, ha diligentemente cancellato le proprie tracce dal mondo”; il quale, tuttavia, avverte il lettore che potrebbe “sembrare sciocca presunzione pretendere di racchiudere in poche paginette una vita come quella di Menon, ‘filosofo del nulla e poeta assoluto’ (Carlo Sgorlon), che sembra fatta di niente, ma che in realtà è una foresta lussureggiante” …

«..pomeriggi di infanzia sotto gli alberi
adunata di tende
ruote di spazio sulla città
palloncini rincorsi dai passeri
fucili di luce contro i cartoni
chi grida gli zuccheri
chi le scimmie maestre dell’uomo
l’angelo piombato dentro la carne
lungo tubi di ossa sentieri di midolla
a scuotere fiumi sepolti un ribollire di pietre
la pelle sconsacrata dall’affiorare di un dente
per ferire greggi di stelle navigazione di erbe
non sazia fame dell’essere
e noi nocchieri impazziti per nuove correnti
a reggere inconsulti timoni
nella rapina delle mani»

“Come scrisse La Fiera Letteraria del 18 agosto 1966: di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è un poeta, un vero poeta, ed è questa forse l’unica cosa che conti. Quel che è certo era pazzamente innamorato della «vita incandescente delle parole: quello che è stato il più grande, fedele, immutabile, ossessivo e probabilmente unico vero amore e conforto della sua vita”. Quanto è anche testimoniato nei due saggi critici dedicati da Flavio Ermini e Giacomo Trinci a completamento del libro, dai quali apprendiamo alcune peculiarità di questo autore singolare, il cui poetare “fa i conti con la presenza invisibile dell’essere delle cose. I cui versi ci invitano a guardare oltre le apparenze, (oltre il silenzio delle cose)”…

“Noi – scrive Flavio Ermini – viviamo infatti come se ciò che non è visto, pensato, intuito ‘non fosse’. E invece è, pulsa, seppure nascosto, alla radice delle cose. […] L’essere è l’invisibile (nascosto nelle cose che noi siamo), è il silente, si cela (dentro di noi) e qui attende di essere raggiunto. Ne cogliamo la presenza quando abbassiamo le palpebre, quando facciamo i conti con le tenebre dell’interiorità, con l’oscuro dolorare delle cose. La (loro) immediatezza non è l’essere. […] La svalutazione dell’essere a favore delle apparenze è vista da Menon come una vera e propria ostilità nei confronti della vita. Ecco perché ogni dettaglio della condizione umana va vissuto, anche il più spaventoso, il più incomprensibile. Perché ognuno di quegli attimi può portarci al cospetto della nostra essenza”.

«..terra lenta dell’erpice
fatiche di una vita
si scardina il sasso dalla zolla
nello spavento della locusta
invidia di più forti ali
e l’erba resta sospesa nel vento
questa stagione di prove
non si appoggia a stelle matematiche
imponenti nei giri assegnati
contro il caldo furore del sangue
che tira il grido dalla sua parte
e ogni perdizione
non confondermi nell’istante della resa
non goidicarmi se l’occhio si fa vetro
sulla parete offesa dalla rinuncia
tutto umano è il piede
che incontra il suo ostacolo
il braccio che decide di abbassare lo scudo»

“Dopo aver posto il problema di come noi, lettori di poesia ci avviciniamo al testo poetico di Menon – scrive Giacomo Trinci – proviamo a configurare le modalità oggettive, la fenomenologia con cui la sua stessa poesia si è presentata nel tempo. […] Con questo voglio sottolineareche quando si parla dell’accensione ermetizzante, di una parola affrancata da ogni contaminazione storica e da una funzione comunicativa scontata, non dobbiamo mai dimenticare che quella parola nasce e si forma nel pieno di quell’energia dinamica tiopica della poetica futurista; il fuocoanalogico e pirotecnico con cui questa lingua crea sé stessa e la realtà che nomina contro ogni tentazione assolutizzante è figlia di quella temperia storica, e anche nello sviluppo successivo la poesia che produce risentirà di quella provenienza, pur con tutti i suoi necessari assestamenti”.

Tutto questo suo percorso storico/poetico – conferma Giacomo Trinci – “lo obbliga ogni volta a sfidare le ragioni della sua scrittura e a chiedere a nostra volta se, in generale, quello che appartiene alla poesia si possa tranquillamente chiamare «scrittura», nella sua accezione, diciamo consumata e pacifica (?) […] Di sicuro Menon è insieme dentro il suo scrivere, cioè «prigioniero della parola», ha bisogno di esserne posseduto, catturato e, perché no?, immagato dalle sue lusinghe e dalle sue promesse, non può uscirne, appunto; nello stesso tempo, è esterno ad esso, lo contesta, ne sente la dura insufficienza (lirica?), la crosta tenace e conservativa (poetica?) che lo tiene (legato al passato) e lo preme (verso il presente/futuro della scrittura)”.

Quella di Menon è di fatto una scrittura poetica tout court, che non stento a definire “poesia del tempo lineare”, il cui scorrere nel quotidiano passa, ma solo apparentemente, senza lasciare traccia alcuna sulla superficie della pelle, e che si traduce in un soliloquio costante che, poco a poco, penetra nell’anima, somatizzata nei sentimenti, nella ricerca e nel desiderio di una solitudine estrema. Quell’emarginazione che è annullamento, pari a una ‘fuga da sé e dal mondo’ che l’autore ostenta come controparte della sua funzione pubblica di professore amabile e amato dai suoi allievi, delle sue brillanti scappatoie nella società, e che nottetempo trasforma in maschera altera di un ‘io segreto altro a se stesso’, la cui causa emotivo-psicologica è primaria nello sdoppiamento letterario innescato dalla sua stessa scrittura …

«..seminare la vergogna nella carta stampata
fra la doppia morte e la luna
gettarla oltre i legni sconnessi
dove la follia ha scavato la casa
per un impegno più alto di api
macinare la pena dell’ultima strada
con la ruota che ingrana il rimpianto»

… scrive Menon in “Sulla poesia” il breve saggio incluso in questa raccolta, e noi che lo leggiamo, per un istane ci sentiamo ‘poeti del nulla’ , figli spuri di una poesia che è a noi contemporanea e che passa veloce senza lasciare traccia, come tutte le cose di questo mondo, «..che segnano solo momenti di vita momenti di umori andati venuti. Poesia è scrittura prosodica dove un azzardo di lacerti mnestici cioè una sequenza arbitraria di parole casuali si sistema in forme pseudorazionali nella virtualità di un discorso, così dunque come di notte i cieli contano (dicono, danno) con ferma voce in nome delle stelle e di giorno passano le acque inquiete della terra e l’uomo, io, un uomo casuale nudo e impaurito annaspo cercando ganci di sopravvivenza».


Grazie Professore!


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- Alimentazione

Venezia premi / concorso / orizzonti

VENEZIA 2018 Premi / Concorso / Orizzonti

Roma vince a Venezia, Guillermo del Toro passa lo scettro a Alfonso Cuarón
di Cineuropa

08/09/2018 - VENEZIA 2018: Il film targato Netflix vince il Leone d’Oro, consegnato dal connazionale vincitore della precedente edizione. Gran Premio della Giuria a Yorgos Lanthimos, in gara con The Favourite.
Alfonso Cuarón con Roma è il vincitore della 75ma edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Un vero e proprio passaggio di scettro, dato che a premiarlo è stato il connazionale Guillermo del Toro, presidente della Giuria e Leone d’Oro della precedente edizione con La forma dell’acqua. “Grazie mille alla Mostra per il supporto continuo al film, e ai giurati”, ha detto il regista messicano in perfetto italiano, “questo premio ha una importanza incredibile per me”. Ringraziamenti - in inglese - anche per Netflix, che ha prodotto il film e a tutta l’equipe che ha lavorato al bellissimo film in bianco e nero ambientato nella Città del Messico degli anni Settanta. “Il vostro lavoro si vede in tutte le inquadrature del film”. Un grazie appassionato infine alle interpreti, “per il rispetto immenso nell’aver rappresentato le donne che mi hanno cresciuto”. Cuarón ha rivelato che oggi è il compleanno della donna su cui si basa il film, interpretata da Yalitza Aparicio con il suo personaggio della giovane tata Cleo.

VENEZIA 2018 Concorso
Mario Martone • Regista
“A Capri l’emancipazione attraverso l’esperienza collettiva”
di Camillo De Marco.

07/09/2018 - VENEZIA 2018: Il regista napoletano Mario Martone è in concorso alla Mostra di Venezia con Capri-Revolution
Con Capri-Revolution [+], in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Mario Martone conclude la sua trilogia su un periodo fondante della storia italiana e europea, composta anche da Noi credevamo [+] e Il giovane favoloso [+] su Giacomo Leopardi. Scritto, come sempre, assieme alla compagna Ippolita di Majo, il film racconta di una comunità artistica naturista insediatasi a Capri ad inizio secolo e del percorso di emancipazione di una ventenne guardiana di capre, interpretata da Marianna Fontana, autentica rivelazione due anni fa a Venezia insieme alla sorella gemella Angela in Indivisibili

VENEZIA 2018 Concorso
Recensione: Capri-Revolution
di Camillo De Marco.

06/09/2018 - VENEZIA 2018: Il valore rivoluzionario dell'arte e della creatività nel nuovo film di Mario Martone ambientato nell'isola campana agli inizi del secolo.
Un filo rosso lega Opera senza autore [+] di Florian Henckel von Donnersmarck a Capri-Revolution [+] di Mario Martone, entrambi in corsa per il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, il valore rivoluzionario dell'arte e della creatività. Nel film tedesco in contrapposizione a qualsiasi forma di totalitarismo, in quello italiano contro le convenzioni sociali e i dogmi scientifici. Arte come libertà assoluta e ricerca dell'essenza della natura, quella che cerca il pittore chiamato Seybu (interpretato da Reinout Scholten van Aschat), insediatosi in una piccola valle dell'isola di Capri nel Golfo di Napoli e attorniato da un gruppetti di fedeli seguaci. A Capri convergono nello stesso periodo anche un gruppo di esuli russi impegnati a preparare la rivoluzione d'Ottobre. Siamo nel 1914, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, da lì a poco l'Inghilterra dichiarerà guerra alla Germania, l'Italia sarà presto coinvolta, e quella raccontata da Martone è una storia vera. Quella dell'anziano pittore e utopista tedesco Karl Diefenbach che creò a inizio secolo una comunità di "figli dei fiori" nell'isola. L'azione è però spostata in avanti nel tempo e le teorie espresse dal giovane Seybu e le performance nel suo gruppo sono ispirate al percorso artistico iniziato negli anni Cinquanta da Joseph Beuys. La musica e le danze (coreografate da Raffaella Giordano) che vediamo richiamano uno sperimentalismo che in quegli anni stava gettando i semi che si svilupperanno più tardi.

La musica è molto presente e importante in Capri-Revolution. Martone ha richiamato il musicista berlinese Sascha Ring, in arte Apparat, una vera star dell'elettronica, che aveva già composto per il regista lo score de Il giovane favoloso [+]. Apparat contamina classica, techno, musica orientale e l'elettronica anni Sessanta. Ma la vera protagonista del film è Lucia (Marianna Fontana), una guardiana di capre ventenne che vive nei paraggi con la famiglia composta da madre, padre in fin di vita per la fosfatasi contratta lavorando agli altiforni di Bagnoli, e due rozzi fratelli maggiori. La giovane pastora - nella cui figura si individuano echi evidenti del cinema degli amati (da Martone) Fratelli Taviani - si avvicina sempre di più a questi giovani proto-hippie che praticano il nudismo, l'amore libero e adorano il sole. In Lucia c'è un enorme desiderio di liberarsi dalle catene delle tradizioni del Sud che vogliono la donna costantemente sottomessa. Frequentando la comunità di Seybu, Lucia imparerà a leggere e scrivere, ad apprezzare l'arte e iniziare un processo di emancipazione anticipando il femminismo che verrà. E' attratta da un giovane medico del paese, un socialista con idee interventiste sulla guerra che da uomo di scienza discute e si confronta a lungo con lo spiritualista Seybu. Tanti elementi in ballo, non sempre messi ben a fuoco dalla sin troppo ricca sceneggiatura (scritta dal regista con la moglie Ippolita Di Majo), per raccontarci temi universali che ci fanno discutere ancora oggi e che ancora ci sfuggono.

Sullo sfondo Capri, con la sua bellezza abbagliante e la sua simbologia che la identifica con l’elemento fisico primigenio in cui tutto ricomincia indefinitivamente, come in una seconda rinascita. Martone mette a esergo del suo film una frase della scrittrice napoletana Fabrizia Ramondino su Capri, che ne parla come di un'isola che "compare e scompare continuamente alla vista e sempre diverso è il profilo che ciascuno ne coglie. In questo mondo troppo conosciuto è l’unico luogo ancora vergine e che ci attende sempre, ma solo per sfuggirci di nuovo”. Prodotto da Indigo Film con Rai Cinema in coproduzione con la francese Pathé Films, che ne cura anche le vendite internazionali, il film sarà distribuito in Italia da 01 a dicembre.

INDUSTRIA Italia
Rai Cinema, un’offerta per tutti i pubblici di Camillo De Marco.
13/04/2018 - L’ad Paolo Del Brocco presenta le nuove produzioni e coproduzioni e conferma l’investimento nel 2018 di oltre 70 milioni di euro.

“Cinema senza frontiere”. Così l’amministratore delegato di Rai Cinema Paolo Del Brocco definisce le nuove coproduzioni internazionali, presentate ieri a Roma nell’appuntamento annuale con la stampa: Todos lo saben [+], il nuovo film di Asghar Farhadi con Penelope Cruz e Javier Bardem; Il peccato di Andrei Konchalovsky su Michelangelo, Opera senza autore di Florian Henckel von Donnersmarck, premio Oscar per Le vite degli altri, che con il nuovo film racconta la storia dell'artista Kurt Barnerta a cavallo della Seconda Guerra Mondiale; Il libro delle visioni di Carlo S. Hintermann prodotto da Terrence Malick e Les Estivants di e con Valeria Bruni Tedeschi, dove si racconta una vacanza in Costa Azzurra di una regista che deve gestire la fine della sua relazione e la scrittura del suo prossimo film.

LEGISLAZIONE Europa
Via libera al Parlamento europeo per la riforma del copyright
di Thierry Leclercq.

13/09/2018 - Il 12 settembre il Parlamento europeo ha approvato a Strasburgo il progetto di riforma del diritto d'autore che è in discussione da due anni.

With 438 votes for, 226 against and 39 abstentions, the meeting gave the green light to the trilogue negotiations with the Member States and the European Commission, on the basis of a text defended by the German MP Axel Voss (PPE). Following an initial rejection on 5 July, the project was amended slightly to address the concerns raised by two provisions that crystallised the debate: the creation of a new neighbouring right to publishers’ copyright (Article 11) and the empowerment of digital platforms when publishing copyrighted content online (Article 13). According to the text’s opponents, the latter measure would result in the automatic filtering of content, which goes against the freedom of expression. The amended text specifies that the sharing of content by Internet users for non-commercial purposes does not form part of the legislation, while an exception is to be provided for small and micro-platforms and aggregators entering the market. Major platforms such as Google, YouTube and Facebook will have to enter into licensing agreements with rights holders represented by group management organisations. They will also have to make sure that their recognition and content filtering mechanisms are not abusive. Press content can still be shared via hyperlinks, but the aggregation of press titles and excerpts will be licensed by publishers who will share the revenue with journalists.

The Parliament's text also strengthens the bargaining rights of authors and performers, which is a cause for celebration for the European association of authors (SAA), directors (FERA) and scriptwriters (FSE). In a joint statement, the associations welcomed the introduction of a legal right to "equitable and proportionate remuneration for authors for the exploitation of their work, both online and offline" (Article 14). Authors and performers should also benefit from greater transparency about the results of the use of their work and will be able to renegotiate their remuneration accordingly. They may also be able to revoke or terminate license exclusivity when not effectively exercised.
Next week, a delegation of MEPs will visit Silicon Valley, where meetings are expected to take place with the heads of major GAFA platforms. According to Axel Voss, "they should participate constructively in the discussion to implement practical solutions." The main opponent to this text, the MEP Julia Reda, however, does not intend to give up, believing that Parliament will still be able to block the resulting agreement of the trilogue next spring. Once adopted definitively, the Member States will have two years to transpose the directive into their national legislation.

FESTIVAL Italia
Paolo Genovese e Bruno Dumont al Napoli Film Festival
di Vittoria Scarpa.

14/09/2018 - La 20ma edizione della manifestazione partenopea si terrà dal 24 settembre al 1° ottobre, con sei opere di giovani autori europei in concorso e una rassegna sul cinema spagnolo al femminile.

Il concorso internazionale Europa/Mediterraneo presenta sei film europei inediti di giovani autori. Dalla Grecia il thriller Blue Queen di Alexandros Sipsidis; dall’Italia Chi salverà le rose? [+] di Cesare Furesi; da Israele Holy Air [+] di Shady Srour; dall’Islanda The Swan [+] di Ása Helga Hjörleifsdóttir; dall’Albania Elvis Walks Home [+] di Fatmir Koçi; dalla Germania In the Aisles [+] di Thomas Stuber. La giuria che assegnerà il Vesuvio Award è composta dagli studenti dell’Università Federico II, Corso di Laurea in Discipline della Musica, del Cinema e dello Spettacolo e Master in Drammaturgia e Cinematografia, e dagli studenti delle scuole di cinema campane.

Tra le rassegne, si segnalano i tre “Percorsi d’autore” dedicati rispettivamente a Ingmar Bergman, Bruno Dumont (che sarà presente al festival) e Andrzei Wajda, dei quali saranno proiettate le opere più significative. La rassegna “Gli Invisibili” propone invece sette titoli di qualità europei che, penalizzati dalla distribuzione, non hanno mai raggiunto il pubblico campano: Home Care [+] di Slávek Horák (Repubblica Ceca), Illegitimate [+] e The Fixer [+] di Adrian Sitaru (Romania), Safari [+] di Ulrich Seidl (Austria), Sámi Blood [+] di Amanda Kernell (Svezia), Estate 1993 [+] di Carla Simón (Spagna), The Constitution [+] di Rajko Grlić (Croazia). Cinque opere realizzate da registe spagnole saranno inoltre proiettate nell’ambito della rassegna “Cinema spagnolo al femminile”: Most Beautiful Island [+] di Ana Asensio, El olivo [+] di Icíar Bollaín, La notte che mia madre ammazzò mio padre [+] di Inés París, La próxima piel [+] di Isa Campo e Isaki Lacuesta, Todos queremos lo mejor para ella [+] di Mar Coll.

Infine, per la sezione “Parole di Cinema”, dedicata agli studenti delle scuole superiori di Napoli, in programma cinque incontri e proiezioni. Si parte con Kedi - La città dei gatti di Ceyda Torun; seguono Quanto basta [+] e l’incontro con il regista Francesco Falaschi, Nato a Casal di Principe [+] di Bruno Oliviero, con il produttore Amedeo Letizia e lo sceneggiatore Massimiliano Virgilio, Easy - Un viaggio facile facile [+] con il regista Andrea Magnani, e Tito e gli alieni [+] di Paola Randi, con la produttrice Maddalena Barbagallo insieme ai due giovani protagonisti Luca Esposito e Chiara Stella Riccio.

VENEZIA 2018 Industria
I talenti europei chiedono al Parlamento europeo di adottare la direttiva sul diritto d'autore di Cineuropa.

03/09/2018 - VENEZIA 2018: 165 sceneggiatori e registi di tutta Europa hanno aderito alla "Dichiarazione di Venezia", sostenuta da FERA, FSE e SAA.
On the occasion of the 75th Venice International Film Festival, 165 screenwriters and directors across Europe have come together in the "Venice Declaration" (read it in full here) to call on the European Parliament to adopt legislation that puts authors at the heart of copyright and of the European cultural and creative industries, including online. The action is backed by FERA (Federation of European Film Directors), FSE (Federation of Screenwriters in Europe) and SAA (Society of Audiovisual Authors).
On 12 September, the members of the European Parliament will adopt the Parliament's position on the draft Directive on Copyright in the Digital Single Market. After several delays, this vote is the last chance for a final adoption of this much-needed Directive before the European elections. It will determine the future for audiovisual authors; if they will have a chance to receive fair and proportionate remuneration for the use of their works across the EU in a near future or if will they be left behind for another decade.
Filmmakers in Venice selections Jacques Audiard, Joachim Lafosse, Mike Leigh, Laszlo Nemes and Pierre Schoeller, LUX Prize finalists Benedikt Erlingsson, Wolfgang Fischer and Mila Turajlic, as well as Iciar Bollaín, Costa-Gavras, Matteo Garrone, Agnieszka Holland, Daniele Luchetti, Laura Morante, Cristian Mungiu, Alan Parker, Stefan Ruzowitzky, Lone Scherfig, Volker Schlondörff, Paolo Sorrentino, Paweł Pawlikowski, Bertrand Tavernier, Paolo Taviani, Fernando Trueba, Margarethe von Trotta and many others across Europe signed the Venice Declaration. Most of them already signed the FERA/FSE/SAA petition supported today by more than 18,700 signatories from over 100 countries worldwide.
The declaration reads, "We, audiovisual authors, absolutely need this Directive to be adopted on time: to ensure freedom of expression and independence of creators as well as authors' rights. The principle of fair and proportionate remuneration, improved measures on the transparency of the exploitation and contract adjustment mechanism will make a big difference. With these provisions, the Directive will improve our position in the industry."

VENEZIA 2018 Giornate degli Autori
Recensione: Ricordi? di Vittoria Scarpa.

05/09/2018 - VENEZIA 2018: Valerio Mieli realizza un film emozionante e raffinato sui meccanismi della memoria attraverso il racconto di una lunga storia d’amore che i due protagonisti ricordano in modi diversi. Nove lunghi anni dopo Dieci inverni, Valerio Mieli torna finalmente al cinema, e alla Mostra di Venezia, con il suo nuovo lungometraggio, Ricordi?, selezionato alle 15me Giornate degli Autori. Accolto con grande calore dal pubblico alla sua prima proiezione ufficiale, il film mette in scena una lunga storia d’amore, dall’inizio alla fine, interamente attraverso i ricordi dei due protagonisti, “Lui” (Luca Marinelli, visto di recente nei panni di Fabrizio De André) e “Lei” (Linda Caridi, già protagonista di Antonia). Un flusso di coscienza di 106 minuti, dove immagini e sensazioni scorrono senza un preciso ordine temporale, mischiando continuamente i punti di vista e scavando nelle contraddizioni della memoria. Insomma, un film che, sulla carta, sembrerebbe complicato da seguire, ma che invece si rivela un intenso viaggio emotivo nella testa dei suoi personaggi, e anche un po’ nella nostra, poiché è facile riconoscervi dinamiche già vissute o che viviamo tutti i giorni.
E’ la nostalgia a rendere tutto bello? Oppure siamo stati davvero felici, ma non ce ne rendevamo conto? Da questa domanda è partito il regista per la sua articolata sceneggiatura, scritta nel corso di vari anni. Sono tanti piccoli attimi di vita quotidiana, quelli che descrive il film. A partire dal primo incontro tra i due protagonisti a una festa, che lui ricorda grigia e un po’ triste, e lei, invece, piena di luci e di musica. Lei incarna la gioia di vivere, non ha ricordi brutti, vive il presente con fiducia ed entusiasmo; lui è tormentato, sopraffatto dai piccoli traumi del passato e dice solo cose negative. Si innamorano, prendono casa insieme (la stessa dove lui ha vissuto con i genitori da bambino, quindi a sua volta piena di ricordi), il rapporto si consolida. Ma poi passano gli anni, le parti si invertono: lei cambia, comincia a conoscere la malinconia, diventa insofferente. Lui, al contrario, scopre la leggerezza, ma è già troppo tardi. La magia è sparita.
Immagini, colori, emozioni, suoni, profumi. Dietro Ricordi?, si intuisce un lavoro di montaggio titanico, il cui merito va a Desideria Rayner (Tito e gli alieni [+], Salvo [+]). Un lavoro di cesello, realizzato quasi fotogramma per fotogramma, per restituire i movimenti della mente, le loro concatenazioni e soprattutto per rendere queste ultime immediatamente comprensibili. Non esiste un presente nella narrazione, è tutto solo ricordo, talvolta di lui, talvolta di lei; e poi ci sono i ricordi di Marco (Giovanni Anzaldo), l’amico d’infanzia un po’ traditore di lui, e quelli della “ragazza rossa” (Camilla Diana), oggetto del desiderio del protagonista quando era ragazzino, e al centro di una scena esemplare di quanto la realtà possa essere diversa dagli ideali che abbiamo in testa: di questa ragazza, lui ha uno dei ricordi più belli della sua vita; lei, invece, a malapena ricorda chi lui sia.
E’ un esperimento insolito e coraggioso, in particolare per il cinema italiano, quello di Valerio Mieli in questo film, che un po’ rimanda alle atmosfere di Michel Gondry. Un esperimento riuscito, a nostro avviso, che parla un linguaggio universale e molto raffinato, e che non avrà difficoltà anche a varcare i confini nazionali.
Ricordi? è una coproduzione italo-francese di Bibi Film e Les Films d’Ici con Rai Cinema. La distribuzione internazionale è affidata a Le Pacte.

LEGISLAZIONE Europa
Il Parlamento europeo pronto a rafforzare il lavoro dei creatori su Internet
di Thierry Leclercq.

21/06/2018 - Il Parlamento europeo propone una revisione del diritto d'autore più favorevole per i creatori al cospetto delle piattaforme online.

Despite tactical moves to delay the vote, the European Parliament Committee for Legal Affairs has finally adopted a position on copyright reform for the digital age. Its rapporteur, German MEP Axel Voss, has been granted a mandate to negotiate the text of the new law in trialogue with the European Council (who approved the proposal on 25 May) and with the Commission. Following the result of the vote, Voss declared: "We are happy to have achieved this result which will help creative parties strengthen their position within the European Union vis-à-vis online platforms […] It’s a good, first sign".

VENEZIA 2018 Giornate degli Autori
Andrea Purgatori • Giornalista, sceneggiatore.
"Un primo passo verso un riequilibrio del rapporto tra chi crea e chi sfrutta"

VENEZIA 2018: Incontro con il giornalista e sceneggiatore Andrea Purgatori, membro del Consiglio di Gestione della SIAE, nell'ambito delle Giornate degli Autori
Il giornalista e sceneggiatore Andrea Purgatori, membro del Consiglio di Gestione della SIAE, ci parla del premio assegnato a Mario Martone nell'ambito delle 15me Giornate degli Autori e del dibattito in atto sulla questione del diritto d'autore. (Vedi intervista on line sul sito di Cineuropa News).

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- Teatro

Teatro delle Foglie per tutte le stagioni.

IL ‘TEATRO DELLE FOGLIE’ … per tutte le stagioni e le esigenze della vita.

Attivo nella promozione e direzione artistica di Corsi di Teatro per le Scuole oltre che nella Produzione Teatrale vera e propria: dallo Show-business al Recital, dal Musical a numerosi Seminari e Corsi di Yoga olistico, fino a fare del Workshop motivazionale e di meditazione un proprio anello di congiunzione con il mondo dello spettacolo più in generale; il Teatro delle Foglie svolge la sua attività principalmente sul territorio marchigiano nel quale ha la sua sede storica in Folignano City (AP) e in altri poli saltellitari. Quali, ad esempio, la Scuola di Musical al Palariviera di San Benedetto del Tronto, uno spazio più che prestigioso dove si tengono Corsi di Formazione Professionale cui accedono ogni anno numerosi attori, insegnanti e professionisti anche da altre regioni come Abruzzo, Lazio e Umbria; i Laboratori Teatrali tenuti nei diversi Comuni di Acquasanta Terme, Acquaviva Picena, Folignano, Montalto e Monteprandone nell’ambito della provincia di Ascoli Piceno; i Corsi di Dizione e Public Speaking per manager, funzionari pubblici e dirigenti responsabili, per i quali “l’arte della conversazione e del portamento individuale” è oggi l’unico mezzo a disposizione per imporsi all’attenzione di un pubblico sempre più vasto.

I protagonisti: Eugenia Brega e Paolo Clementi.

I due fondatori dell’odierna Associazione Culturale ‘Teatro delle Foglie’, nata ad Ascoli Piceno nel 1981, oltre ad aver svolto per un certo numero di anni la professione di attori e registi teatrali attraverso la produzione di numerosi spettacoli rappresentati in ambito regionale e nazionale, si occupano principalmente di ‘pedagogia teatrale’, in quanto ex-docenti di Corsi di Formazione presso Istituti Scolastici e Scuole Comunali, capaci, quindi, di conformarsi ad ogni necessità individuale in modo semplice e intuitivo delle diverse personalità degli allivi. Dacché il buon livello di preparazione ottenuto dalle centinaia di allievi, di ogni età e ceto sociale, che negli anni hanno frequentato e proseguono i vari Corsi, e di quanti hanno cercato e trovato nella risposta teatrale la propria ragione di essere, o forse di ‘sentirsi persone a tutto tondo’, cioè individui capaci di affrontare con serenità la propria crescita personale ed affrontare così le numerose sfide sociali; è testimoniato dai risultati più che apprezzabili che essi continuano a divulgare col semplice ‘passa parola’ ad ogni inizio di stagione, al chiuso degli spazi adibiti durante le stagioni più fredde e, in quelli all’aperto, open-air, tenuti nei parchi pubblici e in riva al mare in quelle più calde.

Il curriculum dei due insegnati, qui ridotto per necessità di spazio, è significativo di una professionalità esibita e convalidata nel tempo da riconoscimenti a livello nazionale e internazionale che ne segnano le tappe:

Eugenia Brega,
diplomata in solfeggio e pianoforte arricchisce la sua formazione professionale con laboratori e stage di dizione, di canto lirico e jazz, parallelamente all’attività teatrale ed espressione corporea, mimo, teatrodanza, yoga e psicodanza. Ha conseguito il Master RQI (Riequilibrio Quantico Integrato) e il diploma di 1° livello in Radioestesia e Geobiologia, al tempo stesso coltivando interessi per la spiritualità cosmica e le tecniche olistiche, con ritiri di meditazione buddista presso l’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia. Nel 1981 fonda la Compagnia del Teatro delle Foglie ad Ascoli Piceno operativa in qualità di attrice, regista teatrale e coreografa, principalmente nei settori della produzione e allestimento di spettacoli, nella direzione artistica e promozione di corsi e Scuole di Teatro presso gli Istituti Scolastici di Folignano e Monteprandone e, attualmente, in qualità di docente artistica di canto e tecniche del corpo presso la Scuola di Musical di San Benedetto del Tronto.

Paolo Clementi,
fin dagli anni 70’ svolge attività di attore con la Compagnia del Tascabile di Bergamo dando rilievo oltre che alla recitazione, soprattutto al linguaggio del corpo e alla mimica prendendo parte a rassegne, incontri, seminari e scambi artistici con gruppi e personalità del teatro nazionali ed internazionali, tra i quali spiccano Odin Teatret (Danimarca), Bread and Puppets (USA), Ives Lebreton (Francia), Comuna Baires (Argentina), Kerala Kala Kendra (India), La Rancia di Tolentino (Italia) ed altri. Successivamente, nel 1981, fonda con Eugenia Brega la Compagnia del Teatro delle Foglie attiva in Ascoli Piceno in qualità di attore e regista, occupandosi maggiormente di attività pedagogica come docente di Corsi di Formazione Professionale per Attori e Corsi di aggiornamento per Insegnanti di tecniche espressive, corsi di dizione e public-speaking. Attualmente è insegnante e direttore artistico dei Corsi di Teatro e Musical del Teatro delle Foglie.

Intervista rilasciata a all’autore
dai direttori artistici Eugenia Brega e Paolo Clementi:

Quali sono state le risposte del pubblico ai vari Corsi tenuti quest’anno 2018? (qualche dato in cifre di presenze):

«Hanno partecipato ai nostri corsi nel 2018 circa 160 allievi di tutte le età e professioni. Hanno assistito alle rappresentazioni dei saggi-spettacolo conclusivi circa 2000 spettatori.»

Quali sono le premesse per una ripresa del teatro regionale italiano? (quale è il vostro contributo alla ripresa):

«Nella regione Marche si può affermare che la cultura teatrale è un fenomeno “diffuso”, portato avanti da molti gruppi presenti nel territorio che, come noi, vivono sulla propria pelle i rischi e le incertezze del mestiere. Gli enti sono sempre meno presenti con il loro sostegno e aiuto economico. Il nostro contributo è quello di diffondere la cultura teatrale anche attraverso la pedagogia, i corsi, le lezioni, le prove, un teatro tutto dal vivo in cui cerchiamo di comunicare le nostre esperienze artistiche e culturali alle nuove generazioni.»

Come e con quali spettacoli vi accingete ad iniziare i nuovi Corsi della prossima stagione teatrale? (date e luoghi se ne avete):

«La nostra compagnia è ai nastri di partenza con la stagione 2018/2019. Abbiamo in programma 7 corsi di formazione teatrale e 7 saggi-spettacolo da allestire.»

È ancora possibile un teatro classico, così detto di parola, in Italia?

«Il cosiddetto teatro di parola o di tradizione in Italia è perlopiù appannaggio delle compagnie stabili o delle più agili cooperative teatrali che, essendo più forti, grazie ai contributi ministeriali, si dedicano ad un repertorio classico. Esse vengono circuitate dal noto ETI (Ente Teatrale Italiano). Nella nostra regione la stessa funzione è promossa dall’AMAT (Associazione Marchigiana Attività Teatrali) che si occupa delle stagioni di prosa e anche del Teatro Ragazzi ma offre poco spazio alle compagnie locali.»

Per quale forma di spettacolo c’è oggi una maggiore richiesta?

«La prosa tradizionale interessa di più quella fetta di pubblico che va a teatro per “culturalizzare”, cioè per riconoscere quegli stili e quella letteratura teatrale dei libri e degli studi classici. Non c’è più meraviglia a teatro, esso può solo rassicurare lo spettatore che, seduto in platea, non corre alcun rischio. Qualche novità è rappresentata in questi ultimi anni da un interesse particolare per il musical grazie ad allestimenti di grande qualità che sono in grado di attirare grosse fasce di pubblico.»

Secondo la vostra opinione ed esperienza, come risponderebbe il pubblico ad una ripresa dell’attività teatrale tout-court, uscirà di casa per tornare a teatro?

«Il pubblico va seguito e accompagnato dando occasioni di incontri che riportino l’attenzione sullo spettacolo dal vivo dove può ancora avvenire quella celebrazione del rito teatrale in cui lo spettatore si senta coinvolto in prima persona perché il teatro lo riguarda profondamente, perché a teatro può trovare nuove emozioni che l’attore è pronto a condividere con lui. Allora sì che varrà la pena di uscire di casa per recarsi a teatro.»

Quali sono i vostri sogni nel cassetto? (se ne avete):

«Poter avere a disposizione una struttura teatrale da gestire per farne un punto d’incontro e di scambi culturali e artistici.»

Ed eccoci al dunque, ovviamente l’attività del Teatro delle Foglie prosegue nella cornice eloquente del teatro italiano che più d’ogni altra espressione artistica risente attualmente della crisi ormai decennale che investe tutta la cultura. Tuttavia una ripresa è possibile se noi tutti, in un ambito o in un altro, partecipiamo alle iniziative scolastico-comunali, ad esempio iscrivendo i nostri figli ai corsi di teatro; così come alle attività propedautiche al miglioramento della persona fisica e psichica, avremo, nel breve giro di pochi anni, ‘future generazioni di giovani’ sicuramente più capaci, più responsabili e indubbiamente più sane. L’essere ‘persona’ non si genera con la nascita ma si apprende e si diventa attraverso il conseguimento della cultura.

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- Fede

La Festa degli Angeli ad Assisi

LA FESTA DEGLI ANGELI AD ASSISI 2018

La Festa degli Angeli è la festa di tutti e per tutti, volta ad onorare gli Angeli custodi alla Porziuncola, si tiene presso la Basilica Papale di Santa Maria degli Angeli in Assisi. La prossima edizione della Festa degli Angeli, siamo giunti all’ ottava, si svolgerà nei giorni 21-22-23 settembre 2018 presso la Basilica Papale di Santa Maria degli Angeli e della Porziuncola di San Francesco.

Accendi una Candela!
Un gesto semplice che da secoli aiuta gli uomini ad illuminare la speranza per qualcosa o a ricordare qualcuno. Accendere una candela per ottenere una grazia, per dire una preghiera, per ricordare la memoria di un nostro Caro, per chiedere aiuto se si è in difficoltà, per ringraziare un grazia ricevuta … Un modo per illuminare il nostro cuore e iniziare un nuovo giorno.

Nel Paradiso degli Angeli … (gruppo facebook)
Carissimi, questo gruppo facebook vuole ricordare tutti i figli in cielo che nella loro purezza godono la bellezza dell’eterno Padre che li ha creati. Per non restare irretiti dal dolore della loro “perdita”, vi invitiamo a ricordarli con una foto, con un fiore, con una frase, un ricordo, un pensiero… Sempre con quella certezza, che è speranza che non delude, della vittoria di Cristo sulla morte, su qualsiasi morte. E con le parole di san Paolo (Ef 1,17-20), Affido questo gruppo a Maria nostra Madre Consolatrice perché il Signore dia a tutti noi “uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti, secondo l’efficacia della sua forza che egli manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli”. il Gruppo è raggiungibile al seguente link: https://www.facebook.com/groups/292100560938114/

Come nelle precedenti edizioni anche per questo anno c’è la nuova ‘maglietta della solidarietà’ per tutti coloro che vorranno testimoniare la loro presenza e che potete trovare disponibile presso la Basilica. Rinnoviamo l’invito a tutti per pranzare insieme sul Sagrato della Basilica, metteremo a disposizione come sempre tavoli e panche per consumare comodamente le pietanze portate da casa.

PROGRAMMA 2018 :
dal 8 al 23 settembre 2018: la Basilica Papale di Santa Maria degli Angeli ospiterà le Reliquie di Santa Maria Goretti.

VENERDÌ 21 settembre 2017
ore 21.00 – Sala del Refettorietto
I Santi Bambini: padre Cornelio Pallares racconta la vita di santa Maria Goretti

SABATO 23 settembre 2017
ore 21.15 – S. Rosario animato dai bambini e Processione aux-flambeaux
al termine spettacolo pirotecnico in piazza con le fontane di luce

DOMENICA 24 settembre 2017
ore 10,30 – Ritrovo in piazza
ore 11,00 – Processione degli Angeli (i bambini sono invitati a indossare qualcosa di bianco o a vestirsi da angioletti)
ore 11.30 – S. Messa presieduta da P. Giuseppe Renda, Custode del Convento Porziuncola, animata dal coro della Festa degli Angeli. La celebrazione della Santa Messa si potrà seguire via internet attraverso la nostra Web TV.
Dopo la messa sul piazzale della Basilica spettacolo dei “Piccoli sbandieratori e tamburini di Assisi”

Pranzo al sacco nei giardini della Basilica ove l’Associazione Priori di Sant’Antonio e Priori serventi 2019 offriranno un piatto a sorpresa

Nel pomeriggio, laboratorio didattico per bambini seguita dalla Festa in Piazza animata dal gruppo musicale “Perfetta Letizia”, dall’istituto Serafico di Assisi, dalla scuola di danza “La Rondine” di Assisi, dall’associazione “Mister sorriso” di Taranto e dal gruppo delle “Famiglie degli Angeli”.
A seguire:
Lancio dei palloncini
Consegna della pergamena ricordo

Sarà presente una rappresentanza del Santuario Santa Maria Incaldana di Mondragone (CE) gemellata con la nostra comunità. che augura un lieto 'benvenuti a tutti!'
«Il Signore è sempre vicino e operante nella storia dell’umanità, e ci accompagna anche con la singolare presenza dei suoi Angeli Custodi, cioè ministri della divina premura per ogni uomo. Dall’inizio fino all’ora della morte, la vita umana è circondata dalla loro incessante protezione. E gli Angeli fanno corona» alla Madonna, alleata dell’umanità nella lotta «affinché sia sconfitto il male e si riveli, in pienezza, la bontà di Dio».
(Benedetto XVI)

Saremmo felici di avervi qui con noi a fare festa!
Per una migliore organizzazione se pensi di venire comunicaci la tua presenza tramite:
Telefono: (+39) 075.80.51.430 - fax: (+39) 075.80.51.418 - E-mail: info@porziuncola.org

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- Politica

Bla, bla, bla pupazzetti, che passione!

Bla, bla, bla … ‘pupazzetti, che passione!’

C’è un unomo di mezza età, diciamo pure un ‘signor nessuno’ che presiede ai lavori, si fa per dire, del parlamento, dove tutti parlano non si capisce bene di che, e che osserva stupito (leggi stupido), i due ‘bravi’ accanto a sé (Manzoni docet). I quali, non si fanno remore di bloccarlo allorché fa il solo tentativo di aprire bocca.

In/coscienti di quanto blaterano e di fare danni irreparabili, i due ‘bravi’ si lanciano, animati forse da passati rancori di gioventù che li hanno visti soccombere, in sproloqui demenziali e azioni pericolose per la salute mentale loro e di quanti (i più) li hanno messi lì, oggettivando così la perdita di quella ‘dignità’ che nel tempo la nazione (l’Italia) ha istituito.

Dignità che a causa della cattiva sorte i due ‘bravi’ vanno calpestando a piè sospinto con arroganza e blasfemia sociale. Non c’è che dire, la caduta di stile della politica è oramai inarrestabile e i danni procurati altrettanto irreparabili, tuttavia nessuno sembra accorgersi che il ‘teatrino dei pupazzetti’ ci ci sta portando tutti alla rovina.

Per quanto mi ricordi, a sgominare le schiere dei ‘buoni e dei cattivi’ prima o poi giungeva il momento l’atteso della resa dei conti (che oggi stenta ad arrivare), in cui uno di essi sopraffaceva l’altro, ma per il gusto sadico del gioco talvolta il cattivo dominava sul buono, come del resto accade in questo parlamento di cialtroni.

Allora, se non rispondevo alla chiamata: “è pronto in tavola!”, era la scopa di mia madre a far piazza pulita, per quanto riuscivo comunque a portarne a tavola con me uno per ogni schieramento, i quali, senza accorgermene mangiavano entrambi a quattro palmenti … eh se mangiavano! Proprio come accade oggi in parlamento.

Dove, di fatto, tolgono finanche il pane (leggi l’uso della parola che non ha) di bocca al povero ‘signor nessuno’, il quale sembra non avere alcuna dignità da difendere. Ma come si sa le ‘bugie’ hanno le gambe corte e il ‘signor nessuno’ sembra averne dette tante da non riuscire a camminare (leggi a parlare) da solo.

Mi chiedo se questi ‘bravi’ incompetenti ma soprattutto incapaci, hanno una morale cui appellarsi, se in primis la loro ‘dignità’ è in ogni caso mal riposta? Ovviamente la risposta a una domanda siffatta è dubbia, come del resto è la morale degli ignoranti (i più) che li hanno votati, e che pur di intascare un timido ‘reddito di cittadinanza’ sono pronti a dare via il culo (ops!).

Non resta che aspettare fino al prossimo inesorabile bla, bla bla.


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- Società

Incontri d’estate a San Benedetto del Tronto

Incontri d’Estate

Cronaca d’Agosto dalla Riviera delle Palme, San Benedetto del Tronto / Porto d’Ascoli.

 

Un tratto di blu ed è subito mare …

 

Numerosi esponenti della cultura hanno scelto anche in questa torrida estate la spiaggia dorata dell’Hotel Poseidon, sul Lungomare Sud di San Benedetto del Tronto, divenuto un punto d’incontro di esperienze artistiche diverse, lieta di annoverare anche quest’anno fra i suoi molteplici clienti nomi di alto livello qualitativo sia nell’ambito dell’arte che in quello letterario come scrittori e giornalisti che trovano nella Riviera delle Palme il loro annuale periodo di svago. Fra i nomi illustri si è incontrata di nuovo e con piacere la scultrice senese Vittoria Marziari Donati che da tempo ha attraversato la soglia dell’internazionalità riconosciutale in corso d’anno con il ‘Collare Laurenziano’ dell’Accademia Fiorentina: “per il suo contributo alle discipline scientifiche e artistiche” consegnatole in Firenze nella Sala dei Cinquecento.

 

Altra rilevante presenza è quella di Nicola Alberico Lombardi che dopo l’esordio dello scorso anno con la ‘silloge poetica’ ‘Là dove il mare luccica …’ sua prima raccolta poetica (Montedit - Collana ‘I Gigli’ – 2016), ha qui presentato il suo nuovo libro “Com’è profondo il mare” , dedicato proprio a tanta parte di Mare Adriatico a cui da sempre rivolge: “memore degli anni passati a rimirarlo, l’iperbole infinita del suo dire gentile, talvolta appassionato, per un amore che sorge dalle maree della vita e che mai declina, assecondando l’onda che ritorna e si rinnova, nel suo costante erodere la battigia, così come nell’infrangersi dei flutti che dirimpetto formano la scogliera". Una sottigliezza poetica quest’ultima giocata sul filo dell’onde: "la cui chiave melodico-sentimentale trascritta sul pentagramma della vita, non lascia spazio a dubbi sull’autenticità delle emozioni, il cui ego si ravvisa e richiama amore a sé d’appresso, come pasto di frutti di mare d’assaporare con palato sottile”. (GioMa)

 

Va qui inoltre elogiata la presenza del duo Eugenia Brega e Paolo Clementi costituente il rinomato ‘Teatro delle Foglie’ che proprio a San Benedetto / Palariviera ha la sua sede ufficiale portando avanti da anni un discorso interdisciplinare di teatro, danza, musica, canto, in un continuo susseguirsi di ricerca e sperimentazione; e che quest'anno, nell’ambito delle manifestazioni estive programmate dalla Direzione dell’Hotel Poseidon, nello spazio 'open-air' in riva al mare, hanno dato luogo al loro ‘Corso di Yoga’ ottenendo un cospicuo successo di pubblico. Il Teatro delle Foglie nasce nel 1981 ad Ascoli Piceno ed è operativo nel settore dello Spettacolo, caratterizzato per scelte culturali e artistiche, frutto di una rigorosa ricerca, che abbraccia un campo piuttosto ampio e copre vari settori come la produzione e l'allestimento di spettacoli, la promozione e la direzione artistica di Corsi e Scuole di Teatro per giovani e adulti ...

 

“..ed ecco il sole d’incanto, laggiù tra lustro celeste d’infuocato cielo, e l’immensa profondità del mare” (Alberico Lombardi)

 

Congratulazioni quindi e i nostri vivissimi auguri a questi artisti per quell'eccellenza tutta italiana che essi continuano a rappresentare.

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- Cinema

Venezia e altro con Cineuropa News



'Venezia 2018: un Concorso a 360 gradi'
Articolo di Camillo De Marco
25/07/2018 - Apertura con First Man di Damien Chazelle, l'esordio da protagonista di Lady Gaga, e un concorso con nomi del calibro di Olivier Assayas, Jacques Audiard, fratelli Coen, Luca Guadagnino e Mike Leigh.
La 75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si terrà dal 29 agosto - 8 settembre 2018. Il segno che caratterizza l'edizione di quest'anno, spiega il direttore Alberto Barbera durante la conferenza stampa di presentazione oggi a Roma, è la presenza di "moltissimi film di genere, ma d'autore. I registi hanno compreso che è necessario ritrovare il contatto con lo spettatore attraverso codici condivisi, come il western, la commedia, i film in costume, il crime movie, il musical". Quest'anno ci saranno registi affermati, magari habitué di Cannes, da Paesi anche poco frequentati come Indonesia, Siria, Kazakistan. Ma anche molte scoperte: ben otto opere prime e due opere seconde nella competizione principale. "Ogni anno scommettiamo su qualche autore nuovo e lo buttiamo nell'arena assieme ai grandi", dice Barbera.
Attesissimo, in Concorso, è il titolo d'apertura, già svelato nei giorno scorsi, il nuovo film di Damien Chazelle dopo il successo planetario di La La Land. "First Man non ha niente di simile al precedente, niente musica e sentimentalismo, siamo in territorio completamente diverso", rivela Barbera. La storia è quella di Neil Armstrong (Ryan Gosling), l'astronauta che sbarcò sulla Luna nel luglio 1969.
Altri 20 i film in concorso, in una stagione particolarmente ricca. The Mountain è diretto da Rick Alverson, regista che ha raccolto in precedenza premi a Rotterdam e Locarno. Doubles Vies di Olivier Assayas è una deliziosa e lucida commedia, la storia di due coppie che si incrociano sentimentalmente e professionalmente, dopo la rivoluzione digitale. The Sisters Brothers di Jacques Audiard è un western europeo girato interamente tra la Spagna e la Romania, con cast interamente americano (protagonista Joaquin Phoenix) e con tecnici americani. E' un western in 6 episodi The Ballad of Buster Scruggs dei fratelli Coen, con James Franco, Liam Neeson, Tom Waits. Vox Lux di Brady Corbet, con Nathalie Portman e Jude Law, è l'inaspettata storia di una ragazza che diventa una grande star pop. Atteso da anni il nuovo Alfonso Cuarón, dopo Gravity del 2013: largamente autobiografico, Roma racconta un anno nella vita di una famiglia medio-borghese nella Mexico City degli anni Settanta. Il film è stato acquisito da Netflix. Paul Greengrass riflette su uno degli episodi terroristici più atroci degli ultimi anni, con 22 July: in quel giorno del 2011 un fanatico neonazista fa una strage tra i giovani di un campus nei pressi di Oslo. Il regista ci fa rivivere il processo e il ritorno alla vita dei sopravvissuti. Una vera sorpresa promette di essere il remake di Suspiria di Dario Argento girato da Luca Guadagnino, film ambizioso pensato per anni e anni, "con Tilda Swinton in tre ruoli differenti", anticipa Barbera.
Ritorno di Florian Henckel von Donnersmarck, dopo La vita degli altri, con Never Look Away, sulla storia della Germania dal nazismo fino agli anni 60-70, che è anche una riflessione sull'arte. The Nightingale è firmato da Jennifer Kent, giovane promessa del cinema australiano autrice di Babadouk. Molto atteso anche The Favourite di Yorgos Lanthimos, con Olivia Colman, Emma Stone e Rachel Weisz, storia di Anna d'Inghilterra nel 1700. Perterloo di Mike Leigh racconta invece, con una riflessione sul potere, un episodio nella Manchester del 1919, quando una manifestazione fu repressa con la cavalleria che fece decine di morti. Il nuovo film di Mario Martone Capri-Revolution è ambientato all'inizio della Prima Guerra Mondiale, protagonista una giovane pastorella che scopre una comunità di intellettuali proto-hippy. Il nuovo documentario di Roberto Minervini, What You Gonna Do When The World's on Fire? realizzato come i precedenti in USA, si concentra sul razzismo che serpeggia in epoca Trump e la reazione delle rinate Black Panther. C'è anche il secondo film del premio Oscar di straordinario talento László Nemes, Sunset, anch'esso ambientato alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. David Oelhoffen è presente con Frères Ennemis, su tre amici nella banlieu parigina che si dividono, uno diventa poliziotto, gli altri due criminali. Nuestro tiempo è un nuovo tassello nel cinema di Carlos Reygadas, che interpreta lui stesso il film con la moglie Eleazar. Julian Schnabel è alle prese con il tentativo di entrare nella mente del genio artistico di Vincent Van Gogh con At Eternity's Gate, interpretato da Willem Dafoe. Acusada è un'altra scommessa del festival, film tesissimo dell'autore argentino di Gonzalo Tobal alla sua seconda prova. Infine Killing di Shinya Tsukamoto è un film in costume su un samurai incapace di uccidere.
Atteso Evento special Fuori Concorso è The Other Side of the Wind, al centro di aspre polemiche a Cannes. A Venezia ci sarà la prima mondiale, per poi sbarcare a Toronto e infine su Netflix, che ha permesso a Frank Marshall, collaboratore di Orson Welles, di realizzare questo progetto perseguito per 40 anni, e cioè dare forma compiuta ad un film girato da Welles in 35 16 e 8 millimetri tra il1970 e il 1976 e rimasto senza montaggio. "Noi individuiamo i migliori film della stagione", sottolinea Barbera. "Se alcuni film arrivano da Netflix o Amazon, non si può non fare i conti con queste innovazioni produttive e con autori che privilegiano la rete, non vedo ragione per escludere dal festival un film di Cuarón o Scorsese solo perché è prodotto da Netflix. Questo non vuol dire che non bisogna fare di tutto perché le sale siano privilegiate e sopravvivano".
Con una operazione analoga a quella di Young Pope di Paolo Sorrentino, Venezia offrirà una Proiezione speciale di due puntate de L'amica geniale di Saverio Costanzo, dal romanzo di Elena Ferrante, produzione HBO-Rai con Wildside.
Tra i Fuori Concorso d'eccellenza della Mostra, in prima mondiale, A Star Is Born, l’atteso debutto nella regia di Bradley Cooper, interpretato dallo stesso Cooper e dalla pluripremiata superstar della musica e candidata all’Oscar Lady Gaga, nel suo primo ruolo da protagonista in un film. E poi Les Estivants di Valeria Bruni Tedeschi, Una storia senza nome di Roberto Andò, Mi obra maestra di Gaston Duprat, A Tramway in Jerusalem di Amos Gitai, La Quietud di Pablo Trapero.

Concorso
First Man - Damien Chazelle (Stati Uniti)
The Mountain - Rick Alverson (Stati Uniti)
Doubles Vies - Olivier Assayas (Francia)
The Sisters Brothers [+] - Jacques Audiard (Francia/Belgio/Romania/Spagna)
The Ballad of Buster Scruggs - Ethan and Joel Coen (Stati Uniti)
Vox Lux - Brady Corbet (Stati Uniti)
Roma - Alfonso Cuaron (Messico)
22 July - Paul Greengrass (Stati Uniti)
Suspiria [+] - Luca Guadagnino (Italia)
Never Look Away [+] - Florian Henckel Von Donnersmarck (Germania)
The Nightingale - Jennifer Kent (Australia)
The Favourite - Yorgos Lanthimos (Irlanda/Regno Unito/Stati Uniti)
Peterloo [+] - Mike Leigh (Regno Unito/Stati Uniti)
Capri-Revolution [+] - Mario Martone (Italia/Francia)
What You Gonna Do When The World’s On Fire? [+] - Roberto Minervini (Italia/Stati Uniti/Francia)
Sunset [+] - Laszlo Nemes (Ungheria/Francia)
Frères Ennemis - David Oelhoffen (Francia/Belgio)
Nuestro Tiempo - Carlos Reygadas (Messico/Francia/Germania/Danimarca/Svezia)
At Eternity’s Gate - Julian Schnabel (Stati Uniti/Francia)
Killing - Shinya Tsukamoto (Giappone)
Acusada - Gonzalo Tobal (Argentina/Messico)

Fuori Concorso
Eventi speciali
The Other Side of the Wind - Orson Welles (Stati Uniti)
They’ll Love Me When I’m Dead - Morgan Neville (Stati Uniti)
Proiezioni speciali
L'amica geniale - Saverio Costanzo (Italia/Belgio)
Il Diario Di Angela – Noi Due Cineasti - Yervant Gianikian (Italia)
Finzione
Una Storia Senza Nome [+] - Roberto Andò (Italia)
Les Estivants - Valeria Bruni Tedeschi (Francia/Italia)
A Star Is Born - Bradley Cooper (Stati Uniti)
Mi obra maestra [+] - Gaston Duprat (Argentina/Spagna)
A Tramway in Jerusalem - Amos Gitai (Israele/Francia)
Un peuple et son roi [+] - Pierre Schoeller (Francia/Belgio)
La Quietud [+] - Pablo Trapero (Argentina/Francia)
Dragged Across Concrete - S Craig Zahler (Stati Uniti)
Shadow - Zhang Yimou (Cina)
Non-finzione
A Letter to a Friend in Gaza - Amos Gitai (Israele) (mediometraggio)
Aquarela - Victor Kossakovsky (Regno Unito/Germania/Danimarca/Stati Uniti)
El Pepe, Una Vida Suprema - Emir Kusturica (Argentina/Uruguay/Serbia)
Process - Sergei Loznitsa (Paesi Bassi)
Carmine Street Guitars - Ron Mann (Canada)
Isis, Tomorrow. The Lost Souls of Mosul - Francesca Mannocchi, Alessio Romenzi (Italia/Germania)
American Dharma - Errol Morris (Stati Uniti/Regno Unito)
Introduzione All’Oscuro - Gaston Solnicki (Argentina/Austria)
1938 Diversi - Giorgio Treves (Italia)
Your Face - Tsai Ming-Liang (Taiwan)
Monrovia, Indiana - Frederick Wieseman (Stati Uniti)

EUROPEAN FILM AWARDS 2018
49 lungometraggi selezionati per gli European Film Awards di Cineuropa

21/08/2018 - 35 paesi europei sono rappresentati nella lista. Le nomination finali saranno annunciate il 10 novembre al Festival del cinema europeo di Siviglia.
The European Film Academy and EFA Productions have announced the titles of the 49 films on this year's EFA Feature Film Selection, the list of feature-length fiction films recommended for a nomination for the 2018 European Film Awards. With 35 European countries represented, the list once again illustrates the great diversity present in European cinema.
In the 20 countries with the most EFA members, these members have voted one national film directly into the selection list. To complete the list, a Selection Committee consisting of the EFA board and invited experts Giorgio Gosetti (Italy), Elise Jalladeau (Greece), Christophe Leparc (France), Jacob Neiendam (Denmark), Edvinas Pukšta (Lithuania) and Alik Shpilyuk (Ukraine) has included further films.
In the coming weeks, the over 3,500 members of the European Film Academy will vote for the nominations in the categories of European Film, Director, Actor, Actress and Screenwriter. The nominations will then be announced on 10 November at the Seville European Film Festival in Spain. An eight-member jury will decide on the awards recipients in the categories of European Cinematographer, Editor, Production Designer, Costume Designer, Hair and Make-up Artist, Composer, Sound Designer and - for the first time - Visual Effects Supervisor.

The 31st European Film Awards, with the presentation of the winners, will take place on 15 December in Seville.
Here is the list of films selected:
3 Days In Quiberon [+] - Emily Atef (Germany/Austria/France)
Ága [+] - Milko Lazarov (Bulgaria/Germany/France)
Anna's War - Aleksey Fedorchenko (Russia)
Arrhythmia [+] - Boris Khlebnikov (Russia/Finland/Germany)
Ayka [+] - Sergey Dvortsevoy (Russia/Germany/Poland/Kazakhstan)
Beast [+] - Michael Pearce (UK)
Border [+] - Ali Abbasi (Sweden/Denmark)
Borg/McEnroe [+] - Janus Metz (Sweden/Denmark/Finland/Czech Republic)
Carmen & Lola [+] - Arantxa Echevarría (Spain)
Cobain [+] - Nanouk Leopold (Netherlands/Germany/Belgium)
Cold War [+] - Paweł Pawlikowski (Poland/UK/France)
Custody [+] - Xavier Legrand (France)
Diamantino [+] - Gabriel Abrantes & Daniel Schmidt (Portugal/France/Brazil)
Dogman [+] - Matteo Garrone (Italy/France)
Donbass [+] - Sergei Loznitsa (Germany/France/Romania/Netherlands/Ukraine)
Dovlatov [+] - Alexey German Jr. (Russia/Poland/Serbia)
Foxtrot [+] - Samuel Maoz (Germany/Israel/France)
Fugue [+] - Agnieszka Smoczyńska (Poland/Czech Republic/Sweden)
Girl [+] - Lukas Dhont (Belgium/Netherlands)
Happy As Lazzaro [+] - Alice Rohrwacher (Italy/France/Germany/Switzerland)
Longing [+] - Savi Gabizon (Israel)
Mademoiselle Paradis [+] - Barbara Albert (Austria/Germany)
Men Don't Cry [+] - Alen Drljević (Bosnia and Herzegovina/Germany/Slovenia/Croatia)
Michael Inside [+] - Frank Berry (Ireland)
Milada [+] - David Mrnka (Czech Republic)
Mug [+] - Małgorzata Szumowska (Poland)
One Day [+] - Zsofia Szilagyi (Hungary)
Paddington 2 [+] - Paul King (UK)
Petra [+] - Jaime Rosales (Spain/France/Denmark)
Pity [+] - Babis Makridis (Greece/Poland)
Pomegranate Orchard - Ilgar Najaf (Azerbaijan)
Pororoca [+] - Constantin Popescu (Romania/France)
Scary Mother [+] - Ana Urushadze (Georgia/Estonia)
Shock Waves: Diary of My Mind [+] - Ursula Meier (Switzerland)
Styx [+] - Wolfgang Fischer (Germany/Austria)
The Captain [+] - Robert Schwentke (Germany/France/Poland)
Giant [+] - Aitor Arregi, Jon Garaño (Spain)
The Guilty [+] - Gustav Möller (Denmark)
The House By The Sea [+] - Robert Guédiguian (France)
The House That Jack Built [+] - Lars von Trier (Denmark/Sweden/France/Germany)
Summer [+] - Kirill Serebrennikov (Russia/France)
The Wild Pear Tree [+] - Nuri Bilge Ceylan (Turkey/Germany/France/Bulgaria/Republic of Macedonia/Bosnia and Herzegovina/Sweden/Qatar)
Those Who Are Fine [+] - Cyril Schäublin (Switzerland)
Touch Me Not [+] - Adina Pintilie (Romania/Germany/Czech Republic/Bulgaria/France)
Transit [+] - Christian Petzold (Germany/France)
U - July 22 [+] - Erik Poppe (Norway)
Under The Tree [+] - Hafsteinn Gunnar Sigurðsson (Iceland/Denmark/Poland/Germany)
What Will People Say [+] - Iram Haq (Norway/Germany/Sweden)
Woman at War [+] - Benedikt Erlingsson (Iceland/France/Ukraine)

PRODUZIONE Italia
Andrea Adriatico porta la storia di Mario Mieli sul grande schermo
Articolo di Vittoria Scarpa.
20/08/2018 - Cominciate le riprese di Gli anni amari, sul noto attivista per i diritti gay. Nel cast, Sandra Ceccarelli e Antonio Catania. Una produzione L’Altra Cinemare con Rai Cinema.

Sono cominciate oggi, 20 agosto, a Milano, le riprese di Gli anni amari, film che porta sul grande schermo la storia di Mario Mieli, intellettuale, attivista, scrittore e artista di grande rilievo negli anni Settanta, tra i fondatori del movimento omosessuale italiano, morto suicida nel 1983. Il film, prodotto da L’Altra Cinemare con Rai Cinema, in collaborazione con Pavarotti International 23, è diretto dal regista teatrale e cinematografico Andrea Adriatico (Il vento, di sera, selezionato a Berlino; All’amore assente [+], vincitore ad Annecy), che lo ha scritto insieme a Grazia Verasani (autrice di Quo vadis, baby?, da cui Gabriele Salvatores ha tratto il suo film omonimo) e il giornalista Stefano Casi.
Gli anni amari ricuce alcuni momenti della vita personale e pubblica di Mario Mieli, interpretato dal giovane Nicola Di Benedetto al suo debutto cinematografico. Nato nel 1952 a Milano, Mario è figlio di genitori benestanti e penultimo di sette figli, tra cui Giulio (Lorenzo Balducci), e vive una vita intera in conflitto con il padre Walter (Antonio Catania) e la madre Liderica (Sandra Ceccarelli). La pellicola ne segue i passi a partire dall’adolescenza al liceo classico Giuseppe Parini di Milano. La gioventù e la vita notturna sfrenata nei locali gay milanesi, quando ancora omosessualità era sinonimo di disturbo mentale; il viaggio a Londra e l’incontro fondamentale con l’attivismo inglese del Gay Liberation Front; il ritorno in patria e la fondazione di “Fuori!”, prima associazione del movimento di liberazione omosessuale italiano, e dei “Collettivi Omosessuali Milanesi”; la pubblicazione del saggio Elementi di critica omosessuale; la popolarità mediatica ma anche le turbe mentali.
Gli anni amari, dice il regista, è “l’attraversamento di un’epoca, di quei vitali, difficili, creativi, dolorosi e rimossi anni ’70. È anche la rievocazione di un necessario movimento per i diritti, come quello omosessuale, che doveva inventare forme nuove per farsi riconoscere. Ed è soprattutto il ritratto di un ragazzo la cui genialità, la cui libertà interiore e la cui gioia di vivere erano troppo intense per il mondo che lo circondava”. Nel cast del film, anche Francesco Martino, Davide Merlini, Giovanni Cordì e Tobia De Angelis.
Gli anni amari è sostenuto dal Mibact, e si è avvalso del contributo di Emilia-Romagna Film Commission e Apulia Film Commission. Le riprese si svolgeranno per otto settimane tra Milano, Bologna, Sanremo, Lecce e Londra.

VENEZIA 2018 Settimana Internazionale della Critica
Giona A. Nazzaro • Delegato Generale, Settimana Internazionale della Critica di Venezia
“Una selezione che allarga i confini e rifiuta la banalità”
Articolo di Camillo De Marco.

20/08/2018 - A colloquio con Giona A. Nazzaro, il responsabile della sezione parallela del Festival di Venezia Settimana Internazionale della Critica.
Cineuropa: Partiamo dal successo della precedente edizione, "davvero al di là delle più rosee aspettative", come tu stesso hai dichiarato Giona A. Nazzaro: Siamo stati piacevolmente sorpresi dalle dimensioni di questo riconoscimento e dall'attenzione con la quale sono state accolte le opere che abbiamo presentato. Ultimo, solo in ordine di tempo, Pin Cushion, il nostro film d'apertura, è stato accolto come una rivelazione in Gran Bretagna, ottenendo un vero e proprio plebiscito dalla critica e dal pubblico. Senza contare che subito dopo Venezia Lily Newmark, la protagonista del film, è stata scelta come nuovo volto da una notissima casa di alta moda, sull'onda della sua interpretazione nel film. Pin Cushion è ancora nei cinema dopo essere stato accolto nei festival di tutto il mondo. Bertrand Mandico è diventato il regista del momento in Francia (ha firmato anche un manifesto per il rinnovamento del cinema francese sui Cahiers) mentre l'eccellente Drift, forse la scommessa del 2017 di cui siamo più orgogliosi, ha preso letteralmente in contropiede il cinema tedesco affermando che è possibile un altro modo - non necessariamente narrativo - per andare incontro al pubblico con grande successo. E’ possibile vedere su Netflix Temporada de caza di Natalia Garagiola, premio del pubblico dell'anno scorso. Su Il cratere degli italiani Silvia Luzi e Luca Bellino, non c'è altro da aggiungere: semplicemente la rivelazione di un talento senza pari. Un successo così non può che lasciarti senza parole. Anche se segretamente lo desideravi.
Dunque i festival servono davvero per promuovere la circolazione delle opere?
I festival servono a rivelare film e autori, ne sono convinto, ma non si possono imputare ai festival le mancanze di un sistema che ha smesso di fare il proprio lavoro per timore di non trarre profitto. Semmai c'è da ringraziare i festival che continuano a lavorare per creare delle possibilità di futuro per i film e i registi. I festival scoprono, promuovono e tentano di indicare autori e film che promettono di muovere incontro al futuro. Non gli si può chiedere di fare anche il lavoro dei distributori, dei critici e dei sales agents. Sono lavori diversi. Né tantomeno si può pensare ai festival come a una semplice piattaforma di lancio dei film che saranno al cinema in autunno. L'anno scorso la SIC ha offerto molte ipotesi di futuro che sono state accolte con grande favore. Ci auguriamo che accada lo stesso con questa edizione.
Con questa nuova edizione avete tentato di allargare ancora di più l'orizzonte dello sguardo.
La vera sfida è allargare i confini del mondo. Il cinema non parla solo inglese, americano. Il mondo, nonostante la propaganda populista, è fatto di tanti mondi e di tantissime esperienze. Impossibile rendere conto di questa vitalissima presenza di possibilità ed esperimenti nell'arco di soli nove film, ma il dovere di chi ha il privilegio di svolgere un lavoro di promozione della cultura e del pensiero, è di tentare, per quanto possibile, di aprire tutte le finestre quando invece la politica vorrebbe chiudere tutte le porte. Non si tratta banalmente di salvaguardare delle quote di presenze nazionali in seno al festival, quanto di tentare di intercettare i movimenti, le frizioni e, perché no, gli scontri fra forma delle immagini e urgenze della storia. Mai sociologici, mai contenutistici, ma sempre sull'onda del primato del poetico che - per quanto ci riguarda - è sempre politico. Andare al cinema - nonostante la diversificazione delle offerte possibili - è ancora un'esperienza collettiva che permette di affacciarsi su altre possibilità di vita e pensiero.
Un accenno ai film. Forse nessun filo conduttore ma, meglio, un'osservazione ampia. C’è l'attualità di Still Recording sulla guerra siriana, il primo lungo dell'italiana Letizia Lamartire, l'esordio del cinema montenegrino alla SIC con You Have the Night e il peculiare esordio alla regia della popstar finlandese Anna Eriksson.
In realtà un filo conduttore c'è - anche se non lo abbiamo cercato. Ed è il rifiuto della banalità. Nei tre anni in cui ho avuto il piacere di guidare la SIC abbiamo presentato tre esordi italiani e tutt'e tre sono esordi femminili. Un risultato del quale siamo particolarmente orgogliosi. Letizia Lamartire fa parte della famiglia SIC e per noi è un onore presentare il suo primo lungo, Saremo giovani e bellissimi. Still Recording è un film che ho seguito per quasi tre anni, vedendo varie versioni. Sin dalla primissima volta ho avuto l'impressione che si trattasse di un lavoro enorme, che aiutasse a ripensare il ruolo dell'immagine nell'era della proliferazione assoluta delle immagini. Il film, ottenuto da circa 450 ore di girato, è un'esperienza cinematografica unica che ridefinisce i confini fra documentario, osservazione, cinema diretto e realismo. Al di là del fatto che il film permette di ricontestualizzare le opposte propagande sulla Siria, il film mi ha colpito per il suo essere addirittura rosselliniano nel suo assumere su se stesso il momento storico del paese. E tutto questo senza contare che scorre via con l'intensità di classici del cinema politico hollywoodiano. M di Anna Eriksson è un film che farà molto discutere. Un film che sorprenderà tutti: una specie di Pasto nudo al femminile sull'eterno ritorno del femminino.



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- Filosofia

Popsophia il Festival a Civitanova Marche

Popsophia continua a far sognare nella notte di San Lorenzo.

Con “I sogni son desideri”, un nuovo appuntamento filosofico e musicale, Popsophia conclude venerdì 10 agosto a Lido Cluana la sua stagione culturale estiva a Civitanova Marche.

• Sogniamo chi vogliamo diventare o chi siamo stati?

Il 10 agosto dalle 21.30 a Lido Cluana di Civitanova Marche, #popsophia racconterà la nostalgia contemporanea attraverso il philoshow I sogni son desideri nella notte di San Lorenzo con Adriano Fabris e @lucreziaercoli.

Al termine di un percorso che ha declinato le diverse sfaccettature del sogno e dei suoi labili confini con la realtà, la notte di San Lorenzo rappresenta nell’immaginario collettivo una notte magica in cui gli affanni della realtà lasciano il posto alla speranza e ai desideri che, in quell’unica notte, l’uomo affida al cielo stellato.

Dopo la serata dello scorso anno, Popsophia torna a indagare il tema del desiderio con uno sguardo nuovo. Una domanda universale alla quale l’arte, la poesia, la canzonetta e il cinema hanno dato risposte diverse: i desideri che popolano i nostri sogni sono orientati al futuro o riguardano il nostro passato? Sogniamo chi vogliamo diventare o chi siamo stati?

La serata inizierà alle ore 21.30 con il Philoshow “I sogni son desideri nella notte di San Lorenzo”, un nuovo spettacolo filosofico musicale ideato e condotto dalla direttrice artistica Lucrezia Ercoli, scandito dalle esecuzioni musicali live della band Factory, dalle performance teatrali dell’attrice Pamela Olivieri e dai montaggi cinematografici realizzati dai registi Marco Bragaglia e Riccardo Minnucci.

Ospite d’eccezione della serata sarà Adriano Fabris, professore di filosofia morale presso l’Università di Pisa, che guiderà il pubblico all’interno di un viaggio in cui si indagherà il desiderio nostalgico, quella tensione costitutiva dell’essere umano causata da qualcosa che abbiamo perduto.

“L’oggetto del desiderio che si rivolge alle stelle è sempre assente e per questo permette l’affiorare di una nostalgia per qualcosa che non c’è più e che abbiamo perduto” – dichiara la direttrice artistica Lucrezia Ercoli – “Dal film “Nuovo Cinema Paradiso” alla hit di Cocciante “Celeste nostalgia”, il giorno di San Lorenzo Popsophia porterà a Civitanova Marche l’occasione per un’indagine inedita sulla nostalgia contemporanea tra filosofia e cultura pop”.

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- Musica

Zaleska live teatro di Caterina Palazzi a Numana

Caterina Palazzi in Zaleska live Teatro di Paglia Mareverde – Lunedì 06 Agosto - Numana

Caterina Palazzi,
double bass, loops, effects - psychedelic/hypnotic performance on Dracula, leader della band italiana Sudoku Killer, la contrabbassista romana presenta 'Zaleska', nuovo progetto in solo più intimo e ipnotico, in cui linee melodiche si intrecciano a momenti dissonanti e rumoristici, creando una sorta di orchestrina funebre solitaria di bassi.

Ogni composizione musicale è ispirata ad un attore che ha impersonificato il personaggio di Dracula nella cinematografia. Spesso la sua musica interagisce dal vivo con performances di video designers (Kanaka, Fabio Scacchioli), pittori e artisti visivi.

20/11/2017
Intervista di Carlo Cantisani per gentile concessione di Il Termopolio - blog facebook – twitter instagram.

La figura del mostro, immortalato su miriadi di pellicole cinematografiche, romanzi, fumetti e tante altre opere d’arte, ha sempre attirato l’uomo in maniera ambivalente. Sentimenti che oscillano fra la repulsione e l’attrazione hanno spesso mosso gli animi di coloro che, nel bene ma soprattutto nel male, hanno avuto a che fare con simili creature. La solitudine, in particolare, sembra attraversare e costituire l’intera esistenza della maggior parte dei mostri dell’immaginario collettivo, esseri che alla fine non si rivelano nient’altro che specchio delle contraddizioni umane. Più di ogni altro, il vampiro potrebbe incarnare questa idea di solitudine, poiché vive in un’eterna dannazione che neanche la morte sembra alleviare.

La musicista romana Caterina Palazzi ha scelto quindi la figura di Zaleska, la figlia illegittima del più noto conte Vlad Tepes, per dare avvio a un suo personale e totalmente individuale progetto solista. A differenza dell’altro suo progetto, Sudoku Killer, dove è affiancata da chitarra, sax e batteria (e che ha all’attivo due album, l’ultimo, 'Infanticide', è uscito due anni fa per Auand Records), qui tutto ruota intorno al contrabbasso, strumento prediletto di Caterina, e alle potenzialità che questo strumento offre. Il pizzicato, l’archetto, il massiccio uso di pedali ed effettistica danno l’idea di una mini orchestrina in bianco e nero per film muti in stile cinema espressionista tedesco. Melodie inquiete e dissonanti si vanno a innestare sul noise creato dagli effetti, evocando un suono perennemente in movimento e alla ricerca della giusta atmosfera, al limite fra dark ambient e suggestioni alla The Kilimajaro Darkjazz Ensemble e Bohren and the Club of Gore.

Ascoltare Zaleska significa immergersi in un altro mondo dove le proprie sensazioni seguono lo stesso erratico andamento dei suoni e delle visioni che spesso accompagnano dal vivo la musica di Caterina Palazzi, come dimostrano le numerose partecipazioni a mostre, installazioni e proiezioni fatte insieme a video-artisti in varie occasioni. Una musica del genere non può che richiedere un ascolto intimo e raccolto, eppure il 23 novembre Zaleska testerà le sue potenzialità sul palco del Deposito Pontecorvo di San Giuliano Terme (Pisa), un palco diverso da quello ai quali la musica del progetto è solitamente abituata. Ma ciò che era già evidente con Sudoku Killer, e che viene ribadito anche con Zaleska, è proprio la caratteristica di non cercare a tutti i costi di piacere a tutti ma, semmai, di trovare una via personale per dire ciò che si vorrebbe dire. E questa via, spesso, avviene in maniera solitaria.

Da quale tipo di necessità artistica prende spunto il progetto Zaleska? E perché hai scelto proprio il nome della figlia illegittima di Dracula?

Zaleska è nata dalla voglia di intimità, di solitudine, del non dover rendere conto a nessuno, di fare esattamente ciò che mi passa per la testa anche in tempo reale.
Dracula fa parte della mia intimità e della mia vita perchè sono sempre stata affascinata dal personaggio oscuro del vampiro. Fin da piccola, invece di giocare spensierata con gli altri bambini, mi chiudevo a leggere libri sull'argomento; di conseguenza è stato spontaneo far coincidere il mio desiderio di un progetto in solitaria con quello di dedicarlo al Conte.

In molti punti, la musica di Zaleska ha gli stessi colori e le atmosfere del Nosferatu di Murnau. Quanto è importante l’aspetto visuale per questo tuo progetto?

Credo che le atmosfere possano ricordare Nosferatu per l'aspetto malinconico che hanno in comune.

Confesso di non aver ancora capito se la situazione ideale per Zaleska sia con o senza video. Sicuramente sono due cose diverse perché cambia il mio modo di suonare. Il video è stimolante sia per me che per l'ascoltatore, aggiunge sicuramente qualcosa e mi fa anche sentire più protetta emotivamente, visto che affrontare un palco da soli non è facile. Di contro mi obbliga a tenere d'occhio il cronometro quindi c'è meno spazio per l'improvvisazione.

È stato molto bello e interessante interagire con il visual designer Kanaka, che crea i video in tempo reale e quindi permette un dialogo audiovisivo ogni volta diverso.

Suoni il contrabbasso anche nell’altro tuo progetto, Sudoku Killer. Vedi quest’ultimo e Zaleska come due facce della stessa medaglia o come due mondi opposti? Dove si può dire che finisca uno e inizi l’altro?

Non li sento come due cose molto diverse: in qualche modo Zaleska è la versione intima di Sudoku Killer. I due progetti hanno in comune la componente cinematica e quella dark-ossessiva-angosciante.

I pezzi sono miei in entrambi i progetti quindi la somiglianza è evidente.

Nonostante suoni un solo strumento, il contrabbasso, il range sonoro è molto vasto. Usi l’archetto ed effettistica varia, oltre naturalmente al pizzicato. Come riesci a tenere in equilibrio le varie situazioni sonore in un solo pezzo?

Il contrabbasso ha una varietà timbrica enorme, c'è tantissimo da esplorare. Anche il solo passare dalle note basse a quelle alte basta a cambiare atmosfera.

Con Zaleska, sei solo tu e il contrabbasso. Non ci sono altri strumenti, come invece accade, ad esempio, con Sudoku Killer. Pensi che Zaleska ti abbia portato a cambiare in qualche maniera il tuo modo di rapportarti con questo strumento?

Senz'altro. In Zaleska non faccio la bassista, uso molto l'archetto e prediligo le melodie ai groove.

Un progetto come Zaleska trova la sua dimensione ideale probabilmente dal vivo, per via dell’atmosfera creata dal suono che si espande, imprimendo l’aria circostante. Nonostante ciò, hai in mente un qualche tipo di registrazione?

Non nel prossimo futuro perché, oltre agli 'spostamenti d'aria', è anche importante l'aspetto visivo, che sia l’interazione con i video o che sia invece l'osservare direttamente come vengono creati i suoni dallo strumento, dando l’idea acustica e visiva di un’orchestrina. È un progetto pensato per interagire con ambienti ogni volta diversi e su un supporto audio non funzionerebbe.

Quello del 23 novembre a Pisa sarà un concerto che ti vedrà portare Zaleska su un palco differente da quelli sui quali hai suonato finora con il tuo progetto solista. Potrebbe essere un modo per testare ulteriori potenzialità del progetto e magari avvicinarsi a un pubblico un po’ più ampio?

Spero di sì! Ho un po' di perplessità, perché Zaleska è un progetto intimo che necessita di silenzio e della concentrazione dell'ascoltatore, condizioni più facili da ottenere in ambienti raccolti, piccoli, con la gente seduta per terra.
A Pisa ci vado da sola perché Sudoku Killer non può, quindi non è stata una decisione presa a tavolino bensì una casualità. Ma amo le sfide, dunque ci andrò e cercherò di fare del mio meglio.

Continuerai a suonare completamente sola o hai pensato alla possibilità di essere affiancata in futuro da qualche altro strumento, magari solo in qualche pezzo?

Zaleska è l'emblema della solitudine e resterà sempre così. Caterina collabora e collaborerà volentieri con altri musicisti, Zaleska assolutamente no.

A che tipo di pubblico credi che possa essere indirizzata la musica di Zaleska?

Zaleska è indirizzata ai malinconici che non cercano evasioni ed è poco indicata per chi vuole passare una serata divertente.

FESTIVALS: Frame Foto Festival 2014, Festival Domina Domna 2015, Festival MoliseCinema 2015, Hamar Jazz Festival 2015, Torino Fringe Festival 2016, Green Hours Festival 2016, SudTirol Jazz Festival 2016, Sajeta Festival 2016, Disorder Festival 2016, Mu.Vi.Ments Festival 2017, Cinematica Festival 2017, Portalegre festival 2017, Lublin Jazz Festiwal 2017, MoliseCinema Festival 2017, International festival Thailand 2017, Bää Fest 2017.

Per maggiori informazioni: Sudoku Killer facebook page: facebook.com/caterinapalazzisudokukiller/
Sito Sudoku Killer: http://www.sudokukiller.it/
Sito Auand Records: http://auand.com/

Foto di Diego Baruffaldi e Donato Anselmi


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- Musica

Locomotive Jazz Festival in Puglia


LOCOMOTIVE JAZZ FESTIVAL
'La Musica Cresce nelle periferie' - Fino al 3 agosto in Puglia.

Il Locomotive Jazz Festival 2018 continua il suo viaggio di confine dove tutto è nato, dove tutto sta crescendo: una periferia di storie, musica e magia.

www.locomotivejazzfestival.it
#locomotivejf #ljf2018

Malika Ayane, Avion Travel, Dolcenera, Bungaro, Fabio Concato, Kurt Elling, Kenny Garrett, Stefano Di Battista e Nicky Nicolai, Nick The Nightfly, Gilles Peterson, Nicola Conte, Till Bronner e Dieter Ilg, Renzo Rubino & Gino Castaldo, Raffaele Casarano e molti altri.

Dopo l’anteprima del 10 luglio con il concerto di Raffaele Casarano a Lecce, fino al 3 agosto la Puglia diventa nuovamente il palcoscenico diffuso del Locomotive Jazz Festival, che quest’anno raggiunge, oltre Lecce, anche Taranto, Ceglie Messapica, Castro, Roca, Sant’Andrea e San Cataldo.

Tanti i nomi presenti nel cartellone di questa XIII edizione: Malika Ayane, Avion Travel, Dolcenera, Bungaro, Fabio Concato, Kurt Elling, Kenny Garrett, Stefano Di Battista e Nicky Nicolai, Nick The Nightfly, Gilles Peterson, Nicola Conte, Till Bronner e Dieter Ilg, Renzo Rubino & Gino Castaldo.

Con 'La Musica cresce nelle periferie', quest’anno il Locomotive intende lanciare un nuovo messaggio rivolto al territorio sul quale opera e al pubblico internazionale.
Nel corso delle sue 13 edizioni con oltre 200 mila spettatori, di cui 20 mila solo lo scorso anno, il Locomotive Jazz Festival compie ora un passo in avanti. Se, infatti, il fil rouge del 2017 era 'la Musica nasce nelle periferie', quello di quest’anno rimane nelle periferie, allargando gli orizzonti. 'Crescere' è la parola scelta per raccontare un territorio, per mettere in musica le sue storie e le sue ferite, per cancellare i luoghi comuni e rafforzarlo con nuovi modi di fare cultura.

Soprattutto quest’anno, il Locomotive ha deciso di essere nei luoghi di frontiera, luoghi maltrattati, come San Cataldo, o vittime di etichette ormai logore, come Taranto, città industriale che però nasconde una storia e una cultura profonde e da riscoprire. Con l’obiettivo di portare la musica in spazi diversi, il Festival si sposta, quindi, a Taranto, Ceglie Messapica, Lecce, Castro Marina, Roca e Torre Sant’Andrea, marine di Melendugno, e San Cataldo, marina di Lecce; luoghi da svelare sotto una nuova lente, dimostrando, al di là delle etichette, che essere ai confini può essere anche un privilegio per chi ci nasce, vive e cresce.

La sfida di tutti è quella di seguire quel che fa la Musica, liberarsi dalle gabbie, diffondersi senza limiti. Dichiara Raffaele Casarano, direttore artistico e anima traghettatrice del Locomotive Jazz Festival da ormai tredici anni. Il LJF, rispetto ad altri festival musicali, ha un pensiero forte: la musica come strumento attraverso cui narrare altre storie e fare luce su delle problematiche di carattere ambientale, sociale, culturale. Nel corso degli anni sono venuti a suonare per il Locomotive musicisti di fama internazionale, che hanno sposato la nostra causa, appassionandosene, imparando ad amare il Salento, le sue debolezze e la sua bellezza estrema.

La XIII edizione del Festival consolida l’impegno nei confronti delle nuove generazioni con il contest Locomotive Giovani, che quest’anno ha raccolto oltre 50 richieste di adesione. A coloro che hanno passato le selezioni sarà offerto un percorso di formazione alternativo agli studi accademici, con la possibilità di confrontarsi, esibirsi, aprire i concerti e suonare sul palco con i grandi del jazz. Ma il Locomotive è anche un’occasione per riscoprire e valorizzare il territorio grazie al contributo diretto del pubblico. Fondamentale, in questo senso, la partnership con il portale Puglia Events (https://viaggiareinpuglia.it/eventi/it), dove, attraverso i racconti degli utenti e l’uso di particolari hashtag (#weareinpuglia #pugliaevents #locomotivejazzfestival #ljf2018), sarà possibile seguire i concerti e scoprire gli angoli nascosti della Regione, per diffondere un’idea di marketing territoriale alternativa.

Inoltre, il Festival ha deciso di consolidare le partnership con Btm (Business Tourism Management) e Montedelia Tour grazie ai quali ha realizzato dei pacchetti vacanze vantaggiosi che permettono a tutti gli amanti della musica e del jazz di partecipare agli eventi e godersi le bellezze del territorio. Locomotive Jazz Festival è infatti anche cura e amore per la natura. La rinnovata partnership con la cooperativa Ecofesta Puglia si muove in questa direzione, con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico alla raccolta differenziata dei rifiuti durante gli eventi e al rispetto consapevole dell’ambiente in cui viviamo.

Confermata l’importante collaborazione con l’associazione Movidabilia, che aiuterà a rendere accessibili a chiunque i luoghi in cui si svolgeranno i concerti, al di là di problematiche fisiche, mentali o socio-culturali, per un Locomotive Sociale e aperto a tutti. Di particolare rilievo è la serata del 3 agosto, l’ultima del Festival, organizzata in collaborazione con Tria Corda Onlus, da anni attiva per la raccolta fondi in favore della realizzazione del Polo Pediatrico salentino. Infatti, tutto l’incasso della serata sarà devoluto alla Onlus, per contribuire al raggiungimento di questo importante obiettivo.

Dal 30 luglio al 3 agosto sarà possibile seguire il Locomotive in diretta su Radio Montecarlo, dalle 15.00 alle 16.00 e dalle 22.00 alle 2.00; un altro grande riconoscimento a livello nazionale, che contribuisce a dare maggiore risonanza a tutte le novità dell’edizione 2018. La rilevanza della manifestazione è testimoniata anche dalla partecipazione di I-Jazz, associazione che dal 2008 raccoglie i maggiori festival jazz italiani, e sarà presente per condurre dibattiti e riflessioni sul ruolo e sulle prospettive della musica jazz in Italia e non solo.

Il Locomotive Jazz Festival nel dettaglio a partire dal:
27 luglio, si entra nel vivo con il secondo evento della Trilogia Locomotive, la Notte Locomotive. Il palco, allestito di fronte alla baia di Torre Sant’Andrea, ospita a mezzanotte il concerto di Dolcenera, accompagnata da Giulio Rocca, William Greco e Luca Laurentaci.
Durante la mattinata, dalle 10.00, è possibile ascoltare, tra Torre Dell’Orso e Roca, le session a cura della Locomotive Giovani Brass Band.
Alle 4 della mattina del 29 luglio, l’evento più atteso di LJF: l’Alba Locomotive, a Castro Marina, vicino al Molo Turistico, che quest’anno ospita il concerto di Raffaele Casarano con una delle voci più ricercate e particolari della musica italiana, Malika Ayane. Con loro, sul palco, il quartetto jazz formato da Mirko Signorile (piano), Giorgio Vendola (contrabbasso), Maurizio Dei Lazzaretti (batteria) e Alessandro Monteduro (percussioni).
La partecipazione agli eventi della Trilogia Locomotive, Alba, Notte e Tramonto, avrà un costo simbolico di 2 euro, donazione che verrà interamente devoluta ad associazioni sociali che operano nelle città in cui si svolgono gli eventi.

Dal 29 sera al 31 di luglio il Locomotive cambia nuovamente location, spostandosi a Ceglie Messapica. Il 29 sera alle 21.00 nel Chiostro del Castello, la band Davide Chiarelli & Marokiki 4tet feat. Raffaele Casarano si esibisce in occasione del 'Premio Pierpaolo Faggiano'.

Il 30 luglio alle 11.00, al Museo Archeologico MACC, si tiene l’incontro pubblico 'Il Locomotive Jazz Festival incontra la Città di Ceglie', dove intervengono Luigi Caroli (sindaco di Ceglie), Antonello La Veneziana (assessore alla Cultura) e Raffaele Casarano (direttore artistico del Festival). Alle 18:00 alla Med Cookin School si può assistere alla mostra fotografica 'Omaggio al Mediterraneo' del fotografo Pino Ninfa, che tiene anche un workshop nella Città di Ceglie Messapica il 30 e 31 luglio (per info: pino.ninfa@gmail.com).
Alle 21.00 Paola Perrone, in arte Ties feat. Chiarelli Jazz Band, presenta il suo nuovo album Trust your Gut, prodotto dall’etichetta Platonica, del cantautore Zibba.
Sempre alle 21.00, in Piazza Plebiscito alle ore 21.00, il concerto di Fabio Concato e Paolo Di Sabatino Trio, che presentano il loro album Gigi.

Il 31 luglio alle 11.00 parte la passeggiata musicale per le strade di Ceglie Messapica, organizzata in collaborazione con La Proloco, Cibus, Biodesart e Comunicazione.com. Alle 18.00, in Largo Ognissanti, il concerto di Luca D’amato Trio, e alle 19.00 al Belvedere Monterrone, le musiche di Adrea Rossetti (piano) e Marco Chiriatti (sassofono). Alle 21.00 in Piazza Plebiscito, il palco accoglie gli Avion Travel che presentano, dopo 15 anni dall’ultimo album, il loro nuovo lavoro discografico, Privé.

Gli ultimi tre giorni, 1, 2 e 3 agosto, LJF torna a Lecce con una serie di eventi imperdibili che coronano un’edizione densa di musica. Le tre giornate iniziano alle 10.00 con il laboratorio KIDS Orchestra nella Chiesa di San Giovanni Battista nella zona 167/B, organizzato in collaborazione con le Associazioni Baraonda e Hakuna Matata, per poi proseguire, nella stessa location, alle 11.00, le ultime sessioni dei Concerti del mattino: Parabola dei Talenti: l’1 agosto suona Roberto Gagliardi con II suono dell’anima e per l’anima, tratto di unione e speranza per tutti i popoli; Il 2 Andrea Colella in piano solo; il 3 i Kids Orchestra e Raffaele Casarano.

Il 1° agosto nel Chiostro dell’Ex convento dei Teatini, la serata ‘Happening’ news 2018!!! inizia alle 21.00 con il dj set African Spirit di Nicola Conte, e continua alle 22.00 con INCredible del dj e producer inglese Gilles Peterson, un vero e proprio viaggio intorno al mondo della musica internazionale, fatto di generi che si fondono, influenze culturali e sperimentazioni. Attualmente Peterson conduce il programma radiofonico WorldWide su BBC 6 Music, in cui si fa promotore di contenuti e mentore di nuovi talenti, e lavora per la sua casa di produzione discografica Brownswood Recording.

Il 2 agosto, sempre nel Chiostro dei Teatini, alle 21.00, i ragazzi del Locomotive Giovani hanno l’opportunità di esibirsi con il contrabbassista Luca Alemanno, seguiti alle 22.00 da uno dei più famosi altosassofonisti internazionali, Kenny Garrett, con il suo concerto Do your dance. Garrett ha iniziato a suonare con la Duke Ellington Orchestra, condotta da Mercer Ellington, figlio di Duke Ellington, e nei suoi 30 anni di carriera ha collaborato con artisti come Miles Davis, Woody Shaw, Marcus Miller e Ron Carter.

La XIII edizione del Locomotive Jazz Festival si chiude il 3 agosto nel Chiostro dei Teatini di Lecce, con l’evento speciale ‘Tria Corda Onlus’, una collaborazione che permette da anni al Festival di contribuire alla costruzione del Polo Pediatrico dell’Ospedale del Salento. La serata inizia alle 21.00 con una jam session del Locomotive Giovani, di cui è ospite Nick The Nightfly, producer, speaker radiofonico di Radio Montecarlo e direttore artistico del Blue Note di Milano, che ritorna come protagonista sul palco alle 22.00 con l’evento finale del Festival, il live concert Be Yourself.

Le tre giornate leccesi del Festival si chiudono tutte a San Cataldo, una delle Marine della Città di Lecce, con gli After Concert Party a partire dalle 23.00. L’1 agosto si esibisce la band Le train Manouche, il 2 agosto l’evento Special SQUAT PARTY invasion Locomotive sulla spiaggia e il 3 agosto, ultimo giorno di Festival, il dj set di Luca Bandirali 'Let the Music do the Talking'.

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- Teatro

Teatri in Blu al porto di Cetara

Terzo appuntamento di Teatri in Blu
NIÑO di Teatro Pubblico Incanto

19 - 20 luglio, Tonnara Maria Antonietta
Porto di CETARA (SA)


Terzo appuntamento con "Teatri in Blu", la seconda edizione della rassegna teatrale in mare ideata e diretta da Vincenzo Albano ed organizzata dall’associazione culturale Erre Teatro, in sinergia con il Comune di Cetara.

La particolarità della rassegna è avere la tonnara "Maria Antonietta" che, per l'occasione, si trasforma in palcoscenico, grazie anche allo spirito collaborativo del Capitano Pasquale della Monica.

Giovedì 19 e venerdì 20 luglio a bordo della tonnara il Teatro Pubblico Incanto presenta "NIÑO", drammaturgia e regia di Tino Caspanello, con Cinzia Muscolino.

Una storia vera, venuta alla luce soltanto pochi anni fa, che la protagonista ha taciuto fino alla morte per pudore e paura. Siamo in un piccolo borgo siciliano, nei primi anni del 1950.

Gli esiti della guerra da poco finita, una politica disattenta e un’economia mai decollata costringono ancora i siciliani a lasciare le proprie case.

La protagonista, un’anima mite e allegra, votata all’educazione dei bambini che raccoglieva per strada, incontra, per una sola volta, uno dei tanti emigrati che, dall’Argentina, è tornato per trascorrere una breve vacanza.

Ed è promessa di matrimonio, è un viaggio, è la “fortuna che arriva dall’America”; ma qualcuno, per salvarsi, gioca un brutto tiro alla donna, proprio nel momento in cui lei sta per scendere dalla nave appena approdata nel porto di Buenos Aires; e il futuro, sognato felice durante l’attesa, si trasforma in un presente doloroso, che solo un velo di poesia e di alienazione possono alleviare.

Il testo è stato scritto, tradotto e presentato in francese sotto forma di studio a Grenoble, durante il festival Regards Croisés, nel 2011.

Piccoli e grandi sponsor territoriali - come Iasa, Acqua Pazza, Agro Cetus, Al Convento, La Cianciola, Pane e Coccos’, San Pietro, Istituto Alberghiero Roberto Virtuoso di Salerno – accompagnano "Teatri in Blu" e garantiscono la degustazione a bordo post-spettacolo, momento di relax collettivo e anche opportunità di scambio di opinioni con gli artisti.

PuraCULTura, Scene Contemporanee e Theatron 2.0 sono mediaprtner della rassegna.


TONNARA MARIA ANTONIETTA
Porto di CETARA (SA)
19/20 luglio 2018 | imbarco ore 21.00

Prenotazione obbligatoria: info@erreteatro.it - 329 4022021
posti limitati sulla tonnara

Contatti: 329 4022021 - info@erreteatro.it

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- Musica

Guidi e Bosso Italian Tour

Giovanni Guidi & Fabrizio Bosso
in tour a luglio in Italia
presentano “Not a what”
11 a Casalgrande (RE), 12 a Vasanello (VT), il 13 ad Ancona, il 14 a Palestrina (RM), il 15 a Roma, il 17 a Napoli, il 18 a Pescara e il 20 a Perugia.

Giovanni Guidi e Fabrizio Bosso per la prima volta insieme sul palco, in tour a luglio in Italia per otto date con il progetto “Not a What”. Ad accompagnare il pianista e il trombettista, tre giovani talenti indiscussi della scena jazz newyorchese: Aaron Burnett al sax tenore, che sta bruciando le tappe a New York, Dezron Douglas, affidabilissimo e propulsivo contrabbassista e Joe Dyson, tra i più richiesti batteristi oggi in circolazione.
Debutto assoluto mercoledì 11 luglio a Casalgrande (RE), per il Festival Mundus, per poi proseguire mercoledì 12 a Vasanello (VT) per Ortaccio Jazz Festival, giovedì 13 ad Ancona per Ancona Jazz, venerdì 14 a Palestrina (RM) per Luci su Fortuna, sabato 15 a Roma per Roma Jazz Festival, lunedì 17 a Napoli per S.Elmo Estate, martedì 18 a Pescara per Pescara Jazz e giovedì 20 a Perugia per Umbria Jazz.
Fabrizio Bosso e Giovanni Guidi hanno percorso strade molto diverse: Guidi pianista per anni alla corte di Enrico Rava, dopo alcune incisioni per CAM Jazz, è approdato alla blasonata etichetta ECM, con cui ha già registrato tre album da leader. Bosso, arrivato ai massimi vertici a livello mondiale del suo strumento, ha inciso da leader per Blue Note, Verve ed ora Warner.
Giovanni e io ci conosciamo da anni, ma non abbiamo mai suonato insieme, eppure, nonostante ci muovessimo su binari diversi, c’è stata molta sintonia - racconta Fabrizio Bosso. Sono felice di iniziare questa nuova esperienza, ho sempre ritenuto Giovanni un pianista visionario. Sono curioso di vedere dove ci porterà la fusione dei nostri background così diversi. Anche questa è la magia del jazz: da esperienze diverse può scaturire qualcosa di radicalmente nuovo.
I due incontratisi durante la scorsa estate ad Umbria Jazz, dove hanno diviso il palco, l’uno con il Quintetto di Enrico Rava e Tomasz Stanko, l’altro con il proprio progetto dedicato a Gillespie “The Champ", hanno pensato bene di unire le loro forze in una idea che li potesse spingere a oltrepassare i confini della loro personale ricerca musicale.
Con Fabrizio, ci siamo incontrati ad Umbria Jazz l’estate scorsa. Dopo aver visto il suo concerto, gli ho proposto istintivamente un progetto che facesse incrociare i nostri percorsi musicali - dichiara Giovanni Guidi. Fabrizio è un musicista eccezionale, questo viaggio non poteva partire senza il suo suono e le sue note. Mi attrae l’idea di esplorare insieme un territorio nuovo per entrambi, al di fuori dei nostri confini abituali e che metta in risalto una nostra comune attitudine di fare jazz. A questo allude il nome del progetto, il cui titolo si rifà a una frase di Bill Evans (“jazz is not a what, it is a how”): non è tanto il “cosa” che conta, quindi, ma il come. E in questo ci ritroviamo.

Formazione
Fabrizio Bosso, tromba
Giovanni Guidi, pianoforte
Aaron Burnett, sax tenore
Dezron Douglas, contrabbasso
Joe Dyson, batteria

Tour
11/7 Festival Mundus, Casalgrande (RE)
12/7 Ortaccio Jazz Festival, Vasanello (VT)
13/7 Ancona Jazz, Ancora
14/7 Luci su Fortuna, Palestrina (RM)
15/7 Roma Jazz Festival, Roma
17/7 S. Elmo Estate, Napoli
18/7 Pescara Jazz, Pescara
20/7 Umbria Jazz, Perugia
w
ww.giovanniguidi.it www.fabriziobosso.eu
Per informazioni e interviste
UFFICIO STAMPA GUIDO GAITO info@gaito.it + 39 329 0704981
Via Vincenzo Picardi, 4C - 00197 Ro

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- Filosofia

Popsophia il Festival a Pesaro

FESTIVAL POPSOPHIA - ROCCA COSTANZA (PESARO) - 6/7 Luglio

'Vietato Vietare'


E' questo il tema dell’edizione 2018 del festival Popsophia che si terrà nelle giornate del 6 e 7 Luglio a Rocca Costanza di Pesaro.

“Anche quest’anno Popsophia conferma la particolarità della sua proposta culturale. – osserva il sindaco di Pesaro Matteo Ricci - Che cosa è veramente stato il Sessantotto? Si è trattato davvero di un evento che ha cambiato il volto delle nostre società? Il pop e la filosofia ci offriranno la loro risposta”.

“Interdit d’interdire” è un divieto di proibizione che ci ha portato a mettere in discussione la validità dei nostri valori, delle nostre opinioni, delle nostre regole.Ma fino a che punto è vietato punire?

“A mezzo secolo di distanza Popsophia - spiega la Direttrice Artistica Lucrezia Ercoli - racconterà a modo suo in quale humus si è formato e come si è sviluppata nei prodotti di massa la rivoluzione mondiale del ’68, i cui effetti culturali hanno influenzato ed ancora influenzano profondamente la cultura e la politica contemporanea”.

La prima giornata del festival è dedicata a “La Gioventù”, protagonista assoluta del movimento rivoluzionario del ‘68. La giornata si aprirà alle 18.30 con la Lectio Pop “Era di Maggio” tenuta da un ospite d’eccezione, Giampiero Mughini, eclettico scrittore e giornalista italiano che ha dedicato la sua ultima opera alle giornate che lo videro testimone a Parigi del maggio. Alle 19.00 Andrea Minuz, docente di cinema, moda e culture visive presso “La Sapienza” di Roma, parlerà del “68 distopico”, della cultura di massa di quell’anno. Alle 21.10 una nuova Lectio Pop con Angela Azzaro, caporedattrice del quotidiano “Il Dubbio” verterà con “Sesso libero” sul tema dell’emancipazione dei costumi e alle 21.30 il Philoshow “Noi siamo i giovani”, inedito spettacolo filosofico-musicale ideato dalla direttrice artistica Lucrezia Ercoli, avrà come ospite Simone Regazzoni, scrittore e docente presso l’Università di Pavia, con performance live del gruppo musicale “Factory”. La serata si concluderà con il Late Night Video “The dreamers” di Giorgio Leggi, originalissime testimonianze video della cultura giovanile di quegli anni.

Sabato 7 luglio la giornata verterà sull’“Utopia”, ideale della rivoluzione studentesca che ha caratterizzato l’illusione tipicamente giovanile di poter cambiare il mondo. La Lectio Pop delle 18.30 sarà tenuta da Remo Bodei, scrittore e docente di filosofia all’University of California che proprio al tema “Vietato Vietare” ha dedicato un suo lavoro. Alle 19.00 Marcello Veneziani, filosofo e penna autorevole del “Tempo”, tratterà de “L’altra parte”, di quel mondo della destra che contestava e cambiava i valori della tradizione. Alle 21.10 si parlerà di “Utopia” con la Lectio pop di Piero Sansonetti, direttore de “Il Dubbio”, e il Philoshow “Sogni e incubi”, che animerà la seconda serata del festival avrà come ospite Umberto Curi, professore ed editorialista del Corriere della Sera. La serata si concluderà con il Late Night Video “Sous le pavés la plage”di Giorgio Leggi, inediti documenti video sulle illusioni e le speranze di allora.

Gli incontri delle due serate saranno accreditati per l’aggiornamento scolastico.
Tutti gli appuntamenti sono ad ingresso libero fino ad esaurimento posti
Per registrarsi a POPSOPHIA - Il Festival di Pesaro, scrivere un'email a
info@popsophia.it

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- Società

Bla, bla, bla ’tutto cambia per non cambiare niente’


Bla ,bla, bla … dissoi logoi, tutto cambia per non cambiare niente.

Il ‘circo’ degli innovatori si è ormai stabilito definitivamente (?) nella grande piazza del Parlamento, e tutti festeggiano, ballano e cantano sulle note di ‘abbiamo vinto!’; ma, come si dice, ‘quando il gatto non c’è i sorci ballano’, a voler dire che senza un vero leader (il gatto), gli altri (i corci) si danno un gran ‘da fare ad arraffare’ a più non posso. Cioè fanno il mestiere che vestendo i panni dei clown (del circo mediatico), in fondo è l’unico che sanno fare bene, in ragione del fatto che non hanno mai fatto altro nella vita.

Non c’è che dire, sotto certi aspetti (la destra, il centro e la sinistra) fanno il loro mestiere, si rendono, chi più chi meno tutti quanti ridicoli e, così facendo, fanno anche ridere quei zuzzerelloni degli italiani che li stanno a sentire, senza rendersi conto del danno che stanno facendo in fatto di credibilità, di responsabilità ecc. (leggi di figure di merda) che facciamo nel mondo. Del resto non facciamo altro che confermare quei buontemponi, burloni, matterelloni, pazzarelloni che effettivamente noi italiani siamo, cioè quei mattacchioni che ‘pur di negare l’uccello alla propria moglie finiscono per tagliarselo’.

Ma va bene così, anzi va male (malissimo), perché per voler cambiare le cose in modo cos’ drastico finiamo per non cambiare niente. Come si dice ‘dissoi logoi’, in cui “Gli uni dicono che altro è il bello e altro è il brutto, differenti come di nome, così di fatto; altri invece che bello e brutto sono la stessa cosa”. per ora stiamo a vedere chi avrà ragione, ma come si dice ‘ il buogiorno si vede dal mattino’ e in questo periodo ancora (a distanza di tempo) non mi sembra di aver visto un qualche bella giornata. Speriamo in meglio, se pure non siamo nuovi a questi cambiamenti repentini che non hanno portato a nulla di fatto. Ricordo qui di seguito uno spettacolo musico-teatrale del geniale duo Dario Fo e Franca Rame andato in scena negli anni ‘60/’70, dal titolo ‘Ma che aspettate a batterci le mani’(*):

"Ma che aspettate a batterci le mani a metter le bandiere sul balcone? Sono arrivati i re dei ciarlatani, i veri guitti sopra un carrozzone. Venite tutti in piazza fra due ore, vi riempirete gli occhi di parole, la gola di sospiri per amore e il cuor farà seimila capriole. Napoleone primo andava matto per 'sto dramma e ogni sera con la sua mamma ci veniva ad ascoltar. Napoleon di Francia piange ancora e si dispera da quel dí che verso sera ce ne andammo senza recitar. E pure voi, ragazze, piangerete se il dramma non vedrete fino in fine dove se state attente imparerete a far l'amore come le regine. E non temete se la notte è scura: abbiamo trenta lune di cartone con dentro le lanterne col carburo, da far sembrar la luna un solleone. Napoleon francese, per vederci da vicino, venne apposta sul Ticino contro i crucchi a guerreggiar. Napoleone primo, che in prigione stava all'Elba, vi scappò un mattino all'alba per venirci a battere le man. Ma che aspettate a batterci le mani, a metter le bandiere sul balcone, sono arrivati i re dei ciarlatani, i veri guitti sopra un carrozzone. Vedrete la regina scellerata, innamorata cotta del figlioccio, far fuori tre mariti e una cognata e dar la colpa al fato del fattaccio. Ma che aspettate a batterci le mani, a metter le bandiere sul balcone? Sono arrivati i re dei ciarlatani, i veri guitti sopra un carrozzone. Venite tutti in piazza fra due ore, vi riempirete gli occhi di parole, la gola di sospiri per amore e il cuor farà seimila capriole".

E un altro, ‘Tutta brava gente’ (*) di Carpi – Fo:
"Qui si parla di ufficiali piuttosto compromessi: tutta brava, tutta brava, tutta brava gente, e qui ci saltano fuori almeno sei processi per miliardi, a questo stato che è così indigente, qui si parla di una banca insediata in un convento, qui c'è un tal che alla Marina ha fregato un bastimento, qui un tal altro che a fatica ha corrotto un gesuita, assegnati quattro appalti a un'impresa inesistente, concessioni sottobanco contro assegni dati in bianco, truffe sui medicinali, sulle mutue e gli ospedali, sopra i dazi, le dogane, i tabacchi e le banane. Oh, che pacchia, che cuccagna: bella è la vita per chi la sa far! Ma tu, miracolato del ceto medio basso, tu devi risparmiare, accetta sto salasso: non devi mangiar carne, devi salvar la lira e, mentre gli altri fregano, tu fai l'austerità!"

Non avete anche voi la sensazione che nulla sia cambiato o che stia cambiando? Io ce l’ho, tant’è che non riesco più a raccapezzarmi se stiamo facendo la strada in avanti o all’indietro, proprio ‘ come un gambero!’ direbbe Umberto Eco, del quale riporto qui di seguito alcune note tratte dal suo ‘Pape Satàn Aleppe’ - Cronache di una società liquida (*):

Fin dall’introduzione l’autore (tanto di cappello) avverte il lettore trattarsi della raccolta delle sue Bustine di Minerva apparse sull’Espresso fin dal 1985 e in altre precedenti raccolte (brevi) e che oggi: “..non tanto per colpa mia quanto per colpa dei tempi, è sconnessa, va – come direbbero i francesi – dal gallo all’asino, e riflette la natura liquida di questi (ultimi) quindici anni”. Se è lui a dirlo dovremmo quantomeno credergli, e che invece nulla risulta di più concettualmente ordinata di questa. Figuriamoci se ‘il professore’ avrebbe mai potuto mettere assieme qualcosa di sconclusionato che lo riguardasse in prima persona. Comunque crediamocgli utilizzando quel suo senso autocritico che lo vedeva sempre insoddisfatto e compiaciuto di esserlo, fino a fermare la rotativa di stampa dei suoi libri per cambiare una frase o il finale di una storia solo perché non gli piaceva. Ma come sappiamo è questa una pratica solo dei ‘grandi’ e solo a loro giustamente concessa.

Un avvertimento al lettore riguarda il titolo, ripreso dalla citazione dantesca (Inferno, VII,1) che fa pensare a una sorta di ‘vademecum satanico’ cui solo Eco sarebbe stato capace di redarre; ed anche la ragione, io credo, per cui molti lettori si astengano dallo sfogliare, per paura forse di esserne contaminati fino a perdersi nei labirinti della sua ragionevolezza (difficoltà di lingua, argomentazioni occulte ecc.) dei suoi precedenti libri. Tutt’altro, siamo qui di fronte a alle fusa di un gatto sornione fin troppo arguto e bizzarro nelle sue scelte e nei suoi lazzi che, nelle pur brevi pagine (minimal stories) delle sue ‘cartine’, riesce a introdursi nelle vene della società pulsante di vita, utilizzando una nota definizione del sociologo Zigmunt Bauman (*) riferita alla ‘società liquida’, essere invero uno stilema della modernità che ci è data di vivere in questo terzo millennio.

“C’è un modo per sopravvivere alla liquidità? C’è, ed è rendersi appunto conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti. Ma il guaio è che la politica e in gran parte l’intellighenzia non hanno ancora compreso la portata del fenomeno.Anche per questo Bauman rimane per ora una ‘vox clamantis in deserto’” - scrive Eco, e l’insegnamento potrebbe sembrare non pertinente con la missione del professore, ma che certamente lo è, in quanto Eco è stato un insegnante di vita la cui esperienza lo ha portato a discernere, nella completezza dello scibile universale, quella che ha dimostrato essere la sua erudizione a tutto tondo e non un semplice opinionista da strapazzo come quelli che spesso si gongolano sui canali televisivi, capaci di parlare a senso unico su questo o quell’argomento. Cioè di tutto e su tutto senza sapere (a volte e sempre più spesso) neppure di quello cui stanno parlando. Che ci si chiede se non farebbero meglio a starsene zitti (?)

(Abbrevio)
“I giornali sono spesso succubi della rete, perché ne raccolgono notizie e talora leggende, dando quindi voce al loro maggiore concorrente – e facendolo sono sempre in ritardo su Internet. Dovrebbero invece dedicare almeno due pagine ogni giorno all’analisi di siti Web (così come si fanno recensioni di libri <che pochi leggono> o di film <che nessuno vede>, indicando quelli virtuosi e segnalando quelli che veicolano bufale o imprecisioni. Sarebbe un immenso servizio reso al pubblico e forse, anche un motivo per cui molti nevigatori in rete, che hanno iniziato a snobbare i giornali, tornino a scorrerli ogni giorno. (..) È un’impresa certamente costosa, ma sarebbe culturalmente preziosa, e segnerebbe l’inizio di una nuova funzione della stampa”.

Eco centra quasi con mira infallibile il problema o un dubbio contestabile pur esistente in noi esseri sociali offrendoci spesso un possibile sguardo risolutivo nei risvolti inclusivi dei diversi ‘capitoli’ che formano il corpus narrante. Per così dire ‘liquifacendoli’ dentro un linguaggio accessibilissimo a tutti, comprensivo di religione e filosofia, razzismo e odio, morte e miracoli, educazione e scuola, letteratura e poesia, stupidità e follia, politica e potere, cinema e musica, Web e telefonini, vecchiaia e ricambio generazionale, Europa e il resto del mondo, e non si ferma qui, tant’altro e tale è ogni volta l’incognita del suo spaziare che riesce a smuovere il pensiero del lettore, finanche in inezie da megalomane, di cui forse non si sarebbe mai preoccupato. Ma che invece investono tutti in ogni momento della giornata e della notte, in quanto riguardano la vita di tutti i giorni, le necessità e le esigenze di noi esseri sociali (ed anche di asociali) nel vivere comune.

Umberto Eco (come pochi altri) ha dato e può ancora darci lezioni (attraverso i suoi scritti) su quel che siamo noi italiani, su ciò che siamo capaci di inventare, di creare artisticamente parlando, anche di fare autocritica ma soltanto quando chi vuole insegnarci qualcosa ha le palle per farlo, allora tanto di cappello. Mi chiedo cosa avrebbe scritto Eco sulle ultime vignette apparse su Charlie Hebdo, lui che spesso citava il buon gusto dei cugini francesi? Ma forse ne avrebbe riso, valutandola una scivolata del bon ton che alla fin fine non può offenderci, perché tocca delle verità che egli stesso avrebbe condiviso. Magari individuando nelle ragioni di una simile caduta di stile, quelle che sono le pecche di una Nazione addormentata che sta ancora in piedi crogiolandosi sulla grandeur del Re Sole usando gli stecchini da tavola per tenere gli occhi aperti.

Davvero interessante la sua affermazione sullo stato della follia che imperversa questo primo ventennio del secolo: “Però mi pare abbia scritto una volta Saul Bellow che in un’epoca di pazzia credersi immuni dalla pazzia è una forma di pazzia. Quindi non prendete per oro colato le cose che avete appena letto”, sembra voler concludere questo lungo escursus letterario che lo riguarda e ci riguarda, ma non è la fine, è ancora del 2015 la cartina “Gli imbecilli e la stampa irresponsabile” che, strano a dirsi, assume maggiore validità in questi nostri giorni se riferita alle vignette di Charlie: “Mi sono molto divertito con la storia degli imbecilli del Web. Per chi non l’ha seguita, è apparso on line e su alcuni giornali che nel corso di una cosiddetta lectio magistralis a Torino avrei detto che il Web è pieno di imbecilli. È falso. La lectio era su tutt’altro argomento, ma questo ci dice come tra giornalisti e Web le notizie circolino e si deformino”.

(Abbrevio)
“Ammettendo che su sette miliardi di abitanti del pianeta ci sia una dose inevitabile di imbecilli, moltissimi di costoro una volta comunicavano le loro farneticazioni agli intimi o agli amici del bar – e così le loro opinioni rimanevano limitate a una cerchia ristretta. Ora una consistente quantità di queste persone ha la possibilità di esprimere le proprie opinioni sui social network. Pertanto queste opinioni raggiungono udienze altissime, e si confondono con tante altre espresse da persone ragionevoli. (..) Nessuno è imbecille di professione (tranne eccezioni) ma una persona che è un ottimo droghiere, un ottimo chirurgo, un ottimo impiegato di banca può, su argomenti su cui non è competente, o su cui non ha ragionato abbastanza, dire delle stupidaggini. Anche perché le reazioni sul Web sono fatte a caldo, senza che si abbia avuto il tempo di riflettere. È giusto che la rete permetta di esprimersi anche a chi non dice cose sensate, però l’eccesso di sciocchezze intasa le linee.”

Pronto … pronto … siete connessi? In fine, eccoci giunti ai saluti di rito, e voi …
“Ma che aspettate a batterci le mani!”



Note:
(*) Dario Fo e Franca Rame, ‘Ma che aspettate a batterci le mani’ e ‘Tutta brava gente’ di Carpi – Fo sono due spettacoli andati in scena negli anni ‘60/’70.
(*) Umberto Eco, ‘Pape Satàn Aleppe’ - Cronache di una società liquida – La nave di Teseo 2016.
(*) Zigmunt Bauman, ‘Modernità liquida’, Edit. Laterza 2002 - (ristampa 2015)

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- Società

Bla, bla, bla ‘la farsa va in scena’

Bla, bla, bla … La ‘farsa’ va in scena.

Ed eccoci alla svolta, la ‘farsa’ del rinnovamento del Parlamento che voleva essere all’insegna di una giovane elite di politici motivati, onesti (per dire non intrallazzoni), va in scena con una risma di attori (tecnici più che mai) che possiamo definire giovanili, spinti da velleità di potere e in qualche caso da interessi personali di far valere riscatti da passate amministrazioni. A incominciare da ‘primo attore’ (leggi premier) che si accinge a manovrare l’apparato delle carrucole e delle funi di un teatro senza quinte, sempre più somigliante all’antico Carro di Tespi dove pur accadeva che nel tragitto perdeva qualche pezzo per la strada. Niente da ridire ma certo c’èra da ridere quando qualche sventata comparsa improvvisava sul ‘canovaccio’ (la Costituzione) che doveva servire per la messa in scena.
Per quanto ne sia passata d’acqua sotto i ponti, le cose non sembrano affatto cambiate, gli sproloqui e le disaffezioni (del disimpegno politico) sono rimasti gli stessi: ‘saremo, diremo, faremo’ rimbombano sulla scena nelle piazze (e nei talk-show come nei comizi), senza spiegare con chi (?) e con quali mezzi (?). è la solita ‘farsa’ che tuttora rappresentata ha un esasperato carattere comico, spesso con qualche (si fa per dire) grossolanità pedestre a buon mercato, destinata unicamente a suscitare il riso con espedienti didozzinali e spesso di cattivo gusto. Ma se il cattivo gusto impera sulla bocca e nelle scelte degli italiani delle ultime generazioni, non è tollerabile che i politici (di dubbio corso), affidino alla ‘farsa’ priva di serietà costituzionale la loro cretina buffonaggine.
D’accordo, la farsa a teatro è per suo genere basata su situazioni e personaggi a dir poco stravaganti (per quanto non poi così dissimili dal vero) nei loro aspetti irrazionali. Tuttavia, più in generale, essi mantengono aspetti che in fine convergono entro un certo realismo ‘moralmente accettabile’. Ciò non toglie che sulla falsariga del goldoniano “Arlecchino servitore di due padroni” avremo un leader (falso) che dovrà barcamenarsi sugli ‘svarioni’ politicamente scorretti di due avidi improvvisatori / sputasentenze che si esibiscono sulla scena ‘per il popolo’, ‘per salvare questo paese’, ‘per amore dell’Italia’ ecc, ecc.
Niente di più falso se fra le righe del ‘canovaccio politico’ leggiamo quel che leggiamo. Va bene la ‘farsa’ ma che tutti gli altri (oltre loro due) siano tutti degli stupidi analfabeti, ce ne passa. Comunque lo spettacolo ‘must go on’ e noi (quegli altri) stiamo tutti qui a ridere come deficienti, davanti alla TV mentre va in onda un’altra puntata della Corrida che raccoglie il ‘peggio o il meno peggio’ della defiance mentale umana: “quel comportamento in cui ci si rifiuta di obbedire alle regole” o, almeno a quelle scritte in una costituzione civilmente accettata, nei diversi modi di ‘venir meno’, o nel senso di ‘far resistenza’, come la ‘sfida’ e lo ‘sprezzo’, ma anche con significato di ‘sfiducia’ nelle norme e nei valori che i diversi popoli (in primis gli italiani) si sono dati nell’Unione Europea.
È quanto realmente accaduto ai due suddetti attori/politici, i quali davanti a un insuccesso dei loro sforzi, hanno accusato una ‘defiance’, cioè una debolezza improvvisa, per aver ‘sudato sette camicie’ durante i giorni e le notti del loro impegno a formare un governo. Troppo per una vita spesa a non fare niente e che, memori della fatica dell’ozio passato, vogliono ‘distribuire uno stipendio’ (perché di questo si tratta), a tutti quegli infaticabili ma energici individui che gironzolano per le strade dello shopping a spendere i soldi di papà. Del resto gli esempi sono più che eccellenti, perché non lasciare che i ‘vecchi’ continuino a lavorare? Perché non lasciare che si dividano le poltrone, se è proprio questo che loro vogliono?
La rottamazione? Non conviene a nessuno, visto che un ultra ottattenne è chiamato (falsamente perché si è imposto da solo per la sua vanità e velleità eroica), ad occupare la poltrona più prestigiosa della finanza pubblica? E che poi si accontenta, senza vergogna alcuna, di fare l’usciere di un governo che traballa. O che un altro ottuagenario arcimiliardario che anziché godersi la sua vecchiaia ancora non si da per vinto d’essere arrivato alla stazione col suo treno imbandierato, dove però ormai non lo sta ad aspettare nessuno? Per non parlare della ‘in-giustizia’ in cui si barcamena il paese di Arlecchino, alla cui presidenza arriva un ‘azzeccagarbugli’, dott. Pettola o Duplica di manzoniana memoria, cioè d’infima levatura ( leggi senza arte né parte).
E visto che ci siamo, perché non parlare di quel dott. Balanzone a Ministro della Salute, del quale è chiamata a rivestire i panni sulla scena una donnina che, in mancanza dei baffi che contraddistinguono la maschera della vecchia Commedia dell’Arte, continua a sgranare gli occhi quantomeno perplessa, rivoltasi alla politica perché gli ‘altri’ non le lasciavano ‘spazio’ in corsia durante il giro di visita ai pazienti. Di fatto l’abbiamo vista all’opera, tenuta in disparte al seguito dei suoi mentori, mentre si arrabattavano nei corridoi fin troppo sfolgoranti del Parlamento dove accecati sbattevano contro le porte; come dire: ‘faccia di culo che non ha mai visto camicia la sporca di merda’ (vecchio detto sempre attuale).
Ma non è questo il problema, piuttosto è che a sporcarci siamo tutti noi che abbiamo creduto e optato per una scelta democratica che tenesse alti i valori della Costituzione, l’insieme di regole che fin qui hanno garantito a dare al paese quell’unità nazionale (mai raggiunta del tutto per i soliti furbetti del quartierino che si sono spartiti la torta alla faccia degli italiani), che pure essa, nello stipulare ‘i diritti e i doveri’ dei cittadini, prefissava dentro un modello/esempio di duratuta libertà e pace oltre le fazioni e le faide territoriali.
Che si sia sbagliato tutto? Che non si dovesse credere neppure a quei ‘principi’ fondanti he sia tutto da rimettere in discussione? Forse! Ma se a dirlo (anzi a pretenderlo con molta arroganza) sono coloro che abbiamo visto all’opera, che Iddio ce ne scampi e liberi al più presto, perché alla cialtroneria non c’è rimedio, si finisce tutti per vestire gli stessi panni (omologati) di ‘brutti, sporchi e cattivi’, solo che a farne le spese saremo comunque tutti noi, hai voglia di aspettare, come appunto nella ‘farsa’ arrivi Pantalone.

La ‘farsa’ prosegue nella prossima puntata.


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- Arte

Mario Compostella International Tattoo Fest

Mario Compostella all’International Tattoo Fest Napoli 2018
Dal 25 maggio alle 13:00 al 27 maggio alle 12:00

Insieme a quasi 300 tatuatori di fama nazionale e internazionale che saranno presenti nella cornice di grande fascino e bellezza in un contesto di puro divertimento che sarà l’International Tattoo Fest di Napoli 2018 in occasione della Mostra d’Oltremare, una delle più importanti e caratteristiche sedi fieristiche in Italia, l’artista Mario Compostella, presente con alcune sue opere di maggiore impatto visivo, rappresenta il fulcro di quella tradizione partenopea mai venuta meno che ritroviamo proiettata nel futuro della contemporaneità.
Le motivazioni che lo hanno spinto a partecipare all’International Tattoo Fest Napoli 2018, sono molteplici. In primis la volontà dell’artista di confrontarsi con altri ‘creatori di immagini’, decoratori visionari, artisti con l’arte tra le mani ecc. che indubbiamente rappresentano il meglio dell’arte creativa presente sulla scena. Quale miglior location dell’International Tattoo Fest di Napoli, dunque, se non quella che vede numerosi spazi appositamente dedicati , dove incontrare artisti di strada, balli e giochi di animazione e aree per il relax e il ristoro, e altri destinati ai manufatti della tradizione artistica partenopea e non solo.

Ma lasciamo che Mario Compostella ci parli della sua attività artistica:

Professionalmente nasco nel laboratorio di artigianato artistico di famiglia Ditta Arte Compostella, dove prima mio nonno e poi mio padre costruivano e restauravano arredi classici decorandoli con oro a foglia, l’inestimabile patrimonio di tecniche, manualità e conoscenza che mi sono state tramandate sono la genesi della mia espressione artistica, che inizia ufficialmente nel 1994.
Nel 1997 il mio laboratorio è inserito nell’Itinerario delle botteghe storiche nell’ambito del Maggio dei Monumenti, nell’anno 2000 partecipo alla Mostra di Artigianato Religioso in Pompei, dove sono premiato dai Lions Club International Pompei Host per qualità e raffinatezza delle opere esposte.
In questi anni decoro alberghi di lusso tra cui: Grand Hotel Parker’s, Excelsior, Grand Hotel San Francesco al Monte, fornisco teatri per arredi di scena tra cui: Opera Buffa del Giovedi Santo del Maestro Roberto De Simone, Tartufo di Tony Servillo, restauro arredi del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella e dell’istituto Nazionale di Previdenza Sociale.
Nel 2006 partecipo al Columbus Day in New York, nel 2007 all’Italian Lifestyle in Emirates e nel 2008 al 5° concorso internazionale 'Il Mobile Significante' promosso dalla Fondazione Aldo Morelato in queste manifestazioni decido di presentare i miei nuovi lavori di design e ricerca, il consenso e le discussioni che ne seguono, producono una serie di eventi e iniziative ampliando di fatto il mio ambito professionale.
Nel 2011 la mia prima mostra personale ‘la materia della memoria’ nell’ambito del Forum delle Culture, 2012 ‘decorAZIONI’ che ha come location la Cattedrale di Caserta nel borgo medioevale, 2014 ‘Le sette Madonne’mostra itinerante nel percorso della Napoli Sotteranea, nel 2015 Istitut Francais di Napoli espongo il ‘Trono Itinernate’ dal quale segue un importante pubblicazione sulla rivista Rencontres dal titolo ‘La via dell’oro’, imperniato sul mio percorso artistico.
Nel 2016 sono nominato Fornitore Ufficiale della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie. Nel 2017 progetto e realizzo ‘La Macchina dell’Energia e ‘Il giardino dei Chakra’ per il I International Reiki Festival di Ferla (SR).
Ed ecco che in occasione dell’International Tattoo Fest Napoli 2018, decido così di realizzare una grande pannellatura luminosa di 2 metri per 1 raffigurante PACESOTERICO, prendendo spunto dal video game degli anni 80 Pac Man, sostituendo i personaggi famosi con elementi naturali come il sole, la luna, la morte, proponendo un percorso labirintico in cui rappresento il ‘ciclo della vita’. Le figure sono realizzate in alluminio a fogli lavorati con tecnica a sbalzo, il metallo punzonato e bordate con chiodi in ottone.
Continuando a giocare con questi elementi Pop oramai metabolizzati nella nostra cultura, ho realizzato inoltre una ristretta collezione di mummie partendo da alcuni pupazzi di gomma degli anni 70 della Walt Disney, utilizzando piccole bende di cotone e colla naturale le ho rivestite e messe in campane di vetro decorandone la base in legno tornito con una incisione a rombo alternata con colori e foglia dorata, ciò mi riporta inconsciamente ad un linguaggio popolare che da estetico decorativo si proietta in un cosmo mistico di rilevanza esoterica.

Altre cose con le quali partecipo sono le mie classiche formelle in legno in cui incido elementi Sacri, Orientali, Zodiaco. Talismani. Paesaggi, come San Michele, appare su di una antica tavola di legno incisa e decorata con foglia di oro 22 carati applicata con tecnica a guazzo e lucidata a mano, qui il linguaggio figurativo è intrinsecamente legato al linguaggio del corpo, quel corpo di cui le mani fanno parte e che sapientemente generano un’immagine sacro-mitologica.
Infine una serie di specchi, cornici e paraventi in cui la decorazione, le dorature, i colori diventano elementi principali di dialogo visivo nel quale il riconoscimento e la sua lettura, nasce per riflesso di memoria culturale.
Diverso è invece il linguaggio strettamente simbolico di tipo ‘totemico’ che una certa oggettivazione visiva, non sempre di facile interpretazione, è parte del retaggio di una tradizione artistica e devozionale attribuita all’arte tout court , una lontana funzione magica, che si riconduce alla terra e al popolo ‘elettivo’ per eccellenza, in quanto possessore della chiave che ha reso l’‘homo faber’ napoletano artefice di se stesso nell’esplicare al meglio le proprie facoltà intellettive e comunicative che, da sempre e nel tempo, ha dato impulso alla propria creatività. Sia nel senso della conservazione della passata ‘memoria’, afferente ai mestieri più antichi dell’utilizzo dei materiali primari; sia al rinnovamento dei ‘tratti distintivi’ dello stile e delle nuove forme espressive del nostro tempo.

Mario Compostella … ‘o la memoria creativa del tempo’, in larecherche.it
Per quanto la ‘napoletanità’ non sia scevra da queste connotazioni più profonde, tuttavia è nella spontaneità di ‘vivere’ che in essa si rispecchia la sua più grande esperienza connotativa e filosofica: in quel ‘saper fare’ che vale qui la pena di sottolineare, in cui va ricercato l’esito di quella che è un’acquisita esperienza deduttiva, quel suo ‘fare creativo’, costitutivo di un voler guardare oltre il presente e che, ancor più, si apre al futuro e che sono connotative dell’arte di Mario Compostella, un ‘homo faber’ a tutto tondo, in cui la ‘creatività napoletana’ si ripropone con evidenza, sia nei manufatti artigianali sia nella sua recente produzione artistica. Si è qui costantemente partecipi di eventi risalenti a origini antropologiche che richiedono una colta rivisitazione o, comunque, una ricerca culturale che scandagli nel fondo ‘occulto’ delle scienze esoteriche e filosofiche. In quel simbolismo ‘creato dall’uomo per l‘uomo’ ancora non del tutto smarrito che accompagna il nostro vivere quotidiano e che, in qualche caso, restituisce ‘senso’ a ciò che forse senso non ha, o per meglio dire, allevia e/o appaga l’umana ragione di essere al mondo,
Ed è pur questo il mondo magico in cui ‘lavora’ e si ‘esprime’ Mario Compostella, il giovane artista del ‘fare’ che accomuna all’elemento tempo la sostanza allegorica dell’operosità creativa; all’essenzialità poetica dell’immagine l’umiltà del mestiere e la preziosità dell’arte. Ed è lui che oggi andiamo a conoscere nella sua operosa essenzialità. E sia che si tratti dell’esperienza artistica nei suoi ambiti diversi, in quanto Mario Compostella è inoltre maestro d’arte applicata al restauro, nonché disegnatore di architetture e arredamento d’interni, o di scenografie per il teatro. Quanto il suo dare ‘vita alle forme’, al suo desiderio di soddisfare la propria aspirazione nel mondo della percezione, o ai suoi ‘fantasmi creativi’ (composizioni artistiche, immagini pittoriche e non solo), spesso utilizzando materiali recuperati, o per meglio dire: ‘rubati alla terra’, come terre e pietre, corde e legni, metalli poveri o preziosi come l’oro.
Ed è alla mano operosa dell’artista che si fa qui ricorso. Egli è infatti maestro doratore, una professione che gli giunge da lontano, almeno da tre generazioni di fattivo lavoro che risale al suo bisnonno e chissà da quale frequentazione ‘in illo tempore’ dell’estrazione dei metalli. I suoi attrezzi più frequenti sono il pennello, la cera, la gomma, la matita, una quantità di spatole e spatoline, lo scavino, lo scalpello, la punta di bulino per incidere sul metallo. Ancor più gli ‘occhi’ e le ‘mani’, prima ancora dell’afflato ultimo che le riveste: esoterico-allegorico, per voler dire ‘intimo e riservato’ che trasforma le sue creazioni in ‘immagini’ insostituibili dell’umana vicinanza al divino (come ad esempio le sue rivisitazioni sacre); o quelle di un creato astrale (come le sue visioni cosmiche), così vicino a noi da lasciare stupefatti per la ‘bellezza’ che in esso si esprime.
È dunque nel ricreato mondo di una certa ‘bellezza’ che l’artista Mario Compostella esprime la sua sollecitudine alla riscoperta dei ‘segni’ che più coincidono con la nostra sensibilità d’interlocutori attenti e volitivi, sempre alla ricerca di avvalorare certe intuizioni nascoste, quelle significazioni illuminanti che ricreino l’emergere di un senso nuovo, seppure destinato a smarrirsi nella fuga delle definizioni. E lo fa nel comporre, levigare, cesellare, delineare l’indefinito e addirittura, in certi casi, l’indefinibile.
Per quanto, essendo ciò quel che vi è di più avvalorante, ha anche sempre a che fare con la sua sensibilità e quindi con il sentimento poetico del ‘fare’ che si fa ‘verbo’, capace di quell’originalità che trasforma ogni suo momento creativo. E che si tratti dell’amore, del sogno, del coraggio o della paura, così come del giorno e della notte, della guerra e della pace o di qualche altro tema di una lista infinita, alla fin fine egli pur ci parla di noi, e lo fa in modo semplice (mai banale), di ciò che siamo e che trascende dalla nostra ostinata esistenza nell’universo, di quell’‘uomo del fare’ che dapprima esternò nel ‘segno’ la propria inclinazione artistica.

Mario Compostella vive a Napoli, dove gestisce il Laboratorio d’Arte e Restauro in qualità di Maestro artigiano e d’arte applicata, Perito-Esperto in doratura e argentatura a foglia, Disegnatore di architettura, arredamento d’interni e scenografie per il teatro.
Contatti:
www.mariocompostella.it
info@mariocompostella.it inoltre su facebook e youtube.

L’evento si svolgerà in occasione della Mostra d’Oltremare di Napoli, nella zona di Fuorigrotta ed è facilmente raggiungibile da qualunque parte del capoluogo campano. Dal 25 maggio ore : 13:00 al 27 maggio ore : 22:00 presso i padiglioni della Fiera:Padiglione 10 e Giardino dei Cedri - Piazzale Tecchio - Napoli, 80125

Contatti:
http://www.tattoofestnapoli.com
INTERNATIONAL TATTOO NAPOLI S.R.L.
Telefono: 0818854876 - Email: info@tattoofestnapoli.com
Sito web: www.tattoonapoliexpo.it









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- Cinema

Cannes il Palmares e oltre

CANNES 2018 in collaborazione con Cineuropa
La Palma d'Oro per ‘Shoplifters’
di Fabien Lemercier

19/05/2018 - CANNES 2018: Il film di Hirokazu Kore-eda si aggiudica il titolo più importante. Nel palmarès anche gli italiani Alice Rohrwacher e Marcello Fonte, il polacco Pawel Pawlikowski e Jean-Luc Godard. E’ la combinazione di emozione e finezza ad aver guidato la giuria presieduta da Cate Blanchett visto che la Palma d'Oro del 71° Festival di Cannes è stata assegnata al sottilissimo Shoplifters del giapponese Hirokazu Kore-eda. Presente per la quinta volta in concorso, il cineasta era stato già premiato due volte (premio della giuria nel 2013 e attraverso l’interpretazione maschile nel 2004) e porta nel suo paese una quinta Palma d’Oro.

Il cinema europeo è ampiamente rappresentato nel palmarès di questa edizione 2018. Una Palma d’Oro speciale è comparsa per la prima volta nel palmarès, ricompensando l’incredibile Le Livre d’image dello svizzero Jean-Luc Godard (87 anni), prodotto dagli svizzeri di Casa Azul Films e i francesi di Ecran Noir Productions; le vendite sono guidate da Wild Bunch.Il premio per la regia è andato molto giustamente al polacco Pawel Pawlikowski per Cold War, un’opera prodotta da Polonia (Opus Film), Regno Unito (Apocalypso Pictures) e Francia (mk2 che gestisce anche le vendite internazionali).

Il cinema italiano ha vinto due volte. Il premio dell’interpretazione maschile è andato al bel lavoro del buster-keatoniano Marcello Fonte in Dogman di Matteo Garrone, un film prodotto da Archimede con i francesi di Le Pacte, e venduto dalla Rai. Il premio della sceneggiatura (ex-aequo) è stato attribuito ad Alice Rohrwacher per Lazzaro felice. Già vincitrice del Grand Prix nel 2014 (con Le meraviglie), la cineasta 36enne prosegue la sua ascesa, ed è appena al suo terzo lungometraggio. Prodotto da Tempesta con Rai Cinema, gli svizzeri di Amka Films Productions, i francesi di Ad Vitam e i tedeschi di Pola Pandora Filmproduktion.

I vincitori dei premi della 71a edizione del Festival di Cannes:

Palma d'Oro
Shoplifters - Hirokazu Kore-eda (Giappone)
Palma d'Oro Speciale
Le Livre d'image - Jean-Luc Godard (Svizzera/Francia)
Grand Prix
BlacKkKlansman - Spike Lee (Stati Uniti)
Premio alla regia
Pawel Pawlikowski - Cold War (Polonia/Regno Unito/Francia)
Premio all'interpretazione femminile
Samal Yeslyamova - Ayka (Russia/Germania/Polonia/Kazakistan/Cina)
Premio all'interpretazione maschile
Marcello Fonte - Dogman (Italia/Francia)
Premio alla migliore sceneggiatura (ex-aequo)
Alice Rohrwacher - Lazzaro felice (Italia/Svizzera/Francia/Germania)
Jafar Panahi - Three Faces (Iran)
Premio della giuria
Capharnaüm - Nadine Labaki (Libano/Francia)
Caméra d'Or
Girl - Lukas Dhont (Belgio/Paesi Bassi)
Palma d'Oro al cortometraggio
All These Creatures - Charles Williams (Australia)
Menzione speciale
On the Border - Wei Shujun (Cina)

Mentre a Cannes vengono consegnati i premi per i migliori film in concorso, non possiamo non rivolgere uno sguardo appassionato al film di chiusura del festival ‘The Man Who Killed Don Quixote’ di Terry Gilliam che in fine ha vinto la sua battaglia epocale portando il suo progetto a Cannes 2018 e ora può finalmente, dopo 25 anni, consegnare al pubblico la sua personale e tormentata visione del classico di Cervantes.
Il film è stato presentato fuori concorso al 71º Festival di Cannes il 18 maggio 2018, come film di chiusura del festival. Originariamente avrebbe dovuto concorrere per la Palma d'oro, ma lo scoppio di una causa legale tra Gilliam e l'ex produttore Paulo Branco, ha costretto i produttori a rimuovere il film dalla competizione. Verrà distribuito nelle sale cinematografiche francesi da Océan Films a partire dal 19 maggio 2018.

“The Man Who Killed Don Quixote” è un film co-sceneggiato e diretto da Terry Gilliam. Liberamente ispirato al Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, il film è noto come uno dei più estremi esempi di development hell della storia del cinema, con ben otto tentativi di realizzazione da parte del regista nell'arco di quasi vent'anni.

"The Man Who Killed Don Quixote" articolo di Alfonso Rivera per Cineuropa18/05/2018 - CANNES 2018:
L’approccio di Terry Gilliam all’universo della creazione più famosa di Miguel de Cervantes, opera tanto attesa quanto maledetta, è pieno di segni deliranti della sua identitàutti conoscono la lunga odissea della gestazione di questo film, ma a ricordarcelo è lo stesso regista, Terry Gilliam, con un cartello all’inizio di The Man Who Killed Don Quixote che dice come finalmente, dopo più di vent’anni di attesa, potremo godere della sua personale trasposizione del romanzo spagnolo più celebre di tutti i tempi, nato dalla penna e la mente di Miguel de Cervantes Saavedra.
Ci sarebbe da chiedere a Gilliam se ha incorporato i problemi personali dell'eterna elaborazione di The Man... nella sceneggiatura finale che si è potuta vedere in chiusura del 71° Festival di Cannes, perché la sua trama, che si svolge durante le riprese di una versione filmica del Don Chisciotte della Mancia, distilla nostalgia, critica verso i produttori (compresi russi e cinesi), giri impensabili e alcuni elementi biografici. Il protagonista, interpretato dall'americano Adam Driver, è questo regista che vedrà vari elementi – reali e immaginari, controllabili o meno – impedire che il suo progetto cinematografico si materializzi.

Il resto del film, su sceneggiatura di Gilliam e Tony Grisoni (già collaboratori in Tideland), segue le avventure del regista che scopre qualcosa che lo riporta al suo tentativo precedente di fare lo stesso film: i suoi passi lo porteranno a incontrare quell'uomo che, come Albert Serra in Honor de caballería, reclutava gente del villaggio per incarnare con vero realismo manchego l'ingegnoso hidalgo (interpretato qui dal gallese Jonathan Pryce, protagonista di quell'indimenticabile Brazil, che pure aveva qualcosa di donchisciottesco). E lì entrerà in una spirale delirante, in puro stile Gilliam, dove la realtà si confonde con la finzione, la follia con l'intelligenza e la frenesia con il nonsense.Irregolare ma con momenti affascinanti, folle e fantasioso come tutto il cinema del regista di Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo, The Man Who Killed Don Quixote – titolo che contiene uno spoiler grande come un mulino a vento – conquisterà i fan del regista nordamericano e infastidirà o persino irriterà gli spettatori più esitanti verso i suoi eccessi grandguignoleschi, ma dimostra che Gilliam, a 77 anni, rimane in gran forma e continua a costruire universi unici, divertenti, grotteschi e irripetibili.

In conclusione,il nuovo film, girato in maestosi scenari storici e naturali della penisola iberica e delle isole Canarie, oltre ad essere dedicato ai due attori che in precedenza hanno cercato di incarnare Don Chisciotte ai suoi ordini (John Hurt e Jean Rochefort), si erige come un'ode all'inconscienza necessaria per vivere, creare e, soprattutto, fare film. Terry Gilliam lo sa bene e lo dimostra felicemente in quest'opera festosa, rischiosa, spericolata, combattiva e quasi testamentaria.
The Man Who Killed Don Quixote, con la colonna sonora composta da Roque Baños e la direzione della fotografia di Nicola Pecorini, è una produzione europea tra Spagna, Portogallo, Regno Unito e Francia delle compagnie Tornasol Films, Kinology.

Trama
Un vecchio impazzito si convince di essere Don Chisciotte e scambia il giovane consulente pubblicitario Toby per il suo fedele scudiero Sancho Panza. I due si imbarcano quindi in un viaggio bizzarro e allucinato, sospeso tra i giorni nostri e un magico XVIII secolo. Tuttavia, come già accaduto al vecchio cavaliere, anche Toby inizia a venire gradualmente consumato dalle illusioni che si crea, rischiando di non saper più distinguere i sogni dalla realtà.

Riprese del primo film.
La pre-produzione del film venne avviata per la prima volta nel 1998, con Jean Rochefort come Don Chisciotte e Johnny Depp nel ruolo del co-protagonista Toby Grisoni. Le riprese cominciarono nel 2000 in Spagna con un budget di 32 milioni di dollari, ma, a causa di vari contrattempi e problemi finanziari, della distruzione di alcuni set e materiali dovuta a un'alluvione improvvisa e dell'abbandono di Rochefort per problemi di salute, il film venne cancellato in fase di riprese. Il materiale girato fu poi riutilizzato per la realizzazione del documentario Lost in La Mancha (2002), che ripercorre le vicende della travagliata produzione del film. L'intero film si sarebbe dovuto girare in Spagna e in altre parti dell'Europa. Le riprese iniziarono nel settembre del 2000 in una zona deserta a nord di Madrid, vicino ad una base militare. Sarebbero terminate entro il 2001. A causa di enormi problemi (ad esempio il costoso set della pellicola che venne danneggiato da un violentissimo nubifragio), in particolar modo riguardanti la salute del protagonista Jean Rochefort, sofferente a causa di una doppia ernia del disco ed una prostatite, le riprese vennero immediatamente interrotte. Solamente Johnny Depp e il protagonista girarono qualche scena. Le poche riprese del film finirono nel documentario Lost in La Mancha.

In seguito al fallimento del progetto, Gilliam perse i diritti della sceneggiatura, recuperandoli solamente nel 2006. Tra il 2006 e il 2016, la pre-produzione ricominciò a più riprese, con periodici cambiamenti nel cast e nella sceneggiatura: Robert Duvall, Michael Palin e John Hurt si succedettero nel ruolo di Chisciotte, mentre Depp, Ewan McGregor, Jack O'Connell e Adam Driver in quello di Grisoni. Tuttavia i tentativi di Gilliam si rivelarono puntualmente fallimentari a causa delle difficoltà a finanziare nuovamente il progetto e al conciliare la disponibilità degli attori. Nel 2017 il film riuscì definitivamente ad entrare e a completare con successo la produzione, con Jonathan Pryce nel ruolo di Chisciotte e Adam Driver nuovamente come Grisoni, diciannove anni dopo l'inizio della produzione originale.
Primo sviluppo (1998-2000). Nel marzo 2000 il regista Terry Gilliam ebbe la conferma dai produttori per la realizzazione del film. Il progetto del film era assai ambizioso, con un budget di più di 32 milioni di dollari e sarebbe stato tra le più costose produzioni cinematografiche realizzate con fondi esclusivamente europei (Spagna, Francia e Regno Unito). I realizzatori del film incompiuto sarebbero stati Terry Gilliam alla regia, Rene Cleitman e José Luis Escolar come produttori, Bernard Bouix come produttore esecutivo, Gilliam e Tony Grisoni alla sceneggiatura, Nicola Pecorini come direttore della fotografia, Benjamín Fernández alla scenografia, Gabriella Pescucci e Carlo Poggioli per i costumi.

Sceneggiatura
Data la vastità del materiale letterario di Cervantes (il celebre romanzo picaresco Don Chisciotte della Mancia), Gilliam e lo sceneggiatore Tony Grisoni pensarono di riadattare la storia ispirandosi al romanzo Un americano alla corte di Re Artù di Mark Twain. Nel nuovo soggetto Sancho Panza, lo scudiero di Don Chisciotte, sarebbe dovuto apparire solo all'inizio, per poi esser sostituito da Toby Grisoni, un uomo del ventunesimo secolo scaraventato indietro nel tempo, che il protagonista avrebbe confuso per Panza.

Cast
Nel marzo del 2000 Johnny Depp fu scelto per interpretare Toby Grosini dallo stesso regista, dopo gli ultimi successi insieme. La parte di Don Chisciotte venne affidata all'attore francese Jean Rochefort, il quale ha dovuto imparare l'inglese in sette mesi di preparazione. Rochefort e Depp furono gli unici a girare alcune scene (escludendo le comparse).Il resto del cast scelto, che non ha avuto modo di recitare, sarebbe stato composto da Vanessa Paradis nel ruolo di Altisidora (riuscì solo a fare le prove per i costumi e per il trucco), Miranda Richardson, Ian Holm, Jonathan Pryce, Christopher Eccleston, Bill Paterson e Peter Vaughan.

Cancellazione
Come mostrato nel documentario Lost in La Mancha, le prime riprese in location furono in una zona deserta a nord di Madrid, vicino ad una base militare. Come primo problema ci furono i jet F16 che volavano in continuazione sopra il set, rendendo le registrazioni degli attori incomprensibili. La situazione non era molto grave: il tutto si sarebbe sistemato grazie al doppiaggio in post-produzione. In seguito la troupe venne colpita da un nubifragio, che rovinò l'equipaggiamento e ridusse il terreno un pantano: per alcuni giorni fu impossibile tornare sul posto. Una volta ritornata, la troupe si trovò davanti ad uno scenario completamente diverso: le dune desertiche, che caratterizzavano la location, erano quasi del tutto sparite ed il colore del terreno era cambiato.
Poi l'improvvisa partenza di Jean Rochefort, costretto a tornare a Parigi a causa di un'infezione alla prostata: la produzione attese il ritorno di Rochefort, concentrandosi su scene che non lo coinvolgevano ma a pochi giorni di distanza divenne chiaro che il ritorno dell'attore sarebbe stato difficile. Quest'ultimo fatto fu un duro colpo per Gilliam; aveva speso due anni per trovare l'attore giusto per Don Chisciotte, più altri sette mesi serviti a Jean Rochefort per imparare l'inglese. La produzione venne cancellata. Dopo l'annullamento della produzione, le compagnie di assicurazione si sono impossessate della sceneggiatura e hanno risarcito gli investitori della pellicola, con circa 15 milioni di dollari.

Tentativi successivi (2005-2016)
Nel 2002 iniziarono a circolare alcune indiscrezioni che volevano una possibile ripresa della produzione, forte del sostegno di Gilliam e dei suoi investitori. Nel 2005 il produttore Jeremy Thomas (Tideland - Il mondo capovolto) espresse la propria personale convinzione secondo cui il film avrebbe dovuto essere realizzato. Nel 2008 Gilliam e Thomas annunciarono d'essere riusciti ad avviare un preliminare sviluppo per un film completamente nuovo, lasciando alle spalle il materiale girato anni or sono e riformulando il personaggio di Rochefort. Gilliam spiegò d'aver pensato a Robert Duvall per Don Chisciotte, affiancato forse da Johnny Depp visto il suo attaccamento al progetto.
A causa di alcuni ritardi della produzione dovuti a problemi non meglio specificati, Depp annunciò che in base al contratto stipulato in precedenza con la The Walt Disney Company, per la quale avrebbe dovuto partecipare a due pellicole della casa, avrebbe molto probabilmente contribuito a dilungare ulteriormente i tempi già lenti della realizzazione e che per questo forse stava decidendo di uscire definitivamente dal film.

Dal momento che i produttori annunciarono le riprese entro l'inizio del 2010, l'attore acconsentì a rimanere pur ammettendo che nel suo calendario lavorativo avrebbe dovuto sapere nello specifico le date di produzione per poter rendere un suo reale e sicuro coinvolgimento. Si pensò a Colin Farrell per sostituirlo. Nel 2009 il film entrò in piena preproduzione. Dopo aver richiesto ed ottenuto la riconcessione dei diritti della sceneggiatura, Gilliam iniziò a lavorare sulla sceneggiatura insieme a Tony Grisoni nel gennaio 2009, dicendosi speranzoso di terminarla entro un mese. Jeremy Thomas fu incaricato della produzione via Recorded Picture Company. La vendita dei diritti di distribuzione internazionale fu affidata alla HanWay Films. Ewan McGregor fu inoltre confermato nel cast artistico. Il 5 settembre 2010 la rivista Variety riportò le dichiarazioni di Terry Gilliam, il quale aveva rivelato poco tempo prima che a causa della mancanza di fondi la produzione era collassata un mese prima circa (ad agosto), poche settimane prima dell'inizio di riprese, provocando quindi il rinvio a tempo indeterminato della lavorazione. Comunque, Gilliam tenne a precisare che altre procedure importanti, come la selezione del cast artistico, erano terminate, con Duvall a svolgere il ruolo principale e McGregor ad affiancarlo e che la ricerca di nuovi investitori era appena partita.

Secondo sviluppo (2017)
Il 16 luglio 2016, in un'intervista, lo stesso Gilliam annuncia che le riprese partiranno ad ottobre in Spagna. Le riprese, iniziate il 27 febbraio 2017 e concluse il 4 giugno, si sono tenute alle Isole Canarie, Convento dell'Ordine di Cristo, San Martín de Unx, Castiglia-La Mancia, Gallipienzo e Olite. Nella versione finale, che arriva al festival in chiusura e contemporaneamente nelle sale francesi, è Jonathan Pryce a interpretare il cavaliere errante e Adam Driver il suo scudiero Sancho Panza, ma l'identità dei personaggi cambia in tutto il corso del film. Che inizia con le immagini di un Don Chisciotte che lotta con un mulino a vento ma altro non è che uno spot commerciale che il regista di fama mondiale Toby Grisoni (Driver) sta girando nella campagna spagnola. Mentre il set è in preda al caos e i vari assistenti discutono su come realizzare gli effetti speciali Toby ritrova per caso un vecchio suo film, L'uomo che ha ucciso Don Chisciotte, realizzato dieci anni prima insieme a degli amici come saggio della scuola di cinema.

Tornando nel piccolo paesino dove aveva girato il suo filmino in bianco e nero, Toby ritroverà alcuni di quelli che erano apparsi nel suo "progetto del cuore", se chi faceva Sancho è morto per cirrosi, Javier il ciabattino "con una bella faccia" ha invece perso il senno e vive ai margini del paese interpretando il suo show per i turisti. Toby suo malgrado finirà in una serie di avventure rincorrendo Javier - Don Chisciotte entrando e uscendo dalla realtà in una sorta di andirivieni tra il passato, la sua ricostruzione in forma di spettacolo e il presente fatto di produttori alla continua ricerca di clienti (Stellan Skarsgård), magnati della vodka russa (Jordi Mollà) e donne del boss (Olga Kurylenko). Toby ritroverà anche la ragazzina che aveva fatto debuttare quindicenne nel suo film amatoriale Angelica e che oggi è una donna vittima della prepotenza di un uomo potente. Il film non ha ancora una distribuzione italiana ma dopo la decisione della corte di Parigi potrebbe arrivare presto.

Note d’autore:
Eccoci proiettati nel fulcro del lavoro di una troupe cinematografica, con le sue priorità esecutive, le sue difficoltà di dover stare dentro i tempi programmati, nonché il budget prefissato dai finanziatori, gli imprevisti dalla produzione, gli immancabili problemi tecnici da affrontare, la preparazione più o meno capace della manovalanza di affrontare un lavoro di gruppo, ed ancor più placare le turbolenze personali degli attori. Ma non è tutto, il regista, sulle cui spalle gira tutto questo mondo artato di capacità, cambia talvolta idea ed improvvisa, secondo il momento e le opportunità che gli si presentano sul set, la sequenza delle scene, cambiando inoltre palinsesto e la trama che lo sceneggiatore ha messo sulla carta. Ecco che allora si presenta la possibilità di dover cambiare il tutto nel giro di ore, di giorni, quanto di dover rinunciare alla sua produzione.
Questo è l’incredibile lavoro messo in evidenza in quello che in primis era destinato a rimanere una lezione di ‘regia’ di alto livello didattico per tutti coloro che si avvicineranno al cinematografo, in cui di Terry Gilliam, solo in parte ‘seriamente divertito’cui lo si vede in “Lost in La Mancha” destinato a entrare nella storia del cinema come il ‘primo documentario sulla mancata realizzazione di un film’. “Concepito inizialmente come veicolo promozionale da distribuire prima della sua uscita nelle sale cinematografiche, il film ha una caratteristica che lo rende diverso da tutti gli altri documentari appartenenti allo stesso genere. In esso, invece di mostrarci una versione edulcorata di quello che succede ‘dietro le quinte’, si narra la storia di un film mai realizzato, le cui immagini ‘uniche e complete’ mostrano l’aspetto più duro del mestiere del cinema”.

In realtà definire “Lost in La Mancha” un documentario è davvero restrittivo quando la sua visione completa è quella di un ‘lungometraggio’ a tutti gli effetti, la cui validità d’intenti supera di gran lunga certi film pre-confezionati. “Attraverso conflitti personali e catastrofi bibliche, il film è un’accurata e fedele rappresentazione della disintegrazione e del fallimento di un progetto e riesce a cogliere tutto il dramma della storia attraverso interviste sul posto e riprese fatte dalla privilegiata posizione di spettatore non visto. Le idee di Terry Gilliam prendono vita nei disegni animati commentati dalla voce del c-sceneggiatore Tony Grisoni e dallo stesso Gilliam. Infine, i provini filmati dei protagonisti e i giornalieri degli unici sei giorni di riprese, ci danno un assaggio dello spettacolo cinematografico che avremmo potuto vedere, se le cose fossero andate come si deve”. Il risultato finale ci restituisce in breve tutta la grandezza del Gilliam regista, la sua mente immaginifica, la sua capacità sollecitativa nell’utilizzo degli attori, lo straordinario evolversi della trama come di una ‘variazione’ costante della partitura originale, capace di coinvolgere ed emozionare anche lo spettatore più distratto dagli eventi d’una trama che, per quanto si voglia, appartiene alla grande letteratura mondiale, che pur lasciandosi modellare da tutte le esigenze registiche, dalle false mode letterarie che si susseguono nel tempo (500 anni), resta quel capolavoro comico-tragico che gli compete, apprezzato da tutte le generazioni.

“I due elementi – scrive un altro grande della letteratura mondiale Luigi Pirandello – li ritroviamo fusi in un’opera, che darà a questo mondo consistenza d’anima viva e lo chiamerà ‘Don Quijote’, in cui l’autore Miguel de Cervantes conferma le ragioni del passato di un mondo fantastico, in contrasto continuo e doloroso col presente. […] Don Quijote non finge di credere a quel mondo meraviglioso delle leggende cavalleresche: ci crede sul serio; lo porta, lo ha in sé quel mondo, che è la sua realtà, la sua ragion d’essere, per quanto sperduta nella realtà oggettiva della sua lungimiranza:

«Sì, dice Don Quijote, i molini a vento son molini a vento, ma sono anche giganti; non io, Don Qijote, ho scambiato per giganti i molini a vento; ma il mago Freston ha cangiato in molino a vento i giganti.»

Ma intanto, altro è fingere di credere, altro è credere sul serio. Quella finzione, per se stessa ironica, può condurre a un accordo con la leggenda, la quale, o si scioglie facilmente nell’ironia (della sorte), o con un procedimento inverso a quello fantastico, cioè con una impalcatura logica, si lascia rifurre a parvenza di realtà. e intanto noi ridiamo, ci commoviamo, continuiamo ad amare Don Chijote e Sancio Panza malgrado tutto quello che capita loro, anzi, ancor più ogni volta che succede qualcuna nuova disavventura. Più o meno ogni qual volta in Don Chijote vince la sua esuberanza. Come è accaduto, voglio sperare, ma ne ho la certezza all’ostinato Terry Gilliam regista del film, matto anche lui nel condurre la ‘sua avventura’ fino all’estremo, spingendo verso la definitiva vittoria le sue ridicole disavventure con la massima serietà.

“Noi – scrive ancora Pirandello – commiseriamo ridendo, o ridiamo commiserando”, ogni cosa di questo mondo ma il cinema si sa è anche un atto d’amore , e Gilliam sembra amare nel profondo i personaggi dei suoi film, che chiedono d’essere ascoltati nel ‘brivido drammatico’ e nel ‘comico emozionante’ della loro mascheratura. “Qualcuno, è vero, si è spinto fino a dire che la vera ragione del lavoro sta nel contrasto, costante in noi, fra le tendenze poetiche e quelle prosaiche della nostra natura, fra le illusioni della generosità e dell’eroismo e le dure esperienze della realtà. ma questa che, se mai, vorrebbe essere una spiegazione astratta del libro (da cui Gilliam ha tratto il film), non ci dà la ragione per cui fu composto”. Così come non ci restituisce le gioia infinita della speciale vittoria del regista che infine ha portato alla ribalta la sua avventura cinematografica.

Altro:
Tuttavia la mente torna ad un altro ‘capolavoro’ forse unico nella storia del cinema, afferente allo stesso soggetto ‘Don Chisciotte’ del regista Orson Welles autoprodotto e mai terminato per ragioni finanziarie:

“Come ho deciso di girare Don Chisciotte? – rispondeva così Orson Welles ai suoi intervistatori dell’epoca – È un po’, voi lo sapete, quello che è accaduto a Cervantes, che cominciò a scrivere una novella e finì per scrivere il ‘Don Chisciotte’. È un soggetto che non si può lasciare una volta che lo si comincia.”

La pellicola, o meglio, quanto era stato girato nel 1955 e per 14 anni successivi, fu per lunghissimo tempo creduta perduta, è stata ricostruita e montata dal maestro spagnolo Jess Franco che con lui collaborò in quegli anni, e ‘restituita alla luce’ nel 1992, regalandoci la possibilità unica di poter ammirare le geniali capacità artistiche di orson Welles cineasta, giustamente ricordato e ammirato ancora oggi dalle ultime generazioni come uno dei più grandi in assoluto della storia del cinema. La pellicola cui si fa qui riferimento è la più completa dal punto di vista critico mai realizzata: comprende oltre alla versione originale in b/n del film sottotitolata in italiano, molti importanti contenuti extra, curatiin collaborazione con l’Università di Bologna.

Cinematografia in dvd:
“Don Chisciotte” per la regia di Orson Welles che vi appare anche come sceneggiatore originale, con ‘l’immenso’ Francisco Reiguera nel ruolo di Don Chisciotte (una grande interpretazione da premio), Akim Tamiroff (uno straordinario quanto indimenticabile Sancho Panza ) e lo stesso Orson Welles nel ruolo canonico di regista col sigaro in bocca e la cinepresa. La cosa più straordinaria del film è indubbiamente il taglio fotografico della regia e un montaggio incredibilmente efficace che il curatore Jess Franco ha saputo valorizzare al massimo livello.

“Lost in La Mancha” ovvero: La mancata realizzazione di Don Quixote. Film di Keith Fulton e Luis Pepe, con Jean Rochefort (nel ruolo principale non interpretato), Terry Gilliam (nel suo essere fantastico alla regia), Johnny Depp (sempre straordinario anche nel suo essere assente). Dolmen Home Video2001.

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- Società

Bla, bla, bla 3 - baracca e burattini

Bla, bla, bla 3 : ‘baracca e burattini’.

Nella lontananza del tempo e dello spazio la mente risale al ricordo di quando ci si divertiva all’arrivo della ‘baracca dei burattini’ nella pubblica piazza, e c’era non poca sorpresa quando sul finire della rappresentazione, da dietro il sipario s’affacciava il burattinaio, il quale fra gli applausi e lo sconcerto dei più piccini, quasi annullava tutta la magia che egli stesso aveva creato. Che spettacolo ragazzi! Oggi che quella rappresentazione non la si vede più calcare le scene della pubblica piazza quasi mi assale la nostalgia per quei personaggi: eroi e sovrani, dame e cavalieri che in fine trovavano una loro precipua ragione d’essere all’interno della ‘commedia ridicolosa’ che andavano recitando tra lazzi e screzi in cui pur traspariva un fondo di ovvietà e di giustizia, col rispetto dovuto e la necessaria considerazione d’una verità altra che, al tempo stesso ammiccava nella testa dei più grandi.

Ben altro teatro, o meglio, ben altra ‘baracca’ e altra rappresentazione è quella a cui assistiamo ogni giorno dagli scranni del Parlamento e nel prosieguo sulle pagine dei quotidiani, nei talk-show e nei ‘pizzini’ sempre più frequenti che appaiono sui social fra insulti e parolacce, invettive e minacce, senza riguardo per alcuno anche quando si tratta della massima carica dello stato. Ciò che è più grave è non comprendere se si vuole salvaguardare l’istituto democratico su cui si fonda la Costituzione o se c’è una volontà ‘sommersa e oscura’ che vuole che il tutto – come si suol dire – vanda ‘a carte quarantotto’, trascinando il ‘paese’ nell’anarchia più dissoluta o spingerlo in una guerra faziosa fra le diverse istituzioni che lo compongono.

‘Paese’ s’è detto perché, nella realtà dei fatti, continuiamo ad essere un piccolo paese con manie di grandezza all’interno di una economia macroscopica (fatta da altri) che ci schiaccia e ci assoggetta in ragione delle nostre ‘piccole dimensioni e minime risorse naturali’; pur essendo un grande parse in fatto di rinascenza culturale e beneficiaria prosperità turistica improntata sulla ‘bellezza naturale’ del territorio e la ‘creatività artistica’ eccellente. “Molto, molto pittoresco!” – ci sentiamo dire da chi ci osserva con occhio rivolto alla propria benestante consistenza economica, sostenendo che da ‘paese di cuccagna’ siamo passati a ‘paese di burattini’ passando attraverso l’esperienza napoletana di ‘paese dei quaqquaraqquà’.

Ma, come abbiamo visto e come da tempo andiamo ormai constatando, non si vive sugli allori del passato, né di una ipotesi di ‘bellezza’ duratura, quando poi se ne fa continuo scempio e, per di più siamo noi stessi a farlo. Che spettacolo ragazzi! Quale spettacolo ci è dato di assistere ogni giorno: dalle continue liti del peggiore dei condomini attorali/politici, allo squallore indegno che si svolge sulla scena del teatro più autorevole della nazione che è il nostro Parlamento; dai cambiamenti di quinte (leggi ‘sacacche’), alle luci che si oscurano improvvisamente (leggi di stelle nascenti che si esauriscono nel giro di una frase malposta), e di ‘primedonne’ (soprattutto uomini) che pur di farsi notare sono disposti a mettersi le piume sul culo.

Ma non finisce qui l’elenco delle malefatte, dei soprusi, delle ruberie , delle prevaricazioni, delle ingiustizie, delle speculazioni, degli imbrogli e delle truffe ai danni dei cittadini (che li osservano spesso ignari), non sono che punte di obelischi che, prima o poi, ci ritroviamo tutti infilati nel posteriore e che fanno gran male quando ci vengono regolarmente ficcati (volenti o nolenti) a mo’ di supposta, facendoli passare per necessari a una ‘ripresa economica’ che non arriva mai. O almeno queste le prerogative ‘promesse’ poi ‘negate’ e poi ‘ripromesse’ e nuovamente ‘smentite’, o piuttosto ‘sconfessate’, da quegli stessi partiti politici e movimenti ‘occultamente’ politicizzati che le hanno a bella posta confezionate per farci credere a una qualche possibilità di cambiamento.

Di fatto assistiamo al solito teatrino dove noi ‘burattini’ siamo più o meno sempre gli stessi: quegli arlecchini e pulcinella bighelloni, le rosaure innamorate, i pantaloni restii e i dottor balanzone; soggiogati però da pinocchi bugiardi (tutti i politici lo sono), dai pirati furbeschi (tutti i politici lo fanno), dalle bande violente (create dalla politica per destabilizzare), dalle organizzazioni mafiose (d’accordo con i politici per la spartizione dei poteri), ecc. ecc., tutti in scena per una rappresentazione degna dei ‘baracconi’ che essi stessi hanno istituiti, fondati, edificati (BANCHE, ENI, IMPS, ALITALIA, RAI, TIM, COOP, FINSIDER, FINCANTIERI …) – chi più ne ha più ne metta; coadiuvati dai Sindacati cosiddetti dei ‘lavoratori’ che da tempo ormai, anziché mediare i contrasti e gli interessi tra le parti, si sono venduti al migliore offerente capitalista in cambio della pelle dei dipendenti in tutti i settori lavorativi.

“Pittoresco, molto pittoresco!”, aver permesso che interi settori manifatturieri siano stati rilevati da investitori stranieri e trasferiti all’estero; che molte attività di servizi non appartengano più di fatto allo Stato Italiano, spostati altrove e governati da realtà imprenditoriali ultranazionali come, per esempio, lo smaltimento dei rifiuti dai quali ‘altri’ ricavano oneri assai sostanziosi e quant’altro. Non ha certo fatto bene al paese concedere ad alcune Regioni certi ‘statuti speciali’ che vanno smembrando l’unità dello stato in favore di rivendicazioni di lingua, di cultura, di religione, di servizi offerti ecc., per poi assistere a invalidità istituzionali come quella ‘sanitaria’ che non consente lo stesso trattamento per tutti i cittadini in ogni angolo del paese.

Siamo d’appresso all’oscurantismo pragmatico di quei valori essenziali che sono alla base del costituire una ‘realtà sociale’ coesa con le necessità di un ‘paese’ che non ne può più fare a meno, la cui cittadinanza è ormai arrivata a consumare le ‘bucce della frutta’ che produce in gran quantità; che si vede derubata delle acque minerali che sgorgano sorgive in abbondanza; dell’ossigeno che serve alla salute psico-fisica e che invece ci logora i polmoni e ottenebra la mente, rendendoci tutt’altro che quei ‘pensatori, eroi, poeti’ e quant’altro che qualcuno ha inciso a lettere cubitali sul monumento alla modernità.

Davvero ‘molto pittoresco’ direi, lasciare ad altri (mafie, investitori criminali, associazioni a delinquere, city-gang ecc.) di farla da padroni sul nostro territorio, altri che ignorano i principi fondanti di quella Costituzione che ci siamo dati e di cui altresì dovremmo andare fieri. Ma haimè non accade così, perché (e sarebbero tanti i perché), fino a che Roberto Benigni non l’ha riproposta alla TV (e dobbiamo rendergliene merito), metà (ma la percentuale è azzardata) non solo non la conosceva, ma neppure sapeva a che cosa facesse riferimento. Ciò a testimonianza che nessuno nelle varie rifondazioni della Scuola che ci sono state nel corso degli anni si è preso la briga di spiegarla. Come del resto i più ignorano che ancora nel 2018 sussistono nel nostro paese sacche di analfabetismo e comunque di una idea superficiale di lingua parlata (dagli stessi insegnanti) come l’Italiano.

Per non parlare della falsa e ipocrita frase ‘la giustizia è uguale per tutti’ che troviamo in tutte le aule di giurisprudenza (come dire: ‘per non dir del cane’ rifacendo il verso a Jerome K. Jerome), perché di una giustizia cane si tratta, con tanto di rispetto per l’animale che rimane indubitabilmente il più fedele e devoto amico dell’uomo. Cosa che non sono i giudici togati e soprattutto gli avvocati (sempre di parte perché politicizzati), chiamati a risolvere le diatribe più o meno efferate con maestria quasi alchemica (cause penali), e che assolvono invece come ‘mestiere di routine’ le dispute (cause civili) tra cittadini e ad esempio lo Stato o le istituzioni comunali.

Ma il cane spesso si morde la coda e fa dei giudici e degli avvocati gli aguzzini del cittadino che ad essi (volente o nolente) si affida e/o è affidato, mettendo a soqquadro l’intero istituto della giurisprudenza con sentenze spesso inusitate che sappiamo essere coordinate dall’esterno (dai poteri forti politicizzati), quando non addirittura da interessi competenti premi e ricompense sottobanco in odore di peculato: sottrazione e furto di denaro pubblico, corruzione, concussione, malvessazione ecc. E che, guarda caso, attribuiscono (malgrado siano stati presi con le mani nella marmellata) a quei ‘burattini’ (che essi stessi sono) che scavallano sulla scena parlamentare per rubarsi la poltrona migliore.
Che spettacolo ragazzi! Da non credere. Eppure dovete credermi se dopo aver legiferato più volte sui doppi incarichi dei politici, degli alfieri della giurisprudenza, dei sindacalisti e dei magistrati che aspirano alle più alte cariche dello stato; dei baroni della sanità che chiedono fino a 300/500 euro per una visita di quindici minuti exstra agli stipendi esosi che ricevono dagli incarichi ospedalieri; dei sapienti della ‘scienza e della conoscenza’ che si spartiscono gli incarichi professorali in diverse Università pubbliche e private (con remunerazioni da favola); degli imprenditori (spesso senza arte né parte) messi a capo delle grandi aziende di interesse pubblico, che vengono spostati da una all’altra (o in qualità di presidenti di entrambe) come se possedessero l’onniscenza, la conoscenza totale e illimitata, attribuita e pertinente alla natura divina in quanto l'assoluta perfezione esclude la possibilità di una ignoranza sia pure minima.

Quando i veri ‘ignoranti’ siamo noi che permettiamo tutto questo, nel senso che ignoriamo (ipocriti) che tutto questo accade veramente. Noi i veri ‘burattini’ che attaccati ai fili, ci lasciamo muovere sulla scena di un teatrino obsoleto (la baracca) da un nugolo di Parlamentari meschini, per quanto meschine fossero le storie dei Pupi di passata memoria, che pure, davano un senso al ‘tempo immaginifico della storia’ e coscienza al ‘tempo sacro della vita’. Ma “..La coscienza – scrive Luigi Pirandello – non è una potenza creatrice; ma lo specchio interiore in cui il pensiero si rimira.” Così noi (tutti noi in primis) siamo i veri responsabili del destino che rimiriamo, parte e controparte di un copione scritto da ‘burattinai’ (i pupari), che (volenti o nolenti) ci siamo scelti e che continuiamo a recitare sul grande palcoscenico del mondo, al limite fra favola e realtà.

Ma è tempo di cambiamento. Come nei “Giganti della montagna”, l’ultimo dei miti teatrali di Luigi Pirandello, i ‘fantasmi’ del passato, con l’innocente convinzione di trovare un loro teatro (Parlamento) di rappresentazione, cercano un ‘mago’ (Premier) capace di occulti quanto singolari prodigi di risoluzione dei ‘problemi esistenziali e di sopravvivenza’ (primari cui noi tutti aspiriamo), che chiede (vuole e pretende) che il suo operato incida, magari anche con conflittualità, su chi attende (noi burattini) alla rappresentazione. Posto che (e non concesso), il ‘mago’ sottoponga il copione (programma politico) ai ‘Giganti della montagna’ (la risma autocratica dei parlamentari), pur consapevole del pericolo di portare un’opera così ricca di sensibilità (infingarda) verso quei potenti signori (detentori del potere) avvolti dalla volgarità che hanno completamente abdicato alle ragioni dell’interiorità e dello spirito, per correlare la loro esistenza solo a una dimensione materiale, concede loro che la rappresentazione sia allestita davanti al popolo.

Dacché il popolo (meschino), non certo abituato a questo tipo di spettacolo, apostrofa rozzamente il ‘mago’ (premier) e gli attori (parlamentari) e alla fine li uccide; e nell’epilogo, attraverso l’uccisione di tutti (parlamentari e premier compreso) si consuma la tragedia della morte dell’arte e della cultura, (insieme alla Costituzione a fondamento della Democrazia), di quella che noi (odierni consumatori di entrambe), pensiamo sia formata la società moderna. “Con ciò Pirandello frantumava anche la visione stessa di una verità assoluta e, additando alle «Maschere nude», sottolineava la trama di menzogna e di inautentico esistenziale, capaci di impaniare l’essere umano (sociale) nelle molpteplici ipocrisie e finzioni della società”. […] Nell’affermazione della propria consapevolezza critica, del valore soggettivo della rappresentazione del mondo secondo un’attività cosciente (e coscienziosa). […]

La ricerca della verità, secondo Pirandello, si deve coniugare con la tensione civile (popolare), per distruggere gli pseudovalori e i resti di una società arretrata o per denunciare gli effetti sociali e culturali negativi. Acciò scriveva: “Badate, io non mi propongo di farvi ridere facendo sgambettare le parole” […] Nessuna penosa dottrina, nessuna crisi interiore ha (il diritto o l’obbligo) di alterare la serena armonia della vita e del temperamento umano, […] e (non pensiate che) questi elementi più tardi , sotto l’azione del sentimento (che prima o poi verrà fuori in ognuno si spera), non s’agiteranno per combinarsi nei modi più svariati”. Finanche con una possibile/impossibile sollevazione popolare (la storia insegna).

Nella situazione odierna noi, burattini senza e fili e senza un burattinaio al governo, per di più senza un copione sul quale appronare una rappresentazione di noi stessi davanti a un pubblico emerito (l’Europa e il resto del Mondo), al quale è lasciato il plauso e l’applauso finale: “..a forza di ripetere continuamente che sembri sorriso e che sei dolore … ne è venuto che oramai non si sa più né che cosa veramente tu sembri, né che cosa veramente tu sia … Se tu ti potessi vedere, non capiresti, come me (io che scrivo e trascrivo), se tu abbia più voglia di piangere o di sorridere.” Quale possa essere la svolta alla stagnazione attuale, mi chiedi? (rivolto al lettore).

“Adesso è vero – gli risponde l’humour moderno di Pirandello. Perché adesso penso solamente che voi vi siete fermato a mezza via. Al vostro tempo le gioie e le angustia della vita avevano due forme o almeno due parvenze più semplici e molto dissimili fra di loro, e niente era più facile che sceverare le une dalle altre per poi rialzare le prime a danno delle seconde, o viceversa; ma dopo, cioè al tempo mio, è sopravvenuta la critica e lefelice notte; s’è brancolato molto tempo a non sapere né che cosa fosse il meglio, né che cosa fosse il peggio, finché principiarono ad apparire, dopo essere stati così gran tempo quasi nascosti, i lati dolorosi della gioia e i lati risibili del dolore umano.”
Ora questo pregiudizio (perché di questo si tratta), sa di retorica intellettuale, è per certi versi grottesco, e seppure per gioco esaminiamo anche gli arabeschi capricciosi degli italiani, di certo arriveremo a una creazione arbitraria; vale a dire che ci ritroveremo ad essere governati da una contaminazione mostruosa di diverse politiche ideologiche con elementi e programmi che sicuramente sono al di fuori del seminato, del conosciuto e dell’accettato; posti decisamente oltre quanto di peggio fin qui conosciuto.

Non resta che sperare in quella feconda spontaneità creatrice in cui gli italiani si sono fin qui barcamenati (per la sopravvivenza) e che, seppure trovandosi nel definitivo trionfo del volgare (coatto), non c’è fine al maggior numero dei mediocri, si ritrovi quel moto d’originalità e di amor proprio (e di patria) che da sempre è sollecitudine di rinascimento; il riacquisto di un patrimonio che sappia far fruttare sapientemente il senso delle cose e della verità, per riempire il ‘vuoto’ d’idealità che altresì da sempre ci distingue. Questo è il punto da chiarire e che richiede un’analisi più sottile. Scrive Pirandello: “Si potrebbe dire altresì che l’unica verità oggettiva per l’uomo sia quella ch’egli stesso riesce a creare oggettivando con la volontà il proprio sentimento.

Di vero, insomma, non c’è che la rappresentazione che noi ci facciamo del mondo esteriore , rappresentazione continuamente mutabile e infinitamente varia […] che è per noi la verità oggettiva, ed è illusione e finzione […] perché è in noi senza volontà; il senso estetico (del nostro vivere) comincia quando questa rappresentazione (di noi stessi) acquista in noi volontà, azione. Quello che dà infatti valore espressivo alla rappresentazione che si vuole è il sentimento. Ma per se stesso qusto non potrebbe nulla se non provocasse nella rappresentazione il movimento che la effettui, la volontà. Se non vi suscita dentro questa volontà, che è appunto l’azione, il sentimento è sterile.” Cioè, fine a se stesso.

Ma da questo dualismo d’intendimenti non vedo scampo alcuno, dal che si comprende che per “.. il popolo la storia non è scritta (non da esso), o se è scritta, esso la ignora o non se ne cura (non gli serve da insegnamento e non si comprende il perché); la sua storia esso la crea (vivendola), e in modo che risponda a’ suoi sentimenti e alle sue aspirazioni. Poiché non è così e tutte le promesse fin qui dette (e ascoltate dai nostri parlamentari), non sono use ad essere soddisfatte da alcuna delle parti (politiche), il popolo attento li guarda tutti come dei ‘fantocci’ e le loro ‘gesta’ (i loro proponimenti) come inverosimili; talvolta ignaro del danno incalcolabile che tutto ciò comporta.

Ma ecco che rileggendo il Berni, ci confessiamo d’essere dalla sua parte: “Che penitenza è la mia, a dare intendere al mondo che questo si debbe piuttosto imputare alla mia disgrazia che ad alcuna elezione? Io non ho comprato a contanti questo tormento, né me lo sono andato cercando a posta per far rider la gente del fatto mio; che se non se ne ridon però se non gli scempi. Ciascun faccia secondo il suo cervello, che non siam tutti d’una fantasia.” Pur avvertendo appunto un senso di ribellione e derisione del bisogno d’intendersi almeno nella forma, perché non abbia ragione chi di questo passo coglie l’occasione per dileguarsi dal problema insorto, né di lasciar andare i giovani che non trovano riscontro in questa nostra realtà sociale ad anni di studi, né dei sacrifici che i genitori hanno affrontato per farli studiare. Né chi per ragioni di crescita economica abbandona il ‘teatro/baracca’ con tutti i burattini per altri lidi.

L’errore è sempre quello: ‘quaranta denari (in più) non valgono tutta una vita spesa fra la comune gente (e la coscienza popolare). Questo è il nodo da sciogliere per chiunque azzardi oggi un governo: nascere e crescere a stretto contatto con il proprio territorio, investire nella cultura e nella rappresentatività delle proprie eccellenze, per arrivare, possibilmente, ad uno stato intermedio di equità sociale e dare a ognuno quella ‘pace’ che a costo di molte vite perse si è guadagnata. “D’altra parte, nessuno più si sogna di negare che gli antichi (avi) avessero l’idea della profonda infelicità degli uomini. La espressero, del resto, chiaramente filosofi e poeti. Ma, al solito, anche tra il dolore antico e il dolore moderno si è voluto vedere da alcuni una differenza quasi sostanziale svolgentesi con la storia stessa della civiltà, una progressione che ha fondamento nella sensibilità dell’umana coscienza, sempre più delicata, e nell’irritabilità e incontenibilità sempre maggiori.”

“Facilmente oggi – scrive ancora Pirandello – agli occhi nostri, se crediamo d’essere infelici, il mondo si converte in un teatro d’universale infelicità, […]la ragione che più s’interessa del valore filosofico del contenuto più che della vaghezza risente di un sentimento profondo di una disunione, di una doppia natura (piuttosto vaga) della modernità.” È pur vero che a un dramma, assistiamo talvolta a una farsa trascendentale, ingigantita a dismisura e, quella che era la povera ‘baracca dei burattini’ assume oggi la vana parvenza d’un teatro macroscopico che si ripete in ogni parlamento del mondo. Una banale concezione dell’umorismo o cosa? Di fatto la parodia costante inscenata dalla politica nostrana (che a tutti i costi vuole apparire seriosa), s’avvia a trasformarsi in una ‘cena dei cretini’ (dall’omonimo film di Francis Veber).

La cena, in cui ognuno deve invitare un individuo maldestro e incline al rompiballe (uno a caso) che ne combina di tutti i colori, si trasforma in gara il cui si sceglie il più cretino da portare a casa degli amici. Qui, tra gags e qui pro quò, s’avvera quella che è la nostra prossima scelta governativa per chi sarà il prossimo ‘cretino’ da nominare ‘premier’, da invitare a casa e mostrargli i nostri conti in rosso? Renderlo partecipe delle nostre necessità di sopravvivenza? Del nostro buono e cattivo umore riguardo le nostre certezze e incertezze sull’istruzione, la sanità, la pensione, i trasporti pubblici, la cultura, l’abbattimento delle tasse ecc.? Insomma di quel fardello di limitazioni cui ci obbliga il vivere quotidiano all’interno del nostro ‘piccolo paese’ che proprio non ne vuol sapere di diventare grande?

Eccolo, è lui. Lo stile è quello che conosciamo tutti: ‘che il ridere degli altrui malanni lo rende stolto’, che tuttavia è in grado di modulare perfettamente i toni e le espressioni, che di volta in volta (a seconda dei casi e degli interessi), affronta paradossalmente con ironia (e stupidità) fino all’assurdo, la caricatura e il grottesco, quasi con geniale estro umoristico come già in passato abbiamo avuto occasione di annotare. È qui che scatta la contraddizione che in essi genera il riso, ma non si pretenda di rassegnarci a non dir parola, che ci vuole poco a sostituir parola in cambio di un’altra (democrazia con dittatura) e subito svanisce il ridicolo (il riso ostentato sulla bocca di certi parlamentari), che di sventure ce né ben per tutti. Stiano attenti e andiamo avanti, che retorica e imitazione son ben la stessa cosa.

E con ciò mi taccio, ma solo fino alla prossima puntata.

(*) Tutti brani e le citazioni sono riprese dalle ‘Opere’ di Luigi Pirandello, I Meridiani Mondadori 2004.
E da ‘L’umorismo’, Oscar Mondadori 2010 a cura di Daniela Marcheschi.






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- Società

L’uomo che ride, terza parte.

L’UOMO CHE RIDE
Ovvero, in che cosa consiste il risibile, di Giorgio Mancinelli.
Sociologia - Terza parte.

Se l’altra metà del cielo ride!

Approntare un qualcosa che richiede ponderatezza è di per sé non facile, se – come sto cercando di fare – vorrei poter dare al “ridere” lo spessore di una teoria, seppure nella dimensione dell’analisi socio-psicologica. Perché in fondo ridere è un po’, come dire, dare la giusta importanza “all’entrare in scena” in modo sorprendere, un dire repentino e accattivante, e se vogliamo irruento e dinamico ma, come dire, “a vuoto”. Cioè staccato, per lo più, dal gesto che è di per sé imperativo, così come certe volte è il silenzio, quando è parte integrante di un parlare muto, di una “pausa” che raccoglie una qualche significazione. Che è poi come dare all’attesa, spaziale e temporale, la sensazione che tutto o nulla stia per accadere. Dipende dall’intensità espressiva della “pausa”, dall’immediatezza o dalla lentezza quasi ostentata dello sguardo o del gesto che l’accompagna. Trattenere il pensiero (visivo) entro l’intuizione dell’istante in cui si mette in moto la psiche, dato dall’intervento del fatto emotivo ch’è subito tramutato in sensazione. Allo stesso modo che avviene per l’effetto di provare caldo o freddo, simpatia o antipatia, agevolezza o ritrattezza, riprovazione o meraviglia, percezione o sensitività. E perché no, che scaturiscono talvolta in quei moti dell’anima come l’affetto, l’amore, l’ardore, la volontà di conseguire qualcosa che fino a quel momento non ci era dato, ecc. E che subito facciamo nostri tramutandoli in fervore, piacere, sensualità, passione. In tutti quei “trasferimenti emotivi” che ci invitano a sorridere ( e spesso a ridere) di noi, degli altri, della loro e della nostra comicità. Di quella che possiamo considerare “l’alterazione, o meglio la trasformazione ridicola, nel senso naturale, degli uomini e delle cose in genere (..), che è l’alterazione ridicola (o ridicolosa) di una data persona (i suoi tic e le sue manie), o anche di una data cosa”. (*)

Ma in che consiste l’idea del comico?

«Il comico è l’idea del bello che si smarrisce nelle relazioni e negli accidenti della vita ordinaria» (Solger)
«Il comico è il brutto vinto, la liberazione dell’assoluto schiavo nel finito, il bello rinascente dalla sua propria negazione» (Ruge)
«L’idea uscita dalla sua sfera, e confinata nei limiti della realtà, di guisa che la realtà appaia superiore all’idea» (Vischer)
«Una realtà senza idee, o contraria alle idee» (Carrière)
«La negazione della vita infinita, la soggettività che si mette in contraddizione con sé medesima e con l’oggetto, e che manifesta così al maggior grado le sue facoltà infinite di determinazione e di libero arbitrio» (Luigi Pasi che rifà il verso a Schlegel, Ast, Hegel).

Non c’è che dire se nel passare in rivista le varie definizioni del comico dei vari filosofi ci viene da ridere, la filosofia (spicciola e popolare) spesso è cagione del ridere, “una gioia mescolata d’odio”, dice qualcuno, e un altro gli fa eco col dire che è “contrasto, mancanza d’armonia”. Non meno per lo Zeising che dice: «L’universo è il riso di Dio, e il riso è l’universo di colui che ride. Colui che ride s’innalza fino a Dio, diviene in parte creatore d’una creazione allegra..» (*). Volendo dare una definizione filosofica delle cause del riso, io credo che il meglio sia ancora di attenerci all’opinione del vecchio Aristotele, come hanno fatto gran parte degli scrittori moderni, e fra essi lo scozzese Dugald Stewart, per il quale «..cagioni del riso sono propriamente quelle imperfezioni del carattere e dei modi che non sollevano punto l’indignazione morale, né gettano l’anima umana in quella tristezza che ispira la depravazione» (*). Va qui tenuto conto che talvolta il riso diventa derisione, la caricatura di una crudeltà se basato su compassionevoli imperfezioni. Ma allora bisogna risalire alla ragione di quella crudeltà nelle qualità morali del ridere, cioè del ridere di pietose deformità che mettiamo in caricatura.

E voi ridete, ma di qual riso?

Riso di soddisfazione per la macchietta, che ha il sapore di atto vendicativo per la punizione inflitta. Il comico in questo caso non centra per nulla. Osservazioni le mie che, se determinano, in certo qual modo, l’arte del riso, non determinano in alcun modo le cagioni che possiamo additare con certezza, soltanto perché subordinate alle varie sensibilità dell’uomo che ride. «Basterebbe recarsi a una esposizione di caricature (e non solo) per vedere e studiare nell’espressione dei visitatori le cause molteplici del riso. Per accorgersi che, accanto a colui che ammira, c’è quasi sempre colui che ride. E la cagione? Chi sa dirla! Bisognerebbe cercarla nella sua sensibilità (..) nel suo spirito d’osservazione con attitudine aperta al comico, la sua più chiara cagione del riso. (..) E gli esempi valgano a farmi concludere che tanto vi ha cagion di riso, quanti sono i caratteri dell’umano genere, i quali, hanno poi bisogno a loro volta di un determinato momento per afferrare la tale o tal altra materia di riso» (*).

“Ci sono degli uomini nel mondo nati ridicoli, per essere posti in ridicolo (caricatura), e che muoiono ridicoli; altri invece nati apposta per trovare il ridicolo nei ridicoli, e far ridere il prossimo alla barba degli altri” – afferma il Paolieri in una sua conferenza, riportata da Luigi Rasi in “La caricatura e i comici italiani” - Bemporad – Firenze 1907, dove ho affondato la mia ricerca a piene mani.

Tutto ciò che il ridere accoglie e scaturisce non avviene forse nel silenzio inconscio della nostra mente e del nostro cuore? Va con se che quell’ “attesa” che in questo scritto mi ostino a chiamare simbolicamente “silenzio”, pur richiede nell’immediatezza un tempo minimo di gestazione, che va dal presente indietro al passato remoto, ed avanti al futuro immediato, che trova adempimento sulla scena del quotidiano. Un tempo misurato sull’interpretazione di una pausa (né corta, né troppo lunga) equilibrata sulla parola detta, in rapporta con la gestualità di chi ride, o di chi in quel momento interpreta. La gestualità nella parola, la pausa significativa, sono costanti del teatro e della teatralità, onde per cui, chi interpreta, o narra, o verseggia, alla fine si ritrova a essere attore del teatro che autogestisce. Se vogliamo, un teatro dell’assurdo, o delle assurdità, che in rapida successione (il tempo di una battuta, una freddura, una barzelletta) permette di imprimersi nella mente che lo traduce in linguaggio, in quel parlare fatto di parole e di intendimenti che ci permettono di comunicare. Ma ciò non basta. È necessario che la parola detta abbia valenza di suono, che sia “sonora”, che acquisti, cioè, la tonalità e lo spessore giusti che le permettano di farsi udire.

La risposta è il “riso” e se vogliamo “l’applauso” che ci facciamo da noi stessi, che scaturisce nell’applauso degli altri. Ma è comunque l’idea che abbiamo di noi, la certezza delle nostre capacità d’una pienezza e d’un’evidenza positiva, o almeno singolare, a permetterci di dare sfogo al riso. Solo in esso e per esso, abbiamo la reale sensazione di esistere. Ecco che ridere è riempire il silenzio che ci circonda e farlo nostro, riappropriarci del nostro inconscio, della nostra dimensione onirica che sta tra la realtà e la finzione, sospeso tra la temporalità e la temporaneità della parola, tra il presente scenico e la coscienza del passato, ch’è pur vive entro la precaria eternità del futuro futuribile.

Tutto dipende da noi, dalla nostra volontà di essere e divenire, di ridere o di piangere delle nostre sventure, importante nella vita non perdere l’illusione di essere vivi. “Probabilmente l’umorismo in sé non esiste. Esiste solo il senso dell’umorismo C’è chi ce l’ha e c’è chi non ce l’ha. Chi ce l’ha sta meglio di chi non ce l’ha. Nessuno può insegnarcene l’acquisizione. C’è chi ce l’ha in forma irriverente quando qualcuno cade dalle scale e chi ne fa mostra solo quand’è di buon umore. C’è chi ride esclusivamente delle proprie spiritosaggini e chi, fortuna sua, ride delle proprie disgrazie. La vita è piena di situazioni. E la maggior parte delle situazioni (escluse quelle desolatamente insignificanti) ha due facce: comica o drammatica. Per cogliere quella comica è appunto necessario il senso dell’umorismo. Chi ce l’ha ce l’ha e chi non ce l’ha non ce l’ha. Io ho scoperto solo questo: che c’è gente che ride per delle fesserie immani e gente che non si degna di un sorriso neppure di fronte alla più comica delle situazioni” – scrive Leila Baiardo, (non me ne voglia), nella prefazione a “Barzellette” www.laRecherche.it.

Ed a proposito della barzelletta, una delle forme del ridere, aggiunge: “La barzelletta è quella forma di comicità adatta a tutti per il semplice fatto che non è una narrazione interamente comica, cosa che richiederebbe attenzione, intelligenza, capacità associativa e la conoscenza degli svariati accordi tematici riguardanti l’umorismo. La barzelletta è piuttosto una situazione tipica e normale in cui a un certo punto si ribaltano le regole del gioco per mezzo di un imprevisto o d’una battuta inaspettata. Chi ascolta, ascolta impaziente, solo perché sa che prima o poi arriveranno la frase o il gesto che lo faranno ridere. L’importante è il finale, la didascalia sotto la vignetta, la risposta ridicola a una domanda seria”.

Se ve la sentite di dire la vostra su questo argomento, scrivetelo come commento a questo testo, ogni argomentazione sarà ben accetta. Grazie.


(contninua)

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- Società

L’uomo che ride, seconda parte.

L’UOMO CHE RIDE: Ovvero, in che cosa consiste il risibile.
(seconda parte)

Si è già parlato del “tipo psicologico” interno (a noi stessi), ed esterno (gli altri), senza tuttavia aprire una finestra (oggi si usa dire così), sugli aspetti linguistici che fanno del ridere un vero e proprio etimo della nostra vita. Vogliamo chiederci cos’è questa vita umana? “È davvero giusto chiamarla vita, se ne togliamo il piacere di un riso pieno di allegria?” (Erasmo da Rotterdam “Elogio della follia”).
Non a caso, o, guarda caso, l’uomo che ride può essere così aggettivato: ridente, allegro, ameno, lieto, gioviale, giocondo, brioso, gaio (nel senso di gay?); oppure pensate: lepido, arguto, ridatello (nel senso di scimunito?), ridanciano, spiritoso, sorridente, sereno, vivace, vispo (nel senso di vivo e vegeto?), fidente, fiducioso, aperto (in che senso?).
C’è poi chi non ride, come il ghignante, il sogghignante (che non ride per nulla), lo sghignazzante (che ride troppo e si copre spesso di ridicolaggine). Pensate, c’è il cachinno che viene da chiedersi se è chi si caca addosso dalle risate? Invece niente affatto, proviene dal latino “cachinnus” e sta per chi ride smoderatamente e beffardamente. Passiamo dunque ai modi del ridere.
Si può ridere in modo così detto “figurato”: a scroscio, oppure in modo molto figurato, di schianto, a scoppio, con fare solleticante, con convulsione, con singulto; e anche ridacchiare, sghignare, sgrignare (cioè arrotando i denti), sbellicarsi, scompisciarsi, smammolarsi, smammarsi, nel senso di: tenersi la pancia, stringere le mascelle, (in senso di ganasce), e forse spisciandosi, (nel senso di pisciandosi addosso), farsi matte risate, crepare dalle risa, sbracarsi dalle risa, ridere a crepapelle, e ridere a crepapancia.
Eccolo, è lui, “l’uomo che ride” a fior di labbra, a mezza bocca, di nascosto, di sottecchi; colui che deride, che mette in ridicolo, che schernisce.
Diffidate gente, diffidate!
Dunque, eccoci giunti al ridere ridicoloso, che si copre di ridicolo e che nasconde non poche curiosità linguistiche, che vanno dal buffo, bizzarro, burlesco (clown e clownerie), al goffo (Rigoletto, Gargantua, Sancio Panza), e pensate, al grottesco (il Gobbo di Notre Dame). Ed anche al ridevole, visibile, umoresco (personaggio da barzelletta); brutto (che pian piano si avvicina al suo contrario), come falso, che per similitudine si confà all’essere comico, arguto, spiritoso e quindi alla caricatura e alla parodia, che trova i suoi equivalenti nelle tipiche figure del teatro popolare (atellane), nelle Sacre Rappresentazioni (Sacramentales), e infine nelle maschere del Teatro dell’Arte.
Ecco allora zimbello, buffone (di corte), sgorbio (che mette alla berlina tutte le anomalie e le menomazioni umane), pagliaccio, fino ad Arlecchino, arlecchini sta, arlecchinesco, dalla maschera indossata dal personaggio di tante commedie teatrali, un modo per aggettivare un individuo e il suo comportamento.
Infatti, è detto anche, burattinesco (dal Teatro dei Burattini, all’Opera dei Pupi); e farsesco (appunto da farsa), oppure comico (intrinseco della comicità); carnevalesco (da “carnevale” che richiede una considerazione a parte). Ed anche pulcinellesco, derivato da Pulcinella (maschera complessa che riassume aspetti diversi della psicologia umana, per la quale rimando a un futuro intervento sulla “maschera e il volto” che mi auguro riesca a fare in proseguimento).
La maschera di Pulcinella è qui usata per introdurre i vari stati d’animo che manifestano il riso e il ridere più in generale, come l’intrinseca umanità, l’insostenibile leggerezza, la stoltezza bonaria, l’implicita filosofia del quotidiano, la subordinazione alle esperienze della vita: l’inestinguibile speranza che regna nell’animo umano.

Si dice: il riso abbonda sulla bocca degli stolti.

Tuttavia, il riso, o meglio il ridere di per sé, può essere un connettivo tra il troppo serio e il faceto, e cosa incredibile da credere, può essere aggettivato come meglio si crede: da amaro, a forzato, a compassionevole, a beffardo, in modo canzonatorio, e perché no, represso, domato, vinto, soffocato, contenuto, annacquato, cattivo, dispettoso, mefistofelico (da Mefistofele), satanico (da Satana), e comunque diavolesco.
Oppure: leale, franco, libero, spinto, schietto, genuino, grasso, grazioso, irresistibile, aperto, vezzoso, limpido, ironico, sarcastico, sardonico, mordace, osceno, licenzioso, artefatto, insincero, ipocrita, sciocco, insipido, cretino; e ancora: moderato, misurato, discreto, temperato, rumoroso, sonoro, stolido, scomposto, disordinato, sguaiato, sconveniente, sconclusionato, smodato, sgangherato, eccessivo, spappolato, stiracchiato, sprezzante.
Il che può significare tutto e il contrario di tutto, il significato e il significante, ed anche usato in luogo di verbalizzazioni indicative e concettuali, come: ridere, ridacchiare, sorridere, ghignare, sogghignare; ed anche eccitare, muovere, suscitare, indurre, scoppiare, frenare, trattenere, reprimere, vincere, tenere, mordere (la lingua), scappare, morire, crepare (dalle risate). Va detto, e forse non lo credevate possibile, ma queste sono solo alcune attività connesse con il ridere e tante altre ve ne sono che nell’impossibilità di elencarle tutte, rimando (per chi fosse interessato a saperne di più), al volume “Il Riso” di Henri Bergson, Nobel per la Letteratura.

Ridete pure, non sogghignate, che il ghigno può essere nefasto.

A dirlo è Victor Hugo il cui romanzo “L’uomo che ride” il cui nome è Gwynplaine, rivela una terribile deformazione del viso che sembra una perenne risata, e può essere considerato il simbolo dell'uomo che è costretto a mostrarsi felice pur soffrendo interiormente, per colpa di una società che ne deforma l'intelligenza e ne mutila la ragione. Nel 1940 ne fu tratto un famoso fumetto dal disegnatore Bob Kane e dallo scrittore Bill Finger i quali, utilizzarono il ritratto che Conrad Veidt aveva dato di Gwynplaine come ispirazione per la loro creazione di Joker, la nemesi di Batman. La somiglianza tra Gwynplaine e Joker è esclusivamente visiva: Joker riprende il fisico slanciato di Veidt e il suo sorriso grottesco. “Batman: L'uomo che ride” (Batman: The Man Who Laughs, 2005) è anche il titolo di una storia a fumetti che rielabora il primo incontro tra Batman e Joker e, inoltre, il nome di un personaggio della serie “Ghost in the Shell: Stand Alone Complex” creata da Masamune Shirow. Ma già il cinema si era impossessato del personaggio di Gwynplaine nel 1909, col film dal titolo omonimo “L'uomo che ride”, film francese del 1909 del quale non si hanno più copie. “Das grinsende Gesicht” è invece il titolo del film tedesco del 1921 diretto da Julius Herzka. Altri due film furono tratti dalla medesima opera e sono: “L'uomo che ride”, del 1928, realizzato dal grande Paul Leni, e ancora: “L'uomo che ride”, il film italiano del 1966 diretto da Sergio Corbucci che adattò la vicenda nell'Italia di Lucrezia Borgia.
Vi è piaciato?

Vi chiederebbe il maestro della satira Petrolini, dal palcoscenico del comico mondo in cui viviamo, parlando di Harold Lloid, Ridolini, Stanlio e Onlio, come pure dei Fratelli Marx, Woody Hallen; e perché no di Charlie Chaplin, Totò, Federico Fellini, Dario Fò; ma anche dei De Rege, i Piccolini, Albero Sordi, Macario, De Filippo, Aldo Fabrizi, Bice Valori, Paolo Panelli, Roberto Benigni, solo per citarne alcuni, e di tutti gli altri, tutti quelli che abbiamo conosciuto nel corso degli anni. E che, sicuramente, adesso se la ridono di questo folle mondo che non sa più ridere. Che ha perso l’occasione e il piacere di farsi una sana “matta” risata.

Giunti al dunque, la risposta alla domanda di Petrolini, non può che essere una sola: "ridere, ridere, ridere che ridere fa bene allo spirito".

E voi, che aspettate a battere le mani!

L’UOMO CHE RIDE: Ovvero, in che cosa consiste il risibile.
(terza parte).

'e risi

dei giorni miei passati
e mentre che ridevo
m’accorsi che pur piangevo
del lungo mio vagare
poi guardandomi d’intorno
stupito me vidi forestiero
quando d’un tratto voltommi
indietro' (GioMa)


(continua)




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- Letteratura

È qui la Pasqua? , una festa della tradizione

È QUI LA PASQUA? – chi più ne ha più ne metta da parte, di ‘uova’ s’intende.
(una festa di simboli, colori e forme sulle tracce delle tradizioni popolari).
Terza parte.

Pasqua deriva da una parola ebraica che significa ‘passaggio’: passaggio verso la primavera, verso una nuova vita e verso una nuova stagione di semina e raccolti. Scrive Laura Tuan (*) – Negli antichi rituali agresti, infatti, l’arrivo della novella stagione assumeva valore di ‘rito di passaggio’, allorché il Capodanno coincideva con l’equinozio d’Ariete le uova, al naturale o colorate, trionfavano in qualità di talismano e di offerta. Si regalavano come oggetto beneaugurante e si consumavano come pasto rituale; si seminavano fra le zolle dove, in virtù del principio di similitudine, avrebbero trasmesso il loro potere fecondativo al terreno. Greci e Romani le offrivanoa Dioniso e ai dioscuri, i gemelli divini nati secondo il mito da un uovo di cigno.
Anche Russi e Germani se ne cibavano prima di dare avvio ai lavori agricoli. Gli Egizi, certi del suo carattere difensivo, lo impiegavano come amuleto contro le forze del male e come antidono risolutore di ogni malanno. Per la stessa ragione veniva inumato nelle sepolture, a salvaguardia del defunto o come promessa di fecondità e di rinascita. è questo il caso delle uova d’oro estratte dal sepolcro di Ur o di quelle decorate e incise rinvenute a Cartagine, in Etruria, in Ucraina. Anche i protocristiani, che le consumavano ritualmente, le seppellivano nelle tombe dei martiri come simbolo della speranza nella resurrezione.
C’era chi si accontentava delle uova di gallina o di piccione, e chi preferiva di struzzo come i Greci e i Copti, che le appendevano perfino nelle chiese come talismano di felicità. Russi, Scandinavi e Giapponesi, invece, andavano pazzi per quelle di cicogna che consideravano indispensabili accumulatori di fortuna, tanto da attrarne volontariamente alcune con offerte di cibo perché nidificassero sui tetti delle loro case. La consuetudine di offrire uova colorate, in una commistione di retaggi pagani e di spunti cristiani, si consolida dopo l’anno Mille.
Era la chiesa stessa a gestirne lo scambio, al termine della mesaa pasquale dopo averle benedette e dipinte di rosso. Ma perché l’uovo beneaugurali si trasformi nell’attuale Uovo di Pasqua arricchito dalla sorpresa, bisogna attendere il 1500, quando l’imperatore Francesco I di Francia ricevette in dono un uovo d’oro contenente una scultura lignea della ‘passione’. IN poco più di cent’anni offrire uova pasquali a nobili e sovrani divenne una vera mania, quasi una gara a scovare l’esemplare più pregiato e originale.
Le follie naturalmente non si contavano più: circolavano uova d’oro massiccio, tempestate di gemme e gusci delicatamente impreziositi dai pittori più in vista dell’epoca come, ad esempio, Jean-Antoine Watteau e Jea-Honoré Fragonard vissuti entrambi nel ‘700. Ma il primato nella decorazione delle uova spetta comunque agli Slavi e ai Russi, accurati esecutori di autentiche opere d’arte. Essi credevano che ogni uovo dipinto entro Pasqua aggiungesse un anello alla lunghissima catena che imprigionava lo spirito del male e che per questo infine dovevano essere rotte.
Diverse leggende però si contendono l’origine della tintura delle uova pasquali, abitudine che risale al primo Medioevo. In una di esse, si racconta che quando Maria Maddalena annunciò a Péietro la resurrezione di Cristo, questi, incredulo, le rispose: ‘quando queste uova diventeranno rosse, Cristo resusciterà’. E in quello stesso istante le uova che Maddalena recava nel paniere divennero rosse. Un altro racconto leggendario rumeno, sempre a sfondo religioso, riporta che la Madonna, in fuga insieme a Gesù e incalzata dai Giudei, fece rotolare delle uova che subito si tinsero di rosso. In questo modo, mentre gli inseguitori stupiti si fermavano a raccoglierle, i due fuggitivi riuscirono a distanziarli e a mettersi così in salvo.
Questi capolavori di simbolismo, anche chiamati ‘pysanky’, scatuirivano dall’ispirazione poetico-religiosa che si traduceva in figure allegoriche ricche di messaggi finemente tracciati a colori vivaci. Dopo essere state recate in chiesa per la benedizione di rito, le uova venivano distribuite ad amici e parenti, assegnando a ciascuna di esse un messaggio augurale preciso. Ma ancor più, e ancora oggi è questa la formula rituale, recavano una missiva simbolica d’affetto, d’amicizia, di stima e di speranza o, anche, come pegno d’amore che il ragazzo offriva alla ragazza, destinato a mantenersi vivo nel tempo, capace di risorgere e di rinnovarsi continuamente.
Le uova, accumulate a causa delle restrizioni ecclesiastiche che ne proibivano il consumo durante la quaresima, prodotte senza avarizia durante il tepore primaverile, venivano così ad arricchire una riserva alimentare sempre più abbondante, tale da consentire anche nella società contadina spesso affamata, l’abbuffata pasquale che metteva fine al tempo quaresimale.
La decorazione delle uova fra i contadini, era affidata solitamente alla madre e alla figlia maggiore e avveniva secondo precise regole rituali e nel più rigoroso silenzio interrotto solo dai canti religiosi e dalle preghiere.
Il colore, considerato da un punto di vista magico-simbolico, svolge un ruolo determinante nella scelta del messaggio da affidare all’uovo pasquale. Ciò che definiamo comunemente rosso, giallo, verde, non erano altro che i diversi livelli vibratori di un’unica energia, la stessa che collegava tutti gli elementi del cosmo. Le grandi culture del passato accordavano la massima importanza al colore al colore, con cui si esprimevano, curavano e si sintonizzavano sulla divinità, che spesso veniva rappresentata con immagini a tinte vivaci.
L’uovo dipinto di bianco, ad esempio, espone il colore lunare, si sintonizza sulla vibrazione emotiva: fecondatrice dall’infanzia alla maternità, dall’immaginazione alla medianità. È il colore dell’innocenza, della purezza e, come massima concentrazione della luce, del bene che sconfigge le tenebre.
Il colore rosso, riconduce simbolicamente al sangue, ne assimila, soprattutto in Oriente, il significato concreto di vita e di forza. È il colore augurale per eccellenza, da indossare a Capodanno per propiziare la fortuna e, in Cina, anche nel giorno delle nozze. In India, Brahma, il dio che crea, e Rudra, la divinità che guarisce, sono entrambi rappresentati con il corpo dipinto di rosso. Rossi sono anche gli dei benefici egizi, che ricordano, nel colore, la fanghiglia fecondatrice del Nilo. Ardore e sensualità, coraggio e vigore si ricollegano al rosso negli attributi di Ares (Marte) e di Pan, divinità primaverile greca della potenza sessuale maschile e della fertilità vegetativa. Il rosso, inoltre, riassume la forza purificatrice del fuoco. Come titnta-base delle uova pasquali, che la tradizione vorrebbe rigorosamente rosse, questo colore augura gioia, fecondità, vitalità e naturalmente, passione amorosa.
Il blu, colore gioviano, emblema della saggezza e della spiritualità, conduce, in assonanza con il cielo, all’idea dell’ascesi, dell’accesso allo spirito. È il colore del lapislazzolo, pietra a cui i tibetani attribuiscono il massimo potere rigeneratore. Il mitico trono del Buddha della medicina è interamente costruito con questo minerale. Blu è anche il corpo del dio indiano Visnù, della dea greca Hera sposa di Zeus, e degli abiti di quest’ultimo, padre di tutti gli déi. Nel cristianesimo, in analogia col cielo e dunque con la spiritualità, contrassegna il manto della Madonna, in qualità di messaggio pasquale, come augurio di serenità, guarigione e saggezza.
Il giallo, vibrazione della luce e del sole, emana un messaggio di chiarezza e di verità. Simboleggia la massima luminosità dell’oro, ottenuto attraverso purificazione alchemica degli Elementi, in senso di augurio di intellettualità e conoscenza.
Il verde, nel suo rapporto simbolico con il trionfo della vegetazione, riveste un significato di speranza, di fertilità e rigenerazione. Non a caso convoglia su di sé la vibrazione di Venere, il pianeta dell’armonia e dell’amore, della fioritura e della primavera. L’uovo dipinto di verde annuncia la speranza, la salute e l’arrivo di un nuovo e tenerissimo amore.
Il marrone, è il colore della terra, della solidità e della continuità ben rappresentata dall’influenza stabilizzante del pianeta Saturno. Il signore dei segni zodiacali invernali quali il Capricorno e l’Acquario, considerati presso i Romani, divinità della semina e della fecondità sotterranea, ancora non evidente ma assicurata. Questo colore in particolare, promette una realizzazione lenta ma ben costruita, ancorata a solide basi che ne protrarranno gli effetti inalterati nel tempo. simboleggia inoltre la Grande Madre terra e tutte le creature che vivono in essa. Infatti, è il caso dell’uomo stesso, in ebraico ‘adam’, creato secondo il racconto biblico dalla terra ‘adama’, da cui trae non solo il nutrimento ma anche il nome.
Le uova, si sa, sono elemento e simbolo associato alla Pasqua. Sulle uova tradizionalmente decorate per la fesività pasquale, oltre alle solite raffigurazioni di fiori, animali, personaggi storici o biblici, fanno la loro comparsa svariati simbolo astratti. Si tratta di segni antichissimi, conosciuti e impiegati in quasi tutte le culture: etrusca e fenicia, egizia e greca e romana, cristiana e celtica, indiana ecc. molti dei quali, ma solo più tardi, il cristianesimo li ha inglobati nel proprio patrimonio simbolico, sovrapponendo al loro significato originario un valore evangelico ed ecclesiastico.
Alla sensibilità delle decoratrici tuttavia non sembra tuttavia essere sfuggito il senso primordiale di questi segni, sempre intrinsecamente connesso con le tematiche primaverili del rinnovamento cosmico: la luce, la vita, il ciclo della natura che muore e che risorge, ecc. Si hanno così tutta una serie di simboli principali riferiti al cosmo, quali: il Sole, la Luna, le Stelle, l’Arcobaleno; ed altri di carattere magico-esoterico: il Triangolo, il Quadrato, la Croce, la Spirale, il Rombo, il Cerchio, la Linea del destino, la Mano, l’Albero spesso capovolto, il Fuoco ecc. esaminiamoli uno per uno.

Il Sole, è l’attributo di sovrani e déi, le cui corone dorate nel primo caso e le aureole raggiate nel secondo, tentano di uguagliarne lo splendore.
La Luna, è significatrice delle acque e del rinnovasmento e della maternità per eccellenza, legato all’antico culto delle maree e della fecondità femminile. Nel Medioevo cristiano compare spesso affiancata al Sole ai lati della Croce.
La Stella o il cielo stellato, esprime la speranza in un futuro più sereno, la direzione ritrovata dopo la burrasca. Non a caso infatti il cristianesimo sceglie proprio la Stella per annunciare la venuta del Messia. In medio oriente essa assume altri significati secondo il numero delle sue punte, emblema del l’alba e dell’amore.
L’Arcobaleno, è il ponte di luce che unisce la terra a l cielo e gli uomini agli déi, ricorda il patto stretto da Jahvè con il genere umano alla fine del diluvio.
Il Triangolo è l’emblema della nascita della vita e della morte e rappresenta la perfezione del ‘tre’, il nuimero della sapienza divina e della completezza. Se l’area è annerita acquisisce la connotazione iniziatica della caverna o della montagna sacra, la prova estrema che il neofita deve superare, a conclusione di un lungo e impegnativo processo di apprendimento.
Il Quadrato, riconduce all’idea di stabilità, della razionalità e dell’intelligenza umana, solida ma limitata. Quando vi sono inseriti altri quadrati concentrici si ricollega alle tre età della vita, la giovinezza, la maturità, la vecchiaia.
La Croce è il simbolo precristiano dal significato universale, fa riferimento all’albero cosmico, l’asse centrale del mondo che ne sorregge il peso e le sorti. Come attributo cristiano della passione e della resurrezione di Cristo, si è affermata piuttosta tardi, alla fine del IV secolo, ed è sempre affiancata dai simboli del Sole e della Luna. Se ha quattro braccia uguali si dice ‘a croce greca’ che simboleggia la potenza del numero quattro, come le stagioni, gli evangeli e i segni fissi che li rappresentano: Leone, Acquario, Aquila e Toro. Quattro come gli Elementi e le Virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.
La Spirale: la curva priva di inizio e fine evoca l’idea di continuità e dell’evoluzione, ben rappresentata nel simnolismo esoterico dell’ouroborus, il mitico serpente del Tempio che si morde la coda.
Il Rombo , allude alla matrice della Grande Madre cosmica e alle sue potenzialità generative.
Il Cerchio è l’emblema indiscusso della perfezione, suggerisce nella continuità della sua forma, che non ha inizio né fine, l’idea della’eternità.
Una Linea orizzontale che gira tutt’attorno all’uovo allude alla linea del destino; ondulata ripropone il potere fecondativo delle acque, mentre se è verticale presuppone le concezioni primaverili della vita e della rinascita.
La simbologia esoterica, come abbiamo visto, gira più o meno, attorno ai pochi temi di riferimento, presenti in tutte le realtà culturali e le confessioni del mondo; ma ce nè un simbolo in particolare che si eleva su tutti gli altri, ed è l’Albero universale, con tutti gli annessi vegetativi, come i rami e le radici, le foglie e le bacche, ma anche il prato, i fiori, i frutti, che lo contornano:

«Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden e quivi pose l’uomo … e fece germogliare dal suolo ogni specie di alberi piacevoli d’aspetto e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male .»

Così la Bibbia. Ma la religione ebraico-cristiana non è l’unico contesto in cui il simbolo potente dell’albero vive e si moltiplica in un’infinita varietà di forme. Sì perché l’albero, con le sue radici che affondano nell’oscurità della terra e da questa trae la linfa vitale per la sua rigenerazione; altresì la sua chioma che si espande nella luce, riflette simbolicamente l’intenso desiderio umano di collegarsi alla realtà essenziale del mondo.È questa un’immagine ancestrale che ha preso forma nello spazio e nel tempo in cui si è formata, nella mitologia e nella religione, nel folklore popolare e nei saperi esoterici che si rinnova continuamente e prende alimento da una sorgente sacra al centro del mondo, sulla quale l’umanità ha modellato e dato corpo a un’aspirazione profonda: il perenne rinnovamanto della vita, la propria centralità nel cosmo, in un mondo armoniosamente ordinato.
All’ “Albero della vita”, Roger Cook (1) (Red edizioni 1987) ha dedicato un libro illustrato che ho rintracciato in una biblioteca di periferia, sotto l’etichetta ‘ Arte e Immaginazione’. Il prezioso volume di normali dimensioni è illustrato in modo splendido per cui offre al lettore che coltiva di questi interessi, la possibilità di un doppio escursus, testuale e fotografico, ricco e stimolante, col fare ricorso a materiali originali di studio e di verifica che motivano l’universalità del simbolo iconico preso a soggetto. In esso sono rappresentate tutte le culture, fin dalla visualizzazione della pittura firmata dai grandi artisti di ieri e di oggi, alla scultura come anche alla miniatura e alle anonime trame dei tappeti persiani e delle stoffe pregiate dell’Estremo Oriente.
Interessanti i temi trattati in indice: l’albero dell’immaginazione, della storia, della fertilità, dell’ascesa, del sacrificio, della conoscenza, della necessità interiore, e di quell’albero ‘cosmico’ capovolto, immutabilmente fisso nel mondo empireo, all’origine di innumerevoli tradizioni diverse. La si trova, per esempio, nei rituali sciamanici degli aborigeni australiani e presso i Lapponi, che, quando sacrificavano al dio della vegetazione, disponevano presso l’altare un albero capovolto, le cui radici crescono in alto e i cui rami si estendono verso il basso. Nei Veda e nelle Upanishad è l’albero cui ‘tutti i mondi riposano’ nella non-morte. È così che, mediante l’immagine dell’albero capovolto, la metafisica indiana riconcilia con molta sottigliezza il politeismo indù con il punto di vista monoteistico: perché tutti gli déi del suo pantheon interagiscono in funzione di un’unica radice nascosta.

«Un ritorno alle origini come per un rito di passaggio all’inverso, dunque?»

Umberto Eco (2), nel suo libro illustrato “Storia delle terre e dei luoghi leggendari” (Bompiani 2013), ci introduce, passo dopo passo, nell’immaginario umano così come si è espresso nel corso dei millenni. Scrive:

“La nostra immaginazione è popolata da terre e luoghi mai esistiti, dalla capanna dei sette nani alle isole visitate da Gulliver, dal tempio dei Thugs di Salgari all’appartamento di Sherlock Holmes. Ma in genere si sa che questi luoghi sono nati solo dalla fantasia di un narratore o di un poeta. Al contrario, e sin dai tempi più antichi, l’umanità ha fantasticato su luoghi ritenuti reali […] che hanno soltanto animato affascinanti leggende e ispirato alcune delle splendide rappresentazioni visive che in gran parte conosciamo (riportate in questo volume), altri hanno ossessionato la fantasia alterata di cacciatori di misteri, altri ancora hanno stimolato viaggi ed esplorazioni così che, inseguendo una illusione, viaggiatori di ogni paese hanno scoperto altre terre.”
Terre come Atlantide, Mu, Lemuria, le terre della regina di Saba, il regno del Prete Gianni, le Isole Fortunate, l’Eldorado, l’Ultima Thule, Iperborea e il paese delle Esperidi, il luogo dove si conserva il Santo Graal, la rocca degli Assassini, del Veglio della Montagna, il paese di Cuccagna, le isole di Utopia, l’isola di Salomone e la Terra Australe, l’interno di una terra cava e il misterioso regno sotterraneo di Agarttha, lo stesso Eden biblico, l’Inferno e il Paradiso danteschi, l’Eldorado, l’Albero della Vita, l’Uovo cosmico, che se esistono o, almeno, sono esistite nella fantasia o nei sogni di qualcuno, equivale a dire in certo qual modo che da qualche parte esistono, non vi pare?
Altri temi si annunciano non privi di interesse e ci riconducono, almeno spero, a quello spirito ancestrale da cui noi tutti, indissolubilmente, veniamo …

«Ma per favore, vogliamo tornare all’Uovo?»

«D’altronde quand’è che un uovo non racconta per diritto o per storto le pieghe segrete dell’esistenza umana e per riflesso di quella divina? Un uovo è al contempo il creato e la creazione: e la creazione, come è noto, si esprime nelle più svariate forme e differenti elaborazioni. In sintesi, più o meno tutto quello che abbiamo da dire a riguardo è che dentro un uovo c’è già tutto, il poco e l’assai, sia l’uno che l’altra, l’universo e il vuoto contenuti da un buco chiuso in se stesso: ma da quello che dice di sé, di solito, non lo si capisce» (3).

«Sì certo, ma non è che possiamo ricominciare!»
«Scusi, ricominciare da dove, dall’Uovo o dalla PasQua?»

Emblema antico di fecondità ed eternità, l’uovo era presente nella cosmologia egizia, in quella Fenicia e nell’ebraismo contrassegna la continuità della vita. Per i Cristiani è rappresentazione della Resurrezione dalle tenebre e dalla morte

«Ma l’avevamo già detto!»

Se il pulcino che sbuca dall’uovo è metafora di questa rinascita (e del Cristo risorto), le uova decorate e colorate sono segno di buona sorte e di roseo futuro anche per gli antichi Persiani, che se le scambiavano in alcune cerimonie religiose. Sono diventate persino prezioso regalo della Pasqua del 1885 in Russia, quando l’orafo e gioielliere di corte Peter Carl Fabergé accontentò lo zar di tutte le Russie Alessandro III che volle un originale pegno d’amore per la moglie Maria Fyodorovna, dando il via alla realizzazione delle costosissime e bellissime uova Fabergè.

«Alle uova della ‘Leda’ di Leonardo, di cui rimangono soltanto alcuni bozzetti, o a quelle di Maria F. ?»

Restiamo con Barbara Martusciello (4), la quale ci illumina sull’ Uovo attraverso l’arte:
“L’Alchimia lo assume a catalizzatore di significati oscuri e l’arte non si esime dalle raffigurazioni delle uova in opere di tutti i tipi, gli stili e i materiali. La più celebre è forse la grande tempera e olio su tavola di Piero della Francesca, oggi conservata nella Pinacoteca di Brera a Milano, databile al 1472 circa e nota come ‘Pala di Brera, o Montefeltro’. È una ‘Sacra Conversazione’ con la Madonna col Bambino, sei santi, quattro angeli e il donatore (Federico da Montefeltro). Al centro, in un’esedra semicircolare che racchiude una copertura a forma di conchiglia, campeggia un piccolo, perfetto uovo di struzzo che pende appeso a un filo e illuminato dalla luce. Il significato più accreditato ed evidente di questa figura emblematica – oltre all’articolato richiamo al dogma della verginità di Maria –, inteso comunemente come simbolo di vita e della Creazione, corrisponde all’Assoluto divino, centro e fulcro dell’Universo.
La raccontiamo iniziando dal grottesco dipinto di Hieronymus Bosch ‘Le concert dans l’œuf’ (Il concerto nell’uovo) riprodotto nella copia nel XVI secolo (oggi al Musée de Beaux-Arts Lille) dal ‘Maestro di Lille’, perché l’originale fu perduto; non dimenticando il Barocco di nature morte con gusto (Georg Flegel, ‘Spuntino con uova’, 1600 circa, Staatsgalerie, Castello di Johannisburg, Aschaffenburg) e dello spagnolo Diego Velasquez che vede anch’egli nell’uovo doti da leccarsi i baffi: nella ‘Vecchia friggitrice di uova’, 1618 (National Gallery of Scotland, Edimburgo) non c’è simbolo che tenga poiché v’è un tale realismo che pare di sentire il profumo delle uova fresche appena cotte… Una sinestesia che scaturisce anche di fronte alla solida, corposa ‘Natura Morta con pane e uova’ di Paul Cezanne (1865, al Museo di Cincinnati) e poi a quella di Georges Braque (1941) dove l’uovo è a scaldare sulla stufa…
Dalle uova imbiondite e croccanti passiamo ora a quelle di cioccolata, a ricordare la Pasqua, l’allora fiorente industria (dolciaria) italiana e una tradizione nell’eccellenza dell’illustrazione pubblicitaria: ecco Fortunato Depero che nel 1927 crea la locandina per ‘Uova Sorpresa’ dell’azienda Unica di Torino. Dal Futurismo ci affacciamo sulla magica sospensione spazio-temporale di Felice Casorati (con il piccolo olio su tela ‘Uova su libro’, 1949; i più grandi ‘Uova e limoni’; ‘Uova sul tappeto o sulla scacchiera’; ‘Maternità con uova’, 1958; ‘Notturno: uova’, 1959) e analizziamo l’archetipo dell’ovale nel Surrealismo, dove prende forma ed è riposto in nidi indecifrabili o nelle gabbie di Renè Magritte.
Tra gli artisti dell’inconscio e dell’onirico, Man Ray inserì l’uovo in alcune sue sperimentali composizioni fotografiche chiamate, per la tecnica a contatto pionieristica, con il suo nome – ‘Rayogrammi’ – e lo acclamò, per linda perfezione e carico simbolico, nel più netto e categorico ‘Uovo di struzzo’, 1944. Se la bizzarra, surrealisteggiante Leonor Fini, ne ‘La Guardiana dell’Huevo negro’ (1955) aggiunge un interessante versione occulta del tema, fu Salvador Dalì a primeggiare in questo, tra l’altro abbellendo in modo incredibile l’architettura del suo teatro-casa-museo a Figueres, città in cui egli nacque (1904) e abitazione dove morì nel 1989. Egli dipinse ironiche ‘Uova al tegame con tegame’ (o nel piatto col piatto), 1932, e passò a più concentrate riflessioni con ‘La metamorfosi di Narciso’, 1937 (alla Tate Gallery, Londra), in cui il giovane della mitologia greca, famoso per la sua bellezza, si specchia mentre accanto a lui una mano si materializza porgendo un uovo che è schiuso dal germogliare di un fiore. C’è tutto, qui: la leggenda greca, la punizione, la metamorfosi e, infine, la vita eterna.
Nuova di zecca, come è nuovo l’uomo-bambino ‘Geopoliticus’, eseguito nel 1943 nel ritiro americano di Dalì e della moglie e musa Gala: lì l’uovo indica più la nascita del novello Mondo – gli Stati Uniti – che un riferimento spirituale e universale… Che, invece, ritroviamo nel Dalì-uovo immortalato in una delle originali foto del sodale Philippe Halsman: per l’effetto-bozzolo che raffigura, sembra ideale spunto per il dipinto ‘L’aurora’, 1948, in cui l’uomo (ri)sorge dall’enorme guscio alle cui spalle s’irradiala la luce-tuorlo. Nel 1973 serpenti, donne-Eva ammiccanti e un grande uovo sono il suo contributo per il numero speciale di Playboy Magazine. Insomma: sacro e profano si rincorrono, si sovrappongono e si ammantano di ambiguità misterica: di quest’ultima sono piene le piazze d’Italia e le ‘wunderkammern’ di Giorgio De Chirico (l’uovo è inserito in molti suoi quadri).
A svelare qualche arcano e mostrare l’evidenza dietro gli emblemi della società – di massa – ci penserà poi Andy Warhol: con la sua massiva produzione di immagini seriali tra le quali quelle di piatte uova multicolor; il suo talentuoso figlioccio disperato, l’unruly child del gesto graffitistico Jean Michel Basquiat torna, con ‘Eyes and Eggs’ (olio su tela, 1983), alla dimensione quotidiana, alla fame di cibo, di amore, di 15 minuti di successo per tutti, il (degno?) nipotino di Warhol, Jeff Koons tridimensionalizzerà e monumentalizzerà le uova (di Pasqua) virando verso il lato kitsch dell’immaginario iconico, a differenza dell’originale Claes Oldenburg, che si ferma appena prima (in varie declinazioni museali di ‘Sculpture in the Form of a Fried Egg’.”
L’Uovo rientra nella scultura di Vittoria Marziari (5) “..affascinata dal mistero degli spazi cosmici e interiori che costituiscono la sua inesauribile fonte d’ispirazione, che si vuole definire scultura filosofica”, nell’emozionante bronzo intitolato ‘Amanti segreti’ dove i due ‘amanti’ si sovrappongono all’interno della ‘forma dell’uovo’ che si dischiude nell’emozione dell’idillio manifesto che s’apre all’amore. Momento che altresì trasforma “..l’immensa energia universale nella forma dell’arte, e che avvicina l’artista a quel misterioso soffio che fa muovere tutte le cose” (W. Fabbri). Un’eccellenza tutta italiana nel campo dell’arte e la prima scultrice donna ad aver ricevuto l’onoreficienza di Cavaliere della Repubblica Italiana nel 2016 per le sue riconosciute qualità artistiche.Dell’artista è apparso su questo stesso sito larecherche.it l’articolo con nota critica di Giorgio Mancinelli, intitolato “La danza immobile, la ‘poesia delle forme’ nei ‘lunghi silenzi’ dell’arte contemporanea”:

“Dagli albori dei tempi, nascondi la verità, con ingannevoli lusinghe e sfaccettature”
“Non udisti, non vedesti, ma inaspettata giunse la tempesta”.
“Non è la tenebra, ma la luce, quella sottile attrazione che ti spinge a gaurdare oltre il sipario”.
“Svuotiamoci dal torpore che inibisce il nostro risveglio”.
“Oltre le vesti il cuore, donando, amando”.

Sono queste solo alcune delle frasi altamente ‘poetiche’ afferente ad altrettanti ‘titoli esperienziali’ di avita bellezza trascendentale che accompagnano le opere scultoree di Vittoria Marziari, che oggi ci consentono di assaporare in pieno il gusto e il senso della profonda quietudine che ci viene incontro nelle forme che con maestria ha ricavato dalla materia, nel racconto dominato dal ‘silenzio’ … quel silenzio che nulla toglie alla bellezza che noi tutti, nel confronto visuale di rimando con le sue opere, ci portiamo dentro.

L’Uovo è il principio: Buona Pasqua.


Note:
(*) L’intero articolo è tratto in gran parte dallo studio e ricerca sull’argomento afferente all’Uovo di Pasqua, di Laura Tuan, apparso in ‘Astra’ - Editoriale Astra (1975?)

1) Roger Cook, “L’Albero della Vita” – Le radici del cosmo, (Red edizioni 1987)
2) Umberto Eco, “Storia delle terre e dei luoghi leggendari” (Bompiani 2013)
3) Giovanni Nucci, “E due uova molto sode” – Gaffi Edit. 2017
4) Barbara Martusciello - per la parte afferente all’arte contemporanea, articolo apparso in ‘My Where’ del 23 Marzo 2016
5) Vittoria Marziari – “Amanti segreti” (nell’immagine) - bronzo 2015, è parte integrante del suo vasto curriculum ricco di riconoscimenti e premi. L’artista ha esposto in musei, ambasciate, consolati, Istituti Italiani di Cultura, Palazzi Comunali ed Expo d’Arte Internazionali. Svolge la sua attività a Siena nell’atelier di via Stalloreggi 23 e nel laboratorio di via dei Tufi, adiacente al parco “Sculture di luce” ideato e inaugurato dall’artista nel giugno 2013.


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- Società

L’uomo che ride, ovvero in che cosa consiste il risibile.

L’UOMO CHE RIDE: Ovvero, in che cosa consiste il risibile (?)

 

Che cosa ha in comune una smorfia sulla faccia di un pagliaccio con un gioco di parole? Un verbale qui pro quo preso da un vaudeville e una scena vagamente seriosa di una commedia? Quale distillazione segreta rivela l’essenza di un odore indiscreto o un profumo delicato? Chi sa rispondere si faccia avanti, ogni risposta o anche la semplice ipotesi va bene. Noi (plurale maiestatis per significare noi moderni) ci abbiamo provato e siamo giunti, dopo molte ricerche, a trovare il 'dunque' o il 'quonqueribus' se volete (detto così alla romana, che personalmente non so che cosa voglia dire, ma l'ho sempre trovato un dire risibile, ridibile o come vi piace, che mi ha sempre fatto ridere). Ed ecco che infine una definizione, per quanto semplicistica, è stata formulata, e per qualcuno potrebbe anche valere come risposta:

 

Il riso è il prodotto dello spirito.

 

Finanche “..i più grandi pensatori, da Aristotele in poi, sono scivolati sovente sul comico, cimentandosi con questo sottile problema che sfida lo sforzo della soluzione, sfuggendole, impertinente quanto gettato alla speculazione filosofica” – (Bergson “Il riso”); sono infine "..riusciti a definire l’essere Dio, ma quando sono arrivati a spiegarci (l’essenza del ridere), si sono avvolti in una serie di contraddizioni e ne sono usciti, dopo immensi sforzi, con risposte esilissime” (U. Eco “Il nemico dei filosofi”). L’importanza pratica del ridere risiede, infatti, nel suo applicarsi (in primis) a noi stessi, nel cercare di classificare l’effetto sugli altri (secondi), per affinare l’umana capacità di percezione psicologica. Quando però cerchiamo di farlo (verso noi stessi mai, molto spesso nei confronti degli altri), scopriamo che, mentre è facile trovare da ridere degli altri, siamo dubbiosi e perplessi nei nostri riguardi, e cioè non siamo capaci di ridere di noi stessi seppure in molti casi sappiamo renderci ridicoli.

 

Paura di scoprirci e quindi di rivelarci per quello che siamo?

 

Probabilmente sì, se talvolta dopo aver aggettivato qualcuno (mettendolo alla berlina), evidenziando un suo difetto o una défiance tanto per ridere, ci accorgiamo, guarda caso, che avremmo potuto attribuircene la medesima aggettivazione, provocando in noi stessi il timore di riconoscerci quali intimamente siamo. Se è vero che esistono individui inclassificabili (persone apatiche e poco sviluppate mentalmente, non di meno, quelle più evolute e versatili che hanno raggiunto un certo avanzamento nelle diverse aree della personalità), è anche vero il contrario, cioè che si possono ben classificare numerosi altri individui attraverso il linguaggio delle loro espressioni, di cui il ridere è una delle qualità più importanti.

 

Riporto qui un detto: “Talvolta fa più una risata che una …”. di cui lascio il seguito a vostro piacimento, ma è piuttosto comico che un fenomeno sociale di tali dimensioni paia così ambiguo e contraddittorio. In fondo tutti ridiamo in un certo modo, ognuno diverso dall’altro, tuttavia senza saperne sempre il perché. Probabilmente il comico che ci fa tanto ridere provoca in noi risultati diversi secondo le condizioni del corpo sociale che lo consuma. Un po’ “come il sonno, che ritempra o rincretinisce, secondo della notte o del giorno, dell’ora, della stagione in cui è consumato” (U. Eco op. cit.). “Come il sonno … se solo Umberto Eco avesse scritto «come il sogno» forse, l’avrei capito, perché avremmo fatto un passo più avanti verso la soluzione del problema” – (B. Placido “Il riso”).

 

Ridere sano in corpore sano.

 

Suggerisce il medico, e ciò perché mediante una buona e sana risata avvengono la dilatazione e la contrazione dei vasi sanguigni a favore della respirazione, come pure le variazioni di caldo che accompagnano il riso mostra un complicato influsso delle ghiandole endocrine, le cui polarità, se ben regolate, sono attive nell’equilibrio dinamico che rende possibile una migliore vita fisica. Per non parlare della quantità di muscoli facciali che entrano in funzione nel momento stesso che ridiamo. Lo stesso vale per la nostra vita psicologica, nella quale “una sana risata” tende a correggere gli eccessi e le deviazioni, col risvegliare gli elementi attivi opposti e complementari a quello dominanti. In breve, da sempre in una frase si dice che:

 

Una risata allunga la vita.

 

La frase, ripresa anche in un famoso spot televisivo, se anche così non fosse, sicuramente la renderebbe migliore. Per dire che una sana risata aiuta a essere migliori, più tranquilli, più gioviali, più accondiscendenti, più simpatici, insomma più, aprendo a quel quid che manca in certi momenti della vita. “Il comico è giustiziere, ridimensiona uomini e istituzioni, demistifica, riveste funzione di critica sociale … ma del pari, il comico è strumento di conservazione, diverge le energie contestatarie, acquieta le irritazioni” (U. Eco op. cit.). Se cercate un pretesto, per essere solidali con voi stessi e con gli altri, il consiglio del medico e del filosofo è senza dubbio: Ridete! Sicuramente vi farete degli amici e, chissà? Magari potreste anche fondare un partito.

 

Slogan a parte, talvolta ridere è talvolta causa di eccesso, produce reazioni esagerate, tendenti a sopravvalutare le qualità mancanti nell’individuo che ride, arrivando persino a essere giustificativo di un’esuberanza mal riposta; che, se osservata come comportamento esteriore, rasenta, per effetto della reazione che si ottiene, l’impulsività e l’insolenza, fino a raggiungere la crudeltà. Qui il gioco si fa più difficile, la prima cosa da farsi è applicare lo slogan sempre valido, che recita: Dimmi come ridi e ti dirò chi sei. Che non è lo stesso di chiedere: “Dimmi con chi si ride, e …” che ci coinvolge in altri approfondimenti. Qui non si tratta di accettazione passiva e inconscia del proprio carattere, come possiamo osservare nella massa delle persone che si lasciano trasportare ciecamente dagli eventi.

 

Bensì si tratta di mettere in pratica almeno due metodi riconosciuti: quello "del riconoscimento” e quello "del consenso” allo stesso tempo, in modo consapevole, sia delle possibilità inerenti al tipo psicologico che riconosciamo in noi, che delle sue o nostre opportunità e dei suoi o nostri limiti, come espressione, nel modo più puro e più evoluto, della nostra disponibilità a trovare una giustificazione. Il secondo compito che va affrontato per meglio individuare il “tipo psicologico” di appartenenza, è quello di controllare e correggere gli eccessi provenienti dall’esterno, cioè dagli altri, per non cedere a una sorta di disarmonia con noi stessi. Con ciò che siamo e che ci degrada nel senso della moralità e del rispetto totale degli altri (leggi dell’umanità che ci circonda), per continuare a esprimere e sviluppare una certa libertà nel criticare e, al tempo stesso, le facoltà di autocritica già attive in noi.

 

In conclusione questa mi pare, essere una condizione piacevole e fruttuosa, apparentemente positiva, sebbene va con sé che non sia per niente futile: "Ride bene chi ride ultimo".

 

(fine prima parte)

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- Società

Non solo mimose, 8Marzo festa delle Donne

‘Non solo mimose’, 8 Marzo festa delle donne.

Per comprendere e ricordare il vero significato della ricorrenza dell’8 marzo, torniamo a parlare di Donne, naturalmente di tutte le donne, che siano pazze, sognatrici o rivoluzionarie,cantanti, ballerine, matematiche, scrittrici, scienziate, prostitute, curanderas, calciatrici, pilote d’aereo, schiave, rabdomanti, giornaliste, vagabonde, suore, filosofe, poetesse, amanti, guerrigliere … di tutto ciò che sono e che vogliono essere ...

'Volubil sempre come foglie al vento' (Boccaccio)

Tutto quì, sicuro che si vuole/debba solo parlare di loro in tal modo?

Ci si può sempre offrire in ostaggio ... du, du dù! per amarle non usare loro violenza, riconoscere loro quel donarsi con e per amore.

Per loro la vita può essere ripartita in tre fasi: 'sognare l'amore, praticare l'amore, rimpiangere l'amore. Prima il bacio e poi le unghie. (di anonimo)

Ma infine è sempre quello: l'amore, e non è poco se sono sempre loro a praticarlo, non vi pare?

'Come ammettere che (la donna) è la regina del mondo e la schiava di un desiderio!' (Balzac)

Di fatto ciò non è una colpa. Certo che no, ma suona come un atto d'accusa contro l'egoismo, l'individualismo eccessivo, la trascuranza e la nullità di certi uomini.

Quindi è colpa degli uomini se le donne sono ... come sono?

Le donne però, a differenza degli uomini, sono sempre disposte a perdonare ... anche se non sempre a dimenticare.

Dunque, il loro maggior nemico non è l'uomo (questo sconosciuto) bensì, 'quella pietà che gli fa fare la maggior parte degli spropositi che fanno'. (Baretti)

Buono a sapersi, quindi per l'8 Marzo regaliamo a tutte daffodils, rose e tulipani gialli, giunchiglie e quant'altro purchè donati con amore.

Ecco, l'unico merito di un uomo è il buon senso ... quando ce l'ha.
Pertanto, messi da parte i più virili pensieri, resto a disposizione limitandomi a godere di sentirle pronunciar parola in un qualche balzello letterario.

Auguri, dunque, che Marzo lustri per voi i fiori più belli, 'non solo mimose'.

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- Poesia

Franca Maria Catri … o l’altrove indicibile della poesia

Franca Maria Catri … o l’altrove indicibile della poesia contemporanea.

 

C’è un tempo di frattura minimale in cui si misura lo spazio restante da quello che precede l’attimo successivo, anche detto crack-up*, che si offre come spazio liminare all’impulso creativo da cui scaturisce la ‘luce’ primordiale e avveniristica dell’idea, dell’arte, della composizione musicale così come della poesia. Impulso propulsivo che permette alla parola poetica di disgiungersi dalla materia letteraria e divenire pura essenza dispersa nell’aere della concettualità estetica e percettiva. Ciò che nulla toglie alla scrittura poetica allorché, nell’interscambio modale con il poeta, il lettore interpone la propria empatia a quella dell’autore/trice.

Con un’espressione finemente poetica in apertura della sua silloge di recente publicazione “Ti chiedo al vento” (**), Franca Maria Catri ne offre al lettore un esempio tangibile:

..tra petali di libri / il tramestio di foglie / il giusto e l’ingiusto del fiore”.

In cui la chiave di lettura ‘psicologica’ è fissata nello stato d’animo del poeta in quello che è il suo momento creativo, nel coinvolgere emotivamente il lettore nel suo messaggio: lì dove l’amore per i libri, connaturale alla sostanza fibrosa della materia, si scioglie/sfoglia in petali di fiori che s’aprono alla nascente/morente stagione; in cui il frusciare delle pagine coincide con il tramestio delle foglie al vento/aere che l’accompagna attraverso l’arco/soglia posto tra l’inizio e la fine, al limitare de “il giusto e l’ingiusto del fiore”.

Non la ricerca di una soluzione al crack-up iniziale, bensì il responso imperscrutabile di un ‘altrove indicibile’ che trova luogo nell’assenza, nel pieno/vuoto cosmico della sua proiezione filosofica nella poesia contemporanea; di un ultimo grado di investigazione cui sottoporre ogni intima certezza/incertezza della relatività umana. Una ‘immagine inadeguata del morire – scrive Flavio Ermini nella postfazione che accompagna la silloge poetica – in cui lo splendore essenziale, si fa strada attraverso l’inerzia della materia visibile e si riverbera proprio su quell’invisibile alfabeto che immaginiamo ..a un passo dal cuore’.

Un’immagine questa indubbiamente suggestiva, per quanto afferente al binomio vita/morte empaticamente legate alla percezione antropomorfica della natura umana che le rende entrambe preziose nella scrittura connettiva dell’autrice, lì dove ‘si svincola dal mondo dei corpi per abbracciarne l’intima essenza’ (F. Ermini): “Questo è il punto / in cui si comincia a morire / la pietra di un inciampo”; non è solo una parafrasi poetica, bensì è ciò che da senso a “il giusto e l’ingiusto del fiore”, all’essere qui per il tempo dell’inizio, per non essere più alla sua fine, esattamente come accade per la vita nella morte.

Certamente un lasso breve di tempo che, paragonato all’infinito cosmico, non è più di un casuale inciampo, la pietra/terra su cui instancabilmente camminiamo; il sasso/passo originario quale ‘immagine più adeguata del nostro vivere’ quotidiano, nel riscontro speculare con ‘l’immagine inadeguata del nostro morire’. Un “appuntamento al buio” che sappiamo di non poter perdere, che Franca Maria Catri mostra di aver individuato nei corsi e i ricorsi di una storia vissuta a lungo eppur breve nel suo dispiegarsi, e che continua a scorrere “oltre il grido di ferro delle navi” dirette verso quel “fine di corsa” che “esangue vuoto di forme / bussa forte alla mente” … «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato» (*), per un’ultima replica.

Ma sarà l’ultima? No, perché ciò che scriveranno coloro che verranno dopo di noi, per quanto consci della ‘mala ora’ che il tempo avrà loro segnato, sanno di avere dalla loro parte la forza germinale di un ‘altrove’ che va oltre la conoscenza del passato, oltre la dinamica proiezionale del futuro …

 

“ultima replica

la messinscena della primavera

prova un sorriso

si ritrae

non toccherà il tuo ultimo sangue

 

se la fine ha un principio

tu lo sapevi il punto

in cui si comincia a morire

la pietra di inciampo

- fuoricampo l’eterno che ci fonda

sopravvive -

 

tu lo sapevi bambino dagli occhi di sole

bambino di pioggia

passo a passo le ore

scagliano pietre

rubano petali

al tuo stupopre animale

 

come sarà perdonare la vita

il disperato odore di bellezza

per sottrazione

un po’ di terra

quello che rimane

tu lo sapevi …”

 

. . .

 

“ti chiedo al vento

respiro gentile che sfiora il mare

scioglie le onde in farfalle di sole

in campo azzurro

pascola nuvole piccole

innamorato accarezza

la luna d’agosto

va sui pini e le rose

si culla sui prati

allaccia case

in confidenza di finestre

odore di pane

e favole antiche

 

ti chiedo al vento

generoso che lega terre e distanze

racconta voci e silenzi

a medicare sconfinate solitudini …”

 

Al dunque, “se la fine ha un principio” – rivela l’autrice Franca Maria Catri – la vita è ciò che sta nel mezzo, quanto ci concerne di apprezzare in quanto dono, nel bene e nel male di un ‘principio che contempla la fine’ quale mezzo di affrancamento al nostro pur meraviglioso esistere.

 

Nota biografica:

Franca Maria Catri è nata a Roma, dove vive. Ha lavorato per molti anni come medico in un quartiere periferico segnato da tutte le solitudini della nuova marginalità urbana. Cerca nel suo lavoro e nella scrittura il segno di una corrispondenza. Ha ottenuto autorevoli giudizi critici, presenze in antologie e testi di poesia contemporanea, premi di saggistica e riconoscimenti a livello nazionale e internazionale.

Tra le sue pubblicazioni più recenti, vanno qui ricordate: “Maschera neutra sulla prima voce” , Rebellato, Padova 1984; “A passi trasversali”, Forum, Forlì 1988; “Antinòo”, Mistral, Treviso 1990; “Il corpo il sogno”, Gazebo, Firenze 2004; “La rosa afgana”, Gazebo, Firenze 2009; “Uccelli di passo”, Gazebo, Firenze 2013. Per Via Heràkleia: Forme della poesia contemporanea: “Ti chiedo al vento” n.51 della Collana ideata da Ida Travi e Flavio Ermini.

 

Note: (*) dall’omonimo racconto “The crack-up” di F. Scott Firgerarld. (**) da “Ti chiedo al vento” - Cierre Grafica - Anterem Edizioni 2018.

 

Sitografia: www.anteremedizioni.it direzione@anteremedizioni.it

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- Cinema

MyFrenchFilmFestival

MyFrenchFilmFestival: più di 10 milioni di visualizzazioni
Articolo di Fabien Lemercier – in collaborazionwe con Cineuropa News

20/02/2018 - In inglese: Nuovo record per il festival online di UniFrance. La giuria dei cineasti presieduta da Paolo Sorrentino consacra Les Derniers Parisiens


For the third year in a row, MyFrenchFilmFestival, the online event organised by UniFrance broke records. After 6.5 million views in 2016 and 6.7 million last year, the 8th edition of the festival (read the news here), which took place from 19 January to 19 February, smashed its previous record with more than 10 million views. On the MyFrenchFilmFestival.com platform, the five countries with the most views were (in order): Mexico, Brazil, Argentina, Poland and Russia. But the festival was also accessible via fifty partner platforms around the world and China established itself as the most consumer-heavy region via Jia Screen (the platform founded by Jia Zhangke).
The Filmmakers’ Jury Award (chaired by Paolo Sorrentino along with Julia Ducournau, Brilliant Mendoza, Kim Chapiron and Nabil Ayouch) crowned Paris Prestige by director duo Hamé and Ekoué as the winner, and awarded a special mention to Willy 1er by Ludovic and Zoran Boukherma, Marielle Gautier and Hugo P. Thomas. For its part, A Wedding by Belgian director Stephan Streker scored a double-whammy, scooping up the Audience Award and the International Press Award.
Awards:

Filmmakers’ Jury Award
Paris Prestige – Hamé et Ékoué
Filmmakers’ Jury Special Mention
Willy 1er - Ludovic Boukherma, Zoran Boukherma, Marielle Gautier et Hugo P. Thomas
Lacoste Audience Award
Feature film: A Wedding – Stephan Streker (Belgium/France/Luxembourg/Pakistan)
Short film: La Mort, Père & Fils – Winshluss and Denis Walgenwitz
International Press Award
Feature film: Noces – Stephan Streker
Short film: La Mort, Père & Fils – Winshluss and Denis Walgenwitz
I vincitori e le cifre record dell'8° edizione di MyFrenchFilmFestival!
L'8° edizione di MyFrenchFilmFestival si è appena conclusa. Gli ultimi parigini di Hamé e Ékoué vince il Premio della Giuria dei Cineasti. Con più di 10 milioni di visualizzazioni, il festival registra un nuovo record.
Il festival registra un record per il 3° anno consecutivo
Con più di 10 milioni di visualizzazioni in tutto il mondo contro i 6,7 milioni nel 2017, il festival raggiunge un nuovo record!
I 5 paesi che hanno registrato il maggior numero di visualizzazioni sulla piattaforma MyFrenchFilmFestival.com sono (nell'ordine) :
• Messico
• Brasile
• Argentina
• Polonia
• Russia
A titolo informativo, MyFrenchFilmFestival era visibile su oltre 50 rinomate piattaforme partner : le piattaforme mondiali iTunes (in 91 territori), Google Play, Amazon Instant Video, Dailymotion, YouTube, Facebook, Windows, Sony, MUBI, Pantaflix e ancora FilmDoo, ma anche CableTV VOD (Corea del Sud), Jia Screen (Cina), Filmin (Spagna, Portogallo, Messico), Curzon Home Cinema (Regno Unito), MyMovies e IndieFilmChannel (Italia), Movistar+ (Spagna), TriArt (Svezia), Proximus et UniversCiné (Belgio), VOD.lu e Post Telecom (Lussemburgo), TV5 Monde Cinema on Demand, inDEMAND, Vubiquity, Vudu, FestPicks, Filmatique, FilmFestivalFlix e Le CiNéMa Club (Stati Uniti), Orange (Romania e Costa d'Avorio), ivi e Megogo (Russia, CEI), Qubit.tv (America Latina), Cinepolis Klic e Morelia (Messico), ONET.pl e TVP VoD (Polonia), Aoyama, Videx, Digital Screen, Uplink Cloud, VideoMarket, Precine e Gyao (Giappone)...
I vincitori sono stati premiati questo lunedi 19 febbraio 2018 a Parigi in occasione di una cerimonia presso il Secrétariat d'État au Numérique alla presenza del Primo Ministro, incaricato del Digitale Mounir Mahjoubi
Isabelle Giordano (direttrice generale di UniFrance) ha assegnato i seguenti Premi:
Il Premio della Giuria dei Cineasti
La Giuria dei Cineasti, presieduta da Paolo Sorrentino e composta da Nabil Ayouch, Kim Chapiron, Julia Ducournau e Brillante Mendoza ricompensa il film :
• Gli ultimi parigini, di Hamé e Ékoué
Il film vince una dotazione di 15 000 euro (5 000 € per i registi, 5 000 € per il produttore e 5 000 € per l'esportatore).
Per la seconda volta dalla creazione del festival, la Giuria ha scelto di premiare un secondo film attribuendogli una Menzione Speciale per premiare la proposta artistica dei suoi registi :
• Willy I, di Ludovic Boukherma, Zoran Boukherma, Marielle Gautier, Hugo P. Thomas
I Premi della Stampa Internazionale
La Giuria della Stampa Internazionale composta da Fabio Ferzetti, Sabine Mann, Fernando Ganzo, Finn Halligan, Yana Labushkina ha deciso di premiare i seguenti film:
• Un matrimonio, di Stephan Streker (lungometraggio presentato in partenariato con Wallonie-Bruxelles Images (WBI))
• Death, Dad & Son, cortometraggio di Winshluss e Denis Walgenwitz
Il Premio Lacoste del Pubblico
Il pubblico di MyFrenchFilmFestival quest'anno ha votato in massa. Con più di 50 000 voti, ha scelto di premiare:
• Un matrimonio, di Stephan Streker (lungometraggio presentato in partenariato con Wallonie-Bruxelles Images (WBI))
• Death, Dad & Son, cortometraggio di Winshluss e Denis Walgenwitz
I film premiati saranno diffusi a bordo degli aerei Air France per una durata di 6 mesi, a partire dall'estate.
Anche quest'anno degli eventi federatori in tutto il mondo
Oltre alla piattaforma MyFrenchFilmFestival.com e alle sue piattaforme partner, il festival ha offerto al pubblico l'occasione, in molti luoghi in giro per il mondo, di riunirsi fisicamente per godere collettivamente del meglio del giovane cinema francese e francofono!
Proiezioni di cortometraggi della selezione sono state organizzate a Parigi all'Atelier Renault sulla “più bella avenue del mondo”: gli Champs-Élysées. E' stata l'occasione, per i registi francesi, di intrattenersi con il loro pubblico e di condividere un momento di convivialità in questo luogo emblematico parigino.Morgane Polanski è, tra gli altri, venuta a presentare in anteprima il suo secondo cortometraggio La carezza.
Grazie al partenariato stabilito con l'AEFE, delle proiezioni hanno avuto luogo anche in una ventina di istituti scolastici in tutto il mondo come a Tokyo, Los Angeles, Varsavia o ancora Dubai. Inoltre, grazie all'appoggio della rete degli Istituti francesi, il film della selezione sono stati diffusi sul grande schermo in Russia, in COlombia, in Brasile, in Egitto e in Italia.

Diverse migliaia di persone hanno anche partecipato al concorso di MyFrenchFilmFestival su Facebook. Come premio, un viaggio a Parigi e 5 notti all'Hotel Scribe, valido per 2 persone grazie al sostegno di Air France e dell'Hôtel Scribe.
Altra novità di quest'anno, la playlist du festival e la playlist du Jury, redatta in collaborazione con il Bureau Export, sono sempre disponibili su molti canali di diffusione.
MyFrenchFilmFestival è organizzato da UniFrance, con il sostegno di:
CNC - Ministère de la Culture - Ministère de l’Europe et des Affaires étrangères - Institut français - Telefilm Canada & Talent Fund - Wallonie-Bruxelles Images - Swiss Films - Alliance Renault-Nissan-Mitsubishi - Lacoste - TitraFilm - Air France - iTunes - AEFE - Le Monde - Variety - Télérama - TV5 Monde - France Médias Monde - Dailymotion - CIAK - Quadro por Quadro - Critic.de - Corre Camara - Orange - Los Inrockuptibles- AlloCiné - AdoroCinema - SensaCine - SensaCine México - FILMSTARTS

Gli ultimi parigini
Les Derniers Parisiens

Non appena uscito di prigione, Nas torna nel suo quartiere, Pigalle, dove ritrova i suoi amici e Arezki, suo fratello maggiore e proprietario del bar Le Prestige. Nas è deciso a volersi rifare un nome e Le Prestige potrebbe servigli da trampolino…
ELLE
E' un Cassavetes alla francese: filmato con la cinepresa sulla spalla, all'altezza dell'umanità, andremo a vederlo per incanagliarci e ne usciremo sconvolti.
LE NOUVEL OBSERVATEUR
In questo film aleggiano una poesia aspra, un'energia folle, delle emozioni grezze. Ma il film ha soprattutto una qualità rara : l'anima.
LE PARISIEN
Hamé e Ekoué, fondatori del gruppo rap La Rumeur, per il loro primo lungometraggio realizzano un'immersione affannosa in una Pigalle di delinquenti, di bar e di una notte in pieno mutamento.
PARIS MATCH
Vero "close-up", questa tragedia moderna di due fratelli nati in periferia e che vogliono cavarsela, consacra due registi. Grazie a loro, Pigalle "la Blanche" non aveva mai avuto colori cosi' belli...
PRESSE
André
-
Paul Ricci et
Tony Arnoux
6 place de la Madeleine, 75008 Paris
Tél.: 01 49 53 04 20
tonyarnoux@orange.fr
apricci@wanadoo.fr

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- Società

Sanremo Wince - cronaca

SANREMO 2018 WINCE

Eleganza, charm, raffinatezza, cordialità, Sanremo riscopre se stessa e la canzone italiana. Non si era mai visto un festival così, malgrado qualche piccolo scivolone di stile, scusabilissimo in una ‘diretta’ di più di cinque ore ogni sera. Del resto se il da farsi sul palco per i pur bravissimi Pierfrancesco Favino e Michelle Hutzigher, come si è visto è stato esorbitante, non si riesce a pensare cosa dev’essere stato dietro le quinte, visto il numero degli addetti ai lavori che, stando ai ritmi frenetici, hanno reso lo spettacolo effervescente e dinamico. Certo, si può dire che questo 68 Festival è stato il festival di Baglioni per Baglioni, visto che da solo ha diretto, cantato, duettato, presentato, più di tutti i concorrenti e presentatori messi insieme. Ma è andata bene così, è indubbiamente l’autore/cantante più preparato, più eloquente in fatto di musica, compositore e paroliere di grande successo come se ne conoscono pochi; colui che ha fatto cantare generazioni di innamorati, più giovani e diversamente giovani, conoscitori delle sue canzoni fin da saperle tutte a memoria (chi di noi no). Ma la vera voncitrice del festival è la Canzone Italiana che sembra aver ritrovata la sua vena migliore. Testi bellissimi e coerenti con l’attualità, con i problemi sociali e intimistici che ci portiamo dentro, ed anche con la risolutezza dell’amore vissuto ogni giorno, la diversità degli approcci con la realtà, tutta la bellezza di cui siamo capaci di dire con le parole che, se non è paragonabile alla poesia, chi saprà mai dirci perché, le è sorella d’istintiva emozione. È infatti all’emozione che vanno riferite quelle ‘che non sono solo canzonette’ e che il mondo intero spesso riconosce essere frutto di una sensibilità tutta italiana di esprimere i sentimenti, le angustie e le paure, le passioni come i desideri, portatrici di un profumo avvolgente e sensuale. Possibile che siano solo pulsazioni del garbo e della raffinatezza che, seppure non la si riscontra quasi più nei gesti, riusciamo però quasi a intravederla negli animi dove è riposta. Sono ancora le parole, le frasi, la concordanza di note che accompagna anche il più arrabbiato dei cantanti, la corrispondenza degli intenti ‘spezzati’ musicalmente, l’armonia che regna in quelli di loro più dimessi. Perché, malgrado le problematiche di un festival così concepito, ciò che è più rilevante è l’aver riscoperto la padronanza di una lingua ricca di espressività, carica di una tradizione che non ci ha abbandonati mai, e che ritroviamo anche nella riscoperta di alcune frasi dialettali che bene si attagliano nel contesto dei propri intenti, così vicini alla gente qualunque, alla tanto detestata lingua parlata d’ogni giorno, a Roma (Pasame er sale) come a Napoli (Il coraggio di ogni giorno), o alle tante flessioni linguistiche presenti in ogni singolo idioma regionale ed extra nazionale ascoltato dagli ospiti internazionali intervenuti alla manifestazione che hanno reso omaggio all’Italia cantando nella nostra lingua (Sting, Skin, Daby Touré, Taylor, Shaggy). E che dire delle interpretazioni, se Ornella Vanoni ci fa regalo di una così raffinata presenza; se Mario Biondi, sornione come sempre, sussurra più che cantare l’intimistica ‘rivederti’; se Nina Zilli ‘senza appartenere’ cin rende partecipi del suo essere donna oggi, mentre Noemi in ‘non smettere mai di cercarmi’ riferisce della peculiarità tutta femminile di un voler essere comunque al centro dell’attenzione. Se Ron con ‘almeno pensami’ recupera quell’affetto amicale che per lungo tempo lo ha legato all’incommensurabile Lucio Dalla di cui noi tutti, oggi più che mai, sentiamo la mancanza. Se gli altri, giovani e meno giovani, hanno portato sul palco di questa ennesima kermesse l’attualità delle mode, una ventata dei suoni e dei ritmi, di questo nostro secolo che canta con disinvolta sfontatezza e che, ognuno a suo modo, ha dimostrato di essere all’altezza di un successo che se non pieno almeno li sfiorerà. Basta una volta nella vita per fare la differenza e chissà che in ognuno di loro non risplenda la fiammella dell’affermazione e della popolarità. Glielo auguro con affetto se non altro per ripagarli di averci creduto; di aver creduto che una canzone può, a volte, cambiarci la vita. Questa vita che rincorriamo a denti stretti e col fiatone che irrompe nei polmoni per la corsa a voler cambiare tutto. Panta rei, dicevano gli antichi per dire che tutto scorre e tutto resta fermo, mentre siamo solo noi a continuare nella nostra pazza corsa. Di fatto, un festival così, che a 68anni sperpera emozioni a non finire come ‘il segreto del tempo’ significa che crede ancora nell’amicizia; che contro le guerre ‘non mi avete fatto niente’, che ‘custodire’ in fondo non è poi così ‘sbagliato’ ci riscatta dall’essersi disfatti di un bagaglio fin troppo pesante. E che, non in ultimo, ‘ognuno ha il suo racconto’ da narrare; che in fondo ‘la leggenda di Cristalda e Pizzomunno’ è un’autentica e commovente storia d’amore pugliese, ci affranca a quell’amore universale che ci da vita. Così come Ultimo risultato Primo fra i giovani, vincitore quindi, risveglia in noi quel ‘ballo delle incertezze’ cui siamo propensi a risvegliare il ‘senso’ della vita; che Mirkoeilcane (peccato senza il cane sulla scena) sarcasticamente ci fa cantare ‘stiamo tutti bene’ , malgrado tutto il resto non vada bene affatto. È adesso che dobbiamo re-‘imparare ad amarci’, ‘adesso’, prima che sia troppo tardi … e che / “reinventarla dobbiamo la vita / cogliere ciò che intorno sorride / ridisegnare dobbiamo orizzonti / cancellare dobbiamo frontiere / reinventare dobbiamo l’amore / dare un posto ai sogni / sapendo che infine / nulla è per sempre / come il poeta platonico si bea delle parole”. (Gioma)

Per ricomnciare dai ‘passame er sale’, e anziche dirci addio, diciamoci ‘arrivedolci’.

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- Teatro

Una storia assurda al Teatro ArMa di Roma

Al Teatro Ar.Ma di Roma Una storia assurda scritto da Alessandro Martorelli, per la regia di Luca Avallone (2, 3, 4 Febbraio)

‘Una Storia Assurda’
Organizzato da Teatranti Tra Tanti

Dettagli
Una giornata normale. Una posta qualunque piena di gente in coda. Due individui ordinari entrano e aspettano il loro turno. Si chiacchiera del più e del meno, di lavoro, della crisi economica, del mondo in generale. Insomma un normale spaccato di vita quotidiana. Ma la normalità è solo apparenza. All'improvviso qualcosa stravolge quella giornata “qualunque” e le persone che attendono il proprio turno si ritrovano con una pistola puntata alla testa, ostaggio di una rapina messa in atto proprio da quei due uomini che fino a un momento prima fingevano di non conoscersi.

Dal dramma al giallo, dal thriller al surreale tutto in 60 minuti pregni di tensione e di una travolgente carica emotiva. Uno spettacolo intrigante e adrenalinico che lascia con il fiato sospeso dall’inizio alla fine.

Regia: Luca Avallone
Testo: Alessandro Martorelli
Con Simone Ruggiero, Luca Avallone e Alessandro Martorelli.

VENERDI 2, SABATO 3 e DOMENICA 4 FEBBRAIO ORE 21.00
AR.MA TEATRO Via Ruggero De Lauria n.22

Informazioni su Teatranti Tra Tanti
Info e Prenotazioni 06 3974 4093 - info@capsaservice.it, elisafantinel@yahoo.it - 3358160566


I dialoghi veloci, il ritmo incalzante e il linguaggio fanno di Una storia assurda un copione teatrale che presenta forti richiami alla sceneggiatura cinematografica
Dal 2 al 4 febbraio presso l’Ar.Ma teatro di Roma si terrà lo spettacolo Una storia assurda scritto da Alessandro Martorelli e con la regia di Luca Avallone. Nel cast oltre Avallone e Martorelli anche Simone Ruggiero.
Settanta minuti di pura adrenalina che vede due uomini, in fila davanti agli sportelli di una posta. Completamente diversi tra di loro, parlano del più e del meno. Chiacchiere banali, pacifiche, a tratti un po’ sopra le righe. Tutto sembra svolgersi come in un tranquillo giorno feriale, quando all’improvviso i due uomini scattano in piedi, armi in pugno e danno inizio a quello che sembra essere un vero e proprio incubo. I due protagonisti sono ben decisi a prendere il loro bottino e fuggire via velocemente. Ma le loro idee su come portare a termine quella rapina, sono totalmente opposte. Ben presto la situazione precipita e comincia a sfuggirgli di mano, innescando così un’escalation di eventi che manda completamente all’aria il loro piano. O almeno così sembra.Perché un evento improvviso fa rivedere il tutto sotto una nuova e diversa prospettiva.

NOTE DI REGIA
Una storia assurda è un testo teatrale che assume varie sfaccettature. In breve tempo infatti la trama assume connotati differenti tra loro, che la trasformano da commedia a dramma, da grottesca a giallo, da surreale a thriller. I due protagonisti, si trovano così impegnati in un’intensa prova di recitazione, che li vede anche obbligati a portare davanti agli occhi dello spettatore, un sequestro di persone che sono solamente immaginarie. Gli attori infatti interagiscono non solo tra di loro, ma anche con presunti clienti e impiegati della banca, che però non sono fisicamente in scena. In questo modo lo spettatore non subisce passivamente la storia, ma ci entra dentro, sentendosi quasi anch’esso un ostaggio e perciò parte attiva dello spettacolo stesso.

I dialoghi veloci, il ritmo incalzante e il linguaggio fanno di Una storia assurda un copione teatrale che presenta forti richiami alla sceneggiatura cinematografica, come alcune citazioni, ad esempio, che ricordano Quel pomeriggio di un giorno da cani di Lumet, Insoliti Criminali di Spacey o Le Iene di Tarantino. Tutto l’ambiente viene ricreato dai dialoghi e dai gesti degli attori, che sono i veri mattatori della scena e che hanno il delicato e fondamentale compito di rendere reale agli occhi del pubblico ciò che è solo immaginario.

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- Cinema

Ella and John – un film di Paolo Virzì

‘Ella & John – The Leisure Seeker’ – un film di Paolo Virzì tratto dal romanzo di Michael Zadoorian.

Non c’è molto altro da aggiungere su Paolo Virzì ma di certo non abbiamo ancora visto tutto, data la sua giovane età e la sua già corposa e premiata cinematografia, se non che ci aspettiamo ancora moltissimi film di buona qualità che riscattino il cinema italiano dalla mancanza di idee e dal decadimento in cui è finito da qualche anno. Citato più volte in questa stessa sede (larecherche.it) il regista s'impone alla ribalta col suo ultimo film ‘Ella & John’ appena arrivato sugli schermi dopo il successo riscosso alla Mostra del Cinema di Venezia. Un film ‘on the road’ che ripercorre La Route 1 sulla East Coast degli States e che termina a Key West dove si trova la casa di Hemingway, tappa disillusoria e conclusiva del dramma che, fra colpi di scena e situazioni comiche, quelle ormai tipiche di Virzì che da sempre ha fatto proprie cogliendo il lato ironico della vita.

Una location tipicamente americana quindi come americana è la storia d'amore che si svolge tra i due anziani personaggi meravigliosamente interpretati da Donald Sutherland ed Helen Mirren, tali da far credere alla leggerezza di due ‘novelli interpreti’ presi appunto dalla strada, quando ben sappiamo ciò che entrambi rappresentano per il cinema e il teatro mondiale, qui impegnati in una sceneggiatura di genere solo apparentemente evasiva. Altresì, che mantiene i suoi punti fermi con coraggio registico nel trattare un tema che potremmo definire usato ma anche abusato dal cinema in genere e da quello americano in modo particolare: quello dell'invecchiamento, la demenza senile e le malattie invasive che hanno costituito terreno di coltura per film belli (vedi per tutti ‘Sul lago dorato’ il film di Mark Rydell del 1981 con i pur immensi Katharine Hepburn ed Henry Fonda), ma anche per retoriche di calibro mediocre.

Un film decisamente ‘poetico’ almeno nell’intento della sceneggiatura che a sprazzi si abbandona e ci regala piccole perle di saggezza (senile ma pur sempre valide) legate alla quotidianità attuale, del tipo “… ma è il paradiso, credi che si possa avere un hamburger quassù?”. Virzì pur conservando intatto il proprio modo di fare cinema ma guardando l'America con lo sguardo di chi ama un certo modo scanzonato di vivere tutto italiano, (si notano infatti alcune discrepanze di linguaggio in quanto certe espressioni non appartengono all’uso americano), coadiuvato dai suoi co-sceneggiatori (F. Archibugi e F. Piccolo) si dimostra invece sempre più in grado di equilibrare (apparentemente senza sforzo) il riso e la commozione, l'ironia e lo sconforto. Quegli stessi sentimenti che pure deve aver trasmesso ai due attori protagonisti che si calano nei loro personaggi (ognuno con la propria tecnica recitativa) al punto di consentirci di ammirarli ex novo.

Non nuova è invece ‘l’ispirazione poetica’ della trama in cui si racconta di due anziani, John (Donald Sutherland) ed Ella (Helen Mirren), che partono in camper per un ultimo viaggio di piacere.‘The Leisure Seeker’ è il soprannome del vecchio camper con cui Ella e John Spencer andavano in vacanza coi figli negli anni Settanta. Una mattina d'estate, per sfuggire ad un destino di cure mediche che li separerebbe per sempre, la coppia sorprende i figli ormai adulti e invadenti e sale a bordo di quel veicolo anacronistico per scaraventarsi avventurosamente giù per la Old Route 1, destinazione Key West. John è svanito e smemorato ma forte, Ella è acciaccata e fragile ma lucidissima. Il loro sarà un viaggio pieno di sorprese. Questo professore di letteratura che ricorda le studentesse ma dimentica i nomi dei figli ha lampi di tenerezza nello sguardo che si spengono all'improvviso lasciandolo solo e indifeso. Ha al fianco una moglie volitiva che si è fatta carico del suo e del proprio disagio e ha deciso che la loro storia possa concedersi (così come recita il nome del vecchio camper) una ricerca di quel tempo libero che cliniche e case di riposo vorrebbero loro togliere e che già i loro figli hanno iniziato a condizionare.

Un risvolto amaro che Virzì non dimentica di raccontarci, di come sia faticoso e anche doloroso divenire, a un certo punto della vita, genitori dei propri genitori. Avere cioè la sensazione che coloro che ti hanno tenuto per mano e ti hanno insegnato a muovere i primi passi nella vita debbano infine dipendere da te per compiere invece i loro ultimi.


‘In fuga per la vita con Ella & John’ articolo di Camillo De Marco in collaborazione con Cineuropa.

"Libertà è solo un altro modo per dire che non hai più nulla da perdere..." canta Janis Joplin mentre il vecchio camper Winnebago del 1975 corre sulla Old Route 1, destinazione Key West, Florida, a casa di Ernest Hemingway. Sembra il classico film on the road americano, anche se il regista è l'italiano Paolo Virzì, considerato un erede della grande commedia all'italiana. Protagonisti sono Helen Mirren e Donald Sutherland, anziana coppia del Massachusetts, lei malata di cancro terminale, lui ex professore di letteratura con un Alzheimer che già gli apre improvvisi baratri nella mente. Insieme hanno deciso di partire, ed eccoli in fuga da inutili e crudeli cure mediche per ripercorrere un viaggio già fatto anni prima attraverso un'America neo-trumpiana che ovviamente non riconoscono più. E' Ella, nonostante la sofferenza fisica, che deve badare a John.

L'attrice britannica infonde al suo personaggio forza, allegria e ‘joie de vivre’ sufficienti, Sutherland quella malinconia e saggezza necessari, e anche se battute e situazioni sono tutte già viste, la coppia funziona benissimo per tutti i 112 minuti del film. "Sono una natural born tourist" scherza lei, e lui alla guida (un po' distratta ma esperta) del camper torna con finta gelosia su quel primo fidanzato di lei, discetta di Joyce e Melville con le cameriere dei diner in cui si fermano a mangiare junk food, consiglia un corso serale di grammatica ai due giovani che tentano di rapinarli, si unisce ad un gruppo di sostenitori di Trump: Make America Great Again.

"Viaggiare allarga i tuoi orizzonti", dice John, peccato che dimentichi Ella alla stazione di servizio, di avere due figli ormai quarantenni, persino il nome di sua moglie. Quando la scambia per la vicina di casa, con cui ha avuto una storia solo di sesso mentre lei era incinta, Ella lo pianta per dispetto in una casa di riposo per anziani, per poi andarlo a riprendere e perdonarlo dopo 45 anni. Momenti di felicità, dolore, tenerezza e nostalgia si alternano, innaffiati con Canadian whisky e Diazepam. Lui cita Hemingway al rovescio, "un uomo può essere sconfitto ma non distrutto", lei scrive un'ultima lettera ai figli per spiegare il perché di quel viaggio senza ritorno: evitare loro la visione di menti e corpi in disfacimento.

Ella & John, dal nome dato al vecchio camper, si ispira al romanzo The Leisure Seeker (in Italia "In viaggio contromano") di Michael Zadoorian, autore armeno-americano di Detroit di successo, scritto in forma di diario da Ella. Il libro, ambientato invece sulla mitica Route 66 da Chicago a Los Angeles e Disneyland, non risparmia particolari crudi edulcorati nel film. Virzì ha scritto la sceneggiatura con gli italiani Francesca Archibugi, che aveva collaborato con lui per La Pazza Gioia , e Francesco Piccolo, con il quale aveva scritto La Prima Cosa Bella e Il capitale umano , assieme al romanziere Stephen Amidon, il cui libro del 2005 Human Capital è stato adattato da Virzì nel 2014. Quando la Motorino Amaranto, la società di produzione di Virzì, ha deciso insieme alla Indiana Productions di realizzare Ella & John, Virzì si è rivolto ad Amidon per includerlo nel team di scrittura. Menzione per il direttore della fotografia Luca Bigazzi, noto negli Stati Uniti soprattutto per il suo lavoro ne La Grande Bellezza, film premio Oscar 2013.

Note.

Donald Sutherland, 82 anni, non è mai stato candidato ad una statuetta, nonostante una carriera lunga 50 anni - aveva infatti debuttato nel 1967 con Quella sporca dozzina di Robert Aldrich, - e alcuni ruoli iconici come quello del disincantato e ironico chirurgo militare Hawkeye Pierce di MASH (1970). Più recentemente ha interpretato il Presidente Snow nella saga di Hunger Games. Reduce dal successo a riportato a Venezia per il film di Paolo Virzì The Leisure Seeker, riceverà l'Oscar alla carriera dall'Academy of Motion Pictures Arts and Sciences, in una cerimonia che lo vedrà protagonista insieme ai registi Agnes Varda e Charles Burnett e al direttore della fotografia Owen Roizman.

Helen Mirren, nata Elena Vasil'evna Mironova (Hounslow, 26 luglio 1945), è vincitrice di un Premio Oscar, tre Golden Globe, quattro Premi BAFTA, quattro Screen Actors Guild Award, quattro Emmy Award e di un Tony Award, per le sue straordinarie interpretrazioni. Tra le più apprezzate attrici cinematografiche, è attiva da quattro decenni in teatro (in particolare shakespeariano), in televisione e nel cinema. Ha vinto il primo dei suoi numerosi Emmy nel 1993 per la sua interpretazione di Jane Tennison nell'acclamata serie TV Prime Suspect (1991-06). È tra le poche attrici nella storia del cinema ad aggiudicarsi due Prix d'interprétation féminine al Festival di Cannes, rispettivamente nel 1984 per Cal e nel 1994 per La pazzia di Re Giorgio. Ha inoltre ottenuto il plauso della critica con la sua interpretazione di Elisabetta II del Regno Unito in The Queen - La regina (2006), per il quale vince l'Oscar alla miglior attrice, il Golden Globe per la migliore attrice in un film drammatico, un BAFTA, uno Screen Actors Guild Award e una Coppa Volpi alla Mostra del cinema di Venezia.

La colonna sonora, rigorosamente anni ’70 è curata da Carlo Virzì, e include canzoni e musiche originali già utilizzate nel trailer e, presumibilmente, anche nel film sono: Carol King all'inizio e Janis Joplin alla fine, due donne che restituiscono l'atmosfera del periodo; a seguire,Laughing, brano del 1971 di David Crosby estratto da If I Could Only Remember My Name, e Me & Bobby McGee brano del ’70 di Janis Joplin estratta dall’album Pearl, ed altre, per quanto la lista completa delle canzoni e le musiche originali non è ancora disponibile.

Rilevanti (da premiare) i doppiatori che prestano le voci ai due protagonisti, accattivanti e teneri, al tempo stesso credibilissimi con le splendide voci di Giancarlo Giannini e Ludovica Modugno, ed anche tutti gli altri.

In collaborazione con Mymovies.it




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- Cinema

Cinesophia torna ad Ascoli Piceno


CINESOPHIA - La filosofia del cinema torna dal 23 al 24 febbraio al Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno

Venerdì 23 e sabato 24 febbraio 2018 Ascoli Piceno ospita la seconda edizione di “Cinesophia, estetica e filosofia del cinema”, il festival organizzato dall’Amministrazione Comunale di Ascoli Piceno e dall’Associazione Culturale Popsophia, in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Provinciale.

Dopo il successo della prima edizione, si rinnova la sfida culturale che porterà al Teatro Ventidio Basso filosofi, artisti e giornalisti su un tema che accomuna le opere dei cineasti più amati e le avanguardie dell’ultima generazione: “Realismo Magico”. Un’indagine sulla capacità del cinema di sviscerare gli aspetti perturbanti della quotidianità, in un continuo gioco tra finzione e verità, tra immaginario e reale, tra sogno e veglia.
“Le due giornate – ha dichiarato la direttrice artistica di Popsophia, Lucrezia Ercoli – saranno dedicate alle opere di due grandi maestri del cinema che continuano a influenzare la cultura contemporanea: le geniali invenzioni di Ingmar Bergman di cui nel 2018 si celebra il centenario dalla nascita e le visioni oniriche di Federico Fellini”.
“L’Amministrazione Comunale di Ascoli – ha dichiarato il sindaco Guido Castelli – crede nel progetto di Cinesophia che ha attratto e coinvolto la città, già nella prima edizione, per il suo approccio originale alle tematiche contemporanee. Con Popsophia crediamo di poter diventare un punto di riferimento del dibattito culturale nazionale”.
“Le giornate di Cinesophia di febbraio saranno un’opportunità di riflessione attenta, appassionante e popolare per riflettere sugli infiniti legami che legano i classici al presente” ha aggiunto la vicesindaco Donatella Ferretti.

Tutti gli appuntamenti sono ad ingresso libero.
info@popsophia.it

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- Poesia

Fabio Squeo...o la difficile identità del suo essere poeta

Fabio Squeo … o la difficile ‘identità’ del suo essere poeta.

“I poeti fioriscono al buio” – raccolta poetica di Fabio Squeo – Bibliotheka Edizioni 2017. www.bibliotheka.it


Radici.

“Le mie radici appartengono al niente.

Si nasce tra i rovi spenti e ci inalberiamo

nella parvenza di un eclissi di sole.



..ma le radici non appartengono

a questi luoghi insaziabili

così incarnati

nell’oblio che mi sostiene.”


Cancellare i vincoli dell’identità per scivolare nell’infinito errare della poesia nel labirinto delle molteplici coincidenze virtuali della contemporaneità, non è cosa facile da intraprendere. Si rischia di condurre una vita impersonale, immergersi in un’attività di erranza nello spazio e nel tempo impropri delle cose del mondo; che è poi come vagheggiare e/o fantasticare, su qualcosa che va oltre la concomitanza delle situazioni, quasi un voler ‘fuggire da se stessi’, dal frastuono delle diverse identità che si è costretti ad assumere nella concretezza del reale.

Una tangibilità che, estranea alla dissolvenza filosofica, moltiplica l’identità in numerosi altri sé dalla personalità conforme e/o difforme, solo apparentemente diversa quanto più affine a quella ‘desiderata’, ovvero ‘sospesa’ nel rimando della coscienza, come processo narrativo di sé. È allora che dalla relazione fra le due parti, diverse e uguali, narrativa e poetica, si erge il romanziere e il poeta, l’uno compenetrato nell’altro. Da cui le strutture dotte che spesso s’intersecano, si moltiplicano, si completano nel ‘diverso e uguale’ linguaggio letterario:


“..nella bellezza di un sentire che vuol essere dedizione, comprensione, per un’esistenza che oltrepassa le barriere dell’umano.”


Fabio Squeo si inserisce in questa dualità, nei passaggi interstiziali delle forme che appartengono alla parola detta, ancor più che ai segni grafici della scrittura, interponendosi nelle ‘pieghe del tempo’ che ancor giovane ha fatto sue, andando qui alla ricerca del proprio essere poeta pur conservando ‘una mente prigioniera del passato’, che ‘lentamente si consuma’ nelle ‘incertezze degli istanti’ che lo ‘separano dalla vita’. Un ‘consumarsi sotto il sole dell’esistenza’ che sembra non concedere(gli) tregua, ma che altresì l’aiuta a trovarsi e/o ritrovarsi, al di qua e al di là della soglia di avanzamento della propria esperienza poetico – crepuscolare:


“..scorgo in lontananza l’immagine

del mio palpito furibondo

offuscato dai macigni di un tempo infinito

ma il cuore finge di ascoltare



Il suo melanconico canto

mi accompagna oltre i confini della realtà.”


Esperienza maturata nell’alone di quella dissolvenza filosofica che l’ha accompagnato per tutto il tempo degli studi peculiari alla sua formazione, e che oggi, diversamente, invade la sua sopravvivenza come uomo di cultura alle prese con una realtà globalizzata diversa e/o discorde, scollegata dalla sensibilità poetica e la fragilità dei propri sentimenti, forse provati ma non necessariamente contrastati, seppure fortemente inquieti nel loro ‘eterno divenire’ che lo porta ‘a fuggire a mani vuote’ nella pur ‘spensierata illusione di esistere’:


“..e domani sarò ancora qui

con un altro giorno

e col freddo dell’eterno divenire.”


L’immagine delle ‘mani vuote’ rende particolarmente efficace l’inquieta ‘solitudine’ che l’autore vuole significare e che traspone con enfasi nel linguaggio poetico di molte sue liriche, nelle quali è più sentita la sua ‘pena’ nel ‘l’oblio che mi sostiene’, talvolta disarmante se si pensa alla sua giovane età che, come un ‘disegno imperfetto’ sembra aver già spazzato via tutto di quanto la vita futura altresì, potrebbe serbare alla sua esistenza feconda di nuove ‘esistenze e resistenze’, comunque esperienze per una ‘libertà ritrovata’:


“Vorrei librarmi ad alta quota

prima che il gelo della radura

faccia calare un altro sole.”


Appassionati i suoi costanti riferimenti ai flutti, agli abissi, ai moti ondosi del ‘mare’e a tutto ciò che esso contiene in sé, dalla sabbia, ai detriti di rocce e conchiglie, ai residuati che in altre parti diventano dune e intere oasi. Così come i riferimenti alla terra, ‘la sua terra natia’, strappata dal vento, nel risalire dei fiumi; e alla pioggia come ‘brezza allo stato primordiale’ che sembra ascendere anziché cadere nello specchio lunare, come per una rivoluzione cosmica in cui il sole, dominatore implacabile del giorno, non è che una lampada del suo soggiornare nel vivere, che prosciuga ‘la sete della sua conoscenza’:


“Nuove onde muovono la mia zattera

ma i misteri del buio scorrono dovunque

là dove il mio occhio inquieto non può arrivare…”



“Le grida di un gabbiano

e le incertezze degli istanti

che mi separano dalla vita...”


E via, via così nel prosieguo di intenti poetico - linguistici che trovano conferma nella scrittura musicale della frase, nelle assonanze evocative dei verbi e/o nelle colorature aggettivate rivolte al sentimentalismo d’amore, sofferto più che ammirato, interiormente vessato più che realmente vissuto, frutto di una pena o forse di un pentimento che chiede qui, sulle pagine bianche del libro, negli interstizi dei componimenti scritti, la sua redenzione o forse la sua dannazione. Chi siamo noi per giudicare il ‘verbo’ di chi sa? Chi è in grado di accordare al ‘poeta’ la sua espiazione, di riscattare la ‘sua’ verità? La poesia come la musica non nasce dalle parole ma dai sentimenti, affrancata da indulgenze come da assoluzioni si espande libera nell’aria, il suo addivenire è nel canto interiore e profondo del ‘buio’:


“I poeti fioriscono al buio,

nascosti tra le rupi della notte

tendono il loro pugno sopra il grano

quando il sole capriccioso se ne va.”


Come anche in quello estrinseco e tumultuoso del cuore che, nel costante battere svela il proprio desiderio di rivelarsi all’altro e/o agli altri, per comunicare il proprio stato primordiale, il proprio avvento nella natura che a braccia aperte l’accoglie, il proprio narcisistico attaccamento alla vita, l’essere qui, oggi, al centro dell’esistenza matura dell’uomo che si rivela:


“Si è nascosto il sole

dietro la foglia appassita

e sotto le coperte ingiallite

ove il poeta si scopre

brandisce la spada della malinconia..



..danze di spuma disancorano

la voce del mare

e i nostri palpiti d’amore

naufragano cullati

nel disegno imperfetto dei nostri sensi.”


Perché in fine questo è il ‘poeta’, colui che ha ricevuto in eredità il suono e il canto iniziali, afferente a ciò che noi tutti siamo, individui effettivi del nostro comune essere, spuri abitatori d’una costellazione imperfetta nel ricalcare l’orma pessoana di ‘Una sola moltitudine’, l’essenza stessa della nostra vita:


“..nella solitudine del poeta / … / quando il fumo delle notti / agita le sue onde. /…/ la nascita non è più una nenia / oscura / da ricordare / ma una fulgida gemma / di acero fiorito”.


Fabio Squeo, laureato in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, è studioso del pensiero di Sartre e della filosofia esistenzialista del XX secolo. Autore di poesie svolge la sua attività di saggista e curatore di opere letterarie e collabora ai progetti editoriali della casa editrice Limina Mentis.


Tra le sue pubblicazioni:

“Jean-Paul Sartre e il fenomeno della coscienza nelle sue relazioni con l’altro.” - Bibliotheka Edizioni 2014.

“Alber Camus e la condizione umana come testimonianza dell’assurdo” - Bibliotheka Edizioni 2014.

“Heidegger, Lacan, Sartre, Lévinas: L’altrove della mancanza nelle relazioni di esistenza.” - Bibliotheka Edizioni 2017.


Nota: Tutti i virgolettati sono tratti dalla raccolta poetica “I poeti fioriscono al buio” - Bibliotheka Edizioni 2017.

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- Viaggi

Christmas Happiness / 4 in viaggio.

CHRISTMAS HAPPINESS / 4
In cerca del regalo perfetto da fare agli altri (soprattutto a se stessi): libri ‘strenna’ per il Natale che viene, quanto basta di poesia, qualche mostra, un concerto, per chi ha intenzione di fare un viaggio, il resto createlo Voi lettori … in fondo Natale è anche Vostro, o no?

Viaggiare nel passato, nel presente, nel futuro …
Ogni libro è un ‘viaggio’, o almeno è in divenire un ‘viaggio’ all’insegna della novità che rappresenta. Mi spiego meglio, lo è in funzione del tempo in cui il singolo lettore in esso si rappresenta. Il suo farsi ‘viaggio’ non è nel gioco di parole che riempieno le pagine, quanto nel dipanarsi del percorso via via che la storia narrata prende forma e ci coinvolge. Allora ‘viaggiare’ è come essere dentro le pagine del libro, condividere gli sviluppi narrati, farsi partecipi delle emozioni (idilli, concetti, metamorfosi, illusioni, sogni, amori ecc.) d’ogni singolo autore capace di trascinarci con sé, nel suo mondo reale oppure confinante con l’irrealtà, addirittura estremo, purché coinvolgente l’intimo dei nostri desideri reconditi, le nostre sensazioni epidermiche nell’effluvio di quell’essenza “che in noi respira”.
Sorpresi talvolta, in certi passaggi narrativi, di ritrovare noi stessi nel presente di una realtà ancora più sconvolgente, senza accorgerci che nel libro si sta parlando dell’antica Cina, o di un futuribile ‘viaggio’ su Marte; di ‘antiche sere’ passate sul Nilo o dell’ ‘odore dell’India’ che si respira sul Gange; sospesi sull’orlo dell’abisso della ‘garganta del diablo’ a Iguassù in Brasile, o dispersi nel deserto del Sahara, mentre siamo avvoltolati nelle coperte del letto o sdraiati comodamente sul divano di casa nostra a Roma, a Firenze o a Milano, come sul grattacielo più alto del mondo.
Ma se è vero che ‘tutto cambia nulla cambia’, è allora che dalle pagine di un libro possiamo amare ogni altro/a diverso da noi stessi allo stesso modo che provenga dall’appartamento di fronte o dal ‘pasadiso perduto’ alla periferia d’ogni grande città metropolitana. Possiamo finanche restare affascinati da ‘Il Barone di Munchausen’ o ‘Il visconte dimezzato’, da ‘La fattoria degli animali’o da ‘I viaggi di Gulliver’; essere dalla parte di Moby Dick o del Capitano Achab, dalla parte del Gobbo di Notre Dame o della bella Esmeralda; ed anche del Dott. Jeckyl o di Mr.Hyde, perché in fondo l’amore è universale e può chiamarsi amore solo quando è amore ‘nel bene e nel male’afferente alla nostra vita …

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.” : (dal film ‘Blade Runner’).

Ma se “la felicità è reale solo quando è condivisa” : (dal film ‘Into the wild’), allora è ‘tempo di vivere’, e di vivere la vita fino in fondo. Per dire che possiamo viverla quando e quanto vogliamo, lasciandoci ‘prendere’ dalle pagine di un libro che ci coinvolge in nome di quell’amore che non accetta la diversità di pelle, di razza, di genere, e che ci pone tutti sulla stessa linea di partenza per un ‘viaggio’ che potrebbe non finire mai …

Ɣ – “LA VIA DELLA SETA”, Dèi, Guerrieri, Mercanti – di Luce Boulnois - Bompiani ristampa 2017.

Ma il viaggio è davvero mai finito? Certo che no! Continua ancora fin dai tempi di quell’intraprendente di Marco Polo autore de “Il Milione”, (1295 circa) una vera e propria enciclopedia geografica che riunisce le conoscenze essenziali disponibili alla fine del XIII secolo, ricco della descrizione geografica, storica, etnologica, politica, scientifica (zoologia, botanica, mineralogia) dell'Asia medievale. Le sue descrizioni contribuirono alla compilazione del “Mappamondo” di Fra Mauro ed ispirarono i viaggi di Cristoforo Colombo.
Un libro redatto in una nuova edizione aggiornata che vale la pena di rispolverare, ideale per tutti coloro che intendono approntarsi al viaggio della loro vita, ma … “Cosa intendiamo in realtà quando diciamo Via della Seta? Una promessa di bellezza, bellezza di paesaggi, di montagne sovrumane e deserti leggendari. Bellezza dell’arte di un lontano passato buddista, dell’architettura musulmana. Un viaggio lungo dodicimila chilometri che separano la Grande Muraglia dalle sponde del Mediterraneo.”
Così, in questo libro magnificamente scritto che copre più di dieci secoli di storia, attraverso un’analisi rigorosa e documentata, risponde a ognuna di queste domande, raccontandoci i rapporti tra Oriente e Occidente e le reciproche influenze alla luce delle ultime scoperte archeologiche e dei recenti sconvolgimenti geopolitici. Un compendio di nomi di luogo ‘in indice’ e dei nomi di persona ‘in analitico’ che hanno fatto la storia, di luoghi sognati che spesso hanno fatto la stravaganza di viaggiatori; di mercanti che hanno favoleggiato sulle cose viste dando luogo a leggende; di divinità e di eroi vividi solo nella fantasia di scrittori audaci, favolosi regni che oggi diremmo di mondi paralleli alla nostra esistenza, rintracciabili ‘in indice’ alle numerose cartine di riferimento, di grande interesse per studiosi e ricercatori; nonché per l’insieme delle note esplicative al testo.

L’autrice, Luce Boulnois, scomparsa nel 2009 è stata una storica e ricercatrice nel vero senso della parola, ha lavorato per trent’anni al Centre national de la recherche scientifique, riconosciuta come autorità mondiale sulla Storia della Via della Seta e degli scambi transhimalayani, che ha riversato nello studio prodigioso e appassionato di tutta una vita.

Ɣ – “LA VIA DELLA SETA”, Una storia millenaria tra Oriente e Occidente – di Franco Cardini e Alessandro Vanoli – Il Mulino 2017

È il caso di dire ‘Il viaggio ricomincia’ (cap. conclusivo) ma questa volta colto da un altro punto di vista che non è solo quello emerito storico-professionale, quanto quello del vademecum che accompagna il lettore attraverso le fasi più autentiche, investigate e accertate della Via della Seta di cui rilevanti sono gli aspetti socio-economico-politici qui trattati con rigorosa affermazione. C’è molto dell’Italia in queste pagine in cui la storia ‘inusuale’ (spesso ignorata o poco trattata) che scorre dal Mediterraneo alle vie d’acqua dell’Oceano che dal passato giunge fino ai nostri giorni,la cui trattazione tocca “Le trasformazioni della via della seta verso un mondo globale” (cap. XIII), fino ad entrare ne “Il grande gioco” (cap.XVI) in cui l’Asia incontra l’Europa attraverso il colonialismo, l’avvento delle ferrovie famose, e tutto ciò che ne consegue …

“C’è al mondo, che si sappia, solo un’altra cupola come quella della tomba di Tamerlano a Samarcanda. Dunque le ciminiere devono essere dei minareti. Mi sono coricato, come un bambino la notte della vigilia di Natale, con l’impazienza dell’indomani. Viene il mattino. Esco e mi sposto sul tetto adiacente all’albergo da cui vedo sette colonne celesti che sorgono dai campi spogli e si stagliano contro le diafane montagne colore dell’erica. L’alba getta su ciascuna uno sprazzo d’oro pallido. In mezzo ad esse risplende un’azzurra cupola a forma di melone, con la sommità smozzicata. Hanno una bellezza che va oltre l’elemento scenografico, legato alla luce e al paesaggio. Visti da vicino, ogni piastrella, ma anche ogni fiore e ogni petalo del mosaico, danno il loro contributo geniale all’insieme. Perfino allo stato di rovina quest’architettura parla di un’età aurea. La storia l’ha forse dimenticata? Non è un oblio totale. Ma gli artisti e la vita che le hanno prodotte, e questi edifici, occupano uno spaziio esiguo nella memoria del mondo.”

“Oggi quel percorso sta cominciando a unire paesi che aspirano a svolgere un ruolo dominante sulla scena mondiale. Difficile fare previsioni su come tutto questo trasformerà Oriente e Occidente. ... Ecco perché riprendere oggi il filo di questa storia millenaria può essere così importante: che lo si voglia o meno la Via della Seta ha a che fare con le nostre radici e col nostro destino.”

I due ‘autorevoli’ autori:
Franco Cardini, prof emerito di Storia medievale all’Istituto Italiano di Scienze Umane e Sociali Scuola Normale Superiore. Directeur de Recherches nell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e Fellow dellaHarward University. Autore di moltissimi libri di Storia Medievale. Ha un curriculum ampio da riempire un toma, colmo di pubblicazioni in tutto il mondo. Per il Mulino ha tra l’altro pubblicato «Gerusalemme » (2012), « Istanbul » (2014), « Samarcanda » (2016), tutti recensiti dall’autore sulla rivista letteraria larecherche.it

Alessandro Vanoli, esperto in storia della filosofia medievale presso l'Università di Bologna. Ha studiato arabo presso la Bourguiba University di Tunisi ed ebraico a Bologna. E' attualmente docente di Politica comparata del Mediterraneo presso l'Università di Bologna (sede di Ravenna) e docente di Cultura Spagnola presso l'Università Statale di Milano. Ha svolto ricerca presso università e centri scientifici in Germania (2000), Tunisia (1999, 2000, 2004), Argentina (2004), Spagna (1999, 2000, 2005). Con il Mulino ha pubblicato “La reconquista” (2014), “Andare per l’Italia araba” (2014), “La Sicilia musulmana” (2016).

Ɣ - Di ‘viaggio’ al di là del conosciuto si narra nel visionario e apocalittico “Lanark: una vita in quattro libri”, di Alasdair Gray – Safarà Editore (in cofanetto 2017), in cui si narra dei destini di due città che corteggiano il dissolvimento, Unthank e Glasgow, mentre fluttuano incerte sul limitare del passato e del futuro. Lungo le loro strade tortuose verranno dipanati gli intricati fili che uniscono le vite di Lanark e di Duncan Thaw i quali, nell’attraversare un vasto e labirintico universo simbolico, ci conducono nei sentieri battuti dell’uomo contemporaneo, tanto pericolosi quanto seducenti, tanto impensabili quanto reali.
Pubblicato per la prima volta in lingua inglese nel 1981, Lanark ha immediatamente collocato Gray nell’empireo dei più importanti autori britannici ed è stato comparato, tra gli altri, a Dante, Blake, Joyce, Orwell, Kafka, Huxley e Lewis Carroll. Per una più completa informazione sull’opera propongo qui di seguito il commento di Vanni Santoni pubblicato mercoledì, 20 settembre 2017 sul blog di approfondimento culturale Minima & Moralia:

Le possibilità dell’indagine postmoderna nella prefazione di Jeff VanderMeer a “Lanark” di Alasdair Gray.

La casa editrice indipendente Safarà ha recentemente finito di pubblicare, per la prima volta in Italia, nella traduzione di Enrico Terrinoni, i quattro volumi di ‘Lanark’ di Alasdair Gray, testo cruciale della speculative fiction anglosassone e della letteratura scozzese in generale, apparso per la prima volta nel 1981 propone alcune riflessioni su uno dei miei libri preferiti: Lanark di Alasdair Gray, di Jeff VanderMeer.

Nella terribile devastazione dello scenario che ci offre Alasdair Gray nel suo romanzo, mentre sulla distopica città di Unthank spira un vento freddo «misto all’odore salato di alghe putrescenti», bocche giganti calano dal cielo per divorare il protagonista Lanark. Lanark ne viene inghiottito, e lo stesso accade al lettore. Le visioni evocate da Gray nel suo capolavoro sono tanto apocalittiche quanto politiche: «Io credo che esistano città in cui il lavoro è una prigione, il tempo uno stimolo e l’amore un peso» dice Lanark; la dragonite, affezione che da subito lo colpisce, è «una patologia comune, come le bocche, i mollicci o il rigor pigolante», che incrosta gli arti dei cittadini con una «pelle fredda e lucida di intenso verde scuro» portandoli a far emergere la propria natura nascosta. Ma quando il tema della giustizia sociale si intreccia a tal punto con la dimensione fantastica, un critico che cercasse di smontare e analizzare tali visioni rischia di essere a sua volta inghiottito.
Gray esplicita le sue intenzioni attraverso le parole della nemesi di Lanark, Sludden: «La metafora è uno degli strumenti più essenziali del pensiero. Ma l’illuminazione a volte è tanto brillante da abbagliare anziché rivelare». 
Se la fortuna di Lanark può risiedere nell’uso della metafora in prosa, il genio di Gray sta nella sua abilità di ritrarre la lotta dell’individuo contro istituzioni disfunzionali mantenendosi sempre nei duplici termini del personale e del fantastico.
Come lo stesso Gray ha affermato durante un’intervista: «Il mio approccio ai dogmi e agli standard istituzionali, chiamiamolo “il mio approccio alle istituzioni” riflette il loro approccio nei miei stessi confronti. Nazioni, città, scuole, agenzie di marketing, ospedali, forze di polizia, sono state create dalla gente per il bene della gente. Non posso vivere senza di loro, non lo desidero e non mi aspetto che possa accadere. Ma quando li vediamo lavorare per aumentare la sporcizia, la povertà, la sofferenza e la morte, allora qualcosa è andato storto. Tutti soffrono di tale distorsione, e per questo motivo è un aspetto presente in tutti i miei romanzi, eccetto quelli più blandamente d’evasione».Il romanzo, oltre alla vita di Lanark nella città fantastica di Unthank, ha un secondo epicentro in quella di Duncan Thaw, sua precedente incarnazione, in quella reale di Glasgow. Thaw cresce e si forma in una Glasgow ostile e decadente, che cercherà di illuminare dando vita a un’arte grandiosa; fallirà nel tentativo, e si toglierà la vita dopo aver verosimilmente ucciso un’amica.
Lo ritroveremo trasfigurato in Lanark nella città di Unthank, quasi essa fosse l’inferno a cui è destinato. Lanark arriva a Unthank senza alcuna memoria del suo passato come Thaw, del quale riceverà nozione, grazie all’intervento di un oracolo, solo alla fine del primo libro. Mentre cerca di scoprire la propria identità, Lanark si aggira per quello che è lo specchio deformato di una città, in cui tutti i vizi e i problemi del mondo “reale” sono stati amplificati e distorti. Ma non appena Lanark recupera la memoria della sua vita come Duncan Thaw, e quindi della ragione del suo essere lì, si lancia nel frenetico tentativo di salvare la città di Unthank dalla distruzione: il piano fantastico diventa la “realtà” e le letture si ribaltano.
Gray divide di proposito il suo romanzo in quattro “Libri”. Tuttavia, quello che tecnicamente è il primo libro, è chiamato Libro Terzo; seguono il Libro Primo e il Libro Secondo (nei quali si racconta la storia di Thaw) e infine il Libro Quarto, dove è nuovamente protagonista Lanark. La ragione più pragmatica di una simile dislocazione cronologica è quella di introdurre per prima cosa il lettore al fantasmagorico mondo sotterraneo di Unthank. Considerata la qualità intensamente realistica e piuttosto cupa della sezione dedicata a Glasgow, l’estremo surrealismo di Unthank sarebbe stato troppo stridente per il lettore se presentato dopo i primi due libri. Invece, Gray si assume il rischio calcolato di posizionare le sezioni realistiche in mezzo, così da farle apparire più integrate nella narrazione, e nell’utilizzare quest’ordine riesce a far percepire le scene naturalistiche come fantasy, perché sono “fantasy” agli occhi degli abitanti di Unthank, e apre così alla possibilità di un’interpretazione alternativa in cui Glasgow è l’inferno e Unthank la realtà, e non viceversa …

“Vuol dire che siamo casi eccezionali. Non sono in molti a pregare per ottenere una via d’uscita. la maggior parte passa la vita a temerla” (Alasdair Gray)

Non a caso ‘Lanark’ è stato definito in molti modi da molti scrittori e critici. Anthony Burgess lo ha innalzato a capolavoro. John Crowley e Micheal Dirda hanno elogiato la straordinaria visione e la genialità delle singole scene dell’opera, mentre hanno criticato l’accresciuto contenuto allegorico dell’ultima parte del romanzo. L’opera vira in effetti verso l’astrazione nel Libro Quarto, e il rapporto tra dialogo ed esposizione si alza pericolosamente. Gray arriva a far dialogare Lanark con se stesso e dedica un capitolo a catalogare i propri furti ai danni di scrittori morti. Se è vero che un capitolo del genere può rallentare l’impulso della narrazione, nel caso di Lanark simili critiche sono irrilevanti, per la stessa identica ragione per cui sono irrilevanti le critiche ai capitoli sulla caccia alla balena in Moby Dick. La correzione di questi “difetti” deruberebbe entrambi i libri della loro genialità: il marchio di fabbrica di uno scrittore originale è quello che rende l’autore diverso e non può essere separato da quello che rende lo stesso scrittore bravo, e gli “spigoli” di Gray finiscono anzi per assomigliare a delle profezie.

Cosa ancora più importante, nei termini del contenuto fantastico, Lanark offre un esempio unico dell’uso dell’elemento fantasy nella critica sociale. A differenza della Fattoria degli animali (1945), di Candido (1759) o dei Viaggi di Gulliver (1726), Lanark non intende essere solo una parodia, una satira o una parabola. Se Gray tende a incorporare fantasy e fantascienza, lo fa per poter sfruttare appieno tutti gli strumenti appropriati, e perché l’idea di un’immaginazione priva di confini rappresentano la stessa personale ricerca della luce da parte dello scrittore. Anche se non è un surrealista, Gray appoggia l’idea della “bellezza convulsiva”: la bellezza, anche quella più feroce, al libertà. L’umorismo nero, l’ossessione per la giustizia sociale, la formazione di un artista, i difficili atti di comunicazione fra i sessi, l’omaggio, anche se in forma alterata, a Glasgow: tutto questo, pur miscelandosi a una dimensione assolutamente fantasy, si manifesta con pienezza in Lanark, il romanzo che rappresenta lo zenit dell’eccentricità di Gray, del suo difficile genio e delle possibilità stesse dell’indagine postmoderna.

Jeff VanderMeer è autore di racconti e romanzi con i quali ha vinto il Nebula Award, il BSFA Award e il World Fantasy Award, e con cui è stato finalista allo Hugo Award. Nel 2015 Einaudi ha pubblicato Annientamento, Autorità e Accettazione, volumi della “Trilogia dell’Area X”.

Vanni Santoni (1978), autore del commento, dopo l’esordio con Personaggi precari (RGB 2007, poi Voland 2013), ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), Terra ignota e Terra ignota 2 (Mondadori 2013 e 2014), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza 2017, dozzina Premio Strega). È fondatore del progetto SIC – Scrittura Industriale Collettiva (In territorio nemico, minimum fax 2013); per Minimum Fax ha pubblicato anche un racconto nell’antologia L’età della febbre (2015). Dal 2013 dirige la narrativa di Tunué. Scrive sulle pagine culturali del Corriere della Sera e sul Corriere Fiorentino.

Ɣ - Ci sono molti modi di viaggiare più o meno organizzati da grandi compagnie del turismo che salvaguardano l’aspetto commerciale di iniziative non sempre all’altezza degli impegni presi sulla carta, oppure, al contrario sviluppare un interesse da ‘turista fai da te’ non proprio consigliabile. Un altro modo è quello di affidarsi alla propria idea del viaggio culturale ‘come finestre da esplorare’; come nel caso dell’iniziativa realizzata dal Mulino con Viaggi di cultura di Bologna, che propone un modo diverso di viaggiare, occasione di confronto con intellettuali e uomini di cultura per entrare in contatto con la storia viva di un paese.
Viaggiare quindi fuori dai tracciati fisici e mentali di un frettoloso consumo turistico, può rivelarsi un'avventura culturale emozionante e profonda, una finestra che si apre su nuovi orizzonti da esplorare. È questo il senso dell’iniziativa pensata per piccoli gruppi di viaggiatori che hanno in comune l’amore per la scoperta culturale, accompagnati da una guida esperta e appassionata, sono condotti a scoprire la ricchezza di valori che ogni luogo foggiato dagli uomini possiede e può dispiegare, se lo si sa vedere con gli occhi giusti, se lo si esplora anche negli angoli più riposti, nelle molte facce della sua storia.

Tra le proposte dell’inizio del 2018 è di notevole interesse il viaggio nella “Grecia classica”: ‘quando tutto era nel segno degli déi, di santuari e oracoli’, con l’assistentza culturale di due esperti: Claudia Lambrugo e Donatella Puliga. In programma ad Aprile:

“La religione del mondo greco - scrisse Walter Burkert - in certa misura è conosciuta da sempre, però è tutt’altro che nota e comprensibile; apparentemente naturale, eppure atavicamente straniata, insieme raffinata e barbara, essa venne presa come guida nella ricerca dell’origine della religione in senso assoluto, mentre invece rappresenta un fenomeno storico unico e irripetibile...”

La religione greca sopravvisse nella cultura occidentale grazie a molteplici forme di tradizione: in primo luogo la sua presenza nella letteratura antica e la polemica che i Padri della Chiesa ingaggiarono in modo pressoché sistematico contro di essa. Eppure nulla contribuì così tanto a una sua popolarità quanto l’uso e l’interpretazione allegorica che se ne fornì nel corso dei secoli. Gli dei trasformati ora in princìpi naturali ora in entità metafisiche; le loro emozioni, vicende, storie che diventavano allegoria della vita umana condussero l’intero mondo religioso greco all’interno del Cristianesimo senza che se ne avvertisse il contrasto, o l’opposizione.
La religione greca sopravvisse per secoli - misteriosa e incompresa - come una abituale compagna di strada, di cui si crede di conoscere tutto e a cui non si domanda più nulla, perché - si pensa - tutto è già noto. Solo recentemente la religione dei Greci è uscita da questa improbabile collocazione e ha iniziato il lento recupero di una sua dimensione più vera e scientifica. Figlia di un’aggrovigliata preistoria, essa affiora già nelle grotte umide e mai abitate dall’uomo, nelle fronde delle querce, nell’oscurità impenetrabile degli spazi e delle esperienze. Nella sua profonda alterità, che è una sfida scoprire, soprattutto se presumiamo di partire dai nostri monoteismi.

In breve la religione greca resta una delle più misteriose e complesse questioni dell’umanità occidentale. A questo mistero è dedicato il nostro itinerario di aprile. Le vette delle montagne, le fonti; gli innominabili riti, le follie orgiastiche dei culti legati a Dionisio; l’immoralità del comportamento degli dei, la loro dissolutezza sessuale; l’egoismo più sfrontato; il non arrestarsi neppure davanti al crimine più mostruoso: il parricidio. Eppure nel segno di questi dei, ora a loro ispirandosi ora a loro contrapponendosi, il cittadino e la polis greca costruirono un sistema morale di tutt’altro segno, e che pare a noi quasi familiare. Ma nulla è più lontano di ciò che sembra assomigliarsi.

Un viaggio completamente nuovo. Raccoglie alcune delle vedute più selvagge della Grecia, coinvolge divinità fondamentali per la conoscenza di quel mondo: tra queste Apollo, Artemide, Atena, Dionisio, Poseidone. Coglie le loro forme di comunicazione con il mondo degli uomini e delle donne. Un viaggio che ha l’ambizione di aprirci un varco nuovo in una cortina di note vicende mitologiche, per penetrare nell’oscuro silenzio che in gran parte ancora avvolge la spiritualità del mondo greco. E consegnarci alla meraviglia e allo stupore di cui tutti - oggi più che mai - abbiamo bisogno.

In programma ad Aprile /Maggio “Gerusalemme”, La Città Santa per Ebraismo, Cristianesimo e Islam, con l’assistenza culturale diell’ormai ‘mitico’ Franco Cardini.
Non è un viaggio di religione, ma sarà impossibile affrontare Gerusalemme senza inserirla nel contesto di città santa a tre religioni. L’occupazione del luogo e le sue vicende hanno creato uno spazio che - unico al mondo - è anche luogo dello spirito. Ne è seguito un impegno a testimoniare al tempo stesso la fede e la cultura di chi l’ha professata, generando dinamiche che nella loro spesso tormentata complessità hanno creato questo unicum urbano, culturale e spirituale.

Il progetto, pur nella consapevolezza che esistono questioni complesse e fedi profonde, è ispirato alla città stessa. Come coloro che l’hanno fondata e abitata per secoli, l’hanno vissuta prima e dopo la distruzione di epoca imperiale romana fino all’epoca presente. Come gli ebrei di Gerusalemme e quelli che qui si recavano sono sopravvissuti alla diaspora, all’islamizzazione del territorio circostante fino all’epoca contemporanea.
Come i cristiani si mossero in questi spazi che erano sacri a Israele e a partire da Elena se ne appropriarono anche dal punto di vista monumentale, costruendo alcuni degli edifici più straordinari del periodo costantiniano. Infine cosa fu Gerusalemme per l’Islam e come avvenne che la città si ornasse di edifici che non hanno eguali nel mondo islamico. Sicché a partire dall’epoca omayyade e poi per tutto il grande periodo mamelucco la città fu viva e ricca e - talora - servì a rivendicare una sorta di autonomia da La Mecca.

La storia di una capitale religiosa che conobbe momenti drammatici – come ben sappiamo – ma che è assai più lunga e complessa dei franchi, delle Repubbliche Marinare e della tragedia delle Crociate. In definitiva, e per molti secoli, Gerusalemme è stata la testimonianza più indiscuribile e famosa di un lungo processo di condivisione. Della possibile coesistenza di popoli e di fedi che hanno più cose in comune di quanto non sembri o non vogliano, in determinati momenti, confessare. Un itinerario splendido, magistralmente condotto.

Il programma è indubbiamente tra i più impegnativi e interessanti da farsi ma non l’unico, molti altri si susseguiranno durante l’intero arco dell’anno. Per maggiori informazioni:
www.viaggicultura.com / segreteria@viaggicultura.com,
Viaggi di Cultura tel. 051233716 (09-13,30).

Ma se Natale può sembrare ormai una parola consumata e ambigua è pur sempre reale, dunque proviamo a pronunciarla in modo differente fino a capovolgerne il senso allo stesso tempo diverso e uguale, facciamone il ‘meeting point’ per una lettura nuova del mondo, contrasssegnamolo come lo spartiacque fra due ere: ‘prima e dopo di noi’ e ritrovarne il naturale prosiegue all’interno di quell’unione che sfocia nella famiglia, in cui la nascita di un figlio segue al viaggio intrapreso dal progenitore. Ecco che allora ‘Natale’ trova il suo posto in un nuovo calendario delle nostre azioni attraverso ogni territorio che avremo scandagliato; tramite d’unione di noi con gli atri, divenendo esso stesso parola, addobbo, luminaria, regalo, dono, musica e folklore di cui nessuna cultura saprebbe privarsi.

Soprattutto sarebbe l'inizio di un ‘viaggio’ intrapreso senza biglietto di ritorno, alla scoperta di quei luoghi che nessuno ormai più conosce, legato a storie dimenticate nell’invenzione nostalgica di qualcosa ch’è stato, come per un ritorno alle origini di un linguaggio figurativo animato di docile stagnola che ognuno modella secondo la propria fantasia, con personaggi re-inventati all’uopo per un teatrino che si configura, ogni volta diverso, che pure si ricrea, in un gioco interscambiabile di quinte, di sfondi e paesaggi ‘impossibili’ che pure ogni volta si ricrea nell’invenzione di più rischiosa utopia quale il nostro costante andare. O meglio, come il nostro viaggiare nel passato, nel presente, nel futuro, nel nostro ‘Presepe’ quotidiano …

Così accadeva anno dopo anno, e accade ancora, generazione dopo generazione nel prosieguo della nostra eternità, di costanti ‘viaggiatori’ sulle ali del tempo:

‘In viaggio’(di Gioma)

Nessun viaggio ci porta lontano
così lontano
come il rimuginare della Terra
la nostra Terra (che trema)

né la scossa che dall'Inferno avanza
né l'acqua che dal Cielo cade
né la speranza che può venir meno
né il canto che talvolta il cuore inganna

sopravvivremo
nel rigenerarsi del Tempo
nei sogni che avremo avanzati
nei 'figli' che avremo lasciati

perché noi siamo la voce
dell'eterno evolversi del Mondo
seppure un giorno, sappiamo
dovesse esplodere questa nostra Terra

allora saremo polvere cosmica
molecole di luce che il poetare produce
che nella continuità di questa Vita
di per sé non abbandona

che l'amore è canto
e non basterà l'annientamento
che la parola esalta
sublime la presenza del Tutto

no, nessun viaggio ci porterà lontano
così lontano da qui perché noi siamo
viaggiatori sulle ali del Tempo
in cerca di un'ultima parola.

Buon Natale … e buon viaggio.



*

- Libri

Christmas Happiness / 3


CHRISTMAS HAPPINESS / 3
In cerca del regalo perfetto da fare agli altri (soprattutto a se stessi): libri ‘strenna’ per il Natale che viene, quanto basta di poesia, qualche mostra, un concerto, il resto createlo Voi lettori … in fondo Natale è anche Vostro, o no?

Capita sempre più spesso che qualcuno lamenti una certa disillusione nell’amicizia asserendo che in certi casi ci si è fidati degli amici sbagliati di cui dispiacersi, o che dovremmo compiangere. A mio parere non esistono amici sbagliati, quando invece siamo noi che sbagliamo a sceglierli. È ovvio che dovremmo essere più cauti nel chiamarli amici. Comunque capita che ci illudiamo dell’amicizia di qualcuno/a che (forse) non la merita e che spesso, distribuendo ‘perle ai porci’, la dispensiamo senza ragione. Personalmente credo nell’amicizia e posso affermare di aver trovato tanta bellezza intorno a me, a volte è bastato poco, l’importante è nel non pretendere nulla in cambio se non l’amicizia stessa. È sempre un investimento di benevolenza che trova la sua forza nel donare e donarsi. È un po come Natale, che ogni anno ritorna con il suo carico di gradevolezza e felicità, con un sussulto di gratificazione e appagamento nell’amore verso gli altri.

Molto dipende nella nostra anima, quell’anima a noi cara eppure misconosciuta che opera in nostra vece senza che neppure ce ne accorgiamo, ma che sappiamo esserci cara anche quando si scontra con la nostra intemperanza, con le nostre istintive ribellioni che, in ultima istanza, sono parte della nostra essenza umana. Non esistono bambini cattivi in natura, gli esempi che spesso ci raccontano gli altri sono cosruiti a bella posta per esorcizzare le nostre paure ancestral. I cattivi sono spesso il frutto di sofferenze e malvessazioni subite, di opposizioni ed esperienze di rifiuto, di successive interferenze malevole, scaturite dall’eccesso di avidità, cupidigia di possesso. Se non fossimo così pretenziosi e pretestuosi forse vivremmo in ‘pace’ con la nostra animalità inquieta, ci riconcilieremmo con quell’ “anima amica” che pure un giorno incontreremo sul talamo nuziale della nostra vita:

‘ANAM CARA' (in lingua gaelica, forma per dire ‘anima amica’)

Anima cara
sempre in viaggio
nel luogo estremo
dove non esiste distanza
fra noi e l’eterno
rischiara nello splendore della solitudine
il nostro cammino interiore
come poetica di crescita
l’antica saggezza
esalta la bellezza dell’invisibile brama
cui tendiamo le mani
e il petto …

Anima amica
accogli
nella spiritualità arcana dei sensi
il nostro raccolto
nel mistero che non ci lascia mai soli
affamati di desiderio
che nessuna immagine
potrà mai placare
onde il noto e l’ignoto
il temporale e l’eterno
quale unico accesso
di questo primario e ineludibile senso …

Anima silente
fedele
all’immagine primaria
segno visibile della grazia invisibile
specchio inclinato
dove vedere e riconoscere
l’intimo suffragio dell’amicizia interiore
iniziatrice e sovvertitrice
della legge segreta della vita
dell’universo intero
trasfigurazione recondita d’una entità estatica
ascosa nell’ignoto nostro essere …

Anima mia
rivelazione invocata
sublime unità d’un dualismo perfetto
che stringe
in un unico abbraccio mortale
una tormentata separazione
segreto
del continuo nascere e rinascere
dell’amore
quale creatività di un’appartenenza
relativa e funzionale insieme
dello spirito nella morte
. . .
dietro lucenti superfici
sei tenebra e silenzio
il vecchio e il nuovo procedere
dei miei passi
l’incessante potenza del possibile
interiore.
(Gioma)

Ɣ - “HAPPINESS IS” è un piccolo/grande libro che va oltre l’anima amica, e ci dice che dobbiamo coltivare la nostra e l’altrui ‘felicità’ regalando un sorriso a chi ci sta attorno. A chi, ad esempio, ama i nostri stessi libri, accetta di avere amici strambi, di ricevere un complimento da uno sconosciuto, di chi si tiene per mano senza vergogna della sua diversità, a chi usa la (nostra) penna avuta in prestito, fino all’ultima goccia d’inchiostro, magari per scrivere una lettera di ricongiungimento, o perché no, gli amati bigliettini d’auguri per il prossimo Natale. Ma allora la “felicità” cos’è?, si chiederà qualcuno e, ovviamente molte sono le risposte che si possono dare a siffatta domanda. Una per tutte è che gli amici sono come i denti guasti, fanno un po’ male ma una volta tolti poi passa; che il dolore di ieri lascerà il posto a un nuovo incontro domani … perché come ha lasciato scritto Vinicius De Morales nel suo testamento in musica, l’amicizia è l’arte dell’incontro.

Hanno ben pensato Lisa Swerling e Ralph Lazar, due autori e illustratori che hanno creato fumetti molto apprezzati in tutto il mondo già nel 2014, sottotitolando questo piccolo e gradevole libro “Happiness Is” ‘500 cose che ti rendono felice’, per i titoli di Sperling & -Kupfer. Pensate che la loro pagina facebook dedicata ha raggiunto solo in Italia i due milioni di fan alla sua prima uscita. Dire che è stato divertente guardare le illustrazioni e leggerne le didascalie è davvero riduttivo, perché oltre ad essere un piacevole ‘oggetto’ è anche un gradevole divertissement da leggere e portarsi in viaggio. Così come fin dalla prima pagina ci viene indicato ‘l’inizio di un viaggio’ con la freccia “direzione”, che poi ritroviamo sulla strada del ritorno, alla fine del viaggio che abbiamo appena concluso … o forse, solo iniziato.

Ɣ – “NIHIL” (nulla si oppone - imprimatur) una poesia di Marco Mazzi, detratta da PlayOn/Poetry il libro sottratto dalla bancarella del mercatino sotto casa e che viaggia nelle pagine del web:

“Anche il mio volto, forse si lasciava
Specchiare da un’acqua limpida e perpetua.
Prima che le stigmate della nascita
Ne violassero il tepore o un ventre
Materno ne rapisse l’ombra. Adesso
Quel pasto d’avorio si consuma nei tuoi occhi.
È il desiderio il feto di Dio. Ascolta, come neve
Dispersa in un’acqua tenue, la carne
Che ne placa l’istinto può farsi dono
Alla verginità di un abisso. E l’iride
Di ciò che fu il tuo respiro nel balsamo
Del suo primo nettare ha fondato nuova
Trasparenza dalla fatale umiltà che nutre
L’eco di ogni elemento. Così ti riveli;
L’impeto o la vivida stele della purezza
Ha suscitato il palmo fedele del tuo germoglio, non qui,
Non dove il silenzio si fa pregno di polline,
Ma in quella suprema urna di quiete
Che l’istinto ha inflitto a tutto ciò che esprime
La tua origine. Oras, in un mosaico d’inconsapevolezza,
Solo l’essere perpetua la creazione come un’eclisse
Neutra alla sfera del tuo pudore, là
Dove non esiste nascita, ma un pallido
Equilibrio è fra materia e innocenza.
Un corpo nasce dalla sua stessa nudità
E infligge, all’altro, un’ala di materia
Perpetua che attende il compiersi di un volto.
Ma è l’implacabile
Umiltà dell’elemento a schiudere dalla sua ombra
Un simbolo, a fare del tempo uno strumento
D’estasi che oltre la carne esulta.
Non è il lamentodi una chiara
Metamorfosi a liberare nel senso l’iride
Della tua pienezza, ma un’inviolabile
Conquista della materia sulle sue stesse membra.
Non credere che la morte apra i tuoi polsi
Al respiro di un animale vergine, ma accogli la fibra
Di una carne superiore dove ancora palpita
L’eco fragile dell’esperienza. Nelle tue mani,
La misteriosa umiltà del desiderio è una voce
Che migra verso l’inesistenza. Limpida e mortale,
Forse è la materia che veste la stagione
Di ciascuna essenza, e la libertà è di nuovo sfinge.
Così voglio che ti riveli, per concepire l’istante
In cui la carne si è fatta estranea al giunco
Della sua stessa umanità e, sola, esiste
Per farsi impeto della sua sostanza
E porgere alla morte il nettare dell’elemento.”

La poesia che abbiamo appena letta insieme è tratta da un progetto culturale promosso da Aeroporti di Roma pubblicato e stampato nel 2002 per conto di PlayOn – Itinerari di conoscenza, dal titolo ‘Poetry’ allo scopo di dar valore a giovani talenti internazionali a scopo divulgativo nei diversi campi dell’Arte (poesia, prosa, pittura, scultura, musica classica, video, teatro). L’autore Marco Mazzi, è nato a Firenze nel 1980 dove ha studiato presso l’Università degli Studi - Facoltà di Lettere, è uno degli autori italiani inserito a pieno titolo in questa singolare (e forse unica perché introvabile) antologia poetica. È oggi uno scrittore affermato, tra le sue pubblicazioni e partecipazioni a libri in lingua inglese:

“Relational Syntax: Aesthetic Awareness and Ideological Experience in Post-industrial Society”, Maschietto editore, 2012. In Criticism & Theory • Art / Criticism & Theory • Philosophy / Aesthetics.
"Uninspired Architecture" presenta un ciclo di 250 fotografie in bianco e nero di Marco Mazzi incentrato sulla città di Tirana (Albania). Gli scatti sono stati realizzati nel 2013 nell'ambito del programma di residenze d'artista .
“Extispicio. Una Scienza Divinatoria Tra Mesopotamia Ed Etruria “di Bellelli Vincenzo, Mazzi Marco edito da Scienze E Lettere: HOEPLI.it

Ɣ – “HOMO DEUS” – Breve storia del futuro – di Yuval Noah Harari Saggi. Bompiani 2017. Dello stesso autore di “Sapiens. Da animali a dèi” (2014), titolato ‘libro dell’anno’ da il ‘Guardian’, l’Evening Standard, e il ‘Times Literary Supplement’.
“Se ‘Sapiens’ ci ha mostrato da dove veniamo, ‘Homo Deus’ ci mostra dove stiamo andando. Questo lo slogan che lo presenta al grande pubblico, un libro complesso ordinato secondo i canoni e i parametri dello storiografo che ripercorre le tappe che dall’Homo sapiens, porta all’Homo faber, all’Homo marginalis di ieri, all’Homo videns di oggi, attraverso gli stadi della rivoluzione umanista, della grande separazione del passato al moderno fino all’oceano della conoscenza e della coscienza, alla ‘bomba a orologeria’ creata in laboratorio di cui l’Homo ha perso il controllo:

“Abbiamo passato in rassegna le più recenti scoperte scientifiche che stanno destabilizzando le fondamenta su cui poggia la filosofia liberale. È giunto il momento di esaminare le implicazioni pratiche di queste scoperte. I liberali sono a favore del libero mercato (ma non del libero arbitrio) e di elezioni democratiche poiché credono che ogni umano sia un individuo prezioso in un mondo unico e irripetibile, e che le sue libere scelte rappresentino l’origine ultima dell’autorità. Nel XXI secolo tre sviluppi ‘concreti’ potrebbero rendee obsoleta questa fede: 1) Gli umani diventeranno sempre meno utili sia sotto il profilo economico che sotto quello militare, di conseguenza il sistema economico e politico cesserà di accordare loro così tanta importanza. 2) Il sistema continuerà a considerare preziosi gli umani come collettività, ma non come singoli individui. 3) Il sistema continuerà a considerare preziosi alcuni singoli individui, ma questi costituiranno una nuova élite di superuomini potenziati, non la massa della popolazione.”

“E allora cosa accadrà quando robotica , intelligenza artificiale e ingegneria genetica saranno messe al servizio della ricerca dell’immortalità e della felicità eterna?” Il genere umano rischia di essere superfluo, questa al dunque la conclusione fin cui si spinge l’autore, che si pone e ci pone, infine, altre domande cui dare (è doveroso) dare delle risposte: “Saremo in grado di proteggere questo fragile pianeta e l’umanità stessa dai nostri nuovi poteri divini?”
2012 è stato membro della Giovane Accademia israeliana delle scienze, insegna all'Università Ebraica di Gerusalemme ed è noto soprattutto per aver pubblicato “Sapiens. Da animali a dèi” (2014).

E noi, che ne sarà di noi? Si chiede il lettore attento partendo dal presupposto di essere fra i ‘salvati’ prima dal Diluvio, poi dall’Apocalisse che ci incombe sulla testa con la bomba a idrogeno che minaccia l’umanità intera. Saremo gli eredi incontrastati della Terra (rimasta) oppure gli schiavi di una Galassia governata dai Robot e dalla IA (intelligenza artificiale) conoscitori della forma del buio de ‘i buchi neri’ che per lungo tempo hanno riempito le pagine della fantascienza? Oggi che la realtà è venuta a galla e ci ha rivelato che era tutto olisticamente possibile, quindi verosimile al reality-life cui in fondo (segretamente) aspiravamo, a quella semi-immortalità che ci avvicina a Dio ci preoccupiamo di non avere le parole giuste per raccontarlo, e che, soprattutto la vicinanza all’Homo Deus ci spaventa non poco, anzi ci terrorizza come quei ‘colpevoli d’esser nati’ puniti dal Giudizio Universale del Padreterno che ammiriamo nella Cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti.

Ɣ- “La forza imprevedibile delle parole” di Clara Sanchez – Garzanti 2017, in cui si cercano ancora quei valori che oggi lasciano a desiderare che tutto ciò di cui abbiamo detto fin qua non accada mai: “Pensi davvero che ogni incontro sia casuale? Pensi davvero che tutto sia nelle mani del destino?”, ma all’improvviso vedo scendere il dubbio nel silenzio, sul viso del lettore. (Il Lettore / Redazione News and Magazine)

Ɣ- “Il bisogno di pensare”, di Vito Mancuso – Garzanti 2017, prima di parlare o anche di scrivere rende perfettamente l’idea del contrasto di ciò che troppo spesso sbandieriamo ai quattro venti senza cognizione. Perché pensare, prima di ogni altra cosa, richiede di porsi all’ascolto nel modo in cui la ‘saggezza ci indica la strada della libertà’, non solo di ciò che hanno da dire gli altri, ma anche di porci domandi come: “Perché vivete? Quale scopo date al vostro essere qui? Cosa volete da voi stessi?”., ma le risposte chi dovrebbe darcele se non l’autore, teologo e filosofo, autore di larga affermazione che spesso intreccia un dialogare fervido con il lettore. (Il Lettore / Redazione News and Magazine).

Ɣ- “Eppure cadiamo felici”, di Enrico Galiano – Garzanti 2017, la storia di una ragazza di diciassette anni che non si sente al suo posto tra i suoi coetanei, firmata da un insegnate di lettere nominato nella lista dei migliori cento professori d’Italia: grazie a un metodo di insegnamento poco convenzionale, Galiano riesce a entrare veramente in contatto con i suoi studenti, al punto da diventare molto seguito su Facebook:

“È la storia di Gioia che, nonostante il suo nome esprima allegria e vitalità, è stata soprannominata dai compagni di scuola “Maiunagioia“, e tra di loro non si sente al suo posto. Lei non è come loro, non le interessano i vestiti e le feste piene di gente, ha una sola passione, di cui non ha mai parlato a nessuno, ma che la rende felice: collezionare parole di tutte le lingue del mondo, parole intraducibili, come cwtch, un termine gallese che indica non un semplice abbraccio, ma un abbraccio affettuoso che diventa un luogo sicuro. Una notte, fuggendo ancora una volta dalle discussioni dei genitori, incontra Lo; così dice di chiamarsi il ragazzo che gioca a freccette da solo, in un bar chiuso, nascosto sotto il cappuccio di una felpa.
Parlando con Gaia si sente compresa per la prima volta in vita sua, non più sola, incapace, per una volta, di dar nome alla nuova emozione che prova ogni volta che lo vede. Una sensazione che non è destinata a durare. Lo scompare nel nulla, all’ombra di un segreto che solo Gioia può svelare, gli indizi che il ragazzo ha lasciato sono pensati apposta per lei, e per capirli bisogna imparare a riconoscere tutti i mille significati del verbo amare: un romanzo per insegnare che, a volte, basta essere in due perché le emozioni non facciano più paura.” (Il Lettore / Redazione News and Magazine).

Se per gioco mettiamo insieme i vari titoli sopra elencati ne viene fuori un incipit non indifferente per scrivere un libro sul sociale che si consegna a pieno titolo a chi sta cercando il proprio posto nel mondo. Allora perché non tornare a sorridere con chi ha un grande spirito e sa sorridere (e ridere) di tutto, anche della morte:

Ɣ - “Anime e Acciughe”, l’aldilà come non l’avete mai immaginato, di Achille Mauri,Bollati Boringhieri 2017., con il quale l’autore approfittando del gioco parabolico si diverte a raccontare l’ aldiquà. “E cosa c’entrano le anime con le acciughe? C’entrano, c’entrano”. La risposta a chi ha bisogno di un pizzico di ottimismo. Per poter superare gli ostacoli e colmare il vuoto insopportabile che è dentro ognuno di noi. O, come scrive Vanni Oddera in “Il grande salto” - Ponte alle Grazie 2017: “Se si salta da soli è solo un sogno, se si salta insieme è la vita che inizia davvero. Ovvero, come ho capito che l’amore per gli altri rende felici.” (Il Lettore / Redazione News and Magazine).

Ɣ- “Stranieri residenti” per una filosofia della migrazione. Libro di Donatella Di Cesare – Bollati Boringhieri 2017 . Professore di Filosofia teoretica all’Università La Sapienza, è tra le voci più impegnate nel dibattito pubblico contemporaneo in tema della migrazione, onde ripensare la convivenza in un mondo globalizzato quale è il nostro attuale: “Abitare e migrare non si contrappongono, come invece vorrebbe il senso comune, ancora preda dei vecchi fantasmi dello ‘jus-sanguis’ e dello ‘jus soli’. In ogni migrante si deve invece riconoscere la figura dello ‘straniero residente’, il vero protagonista del libro. Atene, Roma, Gerusalemme sono i modelli di città esaminati, in un affresco superbo, per interrogarsi sul tema decisivo e attuale della cittadinanza:
‘DALLA PARTE DELLE NUVOLE MIGRANTI’

migranti
sopra gli estesi deserti incompresi
dove l’incontro col tempo remoto
sussegue al presente
fin dentro il futuro del mondo
e che vanno
sospinte dai venti
d’un vortice di fuoco
che avvampa bruciando
ogni cosa d’intorno …

a piedi nudi affrontano in peregrino andare masse di genti che nude nell’anima ambiscono di sopravvivere in questo mondo estremo

migranti
che s’avvoltolano sui rami
rinsecchiti degli alberi
senza fronde
dove la pantera affamata
ha cercato
una visuale migliore
prima d’assalire la preda
che stanca si trascina
nella traversata …

uomini contro avidi d’ogni cosa che s’impossessano delle vite degli altri da vendere al mercato dei nuovi schiavi della contemporaneità

migranti
di differente credo accomunati
che obliterano il soldo
all’odierno traghettatore d’anime
per un insensato viaggiare
verso un medesimo
inferno ultraterreno
nello spazio indefinito
di un mare da attraversare
senza ritorno

che ancor li tiene legati a un ancestrale destino prigionieri accecati e abbandonati
alla luce d’un domani che non si accenderà

migranti
nel buio di quelle profondità marine
che li accoglie senza identità
come broscia da dare in pasto
ai pesci
alle divinità melliflue
che avare d’ogni ragione
s’avanzano
a contrastarne
l’antropico riconoscimento
(Gioma)

Ɣ- “ANTEREM”, rivista di poesia e filosofia giunta quest’anno al numero 95 - Dicembre 2017, appena pubblicato. In questo speciale numero viene dibattuto l’affascinante tema “L’altrove poetico” con gli interventi di poeti e filosofi di rilievo internazionale, in un succedersi avvincente di poesie e saggi. Significativamente si dà evidenza alle vertiginose poesie di Paul Celan e Rainer Maria Rilke, oltre che a testi di Maurice Roche, Jean Flaminien, Gian Giacomo Menon e altri. Da tempo immemore l’uomo si interroga sul senso dell’esistenza, vagando per strade impervie verso l’illusorio orizzonte della storia, lì dove anche la fede si smarrisce nel male gratuito e l’umano diviene il testimone della propria finitezza.

A tale proposito Flavio Ermini registra nell’editoriale:
«Il dire del poeta ci parla di un altrove dov’è in opera una prospettiva rovesciata rispetto al mondo sensibile. Grazie a questo dire, ciò che eccede il mondo sensibile si esprime nelle proprietà di ogni singola parola, conferendo fondatezza e legittimità a quanto può apparire soltanto empirico e casuale».

Questo numero straordinario può essere richiesto alla direzione:
flavio.ermini@anteremedizioni.it Allo stesso indirizzo possono essere richieste informazioni per abbonarsi ad “Anterem”, in modo di avere un aggiornamento costante sulle più significative tendenze poetiche e teoriche internazionali.
• info@anteremedizioni.it

Ɣ- Di Flavio Ermini va in-oltre citato il nuovo libro “Della fine. La notte senza mattino” - Formebrevi Edizioni 2017, con il quale l’autore ci conduce in un viaggio nella tenebra, attraverso i nomi che la evocano, nell’indicibile che ci annienta, quali esseri per la fine, viandanti perduti nella notte senza mattino. Le sue brevi riflessioni affondano le radici nel dolore che divora l’essere umano gettato nell’ignoto, sospeso sull’abisso dell’esistenza, in preda ai venti ingannevoli che lo condannano a vagare nell’oscura selva della vita.
Il volume inaugura la collana “Microliti”, collana di saggistica di Formebrevi Edizioni, giovane progetto editoriale impegnato nella diffusione della ricerca letteraria e delle scritture non convenzionali. Il libro è distribuito nelle migliori librerie, ma può essere ordinato anche direttamente alla casa editrice: info@formebrevi.it ; ne parlano: Paolo Barbieri su QuiLibri; Danilo Di Matteo su Riforma; Mauro Germani su Margo; Marco Furia su Perigeion; Rosa Pierno su Trasversale; Giorgio Linguaglossa su L'ombra delle parole; Patrizia Garofalo su TellusFolio; Giulio Galetto su L'Arena; Giorgio Mancinelli su LaRecherche.it; Antonio Spagnuolo su PoetryDream.

Ɣ- “SULL’AMORE, SULLA MORTE”, di Patrick Süskind – Longanesi 2007, ecco un nome che ritorna sulla scena, e lo fa solo di rado con titoli programmatici come ‘Ossessioni’, ‘Il conrabbasso’, ‘Il piccione’ fino al suo romanzo ‘Il prumo’ che gli a dato fama internazionale, e che non lasciano al lettore la pur minima effrazione al dubbio, con una scrittura secca e vibrante che s’impone per la una sorta di sensibilità inespressa, come di foglia gialla che penzola dal ramo dell’albero e che stenta a cadere fino al culmine dell’ostinazione. Lo spirito ‘noir’ dei suoi racconti e pieces teatrali non viene meno al senso dell’indicibile, al quale l’autore affida la sua scrittura, andando alla ricerca costante di un pretesto narrativo che lo rende ‘unico’ nel suo genere. Pietro Citati, in una nota su Süskind dalle pèagine del Corriere della Sera, ha scritto: “..che possiede quella prodigiosa sensualità oggettiva, quella ricchezza di impressioni e di sensazioni, quell’apertura (alle cose) del mondo, senza la quale nessun romanzo è mai stato scritto. Appena raccoglie qualche impressione, subito, sotto i nostri occhi meravigliati, si trasforma in un personaggio, diventa un altro corpo … e noi, per contagio, siamo quel corpo.”

“Qualcosa di misterioso (in Süskind) sembra connesso con l’amore. Quindi nell’amore dev’esserci qualcosa di più del misterioso. È chiaro che ognuno lo sente come un problema strettamente personale e importantissimo dal punto di vista esistenziale.”
D’altro non voglio qui parlare, è questo il tempo in cui si parla della nascita alla vita, nel tempo della luna piena in tutta la sua bellezza, e il cielo di Natale sarà attraversato dalla scia di una cometa …

Ɣ – “QUANDO SARA?”, di Gialâl ad-Dîn Rûmi in “Poesie Mistiche” – Bur-Rizzoli ristampa 2016:

“Quando saràche questa gabbia divenga giardino fiorito,
e degna divenga ch’io vi passeggi in letizia?
Quando questo veleno mortale si farà miele
e questa spina pungente sarà gelsomino?
Quando quella luna di quattordici giorni sarà
stretta al mio seno?
Quando il sole ci proteggerà coi suoi raggi?
Quando quel cero resterà acceso resterà nel mio candelabro?
Quando quel liuto di gioia troverà nuovi accordi,
e questo orecchiosi adatterà al tan-tan del suo ritmo?
Quando nel campo del cielo avremo raccolti di Luna e di Spica?
Quando la luce di Canopo brillerà su di noi?
Quando le giare del vino dell’amore traboccheranno
e sarà il momento di saporosi festini e banchetti?
Quando ogni atomo di pulviscolo diverrà come un sole,
e ogni goccia, per grazia di Dio, diverrà un Paradiso.?
. . .
Non dir ciò che resta, conservalo ancora nel cuore; è meglio che la Parola si aggiri in quella patria profonda.”

Mawlānā Jalāl al-Dīn Rūmī (persiano: مولانا‎‎ [moulɒːnɒː]) in Iran e Afghanistan (Balkh, 30 settembre 1207 – Konya, 17 dicembre 1273) è stato un ulema, teologo musulmano sunnita, e poeta mistico di origine persiana. Fondatore della confraternita sufi dei 'dervisci rotanti' (Mevlevi), è considerato il massimo poeta mistico della letteratura persiana …
“Quando cerchi Dio, Dio è lo sguardo dei tuoi occhi.”

(continua)

























*

- Cinema

Intervista a Francesca Comencini Regista



In collaborazione con Cineuropa News

Intervista a Francesca Comencini • Regista
di Vittoria Scarpa

29/11/2017 - La regista romana Francesca Comencini ci parla del suo nuovo film Amori che non sanno stare al mondo, proiettato al 35° Torino Film Festival e al cinema dal 29 novembre.

Dopo il debutto a Locarno, Francesca Comencini ha portato al 35° Torino Film Festival (sezione Festa Mobile) il suo nuovo film, Amori che non sanno stare al mondo , un’arguta commedia sentimentale tratta dal suo libro omonimo. Con protagonisti Lucia Mascino, vista di recente in La pelle dell’orso di Marco Segato e Suburra - La serie, e Thomas Trabacchi (Nico, 1988), il film esce nelle sale italiane il 29 novembre con Warner.

Cineuropa: Il suo film ricorda un po’ Io e Annie di Woody Allen, ma dal punto di vista di una donna. E’ stato un suo riferimento al momento di trasporre il libro al cinema?
Francesca Comencini: Non oso dirlo perché è un capolavoro, ma in effetti sì, è un film che abbiamo molto guardato e a cui abbiamo pensato con le sceneggiatrici Francesca Manieri e Laura Paolucci. Lì, anche se dal punto di vista maschile, c’è una narrazione simile: un uomo che ripercorre ossessivamente la sua storia d’amore dal momento che è finita. Io e Annie è un tale modello di libertà e ironia, anche nel dolore, che è stato inevitabile pensarci.

Il racconto si articola come una sorta di flusso di coscienza della protagonista, ma ogni tanto sentiamo anche qualche riflessione dell’uomo. Come avete strutturato il film?

All’inizio, quando ho cominciato a prendere appunti di quello che poi è diventato il libro, avevo pensato a quattro voci off, dei quattro personaggi principali, come un monologo interiore ininterrotto di quattro punti di vista diversi. Il libro in effetti è strutturato così, è più corale. Poi scrivendo il film, con le sceneggiatrici ci siamo rese conto che l’io narrante più forte era quello di Claudia. Già il film era in apparenza caotico e frammentario, quindi moltiplicare le voci off diventava impossibile. Però è rimasta quella di Flavio che ogni tanto fa capolino.

Soprattutto nella prima parte, le nevrosi della protagonista sono portate all’estremo, sfiorano l’inverosimile. Era intenzionale creare questo distacco dalla realtà?

Sì lo era, perché lei, specialmente nella prima parte del film, è affetta da questa sorta di iper narrazione continua che hanno le persone innamorate quando vengono lasciate. Chiunque di noi che abbia un’amica o un amico separati da poco sa che per sei mesi dovrà rassegnarsi a sentir parlare solo di quello. E’ una cosa buffa e anche ironica del personaggio, ma più in generale ho cercato di raccontare una donna che prima di tutto non fosse una vittima. Lei è disperata, ma questo suo essere eccessiva è stato un modo per renderla iper reattiva. Volevo anche un personaggio che uscisse dai canoni: quando sei una donna che vuole sempre esprimere la propria soggettività, a rischio di essere a volte molesta, rischi di diventare eccessiva, perché questo mondo non lo prevede. Il tuo eccesso è il non saper stare al mondo così come è, ossia un mondo raccontato dagli uomini.

Aveva pensato fin dall’inizio a Lucia Mascino come protagonista?

Sinceramente no, ci sono arrivata tramite il casting. L’avevo già vista in teatro, ma non avevo pensato a lei perché all’inizio immaginavo un’interprete più grande di età. Ma quando ha fatto il provino, ho capito subito che era lei. Sono contenta di aver dato sia a Lucia che a Thomas Trabacchi un ruolo da protagonisti, sono due attori molto bravi, con molto teatro alle spalle, con molta tecnica, ma anche molta ingenuità e capacità di mettersi in gioco.

Una scena molto divertente immagina una lezione universitaria di 'eterocapitalismo', dove si calcola l’età di una donna sulla base di fattori che prescindono dall’anagrafe…
Uno degli aspetti del film è quello di ragionare sull’invecchiare, che è diverso per un uomo o una donna. Non biologicamente, intendiamoci: diversa è l’autorizzazione che il mondo dà alle donne e agli uomini di invecchiare, in un sistema patriarcale. La scena, in realtà, si basa su un testo serissimo di un filosofo che si chiama Paul B. Preciado, che ragiona in maniera estrema e per me geniale sulle costruzioni normative dell’eterocapitalismo. Lo abbiamo rigirato in modo ironico, perché è un modo molto efficace per far capire come tutto ciò che riguarda l’età, i ruoli, gli stereotipi di genere, sia una costruzione culturale. Nel mercato reale se sei divorziata, se non hai lavoro, se hai figli a carico non vali niente, sei considerata una settantenne anche se hai 46 anni. Ho sentito miliardi di volte dire che le donne invecchiano peggio, ma sono cazzate.

Ha già qualche altro progetto in cantiere? Continuerà a misurarsi con la serialità televisiva?
Non ho ancora nuovi progetti per il cinema. Quanto alla serialità, sono tra i registi di Gomorra - La serie dalla prima stagione, ora siamo alla terza. E’ una cosa che mi appassiona tantissimo. Penso che nella serialità oggi ci siano possibilità di ricerca e libertà di affrontare temi scomodi quasi più che al cinema, quindi sì, vorrei continuare su questa strada.

Sinossi
Claudia e Flavio si sono amati, a lungo, morbosamente, con la clemenza del tempo che cambia e che passa. Poi tutto è finito, e per lei è stato come mettere qualcuno alla porta nella speranza che si riaprisse di colpo. A cinquant’anni quello che vedono è un mondo alla deriva, come un’isola. Lui ha dentro la furia che dà l’assoluzione, perché vuole andare avanti, tornare a terra; lei è un pozzo profondo nel quale annegare, perché salvarsi vorrebbe dire dimenticare e il ricordo non deve sparire. Il tempo che si concedono non è lo stesso, e forse non solo quello. Flavio incontra Giorgia, basta un attimo tra loro e la pioggia d’estate fa il resto. Lei, con l’energia e la freschezza dei trent’anni, il corpo acerbo di chi non vuole crescere, gli ha indicato la terraferma, e lui, appesantito dalla vita, si è abbandonato alle sue velleità. Claudia e Nina si conoscevano già, ma all’università, divise dal ruolo, dall’età, dall’idea che il rispetto non si sarebbe mai trasformato in amore. Eppure Nina è bellissima, una giovane Chloë Sevigny seducente e meravigliosa, e ora l’abbraccio che tende è famelico, e ha una potenza a cui nessuna donna può sottrarsi.

titolo internazionale: Stories of Love That Cannot Belong to This World
titolo originale: Amori che non sanno stare al mondo
paese: Italia
rivenditore estero: Fandango
anno: 2017
genere: fiction
regia: Francesca Comencini
durata: 92'
data di uscita: IT 29/11/2017
sceneggiatura: Francesca Comencini, Francesca Manieri, Laura Paolucci
cast: Lucia Mascino, Thomas Trabacchi, Carlotta Natoli, Valentina Bellé, Francesca Manieri.
fotografia: Valerio Azzali
montaggio: Ilaria Fraioli
musica: Valerio Vigliar
produttore: Domenico Procacci
produzione: Fandango, RAI Cinema

Amori che non sanno stare al mondo, un fiume di parole che prendono corpo con ironia
di Giorgia Del Don

07/08/2017 - LOCARNO 2017: Il titolo lunghissimo del film ben si adatta al torrente (verbale ed epidermico) che domina l'ultimo film di Francesca Comencini
Lucia Mascino e Flavio Thomas Trabacchi in Amori che non sanno stare al mondo
Presentato in prima mondiale sulla Piazza Grande del Festival del Film Locarno, Amori che non sanno stare al mondo [+] di Francesca Comencini fa la pericolosa scommessa di parlarci del dolore di un amore che finisce.

Claudia (straordinariamente interpretata da Lucia Mascino che calamita l’attenzione sin dai primi secondi) e Flavio (Thomas Trabacchi) si sono amati per ben sette anni di una passione divorante ed intellettualmente stimolante. Fra tira e molla, notti in bianco impregnate di discorsi tanto paradossali quanto universali e psicofarmaci camuffati in una scatola di vitamine, la loro storia finisce, di colpo. Lui sente la necessità di atterrare dopo un lunghissimo e vertiginoso volo mentre lei proprio non riesce a ritornare a terra, prigioniera di una terra di mezzo dove risuonano i suoi monologhi compulsivi.

È proprio da questo punto di vista 'femminile, complesso e inafferrabile, che Comencini riflette sull’innamoramento, sul fantasma di una passione che perdendo ogni appiglio nel mondo reale si sgretola ogni giorno di più diventando pura confusione. In questo senso Comencini opera una piccola ma significativa rivoluzione: quella di allontanarsi da una visione “maschiocentrica” per dare voce alle donne. Un punto di vista che alla fine ci rendiamo ben conto essere più universale di quello che si potrebbe pensare.
Uniti dalle stesse insicurezze e nevrosi uomini e donne combattono una stessa battaglia per trovare una pista d’atterraggio emotiva, un momento di tregua che faccia tacere, anche solo per un attimo, i propri dubbi. Il fiume di parole che fa da cornice a tutto il film, nato appunto dal romanzo Amori che non sanno stare al mondo della stessa Comencini, straborda sempre di più fino a trasformarsi in torrente, in poema dell'assurdo che non può che strapparci alcune sane e liberatorie risate. La sfida che da subito Amori che non sanno stare al mondo si è lanciata è quella di unire parole e immagini senza che nessuna delle due prenda il sopravvento ma al contrario facendo in modo che entrambe partecipino alla costruzione di una commedia surreale ed esaltata proprio come i nostri sentimenti, scombussolati da un’improvvisa perdita.

A chi potrebbe rimproverare alla regista un punto di vista troppo elitista (i personaggi, tutti o quasi professori universitari, sono molto colti ed eruditi), la regista risponde a suon di scene esilaranti che mettono i suoi protagonista a nudo come a volerci dire che al di là della nostra educazione, ognuno di fronte al dolore di un amore che finisce è uguale: smarrito, ridicolo e vulnerabile.

A tratti almodovariano (nella descrizione dei suoi personaggi femminili) e divinamente Woody Alleniano (nella scioltezza delle sue battute), Amori che non sanno stare al mondo ribalta i ruoli prestabiliti ridando infine alle donne la loro vera identità: non quella di un territorio da conquistare ma bensì da esplorare.


*

- Società

Contro la violenza sulle donne.

‘Donna: madre, sorella, amante’

Madre
è sentire il battito del cuore
il pulsare regolare del respiro
la linfa che scorre nel reticolo venoso
il formarsi del piccolo corpo
che s’allieta in noi

è l’eremo ascetico del silenzio
il soffio vitale del labbro
adorno di vita
una pausa infinita
nell’approssimarsi del dubbio

è la paura devastante
che adombra la ragione
l’acuto del dolore
il grido liberatorio
il vagito primario del mondo

è il seno donato al poppante
che sugge gioioso
ciò che alla vita lo induce
nel corso degli anni
a venire

è l’animo quieto
nel levarsi della coscienza
nell’incontro col sole
il silenzio dell’infinito
che tace


Sorella

è immemore dell’ombra
dell’albero che abbiamo allevato
del sibilare del vento
che pur la distoglie
dal racconto della nostra venuta

non chiede libertà di vincolo
né giustizia di pace
nell’accogliere il fardello
della costola d’Adamo
nel proprio corpo diviso

è parte di noi come noi
siamo parte di lei
in assenza di verbo come noi
siamo presenza
del verbo ch’è stato

è lei che ci ama
che ci comprende e difende
è lei che ci consola
donandosi alla stregua
della madre ch’è stata

ancor prima che fosse
la foglia caduta dall’albero
ancor prima di giacere
sulla terra spoglia
a nuova germinazione


Amante

è il verso del racconto
‘l’ultima riga delle favole’
l’attrazione profonda
la percezione segreta
di ciò che i sensi incarna

è la forza misteriosa
la passione incandescente
la forza irresistibile
l’affetto significante
del disincanto

è l’incolumità amorosa
la ferita che si risana
l’infinitamente presente
il mondo delle infinite passioni
degli improvvisi ritorni

l’indissolubilità del desiderio
l’epilogo d’ell’odierno dramma
lei sorella, lei amica, lei amante
tutt’uno
con la natura che ci circonda

lei, lo scopo e la fine
che s'incarna nel tempo del sacro
che ci lega all'eternità di Dio
il segreto dell’estrema felicità
. . .

lei: eterna Madre

*

- Letteratura

Fogli/e d’Autunno 5

“Fogli(e) d’Autunno 5”
(letteratura, poesia, narrativa, libri, editori, concorsi, con uno sguardo all’arte in fatto di mostre, cinema, teatro, musica e viaggi.)

“Quando arrivò l’Autunno se ne accorsero appena, faceva ancora così caldo che la sera lasciavano spegnere il fuoco. (…) Lenta, calma, l’Estate finiva. L’aria odorava dei fuochi che bruciavano nelle sodaglie, degli aromiche salivano dai pendii. (…) Mattine e sere tiepide, senza vento. Per giorni interi osservarono i cieli bassi e umidi, opachi come i sooni. Quando i viaggiatori partivano lei metteva le braci negli scaldapiedi e saliva a riempire d’olio le lampade nelle camere, loro rimanevano in cucina a parlare, commentavano la giornata, respiravano l’aria della sera. Finito il suo lavoro lei augurava la buona notte e saliva nella sua soffitta. Di lassù sentiva le loro voci e le loro risate, e l’upupa che gemeva nel boschetto sul fiume”. (Da ‘L’offerta’ di Michèle Desbordes – op.cit.).

È tornato l’autunno senza che me ne accorgessi. Così, quando d’improvviso ho scorto le foglie ingiallite che cadevano dagli alberi. Tutto sommato non me ne dispiace anche perché ero quasi stanco di tanta assolata solitudine (si fa per dire) degli alberi. Come dire, la cosa mi fa sentire un po’ meno solo, ed accarezzo l’idea di rimettermi a scrivere, senza alcuna cognizione del tempo che passa. Ma che ora è (?) Davvero non saprei dire perché non guardo mai l’ora. Eppure so che non è vero, la guardo sovente ma capita che un momento dopo già non la ricordi più. Allora torno a guardare l’orologio per vedere se nell’affanno siano cadute le lancette, oppure … al contrario è invece scemato l’interesse per ciò cui forse prima avevo riposto interesse, ma prima di quando (?)
Il fatto in se stesso all’apparenza sembra non dire niente, anzi, lasciar cadere ogni cosa nell’indifferenza, forse perché non c’è nessuno con cui condividere l’interessamento di poco prima, ma di quale interesse si trattasse ora davvero non saprei dire. Che mi sia sfuggito insieme all’attimo segnato dall’orologio anche il nesso che il passare del tempo reclama alla sopravvivenza (?)
Per quanto, se non ne trovo la ragione, mi pare sia del tutto inutile rimpiangere l’attimo andato comunque perduto e, insieme con la ragione, ritrovare l’istanza che lo rendeva partecipe della mia stessa esistenza. Un fatto di essere presente a se stessi, oppure … e mi rifaccio alla logica che mi dice che potrebbe non essere così, ma così come (?)
Di certo non è così che funziona, quando nell’evolversi del tempo, anche l’attimo può avere, anzi ha, una sua ragione d’essere all’interno degli spazi occupati da una qualche riflessione, come nel caso di un momento di solitudine che arriva all’improvviso e ci sorprende impreparati … ma impreparati a cosa davvero non saprei. Che forse stiamo aspettando il diluvio (?)
Quand’ecco la mente attiva da luogo al fluire di sentimenti contrastanti, reclama in sua difesa le emozioni, si concede spazi di rifrazione, inclusivi di suggestioni, di turbamenti ed eccitazioni, che attraverso i condotti interstiziali della mente sollecitano all’immaginazione ciò che dell’immaginario non è … nell’incapacità di cogliere il nostro ‘attimo fuggente’(!) e tornare a impossessarci delle ragioni di un silenzio che era divenuto assordante e non ci lasciava vivere, ma che forse possiamo ancora governare …

“tra le righe” (GioMa inedita)

..torno talvolta a leggere
come sono fatto
negli spazi in bianco
leggo quello che vorrei essere

Ɣ – Al nostro inconscio immaginario appartengono l’arte, la musica e la poesia, e gran parte della letteratura che ci ha impegnati fin dall’inizio di questa lunga passeggiata narrativa fra passato e presente, fra attualità del passato e future letture autunnali. A incominciare dall’affermazione di Albert Einstein:

“La più bella e profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero, sta qui il seme di ogni arte, di ogni vera scienza” e che, per quanto la scienza dichiari il contrario, richiama alla religiosa osservanza del creato, a quel mistero che ha un solo nome ‘Dio’.

La citazione è di Mario Brunello, violoncellista che, nel suo libro “Silenzio” (Il Mulino 2014), ci racconta come scaturiscono le sue straordinarie note, semplicemente facendo vibrare le corde del suo strumento all’interno di una cassa armonica, specie di luogo in cui esse non sono; in cui, per l’appunto, domina il silenzio che permette però all’artista di entrare, di essere segnato dalla creazione. “E così nasce la musica. Il suono si sistema in quel silenzio. Ecco allora la ricerca di luoghi dove il silenzio è d’oro, dove esso prospera e viene rispettato, come una montagna o un deserto. Persino in un mercato caotico pieno di colori, di parole e di forme, il musicista trova il suo silenzio e lo trasforma in qualcosa di portentoso: «È un silenzio che sta anche intorno ai suoni, un silenzio che è ‘liquido amniotico’, che dà vita e ne fa riconoscere e individuare il (suo) senso profondo”.

Discografia: “Violoncello and” – EGEA 2009; “Odusia” – EGEA 2008; Bach - “Concerti Brandenburghesi 1-6” direttore Claudio Abbado - 2008; Bach - “Sei suites per violoncello solo” - EGEA. Ed altre incisioni, moltissimi altre, dedicate ad autori come Vivaldi, Beethoven, Sollima, Villalobos, Jobim, Brahms, Chopin, Samti, Dvorak con Antonio Pappano.
Pubblicazioni: Mario Brunello “Fuori con la musica” – Rizzoli 2011. “Silenzio” Il Mulino 2014.

Sitografia: rivistailmulino@mulino.it

Ɣ – ‘L’arte di essere fragili’ di Alessandro d’Avenia (Mondadori 2016) non è un romanzo, e neppure un libro qualunque, ci si può innamorare nel leggerlo così come si è sempre innamorati della ‘bellezza’. Finanche nella sua sfuggevole accezione, quando cioè la bellezza trova il suo equivalente nella ‘fragilità’ di ciò che non si può afferrare, che solo è lasciata all’incanto dell’osservatore attento, che la esalta e la celebra su tutte le cose: come il pittore fa con la natura, l’uomo con la donna, quando il sentimento sublima l’amore e ci fa dono di un ‘salvavita’ che molti non stenteranno a riconoscere come il più bel libro mai letto prima. Insieme a tanti altri ovviamente, ma in senso assoluto quello che più asseconda la necessità attuale di riconciliazione con gli altri, col mondo in cui viviamo, con la bellezza della natura che ci circonda e, non in ultimo, con noi stessi.
Quei ‘noi’ che forse non conosciamo fino in fondo o che volutamente disconosciamo per scelta, per ansietà o per disamore di quelle cose che pure abbiamo amate e in segreto ancora amiamo, alle quali senza ragione non prestiamo più alcuna attenzione.
Non c’è in questo trattato poetico nulla che sappia di vecchia morale, di nebbiosa credulità, di ingiusta etica, nulla che nel bene e nel male delle faccende umane sappia di stantio, tutto è qui riportato al giorno d’oggi. Così le storie che vi sono riportate, le impressioni che danno lustro alla nostra modernità obsoleta, le esperienze maturate sul campo dal giovane prof d’Avenia calatosi nel raffronto agevole con il poeta Giacomo Leopardi, sono tali da riuscire a formulare un epistolario impossibile eppure verosimilmente attestabile ai nostri giorni.
Scrive d’Avenia: “Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra, e ciò che la rallegra è la scoperta dei legami che uniscono cose e persone, che rendono viva la vita. Cogliere quei legami, e ripararli è la felicità del cuore e della mente”. Ed è forse questo il breve lucido resoconto che scaturisce da un dialogo siffatto in cui il termine ‘raffronto’, produce tuttavia una sorta di seduzione che modella l’incanto della lettura, lo scherzo intelligente di esistere e di nascondersi a noi cercatori d’oppio letterario che stanchi, lasciamo talvolta al caso di offrirci le sue leccornie poetico-filosofiche.
Forse l’una e l’altra delle cose, per quanto è l’aver scoperto che le ‘cose’ davvero:

“..tornano a reclamare i loro diritti, la loro tenerezza, la loro impurità, la loro ombra luminosa, la loro fragilità. Le cose e le persone, i loro volti, tornano a invocare la nostra misericordia: custoditeci e riparateci, nonostante tutto.(..) Così è la poesia, ci costringe ad abbassare la luce artificiale e tornare a vedere il mondo, mutilato e fragile, ridotto così dalla nostra indifferenza. (..) Se le stelle riuscissero ancora a colpire i nostri occhi, non solo una volta all’anno quando cadono, credo che avremmo più possibilità di costruire la nostra casa su fondamenta celesti, quelle della nostra unicità”. (d’Avenia).

E chi meglio di Giacomo Leopardi che non ha avuto il tempo di invecchiare, ha potuto investigare nei sentimenti umani la fragile essenza dell’essere? – si chiede l’autore d’Avenia – Chi ha dato a questa nostra epoca, la dimensione di come davvero "la poesia può salvarci la vita”? “Forse se il nostro lettore, Giacomo (Leopardi), stanotte spegnesse tutte le luci e guardasse il cielo in silenzio, saprebbe che la bellezza e la gratitudine ci salvano dallo smarrimento dovuto alla nostra carenza di destino e destinazione”.

“Forse se in quel buio luminoso avesse accanto o nel cuore qualcuno, ne scorgerebbe meglio la seducente fragilità, un infinito ferito che chiede cura e riparazione, e capirebbe di esser ‘poeta’, cioè chiamato a fare qualcosa di bello al mondo, costi quel che costi. Forse allora saprebbe che solo uno è il metodo della faticosa ed entusiasmante arte di dare compimento a se stessi e alle cose fragili, per salvarle dalla morte: l’amore. Questo è il segreto per rinascere … questa è l’arte di essere fragili”. (..) Viviamo in un’epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita. Ma c’è un altro modo per mettersi in salvo, ed è costruire, come te, Giacomo, un’altra terra, fecondissima, la terra di coloro che sanno essere fragili”.

Alessandro d’Avenia, dottore di ricerca in Lettere classiche, vanno ricordati ‘Bianca come il latte, rossa come il sangue’ (Mondadori 2010) dal quale è stato tratto nel 2013 l’omonimo film; ‘Cose che nessuno sa (2011); ‘Ciò che inferno non è’ (2014) con il quale ha vinto il premio speciale del presidente al premio Mondello 2015. Da questo libro l’autore ha tratto un racconto teatrale che presto porterà in giro per l’Italia.
Sitografia: info@mondadori.com , news@mondadori.it

Ɣ – “Cedi la strada agli alberi - Poesie d’amore e di terra”, un libro di Franco Arminio (Chiarelettere 2017), dal quale sono ripresi i passi che seguono:

“La prima volta non fu quando ci spogliammo ma qualche giorno prima, mentre parlavi sotto un albero. Sentivo zone lontane del mio corpo che tornavano a casa.”

Chi scrive ha in mano un’emozione o un sentimento. Scrivendo, si trasforma in chi legge, acquisendo forma e suono, allora diventa poesia. Il sentimento perso o perduto è una delle fonti di maggiore ispirazione dei poeti di tutti i tempi. Come in questa poesia di Franco Arminio, ‘poeta della suburbia’ …

Portami con te in un supermercato,
dentro un bar, nel parcheggio
di un ospedale.
Spezza con un bacio il filo
a cui sto appeso.
Portami con te in una strada di campagna,
dove abbaiano i cani,
vicino a un’officina meccanica,
dentro a una profumeria.
Portami dove c’è il mondo,
dove non c’è la poesia.

“Franco Arminio ci invita a immaginare e vivere l’amore che non si è voluto o potuto cogliere. Descrive alcune ipotetiche scene di vita come rituali d’amore da seguire nel quotidiano per cogliere la concretezza di un rapporto che sia pieno di fatti, oltre che di parole, perché solo così può riempirsi di significato e di senso. (…) Paesologo, così si definisce Franco Arminio, professione poeta, registra, scrittore, ma anche animatore del festival “La luna e i calanchi” di Aliano, in Basilicata, regione per la quale ha scritto il documento strategico per le aree interne: “Nei paesi, nelle aree interne, dove gli altri vedono solo il passato, io vedo il presente e il futuro, spiega a Linkiesta, a margine della Rena Summer School di Matera, dove è intervenuto in qualità di relatore. E il luogo migliore in cui si può fare sono le aree interne. (…) Le aree interne sono molto meglio: hanno tradizione, identità, bellezza. (…) La città non è il cuore di tutto. In città non c’è il sacro di cui l’uomo ha bisogno. Quel sacro che rimane nelle comunità abbandonate, lontane dalle città. Io nutro più fiducia nei posti più marginali possibili, anche quelli colpiti dal sisma lo scorso anno. Soprattutto quelli”.

Sitografia: info@chiarelettere.it

Ɣ – Ma la poesia dov’è, dove si è cacciata? Si chiederanno alcuni di voi (lettori che mi seguite), non certo è rimasta nelle torri d’avorio e neppure è finita nelle discariche, perché la poesia è qui, ovunque, intorno a noi, e scovarla si può in ogni luogo, in ogni momento dove riponiamo la nostra ‘bellezza’ interiore; dovunque spendiamo il nostro ‘amore’, in qualunque luogo ci misuriamo con il creato. Perché la poesia è vita è nel nostro modo di vivere, nel nostro comportamento, nella nostra stessa esistenza, quando implode nell’abbandono di noi stessi, o esplode nell’assoluto della nostra volontà in ‘attimi’ di felicità …

È questo il caso di Antonia Pozzi, poetessa, fotografa, cineasta, che ha raccolto in un libro i suoi “Versi d’Autunno” (Carteggi letterari Le Edizioni 2017), in cui ci svela “Tramonti muti e foglie che volteggiano nella brezza autunnale” … della vita:

“La vita” (18 agosto 1935)

Alle soglie d’autunno
in un tramonto
muto
scopri l’onda del tempo
e la tua resa
segreta
come di ramo in ramo
leggero
un cadere d’uccelli
cui le ali non reggono più.

“Ottobre” (Pasturo, 30 settembre 1935)

È crollo di morta stagione
quest’acqua notturna sui ciotoli.
Languono
fuochi di carbonai sulla montagna
e gela
nella fontana un fioco lume.
L’alba vedrà
l’ultima mandria divallare
coi cani, coi cavalli,
in poca polvere
dietro un dosso scomporsi.

“Sole d’Ottobre” (20 ottobre 1933)

Felci grandi
e garofani selvaggi
sotto i castani –
mentre il vento scioglie
l’un dopo l’altro
i nodi rossi e biondi
alla veste di foglie
del sole –
e il sole in quella
brucia
della sua bianca
bellezza
come un fragile corpo
nudo .

Sitografia: leedizioni@carteggiletterari.it

Ɣ “Musicofilia”, un libro di Oliver Sacks (Adelphi 2008).
“Le piace Brahms?” – fa chiedere François Sagan dalla bella arredatrice quarantenne al giovane amante. Ovviamente non ricordo la risposta – ammetto che è passato un certo tempo – tuttavia, personalmente, avrei risposto: “Forse sì, forse no!”, solo perché penso di essere io a non piacere al signor Brahms. Se invece la domanda mi fosse stata rivolta per Tchaicovski o Dvorak o qualcun altro avrei avuto una risposta decisa, come dire, più determinata: “Semplicemente sì!”. E questo, in qualche modo, fa la differenza, seppure ciò suoni alquanto strano a dirsi da parte di chiunque ami la musica in genere. A spiegarci i perché di questa discordanza di risposte ci ha pensato Oliver Sacks, neurologo e psichiatra, nel suo libro “Musicofilia” di recente ristampa, in cui la musica è trattata come patologia, lì dove essa rappresenta di fatto una disfunzione, o meglio una disorganizzazione nella normalità.

Un libro di non facile lettura ma che riserva un’infinità di sorprese, o meglio, di possibilità sorprendenti per quanti fanno della musica una costante esperienza, così come nell’ascoltarla o riascoltarla, fanno un atto di rinnovata scoperta, per cui ogni momento “si mostra come se il passato può esistere senza essere ricordato” – come già vissuto – “e il futuro senza essere previsto” – quindi tutto da vivere e da godere. Questo ci permette di comprendere quanto di ciò che ascoltiamo in musica è propedeutico all’alimentazione del nostro apparato sensoriale che fin dalla pubertà si nutre di “suoni”, o meglio di “emissioni sonore” che elaborate a livello corporeo, sviluppano trasformazioni di diverso tipo, interessando altri organi sensitivi oltre che l’udito, come l’olfatto e la vista.

“L’olfatto, la vista?” – viene da chiedersi. La risposta equivale a un “Sì!” affermativo ed ha anche un nome: “sinestesia”, per cui “non esiste una separazione netta, presente in ciascuno di noi, fra vista, udito, tatto e gusto. (..) Ogni parola o immagine che udiva o vedeva, ogni percezione, dava istantaneamente origine a un’esplosione di equivalenze sin estetiche – le quali erano tenute a mente con precisione, in modo indelebile e implacabile, per il resto della sua vita”. Il che, in ambito strettamente neurologico, può risultare una disfunzione cerebrale, tuttavia ciò non vuol dire che fungiamo da agenti “sinestetici”, o almeno non del tutto e non ancora.

In verità qualche dubbio il neurologo Sacks ce lo crea, e scorrendo le molte pagine del libro qua e là è possibile che ci ritroviamo tutti in bella mostra con qualche patologia in più. Finanche quella di essere fruitori tormentati da sentimenti musicali, che so, essere piuttosto fan dei Beatles che dei Rolling Stones, degli U2 invece che dei Coldplay o viceversa, e di subire una musicofilia pregressa, quando non da allucinazioni musicali, o da epilessia musicogena – che orrore! Non è tutto, il libro, che non è di medicina e neppure di psichiatria, si limita ad esporre quelle che sono le patologie senza la pretesa di dare soluzioni curative.

Molto più tranquillamente permette di addentrarci nelle diverse dimensioni della musicalità, in quello che è il paesaggio sonoro della nostra ragione, e che riguarda il sentimento, la memoria e l’identità, di uno stato emozionale affettivo che da sempre la musica regala a tutti noi, seppure nel diverso modo di sentire e apprezzarla. Che, al di là della seduzione o dell’indifferenza che talvolta ci coglie, alla malinconia che sembra creare intorno a noi, spesso risulta essere la cura che cercavamo. Unico nel suo genere, il libro ha una sua valenza per gli aspetti inusitati e insospettabili che il lettore trova nelle pagine fitte di richiami etnico- musicologici, medicali e scientifici che appartengono a un panorama letterario di scarsa fruizione, in cui nomi illustri, operano nel silenzio della ricerca più ostica delle amnesie e amusie cocleari (l’imperfetta percezione dei suoni), e la musicoterapia applicata (morbo di Parkinson, demenza precoce, sindromi temporali e durature) e non solo.

Bensì anche delle problematiche connesse al linguaggio così come si è sviluppato in tutti i suoi aspetti, che quasi c’è di conforto sapere che: “L’origine della musica umana è molto meno facile da comprendere”. Un libro utile per quanti: musicisti, appassionati di musica, neurologi, educatori, insegnanti di sostegno, linguisti, logopedisti, ricercatori, etnomusicologi che, possono trovare in esso le ragioni di quella conoscenza sconfinata che pure è parte rilevante della nostra crescita culturale. E che straordinariamente ricalca le parole di Darwin – che ne era al tempo stesso sconcertato – quando nel suo “L’origine dell’uomo” scrisse: “Giacché né il piacere legato alla produzione di note musicali, né la capacità (di produrle) sono facoltà che abbiano il benché minimo utile diretto per l’uomo … devono essere collocate fra le più misteriose di cui egli è dotato”.

E a voi, piace Brahms?

Oliver Sacks, recentemente scomparso ha insegnato neurologia e psichiatria alla Columbia University Artist. Medico e scrittore, è autore di dieci libri, fra i quali: “L’uomo che scambiò la moglie per un cappello” (Adelphi 1985); “Vedere voci” (Adelphi 1989) un viaggio nel mondo dei sordi; e “Risvegli”, da cui è stato tratto il film che nel 1990 ha ricevuto tre nomination agli Oscar.

Sitografia: info@adelphi.it

Ɣ – Alla musica, la ‘grande musica orchestrale’ cosiddetta ‘classica’ che si vuole distinguere da quella ‘popolare’ anche detta ‘arte di cavar suoni’, è dedicato un libro di Raffaele Mendace “Il racconto della musica europea - Da Bach a Debussy” (Sfere 2017), che ho appena ricevuto come notizia poiché previsto in uscita in libreria dal 19 Ottobre. Un saggio di 500 pagg. circa, concepito per l’appassionato non musicista, ma perfettamente adatto anche agli studenti di università e conservatori, il libro propone una narrazione avvincente, sintetica e ricca di dettagli del periodo centrale della musica occidentale, cuore del repertorio concertistico, operistico e discografico. Innovativo per taglio e struttura, il volume offre uno strumento accessibile e scientificamente affidabile che esplora percorsi biografici e creativi, generi, forme e stili, indagando significato, origine e contesto dei fenomeni musicali. È tutto quello che so e che trascrivo per conoscenza.

Sitografia: Sfere - opere@networkeditoriale.it

Ɣ – “Il canto delle sirene” - Argomenti musicali, un libro di Eugenio Trías (Tropea Editore 2009).

“La musica non è soltanto un fenomeno estetico, né si riduce a una delle forme di quel sistema delle ‘belle arti’ che si è costituito a metà del Diciottesdimo secolo. La musica è molto più di un fenomeno estetico; è una forma di gnosi sensoriale, è conoscenza sensibile, emozionale, capace di offrire salvezza.; e per questa ragione è in grado di produrre effetti determinanti sulla nostra natura e sul nostro destino. Autentico viatico per la conoscenza che Eugenio Trias ha ricostruito in quest'opera dedicata ai grandi compositori della musica occidentale, dal Rinascimento fino alle più recenti avanguardie.
Un compendio di ben 864 pagine da leggersi individualmente oppure seguendo il ‘filo d'Arianna’ indicato dall'autore: dai gloriosi misteri di Bach, il dualismo del tragico e del comico in Mozart, le grandi narrazioni di Haydn, lo stile eroico di Beethoven, il concetto di opera totale in Wagner; e ancora, lo spirito creatore di Mahler, la nuova teologia musicale di Schònberg, la notte eterna di Béla Bartók, i sacrifici di Stravinskij, il panteismo sonoro di Cage o l'architettura musicale di Xenakis, sono soltanto alcuni degli ‘argomenti musicali’ che si distendono in quest'opera e animano un mosaico che, attraverso una lettura profonda e originale, sa restituire di ogni compositore i tratti distintivi e individuarne le reciproche relazioni di somiglianza e differenza.

Ne nasce una partitura filosofica avvolgente all'interno della quale possiamo riconoscere sotto nuova luce le figure dei grandi compositori occidentali degli ultimi quattrocento anni. Ma in questo percorso è lo stesso Trias che riconosce il debito verso una tradizione che comprende la filosofia hegeliana e quella platonica, e in particolare verso la lettura che di Platone ha elaborato la scuola di "Tubinga-Milano" (di cui massimo esponente è Giovanni Reale). La proposta dell’autore coincide allora con una meta-narrazione che, a partire dai momenti più alti della storia della musica, ritrova nei miti greci, nella tradizione pitagorica e del Platone delle dottrine ‘non scritte’ il nucleo generativo comune al pensiero filosofico e musicale … per cui ‘in principio era il suono’.

Eugenio Trias è attualmente professore di filosofia alla Facultad de Humanidades della Univesitat Pompeu Fabra di Barcellona ed è considerato il più grande filosofo spagnolo vivente. Come testimoniano le sue numerose pubblicazioni, ha dedicato il suo lavoro all’approfondimento filosofico spaziando in diversi ambiti. Nel 1995 è stato insignito del riconoscimento internazionale Friedrich Nietzsche per gli studi filosofici. In “Il canto delle sirene” egli ci regala un’appassionata e vibrante ricerca filosofica che si immerge nella musica come fenomeno originario per riconoscere, attraverso la sua storia e le vette toccate dai grandi compositori, la sua pulsazione più autentica”.

Sitografia: info@marcotropeaeditore.it

Ɣ – “Quaderni di un mammifero”, un libro di Erik Satie (Adelphi 1980).
“Mi chiamo Erik Satie / come chiunque” … “Sono un uomo del tipo / di Adamo (del paradiso)” … “A chiunque. Vieto di leggere, ad alta voce, il testo durante l’esecuzione della musica. ogni inosservanza di quest’ammonimento determinerebbe la mia giusta indignazione verso l’impudente. Non sarà accordato alcun lasciapassare” …

“Agli altri”
Non dimenticate che le epoche hanno, sull’artista (e sui poeti), una grande influenza; esse lo dominano e gli impongono la loro atmosfera. Egli non vi si può sottrarre” …
“Erik Satie, nato a Honfleur (Calvados) il 17 Maggio 1866, passa per il più strano musicista del nostro tempo”. Del nostro tempo, davvero c’è scritto così? Sì, proprio così. “Si situa lui stesso tra i ‘fantasisti’ che, secondo lui, sono ‘brave persone del tutto ammodo’. Spesso, dice ai suoi amici : ‘Miope dalla nascita, sentimentalmente presbite. Fuggite l’orgoglio: di tutti i nostri mali, è quello che rende più stitici. Se c’è qualche sventurato, i cui occhi non mi vedono, che gli si annerisca la lingua e che gli scoppino le orecchie”.

“Ecco qual è il linguaggio abituale del signor Erik Satie. Non dimentichiamo che il maestro è considerato, da un gran numero di ‘giovani’, il precursore e l’apostolo della presente rivoluzione musicale. (…) Numerosi musicisti, fra cui Claude Debussy e Maurice Ravel, ma anche altri, lo hanno presentato come tale: ‘colui capace di immaginare l’immaginario’, e questa loro affermazione si basa su fatti di un’esattezza garantita. Dopo aver trattato i generi più alteri, il prezioso compositore presenta qui (in questo libro) delle sue opere umoristiche.”

Ça va sans dire, che le parole usate, come ‘alteri’ sia riferito alla musica cosiddetta ‘classica’ e all’opera ‘lirica’; e ‘prezioso’ compositore, sostituisce un eufemismo che sta per ‘ricercato’ ed ‘eccentrico’; in quanto alle sue opere (brevi, corte, ecc.) definite nel testo ‘humoristique’ va riferito al gusto ‘sofisticato’ delle sue scelte musicali, alle quali spesso ha dato nomi intraducibili, di pura fantasia. Di certo non è mancato alla sua ‘tastiera musicale’ un certo ‘pizzico di follia’ che, proprio per questo, lo rende ‘maestro’ delle avanguardie che sono seguite alla sua epoca.

Vanno inoltre ricordati alcuni titoli originali, quali: ‘Air du rat’, ‘Chanson du chat’, ‘Rambouillet’, dove spesso utilizza un frasario alquanto bizzarro sul genere onomatopeico infantile. ‘Veritable préludes flasques’(pour un chien) che il grande pianista Ricardo Viñes interpretò in modo supremo alla Salle Pleyel (1913); ‘Pièces froides’, ‘Ogives’, ‘Gnossienne’, ‘Gymnopédie’, ‘Sports et divertissements’, ‘Descriptions Automatique’ che riscossero un notevole successo al Conservatorio (1913) e che lo stesso Viñes suonò con una finezza segreta, con uno spirito irresistibile.

In proposito, lo stesso Satie, affermava: “Scrissi le ‘Descriptions Automatiques’ in occasione della mia festa. Quest’opera segue a ruota i ‘Véritables Préludes Flasques’. È evidente che i Prosternati, gli Insignificanti e i Bolsi non vi troveranno alcun diletto. Ma che si mangino la barba! Che si ballino sulla pancia!”. Ma non sono i soli, tutta la musica di Satie, eccezion fatta per i suoi amici più appassionati (più della persona in sé che della sua musica), fu bistrattata non so per quanto tempo, e sempre tornata in auge fino ai nostri giorni, sia per la sua ‘forza distraente’ che di solito si avverte all’ascolto; sia per il suo ‘avvicendamento’ a quella creatività di cui tutti siamo, o che potremmo essere, ‘portatori sani’ del virus della modernità.

Riguardo poi a ‘Sports et divertissements’, il maestro scrive nella ‘Prefazione’: “Questa pubblicazione si compone di due elementi artistici: disegno, musica. la parte disegno è composta di segni – di segni d’intelligenza; la parte musicale è espressa da punti – da punti neri. Queste due parti riunite – in un solo volume – formano un tutto: un album. Consiglio di sfogliarlo con un dito amabile e sorridente, giacché questa è un’opera di fantasia. Non vi si veda nient’altro. Per gli ‘Incartapecoriti’ e gli ‘Inebetiti’, ho scritto un corale grave e dignitoso. Questo corale è una sorta di preambolo amaro, una forma di introduzione austera e afrivola. Ci ho messo tutto quel che so sulla Noia. Dedico questo corale a coloro che non mi amano. Mi ritiro. (…) I miei corali eguagliano quelli di Bach, con la sola differenza che sono più rari e meno presuntuosi”.

Ed anche che “La ‘Musique d’ameublement” è in sostanza un prodotto industriale” – scrive – e la definizione potrebbe riguardare non so quanti altri pezzi musicali che in verità non riesco a definire, se non ‘giochi divertenti’, ‘allegre scappatoie’, e che invece il maestro appellava come: “una curiosa facezia, che associa l’originalità alla grazia”, alla quale anche era uso dire: “prima di scrivere un’opera, le giro intorno più volte in compagnia di me stesso”.

Non è forse questo il principio delle così dette ‘variations’ che molti compositori più ‘seriosi’, non necessariamente migliori di Satie, ci hanno lasciato? Così come di ogni assolo del Jazz più autentico? O anche di gran parte della musica americana fino a Gerswin? E non è questa anche la sequela di ‘argomentazioni musicali’ dell’ideologia futurista di Marinetti, Russolo, Cangiullo, Piatti, Grandi; del profilo ‘sintetico’ di certi esempi sonori trascritti in ‘Echantillonage’ per utensili ripresi dai ‘rumoristi’ radiofonici e/o teatrali? Il costante oscillare di Erik Satie tra poesia e musica, tra il vezzo umoristico e l’emozione del mistero e l’esigenza di soffondere una sorta di atmosfera fatta di piccole sonorità ‘mi poétique’, il suo fare ricorso allo spirito infantile nei suoi pezzi più eclatanti è Surrealista o Dada? Ripeto qui le parole esatte spese da Erik Satie a riguardo:

“Chiedo di ascoltarli (e aggiungo riascoltarli) a piccoli sorsi, senza precipitazione. Che la Modestia cali sulle spalle ammuffite dei Rattrappiti e degli Insabbiati! Non si abbelliscano della mia amicizia! È un ornamento che non gli spetta”.
Che dire? Ci troviamo davanti al ‘genio’ assoluto della musica contemporanea, o no?

Discografia insolita di Erik satie:
- Jean-Pierre Armengaud – ‘Piano’ – LP Le Chant du Monde 1986
- Marjanne Kweksilber (soprano) – Reinbert Di Leeuw (piano) ‘Songs, Lieder, Mélodies’ –
LP Philips 1980
- Reinbert Di Leeuw (piano)’Les oeuvres de jeunesse pour piano’ – cofanetto LP Philips 1980 (molto apprezzato dal pubblico ‘pop’ per il quale ha ricevuto il disco di platino.
- Erik Satie ‘Danceries’(per orchestra e voce soprano) – CD Denon 1986
- Erik Satie ‘Oeuvres pour piano (pièces humoristiques) – Vol. 1/2 CD Accord 1986
- Paolo Poli (voce) Antonio Ballista (piano) – ‘Soiree Satie’ LP FonitCetra 1982

Sitografia: info@adelphi.it

Vi prego, non vi scomodate più di tanto, nella prossima puntata vi parlerò di “Parade” su musica di Erik Satie, in occasione della grande Mostra aperta a Roma alle Scuderie del Quirinale di un altro ‘genio’ della pittura e non solo che fu Pablo Picasso.
Au revoir!

*

- Letteratura

Fogli(e) d’Autunno

“Fogli(e) d’Autunno”
(letteratura, poesia, narrativa, libri, editori, concorsi, con uno sguardo all’arte in fatto di mostre, cinema, teatro, musica e viaggi.)

(*) «Erano arrivati dai colli, dalla strada che dopo gli ultimi villaggi e le vigne raggiungeva il fiume, da lontano avevano visto i tetti grigi e il crinale roccioso e più in basso, tra i salici, dei pescatori su una barca. Attraverso i sentieri e il boschetto avevano costeggiato il fiume, andavano lenti e tenevano i cavalli al passo, guardavano le acque chiare, quasi azzurre nel sole, e la pianura immensa al di là del fiume. (…) Erano cinque sui loro cavalli, il più giovane aveva appena vent’anni e riccioli fino alle spalle, il più vecchio non aveva età, un vegliardo forse, la cui bellezza attirava ancoa gli sguardi, gli occhi chiari nel volto bruno, il corpo dritto e svelto sotto il gabbano di panno marrone. Chiunque li avesse osservati avrebbe capito che avevano fatto un lungo viaggio, la stanchezza segnava i volti e forse anche un’inquietudine, lo smarrimento di forestieri venuti da molto lontano.
Presto si fermarono a guardare il paesaggio intorno a loro, sembrava immenso dopo la foresta, come il cielo sopra i poggi e l’altro lato del fiume verso la piana, il vegliardo faceva un gesto largo nell’indicarla in silenzio, forse pensavano alla pianura lombarda e ai colori del cielo nelle sere sul Po, l’ora non consentiva parole, tacevano, allievi e servitori, in attesa sui cavalli, il vegliardo capiva, lui stesso non aveva nulla da dire e nulla intendeva dire, né la stanchezza, né i giorni difficili da cui uscivano, la strada così lunga nel freddo e l’umidità delle cime. (…) Per un istante il vegliardo aveva dimenticato chi fosse e da dove venisse, guardava il nuovo paese, si avvicinava all’ignoto. (…)
Lui intendeva partire con gli allievi, percorrere il paese come aveva percorso l’Emilia e la Romagna, l’Umbria e la valle del Tevere, disegnando, calcolando, tracciando mappe e piani, dipingendo il resto del tempo. (…) Guardava il paesaggio e i colori del cielo al di sopra del fiume, cercava un’ultima volta la grandezza, la bellezza, immaginava delle ville sulle rocce bianche come in Toscana, la profondità infinita delle terrazze. (…) Lui spiegava agli allievi, loro disegnavano quello che lui diceva. La sera quando dormivano guardava i loro disegni, correggeva, riprendeva l’idea. A inchiostro, a mina di piombo, a pietra nera, ispessiva il tratto, rettificava il calcolo, nei margini aggiungeva un commento, un’idea … di bellezza e più ancora che la bellezza, la certezza della bellezza.»

Un’introduzione letteraria per un argomentare che concerne narrativa, saggistica, poesia, libri, editori, concorsi, con uno sguardo all’arte in fatto di mostre, cinema, teatro, musica e viaggi, nell’ambito della stagione autunnale, intermedia, prima del sopraggiungere dell’Inverno e dei festeggiamenti per la Natività del Signore. Un vademecum di Libri nuovi ancora non letti, e di altri più datati raccolti sulle bancarelle, di Mostre di grande e piccolo richiamo, di suggerimenti per spettacoli da vedere al Cinema e a Teatro, di Concorsi di scrittura, di brevi Viaggi per quanti intendono affrontare un momento di svago. Un po’ come quei ‘viandanti’ nelle pagine introduttive, che ho appena trascritte per il piacere di offrirvi un esempio di ottima letteratura, in cui l’osservatore rimane estasiato davanti allo spettacolo della ‘bellezza’, unica moneta di scambio fra l’essere naturale e il sublime divino. Onde cercarla è sinonimo di apprendimento, di riconoscenza, di felicità interiore e che solo l’amore in ultima istanza appaga.
Amore per tutto ciò che ci circonda nel quotidiano e ancor più per la vita che ci è data come dono che non va dispregiata, tale da essere usata e gettata via come nonnulla, senza tener conto della ragione per cui siamo al mondo o del perché qualcuno ce l’ha data. Quei nostri genitori che per mille ragioni a noi sconosciute, un giorno hanno concepito di dare prosieguo alla propria esistenza. Foss’anche per un disguido inconscio e tuttavia guidato e ‘offerto’ da un volere supremo, nel rispetto di una natura antropica che ci attaglia. Questo il tema primario del libro d’apertura di questa pagina e che sottopongo alla vostra attenzione di lettori attenti e partecipi come voi che mi leggete:

- (*) “L’offerta” di Michèle Desbordes – (Mondadori 2001); passato in sordina negli scaffali delle librerie e subito finito sulle bancarelle; ‘un libro di straordinaria bellezza interiore’, una storia intima vissuta sulla pelle, fatta di sguardi e sospensioni tra luci ed ombre di chi si offre all’amore nella maniera più pura, nel silenzio dei sentimenti senza chiedere e senza aspettative. Un raffinato florilegio sull’arte del Rinascimento europeo nobile e lusinghiero in cui s’avverte il senso dell’espressione creativa dell’artista, quel veliardo co-protagonista del romanzo. Ma il fascino e la bellezza del romanzo è tutto racchiuso nella densità di un’atmosfera avvertibile nei gesti quotidiani di lei, Tassine, un mistero della natura di donna, còlta dalla grazia di una scrittura sospesa e inesorabile come il passare del tempo.

Ɣ - La tematica dell’offerta riporta alla memoria il “Saggio sul dono” di Marcel Mauss – (Einaudi 1965), ormai consunto ma che non smetterò mai di proporre. E l’altro pregevole “Lo spirito del dono” di Jacques T. Goldbout – (Bollati Boringhieri 1993), entrambi riguardanti l’aspetto etnologico e sociologico del dono arcaico che si spinge nella filosofia del ‘donare’ moderno, da cui emerge un aspetto sostanziale: la libertà di un appagamento personale che è poi uno (solo) dei movimenti dell’atto del donare. «Ne risulta la prospettiva perfettamente praticabile del rafforzamento degli elementi di reciprocità ‘gratuita’ e nondimeno vincolante, presenti nella vita sociale.» Se è vero che si dona per soddisfare il proprio piacere di vedere felice un’altra persona, tale gesto rientra in quella che si chiama ‘economia della gratitudine’ nutrita dal surplus di sorprese reciproche, che fomentano il probabile scambio agevole del dono a tutti i livelli della vita sociale: la famiglia, il volontariato ecc. come un vero e proprio investimento di benevolenza.

Ɣ – Solo opponendo il sentimento alla ragione e imponendo la volontà sul sentimento si può giungere a sostituire all’isolamento e alla stasi l’alleanza e il perdono; alla guerra il reciproco scambio di pace; alla sopraffazione l’irrinunciabile generosità del dono. Allora anche la vita assume una maggiore versatilità, non più univoca, verso cui convogliare tutte la “Vite di scarto” di Zigmunt Bauman – (Editori Laterza 2007), “..una guida illuminante e lungimirante per chi vorrà studiare l’estinzione dell’uomo e della sua storia, e il sorgere della nuova volatile specie che lo sta soppiantando.” Ma anche ai rifiuti della globalizzazione dobbiamo trovare una collocazione e quelli che sono i residui d’una esistenza vanno in qualche modo salvati da una fine indegna e inumana. Come non saprei, sta di fatto che va trovata una soluzione, a molto servirà la comprensione di quanti si sentono già assolti dal Giudizio di Dio.

Ɣ – Pensiamo a una di queste ‘vite’ e traiamone la conseguente solitudine interiore che ne deriva, l’inaridimento dei sentimenti, gli ostacoli psicologici da superare, l’inarrivabile domani dietro un punto interrogativo che non ha risposte. È questo il tema profondo del libro “Angelo SenzaDio” di Carmelo Musumeci (Amazon 2017) ergastolano oggi in semilibertà che durante 26 anni di prigionia ha trovato la forza di raschiare i muri della sua cella così come della sua anima, per un riscatto che sapeva blindato dietro pesanti sbarre di ferro, spalancando la porta ferrata e mostrando al mondo le ‘verità nascoste’ dietro di essa. E lo ha fatto con una scrittura ferma nei sentimenti, nel dolore e nella rabbia dei giorni e degli anni che passano inesorabilmente, senza evasioni letterarie, nella crudezza della realtà reinventata all’uopo, che gli desse certezza della sua sopravvivenza di uomo, ancor più d’essere umano: “Mai superficiale. Mai compiacente. È un cuore che grida sofferenza – patita e inflitta - rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere, e amore. con un linguaggio capace di esprimere forti sentimenti e emozioni; dolore, rabbia, e speranze deluse.”

Ɣ – Voglio qui ricordare un precedente libro dal titolo “L'assassino dei sogni. Lettere fra un filosofo e un ergastolano.” (Amazon 2014) in cui Carmelo Musumeci è coautore insieme a Giuseppe Ferraro, a cura di F. De Carolis, in cui un filosofo e un ergastolano si scrivono. Ne nasce un racconto di vite: di quella prigioniera dell' “Assassino dei Sogni” che non dà scampo, e di quella che pensiamo libera ma che pure può diventare prigione di qua dalle mura del carcere. Ricca del fascino discreto della scrittura epistolare, una riflessione sulla carcerazione che diventa discorso amoroso e ‘disse questo entrando parole’ pronuncia sentieri di libertà. Pagine che, quando tutto sembra perso e il buio sta per avere il sopravvento, diventano lezioni e iniezioni di vita, per l'ergastolano, per il filosofo, ma forse anche per tutti noi.

“Dopo ventisei anni di carcere – scrive Musumeci alla redazione di larecherche.it – oggi è il mio primo compleanno da uomo semilibero, voglio dedicare a tutti quelli che mi hanno fatto gli auguri, questa poesia che avevo scritto negli anni bui quando ero convinto che di me dal carcere sarebbe uscito solo il mio cadavere. Grazie a tutti quelli che in questi anni mi hanno letto, senza di voi non ce l’avrei mai fatta a sopravvivere, vivere e ad esistere. Grazie. Un sorriso da me e uno dal mio cuore.”

“Vite disabitate.” (una poesia di Carmelo Musumeci)
Sangue nell’anima
Lacrime nei ricordi
Sguardi spenti
Occhi bui
Silenzi vuoti
Rumori senza colori
Fine pena mai.

Gelida vita
Senza luce
Né fine pena
Sorrisi opachi
Rivestiti di ghiaccio
Notti inteminabili
Fine pena mai.

Tempo che va
Su e giù
Fra la vita
La morte
Fra sogni
E incubi
Fra bianco
Grigio
Fine pena mai.

Ɣ – A questo proposito “L’esistenza a volte ci pesa – scrive David Le Breton sociologo e antropologo dell’ultim’ora – in “Fuggire da sé” (Raffaello Cortina Edit. 2016). La società contemporanea esige da noi un’affermazione permanente, la continua reinvenzione della vita, il successo. E se qualcuno non si sente all’altezza ècco subentra la tentazione di lasciare la presa , di assentarsi da sé divenendo irraggiungibili, che può manifestarsi in forma di fuga nell’alcol, nelle droghe, nel gioco, nella follia, o può assumere il carattere di una fuga vera e propria, quando non si lasciano tracce di sé, scegliendo per esempio di vivere ‘nelle terre estreme’. Eppure, la volontà di sottrarsi al legame sociale è, a volte, la condizione per continuare a vivere, per inaugurare un rapporto nuovo con sé, con gli altri e con il mondo. La frantumazione del legame sociale isola l’individuo, restituendoloalla sua libertà, al godimento della propria autonomia (libero arbitrio?) o, per contro, alla sensazione di inadeguatezza, di scacco personale. L’individuo che non disponga di solide risorse interiori per adattarsi e attribuire senso e valore agli avvenimenti (e/o accadimenti), o che non abbia sufficiente fiducia in sé, si sentirà molto più vulnerabile e, pertanto, costretto a darsi da solo il sostegno che non può aspettarsi dalla comunità (libero arbitrio!). Sovente, è immerso in un clima di tensione, d’inquietudine, di dubbio che gli rende la vita difficile.”

Ɣ – Come nello sfortunato caso accaduto alla protagonista di ‘Metà di me’ libro di Laura Feri – (Mauro Pagliai Editore 2015) in cui l’autrice si spinge in ‘esercizi di normalità’ a voler dare un senso a ciò che, forse, senso non ha, andando alla ricerca di quel qualcosa in più, per cui affermare che vale sempre la pena di vivere questa nostra vita, nel bene e nel male che pure ci riserva … “..Come un fiume in piena lo sconforto mi travolge, rompendo di colpo una diga che fino ad ora ha miracolosamente retto, una diga fabbricata con una miscela di ottimismo e speranzosa incoscienza.” Anche quando … “..Le lacrime scendono copiose dai miei occhi grandi rigando il mio volto di pulcino ed il pianto annega il mio cuore malandato. Solo quando i singhiozzi hanno esaurito tutte le mie forze, mi addormento piombando in un sonno che non è mio.” Soprattutto quando …
“..la recuperata coscienza di noi stessi si libra sopra di noi per avvertirci che il peggio è passato, che quanto accaduto non era poi insormontabile se riusciamo a parlarne, a ponderare le nostre capacità liberatorie, delle quali non eravamo neppure a conoscenza. È allora, ed ogni momento potrebbe essere quello giusto o forse dovrei dire quello più prossimo, che prendere coscienza della nostra sofferenza, ha la stessa valenza dell’afflizione che ci colpisce e che, in certi casi, ha permesso e ci permette di affrontare il calvario che ci spetta, e che purtroppo non vedrà esclusi nessuno di coloro che per un investimento di benevolenza, ci ruotano quotidianamente attorno.

Ɣ – Che lo scrivere non sia solo un ‘esercizio di stile’ lo abbiamo appurato da tempo, ma è grazie all’apporto di molti giovani autori se oggi l’argomentazione tematica, soprattutto nel romanzo, affronta tematiche ritenute, in certo qual modo, inibitorie. È quanto accade a Rebecca l’intrepida protagonista di ‘Metà di me’, libro di Laura Feri – (Mauro Pagliai Editore 2015) questo romanzo diretto e introspettivo che senza cadere nella retorica e nei facili sentimentalismi, ci svela come il coraggio presente nel cuore di ognuno di noi, ci permetta di affrontare ostacoli che sembrano insormontabili'. Per quanto, benché nel pieno della loro drammaticità lo siano davvero, pur aprono porte alla speranza, una, o forse la sola, soglia di sbarramento allo scoramento, all’abbandono definitivo a quella solitudine che dobbiamo in ogni modo contrastare, per noi e per gli altri. Noi, "..non siamo qui per noi, siamo qui per i nostri amici e i nostri parenti, per ringraziarli, per stare in loro compagnia, per festeggiare tutti insieme.” Non in ultimo quando, per un ulteriore ‘esercizio di normalità’, l’autrice afferma di volere: “..che i sorrisi di chi ci circonda lascino tracce indelebili nella nostra vita, che mantengano i loro effetti positivi nel tempo, una scia di benevolenza a cui potremo attaccarci nei momenti più complicati. So che continueremo a trovare sul nostro cammino molte difficoltà, magari anche impreviste, ma noi le affronteremo insieme (questo è certo!) sempre e per sempre uniti nel nostro amore imperfettamente perfetto.”

Ɣ – Recensire questo libro, con il suo linguaggio scorrevole e veloce, improntato sulla realtà esistenzenziale di disabile, mi ha permesso di prendere consapevolezza della capacità umana di non perdersi d’animo e di saper reagire anche di fronte all’inesorabile tragedia di una vita, di “..riuscire a sdrammatizzare il dramma e salvarsi con l’amore. (…) Sono speciali tutti coloro che non si arrendono, coloro che di fronte a difficoltà fisiche, delusioni sociali, fallimenti professionali, reagiscono con un sorriso.”, ammetto che mi ha fatto bene. Sebbene qualcuno sembra averlo dimenticato, per Mauro Pagliai Editore della collana “Le ragioni dell’Occidente” con la quale, attraverso scritti polemici, romanzi, saggi e conversazioni, si offre di affrontare le problematiche che stanno incendiando il mondo moderno: ‘Ci sono ancora dei valori che sono validi per tutti, e c’è ancora una morale da difendere. Abbiamo ancora un’etica che può distinguere il giusto dall’ingiusto ed esistono saldi e assoluti punti di riferimento’, che sono imprescindibili da problematiche che recano in sé dolore, insoddisfazione, pena, incomprensione, ingiustizie ataviche che vanno combattute su tutti i fronti della comunità umana e, singolarmente, nella pretestuosa compagine dei ‘non tocca a me occuparmene’, o dei ‘non mi riguarda’. Grazie quindi a Mauro Pagliai per la costanza nel portare avanti ‘tematiche’ ritenute appunto ‘inibitorie’ del comune senso sociale. Contatti: info@polistampa.com

Ɣ – Se – come scrive Marcel Proust in “Il tempo ritrovato” ("La Recherche" Mondadori Edit. 2005): “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”; l’attuale sfida posta dal filosofo Jacques Derrida in “Luoghi dell’indecidibile” (Rubettino 2012), è quella di ripercorrere il tracciato filosofico (ben più impegnativo) del lessico contemporaneo che mette in gioco le nozioni di ‘luogo’ e dell’ ‘indecidibile’ nel loro significato più ampio. Il ‘luogo’ come spazio storico e simbolico della verità; l’ ‘indecicibile’ in quanto produttivo di senso, ‘che fa del dire, della lingua, della scrittura qualcosa di più ampio di quello che la presenza, l’intenzione o la semplice percezione potrebbero esprimere, ad esempio, sulla democrazia, sulle categorie del linguaggio politico, e sulla ricerca di ‘senso’ dell’intera evoluzione occidentale. Un susseguirsi di firme autorevoli che si misurano con le tematiche filosofiche care al filosofo: da Francesco Garritano ed Emilio Sergio entrambi curatori del presente volume, a Giuseppe Barresi, Gérard Bensussan, Marc Crépon, Jacob Rogozinski, Davide Tarizzo e altri; in cui si affrontano su temi diversi, pur tutti inerenti al pensiero derridiano, sull’origine in quanto ‘idea’ del primato, sull’identità, sull’autobiografia e la scrittura biografica, ‘su come si diventa ciò che si è’, sull’happy-endin. Sul facile rovesciamento ‘autobiografico’ di una certa consuetudine dell’auto rappresentazione come ossessione narcisistica.”Non è possibile – afferma Francesco Garritano – sottrarsi a ciò che è costitutivamente mutevole, dunque (…) non resta che accettare la realtà di una lingua che, essendo recintata da una soggettività meticcia , non è data da chi parla a se stesso, ma si dà, nel senso che porta in sé una forma di autonomia non rispondente ad alcuna identità, ma unicamente alla tradizione come unità-molteplicità. (…) Chi parla non può porre una rigida corrispondenza fra ciò che dice e la sua identità, quand’anche sottoscrivesse con la propria firma ciò che dice, rimanderebbe sempre alla propria assenza, a quel tempo immemoriale in cui giace la lingua dopo aver attraversato la storia.”

Ɣ – Se l’atto di parola si fonda sul primato dell’uno, di una parola che non è parola, ma accadimento – scrive ancora Francesco Garritano (op.cit.) “..l’idioma si fonda sul primato dello spettro: è la connessione della lingua con la sua dimensione storica, con quella memoria della lingua nella lingua”. Siamo di fronte a una prospettiva speculare n cui ‘ciò che è’ corrisponde all’apertura del presente, alla mescolanza con il passato e il futuro, tempo, per eccellenza, dell’evento, dell’incontro. (…) Di organizzare l’universo all’interno di un unico tempo, quello della parola nel momento in cui si manifesta: tutto questo implica che c’è un solo tempo, il presente dell’enunciato-azione”. È questo il tempo della ‘poesia’, un non-tempo in cui è fissato l’accadimento; dove l’indecidibile derridiano trova il terreno più adatto alla sua catarsi, in senso di purificazione e riscatto dal tempo stesso, dall’inesorabilità della sua natura di ‘attraversamento’ della soglia (F.Rella); di là dove non c’è più fine, nell’ ‘infinito’ leopardiano; colà dove “Non c’è fine al principio”, almeno stando alla tematica codificata dalla Rivista di Ricerca Letteraria “Anterem” diretta da Flavio Ermini (Anterem Edizioni – n.94 Giugno 2017). Della quale sottolineo “Il canto di Orfeo” di Vincenzo Vitiello che c’introduce alla poesia come tempio in cui accogliere il mito; e a contrasto “La riservata vergogna della poesia” di Enrico Castelli Gattinara, un esempio di de-costruzione derridiana dell’accadimento poetico. Egli scrive: “C’è un pudore particolare nella poesia. Una riservatezza che si espone ritirandosi. Una vergogna che non lascia scampo. Il poeta sa della violenza tremenda che ogni parola porta con sé: violenza contro le cose, nel momento in cui la parola s’instaura come differente da loro, senza più essere una cosa fra cose. Unicità della parola, differenza estrema, incolmabile.”

Ɣ – Non dimentico di essere presente sulle pagine de LaRecherche.it, la rivista on-line di poesia e altra letteratura, invito a leggere alcuni versi tratti da “Edeniche” di Flavio Ermini (op.cit.):

‘La strada che fiancheggia il vuoto’
viaggia l’uomo sugli oscuri sentieri lungo i quali i viventi
intraprendono l’ultimo pellegrinaggio alla ricerca di un varco
che li riporti dotati come sono di parola nell’indistinto
quali principali testimoni dello sgomento che genera il tempo
quando si accumula insensato nel portarci alla morte

‘Il luogo ostile’
si muove su una terra da cui fa segno a ciò che in alto appare
il mortale sottraendosi all’idea stessa di atemporalità
proprio come l’uomo che su se stesso si curva
e tra forti indugi avanza affidandosi all’esilio
grazie a quel varco dal quale può udire
nella sua naturalezza la voce che si perde
in plaghe remote insieme al valore della fugacità

‘L’argine delle pietre d’onda’
dà al nostro esserci senso e forma questo errare
sulle terre non ancora emerse tra le pietre d’onda
alla ricerca di un rifugio contro le illusioni
cui l’umana avventura induce nell’oscillazione
tra presenza e assenza in una sorta di estinzione
che appare infinita davanti alla dimore
della quale riconosciamo il vero fondamento
unicamente negli strati periferici del vuoto

sitografia: www.anteremedizioni.it
e-mail direzione@anteremedizioni.it


La publicazione di questo articolo prosegue per tutto l’autunno … la stagione che mesta più accoglie il mio cuore.)
Continuate a leggere larecherche.it



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- Arte

Mario Compostella ‘o la memoria creativa del tempo’.

Mario Compostella … ‘o la memoria creativa del tempo’.

Il giorno in cui i pesci uscirono dal mare, rispondendo al richiamo della cetra di Orfeo, la sirena Partenope diede loro un’anima trasformandoli nella genìa di umani che di lì a poco avrebbe popolato la città cumana di Neapolis. Con ciò, inoltre, donò loro l’arte di modulare la musica alla melodia e al canto, rendendoli inoltre capaci di fabbricare manufatti e strumenti adeguati a riprodurla e a trasformarla, secondo le proprie esigenze e le piacevolezze che gli ancora oggi gli sono riconosciute, distintive di quella ‘napoletanità’ tipica delle genti partenopee.
Un indirizzo iniziatico che ha reso l’‘homo faber’ napoletano artefice di se stesso nell’esplicare al meglio le proprie facoltà intellettive e comunicative che, da allora, e sono passati almeno 5000 anni, ha visto accrescere la propria creatività nella spinta di forza per la sopravvivenza. Sia nel senso della conservazione della passata ‘memoria’, afferente ai mestieri più antichi dell’utilizzo dei materiali primari; sia al rinnovamento dei ‘tratti distintivi’ dello stile e delle nuove forme espressive del nostro tempo.
Per quanto la ‘napoletanità’ non sia scevra da queste connotazioni più profonde, tuttavia è nella spontaneità di ‘vivere’ che in essa si rispecchia la sua più grande esperienza connotativa e filosofica: in quel ‘saper fare’ che vale qui la pena di sottolineare, in cui va ricercato l’esito di quella che è un’acquisita esperienza deduttiva, quel suo ‘fare creativo’, costitutivo di un voler guardare oltre il presente e che, ancor più, si apre al futuro.
Ciò per parlare delle capacità connotative di Mario Compostella, un ‘homo faber’ a tutto tondo, in cui la ‘creatività napoletana’ si ripropone con evidenza, sia nei manufatti artigianali sia nella sua recente produzione artistica. Si è qui costantemente partecipi di eventi risalenti a origini antropologiche che richiedono una colta rivisitazione o, comunque, una ricerca culturale che scandagli nel fondo ‘occulto’ delle scienze esoteriche e filosofiche. In quel simbolismo ‘creato dall’uomo per l‘uomo’ ancora non del tutto smarrito che accompagna il nostro vivere quotidiano o, che in qualche caso, allevia e/o appaga l’umana ragione di essere al mondo, restituendo ‘senso’ a ciò che forse senso non ha.
È alquanto singolare che a una deriva mitologica come quella sopra accennata corrisponda una tale concentrazione di mestieri artigianali e/o specificatamente artistici tipicamente partenopei, che vanno dalla costruzione di autentici oggetti d’arte quali, ad esempio, la pittura e la ‘gentilizia’ statuaria presepiale; agli strumenti musicali come il mandolino. Così come al canto e al teatro o alla creazione di autentici ‘miti’ culinarii come la pizza e la pastasciutta; per dire di un certo ‘modo’ d’essere in cui la ‘napoletanità’ si offre inoltre a tutte le esperienze poetiche e gestuali di un ‘fare teatrale’ rappresentativo della vita comportamentale del singolo e dell’intera comunità.
Un modo come un altro che assume carattere ‘rituale’ che allontana il male, intrinseco di uno scongiurare solo apparentemente faceto, quanto invece intriso di una certa simbologia, ‘fatta oggetto’, più spesso in passato, di fiabe e racconti entrati nella mitologia e nella tradizione letteraria. Così come all’interno dei sogni e di altri meccanismi di fuga il cui significato psicologico può essere conscio o inconscio a seconda dei casi e, comunque, sempre di rimozione di eventi nefasti o traumatici vissuti sulla propria pelle o cacciati nel fondo oscuro dell’anima.
Non è così per i partenopei che trovano e danno un senso a tutto ciò che fanno, che comunichino o che cantino, in un ‘continuum’ apotropaico, solitamente attribuito al rito e al gesto scaramantico in grado di allontanare l’umano ‘timor Dei’, o quella che comunemente appelliamo ‘paura’ quando riferita alla morte. Non in questo caso, in cui la ‘napoletanità’ piuttosto ne fa uso in quanto ‘consapevolezza di Dio’, da cui deriva il dovere morale di ‘vivere’, di onorare la propria condotta esorcizzando così la propria ‘umanissima’ quanto atavica paura.
Ed è pur questo il mondo magico in cui ‘lavora’ e si ‘esprime’ Mario Compostella, il giovane artista del ‘fare’ che accomuna all’elemento tempo la sostanza allegorica dell’operosità creativa; all’essenzialità poetica dell’immagine l’umiltà del mestiere e la preziosità dell’arte. Ed è lui che oggi andiamo a conoscere nella sua operosa essenzialità.

Il ‘gesto’, il ‘segno’ e la ‘parola’.

È detto che alcun segno delinei una forma senza che lo spirito creativo elabori un concetto che di per sé risponda a un’oggettivazione del pensiero, o senza che lo stesso si offra all’interpretazione della parabola che lo contiene e che lo elabora nella contiguità del tempo, oggettivandolo dentro la 'materia della memoria’; così come nel suo declinare all’interno della parola che ‘muta’ risponde al gesto concettuale che lo ha tracciato. E sia che si tratti dell’esperienza artistica nei suoi ambiti diversi, in quanto Mario Compostella è inoltre maestro d’arte applicata al restauro, nonché disegnatore di architetture e arredamento d’interni, o di scenografie per il teatro. Quanto il suo dare ‘vita alle forme’, al suo desiderio di soddisfare la propria aspirazione nel mondo della percezione, o ai suoi ‘fantasmi creativi’ (composizioni artistiche, immagini pittoriche e non solo), spesso utilizzando materiali recuperati, o per meglio dire: ‘rubati alla terra’, come terre e pietre, corde e legni, metalli poveri o preziosi come l’oro.
Ed è alla mano operosa dell’artista che si fa qui ricorso. Egli è infatti maestro doratore, una professione che gli giunge da lontano, almeno da tre generazioni di fattivo lavoro che risale al suo bisnonno e chissà da quale frequentazione ‘in illo tempore’ dell’estrazione dei metalli. I suoi attrezzi più frequenti sono il pennello, la cera, la gomma, la matita, una quantità di spatole e spatoline, lo scavino, lo scalpello, la punta di bulino per incidere sul metallo. Ancor più gli ‘occhi’ e le ‘mani’, prima ancora dell’afflato ultimo che le riveste: esoterico-allegorico, per voler dire ‘intimo e riservato’ che trasforma le sue creazioni in ‘immagini’ insostituibili dell’umana vicinanza al divino (come ad esempio le sue rivisitazioni sacre); o quelle di un creato astrale (come le sue visioni cosmiche), così vicino a noi da lasciare stupefatti per la ‘bellezza’ che in esso si esprime.
È dunque nel ricreato mondo di una certa ‘bellezza’ che l’artista Mario Compostella esprime la sua sollecitudine alla riscoperta dei ‘segni’ che più coincidono con la nostra sensibilità d’interlocutori attenti e volitivi, sempre alla ricerca di avvalorare certe intuizioni nascoste, quelle significazioni illuminanti che ricreino l’emergere di un senso nuovo, seppure destinato a smarrirsi nella fuga delle definizioni. E lo fa nel comporre, levigare, cesellare, delineare l’indefinito e addirittura, in certi casi, l’indefinibile. Per quanto, essendo ciò quel che vi è di più avvalorante, ha anche sempre a che fare con la sua sensibilità e quindi con il sentimento poetico del ‘fare’ che si fa ‘verbo’, capace di quell’originalità che trasforma ogni suo momento creativo.
Che si tratti dell’amore, del sogno, del coraggio o della paura, così come del giorno e della notte, della guerra e della pace o di qualche altro tema di una lista infinita, alla fin fine egli pur ci parla di noi, e lo fa in modo semplice (mai banale), di ciò che siamo e che trascende dalla nostra ostinata esistenza nell’universo, di quell’‘uomo del fare’ che dapprima esternò nel ‘segno’ la propria inclinazione artistica …

‘uomo’ (paleolitico)

ancor prima che la segreta notte del tempo
aprisse al cosmico universo
ponesti alla rupe il segno della tua esistenza
- principio di tutte le arti -
ancor prima che la tenebra offuscasse l’infinito astratto
lasciasti all’immenso futuro
il messaggio informe del tuo silenzio
- ritorno di ancestrali echi -
al richiamo germogli di voci fuoriescono
dalle ferite inflitte alla pietra
onde ponesti
- l’orma sull’orma del padre -
che il domani accoglie fra le sue stesse spoglie. (GioMa)

Ma lasciamo che Mario Compostella ci parli della sua attività artistica:
Professionalmente nasco nel laboratorio di artigianato artistico di famiglia Ditta Arte Compostella, dove prima mio nonno e poi mio padre costruivano e restauravano arredi classici decorandoli con oro a foglia, l’inestimabile patrimonio di tecniche, manualità e conoscenza che mi sono state tramandate sono la genesi della mia espressione artistica, che inizia ufficialmente nel 1994.
Nel 1997 il mio laboratorio è inserito nell’Itinerario delle botteghe storiche nell’ambito del Maggio dei Monumenti, nell’anno 2000 partecipo alla Mostra di Artigianato Religioso in Pompei, dove sono premiato dai Lions Club International Pompei Host per qualità e raffinatezza delle opere esposte.
In questi anni decoro alberghi di lusso tra cui: Grand Hotel Parker’s, Excelsior, Grand Hotel San Francesco al Monte, fornisco teatri per arredi di scena tra cui: Opera Buffa del Giovedi Santo del Maestro Roberto De Simone, Tartufo di Tony Servillo, restauro arredi del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella e dell’istituto Nazionale di Previdenza Sociale.
Nel 2006 partecipo al Columbus Day in New York, nel 2007 all’Italian Lifestyle in Emirates e nel 2008 al 5° concorso internazionale 'Il Mobile Significante' promosso dalla Fondazione Aldo Morelato in queste manifestazioni decido di presentare i miei nuovi lavori di design e ricerca, il consenso e le discussioni che ne seguono, producono una serie di eventi e iniziative ampliando di fatto il mio ambito professionale.
Nel 2011 la mia prima mostra personale ‘la materia della memoria’ nell’ambito del Forum delle Culture, 2012 ‘decorAZIONI’ che ha come location la Cattedrale di Caserta nel borgo medioevale, 2014 ‘Le sette Madonne’mostra itinerante nel percorso della Napoli Sotteranea, nel 2015 Istitut Francais di Napoli espongo il ‘Trono Itinernate’ dal quale segue un importante pubblicazione sulla rivista Rencontres dal titolo ‘La via dell’oro’, imperniato sul mio percorso artistico.
Nel 2016 sono nominato Fornitore Ufficiale della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie. Nel 2017 progetto e realizzo ‘La Macchina dell’Energia e ‘Il giardino dei Chakra’ per il I International Reiki Festival di Ferla (SR).

Mario Compostella vive a Napoli, dove gestisce il Laboratorio d’Arte e Restauro in qualità di Maestro artigiano e d’arte applicata, Perito-Esperto in doratura e argentatura a foglia, Disegnatore di architettura, arredamento d’interni e scenografie per il teatro.
Contatti:
www.mariocompostella.it
info@mariocompostella.it
E inoltre in facebook e youtube



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- Libri

Vite infinite un libro di Diego K. Pierini

DIEGO K. PIERINI ‘VITE INFINITE’
MEMORIE AD ACCESSO CASUALE DI UN VIDEOGAMER
Edizioni Ultra – 2017

Gli occhi incollati agli schermi, i calli dovuti alle manopole, i mostri di fine livello e un altro gettone per continuare il gioco sognando di avere “Vite infinite”. Fari puntati sul “videogame” raccontato dal brillante autore sabino d’adozione Diego K. Pierini in un diario atipico, minuzioso e profondamente intimo che mescola impressioni, riflessioni, ricordi personali e molta ironia per parlare di uno dei più grandi fenomeni intergenerazionali dell’era moderna.

Nato ad Ancona nel 1979, è la prova vivente che i videogiochi fanno male. Miope, moderatamente sociopatico, ridotto in povertà dalla passione per le consolle vintage e come se non bastasse laureato in filosofia. Ha scritto d’intelligenza artificiale, culture digitali, musica e cinema. Ha alle spalle un lungo percorso nel settore televisivo, prima come autore di Parla con me, quindi a Voyager, The Show Must Go Off e Gazebo, con cui lavora tuttora, e collabora con Synthesis come traduttore freelance di videogiochi.

Da 15 anni vive a Poggio Mirteto e la sua carriera spazia di arte in arte, con una particolare attenzione a quella letteraria. Ha scritto d’intelligenza artificiale, culture digitali, musica e cinema. Ha pubblicato un saggio sull’intelligenza artificiale 'Noi, robot' (Bandalarga, 2010) e una raccolta di racconti, 'SubLimen' (Ensemble, 2012).

Dall’intervista apparsa in Archivio, Cultura, Index 07/09/2017

Il tuo libro è scandito sui tuoi ricordi e al centro ci sono i videogamer, più che i videogame. Perché hai fatto questa scelta?

Diego K. Pierini

Questo libro non è un romanzo e non è un semplice saggio, ma un diario atipico, minuzioso
e a suo modo profondamente intimo che mescola impressioni, spunti di riflessione, ricordi personali e molta ironia per parlare di uno dei più grandi fenomeni intergenerazionali dell’era moderna: il videogame. Leggere questo libro significa indossare di nuovo, magicamente, i panni di un ragazzino degli anni Settanta. Uno di quelli (tutti,più o meno) che da un giorno all’altro si sono trovati di fronte a una sconosciuta tecnologia aliena fatta di schermi luminosi, manopole e fessure avide di monetine. Catapultati in una dimensione alternativa ricolma di enigmi, mostri di fine livello, genitori apprensivi e vite extra, sarete protagonisti di un’avventura lunga oltre tre decenni.

Il testo tutto sommato vede i due soggetti in equilibrio paritario: rivolgere agli esperti di videogames una nuova disamina sul tema mi pareva inutile, mentre mi premeva molto di più offrire un affresco più emozionale che andasse a rievocare, in chiave nostalgica ma anche decisamente ironica, l’epopea ipersatura ed entusiasmante di quei figli estetici degli anni 80 la cui psiche è rimasta tragicamente corrotta dalle ore spese tra mondi fantastici e manipolazione onanistica del proprio joystick (ma anche da Drive In e Automan). Qualcuno doveva pur spiegare la sociopatia e il decremento della vista da cui è affetta l’ultima generazione analogica. Ciò detto, parlare del mondo dei videogiochi, più che dell’oggetto videogioco, è un escamotage per toccare argomenti molto più vari, dalla sottocultura musicale al cinema, dal rapporto con le riviste alle relazioni umane.

Ufficio Stampa: Elisa Fantinel - 3358160566 –
elisafantinel@yahoo.it
www.elisafantinel.it

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- Musica

Roma in Musica a Villa Torlonia

'Che Grande Guerra'. Oratorio per Soprano, Contralto, Voce recitante ed Ensemble.

Teatro di Villa Torlonia - Roma
17/09/2017 Concerto, Spettacolo

Domenica 17 settembre 2017 ore 19
'Che Grande Guerra'
Oratorio per Soprano, Contralto, Voce recitante ed Ensemble
In occasione del 100° anniversario della Prima Guerra Mondiale, una riflessione sul mondo della composizione contemporanea che si accompagna alla meditazione e al confronto con la più grande avanguardia connotante il nostro Paese: il Futurismo e la sua visione positivista della Grande Guerra.
Al centro dello spettacolo un componimento musicale originale, composto da un Preludio strumentale, 8 scene e un Finale, che viene accostato a un libretto costituito da stralci di lettere di giovani soldati dal fronte e di testi di grandi poeti tra futurismo ed ermetismo tra i quali: C.Rebora, E.Montale, G.D’Annunzio, G.Pascoli.
L’esecuzione della Spirale Armonica Ensemble, in forma di Oratorio, vede la contemporanea proiezione di video di repertorio tratti da documenti storici inerenti la Prima Guerra Mondiale e spezzoni di filmati futuristi. In apertura di spettacolo viene eseguito il brano 'Al crepuscolo' di G.Verrengia, anche quest’ultimo ispirato alla Grande Guerra.

Spirale Armonica Ensemble:
Soprano Sofya Yuneeva
Contralto Eva Maria Ruggieri
Voce recitante Emanuele Gamba
Flauto Annalisa Sorio
Clarinetto Margherita Ramirez
Sax Marcos Palumbo
Fisarmonica Riccardo Pugliese
Violino Daniele Scaramella
Violoncello Elisa Pennica
Percussioni 1 Claudio Piselli
Percussioni 2 Giuseppe Piraino
Pianoforte 1 Federica Posta
Pianoforte 2 Andrea Feroci
Direttore Andrea Palmacci

Regia di Emanuele Gamba
Musica di Daniele Scaramella
Elaborazione testi di Luigi Boneschi
Montaggio video di Emanuele Gamba
A cura di Associazione culturale Spirale Armonica

*Ingresso con prenotazione obbligatoria allo 060608 a partire da 7 giorni prima dell’evento.

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- Letteratura

Invito alla lettura - Laura Feri in Metà di me

Moby Dick biblioteca hub culturale - https://www.facebook.com/MobyDickhubculturale/?ref=hovercard in Via Edgardo Ferrati 3, Roma invita alla presentazione del libro "Metà di me" di Laura Feri / Mauro Pagliai Editore – Ingresso gratuito

 

Con l'intervento di:

• Luciano Russi, docente di Teoria e Tecniche della Comunicazione di massa e di Organizzazione e comunicazione degli uffici stampa e degli URP all’Università di Roma “La Sapienza"

• Stefano Sepe, docente di “Storia dell’amministrazione” presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione e di “Comunicazione pubblica” all'Università della LUISS “Guido Carli”

• Lorena Fiorini, Presidente del Premio Letterario "Donne tra ricordi e futuro"

 

La vita di Rebecca è ordinaria ma appagante: un buon lavoro, un fidanzato che la ama, una famiglia lontana geograficamente ma vicina con il cuore. Quando però la giovane viene improvvisamente colpita da un'emorragia, tutto cambia. Paralizzata nella parte destra del corpo, dovrà affrontare un calvario fatto di sofferenza fisica e psicologica. Ma spesso un forte trauma può segnare l'inizio di una nuova vita, e Rebecca non sarà da sola nel suo quotidiano cammino verso la speranza...

Un romanzo diretto e introspettivo, che senza cadere nella retorica e nei facili sentimentalismi ci svela come il coraggio presente nel cuore di ognuno di noi ci permetta di affrontare ostacoli che sembrano insormontabili.

Laura Feri è nata nel 1979 a Firenze dove tutt’ora vive. Si è laureata in Scienze della Comunicazione all’Università di Siena e si è iscritta all’Ordine dei Giornalisti della Toscana come giornalista pubblicista. Dopo qualche esperienza all’estero di studio e lavoro, è approdata nella pubblica amministrazione, ricoprendo diversi ruoli in diversi enti. Ha dedicato molti anni alla pallavolo, prima come giocatrice poi come allenatrice di bambine. Ama fare sport, leggere libri e soprattutto viaggiare. Metà di me, edito da Pagliai nel 2015, è il suo primo romanzo.

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- Cultura

Cronache d’Agosto dalla Riviera delle Palme



Cronache d’Agosto dalla Riviera delle Palme.

San Benedetto del Tronto / Porto d’Ascoli
Anche quest’anno si è ripetuto all’Hotel Poseidon, sul Lungomare Sud di San Benedetto del Tronto, l’appuntamento con alcune ‘eccellenze dell’arte’ contemporanea italiana. Numerosi gli artisti che hanno scelto la spiaggia dorata di quello che possiamo ben definire ‘punto d’incontro di presenze fattive della nostra cultura’ che si avvalgono della loro esperienza artistica in ambiti diversi come la pittura e la scultura, nonché l’architettura d’interni e la scenografia per il teatro. La direzione dell’Hotel Poseidon è lieta inoltre di annoverare fra i suoi molteplici clienti nomi di alto livello qualitativo in campo letterario come scrittori e giornalisti che trovano nella Riviera delle Palme il loro annuale periodo di svago.

Fra i nomi illustri di quest’anno la scultrice senese Vittoria Marziari Donati è stata senz’altro quella più apprezzata, un’eccellenza tutta italiana che da tempo ha attraversato la soglia dell’internazionalità e che s’avvia a completare il suo ciclo creativo nella contemporaneità dell’arte. Un percorso vissuto dentro e fuori le forme, nei pieni e nei vuoti che sono all’origine della vita delle cose, in cui tutto infine si compie, nel ricongiungimento di quella creatività umana, pur sublime, che l’alterità delle correnti artistiche ha disgiunto e che l’artista nella sua costante ricerca dedicata alla ‘poesia delle forme, ha sublimato in autentici ‘luoghi dell’anima’, recuperandone la ‘spazialità’ naturalistica che ad esse è propria.

È con questo spirito che la ‘materia’ così plasmata dall’artista, sia essa la ceramica degli inizi o la pietra dura successiva e, infine, l’impiego dei metalli come il ferro, l’acciaio e il bronzo della sua ultimissima produzione, raggiunge le forme volute di una concept-art che dal sottosuolo della materia rimanda alla luce e si veste di poesia. A tutt’oggi il curriculum di Vittoria Marziari Donati è assai ricco di riconoscimenti e premi che vanno oltre l’attualità espositiva che la vede protagonista in prestigiosi riconoscimenti quali: l’Onorificienza al Merito dell’Ordine della Presidenza della Repubblica 2017 in presenza del Sindaco e del Prefetto della nobile Città di Siena.
Ancora in questo primo scorcio d’anno, la scultrice ha ricevuto inoltre il ‘Collare Laurenziano’ dell’Accademia Fiorentina “per il suo contributo alle discipline scientifiche e artistiche” consegnatole in Firenze nella Sala dei Cinquecento.

La sua attività prossima-futura si apre con diverse inaugurazioni di Mostre dedicate alla scultura che la vedono impegnata a Siena per il IV anniversario del ‘Parco della Luce’ istituito dall’artista e aperto alle visite dal 04 Giugno scorso fino al 30 Settembre, e che vede la partecipazione di altri scultori italiani e stranieri.

Altra rilevante presenza di quest’anno è quella dell’artista napoletano Mario Compostella (nella foto), maestro d’arte applicata al restauro, nonché disegnatore di architetture d’interni e d’arredamento. Un artista ‘a tutto tondo’ scoperto ‘in anonimato’ dal giornalista Giorgio Mancinelli mentre con la sua famiglia sulla spiaggia dell’Hotel, disegnava sulla sabbia arzigogoli e ghiribizzi per le sue splendide bambine Elena e Viola. Riconosciuto e intervistato l’artista ha rivelato le sue peculiari origini di ‘artigiano’conoscitore profondo dei segreti di un ‘fare’ creativo che è alla base dell’arte.

Un ‘fare’ quello di Mario Compostella, che lo rende artefice di se stesso nell’esplicare al meglio le proprie facoltà intellettive e comunicative che gli sono riconosciute da più parti e che sono distintive di una certa ‘napoletanità’, tipica delle genti partenopee. Si sta quì parlando della capacità manifatturiera in cui la creatività dell’artista ripone la sua spinta di forza nel senso della conservazione della ‘memoria’ passata: sia nell’inventiva ‘evoluzionistica’ che guarda al futuro del fare artigianale, sia del rinnovarsi delle ‘linee conduttrici’ riscontrabili nelle ‘forme nuove’ dell’espressione dell’arte.

Nato professionalmente nel 1994 nel laboratorio artigiano di famiglia “Ditta Arte Compostella” dove, prima suo nonno e poi suo padre costruivano e restauravano arredi classici decorandoli con oro a foglia, un inestimabile patrimonio di tecniche, di manualità e conoscenza che gli sono state tramandate e che sono all’origine della sua espressione artistica. Successivamente, nel 1997 il suddetto laboratorio ormai passato nelle sue mani, viene inserito nell’Itinerario delle botteghe storiche nell’ambito del Maggio dei Monumenti e nell’anno 2000 partecipa alla Mostra di Artigianato Religioso in Pompei dove è premiato dal Lions Club International Pompei Host per qualità e raffinatezza delle opere esposte.

Negli anni che vanno dal 2007 al 2015 partecipa al Columbus Day in New York e all’Italian Lifestyle in Emirates con ‘Il Mobile Significante’ promosso dalla Fondazione Aldo Morellato, manifestazioni in cui egli presenta nuovi lavori di design e ricerca dando luogo alla sua prima mostra personale intittolata “La materia della memoria” nell’ambito del Forum delle Culture. Segue la location “decorAZIONI” nel borgo medioevale della Cattedrale di Caserta, e la mostra itinerante “Le sette Madonne” inserita nel percorso della Napoli Sotteranea. Nel 2016 è nominato fornitore ufficiale della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie. È di quest’anno 2017 la realizzazione di “La Macchina dell’Energia” e de “Il giardino dei Chakra” per il I° International Reiki Festival di Ferla (SR).

Congratulazioni quindi e i nostri vivissimi auguri a questi artisti per quell'eccellenza tutta italiana che essi continuano a rappresentare.

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- Arte

Sarzana Festival Europeo della creatività e delle idee

Evento 2017 Sarzana - Biblioteca Civica C. Martinetti 7

Il primo festival europeo dedicato alla creatività e alla nascita delle idee.
Sabato 2 ore 17.30 / Domenica 3 settembre ore 10.30
Bambini / Ragazzi
Sarzana - Biblioteca Civica C. Martinetti 7

Noemi Bermani, Salvatore Panu

‘Suoni di c/arte’

laboratorio
5-10 anni
60 minuti
25partecipanti

Quante cose si possono fare con un foglio di carta? E quanti suoni possiamo ottenere? Un Laboratorio Metodo Bruno Munari ® in cui – passando dall'esplorazione alla composizione istantanea – creeremo un repertorio di suoni informali per arrivare ad una conduzione musicale collettiva.

Noemi Bermani
vive a Bologna. Con il nome di Bradipo-Spazio per la cultura dell'infanzia progetta e realizza laboratori per bambini e adulti secondo il Metodo Bruno Munari®.

Salvatore Panu
ha studiato al Dams di Bologna. Dal 1989 svolge un’intensa attività didattica e di sperimentazione musicale conducendo laboratori di musica e canto sociale.

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- Arte

Street Art progetto letterario figurativo

Progetto Letterario Figurativo STREET-ART

Associazione Culturale CAFFE’ DELLE ARTI
Presentato da Concorsiletterari.net


Il concorso è in lingua italiana o straniera, obbligatoriamente accompagnata da traduzione. Al Progetto partecipano autori/artisti minorenni, di età compresa tra i 12 e 17 anni, autorizzati dai genitori. È ammessa la partecipazione a più sezioni con una o più opere (sino a un massimo di 3 opere in totale).

SEZIONE A – “VERSI (DI)VERSI”
Poesie, filastrocche, testi di qualsiasi genere musicale, con preferenza per il rap e freestyle rap…
Si partecipa inviando l’elaborato in formato Word: .doc, .docx, .odt, .txt (no .PDF)
In caso di testi per canzoni inviare anche il file mp3 dell’opera, completa di base musicale, se disponibile.
Non ci sono limiti di lunghezza.
SEZIONE B – “NERO SU BIANCO”
Racconti brevi, saggi brevissimi, pagine di diario, lettere senza destinatario, STORIE CHE SCRIVERESTI SUI MURI, progetti e considerazioni personali, fiabe e favole (classiche o moderne, di qualsiasi genere) …
Si partecipa inviando l’elaborato in formato Word: .doc, .docx, .odt, .txt (no .PDF).
Il limite di lunghezza è di circa 9000 battute, spazi compresi (4-5 pagine in formato A4).

SEZIONE C – “CITTA’ D’ARTE”
FOTOGRAFIA E Opere pittoriche (qualsiasi tecnica e dimensione), disegno, (vari generi, anche tattoo), caricatura, fumetto (anche strisce), graffiti, murales…
Per graffiti e murales e per tutte le opere di grandi dimensioni: si partecipa inviando una o più immagini fotografiche, in alta risoluzione, di opere realizzate su qualsiasi supporto di grandi dimensioni (.jpg – .png – .gif -.bmp) e indicando la tecnica usata.

Per disegni, caricature, fumetti, ecc… : si partecipa inviando una o più immagini fotografiche ad alta risoluzione o copie delle opere originali. La paternità delle opere andrà dichiarata sulla scheda d’iscrizione.

Tutte le Opere dovranno pervenire, entro e non oltre, il 30 DICEMBRE 2017.

Le opere contenenti turpiloqui, messaggi blasfemi, violenti, razzisti omofobi e pornografici, saranno escluse senza NESSUN preavviso.

MODALITÀ DI INVIO

Nell’invio, a mezzo email o mezzo posta, dovrà essere allegata SEMPRE la scheda regolarmente compilata e firmata da un genitore.

A MEZZO POSTA ELETTRONICA all’indirizzo: progettostreetart@gmail.com
N.B. Nell’oggetto della mail si dovrà specificare SEMPRE: Progetto “ARTI DI STRADA”.

SEZIONI A e B
Inviare una copia dell’elaborato in formato Word (doc. docx. odt. NO PDF) o mp3 e la scheda di partecipazione compilata in ogni voce e firmata dal genitore.

SEZIONI C
Inviare i file fotografici o fotocopiati delle opere e la scheda di partecipazione compilata in ogni voce e firmata dal genitore.

A MEZZO POSTA RACCOMANDATA
“Caffè delle Arti” c/o Mario Angelo Carlo Dotti, Via G. Marconi 2 – 25030 Adro (BS)
Inviare una sola copia dell’opera, stampata o in formato digitale (CD) completa di titolo e di scheda di partecipazione compilata in ogni voce e firmata dal genitore.

I PREMI
I giovani saranno premiati da una commissione esaminatrice, appositamente creata per il progetto e che vedrà impegnati, nella fase conclusiva delle valutazioni, ragazzi o ragazze dai 18 ai 30 anni e da esponenti dei vari generi artistici.
Verranno assegnati i seguenti premi.
Primo, secondo e terzo classificato.
Premi della Giuria.
Segnalazioni speciali.
Meritevoli di pubblicazione.

Caffè delle Arti si riserva la facoltà di assegnare, oltre ai premi previsti, altri premi o ulteriori podi non espressamente elencati nel bando. Nel caso in cui le opere non raggiungessero i livelli sufficienti, la commissione si riserva di NON assegnare premi per alcune sezioni.

LA RACCOLTA ANTOLOGICA

È prevista, a seguito del Progetto, la realizzazione, in collaborazione con Incipit Group, di una Raccolta Antologica delle opere premiate e di quelle segnalate dalla Giuria e, pertanto, ritenute considerevoli e meritevoli di pubblicazione.
L’Antologia sarà proposta in vendita agli autori prima della Cerimonia di Premiazione: l’acquisto non è obbligatorio.

CERIMONIA DI PREMIAZIONE E VERBALE DI GIURIA

I risultati del concorso saranno resi noti sul sito internet dell’Associazione Culturale “Caffè delle Arti”: www.caffedellearti.net e sulla pagina Facebook relativa all’associazione.

Tutti gli Artisti premiati riceveranno via mail i risultati finali e l’invito alla cerimonia di premiazione che si terrà a Roma il giorno sabato 31 marzo 2018, in contemporanea a quella del Premio Letterario Figurativo Nazionale “Caffè Sospeso”, cui il progetto giovani è strettamente collegato. Ulteriori dettagli sulla Cerimonia di Premiazione verranno comunicati successivamente.

La Giuria si riserva il diritto di NON assegnare premi qualora le opere non fossero, per qualsiasi motivo, conformi al bando o di livello inadeguato a giustificarne il merito.
Il giudizio della Giuria è inappellabile. Ogni Autore, per il fatto stesso di partecipare al Progetto, dichiara la paternità e l’originalità delle opere inviate e del loro contenuto, autorizza il trattamento dei suoi dati personali ai sensi del D.Lgs. 196/2003 e sottoscrive,
a titolo gratuito, l’iscrizione all’Associazione Culturale “Caffè delle Arti”.
N.B L’iscrizione non prevede il rilascio di una tessera ma il solo inserimento dei dati nel nostro archivio.

Le opere non saranno restituite e verranno utilizzate dall’Associazione Culturale “Caffè delle Arti” solo per le finalità del Progetto e per i tempi a queste connesse.

Caffè delle Arti si riserva di concordare, in caso di vittoria o segnalazione, con i giovani Autori/Artisti l’inserimento, in scaletta, di brevi esibizioni da presentare al pubblico nel corso della Cerimonia di Premiazione.



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- Arte

La danza immobile - nell’arte di Vittoria Marziari

LA DANZA IMMOBILE

‘La danza e il gesto nell’arte di Vittoria Marziari Donati’.

 

Si vuole che la ‘danza’, qui presa a pretesto per formalizzare una sorta di ricerca spaziale, corrisponda a un concetto metafisico che la parola in sé solo talvolta riesce a contenere. Per quanto, almeno nelle sue rappresentazioni più eclatanti, si lasci travolgere dal tentativo di manifestare l’indicibile di un comunicare muto. Allo stesso modo che il ’gesto’, di per sé contenuto entro l’alone contemplativo dell’astrazione, assicura ad entrambe una necessaria consequenzialità interdisciplinare all’interno del ‘movimento’ delle due diverse espressioni, alle quali si aggiunge la riflessione ‘oggettivante’ dell’arte. Riflessione che, con maggiore evidenza statica, funge da intermediaria tra le due discipline rappresentate dalla ‘danza’ e dal ‘gesto’, nell’evolversi costante della spazialità figurativa ‘modificata e modificante’ nelle opere di Vittoria Marziari.

Spazialità creativa di ‘forme statiche’ in quanto ‘solidamente immobili’ benché soggiacenti alla mobile visualizzazione di chi, per così dire, le guarda dentro lo ‘spettro ottico’, in grado di diversificare il proprio punto di osservazione da diverse angolazioni e diverse prospettive. Come pure dalla diversificazione della luce e delle imprevedibili ombre che ogni forma proietta di se stessa, dando vita a una sorta di ‘movimento costante’ che è di per sé ‘danza’ o quantomeno ‘gesto’ che assume valenza teatrale. È così che nel dibattito fra ‘pieni’ e ‘vuoti’ il moto si attesta ora come ‘presenza’ ora come ‘assenza’ per una sorta di ‘danza immobile’ in cui l’osservatore, che possiamo definire spettatore di un metafisico ‘fare teatro’, viene  interamente coinvolto nel movimento delle sue ‘sculture poetiche’, nei gesti e nei passi di quella danza che esse suggeriscono.

Nella realtà non esiste una linea di confine fra il gesto e la danza in quanto sono entrambe espressioni dominanti e interagenti in modo evolutivo, quasi che l’una dipenda dall’altra in quanto ‘cadenza’ alternata e alternativa di una ‘concretezza’ pressoché onirica, suggestiva di emozioni scaturite dall’inconscio che si saldano come immagini nella memoria cosciente. Entrambe danno luogo a quella ‘scansione’ di emozioni che l’ ‘indicibile’ trasforma in note musicali come ‘misura del tempo’, sulla quale s’instaura l’ordine dell’armonia cosmica. Quella stessa armonia che è ‘struttura primaria’ di riferimento di tutte le varianti in cui l’arte si esprime, e che sono proprie della classificazione matematica delle cose, così come dell’espressione letteraria, della poesia e di molta concettualità filosofica.

Armonia che è all’origine di ogni ‘segno tracciato’ come di ogni singola ‘forma plasmata’ nel nostro ‘spazio comunicativo’ dai nostri diversi “modi di misurare il mondo” che ci circonda. Spazio significativo di contemporaneità che accoglie gesti percettibili e forme distinguibili in cui convergono le linee della progettualità speculativa, e altre se ne prospettano, seppure disgiunte da una futuribile oggettivazione. Va tuttavia considerato il contesto nel quale una certa creatività origina, si riproduce e si propaga nelle diverse ‘forme’ dell’arte; sia in cui la contestualizzazione utilitaristica si rende necessaria (oggettistica quotidiana, immagine illustrativa ecc.); sia lì ove l’adattamento alle nuove tecnologie (auto, computer, costruzioni meccaniche ecc.) richiede nuove formulazioni propedeutiche all’utilizzo pratico e usuale.

È inevitabile che lo spazio operativo che rimane all’arte così detta si riveli tendente alla sola ‘indagine programmatica’ più che all’arte stessa, per cui oggi si passa attraverso un’infinita gamma di esempi che pure vengono da lontano. Se mai l’arte è stata fine a se stessa, cioè se mai è servita a mostrare una certa creatività insita nell’essere umano, la nostra epoca denuncia l’esistenza di un flusso crescente durato almeno cinquemila anni che ha portato alla sublimazione dell’arte come qualcosa di irripetibile. Di contro si prospetta l’ ‘indicibile’ che ha portato alla ‘action-painting’ di Pollock, alla ‘street-art’ metropolitana di Haring e Basquiat, e che va bene per riempire di effetti colorati le superfici vuote delle stazioni o quelle dei muri delle case in disuso. Così come la ‘light-art’, affermatasi come forma d’arte visiva mediante le opere di Dan Flavin e James Turrell, il cui mezzo di espressione è il fine stesso dell'opera, va considerata ‘figlia della luce’ che, pur mettendo in evidenza le capacità tecniche di chi manipola lo strumento che la produce, si esprime in forma creativa, ma resta l’arte in assoluto più effimera che si sia vista fino ad oggi.

È nelle pieghe di quest’arte astratta e informale evolutasi nella ‘forma modificata e modificante’ che Vittoria Marziari trova la sua fonte d’ispirazione creativa, traendo dal passato quegli elementi naturali, oggi diremmo ecologici, come la terra refrattaria e la creta, la resina e il marmo, nonché il cristallo e i metalli più diversi, che rendono alle sue opere la ‘tangibilità della luce’ e il ‘senso equanime’ di una incontestabile contemporaneità. Tutto questo senza necessariamente rinnegare il passato dell’arte aulica dei grandi scultori e delle opere colossali, con opere dalle dimensioni ridotte, decisamente appetibili in ambito oggettistico e dell’arredamento di pregio, pur restando nei canoni propri dell’arte scultorea incentrata sulla tradizione. Tuttavia permettendo alle sue opere, di entrare nel vortice di quella ‘danza imobile’ che coinvolge tutta l’arte e che ancora ‘fortunatamente’ ci coinvolge tutti, regalando al nostro sguardo attento quell’effimera bellezza di cui da sempre andiamo alla ricerca, e che in fine salverà questo nostro mondo.

 

L'artista Vittoria Marziari Donati è stata insignita quest’anno 2017 dell’Onorificienza al Merito dell’Ordine della Presidenza della Repubblica in presenza del Sindaco e del Prefetto della nobile Città di Siena. Inoltre, ancora in questo primo scorcio di anno, ha ricevuto in quel di Firenze Sala dei Cinquecento, il prestigioso ‘Collare Laurenziano’ dell’Accademia Fiorentina “per il suo contributo alle discipline scientifiche e artistiche”.

La sua attività prossima-futura si apre con diverse inaugurazioni di Mostre dedicate alla scultura che la vedono impegnata a Siena per il IV anniversario del ‘Parco della Luce’ istituito dall’artista che ha aperto alle visite fin dal 04 Giugno scorso fino al 30 Settembre e che vede la partecipazione di sette scultori fra italiani e stranieri Con Vittoria Marziari espongono le loro opere eseguite con materiali diversi quali il bronzo, metalli, pietra ecc.: Giacomo del Giudice, Sara del Giudice, Giacobbe Giusti, Hota Kohei, Valerio Savino, Anton Ndoja, Alessandro Marrone.

L’11 Giugno appena trascorso è avvenuta l’inaugurazione a Roccaraso del monumento in bronzo dedicato ‘ai genitori’ visibile nel piazzale antistante Hotel 5Miglia della cittadina medesima.

Ancora il 18 Luglio, inaugurazione della Mostra Collettiva organizzata dalla ‘Enciclopedia d’Arte Italiana’ al Palazzo Visconti di Bergamo (oggi sede comunale) con l’opera intitolata ‘La superbia’ in bronzo levigato con escrezioni di materia informe che bene mettono in risalto la dicotomia dentro/fuori (pieno/vuoto), illustrati nel testo, presentata dall’autrice stessa con la poesia didascalica: ‘Come colonna senza piedistallo, sta la superbia al cospetto dei venti’.

Una seconda ‘opera’ dal titolo concettuale ‘Oltre la conoscenza’ svettante dalla base a forma di calotta che rappresenta la terra, per la quale ci si avvale dell’interpretazione cosmica che ha voluto l’artista: ‘Chissà se come, dove e quando, ti sarà data tutta la conoscenza’.

Questo fine Luglio a Roveredo (Suisse) inoltre, Vittoria Marziari apresenzierà all’inaugurazione della Mostra nel Parco organizzata da OpenArt insieme ad altri artisti provenienti da varie parti del mondo.

 

Congratulazioni quindi e i nostri vivissimi auguri da parte della redazione di larecherche.it all'artista Vittoria Marziari Donati per l'eccellenza italiana che ci rappresenta all'estero.

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- Cinema

Cineuropa News Informa

Cinecittà Studios torna alla gestione pubblica
di Camillo De Marco

04/07/2017 - Istituto Luce-Cinecittà ha acquisito il ramo d’azienda dello storico complesso di via Tuscolana. Al via il rilancio.

Istituto Luce-Cinecittà ha comunicato ieri l’acquisizione del ramo d’azienda di Cinecittà Studios. Come già preannunciato dal ministro della cultura Dario Franceschini a maggio (leggi l’articolo), il complesso di via Tuscolana e le sue attività di produzione ritornano alla gestione pubblica.
Nel nuovo piano di sviluppo c’è il rilancio del sito e delle sue attività, i nuovi progetti, e una filiera unificata dalla produzione alla promozione. Il disegno generale è l’unificazione delle attività di Cinecittà Studios - legate alla gestione dei teatri e alla produzione di opere audiovisive - con le attività storicamente coordinate da Istituto Luce-Cinecittà: dal sostegno al cinema italiano classico e contemporaneo, alla conservazione e diffusione del grande Archivio Storico dell’Istituto Luce, il sostegno alle opere prime e seconde, la produzione documentaristica, l’attività di informazione cinematografica on line e su stampa periodica, il realizzando MIAC - Museo Italiano del Cinema e dell’Audiovisivo, la gestione dei Media Desk di Europa Creativa e la gestione dei Fondi Cinema del MiBACT.
L’auspicio del consiglio d’amministrazione di Istituto Luce-Cinecittà è che “in tempi brevi possa concorrere al maggior sviluppo del sito di Cinecittà l’altro grande polo pubblico di produzione culturale: la RAI, partner naturale per il sostegno alle produzioni e per la costruzione con le sue Teche, assieme all’Archivio Luce, del più grande patrimonio audiovisivo che un Paese possa offrire”.

Tutto pronto per la 7a edizione di Ciné a Riccione
di Vittoria Scarpa

29/06/2017 - I professionisti del cinema si riuniranno alle Giornate Estive di Cinema dal 4 al 7 luglio. In programma grandi anteprime, convegni, anticipazioni e laboratori
Si svolgerà a Riccione dal 4 al 7 luglio 2017 la settima edizione di Ciné - Giornate Estive di Cinema, la manifestazione dell’industria cinematografica nazionale promossa e sostenuta da ANICA, in collaborazione con ANEC e ANEM. Occasione di incontro per gli addetti ai lavori, ma anche festa per il grande pubblico, il programma prevede tanti ospiti, grandi anteprime, convegni e laboratori.
Le convention delle distribuzioni, che presenteranno in anteprima i titoli della prossima stagione, prenderanno il via martedì 4 con The Walt Disney Company Italia, per proseguire mercoledì 5 con Universal Pictures, Adler, Notorious Pictures, Warner Bros, Videa, Koch Media e Ambi Media; giovedì 6 luglio sarà la volta di 20th Century Fox, Cinema, M2 Pictures, Vision Distribution, Medusa, I Wonder Pictures, Lucky Red, per concludere venerdì 7 con Eagle Pictures, Bim Distribuzione e 01 Distribution. Negli stessi giorni saranno presentati i reel di Distribuzione Indipendente, Distribuzione Cinema, Merlino Distribuzione, Officine Ubu, Rai Com, Twelve Entertainment, Altre Storie.

Tra gli ospiti di questa edizione, Fausto Brizzi parlerà in anteprima del suo nuovo film Poveri ma ricchi 2, sequel della commedia campione di incassi, in uscita per Warner Bros. a Natale, e Alessio Maria Federici presenterà, con i suoi protagonisti Ambra Angiolini e Pietro Sermonti, il film Terapia di coppia per amanti, tratto dall’omonimo romanzo di Diego De Silva, in uscita in autunno sempre per Warner Bros.
Medusa schiererà invece Donato Carrisi, al suo esordio alla regia con La ragazza nella nebbia, tratto dal suo romanzo omonimo del 2015; il duo comico formato da Corrado Nuzzo e Maria Di Biase, anche loro per la prima volta dietro la macchina da presa con Vengo anch’io, in uscita il prossimo autunno; Vincenzo Salemme, Max Tortora e Carlo Buccirosso protagonisti della nuova commedia dei fratelli Vanzina Caccia al tesoro (nelle sale italiane a novembre), e infine Neri Parenti con Massimo Boldi per presentare Natale da chef.

Vision Distribution proporrà i suoi titoli in compagnia di Alessandro Gassmann, regista e interprete del road movie Il Premio (leggi la news), e di Lillo, tra i protagonisti della commedia Nove lune e mezza, opera prima dell’attrice Michela Andreozzi (news). Saranno inoltre a Riccione Vinicio Marchioni e Anna Foglietta con i registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini per parlare de Il contagio, opera seconda che uscirà per Notorious Pictures, tratta dal romanzo di Walter Siti (news), e Paolo Ruffini per la nuova commedia natalizia di casa Filmauro.

Tra le grandi anteprime in programma: Atomica Bionda, con Charlize Theron e James McAvoy (in uscita il 17 agosto per Universal Pictures), e il nuovo action movie firmato Edgar Wright, Baby Driver [+] (dal 7 settembre per Warner Bros.) con Jamie Foxx. Al grande pubblico è invece dedicata l’offerta della sezione CinéMax, con Due sotto il burqa [+], sorprendente opera prima della regista franco-iraniana Sou Abadi (da dicembre per I Wonder Pictures); il documentario Safari [+] di Ulrich Seidl (Lab80), presentato l’anno scorso a Venezia; la passione travolgente e proibita raccontata da Rolando Colla in Sette giorni [+] (in uscita ad agosto per Solaria Film - Movimento Film in collaborazione con Lo Scrittoio); e il documentario Bagnini e Bagnanti di Fabio Paleari e Luca Legnani (102 Distribution), tra le spiagge più famose della penisola alla scoperta della leggendaria figura del bagnino.

Spazio all’aggiornamento professionale, infine, con gli ANICALAB, l’appuntamento di confronto sui temi della produzione, della distribuzione e dell’esercizio; con il convegno sulla produzione cinematografica italiana a cura di Box Office e con la presentazione della ricerca realizzata da GFK, finanziata dal Mibact, relativa alla fruizione stagionale del cinema e alle direttrici di soluzione finalizzate ad allungare la stagione cinematografica.

Nastri d'Argento 2017: La tenerezza Miglior Film
di Camillo De Marco

03/07/2017 - Gianni Amelio premiato anche per regia, fotografia, attore protagonista. 5 Nastri a Indivisibili di Edoardo De Angelis. Premiati Fortunata, Fai bei sogni e Sicilian Ghost Story.

Per i giornalisti cinematografici italiani La tenerezza [+] è il miglior film dell'anno. Nella corsa dei Nastri d'Argento 2017, il film di Gianni Amelio ha conquistato anche il premio per la regia, la fotografia di Luca Bigazzi (che ha firmato anche Tutto quello che vuoi [+]), l'attore protagonista Renato Carpentieri. Ma è stato Indivisibili [+] di Edoardo De Angelis ad aver ricevuto più riconoscimenti, ben cinque: per la produzione di Attilio De Razza e Pier Paolo Verga - il primo premiato anche per L'ora legale [+] - il soggetto di Nicola Guaglianone, i costumi di Massimo Cantini Parrini, la colonna sonora di Enzo Avitabile e la canzone scritta da Avitabile, "Abbi pietà di noi", interpretata con le gemelle protagoniste del film Angela e Marianna Fontana.

I giornalisti cinematografici, che assegnano ogni anno i loro premi 'storici' dal 1946, hanno votato L'ora legale di Salvo Ficarra e Valentino Picone migliore commedia dell'anno mentre Andrea De Sica è il miglior regista esordiente con I figli della notte [+]. La sceneggiatura premiata è quella di Francesco Bruni per Tutto quello che vuoi.
Verdetto in parte annunciato per gli attori: Jasmine Trinca dopo il Festival di Cannes ottiene il bis come migliore attrice protagonista in Fortunata [+] di Sergio Castellitto. Ad Alessandro Borghi, che sarà padrino della prossima Mostra di Venezia, va invece il Nastro come miglior attore non protagonista sia per Fortunata che per l'opera prima di Michele Vannucci Il più grande sogno [+]. Ex aequo, molto raro ai Nastri, tra le attrici non protagoniste: Sabrina Ferilli (Omicidio all'italiana [+] di Maccio Capatonda) e Carla Signoris, accanto a Toni Servillo in Lasciati andare [+] di Francesco Amato. Star della serata è stata Monica Bellucci, che ha ritirato il Nastro d’Argento Europeo per On the Milky Road - Sulla Via Lattea [+] di Emir Kusturica.

Tra gli altri premi significativi, quello a Marco Dentici, scenografo di Fai bei sogni [+] e Sicilian Ghost Story [+] e alla montatrice Francesca Calvelli per Fai bei sogni di Marco Bellocchio. A Roberto Faenza il Nastro alla carriera 2017 e i riconoscimenti "per l'attenzione al cinema civile, in particolare sul tema del lavoro" a Sole cuore amore [+] di Daniele Vicari e 7 minuti [+] di Michele Placido.


Tutti i premi dei Nastri 2017:
Miglior Film
Gianni Amelio - La tenerezza [+]
Migliore Regia
Gianni Amelio - La tenerezza
Miglior Regista Esordiente
Andrea De Sica - I figli della notte [+]
Migliore Commedia
L'ora legale [+] - Salvo Ficarra e Valentino Picone
Miglior Soggetto
Nicola Guaglianone - Indivisibili [+]
Migliore Sceneggiatura
Francesco Bruni - Tutto quello che vuoi [+]
Miglior Produttore
Attilio De Razza - L’ora legale
Attilio De Razza, Pier Paolo Verga - Indivisibili
Miglior Attore Protagonista
Renato Carpentieri - La tenerezza
Migliore Attrice Protagonista
Jasmine Trinca - Fortunata
Miglior Attore non protagonista
Alessandro Borghi - Fortunata, Il più grande sogno [+]
Migliore Attrice non protagonista ex aequo
Sabrina Ferilli - Omicidio all'italiana [+]
Carla Signoris - Lasciati andare
Migliore Fotografia
Luca Bigazzi - La tenerezza, Sicilian Ghost Story [+]
Migliore Scenografia
Marco Dentici - Fai bei sogni [+], Sicilian Ghost Story
Migliori Costumi
Massimo Cantini Parrini - Indivisibili
Miglior Montaggio
Francesca Calvelli - Fai bei sogni
Miglior Sonoro in presa diretta
Alessandro Rolla - Fortunata
Migliore Colonna Sonora
Enzo Avitabile - Indivisibili
Migliore Canzone Originale
“Abbi pietà di noi” - Enzo Avitabile - Indivisibili
Nastro D’argento Europeo
Monica Bellucci - On the Milky Road - Sulla Via Lattea [+]
Nastro D’argento Alla Carriera
Roberto Faenza - 50 Anni di cinema nell’anno de La verità sta in Cielo [+]
Nastro D’argento Speciale
Giuliano Montaldo - Tutto quello che vuoi
Premi Speciali
Per l’attenzione al cinema civile in particolare sul tema del lavoro
7 minuti [+] - Michele Placido
Sole cuore amore [+] - Daniele Vicari
Per l’impegno in una dura prova di interpretazione
Claudia Potenza, Andrea Sartoretti - Monte [+]
Premio ‘Nino Manfredi’
Pierfrancesco Favino, Kasia Smutniak - Moglie e Marito [+]
Hamilton ‘Behind The Camera-Nastri D’argento’
Gabriele Muccino
Persol – Personaggi dell’anno
Claudio Amendola, Luca Argentero - Il permesso 48 ore fuori [+]
‘Wella - Nastri D’argento’ per l‘immagine
Jasmine Trinca - Fortunata
I Premi per il Cinema Giovane - Nastro Speciale - Cinquina Speciale 2017 –Film sui Giovani
Piuma [+] - Roan Johnson
Nastri D’argento – Siae - ‘Borse’ di formazione per due giovani sceneggiatori
Irene Dionisio - Le ultime cose [+]
Michele Vannucci - Il più grande sogno
Premio ‘Graziella Bonacchi’ 2017
Simone Liberati - Cuori Puri [+]
I Premi ‘Guglielmo Biraghi’ 2017 - Dedicati a Josciua Algeri
Brando Pacitto - L’estate addosso [+]
Daphne Scoccia - Fiore [+]
Piuma - Roan Johnson
Angela e Marianna Fontana - Indivisibili
Ludovico Tersigni – Slam Tutto per una ragazza [+]
Menzioni Speciali
Andrea Carpenzano - Tutto quello che vuoi
Vincenzo Crea - I figli della notte
Premi ‘Guglielmo Biraghi’- Nuovo Imaie 2017
Valentina Belle’ e Giacomo Ferrara - Il permesso 48 ore fuori
Nastro Dell’anno
The Young Pope per l’ideazione, la scrittura, la regia Paolo Sorrentino
Per La Produzione
Wildside - Sky
Per Il Miglior Casting director
Anna Maria Sambucco
Riconoscimento Speciale al Cast Artistico e Tecnico
Sceneggiatura: Umberto Contarello, Tony Grisoni, Stefano Rulli
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Musiche: Lele Marchitelli
Scenografia: Ludovica Ferrario
Costumi: Carlo Poggioli, Luca Canfora
Suono: Emanuele Cecere

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- Musica

Umbria Jazz - Omaggio a Gillespie

Umbria Jazz 2017
Prima assoluta martedì 11 luglio - Perugia, Arena Santa Giuliana

Fabrizio Bosso e Paolo Silvestri Orchestra
THE CHAMP to Dizzy - Omaggio a Dizzy Gillespie

Martedì 11 luglio, prima assoluta all’Arena Santa Giuliana di Perugia in occasione di Umbria Jazz, con il nuovo progetto targato Fabrizio Bosso e Paolo Silvestri Orchestra, dal titolo “The Champ - to Dizzy”, omaggio a Dizzy Gillespie. Dopo Perugia, anche Roma, Sulmona, Milano e Moncalieri.

Dopo il fortunato omaggio a Duke Ellington, Fabrizio Bosso e Paolo Silvestri celebrano un'altra icona della storia del jazz, in occasione del centenario della sua nascita: Dizzy Gillespie, il più grande trombettista dell'era del bebop e uno dei più importanti in assoluto.
Il concerto a Perugia, sarà diviso in due parti. Prima di Bosso, infatti, alle ore 21.00 saliranno sul palco della Santa Giuliana, Enrico Rava & Thomazs Stanko in quintetto, anche’essi con un progetto inedito.

Fu mio padre ad accompagnarmi, quando avevo 10 anni, a sentire Gillespie dal vivo – ricorda Fabrizio Bosso. Era un concerto in piazza, ad Aosta, e pioveva molto ma tutti noi eravamo lì ad ascoltarlo lo stesso. Alla fine del concerto, mio padre si avvicinò a Gillespie, facendogli un gesto per fargli capire che suonavo la tromba. Lui si avvicinò, salutandomi affettuosamente, mettendo una mano sulla mia testa. Ovviamente, seppur breve, per me ha significato molto quel gesto. Suonare oggi un omaggio a lui, all’Arena Santa Giuliana in occasione di Umbria Jazz, sarà per me un’emozione enorme, dalla quale sarà difficile sfuggire.

Dopo il concerto in anteprima assoluta per Umbria Jazz, Fabrizio Bosso e Paolo Silvestri Orchestra saranno in concerto anche a Roma, mercoledì 12 luglio a Palazzo Venezia e l’11 agosto a Sulmona per Muntagninjazz, il 18 novembre all’Unicredit Pavilion di Milano e il 19 novembre al Moncalieri Jazz Festival.

Quella con Silvestri, è una partnership artistica assidua, cominciata con il primo disco "fondamentale" di Fabrizio, "You've changed", pubblicato da BLUE note nel 2007, passando per il progetto live "Melodies", fino all’album Duke, uscito nel 2015 per la Verve Universal.

Per The Champ - To Dizzy, l’organico è sostanzialmente lo stesso di Duke, ma con l’aggiunta di ulteriori fiati; l’unione tra il quartetto del trombettista e l’ensemble di Silvestri, ha dato vita a un’orchestra di 14 elementi. È stata scelta, quindi, la dimensione orchestrale, piuttosto che quella delle piccole formazioni. Nella sua carriera, infatti, Gillespie militò in molte orchestre che scrissero la storia del jazz: Cab Calloway, Lionel Hampton, Earl Hines, Billy Eckstine, più le numerose big band a suo nome.

Perugia, Umbria Jazz
Martedì 11 luglio, ore 21 (dopo concerto Enrico Rava & Thomazs Stanko 5et)
Arena Santa Giuliana

Roma, Il Giardino Ritrovato
Palazzo Venezia
Mercoledì 12 luglio, ore 21.00

Formazione
arrangiamenti e direzione di Paolo Silvestri
Fabrizio Bosso, tromba
Julian Oliver Mazzariello, pianoforte
Jacopo Ferrazza, contrabbasso
Nicola Angelucci, batteria
Claudio Corvini, Fernando Brusco, Sergio Vitale, tromba
Mario Corvini, Enzo De Rosa, trombone + Gianni Oddi, sax alto
Marco Guidolotti, sax baritono
Michele Polga, sax tenore e soprano
Alessandro Tomei, sassofoni, flauto

Per interviste e informazioni su Fabrizio Bosso
Gaito Ufficio Stampa e Promozione
Guido Gaito info@gaito.it | guido@gaito.it
+39 329 0704981 | + 39 06 45677859
Via Vincenzo Picardi 4C 00197 Roma

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- Musica

Closing Live al 28divino jazz a Roma

CLOSING LIVE AL 28DIVINOJAZZ DI ROMA
con due grandissimi della musica . Danilo Gallo e Marco Colonna - STIKA duo.

SABATO 8 LUGLIO
ore 22.30
STIKA
Danilo Gallo, basso el.
Marco Colonna, fiati

Incontrarsi nel movimento. Musicisti che attraverso la pratica dell'improvvisazione costruiscono suoni e silenzi , conoscono limiti e possibilita' di formazioni che risplendono nel loro essere possibilita'. Possibili percorsi, possibili azioni future, possibili bellezze. Il momento dell'incontro nel movimento e' il più puro , il piu' elettrizzante e irripetibile

dopo live, se lo si vuole, lo si può... Impro Jam !

DANILO GALLO:
Sommo produttore di gravita' ritmiche. Per far cio' usa il contrabbasso, il basso elettrico, il basso acustico, le balalaike basse, il liuto contrabbasso...
Nato a Foggia, profondo sud, nel vicino 1972. Vivente.Danilo e' membro ed emanazione del collettivo El Gallo Rojo Records (www.elgallorojorecords.com)
Le sue referenze? ...Tutti i musicisti - e non solo - che ho incontrato nella sua vita.... ma se vi piace: Uri Caine, Cuong Vu, Marc Ribot, Gary Lucas, Chris Speed, Rob Mazurek, Steven Bernstein, Elliot Sharp, Anthony Coleman, Ben Perowsky, Jim Black, Ralph Alessi, Tom Rainey, Angelica Sanchez, Mike Patton, Napoleon Maddox, Jessica Lurie, Alexander Balanescu, Bob Mintzer, Benny Golson, John Tchicai, Famoudou Don Moye, Steve Grossman, Enrico Rava, Francesco Bearzatti, Cristina Dona', Giovanni Falzone, Pietro Tonolo, Giancarlo Schiaffini, Enzo Favata, tra gli altri.
Danilo e' il vincitore del Referendum indetto da Musica Jazz "Top Jazz 2010" come miglior bassista.

MARCO COLONNA:
Clarinettista, improvvisatore, compositore.
Attivo da oramai vent'anni nei più vari ambienti musicali si forma sotto la guida di Piero Quarta e Gaetano Zocconali,.Frequenta il conservatorio Licinio Refice di Frosinone e frequenta seminari con Alfredo impulliti e Achille Succi. . Si specializza nell'esecuzione di musica contemporanea con il maestro Harry Sparnaay.
Si occupa di musica per teatro, cinema e documentari collaborando con Rai Trade e con le compagnie Centro Mediterraneo delle Arti, Artes, Piccolo Brancaccio, L'Orologio. Dedicatario di molte opere per clarinetto basso e clarinetto contrabbasso solo di compositori come Giorgio Colombo Taccani, Dan Di Maggio, Sofia Mikaelyan, Shigeru Kan No.
Partecipa alla biennale di Venezia e al Festival Cinque giornate di Milano con un programma di prime esecuzioni assolute per clarinetto contrabbasso solo.
In ambito jazzistico suona con Andrew Cyrille, Gebhard Ulmann, Omar Tamez, Ivano Nardi, Michele Rabbia, Silvia Bolognesi, Eugenio Colombo e molti altri.
Partecipa a Festival Internazionali come Roccella Jonica, Musica Sulle Bocche, Visiones, Encuentro di jazz e Musica Viva.
In ambito folk suona nel gruppo Acquaragia Drom con cui registra un disco (Rom Kaffè) e realizza tour in Messico, Usa, Malesia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Germania e in tutta Italia, partecipando ai principali festival di World Musica come Sziget (Ungheria) , Rain Forest World
Music Festival (Malesia), Roma Incontra il Mondo, NYC Gipsy festival.
Segnalato dalla rivista Musica Jazz fra i migliori giovani talenti del jazz italiano nel 2012. Luigi Onori dedica a lui una pagina su Alias del Manifesto, definendolo “Uno dei migliori creatori di musica della sua generazione”.

ingresso libero
28Divino Jazz - via Mirandola, 21 - Roma - tel 3408249718 - www.28divino.com


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- Libri

Libreria Fahrenheit Roma present.ne nuovo libro

LIBRERIA FAHRENHEIT 451 - CAMPO DE' FIORI 44
00186 ROMA - tel. 06-6875930

Mercoledi 28 giugno, ore 18.30 presentazione del libro

'La mia guerra di Spagna'
di Mika Etchebéhère


Intervengono:
Maria Rosa Cutrufelli, scrittrice
Sergio D’Amia, autore della Postfazione
Pina Sardella, storica
Coordina: Katia Gabrielli

Durante l'incontro, Salvatore Panu con la sua fisarmonica eseguirà canti della guerra civile e della resistenza spagnola

Dopo essere stati a Berlino, testimoni impotenti dell’ascesa di Adolph Hitler nelle elezioni del 1933, Mika e Hippolyte giungono in Spagna perché lì “il popolo combatte in armi per la rivoluzione”. Dopo la morte dell’amato marito, Mika si trova a imbracciare il fucile, vincendo le diffidenze degli uomini e trasformandosi nell’unica donna “capitana” di una colonna militare del POUM, l’organizzazione antifranchista e antistalinista fondata da Andrés Nin. Quaranta anni dopo Mika Etchebéhère racconta questa “sua” storia, da protagonista e da vera scrittrice. E ce la fa rivivere, appassionatamente.

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La Convivialité
Cercle des lecteurs d'Ivan Illich

Invitation à une conférence de Salvatore Panu
Cher(e)s ami(e)s,
Je vous invite à une conférence à Lausanne, de notre ami lecteur de Bologne Salvatore Panu, le Dimanche 2 Juillet, à 17 heures.
Chez nous: Av. William Fraisse 14, 3ème étage, tel: 0216173490
(sous la gare CFF, à 5')
Sa conference, en français, s'intitulera: "Instruments musicaux pour la convivialité"
Nous préparons un apéritif pour clore l'aprés-midi. N'amenez rien mais invitez vos conjoint(e) et ami(e)s. Entrée libre.
Amicalement
Jean-Michel Corajoud


Reteivanillich mailing list
Reteivanillich@lists.contaminati.net
https://lists.contaminati.net/listinfo/reteivanilich

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- Filosofia

Popsophia del Solstizio a San Benedetto del Tronto

"SOLIDEO" : La Popsophia del Solstizio

Si svolgerà presso la PALAZZINA AZZURRA di SAN BENEDETTO DEL TRONTO dal 22 al 23 Giugno 2017 il Festival di Popsophia dedicato alla filosofia del solstizio d'estate.

Conferenze, spettacoli e concerti dal vivo.

Tutti gli appuntamenti sono ad ingresso libero.
Maggiori informazioni su www.popsophia.it

Sarà San Benedetto del Tronto ad aprire la stagione culturale estiva della Regione Marche. Giovedì 22 e venerdì 23 giugno, avremo la prima edizione di Solideo, la popsophia del solstizio, una manifestazione promossa dall'Amministrazione Comunale di San Benedetto del Tronto, ideata dall'Associazione Culturale Popsophia, in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Provinciale, dedicata alla “filosofia del solstizio d’estate”, quando la luce sconfigge le tenebre, il momento in cui il sole si “ferma” più a lungo nell’emisfero settentrionale e raggiunge il culmine del suo percorso ascensionale. Su questi temi si svolgeranno due giornate di eventi spettacolari insieme a filosofi, scrittori, artisti e musicisti, che animeranno gli spazi meravigliosi della Palazzina Azzurra, monumento elegante dell’architettura del ventennio e luogo di eccellenza della Riviera delle Palme.

Negli eleganti spazi della Palazzina Azzurra, simbolo del turismo Sambenedettese, si svolgono gli appuntamenti di “Solideo”. In occasione del Festival le sale del piano terra
ospiteranno una mostra realizzata dal Circolo dei Sambenedettesi proprio sulla storia di questo straordinario luogo. Concepita negli anni trenta come sede del Club del Tennis e del Circolo Forestieri, la Palazzina sorgeva in mezzo a due campi da tennis e aveva davanti un piazzale per il ballo. Sport, cultura e divertimento nella San Benedetto degli anni spensierati alla vigilia del conflitto, si incontravano in un’unica struttura azzurra come il mar.Il tema del mare venne esaltato dalla realizzazione di una pista da ballo con una raffinata pavimentazione ad intarsi marini e di una grande conchiglia bianca che faceva da “cassa armonica” alle orchestrine musicali.Nel dopoguerra è stato il dancing tra i più rinomati della costa adriatica. Oggi, dopo un paziente restauro, ha recuperato forme e colori originari e il suo parco è ricco di piante rare e di fiori dai mille colori.

In collaborazione con il Circolo dei Sambenedettesi

POPSOPHIA
È l’unica associazione italiana dedicata alla pop filosofia, un genere culturale che coniuga la riflessione con i fenomeni pop della cultura di massa. Popsophia è un laboratorio permanente dove il pensiero critico si contamina con le forme popolari della musica, del cinema, del teatro, dello sport, della televisione, della fiction, dei social media.

“Il nostro progetto è quello di affiancare l’offerta turistica con appuntamenti culturali di grande qualità. Il sole che nasce dall’Adriatico con l’alba del giorno più lungo, le struggenti ore del tramonto e il mare illuminato solo dalla luna, da giovedì 22 a venerdì 23 giugno 2017, accoglieranno il pubblico delle vacanze, con mostre, performance,degustazioni e concerti di musica dal vivo; tutti ad ingresso gratuito”.

Pasqualino Piunti
Sindaco di San Benedetto del Tronto
Annalisa Ruggieri
Assessore alla Cultura di San Benedetto del Tronto

“Solideo è un appuntamento culturale dedicato alla popsophia del solstizio. Il solstizio, venerato da tutte le civiltà del nord del mondo, dalla civiltà greco-latina agli indiani d’America fino alle religioni orientali, è l'esaltazione della luce e della
vita: una metafora che ha ispirato generazioni di scrittori, poeti e filosofi e ha riempito l’immaginario della cultura pop, dal cinema alla fiction fino alle canzonette.

Alla Palazzina Azzurra vivremo appuntamenti e spettacoli inediti, realizzati su un tema importante in un luogo splendido”.

Lucrezia Ercoli
Direttrice Artistica di Popsophia

21.00
INAUGURAZIONE
AZZURRA COME IL MARE
con intervento artistico del settore moda IPSIA
21.00
LECTIO POP OCCASUM
con Massimo Donà
Università San Raffaele di Milano
21.30
PHILOSHOW IL SOLE FILOSOFIA DEL TRAMONTO
Uno spettacolo filosofico-musicale
da Hegel ai Beatles
ideazione e direzione
Lucrezia Ercoli.

E con ENSEMBLE MUSICALE FACTORY
Luca Cerigioni voce
Luca Cingolani batteria
Ludovica Gasparri voce
Anna Greta Giannotti chitarra
Alessia Ippoliti chitarra
Rebecca Liberati voce
Matteo Moretti basso
Pamela Olivieri voce recitante
Gianluca Pierini voce e tastiera
Leonardo Rosselli sassofono

Voce recitante Pamela Olivieri
regia tecnica Riccardo Minnucci
Matteo Lorenzini regia e video
Marco Bragaglia

STAFF
Marco Bragaglia, Simona Damen, Cecilia De Dominicis, Pierandrea
Farroni, Dania Gaspari, Laura Gioventù, Giorgio Leggi, Matteo Lorenzini,
Cinzia Maroni, Riccardo Minnucci, Marta Palazzini, Stefania Pierangeli,
Francesca Pierri, Ilaria Pisciarelli, Martina Romano, Emanuela Sabbatini,
Carla Sagretti, Vando Scheggia.

23.30
TIRATARDI
'SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE'
performance con Cesare Catà
21.00
LECTIO POP
ANCHE IL MARE SOGNA
con Luciano De Fiore
Università Sapienza di Roma
21.30
PHILOSHOW
IL MARE FILOSOFIA TRA I FLUTTI
Uno spettacolo filosofico-musicale
da Omero a Lucio Dalla
ideazione e direzione
Lucrezia Ercoli

23.30
TIRATARDI
AMARE IL TRAMONTO
performance con
Riccardo Dal Ferro

Siete tutti invitati ad intervenire.

Tutti gli appuntamenti sono ad ingresso libero.
Maggiori informazioni su www.popsophia.it

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- Cinema

Roman Polansky il nuovo originale film

In collaborazione con CINEUROPA – The Best of European Cinema

'D’après une histoire vraie': Polanski da un romanzo
di Bénédicte Prot

01/06/2017 - CANNES 2017: Il maestro ci regala un thriller psicologico (troppo) solido su una donna fragile, adattato dal best-seller omonimo di Delphine de Vigan.

Nella foto: Emmanuelle Seigner ed Eva Green in D’après une histoire vraie

La 69a edizione si era congedata con l’eccellente Elle di Paul Verhoeven. Per concludere la sua 70a edizione, il Festival di Cannes ha presentato, fuori concorso, un film la cui inquietante protagonista si fa chiamare L. Si tratta del nuovo film di Roman Polanski, D’après une histoire vraie, tratto dal best-seller di Delphine de Vigan di cui ha conservato il titolo (e che è stato adattato con Olivier Assayas), con Emmanuelle Seigner ed Eva Green nei suoi ruoli principali, quello della scrittrice Delphine e della sua nuova "amica" Elle, ghostwriter delle star (che è anche il suo doppio, la sua vicina, la sua persecutrice...).

sinossi
Una scrittrice attraversa un periodo di crisi esistenziale. Dopo l'uscita del suo ultimo libro, viene tormentata da un ammiratore segreto che la ossessiona.
Il film comincia con una sessione di autografi in cui il mix di realtà e finzione è subito chiaro tramite le reazioni delle lettrici emozionate, così come la dissociazione tra la figura della scrittrice e la donna. Questo gioco sottile (per le sue implicazioni letterarie e psicologiche) sul motivo dello sdoppiamento, già al centro del libro, proseguirà e si amplierà lungo tutto il film, con la comparsa del personaggio di L., che riesce sempre più a invadere e a manipolare Delphine, con il pretesto di incoraggiarla a produrre il "libro nascosto" che porta dentro di sé.
Ciò che colpisce quasi subito è che la giovane donna spudorata (senza limiti morali, che soddisfa i suoi appetititi e le sue dipendenze senza pensarci due volte) non si prende neanche la briga di interferire surrettiziamente: al contrario, usurpa apertamente l’identità di Delphine (si fa passare per lei non solo fisicamente, a una conferenza, ma anche penetrando il lato più personale e solitamente inviolabile delle sue comunicazioni elettroniche, che si mette a gestire all’insaputa di Delphine, firmando per conto suo), e anche la sua identità di scrittrice, poiché questo suo alter ego le soffierà pure la materia per il suo prossimo libro.
E’ sulla dimensione inverosimile dell’usurpazione (troppo estrema, troppo facile) che riposa il film, che gioca piacevolmente con la credulità del fragile personaggio incarnato da Seigner di fronte alla sfacciata astuzia di quello di Eva Green, che sembra cercare quasi di essere smascherata, tanto calca la mano: fomentata dalla sua impunità, divertita dalla sua viziosa audacia, arriva persino a minacciarla, con tono faceto - dopo che Delphine si è rotta la gamba cadendo dalle scale incidentalmente (o forse no) - di "romper(le) l’altro ginocchio". L’ironia della situazione è al suo apice quando Delphine comincia a prendere appunti su L. per il suo prossimo romanzo, convinta di essere lei a ingannare l’altra.
Così, se Polanski sceglie di non dare una risposta esplicita su ciò che accade a Delphine, lo indica giocando con l’enormità del rapporto tra le due donne e dell'assoluta cecità della scrittrice presa in ostaggio (un artificio che rendono bene le performance ben coordinate delle due attrici), moltiplicando, come fa L., gli indizi più appariscenti (fino alle scritte sulle t-shirt di Delphine), forse in eccesso, come se l’invisibile, in mancanza di sostanza, cedesse ai segni visibili, e il mistero alla dimostrazione cosciente, esatta ma senza sorprese, e soprattutto senza tutta la finezza e le suggestioni inquietanti di cui sappiamo capace il regista di L'inquilino del terzo piano e di Rosemary’s Baby.
Il grande cineasta polacco, autore negli ultimi anni di The Ghost Writer, Carnage e Venere in pelliccia, non è nuovo nell’arte dell’adattamento letterario e nel confondere le piste tra invenzione e realtà, racconto e verità, e frequenta gli autori francesi contemporanei già da un po’, ma qui rimpiangiamo che abbia adattato così fedelmente il libro di Delphine de Vigan, senza aggiungervi niente di veramente nuovo.
Prodotto da WY Productions (Francia) e Monolith Films (Polonia), D'après une histoire vraie uscirà nelle sale francese con Mars Films ed è venduto all'estero da Lionsgate.

Titolo internazionale: Based on a True Story
titolo originale: D'après une histoire vraie
paese: Francia, Polonia
genere: fiction
regia: Roman Polanski
durata: 110'
sceneggiatura: Roman Polanski, Olivier Assayas
cast: Eva Green, Emmanuelle Seigner, Vincent Perez, Alexia Séféroglou, Brigitte Roüan
fotografia: Paweł Edelman
montaggio: Margot Meynier
scenografia: Sandrine Jarron
costumi: Laurence Nicolas
musica: Alexandre Desplat
produttore: Wassim Béji
produzione: WY Productions, Monolith Films
supporto: Polish Film Institute
distributori: Mars Films Distribution


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- Società

puraCultura - la tua rivista per la solidarietà



puraCULTura
www.puracultura.it

la rivista per il tuo tempo libero

I Nobraino al VI Festival della solidarietà

Musica e impegno sociale alla VI Edizione del «Festival Della Solidarietà,» che si terrà sabato 17 giugno a Villa Angri, in piazza Doria ad Angri.

Dalle ore 10,00 alle ore 17,00, attività ludico formative dedicate ai bambini: laboratori artigianali, pet therapy, decupage, danza, ed altre attività in collaborazione con le associazioni Libera contro le mafie, Ferro3, Officina delle Idee, Diparipasso, Chitesona, Controra, Nomos, Palesta Michelangelo. Dalle ore 20,00 alle ore 24,00, concerto con la partecipazione di varie band musicali: Nobraino, Capitan Capitone, Malatja, Edipo’s band, Tony Borlotti e i suoi Flauers, Route 18. Inoltre anche Artisti Distratti, mercatini dell’usato e dell’artigianato e stand gastronomici.

Intervista a Tony Laudadio

Domenica 18 giugno al Castello Doria dalle ore 20,00 alle ore 24,00 serata africana con la presenza dei ragazzi di alcuni centri d’accoglienza che prepareranno piatti tipici della cucina africana, con la danze e musiche etniche, mostre e istallazioni di artisti campani.

I proventi raccolti durante l’iniziativa verranno devoluti per la realizzazione di un Centro d’accoglienza per bambini di strada ed orfani nel villaggio di Akata in Togo; la scolarizzazione di 25 bambini del quartiere di Gounghin a Ouagadougou in Burkina Faso e per il sostegno ad alcuni centri d’accoglienza, che fanno attività formative e di integrazione.


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- Poesia

Zerofavola: il canto della differenza

Renato Zero / Zerofavola: il canto della differenza.

Ciao nì!

Talvolta sono le parole a fare la differenza, altre volte è nel modo di esprimerle nel canto o nell’accostarle alla forma che più s’adduce alla poesia a configurare un tuttuno lirico proprio dell’anima alla ricerca di un ‘sé’ errante, nel modo che questa ha di comunicare con l’esterno del proprio essere interiore. Lo sanno gli scrittori impegnati come lo sanno i poeti più ispirati o, forse, i cantautori più fedeli a se stessi; quella sorta di cantastorie migranti che oggi riempiono gli stadi e talvolta le platee sterminate con le loro canzoni, spesso altrettanto ‘vere’, da sembare ‘vissute’ ognuna sulla propria pelle, sulla nostra pelle di ‘ascoltatori erranti’, persi nelle mille disuguaglianze che ci separano l’uno dall’altro, e che pure formano quel tuttuno che rappresentiamo: questa umanità così diversa e così uguale nei sentimenti e nelle affezioni dell’anima.

Diversi sì, ma non nel modo in cui l’abbiamo appreso dalle convenzioni, bensì dissimili perché separati dalle diverse condizioni di vita di ognuno, da ambigue fasce sociali che dividono anziché tenere reciprocamente uniti nella medesima utilità; perché d’appartenenza ‘all’altra gente’, quella massa informe che va tenuta ai confini della società, dove attingere all’occorrenza, per poi attribuire ad essa tutte le malefatte frutto dell’altrui cupidigia, come delle altrui frustrazioni, per l’appunto dalle mortificazioni di una umanità diversa. Due realtà diverse messe a confronto che si rivelano enrambe necessariamente valide, ognuna con il proprio linguaggio, con le proprie realtà da difendere, ognuna con la propria dignità.

Due risme formate di ‘numeri uno’ v/s ‘numeri zero’ che s’incontrano solo o quasi, esclusivamente negli stadi, nei concerti di musica leggera, nelle piazze della movida. L’una per ‘mostrare se stessa’, l’altra per guardare chi si mostra, lasciando che la vita ‘quella vera’ continui a scorrere nell’indifferenza delle parti, ma l’esclusiva è negata a entrambe, fin quando ci si accorge che il divario è giunto all’estremo e si arriva allo scontro, onde per cui si accetta che la disparità fra gli ‘uni’ e gli ‘zero’ è sociale, e lo spazio umano spetta di diritto a tutti in egual misura. Anche a coloro che per ragioni difficili da scandagliare hanno accettato di essere considerati gli ‘zero’ del mondo.

Questa introduzione è alquanto dovuta poiché si vuole qui parlare di ‘canzonette’ come in molti erroneamente interpretano questa forma di canto forse più ‘leggera’ di composizione, dovuta spesso alla rima che scatena una qualche sonorità in più, ma non di meno espressiva e profonda della lirica ‘poetica’ con la quale viene spesso confrontata. Il Nobel a un menestrello come Bob Dylan ci dice forse qualcosa in più riguardo a un riconoscimento che solitamente viene dato a un ‘poeta’ di tutt’altro genere e non che non vi fossero altri cantautori cui attribuirlo (esempio siano Leonard Cohen, Cico Buarque, Vinicius de Moraes ecc.) ma, come si sa una giuria dev’essere libera di fare le sua scelte in autonomia.

Così è che oggi apprendiamo, come già fu per la letteratura attribuito a quel grande che è stato Dario Fo, della possibilità di questo riconoscimento anche per quei cantautori che si distinguono per i testi. Ancor più ci pregiamo che un numero Zero (e chi più di Renato Zero lo è) può autoattribuirsi (anche insieme a Lucio Dalla, Franco Battiato e, ovviamente il duo Mogol-Battisti), il Nobel per aver scritto i testi più significativi di questa nostra epoca straordinaria rappresentativa della musica italiana: stereotipi di quelle che finora erano considerate disuguaglianze sociali, amori impossibili, diversità inaccettabili, mondi lontanissimi, cieli incondivisibili che improvvisamente nelle loro ‘liriche’ diventavano non solo possibili ma estremamente ‘vivi’ da sentirli scorrere sulla propria pelle, nelle proprie vene.

Molti i titoli che andrebbero qui elencati per ognuno dei sopra citati attori e protagonisti di quelli che non stento a definire “i migliori anni della nostra vita”, almeno per noi attenti alle scelte della musica, di quelle varianti che pure l’hanno vista evolversi e diversificarsi nel corso dei decenni. Ciò che più importa è che le attuali generazioni non sembrano abbiano dimentica la lezione di quei ‘grandi’ e accorrono pieni di entusiasmo ad ogni loro rappresentazioni che sia dal vivo che sia ‘in ricordo’ ed esultano al punto di conoscere tutti i testi a memoria e li cantano tutti insieme. Ciò che da la misura della eccezionale forza che questi trasmettono, per cui si può ben dire che ‘il canto fa la differenza’.

Una ‘differenza’ che Renato Zero a vissuto fin dagli esordi in prima persona e a dimostrato di poter cavalcare davanti a tutti coloro che malevolmente lo indicavano come un numero ‘Zero’, a tal punto che il suo non era un amaro ‘voto in condotta’, bensì un giottesco e coerente ‘cerchio’ in cui spendere la propria vita, pur illuminata da mille lustrini e paillettes, di costumi variopinti di autentica poesia. Chi può, ricorda il suo primo affacciarsi al Teatro Sistina di Roma nella minuscola parte avuta in “Orfeo Nove” in cui egli cantava una canzone di Tito Schipa Jr. “Il venditore di felicità” distribuendo sorrisi e brandelli di verità all’indirizzo di un pubblico attonito, quasi sconvolto, dall’energia di quella ‘favola’ ancora bella e stralunata che si svolgeva davanti ai loro occhi.

“Una onesta bugia e una finta realtà di un ragazzo che mai sarà grande..” – canta Renato Zero in “Tutti gli Zeri del mondo” che ha raccolto intorno a sé una fetta generazionale di quanti, come lui all’inizio, non aveva le possibilità di frequentare gli studi, quei tantissimi Sorcini (maschi e femmine all’unisono) costretti a vivere di un amorevole disincanto, in un costante ‘sottolerighe’ del pentagramma della vita, di chi ha provato o prova la dimensione di una ‘diversità’ incomprensibile, rifiutata, socialmente abiurata e che Renato ha sconfessata alla radice, demolendo il castello delle convenzioni, con le sole ‘parole’ della canzone, quella stessa che molti scambiavano per banale favola del tempo.

Favola sì, ma una Zerofavola che egli racconta ormai da ben 30 anni di palcoscenici calcati e che non arretra nella sua dimensione di ‘speranza’ lanciata come un dardo verso quel cielo che ha sfidato con coerenza, mai con superficialità. Lo rivelano i testi delle sue canzoni più belle e più sentite ‘sulla pelle’ di quanti le ascoltano. I più vecchi legati agli anni che furono, e i giovani che per qualche ragione (qualunque essa sia non ha importanza), trovano le ragioni del proprio ‘essere’ che talvolta si allontana ‘nei giardini che nessuno sa’, circondati da quei silenzi in cui tutto si appiana: difetti, incoerenze, tradimenti, sorrisi virtuali, pianti disperati, ma anche emozioni suggestive, sogni irrealizzati, volontà dismesse.

L’invito che Renato lancia loro (da sempre) è quello di non ‘abbandonare mai la presa’, di esercitare il proprio libero arbitrio, di non lasciarsi prendere dallo sconforto della notte che prima o poi arriverà, perché comunque saranno questi gli anni in cui avranno vissuto ‘la favola più bella della loro vita’, allora “..dipingiamolo questo nostro mondo, dell’amore che vuoi, dell’amicizia che rincorri da sempre, dipingiamolo di noi, a noi ci basta un sorriso, una stretta di mano, e ci basti dire ti amo”. C’è qualcos’altro da dire? Sì, c’è molto di più, tantissime cose, un’infinità di cose ‘altre’, diverse ed entusiasmanti, sulla scia delle sue canzoni più recenti, sulle emozioni che si provano nell’ascoltare o, se preferite, nel leggere i testi delle sue canzoni, nella consapevolezza “..di non esserci mai definitivamente perduti o, forse, che è ancora stupendo restare al buio abbracciati e nudi, come gli ultimi sopravvissuti, e che in realtà tutta quella tristezza in realtà non è mai esistita … per tutti gli anni della nostra vita.”

Renato Zero, “l’amico” che nella fotografia è abbracciato a ognuno di noi aspetta di sorprenderci con un ‘nuovo tour’ che prenderà il via all’inizio dell’estate da Roma verso altre città italiane e su quelle “spiagge immense ed assolate che hanno visto nascere mille avventure e mille amori”, sui versi di mille canzoni in cui ognuno ha lasciato il cuore. Intanto un’altra vela và, la favola bella non è ancora finita.


Cio Renà,
è stato bello conoscerti, se alla mia età mi commuovo ancora.

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- Poesia

Il silenzio - un libro di Erling Kagge

“Il silenzio” un libro di Erling Kagge – Einaudi 2017

 

No, in questo libro non troverete ‘dove, come e quando’ andare incontro al Silenzio, né vi sarà indicato ‘perché’ cercarlo se fino adesso non siete riusciti a trovarlo da soli nella quantità in cui vi necessita. E neppure è il caso di lasciarsi prendere la mano di acquistarlo e/o leggerlo solo perché è entrato nelle classifiche dei libri più venduti o perché qualche critico mediocre e consenziente si è sentito pago del vuoto sentire di una filosofia spicciola onnicomprensiva e conseziente con le aspettative del proprio ego.

Allora non è del Silenzio di cui si parla ma è piuttosto della Solitudine, come lo stesso autore dice: “Perché il silenzio non è un vuoto inquietante ma l’ascolto dei suoni interiori che abbiamo sopito”. Di rimando equivale a una Scelta ponderata sulla dimensione psichica di tacere, al pari di una domanda cui non intendiamo rispondere. Ma quali e quante sono le domande che ci poniamo alle quali non diamo una risposta? Quante sono quelle a cui non rispondiamo per Timore (paura, compromesso, illazione, bugia ecc.)?

In questo caso il silenzio è allora usato come Alibi (scusante, giustificazione, pretesto) che non soddisfa se non in modo parziale e momentaneo il proprio ego, ma va qui ricordato che, prima o poi, arriva sempre il momento in cui fare i conti, perché o l’alibi è perfetto e quindi vale la pena di tacere (con noi stessi),  in quanto è servito a coprire il nostro carente spirito interiore, oppure? Oppure abbiamo giocato allo scoperto e la ‘pezza bianca’ (del vuoto) che abbiamo cucito sulla tela colorata si mostra sporca della trasparenza del colore della Verità.

No, neppure la verità è pregna di Silenzio nel modo in cui pensiamo, forse può non richiedere una spiegazione, restare attonita in disparte senza trovare un’aggettivazione che la notifichi a chi è costretto a porsi in ascolto, e neppure a chi è desideroso di sventolarla e non trova le parole adatte per farlo, solo perché la Verità è entrata a far parte di un 'indicibile' senso di giustizia che ci rende pane per i nostri denti, giudici di misfatti che  in qualche modo vedono coinvolti anche noi, noi che vogliamo ad ogni costo che il Giudizio dei giudicanti ci renda quella 'verità' che abbiamo passato sotto silenzio.

Quel giorno in cui abbiamo intuito che quella era la sola dimensione possibile per ottenere il Silenzio che ci avrebbe permesso di superare l'impasse che stavamo vivendo, bello o brutto che fosse, che fossimo colpevoli o innocenti. Ma se la vita non ci risparmia certe falsità allora il Silenzio in cui abbiamo trovato riparo, non è più vivere. No, il Silenzio che tanto andiamo cercando e che pensavamo ci fosse amico, non lo è più, o forse, non lo è mai stato, piuttosto è colluso con noi, ci interpreta, ci muove come una pedina di scacchi, compiacente d’illuderci che ce l’abbiamo fatta. Viceversa trova la sua convenienza nello spingerci alla deriva, verso quel Vuoto immenso che s’apre oltre la scacchiera.

E qui ripeto le parole già usate dall’autore: “Perché il silenzio non è un vuoto inquietante ma l’ascolto dei suoni interiori che abbiamo sopito”. Quei suoni che fin dall’inizio ci siamo buttati alle spalle e che adesso fanno parte del caos cosmico dei rumori che ci ottunde. Come dire che il Silenzio perfetto non esiste, ma non è così, esiste da sempre lì dove vogliamo trovarlo, se davvero lo vogliamo.

“Anche il topolino può mangiare un elefante, basta che le porzioni siano piccolissime” – scrive l’autore del libro – e noi dobbiamo solo sapere se vogliamo essere l’uno o l’altro, il topolino affamato o l’elefante che vorrebbe schiacciarlo per non finire divorato minuziosamente, giorno dopo giorno, per i prossimi cento anni, non ci sono luoghi al mondo dove ci si può nascondere. O almeno, non sembra averli trovati nemmeno Erling Kagge, che nelle 90 pagine, poco più poco meno, si è spinto fino al Polo Sud in solitaria e sulla cima dell’Everest a cercarli, e ci dice anche che “il silenzio può essere noioso”.

Scusa, ma perché lo stai tanto cercando? Cos’è che non ti piace di questo mondo così caotico, così rumoroso, così fetenziale, così arrogante, così esplosivo, così guerresco, così … insomma così com’è che neppure un giudice della Corte Suprema potrebbe dirti perché?

Per quanto abbia trovato interessanti le risposte 32 + 1 risposte che Erling ha messo insieme, soprattutto quell’ 1 finale dove, nelle pagine in bianco che seguono, egli trova finalmente la Pace dopo tanto affanno, nel 'vuoto' sostanziale dei fiordi. Ecco che allora il Silenzio si veste di rilassatezza ed Egli, abbandonato sull’erba  del prato dietro casa, assapora la ritrovata Pace. E lo scrive anche  in un haiku alla Ryökan che questa gli ispira:

 

“Il silenzio che si trova nell’erba / al di sotto di ogni filo / e nel solco azzurro tra i sassi.”

 

C’era davvero bisogno di fare tanta strada per trovarlo, il SIlenzio? – viene da chiedersi. Ma noi che viviamo in Italia e abbiamo avuto più di un poeta  ‘profondamente’ riflessivo come Leopardi, lo sapevamo già, il Silenzio era lì, nella quieta Pace oltre la siepe. Quella siepe “… che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude…”, in cui “… l’immensità s’annega … e il naufragar m’è dolce in questo mare.” ... Scusami Erling ma non ce la faccio ad andare avanti, sono preso dall'emozione delle parole.

Apprendo dalle tue ‘annotazioni’ di fondo, in cui sono contrassegnate tutte le citazioni riportate, che infine il ‘tuo libro’ lo hanno scritto gli altri, tutti quelli che ti sei limitato a leggere durante i tempi ‘vuoti’ che hai incontrato sulla tua strada. Non c’è che dire, il puzzle è riuscito se hai addirittua trovato un editore come Einaudi che l’ha pubblicato. Siine riconoscente perché a un ‘poeta’ italiano non capita molto spesso d’incontratre tanta generosità, dovesse anche viaggiare tutta una vita, ‘cercando’ da un Polo all’altro del mondo.

C’è però un suggerimento che vorrei darti: ancor prima di prendere a leggere e/o a scrivere il prossimo libro, torna a sadraiarti sull’erba del prato dietro casa e medita con ‘amore’ sul dono che la vita ti ha fatto: “Non per voltare le spalle al mondo, ma per osservarlo e capirlo.” - come è riportato nelle note che accompagnano il tuo libro - ma perché se non l’hai ancora compreso, il Silenzio prima di tutto è Amore! Ciao!

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- Cinema

News da Cineuropa

EFP presenta la 18a edizione di Producers on the Move.
by Cineuropa

03/05/2017 - Venti produttori europei emergenti prenderanno parte alla piattaforma di incontri al 70° Festival di Cannes.

EFP (European Film Promotion) e le organizzazioni ad esso aderenti hanno selezionato per la 70a edizione del Festival di Cannes (17-28 maggio) venti tra i più promettenti produttori europei emergenti, invitati a partecipare a una piattaforma di networking d’alto profilo, promossa da EFP e denominata Producers on the Move. Durante i cinque giorni di manifestazione compresi tra il 19 e il 23 maggio, i produttori selezionati potranno profittare di un programma fatto su misura e articolato in una serie di tavole rotonde, incontri faccia a faccia, analisi di casi specifici (una in collaborazione con il fondo di coproduzione paneuropeo Eurimages) e altre diverse riunioni tra gli attori dell’industria cinematografica. Tutte le iniziative mirano a sostenere lo scambio di esperienze e ad aiutare la creazione di reti professionali. Il programma, ormai di lunga data, è finanziato da Europa Creativa - programma MEDIA dell’Unione europea e dagli organismi membri di EFP.

La selezione finale mostra che qualità e intraprendenza sono caratteristiche che possono emergere non solo tra gli operatori più importanti dei grandi paesi europei, ma anche dalle nazioni più piccole. È così che ritroviamo Victoria Petranyi, produttrice ungherese e partecipante di Producer on the Move nel 2003, in concorso per la Palma d’oro a Cannes per la produzione di Jupiter's Moon del regista Kornél Mundruczó, o ancora Patrick Quinet, portabandiera belga alla piattaforma del 2003, in gara con la sua ultima coproduzione, Rodin [+] di Jacques Doillon. Altro titolo in competizione sulla Croisette è The Square di Ruben Östlund, prodotto da Erik Memmendorff (PoM per la Svezia nel 2009) e dalla coproduttrice danese Katja Adomeit (PoM per la Danimarca nel 2015).

Il gruppo di Producers on the Move di quest’anno comprende inoltre la polacca Maria Blicharska, che porterà Frostdi Sharunas Bartas alla Quinzaine des réalisateurs, e la francese Didar Domehri, coproduttrice della pellicola La cordillera del regista argentino Santiago Mitre, che verrà presentato in anteprima mondiale nella sezione Un Certain Regard.

I partecipanti del programma Producers on the Move 2017 sono:
Zoran Galić
Società di produzione: Vizart Film (Bosnia Erzegovina)
Mila Voinikova
Società di produzione: Miramar Film (Bulgaria)
Pavla Janoušková Kubečková
Società di produzione: Nutprodukce (Repubblica Ceca)
Ditte Milsted
Società di produzione: Profile Pictures (Danimarca)
Didar Domehri
Società di produzione: Maneki Films (Francia)
Lasha Khalvashi
Società di produzione: Artizm (Georgia)
Verena Gräfe-Höft
Società di produzione: Junafilm (Germania)
Anton Máni Svansson
Società di produzione: Join Motion Pictures (Islanda)
Alan Maher
Società di produzione: Marcie Films (Irlanda)
Tommaso Bertani
Società di produzione: Ring Film (Italia)
Gints Grube
Società di produzione: Mistrus Media (Lettonia)
Julius Ponten
Società di produzione: New Amsterdam Film Company (Paesi Bassi)
Maria Blicharska
Società di produzione: Donten & Lacroix Films (Polonia)
Iuliania Tarnovetchi
Società di produzione: Alien Film (Romania)
Jovana Nikolić
Società di produzione: Prababa Production (Serbia)
Carlo D’Ursi
Società di produzione: Potenza Producciones (Spagna)
Katarína Krnáčová
Società di produzione: Silverart (Slovacchia)
Petra Vidmar
Società di produzione: Gustav Film (Slovenia)
Ivan Madeo
Società di produzione: Contrast Film (Svizzera)
Chris Martin
Production company: Indie Movie Company (Regno Unito)

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Summer internship and/or Master’s thesis position in 3D printing of soft mechatronic structures
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Postdoctoral Researcher / Research Fellow in integrated circuit (IC) design
School of Electrical Engineering / Closes on 08.05.2017
University Lecturer or Senior University Lecturer in Entrepreneurship and Innovation
School of Business / Closes on 10.05.2017
Postdoctoral researcher in functional magnetic resonance imaging methodology development
School of Science / Closes on 15.05.2017
Postdoc position in computational HCI in Aalto University, Helsinki
School of Electrical Engineering / Closes on 15.05.2017
Postdoctoral researcher in the area of Biomaterials
School of Chemical Engineering / Closes on 21.05.2017
Postdoctoral position in Multi-physics
School of Engineering / Closes on 21.05.2017
Postdoctoral Researcher in Quantum Photonics
School of Electrical Engineering / Closes on 22.05.2017
Postdoctoral Position in Nano- and Microtechnology
School of Science / Closes on 25.05.2017
Postdoctoral Position in Soft Matter Physics
School of Science / Closes on 25.05.2017
Two post-doctoral researchers / visiting assistant professors in Organization and Management
School of Business / Closes on 02.06.2017
Postdoctoral Researcher or Research Fellow in wireless power transfer and handling
School of Electrical Engineering / Closes on 30.06.2017
Postdoctoral Research Position in Thematic Research Program
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Doctoral Candidate Positions
Ph.D. student in functional magnetic resonance imaging methodology development
School of Science / Closes on 15.05.2017
Doctoral Candidate Position in Nano- and Microtechnology
School of Science / Closes on 25.05.2017
Doctoral candidates in the field of electrocatalysis
School of Chemical Engineering / Closes on 01.06.2017
Doctoral candidates and a post-doctoral researcher in the field of characterizing and analyzing cellular network topologies
School of Electrical Engineering / Closes on 01.06.2017
Doctoral Student Position in Microwave Quantum Backscatter Communication
School of Electrical Engineering / Closes on 30.06.2017
Service and other positions
Coordinator (Marketing)
School of Science / Closes on 14.05.2017
Digital Workflow Specialist
University Joint Units / Closes on 21.05.2017



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- Società

Manifestazione Demi e Dafne per bambini rapiti in Slovacchia

Manifestazione Demi e Dafne e tutti i bambini rapiti in Slovakia.
Marco Di Marco, segretario generale associazione International Child Abduction Slovakia ( ICASK) vittima di sottrazione internazionale di minori con la Slovacchia.

In data giovedì 04.05.2017 dalle ore 15:00 alle ore 18:00 davanti all'ambasciata slovacca a Roma si terrà una manifestazione pacifica organizzata dalla nostra associazione internazionale International Child Abduction Slovakia ( ICASK) e dal Presidente dell'associazione Figli Negati il Dott. Giorgio Ceccarelli Ed Amedeo Palazzo , che ringraziamo con grande stima per il suo grandissimo impegno e per averci permesso grazie al suo intervento di rendere possibile questa manifestazione.

La nostra associazione ha scelto la data di giovedì 04.05.2017 proprio perchè in concomitanza nello stesso giorno in cui si svolgerà il convegno internazionale sulla PAS a Bratislava, in Slovacchia.
Lo scopo della nostra associazione è quello di farci ricevere dall'ambasciatore slovacco a Roma , il sig. Ján Šoth per fare in modo che lui ci possa organizzare un incontro personale con il Presidente della repubblica Slovacca Andrej Kiska a Bratislava, la capitale della Slovacchia.
Come associazione chiediamo alle massime autorità slovacche il rimpatrio immediato in Italia delle bambine Demi e Dafne , figlie del sig. Emiliano Russo nostro associato, come anche di tutti gli altri bambini rapiti e trasferiti illegalmente in Slovacchia , ma anche il diritto del vero esercizio del diritto di visita da parte del genitore straniero nei confronti dei propri figli che vivono in Slovacchia, spesso a seguito di un rapimento e trasverimento illegale, non vogliamo che i diritti di visita per il genitore straniero continuino a non essere tutelati in Slovacchia o quando permessi questi vengano attuati come nelle modalità dei regimi totalitari ovvero poche ore al mese in presenza del genitore slovacco.

Chiederemo in quel giorno la presenza dei media nazionali ed internazionali, stampa insieme a televisione italiana ed estera.
Durante la manifestazione interverranno
-Emiliano Russo , padre di Demi e Dafne vittima di sottrazione internazionale di minori con la Slovacchia.

- Salvatore Basile, Presidente della nostra associazione International Child Abduction Slovakia (ICASK) ex vittima di sottrazione internazionale di minori con la Slovacchia
- Liberato Volpe, Vicepresidente associazione International Child Abduction Slovakia (ICASK) vittima di sottrazione internazionale di minori con la Slovacchia

- Altri padri vittime di sottrazioni internazionali con la Slovacchia, in caso di loro presenza.

- On. Roberta Angelilli, già mediatore Europeo per le sottrazioni internazionali di minori presso il parlamento Europeo, l'unica europarlamentare che si è impegnata per il destino dei nostri figli facendo diverse interrogazioni scritte al parlamento europeo con richiesta di procedura d'infrazione contro la Slovacchia.
- Dott. Giorgio Ceccarelli , Presidente associazione Figli negati come organizzatore dell'evento e conclusioni.

Chiediamo alle associazioni ed ai loro presidenti come agli invitati di venire in tanti, per sostenere questa nostra causa a tutela dei minori , i quali hanno diritto ad avere entrambi i genitori.

MI RIVOLGO A TUTTI I PAPÀ CHE ABBIAMO I FIGLI TRATTENUTI IN SLOVACCHIA STIAMO UNITI FACCIAMOCI AVANTI DOBBIAMO FARE QUALCOSA DI POSITIVO AFFINCHÉ DIANO I DIRITTI AI NOSTRI FIGLI OLTRE CHE A NOI PADRI ..UN CARO SALUTO A TUTTI VOI E SPERO DI POTERVI STRINGERE LA MANO UNO PER UNO E CONOSCERVI . (Emiliano Russo)

Ingresso libero.

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- Musica

Zoo on the Moon - Summer Solstice presentazione album

Il 28DivinoJazz è lieta di presentare: Zoo On The Moon - con i chitarristi Enrico Angarano e Alessandro Bruno per la presentazione del CD 'Summer Solstice'-

VENERDI 28 APRILE
ore 22.30

ZOO ON THE MOON - 'Summer Solstice'
Presentazione CD.

Enrico Angarano, chitarra & voce
Alessandro Bruno, chitarra & voce

Zoo on the Moon presentano dal vivo il loro nuovo lavoro discografico 'Summer Solstice', un album che fonde improvvisazione, influenze rock prog e psichedelico, forma canzone. Zoo on the Moon si presentano dal vivo nella dimensione del duo, chitarre-voci, con un impatto live che rende le sonorità del combo quelle di una formazione più ampia.

Zoo on the Moon sono:

Enrico Angarano: Chitarra e voce. Co/fondatore del gruppo Solar Lodge, gruppo attivo dal 1986 con diverse produzioni discografiche. Fondatore e leader del gruppo Solar Orchestra, formazione attiva dal 2005 con diverse produzioni discografiche.
Ha collaborato con A Sud di Nogales

Alessandro Bruno: Chitarra e voce. Componente storico di Epsilon Indi, Europa String Choir, Desiderata. Ha collaborato con The League Of Crafty Guitarists, Solar Orchestra, Oak.

https://zooonthemoon.bandcamp.com/track/01-i-wander


28Divino Jazz - Via Mirandola, 21 - Roma
Tel: 340 8249 718 - tutte le info: www.28divino.com

Sotto il Jazz Club:
Ingresso con prima consumazione inclusa
Sopra Wine Food Bar e chiacchiere tra amici Ingresso Libero


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- Musica

core - coraçao nuovo disco per Maria Pia de Vito

In arrivo il nuovo e atteso album di Maria Pia De Vito "core/coraçao" special guest Chico Buarque.

Un lungo lavoro di traduzione di canzoni brasiliane dal portoghese al dialetto napoletano svolto al fianco degli autori, diviene finalmente un album registrato tra Roma e Parigi, che uscirà il 5 maggio. Prodotto e edito da Jando Music in collaborazione con Via Veneto Jazz, l'album sarà presentato ufficialmente lo stesso 5 maggio all'Auditorium Parco della Musica e il 7 maggio al Blue Note di Milano.

Chico Buarque: "Un regalone, Maria Pia! Il tuo "Você Você" è bello da piangere, l'ho sentito venti volte. Grazie, mille grazie. Mi piace molto la traduzione, credo che tutte le canzoni brasiliane dovrebbero essere cantate in napoletano. E che bella questa parola, malombra. Um beijo (te vaso ngoppo all'uocchie), Chico"

Guinga: "Le versioni di Maria Pia sono perfette. Sembra che le canzoni siano state concepite a Napoli, d'ora in poi hanno la doppia cittadinanza."

Egberto Gismonti: "Bella, straordinaria, impressionante, prevalentemente dolce, e delicata la versione di "Agua e vinho" di Maria Pia. Quanta abbondanza! L'arrangiamento è assolutamente trasparente. Tutti gli intenti sono chiari e ben eseguiti. Ogni voce che entra nell'arrangiamento dà la sensazione di un nuovo livello, una nuova idea di abbracciare la melodia. Complimenti ai musicisti che rispettano i loro strumenti fino al punto di renderli "parlanti" e fargli dire quello che vogliono."

E' "core/coraçao" il nuovo album di Maria Pia De Vito registrato tra Roma e Parigi, che uscirà il 5 maggio con l'etichetta Jando Music in collaborazione con Via Veneto Jazz e che sarà presentato ufficialmente in concerto lo stesso 5 maggio al Teatro Studio "Gianni Borgna" dell'Auditorium Parco della Musica di Roma e il 7 maggio al Blue Note di Milano.
Nuova fatica discografica, una delle più sentite, ed una delle più chiaramente transculturali: il titolo va ad indicare espressamente un lavoro del cuore, la cui scintilla è stata accesa dall’incontro con il compositore e chitarrista brasiliano Guinga ed il successivo incontro poetico con Chico Buarque, ospite del disco in due brani "Todo sentimento" e “O Meu Guri" (quest'ultimo un duetto in napoletano).

Un lavoro accurato di traduzione dal portoghese al napoletano, svolto fianco a fianco con gli autori, in particolare con Chico, volto a conservare intatta la bellezza, la poesia e la musicalità dei testi originali, resi nella lingua napoletana, formidabile strumento musicale, lirico, ritmico e visionario allo stesso tempo. In questa visione metamorfica, come un tuffo in profondità nel mondo della canzone d’autore brasiliana, le danze campane incrociano quelle brasiliane, il samba visionario di Tom Zè incontra una tammurriata e insieme incorniciano il capolavoro "Construçao" di Chico Buarque divenuto "'A costruzione", "Agua e Vinho" di Egberto Gismonti si mescola a "Voce ‘e notte", meraviglioso esempio della grande tradizione melodica napoletana, "A volta do malandro" diviene "'O ritorno d'o Jammone", "Partido alto" diviene "Dio ce penzarrà", "Teresinha" diviene "Teresella", "Trocando em miudos" diviene "Facimmo ampresso".

Maria Pia De Vito:
"Il lavoro è stato favorito dalla straordinaria potenza del napoletano, mia lingua madre che non smette di stupirmi e di farmi innamorare. Quando, 7 anni fa, fui invitata da Guinga per il nostro primo concerto insieme e mi ritrovai a tradurre in napoletano i testi dei suoi brani, mi fu chiaro che per me si stava aprendo una nuova via. Il mio lavoro è progredito insieme ad un rapporto epistolare con Chico, un carteggio di anni divenuto nel tempo una amicizia profonda e per me preziosissima, basata su un amore feroce per le parole ed il loro suono. Abbiamo discusso insieme significati e sfumature: il mio impegno maggiore è stato quello di restituire il più possibile, nelle mie traduzioni, non solo il significato, ma anche la sonorità originale dei testi. Laddove non possibile, mi sono consentita delle licenze poetiche, anche esse discusse con Chico..."

Accanto a Maria Pia, grandissimi musicisti e compagni di lungo corso, virtuosi di strumento e di un interplay profondo, portatori di intimità e di sentimento che la comune e lunga frequentazione dei palchi consente: il pianista gallese Huw Warren, che con lei ha inciso due album "Dialektos" e "'O Pata Pata"; il virtuoso clarinettista Gabriele Mirabassi a suo agio in ambito classico e jazz, e da molti anni legato alla musica e alla cultura brasiliana; il chitarrista brasiliano Roberto Taufic autore di molti arrangiamenti del disco e musicista di straordinaria sensibilità; Roberto Rossi, percussionista peculiarmente creativo e anticonvenzionale. Ospite del disco, anche l'Ensemble Vocale Burnogualà, fondato anni fa dalla stessa Maria Pia De Vito, particolarmente volto alla ricerca vocale e musicologica.

Maria Pia De Vito:
"Sono stati anni di studio e di lavoro certosino costellati nel frattempo da tanti incontri ed eventi straordinari: le tournée e le registrazioni in Brasile cantando le composizioni di Guinga, gli incontri con Ivan Lins e con Egberto Gismonti, anche lui prodigo di incoraggiamenti per il mio lavoro, gli affettuosi scambi epistolari con Geraldo Carneiro, autore di "Agua e Vinho", e con Paulo Cesar Pinheiro, autore di "Notturna" (di Guinga). L’appoggio e la stima di questi artisti straordinari mi hanno fatto sentire in questi anni sempre più "felice prigioniera" di una rete di bellezza , e sono per me fonte di una gioia e di una gratitudine che non avrà mai fine. Come quella che provo per i miei compagni di musica in questo lavoro, e non solo..."

La sperimentazione sul canto e sulla voce di Maria Pia De Vito, cantante e compositrice pluripremiata a livello internazionale, abbraccia diversi campi d'azione.
La sua carriera è densa di importanti collaborazioni e incontri musicali: John Taylor, Ralph Towner, Chico Buarque, Guinga, Rita Marcotulli, Ernst Rejiseger, Enrico Rava, Enrico Pieranunzi, Norma Winstone, Steve Swallow, Gianluigi Trovesi, Danilo Rea, Enzo Pietropaoli, Paolo Fresu, Paolo Damiani, Cameron Brown, Ramamani Ramanujan, David Linx, Diederik Wissels, Area, Joe Zawinul, Michael Brecker, Peter Erskine, Kenny Wheeler, Miroslav Vitous, Nguyen-Le, Uri Caine, Dave Liebman, Billy Hart, Eliot Ziegmund, Steve Turre, Maria Joao, Monica Salmaso, Art Ensemble of Chicago.

LINK E CONTATTI
Prevendite concerto Roma: http://bit.ly/MARIAPIADEVITOroma
Prevendite concerto Milano: http://bit.ly/MARIAPIADEVITOmilano
www.jandomusic.com www.mariapiadevito.com
Management: Francesca Gregori Tel. +39.329.9433115 E-mail management@slmc.it
Ufficio Stampa: Fiorenza Gherardi De Candei Tel. +39.328.1743236 E-mail fiorenzagherardi@gmail.com

Brani:
1. ‘A costruzione' [Construção]: M.P. De Vito (v), H. Warren (p), G. Mirabassi
(cl), R. Taufic (g) R. Rossi (perc).

2. 'Facimmo ampresso' [Trocando em miudos]: M.P. De Vito (v), H. Warren (p), G. Mirabassi (cl), R. Taufic (g).

3. ‘O Piccerillo' [O meu guri]: M.P. De Vito, C. Buarque (v), H. Warren (p), G. Mirabassi (cl), R. Taufic (g), R. Rossi (perc).

4. 'M’abbasta ’nu juorno' [Basta um dia]: M.P. De Vito (v), H. Warren (p).

5. 'Teresella' [Teresinha]: M.P. De Vito (v), H. Warren (p), G. Mirabassi (cl), R. Taufic.(g), R. Rossi (perc).

6.'Todo sentimento': M.P. De Vito, C. Buarque (v), H. Warren (p), R. Taufic (guit).

7.'Dio ce penzarrà' [Partido alto]: M.P. De Vito (v), H. Warren (p), R. Taufic (guit).

8.'Notturna' [Noturna]: M.P. De Vito (v), H. Warren (p), G. Mirabassi (cl), R. Taufic (g).

9. 'Je t’amo' [Eu te amo]: M.P. De Vito (v), R. Taufic (g).

10. ‘O ritorno d’o Jammone' [A Volta do Malandro]: M.P. De Vito (v), H. Warren (p), G. Mirabassi (cl), R. Taufic (g), R. Rossi (perc), Burnogualà Large Vocal Ensemble (choir).

11. 'Ll’acqua e ‘o vino' [Agua e vinho]: M.P. De Vito (v), H. Warren (p), G. Mirabassi (cl), R. Taufic (g).

12. 'E dimme' [Você Você ]: M.P. De Vito (v), H. Warren (p), G. Mirabassi (cl),
R. Taufic (g).

13. 'Curre maria' [Olha Maria]: M.P. De Vito (v), G. Mirabassi (cl)

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- Religione

Il rito della Pasqua - nella Musica Contemporanea

Equinozio di Primavera / Aspettando la Pasqua.
(musica ‘contemporanea’ per una festa)

“Dixit Dominus Domino meo … ”,
“Laudate pueri Dominum: laudate nomen Domini …”
“Confitebor tibi Domine in toto corde meo …”,
“Te Deum laudamus, te Dominum confiteremur … “
“Magnificat anima mea Dominum … ”,

Proiettati nella festitità della liturgia cristiana per la Santa Pasqua, sebbene spogliata di quegli ornamenti ridondanti lasciati dalla patina del tempo, ritroviamo qui quel legame affettivo che durante le funzioni del culto, nelle feste e nei vesperi domenicali, ci vedeva intonare in coro i versetti melodiosi e solenni dei Salmi sotto la volta della chiesa, mentre il turibolo andava e veniva come un pendolo davanti all’altare maggiore, mandando al cielo grate nuvole d’incenso. Sarà un fatto emotivo, forse, che certe ‘prime messe’ siano legate ai ricordi del tempo di Pasqua, ma ancora oggi, nel riascoltarli, li riscopro pieni di tono, quasi che in essi si rivelasse l’anima semplice partecipata della gente, a conferma dello stretto legame che da sempre unisce l’uomo (questo strano essere inintellegibile) alla divinità che dimora fra la terra e il cielo, in quello spazio pur silente dove non c’è il vuoto.

«Una cultura – scrive Raymond Williams – mentre viene vissuta, è sempre in parte sconosciuta , in parte incompresa. Il formarsi di una cultura comunitaria è pur sempre un tentativo, perché la consapevolezza non può precedere la creazione, e non esiste una formula per la’esperienza ignota. Una comunità sana, una cultura viva, proprio per questo non soltanto accoglierà, ma attivamente incoraggerà tutti, e chiunque sia in grado di contribuire al progresso della consapevolezza, che è la necessità comune.»

«I riti religiosi rituali della Settimana Santa – scrive Diego Carpitella docente di etnomusicologia alla facoltà di lettere dell’Univesità di Roma – ricalcano consuetudini di origine chiaramente precristiane, sotto il punto di vista della ritualità e periodicità calendariale legata agli eventi della natura. Su queste radici il Cristianesimo delle origini ha quindi conformato i suoi riti che celebrano la ‘passione’e la ‘morte’, ma anche la ‘resurrezione’ di Cristo, e che altro non è che il germogliare del seme della vita. Senzaltro l’interiorizzazione dell’aspetto penitenziale delle ‘Lamentazioni’ e del ‘Compianto’, poi sfociati nell’evento processionale della ‘Via Crucis’, dove i fedeli sono chiamati a farsi partecipi della Passione di Cristo così come la descrivono i Vangeli, sono stati la fonte ispiratrice dei ‘canti’ che l’accompagnano. Non meno delle pagine di musica tra ‘Oratori’ e ‘Messe’ di grande bellezza suggestiva che oggi possiamo ascoltare in esecuzioni di più ampio respiro artistico.»

L’atmosfera meditativa dei grandi misteri del ‘triduo pasquale’ (giovedi, vederdì, sabato, santi) , elaborata nelle melodie gregoriane dai monaci cistercensi e la perfetta risonanza delle volte delle chiese, è qui ricreata nell’addolorato e toccante ‘Stabat Mater’ attribuito a Jacopone da Todi e musicato da G. B. Pergolesi:

«Stabat Mater dolorosa
Iuxta crucem lacrimosa,
dum pendebat Filius …
Quis est homo, qui not fleret,
Christi Matrem si videret
In tanto supplicio? …
Quis non posset contristari,
piam Matrem contemplari
dolentem cum Filio?»

Respiro artistico, dunque, che mette in risalto il fulcro della solennità della Pasqua e che, accolto all’interno del rito liturgico della Chiesa ufficiale, ne conserva l’afflato, il momento estatico, celebrativo e trascendentale dell’assemblea dei cristiani riuniti. Leggiamo insieme il seguente testo tratto dall’ ’Introitus’:

“… Egli, dunque nacque
e il suo pianto risuonò come un grido
levato nella profondità della notte:
un’eco lontana che ripeteva nel sussulto d’un attimo
il sorgere strepitoso della vita.
… Egli era il seme
il germoglio e la causa del germogliare
la ragione e la volontà del prevalere
la sospensione cosmica del tempo
che attendeva la primeva luce-
… Egli, era il Figlio
L’inequivocabile continuità del Padre
sua immagine e somiglianza
l’acquisita coscienza dell’umano volere
la sua suprema speranza.
… Egli, era l’unica volontà possibile
il dono elargito con generosità
l’ineluttabile gesto del suo grande amore:
la conoscenza e l’armoniosa proporzione del tutto
l’inizio e la fine di ogni cosa.
… Egli, era l’Agnello del sacrificiuo
l’amaro sudario della fine
l’estremo abbandono, l’ultimo castigo
l’eterno sepolcro della carne
prima della resurrezione.
… Egli, dunque morì e fu sepolto
e il suo pianto si levò al di sopra del mondo
come un inno levato alla divinitàceleste del Padre
che lo aveva reso all’umano volere
nell’inconsavevole reminiscenza dell’affanno
… del dolore più grande.»

* Arvo Pärt è indubbiamente il compositore del cambiamento e della trasformazione della musica liturgica, il più ascoltato, il più eseguito, il più aderente alla tradizione coreutica del gregoriano, il più rigoroso lettore delle Scritture Sacre: «..ai cui testi – egli afferma – mi sono sempre sentito molto vicino e dai quali ricevo ispirazione per i miei componimenti, in quanto contengono verità che hanno un valore secolare e comunque sempre fortemente attuali.» Le sue architetture strumentali prendono avvio e si formano su una componente distintiva ‘classica’, ma sono molti i brani ‘singoli’ come ‘Arbos’, ‘Fratres’ e ‘Alina’, ma anche quello delle tracce 5 ‘Solitudine’ e 11 ‘Fragile e conciliante’ contenute in ‘Lamentate’ (ECM 2005) che, ad un ascolto attento, presentano per così dire ‘difformità fuorvianti’ dalla regolarità di una partitura cosiddetta sinfonica.

Altre, ad esempio, almeno quelle contenute in ‘Orient e Occident’, oppure ‘Tabula rasa’ o ‘Cantus’, sono tali da sembrare concepite su una ‘scala dilatata’ piuttosto che sul consueto pentagramma, peculiare delle ultime tendenze nichilistiche più vicine a Peter Eötvös di ‘Replica’ e György Kurtág di ‘Movement’; come anche alle elaborate sonorità dei Kronos Quartet quando affrontano gli ‘String Quartet’ di Górecki o di Philip Glass dal titolo omonimo o il Michael Nyman di ‘The piano concerto’ . Dilatata a tal punto da sembrare libera da qualunque inflessione accademica eppure non meno rigorosa di quelli che sono i ‘canoni’ dettati dallo studio e dalla percezione. «Alla base della mia tecnica compositiva è la sostanza musicale stessa per cui il colore sonoro può diventare secondario. Da tutto ciò si sviluppano delle libertà legate ad alcune scelte, che possono indurre successivamente a una serie di sviluppi e a infinite rielaborazioni. Così come del resto dev’essere senzaltro avvenuto con le opere di quei compositori che mi hanno accompagnato, quali sono stati Bach, Mozart e Schubert nel corso di tutta la mia vita, e lo fanno tuttora.»

Dopo i tanti ‘segni più’ attribuitigli, nel 2016 Arvo Pärt ne ha aggiunto un altro, quello d’essere per il sesto anno consecutivo indicato nelle classifiche come ‘il compositore vivente più eseguito al mondo’. Ciò non toglie che possiamo attribuirgli qualche ‘segno meno’, quale, ad esempio: ‘il meno abusato’ e quello del ‘meno contaminato’ che, a quanto sembra non sempre è un bene, in ragione di un’avvicendarsi sulla scena musicale mondiale di una contaminazione influente quanto creativa di suoni ‘altri’ che stanno cambiando l’orecchio degli ascoltatori e soprattutto il gusto. Così come nella musica vocale sacra si sta tornando alla forma medievale del ‘discanto’ o ‘discantus’ che poteva essere improvvisato secondo una prassi dalle regole ben codificate, ma che non si riteneva opportuno annotarlo.

D’altra parte anche le partiture vocali e polifoniche di Arvo Pärt risultano non poco impegnative sul piano dell’ascolto e molto probabilmente su quello dell’esecuzione: i suoi pianissimo da ‘canto firmus’ giocate sulla sospensione prolungata della voce e del suono che talvolta rasentano il silenzio, quasi a voler affrontare quel mondo estremo che solo appartiene aldilà interiore. Sospensione che permette al compositore di eludere la voce con sonorità prolungate sostitutive della voce stessa, efficienti nell’esternare il ‘sacro’ indicibile contenuto, in quei momenti, nell’afflato corale e che ogni volta ritorna come per una ‘resurrezione’.

Non si può dire che le sue maggiori composizioni dedicate al ‘fatto religioso’ non raggiungano lo scopo voluto, tuttaltro; opere quali ‘Litany’, ‘Lamentate’, ‘Miserere’, ‘De profundis’, ‘Stabat Mater’, ‘Passio secundum Joannem’, ‘ Te Deum’ e quel ‘Kanon pokajanen’ basato sul canone di penitenza recuperato da antichi manoscritti di origine greco-ortodossa, attribuito a Sant’Andrea da Creta prima dell’VIII sec d.C.,
sublimano l’effetto evocativo, quasi che il tutto stia lì per accadere nell’imminenza del ‘sacro’: “..ci si innalza verso la luce che sta arrivando, la stessa luce che nel momento culmine della Messa, splenderà con tutta la sua forza nel corso della liturgia. Anche per questo Arvo Pärt è il più significativo dei compositori, come è già stato detto l’autore ‘del cambiamento e della trasformazione’ in atto nel XXI secolo.

Colui che ha permesso alla ‘musica sacra’ di conformarsi alla svolta della contemporaneità e raggiungere sonorità fin’ora inusitate, quasi “.. l’auge della potenza e della gloria” che da sempre Pärt sembra perseguire, e che ha portato alla ribalta della musica internazionale. Le sue composizioni sono oggi fatte oggetto di ‘cult’ presso le giovani generazioni alla ricerca di emozioni epidermiche e talvolta superficiali ma che rispondono alla suggestiva emotività e le tensioni del tempo attuale. Non c’è davvero una categoria nella quale iscrivere la sua musica, tanto è ricca di riferimenti, di tensioni, di colori che sfugge a una sommaria quanto inutile classificazione. Ed è proprio questa la sua caratteristica più affascinante, la magica alchimia di suoni e assonanze che sostiene ogni sua composizione, elaborata con pazienza e dedizione nei molti anni della sua avventura musicale.

Per comprendere l’opera di Arvo Pärt è però necessario fare più di un passo indietro nel tempo e tornare alle origini della sacralità del Canto Gregoriano, comprenderne gli sviluppi e le trasformazioni successive. Sebbene qui sarà fatto per brevi linee, è fuor di dubbio che l’impronta penitenziale del gregoriano per la Santa Pasqua risente dell’atmosfera lugubre in cui è immerso, per quanto non manchino in esso ampie ‘schiarite’ di gloria, soprattutto in quegli ‘oratori’ che sono motivo di ‘grazia’ operata dalle anime dei giusti, nel raggiungimento del culmine massimo della celebrazione rappresentato dalla sopraggiunta ‘enfasi estatica’ di pieno splendore. È allora che il ‘canto firmus’, pur nel timore supplichevole che incombe, avverte lo sguardo indagatore del divino sopra di sé, ed esprime nel ‘de profundis’ la volontà di mostrare la propria anima, profondamente addolorata e contrita. O, come spesso accade durante le commemorazioni liturgiche popolari, lasciando sciogliere il dolore in un fiotto di lacrime (e di grida tipiche), per poi recuperare quella felicità interiore che la ritrovata voce infonde nel canto che si leva ‘alto’, a raggiungere le vette del sentimento più puro.

* Molteplici e notevoli sono le trascizioni eseguite dell’antico Canto Gregoriano delle ‘Messe per il Venerdì Santo’ dalle ‘Schola Cantorum’ attive in tutta Europa, oggi reperibili in registrazioni qualitativamente apprezzabili, sebbene l’ascolto diretto, in latino, eseguito da Corali professionali sia tutt’altra cosa. L’invito quindi è di cercare i luoghi e le occasioni di dette esibizioni corali che in questo periodo non mancano nelle chiese che rispettano la tradizione. Di vero interesse e, soprattutto, di grande effetto rappresentativo sono le parti cosiddette ‘a responsorio’ dove la voce solista (solitamente un narratore) si interroga sui ‘fatti’ della Passione e interpella il popolo (coro) che risponde, aggiungendo all’enfasi della richiesta il proprio risentito dolore.
Dalla Messa ?In Passione et Morte Domini’ leggiamo un passaggio significativo:

Tractus.
«Domine, audivi auditum tuum, et timui;
Consideraavi opera tua, et expavi.
In medio duorum animalium innotescéris:
dum appropinquaverint anni, cognoscéris;
dum advenirit tempus, ostendéris.
In eo dum conturbata fuerit anima mea:
in ira, misericordiae memor eris.
Deus a Libano veniet,
et Sanctus de monte umbroso et condenso.
Operuit caelos maistas eius:
et laudis eius plena est terra.»

Responsorium-Graduale.
«Christus factus est pro nobis obediens
Usque ad mortem, mortem autem crucis.
Propter quod Deus exaltavit illum,
Et dedit illi nomen quod est super omne nomen.»

Improperia.
«Popule meus, quid feci tibi?
Aut in quo contristavi te?
Respondi mihi.
Hagios o Theos.
Sanctus Deus.
Hagios Ischyros
Sanctus Fortis.
Hagios Athanatos, eleison hymas.
Sanctus Immortalis, miserere nobis.
Qua eduxi te de terra Aegypti;
Parasti Crucem Salvatori tuo.»

Adoratio Sanctae Crucis.
«Ecce lignum Crucis,
In quo salus mundi pependit,
Venite adoremus.»

* Tuttavia non siamo ancora alla definitva conclusione, dal Medioevo qui appena rivisitato, per tornare ad Arvo Pärt dobbiamo fare non uno bensì molti passi in avanti, allorché altri compositori si affacciarono sulla scena della musica d’ispirazione liturgica per arrivare all’mpianto della Messa contemporanea, rivolta per lo più all’evidenza laica, e che sono rispettivamente Pierre Schaeffer e Pierre Henry, che conversero le loro ricerche in una medesima esperienza. Compositore e allievo di Olivier Messiaen e Nadia Boulanger, Pierre Henry già collaboratore del Club d'Essai fondato da Pierre Schaeffer presso la RTF francese, col quale ha anche composto la “Symphonie pour un homme seul” (1949-50), è considerato uno dei teorizzatori della ‘musica concreta’ basata su suoni pre-esistenti, uno dei primi modelli di manipolazione del suono per fini compositivi (in quel caso magnetofoni), che aprì alla cosiddetta ‘musica elettronica’ e che di fatto, ampliava gli orizzonti musicali a confini mai intravisti prima.
Tale opportunità si collocava in contrapposizione all'idea di ‘astrazione’ che secondo Pierre Schaeffer caratterizzava l'approccio musicale dominante (musica elettronica, musica strumentale): cioè, il pensare la musica per criteri astratti (armonia, contrappunto, notazione, dispositivi logici, etc.) piuttosto che elaborarla concretamente attraverso il suono e l'ascolto. Schaeffer parlava di ‘musica concreta’ intendendo il suono nella sua completezza; ovverosia il fatto di ascoltare il suono in tutti i suoi aspetti (attacco sonoro, durata, inviluppo, densità di massa sonora, andamento, timbro, frequenza, ampiezza etc.). I suoni potevano provenire dalle fonti più varie della realtà acustica (rumori, strumenti tradizionali, voci e molti altri) e in gran parte dei casi venivano captati tralasciando la ‘risonanza’ in un dato punto dello spazio. A differenza della musica elettronica ‘pura’, la ‘musica concreta’ non era basata su sonorità ottenute direttamente da frequenze elettroniche. Questa attività gli permise di utilizzare il vasto archivio discografico della radio della RTF in cui lavorava come ingegnere del suono e di cominciare a fare esperimenti sul suono ed il rumore, ma soprattutto cominciò a maturare dei nuovi metodi compositivi, come dimostrarono i suoi saggi: “Introductrion à la musique concrète” e “A la recherche d'une musique concrète”.

Egli inoltre è autore inoltre, del primo brano di musica concreta: “Étude aux chemins de fer” del 1948: un breve studio sul ritmo per giradischi che riproduce i suoni provenienti da un treno in movimento (fischi, suoni di vapore, e altri). Ad esso seguirono negli anni successivi altre composizioni non troppo diverse e sempre di breve durata quali “Étude aux tourniquets”, “Étude au piano I (Étude violette), Étude au piano II (Étude noire), ed Étude aux casseroles (Étude pathétique)”. Durante questa fase, Schaeffer lavorò quasi completamente da solo. A partire dal 1949, iniziò una collaborazione con Pierre Henry che fruttò composizioni più lunghe, ambiziose (e, a detta di molti, più mature) quali la “Symphonie pour un homme seul”. Iniziata nel 1949 e terminata l'anno seguente, (sebbene sia stata oggetto di più revisioni) essa è un altro esempio di musica concreta in cui suoni strumentali si mescolano a suoni presi dalla vita quotidiana di un uomo (respiri, passi, fischi, porte che sbattono ecc.). La ‘musica concreta’ di questo periodo è poco o per nulla strutturata e meno ‘rigida’ di quella che seguirà.

Nel 1951, in seguito all'introduzione di nuove apparecchiature, Schaeffer, Henry e il fisico Andrè Moles fondarono il Gruppo di ricerca di musica concreta (futuro Gruppo di ricerche musicali) che era finanziato dallo studio parigino RTF, che fu il primo studio costruito per comporre musica elettronica:

«Noi abbiamo chiamato la nostra musica concreta, poiché essa è costituita da elementi preesistenti, presi in prestito da un qualsiasi materiale sonoro, sia rumore o musica tradizionale. Questi elementi sono poi composti in modo sperimentale mediante una costruzione diretta che tende a realizzare una volontà di composizione senza l'aiuto, divenuto impossibile, di una notazione musicale tradizionale. Fra i nuovi macchinari erano inclusi magnetofoni e quattro apparecchiature speciali: la prima controllava i suoni nello spazio esecutivo, la seconda era un registratore in grado di riprodurre riverberazioni, mentre le ultime due permettevano di variare la velocità di riproduzione del nastro e di "trasporre il materiale registrato su ventiquattro altezze, (esse erano nominate rispettivamente pupitre de relief spatial, il morphophone, e le phonogènes). I magnetofoni, che da allora rimpiazzarono il giradischi, permisero al compositore di suddividere i suoni in più parti al fine di adoperare solo quelli necessari alla composizione.»

* Fu in quello stesso periodo, che emersero altri studi di musica elettronica. Altri musicisti iniziarono a comporre seguendo la loro stessa filosofia ed esperienza. Fra essi Karlheinz Stockhausen, che realizzò nel 1955 la prima composizione di musica concreta a presentare sonorità provenienti da segnali generati elettricamente: “Gesang der Jünglinge im Feuerofen”, mentre “Desert” del 1954, una composizione di Edgar Varèse per fiati e percussione, è invece considerata il primo capolavoro di questo metodo compositivo. In seguito all'uscita di Henry dal GRMC, che decise di fondare lo Studio Apsome nel 1958, Schaeffer intraprese, ispirandosi a Varèse, un percorso di ricerca molto più rigoroso e meno ‘empirista’ di quello dei suoi primi lavori. Da questo momento, i membri della ‘scuola’ francese si concentrarono maggiormente sull'analisi dei suoni registrati e iniziarono a comporre una musica realizzata da suoni "presi così come vengono percepiti".

* Di questa fase, caratterizzata da composizioni più astratte rispetto a quelle degli esordi, si ricordano il lunghissimo “Traitè des objets musicaux”, terminato nel 1966 (ma iniziato quindici anni prima) e registrato da Schaeffer con musicisti quali Abraham Moles, Jacques Poullin più altri ricercatori. A differenza di Schaeffer, Pierre Henry proseguì gli ideali originari della ‘musica concreta’ degli esordi. Con “Variations pour une porte et un soupir” del 1963 e, successivamente con “Messe pour le temps present” composta con Michel Colombier per il coreografo Maurice Béjart, contenente il brano ‘Psyche-Rock’, utilizzato poi nella colonna sonora di « Z: l’orgia del potere » di Costa Gravas del 1969; e la “Messe de Liverpool” del 1967 registrato dal vivo in occasione dell’inaugurazione nella Cattedrale Metropolitana del Crist-Roi di quella città; nonché “Musique pour une Fete” del 1971 in occasione della Festa dell’Umanità tenutasi alle Tuileries di Parigi e danzata dal Ballet du 20° Siècle di Maurice Béjart, siamo di fronte ad una vera e propria apoteosi celebrativa di questa musica che s’avvia alla sua esperienza conclusiva a partire dai primi anni settanta, periodo in cui i compositori, interessati ad approfondire l'analisi dei suoni con nuovi mezzi, iniziarono ad adoperare apparecchiature quali sintetizzatori e computer etichettata poi come ‘progressiva’, e che da questo momento in poi abbraccia ogni genere musicale che si avvale della strumentazione elettrificata e di apparecchiature elettroniche nel mixage.

* Questo fenomeno ebbe come principale conseguenza quella di annettere il concetto di ‘musica concreta’ a quello più generale di ‘musica elettronica’ almeno altre due esperienze, separate tra loro da anni di vuoto, e che hanno portato alla ribalta gli Eela Craig, un gruppo rock austriaco degli anni 1970 e 1980, che ha unito ‘progressive rock’ con influenze jazz e di musica classica e ‘testi liturgici’ cristiani. Il nome della band pur senza significato nota riprende il discorso abbandonato da Henry delle ‘Messe’, infatti il loro album più importante ‘Missa Universalis’ del 1978 è confluita in quella New Age di più largo consumo. L’altra esperienza di un certo livello, maturata a cavallo tra gli anni ‘60 e il 1980, è senza ombra di dubbio quella di Hans Werner Henze compositore tedesco vissuto in Italia, noto per le sue opinioni politiche marxiste e il loro influsso sulla sua opera. Il suo stile compositivo abbraccia il neo-classicismo, il jazz, la tecnica dodecafonica, lo strutturalismo e alcuni aspetti della musica popolare e del rock. In seguito però, ribellatosi agli obblighi dello strutturalismo e dell'atonalità, al punto che nella sua opera "Boulevard Solitude" del 1951 sono presenti elementi riconoscibili provenienti dal jazz nonché dalla canzone francese dell'epoca.

* Laltro suggerimento è ancora più toccante, si tratta della colonna sonora del film “Passion: The last temptation of Christ” (Virgin / Realworld 1989) di Martin Scorsese, con i pur bravi Willem Dafoe e Harvey Keitel. Composta e diretta dal ‘mostro sacro’ del rock-progressivo Peter Gabriel, cantante, polistrumentista, compositore, produttore discografico e attivista britannico che, dopo aver raggiunto il successo negli anni settanta nel celebre gruppo dei Genesis e aver intrapreso una carriera solista di successo sperimentando numerosi linguaggi musicali, negli anni ottanta si è impegnato nella promozione della ‘world music’ attraverso la sua etichetta Real World, andando alla ricerca di moderne tecniche di incisione e nello studio di nuovi metodi di distribuzione della musica online. È anche noto per il suo costante impegno umanitario. La colonna sonora de ‘L'ultima tentazione di Cristo’, pubblicata un anno dopo l’uscita del film sotto il nome di ‘Passion’ voluto da Peter Gabriel, è oggi considerata un capolavoro dell’allora neo-nata world music. Per la realizzazione l'ex-Genesis si avvalse della collaborazione di artisti internazionali di musica tradizionale quali Youssou N'Dour, Billy Cobham e Nusrat Fateh Ali Khan. Ad esso si accompagna l'album 'Passion sources' il quale completa la colonna sonora e promuove gli artisti che hanno collaborato con Gabriel proponendo dei loro brani importanti, finora sconosciuti al grande pubblico.

Tuttavia, ad oggi, non è possibile affermare che in Arvo Pärt, fautore del ‘cambiamento e della trasformazione’ si possa trovare tutto questo; certo è che malgrado egli, come abbiamo fin qui appreso, è indubbiamente il riformatore e il continuatore della tradizione millenaria riversatasi nella ‘musica liturgica’. Per quanto egli rimanga ancorato alla ‘musica sinfonica’ e al gregoriano come ‘forma compiuta’ nei suoi componimenti, non esclude il fatto dell’aver trovato nela estensione sonora della ‘musica contemporanea’ il perno d’appoggio per le sue personalissime creazioni, col fare qua e là uso di determionate sonorità e di ricercate assonanze atonali, seppure utilizzate in maniera eccelsa. Non è per caso che Arvo Pärt è oggi il compositore più seguito e ascoltato dalle nuove generazioni, sulle quali approfondire e sviluppare ‘nuovi linguaggi’ sonori.Ma, in tutto questo bla-bla, sarebbe servito a poco se adesso non dicessi ciò che non ho ancora detto, cioè in che cosa mi trovo d’accordo col maestro: “..che la musica, macerie di tutte le idee, fa da sfondo ad un incendio che ancora non rischiara il mondo”.








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- Società

’Terremoti’ una mostra a Milano - seconda parte

’TERREMOTI’ UNA MOSTRA - (SECONDA PARTE)
Origini, storie e segreti dei movimenti della Terra.
Milano, Museo di Storia Naturale
29 ottobre 2016 - 30 aprile 2017

Oralità e fantasia poetica.

Occuparsi oggi, in epoca super-industrializzata e altamente tecnologizzata di ‘oralità’ può sembrare un forzato recupero del passato per definizione obsoleto, mentre invece ciò che accade è esattamente il contrario. L’ ‘oralità’ in questi ultimi decenni non solo sembra voler recuperare il suo posto predominante nella sfera del linguaggio parlato ma addirittura scalciare il primato detenuto dalla ‘scrittura’. Primato che a sua volta la scrittura ha indubbiamente usurpato, definendo l’oralità un antecedente del ‘linguaggio scritto’, relativo al primario ceppo antropico che, insieme alla musica (suono, canto, rumore), era legato alla trasmissione e alla elaborazione evoluzionistica del pensiero umano.
Ed è certamente in siffatta dimensione che va oggi riconsiderata la forza estrinseca dell’oralità, facilitata nel suo ritorno all’attualità dalla memorizzazione, notazione e computo ch’erano stati, in illo tempore, concettuali dei ‘popoli senza scrittura’. Non solo quella di toni vocali e di suoni acustici (da qualcuno definita vera e propria scrittura) ma anche attraverso il computer multimediale, internet (insieme di sistemi audio visivi), dove la dimensione suono s’intreccia a quella alfabetico visiva della ‘scrittura’. Soprattutto in quella oggi condensata e in parte svigorita in SMS, Chat ed E-mail: “C’è chi asserisce a giusta ragione che si è passati da esseri mono-mediali (uomo libro) ad esseri multimediali (uomini Tv / Telefono / Computer /Radio/Libro, ecc.) che re-incorporano così i riti delle civiltà orali”. (28)
Ma se le civiltà preletterarie per definizione, non hanno conosciuto una letteratura scritta, hanno conservato però una ricca e varia ‘tradizione orale’, in particolare all’interno della famiglia e del gruppo di appartenenza; copiosa di narrazioni epiche e leggende urbane, canzoni e musiche per ogni circostanza, incluso l’evento sismico. Nonché una forbita produzione di ‘poesia popolare’ che unitamente alle altre ‘liriche’ costituiscono oggi un unico ‘corpus’ elettivo della grande ‘tradizione orale’ riconosciuta a tutti i popoli, e per gran parte catalogata, trascritta e registrata con strumenti fonografici. Riconoscimento che l’UNESCO (29), al fine di salvaguardare ed evitarne la definitiva scomparsa, ha ritenuto ragionevole considerare “patrimonio orale e immateriale dell’umanità” all’interno di una Convenzione per la Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.

Di fatto la Convenzione Unesco 2003, Art.2 vede inclusi tutti quei beni che vanno: “..dalle prassi relative alla natura e all’universo, alle consuetudini sociali e gli eventi rituali e festivi, alle rappresentazioni e le arti dello spettacolo, le conoscenze, il know-how, come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti dell’artigianato tradizionale e gli spazi culturali associati agli stessi che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale; ivi incluse le tradizioni, le espressioni orali, nonché le regole e le tecniche del linguaggio in quanto veicolo del sapere. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”.
Fanno inoltre parte della tradizione ‘orale’ tutte quelle forme ed espressioni artistiche diverse ‘non scritte’ riconducibili alla cultura popolare, dai canti alle danze, dal teatro alla musica, passando attraverso le esperienze più varie, come narrazioni di miti, canti, frasi, leggende, fiabe e in particolare la ‘poesia popolare’, considerata presso i diversi popoli, il mezzo di comunicazione e trasmissione della cultura e spesso utilizzata come legittima fonte storica di approfondimento dalle scienze moderne. Certamente il mezzo più immediato nella diffusione dei procedimenti e i comportamenti tipici che si apprendono anche senza l’uso della scrittura, come l’agricoltura o l’allevamento e tantissimi altri mestieri e capacità induttive che vengono tramandate di generazione in generazione. Non in ultimo, di quei valori e ideali che guidano l’agire umano e animano le sue reazioni.
Nella storiografia occidentale, ad esempio, le fonti storiche più antiche sono basate su una tradizione orale precedente che, nel passaggio ‘di bocca in bocca’ ha in qualche modo alterato la sua forma originaria ma non necessariamente ha perduto il ‘senso’ etico e/o estetico moraleggiante di riferimento. Per meglio comprendere le fasi di questo importante trasferimento verbale, riporto qui la narrazione che ne ha fatto lo studioso Wilhelm Radloff (30): “Ogni cantore appena appena abile improvvisa sempre i suoi canti secondo l'ispirazione del momento, così che non è in condizione di recitare due volte un canto in modo perfettamente uguale. Ma nessuno pensa che questa improvvisazione produca un canto ogni volta nuovo”. Di conseguenza.. “..l'arte del cantore consiste nel mettere in successione queste parti come è richiesto dal corso degli avvenimenti e nel collegarle con versi composti ex novo. Il cantore sa cantare queste parti in modo assai diverso. Egli è capace di tratteggiare la stessa immagine in pochi tratti veloci o di descriverla più ampiamente o di procedere con epica ampiezza ad una descrizione molto dettagliata. (..) Un cantore abile può ‘perform impromptu’ (improvvisare) qualsiasi tema, qualsiasi racconto, se gli è chiaro l'andamento della vicenda.”
Particolare riferito alla figura del ‘cantore’ cosiddetto il Cantastorie nostrano è che sovente, cantava e raccontava storie vere e/o immaginarie, trovate in giro nei suoi viaggi o adattate per l'occorrenza, a versioni di alcuni racconti antichi che rinnovava a seconda del particolare avvenimento e/o il dialetto da utilizzare in base al luogo dell’avvenuta performance e a causa del diffuso analfabetismo. Storie che raccontavano di incursioni di pirati, miracoli di santi, eventi catastrofici, leggende sacre, novene e racconti profani, meravigliose vittorie e lacrimevoli sconfitte, anche se magari si trattava di cruente imprese dei briganti, cari alla fantasia popolare (teatrino delle marionette, dei Pupi, Carretto siciliano, drappi dipinti a strisce antesignani dei fumetti).
In seguito all'avvento della stampa il Cantastorie (31) acquisì sempre più un ruolo che, in un certo senso, si avvicina al mondo giornalistico, diffondendo le storie che rappresentava e/o fatti e notizie d’ogni genere stampati su foglietti volanti che poi vendeva al pubblico che numeroso accorreva ad ascoltarlo. I generi spaziavano dal fantastico al divertente o d’introduzione a temi diversi e di questione morale; non raramente vi inseriva canti e ritornelli che, in certo qual modo, spezzavano la sequenza del racconto, o falsavano il ‘ritmo’ narrativo; in ogni modo il valore intrinseco della trasmissione ‘orale’ era mantenuto intatto, e talvolta ne risultava arricchito.
Un altro fattore relativo all’oralità era la non meno significante ‘mimica’ spontanea del cantore e/o del ‘fine dicitore’, che si arricchiva così dei timbri, dei suoni onomatopeici, delle smorfie e dei rumori con i quali, di volta in volta il Cantastorie accompagnava le sue esecuzioni, aggiungendo credibilità alle narrazioni. Ma come si sa ogni ‘cronaca’ non è tale se non è seguita dall’ascolto e dalla viva partecipazione degli spettatori, chiamati a stupirsi, a commentare, a ridere o commuoversi, ad applaudire se necessario. Per meglio dire, a rendersi ‘partecipi’ di quella che è la prima autentica forma di teatro conosciuto. È qui lecito ricordare che “la verità dipende sia da chi la dice come da chi l’ascolta”; questa frase fatta è forse la chiave di lettura adatta alla tematica qui approntata, circoscritta a ‘oralità e fantasia poetica’.
A questa prospettiva teorica, come già in qualche modo si è detto, l’apporto ‘emozionale’ gioca un ruolo essenziale, importantissimo nel costituirsi di fenomeni morali e nell’evoluzione della mera ‘fantasia poetica’ entrata di forza nell’ampio circuito culturale attraverso i canti tradizionali eseguiti durante le feste e le manifestazioni popolari, i recital tenuti nei teatri, i proverbi riportati a formulazioni dialettali, le partecipazioni a letture specifiche di raccolte di poesie e di racconti legati alle diverse tematiche letterarie. Come appunto, nel caso dell’antologia poetica qui esaminata dal titolo suggestivo “La luce oltre le pietre” dedicata all’evento sismico che nel 2012/13 ha colpito la regione Emilia-Romagna. Non è escluso che l’empatia (qui nell’accezione filosofica di emozione/sentimento), cioè la capacità di immedesimarsi con individui socializzati in una forma di vita divenuta improvvisamente estranea e/o dissonante a se stessa, preclude qualsiasi presupposto di prospettiva per quanti hanno subito perdite affettive e comunque il trauma della catastrofe.
“Le emozioni in genere, e l’empatia in particolare – scrive Martha C. Nussbaum (32) – implicano dei giudizi di valore che non è però la filosofia a valorizzare, dal momento che essa tende spesso a ridurle a distorsioni della ragione, a fattori di turbamento che alterano la chiara visione delle cose e la spontanea propensione degli uomini al bene”. Tuttavia la filosofia aiuta a coltivare e valorizzare presupposti emozionali per un’assunzione di ‘ruolo ideale’, in base all’idea configurata che “..il lettore artificialmente permetta di costruire quella figura di ‘spettatore imparziale’, con il compito (privilegiato) di filtrare le emozioni” (33) e di vedersi assegnare il ruolo di beneficiante che gli è consono. Non risulta astruso quindi affermare che la ‘poesia popolare’ costituisce una fonte illimitata per l’immaginazione letteraria, in quanto ingrediente essenziale in ogni teoria etica che si propone di arrivare al bene delle persone. È in seno alla ‘tradizione popolare’ che l’infinita ricerca di noi stessi si amplia di nuovi importanti capitoli, che vanno ad aggiungersi così alla macroscopica ‘storia universale’ che noi tutti stiamo scrivendo, e che un giorno ci permetterà di conoscere il mondo in cui viviamo.

Scrittura e Volti nuovi della Poesia Civile.

Avventuriamoci, dunque, nella regione per eccellenza del ‘pericolo’ , della minaccia, dell’ambiguità invischiante, frugando nello strato percettivo, emozionale - cognitivo che, dal punto di vista dell’affermazione individuale è possibile riconoscere nell’excursus dell’antologia qui presa in oggetto. Si può dire, ora, che sarebbe assurdo criticarne e/o giudicarne il contenuto finora volutamente trascurato, ma non assente, che in molti hanno ritenuto di sostenere rispondendo all’appello lanciato sul web dai due autori Roberta De Tomi (34) e Luca Giglioli (35) sostenendo pienamente il progetto con la loro disponibilità a partecipare, in qualche modo, al dramma vissuto dalla popolazione della bassa padana, rivissuto dai ‘poeti’ inseriti nell’antologia con soluzioni interpretative talvolta suggestive quanto più partecipate, riunite in una complessa relazione di elementi emotivamente significativi.
Quanto più affiora dai contenuti ‘individualistici’ non appartiene all’estatico letterario, frutto di esperienze liminari facilmente riconducibili alla comune percezione di isolamento e frammentazione dell’evento sismico in senso cosmico. Semmai si tratta qui di superare il generale accoglimento dell’evento stesso, cogliendo in esso un momento originario di molteplici esperienze creative, solo relativamente suggestionate e/o magnetizzate dall’esigenza antropologica come una delle ‘forme’ più suggestive della poetica popolare, anche in senso collettivo, civile e sociale. A fare da cassa di risonanza al paradigma antropologico qui prospettato, è il determinarsi coerente e articolato dell’archetipo junghiano che raccoglie almeno tre lemmi di relazione: bisogno (necessità), auto dominio (selfcontrol, volontà) e donazione (solidarietà, sostenibilità), in un unico modello esemplare, appunto archetipo di matrice disciplinare, cioè l’insieme di impegni condivisi affrontati dalla ‘comunità’ fondata dagli individui.
Ne deriva una sorta di ottimismo nel futuro in vista di una trasformazione dello status quo sul versante psicologico che già durante e subito dopo l’evento sismico, “..ipotizzava la fine irrimediabile del mondo sulla base del prosciugamento delle proprie forze inconsce non controllate dall’io ormai affidate a una casualità senza direzione e orientamento (..) riassumibile nel passaggio storico (esponenziale), come promessa al futuro, (..) connesso al desiderio di desiderare la vita, senza farsi irretire da quel sentimento oggi dominante che è l’insicurezza”. (36) Condizione questa che conduce alla formulazione di una doppia verità, filosofica e teoretica, dello svolgersi dell’esistenza umana in un ambiente dal quale bisogna trarre il sostentamento e nel quale bisogna sopravvivere; e che porta, necessariamente, alla ricostruzione e/o costruzione “..di una nuova realtà mediante la creazione di situazioni intuitive in cui consiste la spiritualità” (37), per un progressivo rinnovarsi di una nuova ‘memoria sociale’.
Da cui il risvegliarsi di una ‘scrittura poetica’ che nel suo sognare utopistico si ricollega ad esperienze, se vogliamo infantili che, a partire da Freud si propongono come una chiave di lettura affascinante quanto emozionante e significativa. Appare allora chiaro come l’utopia di un risanamento pedissequo della ‘parola parlata’ arrivi a suggestionare la mera conoscenza individuale e trasformare in ‘atto di volontà’ formale le passioni che hanno significato le precedenti esperienze di vita. Interessante, a questo punto, quanto proposto da D. Meltzer (38), di estendere il concetto di linguaggio al ‘sogno’ come forma di linguaggio interno (interiore dell’individuo), o meglio di ‘linguaggio poetico’ capace di comunicare le proprie emozioni proiettive, cioè di quel mondo arcano ed estremo che è l’inconscio umano, al mondo esterno.
È infatti primario nella ‘scrittura poetica’ l’uso dell’identificazione proiettiva del ‘sogno’ come modo privilegiato di comunicare le proprie emozioni utilizzando la lingua specifica (interna) della poesia per comunicare lo stato emozionale in cui soggiace la mente; un po’ come il riappropriarsi di una ‘lingua madre’ e, a un tempo, di comunicare significati senza confini, così come di proporre una verità assoluta che si collega al mondo interno, qui appena evidenziato, e ai suoi valori escatologici. È interessante osservare come, per altre vie, la critica letteraria proveniente da esperienze diverse s’incontri con quella poetica e raggiungano analoghe intuizioni per cui, nella rappresentazione di un testo letterario ‘onirico’ e uno finitamente ‘poetico’ finiscano per rientrare ambedue nel dominio dell’estetica, inclini a una medesima ‘religione’ della mente.
L’analisi qui di seguito riportata è pertanto di tipo interculturale applicata alla parte ‘emozionale’ del discorso interpretativo riferito ai drammatici avvenimenti del sisma, al fine di evidenziare il dualismo ‘materiale e ‘spirituale’ ricorrente nella natura umana, dimostrando con ciò che la complessità non è altro che la conseguenza di più semplici forze casuali. Idea questa, o almeno in parte, desunta dallo studio di Sigmund Freud (39) del concetto di ‘transfert’, per il quale: “..ogni relazione precoce forma, per così dire, una struttura emotiva, da cui saranno modellati gli atteggiamenti, le relazioni, le paure e le speranze successive”. Forti di questa sempre rinnovata speranza accingiamoci all’ascolto delle ‘voci’ dei molti poeti popolari che si sono cimentati in questa antologia, “..una categoria di artisti – ha scritto Giuseppe Pederiali (40) – che non può godere di platee immense, non riempie stadi e piazze, ma che sa come penetrare nelle coscienze, nel cervello e nel cuore della gente e accendervi emozioni”.







Analisi critico-comparativa dei testi e delle discipline etno-socio-psicologiche di metodo evidenziate.

‘Tremula terra’ di Giuseppina Abbate

E d’un tratto nel cuore della notte
il buio divenne veglia e morte …
che rendesti i respiri cupi
come concerti ammainati dalla sorte.

La scelta non è casuale, oltre ad essere la poesia d’apertura dell’antologia, è qui scelta perché già nel titolo, in quel ‘tremula’ affronta con determinazione la problematica intrinseca al ‘dramma’ che si vuole rappresentare. Notare come l’abbinamento notte/morte/sorte rivela la forza schiacciante dell’evento quasi fosse nel ‘destino’ che quella notte tutto accadesse, e infatti …
I cani ulularono come lupi,
i gatti mormorarono lamenti d’infanti …

Come solitamente accade prima di un evento catastrofico che arriva a sconvolgere la natura, sono proprio gli animali ad ‘avvertire’ il pericolo, ma non solo, perché lo ‘spirito ancestrale’ che sub-esiste nella natura umana, seppure questa se ne è in parte distaccata, risente allo stesso modo e avverte, seppure a livello inconscio, la stonatura nel ritmo del ‘tempo’.

Una, due, dieci, cento …
L’intercalare rapidissimo della frase, scandito più volte nel testo, marca il ritmo del conseguente fuggire della gente, delle gambe levate, del correre verso un riparo che non sa, perché il ‘maestro’ concertista (Madre natura, Dio), in quel preciso momento, ha abbandonato il podio, ha rotto l’incanto della musica, sostituita dal boato spaventoso del terremoto senza indicare dov’era la salvezza.
..vicoli e viottoli tra le onde funeste
mentre le campane impazzite urlarono al vento
nelle piazze gremite di fronte alla morte
attonite folle s’abbracciarono sconvolte.

C’è in questa scena da brivido tutta l’efferatezza del sisma per un film che nessuno ha chiesto, in cui sono visibili i segni del disastro compiuto. Il paragone con il mare in tempesta ‘le onde funeste’ è calzante, trasforma in un baleno la piazza del paese nella ‘Zattera della Medusa’ di Géricault sulla quale ognuno per lo spavento abbraccia metaforicamente l’altro nell’affrontare insieme (gesto di solidarietà, unione di fratellanza genica) il triste destino che l’incombe. Va qui notata la forte pregnanza della ‘simbologia’ civile e cristiana che distingue in due conseguenti momenti il verso, da una parte la conformazione urbanistica: vicoli e viottoli, le piccole piazze; dall’altra la torre campanaria che preclude l’esistenza di una chiesa e quindi di una relatività spirituale (non espressa apertamente nel testo) ma che nel prosieguo s’avverte, con la campana che torna a suonare, nelle parole ‘amorevoli’ della ‘veglia’ forzata che segue al sisma, che tutto appianano e cancellano delle avversità, dei dispiaceri della malattia, dell’odio e del rancore.

..fai la nanna che il lupo è scappato
dammi la mano che il giorno è rinato …

Bellissima e commossa la metafora che risana con il nuovo giorno l’avvenuta riconciliazione col creato, reminiscenza infantile, di figlia, di madre protettiva che non conosce abbandono davanti alla paura, davanti a niente … per una volontà di vita che le permetterà di ricostruire là dove tutto sembrava compiuto: per “Una, due, dieci, cento …” notti ancora, all’infinito.

‘E siamo stati come case’ di Luca Artioli

E siamo stati come case
per un tempo senza tempo,
quand’era ancora Maggio …
–pietra dopo pietra –
nella storia che si salda
al ventre di ogni madre …
nella storia di ogni padre …

Il raffronto tra le case tirate su ‘pietra dopo pietra’ e fatalmente crollate, creano qui un fermo immagine di una immediatezza sconcertante, in cui lo sguardo costruisce e decostruisce per ricostruire mentalmente domani, quello che fino a un momento prima, era un ‘luogo dell’anima’ andato perduto dentro un nero profondo che sa di fumo di memorie, di travi carbonizzate, di mobilia cariche di ricordi, di immolazioni, lutti, orgoglio e solitudine … e siamo stati carne congiunta visceralmente alla madre, molecola nella storia del padre e del figlio del padre …
..in quell’abitare scomodo
nello stesso sacrificio.

Nel ricordo fa pensare a un nucleo numeroso, come un tempo era la composizione famigliare, in cui i conflitti interni, quando ce n’erano (e necessariamente c’erano), erano per lo più condivisione di uno stare tutti insieme con i diversi problemi che solitamente venivano risolti senza né vinti né vincitori, per così dire ‘alla pari’, tra fratelli e/o sorelle, senza rancore. Ciò che aveva significato di un ‘dare e avere’ e che nessuno doveva niente a nessuno, bensì solo le scuse ai genitori per aver alzato la voce; al figlio che chiedeva prima e nuovamente chiede – pietra dopo pietra – di ricostruire la casa crollata; alla terra per aver disprezzato i favori (il pane) che generosamente concede; e infine a Dio per aver imprecato “..per non farsi dimenticare”…
.. e di (poter) risalire da questo vuoto
e che poi sia sforzo leggero il futuro
quasi che fosse volo …

Ed ecco nella disillusione affacciarsi la speranza del superamento possibile del tempo, cioè entro “..un tempo senza tempo” smarrito nella sfera del tempo che forse non esistito, se non nel ricordo della stagione che più di tutte lo fa ricordare “..quand’era ancora Maggio”, la primavera, in cui tutto rinasce alla vita.

“29 Maggio” – di Sara Bellingeri

Commosso il seno
a nutrire la tua bocca di giglio
la terra ha urlato
– e casa non è più casa –
spremuto il cuore nell’abbraccio
voglio porgerti al domani
Figlio.

La tematica del ricongiungimento con la spirale familiare si affaccia strepitosa nell’incipit di questa poesia che autentica il respiro sommesso con cui andrebbe letta e che immagino l’autrice l’abbia scritta, muta di paura e con le lacrime amare che le scendevano dagli occhi, incredula d’esser viva e di poter donare al figlio quella speranza che gli aveva dato quando lo mise al mondo …

..il sangue arenato
sullo squarciato suolo.

Non poi così dissimile dalla natura per i propri germogli, stravolte entrambe per le ragioni diverse eppure così uguali, proprie del partorire. E ancora …

Ancora non ti ho raccontato
dei lupi e delle fate …

S’apre qui un lembo dell’amore immenso della madre per il proprio figlio, nel metterlo in guardia delle vicissitudini e i guasti cui si troverà ad andare incontro (che la madre deve aver provato sulla propria pelle), nonché la sospensione del ‘tempo piano’ in cui ogni cosa deve ancora avvenire …
Ancora non ti ho detto …
della gente che compra il mondo
con maschere lavate …
che la verità brucia,

Tuttavia non è questo che intende dire e infatti nega di averlo pensato (scritto) per un riscatto che ritorna al figlio in forma di consolazione data dal perdono che in fondo nutre in seno …

..che la sua voce spegne l’incendio
quello più nero
dell’odio e della paura.

Tale è il suo amore e così dirompente che squarcia la pagina con un grido inconsulto di felicità, fino all’esplosione finale …

Il seno commosso
a nutrire la tua bocca di giglio
la terra ha urlato
– ma oggi ha ancora il suo domani –
avvolto il cuore nell’abbraccio
siamo vivi – vivi!
Figlio.


“Le case bambine” di Marzia Braglia


Si chiamano: La Gnola,
la Disturbata, la Guidalina,
Patrinia, la Losca,
la Pitoccheria e Angelina …
le vecchie case
sparse nella valle
dormono e sognano
quand’erano belle.
Riposano nel buio perfetto
di una notte senza luna
e si rivedono bambine
baciate dalla fortuna.
Rammentano gelidi inverni
che segnavano ore noiose,
scolorivano i capelli
e appassivano le rose.
Vibra ancora la musica
fra le antiche mura
e i fantasmi ballano
nella notte oscura.

Sembra di vederle sullo sfondo di tele dipinte di Fattori, Signorini, Lega, Sernesi, Banti che dall’amata Toscana si spinsero alla Romagna e all’Emilia affermando che la ‘forma’ (oggettiva delle cose) in fondo non esiste, se non come ‘macchie di colore’ (da cui il nome del movimento detto dei Macchiaioli) distinte o sovrapposte ad altre macchie di colore, perché la luce, colpendo gli oggetti, viene rinviata all’occhio come immagine di puro colore. Due sono i motivi di questa scelta qui elaborata: per primo il riferimento alle cose ‘amate’ che, solo per il fatto che abbiano un nome, rivelano l’esistenza di una storia più o meno felice che stava nelle mani di chi le ha costruite per la felicità di qualcuno, non si costruisce una casa se non per soddisfare un bisogno e per accogliere i propri affetti. Il secondo, per quell’ “.. vibra ancora la musica e i fantasmi ballano” e che sta a significare che esse non sono più, forse andate distrutte con il terremoto che non le ha risparmiate allo scempio, insieme a quanti vi abitavano, con i loro ricordi, le rose che appassivano nei vasi, i frutti degli orti raccolti nel ‘coccio’ posato sulla tavola, e le loro padrone che invecchiando (come le rose) scolorivano i capelli. Ciò che rimane nel ricordo vivo dell’autrice, è la musica di un valzer lento come può essere lento il tempo trascorso “..di inverni gelidi che segnavano ore noiose”, e che all’improvviso subisce un arresto, per lasciare che i ‘fantasmi’ si ritrovino nella notte oscura e ballare ancora insieme … Addio Gnola, Disturbata, Guidalina, Patrinia, Losca, vecchie case incorniciate nel tempo, però bella la musica che vi ricorda!

“Il muto fantasma” di Tommaso Campera

S’alzavano le rondini dal campanile
impaurite da un suono rotto di campana,
le funi tirate da un fantasma impolverato.
Risuona per le strade il muto sgomento
di frotte di persone che correvano in tondo,
muto dolore sui visi, graffiati da lacrime!
Dopo ampio cerchio, si posano le rondini
sul campanile … senza più le ore
ed ecco che, il muto fantasma
nuovamente, si appende alle funi
e al suono rotto della campana
più non si posano le rondini
sul campanile abbandonato.
Un profondo, cupo brontolio
di nostra, amata, madre terra
e più nulla sarà come prima:
perch’io qua … non son più!

Breve e ridondante ma non per questo scevra da sillogismi dedotti dall’osservazione di reali accadimenti. Quasi una ripresa in diretta del momento in cui il terremoto fa sentire la sua voce “..Un profondo, cupo brontolio / di nostra, amata, madre terra / e più nulla sarà come prima”: le rondini che fuggono dal campanile semidistrutto in bilico e prossimo a cadere, chi può dimenticare la sua immagine sospesa; il “..suono rotto della campana” suonata da un “muto fantasma” a simboleggiare il boato che accompagna il terremoto e il perduto sostegno che l’ineluttabilità della catastrofe si porta via, e che ritorna a sconvolgere l’esistenza dell’autore, nel momento dell’abbandonarsi al fato.


!SPACCA CASCA SCAPPA! di Serse Cardellini

Terra Frana Trema!
Crina Scava Crolla!
Casa Grida Cade!
pregare bestemmiare
famiglia casa fede
ma tu bambino mio
non piangere non piangere
sogna ancora …

Questo ‘in sintesi’ il messaggio contenuto nel testo in cui il ritmo poetico è scandito dalla ripetizione ossessionata dalla paura, nel momento in cui la paura blocca la mente stretta dal panico che chiude il diaframma e fa mancare il respiro. Appassionante è la reazione immediata del padre che premuroso verso il figlio lo invita a non piangere e a danzare “..con la terra” che trema, e infine confessa a se stesso una verità universale di cui ha fatto tesoro “..da sempre si cerca qualcuno da amare”:
..ma tu bambino mio
non piangere non piangere
c’è tanto da rifare
dal sorriso alla carezza
ricostruire tutto di nuovo.



“Un attimo prima. Un attimo dopo” di Vincenzo Ciminiello

Un attimo prima del boato
guardavo i miei compagni
nei volti carichi di pensieri,
nelle mani infaticabili.
Un attimo prima del boato
Avvertii la fatica del lavoro.
Mi vennero in mente i miei figli.
Arrossii e continuai a lavorare sorridendo.
. . .
Un attimo dopo il boato
Eravamo gli operai caduti sul lavoro.
Quegli eroi semplici,
quasi senza alcun volto,
quasi senza alcun nome da ricordare.
Sogli gli operai.
Morti di lavoro.
Morti di terremoto.

Poesia di denuncia sociale che mette in risalto la condizione dell’uomo abituato per tradizione a lavorare sodo, non senza i suoi pensieri, gli amori, i vizi, le futili apparenze, e che all’improvviso si ritrova a ragionare con se stesso sul da farsi, di non stare a guardare e non “..lasciarsi avvolgere dall’oblio”; l’antica paura della morte che ritorna, e a cui risponde col rimboccarsi le maniche e riprendere il lavoro e vegliare con amore sulla terra d’Emilia, insieme alla ‘compagna’ della sua vita …

..quelle madri che ritroveranno la forza
per ritornare a tirar tardi la notte
solo per amore.




“Tsunami” di Mabi Col

Rimesto nel paiolo briciole di vita,
pelo una patata
frammento inessenziale
d’universo,
penso a quello scoglio
malfermo e insicuro
che mi ospita,
pezzetto sperso
inesplorato e vuoto
di tempeste ignote,
elettromagnetiche speranze,
casa buia piena di misteri
in cui indifferente
rotola, rimescola e patisce
il nostro sasso
vivo e derelitto,
la nostra pentola
d’acqua e di canzoni
marmellata amara
d’assurde sensazione
cortocircuiti e minestre
ricordi astrusi da dimenticare
ansie e calligrammi.
Minuscoli coriandoli
D’avventura e sentimenti
Ci accapigliamo
In cerca di consensi,
mentre sopra di noi
s’abbatte l’orizzonte.

Poesia cosmica che riunisce il micro mondo di una cucina, qui immaginato (o forse vissuto) come un territorio di confine che rende il percorso dell’io poco avventuroso, scandito da ‘ansie come calligrammi’ del residuale, con il macrocosmo esistenziale “..in cerca di consensi”, dove l’essenza dell’io si perde di fronte all’evento conoscitivo, incerto e pericoloso, dello ‘tsunami’ che sopraggiunge nel momento quotidiano che è dato sottendere. Anche qui la metafora dello tsunami (tipico del maremoto) si sostituisce al terremoto derivato dallo scuotimento della terra, che non sembra scuotere però il calmo equilibrio dell’autore/autrice (non so), alle prese con i fornelli della sua cucina, quasi fosse un rito (e in parte lo è) ineluttabile dove si prepara il cibo per gli déi, dove l’io di fatto “..non conosce il pathos, l’aritmia dell’eros, la coscienza della morte”, (41). Neppure “..mentre sopra di noi / s’abbatte l’orizzonte” e tutto deve ancora accadere, mentre la pentola dell’acqua ribolle, e il cuore ispirato intona canzoni, certamente d’amore.



“At to Final” di Maria Grazia Fabbri (con traduzione a fronte).

La tua Finale (Finale Emilia).
Papà, è bèla passà tria n / Papà, sono già passati tre anni
da quand te andà via / da quando te ne sei andato /
e adèsa che è capità / e adesso che è successo /
stal brut lavor, t’am manc tant. / questo brutto lavoro,
mi manchi tanto” …

Pagina di diario, lettera, preghiera … tutte raccolte in una forma davvero delicata, che oso dire quasi emozionata, nel rammentare a chi, pur non essendo più viene messo al corrente di quanto accade nella terra dove forse è nato, certamente cresciuto e deve aver messo su famiglia. Ancor più si sente qui un attaccamento filiale profondamente partecipe dei sentimenti del padre e dei ricordi a lui legati, di una presenza che non si è mai trasformata in assenza neppure adesso che la rivolta della terra tenta di cancellare quei ‘luoghi della memoria’ che erano lì a rappresentare l’esistenza in vita di ambedue, padre e figlia, congiunti nell’amore per la propria piccola città, così grande da contenere tutto il loro mondo.
.. ma at fag na prumessa / ..ma ti faccio una promessa.
Appena la tera la lasa li ad tarmar ... / Appena la terra smette di tremare …
e prèda dop prèda / e pietra dopo pietra
con i nostar braz / con le nostre braccia
al tirem su al nostar paes … / lo tiriamo su il nostro paese …
adrà papà che al turnem a far / e at ve vedrai papà che lo torniamo a fare
ancora più bel. / ancora più bello.

Ben sappiamo che non c’è preghiera senza promessa, il laggio che si paga per ogni richiesta, tanto quanto sono disposte a pagare l’energiche donne emiliane capaci di una volontà ferrea e d’amore materno, pronte a combattere e di rivoltare il mondo per ideali di giustizia e di libertà, più che il ‘terremoto’.
Va detto che la poesia letta ‘in lingua originale’ rivela una maggiore espressività di toni, di sospensioni e di ritmi, per cui la traduzione, per quanto si voglia, non regge il confronto. A riguardo vale quanto detto nello script d’inizio sulla ‘poesia dialettale’.

“Sos ogros de sa poesia” di Stefano Flore (con traduzione a fronte)

Tenia in coro cussos logos e los conocchia
galu prima de los aer bidos
cando sas cartolinas biaziant
prenas de artevisia pintada
E Issa...mi nde arrerjonaiat sempre
cun sa ‘oghe prus durche de su cantigu …

Amavo quei posti e li conoscevo
prima ancora di averli visti
quando le cartoline viaggiavano
piene di orgoglio illustrato
e Lei… me ne parlava sempre
con la voce più dolce del canto.
Ora piango le lacrime
nascoste tra le nebbie
che sento mie nei sussulti dell’anima
vicino
a quella gente generosa e ferita
tra le case crollate
i campanili distrutti
e gli orologi con le ore spezzate
che si affacciano allo sguardo
come mute membrane di un silenzio infinito.
Poi asciugo le lacrime e vedo
oltre la nebbia
l’uomo della fornace
che lacerato e stanco mi guarda.
intingo il pane nella sua storia
mi chino
e raccolgo
uno ad uno i mattoni rossi
li pulisco e li lavo con l’acqua del Panaro
e attendo
che il postino bussi ancora alla mia porta.
… Ci sarà un’altra cartolina
per raccontare il tempo degli uomini!

Lirica intensa, ‘idilliaca’, dedicata a una terra ospitale che deve aver accolto il migrante stagionale o forse stanziale (per i Sardi l’Italia è il continente), o anche uno dei moltissimi giovani volontari arrivati in Emilia per dare soccorso alla popolazione, scavando con le mani e tirando su “..uno ad uno i mattoni rossi / li pulisco e li lavo con l’acqua del Panaro”. Sono questi i mattoni cotti di un forno dove si faceva il pane, che il terremoto ha fatto crollare addosso al panettiere “..che lacerato e stanco mi guarda. / Intingo il pane nella sua storia”. Siamo di fronte all’umiltà che si china davanti a chi ha perso tutto, davanti all’uomo della fornace che si porta dietro una storia antica quanto il mondo, dove l’autore stesso intinge il suo pezzo di pane. Il pane consacrato della solidarietà.

“Alla mia Gente e ai Volontari” di Antonella Iaschi

Ho al collo una foglia dorata
raccolta nelle campagne della Bassa:
è pesante come la mia impotenza,
è leggera come le mie certezze.
Guardo immagini che non vorrei vedere,
cerco tracce fra polvere e macerie..
la mia terra è madre di dolore,
i miei amici figli maltrattati.
Vorrei tagliare il cordone ombelicale
E dirle che la odio, ma non posso:
è appiccicata a me come la pelle
e scende sulle guance col suo sale.
Mi manca il tempo, ci vorranno anni
Per vedere di nuovo le sue quieti,
l’afa che cambia la luce delle piazze,
l’ombra, il rifugio sotto le sue torri.
Quella foglia è legata a una catena
E lì mi aggrappo per restare a galla,
ogni maglia è lo sguardo di qualcuno
che è lì e lavora per ricominciare.

Il tema del volontariato e della solidarietà civile si affaccia in questa lirica pregna di volontà di rinascita in contrasto con la rabbia inconscia che sostiene il dialogo che l’autrice improvvisa con se stessa. In lei non c’è rancore, piuttosto amore soffocato che “..le scende sulle guance col suo sale”, semmai desolazione che s’imprime sotto la pelle fin dentro le ossa e che la lascia inerme “..come le mie certezze” a cui s’aggrappa, come alle maglie di una catena che non si può spezzare, che non deve spezzarsi, perché altrimenti … la lascerà volare via. Cosa che lei non vuole e non può, per quell’attaccamento alla terra d’origine che la fa rimanere, pesante come quella foglia dorata che “..raccolta nelle campagne della Bassa” la inchioda alla sua pelle come la pianta alla terra, nel timore che un’altra scossa potrebbe portarle via insieme, per sempre.


“Inventario” di Roberta Panizza

Sepolto
dai cumuli delle nostre certezze
ti ritrovo
strappato al mio esistere
ed oggi
sulla prima pagina bianca
della tua assenza
scrivo.
‘È feroce quest’orizzonte
Schiuso ai pensieri
Dove l’occhio spazia
Indisturbato dalle cose’.
È ancora mio
quel bacio dilaniato dai calcinacci
sulla nostra fotografia.
È mio l’amore che ho vissuto e vivo
vetro mai infranto
dei fiori di gioia
che ogni giorno mi regalavi.
Sono miei i giovani respiri
sotto le tende,
ancora fiato
al sangue ancora mio e vivo
e luce, verso il futuro.
Nutrono ancora le mie arterie
e i sogni
delle mie cellule impazzite
se trema ancora questa terra.
La paura è mia e il terrore
e me li stringo
perché vivere per vivere
dove persino l’erba non sta ferma
ci vuole voglia.

La forma poetica del ‘compianto’ è tipica della poesia popolare vernacolare con esempi illustri in lingua italiana a cominciare da Jacopone da Todi fino a Manzoni, da Pascoli a Leopardi. Presente inoltre in alcuni paesi del centro-sud dell’Italia e, in particolare, del Mediterraneo. Fa quindi un certo effetto ritrovarla oggi in tutta la sua chiarezza e il suo candore sinceri. Ciò che più coglie è l’immediatezza delle sequenze: “Sepolto / dai cumuli delle nostre certezze / ti ritrovo..”; e in successione: “È ancora mio ..”, “È mio l’amore che ho vissuto e vivo..”; “Sono miei i giovani respiri sotto le tende..”; “La paura è mia …” cui va aggiunto ‘è mio il ricordo’. Frasi che rivelano una possessione furente dopo lo strappo di “..quel bacio dilaniato dai calcinacci / sulla nostra fotografia” che brucia ancora sulle labbra, frutto di una passione travolgente a cui l’evento sismico, in sé già fortemente drammatico, ha spento improvvisamente l’ardore del fuoco, senza lasciare niente per domani.


“… e non ci credi” di Claudio Porena


Trabocca, goccia
dopo goccia, il catino
sotto il tetto che pende.
Ci si specchiano chine dalla sete
le macerie riarse, e tutto pare
inchiodato al suo posto: il lampadario
di Murano ormai spento,
il cassetto riverso, le tazzine
sul mobile di noce, la cornice
con la natura morta alla parete, le lunghe crepe
che fulminano il muro sulla porta.
Una lingua di vento
fischia attraverso
i frantumi di vetro fra le tende,
nel vano semivuoto
dove pare echeggiare sotto i piedi
lo scricchiolio, il fragore
delle maioliche cadute in terra
quando la Terra tremò il giorno avanti,
contro tutte le attese.
E dopo il terremoto
spunta il calvario, il momento dei pianti
che impregnano le rughe del paese
evacuato, infelice,
e che gonfiano gli occhi impolverati
e addormentati
nel risucchio del cielo.
È pallida la luna sulla siepe:
sbianca il cavo dei portici. La roccia
d’ogni casupola grida dolore
e dappertutto è lutto come un velo.
E si aspetta il mattino ..e non ci credi.


Il taglio fotografico delle ‘immagini’ verbali e sonore qui riportate rivela un’immediatezza rara nell’uso della parola, molto vicina alla ‘poesia automatica’ di stampo ‘futurista’. Indubbiamente l’osservatore coglie nei particolari ciò che finora è sfuggito a tutti gli altri: la dimensione onirica dell’evento sismico. Neppure stesse approntando una mostra fotografica egli dispone le opere in sequenza per così dire ‘alternativa’ alfine di creare una sorta di happening visivo dove tutto è detto e nulla è al proprio posto. Dove finanche gli spazi aperti dal sisma, illuminati del proprio caleidoscopio rotto, sono trasformati in immagini da osservare: allora si è risucchiati dal cielo nel taglio della finestra divelta e del muro crollato, dove la luna fa capolino dalla siepe dell’ ‘infinito’ leopardiano e “..sbianca il cavo dei portici”. Tuttavia lo sguardo attento dell’osservatore si sofferma su un’immagine in particolare: lì dove “alla parete, le lunghe crepe / che fulminano il muro sulla porta”, a dir poco strepitosa che potrebbe diventare il manifesto dell’ipotetica mostra ‘poetica’ sull’argomento. E quando tutto è pronto, “..e si aspetta il mattino”, arriva l’alba …

“..e non ci credi”.

Sospensione strepitosa, in cui la voce s’arresta in mancanza delle parole, in cui tutto è accolto nel silenzio onirico di un perché filosofico che aspetta una risposta, e che “..Una lingua di vento / fischia attraverso / i frantumi di vetro fra le tende, / nel vano semivuoto /.. contro tutte le attese”.


Conclusione


Se la cultura di un popolo si misurasse sulle mode musicali e canzonettistiche di passaggio perderebbe ogni particolare significato poetico e letterario, mentre, al contrario la ‘poesia popolare’ non conosce alcuna forma di stasi o di annullamento, ed è per questo che di tanto in tanto assistiamo a una sua ‘rinascita’ riscontrabile nella sua continuità, seppure in alcuni periodi storici più lenta e difficile a causa della contaminazione di certe mode ‘inflazionistiche’ entrate di straforo nella sua evoluzione. È un fatto che quando si parla di cultura popolare cosiddetta ‘tradizionale’ si torna sempre a un passato remoto di dimenticata memoria, ma che altresì l’uso in voga della rivisitazione, del recupero, chiamiamolo anche del ‘revival’, sottolineano una certa continuità discorsiva con quei ‘valori’, mai completamente perduti. Valori significativi di una cultura autonoma tipicamente italiana, formativa della realtà sociale che noi tutti ci troviamo a vivere.
Ne è un luminoso esempio l’antologia poetica presa in esame, proiettata com’è in un tempo per così dire ‘estemporaneo’ che, altresì la collega a una certa attualità che va a integrarsi allo sviluppo culturale di altre realtà a noi relativamente più vicine e che ci permette di dire, che la ‘poesia popolare’ è più che mai ‘viva’. A meno che non venga cancellata dalla faccia della terra insieme al popolo che la tiene in vita, la ‘poesia popolare’ prosegue nel suo avanzamento di pari passo con la storia, anzi è la storia stessa, la sua ‘identità’ sociale e umana che le proviene dal popolo che verosimilmente continua a produrla. Un valido mezzo di trasmissione in grado di ‘raggiungere’ e farsi ‘comprendere’ dalle generazioni future, e da esportare in giro per il mondo. Ne sono la conferma i nostri tanti poeti e scrittori sempre più impegnati nel recupero di quel ‘mondo interiore’ che ci appartiene, e che talvolta ci appassiona e ancora più ci emoziona.

Come pure ha scritto A. MacIntyre (42): “La storia che coinvolge ciascuno in questo passaggio (esistenziale) è naturalmente non soltanto la storia di un soggetto particolare, ma anche la storia di quegli altri soggetti la cui presenza o assenza, intervento o mancanza di intervento, risultano di cruciale importanza nel determinare fino a che punto il passaggio è stato completato (..) superando gli ostacoli e le difficoltà affrontate nelle circostanze (descritte). (..) Ciascuno ha perciò bisogno degli altri per comprendere la sua particolare condizione. E queste è uno dei punti in cui è importante ricordare che esiste una scala di disabilità nella quale tutti noi siamo collocati. (..) Noi ci troviamo in differenti periodi delle nostre vite, in punti molto diversi di quella scala, spesso senza poterlo prevedere, e che presuppongono un certo grado di comprensione condivisa delle possibilità presenti e future”.

Ovviamente non qui, nel ristretto spazio di questa trattazione, per quanto ampia possa sembrare, si realizza quello che si può dire il completamento di un discorso critico contingente e più o meno interessante, che ho affrontato col dovuto impegno e con rigore. Tuttavia il lavoro svolto attorno a questo singolare tema e alla poesia contemporanea più in generale, è forse quello che più mi ha emozionato e che, soprattutto, mi ha dato lo slancio necessario a proseguire in avanti. All’inizio, ossessionato com’ero dalle tante domande che mi ponevo, quasi mi sembrava impossibile poter infine riuscire a trovare il bandolo della matassa. Rammento ancora di essermi chiesto se infine “tutto sembrerà, ma sembrerà come?”, che ancora mi rimbomba nella testa come un martello; e l’altra domanda “cosa mi aspetto nella direzione che non prendo?”, semplicemente terribile al punto che mi occludeva finanche il libero pensare.
Il risultato è qui, fra queste pagine che con orgoglio sottopongo all’insindacabile giudizio di chi legge, e con le quali ho creduto di completare un quadro tuttavia destinato a rimanere senza cornice, premettendo, con tutta la sincerità che mi distingue, di aver lavorato con coscienza e nel rispetto dei ‘poeti’ inseriti nell’antologia. Anche per questo voglio ringraziare inoltre tutti gli autori dei testi citati, il cui insegnamento è per me continua fonte di riferimento, pur restando il fatto che, come si dice in questi casi: “tutti gli errori sono soltanto i miei”.



Note:


(1) Paolo Toschi, “Il Folklore”, Universale Studium 1969.

(2) Rudolph Arnheim, “Il pensiero visivo” Einaudi 1974.

(3) C. Lévi-Strauss, “Mito e Significato”, introduzione di Cesare Segre, Il Saggiatore, Milano 1980.

(4) Axel Honneth, “la lotta per il riconoscimento”, Il saggiatore 20002; e in Mario Manfredi “Teoria del riconoscimento”, Le Lettere 2004.

(5) C. G. Jung, “Gli archetipi e l’inconscio collettivo”, Boringhieri 1980.

(6/7) Henry Frankfort, “Il dio che muore”, La Nuova Italia 1992.

(8) Alasdair Macintyre, “Animali razionali dipendenti”, Vita & Pensiero 2001.

(9/10) A. C. Grayling, “Il significato delle cose”, alla voce ‘Memoria’, Il Sole 24 Ore 2007.

(11) Umberto Galimberti, “Paesaggi dell’anima”, Mondadori 1998.

(12) Franco Rella in “Il silenzio e le parole”, Feltrinelli 2001. E in “Micrologie” – Fazi Editore 2007.

(13) Sigmund Freud, in “Opere”, Boringhieri 2000; e in “Memoria Collettiva” Wikipedia.

(14) A. MacIntyre, op.cit.

(15) Umberto Eco, “Sei passeggiate nei boschi narrativi” – Bompiani 2000.

(16) P. Ricouler, “Vulnerabilité de la mémoire, in Patrimoine et passiòn de la identitaires” a cura di J. Le Goff , Fayard Paris 1998.

(17) Paola Massa, in “Luoghi di memoria luoghi di identità” - Cultura popolare a Napoli e in Campania nel Novecento, a cura di Amalia Signorelli.

(18/19) Pierre Nora, “Mémoire collective” in J. Le Goff “La nouvelle histoire” – Retz Paris 1978.

(20/21/22/23/24) Zigmunt Bauman, “Paura liquida”, Laterza 2008.

(25) Maurice Blanchot, “La comunità inconfessabile” SE, Milano 2002.

(26) C. G. Jung, op.cit.

(27) C. E. Gadda, “La cognizione del dolore” (romanzo), Einaudi 1970.

(28) Wikipedia, alla voce “tradizione orale”.

(29) UNESCO, Conferenza Generale del 17 ottobre 2003, ratificata dall’Italia il 27 settembre 2007 con Legge n. 167.

(30) Wilhelm Radloff, in Martha Nusbaum “Giustizia poetica” – Mimesis 2012.

(31) A. Altamura (a cura di), “I Cantastorie e la Poesia popolare italiana”,– Fiorentino Ed. Napoli 1965.

(32/33) Martha C. Nussbaum, “Giustizia poetica” – Mimesis 2012

(34) Roberta De Tomi, si occupa dell’organizzazione di eventi, scrittrice e poetessa, ha pubblicato alcuni racconti e un romanzo “Ragazza post-modern” (Il-Filo 2006, fuori edizione) e la partecipazione all’antologia “Il rumore degli occhi” (Edizioni Creativa, 2009) della Confraternita dell’uva. Suoi racconti sono inseriti in antologie cartacee e sul web. Insieme a Luca Giglioli è ideatrice e curatrice dell’Antologia di Poesia “La luce oltre le crepe”, Bernini Editore 2012.

(35) Luca Giglioli, poeta e scrittore, ha avuto numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali. Sue poesie sono rintracciabili su riviste letterarie come larecherche.it e numerosi siti web. Inoltre è ideatore e curatore dell’antologia poetica “La luce oltre le crepe”, Bernini Editore 2012.

(36/37) Martha Nussbaum, op.cit.

(38) Donald Meltzer, “Dream-life” A Re-examination of the Psyco-analytical Theory and Tecchnique – Clunie Press; e in it. “La vita onirica” Borla 1984.

(39) Sigmund Freud, “Osservazioni di un caso di nevrosi ossessiva” (Caso clinico dell’uomo dei topi), in Opere, Bollati Boringhieri 1985. E in C. G. Jung, “Psicologia del transfert”, Mondadori 1985.

(40) Giuseppe Pederiali, romanziere e narratore ha scritto numerose opere divulgative, poco prima di lasciare la sua Finale Emilia per sempre, ha contribuito con la sua sentita ‘Prefazione’all’antologia poetica “La luce oltre le crepe”, Bernini Editore 2012.

(41) Henry Frankfort, op.cit.

(42) Alasdair Macintyre, op.cit.



Bibliografia di consultazione:


“Enciclopedia Einaudi”, ‘Memoria’ – vol.8 – Giulio Einaudi Ed. Torino 1979.

“Antropologia Culturale”, Le risorse della cultura:, Parte Seconda ‘Il linguaggio’ – E. A. Schultz, R. H. Lavenda – Zanichelli Ed. Bologna 1999.

“Il gesto e la parola”, Leroi-Gourhan, Einaudi 1977.

“I popoli senza scrittura”, (a cura di) H. C. Puech, Laterza 1978

“Il processo rituale”, Victor Turner, Morcelliana 1972.

“Breve storia delle emozioni”, Keith Oatley, il Mulino 2007

“Dizionario dei modi di dire”, a cura di Ottavio Lurati - Garzanti 2001.

“Dizionario Etimologico dei Dialetti Italiani”, a cura di M. Cortelazzo, C. Marcato – Garzanti 2000.

“Poesia popolare italiana”, a cura di M. Barbi – Sansoni Ed. Firenze 1974.

“Le parole di legno: Poesia in dialetto del ‘900 italiano”, a cura di M. Chiesa e G. Tesio – A. Mondadori Ed. Milano 1984.

“La poesia in dialetto” a cura di Franco Brevini – 4vl. A. Mondadori Ed. Milano 1999.

“Canzoniere Italiano” a cura di P. P. Pasolini – Guanda Ed. Parma 1975.

“Guida allo studio della cultura del mondo popolare in Emilia e in Romagna”, a cura di R. Leydi e T. Magrini – Ed. Alfa, Bologna 1982.

“Morte e Pianto rituale, dal lamento funebre antico al pianto di Maria”, a cura di E. De Martino,Editore Boringhieri Ed., Torino 1958.

“Guida allo studio delle tradizioni popolari”, P. Toschi – Boringhieri Ed. Torino 1962.

“Cultura egemonica e culture subalterne”, A. M. Cirese, Palumbo Ed. Palermo 1971.

“Folklore e profitto, Tecniche di distruzione di una cultura”, L. M. Lombardi-Satriani, Guaraldi Ed. Rimini 1973.

“Storia della Civiltà Contadina”, a cura di Jerome Blum - Rizzoli 1982.




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- Società

’Terremoti’ una mostra a Milano

TERREMOTI. Origini, storie e segreti dei movimenti della Terra
Milano, Museo di Storia Naturale
29 ottobre 2016 - 30 aprile 2017

“Il cuore ha le sue ragioni,
che la ragione non conosce”. (Blaise Pascal, Pensieri)

In ogni istante della giornata in qualche parte del mondo avviene un terremoto. Secondo il National Earthquake Information Center (NEIC) in un anno si producono alcuni milioni di terremoti, ma solo una parte di essi è registrabile dai sismografi della rete mondiale.
Il terremoto è un fenomeno naturale con il quale la nostra penisola è costretta a convivere, e ogni volta ci si interroga sulla natura di questa manifestazione del nostro pianeta. La mostra a cura di Marco Carlo Stoppato nasce come momento di riflessione volto a comprendere le cause di questi eventi, il perché si verificano, dove avvengono con particolare frequenza, le modalità attraverso le quali le onde sismiche si propagano nel terreno e quali sono le energie sprigionate in pochi secondi. L’esposizione guarda poi alla sicurezza e al futuro, e illustrerà tutte quelle pratiche e quei comportamenti che la popolazione deve sapere e “interiorizzare” per limitare i danni che un terremoto potrebbe provocare.

Introduzione a ‘La luce oltre le crepe’:
Oralità e Scrittura nella Tradizione Poetica Italiana - un saggio di Giorgio Mancinelli.

«Il corso della vita si svolge, per il popolo, secondo una continua e fitta trama di forme tradizionali che ispirano, determinano e interpretano via via le azioni e le situazioni di cui è intessuta l’esistenza dell’uomo» – scrive Paolo Toschi (1) in apertura di “Il ciclo dell’uomo” nel poi non così lontano 1969, e da allora questa realtà non è mai cambiata, almeno secondo la ‘teoria sociale’ intorno allo sviluppo della persona e della società. Se non che l’uomo è diventato uditore vorace, un insaziabile divoratore di ciò ‘che non ascolta più’, dimenticando finanche di esigere significato e valore da ciò che ascolta e, soprattutto, tralasciando di dare un ‘senso’ a quello che dice.
Per quanto tutto questo sembri irrilevante, al contrario, ‘significato’ e ‘valore’ sono due elementi essenziali, disuguali eppure inseparabili della dialettica correlata alla logica del ragionare (pensare, riflettere, desumere) e dell’argomentare (disputare, dimostrare), corrispettive del linguaggio collettivo e comunitario oggi in uso nel mondo. Sia esso espresso nella forma ‘orale’, come enunciazione verbale che s’imprime di significato; sia in quella ‘scritta’, come grafia simbolica diversificata, che non possono essere isolate l’una dall’altra per le medesime circostanze che ne costituiscono la causa, il significato e la ragion d’essere.
Ciò non basta però a giustificare, in un ambito o nell’altro, i tentativi di scoprire, comprendere e interpretare lo strato percettivo e/o cognitivo dell’imprimere ‘senso’ all’uso delle parole (utilità, praticità, relazione, comunicazione); cioè di dare un ‘senso compiuto’ (intrinseco e/o estrinseco) a ciò che la connotazione emozionale, nel suo insieme, suggerisce al linguaggio nel formulare una frase e/o all’interno di un dialogare in cui vi siano espliciti impulsi emotivi e sensazioni inerenti (percezioni, sentimenti, affetti), condivisi dalla parola orale e/o scritta.
Una trattazione questa che, almeno secondo Rudolph Arnheim (2), se per un verso può risultare eccessiva d’interesse per quelli che sono i processi primari della percezione, specifici del ragionare; nell’altro verso, sarebbe fin troppo contenuta, per l’inestricabile ambiguità di cui si compone.
Ma come si sa, la mente ha i suoi labirinti in cui talvolta è difficile districarsi, sebbene per farlo, vada tenuto conto degli ‘impulsi emozionali’, indispensabili in ogni processo percettivo e/o cognitivo, al fine di dare significato, e quindi ‘senso compiuto’ a ciò che si vuole qui analizzare di precipuo interesse ‘teorico sociale’, e che vede inoltre impegnate discipline diverse di tipo antropologico e socio-psicologico, volte a riconoscere all’essere umano la ‘prerogativa’ (individualistica) di selezione e scelta che gli compete (libero arbitrio), e la ‘determinazione’ (altruistica) di propendere per la sopravvivenza della specie antropica. Determinazione che l’individuo nel corso dei millenni si è trovato più volte ad affermare con ostinazione e tenacia, principalmente in occasione di calamità come terremoti, maremoti, accadimenti cosmici di diverso genere, tendenti a stravolgere l’equilibrio del proprio habitat naturale.
Quella stessa determinazione che ‘l’antropologia strutturale’ di C. Lévi-Strauss (3) riscontra nelle somiglianze culturali presenti nella struttura del pensiero umano, riconducibili alla dicotomia dell’ ‘agire comunicativo’ quanto dell’ ‘agire strategico’: sia nell’oralità, in quanto prerogativa caratterizzante l’individuo sociale (dialogo, scambio di idee, di conoscenza); sia nella scrittura e/o altra forma espressiva dell’attività collettiva (graffiti, pitture rupestri, tessuti, simboli votivi ecc.), attinente alla creatività umana. Trattasi dunque di pre-requisiti che stando alla ‘teoria del riconoscimento’ di Axel Honneth (4) si rendono necessari per quanti, avendo perduto tutto o quasi (condizione, status, posizione sociale) a causa dell’evento sismico al centro di questa argomentazione, si ritrova nella situazione primordiale del ‘dopo’ che può essere risolto solo con uno sforzo comune: sostituendo al proprio ‘conscio individuale’ l’opportunità dell’ ‘inconscio collettivo’.
Allo stesso modo di quanti altri (individui) che, pur nello smarrimento, cercano di dare un ‘senso’ filosofico e/o teologico alla propria ‘sopravvivenza’, contestualizzata nel ‘perché’ di ogni cosa: dalla ragione per cui la natura si abbatte con violenza contro una popolazione che stenta inerme a comprenderne la portata; alla spiegazione logica di un distacco forzoso da quelli che sono i costrutti (significati e valori) di un’intera ‘esistenza’ individuale, che li riscatti dall’incognita archetipica, avanzata da C. G. Jung (5), propria della ‘transitorietà umana’. Transitorietà che nell’inconscio collettivo sarà al tempo stesso ‘causa’ ed ‘effetto’ di una medesima problematica che spazia dall’avere al dare ‘senso’ alla condizione di ‘precarietà’ che si è venuta a instaurare dopo l’evento sismico da parte dei ‘sopravvissuti’.
È psicologicamente accertato che l’individuo sorpreso dallo ‘spavento’ procurato da un evento imprevisto e imprevedibile, quale per l’appunto un terremoto che ne mette a dura prova la sopravvivenza, in molti casi incombe in una sorta di alterazione psicofisica (mentale, dialettico, verbale), come l’improvviso mutismo, la perdita dell’udito, o anche della memoria. Diversamente, mentre uno stato d’ansia e di timore crescente, presuppone una sorta di ‘angosciosa’ attesa del pericolo che un nuovo evento sismico potrebbe comportare. La ‘paura’ connaturata in ogni individuo che si trovi ad affrontare la privazione dei propri affetti e/o l’incapacità di combattere ciò che lo sovrasta, prende il sopravvento, protraendo l’individuo in una fase di disordine invisibile che va dal momentaneo ‘smarrimento’ a quello di possibile ‘abbandono’.
Difformemente, mentre gli effetti dello spavento iniziale riguardano un aspetto problematico che l’individuo psicologico si trova a dover affrontare sul piano (soggettivo) strettamente personale; le conseguenze dell’ ‘angoscia’ e della ‘paura’ da sisma vanno altresì valutate sul piano (oggettivo) specificamente sociale, riguardanti la possibile disgregazione dell’intera comunità d’appartenenza che non va affatto sottovalutata. Poiché, seppure a livello inconscio al momento dell’evento sismico non è recepita immediatamente come ‘paura’, in quanto derivata da causa accidentale; altresì essa influisce sull’equilibrio psicologico autoreferenziale che pone il voler ‘continuare a vivere’ in netto contrasto con l’avvenuta perdita di ‘senso’ del proprio status sociale.
“Non sappiamo – scrive Henry Frankfort (6) – come in passato si provvedesse alla necessità dei singoli di un sostegno soprannaturale alle loro personali esistenze. (..) Né di quale peso gli elementi sopra evidenziati, esercitino sul problema della sopravvivenza e del rapporto tra forme culturali di immediata rilevanza. (..) Come quella di considerare la sopravvivenza apparente, come un atto creativo completamente originale (..) da stimolare nuovi modelli di integrazione. Ed è in questa ‘sopravvivenza come rinascita’ che le forme culturali, benché transeunti, riescono a superare la propria scomparsa.”
Conseguentemente all’evento sismico, la riaffermazione della ‘tradizione culturale’ (qui intesa come amalgama di tutte le espressioni concernenti) da parte del singolo individuo che si trova a dover riconsiderare se stesso all’interno del proprio nucleo (gruppo, clan, società) di appartenenza, si rende quanto mai necessaria, onde arrestare la progressiva involuzione socio-culturale che il sisma ha causato e che improvvisamente avverte come perdita sostanziale di un patrimonio irrecuperabile che solo il recupero della ‘memoria culturale’ di quanti sono sopravvissuti, può aiutare a ricostituire. Necessita una ferrea volontà interiore (individualistica) per riuscire a trasformare in ‘voglia di vivere’, l’estenuante annientamento psicologico e la perdita d’ogni valore affettivo che pure finora l’aveva sostenuto e che l’individuo stesso ha contribuito a formare, onde per cui, ‘continuare a vivere’ si rivela proporzionale a ‘ricominciare a vivere’ che, per quanto auspicabile sappiamo non è sempre possibile.
In quest’ottica pertanto, si pone in evidenza come il problema dello ‘smarrimento’ (confusione, sconcerto, disorientamento) o dell’ ‘abbandono’ (rinuncia, cessazione di interesse, abdicazione), siano consequenziali dell’incapacità relativa all’individuo di dominare gli eventi (nel caso specifico l’evento sismico che si ripete nel tempo), unita alla inequivocabile percezione di totale dipendenza da essi. Questo spiega in parte la fortissima accentuazione emozionale di quanti si pongono interrogativi sul ‘senso’ del proprio agire in un ambito specifico della propria attività, associata e/o della propria condotta nel suo complesso. Ciò che porta alla ‘precarietà’ cui l’individuo va soggetto, in mancanza di una promessa di prosieguo e di futuro benessere in seno alla comunità, o di effettiva capacità di difesa che lo salvaguardi da eventi successivi, e che invece lo scopre del tutto impreparato ad accettare.
Problematica questa che sarà ripresa più volte in questa trattazione ed esaminata nelle diverse accezioni psicologico-filosofiche e socio-culturali corrispettive, affatto discordanti dall’interesse specifico ‘letterario e poetico’ che qui si vuole investigare. Ci metteremmo fuori strada, rifiutandoci di credere che problematiche del genere, solo perché ci appaiono fortemente sfuggenti dai moduli di una società evoluta: “Nondimeno – scrive ancora H. Frankfort (7) – negare ogni problematica lì dove l’incognita della sopravvivenza è particolarmente sentita, sarebbe dare solo parte di una delucidazione che invece richiede un’eventuale spiegazione plausibile.”Secondo Alasdair MacIntyre (8): “.. la rete di corretti rapporti di dare e ricevere possono essere instaurate solamente all’interno di comunità nelle quali sia assicurata una partecipazione attiva e motivata e un interscambio tra i vari componenti – che lo compongono – (..) perché senza di esse lo scambio utilitaristico e manipolativo viene a soppiantare quel più profondo bisogno di ‘reciproco’ e ‘incondizionato’ che è del riconoscimento tipico delle persone”.
Sta di fatto che la contrapposizione prospettata fra ‘oralità’ e ‘scrittura’ cui si fa riferimento nel titolo, vuole essere solo una chiave di lettura per un argomentare fluido non privo di una sua specificità, che scorge nella ‘poesia popolare’, sia in vernacolo che in lingua, una radice organica e funzionale che gli è propria, all’interno di un percorso che si annuncia avvincente solo se proiettato a restituire dignità alle ‘strutture portanti’ della tradizione. Così come ai costrutti mentali tipici di un territorio quanto al lessico di una popolazione autoctona (popolo, gente, razza), per la capacità intrinseca, quando suggerita dal ‘senso’, di cancellare dalla cultura ufficiale, troppo spesso detrattiva, quei pregiudizi antiquati e obsoleti che essa stessa ha coniato appellando la ‘poesia popolare’, ora a ‘erudizione povera’, ora a ‘folklore clandestino’. Quasi anch’esse non fossero, in ogni caso, espressioni ‘reali e vitali’ della nostra formazione intellettuale in costante evoluzione e che perciò stesso impone rispetto e implica il dovere di contribuire alla sua conservazione.
Ancor più quando la ‘poesia popolare’ si adopera per eludere mediazioni etnocentriche tendenti a invalidare altre forme erroneamente ritenute ‘inferiori’ come, per esempio, la ‘canzone popolare’ (‘non sono solo canzonette’), non trattata in questa trattazione, ma che altresì è da considerarsi alla stregua del linguaggio poetico e popolare dei Bardi e dei Trovieri di un tempo. Per quanto componente non emerita della cultura ufficiale, eccezion fatta per la lirica medioevale, la ‘poesia popolare’, dapprima tipica della ‘oralità’ declamatoria e solo successivamente trasferita nei simboli della ‘scrittura’ e della notazione musicale che pure ci ha accompagnato fin qui, è di fatto un bagaglio secolare prezioso e indispensabile del quale non possiamo e non dobbiamo fare a meno. Ciò in ragione del fatto che la ‘poesia popolare’ ad uso civile e sociale ha permesso e continua a permettere al passato, anche quello più remoto, di essere attiguo al presente. In quanto consente alla memoria di rapportarsi con le vicende contingenti, nel caso specifico del terremoto che ha colpito l’Emilia-Romagna, e di quanti non hanno potuto e non possono dimenticare.
Ciò a dimostrazione di un ‘fatto culturale’ persistente negli animi e nel pensiero di quanti sono ‘sopravvissuti’ ad eventi catastrofici avvenuti in illo tempore, e che si rinnova ogni qual volta la dinamica sismica prende il sopravvento sul lineare corso degli equilibri naturali. Posto che si tratta di eventi terribili, dei quali la ‘memoria del tempo’ riferisce l’inequivocabile testimonianza d’una caducità irreversibile, a cominciare da quelli di più antica memoria fino a quelli qui di seguito elencati: eruzione dell’Etna (1693); terremoti di Casamicciola d’Ischia (1882), di Messina (1908) con ripercussioni in Sicilia e Calabria, e di Stromboli (1919- 1930); fino alle spaventose tragedie del Vajont (1963) e di Firenze (1966). E, ancora, i terremoti che sconvolsero il Belice (1968), il Friuli (1976), l’Irpinia (1980) e gli ultimi in ordine di tempo che hanno colpito l’Abruzzo (2009), l’Emilia-Romagna (2012), il Centro Italia – Lazio, Umbria, Marche (2016).
Le cui storie di riferimento, almeno quelle più in là nel tempo, sono pervenute a noi grazie alla narrazione ‘orale’ di Cantastorie di strada e dalla viva voce di Poeti cosiddetti a-braccio di umili origini che le declamavano e/o cantavano nei borghi e per le contrade, apprese, a loro volta, dalla gente che credibilmente le aveva vissute, e per questo ritenute attendibili. Narrazioni per lo più di tipo ‘lirico-poetico’ entrate poi nella ‘tradizione orale’ in forma di carmi e canzoni propedeutiche alla formazione di un’unica inequivocabile cultura popolare nostrana; e che solo successivamente ritroviamo, ingentilite e/o impreziosite nella ‘scrittura’ autorevole di poeti e letterati quali Saba, Pasolini, Leydi, Marini, De Simone, Paolini che hanno dedicato ad argomenti specifici (ivi inclusi terremoti, cataclismi, alluvioni,) alcune ‘pagine’ memorabili che non vanno ignorate.
Da non dimenticare inoltre, l’apporto dei numerosi informatori e ricercatori quali Croce, Rajna, Pitrè, Nigra, Barbi, Bosio, Altamura, Pianta, Carpitella, Bosio, Lo Straniero, Cocchiara, Lombardi-Satriani, Di Nola, De Martino, solo per citarne alcuni, che hanno raccolto documentazioni vocali, narrative, teatrali e musicali che nell’insieme formano il patrimonio culturale più autentico della ‘tradizione poetica italiana’. Se mai l’esistenza di una ‘espressione della ‘poesia popolare’ improntata sugli effetti e le problematiche sociali del ‘terremoto’ fosse ancora dubbia, la pubblicazione oggi di una nuova antologia poetica dedicata, come quella qui presa in esame, rivela una dimensione culturale di ben più ampio respiro, che abbraccia tutta la comunità investita dallo sconvolgimento sismico i cui tragici accadimenti abbiamo noi tutti ‘vissuti in diretta’ attraverso i media televisivi e la carta stampata, con articoli, servizi giornalistici, reportage e commenti che hanno impressionato e coinvolto quanti si sono prodigati negli aiuti con spirito di sacrificio, partecipi della sofferenza e del dolore di chi l’ha vissuto in prima persona, e che in egual modo ha visto colpiti il territorio e la popolazione.
Siamo qui di fronte alla narrazione di autentiche sciagure umane e disastri ambientali di grandi proporzioni, inclusivi di tutto quanto si evince nella prefazione di Giuseppe Pederiali, e nelle note dei due curatori Roberta De Tomi e Luca Giglioli, che si sono prodigati nella raccolta e nella diffusione di questa antologia poetica dal titolo suggestivo: “La luce oltre le crepe”, degna di essere annoverata negli annali letterari in quanto ‘testimonianza partecipe’ di un accadimento realmente avvenuto, come appunto l’evento del terremoto in Emilia-Romagna. Tema questo forse non fondamentale ma ricorrente, che riaffiora costante nella ’poesia popolare’ di rilevanza civile e sociale, che restituisce spazio alla ‘voce poetica’ e quindi all’ ‘oralità’ declamatoria, allo stesso modo che alla ‘scrittura’ in quanto mezzo di diffusione mediatica di riferimento, rivolta alla selezione e alla catalogazione dei componimenti come fatto contingente di una realtà triste e dolorosa.
Va qui detto, inoltre, che la scelta degli interventi critici di seguito riportati, non è stata attuata in ordine di un distinguo delle tematiche affrontate, in ragione di una sola tematica presente: il terremoto che ha colpito le regioni dell’Emilia-Romagna. Così come, per un principio di equità della provenienza degli autori stanziali e immigrati presenti sul territorio, non si è tenuto conto dell’uso linguistico italiano o vernacolare con cui i poeti hanno scelto di esprimersi singolarmente. Come neppure dell’attinenza espressiva al tema, la correttezza o no delle locuzioni, la ridondanza verbale, la complementarietà e/o la supplementarietà del fenomeno poetico con altri fenomeni più illustri. Bensì, si è preferito soffermarsi sulla musicalità intrinseca alle parole, ai ritmi e alle assonanze componenti l’intero nucleo ‘poetico-emozionale’ il solo in grado di legittimare l’abbattimento di ogni barriera linguistica e razziale.
Pur tuttavia una scelta andava fatta più per questioni di contenimento degli spazi critici che non per ragioni qualitative, pertanto va detto che ogni singolo poeta presente nella raccolta, nessuno escluso, contribuendo con impegno a una causa onorevole di per sé giusta, ha dimostrato la propria vicinanza umana, sociale e civile alle popolazioni colpite dall’evento sismico con quanto di più umile e discreto ognuno era in grado di disporre: la propria ‘oralità’ e ‘scrittura’ poetica, autentica e amica che spero incontri tra la gente la giusta corrispondenza che merita. Pertanto rivolgo a ognuno di loro, il mio più rispettoso e sentito: ‘grazie’.

Della memoria e dell’oblio.

Allorché il silenzio propaga la sua eco luttuosa su un evento sismico che improvvisamente è arrivato a sconvolgere la natura di un territorio spargendo morte e distruzione, inevitabilmente la popolazione colpita subisce una brusca recessione a causa della perdita del ‘vincolo temporale’ con una parte della ‘memoria’ individuale e collettiva di riferimento che entra in cortocircuito per lo sbigottimento inatteso e lo spavento che ne consegue. “Allo stesso modo che la ‘memoria’ è essenziale per la definizione dell’identità, tra i vari elementi concomitanti, quando una persona incappa in una forma di amnesia, uno di quelli che causa maggiore sofferenza è proprio la perdita del senso del sé” – scrive A. C. Grayling (9). Altresì il comune parlare quotidiano (gergale, dialettale, in lingua) tipico del lessico individuale, non rinvenendo la necessaria corrispondenza con la realtà, segnata dallo sconfinamento in corso in ‘territori emozionali’ diversi da quelli conosciuti, s’arresta basita, chiusa nel proprio ‘silenzio’, davanti a quelli ch’erano i ‘luoghi eletti’ della memoria definitivamente e/o apparentemente perduti.
Accade così che le ‘parole’ rivelino tutta la loro usura, il lessico individuale/familiare e/o collettivo/popolare successivamente si impoverisce a causa della sopravvenuta cancellazione (involontaria) di usi e modi di dire del linguaggio ‘vernacolare/gergale/dialettale’ che gli è proprio; legato com’è al proverbiale quotidiano, utilizzato dal ‘pensiero dinamico’ a custodia e salvaguardia della ‘memoria’ del recente passato. Sono infatti le immagini e i volti di quanti la furia violenta del sisma ha spazzato via con le pietre delle case, le fontanelle agli angoli delle strade, i campanili delle chiese, i monumenti insigni, le piazze e i luoghi di ritrovo che, insieme alle fabbriche, le masserie e i poderi agricoli, sono destinati a restare, almeno per un certo tempo, nei ricordi dei sopravvissuti, in quanto ‘luoghi concettuali’ e/o ‘simbolici’ investigati dalla memoria inarrendevole. “Secondo alcuni ciò che fa di un individuo la stessa persona per tutta la sua vita, è l’insieme dei ricordi che si accumulano nella sua mente e che egli si porta dietro". (10)
Acquisizione questa che trae la propria essenza vitale attraverso l’inestinguibile e vigoroso apporto della ‘cultura’ autoctona e/o trapiantata nel territorio, in cui si sviluppa e sedimenta all’interno della ‘tradizione’, in quanto formativa del ‘corpus memoriae’ più o meno coerente, formato da credenze e pratiche condivise nell’ambito della realtà sociale e della ritualità religiosa. Di cui sono parte integrante le testimonianze di eventi sociali e storici, le usanze e i costumi, le credenze e le superstizioni (Feste patronali religiose, Sagre popolari tipiche della ‘civiltà contadina’, gli Almanacchi e i Lunari) che, per lo più, si rifanno alla ‘cultura orale’, per definizione ‘poetica’ e ‘canora’, cioè non mediata dalla scrittura, in cui la pausa ‘silenziale’ è solo un frammento emblematico delle forme e dei ritmi del linguaggio abituale.
Ma è l’insieme dei ricordi, più o meno consci, più o meno inventati e/o elaborati dalla ‘memoria simbolica’ a trasformare i cosiddetti ‘luoghi elettivi’, in luoghi di raccolta del ‘sentimento del passato’ che ogni singolo individuo si porta dietro come bagaglio di esperienze più o meno vissute, conseguenti al pieno ‘riconoscimento’ avvenuto all’interno della tradizione, e che va esteso alle forme del non umano e/o del soprannaturale. Ovvero a quel ‘sovrumano’ che la consuetudine attribuisce alla natura, all’ecosistema terrestre, al proprio habitat, così come ai concetti formativi e intellettivi, al proprio status di salute ecc. capaci di restituire all’individuo e alla collettività, la sua imprescindibile ‘veridicità esistenziale’ all’interno della significazione umana del mondo.
È nei cosiddetti ‘luoghi della memoria’, in cui si raccoglie l’‘identità’ formativa e/o integrativa dell’esperienza umana, seppure ostentata all’interno di un ambiente fluido e in costante cambiamento, che pure si consolida quel ‘valore’ pregno di ‘significato’ che accorda all’individuo e alla collettività intera di cui è parte integrante. Quell’aspettativa di vita ‘costante’ che rende immuni allo scorrere del tempo le necessità della coabitazione solidale, l’integrità di gruppo e la giustizia sociale che, l’evento sismico, per il potere ineffabile che lo distingue, ha ripetutamente nel tempo, tentato di condurre a una funzione ‘sovrumana’ spontanea, legata alla ‘paura epifanica’ delle origini. Il cui significato estrinseco oggi sfugge alla concepibilità, e per questo non meno ineccepibile di emanazione metafisica e/o trascendentale emblematica del ‘sacro’.
Una sorta di osmosi che porta all’annientamento della cosa materiale in sé, con ripercussioni sullo stato psico-fisico dell’individuo e, in qualche modo, della capacità di coesione con la collettività che lo rappresenta e che si trova a fronteggiare apertamente con i soli mezzi che ha a disposizione, la propria atavica paura dello scontro con gli elementi fenomenologici della natura e lo scoramento per l’impotenza di reagire che ne consegue. Uno scontro prepotentemente impari, in quanto l’evento del ‘terremoto’ arreca come si è visto, oltre allo spavento improvviso, l’angoscia della negatività che incombe sul futuro, senza mai diventare ‘né sapere né possesso’, ma che solo indica l’incompiutezza dell’essere antropico di fronte alla potenza del soprannaturale e/o del prodigio trascendentale. Purtroppo il pregiudizio culturale è qualcosa che frequentemente separa la percezione che l’uomo d’oggi ha di se stesso dalla sua storia passata.
Anche quando tutto ciò contrasta fortemente coi fondamenti della ragione, la scelta conscia e/o inconscia del ‘silenzio della memoria’, non declina l’individuo dall’aggrapparsi al supporto dell’esistenza vissuta, della discendenza e del prosieguo della specie, in ragione di una sopravvivenza possibile. Tuttavia, per quanto dura da sostenere, per superare i condizionamenti che la natura mette in campo quali ostacoli alla contraddittorietà delle intenzioni di difesa della specie, la scelta del ‘silenzio della memoria’ concorre nell’attuare una sorta di ‘rimozione’ forzata e più o meno definitiva dell’avvenimento nefasto, fino a cancellare dal lessico quotidiano le espressioni che lo ricordano più da vicino o che, in qualche modo, riecheggiano il dolore ad esso legato.
Ma se il ‘terremoto’ col suo rombo potente cancella quelle che sono le ‘passioni della mente’, è indubbio che la ragione e/o la memoria, risentano maggiormente della carenza di ‘senso’ nelle parole che le discernono (distinguono, differenziano, caratterizzano). Quelle stesse parole che il ‘silenzio’ dei sopravvissuti raccoglie in sé, e da cui scaturiscono i lemmi luttuosi del dolore e del pianto, l’oralità sospirata della disperazione. Ciò che, straordinariamente, pur si rivelano pregni di una insospettabile vena ‘poetica’ che sovrasta la parola (parlata), e diventa suono, e poi musica, ‘liricità’ epica; attraversa la vocalità orale del mutismo sonoro (pianto rituale, coro muto, barcarole), e che consciamente e/o inconsciamente l’individuo racchiude nel proprio ‘mutismo interiore’.
Ne risulta, comunque, una scelta che svilisce il senso antropologico di ‘sopravvivenza’ che si vuole far emergere in questo scritto, imperniato sul travagliato cammino umano gravato dalla paura. Quella stessa paura che – secondo Umberto Galimberti (11) –“..allontana gli altri, diffondendo intorno a sé un vuoto che più nessuno riesce a riempire; (..) lo si scopre quando è già penetrato per devastare, far tacere, nascondere, negare l’esistenza di un mondo interiore abitato che si vuole disabitare”. Ma che si rivela, infine, il solo mezzo per accettare con sottomissione un ‘continuare a vivere’ che, al contrario, si svelerebbe conflittuale con se stesso, di pari passo con il riconoscimento della struttura del male come privazione di un bene dovuto. Sulla base del ‘possesso’ e della ‘necessità’ che si configura quale ‘rete di dare e di ricevere’ che conduce alla realizzazione (per quanto possibile) del proprio benessere individuale e comunitario.
Si tratta di una concessione a parere di molti eccessiva che implica una diversa cognizione del ‘tempo-intermedio’ che passa dalla profondità psichica del dolore (trauma psicologico subito), alla ‘rimozione’ del dolore stesso (come reazione psicologica); dalla ‘memoria’ che ne accantona il ricordo instaurato con la rappresentazione luttuosa (evento escatologico), ai recessi di un’ostilità preconcetta che spinge verso l’ ‘oblio’ più profondo. Stando a Plutarco: “l’oblio, trasforma ogni evento in un non-evento”, fondando la sua concezione sull’assunto che vede nella ‘memoria’ un organo della percezione del passato, proprio come gli occhi e gli altri sensi sono organi della percezione del presente. Franco Rella (12) parla invece del ‘dolore’ come “..la ripetizione dell’inconscio (individuale e/o collettivo) che si propone come atteggiamento ontologico nuovo: diametralmente diverso, nei confronti del presente e del passato, che tuttavia, (per reazione conforme), rende pensabile anche una diversa costruzione del futuro.”
Un ‘sentire’ comune che è anche un ‘ricordare’, seppure a un livello metafisico, consapevole della precarietà e la caducità del presente che si lascia vivere, e la cognizione del futuro altrettanto precario che incombe. Lo stesso che, nel punto della sua massima resistenza e di massima tensione, ha prodotto in passato l’idea avanzata del pensiero psicoanalitico di Sigmund Freud (13), per cui i due eventi si equivalgono, in quanto “..il ricordare è sempre un rivivere, viceversa la rimozione di un ricordo, rende più difficile che il fatto storico si ripeta due volte alla stesso modo, per quanto, se associato da alcune persone ad un altro ricordo individuale non rimosso, potrebbe, accadere che dall’inconscio tenda ad emergere nella memoria collettiva”, formatasi in ambito filosofico e maturata all’interno del concetto dinamico (metastorico) che l’ha consegnata alla tradizione.
Alla ‘memoria collettiva’ in ambito antropologico e storiografico, si attribuisce l’accezione strutturale di estensione del concetto di ‘memoria individuale’ in quanto, in entrambi i casi, sussiste una condivisione in termini; cioè sia nel caso della memoria esterna (collettiva), sia interna (individuale), questa va comunque riferita a un’unica entità formativa (popolazione, comunità, gruppo sociale, ecc.) in cui, verosimilmente, si è plasmata e ha dato forma al corrispettivo ‘topos’ culturale che, tramandato da una generazione all’altra attraverso le diverse forme della comunicazione (oralità, scrittura, immagini ecc.), in esso si esprime e si rappresenta. Benché ognuno di noi non ne sia consapevole, si profila in questa corrente della filosofia contemporanea, scrive inoltre MacIntyre: “..una crescente rilevanza di risultati derivanti dagli straordinari risultati che ha ottenuto, concernenti la natura del linguaggio e la varietà di modi in cui l’uso del linguaggio ci consente di stabilire relazioni con i nostri interlocutori o con ciò di cui parliamo.” (14)
Nel caso specifico del ‘terremoto’ qui preso in considerazione, la tematica contestualizzata della ‘memoria culturale’ non è sufficiente a colmare ‘il silenzio delle parole’ che anche a noi, argonauti del web e della comunicazione, vengono meno nel momento in cui il rumore roboante del ‘terremoto’ s’accompagna ai crolli, ai cedimenti, alle crepe che attraversano i muri che si sgretolano come sabbia al vento; mentre il suo boato è causa di sbigottimento e paura che, almeno stando alle cronache si ripete con gli stessi effetti disastrosi sugli esseri umani in ogni parte del mondo in cui esso si verifica. Su tutto ci sono oggi i reportage e i commenti che circolano sulla carta stampata e sugli schermi TV che permettono un resoconto in tempo reale di quanto intorno è inaspettatamente cancellato alla vista, e le registrazioni verbali dei sopravvissuti che sull’eco del rombo sismico fanno sentire le loro ‘voci’ accorate, in via di cancellazione dal lessico della memoria.
Certamente di interesse antropologico è il substrato della coscienza sociale cosiddetta ‘di specie’ che s’intreccia con lo studio dell’evoluzione umana (anamnesi di famiglia, DNA, ecc.), che col passare del tempo è andata acquisendo valore di capitale mnemonico importantissimo per lo studio del formarsi nell’identità individuale e/o collettiva di quel ‘paesaggio dell’anima’ che si delinea a livello introspettivo. Non è affatto strano che da questo punto di vista pur rappresentativo della consuetudine di usanze entrate nella tradizione, la singola ‘identità’, esca in qualche modo arricchita dall’esperienza del ‘terremoto’, almeno per la parte che gli concerne. Cioè nell’identificazione di uno ‘spazio’ materiale e/o simbolico cosiddetto ‘luogo della memoria’, nel quale è attivo un processo di produzione di ‘senso’ che, facendo leva sulla continuità col passato, lo rinsalda e funzionalizza alle esigenze del presente senza stravolgere la quieta consuetudine dell’ordine delle cose.
Anche la sociologia gioca qui un suo ruolo importantissimo, onde rileva realtà diverse di un concetto fluido (oggi diremmo liquido) che si intrecciano a formare un’unica ‘identità’ modellata non solo sul ‘vissuto’ personale e di gruppo, ma anche sulla storia biologica degli esseri umani. Vissuto che trasforma un sito (amato, cancellato, dismesso, tragicamente ricordato), in un ‘‘luogo’ della memoria’: sia esso un monumento, un evento storico o un anniversario; una cerimonia, uno sventolare di bandiere e canzoni, oppure la narrazione di leggende e racconti o l’enunciazione di poesie e filastrocche, il cui soggiornare nella memoria, da forma a uno ‘spazio simbolico’ di riferimento, avente significato e/o un valore di mero riconoscimento all’interno della tradizione. Come ad esempio, un luogo di elezione familiare e/o abitativo che sa di focolare acceso, dell’odore del pane appena sfornato, del profumo di bucato dei panni stesi al sole, delle grida allegre dei bambini che giocano nei cortili, degli sguardi severi sui volti dei vecchi seduti all’aperto che, discutendo fra loro, dimenticano le brutture del passato, per allentare le tensioni del presente che incombe.
Come anche del non parlare delle paure ‘inattese’ e delle lacrime ‘amare’ versate perché non fanno rumore, e di tutti quei ricordi che l’evento sismico improvvisamente ha cancellato, quasi non fossero mai stati. Insieme alle cose materiali che (e il dubbio viene) sembrano soltanto ‘sognate’ all’interno di quel ‘mondo interiore’ costruito sul parlare comune, di ‘verità’ spesso sconosciute che non hanno più ragione di essere. E che pure permette di entrare in contatto con eventi precedenti seguendo le tracce che esse hanno lasciato nella loro mente, per convinzione e/o per convincimento, per cui i nessi causali fra le esperienze fatte e i ricordi del presente formano un ponte con il passato. Come anche suggerisce Umberto Eco (15): “Questo intrico di memoria individuale e collettiva che allunga la nostra vita, sia pure all’indietro, e ci fa balenare davanti agli occhi della mente, una promessa di immortalità”.
Come anche ha sottolineato Paul Ricoeur (16), la problematica della ‘memoria’ incrocia quella dell’ ‘identità’ tanto a livello collettivo quanto individuale: “Il cuore del problema è la mobilitazione della memoria al servizio della richiesta della rivendicazione di identità”; in quanto tra memoria e identità esiste un legame forte per cui le ragioni di debolezza e vulnerabilità dell’una, vanno ricercate nella fragilità dell’altra in cui la ‘memoria’ rappresenta la “componente temporale dell’identità”, che permette a quest’ultima di risollevare il difficile rapporto con il ‘tempo che passa’ e di proiettarsi verso il ‘tempo a venire’. In pieno accordo con quanto rileva Paola Massa (17) che infatti fa ricorso a come: “Nella dialettica tra passato e futuro, tra ciò che è stato e potrà essere, i luoghi di memoria si costituiscono come universo di simboli nel quale l’intento di conservazione della memoria storica collettiva coincide con il progetto di fondazione dell’identità culturale della collettività stessa”.
Tempo che improvvisamente deflagra, perché un inaspettato assordante silenzio, “che è difficile da descrivere”, lo scardina nel profondo, spesso arrivando fino a soppiantare la ‘memoria civile e sociale’ di un’intera realtà territoriale, contadina e industriale come quella della Bassa che nella conservazione del territorio e delle tradizioni popolari, riponeva una certa ‘continuità’ affettiva della ‘memoria’. Almeno stando a Pierre Nora (18), per il quale: “I luoghi della memoria, non sono ciò di cui ci si ricorda, ma il ‘dove’ in cui la memoria lavora; non la tradizione stessa, ma il suo laboratorio”, configurando così una topografia simbolica che, anche se non sempre coincide con il ricordo, viene costruita e talvolta inventata attraverso la ‘memoria’ e costituisce il prodotto di un processo di elaborazione del ricordo nell’oblio, consentendo all’anima un minimo di introversione.
Processo che almeno sul piano collettivo e/o comunitario è consapevolmente gestito e guidato da determinati gruppi sociali (clan, gruppi societari, consorsi familiari, banche locali e altri) che si muovono relativamente alle proprie disponibilità economiche e di mezzi, e si riorganizzano sul territorio per recuperare parte del ‘passato di memoria’ (palazzi, scuole, ospedali, cimiteri, monumenti, ecc.) che servono alla ripresa della vita sociale e civile dei sopravvissuti al fine di restituire loro una qualche ‘identità’ e una forma di vita decorosa. La stessa che fino a ieri pure assicurava una qualche continuità di sussistenza (affetti, casa, lavoro, identità ecc.), e che si ritrovano oggi a vivere un presente indeterminato, cosparso di ‘paura’ e di ‘dolore’, a fronte di un futuro presumibile di precarietà. “Esiste infatti una geometria del silenzio – scrive ancora Pierre Nora (19) – che penetra come una linea retta e che talvolta respinge, come una linea convessa, tutto quello che incontra..”, e che si delinea con rigore razionale, solo in quanto referente di un passato di conservazione della tradizione.

Della paura e del dolore.

Se consideriamo la ‘paura’ un riflesso dominato dall’impulso riflessivo e/o istintivo che irrompe ogni qual volta si presenta un condizionamento della libertà e/o incolumità a causa di una reale situazione di pericolo, come nel caso del ‘terremoto’ oggetto di questa trattazione, ècco subentrare nell’individuo una certa difficoltà di reazione che sfocia nell’istintiva protezione del proprio corpo e/o la ricerca di aiuto per se stesso e per gli altri (familiari, parenti, amici ecc.). Ciò provoca la successiva modifica delle azioni comportamentali che interagendo sui circuiti ‘emozionali’ del cervello, trasformano la ‘causa’ in ‘effetto’ dando luogo ad altrettante patologie psicologiche più o meno permanenti come: ansia, panico, timore, insicurezza, che sono vissute con profondo disagio dagli individui toccati dal sisma.
Disagio che talvolta diventa autentico malessere che lascia l’individuo nello sconsolato ‘abbandono’ delle proprie forze, inibendo ogni suo atteggiamento oggettivo, in quanto agisce sullo stato intimistico e/o egoistico dell’individuo mettendo a repentaglio le sue già precarie difese psico-fisiche al di là di tutte le convenienze, i calcoli e le forti negatività esperienziali che, se ripetute, portano alla destrutturazione dell’‘identità’ costruita con sacrificio d’intenti, e che di per sé è incommensurabile e causa di maggior ‘dolore’. Identità che nel pensiero metodologico ‘liquido-moderno’ innescato dal sociologo Zigmunt Bauman (20), asseconda la ‘paura’ e ne sviscera i diversi aspetti originali: (paura della morte, orrore del male ecc.); arrivando fino alla dinamica d’uso (volontà intrinseca, necessità della paura); alla ripugnanza per l’ingestibile (precarietà e insicurezza come derivati della paura) e oltre, fino al terrore globale (problematicità e catastrofismo insito nella paura).
Finanche a giungere, nella sua efficace analisi, a proporre ‘rimedi’ o, perlomeno, precauzioni e suggerimenti per affrontare la ‘paura’ più diffusa, che egli ritiene nata e alimentata dalla nostra costante insicurezza, e cioè “la paura di avere paura”, come appunto osserva: “..la vita liquida è quella che scorre fluida, o si trascina, da una sfida all’altra, da un episodio all’altro, (..) mentre i pericoli che innescano le paure hanno finito per apparire compagni permanenti e ‘inseparabili’ della vita umana anche quando si sospetta che nessuno di essi sia ‘insormontabile’. (..) Pertanto, abbiamo “..ragione di considerare le probabilità negative troppo alte per giustificare la misura rischiosa, o troppo basse per dissuaderci dal correre il rischio” di combatterle, per altro evidenziando il paradosso di una “conclusione provvisoria per chi si chieda che fare”. (21).
Tuttavia lo schema cui Bauman affida le possibilità di una risoluzione della ‘paura’, non è dimostrativo, bensì ‘conoscitivo’, in quanto discopre alla ragione quanto c’è nel substrato umano di tipo psicologico, le cui certezze sono messe a rischio dal continuo mutare delle ‘paure’ cui l’individuo va soggetto: dal ‘millenium bag’ alla febbre ‘aviaria’ o la ‘mucca pazza’; dalla minaccia del ‘buco nell’ozono’ alla ‘sofisticazione alimentare’ o la ‘guerra batteriologica’ la cui capacità distruttiva potrebbe mettere a dura prova la sopravvivenza umana definitivamente. Sebbene queste siano solo le grandi calamità più o meno denunciate che riportano alle apocalissi bibliche di là da venire, in verità, non c’è nulla di ‘apocalittico’ nel suo dire, se non che ci mette di fronte alle ‘paure’ cui andiamo incontro, riguardanti il presente e la capacità di ‘sopravvivenza’ economico-sociale, culturale e politica che reclamano a gran voce un futuro degno di fiducia.
Dobbiamo notare che la ‘calcolabilità’ (di rischio) non significa prevedibilità, ciò che si calcola è solo la ‘probabilità’ che le cose vadano davvero male e che sopraggiunga il diluvio finale, mettendo in luce un aspetto della ‘paura’ tutt’ora sotterraneo, scaturito dalla sindrome spaventosa della ‘catastrofe personale’ per cui si teme di essere presi ‘a bersaglio’, di essere personalmente distrutti “..per essere lasciati indietro, di essere (definitivamente) esclusi”. I riferimenti sono per lo più imputati alle nostre ‘paure’ quotidiane, ma ciò non sorprende – lascia intendere ancora Bauman (22): “..possiamo preoccuparci solo delle conseguenze indesiderabili che siamo in grado di prevedere, e soltanto queste possiamo cercare di evitare, (..) prosperando sulla speranza / aspettativa / fiducia che, grazie alla continuità tra il presente e il futuro, farà la differenza, e determinerà la forma del futuro.”
Un aforisma che mi sento di cogliere in Bauman è il seguente: “L’incomprensibile è diventato normale. (..) Irreparabile.. irrimediabile.. irreversibile.. irrevocabile.. senza appello.. il punto di non ritorno.. il definitivo.. l’ultimo.. la «fine di tutto». Esiste uno e uno solo evento cui si possano attribuire a pieno titolo tutte queste qualificazioni nessuna esclusa. (..) Quell’evento è la ‘morte’. (..) La morte incute paura per via di quella sua qualità diversa da ogni altra: la qualità di rendere ogni altra qualità non più superabile. (..) È per questa ragione che la morte è destinata a restare incomprensibile a chi vive, e anzi non ha rivali quando si tratta di tracciare un limite realmente invalicabile per l’immaginazione umana. L’unica e la sola cosa che non possiamo e non potremo mai raffigurarci è un mondo che non contenga noi che ce lo raffiguriamo.” (23)
“L’endemico nella morte sta nella personificazione dell’ ‘ignoto’, l’unico tra tutti gli ignoti che sia pienamente e veramente ‘inconoscibile’.” Con ciò il sociologo sembra voler contrastare e/o neutralizzare, la ‘paura’ che non viene con l’arrivo della morte, bensì che trasuda dalla consapevolezza che sicuramente prima o poi essa arriverà. Per poi spingersi oltre, e spezzare una lancia in favore di questa umanità defraudata della speranza, scolpendo una sua frase sulla dura pietra della filosofia: “Soltanto noi uomini sappiamo che la morte è inevitabile (sebbene non ce ne facciamo una ragione), e siamo alle prese con il compito tremendo di sopravvivere all’acquisizione di tale consapevolezza, con il compito di vivere con – e nonostante – la nozione dell’inevitabilità della morte”. (24)
Per la stessa ragione, come scrive Maurice Blanchot (25) che: “..l’uomo non è a conoscenza della morte solo in quanto uomo, ma piuttosto è uomo solo in quanto è morte nel divenire”. E questo è esattamente l’operato del sociologo che è in lui, ‘decodificare’ ciò che in filosofia è criptico e incomprensibile alla globalità; far affiorare e gestire le ‘paure’ antropologiche legate a origini animistiche e superstiziose occultate dal pensiero ermetico, volutamente oscuro, impenetrabile e imperscrutabile, allo scopo di rendere l’umanità consapevole del proprio esistere, del proprio abitare su questa terra, cioè: “..rendere possibile vivere nell’inevitabilità della morte”, considerando la ‘paura della morte’ non come metafora di se stessa, bensì in ciò che C. G. Jung (26) nella sua infinita ricerca e con grandissimo acume ha trasformato in ‘archetipo’ originario, modello stesso di vita.
“La cognizione del dolore” (27), titolo del romanzo di C. E. Gadda, bene si attaglia al ‘senso’ che qui si vuole dare alla sofferenza angosciosa che segue al dispiacere per la perdita dei propri cari e comunque degli affetti cui un individuo e/o una collettività è legata per tradizione. Vuoi per attaccamento dovuto alla familiarità, all’ereditarietà o al costume; vuoi per condizione umana verso la propria gente, il proprio territorio e il luogo di nascita, così come verso i ‘valori affettivi’ aggiunti che permettono di ricordare i momenti salienti e forse migliori d’ogni singola vita. Ciò nonostante un’ulteriore riflessione si rende qui necessaria, e ancora una volta concentrata sull’evento sismico, che riguarda sia la componente percettiva ed esperienziale del ‘dolore’ di tipo psico-fisico (razionale); sia quella prettamente psico-filosofica (irrazionale) messa in campo come reazione alla ‘sofferenza intellettiva’, all’unico scopo di discriminarne l’intensità a livello cerebrale, cioè spostando il ‘centro’ di provenienza dello stimolo pregiudizievole alla più determinata dimensione cognitivo-emozionale, trasferendo le esperienze negative del passato ai fattori benefici della creatività odierna.
Una risposta empatica che ripropone l’individuo bisognoso delle necessità più elementari, sul piano della combattività per la sopravvivenza, concedendogli un potere immenso di trasformazione come investimento di futura continuità, per alcuni, non meno importante del cibo e dell’acqua per il proprio sostentamento. Il riferimento alla ‘cultura’ è lapalissiano in quanto la ‘conoscenza’ di un individuo e/o di una collettività, esercita un ruolo cruciale nell’era della competizione globale per continuare a vivere il presente e immaginare il proprio futuro. Una risposta reagente che esamina l’esperienza del ‘dolore’ fisiologico come sintomo vitale/esistenziale di difesa, atto a promuovere e accrescere quelle potenzialità individuali che, in qualche modo, contribuiscono a migliorare la qualità della vita. Risposta che sa di mera consolazione e tuttavia sorprendente della natura umana, proprio perché rende possibile la speranza e il possibile ritorno alla felicità. Si dice che il dolore sia uno dei più profondi maestri di saggezza, uno degli insegnamenti principali che esso impartisce è proprio il riconoscimento della sua importanza nella trama delle cose.
Potenzialità queste, successive all’impatto emozionale dell’evento sismico che oltre a dare risposte comunque spontanee, spingono al maggiore impegno, alla comprensione, alla cooperazione e a un diverso approccio immaginativo e creativo che, messo in campo da rinnovati fattori socialitari e/o culturali, tende a contrastare la perdita dei valori tradizionali. Il cui crollo definitivo comporterebbe nell’individuo un’inquietudine profonda che va considerata nella sua singolare realtà di sofferenza e, più in generale, in quella pluralistica di collettività umana ferita. Soprattutto quando si è messi di fronte a un evento sismico che ancora una volta ha colpito duro, così come ‘dure’, perché fortemente esperienziali, risultano alcune delle poesie incluse in questa antologia che pure risentono della sofferenza se non fisica certamente interiore.
Del resto, da sempre il ‘terremoto’ ha sviluppato di queste forme pseudo-letterarie, poetiche e narrative, tanto negli strati autorevoli e qualificati urbanizzati, quanto fra le popolazioni delle egemonie regionali e contadine e non solo, anche fra i disoccupati e gli emarginati, fra gli emigranti e gli integrati che, al pari degli stanziali delle città, hanno vissuto e, in qualche modo, subito con rassegnazione e paura l’evento sismico, talvolta con maggiore precarietà di altri. In molti casi, infatti, scrittori forse anche improvvisati, testimoniano in questa raccolta la loro presenza con poesie in versi sciolti, per quanto particolarmente efficaci, che nel dolore e nella disperazione, pur riflettono di una condotta consapevole della fragilità umana, a conferma di una ‘speranza di vita’ che non è mai venuta meno …

“..perché anche il dolore è vita”. (Valerio Zurlini)

(prosegue)






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- Società

8 Marzo Giornata Internazionale della donna

Giornata Internazionale della Donna

"Lo sport contro la violenza sulle donne. Per vincere insieme" con Lucia Ianniello Quartet in collaborazione con Il "GS Flames Gold - IAPS Associazione no Profit", l'etichetta di dichi "AlfaMusic".

28Divino Jazz - Via Mirandola, 21 - Roma - Info/Prenotazioni: 340 8249 718 - www.28divino.com

Per la "Giornata Internazionale della Donna", in collaborazione con Il "GS Flames Gold - IAPS Associazione no Profit", l'etichetta discografica "AlfaMusic" e la "Nazionale Italiana Jazzisti", il Jazz club romano "28Divino Jazz" presenta, nell' ambito dellla rassegna del mese di marzo "Pinky High Jazz" , il concerto
"Identity & Freedom ! Woman I Love You.." del Lucia Ianniello Quartet.

La serata sarà a sostegno di visibilità del progetto "Lo sport contro la violenza sulle donne. Per vincere insieme" presentato il 21 novembre 2016 presso il Consiglio Regionale del Lazio come "Campagna di sensibilizzazione a valenza nazionale" e in collaborazione con il Dipartimento delle Pari Opportunità e Agenzia Nazionale per i Giovani (Presidenza del Consiglio dei Ministri), CONI, ed Enti di Promozione.

Mercoledi 8 Marzo ore 21.30
LUCIA IANNIELLO QUARTET
"Identity & Freedom ! Woman I Love You..."
Lucia Ianniello, tromba, flicorno
Cristina Patrizi, basso el.
Paolo Tombolesi, tastiere
Andrea Poilinelli, sassofoni, flauto

La trombettista Lucia Ianniello, con Andrea Polinelli (sax), Paolo Tombolesi (tastiere) e Cristina Patrizi (basso), incontra il sensibile pubblico del 28DiVino Jazz Club, in occasione della Giornata Internazionale della Donna. Quale migliore occasione per presentare un repertorio di brani di grandi compositrici della storia del jazz: autrici come Carla Bley, Maria Schneider, Meredith Monk, Consuelo Velasquez, senza trascurare le italiane Rita Marcotulli, Ada Montellanico, Lucia Ianniello. Un omaggio particolare infine alla compositrice e virtuosa cantante Barbara Strozzi, esponente di rilievo della musica barocca. Ampie aree saranno dedicate all’improvvisazione collettiva, nelle quali la sensibilità umana prende il sopravvento e regala a chi ascolta melodie contrappuntistiche delicate ed architetture coraggiose ed eleganti.

“Periodicamente il jazz italiano riserva belle e sostanziose sorprese al femminile. Ad esempio l’eccellente trombettista e flicornista Lucia Ianniello, campana di nascita, romana d’adozione, che sigla con Maintenant un eccellente esordio. Tessiture modali, momenti di improvvisazione pensosa e rarefatta (...) Non c’è batteria, e ne risalta l’aspetto cameristico del tutto.” G. Festinese – Alias (il manifesto) 23 gennaio 2016
“(...)Vanno sottolineate le sofisticate architetture che sovrintendono i brani (...) le scelte di campo sempre attente, precipue, la capacità di saldare, ma al tempo stesso differenziare, timbricamente e nelle dinamiche, le voci in gioco.” A. Bazzurro - Musica Jazz, febbraio 2016

Info Lucia Ianniello: www.luciaianniello.com

Presentazione attività GS Flames Gold – IAPS
Il GS Flames Gold - IAPS Associazione no Profit, ha per scopo l'affermazione dell'ideale sportivo e non solo, quale strumento di formazione ed elevazione della persona e di solidarietà tra
gli uomini e i popoli, attraverso l'organizzazione in proprio o in collaborazione con Enti, Associazioni, etc. di convegni, seminari culturali o artistici, eventi sportivi, al fine della condivisione di quei valori morali e culturali propri di una società civile.

Anno 2015
• Torneo di calcio Metropolitano Interforze ed Enti Pubblici, Roma;
• Trofeo ciclismo amatoriale “ Velitrare - città di Velletri”, Velletri;
• Convegno “ Inclusione Sociale, Sport e Disabilità”, Roma;
• Tornei di calcio nell' ambito del Progetto “No Limits Sport” a favore delle Associazioni con
ragazzi disabili o affetti da malattie rare; Albano Laziale, Roma, Rieti

Anno 2016
• Febbraio: Manifestazione sportiva a sostegno dell' Associazione AIDEL 22 Onlus, Roma;
• Marzo: Convegno “Bullismo, Cyberbullismo e Sicurezza”, Roma;
• Marzo : Manifestazione sportiva a sostegno della Donazione di Sangue, Roma;
• Aprile : Convegno “Donne e Violenza Domestica”, Roma;
• Maggio: Convegno “ Turismo sociale, migrante e sportivo”, Roma;
• Giugno: Convegno “ Stalking: profili sostanziali, processuali e attività di contrasto”,
Viterbo;
• Ottobre: Convegno “ Sport, Alimentazione e Benessere”, Roma;
• Ottobre: Tavola Rotonda sul femminicidio , Nettuno;
• Novembre: Tavola Rotonda sul disagio minorile in Calabria, Crotone;
• Dicembre: Convegno “ Prevenire la violenza sulle Donne attraverso lo Sport”, Latina;

Anno 2017
• Febbraio: Convegno “ Prevenire la violenza sulle Donne attraverso lo Sport”, Civita
Castellana;
• Febbraio : Convegno “ Mobbing, Straining, Stalking”, Terni;
• Febbraio: Tavola Rotonda sul femminicidio, Banca d'Italia, Roma
In data 21 novembre 2016 questo GS Flames Gold – IAPS in collaborazione con il Dipartimento delle Pari Opportunità e Agenzia Nazionale per i Giovani (Presidenza del Consiglio
dei Ministri), CONI, Enti di Promozione Sportiva, Etc. ha presentato presso il Consiglio Regionaledel Lazio, la Campagna di sensibilizzazione a valenza nazionale “ Lo Sport contro la violenza
sulle Donne. Per vincere insieme”.
GS Flames Gold - IAPS : Tel. 3884247028 – flamesofgold@outlook.it

Presentazione NAZIONALE ITALIANA JAZZISTI

Il jazz è un gioco di squadra, e il calcio pure. Nel jazz si improvvisa, nel calcio un po' meno, però quando gira un fuoriclasse, l'improvvisazione è all'ordine del giorno. Anzi, diventa elemento essenziale dello spettacolo. Quando si suona in un'orchestra, per esempio, c'è qualcuno che dirige, qualcuno che è in prima linea, qualcuno che serve solo per accompagnare, i gregari che senza di loro si faticherebbe a rimanere in piedi. E poi c'è il bomber, il solista.

Negli ultimi anni il jazz italiano sta ritrovando un periodo di grande fertilità, i nostri vengono chiamati a incidere dischi per case discografiche internazionali, girano per festival in tutto il mondo. E da noi, crisi permettendo, sopravvivono Jazz club, festival, rassegne, promoter, amanti, amatori e professionisti. Manca, però, una realtà che sia in grado di unire e avvicinare tutti i diversi personaggi che lavorano e operano attorno a questa grande musica.

L'inizio: Un giorno di tre anni fa proprio due operatori del settore, Marco Valente (produttore discografico di Auand records) e Federico Scoppio (giornalista, scrittore, autore e regista radiofonico) si incontrano e si svelano il loro sogno comune: una nazionale del jazz italiano. “Togliamoci gli strumenti e mettiamoci gli scarpini” si dicono. Detto… fatto!

La Nazionale Italiana Jazzisti di Calcio è rappresentata dai Presidenti Onorari Franco D’Andrea e Enrico Pieranunzi. Membri della Nazionale sono nomi molto noti del jazz italiano (i trombettisti Paolo Fresu e Fabrizio Bosso, I batteristi Roberto Gatto e Fabrizio Sferra, i sassofonisti Stefano Di Battista, Javier Girotto e Rosario Giuliani, il trombonista Gianluca Petrella, il Crooner Max Paiella e tanti altri) e ci sono molti giovani, future stelle del nostro panorama musicale (Francesco Ponticelli, Matteo Bortone, Alessandro Presti, Daniele Sorrentino) con tantissimi altri musicisti attivi nel panorama musicale italiano. Prerogativa della squadra è anche l'apertura a tutte le figure professionali che ruotano attorno al settore: dai giornalisti (Davide Camerlengo e Matteo Strada), ai gestori di Jazz Club (Fabio Giachetta del "Ricomincio da Tre" di Perugia), dai fotografi (Elvio Maccheroni di Young Jazz) ai produttori discografici (Fabrizio Salvatore di Alfa Music). Non ultimi i direttori artistici dei festival (Sergio Gimigliano del Peperoncino Jazz Festival) e i dj (Max De Tomassi e Raffaele Costantino). Sin dal suo esordio l’Associazione “Libera contro le Mafie” di Don Ciotti, supporta eticamente la squadra e sulla maglia è presente anche il suo logo.

Oltre alle partite ufficiali, la NIJ cambia pelle e si trasforma in squadra di calciotto per giocare contro squadre nelle carceri italiani, per prendere parte a tornei di beneficenza di qualsiasi tipo. E poi, molti dei partecipanti, si riuniscono ogni settimana per un allenamento. Si corre, si scherza, si suda, si gioca, si pensa a come si possa fare del bene alla gente e come si possa recuperare soldi per azioni di solidarietà.

Solidarietà: La vittoria più importante della Nazionale Italiana Jazzisti è quella in favore della solidarietà: nelle tre gare ufficiali (luglio 2013, 2014 e 2015 sempre a Perugia, ad aprire la kermesse musicale dell'Umbria Jazz Festival) sono stati venduti oltre 10.000 biglietti e raccolti fondi per un totale di 75mila euro devoluti alle varie associazioni coinvolte (l’Associazione Giacomo Sintini, che sostiene la lotta contro il cancro, l’A.U.L.C.I., Associazione Umbra per la Lotta alle Cardiopatie Infantili, e l’Associazione Avanti Tutta Onlus che opera per l’introduzione della pratica sportiva nei protocolli di terapia contro il cancro).

Prossime tappe: La Nazionale Italiana Jazzisti Onlus contribuisce direttamente alladevoluzione degli incassi delle iniziative alle tante altre Associazioni e strutture che hanno bisogno di un sostegno e di un aiuto anche economico. E sono ancora parecchie le partite in programma: a L'Aquila in occasione della Giornata del Jazz per L'Aquila (settembre 2017), a Berchidda per il Festival Time in Jazz (agosto 2017) e altro ancora.

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- Poesia

Callisto incontri poetici a Palazzo Grimani a Venezia


‘Callisto’ un ciclo di incontri poetici a Palazzo Grimani - Venezia

Parte’ CALLISTO’, ciclo di incontri poetici a PALAZZO GRIMANI a Venezia - con Federico Rossignoli, Sandro Pecchiari, Fulvio Segato, Erminio Alberti (3 marzo), Alejandra Craules Bretón, Anna Belozorovitch, Alessandro Jacopo Brusa, Rachele Bertelli (7 aprile), Gianmario Villalta, Giovanna Rosadini Salom, Alberto Toni (5 maggio), Silvia Secco, Rachel Slade, Ilaria Boffa, Flaminia Cruciani (9 giugno), Flavio Almerighi, Luigi Oldani, Gabriella Musetti, Marina Pizzi (7 luglio).
Dopo il successo di "Una scontrosa grazia", ciclo di eventi a Trieste, la Samuele Editore, Casa Editrice pordenonese specializzata in poesia, propone un nuovo ciclo di incontri a Venezia.

In collaborazione con il MiBACT - Polo Museale del Veneto e con la SMAV Scuola di Musica Antica Venezia, Alessandro Canzian (Samuele Editore) e Federico Rossignoli propongono presso PALAZZO GRIMANI cinque appuntamenti a tema:

3 marzo "Il Mito" - con Federico Rossignoli, Sandro Pecchiari, Fulvio Segato, Erminio Alberti

7 aprile "L'Eros" - con Alejandra Craules Breton, Anna Belozorovitch, Alessandro Brusa, Rachele Bertelli

5 maggio "Le voci dei poeti" - con Gianmario Villalta, Giovanna Rosadini, Alberto Toni

9 giugno "La Mistica" - con Silvia Secco, Rachel Slade, Ilaria Boffa, Flaminia Cruciani

7 luglio "Le Metamorfosi" - con Flavio Almerighi, Luigi Oldani, Gabriella Musetti, Marina Pizzi

La formula degli incontri prevede un'introduzione musicale a cura della Scuola di Musica Antica, una lettura dei poeti e una discussione sul tema con particolare attenzione al mito e alla sua contemporaneità. A seguire, come d'uso per la Samuele Editore, sarà aperto un open mic dove i presenti potranno proporre un proprio testo.

Tutti gli incontri si svolgeranno alle 16.30.
Si consiglia la prenotazione al 0412411507.

www.samueleeditore.it
www.palazzogrimani.org

LABORATORI POESIA
Nuova modalità di invio delle proposte di recensione e segnalazione in Laboratori Poesia . Corsi di Lettura e Scrittura Poetica individuali e di gruppo – Corsi personalizzati via mail – Editing – Ritiri Poetici.

Laboratori Poesia è un Portale che ha l'obiettivo di raccogliere tutte le news più importanti inerenti la Poesia. Con un flusso quotidiano di pubblicazioni Laboratori Poesia punta alla diffusione e condivisione anche internazionale (con traduzioni) della Poesia, punta alla riflessione con recensioni e note di lettura, e all'informazione dei Concorsi letterari più interessanti in Italia.

Integrato nel Portale è presente anche l'offerta di servizi inerenti la Poesia. Il progetto prevede differenti opzioni: Editing dei testi poetici che viene svolto via mail e/o via sito (nell'apposita pagina personale), Corsi di Lettura e Scrittura Poetica di gruppo e individuali anche via sito (nell'apposita pagina personale), Ritiri Poetici che si svolgono in tutta Italia.

L'Editing consiste in un confronto poetico che ha come obiettivo il miglioramento dei testi proposti.

I Corsi di Lettura e Scrittura Poetica sono una vera e propria offerta formativa basata sul confronto finalizzata ad apprendere la ‘lettura delle poesia’ che ha come conseguenza la ‘consapevolezza di ciò che si ha da dire’ e infine la Scrittura come laboratorio.
I Ritiri Poetici sono incontri residenziali di dialogo e lavoro di editing intensivo sui testi dei partecipanti.

www.samueleeditore.it

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- Musica

Serata eccezionale con Luigi Masciari

Serata eccezionale alla Casa del Jazz by Tosky Records
Giovedì 23 febbraio dalle ore 21:00 alle ore 0:00

Il chitarrista Luigi Masciari in ‘The G-Session’
con Fabio Giachino (Fender Rhodes), Roberto Giaquinto (Batteria), ospite la cantante Oona Rea, presenta il suo nuovo cd album il cui titolo è preso in prestito dall'omonimo studio di Brooklyn che ha fatto da cornice a questo suo ultimo lavoro come band leader, accompagnato per l'occasione da due autentici fuoriclasse. Sonorità care al Jazz newyorkese senza mai perdere di vista l'originalità, caratteristica che contraddistingue Masciari come eclettico e ispirato compositore, un mix di groove e intensi momenti melodici

Luigi Masciari chitarrista e compositore, è docente di chitarra jazz in diversi conservatori italiani, ha all’attivo diversi dischi,sia a proprio nome che come sideman, si esibisce regolarmente con diverse formazioni collaborando sia stabilmente che occasionalmente con artisti di spicco del panorama jazzistico nazionale ed internazionale.(Danilo Rea, Paolo Damiani, Aaron Parks, Paul Mc-Candless, Javier Girotto, Rosario Giuliani, Francesco Bearzatti, ed altri). L’intensa attività compositiva e di live per- formance degli ultimi anni gli fruttano l’attribuzione di numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il prestigioso premio internazionale statunitense ‘Betty Carter jazz ahead for performes and composers’. In tale occasione ha l’opportunità non solo di esibirsi sul palcoscenico del kennedy center di Washington D.C. ma anche di presentare tra l’altro sue composizioni originali.

Fabio Giachino è l’altro grande talento di riferimento della nuova generazione jazz italiana, che per l’occasione lascia il piano per il fender-rhodes al posto di Aaron Parks impegnato in America, tuttavia non è presente nel cd-album ‘G-Session’, è oltromodo conosciuto dai nostri letori in quanto esecutore di un suo personale piano-solo di successo dal titolo ‘Balancing dreams’ uscito lo scorso Novembrew per Tosky Records. L'album in piano solo del grande pianista piemontese Fabio Giachino, prodotto ed edito da Tosky Records. Pluripremiato talento, Giachino presenterà ufficialmente il nuovo lavoro, domenica 29 novembre al Roma Jazz Festival con un esclusivo matinée in una cornice d'eccezione: il Teatro di Villa Torlonia.
(cfr. articolo di Giorgio Mancinelli presente in questo stesso sito)


Roberto Giaquinto già apprezzato per la sua sensibilità musicale, per l’originalità’ del suo timbro e la fluidità di fraseggio sulla batteria, caratteristiche gli hanno sempre permesso di partecipare ad alcuni tra i più importanti festival e club nel mondo, tra cui la Detroit Jazz Festival, il Toronto Jazz Festival, il Blue Note, Kennedy Center e molti altri. Oggi Roberto è considerato uno dei batteristi di punta sulla scena jazz mondiale, in quanto ha caratterizzato e creato il suono di alcuni gruppi importanti. Il batterista partenopeo ha formato da circa tre anni il Roberto Giaquinto Group ed il duo Radio Intro, in collaborazione con il pianista Yakir Arbib, creando progetti con cui ha già girato il mondo riscuotendo un grande apprezzamento dalla critica musicale, grazie alle sue abilità compositive. Le sue combinazioni musicali, infatti, sono il perfetto risultato di un mix che nasce dall’incontro delle melodie folcloristiche e classiche napoletane-europee e la tradizione del jazz e del rock Americano.
(cfr. articolo di Bianca Fasano presente in questo stesso sito)


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CD Album ‘The G-Session’ (Luigi Masciari, Aaron Parks, Roberto Giaquinto). The title is borrowed from the homonymous recording studio of Brooklyn, which was the last setting of Masciari as a band leader. ‘The G-Session’ is a musical performance realized together with two outstanding musicians. It is an impressive composition of warmth, vibration and sound very dear to the New York Jazz music but still original, an important feature which makes Masciari stand out as an eclectic and inspired composer, whose musical language is a mix of groove and melodic moments.

Luigi Masciari guitar player and composer, he starts showing interest in music at the age of six. After experiencing different types of music, his attention turns to jazz and in 1996 he undertakes a specific training course, initiating in parallel a professional and artistic activity. He starts studying the jazz guitar with Umberto Fiorentino and deepens the ‘language’ attending assiduously the music laboratory directed by Gianluigi Goglia. He obtains the diploma in ‘Jazz Arrangement and Composing’ at S. Cecilia Music Academy in Rome, guided by M° Paolo Damiani, with whom he initiates a precious music collaboration realizing various recordings and endless live concerts. During the period at S. Cecilia Academy, first as a student and then as a teacher, he also had the opportunity to study and work, both in the recording room and live, with the outstanding pianist Danilo Rea with whom he created an important experience of didactic cooperation in the Academy.

The intense composing activity and live performances attributed him various prizes and recognitions, including the prestigious American international prize ‘Betty Carter Jazz Ahead for Performers and Composers’. On such occasion he has the opportunity not only to perform on the stage of the Kennedy Center in Washington D.C.,but also to introduce his original compositions. He is currently jazz guitar teacher in many Italian conservatories and has made many records, both as band leader and as sideman. He performs regularly or occasionally with leading artists in the national and international jazz field. (Danilo Rea, Paolo Damiani, Aaron Parks, Paul McCandless, Javier Girotto, Rosario Giuliani, Francesco Bearzatti, and others).

Track List
1. Mr. Jay (L.Masciari)
2. Vox (L.Masciari)
3. Seven Dollars (L.Masciari)
4. Music Man (L.Masciari)
5. Boogie Blue (L.Masciari)
6. Echoes* (L.Masciari - O. Rea)
7. Don’t Touch My Chords (L.Masciari)

Personnel
Luigi Masciari (guitar)
Aaron Parks (Rhodes, Piano)
Roberto Giaquinto (drums)
feat.
Oona Rea (Voice)

Recording Data
Produced & Published by Tosky Records (2016).
Recorded 7/12/2015 at STUDIO G - Brooklyn U.S.A.
by John Escobar and Mike Jinno (assistent engineering).
Mixed and mastered by Davide Barbarulo at 20hz-20Khz Mastering Lab.
Guitar Engineer : Emiliano di Meo

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- Cinema

Cinema: aspettando lo ‘zio’ Oscar

Cinema: aspettando lo ‘zio’ Oscar.

 

Sfogliando la lista dei film invitati ad Hollywood per la consegna degli Oscar, non c’è uno ‘zio’ di particolare riguardo che deve arrivare e che probabilmente non verrà. È un po’ come in ‘Aspettando Godot’ la famosa opera teatrale di Samuoel Beckett in cui si assapora l’inutilità dell’attesa per qualcuno che ‘..forse verrà domani’.

Questa, che può sembrare una parafrasi costruita per la scena, in realtà è la situazione che si respira in attesa della notte degli Oscar, il più ambito riconoscimento del Cinema mondiale. Non voglio qui sembrare irriverente verso l’arte cinematografica, perché di questo si sta parlando, per quanto, se non ricordo male, la fatidica statuetta dello ‘zio’ Oscar era solitamente attribuita al ‘miglior film’ o comunque ‘al più meritevole’ mentre da qualche tempo a questa parte, per non sapere a chi darla, la si ‘regala ’, si fa per dire, al miglior offerente.

Non sapremo mai se lo 'zio' Oscar sarebbe felice di trovarsi in certe situazioni che vedono accapigliarsi le majors del settore cinematografico che, pur di accaparrarselo forzano all’estremo lo stipulo di contrattazioni a suon di dollari, comprando titoli, offrendo cene, corrompendo giurie e quant’altro. Tant’è che spesso ci si è chiesto a che titolo certi film hanno ottenuto lo ‘zio’ Oscar a far bella mostra di sé sulla mensola del caminetto ora di questa ora di quella produzione.

Qualche critico ha detto: «..beh, è pur sempre un riconoscimento per aver fato bene il proprio lavoro.» Ben vero, per quanto di certo si addice  più a tutti quei ‘migliori’ che rappresentano le maestranze nel lavoro, nell’uso  delle odierne tecnologie, e mi riferisco alla folta schiera di quanti si adoperano nella produzione di ogni singolo film, alla interpretazione più o meno ‘straordinaria’ degli attori ecc. Ma che dire del ‘miglior film’ in assoluto?

Che dire se non arriva l’ormai vegliardo Godot e nell'inutile attesa lo ‘zio’ Oscar è alquanto titubante di vedersi assegnato ora a questo, ora a quello senza alcuna ragion d’essere? Fateci caso, ultimamente lo ‘zio’ Oscar sembra più imbronciato che mai, non lo sembra anche a voi? Questo perché il ‘Cinema’ sembra non avere più niente da dire o, comunque, dice qualcosa, ma cosa? Per quanto va qui specificato che al momento non esiste alcun genere o movimento letterario e artistico che lo esprima in pieno.

Qualcun altro dice: «..il cinema è arte.» Sì certo, però quando è arte! «..il c inema è finzione!» D’accordo quando però la finzione ha una sua funzione, come ad esempio a teatro, dove se non altro “l’inutilità dell’attesa” riguarda più lo spettatore che l’autore del testo o al cinema il regista del film e, dove ognuno risolve come più gli piace la propria emozione e/o indifferenza rispetto al soggetto.

Ma quali film hanno riguardato le categorie appena sopra elencate? Tutti risponderebbe qualcuno. È vero, l’assurdo riguarda tutti i film che abbiamo visionato nel 2016, gli altri (quelli che sono passati sotto silenzio e che forse non vedremo mai) oso pensare siano solo parte di una ripetizione infinita di numerosi altri già visti o, se preferite ‘cloni’ di situazioni inverosimili o ‘americanate’ senza nessun conto.

Basta citare “La battaglia di Hacksaw Ridge”, l’ultimo film di Mel Gibson, ancora sulla guerra soggettiva di ogni singolo soldier americano che ci ‘spacca le palle’ oltre l'inverosimile e che ci aspettiamo prima o poi che tutta l'America ne prenda coscienza, ma che non succede mai; che lo pseudo ‘musical ‘La La Land’ di Damien Chazelle, che avrebbe dovuto deliziarci è un pamplet di sequenze inguardabili senza altro aggiungere, perché senz’anima; che ‘Arrival’ di Denis Villeneuve già in concorso alla 73ª Mostra di Venezia è obsoleto con le solite smancerie eterosessuali prima della fine del mondo.

Lo ‘zio’ Oscar manda a dire che davvero non se ne può più, che la fine del mondo non ci sarà, almeno non per adesso, e che bisogna ritrovare la ‘magia’ che ha accompagnato il Cinema fin dalla sua prima apparizione fino a pochi anni prima della catastrofe delle Torri Gemelle. Ma forse anche da prima aggiungo e lo dico per il solo fatto che mi è passata la voglia di andare al cinema se non sono più che sicuro di vedere un film che abbia una trama, una storia ‘non insulsa’ da raccontare.

Ben vengano allora i teleromanzi, i serial infiniti, le saghe che se perdi una puntata puoi rifarti con la millesima successiva tanto non è successo niente che non sia immaginabile. Di fatto siamo alle prese con un’altra ‘americanata’ targata Washington, dal titolo molto, molto suadente: “The president is a Tra(u)mp” dove un bamboccione col ciuffo fa ‘boccuccia’ ogni qual volta appone una firma a caratteri cubitali su un decreto/mandato, assurdo quanto incredibile, e la espone al ludibrio pubblico col fare del bravo alunno che torna a casa con un bel ‘10’ sul quaderno per aver svolto al meglio il suo compito e che regolarmente viene premiato.

Ma di questi primi della classe se ne sono già visti parecchi e di tanto in tanto ne salta fuori uno con qualcosa in più: dal banale kalasnikov alla più impegnativa bomba a mano, al distruttivo missile atomico, che vogliono distruggere/cambiare il mondo. Ma il saggio ‘zio’ Oscar alleato di Charlie Chaplin mette in guardia, che in ognuno di questi si nasconde un “Grande Dittatore” che potrebbe davvero causare ‘la fine del mondo’.

Ponderate gente, meditate!

Fatto è che lo ‘zio’ Oscar non è affatto d’accordo che si continuino a premiare film che portano sulla scena la guerra, neppure quella solitaria delle bande cittadine, benché educativi di un ‘politically correct’, di una ‘guerra giusta’, di ‘una saggezza antica da tutelare’ sul fronte di una ‘democratica convivenza’ che non ha avuto e non avrà mai niente da insegnare a nessuno.

Tanto meno aggiungo, non ci si può illudere che ‘arriveranno i nostri’ a salvare l’umanità stupita (ancora?) dal fatto che neppure un battaglione di ‘Rambo’ riusciranno a risolvere le maledette guerre presenti nel mondo: dall’Afganistan alla Siria, allo Yemen o a spegnere il fuoco dell'Africa in fiamme ecc. ecc. Convinti che la ‘grande mela’ marcia possa risalire la china dell’abbattimento psicologico che ha gettato gli USA nella peggiore delle depressioni dopo quella di Wall Street del 1929, e che ancor più ha  prostrato l’umanità nella baumaniana ‘paura liquida’ che sta dilagando in tutto il mondo.

Ma lo ‘zio’ Oscar avverte che non esiste alcun genere cinematografico così tristemente denominato o dedito a questa assurdità, quindi che cosa fare? Vogliamo invertarlo all’uopo? È di questo che noi tutti abbiamo bisogno? Dell’arrivo del generale Custer o chissà, forse degli Alieni che, per quanto cattivi possano sembrare, alla fine risolvono tutte le problematiche e anziché portare alla ‘fine del mondo’ lo renderanno più tranquillo e magari anche più felice?

Davvero tutti noi pensiamo che dopo la ‘Grande Muraglia’, il ‘Muro di Berlino’, il ‘Muro di Gerusalemme’, quello in costruzione davanti al Messico darà la svolta a un benessere che porterà gli USA e noi tutti a vincere la paura cui andiamo soggetti? Viene da chiedersi a quando il primo film che smentisce tutto questo, a dimostrazione del ‘ben fatto yankee!’ che non vedrà  più gli uni contro gli altri?

Ma c’è un altro film in preparazione che parla del ‘muro psicologico’ alzato contro 7 stati musulmani che si pensa porterà alla distensione tra le due 'ricreate ad oc' opposizioni. Un’altra ‘americanata’ di cui lo ‘zio’ Oscar dubita punto, nella certezza che ciò porterà ancor più ad accentuare l’odio etnico/razziale questa volta contro gli occidentali o quanto meno contro i cristiani, siano essi americani o europei.

Come si sa in questi casi la mente viaggia all’impazzata, e porta agli eccessi di un film come “The Wall” di Alan Parker 1982 che ha segnato la nostra epoca e che ancora ha risvolti a dior poco drammatici sulle nuove generazioni. Basti dire che la riscoperta di un film come “Metropolis” di Fritz Lang del 1927 sia oggi considerato fra i giovani un ‘cult movie’ la dice lunga su quella che è la ‘regressione’ in atto. Colpa della decostruzione derridiana? Forse! Personalmente spero che gli effluvi di una ‘messa in cattività’ imperante da parte di capi di stato che si sentono primi della classe possano trovare una più adeguata dimensione dentro l’umana corrispondenza francescana che porta alla sopravvivenza di tutti nella pace ritrovata.

In caso contrario, dice lo ‘zio’ Oscar torneremo a fare film come “Radici” di Gilbert Moses e altri del 1977, o “Il colore viola” di Steven Spielberg del 1984, o l’ultimissimo di Joseph Gordon Levitt sulla storia e rinascita del Ku Klux Klan del 2016. Che si spera davvero non suggerisca al Donald Duk di turno una sua suggestiva ripresa.

C’è però un fatto che lascia perplessi e che vede l’odierna amministrazione USA, l'aver dimenticato le proprie origini di ‘emigrati’, di ‘transfughi’, di ‘diseredati’, di ‘confinati’ provenienti da molte parti del mondo; c'è da aspettarsi che presto se la prenda con gli Zingari, con Gay e Lesbiche, e perché no con i tanti 'barboni' che (a detta degli americani stessi infestano l'aria delle città) e magari chiedersi perché dopo lo sterminio dei pellerossa non se la prende con gli Italiani, con gli Ebrei e con i Neri?

Solo perché i primi hanno importato la Mafia nel continente e quindi fanno paura ed è meglio tenerseli buoni (?); i secondi perché tengono in mano l’economia del paese (?); e i terzi perché possono ancora essere utilizzati come schiavi (?). Chissà se lo ‘zio’ Oscar-Tom si lascerà raggirare dal broncio ‘pusillanime’ di un pseudo ‘tra(u)mp’ (barbone) che si atteggia sui media facendo ‘boccuccia’ da bambino viziato col volto imbronciato che per una volta va dicendo di essere ‘il primo della classe’(?)

Fatto è che neppure il ‘premio al più meritevole’, non necessariamente, gratifica le qualità o la struttura del ‘miglior film, bensì ha tutta l'aria di una torta di merda sbattuta in faccia al satanico/comico di turno, ma questo lo 'zio Oscar alias Godot ben lo sa, e infatti ha così risposto: «..beh, stiamo a vedere cosa succede, sperando che non sia troppo tardi!»

Non ci rimane che aspettare poiché il maestro Godot manda a dire che per "..oggi non verrà, ma verrà domani" speriamo con un film che  non sia un’altra ‘americanata’ da Oscar.

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- Antropologia

Invito alla scoperta di Kathmandu nel diario dal Kali Yuga


“Kathmandu: diario dal Kali Yuga” Libro+CD Edit. Le loup des steppes, Paris, 2016.


Invito / evento:
Sabato 4 febbraio, alle ore 17.30, presso il Museo Santa Croce
(Piazza S. Francesco, Umbertide), avrà luogo il concerto con reading
E presentazione del libro-CD “Kathmandu: diario dal Kali Yuga” -

Ideazione e realizzazione di Martino Nicoletti (antropologo e scrittore nonché artista multimediale ed etnologo) e Roberto Passuti (compositore e ingegnere del suono) con la collaborazione artistica di Franco Battiato, Teresa De Sio e Giovanni Lindo Ferretti.

L’incontro sarà accompagnato da un concerto dal vivo degli “Stenopica”, creatori dell’opera, e dagli interventi del poeta Paolo Pistoletti e degli autori Martino Nicoletti e Roberto Passuti.

L’opera, che costituisce il primo volume della neonata collana di
poesia e immagini “La pupilla di Baudelaire”, creata da Martino Nicoletti e Paolo Pistoletti, rappresenta un vero e proprio itinerario iniziatico fatto di suoni e parole alla scoperta della mitica città sacra di Kathmandu (“La dimora del Re del Mondo” (Eliade), la splendida perla dell’Himalaya incastonata tra le scintillanti vette del Nepal.

Un autentico diario di viaggio che dal Kali Yuga, l’oscura epoca finale che, secondo l’antica mitologia indiana, conclude un ciclo cosmico
composto da testi, fotografie e da ben 20 tracce musicali che narrano di una metropoli ‘in pelle viva’ e di come questo stesso universo urlante sappia ancor oggi dispensare bagliori di autentico splendore e indicibile
quanto affilata bellezza.

L’evento è patrocinato dal Comune di Umbertide ed organizzato dagli
Amici della Biblioteca di Umbertide con Ingresso libero
Museo Santa Croce - Piazza S. Francesco 06019 Umbertide
info: 075. 9414256

“Colonne di vertebre” (Testo M.Nicoletti) tratto dal libro “Kathmandu..”

All’alba una donna si rivolge al sole, giungendo le mani alla fronte.
Poco dopo un sacco di plastica pieno di orecchie di bufalo è gettato
sul ciglio della strada.
Cose che c’erano e altre che avrebbero dovuto esserci.
Questa città, la Kathmandu di polvere, fango e legno, issato e poi
portato via, matura al tramonto.
Persone evaporano di nuovo in respiri e l’intera piatta valle torna ad
adagiarsi sulle sue colonne di vertebre.
Kathmandu. I vivi contano i morti tra dita e pollice.
I morti contano i vivi da dietro le finestre.
Lungo la strada, in alto, elettricità che corre in filamenti.
All’alba una donna si rivolge al sole, giungendo le mani alla fronte.
È poco dopo un sacco di plastica pieno di orecchie di bufalo gettato
sul ciglio della strada.

La collana editoriale ‘La Pupilla di Baudelaire’ edita dalla casa editrice parigina
Le loup des steppe, curata da Martino Nicoletti e Paolo Pistoletti, ha nel suo intento di caratterizzare ogni singola proposta includendo in essa opere create grazie a differenti linguaggi: poesia, musica sperimentale, immagini, fotografia, arte e quant’altro.

Quando antropologia e musica sperimentale viaggiano all’unisono ed entrano in perfetta simbiosi si va alla scoperta di un preciso itinerario fatto di suoni e parole
In cui si disvela la sacralità profonda come anche nelle contraddizioni laceranti, tipiche di ogni metropoli asiatica. Come del resto accade con la splendida città himalayana di Kathmandu.

Martino Nicoletti e Roberto Passuti sono entrambi docenti nella scuola d’arte sperimentale (La Bottega) fondata da Giovanni Lindo Ferretti a Bologna nei primi anni del 2000.

Nel 2008, Nicoletti e Passuti decidono di dar vita a una formazione musicale,
creando al tempo stesso un’omonima etichetta indipendente. Da questo desiderio nascono due distinte attività: Il progetto “Seeds of Sound in the Autumn of Power” ©, dedicato alla musica etnica e alla salvaguardia e rivitalizzazione di patrimoni musicali sacri poco noti o a rischio di estinzione. In questo ambito, e attingendo al ricco archivio di musiche e suoni raccolto da Martino Nicoletti nel corso del suo lavoro di ricerca sul campo in Asia dove ha vissuto per almeno 20 anni della sua esistenza. I lavori sinora prodotti da questa etichetta hanno riguardato soprattutto le tradizioni di musica e danza sacra della Valle di Kathmandu, la tradizione di musicale sciamanica del Nepal orientale, la musica liturgica della tradizione prebuddhista tibetana del Bon, nonché, in epoca più recente, la tradizione musicale di ascendenza mistica degli ismailiti dell’Hindukush.

Stenopeica è una formazione strumentale che, traendo gran parte della sua ispirazione dalle tradizioni spirituali ed artistiche dell’Asia, impiegando in parte
materiale musicale registrato sul campo nell’ambito del progetto
“Seeds of Sound..”, producendo musica sperimentale contemporanea.
La scelta di questa denominazione, oltre ad alludere ad un’arcaica tecnica
fotografica realizzata senza l’impiego di obiettivo, si riferisce al desiderio di ricondurre la creazione artistica alle sue più primitive origini: una pratica fondata dunque su un percepire puro, diretto e totale, sgombro da ogni orpello e libero da ogni retorica. Come ricorda il manifesto stesso di Stenopeica: “Un foro d’infinitesimali dimensioni permette ad un intero universo di luce e
immagini di trasferirsi da un luogo all’altro, lasciando un’impronta sensibile.
Poco importa se questo universo fluisca attraverso l’obiettivo assente di una
macchina fotografica o la magica pupilla di Charles Baudelaire.
Fedele a questo proposito, il volume “Kathmandu: diario dal Kali Yuga”,

Fino ad oggi il progetto “Seeds of Sound..”, ha prodotto un CD book intitolato
“The Path of Light: Ritual Music of the Tibetan Bon” – edito da Borgatti Edizioni Musicali, Bologna, 2008. Inoltre a quattro CD digitali, nati grazie alla collaborazione tra il gruppo degli Stenopeica l’etichetta A-Buzz Supreme di Firenze:

“Charya: The Tantric Musical Tradition of the Kathmandu Valley”;
“Gandharva: The Magic Sound of the Nepali Sarangi”; “Shamans of the East: Ritual Songs of the Himalayan Kulung Shamanic Tradition”; “Chala Ra Dhatu: Newari Percussions of the Kathmandu Valley”.

Per questa stessa collana è inoltre attualmente in corso di realizzazione l’opera
“Poets and Mystics of Hindukush”, dedicata alla musica tradizionale e d’ispirazione
mistico-religiosa degli Ismailiti dell’Hindukush, attraverso l’impiego di brani ed estratti poetici di opere dello stesso Nicoletti, che si propone come un lavoro unico di dislocazione, rielaborazione e reinnesto di sonorità asiatiche entro un contesto di pura musica sintetica grazie alle composizione di Roberto Passuti.

Franco Battiato, Teresa De Sio e Giovanni Lindo Ferretti, artisti che
da anni collaborano alle produzioni musicali e audiovisive degli Stenopeica hanno offerto il loro prezioso contributo vocale e sonoro, componendo inoltre alcune canzoni e testi realizzati esplicitamente per questa opera.
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“Kathmandu, diario dal Kali Yuga” si presenta dunque non unicamente come un volumetto e CD allegato, ma una vera e propria catabasi fatta di parole e suoni capace di condurre nei meandri di questo luogo remoto che è, simultaneamente, uno spazio reale e un inviolato luogo dell’anima.
Non solo un territorio abitato, dunque. Non solo storie strappate a un universo in feroce trasformazione, ma soprattutto un insieme di atmosfere che narrano di una città, ma di come questo stesso universo urlante, oggigiorno in pasto al potente e vorace Kali Yuga, l’oscura epoca finale che, secondo la mitologia indù, conclude
un ciclo cosmico, sappia ancora elargire bagliori di autentico splendore e d’indicibile, quanto affilata, bellezza.

Contatti: p.pistoletti@libero.it

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- Cinema

Dalida: funambula tra la vita, l’amore e la morte.

Dalida: funambula tra la vita, l’amore e la morte
di Fabien Lemercier - per Cineuropa News

10/01/2017 - Lisa Azuelos firma un biopic efficace sul destino appassionato, sfavillante e tragico della cantante. Un film distribuito e venduto da Pathé.

Da qualche anno, il cinema francese si misura regolarmente, e con successo al botteghino, con biopic di figure iconiche della canzone nazionale. Dopo 'La vie en rose'(2007), 'Je t’aime, moi non plus'(2010) e 'Cloclo'(2012), è la volta di 'Dalida', in sala da domani con Pathé e che sarà proiettato in apertura dei 19mi Rendez-vous del cinema francese, il mercato organizzato a Parigi da UniFrance.

Alle redini del film, Lisa Azuelos (LOL) ha offerto il ruolo principale a una sconosciuta, l’italiana Sveva Alviti (nella foto), una scelta rischiosa che si rivela efficace: la giovane neofita incarna Dalida con carisma e una forza emotiva impressionante nell’interpretazione delle canzoni. E sebbene il volto dell’attrice patisca poco i segni del tempo lungo un racconto che va dal 1956 (il concorso a Parigi che rivela Dalida, allora 23enne) al 1987 (anno del suo suicidio), questo dettaglio è relativamente accessorio poiché il film, pur rispettando la veracità del suo materiale (il fratello della cantante, Orlando, ha collaborato alla sceneggiatura scritta dalla regista, e il montaggio utilizza abilmente gli archivi TV, radio e stampa) si presenta senza complessi come un 'prodotto' popolare ben calibrato che si concentra sull’impossibilità per Iolanda Gigliotti (nata da una famiglia italiana stabilitasi in Egitto) di realizzarsi come donna, mentre brilla invece come artista con il nome di Dalida.

Il film si apre sulle note di 'Un po’ d'amore' (rivisitazione di Night in White Satin) all’aeroporto di Orly, il 26 febbraio 1967, mentre Dalida mente a suo fratello Orlando (Riccardo Scamarcio) e a sua cugina Rosy (Valentina Carli), facendogli credere di partire per rimettersi in sesto, e recandosi invece in segreto nella camera 76 dell'hotel Prince de Galles a Parigi dove tenta di mettere fine ai suoi giorni, un mese dopo il suicidio del suo amante Luigi Tenco (Alessandro Borghi). Segue il soggiorno in una casa di riposo che permette di introdurre diversi personaggi importanti nella vita della cantante e di lanciare dei flashback, dall’infanzia in Egitto (le sofferenze di una nerd derisa dai suoi compagni che vede poi suo padre, un violinista, incarcerato perché italiano nel contesto della Seconda guerra mondiale) al concorso "Les Numéros 1 de demain" nel 1956 all'Olympia sotto gli occhi di Lucien Morisse (Jean-Paul Rouve), direttore dei programmi di radio Europe 1 che si innamorerà di Dalida, sarà il suo pigmalione e la proietterà verso la celebrità, con l’aiuto di Eddie Barclay (Vincent Perez) e di Bruno Coquatrix (Patrick Timsit).

Ma gloria artistica e felicità privata non andranno mai di pari passo per Dalida e i suoi tanti colpi di fulmine sentimentali termineranno spesso in tragedia, con tre uomini della sua vita morti suicidi (Tenco, Morisse e Richard Chanfray, interpretato da Nicolas Duvauchelle) e la possibilità di diventare madre negatale dapprima dal suo sposo-manager ('le star non rimangono incinta, rovina il mito'), poi a causa di un aborto (conseguenza di una relazione 'cougar') che la rende definitivamente sterile.
Questa traiettoria tanto sfavillante quanto 'maledetta', Lisa Azuelos la traccia molto velocemente facendo risuonare le canzoni interpretate nel film con gli episodi più dolorosi della vita della cantante, dando vita a un lungometraggio che alcuni giudicheranno riuscito mentre altri lo troveranno sicuramente troppo melodrammatico.

Prodotto da Julien Madon (Producer on the Move 2016 dell'European Film Promotion e dalla regista per Bethsabée Mucho, Dalida è venduto nel mondo da Pathé.

(Tradotto dal francese)

anno: 2017
data di uscita: FR 11/01/2017, BE 11/01/2017
genere: fiction
regia: Lisa Azuelos
sceneggiatura: Lisa Azuelos

cast: Sveva Alviti, Riccardo Scamarcio, Jean-Paul Rouve, Patrick Timsit, Vincent Perez, Nicolas Duvauchelle, Niels Schneider, Brenno Placido

fotografia: Antoine Sanier
montaggio: Baptiste Druot
scenografia: Emile Ghigo
costumi: Emmanuelle Youchnovski
musica: Jean-Claude Petit
produttore: Lisa Azuelos, Julien Madon, Jérôme Seydoux
coproduttore: Vivien Aslanian, Nadia Khamlichi, Romain Le Grand, Adrian Politowski, Gilles Waterkeyn, Bastien Sirodot

produzione: Pathé Films, TF1 Films Production
distributori: Pathé Distribution, Athena Films, 01 Distribution

In collaborazione con CINEUROPA.


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- Musica

Novara apre il 2017 in jazz

Novara apre il 2017 in Jazz.

Lo scorso Natale abbiamo contribuito a ridare un sorriso alle popolazioni del centro Italia colpite dal terremoto e, insieme a Croce di Malto, aderiamo all'iniziativa del jazz italiano "Un teatro per Amatrice" per la ricostruzione di quello che era il luogo di ritrovo principale della comunità e il fulcro della vita cittadina. Tutto quanto raccolto grazie alla vendita della BirraJazz verrà devoluto all'iniziativa. #unteatroperamatrice #jazz4italy
Il nostro Natale, insieme a Croce di Malto, è stato di solidarietà per le popolazioni del centro Italia colpite dal sisma e il nostro ringraziamento va a tutti coloro che hanno contribuito con il cuore. Con ben 137 bottiglie di BirraJazz vendute abbiamo contribuito all'iniziativa del jazz italiano "Un teatro per Amatrice". #jazz4italy

Le festività natalizie sono ormai finite e siamo tutti ritornati al lavoro. Ma non vi preoccupate, ritornano anche le nostre serate musicali del giovedì a Opificio Novara. Il prossimo appuntamento #tasteofjazz vede protagonista un trio inedito di sole chitarre: Trio Quater propone un repertorio di musica strumentale originale dove composizione ed improvvisazione convivono armoniosamente.
Giovedì 12 gennaio, ore 20.30 con aperitivo o cena del menù Boccascena.

Con una giuria d'eccezione, il Premio tasteofjazz 2016 ha decretato i Satoyama vincitori della prima edizione. Saranno quindi ospiti della XIV edizione di NovaraJazz con un concerto speciale sul palco principale della rassegna estiva nel giugno 2017. #premiotaste
“Spicy Green Cube” è il primo lavoro discografico dei Satoyama, uscito nel novembre 2015 che si avvale del prezioso contributo del chitarrista Maurizio Brunod. Le dodici tracce originali sono il racconto di un viaggio musicale tra varie atmosfere che ha ottenuto pareri favorevoli dalla critica su DrumSet Mag e sui portali Italia in Jazz e Jazz Convention.
Maggiori info al link: https://goo.gl/5ERM9
La formazione:
Luca Benedetto alla tromba, Christian Russano alla chitarra, Gabriele Luttino alla batteria e Marco Bellafiore al basso sono i "confini" entro i quali si colora la musica dei Satoyama. Perché "satoyama" in giapponese indica il luogo naturale di confine tra la pianura e la montagna. #tasteofjazz
Vi aspettiamo ansiosi quindi all' Opificio - Cucina e Bottega, via Gnifetti 45, Novara


I colori del folk, del flamenco, del blues e del jazz di Trio Quater contribuiscono alla creazione della colonna sonora di un film tutto in divenire. L'eccezionale trio di chitarre vede Jonathan Locatelli, Luca Brembilla e Marco Pasinetti protagonisti del prossimo #tasteofjazz a Opificio - Cucina e Bottega di giovedì 12 gennaio.
Un passo alla volta, una sorpresa alla volta ci avviciniamo al grande festival del 2017. L'apertura di giovedì 1 giugno spetta al Filippo Vignato trio, vincitore come "Miglior nuovo talento" di Top Jazz, il referendum storico di Musica Jazz. Il trio inaugura inoltre la nuova collaborazione tra NovaraJazz e Young Jazz di Foligno, dove è già stato ospite.

"Fare scoprire e vivere la musica di Michel Petrucciani" è il progetto che Looking-up Project porta in scena per #aperitivoinjazz al Piccolo Coccia. E se la vita di Petrucciani fu una vera sfida al destino, la sua musica fu una sfida al jazz. Il Looking-up Project interpreta con nuovi arrangiamenti i suoi titoli mantenendo l'essenza della sua musica.
Domenica 15 gennaio, ore 11.30 | biglietti su www.fondazioneteatrococcia.it o presso la biglietteria del Teatro Coccia.

Tutto il team NovaraJazz è lieto di ringraziarvi per aver reso questo inizio di stagione ancora più sfavillante!
Per gli appuntamenti #tasteofjazz, per i concerti #novarajazz1617. E che il jazz sia con voi!

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- Musica

Stelle di Carta e Strenne di Natale - seconda parte

STELLE DI CARTA E STRENNE DI NATALE

(poesia, libri, arte, musica)

 

(seconda parte)

 

Nell’ispirazione profonda che ci unisce tutti nella musica e nel canto, voglio qui ricordare la bellissima ‘lauda’, tratta da "Il Laudario di Cortona", la più antica raccolta di ‘laude’ che ci sia pervenuta, con la quale nel lontano XIII sec. si dava inizio alla Sacra Rappresentazione della ‘Natività’ nel raccolto dell’Annunciazione:

 

«Da ciel venne messo novello / ciò fo l’angel Gabriello. L’angello fo messo da Dio, / ben començò et ben finio: saviamente, sença rio, /annuntiò lo suo libello. 'Ave Maria, gratia plena, / Dio ti salvi, stella serena! Dio è con teco che ti mena / enn-el paradiso bello.' ‘Come fie quel che tu ài decto? / Nom credo a torto né a dritto, e ben ne posso far disdetto: non cognosco hom, vecchio né fancello. / L’angelo disse: Non temere, / tu se’ a Dio si a piacere, altra madre non vole avere / se non voi, con k’io favello. / Respose la kiara stella: / Io son qui ke so’ su’ ancella, sia secundo la tua favella: / cusì mi chiamo et apello!»

 

È questo uno dei grandi temi che infine entreranno a far parte della tradizione popolare, liturgico-spirituale medievale e che, in seguito, trasfonderanno nel raffinato impianto musicale della ‘Messa pro Nativitate Domini’, il vigore della fede più fervida, in cui l’essere, dimentico della propria solitudine, recupera la seppellita coscienza, per cui la vita è sul nascere veritiera promessa: il dono più grande.

 

“Ogni desiderio nasce, in quanto seme primordiale dello spirito, nel legame con l’essere” - (Rig Veda nell‘ ‘Inno della Creazione’ Indù).

 

Manifestazione di un sentimento profondamente umano, il Natale recupera alla coscienza cristiana l’infanzia edenica del mondo. La sua attestazione è rintracciabile fin negli archetipi del pensiero e si rivela, sopravvivenza stessa di un comportamento mitico, la cui cadenza rituale, prepone al congiungimento del tempo profano al tempo del sacro. È noto come in un tempo ormai lontano, convivessero nella coscienza umana, accanto ai riti propiziatori, alle credenze superstiziose e alle pratiche magiche che circondavano di speciale venerazione e timore riverenziale gli astri, attorno ai quali, i popoli più antichi andavano formulando gli intendimenti dell’esistenza umana. Altresì si cercava nella ‘natura’ quell’intendimento fra il pagano e il divino che avrebbe dato all’esistenza stessa il ‘senso pieno della vita’; alla solitudine del singolo, la complessità dell’insieme di voci che si levano in coro.

 

Gli esempi sono eclatanti se si considera che il racconto del Natale, visto nei suoi molteplici aspetti, è corredato da un apparato testamentario inconfutabile che racchiude in sé, un messaggio d’amore e di orgoglio, in cui il fatto meraviglioso della nascita di un 'bambino', ripete in seno a ogni famiglia l’atto della creazione divina. Il suo contenuto è quindi ‘agio-poetico’, inquanto in esso la storia e la leggenda s’incontrano sul piano stesso del racconto testamentario e della poesia popolare, come pure del canto liturgico e della sacra rappresentazione, così come negli scritti apocrifi e nei racconti orali, negli usi e nei costumi di molte genti diverse che, in qualche modo, condividono la stessa fede e la stessa speranza, sotto l'egida di quanto ormai da sempre io stesso che scrivo vado professando: “affinché nulla vada perduto”, al fine che "d'ogni cosa si conservi memoria".

 

¶ Due sono le segnalazioni che mi vengono alla mente e che riguardano esempi diversi e consequenziali di uno stessa ‘lauda’, quel “Canto delle Creature” (1224) attribuito a San Francesco d’Assisi che ancora oggi delizia il nostro cuore. Il primo, contenuto nell’album “Danza d’Amore” www.newsounds.it. è cantato ed eseguito alla 'tampura' (sorta di liuto indiano) da Amelia Cuni, realizzato con l’accompagnamento di un folto gruppo di strumentisti orientali e occidentali qui riuniti in un virtuale ‘abbraccio’ delle divese culture e tradizioni. Il secondo è tratto dall’album “Infinitamente Piccolo” www.emimusicitaly.com realizzato da Angelo Branduardi su musiche originali dello stesso e testi elaborati da Luisa Zappa. Un ‘incontro’ delicato e altrettanto gioioso che restituisce a questo testo intimistico tutta la bellezza della semplicità che l’ha ispirato.

 

¶ Anche se Giorgio Federico Ghedini (1892-1965) viene ricordato soprattutto per le composizioni di grande respiro sinfonico, la musica sacra occupa un posto di tutto rispetto nell’ambito dell’intera sua opera. Inoltre al ‘Credo di Perugia’, la ‘Lectio Jeremiae Prophetae’ e il ‘Cocerto Spirituale’ solo per citare alcuni esempi, esiste anche una produzione per ‘coro a cappella’ che in gran parte viene riproposta per la prima volta in questo disco di "Canti Sacri". Attraverso i quali, pur nella loro semplicità, il compositore ricupera il senso polifonico degli antichi maestri italiani, ai quali egli più spesso si richiamava, nutrendo però le sue opere di uno spirito moderno, asciutto e mai ridondante, differenziandosi nettamente da qualsiasi genere di ‘imitazione’ o di mero esercizio classico.

 

Questo disco di “Canti Sacri” per l’Ensamble Vocale Tangram (Tirreno GruppoEditoriale) rappresenta una ‘chicca’ per appassionati e non del vocalismo italiano. L’Ensemble Tangram diretto dal M.° Giovanni Grimaldi e formato da elementi provenienti da una lunga esperienza di canto corale, si propone di esplorare, salvaguardando l’aspetto filologico, il vasto repertorio della musica corale da camera, dedicando particolare attenzione al repertorio contemporaneo. Interessanti i brani proposti, a cominciare dal mottetto “Hodie Christus Natus Est”, diversi “Responsori”, “Ave Verum” e la bellissima “Maria Lavava” di cui non si tova traccia in altre raccolte r che qui di seguito vi ripropongo:

 

«Maria lavava, Giuseppe stendea,

suo figlio piangea dal freddo che avea.

Sta zitto mio figlio che adesso ti piglio.

Del latte t’ho dato, del pane ‘un c’è.

La neve sui monti cadva dal ciel,

Maria col suo vel copriva Gesù.» (tradizionale)

 

Un significato alto, intrinseco della maternità, con il quale si consacra il segreto nascere alla vita ad un’antica promessa di eternità, che da sempre avvolge la 'Natività' di un alone di luce, il cui abbagliante splendore, prevarica la misteriosa opacità della storia. La celebrazione del Natale officiata dal calendario liturgico, risponde, infatti, allo scandire del ‘tempo della festa’; tempo in cui l’umano intendere si fa interprete delle cose divine e si determina il naturale essere del mondo. Una festa contemplativa e poetica, devozionale ed esultante, che al di là dell’apparente semplicità, accoglie in sé esperienze acculturatrici diverse, che hanno contribuito alla sua secolarizzazione.

 

¶ Ascoltare oggi Franco Battiato in versione ‘mistica’ può non sembrare una rivelazione, pur tuttavia l’ascolto della “Messa Arcaica” nella forma della ‘messa’ cantata come doveva essere all’origine in latino maccheronico, formata da ‘Kyrie’, ‘Gloria’, ‘Credo’, ‘Sanctus’, ‘Agnus Dei’, coglie l’effetto di un recupero post-moderno che si aspettava da tempo. Infatti l’insieme dei suoni e delle voci raccolte in questo disco sono coadiuvate da passaggi per tastiere e computerizzazioni proprie dellìelaborazione elettronica del Battiato migliore, senza però l’eccesso di una minimalizzazione eccessiva. Franco Battiato vi appare in quanto voce recitante; e inoltre Akemi Sakamoto mezzosoprano, Athestis Chorus diretto da Filippo Maria Bressan, con l’orchestra de I Virtuosi Italiani diretti da Antonio Ballista e Carlo Guaitoli al pianoforte.

 

¶ “Nottes de Incantu” è una raccolta del meglio di Maria Carta, (CD/2 recording Arts 50-03, 2005) la stupenda interprete della canzone sarda e non solo. Ricordare qui la “sua voce d’incanto” è per me occasione d’orgoglio e dichiarazione d’amore per la sua terra d’origine: la Sardegna. In questo splendido album la cantante si cimenta in alcuni brani dedicati al Natale, come le bellissime “Ave Maria” in latino, “Ave Mama ‘e Deu”, nonché quell’ “Ave Maria Catalana” che la fece conoscere al pubblico più vasto del continente; inoltre alle più conosciute “Ninna nanna” e “Ninna Nanna ‘e Nadale” e “Su Pizzineddu” che con il suo amoroso messaggio ancora oggi allieta la notte di Natale nell’Isola.

 

"Che cosa è tutto quanto gli uomini han pensato in millenni, di fronte a un solo istante di amore? È pur la cosa più perfetta, più divinamente bella della natura! Colà guidano tutti i gradini sulla soglia della vita, di là veniamo, colà andiamo!” (F. Hölderlin).

 

¶ “Luna crescente” [sacrarmonia] è un album della cantante italiana Antonella Ruggiero (2001). Un disco classico, ovvero un disco che contiene brani del repertorio classico. Infatti gli arrangiamenti scorrono veloci e molti brani richiamano le culture di vari paesi del mondo: Kyrie (missa Luba - dal repertorio africano), Gloria (misa criolla - dal repertorio argentino); oltre ad una famosissima carola natalizia della tradizione anglosassone (God rest you merry gentlemen). Nell'album anche 2 pezzi inediti: "Occhi di Bambino" scritto da Antonella e Carlo Cantini e "Notte" di Sebastiano Cognolato. Un moderno "Sanctus" scritto da M. Colonna e L. Bigazzi e "Lo frate Sole", pezzo della tradizione francescana, scritto da A. Rossi. All'interno del disco, oltre al repertorio classico/sacro, sono presenti inoltre 2 brani tratti da “Libera” (primo disco di Antonella): "Corale Cantico" e "Il Canto dell'Amore", inoltre a un pezzo del repertorio natalizio della tradizione cristiana: "Adeste fideles", dove la voce di Antonella arricchisce questo bellissimo brano e fa emozionare l'ascoltatore.

 

In questo viaggio intorno al mondo la cantante è accompagnata musicalmente dagli Arkè Quartet e fa seguito a tutta una serie di concerti classici portati nelle più belle chiese e teatri antichi di tutta italia e del mondo. Un disco dalle sonorità nitide ed essenziali, registrato in modo perfetto, con Antonella che presta la sua voce in modo delicato e cristallino. Il Gruppo di realizzazione vede Antonella Ruggiero – voce e percussioni impegnata nel canto, Ivan Ciccarelli alle percussioni, Carlo Cantini alle percussioni e violino, Enrico Guerzoni al violoncello. Ed eccoci giunti a “Cattedrali” (2015) il più recente album di Antonella Ruggiero, pubblicato dalla Liberamusic e distribuito dalla Sony Music.

 

L'album è stato registrato in sedute diverse nella Cattedrale di Cremona durante il concerto del 24 Ottobre 2014. In prevalenza vi sono brani eseguiti per voce ed organo, suonato dal Maestro Fausto Caporali, ad eccezione di alcuni che vedono la partecipazione straordinaria del Coro della Cattedrale di Cremona e del Quartetto d'archi Bazzini. I brani, tutti rigorosamente ‘classici’ legati al repertorio più intimamente religioso insieme ad altri più tradizionali come “O Sanctissima” e “Deus ti salvet Maria”, indubbiamente tra i più belli in assoluto che la straordinaria voce della cantante talvolta rende sublimi.

 

Numerose sono le invocazioni alla Madonna più antiche insieme ad altre a noi più vicine nel tempo: “Ave Maris Stella I” (Mark Thomas), “Ave Maria (Giulio Caccini), “Pie Jesu” (Gabriel Fauré), “Ave Maria II” (Fabrizio De André), “Ave Maria III” (Franz Biebl), “Panis Angelicus” (César Franck), “Ave Maris Stella II” – 4:54 (Christopher Weirich), “Ave Maria IV” (Charles Gounod), “Ave Maria V”(Franz Schubert), “Corale Cantico” (Roberto Colombo, Antonella Ruggiero, Daniele Fossati). Di straordinario impegno ma anche di elegante bellezza armonica risultano le introduzioni elaborate dal M.° Fausto Caporali come ‘introduzione’ ad alcuni brani esemplari: “Introduzione a De Andrè”, “Introduzione a Gounod” e, non in ultima, la bellissima introduzione alla “Missa Criolla” di Ariel Ramirez dalla quale la bravissima Antonella Ruggero interpreta “Kirie” e “Agnus Dei”.

 

Ma Natale oltre ad essere una festa religiosa è anche una festa di luci, di colori, di canti, in cui l’avvicendarsi delle singole voci, introduce all’esultanza corale, comunitaria; onde un insieme di voci riunite dal ‘corpus’ iniziatico della tradizione si esprime in preghiere e inni sacri, laudi e oratori che si rivelano parti integranti di quel messaggio intelligibile, proprio del sacro. Un messaggio di pace e d’amore ma anche di fratellanza e solidarietà che giunge da ogni parte e da molte genti, che va oltre il significato escatologico della narrazione e che rimanda ai capitoli successivi di quella ‘storia universale’ che noi tutti stiamo scrivendo. Cantiamolo insieme, dunque, questo ‘Natale’ che meglio protende all’esultanza. Se è vero che la favola esalta la propria funzione nel ruolo catartico del mito, la tradizione costituisce il terreno della sua crescita, antepone alla storia il ‘nunc et semper’ del meraviglioso.

 

¶ E che c’è di più ‘meraviglioso’ della voce di Mina che travalica le stagioni e le generazioni per presentarci questo omaggio “Dalla Terra” (PDU/Sony 2011), inclusivo di 12 brani ripresi dalla tradizione e tra i più belli del repertorio classico che va dal XIII al XIX secolo, rielaborati e arrangiati da Gianni Ferrio, Marco Frisina, Danilo Rea, Andrea Braido ed eseguiti con l’accompagnamento dell’Orchestra Roma Sinfonietta e dal Coro della Shola Gregoriana del Duomo di Cremona diretto da Massimo Lattanzi. Tutti i brani contenuti nell’album hanno una origine classica ripresa dalla tradizione: “Magnificat” su testo tratto dal ‘Vangelo di Luca’; “Voi ch’amate lo criatore” dal ‘Laudario di Cortona’; “Memorae” attribuito a San Bernardo da Chiaravalle; “Quando corpus morietur” tratto dallo “Stabat Mater “ di G.B. Pergolesi; “Omni Die” di anonima del XII sec.; “Quanno nascette Ninno” di San Alfonso de’ Liguori; “Nada te turbe” su testo di Santa Teresa d’Avila; “Veni Creatur Spiritus” dalla liturgia di pentecoste; “Pianto della Madonna” di Claudio Monteverdi; “Dulcis Christe” di Michelangelo Grancini (XVII sec.); “Qui presso a Te” di anonimo del XIX sec.; “Ave Maria” di Charles Gounoud.

 

Sebbene non tutti i brani possono risultare ‘sublimi’ come sempre ci si aspetta da Mina, va detto che la sua voce cristallina e perfetta così come l’ha conservata nel tempo riesce ancora oggi a stupire anche per la sua duttilità nelle diverse lingue e inflessioni dialettali contenute nei testi. Una grande voce per un continuo‘poema’ che ‘Dalla Terra’ si leva per restituire alla memoria il nostro inquieto vivere davanti alla rivelazione di … “tutto ciò che è religioso e che presuppone al divino (..) che può contenere allusivamente solo come un frammento o una ripetizione di qualcosa di più grande.” (K.Kerényi – ‘Una lezione di vita’).

 

Andiamo dunque incontro al meraviglioso senza indugio e portiamo i doni che la natura e il buon Dio ci regalano ogni giorno, e che si rallegri la festa intorno alla tavola imbandita, e che siano scintillanti le candele accese affinché ognuno gioisca, come il ricco così il povero, della propria fede. Riscopriamo, per quanto ne concerne, la strada che porta all’ospitalità, alla cordialità degli incontri, alla genuinità del mondo contadino, lontano dalla caotica tracotanza metropolitana e dall’inpudenza della connessione tecnologica, per gioire ancora della vita salubre all’aria aperta, alloggiando dovunque negli agriturismi, facendo escursioni montane e passeggiate nei campi, e perché no, facendo vacanze culturali alla scoperta dell’architettura rurale dei tanti piccoli agglomerati urbani distribuiti sul territorio e, ancora, godere di paesaggi naturali unici al mondo.

 

¶ Acciò, una guida ‘panoramica’ delle diverse località si rende necessaria alla scelta di dove andare, fermarsi, pernottare, trovare le ‘osterie’ contadine, i ‘prodotti’ artigianali autentici ecc. Ve ne sono per ogni tasca e per ogni necessità, anche gratuite; come ad esempio quella del Gallo Rosso per la regione Alto Adige – Südtirol da richiedere direttamente sul sito www.gallorosso.it più che utile per conoscere da vicino l’autentica vita al ‘maso’ il cui motto, qui lo ricordo, è “Venire come ospite … partire come amico”. Qui avrete la possibilità di conoscere il modo di vivere l’autenticità con cui la famiglia contadina – giorno dopo giorno – coltiva i propri campi e lavora i propri prodotti in un’atmosfera familiare segnata da emozioni pure e incontri cordiali, dimenticare lo stress quotidiano per assaporare vero riposo e tranquillità. Si tratta di piccole guide turistiche “Vacanze diverse”e opuscoli maneggievoli “Masi con gusto. Guida ai sapori contadini” che illustrano ad esempio come affrontare i piaceri della tavola del ‘mondo’ altoatesino, con testi avvincenti sulla cucina tipica di questa regione, sulla storia e posizione geografica dei masi e delle osterie, le specialità da gustare e i consigli per interessanti escursioni.

 

“Se nell’anima prendon vita i misteri d’amore, è il corpo che, come un libro li contiene…” (J. Donne)

 

Ed a proposito di libri tante sono le novità che fare una selezione diventa sempre più difficile, soprattutto per chi come me possiede un’attiva curiosità per la cultura in genere e si mantiene informato scartabellando cataloghi, sfogliando riviste, consumando Lp/CD, collezionando cinema, leggendo libri e scrivendo articoli per la carta stampata e per il web, al dunque diventa sempre più un’impresa folle. Da sempre si dice: “Non di solo pane (soprav)vive l’uomo”, onde per cui qualcuno dice che tra le altre cose non mi zittisco mai, ma non è così, al contrario passo molto tempo ad ascoltare gli altri, perché c’è sempre da imparare e lo stare in silenzio (quando gli altri non parlano a sproposito) è quanto di più ho appreso nella vita. Non è forse detto che nel silenzio …

 

¶ Carlo Sini, 'Il gioco del silenzio' – Mimesis 2013

«È ..nel silenzio e dal silenzio che l'io, il mondo e la parola emergono, tra loro originariamente uniti. Così come il mondo non è mai davanti a me, ma sempre mi circonda e mi attraversa, così come non faccio che vedere il mondo provenendo dal cuore del mondo, altrettanto accade alla parola. Essa non parla se non dal silenzio del mondo e del silenzio del mondo: quel silenzio che la parola custodisce e reca in sé; quel silenzio che è così raro e difficile saper ascoltare. Sembra allora giusto dire che la virtù prima del filosofo non è la parola, bensì l'ascolto, non è la ragione espressa, ma la domanda silenziosa con il suo carico di angoscia e di stupore.»

 

¶ Mario Brunello, “Silenzio” Il Mulino 2014 “Silenzio” di Mario Brunello è un picolo ‘gioiello’ di libro per i suoi contenuti ‘altisonanti’, passatemi l’aggettivo, poiché si tratta di un testo sulla musica o meglio, sulla poesia della musica che s’annida negli spazi che dividono le parole, di rigo in rigo, a formare un unico pentagramma ricco di notazioni d’autore. Ancor più, a dar forma a un unico spartito sinfonico, dove incontriamo Bach, Beethoven, Mozart, Schubert, Schoenberg, Hindemit, Cage, Kancheli attraversdo un excursus che dal passato (relativo) giunge fino alla musica contemporanea (relativa all’oggi che sarà il nostro domani). Straordinarie sono anche le acute osservazioni/variazioni sul tema che conducono la ‘musica’ al verticalismo poetico della montagna nella citazione a Rigoni Stern. Nonché l'altra riferita ad Albert Einstein: “La più bella e profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero, sta qui il seme di ogni arte, di ogni vera scienza” e che, per quanto la scienza dichiari il contrario, richiama alla religiosa osservanza del creato, a quel mistero che ha un solo nome ‘Dio’.”

 

¶ “Mario Brunello: Poetica del Silenzio” articolo di Giorgio Mancinelli – in www.larecherche.it «Da musicista - scrive il violoncellista - ho scoperto il silenzio in un momento ben preciso della mia vita, quando (..) con la complicità del silenzio trovai spazi e modi diversi di attaccare e concludere il discorso musicale. E le pause, le pause che avevo inteso come semplici momenti per riprendere fiato, divennero in quel silenzio i punti cardine dai quali partire con le nuove idee. (..) Scoprii il potere del silenzio. (..) Anche per un musicista l’assenza di suoni può rappresentare ispirazione e vera e propria musica per le orecchie. (..) Non un silenzio qualunque, ma quello in cui la musica si forma, prende vita e diventa arte.» «Talvolta all’interno di una specie di luogo in cui non ci sono, in cui, per l’appunto domina il silenzio che permette però al musicista di entrare, di essere segnato. E così nasce la musica. Il suono si sistema in quel silenzio. Ecco allora la ricerca di luoghi dove il silenzio è d’oro, dove esso prospera e viene rispettato, come una montagna o un deserto. Persino però in un mercato caotico pieno di colori, di parole e di forme, il musicista trova il suo silenzio e lo trasforma in qualcosa di portentoso: «È un silenzio che sta anche intorno ai suoni, un silenzio che è ‘liquido amniotico’, dà vita e ne fa riconoscere e individuare il (suo) senso profondo.» Non posso qui trascurare l’altro accostamento che l’intuitivo Brunello fa con i ‘luoghi’ della sua ricerca musicale:

 

«Se il luogo è puro spazio, il silenzio si fa ascoltare, ci accompagna e non ci lascia soli.»

 

E che dire dell’architettura che si inserisce in certi luoghi?

L’esempio colto di Brunello prende come riferimento i ‘luoghi’ ricreati di Mario Scarpa. Credo (modestamente parlando dell’argomento) che a tutt’oggi non c’è architetto che abbia compreso il suono e la poesia che attraversa (cioè s’innesta senza corrompere) certi ‘luoghi’ come in Scarpa. Non c’è creazione in architettura che possa stare al pari per ‘immersione nel silenzio’ alle solitudini poetiche di Mario Scarpa nel re-interpretare quell’ “infinito” leopardiano che solo ci riempie d’immenso:

 

«La natura – scrive ancora l’autore – insegna a ‘sentire’ il suo e il nostro silenzio (interiore), ma insegna anche ad ascoltare la musica degli uomini e ad arricchirla con il suo silenzio.» Allora ecco che la citazione iniziale accolta in questo scritto ben rende il sentimento di quanto molti altri scrittori hanno precedentemente fatto, cioè dare una propria definizione del silenzio. È quanto anche Mario Brunello si accinge a fare in chiusura del libro, citando Musil, Dante, Calvino, Rigoni Stern, Piano,Okakura, Ryonen, Szymborska che in “Le tre parole più strane” poeticamente parlando si lascia dire: «Quando pronuncio la parola Silenzio, lo distruggo.» Del resto ogni nostra aspettativa è immersa nel ‘silenzio’, vedi l’attesa, la spiritualità, l’intimità della preghiera, l’incredulità o la fede, l’afflato dell’arte, la riflessione filosofica, l’ozio dei sensi ecc. Nulla di più vero se lasciando la parola a Saint-Exupry apprendiamo che: «Lo spazio dello spirito, là dove esso può aprire le sue ali, è il silenzio.»

 

Al dunque, dobbiamo solo re-imparare a porgere orecchio all'ascolto, ad ascoltare immersi nei rumori di fondo: «Un rumore, quando è isolato nel silenzio, è un evento che in genere crea interesse e sveglia la curiosità» - scrive Brunello, aggiungendo «Ogni rumore ha la sua ragione di esistere e molte volte, attraverso il rumore, anche le cose si esprimono.» Potremmo non essere d’accordo ma è così che accade, e non possiamo esimerci dal considerare che allora anche la musica potrebbe essere rumore mentre, come il grande Shakespeare insegna: “tutto il resto è silenzio”.

 

Discografia di Mario Brunello: “Violoncello and” – EGEA 2009; “Odusia” – EGEA 2008; Bach - “Concerti Brandenburghesi 1-6” direttore Claudio Abbado - 2008; Bach - “Sei suites per violoncello solo” con Antonio Pappano - EGEA. Ed altre incisioni, moltissimi altre, dedicate ad autori come Vivaldi, Beethoven, Sollima, Villalobos, Jobim, Brahms, Chopin, Samti, Dvorak .

 

Ma solo adesso mi accorgo che l’orologio inesorabilmente continua a segnare il tempo che passa e che Natale s’avvicina. Lancio uno sguardo al calendario ed è già il 16 Dicembre e non ho ancora espresso alcun desiderio come si conviene, non tanto quello di aspettarmi qualche regalo inatteso, quanto di veder realizzato quel desiderio recondito che mi libera dai preconcetti, dai limiti del quotidiano pensare, da tutto ciò che opprime i sentimenti di pace e di libertà cui pure tutti aneliamo:

 

«Desiderare – scrive Igor Sibaldi filosofo e filologo della modernità – è un atto bellissimo, viene dalla parola ‘sidera’ cioè ‘stelle’ e significa letteralmente: accorgersi che nel tuo cuore c’è qualcosa di più di quel che, per ora, le stelle stanno concedendo all’umanità.» (“ll mondo dei desideri” - Edizioni Tlon 2016).

 

Il cui messaggio è di non smettere mai di desiderare, di perseguire nella nostra missione di argonauti impegnati nella ricerca della ‘poesia del tempo’ … anche per ciò noi:

 

“Non finiremo mai di cercare / E la fine della nostra ricerca / Sarà l'arrivare al punto da cui siamo partiti / E il conoscere quel luogo per la prima volta.” (T. S. Eliot, “Four Quartets”)

 

Prima di lasciarci voglio qui ricordare un grande poeta italiano del novecento, Giuseppe Ungaretti, al quale devo l’aver ritrovato in questi anni il ‘senso’ intrinseco del Natale, delle cose buone che mi legano alla famiglia, ai bei ricordi sempre vivi, alle fantasticherie giovanili, alla quiete e alla pace ritrovata:

 

“Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade Ho tanta stanchezza sulle spalle Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata. Qui non si sente altro che il caldo buono. Sto con le quattro capriole di fumo del focolare”.

 

(continua)

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- Musica

Quando il Jazz si veste di Poesia

QUANDO IL JAZZ SI VESTE DI POESIA
AL 28DIVINO JAZZ - ROMA
28Divino Jazz - Via Mirandola, 21 - Roma - tel 340 82 49 718 - www.28divino.com

PROGRAMMA:
Venerdi 16 Dicembre ore 22.00
"RECIPROCAL UNCLES" feat. Marco Colonna
Gianni Lenoci, piano
Gianni Mimmo, sax soprano
special guest Marco Colonna, clarinetto e sax baritono

Gianni Lenoci: piano, Gianni Mimmo: soprano sax, sono fra i piu' grandi improvvisatori italiani aprono il proprio discorso al clarinettista e sassofonista romano. Anni di frequentazioni internazionali le unicita' strumentali i suoni di tre individualita' forti si mescolano in un concerto di musica improvvisata allo stato dell'arte. Un duo acustico che focalizza il proprio lavoro di ricerca sulle relazioni più propriamente musicali, quali tessitura-timbro, ritmo-melodia-armonia, approfondendone la visione in senso multi-prospettico.
Anche la relazione fra produzione del suono e il concetto contemporaneo di “real time composition” costituisce, grazie ad un consapevole ricorso alle “extended tecniques” sui relativi strumenti, una caratteristica precipua che Reciprocal Uncles rende con visione complessiva e liberamente formale della musica.
Un non-idiomatismo che genera percorsi fruitivi nuovi ed inattesi, con trasversali movimenti di senso e emozionanti dinamiche da una tavolozza timbrica ricca, articolata e coraggiosa.
L’obiettivo è rendere le distanze e le differenze, aree di conoscenza praticabile, il momento un fragrante luogo da vivere e interpretare, guidare e spingere la musica a un’ariosa architettura e, nello stesso tempo, appartenere alla sua interiore, profonda, struttura.

"RECIPROCAL UNCLES"
Naasce dalla collaborazione fra il pianista Gianni Lenoci e il soprano saxofonista Gianni Mimmo nel 2009 il duoReciprocal Uncles ha tenuto concerti in Italia, Gran Bretagna, Belgio, Germania e negli Stati Uniti in due differenti tour con concerti a San Francisco, Oakland, Santa Cruz e New York.
Nel 2009 il duo è stato invitato alla International Society of Improvised Music’ Conference tenutasi presso The California University of Santa Cruz, CA.
Il cd “Reciprocal Uncles”, Amirani Records in collaborazione con LongSong Records è stato recensito molto positivamente dalle riviste e da web magazines in tutto il mondo ed è stato nominato fra i “cds of the year” da Jazzit .
L’improvvisazione di Reciprocal Uncles è stata definita da Stef Gjissels, prestigioso blogger di Freejazzblog “…Una reciproca, perfetta relazione: sensibile, lirica ed astratta, una combinazione davvero rara…” e da Gordon Marshall, quotatissimo reviewer dei All About Jazz USA: “ Le dinamiche che attraversano il lavoro sono fantasiose e swinganti. La loro musica offre risoluzioni – e rivoluzioni – mutando le tensioni in incursioni di complessità mozzafiato”.
L’obiettivo è rendere le distanze e le differenze, aree di conoscenza praticabile, il momento un fragrante luogo da vivere e interpretare, guidare e spingere la musica a un’ariosa architettura e, nello stesso tempo, appartenere alla sua interiore, profonda, struttura.


SABATO 17 DICEMBRE ORE 22.00
"CONJUNTO CHOROMA"
Massimo Aureli, chitarra a 7 corde
Giulia Salsone, chitarra
Jenifer Clementi, flauto
Una delle migliori "rodas" della capitale affronta e improvvisa qui la grande musica brasiliana.

Formatosi a Roma nel 2009i, il Conjunto Choroma è impegnato nella diffusione dello choro, una musica brasiliana ancora poco diffusa in Europa. Il loro repertorio si ispira ai più importanti autori ed interpreti come Pixinguinha, Azevedo, Nazareth e Jacob do Bandolim, che hanno fatto lastoria di questa musica nata a Rio de Janeiro intorno al 1870, precedente al samba e che attualmente sta vivendo una rinascita in tutto il Brasile.
Il gruppo ha partecipato a trasmissioni radiofoniche, si è esibito in club, teatri e festival e ospitato alcuni tra i più importanti artisti brasiliani, nelle famose rodas tradizionali.

A Maggio 2016 è uscito il loro primo CD dal titolo "Chorome". Un album con brani classici di repertorio, da Pixinguinha a Jacob do Bandolim, un brano originale e arrangiamenti propri con un omaggio al M° Morricone.
Il grande affiatamento dei musicisti crea un amalgama energico e divertente senza tralasciare l'improvvisazione momentanea del chorinho .
O sol do Brasil ... raios de ritmos.

Al 28Divino Jazz
Via Mirandola, 21 - Roma - tel 340 82 49 718 - www.28divino.com



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- Letteratura

Invito alla partecipazione - premio Babuk larecherche.it

LARECHERCHE.IT INVITA A PARTECIPARE AL PREMIO LETTERARIO "IL GIARDINO DI BABUK - PROUST EN ITALIE".

 

Il premio, giunto alla sua terza edizione, mira a far conoscere gli autori e le loro scritture, oltre al premio in denaro i primi tre classificati in entrambe le sezioni (Poesia e Racconto breve) saranno intervistati e l'intervista divulgata.

 

Saranno inoltre proposte in e-book, e divulgate, le opere partecipanti dei primi dieci classificati in entrambe le sezioni. La partecipazione è totalmente gratuita e le valutazioni della giuria di alto livello saranno effettuate nel totale anonimato di ciascuna opera, questo garantisce che tutti i partecipanti siano messi sulla stessa linea di partenza. Il premio scade il 31 gennaio 2017.

 

La cerimonia di premiazione si svolgerà a Roma il 26 marzo 2017.

La pagina del premio, dalla quale scaricare il bando di concorso è: www.larecherche.it/premio.asp

 

Su www.larecherche.it Associazione Culturale puoi pubblicare, leggere, recensire, promuovere eventi e scaricare eBook gratuitamente.

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- Arte

Vittoria Marziari in mostra, collettiva di arte in Svizzera

ESPOSIZIONE / EVENTO CON VITTORIA MARZIARI

Egregi amanti dell’arte,
Sono lieta di invitarvi all’apertura della mostra collettiva, di klein openArt in Ottenbach & Bickwil in Svizzera
dove esporrò le mie sculture e bronzi.
Vernissage sabato 5 dicembre 2015
dalle ore 17.00 alle 20.00
presso la Galeriemarlène a Ottenbach
Apertura domenica 6 dicembre 2015
Dalle 11.00 alle 14.00
presso la OpenArt Galerie a Bickwil
cordialmente Vittoria Marziari - Donati


klein OpenArt stellt noch bis 21.02.2016 30 zeitgenössische künstlerische Positionen an zwei nah bei einander liegenden Standorten aus – Galerie Marlène in Ottenbach und openArt Galerie in Bickwil/Obfelden. Die Anreise (ca. 10 Min. Entfernung zur Autobahnausfahrt Affoltern a.A.)

Orari di apertura in Ottenbach & Bickwil:
11 Dic 2016
14-16-17-18 Dicembre 2016
6-7-8 gennaio 2017
13-14-15 gennaio 2017
20-21-22 gennaio 2017
27-28-29 gennaio 2017
3-4-5 febbraio 2017
10-11-12 febbraio 2017
17-18-19 febbraio 2017
24-25-26 febbraio 2017
ogni 13:00-14:45 in Bickwil
15:00 - 19:00 a Ottenbach
o su richiesta: 079 444 21 61

Vernissage:
> "Tre Sorelle": una performance con Danza, immagine e la musica di Andrea
Guggi e Katrin Zuzakova

> Prestazioni fusione in bronzo di GIORGI

> Introduzione di Hanspeter Gschwend

www.open un rt.ch
l.amarca@bluewin.ch

In esposizione inoltre, opere di:

Luigi a Marca
Cornelia Aschmann
Eva Bättig
Petr Beranek
birre Christa
Jacky Coville
Pli Ebnöther
Markus Fritschi
Ueli Gantner
Dieter Gassebner
Christa Giger
GIORGI
Armin Göhringer
Paolo Grassi
André esercito
Alexander Heil
Brigitte Hundt
sterzo Ilona
Thomas Lenk
Steff Lüthi
Marck
Larry McLaughlin
Simeun Moravac
Christina Priska Oldani
Dorothée Rothbrust
Harry Schaffer
scudo beat
Peter Stobbe
Suter & Bult
Frank diavolo
Hans Thierstein
Christiane Tureczek
Vera Veronesi
Pt Whitfield
Zaric
Katrin Zuzakova

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- Storia

¡Hasta Siempre Comandante!

¡Hasta Siempre Comandante! (fedele a se stesso e agli ideali di libertà)

 

Se inseguire un ideale di libertà può trasformarsi in andare contro gli interessi di un intero popolo; se la rinuncia a ogni bene può trasformarsi in dispotica ostentazione; se il coraggio e/o l’alterigia di un leader che sa a quali sacrifici espone una nazione, allora Fidel Castro sì, oggi può essere considerato un despota.

Ma la storia insegna che in molti, noi tutti nel 1968, siamo stati despoti perché stavamo con Fidel, o con Nieto o con Che Guevara, nella difesa strenua di un alto ideale di libertà. Finanche quei ‘giovani americani’ che si ribellavano all’andata in guerra, per la disumana stupidità dei ‘grandi’ della terra.

Ancorché i tempi siano cambiati e la Rivoluzione Cubana si sia trasformata in una lotta per la sopravvivenza, cui è stata inevitabilmente sottoposta con la forza schiacciante di un embargo infinito, nel risvolto umbratile della storia, l’idealismo di Fidel Castro infine ha vinto.

Ha riscattato tutto ciò che è avvenuto dopo: digiuno, arsura, esproprio, violenza, ma anche rispetto, stima, fedeltà, dedizione, tenacia. La presunta supremazia degli altri non ha intaccato le ragioni di chi volente si era messo al seguito di un leader carismatico che chiamava alla lotta per la dignità.

Ma se lottare per la dignità di un intero popolo ha senso, se la libertà di una nazione è cruciale nella difesa della sua dignità, una scelta pur andava fatta, che fosse pro l’idealismo etico d’una integrità morale, o contro l’arroganza espansionistica di chi fingeva di darti una mano …

 

..anche per questo Fidel Castro è comunque un eroe del nostro tempo.

 

¡Hasta siempre Comandante!

 

Si seguir un ideal de libertad puede transformarse en ir contra los mismos intereses; si la renuncia a cada bien puede transformarse en despótica ostentación; si el ánimo e/o la altanería de un líder que sabe a cuál sacrificios expone todo un pueblo y una nación, entonces Fidel Castro sí, hoy puede ser considerado un déspota.

Pero la historia enseña que en muchos, todo nosotros en el 1968, hemos sido déspotas porque estuvimos con Fidel, o con Nieto o con Ché Guevara, en la defensa valiente de un alto ideal de libertad. Incluso aquellos 'jóvenes americanos' que se rebelaron a la ida en guerra, a la inhumana estupidez de los 'adultos' de la tierra.

Todavía ché los tiempos sean cambiados y la Revolución cubana se haya transformado en una lucha por la supervivencia, cuyo ha sido sometida inevitablemente con la fuerza aplastante de un 'embargo' infinito, en la solapa umbrátil de la historia, por fin el idealismo de Fidel Castro ha vencido.

Todo lo que ha rescatado ha ocurrido después: ayuno, quemazón, expropiación, violencia, pero también respeto, consideración, fidelidad, dedicación, tenacidad. La presunta supremacía de los otros no ha mellado las razones de quién que quiere se metió a la continuación de un líder carismático que llamó a la lucha por la dignidad.

Pero si luchar por la dignidad de todo un pueblo tiene sentido, si la libertad de una nación es crucial en la defensa de su dignidad, incluso una elección debió ser hecha, que fosos pro el idealismo ético de una integridad moral, o contra la arrogancia expansionista de quien fingió de echarte una mano…

 

.. también por éste Fidel Castro queda un héroe de nuestro tiempo.

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- Musica

I’ll remeber Leonard Cohen

I’ll remember . . . Leonard Cohen

Rammento un film diretto da Robert Altman ‘Mr McCabe and Mrs Miller’ (in italiano ‘I Compari’) del 1971, passato sugli schermi senza molta rilevanza in cui Leonard Cohen pur non essendo fra gli interpreti s’imponeva come maggior esponente, avendone egli firmato la ‘colonna sonora’ che, al contrario, era permeata di grande impatto emotivo per le originali ‘ballads’ incluse, tali da sembrare scritte appositamente dentro la sceneggiatura del film stesso. Pellicola che ricordo ancora oggi volentieri per le bellissime immagini delle montagne innevate, le giornate invernali passate a cavallo dei due protagonisti Warren Beatty e un’audace Julie Christie (Lara de ‘Il dottor Zivago’ film del 1965 di David Lean), nel mezzo di un inverno che sembrava infinito.
Il film non era un ché di eccezionale, per quanto fece guadagnare a Julie una nomination all'Oscar come miglior attrice protagonista, e nel 2010 sia stato scelto per essere conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Tuttavia quanto ancora accende la mia immaginazione, oltre alla visione maestosa delle montagne innevate fu il calore confortante di Leonard Cohen, il suo narrare a bassa voce le sue canzoni che parlavano ‘per immagini poetiche’ di bellezza, disperazione, rabbia e tenerezza sui temi dell’amore, della perdita e della solitudine come valori universalmente condivisi.
Poeta, cantautore e compositore canadese, egli è stato e rimane uno degli scrittori più popolari e influenti della nostra storia contemporanea che, nel privilegiare il verso poetico, ha dato lustro alla letteratura nordamericana, scompaginando quella barriera trasparente che pur frapponeva la canzone pop come sottospecie della poesia cantata. Un genere accolto unanimamente da tutte le generazioni che ha toccato fin dal lontano 1957, data del suo primo album di ‘reading’ apparso con il titolo di ‘Six Montreal Poets’ contenente otto sue poesie recitate e che fu acclamato dalla critica di tutto il mondo. I decenni successivi al 1960, cioè ’70, ’80, ’90 hanno segnato un crescente e indiscusso successo, confermando la sua grandezza di autore.
Nato a Montreal nel 1934 da una famiglia ebraica immigrata nel Canada. Suo padre era polacco e sua madre lituana. Cresciuto nel quartiere di Westmount (enclave anglofona della città), Leonard Norman Cohen si iscrive all'università a Montréal; il periodo universitario vede i suoi inizi nella poesia. La sua prima raccolta (in libro cartaceo) vede la luce nel 1956, con il titolo di ‘Let Us Compare Mythologies’. In questo periodo si incontra con alcuni amici poeti in un congresso informale di lettura e critica dei rispettivi componimenti. Ma è nel 1961 che viene pubblicata la raccolta di poesie ‘The Spice-Box of Earth’. Si Trasferisce quindi a Hydra, un'isoletta della Grecia famoso rifugio di artisti, da dove pubblica, nei primi anni sessanta, raccolte di poesie e due romanzi: ‘Il gioco favorito’ (The Favourite Game, 1963) e ‘Belli e perdenti’ (Beautiful Losers, 1966). Nel primo di essi, scrive sull'importanza data alla parola e nello stesso tempo sulla difficoltà di comprenderla: «Vorrei dire tutto ciò che c'è da dire in una sola parola. Odio quanto possa succedere tra l'inizio e la fine di una frase» - si trovò a scrivere in quegli anni. (cit. Wikipedia)
Oggi lo ricordiamo in occasione della sua scomparsa a 82 anni ma in realtà egli è presente in tutti noi per aver cantato quel ‘sogno di libertà’ proprio d’ogni giovane età, nonché i turbamenti religiosi e malinconie esistenziali uguali nella vita di tutti senza differenze di colore o di provenienza geografica: «È stato uno dei cantautori più celebri, influenti e apprezzati della storia della musica – ha scritto di lui Matteo Cruccu – nelle sue opere esplora temi come la religione, l'isolamento e la sessualità, ripiegando spesso sull'individuo. (…) Lo sarà di sicuro, ora che il cantautore canadese, secondo probabilmente solo all’amico Dylan nell’abilità di scriver canzoni, se ne è andato a 82 anni, quasi all’improvviso, se solo un mese fa presentava il suo ultimo disco ‘You want it darker’, il quattordicesimo di una carriera lunga ormai cinque decenni e tre o quattro Americhe.
«Che presagisse la fine nell’ultima intervista rilasciata al Corriere – si chiede Crucco – nel dire «sono pronto»? Forse, (…) ma in realtà sembrava voler esorcizzare la morte: «a volte ci si lascia andare a un eccesso di drammatico, ho intenzione di vivere per sempre.» - aveva detto. Se non ci fosse stato Leonard Cohen a forgiare storie delicate e al contempo dure, dicotomie esistenziali su tessuti sonori, la nostra vita sarebbe stata (sicuramente) più povera.» Molti sono in verità anche gli autori italiani e non solo, che hanno trovato in Cohen la loro fonte di ispirazione, ancor più che in Dylan, o che hanno cantato le sue canzoni nella traduzione in lingua: da De André a De Gregori, e via-via molti altri come Nick Cave e Morissey. Del resto se non si ricalcano le orme di un ‘grande’ non vale certo la pena di seguire nessun altro, e non tanto nel plagiare il suo modo di cantare, quanto di mettersi sull’onda della sua creatività, della sua incondizionata spinta verso l’altro (gli atri).
Il suo primo disco da cantautore, ‘Songs of Leonard Cohen’ del 1967, che pure delinea il suo profilo di cantautore-poeta per i brani pervasi da misticismo e grande malinconia, non ottenne un gran successo, per via dei temi trattati: erano gli anni della spensieratezza hippy e un disco su suicidio e morte andava controcorrente. Per questo motivo molte recensioni dell'epoca stroncarono l'album, ritenendolo troppo triste e depresso. Il riscatto sarebbe venuto, anche se anni più tardi. Oggi, quel suo primo disco viene ritenuto da molti il suo miglior lavoro. Come allora Cohen, già alla ricerca dell’io, più che nei grandi affreschi politici e sociali, aveva sempre affascinatole platee con le sue canzoni a partire dai primi capolavori, l’immortale ister of merci’, ‘Suzanne’, ‘Winter Lady’, ‘Strange Song’, ‘Songs Of Love and Hate’ fino ad ‘Hallelujah’, che sono solo alcune delle pietre miliari incluse nei suoi dischi fino a quelle presenti nel suo ultimo album ‘Popular problems’ del 2014, ma anche nei romanzi e nelle poesie, rimane davvero un autore universale e poliedrico, fine intellettuale prestato alle arene, amato anche dal cinema.
La mia citazione iniziale non è casuale, rispecchia un certo fare cinema, lo dicono quei registi che hanno utilizzato i suoi brani e al quale hanno affidato le colonne sonore dei propi film: vedi Altman, Moretti, Tarantino e altri. Un «poeta minore» come amava definirsi, un gigante della parola cantata lo ricorderemo noi. Inutile riportare qui i testi delle sue canzoni/poesie già note che è possibile ascoltare dalla viva voce dell’autore su Youtube e altri social presenti sul web; piuttosto ritengo utile segnalare alcuni testi letterari che ci permettono di conoscerlo più da vicino:

‘Leonard Cohen. Tutti i testi delle canzoni ‘con un'intervista di Alberino Daniele Capisani, scritti di Michele Straniero e Luigi Granetto, grafica di Davide Antolini. Verona: Anteditore, 1976

‘Libro della misericordia’, titolo originale ‘Book of Mercy’ (raccolta di prose poetiche) tr. Francesca Piviotti Inghilleri e Armando Pajalich, Venezia: Supernova, 2000 ISBN 88-86870-40-X; poi tr. Giancarlo De Cataldo e Damiano Abeni, prefazione di Leonardo Colombati, Roma: Minimum Fax, 2013

‘Poesie e canzoni’, (antologia) a cura di Amleto Lorenzini, Roma: Salerno, 1984
‘Il Vangelo secondo Leonard Cohen. Il lungo esilio di un canadese errante’, Brunetto Salvarani e Odoardo Semellini, Torino: Claudiana, 2010

‘Una vita di Leonard Cohen’ di Ira B. Nadel, , tr. Antonio Vivaldi, Firenze: Giunti, 2011
‘I'm Your Man. Vita di Leonard Cohen’, (biografia) di Sylvie Simmons, tr. Yuri Garrett, Roma: Caissa Italia, 2013

Vincitore di numerosi premi e onorificenze, è stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame, nella Canadian Songwriters Hall of Fame e nella Canadian Music Hall of Fame. Nel 1991 È inoltre stato insignito del titolo di Compagno dell'Ordine del Canada, la più alta onorificenza concessa dal Canada con la seguente valutazione:

«Conosciuto per il suo immaginario sorprendente e le suggestive descrizioni della condizione umana, Leonard Cohen ha la particolarità di creare un corpo di lavoro che è rimasto contemporaneo e significativo attraverso tre decenni di spostamento di gusti musicali ed estetici. Il suo album del 1992, ‘The Future’, ha introdotto il suo stile poetico a una nuova generazione di ascoltatori. Nel 2001, ha pubblicato il suo dodicesimo album, con dieci nuovi brani. È salito in cima alle classifiche, raggiungendo il disco d'oro e il disco di platino in Canada e in diversi altri paesi. La sua popolarità continua conferma il suo status di icona canadese e di venerato decano del movimento della cultura pop.» Nel 2011 ha ricevuto inoltre il Premio Principe delle Asturie per la letteratura.

Imperdibile è il film documentario sottotitolato in DVD ‘Leonard Cohen, I'm Your Man’ (2007) di Lian Lunson, con Bono, Nick Cave, Julie Christensen, Adam Clayton, Jarvis Cocker, Leonard Cohen, Larry Mullen Jr., The Edge. Un ritratto di Leonard Cohen, un viaggio tra le performance e il dietro le quinte dello show di tributo del 2005, alla Opera House di Sidney, che culmina con l'esibizione di Cohen insieme agli U2 per ‘Tower of Song’ con una serie di interviste allo stesso Cohen, una carrellata di fotografie e poesie.

Noi, diversamente giovani, ti ascoltiamo oggi come ieri, i giovanissimi prima o poi scopriranno le radici della tua genialità.



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- Cinema

Siviglia European Film Festival


Siviglia European Film Festival 2016 (SEFF)

Al Siviglia European Film Festival 2016 (SEFF) dal 04 al 12 Novembre, si torna alla ‘fiaba’ con una rivisitazione de ‘La Bella Addormentata’ per promuovere ed espandere il cinema europeo, in quanto luogo di assemblea generale annuale per registi europei e d'ingegno, giornalisti specializzati e professionali del settore, con ben 215 titoli su 400 film in concorso. Il Festival giunto alla sua XIII edizione, è di sostegno di quegli autori che stanno trasformando il cinema europeo, come: Whit Stillman, Philippe Grandrieux, Oliver Laxe, Albert Serra, Jonathan Littell, Bertrand Bonello, Ado Arrietta, Pablo Llorca, Vivienne Dick, Olivier Assayas and Nadav Lapid fra gli altri.

In questa occasione il critico cinematografico Alfonso Rivera ha intervistato per Cineuropa il regista Ado Arrietta, il quale, alla prima domanda sul perché di questo ritorno alla fiaba avrebbe affermato: «Perché la realtà non mi piace affatto» - e devo ammettere che sono d’accordo con lui.

Riporto qui di seguito l'articolo di Alfonso Rivera, per gentile concessione di Cineuropa News.

07/11/2016 - Il regista spagnolo Ado Arrietta presenta a livello mondiale, nella sezione Las nuevas olas del Festival di Siviglia, ‘Belle Dormant’, una versione poetica, onirica e moderna della fiaba.

Considerato in Europa come uno dei pionieri del cinema indipendente, Ado Arrietta esordisce come pittore negli anni 1958 / 1984 . Dopo aver girato cortometraggi in Spagna , si è trasferito in Francia nel 1967 , dove ha fatto il suo primo lungometraggio , partecipando ulteriormente nel 1971 , per raggiungere lo zero il numero di Jean Eustache.
Nel 1979 , è stato filmato da Gerard Courant per la sua antologia Cinématon (n ° 50).

Filmografia:
•1965 : Assassinio sul router (El crimen del pirindola)
•1966 : L'angelo della imitazione (Il imitación del ángel)
•1969 : The Toy penale
•1972 : Castle Pointilly
•1975 : gli intrighi di Sylvia Couski
•1976 : Tam Tam
•1978 : Fiamme (film uscito in una nuova gruppo 17 aprile 2013 )
•1983 : Rane
•1989 : Kiki, la gata , episodio della serie TV Delirios de amor
•1991 : Merlin
•2003 : Narciso
•2006 : Vacanza permanente
•2008 : Dry Martini (cocktail bunuelino)
•2015 : The Sleeping

Inrervista:

Ado Arrietta trasforma il suo nome ad ogni film che dirige, adattandolo al suo spirito: ora, trattandosi del film francese ‘Belle dormant ‘, quale miglior occasione per trasformarsi in uno dei suoi personaggi, un mago affascinante che l'ha presentata, con la sua raffinatezza perenne, nella sezione Las nuevas olas del 13° Festival di Siviglia, dedicata a registi super liberi, cosa che Adolfo Arrieta non ha mai smesso di essere.

Cineuropa: Come ci si sente a tornare a Siviglia dopo tanti anni?

Ado Arrietta: Sono venuto al primo festival, decenni fa, con ‘Las intrigas de Sylvia Couski’, e non era come adesso. Negli ultimi dieci anni ho girato documentari che sono stati proiettati presso La Casa Encendida e alla Cineteca di Madrid. Ma ‘Belle dormant’ arriverà nelle sale spagnole a gennaio 2017; prima uscirà in Francia il prossimo 28 dicembre. Sono abituato al digitale, ed è estremamente comodo controllare il tutto tramite un grande schermo, su cui ci si rende conto da dove entrano gli attori, da dove escono, si vede tutto come un quadro e lo si compone come un dipinto. Ho iniziato dipingendo e continuo a farlo con la macchina da presa e la scenografia.
‘Belle dormant’ ha un cast fantastico che comprende Mathieu Amalric, Niels Schneider e Ingrid Caven, tra gli altri.

Come ha selezionato questi attori?

Vidi una foto di Agathe Bonitzer, a cui non avevo mai pensato per un film, e mi piacque: sapevo che doveva interpretare la fata. Lo stesso è accaduto con Niels e ho capito subito che sarebbe stato il principe: nella sceneggiatura questo personaggio suona la batteria e ho pensato che non l'avrebbe fatto, perché non è una cosa usuale, e invece suona divinamente. Mathieu l'avevo visto in un film, tempo fa, ma le foto me le ha fatte vedere la mia produttrice Nathalie Trafford (di Paraiso Films) e io sceglievo gli attori. Erano contenti, e conoscevano il mio lavoro, specialmente Flammes, Tam-Tam e Sylvia Couski, film molto famosi in Francia.

E com'è stata la scelta degli scenari: quei castelli in cui è ambientata l'azione del film?

Poiché la regione Bretagna ha finanziato il film, mi sono recato lì alla ricerca di location: è un luogo magico e ho visto una ventina di castelli diversi e ho scelto i due che appaiono nel film. Gli attori si amalgamano molto bene con la sceneggiatura, i personaggi e lo spirito del film, e le loro interpretazioni venivano fuori in modo molto naturale, li ho solo indirizzati appena.

Perché questo suo fascino per i mondi fantastici, già espresso in Merlín?

Non lo so: ne sono attratto fin da bambino. Forse perché sono un sognatore e mi piace più il mondo fantastico che quello reale: anzi, il mondo reale non mi piace per niente, da nessuna parte, né qui né in Francia: è una noia mortale!
Con questo film, con cui torna al cinema dopo dieci anni di assenza, ha avuto più mezzi.
Ma mi sono sentito uguale: il denaro non mi interessa, non ci penso mai. Ovviamente, in alcuni casi serve, come per girare in due castelli e per avere buoni mezzi tecnici, ma è qualcosa che non mi influenza affatto: posso fare film in ogni caso, con denaro e senza, non ho mai notato la differenza. Non mi è mai mancata la libertà.

‘Belle dormant: ballando con le fate’:

08/11/2016 - Ado Arrietta, che non ha perso la sua audacia, lirismo e sensibilità, ci immerge in un universo fatato contemporaneo per goderci il bambino che ancora sopravvive nascosto in ogni spettatore.

Può una fiaba tanto celebre come La Bella Addormentata sorprenderci, divertirci e tenerci attenti durante la sua ennesima conversione in immagini?

Sì. Se n'è occupato uno dei registi spagnoli più inclassificabili, ribelli e liberi di tutti i tempi, che ha realizzato buona parte della sua opera in Francia per sfuggire alle ristrettezze mentali e finanziarie che fu costretto a subire durante la dittatura di Franco: mentre in patria non si scrolla di dosso l'etichetta di artista underground, noto solo dai conoscitori di film alternativi e rarità nascoste, dall'altra parte dei Pirenei acclamano il suo valore, audacia e talento, in aggiunta alla sua relazione con altri registi altrettanto moderni e avanti per il loro tempo.

Ado Arrietta, o Udolfo Arrieta o Adolpho Arrieta -il suo nome è una mutazione costante, come il suo lavoro- presenta il suo nuovo film, ‘Belle dormant’ , nella sezione Nuevas Olas del XIII Festival del Cinema Europeo di Siviglia, al fianco di registi d'avanguardia e di emergenti che hanno metà della sua età: il fatto che la gioventù sia uno stato mentale cessa di essere un luogo comune o un cliché in questo caso.

Girato e finanziato in Francia, Belle dormant rappresenta la resurrezione cinematografica, dopo dieci anni passati a girare documentari, di Ado Arrietta. Con un cast desiderato da molti registi per i loro film (in cui coesistono volti efebici Dolaniani come Niels Schneider con altri noti e consacrati come Mathieu Amalric), il film porta ai giorni nostri il celebre racconto dei fratelli Grimm, ma con il sigillo inconfondibilmente poetico e giocoso dell'autore di Merlín. Così, i personaggi originali viaggiano qui in elicottero, suonano la batteria e scattano foto con il cellulare, mentre vagano per un universo tormentato pieno di fate buone e altre meno, regni incantati e principi capaci di annullare un incantesimo maligno.

‘Belle dormant’ possiede l'aura onirica di un sogno placido: l'interpretazione e i movimenti degli attori -che sembrano danzare non solo quando sentiamo una canzone- sono tutt'altro che realistici. La bellezza fisica, musicale e scenografica monopolizza le immagini per incantarci trascinandoci in un regno magico immaginario che, grazie al sonno che lo ha colpito per un secolo, ha perso il peggio e il meglio della storia recente. L'amnesia come medicina curativa contro l'energia negativa ci viene servita da Arrietta in questo film dai titoli di testa in apparenza infantili -disegnati dal regista stesso- e dalle bacchette magiche disegnate da Chus Burés, costringendo così ad uscire da dentro lo spettatore quel bambino che ancora si fa affascinare dalle favole. Quel bambino eterno che è lo stesso regista di ‘Flammes’, che ci invita a partecipare a questo nuovo gioco cinematografico, che diventa per lui ciò che ‘La Bella e la Bestia’ è stato per Cocteau.
‘Belle dormant’ è una produzione Paraiso Films, La Pomme Hurlante e Hellish Coproducciones, con il sostegno del CNC e della Regione Bretagna.


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- Cinema

Dal best seller al cinema: Inferno il film

‘INFERNO’ … un film di Ron Hubbard tratto dal best-seller di Dan Brown.

«La mente umana possiede dei meccanismi primitivi di autodifesa che negano tutte le realtà che causano al cervello uno stress eccessivo da sopportare. Si chiama ‘negazione’.»
«Ho sentito parlare di negazione, ma non credo che esista.» - disse a mo’ di battuta langdon.
«Non impossibile, prof. Langdon, solo inconcepibile.»
«Dio è tutto, l’uomo è nulla» - Lutero aveva pronunciato quelle parole nel sedicesimo secolo, ma il concetto doveva essere stato presente nell’intendimento dei costruttori (di cattedrali) fin dagli esordi dell’architettura religiosa.

La nuova indagine del prof Robert Langdon, studioso di simbologia, prende spunto da certe frasi del romanzo per addentrarsi nelle oscure pieghe del poema dantesco, presente in ogni sequenza del film con citazioni talvolta da brivido che aprono spiragli di fuoco sull’immaginazione collettiva di quell’Inferno che sappiamo essere sotto i nostri piedi di comuni mortali. Un romanzo-thriller ben architettato dal suo autore Dan Brown che Ron Hubbard ha visualizzato in sequenze flashback di altissimo grado emotivo, in cui la ricostruzione scenografica di Peter Wenham e la straordinaria fotografia di Salvatore Totino hanno in parte lasciato scorgere nella trasposizione cinematografica, di quanto non poteva essere detto.
Trovo normale che trattandosi del terzo capitolo di una ‘trilogia’ filmica, iniziata esattamente dieci anni fa tra l’autore Dan Brown e il regista Ron Howard entrambi statunitensi, e con Tom Hanks nel ruolo principale del professor Robert Langdon.
ci si aspettasse di più in termini di dinamica filmica: scorrevolezza d’immagini, riprese azzardate della standcam, forzatura adrenalinica ecc.; che si arrivasse insomma a quell’ecatombe conclusiva e straordinaria tipica di ogni ‘sequel’ che si rispetti. Ma è qui l’errore, difatti non si tratta di un vero e proprio ‘sequel’, in quanto è solo una nuova avventura del prof Langdon chiamato a condividere e risolvere un enigma antico quanto il mondo sulla contrapposizione del bene al male. Per quanto chi ha letto il romanzo, ben sapeva che nel film non avrebbe trovato nulla o quasi di tutto ciò, perché non presente nella sua trama, costruita da Dan Brown in chiave thriller-filosofico sulla base letteraria della ‘Commedia’ dantesca.

Sinossi:
Dopo il risveglio in una stanza d'ospedale a Firenze, ferito alla testa e senza alcun ricordo di quanto gli è accaduto negli ultimi giorni, Robert Langdon studioso di simbologia esoterica si trova improvvisamente ad essere il bersaglio di una caccia all'uomo dalla quale proverà a fuggire. L’aiuto della dott.sa Sienna Brooks che fingendo di aiutarlo se ne serve per risolvere l'enigma più intricato che sia mai stato affrontato, gli permetterà di sopravvivere ad accadimenti eccezionali da risolvere, ma la soluzione che egli troverà è assai drastica e dovrà impegnarsi per impedirne l'attuazione rincorrendo un genio della genetica e fanatico di Dante, lo scienziato Bertrand Zobrist, (del quale la dott.sa Brooks è fatalmente innamorata e che infine tradirà Langdon) che ha deciso di salvare l'umanità dalla sua altrimenti inevitabile dissoluzione diffondendo nell’acqua un virus che altera il codice genetico delle persone e quindi capace di distruggere metà della popolazione umana.

Non nuova a quanto pare, qualcuno potrebbe vedervi la solita trama di tanti altri romanzi e films già visti, non in ultimo quel ‘Il codice Da Vinci’ e il successivo ‘Angeli e Demoni’ dello stesso Dan Brown. Eppure – scrive Giancarlo Zappoli su Mymovies.it che ringrazio per la cortese collaborazione… «Chi ha letto il libro (e sono stati tanti se si considera che solo venti giorni dopo l'uscita si erano già raggiunti i nove milioni di copie vendute nel mondo) si è chiesto come avrebbero fatto Howard e lo sceneggiatore David Koepp a trasformare in un film di due ore una storia che aveva due caratteristiche di difficile trasposizione. Perché il romanzo, facendo costante riferimento all'Inferno di Dante Alighieri, ha una forte base legata alla letteratura, cioè alla parola scritta e inoltre, in modo costante, offre ai lettori di tutto il mondo approfondite spiegazioni di luoghi ed opere d'arte che si trovano a Firenze, Venezia ed Istanbul rischiando a tratti di assomigliare a una guida Lonely Planet. (..) Si può dire che l'impresa sia andata a buon fine – continua l’autore dell’articolo – anche se, come accade spesso nel passaggio dalla pagina allo schermo, i lettori troveranno numerosi e, almeno in un caso, sostanziali mutamenti.»

«Qui si innesca una dinamica che differenzia il film dai precedenti. Se prima la detection si fondeva con l'azione, qui la dinamica è quella della fuga costante da pericoli incombenti cercando di impedire un evento catastrofico. Tom Hanks (molto appesantito) ha nello sguardo e nelle espressioni del volto (sempre uguale a se stessa) un fondo di paura misto alla volontà di farcela. Quindi chi meglio di lui poteva fuggire correndo o cercare temporanei rifugi in una Firenze che con il suo splendore diviene coprotagonista a tutti gli effetti della narrazione. Tutto ciò mentre allucinazioni e sprazzi di memoria disturbanti lo perseguitano e una immagine misteriosa di donna lo accompagna. (..) Se la storia di un amore che torna dal passato rischia di attenuare la tensione, resta però ripetuta con forza la questione di base che non è di carattere solo finzionale. (..) Questa volta però ci sono risparmiati anatemi e vade retro considerato che il tema non è più il rapporto con la fede cattolica e con coloro che la professano e diffondono ma si apre a prospettive di indubbia e pregnante attualità. Quindi ben vengano film come questo che hanno lo scopo di intrattenere mentre ci ricordano che il confine tra finzione e realtà è talvolta decisamente sottile e che, come recita la frase che apre il romanzo: ‘i luoghi più caldi dell'inferno sono riservati a coloro che in tempi di grande crisi morale si mantengono neutrali’. Un'affermazione a doppio taglio ma che non può non far pensare allorché a un anno di distanza dall'uscita del libro, non lo Zobrist inventato da Brown ma il fondatore del Front Nationale francese Jean-Marie Le Pen dichiarava che il virus Ebola avrebbe potuto risolvere in tre mesi il problema dell'immigrazione dall'Africa.»

Come è già capitato di esprimermi in tal senso Dan Brown non è Ian Fleming autore del serial 007, tantomeno il prof Robert Langdon è l’Agente Segreto James Bond, come pure Ron Howard non è Alfred Hichkock. Del resto come Dan Brown avrebbe potuto negare l’esistenza di Dio in quanto creatore, e mettere tutto in mano al Diavolo distruttore. L’argomentazione è tutt’ora in piedi e filosofi e scienziati sono ancora oggi alla ricerca dell’esistenza di Dio e di quella del Diavolo, come contrapposti di una dualità in cui si arrabbatta il mondo. È così che al prof Langdon non rimane che soggiacere agli eventi, nel bene e nel male, creati dal suo autore; e a noi di visionare un film che forse, poteva essere più accattivante, o solo più addentro a quell’Inferno di cui Dante e moltissimi pittori del passato ci hanno lasciato grandiosa memoria.

Scheda di produzione:
Paese USA, Italia;
Anno2016;
Durata121';
Genere thriller, giallo;
Regia Ron Howard;
Soggetto Dan Brown (dal romanzo Inferno);
Sceneggiatura David Koepp;
Produttore Ron Howard, Brian Grazer;
Fotografia Salvatore Totino;
Scenografia Peter Wenham;
Musiche Hans Zimmer;
Casa di produzione Imagine Entertainment, Columbia Pictures, LStar Capital; Distribuzione (Italia) Warner Bros. Pictures

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- Cinema

Roma International Film Festival

Al Rome International Film festival 2016 con Cineuropa

Festa del Cinema di Roma: varietà, qualità, internazionalità
di Vittoria Scarpa
30/09/2016 - L’11a edizione della manifestazione diretta da Antonio Monda si terrà dal 13 al 23 ottobre. Tra gli ospiti, Roberto Benigni, Tom Hanks, Meryl Streep, Ralph Fiennes, Juliette Binoche.
45 film e documentari in Selezione ufficiale, 24 anteprime mondiali, 14 incontri, e poi eventi speciali, retrospettive e omaggi. Per il suo secondo anno da direttore artistico, Antonio Monda conferma la dimensione “festa” dell’evento cinematografico della capitale, senza concorso (solo il premio del pubblico), senza madrine, puntando tutto su “varietà, qualità e internazionalità”. Sono 26 i paesi rappresentati quest’anno alla Festa del Cinema di Roma (11a edizione dal 13 al 23 ottobre) e tanti i generi, dalla commedia al melodramma, dal western all’horror, con temi ricorrenti la diversità – a partire dal film d’apertura, Moonlight di Barry Jenkins, su un giovane di colore di un quartiere malfamato di Miami che scopre la propria omosessualità – e il lavoro, la politica, l’Olocausto (il controverso Denial di Mick Jackson).
Tra le novità di quest’anno, la fascia denominata ‘Tutti ne parlano’ con alcuni tra i migliori film presentati in altri festival e non ancora distribuiti in Italia (tra questi, La tartaruga rossa di Michael Dudok de Wit), un ciclo di proiezioni nel carcere di Rebibbia e una nuova ‘sala’, il Mazda Drive-in al quartiere Eur. Invariati i tre pilastri del festival: i film, le retrospettive e gli incontri, perché ‘la caratteristica di questa Festa – ricorda Monda – è che gli artisti vengono qui a parlare di cinema e non solo a sfilare sul red carpet. Tra i tanti protagonisti degli Incontri ravvicinati figurano così Tom Hanks (che riceverà il Premio alla carriera e gli sarà dedicata un’ampia retrospettiva), Roberto Benigni, Bernardo Bertolucci, Andrzej Wajda, Meryl Streep, Viggo Mortensen e Oliver Stone. Le altre due Retrospettive di quest’anno sono riservate alla politica americana, in vista delle imminenti elezioni presidenziali, e al regista de Il deserto dei tartari, Valerio Zurlini.
Quanto ai titoli in Selezione ufficiale, quattro sono italiani: ruotano attorno al tema del lavoro '7 minuti' di Michele Placido, 'Sole cuore amore' di Daniele Vicari e l’opera prima 'Maria per Roma' di Karen Di Porto, una commedia che Monda definisce 'intelligente, nuova e fresca: la vera scommessa di quest’anno'. Il quarto titolo italiano è 'Napoli ’44' di Francesco Patierno, interessante mix tra documentario e finzione. Tra i titoli europei in selezione, 'Florence Foster Jenkins' di Stephen Frears, 'Into the Inferno' di Werner Herzog, 'Afterimage' di Andrzej Wajda, la coproduzione tedesca 'Snowden' di Oliver Stone, e poi ancora 'Fritz Lang' di Gordian Maugg,'The Secret Scripture' di Jim Sheridan, con Vanessa Redgrave, 'Irréprochable' di Sébastien Marnier, 'The Rolling Stones Olé Olé Olé!' di Paul Dugdale (sul concerto della leggendaria band a Cuba), il nuovo film di Alexandros Avranas, 'True Crimes', con Jim Carrey, e il film di chiusura, coprodotto dal Regno Unito, 'Lion' di Garth Davis, con Nicole Kidman.
'In guerra per amore' di Pif sarà presentato in pre-apertura il 12 ottobre, così come La guerra dei cafoni di Davide Barletti e Lorenzo Conte (il 9 ottobre), con Claudio Santamaria. Omaggi a Michael Cimino, Luigi Comencini, Gregory Peck e Alberto Sordi, tra i tanti altri. Tra gli eventi speciali, la proiezione e reunion del cast de 'Il paziente inglese vent’anni dopo', con Ralph Fiennes, Juliette Binoche e Kristin Scott Thomas. Non mancherà, infine, la sezione industry con il MIA, il mercato internazionale dell’audiovisivo che si terrà dal 20 al 24 ottobre e il cui programma dettagliato sarà presentato l’11 ottobre.

'Maria per Roma': un’attrice in cerca di ruolo
di Vittoria Scarpa
20/10/2016 - L’esordiente Karen Di Porto firma un’opera prima ironica ed esile sulla giornata frenetica di una giovane donna nella capitale, tra turisti, provini per il cinema e illusioni. Donne che corrono, che inseguono lavoro e passioni, e che per sopravvivere compiono acrobazie quotidiane, tra affanni e sorrisi. Dopo Sole cuore amore, sbarca all’11ma Festa del cinema di Roma un altro film italiano che ci racconta la frenetica vita di tutti i giorni di una giovane donna. Ma laddove il film di Daniele Vicari si calava in un contesto proletario e di periferia, Maria per Roma dell’esordiente Karen Di Porto, in selezione ufficiale, ci porta nel centro di Roma, per le strade intorno a Piazza Navona e in case bellissime, tra consegne di chiavi, prove a teatro e feste alla Casa del Cinema.
Maria (interpretata dalla regista stessa) è figlia di una borghesia che ha visto svanire il suo sogno di ricchezza: gli opulenti anni ’80 sono passati da un po’ e il negozio di antiquariato di sua madre è in liquidazione. Per sbarcare il lunario, fa la key holder per un’agenzia di case-vacanza di lusso: accoglie i turisti stranieri e consegna le chiavi. Nel frattempo, coltiva il suo sogno di fare l’attrice. Così, in sella al suo motorino e accompagnata dalla sua inseparabile cagnetta cardiopatica, la vediamo dalle prime ore del mattino fino a notte inoltrata correre, sempre in ritardo, da un portone a una sala prove, da un set indie in riva al Tevere a un check-in di clienti inferociti, passando per il Colosseo (dove un suo caro amico, attore fallito, incarna Gesù a favore di selfie) fino a un provino importante, dove però la formula è sempre la stessa: ‘le faremo sapere’.
Privo di una trama vera e propria, il film, di base autobiografica (alcuni ne accostano il tono al primo Nanni Moretti, altri a Eleonora Danco), si muove con leggerezza tra una situazione e l’altra, non mancando di momenti divertenti legati in particolare alle strane esigenze dei turisti (c’è chi le chiede compagnia, chi i biglietti dell’autobus, chi si rifiuta di portare le valigie per ragioni di casta), mentre meno accattivanti, e più prevedibili, risultano le sue vicissitudini da aspirante attrice in cerca di ruolo. Sullo sfondo, una Roma da cartolina – piazza Venezia, i Fori Imperiali, Campo de’ Fiori – sulla quale però la regista non indugia. ‘Ho preferito utilizzarla come sfondo, non come protagonista’, spiega Di Porto. ‘La inquadro sempre molto velocemente, perché rappresenta il palco su cui gli attori si esibiscono. Una città piena di difficoltà, ma di una bellezza straordinaria che ristora’.
Interpretato da attori sconosciuti, perlopiù amici della regista, Maria per Roma (il titolo nasce dal detto romano ‘cercare una Maria per Roma’, ossia qualcosa che non troverai mai) eccede talvolta nell’autoreferenzialità, ma ci mostra come anche i benestanti, con la crisi economica degli ultimi anni, siano scesi di un gradino nella scala sociale: i nobili affittano le loro case, i borghesi si fanno le pulizie da sé… Può lasciare indifferenti i più, forse, ma è comunque un altro punto di vista, in cui qualcuno non mancherà di identificarsi.
Maria per Roma è prodotto da Galliano Juso per Bella Film. La fotografia è di Maura Morales (Onda su onda, La prima luce), il montaggio di Mirco Garrone (montatore, fra gli altri, per Nanni Moretti, Carlo Mazzacurati e Daniele Luchetti). La distribuzione del film è ancora in trattative.

MARIA PER ROMA di Karen Di Porto
sinossi
Maria per Roma è la storia della giornata, dalle prime ore del mattino alla notte, di Maria, una donna confusa ma al contempo dinamica che insegue la sua carriera di attrice ma si perde nel caos quotidiano di Roma. Un quotidiano che ruota intorno a quella che sembra l’unica fonte di sostentamento della città eterna: il turismo. Vediamo Maria correre dalle prove in teatro ai check-in ai turisti e dai check-in ai provini, in una frenesia che sfocerà in situazioni comiche ed estenuanti.

titolo internazionale: Maria per Roma
titolo originale: Maria per Roma
paese: Italia
anno: 2016
genere: fiction
regia: Karen Di Porto
durata: 93'
sceneggiatura: Karen Di Porto
cast: Karen Di Porto, Andrea Planamente, Cyro Rossi, Diego Buongiorno, Nicola Mancini
fotografia: Maura Morales Bergmann
montaggio: Mirko Garrone
scenografia: Federico Faini
musica: Metarmonica
produttore: Galliano Juso
produzione: Bella Film

Cineuropa incontra Oliver Stone • Regista
di Birgit Heidsiek
20/10/2016 - Oliver Stone ha incontrato Cineuropa per discutere del perché Snowden sia stato per lo più prodotto come film europeo.
All'11ma Festa del Cinema di Roma, lo sceneggiatore e regista statunitense Oliver Stone ha presentato il suo film Snowden, in gran parte girato e finanziato in Germania. Il regista ha inoltre partecipato ad un Incontro Ravvicinato con Antonio Monda, direttore artistico della Festa del Cinema di Roma e il moderatore Richard Pena, durante il quale Oliver Stone ha parlato dei suoi precedenti film, così come della politica degli Stati Uniti, alla vigilia delle elezioni presidenziali americane.
Cineuropa: Da famoso regista di Hollywood, ha chiesto finanziamenti per gran parte di questo film alla Germania. Gli studios avevano paura di affrontare questo problema?
Oliver Stone: È stato molto difficile finanziare il film, perché gli studios l'hanno rifiutato. Abbiamo dovuto ridurre il budget a $45 milioni. Germania e Francia hanno finanziato la maggior parte del film. Le major non hanno neanche voluto toccare questo film, nemmeno per la distribuzione. È strano perché gli piaceva la sceneggiatura e mi dicevano che si sarebbero fatti vivi.
Che tipo di reputazione ha Snowden agli occhi del pubblico degli Stati Uniti?
La maggior parte degli americani non sa nemmeno chi sia. Edward Snowden è una persona che ha rivelato segreti e pensano che sia un tipo di comportamento sospetto. Ma la cosa importante che non hanno colto è che ciò che ha rivelato Snowden è la conferma del fatto che il nostro Paese ha costruito, schierato e sviluppato il sistema di sorveglianza globale più massiccio della storia - senza costrizione democratica, senza approvazione, senza dirlo a nessuno - e poi sono state approvate retroattivamente le leggi che l'hanno reso legale.
Com'è riuscito a lavorare con Edward Snowden?
Anche questo è stato un problema, perché è un fatto d'attualità che potrebbe essere interessante per i notiziari. Siamo sempre alla ricerca di nuove prove, nuove storie, ma l'aiuto più grande è giunto da Snowden stesso, perché ci ha spiegato tecnicamente ciò che sapeva e ciò che aveva fatto. Ciò richiede una quantità enorme di lavoro e di semplificazione, perché si tratta di questioni complesse. Ha letto la sceneggiatura e ci ha dato continuamente consigli su come migliorare le questioni tecniche in cui era coinvolto. Il rapporto con Lindsey Graham è venuto fuori delle nostre osservazioni sulla sua importanza nella sua vita nell'arco di nove anni.
Ci sono stati elementi che avete dovuto cambiare?
Sì, abbiamo cambiato diverse cose. Non voleva una caccia all'uomo per nessun collaboratore, non voleva far male a nessuno. Ha sempre sostenuto di aver fatto tutto da solo, a mio avviso, per convinzione e amore per la patria. E sappiamo che ha dato le informazioni ai giornalisti, poiché ha detto di "far decidere loro, lasciare che la gente discuta, escludendomi dal quadro, la storia non riguarda me, ma del contenuto di questo materiale". Questa è la vera storia. Il messaggero era timido. Non voleva essere un personaggio pubblico, ma ora lo è.
Dove avete girato il film?
Abbiamo girato per lo più a Monaco di Baviera, prima di trasferirci alla Casa Bianca per una settimana, con qualche giorno di riprese alle Hawaii e a Mosca. In Germania, abbiamo costruito il maggior numero possibile di set e abbiamo fatto molti esterni americani lì. Abbiamo anche trovato un buon set per la sede della NSA a Monaco di Baviera. Abbiamo combinato lo stadio Olimpico e la parte inferiore del vecchio ufficio postale di Monaco di Baviera, un interessante edificio degli anni '20. Siamo anche andati alle Hawaii, dove ha vissuto Snowden, e nel tunnel dove ha lavorato. L'esterno è stato girato alla sede hawaiana.
Nel suo film mostra come la NSA guarda nelle nostre camere da letto. Com'è stata la collaborazione con una troupe cinematografica europea?
Il team VFX, la scenografia e Anthony Dod Mantle, il direttore della fotografia, sono stati superlativi. Ho avuto grandi tecnici in Germania. Molti di loro venivano ad aiutarci a visualizzare, perché avevano davvero studiato le diapositive di Snowden e sembrava abbastanza realistico allo stesso Snowden. Ha detto che gli sembrava un ottimo lavoro al computer.

'SNOWDEN' di Oliver Stone
sinossi
Nel film, il dipendente della NSA vola dalle Hawaii a Hong Kong per raccontare al mondo il programma di sorveglianza della NSA, e diventa uno degli uomini più ricercati al mondo.

titolo internazionale: Snowden
titolo originale: Snowden
titolo provvisorio: The Snowden Files
paese: Stati Uniti, Germania, Francia
rivenditore estero: Wild Bunch
anno: 2016
genere: fiction
regia: Oliver Stone
durata: 135'
data di uscita: DE 22/09/2016, FR 1/11/2016
sceneggiatura: Kieran Fitzgerald, Oliver Stone
cast: Joseph Gordon-Levitt, Nicolas Cage, Scott Eastwood, Shailene Woodley, Timothy Olyphant, Zachary Quinto
fotografia: Anthony Dod Mantle
montaggio: Alex Marquez, Lee Percy
costumi: Bina Daigeler
musica: Craig Armstrong
produttore: Mark Popp, Philip Schulz-Deyle
produzione: KrautPack Entertainment, Wild Bunch Production, Endgame Entertainment [US], Vendian Entertainment [US], Onda Entertainment [US]
supporto: FFF Bayern
distributori: Universum Film GmbH, Pathé Distribution

Si ringrazia Cineuropa per la gentile collaborazione.
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- Teatro

Mistero Buffo ovvero Dario Fo e il paradossale sproloquio

DARIO FO … Mistero buffo: ovvero il ‘paradossale sproloquio dell’attore’.

 

«Fammi ridere, chiede l’interlocutore improvvisato (qual io sono).»

«Devo confessare – scrive Fo nel suo ‘Manuale minimo dell’attore’ – che uno dei miei sogni segreti è quello di riuscire, un giorno, a entrare in televisione, sedermi al posto dello speaker che dà le notizie del telegiornale e parlare, per tutto lo spazio della trasmissione, in grammelot:

Oggi traneuguale per indotto-ne consebase al tresico imparte Montecitorio per altro non sparedico ndorgio, pur secministri e cognando, insto allegò sigrede al presidente interim prepaltico, non manifolo di sesto, dissesto…”; aggiungendo infine che: “..per una buona mezz’ora, si potrebbe continuare imperterriti, scommettiamo che nessuno se ne accorgerebbe”.»

Ma che cos’è questo ‘grammelot’ Dario Fo lo ha spiegato più volte durante le sue ‘lezioni’ tenute all’Argentina (noto teatro romano) e nelle Università di mezzo mondo; si tratta di uno sproloquiare onomatopeico a imitazione di lingue diverse e dialetti vari in cui viene spostata l’attenzione di chi ascolta (uditore o spettatore che sia), sul suono fonosimbolico e/o imitativo prodotto dalla parola, sulla tonalità della voce che la pronuncia e spesso dal gesto che l’accompagna.

Ciò che di per sé ‘fa teatro’, anzi, come direbbe Fo: ‘risale all’origine del teatro’, inteso come intrattenimento più o meno colto che si continua a fare ancora oggi, basta accendere la televisione in un qualsiasi momento della giornata e incappare in uno dei tanti talk-show dove, oltre alle chiacchiere ‘teatrali’ tra condominiali, si assiste sempre più spesso alle ‘opposizioni politico-drammaturgiche’ tenute dai numerosissimi azzaccagarbugli di turno.

«È un fatto – avverte qualcuno fra i presenti – ed è inutile sperticarsi a dare un senso a ciò che dice l’uno o l’altro, poiché hanno tutti ragione e si finisce per non credere a nessuno …» Chissà, forse anche per questo si vuol chiamare ‘democrazia’, per quanto tutto ciò stia creando solo confusione e nessuno (individualmente parlando) sa più chi veramente è, qual'è il suo riferimento socio-culturale, qual'è la sua appartenenza e/o la sua etnia. Per poi dover dare la colpa alla ‘globalizzazione’ che di certo non dovrebbe intendersi come ammasso di genti e d’intenti ma preposta per la collaborazione e il libero scambio.

Al contrario, assistiamo al riorganizzarsi di ideologie avulse da ogni umanistica sollecitazione, di agglomerati umani intolleranti, mitomani e omofobi, che non hanno in sé (senza saperlo) un’autentica ragione di appartenenza, in quanto siamo tutti figli spuri di provenienza incerta.

In questo possiamo dirci di essere tutti quanti ‘attori’ di una tragedia costante che ci vede gli uni contro gli altri a combattere una guerra, molte guerre, ché mettono in discussione la prevalenza ideologico/religiosa/culturale che prevarica ogni principio di libertà, uguaglianza e fraternità, cui tutti siamo chiamati a rispondere e che proprio per questo rimangono senza riscatto.

Personaggi di un ‘teatro dell’assurdo’ che se pure possiamo condividere sulla scena, non è affatto più tollerabile nella realtà, in cui assistiamo – per l’appunto – al continuo ‘paradossale sproloquio dell’attore’ che individualmente (e non solo) interpretiamo. Colui/colei che, secondo 'il motodo' Stanislavskij (Konstantin), che ha contrassegnato la grammatica elementare di tutto il teatro del Novecento: “..senza perdere se stesso deve creare il personaggio, nella sua realizzazione psicologica, gestuale, sonora, scenica”.

Questo, in sintesi, è quanto operato sulla scena e fonte dell’insegnamento che Dario Fo ha voluto trasmettere nel ‘fare’ il poprio originale anti-teatro; il quale, pur partendo dai suoi prestiti e dai ripetuti lasciti del teatro istituzionale ma spingendosi oltre, nell’assurdità dell’assurdo del suo divenire, alla ricerca di una propria identità d’attore, rivestendolo di un significato universale. Sulla scia di una ‘idea del teatro’ che già eloquenti studiosi in quegli stessi anni 1960-70, andavano elaborando.

Come ad esempio Antonin Artaud che nel suo noto saggio “Il teatro e il suo doppio” (con una strepitosa prefazione di Jacques Derrida), nel quale egli ci introduce a quel ‘fare teatro' che possiamo ben riconoscere essere la cifra del Dario Fo degli inizi, poi ripreso dopo una lunga parentesi, negli anni più avanzati della sua carriera artistica. Teatro nel quale Artaud non pensa semplicemente di modificare l’equilibrio istituzionale del teatro o di ridefinirlo in un discorso precettistico su come fare teatro, bensì:

“..evocando le possibilità estreme dello stesso nella tentazione ‘del suo doppio’ che il fare teatro rappresenta sulla scena: l’azione asoluta, irreversibile che incombe sull’esibizione dei corpi nello spazio scenico, forzando le finzioni e le riserve di cui è costituita la trama del vissuto”.

E del quale, stravolgendo ogni sua dimensione scenica, gestuale e della parola (per fare un discorso all’inverso) Dario Fo si avvale per riprendere il discorso di Stanislavskij impostato in “L’attore creativo”, rispondendo così a una esigenza del nostro tempo, dove lo spettatore aspira ad essere ‘protagonista’ sulla scena (ancor più in TV) ma, anche, chi è curioso di sapere che cosa gli succede intorno; anche se a guardar bene non sfugge all’osservatore, la quantità delle ‘maschere’ che ognuno indossa per l’occasione.

Dario Fo che dell’uso della maschera in teatro ha dato innumerevoli lezioni, indossandola o spogliandosene al contempo, non ha dubbi che le ‘maschere non servono a mascherare’, bensì citando ripetutamente a suo modo: “Lo sproloquio degli uccelli” tratto da Aristofane, buttandosi a sfottore e addirittura a insultare il pubblico:

«La commedia, per chi non lo ricordi, tratta di due ateniesi, i quali decidono di lasciare la loro città con la motivazione più che moderna del disgusto delle infamità, dei giochi politici bassi e dei processi orchestrati. Sembra d’essere nell’Italia odierna con gli attuali governanti e in testa a tutti Andreotti (allora a capo del governo) che, è risaputo, viveva già allora e faceva parte del parlamento ateniese. Lo si riconosce in alcune figure vascolari attiche nell’atto di sfuggire, con un suo straordinario scatto di reni, all’ennesima incriminazione per intrallazzi di sapore mafioso. I personaggi della commedia, dicevano, nauseati dall’andazzo politico-cialtrone, se ne vanno con lo scopo dichiarato di trovare una città ideale. Decidono di fermarsi in un mondo intermedio tra la terra e il mondo degli dèi, che è quello degli uccelli, dove, se non altro, vige un sistema di vita fondato su certe onestà che gli uomini non possiedono.»

Questa la storia in sintesi, dove s’insinua predominante nel dialogo diretto col pubblico la creatività dell’attore: «Ah, ah, ah, ah dio mio che pubblico straordinario! Ho viaggiato per tutti i teatri, dal Pireo all’Ellesponto, ma poche volte mi è capitato di trovarmi a recitare davanti a un pubblico come voi (una frase ruffiana che verrà ripetuta in tutte le rappresentazioni dagli attori consumati). Incredibile! Io vi sogno anche di notte (cambia tono all’istante), siete un incubo! (rifiuto estemporaneo di sottomissione). Ma cosa avete nella testa? Possibile che un gioco di parole o una allusione allegorica non vi riesca di capirla? (proposizione di coinvolgimento). Perdio, le più belle battute satiriche vi sono scivolate sul cervello come il lado sul burro. Fate finta, almeno, di intuire, ci sono degli stranieri qui stasera , bella figura che ci facciamo! Ridete! (si volta di qua e di là come ad ascoltare). No, non così a caso, ma sulla battuta. Aspettate, vi farò segno io, così, con uno schioccare delle dita … e voi: ah, ah, ah! …»

C’è però un altro aspetto che non è stato ancora toccato e, che pur volutamente estraniandosi dalle discussioni politiche e le numerose critiche, va qui affrontato nel quadro del coinvolgimento che Dario Fo, in fine di serata, amava tenere col pubblico. Avveniva così che, dopo aver dismesso ogni suppellettile, oggetto di scena, maschere e quant’altro, si presentava per così dire ‘nudo’ di fronte al pubblico applaudente con il suo vero volto, corredato da una mimica facciale che lo ha reso ‘maschera’ di se stesso.

Allora la scena apparecchiata solo in parte si svuotava ed egli affrontava i riflettori con coraggio, direttamente, senza finzioni, mettendo in mostra l’uomo oltre all’attore, parlando, rispondendo, più spesso canzonando la società e i costumi di questo nostro tempo. A leggere il solo elenco parziale delle sue opere c’è davvero da perdersi nei meandri di un dialogare tra passato remoto e presente futuribile, perché anche se alcune situazioni possono sembrare datate alla cronaca degli anni che furono, si può ben vedere come i personaggi siano malleabili e trasferibili a quelli odierni e, perché no a quelli che verranno.

In quanto, non è solo Dario Fo che lo afferma, ma è universalmente conosciuto il fatto che l’essere umano (?) è comunque uguale a se stesso, in qualunque parte del mondo, ricade sempre sugli stessi errori e si comporta come ieri o ieri l’altro, tale e quale come oggigiorno, e come presumibilmente accadrà domani, senza contraddizione alcuna. Così come Dario Fo ha fin qui recuperato se stesso nell’indirizzare al pubblico l'ara comica e quell’amore che lo ha sempre distinto in tutte le sue manifestazioni di uomo e di artista.

Dalle origini cabarettistiche al tempo del sue esperienze off-teathre, alle apparizioni al fianco di Franca Rame durante gli spettacoli in TV, accanto a nomi famosi del teatro leggero come Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Maria Monti, Walter Valdi e Ornella Vanoni, cui fanno riferimento molte delle sue ‘canzoni’ (chiamiamole così con beneficio d’inventario) nate dal sodalizio con Fiorenzo Carpi, la cui collaborazione abbraccia l'intero arco della sua vita. Dario Fo così lo ricorda: "Un musicista straordinario per cultura e duttilità, col quale ci siamo divertiti e impegnati nel corso di circa 40 anni, a scrivere canzoni, alcune delle quali sono diventate famose, spaziando in tutti i generi musicali e teatrali, inventando nuovi stili, rielaborando quelli classici e fingendoci via-via “anonimo lombardo del '400”, “minuettista settecentesco”, “cantastorie”, il tutto in perfetta sintonia dovuta anche alla genialità e alla serietà del lavoro di Fiorenzo”.

Ed inoltre, in quell’apparente leggerezza insita nell’arte dell’attore comico impregnato di gestualità mimica o di imitazione che lo differenzia dall’attore più generico, per la capacità di sintetizzare nell’espressione e ovviamente nel gesto ciò che ha affinità con lo spazio che gli sta attorno, con gli oggetti consoni alla personalità del personaggio che porta in scena: come strumenti di lavoro, musicali, ecc. sviluppando un proprio stile individuale, e destinati a indirizzare il lavoro dell’attore nel modo illustrato da Claudio Vicentini nel suo “L’arte di guardare gli attori” un manuale pratico per lo spettatore di teatro, cinema, televisione, contenente regole e trucchi, nonché criteri per riconoscere gli stile degli attori e scoprire le tecniche che usano sul palcoscenico e sul set.

Nel quale, inoltre, Vicentini parla di Dario Fo facendo riferimento alla sua capacità ‘estremamente specializzata’ di utilizzare le tecniche dell’imitazione nella celeberrima “La fame dello Zanni”, in cui il personaggio tormentato dalla fame sogna di preparare un gigantesco banchetto, con uno, due, tre pentoloni, dove versa un sacco di polenta e tutti gli ingredienti e quel che ne consegue alla preparazione, finché il tutto non è ridotto a un enorme pastone che ingoia felice, per poi svegliarsi e accorgersi disperato che è stato soltanto un sogno:

“E allora nota un moscone che gli vola intorno ronzando e poi gli si posa sul naso. Lo afferra di scatto, urla di gioia, l’osserva goloso, gli strappa una zampa, la guarda in estasi, l’azzanno e la mastica, stacca le ali delicatamente, una alla volta, le assaggia, le ighiotte, guarda la carcassa che gli è rimasta tra le dita, la sala con cura, la porta alla bocca, l’assaggia, mugola di gioia, ed esplode trionfante: “che magnada!

"Di solito le tecniche dell’imitazione – scrive Vicentini – impiegano il corpo dell’attore per far apparire di fronte al pubblico una figura del tutto immaginaria, quella del personaggio. Gesti, espressioni, movimenti rendono visibile un essere fantastico, diverso dall’aspetto reale e quotidiano del suo interprete. Per riuscirci l’attore seleziona alcuni tratti salienti della figura da rappresentare, li riproduce e li mette in evidenza in modo da attrarre su di loro l’attenzione dello spettastore. (..) Per mettere in luce l’oggetto, l’interprete non lo raffigura mai, o quasi mai, in modo diretto. Piuttosto crea con il proprio corpo e i propri movimenti dei segni precisi, forti, caratteristici, che indicano l’oggetto agli spettatori. (..) Se i gesti colgono con precisione e mettono in evidenza quanto di più caratteristico c’è nell’oggetto, il pubblico immancabilmente ‘vede’ lo strumento tra le mani dell’attore".

Un sogno, forse, che ha condotto Dario Fo fino al riconoscimento di quel Nobel per la ‘Letteratura’ tanto discusso (e tanto invidiato dai contemporanei) che gli fu assegnato nel 1997, per i suoi meriti in ambito letterario-teatrale, il suo impegno sociale sì, ma anche per aver insegnato al mondo che l’arte dell’attore, al di là dell’impegno sulla scena, è in tutto e per tutto l’arte della vita.

Innumerevoli sono inoltre le canzoni che hanno perseguito un certo successo di pubblico, soprattutto attraverso le voci di eccezionali interpreti. Ricordo qui di seguito alcuni titoli allusivi e sarcastici che hanno divertito generazioni di ascoltatorinegli anni ‘60/’70: ‘La luna è una lampadina’ ‘La prima volta’ (fammi ancora un livido sul femore); ‘Il mio amico Aldo’ e ‘Tre storie di gatti’ (con Mogol); ‘Il foruncolo’; ‘Pianto dei piantatori di piante’; ‘La brutta città’ (Milano con Giorgio Gaber); ‘Il mio ligéra’ e ‘nteressa a me’ con Franca Rame; ‘Hanno ammazzato il Mario’ e ‘Senti come la vosa la sirena’ con ornella Vanoni.

Eccone un assaggio realizzato da Dario Fo e Franca Rame in: ‘Ma che aspettate a batterci le mani’, spettacolo musico-teatrale andato in scena in quegli anni:

 

"Ma che aspettate a batterci le mani a metter le bandiere sul balcone? Sono arrivati i re dei ciarlatani, i veri guitti sopra un carrozzone. Venite tutti in piazza fra due ore, vi riempirete gli occhi di parole, la gola di sospiri per amore e il cuor farà seimila capriole. Napoleone primo andava matto per 'sto dramma e ogni sera con la sua mamma ci veniva ad ascoltar. Napoleon di Francia piange ancora e si dispera da quel dí che verso sera ce ne andammo senza recitar. E pure voi, ragazze, piangerete se il dramma non vedrete fino in fine dove se state attente imparerete a far l'amore come le regine. E non temete se la notte è scura: abbiamo trenta lune di cartone con dentro le lanterne col carburo, da far sembrar la luna un solleone. Napoleon francese, per vederci da vicino, venne apposta sul Ticino contro i crucchi a guerreggiar. Napoleone primo, che in prigione stava all'Elba, vi scappò un mattino all'alba per venirci a battere le man. Ma che aspettate a batterci le mani, a metter le bandiere sul balcone, sono arrivati i re dei ciarlatani, i veri guitti sopra un carrozzone. Vedrete la regina scellerata, innamorata cotta del figlioccio, far fuori tre mariti e una cognata e dar la colpa al fato del fattaccio. Ma che aspettate a batterci le mani, a metter le bandiere sul balcone? Sono arrivati i re dei ciarlatani, i veri guitti sopra un carrozzone. Venite tutti in piazza fra due ore, vi riempirete gli occhi di parole, la gola di sospiri per amore e il cuor farà seimila capriole".

 

‘Tutta brava gente’ di Capi Fo.

"Qui si parla di ufficiali piuttosto compromessi: tutta brava, tutta brava, tutta brava gente, e qui ci saltano fuori almeno sei processi per miliardi, a questo stato che è così indigente, qui si parla di una banca insediata in un convento, qui c'è un tal che alla Marina ha fregato un bastimento, qui un tal altro che a fatica ha corrotto un gesuita, assegnati quattro appalti a un'impresa inesistente, concessioni sottobanco contro assegni dati in bianco, truffe sui medicinali, sulle mutue e gli ospedali, sopra i dazi, le dogane, i tabacchi e le banane. Oh, che pacchia, che cuccagna: bella è la vita per chi la sa far! Ma tu, miracolato del ceto medio basso, tu devi risparmiare, accetta sto salasso: non devi mangiar carne, devi salvar la lira e, mentre gli altri fregano, tu fai l'austerità!"

 

In fine, eccoci giunti ai saluti di rito, e voi … “Ma che aspettate a battergli le mani!”

Ciao Maestro degno di entrare con onore nel ‘cielo’ della nobile Commedia dell’Arte.

 

Bigliografia di riferimento: Dario Fo, ‘Manuale minimo dell’attore’ – Einaudi 1997 Konstantin S. Stanislavskij, ‘Il lavoro dell’attore’ – Laterza 1982 AA.VV., ‘L’attore creativo’, «con una risposta a Stanislavskij» di Jerzy Grotowski - La Casa Usher 1980 Antonin Artaud, ‘Il teatro e il suo doppio «con la prefazione di Jacques Derrida», - Einaudi 1968 Claudio Valentini, ‘L’arte di guardare gli attori’ – Marsiglio 2007 Per ‘Il teratro dell’assurdo’, Martin Esslin in Edizioni Abete 1980.

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- Cinema

Il sogno di Francesco un film con Elio Germano

Il sogno di Francesco: gioia e rivoluzione di un santo.
di Camillo De Marco, in collaborazione con Cineuropa News.

05/10/2016 - Il film di Renaud Fély e Arnaud Louvet su San Francesco d’Assisi e il suo amico fraterno e seguace Elia da Cortona è interpretato da Elio Germano e Jérémie Renier
La gioia nella povertà e nell’umiltà. E’ questo che predica San Francesco d’Assisi nel film Il sogno di Francesco in uscita in Italia il 6 ottobre con Parthénos e a fine anno in Francia con Haut et Court. Una coproduzione tra Francia, Italia e Belgio di Æternam Films con MIR Cinematografica, Rai Cinema e Entre Chien et Loup, il film è diretto da Renaud Fély e Arnaud Louvet, che lo hanno anche scritto assieme a Julie Peyr, con la collaborazione di Elizabeth Dablemon. Fely è al suo secondo lungometraggio dopo Pauline et François [+], prodotto da Louvet, che è invece alla sua prima regia dopo numerose collaborazioni produttive (inclusi Viva la sposa di Ascanio Celestini e Io sono Li di Andrea Segre).

Regia: Renaud Fély, Arnaud Louvet

sceneggiatura: Renaud Fély, Arnaud Louvet, Julie Peyr, Elizabeth Dablemont

cast: Jérémie Renier, Elio Germano, Yannick Renier, Eric Caravaca, Marcello Mazzarella, Alba Rohrwacher, Olivier Gourmet

fotografia: Léo Hinstin

scenografia: Frédéric Lapierre

costumi: Marie-Laure Pinsard

musica: Grégoire Hetzel

produttore: Arnaud Louvet, Francesca Feder

produzione: Aeternam Films, Mir Cinematografica S.r.l, Rai Cinema, Entre Chien et Loup, France 3 Cinéma, Rhône-Alpes Cinéma


Il vero protagonista de 'Il sogno di Francesco' non è tuttavia il santo d’Assisi, impersonato da Elio Germano, ma piuttosto il suo amico fraterno e seguace Elia da Cortona, interpretato da un Jérémie Renier in “stato di grazia”. E’ proprio questo punto di vista originale che caratterizza il film e costituisce l’elemento che lo distingue dalle opere sulla figura di Francesco di maestri come Rossellini, Cavani e Zeffirelli. E’ il rapporto tra i due personaggi che i registi vogliono mettere a fuoco per sottolinearne le differenze stridenti. Francesco, con un ideale purissimo che va al di là delle cose terrene. Elia, devoto e spiritualmente motivato ma allo stesso tempo pronto al compromesso per raggiungere gli scopi prefissi. Con una regia delicata e minimalista Fely e Louvet mettono a confronto i due personaggi storici per tracciarne un ritratto umanissimo e attuale.

Siamo nel 1209 e papa Innocenzo III ha appena opposto il suo rifiuto all’approvazione della “Regola” che dovrebbe dare legittimità alla confraternita che si è formata attorno a Francesco. Il futuro santo vive in assoluta povertà accanto ai bisognosi ed è insofferente alle gerarchie ecclesiastiche, contrario ad ogni controllo e compromesso con Roma. “Non si mercanteggia la libertà”, dice al suo amico Elia che tenta di convincerlo a rendere meno “radicale” il documento e salvarlo dalle insinuazioni sulla sua ereticità. All’amica e collaboratrice Chiara (Alba Rohrwacher) confida: “Vogliono un capo, ma io non lo sarò mai”. La diversità del giovane Elia, di famiglia altolocata e fresco di studi giuridici, è evidente. Quello che diventerà un importante uomo politico e consigliere di Federico II di Svevia ha lasciato tutto per vivere con Francesco e aiutarlo a costruire un mondo migliore. Vuole coltivare un orto per poter dare da mangiare ai derelitti e “combattere la povertà”, ma gli altri seguaci di Francesco gli obiettano che bisogna combattere piuttosto la ricchezza. Ma Elia non è un contemplativo. Su consiglio del cardinale Ugolino (Olivier Gourmet) e approfittando dell’infermità di Francesco, Elia cancellerà di sua mano i riferimenti più “estremisti” al Vangelo, ai quali Francesco teneva molto, e riuscirà a far approvare la “Regola”. Francesco accetta il suo ruolo di intermediario ma non lo perdona e prima di tornare ai suoi poveri, gli intima di non seguirlo e di rimanere a rappresentare la confraternita presso le istituzioni ecclesiastiche. Elia lo raggiungerà anni dopo, nel 1226, nella grotta della Verna, presso Arezzo: Francesco è in fin di vita e su mani e piedi sono apparse le stigmate.

La pellicola di Louvet/Fely va presa così com’è, in un delirante misticismo a fin di bene per i poveri e i derelitti, tutto inclinato sulla sincopata visionarietà dovuta all’interpretazione agitata e sovraccarica dell'attore protagonista, silenzioso e fedele sigillo all’illuminazione avuta dal santo in vita. Il principio ideale di questo film è tutto qui.

Da ‘Il Fatto Quotidiano’ di Davide Turrini | 5 ottobre 2016.

Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi. All’insolito duo di registi Arnaud Louvet (solitamente produttore e sceneggiatore) e Reanud Fely (al secondo lungometraggio) nessuno deve aver suggerito il vecchio adagio italiano. Il sogno di Francesco, dal 6 ottobre nei cinema italiani, infatti ha quell’andamento lento e contemplativo di un’agiografia volontaria e ragionata del santo più amato dal belpaese e non solo. Il San Francesco d’Assisi di Louvet/Fely va preso così com’è, in un delirante misticismo a fin di bene per i poveri e i derelitti, tutto inclinato sulla sincopata visionarietà dovuta all’interpretazione agitata e sovraccarica di Elio Germano, silenzioso e fedele sigillo all’illuminazione avuta dal santo in vita. Il principio ideale di questo film è tutto qui.
Ciò che concettualmente e spiritualmente non segue la purezza di Francesco è pregiudizialmente robetta, compromissione, sofferto tradimento. Aiutato dal coro di frati, ancor prima apostoli del francescanesimo in nuce, il protagonista del film, ancor più che nel delirio camp di Franco Zeffirelli (Fratello sole, sorella Luna), o nell’inguardabile versione fango-sudore-lacrime della Cavani 1989, è venerato a priori per lo spettatore ignaro come nemmeno in una cappella votiva. Difficile scansare questo macigno “politico” che adombra l’intero percorso narrativo del film. Che poi non è tanto il biopic sul santo umbro, ma il racconto dell’incrinarsi di un’amicizia, del consumarsi di un tradimento, quello tra Francesco l’utopista ed Elia da Cortona il pragmatico. Quest’ultimo (interpretato da Jeremy Renier) si affannerà per l’intera esistenza, buona parte passata dietro la tonaca di Francesco, a fargli modificare “Regola” per essere accettati più facilmente da papa Innocenzo III. Per questo obiettivo palese dello snaturato valore compromissorio, l’utopia svenduta per una calma apparente e futura, massimalismo contro riformismo di ogni latitudine ideologica e politica del pianeta terra, Elia per il rimorso tenterà perfino un incredibile suicidio (fonte storica da cui è tratto l’episodio non pervenuta) e soffrirà come una bestia per l’eternità.
Nonostante l’ipocrita deviazione su un supposto protagonista parigrado del racconto, Il sogno di Francesco è invece sentenza imperitura su cosa sono bontà, fratellanza e pace con lo spessore intellettuale del catechismo della domenica mattina; un salmodiare di tesi, per carità condivisibili, ma che nella loro continua reiterazione diventano drammaturgia spicciola e ridondante, frasario semplificato di un’esaltazione. C’è poi questa straordinaria atmosfera da cinema art house un po’ posticcio, inquadrature qua e là vagamente antinarrative, una conclamata estetica “vorrei ma non posso”, particolari che rendono la ricostruzione storica e i dettagli consunti degli abiti in scena qualcosa di parecchio svuotato e distante, perlopiù sistemati in sequenze in cui l’unica attesa in religioso silenzio è per la lapidaria massima francescana del momento. “Il sogno di Francesco è un’avventura sentimentale e politica e queste due cose ne fanno una sola”, hanno spiegato i registi. “All’opposto del potere dominante, Francesco reinventa una vita libera, spogliata da ogni attaccamento materiale, che rimette il bisogno dell’altro al centro di tutto, cosa che per l’epoca costituiva una vera e propria rivoluzione. Il suo carisma, il suo talento oratorio e la sua autenticità ne attirarono al seguito personaggi di tutti i tipi: letterati, eruditi, crociati pentiti, clerici e laici e persino contadini e miserabili. Tutti questi uomini vivevano insieme. Il movimento si estese, cominciando a creare dei problemi al potere costituito. Questo insieme di rivolta mite, di profondo umanesimo e di utopia collettiva ci sembrava magnifico da raccontare”.


Nel corso della sua carriera, Elio Germano ha ottenuto, tra gli altri premi, tre David di Donatello per il miglior attore protagonista per Mio fratello è figlio unico, La nostra vita e Il giovane favoloso. Per La nostra vita ha vinto anche il Nastro d'Argento al migliore attore protagonista ed il Prix d'interprétation masculine al Festival di Cannes 2010.

Nel 2014 è protagonista del film Il giovane favoloso diretto da Mario Martone, dove interpreta Giacomo Leopardi, per il quale ottiene il terzo David di Donatello per il miglior attore protagonista, il Premio Pasinetti al miglior attore alla 71ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, e il Nastro d'argento al personaggio dell'anno.

'Viaggio al termine della notte', liberamente tratto da Louis-Ferdinand Céline, di e con Elio Germano e Teho Teardo (2011-2016)

'La Vita Nuova' - cantata per voce recitante, soprano e piccola orchestra, di Nicola Piovani - Ravenna Festival (2015)





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- Letteratura

Shakespeare in mutande

SHAKESPEARE IN MUTANDE

 

C’è sempre un telefono poggiato da qualche parte che squilla nella stanza da letto quando è ancora immersa nel buio. Ma dov’è? Rispondo. George, sei tu? Posso negarlo? Ci si vede al solito posto alle dodici, sei d’accordo? Quale posto? Volevo dire alla Cafeterie, quella all’angolo, ciao, un bacio. Clicksdeng! riattacca di colpo. Una pecca di garbo, penso. Potevo anche non essere d’accordo, non vi pare? Tutto dipende da questa frase fatta per niente convincente. Importante è esserci, mi dico. L’amo? Forse sì, o forse Victoria è solo un’abitudine. Che parola orrenda! Ciò che amo di lei è senz’altro che è sposata, nel senso che ha un marito sempre molto impegnato e che in qualche occasione la tiene occupata per rappresentanza, per social party o una delle irrinunciabili cene con gli amici e chissà quali altre cose che non mi dice, ma tutte politically correct, secondo quelli che sono i nostri accordi di fondo. Per il resto decide sempre tutto lei. Mi chiama, mi organizza la vita, pretende che resti in casa ad aspettare la sua disponibilità. Ci vediamo alle dodici, ci vediamo alle venti, ci vediamo alle ventidue, poi accade che non ci vediamo. Perché? Mio marito si è liberato da un impegno e ha deciso di passare la serata in casa coi figli! Ah bene, molto bene! Tu cosa fai? Esco! E dove vai? Non so, dovrò pur fare qualcosa, non ti pare? A quest’ora? Se è a quest’ora che mi hai chiamato per dirmi che non ci vediamo! Ti richiamo più tardi, magari hai un ripensamento, ciao! Ogni cosa va secondo una solerte pigrizia, tutta maschile, che è sempre da qualche parte in agguato e che mi vede poltrire nel letto a dosare ore interminabili di piacevole riposo, quello del “guerriero” per intenderci, di cui mi faccio vanto, e di lasciare a lei di fare la prima mossa. Di attivarsi, per così dire, nella scelta del programma per la serata che sia nel letto o fuori del letto. Ancora non mi capacito come mai lei arrivi a decidere esattamente il contrario di quelle che sono le mie aspettative. La causa, o se vogliamo la ragione, sta che siamo due entità diverse, ancorate per tutto il tempo nei nostri ruoli specifici: lei che fa la donna para-impegnata, io che provo a fare l’uomo para-viveur. Ma che vuol dire, fare l’uomo, quando è lei a decidere sempre ogni cosa? Che cosa deve fare un uomo per potersi dire tale? Quando se non l’assecondi è capace di tenerti a digiuno e romperti i coglioni nel modo più intransigente e duraturo, senza concessione di tregua, senza possibilità di riscatto? Ancor più l’amo per ciò che mi da, che dice di non dare a suo marito, che è solo mio. Inizialmente un tantino freddo, direi, ma tanto, tanto profondo, che talvolta vorrei che l’uccello mi si staccasse e proseguisse il suo viaggio negli oscuri meandri della sua anima, fino a trovare la fonte primaria della sua perversione. L’immagine è quella di una sonda spaziale che lanciata nel cosmico universo di lei, trasmette imput deliranti alla base, a quell’io che incollato dietro di lei spasima per il ritorno della navicella dalla stratosfera. A volte capita che mi dica: eccomi, sto arrivando, in cinque minuti sono da te. Un’ora dopo arriva, mi scopa, mi lascia come una centrale di pompaggio in disuso, per poi andarsene dicendo: Oh George, non sai quanto mi dispiace per stasera, credo che dovrò stare in casa con i miei. Come mai? Mio marito ha deciso di non uscire? E tu Vic cosa farai? Credo che me starò a letto a leggere romanzi. Quale è l’ultimo che hai letto? Non ricordo, ne ho letti tanti … ah sì, l'ultimo di Almudena Grandes! Mi sembra un tantino eccessivo. Lei, novella Lulù che si eccita nel letto accanto a suo marito, il maliardo Bukowski, mentre legge un romanzo d’appendice. Non che io ne sia geloso, ma adesso capisco dove trova certe parole, mi sembra un tantino inconsuete che di tanto in tanto mi rivolge, soprattutto in certi momenti, quando spasima coinvolta nell’orgasmo, tra risatine interrotte da alterni gridolini di piacere. Accipicchia, si sta facendo tardi, devo fare in fretta. Si fa per dire. Scivolo nella stanza da bagno e m’infilo sotto la doccia. Porca troia! … dico per il sapone che mi schizza via dalle mani e dopo due rimbalzi contro le pareti del box, infila l’unica fessura lasciata aperta e si allontana sul pavimento. Non importa, lo shampoo per i capelli va bene lo stesso per tutto il corpo. Non so voi ma io impiego un’infinità di tempo ad aprire e richiudere i tappi dei flaconi, del tubetto del dentifricio, del talco, dell’acqua di colonia, quanto di più scomodo conosca. Finalmente, pur con le mani bagnate riesco ad aprirlo, ma poi non lo trovo più al momento di richiuderlo. Chissà dove cazzo è andato a finire? Ora se si considerano le ridotte dimensioni di una doccia, che non è Trafalgar Square, dove può essere finito se non te lo sei infilato nel culo? - mi chiedo, e finisco per lasciare il flacone aperto. Il momento del fon è decisamente più accalorante. L’aria calda fra i capelli e i peli del corpo, lì dove la mano s’insinua orgogliosa, mi restituisce il piacere nascosto di un’intimità solleticante. Due gocce di Versace sul corpo nudo, il cui effetto è già un preludio di mascolina perversità; insieme alla pettinatura che devo decidere se dargli un effetto da 'spettinato bene' che fa tanto vissuto, oppure finto 'degagée' un po’ leccato e stilisticamente dandy un po’ fuori moda. Opto per il 'vissuto', visto che non ho tempo di nascondere le vistose occhiaie della notte passata insonne. Il problema della vestizione è legato all’ora e al tempo. Allora guardo fuori della finestra. È bello, c’è il sole, mi vesto sportivo. nel senso che un pantalone una camicia e un pull può anche andare bene. Senza giacca? No, magari una blusa portata in mano, o sulle spalle con non-chalance, un paio di Clark acquistate a Bond Street et voilé, vanità di vanità, il gioco è fatto. Ci sei George? Certo che ci sono, un ultimo sguardo fuggevole - si fa per dire - nello specchio e sono pronto, secondo il caso e la convenienza di quell’io convinto, un po’ narcisista e un po’ malato di protagonismo, unico spettatore di me stesso, che si lascia ammirare con un pizzico di sorprendente candore, come un cane di razza portato al guinzaglio a un dog-show dalla gente antropologicamente differenziata: un po’ pingue e un po’ pennuta, certamente bovina e mammifera, che calca le vie dello zoo metropolitano. Quella stessa gente spietata e concia che pure trovo molto affascinante per uno spacco osé, una falcata arrapante, o una minigonna audace e sfrontata che dà libero sfogo all’immaginazione, per dire che eccita il mio orgasmo giornaliero. Esco, faccio i cosiddetti quattro passi di rito, tanto per farmi vedere in giro, una puntata dal tabaccaio: Marlboro morbide, grazie! E dal giornalaio, The Times please! tanto per sapere che succede nel mondo. Non che me ne freghi gran che, però è bene tenersi informati, non si sa mai. Mi avvio verso il bar, quello d’angolo. Mi siedo all’aperto, ordino un caffè. Accendo una sigaretta. Il Vasceron-Constantine che ho al polso, una patacca ovviamente, segna mezzogiorno e venti precise. Di Victoria neppure l’ombra. Lei, come tutte le donne, ama farsi attendere, arriva tardi per professione, oserei dire per ricercatezza, per sdegno di arrivare in orario, d’essere in qualche modo legata al tempo che passa, cosa che la spaventa moltissimo, quasi come la paura che ha d’invecchiare. Uno sguardo disinteressato alla pagina degli spettacoli. Non sia mai voglia occuparmi la serata con qualche divagazione che non sia di sesso? - mi chiedo. Con Victoria c’è da aspettarsi di tutto. L’orologio segna le tredici e di Victoria neppure l’ombra. All’improvviso mi si para davanti uno stacco di ragazza da far impallidire il sole. Posso sedermi? - chiede. Come dirle di no? Inutile, non ne sono capace. Lo so che sta per arrivare Victoria. Mi ha telefonato, ha fissato l’ora dell’appuntamento. Che figura ci faccio se arriva e mi trova seduto al bar con un’altra donna? Non posso farlo. E che cosa le dico? È un’amica! Una parente, magari una cugina, una nipote? Come si fa ad avere una cugina così? Uno che ha una cugina così e non se la scopa, o è uno stronzo, o che altro … non saprei in che altro modo definirlo. Penso tutto questo quando lei, molto sicura di sé, si siede sulla poltroncina vuota accanto alla mia e con un sorriso luminosissimo, mi dice: You must be George, ant you? My name is Caroline, how do you do! Oh Carol, credimi, il piacere è tutto mio! Di dove sei? Studio a Oxford, ma attualmente sono in vacanza qui a Londra, ospite della zia Victoria. Ah, dimenticavo, la zia ti manda a dire che ha avuto un contrattempo, che improvvisamente non può liberarsi. Che faccio, le lascio intendere che mi dispiace? Faccio il viso imbronciato? O meglio, incazzato nero? Magari facciamo grigio, altrimenti pensa chissà che c’è fra me e sua zia. Non importa Carol, dovevamo solo fare colazione insieme. Credo che dovrò comunque ringraziarla per avermi mandato te, uno 'scopo' che si rinnova, da zia a nipote. Carol sorride emettendo piccoli gridolini da Lolita in vacanza. La curiosità è un’attrazione che non sono mai riuscito a frenare. Del resto Carol è già una sorpresa, diciamo che è la mia sorpresa di oggi. Glielo dico. Ti va di fare un giro in auto? Sì, dove andiamo? Dai, ti compro un lecca-lecca e andiamo a casa mia, dove altro? Lei acconsente. Entriamo, the living rom è nel disordine più totale, pile di libri ovunque, Hi-fi dimenticato acceso, bottiglie semivuote e bicchieri usati poggiati dappertutto; coi posacenere colmi di cicche che per la fretta di uscire ho lasciato in bella vista. L’aria è pressoché irrespirabile. Apro una finestra. Dai Carol, accomodati. Dalla porta aperta s’intravede la stanza da letto, dove indumenti lasciati qua e là fanno bella mostra di sé. La lampada sul mobile lungo che fa da comodino è accesa, illumina il grande letto poggiato sul tappeto a livello del pavimento con molti cuscini. L’odore è quello delle scarpe portate e dei calzini smessi, dimenticati da qualche parte. C’è stata una festa? Sì la notte scorsa ma per la freta ho lasciato tutto così come vedi. Uhm che bello, hai molti Cd, posso ascoltarne qualcuno. Tutti quelli che vuoi. Sfido chiunque sia capace di ricavare un che minimo di spazio dove posare i piedi e ballare. Carol vi riesce saltando scalza sul letto disfatto agitandosi, quando a un tratto, mi dice che ha fame. Non hai qualcosa da mangiare? Nemmeno a pensarlo di farla entrare in cucina. Piuttosto le preparo qualcosa e glielo porto qui - mi dico. Ingoio la saliva che m’intasa la gola, prima di andare di là a prepararle qualcosa. Riappaio con della frutta fresca e dei biscotti da tè. Può essere sufficiente? Sai, non volevo mica disturbarti, ma è che quando siamo entrati mi è venuta una fame. A chi lo dici! E mentre sono lì a guardarla che mangia e cambia i Cd nel lettore, e mi rompo il capo su cosa dirle, lei candida, esclama: Non essere preoccupato, tanto lo so che scopi con la zia! Le sorrido cercando di nascondere l’imbarazzo. Te l’ha detto lei? No, l’ho capito quando ti ho visto. Sveglia la ragazzina, dico tra me. Mi piacerebbe andare a ballare! - dice. È un’idea, ma a quest’ora credo sia impossibile trovare una discoteca aperta. Certo che no, intendevo questa sera. Da qui a stasera mancano un numero incalcolabile di ore da colmare, hai un’idea? Vediamo. Basta una radio portatile, un poster con una spiaggia, oppure una terrazza. Non siamo a Miami! All’occorrenza va bene anche questa stanza, un impianto Hi-fi, un certo numero di Cd, qualcosa da bere che non mi hai offerto ancora, oppure George, vuoi farmi credere che manchi d’iniziativa? Carol, che fai, mi parli come tua zia. Cazzo, perché Victoria non mi ha avvisato prima? Già, prima di quando? Che mi stia mettendo alla prova, oppure devo pensare che Carol sia uno dei suoi regali più originali? Indubbiamente lei è la donna più formidabile mi sia capitata di avere, sua zia Victoria intendo, che quando meno te lo aspetti, ti stravolge l’esistenza con un gesto estemporaneo di generosità, facendomi sentire un emerito cretino, per via delle colpe che poi mi assumo, ogni volta che... stavo quasi per dire che la tradisco. È un’ammissione che un uomo non dovrebbe mai fare, neppure davanti all’evidenza. Ma è solo un’illusione, in verità il cretino che è in me difficilmente si mette in disparte, neppure quando sarebbe necessario, per rivelarsi, senza attenuanti, quando è colto di sorpresa. E lei novella Lolita, che fa? Spudoratamente non si lascia sfuggire l’occasione, coglie l’attimo per dirmi che sto facendo la figura di quello lì, del cretino, che non sa come ci si comporta con una ragazzina viziata. A me? Sì, dico a te, vieni a ballare! Dove, sul letto? Mi prende per la cintola e mi tira verso di sé, m’invita a ballare. Mi chiedo se non sono davvero un cretino, almeno potevo togliermi le scarpe. Sai George, ciò che più mi piace di te sono le tue labbra, la tua bocca, dal primo momento che ti ho visto ho provato il desiderio di baciarti ...ti dispiace se adesso ti do un bacio? Che dici, non saprei, non credo, non posso, sei la nipote di Victoria - risponde il cretino. Senza farla tanto lunga, lei mi chiude la bocca unendo le sue labbra alle mie, il suo ardore al mio. Al fuoco, al fuoco! - sento gridare nelle mie orecchie. Penso necessiti un estintore per spegnere tutto quanto brucia intorno a noi. È invece la sua sigaretta finita non so come fra le lenzuola ammucchiate del letto. Carol con uno scatto di prontezza afferra la caraffa dell’acqua sul comodino e ve la versa sopra. Ecco fatto! - esclama la stronza, come se avesse salvato Gerusalemme dopo aver creato una pozzanghera sul letto. Diciamo che le concedo un'attenuante solo perché è la nipote di Victoria, mentre è il pensiero di scoparmela che conduce il mio acre sentimento a non darle due schiaffi. Non hai del ghiaccio? - chiede improvvisamente. Che vuoi farne? - dico a mia volta pregustando chissà quale gioco erotico ha in mente. Semplicemente metterlo nel Ballantines, tu ne vuoi? Lo trovi di là, in frigo, ma non ne sono poi così sicuro. Il cretino, alla fine l’ha lasciata entrare in cucina. Si affaccia allibita dallo stipite della porta, sei sicuro di non avere bisogno di qualcuno che ti dia una mano? Anche due - penso, ma non glielo dico. Quando torna, mi faccio trovare in mutande, disteso sul letto con le braccia sotto la nuca. Un errore incancellabile nella vita di un amatore. Meglio nudo. Lei ride e la sua risata prolungata mi mette per un attimo in imbarazzo. Devo ammetterlo, noi uomini maturi in fondo, intimamente temiamo ogni confronto, la concorrenza spietata di chi è più giovane di noi. Una cazzata questa che non vuol dire niente, anche perché non sempre chi è più giovane può dirsi capace di amare una donna, farla sentire importante. Altra cazzata infinita. L’importante non è esserci, come ho detto qualche pagina fa, è scopare duro, lasciarla distrutta nel letto, con le ossa rotte. Ammetto che non è il mio caso, per quello ci vuole la tenacia e il vigore della gioventù. Perché ridi? Altra gaffe madornale che nessun uomo dovrebbe mai commettere. È come darle il là, offrirle il fianco e lasciarle prendere in mano la situazione. Lei, infatti, risponde, non te lo dico! Non importa, dico io, volendo tentare un recupero impossibile. Macché, lei continua a ridere. Per usare un eufemismo ammetto che già mi sto incazzando, ho voglia di prenderla e sbatterla sul letto come faccio con la zia. Non so perché, non lo faccio. Lascio che sia l’amatore a prendere il sopravvento. Non credo che continuerà a ridere quando accuserà l’affondo - dico tra me. Prendo a spogliarla dolcemente, come si fa con una caramella al miele, pregustandone il sapore, il tatto zuccherino. Il letto segreto ha più miele di quello conosciuto. In breve mi ergo sopra di lei come un Titano, mi sembra esagerato, facciamo come un Trimalcione del sesso, che prende parte a un banchetto interminabile e sontuoso d’ogni delizia e d’ogni libertà. Nudo contro nudo, il suo giovane petto unito al mio e di nuovo le sue labbra contro le mie, che si baciano, le nostre lingue che si cercano, si trovano, si avvolgono, mescolano spremute d’uve saporose, asprigne e gaie. Siamo in ginocchio adesso, il suo seno caldo è una fonte inesauribile di delizie, quanto di più godibile un corpo di donna può offrire all’arsura di un fauno in calore. Meravigliosamente lei, con la grazia di una danzatrice del ventre, si distende davanti a me intrecciando le sue gambe intorno ai miei fianchi. Quale architetto dei miei sogni, senza bisogno d’ingegnosi calcoli e misurazioni, il mio cazzo si erge in tutto il suo splendore, come un obelisco finito e lucente che chiede soltanto di splendere nel sole. Lei è pronta a riceverlo, si bagna, m’invita a distendermi sopra l’aiuola fiorita cosparsa di profumi allettanti, quando squilla il telefono: una, due, tre, cinque volte senza interruzione. C’è sempre un telefono che squilla da qualche parte! Penso: il cretino non l’ha spento, non ha strappato i fili, non si è isolato da questo mondo di merda. Imperdonabile. Che fai non rispondi ... è sicuramente la zia, stavo aspettando la sua chiamata. Ha scelto il momento giusto, ma che brava! Rispondo, hallo? Hallo George, sei tu? No è Babbo Natale! Perché mi rispondi così, sei forse arrabbiato per il mio ritardo? Nooo, che dici mai! Quando non ti ho visto arrivare ho pensato che … Hai pensato male. Perché c’è un altro modo di pensare? Certo che c’è, potresti almeno dirmi che sei dispiaciuto. Beh, se proprio vuoi saperlo, non lo sono affatto. Sei un cretino! Credimi Vic, sentivo proprio il bisogno di sentirmelo dire. Ebbene sì, sono un cretino, perché sto qui a parlare con te, quando potevo stare con.. Stare dove, con chi? A sbattermi in qualche altro posto, con qualcun'altra che non fosse … Perché dici questo? Dimmi tu piuttosto, perché non eri all’appuntamento. Perché improvvisamente, mentre ero sotto la doccia che mi stavo preparando, mia nipote, tu sai che ieri è arrivata mia nipote da Oxford e che sarà mia ospite per una settimana, vero George? No, non lo sapevo. Beh, lei mi ha detto di aver ricevuto una telefonata da suo padre, mio fratello John che abita a Glasgow, che si trovava in serie difficoltà all’aeroporto di Heathrow, che mi chiedeva di andarlo a prendere. Così, sono uscita in tutta fretta lasciandola in casa, dicendole che se tu avessi chiamato di dirti che sarei arrivata in ritardo. Tu, in ritardo, quando mai! Ascolta George, torno appena adesso dall’aeroporto, di mio fratello neppure l’ombra, la polizia aeroportuale non ne sa niente. Allora mi hanno lasciato telefonare a Glasgow, e lui era a casa. Ti ho detto tutto. Devi credermi, ho provato a chiamarti dall’aeroporto, ma probabilmente tu eri già uscito. Okay Vic, e come si chiama questa tua nipote? Samantha. No, perché vedi, c’è qui da me un’altra tua nipote che mi sta facendo … Cooosa? Si, Caroline è qui, deve averti preso alla lettera, è venuta a dirmi di persona che tu saresti arrivata in ritardo, molto carino da parte sua, non trovi? Cosa ti sta facendo, cosa? Mi sta facendo impazzire Vic. Oh non ascoltarla George, è Samantha, una menagramo, è capace di mandarti a fuoco la casa. Già fatto, grazie! Fai attenzione, è una mantide, una tendenziale assassina di uomini soli. Trattienila, prendo un taxi e in un istante sono da te. Fai pure con comodo, mi raccomando. Inutile dire che mi si è ammosciato l'uccello. Mi rivesto in fretta. Qualcosa non va, George? - mi chiede Caroline/Samantha osservando la mia faccia da perfetto imbecille che sono. Oh no, no. Ti ha mollato subito, perché? – chiede sarcastica. Che cosa le hai detto? Nulla, semplicemente che sei qui. Già, che stupida sono, dovevo immaginarlo, e adesso, immagino, stia venendo a prendermi, è così George? È un fatto – dico, cercando di mostrare uno strano senso dell’humour, accusando un mal di testa che mi sfonda i calzoni per quell'attesa che diveta sempre più imbarazzante, mentre Vic tarda ad arrivare.

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- Libri

Pape Satàn Aleppe, cronache di una società liquida

‘Pape Satàn Aleppe’ - Cronache di una società liquida
di Umberto Eco – La nave di Teseo 2016.

Fin dall’introduzione l’autore (tanto di cappello) avverte il lettore trattarsi della raccolta delle sue Bustine di Minerva apparse sull’Espresso fin dal 1985 e in altre precedenti raccolte (brevi) e che oggi, siamo nel 2015: “..non tanto per colpa mia quanto per colpa dei tempi, è sconnessa, va – come direbbero i francesi – dal gallo all’asino, e riflette la natura liquida di questi (ultimi) quindici anni”. Se è lui a dirlo dovremmo quantomeno credergli, e che invece nulla risulta di più concettualmente ordinata di questa. Figuriamoci se ‘il professore’ di “La vertigine della lista” (2013) avrebbe mai potuto mettere assieme qualcosa di sconclusionato che lo riguardasse in prima persona. Comunque crediamoci utilizzando quel suo senso autocritico che lo vedeva sempre insoddisfatto e compiaciuto di esserlo, fino a fermare la rotativa di stampa dei suoi libri per cambiare una frase o il finale di una storia solo perché non gli piaceva. Ma come sappiamo è questa una pratica solo dei ‘grandi’ e solo a loro giustamente concessa.

Un’altro avvertimento al lettore riguarda il titolo, ripreso dalla citazione dantesca (Inferno, VII,1) che messa così, fa pensare a una sorta di ‘vademecum satanico’ cui solo Eco sarebbe stato capace di redarre; ed anche la ragione, io credo, per cui molti lettori si astengano dallo sfogliare, per paura forse di esserne contaminati fino a perdersi nei labirinti della sua ragionevolezza (difficoltà di lingua, argomentazioni occulte ecc.) dei suoi precedenti libri. Tutt’altro, siamo qui di fronte a alle fusa di un gatto sornione fin troppo arguto e bizzarro nelle sue scelte e nei suoi lazzi che, nelle pur brevi pagine (minimal stories) delle sue ‘cartine’, riesce a introdursi nelle vene della società pulsante di vita, utilizzando una nota definizione del sociologo Zigmunt Bauman riferita alla ‘società liquida’, essere invero uno stilema della modernità che ci è data di vivere in questo terzo millennio.

“C’è un modo per sopravvivere alla liquidità? C’è, ed è rendersi appunto conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti. Ma il guaio è che la politica e in gran parte l’intellighenzia non hanno ancora compreso la portata del fenomeno. Bauman rimane per ora una ‘vox clamantis in deserto’.” L’insegnamento potrebbe sembrare non pertinente con la missione del professore ma certamente lo è in quanto Eco è stato un insegnante di vita la cui esperienza lo ha portato a discernere, nella completezza dello scibile universale, quella che ha dimostrato essere la sua erudizione a tutto tondo e non un semplice opinionista da strapazzo come quelli che spesso si gongolano sui canali televisivi, capaci di parlare a senso unico su questo o quell’argomento.

Ogni argomento toccato in questo libro (e sono davvero moltissimi) centra quasi con mira infallibile il problema o un dubbio contestabile pur esistente in noi esseri sociali offrendoci spesso un possibile sguardo risolutivo nei risvolti inclusivi dei diversi ‘capitoli’ che formano il corpus narrante. Per così dire ‘liquifacendoli’ dentro un linguaggio accessibilissimo a tutti, comprensivo di religione e filosofia, razzismo e odio, morte e miracoli, educazione e scuola, letteratura e poesia, stupidità e follia, politica e potere, cinema e musica, Web e telefonini, vecchiaia e ricambio generazionale, Europa e il resto del mondo, e non si ferma qui, tant’altro e tale è ogni volta l’incognita del suo spaziare che riesce a smuovere il pensiero del lettore, finanche in inezie da megalomane, di cui forse non si sarebbe mai preoccupato. Ma che invece investono tutti in ogni momento della giornata e della notte, in quanto riguardano la vita di tutti i giorni, le necessità e le esigenze di noi esseri sociali (ed anche di asociali) nel vivere comune.

Umberto Eco (come pochi altri) ha dato e può ancora darci lezioni (attraverso i suoi scritti) su quel che siamo noi italiani, su ciò che siamo capaci di inventare, di creare artisticamente parlando, anche di fare autocritica ma soltanto quando chi vuole insegnarci qualcosa ha le palle per farlo, allora tanto di cappello. Mi chiedo cosa avrebbe scritto Eco sulle ultime vignette apparse su Charlie Hebdo, lui che spesso citava il buon gusto dei cugini francesi? Ma forse ne avrebbe riso, valutandola una scivolata del bon ton che alla fin fine non può offenderci, perché tocca delle verità che egli stesso avrebbe condiviso. Magari individuando nelle ragioni di una simile caduta di stile, quelle che sono le pecche di una Nazione addormentata che sta ancora in piedi crogiolandosi sulla grandeur del Re Sole usando gli stecchini da tavola per tenere gli occhi aperti.

Davvero interessante la sua affermazione sullo stato della follia che imperversa questo primo ventennio del secolo: “Però mi pare abbia scritto una volta Saul Bellow che in un’epoca di pazzia credersi immuni dalla pazzia è una forma di pazzia. Quindi non prendete per oro colato le cose che avete appena letto”, sembra voler concludere questo lungo escursus letterario che lo riguarda e ci riguarda, ma non è la fine, è ancora del 2015 la cartina “Gli imbecilli e la stampa irresponsabile” che, strano a dirsi, assume maggiore validità in questi nostri giorni se riferita alle vignette di Charlie: “Mi sono molto divertito con la storia degli imbecilli del Web. Per chi non l’ha seguita, è apparso on line e su alcuni giornali che nel corso di una cosiddetta lectio magistralis a Torino avrei detto che il Web è pieno di imbecilli. È falso. La lectio era su tutt’altro argomento, ma questo ci dice come tra giornalisti e Web le notizie circolino e si deformino”.

(Abbrevio)
“Ammettendo che su sette miliardi di abitanti del piante ci sia una dose inevitabile di imbecilli, moltissimi di costoro una volta comunicavano le loro farneticazioni agli intimi o agli amici del bar – e così le loro opinioni rimanevano limitate a una cerchia ristretta. Ora una consistente quantità di queste persone ha la possibilità di esprimere le proprie opinioni sui social network. Pertanto queste opinioni raggiungono udienze altissime, e si confondono con tante altre espresse da persone ragionevoli. (..) Nessuno è imbecille di professione (tranne eccezioni) ma una persona che è un ottimo droghiere, un ottimo chirurgo, un ottimo impiegato di banca può, su argomenti su cui non è competente, o su cui non ha ragionato abbastanza, dire delle stupidaggini. Anche perché le reazioni sul Web sono fatte a caldo, senza che si abbia avuto il tempo di riflettere. È giusto che la rete permetta di esprimersi anche a chi non dice cose sensate, però l’eccesso di sciocchezze intasa le linee.”

(Abbrevio)
“I giornali sono spesso succubi della rete, perché ne raccolgono notizie e talora leggende, dando quindi voce al loro maggiore concorrente – e facendolo sono sempre in ritardo su Internet. Dovrebbero invece dedicare almeno due pagine ogni giorno all’analisi di siti Web (così come si fanno recensioni di libri <che pochi leggono> o di film <che nessuno vede>, indicando quelli virtuosi e segnalando quelli che veicolano bufale o imprecisioni. Sarebbe un immenso servizio reso al pubblico e forse, anche un motivo per cui molti nevigatori in rete, che hanno iniziato a snobbare i giornali, tornino a scorrerli ogni giorno. (..) È un’impresa certamente costosa, ma sarebbe culturalmente preziosa, e segnerebbe l’inizio di una nuova funzione della stampa”.

Note di copertina:
«Crisi delle ideologie, crisi dei partiti, individualismo sfrenato…Questo è l’ambiente – ben noto – in cui ci muoviamo: una società liquida, dove non sempre è facile trovare una stella polare (anche se è facile trovare tante stelle e stellette). Di questa società troviamo qui i volti più familiari: le maschere della politica, le ossessioni mediatiche di visibilità che tutti (o quasi) sembriamo condividere, la vita simbiotica coi nostri telefonini, la mala educazione e naturalmente molto altro. È una società, la società liquida, in cui il non senso sembra talora prendere il sopravvento sulla razionalità, con irripetibili effetti comici certo, ma con conseguenze non propriamente rassicuranti. Confusione, sconnessione, profluvi di parole, spesso troppo tangenti ai luoghi comuni. “Pape Satàan, pape Satàn aleppe”, diceva Dante nell’Inferno, tra meraviglia, dolore, ira, minaccia, e forse ironia.»

E l’ironia ne è la chiave di lettura, quello che ci vuole per leggere fino in fondo questo libro corposo di tante pagine (469) e soprattutto di tante parole da rimpiazzare il nostro comune dizionario, per apprendere quanto esso è ricco di potenzialità espressive. Grazie maestro!

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- Musica

Il Jazz italiano per Amatrice

Anche NovaraJazz sostiene i territori colpiti dal sisma.

 

"Il Jazz italiano per Amatrice" avrà un palco a Novara. A seguito del terribile terremoto che nella notte del 24 agosto ha sconvolto il centro Italia, “Il jazz italiano per l’Aquila”, evento che doveva svolgersi a L'Aquila coinvolgendo più di 600 artisti su 20 palchi per tutta la città, diventa per quest'anno Il jazz italiano per Amatrice | 4 settembre 2016. Un atto di solidarietà dedicato al paese diventato il luogo simbolo di questi tragici avvenimenti.

Domenica 4 settembre saranno tanti i concerti distribuiti in tutta Italia; infatti, buona parte dei 20 palchi originariamente previsti all’Aquila troveranno ospitalità in altrettante città italiane.

Grazie all'ospitalità di Cena in Bianco Novara 2016, NovaraJazz aderisce all'iniziativa di solidarietà con i concerti di Satoyama, quartetto torinese composto da Luca Benedetto (tromba, flicorno ed effetti), Christian Russano (chitarra Archtop live samples), Marco Bellafiore (basso) e Gabriele Luttino (batteria, xilofono, vibrafono) con forti infuenze progessive rock e del Dedalo Jazz Ensemble in piazza Martiri (vedi mappa). Inoltre a Casa Bossi (Baluardo Quintino Sella, 16, vedi mappa), ospitato dall'Indie Market - Back in Town, si esibirà Gianni Denitto, sassofonista, che ha collaborato tra gli altri con Fabrizio Bosso, Tullio De Piscopo, Francesco De Gregori e Billy Cobham.

Il programma completo è consultabile a questo indirizzo. La raccolta fondi prevista nelle città coinvolte sarà destinata alla ricostruzione del Cinema Teatro “Giuseppe Garibaldi” di Amatrice, punto di riferimento per la cultura e la comunità. La raccolta fondi non si limita a domenica 4 settembre ma è già viva e continuerà grazie al crowdfunding: www.eppela.com/it/projects/10061-un-teatro-per-amatrice.

 

NovaraJazz Stagione 2015/2016 è organizzato dall’Associazione Culturale Rest–Art, con il contributo di Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Comune di Novara, il sostegno di Fondazione Live Piemonte dal Vivo, Ambasciata di Norvegia, Puglia Sounds, Fondazione Teatro Coccia, Opificio Cucina e Bottega, Conservatorio Guido Cantelli, Civico Istituto Musicale Brera, Rotary Club di Novara, Birrificio Croce di Malto, Agenzia immobiliare ArteKasa.

 

I Satoyama a Novara per il festival 2016 - © Emanuele Meschini Our mailing address is: Novara Jazz Via Mameli 8 Novara, NO 28100 Italy

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- Musica

Jazz e Wine of Peace Festival

Jazz&Wine of Peace 2016
Presentato il diciannovesimo Jazz&Wine of Peace Festival

Il Collio tra Italia e Slovenia si prepara ad accogliere il 19° Jazz&Wine of Peace, il festival internazionale che per una settimana fa risuonare le cantine, le dimore storiche, le abbazie con le migliori firme del jazz planetario. I luoghi di magnifica bellezza, le scelte artistiche di grande livello e le degustazioni dei migliori prodotti del territorio rendono Jazz&wine of Peace un'esperienza unica.

Dal 23 al 30 ottobre a Cormòns e sul Collio tra Italia e Slovenia, i meravigliosi paesaggi e le cantine e le dimore storiche di maggior pregio risuonano del miglior jazz nazionale e internazionale e il Friuli Venezia Giulia diventa un punto d'incontro per musicisti di prim'ordine, amanti della musica e dell'enogastronomia di qualità e turisti d'ogni parte d'Italia e d'Europa.
Oltre 15 i grandi concerti del festival, che è prima di tutto un omaggio alla grande musica e che annovera tra gli ospiti stelle internazionali del calibro di Jan Garbarek - sassofonista norvegese dalla quarantennale carriera - che nel suo gruppo chiama il "mago" delle percussioni Trilok Gurtu, la cui geniale espressività unisce jazz, musica indiana e improvvisazione. Ma anche la stella assoluta della chitarra Bill Frisell che a Cormòns porta "When You Wish Upon a Star", sorprendente progetto che rivisita le più celebri colonne sonore cinematografiche. Dave Holland - storico bassista, tra gli altri, di Miles Davis - sale sul palcoscenico con "Aziza", insieme anche a Chris Potter, ancia mondiale già Grammy Award come miglior strumento solista.
E poi: la stella cubana del jazz per antonomasia, il pianista Gonzalo Rubalcaba; Vincent Peirani che con la fisarmonica esplora miracolosi universi sonori; e decine di artisti europei ed italiani che nel nome della libertà espressiva e dell'improvvisazione mantengono Jazz&Wine uno tra i festival più interessanti del territorio nazionale e non solo.
La generosità e l'accoglienza delle bellissime cantine , la bellezza del territorio e la particolarità delle offerte enogastronomiche - imprescindibile corollario delle performance artistiche -completano il fascino del festival: nel nome della grande qualità e della valorizzazione della bellezza, la musica - se possibile - si arricchisce di significati ancora più profondi.
Per Circolo Culturale Controtempo
Clara Giangaspero
+39 338 4543975

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- Alimentazione

Rumori nell’isola Ventotene Festival

Torna a Ventotene il Festival “Rumori nell’Isola”

XV EDIZIONE 1-2-3 SETTEMBRE 2016 | ORE 22.15
VENTOTENE | INGRESSO GRATUITO

Tra gli artisti: Maria Pia De Vito, Rita Marcotulli, Roberto Taufic, Gabriele Mirabassi, Ensemble Burnogualà, Nando Citarella e iTamburi del Vesuvio.
Dal 1 al 3 settembre torna sull’isola di Ventotene il consueto appuntamento con il Festival di musica jazz “Rumori nell’isola”, ad ingresso gratuito. Giunto alla sua XV edizione, l’evento si conferma sempre più come la manifestazione di riferimento all’interno delle attività culturali dell’isola per quanto riguarda la musica e il jazz in particolare.
Anche quest’anno la kermesse musicale apre la prima serata con memorie e ricordi dei due luoghi d’esilio: Ventotene e la vicina isola di Santo Stefano, da sempre collegate dalle vicende storiche che hanno caratterizzato la storia italiana. Si comincerà allora con letture di memorie e testimonianze tra le tante pervenute a noi dalla fine del ‘700 dai detenuti politici che vi hanno soggiornato.
Il 1 settembre ad inaugurare il Festival sarà il duo del chitarrista Roberto Taufic e del clarinettista Gabriele Mirabassi con il progetto "Um Brasil diferente", rilettura di un repertorio di canzoni e brani strumentali di varie epoche che hanno in comune l'aver rappresentato il suono di generazioni intere di brasiliani, alle quali si aggiungono composizioni originali sempre legate a doppio filo all'idea dello sguardo da lontano, cercando quella prospettiva e quella nitidezza di visione che si guadagna solo allontanandosi dall'oggetto guardato.
Tra i protagonisti della serata del 2 settembre vi sarà Maria Pia De Vito, che consolida il suo forte legame con l’Isola di Ventotene e i suoi abitanti. Anni fa, insieme alla contrabbassista Silvia Bolognesi, realizzò la prima performance musicale all’interno dello storico carcere e, già durante la scorsa edizione, ha portato la sua musica all’interno del Festival, coinvolgendo in una residenza artistica anche l’Ensemble Burnogualà da lei diretto, divenuto protagonista di un video virale grazie a una meravigliosa performance vocale in acqua, in uno dei luoghi più suggestivi dell’Isola, l’antico murenario di Ventotene. Il video in pochi giorni ha totalizzato quasi 100.000 visualizzazioni e oltre 200.000 persone raggiunte grazie alle centinaia di condivisioni sui social network e all’attenzione della stampa e dei media.
Maria Pia De Vito salirà sul palco nuovamente con l’Ensemble Burnogualà - in veste sia di direttrice che cantante - che, insieme a Rita Marcotulli sperimenterà il materiale musicale e creativo che nei prossimi mesi darà vita al disco “Moresche ed altre invenzioni”. Il progetto verte sulle canzoni moresche del fiammingo Orlando di Lasso, pubblicate nel 1581 all’interno del famoso «Libro de Villanelle, Moresche ed altre canzoni», frutto tardivo del compositore, a Napoli tra il 1549 ed il 1551, alla corte del Marchese della Terza. Si tratta di intrattenimenti vocali a 3-4-5-6–8 voci, parodie musicali i cui protagonisti sono schiavi e liberti africani ritratti in serenate, corteggiamenti, bisticci, cantati in uno “slang” che mescola sapientemente frammenti di dialetto napoletano (comicamente storpiato) e di Kanuri, lingua parlata nell’area nilo-sahariana, insieme a imitazioni di strumenti e versi di animali. Un materiale unico, di grande vivacità e ricchezza ritmica, contrappuntistica, timbrica.
L’Ensemble Burnogualà, insieme al duo De Vito-Marcotulli, estenderà “Le Moresche” attraverso l’uso di tessiture improvvisative, interludi e panorami vocali in cui l’Africa, Napoli e l’improvvisazione - jazzistica e non - si incontrano nella contemporaneità.
Quest’anno la spettacolare performance in acqua insieme dell'Ensemble sarà replicata e resa ancora più speciale e suggestiva dal coinvolgimento del pubblico, che potrà assistere e partecipare liberamente ad un magnifico momento di musica e condivisione in una spettacolare cornice naturale.

Il Burnogualà Vocal Ensemble, fondato e diretto da Maria Pia De Vito, nasce nel 2012 come Vocal Geographies in seno alle classi di Canto jazz al Conservatorio di S. Cecilia di Roma, e al Saint Louis Music College. Svolge una ricerca sulla pratica del canto e dell’improvvisazione che abbraccia materia musicale della più diversa origine storica e geografica: dalla polifonia del tardo Rinascimento alla scrittura di autori contemporanei. Nella formazione: Valentina Rossi, Vittoria D’Angelo, Oona Rea, Ilaria Giampietri, Marta Colombo, Francesca Fusco, Lucia Mossa, Margherita Rampelli, Laura Sciocchetti, Elisabetta D’Aiuto, Danilo Cucurullo, Tommaso Gatto, Daniela Giannetti, Stefano Minder, Paolo Caiti, Frank Aghedu, Marco Lizzani, Sebastiano Forti, Fabio Grasso (voci). Lorenzo Apicella (pianoforte), Dario Piccioni (contrabbasso).

Il 3 settembre il Festival si concluderà con una grande festa: protagonisti "Nando Citarella & i tamburi del Vesuvio” che presenteranno canti e danze alle radici della nostra musica.
“Spesso molti di noi si ritrovano a viaggiare, pensare, sognare ad occhi aperti, estraniandosi così dalla realtà quotidiana e risvegliando l’Ulisse recondito che è in noi. Ci si scopre così a cantare melodie antiche che pian piano salgono dal profondo, radicate da generazioni nei punti più sensibili della nostra memoria (litanie, ninne nanne, serenate, ballate, romanze, a stesa e a fronna). A ritrovare attraverso danze rituali e curative oggi fuse in tutta la liturgia popolare; il senso del viaggio infinito dell’uomo, alla ricerca dell’ Equilibrio con l’Universo. Ed è così che nella nostra memoria primordiale incontriamo tradizioni e culture di provenienza, greco-balcaniche, arabo-andaluse, franco-provenzali le cui sfumature si ritrovano nella tradizione e nella musica del nostro centro-sud.”

Il Festival è realizzato grazie al patrocinio del Comune di Ventotene e al contributo degli operatori turistici locali.

CONTATTI
Direzione Artistica: Angelo Romano e Giovanna Silvestri
Info 340/4830087 - 334/7515066 rumorinellisola@gmail.com
Ufficio Stampa Maria Pia De Vito: Fiorenza Gherardi De Candei
Tel. 328/1743236 E-mail fiorenzagherardi@gmail.com


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- Società

L’imperturbabile Lettore dal Panama bianco

L’imperturbabile Lettore dal Panama bianco.

Mettiamo una distesa di sabbia davanti a un mare tranquillo in un giorno d’estate, un ombrellone a righe bianche e blu aperto al sole, una sedia pieghevole dove il Lettore sta beatamente oziando dietro vaghe immobili nuvole candide, che il vento silenzioso si guarda bene dallo spostare più in là; non sia mai si guasti il perfetto equilibrio dell’ora. Poggiati sul piccolo tavolino un libro, un quotidiano ancora intonso, un paio di occhiali da vista cerchiati di tartaruga, una mezza bottiglia d’acqua con un bicchiere, da cui di tanto in tanto il Lettore beve, rallentando al massimo il movimento della mano; non sia mai che oltre alla sua presenza si noti anche che è redivivo.

Per quanto chi lo osserva ravvisi che col passare delle ore qualcosa ci sia di cambiato, non può dire che egli dia segni d’imperturbabilità. Neppure quando, inforcati gli occhiali, prende il libro tra le mani e lo apre alla pagina iniziale tralasciando di sfogliare il quotidiano; non sia mai che le notizie del giorno possano in qualche modo sconvolgere la sua opinabile quietudine. Ciò a scanso anche, che una qualche notizia di cronaca possa divenire oggetto di argomentazione con l’inquilino dell’ombrellone accanto, il quale è arrivato con il suo quotidiano sotto l’ascella nuda trascinando le ciabatte lungo la passerella, adducendo che è decisamente una bella giornata.

Nel frattempo attorno al nostro Lettore è sorta una foresta di altri ombrelloni, di asciugamani colorati, ciambelle gonfiabili, zainetti, borse e borracce ed ogni sorta di mercanzia mangiereccia. Dall’altro lato è appena arrivata la grassona con le sue carabattole da spiaggia, la quale ha pensato bene di preparare il campo di battaglia per i suoi numerosi nipotini che nel frattempo arrivano vocianti con secchielli e palette, pronti a caricare e scaricare cumuli di sabbia; non sia mai il mare dovesse portargliela via tutta in una volta. In tal caso si può sempre sperare nell’arrivo di un’onda lunga che nel ritirarsi si porti via gran parte di quell’arsenale inverecondo.

Per non dire della trafila dei venditori ambulanti, i così detti ‘vu cumprà?’, che in fila sotto gli ombrelloni offrono profumi speziati, legni scolpiti, gioielli in filigrana d’argento, tessuti stampati persiani e ninnoli d’ogni genere; non sia mai che qualcuno riesce a vendere anche una semplice collanina o un braccialetto che, subito un altro (cento altri) ti chiedono di acquistarne altrettanti, neppure si avessero cento braccia o mille dita da riempire di chincaglierie. Quest’anno (già da qualche tempo in verità) vanno di moda borse, cinture, occhiali, ombrelli da sole e parapioggia, o quant’altro possa servire per il letto, forse perché s’immagini che con l’arrivo del fine settimana, allorché arrivano i mariti, come si dice …

In tutto questo baillamme l’imperturbabile Lettore riesce a non perdere il filo della trama, o meglio delle trame, anche quando il discorrere delle signore donne, ma talvolta anche dei signori uomini che affiancano il suo ombrellone, si fa come dire … accattivante. È allora che ne raccoglie delle belle, riguardo ogni sorta di piacere e di dispiacere riferito al passato più recente e al più attuale presente. Sì, perché fra chiacchiere e chiamate al cellulare, pensando che nessuno li stia a sentire, ognuno/a svela qualcosa di sé. Bugiardi/e quanto più non si può, ma se parlano ad alta voce come si può evitare di starli a sentire (?); non sia mai che gli si chieda di abbassare il tono della voce che, subito, ci si sente rispondere che l’interlocutore è lontano.

Buongiorno signore! Dice la bimba (memore delle caramelle e ninnoli compresi) all’Imperturbabile Lettore dal Panama bianco: ma che carina a venirmi a salutare, ti ricordi di me? Sì. Sei qui con il nonno? No, è morto (gulp!). Signora che piacere ritrovarla, anche quest’anno ‘stessa spiaggia stesso mare’ eh? Lo sapesse lei che cosa m’è successa. Che cosa? Ho accompagnato quel mio figlio autistico in gita con un gruppo a Castel del Monte e quindi a far visita a Padre Pio. Immagino non l’abbiate trovato, è così? No, c’era! Poi siamo andati tutti a pranzo al ristorante. E avete mangiato bene? Benissimo, tant’è che al mio figliolo gli è andato di traverso un boccone e mi è rimasto senza fiato. O signora che mi vuol dire? Che l’è morto (gulp e poi gulp!); non sia mai avesse risposto ‘per grazia ricevuta’.

La terribile gaffe è che l’ha detto ad alta voce ciò che credeva di aver solo pensato. C’è di fatto che tutti ormai parlano ad alta voce e il Lettore non volendo si era vocalmente adeguato. Ah ciao! - grida un altro al telefono da sotto l’ombrellone più indietro – ma che problema c’è, tu sai che puoi rivolgerti a me per qualsiasi cosa. Non farti scrupolo di chiedere ciò di cui hai bisogno. Sono qui apposta, per risolvere tutti i problemi. … Ma figurati – ripete – che problema c’è, tu sai che puoi rivolgerti a me per qualsiasi cosa. Non farti scrupolo di chiedere ciò di cui hai bisogno. … E ancora: ma che me lo devi chiedere, sono qui apposta, per risolvere tutti i tuoi problemi! Al che un vicino si è alzato e gli ha chiesto se poteva sottoporgli i propri problemi economici; non sia mai avesse trovato chi faceva di questi miracoli (?).

Deciso che non avrebbe avuto scampo, l’impertubabile Lettore dal Panama bianco, ha preferito inserire il segnalibro nella pagina aperta circa un’ora prima, allorché ‘in sul mattino’ aveva pensato di passare alcune ore di incomunicabile solitudine di fronte alla calma inappuntabile del mare. Che abbia sbagliato nella scelta del luogo? – si chiede. No. Che abbia sbagliato il titolo del libro? Ovviamente no. Aveva erroneamente aperto la pagina della cronaca e allora ‘apriti cielo’: uno ammazza la moglie e la figlia, le fa a pezzi, le butta in una discarica e, colto in fragante, commenta il fatto che non ricorda com'è potuto accadere, che in verità non voleva fare del male ad alcuno. Il suo sano proposito era manifestare loro quanto gli voleva bene e tutto in una volta; non fosse mai che gliel’abbiano rifiutato?!

Altra notizia: 'La sentenza della Cassazione allo ‘sciopero del sesso’ da parte della moglie che, dopo la nascita del figlio non aveva voluto più avere rapporti intimi con il marito, onde per cui l’uomo non sopportando di andare ‘in bianco’ se ne era andato di casa, armi e bagagli, andando a convivere con una nuova compagna, ha dato ragione al marito dando il dovuto peso alla ‘violazione dei doveri coniugali’ da parte della moglie. Bocciata quindi la richiesta della donna di ‘risarcimento danni’ la Suprema Corte ha stabilito che fosse la moglie a risarcire il marito per i danni subiti, anche se poi l’assegno per il mantenimento del figlio, per il quale è stato disposto l’affido condiviso, ha pareggiato i conti'; non fosse mai che all’errore si aggiungesse anche la pena.

Mia cara, come stai? – chiede l’anziana signora sotto l’ombrellone all’arrivo dell’amica più anziana di lei (pare non si dica più vecchia/o) venuta a salutarla. Beh, tu come mi trovi? Benissimo! – risponde anche se dall’espressione era sembrato volesse dire: ‘ma chi ti cerca!’. Immagino tu abbia saputo di Clara? No – risponde incerta l’altra. Suo marito Alfio l’ha beccata nel casotto a fare l’amore col bagnino e n’è scoppiata una rissa. Oh, povero Alfio, ma almeno ne valeva la pena? Oh sì, sembra che il bagnino, molto più giovane di lei, fosse molto dotato. Beh, anch’io mi sono innamorata una volta di uno più giovane di me. E chi era costui? – chiede l’altra invidiosa di non conoscere il soggetto. Sean Connery! Sean? Connery? Sì – e nel dirlo sottovoce sgrana gli occhi incredula di se stessa; non sia mai la cosa fosse arrivata all’orecchio di Sean.

Beh, anch’io voglio farti una rivelazione. Dimmi. Sono stata innamorata di Brad Pitt. Ma Brad chi, l’attore del cinematografo. Sì! E quando è accaduto? – chiede velenosa ‘la vegliarda’; non sia mai l’altra volesse impossessarsi di un suo mito. Tempo addietro. E lui? Lui chi? Ma se Brad avrà si e no 40anni, come … Non ora mia cara, quand’era più giovane. Al che il Lettore dal Panama bianco, ripiegando le pagine del giornale che non stava già più leggendo, ha domandato: non fosse mai che volesse allattarlo, vero?

(continua)

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- Arte

Vittoria Marziari un’eccellenza tutta italiana

Vittoria Marziari Donati: La ‘poesia delle forme’ nei ‘lunghi silenzi’ dell’arte contemporanea.

Nulla di più vero se lasciando la parola a Antoine de Saint-Exupery (1) apprendiamo che: «Lo spazio dello spirito, là dove esso può aprire le sue ali, è il silenzio» ; quel ‘silenzio’ in cui prendono forma e si materializzano le opere scultoree di Vittoria Marziari Donati che, nel loro muto gridare le verità concettuali della sua cifra artistica, ad essa fanno ritorno, libere di vivere la propria esistenza futura. Una eccellenza al femminile tutta italiana quella della scultrice che ha attraversato la soglia dell’internazionalità e che s’avvia a completare il suo ciclo creativo nella contemporaneità dell’arte. Un percorso il suo, vissuto dentro e fuori le forme, nei pieni e nei vuoti che sono all’origine della vita delle cose, in cui tutto infine si compie, nel ricongiungimento di quella creatività umana, pur sublime, che nel tempo l’alterità (delle correnti artistiche) ha disgiunto.
È allora che le sue sculture prendono a danzare sulla musica che la luce ha scelto per loro; cantando nel silenzio sublimato dei ‘luoghi dell’anima’ che l’artista nella sua costante ricerca ha attraversati: «Se il luogo è puro spazio, il silenzio si fa ascoltare, ci accompagna e non ci lascia soli» - scrive Mario Brunello (2) compositore e violoncellista di successo nell’accostare la musica del suo strumento all’arte tout-court per intercettare le vocalità intrinseche delle ‘forme’, le ‘linee’ melodiche e le tecniche strumentali che lo hanno portato alla concezione di nuove strutture musicali, come la riscrittura di un qualcosa che viaggia nei solchi del tempo. Il confronto con la ‘musica’ del violoncello e con la ‘poesia’ colta non è qui solo allegorico, semmai emblematico di una concettualità che si esprime nelle diverse forme dell’oralità, come appunto può essere la ‘danza’ nel rapporto con la dinamicità del movimento, o anche con il ‘canto’ che non necessariamente richiede parole e frasi compiute, quando gli basta l’uso di vocalizzi arrmonici.
Per quanto l’Arte (con l’A maiuscola) abbia rappresentato nel tempo una forma di ‘narrazione’ letteraria sostitutiva della parola scritta o detta (che non ha mai rappresentato un unico modo di comunicare) assistiamo, per così dire, a un felice ritorno; a quel passato ch’è diviene il nostro futuro nella contemplazione delle forme finite/non-finite che si lasciano completare dallo sguardo di chi le ama. Un ritorno dunque a quel ‘silenzio’ un tempo pieno di contenuti, ed oggi haimè, svuotato degli stessi perché alienati e in certi casi obsoleti. Colpa del venir meno di una certa creatività; delle ‘forme’ che si sono evolute fino a non riconoscersi dentro se stesse; delle ‘correnti artistiche’ che si sono sovrapposte ai ritmi tecnicistici? Forse. Indubbiamente l’eredità del ‘passato’ non ci aiuta a sostenere e a valorizzare l’arte contemporanea (postmoderna) fino allo spasimo cui è arrivata.
Tuttavia se la causa primaria va attribuita al ‘decostruzionismo’ (Heidegger, Derrida), che da una parte ha sciolti definitivamente i legami col passato e dall’altra ha permesso di rintracciare nell’alterità delle correnti artistiche una sua funzione preminente; altresì va detto che l’Arte contemporanea di Vittoria Marziari Donati recupera quella ‘spazialità’ che nel tempo aveva smarrita, per re-impossessarsi degli spazi naturalistici che gli erano propri, e non solo. È con questo spirito che la ‘materia’ così plasmata dall’artista, sia essa la ceramica degli inizi, l’impiego della pietra dura successiva, o il metallo come il ferro, l’acciaio e il bronzo della sua ultimissima produzione, raggiunge le forme volute di una concept-art (3) che dal sottosuolo le rimanda alla luce e le riveste di poesia:

“Come acqua del fiume, scivoli sopra ad ogni emozione” - scrive nella presentazione di ‘Indifferenza’ del 2014: una composizione in bronzo, acciaio inox e cristallo di rocca, in cui il distacco delle figure è pregno della incomunicabilità delle parole.

“Chissà se, dove, come, quando, ti sarà dato tutto il sapere” – accompagna invece il bronzo di ‘Oltre la conoscenza’ del 2014, che si ripropone sopra la riga del ‘silenzio’ nell’altro bronzo intitolato ‘Il segreto’ del 2014, in cui un velo azzurro nasconde allo sguardo l’indicibile di ciò che non va svelato ad alcuno, tranne la sensualità dei corpi colti nel pieno delle forme.

“All’ineluttabilità del destino, soccombiamo” ci rende partecipi dell’opera dal titolo omonimo del 2013 che, nel vero senso della parola, espone un corpo nudo con mani e piedi legati da una corda, in segno di una sorte che pur ci tiene stretti e che al tempo stesso si nega.

“Esci con forza dalle insidiose maglie di una rete che ti attanaglia” è detto nella didascalia a ‘Prigione 2’ l’opera in bronzo e ferro datata 2011 che, oltre al significato del titolo, invita a riflettere sulla precarietà dell’esperienza umana prigioniera di se stessa che si spinge a cercare ulteriori spazi di fuga, il passato (da prigioniero) che si affaccia alla realtà del presente invocando la libertà che gli è negata.

Ma non siamo all’estremo di una ricerca che s’avvale di senso solo per riempire di contenuti ‘forme’ altresì avulse dal riconoscimento; in ogni singola forma, in sé conchiusa, l’artista si avvale di linee dinamiche che si traducono in movimenti tipici della gestualità della danza, delle posture dei corpi nelle cadenze della musica, in un universo che incombe sul presente e che si dimena al volgersi cosmico del futuro:

“Non cercare fuori dell’universo che è in te; se saprai leggerlo nella libertà, lo capirai” – sono i versi che accompagnano ‘Introspezione ’ un bronzo datato 2011 in cui il corpo si allunga a toccare le pareti di cristallo che lo inscatolano, da cui non uscirà neppure usando tutta la sua ‘Tracotanza’, bronzo su marmo e cristallo del 2010, in cui la figura infrange appena la parete di cristallo che impedisce la sua libertà interiore.

E neppure si libererà dell’oppressione che traspare nel bronzo su marmo del 2011 intitolato ‘Angoscia’, la cui didascalia è rivolta all’intera figura raccolta a formare un cerchio senza soluzione:

“Intorno a te la tempesta, ma la luce non si è spenta, cercala, la vedrai” – questo il messaggio che al dunque l’artista Vittoria Marziari pone in chiave poetica e che mi ha spinto a presentare nel contesto poetico e letterario cui da sempre la rivista on-line larecherche.it trova la sua ispirazione; non tanto per le sue ‘opere’ sopra citate che compongono il lussuoso catagolo edito da Betti Editrice per LiberArte (4), in occasione della ‘personale’ tenutasi a Palazzo Medici Riccardi 2014/2015 a Firenze, quanto proprio per l’aspetto letterario che accompagna e integra, completando, quel che attraverso le forme, in parte nascoste dal gioco delle linee, la scultrice ha rivestito dei sentimenti intimi che le ha ispirate.

“Dagli albori dei tempi, nascondi la verità, con ingannevoli lusinghe e sfaccettature”
“Non udisti, non vedesti, ma inaspettata giunse la tempesta”.
“Non è la tenebra, ma la luce, quella sottile attrazione che ti spinge a gaurdare oltre il sipario”.
“Svuotiamoci dal torpore che inibisce il nostro risveglio”.
“Oltre le vesti il cuore, donando, amando”.

Sono queste solo alcune delle belle frasi ‘poetiche’ e degli altrettanto titoli ‘esperienziali’ di avita bellezza trascendentale che accompagnano le opere scultoree di Vittoria Marziari Donati che ci consentono di assaporare in pieno il gusto e il senso della profonda quietudine che ci viene incontro nelle forme che con maestria ha ricavato dalla materia, nel racconto dominato dal ‘silenzio’. Ecco allora che la ricerca dei ‘luoghi dell’anima’ si espone alla luce come su una tavolozza di colori, di materie da plasmare, di parole e di note musicali, in cui la scultrice/poetessa trova infine la cifra della propria arte e la trasforma in qualcosa di prodigioso, che dà vita alle forme e ne trasmette il senso più profondo, in cui poter entrare e trovare il proprio nobile perfetto silenzio …

… quel silenzio che nulla toglie alla bellezza che noi tutti, nel confronto visuale di rimando con le sue opere, ci porteremo dentro.



Vittoria Marziari Donati:
Ad oggi il suo curriculum è ricco di riconoscimenti e premi. Ha esposto in musei, ambasciate, consolati, Istituti Italiani di Cultura, Palazzi Comunali ed Expo d’Arte Internazionali. Tra le opere pubbliche, a Siena: il ‘Masgalano’ per il Palio Straordinario 2000, gli ‘Altorilievi della caserma Bandini’ e l’ ‘Ambone’ per la chiesa di S. Andrea; a Monte San Savino (Ar) Il ‘Crocefisso’ per la chiesa di San Marco (Ar), il ‘Palio’ per Roccatederighi (Gr), il ‘drappellone’ per La giostra del Girifalco di Massa Marittima. Tra le opere private: ‘La speranza’ esposta in Città del Vaticano, ‘Concerto Jazz’ al museo della Volkswagen - Wolfsburg in Germania, ‘Arte tecnologica’ presso fondazione Monumental di Bruxelles, ‘Tensione’ al Palazzo del Festival Internazionale del Cinema di Hong Kong, ‘Anima’ a Paso de los Libres, Argentina.
Vittoria Marziari Donati svolge la sua attività a Siena nell’atelier di via Stalloreggi 23 e nel laboratorio di via dei Tufi, adiacente al parco “Sculture di luce” ideato e inaugurato dall’artista nel giugno 2013.

Attualità espositive:
Oggi 09/07/2016 a Palazzo Mauri di Spoleto sarà presente alla cerimonia che la investe del Premio Internazionale Spoleto Art Festival consegnatole per “L’opera svolta nel campo della cultura e dell’arte”.

È presente inoltre alla Collettiva Selezione Arte – organizzata da Enciclopedia dell’Arte Italiana presso il Museo di Villa Clerici a Milano dal 28 giugno al 12 luglio 2016.

E il giorno 18 luglio nella Collettiva d’Arte organizzata dal Museo ‘Ugo Guidi’ di Forte dei Marmi.




Note:
1) Antoine de Saint-Exupery, “La Citadelle” – Gallimard 2000

2) Mario Brunello, “Silenzio” – il Mulino 2014

3) Con concept art (da non confondere con l'arte concettuale) s'intende un elaborato di fantasia realizzato da un concept artist (conosciuto anche come visual futurist o concept designer) non concepito per una realizzazione in serie o per confrontarsi con la realtà, quindi non pensato per una sua commercializzazione, nemmeno futura. Prende quindi le distanze dalla progettazione vera e propria pur ispirandosi ad essa nella metodologia di realizzazione e di rappresentazione dei concetti. Wikipedia

4) Catalogo Mostra a cura di Anita Valentini - Betti Editrice per LiberArte

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- Musica

That’s Entertainment Barnum dal circo al gran teatro

THAT’S ENTERTAINMENT DAL ‘WEST END’ LONDINESE A ‘BROADWAY’ SULLA SCENA DEL GRANDE MUSICAL”.

 

“Come follow the band!” … richiama a sé l’attenzione dei presenti il non casuale Clown sulla pubblica via davanti al London Palladium, nel cuore del West End capitale europea del ‘Musical’. Sì, avete ben compreso, sto parlando del cuore pulsante dell’ Entertainment musicale che consta ogni anno di straordinarie produzioni teatrali fra Musical, Operette, Varietà, Balletti, Opera Lirica ecc. Di tutto di più e del migliore, se mi si concede la citazione. Ma questa volta si parla di Circo. Sì, proprio quello ma questa volta senza il tendone, la gabbia dei leoni ecc. che definirei un circo sui generis. Il Circo a Teatro, e non pensiate sia una novità, affatto, il Circo nasce sulla pubblica piazza ma successivamente lo si andava a vedere proprio in teatro, quello grande e con la 'T' maiuscola.

“Pa-para-pa-para-pa...”, fanno eco i fiati mentre il suono di un trombone sfonda i timpani sul vibrante stacco dei piatti fuori del pentagramma. Il pubblico trasale per un istante come per lo scoppio del tappo di una bottiglia di champagne, per poi accogliere l’invito e sfilare di buon grado insieme con i giocolieri sui trampoli, i cavallerizzi in costume, i numerosi clown che ne fanno di cotte e di crude attraendo grandi e bambini che incontrano lungo la via. Ne segue un andirivieni di gente in feste che si lascia accalappiare dalle loro matte risate. Stupiti ci si chiede dove sono finiti i carrozzoni variopinti, le gabbie degli animali feroci che aspettiamo di vedere, non senza curiosità e con tanto spavento al loro apparire.

Qualcuno nel frattempo grida: “Prego signore e signori, accomodatevi pure, da questa parte!”. Che poi sta per è arrivato il Circo anche se ancora non si vede l’ombra di un tendone. “Che Circo è mai questo?” Si chiede qualcun altro. La risposta è fornita da Pineas Taylor Barnum in persona, alias l’attore inglese Michael Crawford poco prima dello spettacolo. “Un grande Barnum!” come fu appellato dalla critica londinese l’indomani dell’andata in scena dell’omonimo Musical, che gli accreditò il titolo di ‘migliore attore dell’anno’, premio assegnato dalla Society of West End Theatre Awards.

“Egli è qui – dice Barnum – per difendere la nobile arte dell’imbroglione che, nel gonfiare se stesso, rivela infine la verità, quella vernice che serve a mascherare i fatti amari della vita”. Che si voglia o no essere d’accordo con lui, se risieda in ciò una qualche utilità che non va oltre la sua effimera affermazione, riguarda piuttosto il peso che vogliamo dare al significato di ‘intrattenimento’, se esso svolga un qualche sociale o se, sia semplicemente fine a se stesso, da prendere come momento di evasione dal quotidiano. Barnum in fondo, vuole solo venderci, per il modesto prezzo di un biglietto, due ore di ‘felicità’ e ce la mette tutta per accaparrarsi questo diritto che gli proviene dall’estendere la sua ‘arte’, perché di questo si tratta, al grande pubblico, il più grande di tutti i tempi, l’arte magica dei circensi.

“That’s the way, there is a sucker born every minute” (nasce al mondo un credulone ogni minuto) – dice poi benevolo; ed è in ciò il gioco sottile, del ripetersi infinito del teatro. La sua burla sta nel fatto che ci conduce a teatro per mostrarci il Circo. Che è poi un ritorno alle origini, perché oltre che sulla pubblica piazza dove un tempo venivano allestiti gli spettacoli, era la struttura del teatro ad ospitare i circensi sia nei teatri di corte che in strutture apposite allestite al riparo dalla pioggia e le intemperie. E bastava accomodarsi all’interno per recuperare in pieno l’atmosfera magica del ‘tendone’ del Circo.

“Barnum” (1998) di Michael Steward e Cy Coleman su libretto di Mark Bramble è dunque il restauratore di un antico diritto di rappresentazione di ciò che in seguito sarà (o potrà diventare) il Musical: l’insieme delle espressioni di tutte le arti significative del corpo, che raccoglie in sé quella virtuale gioia portatrice di felicità. Ed è così che alzato il tendone sotto la volta del teatro ritroviamo il bambino ch’è in noi rivolto col naso all’insù a cercare quel sogno che per un istante avremmo voluto far nostro, e che invece è di tutti, tutti quanti asseriscono che ‘vale la pena di vivere’. tre anni consecutivi di continuato successo, “per il piacere dei grandi e dei più piccini” che da sempre accorrono entusiasti a vedere lo spettacolo offerto dal Circo in tutto il mondo.

Ma non aspettatevi uno spettacolo diverso, è quello sempre attuale offerto dal Circo tradizionale, solo un po’ più raffinato. Sì certo, è stato ripulito dell’odore acre della segatura e, al limite, reso meno rumoroso per la mancanza dei cavalli al galoppo e del ruggito feroce dei leoni; ma non del suono sempre lieto della Banda con i propri pezzi musicali caratteristici ed i suoi immancabili Clown. Quest’ultimi in numero maggiore in rappresentanza di se stessi, come del resto si conviene per scandire le diverse attrazioni, danno vita a una costante entrata-uscita di lazzi e curiosità cui il pubblico sorride benevolo, acclamando ogni volta alle loro bizzarrie. Se le performance del Clown, visto come immagine volontariamente deformante che ogni artista da di se stesso, sono di origine abbastanza recente, antichissima è invece l’iconografia che lo accompagna.

Michael Crawford ne ripercorre le tappe salienti di una carriera circense che verosimilmente Mr. Barnum in persona ha narrato nel Musical. La sua carriera ebbe inizio negli States nel lontano 1835, data in cui egli formò con james A. Bayley il “più grande spettacolo del mondo” – così venne definito all’epoca. in esso si narra.. ma lasciamo che lo spettacolo incominci e che sia Barnum stesso a narrarla. Tutto è pronto, la ribalta s’apre nello sfolgorio delle luci, al suono squillante della Banda.

Le musiche di Cy Coleman, compositore, arrangiatore e produttore dello spettacolo, risultano perfettamente integrate alle molte azioni che si svolgono sulla scena, spesso dando forma a un insieme scoppiettante e divertente, nonché trascinante degli applausi che insorgono frequenti durante la rappresentazione. Tuttavia esistono due diversi album relativi alle diverse produzioni: quello americano in CBS-Master Works vincitore di tre Tony Awards, uno dei quali è andato a Jim Dale come migliore attore protagonista; e quello riferito alla produzione inglese con Michael Crawford insignito dello stesso premio conferitogli dalla Society of West End Theatre Awards. Fra le canzoni degne di nota: “Come follow the band”, “Join the Circus”, “Black and White” e la hit “The colors of my life”, leit-motiv pregna di equestre gaiezza.

 

Degno di nota è l'italiano "Barnum" del 1983, realizzato sulla scia degli altrettanto famosi musicals che l'hanno preceduto. Interpretato da una  giovanissima Ottavia Piccolo e dall’allora menestrello della canzone Massimo Ranieri, cantante, attore, personaggio televisivo e showman. E' invece datato 1984 l'album CGD col titolo omonimo "Barnum" tratto dallo spettacolo teatrale che vide la sua prima al Teatro Sistina di Roma con grande successo di pubblico e diventato una vera 'chicca' da collezione.

 

Parlare del successo di “Barnum” in questa introduzione che vuole essere un excursus nel Musical-show dalle origini a oggi, può sembrare una forzatura, per il semplice fatto che sfugge ad ogni tipo di considerazione, non solo perché postdatato al 1980, altresì perché può sembrare che si voglia qui tralasciare tutto quanto è stato prima di quella data. La ragione invero è un’altra; è voler mettere in risalto come il Musical propriamente detto contrassegna il check-point di un inevitabile incontro tra il vecchio e il nuovo e il mescolarsi delle tendenze e delle mode che contrassegnano la storia scritta del Musical, con i suoi strepitosi successi all’insegna della stravaganza e le sue immancabili cadute di stile che talvolta hanno creato vere e proprie difficoltà identificative tra passato e presente.

È in questa dimensione, allo stesso modo anticonformista e rivoluzionaria di qualsiasi schema gli si voglia attribuire, che vedremo orientarsi l’attuale produzione del West End e di Broadway, qui volutamente non distinguibili l’una dall’altra, bensì accomunate dalla stessa grande qualità organizzativa, produttiva e registica con maestranze qualificate di altissimo livello e un numero non indifferente, tra sceneggiatori, attori, ballerini, musicisti, coreografi, scenografi, tecnici di scena, trucco e parrucco, in alcuni casi anche prestati dal cinema, che hanno raggiunto la fama internazionale. Una gara interessante dunque tra due centri di produzione del Musical-show che hanno fatto dell’arte dello spettacolo un business di dimensioni stratosferiche e che ogni anno offrono lavoro a migliaia di nuovi e giovani talenti che con l’obiettivo di raggiungere un agognato successo. Sebbene il successo non sia che un effimero legato alla genialità di pochi, all’idea talvolta fortuita del ‘folle’ creativo, alle capacità e all’impegno personale del singolo regista, o quanto più inviato dalla fortuna, alla gioia di vivere, all’emozione procurata da un sentimento come l’amore per ciò che si fa. E l’amore cos’è? Null’altro che la moneta di scambio che permette a ognuno di “poter fermare la pioggia / o di cambiare il flusso della marea”. Indubbiamente la migliore dimensione di noi stessi, la cui ricerca di per sé è già un successo.

Ma gettiamo un'occhiata sul palcoscenico di Broadway, indubbiamente il più grande del mondo e situato nel cuore di New York. Un sipario aperto sullo ‘show business’ con le sue scenografie da favola, le coreografie scintillanti, le musiche effervescenti, le scritte luminose multicolori che si rincorrono sulle facciate dei teatri, il carosello dei taxi che scaricano il folto pubblico davanti alle entrate dei teatri per assistere al più grande spettacolo di sempre, il più sensazionale degli spettacoli: il ‘Musical’. Luci colori e la magia di Broadway fanno da cornice a showman e showgirl, attori, cantanti, ballerini, donne favolose che attendono l’applauso del pubblico, ed il ‘Musical’ è la quint’essenza di Broadway, del ‘sogno americano’ che si realizza nell’illusione dorata di una scatola delle meraviglie che ogni sera si apre, non senza ‘un pizzico di follia’, e per la durata di due ore circa, in un magico incontro con il pubblico.

È qui che si rappresentano i ‘drammi’ e le ‘favole belle’ del tempo, con gli amori, gli affetti, le passioni, le pulsioni sessuali in cui si disciolgono i sentimenti, con il fine ultimo dello svago, dell’intrattenimento, dello spettacolo per lo spettacolo. Cambiano i tempi e i luoghi, i costumi e le mode, i personaggi protagonisti delle storie, le musiche e i ritmi che di volta in volta accompagnano, facendo da leit-motiv, i mille risvolti ‘spettacolari’ che danno lustro ad ogni show. Siano canzoni di successo, numeri coreografici di particolare merito, sia esibizioni di qualche virtuosismo strumentale che hanno il solo scopo di sottolineare, esaltandoli, quelli che sono i momenti ‘clou’ di ogni rappresentazione. Per quanto la storia del ‘Musical’ si componga di nomi prestigiosi, una lista traboccante di stelle, più brillanti di quelle del firmamento che s’accendono ogni sera su Broadway, è pressoché impossibile. Citarne solo alcuni può sembrare anacronistico, come pure non è opportuno tirare in ballo statistiche di alcun genere. Per quanto, ad un arido elenco di protagonisti, preferisco citare solo alcuni brani rappresentativi tratti da altrettanti ‘Musical’ di successo.

Che si parli del grande Zigfeld degli inizi, di Merrick e o dell’ultimo Schwarz, uomini d’affari e produttori di molti spettacoli che hanno fatto la fortuna del Musical. Non è affatto una coincidenza che i più grandi nomi del teatro siano proprio loro: produttori e registi scrittori e compositori che operano nell’ambito dello show-business. Sono loro che fin dagli inizi decretarono il successo economico delle produzioni, investendo su questo o su quello ‘spettacolo’ in un gioco vorticoso di interessi, con la ricerca affannosa dei soggetti, che si accaparravano le maestranze migliori, i nomi più prestigiosi del “Musical–Show”. Tuttavia il ‘successo’ non era sempre assicurato, molto dipendeva dal divertimento che veniva offerto al pubblico, dagli attori più o meno noti che vi prendevano parte, dal nome del coreografo che curava i numeri di ballo, dal maestro concertista e del direttore d’orchestra.

Una siffatta forma di spettacolo non poteva scaturire dal nulla, infatti è noto che la forma più composita eppure eterogenea del ‘Musical’ ha adattato alle proprie necessità, utilizzando a sua volta la letteratura popolare e quella aulica, la musica classica e tradizionale, l’operetta a lieto fine e la ‘light – opera’. Giungendo a scandagliare le pagine del jazz fino al rock e oltre, con la pretesa che tutto quanto fa spettacolo può entrare a far parte dello show-business sempre alla ricerca affannosa del ‘successo per il successo’, successo che consta di milioni di dollari di investimento. Un’autentica fortuna, che fece di Ziegfeld il più grande creatore di spettacoli di tutti i tempi. Va qui ricordata la sua formula vincente “Ziegfeld Follies” ripresa per circa venti anni (dal 1907 al 1931) dalle famose “Follies Bergere” parigine. In cui trovarono la strada del successo molti performer, showman, artisti e ballerine del tempo e la fortuna di numerosi musicisti e giovani compositori come Victor Herbert, Irving Berlin, Cole Porter, Rodgers e Hart, Hammerstein, Kern, Kaufman e tantissimi altri, tra cui George Gershwin.

Con le “Ziegfeld Follies” aveva avuto inizio una nuova forma di intrattenimento: sfolgorante, spettacolare, voluttuoso. “Tea for two”, (“Tè per due”), è indubbiamente il brano più conosciuto, ma non il solo, del celeberrimo “No, no Nanette” (1925) il musical di Youmans-Harbac-Caesar che segna il passaggio dall’Operetta propriamente detta al ‘Musical’, il cui successo mi permette qui di ripercorrere alcune importanti tappe della sua storia. Qualcuno di voi si starà chiedendo se per il piacere del revival o semplicemente per nostalgia senile? Nulla di tutto ciò. Basta riascoltare alcune delle musiche e delle canzoni che in quegli anni si ascoltavano sulla bocca di tutti per rendersi conto del successo che ha permesso loro di arrivare fino a noi, per rendersene conto. Perché in realtà, fra i numerosi musical andati in scena dall’inizio del ‘900 solo pochissimi (solo quelli ripresi all’epoca dal cinematografo nascente) sono sopravvissuti alla dimenticanza del tempo.

Molte sono però le canzoni rimaste di quegli spettacoli che pure hanno conservata intatta tutta la verve e la freschezza che le animava, nonché lo charm del tempo, e forse per qualcuno anche una certa superficialità che nell’allegrezza generale alludeva a una qualche forma di felicità. Ancora da “No, no Nanette” ricordiamo “I want to be happy with you” la cui interpretazione di Anna Neagle rimarrà per sempre nella storia del ‘grande’ Musical di quei tempi, ahimè assai lontani. Ma nulla è lecito rimpiangere se lasciamo libera la fantasia e apriamo le orecchie all’ascolto di “Alice Blue Gown” tratta da “Irene” (1919), una felice commedia brillante di Joseph McCarthy e musiche di Harry Tierney, cantata da Edith Day interprete della ‘prima’ messa in scena. O di quel “La canzone del deserto” (1926) dal musical omonimo, di Otto Harbac e Oscar Hammerstein sulla musica di Sigmund Romberg.

Dopo una serie di scoraggianti rinvii poi rientrati  arriva sulla scena “Show Boat” il cui debutto, il 15 Novembre del 1927 al National Theatre di Washington che segnò uno strepitoso successo anche per lo stuolo di attori e cantanti famosi che vi presero parte: Paul Robeson, Norma Terris, Edna May, Charles Winninger ed Helen Morgan che canta ‘Bill’ uno dei pezzi chiave del Musical. “Old man river” è solo una delle canzoni che va qui ricordata per la sublime interpretazione di Paul Robeson. La ‘storia’ (in breve) narra di un giocatore d’azzardo che si unisce ad una compagnia teatrale in viaggio su un battello in navigazione lungo il Mississippi che, innamoratosi della primadonna e dopo alcune peripezie, infine la sposa, dando così una svolta onorevole alla sua vita. Ripreso una prima volta per il cinema dallo stesso Ziegfeld nel 1929, venne in seguito filmato nel 1951 da George Sidney per la MGM con la partecipazioni di due splendidi attori: Howard Keel e Ava Gardner.

Ancora di quegli anni sono molti capolavori del genere musicale legati ad altrettanti successi di critica e di pubblico che hanno riempito le sale dei teatri e quelle dei cinema di tutto il mondo: “Oh, Kay” (1928) dall’omonimo musical di George Gershwin di cui fa parte anche una strepitosa “Overture”. “Zip” (1940) da “Pal Joey” di Rodgers e Hart. “Oklaoma” (1943) dallo spettacolo che porta lo stesso nome. “Bloody Mary” da “South Pacific” (1949) di Rodgers e Hammerstein “Guys and Dolls” (1950) dal musical omonimo di Frank Loeser e Joe Scarling. “Shall we dance” da “The King and I” (1951) di Rodgers e Hammerstein II°. “Strangers in paradise” da “Kismet” (1953) di Edward Knoblock e musica di André Previn, composta sulle “Danze Polovesiane” di Borodin. “The boy friend” (1954) di Sally Wilson sulla scia della ‘nostalgia’.

Successivamente: “The Carousel Valzer” da “Carousel” (1956) di A. Newman “I could have a danced all night” dallo strepitoso “My fair Lady” (1956) di Frederick Loewe e Alan Jay Lerner. “Edelweis” da “The sound of music” (1959) ancora dalla fortunata coppia di Rodgers e Hammerstein II° divenuto in seguito, come tanti altri qui citati, un film di successo dal titolo “Tutti insieme appassionatamente” con il quale si chiude un’epoca ‘sentimentale’ che pure è considerata ‘d’oro’ del Musical delle origini. Dopo quella data risultano cambiati i tempi, gli scrittori e i musicisti. Nuovi attori e attrici di talento si sono affacciati sulla scena teatrale che, inevitabilmente, si va adeguando alle nuove tendenze, alle artificiosità delle mode, alle tecnologie che avanzano e che permetteranno al Musical la sua evoluzione.

Negli anni ’60 e ’70 il musical-show abbandona l’illuministica visione di un mondo di favola per affrontare nuove e inusitate tematiche. Nulla è lasciato al caso, dalla tensione causata dai problemi razziali, alle ostilità di una possibile guerra futura, dallo scandalo procurato dalle prime nudità, alle accuse di alcuni accadimenti sociali e di cronaca. Ai nomi di Gershwin, Berlin, Porter dei primordi, si sostituiscono Robert E. Griffith, Harold S. Prince, Leonard Bernstein, Stephen Sondeim, Galt MacDermott, Jerome Ragni, James Rado, Jerome Robbins, Bob Fosse, Tim Rice, Andrew Lloyd Webber, Stephen Schwartz, Shapiro, Miller e numerosi altri. Ma è con “Fidler on the roof” (1964) di Jerry Bock e Sheldon Harnick con le coreografie di Jerome Robbins che, con le sue 3.442 repliche filate a battere ogni record d’incassi e, con il quale, si apre la nuova grande stagione del Musical moderno.

Tuttavia l’ondata ‘sentimentale’ iniziata da prima, non si arresta e, come è ovvio che accada, la sua eco risale fino agli anni ’60 e i primi anni ’70. Sulla stessa scia per così dire ‘del cuore’ troviamo “Mame” (1966) di Jerry Hermann e Jerome Lawrence in cui si narra di una anziana ‘Zia’ che riesce a portare lo sbandato nipote protagonista della storia, sulla retta via. Per arrivare infine ad “Annie” (1977) da cui la splendida “Tomorrow”, una favola per bambini di Charles Strouse e Martin Charmin che non dispiace affatto ai grandi che gli decretano un discreto successo, ripetuto negli anni a seguire come ‘classico’ da riproporre nel periodo natalizio. Ma come sappiamo i periodi storici si intersecano. La stessa ‘modernità’ non arriva da una fonte che sgorga improvvisa.

Spesso qualcosa accade e il genio si sprigiona all’interno della società in cui vive e della quale riesce a trovare la sintesi, quando arriva finanche a confutarne l’essenza. È il caso strabiliante di “West Side Story” (1957) di Robert E. Griffith e Harold S. Prince, con le musiche del grande compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein, le canzoni di Stephen Sondheim e le coreografie dell’allora emergente coreografo di successo Jerome Robbins. Il conflitto tra bande rivali fa da sfondo a questi Romeo e Giulietta in panni moderni, trasferito per l’occasione nella periferia di New York. La vicenda acquisisce veridicità soprattutto per l’ambientazione scenografica del duo Boris Leven e Victor A. Angelin e le magistrali coreografie di Robbins, focalizzate con l’ambiente che circonda i protagonisti, tuttavia senza sacrificare la drammaticità del testo. Il finale della vittoria sulla banda ‘malvagia’ è scontato, ma ciò che rimane è in fondo lo specchio di una società che sta cambiando, della quale si avvertono i sintomi di una ribellione che non avrà più fine.

“Dopo 4 anni di successi e di repliche ininterrotte a Broadway, Robbins e Wise, superando non poche difficoltà, portarono sul grande schermo questo musical che contava già allora numerosissimi fan. Il dubbio che avevano i due registi era quello di non essere in grado di riproporre con la stessa intensità e freschezza visiva l'atmosfera magica dei balletti e delle canzoni del musical. Nonostante questo, il film risulta a tutt'oggi uno dei più bei musical e, allo stesso tempo, uno dei capolavori di tutti i tempi nella storia del cinema, premiato con ben 10 Oscar e osannato da milioni di persone in tutto il mondo (a Parigi restò in cartellone per 249 settimane).

"West Side Story" è stato il primo film ad aver vinto un doppio Oscar al miglior regista, ed è il film di genere musicale ad aver ricevuto il maggior numero di Academy Awards, battendo Gigi (1958), che ne ha ricevuti nove. Nel 1997 la pellicola è stata scelta per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Nel 1998 l'American Film Institute l'ha inserito al quarantunesimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi, mentre dieci anni dopo, nella lista aggiornata, è sceso al cinquantunesimo posto.” (Wikipedia, ’enciclopedia libera). Prima che qualcuno si ponga la domanda sulla possibilità di una ‘moralità’ latente, esplode “Hair” (1968) di Rado, Ragni, MacDermot.

La data è quella della contestazione giovanile che trova sbocca un po’ in tutto il mondo contemporaneo con la forza rivoluzionaria e tuttavia innovatrice della protesta. Ma “Hair” non è semplicemente un Musical di successo che porta in scena gli enzimi rivoltosi di una gestione dell’opinione pubblica che rimette in discussione le scelte politiche della democrazia nel mondo, “Hair” scuote la gioventù di allora fino alle fondamenta verso nuove e inusitate esperienze, fino a diventare, successivamente,, il manifesto della ‘new-generation’ nel riscatto della propria libertà d’espressione. Il brano “Ain’t got no” segna la rivolta di quanti verranno in seguito appellati come ‘figli dei fiori’ per il loro estroverso e popolare modo di vestire che interrompeva la grigia austerità delle classi sociali ‘superiori’ e della elite economica ai governi dell’epoca. eppure “Hair”, per quanti hanno avuto modo di vederlo a teatro, (ricordo che esiste una versione cinematografica di grande impatto emozionale), conteneva ed affermava un messaggio di pace e di fraternità universali.

Sicuramente in negazione della necessità di quella guerra che il popolo americano era chiamato (non si sa bene da chi) a combattere per risolvere la problematica stabilità della democrazia nel mondo, per ristabilire la necessaria pace all’umanità tutta. Non spetta a me polemizzare sulla validità di certi principi o di riscrivere la storia, tuttavia “Hair” confermò la sua controtendenza allo ‘status quo’ con almeno due brani di forte impatto musicale: “Acquarius” e “Let’s the sunshine” divenute in breve ‘inno dei giovani di tutto il mondo e decretarono per molto tempo ancora il successo di una svolta sociale. Il successivo “Godspell” (1971) di Stephen Schwartz e John L. Tabelak, con la suggestiva “Day by day”, non può che confermare l’esito della nuova stagione del Musical, ormai avviato alla ricerca di altri territori incontaminati di esplorazione.

Non è un caso che vengano approfonditi aspetti insoliti della religiosità in crisi al momento e la Bibbia e i Vangeli ne fanno in parte le spese in chiave critica, filtrati attraverso le esigenze della musica e le contraddizioni del rock. Uno stratosferico successo arrise a “Jesus Christ Superstar” (1971) l’opera rock di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice che affrontava la vita del Cristo mescolando diversi episodi ripresi dal Nuovo Testamento. Dal Musical sarà presto tratto un film con lo stesso titolo che si sposta ‘in esterni’ utilizzando mezzi e tecnologie di ultima generazione e di sorprendente resa di effetti. Oltre alla memorabile “Ouverture” orchestrata da André Previn, e l’accattivante “Superstar” che fa da leit-motiv all’intera opera, vanno ricordate almeno altre due canzoni di sicuro impatto emozionale: “Everything's Alright”, e “I Don't Know How to Love Him” e i loro straordinari interpreti.

Il 1978 è l’anno di “Evita” portato in scena ancora una volta dalla coppia Andrew Lloyd Webber e Tim Rice. La storia è un esempio, forse il primo in assoluto, di Musical anticonformista sulla vita reale di un personaggio famoso salito alla ribalta delle cronache mondiali: Evita Peron. Momenti musicali e coreutici di una ‘bellezza’ straordinaria accompagnano l’apparire in scena del personaggio Evita in mezzo alla folla dei ‘descamiciados’ e di quando si affaccia al balcone della Casa Rosada per placare la folla preoccupata per la sua prossima fine, cantando “Don’t cry for me Argentina”, uno dei momenti più emozionanti che si ricordino nella storia del Musical. Successivamente trasferito in un film da Alan Parker con Antonio Banderas e Madonna nel ruolo di Evita, non verrà accolto con la stessa emozionale infatuazione che fece seguito al successo strepitoso della scena.

Con “A chorus line” (1976) di Michael Bennet e Edward Kleban su musiche di Marvin Hamlisch, Broadway vince la sua battaglia sul cinema. Il brano “One” che fa da accompagnamento all’intero spettacolo fornisce qui l’occasione per salutare il folto pubblico del film-musicale senza rancore di sorta, accreditandosi un ulteriore Premio Pulitzer per il dramma. Altri ne erano stati assegnati nel 1931 a “Off the I sing”, nel 1949 a “South Pacific”, a “Fiorello” nel 1959, e ancora all’esilarante “How to succed in business without really trying” nel 1961. Ho qui volutamente trascurato il rapporto che da sempre lega il film musicale con il musical-show cinematografico, sebbene l’interesse e il successo che lega lo spettacolo teatrale al cinema e viceversa siano state fonti inesauribili di interscambio di grande portata culturale nonché economica che ha permesso ad entrambe le arti di acquisire una propria identità musicale e linguistica strutturale, e quella che oggi possiamo a definire una autentica forma artistica, non solo  spettacolare e di mero intrattenimento.

 

Musical ancora in scena: “Hair” (1965) “Sweet Charity” (1966) “Cabaret” (1966) “Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat” (1968) “Rocky Horror Show” (1973) “Chicago” (1975) “Anny” (1977) “Jesus Christ Superstar” (1970) “Evita” (1975) “Barnum” (1980) “Cats” (1981) “Starlight Express” (1984) “Chess” (1985) “Phantom of the Opera” (1986) “All that Jazz” (1979) Ed ovviamente numerosi altri.

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- Società

Lettera aperta a Lilli Gruber


Lettera aperta alla dott.sa Lilli Gruber
Conduttrice di “Otto e mezzo” un programma La 7 /TV.

Si dice ‘si da il caso’ ma è meglio dire ‘attribuire’, perché in quanto a darlo davvero non si sa più a chi rifilarlo questo ‘caso’, se ormai si usa chiamare al femminile ‘ministra’ il ‘ministro’, ‘sindaca’ il ‘sindaco’, ‘pompiera’ il ‘pompiere’, ‘ferroviera’ la donna ‘ferroviere’, l’ ‘alpina’ colei che presta servizio nel corpo degli ‘alpini’, così come diciamo, con ben altro significato ‘carabiniera’ la donna ‘carabiniere’, ecc. Qualcuno potrebbe ribadire che dovremmo chiamare ‘muratora’ la casalinga che rimette a posto i quattro sassi del muretto di cinta, o che ridipinge la parete di una stanza; e chiamare ‘giardiniera’ anziché ‘giardiniere’ la nonna che alla sua veneranda età cura ancora il giardino di casa. Mentre qualcun altro mi fa notare con tanto di interrogatico: che forse non diciamo ‘cittadina’ la donna che abita in città e ‘paesana’ l’abitante del ‘paesino’, o ‘postina’ colei che introduce la posta nella cassetta delle lettere? Così è che la nostra amata lingua, quella dei poeti e degli scrittori, oggi porge al femminile tutto ciò che nomina e che tocca, ma se davvero si vuole trasformare ogni desinenza, ogni aggettivo e ogni appellativo così come ogni nome e pronome, la donna dovrebbe dirsi ‘ia’ al posto di ‘io’, e il ‘caso’ al posto di ‘casa’ … mi lasci pur dire: che gran confusione!
Ma non si era detto che si dovevano abbattere le ‘differenze di genere’? Ed è questo secondo lei dott.ssa Gruber il modo di farlo? Allora mi permetto di consigliarle, pur con il rispetto/ta parlando della sua personale conduzione/na con molta eleganza e capacità intellettuale una trasmissione di prestigio/gia, di ristabilire quell’ordine linguistico/ca che necessita alla corretta comprensione dell’italiano/na, da parte di chi, al di qua del teleschermo, (oppure dovrei dire telescherma, visto che chi vi appare, come nel suo caso è donna?), sempre più spesso ormai è indotto a fare confusione tra i soggetti utilizzati nel discorso/si, o se preferisce nella ‘discorsa’/’discorse’.
Non nego che una certa confusione la stia facendo io stesso che scrivo che, se fossi donna / nel senso di femminile, dovrei dire ‘ia medesima che scriva’. Ammetto che neppure i ‘futuristi’ c’erano arrivati, ma poiché di questo passo non sappiamo cosa ci riserverà il futuro passo all’altro tema che mi sta a cuore e che rivolgo a lei dott.ssa Gruber di farsi portavoce di un dubbio che mi è sorto nottetempo, (a proposito ma il ‘tempo’ si traduce al femminile in ‘tempa’?, voglio augurarmi di no perché la confusione con tampax potrebbe essere alquanto insalubre; così come spero che supposto non diventi mai una supposta), che abbrevio qui di seguito/ta:
Cosa farne di tutti quegli ‘inglesismi’ entrati nel linguaggio comune dopo che la lingua inglese è stata scelta colme lingua ufficiale della Comunità Europea? Non è che gli inglesi, che pure in qualche modo stimo, intendono riprendersi anche il loro idioma? Sta di fatto, e non è come dire ‘si da il caso’, che a Napoli e non solo al posto di ‘Il re della pizza’ l’insegna luminosa a lettere cubitali riporta ‘King of Pizza’, che ‘Il tempio della pizza’ si chiami ‘The Temple’ per non dire l’inglese spesso storpiato nell’ambito del Web ecc. Non è che gli inglesi quel ‘caso’ ce lo stiano rifilando ben bene per non dover sostituire ‘loro per primi’ con la moneta, i pollici, le miglia, la benzina, word, web, rewind, men at work ecc. ecc.? Che cosa ne faremo di tutti quegli italiani che vivono in England che non parlano inglese come non parlano (e forse non hanno mai parlato) l’italiano?
Personalmente ritengo sarebbe davvero interessante ascoltare che cosa avrebbero da dire i suoi ‘illustri’ ospiti serali alle prese col suddetto argomentare che implica ogni aspetto della scienza: linguistica, sociologica, psicologica, nonché economica e politica (ho scelto appositamente tutte parole al femminile per non cadere in qualche diversità di stampo maschilista da me che scrivo). Un dibattito al quale potrebbe invitare qualche appassionato/a di linguistica, o esponente dell’Accademia della Crusca e dei Lincei, onorandoli così dal non fare un lavoro (a quanto dire) inutile e tuttavia, adducendo loro di interloquire in quel corretto italiano finalmente comprensibile.
Grazie.

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- Cinema

Cineuropa News

CINEUROPA NEWS 2016
Ogni giorno Cineuropa pubblica news sull’attualità cinematografica europea. Se cerchi un tema, una notizia o un nome in particolare puoi effettuare una ricerca grazie al sistema di ricerca di Cineuropa (bottone in alto a destra)
39 notizie (televisione) disponibili in totale a partire dal 27/08/2002. Ultimo aggiornamento il 17/06/2016. 20 notizie (televisione) inserite negli ultimi 12 mesi.

'IMMATURI DIVENTA UN SERIAL TV'
15/03/2016 - Articolo di Vittoria Scarpa

Cominciate ieri a Roma le riprese di una serie in otto puntate tratte dal fortunato film di Paolo Genovese, per la regia di Rolando Ravello. Produce Lotus per Mediaset.'Immaturi' - La Serie riporta sul piccolo schermo le avventure del simpatico gruppo di 40enni che si ritrovano ad affrontare per la seconda volta i tanto temuti esami di maturità. Una commedia brillante e sentimentale che porta una generazione a confrontarsi con un’altra e con la vita che, dopo vent’anni, è andata da tutte le parti, fra sogni e disillusioni. Il progetto nasce da un soggetto di Paolo Genovese (cui è affidata la direzione artistica della serie tv), Marco Alessi, Paola Mammini e Giovanna Guidoni. Genovese, Mammini e Guidoni firmano anche la sceneggiatura.
Del nutrito cast fanno parte Ricky Memphis, Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Maurizio Mattioli, Sabrina Impacciatore, Nicole Grimaudo, Irene Ferri, Paola Tiziana Cruciani, Ninni Bruschetta, Paolo Calabresi, Ilaria Spada, Daniele Liotti, Carlotta Antonelli e Andrea Carpenzano. Le riprese, della durata di 25 settimane, si svolgeranno tra Roma e la Sicilia. Il direttore della fotografia è Fabrizio Lucci.

A BREVE IN ONDA 'THE YOUNG PoOPE' di Paolo Sorrentino
16/06/2016 Articolo di Camillo De Marco

L’attesissima mini serie del premio Oscar italiano, da ottobre in tv. Una co-produzione internazionale tra Italia, Regno Unito, Stati Uniti, Francia e Spagna, protagonista Jude Law. “Chi sei?” “Sono una contraddizione”. Promette provocazioni e scandalose sorprese tra le ovattate mura del Vaticano The Young Pope, l’attesissima miniserie tv firmata dal premio Oscar italiano Paolo Sorrentino che andrà in onda da ottobre su Sky Atlantic nel Regno Unito, Italia e Germania, HBO negli Stati Uniti e Canal+ in Francia.
Le vesti immacolate del Papa sono indossate da Jude Law, che nella serie è Lenny Belardo, conclamato pontefice con il nome di Pius XIII, il primo Papa statunitense nella storia della Chiesa Cattolica. Nelle immagini del teaser, molto “sorrentiniane” e inquietanti, lo vediamo fumare accanitamente, assorto nei suoi pensieri, in quella che il regista ha definito una controversa storia sulla fede e su come le persone “gestiscono e manipolano il potere”. “Chi sei, Lenny?”, gli viene chiesto nel teaser. “Sono una contraddizione. Sono Dio: uno e trino. Come Maria, Vergine a Madre. Come l’Uomo, il Bene e il Male”, risponde. “Cosa intendi fare?” è la domanda successiva. “Rivoluzione.”
Si indovina insomma un giovane Papa dubbioso e risoluto allo stesso tempo, vecchio stile a molto moderno, ironico e senza scrupoli, in un lungo percorso di solitudine umana. Nel cast stellare di The Young Pope figurano, accanto all’affascinante attore londinese, Diane Keaton nei panni di Suor Mary, una suora americana che vive nella Città del Vaticano e che ha cresciuto e aiutato Lenny ad arrivare al pontificato; Silvio Orlando, il cardinal Voiello, segretario di Stato della Città del Vaticano; James Cromwell, il cardinal Michael Spencer, mentore di Lenny; Sebastian Roché, che interpreta il Cardinal Michel Marivaux; Cécile de France, che è Sofia, responsabile del marketing del Vaticano; Javier Cámara, il cardinal Gutiérrez, Maestro delle Celebrazioni della Città del Vaticano; Daniel Vivian, che interpreta Domen, il maggiordomo del Papa; Toni Bertorelli, il cardinal Caltanissetta.
'The Young Pope' è una co-produzione internazionale tra Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Francia, prodotta da Wildside e coprodotta da Haut et Court TV e Mediapro. Produttori esecutivi per Wildside sono Lorenzo Mieli e Mario Gianani insieme a John Lyons. Produttori esecutivi per Haut et Court TV sono Caroline Benjo, Carole Scotta e Simon Arnal. Produttori esecutivi per Mediapro sono Jaume Roures e Javier Mendez. 'The Young Pope' è coprodotto da HBO e Sky.

L’APULIA FILM FUND 2016 sostiene la produzione con 3 mln
17/06/2016 - Articolo di Camillo De Marco

Si è tenuta a Roma la presentazione del nuovo bando. In corso in Puglia le riprese del nuovo film di Luca Miniero, concluse pochi giorni fa quelle di Marco Ponti e Edoardo Winspeare. Riparte con una dotazione complessiva di 3 milioni di euro, una delle più alte in Italia, l’Apulia Film Fund, il bando di finanziamento di Regione Puglia in collaborazione con l’Apulia Film Commission, destinato alle produzioni di opere audiovisive che girano in Puglia. La presentazione del nuovo bando si è tenuta mercoledì a Roma. Il presidente di AFC Maurizio Sciarra si è detto particolarmente soddisfatto per i nuovi fondi, più che raddoppiati rispetto allo scorso anno, “che coprono per la prima volta settori della produzione televisiva mai sostenuti prima d'ora. Queste le nuove opportunità e i nuovi modelli che AFC presenta a tutto il sistema audiovisivo italiano”.
Attualmente sono in corso in Puglia le riprese del nuovo film di Luca Miniero, Non c’è più religione, prodotto da Cattleya, mentre si sono concluse pochi giorni fa quelle dei film Io che amo solo te - La cena di Natale di Marco Ponti (leggi la news) e La vita in comune di Edoardo Winspeare (news). Nelle prossime settimane inizieranno in Puglia le riprese di tre lungometraggi diretti da tre autori pugliesi: Vito Palmieri, Pippo Mezzapesa e Pierluigi Ferrandini.
Daniele Basilio, responsabile Progetti Audiovisivi e Produzioni e Roberto Corciulo, Film Fund Manager AFC, hanno illustrato dotazioni finanziarie, tipologie dei progetti ammissibili, le soglie minime di lavorazione in Puglia a seconda che si tratti di fiction, documentari, corti e nuovi format quali, ad esempio reality e talent show. Hanno inoltre evidenziato l’alto numero di opere realizzate nel 2015 sul territorio pugliese, ben 57, di cui 29 hanno beneficiato solo di supporto logistico e le restanti 28 anche di contributo economico. Per l’insieme dei vari progetti lo stanziamento complessivo attraverso il Film Fund è stato pari a 1.2 milioni di euro, le cui ricadute economiche si stimano in oltre 6 milioni di euro.
Stefano Rulli, Presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, ha illustrato l’intesa appena siglata con AFC: “Per i nostri allievi che si diplomano ai corsi triennali si apre la possibilità di confrontarsi con interlocutori veri, fondamentali per misurarsi nella pratica col mondo articolato della creatività audiovisuale”.

DOSSIER: Distribuzione ed esercenti
Metà dei film europei sbarcano in VoD, ma gli americani continuano a dominare l'Europa
di European Audiovisual Observatory.

The European Audiovisual Observatory has just released its latest European film circulation figures for the cinema and VOD industries in the form of a brand new report: How do films circulate on VOD and in cinemas in the European Union, freely downloadable here. Analyst Christian Grece has also given some insights on the report to Cineuropa — read them here.
wo of the themes examined by this report are:
1. The number of theatrical release films making it to VoD.
For the 16,829 films theatrically released in the EU and produced between 2005 and 2014, 8,759 (52%) were available on at least one of the 75 VOD services. When looking at their region of origin, significant differences appear:
• 47% of EU films released between 2005 and 2014 in EU cinemas were available on at least one VOD service (5,046 films out of 10,828).
• 87% of US films released between 2005 and 2014 in EU cinemas were available on at least one VOD service (2,404 films out of 2,748).
• 41% of international films (non EU, non US) released between 2005 and 2014 in EU cinemas were available on at least one VOD service (1,034 films out of 2,506).
• 37% of other European films (non EU – broader Europe) released between 2005 and 2014 in EU cinemas were available on at least one VOD service (275 films out of 747).
The report takes a closer look at the circulation of films in countries of the European Union, on VOD services and in cinemas. It is a follow-up report to the report Origin of films in VOD catalogues in the EU, completed by LUMIERE data on films in EU cinemas.
2. How does circulation in cinemas and VOD compare?
• Release markets: Only international films (non EU and non US) had a wider distribution on VOD than in cinemas, on average in two more countries. All other films have a wider distribution in cinemas than on VOD services, although by a short margin (less than one country).
• Release clusters for cinemas and VOD: Data on EU and other European films shows a certain relation between the number of theatrical release markets and the number of VOD release markets. For US and international films, the data suggests that no strong link exists. EU films’ later availability on VOD in a given country therefore appears to be influenced by their previous theatrical release.
• The impact of film genres and theatrical admissions on theatrical release markets and VOD country availability are furthermore explored in the report in section 4.
Notes on the methodology of this report.
This report takes a closer look at the circulation of films in countries of the European Union, on VOD services and in cinemas. It is a follow-up report to the report Origin of films in VOD catalogues in the EU, completed by LUMIERE data on films in EU cinemas.
The four objectives of this follow-up report are:
• to explore the underlying facts of the gap between the cumulative catalogues offering and the film pool of EU films on VOD services by taking a closer look at film availability on a country level (Section 1)
• to compare the results with the circulation of films in cinemas in EU countries and to highlight similarities or differences (Section 2)
• to show how many films produced and released in EU cinemas in the period 2005 to 2014 were available on VOD services on a country level (Section 3)
• to highlight differences between the circulation of films in cinemas and on VOD for films produced between 2005 and 2014 by comparing the performance of films released in EU cinemas that were available on at least one VOD service and by highlighting the impact of film genre and theatrical admissions on the country availability on VOD services for films (Section 4)
The data on VOD encompasses 75 transactional VOD services and their film catalogues in the 28 EU countries; the data on films in cinemas includes all films on release and produced between 2005 and 2014 in the EU.
Industry Report: Distribution and exhibition
European films can travel without becoming mainstream
by Paraskevi Karageorgu
Three main topics were discussed at the European Audiovisual Observatory (EAO) conference at the Cannes Film Festival: How important is export to European cinema?; What makes European films travel?; and structural changes and public policy measures. Speakers this year were Stefano Massenzi, head of acquisitions and business affairs at Lucky Red (associate producer of The White Ribbon [+], Funny Games [+] and This must be the Place [+]), Daniela Elstner, president of the French Association des Exportateurs de Films and member of Europa International’s board, Andrew Lowe, president and director of Element Pictures (Oscar-winning films Room [+] and The Lobster [+]), and Ted Hope, head of motion picture production at Amazon Studios, while the panel was moderated by Michael Gubbins, Ffilm Cymru Wales chairman and partner at SampoMedia.
The EAO presented some very interesting data, which formed the basis for the panel’s discussion. Here are some of the numbers that were highlighted: of the 1,500 films that are produced each year, one in two has at least one release outside their domestic market*. In terms of admissions 140-160 million tickets were sold outside European countries’ domestic market worldwide in 2015 (In 2014, data from China was available for the first time, which showed 50 million admissions, but only for 26 films). Over 40% of the overall total admissions to European films were actually generated outside their domestic market. As a whole, the data shows that exports are quite significant for the European film industry, but while the number of exported films has increased, the admissions have remained more or less stable, thus fragmenting the market as opposed to helping it grow. The data also shed light on the countries for which film exports are very important, revealing a huge concentration: out of the 2,800 films that are being exported every year on average, the top 100 films account for 90% of the admissions and only 26 European films manage to sell more than 1 million tickets outside of Europe, 93 sell between 100 thousand and 1 million, and the majority of films generate between 1-100 thousand admissions:
Therefore, exporting is significant on a cumulative level, but only for a comparatively small number of European films. In terms of absolute admissions, the UK and France regularly sell more than 50 million tickets outside their domestic markets; they are followed by Germany, Spain, Belgium, Sweden, Denmark, and Italy. Therefore, it is very difficult to talk about European films as a whole, when there are such large discrepancies between European countries’ film industries. However, this data only accounts for theatrical releases, and does not include DVD, TV, VoD.
The EAO also presented a very interesting portrait of the shared characteristics of successful European films. Noting that is impossible to take into account intangible values such as talent and originality, which are major driving forces behind the success of European films. According to the data, that dissected the 100 most successful European films for 2011-2014, the following are the key characteristics shared by the most successful European films:
• Budget – there is a strong correlation between the production budget and the average admissions it will generate. If a film’s aim is to sell 4 million tickets, it will need a budget of more than €10 million (based on a data from the past 5 years), which is much higher than the average European film budget;
• English language – English language films taking 90% of the admissions;
• Drama –this genre works best for European film export, representing four out of ten titles;
• Festival Awards – 70 of the top 100 European films have won awards at festivals;
• Familiar content – audiences are somewhat familiar with some cultural aspects of the story
• Co-production – 62 of the top 100 European films are produced as co-production;
• Having a sales agent;
• Having a US Distributor – which clearly has a big impact of the success of European films, with 72% of the top films that sold more than 4 million tickets, had a US distributor attached.
On the topic of the role of public policy in providing a thriving environment for European film industry, Maja Cappello, Head of the Department for Legal Information at EAO, shed light on the three most important EU policy instruments concerning the audiovisual sector: Creative Europe’s MEDIA programme (with a 2016 budget of €103.6 million), the Single Digital Market and the Audiovisual Directive. All three are aimed at assuring availability and visibility of European films. Part of the EU’s focus in achieving this is providing funding opportunities and setting up policies and good practices on a national level in areas such as film literacy, co-production, copyright, cross-border access, advertising measures, and publicity. The following two graphs by the EAO illustrate the availability and visibility of European films on VoD:
Armed with these figures and their own points of view, the panellists were faced with one of the most challenging questions for the European film industry: how can we make European films travel? For Stefano Massenzi, everything starts in the cinema and each actor in the film production chain has a responsibility to create an audience for new talents and new content. According to him, policy-makers are also responsible, as they have the power to educate the audience. He also stressed that the use of English as a key to success is a conservative idea, using the performance of French cinema as an example, given the characteristic of its language is part of its success.
As such, many things have stayed the same: the film production chain, successful branding methods and the need for companies that understand the market. However, the audience has changed: it has become more demanding, more technologically aware and is overwhelmed by choice. This beggars the question, how will the film industry manage in an overcrowded market, in which it is more and more difficult to get to the theatre? For Daniela Esthner, production companies must always be aware, and constantly analyse their films, ensuring they tackle the right topic, at the right time, as only then will people go to the cinema and discussion be provoked. However, for their successful distribution, emerging models need to be developed, a good example is festivals collaborating with VoD platforms or TV. She also brought up a very interesting take on piracy, arguing that this practice exists for films that people actually want to see, with an existent demand. Therefore, by trying to solve one problem, we could create another and generating demand should be the priority, in order to build an audience for new talents and great ideas, because VoD doesn’t create demand, it builds on the audience that already exists.
Andrew Lowe gave a very interesting insight, stressing the importance of key international partnerships in making a film an international success. He pointed out that even a new company, such as A24 in the US, can have astonishing results, which was the case with Room and The Lobster, securing future collaborations (A24 picked up Lanthimos’ next film). Both projects share unique talent and had something interesting to show audiences. The Lobster is a very interesting example, as it is a typical European co-production, emerging form the director’s needs (such as shooting location, crew origins, studio etc.) and at the same time providing something that audiences have never seen before, a new cinematic language. When asked about the privileged position of the English language, Lowe pointed out that the film’s idea and talent are still more important, using Ida [+] as an example.
Ted Hope, agreed with Massenzi that a film’s theatrical release determines its value and this is the starting point from which you can build an audience, therefore a launch that promises audiences something new and interesting is crucial. He also noted that, a film needs to create a sense of urgency and an ability to change behaviour patterns, to which specificity is a key, “I look at specificity of character, culture and individual experience, which is universal and talks directly to the customer”, meaning creators and distributors establish a relationship with their audience. Also, according to him, having completed films at festivals searching for buyers is often inefficient, as it is important for a company to get involved early on. Ted Hope also argued that good ideas are the major driving force behind the success of European films, not economics and, in his view, piracy exists for a reason, as it is simple, convenient and free. However, there are other ways for companies to offer added value to their customers: quality sound and picture, service packages, amongst others, that bring something different. It is not just a question of the quality of the goods, but of the overall experience, which, according to Hope, is more urgent than ever before.
*Only the major co-producing country is taken into consideration, in case of co-production in order to avoid double counting

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- Cinema

Cinema, una passione senza fine.

CINEMA…CHE PASSIONE!
By Gio-Ma in collaborazione con Cineuropa News

Visioni Incontra: una nuova sezione industry per i professionisti del documentario.
di Vittoria Scarpa

25/05/2016 - Il 2° Festival Internazionale del Documentario "Visioni dal Mondo, Immagini dalla Realtà", a Milano dal 5 al 9 ottobre 2016, dedica una finestra ai progetti italiani work-in-progress.Il Festival Internazionale del Documentario "Visioni dal Mondo, Immagini dalla Realtà" lancia per la sua seconda edizione, che si terrà a Milano dal 5 al 9 ottobre 2016, una nuova sezione industry: Visioni Incontra, dedicata ai progetti italiani di documentari work-in-progress. Organizzata in collaborazione con Lombardia Film Commission, la nuova sezione si propone di selezionare film documentari italiani in fase di lavorazione, con particolare riferimento alla realtà contemporanea, per presentarli in una sessione di pitching a un pubblico di professionisti del settore, composto da commissioning editor televisivi, distributori, produttori indipendenti, agenti di vendita, direttori e responsabili di festival italiani e internazionali, e di fissare appuntamenti individuali con ognuno di loro. Visioni Incontra offrirà inoltre la possibilità di esplorare il panorama audiovisivo attraverso tavole rotonde e presentazioni.
Per partecipare alla sezione Visioni Incontra, che si svolgerà i primi due giorni del festival (il 5 e 6 ottobre), è necessario compilare la scheda di pre-selezione disponibile sul sito, sezione industry. Le domande di ammissione con i relativi progetti dovranno essere inviati entro il 31 luglio 2016. I progetti dovranno essere presentati da produzioni indipendenti e già finanziati per il 40% del budget preventivato. Una commissione composta da esperti assegnerà il premio del valore di 2.500 euro al miglior documentario work-in-progress. Il Festival Internazionale del Documentario "Visioni dal Mondo, Immagini dalla Realtà" è organizzato da UniCredit Pavilion e dalla società di produzione FRANKIESHOWBIZ, con il sostegno di Rai Cinema, in collaborazione con Istituto Luce-Cinecittà e Doc/it - Associazione Documentaristi Italiani.

The future of online distribution for European films discussed at Cannes' EFAD roundtable.
by Paraskevi Karageorgu.

24/05/2016 - CANNES 2016: The event concluded that “collaboration” and “community” are the most important factors in fostering the online distribution of European works across the EU. The conclusions from the European Film Agency Directors (EFAD) roundtable "How to foster online distribution of European works across the EU? Priorities for public and private actors", which took place at the 69th Cannes Film Festival on 17 May, were clear for all to see. In order to foster the online distribution of European works across the EU, the main issues to be tackled are: providing accessibility, prioritising, fighting piracy, and dealing with the lack of financing and infrastructure. Among the many speakers at the forum, which was organised in collaboration with the CNC and the European Commission as part of the European Film Forum, were Martin Kanzler, a film-industry analyst at the European Audiovisual Observatory; Jacek Fuksiewicz, advisor to the director for film production and European affairs at the Polish Film Institute; Edith Sepp, director of the Estonian Film Institute; Marco Chimenz, president of Cattleya; Pierre-Alexandre Labelle, founder of Under the Milky Way; and Frédéric Bereyziat, deputy director general of UniFrance. The forum also focused on the challenges of financing audiovisual works and defining the role of public policies in stimulating investment (read the news).

The president of the European Film Agency Directors, Peter Dinges, pointed out that one of the most important things to be done is prioritising, as it is problematic having to provide online accessibility and promotion for all 1,600 films that are produced every year in Europe. However, on the other hand, he noted that in some European countries, even the most popular films, such as the European Film Award winners, are not accessible (in either physical or digital form), and this issue needs to be tackled. Also, accessibility was acknowledged as a problem owing to the following three obstacles: technical, legal and linguistic barriers. There is an urgent need to find legal solutions that would fight piracy, as well as linguistic solutions, via subtitles, so as to promote distribution.
Lucía Recalde, head of the MEDIA Unit of the European Commission, summarised the outcomes of the forum’s discussions with the word “collaboration”, as collaboration between the Commission, countries, distributors, theatres and VoD platforms is what, in her view, would foster the online distribution of European films across the EU. She also pointed out that providing a legal offering of VoD platforms would be the best weapon to fight against piracy. Speakers also acknowledged that a lack of capital is one of the major issues to be tackled, and the proposed solutions to this obstacle included the establishment of stronger collaboration between the private and public sectors, and the provision of venture capital and simple loans, through which new ideas would be given an opportunity to develop and the Digital Single Market would be nurtured.
Giorgio Gosetti, director of the Venice Days and the moderator of the session, concluded that in today’s globalised world, in which the American market reigns supreme, Europeans should not copy strategies, but rather invent something new, and in this context, the idea of community (either virtual or physical) could be a fantastic opportunity for this.

Globi d’Oro, vince Lo chiamavano Jeeg Robot.
di Camillo De Marco

10/06/2016 - Miglior opera prima è L’attesa di Piero Messina. Premiati Elio Germano per la sua interpretazione in Alaska e Ondina Quadri per Arianna.
L’Associazione della Stampa Estera in Italia ha assegnato ieri sera i Globi d’Oro 2016, giunti alla 56a edizione. Miglior film di quest’anno per i giornalisti stranieri è Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. La motivazione del premio: Un premio doppiamente motivato. Perché confronta per la prima volta il mondo coriaceo della periferia romana con la carica esplosiva della “science fiction”. Perché si è imposto all’attenzione di tutti grazie ad uno straordinario passaparola.
Assegnati anche i due premi speciali: il Gran Premio della Stampa Estera a Fuocoammare di Gianfranco Rosi e il Globo d’Oro alla Carriera a Nicoletta Braschi e Roberto Benigni.

L’elenco dei premi:

Miglior Cortometraggio
Tra le dita – Cristina K. Casini
Miglior Documentario
If Only I Were That Warrior – Valerio Ciriaci
Miglior Musica
Carlo Crivelli – Sangue del mio sangue [+]
Miglior Fotografia
Fabio Zamarion – La corrispondenza [+]
Miglior Opera Prima
L’attesa [+] – Piero Messina
Miglior Commedia
Perfetti sconosciuti [+] – Paolo Genovese
Miglior Sceneggiatura
Ivan Cotroneo e Monica Rametta – Un bacio [+]
Miglior Attrice
Ondina Quadri – Arianna [+]
Miglior Attore
Elio Germano – Alaska [+]
Miglior Film
Lo chiamavano Jeeg Robot [+] – Gabriele Mainetti
Gran Premio 2016 della Stampa Estera
Fuocoammare [+] – Gianfranco Rosi
Globo d’Oro 2016 alla Carriera
Nicoletta Braschi e Roberto Benigni

Capalbio | Future Storyteller Lab con il regista di Star Wars: Episodio IX.
di Cineuropa

25/05/2016 - Colin Trevorrow sarà il tutor dell’innovativo workshop di formazione internazionale, dedicato ai cambiamenti di storytelling grazie alle nuove tecnologie
Dopo aver accolto nel 2015 il primo Italy | Sundance Institute Screenwriters Workshop, Capalbio International Film Festival presenta nel 2016 il suo innovativo Capalbio | Future Storyteller Lab (29 giugno - 2 luglio), workshop di formazione, dedicato ai cambiamenti di storytelling grazie alle nuove tecnologie, con un altissimo livello di tutoraggio proveniente da Hollywood. E un mentore di eccezione: Colin Trevorrow, regista di Jurassic World e del prossimo Star Wars: Episodio IX.
I partecipanti - i posti disponibili sono 6 - saranno invitati ad una serie di panels sui formati e tecnologie innovative, a cura di operatori del settore di alto livello, per ampliare la mente su cosa c'è in serbo per il futuro del cinema. I panel riguarderanno: Video Mapping: il cinema proiettato sull’architettura - in collaborazione con il Kernel Festival, affermata manifestazione italiana del settore; Videogioco: interattività e nuove piattaforme di creazione e diffusione - in collaborazione con AESVI (Associazione Italiana Sviluppatori Video Giochi) e lo studio IV Productions; #Storyboomers: il documentario al tempo dei selfie e dei You-Tubers - con Ayelet Albenda e Doc.it; Realtà Virtuale: 360° di innovazione - in collaborazione con OSVR.
Il programma del Lab include un esclusivo panel sul futuro del cinema con Colin Trevorrow insieme alla presentazione di una sezione di corti VR offerta da South by Southwest (SXSW). Grazie alla partnership com MIA - Mercato Internazionale dell’Audiovisivo e Fondazione Cinema per Roma, verrà premiato uno dei progetti iscritti per partecipare al mercato romano tra il 20 e il 24 Ottobre.
Il Capalbio | Future Storyteller Lab è aperto a registi professionisti provenienti da tutta Europa. L'intero lab si svolgerà in lingua inglese. I candidati devono avere una versione inglese della presentazione del progetto e un buon livello di conoscenza della lingua. Il progetto è riferito ai registi che hanno già prodotto dei cortometraggi e che attualmente lavorano al loro primo o secondo progetto di lungometraggio. L’obiettivo è di avvicinare i registi contemporanei alle nuove tecnologie senza tralasciare l’essenza del proprio progetto: la narrazione.
Storyteller Lab.
Dopo aver accolto nel 2015 il primo Italy | Sundance Institute Screenwriters Workshop, Capalbio International Film Festival presenta nel 2016 il suo innovativo Capalbio | Future Storyteller Lab.
Invia i tuoi progetti per vincere uno dei 6 posti disponibili per il nostro innovativo workshop di formazione, dedicato ai cambiamenti di storytelling grazie alle nuove tecnologie, con un altissimo livello di tutoraggio proveniente da Hollywood. Mentore d' eccezione sarà Colin Trevorrow, regista di Jurassic World e del prossimo Star Wars: Episodio IX. Il tutore che lavorerà ogni pomeriggio sul progetto dei 6 registi selezionati, in collaborazione con Sources 2, l'iniziativa europea di grande fama che da oltre 20 anni accompagna gli autori in tutta Europea sarà Eric Sterling Collins (sceneggiatore di numerose produzioni francesi e americane, serie TV e videogiochi).
I partecipanti saranno invitati ad una serie di panels sui formati e tecnologie innovative, a cura di operatori del settore di alto livello, per ampliare la mente su cosa c'è in serbo per il futuro del cinema. I panels saranno:
- Video Mapping: il cinema proiettato sull’architettura - in collaborazione con il Kernel Festival, affermata manifestazione italiana del settore;
- Videogioco: interattività e nuove piattaforme di creazione e diffusione - in collaborazione con AESVI (Associazione Italiana Sviluppatori Video Giochi) e lo studio IV Productions;
- #Storyboomers: il documentario al tempo dei selfie e dei You-Tubers - con Ayelet Albenda e Doc.it;
- Realtà Virtuale: 360° di innovazione - in collaborazione con OSVR.
Il programma del Lab include un esclusivo panel sul futuro del cinema con Colin Trevorrow insieme alla presentazione di una sezione di corti VR offerta da South by Southwest (SXSW). Grazie alla nostra partnership com MIA (Mercato Internazionale dell’Audiovisivo) e Fondazione Cinema per Roma, verrà premiato uno dei progetti iscritti per partecipare al mercato romano tra il 20 e il 24 Ottobre.
Il Capalbio | Future Storyteller Lab è aperto a registi professionisti provenienti da tutta Europa. L'intero lab si svolgerà in lingua inglese. I candidati devono avere una versione inglese della presentazione del progetto e un buon livello di conoscenza della lingua. Il progetto è riferito ai registi che hanno già prodotto dei cortometraggi e che attualmente lavorano al loro primo o secondo progetto di lungometraggio.
Obiettivi: avvicinare i registi contemporanei alle nuove tecnologie senza tralasciare l’'essenza del proprio progetto: la narrazione.
Date: 29 giugno > 2 luglio
Costo: 500 € per il pass lab, che comprende alloggio, pasti e accesso a tutte le proiezioni del Capalbio International Film Festival. Il viaggio per Capalbio sarà a carico dei partecipanti. Se selezionato, la quota d’iscrizione per il pass dovrà essere versata entro il 15 giugno, attraverso il Paypal o bonifico bancario . La partecipazione verrà confermata solo a pagamento ricevuto.
I risultati della selezione saranno resi noti entro l’8 giugno.
Per ulteriori informazioni : lab@capalbiocinema.com

In programmazione sugli schermi:

“Il traduttore”: manipolare la realtà è un gioco di parole.
di Vittoria Scarpa
26/05/2016 - Claudia Gerini è protagonista col giovane Kamil Kula del nuovo dramma noir di Massimo Natale, una coproduzione italo-polacca in uscita oggi con Europictures
“Non si mischiano i tovaglioli con gli strofinacci” è una frase pronunciata più volte nel nuovo film di Massimo Natale, Il traduttore . Qui, “tovagliolo” e “strofinaccio” sono Anna (Claudia Gerini), raffinata gallerista rimasta da poco vedova, e Andrei (il polacco Kamil Kula), 22enne immigrato dalla Romania, in cerca di fortuna. Due mondi che probabilmente non si incrocerebbero mai se non fosse che Andrei, oltre a fare il pizzaiolo la sera, è un traduttore plurilingue, e Anna lo ingaggia per tradurre il misterioso diario di suo marito defunto, scritto in tedesco. Ma quanto sono fedeli le traduzioni di questo giovane arrivista, disposto anche a manipolare la realtà per raggiungere i propri scopi?
E’ sull’ambiguità, l’opportunismo, l’ambizione che ruota questo dramma noir, non di certo sull’amore: Anna e Andrei, pur cedendo presto ai richiami della carne, non si amano neanche un momento. Lei trova in lui un conforto effimero in un momento irrisolto della sua vita; lui vede in lei la possibilità di un’ascesa sociale. Ascesa, promozione, riconoscimento: le stesse cose cui aspira l’ostinata ispettrice di polizia interpretata da Anna Safroncik, che si serve delle traduzioni di Andrei, chiamato ad ascoltare ore e ore di intercettazioni, per incastrare un trafficante di droga rumeno e fare la sua bella figura, costi quel che costi.
“E’ una girandola di caratteri e personalità diverse, al cui centro c’è Andrei, un 22enne che si trova catapultato in un paese straniero”, spiega il regista, al suo secondo film dopo L’estate di Martino [+]. “Questo ragazzo aspira sicuramente a qualcosa di più che fare il pizzaiolo. Vive in un mondo che gli sta stretto, lo vediamo sorridere solo quando va nella galleria di Anna, tutto vestito bene, perché è quello il mondo al quale aspira”. Il tema dell’integrazione è ben presente nel film, in particolare nei confronti tra Andrei e il suo coinquilino ucraino (Piotr Rogucki), che lo invita a restare con i piedi per terra, perché tanto, “loro ci guarderanno sempre con disprezzo”.
Intreccio di umanità sfaccettate e di nazionalità varie (Andrei ha anche una fidanzata in Moldavia in attesa del permesso per raggiungerlo in Italia), Il traduttore, che si avvale della fotografia di Daniele Ciprì, è stato girato interamente a Trento (in collaborazione con Trentino Film Commission) ed è una coproduzione italo-polacca. Nel cast, anche Silvia Delfino e Marcello Mazzarella. Il film esce oggi, 26 maggio, nelle sale italiane con Europictures.

!!!!!!!La lunga estate di cinema all'isola Tiberina!!!!!!
di Vittoria Scarpa

09/06/2016 - Comincia oggi la 22ma edizione de L'Isola del Cinema, 90 giorni di proiezioni, incontri, eventi dedicati al cinema italiano e internazionale, nella suggestiva location sul Tevere, a Roma.
E' il festival italiano più lungo che c'è: 90 giorni di proiezioni, incontri, eventi speciali dedicati al cinema nazionale e internazionale. Da oggi fino al 4 settembre torna sull'isola Tiberina, a Roma, L'Isola del Cinema, che quest'anno festeggia la sua 22ma edizione intitolata Hollywood sul Tevere, per celebrare il ritorno dei grandi set internazionali nella capitale. Si partirà stasera con Spectre [+] di Sam Mendes, che proprio lungo il fiume romano ha ambientato una delle sue scene più avvicenti, ma ampio spazio sarà dato anche alle cinematografie dei paesi europei.

Duecento in tutto sono le opere in programmazione, ospitate in quattro sale. La sezione Isola Mondo, realizzata in collaborazione con le ambasciate e gli istituti di cultura, ospiterà 15 film provenienti da Bulgaria, Francia, Portogallo, Spagna, ma anche Australia, Brasile, Giappone, Israele, Messico, Nicaragua. Dalla Bulgaria, in particolare, arrivano tre opere inedite che saranno programmate nell'ultima settimana di luglio: Sadilishteto (Il giudizio), Svetat e golyam i spasenie debne otvsyakade (Il mondo è grande e la salvezza ci aspetta dietro l'angolo) e Tilt. Altre 15 opere europee dell'ultima stagione, presentate nei maggiori festival cinematografici internazionali, sono in programma nella sezione Europa Europa.

La Francia è il paese protagonista della sezione European Woman Filmmaker che celebra il talento registico femminile attraverso la selezione di cinque opere recenti, tra cui l'ultima della cineasta Céline Sciamma Diamante nero che a Roma incontrerà il pubblico. Torna poi per la quarta edizione la Rassegna Romana del Cinema Catalano, con la proiezione di tre lungometraggi e un documentario, tra cui Barcellona notte d'inverno di Dani de la Orden. Il regista croato Dalibor Matanić incontrerà il pubblico per parlare di Sole alto, film vincitore del Premio Un Certain Regard a Cannes.

Tra i tanti titoli che si potranno vedere o rivedere sull'isola Tiberina ci sono i migliori della stagione: il film record di incassi Quo vado? con Checco Zalone, il visionario Bella e perduta di Pietro Marcello, Room di Lenny Abrahamson con il premio Oscar Brie Larson, Carol di Todd Haynes, La corrispondenza di Giuseppe Tornatore, Alaska di Claudio Cupellini. Tra gli ospiti attesi, Carlo Verdone per L'abbiamo fatta grossa, da lui diretto e interpretato; Massimiliano Bruno che introdurrà Gli ultimi saranno gli ultimi; Paolo Genovese e parte del cast di Perfetti sconosciuti; Gabriele Mainetti e gli interpreti di Lo chiamavano Jeeg Robot ; Stefano Sollima (che, come annunciato nei giorni scorsi, dirigerà il sequel di Sicario) che parlerà del suo Suburra .

Ampio spazio alla sezione Fuoco sul reale che proietterà 15 tra i documentari più apprezzati nei festival internazionali. Tra questi, Napolislam di Ernesto Pagano, sulla conversione all'Islam di dieci napoletani; Fuocoammare [+] di Gianfranco Rosi, Orso d'Oro alla Berlinale; Il sale della terra di Wim Wenders e The Look of Silence di Joshua Oppenheimer. La musica sarà protagonista con il documentario di Amy J. Berg su Janis Joplin, Janis: Little Girl Blue; il doc premio Oscar Amy - The Girl Behind the Name di Asif Kapadia, su Amy Winehouse; e Jimi - All Is by My Side, biopic su Jimi Hendrix scritto e diretto da John Ridley.

Il Premio Groupama Assicurazioni Opera Prima e Seconda sarà assegnato il 27 luglio al miglior regista esordiente o alla sua seconda esperienza dietro la macchina da presa: in concorso, oltre ai già citati Gabriele Mainetti e Stefano Sollima, ci sono Alberto Caviglia (Pecore in erba, Piero Messina L'attesa, Laura Morante Assolo e Davide Grieco La macchinazione.

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- Musica

Sile Jazz: oltre il confine a Treviso

Siete pronti? Arriva SILE JAZZ 2016!

Inizia Sile Jazz 2016! Helga Plankensteiner Trio/Claus Boesser-Ferrari/Hyper+ Samuel Blaser & Francois Houle.

Giovedì 9 e Venerdì 10 Giugno le prime due date della rassegna! Il tema dell’edizione di quest’anno è "Oltre il confine": musicisti provenienti da diverse aree d’Italia e non solo, porteranno con la loro musica le atmosfere stilistiche del luogo di provenienza e sperimentazioni e innovazioni del jazz contemporaneo.

Il 9 Giugno, alle ore 20.00, appuntamento con il PARTY DI INAUGURAZIONE che anche quest’anno si svolgerà presso il raffinato e accogliente BEST WESTERN PREMIER BHR Treviso Hotel.
Main sponsor della manifestazione, è oggi il punto di riferimento per l’ospitalità, la ristorazione e i grandi eventi a Treviso. Tutti i giovedì sono dedicati agli aperitivi di Gusto con le eccellenze enogastronomiche del nostro territorio. Nella terrazza estiva si potranno degustare prodotti di altissima qualità di aziende trevigiane, e provenienti da tutta Italia, con abbinamenti inediti e sorprendenti, divertendosi e ascoltando ottima musica.
Il 10 Giugno invece dalle ore 21 SILE JAZZ approderà per la prima volta nella suggestiva location di Piazza "La Rotonda" di Badoere, con un doppio concerto all’insegna del jazz internazionale: un guitar solo e un’inedita performance a cinque elementi.

PARTY DI INAUGURAZIONE
Giovedì 9 giugno 2016 ore 20:00
Quinto di Treviso, Via Postumia Castellana, 2
Best Western Premier BHR Treviso Hotel

HELGA PLANKESTEINER TRIO

Helga Plankensteiner (sax baritono, voce)(nella foto)
Michael Lösch (organo)
Enrico Tommasini (batteria)
La figura carismatica dell’altoatesina Helga Plankensteiner si alternerà al sax baritono (di cui è una delle migliori specialiste italiane) e alla voce. Nella serata verrà proposto un repertorio di composizioni originali e standard dalla tipica sonorità dell’organ trio, tra jazz, soul e R&B. Tra le numerose esperienze di Helga Plankesteiner, da ricordare anche la sua presenza stabile nella prestigiosa Carla Bley Bigband (USA), e nel gruppo femminile Fifth Side; è prossima l’uscita discografica che la vede coinvolta all’interno della collana "Il Jazz Italiano 2016" per La Repubblica – L’Espresso.

Venerdì 10 giugno 2016 ore 21:00
Badoere, Piazza Indipendenza, 2
(in caso di pioggia: Chiesetta di Sant'Antonio)

CLAUS BOESSER-FERRARI GUITAR SOLO

Claus Boesser-Ferrari (chitarra)
Claus Boesser-Ferrari è un chitarrista e compositore tedesco, tra i più importanti esponenti della tecnica del fingerpicking. Ad oggi ha pubblicato 7 album con l’etichetta discografica Acoustic Music Records di Peter Finger, pioniere della tecnica cosiddetta fingerstyle. Specializzato in performance solo, è un personaggio tra i più creativi della scena internazionale della chitarra acustica. Nel suo repertorio presenta classici del jazz, arrangiamenti di canzoni rock e melodie western, ma anche composizioni originali eseguite con lo stile eclettico e inconfondibile della sua chitarra acustica.

HYPER+ SAMUEL BLASER & FRANÇOIS HOULE
François Houle (clarinetto)
Samuel Blaser (trombone)
Nicola Fazzini (sax alto)
Alessandro Fedrigo (basso acustico)
Luca Colussi (batteria)
Una produzione esclusiva che lega idealmente Sile Jazz a Novara Jazz 2016: dall’incontro al festival piemontese di HYPER+ con François Houle, affermato clarinettista canadese, e con Samuel Blaser, svizzero residente a Berlino, entrambi solisti di prestigio internazionale, nasce l’inedito progetto HYPER+ Houle & Blaser, che unisce Italia, Canada e Svizzera affrontando con audacia la ricerca di nuovi linguaggi musicali tanto nell'improvvisazione quanto nella composizione.HYPER+ è un progetto dell’etichetta discografica nusica.org che si caratterizza per la ricerca timbrica di nuove commistioni tra i suoni acustici dei legni, degli ottoni e delle percussioni, con l'uso di nuovi elementi ritmici e melodici. Composto da Nicola Fazzini (sassofono), Alessandro Fedrigo (basso acustico) e Luca Colussi (batteria).

Sile Jazz è organizzata da nusica.org con la collaborazione di Studio_15 design di Preganziol (TV), Fondazione Università Ca’ Foscari di Venezia (VE) e Scuola di musica "Thelonious Monk" di Mira (VE). La direzione artistica è di Alessandro Fedrigo.

Info:
www.silejazz.com; www.nusica.org
giorgia.masiero@silejazz.com 347 5793170




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- Cinema

Cineuropa - intervista a Claudio Giovannesi

www.cineuropa.org

Claudio Giovannesi • Regista
di Camillo De Marco
18/05/2016 - CANNES 2016: La love story adolescenziale Fiore di Claudio Giovannesi è stato presentata alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes

E' una storia d'amore adolescenziale dietro le sbarre il nuovo film di Claudio Giovannesi, "Fiore", applaudito con calore alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes. Fiore sarà in sala con BIM dal 25 maggio a Roma e Milano, e dal 1° giugno nel resto d'Italia.

Dopo "Alì ha gli occhi azzurri" e "Fratelli d'Italia", esplora ancora il mondo giovanile più ai margini.

Claudio Giovannesi: Quello che davvero ci interessava era mostrare il carcere come luogo che oltre alla libertà finisce per privare di molte altre cose. Nel caso specifico parliamo di adolescenti colpevoli di fronte alla legge, ma pur sempre innocenti per quello che riguarda la loro esistenza ancora genuina. Ed è solo così che possono pensare di portare avanti l'amore reciproco, pensando a quel momento, senza curarsi delle conseguenze come potremmo fare noi adulti.

Come è nata l'idea del film?

Ho scoperto che al carcere di minorile di Roma, a Casal del Marmo, c'erano due palazzine, una per i detenuti maschi, l'altra per le femmine. Hanno il divieto assoluto di incontrarsi e non possono avere scambi di nessun tipo. Poi un seminario di quattro mesi nel carcere minorile, in cui regista e sceneggiatori, Filippo Gravino e Antonella Lattanzi, hanno prestato servizio come insegnanti volontari.
Molto di quello che c'è nel film, circostanze e dialoghi, viene da quell'esperienza. Anche le tante assurde proibizioni a cui questi giovanissimi sono sottoposti, come quella che nega alle ragazze di poter usare il rossetto. Il carcere non serve a niente se non a tenerli segregati: sbarre, celle di isolamento, si fanno tentativi di recupero con i laboratori ma è più che altro uno spreco di soldi pubblici. I minorenni sono colpevoli di fronte alla legge ma hanno l'innocenza degli adolescenti.

Da che esperienze arrivano i due giovani protagonisti, attori non professionisti?

Per i due protagonisti abbiamo fatto un grande lavoro di ricerca. Alla fine, Josh lo abbiamo trovato perché già impegnato in alcune rappresentazioni teatrali organizzate nel carcere Beccaria di Milano, mentre Daphne l'abbiamo scoperta in un ristorante di Roma, a Monteverde, dove serviva ai tavoli.
Valerio Mastandrea è il padre della ragazza, unico professionista, assieme a Laura Vasiliu (4 mesi, 3 settimane, 2 giorni), e Aniello Arena (Reality).
Abbiamo pensato subito a Mastandrea perché serviva un attore capace di garantire quel grado di verità altissimo da portare nel film.
Carcere minorile. Daphne, detenuta per rapina, si innamora di Josh, anche lui giovane rapinatore. In carcere i maschi e le femmine non si possono incontrare e l’amore è vietato: la relazione di Daphne e Josh vive solo di sguardi da una cella all’altra, brevi conversazioni attraverso le sbarre e lettere clandestine. Il carcere non è più solo privazione della libertà ma diventa anche mancanza d’amore. Fiore è il racconto del desiderio d’amore di una ragazza adolescente e della forza di un sentimento che infrange ogni legge.

Titolo originale: "Fiore"
anno: 2016
genere: fiction
regia: Claudio Giovannesi
sceneggiatura: Claudio Giovannesi
cast: Valerio Mastandrea, Filippo Gravino, Antonella Lattanzi, Daphne Scoccia, Josciua Algeri
fotografia: Daniele Ciprì
produzione: Pupkin Production, IBC Movie, 3B Productions, Rai Cinema
supporto: MiBACT
distributori: BIM Distribuzione

CANNES 2016 Quinzaine des Réalisateurs

Un 'Fiore' sboccia nella cella di un carcere minorile
di Camillo De Marco

17/05/2016 - CANNES 2016: Il quarto lungometraggio di Claudio Giovannesi emoziona con la storia di due adolescenti "criminali" che si innamorano in carcere

Daphne Scoccia in 'Fiore'
Un padre appena uscito di prigione, una figlia che entra in cella. Si gioca tutto su questo rapporto familiare forte, a corrente alternata, il quarto lungometraggio di Claudio Giovannesi, "Fiore", selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes come "Fai bei sogni" di Marco Bellocchio.

I primissimi minuti del film ci introducono alla protagonista Daphne (Daphne Scoccia), e alla sua attività principale, puntare un coltello alla gola della gente e rapinare gli smartphone nelle fermate meno frequentate della metropolitana di Roma. Arrestata dalla polizia, Daphne finisce in un carcere minorile misto, in cui la sezione femminile è separata ma contigua a quella dei ragazzi. Anche se nessun contatto è permesso, ci si può parlare furtivamente attraverso le sbarre delle finestre sul cortile o durante l'unico momento comune, la messa domenicale. Daphne così fa la conoscenza con un ospite maschile, un ragazzo di Milano chiamato Josh (Josciua Algeri). L'amicizia si consolida attraverso delle lettere che i due giovani si scambiano attraverso uno stratagemma (i carrelli della mensa).

Il punto di vista scelto dal regista è quello della protagonista e verrà mantenuto fino alla fine. Uno sguardo mobilissimo, come quello di un animale in gabbia. Daphne è una ribelle, insofferente alla cella, si scontra con le altre giovani detenute, anche se una trasformazione emotiva è già in atto. Il padre (Valerio Mastandrea) tarda a farle visita (lui stesso sta uscendo da un periodo di detenzione) e quando finalmente arriva è accompagnato dalla sua nuova donna (Laura Vasiliu).

Fiore è in definitiva una storia d'amore a ostacoli, come tutte le storie d'amore. Un amore doppio. Quello di una adolescente per il padre (Daphne ha il suo nome tatuato sul braccio), un uomo dal passato criminale che si muove spaesato nel mondo libero e trascura la figlia soprattutto perché deve ricomporre i pezzi di se stesso. E l'amore nascente tra i due ragazzi. Nata in carcere, la love story si svilupperà fuori, ma da braccati.
Giovannesi viene dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e ha iniziato la sua carriera da documentarista. Questa impostazione si riflette nel suo approccio al lungometraggio di finzione. Già in Alì ha gli occhi azzurri l'obiettivo era mostrare un aspetto della società italiana, quello delle periferie.

Senza esprimere giudizi ma raccontando. Per realizzare Fiore, il regista e i suoi co-sceneggiatori Filippo Gravino e Antonella Lattanzi hanno frequentato per 6 mesi il carcere minorile di Roma. Dove ha scoperto che il carcere è spesso "ereditario": la maggior parte dei giovani detenuti ha i genitori che sono stati condannati a loro volta. In Fiore mostra tutta l'innocenza che può nascondersi in questi adolescenti "criminali", che la società vuol tenere sotto chiave. La scelta dei due giovani attori non professionisti (lei è una cameriera nella vita, il ragazzo ha seguito un corso di teatro all'interno del carcere minorile di Milano) non fa altro che accorciare le distanze tra finzione e realtà, con la fotografia magistrale di Daniele Ciprì.

Ogni film italiano ha la sua canzone. In questo caso è 'Maledetta primavera', cantata in carcere da una star del programma tv "Amici", suggerita al regista dalla collega Alice Rorhwacher. "Fiore", venduto all’estero da Rai Com, esce il 25 maggio a Roma e Milano e a partire dal 1° giugno nelle sale di tutta Italia con BIM.

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- Cinema

Cannes - Next presents

CANNES 2016 Market

NEXT presents Fan Club and Next in VR Focus Made in Luxembourg
by Ernesto Leotta

The third edition of NEXT has got under way with a bang, as this year's special guest came into play on the first day: virtual reality (VR).
A brand-new, jam-packed NEXT conference room welcomed the creators of two VR films powered by the Film Fund Luxembourg, as well as none other than the country's prime minister, Xavier Bettel.
The team behind Fan Club came on stage first, recounting the creative process and the challenges they had to face in order to put together this fiction film in virtual reality. "It all started as an experiment," said director Vincent Ravalec."We wanted to explore the many ways in which this new media could tell a story. My background is pretty diverse, as in my life I've been making films, comics and books, as well as working with the students of a video-game school, and I came up with the idea that VR is a combination of different arts: theatre, film and gaming."
A_BAHN producer Stéphane Hueber-Blies went on to break down the main elements that differentiate VR from any other medium. "Point of view is key when thinking of telling a VR story, but Fan Club features a third-person approach, along with the more traditional first-person one; and the body is the ‘co-protagonist’: if watching a 2D film is like following a musical score, living a VR one is like dancing, as your body becomes part of the experience."
Later on, three young storytellers took the microphone to show the audience the country they grew up in and a couple of failed attempts at getting the attention of their producers, via an entertaining series of slides. "‘Next’ is what we used to hear when showing our previous projects, and it is now the title of our interactive VR film," said screenwriter Frederic Zeimet. "What pushed us towards its direction was the viewer's freedom: in VR, they no longer have to follow the director's subjective view, as they can now trigger the action by simply turning their head around."
But empathy is crucial in order to keep the audience engaged, as director Olivier Pesch wisely pointed out. A VR project must provide the viewer with a backstory, an identity and a relationship with the other characters, who will interact with the viewer and acknowledge their presence for the duration of the film. "Otherwise, the 'Swayze' effect is just around the corner," joked Zeimet. "Remember that scene from Ghost where Swayze stares at the people on the underground but they can't see him because he’s dead? That's exactly what might happen to the viewer: watching the action without being a part of it."

The return of NEXT: The programme of the third edition revealed
Another year, another Cannes – and another opportunity to dive into the newest and most alternative forms of storytelling at the NEXT Pavilion, a one-of-a-kind hub for everyone interested in the future of film, showcasing projects, pitching sessions and talks by the industry movers and shakers.
All you need is a Market badge and accommodation in Cannes from 12-19 May in order to make the most out of the third edition of NEXT, which this year takes place in a bigger pavilion (n° 201), complete with a sea view.
The main highlight for 2016 is a virtual-reality (VR) movie theatre, dedicated to the market screenings of full VR films for 30 people. VR experiences will also be accessible every day at the NEXT VR showroom. It is thus safe to say that virtual reality will be a key issue this year, with VR talks scattered throughout the NEXT week and a conference about the Oculus Story Studio scheduled for the second day.
But it doesn't stop there, of course: NEXT will also delve into the realms of VoD (IPEDA will hold a conference about “Digital Marketing for VoD Distribution” on Saturday 14th), audience engagement (insights will be offered by Europa Cinemas on Tuesday 17th), financing (a panel courtesy of Wallimage Creative on the same day) and much more.
Here is a list of NEXT's guests for this edition: Cineuropa, Adastra Films, Agit Prog, B3 Biennial of the Moving Image, Cinando, Cross Video Days, CtrlMovie, the Tous Ecrans Film Festival, FilmDoo, Film265, the IDFA, IPEDA, PICKUP, The Festival Agency, TimeTonic, The R/O Institute and Wallimage.

First-ever Virtual Reality Days programme to take place at Cannes Film Market
by Cineuropa

21/04/2016 - CANNES NEXT: Virtual reality is the central theme of the third edition of NEXT – the Cannes Film Market pavilion dedicated to the future of cinema
The third edition of the Cannes Film Market's NEXT Pavilion, dedicated to the future of cinema, will run for seven days (from 12-18 May), this year with an expanded venue and a special emphasis on virtual reality. The first-ever VR Days at NEXT in Cannes, which will take place on 15 and 16 May, will screen more than 35 VR films coming from all around the world – an incredible variety that, according to Michel Reilhac, artistic consultant for the VR Days at NEXT, shows "the birth of VR as new media accessible to everyone" and marks the creation of an interactive storytelling experience, as "the spectator experiences empathy with the story, where the story becomes a total experience".
Here is the 2016 VR Days NEXT programme:
Canadian Genre – VR Film Series:
Body/Mind/Change Redux Teaser – J. Lee Williams, Blair Renaud
Producer: Ana Serrano (CFC Media Lab Production)
Technolust: the short film – Blair Renaud
Producer: J. Lee Williams (OccupiedVR Production)
The Closet – Ian Tuason
Producer: Ana Serrano (CFC Media Lab Production)
War of the Dead – Brian Rice, Tristan Cezair, Andrew MacDonald
Producer: Kim Creelman
Made in USA VR, a US VR Focus presented by Furious M.:
Invasion ! – Eric Darnell
Producer: Maureen Fan (Baobab Studios)
Repensando a Cuba – Gabriel Lifton-Zoliine, Angel Manuel Soto
Producer: Gabriel Lifton-Zoline (RYOT)
The Second Line: A Parade Against Violence – Angel Manuel Soto, Matt Ogens
Production company: RYOT & AP
RYOT 360 Reel
Production company: RYOT
Butts: the VR Experience – Tyler Hurd
Producer: Tyler Hurd
Defrost Episode 1: The Awakening – Randal Kleiser
Producers: Tanna Frederick, Randal Kleiser (Feral Dog Productions, Randal Kleiser Productions, 3Ality Technica, IM360, Furious M)
Defrost Episode 2: The Best Care – Randal Kleiser
Producers: Tanna Frederick, Randal Kleiser (Feral Dog Productions, Randal Kleiser Productions, 3Ality Technica, IM360, Furious M)
Two VR programmes made in France presented by ARTE and Unifrance:
SENS – Charles Ayats, Armand Lemarchand, Marc-Antoine Mathieu
Producer: Marie Blondiaux (RED Corner)
Notes on Blindness – Arnaud Colinart, Amaury La Burthe, Peter Middleton, James Spinney
Production company: AGAT Films
Jours de tournage – Ma Loute de Bruno Dumon – Fouzi Louahem
Producer: Editions du Bout des Doigts
I, Philip – Pierre Zandrowicz
Production company: Okio
Jet Lag – Pierre Friquet
Production company: Enfin Bref Productions
Viens! – Michel Reilhac
VR films from Quebec, Canada, presented by SODEC and PHI CENTRE, in collaboration with the QUÉBEC FILM AND TELEVISION COUNCIL:
Nomads: Sea Gypsies – Félix Lajeunesse, Paul Raphaël
Producer: Stéphane Rituit (Felix & Paul Studios)
LeBron James: Striving for Greatness – Félix Lajeuness, Paul Raphaël
Producer: Stéphane Rituit (Felix & Paul Studios)
Inside the Box of Kurios – Félix Lajeunesse, Paul Raphaël, Michel Laprise
Producers: Stéphane Rituit (Felix & Paul Studios), André Lauzon (Cirque du Soleil Média)
“O” (Teaser) – Félix Lajeunesse, Paul Raphaël / François Blouin
Producer: Stéphane Rituit (Felix & Paul Studios)
Made in Denmark VR, Two VR projects presented by Makropol:
Ewa (Pilot) – Johan Knattrup Jensen
Producers: Mads Damsbo, Jakob Hegel (MAKROPOL, Meta Film)
The Doghouse – Johan Knattrup Jensen
Producers: Mads Damsbo (MAKROPOL, Dark Matters and Kanako)
VR DOCUMENTARIES, a selection of VR documentaries curated by IDFA Doc Lab – International Documentary Festival Amsterdam:
DOC Program 1:
Waves of Grace – Gabo Arora, Chris Milk
Production company: VRSE
Drawing Room – Jan Rothuizen, Sara Kolster
Witness 360:7/7 – Darren Emerson
Doc Program 2:
6 X 9 an immersive experience of solitary confinement – Francesca Panetta, Lindsay Poulton
Producer: Francesca Panetta (The Guardian)
My Mother’s Wing – Gabo Arora, Ari Palitz
Production company: VRSE
DMZ: Memories of No Man’s Land – Hayoun Kwon
Production company: Innerspace VR
LoVR – Aaron Bradbury
NEXT VR Focus, A special NEXT program curated by Michel Reilhac, NEXT’s artistic consultant:
Simon – James Hedley
Fabulous wonder.land – Toby Coffey
Amani – Raymond Van Der Kaaij
Production: Submarine and Terre des Hommes
Sonar – Philip Maas
Summertime – Nir Sa'ar
Producers: Tal Haring, Inbal Shirin Anlen, Adi Lavy (Steamer Lab & Green Productions)
Fan Club (teaser) – Vincent Ravalec
Production company: a_Bahn

La redazione de la Recherche ringrazia Cineuropa per le costanti Info/News inviate e le belle immagini anche se per questioni di spazio non riuscimo sempre a pubblicare.

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- Musica

Giuliana Soscia Trio a Roma


'Giuliana Soscia Trio' alla Casa del Jazz di Roma - 08 Giugno 2016

Dopo il successo ottenuto sabato 30 aprile durante l'International Jazz Day presso il Rest Art Rome insieme a tanti altri artisti che si sono alternati in una lunga ‘Maratona Jazz’, organizzata in collaborazione con BNL per Telethon, il Conservatorio di Santa Cecilia , Saint Louis College of Music, per la direzione artistica di Paolo Damiani, Giuliana Soscia torna in scena con il ‘Giuliana Soscia Trio’ il prossimo 8 giugno alle ore 21:00 presso la Casa del Jazz di Roma, per presentare il suo personale Corso di Fisarmonica Jazz, in occasione del grande concerto in cui i docenti suoneranno e presenteranno i rispettivi Corsi liberi di Jazz.
News dalla Casa del Jazz.
I ‘corsi’ avranno inizio nel mese di Ottobre, progettati insieme al Conservatorio di S. Cecilia, la cui direzione artistica è affidata al M° Paolo Damiani, già Direttore del Dipartimento Jazz del Conservatorio romano.

Fisarmonicista jazz considerata dalla critica tra i più prestigiosi fisarmonicisti d'Italia, oltre ad essere inoltre un’eccellente pianista, è anche compositrice e arrangiatrice. Nasce a Latina da una famiglia di musicisti ed emerge ben presto la sua attitudine per la musica. Intraprende lo studio del pianoforte e si diploma con il massimo dei voti nel 1988 presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma, studia con il pianista e compositore M°S.Cafaro, la Proff.ssa A.M.Martinelli e si perfeziona con la clavicembalista A.M.Pernafelli in interpretazione barocca.

Nel 2001 le viene assegnato il trofeo ”Sonerfisa”,Premio Internazionale città di Castelfidardo come migliore fisarmonicista italiana e nel 2007 il Premio alla carriera, nel 2005 il prestigio“XXV Premio Personalità Europea” presso il Campidoglio di Roma. Dal 2000 al 2008 è presente in vari programmi televisivi, in qualità di musicista e di conduttrice di rubriche inerenti la musica su RAI UNO e RAI DUE.

Nel 2006 decide di fondare un suo quartetto jazz stabile con il quale intraprende subito una brillante carriera concertistica che la farà affermare come jazzista. Ma è nel 2007 con l’entrata nel gruppo dello straordinario pianista, tra i migliori compositori/arrangiatori jazz internazionali, Pino Jodice che sposerà nel 2009, che raggiungerà il massimo dei consensi di critica e pubblico, esibendosi nei più importanti Festival Jazz e Teatri nel mondo.

Con il “Giuliana Soscia & Pino Jodice Quartet” realizza ben otto lavori discografici, improntati sulla contaminazioni nel jazz dal Tango al folklore partenopeo, dai Maqam iracheni alla musica classica barocca, fino alla musica classica contemporanea, discorso per lei molto affascinante da sempre: “Latitango”2008 Splash Records/IRD), “Antiche Pietre”2009 Alfamusic/Egea), “Il Tango da Napoli a Buenos Aires”(2010 Alfamusic/Egea), vinile Lucca Jazz Donna 2010 Vol.1 (Girasuoni 2011), “Contemporary”(2012 Wide/IRD), “Il Viaggio di Sindbad”(2012 Alfamusic/Egea) con la partecipazione straordinaria del Maestro di oud iracheno Raed Khoshaba, “Sonata per luna crescente”(2013 Barvin/ArSpoletium),“Stabat Mater in jazz”(2013 Cimarosa Records) con la partecipazione straordinaria della cantante Marina Bruno.

Di grande spessore internazionale Giuliana Soscia mette a frutto e inserisce nelle sue composizioni tutto il suo bagaglio musicale acquisito durante le molteplici esperienze fatte come special guest, come ad esempio nel 2008: con “Omaggio a Piazzolla” con la SNJO Scottish National Jazz Orchestra diretta da Tommy Smith, presso la “Queen’s Hall” di Edinburgh; il “RMSAMD” di Glasgow, il “Mac Robert Art Centre”di Stirling, il Byre Theatre di St. Andrews, con la PMJO Parco della Musica Jazz Orchestra diretta da Maurizio Giammarco presso l’Auditorium di Roma; per il Progetto “Il Viaggio Di Sindbad” di Pino Jodice , con la Power Jazz Unusual Orchestra diretta da Pino Jodice al Fiction Fest Awards 2010; con la Salerno Jazz Orchestra.

Molti ricordano la sua presenza come ‘special guest’ come fisarmonicista e compositrice in “Autumn in Jazz con la PMJO Parco della Musica Jazz Orchestra nel 2011, e come solista con le Orchestre d’archi “Milano Classica” ,“Rossini” ,Tartini e in vari ensemble collaborando con i Direttori C.Lorenz, P.P. Ciardi, Luis Bakalov e i jazzisti Giancarlo Schiaffini, Javier Girotto,ecc. Va sottolineato inoltre di essere leader del “Giuliana Soscia Tango Sextet” composto da fisarmonica e quintetto d’archi.

Giuliana Soscia svolge parallelamente anche attività didattica sia come pianista che fisarmonicista jazz, tenendo presso i Conservatori numerose Master Class di fisarmonica jazz, scrive una rubrica di Armonica Jazz applicata alla fisarmonica sulla rivista “Strumenti & Musica”, ed è Prima fisarmonicista a partecipare al prestigioso Festival Lucca Jazz Donna 2010 in quanto ‘donna immagine’ del Lucca Jazz Donna 2011.

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- Cinema

Quando il cinema si ricicla (o si butta via?)

QUANDO IL CINEMA SI 'RICICLA' (..O SI BUTTA VIA?)

 

"7 David a Jeeg Robot e Tale of Tales. Miglior film Perfetti sconosciuti." articolo di Vittoria Scarpa – Cineuropa News

 

Le nomination davano il testa a testa tra Lo chiamavano Jeeg Robot e Non essere cattivo (16 candidature ciascuno), e invece la cerimonia dei 60mi David di Donatello, celebratasi ieri sera a Roma in una veste del tutto rinnovata in stile Notte degli Oscar, se ha confermato il trionfo del film di Gabriele Mainetti, ha visto come altro protagonista della serata 'Il racconto dei racconti' - Tale of Tales di Matteo Garrone, lasciando poco (forse troppo) alla pellicola dello scomparso Claudio Caligari.

Sette David quindi per la rivelazione dell’anno 'Lo chiamavano Jeeg Robot': Miglior regista esordiente, produttore, attrice e attore protagonisti per Ilenia Pastorelli e Claudio Santamaria, attrice e attore non protagonisti per Antonia Truppo e Luca Marinelli, montatore: Stesso numero di David (sette) per l’incursione nel fantasy del regista di Gomorra, ovvero 'Il racconto dei racconti': Miglior regista, autore della fotografia (Peter Suschitzky), scenografo, costumista, truccatore, acconciatore, effetti digitali.

Il titolo di Miglior film va però quest’anno a 'Perfetti sconosciuti' di Paolo Genovese, altro fenomeno della stagione con 16 milioni di incasso, che si aggiudica anche il David per la sceneggiatura: “Un film su segreti e bugie”, ha commentato dal palco il regista visibilmente stupito ed emozionato, “ma questo premio lo voglio dedicare alla verità” (tutti i protagonisti della serata hanno sfilato sul tappeto rosso con indosso l’adesivo “Verità per Giulio Regeni”).

Al candidato italiano di quest’anno per l’Oscar, 'Non essere cattivo' di Claudio Caligari, va sorprendentemente un solo David, quello al Miglior fonico di presa diretta. 'Youth - La giovinezza' di Paolo Sorrentino (che pure aveva 14 nomination) è stato invece premiato per le musiche e la canzone originale, entrambe opera di David Lang. Miglior documentario è 'S is for Stanley' di Alex Infascelli, Miglior film dell’Unione europea è 'Il figlio di Saul'. Il David giovani va a 'La corrispondenza' di Giuseppe Tornatore.

 

Lista dei vincitori:

Miglior film Perfetti sconosciuti - Paolo Genovese.

Miglior regista Matteo Garrone - Il racconto dei racconti.

Miglior regista esordiente Gabriele Mainetti - Lo chiamavano Jeeg Robot. Miglior sceneggiatura Filippo Bologna, Paolo Costella, Paolo Genovese, Paola Mammini, Rolando Ravello - Perfetti sconosciuti.

Miglior produttore Gabriele Mainetti, Goon Films - Lo chiamavano Jeeg Robot.

Miglior attrice protagonista Ilenia Pastorelli - Lo chiamavano Jeeg Robot. Miglior attore protagonista Claudio Santamaria - Lo chiamavano Jeeg Robot.

Miglior attrice non protagonista Antonia Truppo - Lo chiamavano Jeeg Robot.

Miglior attore non protagonista Luca Marinelli - Lo chiamavano Jeeg Robot.

Miglior autore della fotografia Peter Suschitzky - Il racconto dei racconti. Miglior musicista David Lang - Youth - La giovinezza.

Miglior canzone originale “Simple Song #3” (Musica e testi di David Lang interpretata da Sumi Jo) - Youth – La giovinezza.

Miglior scenografo Dimitri Capuani, Alessia Anfuso - Il racconto dei racconti.

Miglior costumista Massimo Cantini Parrini - Il racconto dei racconti. Miglior truccatore Gino Tamagnini, Valter Casotto, Luigi D'Andrea, Leonardo Cruciano - Il racconto dei racconti.

Miglior acconciatore Francesco Pegoretti - Il racconto dei racconti.

Miglior montatore Andrea Maguolo con la collaborazione di Federico Conforti - Lo chiamavano Jeeg Robot

Miglior fonico di presa diretta. Angelo Bonanni - Non essere cattivo. Migliori effetti digitali Makinarium - Il racconto dei racconti.

Miglior documentario di lungometraggio S is for Stanley - Alex Infascelli. Miglior film dell’Unione europea Il figlio di Saul - Laszlo Nemes.

Miglior film straniero Il ponte delle spie - Steven Spielberg.

Miglior cortometraggio Bellissima - Alessandro Capitani.

David giovani La corrispondenza - Giuseppe Tornatore.

 

Scorrendo questa lista di 'graziati' dalla fortuna che, in questo caso ci vede da un occhio solo, come per dire che: 'per non far torto a nessuno regaliamo un David di Donatello a ciascuno'; vanno sottolineate certe defiance organizzativa, causa la quale il nostro cinema ancora stenta ad uscire dal 'casereccio' in fatto di premiazioni fin troppo volute. Non che gli americani facciamo meglio con l'Oscar o i francesi con il loro Palmares. Tuttavia va detto che in questo modo stiamo svendendo il nostro cinema a basso costo, come nel caso di Giuseppe Tornatore di 'La corrispondenza', non forse il miglior film in assoluto del regista ma comunque una pellicola di tutto rispetto, premiato con il 'David Giovani' (?), ch'è quasi un'offesa vergognosa; semmai gli andava assegnato il 'Vintage' per il 'l'alto livello' della sua ormai copiosa cinematografia. Perché non darlo al vero 'Giovane' Ivan Cotroneo de 'Il Bacio', anche se andavava inserito nella lista all'ultimo momento; quello sì che sarebbe stato uno scoop non da poco.

Per il piacere della lista troviamo 'Il ponte delle spie' di Spilberg, ben fatto, ben interpretato ma che ancora una volta segna una botta di gomito all'amico americano, come dire: 'una botta al cerchio, una alla botte'. E che dire di 'Perfetti sconosciuti', remake seppure intelligente di tanti film già visti che hanno segnato la storia del cinema italiano: (vedi recensione sul larecherche.it). E qualcuno dovrebbe dirmi che cosa ha questo film per essere scelto come 'miglior film'(?), nichilista senza sprechi, in breve un film senza... Certo è facile fare un film tutto in interni riciclando discorsi obsoleti seppure validi, ma consumati dall'uso.

Ed arriviamo a 'Il racconto dei racconti' di Matteo Garrone, un film di belle immagini ma 'inutile', per quanto discutibili ma certamente giustificati tutti i premi ricevuti, all'infuori di quello alla 'migliore regia' (tanto per dare un contentino anche a lui) probabilmente voluto da chissà chi (RAI?). Decisamente il migliore anche registicamente parlando 'Lo chiamavano Jeeg Robot' di Gabriele Mainetti, non per altro ha vinto 7 Donatello. Del resto, non si poteva fare tutta una serata in onore di un solo film, anche se ha sbaragliato tutti gli altri e ha sospinto il cinema italiano ad aprirsi verso una dimensione internazionale. C'era bisogno di riempire la sala, distribuire le statuette agitarle verso l'alto (povero David in cui tutti gli lisciano il culo) per fregiarsi di aver ricevuto un premio. E' anche così che il cinema italiano continua a buttarsi via, ma per quanti di noi hanno sperato in una 'rinascita' mi sembra ben poca consolazione.

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- Cinema

Un bacio - un film di Ivan Cotroneo

‘Un bacio’ - un film di Ivan Cotroneo

Con: Rimau Grillo Ritzberger - Valentina Romani - Leonardo Pazzagli - Simonetta Solder - Susy Laude - Thomas Trabacchi - Laura Mazzi - Sergio Romano.

“Un ritratto sensibile e coraggioso di tre adolescenti che escono dallo schermo per entrare nella memoria dello spettatore, nello spazio in cui stanno i film che non si dimenticano.” Così si è espressa la critica per questo film destinato a diventare un ‘cult’ delle giovani generazioni, per la squisitezza delle immagini, l’essenzialità dei dialoghi, la creatività felice di chi vive la realtà quotidiana con entusiasmo, la felicità dei sogni incontaminati. Un film sull’amore adolescenziale e più in generale che supera le barriere di ‘genere’, sulla certezza che l’amore vince su tutto, anche quando le cose della vita non vanno secondo le migliori aspettative e la lotta contro i pregiudizi si fa dura: "Non voglio che mio figlio sia 'tollerato'" dice il padre adottivo di Lorenzo dinanzi alla preside e ad un'insegnante particolarmente insensibile. Ivan Cotroneo fa propria questa affermazione senza però cedere alla tentazione del pamphlet riaffermando con forza il diritto di ognuno a vivere la propria vita e la propria dimensione affettiva secondo tempi che non siano dettati da un contesto sociale che si eriga a normativo in questo ambito.

Lorenzo, Blu e Antonio hanno molte cose in comune: l'età – sedici anni –, frequentano la stessa classe nello stesso liceo in una piccola città del nord est, hanno ciascuno una famiglia che li ama, e tutti e tre, anche se per motivi differenti, finiscono col venire isolati dagli altri coetanei. Blu che scrive alla se stessa del futuro 'per non dimenticare'. Lorenzo che ostenta sicurezza ma ha bisogno di rifugiarsi nell'immaginario per trovare quell'ammirazione che il mondo dei coetanei gli nega. Antonio, bravo giocatore di basket disturbato dai sensi di colpa per il fratello morto in un incidente, quanto introverso e chiuso nel relazionarsi con gli altri. Di tutti e tre conosciamo l'ambito familiare in cui incontriamo sensibilità genitoriali diverse ma, ognuna a suo modo, capaci di amore e comprensione. Chi invece si compatta nel rifiuto sono i compagni tra i quali emergono leader in perfidia e bullismo (equamente suddivisi tra maschi e femmine) ma che finiscono comunque per essere tutti complici anche quando sono testimoni passivi dei soprusi. La dimensione della città di provincia, con la magia delle sue notti 'antiche' e con la brutalità dei mezzi di comunicazione oggi alla portata di ognuno, definisce il contesto della narrazione.

‘Un Bacio’ è un film (*) sull’adolescenza, sulle prime volte, sulla ricerca della felicità. Ma anche sul bullismo e sull’omofobia. Sui modelli e sugli schemi che ci impediscono, e che impediscono soprattutto ai ragazzi, di essere felici, di trovare la strada della loro singola, particolare, personale felicità. Ivan Cotroneo, che scrive la sceneggiatura con Monica Rametta, dall'omonimo libro (Bompiani 2010), sa come tenersi a distanza dalle negatività di cui sopra per offrirci un ritratto ad altezza di adolescenza di grande sensibilità e coraggio. Coraggio perché le situazioni vengono affrontate frontalmente senza ammorbidimenti e anche perché, come già Vinterberg in Il sospetto, non ha il timore di mettersi contro gli animalisti utilizzando la caccia come rito iniziatico. Sensibilità perché questi Jules, Jim e Catherine dei nostri giorni e di ben altra età (l'omaggio a Truffaut viene esplicitato nella scena della corsa a tre) non si limitano ad essere personaggi, per quanto ben costruiti, ma sono da subito persone con le loro fragilità e con le loro prese di posizione.”

"I film che hanno come soggetto l'adolescenza e le sue problematiche hanno saldamente incorporata la dicitura 'maneggiare con cura'. Perché il rischio della retorica e/o dello stereotipo sono presenti ad ogni singola riga della sceneggiatura e in ogni scelta di ripresa, recitazione, montaggio e soundtrack. Lo spettatore si trova spesso dinanzi a uno schema purtroppo ben definito. Ci si occupa di un ragazzo o di una ragazza emarginati e li si circonda di adulti che sono rappresentati o come dei minus habens o come totalmente incapaci di interessarsi a loro sia nel contesto familiare che al di fuori di esso." E per quanto si voglia cambiare questo ‘stato di cose’ non sembra si riesca mai ad andare oltre e si cade nella stessa ‘amara’ piega dell’autodistruzione. Il film non potendo uscire indenne da meschino rito della fine procurata di uno dei protagonisti ci offre un’altra possibilità interpretativa, apre cioè un varco alla speranza “..domani chissà, forse?” si arriverà al compiacimento/riconoscimento dell’ugualità nella diversità e al diritto di essere ciò che siamo: soggetti unici d’una molteplicità insormontabile e insostituibile con la forza di convincere chi non vuole ascoltare.

(*) Con la complicità di:
Ivan Cotroneo – Cineuropa / The Best of European Cinema
Giancarlo Zappoli – Mymovies.it
Emiliano Morreale – Trovacinema / L’Espresso

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- Musica

I’ll remeber Gato Barbieri

I’ll remember … Gato barbieri, quella prima volta al Music Inn.

 

Con Pepito Pignatelli e Giulia Gallarati detta Picchi negli anni ‘70/’80 ci si incontrava a tarda notte al già noto locale Music Inn per ascoltare il ‘jazz’, quello più ‘trasandato’ e per questo più autentico che mai. All’epoca fare jazz significava soprattutto improvvisare, magari prendendo spunto da un pezzo in voga al momento, oppure re-interpretare uno ‘standard’ di qualità e pur sempre occasionale capace di ‘accendere’ la serata. Il gruppo ‘fisso’ che s’inframezzava nelle serate della ‘dolce vita’ romana era formato, se il ricordo mi sostiene, da Pepito Pignatelli alla batteria, Gato Barbieri al sax, Franco D’Andrea al piano e Giovanni Tommaso al contrabasso, e che oggi (con amore) racconta:

 

«Poesie, sbronze, fumo, muffa e tanta musica. Il Music Inn è stato qualcosa di più di un club come gli altri. In un periodo difficile per il jazz, mentre l’Italia era stata tagliata fuori anche dal grande giro dei concerti rock, Pepito Pignatelli e sua moglie Picchi con il loro club riportarono Roma al centro del mondo del jazz, allestendo stagioni e programmi leggendari, mossi da una passione e un feeling che pochi altri ‘impresari’ al mondo hanno avuto, Bill Evans, Dexter Gordon, Johnny Griffin, Charles Mingus, Ornette Coleman, Chet Baker, Philly Jo Jones, Lee Konitz, Pepper Adams, Stéphane Grappelli, Art Farmer, Mal Valdrom, Elvin Jones, Horace Silver, Roy Haynes, Max Roach, Steve Lacy, sono solo alcuni dei grandi musicisti passati per il club di Largo dei Fiorentini 3, due piani sotto il livello della strada, più o meno dove il Tevere corre lungo la foce. (..) Si era sparsa la voce in tutto il mondo che a Roma c’era un jazz club assolutamente particolare, diventato in breve un club di riferimento per gli amanti del jazz. Tutti quelli che venivano a suonare capivano fin da subito di avere di fronte due persone con un gran feeling e per questo avevano un ochio di riguardo. Tutti adoravano i due gestori, Picchi per la sua grande dolcezza, e Pepito per il suo piglio creativo, ancor più, perché entrambi nutrivano un grande rispetto per i musicisti.»

E non solo per gli stranieri che avevano fatto grande il jazz, anche per tutti quei giovani italiani che in qualche modo si andavano avvicinando al jazz e che ben presto avrebbero fatto il loro ingresso sulla scena della musica internazionale. Pepito e Picchi avevano come un sesto senso per la musica e un orecchio particolare, ed entrare nelle loro grazie significava avere il futuro della musica nelle mani. Così è stato per Gato Barbieri (oriundo argentino), Bruno Biriaco batterista, Carla Marcotulli cantante jazz dalle mille possibilità, Furio di Castri contrabbassista che in quegli anni tutti volevano, e Giovanni Tommaso, Massimo Nunzi, Marcello Rosa, Enrico Rava, Aldo Romano, Max e Maurizio Urbani, Carla Marcotulli, Enzo Pietropaoli, Enrico Pieranunzi, Roberto Gatto, Fabrizio Sferra e tantissimi altri.

Quella sera del ’73 non vi capitai per caso, mi aveva invitato un amico che oggi pochi ricordano, il critico musicale Marcello Piras che sapeva individuare quei musicisti che avevano qualche qualità, anche se talvolta all’inizio non la si comprendeva. Era già notte fonda quando un giovane Gato Barbieri, con il suo ampio sorriso ma schivo verso noi giornalisti, sbucando da non so dove, fece il suo ingresso roboante col suo sax-tenore nel bel mezzo di una esecuzione che la tirava per le lunghe e tuttavia senza assumere il dominio della scena. Cosa che mi sembrò un po’ fuori luogo, quando l’esecuzione si sviluppò in un ‘transfer’ epocale, di suoni che s’inseguivano l’un l’altro e che di lì a poco s’avvilupparono nell’atmosfera fumosa dando forma a vere e proprie isole di note che ci travolsero tutti.

Tutte le voci e il tinnare dei bicchieri che fino a prima rumoreggiavano sotto le volte del Music Inn rimasero cristallizzate dentro l’istante, basite nelle ‘grida’ assordanti e sgranate dello strumento. Gato disse poi di aver suonato un tango di Piazzolla, o forse quello che ne rimaneva nella sua concezione musicale. Pensai alla possibilità per lui di essersi rifatto al momento della creatività dell’autore del pezzo reso irriconoscibile, sgrammaticato e violento, quasi avesse dentro una rivalsa astiosa verso una musica, quella argentina, che in altri momenti ci aveva regalato più d’una suspance interpretativa di sentimenti passionali che in quegli anni ancora non si potevano esternare.

Solo successivamente, ascoltando il più maturo e forse anche più ‘commerciale’ di ‘Tango a Parigi’, compresi che doveva essere quella la cifra del più autentico Barbieri, la testimonianza della sua grandezza di esecutore e della sua spigliata creatività. Più che vicino a noi quella sera, nello stesso momento che ci stava regalando la sua musica, Gato Barbieri era già più avanti di tutti noi. Difficile pensare che lui, uno venuto dall’altra parte del mondo, col suo aspetto da gaucho dismesso, portasse con sé un bagaglio profondo, inuguale a nessun altro e inimitabile, che raccoglieva in un pugno di note essenziali, un insieme di suggestive metamorfosi, quasi cogliesse in una unica visione tutta la musica dell’America Latina e ne spigionasse tutto l’ardore, quel fuoco interiore che brucia costante nell’animo latinoamericano e che lascia intorno a sé solo cenere.

Grazie al mio amico Marcello Piras da quella sera ho iniziato ad amare il jazz, capendo la differenza che passa tra ‘fare musica’ e ‘fare jazz’, ma anche tornai ad apprezzare maggiormente la musica etnica e folklorica in quanto ‘cassa armonica’ di tutta la musica del mondo, d’ogni popolo e d’ogni continente. Sì certo, s’è detto di ‘poesie, di sbronze, di fumo, di muffa e di tanta musica: «Erano diversi quei tempi – racconta Federico Scoppio – Si poteva fumare nei club, una coltre di nebbia ti assaliva in quel locale di carbonari. Però non sempre, durante i concerti era vietato, o meglio, sconsigliato.»

«Accadeva così, - scrive Enrico Rava - negli anni del Music Inn, si apriva il giornale per sapere chi avrebbe suonato quella sera a Roma. Ma se quel nome diceva poco o nulla, non importava. Ci si andava, al Music Inn, solo perché era il Music Inn. Valeva (sempre e comunque) la pena farci una capatina. I locali che riescono a sopravvivere a lungo sono quelli dove si va anche senza sapere chi ci sarà sul palco. Basta la fiducia per i gestori. Pepito e Picchi godevano di enorme fiducia e avevano moltissimi amici. Tra questi c’era anche quel trombettista che oggi tutti conoscono. Veniva da Trieste, via Torino. A Roma visse nei primi anni sessanta, quando incontrò Gato Barbieri e Steve Lacy, e ci sarebbe tornato molte altre volte.»

I’ll remember also …

Che quando chiesero al grande Louis Armstrong cosa fosse il jazz, egli rispose: “What’s jazz? Man, if you must ask, you’ll never know.” (Cos’è jazz? Caro uomo, se proprio devi chiedere, non lo saprai mai.) Me lo chiedo ogni volta che ascolto jazz su vinile o che mi reco a un concerto, senza mai riuscire a darmi una risposta concisa, se non fare tutto un giro di parole per non dire niente. Adesso che molti di loro non sono più, ben so che Leandro ‘Gato’ Barbieri occupa un posto di tutto rispetto, degno di essere ricordato nell’empireo dei grandi del jazz.

 

Adios, amigo!

 

Discografia essenziale:

“The Third World” – BMG 1970 (contiene ‘Tango’ di Piazzolla)

“Fenix” – Philips 1971

“El Pampero” – BMG 1971

“Last Tango in Paris” – Original Motion Picture Score – United Artists 1973

“Under Fire” – Philips 1973

“Bolivia” – BMG 1973 (capolavoro assoluto)

“Chapter Two: Hasta Siempre” – Impulse 1974

“Chapter Three: Viva Emiliano Zapata” – Impulse 1974

“Caliente!” – A&M Records – 1976

“Apasionado” – Polydor 1983 (contiene ‘Last tango in Paris’, ‘Terra me siente’ e ‘Tempo buono’ con Pino Daniele)

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- Cultura

L’uovo di cioccolata - 2a parte

‘L’UOVO DI CIOCCOLATA’: EVENTI, LIBRI, MUSICA, CINEMA, ED ALTRO … (parte seconda).

Dentro l’uovo o fuori dell’uovo? La poetessa Amina Narimi, ha lintelligentemente risolto il ‘quesito’ in modo alquanto perspicace: ‘dischiuso l’uovo, l’uovo è tornato’. Ora, ciò può anche sembrare banale, ma non lo è affatto, perché affonda le sue radici nella filosofia. Quella che per l’appunto si fonda sull’ uovo universale. Non lo sapevate? Si pensi alla possibilità che nell’uovo che rompiamo vi sia un pulcino e che potrebbe anche essere femmina, ècco che un secondo uovo è così assicurato. Ciò a dimostrazione del rigrenerarsi della natura e, quindi, la continuità nella ‘rinascita’ dei diversi generi, sia vegetale e animale che quello umano. E che sia in prevalenza donna, diciamocelo pure, ‘ben venga!’, tanto per rifare il verso a un noto film di successo: “Speriamo che sia femmina” dell’indimenticabile Mario Monicelli, il quale alla domanda, quale fosse la vera felicità, rispondeva: «La vera felicità è la pace con se stessi. E per averla non bisogna tradire la propria natura.»

… da ‘Fedele all’Invisibile’ di Amina Narimi

Ti celebro così dentro i paesaggi
come in fondo al vuoto del mio letto
nell’esatta simbiosi della gioia
madre dalla lunga voce -
fango che dorme nella luce
con tutto il silenzio fuori dal torace
della carne, allo scoperto. Amo.

Ciò che nasce non è altro
da questo uccello azzurro nei polmoni
con il dorso carico di latte
“Cosa vedono i tuoi occhi, Aman,
quando vai a fare i fiori..
la porta stretta di una retina dove s'inginocchia il cielo
quando non arriva in cima ? la sua parte di luce
è quel prodigio
fedele all’invisibile
nel rosso della gola fino a sera …

Dunque, un grazie sincero ad Amina Narimi, mia amabilissima amica, le cui liriche potete leggere sul sito larecherche.it, da cui ho tratto questi pochissimi versi.

Non era che un gioco per sdrammatizzare gli effetti della ‘quaresima’ che incombe, ma ecco che la Pasqua s’avvicina e nell’attesa possiamo prepararci ad esultare per la ‘resurrezione’. Non è forse così, non è quello che vorremmo tutti? Io dico di sì, si, siiii! E allora prepariamoci ad affrontare un’altra meta del nostro ‘viaggio’ musicale. Non era forse questo il tema improntato nella prima parte di questo lungo articolo? Certo che sì. Quindi partiamo da dove ci eravamo lasciati, e lo facciamo a tempo di rock. Il rock? Certo, l’opera / concerto rock, realizzata da Ray Manzarek sui “Carmina Burana” nel 1983, ovviamente quella rivista e corretta in modo gogliardico dai Jaculatores Upsalienses che già nel medioevo ne avevano trascritta una versione ‘carnascialesca’, ripresa successivamente da Carl Orff che nel 1935 l’ha trasformata nei canoni dell’ Oratorio per orchestra e coro che più comunemente ascoltiamo:

11.
“In taberna quando sumus, / non curamus quis sit humus, / sed ad ludum properamus, / cui semper insudamus. / Quid agatur in taberna, / ubi nummus est pincerna, / hoc est opus ut queratur, / sid quid loquar audiatur …”.
16.
“ O Fortuna, / velut luna / statu variabilis, / semper crecis / aut decrescis; / nunc obdurat / ludo mentis aciem / egestatem, / potestatem /dissolvit ut glaciem. / Sors immanis / et inanis, / rota tu volubilis, /status malus, / vana salus … / mecum omnes plangite! ”

Dite la verità, vi ho sorpresi o no? E non finisce qui, quel geniaccio di Andew Lloyd Webber autore di tanti ‘musical’ di successo, forse preso da un raptus mistico, improvvisamente si è messo a scrivere musica sacra con tutti i crismi del caso, ed ha fatto le cose in grande. Un cast eccezionale a cominciare dal direttore d’orchestra Lorin Maazel, le voci soliste di Placido Domingo, Sarah Brightman, Paul Miles-Kingston, nonché il Winchester Cathedral Choir con la English Chamber Orchestra. Il risultato è migliore di quanto si possa pensare, il suo “Requiem” (1985) è straordinario, musicalmente diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto, indubbiamente più vicino ai giorni nostri non solo come struttura e musicalità, a tratti (azzardo) quasi una ‘colonna sonora’ cinematografica. Potrei citare dei nomi ma non avrebbe senso. Un senso invece ce l’ha se ascoltiamo alcuni brani come il ‘Dies irae’ e ‘Ingemisco’ in chiave decisamente ‘drammatico-operistico’ hendeliano (del Messiah tanto per capirci), e il delicatissimo quanto ispirato ‘Pie Jesu’, dalla voce bianca di Paul Miles-Kingstom, che l’autore ha voluto inseriti in moderna continuità con la tradizione antica.

Alla tradizione si rifà anche la “Messa Arcaica” (1994) per soli, coro e orchestra, di e con Franco Battiato (voce), Akemi Sakamoto (mezzosoprano), Filippo Maria Bressan direttore del Athestis Chorus, Antonio Ballista con l’orchestra de I Virtuosi Italiani, Filippo Destrieri e Angelo Privitera rispettivamente alle tastiere e computer, e Carlo Guaitoli al pianoforte. Un cast d’eccezione per una resa che molto s’avvicina alla spiritualità del nostro tempo in cui i suoni e le ricercate trame delle voci ‘recitante-lirico’ ci mostrano un cantautore musicista e quant’altro, alle prese con quella trascendenza mistica capace di accumunare suoni e mondi diversi, quei ‘mondi lontanissimi’ propri della poetica del musicista, espressa in modo ‘eccelso’ nel ‘Kyrie’ d’apertura, per piano solo della durata di 15’, seguito dal ‘Gloria’, ‘Credo’, ‘Sanctus’ e dall’ ‘Agnus Dei’ per voce e coro, con una resa misurata di sublimazione.

Dalle temperanze solenni della ‘musica liturgica’ passiamo alle sregolatezze della ‘musica profana’ quale è da sempre considerato il Jazz, se pure abbia dato esempio di improvvisazione assoluta, così vicina a quel senso di ‘misterioso’ (T.Monk) che pure esiste nella inter-comunicazione umana con la divinità, nella parola che si fa preghiera che si fa canto, così come nel rumore che diventa suono che diventa musica, in cui si esprime la creatività e la genialità umana, nel suo disporre alla conoscenza (quella musicale) che ha molto di sovrumano e così poco di terreno. Ma bando alle elucubrazioni filosofiche e immergiamoci in quell’impasto di cacao e latte che è ‘l‘uovo di cioccolato’ che, una volta scartato degli orpelli che lo rivestono per la ‘festa’ che qui si celebra, rivela al suo interno quel dono ‘talvolta un po’ sciocco’ ma che la tradizione vuole ‘significativo’ di una rigenerazione insita nella sorpresa che si rianima in noi e ci predispone a una positiva entusiastica accoglienza.

Certo che sì, quell’entusiasmo che ogni volta dovremmo dimostrare nell’andare incontro agli altri (papa Francesco), a quanti vivono in mezzo a noi, con noi in qualsiasi punto dell’emisfero terrestre, siano essi gente comune, artisti, musicisti, teatranti, scrittori, filmakers, organizzatori di eventi ecc. e che, con il loro lavoro, manifestano la gioia di essererci. È con questo spirito che oggi andiamo a incontrare alcuni artisti jazz che, in quest’ultimo frangente di tempo, hanno dato un vigoroso impulso alla musica contemporanea coi loro amalgami più creativi in cui si rispecchia la nostra attuale esistenza. Ma se il presente per molte ragioni ci spaventa, la musica da sempre si lascia ascoltare da tutti in qualunque parte del mondo, rappresentativa di quell’ ‘anima mundi’ che accoglie in sé tutte le diversità, per quanto ‘l’ira del tempo’ che pur viviamo non ci permette di mantenere quella serenità che tutti vorremmo.

Due sono i suggerimenti musicali, per quanto datati, che mi sento qui di dare e che segnano il passaggio di registro di tutto questo discorso e che, vi anticipo, non sarà breve. Si tratta della colonna sonora del due volte Premio Oscar Ennio Morricone con la The Londo Philharmonic Orchestra: “The Mission” (Virgin 1986) Soundtrack dell’omonimo film di Roland Joffé con due mostri del cinema americano Robert De Niro e Jeromy Irons. La particolarità di questa colonna sonora di fatto sta negli effetti della strumentazione del gruppo Incantation, in cui il flauto indio e gli effetti acustici utilizzati ricreano un’atmosfera paradisiaca incontaminata di mistica suggestiva bellezza, seppure infine stravolta dal massacro sanguinario dei colonizzatori.

Laltro suggerimento è ancora più toccante, si tratta della colonna sonora del film “Passion: The last temptation of Christ” (Virgin / Realworld 1989) di Martin Scorsese, con i pur bravi Willem Dafoe e Harvey Keitel. Composta e diretta dal ‘mostro sacro’ del rock-progressivo Peter Gabriel, cantante, polistrumentista, compositore, produttore discografico e attivista britannico che, dopo aver raggiunto il successo negli anni settanta nel celebre gruppo dei Genesis e aver intrapreso una carriera solista di successo sperimentando numerosi linguaggi musicali, negli anni ottanta si è impegnato nella promozione della ‘world music’ attraverso la sua etichetta Real World, andando alla ricerca di moderne tecniche di incisione e nello studio di nuovi metodi di distribuzione della musica online. È anche noto per il suo costante impegno umanitario. La colonna sonora de ‘L'ultima tentazione di Cristo’, pubblicata un anno dopo l’uscita del film sotto il nome di ‘Passion’ voluto da Peter Gabriel, è oggi considerata un capolavoro dell’allora neo-nata world music. Per la realizzazione l'ex-Genesis si avvalse della collaborazione di artisti internazionali di musica tradizionale quali Youssou N'Dour, Billy Cobham e Nusrat Fateh Ali Khan. Ad esso si accompagna l'album 'Passion sources' il quale completa la colonna sonora e promuove gli artisti che hanno collaborato con Gabriel proponendo dei loro brani importanti, finora sconosciuti al grande pubblico.

In tutta questa ‘diversità’ di opposti intenti culturali, spesso caotica e rumorosa, alcuni artisti hanno avuto il coraggio di trasformare il rumore e il caos in una composizione ‘vocale-strumentale’ di forte impatto evolutivo. Si tratta del guro del sintetizzatore Bob Ostertag e del quartetto d’archi Kronos Quartet che in “All the rage” (1993) hanno sviluppata da un'incisione realizzata durante un'insurrezione nell’ottobre 1991 a San Francisco e che fece seguire al veto del Governatore della California Pete Wilson, di un progetto per proteggere gay e lesbiche dalla discriminazione. Mi è sembrato molto interessante conoscere come si è proseguiti nella sua realizzazione che apprendiamo dallo stesso Bob Ostertag: «Prima ho setacciato ed isolato quelle sezioni che al mio orecchio suggerivano una qualche forma di musica. Alcune di queste riguardano le grida i fischi e le finestre fracassate; altre invece i motti che venivano scanditi dalla folla, come: ‘Noi non torneremo indietro' e 'Riprenderemo di nuovo la lotta', più alcune voci individuali come uno che grida: ''Vaff…” e altre persone che gridano 'Bruciatelo!'. In seguito sviluppai questi frammenti ricavandone una struttura musicale attraverso varie tecniche digitali, ed infine ho aggiunto il testo.»

«Riguardo alle parti elaborate dal Kronos Quartet – scrive ancora Bob Ostertag – furono sviluppate direttamente sul materiale registrato, riprendendo la trascrizione minutamente particolareggiata dei suoni registrati. In altre sezioni, il processo da nastro a parti di sequenza fu più complesso, e la relazione tra i due meno ovvia. Tuttavia, molta della musica composta risultò propedeutica al suono delle migliaia di fischi(etti) che molte lesbiche e gay usavano come strumenti di autodifesa di base, e quali emersero dalle tasche di quanti prendevano parte all'insurrezione successivante stimati in almeno un milione di persone.» Va qui ricordato che il Kronos Quartet fondato nel 1973 a San Francisco non è nuovo a certe operazioni di contaminazione in musica, gli eccellenti musicisti della formazione ci hanno abituati a un minimalismo grammaticale che può contenere e trasformare qualunque invenzione musicale. Infatti i loro lavori più apprezzati vanno dai contemporanei Arvo Pärt a Jimi Hendrix, da Steve Reich a Philip Glass, da Astor Piazzolla a Thelonius Monk, abbracciano la musica africana e quella giapponese, solo per citare la dimensione della loro spazialità e sempre con risultati eccellenti di straordinaria creatività.

Di sorprendente bellezza, anche se molto singolari, a voler dire ‘per orecchie sofisticate’, vanno citati i lavori del georgiano Giya Kancheli con Kim Kashkashian e la Hilliard Ensamble “Abii ne viderem” (ECM 1995) e “Caris Mere” per soprano e viola (ECM 1997). John Cage con “The season” per prepared piano e Chamber Orchestra (ECM 2000); il bellissimo “Elogio per un’ombra” (ECM 2000) con Michelle Makarski al violino e Thomas Larcher al piano, che eseguono musiche di Berio, Dalla Piccola, Carter, Petrassi, Rochberg, Tartini la cui rilettura si offre per un piacevole incanto. Bene si affiancano a queste esecuzioni le musiche per i film di Theo Angelopoulos composte da Eleni Karaindrou: “Ulysses’ Gaze” (ECM 1995) con la partecipazione alla viola della straordinaria di Kim Kashkashian insieme a un ensamble di strumentisti greci di primo livello condotti dal direttore d’orchestra Lefteris Chalkiadakis; “Eternity and a Day” (ECM 1998) ancora un film di T. Angelopoulos; e le musiche per il teatro greco di Epidauro per “Troian Women” da Euripide, con il grande stage director Antonis Antypas.

Comprendo, vi state chiedendo ma ikn tutto questo il Jazz dov’è? La risposta è insita nella domanda stessa; vengo al dunque rispondendo con un’altra domanda: quali sono le strade intraprese dal jazz negli ultimi decenni? Chi sa rispondere lo faccia attraverso i commenti che si possono tranquillamente lasciare in fondo agli articoli che vi sottopongo e che saranno da me presi in considerazione e inseriti oppure utilizzati in altri articoli ovviamente citando la fonte. Ciò che posso aggiungere riferito al Jazz come lo intendo io, è tutta la musica creativa, non ripetitiva, sebbene il minimalismo in musica porti a una distensione delle note e delle pause non proprio consone all’orecchio ormai ostruito dal sottofondo ‘caotico’ che non gli permette più di ricevere i suoni puri. Ma, come abbiamo visto, che gli ‘artisti’ quando sono tali, riescono comunque a utilizzare al meglio. Ovviamente l’ascolto della musica ‘live’ anche se filtrata dalle moderne tecnologie permettono di usufruire della bellezza di accordi e assonanze che recuperano in pieno la loro primaria sonorità degli strumenti.

È questo il caso di Fabio Giachino il pianista italiano che si è aggiudicato quest’anno l’ambito premio MIDJ 2016 che gli permetterà di risiedere e svolgere tutta i suoi progetti musicali a Copenaghen e approfondire così la sua ricerca artistica, attraverso una serie di impegni e interazioni con il contesto culturale e musicale della città. Un primo traguardo internazionale ricevuto con l’album per piano-solo “Balanciong Dreams” (Tosky Records 2015) di cui sto ascoltando il brano appena pubblicato nella video-clip su Youtube. Pensate, il giovane pianista ha superato i 56 candidati davanti a una giuria composta da signori del jazz quali Rita Marcotulli, Rosario Bonaccorso e Michele Rabbia. Negli anni Fabio Giachino è stato inoltre insignito di importanti premi: "Premio Int. Massimo Urbani 2011"; "Premio Nazionale Chicco Bettinardi 2011" e il Red Award "Revelation of the year 2011" JazzUp Channel; inoltre, con il suo Fabio Giachino Trio (completato dal contrabbassista Davide Liberti e dal batterista Ruben Bellavia) ha ottenuto il "Premio Carrarese Padova Porsche Festival 2011"; il premio "Fara Music Jazz Live 2012" (sia come miglior solista che come miglior gruppo), il premio "Barga Jazz Contest 2012" e il Premio Speciale come "BEST BAND" al "Bucharest International Competition 2014", votato tra i primi 10 pianisti italiani secondo il referendum "JAZZIT Awards" indetto dalla rivista JAZZIT.

Viene quasi da chiedersi e chiedergli se vuole vincere anche le Olimpiadi di Rio, sarebbe un gran bene per l’Italia. Prossime date sono per ascoltarlo live in Italia c’è una data da tenere a mente: il 21 aprile un concerto di anteprima del Torino Jazz Festival 2016. Ma potete sempre leggere la mia intervista apparsa recentemente su questo stesso sito www.larecherche.it dal titolo “The special touch of Fabio Giachino”. Da consultare il
Video "The Making of" https://www.youtube.com/watch?v=rdr6c6xckZU
Videointervista https://www.youtube.com/watch?v=B5M683YsBvA
www.fabiogiachino.com - www.toskyrecords.com
www.fiorenzagherardi.gmail.com

Dal piano al sax-tenore per incontrare Danielle di Majo con il suo Quintet formato da Antonello Sorrentino (tromba), Francesco Diodati (chitarra), Riccardo Gola (double-bass), Ermanno Baron (percussioni) che abbiamo ascoltato in “Eccedere di Blu”(Picanto Records 2008) prodotto da Sergio Gimigliano. Uno di quegli album che continuano a tirare e che non si smetterebbe mai di ascoltare per l’impasto sonoro che crea, avvolgente e coinvolgente al tempo stesso e che, pur evidenziando le diverse personalizzazioni dei vari strumenti, starordinariamente riesce in un ‘sound’ che l’eccezionale Danielle ha giustamente derivato dal ‘blues-rock’. Non in tutto, certo, tuttavia in ogni singolo brano fuoriesce quell’amalgama fluido che solo una forte concatenazione di intenti riesce a tirar fuori. Brani come ‘Cicada song’, ‘Bluetango’, ‘Mare infinito ..di che?’, ‘Eccedere di blu’ da cui il titolo dell’intero album per l’appunto, riescono a coinvolgere anche il più sofisticato degli ascoltatori per la musicalità e la determinazione dei suoni. È il caso di dire bravi per le forti emozioni che ci date. Il suo curriculum è denso di avvenimenti, incontri, premi e riconoscimenti impossibile da pubblicare, ci sono però delle date e dei nomi importanti che mi sembra giusto sottolineare in questo breve spazio che la riguarda e che sono certo a Danielle non piacerà per il suo essere stranamente riservata, ma che poi quando nel bel mezzo di un concerto, il suo sax sembra perdere, ècco che si trasforma in un’esplosione di dinamite-rock che per fortuna non fa vittime. O meglio, ne fa musicalmente parlando.

Nel 2004-2005 Danielle vince la borsa di studio per il Corso di alto perfezionamento per la musica Jazz al "ROMA JAZZ's COOL" presso la Saint Louis Music College & La Casa del Jazz a Roma. Frequenta i seminari tenuti da Rosario Giuliani & Maurizio Giammarco. Partecipa alle Master Class di Giovanni Tommaso, Enrico Pieranunzi & Enrico Rava. Sempre nel 2005 svolge un’intensa attività concertistica con Francesco Diodati Quintet (Antonello Sorrentino: tromba, Francesco Diodati: Chitarra, Marco Piccirillo: Contrabbasso, Ermanno Baron: Batteria) eseguendo sia brani originali che reinterpretazioni di composizioni di C. Mingus, T. Monk, W. Shaw, H. Silver . E ancora, collabora con la Wonderband di Claudio Zitti, una funky band di 12 elementi (Claudio Zitti: piano, Marco Marvelli-Ina Maiuri-Lori Maiuri: voci, Cristiano Micalizzi: batteria, Alessandro Patti: basso, Fabrizio Aiello: percussioni, Stefano Antonelli: chitarra, Franco Santodonato: tromba, Giuseppe Ricciardo: sax tenore, Palmiro del brocco: trombone) sul repertorio di brani di Stevie Wonder. Partecipa al concorso Barga Jazz 2005 con Francesco Diodati Quintet vincendo il primo premio come ‘Miglior nuovo gruppo emergente’. Partecipa al concorso europeo con il Francesco Diodati Quintet all’Avignon Jazz Festival. Vive a Roma dove spesso si esibisce alla Casa del Jazz, al 28DiVino Jazz Club, al Teatro Palazzo.
Indirizzi utili: www.picantorecords.com; www.28divino.com.

Altro suono è quello del sax tenore di Marcello Allulli in trio con Francesco Diodati alla chitarre ed Ermanno Baron alle percussioni nell’album “Hermanos” (2009), special guest Fabrizio Bosso alla tromba, Glauco Venier al piano, e Antonio Jasevoli 2° chitarra, presenti in alcuni brani del concept album prodotto da MAT per Zone di Musica records.e che vede la partecipazione di un Coro nel brano che da il titolo all’album. Anche per questa registrazione è interessante conoscere l’insolito che l’accompagna, raccontato dallo stesso Allulli. «Tutto ebbe inizio l’estate del 2009 a Fabriano. Una candida serata ì, un concerto del MAT, le note della chitarra (Diodati) che introduce ‘Hermanos’, poi tutto accade in un attimo,. Ed ecco , come un grande unisono dal pubblico, il tema. Probabilmente ad oggi è stata l’emozione più forte che noi tre abbiamo mai provato su di un palco … Mi sono commosso fin quasi alle lacrime, io che avevo preparato il pubblico all’insaputa di Ermanno e Francesco. E così quasi per gioco è nato il coro Hermanos. Poi sono venuti i giorni della registrazione, tre giorni di un freddo dicembravalicco, in provincia di Udine. Dopo aver registrato il primo giorno in trio e il secondo con Fabrizio (Bosso), ecco arrivare il pulmino che ha raccolto da tutta Italia i ragazzi del coro Hermanos. Il terzo giorno, sulle magiche note del piano di Glauco … arrivammo alla fine della registrazione, ritrovandoci tutti a bere e a cantare, contaminando con la nostra gioia tutti gli avventori dell’agriturismo che ci aveva accolti. Sono stati giorni irripetibili, spontanei, diretti, intensi.» Un bel racconto, o no? Ecco il Jazz è anche tutto questo.

Dalla biografia pubblicata di Marcello Allulli: “Sassofonista di rilievo nel panorama jazz nazionale, si distingue sia come leader che come membro di formazioni tra cui MAT (Marcello Allulli Trio); Glauco Venier Ensemble; Ceccarelli-Allulli duo guest Greta Panettieri, Mufloni; RAJ trio, Ettore Fioravanti 4tet, Nohaybandatrio. Diplomato al Berklee College of Music di Boston, nel 2011 e 2012 è stato votato al JAZZIT AWARD tra i migliori sassofonisti italiani. Tra le collaborazioni: Kenny Wheeler, Norma Winstone, Glauco Venier, Fabrizio Bosso, Antonello Salis, Kamal Musallam, Israel Varela, Selen Gülün, John B. Arnold, Ettore Fioravanti,Roberto Gatto, Giovanni Falzone, Michel Godard, Maria Pia De Vito, Tony Scott, Dave Binney, Shai Maestro. Il suo MAT-Marcello Allulli Trio, formato con due tra i musicisti più interessanti del panorama italiano, il chitarrista Francesco Diodati e il batterista Ermanno Baron, ha riscosso un grande successo di critica e di pubblico con il disco “MAT Hermanos” (ed. Zone di Musica) con ospiti Antonello Salis, Glauco Venier, David Boato e Greta Panettieri e eccezionalmente Fabrizio Bosso, che JAZZIT ha inserito tra i migliori album nazionali e internazionali del 2014 e stato successivamente distribuito con il magazine JAZZIT come allegato al numero di gennaio-febbraio 2015.”
Indirizzi utili: www.zonedimusica.com – info@zonedimusica.com www.fiorenzagherardi.gmail.com

ALTRE PUBBLICAZIONI, POESIE, CONCORSI, CINEMA, MUSICA-TEATRO, EVENTI

Nella certezza di far piacere a molti lettori e nel voler dare un utile servizio alle finalità intrinseche della rivista www.larecherche.it dedico quest’ultimo spazio agli ‘eventi’, ai ‘concorsi’ e alle novità editoriali di scrittori emergenti, nonché a quei poeti di cui mi sono occupato nel corso del 2015. Inizio con la EEE editore di cui è responsabile Piera Rossotti Pogliano, una mecenate dalle grandi capacità imprenditoriali messe al servizio della letteratura e della poesia. Ha all’attivo un fornito catalogo di opere di autori ‘esordienti’ da lei stessa selezionati con cura e la necessaria considerazione. E che recentemente ha annunciata la seconda edizione di ‘Consumando i giorni con sguardi diversi’ di Andrea Leonelli. La raccolta, totalmente rivisitata, segna un momento importante nella evoluzione poetica di questo autore, ormai ben noto e, per due anni consecutivi, vincitore del Premio Polverini. Ed ha, inoltre, lanciato dal suo personale blog il consueto ‘video settimanale’ dedicato sempre alla poesia: «..vi troverete le solite quattro chiacchiere e il ‘bando di concorso’ della casa editrice EEE dedicato alle ‘sillogi poetiche’ in lingua italiana.» Un’occasione amici assolutamente da non perdere.

Altre opere tuttavia s’affacciano nel panorama del romanzo. Dal "Mondo Parallelo", ecco che spunta una nuova Cronaca: ‘Il peccato di Rennahel’, di Irma Panova Maino. «Un romanzo intenso, dove elfi e vampiri, in fondo, non sono poi così diversi dalle persone ordinarie, per quanto riguarda il bisogno di vivere, amare, realizzare se stessi. E, come noi umani, anche loro devono imparare ad accettare le reciproche differenze e questa accettazione diventa ricchezza.» Che dire, talvolta ritornano, ma noi non ci lasciamo spaventare, ci sono ben altri vampiri in giro che oltre a succhiarci il sangue, ci derubano di quel poco che abbiamo, in fatto di ecologia, economia, amministrazione statale, affari pubblici, territorio e quant’altro. Ma noi, poveri peccatori della parola scritta non ci arrendiamo e continuiamo a scrivere non soltanto per il piacere di farlo, quanto invece perché con le nostre storie cerchiamo di trovare una ragione per sopravvivere al marasma quotidiano e spingerci verso quell’ideale di bellezza che ancora sostiene in vita il mondo. Ovviamente è sempre una questione di scelte che prima o poi vanno comunque fatte.

A tal proposito sottolineo la pubblicazione del secondo interessante romanzo di Lu-Paer 'Non altro che me stesso' (EEE 2016) che ha scelto di vivere a stretto contatto con la natura e i suoi animali essendo un’attivista convinta nel sostenere i diritti degli animali. Dal 2000 si occupa di consulenze e formazione nel settore benessere ed estetico e cerca di ritagliarsi i più ampi spazi possibile per continuare a scrivere, il cui ricavato è interamente devoluto a progetti in difesa degli animali. In particolare, come nel suo primo libro 'Che cosa stai aspettando!' (Edizioni Esordienti E-book, 2012) e destinato ad un pubblico più vasto possibile che abbia a cuore la vita (difficile per certe specie) degli animali, la sua scrittura consiste nel riuscire ad incidere, in qualche modo, sull’opinione pubblica al fine di produrre un auspicabile cambiamento nel momento davvero difficile che questo nostro meraviglioso pianeta sta attraversando. Di Lu-Paer trascrivo qui di seguito una ‘poesia’ che ha concesso a noi lettori di larecherche.it, scritta appositamente per il suo nuovo romanzo e che, in qualche modo, ne svela il suo contenuto:

“Sognerai
mi dissero
ma son feroci le notti
come gli assedi.

Passerà tutto il tempo
e non sarà abbastanza
resteranno i ricordi
come ombre in agguato.

Senza stupore nè gloria
trascino i miei giorni su sentieri sicuri
Ma è nell'incertezza della terra gelata
che il pettirosso affamato becca la vita.

Cè un dolore ad ogni sponda
Ovunque esilio.”

Info e sitografia:
www.edizioniesordienti.com; www.amazon.it; www.ilgiardinodeilibri.it

Un nuovo libro di poesia anche per Carlos Sanchez, “Continuaré a cantar” – (Lìbrati, Ascoli Piceno 2015), che ci ha omaggiato/i con un suo testo presente nella raccolta:

‘Tozudez’

De grande aprendí
que los pájaros vuelan
guiados por la necesidad
que los amores se disuelven
en el viento del tiempo
que las revoluciones
terminan ahogándose
en los ríos de la historia
que la eternidad no dura.
Pero no me desespero
continúo a cantar.”

‘Testardaggine’

Da grande ho imparato
che gli uccelli volano
guidati dalla necessità
che gli amori si dissolvono
nel vento del tempo
che le rivoluzioni
finiscono annegando
nei fiumi della storia
che l'eternità non dura.
Ma non mi dispero
continuo a cantare.

Carlos Sanchez è nato a Buenos Aires e viaggiato in molti paesi dell’America Latina e del Medio ed Estremo Oriente come consulente ed esperto in comunicazione sociale per organismi delle Nazioni Unite e della cooperazione internazionale. Ha lavorato come lettore e professore di Lingua e Letteratura Ispanoamericana presso le Università ‘La Sapienza’ di Roma, Cassino e Napoli. Come giornalista, regista e fotografo ha collaborato con riviste e giornali di tutto il mondo. Ha scritto sceneggiature e diretto programmi televisivi per la RAI. Pratica il Qi Gong da oltre vent’anni e tuttora trasmette la sua esperienza ad un gruppo di allievi. Risiede in Italia dal 1968 e attualmente vive a Folignano (Ascoli Piceno).
e-mail sanchez.carlos@tiscali.it.

Ed ecco un fresco di stampa: “Sussurri dall’acqua” Poesie Scelte della poetessa canadese Maureen Scott Harris qui tradotte da Alessandra Bordini (Giuliano Ladolfi 2016). Nata nel British Columbia nel 1943 e cresciuta a Winnipeg - Manitoba, si trasferisce a Toronto nel 1964 dove prosegue i suoi studi. Durante il suo periodo universitario, lavora come catalogatrice presso la biblioteca dellsa stessa Università. Nel 2002 vince l’ambito WildCare Tasmania Nature Writing Prize e successivamente l’Arc's Poem-of-the-Year contest 2009 che segnano una svolta decisiva alla sua elevazione poetica. Le sue opere appaiono in ‘The Fiddlehead, The Malahat, Pottersfield Portfolio, Verse contemporanea 2’, che è stato che un evento per la Poesia in Canada, e ‘Prairie Fire, Graal, and field’. La raccolta appena citata è la prima tradotta in italiano. La Ladolfi Editore annuncia inoltre l’uscita di ‘Atelier 80’, la rivista trimestrale di letteratura, poesia e critica dedicata a ‘Inguaribili sognatori’ - Marzo 2016. www.ladolfieditore.it.; www.atelierpoesia.it.

Molte sono le novità in casa Inschibboleth, editrice di riviste specialistiche e libri di filosofia contemporanea voglio qui citare ‘Lo scambio di figura. Tre studi sulla somiglianza e sulla differenza’ – di Rosaria Caldarone (Inschibboleth, collana ‘Au dedans, au dehors’ (2015). , in cui lo scambio di figura (metabalèin to schèma), che compare in un passo poco studiato dell’Alcibiade Maggiore, scioglie la fissità dello schema che regola la relazione fra maestro e allievo, fra amante e amato. Allude al diventare maestro e amante (erastès) da parte dell’allievo amato mentre l’amante si trasforma in allievo e amato (eròmenos). Questo mutamento profondo nella dinamica di una relazione erotica rigidamente legata ai ruoli, come appare quella platonica, libera secondo l’Autrice un modello di differenza non più regolato sulla contrarietà e sull’opposizione, in cui si annida la gerarchia e il dominio, ma sulla somiglianza. La differenza di coloro che si somigliano fino a scambiarsi la figura sembra venire incontro in modo dirimente alla richiesta di ‘un’altra differenza sessuale’ lanciata da Derrida negli anni ’80 e oggi in parte condivisa all’interno del dibattito sul ‘genere’. Progettati in base a un disegno comune, i ‘tre studi’, che da Platone, attraverso Derrida, ritornano al pensiero greco e ad Aristotele, ripercorrono in filigrana l’eredità concettuale della teoria platonica dell’amore, mostrandocene un altro volto, più segretamente sovversivo e ricco di provocazioni teoriche. (Dalla quarta di copertina).

Di particolare interesse letterario-filosofico la pubblicazione in uscita dei ‘Quaderni di Inschibboleth n.5’ 2016, frutto di un ‘call for papers’ sul tema: ‘Figure dell’inganno’, che ospiterà fra gli altri un saggio inedito dell’autore di questo articolo, sulla figura di ‘Agamennone’ (..o la maschera ‘ingannevole’ del mito). Solitamente suddivisa in tre parti: una parte sul tema del numero. Una parte di saggi specialistici su altri temi, ed infine una parte di recensioni su saggi di recente pubblicazione non necessariamente legati al tema e che è lieta di ospitare ricerche e saggi di giovani studiosi. La proposta di saggi per la pubblicazione dev’essere inviata alla redazione della casa editrice in formato elettronico all’indirizzo redazione@inschibbolethedizioni.com.

Al medesimo indirizzo possono essere richieste le norme redazionali da seguire in fase di stesura dell’articolo. Gli autori devono certificare (nella mail che accompagna l’articolo) che il loro testo non è mai stato pubblicato, né simultaneamente sottoposto o già accettato per altre pubblicazioni. Tutti saggi e le recensioni dovranno essere in lingua italiana e di massimo 45000 battute, spazi e note incluse, e dovranno rispettare le norme redazionali che saranno fornite per mail. Dovranno, inoltre, essere accompagnati da un abstract di massimo 1500 battute in italiano e in inglese (l’abstract non è richiesto per le recensioni). Dopo una prima lettura la segreteria di redazione invia la proposta di articolo per un esame critico a due lettori anonimi (peer review) per la valutazione dei contributi proposti per la pubblicazione. Gli esiti della valutazione (accettato, rifiutato, proposta di modifica) verranno comunicati in seguito all’autore. Le recensioni saranno valutate dalla redazione senza referaggio.

Altro ‘Call for papers’ per ‘Phàsis’, European Journal of philosophy, diretto da Danielle Cohen-Levinas e Gianfranco Dalmasso, per la selezione di contributi originali in forma di saggi e recensioni da pubblicare sul prossimo numero dedicato al tema: ‘Frontiere dell’identità. Lingue e alterità’, la cui uscita è prevista per Ottobre 2016 e che si divide in tre parti: una parte sul tema del numero, una parte di saggi specialistici su altri temi, ed infine una parte di recensioni su saggi di recente pubblicazione non necessariamente legati al tema. La proposta di saggi per la pubblicazione dev’essere inviata alla redazione in formato elettronico all’indirizzo phasis.journal@gmail.com.
Per maggiori informazioni http://www.inschibbolethedizioni.com/riviste/phasis/

Per gli eventi intercorsi nel periodo segnalo inoltre: ‘Coolclub.it un ritorno alla carta stampata’. Dopo una pausa nelle pubblicazioni di oltre quattro anni, dal 4 marzo è in distribuzione gratuita il mensile di musica, libri, cinema, teatro, arte, eventi.
La Cooperativa Coolclub da oltre dieci anni si occupa di ideazione, organizzazione e promozione di eventi culturali e musicali. Sin dalle origini, però, la passione per la scrittura ha spinto i soci della Cooperativa a fondare anche un giornale. Dal 2003 al 2011 Coolclub.it è andato in stampa quasi ogni mese. Prima come semplice fanzine e poi, pian piano, come testata vera e propria con varie formule e dimensioni. Dal 2011 al 2015 il lavoro redazionale si è trasferito esclusivamente sul web ma senza grande convinzione. La nuova rivista in pdf lanciata a dicembre nel giro di pochi mesi e grazie al sostegno e all’incoraggiamento di molti si è subito trasformata nella nuova versione cartacea. «Questa lunga premessa – si legge nell'editoriale che accompagna la notizia – per spiegare a vecchi e nuovi lettori che, per noi, i fogli che avete tra le mani sono davvero molto preziosi. Leggere presuppone attenzione e concentrazione. Per questo chiediamo di prendervi tutto il tempo che serve per assaporare pian piano gli articoli che compongono Coolclub.it. Ogni mese cercatelo, leggetelo, prestatelo, conservatelo. Perché, come sospirano in molti scrollando le spalle, la carta è sempre la carta».

Il titolo del primo numero (disponibile anche su Issuu), “Riportando tutto in Puglia”, prendendo in prestito e modificando il titolo di un romanzo del Premio Strega Nicola Lagioia, è la sintesi perfetta del nuovo corso di Coolclub.it. «La nostra idea è quella di costruire un giornale tutto dedicato alla cultura che si muove dalla e nella nostra regione, con qualche piccola “divagazione”. Negli ultimi dieci anni da queste parti, cultura e turismo hanno vissuto un ottimo momento. Grazie ad alcune scelte pubbliche e all’impegno delle associazioni e delle imprese del “distretto creativo”, realtà come le nostre (e sono davvero tante) non sarebbero cresciute».
La prima copertina è dedicata al cantautore romano Daniele Silvestri che nel Salento ha registrato parte del suo nuovo disco “Acrobati” (tra lo studio di Roy Paci e la Masseria Ospitale), ha girato il videoclip del singolo “Quali Alibi” (la foto di Daniele Coricciati è stata scattata sul set diretto da Fernando Luceri e prodotto dagli amici della Passo Uno) e tornerà con il nuovo tour teatrale (appuntamento il 23 marzo al Teatro Politeama Greco di Lecce). Oltre al mensile cartaceo Coolclub.it è anche un sito (completamente rinnovato grazie alla collaborazione con il giovanissimo Antonio Scarnera) con altri contenuti, interviste, novità discografiche e videoclip. www.coolclub.it

CINEMA (visti per voi):

“LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT” un film di Gabriele Mainetti.

Quando la ‘poesia’ finisce nella discarica sociale è forse giunto il momento della rinascita culturale di una frangia umana nel compimento del proprio degrado e nello scoramento che l’ha portata alla deflagrazione ultima della propria esistenza ... Così ci si sente quando seduti comodi in poltrona nell’accogliente sala cinematografica prendiamo visione della surreale pellicola di Gabriele Mainetti, e ci accorgiamo che il cinema italiano, ha finalmente lasciato i vecchi schemi gogliardici per un film d’azione all’altezza della migliore produzione internazionale. E sì, perché finalmente abbiamo compreso, o almeno il regista sembra aver identificato quello ‘sprint’ che l’attualità richiede per stare al passo coi tempi. Non nuovissimo per originalità, in quanto prende le mosse dalla serie ‘Banlieue’ girata nella periferia di Parigi, pur tuttavia in Jeeg Robot è inserita quella ‘vena poetica’ che i cugini francesi non hanno e che personalmente mi ostino a reclamare in quanto umanità ferita, in ragione di una sensibilità che aggiunge alla pellicola, tutta ‘al negativo’, quel pizzico di ‘positività’ illuminante che tutto accoglie e trasforma, finanche all’interno della discarica sociale, lì dove l’umana presenza ha superato lo stadio di decomposizione per rinascere a nuova vita. Nel film è la scintilla rigeneratrice di Jeeg Robot (titolo di un famoso cartoon giapponese degli anni ‘80/’90) che, per così dire, ‘riscatta dalla realtà’ Enzo Ceccotti, il protagonista di questa storia surreale, trasformando la sua crudeltà senza ragione in una ‘realtà’ umana e spirituale che s’avvale della maschera, appunto quella di Jeeg Robot che, nell’idealizzazione antropica vince il male.
“Enzo Ceccotti non è nessuno, vive a Tor Bella Monaca e sbarca il lunario con piccoli furti sperando di non essere preso. Un giorno, proprio mentre scappa dalla polizia, si tuffa nel Tevere per nascondersi e cade per errore in un barile di materiale radioattivo. Ne uscirà completamente ricoperto di non si sa cosa, barcollante e mezzo morto. In compenso il giorno dopo però si risveglia dotato di forza e resistenza sovraumane ... » (pres. Mymovies.it) A momenti violento se non addirittura caustico, il film rottama tutti gli stereotipi generazionali con il cinismo e la crudeltà necessari per ricominciare a 'ragionare' su una nuova formula di società che tiene conto dell'alienazione contratta metropolitana dei perché senza risposta: dell'allontanamento sociale dei giovani dalla realtà, delle differenze di genere, delle classi che vanno abbattute, della segregazione nei ghetti abitativi. Insomma di quella fetta di 'proletariato' stufo di esserlo che reclama di vivere una 'vita' più autentica, magari fantastica, ma nel migliore dei mondi possibili. Tutti bravi 'a dir poco' gli interpreti, a cominciare dagli straordinari Claudio Santamaria (Enzo Ceccotti / Jeeg Robot), e Luca Marinelli (lo Zingaro), all’eccezionale quanto credibilissima Ilenia Pastorelli, e tutti gli altri come Stefano Ambrogi, Maurizio Tesei impegnati nelle seconde parti e degni di almeno un premio. Non possono qui mancare i miei personali complimenti alla regia (da Oscar) di Gabriele Mainetti, giovane regista, compositore e produttore cinematografico al suo primo lungometraggio, per aver centrato al primo colpo e con maestria, una tematica ostica che, nel suo genere, rapporta il cinema italiano alla grande kermesse internazionale.

“FUOCOAMMARE” un film/documentario di Gianfranco Rosi che ha vinto l'Orso d'Oro alla Berlinale 2016.
Nel suo viaggio intorno al mondo per raccontare persone e luoghi invisibili ai più, dopo l’India dei barcaioli (Boatman), il deserto americano dei drop-out (Below Sea Level), il Messico dei killer del narcotraffico (El Sicario, room 164), la Roma del Grande Raccordo Anulare (Sacro Gra), Gianfranco Rosi è andato a Lampedusa, nell’epicentro del clamore mediatico, per cercare, laddove sembrerebbe non esserci più, l’invisibile e le sue storie. Seguendo il suo metodo di totale immersione, Rosi si è trasferito per più di un anno sull’isola facendo esperienza di cosa vuol dire vivere sul confine più simbolico d’Europa raccontando i diversi destini di chi sull’isola ci abita da sempre, i lampedusani, e chi ci arriva per andare altrove, i migranti. Da questa immersione è nato Fuocoammare. Racconta di Samuele che ha 12 anni, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia. Gli piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla del mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola. Ma non è un’isola come le altre, è Lampedusa, approdo negli ultimi 20 anni di migliaia di migranti in cerca di libertà. Samuele e i lampedusani sono i testimoni a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi.
“Fuocoammare si affaccia sulla porta per l’Occidente”, articolo di Camillo De Marco, per gentile concessione di Cineuropa alla redazione di larecherche.it
BERLINO 16/02/2016: Il regista Gianfranco Rosi, Leone d’Oro a Venezia con Sacro GRA, si è stabilito per più di un anno sull’isola di Lampedusa per girare il suo nuovo documentario. Facile ricevere così tanti applausi dalla platea della Berlinale con un documentario su un argomento, l’immigrazione, che sta spaccando in due l’Europa. Eppure Fuocoammare, in concorso al festival, sembra aver scaldato cuori e occhi soprattutto per come è realizzato. Sottile, asciutto, ma di respiro ampio, con la passione richiesta per affrontare questa immane tragedia ma la distanza necessaria per fissare lo sguardo senza le trappole della compassione. Lampedusa, come recita il laconico e spietato cartello che apre il film, è un’isola nel Mediterraneo che misura 20 km quadrati e 6mila abitanti. Dista 113 km dall’Africa e 205 dalla Sicilia. In vent’anni hanno tentato di sbarcare sulle sue spiagge 400mila migranti. 15mila sono morti nel tentativo. Il regista Gianfranco Rosi, Leone d’Oro a Venezia con Sacro GRA, si è stabilito per più di un anno su quest’isola per girare il suo nuovo documentario. Fuocoammare si apre su un bambino di 12 anni, Samuele, figlio di pescatori, ripreso mentre si costruisce una fionda con un ramo di pino marittimo che sbuca da un terreno aspro e roccioso. La natura dell’isola sarà un elemento dominante nel film.
Le rocce a picco sul mare, le onde minacciose sopra un’acqua purissima e profonda, le improvvise burrasche annunciate dai tuoni, un cielo azzurrissimo che diventa nero. Dopo avere introdotto il piccolo protagonista, Rosi ci assesta subito il primo pugno nello stomaco, e lo fa senza ricorrere alle immagini. Sulla radio di una nave della Marina italiana un uomo sta gridando: “Please please help us, we are sinking!”. Nel corso del film Rosi spesso opterà per una mediazione dello sguardo, lasciandoci osservare attraverso monitor militari, specchi, oblò bagnati e incrostati di salsedine. Ma negli ultimi minuti non ci risparmierà una visione totalizzante e dolorosa di morte nella stiva di un barcone. Sulla terraferma scorre intanto un piano narrativo parallelo: l’anziana zia Maria detta le sue dediche al dj di una stazione radiofonica locale; un pescatore si immerge con la muta per pescare ricci e patelle; Maria, la nonna di Samuele, si dedica al cucito e racconta al nipote vecchie storie di mare. I migranti, quelli che ce l’hanno fatta e sono in attesa, organizzano tornei di calcio.
Siria contro Eritrea, perché Somalia e Libia sono state già eliminate. Sembrerebbe solo un altro ‘perfect day’. Samuele va a scuola, gioca, non entra mai in contatto con quel mondo di disperazione, che gli scorre accanto. Ma allora perché quell’improvvisa difficoltà a respirare che lo prende di tanto in tanto, e lo costringe ad andare dal medico? Il medico, il dottor Pietro Bartolo, quello che da vent’anni cura le ustioni chimiche da carburante dei migranti, la disidratazione, che fa nascere i bambini delle donne africane appena sbarcate, che i bambini spesso è costretto a seppellirli. “Odio fare le autopsie. Ne ho fatte troppe. Ho gli incubi”, confessa. “Ma è dovere di ogni uomo, che sia un uomo, aiutare queste persone”. Rosi, dopo aver descritto gli universi chiusi dei drop-out del deserto americano di Below Sea Level e dei ‘freaks’ del Grande Raccordo Anulare di Roma, è andato dritto al cuore di una grande comunità fantasma che si affaccia sulla porta dell’Occidente, sul confine più simbolico d’Europa. Un film che va mostrato a studenti e parlamentari europei.

(Vedi anche l'indirizzo larecherche.it l'intervista di Vittoria Scarpa a Gianfranco Rosi regista del film, per gentile concessione di Cineuropa.)


NEWS FROM CINEUROPA 16/03/2016
In Alto Adige l’esordio di Andrea De Sica con “I figli della notte” di Camillo De Marco.
Unico italiano scelto nell’ultima sessione Eurimages, il film coprodotto da Vivo Film con la belga Tarantula. Unico italiano scelto nell’ultima sessione Eurimages per il sostegno alle coproduzioni ‘I figli della notte’ è il film d’esordio di Andrea De Sica, che ha battuto il primo ciak il 7 marzo scorso a Dobbiaco in Alto Adige. Andrea - nipote del grande Vittorio De Sica e figlio di Manuel, musicista autore di colonne sonore - ha lavorato al fianco di Bernardo Bertolucci, Ferzan Ozpetek e Vincenzo Marra dopo essersi formato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e prodotto da Vivo Film di Gregorio Paonessa e Marta Donzelli con Rai Cinema, in coproduzione con la belga Tarantula e con il contributo del MiBACT e Eurimages e il sostegno di IDM – Film Fund & Commission dell’Alto Adige. Il film narra la storia di Giulio (Vincenzo Crea), un ragazzo 17enne che riesce a sopravvivere alla solitudine e alla dura disciplina di un collegio per rampolli dell’alta società grazie all’amicizia con Edoardo (Ludovico Succio), un altro ospite del collegio. I due diventano inseparabili e iniziano ad architettare fughe notturne dalla scuola-prigione. Completano il cast principale Fabrizio Rongione nel ruolo dell’educatore Mathias e Yuliia Sobol. La location scelta dalla produzione per le riprese è il Grand Hotel Dobbiaco, un’antica struttura in stile asburgico che entrò in servizio come albergo nel 1878 ed è oggi diventato un Centro Culturale. Le riprese dureranno 4 settimane, interamente in Alto Adige. Nato da una idea originale di Andrea De Sica ‘I figli della notte’ è scritto dallo stesso Andrea con Mariano Di Nardo in collaborazione con Gloria Malatesta e prevede alla fotografia Stefano Falivene, con le scene di Dimitri Capuani, i costumi di Sabine Zappitelli e il montaggio di Alberto Masi.

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Ancora per il ‘teatro e musica’ suggerisco “FRAMMENTO” di e con Marco Colonna (clarinetti) e Natasha Daunizeau (voce-recitante).

La sera è quella della ‘prima’, vi assisto incuriosito di poter trovare in un ‘recitativo in musica’ una qualche originalità, forse solo perché è un genere che non ha avuto il tempo di logorarsi in quanto ha goduto di vita breve, in ragione di non aver mai davvero riempito gli spazi e i tempi propri del teatro, essendo un genere più adatto ai salotti della ‘bonne societé’ aulica e colta, con la puzza sotto al naso, che oggi, giustamente, non ha più ragione d’essere. Un genere quindi scomparso dalla scena pubblica da parecchio tempo, che solo in tempi più recenti ha fatto una qualche sporadica apparizione grazie al ridimensionamento degli spazi teatrali e comunque per la rilevante scarsa affluenza di pubblico ormai disinteressato a qualunque cosa. Trattasi pur sempre di un pubblico comunque avaro di eccitabilità, che rigetta le lungaggini di testi polverosi che hanno fatto il loro tempo, per rivolgersi a spettacoli più diretti che, a una obsoleta macchinazione teatrale preferiscono la dinamicità degli intenti, ai dialoghi concettuosi la ‘liquidità’ di contenuti che più si adattano al rinnovato temperamento di ‘consumatori della scena’, in cui le immagini in movimento e il freddo nichilismo la fanno da padroni.
L’ambientazione è per l’appunto quella sopra delineata, la cantina-pub-ritrovo è il 28DiVinoJazz nascosta in una via secondaria della sterminata ed eterna Roma che, proprio in ragione di questa sua immensità riesce ad occultare non poche e pregevoli sorprese a chi è alla ricerca di ‘autenticità’. E che sia in fatto di musica, sia di intrattenimento culturale, la ‘vinerie’ al 21 di Via Mirandola benché distante dal centro della movida cittadina, non viene dopo nessun’altra. I due owner, Natacha Daunizeau e il suo compagno Marc Reynaud che animano con passione e abnegazione il Jazz Club più amato d’Italia, come risulta dalla classifica Jazzit Award, al tempo stesso entrambi invischiati nella musica e nel teatro, ben sanno il fatto loro e accolgono ogni singolo avventore con il calore che solitamente si riserva agli ‘amici’. L’ambiente è angusto (per questo si richiede la prenotazione) ma ospitale; la scenografia essenziale presenta un drappo nero a simulare il buio, un tronco d’albero spoglio dove appendere un lume, e una luna piena ‘quella degli innamorati e dei disperati’ che aspettano la notte ... e che puntualmente arriva all’ora stabilita, con l’abbassarsi delle luci.

‘Lei' (Natasha Daunizeau), arriva attraverso il parco (dei tavolini e degli avventori) nelle vesti di aviatrice, con in mano un lume e una sacca in spalla, guarda davanti a sé e incomincia a camminare, quindi affretta il passo correndo in cerca di una meta che non c’è, che non ha ragione d’essere, dando così inizio al racconto … ‘come dentro una bolla’ - dirà. No, è solo un ‘frammento’ di vita, l’esplosione di uno specchio andato in frantumi nella fatica di emergere nel marasma della globalizzazione, in cui ogni piccolo pezzo riflette una parte di sé, una ‘realtà’ propria, autentica, vissuta fin nella trama del tessuto che ne ricopre il corpo. ‘Lei’, donna, amante, madre, ancor prima è femmina, per quella sorta di divinità che tutta la investe e la stravolge nel momento in cui è partecipe della ‘creazione’, nell’illusoria ‘verità’ del testo scabro quanto essenziale, paragonabile alla figura stessa dell’interprete, lascia basiti, immobilizza, perché scava profondamente in ciò che non si è mai voluto affrontare della insostenibilità dell’essere. Per quanto avvolta della sua ansietà di vivere ‘Lei’, abbandonati i panni di chi s’era organizzata per un lungo ‘viaggio senza fine’, si spoglia, fa il suo ingresso in società, per poi, spaventata, riprendere la corsa, quella che era ed è una fuga dalla realtà, per ritrovarsi infine sulla strada, a piedi nudi, insieme a tutti noi … che prendiamo a correre insieme a 'Lei'. Per andare dove? Per raggiungere chi? Per appropriarci di cosa? – sembra chiedersi e chiederci l’autore Marco Colonna. ‘Lei’ sa, ognuno di noi lo sa, stiamo fuggendo verso un domani che non ha fine.

Marco Colonna, jazzista, pluristrumentista, arrangiatore, compositore, è l’autore di questo testo travolgente che la bravissima Natasha Daunizeau, credibilissima nella parte di ‘Lei’, ha recitato con pieno senso della scansione vocale e gestuale, in cui la musica ‘concerta con la parola e diventa parola essa stessa’, dando luogo a quella formula alchemica che è all’origine del ‘teatro totale’, di quel fare teatro che ben conoscevano i greci, allorché fondarono l’istituzione dell’intrattenimento corale, appunto del ‘recitativo in musica’ che qui, intuitivamente, si vuole riscoprire. Già dagli accordi iniziali improntati al clarinetto era intuibile ciò che l’autore aveva intenzionalmente preparato per l’occasione, il suono fuoriusciva ‘neutro’ dallo strumento, asciutto ma non scarno, essenziale, avulso da qualsiasi scala musicale da sembrare quasi primitivo, tuttavia con una gamma di toni e suoni atipici da riempire tutto lo spazio attorno, i vuoti e le pause, l’andamento ora lento ora più concitato del testo. Quello che è seguito è inimmaginabile, Marco Colonna ha rivelato tutto il suo essere egli stesso ‘musica’: l’insieme degli strumenti a fiato e seconda voce recitante, un connubio tangibile, clamoroso di effetti che si rincorrono, ora anticipando l’affanno di ‘Lei’ nella corsa fin quando, placatasi, le fornisce il suono lungo della riflessione, dell’andatura piana e del riposo nella sosta.

La chiave di tutto questo è indubbiamente il Jazz, per il suo rincorrersi dei suoni, gli allacci verbali, l’uso lirico delle note lunghe, dei fiati trattenuti, delle pause. Un uso creativo magistralmente dei fiati nel jazz che Marco Colonna ha promesso di rivelarmi, seppure fosse lo svelare di un segreto nel corso di un’intervista prossima che non mancherò di pubblicare sulla rivista che mi ospita – larecherche.it – e che, di volta in volta mi offre lo spunto per ripercorrere tutte le strade possibili della musica e della poesia. Di per sé, è forse già questo il segreto che vorrei Marco Colonna mi svelasse e sul quale intendo soffermarmi, e che a mio avviso è intrinseco di quella stessa poesia che si è rivelata essere la cifra eleggibile del suo testo e della sua musica; quell’amore sconfessato per la donna in tutte le sue metamorfosi simbiotiche, l’essere la donna paritaria alla musica, in quanto contenitore di tutto ciò che ne concerne. Quella musica che nella mitologia popolare pur nasce dal ventre femminile, e che egli sembra vivere in sé con enfasi primordiale, estrapolandone i suoni più angusti, quasi un preludio al cambiare delle stagioni: dall’annuncio della primavera al susseguirsi delle altre stagioni, fino all’arrivo dell’inverno, l’ultima, estrema … ‘..di nostra morte corporale’.

Si replica al 28Divino Jazz - Via Mirandola, 21 - 00182 Roma Produzione Marc Reynaud, www.28divino.com. – 340.8249718 dopo le 16.00.
IN CONCLUSIONE

Non vorrei ammetterlo, ma credo di aver smarrito il filo. Se non erro siamo partiti dall’uovo di cioccolato dopo aver parafrasato sull’uovo univesale (?); sulla musica delle sfere (che non sono ovali), sui caratteri tradizionali della festività alle porte, (che racchiude come in un cerchio, questa volta sì ovale le feste calendariali); sulla rinascita della natura a primavera, nonché sulla rigenerazione della vita … No, non mi pare ci fosse dell’altro, anche perché mi sono dilungato abbastanza su aspetti non sempre consoni alla tematica di fondo, e cioè la Pasqua e sul mistero teologico della ‘resurrezione’, la cui accezione più estrema volge a significare ‘recupero’ e ‘reintegrazione’, vediamo di trovarci d’accordo nel condannare ogni forma di discriminazione di genere, che sia razziale o di diversa comunione, di sesso o di scelte politiche, nell’unico modo possibile per mettere fine alle guerre fratricide, alla fame nel mondo, alla salvaguardia di questo meraviglioso pianeta che ci è donato.

Con questi propositi nel cuore, lascio volentieri la parola all’Enciclica “Pacem in Terris” (1963) di P.P. GIOVANNI XXIII° , in cui è detto:

“Ogni essere umano ha diritto alla libertà di movimento e di dimora all’interno della comunità sociale e politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consigliano, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi con esse. Per il fatto di essere cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana; e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale”.

Felice Pasqua a Tutti.


*

- Libri

L’uovo di cioccolata

‘L’UOVO DI CIOCCOLATA’:

Eventi, Libri, Magazine, Cinema, Viaggi ed altro …

 

La Pasqua è alle porte ed è un giorno di festa che solitamente va rispettato secondo la tradizione ma che quest’anno, in modo particolare, si rifà allo speciale ‘Giubileo della misericordia’, voluto da Papa Francesco. Un ‘evento’ che si riconferma pregno di spiritualità e devozione per tutti i cristiani nel mondo che in questo periodo in gran numero trovano nella Settimana Santa il proprio momento di redenzione. Con il suo libro “La Chiesa della Misericordia” (San Paolo Ed. 2014), Papa Francesco si rivolge a ogni uomo e donna del pianeta in un dialogo semplice, intimo e personale. La sintesi del suo magistero è raccolta in questa intervista, arricchita dal racconto della sua vita e delle vicende di tante persone incontrate lungo il cammino. Papa Francesco è oggi il volto di una Chiesa che non giudica, che non rinfaccia le fragilità e gli errori, ma che accoglie sempre: “Il nome di Dio è misericordia” (la Feltrinelli 2015) ci ricorda e la misericordia è il volto del suo pontificato.

«Nell’eclissi del sacro alcuni sociologi hanno individuato una delle caratteristiche della cultura contemporanea – scrive Vincenzo Bo in “La religione sommersa” (Rizzoli 1986) – I computer, una tecnologia altamente sofisticata, l’industria, le macchine, l’esigenza di soddisfare sempre più i bisogni materiali spingerebbero gli uomini d’oggi ad avere un rapporto con la realtà essenzialmente razionale, dove tutto viene spiegato in termini di progresso della scienza e della tecnnica. Ma è altrettanto vero che esistono (e sono sempre esistiti) bisogni non materiali che il godimento di sempre maggiori beni di consumo non riesce a soddisfare, anche se la cultura industriale li ha spinti ai margini, svalutati, soffocati, bollati col ridicolo. Di questi bisognidi spiegazioni trascendenti emergono oggi tracce impensate e sempre trascurate nel loro significato umano: i riti che seguono lo scandire delle stagioni, i miti ancestrali, le credenze religiose. Tutti sintomi di una tensione verso il sacro che il cristianesimo ha storicamente individuato e sempre incanalato nei simboli di una religiosità autentica che indicano la presenza viva nella società contemporanea di una tensione verso una rinascita del sacro nei termini e nelle parole che l’umanità intera, per secoli, ha usato nei momenti fondamentali della vita.»

All’occorrenza la seguente “Meditazione di Don Luciano” (cfr. dell’autore), afferente al Vangelo della Domenica, III di Quaresima, si offre al lettore nella ‘parabola del fico’ che, se da una parte manifesta la misericordia di Dio, che ha pazienza e lascia all’uomo, (a tutti noi indistintamente), un tempo per la conver-sione; dall’altra, avvverte la necessità di avviare subito un certo cambiamento inte-riore ed esteriore della vita, per non perdere le tante occasioni che la miseri-cordia di Dio ci offre per superare la nostra pigrizia spirituale e corri-spondere al suo amore con il nostro amore filiale:

«Convertirsi però è anche portare frutto, per altri. Come il fico, se vive solo per sé, non vive. Che per vivere deve dare, per la fame e la gioia di altri, un frutto che permetta ancora, ad altri, di gustare e amare la vita: Nessun uomo taglia subito un albero quando si accorge che è entrato in crisi, ma cerca di guarirlo con cura paziente, così da riportarlo nella pienezza della vita. Se tu, Signore, seguissi i nostri stessi impulsi, che ci portano ad eliminare gli operatori di iniquità, tutti e subito, il mondo sarebbe già rimasto un vuoto deserto. Tu sei l’eterno paziente e sai aspettare a lungo la conversione dei peccatori, e non hai fretta di condannare. Donaci, Signore, un cuore misericordioso, come il tuo, perché la storia dà sempre ragione non ai giustizieri impulsivi, ma ai pazienti: questi hanno imparato che perfino una pianta nata storta, con un po’ di tempo volge la sua cima verso il cielo. Amen.»

Acciò, in l’occasione delle festività della Pasqua, propongo quest’anno un salto nel cuore del Mediterraneo, a Malta per i festeggiamenti della Settimana Santa, con inizio il ‘venerdì di passione’ precedente il cosiddetto ‘triduo pasquale’, del Venerdì Santo, allorché la statua della Madonna Addolorata viene portata in processione per le strade de La Valletta e di molti altri villaggi e città.

«In questo periodo un gran numero di Maltesi si raduna nelle chiese fin dal Giovedì Santo e si tengono le ‘sette visite’, ovvero le visite alle sette chiese che rendono omaggio agli Altari della Pace. Il Venerdì Santo è invece una giornata austera e funerea, in quanto le chiese vengono spogliate delle loro tradizionali decorazioni ornamentali. Al loro posto domina il colore rosso, simbolo del sangue di Cristo. Tutto, però, si trasforma completamente il giorno successivo quando le campane suonano a distesa rompendo il silenzio della notte per annunciare la Resurrezione del Cristo. Nella Domenica di Pasqua, a metà mattinata, tra le strade adiacenti la chiesa si snoda una processione che porta in trionfo la statua del Cristo risorto. Al termine della processione le strade vengono sgombrate e i portantini fanno una corsa per riportare il Cristo risorto nella chiesa in cui la statua è conservata». (da ‘Visit Malta’ opuscolo di viaggio).

«Qui a Malta, come a Gozo e Comino, le tre isole che compongono l’arcipelago ‘perla del Mediterraneo’, molte sono le citta' e i villaggi che organizzano le processioni del Venerdi Santo. Una di queste si svolge nella citta' del Zejtun (Citta' Beland) , indubbiamente una delle piu' partecipate. Lunga quasi 2 kilometri, la processione serpeggia per le vie della citta' fino a tarda notte in cui si assiste alla sfilata di tredici grandi ‘statue’ che riportano a episodi della passione, accompagnate da tipiche bande musicali formate in prevalenza da strumenti a fiato che sfilano al suono di ‘marce funebri’, ‘musiche sacre’ e ‘responsori’ vari di autori maltesi con qualche influenza italiana e siciliana, vista la vicinanza.

La più nota di queste, infatti, si chiama Filarmonica Beland, la quarta banda di Malta fondata nel 1860 dalla famiglia Diacono originari di Livorno. Non mancano però momenti di puro divertimento popolare durante le soste della processione, quando la banda suona il ‘valzer’ che qui è sinonimo di Pasqua, in quanto eseguito come momento di gioia per la vicina ‘resurrezione’.» (per gentile concessione di Maya Francione - Marketing and communication executive Malta Tourism Authority).

L’occasione della festa segna anche il momento giusto per staccare la spina nel rispetto del detto popolare: ‘Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi’, e che segna un’occasione imperdibile per partire e far visita agli amici di sempre sparsi un po’ dovunque, e l’occasione di farne dei nuovi in giro per il mondo. Magari, e perché no, godere dell’aria di questo nostro Mare Mediterraneo nei primi giorni di primavera. Scopri dunque le mete che più preferisci e organizza il tuo viaggio, scegli l’offerta giusta e preparati a partire:

Eolie, Tremiti, Lampedusa, Sicilia, Sardegna, Barcellona, o le tantissime Isole Greche se si è propensi per le località marittime. Altrimenti si può scegliere fra numerosi ‘luoghi’ montanari: Ovindoli, Campo Imperatore, Campo Felice, Terminillo, Monte Piselli, Campitello Matese per sciare nelle località del centro Italia. L’alta montagna chiama però altri luoghi che si stemperano al sole nelle valli e sulle cime delle Dolomiti, in Trentino Alto Adige e Sud-Tirolo dove, oltre a sciare, si possono vivere vacanze davvero diverse, scegliendo ad esempio, l’agriturismo altoatesino fra osterie contadine, ‘masi’, artigianato locale, prodotti di qualità proprie del territorio, selezionati e certificati dall’Unione Agricoltori e Coltivatori Diretti Sudtirolesi sotto l’egida del Gallo Rosso, e godere di un’ospitalità cordiale nel bel mezzo di paesaggi naturali e culturali unici.

Si dice anche che ‘viaggiare significa dimenticarsi da dove si viene e non sapere dove si va’ ma è una falsa prospettiva per chi invece si rifà alla conoscenza come momento acculturante della propria esistenza. Allora una corretta informazione diventa necessaria, ma la si può facilmente trovare nelle numerose ‘guide’ apposite, distinte per località e soluzioni diverse che riguardino l’arte, il folklore, la salute, le mostre, i concerti di musica, le manifestazioni popolari ecc. Esiste un calendario estremamente curato di tutte le ‘feste’ in giro per l’Italia. Altri, come Franco Cardini, il noto storico e saggista italiano, specializzato sul Medioevo ha affidato al turista più dilingente un messaggio che assolutamente non possiamo eludere: «..nelle mie intenzioni – e nelle mie speranze – l’ideale sarebbe che prima di partire lasciaste da parte libri, guide e mappe e vi affidaste fiduciosamente al vostro intuito.» Cioè a quello ‘spirito del viaggio’ che gli ha permesso di scoprire (o forse di riscoprire) città come “Gerusalemme” (2012) e “Istanbul” (2014), titoli omonimi di due suoi libri / guida editi per il Mulino) che ha fatto sue; ma che nel rivolgersi a noi aggiunge: «Non pretendo che diventino anche ‘vostre’, mi basterebbe che quanto leggete almeno vi aiuti a trovarle.»

Si vuole che la scelta di un viaggio rispecchi in qualche modo una scelta di vita effettuata in un ‘tempo sospeso’ in cui “Il grande racconto delle stelle” di Piero Boitani (Il Mulino 2012) illumina il nostro cosmico stupore per il creato, per quel nostro sognare dediti alla vasta solitudine dei poeti ‘…vaghe stelle dell’orsa’: «Tutti gli esseri umani per natura amano guardare il cielo stellato. Lo considerano uno degli spettacoli più belli e commoventi che si possano contemplare, (alla ricerca di una qualche verità nascosta), e in effetti l’osservano estasiati da migliaia e migliaia di anni, forse da quando la specie si è eretta sulle due gambe. (..) Filosofia , ecienza e poesia provengono dal medesimo impulso, la meraviglia (lo stupore): è una fede che condividono, millenni dopo, il persiano al-Quazwini, Dante, Kant ed Einstein (..) quanto poeti, pittori, architetti e musicisti davanti alle stelle attraversdo i secoli e i continenti del nostro pianeta. Esiste una ‘poesia del cosmo’ alla quale gli artisti e gli scienziati hanno dato voce nelle loro opere. L’architetto che costruisce una cupola (pagana, cristiana, islamica, cinese), o la volta di una chiesa o di un palazzo, lo fa spesso con l’idea di dare forma umana, palpabile, alla cupola del cielo.» (dalla prefazione del libro).

Dobbiamo però a Umberto Eco, che prima di lasciarci ha dedicato a tutti coloro che non l’hanno mai espresso (o che forse hanno fatto più di altri), l’aver aperto un varco verso il desiderio (spesso incoffessato) di conoscere tutto il bello (o il brutto dipende) del mondo e che, in quanto a viaggiare, hanno riposto nella fantasia quel tanto di meraviglioso che pure c’è nella suggestione narrativa di cui egli è stato il numinoso interprete. Nei suoi libri infatti tutto è lasciato all’immaginazione letteraria e al viaggio, perché leggerlo è sempre stato per tutti noi come intraprendere una sorta di viaggio, seppure alla stregua di un despota che si chiama autore.

Credo non ci sia nessuno (di noi lettori) che, leggendo i suoi ‘mirabolanti ’ libri, in fine non abbia ammesso di aver intrapreso un viaggio attraverso il mondo conosciuto e quello forse più sconosciuto in luoghi che ben presto sono divenuti ‘reali’. E chissà che non lo fossero davvero, perché il filosofo, medievalista, semiologo, massmediologo, saggista e romanziere li ha attraversati (vissuti) tutti nella ‘sua’ realtà di scrittore. Il riferimento non è casuale, cito qui: “Storia delle Terre e dei Luoghi leggendari” (Bompiani 2015). Ed è sempre come andare incontro a quel “Pape Satàn Aleppe”, titolo del suo ultimo libro (La Nave di Teseo 2016), che la dice lunga sul senso del ‘suo e nostro’ viaggiare alla deriva della realtà dentro la 'cronaca dei quella società liquida' già individuata da Zigmunt Bauman, e che la curiosità di Eco, ha spesso trasferito nell’ironica, impertinente raccolta delle "Bustine di Minerva" con indicazioni e considerazioni sulla particolare situazione della quotidianità, ricca di riflessioni pungenti e istruzioni per situazioni singolari, talvolta al limite del paradossale.

Una guida, se vogliamo, divertita e divertente, che ci permette di affrontare con la giusta disinvoltura, le consuetudini e le inconsuetudini dei nostri giorni”. A proposito del suo ultimissimo libro "Come viaggiare con un salmone" (La Nave di Teseo 2016)  – scrive Mauro Bonazzi in ‘Il dibattito delle idee’ (La lettura – Corriere della Sera 28 febb. 2016): «Il rapporto tra mondo reale e immaginazione è tale ormai da farci dire che il progresso infrange ogni limite tra possibile e impossibile che si protende verso l’ignoto (..) come può esserlo l’inizio di ogni viaggio che si spinga a solcare gli spazi immensi dell’universo. E non si tratta qui solo di luoghi geografici, perché ancora più audaci sono i viaggi della conoscenza, verso i luoghi misteriosi dell’infinitamente piccolo (o infinitamente grande dipende), dagli atomi della genetica, rovesciando pregiudizi, superstizioni, luoghi comuni.»

E quelli dentro la natura umana del cervello in cui si identificano le ragioni per cui ‘siamo ciò che siamo’. Ma chi dunque siamo? Sempre più difficile rispondere a questa domanda che s’inerpica ‘fuori controllo’ sulla collina prima di svelarci il mistero/musicale dell’infinito leopardiano: «In ogni sua poesia echeggia una musica inesprimibile con le parole, quella facoltà misteriosa che gli consente di far nascere sotto i nostri occhi qualcosa che non conoscevamo,la luce della luna.» (“Leopardi” di Pietro Citati – Mondadori 2010). Se è vero che l’età adulta è un’invenzione (e neanche tanto bella) a chi attribuirne la colpa? Andrea Vitali, nella quiete apparente dei suoi gradevolissimi romanzi: “Di impossibile non c’è niente” e “Un bel romanzo d’amore” (entrambi editi da la Feltrinelli 2014) lascia intravedere un ‘mondo di straordinaria normalità’ che spesso sorprende e diverte pur rammentandoci che siamo qui solo di passaggio e che, forse, contiamo solo per quello che siamo. «Le cose normali sono belle, e bello è sapere che dopo l’estate viene l’autunno, dopo la domenica viene il lunedì, che si nasce, si cresce e si va a scuola. Ma la troppa normalità e l’abitudine rischiano di avvolgere il mondo nell’indifferenza – una nebbia dove più nessuno si accorge della meravigliosa diversità che palpita attorno a noi: colori, sapori, profumi, emozioni.»

Tanto basta per apprezzare il suo nuovo romanzo ‘per ragazzi’ (ma non tanto) “Nel mio paese è successo un fatto strano”, (Salani Editore 2016), il divertimento unito al piacere della sua scrittura è quantomeno assicurato. Daniele Piccini, giornalista, (in ‘Metamorfosi’ - La lettura - Corriere della Sera 2015), nella recensione di “Della mutabilità”, un libro di poesie della Jo Shapcott (Del Vecchio Editore 2015), rassicura che «..La parola per un poeta è stratificazione: facendo i conti non solo con i propri fantasmi ma con l’opera complessiva dei predecessori, il poeta lavora (espressione orrenda) su un linguaggio che si trasforma. Ognuno degli anelli della tradizione può riattivarsi, ma cambiando senso (..) come trama da ritessere continuamente, come testo da riscrivere. Si tratta di calarsi dentro la lingua come un organismo e di entrare così dentro la stessa macchina naturale».

Ora non che sia tutto proprio chiarissimo però, (c’è sempre un però come c’è sempre un perché), egli dice: «È come tentare una biologia in versi, la captazione della vita dell’altro, ad esempio dell’albero; (dell’albero?). Sì, la poetessa inglese dev’esserci riuscita proprio al meglio se in seguito il giornalista Piccini nel suo articolo ‘C’è qualcuno che vuole uscire dal tronco’ riporta il brano che lo dimostrerebbe: “È del tutto naturale pensare che l’ulivo / parli, che siano bocche / che cantano, urlano, perfino nei suoi squarci / e non puoi non vedere una figura / avvinta al tronco o che lotta per uscirne”. Così la parola partecipa di un processo: si inabissa nella mutevolezza, nell’instabilità del mondo, seguendo una percezione non-linguistica (snti-language), che poi si converte in suono, in coscienza. Si tratta di arrivare alla “lingua più luminosa di ogni probabilità, / più luminosa di ogni probabilità, / più luminosa di erica, bacche e pietrisco”. A questo scopo la stratificazione della memoria poetica è continuamente sollecitata, così come valgono i suggerimenti di altri linguaggi: occorre attraversare confini, margini di territori e di lingua per imparare che “si potrebbe semplicemente lasciare entrare l’altro o setacciare ogni detrito sospinto a riva”.»

Vero, ma si può anche non essere d’accordo, la poesia richiede impegno (e che impegno se le altre suonano tutte su queste stesse note!). Il giorno di Pasqua viene tradizionalmente celebrato con un pranzo in famiglia ed è un'opportunità per far visita ai parenti e agli amici vicini e lontani, portando loro dei doni. Sempre secondo la tradizione, inoltre, ai bambini vengono regalate uova pasquali di cioccolata e la ‘figolla maltese’ (un impasto ripieno di mandorle e ricoperto di glassa); in Sardegna i ‘sospiri di Ozieri’ della tradizione sarda; le ‘ossa dei morti’ in Calabria e i ‘pani con la croce sopra’ tipici di molte regioni italiane; ‘corone di fascine’, ‘palme intrecciate’ ed altre bellezze floreali facenti parte di recrudescenze arcaico cristiane di cui, volenti o nolenti, ce ne facciamo carico.

Come dire che, nel bene e nel male, in qualche modo (che non saprei dire quale), dobbiamo fare i conti con il divino e quel che ne consegue. Genio del teatro e della letteratura per la quale ha ricevuto il premio Nobel, Dario Fo pur essendo da sempre un ateo militante, neppure lui sa quanto invece con le sue opere offre uno spazio al ‘riscatto del sacro’ (se mai questo ne avesse bisogno), dell’immenso patrimonio proprio della manifestazione popolare. Con in suo ultimo libro “Dario e Dio” (Guanda 2016), scritto in collaborazione con la giornalista del Corriere della Sera Giuseppina Manin, ove: «..traendo spunto per personalissime riletture dei Vangeli e della Bibbia, spesso ironiche e provocatorie, mai blasfeme o irrispettose», decide di tirare le somme di quel suo lungo percorso storico-religioso col quale, a suo modo, da sempre redarguisce il genere umano tutto, credenti e non, regalandoci ogni volta un pizzico del ‘sublime’ della sua arte.

Ma se ‘Cercare l'uovo di Colombo’ può voler dire di dover cercare una soluzione insospettatamente semplice a un problema apparentemente impossibile, quello della ricerca della felicità può non essere sempre un’urgenza ma, indubbiamente, per ognuno di noi è comunque una priorità da non sottovalutare. Mai come in questo caso, visto che si parla di libri, così come di scrittori e di poeti, possiamo anche chiederci, dove cercarla? Soprattutto, dove trovarla?

Necessito qui di dover tornare indietro nel tempo e suggerirvi una prima lettura (o una rilettura) del romanzo di Giorgio Montefoschi “Il sereto dell’estrema felicità” (Rizzoli 2010), che ci regala la storia di un’attrazione profonda e indissolubile: «Del resto cos’altro potrei fare? Me lo domando. Non lo so. Abito in una casa a metà strada fra la chiesa e il porto. Ho due stanze, in una dorma e nell’altra scrivo. Fingendo che neppure il tempo esista, la costa. Niente.»

Ma come si dice ‘..la mente torna’, o forse ritorna, a un altro libro/saggio, questa volta scritto da una donna: Naomi Wolf dal titolo “Il mito della bellezza” (Mondadori 1991); un’escursus un poco provocatorio e appassionato che affronta il mito della bellezza nei suoi aspetti più folgoranti: la cultura, la religione, il sesso, la fame, la violenza, che nessuna donna ‘oggi’ dovrebbe ignorare. L’aneddoto dell’uovo entrato di fatto nella tradizione popolare è diffuso come modo di dire in diverse lingue ma (guarda caso) non si avvale della ricerca dell’amore, perché? Che cercare, dare, offrire l’amore non sarebbe forse la soluzione insospettatamente più semplice a un problema apparentemente impossibile? Certo che lo è! Cosa che senz’altro riguarda quella passione che sempre ci avvolge quando siamo innamorati.

Ma che cos’è la passione? La risposta è contenuta nel romanzo ‘primo’ di Christel Noir “La libreria dei sogni che si avverano” (Corbaccio 2016), e se per caso credete negli angeli, questo libro afferma che esistono davvero, che sono qui tra noi, nelle migliaia di pagine che può contenere una fantastica libreria in cui la felicità, come l’amore, prima o poi arriva «..basta aprire la porta dei sogni, quelli che ci portiamo dentro e che a volte dimentichiamo, per riuscire a riprendersi la rassicurante, calda, intensa libertà dell’anima».

Alla bellezza di questo romanzo mi viene esplicito citarne un altro, si tratta di “Una storia quasi perfetta” della vicentina Mariapia Veladiano (Guanda 2016), una storia d’amore e seduzione segnata dall’originalità e da una scrittura di incisiva eleganza: «Un amore così perfetto, o è solo la storia eterna della vittima e del seduttore?», e già siamo tutti pronti a dire come va a finire quando si entra nel gioco della seduzione, ma, come avverte l’autrice, non sempre le storie sono già scritte dall’inizio, e che da la sensazione di un invito e una sfida per il lettore attento.

Non manca chi a Pasqua, approfittando della convulsa situazione mondiale, vuole guastarsi e guastarci la ‘festa’ facendo del catastrofismo d’uso e all’occorrenza (o forse a ragione) chiama alla responsabilità di quanto, economicamente parlando, incida sul nostro futuro lo spreco alimentare, richiamando l’attenzione a un uso morigerato dello ‘scialacquare’: (una parola questa che in qualche modo si addice a questo periodo più del natale, chissà perché, sarà mica per via dell’acqua santa (?); o ancor meglio per il Vin Santo dove intingere taralli e cantuccini?). O forse, per via del revival delle ‘cucine’ della tradizione che un po’ ovunque per questa occasione vengono riaperte ai sapori nostrani, ai cibi naturali, alle leccornie del cioccolato, delle torte, delle serenate e i balli campestri durante le gite di Pasquetta?

Già, ma pochi ricordano cos’erano le ‘scampagnate’, le trattorie affollate, le code ai caselli autostradali per correre ‘via dalla pazza folla’ (dal titolo di un vecchio film), in cerca di tranquillità, ma che al dunque più spesso significava una full-immersion nel caotico ‘mondo di cuccagna’. All’occorrenza ‘prima di divorarci il pianeta’ – avvisa lo slogan della Barilla Center for Food & Nutricion, in occasione della pubblicazione del libro “Eating Planet: cibo e sostenibilità, costruire il nostro futuro” (Edizioni Ambiente 2016), nell’intento di renderci consapevoli dell’ipersfruttamento delle risorse naturali, sull’impossibilità di affrontare la fame nel mondo quando saremo oltre nove miliardi di persone. Un libro "Eating Planet" che si propone di fonire risposte alle domande che riguardano un futuro che rischia di non esserci: «Saperne di più è il tuo primo contributo per costruire un mondo più sostenibile.»

Sempre meglio che romperci il capo pensando alla prossima ‘fine del mondo’ di cui sembra discutano i nostri cugini francesi che hanno fatto di “2084. La fine del mondo” di Boualem Sansal (Neri Pozza 2015) un caso editoriale da Grand Prix du roman de l’Académie française. Non vi pare? Ma torniamo all’uovo. Se vi chiedessero se è nato prima l’uovo o la gallina (?), cosa rispondereste? Sinceramente non saprei rispondere e visto che siamo in molti (più di quanti possiamo immaginare), dico che neppure il filosofo è in grado di rispondere, se non limitandosi a un silenzio artato, pieno di chiacchiere, per quell’eccesso di parole (dove anch’io da sempre mi barcameno) che ha trasformato il nostro paesaggio percettivo e culturale, diventando sempre più ‘quelli del non ascolto’, ‘quelli che redono di suonare e che invece fanno solo rumore’, come se il divino avesse bisogno dei nostri gesti.

Al contrario la ‘vera’ musica invita al silenzio, come per un ritorno all’ancestrale in cui la melodia delle sfere si connette con lo spirito umano, per cui nessun elemento è concepibile senza la rivelazione di qualcosa di ‘divino’. Lo ha ben compreso Mario Brunello, violoncellista di fama mondiale che nel suo libro “Silenzio” (Il Mulino 2014) e ancor più nel progetto / spettacolo “Bach: Streetview. L’arte della fuga BWV 1080”, (Ottobre 2009 al Palladium di Roma) con le elaborazioni elettroniche di Teho Teardo, con il quale si è voluto risaltare, come in un ingrandimento stradale di un centro abitato, le forme della polivocalità anche strumentale, che rendono sublime e perfetto l’equilibrio ‘architettonico’ e musicale di tutto il creato.

Ciò detto “Silenzio” di Mario Brunello (vedi recensione in larecherche.it) rimane un ‘gioiello’ di libro per i suoi contenuti ‘altisonanti’, passatemi l’aggettivo, poiché si tratta di un libro sulla musica o meglio, sulla poesia della musica che s’annida negli spazi che dividono le parole, di riga in riga a formare un unico pentagramma ricco di notazioni d’autore. Di più, a dare forma a un unico spartito sinfonico, dove incontriamo Bach, Beethoven, Mozart, Schubert, Schoenberg, Hindemit, Cage, Kancheli. Un excursus che dal passato (relativo) giunge fino alla musica contemporanea (relativa all’oggi che sarà il nostro domani). Come pure si rivela assertore di una possibilità d’incontro che - egli dice - “abbraccia confini amplissimi” in cui loscambio inter-musicale con le altre arti e fra le diverse tradizioni è fonte di “speranza di incontro con l’altro”, afflato, abbraccio “solitudine in un silenzio condiviso”, perché in musica (che chiede d’essere ascoltata), come in poesia (che chiede di essere declamata), non serve urlare perché ‘chi vuole sentire’ l’ascolterà lo stesso’ in cima a un batticuore.

Così come accade per San Francesco de 'la predica agli uccelli', e a Papa Francesco per l’invito ad ascoltare gli altri per i quali: ‘ciò che luce e ombra sono per l’universo, il silenzio e la parola sono per l’uomo’: «Da musicista – aggiunge Mario Brunello violoncellista di talento – ho scoperto il silenzio in un momento ben preciso della mia vita, quando (..) con la complicità del silenzio trovai spazi e modi diversi di attaccare e concludere il discorso musicale. (..) E le pause, le pause che avevo inteso come semplici momenti per riprendere fiato, divennero in quel silenzio i punti cardine dai quali partire con le nuove idee. (..) Scoprii il potere del silenzio. Se il luogo è puro spazio, il silenzio si fa ascoltare, ci accompagna e non ci lascia soli. (..) Dobbiamo solo re-imparare ad ascoltare (noi stessi), immersi nei rumori di fondo (degli altri, della strada). Un rumore, quando è isolato nel silenzio, è un evento che in genere crea interesse e sveglia la curiosità. (..) Ogni rumore ha la sua ragione di esistere e molte volte, attraverso il rumore, anche le cose si esprimono. (..) Quando pronuncio la parola silenzio lo distruggo. Del resto ogni nostra aspettativa è immersa nel ‘silenzio’, vedi l’attesa, la spiritualità, l’intimità della preghiera, l’incredulità o la fede, l’afflato dell’arte, la riflessione filosofica, l’ozio dei sensi ecc.»

Noi potremmo anche non essere d’accordo ma è così che accade, e non possiamo esimerci dal considerare che allora anche la musica potrebbe essere rumore, per cui, volendo qui lasciare un’iltima parola a Saint-Exupery, apprendiamo che: «Lo spazio dello spirito, là dove esso può aprire le sue ali, è il silenzio.» Ed ecco che sulla scia della musica pian piano ci siamo riavvicinati al fervore del ‘canto corale’ che occupa gran parte dei riti processionali della Pasqua, per lo più legati agli ‘offici’ e ai ‘misteri’ che ne regolano il secolare svolgimento. Apprendiamo così dell’esistenza di ‘Salmi Gregoriani per la Settimana Santa’, le ‘Sacre Rappresentazioni’ e gli ‘Oratori’; di ‘Litanie’ e ‘Lamentazioni’, nonché di molteplici ‘Officiorum Tenebrae’, ‘Stabat Mater’, ‘Miserere’ e ‘Requiem’ entrati a far parte dell’ordinario della ‘Messa’ nel tempo pasquale, dacché la Chiesa ha definitivamente elevato la ‘musica sacra’ a quella grandezza sublime che essa occupa nella storia religiosa di tutti i tempi.

Il discorso sarebbe lungo ma dato che da qualche pare bisogna pur incominciare, inizio con “Le grand Mystère de la Passion”, in chiusura del celebre manoscritto dei “Carmina Burana”, trascritto in latino frammisto a versi dialettali germanici, dai Benedettini del XIII secolo e oggi conservato a Monaco; e che va annoverato come l’opera più completa di ‘sacra rappresentazione’ giunta fino a noi. Una escalation musicale-corale che dal canto liturgico cristiano dei ‘salmi’ dei primi secoli, che successivamente si ravvisa nelle ‘laudi’ medievali, e solo più tardi ingloba in sé ‘florilegi’ e ‘recercari’; nonché ‘corali’ rinascimentali e ‘concerti’ in forma strumentale; ‘polivocalità’ e ‘melodramma’ settecentesco; fino a giungere a quel capolavoro che ‘s'apre e si conclude’ la ‘Messa da Requiem’.

Numerosi sono i musicisti che si sono susseguiti nella sua composizione: da Orlando di Lasso (1532-1594) ad André Campra (1660-1744); da Georg F. Handel (1685-1759), a Wolfgang A. Mozart (1756-1791); da Luigi Cherubini (1760-1842), a Giuseppe Verdi (1813-1901); da Johannes Brahms (1833-1897), a Gabriel Fauré (1845-1924). Sebbene, pur per il solo piacere della lista (che tanto piaceva a U. Eco), non vanno qui dimenticati Henry Purcell (1658-1695) autore di un “Te Deum” di grande bellezza; Hector Berlioz (1803-1869) il cui “Te Deum” segna forse il punto più elevato della musica sacra dei tempi moderni. Da non trascurare gli italiani Pier Luigi da Palestrina (1525-1594), Alessandro Scarlatti ( 1660-1725) e Giovanni B. Pergolesi (1710-1736) autori di memorabili “Stabat Mater”, fino al sommo Giocchino Rossini (1792-1868) che lo ha tradotto in chiave operistica per orchestra, solisti e coro.

Per quanto sia apprezzabile anche lo “Stabat Mater” di Peter Cornelius (1824-1874) che solitamente si chiude con un “Requiem” per ‘coro a cappella’ a sei voci, di grande impatto emotivo. “Missa in tempore paschali” dedicata alla ‘Messa’ così detta è la delicata opera dell’inglese William Byrd (1543-1623); le “Lamentazioni e responsori per la Settimana Santa” di Lodovico da Viadana (1560-1627) segnano invece un momento di vera contrizione litanica. Assume particolare importanza la forma narrativa con musica l’ “Oratorio per la Settimana Santa” di Luigi Rossi (1598-1653); ma è il “Miserere” ripreso dal ‘salmo 50’ da Gregorio Allegri (1582-1652) che, intonato dal coro di ‘voci bianche’ solitamente apriva l’ufficio sacro nella Cappella Sistina in Vaticano del Giovedì Santo, ad esprimere ‘quali un ritorno al silenzio’ la raggiunta perfezione polifonica dal punto di vista teologico.

Una parentesi musicale che sento il dovere di aprire, riguarda l’opera complessiva di Arvo Pärt, il compositore estone di musica contemporanea, almeno quella riferita alla ‘musica sacra’ di cui è oggi l’autore più accreditato e amato dal grande pubblico. Un certo numero di titoli: “Passio”, “Litany”, “Lamentate”, “Miserere”, “te Deum”, e altri brani dedicati alla tematica sacra che lo vedono impegnato nella composizione e nella stesura strumentale di forme dichiaratamente innovative, vicine al minimalismo più che al classicismo cui sarebbe stato facile per lui rifarsi. Attento alle innovazioni culturali e alle nuove tecnologie che gli permettono di captare i suoni puri e quindi di utilizzare tecniche come la ‘dodecafonia’ e il ‘collage’, di cui è un riconosciuto massimo esponente assieme ad autori come Henryk Górecki e John Tavener, e che ne fanno un compositore apprezzato per la trasparenza emotiva che trasmette.

La sua ultima composizione è la “Sinfonia n°4 - Los Angeles", commissionata dalla Los Angeles Philharmonic Orchestra e dedicata al magnate russo Michail Chodorkovskij. Nel 2011 è stato insignito del dottorato honoris causa in musica sacra dal Pontificio Istituto di Musica Sacra, insieme a Luigi Ferdinando Tagliavini e Diego Fasolis. Ha ottenuto il premio di "Composer of the Year" ai Classic Brit Awards (tenutesi alla Royal Albert Hall di Londra 2011). Il 10 dicembre dello stesso anno, Benedetto XVI lo ha nominato membro del Pontificio Consiglio della Cultura. Le opere sopra citate sono tutte su etichetta ECM.

"Ex Deo nascimur In Christo morimur Per Spiritum Sanctum reviviscimus": nulla di più vero del contenuto di questa formula trinitaria inserita nel bellissimo album “Morimur” (ECM 2001) che The Hilliard Ensembre ha realizzato con il supporto di Christoph Poppen, virtuoso del violino barocco, nella ‘Partita d-Moll BWV 1004’ per violino solo e Chorale di Johann Sebastian Bach (1685-1750), con il quale chiudo questo primo elenco di 'musica' rintracciabile sul web e nei migliori negozi di dischi.

 

Ma Pasqua significa anche l’arrivo della bella stagione, il risveglio della natura a primavera, l’invito ad uscire di casa e andare incontro agli altri che, come noi, gioiscono della festa e si lasciano avvolgere e coinvolgere da quei sentimenti belli che stanno alla base di questo nostro vivere. Se, come sempre diceva Vinicio de Morales: “la vita amico è l’arte dell’incontro”, allora andiamo a incontrare gli altri, quei noi stessi nella felicità che c’incombe e mettiamo fine alle guerre che dilaniano la nostra esistenza. Qualcuno ha detto che “la felicità nella vita sta nell’incontrarsi per caso e scegliersi per il reciproco piacere”.

 

Ora mi/vi chiedo: cos’altro ci resta se non di rallegrarci in questo ‘tempo sospeso’ della festa, in cui ci è dato con Cristo di ‘risorgere’ alla vita?

 

(continua)

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- Cinema

Matera: appuntamento con il cinema

Appuntamento a Matera con il Cinema Indipendente. di Vittoria Scarpa – info per gentile concessione di Cineuropa - 03/03/2016 - Il V Meeting Internazionale del Cinema Indipendente è in programma nella città lucana dal 9 al 13 marzo. In programma anteprime, trailer, appuntamenti per il pubblico e incontri professionali. Cinque giorni dedicati al mondo del cinema indipendente con quindici anteprime, trailer, appuntamenti aperti al pubblico e quindici incontri professionali su temi di attualità del settore. È il programma del V Meeting Internazionale del Cinema Indipendente in programma a Matera dal 9 al 13 marzo. Tante le novità di questa edizione del Meeting che per la prima volta, oltre a dedicarsi alla produzione cinematografica indipendente, si apre al mondo dell’esercizio. Nata come iniziativa dell’AGPCI (Associazione Giovani Produttori Cinematografici Indipendenti), da quest’anno il Meeting vede anche il coinvolgimento della FICE (Federazione Italiana Cinema d’essai) e dell’ANEC-AGIS Puglia e Basilicata, come organizzatori della manifestazione. Per la prima volta inoltre sarà la città di Matera, designata Capitale Europea della Cultura per il 2019,ad ospitare il Meeting che nelle passate edizioni si è svolto a Montecatini, Trieste, Bologna e Pescara. Tra le altre novità, l’apertura della manifestazione alla città: verranno infatti proposte diverse proiezioni di film in anteprima a cui il pubblico di Matera potrà assistere gratuitamente. Il Meeting quest’anno vuole inoltre contribuire a dare una risposta da parte delle associazioni al problema della carenza di offerta di film in estate: il programma offrirà agli esercenti una panoramica sul prodotto disponibile per la primavera e per l’estate, con trailer e anteprime. Quindici le anteprime in programma di cui undici lungometraggi e quattro cortometraggi. Tra i lungometraggi aperti al pubblico, La Macchinazione [+] di David Grieco con Massimo Ranieri, Libero De Rienzo, Matteo Taranto e Milena Vukotic; Microbo e Gasolio [+] di Michel Gondry con Ange Dargent e Audrey Tautou; Tangerines [+] di Zaza Urushadze, candidato all’Oscar 2015 per il miglior film straniero; Abbraccialo per me di Vittorio Sindoni con Stefania Rocca e Vincenzo Amato; Montedoro [+] di Antonello Faretta con Pia Marie Mann, Joe Capalbo, Caterina Pontrandolfo e Luciana Paolicelli. Riservate agli accreditati le anteprime di: Desconocido - Resa dei conti [+] di Dani de la Torre con Luis Tosar e Javier Gutierrez, vincitore di due Premi Goya; Cinque Tequila di Jack Zagha Kababie con José Carlos Ruiz e Luis Bayardo; Ritorno a Spoon Riverdi Nenè Grignaffini e Francesco Conversano; Il bambino di vetro di Federico Cruciani con Paolo Briguglia e Vincenzo Ragusa; Pressdi Paolo Bertino e Alessandro Isetta con Mario Accampa e Gianluca Guastella; I Talk Otherwisedi Cristian Cappucci con Franz Gottwald e Franz Dolt. Diversi saranno i momenti di confronto sui temi di maggiore interesse per il settore: riforma della legge cinema, imprenditoria giovanile e audiovisivo, il futuro della sala cinematografica, cultura e cinema in Lucania, il cinema indipendente e il territorio, film financing, i distributori, la programmazione e le agenzie regionali, l’appeal del cinema italiano visto dall’estero, il cinema nel Mediterraneo. In programma anche appuntamenti con i rappresentanti delle case di distribuzione italiane e internazionali e un incontro con alcuni rappresentanti della Commissione per la cinematografia del Mibact. Non mancano anche in questa edizione i pitching dei produttori sui progetti, in sviluppo o già girati, che verranno presentati a distributori, esercenti e international sales. Il Meeting è realizzato con il sostegno di Sensi Contemporanei, Agenzia per la Coesione Territoriale e Lucana Film Commission, e il patrocinio di: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direzione Generale Cinema del Mibact, Regione Basilicata, Comune di Matera, Camera di Commercio di Matera e Agis. MA COS'E' CINEUROPA: Cineuropa è il primo portale europeo dedicato al cinema e all'audiovisivo in quattro lingue. Con news quotidiane, interviste, database, inchieste approfondite sull'industria dell'audiovisivo, Cineuropa promuove l'industria del film europeo nel mondo. Benvenuti sulla piattaforma dove i professionisti possono incontrarsi e scambiare informazioni e idee. PREMIO CINEUROPA • Il Premio Cineuropa viene assegnato ad un film che, oltre alle indubbie qualità artistiche, metta in risalto l'idea di dialogo e integrazione europea • Il Premio viene insindacabilmente assegnato da uno o più redattori o collaboratori qualificati indicati da Cineuropa e presenti al Festival • Il Premio viene assegnato ad un film prodotto o coprodotto da un Paese del Programma MEDIA o membro di Eurimages • Il Premio consiste nella promozione su Cineuropa grazie ad un "Focus" (articolo e intervista scritta o in video con il regista) e un banner sul film vincitore per un mese (del valore di circa 5.000€). Il focus apparirà in homepage e newsletter ad ogni uscita del film nei paesi europei. Il Premio è assegnato nei seguenti festival partner: Festival del Cinema Mediterraneo di Bruxelles, Festival del Cinema Europeo di Lecce, Festival del Cinema Europeo di Bruxelles, Festival di Sarajevo, Lisbon & Estoril Film Festival, Festival di Cinema Europeo di Les Arcs, Istanbul Film Festival, Cinema City International Film Festival, Festival Internazionale del Film d’Amore di Mons. Consulenza script Un servizio di consulenza per sceneggiatori e produttori per un'analisi precisa della loro sceneggiatura. Corso di sceneggiatura online Otto semplici lezioni e otto esercizi per verificare i progressi e imparare dai propri errori . La prima lezione è scaricabile gratuitamente. La newsletter Settimanale, riprende le principali novità pubblicate sul sito ed arriva nella posta elettronica dell’utente. Ci si abbona compilando una semplice scheda online.

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- Cinema

Il caso Spotlight - quale verità racconta?

‘IL CASO SPOTLIGHT’: quale verità racconta?

È sempre molto intrigante assistere al gioco degli ‘Oscar’ dimenticandoci di quando giocare a ‘Monopoli’, per così dire, si monopolizzavano gli interessi di questo o quell’altro giocatore, dopo l’accettata propria sconfitta. Gli americani in questo sanno il fatto loro, ce lo rivela la loro politica internazionale facendo il gioco di tutti e di nessuno, cioè solo il loro. È quanto accaduto anche quest’anno con l’assegnazione degli Oscar che abbiamo seguito in quella che è detta ‘la notte più attesa dell’anno’. In verità di così atteso non c’era gran che, perché i ‘giochi’ erano già fatti, o per meglio dire, conclusi. Anche se ‘fatti’ rendeva forse di più, sempre che si voglia dare a questa parola un senso divergente dalla normalità (un’altra parola orrenda). E con ciò mi riferisco alla pretesa americana di essere i migliori in tutto, soprattutto nel cinema. Pur volendo per molti versi dar loro ragione, abbiamo assistito all’ennesimo atto egoistico di auto-incensarsi, di auto-premiarsi, di auto-(aggiungete pure quello che volete), premiando una pellicola al di fuori di ciò che di fatto concerne al cinematografo, cioè la creatività di fare ‘Cinema’, che va oltre la dimensione della cronaca nuda e cruda o del reportage fine a se stesso. Acciò pensa già stampa quotidiana, la TV, e che si chiama appunto ‘cronaca’ e ‘reportage’ e spesso lo fa con maggiore evidenza di qualsiasi mano registica, perché, come da sempre si dice: “la realtà non ha bisogno di molti commenti”. Mentre la “finzione’ deve (must) in qualche modo superare la realtà” argomentandola di tutto ciò che spesso la realtà non ha, e cioè il contorno fantastico dell’immaginario, e superare il dialogo (sceneggiatura) tra le parti in concorso.
Ciò per dire che in “Il caso spotlight” di Tom McCarthy, vincitore dell’Oscar ‘per il miglio film’ tutto questo non c’è, o almeno non traspare, tant’è che la pellicola (attenti a chiamarla film) riprende una inchiesta/documentario che a suo trempo fece molto scalpore (e per questo già vincitrice del premio Pulitzer 2001), ma che si era già vista e di cui si conoscono tutti i risvolti. Senza nulla togliere alla bravura attoriale di alcuni interpreti, la pellicola non approfondisce la scabrosa tematica che affronta, non apre una disamina sull’argomento ‘pedofilia’ ma si limita ad elencare una sequela di abusi sui minori che da tempo occupa le pagine dei quotidiani. Appunto un ‘report’ di cronache già viste e sentite, e per fortuna ‘non messe in evidenza visiva’ dal regista che se non altro andava sì premiato per non aver calcato il coltello nella disgustosa piaga sociale che ha affrontato. Ciò di cui più risente la sceneggiatura è la mancanza di ‘patos’ (disagio, turbamento, vergogna, ribrezzo ecc.) nel gruppo degli attori- giornalisti per i quali tutta la vicenda si limita ad essere ‘solo ed esclusivamente’ uno scoop redazionale di cui farsi vanto. Del resto non basta fare qualche sporadico accenno ad una presunta deontologia del mestiere, all’integrità morale che dovrebbe governare certi apparati ecclesiastici, ad una giustizia sociale che non c’è in nessuna parte del mondo, e che gli americani ben conoscono, altrimenti questo genere di film non avrebbe un nesso ‘reale’ con le amenità (ingiustizia, stupidità, ecc.) che dicono di combattere.
Riguardo al mancato patos che indubbiamente avrebbe dato mordente alla pellicola, manca qui il ‘momento clou’ o quella che si definisce come ‘scena madre’, dove nello scontro fra gli interpreti viene a identificarsi la posizione del regista, la sua idea di cineasta (criticabile o meno), la linea che egli intende perseguire nel suo fare cinema. Soprattutto la posizione contrastante dei diversi ‘giornalisti’ che si relazionano con il problema sociale, perché di problema si tratta e per di più che potrebbe anche essere/diventare personale. Fatto è che in questa ipotetica redazione sembra mancare totalmente l’anima del giornalismo, cioè l’aspetto critico dell’inchiesta, dove tutto scorre sulla superficie piatta di una pagina di giornale. Superficialità che è solo impensabile però, quasi che ai giornalisti debba mancare una certa etica comportamentale, o una famiglia di riferimento, così come una vita privata propria fatta di sentimentalismi ecc., per cui sembrano tutti robot al servizio di un ‘padrone monetario’, che non giova affatto all’economia della trama specifica, tale da risultare incompiuta e per questo elencabile nel genere inchiesta/documentario.
La tematica qui trattata non è affatto nuova, in molti in questi giorni si sono affabulati nel confrontarlo con “Tutti gli uomini del Presidente” di Alan J. Pacula del 1976, sul caso Watergate che “..nello scrupolo quasi maniacale della ricostruzione dei fatti senza invenzioni romanzesche né indugi psicologici (..) faceva un eccellente rapporto sul giornalismo americano”. Così il Morandini che, a riguardo del film lo definisce “..piatto come un tavolo da biliardo” non tralasciando che pure “..esiste anche un fascino dell’orizzontalità”; questo “Spotlight” si raffronta con il cugino nichilista di quel film, presentandosi ‘nudo e crudo’ al giudizio di uno spettatore che, se non è americano, altri non può essere che un cittadino di un possibile ‘quarto mondo’ che non legge i giornali e non guarda la TV semplicemente perché non ce l’ha. Per me, che sono entrato al cinema aspettandomi di vedere come si conduce un’inchiesta con gli attuali mezzi tecnologici o, al limite, aspettandomi risvolti nascosti rivelati solo per il cinema, mi rammarico di aver visto un documentario noioso e senza mordente.
Ben altro mi è capitato visionando il già citato “Tutti gli uomini del presidente” ma, e soprattutto, vedere e rivedere quel capolavoro che è “Quarto Potere” di Orson Welles del 1941; senza nulla togliere ad altre inchieste famose, come quella ad esempio dal fronte della guerra civile di “Z l’orgia del potere” di Costa-Gravas del 1969, di ben altro spessore. Nonché alcuni film di Oliver Stone, per non dire dei tanti film di Wim Wenders al limite tra film e reportage quale, ad esempio, è stato “Buena Vista Social Club” che ottenne l'Oscar come miglior documentario che viene assegnato come migliore dall'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, cioè l'ente che assegna gli Academy Awards, i celebri premi conosciuti in Italia come premi Oscar. E senza indugio alcuno cito inoltre “Le vite degli altri” di F. H. Von Donnersmarck del 2007 vincitore di numerosi Film Awards, David di Donatello, Golden Globe e dell’Oscar per il miglior film straniero. Poi, così tanto per spezzare l’atmosfera pesante e si avesse voglia di ‘Cinema’ per così dire autentico, perché non rinfrancarsi con “Prima Pagina” di Billy Wilder del 1974 con l’irresistibile coppia Walter Matthau e Jack Lemmon … almeno si ride.

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- Teatro

Teatro: Frammento è allo spazio ottagoni a roma

A Trastevere in Roma - 28 Febb. ore 18,15 presso il Teatro Spazio Ottagoni va in scena:

 

"FRAMMENTO"

 

 Spettacolo musicale per ‘Voce’ Natachà Daunizeau, e ‘Clarinetti’ di e con Marco Colonna.

 

Spazio Ottagoni Via Goffredo Mameli, 7 Trastevere - Roma

www.spaziottagoni.com/associazione

(Pretesseramento - Tessera offerta!) - info 3318106452

 

Lo spettacolo è organizzato con il patrocinio di 28Divino Jazz - Via Mirandola, 21 – 00182 Roma - www.28divino.com Tel 340 8249718 (Dopo le 15.00) Pagina Facebook

 

«‘Lei' nelle vestei di aviatrice, arriva attraverso il parco (dei tavolini e degli avventori) con un lume in mano e una sacca in spalla, guarda davanti a sé e incomincia a camminare, quindi affretta il passo correndo in cerca di una meta che non c’è, che non ha ragione d’essere, dando così inizio al racconto … ‘come dentro una bolla’ - dirà. No, è solo un ‘frammento’ di vita, l’esplosione di uno specchio andato in frantumi nella fatica di emergere nel marasma della globalizzazione, in cui ogni piccolo pezzo riflette una parte di sé, una ‘realtà’ propria, autentica, vissuta fin nella trama del tessuto che ne ricopre il corpo. ‘Lei’, donna, amante, madre, ancor prima è femmina, per quella sorta di divinità che tutta la investe e la stravolge nel momento in cui è partecipe della ‘creazione’, nell’illusoria ‘verità’ del testo scabro quanto essenziale, paragonabile alla figura stessa dell’interprete, lascia basiti, immobilizza, perché scava profondamente in ciò che non si è mai voluto affrontare della insostenibilità dell’essere. Per quanto avvolta della sua ansietà di vivere ‘Lei’, abbandonati i panni di chi s’era organizzata per un lungo ‘viaggio senza fine’, si spoglia, fa il suo ingresso in società, per poi, spaventata, riprendere la corsa, quella che era ed è una fuga dalla realtà, per ritrovarsi infine sulla strada, a piedi nudi, insieme a tutti noi … che prendiamo a correre insieme a 'Lei'. Per andare dove? Per raggiungere chi? Per appropriarci di cosa? – sembra chiedersi e chiederci l’autore Marco Colonna. ‘Lei’ sa, ognuno di noi lo sa, stiamo fuggendo verso un domani che non ha fine.» (Gio.Ma.)

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- Cinema

Le professioni del cinema - rassegna-concorso a spello

‘LE PROFESSIONI DEL CINEMA':

V RASSEGNA / CONCORSO DAL 27 FEB. AL 06 MAR. 2016 –

 

A SPELLO 'EVENTO NOIR EMOTIONNEL' TRA ARTE MUSICA E CULTURA

 

Sabato 27 Febbraio alle ore 19:00 presso il Palazzo del Cinema - Palazzo Comunale di Spello, Evento Noir con Aperitivo, su invito e prenotazione. Gradito Dress Noir.

Aperitivo e visita delle mostre del Festival, il tutto allietato da un sottofondo musicale dei Micrologus e dagli allievi della Scuola di Musica A. Biagini di Foligno.

 

Ore 19:45 Intervento Musicale Micrologus, nella sala mostra "Francesco nel cinema" Ore 20:15/ 20:45/ 21:15/ 21:45 Intervento musicale Scuola A.Biagini di Foligno, nella sala Mostra "...due gocce di Chanel nr. 5".

 

Per prenotarsi, mandare i propri nominativi alla mail segreteria@festivalcinemaspello.com

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- Cinema

’the hateful eight’ by Quentin Tarantino

‘THE HATEFUL EIGHT’ by Quentin Tarantino

Sondaggio / recensione.

 

Il set: al freddo fuori del cinema per la ‘prima’ di ‘Gli otto odiosi’, aspettando l’uscita del pubblico.

 

Buonasera! … le è piaciuto il film?

1): Beh, la fotografia mi è sembrata bella … ma oggi ci vuole poco, no?

2): Troppo lungo, una ‘commedia’ (?) in un so quanti atti, che alla fine una si stanca di seguire, tant’era meglio se ne faceva un serial!

3): C’è più sangue in questo film che in ‘Shining’, il che è tutto un dire.

4): Troppo lento, troppo ‘chiacchierato’, troppo spiegato, insomma troppo…

5): Gretto, freddo, cinico, disumano, ma non vi ho trovato nulla di strepitoso … altro che seguace di Sergio Leone.

6): A dire il vero non vedevo l’ora che finisse, troppo lungo e troppo lento, forse un po’ troppo spinto inutilmente.

 

Buonasera! … Ha trovato qualche nesso con i film di Sergio Leone?

7): Con i western di Sergio Leone? Neanche per idea … Sergio era un grande, i suoi personaggi non avevano bisogno di tante spiegazioni, dicevano con gli occhi quello che non c’era bisogno di dire, per loro dicevano le lunghe pause, e non ti annoiava, era una sospensione d’attesa … questi quando aprono bocca diventano risibili, ma non fanno ridere.

8): Ma sta scherzando spero? … non se ne parla nemmeno.

9): Può farmi una domanda di riserva? … Benché Quentin mi piaccia, non regge il paragone.

10): Quentin Tarantino si perde strada facendo, non da allo spettatore il piacere di ‘pre-gustare’ l’attimo della sfida con la vita, o con la morte se preferisce … gli manca quel ‘suspance’ o, se vogliamo, quell’introspezione che da a un film western una ragione di essere.

11): Forse dovrebbe spiegarlo Quentin Tarantino, se voleva fare un film dell’orrore, oppure un film ‘diversamente western’, perché qui non arrivano ‘i nostri’ a salvare la situazione e il film ‘da solo’ non è all’altezza delle aspettative.

12): In “Django”, anche se era un ‘remake’, almeno c’erano degli ‘attori’ credibili, qui tolto Samuel L. Jackson il solo da premio oscar, gli altri sono e rimangono delle comparse sullo sfondo. Sergio Leone non avrebbe mai trascurato neppure l’ultima comparsa, ognuno aveva la sua dignità e ogni protagonista aveva sempre una ragione d’essere … non trova?

 

Buonasera! … cosa ne pensa del ‘western’ alla Quentin Tarantino, secondo lei ha un futuro?

13): Posso aggiungere una cosa, anche “The revenant” può dirsi un western, giusto? E può dirsi che utilizza lo stesso set ghiacciato, isolato, invivibile, dove accade di tutto, bufera di neve compresa. Fin dall’inizio entrambi i film presentano addirittura una stessa sequenza d’immagini … tronchi di betulle, neve ghiacciata, silenzio. Poi però ciò che deve accadere, come dire, accade e qualcuno si salva. Questo nuovo film di Quentin pur presentando una ‘storia’ ormai troppo abusata del parentato da salvare o vendicare, termina per mancanza di attori o, se vogliamo, di comparse. Non so se ho reso l’idea ma in fine credo di averle dato una risposta non c’è futuro senza riscatto.

14): Il ‘western’ per essere tale deve recuperare la propria ‘dimensione’. Io penso ci siano ancora degli spazi per Quentin se davvero intende perseguire in questo filone di film, perché no.

15): Per rimanere in tema westwrn, per certi aspetti ho preferito “The Revenant”.

16): Quentin, hai deluso la mia aspettativa!!! Però diciamo che hai già dato tanto.

17): Si sa che questo genere ha i suoi ‘cliché’ che vanno in qualche modo rispettati e ai quali, nel suo modo, Quentin li ha rispettati. Il problema sorge quando pur avendo una storia sostenibile, non trova la capacità di tessere una sceneggiatura in modo che sia credibile o, quantomeno, accettabile. Certamente Quentin ha fatto e può fare di meglio.

18): Ho veduto entrambi i film per così dire ‘western’ in circolazione (The Revenant e The Hateful Eight) e mi sono chiesto a che cosa può servire insistere su un genere che si è ormai ‘dissanguato’ da solo. Se c’era rimasta un po’ di ‘vitalità’ nel cinema, con questi due film l’abbiamo buttata via definitivamente. Vuole sapere l’effetto che ho provato? … Beh, mi sento immerso nel sangue … un mare di sangue. E, mi lasci dire, non è una bella sensazione.

 

Buonasera! … cosa mi dice della musica, la ‘colonna sonora’ di Ennio Morricone che sembra sia in lizza per l’Oscar, secondo lei è propedeutica la film di Quentin Tarantino?

19): Ennio Morricone è sea dubbio un grande, ma abbiamo sentito di meglio!

20): Non conosco la musica degli altri film in concorso, diciamo che Morricone ci ha abituati al meglio … questa non mi è sembrata particolarmente straordinaria.

21): Personalmente non l’ho trovata eccezionale, forse perché la pellicola non si prestava a un ‘tema’ ben preciso ma doveva solo sottolineare l’atmosfera ‘pesante’, non so che risponderle.

22): Davvero non le saprei dire, mi è sembrata un po’ anonima, con quelle canzonette tipo west-side inserite qua e là.

23): È quantomeno ammissibile che il pur grande Morricone non si sia espresso al meglio, con questa barba di film.

24): Secondo me non era affatto ispirato!

 

Stando al sondaggio, che vuole qui premiare il giudizio critico degli spettatori, ‘The Hateful Eight’ di Quentin Tarantino si rivela nel suo genere un film ‘mediocre’ e probabilmente il pubblico questa volta ha colto nel segno, dopo tanta aspettativa, e sul giudizio pre-concetto dei critici cinematografici. Fatto è che auguriamo al regista un’altra prova ‘stravolgente’ onde poter riconfermare la sua capacità ‘visionaria’ che ha dimostrato in passato e magari regalarci quel ‘capolavoro’ che ogni volta ci si aspetta da lui. Del resto, e qui mi ripeto, il cinema dei ‘critici’ non finisce mai di stupirmi, soprattutto quando ‘osanna’ questo o quel film a prescindere, magari ancor prima di averlo visto. Siamo realisti! Se bene un vlido regista può essere una garanzia, va considerata la sua umanità, e l’umanità spesso sbaglia, prende abbagli, fraintende ecc., anche per lui non tutte le ciambelle vengono col buco. E se ‘vengono’ se fossero tutte perfettamente uguali sarebbero artificiose e il meccanismo non funzionerebbe, oppure funzionerebbe solo a metà. Ma lasciamo che sia il pubblico a decidere, un'opera filmica è di per sé un atto d'amore e un'opera d'arte irripetibile. E Quentin Tarantino, lo sappiamo già, saprà sbalondirci ancora. Del resto lo ha già fatto, o no?

 

Quentin Jerome Tarantino regista, sceneggiatore, attore e produttore cinematografico statunitense, divenuto particolarmente celebre per la sua ricetta quasi maniacale e orientata, in special modo, alla cinematografia di genere. Fervente ammiratore del cinema italiano dei primi anni settanta (Mario Bava, Sergio Leone, Dario Argento, Lucio Fulci e tutto il filone del cinema ‘poliziottesco’, è stato definito “..un regista DJ per la sua capacità di riuscire a combinare stili diversi fondendoli insieme in una nuova opera”.

 

Ricordiamo qui alcuni suoi film: ‘Le iene’ (1992), suo primo lungometraggio che lo impose al pubblico internazionale. ‘Pulp Fiction’ Palma d'oro al Festival di Cannes ha conquistato, oltre a sette nomination, il premio per la miglior sceneggiatura originale, condiviso con Roger Avary, ai Premi Oscar 1995. Nel 2004 fu presidente della giuria alla 57ª edizione del Festival di Cannes e nel 2010 alla 67ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Il 24 febbraio 2013 si aggiudicò la sua seconda statuetta per la migliore sceneggiatura originale ai Premi Oscar 2013 con ‘Bastardi senza gloria’. E inoltre: ‘Assassini nati’ (1994) ‘NaturalBorn Killers’ ‘Pulp Fiction’ (1994) ‘Four Rooms’ (1995) ‘Jackie Brown’ (1997) ‘Kill Bill’ vol. 1 (2003) ‘Kill Bill’ vol.2 (2004) ‘Sin City’ (2005) ‘Grindhouse’ (2007) ‘Bastardi senza gloria’ (2009) ‘Django Unchained’ (2012) ‘The Hateful Eight’ (2015) A partire dal 21 dicembre 2015 il suo nome è presente tra le celebrità della Hollywood Walk of Fame.

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- Esperienze di vita

’RISVEGLIO IMPROVVISO’ ... dopo l’abbandono.

RISVEGLIO IMPROVVISO (..dopo l’abbandono).

Il gettito di sperma caldo, dopo l’ultimo affondo di Jean, inondò di piacere Amelie facendola godere ripetutamente fino allo spasimo, culminato con un grido incondizionato e vibrante dentro l’improvviso colpo di vento che scuoté i vetri della finestra aperta. L’odore dei corpi sudati si mescolava all’aria surriscaldata del finire dell’estate nella quieta penombra della sera, ove solo il respiro alitava leggero dopo l’affanno di gravida pienezza che l’improvviso risveglio dei sensi, dopo l’abbandono, la fece di nuovo sussultare. Fece per alzarsi ma la mano furtiva di Jean l’afferrò per il polso trattenendola nel letto mostrandole la sua eccitazione; e mentre con una mano l’abbrancava per la nuca, con l’altra sospinse il pene turgido sopra il suo seno, come un guerriero deciso a misurare la sua arma sul corpo intimorito del nemico, prima di affondarla definitivamente nella gola. Amelie per nulla sorpresa, fece scivolare la sua testa sotto i glutei di Jean e spinta la lingua fuori dalle labbra carnose prese a leccarlo fin nei suoi più intimi recessi intenzionata a placarne il tenace furore. Risalì lungo il perineo fino all’asta del glande fiammante e ne assaporò tutta la dolcezza passando e ripassando la lingua intorno alla sua corona. Fu come il disciogliersi aromatico di un bigné che presto scomparve nel cavo spalancato della sua bocca, allorché Jean premendole lentamente il pene all’interno del cavo orale si sentì libero di affogare, risucchiato nel vortice liquido della sua gola profonda …
Disteso sulla terrazza di fronte al mare, Jean si accese un cigarillo gustandone il sapore aromatico, dimentico dei pensieri che solitamente l’occupavano in fatto di donne. Il mondo per lui poteva anche andare avanti com’era sempre andato, senza scossoni intimistici che talvolta assalivano i comuni mortali. Non che lui non lo fosse, il disagio di far fronte a un legame che avrebbe impegnato i suoi sentimenti, gli scorreva accanto senza infastidirlo, se non quando il/la partner del momento gli lasciava intendere, cosa che gli capitava spesso, di aspirare a una relazione più duratura, a un vincolo sentimentale che Jean sapeva di non poter sostenere. Seppure senza la consapevolezza dell’ambiguità snervante che solitamente l’accompagna, senza l’ansia infinita che spesso alimenta l’incertezza, o forse quella timidezza che in un uomo decide della sua maschia individualità, o della sua cedevole soggettività. Amelie lo raggiunse sulla terrazza con il carrello portavivande, alcuni tramezzini e una bottiglia di prosecco che lasciò cadere nelle mani di Jean per un brindisi ‘alla vita’. Così disse, proiettando il proprio corpo flessuoso contro quella scenografia d’incanto, per poi distendersi nuda accanto a lui. Non c’era in lei il che minimo dubbio che Jean sarebbe rimasto solo fino alla fine dell’estate per poi volare via, come quegli uccelli che col cambiare della stagione migrano verso altri lidi in cerca di un’altra possibile meta, o forse solo di un’altra identità …
Poi, come d’improvviso un uomo attraversò il tratto di spiaggia davanti alla terrazza, misurando la distanza che si frapponeva da un punto all’altro del loro spazio visivo. Amelie notò ch’era nudo, aitante nel portamento, ben messo in quanto al sesso che ciondolava fra le sue gambe in controluce. Jean sorrise e seguì con lo sguardo il profilo dell’uomo soffermandosi sulla curva del suo sedere ansante, allorché si levò in piedi e sollevò il bicchiere verso lo sconosciuto che in quel momento, sentendosi osservato, sollevò lo sguardo nella sua direzione. Amelie agì d’impeto sporgendosi dal balcone e con un cenno della mano invitò l’uomo a raggiungerli sulla terrazza. Lo sconosciuto evitò ogni presentazione di circostanza dicendosi che un nome o un altro non avrebbe cambiato in niente la situazione da come si presentava, ma accettò un flut di prosecco che ingurgitò tutto d’un fiato. Jean facendoglisi più vicino gli pizzicò il capezzolo del seno con le dita bagnate della sua saliva, allorché l’uomo lo baciò sulle labbra. Jean trovò che la sua bocca “rivelava un’emotiva vulnerabilità”. Amelie preferì assistere inerte alla scena, lasciando che l’inclinazione sessuale di entrambi si aprisse alla scelta che meglio gli si attagliava. Una scelta per la quale, come in tutte le scelte, colui che sceglie dovrebbe sentirsi ragionevolmente affidabile e tale dovrebbe essere visto dagli altri nella condivione e nel rispetto recirpoci …
Quella di Amelie non era una certezza ma un desiderio perseguibile fin dove uno dei due l’avrebbe chiamata ad entrare nel’intrattenimento sessuale o magari entrambi. Ma non fu Jean per primo a consolare i suoi seni obliati ai quali lo sconosciuto riversò la sua attenzione baciandoli ripetutamente, mordendone i capezzoli che recuperarono la loro virile rinascenza. Quindi si chinò su di lei e, piegatala all’indietro sul carrello delle vivande, le aprì con la lingua le piccole labbra della vagina restituendole piacere. Fu in quell’istante che Jean divaricò da dietro le gambe dell’uomo e prese a leccarlo, spingendo a sua volta la lingua fin dentro l’orifizio dell’ano con l’enfasi di un satiro che approfitta della distrazione della sua preda e ne stravolge l’intima esistenza. L’amplesso si prolungò fin quando Jean andò a distendersi sulla dormeuse dove presero posto uno sull’altro, uno dentro l’altro, con i membri eretti fino all’inverosimile, schiumanti per l’eccitazione. Amelie gridò per gli affondi di entrambi nei suoi orifizi, fino ad affogare nell’onda in piena che la travolse ...
Più volte Amelie durante l’amplesso assaporò il dolce e l’amaro d’una colluttazione furiosa fra due titani del sesso, finché s’abbandonò a viso in giù sul morbido divano che l’accoglieva stremata. Allorché ripresasi dal brivido di freddo che l’aveva svegliata, si guardò sgomenta d’intorno, provando una sensazione di solitudine; quando s’avvide che Jean e lo sconosciuto non erano più sulla terrazza. Si sporse per vedere se avessero raggiunto la marea che stava salendo, per un bagno, e affatto sorpresa li guardò allontanarsi abbracciati sulla spiaggia, come quegli uccelli migratori che sul finire dell’estate vanno a costruirsi il nido su un’altra sponda lontana, molto più lontana del desiderio, perché irraggiungibile.


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- Ecologia

Passeggiata fra Panare, filastrocche e Picalò Spongano (LE)


'Passeggiata fra Panare, filastrocche e Picalò' -
Spongano (LE) 31-1-2016 ore 16.30
Organizzata da APS 'La Scatola di Latta'
Promuozione di CulTurismo Sociale ed Ambientale

E' con grande piacere che vi invitiamo a passeggiare nell'incantevole paese salentino di Spongano (LE).
Ci farebbe piacere se ognuno di voi leggesse una delle sue opere, un passo di un libro, cantasse una canzone o scattasse delle foto durante la passeggiata.
Da questo anno vogliamo contaminare ancor di più le passeggiate con iniziative di "poesia, musica e fotografia di strada" occupando ed impreziosendo luoghi "non convenzionali".

Nella speranza di incontrarvi numerosi.
Altrimenti sarà per la prossima iniziativa.
Buona giornata e buona vita

“E li vidi caminare
mmane ‘mprima e sira tardu,
vannu e venune a fiumare
e me piace cu lli quardu.
Jata a iddhri, mai su stanchi,
se mantenine a movimentu
e lu paese a quattru scanchi
se lu girane a nnu mumentu.
Ci camina, ci pedala,
ci va fusce ‘ntra le “More”
nuddhra doja mai li cala,
né su a via, né a menzu a fore.”

[Tratto da “Caminanti” di Mirella Corvaglia]

Riprendiamo a “caminare” il 31 gennaio da Spongano (LE), con la XII passeggiata spontanea fra "Panare, filastrocche e Picalò".
Previste tantissime incursioni storico, letterarie e musicali. Scopriremo cosa sono le “Panare” e come si festeggia la “festa delle panare”.

Programma:
Ritrovo alle 16.30 c/o Fabbricare Armonie (Ex-Manifattura Tabacchi, nei pressi della stazione ferroviaria): un centro documentale di esperienze territoriali sociali e culturali, luogo del fare e della presenza per l'innovazione sociale.
Ci guideranno nelle viuzze e fra gli incantevoli palazzi lo staff della Proloco locale, e alcuni cittadini. Saremmo cullati in questo vagare dai versi della poetessa sponganese Mirella Corvaglia.
All’interno dell’incantevole Ex-Manifattura Tabacchi Luigi Mengoli, etnomusicologo, direttore dell'Archivio Etnografico e Musicale "Pietro Sassu" di Spongano, nonché promotore e animatore dei Menamenamò, ci regalerà una piccola esibizione musicale per coronare nei migliori dei modi la passeggiata.

Alle 20 è prevista una cena conviviale presso la storica Trattoria Picalò con un menù "inscatolato" per noi (max. 50 posti). La trattoria si trasformerà in una puteca e noi saremo i protagonisti.
Si andrà lungo un itinerario di facile percorribilità, tra le vie del paese, tuttavia si consigliano scarpe comode. Durata della passeggiata due ore circa.
Come di consueto si invitano i partecipanti a portare libri e strumenti musicali.
L'iniziativa è organizzata da La Scatola di Latta in collaborazione con Tagpress e la Proloco di Spongano.

PARTECIPAZIONE GRATUITA.
NON OCCORRE PRENOTARSI ALLA PASSEGGIATA.
OCCORE PRENOTARSI PER LA CENA ALLA TRATTORIA PICALO’ (Max. 50 posti) entro SABATO ALLE ORE 18.

Info 339.5920051 o via facebook
https://www.facebook.com/events/158971137810904/
https://associazionelascatoladilatta.wordpress.com/2016/01/29/passeggiata-fra-panare-

filastrocche-e-picalo-spongano-31-1-2016-ore-16-30/

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"Ogni testo ha un’anima, un pensiero, una storia che merita la massima attenzione e una dedicata cura / Every text has a soul, a thought, a story that deserves the utmost attention and care "

Josè Pascal - inparolesemplici@gmail.com

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- Cinema

The revenant (redivivo) un film di alejandro iñárritu

‘The Revenant’ (Redivivo), un film di Alejandro González Iñárritu

 

!!!!!Leonardo Di Caprio al suo Primo Oscar!!!!

 

Molto si è parlato, già in occasione dell’Oscar 2015 per ‘Birdman’ (leggi recensione in questa stessa rubrica), della capacità di Iñárritu di portare all’estremo l'utilizzo dello strumento cinematografico, quasi a voler  imporre allo spettatore una personale visione di ‘fatti’ verosimilmente ripresi da una verità sconvolgente fin troppo realistica. Ecco, se vogliamo è quel ‘fin troppo’ che infine inaridisce questa nuova quanto azzardata impresa del regista, sceneggiatore e produttore cinematografico messicano. Il suo film ‘The Revenant’ appena uscito sugli schermi e tratto dall’omonimo romanzo di Michael Punke (1964), e del quale già si parla come vincitore di numerosi Oscar e Grammy, pur validissimo sotto molti aspetti a cominciare propio dall’impronta registica, così avvolgente e travolgente da farci dubitare che Iñárritu abbia potuto muovere le forze della natura a suo piacimento, convince fino quasi a farci dubitare che gli elementi, dominanti in tutto il film, non aspettassero alro che un direttore d'orchestra a condurre i loro spostamenti.  Come se un orchestratore quale potrebbe essere Toscanini nella direzione di Wagner, arrivasse ad orchestrare la sinfonia dei venti e dei ghiacciai, delle betulle e degli acquitrini, in cui tutto e tutti: elementi, bivacchi, uomini bianchi, pellerossa, fuochi, lupi, orsi, cavalli, pioggia e neve, facessero parte di una sola partitura straordinaria e stravolgente che raccontasse l’inferno da cui fuoriesce un ‘redivivo’, unico superstite di una sete di vendetta che lo ha trasformato in una bestia, al pari di quelli che si è trovato a combattere.

Una prova tanto incredibile quanto inverosimile per una sopravvivenza che non può andare oltre i limiti che gli sono concessi. Ed è forse questo il ‘carisma visionario’ de regista, l’aver saputo orchestrare in un’unica partitura, solo apparentemente vuota di tonalità diverse da sembrare quasi piana, l’essenza interiore del personaggio, mirabilmente interpretato da Leonardo Di Caprio, il quale, come se arrivasse dal nulla, si spinge con violenza sullo spettatore inerme stravolgendone i sensi. Il fine ultimo, il messaggio morale, la grandezza o la bassezza dei comportamenti, l’afflato a un attaccamento religioso, non trovano nel film spazio alcuno, Iñárritu va oltre, supera tutti gli ostacoli voluti dalla comune decenza cinematografica (se mai il cinema ne abbia avuta alcuna), per dimostrare, nello scontro atavico con la vita, la capacità umana della sopravvivenza ‘a tutti i costi’.

Un tema questo che, seppur ambientato nel passato, trova sempre maggiore riscontro nella realtà di oggi, in cui assistiamo al ritorno di un tale degrado, non poi così dissimile a quello d’allora, che offende e mortifica la dignità umana. Straordinaria la fotografia di Emmanuel Lubezki, vincitore tra l’altro, oltre a sette candidature all’Oscar ‘per la migliore fotografia’, tra cui vanno ricordate le tre ricevute per i film del regista messicano Alfonso Cuarón, vale a dire per 'La piccola principessa' (1995), per 'I figli degli uomini' (2006), e infine per 'Gravity' (2013), grazie al quale venne premiato con l'Oscar alla migliore fotografia. Le altre candidature sono arrivate in due occasioni per film di Terrence Malick con 'The New World' (2005) e 'The Tree of Life' (2011), e inoltre per 'Il mistero di Sleepy Hollow' di Tim Burton (1999) e 'Birdman' (2014) di Alejandro G. Iñárritu, con il quale vinse il secondo Oscar e che inoltre ha vinto, per ben tre volte, il Premio Osella per il migliore contributo tecnico alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, oltre a tre Premi BAFTA.

A parità di merito vanno citati gli altri esecutori materiali della pellicola che con le loro rispettive ‘arti’ hanno saputo creare una cornice consona ad ogni aspetto di questo film che, mi ripeto, per certi aspetti trovo straordinario, e che sono: per il ‘montaggio’ Stephen Mirrione; per gli ‘effetti speciali’ Richard McBride, Matt Shumway, Jason Smith e Cameron Waldbauer; per le ‘musiche’ Ryūichi Sakamoto, Carsten Nicolai, Bryce Dessner; per la ‘scenografia’ Jack Fisk e infine per i ‘costumi’ Jacqueline West. Come ho già detto la scenografia, in questo caso la cosiddetta ‘location’, che nel film ha un ruolo di non poca importanza, infatti è stata affidata a una vecchia volpe come Jack Fisk scenografo ed egli stesso regista, attivo fin dal 1971 ha lavorato con grandi registi del calibro di David Linch e Brian De Palma e tantissimi altri ed ha già vinto l’Art Directors Guild Award alla migliore scenografia.

Il film inoltre è interessante sotto l’aspetto antropologico in quanto illustra un tipico scorcio della realtà arcaica dei cacciatori di pelli e della vita sociale (o asociale dipende dai punti di vista) dei pellerossa Arikara nel secolo scorso, allorché venivano cacciati dalle loro terre e spodestati delle prede animali, necessarie al loro sostentamento e che, tanto per sottolineare un passaggio del film, rendevano ‘tutti cattivi allo stesso modo’. Non pochi indizi nel film rivelano un certo attaccamento alla terra, relative all’esistenza di credenze spiritiche e riti magici ancestrali, come all’uso del peyote, la croce cristiana portata al collo dal giovane cacciatore ecc. ma, soprattutto, rivela una ‘verità’ insostituibile nella mentalità primitiva, quella da parte dei pellerossa di impossessarsi dello ‘scalpo’ della preda per farne un ‘totem’ alla propria virilità e forsa maschia, allo stesso modo che i ‘gringo’ vestivano delle pelli degli animali uccisi.

Indubbiamente vuole essere questo un modo, se vogliamo insolito, di prepararsi a visionare una pellicola come ‘The Revenant’ (Redivivo) di Alejandro González Iñárritu che altrimenti può lasciare sgomenti dopo il primo quarto d’ora di proiezione: spari, frecce, scalpi, gole tagliate, ferite d’armi da fuoco, brandelli di carne bruciata, e quant’altro, il tutto intriso di sangue (un fiume), mentre tutt’intorno e per tutto il film è il gelo, la bufera, i ghiacciai immensi ed eterni che dominano la scena. La sensazione è quella che si sia giunti alla fine del mondo e della vita, onde per cui consumare la vendetta assume significato di ultima possibilità, di margine estremo in cui è lecito anche uccidere in ragione di una conclusione definitiva di pareggiare i conti con questa umanità senza domani.

 

NB: assolutamente da vedere, magari in un giorno ‘cinico’ quando i subbugli dell’anima riposano, e non dimenticatevi di portare con voi uno scaldino, perché il gelo, quel ‘gelo’ di sentimenti che Iñárritu pone come mantra allo spettatore, potrebbe penetrarvi nelle ossa.

 

Alejandro González Iñárritu (da Wkipedia, l’Enciclopedia libera), è stato il primo regista messicano a ricevere una nomination come miglior regista agli Oscar e dalla Directors Guild of America, ed è stato il secondo a vincerlo dopo Alfonso Cuarón. È anche il primo e unico regista messicano ad aver vinto il premio per la miglior regia al Festival di Cannes. Nel 2015 vince tre Premi Oscar quali miglior film, miglior regista e migliore sceneggiatura originale per ‘Birdman’ o (L'imprevedibile virtù dell'ignoranza). Nel 2016 il suo 'Revenant' - Redivivo vince tre Golden Globe, di cui Iñárritu vince come miglior film drammatico e miglior regista, venendo candidato ai Premi Oscar 2016 per ben 12 statuette. Tra i suoi film: • Detrás del dinero (1995) - Film TV • El timbre (1996) • Amores perros (2000) • 21 grammi (21 Grams) (2003) • Babel (2006) • Biutiful (2010) • Birdman or The Unexpected Virtue of Ignorance (2014) • The Revenant - Redivivo (2015).

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- Esperienze di vita

’JULIUS’ - una storia vera

Julius, (..ovvero la stravaganza di essere uomo).


L’uscita in strada nottetempo era sempre a ‘tema’, nel senso che Julius aveva deciso da prima e fin nei minimi particolari l’abbigliamento stravagante che avrebbe indossato perla sua messinscena. Cosa che sarebbe stata del tutto normale se, visto l’orario, l’abito non fosse talvolta inadeguato al clima. Magari se avesse aperto gli occhi, se mai li avesse tenuti chiusi, avesse guardato fuori della finestra, il cielo. Chissà? Per quanto in realtà Julius non sembrava dormire mai. Lo si incontra in giro di notte e raramente di giorno a orari diversi, vestito di tutto punto, camminare lungo i marciapiedi e recarsi dove nessuno poteva neppure immaginare. Ma dove andava? Eppure lui sembrava certo di dove stesse andando, perché il suo passo era deciso, mai frettoloso, questo no. Piuttosto lo si sarebbe detto ben fermo sui piedi, sia che fossero infilati nelle zeppe di sughero da donna d’altri tempi o negli stivali di cuoio da cacciatore; sia nelle ciabatte della nonna o nelle scarpe da uomo con la punta, secondo l’ultima moda.

Per non dire degli abiti che ogni volta indossava, tanti e tali da far invidia al guardaroba di un intero magazzino teatrale. E sì, perché in fondo di teatro si trattava. Julius era a tutti gli effetti un ‘uomo di teatro’. Almeno perché si pensava, e non solo perché aveva il portamento dell’attore consumato. Tutt’altro. Lui era un ingegnere meccanico, uno che masticava la matematica come il pane. E che, strano a dirsi, non si esprimeva con i numeri come con le parole, e che parole! Algebricamente parlando era uno che sapeva il fatto suo, loquace quel tanto che bastava per mettere a tacere chi s’azzardasse a dire una parola fuori posto nei suoi confronti. Preciso in ogni suo aspetto esteriore, curato o finto trascurato come l’attore che si prepara davanti allo specchio con oculatezza, per ore, prima di affrontare la parte. Allora era capace di cambiare l’espressione del viso, la dizione più adatta all’occasione, il vezzo dell’atteggiamento nobiliare, o la remissività del miserabile. Era incredibile come Julius, anche nelle vesti dello straccione mantenesse comunque una propria dignità che lo nobilitava, che lo faceva ‘signore’. Soprattutto se messo a confronto con il qualunquismo degli altri, ed erano in molti allora quelli che lo additavano e più spesso lo denigravano nei loro discorsi. Mai apertamente in volto.

L’ho sentito con queste mie orecchie rispondere al bancone di un bar ad un avventore che osò interloquire ridendo di lui, rispondere che se solo si fosse reso conto quanto era ridicolo in quei suoi panni di persona perbene, non sarebbe mai dovuto uscire dalla porta di casa. Fatto è che era sempre di partenza. Lo si vedeva nottetempo con la sua valigia né grande né piccola, quasi sempre alla stessa ora, tra le due e le tre, sbucare da un angolo di strada, mai lo stesso, fare e rifare lo stesso tratto come per imprimerselo nella memoria, per poi imboccare la via che portava alla fermata delle corriere. Una volta arrivato si accendeva una sigaretta e ne aspirava il fumo con piacevolezza. Quindi, se ne restava in piedi ad attendere l’arrivo di questa o quella corriera per poi lasciarsela passare davanti, senza salire e di conseguenza senza discenderne. Sì da farmi venire in mente quel ritornello di Cochi e Renato che faceva: “ma dove arriva se parte?” in senso contrario “ma se non parte dove arriva?”. Di fatto dopo alcune ore, ed era già mattina inoltrata, eccolo che arrivava, tornando da chissà dove (?).

La notte dopo vestito di tutto punto con le calze a rete da sciantosa sotto l’abito sgargiante e boa avvolto al collo su lunghe collane di finte perle e scarpe coi tacchi vertiginosi, di nuovo affrontare la strada con disinvoltura portandosi dietro oltre alla valigia una borsa a tracolla luccicante di strass, che a vedersi sembrava essere già sul palcoscenico di un qualche varietè. Talvolta però azzardava di troppo, specialmente nei giorni di pioggia era capace di indossare solo un impermeabile sul corpo nudo, lasciando ammirare ai passanti, che fossero donne o uomini non aveva alcuna importanza, il suo grosso uccello penzoloni. Magro e nerboruto, l’altezza giusta di un metro e settantacinque circa, capelli neri brizzolati, Julius poteva dirsi un bell’uomo, e che uomo, soprattutto quando si lasciava crescere quel po’ di barba che faceva tanto finto trascurato. Raffinato ed elegante qualsiasi cosa indossasse, sia che fosse vestito per metà coi pantaloni e scarpe da uomo, e metà da donna con finta pelliccia di leopardo. Sia quando, con quella non calanche che lo distingueva, indossasse in piena estate, un cappotto di caschemire color cammello con tanto di sciarpa.

Allora lo si incontrava al bar per il suo solito cappuccino correto al cognac, o magari davanti a un bicchiere di birra ghiacciata, e sempre nel momento di pagare la consumazione aggiungeva una m,anciata di caramelle che infilava nelle tasche senza neppure scartarne una. Poi attraversava la strada e si portava alla fermata della ‘sua’ corriera, e attendeva per ore. Quale sarebbe stata quella che avrebbe preso quel giorno, nessuno poteva saperlo, e talvolta gli avventori del bar vi facevano su delle scommesse ch’erano senza esito, perché nessuno aveva la pazienza e il tempo di aspettare quella di quel giorno come Julius. Allorché tornava con lo stesso abito indossato prima di uscire, come fosse uscito in quel momento da un ‘salone di bellezza’. Si parlava spesso di lui nelle comunanze e con la gente di passaggio che s’informavano su chi mai fosse quell’individuo stravagante. Le chiacchiere per lo più si soffermavano a dire di lui che aveva subito un tragico incidente, o una forte delusione d’amore, oppure per l’appunto era solo uno ‘stravagante’.

E forse era proprio quest’ultimo appellativo a centrare l’obiettivo perché in tutto ciò che Julius faceva c’era una certa dignità di essere quello che era, o che si sentiva di essere in quella determinata e specifica occasione. Un giorno in cui anch’io ero presente si presentò al bar in tenuta da corridore in calzamaglia rosa, con tanto di bici rosa tenuta per il manubrio e caschetto rosa in testa, fiasca alla cintola, calzature coordinate, occhiali da sole rosa, pronto per una ipotetica corsa, che tutti ci domandammo dove mai si sarebbe svolta. Ricordo che la curiosità era tanta e si attese che finito il suo cappuccino e raccolta la sua manciata di caramelle, uscisse per vedere quale direzione avrebbe preso. Solo quando, disinvolto e sprezzante degli sguardi curiosi, salì in bici e scomparve dopo la prima curva, direzione un lungo rettilineo che costeggiava il mare. Per quel giorno non lo si rivide più. Né la notte successiva. Si seppe poi, o forse soltanto lo si disse, ch’era stato ricoverato in ospedale per una brutta caduta. Povero Julius! Successivamente lo si rivide ancora al bar, di pomeriggio, con tanto di mantella nera con cappuccio, scarpini da giocatore sotto un pantalone di tuta felpata color bluette. Un’altra volta, sempre di pomeriggio, giunse in abito elegante gessato scuro, camicia e cravatta in shantung blu-notte, capello tirato a lucido brillantinato, con gli occhi truccati di nero e un filo di rossetto sulle labbra, il passo deciso e affettato da indossatore.

Raggiunse il bar e chiese solo una manciata di caramelle, quindi attraversò la strada e raggiunse la fermata delle corriere. Nell’attesa si accese una sigaretta e ne aspirò il fumo voluttuosamente. Sembrò curioso che quel giorno non avesse con sé la sua valigia. Allora si pensò avesse un appuntamento galante con qualcuno che sarebbe dovuto arrivare: una donna?, un uomo?, un amore, il suo amore? Solo sul tardi e poiché, c’erano dei posti liberi sulla panchina d’attesa, si sedette e afferrato un giornale lasciato lì per caso dsa qualcuno, prese a leggere ad alta voce i fatti del giorno. Il tono della sua voce era declamatorio, il suo dire sciolto con qualche pausa di una certa partecipazione, da fine dicitore. Sì che alcuni fra i presenti si misero ad ascoltare. Quel pomeriggio ricordo, ci fu un numeroso passaggio di corriere e gente che saliva e scendeva di continuo, si avvicinava a quell’individuo e poco dopo se ne allontanava in fretta. E dire che qualcuno pensò gli sarebbe piaciuto stare ad ascoltare quell’uomo elegante che declamava di politica e di società rendendo il tutto così interessante. Al punto che alcune persone infine scambiarono con lui una stretta di mano, ma nessuno di loro, tuttavia, allungò la mano per porgli qualche monetina. Che affronto sarebbe stato per Julius, tant’è che fu lui, di sua sponta, a dare alcune delle sue caramelle a un barbone che più che starlo a sentire si era avvicinato a quel ‘signore’ con il cappello in mano senza proferire parola.

Poi arrivò il 24 dicembre, la notte in cui Julius indossata la maschera di Saint Nicolas con tanto di tiara in testa, parrucca e barba lunga e bianca, s’avvicinò alla fermata della corriera con la sua valigia costellata di luoghi del mondo che aveva visitato, e una grande sacca di juta sulle spalle, e si pose in attesa. Aspettò a lungo, per tutta la notte, e tale era la stanchezza e l’affaticamento di portarsi dietro la sua pesante valigia e quel grande sacco, che si sedette sulla panca ormai vuota, data l’ora e il giorno della festa. Nessuno dei locali ormai faceva più caso a Julius, le sue stramberie eranodiventate proverbiali da rasentare la pantomima, e così rimase fino al sorgere del sole. L’indomani mattina, giorno di Natale, lo trovarono appisolato con gli occhi chiusi, intirizzito e tuttavia sorridente. Nessuno si chiese di cosa ridesse se non quando, nel frugare nel suo sacco lo trovarono pieno di caramelle che Saint Nicolas nelle vesti di Babbo Natale avrebbe consegnato a tutti i bambini. Lo portarono via con un’ambulanza a sirena spiegata, e quando gli infermieri incuriositi aprirono la sua valigia, così pesante da non farcela quasi a tirala su, questa s’aprì e ne fuoriuscirono tanti libri di tutti i generi letterari: le biografie su Nerone, Napoleone, Casanova, Mata Hari, Chaplin, Freud. E tantissimi romanzi: Stendhal, Balzac, Villon, Buzzati, Defoe, Calvino, Twain, Chandler, Kafka, De Amicis, Flaubert, Green, Hemingway, Poe, Melville, Manzoni, Miller, Stevenson, Swift, Fitzgerald, Lawrence, Pirandello, Pasolini, Schopenhauer, Tolstoj, Proust, e quel “A Christmas Carol” di Charles Dickens. Tanti personaggi diversi, tanti quanti erano stati quelli che Julius nottetempo aveva interpretato nella vita e sulla scena di questo nostro mondo.

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- Ecologia

’SORELLA TERRA, LA NOSTRA CASA COMUNE’ - Mostra a Roma

'SORELLA TERRA, LA NOSTRA CASA COMUNE' - Mostra a Roma

“Sorella Terra, la nostra casa comune” : mostra di National Geographic ispirata al messaggio della Laudato si’, la rivoluzionaria enciclica di papa Francesco dedicata alla salvaguardia del pianeta a cura di Marco Cattaneo e della redazione di National Geographic Italia, promossa da Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali.

National Geographic Italia, in occasione del Giubileo straordinario proclamato per la fine del 2015 e ispirandosi alla rivoluzionaria enciclica "verde" del pontefice, Laudato sI', presenta la grande mostra “Sorella Terra, la nostra casa comune”, dedicata alla nostra casa comune, ci conduce in un viaggio ideale tra i temi e il messaggio dell'enciclica e oltre 60 scatti dei maestri dell’obiettivo sulla fragilità, la sofferenza, la bellezza di questo nostro pianeta in pericolo.

Il percorso si apre sulla magnificenza della natura, per poi proseguire con il degrado ambientale e umano, l’urbanizzazione selvaggia, l’inquinamento, gli esclusi, ma anche la biodiversità e la sostenibilità. Il tutto accompagnato da fotografie - realizzate da Dave Yoder per National Geographic e da altri grandi fotografi - che ritraggono papa Francesco in vari momenti del suo pontificato: dai bagni di folla delle udienze a piazza San Pietro agli attimi di raccoglimento in preghiera, fino ai suoi viaggi pastorali.

I temi trattati da Francesco nella sua seconda lettera apostolica sono i cavalli di battaglia di National Geographic, che si batte da sempre per la salvaguardia del pianeta, gettando luce sui problemi e sulla ricerca delle possibili soluzioni, e, dalla sua fondazione, "ispira le persone a prendersi cura del pianeta". Un motto che sposa alla perfezione le parole del pontefice: “La terra è ferita, serve una conversione ecologica”, scrive papa Francesco nel testo dell'enciclica che non si rivolge solo ai cristiani ma “a ogni persona che abita questo pianeta”, gettando luce sull'inquinamento, l'esaurimento delle risorse naturali, lo sfruttamento selvaggio della natura, la perdita della biodiversità, il deterioramento della qualità della vita, l'iniquità planetaria, il degrado sociale, e su molte altre “ferite” del nostro mondo. Una esortazione ecologica integrale con profonde implicazioni morali, sociali, economiche e spirituali. Un testo che sottolinea la stretta relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta e la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso, invitando a cercare nuovi modi di intendere l'economia e il progresso e sottolineando le gravi responsabilità della politica internazionale e locale.

Dove: al Museo di Roma - Palazzo Braschi
Sale espositive del secondo piano. Ingresso da Piazza Navona, 2 e da Piazza San Pantaleo, 10
Quando: dal 22 dicembre 2015 - 28 febbraio 2016
Orari: martedì / domenica ore 10.00 / 19.00
24 e 31 dicembre ore 10.00 / 14.00
La biglietteria chiude un’ora prima
Chiuso il 25 dicembre 2015 e il 1 gennaio 2016



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- Musica

WELCOME TO JAZZIT.IT - Il Magazine Italiano del Jazz

WELCOME TO JAZZIT.IT

IL MAGAZINE ITALIANO DEL JAZZ CAMBIA LOOK E VALE UNA VISITA

 

Jazzit è una dinamica piattaforma editoriale impegnata nella divulgazione della musica jazz. Nel corso degli anni ha ampliato e diversificato la sua attività, adoperando i nuovi canali d’informazione e promuovendo iniziative volte a superare la frammentazione della comunità jazzistica nazionale. Si muove su più fronti:

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Caratteristiche: Nome | Jazzit Competenza | rivista specializzata di musica jazz Cadenza | bimestrale Pagine | 144 Edizione | cartacea e digitale. Fattura tipigrafica | stampa in piano e rilegatura con brossura cucita. Anno di nascita | 1997 Editore | Vanni Editore srl Direttore | Luciano Vanni

 

Sommario:

Cover story | monografia dedicata ai protagonisti del jazz contemporaneo e di sempre.

CD story | approfondimenti abbinati all’allegato discografico.

Scrapple From The Apple | rubrica a firma di Ashley Kahn.

Behind Jazz | rubrica a firma di Dave Schroeder.

Talking | intervista a firma di Stuart Nicholson.

Jazz Anatomy | rubrica a firma di Roberto Spadoni.

Three Wishes | rubrica a cura della redazione.

Storie | saggio di approfondimento storico-musicale a firma di Sergio Pasquandrea.

Interviste | dialoghi con i musicisti contemporanei.

Focus | approfondimenti discografici.

Records | recensione di dischi jazz.

Oldies but goodies | recensione di ristampe jazz.

DVD | recensione di dvd jazz.

Books | recensione di libri jazz.

 

Jazzit in edizione digitale è la soluzione più rapida per leggere la rivista, consultarla da tablet, smartphone o sfogliarla su PDF. Ovviamente è possibile acquistare le singole copie o sottoscrivere un abbonamento.

 

Nel n.91 Novembre/Dicembre 2015:

‘Lingomania reunion’ Appuntamento al Big Mama di Roma (Vicolo San Francesco a Ripa 18) - giovedi 7, venerdi 8 e sabato 9 gennaio 2016.

A distanza di trent’anni dall’uscita dell’esordio discografico “Riverberi” (Gala, 1986), il gruppo Lingomania (Maurizio Giammarco, Umberto Fiorentino, Furio Di Castri, Roberto Gatto) ha deciso di riunirsi nuovamente (con la new entry di Giovanni Falzone) non solo per celebrare la musica di quel disco, ma anche per proporre diversi brani inediti dell’epoca (di cui mantengono lo spirito, anche se alla luce di una revisione più attuale) e nuovi brani originali, che testimoniano il loro più recente e altrettanto importante cammino individuale.

«I Lingomania sono stati un gruppo importante sia dal punto di vista dei dischi sia da quello delle esibizioni dal vivo. È una band che ha colto un momento particolare, in cui noi tutti eravamo in sintonia quanto a gusti musicali, amavamo quell’onda lunga della fusion che arrivava dall’America. In realtà secondo me i Lingomania erano soprattutto un gruppo jazz, e anche un gruppo molto ben strutturato. Maurizio tra noi era quello con più esperienza: scriveva quasi tutta la musica del gruppo e la organizzava benissimo. Noi eravamo tutti più giovani di lui e devo dire che ci teneva abbastanza sotto! Provavamo moltissimo e i risultati si sentivano. I Lingomania sono stati un gruppo che ha lasciato una sua impronta, come avevano fatto qualche anno prima i Perigeo. Mi capita ancora di incontrare persone che arrivano con quei dischi, se li fanno autografare, segno che la musica del gruppo è rimasta» -

Roberto Gatto in Jazzit 87 (marzo/aprile 2015)

 

‘Time in Jazz’ Due weekend di musica a Berchidda Due weekend di musica fra tradizione e innovazione, con workshop, mostre e concerti: il 5 e 6 dicembre, e poi sette giorni dopo, sabato 12 e domenica 13, doppio appuntamento a Berchidda (Olbia-Tempio). L’associazione culturale Time in Jazz, titolare dell’omonimo festival internazionale fondato e diretto da Paolo Fresu, completa il percorso di due progetti che l’hanno vista impegnata nel corso dell’anno: uno è “Sonata di Mare”, un circuito transfrontaliero (cofinanziato con il Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale) che riunisce vari festival ed eventi dell’area marittima e costiera di Corsica, Liguria, Toscana e Sardegna, con l’obiettivo di valorizzare e mettere in relazione reciproca la musica tradizionale e contemporanea dei rispettivi territori e creare nuove produzioni artistiche.

 

L’altro progetto è invece “I Luoghi del Jazz” (realizzato con il contributo del MiBACT) che ha come obbiettivo la valorizzazione dei luoghi e delle residenze artistiche delle organizzazioni partner coordinate da Time in Jazz (le associazioni Spaziomusica di Ancona, Polyphonia di Lucca, Rest-Art di Novara, Musica Moderna di Thiene in provincia di Vicenza, Locomotive di Sogliano Cavour in provincia di Lecce e l’Onyx Jazz Club di Matera), e la costituzione di reti tematiche strutturate attorno a “poli di aggregazione” artistica e hub creativi. A “Sonata di Mare” è dunque dedicato il primo weekend, in calendario sabato 5 e domenica 6 dicembre, che sotto il titolo “Sonos” stringe il focus sulla musica del Mediterraneo: protagonisti delle due giornate, tra conferenze, masterclass e concerti, il sassofonista Stefano Cocco Cantini, il pianista e fisarmonicista Antonello Salis, il suonatore di organetto diatonico Carlo Boeddu, il coro Cuncordu e Tenore de Orosei, il cantore corso Jérôme Casalonga, l’etruscologa Simona Rafanelli. A far da cornice, una mostra di strumenti delle tradizioni musicali delle regioni coinvolte nel progetto “Sonata di Mare”.

 

Dalla tradizione alla contemporaneità, nel fine settimana successivo (12 e 13 dicembre), che nel segno di “Mediterraneo Digital Project” affida il suo svolgimento ai contributi della cantante e pianista Debora Petrina, del chitarrista Enrico Merlin, del sassofonista Gavino Murgia, del trombonista Gianluca Petrella, e del dj e conduttore radiofonico Alessio Bertallot. Sigla comune ai due fine settimana, il titolo “via Milano 18: suoni a domicilio” fa un chiaro riferimento al luogo che li ospita: il Centro Laber, l’ex caseificio riconvertito in “fabbrica” di cultura e spettacolo, base operativa di Time in Jazz domiciliata appunto al civico 18 di via Milano a Berchidda. L’iniziativa è organizzata in collaborazione con il Comune di Berchidda e con il contributo del Gruppo Unipol che, con il suo Corporate Sponsorship Program, sostiene progetti artistici e culturali, con la convinzione che lo sviluppo economico di un’impresa debba progredire accompagnando e appoggiando anche la crescita culturale e sociale della comunità in cui opera.

 

'58th Annual Grammy Awards Nominees' Il 7 dicembre 2015 sono state rivelate le nomination alla 58esima edizione dei Grammy Awards. I premi saranno assegnati il 15 febbraio 2016 presso lo Staples Center di Los Angeles. Questi gli artisti e gli album selezionati per quanto concerne il jazz: BEST IMPROVISED JAZZ SOLO 'Giant Steps' Joey Alexander, soloist Track from: My Favorite Things Label: Motema Music

BEST JAZZ VOCAL ALBUM 'Many A New Day': Karrin Allyson Sings Rodgers & Hammerstein Karrin Allyson Label: Motema Music

BEST JAZZ INSTRUMENTAL ALBUM 'My Favorite Things' Joey Alexander Label: Motema Music

BEST LARGE JAZZ ENSEMBLE ALBUM 'Lines Of Color' Gil Evans Project Label: Blue Note/ArtistShare

BEST LATIN JAZZ ALBUM 'Made In Brazil' Eliane Elias Label: Concord Jazz E molto, tantissimissimo, altro!

 

ENRICO INTRA ‘L’Avvento a suon di jazz’: Dall’1 al 24 dicembre 2015 a Milano, tutti i giorni alle ore 18.00, il suono festoso del jazz scandirà il tempo dell’Avvento. Dalle finestre del Palazzo del Comune in piazza Duomo, Enrico Intra e i musicisti dei Civici Corsi di Jazz della Civica Scuola Claudio Abbado – Fondazione Milano, saranno protagonisti di un calendario vivente, in cui il numero dei componenti della formazione musicale corrisponderà al giorno del mese. Dal solista del primo incontro al duo del secondo, via via sino a giungere ai ventiquattro coristi dell’ultima data, gli organici dei gruppi saranno numericamente legati a quelli della data in calendario. Il concerto di apertura, il 1 dicembre, sarà un assolo del maestro Enrico Intra, che interpreterà in chiave jazz musiche tradizionali natalizie e improvviserà sui temi, tra gli altri, di Gershwin, Porter, Rogers. A conclusione del suo concerto, Intra svelerà il filo conduttore di tutto l’evento proponendo un arrangiamento in chiave jazz del celeberrimo Stille Nacht, noto canto natalizio di origine austriaca. E ogni sera i musicisti concluderanno il loro concerto con un diverso arrangiamento dello stesso brano: ventiquattro arrangiamenti di 'Stille Nacht', come augurio per un sereno Natale.

 

Facciamo quindi un grosso ‘in bocca al lupo’ al nuovo Jazzit.it e un sincero Buon Natale a tutti.

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- Cinema

MIGLIOR EUROPEAN FILM AWARDS 2015 a Paolo Sorrentino


EUROPEAN FILM AWARDS / BERLINO 2015
Ancora una volta Paolo Sorrentino stravince e porta a casa il premio più ambito con la pellicola ‘Youth – La giovinezza’.

Si è conclusa quest’anno a Berlino la premiazione del European Film Awards con premiati e disillusi (scontenti) che hanno presentato molte opere cinematografiche di pregio e che, stando alle cronache, alcune forse erano più meritevoli di altre. Ma è sempre stato così, accade ad Hollywood per gli Oscar e a Venezia per il Leone d’Oro, e che dire allora della Palma d’Oro a Cannes? Tuttavia nessuno si scandalizza più, oppure sì, ma poi, immancabilmente come ogni volta succede, finisce che ce ne facciamo una ragione. Del resto ormai tutti sono bravi e nessuno indispensabile, saranno i botteghini a decretare il successo di questa o quella pellicola, mentre per gli attori/ci il premio rappresenta un autentico riconoscimento, più spesso alla carriera ma, come nel caso di ‘Youth’, un ufficiale quanto autorevole apprezzamento per le loro capacità artistiche, quale ad esempio quella ottenuta da Michael Cane. Per quanto anche in questa occasione si registra una pecca di garbo (o forse una diversità di vedute), il co-protagonista nel film, l’attore Harvey Keitel (‘Alice non abita più qui’, ‘Taxi Driver’, ‘I duellanti’, ‘Lezioni di piano’, ecc.), un ‘grande’ veterano del cinema che ci ha regalato cammei e personaggi di grande spessore che, non figura nella lista dei premiati e non credo solo per il ‘peso’ (2kg.) della statuetta d’argento (una donna vestita di stelle), disegnata dall’inglese Theo Fennell.
Tuttavia, un’Europa coerente non può essere rappresentata che dalla sua diversità, una caratteristica che normalmente genera incoerenza. Buona fortuna, quindi, è l’augurio che ogni anno ci sentiamo di rivolgere all'Accademia del Cinema Europeo che eredita una responsabilità tanto importante quanto difficile da concretizzare in un solo evento. I European Film Awards devono al contempo restare una celebrazione dell’anno cinematografico europeo, rivendicare la propria identità in un’industria dominata dai format imposti da Hollywood, ma anche dare prova di modernità, per convincere coloro che avevano relegato l’evento in un armadio che l’odore di naftalina è definitivamente scomparso. Soffia persino un vento di freschezza su questa grande celebrazione, ormai degna di questo nome. Quest’anno, sicuramente più dell’anno scorso, i canali tv europei hanno mancato un evento mediatico di primissimo piano organizzato con una produzione di valore tipicamente europea. La 28a cerimonia dei European Film Awards ha vibrato dei suoi numerosi colpi di scena, di un’emozione unitaria e di uno stile proprio ormai consolidato. Mondano, politico, artistico, abbiamo assistito a un grande spettacolo di due ore e mezza che ha lasciato solo qualche spiraglio all’imperfezione e alle critiche legate all’invecchiamento dell’organizzazione diretta da Agnieszka Holland e Wim Wenders, sempre più in buona compagnia.
Un anno dopo la consacrazione di Ida, che è andato bene sia nelle sale che nei festival nonostante potesse avere per il grande pubblico una facciata austera, è il lirismo fiammeggiante di Youth - La giovinezza a ornare lo stendardo del miglior film europeo 2015. Bisogna vedervi una reazione quasi metaforica dei votanti a favore di uno stereotipo che è necessario quantomeno costruire per permettere al cinema europeo di essere strategicamente identificato e promosso nella grande competizione mondiale? Forse inconsciamente, perché concretamente, hanno giocato le circostanze. Il figlio di Saul, grande assente della serata, non è stato sottoposto ai membri dell’Accademia per un problema che definiremo "tecnico", e senza offesa al genio di László Nemes, forse è meglio così. L’opera è di difficile accesso per un pubblico non preparato, e non mancheremo di sottolineare il paradosso del Premio del Pubblico che è stato assegnato nel corso della serata a La isla mínima, grande film ma piccola distribuzione, anche europea. Che gioia vedere comunque la Spagna tra i vincitori. Altri assenti continuano a mancarci.

Trama del film from Wikipedia – L’enciclopedia libera

Fred Ballinger, anziano compositore e direttore d'orchestra, si trova in vacanza sulle Alpi svizzere con la figlia Lena e l'amico Mick Boyle (Harvey Keitel grande assente di questa competizione), vecchio regista ancora in attività. I due amici si trovano a pensare insieme al futuro, osservando con curiosità le vite dei propri figli e degli ospiti dell'albergo in cui risiedono. Mick trova delle difficoltà nel portare a termine il suo ultimo film, mentre Fred si è ritirato dalle scene ormai da molti anni. Ma c'è ancora qualcuno che vuole ascoltare le sue sinfonie: Arriva infatti da Londra un emissario della regina Elisabetta, la quale lo invita a dirigere un concerto delle sue note ‘Canzoni Semplici’ a Buckingham Palace in occasione del compleanno del principe Filippo, in cambio della nomina a baronetto. Fred rifiuta secco l'offerta, confessando di aver composto quelle melodie esclusivamente perché fossero intonate dalla moglie Melanie, che ora non può più cantare. La stessa Lena rinfaccia al padre di aver ormai abbandonato la figura della moglie, a cui ormai da anni non va più a Venezia a portare un fiore. Un altro rapporto che si sviluppa nell'hotel è quello tra Fred e Jimmy Tree, un giovane e famoso attore hollywoodiano che tenta ormai da tempo di ritrovare la sua dimensione artistica in vista di un nuovo importante ruolo, deluso nell'essere ricordato dai fans soprattutto per aver preso parte ad una saga di blockbuster di fantascienza piuttosto che per altri film più impegnati girati con importanti registi. Nel frattempo Mick è entusiasta della sceneggiatura della sua nuova pellicola, ‘L'ultimo giorno della vita’, di cui ancora sta cercando il finale adatto e che definisce il suo "testamento artistico", scritto a più mani dallo stesso Mick e da un gruppo di giovani sceneggiatori. Come protagonista il vecchio è deciso a scritturare la diva Brenda Morel, che lui ha reso famosa e con cui in passato ha lavorato parecchio, stringendo un forte legame. Durante il soggiorno all'hotel Lena si invaghisce di un intraprendente scalatore, che è metaforicamente in grado di lasciarla in sospeso in questo punto particolare della sua vita (è stata da poco abbandonata dal marito Julian, figlio di Mick, fuggito con la giovane popstar Paloma Faith). I due amici si troveranno ad affrontare il loro futuro, la loro vita che continua a svolgersi in due modi diversi: Fred con rimpianto ed apatia e Mick con gioia di fare e di vivere. Presto all'hotel giunge Brenda, la quale comunica a Mick in uno straziante dialogo che non ha intenzione di prestarsi a girare la sua ultima pellicola, preferendo un ruolo profumatamente pagato in una serie televisiva. Gli rinfaccia di essere ormai invecchiato e di aver perso lo scopo della sua arte; Mick le risponde che l'ingratitudine nei suoi confronti non può che lasciarlo attonito, essendo stato lui a farla entrare nel mondo del cinema e a renderla famosa. Brenda accetta la sua condizione di persona orribile, ma se ne va in modo freddo e tuttavia comprensivo con una realissima frase: «Questa stronzata del cinema finisce, la vita va avanti!». Poco tempo dopo, i due amici dialogano nuovamente come ogni giorno. L'apatia di Fred prevale, mentre la gioia che si sta spegnendo in Mick rimane sospesa. Dopo aver dato un messaggio preciso all'amico (deve vivere e non sopravvivere) Mick esce sul balcone della stanza e si getta di sotto, suicidandosi. Dopo questo fatale gesto dell'amico, Fred rimane nella sua espressione di apatia ma allo stesso tempo affronta una profonda redenzione interna. Per prima cosa si reca a Venezia a portare un fiore alla moglie, ricoverata in una clinica in stato catatonico (ma finora ritenuta morta dagli spettatori). Dopodiché, l'uomo accetta di recarsi a Londra per eseguire nuovamente le sue melodie, facendole cantare al soprano Sumi Jo. Un chiaro segno del fatto che ha superato il suo blocco vitale. Ora lo aspetta di nuovo ciò che aveva perduto, e che Mick cercava continuamente di ritrovare: la giovinezza: qualcosa di simbolico quanto reale.

L’età, il ringiovanimento o l’invecchiamento, variazioni su uno stesso tema che era al centro della serata a più livelli. Due dei tre EFA onirifici sono andati infatti ad attori veterani che se ne sono tornati a casa anche con la statuetta, rispettivamente, della miglior attrice 2015 per Charlotte Rampling (45 anni, il titolo del film) e del miglior attore 2015 per Michael Caine (Youth) che, come ha lui stesso ammesso, non aveva mai ottenuto un premio in Europa. Una possibile giustificazione per questa scelta, anche se le statuette avrebbero pesato di più nelle carriere di uno dei nominati, e delle nominate, che invece sono rimasti a mani vuote.
Sir Michael Caine, giustamente, un monumento della drammaturgia britannica che ha ampiamente contribuito all’industria hollywoodiana e che ha ben ‘venduto’ sulla scena berlinese questa coproduzione tra Francia, Regno Unito, Svizzera e Italia, madre patria di Paolo Sorrentino, regista premio Oscar che sta ora lavorando anche con la televisione american. Tutto molto coerente con il posto che il Vecchio continente occupa non solo nella storia del cinema, ma anche nella storia della nostra civiltà culturale in senso più ampio. La missione di coerenza e diversità è compiuta.
Sosteniamo quindi che la ‘Giovinezza’ del cinema europeo non sia più da dimostrare, così come la cura ricostituente rappresentata dai European Film Awards. In quanto partner, Cineuropa ringrazia l’Accademia e gli organizzatori per una grande serata da cui traiamo parte della motivazione comune che continuerà ad animarci nel 2016.

La lista completa dei vincitori:

Miglior film europeo: ‘Youth’ di Paolo Sorrentino

Commedia europea
‘Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza’, Roy Andersson
Regista europeo
Paolo Sorrentino, ‘Youth’
Attrice europea
Charlotte Rampling, ‘45 Anni‘
Attore europeo
Michael Caine, ‘Youth’
Sceneggiatore europeo
Yorgos Lanthimos & Efthymis Filippou, ‘The Lobster’

Documentario europeo
‘Amy’ , Asif Kapadia
Film d'animazione europeo
‘Song of The Sea’ , Tomm Moore
Rivelazione europea – Premio FIPRESCI
‘Mustang’ , Deniz Gamze Ergüven

People's Choice Award 2015 - Migliore film europeo
‘Marshland’ , Alberto Rodríguez
Cortometraggio europeo
‘Picnic’, Jure Pavlović
Direttore della fotografia europeo
Martin Gschlacht, ‘Goodnight Mommy’
Montatore europeo
Jacek Droslo,’Body ‘
Scenografo europeo
Sylvie Olivé, ‘Dio Esiste E Vive A Bruxelles’
Costumista europeo
Sarah Blenkinsop, ‘The Lobster’
Compositore europeo
Cat's Eyes, ‘The Duke of Burgundy’
Sound designer europeo
Vasco Pimentel and Miguel Martins, ‘Arabian Nights’
Premio per la carriera
Charlotte Rampling

Premio per il Contributo europeo al cinema mondiale
Christoph Waltz
EFA d'onore a Michael Caine
Premio alla coproduzione europea 2015 - Premio Eurimages
Andrea Occhipinti

Si ringraziano:
Newsletters from CINEUROPA (tradotto dall’inglese).
Trama film from Wikipedia – L’enciclopedia libera

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- Cultura

È NATALE ...libri, cinema, musica, poesia, concorsi.

È NATALE!

 

…tempo di narrazioni e di leggende legate alla tradizione, di addobbi e luminarie, di dolci e di regali sotto l’albero, di laudi e canzoni davanti al presepe, di girotondi attorno alla tavola imbandita, ma anche di nuove e buone intenzioni, affatto trascurabili nel loro divenire azioni che svolgiamo nei confronti di quanti, in questi giorni di festa, si trovano lontani dai rispettivi paesi d’origine, dai propri cari e dalle proprie tradizioni, e che non hanno davvero nulla per cui festeggiare, se non il ricordo vago di un ‘tempo migliore’ vissuto lontano dalle carestie e dai massacri che portano le guerre, dalle distruzioni e dalla fame; di quanti hanno perduto il lavoro e di quelli che non hanno più niente, tutto quanto spazzato via dai terremoti e dalle inondazioni, nessuno con cui dividere un pezzo di pane, nessuno per cui valga la pena dell’attesa, rinnovare il fervore della preparazione della festa, l’occasione per riscoprire i valori più semplici e gli affetti più profondi.

Piuttosto è l’inatteso che compete ai poveri, agli emarginati, ai migranti, a quei diversi che, pur non aspettandosi niente, in cuor loro sperano nella solidarietà, nella fratellanza, nell’amore reciproco di quanti dispongono la propria anima all’ospitalità, a quel poco che ormai c’è d’inatteso e che riporta all’originario senso di accoglienza e familiarità. Certo ai nostri giorni è difficile praticare con onestà morale quell’uguaglianza che un tempo era naturale all’interno di piccole comunità; la società odierna, in particolare quella delle grandi città metropolitane, non tova più il tempo per soffermarsi sulle ‘piccole cose’ del quotidiano, della salvaguardia di ciò che resta di un umanesimo obliterato che non risponde ai modelli dinamici dell’economia gòobalizzata.

Ciò non toglie che si sperperi sul significato di una ‘festa’ ridotta ormai al consumismo sfacciato, dimentica di quei valori tradizionali che pure hanno fatto ‘grande’ un evento altamente spirituale quale da sempre ha significato per tutti noi il Natale. Un pensiero va, se mai ve ne fosse bisogno ricordarlo, a quanti per tradizione familiare e locale condividono quella stessa filosofia che abbiamo fatto nostra e che contempla, oggi, l’alleanza tra la preziosa saggezza del passato con le conquiste innegabili del presente, con lo stesso animo in cui si offrirebbero i frutti più belli del proprio giardino con semplicità e gioia nel cuore, ai quanti sono bisognosi di un abbraccio, di una parola semplice che risuoni di quell’affetto e quell’amore che in molti casi non hanno mai avuto: e il mio pensiero è rivolto ai volontari che si adoperano nei servizi sociali, alle onlus, al terziario, e che spendono il loro tempo e le loro azioni con generosità. Ed anche a quanti chiamati a svolgere il proprio pubblico ufficio si adoperano per il corretto svolgersi dell’ordine civile con rettitudine e imparzialità, con equità e giustizia sociale, alfine di garantire quella ‘pace’ che noi tutti dovremmo coltivare accuratamente con tollerabile pazienza e fiducia nelle istituzioni.

È tempo questo di verificare se quanto fin qui speso nella costruzione dell’odierna società abbia funzionato a sostegno della cultura democratica che ci distingue; se la tollerabilità a ciò che era ‘inatteso’ fino a qualche tempo fa, sia ormai entrata a far parte della nostra realtà sociale e ne sia parte integrante. Soprattutto se, nell’interazione con gli altri popoli che innegabilmente da sempre accogliamo, siamo ancora oggi capaci di infondere quell’etica ‘del bello’ che tanto ci distingue nel mondo, e che va riferita non solo alla ‘cultura’ in generale, quanto alle singole specifiche dell’arte, della letteratura, della musica, della poesia lirica come della scienza, nonché di quella capacità produttiva che l’EXPO 2015 di Milano ha ampiamente dimostrato nel campo del gusto e dell’alimentazione che tutti oggi ci riconoscono. Se cioè, riusciremo a fare un uso della cultura più consono a quelli che sono i parametri sociali comunitari, all’interno di un mondo in evoluzione in cui tutto subisce e può subire eventuali capovolgimenti di carattere antropologico.

Né va qui dimenticato che la festa per l’Avvento, consolidata e annoverata all’interno del calendario testamentario cristiano, racchiude in sé, un messaggio d’amore e di orgoglio in cui il fatto meraviglioso della nascita di un 'bambino', si ripete in seno a ogni famiglia come l’atto finale della creazione divina. Un significato alto, intrinseco della maternità, con il quale si consacra il segreto nascere alla vita ad un’antica promessa di eternità, che da sempre avvolge la 'Natività' di un alone di luce, il cui abbagliante splendore, prevarica la misteriosa opacità della storia. La celebrazione del Natale officiata dal calendario liturgico, risponde, infatti, allo scandire del ‘tempo della festa’; tempo in cui l’umano intendere si fa interprete delle cose divine e si determina il naturale essere del mondo. Una festa contemplativa e poetica, devozionale ed esultante, che al di là dell’apparente semplicità, accoglie in sé esperienze acculturatrici diverse, che hanno contribuito alla sua secolarizzazione. Una festa che dobbiamo trasformare in motivo di gioia, quello stesso che nel corso dei secoli ha dato grande impulso all’esperienza dell’arte tutta, cui sono di riferimento i grandi cicli di affreschi eseguiti da eccelsi pittori, scultori e architetti, divenuti famosi per il loro operato all’interno di chiese e cattedrali, monasteri e cappelle, castelli e mausolei che sono sotto gli occhi di tutti.

Ma ed anche, di quello stuolo di aritisti e artigiani cosiddetti 'minori' come ceramisti, arazzieri, gioiellieri, armieri, mobilieri, tintori, sarti e semplici calzolai, che per secoli hanno dato impulso a quell'arte erroneamente  ritenuta ‘povera’, seppure lo hanno fatto con spirito di aumentarne il pregio, non tanto per distinguerla dall’arte aulica riservata alle grandi opere di culto ed altro. E che, come pur s’intuisce in questo articolato discorso, trova tuttavia il proprio campo di affermazione nella tradizione, quantunque rimanga legata ad ogni singola terra d’appartenenza. Il riferimento è rivolto soprattutto all’arte presepiale che fin dalle sue ‘povere’ origini, legate all’intuizione di San Francesco d’Assisi che nel lontano 1300 ne istituì l’esecuzione a Greccio, ha sempre distinto il Natale e che in assoluto è la festa più sentita in ambito familiare e comunitario, solitamente la più celebrata con grande partecipazione popolare.

Riscopriamo quindi il racconto testamentario del Natale nei suoi molteplici aspetti, corredato del proprio contenuto ‘agio-poetico’, a conferma di quanto la storia e la leggenda hanno maturato nei secoli sul piano della narrativa e della poesia popolare, come pure del canto liturgico e della sacra rappresentazione, così come negli scritti apocrifi e nei racconti orali, negli usi e nei costumi di molte genti diverse che, in qualche modo, condividono la stessa fede e la stessa speranza sotto l'egida: “che d'ogni cosa al fine si conservi memoria". Ed è proprio alla collettività che qui mi rivolgo nel far riferimento alla festa religiosa che introduce la Natività del Signore in seno alla Chiesa Cattolica, pur con l’osservare in essa, il risvolto laico delle sue origini antichissime; sia nel far riferimento agli usi e ai costumi popolari che le sono propri nell’insieme delle espressioni musicali e canore, sia all’alta spiritualità devozionale riaffermandone in senso compiuto la tradizione in cui trovano la loro specifica ragione di essere.

Ed ecco che già l’avvicendarsi delle singole voci, introduce all’esultanza corale e comunitaria, donde l'insieme di voci riunite dal ‘corpus’ iniziatico della tradizione si esprime in preghiere e inni sacri, laudi e oratori che si rivelano parti integranti di quel messaggio intelligibile, proprio del sacro. Un messaggio di pace e d’amore ma anche di fratellanza e solidarietà che giunge da ogni parte e da molte genti, che va oltre il significato escatologico della narrazione e rimanda ai capitoli successivi di quella ‘storia universale’ che noi tutti stiamo scrivendo. Cantiamolo insieme, dunque, questo ‘Alleluia' che ha già fatto il giro del mondo e che meglio d'ogni altra protende all’esultanza. Se è vero che la favola esalta la propria funzione nel ruolo catartico del mito, la tradizione costituisce il terreno della sua crescita, antepone alla storia, il ‘nunc et semper’ del meraviglioso.

Manifestazione di un sentimento profondamente umano, il Natale recupera alla coscienza cristiana l’infanzia edenica del mondo. La sua attestazione è rintracciabile fin negli archetipi del pensiero e si rivela, sopravvivenza stessa di un comportamento mitico, la cui cadenza rituale, prepone al congiungimento del tempo profano al tempo del sacro. È noto come in un tempo ormai lontano, convivessero nella coscienza umana, accanto ai riti propiziatori, credenze superstiziose e pratiche magiche che circondavano di speciale venerazione e timore riverenziale gli astri, attorno ai quali, i popoli più antichi andavano formulando gli intendimenti dell’esistenza umana. Niente di più attuale aspettando che il giorno dell'Avvento ritrovi infine un suo posto precipuo, a completamento del mosaico di ‘pace’ che noi tutti andiamo componendo.

I più giovani mi scuseranno se nelle mie parole troveranno un tono un po’ malinconico e un po' 'nostalgico'; che posso farci, è colpa dell'età. Solo perché, tutto sommato, un po’ di anni ce li ho e l’infanzia che mi porto dietro, mi torna a volte all’orecchio e mi fa riascoltare vecchie melodie e canzoni che non ho mai dimenticato. Come questo ‘gospel’ ad esempio, solitamente eseguito a ridosso delle festività: “What color is God’s skin?” di Thomas Wilkes e David Stevenson, portata al successo dagli Up With The People, un gruppo formato da bambini di tutte le razze, e che in qualche modo, mi riconcilia con questa umanità così diversa e così uguale, con le stesse speranze e le stesse disillusioni:

 

'What color is God’s skin?'

Good night I said to my little son so tired out, when the day was done. Then he said as I tucked him in, ‘Tell me Daddy, what color is God’s skin?’ I said it’s black, brown it’s yellow, it’s red, it is white every one’s the same in the good Lord’s sight. He looked at me with those shining eyes. Well I knew, that I Could tell no lies. When he said ‘Daddy, why do the different races fight, Il we’ve the same in the good Lord’s sight?’ Son, that’s part of our suffering past but we whole human family is learning at last. That the thing we missed on the road we trod. Was walking as the daughters and the sons of God. Yes, every one’s the same in the Good Lord’s sight.

 

Di che colore è la pelle di Dio?

Buona notte dissi al mio bambino / tanto stanco quando il giorno finì. / Allora chiese: "Dimmi, papà, / la pelle di Dio che colore ha?"/ Di che color è la pelle di Dio? / E' nera, rossa, gialla, bruna, bianca, perché / lui ci vede uguali davanti a sé. / Lui ci vede uguali davanti a sé. / Con l'occhio innocente egli mi guardò, / mentire non potevo quando domandò: / "Perché le razze s'odiano, papà, / se per Dio siamo una sola umanità?" / "Questo, figliolo, non continuerà, / l'uomo al fine imparerà / come dobbiamo vivere noi / figli di Dio da ora in poi." / Si, perché ognuno è uguale / Agli occhi di Dio.

 

Se Natale vuol dire speranza di pace, volersi un po’ più di bene, allora l’amore è parte della memoria arcana del mondo, o forse è una bella fiaba che sentiamo raccontare da sempre, nel giro armonico di questo infinito universo stellato che, in fine, continuerà a girare almeno finché ci sarà amore. Ed ecco, infatti, che dietro l’esperienza di una vita passata alla ricerca di significati, di dare un senso alle cose, ai gesti, alle parole, possiamo oggi apprezzare quella che è la festa più bella dell’anno, festa dell’incontro e dell’amicizia, una festa d’amore da condividere con gli altri.

 

BUON NATALE!

 

E per condividere il tempo della festa con semplicità, in segno di pace, con l’amore nel cuore, e che sia per la visita a chi è solo, per un abbraccio, un bacio, un sorriso di piacevolezza, reciprocità, solidarietà o, magari il semplice scambio di un piccolo dono, come per una serata passata insieme, in amicizia, in piena cordialità, per ritrovare il senso delle cose, restituire alla ‘festa’ il pieno valore di cui abbisogna; altrimenti che festa è? Allora basta far girare un buon libro che ci è particolarmente piaciuto, andare insieme a vedere un film, una mostra, ritrovarsi ad ascoltare della buona musica, partecipare a un coro, insieme a bere un bicchiere di vino, e perché no? Segnalo qui di seguito alcune iniziative fra le molte che mi sono arrivate, fra le quali ho scelto indubbiamente la più originale, organizzata dal Circolo Letterario Bel-Ami col titolo:

 

'IL CIRCOLO INVISCHIATO'

che si terrà Domenica 13 dicembre 2015, alle ore 19.30, presso Enoteca Letteraria, in Via delle IV Fontane, 130: una serata di letture clandestine e performance in salsa comico-grottesca. Si alterneranno performance, musica dal vivo, letture di testi poetici e narrativi, classici e contemporanei, ma accomunati tutti da uno stile goliardico e irriverente per prepararci psicologicamente alle imminenti cene natalizie. Per questo motivo tra le varie performance in programma ci sarà anche una rivisitazione del Canto di Natale di Charles Dickens. Inoltre, il Circolo letterario Bel-Ami per festeggiare i suoi dieci anni di attività, regalerà come ‘strenna di Natale’ a tutti i partecipanti, la nuova rivista letteraria annuale realizzata dai Soci del Circolo. Durante la serata si terrà la ‘riffa di Natale’, un’iniziativa dedicata a tutti coloro che a Natale desiderano regale e ricevere un libro in regalo. Per partecipare basta scegliere un libro (nuovo o usato), incartarlo e portarlo alla serata. Al termine della Festa di Natale saranno estratti a sorte tutti i libri e riassegnati ai vari partecipanti (tranquilli, non riavrete indietro il libro che avete scelto).

Contatti: ‘Enoteca Letteraria’ - Via delle IV Fontane, 130 (Metro Barberini) - Roma Prenotazione obbligatoria. Informazioni e prenotazioni: eventi@bellami.it - www.bellami.it

 

IL CINEMA:

 

‘TELL SPRING NOT TO COME THIS YEAR’ (da cercare)

Un film di Saeed Taji Farouky e Michael McEvoy, presentato nell’ambito di Milano XXth Film Festival 10-20 Settembre 2015, allo Spazio Oberdan e non ancora apparso nelle nostre sale cinematografiche, se mai questo possa avvenire. “Se sentite paura vuol dire che la morte è vicina: è questa l’unica verità che il comandante Jalaluddin, consegna ai propri soldati…” È la prima volta che mi spingo a recensire un film sulla guerra e lo faccio volentieri per questo documentario dal titolo letteralmente poetico, solo perché ‘nel suo insieme’ dichiara apertamente gli orrori della guerra, denunciando tutte quelle false-ideologie che tanto attraggono i giovani d’oggi in ogni paese del mondo, per dire loro che piuttosto sono i messaggi di pace che si devono portare avanti, che la guerra porta solo altra guerra, distruzione, morte. Lo so, anche questa è una frase fatta che sentiamo ripeterci da sempre, ma che tuttavia risulta inascoltata. Voglio ricordare ai giovani che seguono la musica, che vanno ai concerti, ai rave-party, che anche lì si può trovare la morte se non ci si conduce con intenzioni pacifiste, di semplice incontro, di fraternità sotto l’egida di quella musica che tutti ci accomuna. Voglio qui ricordare un altro brano che oggi può sembrare sciocco, in cui si diceva: ‘Mettete dei fiori nei vostri cannoni’; oppure quell’altro: ‘C’era un ragazzo …’ che pur nella sua semplicità raccontava dei guasti d’una guerra infame, perché ogni guerra è infame, quando porta via la gioventù del mondo uccidendola brutalmente, rovesciando sulla terra un fiume di lacrime e di sangue che nessuno potrà lavare. Solo la pace, che tutto accoglie in sé e cancella in noi i ricordi del nefasto passato che ci portiamo dietro; che tutto perdona e tutti affratella nella giustizia e nella libertà, può colmare le fosse del diverbio, della vendetta, dell’olocausto in nome di una qualche verità che sappiamo essere falsa. Oggi, dopo quanto sta accadendo in diverse parti del mondo, dopo che a centinaia i giovani e intere famiglie sono state depredate della loro gioia di vivere, non abbiamo una canzone da cantare, perché nessun canto può risollevarci dal massacro finale cui andiamo incontro, questo documentario ci dice, e lo fa con le sue immagini, che dobbiamo voltare le spalle alla guerra, ai falsi-ideali che ottenebrano la visione illuminata del creato in cui noi siamo destinati e beneficiati di vivere.

Note di regia: 'Tell Spring Not to Come This Year' sfida le tradizionali rappresentazioni mediatiche della guerra in Afghanistan e dell'Esercito Afghano, affrontando una grande lacuna nella copertura di notizie: il punto di vista degli stessi soldati afghani. Il film segue la storia degli uomini di un’unità mentre vivono, lottano, ridono e muoiono insieme. È uno sguardo sottile e umano nei confronti di un tema ampiamente coperto dai media, ma poco compreso. È il primo film a cui è stato concesso un vero e proprio inserimento nell’Esercito Nazionale Afghano, e i registi sperano che contribuirà al dibattito sul futuro dell’Afghanistan umanizzando i soldati afghani, mostrando cosa sia veramente la loro guerra ed esplorando le sfumature del conflitto e del paese. L'Afghanistan inevitabilmente scomparirà dai titoli dei giornali una volta che le truppe straniere se ne andranno, ma il film si propone di fissarlo saldamente nell’agenda dei media, presentando le storie di chi vivrà a contatto con la guerra anche molto tempo dopo che la NATO sarà andata via. Newsletter di Cineuropa - www.cineuropa.org

 

“A BIGGER SPLASH” (da non perdere) Il film ‘cool’ di Luca Guadagnino, con finale a sorpresa: per parlare, per discutere, per capire la società attuale con le sue avversità e contrarietà. “Una rockstar in convalescenza e il suo compagno consumano le loro giornate a bordo piscina o lungo le cale di Pantelleria. Marianne ha subito un intervento alle corde vocali, Paul è sopravvissuto al suicidio. Eccitati dal sale e accarezzati dal vento, Marianne e Paul ricevono la visita di Harry, ex iperbolico e logorroico che si accompagna a Penelope, figlia ventenne emersa dal passato. L'equilibrio e la 'riabilitazione' della coppia sono interrotti dall'uomo, deciso a riprendersi Marianne. Penelope intanto è attratta da Paul e dalle sue cicatrici che dicono fisicamente della sua inquietudine. Lo scirocco, vento anormalmente caldo, si alza sulle emozioni trattenute e i desideri puniti, riscaldando l'aria e il clima. (Melo)dramma psicologico a pelo d'acqua, A Bigger Splash 'ruba' il titolo al quadro di David Hockney e il soggetto a Jacques Deray (La piscina) per raccontare le dinamiche del desiderio attorno a un rettangolo blu e dentro una 'stagione' dominata dall'apologia idolatrica per il godimento immediato. A incarnare il godimento che cancella il limite e conduce alla rovina è Harry, il personaggio interpretato da Ralph Fiennes, il padre da 'uccidere' per riportare la luce e tirare il freno. (Marzia Gandolfi - MyMovies 2015)

 

LA MUSICA DA LEGGERE E DA ASCOLTARE:

 

“CON LE MIE LACRIME”: I primi 50 anni dei Rolling Stones – LA CASE Books.

Massimo Bonanno racconta i primi 50 anni dei Rolling Stones, dagli esordi ai giorni nostri, senza tralasciare nulla: demo, concerti, album, bootleg, scandali, rumors, curiosità, arresti, business, rarità per collezionisti, trasgressione. Grazie ad un rapporto diretto con Andrew Oldham, primo produttore del gruppo, e con Philip Townsend, lo storico fotografo dei primi anni sessanta, Bonanno ha ricostruito con maniacale cura dei dettagli i primissimi anni di vita della band, anni in cui gli Stones crearono il loro mito, per arrivare poi ai giorni dei tour mondiali faraonici e del business più estremo. Partiti dagli scantinati di Londra sono diventati delle icone mondiali: i Rolling Stones incarnano l'essenza stessa del rock, la colonna sonora di intere generazioni che hanno sognato, amato, pianto e riso con i loro riff indimenticabili. Perché "it's only rock & roll, but i like it!" info@lacasebooks.com

 

"VIAGGIO IN JAZZ": Graphic Novel (Edizioni Corsare)

presenta Greta Panettieri, cantante vulcanica ed eclettica, compositrice e multistrumentista, indubbiamente una delle voci internazionali più incantevoli e virtuose, disegnata dalla fumettista Jasmine Cacciola e dedicata alla sua avventurosa ascesa artistica a New York. Greta è nata in Italia ma è cresciuta professionalmente negli Stati Uniti. La sua vita è stata oggetto da parte della casa editrice Edizioni Corsare di questo libro a fumetti, con in allegato l'album "Under Control", composto e inciso tra New York e Roma insieme a grandi artisti, tra cui il celebre produttore Larry Williams (Michael Jackson, Quincy Jones, etc.), e accompagnata dal pianista e produttore Andrea Sammartino. Il fumetto segna il suo attuale rientro in Europa con vari progetti che la vedono protagonista di numerosi sold out nei teatri e nei club italiani, collaborando con diversi colleghi tra cui Sergio Cammariere, Fabrizio Bosso e Gege' Telesforo, e "sfornando" l'album di successo “Non Gioco Più” (Italian ’60 in Jazz), amatissimo dalle radio: una rilettura dei successi interpretati dalla grande Mina con uno stile del tutto inedito ed originale, riproponendo in modo raffinato anche il virtuosissimo brano “Brava” che ha conquistato anche il mercato discografico giapponese. Link: http://www.edizionicorsare.it/illustrati/viaggio_in_jazz.html

Contatti: www.gretapanettieri.com e-mail fiorenzagherardi@gmail.com

 

"WAITING FOR YOU" di Mirko Signorile

Mirko Signorile a spasso in mainstream con il suo recente album. Il pianista pugliese pubblica il nuovo lavoro per la ‘Piano Series’ di Auand Records in trio con Marco Bardoscia (contrabbasso) e Fabio Accardi (batteria). Riprendere pezzi del proprio passato, della propria storia, e confrontarli con la propria identità attuale può sembrare un esercizio di stile. Ma può diventare un intrigante modo di divertirsi su un repertorio familiare: un ponte verso la musicalità più immediata e spontanea, capace di un’espressività elegante e a tratti minimale, a un pianismo riconoscibile, a brani che suonano come danze, sinuose o frenetiche. Il suo nuovo lavoro in trio, “Waiting For You”, appena pubblicato da Auand Records, è uno specchio che riflette l’immagine odierna del pianista sullo sfondo del jazz più classico, da “Moon River” a “I’m Getting Sentimental Over You”. Temi su cui ogni jazzista si è confrontato per costruire il proprio linguaggio. E su cui oggi il pianista pugliese sceglie di raccontare nuove storie.«Dopo anni di lavori basati su composizioni originali – dichiara il leader – avevo voglia di tuffarmi nel puro piacere di suonare. (..)Il piglio brillante e appassionato, carico di swing, accompagna non solo le riletture ma anche i tre brani scritti da Signorile e ispirati in qualche modo all’epoca d’oro del jazz (l’incalzante “In the secret”, la morbida “Waiting for you” e l’ambrata “Wind of Sand”), ed è reso ancora più efficace da arrangiamenti essenziali, capaci di lasciare ai singoli componenti tutta la libertà di condurre personali percorsi sonori senza molti vincoli; (..) qualcosa di fresco e sorprendente».

Info: Marco Valente +39.347.6107026 - link diretto iTunes AUAND official website and social media: http://www.youtube.com/auand-http://www.twitter.com/auandrecords

 

“NEVER FAULT BEHIND THE SCENES” di Gianluca Lusi, multi-sax player and composer; Andrea Rea, piano; Reuben Rogers (double bass); Gregory Hutchinson (drums) – Tosky Records 2015.

G. Lusi, già Direttore di Facoltà e Docente di Sassofono, Armonia Classica e Jazz, Teoria e Solfeggio, presso l'Università della Musica di Roma. Docente di sassofono e laboratorio di improvvisazione jazz presso la Scuola Fonorecord di Avezzano (AQ). Ha partecipato ad importanti festival/rassegne jazz in Italia (Roma, Pesaro, Camerino, Perugia, Chieti, L'Aquila, Francavilla al Mare, Napoli, Policoro, Porto Sant'Elpidio, Bologna, Lanciano, Roccaraso, Rieti, Avezzano, Capistrello, Ancona, Bussi) e all'estero, ed ha all'attivo alcune registrazioni in edizione live, in sala di incisione ed una colonna sonora. Collabora abitualmente con importanti musicisti ed ha all'attivo numerosi dischi: "Live At Capistrello" Gianluca Lusi Quartet "Colonna Sonora" 1° sax soprano, per cortometraggio RAI/MEDIASET – SKY/RAISAT – Regista Pier Giorgio Bellocchio "Viaggio" Gianluca Lusi Trio - in uscita “Gotha 17" Gianluca Lusi/Luigi Masciari Quartet guest Pino Iodice e Aldo Bassi - Splasc(h) Records 2008 Contatti: tel (0863) 530844 - cell. (348) 8947081 - email: lusi.devis@libero.it

 

‘WHAT KIND OF MAN’ di FLORENCE AND THE MACHINE (alias Florence Welch e Isa Macchina

È on-line il numero 11 di dicembre 2015 della fanzine di Versante Ripido, con tema ‘la poesia femminile’. La ‘Rock Poetry’ di Fiorenza, della sua voce superba, della sua amica tastierista Isabella, detta “macchina” o di come tutto suoni meglio in inglese, soprattutto se parliamo di rock. Il gruppo precedente infatti si chiamava Fiorenza Robot/Isa Macchina. Troppo lungo, meglio ‘accorciato’ in Florence + the Machine. Troppo corto di sicuro non è, ma è così che alla fine conoscono un successo strabiliante. E il nome rimane. La prima volta che si ascolta Florence Welch si ha, per un attimo, l’impressione che si tratti di Grace Slick, storica cantante dei Jefferson Airplane. Voci limpide, potenti, elastiche. Ascoltandole, pare che il canto non costi mai fatica, che sia solo il fiato che naturalmente esce gola, e una volta fuori, risplenda in musica. Non capitano spesso, voci così. E' una storia e migliaia di storie. Gelo. Distanza. Dipendenza. Frastuono. Silenzio. È luogo comune, un cliché, una storia già vista. Non per questo meno vera:

 

‘What Kind Of Man’

Ero proprio all’estremo

Provavo ad attraversare un canyon

con un braccio rotto

Tu eri dal’altra parte

Come sempre, a chiederti cosa fare

della tua vita

Avevo già bevuto un goccio

Così ho pensato di essere abbastanza

ubriaca da poterlo affrontare

Tu eri dall’altra parte

Come sempre, non riesci mai a deciderti

E con un solo bacio

Tu ha inspirato un fuoco di devozione

Che è durato venti anni

 

Che razza di uomo, ama così?

 

Lasciarmi penzolare ad un angolo crudele

Oh i miei piedi non toccano il suolo

A volte sei metà dentro, e poi sei metà fuori

Ma non chiudi mai la porta

 

Che razza d’uomo ama così?

 

Sei un santo pazzo tutto colorato di blu

Piedi rossi sul pavimento

Fai così male, come puoi

Provare a farne ancora di più?

E con un bacio

Ispiri un fuoco di devozione

Che dura vent’anni

 

Che razza d’uomo ama così?

 

Ma non posso sconfiggerti

Perchê sono ancora con te

Oh, imploro misericordia

Come hai fatto?

Penso di averlo superato

Poi mi ritrovo ancora spalle al muro

 

Che razza di uomo ama così?

 

Contatti redazione@versanteripido.it - http://www.versanteripido.it

 

I CONCORSI:

 

PREMIO LETTERARIO LARECHERCHE.IT ‘Il Giardino di Babuk – Proust en Italie’ II edizione – anno 2016

Per opere inedite in lingua italiana. L’Associazione Culturale LaRecherche.it indice e organizza il ‘concorso letterario’ per opere inedite in lingua italiana articolato nelle seguenti sezioni: Sezione A: Poesia - Sezione B: Narrativa Il Premio, assegnato a opere di poesia e di narrativa che si distinguano per qualità letteraria, è dotato, a seguito di una donazione. La partecipazione è aperta a tutti gli scrittori purché maggiorenni ed è completamente gratuita. Il tema di ciascuna sezione è libero. È possibile partecipare a una sola sezione con una sola Opera in lingua italiana (non sono ammesse opere dialettali, comprese quelle corredate di traduzione). Si può partecipare solo con un’Opera inedita, ovvero, mai premiata, classificata, menzionata, segnalata a questo o ad altri Premi e/o Concorsi. Né mai pubblicata o divulgata né a mezzo stampa, né sul web (siti personali, privati, social network, eccetera), né su altro supporto possibile, con o senza codice isbn e deve rimanere inedita, fino alla pubblicazione ufficiale e definitiva della classifica da parte de LaRecherche.it sulla pagina web del Premio: www.larecherche.it/premio.asp.

 

PREMIO DI NARRATIVA, TEATRO E POESIA:

 

‘IL BUON RISO FA BUON SANGUE’

L’Associazione culturale e teatrale ‘Luce dell’Arte’ indice la III^ Edizione del Premio che ha lo scopo di mettere in risalto l’ironia ed il sarcasmo adoperato nella letteratura per trattare le più svariate tematiche. La risata è la medicina naturale migliore ... per combattere l’insoddisfazione e delusioni che a volte l’esistenza elargisce, e perciò si è usato come motto del premio un antico proverbio che è inno sacro all’allegria. Possono partecipare al concorso scrittori, poeti, attori e registi di nazionalità italiana e straniera senza limiti di età. Introdotte, inoltre, le sezioni C e D per opere a tema libero. Norme di concorso: Il concorso prevede 4 sezioni. Età minima consentita per partecipare: 18 anni. Età massima: nessun limite. E’ aperta la partecipazione pure ad autori stranieri, purché con traduzione in italiano allegata ai testi in lingua originale. Sezione Narrativa o Teatro a tema comico: si partecipa con un testo comico edito o inedito o raccolte edite ed inedite di Narrativa o Teatro (commedie, monologhi o testi di cabaret). Il numero massimo di opere per partecipare è di tre. Il tema su cui ironizzare è libero e non ci sono limiti di lunghezza. Si può partecipare con opere premiate o no in altri concorsi letterari (per il Teatro si accettano opere in italiano o vernacolo con traduzione allegata). Sezione aperta sia ad autori che attori e registi teatrali creatori di testi. Partecipazione anche per e-book. Sezione Poesia a tema comico: si partecipa con un massimo di tre opere poetiche altamente ironiche, comiche e sarcastiche edite o inedite. Non ci sono limiti di lunghezza per gli elaborati. Sezione aperta sia ad autori che attori. Si possono mandare poesie in italiano o vernacolo, queste ultime con traduzione allegata. Partecipazione anche per libri di poesie o e-book. Sezione Poesia a tema libero: si partecipa con un massimo di tre opere poetiche a tema libero edite o inedite. Non ci sono limiti di lunghezza per gli elaborati. Si possono mandare poesie in italiano o vernacolo, queste ultime con traduzione allegata. Partecipazione anche per libri di poesie o e-book. Sezione Narrativa o Teatro a tema libero: si partecipa con un testo a tema libero edito o inedito o raccolte edite ed inedite di Narrativa o Teatro (commedie o monologhi). Il numero massimo di opere per partecipare è di tre. Si può partecipare con opere premiate o no in altri concorsi letterari (per il Teatro si accettano opere in italiano o vernacolo con traduzione allegata). Sezione aperta sia ad autori che attori e registi teatrali creatori di testi. Partecipazione anche per e-book. Info: Presidente dell'Ass.ne Luce dell'Arte, dott.ssa Carmela Gabriele. Via dei gelsi, 5, 00171, Roma e-mail: associazionelucedellarte@live.it. O al n. 3481184968 - Ass. Luce dell'Arte: www.lucedellarte.altervista.org

 

I LIBRI / LA FILOSOFIA:

 

‘AI POETI NON SI SPARA’ di Luigi Malerba a cura di Luca Archibugi – Manni Editori 2012.

Una rilettura della raccolta di pièce narrative, scritte per il teatro e per la radio (ma non solo) da Luigi Malerba: le parole diventano abitanti di un alveare in cui i racconti si accavallano a voci non sempre utili né tantomeno sensate. In fondo chi dice che l'espressione debba sempre mostrare lo spessore umano e non possa, semplicemente, celebrare l'insensatezza? “L’opera teatrale di Malerba ci pare spii, come di nascosto, la sorella: naturalmente, la sorella maggiore è la narrativa. Eppure, la spia del teatro rivela notevoli segreti, in particolare su uno dei temi centrali, quello del linguaggio. Ciò che accomuna le pièces qui raccolte, che costituiscono la maggior parte del corpus delle opere scritte per il teatro e per la radio, è la visione chiara di come Malerba operi una doppia messa in scena: da un lato, lo scambio di parole, soltanto apparente, che informa e determina tutti i personaggi, che dialogano in modo consueto, scorrevole; dall’altro un piano sfondato in cui si mescolano lingua ed insensatezza che, elidendosi a vicenda, conducono al cospetto di un grottesco nulla abitato dagli umani, cui non rimane altro che celebrare tale cerimonia dell’assenza”. (Marianna Peluso – Il sole 24 ore, 2012).

 

‘FIGURE E OMBRE’ di Giovanni Maurizi – Manni Editori - 2015

“È un grande romanzo della solitudine, questo calibratissimo insieme di cartoni narrativi che il poeta bolognese Giovanni Maurizi ha concertato come una suite musicale. Solitudini sentimentali, intellettuali, sociali si alternano nelle diverse parti del libro, mantenendo attivo un principio di paradossale dialogicità, sia essa di volta in volta motivata dai dedali del monologo interiore o al contrario polverizzata in colloqui dell’assurdo (di evidente matrice esistenzialista), che richiamano alla mente il Beckett migliore. Felicemente ispirati da un principio sempre attivo di contraddizione e di paradosso, i capitoli della prima parte trovano poi un compimento radicalmente altro, sospeso fra tragico e grottesco al modo piuttosto di Kafka, nei due testi “politici” della seconda parte, ove il dettato narrativo è sigillato dentro un’esperienza di evidente matrice autobiografica condotta fino ai territori accidentati della metafisica e dell’incubo”. (Alberto Bertoni)

 

‘QUADERNI DI INSCHIBBOLETH’ n.4

È la rivista italiana di filosofia che accoglie lavori scientifici di studiosi di tutto il mondo, e che ospita in questo numero un saggio di Giorgio Mancinelli dal titolo: “Unità e differenza: la ricerca delle ‘pari opportunità’ e il superamento delle ‘diversità’ nell’organizzazione sociale”. Tematica più che mai attuale in ambito della pubblica amministrazione e del lavoro con ricadute discordanti nella pubblica opinione che, secondo chi scrive, richiede un qualche approfondimento pedagogico e antropologico, al fine di comprendere le linee portanti di una “diversità” effimera quanto più artificiosa. Una scelta che, per quanto sia necessairo seguire un filo tematico conduttore, vuole mettere a fuoco una “problematica” che in qualche modo aspetta una risposta alla domanda portante: è questo un problema? Probabilmente se ne continuiamo a parlare e a formulare pretesti di attualità, sussiste un problema che va risolto. Sostanzialmente il ‘saggio’ di riferimento si rivolge a quelle problematiche indotte che hanno portato alle “differenze di genere” che proprio la risoluzione delle “pari opportunità”, legate alla costruzione di modelli di riferimento, dovrebbe poter rimuovere definitivamente.

 

Il nuovo Conc:orso:

“Quaderni di InSchibboleth” rivolge un invito a partecipare con contributi originali in forma di saggi e recensioni per il prossimo numero dedicato al tema: ‘Figure dell’Inganno’. La proposta di saggi per la pubblicazione dev’essere inviata alla redazione della casa editrice in formato elettronico all’indirizzo: redazione@inschibbolethedizioni.com. Il prossimo numero, la cui uscita è prevista per Marzo 2016 si divide in tre parti: una parte sul tema del numero. Una parte di saggi specialistici su altri temi, ed infine una parte di recensioni su saggi di recente pubblicazione non necessariamente legati al tema. Allo stesso indirizzo possono essere richieste le norme redazionali da seguire in fase di stesura dell’articolo. Gli autori devono certificare (nella mail che accompagna l’articolo) che il loro testo non è mai stato pubblicato, né simultaneamente sottoposto o già accettato per altre pubblicazioni. Dovranno, inoltre, essere accompagnati da un abstract in italiano e in inglese (l’abstract non è richiesto per le recensioni). Dopo una prima lettura la segreteria di redazione invia la proposta di articolo per un esame critico a due lettori anonimi (peer review) per la valutazione dei contributi proposti per la pubblicazione. Gli esiti della valutazione (accettato, rifiutato, proposta di modifica) vengono comunicati in seguito all’autore. Le recensioni saranno valutate dalla redazione senza referaggio. Gli articoli dovranno pervenire entro il 30 gennaio 2016. La risposta sarà comunicata entro il 28 febbraio 2016. Contatti Redazione c/o Inschibboleth società cooperativa sociale, Via Alfredo Fusco 21, 00136, Roma – Italia,http://www.inschibbolethedizioni.com/quaderni-n-4/

 

LA POESIA:

 

‘CONTINUERÒ A CANTARE’ è il nuovo libro di poesie di Carlos Sanchez, Ed. Librati, Ascoli Piceno, 2015.

Carlos Sanchez è nato a Buenos Aires e viaggiato in molti paesi dell’America Latina e del Medio ed Estremo Oriente come consulente ed esperto in comunicazione sociale per organismi delle Nazioni Unite e della cooperazione internazionale. Ha lavorato come lettore e professore di Lingua e Letteratura Ispanoamericana presso le Università ‘La Sapienza’ di Roma, Cassino e Napoli. Come giornalista, regista e fotografo ha collaborato con riviste e giornali di tutto il mondo. Ha scritto sceneggiature e diretto programmi televisivi per la RAI. Pratica il Qi Gong da oltre vent’anni e tuttora trasmette la sua esperienza ad un gruppo di allievi. Risiede in Italia dal 1968 e attualmente vive a Folignano (Ascoli Piceno).

 

‘Meraviglioso quotidiano’

In questa vita dove tutto sembra così reale

il tuo canto si accumula nella materia grigia nella

punta delle dita delle tue mani e

questo sembra ugualmente molto normale.

Il vento che non muove una foglia

il cielo incerto con le sue nuvole

l’orologio che ha perso l’equilibrio

la gatta partoriente che geme

la mia signora che legge un libro di filosofia il figlio

che brilla per la sua assenza

la televisione che non si accende

il rubinetto col suo irritante sgocciolare

l’uccello e le briciole di pane

la vicina col suo tappeto sul balcone.

Tutto sembra così normale

dicevo in questo meraviglioso quotidiano.

 

Carlos Sanchez ha all’attivo molti libri di poesie in lingua spagnola e in italiano, tra cui ‘Ricordati che non sai ricordare’ (ed. Lìbrati, Ascoli Piceno, 2010), ‘Sempre ai confini del verso - Dispatri poetici in italiano’, (Antologia a cura di Mia Lecomte, Ed. Chemins de tr@verse, Paris, 2011). Le sue poesie si trovano in ‘Antologia della poesia argentina’, a cura di Raúl Gustavo Aguirre, (ed. Libreria Fausto, Buenos Aires, Argentina, 1979). Attualmente collabora nell’Area Europea alla rivista polidiomaticaon-line d’arte e cultura ‘I Poeti Nomadi’. Il poeta è presente inoltre sulle pagine della rivista letteraria on-line @larecherche.it nella sezione ‘Sfogliando … Cárlos Sanchez’ – Contatti: sanchez.carlos@tiscali.it

 

‘IN OGNI PIU’ PICCOLA VOCE’ è soltanto una delle cinquecento ‘liriche’ composte dalla poetessa Amina Narimi che la rivista on-line @larecherche.it ospita sulle sue fittissime pagine dedicate alla poesia.

Ma chi è Amina Narimi? Uno spirito libero, la cui voce ancestrale, sussurrata nel vento, porta alle generazioni future le emozioni occulte d’ogni sentimento, il germinale iniziatico e conclusivo dell’inconfutabile.

 

‘In ogni piu’ piccola voce”

Non c'è punto che non veda del suo sguardo,

tutto respira tutto ringrazia.

Eppure viene solo da una tenda di perline mosse

per il vento lo scintillio degli occhi,

come di un animale

quando si avvicina al buio, restituendo doglie.

Resta e splende, nel mezzo,

come una donna illuminata

tra il sogno e la sua comprensione

- non scintillerebbe sulla pelle fino a esplodere,

mettendo pace.

È invisibile il senso di una luce viva

che continua al buio il coraggio nella mano,

poco fa ancora vuota.

La terribile bellezza che si compie

occupa spazio e si muove nel tempo,

tra quello stordimento che prende chi non sa,

nel luogo in cui è giunto,

cosa rispondere, pronto a dire:

con tutta la vita,

con solo la vita testimonio il cuore di un canto,

che quasi cade per troppa impazienza

di vedere con gli occhi di Dio

i nomi per lei,

in cui tutto trasforma e mantiene.

Come tornare all'eterna fontana,

ricomincia così la poesia, in quel lento riandare

di versi, ascoltando il suo corpo invisibile,

come strumento in preghiera

- che piange.

Che danza che ama che ride,

e si offre, cercando il respiro mai interrotto coi morti.

Lungo la madre dei fiumi,

tormentata da dighe,

così quando il vento la muove,

oltre la luce più bassa,

risplende il suo sguardo altre vite ad accogliere orme ..

. . .

e lei che si apre,

in ogni più piccola voce.

Contatto: amina.narimi@larecherche.it

 

Con ciò vi auguro una buona visione, un buon ascolto e soprattutto tante buone letture.

*

- Musica

‘THE SPECIAL TOUCH’ of Fabio Giachino.

‘THE SPECIAL TOUCH’ of Fabio Giachino.

Giorgio Mancinelli ‘incontra’ Fabio Giachino al teatro di Villa Torlonia - 29/11/2015

Considerato che il mattino pieno di luce e la frescura dell’aria aperta sta al Jazz come l’acqua santa al demonio, la splendida cornice del recuperato teatro di Villa Torlonia, è sembrata invece la custodia perfetta, (se mai si è vista una custodia per piano a coda), ovattata e con la giusta penombra, per accogliere il ‘touch-sound’ di Fabio Giachino, il giovane pianista in particolare forma per questo concerto per ‘piano solo’, organizzato nell’ambito del Roma Jazz Festival con Tosky Records, la giovane etichetta indipendente ideata e condotta da Davide Belcastro e Giorgio Lovecchio, specializzata in Jazz & Music Libraries.
‘A special touch’ potrebbe essere la cifra riconoscibilissima del giovane jazzman approdato sulla scena italiana e non solo, e che oggi a Roma ha presentato il suo nuovo concept-album “Balancing Dreams” apparso da alcuni giorni sul mercato discografico. 13 pezzi presumibilmente facili (ma che non lo sono affatto) che, Fabio Giachino già nelle due cover di Monk e Duke, (due mostri sacri che hanno fatto la storia del Jazz), con le quali ha intervallato sue composizioni, ha ampiamente dimostrato un possibile raggiungimento artistico dei due ‘intoccabili’, pur con il rispetto dovuto. Raggiungimento che di certo arriverà con la maturità e l’impegno volenteroso di dimostrarlo allorché la sua dedizione al Jazz diverrà totale, spogliato cioè delle sovrastrutture delle mode.
Ma lasciamo fare a Fabio Giachino le sue esperienze e veniamo al compositore oltre che esecutore dei brani contenuti nell’album presentato ‘live’ in concerto. Dopo la ‘intro’ e il ‘cantabile’ “Balancing Dreams” che lasciava pensare a una sorta di Pollini in Jazz (pur sempre un grande), si è passati all’apertura di “Crossings” seguito dallo strepitoso “Awakenings”, (un pezzo che suggerisco come single accompagnato da un suggestible-trailer), e da “Stride ‘n ‘rhythm” dove lo ‘stream’ di Fabio supera il limite della tastiera, quasi non gli bastasse e volesse andare oltre. Quindi è seguito l’omaggio al grande John Coltrane con “Trane’s Mood” colto nella sua essenza migliore, quel ‘changes’ del bop con il quale Coltrane ha tradotto la ‘pulsione’ interiore del sax nello stile del free-jazz.
Straordinaria quanto insospettabile la lezione di “Underground Blues”, verosimilmente appresa dall’ascolto profondo della musica nera suonata nel delta del Mississippi, quel “Old Man River” che ha dato vita alle grandi voci del Blues da Tom Robeson a Ma Raney, da Billie Holiday fino a B.B.King ecc. Brano con il quale Fabio Giachino ha dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, la padronanza totale del genere, strappandolo alla propria intimità per regalarlo all’ascoltatore in un susseguirsi di emozioni musicali. Ancor più e in senso esclusivamente esecutivo, sorprende invece tutti il brano “Torino, New orleans, New York” eseguito con un ospite molto speciale: il rapper ENSI, con il quale Giachino ha stretto una particolare sinergia durante il Torino Jazz Festival 2014 con il risultato di una loro collaborazione appunto in questo brano, (non eseguito in questo concerto ma presente nel cd) in cui più si sente la freschezza della sua giovane ‘verve’ alle prese con ciò che giustamente lo attrae della scena musicale, dall’hip-hop al ‘rappare’ in free-style che delinea la sua matrice improvviso-creativa.
Non a caso si è detto dello ‘special touch’ di Fabio Giachino, una sorta di sofisticata impronta che lascia sui tasti del piano nei suoi ‘diminuendo’ e ‘crescendo’ con cui alimenta le sue composizioni trasferendovi quei sentimenti intimistici, propri del rapporto affettuoso (d’amore?) che intende trasmettere all’auditorio, accalappiando la sua silenziosa presenza (senza scrosci di mani ad interrompere la sacralità del suono) in una sorta di ‘meditazione’ cui solo la musica classica ci ha educati. Quanto accade nell’ascolto di alcuni brani più pacati, per dire di più ampia armonizzazione, dove il piano, pur da solo sulla scena, lascia infrasentire la possibile interazione di altri strumenti come il contrabasso e le percussioni. Scambievolezza che appunto sta nei passaggi ‘variations’ dei brani, dove il bass predomina sul piano quasi in a-solo, tantè che a un certo momento ho dubitato che fosse nascosto dietro le quinte.
Ma chi è Fabio Giachino, dove se n’è stato nascosto fin’ora, quale la sua preparazione, i suoi studi, le sue velleità e quant’altro? Ma sarebbe stato del tutto inutile per me fargli di queste domande quando si conosce ormai tutto di lui, del suo virtuosistico talento e della sua presenza sulla scena del Jazz fra i pochi fortunati italiani che si sono aggiudicati il riconoscimento del pubblico internazionale, come Danilo Rea, Stefano Bollani, Rita Marcotulli e altri dei quali si può trovare di tutto di più sulle pagine del web. Per essere all’altezza della situazione e cercare di approfondire alcuni aspetti del suo background musicale, ho scambiato con Fabio Giachino solo qualche cordialissima ‘veduta’ che non fosse già stata esaudita nel corso del video/intervista presentato in sala in cui egli esplicita le sue possibili ‘vie di fuga’ dentro e fuori del Jazz.
Fabio Giachino: Per me è un grande banco di prova: in "Balancing dreams" sono faccia a faccia con la parte più nascosta di me. La sfida risiede nella necessità e nella capacità di lasciarla fluire completamente.(dal video)

Prendendo spunto da questa ammissione ho chiesto a Fabio in che cosa consiste la sua idea di Jazz?:

FG: L’idea è la libertà, immensa, difficile da raggiungere e allo stesso tempo da gestire. Per quanto mi riguarda è l’apice artistico al quale ciascuno nel suo piccolo dovrebbe ambire, e il jazz in quanto musica improvvisata, ce ne offre la piena possibilità.

Perché un ‘pianista-jazz’ sente sorgere improvvisa la necessità di esibirsi in a-solo, ciò non contraddice l’essenza stessa del Jazz?:

FG:Il pianoforte è uno strumento meraviglioso e assolutamente autosufficiente, la sfida per me risiede proprio nel riuscire a dominarne le potenzialità e non far sentire l’esigenza di altri strumenti intorno a me. Sia ben chiaro che amo suonare insieme ad altri strumenti in contesti più ampi e la sinergia che scaturisce dall’incontro di più musicisti è unica ed irripetibile. Quando si è soli entrano in gioco altre dinamiche, è un dialogo con la propria essenza nel quale si cerca di essere il più sinceri possibile… se con gli altri a volte è facile mascherare o addirittura mentire, quando ci si trova faccia a faccia con se stessi è impossibile.

Dopo le molteplici esperienze fatte con altri artisti ‘in-section’ e con molti e diversi strumenti, con quali il tuo ‘piano’ si è trovato a colloquiare meglio, hai delle tue preferenze?:

FG: Sicuramente la ‘mia Band’ è la situazione che prediligo (Davide Liberti: contrabbasso, Ruben Bellavia: batteria). Con loro si è presentato da subito un feeling unico che con il tempo è diventato qualcosa di solido, una certezza direi! Ho avuto la fortuna di incontrare musicisti straordinari e di esibirmi con loro, tra tutti mi sento di citare in particolare D.Liebman e M.Giammarco con i quali personalmente mi sono trovato estremamente bene ed a mio agio.

Quale futuro vedi per il Jazz in Italia?:

FG:Io sono ottimista! Il livello dei musicisti è alto, noto parecchia progettualità soprattutto tra i musicisti più giovani che creano gruppi e formazioni stabili, questo è bene. Le uniche consistenti difficoltà si riscontrano negli spazi, soprattutto nella gestione… troppo spesso le programmazioni preferiscono situazioni commerciali a progetti realmente ricchi di spessore artistico o innovativi, viene confusa la celebrità con la qualità e questo è male. Vedremo gli sviluppi dove ci porteranno.

Dall’esterno, quale futuro vedi sulla scena jazzistica di Fabio Giachino, pensi davvero di strabiliarci?:

FG: Ahah spero di si, ma mi accontento anche di regalarvi un paio di ore piacevoli senza troppi pensieri e preoccupazioni!

Tutto questo può sembrare poco, quanto basta se si pensa alla durata dell’incontro con Fabio avvenuto nella annessa sala-rinfresco allestita per il dopo concerto, ai piedi della scala d’accesso adorna di putti in marmo silenziosi e di tanta gente vociferante che gli stringeva la mano e si complimentava con lui. Tuttavia (c’è sempre un’ombra di dubbio che si nasconde dietro le quinte di qualsiasi teatro del mondo) nel concerto-live l’artista (perché di questo si tratta) pur avendo dichiaratamente espresso la sua vicinanza al pubblico presente, non ha potuto nascondere quell’implicita ‘timidezza’ che il piano-solo richiede nel rapporto a-due, quasi fosse di fronte a un ‘Pas de deux’ che nella danza crea un isola dal resto del balletto classico e destinata a ballerini virtuosisticamente più dotati, (solitamente i solisti o i primi ballerini), che si sfidano l’un l’altro per la palma della migliore interpretazione di se stessi, cone in questo caso, Giachino e la sua musica.

Apprezzabile il package di presentazione, la cura grafica, l’eccezionalità e la resa del taglio fotografico che riveste il CD, un po’ meno le tante (troppe) note interne (illegibili) non strettamente necessarie. Ma come pure rivela Giorgio Lovecchio (Tosky Records) è il contenuto che conta: "Il piano solo è una scommessa sia per Tosky Records che per Fabio Giachino. Vi sono alcuni esperimenti e tanta bella musica: siamo convinti che il progetto piacerà molto."

INFO E LINK
Video "The Making of" https://www.youtube.com/watch?v=rdr6c6xckZU
Videointervista a Fabio Giachino https://www.youtube.com/watch?v=B5M683YsBvA
L'Archivio 14 http://www.larchivio14.it/portfolio/2141/
www.fabiogiachino.com
www.toskyrecords.com
Ufficio Stampa Fiorenza Gherardi De Candei
Tel. 328 1743236 E-mail fiorenzagherardi@gmail.com
Ringraziamenti a entrambi per la disponibilità rivolta ai lettori della rivista letteraria on-line larecherche.it e per i piacevoli momenti passati insieme. G. M.

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- Musica

FABIO GIACHINO ’Piano Solo A Villa Torlonia - Roma Jazz Fes.

FABIO GIACHINO al Roma Jazz Festival e a L'Archivio 14 presenta il nuovo album in piano solo 'Balancing Dreams'

Questo week-end la città di Roma vede protagonista il grande pianista piemontese Fabio Giachino, impegnato in due concerti per presentare il suo ultimo lavoro "Balancing Dreams",in nuovo disco per 'piano solo' prodotto da Tosky Records, con composizioni originali e un ospite molto speciale: il rapper ENSI, con il quale Giachino ha stretto una particolare sinergia durante il Torino Jazz Festival 2014. Il risultato della loro collaborazione è il brano "Torino-New Orleans-New York", a cavallo tra jazz e rap/hip hop, entrambi linguaggi fortemente caratterizzati da una matrice improvvisativa.

Pluripremiato e talentuoso, Giachino sarà live domenica 29 novembre alle ore 11 al Teatro di Villa Torlonia per il Roma Jazz Festival, mentre sabato 28 novembre sarà nel locale L'Archivio 14 alle ore 22.

Raggiunta la notorietà con il suo Fabio Giachino Trio, insieme al quale negli ultimi anni si è affermato sia sulla scena nazionale che in molte venue europee ricevendo diversi premi e riconoscimenti, con questo disco in piano solo Giachino affronta un traguardo e allo stesso tempo una sfida molto importante per ogni pianista, segnando un fase totalmente nuova sia dal punto di vista compositivo che espressivo, dopo il terzo e travolgente album "Blazar" (uscito all'inizio del 2015).

Nell'equilibrio dei propri desideri e sogni - proprio come rivela il titolo "Balancing dreams" - il piano solo diventa un dialogo intimo e suggestivo, in cui l'amore per la musica e per il jazz raggiunge il proprio apice attraverso una totale libertà espressiva.

Fabio Giachino: "Per me è un grande banco di prova: in "Balancing dreams" sono faccia a faccia con la parte più nascosta di me. La sfida risiede nella necessità e nella capacità di lasciarla fluire completamente."
Giorgio Lovecchio (Tosky Records): "Il piano solo è una scommessa sia per Tosky Records che per Fabio Giachino. Vi sono alcuni esperimenti e tanta bella musica: siamo convinti che il progetto piacerà molto."

Pianista di riferimento della nuova generazione jazz italiana, Giachino è stato scelto per rappresentare la città di Torino in due eventi istituzionali a Bruxelles e Barcellona. Si è inoltre esibito in festival e club in Francia, Svizzera, Inghilterra, Repubblica Ceca, Polonia, Turchia, Romania, Canada, U.S.A e tutta Italia collaborando con grandi artisti tra cui Dave Liebman, Furio Di Castri, Fabrizio Bosso, Rosario Giuliani, Emanuele Cisi, Maurizio Giammarco, Aldo Mella, Marco Tamburini, Dino Piana, Enzo Zirilli, Aldo Zunino, Dusco Goycovitch, Javier Girotto, Miroslav Vitous, Achille Succi, Benjamin Koppel, Mark Nightingale, Roberto Taufic, Juan Carlos Calderin. Con il Fabio Giachino trio nel 2014 ha festeggiato i 100 concerti realizzando un lunghissimo tour in tutta Italia per presentare il secondo album “Jumble Up” e continuando ininterrottamente le date per tutto il 2015 con l'uscita dell'ultimo album "Blazar". Nel 2015 ha firmato la colonna sonora del film-documentario "Compro Oro. Vivere jazz vivere swing" dedicato alla Torino jazz degli anni '60 e '70, con la partecipazione di Piero Angela, Pupi Avati, Enrico Rava e altri artisti.

Negli anni Giachino è stato insignito di importanti riconoscimenti a livello nazionale e internazionale: il "Premio Internazionale Massimo Urbani 2011", il "Premio Nazionale Chicco Bettinardi 2011" e il Red Award "Revelation of the year 2011" JazzUp channel; inoltre, nel 2011, 2012 e 2013 è stato votato tra i primi 10 pianisti italiani secondo il referendum "JAZZIT Awards" indetto dalla redazione della rivista JAZZIT. Con il Fabio Giachino Trio ha ottenuto il Premio Speciale come "BEST BAND" al "Bucharest International Competition 2014", il premio "Fara Music Jazz Live 2012" (sia come miglior solista che come miglior gruppo), il premio "Barga Jazz Contest 2012" ed il "Premio Carrarese Padova Porsche Festival 2011".

INFO EVENTI E LINK
Roma Jazz Festival http://www.romajazzfestival.it/teatro-torlonia-6/
Teatro di Villa Torlonia http://www.teatrodivillatorlonia.it/events/fabio-giachino-piano-solo/

Video "The Making of" https://www.youtube.com/watch?v=rdr6c6xckZU
Videointervista a Fabio Giachino https://www.youtube.com/watch?v=B5M683YsBvA
L'Archivio 14 http://www.larchivio14.it/portfolio/2141/
www.fabiogiachino.com
www.toskyrecords.com

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Ufficio Stampa Fiorenza Gherardi De Candei
Tel. 328 1743236 E-mail fiorenzagherardi@gmail.com


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- Alimentazione

RAF FERRARI 4TET: ’Quattro’ in Tour

RAF FERRARI 4TET: 'Quattro' in Tour

Dopo il grande successo all'Auditorium Parco della Musica di Roma per il concerto di presentazione del nuovo album "Quattro" (produzione Helikonia), parte a novembre il tour del Raf Ferrari 4tet tra Italia e Slovenia toccando le città di Fiesole il 12 novembre, il 13 Udine, il 14 Ljubljana, il 16 Mira, il 7 dicembre Umbertide, l'8 dicembre Siena, il 26 dicembre Potenza e il 21 gennaio San Benedetto del Tronto.
Dopo i primi due dischi, "Pauper" e "Venere e Marte", "Quattro" si rivela un lavoro eccellente e di raffinata sensibilità artistica che mette in luce il grande talento di Raf Ferrari, colto pianista nonché compositore di origine lucana, ma romano d'adozione.
Il carattere fortemente biografico dell'album è esteso a tutti i componenti dell'ensemble, con "ritratti" musicali simbolici e augurali, testimoniando la stretta unione professionale e umana cementata nel corso di un decennio di intesa collaborazione.
Il Raf Ferrari 4tet è una formazione atipica nel jazz – a piano, contrabbasso e batteria si affianca il violoncello – nata nel 2006 dopo una lunga sinergia tra Raffaele Ferrari e il violoncellista Vito Stano, il sodalizio si è poi esteso al contrabbassista Guerino Rondolone e al batterista Claudio Sbrolli, con i quali si è andato a costruire un interplay avvolgente e suggestivo, unito a una profondità lirica e melodica.
Il titolo del nuovo lavoro, vero e proprio concept album suddiviso in due suites, indica molti elementi autobiografici:

"Tutto nasce da un sogno fatto da bambino, dove una cara persona a cui ero affezionato mi appare mostrandomi un numero."
Questo numero diviene per Raf Ferrari una sorta di ossessione e si ripresenta a tappe differenti, nel tempo.

"Da allora ci penso: ancora altri quattro giorni? Quattro anni? Quattro figli? Quattro madri? Quattro donne? Quaranta anni? Quaranta quattro anni e basta? Dinanzi a me un solo numero....e gli fa strada il tempo…"

"Quattro" anche i componenti della formazione con un omaggio ai quasi dieci anni di attività insieme attraverso un linguaggio musicale che va dal jazz alla musica contemporanea, alla classica, con echi di pop-rock strumentale, funk e free. Libera improvvisazione, strutture ritmiche incalzanti, ma anche forma-canzone, temi cantabili, elementi popolari e spazi decisamente swing che si fondono con momenti di dolcezza.
La prima suite, anch'essa intitolata "Quattro", si struttura in quattro composizioni originali, raffigurazioni che il pianista dà di se stesso e dei suoi compagni di viaggio.
L'altra suite, "Le stagioni", è divisa discograficamente in quattro tracce dedicate alle stagioni, ma collegate musicalmente attraverso un unico brano senza interruzione. Si inizia con la rappresentazione dell’autunno per finire con "Estate", ballad che chiude il disco. Diciotto minuti di musica dove la voce-guida passa frequentemente dal violoncello al pianoforte, che si scambiano temi e background. Le sonorità, decisamente europee e mediterranee, sono imbastite di improvvisazioni che a volte seguono l’armonia e la struttura del tema, a volte l’anticipano. Talvolta la voce del violoncello si sovrappone a se stessa, sovraincisa come a rappresentare un quartetto d’archi.

LINK
www.rafferrari.it
Facebook: https://www.facebook.com/rafferrari4tet
"Le Stagioni" live@Parco della Musica di Roma: https://www.youtube.com/watch?v=sh2zaQOWPDA&feature=youtu.be8
"Utiemp": https://www.youtube.com/watch?v=e21_M6Gp14c

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- Cinema

Tell spring not to come this year - recensione film

‘TELL SPRING NOT TO COME THIS YEAR’

Un film di Saeed Taji Farouky e Michael McEvoy, presentato nell’ambito di Milano XXth Film Festival 10-20 Settembre 2015, allo Spazio Oberdan e non ancora apparso nelle nostre sale cinematografiche, se mai questo possa avvenire.

 

È la prima volta che mi spingo a recensire un film sulla guerra e lo faccio volentieri per questo documentario dal titolo letteralmente poetico, solo perché ‘nel suo insieme’ dichiara apertamente gli orrori della guerra, denunciando tutte quelle false-ideologie che tanto attraggono i giovani d’oggi in ogni paese del mondo, per dire loro che piuttosto sono i messaggi di pace che si devono portare avanti, che la guerra porta solo altra guerra, distruzione, morte. Lo so, anche questa è una frase fatta che sentiamo ripeterci da sempre, ma che tuttavia risulta inascoltata. Voglio ricordare ai giovani che seguono la musica, che vanno ai concerti, ai rave-party, che anche lì si può trovare la morte se non ci si conduce con intenzioni pacifiste, di semplice incontro, di fraternità sotto l’egida di quella musica che tutti ci accomuna. Voglio qui ricordare loro un brano che oggi può sembrare sciocco, in cui si diceva: ‘Mettete dei fiori nei vostri cannoni’; oppure quell’altro: ‘C’era un ragazzo …’ che pur nella sua semplicità racconta dei guasti d’una guerra infame, perché ogni guerra è infame, quando porta via la gioventù del mondo uccidendola brutalmente, rovesciando sulla terra un fiume di lacrime e di sangue che nessuno potrà lavare. Solo la pace, che tutto accoglie in sé e cancella in noi i ricordi del nefasto passato che ci portiamo dietro; che tutto perdona e tutti affratella nella giustizia e nella libertà, può colmare le fosse del diverbio, della vendetta, dell’olocausto in nome di una qualche verità che sappiamo essere falsa. Oggi, dopo quanto sta accadendo in diverse parti del mondo, dopo che a centinaia i giovani e intere famiglie sono state depredate della loro gioia di vivere, non abbiamo una canzone da cantare, perché nessun canto può risollevarci dal massacro finale cui andiamo incontro, questo documentario ci dice, e lo fa con le sue immagini, che dobbiamo voltare le spalle alla guerra, ai falsi-ideali che ottenebrano la visione illuminata del creato in cui noi siamo destinati e beneficiati di vivere.

 

Sinossi di Paola Piacenza (pubb. in MyMovies 2015)

'Se sentite paura vuol dire che la morte è vicina\': è questa l’unica verità che il comandante Jalaluddin, consegna ai propri soldati. Sul campo, a Helmand, nel sud del Paese, da un anno senza il supporto delle forze Nato, dopo il ritiro della missione nel 2013, i registi embedded nella terza brigata dell’Afghan National Army, entrano in un territorio proibito. Filmano la quotidianità della vita in caserma, la febbrile monotonia dell’attesa, l’ordinaria amministrazione delle attività di pattuglia alla ricerca dei talebani e la sanguinosa frenesia del combattimento. Un film che ci trasporta sul campo di battaglia di una guerra mai finita, ma tragicamente non più raccontata.

 

Note di regia: 'Tell Spring Not to Come This Year' sfida le tradizionali rappresentazioni mediatiche della guerra in Afghanistan e dell'Esercito Afghano, affrontando una grande lacuna nella copertura di notizie: il punto di vista degli stessi soldati afghani. Il film segue la storia degli uomini di un’unità mentre vivono, lottano, ridono e muoiono insieme. È uno sguardo sottile e umano nei confronti di un tema ampiamente coperto dai media, ma poco compreso. È il primo film a cui è stato concesso un vero e proprio inserimento nell’Esercito Nazionale Afghano, e i registi sperano che contribuirà al dibattito sul futuro dell’Afghanistan umanizzando i soldati afghani, mostrando cosa sia veramente la loro guerra ed esplorando le sfumature del conflitto e del paese. L'Afghanistan inevitabilmente scomparirà dai titoli dei giornali una volta che le truppe straniere se ne andranno, ma il film si propone di fissarlo saldamente nell’agenda dei media, presentando le storie di chi vivrà a contatto con la guerra anche molto tempo dopo che la NATO sarà andata via.

 

Saeed Taji Farouky

Premiato documentarista e direttore della fotografia, da oltre dieci anni focalizza la sua attenzione sul tema dei conflitti. Nel 2011 è stato premiato con un Senior TED Fellowship per il suo lavoro sul documentario, ed è stato in precedenza nominato Artist-In–Residence presso il British Museum e la Tate Britain. I suoi film precedenti sono stati trasmessi su Channel 4 (Regno Unito), CBC (Canada) e ARTE / ZDF, tra gli atri. Tell Spring Not to Come This Year, il suo terzo documentario cinematografico, è stato presentato alla Berlinale 2015 ed è stato premiato con Saeed Taji Farouky l’Amnesty International Human Rights Film Award e l’Audience Choice Award.

 

Michael McEvoy

Ha prestato servizio per nove mesi in Afghanistan dove ha lavorato come traduttore intermediario ufficiale per le forze armate britanniche nell’Afghan National Army. L'esperienza lo ha aiutato ad avere una conoscenza più approfondita delle difficoltà quotidiane dei soldati. Ha inoltre lavorato per svariate ONG in Medio Oriente e Asia.Tell Spring Not to Come This Year è il suo primo film.

 

Intervista a Saeed Taji Farouky di Thomas Humphrey (pub. in Cineuropa Magazine il 16/11/2015)

 

Il regista palestinese-britannico Saeed Taji Farouky racconta com'è stato girare Tell Spring Not to Come This Year, il suo ultimo documentario, con l'esercito afgano in una zona di conflitto, chiaramente determinato a spingersi oltre i confini del genere documentario. Farouky ha dimostrato quanto sia impegnato nella ricerca di nuove forme e nuove verità. Girando ripetutamente in zone di guerra, però, sta anche diventando rapidamente un punto di riferimento per coloro i quali vogliono documentare in modo simile la verità, dove a volte è più necessario. Questo avviene sul campo, a Helmand, nel sud del Paese, da un anno senza il supporto delle forze Nato, dopo il ritiro della missione nel 2013, i registi embedded nella terza brigata dell'Afghan National Army, entrano in un territorio proibito. Filmano la quotidianità della vita in caserma, la febbrile monotonia dell'attesa, l'ordinaria amministrazione delle attività di pattuglia alla ricerca dei talebani e la sanguinosa frenesia del combattimento.

 

Cineuropa: Quant'è stato difficile girare in una zona di guerra?

 

Saeed Taji Farouky: Sa, in quel tipo di situazione credo che diventi solo una questione di fortuna. Che tu sia al sicuro o meno. Voglio dire, Mike ha un background militare, io no. Quindi abbiamo fatto un po' di briefing prima di andare lì, e mi ha dato un training di base. Mi ha insegnato dove camminare (in modo da rischiare il meno possibile di calpestare una mina), e mi diceva cosa fare se fosse successo questo o quello. Così ho avuto una conoscenza di base di come destreggiarmi in una zona di guerra, e mi è stato utile. Ma in realtà, alla fine, quando non si ha la possibilità di prendere decisioni da soli, credo che si tratti solo di fortuna. Voglio dire, c'era gente accanto a noi che è stata ferita gravemente. Diventa solo una questione di trovarsi nel posto giusto o sbagliato, al momento giusto o sbagliato.

 

E quant'è stato difficile reperire i fondi, di conseguenza?

 

Saeed Taji Farouky: È stato molto difficile. Penso che in generale sia davvero difficile finanziare documentari non ortodossi - diciamo, documentari non strettamente basati su informazioni o notizie. Ma sì, questo è particolarmente vero se il documentario è ad alto rischio e imprevedibile come questo. Voglio dire, non c'era modo di sapere come si sarebbe sviluppata la nostra storia, o cosa ci sarebbe successo. Inoltre, il mio approccio non è mai veramente tipico o commerciale. Quindi, per vari motivi, è stato un progetto piuttosto difficile da finanziare.

 

Come ci siete riusciti, alla fine?

 

Saeed Taji Farouky: Essenzialmente, usando in parte il nostro denaro. Il primo viaggio mio e di Mike in Afghanistan l'abbiamo pagato interamente con i nostri soldi. Poi, con il materiale raccolto in questo viaggio, siamo riusciti a trovare un co-produttore britannico. Ci hanno dato un'iniezione di liquidità, che ci ha permesso di continuare a girare fino a quando abbiamo avuto altri soldi dalla NHK (l'organizzazione di radiodiffusione pubblica nazionale giapponese). Infine, abbiamo presentato un premontaggio alla Goldcrest a New York, che è diventata la nostra casa di post-produzione. Hanno coperto i costi di post-produzione. Così tutto ciò che rimane ora da recuperare lo ricaviamo dalle vendite TV, online, dai cinema, ecc.

 

Avrebbe qualche consiglio per coloro i quali vogliono fare documentari simili?

 

Saeed Taji Farouky: Insegno molto ultimamente, o tengo corsi di perfezionamento sul documentario; ma non consiglierei mai a nessuno di fare il lavoro che faccio io. Ho lavorato in diverse zone di conflitto per circa dieci anni, quindi ho una certa esperienza. Ma è anche una decisione che ho preso personalmente perché valeva la pena rischiare. Per quanto mi riguarda, rischierei la vita solo per fare un film davvero unico e che contribuisca al panorama del cinema di guerra.

 

A cosa desidera contribuire di più?

 

Saeed Taji Farouky: La mia priorità è sempre e solo quella di raccontare una buona storia umana. Non voglio istruire le persone o dare loro un messaggio politico. Mi auguro solo che lo spettatore medio guardi questo film e pensi: "Sì, va bene, capisco questo tizio. Capisco la sua voce, le sue paure e il sogno che ha per questo Paese. Capisco il dolore che stanno provando, e le decisioni strane che possono averli costretti ad arruolarsi nell'esercito." Voglio solo che la gente possa identificarsi. Poi magari spero che pensino, "Va bene, quindi queste sono le conseguenze se il mio governo andrà in guerra."

 

E in futuro? Vuole continuare a fare documentari o ha anche progetti di finzione in mente?

 

Saeed Taji Farouky: Sì, è così. Sono stato introdotto al cinema attraverso la finzione; non ho mai diretto un lungometraggio di finzione, ma è sempre stata il mio primo amore. Quindi sì, mi piacerebbe fare film di finzione, e ho alcune idee. Solo che ho un sacco di documentari che si mettono in mezzo. Sono certo di fare un film di finzione a un certo punto, però. Ci sto solo arrivando molto lentamente.

(Tradotto dall'inglese per Cineuropa.org)

 

Il documentario di Saeed Taji Farouky e Michael McEvoy ci ricorda quanto fallace possa essere il giornalismo occidentale.Sembra incredibile pensare che il mese scorso ha segnato il quindicesimo anniversario dell'invasione dell'Afghanistan. Forse perché quelle orrende immagini degli attacchi dell'11 settembre sono ancora così indelebilmente impresse nella nostra memoria, mentre gli anni di occupazione successivi sono passati con una rapidità apparentemente impossibile. Inoltre, quasi a nostra insaputa, la lotta continua ad imperversare nella regione e pare sia un argomento degno di discussione. Quindi chiedetevi questo: quand'è stata l'ultima volta che avete visto l'invasione dell'Afghanistan analizzata dal punto di vista di un nativo? Anzi, quando mai avete sentito parlare un afgano della sua esperienza, al di là di qualche estratto di due minuti in un notiziario? Beh, è proprio quella parte del dialogo che Michael McEvoy e Saeed Taji Farouky hanno cercato di ristabilire con la loro co-produzione tra Regno Unito e Afghanistan, ragionata e poetica, che da il titolo al film-documentario: ìTell Spring Not to Come This Year'.

Ora, come suggerisce il titolo, questo non è necessariamente un documentario leggero e ottimista. Ma non è nemmeno un film che descrive la situazione afgana con inutile mestizia. Osserva semplicemente. Racconta con una calma apparentemente indifferente e aggraziata le lotte quotidiane dell'Esercito Nazionale Afgano. Lo fa seguendo una società di armi pesanti con sede in una delle zone più difficili della famigerata provincia di Helmand, e in alcune delle sue scene più assurde accanto a questi uomini, questo film è davvero avvincente. E neanche perché drammatizzi o glorifichi la loro sofferenza. Invece, Tell Spring Not to Come… ha un stile delicato e lirico, che sembra quasi assomigliare al ritmo espansivo e lento di Timbuktu di Abderrahmane Sissako. (da me recensito su questa stessa rivista letteraria) E proprio come in questo film di finzione, i registi catturano questo senso di clima e cultura diversi, e poi lo restituiscono abilmente a noi in sala. Infatti, artisticamente parlando, 'Tell Spring Not to Come…' si comporta un po' come un film di finzione, e in qualche modo questo lo fa sembrare ancora più fattuale, o meglio, più fedele alle emozioni catturate.

In gran parte questo è ottenuto dalle numerose scene a rallentatore ben misurate e artistiche e, talvolta, dal fatto che i suoi soggetti sono descritti con primi piani statici, dando il senso di trovarsi in un'esperienza che trascende i fatti di base. Inoltre, essendo montato su una solida miscela di registrazioni audio intime, il film raggiunge ugualmente il suo obiettivo di dare voce a chi sta ancora combattendo per assicurare la pace, e lo fa in un modo piuttosto piacevole. Il fatto che questo film eviti completamente i discorsi prolissi e le voci fuori campo sembra anche cancellare abilmente la presenza dei registi, e sicuramente rende la visione del film essenziale per chi è interessato all'attuale evoluzione dei documentari d'essai. Anche se di per sé, è assolutamente affascinante vedere degli uomini sfortunati che cercano di dare un senso alla guerra davanti alla macchina da presa. In più, questo film mostra le divisioni che esistono sul terreno in Afghanistan, in un modo che non avreste mai immaginato. Che siano tra l'esercito, la polizia o i talebani, i conflitti adrenalinici e ragionati a un tempo che vediamo, sembrano molto istruttivi. E sia che si metta in discussione la loro fedeltà all'America o al proprio esercito, o che assistiamo a uno scontro di religione, ideologia, cultura o disperazione, 'Tell Spring Not to Come…' non smette mai di sembrare un'istantanea vitale.

 

Il film inoltre ha ottenuto il primo premio alla XII edizione del festival internazionale di documentari. DocumentaMadrid 2015, appena conclusosi nella capitale spagnola.

Si ringrazia la redazione di CINEUROPA newsletter per la cortese collaborazione. Per tutte le notizie sul mondo del cinema basta iscriversi alla newsletter di CINEUROPA ww.cineuropa.org

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- Società

Ho fatto un sogno - dedicata a Valeria Solesin

“Ho fatto un sogno” Dedico questi versi a tutti i ragazzi e le ragazze uccisi in questo triste novembre a Parigi, e rivolgo un pensiero a tutti quei ragazzi e ragazze che in giro per il mondo tengono alto il vessillo della ‘libertà’. Un tempo gli uomini erano gentili la loro voce era dolce e le loro parole seducenti. Un tempo l’amore era cieco e il mondo era un canto e il canto era emozionante! Un tempo … Poi è cambiato tutto. Ho fatto un sogno in un tempo passato in cui la speranza era viva e la vita degna di essere vissuta. Ho sognato un amore che non moriva mai ho sognato che Dio perdonava allora ero giovane e improvvida. E i sogni, una volta fatti venivano usati e sprecati non c’erano prezzi da pagare. Non c’erano canzoni non cantate né vino ancora da assaggiare né dolore che non si potesse raccontare. Ma la notte arrivano le tigri. Con la voce dolce come il tuono e fanno a pezzi la speranza e trasformano i sogni in peccato. Ma ci sono sogni che non si avverano e ci sono crisi che non si superano una pena che non svanisce mai. Ho fatto un sogno … Ho sognato che avrei avuto una vita completamente diversa dall’inferno che ora sto vivendo. Eppure le premesse erano ben altre ma ormai la vita ha ucciso il sogno che avevo fatto” … (per me, per il mondo intero). (Lirica di Herbert Kretzmer, su musica di Claude M. Schonberg trad. dal musical “Les Miserables” andato in scena nel 1986).

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- Filosofia

Quaderni n.4 - unità e differenza by giorgio mancinelli

“Quaderni di Inschibboleth” n.4,

la rivista italiana di filosofia che accoglie lavori scientifici di giovani studiosi, ospita in questo numero un saggio di Giorgio Mancinelli dal titolo:

 

“Unità e differenza: la ricerca delle ‘pari opportunità’ e il superamento delle ‘diversità’ nell’organizzazione sociale”.

 

Abstract

La scelta del titolo e del contenuto del saggio qui proposto, che prende avvio sul tema “Unità e differenza”, si sviluppa attorno alla ricerca delle “pari opportunità” e il superamento delle “diversità” nell’organizzazione sociale.

Tematica più che mai attuale in ambito dell'organizzazione del lavoro con ricadute discordanti nella pubblica opinione e che, secondo chi scrive, richiede un qualche approfondimento pedagogico e antropologico, al fine di comprendere le linee portanti di una “diversità” effimera quanto più artificiosa.

Una scelta per nulla facile che per affrontare la tematica preposta, doveva trovare quel sinonimo di “unità” che nel suo contrario non si distanziasse da una “differenza” che non la negasse in toto e per quanto fosse necessairo seguire un filo tematico conduttore che permettesse di procedere da un estremo all’altro, al fine di focalizzare il “punto” di una ricerca che, ovviamente, prescindeva da una volontà surrettizia.

Altresì sostanziale di una “problematica” che in qualche modo aspettava una risposta alla domanda portante: è questo un problema?

Probabilmente sì, se ne continuiamo a parlare ed a formulare pretesti di attualità, allora sussiste un problema che quindi va risolto. Sostanzialmente il ‘saggio’ si rivolge a quelle problematiche indotte che hanno portato alle “differenze di genere” che proprio la risoluzione delle “pari opportunità”, legate alla costruzione di modelli di riferimento, dovrebbe poter rimuovere definitivamente …

 

Per continuare a leggere ed acquistare il presente articolo è sufficiente cliccare su: http://www.inschibbolethedizioni.com/quaderni-n-4/

 

A partire dalle esperienze maturate con la rivista on line inschibboleth.org fin dal 2012 si è costituita InSchibboleth casa editrice, una società cooperativa che si occupa principalmente di filosofia. È così che dal nome di un ‘periodico-forum’ sono nati i successivi impegni editoriali: una rivista franco-italiana a vocazione europea “Phàsis, European Journal of Philosophy” in varie lingue e distribuita da Vrin, la prestigiosa casa editrice di Place de la Sorbonne e “Quaderni di InSchibboleth” che ospita innanzitutto ricerche e saggi di giovani studiosi.

Entrambe le riviste sono parzialmente consultabili on-line e pubblicate in supporto cartaceo, ordinabili dal presente sito e dalle librerie. Successivamente il mensile on-line curato dall’associazione Inschibboleth conserva la sua periodicità, trasformato in “Appunti sul presente” consultabile insieme all’archivio in un link dedicato. Conterrà non più di due o tre editoriali ‘a fuoco’ su temi e questioni al centro del dibattito pubblico.

 

Il gruppo nato intorno alla rivista Inschibboleth dunque cresce, si orienta verso un più marcato impegno editoriale e di ricerca, in uno stretto legame con il mondo universitario e dell’eccellenza, ha come fondatore Elio Matassi, mentre la Direzione è lasciata a Massimo Donà e Carmelo Meazza.

Comitato Scientifico: Massimo Barale (Università di Pisa), Remo Bodei (University of California – Los Angeles), Giuseppe Cantillo (Università di Napoli Federico II), Danielle Cohen-Levinas (Université Paris IV – Sorbonne), Umberto Curi, Gianfranco Dalmasso (Università di Bergamo), Massimo Donà (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano), Maurizio Alfonso Iacono (Università di Pisa), Eugenio Mazzarella (Università di Napoli Federico II), Carmelo Meazza (Università di Sassari), Caterina Resta (Università di Messina).

 

Nuovo Concorso:

Redazione c/o Inschibboleth società cooperativa sociale, Via Alfredo Fusco 21, 00136, Roma – Italia, rivolge un invito a partecipare con contributi originali in forma di saggi e recensioni per il prossimo numero dedicato al tema: ‘Figure dell’Inganno’. La proposta di saggi per la pubblicazione dev’essere inviata alla redazione della casa editrice in formato elettronico all’indirizzo: redazione@inschibbolethedizioni.com.

Il prossimo numero, la cui uscita è prevista per Marzo 2016, si divide in tre parti: una prima parte sul tema del numero; una seconda parte di saggi specialistici su altri temi, ed infine, terza parte, raccolta di recensioni su saggi di recente pubblicazione non necessariamente legati al tema. Allo stesso indirizzo possono essere richieste le norme redazionali da seguire in fase di stesura dell’articolo.

Gli autori devono certificare (nella mail che accompagna l’articolo) che il loro testo non è mai stato pubblicato, né simultaneamente sottoposto o già accettato per altre pubblicazioni.

Tutti i saggi e le recensioni dovranno essere in lingua italiana e di massimo 45000 battute, spazi e note incluse, e dovranno rispettare le norme redazionali che saranno fornite per mail. Dovranno, inoltre, essere accompagnati da un abstract di massimo 1500 battute in italiano e in inglese (l’abstract non è richiesto per le recensioni).

Dopo una prima lettura la segreteria di redazione invia la proposta di articolo per un esame critico a due lettori anonimi (peer review) per la valutazione dei contributi proposti per la pubblicazione. Gli esiti della valutazione (accettato, rifiutato, proposta di modifica) verranno comunicati in seguito all’autore. Le recensioni saranno valutate dalla redazione senza referaggio.

Gli articoli dovranno pervenire entro il 30 gennaio 2016.

La risposta sarà comunicata entro il 28 febbraio 2016.

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- Libri

’Rassegna della Microeditoria’ a Chiari (Br) - 7/8 Novembre

Attilio Fortini (segreteria@temperino-rosso-edizioni.com) vi invita a partecipare
alla Rassegna della Microeditoria che si terrà sabato 7 e domenica 8 novembre dalle ore 10 alle 20 a Chiari (pro. Brescia), ossia un evento del settore libro di maggior rilievo in Italia.

Da non mancare inoltre la presentazione sabato 7 alle ore 15 della raccolta di poesie di Enrico Maria di Palma, “Gli Dei muoiono di fame”, e poter visionare il catalogo della Temperino Rosso Edizioni, che offirà sarà anche una bella opportunità per incontrarci.

Inoltre attendiamo la v.a partecipazione alla serata conclusiva del concorso "Creatività infinita", per opere inedite, suddiviso in due sezioni: Romanzo e Raccolta di poesie a tema generico, che si terrà il 14 Novembre 2015. Per l’occasione saranno decretati i vincitori del ‘premio’ consistente nell’attestato di partecipazione e nella pubblicazione dell'opera da parte della Casa editrice.

La partecipazione è gratuita.

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- Musica

ZY Project, alla Casa del Jazz di Roma in ’Nowhere’s Anthem’

Parte da un libro la ricerca musicale dello ZY Project,
alla Casa del Jazz di Roma con l'album Nowhere's Anthem"

Sabato 31 ottobre alle ore 21 sul palco della Casa del Jazz di Roma, lo Zy Project di Angelo Olivieri, trombettista creativo e curioso, insieme al sassofonista Vincenzo Vicaro, al pianista Luigi Di Chiappari, al bassista Riccardo Di Fiandra e al batterista Daniele Di Pentima sono stati protagonisti di una serata ‘live’
incredibilmente densa di energia come del resto era stato al Jazzit Fest, al Roccella Jonica Jazz Festival, alla Maratona del Jazz di L'Aquila e al R-esistenza Jazz
di Roma, in cui la band aveva presentato l'album "Nowhere's Anthem", lavoro di pregio pubblicato lo scorso giugno da JAZZIT Records in allegato al magazine Jazzit, che si presenta come una sintesi di grande valore tra le esperienze dei cinque componenti. Sul palco della Casa del Jazz, insieme allo ZY Project, era presente il musicista senegalese Madya Diebate, già special guest del disco, ed altri ospiti "a sorpresa".

Tutto è incominciato da "un sasso lanciato nello stagno dell'umanità" da Antonella Gatti Bardelli, autrice del romanzo autobiografico "Il cielo capovolto", nel quale spicca un personaggio avvincente e realmente esistenze: Zy Bargo, street fashion stylist di New York dove lei stessa, allora manager di successo, abitava. Zy mostra a Antonella la vita reale, quella fatta di persone, di cose che succedono e non di successi. E lo fa da personaggio di successo, quale lui è, che della fama e della notorietà non si cura, ma preferisce occuparsi della vita. Successivamente, quando nell'estate del 2012 Angelo Olivieri, sperimentatore impenitente, si trova tra le mani "Il cielo capovolto" e non riesce a smettere di leggerlo da avvio alla ricerca musicale che la band prosegue con entusiasmo all'insegna di una grande libertà stilistica e di percorso, guidata dall'esigenza di un "suono contemporaneo", partendo idealmente da "Bitches Brew" di Miles Davis, attingendo dal rock contemporaneo, dalla musica elettronica, dalla techno, dal R&B, dal sound di New Orleans.

Ne scaturisce questo album ricco di commistioni, "Nowhere's anthem" per l'appunto - con ospiti Susanna Stivali, Madya Diebate, Amir Issaa, Gian Paolo Giunta e Antonio Pulli., e quando la direzione artistica di Roccella Jazz Festival chiede ad Angelo Olivieri di lavorare a un evento che fonda musica e letteratura, l'album diventa un vero e proprio happening teatrale. Nasce così lo spettacolo "ZY Effect", o "Effetto ZY", una produzione Roccella Jazz - Greedo Music Project con la regia di Wilma Labate (iniziata già precedentemente con la colonna sonora del suo docu-film "Qualcosa di noi" presentato al Torino Film Festival), le musiche dello ZY Project special guest la cantante Susanna Stivali e i testi di Antonella Gatti Bardelli con la voce recitante dell'attrice Sara Alzetta.

Siamo dunque solo all’inizio di una nuova avventura del Jazz/Funk che prende le mosse proprio qui alla Casa del Jazz di Roma per ripartire alla conquista del mondo; o almeno è questo l’augurio che mi sento di fare a questo gruppo che ha visto impegnati 5 ragazzi come si dice a Roma ‘tosti’ che hanno imboccata la strada giusta per affrontare le nuove commistioni della musica e lo hanno fatto proprio ri-partendo con umiltà e tanta creatività da un evento culturale, appunto un libro validissimo che da spessore alla loro avventura musicale. Un gruppo indubbiamente da seguire.

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Promo live https://www.youtube.com/watch?v=1lzjcxgjdYA
Podcast live a Radio Rai 1 http://www.radio1.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-bcc26fba-b881-475b-bdf6-1611a9f7cafb.html
Casa del Jazz: http://www.casajazz.it/eventi/zy-project-nowhere-s-anthem
Tickets: https://www.listicket.com/ticketing/acquisto/acquistoStep1/33591/ZY-PROJECT
www.angeloolivieri.it
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CONTATTI
Ufficio Stampa ZY PROJECT Fiorenza Gherardi De Candei
Tel. 328 1743236
E-mail fiorenzagherardi@gmail.com


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- Scrittura

’HALLOWEEN’ ...frammenti di tempo per chi ne ha da perdere

HALLOWEEN : NICK OF TIME
(..frammenti di tempo per chi ne ha da perdere)

Come spesso mi capita durante i lunghi tempi vuoti, che invece di dedicare all’ozio (che allunga la vita) investo nella scrittura (deleteria alla riabilitazione fisica e alla psiche), mi sorprendo a domandarmi quando è stata l’ultima volta che ho avuto davvero paura. Non certo per svago, poiché giocare con le parole molto spesso è stato per me come aver fatto una scommessa col diavolo. E con me il diavolo ha voluto giocare davvero duro, almeno una volta, sbattendomi in faccia la sua inconfutabile realtà, ripetendomi una frase che, a distanza di tempo, ho ritrovato nella didascalia di un film in programmazione: “L’ultima immagine che vedrai della tua vita è l’attimo fuggevole della tua morte”, e che ancora mi pesa addosso come un macigno. Certo, un’affermazione tipica da trailer dell’orrore, da non prendersi in considerazione più di tanto, se non perché rappresenta una realtà precostituita, quasi un atto di necessaria superbia, o se vogliamo di schietta presunzione, da parte di chi da sempre pensa di gestire la cosa umana, e inesorabilmente ci riesce.
Posso dire d’averla vista davvero in faccia la morte, una notte, senza saperlo. È stato quando riaprendo gli occhi in un letto d’ospedale per degenti terminali, dopo non so quanto tempo e quanto dolore avevo causato a tutti quelli che disperavano di rivedermi risanato, mi sono scoperto inamovibile, amorfo, oggetto inqualificabile dell’inconsistenza. Fatto è che nessuno dei presenti si accorse che ero diverso da quello che ero sempre stato, che ero diventato un altro, come non ero mai stato: uno zombie. Ricordo che era appena suonata la mezzanotte, quando svegliato di soprassalto, mi sono lasciato cadere sui cuscini di un ampio letto con baldacchino, in una stanza rettangolare con alti specchi alle pareti che oltrepassavano il soffitto, che ovviamente non vedevo.
Tutt’attorno al letto si allineavano solidi mobili di buona fattura rinascimentale, e un grande armadio a quattro ante, alto, scuro, che occupava l’intera parete sul fondo, e ceri, tanti ceri accesi dappertutto. Logori epitaffi, vagavano nell’aria, insieme a suoni, odori, colori, bandiere sparse a ricordo di vecchie guerre o forse giochi. Mute statuette d’ebano che raccontavano storie di etnie sconosciute, di tempi remoti, di ninnoli impolverati, e cocci, ciotole e pennelli d’ingenue scaramucce con la tela. Negli scaffali tantissimi libri pieni di parole, che si aprivano al solo guardarli fino a soffocare l’aria di virgole e punti sconnessi, sillabe incerte, chiuse in coperte di pelle, di tela, nel riecheggiare di versi contemporanei dell’ultimo Ungaretti. A grida tumultuose, ombre sparse s’agitavano affannate sulle pareti dove solitari candelabri si levavano a sostegno di smunte candele, a ricordare notturne lotte con le tenebre, presenti in ogni momento, tra le coperte in disordine del letto, tra le molte carte sparse senza senso, nella stanza disfatta, ancora da rassettare.
All’improvviso fu come se tutto intorno a me fosse cambiato, ogni mio gesto, ogni mia azione, ogni frase che pure non avevo pronunciato si rovesciasse, assumendo un significato diverso, come se il passare del tempo perdesse d’importanza, e l’orologio che pure vedevo attraverso il riverbero sulla parete, era fermo alla mezzanotte, e ancora mi sembrava di sentirne l’ultimo rintocco. Ricordo d’essere rimasto immobile per non so quanto tempo, sveglio nel sonno, immerso nella luce arcana, vaga, ingannevole d’un altro luogo, che gli altissimi specchi rimandavano, con l’arido sguardo polveroso di chi accumula polvere dove più ce n’è, oggettivamente separato da ogni cosa che pur riconoscevo come mia, che in qualche modo mi apparteneva, perso in un mondo estremo, come d’uranio, fermo nello spazio senza moto, senza suono, senza futuro, raccolto in un solo battito di solitudine, dove l’io restava schiacciato al suolo per lo spavento d’essere vivo.
Tuttavia non c’era ansia in me, bensì una sorta di emorragia del tempo attuale, in cui le pareti della stanza trasparivano a costrutti metafisici, dove non accadeva nulla, dove non arrivava nessuno, perché non aspettavo nessuno e certo non sarebbe arrivato nessuno. In ciò che pure avevo avuto fino a quel momento, nel corso della mia vita reale, fosse mancato qualcosa, che in ciò in cui avevo creduto non c’era stata la necessaria determinazione. Ricordo che l’attesa era stata lunga, interminabile, tanto lunga da infrangere le pareti di cristallo della stanza dove si dipanavano i miei giochi impossibili, troppo profondi, troppo ardui per essere autentici, e che i pensieri erano infine trasmutati in altri pensieri, diversi e pur sempre uguali, e non aveva dato frutti. L’unica cosa viva la mia penna scriveva, da sola senza l’ausilio della mia mano, in bella calligrafia sulle pagine di un quaderno, di un’agenda, o forse di un diario, o un deck, non ricordo, il problema semmai era come venire in possesso del suo contenuto.
A uno zombie si sa, non è dato utilizzare lo stesso linguaggio umano, spero soltanto di poter rileggere quello che devo aver scritto, o almeno risentire quanto oralmente credo di aver detto a un palmare, anche se per mia conoscenza il linguaggio parlato non può essere lo stesso. Se, come qualcuno ha scritto, ogni parola ha un suo tempo per essere letta, e ognuno di noi ha un tempo diverso di leggere, quello che andrei a rileggere o a risentire, potrebbe essere diverso, verosimilmente più vicino all’occulto, al paranormale. In quanto al senso, indubbiamente l’aspetto che più m’interessa, è leggere cosa si nasconde dietro quelle parole, cosa c’è dentro di me, dentro di noi, che non ci è dato conoscere, quel certo qualcosa sicuramente imperscrutabile che pure altri arrivano a scandagliare, a comprendere, nel torbido della nostra esistenza.
Si dava il caso che fossi di ritorno da una cena in un ristorante con un certo numero di persone, e che lo sguardo insistente di un commensale in fondo alla sala, che non aveva smesso di osservarmi per tutto il tempo, mi creava un certo imbarazzo. Che cosa poteva volere quello sconosciuto che mi guardava da dietro gli occhiali, se neppure lo conoscevo, se non l’avevo mai visto prima? Eppure sembrava conoscermi perché a un certo punto mi sorrise e m’indirizzò un gesto di saluto. Sapevo di avere una buona capacità mnemonica che da sempre mi sosteneva anche a distanza di anni, ma che forse mi stava tradendo. Se avessi incontrato prima la sua faccia singolare l’avrei certamente ricordata, riconosciuta tra mille, centomila, un milione – mi dissi. Aveva gli occhi nascosti da spesse lenti, ora invisibili, ora fortemente cerchiati quando aguzzava lo sguardo scrutatore, quasi invadente, come di chi cerca un sostegno all’operato di una malvagia seduzione.
Una situazione analoga, rammentai, era formulata in 'Lo scrutatore d’anime' di Groddeck da un diverso punto di vista: che cosa mi aspettavo da lui, forse di incontrarlo da un’altra parte, in un altro momento, un altro giorno, per la strada? Impossibile negarlo, a un primo momento di reticenza sentivo in me la tenue speranza che fra noi due si fosse stabilita quell’attrazione che ci avrebbe sospinti senza sforzo l’uno verso l’altro e che la mia domanda, anziché eludere, finiva per consolidare il nostro incontro. La giustificazione razionale era invece che in qualsiasi piano strategico questo sarebbe stato possibile, in un momento o in un altro, e semmai l’attesa era solo una componente necessaria. Da quell’ottimo scrutatore che era, il diavolo, o lo sciamano che fosse, tuttavia, sembrava deciso a fare di me una sua vittima.
Da sempre ero stato messo in guardia da certe figure spregevoli, portatori di mala sorte, che si mischiano alla gente comune per estirpare denaro o, come dicevano, per suscitare paura, per carpirne l’anima. Superstizione, dicevano i più saggi, ma c’era chi a certe cose ci credeva eccome, e allora giù a raccontare aneddoti arcani, fatti raccapriccianti, accadimenti oscuri che non trovavano riscontro, se non nell’immaginazione di chi li raccontava. Niente di più di quanto in antropologia culturale indica l'insieme delle credenze e il modo di vivere e di vedere il mondo di società animiste e di fasce di popolazioni non alfabetizzate che si pensavano scomparse. E che invece, continuano a tramandarsi una sorta di cultura sotterranea, esoterica, che, nascosta all’interno di tradizioni oscure, dall’apparenza innocua, attraversa la rete planetaria, s’intrufola negli interstizi del web, e attraverso internet raggiunge ogni più remoto angolo della nostra galassia.
Una sorta di “magia bianca” che, entrata di sottecchi nella psicologia umana e trans-personale, così come in quella del profondo (detta anche esistenziale) e nella filosofia dei sentimenti, conferma che l’occulto riscontra un largo margine di efficienza e di autenticità nel mondo cosiddetto acculturato e tecnologicamente avanzato. Tale che un certo numero di persone ancora vi ricorre per risolvere problemi legati al timore della morte, e mettere alla prova la tenuta della propria fragilità. Non si spiega altrimenti come, invece, proprio nel terrore della morte ognuno trovi la spinta necessaria verso la ricerca interiore, l’intimo inconfessabile desiderio di penetrare e conoscere il senso della propria esistenza o, all’opposto, la supervalutazione del proprio ego, il potere assoluto, la semi-immortalità.
Chi l’avrebbe detto che un giorno, nel bel mezzo del XX secolo, memore dei tanti racconti cui non avevo mai dato importanza, mi sarebbe capitato di imbattermi in uno sciamano che voleva strapparmi l'anima? Eppure è accaduto, l’ho incontrato. Era seduto lì, in quel ristorante, probabilmente da sempre, e aspettava proprio me. Quando al termine della cena mi avviai verso l’uscita, in coda alla fila degli ospiti, l’uomo si alzò in piedi e mi guardò fisso negli occhi, quasi volesse appurare la mia identità. Ricambiai il suo sguardo senza battere ciglio, pensando che ciò l’avrebbe fermato dal suo intento, ma non vi riuscii, il suo sguardo era fisso su di me e io rimasi immobile davanti a lui. Devo parlarle, disse. Improvvisamente la luce delle lampadine mi parve più soffusa e per un attimo le ombre sembrarono prendere il sopravvento. Mi parse d’intuire che quelle ombre vagamente riconoscibili, sedute ai propri tavolini, rivelavano l’esistenza di un popolo maligno che mi osservava vorace.
Rimanga la prego, lasci che la osservi più da vicino. Non si preoccupi, i suoi amici non si accorgeranno del suo ritardo ad uscire. Immagino che lei sappia perché la stavo osservando? Ci conosciamo forse? No, ma io so cosa le capiterà fuori di qui. Lei è un veggente? Forse. Ha bisogno di denaro, vuole essere pagato per una prestazione non richiesta? No. Allora cosa vuole da me? Si sbrighi perché non ho intenzione di dedicarle oltre il mio tempo. Purtroppo l’arroganza non paga e lei non ha poi tutto questo tempo. È quindi di denaro che stiamo parlando, non avevo dubbi. Non saprei che farmene del suo denaro, potrei ottenere tutto quello che voglio, se solo lo volessi, ma non lo voglio. Io come lei sono costretto a vivere dentro questa realtà quando avrei bisogno di una qualche distrazione che non riesco a prendermi, che non posso prendermi. Vuole farmene una colpa? Assolutamente no, ma come vede io e lei siamo i due opposti che prima o poi s’incontrano, che sono destinati a incontrarsi.
Si spieghi oppure mi lasci andare. Nessuno la trattiene, sto solo cercando di spiegarle ciò che lei non sa, che non può sapere. Non sempre ci è dato sapere, talvolta è meglio non sapere quello che non c’è dato. Ma forse, conoscere il momento della sua morte, sì. È di questo che vuole parlarmi, della mia morte? Beh, credo che quando sarà il momento me ne accorgerò senza l’aiuto di nessuno. Comunque grazie. Buonanotte. No aspetti. Dovevo dirle che questo potrebbe essere il suo ultimo momento, che la fine la sta aspettando fuori da quella porta. Non esca, non adesso, anche se solo adesso vedo nei suoi occhi che supererà questo tragico momento. È questa una prova per vedere se la sua sensitività ha un qualche fondamento o una sfida lanciata per misurare la paura che riesce a inculcare nel prossimo? Entrambe.
Lo zittii sollevando una mano. Non cerchi di scusarsi, il suo è solo un sospetto non una certezza. Non ha mai provato paura prima d’ora? Non ricordo, o forse sì, lo ammetto, nelle fiabe, nei racconti dei vecchi, nei film dell’orrore, ma ne ho anche riso, qualche volta. È ciò che l’ha salvata fin qui mi creda, il suo arguto senso dello scherno, dell’ironia, del bizzarro, che ha dell’incredibile e che la salverà ancora. Il sarcasmo induce la morte a ripensare se stessa, talvolta a retrocedere nel suo intento, al diavolo come al buon dio di fermare la partita giocata sulla scacchiera del destino. Forse si aspettava dell’altro? C’è dunque una possibilità di viverla fino in fondo questa vita, di poter scegliere il proprio destino? Nessuno di noi può vantarsi di averlo fatto, ma a qualcuno è dato, lo sanno bene gli scrittori di romanzi gialli, di racconti in nero. I primi per aver dato a certi personaggi quell’immortalità che non è data ai comuni mortali, e a tutti gli altri per aver scandagliato nei risvolti dell’anima umana quella coscienza/incoscienza dell’orrore del profondo.
Lo sanno gli spiriti della notte che trapassano le tenebre delle allucinazioni per entrare nei sogni, gli zombie come morti viventi che talvolta tornano a infestare i luoghi che pure gli sono appartenuti, i fantasmi il cui spirito vaga senza posa in cerca di rivendicazioni, quegli eroi del mito le cui gesta, impresse nel grande libro del bene e del male, hanno permesso loro di accedere nell’Olimpo degli dei. Lo sanno i grandi di ogni tempo le cui opere pittoriche, scultoree, architettoniche, sono destinate a perdurare nella futura memoria del genere umano, quasi che la suprema edificazione del mondo sia a loro attribuita, quando a loro insaputa, sempre vi si riconosce l’impronta di dio, o talvolta, per le opere più ardite, la geniale avventatezza del diavolo.
Lo sanno gli scienziati di tutte le discipline, attraverso le ricerche avanzate, le menti che trovano una possibilità di fuga dalla realtà, come pure tutti gli altri, quelli che con irresponsabilità accendono le polveri e scatenano le guerre di distruzione dell’intero pianeta. Che non è opera del diavolo, che non avrebbe di che vivere senza le meschine debolezze degli umani. Ma chi ne sa ancor più è lo scrittore di fumetti, l’inventore del genere letterario cosiddetto mistery, che vede in Edgar Allan Poe il maestro di riferimento, cui molti autori devono qualcosa. “Siete bravo quasi quanto il Dupin di Edgar Allan Poe. Non pensavo che nella vita reale esistessero persone simili”, commentava ammirato il dottor Watson nelle prime pagine del romanzo che inaugurò la fortunata serie di Sherlock Holmes. Così, con questo piccolo omaggio, Arthur Conan Doyle riconosceva il proprio debito verso l’inventore del genere poliziesco, dando al contempo conto di quanto fosse noto il nome di Poe.
Dobbiamo forse lasciarci trascinare dagli eventi nella convinzione che quanto possiamo fare sia completamente inutile? Davvero mi rimane così poco tempo da vivere? Chiesi, fingendo d’essere rimasto toccato dalle sue eloquenti parole, e in fondo lo ero, eccome. Just a nick of time, per chi ne ha da spendere, la fuori da quella porta “l’ultima immagine, che vedrai della tua vita è l’attimo fuggevole della tua morte” fu la sentenza. C’è sempre la possibilità di non aprirla, ma che differenza farebbe? – aggiunse. Già, che differenza avrebbe fatto! Non avevo forse superato innumerevoli difficoltà, nelle foreste e nei deserti che avevo attraversato vagando nelle strade delle città in cui avevo vissuto?
Già, che differenza avrebbe fatto se fossi restato ancora un poco lì, in quel ristorante che ormai mi era quasi famigliare, aspettando che lo spirito che mi aveva animato fino a quel momento, si decidesse di lasciare il mio corpo. Allora vorrei che fosse un ultimo bicchiere a decidere la sorte, il suo guardarmi abietto contro il mio sorriso – mi dissi. Oste, un boccale di vino tinto e due bicchieri, e via alla malasorte! La prossima volta non sarà come la precedente, né come quella che verrà, dissi poi, dopo aver bevuto fino all’ultima goccia, attraversando la soglia della porta, spalla a spalla col diavolo che mi accompagnava fin dentro la notte.

Era buio fuori, e una folla immensa mi venne incontro festeggiante, gridavano tutti con in mano mille zucche orrende che sorridevano spaventose: “E’ la notte di Halloween!”


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- Poesia

“Martedì (di)Versi” - Laboratorio di Poesia al Bel Ami Roma

Circolo letterario Bel-Ami presenta: “Martedì (di)Versi” - Laboratorio di Poesia 03/11/2015

Martedì 3 novembre 2015 dalle 19.00 all’Enoteca Letteraria, un nuovo appuntamento con il Laboratorio di Poesia “Martedì (di)Versi”.

Ami scrivere poesie e desideri condividerle con chi ha la tua stessa passione? Allora partecipa al Laboratorio di poesia “Martedì (di)versi” organizzato dal Circolo letterario Bel-Ami: un momento di incontro tra poeti e lettori amanti della poesia, un laboratorio espressivo, interamente dedicato alla lettura e all’ascolto attivo delle poesie, ma anche un’officina di creazione poetica, nel corso della quale saranno offerti spunti che potranno ispirare la produzione di ulteriori testi poetici.
Se desideri partecipare al laboratorio, invia 5 poesie con una breve nota biografica a labopoesia@bellami.it. Il laboratorio è gratuito e si svolge ogni primo martedì del mese, dalle ore 19:00 alle 22:00 presso Enoteca Letteraria in Via delle Quattro Fontane n. 130. Durante l’edizione 2016 della Notte bianca della Poesia i partecipanti al laboratorio avranno a disposizione uno spazio loro riservato per far conoscere le proprie opere.

Dove e quando:

Laboratorio di poesia “Martedì (di)versi” ogni primo martedì del mese
dalle ore 19:00 alle 22:00 in Via delle Quattro Fontane, 130
(Zona Metro Barberini)

Il laboratorio è gratuito. Abbiamo stipulato una convenzione con Enoteca letteraria che ci dà la possibilità di usufruire della libreria per gli incontri del laboratorio e di cenare (cena a buffet con degustazione di vino).

Maggiori informazioni: labopoesia@bellami.it

Cristiano Sabbatini (about the author)
è nato a Roma il 14 giugno del 1977. Nel 2005 fonda il Circolo letterario Bel-Ami e nel 2008, insieme a tre soci del Circolo, fonda la Bel-Ami Edizioni (casa editrice NO EAP).

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- Letteratura

’PRE-LETTURE E RIVISITAZIONI’ - invito alla lettura.

Pre-letture e rivisitazioni.
Queste le novità editoriali di quest’autunno che si prevede quantomeno ‘uggioso’ … allora cosa c’è di meglio di leggere qualcosa di interessante e culturalmente impegnativo concepito con la leggerezza di una scrittura elegante e sofisticata di autori che sono entrati di fatto nella storia letteraria del primo ‘900.

‘Europa inerme’ di Robert Musil

Esce in questi giorni nella collana “Narrazioni della conoscenza”, diretta da Flavio Ermini per Moretti&Vitali, il volume: ‘Europa inerme’ di Robert Musil, a cura di Vincenzo Vitiello e Francesco Valagussa. Pubblicato per la prima volta nel 1921, traccia un bilancio dello spirito europeo. La diagnosi è impietosa! Ciò che sorprende è che a distanza di quasi un secolo la condizione resta disperata! Un libro da meditare per la sua straordinaria attualità. Denuncia la mancanza di un pensiero capace di comprendere l’attualità e in qualche modo di incidere sulla realtà; denuncia le aporie politiche connesse allo specialismo burocratico della gestione dello Stato; mette in luce l’esigenza di una nuova sinergia tra studi classici e progresso scientifico. Come non riconoscere in questi temi i concetti nevralgici che tuttora vengono dibattuti? A essi è necessario ripensare per una dimensione culturale di respiro europeo. Oggi, come allora.

‘Teoria dell’andatura’- Honoré de Balzac

Nella collana “Narrazioni della conoscenza”, diretta da Flavio Ermini per Moretti&Vitali, esce il volume: ‘Teoria dell’andatura’ di Honoré de Balzac, a cura di Franco Rella. Pubblicato per la prima volta nel 1833, è un grande testo di narrazione ed è, al contempo, un grande saggio, che rinvia ai testi filosoficamente più tesi della Commedia umana. Di Franco Rella ricordiamo ai nostri lettori il volume Soglie. ‘L'esperienza del pensiero’, pubblicato nel 2011 da Anterem edizioni nella collezione Itinera.
Segnaliamo una recensione di Mariolina Bertini su L'Indice

‘Rilke e la natura dell’oscurità’ di Flavio Ermini

L’ultimo lavoro saggistico di Flavio Ermini si configura come un profilo letterario assolutamente inedito di Rainer Maria Rilke, pubblicato da AlboVersorio, 2015, nella collana Studi diretta da Erasmo Silvio Storace. Seguendo un cammino che va da opere leggendarie come le ‘Elegie duinesi’ fino a lavori meno frequentati dalla critica come ‘Worpswede’, Ermini si accosta alla scrittura di questo poeta lungo sentieri obliqui, laterali, in ombra: là dove una parola ancora può dirsi nell’aderire al movimento del testo, nell’assentire al gesto sempre incompiuto della nominazione. Grazie a tale esperienza, Ermini può registrare qualcosa d’imprevisto e insieme d’impensato rispetto alle abituali cognizioni sulla poetica di Rilke.

Ne parlano: Patrizia Garofalo su tellusfolio.it; Marco Furia su Pergeion; Giuseppina Rando su tellusfolio.it; Marco Ercolani su Blanc de ta nuque; Giulio Galetto su L'Arena; Danilo Di Matteo sulla Riforma; Cesare Milanese su QuiLibri;Andrea Tagliapietra su Poesia.

Ogni volume può essere richiesto in tutte le librerie oppure ordinato on-line:
https://alboversorio.wordpress.com/catalogo/collana-studi/
ANTEREM 2003 © Tutti i diritti riservati • info@anteremedizioni.it
Via Zambelli, 15 • 37121 Verona, Italia




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- Musica

Launeddas - un libro di Dante Tangianus

'Launeddas' Il suono di una vita. - un libro di Dante Tangianu

Un viaggio nella Sardegna dei sentimenti - Edizioni NuovaPrhomos 2015

 

“La musica è un vestito su misura indossato dal tempo e nasce per riparare le anime del mondo dai silenzi delle malinconie.” (Giuliano Marongiu)

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- Cinema

MIA - Mercato Internazionale dell’Audiovisivo a Roma 16/20

MIA - Il nuovo Mercato Internazionale dell'Audiovisivo

Già annunciata a Cannes da Andrea Occhipinti, presidente dei distributori dell’ANICA, la nascita di MIA - Mercato Internazionale dell'Audiovisivo, la cui prima edizione si svolgerà a Roma dal 16 al 20 ottobre durante la Festa del Cinema di Roma (16-23 ottobre), dove quest'anno convergeranno anche, oltre l'ormai consuento appuntamento di The Business Street e New Cinema Network, la prima edizione dei TvDays e l’undicesima edizione di Italian Doc Screenings. MIA sarà finanziato principalmente dal MiSE e avrà l’apporto delle diverse sigle associative (ANICA, APT, Doc/It) , e il supporto del MiBACT, di Cinecittà Luce e ICE inoltre a Intramovies, Fandango e Rai Com. MIA si svolgerà in alcune straordinarie location della Capitale, come le Terme di Diocleziano, il più grande complesso termale dell’antica Roma, che ospiterà gli incontri di co-produzione e le attività di networking. Nel vicino Hotel Boscolo Exedra, presso Piazza della Repubblica, si terranno convegni e incontri fra compratori e venditori internazionali, mentre il cinema Quattro Fontane ospiterà le proiezioni.

MIA si svolgerà grazie al sostegno del Ministero dello Sviluppo Economico e di ICE – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, sarà promosso dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e da Istituto Luce – Cinecittà, e conterà sulla collaborazione della Roma Lazio Film Commission, in sinergia con le film commission nazionali, offrendo ai professionisti e agli operatori del settore occasioni di networking, proiezioni, dibattiti, conferenze, workshops, incontri di co-produzione, tavole rotonde, approfondimenti sugli ultimi trend del mercato, sulla coproduzione e la distribuzione in ambito globale, riservando una particolare attenzione alle nuove piattaforme, alla transmedialità e al gaming (con la partecipazione dell’Aesvi – Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani).

Per la prima volta in Italia, il MIA si occuperà di tutti i segmenti del prodotto audiovisivo, dal cinema alle tv series, dai documentari ai factual, dall’animazione ai videogiochi, vedendo coinvolte, dal punto di vista strategico e operativo, tutte le realtà più consolidate e attive del panorama produttivo e distributivo italiano: per il cinema, l’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive (Anica) e Fondazione Cinema per Roma; per le attività televisive, compresa Agorà, l’Associazione Produttori Televisivi (APT); per i documentari, l’associazione Doc/it. Il Mercato proporrà infatti per il cinema un focus sulle coproduzioni italiane e un Film Financing Forum, oltre a momenti dedicati alla televisione e al documentario con la seconda edizione di Doc&Factual Agorà, e al rapporto tra cinema e media.

MIA proporrà inoltre concrete opportunità di business e informazione agli operatori italiani e alle società più vivaci del mercato globale, ereditando e potenziando le competenze dei suoi partner e le loro esperienze, tra cui: The Business Street, New Cinema Network, Forum delle co-produzioni, TvDays, Italian Doc Screenings, Agorà. Tutti i soggetti lavoreranno in sinergia attorno ad un progetto comune, con l’obiettivo di sviluppare una piattaforma permanente funzionale all’internazionalizzazione dell’industria audiovisiva italiana, mettendo in campo strumenti concreti che sostengano il networking, le esportazioni e le coproduzioni e che riportino gli operatori italiani ai tavoli di negoziazione di grandi progetti europei e globali. L’Italian Film Commission presenterà gli strumenti operativi per promuovere le Regioni e le loro capacità a sostegno dei produttori nazionali e internazionali.

Lucia Milazzotto, Direttore del MIA e già Direttore del settore Marketing di World Content Pole SA e responsabile di New Cinema Network, ha svolto attività di consulenza per alcune fra le più importanti realtà produttive e distributive in Italia, con una lunga esperienza nel campo dell’industria audiovisiva internazionale, consolidata grazie ai rapporti con produttori, distributori e alcune fra le più importanti istituzioni cinematografiche come Eurimages, Media Programme, Sundance Institute e Cannes Cinefondation. Lucia Milazzotto sarà affiancata da due board specifici per cinema e televisione composti da world sales, produttori e broadcaster nazionali e internazionali per individuare le tendenze, le attività e gli operatori più interessanti da tutto il mondo.

Numerose le attività nel programma di MIA alle quali siete invitati a intervenire numerosi … un’occassione da non perdere a sostegno delle attività creative non solo cinematografiche che hanno fatto ‘grande’ il nostro paese.

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- Musica

TALOS FESTIVAL dall’ 1/11 Ottobre - Ruvo di Puglia

TALOS FESTIVAL: LA MELODIA, LA RICERCA, LA FOLLIA dall’ 1/11 Ottobre 2015 a Ruvo di Puglia (Ba)

 

Nella mitologia greca Talo (o Talos, dal greco Τάλως) è un gigante di bronzo, guardiano di Creta. Nel dialetto cretese "talôs" era un sinonimo di "hêlios", il sole; Esichio di Alessandria notava che "Talos è il sole". Il mito vuole che la statua vivente del gigante venne creata da Efesto per Zeus, che ne fece dono ad Europa. Si tratterebbe di un gigantesco automa di bronzo invulnerabile, tranne in un punto della caviglia (la Puglia) dove era visibile l'unica vena che conteneva il suo sangue. La leggenda vuole che quando la spedizione degli Argonauti giunse sull'isola, sia stato reso pazzo da Medea ed ucciso dall'argonauta Peante che trafisse la sua vena con un colpo di freccia. Un'altra versione narra che il gigante sia morto per la fuoriuscita del sangue, causata però dall'urto della caviglia contro una roccia.

 

Talos Festival nasce dal ricordo di questo mito in segno di riconoscimento della sua 'invincibile' presenza sul territorio a conferma del successo che arride a chi qui si ferma. Realizzato dal Comune di Ruvo di Puglia con il fondamentale sostegno di Puglia Sounds e il supporto di Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Puglia, Pro Loco Ruvo di Puglia, Associazione Terra Gialla e di numerosi e preziosi sponsor privati, Talos Festival è da anni uno dei maggiori ‘Festival Jazz’ italiani.

 

Nato nel 1993 per volere del jazzista ruvestino Pino Minafra, il quale ha anche diretto la rassegna tra il 1993 e il 2000, per poi tornare alla direzione nel 2004 e nel 2012. Si tiene a Ruvo di Puglia, solitamente in autunno ed è ritenuto punto cardine del panorama musicale del mezzogiorno e della cultura musicale ruvestina indissolubilmente legata alla tradizione bandistica locale fin dal 1871. Al festival prendono parte jazzisti di fama internazionale ma viene dato spazio anche alle bande musicali.

 

Dopo le oltre 60.000 presenze registrate nelle ultime tre edizioni che hanno segnato il ritorno del festival alla sua dimensione progettuale dopo anni di assenza, Talos Festival propone anche quest'anno un articolato programma dedicato al suono 'bandistico' con quasi trenta concerti, produzioni originali, proiezioni, mostre, masterclass, affermandosi ancora una volta come una delle manifestazioni pugliesi più apprezzate e conosciute a livello nazionale ed europeo. Numerose sono infatti quelle ospitate anche quest’anno insieme a numerosi ospiti: Fanfara di Tirana, Transglobal Underground, Funkoff, Burry Guy, John Surman, Hosni Niko Zela e Albanian Iso Polyphonic Choir, Minafrìc Orchestra, Michel Portal, Bojan Z, Nicola Pisani, Michele Jamil Marzella, Conturband, Francesco Sossio Banda, Pasquale Innarella Quartet sono alcuni degli oltre 400 musicisti ospiti del Talos Festival.

 

'La melodia, la ricerca, la follia', ideato e diretto dal trombettista e compositore Pino Minafra, il festival - come ogni anno - è diviso in due sezioni. Da giovedì 1 a mercoledì 7 ottobre Largo Cattedrale ospiterà l'anteprima dedicata alle bande che si sono formate all’interno di istituzioni culturali, conservatori, scuole e non solo. Nel corso della settimana di eventi si alterneranno, infatti, l’Associazione Corale Polifonica Rubis Canto, Bembè Percussion Ensemble, Small Stretch band, l’orchestra multietnica Ritmo Live del Conservatorio Corelli di Messina, Il Cenacolo Brass Ensemble, il trombonista Michele Jamil Marzella con i brani del suo lavoro discografico d’esordio “La via del possibile” (Dodicilune), la Serd Band, Apulia’s “Città di Ruvo di Puglia”, Francesco Sossio Banda, Banda Brigata Meccanizzata di Pinerolo, Grande Orchestra di Fiati G. Ligonzo di Conversano e Conturband.

 

Da giovedì 8 a domenica 11 ottobre appuntamento, invece, con il festival internazionale con grandi ospiti pugliesi, italiani e provenienti da tutto il mondo e alcune produzioni originali realizzate espressamente per il Talos che dimostrano il ruolo di ecletticità, poliedricità e innovazione che la banda può svolgere nel panorama internazionale. Il programma - in vari appuntamenti pomeridiani e serali ancora in via di definizione - ospiterà, tra gli altri, il duo franco/serbo composto da Michel Portal e Bojan Z, la presentazione di Cypriana, nuovo progetto discografico di Nicola Pisani, l’incontro tra Russia e Ucraina con Arkady Shilkloper (corno e flicorno) e Vadim Neselovsky (piano e armonica a bocca), l'esprienza dei Funkoff di Dario Cecchini (che terrà anche una masterclass), il contrabbassista Burry Guy, il sassofonista John Surman, il concerto della Minafrìc Orchestra con la partecipazione di Faraualla, Gianluigi Trovesi e altri ospiti, fra i quali Pasquale Innarella Quartet con "Uomini Di Terra " dedicato a Giuseppe Di Vittorio, Hosni Niko Zela e Albanian Iso Polyphonic Choir con la presenza sul palco del pianista Robert Bisha e con il violoncellista Redi Hasa e il gran finale con la Fanfara di Tirana e Transglobal underground.

 

Per ulteriori info: Ufficio stampa Società Cooperativa Coolclub - Piazza Baglivi 10, Lecce.

Tel e Fax: 0832303707 - 3394313397 - pierpaolo@coolclub.it

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- Mare

’FÀVOLÀ e il MARE’ - Staffetta di Fiabe a San Ben.Tronto

L'Associazione Culturale ‘I Luoghi della Scrittura’ nell’ambito della manifestazione titolata ‘Piceno d’Autore’ che si tiene ogni anno a San Benedetto del Tronto:

Invita tutti i bambini alla Staffetta di “FÀVOLÀ e il MARE” che si terrà oggi Giovedì 6 Agosto in alcuni Chalet sulle spiagge del litorale della Riviera delle Palme (SBT) dalle ore 10,00 – 12,40 - 16,20 – 19,00 con ingresso libero. Per l’occasione sarà letta una fiaba del libro di riferimento cui farà seguito un piccolo rinfresco per tutti i bambini presenti, offerto dai concessionari.

La sera la festa continua fino all'8 Agosto alle 21,15 sempre con 'ingresso libero' alla Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto. Tutti, grandi e piccini, sono invitati a partecipare.

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- Musica

‘Tango Nuevo Latin Jazz’ - una riproposta

‘Tango Nuevo Latin Jazz’,

è la riproposta del progetto discografico del chitarrista, compositore e arrangiatore Paolo Giaro, prodotto dall'etichetta salentina Dodicilune nella linea editoriale Wysiwyg (What You See Is What You Get) e distribuito da IRD e nei migliori store digitali. Il disco contiene sei brani originali del musicista (Los Apasionados, Conquistar, Tango Agridulce, Sudamerica, Dancing in the autumn light e Scatti), Off Minor e Criss Cross del pianista statunitense Thelonious Monk e una versione spagnola di Estate (Verano) di Bruno Martino. Giaro (chitarra, voce e strumenti virtuali) è affiancato da Silvia Donati e Valeria Visconti (voce), Claudia Giunta e Ilaria Mignoni (violino), Samuele Garofoli (flicorno), Carlo Colocci (sax), Jean Gambini (sax tenore), Claudio Mangialardi (basso) e Massimo Manzi (batteria). Il tango europeo rivisto dalla originale personalità jazz di Paolo Giaro, non solo attraverso ritmi e melodie originali ma anche parole scritte di suo pugno.

Paolo Giaro è un compositore e chitarrista che nel corso della sua formazione ha percorso innumerevoli esperienze arricchendosi di un bagaglio artistico-musicale conquistato nei suoi viaggi attraverso il mondo. Ha realizzato fruttuose collaborazioni con musicisti di estrazione più diversa. In Brasile ha tenuto concerti come chitarrista col gruppo Mercado Negro e in India col sarodista Debiprasad Ghosh a Cuba con il gruppo Los seis del sol; in Europa con George Aghedo, Sonny Taylor, El Hadji Niang, Fabrizio Ottaviucci, Federico Sanesi, Alfredo Trebbi, Pippo Ark D’Ambrosio, Quartetto di sassofoni Adolph Sax, Teresa Ranpazzi, Paul Dabirè, Gabriella Bartolomei Erèndira Diaz. Ha composto per strumenti solisti, quartetti, ensemble, orchestre sinfoniche, big band, computer e sintetizzatori. Insieme all’attività concertistica, ha realizzato progetti discografici come compositore, interprete e arrangiatore. Sue produzioni discografiche sono inoltre: ‘E’ vento’ (1995), ‘Dancing in the light of the full moon’ (Amiata Records 1996), ‘Misterios’ (Harmony-Dona Ruy Project 1996), ‘Urbino’ (Amiata Records 1998), ‘Variazioni africane’ (1999-2000), ‘I vu di’ (Velnet 2002), ‘Respiro d’Europa’ (Tracks 2005). «Trattasi di musica contemporanea con un sound che la colloca nell’ampio panorama di suoni provenienti da tutto il mondo - sottolinea il musicista indiano Trilok Gurtu – c’è in essa la cultura italiana, ma ci sono anche i ritmi e i colori dell'India. Belle le armonie, a volte classiche, e belli gli arrangiamenti, spesso jazz, lontani dagli standard americani».

L’etichetta salentina Dodicilune che ha prodotto questo suo ultimo lavoro è attiva dal 1996 e riconosciuta dal Jazzit Award tra le prime tre etichette discografiche italiane (dati 2010/2013). Dispone di un catalogo di oltre 150 produzioni di artisti italiani e stranieri, ed è distribuita in Italia e all'estero da IRD presso 400 punti vendita tra negozi di dischi, Feltrinelli, Fnac, Ricordi, Messaggerie, Melbookstore. I dischi Dodicilune possono essere acquistati anche online (Amazon, Ibs, LaFeltrinelli, Jazzos) o scaricati in formato liquido su 56 tra le maggiori piattaforme del mondo (iTunes, Napster, Fnacmusic, Virginmega, Deezer, eMusic, RossoAlice, LastFm, Amazon, etc). www.dodiciluneshop.it

Dodicilune - Edizioni Discografiche & Musicali
Via Ferecide Siro 1/E - Lecce
Tel: 0832.091231
Mail: info@dodiciluneshop.it - press@dodicilune.it

Ufficio stampa Dodicilune
Società Cooperativa Coolclub
Piazza Baglivi 10, Lecce
Tel: 0832303707
Mobile: 3394313397 - Mail: ufficiostampa@coolclub.it

Track List
1 - Los apasionados (Paolo Giaro)
2 – Conquistar (Paolo Giaro)
3 - Estate / Verano (Bruno Martino)
4 - Tango agridulce (Paolo Giaro)
5 - Sudamerica (Paolo Giaro)
6 - Dancing in the autumn light (Paolo Giaro)
7 - Scatti (Paolo Giaro)
8 - Off minor (Thelonious Monk)
9 - Criss cross (Thelonious Monk)
Personnel
Paolo Giaro - guitar, vocals, virtual instruments
Silvia Donati, Valeria Visconti - vocals
Claudia Giunta, Ilaria Mignoni - violin
Samuele Garofoli - flugelhorn
Carlo Colocci - saxophones
Jean Gambini - tenor saxophone
Claudio Mangialardi - bass
Massimo Manzi - drums

Compositions, lyrics, arrangements by Paolo Giaro
Recording Data:
Prodotto da Paolo Giaro e Gabriele Rampino per Dodicilune edizioni
Label manager Maurizio Bizzochetti
Registrato e mixato nell’agosto 2013 da Daniele Stefanelli al GiaroMondo Studio di Pesaro
Masterizzato nel settembre 2013 da Alessandro Boschi all’Alex B Studio di Ghiffa (Vb)
Foto di Silvano Bacciardi
Graphic design di Annamaria Ferretti, Maria Grazia Palazzo
Traduzioni Paula Teklits (inglese) Veronica de Marinis (spagnolo)
Coordinamento Loredana Ugolini e Angela Marconi


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- Libri

’AUDIOLIBRI!’ l’evento dell’Estate 2015

Audiolibri!

Da oggi rivoluzioniamo il mondo del selfpublishing lanciando il servizio di selfpublishing in audiolibro.


• Pubblicazione cartacea
• Pubblicazione digitale
• Sistema di distribuzione
• Servizi editoriali
• Pubblicazione Riviste Digitali

Grazie a questa straordinaria novità, Youcanprint è la prima piattaforma a fornire la possibilità di pubblicare contemporaneamente sia la versione cartacea, sia quella in digitale e in audiolibro.

Cos'è un audiolibro? Un audiolibro è un libro in formato mp3, scaricabile e destinato all'ascolto su lettori mp3, smartphone, tablet e computer. L'audiolibro permette di leggere i libri preferiti anche studiamo, viaggiamo o lavoriamo.

Perchè pubblicare un audiolibro? La pubblicazione in audiolibro ha molti vantaggi per gli autori, cerchiamo di vederli nel dettaglio. Accessibilità: L'audiolibro è scaricabile ovunque e il lettore può ascoltarlo praticamente in qualsiasi situazione, aumentando enormemente le possibilità di vendita. L'isbn è sempre gratuito con Youcanprint e l'unico costo da sostenere è quello di registrazione e realizzazione dell'audiolibro.

Visibilità: L'audiolibro risolve completamente il problema della distribuzione fisica dell'opera propria dell'editoria tradizionale. Un'opera pubblicata in audiolibro è distribuita in 40 paesi e ha la stessa visibilità di opere di editori importanti. Con l'audiolibro, inoltre, sarà più facile accedere anche ai mercati internazionali.

Opportunità: l'editoria legata agli audiolibri ha un tasso di crescita sorprendente ed è ancora un mercato agli esordi e garantisce un guadagno maggiore rispetto al cartaceo.
L'audiolibro permette di leggere in maniera innovativa i libri preferiti anche quando siamo impegnati in altre attività: mentre studiamo, mentre viaggiamo o mentre lavoriamo. Grazie all'audiolibro è possibile non privarsi del piacere della lettura anche se abbiamo una vita intensa o semplicemente possiamo scoprire un modo nuovo, rilassante, coinvolgente ed emozionante di leggere i nostri libri preferiti.

Perchè pubblicare un audiolibro? L'editoria legata agli audiolibri ha un tasso di crescita sorprendente e garantisce un guadagno maggiore rispetto al cartaceo.

Come fornire il file per la registrazione: è necessario fornire un documento word o pdf in formato a4 (21x29.7cm) con carattere di dimension 12 per rendere la lettura agevole.

Dove sarà distribuito il tuo audiolibro? Il tuo audiolibro sarà distribuito in 40 paesi grazie alla distribuzione su iTunes e altri importanti store.

Quanto guadagnerai per ogni audiolibro venduto? Per ogni audiolibro Youcanprint riconoscerà il 40% del prezzo di copertina defiscalizzato (senza iva) per i soli canali che adottano la vendita integrale dell'audiolibro, mentre per i canali che adottano un modello di vendita in subscription, Youcanprint riconoscerà l'80% defiscalizzato (senza iva) di quanto sarà riconosciuto a Youcanprint dagli stessi store.

Quanto costa realizzare un audiolibro? Registrazione in audiolibro: 2.99 € + iva a pagina per opere fino a 150 pagine (a4 word, pdf) e 1.99 € + iva a pagina per opere da 151 pagine (a4 word, pdf) in su.

Come sarà realizzato l'audiolibro? Ricevuto il tuo file il tuo audiolibro sarà realizzato in 3 settimane (i tempi dipendono dalla lunghezza dell'opera). Al termine della registrazione sarà inviato il file in mp3 in anteprima prima della pubblicazione. Sono gratuite fino a tre modifiche di max 3 pagine dopo la registrazione. Eventuali ulteriori correzioni di refusi o errori di battitura nel testo non dipendenti da Youcanprint, verranno addebitate separatamente.

Grazie a questa straordinaria novità, Youcanprint è ad oggi la piattaforma con la soluzione di pubblicazione e distribuzione più completa.

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- Musica

’LINCHETTO JAZZ FESTIVAL’ - In Garfagnana

‘Linchetto Jazz Festival’ - 31 luglio - 2 agosto

 

Se stavate pensando a una vacanza diversa, insolita, innovativa, eccola a portata di mano (e di tasche, anche di quelle più proibitive) in Garfagnana. E non solo, vi si offre l’occasione per un last minute 'prendi e vai', preoccupandovi solo di poche cose essenziali per la cura della vostra persona. Il resto lo farà la musica: tre giorni full immersion con l’occasione di trovare molti amici che non sapevate di conoscere già, tutti insieme accomunati dal piacere del Jazz 'dal vivo'. Affrettatevi!

Il Linchetto Jazz Festival, dopo un inverno di ipotesi e pensieri assortiti, è ormai nella fase operativa. Un grande lavoro in questo senso è stato fatto dal sassofonista romano Carlo Conti che si è divertito ad immaginare quel che sarà possibile fare nei tre giorni in cui il Linchetto Jazz Festival riempirà di note la valle della Garfagnana.

La location è davvero splendida: il campeggio Rio Vaiano è incastonato tra un lago e i castagni che lo circondano, perfetto per chi, oltre alla musica, ama il passeggiare senza fretta tra i boschi dall’aria pulita. Molti i percorsi possibili e le destinazioni per gli scarpinatori indomiti. Le cave di marmo, ad esempio, luogo dove potrebbe perfino capitarvi di stare col naso all’insù immaginandovi di essere sulla luna, oppure il villaggio di Campo Catino con le sue case in pietra o mille altri luoghi e scorci lontani dalla fretta e dal rumore.

All’interno del campeggio, per chi deciderà di partecipare, saranno previsti spazi di attività varia, dall’intrattenimento per i bambini alla ristorazione. Argomento cibo: la Garfagnana offre molte possibilità. Per chi volesse mangiare con le gambe sotto a un tavolo e con un tetto sulla testa molti sono i ristoranti nel paese di Vagli e nelle zone circostanti, la cucina è semplice e gustosa, più o meno ovunque.

Per chi invece volesse vivere la dimensione Linchetto il campeggio offrirà, oltre alla struttura bar, un servizio di ristorazione per tutti i tre giorni (colazione, pranzo e cena), con menù semplici e dal prezzo assolutamente popolare. Sarà in questo scenario che dal 31 Luglio al 2 Agosto si ascolteranno alcune delle produzioni più interessanti della scena jazzistica nazionale contemporanea.

Si inizia il venerdì con Ugoless, duo composto dal sassofonista Tittarelli, ultimamente in pianta stabile su Rai 3 (Gazebo) e il batterista Fabio Sasso e a seguire Andymusic, uno dei trii più sorprendenti della scena romana. Il sabato è la volta del trio del giovane trombettista Francesco Fratini e di LUZ, un trio che negli ultimi 3 anni ha suonato oltre 130 concerti in tutta Europa. La domenica tocca ai Neko di Francesco Diodati, uno dei migliori talenti della scena italiana, da un anno chitarrista del nuovo quartetto di Enrico Rava. Si concluderà con un large ensemble a sorpresa, una festa nella festa.

Durante il festival, oltre al palco centrale, ci sarà, sempre all'interno del campeggio uno spazio off che animerà di musica e performance libere i momenti di pausa sul palco principale e i dopo show serali, gestito dal Chourmo. Sarà come essere nella romana via Galeazzo Alessi, ma con l’erba sotto i piedi, la notte fresca e gli alberi intorno. Molte cose ci sarebbero e ci saranno ancora da dire, ma una è evidente: non manca molto e la prenotazione è vivamente consigliata visto che non sarà possibile accettarne più di quella che è la disponibilità reale del campeggio.

Prezzi di adesione : 31-Luglio 1-2 Agosto.2015 • 75,00 euro a persona data di arrivo 31/7 data partenza 03/08 (piazzola di campeggio tenda compresa) • 2,00 euro al giorno energia elettrica • 1,50 euro al giorno per animali domestici (cani sempre al guinzaglio) • 10,00 euro al giorno piazzola camper • Sconto 50% - Bambini 7-13 • Gratis – Bambini 0-6 anni • Gratis – Parcheggio auto interno campeggio • 4,00 euro servizio lavanderia.

Inizio concerti ore 21.00 Camping Rio Vaiano, via C. Greco 11, Vagli Sotto (LU) linchettojazz2015@tiscali.it – 329.4708138

 

PROGRAMMA

Venerdì 31 Luglio 'UGOLESS' Daniele Tittarelli: sax, effetti Fabio Sasso: batteria, effetti 'ANDYMUSIC' Manlio Maresca: chitarra Giulio Scarpato: basso Enrico Morello: batteria Sabato 1 Agosto 'FRANCESCO FRATINI TRIO' Francesco Fratini: tromba Eddy Cicchetti: contrabbasso Fabio Sasso: batteria LUZ Giacomo Ancillotto: chitarra Igor Legari: contrabbasso Federico Leo: batteria Domenica 2 Agosto 'FRANCESCO DIODATI NEKO' Carlo Conti: sax Francesco Diodati: chitarra Francesco Ponticelli: contrabbasso Ermanno Baron: batteria 'LINCHETTO ENSEMBLE' musicisti a sorpresa!

 

PRENOTAZIONI ENTRO IL 15 LUGLIO 2015

Versamenti del 50% quota per iscrizione, su: Cassa di risparmio di Lucca Pisa Livorno IBAN IT27L0503413900000000003640.

 

INFO

molte sono le attrazioni rivolte ai turisti amanti della natura, delle camminate e degli splendidi panorami: i monti Tambura, Sumbra e Roccandagia, l'Oasi naturale LIPU di Campocatino, le cave di marmo, il vecchio paese di Vagli Sotto con le sue tipiche case in pietra, la splendida chiesa romanica di S. Agostino (sec. XI) ed il fantastico lago. Il clima nel mese di fine Luglio e Agosto dovrebbe essere caldo di giorno, con significativi sbalzi termici nella sera (si consiglia abbigliamento anche pesante), in Garfagnana sono tipici i temporali estivi quindi portare impermeabile.

Durante i tre giorni di festival sarà allestita una cucina da campo gestita a cura degli organizzatori, che provvederà alla colazione, pranzo e cena; piatti semplici e locali con prezzi accessibili necessario è dotarsi di piatti, bicchiere, tazza, posate. In paese sono presenti alimentari per vostri acquisti e supermercati a 20 minuti di macchina. Il paese è fornito di farmacia il medico giornalmente presente.

Il Lago, grande attrazione del comune di Vagli di Sotto, è balneabile quindi necessita costume da bagno, telo, ciabatte. Piacevole anche la Piscina comunale, facilmente raggiungibile anche a piedi dal campeggio, prezzi economici, necessaria la cuffia ( provvedete a portarla, altrimenti la pagate cara) In montagna il sole si fa sentire, necessaria crema di protezione.

Le passeggiate nel bosco necessitano di abbigliamento adeguato, pantaloni lunghi e scarpe da trekking. Il campeggio è immerso nel verde bosco di castagni, la forza del campeggio è la bellissima natura che lo circonda, i servizi dentro il campeggio sono essenziali, i bagni, le docce con acqua calda, i lavabo per l’igiene personale per rigoverno e panni, servizio lavatrice, di notte la zona è totalmente illuminata.

Servizio Bar Ristoro. Ad eccezione di chi richiede il punto luce, o ha il camper che necessariamente deve collocarsi negli spazi previsti, il campeggio ha ampi spazi, quindi ognuno di voi potrà scegliersi il posto dove collocarsi con la propria tenda, nel prato, sotto i castagni, nel bosco, bordo lago, insomma lo spazio non manca e i panorama è veramente splendido. Vi aspettiamo.

 

Per qualsiasi altra domanda, scrivere e/o chiamare:

marco valente - auand records +39.347.6107026 - skype: marcoje

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- Libri

Numero zero - di Umberto Eco

‘NUMERO ZERO’ di Umberto Eco – Bompiani 2015

 

«Ah, ah, ah!»

«George che fai, adesso ridi da solo?»

«No, con l’ultimo romanzo di Umberto Eco.»

«Da quando Eco fa ridere, saputo e barboso com’è è diventato un autore comico?»

«Di più, dopo aver assistito lo scorso anno alla sua lectis magistralis all’Auditorium di Roma, dove ci si è sbellicati dalle risa, ho scoperto che la sua vena filantropica lo induce sempre più a compiere atti di solidarietà con il lettore, tuttavia senza spingersi nell’amore per il prossimo.»

«Scusa George, in che senso?»

«Mah, in quello del filantropo che se la ride di tutto e di tutti con l’ironia (bonaria?) di chi ride di se stesso. Credimi Ann, è davvero uno spasso leggere o 'rileggere' la storia politica filtrata dal placido sarcasmo di uno scrittore senza peli sulla lingua.»

«E questo ti fa tanto ridere, come se non bastasse il sarcasmo di certi giornalisti, con quello che ogni giorno ci rifilano di pessime notizie?»

«Macché Ann, è il piacere sottile del suo argomentare che solletica in me la comicità. Un po’ come accadeva con Alberto Sordi nel ruolo di ‘Dentone’ nel film a episodi del 1965 “I complessi”, la cui sola apparizione della sua faccia sullo schermo televisivo in qualità di aspirante giornalista scatenava un’immediata ilarità.»

«Che Eco ti faccia lo stesso effetto di Alberto Sordi è quasi preoccupante.»

«Ma certo che no, o forse direi di sì, per le sue battute spesso audaci quanto vere che ci rappresentano, o meglio in cui Eco rappresenta la realtà di oggi.»

«Al meglio o al peggio, George?»

«Direi a prescindere!»

«Stai forse dicendo che Eco sta a Sordi come Sordi sta a Totò?»

«Certo che sì, prendi ad esempio questo “Numero zero”, un romanzo fuori dal genere romanzesco, o se preferisci ‘romanzato’, che rompe con il polveroso cliché letterario per diventare altro; alla base di un’esperienza professionale svolta sul campo da chi ha fatto la cosiddetta ‘gavetta’ nelle redazioni dei giornali, spinto da un probabile istinto scrittorio solo perché in realtà non avrebbe potuto fare altro. O forse tutto, come appunto i protagonisti di questa storia, cui Eco relega in una redazione di un giornale che non ha nessuna probabilità di vedere la luce.»

«Mi sembri fin troppo entusiasta George, sei certo di non confondere Umberto Eco con Andrea Vitali, o qualcun altro?»

«Credo di no dal momento che ho fra le mani il libro di Eco, pur tuttavia la diversità che contraddistingue l’uno dall’altro va ben oltre la scrittura. Come dire, che l’uno aderisce al genere commedia all’italiana, raccontando a suo modo ciò che è stato; mentre l’altro, fra lazzi e frizzi, rappresenta i tanti ‘tani’ che siamo diventati: milan-tani, turin-tani, genoven-tani, napole-tani, insomma quegli italio-tani dal linguaggio colorito e chiassoso che ci distingue, tipico di una certa ‘cronaca’ giornalistica dei pezzi di colore, degli articoli di fondo ecc. ecc.»

«Dunque cos’è, assomiglia più al solito ‘vademecum’ o alla noiosa ‘vertigine della lista’ inquanto prodotti specifici della Eco & Co.?»

«No, piutosto direi un ‘diario di bordo’ per chi si trovi ad affrontare il mare burrascoso del mestiere di giornalista, che non è solo da scoprire navigandolo, bensì inventandoselo, come può essere per un ‘noire’ aperto a mille e più soluzioni e tuttavia nascoste nel labirinto delle notizie, certe o false che siano, estrapolate da un quotidiano spesso polveroso e obsoleto in cui si parla di tutto e di niente.»

«George, dov’è finito il piacere dello scoop che tanto eccitava il giornalista quanto l’opinione pubblica?»

«Cara Ann, senza doversi lasciar circuire dalle parole, si arriva al semplice escamotage che in qualche modo riesce a risvegliare i sensi dalla monotonia della solitudine, niente di più. Eco non va alla ricerca dello scoop, si cimenta nel riscrivere la storia, ridisegnare i contorni di una falsa-realtà letteraria di un ‘numero zero’ quotidiano che è la ‘prova provata’ di come si muove il pensiero umano; di come si articolano i concetti; come si inventa un ‘fatto di cronaca’ che forse non è mai accaduto e che potrebbe anche non accadere mai.»

«E questa sarebbe la grande intuizione di questo libro?"

«Certo che sì, nel far esprimere i suoi personaggi nello stesso modo della gente comune, quella che s’incontra nel quotidiano, alla quale l’autore si mescola con fare sornione, per dire la sua, pro o contro le istituzioni, di certi avvenimenti del passato come simulazioni del presente, per restaurare una qualche concezione comune che la gente sembra aver dimenticata. E lo fa alla Nanni Loy, cioè come se fosse dietro a uno “Specchio segreto”  in cui la telecamera nascosta affronta una realtà amara e altrettanto comica, proverbiale di catastrofe annunciata.»

«Ma infine, qualcosa succede in questo ‘telefilm’ che vai raccontanto, oppure …?»

«Sì e no, fatto è che nel romanzo (sui generis) la catastrofe è già avvenuta (narrata) e continua a procurare danni irreversibili, il cui strascico lo andiamo calpestando finanche noi contemporanei.»

«Fammi capire George, cosa accade di così irreversibile?»

«Beh, per esempio che Eco attribuisce al ‘fare giornalismo’ alcune peculiarità suffragate dalla scarsa memoria degli italiani, vado a leggere: “La questione è che i giornali non sono fatti per diffondere ma per coprire le notizie. Accade il fatto X, non puoi non parlarne ma imbarazza troppa gente, e allora in quello stesso numero (zero) metti titoloni da far rizzare i capelli (..) e la tua notizia (imbarazzante) annega nel gran mare dell’informazione.”»

«Quindi, cos’è che di fatto accade?»

«Vedi Ann, accade che la notizia pur essendo storicamente probabile è talmente improponibile che non la si può divulgare e alla fine ci scappa il morto, un certo Braggadocio.»

«E chi sarebbe questo morto?»

«Braggadocio, il protagonista!»

«Il protagonista?»

«No, l’autore!»

«George la narrazione non quadra, dici ‘storicamente probabile’ ma non riesci a definire di cosa si tratta.»

«Mah, di storia, la nostra storia … Vedi Ann essendo Eco considerato un massmediologo olre che filosofo, semiologo ecc. ecc. non può esimersi di rincorrere la storia, così dove non arriva nella sua ricostruzione, la ‘crea’.»

«Vale a dire che re-inventa la storia?»

«In un certo senso la fa reinterpretare da Braggadocio che è poi uno dei personaggi chiave del romanzo.»

«Sono basita.»

«No, dicevo così per dire, magari la reinterpreta e non è poi detto che di distacchi più di tanto dalla realtà dei fatti. Certamente lo fa meglio di tanti altri giornalisti che pensano (senza essersi documentati e senza alcuna esperienza diretta) che riempiono le colonne dei giornali e le serate dei talk-show televisivi.»

«Vieni al dunque George.»

«Non c’è alcun dunque da spiegare, penso che dovresti leggere il romanzo e solo allora potrai comprendere le molte ‘aperture’ e i ‘limiti’ dell’interpretazione della saggistica-letteraria di Eco; di ‘come si costruisce un nemico’ che forse, e ribadisco forse, che non c’è, al punto che basta ipotizzarlo per renderlo reale.»

«George, ti comunico che stai ricomnciando con le tue espressioni soporoso-comatose, forse è arrivata per te l’ora di andare a dormire. Possibile tu non riesca più a fare un discorso lineare o quel che si dica semplice?»

«Perché leggere Eco è mai stato lineare o semplice?»

«Nient’affatto ma temo tu lo stia rendendo più concettuoso di quanto egli stesso sia.»

«Tu dici Ann?»

«Ne sono certa, anzi, penso che dovresti farne una recensione in modo da schiarirti le idee (leggi i film) che ogni volta ti fai sui suoi libri. E chi sarebbe questo Braggadocio?»

«Umberto Eco»

«Pirandello in “Si gira” ha fatto sicuramente di meglio.»

«Grazie Ann, sei la mia irrinunciabile musa, solo tu riesci a rammentarmi che tutto o quasi è già stato detto, e a spronarmi a fare dell’altro nella vita che di leggere libri. Buonanotte!»

 

Mistero: Capitolo XVII, pagg. 201. Il testo cambia di ‘carattere’ e di ‘corpo’ quasi fosse staccato dal libro o inserito in un secondo momento. Un ripensamento d’autore? Una rivisitazione della conclusione? Che forse vi si svelavano altre ‘congiure’? Oppure … ?

 Di certo Eco sa bene come manovrare la curiosità del lettore, la capacità di includere in una trama quei colpi di scena che fanno di un romanzo un autentico thriller editoriale.

In quanto a farne una recensione, beh ci penserò.

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- Turismo

Al via il ‘Malta Arts Festival’ 2015

Al via il ‘Malta Arts Festival’

Sono numerosi gli artisti internazionali chiamati a raccolta per questa edizione del Malta Arts Festival che prenderà il via nella prima settimana di Luglio. Dal collettivo inglese degli Stomp, all'installazione interattiva Pixel Wave 2015 all'interno del City Gate recentemente ristrutturato da Renzo Piano, per arrivare alle performance dei Pendulum Choir e della Malta Philarmonic Orchestra.

Se state programmando una vacanza quest’estate non resta che partire alla scoperta delle spiagge più blu del Mediterraneo! L'estate è la stagione ideale per organizzare una vacanza a Malta. L'arcipelago si anima di tanti eventi ed iniziative che colorano giorno e notte le strade e le spiagge dell'isola. Qualcuno ha scritto che un'isola si puo' definire tale soltanto quando la si guarda dal mare. Una gita in barca apre una nuova perspettiva...non perdere l'occasione di venire a tuffarti nel mare di Malta per la tua vacanza. Acque limpide e spiagge con strutture moderne e accoglienti. La spiaggia di St. George’s Bay, una delle più frequentate dell’isola, è stata premiata con la Bandiera Blu. Istituita nel 1987, la Bandiera Blu è un riconoscimento internazionale che viene assegnato ogni anno a circa 4.000 spiagge di 49 paesi. St. George’s Bay è un’incantevole baia situata sulla costa nord orientale di Malta. Uno dei luoghi più amati e frequentati durante l’estate, sinonimo di divertimento e relax nel cuore della natura. La certificazione viene assegnata dalla Foundation for Environmental Education e si pone l’obiettivo di valorizzare le località balneari che perseguono una gestione sostenibile del territorio. Qui si trovano alcune delle più importanti località dell’arcipelago, come St. Julian’s, e importanti hotel internazionali di alto livello come il Corinthia Hotel St. George’s Bay e il Radisson Blu. Il conferimento della Bandiera Blu è un grande risultato che valorizza ulteriormente la costa di Malta e le sue tante attrazioni, dalle spiagge piene di sole e relax ai promontori da cui ammirare il sole che tramonta nel Mediterraneo.
Nonostante le lingue ufficiali siano il maltese (lingua di origine semitica, scritta in caratteri latini) e l’ìnglese, l’italiano è molto diffuso. La vicinanza all’Italia fa sì che questo arcipelago sia facilmente raggiungibile con poche ore di volo. Per intenderci da Roma ci si impiega circa un’ora e mezza e da Milano all’incirca due. Diverse compagnie aeree servono questa destinazione. Il Malta International Airport, tra i villaggi di Luqa e Gudja, dista pochi chilometri da La Valletta ed è l’unico aeroporto internazionale dell’arcipelago. Nonostante l’aereo sia il mezzo più facile e veloce, potete sempre scegliere di raggiungere l’arcipelago via mare usufruendo di un servizio traghetti che lo collega ad alcune località siciliane oppure attraverso una romantica crociera. Il porto di Malta, infatti, anche grazie al suo meraviglioso panorama sulle fortificazioni di Valletta, è diventato uno dei principali hub di scalo per le compagnie di crociera in navigazione nel Mediterraneo.

A Malta è tutto a portata di mano: città, siti archeologici, edifici storici, baie e spiagge, musei, gallerie e tanto divertimento. Il clima a Malta è tipicamente mediterraneo, in primavera come in estate, ma anche in autunno e in inverno il vento caldissimo proveniente dall’Africa, ‘lo scirocco maltese’, porta talvolta un gradevole aumento della temperatura. Gli inverni sono generalmente miti mentre l’estate è calda e soleggiata. Inoltre la bassa piovosità media annuale rende Malta una meta accattivante in ogni periodo dell’anno. Forse non tutti sanno che fin dal 1 Gennaio 2008 Malta ha adottato l’euro come moneta ufficiale. Da quest’anno, inoltre, nelle spiagge di St. George’s Bay, Bugibba, Mellieha Bay, Qawra Point, Ramla l-Hamra, Ghajn Tuffieha, Golden Bay, Fond Ghadir, Paradise Bay e Xlendi sarà attivo un servizio wi fi gratuito, per navigare liberamente durante la vacanza.

Malta Is More!

VOLI
Malta è raggiungibile dall'Italia grazie alla presenza di ben 10 aeroporti. I collegamenti sono attivi durante tutto l'anno. Scopri l'aeroporto a te piu vicino e la compagnia con cui volare per andare a Malta.

TRAGHETTI
Puoi raggiungere Malta anche via mare dalla Sicilia con la possibilità di imbarcare anche la tua automobile. Valletta sorge nei pressi di un porto internazionale e i collegamenti sono giornalieri.

TOUR OPERATORS
Se preferisci prenotare la tua vacanza con un Tour Operator o tramite agenzia di viaggio, clicca su INFO e scopri la lista dei Tour Operator che vendono pacchetti su Malta

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- Società

JACCUSE! - in difesa dei diversamente umani.

JACCUSE! - in difesa dei diversamente umani.

 

“Che nessun uomo vagabondo osi vivere in città, che non tenga casa, anche se è un operaio (lavoratore), pena cento frustate, e che lo portino fuori della città: poiché così è stato ordinato e già ripetuto in passato, fin dall’anno mille e quattrocentodue.” (Ordinanza di Siviglia 1402)

 

È davvero poi così lontano il tempo in cui L’Ordinanza di Siviglia prescriveva quanto appena letto? Sembrerebbe di no se ancora oggi, anno 2015, si torna a chiedere di ‘radere al suolo’ i loro accampamenti e di cancellare le strutture approntate per accogliere i cosiddetti ‘vagabondi’: nomadi rom, migranti richiedenti asilo politico, profughi e clasndestini. Da allora, con frequenza costante, la società ‘civile’ e ‘democratica’ ha manifestato attivamente contro questo ‘status sociale’ di povertà in maniera contrastante e alquanto difficile da condividere. In generale le opinioni spaziano dall’interesse allo stupore. Le descrizioni che ne vengono fatte sottolineano anzitutto una presunta diversità basata sull’aspetto esteriore: il colore scuro della pelle, il modo di vestire, il vociare disordinato apparentemente sconnesso (solo perché non li capiamo), il loro aspetto miserabile che ripugna la considerazione dell’opione pubblica. Mentre dovremmo essere consapevoli di trovarci di fronte a realtà certamente più complesse della nostra e talvolta difficili da interpretare secondo i nostri canoni. Occorre però considerare che in alcuni casi ciò non sia peculiare alle genti di per sé, piuttosto perché sono la conseguenza di un costante rifiuto, in alcuni casi secolare (come per i rom), opposto loro dalle società circostanti che, altresì dovrebbero accoglierle e nel possibile soccorrerle, poiché conseguenza di carestie, di stermini di massa, di guerre fratricide, o di dittature repressive che ne limitano la libertà, ecc. Daltra parte assistiano, per nostra buona fortuna, al sorgere di segnali contrapposti di conservazione e di rinnovamento che testimoniano l’esistenza di persone volenterose che sentono il dovere e la responsabilità di non restare indifferenti davanti al grande problema della sopravvivenza di quanti affrontano, una fase di costanti mutamenti in mezzo a situazioni di disgregazione sociale che ci sembrano irreversibili. Tanto più allora si deve perseverare nella solidarietà verso chi si trova ad affrontare situazioni peggiori delle nostre.

 

Come anche scritto da S. S. GIOVANNI XXIII, nella sua Enciclica “Pacem in Terris”, 1963:

 

“Ogni essere umano ha diritto alla libertà di movimento e di dimora all’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consigliano, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi con esse. Per il fatto di essere cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana; e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale”.

 

Un’opinione questa che andrebbe condivisa da parte di tutti gli osservatori delle politiche interne al Consiglio d’Europa e a quello delle Nazioni Unite, affinche sia fonte di collaborazione nell’affrontare quelle problematiche inerenti all’immigrazione e ci si adoperi nell’accoglienza di quanti affrontano, a rischio della propria vita, l’esilio culturale dalla propria terra contro la fame e la morte sicura. E condannino ogni estremizzazione xenofoba sia di tipo etnico, che di razza, che di colore della pelle nel paese d’accoglienza, e purtroppo tuttora in atto in gran parte del mondo. Ciò può essere possibile solo attraverso una presa di coscienza diffusa, insegnata a partire dalla scuola elementare con l’insegnamento al pacifico convivere e condividere la presenza dell ‘altro’; nella vita sociale con la nascita di forme associative di sostenibilità con il creare occasioni di cooperazione fra le diverse istituzioni laiche e civili, approfondimenti religiosi nel senso più ampio, proiettati alla tutela delle diverse culture il cui diritto è sancito dalla:

 

Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”

 

Se si considera l’aspetto funzionale di queste leggi convenzionali, ci si accorge che esse svolgono un medesimo ruolo negativo/positivo, perché formalizzano barriere ideali di distinzione fra i gruppi ‘nomadi’ e le popolazioni ‘stanziali’ in rappresentanza di una loro presunta civilizzazione. Mentre è la specificità dell’intera popolazione umana che va qui presa in considerazione e che, per così dire, assume in sé un valore esemplare: per essere riuscita ad affermare pur nelle sue infinite contrarietà, la propria (e la nostra) sopravvivenza. C'è da chiedersi quanto resterà di noi, della nostra cultura, della nostra società, della nostra ‘umanità’ se non ne salvaguarderemo la sopravvivenza?

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- Cinema

‘Il Racconto dei Racconti’ – un film di Matteo Garrone

‘Il Racconto dei Racconti’ – un film di Matteo Garrone

 

Scusate, mi sono perso nella lentezza del film che, per ovvie ragioni, non essendo né un thriller, né un vero e proprio film dell’horror, anche se molto è permesso in questo senso, non poteva svendersi alla 'dinamicità' degli effetti speciali all'americana; ma che bensì, essendo una raccolta di fiabe popolari, va con sé che necessitava di uno svolgimento più sobrio. Sì, però, non mi aspettavo tanto indugiare nelle immagini, tali che in certi momenti si esce da un labirinto per entrare in un altro senza possibilità di soluzione. Vuoi perché la sala cinematografica solo quelle uscite di sicurezza, vuoi per certe sequenze buie, non sono riuscito a scappare che attraverso lo schermo. E lo schermo come si sa, rapisce nei suoi costrutti, in questo caso tutti reali, di luoghi stregati, o forse meglio dire ‘fatati’, che appartengono al regno pur 'autentico' della fiaba, della magia, dell’incantesimo, d’appartenenza a quella superstizione popolare che Giambattista Basile raccolse in forma narrativa nel suo ‘Pentamerone’ negli anni dal 1634 e il 1636 e conosciuto anche come ‘Lo cunto de’ li cunti’ in dilaetto napoletano, poi tradotto in italiano da B. Croce.

Gli stessi luoghi, questi in cui è stato girato il film, che la fantasia popolare da sempre addita come extrasensoriali, dedicati e rimaneggiati dal volere di una qualche mano oscura, diavolesca o fatata che li ha trasformati nella loro origine naturale. Anche lì dove è insita la mano dell’uomo, a causa di accadimenti oscuri. O almeno sappiamo che è stato così per il Bosco di Sasseto nel Lazio, le Cave di Grosseto in Toscana, le Grotte dell’Alcantara e  il Castello di Donnafugata in Sicilia, i palazzi di Gravina e Mottola e lo stupendo e misterioso Castel del Monte in Puglia. Nulla da ridire sulla scelta, tutti stupendamente belli e ‘orrifici’ che pur sono parte di un eredità culturale nostrana, in quanto luoghi di una certa Italia 'misteriosa' cui si deve la forte impronta pagana e idolatra della tradizione nostrana, certamente più antica di quanto si pensi e che in qualche modo va difesa. Nonché atipica perché appartenente alla cultura ‘sotterranea’, in entrambi i sensi che si vogliano attribuire a questa parola, con la quale è ancora oggi è molto sentita la convivenza.

Realtà ‘altra’ che non poteva disconoscere Matteo Garrone, lui campano con alle spalle un film come “Gomorra” 2008 (vincitore di tutti i premi possibili), girato nei quartieri febbrili della Napoli diseredata, ma anche la più schietta e ‘verace’, cresciuto con le fiabe di Basile che si raccontano ancora oggi in lingua napoletana la sera, per far scappare a letto ‘li peccerille’ che ne provano paura. Quel Garrone che certamente ha seguito l’evolversi de “La Gatta Cenerentola” del 1976 di Roberto De Simone, elaborata in musica sul testo di G. Basile, poi ripresa e trasformata dai più grandi favolisti come i tedeschi Grimm e il francese Perrault; e che a un certo punto, almeno nell’intento di G. Basile, spaventa nella trama per una matrigna perversa e minacciosa, come solo gli occupatori stranieri di Napoli in realtà a suo tempo lo erano.

Allora ecco come nel testo di Basile, carico di quella lingua napoletana quasi ‘senza tempo’ che si presta a ogni trasformazione ‘sapiente e dotta’ che in certi strati della cultura rimane immutata nei secoli. Sì, può cambiare d’abito, può sostituirsi di lingua che pur tuttavia rimane una, diversa da tutte le lingue, a formare un mondo diverso, quello della ‘fiaba’ appunto, carica com'è di paure, di amore e di odio, di violenze fatte e subite allo stesso modo da sempre. Come ha scritto De Simone: «Quelle di un altro modo di parlare, non con la grammatica e il vocabolario, ma con gli oggetti del lavoro di tutti i giorni, con i gesti ripetuti dalle stesse persone per mille anni così come nascere, fare l'amore, morire, nel senso di una gioia, di una paura, di una maledizione, di una fatica o di un gioco come il sole e la luna fanno, hanno fatto e faranno.»

La lezione ‘affabulatoria’ che doveva servire al Matteo Garrone regista però non sembra qui essere stata colta in pieno, cosa che del resto era improbabile, non per incapacità professionale, direi piuttosto per insensibilità poetica. Il film giocato su tre fiabe “La regina”, “La pulce” e “Le due vecchie”, nel montaggio finale si esaurisce in una sequenzialità distorta che mette in discussione l’operazione cinematografica, facendo smarrire lo spettatore dentro la storia. Per il resto tutto funziona a meglio, per la meraviglia dei sensi: dalla fotografia alle luci, dai costumi alle scenografie d’interni, dalla scelta delle location alla musica che accompagna le sequenza filmiche, tutti degni del Palmares che si tiene a Cannes.

In quanto se il film nell’insieme mi sia piaciuto posso emettere solo un ‘nì’ ambivalente, soprattutto pensando a quanti come me, oltre alla meraviglia degli intenti, si perderanno o non capiranno la portata culturale di questo film, molto vicino all'opera d'arte.

 

Ciò che manca in realtà, e poiché non è l'intera opera letteraria per cui nella premessa indubbiamente dichiara il suo intento, è una cornice d'insieme capace di contenere le diversi parti narrative Ma forse mi sono solo distratto … e non è poco. Chissà se Matteo Garrone ci regalerà un ‘sequel’ degli altri ‘racconti’ tenendoci stetti sulle poltrone e meravigliandoci ancora? Spero di sì, la prova è sufficiente e fa ben sperare.

 

Provaci ancora Matteo!

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- Libri

Torino XXVIIIa Edizione del Salone Int. del Libro

Torino XXVIIIa Edizione del Salone Internazionale del Libro

 

• La ventottesima edizione del Salone Internazionale del Libro si tiene da giovedì 14 a lunedì 18 maggio 2015 al Lingotto Fiere (via Nizza 280, 10126 – Torino).

 

Il Salone 2015 occupa con i propri spazi espositivi quattro padiglioni di Lingotto Fiere: l’1, 2, 3 e 5. Trentanove le sale e gli spazi incontri per gli eventi in programma. • Orari: gio-do-lu 10-22; ve-sa 10-23. Biglietto intero 10.00 €, ridotto 9.00 €. • Il Salone è promosso e coordinato dalla Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura, presieduta da Rolando Picchioni. Direttore editoriale è Ernesto Ferrero. L’organizzazione fieristica e commerciale è di GL events Italia - Lingotto Fiere.

 

• Tema conduttore del Salone 2015 è “Le Meraviglie d’Italia”: il paesaggio italiano, i monumenti e i tesori Unesco, l’innovazione, l’eccellenza italiana nei tanti campi della creatività storica e contemporanea, e il suo posto nell’immaginario del nuovo planisfero globalizzato nell'anno dell'Expo di Milano, destinata a richiamare milioni di visitatori, offre l'occasione di ripercorrere e ripensare il nostro rapporto con l'immenso patrimonio che abbiamo ereditato. Un tesoro artistico, architettonico, letterario, musicale, linguistico, paesaggistico, che comprende le tecniche materiali, il design, la moda, il cinema, la fotografia e che, nella sua stessa varietà, ha concorso a definire quello che viene riconosciuto come il carattere, l'identità, lo stile italiano.

• Ospite d’onore del Salone è la Germania, presente nel Padiglione 3 con un grande spazio multimediale. Gli altri Paesi al Salone con proprio stand: Albania, Arabia Saudita, Azerbaigian, Brasile, Israele, Kazakhstan, Mozambico, Perù, Polonia, Romania, Santa Sede, Turchia. La partecipazione della Germania come Paese Ospite d'onore al Salone 2015 nasce dalla stretta collaborazione con la Buchmesse di Francoforte e il Goethe Institut, che festeggia il sessantesimo della fondazione della sede torinese. Rappresenta un implicito riconoscimento dell'autorevolezza raggiunta dal Salone torinese da parte di chi organizza la più prestigiosa fiera mondiale del settore, ed è una partecipazione che cade in un momento cruciale nelle relazioni tra i due Paesi, e nell'intera vicenda europea, travagliata da tensioni e incomprensioni.

 

Tra gli ospiti attesi: Emmanuel Carrère al Salone ritira il Premio Mondello Internazionale dalle mani di Antonio Scurati; molto atteso al Lingotto l'archimandrita Tikhon Shevkunov; Catherine Dunne presenta in anteprima il suo nuovo romanzo, Un terribile amore; l'americana Vanessa Diffenbaugh torna al Lingotto con il suo nuovo romanzo, Le ali della vita. Molto nutrita come sempre la presenza degli autori italiani. Sono attesi al Lingotto, fra gli altri: Antonia Arslan, Corrado Augias, Alessandro Baricco, Stefano Benni, Daria Bignardi, Isabella Bossi Fedrigotti, Paola Capriolo... scopri tutti i grandi ospiti italiani ed internazionali del Salone 2015 sul sito.

 

L’Officina, alla scoperta dello «slow book». Il Padiglione 1 del Lingotto torna a ospitare Officina - L'Editoria di Progetto, la sezione del Salone curata da Giuseppe Culicchia e dedicata agli editori indipendenti. Per Officina s'intende tutto ciò che concorre alla creazione e alla diffusione del libro in Italia: dagli autori ai lettori passando per editori, traduttori, redattori, librai, distributori. Dopo il successo dello scorso anno, gli editori indipendenti hanno aderito con convinzione a Officina: un programma pensato per mettere in risalto la qualità di quel segmento dell'industria editoriale che produce libri con la passione e la sapienza dell'artigiano. Nel Padiglione 1 e nei suoi spazi – tra cui l'Arena Piemonte, l'Independent's Corner, la Sala Seminari e la Sala Professionali – verrà data la possibilità di scoprire le novità più interessanti dell'Editoria Indipendente, ma anche di riscoprire testi capaci di restare nel tempo e dare forma a un catalogo.

 

Nell'Officina l'Independent's Corner ospiterà le Voci Indipendenti, ovvero gli autori pubblicati da questo segmento dell'industria editoriale italiana, e gli Emergenti al loro esordio. Non solo. Visto il grande interesse registrato lo scorso anno per i mestieri dell'editoria, alcuni protagonisti di quegli incontri torneranno al Lingotto per dare vita a veri e propri seminari a numero chiuso. Torneranno inoltre gli appuntamenti con i critici di diverse generazioni che, nel ciclo Abbecedario, recupereranno dal recente passato quei titoli che un mercato sempre più bulimico ritiene già «vecchi» ad appena poche settimane dall'uscita in libreria. Da questo punto di vista, Officina si propone come per l'edizione 2014 di dare un segnale in controtendenza rispetto alla fretta che contraddistingue questi nostri anni: perché i buoni libri durano nel tempo, anche quando non entrano in classifica.

 

Il Salone Internazionale del Libro darà inoltre voce ai librai, chiamati a raccontare al pubblico del Lingotto i libri che hanno cambiato loro la vita, facendoli diventare quello che sono: veri e propri medici dell'anima, cui ci si affida in veste di lettori anziché come target di un algoritmo. Tra gli ospiti di Officina: Alessandro Barbero, Paolo Di Paolo, Guido Catalano, Giorgio Vasta, Nicola Lagioia, Alfonso Berardinelli, Marco Zapparoli, Massimo Carlotto, Giulia Ichino, Giorgio Teruzzi, Marco Cassini, Luca Ussia, Margerita Oggero, Christian Raimo, Giulio Ferroni, Chiara Valerio, Sebastiano Mondadori, Chiara Gamberale, Diego De Silva, Rosaria Carpinelli, Giulietto Chiesa, Arno Camenisch, Mario Calabresi.

 

• Già scaricata da 40.000 utenti, l’App gratuita del Salone per smartphone e tablet, nelle versioni iOs, Android e Windows permette di consultare tutto il programma, la mappa, il catalogo espositori, di costruirsi il proprio programma di eventi e visite personalizzato e di essere avvisati quando sta per iniziare l’incontro che vogliamo seguire.

 

Anche quest’anno Manni Editori è presente al Salone Internazionale del Libro nel padiglione 2, stand H56. Domenica 17 maggio alle ore 12.00 nell'Independents' Corner Marina Mizzau parla di “Se mi cerchi non ci sono” con Carlo D'Amicis e Bruno Gambarotta. Il suo nuovo romanzo selezionato al Premio Strega, presentato da Umberto Eco e Angelo Guglielmi • Copertura eventi. Da quest’anno il Salone offre un nuovo servizio. Sul programma a stampa, sul sito salonelibro.it e sulla app Salone, una o più icone accanto ai singoli eventi indicano il tipo di copertura.

 

La Giuliano Ladolfi S.p.a. sarà presente nello Spazio Autori, giovedì 14 Maggio dalle 14.00 alle 15.30 per un incontro con gli autori della casa editrice in occasione della presentazione del libro "Dal Letame una Rosa ... tra Poesia e Prosa": la situazione della poesia e della prosa nella società globalizzata.

 

La EEE è presente allo Stand n.114 - Padiglione 2: si parlerà di libri, di editoria e altro. Domenica ore 20:00 nello Spazio Autori, Piera Rossotti Pogliano e altri vi aspettano per parlare di 'allevamento' di scrittori alla luce delle nuove tecnologie.

 

 

 

 

Buon Libro a tutti.

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- Alimentazione

EXPO MILANO 2015 - ‘Il profumo del Pane’

EXPO MILANO 2015: ‘IL PROFUMO DEL PANE’

 

Quando l’aroma inconfondibile del pane appena sfornato riempie l’aria del suo profumo, si ha subito la sensazione di un piacere che urge come una fame improvvisa di gusto. È allora che la sua fragranza avvolge i sensi, tutti: il palato che ne pregusta il sapore; la vista perché è così bello che si lascia mangiare con gli occhi; il tatto per la sua sofficità e croccantezza nel lasciarsi toccare; l’udito perché ‘spezzare il pane’ emette un suono che riconduce alla quotidianità di un gesto arcano, capace di riaccendere l’incantato stupore dell’armonia del tutto. Un gesto che invita alla convivialità, alla condivisione, a quello stare insieme che ci accompagna a spasso nel tempo, la cui storia infinita lascia senza parole e il cui segreto conserva il gusto pieno della vita.

Oltre a questo, e prima di questo, il pane è uno straordinario simbolo universale, condiviso nei riti e nelle tradizioni dei popoli più diversi che rievoca immagini di pace e di benessere. La sua storia è la storia stessa dell’uomo e della sua capacità di innovare la manualità delle lavorazioni artigiane, ove l’attività della panificazione vanta origini antiche e nuove; dove il 'tempo' assurge valenze storiche, culturali, letterarie e artistiche proprie della tradizione, proprie del costume di molti popoli cui il pane si lega.

Ma ancor prima il pane è una promessa di salute, di vigore fisico e robustezza che ha accompagnato la crescita dei popoli senza distinzione di razza, di credo, di colore, di cultura, di classe sociale. Pur essendo esso legato alla storia dell’evoluzione umana, si da al pane un’importanza relativa, mentre, al contrario, si tratta di un prodotto tutt’altro che elementare, che necessita di tutta l’esperienza manuale che l’essere umano ha elaborato e in cui ha impegnato il suo ingegno, la sua operosità, il suo orgoglio creativo. Si consideri che ventimila anni prima della nostra era, già s’impastavano i cereali frantumati con l’acqua, ricavandone una prima forma di pane grezzo, antesignano di quel pane che rappresenta oggi un importante settore economico, commerciale, industriale.

Il pane dunque come l’unico alimento che ha attraversato i millenni mantenendo intatte le proprietà nutritive del suo impasto, le cui peculiarità affondano le radici nell’alimentazione primaria di tutti quei popoli che ne hanno fatto l’elemento basilare della loro nutrizione. Quella di ‘fare il pane’ si vuole sia stata la prima specializzazione alimentare degli antichi popoli  del neolitico, i quali convertirono in pane l’orzo, ritenuto la prima graminacea insieme al miglio (Africa, Asia), seguito dalla segale (Europa) e dal frumento (Europa), cereale quest'ultimo dotato di straordinaria attitudine alla panificazione. Infine, dal mais importato dall’allora lontano ‘nuovo continente’ (Americhe), che addirittura veniva impastato con le patate, i ceci, le castagne e altro, utilizzate in tempi di gravi siccità e carestie.

Il tutto determinato sostanzialmente dalla necessità biologica che il genere umano ha sempre avuto di 'sfamare' se stesso, un 'fare' quest’ultimo che va qui considerato in quanto ‘primum movens’ di un attività di lavoro quanto mai necessaria. La ‘fame' e la costante ricerca di cibo a cui siamo vincolati fin dalla nascita, rientra quindi nell’eterno circolo fagico che ci rende tutti uguali, o forse simili, alle altre specie viventi, animali e vegetali che vivono su questa terra: dalle ‘specie’ floreali in via di estinzione che hanno fame di ‘conservazione’; agli animali che hanno fame di ‘sopravvienza’; fino alle genti non solo affamate di cibo quanto di ‘giustizia sociale’.

Onde per cui, relegare le piante e gli animali nella sola sfera dell’istinto è come assegnare agli esseri umani quella che ormai è diventata solo un’eterea riflessione, ma che di fatto è un arbitrario di un solo processo evolutivo, quello umano appunto, le cui forme più evolute d’intelligenza non saranno mai estranee al sentimento soggettivo e, quindi, relative della salvaguardia del suo corpo fisico, o forse solo alla sua fame. Sono questi i temi sui quali intendo qui sensibilizzare l’attenzione dell’EXPO Milano 2015 che, oltre alla scenografia grandiosa, allo spettacolo pirotecnico, all’esposizione tecnologica dell’alimentazione, dovrebbe spingere la riflessione sulla portata educativo-formativa e accendere i suoi riflettori sulla ‘fame nel mondo’ umana-animale-vegetale ormai atavica, di cui più nessuno oggi si occupa e che altresì renderebbe fattibile ogni rimossa speranza di una via possibile nel risanamento di questo pianeta attiguo alla rottamazione.

È così, ci sono molti tipi di ‘fame’ che avvelenano la sopravvivenza del mondo, non da meno è quella rivolta alla ‘conoscenza’, alla ‘cultura’, alle ‘necessità’ primarie di salvaguardia riferite alla terra abbandonata a se stessa; all’acqua di cui già si avverte la carenza; all’aria inquinata che non ci permette di respirare; al surriscaldamento e la desertificazione, nella generale incomprensione di ciò che c’è da fare, che bisogna fare, che dobbiamo fare in ordine alle complessità strutturali, energetiche e quant’altro per salvaguardare la matrice fisiologica che ci distingue e tutto ciò va fatto al più presto e con amore.

Sì, anche l’amore è ‘fame’ la più possente diramazione che un essere pensante nella pienezza del suo sviluppo possa avvertire:

 

Quell’amore che move il sole e l’altre stelle.” (Dante)

 

Che forse certe scoperte, certe verità o l’oggettiva realtà, non si presentano frutto di una tale certezza e imperio da apparirci dettate e volute da un potere inconscio e insieme cosciente, più forte delle nostre capacità, dei nostri sentimenti vaghi? Dalla nostra ‘fame’ di cercare e trovare nel soprannaturale una fonte che ci sfami? Perché l’amore è amore da qualunque prospettiva lo si guardi: dalla lontananza di una fuga o dalla vicinanza di un affetto, rimane se stesso. Non a caso la tradizione giudaico-cristiana iscritta nella simbologia del pane come alimento principe del corpo, si rifà alla condanna della Genesi: “in sudore vultus tui vesceris pane”, ovvero “col sudore della tua fronte mangerai il pane” che è comunque un atto d’amore, un dono fatto alla sopravvivenza.

Finanche l’invocazione “panem nostrum cotidianum” che compare nella preghiera insegnata da colui che “si è fatto uomo” e si è offerto come pane per la nostra salvezza, è comunque da considerarsi un dono d’amore e a quell’amore il pane si appella, perché grande è l’amore che lo fa lievitare sulle mense dei poveri e dei ricchi allo stesso modo:

 

Se nell’anima prendon vita i misteri d’amore, è il corpo che, come un libro li contiene…” (J. Donne)

 

Ed è ancora dall’amore che:

“..ogni desiderio nasce, in quanto seme primordiale dello spirito, il legame con l’essere”, come appunto recita il Rig Veda nell‘ ‘Inno della Creazione’ Indù.

 

In tale dispiegamento del corpo alla ricerca del cibo, la coscienza non differisce affatto dalla necessità di confermare un desiderio di pane mediante la tecnica più progredita che essa conosca: la capacità di moltiplicare più d’ogni altro organismo la sua ‘fame’ e la sua corrispettiva difesa, col mettere in atto la crità cristiana della “moltiplicazione dei pani”. Quello stesso pane che dà al povero e all’affamato la speranza di far parte di una spartizione salvifica, in grado di trasformare il proprio status originario (il corpo), rendendolo edotto del suo certo divenire (lo spirito): punto di partenza d’indiscutibile realtà e immediatezza che lo rende ‘umano’, cioè ‘essere vivente’ in Dio, e che, per ‘esistere’, deve possedere un corpo e quindi una ‘fame’ e, dalla fame, lo scaturire della necessaria ricerca di cibo.

Onde s’avverte quel qualcosa in più che presuppone un agire, un’attività in grado di trasformare l’oggetto (materia: grano, farniona ecc.) in oggetto, il cibo, cioè quel pane che sarà la sua eucaristia:

 

Prendetene e mangiatene tutti, questo è il mio corpo… fate questo in onore di me” (Vangelo)

 

Cioè la transustanziazione della carne nel suo divenire pane = cibo, onde alimentare il corpo (riflessione), in favore del pensiero puro (ragione) che trascende la sua composizione di materia (informe) che si traduce in pane (forma), nell’immensa distanza che intercorre tra spirito e afflato, prima del suo divenire pensiero, idea, concetto, immaginazione. Sì certo, rammento, si era partiti dal ‘profumo del pane’, ed ora ammetto di aver divagato, di essere sceso al conpromesso che differenzia la ‘fame’ dall’ ‘abbondanza’ senza tuttavia accorgermi che qualcosa nel frattempo è accaduto. Ci sono state molte guerre e molte sono ancora in atto, si tenta di costruire l’Europa senza sapere da che parte cominciare: nel frattempo c’è stata la fame, l’abbondanza, e sta tornando la fame, a voler dire che solo la ‘fame’ è rimasta la stessa.

All'occorrenza scrive Jacques Le Goff (*), per tornare allo slogan ‘nutrire il pianeta’ caro all’EXPO MILANO 2015: “L’Europa si costruisce. È una grande speranza che si realizzerà soltanto se terrà conto della storia: un’Europa senza storia sarebbe orfana e miserabile. Perché l’oggi discende dall’ieri, e il domani è il frutto del passato. Un passato che non deve paralizzare il presente, ma aiutarlo a essere diverso nella fedeltà, e nuovo nel progresso. Tra l’Atlantico, l’Asia e l’Africa, la nostra Europa esiste infatti da un tempo lunghissimo, disegnata dalla geografia, modellata dalla storia, fin da quando i Greci le hanno dato il suo nome. L’avvenire deve poggiare su queste eredità che fin dall’antichità, e anzi fin dalla preistoria hanno progressivamente arricchito l’Europa, rendendola straordinariamente creativa nella sua unità e nella sua diversità, anche in un contesto mondiale più ampio”.

Ora, pur senza dissimulare le difficoltà ereditate dal passato, nella sua tensione verso l’unità, nella sua corsa a integrarsi col resto del mondo, l’Europa deve impegnarsi nella prospettiva dell’avvenire; deve apportare elementi di risposta alle grandi domande che non sono ancora state evase, quali: ‘chi siamo’, ‘donde veniamo’, ‘dove andiamo?'

 

Massimo Montanari (**) nel suo libro “La fame e l’abbondanza” lancia una proposta ambiziosa, di un rapporto diretto e privilegiato con i problemi dell’alimentazione:

 

Non potrebbe essere diversamente, dal momento che la sopravvivenza quotidiana è il primo e ineludibile bisogno dell’uomo … da cui si snoda una storia difficiele e complessa, fortemente condizionata dai rapporti di potere e dalle sperequazioni sociali. Una storia che – tengo a precisarlo – in cui anche l’immaginario collettivo gioca un ruolo decisivo … in virtù della sua centralità esistenziale, la storia dell’alimentazione scorre in stretta sintonia con le ‘altre’ storie, le determina e ne è determinata, anche se le sue forti implicazioni antropologiche costringono la cronologia ad un serrato e talora difficile confronto”. E aggiunge: “Sono rimasti gli uomini, le loro cose e le loro idee” … e con la loro ‘fame’.

Ma se parlare oggi di pane ha significato di una riscoperta e di voler dare la giusta importanza a un alimento alla base della nostra nutrizione quotidiana in virtù di un ‘dono’ che ci proviene dalla terra, e perciò consacrato dalla natura a svolgere il ruolo di ‘cibo’ per eccellenza, il solo che ci fornisce armonicamente il necessario fisiologico a sostenere il nostro organismo; allora è bene (e giusto) che il pane non manchi sulla tavola di nessun essere vivente, e l’EXPO MILANO 2015 ben farebbe ad assegnare un posto di rilievo a questo ‘problema’ che rappresenta la vera ‘incognita’, in assoluto, per il mondo intero.

 

"Che cosa è tutto quanto gli uomini han pensato in millenni, di fronte a un solo istante di amore? È pur la cosa più perfetta, più divinamente bella della natura! Colà guidano tutti i gradini sulla soglia della vita, di là veniamo, colà andiamo!” (F. Hölderlin)

 

Oggi si parla molto del cibo, sui media televisivi e, principalmente si scrive sulla carta stampata, di ‘nuovi’ alimenti transgenici, di diete nutrizioniste alla portata di tutti, di manipolazioni genetiche, ma poco si discetta sul pane, sulle sue proprietà nutritive e il giusto posto che esso dovrebbe occupare nell’alimentazione e sulle nostre tavole. Parliamone dunque, ma soprattutto scriviamo di quella che è stata una grossa conquista per l’umanità intera nel processo di crescita culturale, tale che acquisì una sua funzione catartica del sacro abbinata in origine alla naturale lievitazione del pane, il cui l’impasto fatto di solo grano e acqua, aggiunse elementi della sfera celeste a un cibo pressoché terrestre, con la successiva consacrazione del pane nei rituali religiosi, in quanto elemento ‘simbolo’ dell’offerta umana rivolta alla divinità spirituale suprema.

Si vuole che ‘fare il pane’ abbia rappresentato una tappa molto importante anche relativamente al suo sviluppo culturale e intellettuale, ma non per tutti i popoli, e quella che per certi era considerata un’arte, per altri che non apprezzarono la sua naturale lievitazione, si distaccarono dall’usare il pane così fatto, in ragione di un 'ordine' esistente in origine, che essi avevano appreso dalla natura. In realtà non si conoscono date storicamente certe della comparsa del ‘fare il pane’ nel mondo, tuttavia si ha testimonianza di lontana ‘civiltà’ sparse un po’ ovunque.

È attestato se ne facesse uso in Asia Minore e in Medio Oriente all’incirca dal 3000 a.C. e, presso i cinesi, almeno dal 2000 anni a.C., tuttavia si deve agli egizi, considerata la prima ‘civiltà’ del bacino Mediterraneo, ad accompagnare il passaggio dalla lievitazione alla panificazione vera e propria, con l’uso di appositi forni di cottura. A loro volta, allorché gli ebrei iniziarono a servirsi del lievito naturale per propria utilità; i romani, che per primi compresero l’importanza del ‘fare il pane’ per sfamare il popolo coniando il detto “panem et circenses” e che Giovenale poi rese proverbiale, istitutirono per primi il Collegio dei Panettieri che doveva assicurare il suo rifornimento costante, della città, ricevendone per questo, grandi privilegi.

Come si è detto, non solo le graminacee più conosciute, quali il frumento, la segale, l’orzo, l’avena, il miglio, il mais, il riso e il sorgo, venivano e in parte venivano e tutt’ora vengono utilizzate per fare il pane, ma anche i legumi, inclusi la tapioca e le ghiande e le erbacee annuali coltivate un po’ in tutto il mondo, a dimostrazione del fatto che, almeno in teoria, tutto ciò che è macinabile e riducibile in farina, può essere utile alla panificazione. Il diverso procedimento di preparazione del pane oggi effettuato con appositi macchinari, ha in parte stravolto quella che fino a ieri era ritenuta a ragione “l’arte del pane” artigianale, e con esso sono venuti meno certi significati che lo volevano protagonista del desco famigliare.

Oggi il pane è soprattutto apprezzato, o trascurato dipende, non tanto per la sua presenza sulla nostra tavola, quanto dalle giovani generazioni per la sua fragranza, il suo profumo aromatico, che suscita in loro quel ‘buono’ che appunto sa di familia, di ‘vecchio’ rivisitato nelle forme e nei contenuti. Le paninoteche, loro luogo elettivo d’incontro e di trasformazione della realtà quotidiana, sono all’apice del successo per quel poco di tradizionale e di buono che riescono ad offrire alle frotte di giovani che letteralmente le prendono d’assalto. Questo a dimostrazione del percorso del pane dalla tradizione alla modernità superando la svolta del III° millennio della nostra era, e cioè oggi potrebbe avere tra i 5000 e i 6000 anni anche se non li dimostra, essendo ‘antico’ eppur ‘giovane’, come sempre è sempre stato, nel modo in cui riesce a superare ogni ostacolo e a sfamare tutte le generazioni.

Alcuni anni or sono, ‘fare il pane’ fu al centro di una manifestazione culturale organizzata dal CRIFA, (Centro Internazionale delle Facoltà di Architettura, del Politecnico di Milano) con la rivista “La Gola” (1988); la cua massiva partecipazione diede vita a un ‘concorso internazionale a premi di design alimentare’ denominato “In forma di pane”, il cui bando recitava come segue:

 

Il piatto a base di pane, deve risultare una creazione proponibile all’industria e non un preparato gastronomico domestico”.

 

Ad esso si ispirarono artigiani del pane, architetti, designer, specialisti, studenti di facoltà italiane e straniere, che apportarono nuove idee e tecniche di panificazione, con forme e modalità innovative e, non in ultimo, l'apporto di nuovi ingredienti e nuovi gusti che invitavano a 'degustare' un cibo per tutte le età e per tutte le stagioni. Un'esperienza che secondo me varrebbe la pena di ripetere. Chissà che ne possa venire qualche nuova proposta? Certamente ne verrà fuori qualcosa ‘di buono’ che porterà a riconsiderare la validità del pane e ad offrire una possibilità ulteriore, quand’anche se ne consideri la possibilità, di debellare il problema della ‘fame’ nel mondo.

Sebbene un detto continui a circolare nell'aria, che dice:

 

Non di solo pane (soprav)vive l’uomo”; ed acciò è legata la più autentica 'storia' dell’uomo:

“La storia siamo noi, siamo padri e figli, la storia non passa la mano, la storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.” (De Gregori – La storia)

 

“Certamente in quel lontano mattino cadde pioggia per la sete di un bambino per la sua fame innocente nacque il pane perché il pane avesse gusto nacque il sale.” (F. Simone - Origini)

 

Buon pane a tutti!

 

Note: (*) Jacques Le Goff, prefazione a “La fame e l’abbondanza” di Massimo Montanari – Edizione Laterza 1993 (**) Massimo Montanari, op.cit.

 

Letture: “Storia della civiltà contadina” – a cura di Jerome Blum – Rizzoli 1982. “Fame” di Gino Raya – Editore Ciranna- Roma 1974. “Il Libro del Pane” – Edizione speciale del Mulino Bianco – Barilla, no data. “Il piacere del pane” – Edizione speciale Mirabilia Eventi per la Cultura. Provincia di Roma, no data. “Il Pane e il Circo” – Paul Veyne – Il Mulino 1984.

 

EXPO MILANO2015

Massimo Beltrame, "Storia delle Esposizioni Universali" - Meravigli Edizioni 2014.

 

 

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- Scuola

L’ULTIMO AQUILONE - Fiaba ecologica 6/10 anni.

“L’ULTIMO AQUILONE” Fiaba ecologica- età compresa 6/10 anni.

Gli scolari erano accorsi festosi a guardare il mappamondo luminoso con gli aeroplani in miniatura che gli giravano attorno, come fossero tanti aquiloni tenuti da invisibili fili, che la Compagnia di Viaggio aveva messo in vetrina nella moderna agenzia regionale. Con gli occhi spalancati e il fiato grosso per la corsa, guardavano curiosi attraverso la vetrina illuminata. Li accompagnava il giovane Maestro Antonelli, insegnante di materie tecniche nella Scuola Media ‘Dalmazio Birago’ di Orio al Serio. E mentre egli cercava di spiegare loro che cosa fosse un aeroplano, questi lo tempestavano di domande, alle quali, talvolta, non era affatto facile rispondere.
«Chi lo ha inventato?»
«Di che materiale è costruito?»
«Signor Maestro ma chi tiene il filo?», aveva chiesto ingenuamente Franchino.

Il Maestro aveva spiegato loro che non si trattava di un semplice aquilone come quello che qualche volta avevano costruito insieme e che poi facevano volare sul prato ma, di una mezzo meccanico che la moderna tecnologia aveva trasformato in una macchina capace di volare senza fili.

«In quanto a costruirlo, c’è voluto l’ingegno di bravi costruttori meccanici e più di qualche ‘scienziato’ che, con il suo contributo scientifico, aveva trovato il modo di farlo volare. Un po’ com’era stato per le automobili che, dal carretto con le ruote trainato dal cavallo, adesso andavano a motore ch’era una bellezza!», disse loro.
«Maestro, e quanto in alto può volare?»
«Indubbiamente molto più degli aquiloni!»

Alcuni tra gli scolari che si erano applicati nelle materie tecniche riuscirono ad afferrare il contenuto delle sue parole e a catalogare la cosa secondo la sua corretta importanza. Mentre altri, tra i più fantasiosi o forse semplicemente più increduli, continuavano a pensare all’aeroplano come a qualcosa che avrebbe oscurato la luminosità del loro cielo e, in qualche modo, avrebbe infranto la semplicità dei loro giochi all’aria aperta.

Da quando era stata ultimata la pista di atterraggio per bimotori nelle campagne di Orio al Serio, si era presentata più volte per gli scolari, l’occasione di essere accompagnati dal Maestro Antonelli, a veder volare “come soffiato dal vento”, l’aquilone più grande che avessero mai visto, alzarsi e sparire in lontananza nell’azzurro del cielo. Molti di loro ricordavano esattamente il giorno in cui per la prima volta uno strano rombare sui tetti delle case, li aveva richiamati in strada. E quando per la prima volta avevano vista la sagoma netta di un aeroplano stagliarsi come attraverso la luminosità del lampo, seguito dall’assordante rombare delle sue eliche. Altri, come il piccolo Mario si era però ribellato a quell’invasione di campo.

«La prossima volta che passa sopra la mia casa gli tiro un sasso e lo butto giù!», aveva concluso deciso, e Bart, come tutti lo chiamavano accorciando il nome Bartolomeo ch’era stato di suo padre, si disse certo che sarebbe stato con lui nell’impresa.

Il maestro aveva cercato di calmare la loro irrefrenabile apprensività aggiungendo che all’inizio di primavera sarebbero tornati sui campi a inscenare una battaglia con gli aquiloni e che sicuramente ci sarebbe stato un premio per il miglior costruttore e per il vincitore, ben sapendo che sicuramente avrebbero vinto loro, i due ragazzi. Entrambi erano certamente i più bravi a far alzare gli aquiloni che costruivano oramai con le loro stesse mani e senza l’aiuto del papà. Ma ciò non era bastato a quietare la loro contrarietà per quell’oggetto di discordia che vedeva gli aeroplani contrastare la supremazia degli aquiloni.

A un certo momento l’Agente di Viaggio li invitò a entrare in modo da poter ammirare il globo più da vicino. Accompagnati dal Maestro Antonelli i ragazzi si fecero tutt’intorno a quello che a loro ricordava più una giostra, dove, al posto dei cavallucci a girare erano gli aeroplanini. All’improvviso nell’esuberanza dell’eccitazione Vito, Bruno e Bart, con un’occhiata d’intesa si erano lanciati l’un l’altro un righello metallico che poi era finito contro il mappamondo e aveva provocato un corto circuito elettrico. Per cui tutto si era fermato dopo uno scintillio dei fili e una nera fumata dei materiali plastici che erano andati distrutti.

«Proprio come a Orio al Serio!», era stato il commento di Bart che una volta aveva assistito all’incendio di un velivolo da turismo sulla pista dell’aeroporto, con tanto di camion dei Pompieri a sirene spiegate che muniti di idranti erano corsi a spegnerlo.

«Sono arrivate anche due ambulanze!», narrava sembrando che la cosa lo avesse impressionato non poco.

Insomma per Bart e gli altri suoi amichetti che avevano assistito alla scena lo spettacolo era stato davvero completo. Gli aveva ricordato uno numero fatto dai pagliacci che una volta aveva visto col suo papà al Circo Squeglia
che aveva alzato il tendone sul prato.

«Che grande spettacolo era stato quello!», ripeteva Bart narrando dei ‘pagliacci’ ch’erano arrivati con una vecchia carretta fornita di stantuffi, pompe, scale e cordami per spegnere l’incendio provocato da una candela nella scatola che un nano usava come rifugio, e lo avevano ubriacato d’acqua, tra suoni di trombette, sbuffi di vapore e una pioggia di coriandoli.

Una baraonda insomma, proprio come quella che adesso stava facendo l’Agente di Viaggio per far uscire il fumo nero dal negozio. Con il Maestro Antonelli che si scusava a non finire e prometteva che sarebbe corso ai ripari, facendogli avere un qualche risarcimento. Gli scolari all’inizio un po’ spaventati non nascosero la preoccupazione che se i genitori lo fossero venuti a sapere, almeno per qualcuno di loro, non era davvero una bella prospettiva. Tuttavia il Maestro disse a Vito, Bruno e Bart di tornare l’indomani accompagnati dai propri genitori: «..onde necessita provvedere al risarcimento del danno causato all’Agenzia di Viaggio.» E comunque per punizione, l’indomani tutti, e ripeté ‘proprio tutti’, avrebbero imparato a memoria la poesia di Giovanni Pascoli intitolata ‘L’aquilone’.

L’indomani mattina i tre scolari, svegliati prima del solito, si avviarono a piedi verso la Scuola accompagnati dai loro papà all’apparenza molto arrabbiati e che, strada facendo chiedevano loro se avevano fatto tutti i compiti, che mai avrebbero voluto essere ripresi per la svogliatezza dei loro figlioli. Vito preoccupato di non aver memorizzato l’intera poesia andava ripetendo passo-passo a memoria alcuni versi: “..le siepi erano brulle, irte, ma c’era d’autunno ancora qualche mazzo rosso di bacche” …

«Papà che sono le bacche?”, chiese Bart.
«Dai cammina, adesso non ho tempo, te lo spiegherò stasera quando sarò di ritorno a casa. Anzi già che ci sei fattelo spiegare dal tuo Maestro, è lui che ti ha dato da studiare, no?»

Bartolomeo era certamente quello più preoccupato, perché non gli riusciva di tenere a mente una frase in particolare: “..rosso di bacche e qualche fior di primavera bianco, e sui rami nudi il pettirosso saltava, e la lucertola il capino mostrava tra le foglie aspre del fosso”…

«Chissà poi perché le foglie sono ‘aspre’ nel fosso?»

Il Preside, un uomo anziano con il capo bianco, li accolse sull’entrata della Scuola e li fece accomodare in Direzione, dove nessuno dei ragazzi era mai entrato prima, figuriamoci poi accompagnati dai genitori. Che cosa li aspettava? Quali rimproveri? I loro padri sarebbero stati poi quelli amabili papà che erano stati fino allora? Queste ed altre domande turbavano la serenità dei loro pensieri. Da principio il Preside parlò con tono severo, da cattedratico qual’era. Poi, si addolcì un poco, quando i genitori dissero che avrebbero sostenuto le spese del danno causato dai loro figlioli. Tuttavia, aveva poi concluso, apprezzava la loro disponibilità ma che almeno per quella volta non ce ne sarebbe stato bisogno, perché l’Agenzia non aveva reclamato il risarcimento.

Lo disse loro in un momento di distrazione dei ragazzi che a un certo punto si erano tutti rivolti verso la finestra aperta a guardare in cielo un ‘cervo volante’ di rara fattura, così chiamava la gente del posto un aquilone particolarmente magnifico, come quello che adesso tentennava nel vento. Il Preside stesso, rimasto sorpreso nel vedere un simile oggetto fluttuare nel cielo che in quella giornata si mostrava già pregno della limpidezza primaverile, ebbe un sussulto per un qualche ricordo che si era affacciato alla sua mente, e i suoi occhi si accesero di un paternale sorriso. Ne era seguita una stretta di mano e l’impegno di tenere a bada i ragazzi che stavano crescendo sotto i loro occhi.

Tutto sommato gli era andata bene e i ‘ragazzi’, come li aveva chiamati il Preside con loro grande soddisfazione per non avergli sentito pronunciare quella parola odiosa che li faceva sentire ‘bambini’, s’impegnarono davanti ai loro rispettivi padri di non commettere più simili gesti. Quel giorno il Maestro Antonelli che li riaccompagnò in classe, spiegò ai ‘ragazzi’ che l’Aerostatica all’inizio si era basata sul volo degli uccelli e ‘sorprendentemente’ per loro, sugli aquiloni. «Beniamino Franklin adoperò proprio un aquilone come quello che avevano visto dalla finestra quella mattina, nei suoi studi sull’elettricità atmosferica; e Guglielmo Marconi aveva utilizzato un aquilone come antenna per i suoi primi esperimenti di radio trasmissione – disse. Aggiungendo inoltre, che l’aquilone aveva fornito un primo modello meccanico al comportamento degli aeroplani in volo; per importanti rilevamenti aerologici e meteorologici.»

«E non solo – aggiunse – che in tempi più recenti, l’aeroplano, grazie alla possibilità di raggiungere quote molto elevate e di speciali strumenti di rilievo, aveva aperto nuove dimensioni alla ricerca scientifica, permettendo all’uomo, di accorciare le distanze fra un continente e l’altro attraverso gli oceani …»

«E chissà, un giorno qualcuno di voi potrebbe viaggiare su un aeroplano, o che so, magari anche diventare un pilota.»

«Ehhhhhhh!». Era stato il grido quasi unanime dei ragazzi nei confronti di quella che gli era sembrata una esagerazione.

Poi il suono della campanella aveva segnato la fine della lezione e aveva sollevato il Maestro Antonelli dal rispondere alle numerose domande dei suoi scolari, benché sapeva che già l’indomani esse sarebbero fioccate copiose. All’uscita di Scuola i ‘ragazzi’ s’attardarono sui prati ai giochi di sempre: lo scambio delle figurine, il gioco delle palline colorate, lo scivolo giù per il pendio. L’indomani sarebbe stato l’equinozio di primavera, giorno d’inizio della nuova stagione. Il tempo migliore per far volare gli aquiloni.

Ma l’indomani accadde qualcosa che loro, i ragazzi, non avrebbero potuto cambiare. Il Gazzettino che s’ascoltava alla Radio, disse che con molta probabilità l’Italia sarebbe entrata in guerra e che da quel momento in poi si doveva stare attenti alle incursioni degli aeroplani … che il coprifuoco stabilito dalle autorità riguardava tutti … che bisognava rispettarlo e raggiungere i luoghi più sicuri … al coperto … nei sotterranei.
Il Maestro Antonelli lo disse ai suoi ‘ragazzi’ di fare attenzione, di ascoltare le raccomandazioni, di non andare sui prati a far volare gli aquiloni. E li salutò, perché anche lui, come alcuni dei loro papà, da lì a qualche giorno sarebbe partito per il fronte. Così accadde che una mattina in molti si ritrovarono sulla piazza del paese a salutare i soldati che partivano con il Parroco che dava loro la benedizione.

«Mamma, ma dov’è che vanno?», chiese Mario.
«Quando tornerai papa?», chiedeva Franchino con i lucciconi agli occhi.

Nessuno avrebbe saputo dare loro una risposta e i più restavano in silenzio consumando la pena nel cuore. Bartolomeo salutando il Maestro Antonelli gli disse che l’avrebbe aspettato per far volare insieme gli aquiloni. Ma quel giorno il Maestro che sempre aveva risposto alle sue richieste, non aveva trovato le parole e si limitò a salutarlo con la mano alzata a mezz’aria prima di richiuderla nella stretta d’un pugno che raccoglieva in sé il suo saluto.

Passarono i giorni, le settimane, e la vita trascorreva piatta nella mestizia e nel rammarico della gente. I ragazzi cercavano di comprendere ciò che stava succedendo ma non avrebbero potuto capire il perché di quella situazione assurda, di quella volontà degli uomini di farsi la guerra che li affamava e li lasciava esangui dell’amore e della tenerezza del focolare. La scuola ‘Dalmazio Birago’ da lì a breve avrebbe chiuso il portone e l’anziano Preside che per breve tempo aveva sostituito il Maestro Antonelli, raccomandò loro di essere in qualche modo d’aiuto alle loro madri e, soprattutto, di cercare nei loro cuori di farsi una ragione per quelli che non sarebbero tornati … e ch’erano meritevoli di rispetto.

L’intera classe della Seconda B erano ormai d’accordo. Ognuno dei ragazzi raccolse quel che poteva: rotoli di robusto filo, carta telata, colla e stecche di legno resistenti per costruire il grande aquilone che avrebbe volato «il più in alto possibile», dissero in molti.

«Che avrebbe contrastato il volo degli aeroplani», qualora fossero arrivati, e che loro stessi avrebbero comandato nei combattimenti a cielo aperto.

E quando l’aquilone venne terminato i ragazzi si dissero pronti a combattere la loro guerra privata che mai fosse stata dichiarata. Non restava altro da fare che aspettare di sentire il rombo dei motori in avvicinamento. Ed è quanto accadde il successivo lunedì di Pasqua. Mario e Bart si portarono sulla balza più alta mentre Franchino e Vito tendevano loro il filo avvolto in un grosso rotolo all’altro lato del campo.

Era magnifico a vedersi, un aquilone dalle dimensioni giganti coi colori della bandiera italiana e il nome della Scuola a lettere cubitali, si vide balzare imponente nel cielo. Era quello il segnale. Tutti i ragazzi lasciarono le proprie case e i propri affetti infiammati negli animi e nei giovani volti, come tanti piccoli soldati, uscirono dalle loro case con altrettanti ‘cervi volanti’. Ce n’erano di bellissimi, trapezoidali con lunghissime code ornate, a somiglianza d’uccelli diversi per forma e colori, che ognuno lasciò andare nell’aria recitando i versi che avevano imparato a memoria, nella speranza della veridicità delle parole del poeta:

“Urbino ventoso ognuno manda da una balza la sua cometa per il ciel turchino. Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza, risale, prende il vento; ecco pian piano tra un lungo dei fanciulli coro s’innalza …”

Bart recitò a voce alta, quel che sentiva in cuor suo di quell’amata poesia e nel ricordo mai venuto meno del Maestro Antonelli:

“S’innalza e i piedi trepidi e l’anelo petto e l’avida pupilla e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.”

Il grande aquilone che il vento ormai tendeva a più non posso, quasi scompariva alla vista dei ragazzi che tenevano a più mani il filo, quando sentirono giungere in lontananza il rombo dei bimotori che avanzavano in formazione.

D’un tratto l’allarme d’una sirena richiamò tutti all’attenzione, le madri uscirono dalle case e corsero a cercare disperatamente i figli, il Parroco fece suonare la campana, molti correvano a cercare un riparo. I ragazzi, nello sgomento di dover abbandonare i propri aquiloni, presero a manovrare in modo confuso i fili tesi che, incrociandosi, causarono il cozzare di molti di essi, dando così inizio a una vera e propria battaglia aerea. Ognuno dei ragazzi, tentando di riguadagnare al vento il proprio ‘cervo volante’, lo mandava a sbattere contro un altro che poco dopo cadeva in pezzi al suolo.

Fu allora che il grande aquilone di Mario e Bart a causa dello spostamento dell’aria provocato dai bimotori, cominciò a ondeggiare vorticosamente, impennandosi più volte e minacciando di cadere giù. Il fatto fu determinante, gli altri aquiloni rimasti che si destreggiavano fieri nel cielo terso, persero quota e caddero rovinosamente. Al richiamo disperato delle loro madri, alcuni dei combattenti migliori lasciarono il prato e il proprio aquilone in balia del vento, unici superstiti di una battaglia definitivamente perduta. Indubbiamente la meno costosa della storia come numero di mezzi e di vite umane.

Mario e Bart invece, avevano cercato disperatamente di tenere il campo. Il grande aquilone, riconquistato il vento, continuò la sua ascesa fino all’ultimo centimetro di filo, e quando il suo recupero si rese impossibile fu lasciato libero di vagare nell’infinito cielo.

Nei giorni successivi il bollettino radio nazionale comunicò che un ‘cervo volante’ di grandi dimensioni arrivato a volare ad altissima quota, aveva reso possibile la ricognizione di una Scuola in un centro abitato che dietro segnalazione errata sulle mappe, stava per essere bombardata. La cieca guerra com’era ovvio che accadesse continuò per qualche anno ancora e alcuni fra quelli partiti da Orio al Serio non fecero ritorno. Ma nessuno trovò mai il coraggio di dire a Bart e a tutti gli altri che fra i caduti c’era anche il giovane Maestro Antonelli.





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- Musica

Concerto per la ’Gionata internazionale del Jazz’ a Roma

La 'Gionata internazionale del Jazz' a Roma è stata promossa dall'Unesco e si terrà al 28DiVino Jazz. L'unico concerto Jazz Originale sui 4 previsti a Roma
http://jazzday.com/?event-country=italy&event-year=2015

GIOVEDI 30 APRILE - ore 22.00
International Jazz Day - Unesco
MC UNITY
Marco Colonna, Clarinets, Baritone sax
Danielle Di Majo, alto sax
Claudio Martini, bassoon
Fabio Sartori, piano
Stefano Cupellini, drums

Il racconto di un anno. Insieme di storie differenti, incontri antichi, amicizie nuove.
Sintesi di un percorso compositivo decennale e di esperienze nei più vari ambiti musicali UNITY è il risultato di un percorso originale ed indipendente di Marco Colonna come musicista e compositore. Rappresenta la sua declinazione della parola Jazz, in cui musica da camera, free jazz, impro, ballad convivono descrivendo la nostra storia contemporanea di uomini e cittadini.

Tutto è iniziato dal debutto della '28Records', la neonata etichetta del celebre club romano '28Divino Jazz' che sotto la guida di Marc Reynaud è da sempre alla ricerca di nuove forme di espressione e a caccia delle mille sfaccettature del jazz. Nasce così la prima live recording session della 28Records che non poteva che scegliere la session MC3 composta da Marco Colonna al clarinetto basso e al sax tenore, Fabio Sartori all'hammond e Stefano Cupellini alla batteria - formatosi proprio tra le mura del "28" e da lì ha per la prima volta dato vita a quella frenesia musicale di cui è capace. Il CD "MC3 Our Ground Live" è stato presentato il 27 Febbraio 2015 alla Casa del Jazz -
Roma, con un tutto esaurito.
Solo un anno dopo il MC3 si è evoluto in MC UNITY (Marco Colonna Unity) con l'aggiunta di Danielle Di Majo al sax alto e Claudio Martini al fagotto. La loro musica è travolgente e d'impatto e la loro tecnica trascende le possibilità espressive dello strumento stesso. Non ci sono limitazione di estensione allo strumento e per Marco Colonna il clarinetto (come il sax baritono) arriva a raggiungere le vette più alte e anche i fondali più profondi dell'universo sonoro, esplorando ogni paesaggio intermedio con assoluta attenzione. Marco Colonna non suona semplicemente uno strumento, ma gli dà vita, diventa la sua stessa voce. Una voce che è ora calda e sabbiata, ora grintosa e cattiva, capace di passare abilmente da toni nostalgici, quasi malinconici e a tratti misteriosi, a toni graffianti e decisi.

28Divino Jazz - Via Mirandola 21 - Roma - www.28divino.com - 3408249718
Per il terzo anno consecutivo il Jazz Club Romano si ritrova sul podio dei "Jazzit Awards" stagione 2014.

Nel tempo di 5 stagioni o poco più, il "28DiVino Jazz", jazz club in zona Piazza Ragusa, è arrivato a rappresentare uno dei locali di Jazz più frequentati e più amati della capitale dove vale la pena passare del tempo e, anche quest'anno, premiato dala rivista "Jazzit" arrivando 2° jazz club nazionale e 1° a Roma (Jazzit Awards). Un luogo d’incontro, di cultura e di scambi di pentatoniche, come del resto ci si aspetta da un locale dove il Jazz, il gusto e i doni di Bacco convivono con robot e backgammond. Piccolo e accogliente, frequentato da musicisti e amanti del Jazz, il locale è gestito con grande amore per la musica e una notevole attenzione all’ascolto, all’avventore e al musicista.
Il 28Divino Jazz ha intrapreso il cammino della Cultura, offrendo qualcosa che non si trova spesso nei cartellonie che va sotto il nome di 'sperimentazione', attraverso una programmazione molto attenta a tutto ciò che è diverso o fuori dagli schemi, pur rimanendo sempre Jazz e pur non disprezzando repertori che includono standard. Ma i progetti presentati al '28' hanno sempre un valore aggiunto che rende ogni gig unica e momentanea, ricca, costante nelle scelte di giovani e affermati talenti, molto varia nei progetti originali e piuttosto fuori dagli schemi.
"Ebbene sì, in un periodo di crisi del mercato discografico esistono ancora dei folli che fondano una etichetta. I folli in questione si chiamano Natacha Daunizeau e Marc Reynaud, rispettivamente proprietaria e direttore artistico del 28DiVino Jazz, il club romano a forte vocazione scout talenting. Parola d’ordine infine: è‘Solo Jazz’ ma a 360 gradi." (Maurizio ALvino Jazz @ Roma)

Va qui segnalato per altro che SABATO 2 MAGGIO alle ore 22.30 sulla scena del '28'potrete assistere al grande ritorno del:
GOMELLINI - DE ROSE - CESARI Trio
Andrea Gomellini, chitarra
Leonardo De Rose, contrabbasso
Leonardo Cesari, batteria

Swing, Sound potente, volo di farfalle.... Tutto questo viene fuori dalle "strings" di Andrea Gomellini affiancato da ottimi musicisti della scena jazz con una bella energia ritmica !. Thanks God It's Saturday Night Jazz!

ANDREA GOMELLINI
Chitarrista romano, ha studiato chitarra classica e jazz in Italia e negli Stati Uniti (borsa di studio per la facoltà di Jazz a Los Angeles, University of Southern California, docente Joe Diorio), frequentando inoltre seminari con George Garzone, Mike Stern, Adam Rogers.
Svolge un intensa attività sulla scena musicale italiana.
Ha lavorato e tutt'ora collabora con numerosi musicisti italiani ( Salvatore Bonafede, Emanuele Smimmo, Andrea Biondi, Daniele Tittarelli, Maurizio Giammarco, Luca Pirozzi, Elvio Ghigliordini, Claudio Corvini, Mario Corvini, Piero Quarta, Mario Raja, Antonello Salis) e stranieri (George Garzone, Eddie Henderson, Michael Rosen, John Ramsey, Bob Gullotti, Amii Stewart).

LEONARDO DE ROSE
Nella famiglia di Leonardo De Rose la musica, sia classica che jazz, è presente fin da subito attraverso le figure degli zii paterni Nino e Antonio. Leonardo inizia gli studi musicali come autodidatta, all’età di otto anni, con chitarra e basso elettrico.
Si appassiona subito al jazz e si iscrive alla “Scuola di Musica del Testaccio” di Roma, dove frequenta le lezioni di improvvisazione e i laboratori tenuti dal maestro Nino De Rose e il corso di contrabbasso jazz diretto da Mauro Battisti. Una passione viscerare che culminerà nel 2001 con un diploma in Contrabbasso al Conservatorio “Lorenzo Perosi” di Campobasso sotto la guida del Maestro Federico Zeppetella.
Nel 2004 ottiene il Diploma di Jazz, cui seguirà il biennio specialistico ad indirizzo interpretativo e compositivo. Nel 2006 Leonardo consegue con il massimo dei voti il Diploma Accademico Sperimentale di II livello in “Discipline Musicali”, indirizzo Jazz. Nel 2008 consegue il diploma in “Didattica della Musica” presso il Conservatorio Statale di Campobasso che gli permette di intraprendere anche una carriera come insegnante di musica nella scuola.

LEONARDO CESARI
Figlio di Umberto Cesari, si approccia alla musica intorno ai cinque anni inizia lo studio della batteria, perfezionato poi con i maestri Roberto Gatto, Maurizio Dei Lazzaretti, Agostino Marangolo e Giovanni Cristiani. Inizia la sua carriera nel 1986 al fianco di Roberto Ciotti.
Fonda con Federico Zampaglione i Tiromancino e collabora ai primi due album del gruppo
Nel 1995 entra a far parte dei KlezRoym. Inoltre con Sergio Cammariere è coautore di una colonna sonora. Ha collaborato anche con Daniele Silvestri e Alex Britti, di quest'ultimo ha prodotto il duo cd di debutto discografico
Nel corso degli anni ha partecipato a vari festival come il Festival dei Due Mondi o il Roma-Europa Festival, ha inoltre collaborato con artisti del calibro di Gianni Morandi, Luca Carboni, Gabriele Coen, Fabrizio De Rossi Re, Simona Marchini Giancarlo Giannini e Luca Faggella.
Nei primi anni 2000 come "Leo Cesari" incide 4 album Mentre come "Leonardo Cesari" il 13 maggio 2010 pubblica l'album Lullabies for E.T. Children

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- Libri

’SCRITTURA V/S LETTURA’ - meditazioni

'SCRITTURA V/S LETTURA' meditazioni su scrivere e leggere libri.

 

Per la 'giornata mondiale del libro' fai una scelta oculata e regala un libro a un amico! Farai felice te stesso e un gradito regalo a chi vuoi bene.

 

Va con sé che lo ‘scrivere’, considerata da tutti una virtù, non può che scontrarsi con il ‘leggere’, il cui perseverare almeno di questi tempi può sembrare diabolicum, in quanto si fatica non poco a inseguire le trame degli interminabili ‘sequel’ che la letteratura mondiale propina ad infinitum in tutte le Fiere del Libro da Torino a Francoforte, da New York a Caracas, quasi da far pensare a un'ossessione per la scrittura che supera la modesta disposizione a leggere degli italiani …

 

“Del resto che fa uno scrittore? Non può fare altro che scrivere. Ma cosa e perché scrive? (..) Per quel pathos della passione che sta alla base del pensiero, e dunque alla base della scrittura letteraria o filosofica. (..) Uno scrittore scrive perché ha qualcosa da dire, ma in primo luogo scrive per scrivere”. Franco Rella

 

E per quanto sembra abbondino in Italia più gli scrittori che i lettori, almeno questo è ciò che rilevano alcune statistiche, si è propensi a dare la palma della vittoria alla lettura, in ragione del fatto che anche chi scrive nel frattempo è, per così dire, costretto a leggeresi …

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie distrumento ottico che è offerto al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Marcel Proust

 

Ma se gli italiani non sembrano preposti al leggere (perché più artistici e creativi di altri) a chi attribuirne la colpa, se non alla tensione che spinge chi scrive dentro se stesso, per superare se stesso, lì dove le carenze sono più sentite, cioè all’organismo scolastico preposto all’insegnamento? Ma attenzione …

 

“Vivere senza leggere è pericoloso, ci si deve accontentare della vita, e questo comporta notevoli rischi".

Michel Houellebecq

 

Tuttavia la ‘Squola’ non è la sola ad avere delle colpe a riguardo, ben altre ne hanno i ‘grandi editori’ nostrani, che nel chiudere le porte in faccia alla letteratura nazionale, si ostinano a immettere sul mercato migliaia di titoli stranieri che hanno acquistato a costo zero o quasi, e che diventano economicamente redditizi solo quando nel maremagnum delle pubblicazioni, uno di essi riesce a superare gli step della distribuzione per poi essere trasformati in paperbacks di scarsa qualità e di più largo consumo. Va così che la distribuzione è molto importante per una casa editrice.

I piccoli editori sono generalmente snobbati dai grossi distributori, perché non sono reputati sufficientemente redditizi. Di conseguenza la diffusione della cultura contenuta in un libro, è nelle mani del reddito. E i ‘piccoli editori’ fanno quello che possono per tirare a campare; e che, più recentemente, l loro libri finiscono direttamente sulle bancarelle dei mercatini dell’usato col timbro ‘copia campione’ con la scusante che …

 

“Quando vendi ad un uomo un libro, non gli vendi 12 once di carta, un po' di inchiostro e della colla, gli vendi un'intera vita". Christopher Morley

 

Ciò a forte discapito dei tanti ‘piccoli editori’ cosiddetti di nicchia (perché costretti dagli alti costi produttivi), o di quelli più oculati che mettono molta cura nelle scelte, nella produzione estetica come nella selezione dei testi e che sono sempre alla ricerca dell’originalità. Come nei racconti così nei romanzi e nella preziosità dei saggi, e che talvolta si ‘svenano’ (economicamente parlando) per pubblicare un libro di poesie che nessuno leggerà. E solo perché …

 

Nello scrivere “Il più utile dei talenti è di non usare mai due parole quando una è sufficiente”. Thomas Jefferson

 

Ma non perché non valesse la pena pubblicarlo, in quanto se l'editore lo ha pubblicato è perché ci credeva. Ma no, bensì per la trascuratezza degli italiani che spesso nelle traduzioni vanno smarrendo il senso della propria lingua, della musicalità intrinseca nel linguaggio, nel gusto della citazione, in quella che era la gioiosità della vita in comune. Perché in fondo la poesia a questo serve, anche quando è triste, anche quando affronta temi ostici come il dolore e la morte; aiuta ad aprire un canale di comunicazione verso il prossimo, per una umanità spinta al miglioramento, allo scambio reciproco d’amore. Non è per caso che un vecchio saggio abbia detto:

 

“Possiamo vivere nel mondo una vita meravigliosa se sappiamo lavorare e amare, lavorare per coloro che amiamo e amare ciò per cui lavoriamo”. Lev Nikolaevic Tolstoj

 

Di certo ha ragione lui, il grande vecchio, e ne avrebbe ancora da vendere, se per una volta ci chiedessimo dove è finita la ‘bellezza’? Se non è servita a migliorare noi stessi, per una migliore qualità della vita? Se non l’abbiamo utilizzata per elevarci culturalmente, per riappropiarci della materia pur effimera dell’arte che tutti ci nobilita? Che ne è stato dei sentimenti se del resto, scartabellando qua e là sui banchi d’una qualsiasi libreria, finanche i romanzi cosiddetti d’amore si offrono a ogni sorta di vilipendio contro l’umanità tutta, sprofondando nella vituperie, nello stupro, nell’abominio infantile e femminile? Per non dire dei talkshow in cui ormai accade di tutto di più e ci si accapiglia per le cose più futili per mascerare i veri problemi che incombono sulla società.

E che dire del cinema, in cui l’impossibile ormai si affranca all’indicibile; dove ogni singolo film fa più morti d’una guerra nucleare e che poi si chiude per mancanza di attori e attrici da mandare al macello, nell’attesa della più provvidenziale delle parole: quel ‘The end’, che mette fine allo strazio subito. Cos’altro ci resta da ascoltare che non abbiamo ascoltato, se non un consiglio illuminato? …

 

“Leggere e ascoltare appartengono alla medesima arte: quella di apprendere”. Mortimer Adler

 

Ma che di rincalzo un altro importante scrittore avverte:

 

“La lettura è una difesa contro le offese della vita”. Cesare Pavese

 

La letteratura non ha mai ucciso nessuno, al contrario dei telegiornali che ad ascoltarli danno i brividi; o delle riviste impegnate che, solo a sfogliarle, ci si sporcano le mani del sangue altrui. Così come nei romanzi si preferiscono i fatti di cronaca nera, la guerra fratricida, la fuga degli immigrati, lo sterminio etnico, le storie insulse sul sesso che sfido chiunque a leggere senza restarne schifato, e che sono discriminanti della ‘bellezza di amarsi’ intrinseca, ad esempio, in una coppia; del prodigarsi nell’insieme costruttivo della famiglia; dell’abbracciare la religiosità come atto di fede o di adoperarsi per il sociale in senso umanistico. Non è forse preferibile leggere un libro che parli ancora di quei sentimenti che pure in realtà proviamo, perché siamo fatti di carne, e la carne spesso chiede sensazioni? O magari rileggere un ‘classico’ che a suo tempo ci aveva fatto sognare …

 

“Definizione di un classico: un libro che si crede che tutti abbiano letto e che spesso tutti credono di aver letto”. Enoch Arnold Bennett

 

Quando addirittura non sia preferibile cedere spazio ad sano ozio meditativo, magari quello degli antichi filosofi greci e latini: relativamente altruistico, sostanzialmente apologetico, insomma a quell’ozio incondizionato che di tanto in tanto faremmo bene ad assumere come stile di vita. Sebbene qualcuno avverte che:

 

“Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose … ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile”. Italo Calvino

 

Si fa ben dire, ma gli editori in primis lamentano che i libri non si scelgono più in libreria (che stanno tutte chiudendo per far spazio a mega-store del consumismo allargato), ma si comprano al supermercato distinti in ‘usa e getta’ e ‘perfetto ciarpame’; o finiscono per così dire sulle bancarelle del ‘riciclato’, per poi scoprire che non erano neppure stati aperti. Ma anche così va bene: comprateli pure dove volete, purché li leggiate. Come qualcuno ha scritto:

 

“C’è qualcosa di peggio del bruciare (o gettare via) i libri, è non leggerli”. Joseph Brodsky

 

Tuttavia voglio qui fare un encomio a tutti coloro che nel frattempo mi stanno leggendo, ma non perché leggono me, perché immagino e spero che si avvalgano delle mie recensioni e dei miei articoli per poi entrare fattivamente nel ‘circolo’ dei lettori o anche soltanto il desiderio di ‘imparare a leggere’ in modo più approfondito; o magari che prima di mettersi a scrivere il libro della propria vita, che si guardino attorno meravigliandosi di quanti (prima di loro) l’hanno già fatto: dai calciatori ai politici divenuti ‘letterati’ di rango; i primi perché a furia di correre dietro a una ‘sfera’ sono andati nel pallone; i secondi perche visto che le loro ‘idee’ non saranno mai trasformate in leggi preferiscono dar voce alla carta stampata per tramandare ai posteri qualcosa di se stessi.

Così come avviene per i portieri di stabili che dopo aver ficcato il naso per anni negli affari degli altri sono finiti per immedesimarsi ora in questa ora in quella situazione per darsi importanza; per non dire delle finte massaie-palestrate diventate improvvisamente tutte esperte di cucina senza aver mai cucinato un uovo al tegamino; o delle accompagnatrici di cani che da finte-padrone finiscono per assomigliare agli animali che conducono al guinzaglio; e oltre, fino alle veline che per una starnazzata in TV vanno facendo le capriole. Davvero non se ne può più. Ma se:

 

“La libertà è come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Piero Calamandrei

 

Allora, come pure ha detto un grande filosofo del nostro tempo:

 

“La felicità non è meno vera solo perché finisce, e nemmeno il pensiero e l'amore perdono valore perché non sono eterni”. Bertrand Russell

 

Poteva essere diversamente? Sì/No, ma vi prego se davvero pensate di scrivere il libro della vostra vita, cercate almeno di essere originali, creativi, e perché nò spiritosi, prendetevi un po’ più alla leggera. Non tutte le esperienze sono da guinnes dei primati, come non tutti i romanzi sono dei capolavori. Fermate la vostra tastiera elettronica e date sfogo al vostro ‘supplizio’ di scrivere con coscienza di verità. È preferibile una storia inventata, significativa, di fantasia creativa, di ‘bellezza’ interiore, a una storia insulsa di come schiacciare le lattine delle bevande gassate, di come provvedere a fare la differenziata dell’immondizia che tenevate in casa; o parlare con foga del colore della cacca del pupo, ma non di quella del cane che invece non vi siete degnati di raccogliere.

Ecco, degnatevi almeno di dare uno sguardo ai titoli dei libri nello scaffale della vicina libreria (che sta chiudendo); di certo uno di essi richiamerà la vostra attenzione e senza che voi lo aspettiate, potrebbe contenere le risposte adeguate alle domande che per pudore non vi siete poste. Per così dire, che potrebbe spalancare le finestre della vostra ‘casa interiore’ che per paura avete tenute chiuse. Sono certo che nelle pagine di un libro potrete trovare quel ‘senso’ che talvolta è venuto meno nel quotidiano della vostra vita. Ma accorti, non lasciatevi cogliere impreparati…

 

“Potranno recidere tutti i fiori, ma non potranno fermare la primavera.” Pablo Neruda

 

Questo è perché leggere affina l’esperienza, e domani vi troverà comunque pronti ad affrontare quella stessa contrarietà che avrete appreso dalle pagine di un romanzo cui non avreste dato un pizzico di fiducia. Non abbiate paura del numero delle pagine che vi trovate ad affrontare, semmai pagina dopo pagina, la sgravano della sua possibilità d’interferire negativamente sulle vostre preoccupazioni quotidiane e a spingere i vostri passi verso gli altri che leggono e che incontrate sul tram, al parco o in lavanderia. Perché leggere è fonte di comunicazione, di scambio, di conoscenza; apre al dialogo, permette di discutere, di arrabbiarsi del perché di un comportamento piuttosto che di un altro, ma mai tornerete a casa con un libro tra le mani dopo una passeggiata senza dovervi confrontare con voi stessi in modo nuovo. Magari ricreati nello spirito, pronti ad affrontare le nuove sfide che la vita propone, nel bene e nel male, per cui, sul finire di questo nostro interloquire, potreste accorgervi che ogni storia, per quanto avvolta nel dolore e nella morte, in fondo fa parte della vita, perché in fondo siamo tutti personaggi esistenziali d’una ‘recita’ che non hà mai fine. In fondo è un po’ come …

 

“Invitare una persona a pranzo è occuparsi della sua felicità durante tutto il tempo ch'essa passa sotto il vostro tetto”. Anthelme Brillat-Savarin

 

Chissà perché mi viene da aggiungere ‘..o nel vostro letto’, cosa che a mio parere non guasta mai, ma ciò dipende dai gusti di ognuno, per quanto …

 

"L’erotismo è una delle basi di conoscenza di sé, tanto indispensabile quanto la poesia". Anaïs Nin

 

Per quanto non dovreste essere risentiti, non sono qui a dare dell’ignorante letterario ad alcuno, una cosa che non mi permetterei mai di fare, neppure verso coloro che potrebbero meritarlo, per quanto ognuno possa esprimere un giudizio qualificato come quello che segue…

 

“Potete giudicare quanto intelligente è una persona dalle sue risposte. Potete giudicare quanto è saggia dalle sue domande.”. Nagib Mahfuz

 

E allora eccovi servite alcune domande che avrei forse dovuto fare in primis, cioè all’inizio di questo articolo: da quanto tempo non leggete un libro? Avete un genere che particolarmente vi piace o che vi interessa? Preferite leggere un libro ‘cartaceo’ o in e-book / e-pub ecc.? Tutte le risposte sono ben accette e saranno per me di grande interesse come immagino per quanti si avvalgono della comunicazione come strumento di solidarietà nel reciproco scambio. Potrete sempre inviarle ‘gratuitamente’ nello spazio apposito che accompagna l’articolo, alla voce ‘lascia un commento’. E visto che siete in molti ad avere una fottuta voglia di scrivere, scrivete pure, sperticatevi nel raccontare, commentare, smentire questa mia allucinata locuzione.

I migliori, prometto, entreranno a far parte integrante delle mie future recensioni critiche, del resto ...

 

“Il modo migliore di imporre un'idea a qualcuno è fargli credere che sia sua”. Alphonse Daudet

 

Ma non fatevi illusioni, la scrittura sembra un mestiere facile, ma è piena d’intrighi, di trabocchetti, di labirinti, di seghe mentali, di paranoie, di illusioni di celebrità, di cadute spettacolari, di ‘paperissime’ incolte, di sotterfugi spasmodici, di false passioni della mente … quanto basta per atterrare i giganti del pensiero come i veri scrittori, i veri poeti e i veri flosofi, tutti affrancati dal fatto che ormai più nessuno li sta a sentire...

 

“Appena un artista (e sono sicuro tra voi ce ne sono molti) ha trovato il vivo centro della sua attività, nulla per lui è così importante come mantenervisi: il suo posto non è mai, neanche per un attimo, accanto allo spettatore e al critico”. Rainer Maria Rilke

 

Tuttavia prima di salutarci, non potendo venire meno all’invito fatto di leggere, chiudo con un elenco di libri più o meno nuovi, in parte da me recensiti e che potete trovare facilmente in libreria, oppure rivolgendovi direttamente all’Editore:

 

‘SE MI CERCHI NON CI SONO’, di Marina Mizzau - Manni Editore 2015. Il romanzo presentato da Umberto Eco e Angelo Guglielmi, figura tra i 12 selezionati al Premio Strega 2015. L'autrice: Marina Mizzau è nata a Roma e vive a Bologna dove per molti anni ha insegnato Psicologia della comunicazione alla facoltà di Lettere e Filosofia e al DAMS. Si è occupata soprattutto di psicologia del linguaggio, della comunicazione e delle relazioni interpersonali, di umorismo e ironia e ha scritto molti saggi su questi argomenti. Ha pubblicato i libri di racconti ‘Come i delfini e I bambini non volano’ con Bompiani e nel 2004, per Manni, ‘Il silenzio dei pesci’.

 

‘VERSO ORIENTE’ LA TEMPESTA DELL’ANIMA, di Roberto Staiano - La Case Books 2013. Un romanzo storico con una serie di personaggi indimenticabili un’avventura emozionante: Medico, stregone, alchimista, uomo di scienza, mago: Galadriel è stato tante cose, ora però è soltanto un uomo in fuga nella Spagna del ’500. La Santa Inquisizione l’ha condannato per stregoneria e l’abate Coruna è sulle sue tracce, disposto a tutto pur di catturarlo. Per Galadriel c’è una sola speranza di salvezza: la fuga ‘verso oriente’. L’autore: Roberto Staiano è nato a Roma il 15 ottobre 1980 sotto il segno della Bilancia con solo un giorno e 126 anni di differenza da Oscar Wilde! Lavora nel campo infermieristico e ha pubblicato già sei romanzi con diversi editori. Per LA CASE Books ha pubblicato il romanzo storico Verso Oriente……… ‘

 

'BARROCO’ LA PERLA IMPERFETTA TRA GENOVA E NEW YORK – di Giusy F. Morabito – Liberodiscrivere – Ass. Cult. Edizioni 2015. Clamore, sconcerto, stupore nel mondo dell’arte e dell’alta finanza americana! Narra della sorprendente scomparsa di un prezioso anello d’epoca, di proprietà del magnate del petrolio John Brown, noto uomo d’affari americano, presidente di varie società con sedi in tutto il mondo, noto anche per le sue famose collezioni di rari gioielli d’epoca. Il Barroco, così è soprannominato il gioiello, lega tra loro i destini di un pugno di personaggi che nulla sembra accomunare: un tossico, un barone universitario, tre donne innamorate. Le loro vite, delineate sapientemente con pochi tratti e accompagnate da un leitmotif musicale, vengono sconvolte da due morti improvvise e brutali. L’autrice. Giusy F. Morabito è nata a Ventimiglia, si è laureata a Genova in Giurisprudenza, dove vive e lavora da oltre 20 anni. Esercita la professione di avvocato.

 

‘ATTESTATO’ di Giuliano Ladolfi - Collana: Zaffiro – G. Ladolfi Editore 2015. Con questa raccolta di poesie l’autore tenta di decifrare il travaglio della contemporaneità mediante la specola della parola, smarrita in un divorzio con la realtà, iniziato alla fine dell’Ottocento e sofferto nel Novecento nelle conseguenze provocate dalle ideologie, che, impossessandosene, hanno trasferito il baratro dal settore artistico a quello politico. La fine della società contadina - Certificazione non più l’assenza, ma la presenza. Il giovane e la società “emporiocentrica” con tutte le sue contraddizioni e il malessere prodotto dal consumismo L’autore: Big oner della Casa Editrice Giuliano Ladolfi s.r.l nasce dall’esperienza della rivista e delle pubblicazioni della rivista letteraria «Atelier». La selezione e la rarità, infatti, hanno contraddistinto libri di poesia, di traduzione e di critica, apprezzati a livello nazionale ed internazionale. La stessa passione che ha contraddistinto il lavoro dell’autore di questo libro e lo ha spinto ad affrontare questa avventura nella consapevolezza delle difficoltà e dei problemi che una simile operazione comporta, corroborato, però, da diciassette anni di lavoro sui testi dei poeti e degli scrittori contemporanei, dalle proposte di carattere etico ed estetico, come pure da una militanza in grado di attivare energie giovanili e di coinvolgerle in un progetto di rinnovamento della poesia, della narrativa e della critica italiana. La G. Ladolfi Editore con i suoi animatori Giuliano Ladolfi e Giulio Greco, nata da poco più di un anno è l'unica in Italia a definirsi di "letteratura militante" ed è follemente innamorata di poesia e letteratura di qualità, ovvero dello 'scrivere bene e di contenuto'.

 

‘A SUD’ IL RACCONTO DEL LUNGO SILENZIO - di Riccardo Cucciolla e Matteo Salvatore - Squi[libri] Editore – 2014 con CD. Riccardo Cucciolla legge le testimonianze più alte di una irripetibile stagione di impegno meridionalistico, da Rocco Scotellaro a Ernesto De Martino, e Matteo Salvatore le commenta a caldo, affidando il proprio pensiero ai brani più rappresentativi del suo repertorio, mentre le fotografie di Paolo Longo offrono allo sguardo contesti e volti evocati in quei testi e in quei canti: questi gli elementi di un evento promosso il 14 gennaio 1978 da Emanuela Angiuli a conclusione di una mostra, Puglia ex voto, allestita nella Biblioteca Provinciale De Gemmis di Bari. L’autore: Giovanni Rinaldi, ricercatore e divulgatore in ambito etno-musicologico, dalla fine degli anni '70 documenta la cultura materiale e la storia orale utilizzando mezzi audiovisivi e fotografici. Testimone e autore delle registrazioni conservate ora nell’Archivio Sonoro della Puglia, un appassionante reading multimediale che, nell’intreccio di parole, suoni e immagini, racconta “Il lungo silenzio della gente del Sud”.

 

‘PIOVE CENERE’ di Luciano Modica – Todaro Editore - 2015. Un giovane militante dell’estrema destra viene trovato morto nel centro storico di Catania. Le indagini del pm Biondi e del commissario Miceli si concentrano da subito sui centri sociali della sinistra antagonista. Ma il lettore, che grazie all’autore conosce risvolti della storia ignorati dai due “investigatori”, capisce da subito che la pista non è quella giusta; la spiegazione è più complessa e va cercata ben più in alto, tra politica, imprenditoria e Cosa Nostra. Le cose però non sempre sono come sembrano essere, e il colpo di scena finale, in questa Catania annerita dalla cenere dell’Etna, porterà alla luce una verità più semplice e più contorta al tempo stesso: il male genera sempre il male. L’autore: Luciano Modica è nato a Siracusa il 1 aprile 1967. Laureato in economia e tra non molto dovrebbe riuscire a prendere la seconda laurea in legge, vive in Sicilia, “diviso” tra la città nera e la città bianca. La sua indole curiosa in genere fusa alla sua passione per il giallo e per il noir, assieme alla voglia di emozionare, lo porta a scrivere il suo primo romanzo “Mara non gioca a dadi”, frutto di mille contaminazioni e infinite contraddizioni.

 

‘RIME D'AMORE E DI FRONTIERA’ di Carla de Falco, Temperino Rosso Editore 2015, dove il sentimento s'incontra con le problematiche della migrazione. L’autrice. Già collega e collaboratrice della rivista letteraria on-line larecherche.it Carla de Falco, Napoletana, da circa quarant’anni. Formatrice e manager delle Risorse Umane, esperta in comunicazione e gestione delle competenze. Pentita. Per vocazione oggi insegnante. E poeta errabonda, pigra, alma e ferina. più che una donna, un ossimoro, scrivente per esigenza di dare forma alle emozioni del vivere. Ha pubblicato a Milano la prima silloge ‘Il soffio delle radici’ (Laura Capone Editore, 2012) e nel 2013 è uscita la seconda opera: ‘La voce delle cose’ (Montag, 2013). La silloge ‘Intuizioni d’ascolto’ ha vinto, nel 2014, la IX edizione del Premio Artistico Letterario Internazionale Napoli Cultural Classic. Sempre nel 2014 la raccolta inedita d’impegno civile ‘Il momento che separa’ è risultata vincitrice del Festival Virtuale del Libro e delle Culture in Campania, attualmente in corso di pubblicazione.

 

‘GLI IMPREVISTI DELLA STORIA’ di Emmanuel Levinas – Inschibollet Editore 2015. Traduzione e cura di Giuseppe Pintus: È in questa priorità dell’altro uomo su di me che, ben prima della mia ammirazione per la creazione, ben prima della mia ricerca della prima causa dell’universo, Dio mi viene all’idea. Quando io parlo dell’altro, io utilizzo il termine «volto». Il «volto» è ciò che è dietro la facciata e sotto il contegno che ciascuno si dà: la mortalità del prossimo. Per vedere, per conoscere il «volto», occorre già sfigurare altri. Il «volto» nella sua nudità è la debolezza di un essere unico esposto alla morte, ma nello stesso tempo è l’enunciato di un imperativo che mi obbliga a non lasciarlo solo. Quest’obbligo è la prima parola di Dio. La teologia inizia per me nel «volto» del prossimo. La divinità di Dio si gioca nell’umano. Dio discende nel «volto» dell’altro. Riconoscere Dio equivale a intendere il suo comandamento: «tu non ucciderai», che non è solamente il divieto dell’omicidio, ma è una chiamata a una responsabilità incessante rispetto ad altri – essere unico – come se io fossi eletto a questa responsabilità che mi dà, anche a me, la possibilità di riconoscermi unico, insostituibile e di dire «io». Cosciente che in ciascuna delle mie umane pratiche – in cui altri non è mai assente – io rispondo della sua esistenza di essere unico. L’autore: Emmanuel Levinas (Kaunas, 12 gennaio 1906 – Parigi, 25 dicembre 1995) è stato un filosofo francese di origini ebraico-lituane. insegnò presso scuole private ebraiche a Parigi come l'École Normale Israélite Orientale. Negli anni 60 e 70 insegnò all'Università di Poitiers, all'Università Paris X presso Nanterre, e alla Sorbona. Negli anni 1970 e 1980, grazie all'invito della comunità ebraica di Friburgo in Svizzera, Lévinas tenne anche alcuni corsi presso l'Università di Friburgo sul pensiero di Husserl e l'esegesi della Torah. Fra le molteplici opere di Levinas i testi-chiave includono: "Totalité et infini: essai sur l'extériorité" (1961) ("Totalità e infinito: saggio sull'esteriorità", Jaca Book, Milano, 1980) e "Autrement qu'être ou au-delà de l'essence" (1974) ("Altrimenti che essere o al di là dell'essenza", Jaca Book, Milano, 1983). Entrambi i lavori sono stati tradotti in inglese dal filosofo statunitense Alphonso Lingis. Nel 1989 ricevette il Premio Balzan per la Filosofia.

 

‘IPOGEI PIRANDELLIANI’ – di Aldo Maria Morace – Inschibollet Editore 2015. Scritti in tempi diversi, e frutto di una lunga incubazione, i tre saggi confluiti in questo volume trovano la loro unità profonda nell’investigazione della dimensione ipogea di Pirandello, che costituisce uno dei campi simbolici ed ermeneutici più rilevanti del suo universo. Il gioco raffinato di una citazione, interna al Fu Mattia Pascal, consente di incunearsi con una nuova chiave interpretativa dentro il background del romanzo e delle sue latitudini culturali. La filologia d’autore diviene poi strumento privilegiato d’indagine per ripercorrere l’itinerario variantistico di I vecchi e i giovani, penetrando nel segreto della scrittura e dell’officina autoriale. Infine, nel segreto eponimo, viene esplorato il sottosuolo infero delle Novelle per un anno, mostrando come Pirandello analizzi la fenomenologia del secolo breve per metterne narrativamente a nudo la patologia epocale. L’autore. È presidente del premio «Corrado Alvaro» e componente della commissione giudicatrice del premio «Grazia Deledda» e del premio «Cala di Volpe». Ha ideato e realizzato il parco letterario dedicato a Corrado Alvaro. Aldo Maria Morace (Reggio Calabria, 1950) è ordinario di letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Un. di Sassari, della quale è anche preside, e direttore della Scuola di Dottorato in Scienze dei sistemi culturali. Ha pubblicato numerosi saggi sui più grandi scrittori contemporanei.

 

‘IL ROMANZO DELLA PASTA ITALIANA’ di Nunzio Russo, Edizioni Esordienti e-book 2014. Un'autentica golosità editoriale. Piera Rossotti Pogliano, Direttore Editoriale di E. E. E-book ci introduce a questo originale libro di Nunzio Russo. “Anche il cibo è ‘fast’, ormai il termine fast-food è entrato nel linguaggio corrente, ed è in genere sinonimo di ‘cibo spazzatura’, poco salubre, da evitare, insomma. E pensare che esiste un ‘cibo veloce’, facile da preparare quando abbiamo fretta, più lento (pardon, "slow") se abbiamo più tempo a disposizione, tutto italiano e per niente nocivo, ed è la pasta. L'e-book che vi consiglio questa settimana parla proprio di questo alimento straordinario, ma non ci sono ricette: vi troverete, invece, la vera storia della pasta italiana, e forse scoprirete qualcosa che non sapete, ossia che la pasta industriale è nata in Sicilia. La storia ce la racconta il discendente di due dinastie di pastai siciliani, che molti di voi già conoscono come eccellente romanziere: Nunzio Russo. Il suo libro è una vera chicca ed è arricchito da foto "storiche", riproduzioni di marchi originali e di documenti curiosi e interessanti. Allora, questa domenica, un buon piatto di pasta... e poi a passeggio, sperando che sia una giornata di sole primaverile”.

 

‘QUADERNI PROUSTIANI’ – Associazione Amici di Marcel Proust 2015 Progetto bilinguistico Italiano/Francese redatto e ordinato da Gennaro Oliviero, con la collaborazione di Eleonora Sparvoli che ne ha curata la presentazione. Il ‘Quaderno’ contiene numerosi ‘articoli e saggi’ di vari scrittori su argomenti riferiti alla ‘Recherche’ nel contesto filologico della letteratura europea del periodo e la sua attualità in ambito internazionale. Gli autori selezionati per questo nuovo ‘Quaderno’, tutti rigorosamente di altissimo profilo intellettuale, sono rispettivamente: Alberto Beretta Anguissola, Gennaro Oliviero, Massimo Scotti, Fabio Libasci, Giuseppe Girimonti Greco, Marco Piazza, Marco Cicirello, Fabrizio Coscia, Valerio Magrelli, Marco Residori, Ezio Sinigaglia. Philippe Chardin, Isabelle Vendeuvre, Yona Hanart-Marmor, Roberta Capotorti, Pauline Moret-Jankus, Guilherme Ignacio da Silva, Bernhard Stricker, Arthur Morisseau per la parte francese. Nonché Sabrina Martina, Roberta Capotorti per la sezione ‘recensioni’.

 

‘UNA SORPRESA NEL BOSCO’ – di Cristina Croatti e Angela Fabbri, Infilaindiana Edizioni 2015. Nella sezione Letteratura per bambini e ragazzi. Dalla quarta di copertina: ‘Una sorpresa nel bosco’ è una favola deliziosa e magica. Le parole di Cristina Croatti, accompagnate dalle divertenti e colorate illustrazioni di Angela Elisabetta Fabbri, ci introducono in un mondo fatato, popolato da simpatici personaggi. La festa che celebra l'inizio dell'autunno è oramai imminente e la strega Pignasecca, la buffa protagonista della fiaba, è indaffarata nel preparare la sua famosa zuppa. Ha, però, un grave problema da risolvere: accendere il fuoco. Come se ciò non bastasse, il suo aiutante Sepin, lento come una lumaca stanca, è come al solito in ritardo. Inattesa arriva, infine, una insperata sorpresa a risolvere l'intricata situazione... e attenzione alle parole colorate, cliccandoci creano un piacevole gioco interattivo. Le autrici. Cristina Croatti nasce a Cervia nel 1957, alla sua occupazione in ospedale affianca da sempre la passione per la lettura e la scrittura, specialmente di poesie. È, infatti, lettrice volontaria per la onlus “Il Libro Parlato” e per un'associazione dedicata alla lettura per i più piccoli. Da quattro anni conduce il programma Resta in Ascolto di letture poetiche nella web radio ‘Radio Sonora’. Angela Elisabetta Fabbri è invece la curatrice delle illustrazioni che accompagnano il volumetto; amante dell'arte, della scrittura e della musica, sotto lo pseudonimo AngElis, scrive favole e realizza creazioni artistiche e pittoriche di vario genere.

 

‘FAIVOLA’ E IL MARE’ - 18 fiabe inedite di autori diversi – Associazione Culturale ‘I luoghi della scrittura’ - 2015. Quattordici 14 autori, più 4 classi della scuola primaria, 6 illustratori, 18 favole inedite, 300 negozi Primigi in tutta Italia, tanti piccoli malati in terapia onco-ematologica da aiutare, 5000 copie appena stampate... tutto per un libro che ha già meritato nella sua prima edizione di qualche anno fa il consenso di grandi e piccini e che torna, questo Natale, con un tema comune a cui tutti si sono ispirati per raccontarlo al meglio: il mare.Perché FàVolà ha un mare di storie da raccontare, da quando nel 2010 è stato creato, da un'idea di Cinzia Carboni, come progetto per riproporre ai bambini l'uso della fantasia (che si sta inesorabilmente perdendo) attraverso la lettura e la scrittura delle favole. Così è nato il primo libro, il festival Piceno d'Autore Junior & FàVolà, le letture animate nelle scuole e negli ospedali, il concorso "La mia fiaba per FàVolà", la canzone di FàVolà, ed ora il secondo volume "FàVolà e il Mare". l'Associazione Culturale I Luoghi della Scrittura in veste di editore, per i "grandi" autori (Gaetano Buompane, Maria Chiara Fabiani, Franca Falgiatore Seghetti, Francesco Tranquilli, Antonio De Signoribus, Elvira Apone, Graziella Rocchi, Romana Galanti, Giovanni Corradetti, Cinzia Carboni, Giancarla Perotti, Enrico Santori, Andrea Petrelli, Giulia Ciriaci). NB: Parte del ricavato dalla vendita di questo libro servirà per sostenere l'Onlus 'Peter Pan' che a Roma ospita gratuitamente, nelle sue tre Case, famiglie che provengono da ogni Regione italiana e da tutto il mondo i cui bambini sono in cura presso l'Ospedale Bambin Gesù e il Policlinico Umberto I.

 

‘L’OZIO COME STILE DI VITA’ di Tom Hodgkinson – Rizzoli 2005. Un ultimo, piccolo libriccino, ‘ma affatto ultimo’, che ho voluto includere perché inerente al testo e che potrebbe accompagnarvi nel ‘dolce far niente’ se non di leggere che vi ha portati fin qui. In un mondo dominato dall’etica (non etica) del lavoro, dall’efficienza, da martellanti messaggi mediatici che incitano a ‘fare’, produrre, guadagnare, consumare, il ‘non fare’ dell’ozio diventa un atto sovversivo, rivoluzionario, una rivendicazione di individualità e indipendenza, un diritto che va riaffermato. Ma come un noto scrittore ha detto: ‘Non far niente è il lavoro più duro di tutti.’ Oscar Wilde L’autore: è nato nel 1968, oggi direttore di ‘The Idler’ un libro-rivista che da anni è oggetto di culto in Inghilterra, in cui scrittori e umoristi esaltano i piaceri dell’ozio e della pigrizia e combattono l’idolatria del lavoro (meditate gente, meditsate). Collabora inoltre con il ‘Sunday Times’ e per un certo periodo ha importato assenzio dalla Francia in Gran Bretagna.

 

NB: attenzione, le proposte qui sopra riportate non rappresentano un consiglio di lettura, bensì una possibilità alle vostre scelte, per quanto …

“Le donne e i gatti faranno sempre ciò che vogliono; gli uomini e i cani dovrebbero rilassarsi e abituarsi all'idea”. Robert Anson Heinlein

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- Filosofia

‘SOGLIE’ L’esperienza del pensiero - di Franco Rella

‘SOGLIE’ L’esperienza del pensiero - di Franco Rella, Biblioteca Itinera Anterem Edizioni.

 

Vincitore del Premio Speciale della Giuria ‘Opere Scelte’ della XXV edizione del Premio di Poesia Lorenzo Montano - 2011

 

Nella costante ricerca di imbattermi in un libro che desse senso all’affannoso leggere che mi distingue, sono incappato, non proprio casualmente, in un breve saggio di critica letterario-filosofica che a suo tempo mi era sfuggito. Conoscevo già Franco Rella, noto per i suoi insegnamenti di Estetica alla facoltà di Design e delle Arti dell’Università IUAV di Venezia, filosofo e autore di numerosi saggi, anche se talvolta avevo scorso i suoi libri soltanto per ciò che mi interessava nello specifico delle sue argomentazioni su diversi autori in quanto poeti, filosofi e saggisti di rango. Ciò che in passato mi aveva sempre incuriosito della sua produzione letteraria erano i suoi titoli: ‘Micrologie’ – Territori di confine; ‘Lenigma della bellezza’; ‘Il silenzio e le parole’, solo per citarne alcuni, che di per sé preannunciavano il contenuto filologico che mi proponevo di perseguire.

Libri questi di un’oculatezza preziosa, pari soltanto all’unicità artistica di un raffinato cammeo, in questo caso linguistico e di pensiero che raccoglie consenso per la struttura edificante dell’insieme, l’eleganza della lingua pur nella profondità dei concetti espressi, il contenuto ‘complessivo’ dei suoi costrutti filosofici. Perché se una cosa è possibile aggiungere a quanto già detto, tutto ciò si pone nel ‘confronto delle idee’ e nell’ ‘esprienza del pensiero’ che Franco Rella esprime, in comparazione con il proprio essere filosofo, ciò che rende il dialogo intrapreso in ‘vivo’ col possibile interlocutore/lettore. Un meccanismo davvero originale che deve il suo essere anche ‘raro’ se confrontato con altri saggisti a lui contemporanei senza alcun dubbio concettualmente più fumosi, per i quali tutto discende dall’alto o non è dato di comprendere ai comuni mortali, investendo il lettore di una nebbia così spessa per cui brancolare nella cecità diventa talvolta proverbiale. Ma se il silenzio è di fatto il contenitore per eccellenza delle parole, in molti farebbero meglio a restare muti, ascosi dietro le ‘soglie’ individuate da Rella, da cui affacciarsi per guardare le immense profondità e le altitudini del pensiero umano.

Ma proviamo anche noi ad affacciarci per un istante fiduciosi, insieme al nostro mentore salvifico, certi che non ci abbandonerà persi nella nebbia e a digiuno di sapere: ‘che la filosofia non è pane di segale amaro, bensì il setaccio della farina di dolce grano’. Rammento di essere entrato una volta in un bistrò romano solo perché mi piaceva il nome: “C’è quel che c’è”, recitava nella piacevolezza di andare incontro all’inconnu del caso, per poi trovarmi ad affrontare un menù ricco di delizie insospettate. Inutile aggiungere che sono goloso ma, a differenza di Dante, per me i golosi hanno già guadagnato il ‘Paradiso’ per le pene che sono costretti a subire in vita, e per le prelibatezze che hanno saputo inventare e che hanno poi elargito a piene mani all’umanità intera. Sì, che oggi non si farebbe una EXPO 2015 sul cibo a Milano, improntata sulle delizie della gola (e non sulla fame). Ma come si sa noi golosi siamo sempre affamati di cose buone, un po’ come i lettori hanno fame di letture corpose, soddisfacenti l’intelletto come lo spirito e il corpo; come del resto i goduriosi hanno sempre desiderio di sesso e mai appagano la loro fame atavica, con tutto quello che hanno da penare per soddisfarla.

Che non si offenda il prof Rella per questa asimmetrica e antiestetica comparazione, ma egli stesso sospinge il lettore a trovarsi una via alternativa di scampo dalla sua stessa possanza interlocutiva, per cui nell’addivenire della sua spendibilità: ‘la filosofia è il pane e l’acqua della mente’. «Anche l’ Es gibt di Heidegger, e il y a, “il c’è” nella versione francese di Emanuel Levinas, sono intransitivi e impenetranili. (..) (come del resto) Georges Bataille sa, con Nietzsche che “al di fuori dell’apparenza non vi è nulla”, ma sa anche che in questa apparenza c’è un vuoto che “dissimula l’essere”, quell’essere che proprio in ciò che appare, in ciò che c’è, deve essere inseguito, in quanto, come egli dice, (..) tutto “ciò che è più di ciò che è” e ribadisce “ciò che è significa ben più di ciò che è”» - scrive Rella, e la scelta di questo brano da parte mia ovviamente non è casuale, ma ben si attaglia a interpretare un dunque apparente che si pone come ‘soglia’ al goloso (io) e lo spinge a muovere i suoi passi all’interno del bistrò il cui nome invitava a misurarsi con “c’è quel che c’è”. Com'era ovvio, una volta dentro, avanzando lo sguardo sul bancone della pasticceria, ho scorso le ‘soglie’ della mia golosità e mi sono ritrovato a gridare: ‘qui si affoga, si salvi chi può!’.

Ed io non ho potuto non affogarvi dentro. Come non ho potuto, nello sfogliare le pagine di questo libro, affrontare a mente libera, le mille 'sagge' risposte alle mille domande che continuavano a vagare nella mia mente fin dal tempo degli studi liceali (e ne è passata d’acqua sotto i ponti), le cui incognite non potevano essere sollevate dalla sciarada giovanile. “Alla fine di tutto mi metto in gioco, resto sospeso, denudato, in una solitudine definitiva: davanti all’impenetrabile semplicità di cio che è, il fondo dei mondi aperto, ciò che vedo e che non so non ha più senso, non ha più limiti, e non mi fermerò prima di essere avanzato il più lontano che io possa” – scrive Bataille in “L’Esperienza interiore”.

Ma se ciò che intendeva Bataille va riferito alla 'soglia' dell’esperienza erotica, molte altre sono le ‘soglie’ che Rella espone alla nostra comprensione, ponendoci ora sul ciglio roccioso del Grand Canyon, ora sull’abisso delle cascate del Niagara, ora al limite del deserto del Sahara, come anche sulla stazione spaziale che orbita intorno alla terra, ed essere sul punto di dover scegliere. È allora che il coinvolgimento del lettore diventa totale: sprofondare nella gola della terra o elevarsi ‘al pari delle stelle’? Questa la domanda, questo il problema.

Rella umanamente sa che non c’è fine al sapere, alla fame di conoscenza, all’avventura erotica, come non c’è nell’immanenza delle cose; che «La rinuncia alla verità si è declinata spesso come rinuncia al senso. Non si parla più infatti di filosofia, ma piuttosto di saperi, di vari saperi legati alla tecnica e alla sua potenza. » (..) «La vita contro la verità filosofica. La vita nei suoi grandi attimi a cui diciamo sì, come se essi dovessero sempre ritornare. Ma non la vita contro il sapere». «Questa “attenuazione dei confini” tra arte e critica – scrive Rella, (ma anche tra vita e filosofia scrivo io), si pone come un pensiero di stringente attualità. Infatti il ‘nichilismo’ ancora oggi non è vinto. Ha anzi, spesso nel nome di Nietzsche, assunto un carattere dominantee antitragico. È vissuto come il regno del gioco e della libertà, di un pensiero “debole” che scorre sulle cose senza fare attrito sui di esse. Un pensiero 'liquido' come è di moda definirlo, che lascia alle tecniche e alle loro procedure il totale dominio operativo sul mondo e sugli uomini."

Ma, mentre Zigmunt Bauman che riconosciamo come il più noto dei pensatori al mondo, può dirsi fautore della cosiddetta “Modernità liquida”, decostruttiva e disgregante della società in cui viviamo; in Rella di “Soglie” la critica filosofica fa da mediatrice fra una verità ‘altra’ e una realtà posta ‘altrove’, che pure attende una risposta in certo qual modo 'positiva' che va cercata insieme. Allora non ci sono dirupi da evitare, montagne da scalare, le profondità delle cascate si attenuano, finanche le stelle sono più vicine, quasi a portata di mano. Ecco che al dunque, anche la filosofia si posa "sulle cose che sono" da sempre, per farsi ‘metafisica ‘, cioè dottrina dell’universale, ontologia dell’assoluto, vale a dire parte integrante della vita alla quale è necessario dire di sì, fatta di attimi in cui «..la forma e non il concetto è ciò che restituisce il senso del mondo», e come se dovessero sempre ritornare.

Scrive Susanna Mati nella sua elogiativa quanto densa ‘riflessione critica’ in apertura del libro - «Ecco che la volontà, lo spirito si appropria, dicendo sì, della sostanza creativa della vita. La vita nell’apparenza come scopo, l’arte come unica attività metafisica dell’esistenza, il giudizio estetico che soppianta quello morale, la creazione che decide della verità, il mondo vero diventato favola (..) e anche in questo caso, non rimane nulla al di fuori di questa ‘ontologia ermeneutica’, esiste uno spazio residuo per pensare a un possibile oltre? Il mondo intermedio dell’apparenza, che è anche il mondo del divenire e dell’interpretazione che vela, infatti l’abisso, e che non deve mai essere strappato, pena la caduta nel nonsenso (..) che è l’unico nodo che ha davvero interessato la concretezza del tuo percorso. (..) quello che più spesso ti ho sentito dire, infatti è: “che ci sono già abbastanza cose interessanti in quello che cìè, per pensare anche a quello che non c’è”. (..) Che poi esistano delle faglie, delle rotture, che esista un ‘inespresso’, questo qualcosa che non ha voce, che sta oltre il gioco, l’elaborazione e la trasmutaziopne dei significati, e che non transita mai nella forma, non è negato, tutt’altro: ma saggio è limitarsi alle parole, non rinnegarle nell’ulteriorità misteriosa del silenzio.»

A dirla tutta, questo piccolo libro di appena 85 (ottantacinque) pagine fitte è in sé una ‘soglia’ rappresentativa della stragrande conoscenza letterario-poetico-filosofica dell’autore, grazie alla quale possiamo avvenire alla trasgressione di leggere o rileggere tutto o quasi lo scibile conoscitivo contemporaneo in fatto di grandi imprescindibili nomi del pensiero, come Hegel, Kant, Heidegger, Nietzsche, Baudelaire, Bataille, Foucault, Valery, Proust, Sade, Horlderlin, Marx, Freud, Levinas, Mann, Musil, Kafka, Adorno, Benjamin, Blanchot, Kerénji, Luckàs, Popper, e finanche il millenario Socrate nelle pagine di Platone, coi quali il ‘filosofo della critica’ apre un confronto comparato sui testi più importanti, traendone l’essenza stessa del discorso. Pur tuttavia egli, come nel caso di Robert Musil nel brano che qui trascrivo tratto da “L’uomo senza qualità” egli dice sia qualcosa che rasenta la follia:

«La conoscenza è un atteggiamento, una passione. Un atteggiamento illecito, in fondo, perché come la dipsomania, l’erotismo, la violenza anche la smania di sapere foggia un carattere non equilibrato. È questo che fa di lui una creatura piena di contraddizioni, passiva e tuttavia straordinariamente energica». Ma è davvero così? Che quindi tutti noi che perseguiamo l’insana passione dello scrivere, siamo tutti folli, impossessati, maudit, o che altro? «Questa è l’immagine dell’oggetto perseguito dallo scrittore…» – scrive Bataille e che Rella ribadisce stare alla base del pensiero, come della scrittura letteraria e filosofica; e che pertanto:

«Possiamo dire allora che la filosofia nel suo percorso inciampa nella necessità della poesia, così come la poesia si trova confrontata a una profondità metafisica che ne legittima la parola. Sembra che la filosofia giunga al suo centro quando ha attraversato una esperienza che sfugge ai suoi concetti, e che la poesia giunga a se stessa quando si scopre pensiero. (..) Uno scrittore scrive. Non può fare altro che scrivere. Ma cosa e perché scrive? (..) Penso esista una sorta di ossessione, di malattia, dello scrittore per la scrittura, che si anima appunto su quello scoglio in cui la filosofia trova la necessità dell’immagine, e la poesia trova se stessa come pensiero. Uno scrittore scrive perché ha qualcosa da dire, ma in primo luogo scrive per scrivere. Io stesso, mentre avanzo nella scrittura di questo testo, mi rendo conto che il tema della scrittura – dell’ossessione della scrittura e del suo pathos – ne è il vero oggetto. Mi rendo conto che, anche in passato, nel mio vagabondare tra filosofia e letteratura, ero soprattutto interessato a penetrare il segreto dell’ossessione che muove il filosofo e il poeta, o il narratore a impegnarsi in un estenuato, talvolta terribile e pericoloso, confronto con il linguaggio. A descrivere la traiettoria che questo confronto disegna, le tappe di un viaggioche sembra condurre verso una meta che sempre pare sottrarsi, che forse è il cammino verso il volto fuggevole della verità che non è nella poesia come non è nella filosofia, ma nella tensione che spinge il poeta e il filosofo dentro se stessi per superare se stessi.»

Ma non è tutto quì, c'è molto altro ancora. Al fondo del pensiero critico di Rella ci si ritrova tutti seduti alla mensa del 'Sapere', della 'Conoscenza' del principio filosofico che prende forma, che tutti quanti affama. Ed ecco che la tavola è imbandita di pregevoli delicatessen, mentre sento già arrivare un certo languorino in bocca. E se anche voi provate i morsi della fame, eccovi serviti, il piatto/libro è pronto in tavola e ... Buon Appetito!  

 

Nell’impossibilità di dilungarmi oltre con l’elencazione delle tante opere di Franco Rella rimando alle note dell’autore e alla bio-bibliografia contenute nel volume che oggi è parte integrante della Itinera Biblioteca Anterem a cura della Anterem Edizioni di Verona rintracciabile sul sito web www.anteremedizioni.it o scrivendo alla direzione@anteremedizioni.it curatrice della Rivista di Ricerca Letteraria diretta da Flavio Ermini che ringrazio per la cortese collaborazione.

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- Fede

Omelie di Pasqua 2.

Omelie pasquali - II Esercizi di predicazione liturgica per le domeniche di Pasqua. Dall'archivio di Benedetto XVI – La presente raccolta di omelie di Benedetto XVI fa seguito alle due antologie già messe in rete per le domeniche di Quaresima e per la Settimana Santa del ciclo B dell'anno liturgico, lo stesso in uso quest'anno nelle chiese di rito romano: Nelle prime tre domeniche di Pasqua le letture del Vangelo narrano le apparizioni di Gesù risorto. Nella quinta e nella sesta domenica si leggono passi del discorso e della preghiera di Gesù dopo l'ultima cena, dal Vangelo secondo Giovanni. Mentre nella quarta domina la figura del Buon Pastore ed è tradizione che i papi in questa domenica conferiscano gli ordini sacri a nuovi sacerdoti. In effetti, la quarta domenica di Pasqua è quella in cui Benedetto XVI ha ogni anno celebrato messa e ordinato preti novelli, pronunciando ogni volta omelie particolarmente ricche, come quella qui riportata, relativa all'anno B del lezionario. Più rare e occasionali, invece, sono state le sue celebrazioni pubbliche nelle altre domeniche del tempo pasquale. Nel giorno di Pasqua, ad esempio, tradizionalmente occupato dal messaggio e dalla benedizione "urbi et orbi", solo una volta, nel 2009, Benedetto XVI ha pronunciato una vera e propria omelia liturgica, sia pur breve. Ed è quella qui riprodotta. Una sola, in sette anni di pontificato, è anche l'omelia da lui tenuta nella seconda domenica di Pasqua. È accaduto nel 2007, in coincidenza con il suo ottantesimo compleanno. E non era l'anno B ma l'anno C del lezionario, con il Vangelo dell'incredulità dell'apostolo Tommaso. Le omelie delle domeniche terza e sesta del ciclo B, qui raccolte, sono invece tributarie del rispettivo contesto celebrativo o geografico, che occupa buona parte delle omelie stesse. La prima è coincisa con la canonizzazione di cinque beati e la seconda con una visita pastorale alla città di Arezzo. Per la quinta domenica del ciclo B, invece, al posto dell'omelia che manca nell'archivio della predicazione di Benedetto XVI, è qui richiamato la corrispondente piccola omelia del "Regina cæli", la preghiera che sostituisce l'Angelus nel tempo di Pasqua. OMELIA DELLA DOMENICA DI PASQUA DI RISURREZIONE Atti 10, 34a.37-43 1 Corinzi 5, 6b-8 Giovanni 20, 1-9 … La Pasqua ebraica, memoriale della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, prevedeva ogni anno il rito dell’immolazione dell’agnello, un agnello per famiglia, secondo la prescrizione mosaica. Nella sua passione e morte, Gesù si rivela come l’Agnello di Dio “immolato” sulla croce per togliere i peccati del mondo. È stato ucciso proprio nell’ora in cui era consuetudine immolare gli agnelli nel tempio di Gerusalemme. Il senso di questo suo sacrificio lo aveva anticipato egli stesso durante l’ultima cena, sostituendosi – sotto i segni del pane e del vino – ai cibi rituali del pasto nella Pasqua ebraica. Così possiamo dire veramente che Gesù ha portato a compimento la tradizione dell’antica Pasqua e l’ha trasformata nella sua Pasqua... OMELIA DELLA II DOMENICA DI PASQUA Atti 5, 12-16 Apocalisse 1, 9-13.17-19 Giovanni 20, 19-31 … Secondo una vecchia tradizione, l’odierna domenica prende il nome di domenica "in albis". In questo giorno, i neofiti della veglia pasquale indossavano ancora una volta la loro veste bianca, simbolo della luce che il Signore aveva loro donato nel battesimo. In seguito avrebbero poi deposto la veste bianca, ma la nuova luminosità ad essi comunicata la dovevano introdurre nella loro quotidianità; la fiamma delicata della verità e del bene che il Signore aveva acceso in loro, la dovevano custodire diligentemente per portare così in questo nostro mondo qualcosa della luminosità e della bontà di Dio... OMELIA DELLA III DOMENICA DI PASQUA - ANNO B Atti 3, 13-15.17-19 1 Giovanni 2, 1-5a Luca 24, 35-48 … L’evangelista annota che i due discepoli di Emmaus, tornati in fretta a Gerusalemme, raccontarono agli undici come lo avevano riconosciuto “nello spezzare il pane”. E mentre essi stavano narrando la straordinaria esperienza del loro incontro con il Signore, Egli “in persona stette in mezzo a loro”. A causa di questa sua improvvisa apparizione gli apostoli restarono intimoriti e spaventati, al punto che Gesù, per rassicurarli e vincere ogni titubanza e dubbio, chiese loro di toccarlo – non era un fantasma, ma un uomo in carne ed ossa - e domandò poi qualcosa da mangiare. Ancora una volta, come era avvenuto per i due di Emmaus, è a tavola, mentre mangia con i suoi, che il Cristo risorto si manifesta ai discepoli, aiutandoli a comprendere le Scritture e a rileggere gli eventi della salvezza alla luce della Pasqua… OMELIA DELLA IV DOMENICA DI PASQUA - ANNO B Atti 4, 8-12 1 Giovanni 3, 1-2 Giovanni 10, 11-18 … L'immagine del pastore viene da lontano. Nell'antico Oriente i re solevano designare se stessi come pastori dei loro popoli. Nell'Antico Testamento Mosè e Davide, prima di essere chiamati a diventare capi e pastori del popolo di Dio, erano stati effettivamente pastori di greggi. Nei travagli del periodo dell'esilio, di fronte al fallimento dei pastori d'Israele, cioè delle guide politiche e religiose, Ezechiele aveva tracciato l'immagine di Dio stesso come del pastore del suo popolo. Ora Gesù annunzia che quest'ora è arrivata: Egli stesso è il buon pastore nel quale Dio stesso si prende cura della sua creatura, l'uomo, raccogliendo gli esseri umani e conducendoli al vero pascolo… Vedi anche quest'altra omelia di tre anni dopo, anch'essa relativa all'anno B del lezionario: "REGINA CÆLI" DELLA V DOMENICA DI PASQUA - ANNO B Atti 9, 26-31 1 Giovanni 3, 18-24 Giovanni 15, 1-8 … Nel giorno del nostro battesimo la Chiesa ci innesta come tralci nel mistero pasquale di Gesù, nella sua persona stessa. Da questa radice riceviamo la preziosa linfa per partecipare alla vita divina. Come discepoli, anche noi, con l’aiuto dei pastori della Chiesa, cresciamo nella vigna del Signore vincolati dal suo amore. Se il frutto che dobbiamo portare è l’amore, il suo presupposto è proprio questo “rimanere” che profondamente ha a che fare con quella fede che non lascia il Signore. È indispensabile rimanere sempre uniti a Gesù, dipendere da lui, perché senza di lui non possiamo far nulla… OMELIA DELLA VI DOMENICA DI PASQUA - ANNO B Atti 10, 25-26.34-35.44-48 1 Giovanni 4, 7-10 Giovanni 15, 9-17 … La prima lettura ci ha presentato un momento importante in cui si manifesta l’universalità del messaggio cristiano e della Chiesa. San Pietro, nella casa di Cornelio, battezzò i primi pagani. Nell’Antico Testamento Dio aveva voluto che la benedizione del popolo ebreo non rimanesse esclusiva, ma fosse estesa a tutte le nazioni. Sin dalla chiamata di Abramo aveva detto: "In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra". E così Pietro, ispirato dall’alto, capisce che "Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga". Il gesto compiuto da Pietro diventa immagine della Chiesa aperta all’umanità intera...

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- Religione

Omelie di Quaresima per una Felice Pasqua di Resurrezione.


Omelie di Quaresima per una Felice Pasqua di Resurrezione.

Il "Direttorio omiletico" promulgato da papa Francesco lo scorso febbraio, quando arriva a suggerire tracce concrete di buona predicazione durante la messa, ripercorre l'anno liturgico a partire dal suo "centro" che è il "mistero pasquale al quale si collegano tutti i misteri di Cristo e della storia della salvezza che si attualizzano sacramentalmente". Come guida di questo percorso il "Direttorio" assume Benedetto XVI e la sua esortazione apostolica "Verbum Domini", in applicazione del sinodo del 2008 dedicato alla "Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Quelle che seguono non sono altre linee guida, ma vere e proprie omelie riprese dall'archivio di quel grande omileta e liturgico, forse il più grande dell'ultimo secolo, che è appunto Benedetto XVI.

L'antologia comincia con un'omelia della Domenica delle Palme, tra quelle del ciclo B dell'anno liturgico, lo stesso in uso quest'anno in tutte le messe di rito romano del mondo. All'inizio dell'omelia Benedetto XVI cita il racconto dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme fatto da Marco, l'evangelista dell'anno B del lezionario. Ma poi passa ad illustrare il Vangelo di Giovanni e in particolare il brano che era già stato letto – sempre nel ciclo B – nella precedente V Domenica di Quaresima.
Segue un'omelia della messa che il vescovo di Roma – come ogni altro vescovo – celebra la mattina del Giovedì Santo in cattedrale con i suoi preti, per il rinnovo delle promesse sacerdotali e per la benedizione degli oli del battesimo, della cresima, dell'ordine, degli infermi. L'omelia qui prescelta si distingue per le profonde riflessioni bibliche, teologiche e cosmologiche sui quattro elementi dei sacramenti cristiani: l'acqua, il pane di frumento, il vino e l'olio di oliva.
Poi ancora un'omelia della messa "in cœna Domini" del Giovedì Santo. Quella in cui Benedetto XVI ripercorre passo passo il canone romano come racconto e attualizzazione del sacrificio eucaristico di Gesù.
Infine, un'omelia della notte di Pasqua dell'anno B. Nella quale Joseph Ratzinger introduce nel mistero della risurrezione di Gesù mediante tra simboli: la luce, l'acqua e il canto nuovo, l'alleluia.

Sono quattro omelie capolavoro. Buona lettura!


Omelia della Domenica delle Palme - Anno B

Marco 11, 1-10
Isaia 50, 4-7
Filippesi 2, 6-17
Marco 14, 1 - 15, 47

… Come essere umano, anche Gesù si sente spinto a chiedere che gli sia risparmiato il terrore della passione. Anche noi possiamo pregare in questo modo. Anche noi possiamo lamentarci davanti al Signore come Giobbe, presentargli tutte le nostre domande che, di fronte all’ingiustizia nel mondo e alla difficoltà del nostro stesso io, emergono in noi. Davanti a Lui non dobbiamo rifugiarci in pie frasi, in un mondo fittizio. Pregare significa sempre anche lottare con Dio, e come Giacobbe possiamo dirgli: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”…

Omelia del Giovedì Santo - Messa del Crisma

Isaia 61, 1-9
Apocalisse 1, 5-8
Luca 4, 16-21

… Sono quattro gli elementi della creazione con i quali è costruito il cosmo dei sacramenti: l’acqua, il pane di frumento, il vino e l’olio di oliva. L’acqua come elemento basilare e condizione fondamentale di ogni vita è il segno essenziale dell’atto in cui, nel battesimo, si diventa cristiani, della nascita alla vita nuova. Mentre l’acqua è l’elemento vitale in genere e quindi rappresenta l’accesso comune di tutti alla nuova nascita da cristiani, gli altri tre elementi appartengono alla cultura dell’ambiente mediterraneo. Essi rimandano così al concreto ambiente storico in cui il cristianesimo si è sviluppato. Dio ha agito in un luogo ben determinato della terra, ha veramente fatto storia con gli uomini. Questi tre elementi, da una parte, sono doni del creato e, dall’altra, sono tuttavia anche indicazioni dei luoghi della storia di Dio con noi. Sono una sintesi tra creazione e storia: doni di Dio che ci collegano sempre con quei luoghi del mondo, nei quali Dio ha voluto agire con noi nel tempo della storia, diventare uno di noi...

Omelia del Giovedì Santo - Messa "In Cœna Domini"

Esodo 12, 1-14
1 Corinti 11. 23-26
Giovanni 13, 1-15

… La liturgia del Giovedì Santo inserisce nel testo della preghiera la parola “oggi”, sottolineando con ciò la dignità particolare di questa giornata. È stato “oggi” che Egli l’ha fatto: per sempre ha donato se stesso a noi nel sacramento del suo corpo e del suo sangue. Questo “oggi” è anzitutto il memoriale della Pasqua di allora. Tuttavia è di più. Con il Canone entriamo in questo “oggi”. Il nostro oggi viene a contatto con il suo oggi. Egli fa questo adesso. Con la parola “oggi”, la liturgia della Chiesa vuole indurci a porre grande attenzione interiore al mistero di questa giornata, alle parole in cui esso si esprime. Cerchiamo dunque di ascoltare in modo nuovo il racconto dell’istituzione [dell'eucaristia] così come la Chiesa, in base alla Scrittura e contemplando il Signore stesso, lo ha formulato …

Omelia della Veglia Pasquale - Anno B

Genesi 1, 1 - 2, 2
Esodo 14, 15 - 15, 6.17-18
Romani 6, 3-11
Marco 16, 1-7

… Per la storia del canto di Mosè dopo la liberazione di Israele dall’Egitto e dopo la risalita dal Mar Rosso, c’è un parallelismo sorprendente nell’Apocalisse di san Giovanni. Prima dell’inizio degli ultimi sette flagelli imposti alla terra, appare al veggente qualcosa “come un mare di cristallo misto a fuoco; coloro che avevano vinto la bestia, la sua immagine e il numero del suo nome, stavano in piedi sul mare di cristallo. Hanno cetre divine e cantano il canto di Mosè, il servo di Dio, e il canto dell’Agnello”. Con questa immagine è descritta la situazione dei discepoli di Gesù Cristo in tutti i tempi, la situazione della Chiesa nella storia di questo mondo. Considerata umanamente, essa è in se stessa contraddittoria. Da una parte, la comunità si trova nell’Esodo, in mezzo al Mar Rosso. In un mare che, paradossalmente, è insieme ghiaccio e fuoco. E non deve forse la Chiesa, per così dire, camminare sempre sul mare, attraverso il fuoco e il freddo? Umanamente parlando, essa dovrebbe affondare. Ma, mentre cammina ancora in mezzo a questo Mar Rosso, essa canta – intona il canto di lode dei giusti: il canto di Mosè e dell’Agnello, in cui s’accordano l’Antica e la Nuova Alleanza. Mentre, tutto sommato, dovrebbe affondare, la Chiesa canta il canto di ringraziamento dei salvati. Essa sta sulle acque di morte della storia e tuttavia è già risorta. […] Non è forse questa veramente la situazione della Chiesa di tutti i tempi, la situazione nostra? Sempre c’è l’impressione che essa debba affondare, e sempre è già salvata. San Paolo ha illustrato questa situazione con le parole: “Siamo come moribondi, e invece viviamo”. La mano salvifica del Signore ci sorregge, e così possiamo cantare già ora il canto dei salvati, il canto nuovo dei risorti: Alleluia! Amen.

NB: Una precedente raccolta di omelie di Benedetto XVI, per la Quaresima dell'anno B del lezionario liturgico.

Si ringraziano per la gentile concessione www.chiesa.espressoonline.it
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© 1999-2015 Nella testata, un particolare dei mosaici della basilica di Santa Maria Maggiore, Roma, V secolo, con raffigurata la Gerusalemme del cielo.


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- Musica

’PIPER CLUB’ – I fatidici anni ’60/’70

“PIPER CLUB” – I FATIDICI ANNI ’60/’70 della musica italiana.

 

L’anno era il 1965. Il luogo, il profetico, clamoroso, fantastico Piper-Club di Via Tagliamento a Roma, fondato e guidato dall’allora strepitoso manager (commerciante di automobili) Giancarlo Bornigia con altri soci, uno dei locali storici dell'Italia del boom economico degli anni sessanta e che in poco tempo divenne un'icona di una generazione intera ed un vero e proprio fenomeno di costume in Italia. Il Piper emerse subito come punto focale della bella vita romana, raccogliendo frequentazioni dal mondo dello spettacolo e dell'arte, oltre che da personaggi della scena mondana. Lo storico animatore - intrattenitore del locale, fin dall'inizio e per molti anni, è il giornalista Eddie Ponti. La linea artistica si ispirava al mondo del beat inglese, da cui copiò anche l'idea dell'opera beat, ovvero ad un uso innovativo di luci stroboscopiche colorate accoppiate ai suoni e allo stile dettato dalla moda della minigonna. Alla serata d'esordio suonarono The Rokes e l'Equipe 84, successivamente si susseguirono i migliori gruppi della scena musicale beat italiana tra cui i Rokketti, I New Dada, I Delfini, I Giganti, I Meteors, Gli Apostoli, Le Pecore Nere, Le Facce di Bronzo, affiancati da altri gruppi provenienti dall'estero come The Primitives (tra cui si distinguerà il cantante Mal), Patrick Samson e Les Pheniciens, Lord Beau Brummell and his Noblemen Orchestra, The Echoes, The Bad Boys, The Bushmen (cinque ragazzi di colore del Kenya), The Eccentrics (da cui nascono Mike Liddell e gli Atomi), The Honeycombs, John L. Watson & The Hummelflugs, per citare i più importanti.

A tutti questi si aggiunsero presto artisti del calibro di Nino Ferrer, Fred Bongusto, Dik Dik, Farida, Gabriella Ferri, Rita Pavone, Roby Crispiano, Gepy & Gepy, Nancy Cuomo: su tutti, però, vanno ricordate Caterina Caselli e Patty Pravo che passa alla storia del pop proprio come "la ragazza del Piper", per quanto, secondo alcuni, il titolo sarebbe da condividere con Mita Medici che nel 1966, proprio al "Piper", vince il concorso "Miss Teenager Italiana" con il temporaneo nome d'arte di Patrizia Perini. Nel 1965 Mina vi girò una serie di caroselli per la Barilla per la regia di Valerio Zurlini. Dal numeroso gruppo dei ragazzi che si possono considerare frequentatori 'storici' del Piper emergeranno negli anni numerosi personaggi di spicco fra cui Romina Power, Mia Martini, Loredana Bertè e Renato Zero che nel 1982 realizzerà un 33 giri ispirato proprio agli anni del Piper. In quegli stessi anni vi si esibirono i più conosciuti complessi di musica beat e cantanti di musica leggera nazionali ed internazionali in voga in quegli anni, con nomi del calibro dei Procol Harum, i Byrds, Rocky Roberts, Nevil Cameron, Herbie Goins & The Soultimers (il cui chitarrista era il virtuoso John McLaughlin), Wess (che divenne famoso cantando in duetto per anni con Dori Ghezzi) e dei giovanissimi Pink Floyd che si esibirono in due serate, il 18 e il 19 aprile 1968. La musica italiana era invece rappresentata da New Trolls, Le Orme, I Corvi, I Delfini. I Pooh, nel 1966, in questo locale vi conobbero Riccardo Fogli, che entrò poi come bassista nel gruppo in sostituzione di Gilberto Faggioli, e come nuovo frontman.

Da ricordare l'evento ‘Grande angolo, Sogni, Stelle’ organizzato da Mario Schifano il 28 dicembre del 1967, che segnò una delle tappe fondamentali della nascita dell'underground italiano. La serata vide l'alternarsi sul palco di sitaristi, ballerine e poeti che si alternavano alle Stelle di Mario Schifano, il tutto accompagnato da filmati proiettati sul palco su quattro diversi schermi. L'evento fu recensito su l'Espresso da Alberto Moravia anche lui frequentatore del Piper Club insieme a Pier Paolo Pasolini, con un articolo dal titolo ‘Al Night club con i vietcong’. Dal 1968 dal Piper partì un'iniziativa già in voga negli anni sessanta, i cantagiri canori: nella fattispecie, il CantaPiper. "Piper Club" è stato inoltre il nome di un'etichetta discografica che ha pubblicato i dischi di molti degli artisti che si esibivano nel locale. Il 21 giugno 1969 esordisce il gruppo Tina Polito e i Parker's Boys[4] formato dall'aggregazione di una giovane cantante affermata nel programma televisivo Scala Reale e dal gruppo dove in precedenza aveva militato Renzo Arbore. La formazione era composta da Angelo La Porta (chitarra), Nicola Zanni (basso), Alberto Catani (batteria) e Gianni Micciola (tastiere). Nei primi anni Settanta una modifica della linea artistica portò all'esordio di Formula 3, Mia Martini, Ricchi e Poveri, e all'esibizione di gruppi come Genesis, Sly and the Family Stone e grandi nomi del jazz quali Lionel Hampton e Duke Ellington.

Dopo gli anni dell'austerity (1973 - 1975 circa), il Piper diventa una discoteca, con collegamenti continui organizzati da Eddie Ponti, per riempire gli spazi tra un'esibizione e l'altra, prima con Radio Montecarlo e poi con altre radio. Alla storia del Piper sono liberamente ispirati l'omonimo film televisivo del 2007, diretto da Carlo Vanzina e la serie televisiva omonima del 2009, diretta da Francesco Vicario. Vi è ambientato anche il film tv "Totò Ye Ye", episodio della serie televisiva "TuttoTotò", girato nel 1967 e che è stato l'ultimo film interpretato dal grande attore napoletano. Il 21 agosto 2013 muore a Roma a 83 anni Giancarlo Bornigia che ha segnato un giorno di lutto per tutti noi.  Il 17 Febbraio 2015 il Piper Club ha festeggiato i primi 50 anni del locale con una maratona di ben 6 ore tra musica live, video storici e Dj Set. Mezzo secolo di storia del tempio italiano del ‘beat’ è passata di qua, i nomi di prestigiosi interpreti hanno qui lasciato il segno e spesso da qui sono partiti per la loro strada in ambito musicale. Durante la serata è stato presentato in anteprima il musical di Alberto Laurenti “C’era una volta il Piper...” con ben 9 musicisti e 15 giovani cantanti sul palco che hanno riproposto brani famosi di Rocky Roberts, Mia Martini, Loredana Bertè, Renato Zero, Nada, Caterina Caselli, Patti Pravo. A fine concerto Alessio Granata e Alessandro Leuci hanno condotto la serata 'dance' con un dj-set rigorosamente anni 50 e 60.

Si vuole che la linea artistica di quegli anni prendess le mosse dalla moda inglese, da cui venne copiata anche l'idea dell'opera beat, ovvero di  un uso innovativo di suoni e lo stile dettato dai primi ‘musical rock’ anglo-americani come ‘Hair’ (1967) di James Rado e Gerome Ragni (testi) e Galt MacDermot (musica); ‘Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat’ (1968) di Andrew Lloyd Webber (musica) e Tim Rice (testi). Cioè ancor prima che si acclamasse ‘Jesus Christ Superstar’ (1971) della medisima coppia di autori, oltremanica, al Piper Club di Roma, accadeva un evento straordinario oggi quasi del tutto dimenticato anche negli annali dello storico locale. Nel maggio del 1967 infatti, un giovane musicista, certo Tito Schipa Jr. (figlio del grande tenore italiano), proprio al Piper Club precorreva i tempi con la sua opera beat “Then an Alley”, costruita su testi di Bob Dylan, all’epoca da noi quasi del tutto sconosciuti. Lo testimonia l’intervista qui di seguito riportata, apparsa su ‘Nuovo Sound’ in quello stesso anno, rilasciata all’autore di questo articolo al Jockey Club di Ben Jorillo ad Aprilia, in occasione della presentazione del nuovo album dello stesso Tito Schipa: “Io, ed io solo”.

Intervista:

Dopo alcuni istanti di buio completo resi vacui dalle note di un piano, l’ombra di un viandante avanza attraverso il tempo fino a stagliarsi in primo piano, trasportandoci per un istante attraverso le strade dell’esperienza alla ricerca di un mondo assoluto nello spazio ideale (e universale) che accomuna all’amore per la vita, idee di libertà e di spensieratezza per un prossimo che va oltre il domani. Un domani possibile visto attraverso il filtro irrazionale, forse utopistico o favolistico, tuttavia senza cadere nel nell’estremismo idealistico o nella faciloneria populista. Il suono melodico di un violino, subentrato al piano, fa da base musicale sulla quale Tito si appresta a fare i suoi vocalizzi, i suoi discorsi spesso interrotti da puntini di sospensione, per poi raccontarci le sue precorse esperienze musicali, servendosi inoltre di effetti scenici che esulano dalla musica per raggiungere ‘ad effetto’ la costruzione teatrale e che nell’insieme s’impone come ‘spettacolo’, com’egli ha detto: ‘..uno spettacolo non solo per le orecchie ma anche per gli occhi … affinché chi ne prende parte venga al tempo stesso coinvolto emozionalmente”.

Coinvolgimento, come si intuisce, che prende le mosse dai suoi giochi estrosi e dalle innovazioni che Tito Schipa Jr. man mano va introducendo sulla scena: dal cambiarsi d’abito davanti al pubblico, alla proiezione di un filmato che lo vede impegnato sulla scia di Warrrol a chiedersi perché di ogni cosa, senza tuttavia suggerire una risposta adeguata. Così come l’uso di candele profumate e fogli di carta volanti che dovrebbero suscitare gli animi all’happening. Un prodursi di effetti che questo anticonformista della canzone infine riesce al di fuori di ogni schematizzazione a mettere assieme, per un grande progetto di teatro-musica libero che dovrebbe rispecchiare l’espressione più vicina ai giovani, ad aprirsi ai loro sogni … a “..lasciarci indietro la città per un week-end in totale libertà, non eravamo solo noi … forse il sogno di essere di essere soli al mondo col crepuscolo per sfondo ci portò … e quel flauto incominciò … forse siamo noi, forse son loro a spostarsi, non è chiaro …”.

NS: Che ne è oggi di quella prima “Then an Alley”?

TITO: “Era impostata sulla linea del classico melodramma, i testi erano in inglese presentati in italiano su libretto … fu una delle mie prime esperienze del genere ma non fu possibile portarla avanti causa una denuncia dello stesso Dylan che rese possibili appena cinque repliche … ma la soddisfazione fu quella di mantenere un pubblico vivo e numeroso, tanto che si dovette chiudere le porte del locale (Piper) per la stragrande affluenza. In vero fu un avvenimento! Tutti i giornali italiani e stranieri ne parlarono, ne fecero un fatto di costume … e forse lo era!”

NS: E che cosa accadde dopo?

TITO: “Beh, ci furono circa due anni di silenzio, l’eco di “Then an Alley” risultò limitato, oggi in pochi lo ricordano”.

NS: Subito dopo arrivò “Orfeo 9”, un’opera più completa e complessa che per la prima volta metteva in luce quell’assoluto che forse cercavi … a cosa ha portato il tuo secondo impegno?

TITO: “Più che di “Orfeo 9” spettacolo preferirei parlare di “Orfeo 9 film” di cui nessuno conosce l’esistenza sebbene ne esistano almeno due copie in possesso della RAI-TV che da due anni, per ragioni incomprensibili e intollerabili, tiene bloccata una situazione che mi danneggia anche economicamente”.

NS: Oggi si torna a parlare di te e di “Orfeo 9” in occasione del tuo spettacolo “Concerto d’addio” ma, soprattutto per un rinnovato interesse dei giovani dopo che “Adesso Musica” (programma TV) ha inserito in una sua puntata alcuni spezzoni tratti dal tuo film. Vedi in questo una intenzione della RAI di programmare il film per intero?

TITO: “Lo spero … ieri, quando la censura lo ha bloccato per ‘istigazione alla violenza’ nel contenuto della canzone “Combat”, poteva risultare difficile per le idee e le situazioni che vi erano presentate; oggi diciamo che quelle idee fanno parte di una certa attualità. Ma se la RAI aspetta di presentarlo domani, potrebbe non essere più valido.”

NS: Non pensi che sotto questo silenzio possano esserci delle ragioni politiche? Che alcuni signori dell’ambiente teatrale abbiano visto un possibile sconvolgimento dell’allora statica situazione teatrale italiana e quindi opinata un’operazione di blocco?

TITO: “Non posso dirlo con certezza sebbene lo abbia pensato, posso comunque dire che “Orfeo 9” non era nato con questi propositi sovversivi … voleva solo aprire un discorso nuovo nella nostra cultura giovanile, di vedere e ascoltare la musica facendo un salto da ‘ieri’ della tradizione italiana a un ‘oggi’ affrontato nelle sue possibili incoerenze sociali e umane … aprire un varco verso quei valori artistici che potevano essere raccolti e con le possibili critiche che ne potevano derivare. Fu il risultato di due mesi di prove per 40 persone e la spesa ‘autofinanziata’ di 3milioni di lire che oggi fanno la muffa al Settore Sperimentale della televisione nostrana.”

NS: Quali necessità ti hanno spinto a fare questo tuo “Concerto d’addio” e perché? Intendi forse chiudere una parentesi o ritirarti dalla scena musicale? TITO: “No. È semplicemente un titolo di un album che non vuole segnare una fine, bensì un nuovo inizio … come dare un calcio al passato e iniziare un nuovo discorso. Mio padre ad esempio dava ogni volta un concerto d’addio che non era mai l’ultimo … è così che io ho inteso chiudere questo mio obbligo (di promesse) verso il pubblico. Chi non ha veduto “Orfeo 9” e non conosce le avventure /disavventure dello spettacolo che per la prima volta (in Italia) aveva richiamato l’attenzione dei giovani che per vederlo arrivavano con qualunque mezzo da ogni parte, non può neppure immaginare cosa esso ha significato … uno spettacolo divenuto in breve un fatto di cultura.”

Oggi tutto questo appartiene al passato e possiamo ben dire che Tito Schipa Jr. intendeva davvero dire ‘addio’ a quel pubblico per proiettarsi in un’altra dimensione artistico musicale di altro genere e di altra portata. Inutile dire che noi, rappresentanti quei giovani di allora, restammo delusi anche se a distanza di tempo si comprendono ancor più le ragioni di quella sua scelta che c’era sembrata deludente, non direi piuttosto offensiva riguardo alle nostre aspettative. Ma spesso le strade della vita prendono le direzioni che vogliono e senza biasimo riconosciamo a Tito Schipa Jr. di aver svolto un ruolo importante per tutta la musica e in particolar modo per il teatro italiani. Pertanto gli diciamo un grazie infinito per averci permesso allora di misurarci con quelle che erano ormai le 'idee' cultural-rivoluzionarie di un'epoca. “Orfeo 9” è dunque la prima opera rock italiana versione moderna del mito di Orfeo ed Euridice, scritta e composta da Tito Schipa Jr. e messa in scena per la prima volta al Teatro Sistina di Roma, il 23 gennaio 1970 con la collaborazione di Garinei & Giovannini.

Quella sera Piazza Barberini e le vie adiacenti rigurgitavano di giovani colorati e allegri, eccitati dall’avvenimento d’incontrarsi e riconoscersi in quanti avevano ritrovato loro stessi a uno spettacolo che rivoluzionava l’armamentario tradizionale del teatro, vuoi per la sua ricchezza di effetti speciali: scenografie di luci, colori, nebbie, fumi colorati, musica tenuta a decibel altissimi. Vuoi per i testi che spalancavano le barriere di anni di tabù, d’incredulità verso il mondo giovanile, nel disconoscimento di reali problemi sociali che per la prima volta venivano affrontati: l’amore libero, la droga, uscire di casa, viaggiare in auto-stop, ecc. e con quale enfasi creativa, musicale e canora, venivano presentati; il risultato fu di tale portata che oggi si comprende perché allora poteva spaventare l’ordine pubblico e ancor più i ‘bigotti’ rappresentanti della cultura consolidata.

Sinossi: (atto primo) Tra le rovine di una chiesa sconsacrata su una collina (Invito) vive un gruppo di giovani che si è rifugiato dalla società e dall’impurità della città industriale. L’inizio dell’opera li vede ancora immersi nel sonno. Poi, lentamente, il risveglio, e con esso il desiderio del sole e della sua luce (L’Alba). Al primo raggio, però, segue un violento acquazzone, che però non può nulla contro le voci di chi il sole lo ha dentro (Vieni Sole). Fra questi giovani c’è Orfeo. È uno qualunque, né più importante né più intelligente degli altri. È solo più chiuso, più solitario; se ne sta in disparte, e vede tutto intorno solo un riflesso di sé (Il Risveglio Di Orfeo). Il suo unico incontro e momento di dialogo è con il ragazzo del pane, giunto dalla città dopo tre giorni a piedi (Pane Pane). Da lui Orfeo ascolta il racconto-sogno di una città libera e deserta (La Città Sognata). Ma la realtà è ben diversa, e la città è quella di sempre, e al Vivandiere Orfeo racconta delle sue difficoltà (La Ragazza Che Non Volta Il Viso). Ma un giorno compare Euridice, e per Orfeo è un’autentica folgorazione, un’autentica visione della Realtà, che lo risveglia dal torpore e dalla sua chiusura (Eccotela Qui). Il rito nuziale viene immediatamente celebrato (Dio / Senti Orfeo), ma durante la cerimonia si fa avanti un oscuro individuo, che quasi ipnotizza Orfeo e lo convince che si può essere ancora più felici, e lo rende vittima di un’atroce truffa; in pratica gli “ri-vende” quello che lui già aveva (Euridice), con in più la convinzione che sia stato lui stesso a venderglielo (Venditore Di Felicità).

Ma Euridice è ormai perduta, e Orfeo cade nella disperazione (Senti Orfeo-ripresa). (atto secondo) Orfeo decide, quindi, di lasciare la chiesa (Ciao) e mettersi alla sua ricerca (Per La Strada). Fa vari incontri, ma ogni volta cade nell’errore di paragonare tutto all’immagine di Euridice e non comprendere cosa gli viene offerto. Rifiuta l’amore di una coppia di autostoppisti (La Coppia / Seguici) che di amore dicono di averne tanto da poterlo dividere anche in tre; rifiuta l’alternativa esoterica di una chiromante illuminata (La Chiromante), e persino il rifugio nella città sognata del Vivandiere (Tema Delle Stelle / La Bomba A). L’alba lo coglie alla periferia della città infernale (Da Te Per Te), e la sua ricerca in quei gironi disperati ha un'ossessiva risposta, sempre uguale: No, nessuno ha visto Euridice (La Città Fatta A Inferno). Le note di un semplice blues, che risuona fra le ciminiere raccontando la favola di un giovane che ha perso la sua bella per essersi voltato indietro invece di fidarsi di lei (Una Vecchia Favola), sembrano risvegliare Orfeo, che si ritrova adesso vicinissimo ad Euridice. Ma Orfeo ha gli occhi troppo offuscati, e non la riconosce (Ritorno Ad Un Sogno). È ormai perduta per sempre (Eccoti Alla Fine).

Tra i Musicisti che hanno collaborato alla realizzazione di “Orfeo 9”, oltre a Tito Schipa Jr. - voce, pianoforte, synth, percussioni: • Pasquale Liguori - percussioni • Andrea Sacchi - chitarra acustica, chitarra elettrica • Bill Conti - tastiera, synth • Tullio De Piscopo - batteria, timpani • Massimo Verardi - chitarra acustica, chitarra 12 corde • Joel Van Droogenbroek - organo, sitar • Bruno Crovetto – basso Del cast facevano parte, tra gli altri, Monica Miguel, Simon Catlin, Giovanni Ullu e Andro Cecovini.

Tra i giovani attori cantanti che presero parte alla’avvenimento teatrale vanno citati: Loredana Bertè, Renato Zero. Per l'incisione del disco e per il film il cast subisce alcuni cambiamenti, e alla nuova realizzazione partecipano tra gli altri il futuro premio Oscar Bill Conti (arrangiamenti, direzione orchestrale e tastiere), Renato Zero, che impersona Il venditore di felicità, Loredana Berté che interpreta una narratrice ed esegue i cori con Penny Brown e Marco Piacente, e ancora Edoardo Nevola, Eva Axen.t

Tra i musicisti sono da citare Tullio De Piscopo alla batteria, i chitarristi Sergio Farina e Andrea Sacchi, e Santino Rocchetti come cantante in un brano.

L'autore:

Tito Luigi Giovanni Michelangelo Schipa, noto come Tito Schipa junior (Lisbona, 18 aprile 1946), è un cantautore, compositore, regista, attore e produttore italiano; una delle personalità più originali del panorama musicale italiano: è stato il primo autore di un'opera ‘rock’ in Italia, ed uno dei primi al mondo. Nel 1966 lavora come assistente alla regia di Lina Wertmuller in due ‘musicarelli’ girati dalla regista in quell'anno, "Rita la zanzara” e “Non stuzzicate la zanzara”, entrambi con Rita Pavone e Giancarlo Giannini. Nello stesso anno diventa il presentatore delle serate al Piper Club: è proprio in questo locale che debutta, l'anno seguente, l'opera beat “Then an Alley”, realizzata scegliendo 18 canzoni di Bob Dylan ed unendole insieme; tra gli interpreti vi è la cantante Penny Brown. Nel 1967 continua l'attività di aiuto regista lavorando con Giorgio De Lullo, Giancarlo Menotti e Luigi Squarzina.

In qualità di Cantautore il suo debutto avviene nel 1971 con la pubblicazione del 45 giri ‘Sono passati i giorni/Combat’, con cui partecipa nello stesso anno alla Mostra Internazionale di Musica Leggera; la canzone sul lato B (che era apparsa già nella colonna sonora del film “Policeman” di Sergio Rossi nel 1969) viene censurata dalla RAI per i contenuti del testo. Nel 1973 pubblica l'album ‘Io ed io solo’, contenente alcuni fra i suoi brani più noti: ‘Non siate soli’ e ‘Sono passati i giorni’. Dopo altre attività come compositore e come attore, pubblica nel 1982 un altro disco come cantautore ‘Concerto per un primo amore’. Nel 1976 fonda, insieme al drammaturgo Mario Moretti, il Teatro in Trastevere, e nello stesso anno vi presenta la sua commedia musicale "L'isola nella tempesta"; inizia poi a lavorare a “Er Dompasquale”, rielaborazione dell'opera "Don Pasquale", di Gaetano Donizetti, che ottiene molto successo sia in Italia che all'estero, arrivando nel 1983 ad essere rappresentata a Broadway in un adattamento curato da Joseph Papp. “Er Dompasquale” viene anche pubblicato su LP dalla RCA Italiana in quello che è il primo disco triplo realizzato da un artista italiano.

A metà degli anni ottanta Tito Schipa torna a Bob Dylan, con cui aveva iniziato nel 1967 con l'opera pop ‘Then an Alley’, dedicandosi alla traduzione in italiano di tutti i testi delle canzoni del cantautore di Duluth: questo lavoro si concretizza nella pubblicazione di tre volumi per l'Arcana Editrice con le sue versioni dei brani di Dylan e in ‘Dylaniato’, disco che raccoglie alcune di queste canzoni arrangiate e cantate da Schipa. L'esperienza positiva del lavoro sui testi di Dylan si ripete due anni dopo con la pubblicazione, sempre per l'Arcana, di un volume con le traduzioni delle poesie di Jim Morrison. Altre attività: Negli anni novanta Schipa continua la sua attività in vari campi, realizzando colonne sonore per film e spettacoli teatrali, dedicandosi alla redazione di una biografia sul padre (in occasione del centenario della nascita) e lavorando come autore radiofonico. Si dedica inoltre all'attività di regista per vari allestimenti di opere liriche e realizza documentari: tre per la RAI e tredici per il canale tematico Gambero Rosso.

Inoltre è per qualche anno docente di drammaturgia del melodramma all'Università Orientale di Napoli, all'Accademia Musicale Claudio Monteverdi di Campobasso e all'Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, attività che proseguirà all'Università Popolare di Roma (UPTER). Attualmente è infatti impegnato presso l'UPTER di Roma in "Opera Full Immersion", una serie di seminari-spettacolo di "istigazione e assuefazione al melodramma" da lui ideati e condotti. Attualità e progetti in corso: Attualmente è in corso di scrittura la sua nuova opera rock "Gioia", la cui sceneggiatura è stata finanziata da European Script Fund nell'ambito del Progetto Media della CEE. Tito è docente presso l'Upter di Roma e i suoi corsi sul melodramma ricominceranno a settembre 2014. Ad agosto 2013 è uscito lo spartito di "Orfeo 9". Collabora per l'Opera con l'Enciclopedia Treccani online. C’è grande attesa per l’uscita del DVD di “Orfeo 9” prevista per il 18 Aprile 2015.

Numerose sono le regìe teatrali a cui lavora successivamente, oltre a " Then an Alley" • 1971 - Alceste, di Christoph Willibald Gluck. Ripresa dalla regia di Giorgio De Lullo • 1976 - "L'isola nella tempesta", di Mario Moretti, Tito Schipa Jr., Marco Piacente • 1976 - "Opera buffa", adattamento per ragazzi de "Il barbiere di Siviglia" di Gioachino Rossini. (Di Tonino Conte, ripresa dalla regia di Ruggero Rimini) • 1980 - "Er DomPasquale", di Tito Schipa Jr., Roberto Bonanni, Gianni Marchetti. • 1990 - "L'amico Fritz", di Pietro Mascagni • 2001 - "La traviata", di Giuseppe Verdi • 2006 - "Herr Rossini, Signor Wagner", di Tito Schipa Jr. • 2006 - "De profundis - Secretum Theophili" (Rendine), di Sergio Rendine • 2006 - "Il castello - L'onore dei Morra", di Nicola Samale • 2007 - "Salomè", di Richard Strauss. (Regista collaboratore di Giorgio Albertazzi) • 2007 - "Trittico '900" (William Walton, Francis Poulenc, Paolo Renosto). • 2007 - "Il Pastor di Corinto", di Alessandro Scarlatti • 2009 - "L'elisir d'amore", di Gaetano Donizetti • 2010 - "Il campanello", di Gaetano Donizetti ed altre.

Molti i libri pubblicati e partecipazioni in veste di ideatore, sceneggiatore e regista. "Premio Qualità e Merito per la Musica" nell’ambito del Premio Internazionale di Cultura, promosso dal Centro Culturale Europeo “A. Moro” di Lecce • 2011 - "Premio ProgressiVoice - Uomini e Miti" nell’ambito dell'Afrakà Festival di Napoli • 2012 - Riconoscimento alla carriera per la "Prima Rassegna della Storica e Nuova Canzone d'Autore" dedicata a De Andrè svoltasi a La Spezia • 2014 - Premio Speciale per i Diritti Umani 2014 in omaggio a Nelson Mandela nell'ambito del Premio Raffaello Sanzio 2014 promosso dall'Associazione Italia in Arte Curiosità.

Non in ultimo, nel 2008 "Orfeo 9" viene proiettato come film fuori concorso alla 65ª Mostra del Cinema di Venezia • Orfeo 9 è l'unico album italiano a non essere mai uscito di catalogo per 40 anni, grazie alle 11 edizioni totali dell'opera (12 se si considera anche l'emissione in formato digitale dell'iTunes Store) • Ogni ultimo venerdì del mese, alle ore 18.30, "Orfeo 9" viene proiettato all'Azzurro Scipioni di Roma per volere del suo gestore, il regista e autore Silvano Agosti, che lo ha inserito nella programmazione perenne del suo cinema.

 

Note: Articolo / Intervista ‘Tito Schipa Jr.’ apparso in Nuovo Sound 1973. Notizie relative raccolte sul WEB – Wikipedia e altri.

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- Poesia

59° Premio Letterario Internazionale Ceppo Pistoia 2015

ACCADEMIA PISTOIESE DEL CEPPO
Comune di Pistoia, presenta la Decima edizione del Tempo del Ceppo e il
59° Premio Letterario Internazionale Ceppo Pistoia 2015

Sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica,
il patrocinio di Regione Toscana, Provincia di Pistoia, Comune di Pistoia
Con il sostegno di Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia
Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia
Tesi Group, Pistoia e Fondazione Tesi Group
e delle maggiori istituzioni culturali e produttive di Pistoia e della Toscana.

Sabato 14 marzo alle ore 17:00 nella cornice della ‘Mostra di Giuseppe Spagnulo’, visibile alla Galleria Vannucci fino al 24 marzo, si è reso omaggio a questo apprezzato artista, intervistato per l’occasione da Iacuzzi e dallo scrittore e critico d'arte Ignazio Tarantino, improntato sul rapporto poesia-arte, paradigma fondante della sua opera, ed inoltre, hanno letto alcune poesie inedite sul rapporto tra arte e poesia con i tre poeti finalisti del ‘Premio Ceppo Giovani e Giuseppe Spagnulo’: Guido Mattia Gallerani, Franca Mancinelli e Bernardo Pacini, la cui ‘premiazione ufficiale’ avverrà il 21 Marzo.

Per la prima volta il Premio Internazionale Ceppo si è aperto con la presentazione di tre poeti, finalisti del 59° Premio Ceppo che in maniera diversa ha ripreso il ‘Premio Ceppo Giovani Proposte’ dedicato ad autori nuovi delle trascorse edizioni del Ceppo, dei quali fanno qui seguito, offerti dalla rivista letteraria l’Atelier , le anticipazioni delle loro prove poetiche:

Guido Mattia Gallerani è nato a Modena nel 1984. Ha pubblicato il saggio Roland Barthes e la tentazione del romanzo per Morellini Editore (Milano 2014). È il direttore della rivista "Atelier". Falsa partenza (Giuliano Ladolfi Editore 2014) è la sua prima raccolta di poesie. Scrive Andrea Gibellini nella quarta di coperta al libro: "E' una poesia quella di Guido Mattia Gallerani sempre in debito verso un qualcosa la cui esistenza reale rimane oscura, impenetrabile... Enigmatici quanto incantevoli sono il vortice di animali e boschi, di zone-paesaggi interiori, dislocati, quasi tagliati, verso il profondo come fossero il detrito di una identità sconosciuta".

(Inedito)

Le ciclabili della Tetra Pak
a S dietro i capannoni accanto
al campo pennellano di nero-giallo
la ruggine di laminato. Zizzània un'ape

sugli schermi solari dei parcheggi
vuoti delle fabbriche. Una cosa nuova
a Modena ma sarà perché è domenica,
piove ed è ferragosto. Come ogni giorno

hanno passerelle sospese sul plesso industriale,
non agitano la vegetazione della palude,
ma si sentono fruscii combattivi di una specie
che ronza dintorno, e intanto invecchia.

I manichini dalle zanzariere
ci squadrano in blu notturno poliziotto
mentre sul retro dell'outlet, fuori dal letto
di cartone si depone un amore supino
di bambino, coperto appena sul fianco
da un poco di polistirolo bianco.

Franca Mancinelli è nata a Fano nel 1981. Il suo primo libro libro di poesie è Mala Kruna (2007). Suoi testi sono usciti in diverse riviste e antologie. Collabora come critica a "Poesia" e con altre riviste e periodici letterari. Pasta madre (Aragno 2013) ha la postfazione di Milo De Angelis, che così la presenta: "C'è un filo elettrico che percorre i versi di Franca Mancinelli, uno stato d'allarme, qualcosa che ci costringe all'attenzione. Sono sati scritti alla finestra, in una zona di frontiera e di dogana. E sono stati scritti dopo un difficile cammino tra le parole, con pagine lasciate bianche e silenziose. Di tale cammino portano il peso, la ferita e la tensione, ma anche il sapere".

(inedito)

dal nostro letto la sera
sognavamo la città sfiorandola
con la nuca o la punta dei piedi
deserta nella luce che schiudeva
una porta, qualche finestra a dire
agli uomini di tornare
ad abitare leggeri.

Tra linee intatte, oltre la piazza
ci aspettano i colombi
ai davanzali i vasi non fioriti.
Il tuo palmo confuso con le pietre
non lasceremo ombra. Quanti luoghi
rimasti incustoditi. Saremo soli?
Verranno in tanti? Dormi.

Bernardo Pacini è nato a Firenze nel 1987, dove si occupa di filologia moderna ed è redattore editoriale. Cos'è il rosso (Edizioni della Meridiana 2013) è la sua opera prima, dopo la plaquette fuori commercio Miracolo di cemento. Scrive Fabrizio Sinisi nella bandella: "Le poesie di questo libro vivono di un'intensità mai diretta, sempre trasversale, da mano nel fianco, da battuta crucciata... Un discorso solido, asciutto, tendenzialmente antilirico, che va nella direzione dell'illuminazione, ma obliqua, in un certo senso toscana, che arriva di lato alla folgorazione e in qualche modo la rovescia in un'intuizione che, caduta in trappola, viene presa alla sprovvista".

(Inedito)

Di Spalle Al Corpo
per Angela Torriani Evangelisti

Le tue schiene ti murano
aprono e sfiorano l'ombra pietra

nel calmo roteando di stanza

* *
Ti sostiene uno strapiombo di giorni

hai tre corpi, uno piegato uno arrotolato
uno respirato dalla porta che si chiude

**
La sedia non conosce
il legno dorso del muoverti che
cospira un assedio faticoso

Su quale asse ruota la storia dei tendini?

**

Bussa allo sterno il mazzo di fiori
l'inchino ripiega l'ansia che hai
di stare spalle al corpo


Le due Giurie del Premio:
La Giuria Letteraria del Premio Internazionale Ceppo è composta da 9 membri: Paolo Fabrizio Iacuzzi (presidente), Alberto Bertoni, Martha Canfield, Milo De Angelis, Giuliano Livi, Ilaria Tagliaferri, Ignazio Tarantino, Fulvio Paloscia, Marco Vichi.
La Giuria dei Giovani Lettori è composta da 21 membri, di età fra i 15 e i 35 anni, con i rappresentanti delle scuole secondarie, degli sponsor e degli enti patrocinatori, delle istituzioni culturali della città.

Info e contatti:
Ignazio Tarantino, ufficio stampa dell'Accademia del Ceppo: 347 3277243
iltempodelceppo@gmail.com
info@atelierpoesia.it

LaRecherche.it, rivista letteraria che da anni dedica i suoi spazi alla ‘poesia contemporanea’ ringrazia Giuliano Landolfi Editore della rivista ‘Atelier’ per la sua disponibilità e la fattiva collaborazione.

*

- Cinema

’LA TEORIA DEL TUTTO’ un film di James Marsh

“The Theory of Everything” è un film di James Marsh, 2014;
con Eddie Redmayne, Felicity Jones, Charlie Cox, Emily Watson, Simon McBurney.

Il genere è ‘biografico’ realizzato in Gran Bretagna dalla Universal Pictures e da poco uscito in Italia, che racconta ‘cinematograficamente’ l’ascesa di un promettente laureando in Fisica, Stephen Hawking, appassionato di cosmologia, materia che egli stesso definisce “la religione per atei intelligenti”, oggi apprezzato dal mondo intero come lo scienziato ‘del tempo’, colui che ha fatto del Tempo la chiave segreta per spiegare l’Universo: “Quanto tempo ci mette a nascere una stella” – chiese George. “Dieci milioni di anni. Mi auguro che tu non abbia fretta – rispose Cosmo”. Questo breve colloquio, ripreso da un libro famoso di Hawking, rappresenta, in sintesi, il contenuto scientifico del film, mentre la sua chiave di lettura (umana) si sposta sulla forza dell’amore e le ‘possibili’ aperture che l’amore ‘spalancando l’universo’ s’appresta a far parte della ‘teoria del tutto’, quel ‘tutto’ (nel film infine lo riconosce), che è indubbiamente più vasto di quello da noi fin qui conosciuto. In particolare se il fisico persegue l’obiettivo scientifico di spiegare il mondo, arrivando a elaborare una formula matematica che dia un senso complessivo a tutte le forze dell’universo, (quella ‘teoria del tutto’ che da il titolo al film); l’uomo Hawking pur dicendosi ateo, non disconosce la forza scatenante dell’amore, la cui applicazione ‘genera’ sì tale forza che gli permette, non solo di durare nel tempo ma anche di cambiare il tempo.

Un Tempo che nel cambiamento si ‘sostituisce a se stesso’, l’osservazione del quale permette all’uomo di comprendere che l’andare ‘oltre’ per la sola strada della scienza lo porterà a disconoscere la realtà individuale del quotidiano, gli affetti personali, l’amore ch’egli riversa sulla famiglia, la moglie e i figli, ed anche tutto il resto che la sua malattia degenerativa (un disturbo neurologico che gli procurerà il graduale decadimento muscolare e lo confinerà su una sedia a rotelle) infine gli toglierà. Ecco quindi sorgere in lui una domanda ‘umana’ (non esplicita nel film) di ciò che “la teoria del tutto” contempla, finanche quell’amore verso l’altissimo che egli in principio non aveva considerato e che invece è all’origine del tutto: “poiché un inizio deve esserci stato” anche se non si è certi che ci sarà una fine.

In una sequenza del film Stephen Hawking presenziando a una conferenza pubblica, riflette sulla seguente domanda:
“Professor Hawking, lei ha detto di non credere in Dio... Ha una filosofia di vita che la aiuta? Stephen: È chiaro che noi siamo solo una razza evoluta di primati su un pianeta minore, che orbita intorno ad una stella di medie dimensioni nell'estrema periferia di una fra cento miliardi di galassie... Ma... Fin dall'alba della civiltà, l'uomo si è sempre sforzato di arrivare alla comprensione dell'ordine che regola il mondo. Dovrebbe esserci qualcosa di molto speciale nelle condizioni ai confini dell'universo. E cosa può essere più speciale dell'assenza di confini? Non dovrebbero esserci confini agli sforzi umani. Noi siamo tutti diversi, per quanto brutta possa sembrarci la vita, c'è sempre qualcosa che uno può fare e con successo. Perché finché c'è vita... c'è speranza!”

Una dicotomia interiore, se vogliamo leggerla così, che si rivela portante di una possibile altra chiave di lettura che da un lato lo vede credere solo alle verità dimostrabili dalla scienza e, dall’altro, riconoscere nel ‘sacrificio’ (in senso universale) della sua compagna, quel che solo la ‘fede’ in Dio, abbinata a quell’anelito di miracoloso e inspiegabile che c’è nella natura umana, fa trionfare contro ogni logica e ogni teoria. Al dunque lo scienziato lascia il posto all’umano e restituisce alla luminosissima moglie, la straordinaria Felicity Jones, la sua gioia di vivere, alla quale per stargli vicino, aveva rinunciato. Ma non si tratta di un distacco forzato (e nel film non risulta affatto più amaro di quanto possa sembrare), quanto dettato dal rispetto verso colei che ‘contro tutti e tutto’ gli è stata vicino come nessun altro nei momenti più difficili della sua esistenza. Un distacco che solo l’amore per l’altro riesce a colmare di senso, e solo quando si è consci della difficoltà che la malattia dell’uno e il sacrificio dell’altra, agiscono secondo uno stesso denominatore che è la ‘fede nell’amore’ universale, appunto “La teoria del tutto”.

“Il titolo è quello di un volumetto (Rizzoli, 2004) in cui Stephen Hawking, dopo aver delineato le fondamentali teorie cosmologiche da Aristotele a Einstein, avanza ipotesi su quella «teoria del tutto» in grado - unificando fisica quantistica, relatività e quant'altro - di spiegare l'origine dell'Universo. Il film di James Marsh si basa però su un altro libro, “Verso l'infinito” (Piemme), dove l'ex moglie Jane racconta le fasi di un matrimonio lentamente logorato dalla quotidiana tensione di contrastare gli effetti di un'implacabile malattia degenerativa”. (cfr. Alessandra Levantesi La Stampa)

“Le neuroscienze non hanno ancora provato che esista un collegamento tra genio e malattia, però al cinema piace pensarlo. Si presta ad assecondarlo la biografia di Stephen Hawking, lo scienziato conosciuto più che per le sue teorie sulla natura del tempo e i buchi neri, per la partecipazione alle serie The Big Bang Theory e I Simpson . Tratto dal libro autobiografico della moglie Jane, il film narra l'incontro tra lei e Stephen nella Cambridge del 1963. Dopo una brutta caduta al giovane viene diagnosticata la malattia del motoneurone SLA, che secondo i medici gli lascerebbe due anni di vita (ne ha 21)”. (di Roberto Nepoti La Repubblica)

Stephen William Hawking (Oxford, 8 gennaio 1942) è un fisico, matematico, cosmologo e astrofisico britannico, fra i più importanti e conosciuti del mondo, noto soprattutto per i suoi studi sui buchi neri e l'origine dell'universo. Tra le sue idee più importanti vi sono la radiazione di Hawking, la teoria cosmologica sull'inizio senza confini dell'universo (denominata stato di Hartle-Hawking), la termodinamica dei buchi neri e la partecipazione all'elaborazione di numerose teorie fisiche e astronomiche con altri scienziati, come il multiverso, la formazione ed evoluzione galattica e l'inflazione cosmica, tutte teorie da lui spiegate con chiarezza e semplicità anche in numerosi testi di divulgazione scientifica per il grande pubblico. Pur essendo condannato all'immobilità da una malattia del motoneurone, forse l'atrofia muscolare progressiva - in quanto ci sono discussioni sul fatto che sia affetto, come si è pensato per lungo tempo e come afferma lui stesso, dalla sclerosi laterale amiotrofica - ha occupato la cattedra lucasiana di matematica all'Università di Cambridge (la stessa che fu di Isaac Newton) per circa trent'anni, dal 1979 al 30 settembre 2009. Hawking è costretto dalla patologia a comunicare con un sintetizzatore vocale e la sua immagine pubblica, complice l'apparizione in molti documentari e trasmissioni televisive, è divenuta una delle icone popolari della scienza moderna, come già accaduto ad Albert Einstein. È membro della Royal Society, della Royal Society of Arts, della Pontificia Accademia delle Scienze. Nel 2009 ha ricevuto la Medaglia presidenziale della libertà, la più alta onorificenza degli Stati Uniti d'America, conferitagli dal presidente Obama. (cfr. Wikipedia)

“James Marsh, già regista premio Oscar per lo splendido documentario “Man on Wire” del 2008, sceglie una narrazione molto convenzionale per raccontare una storia eccezionale. Ciò che eleva La teoria del tutto al di sopra della mediocrità è la performance dei due attori protagonisti: la luminosa Felicity Jones, pugno di ferro in guanto di velluto, e Eddie Redmayne, straordinario sia nell'incarnare il declino fisico di Hawking che soprattutto nel canalizzare, principalmente attraverso lo sguardo, quella dolcezza consapevole e ironica che l'ha reso un'icona internazionale”. (cfr Mymovies)

Edward John David Redmayne, meglio noto come Eddie Redmayne, è un giovane attore e modello britannico. Nel 2015 ha vinto il premio BAFTA, il premio Golden Globe e il premio Oscar come miglior attore protagonista per il film “La teoria del tutto”. È già apparso in altri importanti film come “I pilastri della terra” 2010; “Les Misérables” 2012; “Jupiter il destino dell’Universo” 2015.

Felicity Rose Hadley Jones, nota come Felicity Jones, è un‘attrice britannica. Esordisce da giovane nella serie televisiva “Scuola di streghe” ma si fa notare grazie al suo ruolo da protagonista nella commedia drammatica “Like Crazy” e per il ruolo di protagonista in “The Invisible Woman” del 2013.

Un film indimenticabile capace di colpire nel più profondo dell'anima. Da non perdere.



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- Musica

’VANGELIS PAPATHANASSIOU’ L’uomo, la musica, la storia

VANGELIS PAPATHANASSIOU : L’UOMO, LA MUSICA, LO SPAZIO

Per meglio distinguere la figura di Vangelis nel panorama musicale sempre più affollato e spesso distratto dell’elettronica-pop bisognerebbe aver letto il ‘reportage’ sulla musica contemporanea apparso recentemente in questa stessa rivista (vedi ‘Quaderni di Musicologia XIII: la musica contemporanea’), colui che ha spalancato ulteriormente le infinite possibilità applicative di questa tecnica strumentale che ha dato vita a un vero e proprio genere musicale: la ‘musica spaziale’. Ma prima di tentare una qualsivoglia definizione della sua musica, si rende necessario non tanto conoscere l’individuo in quanto ricercatore attento e dalle infinite capacità intuitive, quanto rendersi consapevoli della sua concezione musicale. Tutto nasce al Nemo Studio che Vangelis realizzò a Londra sul finire degli anni ’70 e che confidenzialmente ha chiamato “il mio laboratorio”, perché al dunque di questo si trattava, di un vero e proprio laboratorio alchemico di ‘programmazione musicale’. Come egli stesso ha detto: “È lì che tento di costruire la musica del nostro tempo, riprodurre suoni, toni, modalità, successioni, certi effetti spaziali e temporali. Quello che più mi interessa è il rapporto che corre fra l’uomo e la musica, o meglio gli speciali effetti psichici e psicologici che la musica riflette sul comportamento umano”.
È comprensibile quindi come un così capace musicista, arrangiatore, compositore e co-autore di canzoni che ha nel suo DNA certe ambizioni di ricerca finisca poi con lo sfociare nella dimensione filosofica e psicologica del creativo, quanto meno dell’artista impegnato a dare un seguito alla sua concezione musicale ‘altra’ da quella in cui si era formato. Cioè da quando con il gruppo greco degli Aphrodite’s Child formato nel 1968 con Demis Roussos, Loukas Sideras e Anargyros Koulouris, scalava le vette delle classifiche canzonettistiche con una miscela di rock e atmosfere folkloristiche greco -mediterranee, condita da arie progressive in un sostrato di musica classica. Agli inizi del 1970 Vangelis s’affaccia sulla scena da solista. Risale infatti al 1971 l’uscita di “Hypothesis” suo primo album, frutto di ricerca, dal titolo fortemente ipotizzante di quello che sarà il suo futuro ambito di ricerca. Seguono nel 1973/75 due colonne sonore per i documentari del francese Frederic Rossif: “L’apocalipse dex animaux” e “La fête sauvage” strepitose per innovazione compositiva che lo impongono fin da subito all’attenzione internazionale.
Tuttavia saranno le musiche composte per il sequel televisivo “Cosmos” a spalancare per lui le porte della sua definitiva entrata nella programmazione elettronica della musica, e di dare sfogo, se così si può dire, alla sua capacità espressiva senza impedimenti di sorta, rendendo la sua musica riconoscibile alla prima sequenza di note. Con “Heaven and hell” del 19… di eccellente fattura compositiva, in cui sono raccolte le musiche utilizzate nel sequel televisivo, Vangelis spazza via ogni riserva sulla natura della sua musica e ci mette di fronte all’opera compiuta. Da questo momento in poi le sue performance avanzate ed estreme riempiono il panorama musicale mondiale, presentandosi al grande pubblico nella duplice veste di ‘mago’ alchemico -elettronico capace di mettere in movimento l’orecchio (e la fantasia) dell’ascoltatore con assonanze nuove, uniche e originali, il cui effetto primario è quello di far scaturire gli effetti più inusitati: atmosfere e situazioni, location ambientali e straordinari ‘spazi’ cosmici. La fusione dei generi e l’uso di filtri sonori permette a Vangelis di approntare una sorta di rinnovamento anche nella musica tradizionale ch’egli a un certo punto sembra riscoprire ravvisando in essa il messaggio ancestrale degli avi: “Per me la musica non è solo intrattenimento, piecere estetico ed edonistico, ma qualcosa di più. È una forma di vita a se stante, vecchia milioni di anni, quanto l’uomo … quando l’uomo …”
Nascono da questa affermazione i bellissimi brani: “Heart” dall’album omonimo del 1973, “Dervish D” ispirata alle danze dei Dervisci di Turchia il cui mistico ‘ruotare’ trova la sua realizzazione nella spirale cosmica dell’universo; la lirica “To the Unknown Man” un inno levato al mondo sconosciuto dell’uomo; entrambe incluse nel successivo album “Spiral” del 1977 e colonna sonora del film di Francois Reichenbach in cui Vangelis propone inoltre un’antica melodia greca per bouzuki; nonché l’esperienza di “China” del 1979 in cui il compositore si avvale delle sonorità orientali e che gli permette di spingere la ricerca nei meandri inconsueti del TAO. SI rende qui necessario fare un passo indietro a prima di quest’ultime esperienze, e ritrovare il Vangelis degli anni ‘70/’80 , quello dal punto di vista commerciale più proficuo: “Albedo o.39” del 1976, e “Beaubourg” del 1978 che subito s’imposero all’attenzione degli organizzatori mediatici che li utilizzarono nelle sigle di alcuni importanti programmi radiofonici e televisivi. Successivamente 1980/82 Vangelis sembra passare un momento riflessivo di transizione che però non preclude la sua produzione come solista. Mi riferisco agli album realizzati con John Anderson ex leader degli Yes col quale avvierà una lunga collaborazione, ne cito qui almeno due “Short Stories” e “See your later” in cui Vangelis si ripropone in veste di arrangiatore co-autore delle canzoni in essi contenute.
Nel 1982 esce al cinema, in forma sommessa, “Chariot of fire” una pellicola dell’inglese Hugh Hudson in cui si narra di un evento sportivo riferito alle Olimpiadi pre/post War (non ricordo bene), del quale Vangelis firma la colonna sonora nei titoli di coda e che fin da subito si rivela più che un semplice commento sonoro alle immagini. Infatti sarà successivamente insignito del premio Oscar per la migliore ‘colonna sonora’ di quello stesso anno. Nell’economia del film infatti la musica di Vangelis si riappropria del ruolo preponderante che la ‘colonna sonora’, in altre pellicole del periodo, sembrava aver perduto, con lo scandire il ritmo percettivo del discorso fotografico che David Watlin e Dewi Humpries, rispettivamente direttore e operatore della fotografia, avevano magistralmente condotto; quasi a sottolineare i momenti di progressiva emozione, di vivificante bellezza visiva con quella sonoro-uditiva delle immagini. Siamo all’apoteosi della ‘colonna sonora’ in cui il connubio con la musica raggiunge l’apice dell’eleganza estetica in musica. Raggiungimento estetico-sonoro che si ripeterà con “Missing” del 1982 un film di Costa Gravas e con “Blade Runner” del 1994 di Steven Spilberg in cui la musica di Vangelis sottolinea maggiormente l’ambientazione ‘minimalista’ piuttosto che il soggetto. Qui il ruolo della musica diviene quello più specifico di ‘sostegno’ all’impatto traumatizzante delle immagini che scorrono ora veloci ora stupendamente lente, pur sempre con geniale efficace. A seguire la splendida “Antartica” 1983; “The Bounty” del 1984 e la successiva “Conquest of Paradise” del 1992, “Alexander” del 20004, intervallate da musiche per spettacoli teatrali: “Elektra” (Grecia) 1983, “Medea” (Spagna) 1992, “Las Troyanas” (Spagna) 2001, “A Vihar” (lit. The Tempest) (Ungheria) 2002, “Antigone” (Italia) 2005. Musiche per balletto: “R.B. Sque” (Regno Unito) 1983, “Frankenstein” - Modern Prometheus (Regno Unito, Paesi Bassi) e “The Beauty and the Beast” (Regno Unito) 1985-1986. Risale al 2001 lo splendido “Mythodea”: Music for the NASA Mission: 2001 Mars Odyssey (Sony Music) lo spettacolo per immagini oggi anche in DVD.
Considerato il più originale costruttore di ‘cattedrali musicali’ per colonne sonore, mostre, avvenimenti sportivi, eventi di rappresentanza ecc. Evangelos Odysseas Papathanassiou, compositore impegnato nella ricerca strumentale capace di creare, attraverso l'uso funzionale delle tastiere, atmosfere grandiose di matrice sinfonico-orchestrale; compositore inoltre di musica elettronica e new age, noto con il nome d'arte di Vangelis, ha offerto la propria collaborazione a numerosi gruppi rock strumentale e cantanti contemporanei come Irene Papas di cui vanno qui ricordati almeno due interessantissimi album: “Odes” del 1979 e “Raphsodies” del 1986 contenente antichi ‘canti greci’ di una bellezza stravolgente. I Krisma (Chrisma) “Amore” del 1976, “Chinese Restaurant” del 1977, “Hibernation” del 1979. Inoltre con la magistrale interprete di canzoni italiane e non Milva, per la quale Vangelis ha riadattato il famoso brano "To the unknown man", divenuto in italiano, "Dicono di me", in francese "Moi je n'ai pas peur" e in tedesco "Ich hab'keine Angst" e che è oggi uno dei pezzi più significativi del repertorio della cantante, ma anche un grande successo discografico. Vangelis ha scritto per Milva molti brani originali e spesso inclini ad una immersione visionaria, ipnotica e sofisticata nello sperimentalismo elettronico e polifonico. “L'ultima Carmen”, su testo di Massimo Gallerani e la citazione inter-testuale di Bizet, è un ottimo esempio di questa sensibilità espressiva aperta al confronto culturale e alla compenetrazione dei modelli. Costante nell'opera di Vangelis, rimane infatti, la capacità di fondere elementi molto distanti tra loro, in una realtà sonora e ritmica che viene costruita e ‘re-inventata’, in un insieme di blocchi elettronici e sintetici.
L’uomo, Vangelis non ama fare sfoggio di sé e raramente si concede di apparire in pubblico, non si lascia fotografare e non appare neppure sulle copertine dei suopi numerosi dischi. Le rare volte che è salito sul palcoscenico risalgono ormai agli anni ’80. Era infatti il 17 Luglio del 1989 quando prese parte al concerto ‘live’ alle Terme di Caracalla a Roma dove finì per suonare ‘O sole mio’ e in parte fu addirittura deludente. Suo malgrado egli è ancora oggi, uno dei più accreditati compositori di colonne sonore, soprattutto nella solennità imponente degli arrangiamenti, molto ricercato dai registi che gli fanno la corte pur di accaparrarselo. In Vangelis, il richiamo accattivante e spesso minimalista alla classicità o alla spiritualità di sapore vagamente "New Age", definisce un aspetto decisivo di quella ricerca strumentale e sonora a cui il compositore ha sempre guardato con estremo interesse. Forse l’unico fra quelli per così dire cui si può accreditare una certa autenticità e rigore professionale, un probabile (allora lo era) profeta della musica del domani.

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- Musica

’ANGELO BRANDUARDI’ La giostra delle meraviglie.

ANGELO BRANDUARDI : LA GIOSTRA DELLE MERAVIGLIE

“IO sono il trovatore e sempre vado per terre e paesi, ora che giunto sono a questo lido, lasciate che prima di rimettermi sulla strada … IO canti!”

“E passano giorni e stagioni …”

Correre dietro ai sogni manifesta da sempre una sensazione che spesso investe chi da bambino sale sopra una giostra: cavallucci di cartapesta che salgono e scendono, carrozze reali, navicelle, cannoni, trenini, auto che dondolano e che si rincorrono pur rimanendo immobili nel vorticoso girare della giostra. Il meraviglioso è la, in quel suo girare e girare continuo in cima alla fantasia correndo davanti al tempo; legato a quell’andare in tondo nel turbinio di luci e di colori che incantano, spinti verso un domani effimero che non conosce futuro. Più vicino al rincorrere quei sogni impossibili che di fatto appartengono già al passato e che avremmo voluto far nostri o, magari, che abbiamo già fatto nostri e che ci accompagnano nel quotidiano, intrinseci dell’illusione di cui spesso rivestiamo la nostra vita …
Ed ecco che la giostra si trasforma in festa, quella stessa che da adulti abbiamo creduta smarrita o della quale non avevamo più memoria, proprio mentre all’improvviso ci accorgiamo che invece occupava un suo posto preciso, quasi senza aver subito alcuna trasformazione: qui il viale del parco risuona delle voci dei saltimbanchi, dei bambini che gridano di gioia verso il venditore di palloncini, il cane che abbaia forte senza un perché, mentre un organetto meccanico intona motivi dimenticati e sempre nuovi che rallegrano e scaldano il cuore dei vecchi che si crogiolano al sole. Quanto tempo è passato e deve ancora passare nel mondo fantastico che ci gira intorno col girare della giostra? Dov’è finita la nostra felicità di un tempo che avevamo tanto agognata …
È qui con noi che adesso la osserviamo con distacco, allontanandoci da essa senza rendercene conto? Oppure è con coloro che non scendendo mai dalla giostra continuano a girare … e che nel girare afferrano l’impossibile d’una felicità che solo la gioia rende plausibile? Chi mai potrà darci una risposta se non il poeta cui è data facoltà di scavalcare il tempo senza condizione alcuna; al menestrello che induce alle porte della fantasia con una nota di lieto; al bardo narrante che spalanca per noi le finestre sul mondo che non conosciamo? Quand’ecco che le parole, tradotte in forma di fiabe, canzoni, melodie, passi di danza, prescindono dalla realtà e predicono il vero; danno forma a ciò che forma non ha, nelle immagini che riempiono i nostri sogni cui non sapevamo di rincorrere da sempre, nel giro armonico delle stanze, prigionieri della nostra stessa vita …

“E passano giorni e stagioni /
nel parco la gente cammina …”

Siamo dunque pur sempre noi, camminanti senza frontiere, di passaggio sopra questa terra, cui è dato di raccogliere sogni, immagini, illusioni; di vivere passioni e dolori ma anche, e soprattutto, di poter amare. Ed ecco ‘la gente cammina’, per dire che si mette in moto da un luogo a un altro, come la musica si estende da una nota all’altra e fa muovere i piedi in una sequenza di passi nella danza. Come i sogni chiamano altri sogni che per diverse ragioni non sempre soddisfano in pieno l’esigenza di chi una volta uscito dall’atmosfera illusoria e onirica, vorrebbe estendere quella finzione nella realtà propria del quotidiano. Ma al dunque anche la giostra trova una qualche sospensione tra un giro e l’altro allo scadere puntuale della sua corsa. E noi restiamo attoniti, sorpresi di non aver più spiccioli per farla andare. È quello il momento in cui ci accorgiamo di essere cresciuti, siamo diventati adulti, dobbiamo scendere e non sempre c’è una ragione, un perché ‘dobbiamo’ a tutti i costi interrompere il nostro sogno, la nostra illusione …
La ‘giostra delle meraviglie’ qui presa a soggetto è quella ideologicamente re-inventata da Angelo Branduardi e Luisa Zappa (sua compagna di viaggio), contenuta nell’album “Cercando l’oro” insieme ai tanti altri tutti felicissimi per i contenuti poetici e per l’orchestrazione e gli arrangiamenti. E intanto che gli anni passano eccoci giunti in
quegli ’80 impreziositi dal fermento in musica di tanti artisti eclettici che con le loro ballate e canzoni dalla patina ‘tradizionale’, scritte appena ieri, portano una ventata di freschezza nella nostra musica popolare, rallegrando il nostro tempo. È così che tornati a riappropriarci del passato, di quel tempo che credevamo andato è che invece è stato sempre con noi, superando ogni età, ogni disillusione, ogni esperienza, accompagnandoci in silenzio come l’ombra non si stacca mai definitivamente dal corpo se non per effetto delle tenebre, e che si ravviva allo spuntare della luce ogni giorno, per un’altra infinitesima esperienza da vivere che ci regalerà nuove e inusitate immagini del presente, che il passare del tempo non potrà cancellare...
La creatività poliedrica di Angelo Branduardi, chitarre, violino, armonica, pianoforte, dulcimer ecc., che nel rigore del musicista colto affina la sua spontanea gradevole sonorità, passa attraverso la tradizione strumentale trovadorica medievale di cui lascia intravedere le fonti originali; che sia una melodia celtica, una ballata irlandese o una marcia normanna, come pure una tarantella laziale, oppure un ritmo ‘a ballo’ isolano, ogni suo arrangiamento è riletto e filtrato attraverso accordi di sua creazione che nascono spontanei dall’incontro delle diverse culture musicali prese in considerazione. Quanto avviene anche nelle sue canzoni, sia che racconti una storia d’amore o una fiaba; che ri-fraseggi una filastrocca o una ninna-nanna, il risultato non cambia, Branduardi dimostra una tale capacità innovativa da dare l’esatta sensazione di trovarci di fronte a un essere ‘poeta’ prima ancora che a un semplice musicista; sebbene ‘poeta’ sia attribuibile anche a colui che ha scelto la musica come linguaggio espressivo.

“E passano giorni e stagioni /
nel parco la gente cammina /
la banda continua a suonare …”

Questa sua veste di poeta/trovatore emerge principalmente dall’ascolto delle sue molte canzoni di successo di cui ‘La giostra’ fa parte. Altri titoli più o meno noti sono “Alla Fiera dell’Est”, “La pulce d’acqua”, “Cogli la prima mela”, “Il Signore di Baux”, “Il dono del cervo”, “Ballo in do diesis minore”, “Il rovo e la rosa” dall’album omonimo; nonché la dolcissima “Piccola canzone dei contrari”, “L’apprendista stregone”, e la strepitosa ballata “Vanità di vanità” dalla colonna sonora di “State buoni se potete” del 1983 un film di Luigi Magni in cui si racconta una delicata storia d’amore intrisa di misticismo dedicata alla figura di San Filippo Neri. Numerosi sono i brani strumentali come, ad esempio, il “Tema di Leonetta” e “Capitan Gesù” messi a punto da Branduardi e che s’intervallano con le canzoni-gioco create da Luisa Zappa per l’occasione, come la bellissima “State buoni se potete” che da il titolo anche all’album. Canzoni-gioco che nel film vedono un gruppo di bambini che vengono educati alla musica e al canto da un poeta-menestrello medievale ‘Spiridione’ un personaggio di fantasia magistralmente interpretato dallo stesso Branduardi.
Di Branduardi musicista e trovatore è stato detto tutto o quasi, sappiamo della sua preparazione di fine esecutore e creatore di raffinate partiture; abbiamo apprezzato le sue ballate, ascoltate le sue favole, cantate le sue canzoni senza tempo. Sia quelle scritte di sua mano che quelle scritte dalla felice penna di Luisa Zappa-Branduardi davvero fine poetessa anche lei che si distingue per la sua produzione di canzoni/ballate adatte per i bambini che, nel loro giocare-cantando danno seguito al musicale divertimento di quanti dichiarano di avere un’anima sensibile educata alla poesia. Di lei ‘poetessa’ va apprezzato il filo musicale intriso di liricità che fa da tema conduttore ad ogni sua composizione conchiusa fra arte e finzione onirica. Un connubio Branduardi - Zappa, se vogliamo, che affilando la dimensione artistica su quella fantastica d’insieme, ha prodotto una ‘isola’ musicale assoluta nell’area musicale italiana ed europea. Né va trascurato il perfezionamento tecnico e stilistico di alcuni album quali: “Gulliver, la luna e altri disegni” del 1980 (riadattamento dell’album “La luna” del 1975; l’uso di strumenti tipici di alcune aree geografiche come in “Momo” del 1986 utilizzati nelle musiche composte per l'omonimo film di Johannes Schaaf; come anche il raffinato fraseggio musicale dei suoi arrangiamenti in “Cercando l’oro” col bellissimo inserimento strumentale della ‘pipe’ eseguito da Alan Stivell.
Trovo straordinario inoltre “Branduardi canta Yeats” sempre del 1986 in cui egli torna alla poesia mettendo in musica dieci poesie di William Butler Yeats tradotte e adattate da Luisa Zappa, eccetto “La canzone di Aengus il vagabondo” che è di Donovan. Almeno altri due album sono qui da considerare per l’apporto dato al cinema e alla diffusione di un certo misticismo tradotto in musica: “Secondo Ponzio Pilato” del 1988 con le musiche composte per l'omonimo film di Luigi Magni; e “L'infinitamente piccolo” in cui Branduardi mette in musica la vita di san Francesco d'Assisi. Tutti i testi sono curati da Luisa Zappa e sono basati sulle fonti francescane. La bellezza intimistica è qui rivelata nel brano d’apertura “Il cantico delle creature”. Nei brani successivi molti sono quelli in cui Angelo Branduardi affianca altri interpreti in duetti e cori con un certo effetto polifonico: “Il sultano di Babilonia e la prostituta” cantata con Franco Battiato; “Audite poverelle” con Nuova Compagnia di Canto Popolare; “Nelle paludi di Venezia Francesco si fermò per pregare e tutto tacque” con Madredeus; “La morte di Francesco” con I Muvrini; e il bellissimo “Salmo” per orchestra diretta da Ennio Morricone.

“E passano giorni e stagioni /
nel parco la gente cammina /
la banda continua a suonare /
là in fondo gira la giostra.”




Libri
• Alla fiera dell'est, Roma, Gallucci, 2002.
• L'uovo o la gallina, con Giorgio Faletti, Roma, Gallucci, 2005.
• La pulce d'acqua, con Luisa Zappa Branduardi, Roma, Gallucci, 2007.
• Il cantico delle creature, di Francesco d'Assisi, interpretato da Angelo e Luisa Zappa Branduardi, Roma, Gallucci, 2009.
Teatro
• 1990 - Il viaggio incantato (fiaba musicale a cura di Furio Bordon)
• 2001 - La Lauda di Francesco
• 2002 - Il carnevale degli animali
• 2006, 2007 e 2008 - Pierino e il lupo
Collaborazioni
Celeberrima la sua partecipazione, nel 1977, al disco di Roberto Vecchioni “Samarcanda”, in cui suona il violino in parecchi brani.
Branduardi ha collaborato ad una canzone di Caparezza intitolata !La fitta sassaiola dell'ingiuria”. La base musicale è campionata dallo stesso artista di Molfetta.
Nel 2009 ha suonato il violino nell'ultimo disco di Claudio Baglioni “Q.P.G.A.”, nella canzone ‘Io ti prendo come mia sposa’, mentre nel 2010 impreziosisce la canzone “I dreamed a dream” di Alexia.
Nel 2011 singolo in versione digitale del brano “Rataplan”, in collaborazione con Giorgio Faletti come paroliere.




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- Poesia

‘LA POESIA DEL ’900: dalla fuga alla ricerca della realtà.

‘La poesia del Novecento:dalla fuga alla ricerca della realtà’- Giuliano Ladolfi 2015

L’evento del mese di febbraio 2015 è rappresentato dalla pubblicazione nella nota collana ‘Smeraldo’ dedicata a ‘La poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà’ per la Giuliano Ladolfi Editore, una realtà imprenditoriale questa al servizio della poesia, non solo italiana, che guarda alla tutela del patrimonio socio-culturale con particolare attenzione, principalmente – come egli stesso afferma – “..di fronte all’attuale emarginazione della poesia contemporanea dal mondo della scuola, delle università, della distribuzione e del circuito massmediatico, nel tentativo di restituire dignità a quest’arte che per quattro millenni è stata strumento di civiltà e cibo di umanità”.
L’opera di Giuliano Ladolfi si presenta come il primo tentativo, dopo più di vent’anni di studio, di raggruppare in un’opera organica i numerosi ‘saggi’ pubblicati sulla rivista «Atelier – pubblicazione trimestrale di letteratura, poesia e critica» e dedicati alla Poesia Italiana dal Novecento ai nostri giorni, suddivisa in 5 volumi ordinati per categorie nell’intento di conferire al lettore linee di comprensione di un fenomeno sfuggente a causa della difficoltà ad essere inquadrato in categorie. L’autore infatti, avverte la necessità che la sua interpretazione venga supportata da due elementi fondanti: “..una personale concezione estetica e una visione che dallo sviluppo della civiltà trovi linfa e motivazioni”.
Allo stesso modo in cui si contraddistingue tutta la sua produzione editoriale, letteraria e poetica, riconosciuta e apprezzata a livello nazionale e internazionale, che fin qui l’ha spinto, pur nella consapevolezza delle difficoltà e dei problemi che una simile operazione comporta, corroborato, però, “..da diciassette anni di lavoro svolto sui testi di poeti e scrittori contemporanei, da proposte di carattere etico ed estetico, come pure da una militanza in grado di attivare energie giovanili e di coinvolgerle in un progetto di rinnovamento della poesia, della narrativa e della critica italiana”.
La casa editrice, al volgere del secondo anno di vita, presenta la bellezza di circa 120 titoli ed ha ricevuto il plauso di testate giornalistiche come l’inserto domenicale del «Sole-24Ore», del «Giornale», di «Avvenire», della «Nazione», senza contare molteplici e ripetute attestazioni di stima giunte dalle testate locali di diverse parti d’Italia. L’invito a presentare i nostri libri, poi, ci ha visti protagonisti a Reggio Calabria, due volte al Salone del Libro di Torino, a Firenze, a Novi Ligure, a Roma, a Milano, a New York, per questo limitandoci solamente alle presentazioni ufficiali.
“Per noi non è importante il nome, ma il testo”, non è soltanto uno slogan ma è proprio basandoci sulla validità del testo che ci proponiamo di valorizzare chiunque sappia proporre opere di pregio per realizzare collane di poesia e di narrativa destinate a fondare un canone nella letteratura italiana, come pure una collana di critica destinata a rompere schemi e pregiudizi. Ma veniamo alla più recente pubblicazione annunciata e perché rappresenta di per sé un ‘evento’ da ufficializzare e divulgare. Acciò apprendiamo dalla scheda di presentazione le ragioni e gli scopi raggiunti dall’autore dell’intera opera così come egli l’ha concepita e organizzata:
“Nel primo tomo, dopo l’esplicitazione di strumenti e metodi, viene tracciato il quadro della scrittura in versi nell’arco di tempo preso in considerazione, che costituisce l’ossatura dei lavori seguenti: la crisi della cultura occidentale, giunta a consapevolezza nel decadentismo, provoca il divorzio tra parola e realtà. Lo studioso ne analizza le conseguenze sulla poesia e, dopo aver chiarito le proprie concezioni estetiche, traccia il quadro del lavoro che sarà svolto nei seguenti tomi, partendo dall’ipotesi che il decadentismo, interpretato in senso lato come momento storico-culturale e non solo come fenomeno artistico - letterario, continui nel novecento nella linea avanguardistico-sperimentale passando attraverso l’ermetismo. In parallelo è rintracciabile una linea che accorda ancora fiducia nella parola senza riuscire a ricucirne il baratro con il mondo. L’impresa è delegata ad alcuni “maestri” che scavano la strada agli autori contemporanei, i quali continuano il faticoso lavoro di annunciare l’uscita dalla crisi”.
“Il secondo tomo è dedicato agli autori compresi sotto la denominazione secondo decadentismo o ‘novecento’. Mentre il primo decadentismo permetteva la fuga dalla realtà in un rifugio alla ricerca di un ‘minimo di vivibilità’, il secondo si rassegna di fronte alla costatazione che la crisi della cultura occidentale sta distruggendo ogni possibilità di trovare un senso all’esistenza e di conseguenza di comprendere il reale, per cui all’artista non resta che rappresentare «..ciò che non siamo e ciò che non vogliamo» (E. Montale) o giocare con le parole, con le forme e con i colori. La sensazione di instabilità e di insicurezza, che troviamo nella maggior parte degli autori di questo periodo, trova la spiegazione nel pensiero filosofico dell’esistenzialismo, secondo cui l’individuo si sente gettato in un mondo che gli è estraneo, di cui non conosce le ragioni, i fini, i meccanismi e di fronte al quale egli soffre di essere alienato. Tutte le scelte da lui compiute si risolvono in uno scacco, in un insuccesso che comporta un senso di angoscia, di nausea e di disperazione. la parola non riesce più a ‘dire’ il mondo e fugge o nell’iperuranio, come avviene nell’ermetismo, o nell’autonomia del significante, come nelle avanguardie. Pur nell’irriducibilità del singolo poeta ad ogni generalizzazione, il quadro che va da Govoni a Zanzotto si presenta chiaro e coerente”.
“ I poeti, che non accettano tale separazione e che tentano di colmarne il baratro, rientrano, pur nella diversità di percorsi, sotto la denominazione di ‘antinovecento’ formano il contenuto del ‘tomo III’. Di fronte al divorzio tra parola e realtà, causato dalla crisi della cultura occidentale e giunto a consapevolezza nel decadentismo, si pone la linea denominata ‘antinovecento’, categoria all’interno della quale sono compresi poetiche e scrittori assai diversi che hanno cercato di superarne il distacco oppure di ripristinare, sia pure in maniera personale, la fiducia in una parola capace di ‘dire’ il mondo. Giuliano Ladolfi non teme, come nel caso di Saba e di Pavese, di scardinare ‘luoghi comuni’ che passati di manuale in manuale hanno condizionato l’intera critica letteraria. Secondo un’originale prospettiva vengono ‘rilette’ le opere di Rebora, Betocchi, Caproni, Scotellaro, Pasolini, Fortini, Penna e Bertolucci, cui si affiancano i poeti delle cosiddette ‘linea lombarda’ e ‘linea romana’. L’opera di saldare la parola con la realtà, tuttavia, non giunge a compimento perché ci si limita a lavorare sullo stile, ignorando che la crisi riguarda le basi della civiltà occidentale”.
“Il quarto tomo è dedicato a quattro ‘maestri’ i quali hanno rappresentato in profondità la crisi della cultura occidentale e ne hanno indicato gli esiti; coloro che hanno saputo traghettare la poesia italiana oltre il ‘novecento’ mediante una duplice opera di fondamento e di profezia. La condizione dell’uomo del XXsecolo trova in Vittorio Sereni la sua più evidente rappresentazione come ‘prigioniero’ del sistema politico, economico e culturale; Bartolo Cattafi, poeta a torto trascurato, dopo essere disceso nel punto più basso della civiltà occidentale, ne annuncia la rinascita. Non si può ignorare la produzione poetica di Pier Luigi Bacchini, al suo presagire della formazione di un nuova sintesi speculativa in grado di prospettare un’interpretazione del reale capace di superare le aporie dualistiche del pensiero greco e cristiano e di porre fine alla crisi della modernità. Ma chi ha compiuto il titanico gesto di saldare in profondità parola e realtà è stato Mario Luzi, il quale è riuscito in un’impresa, tentata invano da molti, quello di ‘restituire’ un senso all’esistenza, al mondo, alla storia, nel superamento del male e del dolore, la natura stessa, superando la frammentazione e la ‘liquidità’ (Z. Bauman) postmoderna”.
“Nell’ultimo tomo, quinto della serie, sono compresi gli autori della cosiddetta ‘postmodernità’ o ‘età globalizzata’ con tutti i problemi che ogni scelta comporta, ragione per cui Giuliano Ladolfi non ha inteso nel modo più assoluto tracciare un canone, ma esaminare un gruppo di autori, tra i quali molti giovani, come portatori di una particolare istanza all’interno del difficile tentativo della poesia italiana di riagganciare la parola alla realtà. Dopo aver esaminato il cammino di coloro la cui proposta si trova in fase di attuazione, lo studioso prende in considerazione i quali nel rifiuto della concezione autoreferenziale e ludica della poesia, nel rifiuto dello scetticismo, nella concezione della poesia come originale interpretazione del reale, nella consapevolezza della fine del ‘novecento’ e nel rapporto con i maestri della tradizione, stanno compiendo una vera e propria rivoluzione mediante una serie di raccolte di versi destinate a tramandare ai posteri il volto della nostra martoriata epoca. In esso infatti, sono inseriti gli studi su un gruppo di poeti che hanno pubblicato dagli anni ‘70 fino al 2014, i quali, nel superamento delle maniere avanguardiste e sperimentaliste, hanno cercato e stanno cercando nuovi approdi che inducono a sperare in una prossima fiorente stagione della poesia italiana”.



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- Cinema

’TIMBUKTU’ un flm di Abderrahmane Sissako

'TIMBUKTU' un flm di Abderrahmane Sissako

 

‘Quando la poesia è nelle mani di chi sa usarla e la distribuisce in forma di immagini’. Non vuole essere uno slogan ma il riconoscimento di un ‘dato di fatto’ che investe l’arte cinematografica e narrativa e finisce per essere musica e, come la musica, si propone come linguaggio. Di fatto questa stravolgente ‘opera’ potrebbe fare anche a meno di seguire una sceneggiatura o, permettetemi la digressione, uno straccio di ‘copione’ che spieghi ciò che nel film accade (come nella realtà). Basta osservare/immergersi nelle immagini, nella luce degli avvenimenti narrativi, nei colori di una natura che tutto fonde nell’oro puro del creato, per comprendere ciò che stiamo distruggendo.

La bellezza della poesia infine ci salverà?!

È quanto vorremmo sentirci dire ed è quello che questa pellicola sembra affermare pur nel dramma che in essa si consuma. Nella sequenza straordinaria nella gazzella impaurita che non avrebbe scampo se un ‘uomo’ armato fino ai denti a un certo punto non avesse un sussulto d’amore e la lasciasse andare. Nessuno ha mai giocato una partita di calcio senza un pallone da calciare, sì che risulta vera più che mai, la cui autenticità impressa nei volti dei ragazzi che la giocano è una pagina di pura illusione poetica. C’è amore in ciò che Abderrahmane Sissako, uno dei pochi registi dell'Africa nera ad aver raggiunto una reputazione internazionale, regala all’occhio dello spettatore che incredulo assiste alla visione di un mondo edenico che scorre lento davanti alla macchina da presa quasi fosse per il racconto del tempo.

Che forse l’amore ci salverà?

Salverà l’Africa, questo mondo primordiale che non si lascia conquistare dalla negletta affermazione umana che quasi offende il suolo che calpesta? Sì, afferma il regista del film, se altri, come lui sapranno cogliere la dimensione dell’amore per la vita come lui ha colto e con questo film ha distribuito con pienezza poetica. Ma c’è in esso qualcosa in più che ancora non ho detto e che meglio di me hanno già detto altri commentatori e critici cinematografici cui lascio la parola volentieri per aver assaporato attraverso le recensioni (almeno una in particolare) quanto detto precedentemente.

È il caso della recensione di Giancarlo Zappoli apparsa in Mymovies.it e che trascrivo pur senza autorizzazione, perché ciò che è universalmente concepito al dunque merita di essere divulgato: “La fonte di ispirazione di questo intenso quanto rigoroso film di uno dei Maestri del cinema africano è rintracciabile in un fatto di cronaca accaduto in una cittadina del nord del Mali. Una coppia è stata lapidata perché portatrice di una colpa inaccettabile agli occhi accecati degli integralisti islamici: i due non erano sposati. Sissako però non vuole essere il narratore di un fatto di cronaca accaduto in un Paese che non fa notizia e non origina mobilitazioni internazionali. Vuole raggiungere, riuscendoci, un obiettivo molto più elevato. Lo testimonia la stessa struttura del suo film che si sviluppa sul piano di una continua alternanza per almeno tre quarti della narrazione. Da un lato uomini che cercano a fatica nella lingua araba la loro radice mentre impongono norme che condizionano anche la più quotidiana delle attività avendo spesso di mira le donne e dall'altra la vita di una famiglia che conosce l'armonia e la fedeltà (quella vera e profonda) nelle relazioni parentali e al cospetto della divinità.

Allo stesso modo che ci fa percepire la distanza abissale tra questi mondi grazie anche a una fotografia di straordinaria bellezza e intensità che non si perde mai nell'estetismo autoreferenziale. Non è un film anti-islamico il suo (il discorso che l'imam locale fa al neofita jihadista ne costituisce la prova più evidente). È piuttosto un grido di allarme lanciato a un Occidente spesso distratto (salvo quando si presentino episodi mediaticamente rilevanti come il sequestro di giovani studentesse) e talaltra incline a pensare che in fondo l'integralismo sia una rivolta contro i secoli di colonialismo che si propaga dall'interno delle varie realtà nazionali. Nulla di tutto ciò risponde a verità ci dice il regista: siamo di fronte a un'oppressione che arriva da fuori e prende a pretesto una supposta fede per sottomettere intere popolazioni. Non resta allora alle nuove generazioni che fuggire come gazzelle dinanzi a belve assetate di sangue infedele oppure, come ci viene proposto in una sequenza al contempo di grande forza ed eleganza, di continuare a giocare una partita proibita. Anche se non c'è il pallone.”

Forse ci salverà il perdono!?

E' il grido 'primo e ultimo' - dice il regista - che riscatta infine la sua opera e il nostro operato di giudici (occidentali) da ciò che non siamo più capaci di comprendere e di attuare, quel 'perdono' pesante da contenere e difficile da attuare, insito in ognuno di noi e che va oltre il genere, la razza, il colore della pelle, e che non sappiamo come gestire ... o che forse non abbiamo mai saputo arginare al di là d'ogni nostra possibile dimensione di religiosa umanità.

 

Titolo originale del film « Le chagrin des oiseaux » ( il dispiacere ‘o anche pianto’ degli uccelli), diretto da Abderrahmane Sissako; con Ibrahim Ahmed, Toulou Kiki, Abel Jafri, Fatoumata Diawara, Hichem Yacoubi. Con le musiche di Amine Bouhafa. Lingue utilizzate nel film oltre all’arabo, il francese e il tamashek (Mali). Assolutamente da non perdere.

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- Musica

DANIELLE DI MAJO da ’Eccesso di Blu’ a ’Profondo Blues’

DANIELLE DI MAJO da 'Eccesso di Blu' a 'Profondo Blues' in Jazz.

Intervista rilasciata Lunedì 5 Gennaio 2015.

L’incontro avviene al 28DiVino Jazz a Roma, l’accogliente locale gestito da Marc Reynaud sicuramente il più accreditato dove poter ascoltare della buona musica e magari tirare tardi la sera fino al mattino; luogo prescelto da numerosi musicisti jazz spesso anche prestigiosi del panorama italiano e internazionale che ne hanno fatto il loro punto d’incontro, contenuto ma caloroso, nella capitale.
L’atmosfera prima dell’esibizione prevista per la serata del duo “MAZAG 2” che si annuncia 'foormidable' (per strare al passo coi tempi), è resa accogliente dai suoni che provengono dal caveau mentre ovattato al piano di strada si sente il vociare, cordiale e caloroso dei saluti e delle bevute che s’accompagnano alle fragranze dei golosi stuzzichini consumati per l’occasione.
I due ‘patron’ Marc e Natacha (Boss del 28DiVinoJazzClub) si danno un gran da fare affinché tutti ricevano l’accoglienza dovuta e fanno del loro meglio per intrattenere gli ospiti e gli amici che passano a salutarli, magari anche solo per una bevuta e scambiarsi notizie sulla scena jazzistica romana. Lo scambio di frasi sul Jazz è palpabile e vanno dalla particolarità del suono guidato dalla curiosità di esplorare nuovi territori; alla diversità di uno strumento suonato in un certo modo più che in un altro; che il piano-jazz si differenzia dal piano classico solo per il tocco più percussivo, che il sax …già il sax!
Il sax-soprano di Danielle irrompe di prepotenza dal caveau e sale fino a infrangere i timpani con la grinta di chi vuole strappargli il cuore, lasciando tutti sbalorditi per un momento davvero lungo, quanto può esserlo l’acuto di un a-solo. È questo il segnale che ‘MAZAG 2’ il duo formato da Danielle Di Majo sax e Gaia Possenti piano, da inizio all’attesa esibizione di questa sera. Il nome deriva da una parola araba quasi intraducibile che nel rispetto delle mille sfumature, non in ultimo sottintende il significato principale di ‘piacere’, presupponendo l’aggiunta di essere ampliato X2. Di fatto la formazione amplifica il sentire sofisticato del piano abbinato al sentire impulsivo del sax, entrambi partecipi di una mistura sonora talvolta inusitata e innovativa che supera definitivamente il limite del noto, nel rifiuto dell’essere ‘here and now’ per volgersi oltre l’essere ‘here and after’ che tutti ci aspettiamo dal Jazz innovativo e davvero ‘free’.
La nuova impostazione del duo formato dal ‘Sax’ contralto e soprano di Danielle e il ‘Piano’ jazz-range di Gaia si fondono perfettamente aprendo a un più ampio senso di scrittura, in cui ‘cercare, pensare, formare, divulgare’ riflette di ‘altre’ possibili assonanze di tipo “mono-dia-loghi" ritmiche che non esclude una ricerca timbrico-sonora stimolante e creativa. Tutto questo ovviamente non può che nascere dall’esperienza ‘live’ che il duo sta portando avanti con una serie di concerti in giro per la città e fuori, alfine, si fa per dire, di affilare gli strumenti del mestiere. Una sorta di ‘work in progress’ per poi arrivare a dare forma ad almeno una ‘collection’ di brani da portare in sala di registrazione che, a differenza di molti altri arrangiamenti, per il jazz significa un’ulteriore e nuova performance.
Molti sono infatti i progetti a tale scopo che Danielle Di Majo sta portando avanti come solista e in-formazione sia con Gaia Possenti con la quale trova un particolare ‘feeling’ musicale, affine cioè alla sua sensibilità artistica; sia con il gruppo formato da Marco Colonna (sax-baritono, clarinetto) e Claudio Martini (fagotto ‘sic!’, sax-tenore) a dar forma a una sessione di soli fiati che va sotto il nome di ‘The Saxophone Tree’ e che presto avremo il piacere di ascoltare su CD; sia con il suo 4th cui si aggiungono Fabio Sartori (piano) e Stefano Cupellini (drums) e che al momento rappresentano il passo migliore verso quella ‘estemporaneità’ che l’artista Danielle sta cercando.
Ciò non vuol dire che insieme a questi strumentisti di per sé già affermati in ambito jazz e non solo, non rappresenti per Danielle più che una divagazione, altresì quel ‘salto nel buio’ che nella vita prima o poi, tipico in ogni diversa attività, ci si sente di fare e che bisogna fare, non tanto per diversificarsi dagli altri, quanto per dare una svolta decisiva alla propria ricerca, a quella conoscenza di cui, chi più chi meno, siamo satolli. Ecco perché ho preteso dare un titolo a questa intervista/articolo che da “Eccedere di Blu” (2010), primo disco ufficiale dell'artista, cede il passo a una ‘accidentale’ quanto inusitata dimensione ‘Blues’ che possiamo definire ricercata quanto nuova.
Nuova rispetto a qualcosa di pre-organizzato che non è affatto così; prevedibile invece se si conosce l’iter della formazione artistica di Danielle che va dagli studi classici dedicati al piano e i diversi Laboratori di Musica, alla Master Class e alla sua permanenza nel Francesco Diodati Quintet; dai Premi e Borse di Studio racimolati negli anni alle molteplici esperienze maturate con gruppi anche numerosi come la Scuola Popolare di Musica di Testaccio; fino all’approdo alla Casa del Jazz e alle tante partecipazioni ‘extra’ e ‘extraordinarie’ che l’hanno vista partecipe anche come solista.
Il disco edito da Picanto Records offre ben 73:02 di musica ininterrotta composta ed eseguita da Danielle che un critico del settore ha definito: “immediatamente riconoscibile per la ricerca melodica, il suono raffinato del suo sassofono e la creatività compositiva”. Molti i brani presenti nell’album fra i quali sottolineo oltre a quello introduttivo “Cicada song”, indubbiamente l’Intro a “I quadri di Mirò”, “Blutango”, “Under construction” (davvero innovativo), “Intro/ e Strange Phase”, e ovviamente “Eccedere di Blue” che da il titolo all’album, ed inoltre quel “Mare infinito…di che?” di Piero Quarta del quale Danielle è stata allieva e collaboratrice.
Brani che talvolta Danielle ripropone come ‘bis’ nei suoi concerti dal vivo, ma che bisogna spronarla per poterli riascoltare ogni volta con una variazione sul tema. Del resto le notizie riferite al Jazz che la riguardano sono indubbiamente legate allo strumento che suona: “..quando si pensa al sassofono vengono in mente forme flessuose, suoni gutturali che nascono da dentro, si pensa a musicisti piegati su loro stessi e, subito dopo, lanciati verso l’alto come se lo strumento si inglobasse nel corpo di chi lo suona, per poi liberare la sua forza fino a rendere difficile capire cosa sia appendice di cosa."
Per Danielle "..l’amore per il sassofono è arrivato in età adulta, quando aveva già alle spalle numerosi anni di studio del pianoforte ed è stato grazie alla partecipazione a un laboratorio di ensemble, tenuto dal maestro Piero Quarta, che Danielle è entrata in contatto con un genere per lei ancora poco conosciuto che, nel mare magnum della musica contemporanea, è considerato di nicchia e per molti rimane un territorio inesplorato, il jazz.”
Personalmente, dopo aver ascoltato Danielle ‘dal vivo’, ho fin da subito pensato a una sua travolgente dimensione rock, soprattutto durante quei ‘contrasti notturni’ in cui ogni jazz–session, dopo aver scaldato a sufficienza gli attrezzi del mestiere e quando l’enfasi del singolo diventa tutt’uno con il proprio strumento, si lancia in un a-solo e come si suol dire ‘spacca’, rivelando l’anima arcana insita nel suono, ciò che in musica si chiama ‘cromatismo’, ‘tonalità’, ecc. e che invece riflette della ‘personalità’ dell’esecutore, della sua forza interiore e, se davvero ne ha, del suo carisma.
Ciò che mi fa dire di Danielle Di Majo che possiede un’anima rock che lei rimanda a un periodo pregresso, oggi da lei superato in funzione di nuove conoscenze ed esperienze mature pronte per il cambiamento. Quel cambiamento che ci auspichiamo la spinga sufficientemente verso quel ‘nuovo’ che desidera così ardentemente, e che noi tutti vorremmo che prima o poi accada, per dare così nova vitalità alla musica quale essa sia e quali siano gli strumenti attraverso i quali si produce e si realizza, purché sia ‘viva’. È sempre stato poco sensato dividere la musica per generi, sempre più complicato e inutile, ogni qual volta ci si prova a definirla sbuca da qualche parte qualcuno che ci ‘spiazza’, che ci sorprende, che ci impone di mettere in gioco le nostre certezze.
Ecco che allora ben venga ogni nuova ricerca improntata sull’estemporaneità creativa che richiede e si aspetta da parte di chi ascolta una percezione allargata imponendo un’esplorazione del suono, ipotizzando così una dialettica possibile tra teoria e prassi, tra cerebrale e corporale e ovviamente vicendevolmente riversa. Che ciò possa mai accadere è per ora una domanda che ci aspettiamo trovi una risposta che certamente la grande sensibilità e la maturità artistica di Danielle sapranno prima o poi regalarci. Nell'attesa non ci rimane che aspettare la data del suo prossimo concerto, prevista per 15 Febbraio 2015 (data da confermare) e l’uscita del nuovo album ormai vicina, per poterne apprezzare in pieno le sue qualità migliori.
Nel frattempo nel caveau del 28DiVino Jazz ci ha raggiunti l’amico Marco Falsini, sassofonista, che non ha voluto mancare all’esibizione del duo ‘MAZAG2’ con Danielle al sax, e Gaia Possenti al piano, nel momento in cui la musica si rifà al background classico di entrambe. Tale da indicare immediatamente quale debba essere l'obiettivo e il mezzo di questa piccola formazione nata e fondata sul piacere di suonare, di esprimersi attraverso musica fruibile, incentrata su brani originali delle due artiste. Il risultato è jazzisticamente emozionante, caratterizzato da una impronta davvero particolare: “un percorso poetico nella ricerca della purezza melodica” capace di coinvolgerci intensamente.
Intanto, approfittando di una pausa con Natasha che ci propina dell’ottima birra, Marco ed io argomentiamo sulla domanda: «..se il sax abbia o no ancora da dire qualcosa o se rimane comunque uno strumento per soli amatori?» «Non c’è una letteratura vasta per sax ne prima ne dopo il novecento, tolto qualche raro esempio legato a interessi sporadici per il resto è ancora tutta da scrivere». «E chi dovrebbe scriverla se non voi jazzisti, il sax non è forse lo strumento jazz per eccellenza?» «In effetti lo è ma è ancora troppo isolato, non lo si utilizza se non come mezzo esecutivo per incursioni e raramente per tematiche portanti. Danielle si da fin troppo da fare per farne uno strumento leader, è brava in questo, e capace anche, ma incontra troppe limitazioni in questo».
«Fammi un esempio, quali sono queste limitazioni?» «Le multinazionali discografiche operanti in Italia ad esempio, che ancora non riescono a imbastire una politica lungimirante nei confronti del jazz, che in genere vende anche abbastanza bene. Basterebbe si soffermassero sui risultati ottenuti dai gruppi editoriali che propongono dischi di realizzazione artigianale per cambiare i loro orientamenti di mercato.» «Eppure si organizzano molti ‘contest’, Festivals del Jazz che fungono da richiamo internazionale, o sbaglio?»
Danielle ci raggiunge durante una pausa con un tramezzino fra le mani: «Ma al dunque le case discografiche seguitano a disinteressarsi del jazz ad eccezione di rari casi, e sono soprattutto all’estero. Anche per quanto riguarda i Festival, si gira sempre attorno alle stesse cerchie, si invitano sempre gli stessi nomi più o meno conosciuti, con i giovani a maggior ragione accade lo stesso, sono semplicemente tenuti fuori.» «È questa la fine del Jazz?»
Risponde Danielle: «Nessuno di noi lo crede, le mode cambiano così come cambiano i soggetti, però si sente sempre più il bisogno di nuove iniziative.» Marco dal canto suo aggiunge che: «Di recente nel nostro paese, e dico paese, l’editoria indipendente sembra aver trovato un certo terreno fertile, almeno riguardo a certi artisti contemporanei.» «Che sia la volta buona per tutti voi, ve lo auguro e insieme a me ve lo augurano i nostri lettori.» In fondo lo scopo ultimo qual è, se non quello di rendere il jazz una musica a misura di pubblico. Quello stesso per cui Danielle Di Majo spende tutto il suo tempo, per regalarci ogni volta nuove autentiche emozioni.

Discografia Danielle Di Majo:
“Crhomatism” - Philology 2004 , con Michel Zanoboli (piano), Marco Piccirillo (contrabbasso), ed Ermanno Baron alla batteria.
"Eccedere di blu" - Picanto Records 2010, realizzato con Antonello Sorrentino (tromba), Francesco Diodati (chitarra), Riccardo Gola (duble bass) ed Ermanno Baron (drums), Giancarlo Maurino (guest sax).

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- Musica

’Il Jazz è Donna’ al 28DiVino Jazz Club

Il 28 Divino Jazz Club è lieto di presentare la terza edizione della rassegna "Pinky High Jazz" 2015 dedicata alle jazziste leader esteso a tutto il mese di Marzo che quest'anno gode del patrocinio dell' Assessorato Cultura e Turismo di Roma Capitale.

 

La rassegna nata con l'obiettivo di diffondere le realtà jazzistiche femminili del territorio laziale che dopo il successo ottenuto l'anno scorso si è allargata a musiciste della scena nazionale ed estera, affinché la "festa della donna" non sia solo l' 8 Marzo ma tutto il mese. Un progetto questo voluto con forza da Natachà Daunizeau, "boss" del "28DiVino Jazz" che, frequentando da qualche tempo l'ambiente jazz capitolino, un giorno, sorridendo come fa lei ha osservato.: "Certo il jazz è davvero maschilista!" per l'ovvio motivo che ci sono più uomini che suonano il contrabbasso o il sax tenore, ma non solo.

 

Da qualche tempo a questa parte però la scena è in parte cambiata, ci sono anche donne: "molte donne che non hanno niente da invidiare ai signori maschi" (per non dire dei peli sulla lingua): questa è stata la risposta che ci siamo dati noi del 28 Divino Jazz. Et voilà! Spazio dunque alle donne nel jazz. Spazio a tutto 'sesto' per tutte quelle artiste "capostipiti" del genere che si alterneranno sulla scena del Jazz ogni venerdì e sabato, ma anche due mercoledì (il 4 e il 25) ed alcune domeniche del mese di Marzo e che, grazie a questa iniziativa collaudata dal direttore artistico Marc Reynaud, sarà esclusivamente (o quasi) "Pinky".

 

Molti sono gli appuntamenti di matrice originale che faranno da leitmotiv del jazz club romano, ma anche alcune serate dedicate a 'standards' rivisti e interpretati in modo originale. Si inizia domenica 1 MARZO con il quartetto della vocalist Estone Kadri Voorand accompagnata dal chitarrista Virgo Sillamaa, il contrabbassista Taavo Remmel e il batterista Atho Abner. "Kadri Voorand ha davvero una gran voce! Un incrocio tra Oleta Adams e Dianne Reeves” ha scritto Karl Ackermann di 'Allaboutjazz'. Vincitrice del ‘Young Jazz Talent of The Year’ indetto dal JazzKaar Festival di Tallin l'artista è in assoluto una delle nuove star del Jazz europeo. Cantante, compositrice, inizia a studiare musica a 5 anni, dopo solo un anno compone brani tra il folk, il jazz e il R&B che rendono Kadri un’artista originale quanto geniale (www.kadrivoorand.com).

 

Successivamente, durante tutto il mese di Marzo si alterneranno sul piccolo 'grande' palco del 28Divino Jazz ottime musiciste (e musicisti) di grande spessore come la batterista Cecilia Sanchietti che presenterà il suo nuovissimo cd "Circle Time" in quartetto con un guest d'eccezione, David Boato alla tromba (Ven 6 Marzo). La fisarmonica di Giuliana Soscia in duo col pianista Pino Jodice che ci regaleranno una musica piena d'intimità (Venerdi 13 marzo). Mentre sabato 14 Marzo, Francesca Ajmar in quartetto, ci proporrà il suo nuovo e originale progetto "Bossa Latin Jazz".

 

A seguire, la giovane e talentuosa vocalist Gloria Trapani (4tet) insieme con Susanna Stivali, la chitarrista Giulia Salsone, e altre artiste e la partecipazione straordinaria di Danielle Di Majo sassofonista, con il suo "Exceed" 4tet (Merc 25 Marzo). Assolutamente da non perdere la data di Venerdi 27 Marzo con un ospite eccezionale proveniente direttamente da Londra, la pianista compositrice Maria Grazia Argirò con il suo quintetto internazionale composto da Tal Janes alla chitarra (Gran Bretagna/Israele), Sam Rapley al sax tenore e clarinetto (Gran Bretagna), Andrea Di Biase al contrabbasso (Italia) e Gaspar Sena alla batteria (Gran Bretagna/Portogallo).

 

A breve saranno comunicate le altre date e formazioni previste consultabili sul sito www.28divino.com. Ingresso agevolato per le donne durante tutto Marzo.

 

"VIVE LES FEMMES!"

 

28DiVino Jazz - Via Mirandola, 21 - Roma info 340 8249718 (dopo le 16.00) mail: 28divino@libero.it - sito: www.28divino.com

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- Musica

‘JAMAICA FAREWELL’ - reportage dalla terra del reggae.

‘JAMAICA FAREWELL’ : reportage dalla terra del reggae.

 

Un giorno qualunque degli anni ’70. Ore 10.30: «Il Comandante e la Crew dell’Air Jamaica vi danno il benvenuto a New Kingston e vi augurano un buon soggiorno sull’isola.»

 

Ad ogni arrivo di un volo un nugolo di gente colorata ti viene incontro. Uno sconosciuto tra la folla ti sorride. Sì, proprio a te! Che importa se non ricordi dove hai incontrato prima il suo volto sorridente, dallo sguardo profondo, un po’ assonnato: «Hallo White Man!» - dice. E solo allora riesci a capire che si tratta del boy mandato dall’Agenzia di Viaggi, anche se detto così ‘white man’ a un europeo suona come fosse ‘gringo’  rivolto in Mexico a un americano. Il boy ti prende la valigia, ti fa salire sull’auto e a velocità folle percorre le strade cittadine al suono del clackson e della sua radio tenuta a un volume impossibile. Nel tempo intercorso dall’aeroporto al centro città hai assorbito così tanto rumore e ascoltato tanta di quella musica che sei già mezzo ubriaco e ben presto anche tu penserai e parlerai al ritmo cadenzato del reggae. L’altra metà, per una ubriacatura totale, arriva dall’aria che si respira, profumata di marijuana pura, coltivata ovunque anche nelle siepi dei giardini pubblici e nei vasi alle finestre, che alla fine del viaggio anche i vestiti che indossi saranno oggetto di quel profumo inebriante e un po’ sordido che instupidisce.

Non c’è che dire, la musica è indubbiamente il quinto elemento di tutta la vita jamaicana; la si sente ovunque da mattina a sera, dalle porte sempre aperte delle case, durante la notte sulle spiagge attorno ai falò, nei locali ‘bidonville’ dove si va a bere la birra e incontrare i musicisti a zonzo. Sembrerebbe che qui tutti siano nati musicisti, chi non strimpella, percuote delle bacchette sulla latta di un bidone vuoto, oppure canta, si fa per dire, piuttosto imita i ‘grandi’ idoli che hanno fatto della Jamaica un crogiuolo di ‘eletti’ unti da quel ‘rasta’ leggendario che l’ha portata sull’isola dalla lontana Africa, ma qualcuno afferma essere giunta fin qui con le navi negriere dirette nelle Americhe. La musica ‘nera’ è indiscutibilmente la matrice del reggae, una forma contaminata del R&B negro americano che ha acquisito nel tempo significato tipico di ‘consumo’, anche se talvolta legata a un uso ‘rituale’ che la vuole d’iniziazione a un proselitismo mediatico-musicale. All’ascolto presenta fin dall’inizio un impatto drammatico e vivace di materiale folk – etnico plasmato su esperienze musicali attuali. Allo stesso modo la musica jamaicana è divenuta tipica dell’isola come il ‘samba’ lo è per il Brasile, il ‘tango’ per l’Argentina, il ‘calypso’ per i Caraibi, il ‘soukouss’ per la Nigeria, sì che dire ‘reggae’ è al dunque come dire Jamaica.

La musica jamaicana è dunque una forma di ‘salsa’ condita di aromi tropicali come il rhum e la marijuana, non legata a un preciso tipo di danza locale tradizionale, bensì che lascia libero il corpo al movimento slegato da schemi e condizionamenti di sorta. È una musica libera sotto ogni aspetto, completamente ‘free’ che scaturisce dall’improvvisazione, dall’estro e dalla loquacità dell’interprete, sia esso autore di versi sciolti o musicista improvvisato. È infatti sufficiente camminare per la strada o lungo le interminabili spiagge bianche ricoperte di vegetazione lussuriosa per apprendere l’autentico significato indipendente del ‘reggae’. Quella di ‘andare a zonzo’ è senz’ombra di dubbio l’attività preferita e più seguita dai giovani jamaicani, forse l’aspetto più eclatante di una società che apparentemente sembra non professare alcuna attività se non quella relativa alla musica. Di fatto è possibile parlare di musica con chiunque s’incontri per la strada. Tutti conoscono le ultime novità, c’è chi parla dei cantanti ‘reggae’ come di amici incontrati appena la sera prima, chi è parente di quello o di quell’altro e ti invitano a incontrarli magari la sera stessa o nel locale improvvisato in una baracca fatta di lamiere, dove in realtà servono qualche bevanda, perché poi la musica in effetti si fa fuori, nello spiazzo adiacente, con altoparlanti gracchianti o sfondati e i jack delle chitarre elettriche attaccate ai pali dell’elettricità cittadina.

A sua volta Jmmy Cliff era uno di loro, viveva in mezzo a loro, avanti tempo ritenuto da molti ‘messaggero del reggae’ per la sua limpida vocalità e un sound vibrante, che con  le sue canzoni ottenne un certo successo, ma che poi lo ha trasformato in uno show-business-man famoso in tutto il mondo, apprezzato per la trascinante colonna sonora di “The harder they come” che lo portò lontano dall’isola. Infatti ha vissuto poi tra Londra e New York, ma la lontananza non ha giovato alla sua carriera anche se qui sono ancora moltissimi i suoi fan. Un autentico ‘poeta di strada’ era invece Joe Higgs la cui musica sembra possedesse “l’armoniosa grazia di un uccello in volo”. Egli apparteneva al gruppo cosiddetto ‘ribelle’ della contestazione facile che egli usò in difesa della libertà: “Indipendentemente dal colore della pelle – egli ha detto – la cosa essenziale è quella di lasciare alle società sottosviluppate di evolversi con i propri mezzi, magari attraverso la musica”, in un ideale abbraccio con i fratelli negro-americani e africani. Un aspetto questo davvero interessante che permette qui di avvicinarci a ciò che il ‘reggae’ comprende nel suo impasto generale: l’insieme ideologico - musicale culturale e religioso che trova sull’isola la sua massima espressione.

L’appartenenza di un certo numero di artisti alla religiosità denominata ‘Rastafari’ impregna il ‘reggae’ di colore folkloristico e fideistico, ma religione e successo commerciale non sempre vanno d’accordo. Artisti quali Bob Andy, Bunny Livingstone, The Maythals, Lorna Bennet, The Heptones, Zap Pow, sono forse i nomi più conosciuti, ma non abbastanza per dirsi fautori del successo che ha portato il ‘reggae’ fuori dai confini nazionali. Molto più ha fatto a suo tempo Harry Belafonte (nato a New York) con il suo “Jamaica Farewell” (Calypso) ed altri successi che, ben lontano dal ‘reggae’, per primo focalizzò l’orecchio del mondo sulla musica caraibica. Ma è a Bob Marley e The Waylers che va l’onore di essere ancora oggi, a distanza di anni dalla sua scomparsa, l’originale portatore della bandiera del ‘reggae’ jamaicano. Arrangiatore delle proprie canzoni, attivista sociale e religiosissimo, definito ancora in vita la ‘Leggenda’ di un vivere la musica in modo ‘hard’ come ‘forma’ autentica di espressione non imitativa di altri generi. Colui che ha rappresentato il suono della Jamaica ribelle ed ha conservato intatto il suo ‘messaggio’ popolare e altruista:

“Sì, è vero, io canto la protesta, ma non solo” – ha detto durante una intervista negli anni che lo vedevano in cima alle vendite discografiche mondiali. “Io non canto – ha poi aggiunto – che ogni cosa va bene quando nulla va bene. Io canto la realtà dei jamaicani di sempre, ma non esclusivamente per i jamaicani. Per tutti coloro che trovano nella povertà il riscatto della propria esistenza, in America come in Africa, come in Viet-Nam”. (..) “La parola successo non significa niente per me. La musica che suono vuole essere un messaggio. Le cose che contano sono la pace, l’amore, quei sentimenti che ogni popolo va purtroppo dimenticando.” Lasciando intendere che la sua integrità d’intenti fosse distante dai profitti derivati dal su o stramaledetto e amato successo che pure gli arrise.Tuttavia la musica ‘reggae’ è forse l’unica al mondo che possa affermare certi principi che Bob Marley ha tenuto ‘alti’ nel suo mestiere anche se la censura ha spesso tagliato corto non permettendogli di esprimersi nei concerti e poter dire ciò che voleva.

È quanto accaduto anche a Peter Tosh che nel 1975 realizzò un single a favore della liberalizzazione della marijuana e per questo censurato e bandito dalla radio locale. Successivamente entrato nello staff artistico dell’etichetta Rolling Stones gli fu permesso di pubblicare il brano in un album dal titolo “Bush Doctor” che ha visto la collaborazione di Keith Richards e Mike Jagger. La voce di Peter Tosh, tipicamente ‘rasta’ riesce qui a creare un’atmosfera eccellente sotto ogni aspetto, scaturita dalla pacata e a volte frizzante allegria tipica della musica ‘reggae’. A distanza di anni è possibile dire che la morte di Bob Marley ha lasciato un grande vuoto non solo in Jamaica bensì nel mondo della musica più in generale tra i suoi fan sparsi in tutto il mondo e tra i fedelissimi a lui legati attraverso quel filo cultural-religioso che lo vedeva impegnato in prima linea.

Colgo qui l’occasione di riportare la chiusa di un articolo di Antonio Orlando apparso in “Musica & Dischi” (del quale sono stato collaboratore) un anno dopo la sua morte avvenuta nel 1981. “Oggi a un anno di distanza, quella sera appare ormai lontana e purtroppo irripetibile. La morte di Marley ha infatti inferto un altro duro colpo al sogno di immortalità che accompagna costantemente l’espressione musicale giovanile e che si manifesta nella consacrazione a mito di tanti musicisti: ma , lo ripetiamo, è una morte diversa questa, perché Marley non ha mai fatto parte di quello ‘star-system’ al quale avrebbe potuto benissimo appartenere per la sua importanza nel panorama musicale mondiale (anche se negli USA il reggae e Marley non hanno mai raggiunto una grossa diffusione) – ma lo ‘star-system’ è l’espressione stessa di “BNabylon”, e la civiltà e la cultura dei bianchi che è sempre rimasta estranea al musicista giamaicano (pur essendo quest’ultimo sceso a patti con essa).” (..) “Per Marley quindi non ci saranno suicidi, scene di disperazione collettiva e probabilmente mancherà anche la speculazione (a partire da quella discografica) immancabile in casi simili: una morte ‘laica’ rispetto a quelle ‘mitiche’ di tanti altri. E che proprio la morte di Marley, musicista religiosissimo, sia priva di aspetti epico-religiosi (e in Giamaica la sua morte è stata celebrata con una festa di gioia) è un fatto che deve far riflettere: un altro aspetto positivo dei brevi 36 anni di vita di Bob Marley”.

Oggi una stella con il suo nome è a lui dedicata sulla Walk of Fame a Hollywood. Anche per questo “Jamaica! Hai Jamaica!” – così inizia una canzone famosa, se non avete ancora fantasticato ad occhi aperti dovete venire qui e immergervi in questo mare che la circonda, bruciarvi al sole che riempie l’intera giornata, i pensieri delle vostre notti di veglia; dacché le preoccupazioni resteranno solo idee che appartengono ad un'altra vita; la musica colorerà i vostri ‘sogni di sabbia’ che vi sembreranno reali … forgiati sulle note di motivi e canzoni da memorizzare: "No woman no cry" "Could ypu be loved" "Get up stand up" "One love/People get ready" "I shot the sheriff" "Redemption song" "Satisfy my soul" "Exodus" "Babylon" "Waiting in vain" e tantissime altre.

 

Discografia Reggae: “This is Reggae Music” - artisti vari (Island) “Oh Jamaica” – Jimmy Cliff (EMI) “Bush Doctor” – Peter Tosh (EMI) “Protest” – Bunny Walker (Solomonic) “Hits” – Joe Higgs (Ashanti) “Jump Up” – Byron Lee “Rastaman” – Bob Marley (Island) “Natty Dread” – Bob Marley (Island) “Kaya” – Bob Marley (Island) “Exodus” – Bob Marley “Legend” – (Bob Marley compilation) (per la discografia completa di Bob Marley vedi in Wikypedia).

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- Cinema

‘BIRDMAN’ di Alejandro González Iñárritu

‘BIRDMAN’ (2014) un film di Alejandro González Iñárritu

 

“12” persone avanti con gli anni presenti in sala sono davvero niente per una pellicola che è già un ‘cult’ cinematografico fin dalla sua prima uscita sugli schermi, ma forse è indicativo il suo essere l’inverso di quel “21Grammi” che Iñárritu realizzò nel 2003 e che sorprese tutti per la dinamica ‘forte’ delle sue immagini. Successivamente però quella che era una regia ‘vincente’ non sembrò trovare lo stesso riscontro con i film successivi “Babel” (2006) e “Biutiful” (2010) che insieme formavano la sua ‘Trilogia sulla morte’. Forse perché le storie narrate erano piuttosto complesse da seguire e non soddisfacevano l’aspettativa dello spettatore fino in fondo e, in reatà, non sembrava poi così stravolgente come in questo film dimostra di essere.

Con “Birdman” (2014) invece, si volta pagina, e va letto diversamente, in ogni modo possibile, a tal punto che il film potrebbe iniziare lì dove finisce e viceversa. Inavvertitamente frammentario (come solo i geni sanno fare) Iñárritu offre allo spettatore una possibilità di scelta, quella di stare davanti alla pellicola o dentro il dramma esistenziale dei personaggi che egli stesso ha buttato nella mischia. A incominciare dall’autore, regista, attore che nel personaggio di Riggan Thompson, (Michael Keaton) un attore di talento che ha raggiunto il successo planetario nel ruolo di ‘Birdman’ supereroe alato e mascherato, vuole dimostrare a se stesso di non essere uno dei tanti ‘falliti’ sfornati da Hollywood cui una volta ha arriso il successo, deciso a lanciarsi nella folle impresa di scrivere l'adattamento del racconto di Raymond Carver: “Di cosa parliamo quando parliamo d'amore”, dirigerlo e interpretarlo in uno storico teatro di Broadway.

L’altro è Mike Shiner (Edward Norton) suo alter ego, cioè colui che Riggan non può essere per via dell’età, perché si è lasciato andare, perché semplicemente non può. Come dire, ha saltato il giro della giostra e si ritrova con una situazione esistenziale agli sgoccioli, finito con una figlia ribelle Sam (Emma Stone) uscita dal centro di disintossicazione; la moglie Lesley (Naomi Watts) che non ama e che forse non ha mai amato; l'amante Laura (Andrea Riseborough); il produttore, amico e suo avvocato personale Brandon (Zac Galifianakis) che tenta di risolvere tutte le problematiche inerenti alla produzione e non solo. E, in ultimo ma non ultimo, è il pubblico, qui utilizzato nel doppio ruolo (Antonin Artaud?) di spettatore che si trova a prendere parte all’happening teatral-cinematografico che si svolge dentro e fuori la scena.

La struttura filmica non è così nuova come si è portati a pensare, comunque o malgrado ciò, ci troviamo davanti alla consueta tipologia (quotidiana) del ‘teatro nel teatro’: (gli esempi sarebbero infiniti e quindi me li evito), o forse dovrei dire del ‘cinema che si occupa di teatro’ invadendo un campo ‘improprio’ da cui forse ha preso le mosse, ma dal quale si è subito distaccato regalandoci una forma d’arte nuova, decisamente più originale e permissiva. Formula questa da cui Iñárritu all’inizio sembra voler ripartire ma che poi, strada facendo, stravolge a suo uso e consumo, per raccontare una storia surreale e tuttavia ‘onirica’: qui intesa come equivalente d’una attualità in certo qual modo ‘visionaria’.

La critica cinematografica si sta ancora sperticando nel trovare l’aggettivo giusto per etichettare questa pellicola, tuttavia quella che ho trovato più azzeccata è indubitabilmente quella di Paolo Casella: “un film magmatico, gioiosamente ridondante, tracimante vita ed ambizione”. Visto dal lato psicologico l’aggettivo ‘magmatico’ ingloba diverse funzioni a latere in quanto sinonimo di confuso, caotico, indistinto, disorganico; ed anche il suo contrario creativo, insieme di idee brillanti, arabeschi, follie luminose, magmatiche appunto, riscontrabili in molte sequenze e soprattutto nel finale, caparbiamente ambizioso, tale da sembrare ‘appiccicato’ alla storia come un francobollo su un invito, di cui si poteva anche fare a meno poiché recapitato brevi mano.

Non c’è che dire, qui il regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu si cimenta con la commedia, benché agrodolce e in alcuni tratti quasi nera, scandagliando nell'animo di Riggan usando la cinepresa come mai aveva fatto prima: “ovvero cimentandosi in una serie praticamente infinita di piani sequenza all'interno dei quali gli attori recitano senza interruzioni, entrando e uscendo continuamente dal teatro in cui si svolge prevalentemente l'azione alla strada (in esterno), e dentro e fuori i camerini, i corridoi, il backstage del teatro stesso, in un gioco continuo di immagini rifratte attraverso specchi e spiragli. Temi principali sono l'ego, in particolare quello maschile, e l'incapacità di distinguere l'amore degli altri dalla loro approvazione.”

“Chi meglio di un attore molto amato ma poco apprezzato per rappresentarlo?” si chiede Iñárritu che ha curato la sceneggiatura con Alexander Dinelaris , Armando Bo, Nicolás Giacobone, la cui cifra ‘letteraria’ rimarca d’appresso le tematiche affrontate nei racconti di Carver sull’argomento. Tematica che inoltre è argomentata da una fotografia strepitosa che Emmanuel Lubezki ha permesso a un montaggio ‘nichilista’ apparentemente inesistente quanto voluto, e che Douglas Crise e Stephen Mirrione hanno trasformato in sequenze solo apparentemente scollegate/collegate. Metodo questo certamente appreso dai grandi maestri del cinema, non in ultimo dai tagli ‘in grigio’ del grande Alfred Hitchcock, e in alcune sequenze dalla ‘black-comedy’ di Robert Altman e Quentin Tarantino; per un ‘mosaico’ complessivo che anche Paolo Sorrentino in “La Grande Bellezza” (2013) ha cercato a suo modo di interpretare, e che è finito per diventare un ‘puzzle’ privo d’insieme.

Non che in “Birdman” questo scopo venga raggiunto in pieno, in ragione del fatto che le figure femminili sono bistrattate e ridotte a ‘cose d’uso ’ dal maschio privato delle sue voglie, perché contratto in se stesso, perché narcisista vissuto in funzione del suo alter-ego attore-teatrante e sessuofobico. Pur tuttavia assistiamo almeno ad una interpretazione femminile di pregio, rispondente in pieno ai nostri giorni e al tipo di approccio che molte ragazze (e lo dico con cognizione di causa) hanno nei confronti del maschio e della vita più in generale. Ma questa non è né una pagella né tantomeno un analisi di giudizio, per quanto va qui detto, si assiste ad uno show di autentiche interpretazioni d’autore le cui azioni coinvolge in pieno lo spettatore sì da trasmettergli il ‘patos’ drammaturgico.

Patos che sul finire, in realtà non c’è un finale o forse ci sono più finali possibili, ogni spettatore s’appresta a scrivere o riscrivere il finale che vuole e che si trasforma, comunque, nell’eterna favola dell’uomo che insegue il proprio essere infinito. Come in “Miracolo a Milano” (1951), (cito qui per i più giovani che potrebbero non conoscerlo) dove nella ritrovata fiducia nel prossimo i clochard ridotti all’estremo s’involano verso il cielo aperto alla speranza; qui il protagonista, uno straordinario Michael Keaton, riacquista la fiducia di sé, dopo essere caduto nel baratro del suicidio, salvatosi s’invola verso l’aperto cielo. La metafora dell’astro che solca lo spazio davanti a lui è quello d’una pazzia che ritrova la serena via di fuga da ciò quella vita che ormai ha cancellato.

Da non sottovalutare nel film l’utilizzo della ‘colonna sonora/soundtrack’ in cui il muro sonoro/musicale torna ad essere anch’esso protagonista, in quanto scandisce in tempi certi i tagli incerti del montaggio e forse della stessa regia: un’alchimia di suoni/rumori di scena e solo-percussioni eseguiti con straordinario virtuosismo dal batterista messicano Antonio Sanchez. Di lui va ricordato il suo primo disco in-solo “Migration” (2007) che include un ampissimo gruppo di rinomati jazzisti conosciuti: Pat Metheny, Chick Corea, Chris Potter, David Sanchez and Scott Colley. “All About Jazz” lo definì: “Uno dei migliori debutti del 2007”. Sanchez disse egli stesso del suo album: “Non voglio che le persone dicano che questo è un album di un batterista, vorrei che questo possa essere qualcosa di qualunque musicista. Io penso in termini musicali, non quante vendite otterrò e se soffio abbastanza sulla brace o no. Vorrei che la musica fosse molto melodica e accessibile a tutti con un sacco di belle interazioni”.

Buona visione, quindi, per un film che non ha ancora finito di far parlare di sé e destinato ad essere un ‘cult’ del nostro tempo. Non è ancora il capolavoro raggiunto di Alejandro González Iñárritu regista, sceneggiatore, produttore cinematografico, compositore e montatore d’origine messicana che ha aperto il Festival Internazionale di Venezia 2014 con questo film che ha già ottenuto numerose ‘nomination’ per i Golden Globe e gli Oscar nelle diverse categorie che si distinguono. Ma essendo egli ancora giovanissimo e pieno d’idee vado certo delle mie intuizioni e presto assisteremo al suo debutto ufficiale nell’empireo delle grandi star della regia cinematografica. Un augurio?!

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- Letteratura

4° FESTIVAL DELLA LETTERATURA DI MILANO ‘ - dirittiSTORTI’

4° FESTIVAL DELLA LETTERATURA DI MILANO

 

Titolo d'interesse: ‘dirittiSTORTI’ - dal 10 al 14 Giugno 2015

 

Partecipa anche tu, chiedi info, sottoscrivi, divulga sui mezzi d'informazione.

 

Stiamo lavorando alla 4° edizione del Festival della Letteratura di Milano e, devo dire, questo di per sé è già un piccolo miracolo. Perché continuiamo a resistere nonostante l’aridità dei tempi, la crisi, il disimpegno, la mancanza di sostegno da parte delle istituzioni; nonostante (soprattutto) l’infinita scia di ostacoli che ogni anno ci troviamo a dover scansare sulla nostra strada. Se di una cosa siamo stati subito consapevoli, da quando è iniziata questa avventura, è che arrecavamo fastidio. Forse per questo ci siamo impegnati a continuare, malgrado i mal di pancia e gli infiniti nonostante (di cui sopra). Perché lo facciamo? Forse perché crediamo nel principio di una Cultura libera da bollini e da certificati di appartenenza, dai quali man mano ci siamo svincolati. Una Cultura che dovrebbe essere al centro di ogni attività umana, perché (ne siamo convinti) da essa dipende ognuna delle interrelazioni che costituiscono il tessuto sociale di una nazione, e della infinità di mondi che la conformano. Quest’anno per la prima volta ci siamo dati un titolo, che rappresenta la tematica sulla quale s’incentrerà la quarta edizione del Festival della Letteratura di Milano, e che riteniamo di vitale importanza: dirittiStorti Quelli – i diritti – che una volta ci sono stati riconosciuti universalmente e che spesso qualcuno mette in discussione, arrivando non di rado ad abolirli. Parlo del diritto alla Cultura (appunto), alla vita, al lavoro, a un modo non dozzinale di concepire l’esistenza. Della possibilità di manifestare liberamente il nostro pensiero (per quanta urticaria possa generare), di manifestare il nostro dissenso, di non essere discriminati per il solo fatto di non corrispondere alle geometrie del potere in corso. Dei diritti della Dignità, dell’Etica, e di altre parole che a forza di non essere più adoperate rischiano l’estinzione. Del diritto di non dover aspettarsi parità di trattamento tra cittadini perché non ci sarà più la disparità di trattamento. Secondo l’Ocse, “gli adulti italiani sono in fondo alla classifica europea (su un totale di 24 stati) per quanto riguarda la capacità, la preparazione letteraria e matematica e le conoscenze essenziali per orientarsi nella società del terzo millennio.” Viviamo nel paese in cui l’analfabetismo di ritorno la fa da padrone. (Non importa se gli italiani sanno tecnicamente leggere, scrivere e far di conto. Ma l’uso che sono in grado di fare delle informazioni che possono acquisire.) Nel paese, “faro della cultura occidentale”, che oggi si colloca all’ultimo posto della graduatoria nelle competenze alfabetiche (fondamentali per la crescita individuale, la partecipazione economica e l’inclusione sociale). Nella città in cui gli eventi culturali vengono nominati in inglese (Book City, OperaCity, Piano City, per non parlare di car sharing, smart city, bike sharing, citylife, the tourist tax, Milano recycle city, city dressing…) come a voler continuare un disegno di depauperamento della lingua italiana cominciato qualche decennio fa tra le quinte sfavillanti della televisione berlusconiana. *** L’unico commento alla nostra attività, da parte dell’Assessore alla Cultura – nell’unico incontro con lui avuto - è che non gli piaceva il nostro nome: Festival della Letteratura di Milano. (Avremmo potuto forse trovarci un nome inglese, ma che ci vuoi fare? Siamo innamorati della lingua italiana.) Forse perché i quasi novecento eventi realizzati in questi anni da parte del Festival (e della miriade di associazioni che vi hanno collaborato) sono stati realizzati senza alcun appoggio da parte del suo assessorato, o dalle istituzioni in generale, come se la nostra intraprendenza, la nostra libertà di giudizio, il non corrispondere ai parametri comandati facesse venir loro l’urticacea (ecco che torna). Insomma, di questo e d’altro vogliamo parlare al prossimo Festival della Letteratura di Milano. Dello stato delle cose, e della possibilità di cambiarle, con fatica e dedizione. Con passione e coraggio. Nel 2015 ci siamo proposti di farlo durare tutto l’anno. A partire dal mese di Marzo, con un nucleo centrale che si svolgerà dal 10 al 14 Giugno alla Biblioteca Chiesa Rossa e altre del circuito milanese. A ridosso degli eventi epocali che stanno cambiando il volto della nostra città, dove si parlerà di quelli che coinvolgono il mondo che ci sta intorno. Molte proposte sono già arrivate. Altre sono in viaggio. Mandateci le vostre. Facciamo in modo, insieme, che questi Diritti, da sempre Storti, possano diventare, finalmente, Dritti, inalienabili, nostri. Quelli per i quali siamo disposti a giocarci ogni cosa.

Milton Fernàndez

 

www.festivalletteraturadimilano.it

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- Letteratura

VITE e TRALCI - Antologia di Poeti Georgiani Contemporanei

“VITE E TRALCI” - ANTOLOGIA DI POETI GEORGIANI CONTEMPORANEI

 

Novità editoriale per la Giuliano Ladolfi Editore - collana 'Smeraldo' 2014 - Traduttore: Nunu Geladze - Redazione: Marienza Coraci

 

L’uscita di un nuovo libro di poesia va sempre salutato come uno splendido evento, specialmente quando si tratta di un volume a carattere antologico che spazia fra le possibili interpretazioni letterarie di una cultura poco frequentata come quella ‘georgiana’ tipica della Georgia caucasica “terra di vite e tralci” rinomata per i suoi vini corposi. Da non confondere con la serie di volumi di poesia anch’essa detta ‘georgiana’ che mise in evidenza l’opera di una scuola di poeti inglesi attiva durante i primi anni di regno di Giorgio V d’Inghilterra a partire dal 1912 e durata fino agli anni ‘50/’60 con alcune appendici contemporanee.

Geograficamente lontana dal Regno Unito e ancor più distante dalla consorella Georgia regione degli Stati Uniti d’America, la Georgia trans caucasica si estende ad est del Mar Nero, situata sulla linea di demarcazione che separa l’Europa dall’Asia. Una regione prevalentemente montuosa che essendo luogo di transumanza ha conosciuto la migrazione stagionale delle greggi, delle mandrie e dei pastori ch’erano soliti spostarsi dai pascoli situati in zone collinari o montane, verso quelle pianeggianti e viceversa, percorrendo quelle che erano dette le vie naturali dei 'tratturi'.

Ragione questa per cui tutta l’area caucasica comprensiva del Tajikistan, la Georgia, l’Azerbeijan e l’Armenia, che nel corso dei secoli ha conosciuto le invasioni di popoli confinanti con conseguente dispersione della propria identità etnica, trova oggi un difficile posizionamento socio – culturale distinguibile; sebbene alcune frange isolate, come appunto è accaduto per alcune singole regioni, hanno mantenuto parte di quello che (forse?) era il ‘ceppo originario’ della propria cultura etnica. Ciò nonostante, com’era inevitabile, la comunità georgiana, pur avendo accolto nel tempo contaminazioni culturali diverse (originarie delle regioni limitrofe), sembra aver mantenuto un suo profilo formativo legato alla tradizione orale del culto della ‘rima’ (poetare a braccio) che, se non necessariamente si esprime in un linguaggio ricercato e quindi colto, indubitabilmente si esprime in loquacità verbale, poetica e musicale.

Lo conferma Ivane Amirkhanashvili nell'eloquente presentazione a questo volume che s’apre con una domanda, inaspettata quanto interessante: ‘Dove è la poesia georgiana?’ che, se non altro suona 'curiosa', almeno per chi si trova a dover esaminare un’Antologia poetica di siffatta portata. Infatti basterà seguire nel contesto quello che è poi il filo conduttore della sua interpellanza / riflessione scaturita da una plausibile ragione culturale, detta della ‘ragione libera’, che si impone come uno ‘status intellettivo’ d’una coscienza collettiva popolare:

“In Pshavi, regione montuosa a nord-ovest della Georgia, c’è (sussiste ancor oggi) il culto della rima. Chi vuole essere ascoltato, parla in versi. Gli pshavi, praticamente, parlano in rime. Questo recitare poetico si chiama kaphioba (poetare a braccio). La prima cosa che gli pshavi cercano in poesia è un effetto euristico: una scoperta, una trovata, lo scorgere di un senso che altrimenti resterebbe nascosto; (..) qualcosa di primordiale, costante, archetipico. (..) Il loro modo di ragionare è poetico. Ciò potrebbe spiegare il fatto che la cultura georgiana si è sviluppata sul crocevia della civiltà occidentale e orientale, per cui sempre costretta a difendere la propria originalità” (dalla presentazione di Ivane Amirkhanashvili) col dar voce alle tante ‘voci’ che si levano dal suo passato come dal presente.

Originalità poetica dovuta al rincorrersi della rima sull’impulso creativo che di per sé è ‘creato e/o ricreato’ in musica all’interno della sfera popolare, nell’uso di alcuni strumenti tipici di quest’area culturale, a dimostrazione di modi e possibilità di avvalersi del folclore che sono inesauribili. Infatti ci sono molte tracce di canzoni popolari all'interno della sfera musicale ‘classica’ trans-caucasica e molti sono i componimenti musicali che hanno come sfondo opere letterarie note come ‘odi e canti’, e interi ‘poemi’ della tradizione orale vecchia e nuova.

Ne sono la riprova che le caratteristiche nazionali di espressione poetico - musicale non riguardano solo una questione di tecnica, il collegamento tra passato e contemporaneo s’avvale comunque di un naturale collegamento delle due caratteristiche distinte che, insieme al modo popolare di pensare e di esprimersi, convalidano l'individualità poetico – musicale fin qui preservata. L’antologia presenta uno dei possibili quadri della poesia georgiana degli ultimi cento anni attraverso voci autentiche del vivere di oggi. Si tratta per lo più di estemporizzazioni ricreate dall’atmosfera unica e sola di una realtà geografica austera, forgiata sullo sfondo della solitudine e della speranza tipiche del distacco (forzato) dalla terra natia; dell’agognato ritorno (alla libertà) di fronte al dolore per l’estromissione.

Fino allo sdegno (davvero sentito) davanti al rinunciare (forzato) della cultura originaria, della propria lingua, della propria espressione poetica e musicale, all’interno delle proprie tradizioni. Ecco che, al dunque, alla domanda ‘Dov’è la poesia georgiana?’ oggi possiamo dare più di una risposta soprattutto veritiera quanto profondamente sentita, che la pubblicazione di questa ‘raccolta antologica’ dal titolo suggestivo “Vite e tralci”, la riscatta dall’essere per sempre accantonata. “Infatti, dov’è (oggi) la poesia? «La poesia è nell’erba» diceva Boris Pasternak. Dov’è ancora? Forse nel popolo, nella vita, nella creatività, là dove c’è la vita, la poesia georgiana esiste e si sviluppa e non in ultimo la presente antologia ne è la riprova” (dalla presentazione di Ivane Amirkhanashvili).

Ma passiamo a leggere alcuni passi significativi estratti dall’’Antologia’ che raccoglie autori del recente passato ormai scomparsi ed altri a noi contemporanei: voci di ‘vite e tralci’ di vite future:

 

Di Ana Kalandadze

“Avvolgeva il vento le vette celesti di nebbie lattee…

e mentre laggiù fiorivano le rose,

giaceva la neve sui monti di Javakheti

e giravano burrasche nelle foreste…”

 

“Affido mia vita agli immani uragani infranti

e dispersi nel cielo e sulla terra,

che dal mondo isolati gemono negli abissi! …”

 

“Quando ai vespri la luna nel cielo s’inarca

e si addormenta ogni essere intorno,

cominciano a fiammeggiare gli occhi

teneri delle stelle e sfavilla la neve…

Estesa sui piè di monte

La sfiora, la bacia, la inquieta

La luna diafana dolcemente…

E di un’aureola di raggi

Il Caucaso maestoso Si imperla…”

 

Di Otar Chiladze

“Qui io sono caduto e qui rimango ancora,

son diventato terra e qui ti aspetto;

nel sole, nella pioggia, nella neve mi brucio;

mi bagno, m’imbianco e ti aspetto nel vento…

Cos’altro mi rimane, non sguaino la spada ormai.

Ma tu assolvimi e perdona,

ché non vile cenere sono

ma una nobile terra”.

 

“Ciò che non è stato, non ci sarà mai,

ma quel che c’era, ci sarà per sempre:

si aprirà la strada oppur si chiuderà,

andrà chi deve andare, verrà chi deve…”

 

“Pronunciar ogni parola mi fa soffrire,

apro gli occhi con dolore ogni mattino e

mentre il vento m’esamina il polso

alla pioggia porgo il viso…”

 

“E tentano gli altri al posto mio

Di dilatare il pianto dell’ombra,

ma essa è sola e come una belva

cura le ferite con la sua saliva…”

 

“E poiché te aspetta, abbi speranza –

è graziato da Dio chi viene atteso,

affinché ritorni ai peccati terrestri

un uomo di cui ha bisogno la terra.”

 

Di Besik Kharanauli

“Dove sono i nostri figli, i figli dove sono,

Dimmi Georgia, solo il vento c’è intorno?! …

Esco, cerco, c’è il vento,

loro non ci sono non ci sono i nostri figli,

la Georgia divenne il vento.

Dove sono i tuoi figli, i figli dove sono,

non ci sono durante il giorno,

non ci sono di notte, c’è il vento,

non ci sono, non ci sono, c’è il vento.”

 

Di Isa Orjonkidze

“Vi amai fino all’ultimo respiro,

mi abbattevate, ma vi credevo;

dove siete, se esistete, eroi

(“di questa Georgia mi vanto”!)”.

 

Di Mariam Tsiklauri

“Cosa diciamo ai figli, quando ritorneremo dalla guerra,

quando ritorneremo anche dalla pace,

quando ritorneremo pur dalla morte.

Cosa diremo ai figli –

che cercavamo amore in ogni dove

e non ne trovammo da nessuna parte?

Che la libertà cercavamo e nella schiavitù la reperimmo?!

Bramavamo la felicità e la sventura sposammo?! …

Cosa diremo ai figli, perché li abbiamo generati –

per reggerci sulle loro tenere anime

come sui gradini della scala, per strisciare su,

miserabili noi, verso il cielo,

nonostante esserci rivestiti di una coltre della terra?! …”

 

Ma quelle riportate qui sopra sono indicative solo di alcune tematiche possibili da seguire nel percorso antologico e che, come è possibile intravedere, permettono al lettore di addentrarsi nella filosofia letteraria ‘naturale’  di un popolo, così come in quella ‘convenzionale’ (sociale), maturata all’interno della filosofia propriamente detta, è qui vissuta in quanto ‘norma di vita’. Quella stessa norma che ha permesso al popolo Georgiano di affrancare la propria cultura poetico - letteraria sul territorio riconquistato e liberato dall’egemonia dominante che l'ha accompagnata fino al 1991, data di nascita della Repubblica della Georgia trans-caucasica con capitale Tbilisi.

La sua lingua ufficiale, il georgiano appartiene al gruppo sud-caucasico (cartvelico), di cui rappresenta la lingua franca e l'unica lingua con una propria tradizione letteraria comprensiva di circa 17 dialetti, suddivisi sostanzialmente in un gruppo orientale e in uno occidentale, alcuni dei quali sono stati fortemente influenzati dal linguaggio dominante della regione in cui sono parlati. In generale sono più conservativi i dialetti delle regioni montuose mentre per la lingua letteraria, basata sul dialetto ‘cartiliano’ (pianure orientali), è conseguente della conversione dell'élite georgiana al cristianesimo, avvenuta a metà del IV secolo. La nuova lingua letteraria venne costruita su un'infrastruttura culturale già ben definita, appropriandosi delle funzioni, convenzioni e stato dell'aramaico.

Ad oggi in Georgia vengono parlate anche altre lingue: soprattutto il russo, l'armeno, l'azero. La difficoltà di traduzione da alcuni dialetti presenti sul territorio non ha permesso, fino ad ora, una grande diffusione della poesia georgiana all’estero e la conoscenza dei suoi autori, assenti anche dalle grandi antologie occidentali. Vanno qui ricordati fra i simbolisti N. Jashvili (1895-1937), T.Tabidze (1895-1937), T. Leonidze (1899-1966), V. Gaprindashvili (1889-1941). Tra gli altri poemi conosciuti è notevole il poema di Jashvili “Port-Rion” (il Rion è l'antico fiume Fasi, ben conosciuto dai Greci; Giasone, secondo la leggenda, approdò nella Colchide, parte della Georgia, e Medea, che lo seguì, era dunque caucasica).

Fra i romanzi, hanno conosciuto più d’una traduzione “L'alba della Colchide” (1949) di K. Lordkipanidze (1905) e “Gvadi Bigva” di Leo Kaceli. Interessanti alcuni testi suscitati dalla guerra, come i versi di G. Tabidze “Patria, vita mia” e “II capitano Bukhandze” di I. Abashidze. Alcuni dei quali caddero in guerra, come S. Ispani, D. Napedvaridze, M. Gelovani, Abashidze e G. Leonidze. Nella seconda metà degli anni Cinquanta ci fu uno sviluppo del romanzo, con K. Gamsakhurdiya “II fiorire del tralcio”, 1956), R. Giaparidze “La vedova del soldato”. Fra i poeti più recenti ricordiamo losif Noneshvili (1920-1995), Aleksandr Abasheli (1884-1954). È emerso anche qualche emigrato, come Grigol Robakidze (1894-1962).

Tutto ciò vale anche per la musica, compositori georgiani come Giorgio Gomelsky, Giya Kancheli, Giorgi Latso, Vano Il'ič Muradeli sono raramente citati e ascoltati fuori dai confini nazionali o dell’area caucasica. Pur se alcuni di essi hanno trovato spazi musicali a loro propri in ambito internazionale. È il caso di Giya Kancheli, compositore georgiano di Tbilisi che nel 1995 si è trasferito a Berlino e poi ad Anversa in Belgio, in cui tutt’oggi risiede. La sua musica è comunicativa ed immediata, spesso di taglio spiritualistico, il che porta a paragonarla (non sempre a proposito) ai lavori di Arvo Pärt e John Tavener. Non mancano istanze di ispirazione religiosa e popolare, in particolare nell'apertura della ‘Terza Sinfonia’, o nel suo più recente lavoro ‘Magnum Ignotum’.

Il linguaggio sinfonico di Kancheli è caratterizzato da lenti, ossessivi frammenti in modo minore contro lunghe, angosciate discordanze. Questi passaggi sono talora punteggiati da ‘scene di battaglia’ con ottoni e percussioni. Dopo il 1990 la sua musica è divenuta generalmente più sommessa e nostalgica. Rodion Shchedrin parla di Kancheli come di un "asceta con il temperamento di un massimalista; un Vesuvio represso". In qualità di compositore ha scritto musica da camera, opere orchestrali, opera / coro, ben ‘sette’ sinfonie, e quella che egli chiama una liturgia per viola e orchestra, chiamata ‘Mourned by the Wind’. Il più importante lavoro è generalmente ritenuto la ‘sesta’ sinfonia.

Tra gli artisti celebri che hanno inciso sue opere ci sono Dennis Russell Davies, Jansug Kakhidze, Gidon Kremer, Yuri Bashmet, Kim Kashkashian, Mstislav Rostropovich, ed il Kronos Quartet. Attualmente continua a ricevere commissioni e la sua produzione discografica è regolarmente prodotta dall'etichetta ECM. Anche se rimane molto critico nell'uso del folklore ci sono molte tracce di canzoni popolari georgiane e classiche nei suoi lavori. Solo un compositore veramente talentuoso come Kancheli può sviluppare artisticamente le peculiarità nascoste nella sua lingua e riuscire a mescolare il pop con le ‘assonanze’ più moderne e riesce a farlo solo con la padronanza di ‘colours’ di tono e ‘crescendi’ dinamici che talvolta si rivelano potenti.

Tuttavia risvolti sporadici nella forma orchestrale non sempre possono realizzare qualsiasi cosa contro l'irreversibilità del fato caratterizzato da un ‘dolore’ archetipo che a volte sale in superficie con assonanze di suoni vaghi, più vicini quasi a scene di ‘battaglia’ che si presentano al tempo stesso eroiche e luttuose. Kancheli stesso spiega quanto egli sia stato fortunato ad aver maturato tali capacità per il solo fatto che: «la cultura orientale è stata profondamente radicata in me fin dalla mia prima infanzia e che ho attentamente cercato di trattenere questa eredità. Solo sporadici ascoltatori europei, con alcune eccezioni, s’avvalgono della comprensione di ascoltare un suono individuale dell'Estremo Oriente e ciò perché il suono che ascoltano non può essere totalmente immerso nel loro modello di suono. Questo perché non gli è stato insegnato il modo di connettersi ad altro suono; non è mai stato abilitato ad essere ricettivo nei confronti della musica orientale, con l’unico mezzo possibile, quello della calma interiore, nel quale si suppone che l'ascoltatore sia. La frivolezza e l'alacrità della vita urbana occidentali impediscono all'ascoltatore di giungere allo stato più alto di delizia che viene dai suoni puri.»

Una nota a se stante merita il Teatro “Metheky”, teatro del folklore georgiano e del Balletto Nazionale che si occupa di diffondere le coreografie tradizionali georgiane mediante l’accompagnamento di brani musicali moderni. I balletti vengono messi in scena con musiche classiche e moderne di compositori georgiani, per le quali mai prima d’ora erano stati creati dei balletti. La musica particolare di queste nuove interpretazioni viene realizzato mediante l’utilizzo di strumenti tipici georgiani come il ‘duduki’ dal suono particolarmente vellutato simile all’oboe e il ‘tar’ un particolare strumento a sei corde simile al liuto la cui origine risale all’antica Persia, altresì in alcune orchestre sinfoniche in abbinamento con strumenti della musica contemporanea.

 

Di Besik Kharanauli leggiamo qui di seguito un altro brano tratto dalla “Antologia di Poeti Georgiani Contemporanei” dal titolo molto significativo “La poesia” che bene si presta a chiudere questo articolo dedicato a quanti, come tutti noi di larecherche.it, fanno della poesia una ragione di vita.

 

“La poesia – ventaglio del cuore,

con la quale alleviamo il fuoco

e diamo la caccia alle nostre afflizioni.

Allo spuntar delle poesie

segue la tenue brezza

che fa frusciare come pagine

le nostre anime affannate.

Ma esiste forse qualcosa

che può placare il nostro fuoco

quando sentiamo dietro le spalle

il fiato ardente della vita?!

Possiamo forse affidarci

alle gracili ali di poesia

per raggiungere

l’altra sponda del fiume

affinché ci assidiamo sul ramo

con la speranza di adocchiare i pericoli.

Ma come ci salverà

con un soffio d’anima,

con un osculo soave

mentre noi strilliamo dal dolore?!

Di cosa è capace la poesia?

 

Perché la si afferra come spada,

e la si usa come scudo allora?!

 

www.LadolfiEditore.it

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- Cinema

‘TURNER’ un film di Mike Leigh

‘TURNER’ un film di Mike Leigh

Conosciuto e apprezzato dai cultori della storia dell’arte Joseph Mallord William Turner (Londra, 23 aprile 1775 – Chelsea, 19 dicembre 1851) uno dei più famosi e apprezzati pittori del romanticismo inglese che oggi possiamo ammirare alla Tate Gallery e alla National Gallery di Londra era già a suo tempo pienamente riconosciuto come un artista di genio dagli artisti e dai critici d’arte suoi contemporanei: “colui che portò il movimento romantico verso la svolta decisiva e che riuscì a elevare l’arte della pittura paesaggistica ai livelli di quella storica, considerata al suo tempo di maggior rilievo”. Solo alcuni in verità gli riconoscono di aver posto le basi per la nascita dell’Impressionismo che si svilupperà in Francia con un’ampia fioritura di artisti nella seconda metà dell’Ottocento. Non a caso il celebre critico d'arte inglese John Ruskin parlò di lui come dell'artista che più di ogni altro era capace di "rappresentare gli umori della natura in modo emozionante e sincero". È infatti da questa identificazione ‘umorale’ dell’uomo Turner che prende spunto il regista Mike Leigh (già vincitore di un ‘Palmares’ come miglior regista per “Naked” nel 1992 e nel 1996 come miglior film con “Segreti e bugie”), e che ci permette di apprezzare al meglio la sua ‘riflessione cinematografica’ presentata con successo a Cannes 2014.
“Turner” il film si concentra sull’ultimo quarto di secolo della vita del grande pittore, senza tuttavia scandire il passaggio del tempo usando le tipiche didascalie con data in sovrimpressione, ma che lascia scorrere l’esistenza del personaggio, interpretato magistralmente da Timothy Spall, senza interromperne la narrazione. Sono i costumi e soprattutto il trucco entrambi eccellenti che aiuteranno a sottolineare la progressione degli eventi che si succedono dopo la scomparsa del padre dell’artista. Profondamente colpito dalla morte del suo vecchio, da tempo suo assistente ed ex barbiere, dopo aver viaggiato a lungo nel continente, Turner si lega a una vedova che gestisce una pensione sul mare, la signora Booth, ottimamente interpretata da Marion Bailey, ed è assillato da una sua ex amante, Sarah Danby (Ruth Sheen), da cui ha avuto due figlie illegittime di cui si ostina a negare l’esistenza. Un film dalla trama esile che però non stento a definire realizzato ‘per il piacere degli occhi’; infatti ai dialoghi ben si sostituiscono le immagini che ‘da sole’ parlano ricalcando il linguaggio della natura che ha sempre ‘suggestionato’ l’artista durante il lungo percorso della sua ricerca pittorica sulla luce.
Ragione per cui a Turner è stato accreditato l’appellativo di: “pittore della luce” e non poteva che essere così, in ragione del fatto che davanti ai suoi quadri si resta abbagliati da ciò che più incorporeo esiste in natura e che da sempre è riferito al colore. Quella luce che stravolge e destruttura ogni forma oggettiva e fisiologica, finanche la prospettiva nella concezione dell’arte e che, con Turner non sarà più la stessa, cioè dipendente dalla distribuzione dell’ombra e della luce (tridimensionale); bensì si avvarrà della Teoria di Goethe applicandone i concetti principali con la quale si cerca di creare (o ricreare) un collegamento tra l’occhio e le emozioni, a quella post-immagine che resta sulla retina dopo la visione dell’immagine stessa, di ciò che ha impressionato la nostra angolazione visiva. Ecco al dunque che le immagini trasportano chi le osserva (lo spettatore) nella visione effimera e sublime della grandezza in cui l’occhio s’immerge e in cui egli si sorprenderà in stato emozionale.
Secondo il concetto di Goethe soprattutto il giallo (luce solare), fu il primo colore trasmesso dalla luce, sottoposto ad una transizione della luce che si oscura nel momento in cui la luce raggiunge il suo massimo bagliore, così come il sole splende nel cielo, e tende al bianco che è senza colore. Turner infatti cerca di rispondere ai concetti che Goethe ha creato attraverso questa teoria rivolta per lo più ai colori rosso e il giallo, mirata ad evocare ottimismo e sentimenti positivi, mentre il colore blu (in Turner spesso molto diluito) fa più spesso da contrasto, come a voler creare (o ricreare) un'emozione di malinconia e desolazione. Ma la luce, pur nelle sue infinite variazioni e combinazioni di colori, diventa in Turner sempre più profonda e spesso egli trasforma il giallo in arancione e infine al rosso ma solo nel concentrarsi del colore in alcuni punti ‘focali’ dei suoi quadri dai quali si è sprigionata la sua visione emozionale. Il resto lo fa la luce secondo un processo transitorio che Turner ha ben evidenziato nelle sue tele, mostrando come fa l’occhio dell'osservatore spostandosi dal centro (focale), agli estremi più scuri (meno luminosi) della tela.
Il film ha anche altre qualità (per chi vuole vedercele), a cominciare da quelle storico-sociali che seppure appena abbozzate lasciano intravedere quali diversità esistessero all’interno della borghesia inglese dell’ottocento. A latere è notevole lo svolgersi del lavoro del pittore, dall’acquisto delle terre, alla preparazione dei colori, all’attrezzare le tele ecc. e, soprattutto, la grande e riconosciuta capacità di Turner nell’uso dei pennelli da cui si rileva il guizzo del genio. Nonché l’attitudine all’immediatezza, infatti le sue tele ad olio non sono costruite su un bozzetto o un disegno preliminare, bensì provengono da schizzi eseguiti su di un block-notes in piena libertà o eseguiti da precedenti acquerelli, una tecnica questa che richiede particolare attenzione nell’esecuzione. Un altro aspetto davvero rilevante del film è la ricreata atmosfera ottocentesca che si doveva respirare nelle sale della Royal Academy of Art, nelle sale della quale s’incontravano i grandi ‘artisti’ del momento e avvenivano gli scambi d’idee e delle tecniche pittoriche e non solo. Tutta l’aristocrazia e la borghesia imprenditoriale ruotava all’epoca attorno all’ Academy of Arts e per altro attorno alla Royal Geographic Society. Qui avvenivano gli acquisti per i grandi musei di tutta Europa e d’oltreoceano; qui si rivolgevano i collezionisti e i critici che avrebbero scritto la storia dell’arte.
Timothy Spall, il celebre Peter Minus nella saga di “Harry Potter”, trova in questo caso il giusto spazio come protagonista indiscusso della pellicola, non ha bisogno di una particolare presentazione, poiché in passato ha sempre recitato in parti assai caratterizzanti, del tipo ‘brutto, sporco e cattivo’, o comunque ‘bad’. Il ritratto della sessualità di Turner nel film è disarmante, non a caso anche in questa pellicola è un padre volgare e sprezzante (non c’è riscontro se il pittore fosse davvero così). Il rapporto con l’adorabile governante Hannah Danby (nipote della rancorosa ex amante di Turner e forse per questo considerata ‘maledetta’ dal pittore?) è il massimo del classismo e della prevaricazione maschile: “Turner quando è colto da tempeste ormonali simili ai cataclismi naturali da lui costantemente dipinti, abbranca Hannah e la possiede in modo disumano e frettoloso mentre lei dà a quegli amplessi un valore diverso (guardare la gamba destra di lei come si attorciglia voluttuosamente al corpo di lui)”.
Tuttavia, malgrado il regista abbia fatto una scelta ‘umorale’ della figura di Turner che appesantisce in certi momenti la pellicola, che scorre lenta al seguito dei passi del protagonista attraverso gli straordinari paesaggi della costa inglese del Kent fino alle bianche scogliere di Dover, Timothy Spall da prova di possedere straordinarie capacità d’attore che lo distingue. Lo ricordiamo in “Quadrophenia” (1979); “Oliver Twist” (1982); in “Segreti e Bugie” (1996) ancora di Mike Leigh; in “L’ultimo Samurai” (2003); in “Sweeny Todd” il diabolico barbiere di Fleet Street (2007); “Enchanted” (2007); in “Alice in Wonderland” (2010); e almeno in “Il discorso del Re” (2010). Per questo suo ultimo lavoro “Turner” (2014) ha già ricevuto il riconoscimento per ‘miglior attore’ allo scorso Festival di Cannes.

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- Teatro

’PAOLO RACCONTA VILLAGGIO’ - Spettacolo con Pino Strabioli

Casa dei Teatri e della Drammaturgia Contemporanea di Roma presenta:

'Paolo racconta Villaggio' - con Paolo Villaggio e Pino Strabioli

 

Teatro Tor Bella Monaca - domenica 8 febbraio ore 17,30.

Una chiacchierata tra amici, un pomeriggio in allegria con Paolo Villaggio e Pino Strabioli. Spettacolo unico ed esilarante del più famoso comico italiano contemporaneo.

 

'Animula, Vagula, Blandula | Adriano l'uomo'

scritto da Flavio Marigliani, con Roberto Santi regia Sandro Nardi assistente alla regia Eligio Martinoli luci Manuel Dionisi

 

Spettacoli: venerdì 20, sabato 21 febbraio ore 21.00 domenica 22 febbraio ore 17.30

 

Dedicato alla figura di Adriano, il testo ricostruisce le principali tappe della vita di uno fra gli Imperatori più amati e discussi dell’epoca romana partendo direttamente dalle fonti storiche greche e latine. Animula, Vagula, Blandula è una proposta teatrale moderna che utilizza un habitat scenico minimalista composto da pochi ma significativi elementi: un cerchio, una parallelepipedo, una colonna dorata. Questo allestimento simbolico prende forma e vita grazie al protagonista, l’attore Roberto Santi, che con una recitazione emotivamente sentita, appassionata e a volte struggente, utilizzando una drammaturgia contemporanea, crea delle geometrie tra testo e movimento che accompagnano lo spettatore attraverso i ricordi indelebili, gli amori vissuti, i viaggi, le battaglie e le conquiste di Adriano, uomo e imperatore, vissuto quasi duemila anni fa ma le cui idee conservano la loro grandezza anche nell’epoca attuale. Adriano è un ‘umano’ tra i divini imperatori, la cui opera ha segnato un culmine nella poesia universale tanto da assurgere a punto di partenza obbligato ogni volta che ci si avventuri negli itinerari dell’anima. Adriano sostiene che, separata dal corpo, l’anima diventa piccola, tenera, diafana, palliduccia e nuda. Animula, Vagula, Blandula è uno spettacolo che mette a nudo il corpo e l’anima, in un gioco che è sinonimo di vita.

 

Teatro Tor Bella Monaca

Prenotazioni: tel 06 2010579 Botteghino: feriali ore 18-21.30, festivi ore 15-18.30 (solo nei giorni di spettacolo) Ufficio promozione: ore 10.30-14.00 e 15.00-18.30 promozione@teatrotorbellamonaca.it

 

Dove siamo: Via Bruno Cirino | 00133, Roma angolo di viale Duilio Cambellotti con via di Tor Bella Monaca.

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- Società

’PAS EN MON NOM!’ ... Non a mio nome!

PAS EN MON NOM!  -  NON A MIO NOME!

 

Non c'è ragione di popolo né di religione che possa assecondare un tale misfatto come quello accaduto ieri notte a Parigi ... Dobbiamo essere uniti per combattere il terrorismo. W la France! W Europa! W la libertà!

 

Pas en mon nom!

 

Non a mio nome!

 

Not in my name!

 

Nein in meinem Namen!

 

Nenhum para meu nome!

 

¡No a mi nombre!

 

لا باسمي!

 

לאבשם שלי!

 

Ne en mia nomo!

 

Non in nomine meo!

 

Niet in mijn naam!

 

Nu în numele meu!

 

Не в моем имени!/ Ne v moyem imeni!

 

Si kwa jina langu!

 

ngar nar m koaamhae!

 

Benim adına!

 

Ko si ni orukọ mi! ​ ​

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- Musica

’ASPETTANDO LA BEFANA’ - al 28DiVinoJazz

'ASPETTANDO LA BEFANA' - al 28DiVinoJazz

 

In realtà si tratta di un evento, ma poiché può sembrare e lo è davvero, 'un evento molto speciale' ho voluto qui trasformarlo in 'articolo/messaggio' ad uso e consumo di quanti concepiscono la musica non solo come ascolto bensì come gioco ludico, apprendimento didattico, momento di condivisione. Tutto questo affinché la musica torni a far parte del quotidiano così com'era in principio. Non sto qui a farvi partecipi dell'utilizzo antropologico, mediatico e appunto ludico che in origine veniva fatto della musica, ma è importante che ciò si riprenda a farlo. E che l'iniziativa parta da 28DiVinoJazz è significativa di un 'accostamento' alla musica naturale 'senza schemi prefissati' e quindi in piena libertà di espressione, quella più naturale alla quale tutti piccoli e grandi siamo chiamati a riscoprire.

 

Si tratta qui di un Concerto Interattivo per bambini e genitori ispirato alla Teoria dell’apprendimento musicale di Edwin Gordon, in collaborazione con L’Ass. Cult. Pirimpumpara e Oasi Park. Lunedi 5 Gennaio, avrà luogo presso il 28Divino Jazz lo spettacolo/concerto “Aspettando la Befana in Musica” con: Giuditta Santori - percussioni e voce Roberta Montisci - fisarmonica e voce Paolo Innarella - flauto e voce I bambini saranno suddivisi in fasce d’età! Ore 16.30: per bambini da 0 a 36 mesi accompagnati da un genitore. Ore 18.00: bambini da 3 a 6 anni accompagnati da un adulto. I concerti sono rivolti a bambini da 0 a 36 mesi e da 3 a 6 anni e si ispirano alla “Teoria dell’apprendimento musicale” di Edwin E. Gordon secondo cui il bambino sviluppa la sua attitudine musicale nei primi anni di vita attraverso un’esposizione alla musica che rispetti le sue grandi capacità di ascolto e di assorbimento. Come il linguaggio parlato così il bambino può apprendere quello musicale, una lingua a tutti gli effetti dotata di una propria grammatica e un proprio vocabolario.

 

Durante il concerto, in un’atmosfera di rilassamento e divertita partecipazione, i bambini possono interagire con i musicisti, muoversi liberamente ed emettere suoni con la voce in risposta alla musica suonata per loro. Momenti e assaggi del repertorio classico, jazz , etnico e musiche composte secondo i principi della “Teoria dell’apprendimento musicale” che si caratterizzano per brevità e per l’utilizzo di differenti “modi” e “metri” musicali. I bambini accompagnati da un genitore o altra figura di riferimento sono accolti tutti insieme su un grande tappeto. Tutt’intorno i musicisti eseguono brani musicali strumentali e vocali che coinvolgono il pubblico di bambini e adulti presenti in un ascolto attivo e condiviso. I genitori saranno chiamati a prendere parte attiva accompagnando i canti con: bordoni, accordi, ostinati ritmici e via dicendo e con movimenti armoniosi che suggeriscano il “flusso” musicale. I canti hanno la caratteristica di seguire la lallazione dei bambini e non utilizzano parole che secondo gli studi eseguiti da Gordon distraggono l’attenzione verso la musica.

 

A tutti i Bambini sarà offerta una merenda/rinfresco e biglietti omaggio per il parco Giochi "Oasi Park" ! I posti sono limitati.

 

28DiVino Jazz Club - Via Mirandola,21 - 00182 Roma Prenotazione obbligatoria: e-mail entro il 3/01/2015 28divino@libero.it Oppure tel. Al 340 8249718 ( dopo le 14).

 

Non mi resta che augurarvi 'Buona Befana!'

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- Religione

Le parole di Papa Francesco - proposte per una umanità nuova

“LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO” – ed. Corriere della Sera dal 18 dicembre è in edicola”.

 

“Proposte per una umanità nuova”: (estratto dal primo volume dedicato al Natale) In una vignetta pubblicata recentemente, una bambina raccontava a una sua amichetta che per questo Natale aveva chiesto ai genitori che non le regalassero giocattoli ma «spirito natalizio» e che questi erano rimasti sconcertati, senza capire e senza sapere il da farsi. Il messaggio mi è sembrato molto acuto e ci pone davanti  la domanda: che cos’è lo spirito del Natale? L’impressione è che per rispondere bisognerebbe intraprendere una corsa a ostacoli, rappresentati da molti impedimenti, tra gli altri quelli che ci sono imposti dall’accelerato consumismo di fine d’anno. Ma la domanda resta. Nel corso del tempo, l’arte ha cercato di esprimerlo in mille modi ed è riuscita ad avvicinarci molto al significato di questo spirito natalizio. Quanti racconti di Natale ci offrono storie che ce lo avvicinano! I bellissimi racconti di Andersen, Tillich, Lenz, Böll, Dickens, Gorkij, Ham-sun, Hesse, Mann e tanti altri, sono riusciti ad aprire orizzonti di significazione che ci fanno addentrare su questa via di comprensione del mistero. Eppure, non sono sufficienti. E tuttavia, è proprio un racconto, un racconto storico, quello che ci apre le porte al reale significato dello «spirito natalizio». Un racconto semplice e preciso. Dice così: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,1-7). Si tratta di un racconto storico, semplice e con un accentuato riferimento al cammino compiuto dal popolo d’Israele. Quando Dio scelse il suo popolo e iniziò a camminare con lui, gli fece una promessa: non gli vendette illusioni, ma seminò speranza nei loro cuori. Speranza in Lui, Dio che resta fedele perché non può smentire se stesso; diede al suo popolo questa speranza che non delude. Basati sul racconto appena citato, le parole di papa francesco noi cristiani sosteniamo che quella speranza si è consolidata. Si consolida e ci lancia verso il futuro, verso il momento dell’incontro definitivo. Lo «spirito natalizio» si manifesta così: promessa che genera speranza, si consolida in Gesù e si proietta, ancora come speranza, verso la seconda venuta del Signore. Il racconto citato continua con la narrazione della scena dei pastori, l’apparizione degli angeli e un cantico che è messaggio per tutti: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». La speranza consolidata non indica soltanto il futuro, ma straripa nel presente stesso e si esprime in augurio di pace e fraternità universali che, per trasformarsi in realtà, devono radicarsi in tutti i nostri cuori. Ogni volta che leggo il racconto e contemplo la scena addentrandomi in quello spirito di speranza e pace, penso a tutti gli uomini e le donne, credenti e non credenti, che percorrono il cammino della vita e aprono sentieri a tante ricerche fatte di speranza o disperazione, e sgorga in me il desiderio di avvicinarmi, di augurare pace, molta pace, e anche di riceverla; pace di fratelli, perché tutti lo siamo, pace che costruisce. Augurare e ricevere quella pace che alla fine rende possibile, nel mezzo delle nebbie e delle notti, riconoscerci e ritrovarci come fratelli, riconoscerci nel nostro volto che ci riflette come creati a immagine di Dio. Sarà questo parte dello spirito natalizio che quella bambina della vignetta reclamava ai suoi genitori? Lettera pubblicata nel quotidiano «La Nación», 23 dicembre 2011 Piano dell’opera: Ogni volume monografico è dedicato a un aspetto della fede: Natale, Speranza, Desiderio, Educazione, Pace, Misericordia, Testimonianza, Popolo, Scelta, Perdono, Missione, Impegno, Fede, Vita, Umiltà, Pasqua, Presenza, Incontro, Cambiamento, Chiesa.

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- Mare

’FORSE NON TUTTI SANNO CHE ...’ a Natale





Forse non tutti sanno che il Natale …

Il MAM – Museo d’Arte sul Mare di San Benedetto del Tronto ha il suo ‘Presepe Subacqueo’ opera dello scultore Giuseppe Straccia situato al Molo Sud cuore della locale attività peschereccia e vero e proprio ‘museo d’arte proteso verso il mare’. Il punto esatto in cui si trova è segnato dalla presenza di una sorta di ‘belvedere’ che interrompe la massicciata, con panchine e soprattutto con la statua in travertino di una ‘Madonna degli scogli’ in costume marinaro in posizione di attesa ad accogliere i pescherecci al sicuro nel porto. L’idea del ‘presepe sottomarino’ da immergere in mare aperto nacque qualche anno fa ad Arturo Ercole, appassionato subacqueo sanbenedettese, che lo volle far realizzare in onore di tutti i caduti del mare proprio in corrispondenza del secondo e il terzo tratto del molo.
La scelta dello scultore Giuseppe Straccia di Pagliare di Spinetoli, autore tra l’altro di diverse opere realizzate durante le diverse edizioni di ‘Scultura Viva’ una manifestazione annuale che vede numerosi artisti internazionali impegnati nelle sculture ‘visibili’ all’aperto, dei massi che costeggiano il Molo Sud. L’opera, iniziata nel Dicembre 2010, precedentemente benedetta nella Cattedrale della Madonna della Marina da S. E. Gervasio Gestori, fu immersa in mare con la collaborazione e il patrocinio della locale sezione della Lega Navale Italiana. La notizia data a suo tempo da Piernicola Cocchiaro, direttore artistico e organizzatore di ‘Scultura Viva’, di ampliare la ‘Natività di Gesù’ sommersa, con l’aggiunta delle figure in pietra del bue e dell’asinello a completamento dell’opera, ha visto la sua realizzazione nel 2013 e sotto il controllo dell’ideatore Arturo Ercole che ha provveduto a farle immergere proprio nell’ambito delle festività natalizie con la collaborazione della locale Capitaneria di Porto.
L’originale idea complessiva di Cocchiaro consiste nell’aggiungere al ‘presepe’ un paio di personaggi ogni anno che poi potrebbero pian piano emergere fin sugli scogli posti attorno alla Natività sommersa e tutti rivolti verso di essa. Molto interessante inoltre è l’ipotesi dello stesso scultore di poter realizzare nel giro di una decina d’anni, un ‘presepe scultoreo’ composto da 20-25 personaggi tra sommersi e non che, prendendo il via con la prossima edizione di ‘Scultura Viva’ potrebbe vedere impegnati altri scultori locali che si offrano per continuare a dar vita a quello che è già da considerarsi uno dei migliori presepi scultorei permanenti subacquei italiani che sarebbe veramente unico al mondo. Una nota specifica questa che indica il Molo Sud di San Benedetto del Tronto come “una via della libertà, di ciò che è materia e di ciò che è natura; una passeggiata dedicata allo svago, alla contemplazione, all’ammirazione di quanto operato dal sole, dal mare, dall’uomo e dall’arte.”

Per questo articolo l’autore ringrazia il Comune di San Benedetto del Tronto, la rivista B.U.M. (Ago./Sett.’13); La rivista ‘Riviera Oggi’; il MAM Museo d’Arte del Mare.

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- Letteratura

’I DONI DEI RE MAGI’ Musica, Libri, Eventi..

“I DONI DEI RE MAGI" Musica, Libri, Eventi, Appuntamenti, Spettacoli, Mostre ed altro, tantissimo altro.

 

Evviva, festeggiamo insieme l’arrivo dell’inverno, (anche se personalmente non lo amo proprio se non per certe sue giornate particolari illuminate dalle candele, i nudi sotto le coperte ecc.), coi suoi colori accesi che scaldano, per certi profumi che provengono dalla cucina (goloso come sono) e certe fragranze gustative che sono tipiche di questa stagione. Pazienza me ne faccio una ragione e tiro avanti al calduccio della mia casa cercando di ‘ammazzare’ il tempo (per questo mi bastano i telegiornali), con qualche buon libro (sperando che me ne regalino di nuovi e interessanti), anche se ultimamente faccio davvero fatica a tenermi aggiornato. Il perché è presto detto, per il fatto che in questo periodo festivo o festivaliero (chiamatelo pure come volete), gli Editori (trattiamoli col dovuto rispetto anche se non sempre lo meritano), si scatenano in una ressa di titoli da riempire intere librerie in una sola volta. Tuttavia l’attesa per il Natale mi riempie di gioia, in primis per la musica che al solo pensiero si sprigiona nella mia testa, le ninne nanne, le filastrocche, le laudi, i canti corali intorno all’albero, ed anche per i due passi (due non di più) fatti all’aria aperta alla scoperta dei deliziosi prati nei parchi cittadini …

 

*Fino a raggiungere, se per caso vi trovate a Roma il 28 Dicembre attorno alle ore 11,30 nei pressi delle Scuderie del Villino Corsini - Teatro Villa Pamphilj per assistere al Concerto/Spettacolo di Natale della Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia quest’anno intitolato “AMAHL E GLI OSPITI NOTTURNI” divenuto un classico delle recite natalizie. Eseguito in tutti i Paesi e in quasi tutte le lingue, è stato visto da più persone che qualunque altra opera nella storia. La novella narra dei tre Re Magi che, seguendo la stella sulla strada per Betlemme, si fermano per un breve riposo nella casa di Amahl, un povero pastorello zoppo che vive lì con la sua mamma vedova. Ispirato dal discorso di uno dei tre Re , che parla di un regno "fondato sull’amore", Amahl offre il suo semplice e personale dono a Gesù Bambino: ed ecco che nella Notte Santa si compie un miracolo...

Il Corso Pre-Accademico di Canto della Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia, convenzionata con il Conservatorio Briccialdi di Terni, offre la propria esecuzione di questo piccolo grande capolavoro. Preparati musicalmente e scenicamente da Stephen Kramer e Ilaria Galgani, gli allievi hanno anche tradotto il testo dall’inglese all’italiano e ne hanno curato la metrica. Ingresso libero fino a esaurimento posti. Info: scuderieteatrali@gmail.com, www.teatroscuderievillinocorsini.it. www.teatroverde.it

 

Alla tenerezza che di per sé infonde la musica e all’infinita bellezza della semplicità dei cuori delle nonne, delle mamme, delle suocere più complicate e delle ‘regine’ incontrastate delle nostre notti romantiche è doveroso dedicare una qualche riflessione e magari fare loro omaggio di un qualche dono, non vi pare? Ma si può sapere di che parli? Non so, mi sono lasciato andare, non si può? Per un momento ho creduto di essere nell’Isola di Giravento adagiata nel cuore del Mediterraneo. Ma, io conoscevo ‘l’Isola che non c’è’ quella di Peter Pan, adesso c’è anche quella di Giravento?

 

** Sì che c’è, l'isola di Giravento vive i lenti ritmi dell'antica gente di mare, immersa in una natura incontaminata. Anche detta “L’ISOLA DEI VOLI ARCOBALENO” di Sabrina Minetti (Autodafé 2011). O meglio, così vivrebbe, in una dimensione poetica e a volte trasognata, se non fosse suo malgrado costretta a confrontarsi con l'irruzione della modernità, che prende qui le forme di una ambiziosa regata velica. Ma Giravento è anche l'isola dei flussi migratori tra l'Africa e l'Europa: quello dei Voli Arcobaleno, eleganti uccelli dalle insolite usanze, e quelli di un'umanità dolente in cerca di un futuro migliore”.

 

La corsa al business natalizio spinge agli acquisti e allora vediamo trionfare in tutte le vetrine e sui bancali delle librerie numerose ‘idee regalo’, confezionate ad oc: ‘edizione lusso’, ‘in cofanetto’, ‘rilegata a mano’, ‘illustrata’ ecc. dedicate al Natale e non solo, come fossero tanti fiori appena sbocciati e talvolta di una tale bellezza di ‘copertine’ da invogliare all’acquisto senza neppure guardare al contenuto. Straordinari i colori utilizzati: dal pastello (buoni i fiori pastellati), al bianco neve (delle meringhe), all’energico verde (dei broccoletti ripassati alla romana), fino ad arrivare al caldo ‘bordeaux’ che s’accompagna benissimo con le castagne arrostite, o lessate, o in purea (castagnaccio con uva passita e pinoli). Insomma, un raffinato e variegato bouquet di delizie (buone letture) ricolmo di novità, ideale per attingere alle diverse opzioni offerte dalla natura per poter attingere al meraviglioso mondo della cultura, e perché no magari oltre al classico Artusi (sulla cucina), tenere a portata di mano un libro di racconti che comunque parli di buona cucina e se volete anche dell’arredo che la compone.

 

*** “I RACCONTI DELLA TAVOLA” di Massimo Montanari (Laterza Editore 2014). Il libro propone un intreccio di racconti sulla fame e i modi in cui l’uomo ha cercato di trasformarla in occasione di piacere; perché – come l’autore stesso dice – “la tavola racconta il mondo: l’economia, la politica, i rapporti sociali, i paradigmi intellettuali, filosofici, religiosi di una società”. Storie vere si alternano ad altre inventate, come storie altrettanto possibili, specchio di un mondo realistico/immaginario, di quella comunità umana che ha reso il cibo e il suo consumo una realtà visibile. Il rischio – dico io che scrivo – sta nei comportamenti che diventano ideali se condotti da un buon sapere, cioè dalla conoscenza manuale e pratica di adoperare le materie giuste nella preparazione. Come dire: “ad ogni dono il suo vestito”, sia che si decida di omaggiare la gola oppure la ‘finezza’ della linea, secondo il proprio gusto e i desideri che, non vanno assolutamente trascurati.

 

*** Solo così fra le tante proposte ogni dono troverà il suo vestito ideale, magari dettato dalla sensibilità e alla non stressante fatica di cercare il regalo giusto pensando alla persona cui donarlo. Nel caso questo fosse un libro (per me) suggerisco di scegliere l’avventura (anche galante, perché no?), oppure un romanzo sulla felicità di leggere, come ad esempio quello di Gabrielle Zevin “LA MISURA DELLA FELICITA’” edito da Nord 2014, (suggerito da Il Libraio appena arrivato sul mio desk), che ci ricorda perché amiamo leggere all’interno di una storia delicata e magica. Ma al dunque perché non lasciarsi travolgere da “UNA FOLLE PASSIONE” Salani 2014 di Ron Rash, autore consolidato in storie d’amore thrillerizzate da una passione travolgente ed esclusiva che non conosce limiti.

 

*** Ma torniamo alla letteratura con un genere di avventura più casereccia con l’autore di “OLIVE COMPRESE” e “QUATTRO SBERLE BENEDETTE” (Garzanti 2013), e il nuovo romanzo di Andrea Vitali “BIGLIETTO, SIGNORINA”, una storia fatta di uomini simpatici e accattivanti che ci porta un po’ indietro negli anni, nell’Italia della ricostruzione (che pure suona nuova, perché forse non vi sembra sia da ricostruire da cima a fondo?), e che fatica a risollevarsi dalle macerie sulle quali ognuno tenta la sorte per imbastire il proprio futuro. Ma vediamo un po’, se con ‘le olive’ torniamo a parlare di piacevolezze del palato, con ‘imbastire’ potremmo anche parlare di moda, ma forse suona meglio (un po’ troppo con il cucire, no?), allora val la pena di parlare di donne.

 

*** E parlando di donne, indubbiamente la Sonzogno è una delle più antiche case editrici italiane. Ha un’anima popolare, di qualità, rivolta prevalentemente a un pubblico femminile. (Sarà così?), io intanto ho scelto per voi “VIVERE LE EMOZIONI” di Livio Della Seta per capire i disturbi dell'umore e liberarsi dall'ansia. Le emozioni possono farci star male, ma segnalano qualcosa. Ed è questo il motivo per cui non dobbiamo combatterle in quanto tali, con lo scopo di eliminarle, bensì utilizzarle come strumento di consapevolezza. “Le emozioni sono lo strumento indispensabile per entrare in contatto con il mondo esterno e interpretare la realtà circostante. Qualunque sofferenza è caratterizzata da emozioni disturbanti. Provare un’ansia intensa, una rabbia difficilmente controllabile, una tristezza profonda può spingere una persona a chiedere aiuto psicologico. Dobbiamo capire cosa stiamo provando e perché sia proprio quella l’emozione provata. È necessario distinguere se ciò che avvertiamo è paura piuttosto che rabbia; tristezza piuttosto che senso di colpa. È attraverso questa comprensione che saremo in grado di valutare la qualità del rapporto che intercorre tra noi e gli altri. Le emozioni sono la bussola che ci orienta nelle nostre relazioni” (dalla presentazione del libro).

 

*** La Temperino Rosso Edizioni presenta un saggio sulla donna scritto da una donna: “L'ALTROVE NEGLI OCCHI DELLE DONNE” di Silvana Archetti: “Il libro raccoglie le testimonianze di sette donne immigrate provenienti da Brasile, Libano, Marocco, India, Albania, Ghana, Romania, che lasceranno un marchio indelebile ed affascinante in colei che le ha intervistate, per un epilogo in cui l'autrice stessa deciderà di prendere la strada per il suo "nuovo mondo". Collana Nuovi Saperi 2014.

 

*** Anche Piera Rossotti Pogliano - Direttore Editoriale di Edizioni Esordienti E-book ci parla di donne e lo fa con l’autore di due libri di Franco Pulcini, il quale, senza tema di smentita, risponde che il motore della vita è la passione amorosa, e lo fa con due romanzi che parlano d'amore. Non vi aspettate, però, una storia romantica e sdolcinata: la penna dell'autore ci trascina nell’ingorgo affettivo dei protagonisti de “IL MALTEMPO DELL'AMORE”, un noir psicologico che ci fa viaggiare su un mare calmo e azzurro sotto il sole o tra le onde incattivite e le raffiche di vento di una tempesta improvvisa, offrendo colpi di scena, ritmi veloci e una scrittura ironica e leggera. Vi furono tempi lontani in cui non si parlava ancora di cougar e di toy-boy e davano scandalo le relazioni con differenza d’età, specie se a sfavore del maschio. La categoria “donna matura” non era ancora divenuta allettante, ed era, se mai, un marchio d’infamia. La violenza del pregiudizio poteva essere brutale sui sentimenti delle coppie squilibrate.

 

***Ed ecco servito sul piatto natalizio un altro romanzo sulla donna:“LEI È UNA GRANDE” è il sospiro di un giovane normale, intelligente, laborioso, ma inadatto alla sua età e fatalmente attratto dalle donne ricche di esperienza, autoironia, sapere esistenziale. L’avventura di Federico scivola tra Milano, Vienna, il mare della Toscana, l’amata famiglia piccolo-borghese, la nonna, le vacanze studio, l’esame di maturità. Incontra l’opera, conosce un grande scrittore, ascolta storie. Lo guidano i sogni, il suo amore per gli animali, tra cui i cavalli del destino. Ci sono le ragazze, i compagni di scuola. Ma che meraviglia, che incanto le donne grandi. E quanto son meglio di qualunque altra cosa al mondo”.

 

*** Passando all'altro sesso, in “METAFISICA DEL SUCCESSO” di Attilio Fortini – Saggio incluso nella collana ‘Viaggio delle idee’ edito sempre da Temperino Rosso Edizioni 2014, si parla invece di uomini: “Nell'epoca della rappresentazione tecnologica gli uomini si trovano ormai confrontati con un nuovo modo d'apparire; questo influisce sulla loro percezione individuale, sul loro modo d'essere, sul divenire coscienti di sé. Apparendo "moltiplicato" tecnologicamente l'uomo moltiplica il suo offrirsi agli altri, finendo per mostrare sempre più la sua immagine, la sua oggettività esteriore, a scapito del proprio auto-percepirsi, dell'attenzione alla sua intimità. L'accentuarsi di questa nuova visione "obiettiva" degli individui, mette però in luce anche qualcosa che prima poteva ancora non apparire così chiaro, ossia il legame imprescindibile che ogni uomo possiede con gli altri.”

 

**** La rivista di ricerca letteraria “Anterem” promuove per il 2015 la XXIX edizione del Premio dedicato a Lorenzo Montano (Verona 1895 – Glion-sur-Montreux 1958), poeta, narratore,critico tra i fondatori di una delle più importanti riviste del primo Novecento, “La Ronda”. Il Premio si articola in cinque sezioni: “Raccolta inedita”, “Opera edita”, “Una poesia inedita”, “Una prosa inedita”, “Opere scelte”. I poeti vincitori, finalisti e segnalati leggeranno i propri testi nel corso di un Forum che coinvolgerà musicisti, editori di poesia, critici letterari e filosofi, esponenti di siti web e riviste specializzate. Il bando è disponibile e può essere scaricato dal sito www.anteremedizioni.it/xxix_edizione_premio_lorenzo_montano/.

 

**** Inoltre va ricordato essere in distribuzione il numero 88 della rivista letteraria “Anterem” titolata “Per crescita di buio” e che registra – come con disincanto viene sottolineato nell’editoriale di Flavio Ermini – che “l’oscurità da cui nasce il dire può inabissarci a tale profondità da produrre smarrimento. Gli dei sono lontani e probabilmente mortali. Esattamente come siamo noi, com’è il mondo, com’è la volta celeste che nel buio comincia e finisce. Quel buio è l’immagine dell’esistenza”. Convengono al dialogo in questo numero poeti e pensatori di rilievo internazionale, in un succedersi avvincente di poesie e saggi, come già mette in evidenza il sommario. Di particolare rilievo sono le prose poetiche di Yves Bonnefoy tradotte da Anna Chiara Peduzzi. L’apertura e la chiusura del numero sono affidate a Franz Josef Czernin, nella traduzione di Luigi Reitani.

 

*** Flavio Ermini "ESSERE IL NEMICO" Mimesis (2013). Con questo suo ultimo lavoro letterario che si configura come un vero e proprio discorso, quasi un’orazione laica, l’autore si rivolge con immediatezza comunicativa a ognuno di noi per invitarci a muovere i nostri passi sulla via estetica alla liberazione. “L’età della tecnica – sostiene Ermini – ha fatto sì che l’essere umano non conti più niente, se non come merce tra le merci. Non c’è speranza nello spirito del tempo. È necessario uscire dalla rocca delle illusioni, come sostiene Leopardi, e tornare a immaginare processi produttivi, letterari e creativi in ambiti di autonoma libertà. La via estetica alla liberazione parte da qui. Percorrerla significa concepire il linguaggio non solo come “mezzo”, ma come processo di autodeterminazione in atto. Significa farci vicini all’idea che questo mondo vada salvato, testimoniando lo scandalo della violenza e dell’ingiustizia di classe, riconciliandoci con la natura e sperimentando forme di vita che non si lascino integrare da nessun potere. Torniamo a essere ciò che siamo. Non siamo soli a volerlo. Molti sono già in cammino sulla via estetica alla liberazione: l’apostolo Marco e il nichilista Bazàrov, Novalis e Marx, Balzac e Marcuse, Nietzsche e Cacciari, Hölderlin e Chomsky, il profeta Isaia e Sartre. Non siamo soli a credere nella necessità di far emergere una nuova, radicale moralità che, priva d’identità egoistica, possa pre-condizionare l’essere umano alla gioia della libertà”.Il volume è disponibile in tutte le librerie oppure ordinato direttamente alla casa editrice: commerciale@mimesisedizioni.it

 

*** Suvvia l’avventura che intendevo fin dall’inizio equivale ad immergersi nel passato remoto, in quell’antichità che ci racconta i fasti e le cadute di un periodo falsamente ‘storico’ che ritorna, sulla scia della grande civiltà che ci ha preceduti, quella egizia. L’occasione è qui offerta dall’uscita di un nuovo libro di Wilburn Smith “IL DIO DEL DESERTO” (Longanesi 2014) che segna la ripresa della ‘saga’ di Taita, il personaggio assoluto che regge le sorti dell’Egitto faraonico. Un romanzo, certo degno di una grande fiction cinematografica che non è ancora stata messa in lavorazione e che quasi certamente (prima o poi) diverrà un ‘serial’ colossale, che inizia da lontano, dal quel primo libro “IL DIO DEL FIUME” che lasciò stucchevoli e miscredenti i lettori, gli egittologi e i semplici studiosi per la verosimiglianza con le conoscenze acquisite dall’archeologia ed altro. L’autore Wilburn Smith non ha bisogno di presentazione per farsi conoscere, si pensi che solo in Italia ha venduto 24milioni di copie di libri.

 

** Mentre si aspetta con ansia l’uscita al cinema di “LO HOBBIT: La Battaglia delle Cinque Armate” prevista per il 17 Dicembre, prodotto dalla Metro-Goldwyn-Mayer per la regia di Peter Jackson e con uno stuolo di attori di prima grandezza, ci accontentiamo di vedere in live-streaming la premiere mondiale e guardare i numerosi trailer apparsi su Maymovies Cinema e YouTube. Necessita qui ricordare che il film fa seguito a un libro già famosissimo “IL SILMARILLION” (Bompiani 2005), iniziato nel 1917 e la cui elaborazione è stata proseguita da Tolkien fino alla morte, e rappresenta il tronco da cui si sono diramate tutte le sue successive opere narrative. In quanto "opera prima" dunque, “Il Silmarillion” costituisce il repertorio mitico di Tolkien, quello da cui è derivata la filiazione delle sue favole: "Lo Hobbit", "Il Signore degli Anelli", "Il cacciatore di Draghi". che comprende cinque racconti legati come i capitoli di un'unica storia sacra in cui si narra la parabola di una caduta: dalla ‘musica degli inizi’ che avvolge il momento cosmogonico, alla guerra di Elfi e Uomini contro l'Avversario. L'ultimo dei racconti costituisce l'antecedente immediato del "Signore degli Anelli".

 

*** Palando di cinema ecco qualche notia su: “LO HOBBIT” riporta ad un'epica conclusione delle avventure di Bilbo Baggins, Thorin Scudodiquercia e la Compagnia di Nani. Dopo aver reclamato la loro patria dal drago Smaug, la compagnia ha involontariamente scatenato una forza letale nel mondo. Infuriato, Smaug abbatte la sua ira ardente e senza pietà alcuna su uomini inermi, donne e bambini di Pontelagolungo. Ossessionato soprattutto dal recupero del suo tesoro, Thorin sacrifica l'amicizia e l'onore e mentre i frenetici tentativi di Bilbo di farlo ragionare si accumulano finiscono per guidare lo Hobbit verso una scelta disperata e pericolosa. Ma ci sono anche pericoli maggori che incombono. Non visto, se non dal Mago Gandalf, il grande nemico Sauron ha mandato legioni di orchi in un attacco furtivo sulla Montagna Solitaria. Mentre l'oscurità converge sul conflitto in escalation, le razze di Nani, Elfi e Uomini devono decidere se unirsi o essere distrutte. Bilbo si ritrova così a lottare per la sua vita e quella dei suoi amici nell'epica Battaglia delle Cinque Armate mentre il futuro della Terra di Mezzo è in bilico.

 

**** Per favore non dimentichiamo il teatro, l'Associazione culturale “Luce dell'Arte” di Roma indice ed organizza la 4^ Edizione del Premio di Poesia, Narrativa, Teatro e Pittura in scadenza bando entro il 20 Dicembre 2014. Il premio è suddiviso in: Sezione A - Poesia: poesia a tema libero edita o inedita. Sezione B - Narrativa: racconto, libro di racconti o romanzo a tema libero, inedito o edito, anche in e-book. Sezione C - Teatro: monologo, corto, commedia o tragedia a tema libero in lingua italiana o straniera, con inclusa traduzione. Ogni sezione è aperta a tutti gli scrittori, attori e sceneggiatori. Sezione D - Pittura: opera d'arte fatta con qualsiasi tecnica (olio, acquerello, china, etc.), della quale inviare due foto a colori del formato cm 13x18, indicando titolo, tecnica adoperata e misura della stessa. Fondamentale dichiarare che l'opera è frutto del proprio ingegno, presentandola nel formato originale alla premiazione. Info:www.lucedellarte.altervista.org

 

*** La Todaro Editore di giallistica ha fatto suo lo slogan ‘I Libri non muoiono mai … e quelli divertenti, meno degli altri’. Sarà anche vero però … fatto è che per questo inizio inverno, ha scelto tre romanzi ironici (ma pur sempre gialli) pubblicati negli anni dalla nostra casa editrice. Sono tutti titoli disponibili anche in ebook: “ IL MIO MITRA È IL CONTRABBASSO”di Fabrizio Canciani; “IL CORPO DEL MONDO”di Massimo Marcotullio; “LIBERTÀ DI PAURA”di Franco Foschi. Di altra trama risulta invece “MILANO 1946, DELITTI A CITTÀ STUDI” di Fulvio Capezzoli, che nel suo libro ci racconta come a “Milano: un mattino dell’estate del 1946, il commissario Maugeri raccoglie la deposizione di Rosalba Attanasio, preoccupata per la sparizione del suo cane, anzi per il suo presunto omicidio. Due giorni dopo la donna precipita dalla finestra di casa sua e il commissario scopre che in realtà il cane non è mai scomparso, anche perché non è mai esistito. Rosalba è forse una squilibrata? O la spiegazione è un’altra? Nonostante Maugeri sia inviso al suo superiore, a causa del suo passato da partigiano, il caso gli viene assegnato, e può iniziare la sua prima “vera” indagine”. Pagina Facebook o seguiteci su Twitter o @TodaroEditore.

 

Ma passiamo ad una proposta meno prosaica di quelle presentate fin qui e re-immergiamoci nell’atmosfera propria del Natale che richiama la semplicità dei nostri sentimenti così come dei nostri intenti, e affidiamoci alla generosità e all’altruismo che l’avvento delle prossime festività richiede (o forse richiederebbe) e rallegriamoci nello spirito di aver pensato anche agli altri, a quanti in questo momento vivono nella sofferenza, le cui necessità non sono inferiori alle nostre peculiarità, hanno la stessa valenza ‘umana’ di quelli che sono le nostre desiderate, con la differenza che senza il nostro proficuo aiuto non possono essere risolte. Acciò sottopongo qui di seguito almeno due libri che possono servire a indirizzare il nostro spirito e aiuto nella direzione giusta, tanto più a indicarci il modo e la strada per essere in qualche modo di aiuto agli altri.

 

*** “VIVERE LA CARITA’ … INSIEME” - Aa. Vv. a cura di Mario Metti e Giannino Piana, Giuliano Ladolfi Editore 2014, per la Collana: Topazio. Introdotta da don Piero Cerutti, la pubblicazione reca i contributi di numerosi autori degni qui di essere citati per il loro contributo fattivo: Mario Airoldi, Claudio Balzaretti, Mario Bandera, Silvio Barbaglia, Francesco Bargellini, Graziano Basso, Luigi Bettazzi, Giovanni Bianchi, Franco Giulio Brambilla, Dino Campiotti, Anna Maria Cànopi, Piero Cerutti, Adriano Ciocca Vasino, Renato Corti, Piermario Ferrari, Fabrizio Filiberti, Marco Fornara, Franco Giudice, Pier Davide Guenzi, Giuliano Ladolfi, Andrea Mancini, Luciano Manicardi, Enrico Masseroni, Mario Metti, Giuliano Palizzi, Giannino Piana, Rino Pistellato, Giovanni Ramonda, Milena Simonotti. La pubblicazione si propone sia una riflessione sul tema della carità, come naturale sbocco delle due opere sulla ‘fede’ e sulla ‘speranza’ che l’hanno preceduta, come testimonianza di concrete azioni di volontariato che inducono a guardare con fiducia al futuro.

 

*** “LA GIOIA DI OGNI GIORNO” , S.S. Papa Francesco, Libreria Editrice Vaticana / Mondadori 2014. Il volume raccoglie le ‘omelie’ pronunciate negli anni precedenti l’elezione al soglio pontificio, in cui Papa Francesco affronta le questioni più scottanti del nostro tempo, in un confronto illuminante con la parola di Dio che sorprende per attualità e originalità di interpretazioni e prospettive. La precarietà del presente e l’incertezza del futuro, la miseria materiale e morale, la miseria materiale e morale che sta contagiando la società, la solitudine di giovani e anziani, la freddezza e la distanza che inaridiscono il rapporto fra le persone, il ruolo diseducativo dei mass media. Queste pagine dimostrano come Bergoglio pensa (pensava già) a un radicale rinnovamento della missione sacerdotale secondo lo spirito evangelico della ‘prossimità’ agli ultimi, e ridefinisce la ‘maturità umana e cristiana’ nella capacità di vivere il tempo come memoria, visione e attesa, superando la ‘cultura dell’immediato’ che priva l’uomo di orizzonti di speranza. Un obiettivo ambizioso che presuppone alcuni decisivi cambiamenti di rotta. Anche per questo il libro contiene un ‘messaggio’ imprescindibile che invita a ritrovare la ‘gioia di ogni giorno’ in cui viviamo:

“La gioia del presente è la gioia umile di chi si accontenta di ciò che il Signore gli dà ogni giorno, la gioia paziente del servizio semplice e discreto, la gioia speranzosa di chi si lascia condurre dal Signore.”

 

Viva il Natale!, quindi, e che l’atmosfera della festa riviva nell’animo dei popoli tutti, insieme alla serenità ritrovata, la pace che necessita. AUGURI!

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- Letteratura

’LE STRENNE DI BABBO NATALE’ Musica, Libri, Eventi..

“LE STRENNE DI BABBO NATALE” Musica, Libri, Eventi, Appuntamenti, Spettacoli, Mostre ed altro, tantissimo altro.

 

Se è vero che “la musica è il silenzio, allora tutte le note non fanno che incorniciare il silenzio” – avrebbe detto Miles Davis durante un’intervista, e lui di note sì che se ne intendeva. Lui che ha sempre rappresentato l’Avanguardia jazzistica e che non è stato ancora eguagliato da nessun altro. Lo dice il fatto che ancora oggi si clonano i suoi brani, il suo modo di suonare, il suo stile con ottimi risultati.

 

* Ecco qui di seguito selezionati due Masterpiece del grande trombettista con Gil Evans che voglio qui re-sottoporre all’attenzione degli appassionati di Jazz e non solo: Miles Davis ‘PORGY AND BESS’ dall'Opera di George Gershwin rimasterizzato dall’LP originale (Columbia 1958); e lo strepitoso ‘BIRTH OF THE COOL’ (Capitol 1989 che raccoglie anche brani del 1949/50) e che ha dato origine alla stagione mai conclusa del Cool-Jazz.

 

*Notevoli i due ‘cloni’ anche se con alcune rivisitazioni in chiave personalissima del nostro Paolo Fresu ormai salito all’apice internazionale: ‘KIND OF PORGY AND BESS’ (RCA VICTOR 2002), e ‘BIRTH OF THE COOL’ (2012) realizzato da Pannonica per il Banco di Sardegna. Paolo Fresu vi appare con un ensemble-jazz di ottimo livello strumentale. Alcuni dei brani in esso contenuti sono re-arrangiati da Gerry Mulligan, altri da Gil Evans, già collaboratore di Davis.

 

*** Acciò dunque, la musica altro non è che “.. un silenzio che sta anche intorno ai suoni, un silenzio che è ‘liquido amniotico’, dà vita e ne fa riconoscere e individuare il (suo) senso profondo. (..) Dunque, se il luogo (della musica) è puro spazio, il silenzio si fa ascoltare, ci accompagna e non ci lascia soli” – scrive Mario Brunello in ‘SILENZIO’ (Il Mulino 2014), ed ancor più lo dimostra nelle sue – ‘Sei suites a violoncello solo senza basso’ di J.S. Bach, Registrato all'Auditorium di Santa Cecilia (Brunello series EGEA 2010). Ed inoltre in – ‘Concerti per violoncello’ di A. Vivaldi (Brunello series EGEA 2009). Ne deriva che l’errata comprensione della musica è in generale la comprensione considerata giusta finché non si rivela la vera natura del suono e il ‘suono’, è scientificamente provato, non è nell’orecchio di tutti.

 

*** Tuttavia il ‘silenzio’ può diventare il luogo di una ricerca sonoro-musicale da non disdegnare, che ci restituisce a quella serenità contemplativa, oggi più che mai necessaria, per tornare a occuparci, in senso più ampio possibile, delle cose dello spirito, degli avvenimenti culturali, dell’amicizia come arte dell’incontro, della buona lettura fatta all’aria aperta, o davanti al caminetto acceso a rinvigorire il ‘ceppo’ “..con le quattro capriole di fumo del focolare”, tanto per dirla col nostro sempre vivo poeta Giuseppe Ungaretti “VITA D’UN UOMO” - Tutte le Poesie (Meridiani - Mondadori 2009).

 

Chissà che non arrivi Babbo Natale a portare i suoi bei doni, con quell’aria spruzzata di neve che pure riempie l’aria di tanta bellezza e parla una lingua che tutti noi di larecherche.it conosciamo bene, che è quella dei ‘luoghi della scrittura’ ma anche ‘della lettura’ cui non riusciamo ad esimerci ad ogni occorrenza, che sia letteratura o narrativa, o maggiormente di quella ‘poesia’ che ci affama o ci riscalda il cuore a seconda dei casi. Ebbene Babbo Natale sta per arrivare e nel suo sacco oltre ai CD musicali, ci sono moltissime novità librarie da non trascurare e tutte, come si sa, a buon mercato.

 

*** Incominciamo dai più piccoli con l’annuncio di un nuovo libro di fiabe per tutte le età, illustrate da autori piceni dal titolo “FA’VOLA’ e Il MARE’ (Ediz. I Luoghi della Scrittura 2014); nonché la riedizione di un classico della fiaba moderna di L.Frank Baum ‘IL MAGO DI OZ’ (RCS Libri 2004) nell’edizione integrale con le illustrazioni originali di Lucia Salemi. Per le Edizioni Corsare c’è pronta la ristampa di ‘PETER PAN’ (2012) di James M. Barrie per l’adattamento e le illustrazioni ‘straordinarie’ di Paolo Ghirardi, grafico dal segno attento ed acuto, pittore nonché illustratore raffinato ed elegante di grande inventiva creativa.

 

** Da vedere a teatro sottolineo la ‘Compagnia Piccoli Per Caso’ la prima compagnia italiana composta da bambini professionisti in scena al Teatro Ghione dal 10 Febbraio al 1 Marzo, con ‘PICCOLI RAGAZZI’ per la regia di Guido Governale e Veruska Rossi, dopo il successo riportato da ‘CUOREDINEVE’ andato in scena dal 18 al 30 Novembre scorso. Una fiaba che tocca i temi della comprensione, accettazione e della ‘missione’ che ognuno ha nella vita che si conclude con la nascita di un’amicizia davvero speciale.

 

** National Geographic Italia si mette in mostra con “FOOD, IL FUTURO DEL CIBO” al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 18 Novembre 2014 al 1 marzo 2015. “Come l'aria, come l'acqua, il cibo è vita. Il cibo è connessione, il cibo è celebrazione, sostentamento. Ma soprattutto, nel 21° Secolo, il cibo è una sfida globale. Una sfida che entro il 2050 riguarderà 9 miliardi di persone. Come nutrire tutti in modo sostenibile per il pianeta? Di pari passo con l'aumento della popolazione umana aumentano i nostri bisogni, e le aspettative. Oggi centinaia di milioni di persone soffrono di malnutrizione e di "insicurezza alimentare", mentre quasi 1 miliardo e mezzo di persone sono obese o sovrappeso. National Geographic esplora e analizza tutti gli aspetti di questa grande, e immane, sfida con una serie di articoli e con una grande mostra, Food, il futuro del cibo, al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 18 novembre 2014. La mostra sarà composta da oltre 90 fotografie scattate in tutto il mondo dai migliori professionisti del magazine e da una serie di grafici e testi che gettano luce sulle diverse problematiche legate al futuro del cibo: l'impatto dell'agricoltura e dell'allevamento di bestiame sulle acque, sul clima, sul territorio, sulle foreste, l'incremento esponenziale dell'acquacoltura, ma anche lo spreco alimentare e il nuovo volto della fame, così come la prossima rivoluzione verde. Esploreremo le possibili soluzioni e la centralità del cibo nelle diverse comunità allo scopo di promuovere consapevolezza collettiva a tutti i livelli, dalle case alle scuole, ai consigli di amministrazione e oltre. Perché ciascuno di noi, nel suo piccolo, può contribuire e fare la differenza.” (presentazione di Marina Conti, capo redattore National Geographic Italia).

 

** A Milano - Museo di Storia Naturale: “FOOD, LA SCIENZA DAI SEMI AL PIATTO” da venerdì 28 Novembre fino al 28 Giugno 2015. La mostra affronta il tema del cibo scientificamente ma, al tempo stesso, con una forte componente ludico-gastronomica in grado di conquistare i visitatori di tutte le età, e si snoda tra scenografiche immagini al microscopio, video didattici e giochi interattivi. “Food è la mostra ideale per anticipare, cinque mesi prima del suo avvio, i temi dell’Esposizione Universale che Milano ospiterà da maggio a ottobre 2015 – ha dichiarato l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno –. Un modo per entrare nel mondo del cibo, delle sue origini, delle sue forme, delle sue ragioni, delle sue frontiere; e per creare fin d’ora quel clima di attenzione e interesse, ma anche di festa e divertimento, in cui Expo 2015 a breve ci trascinerà tutti, milanesi e visitatori. Una mostra che si avvale di un apparato scientifico-divulgativo di grande autorevolezza ma al tempo stesso stupisce, appassiona, diverte: un approccio dedicato a tutta la famiglia e pensato tanto per gli adulti che per i ragazzi, con esperimenti di fisica e laboratori per i bambini, che ben rappresenta la scelta di politica culturale che negli ultimi anni sta sempre più orientando l’attività del Museo di Storia Naturale che la ospita”. Il progetto scientifico di FOOD | la scienza dai semi al piatto è curato dal chimico Dario Bressanini, docente presso L’Università dell’Insubria, divulgatore scientifico e collaboratore di varie testate giornalistiche dedicate all’esplorazione scientifica del cibo e della gastronomia. Adottando lo stesso approccio divulgativo, la mostra affronta il complesso tema del cibo con metodologia scientifica: i singoli elementi che arrivano ogni giorno nei nostri piatti vengono “sezionati” negli elementi principali e poi analizzati nel dettaglio. Un percorso che si snoda tra scenografiche immagini al microscopio, video didattici e giochi interattivi, accompagnando il visitatore in un viaggio che, partendo dal seme, dove tutto inizia, arriverà fin dentro al piatto finito. Quattro le sezioni in cui è suddiviso il percorso di mostra sono dedicate a: 1. Tutto nasce dai semi / 2. Il viaggio e l’evoluzione degli alimenti / 3. La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene / 4. I sensi. Non solo gusto.

 

*** Passiamo quindi alla letteratura vera e propria con l’e-book ‘gratuito’ offerto ai lettori da larecherche.it dal titolo “Malinconico Oscuro” di Emilio Capaccio, un’antologia poetica di autori più o meno conosciuti dell’America Latina le cui scelte offrono qui il più ampio panorama possibile, poetico e letterario, con la pretesa di trasmettere a un pubblico più vasto di lettori, le ‘voci’ dei molti poeti che hanno contribuito a formare quello che comunemente chiamiamo ‘lo spirito del tempo’, rivisitato e rivitalizzato dal ‘traduttore’ che abbiamo già avuto modo di apprezzare in altri lavori presenti su questo stesso sito in veste di poeta e narratore di pregio. Come nel titolo “Malinconico oscuro” l’autore, non a caso, sottolinea quella che poi è la tematica di fondo di tutta la raccolta, segnata dalla ‘malinconia’ distintiva della poesia sudamericana, e dall’ ‘oscurità’, cioè l’essere ‘umbratile’ tipica dell’espressione attitudinale di quasi tutta la poesia popolare, che trova riparo nella solitudine, nella pace del silenzio e dalle facili comprensioni.

 

**** Va ricordato inoltre che larecherche.it – Proust en Italie e Associazione Gli Amici di Marcel Proust ha bandito la prima edizione del ‘concorso’ letterario la cui partecipazione è completamente ‘gratuita’ “Il Giardino di Babuk” per opere inedite, I edizione anno 2015 (scadenza 1 marzo 2015, ore 24:00): Sezione A: Poesia | Sezione B: Narrativa, la cui premiazione avverrà in data 22 marzo 2015. il cui bando è scaricabile direttamente sul sito premio@larecherche.it

 

**** Blofoolk Magazine www.blogfoolk.com ha posto on-line il numero 180 del 3 Dicembre 2014 contenente “Storie, Suoni e Visioni sulle Strade del Folk”, un ampio panorama sui movimenti e le novità della musica in Italia e non solo. Inoltrre, la possibilità di scaricare il volume antologico "Viaggio In Italia" curato da Ciro De Rosa e Salvatore Esposito direttamente dal sito www.squilibri.it.

 

*** Ma torniamo ai libri, e questa volta alla saggistica (per adulti), InSchibboleth Edizioni propone alcune delle opere di recente pubblicazione di Emmanuel Levinas “PAUL CELAN DALL’ESSERE ALL’ALTRO” Collana Point d’orgue 2014, con una introduzione di Henry Michaux seguito da un saggio di Danielle Cohen-Levinas e i disegni di Alexandre Hollan per la traduzione e cura di Giuseppe Pintus: “Non vedo differenza, scrive Paul Celan a Hans Bender, tra una stretta di mano e un poema. Ecco il poema: linguaggio compiuto, ricondotto al livello di una interiezione, di un’espressione così poco articolata come una strizzata d’occhio, come un segno dato al prossimo! Segno di che? Di vita? Di benevolenza? Di complicità? O segno di nulla, o di complicità per nulla: dire senza detto. O segno che è il suo stesso significato: il soggetto dà segno di questa donazione di segno al punto di farsi interamente segno. Comunicazione elementare e senza rivelazione, infanzia balbettante del discorso, inserimento maldestro nella famosa lingua che parla, nel famoso die Sprache spricht, ingresso da mendicante nella dimora dell’essere.” (dalla quarta di copertina).

 

***Ancora di Emmanuel Levinas “LIBERTÀ E COMANDAMENTO” Collana Point d’orgue 2014, per la traduzione italiana e cura di Giuseppe Pintus. La presente edizione costituisce la traduzione di quella pubblicata dall’editore Fata Morgana nel 1994 e contiene: il saggio ‘Libertà e comandamento’, la conferenza ‘Trascendenza ed altezza con la sua discussione’, ed infine la corrispondenza che è seguita a questa conferenza. Entrambi reperibili in internet: http://www.inschibbolethedizioni.com/ e nelle migliori librerie.

 

*** La poesia è qui rappresentata dal libro di Luca Pizzolito, “UNA DISPERATA TENEREZZA”, vincitore del XXXV Premio Letterario Premio ‘Città di Moncalieri’ 2014 edito da Giuliano Ladolfi Editore. “Il soffio della poesia, nell'architettura scritturale di Luca Pizzolitto, è costantemente presente. È un soffio che scorre lieve tra parola e parola per poi sollevarsi in un canto a bassa voce, ma sicuro, nella certezza di significare ‘il fiore sacro della vita’. www.LadolfiEditore.it

 

*** La Case Book, ci propone un e-book e audiolibro sulla vera storia di Nerone, l'imperatore poeta “NERONE, UN VISIONARIO AL POTERE” di Richard J. Samuelson, 2014. “Nerone è uno degli imperatori romani più noti al grande pubblico. Accusato di essere il responsabile del grande incendio che devastò Roma nel 64 dC, nel corso dei secoli è diventato uno dei personaggi più negativi della storia: assassino sanguinario, esteta volubile, uomo assetato di potere, schiavo delle passioni... gli storici cristiani lo consideravano l’Anticristo.Ma cosa sappiamo davvero di Nerone oggi al di là degli stereotipi? Sono molti gli storici che hanno riabilitato la figura dell’imperatore poeta, un uomo di enorme cultura e che, nonostante la vulgata popolare, si dimostrò anche un buon capo di stato. Di sicuro fu un visionario, un anticonformista capace di andare al di là degli schemi e che cambiò in modo radicale il modo di intendere e di esercitare il potere. Imperatore spietato? Senza dubbio, ma questa era la norma a Roma. Personalità eccezionale? Sicuramente. Samuelson ci conduce in un viaggio tra le pieghe della storia alla ricerca del vero Nerone, poeta imperatore suo malgrado, protagonista di una vita da romanzo. (dalle note dio presentazione).

 

*** La Redazione di @aphorism.it è lieta di annunciare l'ultima uscita libraria in ordine di tempo della collana ‘I destrieri di Aphorism’ edita da Lettere Animate: “PARTITA DOPPIA” di Maurilio Riva. Un ‘ultimo libro’ in ordine cronologico e in senso definitivo, perché dopo due anni di partnership le strade di Aphorism e Lettere Animate si separano. Noi resteremo sempre al fianco degli autori, della collana e non, per sostenerli nel complesso mondo dell'editoria, spesso pieno di insidie per chi ha il grande sogno di pubblicare un libro. Siamo inoltre lieti di annunciare anche l'uscita del nuovo libro di un autore storico di Aphorism, al quale siamo particolarmente affezionati: stiamo parlando di Attilio Del Giudice con “SENTIMENTO E RISENTIMENTO”, ma prima dei saluti, come sempre vi presentiamo gli ultimi libri dei nostri autori che abbiamo archiviato sul sito nelle scorse settimane: “Calipso” di Manuel Paolino, “Lei usa la rete io l'amo” di Vittorio Salvati, “L'amore è un terno (che ti lascia) secco” di Guido Rojetti, “Gli occhi interiori” di Leonardo Manetti, “L'ultimo naufragio del generale” di Giuseppe De Renzi,” Il viandante e il divoratore di falene” di Giuseppe Marino. Buone scritture e a rileggerci!

 

** “PIÙ LIBRI PIÙ LIBERI” che si svolge a Roma al Palazzo delle Esposizioni all’Eur da giovedì 4 a lunedì 8 ospita ancora una volta la Manni Editore allo stand E12, con le presentazioni di molti titolio che hanno arricchito il già fruttuoso catalogo editoriale. Qui di seguito in cadenza calendariale le presentazioni: Sabato h 17 - Sala Turchese Marco Debenedetti, “NOTIZIE DALL'ISOLA DI EUFROSINE” con l'autore intervengono Valeria Della Valle e Tobia Zevi. Lunedì h 13 - Sala Rubino Lidia Menapace, “IO, PARTIGIANA. LA MIA RESISTENZA” con l'intervento di Carlo D'Amicis. Inoltre, saranno presentate le seguenti novità librarie:

 

*** Valerio Magrelli “LA LINGUA RESTAURATA E UNA POLEMICA: OTTO SONETTI A LONDRA”. Ibridazione, incrocio di generi e la più ampia, sperimentale libertà espressiva sono i caratteri essenziali di quello che potrebbe definirsi un “libro-ornitorinco”, usando un termine coniato dal musicista Carlo Boccadoro per la terza raccolta poetica di Valerio Magrelli. L’occasione è l’impatto con dodici luoghi esplorati in un breve soggiorno londinese, cui segue un’accesa discussione politica (sotto forma di dialogo tra le figure immaginarie di Machiavelli e del Tenerissimo) sulle magnifiche sorti italiane, dalla disoccupazione giovanile alla fuga dei cervelli. Dopo le invettive, una scommessa: raccontare la storia sentimentale di un restauro, per l’esattezza quello di un dipinto del Settecento, visto attraverso le mail della sorella dell’autore, restauratrice, e di uno storico dell’arte, chiamati a illustrare il processo tecnico cui sottoporre la tela. Il tutto grazie a otto sonetti di Magrelli, quattro dei quali composti in inglese. Una piccola traduzione da Adam Elgar chiude questo volume di essenze e sostanze solo in apparenza diverse.

 

*** Trotula de’ Ruggiero “L’ARMONIA DELLE DONNE” Un trattato medievale di cosmesi con consigli pratici sul trucco e la cura del corpo, con interventi di Eva Cantarella e Andrea Vitali. “De ornatu mulierum, qui tradotto e presentato con testo a fronte, è il primo manuale di cosmesi del mondo occidentale. A scriverlo è Trotula de’ Ruggiero, allieva e poi magistra, nel secolo XI, presso la Scuola Medica Salernitana, autrice anche del De passionibus mulierum in, ante et post partum, trattato di ostetricia e ginecologia che ebbe grande autorità e fortuna per tutto il Medioevo. In “L’armonia delle donne” Trotula dà indicazioni su come conservare e migliorare la bellezza femminile attraverso la preparazione di creme e infusi naturali. Oltre ad insegnamenti sul trucco, suggerisce come eliminare le rughe, il gonfiore dal volto, le borse sotto gli occhi, i peli superflui, come donare candore alla pelle, nascondere lentiggini e impurità, lavare i denti ed eliminare l’alitosi, e ancora tingere i capelli, curare screpolature di labbra e gengive, e anche “ut virgo putetur que corrupta fuit”, ossia come, con le erbe, riacquistare la verginità. La cura estetica non rappresenta un aspetto frivolo, anzi: la bellezza di una donna ha a che fare con la filosofia della natura cui si ispira l’arte medica del tempo, ed è il segno di un corpo sano in armonia con l’universo”. In Appendice le piante officinali citate da Trotula: ancora oggi si trovano nelle campagne e in erboristeria.

 

*** Marco Debenedetti è presente con il romanzo “NOTIZIE DALL’ISOLA DI EUFROSINE”. L’isola di Eufrosine è immersa in una quiete e in un’armonia eccezionali: salda nelle istituzioni, prospera nell’economia, con un alto tasso di felicità e benessere degli abitanti. Ma in una tiepida mattina di ottobre approda sulle sue coste Timoteo Crisostomo, una sorta di Messia venuto da lontano che parla di religione e di Dio, impartisce precetti morali e dogmi teologici, e la sua predicazione trova un’eco segreta nel cuore degli eufrosinoti. Inspiegabilmente, improvvisamente, la perfetta struttura sociale del Paese vacilla. Lo Straniero semina il germe dell’invidia e del sospetto, sobilla il popolo, lo porta ad una rivolta che rovescia il governo e si conclude con la distruzione dell’isola. Un narratore onnisciente racconta minuziosamente la storia di questo luogo mitico con un linguaggio raffinato e coinvolgente che mima anche la cronaca e il reportage. È un romanzo allegorico avvincente ed elegante, ricco di allusioni alle vicende italiane, viste con sguardo ironico e disilluso. È una riflessione sul potere, sulla natura degli esseri umani, che parte dall’Utopia e arriva al Disincanto.

 

*** Una chicca davvero assoluta per i nostri lettori è qui rappresentata dall’antologia poetica di Antonio Prete che in “L’OSPITALITÀ DELLA LINGUA” ospita numerosi poeti a noi cari con traduzioni e testo a fronte di “Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Valéry, Rilke, Celan, Machado, Bonnefoy e altri. Tradurre è accogliere un ospite nella casa della propria lingua, ed è anche preservare, e talvolta ravvivare, timbri, forme, modi espressivi e ritmi del poeta che si traduce. Una sfida e un azzardo, e allo stesso tempo esercizio, dolce e arduo, di poesia. Antonio Prete porta nella sua lingua alcuni celebri poeti con i quali si è intrattenuto in un dialogo assiduo e qualche volta quotidiano. Con testo originale a fronte sono raccolte traduzioni di Labé, Ronsard, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Verlaine, Dickinson, Valéry, Rilke, Celan, Pessoa, Machado, Neruda, Alberti, Jouve, Char, Jabès, Valente, Bonnefoy. Sono infine resi in versi italiani cinque canti d’amore della tradizione salentina in grìco. Questa nuova edizione, rispetto alla precedente del 1996, raccoglie nuovi testi e nuovi autori, e rinnova alcune traduzioni. Poiché tradurre è essere in cammino verso un’impossibile traduzione perfetta.

 

*** In ultimo ma non ultimo in ordine di uscita è Andrea Tarabbia con il suo “LA BUONA MORTE: Viaggio nell’eutanasia in Italia” che, partendo dal dibattito sul caso Englaro, nel 2008, alcuni intellettuali stendono il proprio testamento biologico. “Io ho trent’anni e ho paura della morte. Ho paura della malattia, della non autosufficienza, della sporcizia”, scrive Andrea Tarabbia nel proprio. E racconta, in questo libro, della vita di suo nonno dopo un ictus; dell’incontro con il presidente di Exit, che aiuta gli italiani che fanno richiesta di morte volontaria assistita in Svizzera; parla con Mina Welby di eutanasia clandestina e di leggi, e con padre (?), favorevole alla “buona morte”, del potere ecclesiale. Accompagnano questo viaggio i libri e gli autori che hanno scavato nel rapporto che c’è tra la letteratura e la fine della vita. Chiesa, morte, tecnica, libertà, dolore, medicina, autodeterminazione (del malato), identità, diritto di proprietà del proprio corpo, infine giustificazione: sono i poli attorno cui ruota questo reportage narrativo, delicato eppure intransigente, su uno dei temi più scottanti e attuali del nostro Paese. info@mannieditori.it

 

*** Se anche voi non avete ancora sentito parlare di Autodafé Edizioni la scopriamo insieme è una piccola casa editrice di narrativa italiana, artigianale e di qualità. Le opere pubblicate da Autodafé vogliono aiutare la comprensione e la riflessione intorno alla realtà sociale dell’Italia contemporanea. Autodafé cerca e promuove nuovi talenti, dando spazio ad autori e opere che non hanno ancora acquisito la meritata visibilità nel panorama letterario italiano. La scelta è così ricaduta su “LA BICICLETTA VOLANTE” di Fabio Giallombardo – Autodafé Edizioni 2014 per la tematica di grande attualità : “Una lettera d’amore di Gaspare Traina al proprio figlio Salvatore apre un baratro sulla storia italiana degli ultimi venti anni, sugli intrecci tra mafia e politica, sul rapporto fra il riciclaggio del denaro e gli affari nella sanità. Una lettera che diventa il racconto di una saga familiare intrisa di passione e paura, di disperazione e gioia di vivere, dove la primitiva semplicità del gioco del calcio si fa metafora di un’utopia possibile, di uno slancio vitale attraverso cui tentare di sfuggire a un sistema tentacolare”. http://www.autodafe-edizioni.com/

 

**** Concorso Letterario “STORIE FANTASTICHE” – È aperta ufficialmente la Terza Edizione del nostro Concorso Letterario Nazionale “Storie Fantastiche” organizzato dall’associazione ludico-culturale “The Game’s Rebels” con il Patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Castel Rozzone (BG) con un nuovo bando e soprattutto un nuovo tema per tutti i vostri racconti di genere fantastico. Con il termine ‘fantastico’ si considerano tutti quei generi che nella storia della letteratura si sono basati sulla rappresentazione di elementi e situazioni immaginarie che esulano dall’esperienza quotidiana o ancora straordinarie che si ritiene che non si verifichino nella realtà comunemente sperimentata. Elementi che possono definire una situazione fantastica sono l’intervento del soprannaturale, del meraviglioso, del magico o di invenzioni tecnologiche futuribili. All’interno del vasto ambito del fantastico si possono raggruppare un’ampia schiera di generi differenti, tra i quali l’horror, la fantascienza, il fantasy, lo steampunk, il gotico, il giallo e altro ancora. Dopo il successo della prima e della seconda edizione abbiamo deciso di mantenere una sezione speciale dedicata alle scuole Medie e Superiori. Nelle due scorse edizioni più di 600 racconti ci hanno deliziato, hanno permesso a noi di conoscervi e di sognare sulle ali che la vostra fantasia ci ha messo e speriamo che anche quest’anno vogliate raccogliere la sfida che vi proponiamo. Scrivete le vostre parole, fate correre la vostra fantasia, lasciatevi rapire dal genere fantastico e dal tema che voi stessi avete contribuito a scegliere: ‘La Frontiera’: Bando Concorso Letterario Storie Fantastiche Terza Edizione da scaricare sul sito: concorsostoriefantastiche@gamesrebels.it

(continua)

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- Arte

Mostra ’ARCHIVIO MARINO MINIMO’ di M. Pasini


La Casa dei Teatri e della Drammaturgia Contemporanea, promossa dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di Roma Capitale, gestita da Zètema Progetto Cultura, con la direzione di Emanuela Giordano, annuncia l’evento / mostra:

“ARCHIVIO MARINO MINIMO”
Opere di Marilena Pasini

Al ‘Teatro del Lido di Ostia’ in Via delle Sirene, 22 | 00121 Ostia (Roma)
Da lunedì 1 dicembre a giovedì 1 gennaio | mostra ingresso gratuito
Il mondo marino è immenso, un universo blu popolato di bizzarri segreti. Tutto da guardare.

A ispirare il lavoro dell’illustratrice e pittrice Marilena Pasini è l’immenso mondo marino, un universo blu popolato di bizzarri segreti tutti da guardare. Paper cutting e collage le tecniche utilizzate su supporti quali tela, legno, cartone per opere che esplorano il mondo degli abitanti del mare, ma che ragionano anche sull’inquinamento che lo minaccia. Con questa esposizione, Marilena Pasini continua la sua ricerca espressiva sul paper cutting, cominciata con “Tuttifrutti”, libro edito da Blurb con fotografie di Patrizia Savarese. Marilena Pasini è rappresentata in Italia e all’Estero dall’agenzia Bookteller Eventi Letterari.

Marilena Pasini vive e lavora a Roma. Dopo la maturità artistica, frequenta l’Accademia di Belle Arti. Lavora come disegnatrice di tessuti e come decoratrice di ceramiche artistiche. Inizia a pubblicare come illustratrice per bambini nel 1992. Da allora pubblica con Giunti-Lisciani, Giunti, Mondadori, Allemandi & C, Nuove Edizioni Romane, Feltrinelli. Come autrice per bambini pubblica con Vallecchi Editore, L’Acerba, Editori Riuniti, Sinnos. Per adulti pubblica con Avverbi Editore, Nutrimenti, Oblique Studio & IFIX. Svolge laboratori di illustrazione per bambini e adulti presso biblioteche, musei, scuole.

http://www.pinterest.com/marilenapasini/
https://www.flickr.com/photos/e1l2l3a4/
https://www.facebook.com/pages/marilena-pasini/213067065470

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- Libri

’MARGARET OGILVY’ di James M. Barrie

James M. Barrie “Margaret Ogilvy” – (prima traduzione italiana) – I Luoghi della Scrittura Edit. 2014

 

Suona strano come il ‘caso’, in alcuni momenti, rientri in quello che possiamo considerare il superfluo e renda possibile ciò che fino ad ora non avevamo ritenuto rientrasse nei nostri interessi particolari. Tuttavia c’è un nesso in questa affermazione che riguarda la scelta affatto casuale di un libro che ‘guarda caso’ segna un ritorno, come dire, una reminiscenza del passato. Tutto accade attorno a un personaggio dal nome sintomatico: “Peter Pan” che, per tutto il corso di quest’anno ha inseguito e condizionato le mie scelte letterarie e non solo.

Dapprima una mostra/evento curata da Cinzia Carboni per ‘I Luoghi della Scrittura’ che mi ha letteralmente rapito; poi il ritorno di uno spettacolo che a suo tempo mi aveva entusiasmato: “Peter Pan il Musical in 3D” del quale ho già parlato ampliamente nelle sezioni ‘eventi’ e in ‘articoli’ su questo stesso sito. Quindi la pubblicazione di un libro, “Margaret Ogilvy” di James Matthew Barrie, in ‘prima traduzione italiana’ e in ‘tiratura limitata a 200 esemplari’ che ripropone alcuni testi inediti di questo autore così poco frequentato in Italia, se non per essere l’autore di “Peter Pan”, erroneamente considerata una ‘favola’ e quindi relegata alla cifra bibliografica dei libri ‘per bambini’. Con l'aggiunta della traduzione italiana di “Ai Cinque”, una lettera ai fratelli Llewelyn e Davies che ne ispirarono la storia e che ci parla di uno straordinario rapporto tra madre e figlio, di un ambito familiare di tutto rispetto nella cornice di un’epoca, quella cosi detta ‘vittoriana’ a cavallo dei ultimi due secoli appena trascorsi.

Un’epoca che stando ai ‘nessi’ del libro vale la pena di rivisitare per approfondire quelle che sono le identità psicologiche dei bambini, dallo sviluppo della loro intelligenza a come essa cambia ed evolve con il passare degli anni attraverso la ‘crescita’, e magari conoscere le cause pedagogiche di quella che per l’appunto prende il nome di ‘sindrome di Peter Pan’, cioè il ‘non voler crescere’ dei bambini o, se preferite il rimanere bambini di molti adulti. La nostra vita, lo sappiamo, è un inarrestabile fluire di cambiamenti; con il succedersi delle età mutano le nostre competenze, il nostro modo di percepire e interpretare la società che abbiamo contribuito a formare e, con essa, le responsabilità che abbiamo nel preservarla e migliorarla, con annessi tutti i bla bla del caso. Fatto questo di cui non intendo scrivere adesso, per quanto invece introdurmi nel complicato gioco di interazione tra biologia umana e ambiente naturale rifacendomi a ciò che siamo, se lo siamo, in virtù di un’imprevedibile combinazione di istruzioni genetiche ed esperienze vissute.

Perché è evidente che l’esperienza vissuta in famiglia: nel caso di questo libro, dell’attaccamento alla madre virtuosa o liberal che sia; e nella società in cui viviamo in stato quasi d’anarchia fino ad una certa età; l’adattamento genetico non smette mai di assecondare le diverse tappe della nostra esistenza a confronto con quella altrui che, si 'conforma' o si 'ribella' al proprio modello originale. Questa la dicotomia che nel libro si pone all’evidenza di chi lo legge oggi, pur senza affermarne la veridicità; e che mi permetto qui di sottolineare come proposta di ricerca per la comprensione di quanto e come l’ ‘immaginazione letteraria' e la ‘realtà’ di ieri siano confluite nella ‘riflessione sociale’ e la ‘dignità umana’ di oggi. La cui comparazione fra ‘individui reali’ e ‘personaggi creati’ non tengono il confronto nella letteratura dedicata all’infanzia di ieri: a partire da Charles Dickens e J. M. Barrie per approdare agli italiani De Amicis e a Collodi, con quella di oggi più ‘vista’ che ‘letta’ dei Simpson o di Peppa Pig.

Il problema è, secondo approfonditi studi pedagogici e psichiatrici, che mentre per la stragrande maggioranza sono gli adulti a scrivere le storie per l’infanzia (incluso me che scrivo), ad enfatizzare, per dirla con ‘Peter Pan’, un mondo che non c’è (Neverland), spostando le lancette del tempo (l’orologio ingoiato dal coccodrillo), con un inqualificabile "C’era una volta..", narrando di personaggi (Capitan Uncino, Wendy, Giglio Tigrato, Sirene, Fate, Pirati, Indiani) del tutto fuori della realtà, con caratteristiche da Cartoon e un linguaggio sopra le righe a imitazione, fra la demenza e il buon senso, di quello dei bambini, dove, a differenza di quella che è la realtà, come conclusione inequivocabile, arriva il ‘lieto fine’.

“Si sa che lo scrittore di libri per l’infanzia nato da una decisione infantile che, è chiaro, ha avuto luogo proprio durante l’infanzia. Solo allora possiamo affrontare l’immensità oceanica delle parole; l’avventura di leggerle e di scriverle; di assimilare tutti quegli strumenti della conoscenza in così poco tempo. Pensandoci bene, con un po’ di logica, dovremmo imparare a leggere e scrivere solo quando siamo già adulti, razionali e riflessivi, e non a quello stadio quasi selvatico. Però, è certo, se fosse così nessuno avrebbe il coraggio di diventare scrittore. Perché se ci pensate bene, non esiste decisione più infantile di quella di diventare uno scrittore: una decisione che – salvo rare eccezioni – si prende sempre da bambini, perché solo allora si ha la quantità di follia sufficiente per affrontare la sfida di una simile vocazione. (..) La formazione di uno scrittore ha implicita in sé la deformazione di tante altre professioni e così ci scopriamo figli orfani di un primo impulso che scatta nell’infanzia, nell’età più freak di tutte le età, durante quel breve e lungo periodo in cui cambiamo un poco tuti i giorni e tutte le notti per il solo piacere di saperci eletti e maledetti e unici, in cui capiamo che non cresceremo mai. È il caso di Barrie. (..) Ora che ci penso, Peter Pan è importante e decisivo quanto Amleto. La differenza sta nel fatto che mentre uno si domanda il famoso ‘Essere o non essere’, l’altro lo tramuta in un ‘Crescere o non crescere’.” (Rodrigo Fresán)

Tutto ciò per dire che in questo libro il ‘personaggio’ è lo scrittore Barrie il quale, avvalendosi dello stile ‘diaristico’ ci permette di penetrare più a fondo la sua personalissima dote introspettiva e la sua personalità davvero originale. Come del resto ci informano nella ‘Prefazione’ Federico Sabatini e Francesco Tranquilli nelle ‘Note’ alla sua eloquente traduzione qui sotto riportata: “Tradurre un testo di un autore scozzese di fine Ottocento, per di più raffinatissimo come James M. Barrie, presenta una serie di difficoltà, le più insidiose delle quali si nascondono là dove non te lo aspetteresti. Non si tratta solo di far attraversare al testo il ponte da una lingua all’altra, ma anche quello dell’epoca e dell’ambiente culturale (la Scozia e Londra nella cosiddetta Età Vittoriana). Consapevoli che in ogni traduzione qualcosa va perduto, ma desiderosi di mantenere tutto quanto ci sembrava utile e prezioso, in una parola indispensabile, abbiamo necessariamente rinunciato a rendere in italiano la presenza nel testo di partenza di moltissime infiltrazioni di lingua scozzese che l’autore lascia penetrare nella sua prosa con una naturalezza divertita e indulgente.

Né ci siamo posti il problema di come trasmettere il suono e la cadenza delle numerose frasi di Margaret Ogilvy che l’autore riporta direttamente nel dialetto scozzese parlato da sua madre (e anche da lui stesso in casa). Più che curare il ritmo del dialogo e allentare un po’ le briglie alla sintassi rendendola più colloquiale, non crediamo si potesse fare. Ci siamo ‘divertiti’, invece, a spiegare i riferimenti più o meno impliciti a tutte le tradizioni, i personaggi, le circostanze storiche che Barrie dissemina nel corso delle sue memorie, molti dei quali saranno stati magari immediatamente comprensibili per il pubblico dell’epoca ma certo sarebbero risultati oscuri ai lettori di oggi. (..) In particolare, abbiamo lavorato per far venire alla luce tutti i riferimenti all’opera dell’amico e rivale Robert L. Stevenson nel capitolo a lui dedicato (il settimo).

Un’ultima annotazione sull’uso dei tempi verbali. Come dice il nome stesso del genere letterario a cui quest’opera appartiene, il ‘memoir’, a guidare la scrittura non sono qui un intreccio narrativo o un’argomentazione, ma il libero flusso del ricordo dal presente al passato e viceversa. Da qui, l’uso molto libero che Barrie fa dei diversi piani temporali, e il passaggio fluido, imprevedibile, sorprendente dal passato remoto all’imperfetto, dal passato prossimo al presente semplice. Questi scarti di tempo narrativo, piuttosto indisciplinati dal punto di vista di una scrittura idealmente corretta, riportano sulla pagina con una fedeltà quasi tangibile l’allontanarsi e il riavvicinarsi della memoria nella mente di chi scrive, rievocando abitudini, episodi, emozioni, per poi fissarli spesso con teatrale icasticità, in due battute di dialogo, in un ritrovato (o mai perduto) presente. (..)

Sappiamo però che Barrie non era distratto: voleva lasciarsi andare al ricordo, alla nostalgia, alla tenerezza, alla libera associazione dei pensieri. È quanto abbiamo cercare di fare anche noi, traducendolo; speriamo di essere riusciti, almeno in parte, a convincere anche chi leggerà a lasciarsi andare.”

 

Tutto questo per dire che il 'caso' torna a ripetersi e coglie, proprio lì dove meno ce lo aspettiamo il 'senso' di quello che forse ci riservava la vita. Nel mio caso che sarebbe arrivato il momento 'senile' di riscoprire "Peter Pan". Ed è quello che tutti noi potremmo riuscire a fare non solo andando a rileggere il libro nell’adattamento testuale e la bellissima veste illustrata di Paolo Ghirardi (Edizioni Corsare 2012) dove il segno grafico e il gesto pittorico scivolano grandiosi nella fantasia del racconto poetico, pur nel rispetto della tradizione ‘elegante e forbita’ della migliore iconografia libraria per l’infanzia. Ma anche riascoltando le musiche e le canzoni usate nell’originale esecuzione di Edoardo Bennato, scritte per il Musical andato in scena al Teatro degli Arcimboldi di Milano nel 2009, oggi in DVD. Nonché, ma questa è una escluvità per i ‘nostalgici’ del settore, a rivedere il classico “Peter Pan” in versione cartoon di Walt Disney.

Ancor più cercando di accaparrarci una copia di “Margaret Ogilvy” di James Matthew Barrie in ‘prima traduzione italiana’ uscito in ‘tiratura limitata a 200 esemplari’.

(*) Il testo di Rodrigo Fresán è tratto da “I Giardini di Kensington” – Mondadori 2006)

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- Musica

’AMALIA RODRIGUES’ - la voce dell’incantesimo

Amalia Rodriues, la voce dell’incantesimo.

 

'Fado', una parola magica che racchiude in sé la drammaticità di un popolo che vive al cospetto costante dell’Atlantico, il Portogallo. Una terra la cui posizione geografica rende estrema e distaccata, lontana. Ed anche la musica più popolare e triste d’Europa, la più vera e misteriosa sicuramente. Una parola austera come può esserlo il ‘destino’ o appunto il ‘fato’ tra slanci romantici e teneri abbandoni tipici dei luoghi sconfinati dell'Oceano, oltre i quali esiste solo la speranza di un possibile approdo e un improbabile ritorno. Questo il sentimento che alimenta il ‘fado’ portoghese la cui origine popolare si riassume nel canto sia  interpretato come lamento, sia invocazione o preghiera, pur sempre canto che sgorga spontaneo dall’anima di chi l’anela.

“E mentre il tram passa sferragliante per le vecchie strade di Lisbona strette e colorate, da quei mille locali che fanno il paesaggio dell’Alfama, di Murairo, del Barrio Alto si leva di notte un unico suono: il fado. È la voce passionale, forte, tumultuosa, dell’antico popolo portoghese, quello più vero e sincero, che attraverso quel grido così rauco, così dolce, così malinconico, ricorda le sue origini africane, arabe, mediterranee, il suo lungo navigare per tutti i mari del mondo, raccogliendo tutte le storie del mondo.” (*)

Si vuole che il ‘fado classico’ sia nato secoli or sono dalla disperazione degli schiavi negri e dei marinai che verosimilmente l’hanno trasmesso influenzandosi gli uni con gli altri nella costante incertezza delle traversate oceaniche. Di fatto è evidente una certa parentela col ‘blues’ afro-americano, per l’andamento malinconico assimilabile alla ‘saudade’ brasiliana (ex colonia portoghese nello Stato di Bahia), comunque sempre riconoscibile, che si distingue dagli altri generi musicali che pure ha continuato ad alimentare attraverso le ‘cantate’ spontanee dei quartieri popolari di Lisbona, dapprima divenendo canto di solitudine e di pena e successivamente, negli anni della rivalsa politica, anche canto di protesta con accenti vibranti, per alcuni versi meno dolente e rassegnata di quella esportata o re-importata, cioè di ritorno coloniale.

Ancor più il ‘fado’ è canto che la voce dell’anima femminile (molto più che maschile) trasforma in ‘messaggio d’amore’ capace di accorciare le distanze che intercorrono tra un lasciarsi e il ritrovarsi, l’aprirsi delle labbra per un bacio e la distanza degli sguardi negli occhi, tra un commiato momentaneo e un addio per sempre. Una sensibilità questa che pochi interpreti della canzone popolare hanno saputo cogliere e che hanno trasmesso nell’arco della loro carriera professionale. Una in particolar modo si impone qui ricordare, Amalia Rodrigues nata a Lisbona nel 1920 la cui voce, quasi un dono di Dio, si è dimostrata nel tempo ‘ineguagliabile' affermatasi come una delle migliori interpreti dell'animo portoghese.

Amalia Rodrigues ha iniziato la carriera professionistica nell’inverno del 1940 esibendosi al famoso Retiro da Severa, dal nome leggendario della gitana Maria Severa che nel secolo scorso portò il ‘fado’ a risultati insuperati. Personaggio riproposto in parte nel film “Fado, historia de uma cantadeira” del 1947. In quegli anni accanto al ‘fado’ tradizionale interpretò anche canzoni di consumo partecipando a riviste di largo successo che la resero popolare fra la gente comune. E fu proprio in una rivista che recitarono insieme le due maggiori ‘fadiste’ conosciute: Amalia Rodrigues e Herminia Silva, che Amalia conobbe la consacrazione internazionale. Il repertorio delle sue canzoni più famose, come: ‘Fado Português’,‘Lisboa Antigua’, ‘Coimbra’, 'Barco negro’, ‘Uma casa portuguesa’, ‘Lagrima’, ‘Tudo isto è fado’, ‘Cançao do mar’ insieme a numerose altre, ne hanno fatto un’interprete autentica ed esclusiva, tale da incarnare la voce stessa del ‘fado’. Per cui pronunciare il solo nome Amalia Rodrigues sale alla mente ‘fado’, anche per coloro che poco seguono gli eventi della musica.

Sono melodie cariche di nostalgia e di pena che riflettono di uno stato d’animo ereditato dalla tradizione di un popolo di eterni viaggiatori, che s’impongono per lo stile fiero dell’interpretazione, per le sfumature vibranti e la dolcezza soave, quasi ‘intimistica’ della sua voce che le avvolge tutte di una ‘gratitudine’ profonda. Tutto ciò reso possibile grazie anche alla mediazione di musicisti sensibili all’indole e allo spirito portoghese che hanno arricchito di colorature e di forza le sue interpretazioni. Amalia Rodrigues infatti canta accompagnata da quattro strumenti che nell’insieme danno forma all’intera sezione ritmica e melodica: una chitarra portoghese (a forma di pera) con dodici corde per la melodia; una viola (o più a seconda dei casi); e due chitarre spagnole per la ritmica.

Questo il gruppo originario che l’accompagnò anche nelle numerose tournée all’estero, formato da Fontes Rocha, Pedros Leal, Joel Pigna, Alfredo Marceneiro, Carlos Gonsalves eccezionali compositori e arrangiatori, insieme ai moltissimi altri, che si sono succeduti nel corso degli anni e l’hanno seguita nei suoi concerti tenuti nei più grandi teatri del mondo. Ovunque e dovunque un trionfo! Molti sono anche gli interpreti famosi che hanno voluto incrociare le voci con lei. Vanno qui ricordati: L' ‘encuentro’ tenuto con Maria Carta e il successivo ‘recital-solo’ di Amalia al Teatro Sistina di Roma organizzati da Franco Fontana per i “Lunedì del Sistina” nel 1979 e 1982. I concerti al Lirico di Milano, al Duse di Bologna, all’Olympia di Parigi, a Madrid con Julio Iglesias; a Rio de Janeiro con Vinicius de Moraes, a New York, e con i tantissimi altri dei quali talvolta se ne risente l’eco.

La sua voce al riascolto, lascia meravigliati per la partecipazione emotiva ed evocativa del suo 'canto corale' (in una sola voce)  inconfondibile dell’esistenza, di un sentimento d’amore vissuto al pari di una forma d’arte. Un’arte intransigente, incorruttibile, spinta alla ricerca di un assoluto che forse non esiste, come può esserlo l’atmosfera creata dal ‘fado’ e che fin’ora soltanto l’affascinante Amalia Rodriguez è riuscita a trasformare in ‘incantesimo’.

Altre cantanti di rilievo in seguito si sono affacciate sulla scena del ‘fado’ con dignità interpretativa, bella voce, e originalità; tuttavia nessuna così avvolgente come quella che Amalia Rodriguez ha espresso nelle sue interpretazioni, carica di quella soavità sentimentale che s’imprime per restare attraverso il tempo:

“Se vuoi essere il mio uomo / E avermi sempre accanto / non parlarmi d’amore / Ma raccontami del fado / Il fado è la mia condanna / Sona nata per essere perduta / Fado è tutto ciò che dico / E tutto ciò che non posso dire” – canta Amalia in ‘Tudo isto è fado’, una delle sue più amabili interpretazioni.

L’Italia ha tributato ad Amalia Rodrigues grandi onori ma sfortunatamente ha preso contatto con la cantante solo negli anni Settanta e in gran parte tutto ciò che realizzò prima di quegli anni resta a noi sconosciuta. Comunque molto di quel materiale discografico è oggi riproposto dalle moderne ‘fadiste’ ed altro, quello dei suoi film, mai trasmessi sui nostri schermi perché in lingua originale, è reperibile su youtube ed altri siti web. La sua produzione discografica è stata raccolta in CD e vinile dalla EMI Italiana, fra cui spicca “A una terra che amo” dedicato all’Italia che vede questa straordinaria interprete impegnata in alcuni ‘fado’ in italiano e brani tradizionali delle nostre regioni.

Dalla Sicilia alle Alpi: ‘Trantella’, ‘La bella Gigogin’, ‘Vitti ‘na crozza’, ‘Dicintencille vuie’ che cantò in una versione 'live' con Roberto Murolo, ed il brano che meglio rappresenta il nostro patrimonio artistico musicale ‘Canto delle lavandaie del Vomero’ in un’interpretazione senza eguali in cui il timbro vocale della cantante non flette di tono o perde il fascino della sua personale bellezza interiore. Degli ultimi anni che l’anno accompagnata si ha oggi il ricordo di una pubblicazione discografica “Encontro” di grande interesse artistico e di un momento che lei stessa ha definito ‘emozionante’ della sua vita, avvenuto con il sassofonista Don Byas che ha aperto una nuova prospettiva nell’interpretazione del ‘fado’. Di più recente pubblicazione un libro di poesie e un disco di inediti che si pensavano perduti.

 

“Lisboa Antigua” (di Josè Galhardo e Raul Portela).

Lisboa velha cidade cheia de encanto e beleza sempre a sorrir tão formosa e no vestir sempre airosa o branco véu da saudade cobre o teu rosto linda princesa. Olahi senhores esta Lisboa d’outras eras Dos cinco reis das esperaa E das toiradas reals Das festas das seculares procissões Dos populares pregões matinais Que já não voltam mais.

 

Lisbona vecchia città / piena d’incanto e bellezza / sempre a sorridere così bella / e nel vestire sempre fresca / il bianco velo della nostalgia / copre il tuo viso / bella principessa. / Guardate signori questa Lisbona d’altri tempi / dei cinque re dell’attesa / e delle corride reali / delle feste, delle secolari processioni / delle popolari grida del mattino / che non tornano più.

 

“Solidao”, (di Brito – Trindade – Ferreira)

Solidao de quem tremeu à tentaçao do céu.. E desencanto eis o que o céu me deu Serei bem eu, Sob este véu, de pranto? Sem saber se choro algun pecado, a tremer imploro o céu fechado. Triste amor o amor de alguém, quando outro amor se tem.. Abandonada, e nao me abandonei! - Por mim, ninguém ja se detém na ‘strada..

 

Solitudine / di chi ha tremato / davanti alla tentazione / del cielo.. / e disincanto / ecco quello che il cielo m’ha dato! / Sarò proprio io / sotto questo velo di pianto? / Senza sapere se piango / qualche peccatpo tremando / supplico il cielo chiuso. / Triste amore / L’amore di qualcuno / quando si ha un altro amore.. / abbandonata / e non mi abbandonai! / Per me nessuno / più si ferma nella strada..

 

Il presente articolo recupera parte di quello già pubblicato 11 Novembre 1974 in 'Nuovo Sound'.

(*) La nota è di Roberto Campagnano, apparso in 'Fado' - Disco del Mese in Edizioni laRepubblica - 1998

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- Letteratura

’FOGLI D’AUTUNNO’ - Libri, Eventi, Appuntamenti

‘FOGLI D’AUTUNNO’: Libri, Eventi, Appuntamenti

 

Trascurando volutamente le grandi firme su cui tutti puntano e con esse i nomi altisonanti che ci vengono soprattutto dall’estero e riempiono i banchi delle librerie, sono andato alla ricerca di una certa letteratura ‘di nicchia’ che trovo decisamente più consona ai lettori de larecherche.it amanti della buona narrativa, nel senso di meno clamorosa e sensazionalistica, della poesia e della musica che stanno per affrontare quest’autunno un poco dimesso, come del resto lo è stata la stagione appena terminata. Così, pensando all’incontro con le prime brume, ai focolari appena accesi, ma anche alle passeggiate autunnali per i boschi campestri e i parchi cittadini che richiamano i colori tenui delle tele dei macchiaioli, alle prime maglie di lana che indosseremo, mi sono spinto a fare una carrellata di ‘piccoli (ma grandi) libri’ nostrani apparsi lungo l’arco dell’anno che se ne va. Come anche di ‘avvenimenti’ e ‘concorsi’ cui partecipare, e che ‘accadranno’ in questo frangente di tempo che s’aspettano con la porta aperta alle novità, malgrado la crisi incombente. Tant’è che ho fatto una scelta per così dire ‘economica’ a basso costo, sebbene ciò non corrisponda a ‘scarsa qualità’. Anzi tutt’altro, quello che tutti ci aspettiamo è una resa incondizionata a un’apertura culturale finalmente accessibile e che sappia coniugare al prezzo di spesa una reiterata capacità di resa. Ma non voglio dilungarmi oltre, non mi resta che augurare a tutti: buona lettura! ‘

 

FEUILLES D'ALBUM’, di Leonora Signifredi. - Edizioni Esordienti E-book - 2014. È un romanzo davvero interessante, tra i segnalati nel nostro concorso sul romanzo giallo, - scrive Piera Rossotti Pogliano - che unisce all'investigazione per chiarire un omicidio la complessità nella gestione dei piani temporali di un romanzo epistolare. L'autrice è molto giovane, e contraddice (cosa che mi rende felice, però) quello che affermo in modo abbastanza divertente, perché parte dalla fiaba del ‘Reuccio fatto a mano’ trascritta da Italo Calvino per approdare a Vargas Llosa. Sinossi: “Un antico castello in Auvergne: una sera il visconte Reynaud de Lachapelle, viene ucciso nel suo studio con un colpo d’arma da fuoco. A condurre le indagini è un precettore che vive al castello, Loïc Pelletier; attraverso il suo percorso investigativo, si delinea progressivamente il ritratto di una famiglia nobile di stile patriarcale nella profonda provincia francese nei primi anni del Secondo Impero e si compone un grande affresco a tinte fosche, dove tra ipocrisie, diffidenze, colpevoli silenzi o sensi di colpa tutti sono, in definitiva, infelici e soli. E quando Pelletier risolverà infine il mistero, nonostante la drammatica verità che emerge dalle sue indagini, si aprirà per qualcuno dei personaggi un piccolo spiraglio che è ancora difficile chiamare speranza”. Un romanzo epistolare stringato e coeso, che cattura il lettore e lo fa penetrare nell’antica dimora, per guardarla attraverso gli occhi di un detective singolare e non imparziale.

 

‘L'ORDINE DEL CARDINALE’ di Gianni Baleani – Ed. IO-Scrittore. e-book – 2014. Sinossi: Roma, primi anni del Seicento. Nei vicoli ammantati dal buio della città eterna si muove un uomo che è genio e sregolatezza, tensione artistica e rabbia sanguigna: Michelangelo Merisi, artista complesso e tormentato… Un romanzo storico potente, che vibra dell’ingegno del suo protagonista, scritto con un linguaggio erudito ed elegante, che immerge nell’epoca il lettore in “presa diretta”. Gianni Baleani, nato nel 1958, si è laureato nel 1983 in Storia dell’Arte presso l’Università di Macerata e vive e lavora a Civitanova Marche. Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo, Rondini (Roma, Universitalia); nel 2011 ha vinto il Primo Premio Nazionale Bastione Sangallo e pubblicato Le metamorfosi dello sguardo (Loreto, Controvento Editrice).

 

*** Sono aperte le iscrizioni all'edizione 2015 del TORNEO LETTERARIO IOSCRITTORE!, l’unico torneo letterario italiano gratuito promosso dal Gruppo Editoriale Mauri Spagnol e dai suoi editori.

 

‘LA BUONA MORTE’ Viaggio nell’eutanasia in Italia – di Andrea Tarabbia – Manni Editori 2014. In occasione del dibattito sul caso Englaro, nel 2008, alcuni intellettuali stendono il proprio testamento biologico. “Io ho trent’anni e ho paura della morte. Ho paura della malattia, della non autosufficienza, della sporcizia”, scrive Andrea Tarabbia in questo libro, della vita di suo nonno dopo un ictus; dell’incontro con il presidente di Exit, che aiuta gli italiani che fanno richiesta di morte volontaria assistita in Svizzera; parla con Mina Welby di eutanasia clandestina e di leggi, e con padre ***, favorevole alla “buona morte”, del potere ecclesiale. Accompagnano questo viaggio i libri e gli autori che hanno scavato nel rapporto che c’è tra la letteratura e la fine della vita. Chiesa, morte, tecnica, libertà, dolore, medicina, autodeterminazione (del malato), identità, diritto di proprietà del proprio corpo, infine giustificazione: sono i poli attorno cui ruota questo reportage narrativo, delicato eppure intransigente, su uno dei temi più scottanti e attuali del nostro Paese.

 

‘GIARDINI D’INVERNO’ - Racconti di Paola Baratto – Manni Editori 2014. Il giardino d’inverno è uno spazio tra la casa e l’esterno: lo si colma di piante verdi, melagrane sanguigne, vimini, fiori secchi. Fra odori e colori questo ambiente domestico, intimo, è protetto e protegge, attraverso vetrate invase dalla luce o tempestate dalla pioggia. Il giardino d’inverno è anche una condizione della mente, una galleria di cose vive, una zona dell’anima. Per Edoardo, che colleziona parole. Per Bianca, che entra nei quadri. Per Adele, che fotografa le ombre. Per il professore, che vuole una finestra sulla Senna... Personaggi di racconti che insieme a temi e atmosfere si rincorrono e ritrovano come in un piccolo romanzo o in una grande foto di piccoli scatti, in un’aerea metafisicità, avvertita come ragione di vita.

 

‘LA PITTORA DEI DEMONI’ Romanzo di Antonio Errico – Manni Editori 2014 Due storie si incrociano: un uomo e una donna si incontrano, si innamorano, si perdono, si cercano in due vite separate e due destini inseparabili, fra intrecci e sortilegi, misteri e miserie che stringono Napoli e il Salento nel tempo di un Seicento inquieto e torbido. Lei dipinge demoni in una chiesa sconsacrata per svelare un segreto nascosto in un disegno, per espiare una colpa che l’accompagna, implacabile. Lui è un violinista la cui musica affascina potenti e disperati, sprofondato nel suo passato che lo richiama e lo tormenta. Lui e lei sono travolti da una smaniosa passione per l’arte, da una tenera tragedia d’amore.

 

‘POESIE NELL’ORDINEGIUSTO’ di Annalena Aranguren – Manni Editori 2014. I mesi dell’anno scandiscono poesie dai versi essenziali, incisivi, affilati, concentrati ad esprimere concetti ancorati alla realtà e insieme carichi di musicalità, di leggerezza. La parola più usata è silenzio e comunica anche stati d’animo, riflessioni, tensioni di gioia e dolore con un messaggio persuasivo, che chiede partecipazione e l’ottiene.

 

‘IL FILO DELLA SCURE’ di Laura Sergio – Manni Editori 2014. L’attenzione va al grumo di parole che è la corporeità di cui è fatto il libro, testi che diventano presenze di un corpo che vive e si guarda, e davvero usa tutti i sensi, anche in modo sinestetico, per esplorare il mondo, il proprio mondo, e dargli un senso plausibile e leggibile. Abbiamo versi aspri, di sapiente dura agglomerazione, e si può pensare forse, rispetto certo unicamente al tessuto formale, a qualche rimando al trobar clus medievale. (Mario Benedetti)

 

*** SECONDO CONCORSO LETTERARIO NAZIONALE “HISTORIAE AEGYPTI: RACCONTI LUNGO IL NILO” Il concorso letterario nazionale “Historiae Aegypti: racconti lungo il Nilo” è promosso dal progetto EgittoVeneto, coordinato dall’Università degli Studi di Padova (prof.ssa Paola Zanovello, Archeologia delle Province Romane) e dall’Università Ca’ Foscari di Venezia (prof. Emanuele M. Ciampini, Egittologia). La partecipazione è gratuita e aperta a tutti i cittadini italiani, europei, extraeuropei, senza limiti di età. La lingua dei racconti deve essere obbligatoriamente l’italiano. Il concorso sarà suddiviso in tre sezioni per racconti di genere: 1) storico; 2) fantastico; 3) giallo/ thriller. Nel nucleo centrale del racconto dovrà comunque essere presente, pena l’esclusione dell’opera, un riferimento importante all’Antico Egitto. Una menzione speciale sarà inoltre riservata a chi avrà meglio saputo sviluppare nel suo racconto gli intrecci e le relazioni che hanno legato, nei secoli, l’Egitto e il Veneto. Gli autori che intendono documentarsi sull’Egitto Antico e sull’Egitto in Veneto sono invitati a visitare il sito del progetto http://www.egittoveneto.it

 

*** ‘PER FARE IL TEATRO CHE HO SOGNATO’ - ciclo di incontri con le nuove realtà teatrali a cura di Annarita Colucci, Guido Di Palma e Irene Scaturro.. è uno spazio di visibilità, un’occasione per il pubblico di conoscere un variegato e vivace panorama di giovani per cui fare teatro è una necessità per sopravvivere in una società che ha seriamente compromesso il loro futuro. Oggi in Italia esiste ancora un ricco, variegato e vivace panorama di giovani per cui fare teatro è una necessità per sopravvivere in una società che ha seriamente compromesso il loro futuro. Sono compagnie appena visibili sul piano professionale che svolgono un’attività non rilevabile con i tradizionali sistemi – ad esempio biglietti, giornate lavorative – lavorando in stati di marginalità che possono essere considerati dei veri e propri modelli di produzioni alternativi e, forse anche, “sostenibili”. La loro esistenza è un sintomo della resistenza della nostra cultura teatrale a farsi omologare come merce. Da questi giovani che cercano identità e spazi alternativi può dipendere il futuro del nostro teatro. In una società in cui è possibile scrutare solo il presente, le istituzioni hanno il dovere di creare degli spazi di visibilità dove sia possibile dare voce al mondo sommerso e, in un certo senso, clandestino delle nuove generazioni teatrali creando le premesse perché possano almeno sperare di preparare la loro sopravvivenza e il loro futuro. Nel corso degli incontri, strutturati come conferenze-spettacolo, ciascun gruppo presenta e analizza uno o più segmenti dei propri spettacoli mostrando metodo di lavoro, training e strategie produttive adottate. Seguono le conferenze, stimolando un “dialogo critico” con i ricercatori dell’Università di Roma “La Sapienza”, la redazione della webzine “Teatro e Critica” e la “Casa dello Spettatore” di Giorgio Testa. L’iniziativa è promossa dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica-Dipartimento Cultura – Servizio Programmazione e Gestione Spazi Culturali in collaborazione con Dipartimento di Storia dell’Arte e Spettacolo Università di Roma “La Sapienza”, il web magazine Teatro e Critica, ATCL Lazio, La Casa dello Spettatore, Zètema Progetto Cultura. Gli incontri si svolgeranno ogni venerdì alla Casa dei Teatri di Villa Doria Pamphilj a cominciare da Venerdì 5 Dicembre al Teatro di Villa Torlonia – Roma.

 

*** “FUOCO E FIAMME” Opera Rock di Gianluca Medas liberamente ispirata a ‘The Crow’ (Il Corvo) di James O' Barr, a sua volta un fumetto, un film, e ora un'Opera Rock di successo, su musiche originali degli Skull Cowboys: (Mario Pierno - chitarra elettrica, Andrea Congia - chitarra classica, Fabio Desogus - tastiere, Marco Loddo - basso elettrico, Roberto Matzuzzi - batteria/percussioni). Lo Spettacolo, andato in scena al Teatro Fratelli Medas di Guasila e al Teatro Sant’Eulalia di Cagliari per la rassegna Famiglie d’Arte Re-Opera e I Figli d’Arte Medas giunta alla sua XX Edizione, ripropone la storia di un amore umano e soprannaturale al contempo, rievocativa di dalle sfumature romantiche del genere horror-gotico, che Gianluca Medas, artista poliedrico e direttore artistico dell’Associazione Figli d’Arte Medas, ha trasformato in uno spettacolo dall’oscura Liturgia Metropolitana, in cui il narratore onnisciente svela la vendetta del protagonista che, morte dopo morte, in un luogo e in un tempo nei quali reale e soprannaturale si incontrano, compie un percorso spirituale di Liberazione. La Colonna Sonora: la band rock progressive Skull Cowboys esegue una vera e propria Colonna Sonora dal vivo, che percorre il senso drammaturgico dello spettacolo, seguendo, anticipando, dando risalto a relazioni, vicende e personaggi. Ogni brano mostra così in musica la morte di ciascun personaggio eseguita dal Vendicatore. Sul Web: www.famigliedarte.com

 

“IL CAMMINANTE E ALTRI PEZZI DI TEATRO” di Laura Pariani – Giuliano Ladolfi Editore 2014. Collana Corallo. Testi nati per il teatro, in cui la pagina chiede implicitamente il battesimo della scena, quelli qui presentati con la scena hanno effettivamente avuto a che fare, intrecciandosi con le prassi artistiche di alcune compagnie italiane come Assemblea Teatro, O’ Thiasos TeatroNatura e Teatro delle Selve. La stessa Autrice appartiene a quel novero di scrittori, invero piuttosto ristretto, che coltiva la dimensione orale della propria scrittura, misurandosi con letture pubbliche ad alta voce: necessaria traduzione fisica della propria notazione, o restituzione al teatro di una matrice originaria fatta di parola detta e di racconto, il risultato di fondo non cambia e testimonia di una certa irriducibilità del corpo all’assolutezza del fatto letterario. Questa è una linea molto interessante del teatro italiano, che vede risplendere alcune figure altissime di autori-attori (Giuliano Scabia, Mariangela Gualtieri, ecc.) e di attori-autori (Marco Baliani, Mimmo Cuticchio, ecc.); senza contare gli autori “di pagina” in senso stretto, che pure amano esplorare i territori impervi, e a volte ingrati, dell’alta voce (ingrati perché non sempre tutte le voci d’autore sono autrici di voce). Ma di certo tra questi ultimi, scrittori che riescono anche a farsi autori della propria phonè, non possiamo non citare Gianni Celati, Stefano Benni e la stessa Laura Pariani (Franco Acquaviva).

 

“MIXANDO LA MIA VITA Tra le note e i colori” di Fabrizio Fattori – Rupe Mutevole Edit. Sopra Le Righe. A cura di Gioia Lomasti, Alessandro Spadoni, Marcello Lombardo. Un libro che parla di musica, sulla musica, ma anche dell’umana figura di un DJ affermato, dei suoi successi, delle sue aspettative, dei suoi progetti di vita. Dal suo ‘official website’ apprendiamo: “È sempre difficile riassumere in breve spazio la storia di un uomo. Un'operazione quanto mai complessa. Se poi invece ci mettiamo a descrivere le esperienze di una persona che ha sempre desiderato andare oltre le comuni convenzioni e costruire una dimensione umana del tutto propria e originale, allora la faccenda si fa ardua. (..) Comunque Fabrizio Fattori continua la sua ricerca musicale e ad arricchire la sua produzione artistica tentando diverse contaminazioni sonore e non rassegnandosi ad una visione stereotipata della scena pop e dance. Si fa anche promotore e produttore discografico di diverse etichette indipendenti con significativo successo. "The New Aphro 4 New Generation" è iniziato come un progetto innovativo rivolto in particolar modo ai giovanissimi, in realtà è poi diventato un marchio di qualità non solo per loro ma anche per tutti coloro che sono alla ricerca di sonorità estreme, avvalendosi della collaborazione dei più importanti Deejay Afro della scena europea, mentre "Musica Nuova Emozioni Nuove" al suo debutto con il "Volume 1" conquista in breve tempo la vetta delle classifiche della World Music, anche esso è diventato come "The New Aphro 4 New Generation", un marchio di qualità con sonorità più melodiche. Ma Fabrizio Fattori non abbandona mai il mondo delle discoteche e delle esperienze dal vivo. (..) Inutile dire che questa è solo una piccola parte di tutti i progetti e gli eventi che hanno caratterizzato la vita di Fabrizio Fattori: un artista in continua evoluzione che ha inteso la sua esistenza come una continua esplorazione della musica cercando di afferrarne il senso e il significato più profondo attraverso contaminazioni etniche. Un uomo che ha sempre voluto proporsi al grande pubblico con coraggio e umiltà lavorando per creare un suono che fosse non solo distintivo del suo modo di "essere Deejay", ma anche capace di offrire emozioni inaspettate e coinvolgenti, emozioni nuove!”

 

“EXPO MILANO 2015” Storia delle Esposizioni Universali - di Massimo Beltrame – Meravigli Edizioni 2014. Un libro, un vademecum, una risposta a quanti si domandano perché di un’Esposizione Universale, sui suoi intrinseci valori economico - sociali e culturali, sull’importanza a livello mondiale di averla in Italia e, soprattutto del perché è intitolata al tema di indiscutibile attualità come ‘la nutrizione’, in quanto ‘nutrimento per il pianeta che equivale a produrre nuove energie per la vita’. Infatti ‘Feed the Planet. Energy for Life’ ha questo significato. “Un appuntamento cruciale per Milano e per L’Italia: l’ennesima dimostrazione della grande proiezione internazionale che questa città ha sempre avuto nel corso della sua lunga storia. In questo libro il suo autore, Massimo Beltrame già noto per i suoi studi sulla ‘concezione della spazialità nell’architettura contemporanea’, ricostruisce proprio questo cammino che parte dal racconto degli eventi passati per arrivare a noi rifacendo all’indietro il percorso della ‘storia’ di tutte le Expo a cominciare da quella spesso evocata di Londra del 1851.” Ma non ci si aspetti un discorso politico sugli scandali nostrani, quanto sullo ‘spirito’ che l’Expo di Milano del 2015 porta sulla scena mondiale in quanto vetrina esponenziale delle novità architettoniche e costruttive di grandi maestri mondiali, inoltre all’eccellenza italiana e mondiale di questa umana ‘troppo umana per essere vera’ creatività che ci portiamo dentro. Tanto per rifare il verso a una pubblicità che vediamo scorrere sui teleschermi: “Di questa Expo si deve continuare a parlare”, malgrado tutto sarà l’avvenimento che occorre al nostro paese per tornare ad essere ‘presente’ nel mondo.

 

“RACCONTI CON GUSTO” Stuzzicanti assaggi di storie e sapori. – Una proposta de I Luoghi della Scrittura Edit. per la Collana ‘Scrivere Insieme’ (2012). “Diciotto racconti scritti da altrettanti autori marchigiani, tutti ispirati al gusto del cibo, coniugato nelle sue più varie declinazioni. Una letteratura dei sensi che compiace lo stomaco senza fare ingrassare e, riga dopo riga, produce ed evoca sapori, ricordi, profumi e atmosfere che saziano la mente e lasciano curioso l’appetito. Storia dopo storia, il finale è sempre da scegliere: ci si può accontentare di aver assaporato il piacere della lettura oppure si può entrare in cucina e creare la ricetta ispirata. In ogni caso è consigliato un buon bicchiere di vino”. Alla salute, dunque!

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- Letteratura

’BRICIOLE DI TEMPO’ per la notte di Halloween

Briciole di tempo / Nick of time (..frammenti di tempo per chi ne ha da perdere).

 

Come spesso mi capita durante i lunghi tempi vuoti, che invece di dedicare all’ozio (che allunga la vita) investo nella scrittura (deleteria alla riabilitazione fisica e alla psiche), mi sorprendo a domandarmi quando è stata l’ultima volta che ho avuto davvero paura. Non certo per svago, poiché giocare con le parole molto spesso è stato per me come aver fatto una scommessa col diavolo. E con me il diavolo ha voluto giocare davvero duro, almeno una volta, sbattendomi in faccia la sua inconfutabile realtà, ripetendomi una frase che, a distanza di tempo, ho ritrovato nella didascalia di un film in programmazione: “L’ultima immagine che vedrai della tua vita è l’attimo fuggevole della tua morte”, e che ancora mi pesa addosso come un macigno. Certo, un’affermazione tipica da trailer dell’orrore, da non prendersi in considerazione più di tanto, se non perché rappresenta una realtà precostituita, quasi un atto di necessaria superbia, o se vogliamo di schietta presunzione, da parte di chi da sempre pensa di gestire la cosa umana e inesorabilmente ci riesce.

Posso dire d’averla vista davvero in faccia la morte, una notte, senza saperlo. È stato quando riaprendo gli occhi in un letto d’ospedale per degenti terminali, dopo non so quanto tempo e quanto dolore avevo causato a tutti quelli che disperavano di rivedermi risanato, mi sono scoperto inamovibile, amorfo, oggetto inqualificabile dell’inconsistenza. Fatto è che nessuno dei presenti si accorse che ero diverso da quello che ero sempre stato, che ero diventato un altro, come non ero mai stato: uno zombie. Ricordo che era appena suonata la mezzanotte, quando svegliato di soprassalto, mi sono lasciato cadere sui cuscini di un ampio letto con baldacchino, in una stanza rettangolare con alti specchi alle pareti che oltrepassavano il soffitto, che ovviamente non vedevo. Tutt’attorno al letto si allineavano solidi mobili di buona fattura rinascimentale e un grande armadio a quattro ante, alto e scuro, che occupava l’intera parete sul fondo, e ceri, tanti ceri accesi dappertutto.

Logori epitaffi vagavano nell’aria insieme a una moltitudine di suoni, odori, colori, bandiere sparse a ricordo di vecchie guerre o forse giochi. Mute statuette d’ebano che raccontavano storie di etnie sconosciute, di tempi remoti, di ninnoli impolverati, e cocci, ciotole e pennelli d’ingenue scaramucce con la tela. Negli scaffali tantissimi libri pieni di parole che si aprivano al solo guardarli fino a soffocare l’aria di virgole e punti sconnessi, sillabe incerte, chiuse in coperte di pelle, di tela, nel riecheggiare di versi contemporanei dell’ultimo Ungaretti. A grida tumultuose, ombre sparse s’agitavano affannate sulle pareti dove solitari candelabri si levavano a sostegno di smunte candele, a ricordare notturne lotte con le tenebre, presenti in ogni momento, tra le coperte in disordine del letto, tra le molte carte sparse senza senso, nella stanza disfatta, ancora da rassettare.

All’improvviso fu come se tutto intorno a me fosse cambiato, ogni mio gesto, ogni mia azione, ogni frase che pure non avevo pronunciato si rovesciasse, assumendo un significato diverso, come se il passare del tempo perdesse d’importanza, e l’orologio che pure vedevo attraverso il riverbero sulla parete, era fermo alla mezzanotte, e ancora mi sembrava di sentirne l’ultimo rintocco. Ricordo d’essere rimasto immobile per non so quanto tempo, sveglio nel sonno, immerso nella luce arcana, vaga, ingannevole d’un altro luogo, cui gli altissimi specchi rimandavano l’arido sguardo polveroso di chi accumula polvere dove più ce n’è, oggettivamente separato da ogni cosa che pur riconoscevo come mia, che in qualche modo mi apparteneva, perso in un mondo estremo, come d’uranio, fermo nello spazio senza moto, isolato senza futuro, raccolto in un solo battito di solitudine, dove l’io restava schiacciato al suolo per lo spavento d’essere vivo.

Tuttavia non c’era ansia in me, bensì una sorta di emorragia del tempo attuale, in cui le pareti della stanza trasparivano a costrutti metafisici, dove non accadeva nulla, dove non arrivava nessuno, perché non aspettavo nessuno e di certo non sarebbe arrivato nessuno. In ciò che pure avevo avuto fino a quel momento, nel corso della mia vita reale, fosse venuto a mancare qualcosa, che in ciò in cui avevo creduto non c’era stata la necessaria determinazione. Ricordo che l’attesa era stata lunga, interminabile, tanto lunga da infrangere le pareti di cristallo della stanza dove si dipanavano i miei giochi impossibili, troppo profondi, troppo ardui per essere autentici, e che i pensieri erano infine trasmutati in altri pensieri, diversi e pur sempre uguali, che non avevano dato frutti. L’unica cosa viva la mia penna scriveva, da sola senza l’ausilio della mia mano, in bella calligrafia sulle pagine di un quaderno, che fosse un’agenda o forse un diario, non ricordo, il problema semmai era come appropriarmi  del suo contenuto.

A uno zombie si sa, non è dato utilizzare lo stesso linguaggio umano, avrei voluto solo poter rileggere quello che devo aver scritto, o almeno risentire quanto oralmente pensavo di aver detto in un palmare, anche se per mia conoscenza il linguaggio parlato non può essere lo stesso. Se, come qualcuno ha scritto, ogni parola ha un suo tempo per essere letta, e ognuno di noi ha un tempo diverso di leggere, quello che andrei a rileggere o a risentire, potrebbe essere diverso, verosimilmente più vicino all’occulto, al paranormale che alla realtà. In quanto al senso, indubbiamente l’aspetto che più m’interessava, era leggere cosa si nascondeva dietro quelle parole, cosa c’era dentro di me, quel dentro di 'noi', che non ci è dato conoscere, quel certo qualcosa sicuramente imperscrutabile che pure altri arrivano a scandagliare, a comprendere, nel torbido della nostra esistenza.

Si dava il caso che fossi di ritorno da una cena in un ristorante con un certo numero di persone, e che lo sguardo insistente di un commensale in fondo alla sala, che non aveva smesso di osservarmi per tutto il tempo, mi creava un certo imbarazzo. Che cosa poteva volere quello sconosciuto che mi guardava da dietro gli occhiali, se neppure lo conoscevo, se non l’avevo mai visto prima? Eppure l'uomo sembrava conoscermi, perché, a un certo punto, mi sorrise e m’indirizzò un gesto di saluto. Sapevo di avere una buona capacità mnemonica che da sempre mi sosteneva anche a distanza di anni, ma che forse, pensai, in quel momento mi stesse tradendo. Se avessi incontrato prima la sua faccia singolare, l’avrei certamente ricordata, riconosciuta tra mille, centomila, un milione – mi dissi. Aveva gli occhi nascosti da spesse lenti, ora invisibili, ora fortemente cerchiati quando aguzzava lo sguardo scrutatore, fino a farsi quasi invadente, come di chi cerca un sostegno all’operato di una malvagia seduzione.

Rammento che in 'Lo scrutatore d’anime' di Groddeck veniva formulata una situazione analoga da un diverso punto di vista: che cosa dovevo aspettarmi da quell'uomo che non forse di incontrarlo da un’altra parte, in un altro momento, un altro giorno, per la strada? Impossibile negarlo, a un primo momento di reticenza sentivo in me la tenue speranza che fra noi due si fosse stabilita quell’attrazione che ci avrebbe sospinti senza sforzo l’uno verso l’altro e che la mia domanda, anziché eludere, avrebbe finito per consolidare il nostro incontro. La giustificazione razionale, invece, era che in qualsiasi piano strategico questo sarebbe stato possibile, in un momento o in un altro, semmai l’attesa di una sua imprevedibile mossa era solo una componente necessaria. Da quell’ottimo scrutatore che era, il diavolo, o lo sciamano che fosse, tuttavia, sembrava deciso a voler fare di me una sua vittima.

Da sempre ero stato messo in guardia da certe figure spregevoli, portatori di mala sorte, che si mischiano alla gente comune per estirpare denaro o, come dicevano, per suscitare paura, per carpire l’anima. Superstizione, dicevano i più saggi, ma c’era chi a certe cose ci credeva eccome, e allora giù a raccontare aneddoti arcani, fatti raccapriccianti, accadimenti oscuri che non trovavano riscontro, se non nell’immaginazione di chi li raccontava. Niente più di quanto in antropologia culturale indica l'insieme delle credenze e il modo di vivere e di vedere il mondo di società animiste e di fasce di popolazioni non alfabetizzate che si pensavano scomparse. E che invece, continuano a tramandarsi una sorta di cultura sotterranea, esoterica, che, nascosta all’interno di tradizioni oscure, dall’apparenza innocua, attraversa la rete planetaria, s’intrufola negli interstizi del web, e attraverso internet raggiunge ogni più remoto angolo della nostra galassia.

Una sorta di “magia bianca” che, entrata di sottecchi nella psicologia umanistica e trans-personale, così come in quella del profondo (detta anche esistenziale) e nella filosofia dei sentimenti, conferma che l’occulto riscontra un largo margine di efficienza e di autenticità nel mondo cosiddetto acculturato e tecnologicamente avanzato. Tale, che un certo numero di persone ancora vi ricorre per risolvere problemi legati al timore della morte, e mettere alla prova la tenuta della propria fragilità. Non si spiega altrimenti come, invece, proprio nel terrore della morte, ognuno trovi la spinta necessaria verso la ricerca interiore, l’intimo inconfessabile desiderio di penetrare e conoscere il senso della propria esistenza, o all’opposto, la supervalutazione del proprio ego, il potere assoluto, la semi-immortalità.

Chi l’avrebbe detto che un giorno, nel bel mezzo del XX secolo, memore dei tanti racconti cui non avevo mai dato importanza, mi sarebbe capitato di imbattermi in uno sciamano che voleva strapparmi l'anima? Eppure è accaduto, l’ho incontrato. Era seduto lì, in quel ristorante, probabilmente da sempre, e non aspettava che me. Quando al termine della cena mi avviai verso l’uscita, in coda alla fila degli ospiti, l’uomo si alzò in piedi e mi guardò fisso negli occhi, quasi volesse appurare la mia identità. Ricambiai il suo sguardo senza battere ciglio, pensando che ciò l’avrebbe fermato dal suo intento, ma non vi riuscii, il suo sguardo fisso su di me mi tenne bloccato e io rimasi immobile davanti a lui.

Devo parlarle, disse. Improvvisamente la luce delle lampadine mi parve più soffusa e per un attimo le ombre sembrarono prendere il sopravvento. Mi parse d’intuire che quelle ombre vagamente riconoscibili, sedute ai propri tavolini, rivelavano l’esistenza di un popolo maligno che mi osservava vorace. Rimanga, la prego, lasci che la osservi più da vicino. Non si preoccupi, i suoi amici non si accorgeranno del suo tardare ad uscire. Immagino che lei sappia perché la stavo osservando? Ci conosciamo forse? No, ma io so cosa le capiterà fuori di qui. Lei è un veggente? Forse. Ha bisogno di denaro, vuole essere pagato per una prestazione non richiesta? No. Allora cosa vuole da me? Si sbrighi, perché non ho intenzione di dedicarle oltre il mio tempo. Purtroppo l’arroganza non paga, e lei non ha poi tutto questo tempo. È quindi di denaro che stiamo parlando, non avevo dubbi. Non saprei che farmene del suo denaro, potrei ottenere tutto quello che voglio, se solo lo volessi, ma non lo voglio.

Io, come lei, sono costretto a vivere dentro questa realtà quando avrei bisogno di una qualche distrazione, che non riesco a prendermi, che non posso prendermi. Vuole farmene una colpa? Assolutamente no, ma come vede io e lei siamo i due opposti che prima o poi s’incontrano, che sono destinati a incontrarsi. Si spieghi, oppure mi lasci andare. Nessuno la trattiene, sto solo cercando di spiegarle ciò che lei non sa, che non può sapere. Non sempre ci è dato sapere, talvolta è meglio non sapere quello che non c’è dato. Ma forse, conoscere il momento della sua morte, sì. È di questo che vuole parlarmi, della mia morte? Beh, credo che quando sarà il momento, me ne accorgerò senza l’aiuto di nessuno. Comunque grazie. Buonanotte. No, aspetti. Dovevo dirle che questo potrebbe essere il suo ultimo momento, che la fine la sta aspettando fuori da quella porta. Non esca, non adesso, anche se solo adesso vedo nei suoi occhi che supererà questo tragico momento.

È questa una prova per vedere se la sua sensitività ha un qualche fondamento, o una sfida lanciata per misurare la paura che riesce a inculcare nel prossimo? Entrambe. Lo zittii sollevando una mano. No, non cerchi di scusarsi, il suo è solo un sospetto non una certezza. Non ha mai provato paura prima d’ora? Non ricordo, o forse sì, lo ammetto, nelle fiabe, nei racconti dei vecchi, nei film dell’orrore, ma ne ho anche riso, qualche volta. È ciò che l’ha salvata fin qui mi creda, il suo arguto senso dello scherno, dell’ironia, del bizzarro, che ha dell’incredibile e che la salverà ancora. Il sarcasmo induce la morte a ripensare se stessa, talvolta a retrocedere nel suo intento, al diavolo come al buon Dio di fermare la partita giocata sulla scacchiera del destino. Forse si aspettava dell’altro? C’è forse una possibilità di viverla fino in fondo questa vita e di poter scegliere il proprio destino?

Nessuno di noi può vantarsi di averlo fatto, ma a qualcuno è dato, lo sanno bene gli scrittori di romanzi gialli, di racconti in nero. I primi per aver dato a certi personaggi quell’immortalità che non è data ai comuni mortali, e a tutti gli altri per aver scandagliato nei risvolti dell’anima umana quella coscienza/incoscienza dell’orrore del profondo. Lo sanno gli spiriti della notte che trapassano le tenebre delle allucinazioni per entrare nei sogni, gli zombie come morti viventi che talvolta tornano a infestare i luoghi che pure gli sono appartenuti, i fantasmi il cui spirito vaga senza posa in cerca di rivendicazioni, quegli eroi del mito le cui gesta, impresse nel grande libro del bene e del male, hanno permesso loro di accedere nell’Olimpo degli dei. Lo sanno i grandi di ogni tempo le cui opere pittoriche, scultoree, architettoniche, sono destinate a perdurare nella futura memoria del genere umano, quasi che la suprema edificazione del mondo sia a loro attribuita, quando a loro insaputa, sempre vi si riconosce l’impronta di Dio, o talvolta, per le opere più ardite, la geniale avventatezza del diavolo.

Lo sanno gli scienziati di tutte le discipline, attraverso le ricerche avanzate, le menti che trovano una possibilità di fuga dalla realtà, come pure tutti gli altri, quelli che con irresponsabilità accendono le polveri e scatenano le guerre di distruzione dell’intero pianeta. Che non è opera del diavolo, che non avrebbe di che vivere senza le meschine debolezze degli umani. Ma chi ne sa ancor più è lo scrittore di fumetti, l’inventore del genere letterario cosiddetto mistery, che vede in Edgar Allan Poe il maestro di riferimento, cui molti autori devono qualcosa. “Siete bravo quasi quanto il Dupin di Edgar Allan Poe. Non pensavo che nella vita reale esistessero persone simili”, commentava ammirato il dottor Watson nelle prime pagine del romanzo che inaugurò la fortunata serie di Sherlock Holmes.

Così, con questo piccolo omaggio, Arthur Conan Doyle riconosceva il proprio debito verso l’inventore del genere poliziesco, dando al contempo conto di quanto fosse noto il nome di Poe. Dobbiamo forse lasciarci trascinare dagli eventi nella convinzione che quanto possiamo fare sia completamente inutile? Davvero mi rimane così poco tempo da vivere? Chiesi ancora all'uomo, fingendo d’essere rimasto toccato dalle sue eloquenti parole, e in fondo lo ero, eccome. Just a nick of time, per chi ne ha da spendere, la fuori da quella porta “l’ultima immagine, che vedrai della tua vita è l’attimo fuggevole della tua morte” fu la sentenza. C’è sempre la possibilità di non aprirla, ma che differenza farebbe? – aggiunse. Già, che differenza avrebbe fatto! Non avevo forse superato innumerevoli difficoltà, nelle foreste e nei deserti che avevo attraversato vagando nelle strade delle città in cui avevo vissuto?

Già, che differenza avrebbe fatto se fossi restato ancora un poco lì, in quel ristorante, aspettando che lo spirito che mi aveva animato fino a quel momento, si decidesse di lasciare il mio corpo. Allora vorrei che fosse un ultimo bicchiere a decidere la sorte, il suo guardarmi abietto contro il mio sorriso - pensai. Oste, un boccale di vino tinto e due bicchieri, e via alla malasorte! La prossima volta non sarà come la precedente, né come quella che verrà, dissi poi, dopo aver bevuto fino all’ultima goccia, attraversando la soglia della porta, spalla a spalla col diavolo che mi accompagnava fin dentro la notte. Era buio fuori, e una folla immensa mi venne incontro festeggiante, con le candele in mano e mille zucche orrende che sorridevano spaventose. Era la notte di Halloween!

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- Cinema

‘IL GIOVANE FAVOLOSO’ – Un film di Mario Martone

‘IL GIOVANE FAVOLOSO’ – Un film di Mario Martone

 

Non poteva mancare nella nostra rivista letteraria che tiene alto il prestigio della ‘poesia’ un omaggio all’immenso poeta Giacomo Leopardi, anche se a farlo non è un ennesimo libro delle sue poesie conosciutissime a livello mondiale, bensì una pellicola cinematografica che senza togliere nulla alla intrinseca bellezza della liricità poetica dei testi, raccoglie il plauso per una visualizzazione di pregio. Pur nella loro semplicità campestre il regista ha saputo restituire alle immagini, tutt’altro che banali, la riscrittura di quelli che dovevano essere i luoghi dell’infinito leopardiano, centrando la visione ‘scomoda e caparbia’ di quella realtà che Leopardi pur seppe cogliere, vivendola, nell’eterna inquietante ‘malinconia’ che lo travolgeva e che a detta dello stesso Mario Martone, regista del film: “..costituiscono gli elementi più forti della sua modernità”.

«La consapevolezza del fallimento, ma anche la capacità dello slancio. Si mette sempre l’accento sulla malinconia leopardiana, ma sono la forza dell’illusione e la consapevolezza della caducità del vero i tratti distintivi. In questo senso Leopardi parla di oggi». (*)

Una eloquente prova di sceneggiatura critica dunque che Martone con la moglie Ippolita di Majo hanno reso essenziale nel mettere in evidenza l’insolito aspetto del ‘genio ribelle’ che fu Leopardi e che appena traspare nei libri di letteratura. Mentre  qui, invece, diventa preponderante, sovrastando di gran lunga l’immagine preconcetta che abbiamo del poeta, indagato nel quotidiano, nell’accettazione della sua condizione di ‘indefinito’ dentro l’infinito che lo contiene. Una sequenza di ‘immagini’ poetiche che riempie gli occhi quasi da rendere il tutto come ‘un accadimento’ surreale posto in ‘un tempo fuori dal tempo’ eppure mai così veritiero, dove tutto può accadere e infatti accade.

«Leopardi ha una scrittura molto viva, anche se si esprime in un italiano dell’Ottocento. Abbiamo disboscato, io e Ippolita, testi lunghi e complessi, ma di prosa cristallina. Per molti versi è un autore novecentesco, come diceva Garboli è un poeta di un tempo altro piombato come un meteorite all’inizio dell’Ottocento. Parla di cose che ci riguardano direttamente. È come se avesse previsto la caduta anche delle nostre magnifiche sorti e progressive». (*)

Non meno intriganti sono gli spazi ricreati dalla stupenda fotografia della quotidianità pittoresca del contado, ove si consuma l’esistenza dei molti. È qui che il protagonista, (un immenso Elio Germani), abbandona i panni del poeta per assumere quelli dell’uomo con le sue debolezze e l’irrisolutezza della sua volubilità. Quasi che potremmo definirlo un ‘eroe odierno’, investito di quella promiscuità che solo una società in decadimento (come la nostra oggi) può concepire:

 

«Questo io conosco e sento, / Che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, / Qualche bene o contento Avrà fors'altri; a me la vita è male.» (**)

 

Da cui la figura di un uomo schernito e deriso che infine si abbandona a se stesso, nell’insegnamento che pure lo addolora, ma che insieme gli da la consapevolezza della bassezza umana e dell’altezza infinita dello spirito, capace di elevarsi sopra le coltri delle tenebre che l'incombono. Ma che non è paura di morire … semmai è l'altra faccia di quell’Esistenzialismo che sfocerà poi nella letteratura del Novecento. Un precursore dei tempi.

 

"Or poserai per sempre, stanco mio cor. Perì l'inganno estremo, ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento, in noi di cari inganni, non che la speme, il desiderio è spento.." (**)

 

Ma è al poeta che il film si rivolge, e chiara è l'invocazione scelta:

 

“Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai, silenziosa luna …” (***)

 

Non è una semplice invocazione quella del poeta, è piuttosto una sollecitazione a farsi partecipe del tutto ciò che lo circonda, misurarsi con ciò che lo sovrasta, voler capire i molti perché dell’esistenza. E questo il film lo trasmette in pieno attraverso i vuoti riflessivi e i silenzi che costituiscono i ‘tempi’ propri della cinematografia narrativa, come del resto sono intrinseci nella poesia. Lo spettatore non può non tenere conto di ciò, la poesia ha una sua scansione, un suo ritmo cadenzato sulle riflessioni e le emozioni che suscita, che può essere lento o andante come in musica risuonano le note.

Una musicalità in certi momenti ‘idilliaca’, quasi sospesa, che è anche la cifra di Martone regista che abbiamo potuto apprezzare nei suoi spettacoli teatrali prima e nel cinema dopo. Vanno qui ricordate soprattutto certe pellicole che non sono passate inosservate come “Morte di un matematico napoletano”, “L’amore molesto”, e finanche il più concitato “Teatro di guerra” che tanto, fin troppo, fece parlare di sé per la trasposizione del linguaggio troppo ‘teatrale’ nel cinema, ma che decretò al regista una certa fama internazionale e la laurea honoris causa proprio per la stessa ragione, in ‘Linguaggi dello Spettacolo del Cinema e dei Media’ presso l’Università della Calabria.

Musicalità che, insisto, è ben dosata anche a livello di colonna sonora da Sascha Ring che fa da contrappunto, piuttosto che esaltarle, alla splendida fotografia di Renato Berta che valorizza il film di molti pregi. Oltre all’accurato montaggio di Jacopo Quadri, un riconoscimento particolare va agli attori, tutti bravi, che affiancano il già citato Elio Germani (meritevole d’essere premiato), Isabella Ragonese, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Edoardo Natoli, Anna Mouglalis, Valerio Binasco, Paolo Graziosi.

Parlare di Mario Martone in quanto regista del film non è poi così facile in ragione delle sue scelte sempre motivate, dell’impegno di studioso ‘viscerale’ che egli mette in ogni sua creazione, capace di afferrare l’insolito dentro la scena così come del personaggio che agisce dentro quella medesima scena. Quasi da far sembrare i suoi personaggi degli ‘invasati’ interiormente presenti al fatto che si sta consumando, più ‘veri’ del ‘vero’ e per questo credibilissimi. Si direbbe aver preso alla lettera certe lezioni di Stanislavskji, o magari di certe regie di Strehler.

Indubbiamente Martone discerne una originalità interpretativa propria che richiede il massimo dell’interiorità emotiva dei protagonisti, che lo ricambia con gli innumerevoli riconoscimenti ottenuti.

 

Filmografia •

Morte di un matematico napoletano (1992) • Rasoi (1993) • Antonio Mastronunzio pittore sannita, episodio del film collettivo Miracoli (1994) • L'amore molesto (1995) • La salita, episodio del film collettivo I vesuviani (1997) • Teatro di guerra (1998) • L'odore del sangue (2004) • Noi credevamo (2010) • Il giovane favoloso (2014)

 

Monografie •

Il desiderio preso per la coda, (1985) • Ritorno ad Alphaville di Falso Movimento, con fotografie di Cesare Accetta, Milano, Ubulibri (1987) • con Fabrizia Ramondino, Morte di un matematico napoletano, Milano, Ubulibri (1992) • Teatro di guerra: un diario, con prefazione di Enrico Ghezzi e fotografie di Cesare Accetta, Milano, Bompiani (1998) • a cura di Ada D'Adamo, Chiaroscuri: scritti tra cinema e teatro, Milano, Bompiani (2004) • Noi credevamo, Milano, Bompiani Overlook (2010)

 

(*)Dall’intervista di Mario Martone rilasciata a Titta Fiore per Il Mattino.it – 29 Ottobre.

(**) Giacomo Leopardi, 'A se stesso', vv.1-3

(***)Giacomo Leopardi, ‘Canto notturno di un pastore errante dell'Asia’, vv.100-104.

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- Musica

’SUDOKU KILLER’ Caterina Palazzi 4tet - una rivisitazione

'Sudoku Killer' by Caterina Palazzi 4tet

con Caterina Palazzi (bass), Giacomo Ancillotto alla chitarra, Danielle Di Majo al sax soprano e Maurizio Chiavaro alle percussioni.

Se la logica matematica si trasformasse in parole che avessero senso, forse avremmo capolavori di letteratura che non avremmo potuto immaginare, o forse di poesia numerica logicamente costruita. Pur tuttavia, onde evitare certe trappole, ci rifugeremmo comunque in altre discipline meno disciplinate di queste che rendessero esplicite le strutture del linguaggio e del pensiero che usiamo quotidianamente. Ma se la logica costruisce, oltre che a decostruire, ècco che la musica è il vero antidoto all’eccesso di logica in cui abbiamo finito per intrappolarci. E il sudoku cos’è, che c’entra? È a tutti gli effetti, un gioco matematico che abbiamo preso come passatempo e che, in qualche modo ci diverte, ma è anche la cifra su cui la bassista del gruppo Caterina Palazzi compone i suoi rigorosi brani strumentali e che oggi costituiscono il bagaglio sonoro-musicale più avanzato delle giovani generazioni: picture music – tuned space – house music. E che, a partire dall’ormai cult “Imaginary Landscape n.1” di John Cage, passando per Klaus Schulze di “Dune” e “Train”, fino a “Sphere” di Keith Jarret, a Bill Frisell, John Zorn Masada, Nirvana e quanti altri li hanno seguiti su questa scia, e che ormai ci avvolge come nebbia sonora addensandosi in vibrazioni portatrici di forme nuove di comunicabilità.
È questa una delle chiavi di ascolto possibili della nuova tendenza Jazz che appunto attraversa una fase di urbanizzazione che recupera dalla musica etno quello che ci riguarda di dentro, per riproporcelo in una fusione d’avanguardia piacevolmente inusuale, misto di rock (talvolta duro) e neo-bop minimalista. Ed è in questa ricerca che Caterina Palazzi, creatrice di suggestioni numeriche va a porsi, nella diagnostica di un più idoneo linguaggio comunicativo che potrebbe riservarci, in un futuro non troppo lontano, sorprendenti sonorità nascoste “oltre la musica”, comunque non come sola espressione intellettualistica, bensì un nuovo linguaggio musicale che sarà tanto più efficace, quanto l’insieme delle emozioni e delle sensazioni saremo stati in grado di afferrare. L’innesco è stato attivato ieri sera 25 Novembre nel rinnovato ed effervescente Music Inn Jazz Club di Roma, dove il Quartet si è esibito lanciando, per così dire la sfida a quanti erano presenti, con nuovi brani in preparazione che hanno letteralmente strabiliato (leggi spaccato) con straordinaria “forza d’urto”.
Dopo la proposta di almeno due pezzi consolidati come “Twin Peaks” (colonna sonora del famoso telefilm) e “Berlino Est”, si è quindi passati a un’arrendevole “Sudoku Killer”, dopodiché i quattro (ormai scaldatisi) si sono spinti vicendevolmente ad afferrare sonorità inusitate, scambiandosi ruoli ed effetti sonori rasentando in “Hitori” perfino il virtuosismo percussivo, con la forza dirompente del sax duro (da picconatrice rock) di Danielle Di Majo, e i graffianti sferzi della chitarra di Giacomo Ancillotto. E mentre Caterina Palazzi al double-bass lacerava la superficie della tela oscura dei suoi percorsi creativi dando luogo a intermittenze liquide con “La lettera scarlatta”, la “follia lucida” delle percussioni di Maurizio Chiavaro distruggevano tutto attorno, senza lasciare niente per dopo. Straordinario nei suoi contrasti e infine addirittura violento nei brani successivi, “Futushiki” e “Vampiri”, i nuovi pezzi che faranno parte del prossimo album, il Quartet ha dato alla concertazione il piglio necessario a stravolgere quello che poteva essere il canovaccio “numerico” della composizione, trasformando quello che all’inizio era sembrato il gioco di un “matematico impertinente” in espressione alchemica nel bis di “Sudoku Killer”, mediante la presa di coscienza fisica del rumore e del suono, così com’erano forse in principio, cioè dello strato “physically” che li riveste, e che una volta afferrato, il Quartet ha rilanciato nel cosmo della musica con tenacia risoluta.
Ed eccoci infine alla logica ritrovata, per così dire, a quel “senso” che vede il “nuovo” aprirsi verso l’orizzonte musicale contemporaneo sempre più contaminato dalle nuove tecnologie: digital talks, dissonanze lab, physical music, che in maniera pervasiva stanno rivoluzionando ogni aspetto della nostra vita sociale e culturale i cui interpreti, musicisti, compositori ecc., non mancano però del talento necessario e della voglia di fare che li fa protagonisti della nuova scena jazz romana e non solo.

Discografia plus:

Caterina Palazzi Quartet – “Sudoku Killer” – Zone di Musica – CD 1001 - 2011
Danielle Di Majo Quintet – “Eccedere di Blu” – Picanto CD 0019 - 2010
Baap! - “Sweet Dreams, baby!” – Monk CD 006 - 2011

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- Musica

’MAMA BEA’ - una Rock Star ’DOC’ caduta dal cielo

Mama Béa – una Rock Star ‘doc’ caduta dal cielo.

1979 – Italian Tour avec Mama Bea Tekielski
I più giovani si staranno chiedendo chi è? Una con un nome così di certo non passa inosservata. Se poi si presenta in scena con una chitarra e alcune bambole di pezza con gli occhioni sgranati come i suoi, va detto che fa un certo effetto. Così come sapere che arriva da Parigi dove sta ottenendo un certo successo lascia sbigottiti. Ma perché, scusa? Beh, non tanto per la chitarra cui siamo abituati di vedere, tutte le cantanti francesi si presentano sulla scena con uno strumento, sembrerebbe quasi che tenga loro compagnia. Mama Bea no, tiene in mano una mitraglia, e la usa per sparare sul pubblico che sbigottito non è più in grado di fuggire. Sì, perché il frastuono dei decibel della sua chitarra è incalzante, non lascia scampo, ti schiaccia al suolo, ti rintrona, ti sconvolge gettandoti nel più terreno dei “Chaos” metropolitani, che è poi il titolo del nuovo album appena uscito quest’anno sul mercato discografico. Per non dire della sua voce che arriva come un turbine di angeli caduti in preda al panico, gridando ossessionata di “Fare esplodere questa città”:

"I bambini hanno gli occhi / bruciati dalle luci della pubblicità./ Nella città adulta non vi sono superstiti./ I bambini hanno gli occhi con le palpebre cucite / nella città adulta non vi sono superstiti./ Fare esplodere questa città! E saltare con essa! / I bambini hanno gli occhi trafitti da corvi./ Quando gli adulti parlano non vi sono superstiti./ i bambini hanno gli occhi popolati di cimiteri./ Quando gli adulti mentono non vi sono superstiti. / Ma io aspetto i bambini venuti da un’altra galassia / e la loro musica mi dice che non ci saranno superstiti / perché essi hanno gli occhi bruciati dalla rabbia./ Tremate vecchi di tutte le età! Bruceranno i vostri idoli./ (Sono qui per fare esplodere questa città e saltare con essa!)”.

Beh, che ve ne pare? Solo che lei queste cose le scriveva negli anni ’70 e ti arrivava addosso come un treno in corsa. Una folle! Come il titolo di un altro suo brano “La pazza”:

“La sua mano destra che, come un battito d’ala
di un vecchio uccello senza fiume,
arriva sempre prima di lei
come un sinistro messaggero;
tutta la città la conosce,
dal tempo in cui lei percorreva,
in tutte le direzioni e in tutti i momenti,
la campagna circostante
e l’umile selciato della strada
con i piccoli passi secchi e martellanti
della sua andatura irregolare,
senza preoccuparsi né del clima né dell’ora …
La pazza, la pazza …
Stamattina l’ho vista passare,
vestita di rosso sanguigno,
la sera invece era vestita di nero,
non saprò ‘mai perché’ …
La sua mano, come una rondine
che annuncia una primavera bizzarra!
Tutta la città la conosce,
ma nessuno la guarda,
se venisse a parlarci
di quanto non possiamo capire …
La pazza, la pazza …
Il suo collo fiammingo che ondeggia
un po’ nella fuga
o forse nell’inseguire
un’immagine smarrita
dell’altra faccia di uno specchio,
dell’altra faccia di uno specchio,
nessuno può dire da quando
è cominciata questa ronda incessante,
tutti si domandano come,
giorno dopo giorno, possa farcela …
La pazza, la pazza …
Il suo occhio che non ci vede più,
che ci confonde con le ombre,
quale ferita folgorante
ha messo tra noi questa cortina?
Su quale riva stiamo
e siamo veramente noi che
non possiamo più attenderla …
La pazza, la pazza …
Come una canna che si piega nella tempesta,
quanto tempo resterà
a correre in questo incendio?
Quali visioni , quali pianeti
Piomberanno ancora su di lei
Prima che l’ultimo delirio
Immobilizzi la sua mano,
quanto tempo le resta,
alla pazza, alla pazza?
Quanto tempo mi resta
e ci resta prima che tutte le nostre ferite,
dissimulate e mal curate,
i nostri sogni, i nostri desideri castrati,
le nostre umiliazioni soffocate
e l’impossibilità di parlarne,
ci facciano saltare il passo,
ci facciano scoppiare in una grande risata
simile al singhiozzo,
simile al singhiozzo
che lei si porta sempre dietro …
la pazza, la pazza …! La pazza!”

La si direbbe un delirio, le cui grida potevano sentirsi in tutto l’emisfero celeste e oltre, assecondate da un rock duro in cui le note stirate al massimo assecondavano le parole, distorcendone il suono che ne veniva ingoiato e rigettato in faccia all’audience con graffiante sicumera da artista provata, surriscaldata dal fuoco delle grandi platee che oggigiorno riempiono gli stadi e che all’epoca al massimo occupavano l’Olympia di Parigi o il Sistina di Roma, quattro gatti al confronto. Ma che lei con le sue quattro bambole di stracci e una chitarra riusciva a incendiare con le sole parole ‘gridate’ da spalancare con la sua ‘La chiave’ le porte dell’inferno:

“Sono nata in questo tempo / che sogna l’America,/ quando l’America invece ha paura / di credere ancora al suo sogno./ Sono nata in questo tempo / di crisi e di rabbia,/ che vede i figli abbandonare / la casa paterna …/ In quale tempo sono nata?/ Datemene la chiave!/ Sono nata in questo tempo /di bizzarri bombardieri,/ in cui gli ordini esplosivi / si accompagnano ai sacchi di grano!/ Sono nata in questo tempo / di sconvolgimenti e di conquiste,/ in cui la donna ha seminato / il vento della tempesta …/ In quale tempo sono nata?/ Datemene la chiave!/ Sono nata in questo tempo / di periferie galattiche,/ in cui il mio vicino / non sa nemmeno che esisto./ Sono nata in questo tempo / in cui la disperazione fiorisce / sui balconi della città-dormitorio …/ In quale tempo sono nata?/ Datemene la chiave!/ Sono nata in questo tempo / del massimo profitto,/ che fa incancrenire la terra / e tiene conto solo della ricchezza. / Sono nata in questo tempo / che realizza anche l’impossibile / e in cui, nonostante tutto,/ ci si deve torturare per vivere …/ In quale tempo sono nata?/ Datemene la chiave”.

È pur facile intuire a quale fonte ‘anarchica’ Mama Bea attingesse. Lo spirito del tempo almeno in Francia era quello di Georges Brassens, Jacques Brel, Barbara, Colette Magny e Léo Ferré. Amava le canzoni che proponevano anche testi di un certo livello, quelle di Léo Ferré ad esempio, e che apprezzerà al punto di reinterpretarne dodici nell'album “Du côté de chez Léo” ormai irreperibile. A vent'anni inizia la carriera di cantautrice e nel 1971 esce il suo primo album: Je cherche un pays. Comincia ad ascoltare anche Janis Joplin, Jimi Hendrix, Leonard Cohen e Bob Dylan. Sempre in quegli anni riprende anche “De la Main gauche” di Danielle Messia e darà la voce a Édith Piaf nel film “Édith et Marcel” di Claude Lelouch. Nel 1978 esce l'album “Ballade pour un bébé robot”, ottiene il premio per il miglior disco straniero in Italia, il premio dell'accademia Charles Cros e il premio dell'Association des Disquaires de France:

“È la ballata
Che la mamma robot
canta al suo bambino robot
affinché si addormenti,
lui che non vuol fare la nanna, non vuol fare la nanna …
‘Il loro amore incandescente
accadrà vita ad un essere multicolore
di argilla e di bronzo
accadrà una volta
non si chiameranno né Eva né Adamo
non avranno radici,
non si danneranno nella ricerca
di una paternità suprema.
Non soffrire
insudicerai il tuo gilet di rame stagnato,
non sognare
farai esplodere i circuiti stampati,
non piangere
farai arrugginire le ciglia di latta.
Siamo troppo piccoli,
ma incolpevoli
siamo il risultato di un’equazione errata.
Dovremo consumare l’errore
sino all’esplosione finale!
Ma non piangere
non è triste poiché …
Il loro amore incandescente
darà vita ad un essere multicolore
di argilla e di bronzo.
Accadrà una volta …
Ma allora non ci saremo più.
L’amore sarà senza noi, senza noi” …
Questa è la ballata
che la mamma robot canta al suo bambino robot
affinché si addormenti,
lui che non vuole fare la nanna, che non vuole fare la nanna …
che non può fare la nanna ….
Che non può fare la nanna”.

Pensate che erano solo gli anni ’70 ma già c’erano dentro tutti i ‘germi’ del futuro arrabbiato e incerto che ci aspettava: il criticismo kantiano, il più tardivo nichilismo nietzschiano, l’inquietudine di Galimberti, l’impertinenza di Odifreddi, la modernità liquida di Bauman, la decostruzione di Bausch, il vuoto sonoro di Cage, la sperimentazione vocale di Stratos, la metafisica quantistica e quant’altro, ricalcato (qualcuno ne dubita?) sull’esperienza genialoide futurista. Scusate se è poco, ma Mama Bea poteva anche non saperlo, fatto è che ha scritto i testi più rivoluzionari e ‘nichilisti’ che fosse possibile ascoltare in quegli anni:

Le parole.
“Patatata, patatata, patatata,
patatata, patatata, patatata,
le parole sono troppo grandi o troppo piccole
le parole non dicono mai abbastanza.
Credi di parlare e quando hai finito
ti accorgi che non hai detto nulla …
Delle parole gorgoglianti che fanno troppo rumore,
delle parole divertenti che non fanno ridere nessuno,
delle parole leggere dure come pietre,
delle parole simpatiche che non si ascoltano.
Patatata, patatata, patatata,
delle parole così vuote che ci si sprofonda dentro,
delle parole così stronze che non ci danno alcun sollievo,
delle parole così buone che si mangerebbero!
Delle parole così belle che non si dicono mai …
Le parole troppo grandi o troppo piccole,
si hanno nel cuore, perché dirle
quando si è certi di non essere capiti,
già che non abbiamo tutti lo stesso delirio …
Patatata, patatata, patatata …”.

Non resta che una domanda, e qualcuno che gliela fa. “Perché gridi?” han chiesto dalla platea, ma includeva già la risposta:

“La bambina aveva le trecce di satin / con nastri azzurri e rosa che brillavano tra i suoi capelli / note musicali sospese alle orecchie / che tintinnavano … che tintinnavano. / Teneva nel suo grembiule delle nuvole di cioccolato / e attraversava i ruscelli sui ponti di panpepato. / A un tratto si è fermata, mi ha guardata e mi ha domandato:/ Mi dici perché gridi?, mi dici perché gridi …/ Grido perché ho nel ventre una speranza / grido perché al risveglio ti resti qualche cosa / grido perché un giorno il loro silenzio ti farà molto male! / E perché tu tenga a mente,/ io ti avevo avvertita / che non saprai mai la risposta alla tua domanda. / Essa allora rise e poi disse: / “Non capisco!/ Dimmi perché gridi, dimmi perché gridi”/ La bambina mi ha detto: “Guarda cosa hanno fatto!/ hanno sradicato l’albero dal mio giardino,/ hanno preso l’uccello che mi si posava sulle mani e / l’hanno chiuso in una gabbia e,/ l’hanno chiuso in gabbia!/ la bambina ha versato tutte le sue lacrime / ai petali sgualciti di un fiore straziato,/ ma questo gesto non gli ha reso la vita”/ Allora lei mi disse: “So perché gridi, so perché gridi …/ per favore, grida anche per me …”

Discografia su etichetta RCA:
• 1971 : Je cherche un pays
• 1976 : La Folle
• 1977 : Faudrait rallumer la lumière dans ce foutu compartiment
• 1978 : Pour un bébé robot
• 1979 : Le Chaos
• 1979 : Visages
• 1980 : Pas peur de vous
• 1981 : Aux Alentours d'après minuit
• 1982 : Où vont les stars ?
• 1983 : Edith et Marcel (Extraits de la Bande originale du film)
• 1984 : Survivants
• 1986 : La Différence
• 1988 : Violemment la tendresse
• 1991 : No Woman's Land
• 1994 : Ma Compilation
• 1995 : Du Côté de chez Léo
• 1998 : Indienne
Sito web mamabea.fr


Attention ,
Vous êtes dans la caverne de l ' OVNI de la
" chanson française "
Inclassable , ingérable et j ' en passe !
Bienvenue à bord !
Soleils.

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- Libri

’La musica provata’ - Erri De Luca

“LA MUSICA PROVATA” di Erri De Luca – Feltrinelli 2014

 

Due ore di lettura sconsiderata, o forse solo imprevidente, che ci racconta e si racconta senza vanagloria degli anni ‘60/’70, di un’Europa che non c’era, di ideali sfusi messi insieme attorno a una bandiera che sventolava solo per ‘anime belle’, per cui non importava se a ragione o per conseguenza/effetto di teorie presupposte e forse temute. Fatto è che Erri De Luca è qua a raccontarci la sua personale esperienza attraverso la musica di quegli anni e lo fa con disincanto, citando e scegliendo per colonna sonora quelle ‘canzoni ribelli’ che hanno significato, e forse segnato, la sua scelta di vita. Per cui seguire la corrente orgogliosa e pregiudiziale che avrebbe contrassegnato, tra rivoluzione e anarchia, l’avanzata di un fronte di disobbedienza, di protesta contro i poteri forti degli stati dittatoriali, a favore della libertà, dell’autogestione in ambito civile, in quello universitario, cioè “prima ancora che la musica diventasse espressione di una resistenza” ecc. ecc. Va tutto bene, ed ogni cosa alla fine sembra aver trovato il suo capro espiatorio, che soddisfa o meno gli impeti giovanili dello scrittore che oggi però, non spende una parola (forse perché ce l’ha stradetto nei suoi precedenti libri o forse mai) sui risultati raggiunti, sulle aspettative saldate o perse, sulle illusioni e disillusioni provate. Ciò che resta è qui in questo libello di poco più di novanta pagine che spazia tra i ricordi polverosi, i suoi successi non cercati, le sue svogliatezze di ascoltatore ozioso, di musicofilo improvvido cui pure la musica deve un qualche riconoscimento, se non altro per essere stata ‘provata’ sulla pelle, sentita con il corpo: “Qui sono piovute le musiche, ognuna stava in grembo a qualche nuvola. Ogni canzone è stata prima scroscio e le sue note gocce.” Ma non c’è musica senza una poesia che l’accompagni, forse per scuotere l’autore ci sarebbe voluto un bel diluvio di tipo ‘universale’, uno di quelli che si ricordano per l’eternità. Ma allora l’arca della salvezza chi gliel’avrebbe mai affidata a De Luca se non avesse sventolato una bandiera? C’è ben da battere il martello sull’incudine per estrapolare una qualche melodia, tutt’al più per sollevare le gambe in un saltello, ma solo nel caso ci si schiacci un dito. E questa volta il dito De Luca se l’è belle schiacciato nel riportare l’aneddoto riferito a Gianni Morandi che negli anni settanta cantava la canzone “C’era un ragazzo..” e di come “..il movimento che si batteva da anni a fianco della lotta d’indipendenza respinse rumorosamente l’invasione di campo del cantante e il tentativo commerciale”. Nel frattempo però i ‘compagni’ compravano i dischi di Johan Baez, di Peter Seger, si cantava l’Internazionale, si leggeva Kerouac, Boris Vian, mentre Guccini era un’astrazione da Navigli. Allora, “Aggiungo questa nota alla musica provata perché nell’ultima primavera del 1900 stavo a Belgrado sotto la scarica di bombe, razzi e missili vari della Nato. C’ero andato per furia contro il mio paese che si metteva al servizio di bombardamenti di città. Ero avvilito dal clima favorevole a quelle spedizioni, dove famiglie di brave persone andavano spensierate nel fine settimana a fare il picnic intorno alla base di Aviano, da dove decollavano le formazioni aeree”; concludendo che all’epoca abitava una stanza dell’Hotel Moskva. Viene da chiedersi cosa ci facesse Erri De Luca a Belgrado se non un picnic ‘pagato’ da reporter? Se poi – per sua ammissione - non scrisse neppure in rigo in proposito. E ancora, se questo ennesimo libercolo (+ spettacolo, + film, + DVD) non sia forse un modo come un altro che la commercializzazione di ricordi transitori che lo riscattano dalle bizzarrie di una letteratura franca quanto ‘inimmaginabile’ oggi? Oggi, l’autore ritorna a quando “Dai solchi dei dischi – si parla qui dei Long-Playing anche detti 33giri – comincia l’ascolto assorbente che non permette altra mossa. Niente riuscivo e riesco a fare in sua presenza. Non l’ho potuta usare a sottofondo, la musica provata.” E forse il nostro autore avrebbe fatto meglio a riascoltarla quella ‘sua musica’ insieme a tanta altra da lui stesso bollata come ‘commerciale’ benché risuonasse dell’espressione popolare non necessariamente etichettata alla ‘resistenza’, cercando in essa quella ‘poesia’ che non seppe cogliere allora e che neppure adesso sembra coinvolgere più di tanto i suoi ricordi, malgrado la corrispettiva età di ‘diversamente giovane’ cui va incontro. Ma come si dice, la maggiore età rende saggi, per cui il nostro autore è ancora in tempo per riascoltare la sua ‘musica provata’ … sì, ma per favore, chiuso in quel silenzio ch’egli dice consono alla sua indole di ‘inimmaginabile’ scrittore.

 

Meglio anche per noi rileggere di Erri De Luca: "Alzaia" (1997); "Il contrario di uno" (2003); "Solo andata" (2005); "La doppia vita dei numeri" (2012) e altri, tutti editi per laFeltrinelli.

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- Musica

’PETER PAN – Musical in 3D al Festival Piceno d’Autore

“PETER PAN” – un Musical in 3D.

 

Dai successi riportati su palcoscenici del West End londinese, ai teatri sfolgoranti di luci di Broadway il Musical ‘Peter Pan’ dall’omonimo racconto di James Matthew Barrie, riadattato per la scena e approdato alcuni giorni fa al Pala Riviera di San Benedetto del Tronto, davvero non ha nulla da invidiare, anzi tutt’altro! Ed ‘altro’ sta per ‘non preconfezionato’, insomma non ‘precotto’, e quindi non ‘consumato’ abbastanza, sebbene la Compagnia Art Dream dopo questo ennesimo successo di critica e di pubblico si accinge a portare a termine della stagione con un’altra ‘unica’ data ad al Teatro Sperimentale di Ancona da cui a sua volta era partito, e fissata per l’ 08 Novembre 2014.

La Compagnia Art Dream ha rispolverato in versione musicale moderna, l’opera teatrale originale a 110 anni dalla sua prima messa in scena, creando un musical tutto da vedere e da godere, recitato, cantato e danzato da oltre 30 attori in scena, per due ore dense di emozioni. Sì, avete ben compreso, sto parlando del cuore pulsante del Musical Show italiano che ormai consta ogni anno di straordinarie produzioni teatrali seppure con i modesti mezzi di cui si dispone. Per dirla con franchezza con quel poco che le compagnie di teatro nostrane riescono a mettere insieme. Soprattutto quelle che per amore del teatro, pur senza finanziamenti di sorta o sponsor altolocati, pure riescono nell’arte di ‘arrangiarsi’, come in fondo si faceva una volta, salendo tutti sul fatidico ‘Carro di Tespi’.

Ebbene va detto, si fa quel che si può e, credetemi, non è poco. Il che equivale a ‘di tutto di più e nel migliore dei modi’, se mi si concede la citazione, ciò che, a onor del vero, fa la differenza. La ragione di questa mia espressione è però un’altra, si vuole qui mettere in risalto come il Musical propriamente detto contrassegna il check-point di un inevitabile incontro tra il vecchio e il nuovo e il mescolarsi delle tendenze e delle mode che contrassegnano la storia del Musical, con i suoi strepitosi successi all’insegna della stravaganza e le sue immancabili cadute di stile che talvolta hanno creato vere e proprie difficoltà identificative tra passato e presente.

È in questa dimensione, allo stesso modo anticonformista e rivoluzionaria di qualsiasi schema gli si voglia attribuire, che va valutata l’attuale produzione di questo ennesimo “Peter Pan” per la gioia di grandi e piccini, qui volutamente non distinguibili gli uni dagli altri, a voler dire che ‘insieme è più bello’. Ciò che vale anche per i componenti la Compagnia Art Dream & Art Dream Junior, diretta da Stefano Mari (Pres.), Federico Ragni (Vice) e Alessandro Scaramuzzo (PR), che da alcuni anni dà luogo a questo ‘sogno’ musicale. Ma c’è di più perché, alcuni di loro, coadiuvati dal ‘mago del video’ Leonardo Paolini nonché della Service & Light della RMaudio, sono divenuti a proprie spese, tecnici del suono e delle luci, e validi ‘architectural-light’ che hanno saputo creare scenografie di luce pregevoli senza contare quanti hanno appreso sul campo l’organizzazione di scena, la produzione e la regia che si rendono intercambiabili l’un l’altro.

Tuttavia ciò che fa di questo ‘gruppo’ di volenterosi, il fatto che di per sé contribuiscono a creare possibilità professionali per giovani talenti, pur restando fermo l’obiettivo di raggiungere un agognato successo d’insieme. Sebbene ognuno di loro sappia che il successo non è che un effimero legato alla genialità di pochi, all’idea talvolta fortuita del ‘folle’, alle capacità e all’impegno personale, o quanto più, inviato dalla fortuna, dalla gioia di vivere, dall’emozione procurata da un sentimento come l’amore per ciò che si fa. E l’amore cos’è? Null’altro che la moneta di scambio che permette a ognuno di “poter fermare la pioggia o, come si dice, di cambiare il flusso della marea” e che indubbiamente è la migliore dimensione di noi stessi, la cui ricerca di per sé è già un successo.

Sono loro infine, quei giovani che l’altra sera hanno dato il meglio di sé a decretare il successo di questo “Peter Pan – il Musical3D” in un ‘gioco’ vorticoso di interessi, con la ricerca affannosa dei soggetti da attribuire ora a questo ora a quell’interprete, lasciando che tutto dipenda dal divertimento che di volta in volta riescono ad offrire al loro ormai numeroso pubblico di fan. A cominciare dagli attori in scena, tutti più o meno ‘artisti’ che prendono parte allo spettacolo, da quanti dietro le quinte hanno contribuito alla sua realizzazione. Da Piero&Piero, rispettivamente coreografo dei numeri di ballo e maestro concertista che nel rimaneggiare le musiche e le canzoni di Edoardo Bennato, le ha restituite con una patina nuova, forse meno rock, sicuramente più cantabili e alla portata di tutti, adulti e bambini che insieme hanno dato voce a “C’era una volta”, “Fantasia”, a “Ogni favola è un gioco” e “L’isola che non c’è”, "Sono solo canzonette", "Viva la mamma" e altre di grande presa sul pubblico rapito.

E, come si è detto a quanti hanno contribuito alla regia, tra sceneggiatori, attori e ballerini, musicisti e cantanti, nonché sarti e tecnici di scena, trucco e parrucco, tutti accomunati dalla stessa grande passione per il teatro. Ma una siffatta forma di spettacolo non poteva scaturire dal nulla, infatti è noto che la forma più composita eppure eterogenea del ‘Musical’ ha adattato alle proprie necessità, utilizzando a sua volta la letteratura popolare e quella aulica, la musica classica e tradizionale, l’operetta a lieto fine e la ‘light – opera’. Giungendo a scandagliare le pagine del jazz fino al rock e oltre, con la pretesa che tutto quanto fa spettacolo può entrare a far parte dello show-business sempre alla ricerca affannosa del ‘successo per il successo’ che, a dirla coi ‘grandi’ consta molto come investimento ed economicamente di poco riscontro.

Tengo a sottolineare che la compagine associativa Art Dream & Art Dream Junior nasce da un ‘sogno’ che un gruppo di amici ha scoperto di condividere da tempo, l’amore per il teatro, la musica, la danza e l’odore stesso del palcoscenico … “il profumo che solo porta seco una parola che sa di magia: l’arte del Musical”.

“Con questa passione che ci accomuna tutti – ha detto il loro portavoce Alessandro Scaramuzzo - abbiamo cominciato a mettere insieme le nostre capacità, le abbiamo raffinate e migliorate lavorando insieme all'insegna dell'amicizia e del divertimento. Ognuno di noi ha contribuito come ha potuto (le immagini presenti sul nostro sito lo testimoniano) ed è per questo che abbiamo deciso di aprire la nostra associazione a chiunque abbia la voglia e il desiderio di cimentarsi con il musical".

Quale è il numero dei partecipanti alla vostra associazione, c'è posto per altri giovani che volessero aggiungere al v.o gruppo?

"C'è posto per tutti coloro che vengano muniti di allegria, voglia di lavorare, di cantare e recitare in spirito di amicizia e di condivisione. Siamo già in tanti, diversi per età, interessi e professioni ma siamo convinti che c'è sempre bisogno di qualcuno e c'è sempre qualcosa di nuovo da imparare”.

Può sembrare scontato ma viene lecito chiedere quale futuro vi aspettate e quali traguardi pensate di raggiungere? Se continuerete a portare in scena ‘fiabe’, oppure..?

“Intanto siamo giunti fin qua con i piedi per terra, capaci di lasciarci prendere dal gioco e per una sera almeno abbiamo rincorso il sogno con la fantasia, ma quello che c’è di più bello è che tutti ci hanno creduto”.

In conclusione se l’applauso è di rito, l’ovazione non è dovuta. Ed è esattamente quanto è accaduto l’altra sera al Pala Riviera dove il folto pubblico si è riversato sotto il proscenio a ringraziare la Compagnia. Grazie quindi a tutti quanti fanno della Compagnia Art Dream una squadra di eccezionale portata musicale e coreografica certamente da tenere in considerazione per il futuro del teatro musicale italiano.

 

Gli spettacoli:

Un avvio interessante dunque, con alcuni spettacoli musicali interamente dedicati alla fiaba che, da Falconara Marittima (AN) stanno pian piano conquistando le Marche e la cui eco ha già raggiunto le capitale dello show-business come Roma e Milano. Ma andiamo in ordine di tempo:

2011 – Dopo quasi un anno di incessanti prove, è andata in scena la prima di “Il re dei folli” tratto da ‘Notre Dame de Paris’ di V. Hugo cui hanno fatto seguito le rappresentazioni alla “Corte del Castello” di Falconara Alta, al Teatro “La Fenice” di Osimo e al Teatro “Valle” di Chiaravalle.

2012 – “Cenerentola” dalla fiaba omonima.

2013 – “Pinocchio – il Musical” da Collodi, con l'autorizzazione della Compagnia della Rancia già nota a livello internazionale, e andato in scena a Montalto delle Marche (2013), all’interno della manifestazione titolata “La Notte delle Streghe e dei Folletti” ed a San Benedetto del Tronto in occasione del Festival “Piceno d’Autore Junior & Fà Volà”.

2014 – “Peter Pan – il Musical 3D” ha debuttato a Falconara Marittima e successivamente in scena a Senigallia, ad Osimo al La Nuova Fenice, ed al Pala Riviera di San Benedetto del Tronto.

 

Associazione Art Dream – Via Lauro De Bosis, 14 – 60015 Falconara Marittima (AN) – www.artdreammusical.com

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- Poesia

In ricordo di Tiziano Salari

Uniti nel cordoglio per la scomparsa del 'poeta' Tiziano Salari già collaboratore della rivista letteraria "Anterem", i poeti di larecherche.it estendono sentite condoglianze al direttore Flavio Ermini e ai familiari dello scomparso, nel suo ricordo.

 

Tiziano Salari (1938), saggista e poeta, uno tra i più stretti collaboratori di “Anterem”, è morto, dopo una lunga malattia, il 21 settembre 2014. È stato un grande intellettuale che ha vissuto tutta la sua vita sempre vivacemente proiettato verso nuove forme di pensiero, mettendo a punto la sua personale visione del saggio critico, nella prospettiva di una convergenza di pensiero filosofico e pensiero poetico. Ha svolto un’intensa attività critica di rivisitazione di figure e metodi della cultura otto-novecentesca; attività che trova una grande sintesi nel volume "Essere e abitare", edito nel 2011 da Moretti&Vitali nella collana “Narrazioni della conoscenza”, diretta da Flavio Ermini.

 

Invitiamo le nostre lettrici e i nostri lettori a ricordare questo grande autore leggendo o ri-leggendo, come lui stesso avrebbe voluto, questa sua ultima opera saggistica. Il libro si articola in forma dialogica e si svolge in ventisette serate. Dentro questo quadro, si pongono interrogativi sulla questione della verità e del rapporto tra poesia e filosofia, nell’intreccio tra visioni metafisiche e loro superamento in nuove forme di pensiero, non più correlate a un concetto tradizionale di corrispondenza, ma radicate in un terreno inesplorato. Sulla rivista “Anterem” figurano molti suoi contributi.

 

In particolare sui numeri: 59, 61, 65, 67, 70, 75, 76, 80, 85.

Sul nostro sito sono presenti diversi suoi interventi. Tra i tanti, segnaliamo i testi richiamati ai link:

http://www.anteremedizioni.it/montano_newsletter_anno4_numero7_salari http://www.anteremedizioni.it/montano_tiziano_salari_su_giulio_marzaioli http://www.anteremedizioni.it/salari_silenzio_sirene http://www.anteremedizioni.it/tiziano_salari_gioventu%C3%B9_con_premessa_di_mara_cini

Sul sito www.fogliospinoziano.it si trovano alcuni suoi scritti dedicati a Baruch Spinoza, di cui Salari era un profondo studioso e originale interprete.

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- Libri

Poetica del Silenzio in Mario Brunello

“Poetica del Silenzio in Mario Brunello” - un commento al libro “Silenzio” Il Mulino 2014.

 

“Diversamente, il deserto si rivelava di una vastità dilatata a dismisura, comparabile soltanto a una lenta genesi dove la materia si presentava nuda davanti all’invisibile. All’occorrenza si determinò in me una vaga sensazione di prosieguo, come se sfuggito alla materia corporea, stessi sul punto di approdare nella pura essenza dello spirito, quasi che la mia immagine, riflessa per effetto di un possibile miraggio, si fosse trasformata nella stessa composizione del deserto, sabbia nella sabbia. Per poi riemergere nella consapevolezza di quel silenzio infinito che portava alla solitudine estrema, a occupare ogni spazio dentro e intorno a me, scaraventandomi nell’intimo timore del nulla. O forse del vuoto che precede l’assoluto, in quel vago sentore d’eternità che trascende la forma oggettiva della vita.” (“Miti di Sabbia” G. Mancinelli – ilmiolibro.it)

L’utilizzo di una ‘personalissima’ sensazione catturata nell’attraversare il deserto del Sahara, facilita qui l’introduzione di questo piccolo-grande libro intitolato “Silenzio” fresco di stampa che, a mio parere, avrebbe meritato un’edizione ben più accurata ed esclusiva, come dire ‘di pregio’, al pari di un ex-libris da collezione. Ma come ben sappiamo i libri che trattano di musica e di poesia rientrano, chissà perché, in quella fascia di pubblicazioni di seconda categoria, messi colà dagli stessi editori che li pubblicano. Questa volta a rendere scadente il prodotto ‘libro’, come se non bastasse la caduta d’interesse che lo colpisce, ci ha pensato il Mulino con la collana ‘Parole Controtempo’, riducendone il formato, rendendo anonima la copertina come per un tascabile da leggere e buttare via, tuttavia senza aver ridotto il prezzo di acquisto. Il perché non avrà risposta se non quella che ormai sentiamo ripetere come un ritornello: 'colpa della crisi!. Ma crisi di chi, forse dei librai? Dei Lettori? O di certi Editori che non investono e non capiscono che scadere di qualità sminuisce il prodotto, per cui i librai si trovano in difficoltà ad esporre una tale merce che i lettori (molto) probabilmente neppure vedranno e che  sicuramente non acquisteranno.

Ciò detto “Silenzio” di Mario Brunello rimane un ‘gioiello’ di libro per i suoi contenuti ‘altisonanti’, passatemi l’aggettivo, poiché si tratta di un libro sulla musica o meglio, sulla poesia della musica che s’annida negli spazi che dividono le parole, di riga in riga, a formare un unico pentagramma ricco di notazioni d’autore. Ancor più, a dare forma a un unico spartito sinfonico, dove incontriamo Bach, Beethoven, Mozart, Schubert, Schoenberg, Hindemit, Cage, Kancheli attraversdo un excursus che dal passato (relativo) giunge fino alla musica contemporanea (relativa all’oggi che sarà il nostro domani). Straordinarie sono anche le acute osservazioni/variazioni sul tema che conducono la ‘musica’ al verticalismo poetico della montagna nella citazione a Rigoni Stern. Nonché l'altra riferita ad Albert Einstein: “La più bella e profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero, sta qui il seme di ogni arte, di ogni vera scienza” e che, per quanto la scienza dichiari il contrario, richiama alla religiosa osservanza del creato, a quel mistero che ha un solo nome ‘Dio’.

Così come Stern si rivela assertore di una certa verticalità della montagna, allo stesso modo Brunello evidenzia l’orizzontalità del deserto che egli dice “abbraccia confini amplissimi” e la cui musica considera “speranza di incontro con l’altro”, afflato, abbraccio “solitudine in un silenzio condiviso”, perché in musica (che chiede d’essere ascoltata), come in poesia (che vuole essere declamata), non serve urlare perché "chi vuol sentire" l’ascolterà lo stesso in cima a un batticuore. Così come accade per i due Francesco, uno per 'la predica agli uccelli'; l'altro per l’invito ad ascoltare gli altri. Ma se “L’orizzontalità del deserto richiama di più il verbo ‘attraversare’, come dire, in quel tempo reale che si sintonizza al ritmo lento e silenzioso (..) reso visibile dall’alternanza del buio e della luce. E ciò che luce e ombra sono per l’universo, il silenzio e la parola sono per l’uomo”.

«Da musicista - scrive Brunello violoncellista - ho scoperto il silenzio in un momento ben preciso della mia vita, quando (..) con la complicità del silenzio trovai spazi e modi diversi di attaccare e concludere il discorso musicale. E le pause, le pause che avevo inteso come semplici momenti per riprendere fiato, divennero in quel silenzio i punti cardine dai quali partire con le nuove idee. (..) Scoprii il potere del silenzio..» Riprendo dalle note che lo riguardano che: “anche per un musicista l’assenza di suoni può rappresentare ispirazione e vera e propria musica per le orecchie. (..) Al violoncellista ovviamente non interessa un silenzio qualunque, ma quello in cui la musica si forma, prende vita e diventa arte.

Mario Brunello racconta così come nascono le sue note: all’interno di una specie di luogo in cui non ci sono, in cui, per l’appunto domina il silenzio che permette però all’artista di entrare, di essere segnato. E così nasce la musica. Il suono si sistema in quel silenzio. Ecco allora la ricerca di luoghi dove il silenzio è d’oro, dove esso prospera e viene rispettato, come una montagna o un deserto. Persino però in un mercato caotico pieno di colori, di parole e di forme, il musicista trova il suo silenzio e lo trasforma in qualcosa di portentoso: «È un silenzio che sta anche intorno ai suoni, un silenzio che è ‘liquido amniotico’, dà vita e ne fa riconoscere e individuare il (suo) senso profondo.»

Non posso qui trascurare l’altro accostamento che l’intuitivo Brunello fa con i ‘luoghi’ della sua ricerca musicale: «Se il luogo è puro spazio, il silenzio si fa ascoltare, ci accompagna e non ci lascia soli.» E che dire dell’architettura che si inserisce in certi luoghi? L’esempio colto di Brunello prende come riferimento i ‘luoghi’ ricreati di Mario Scarpa. Credo (modestamente parlando dell’argomento) che a tutt’oggi non c’è architetto che abbia compreso il suono e la poesia che attraversa (cioè s’innesta senza corrompere) certi ‘luoghi’ come in Scarpa. Non c’è creazione in architettura che possa stare al pari per ‘immersione nel silenzio’ alle solitudini poetiche di Mario Scarpa nel re-interpretare quell’ “infinito” leopardiano che solo ci riempie d’immenso: «La natura – scrive ancora l’autore – insegna a ‘sentire’ il suo e il nostro silenzio (interiore), ma insegna anche ad ascoltare la musica degli uomini e ad arricchirla con il suo silenzio.»

Allora ecco che la mia citazione iniziale accolta in questo scritto (e spero con tutti voi che mi leggete e con l’autore del libro) ben rende il sentimento di quanto molti altri scrittori hanno precedentemente fatto, cioè dare una propria definizione del silenzio. È quanto anche l’autore si accinge a fare in chiusura del libro, citando Musil, Dante, Calvino, Rigoni Stern, Piano,Okakura, Ryonen, Szymborska che in “Le tre parole più strane” poeticamente parlando si lascia dire: «Quando pronuncio la parola Silenzio, lo distruggo.» Del resto ogni nostra aspettativa è immersa nel ‘silenzio’, vedi l’attesa, la spiritualità, l’intimità della preghiera, l’incredulità o la fede, l’afflato dell’arte, la riflessione filosofica, l’ozio dei sensi ecc. Nulla di più vero se lasciando la parola a Saint-Euxpery apprendiamo che: «Lo spazio dello spirito, là dove esso può aprire le sue ali, è il silenzio.»

Al dunque, dobbiamo solo re-imparare a porgere orecchio all'ascolto, ad ascoltare immersi nei rumori di fondo: «Un rumore, quando è isolato nel silenzio, è un evento che in genere crea interesse e sveglia la curiosità» - scrive Brunello, aggiungendo «Ogni rumore ha la sua ragione di esistere e molte volte, attraverso il rumore, anche le cose si esprimono.» Potremmo non essere d’accordo ma è così che accade, e non possiamo esimerci dal considerare che allora anche la musica potrebbe essere rumore mentre, come il grande Shakespeare insegna: “tutto il resto è silenzio”.

 

Mario Brunello, è un violoncellista tra i più apprezzati al mondo e direttore dell’Orchestra d’Archi Italiana, è un’artista alla ricerca di ispirazione e di una sorta di meditazione, come dimostrano le sue sperimentazioni di concerti in luoghi non normalmente nati per queste attività come una cima dolomitica o un monastero, o il Sahara. Infatti, al di là delle sale da concerto e dei festival internazionali, egli ama portare la musica fuori dai circuiti tradizionali, sperimentando luoghi e forme inusuali di comunicazione. Ma è proprio qui che nasce e si forma la sua unicità che racconta in “Silenzio” ciò che davvero significhi questa magica parola, che con la sua presenza si è fatta ‘luogo’ per così dire, dimensione di vita.

 

Pubblicazioni: “Fuori con la musica” – Rizzoli 2011.

 

Discografia: “Violoncello and” – EGEA 2009; “Odusia” – EGEA 2008; Bach - “Concerti Brandenburghesi 1-6” direttore Claudio Abbado - 2008; Bach - “Sei suites per violoncello solo” - EGEA. Ed altre incisioni, moltissimi altre, dedicate ad autori come Vivaldi, Beethoven, Sollima, Villalobos, Jobim, Brahms, Chopin, Samti, Dvorak con Antonio Pappano.

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- Libri

’FAVOLE DI CARTA’ - Appuntamento con la Fiaba.

‘FAVOLE DI CARTA’

 

Piceno d'Autore Junior & FàVolà dal 20 al 28 Settembre 2014 a San Benedetto del Tronto.

 

“Fabula picta, fabula dicta” è spesso detto delle fiabe illustrate e si è tentati di accostare al verso sciolto o al libero canto, più che alla metrica e alla consonanza, i colori smaglianti della fantasia. Ed ecco che la vita diventa metafora del mondo circostante magicamente sospeso in equilibrio tra realtà e finzione che si lascia percepire come immagine del sentimento e dell’emozione. O forse solo come illusione della vita che scorre e che la sapienza dell’ingenuità restituisce in chiave fiabesca, non certo per sfuggire la realtà ma per cogliere tutto ciò che del mondo resta da salvare.

Nascono così le “favole di carta” fatte non di sole parole ma di idee, di immagini rubate alla fantasia, di lavoro, di tecnica, oltre che di colori, di successione di segni, di varietà di carte e cartoncini sapientemente scelte, di patinature, di inchiostri e coloranti che danno vita a un’umanità circense di donne grasse e uomini ridicoli, di pesci volanti e uccelli bizzarri, di animali che parlano come gli umani. Nonché di una natura quasi sempre rigogliosa di prati più verdi del verde, più gialli del giallo, e alberi rossi e viola che, di volta in volta, si colorano delle emozioni e di quei sentimenti che, immersi nel palcoscenico del mondo, trasformano la favola in gioco.

Un gioco fatto talvolta di semplici ‘filastrocche’ infantili care alle memoria dei grandi, di fiabe illustrate dove il segno ripete nell’estro, il sapiente fervore della creatività artistica dei bambini. Dietro la quale, è riconoscibile una fantasia naif che potrebbe sembrare nata ieri e che invece si rivela un mestiere antico. Nascono così le ‘favole di carta’ come trasferimento delle storie narrate, quelle stesse che ancora una volta e per sempre esprimono il meraviglioso e il quotidiano della vita. Perfino i luoghi sono gli stessi, in questo caso quelli della Marca e del mondo contadino più in generale, coi suoi colori contenuti nell’alternanza delle stagioni, dell’amata terra e della natura floreale e fruttifera, colti nel tempo della fantasia.

I suoni sono quelli del quotidiano urbano e provinciale insieme, provengono dall’aria aperta e richiamano il mormorio delle fronde degli alberi sui quali più volte si è posato lo sguardo amorevole d’ogni singolo scrittore, e non di rado si avverte il cicaleccio serale dei piccoli insetti, il cinguettio degli uccellini in cerca di un riparo tra le fronde, il sibilo del vento attorno ai rami, il lento cadere delle foglie di ritorno alla Madre Terra. Non sono che ‘fiabe’ anche quelle, che raccontano una storia e una cultura di origini remote, e che risuonano nell’aria al pari di una canzone antica e pur sempre nuova.

Come descrivere il canto che si libra nell’aria e ritorna nell’eco del tempo? O, di che colore è il canto degli uccelli? Non lo sappiamo e quindi non sappiamo utilizzarlo nella scrittura. Seppure di certo, sappiamo farlo con la fantasia. Per questo alcuni popoli di cultura orale hanno coniato un detto che a differenza del nostro: “C’era una volta..” dice così:

 

“C’era non c’era, racconteremo storie o dormiremo sui nostri giacigli.” (anonimo africano)

 

Un modo diverso di aprire una favola che sposta la discussione sulla veridicità di una storia narrata, onde non può dirsi una fiaba se almeno l’ultima riga di essa non sfocia nella fantasia.

Nasce così il paese di “FaVolà”, aprendo alla fantasia lo spazio infinito dell’immaginazione «..per far ‘volare’ tutti i bambini» e restituire quello che solo l’oralità può restituire loro, nell’affermazione di quello ‘spirito di libertà’ che li anima. Dal favorire lo sviluppo del linguaggio, all’espandere la memoria, all’arricchire le capacità cognitive. “La fantasia nelle favole insegna che tutto è possibile nel segno della volontà e se lo si vuole veramente. Insegna a discernere che il mondo non è fatto solo di buoni e neanche di solo cattivi”, onde per cui il bene e il male sono il rovescio della stessa medaglia e richiedono un netto discernimento.

Non a caso molte fiabe sono scritte dagli ‘adulti’ la cui esperienza conclamata permette quel ‘discernere’ necessario a liberare la fantasia dell’infanzia, sviluppare la crescita psichica e il senso di ‘comunità’, col sostenere la solidarietà fra i popoli contro ogni forma di razzismo e discriminazione di genere. Mi piace qui sottolineare un’intrigante intuizione di Marcel Mauss che, con il triplice obbligo di “dare, ricevere e ricambiare” (l'equivalente di un dono), costituisce un “fenomeno sociale totale” a cui fare riferimento, all’interno di una sorta di prerogativa universale, che va considerato come un corpus unico e irripetibile del passato della cultura di un popolo, pur con le sue diversificazioni e interazioni. Sia per le sue eredità peculiari e speculari, sia per la tipologia umana che autenticamente lo ha corrisposto.

Ciò che «..rende il raccontare una fiaba un dono elargito a titolo di conoscenza, condivisione, altruismo ecc.». Fatto questo, che ha permesso allo stesso Mauss di affermare: “..che tutte le società arcaiche, siano esse considerate “selvagge” o “primitive”, o “senza stato”, pensano se stesse e pensano il loro universo e perfino il cosmo nel linguaggio del dono”, di cui la favolistica figura tra i beni materiali di cui ogni giorno usufruiamo.

Testimonianza questa che ci consente di riconoscere una dignità culturale specifica, distintiva di molti popoli più o meno conosciuti in seno alla sempre più evoluta diversità delle nazioni, per cui andare alla ricerca delle loro espressioni linguistiche, o tracciare le linee di un modello culturale che possano aver perseguito, come pure evidenziare i caratteri originali di cui si compone la loro tradizione, assume significato di andare alla ricerca della “memoria del tempo” e di quanto ci permette di ripercorrere l’intero arco ciclico socio-culturale dell’umanità.

Affinché nulla vada perduto di quanto l’umanità ha prodotto in seno alla formazione, crescita e avanzamento della singola cultura, non va qui dimenticato che lo sviluppo del pensiero e delle facoltà logiche e razionali ha permesso all’uomo di evolversi sino alla realtà attuale. La rapidità con cui è avvenuto questo processo ha però provocato una profonda frattura sia interna che esterna tra natura e cultura, tra corpo e mente. Pertanto la sfida dell’uomo contemporaneo è dunque quella di superare questa dialettica, riavvicinando le due polarità opposte, ed in questo lavoro ecco che “l’uomo primitivo che è ancora in noi” ha un suo ruolo, e può contribuire alla nostra autorealizzazione insegnandoci a sperimentare il mondo anche con quella immediatezza e sensibilità che gli sono proprie.

Una riscoperta, questa, avviata da innumerevoli nuove proposte portate alla ribalta da molti studiosi qualificati che non solo hanno contribuito al recupero della oralità etnica e della tradizione alla ribalta del grande pubblico internazione, bensì l’hanno fatta ‘rivivere’ in modo splendido alle nostre orecchie, spesso recuperandone lo ‘spirito’ che l’animava. Operazione di recupero? Rivisitazione? Contaminazione? Tutto questo e niente di questo - è la risposta che avvalora il detto iniziale: "C'era non c'era". Ma solo se manteniamo il concetto che la parola è vita e continua a vivere con noi, nel susseguirsi delle generazioni e che quindi il riproporsi sulla scena sociale e culturale equivale al suo rinvigorire in altre forme e combinazioni possibili e immaginabili.

Ma che cos’è “Fà Volà” la parola sorta dallo slang dialettale del Piceno che guarda caso sta a significare proprio ‘fai volare’ riferito alla fantasia? È soprattutto un appuntamento annuale unico per le sue caratteristiche ludiche di grande attrattiva che non ha altri esempi in Italia. In quanto ‘evento culturale dedicato alla favolistica’ che si svolge ogni anno, nell’ultima settimana di Settembre a San Benedetto del Tronto nell’ambito del Festival intitolato “Piceno d’Autore” giunto alla sua V edizione e che risponde alle sempre maggiori presenze di pubblico e alle esigenze delle Scuole della Regione che, a vario titolo, si impegnano con entusiasmo alla migliore riuscita dell’evento.

Per l’occasione una grande favola della letteratura classica internazionale viene riscoperta e raccontata a partire dalla sua storia e dal suo autore con eventi quotidiani a tema, con un ricco programma di avvenimenti inclusivi di musica, teatro, animazioni, laboratori e approfondimenti. Ma non solo, contemporaneamente vede l’avvio di una mostra con libri, collezioni, giocattoli, gadget e curiosità antiche e moderne forniti dall’Associazione Culturale “I Luoghi della Scrittura” la cui direzione artistica è affidata a Cinzia Carboni ed ai suoi collaboratori, e patrocinata dalla Regione Marche, Provincia di Ascoli Piceno e Comune di San Benedetto del Tronto.

Quest’anno la manifestazione che si svolgerà ancora a San Benedetto del Tronto dal 20 al 28 Settembre è dedicata alla figura di “Peter Pan” ed è particolarmente dedicata ai ‘bambini di tutte le età’ con incontri di approfondimento sull’autore (questo sconosciuto), sul testo e su argomenti inerenti come la ‘sindrome di Peter Pan’ trattati da ospiti di rilievo e studiosi delle varie discipline tematiche. Ma questo è quanto può dirsi ‘dedicato agli adulti’ alla Palazzina Azzurra mentre, invece cosa accade per i bambini? Presto detto, l’ampio programma prevede l’istituzione di un Villaggio dei Ragazzi appositamente costruito in ‘Rotonda Giorgini’ con il ‘Teatro dei Burattini’, la “Favola Giocata” (in lingua inglese) direttamente dai bambini; esibizioni con percussioni e suoni, letture danzate, e ancora animazioni e intrattenimenti quotidiani nel “Paese di FàVolà” sempre interessanti e avvincenti, con l’ausilio dei migliori professionisti nel campo.

Ma non è tutto, “FàVolà” è anche un libro, anzi una serie di libri di favole raccolte e selezionate nel corso dell’Edizione “Piceno d’Autore” svoltosi nel 2010 tra tutti gli elaborati pervenuti degli scrittori piceni aderenti all’Associazione “I luoghi della Scrittura” che hanno partecipato al Festival. Un formato e una grafica studiate appositamente per la lettura dei bambini di tutte le età, inoltre a bellissime illustrazioni e disegni d’autore molto accattivanti della curiosità cui fanno appello i più piccoli. Molti i titoli che accendono la curiosità che, per non fare torto ad alcuno non cito ma che ben meritano qui di essere rappresentate.

Tuttavia c’è in apertura del volume una sorta di filastrocca che mi piace sottoporvi e che meglio ‘racconta’ cos’è “FàVolà”:

"C’era una volta, ma forse nessuno lo sa, un mondo sconosciuto di nome FàVolà. I suoi abitanti avevano Soltanto una mania: la testa tra le nuvole e tanta fantasia. Vivevano benissimo Non gli mancava niente, ciò che non esisteva lo creavano con la mente. Era un potere grande e come sempre avviene, l’invidia dei gelosi li mise nelle pene. Al motto di ‘Svegliatevi! Che vinca la realtà!’ Ci fu un colpo di stato: si estinse FàVolà. Prima della disfatta però, tanti bimbi piccini, chiusero gli occhi e sognarono un mare di palloncini. Su ognuno legarono stretta una storiella a lieto fine e poi li liberarono in cielo come tante stelline. Quel gesto d’altruismo Volato fino qua, oggi ha di nuovo un nome: si chiama FàVolà".

Le brevi fiabe narrate all’interno del volume, affondano le proprie radici nella tradizione e nella fantasia popolare non solo italiana, in quanto patrimonio del mondo. Il “fiabesco” si veste così dei colori meravigliosi del ‘viaggiare’ e viceversa del ‘ritorno’ alla tradizione mai venuta meno delle “fiabe nelle fiabe”, fatte non solo di parole, ma di nuove idee, di ‘tonalità di colori’, di ‘successione di immagini’, delle ‘sfumature patinate dei desideri’, nelle quali i bambini si ritrovano dando vita a un’umanità diversa da quella che noi ‘adulti’ talvolta gli proponiamo.

Trattasi di “brevi fiabe” lette e raccontate, che loro stessi ameranno rimaneggiare e cambiare col loro modo di vedere e di vivere i sogni che li vedranno adulti. Quest’ultimi, vi potranno riscoprire le stesse cose, nella consapevolezza di aver dato, strada facendo del loro divenire adulti, più o meno spazio alla propria fanciullezza. Da non mancare l’evento al Palariviera di Sabato 27 Settembre ore 21,30 dell’andata in scena del musical “Peter Pan 3D” con la Compagnia Art Dream; uno spettacolo entusiasmante e coinvolgente per grandi e piccini che rispolvera, in versione musicale moderna, l’opera teatrale originale a 110 anni dalla data della sua creazione. Per ulteriori informazioni segnalo qui il sito web inerente: www.iluoghidellascrittura.it

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- Libri

’La verità sul caso Harry Quebert’ - Joël Dicker

‘La verità sul caso Harry Quebert’ - Joël Dicker - Bompiani 2013.

 

Lo abbiamo acquistato, l’abbiamo ricevuto in regalo, lo abbiamo letto in ogni luogo: dalla stanza da letto a sotto l’ombrellone, bistrattato negli zaini, logorato nelle borse da spiaggia, questo ‘giallo deduttivo’, così viene chiamato il genere whodunit, contrazione dall’inglese Who has done it? (Chi l’ha fatto?), è indubbiamente orchestrato come un classico noir ad enigma ma, anziché svolgersi in un contesto ‘impossibile’, ci pone di fronte al quotidiano di un paesucolo all’apparenza dormiente, dove non accade nulla di eclatante, ma dove tutti sanno tutto di tutti e sono più o meno tutti impelagati nella stessa vicenda. Vicenda sulla quale l’investigatore di turno spinto da interessi diversi costruisce le proprie deduzioni investendone il lettore, sfidandolo quasi nella ricerca della verità che tuttavia si smarrisce fra le pagine per ritrovarsi a furia di colpi di scena nel finale a sorpresa. Verità che per essere equa si sposta ora da una parte ora dall’altra a seconda dei punti di osservazione (qui più esattamente d’azione) dei personaggi, più o meno impelagati nella vicenda, nell’insieme di quelle regole che solitamente vengono rispettate nella scrittura di un buon giallo o romanzo poliziesco che sia, più note come ‘Decalogo di Knox’ (1929) e che dovrebbero consentire anche al lettore di arrivare alla soluzione dell'enigma proposto.

Una sfida ludica da giocarsi tra scrittore e lettore o, se vogliamo, tra protagonista succube e investigatore eroe che pur si gioca ogni volta tra lo scrittore e il lettore. Gli esempi sarebbero infiniti se non si considerasse che in questo ‘romanzo/giallo’ accade qualcosa in più, imprevedibile e per questo originale, in cui lo scrittore si trasforma in regista (montatore) che a colpi di flashback fa avanzare e indietreggiare la moviola recuperando spezzoni di pellicola come per un déjà-vu subliminale che precedentemente non era stato preso in considerazione. Onde per cui la trama subisce degli scossoni psicologici inusitati quanto inaspettati che verso la fine si complica quasi che al lettore non interessa più ‘chi ha fatto cosa?’, bensì esclusivamente ‘perché?’, con la perdita costante dell’entusiasmo iniziale da parte del lettore, in quanto gli è data la possibilità di scegliere quale delle soluzioni preferisce, o meglio preferirebbe.

Sì, perché in fondo è soltanto un’illusione. L'autore in realtà conclude con la solita sdolcinata ‘botta di generosità’ del finale all’americana dove tutto ritrova la serena felicità delle favole e che, ovviamente non convince più di tanto il lettore. La vicenda finemente ‘ambigua’ fra i due protagonisti invece sì, diventa man mano appassionante, finanche divertente o divertita se si prendono in considerazione certe debolezze dello scrittore. La ‘storia’ si svolge attorno al rinvenimento delle ossa di una ragazza Nola Kellergan sepolte in un giardino, un accadimento che sa poco di nero/giallo, o almeno non più di tanto, fino a quando un giovane scrittore di successo Marcus Goldman non si mette a indagare sul caso per salvare dall’oblio e forse dal carcere il suo ex docente di letteratura e ‘maestro’ universitario Harry Quebert affascinante e ambizioso che si scoprirà essere il deus ex macchina attorno al quale tutto ruota intorno.

Ed è questo il punto incalzante della storia, (almeno per quanti si professano scrittori ardenti o lettori appassionati), Joël Dicker approfitta del suo romanzo per fare il punto sulla professione dello scrittore e tutto ciò che ne consegue, girando a tutto tondo attorno alla produzione del libro: dallo scrivere e sul perché scrivere, alla rapporto con l’Editore, alla promozione ecc. “La malattia degli scrittori” infatti prende tutta la prima parte del romanzo: “Tutti parlavano del libro..” da l’esatta dimensione di ciò che precede il successo di un libro, quindi si passa a “L’importanza di saper cadere”, sottotitolo che anticipa come affrontare una possibile caduta che ci sarà (più d’una), ed infine quelli che sono i suggerimenti dell’esperienza dello scrittore incarnato da Harry Quebert su come valutare un buon libro. “In fondo gli scrittori scrivono un solo libro nella vita”, questa frase fatta è la dimensione esatta in cui si muove questo romanzo pur audace nel suo genere ma che non ha la pretesa di essere perfetto.

A dirlo è lo stesso autore nelle vesti del personaggio Barnaski / Editore: “Vedi Marcus, le parole vanno bene, ma certe volte sono inutili e non bastano più. Arriva il momento in cui certe persone non vogliono ascoltarti”. E che al nostro buon uso significa “..a un certo momento le parole sono inutili e non servono più perché le persone smettono di ascoltarti”. Comunque ben altre sono le considerazioni ‘preziose’ dell’Editore e pagine intere di suggerimenti pratici sono qui sciorinati a favore esclusivo di come si svolge un ‘buzz’ che sta per “..far parlare di sé e contare sulle persone affinché parlino di te sui social-media, e così hai accesso a uno spazio pubblicitario gratuito e illimitato”.

È così che “..Da un capo all’altro del mondo, migliaia di persone, senza neanche rendersene conto, provvedono a farti pubblicità su scala planetaria. Non è pazzesco? In pratica, gli utenti di Face-book sono degli uomini-sandwich che lavorano gratis, che sarebbe da idioti non approfittarne”. (Io che scrivo su Face-book sono uno di quelli, e sono anche un gost-wirter che, come Harry Quebert insegna, anch'io “..vorrei andare nel paradiso degli scrittori”): “Il paradiso degli scrittori? Cos’è” “È il posto dove decidi di riscrivere la vita come avresti voluto viverla. Perché la forza degli scrittori, Marcus, sta nel fatto che possono decidere la fine della storia. Hanno il potere di far vivere o morire, hanno il potere di cambiare tutto. Gli scrittori custodiscono nelle loro dita una forza che spesso non immaginano neppure. Gli basta chiudere gli occhi per invertire il corso di una vita.” “In fondo, la verità, (qualunque essa sia), non cambia nulla di ciò che proviamo per gli altri. È la grande tragedia dei sentimenti.”

“È il destino a volerlo. Nel mio destino non era scritto che diventassi un grande scrittore. Tuttavia ho provato a cambiarlo: ho rubato un libro, ho mentito per trent’anni. Ma il destino è inflessibile: finisce sempre per trionfare”. “Ora che sai tutto Marcus, racconta la verità al mondo intero.” (Ma quale è la verità di Marcus non lo sapremo mai.) “La verità ci libera tutti. Scrivi la verità sul caso Harry Quebert. Liberami da questo male che mi tormenta da più di trent’anni. È l’ultima cosa che ti chiedo.” “Ma come? Non posso cancellare il passato!” “No, però puoi cambiare il presente. È il dono degli scrittori. Il paradiso degli scrittori, ricordi? Sono sicuro che scoprirai come fare.” “Un bel libro, Marcus, non si valuta solo per le sue ultime parole, bensì sull’effetto cumulativo di tutte le parole che le hanno precedute. All’incirca mezzo secondo dopo aver finito il tuo libro, dopop averne letto l’ultima parola, il lettore deve sentirsi pervaso da un’emozione potente; per un istante, deve pensare soltanto a tutte le cose che ha appena letto, riguardare la copertina e sorridere con una punta di tristezza, perché sente che quei personaggi gli mancheranno. Un bel libro, Marcus, è un libro che dispiace aver finito!”

E noi lo abbiamo letto trascinati per la collottola fino in fondo felici di averlo fatto, malgrado la lungaggine delle 775 pagine che alla fine la stanchezza si sente. Pur tuttavia riconoscenti a Joël Dicker per aver giocato con noi alle ‘scatole cinesi’ con la stessa tenacia di un artificio matematico in cui è riuscito a controllare i nostri impulsi di giocatori non sempre senzienti di arrivare a una conclusione logica, facendoci trovare una piccola sorpresa ‘gradita’ in ognuna di esse. Soprattutto perché ci ha ricordato un altro gioco non meno originale e creativo di quello svolto da Raymond Queneau in “Esercizi di stile” (1947), in cui una trama apparentemente semplice (banale) è raccontata in novantanove modi diversi, ognuno in uno specifico stile di narrazione che, alla fine, la 99esima volta risulta una storia completamente diversa, intrigante al pari di un noir/giallo/thriller che non smette mai di sorprendere e meravigliare. Consiglio di leggere la ‘prima’ e la ‘novantanovesima’ per restare sbalorditi.

Tuttavia i ‘giochi’ a cui possiamo attingere ovviamente non finiscono qui, chi non ricorda E. A. Poe massimo esponente del genere cosiddetto “enigma della camera chiusa” con il suo “I delitti della Via Morgue”; o Agatha Christie con “Dieci piccoli indiani” e “Assassinio sull’Orient Express”; e ancora i ‘misteri’ di John Dickson Carr ecc. ecc. Il romanzo “La verità sul caso Hanry Quebert” è tutt’ora un bestseller in Europa dove ha raggiunto i vertici delle classifiche e in Italia è stato in top 10 per diverse settimane. Le versioni in lingua inglese sono uscite, rispettivamente, il primo maggio 2014 nel Regno Unito a cura di MacLehose Press, e il 27 negli USA a cura di Penguin. Con questo romanzo l'autore Joël Dicker è stato insignito nel 2012 dei premi Goncourt des lycéens e Grand Prix du Roman de l'Académie française.

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- Musica

The Entertainers: ’Gershwin in Blues’

THE ENTERTAINERS - “Gershwin in Blues” by Giorgio Mancinelli.

 

L’America fu indubbiamente la grande protagonista dei ‘Ruggenti Anni Venti’ (The Roaring Twenties), in cui si condensò la grande civiltà della macchina in quanto essenza della società industriale subentrava nell’inseguimento economico del ‘new deal’ americano e che portò a uno sfoggio inusitato di libertà dei costumi e dei consumi, ivi inclusa la musica e l’intrattenimento in generale che permise ad operatori scaltri di guardare alla grande ‘macchina dei sogni’ con occhi pratici e utilitaristici. Ancor più gli Anni Venti si presentavano spumeggianti di una tale vitalità e freschezza musicale che l’America, e in seguito tutta l’Europa, si abbandonarono alla follia che la nuova musica Jazz sembrava trascinare con sé.

Il fascino misterioso e prorompente del Jazz esplose quasi improvviso nelle sale da ballo: “..si ballava a Biarritz, nei salotti privati dell’albergo Miramare, a Bordeaux, all’Hotel Astor di Londra. Nei locali di New York le cosiddette Taxi-girl mordevano amorosamente l’orecchio del loro ballerino occasionale e si lasciavano accarezzare con trasporto, per tutta la durata di uno scontrino, ridiventando subito dopo, freddissime e distanti, pronte ad accusare di violenza l’uomo che insistesse per un appuntamento notturno.”

“Il Jazz – ha scritto George Gershwin – è il risultato delle energie immagazzinate dall’America. È un genere di musica energica, rumorosa, impetuosa e perfino volgare. Una cosa è certa, il Jazz ha dato un contributo positivo e duraturo all’America nel senso che ha espresso la sua reale personalità”.

Una personalità esuberante, inquietante, straordinaria che i nuovi artisti emergenti non tardarono a scoprire. Fu inevitabile che il Jazz una volta raggiunta la popolarità e quindi il successo internazionale, si commercializzasse. Dapprima adattato al ballo dai musicisti bianchi era un genere con pochi punti di contatto col vero Jazz dall’anima nera.

Il repertorio espresso dalle orchestre allora molto in voga di Paul Whitman e Ted Lewis o dell’Original Dixeland Jazz Band, non differivano poi molto da quello delle tante orchestre da ballo che attraversavano gli States o che arrivavano in Europa. All’occorrenza leggere l’articolo su “Il Grande Gatsby” apparso in questa stessa rubrica. Anche l'influenza di Scott Joplin, compositore di colore e padre del Ragtime, appare netta in alcune sue composizioni.

In particolare il ‘Concerto in F’ di Gershwin fu fortemente criticato perché troppo simile alle opere di Debussy. Comunque, la sua principale innovazione sta proprio nella combinazione di questi elementi classici (perfezione nello stile, rigidezza dello schema, ecc.) e dei ritmi e delle melodie jazz che erano già fortemente radicate nella musica nera americana. Di fondo la nuova musica riprendeva il ritmo sincopato del ‘ragtime’ di cui si è parlato nell’articolo apparso su questo stesso sito “The Entertainers - Rag-Time” dedicato alla figura di Scott Joplin.

L’esplosione nei teatri di Broadway del ‘musical show’, la cui organizzazione aveva un nome alquanto curioso Tin Pan Alley fece il resto. Le canzoni contenute in alcuni ‘musical’ di successo come “La La Lucille” (1919), “George White’s Scandals” (1920-21-22-23-24-25), “Lady Be Good” (1924) e numerosi altri, su testi di Ira Gershwin e le musiche per gran parte composte ed eseguite al piano da George Gerhwin, arrivarono sulla bocca di tutti e ben presto entrarono a far parte della ‘canzone popolare’ americana.

La sua prima composizione ad essere pubblicata fu “When You Want 'Em You Can't Get 'Em” (1916), tuttavia non riscosse successo immediato ma vendette comunque bene ma fruttò a Gershwin la nomina di compositore ufficiale per i grandi musical di Broadway. Aveva 18 anni. Nel 1917 compose “Rialto Ripples”, un ragtime che ottenne un discreto successo commerciale, ripetuto a livello nazionale nel 1919 con “Swanee” cantata allora dal minstrel Al Jolson.

Contemporaneamente, Gershwin registrava pezzi per pianoforte di sua composizione e non. Dal 1920 al 1925 Gershwin scrisse musica per una serie di ‘musical show’ "George White's Scandals" e fu proprio durante questo periodo che il ‘re del jazz sinfonico’, Paul Whiteman, gli chiese di scrivere un'opera con tutti i caratteri del jazz sinfonico, adatta alla sua orchestra. Nel 1924, assieme al fratello Ira, collaborò ad un musical teatrale intitolato “Lady Be Good”, che fu seguito da molti altri fino al 1931 anno nel quale realizzò “Of Thee I Sing”, che valse al fratello Ira il Premio Pulitzer per i testi.

Nel frattempo il cinema ‘sonoro’ si andava preparando al lancio sul mercato della più fiorente industria musicale con compositori di grande spessore come: George Gershwin, Jerome Kern, Oscar Hammerstein, Cole Porter e l’insuperabile Irving Berlin che all’inizio si dilettavano in canzonette di facile apprendimento e che li portarono al successo. In special modo quelle scritte per i numerosi ‘musical’ che riempivano i cartelloni dei teatri popolari. Al punto che tutti indistintamente (dal più povero al più ricco), finirono per essere letteralmente catturati dalla ventata di freschezza che il Jazz portava con sé.

In molti pensarono che il Jazz potesse durare per l’eternità. Una canzone più di altre dimostrava questa convinzione. “S’ Wonderful” che ben presto arrivò sulla bocca di tutti, accreditando un successo strepitoso all’allora giovanissimo George Gershwin autore delle musiche di “Lady be good” (1924), un musical che inoltre consacrò all’immortalità due fra i migliori ‘ballerini’ del momento, Adele e Fred Astaire. Alcune canzoni orecchiabili tratte dai ‘musical’ s’imposero all’attenzione del grande pubblico. È il caso di “They can’t take that away from me” tratto invece da “Shall we dance?”, che sarà cantata dai più grandi interpreti della canzone internazionale e ovviamente del Jazz.

Iniziava così una nuova era per la musica e Scott - Fitzgerald non a caso coniò la ‘magica’ frase: “Tutto è stato come un sogno, peccato essere desti nella vita quotidiana..” – pronunciata dopo una notte passata a ballare, quando ubriachi fino alle ginocchia ci si lasciava andare sulle note di “Fascinating Rhythm”, (ancora da ‘Lady be good’). Sempre in quegli anni un altro ‘musical’ “Shall we dance?” (….), ancora una volta di George Gershwin insieme al fratello Ira Gershwin, portava al successo un’altra coppia composta da Ginger Roger e Fred Astaire. Era ed è tutt’ora uno spettacolo vederli ballare insieme sulle punte, a testa alta e sorridenti, quello che si chiamò il ‘Tip-Tap’, un ballo che durante i ‘Roaring Twenties’, vertiginosi, frenetici, funamboleschi, dai palcoscenici di Broadway e i teatri della fumosa Londra, fece il giro del mondo.

Una vera e propria ‘febbre’ era scoppiata in America e non c’era luogo, dal teatrino borghese al cinema e casa privata dove non si ballasse il ‘Tip-Tap’, dalle nonne alle figlie, alle nipoti, senza possibilità di tregua. Ma non solo. Comunque va qui ricordato che il sodalizio artistico fra George e Ira Gershwin nel teatro leggero e nella canzone non impegnata era tuttavia già conosciuto dal grosso pubblico per una serie di ‘musical’ in cui più era sentita la contaminazione Jazz tipico degli agglomerati neri che abitavano i suburbi delle grandi città, sul vecchio Blues dei neri schiavi nelle piantagioni di cotone.

Ripercorrendo questa escalation di successi troviamo “Oh Kay” (1925); “Funny Face” (1927); “Strike up the band” (1930); “Girl Crazy” (1930) con le canzoni “But not for me” e “Embraceable me”; “Let eme eat cake” (1933) con le canzoni “Mine” e “They hall laughed”. Ma il vero successo internazionale giunse successivamente con il cinema di Hollywood e la colonna sonora del film “Un americano a Parigi” (1929) diretto da Vincent Minnelli che portò sulla scena il versatile Gene Kelly accompagnato da un nugolo di bambini che balla e canta “I got rhythm”.

Il primo tentativo di innesto Jazz nella struttura musicale classica da parte del giovane e geniale George Gershwin risale al 1924 con la sua “Rapsody in blue”, un inserimento di ritmi e timbri perfettamente in stile jazzistico che permise al Jazz il suo ingresso dignitoso fra la musica seria. Non si trattò tanto di adattare la nuova musica agli effetti di una nuova moda quanto di conquistare il severo mondo accademico dell’epoca. L'idea per una composizione del genere Gershwin l'aveva maturata mentre andava a Boston in treno per la prima di una sua commedia musicale.

"In treno – ebbe a scrivere in seguito Gershwin – i ritmi metallici e il frastuono che in un compositore agiscono spesso come stimolo, mi suggerirono improvvisamente e in modo nitido la costruzione completa della Rapsodia, dall'inizio alla fine". George la consegnò a Whiteman senza averla ancora ultimata e mentre Ferde Grofé preparava l'orchestrazione l'autore provvedeva agli ultimi ritocchi. Avrebbe voluto ancora cambiare qualcosa ma Paul Whitman diede inizio alle prove; dopo la prima il direttore esclamò: "Diavolo, pensava di poterla migliorare ancora?".

Tra i 26 brani che formavano il programma della serata organizzata all’Aeolian Hall, al momento di presentare al pubblico la “Rapsody in Blue”, Paul Whitman volle seduto al piano nella grande sala da concerto lo stesso George Gershwin. Fu quindi durante quel primo concerto avvenuto il 12 Febbraio 1924 che la critica musicale decretò George Gershwin la nuova stella nel cielo dei grandi compositori statunitensi, nell’affermazione e nel riconoscimento delle sue intuizioni musicali e del suo stile originale. La sua “Rapsody in Blue” rimane uno dei pezzi più eseguiti dalle orchestre di tutto il mondo, entrata anche nella colonna sonora del film animato della Disney, “Fantasia 2000”.

Fecero seguito il “Concerto in fa”, la “Seconda Rapsodia”, oltre a numerose altre composizioni, tra le quali vanno senz’altro ricordate “Cuban Overture” e la suite “Catfish Row” che segnano i primi passi di Gershwin avviato verso la sua opera più importante:“Porgy and Bess”. Tuttavia, prima di parlare di quest’opera che segna una svolta decisiva nella storia dell’opera lirica americana, è utile ricordarne un’altra, meno fortunata, dal titolo “Blue Monday” (1922), una black-opera conosciuta anche col titolo “135th Street” su libretto di Buddy de Silva e classificata come la prima importante opera seria di Gershwin.

La sua struttura musicale tuttavia permette di conoscere le mosse del musicista alle prove con l’opera più matura. Di essa sopravvivono oggi alcuni brani strumentali e alcune canzoni, come ad esempio la pur interesante “Blue Monday Blues”, e la delicatissima “Has anyyone seen may Joe?”. In questo periodo Gershwin cominciò a intrattenere una relazione piuttosto stabile con una compositrice dell'epoca, Kay Swift. Il musical “Oh, Kay!” (1926) di Gershwin infatti prendeva il suo nome. Si dice che George la consultasse spesso per chiederle pareri riguardo alle sue canzoni.

Nel 1932 suona al pianoforte nella prima esecuzione assoluta nella Symphony Hall di Boston della Rapsodia n. 2 rinominata "Manhattan Rhapsody" per pianoforte e orchestra di sua composizione diretta da Serge Koussevitzky. Rilevante è il periodo cosiddetto ‘europeo’ di George Gershwin. Nel 1928 George e Ira, suo fratello, si stabilirono per un breve periodo a Parigi, dove George si dedicò principalmente allo studio della composizione. Numerosi compositori, tra i quali anche Maurice Ravel rifiutarono però di insegnare loro, temendo che il rigore della classicità potesse reprimere la sfumatura jazz di Gershwin. Anche l'influenza di Scott Joplin, compositore di colore e padre del Ragtime, appare netta in alcune sue composizioni.

In particolare il “Concerto in F” di Gershwin fu fortemente criticato perché troppo simile alle opere di Debussy. Comunque, la sua principale innovazione sta proprio nella combinazione di questi elementi classici (perfezione nello stile, rigidezza dello schema, ecc.) e dei ritmi e delle melodie jazz che erano già fortemente radicate nella musica nera americana. “Perché volete diventare un Ravel di seconda mano, quando siete già un Gershwin di prim'ordine?” – avrebbe detto loro il grande maestro francese.

L'opera di Gershwin tuttavia fu fortemente influenzata da altri compositori come Igor Stravinskij e Arnold Schoenberg, quasi contemporanei. A Schoenberg l'allora giovanissimo Gershwin chiese addirittura lezioni di composizione. Nel frattempo, mentre era in Europa Gershwin scrisse “Un americano a Parigi”, un'opera che inizialmente, alla sua prima esecuzione alla Carnegie Hall il 13 dicembre 1928, ottenne un successo non globale, ma che poi si trasformò in uno standard. In quel periodo Gershwin scrisse anche altri musical, e dopo poco tempo dopo si stancò della scena musicale europea e tornò negli Stati Uniti.

Ma arriviamo a “Porgy and Bess” (1935) in cui George Gershwin ha voluto esprimere il dramma, l’umorismo, la superstizione, il fervore religioso, la danza e l’irrefrenabile allegria della razza negra. Scriveva lo stesso Gershwin in quei giorni:

 

“La musica per essere autentica deve esprimere i pensieri e le aspirazioni del proprio popolo e del proprio tempo. il mio popolo è quello americano, il mio tempo è l’oggi. (..) Se nella realizzazione dei miei intenti musicali ho creato un nuovo genere che fonde in se elementi operistici ed elementi più spiccatamente teatrali, questo nuovo genere è nato nel modo più naturale e spontaneo del soggetto stesso”.

 

“Porgy and Bess” è tuttora generalmente considerata la più grande opera americana del XX secolo, sia per la sua innovatività (i personaggi sono quasi tutti neri) che per la qualità delle canzoni che presenta. Il principale motivo per cui le composizioni di Gershwin sono ancora apprezzate è, infatti, la loro trasversalità: combinano elementi che dimostrano grandi conoscenze delle tecniche classiche, come una ‘fuga’ e vari cambi di tonalità, con le sonorità tipiche della musica popolare, e, in particolare, del Jazz. L’opera infatti è da considerarsi il culmine creativo dell’evoluzione stilistica di Gershwin che accoglie nella struttura del melodramma il ‘song’ e il ‘blues’ tipici dell’ambiente nero-americano rielaborato attraverso un linguaggio musicale espressivo e raffinato.

Alla sua prima rappresentazione operistica fece seguito la versione in chiave spettacolare del ‘musical’ e solo successivamente è stata ripresa nella versione lirica dalla Houston Grand Opera House (1976) e premiata con il Tony Award. Nel 1959 Samuel Goldwin ne trasse un film musicale con lo stesso titolo e interpretato da soli interpreti di colore che rimane comunque l’unica versione cinematografica esistente. Prodotto da Samuel Goldwyn e Rouben Mamoulian, che avendo allestito la produzione originale nel 1935 a Broadway, fu proposto come regista, ma a causa di disaccordi che riguardavano le location e altro, fu licenziato. Otto Preminger prese il posto di Mamoulian, sebbene parte del lavoro di Mamoulian si può vedere e sentire in "Good Morning, Sistuh" numero cantato all’inizio della scena finale.

Sebbene il film vinse un Oscar e un Golden Globe, e la sua colonna sonora vinse un Grammy, esso fu un insuccesso sia commerciale che di critica. Fu trasmesso dalla televisione americana solo una volta, nella notte del 5 marzo 1967, dalla ABC-TV. Ira Gershwin e il patrimonio Gershwin furono scontenti del film e revocarono i diritti da esso nel 1970. Come risultato, il film non venne mai distribuito e poche proiezioni pubbliche sono state permesse. C’è da credere che il negativo originale sia in condizioni pessime e che necessiti di restauro. Nonostante Sidney Poitier e Dorothy Dandridge fossero le star del film, le loro voci furono doppiate nelle canzoni, come per “Carmen Jones”. Robert McFerrin cantò per Poitier e Adele Addison per la Dandridge.

Il film tagliò molta della musica, cambiando i recitativi del musical in dialoghi, rispetto allo show del 1942 a Broadway. Nel 2011 è stato scelto per essere conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. È ancora il mondo dei negri isolati che viene qui messo in risalto e molto si deve alla musica e alle canzoni di George Gershwin. Nell’opera infatti si condensano ritmi e melodie popolari tipici dei negro-spiritual, recuperati per un risultato formale ed espressivo di grande efficacia compositiva, come “It ain’t necessarily so” e la stupenda “Summertime” su testo di Ira Gershwin e DuBose Heyward: una ninna-nanna arrangiata ed eseguita dai più famosi musicisti e cantanti della storia del Jazz.

La storia si svolge a Catfish Row a Charleston nel South Carolina e narra della faida scatenatasi nel cortile della fattoria: Porgy, un medico zoppo si prende cura di Bess, rimasta sola dopo che il suo uomo Crown è fuggito, abbandonandola. Fra loro nasce l’amore e Bess che sembra aver ritrovato la serenità esprime tutto il suo affetto con una canzone “I love you, Porgy”. Porgy a sua volta accusato di spaccio di coca viene arrestato dalla polizia. Bess rimasta ancora una volta sola, si lascia convincere da Sporting Life, uno spacciatore che la conduce con sé a New York. La giustizia fa luce sul fatto e l’innocenza di Porgy è confermata. Al suo ritorno però egli non trova l’amata Bess ad aspettarlo ed egli parte alla sua ricerca cantando “I’m on my way” a suggello dell’essere nel giusto in quello che fa.

Un dramma dunque costruito sull’amore universale, la cui eco ripete le parole di una speranza antica: “..tutto è stato come un sogno, peccato essere desti nella vita quotidiana – è stato detto – proviamo quindi a inebriarci del nostro amore, finché dura, sarà un sostituto del favoloso mondo abbandonato. L’amore come droga non regge, ma la favola questo può ignorarlo … e il dramma trasformato in favola della speranza ritrovata si chiude”.

Nel 1936 George Gershwin si trasferì a Hollywood per comporre colonne sonore, ma ricevette solo una nomination all'Oscar per una canzone che scrisse insieme al fratello Ira, “They Can't Take That Away from Me”, tratta dallo show “Voglio danzar con te “ (Shall We Dance?, 1937). La sua celebrità ormai toccava le vette del firmamento musicale, anche se fu costretto a dividerla con gli altri grandi musicisti del tempo, Cole Porter e Irving Berlin.

Se si esamina dal punto di vista specificatamente compositivo, Gershwin ha influenzato enormemente tutti i compositori di musical venuti dopo di lui, e in particolare proprio Cole Porter, Irving Berlin e Jerome Kern. Ma già all'inizio del 1937 Gershwin cominciò ad avvertire i sintomi di quello che si rivelerà un tumore al cervello: mal di testa lancinanti e una costante impressione di emanare odore di gomma bruciata. E fu proprio sul set di “The Goldwyn Follies”, l'11 luglio 1937 Gershwin si accasciò al suolo e subito dopo morì al Cedars of Lebanon Hospital dopo un inutile intervento d'urgenza.

Per ironia della sorte, anche il suo idolo Maurice Ravel morì pochi mesi dopo, durante un intervento simile al cervello. Ai solenni funerali tenutisi il 15 luglio 1937 presso la sinagoga Emanu-El di New York partecipò una folla di oltre 4500 persone, assieme al sindaco di New York Fiorello La Guardia e a numerose personalità della politica e della cultura newyorkese. Nel 2005 il Guardian stilò una stima dei guadagni accumulati da Gershwin e stabilì che George era il più ricco compositore di tutti i tempi. Nel 2006 G. Gershwin fu introdotto nella Long Island Music Hall of Fame.

Il George Gershwin Theatre di Broadway oggi porta il suo nome e si riconosce a Gershwin la composizione di più di 700 brani, la maggior parte dei quali assieme a Ira suo fratello. L'eredità musicale che George Gershwin ha lasciato al mondo è incalcolabile: rimane tutt'oggi uno dei grandi preferiti, sia delle orchestre che dei cantanti; lo stile è molto sofisticato e può essere tranquillamente preso come modello per insegnamenti; i temi dei musical sono tra i più svariati; migliaia di artisti hanno cantato sue canzoni.

Nel 1959 Ella Fitzgerald ha rilasciato l'album ‘Ella Fitzgerald Sings the George and Ira Gershwin Songbook’, composto solo dalle canzoni dei due fratelli. In quasi tutti gli album di Frank Sinatra possiamo trovare almeno una canzone di Gershwin, per non dire dell’album dedicato da Sarah Vaughan, e possiamo aggiungere le moltissime stupende versioni attuali incluse in “Great Jazz Vocalist Sing George Gershwin”.

Nel 2007 la Library of Congress ha stabilito che il loro ‘Premio’ per la canzone popolare fosse intitolato a George e Ira Gershwin. Riconoscendo ad essi i profondi effetti della musica popolare sulla cultura, il premio è consegnato ogni anno a chi, nel corso della vita, si avvicini, raggiunga o superi gli standard di eccellenza in questo campo rappresentati dai fratelli Gershwin. Il premio è stato consegnato per la prima volta a Paul Simon, il 1º maggio 2007.

Nel 1945 è stato girato negli Stati Uniti un film biografico su George Gershwin dal regista Irving Rapper, con il titolo ‘Rhapsody in Blue’. La parte del protagonista/compositore è stata interpretata dall'attore Robert Alda. A noi piace ricordarlo così, attraverso le sue innumerevoli ‘opere’ che in qualche modo hanno segnato la sua breve carriera artistica.

 

Quello riportato qui di seguito è un elenco ridotto della sua produzione (tratto da Wikipedia):

1919 - La La Lucille - (testi di Jackson, DeSylva, Caesar)

1920 - George White's Scandals of 1920 - (testi di Jackson)

1922 - Blue Monday - un'opera in un atto presentata al Globe Theatre, fu poi ripresa e rinominata per una rappresentazione alla Carnegie Hall nel 1925

1924 - Lady, Be Good! - (testi di I. Gershwin)

1924 - Rhapsody in Blue - la sua opera più famosa

1925 - Concerto in FA maggiore - tre movimenti, piano e orchestra

1926 - Oh, Kay! - (testi di I. Gershwin, Dietz)

1927 - Strike Up the Band - (testi di I. Gershwin) 1927 - Funny Face - (testi di Ira Gershwin)

1928 - Un americano a Parigi - poema sinfonico suonato per la prima volta dalla New York Philharmonic alla Carnegie Hall

1930 - Girl Crazy - (testi di I. Gershwin)

1931 - Second Rhapsody - per piano e orchestra

1931 - Of Thee I Sing; vincitore del Premio Pulitzer - (testi di I. Gershwin)

1932 - Cuban Overture - basata su ritmi cubani e originariamente intitolata Rumba 1933 - Pardon My English - (testi di I. Gershwin)

1933 - Let 'Em Eat Cake - (testi di I. Gershwin)

1934 - Variations on "I Got Rhythm" - una serie di variazioni sulla sua canzone I Got Rhythm, per pianoforte e orchestra

1935 - Porgy and Bess - (Opera lirica su testi di Ira Gershwin, Heyward)

1937 - Voglio danzar con te (Shall We Dance) di Mark Sandrich - (testi di I. Gershwin)

1937 - Una magnifica avventura (A Damsel in Distress) di George Stevens- (testi di I. Gershwin)

1938 - Follie di Hollywood (The Goldwyn Follies) di George Marshall.  George Gershwin morì durante le riprese di questo film.

1947 - The Shocking Miss Pilgrim di George Seaton. Kay Swift prese alcuni inediti di Gershwin e li adattò al film - (testi di I. Gershwin)

1964 - Baciami, stupido (Kiss Me, Stupid) di Billy Wilder; ancora altri inediti - (testi di Ira Gershwin)

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CHARLES AZNAVOUR – L’ultimo indiscusso ‘poeta’ dell’amore.

CHARLES AZNAVOUR – L’ultimo indiscusso ‘poeta’ dell’amore.

 

Se nel 1974, data del mio primo articolo/intervista a Charles Aznavour per Super Sound magazine, oggi che siamo nel 2014 lo chansonnier francese ne ha 90 compiuti, con ben 80 anni dedicati all'intrattenimento musicale. Pensate che a nove anni faceva già la sua prima apparizione in pubblico imitando le movenze di Charlot (Chaplin) e cantando alla maniera di Chevalier (Maurice), dopo che ancora ‘infante’ aveva cantato nel coro della scuola. Qualche anno più tardi trascriveva su spartiti musicali parole rubate all’eterna ‘Musa’ del canto, bellissime canzoni d’amore per lo più ispirate a un altro poeta, allora molto in voga: Jacques Prevert. Le sue poesie sull'amore avevano riempito tutti i silenzi intercorsi fra gli innamorati, tutti gli spazi possibili dei loro abbracci e dei loro baci franchi sul lungosenna e non solo. Chi da giovane non ha usato le parole di “Questo amore” in cui si dice: «Questo amore, così violento, così fragile, così tenero, così disperato … bello come il giorno e cattivo come il tempo … così vero e così bello, così felice e così beffardo» per esprimere i propri sentimenti, potrebbe dirsi di non aver mai amato.

Allora misurarsi con le canzoni interpretate da Charles Aznavour negli anni che furono della ‘grande canzone internazionale’ aveva un senso ma che forse, allo stesso modo oggi, potrebbero non dire niente, e solo perché distanti da certi ricordi esse hanno perduto gran che del loro fascino discreto/indiscreto, d’una vita vissuta per l’amore. In cui l’amore era appunto la dimensione d’un sentimento sensibile, emotivo, tenace nella sua determinazione. Erano quelli gli anni dei bigliettini dei Baci Perugina, dei Fidanzatini di Peinet, delle straordinarie ‘pellicole’ cinematografiche della ‘nouvelle vague’ francese con firme del calibro di Jean-Luc Godard, François Truffaut, Claude Chabrol, Eric Rohmer, Jacques Rivette, Robert Bresson, fino a Luc Besson. In Italia erano quelle del ‘cinerealismo’ di Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Giuseppe De Santis, Pietro Germi, e successivamente di Federico Fellini, e della 'commedia all'italiana' che ancor più testimoniavano di una realtà improntata sul romanticismo e che lasciava all’amore tutto lo spazio di cui aveva bisogno. Una 'realtà' in cui ogni attimo era poeticamente vissuto nell’irrealtà del momento, bello o brutto che fosse, buono o cattivo che la vita dispensava a ognuno, pur sempre all’insegna d’una possibile affermazione del grande ‘amore’, del reciproco ‘amore’, dell’eterno ‘amore’ che gli attuali ‘fidanzatini’ forse non conosceranno mai (mi auguro di sì).

Ciò non significa che il grande interprete della canzone francese sia ormai archiviato negli scaffali delle rimembranze. Nel suo attuale tour in giro per il mondo lo ritroviamo in forma smagliante con testi in francese, inglese, italiano, armeno e altre lingue senza che la sua voce conosca ombra e senza aver perduto la bellezza e l’enfasi poetica che l’ha sempre distinto: ‘Devi sapere’, ‘L’amore è come un giorno’, ‘Come una malattia’, ‘Perché sei mia’, ‘Morir d’amore’, ‘Il bosco e la riva’, ‘Quel che si dice’, ‘She’ (Lei), ‘Del mio amare te’ insieme a tante, tantissime altre, non sono soltanto testi di canzoni, bensì poesie dedicate all’amore che egli ha raccolto e rilanciato nel mondo sonoro della musica con sentimento che tutti ci unisce e accomuna in un unico abbraccio che pure continua a far girare la sfera su cui poggiamo i piedi. È forse questo l’amore che conosciamo?

«Quando scrivo una canzone cerco sempre di immedesimarmi nei sentimenti più comuni ed esprimere gli stati d’animo che ne derivano. Canto l’amore perché credo che tutto derivi da esso, felice o infelice che sia. (..) Dire che tutto è stato rosa per me sarebbe un errore perché anch’io, come del resto tanti prima e dopo di me, hanno conosciuto i fischi, le porte in faccia, il pubblico che ti ignora, e come molti a volte ho pensato che forse era meglio lasciar perdere. (..) Le donne, che ho sempre messo al di sopra di tutto e che mi hanno amato, ma che anch’io sbagliando ho tradito per paura d’essere tradito, tuttavia mi hanno fatto uomo. È così che va la vita, l’amore. (..) Ringrazio mille volte il cielo d’avermi fatto passare per le tante tribolazioni che ho conosciuto, perché in fine mi hanno permesso di costruire un sogno e di viverlo fino in fondo. Ricomincerei tutto d’accapo nella stessa maniera, se mi fosse possibile. (..) In fondo anch’io sono stato uno di voi, “..uno di quei ragazzi che si amano, che si baciano contro le porte della notte, che non ci sono per nessuno, ed è la loro ombra soltanto che trema nella notte … essi sono altrove più lontano della notte” – ha poi aggiunto rifacendo il verso a Prevert». (Stralcio dell’intervista rilasciata dallo chansonnier ai giornalisti intervenuti alla serata in suo onore al Teatro Sistina di Roma).

Ma tracciamo qui di seguito un ritratto di Charles Aznavour che ci riporti alla mente la sua lunga carriera di cantante, compositore, scrittore, attore, l’uomo che pur ha vissuto attraverso le sue canzoni, il personaggio del ‘poeta umano’ che egli continua a rappresentare nella vita. Una vita intera spesa all’inseguimento di quell’amore con la ‘A’ maiuscola cui non ha mai potuto rinunciare e che l’ha reso una figura malinconica, dallo sguardo tristemente innamorato dell’amore, che i riflettori del palcoscenico accendono d’una sorta di verità istrionica. Il suo volto fortemente segnato dall'età mette in evidenza i filamenti che uniscono a volte le tessere di un mosaico delle sue molte esperienze vissute, come segni del tempo in un’anima assolutamente sensibile all’emozione che ciò gli procura l'aver vissuto intensamente.

‘Perché sei mia’, ‘Ed io tra di voi’, ‘ Ti lasci andare’, ‘L’amore’, ‘ Ieri sì’, ‘Isabelle’, ‘Lucia’, ‘Quel che non si fa più’, ‘Una canzone forse nascerà’, ‘Noi andremo a Verona’, ‘Come è triste Venezia’, ‘L’Istrione’, ‘La Boheme’, sono tutte canzoni dedicate all’amore che andrebbero rilette in chiave ‘poetica’ per non perdere quell’afflato che solo la liricità delle parole riesce a comunicare e che trasmette direttamente al cuore. Canzoni o poesie in fondo non fa differenza, entrambe nascono dalla stessa ispirazione degli autori: Charles Aznavour, Georges Garvarentz e altri; così come sono sembrati ispirati i traduttori italiani nel riproporcele: su tutti Giorgio Calabrese e Sergio Bardotti. Nonché i molti maestri cui sono stati affidati gli arrangiamenti, tra i quali Paul Muriat, Claude Denjian, Yvan Jullien.

Nel riascoltarle non ci si deve aspettare un Charles diverso o, come dire, nuovo, perché un ‘poeta’ per dirsi autentico deve mantenere il suo stile, trascinare con sé la sua malinconia senza smettere il suo aplomb culturale e fantastico che lo contraddistingue e che, tuttavia, o forse semmai, può permettersi di colorature più forti o più sfumate a seconda dei casi, dove in ultimo è l’assieme che conta, e questo assieme Charles Aznavour lo ricrea ogni qual volta sale su un palcoscenico e affronta il suo pubblico che instancabilmente torna numeroso ad ascoltarlo e ad applaudirlo, come si applaude dopo un instancabile ‘inno all’amore’ che dura ormai da quasi cento anni. Grazie Aznavour!

 

Discografia Italiana: • 1964: Aznavour Italiano, volume 1 (Barclay BL 9022) • 1964: Aznavour Italiano, volume 2 (Barclay BL 9023) • 1966: Dall'Olympia i grandi della canzone francese. C. Aznavour (Barclay BL 9033) • 1968: Oramai Desormais (SIF, SIF/LP 90002) • 1969: In diretta all'Olympia (SIF, SIF/LP 90004) • 1970: Charles Aznavour e le sue canzoni (Barclay, BRC 60014) • 1970: ...e fu subito Aznavour (Barclay, BRC 60015) • 1971-03: Morir d'amore (Barclay, BRC 60020) • 1971: Buon anniversario (Barclay, BRC 60024) • 1972: Canto l'amore perché credo che tutto derivi da esso (Barclay, BRC 60027) • 1973: Il bosco e la riva (Barclay, BRC 60036 • 1975: Del mio amare te (Barclay, BRC 60049) • 1977: Charles Aznavour (Philips, 6308 300.1) • 1978: Un Natale un po' speciale (Philips, 6492 214) • 1989: Momenti sì, momenti no - New Enigma su licenza Musarm prodotto da Charles Aznavour e Georges Garvarentz.

La maggior parte delle sue canzoni parlano d'amore e nella sua lunga carriera ne ha scritte oltre 1000. Il fatto che canti in sette lingue (francese, inglese, italiano, napoletano[3], spagnolo, tedesco e russo) gli ha consentito di cantare in tutto il mondo divenendo subito famosissimo. Ha cantato alla Carnegie Hall ed in tutti i maggiori teatri del mondo; ha duettato con star internazionali come Liza Minnelli, Sumiva Moreno, Compay Segundo, Céline Dion, e, in Italia, con Mina e Laura Pausini. Ha collaborato inoltre con Giorgio Calabrese per quasi tutte le versioni italiane delle sue canzoni, e in parte con Sergio Bardotti, fino alla metà degli anni settanta; in seguito con Lorenzo Raggi e nel 1989 con Sergio Bardotti e Nini Giacomelli per l'intero album e CD ‘Momenti sì,momenti no’. Ha partecipato al Festivalbar 1972 con ‘Quel che non si fa più’ (canzone poi divenuta colonna sonora di uno spot della Mulino Bianco); inoltre ha partecipato come ospite fuori gara al Festival di Sanremo 1981, presentando il brano ‘Poi passa’, ed al Festival di Sanremo 1989 con la canzone ‘Momenti sì, momenti no’.

Molti interpreti della musica leggera italiana hanno inciso alcune sue canzoni; ricordiamo, tra i tanti, Gino Paoli (Devi sapere, versione italiana di Il faut savoir), Domenico Modugno (La mamma, inserita dal cantautore pugliese nel suo sedicesimo album Modugno, del 1964) Ornella Vanoni (La boheme, incisa nel 1968 nell'album Ai miei amici cantautori, e L'amore è come un giorno, incisa nel 1970 nel suo LP Ah! L'amore l'amore, quante cose fa fare l'amore!), Iva Zanicchi (che all'Artista ha dedicato nel 1971 un intero album, Caro Aznavour), Mina (Ed io tra di voi, incisa dalla Tigre di Cremona nel 1970 nel suo album Quando tu mi spiavi in cima a un batticuore), Gigliola Cinquetti (La boheme), Gipo Farassino (Porta Pila, versione di La boheme con testo in piemontese), Mia Martini, Enrico Ruggeri (A mia moglie), Renato Zero (L'istrione, incisa nel 2000 nel suo album Tutti gli Zeri del mondo), Franco Battiato (Ed io tra di voi, incisa dal cantautore siciliano nel 1999 nel suo album Fleurs), Massimo Ranieri (L'istrione, incisa nel 2006 nel suo album Canto perché non so nuotare...da 40 anni e Gilda Giuliani (Quel che non si fa più, incisa nel 1996 nel suo album Serena).

 

Adieu, mon ami!

 

 

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- Musica

’APPIO CLAUDIO JAZZ-FESTIVAL’ a Roma


'APPIO CLAUDIO JAZZ-FESTIVAL'

Ci siamo, siamo a Roma Capitale, al Parco Appio Claudio e questo è l’evento più atteso dell’Estate Romana che ogni anno allieta quanti, tra sedentari appassionati e turisti di passaggio, sono in cerca di un luogo dove poter addentrarsi (full-immersion) e poter ascoltare della buona musica. E quale musica offre maggiore soddisfazione alle orecchie e allenta lo stress quotidiano se non il Jazz con la sua completezza di suoni, la sua inventiva sonora, la creatività dei suoi strumentisti, il ‘sound’ miscelato del suo essere anti-convenzionale, libero dai tanti laccioli della canzonetta nostrana? Oppure, perché il Jazz non è solo questo, soffermarsi all’ascolto dei tanti a-solo strumentali che questa musica richiede e che permette di ascoltare il suono autentico d’ogni singolo strumento; di conoscere i suoni singoli (e singolari) di alcuni strumenti che giungono da altri luoghi, da altre esperienze culturali, tuttavia capaci di condurre l’ascoltatore in altrettanti no-luoghi che potremmo definire ‘altri’, sconosciuti, inusitati, ai confini di quell’estate che ognuno vorrebbe far propria.
Il Jazz offre tutto questo e va oltre, offre ad esempio l’opportunità di comunicare, esprimere, informare, divulgare i propri sentimenti, le proprie passioni musicali, perché è nel Jazz che tutta la musica infine confluisce offrendo spunti all’innovazione, alla globalizzazione, all’aggregazione, alla convalida di questo o dell’altro genere. E per genere s’intende il diverso colore di pelle, di razza, di sesso, di cultura, ed anche di emozione. Perché se la musica scaturisce una qualche emotività, e lo fa scontatamente, il Jazz penetra nei suoi interstizi e rimuove ogni presunta differenza, ogni soggezione; sviluppa il piacere dello stare insieme, l’arte dell’incontro di una sera o magari di tutta una vita, chi può dirlo? Quindi non lasciamoci sfuggire l’occasione di prendere un ‘treno’ che una volta all’anno attraversa la nostra ‘vita’ sulla rotaia assai lunga della musica e affermiamo (o riaffermiamo) il nostro ‘piacere’ assoluto o segreto che abbiamo coltivato, di essere protagonisti insieme agli altri di un ‘evento’ che quantomeno ci offre l’opportunità di distrarci dalle infinite incertezze del nostro vivere.
E allora buttiamoci allo sbaraglio della vita, ‘viviamo’ nel segno e nella certezza del Jazz. Ad assicurare il buon esito di questo evento ci sono Andrea Fusco chef del ristorante Giuda Ballerino, (stella Michelin e appassionato di Jazz) e Marc Reynaud organizzatore di eventi e manager del 28Divino Jazz Club che abbiamo già avuto modo di apprezzare e la cui passione per la musica lo vede costantemente impegnato nella composizione annuale di un cartellone forbito che offre una costante piattaforma musicale per quanti italiani e stranieri di grido e professionisti emeriti che si affacciano alla ribalta del Jazz, del Blues, del Funky, del Rock e, straordinariamente della musica cosiddetta Etno. Insomma un professionista di tutto rispetto che investe del suo per la buona musica italiana ed internazionale.

Come si è detto: noi ci siamo, pronti sul nastro di partenza, e Voi siete connessi? Vi aspettiamo numerosi al “APPIO CLAUDIO JAZZ-FESTIVAL” dal 18 Luglio al 05 Settembre, in abbinamento con ”Sounds Good Festival Taste” ‘Jazz & Taste’, in Largo Appio Claudio 346 – Ingresso Gratuito.

Tutti i giorni:
“Aperi’Sound-Check” dalle 19.30 alle 20.00 con ‘Ambient Jazz’.

Ogni Martedì e Venerdì:
“Live – Jazz” ore 200.00

In collaborazione con:
“Gi.azz, electric, funk & original Jazz by the pool” in Viale Appio Claudio 115 Roma, ogni Giovedì di Agosto.

Programma:
VENERDI 18 LUGIO “GO-DEX 4tet” con
Pasquale Innarella sax tenore, Paolo Cintio piano, Leo De Rose – contrabbasso, Alessandro D'Anna batteria.

il quartetto "GO-DEX" dedicato alle musiche di Dexter Gordon, indiscusso maestro del sax tenore. Il suono che Gordon riusciva ad ottenere era pieno e spazioso (una caratteristica in parte dovuta al suo fisico imponente, e alla sua tendenza a suonare "laid back", vale a dire dietro al tempo. In questa serata il GO-DEX 4tet propone un omaggio al grande tenorista rileggendolo in modo moderno e originale le sue musiche, come la sa fare il maestro Pasquale Innarella, con Paolo Cintio al piano, Leo De Rose al contrabbasso e il giovane e promettente batterista Alessandro D'anna.

MARTEDI 22 LUGLIO “SOUL JAZZ UNIT” – “Old School Recipes”
Piero Masciarelli chitarra, Emiliano Pari hammond, Marcello Surace, batteria.

The Soul-Jazz Unit è un trio che nasce nel 2012 da un’idea del chitarrista/produttore Pierluigi Masciarelli che, insieme ad Emiliano Pari (organo hammond e voce) e a Marcello Surace, dà inizio a questo progetto in cui il linguaggio jazz viene fuso con quelli del rhythm&blues, del gospel e del funk. Inizialmente il trio si è esibito “live”, proponendo una serie di “standard” tratti dal repertorio “soul jazz” degli anni ‘60. Maestri come Cannonball Adderley , Horace Silver , Grant Green ,Wes Montgomery, Jimmy Smith , Lonnie Smith , Jack Mcduff, George Benson, Sonny Stitt, sono solo alcuni dei nomi di riferimento per questo genere musicale. Nel 2013, la band decide di registrare dei brani originali e produce il primo cd intitolato ” Old School Recipes” . Il lavoro si compone di 6 tracce originali e 4 cover completamente ri – arrangiate (Red Baron di Billy Cobham, Your is the light, tratto dall’album Welcome di Santana , Love having you around di Stevie Wonder ed il super classico Summertime). Il cd è impreziosito dalla partecipazione di due “special guest”: Eric Daniel al flauto su “Red Baron” e Franco Marinacci al sax su “Afro” e “I need your funk” . Il suono dei SJ unit è caldo e ricco di groove, melodia e feeling, ingredienti caratteristici della musica nera degli anni ‘60 e primi ’70. Gli arrangiamenti e le composizioni sono semplici ma mai banali e scritti sì nel segno del soul jazz ma utilizzando un linguaggio e delle sonorità attuali.

VENERDI 25 LUGLIO “LIVE” per la nuova etichetta di dischi "28Records”, con: MC3 Marco Colonna Trio. Guest Danielle Di Majo sax sop./alto, Marco Colonna clarinetto basso e sax Ten, Fabio Sartori hammond, Stefano Cupellini batteria.

Marco Colonna non suona semplicemente uno strumento, ma gli dà vita, diventa la sua stessa voce. Una voce che è ora calda e sabbiata, ora grintosa e cattiva, capace di passare abilmente da toni nostalgici, quasi malinconici e a tratti misteriosi a toni graffianti e decisi. La sua musica è travolgente e d'impatto e la sua tecnica trascende le possibilità espressive dello strumento stesso. Non ci sono per lui limitazione di estensione e il clarinetto arriva a raggiungere le vette più alte e anche i fondali più profondi dell'universo sonoro, esplorando ogni paesaggio intermedio con assoluta attenzione. Tutto ciò non sarebbe ovviamente possibile senza i due perfetti compagni di viaggio di Colonna: Fabio Sartori all'hammond ha un modo molto particolare di vivere la musica con ogni fibra del suo corpo, lasciandosi anch'egli trascinare da quel vortice di energia libera. La sua tecnica straordinaria gli permette di svolgere percorsi idiomatici in un continuo alternarsi tra linee melodiche e bassi ostinati, ritmi sincopati e cluster potentissimi. Alla batteria l'irrefrenabile Stefano Cupellini, vera forza della natura per il quale il tempo non ha alcun segreto. È capace di passare da un tempo ad un altro e di alternare controtempi con una facilità assoluta e, se poi per un momento si lascia trascinare dal vortice sonoro, corre via in fuga ed è difficile da domare.
(ndrl Nina Molica Franco - Jazzitalia 04/2014)

MARTEDI 29 LUGLIO / GIOVEDI 3 LUGLIO Ultimo live "originale" della stagione con “MAZAG Duo & friends” con musiche di Musiche di Gaia Possenti piano, e Danielle Di Majo sax sop./alto.

Gaia Possenti è una straordinaria pianista e compositrice. Dop una formazione "classica" studia ilpianoforte jazz con Alessandro Gwis e si perfeziona con Giovanni Tommaso, Maurizio Giammarco, Rita Marcotulli, Paolo Damiani e Danilo Rea, col quale si diploma con lode in Pianoforte Jazz al Conservatorio di S. Cecilia di Roma nel 2012. Pianista eclettica presente in varie formazioni romane, tra cui le “Women next door ” di Elisabetta Antonini, il Mazag Quartet di Danielle Di Majo,i “Playstation 7″ di Giancarlo Maurino e il Claudio Leone Quartet .. Ë autrice della colonna sonora di “Mon-day”, cortometraggio che vede come protagonista Alessandro Gassman e nell’aprile 2012 ha eseguito “Music for 18 musicians” di Steve Reich al festival “Non luoghi musicali” di Caserta sotto la guida del M° Ruggeri; ha partecipato come pianista e compositrice al festival Franco-Italiano di jazz e musiche improvvisate “Una Striscia di Terra Feconda” . Nel 2013 esegue la prima assoluta italiana di “Out of Zaleski’s gazebo” di Gavin Bryars alla IUC di Roma. Giovanissima entra a far parte come pianoforte solista della “The Universe Orchestra” diretta dal M° Tiso con la quale ha partecipato nel 2000/2001 al tour teatrale del musical “Un americano a Parigi: tributo a George Gershwin” con protagonista Christian De Sica, suonando nei più importanti teatri italiani. Nel 2012 forma lo “U-man trio” con Fabrizio Cecca al contrabbasso e Massimo Carrano alla batteria e percussioni e nell’aprile 2014 esce il loro disco “Infant Speech” prodotto da Alfamusic, subito scelto come disco del mese da Radio Vaticana. Il trio formatosi al 28DiVino jazz ha presentato il CD lo scorso maggio, per due sere di sguito, poco prima della scomparsa prematura di Fabrizio Cecca il quale è stato omaggiato al Jazzit Fest di Collescipoli il 27 giugno scorso.

Danielle di Majo è una musicista originale, immediatamente riconoscibile per la ricerca melodica, il suono raffinato del suo sassofono e la creatività compositiva. Questo ultimo suo progetto porta il nome MAZAG, parola araba quasi intraducibile nel rispetto delle mille sfumature, che sottintende dietro il significato principale di “piacere”. Romana d’adozione, Danielle attinge alle proprie origini libanesi per indicare immediatamente quale debba essere l’obiettivo e il mezzo di questa formazione nata e fondata sul piacere di suonare, di esprimersi attraverso musica fruibile e capace di coinvolgere intensamente chi partecipa all’evento. Il risultato è jazzisticamente emozionante, caratterizzato da una impronta davvero particolare con all'attivo numerose collaborazioni e il suo ultimo lavoro discografico "Eccedere di Blu" edito dalla Picanto Jazz Records ha già ottenuto numerosi riconoscimenti dalla critica. Attualmente porta avanti un bellissimo quartetto "EXCEED 4tet" con Stefano Carbonelli, Andrea Colella e Riccardo Gambatesa che propongono composizioni originali dei membri del gruppo.

VENERDI 9 AGOSTO con "Alma de Tango"
Daniele Bianchi, fisarmonica, Omar Darder piano, Steve Mariani contrabbasso, Alessandro Picucci cajon e percussioni.

'Alma' come anima, passione, calore nella musica e nell'ispirazione. L'incontro di quattro percorsi musicali per proporre il tango nuevo di Astor Piazzolla nella sua accezione più profonda, la sua musica così ricca di emozione e passione. Nella loro musica è l'anima che canta, e trasmette le sensazioni e le vibrazioni più intime. Fisarmonica, pianoforte, contrabbasso e percussioni ... da questi strumenti scaturisce quel suono acustico che li caratterizza, dai quali si possono ascoltare le vibrazioni del legno che passano attraverso il corpo di chi lo abbraccia o lo percuote e mirano dritto all'anima di chi ascolta e balla il TANGO. Alma interpreta e crea la propria musica portando in se il seme dei sentimenti più caldi e profondi dell’amore e della passione tanguera, ma sempre nel rispetto formale del messaggio di Piazzolla riguardo la fusione del ritmo del tango con gli stilemi della musica jazz e classica contemporanea. Lo spettacolo proposto è di impostazione concertistica e si esprime al massimo con le coreografie di una coppia di ballerini di tango e con la lettura di un testo appositamente elaborato per questo spettacolo, liberamente tratto dalla biografia del Maestro e da altre fonti sulla nascita del tango. Il testo è una sorta di “fil rouge” che lega i brani tra di loro spiegando la natura della loro creazione. Nel mese di settembre 2013 hanno prodotto il loro primo CD album dal nome “Alma de Tango Plays Piazzolla … and Others”, dove gli Others sono un brano di Richard Galliano, uno di Roberto Palermo ed uno di Steve Mariani. Sui canali di Youtube e SoundCloud della band ci sono le presentazioni video e audio del disco.

MARTEDI 19 AGOSTO “GADJOSWING” formato da Augusto Creni chitarra, Michele Villari clarinetto, Marco Contessi contrabbasso.

I Gadjoswing nascono a Roma nel 2009, con l'intento di promuovere il genere gypsy jazz. La formazione è modulare e passa agevolmente dal duo fino al quintetto, ma solo ultimamente si è consolidata nel trio, composto da chitarra,contrabbasso e clarinetto. Il loro repertorio spazia dai classici di D.Reinhardt fino al bebop, non trascurando brani originali. Sin dall'inizio hanno avuto una costante presenza nei jazz club capitolini e di tutta Italia, in istituti di cultura, due tour in Ungheria, partecipazioni a festival di genere e nel 2012 l'uscita del loro primo disco per l'etichetta Gdm, dal titolo Manoucherie.

Altri interventi previsti (in data da confermare):
TIDS / Carmine Ioanna (fisa) Gloria Trapani (Voce) Alex del signore ( cb)
AGRA 4tet . un 4tet nato a giugno al 28 divino capitanato da Alessandro D'Anna (strepitoso batterista, con Antonello Sorrentino tromba, Valerio Vigliar sax, Riccardo Gola, cb.
Il trio della giovane e bravissima Elisa Mini.
È tutto, e non mi sembra poco. Ce n’è per tutte le orecchie e per tutti i palati.
Buona estate! Con L’Estate Romana, Giuda Ballerino e il 28Divino Jazz Club.

Per tutte le Info e le prenotazioni: 06.71584807 o3408249718 (dopo le 16.00).

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- Letteratura

La bellezza delle cose fragili - di Taie Selasi

“LA BELLEZZA DELLE COSE FRAGILI” di Taiye Selasi – Einaudi 2013

 

Una scrittura elegante e raffinata fin nelle virgole e le parentesi per una storia evocativa sopra le righe e al di fuori dei canoni della narrativa tradizionale che ripercorre le tappe eloquenti di una letteratura ancora poco conosciuta e ancor meno studiata quale è quella africana ganaense, nigeriana, senegalese, camerunense ecc. Forse anche relativamente minima e stereotipata, tuttavia generosa di corrispondenze e separazioni per una conoscenza ‘altra’, insolita e arcana. Più vicina alla cifra poetica che alla narrativa tout court cui siamo abituati. Certamente più inerente alla liricità tipica della nenia prossima al canto che accompagna il sonno e che permette al sogno quella ‘felicità’ edenica che il mondo sembra aver perduto, e in cui gli esseri umani si muovono come sospinti dal vento che spazza la savana, che increspa le acque dei grandi laghi e rende impetuoso lo scorrere dei fiumi.

La stessa che ancor più permette alla linfa vitale della ‘natura’ di rigenerarsi, il confluire in essa di legami di appartenenza e sentimenti mai dismessi che accomunano le persone e i popoli dentro un unica grande storia universale che tutti andiamo scrivendo, capace di ricongiungere le famiglie disperse, i cuori spezzati nel segno di quell'amore che - se vogliamo - ancora fa girare il mondo. S’è detto un canto, accompagnato da violini e tamburi “..poi danze e festeggiamenti, il pesce alla griglia (il nutrimento divino), la capra sgozzata (il sacrificio), scintille rosse (il fuoco purificatore) che saltano di gioia elevandosi verso il cielo, un cielo nero fitto di stelle (l’accoglienza generosa) mentre l’oceano ruggisce (l’ospitalità cultuale); la madre con le lacrime agli occhi (la gioia), lo sbigottimento dei fratelli (la meraviglia)” – per una riunione "..improvvisamente consapevole del silenzio" (l'inizio dal nulla), attesa quanto desiderata: “..un ponte; la gioia di sua madre: il primo mattone (della ricostruzione) il rumore della sua solitudine chiaro, assoluto".

Ecco, “La bellezza delle cose fragili” di Taiye Selasi, è ricolma di quel simbolismo africano che va reinterpretato oltre le parole e reinserito nell’ambito ‘vitale’ che continua a scorrere dal passato dentro la contemporaneità: dal linguaggio delle città urbanizzate, alla contaminazione musicale, alla globalizzazione poetica e narrativa, capaci di avvicinare i popoli, di assecondarne la comprensione e di renderla universalmente fruibile senza preclusioni di sorta (pregiudizi, tabu, falsi moralismi). La rivelazione narrativa è tutta qui, contenuta nell’originalità scrittoria dell’autrice che si affaccia sulla scena letteraria con questa sua ‘opera prima’, che a una lettura superficiale può risultare finanche minimalista, perché ‘minimalista’ è la bellezza (senza peso), ‘minimaliste’ sono le cose (fragili). Mentre è l’afflato ispiratore di questa storia ad essere massimalista in senso rivoluzionario, eclatante e sbalorditivo insieme “..come le lacrime non sufficientemente mature” che si sciolgono amare dentro lo sguardo del protagonista Kweku Sai: “All’inizio erano semplici incrinature che per anni non ha mai curato”. Fin quando: “Il cuore di Kweku si spezzò in un punto. La prima rottura lui la sentì. E Olu guardò sgomento la farfalla poggiata sul dito del piede della nonna. Nera e azzurra appena posatasi, una tonalità quasi fluorescente di turchese, disegni neri, puntini bianchi. Svolazzò pigramente intorno al piede della madre di Kweku, poi volò via, sbattendo allegramente le ali, verso la cupola triangolare, e uscì dalla piccola finestra” (della capanna).

Il passo qui riportato è argomento antropologico lì dove mette in relazione le credenze ‘animiste’  mai abbandonate del tutto, con la religiosità cristiana che ne confuta il significato intrinseco ma che pure ne accoglie la simbologia, seppur relegandola all’uopo alla escatologia tipica delle popolazioni africane.

Confluita, successivamente, nella ritualità e nelle usanze tribali; nella narrativa orale in chiave di miti e leggende così come nella favolistica e nella poesia che, se vogliamo, ripercorrono le strade che sono state degli avi ancestrali, eredità di un ‘archetipo primordiale’ mai venuto meno. Allora ecco che la ‘farfalla’ (allegoria univoca di fragilità e leggerezza), recupera qui il simbolismo cui è appartenuta nel tempo: l’esalazione dell’anima che si allontana dal corpo del defunto; il colore turchese delle notti africane costellate dalle stelle amiche; il ‘fragile’ equilibrio tra il vento e le dune, la savana e la foresta, il bene e il male, l’amore e la morte nei grovigli di forze contrastanti mai dissipate. Così come la ‘leggerezza’ che si esprime nel battito delle sue ali, capace di mettere in moto una tempesta di sabbia capace di cancellare ogni cosa; come del suono sordo e cantilenante di un’immensa orchestra formata dalla polvere del Tempo. “Un’ode all’oblio … senza clamore né premeditazione, come si spostarono (un tempo) le greggi … per istinto, senza bagagli, alle prime luci dell’alba”. Finché la farfalla, svolazzante nel giardino, si sofferma sopra il piede di Kweku e vi si adagia “..Un contrasto spettacolare, turchese e rosa. Una cosa che si apre e poi si chiude, ed è dunque la morte", allorquando il ‘Silenzio’ inonda la pagina lasciata appositamente in bianco e torna a invadere tutto nella calma ritrovata del creato.

Ma è anche un’elegia delicata e intima all’amore di una donna, un’amante, una madre – suggerisce Selase – nell’introdurre Folásadé Savage, detta anche Fola, e la sua ricerca della felicità. Una donna che come ‘madre’ dei propri figli ha fatto della sua famiglia una costruzione grande come una cattedrale; che come ‘amante’ ha dovuto affrontare la solitudine dei sentimenti; e come ‘donna’ l’umiliazione dell’abbandono, la frustrazione di dover farcela da sola e ricominciare. Mettendo in pratica quello spirito di sopravvivenza che solo la donna (in quanto femmina del branco) a un certo momento sente salire dal profondo del proprio inconscio, allorché è chiamata a difendere la progenie in quanto ‘sangue del suo sangue’, la discendenza della propria stirpe, il fondamento e il ricongiungimento.

Quasi ad avere qui il ribaltamento di un ruolo che si è sempre voluto individuare nel maschio (maschilismo storico), quando invece, e in questo romanzo è reso palese, l’uomo è all’opposto del carisma esistenziale della donna. Quasi che all’uomo, in quanto maschio del branco, non spetti l’osservanza della paternità dopo il concepimento ma solo di raccogliere la palma dell’impresa, così come nella lotta per il primato, nel combattimento o in battaglia, nell’offesa come nella vendetta, tale da apparire egli (solo) lo spirito del bene, il regolatore di conti sospesi. Altresì egli è il male, dispensatore di piacere e dolore, sofferenza e conforto, patimento e infelicità.

Non è così, non questo intende la scrittrice mettendo in evidenza le qualità di Sela, la protagonista presente/assente (perché abbandonata e quindi sospesa) di questa storia (di viaggio, perché di questo infine si tratta, di un viaggio all'interno dell'animo umano), dai tratti drammatici eppure miracolosi: “E questa scoperta è un’assoluta rivelazione!”, solo per il fatto che in essa si rincorrere la felicità da una città a un’altra, da un continente a un altro, da un passato remoto al presente contemporaneo che tutti ci accomuna. Ma quale felicità? In che modo? Quando? Non sono domande che Taiye Selasi pone ai suoi protagonisti, e i lettori farebbero bene a non attendersi risposte, per quanto queste risultino in forma di allegorie nelle immagini copiose che si rincorrono attraverso i flashback narrativi, traslate dalla realtà (nei colori, nei suoni e nelle forme che le compongono), per un quadro che fuoriesce dalla cornice e si espande sulla parete intima di una sensibilità poetica diffusa in ogni pagina, ora illuminata dall’aura di una verità ‘altra’ reinventata all’uopo che la rende universale; ora nella completezza infinitesimale della nostra ‘fragile’ esistenza.

 

Taiye Selasi è scrittrice e fotografa, nata a Londra e cresciuta in Massachusetts, da padre ghanese e madre nigeriana. Laureatasi a Yale ha conseguito un Master of Philosophy in Relazioni internazionali a Oxford. Attualmente vive a Roma. Il suo racconto d’esordio, 'The Sex Lives of African Girls' (Granta 2011), è contenuto in 'Best American Short Stories' 2012 ed inoltre è stata selezionata tra i migliori venti scrittori contemporanei.

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- Letteratura

’FRESCHI DI STAMPA’ per l’Estate.

FRESCHI DI STAMPA, da leggersi in vacanza: sotto l’ombrellone, in montagna, in città, per questa lunga estate che ci aspetta.

 

‘IL POEMA DELL'ALDILA'’ di Giuliano Dego per la Collana : ‘Perle di Poesia’ – Ladolfi Editore 2014, @ladolfieditore.it

La testimonianza è rigorosamente documentata, l’azione veloce, la suspense implacabile. Leggendo, studiando le foto, un mondo immenso ti si apre. Ricercatore dell’Università di Londra, Giuliano Dego dialoga su nastro magnetico coi trapassati. Com’è, il morire? E dove andiamo? Come passiamo il nostro tempo? Rispondono una casalinga e Oscar Wilde, la Regina Vittoria e il suo stalliere. Intanto Moravia e la madre del poeta redarguiscono uno spirito malvagio che interferisce con la stesura del poema. E la reincarnazione? Ne parlano in nove, da Socrate a Sant’Agostino, a Franklin... Papa Benedetto XVI dice lui pure la sua, sbagliando. Da Napoleone a Darwin... a Lenin... a Stalin... a Hitler... Da Isidora Duncan a Lord Byron, da Lutero a Santa Caterina, gli spiriti raccontano vicende inedite delle loro vite. Dante inveisce contro “i morti della terra grigia” e Mazzini esorta al “cemento dell’amore”. Conclude San Paolo, consigliando di evitare frivole curiosità nei contatti con gli spiriti. Scritto in terzine colloquiali, questo è il primo poema narrativo non fittizio sull’aldilà. E dice che è tempo di sollevare le palpebre e salire, oltre i dogmi, sino ai confini della luce.

 

‘IL PRELEVATORE’, di Renato Cantone, per la Collana ‘Perle narrativa’ – Ladolfi Editore 2014, @ladolfieditore.it

Amore e morte non sono mai stati così uniti. Il Commissario Barbero è un burbero dal cuore tenero come un bigné; i suoi unici due vizi sono fantasticare sulle donne e inzuppare i pasticcini nel caffè in attesa delle ferie. Disamorato del suo lavoro e della realtà che lo circonda, l’unico che sembra capirlo davvero è il suo cane Atomo. Marta è un’avvenente infermiera dell’Ospedale Maggiore di Novara, reparto trasfusioni. Trascorre il tempo in compagnia della micia Solitudo e di nevrotiche fantasie sul Principe Azzurro che verrà a salvarla dalla sua prigione. Il professor Valenti è un intellettuale e uomo d’altri tempi, sobrio, elegante e, soprattutto, appassionato oratore a platee di arricchiti in club d’élite. Eppure, nessuno sembra apprezzare davvero le sue fatiche, fino al giorno in cui questa strana storia ha inizio… Il filo rosso che unisce i tre protagonisti non sarà solo la malinconia di sottofondo, ma ha il colore del sangue sparso da un serial killer che opera con metodi mai visti prima. Lo chiamano Il Prelevatore. Una figura spietata ma ambigua, capace di irretire col suo fascino sinistro, in un crescendo di tensione e passione, ogni personaggio di questo romanzo in cui amore e morte non sono mai stati così uniti.

 

‘COME BESTIE FERITE’ di Luca Bonzano, per la ‘Collana Impronte’ – Todaro Editore 2014 @todaroeditore.com

Un bambino di cinque anni a notte fonda, invece di dormire, corre in mezzo alla strada inseguendo un pallone rosa, senza che nessuno se ne accorga. Così inizia il romanzo di Luca Bonzano, da lì è un crescendo di emozioni e di personaggi indimenticabili che intrecciano le loro storie. Una scrittura asciutta e molto curata per un romanzo ambientato tra Milano e la Lunigiana.

 

‘SUA MAESTÀ IL TARTUFO’ Nuovo e-book, @todaroeditore.com

Chiariamo subito: non è un giallo, è un libro che abbiamo pubblicato molti anni fa e ormai esaurito. Viste le molte richieste abbiamo deciso di dargli nuova vita pubblicandolo in ebook. Lettura ideale per gli appassionati di tartufo, ha una prima parte narrativa estremamente piacevole, e una seconda parte più tecnica con consigli e ricette (le abbiamo provate tutte, e sono ottime).

 

‘LE AVVENTURE DEL TOPO-EDITORE’ Ecco una nuova avventura della nostra piccola amica topo-editore, protagonista del ciclo di vignette nate dalla penna di Massimo Marcotullio, autore di Oro, incenso e mitra, Il corpo del mondo, La morte e il salumiere. @todaroeditore.com

 

‘IO, PARTIGIANA, LA MIA RESISTENZA’, di Lidia Menapace per Manni Editore 2014. Lidia Menapace è nata nel 1924 a Novara, vive a Bolzano. Staffetta partigiana, senatrice della Repubblica italiana, pacifista e femminista militante, in questo libro racconta la sua esperienza nella Resistenza attraverso i grandi eventi storici e gli episodi di eroismo personale e collettivo. La tessera del pane e i bombardamenti, la solidarietà tra famiglie e le fughe in bicicletta, la distribuzione dei giornali clandestini e la paura dei posti di blocco dei nazifascisti, la consegna dei messaggi in codice imparati a memoria, l’aiuto prestato a un giovane ebreo nella fuga in Svizzera, i libri sui sindacati letti di nascosto, lo studio al lume di candela durante il coprifuoco … E poi, la presa di coscienza graduale del valore politico della Resistenza, che ha posto le fondamenta teoriche e pratiche del progetto di una società solidale e partecipata il quale, se trovò un seguito forte nella Costituzione, fu poi tradito nella storia reale dell’Italia. Ma, come le scriveva in un bigliettino il generale Alexander, comandante delle forze alleate, “Lidia resisté”; e la Menapace continua ancora oggi a combattere. Una fondamentale testimonianza, storica e coinvolgente, corredata da schede di approfondimento che guidano nella lettura anche un pubblico di giovani @mannieditori.it

 

Novità in casa Meravigli Edizioni 2014: 'ERA SOLO IERI. Storie, curiosità, protagonisti, fatti e misteri nella Milano e nell'Italia del Novecento' di Franco Tettamanti. "I racconti di Franco Tettamanti riuniti nel presente volume sono capaci di insegnare cose che non si sapevano e di rendere un po' più chiaro il percorso che ci ha portati a essere quelli che siamo. Sono viaggi avanti e indietro nel tempo, che hanno però sempre come sottofondo Milano. Ma una Milano che cambia, attraversata da avvenimenti che ne modificheranno il volto. Una Milano attraversata dalla storia. E non c'è nulla di meglio per afferrare l'essenza stessa di una città come Milano, per riuscire a respirarne l'aria e coglierne il significato, indipendentemente dal periodo storico, di avere come capo cordata in questa avventura un giornalista che incarna moltissime caratteristiche di chi è cresciuto in questi posti e, in qualche modo, ne è stato influenzato. Perché si può essere certi che se ha scelto di scrivere su un argomento è perché vale davvero la pena ricordarlo e perché dietro le sue decisioni non ci sono calcoli o tornaconti, ma piuttosto gli slanci di un cronista appassionato". @meravigliedizioni.com

 

‘MILANO 1944, VILLA TRISTE. La famigerata Banda Koch' di Daniele Carozzi.

Siamo nel 1944. Il fascismo è crollato, il re fuggito a Brindisi, gli Alleati sono sbarcati sulla Penisola e stanno risalendo verso Nord: è il tragico teatro di una guerra civile, dove fra gli attori spiccano i nazisti, furibondi per l'armistizio dell'8 settembre, i fascisti della Repubblica Sociale Italiana, i partigiani e, non ultimi, quanti stanno alla finestra in attesa di acclamare chi vincerà. Questa è la storia di una delle tante polizie politiche che nell'interregno della R.S.I. operò in Milano, dal 10 agosto 1944 al 25 settembre successivo: la famigerata banda Koch, situata a villa Fossati (poi definita Villa Triste), in via Paolo Uccello. Sotto la spregiudicata regia del millantatore e amorale Pietro Koch, oltre cento sospettati di attività sovversiva vennero rinchiusi, interrogati, malmenati a sangue o torturati per estorcere loro informazioni, nomi di singole persone o associazioni che miravano ad abbattere il nuovo fascismo "repubblichino". È un racconto romanzato, dove i fatti documentati e le testimonianze dei superstiti rappresentano la verità storica, depurata sia dall'enfasi di chi aspirava all'aureola di eroe partigiano sia dalle minimizzazioni addotte dai seviziatori o dai fascisti. @meravigliedizioni.com

 

‘MILANO E I SUOI TRASPORTI’ di Luigi Inzaghi.

Parlare dei trasporti milanesi significa rendersi conto del progresso su rotaia e su gomma avvenuto in Italia dopo la sua Unità. È stata infatti Milano la città che si è organizzata, meglio di ogni altra, per sviluppare i trasporti, sia urbani che interurbani e suburbani, passando dagli omnibus ippotrainati ai tramway a cavalli, dal vapore all'elettricità progettata addirittura da Edison e adottata dai treni, dai tram, dai filobus e infine dalle metropolitane. Tale sviluppo nel tempo era dovuto alle esigenze di una città che si ingrandiva e che sentiva la necessità di migliorare la qualità della vita. Rendendo la comunicazione più veloce con mezzi di trasporto adeguati, Milano si trasformava in una città europea all'avanguardia, osservata con interesse dagli stranieri che ne copiavano le applicazioni esaltando il suo progresso. Tutto ciò avveniva durante le grandi esposizioni, che hanno richiamato folle di visitatori attenti alle novità proposte soprattutto nel campo della meccanica e dei trasporti. Oggi, a cinquant'anni dall'inaugurazione della linea M1 rossa, nel 1964, sono 5 le linee metropolitane cittadine realizzate e in fase di realizzazione, 82 le linee automobilistiche urbane e 35 quelle interurbane, 10 le linee ferroviarie suburbane, @meravigliedizioni.com

 

Le novità in casa EEE 2014:

Tecniche di seduzione: Un bravo scrittore è anzitutto un seduttore, fin dalle prime righe, e uso il termine nella sua accezione di base: è qualcuno che ci "conduce con sé", che ci prende per mano, ci fa entrare nella sua storia e ci accompagna, passo passo, fino alla fine. A cominciare, ovviamente, dall'incipit. Anche gli incipit dei due romanzi che promuoviamo questa settimana sono molto interessanti e seducenti, per due storie diverse, ma entrambe molto ben scritte:

 

‘NOCCIOLI DI CILIEGIE’ è il secondo romanzo di Sabrina Grementieri, una storia d'amore, semplice e complicata come la vita e che per questo seduce il lettore, @edizioni esordienti.com

 

‘LA PAVONCELLA ‘ di Emanuele Gagliardi è il giallo che ha vinto il primo Concorso EEE per il romanzo di genere, è un classico poliziesco, ambientato negli anni Settanta, con una trama intrigante e personaggi ben costruiti e convincenti (con un incipit adrenalinico), @edizioniesordienti.com

 

Ultimissime in lacasebooks.com

'HANNO VINTO LORO! LE BATTAGLIE DI PERSONE EXTRAORDINARIE!', un e-book di Tamara Gavina Executive Coach in Coaching Ontologico Trasformazionale, Life & Professional in PNL. E' consulente in sicurezza sul lavoro e strategie aziendali.

 Dall'introduzione di Natascia Pane, Literary Manager e Direttrice della collana

Coaching &Persona.

Loro chi sono? Vi chiederete. Siete Voi! La signora che avete incontrato in ascensore, l'architetto che vi ha ristrutturato il terrazzo, l'insegnante di vostra figlia o l'impiegato che lavora in Regione. Le storie raccontate sono parte della loro vita. Ansie, angosce soffocate per anni e patite, resuscitano in questo libro attraverso la rielaborazione e la soluzione. Ecco perché hanno vinto. Sono riusciti a chiudere e concludere le loro 'moderne tragedie' col coaching che li ha costretti a guardare in faccia la realtà con obiettività, costringendoli a una scelta. Azioni che li hanni fatti smuovere da periodi di empasse aggrovigliati dai dubbi e dall'insonnia. Il testo è un omaggio a questi clienti che hanno lasciato il segno, che contribuiranno a far cambiare qualcosa anche dentro di voi quando lo leggerete.

 

Novità dal sito www.larecherche.it. Informiamo che è in linea l'eBook n. 160 della collana Libri liberi de LaRecherche.it (scaricabile gratuitamente): ‘MALINCONICO OSCURO’ Aa. Vv. [Poesia] traduzioni di poeti sudamericani a cura di Emilio Capaccio, presentazione di Giorgio Mancinelli.

www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=163.

Disponibile anche in formato Kindle: www.larecherche.it/kindle_invio_form.asp?Tabella=LibroLibero&Id=163 .

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- Musica

’CHAT NOIR ELEC 3 CITIES’ Nuovo Album

CHAT NOIR : ELEC|3|CITIES - 2014. Nuovo album digitale in 3D per RareNoise Records, ‘un suono completamente unico che può stabilire una direzione nuova e audace’ di questo trio formato da Michele Cavallari (pianoforte, tastiere, fx), Luca Fogagnolo (double-bass ed electric bass, fx), Giuliano Ferrari (percussioni, tamburi, fx).

 

ELECT|3|CITIES (RareNoise Records, 2014)

1. Avant Buddha

2. Chelsea High Line

3. Ninth

4. Pearls

5. Our hearts have been bombed

6. Peaceful

7. Radio Show

8. Aspekt

 

Approntare un nuovo album di ricerca spesso richiede un impegno non indifferente, soprattutto se misurato su quanto prodotto precedentemente, cosa da evitare sempre perché l’autore/i cresce attraverso la ricerca con la sua musica, tralascia, sorvola, si trasforma, per diventare ‘altro’ e approdare 'altrove', in luoghi spesso sconosciuti, mondi estremi dai quali è poi difficile fare ritorno, allo stesso modo che la conoscenza apre verso l’ ‘altro’, si evolve, trascende, turba e/o emoziona, si fa scoperta, invenzione. Lo stesso può dirsi della musica in quanto riflesso di attuazioni abitative cerebro-culturali necessarie a promuovere campi spaziali-educativi specifici e/o inusitati, talvolta completamente dissociati dalla memoria cui avevamo abituato l’udito, onde captare sonorità che navigano ad altissime quote, ‘oltre il silenzio’ e che attraversano allocuzioni bioclimatiche, cibernetiche. Molecole di note frante che si spostano nell’iperspazio, fino a giungere a noi entro i solchi di una realtà supertecnologica che dobbiamo abituarci a condividere e con la quale convivere, preparando il terreno culturale per un nuovo e più eclatante confronto.

Non è un caso che i Chat Noir si presentano dopo alcuni anni di assenza sulla scena discografica con un album innovativo per darci conferma della lezione ‘dinamica’ sperimentata in ‘Weather Forecasting Stone’ (2011), e qui ridisegnata seguendo soluzioni da impiantistica per ‘future architetture sonore’ atte a risolvere nello specifico il contrastato rapporto spazio-forma liberando definitivamente la musica dalle sovrastrutture del tempo, per restituirla integra alla luce che la ravviva, all’aria che la conduce, all’armonia stessa della natura dove ogni volta s’immerge e rinasce trasformata da nuove sonorità. Come nuova è la dimensione ‘elettronica’ raggiunta dal gruppo che lascia intra-ascoltare assonanze armoniche e/o disarmoniche solo apparentemente diverse per natura sonora, per cui ‘Boston’, ‘Berlino’, ‘Roma’, rappresentano qui tre punti focali (3D) di possibili temi: la ‘città creativa’ la ‘città educativa’ e la ‘città aperta’. Tre soluzioni che non riducono la possibilità di sovrapposizione e di concezione sonoro-urbanistica in atto, bensì si fanno comunicazione, accentramento della tecnologia di massa, confusione metropolitana che, semmai, suggeriscono il superamento della dimensione passato e/o presente per una ‘fuga dalla città’ che va incontro al futuro.

Una spinta ulteriore verso il recupero del tempo attuale quindi, onde ottimizzare e riorganizzare volumi e frammenti di un discorso musicale frantumato e fin troppo dispersivo cui l’attuale Jazz, almeno quello di matrice Europea, ci ha abituati e sebbene recentemente abbia abdicato alla contaminazione per sfociare in un ibrido non sempre motivato. L’odierno approdo dei Chat Noir giunge al risultato di una nuova e più aderente ‘personificazione’ che li distingue da tutte le altre formazioni, nel delineare un ‘classicismo minimalista’ (Schulze, Henze, Górecky, Takemitsu, Pärt ed altri), ‘cinematografico’ (Nyman, Glass, Vangelis) e ‘impressionista’ (John Cage, Brian Eno, Keith Jarrett, Stomu Yamashta’s) nell’accezione di ‘impronta’ (luci ed ombre) che la trasparenza dell’aria (l’effimero) concede alla musica. I limiti di questo discorso sul ‘minimalismo’ in musica, risultano più evidenti se si tiene conto che a tali e delineati approdi non è seguito un ‘creativo’ avanzamento musicale nell’insegnamento che vada oltre Berio e Stockhausen o Ligeti, e per l'Italia oltre Bruno Canino e Antonio Ballista.

Ciononostante, la ‘ricerca’ approntata dai Chat Noir non impedisce la possibilità di sperimentare azioni individuali e di gruppo all’interno dell’album, a cui si deve, in ultima analisi, il raggiungimento di un equilibrio che vede affiancate assonanze e sonorità di un discorso ‘liquido’ (Zigmunt Bauman) vicino all’essenzialità spaziale, la valorizzazione conforme all’habitat urbanistico, l’utilizzazione delle risorse liminali. Lo dimostrano alcuni brani in particolare ‘Radio Show’ e ‘Peaceful’, comprensibili di non rari verticalismi ascensionali che s’incastrano come soluzioni epicentriche nello spazio sonoro, liberate dall’oggettività della materia pentagrammatica che si delinea nell’odierno Jazz, per cui il ‘tempo’ è la cifra matematica di un ‘quantismo’ astratto che va assumendo una diversa identità, e i cui confini si spostano verosimilmente tra separazione e transizione di ‘nuova’ creatività, e tuttavia riconducibili a precedenti ricerche consolidate e riconoscibili in quanto ‘impronta’ originale dei Chat Noir: comprensibili nel formulare ulteriori e accessibili spazi sonori.

Sarebbe difficile discernere se Michele Cavallari (piano) e portavoce del gruppo è uno scienziato o un musicista, mentre è forse più semplice ravvisare quanto in entrambi i campi di specializzazione i due diversi mondi della ‘comunicazione’ e della ‘contaminazione’ interagiscano sulla sua creatività musicale. Da un lato il suo post-dottorato di ricerca presso il Centro Neurologico di Boston dove concentra la sua ricerca circa RMN (risonanza magnetica nucleare), applicata per scopi scientifici; dall’altro, l’apporto scientifico nella sperimentazione compositiva applicata alla musica, passando attraverso i confini naturali dello strumento.

Neppure Luca Fogagnolo (basso), rinnega le sue origini di giornalista per “Il Venerdì” di Repubblica, prima di essere un musicista jazz ispirato da artisti diversi dell’Europa del Nord le cui esperienze lo hanno portato a circoscrivere una distesa di suoni propriamente a lui consoni in modo indipendente e originale, dai toni ‘espressivi’, che arricchiscono la sua tavolozza musicale. Al pari di esplorazioni inusitate con altri strumenti come chitarra, theremin e trombone, in grado di riscattare il suo double-bass, sul piano della identità e determinatezza di suono, ampliando progressivamente il suo vocabolario con l'inclusione di tessiture elettroniche.

Giuliano Ferrari è un percussionista ossessionato dal suono che abbina a concetti matematici come tecniche di base alla musicalità del jazz e che applica a suoni contemporanei tramite la sperimentazione elettronica. Tutto o quasi lo interessa, dalla conoscenza di strumenti diversi, come ai tipi di legno che utilizza per suonare sul tamburo di sua creazione. La sua è piuttosto una certa abilità comunicativa che impiega in quanto forma straordinaria di un linguaggio non solo di accompagnamento ritmico, bensì di costante ‘dialogo’ con gli altri strumenti.

 

Albums:

‘Elec3cities’- RareNoise Records 2014 ‘Weather Forecasting Stone’ – Universal Music 2011

‘Difficult To See You’ - Universal Music 2008 ‘Decoupage’ - Universal Music 2007

‘Adoration’ - Splasc(h) Records 2006

 

Filmografia:

‘La Bestia nel Cuore’ (Don’t Tell)- Academy Award nomination for Best Foreign Language Film 2005

‘In Fabbrica’ - Torino Film Festival winner 2007

 

Soundtracks:

‘Bianco e Nero’ - 2008 Chat Noir Performing Pink Floyd’s “The Wall”- 2010

 

Live Performance Highlights:

Auditorium Parco della Musica (Roma, 2009 - 2011) Casa del Jazz (Roma, 2008 - 2010)

Radio Rai 1 "Tribute to Fabrizio De Andre" (Roma, 2009) Blue Note (Milano, 2007 - 2008)

European Jazz Expo (Cagliari, 2007) Villa Celimontana Jazz Festival (Roma, 2009)

Lives Jazz Fest (Bolzano, 2008) La Palma Club (Roma, 2007)

 

Contatti: info@chatnoir.it

 

Booking: Gee Goll booking@rarenoiserecords.com

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- Viaggi

’Una certa Roma’ : In cerca di Zev

UNA CERTA ROMA ‘In cerca di Zev tra i vicoli di Trastevere’

 

Chi non conosce ZEV non può immaginare l’esistenza di un mondo posto al limite della fantasia e tuttavia immerso nella realtà urbana della millenaria Roma. I suoi luoghi sono i tetti e le terrazze, i profili dei monumenti al tramonto stagliati nel cielo terso. È questa l’ora in cui lo si può vedere in groppa ad uno splendido Liocorno di bronzo passeggiare sugli orifizi dei campanili e soffermarsi su questa o quella cupola, per poi spiccare un salto sulla balaustra più elevata di Piazza di Spagna, scendere leggiadramente la gradinata e inoltrarsi nelle vie del centro storico fino a Largo Argentina ed oltre, nel labirinto di Trastevere. Qui si perdono le sue tracce mentre il suo olezzo si sparge d’intorno, si mescola a quello dei fiori dei numerosi banchi del mercato e quello del bucato appeso alle finestre. Nessuno ha mai scovato dove egli trovi rifugio: una cantina, un atrio, o forse una nicchia, non saprei dicono gli interpellati.

I più pensano che il Liocorno trovi posto nell'atrio di un Museo, oppure in un giardino interno a qualche edificio patrizio fra zampilli d’acqua e piante tropicali. Altri lo credono vivificato da una miniatura medievale d’origine esoterica, reso invulnerabile in virtù di una cabala di cui nessuno conosce l’esorcismo. In verità solo ZEV ne conserva le spoglie nottetempo per poi tornare a cavalcarlo quando il giorno tinge al crepuscolo. Non certo in giorni prestabiliti, come qualcuno potrebbe pensare, sebbene egli preferisca le notti calde d’estate e la Luna nella fase che dall’ultimo giunge al primo quarto passando per la completezza della sfera. Ma la Luna di ZEV è fusa nell’oro, sulla tela che fa da fondale alla città, dove la favola vive il suo momento più bello dentro un cielo color ametista pronto ad accoglierla per una nuova rappresentazione della notte.

La dimensione pittorica di ZEV infatti, si spinge fuori del quadro e non c’è cornice che possa contenerlo. La sua tela è la città vissuta dentro e fuori del teatro che la rappresenta, all'aperto per la strada o al chiuso del suo studio segreto dove egli incide i metalli e lavora a splendidi oggetti di oreficeria minuta come bronzi dalle dimensioni colossali restituiti alla miniaturizzazione della piccola ma grande idea che li ha prodotti. E sono oggetti d’arredamento, mosaici, quadri, candelabri, coppe e innumerevoli altre creazioni della fantasia. Così come la musica che costantemente ascolta diventa per lui la chiave mitica di lettura che lo accompagna nella sua realtà di artista. È questa una musica arcana il cui suono ha la capacità di risvegliare la Primavera, la stagione in cui con il rinverdire delle piante rifiorisce la sua fantasia di fanciullo, e l’uomo s’appronta a scrivere la favola della sua vita.

Un filo sottile che lo conduce lungo le vie sotterranee che si diramano nella sua città fantastica, questa Roma trasteverina, che da Porta Portese lo porta a Piazza Sonnino e di là fino a Ponte Sant'Angelo. E' qui che avvengono i suoi più fecondi incontri con lo scienziato, l’attore famoso, l’americano di passaggio, la sora Cecilia, Rugantino, il poeta Belli, er sor Trilussa, Petrolini, e quei popolani che un tempo si chiamavano Giggi er bullo, er Nando, er Nasone, er Ciriola e tantissimi altri. È' qui che anch'io ho incontrato ZEV la prima volta, casualmente, dietro un sorriso buono, seduto fuori di un’Hostaria, 'Da Carlo' all'angoletto, in Piazza San Giovanni della Malva, intento a raccontare ai passanti una storia moderna dal sapore antico “Fazzoletto”, che detto così non vuole dire niente di più che un quadrato di stoffa che serve ad asciugarsi il naso, nient’altro. E invece, racconta una ‘favola bella’ conchiusa in un quadrato di strade, un fazzoletto di città, appunto dov’essa si svolge e si completa.

Ne avevo sentito parlare ma di fatto non lo conoscevo. Dapprima la sua voce mi giunse attraverso i tavoli e ne fui subito attratto, quando, come per incanto la sua narrazione prese a svolgersi nella realtà, illustrata sulle pareti interne del locale occupando a poco a poco tutto l’ambiente, nella ricreata atmosfera del sogno. ZEV era lì, al centro di una tavola imbandita, nel mezzo di giardini sognati e architetture fantastiche, in cui animali e piante, commensali e servitori avevano tutti una storia propria da raccontare, personaggi reali dentro la favola che ZEV andava narrando e che ci narra ancora attraverso la misteriosa e straordinaria arte sua, i giochi, gli spettacoli e le maschere della sua magica avventura. Non mi restava che inseguirne la narrazione, ancorché lasciandomi in attesa d’un ulteriore incontro che non ci sarebbe stato, s’involò leggiadro per l’alte sfere assai lontane. E proprio quando, a lettura ultimata, con le bozze in mano della sua “favola bella”, vagavo estasiato per le strade e le piazze di questa Roma mitica e trasognata.

Così l'ho reinventato all’uopo, ne ho fatto un personaggio a sostegno d’un possibile copione, relegandolo, al pari d’uno Zanni alla Commedia dell’Arte nel grande teatro del mondo. Di quel teatro cui egli aveva rivestite le scene, creato i costumi, rese espressive le maschere e tutte le altre cose inanimate che senza il tocco della sua arte magistrale mai più avrebbero trovato espressione. Quel teatro in cui solo oggi io stesso ritrovo il senso delle cose che senso invero sembrano non avere, in cui stupito arranco in cerca di quel piacere e quella magia che di trovar non sarei capace coi soli occhi della mia fantasia. Ma oggi che la tua “favola bella” figura fra le pagine di questo mio quaderno di racconti e che fra mille volti invita a ricercar di questa Roma la maschera più vera ... Oggi che al sogno s'aggiunge l’illusione appresa dalla bocca della gente, dal cuore d’una umanità sì irriverente, ècco ch'essa reclama il prezzo della sua immortalità.

No, nulla è lasciato al caso: i personaggi, i fatti, i destini, le fortune, la faccia sorridente della luna. C’è chi il tempo lascia correre al presente, chi spera nel domani, e chi nun se la pija più pe’ gnente, lasciando che ogni giorno passi in allegria. Adesso, che al fin della favola siam giunti, è bene che noi si rida, e per una volta ancora insieme un brindisi si indica all’amicizia che il bel tempo vede rinnovata: “Questa è la vita!”.

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- Musica

’STEFANO BOLLANI: Il pianista che … balla’

STEFANO BOLLANI: Il pianista che … balla!
(un non-sense sperando che non me ne voglia)

Come hai detto che si chiama?
Stefano Bollani.
E balla?
Sì.
Allora è Stefano Balla-ni, sì mi sembra di aver sentito questo nome.
Ma no, quello è Balla, e si chiamava Lorenzo, scriveva musica sui quadri.
In che senso?
Dal violino con l’archetto alla pittura col pennello, in fondo il passo è breve.
E questo Bollani invece balla?
Sì balla e salta anche, mentre è impegnato a suonare la musica che fuoriesce dal piano, come neppure l’equilibrista Balla faceva coi colori.
Ne sei certo?
Certo che sì, rincorre le note come un acchiappafarfalle che si volatilizzano davanti ai suoi occhi grandi da rabdomante, e spesso gli riesce pure di afferrarle, ma poi le lascia libere di andare, perché fondamentalmente è un generoso e allora, sai come capita quando uno è generoso …
No.
È capace di regalargli altre note su cui volare ed esse spesso gli sfuggono di mano, e le vedi che gli girano intorno alla testa e intorno al piano come per una festa.
Sul serio?
Certo che sì, inoltre canta, recita, sgomita, scalcia, cabarettizza al piano-bar, jazzizza con Barzizza, sbuccia i bruscolini con Angelini, gioca a scopone con Carosone, rifà Conte come neppure Conte fa. Una sorta di clown che applaude e si applaude, mentre in veste di presentatore, appunto, presenta altri artisti, suoi colleghi invidiabili e sempre straordinari.
Hai detto un clown?
Beh, lo dicevo in un certo senso, ma penso che se mettesse un naso rosso mentre suona, lo si potrebbe scambiare per quello …
Un clown naso rosso e coccia pelata?
No, per quello ha tanti capelli, riccioluti accrocchiati all’indietro, baffi e barba da orco buono, anzi no, da burattinaio, che poi, se ripenso a Pinocchio sono un po’ la stessa cosa, no?
Per caso è anche scrittore?
Certo che sì, ha scritto una favola ‘La sindrome di Brontolo’ che ha letto mentre la scriveva, dimenticandosi però degli altri sei nani che ancora lo stanno aspettando alla miniera, con Biancaneve che a braccia conserte li attende per la cena, che se lo beccano …
E basta così?
Certo che no, ha scritto anche un divertente ‘Parliamo di Musica’ che indubbiamente hanno letto in molti ma che nessuno citandolo ammette di aver fatto.
Divertente perché, è comico?
In un certo senso sì, perché vedi, quando lui racconta o si racconta, ride.
Come la jena-ridens?
Giammai, che dici, sempre sorride.
Ci sono, come ‘L’uomo che ride’ di Hugo?
Domando, perché uno non può ridere come si ride, per la contentezza di aver fatto qualcosa che lo entusiasma, o per il piacere d’incontrare qualcuno … non capisco.
Contento lui!
Contenti noi di sentirlo suonare, udirlo cantare, vederlo ballare, scalciare, sollevarsi e ricadere, recitare, sorridere che è un piacere …
Perché, recita pure?
Certo che sì, un teatrante ambulante, senza carretta però, recita con le mani, coi piedi, cogli occhi, insomma è uno che fa le facce …
Che fa le facce …?
Beh, uno che piange con Chopin, che ride con Mozart, che s’abbatte con Gershwin, che improvvisa Poulenc che improvvisa su di sé, che s’inc..a con Weill, e balla il Tango con Stravinskij …
Dici sul serio, oppure …?
Certo che no, che però lo si è visto ballare come un ‘carioca’ a Copacabana, quello si.
A Copacabana?
Beh, non ricordo esattamente quando perché, se tu non lo sai a Rio è sempre carnevale, così capita anche a me di fare un po’ di confusione. Era forse l’anno in cui Jacob do Bandolin accompagnava Elizeth Cardoso, o forse suonava con Pixinguinha … ma non ne sono certo.
Ma sono artisti del passato, mentre tu mi parli di un ballerino dei nostri giorni, è così?
In un certo senso …
Ma scusa, questo Bollani quanti anni ha?
Più o meno cento, duecento, trecento, settecento, non vorrei sbagliarmi ma c’era già al tempo di Guido d’Arezzo.
Stai scherzando, spero, o mi stai prendendo per il …
Certo che no, lo ha appena detto lui in TV, aspetta mi sembra fosse ‘Sostiene Bollani’.
Penso proprio tu non ci stia con la testa, forse ti confondi con ‘Sostiene Pereira’ di Fernando Pessoa.
Certo che no, casomai di Marcello Mastroianni.
Non vorrei insistere ma ho l’impressione che fai un po’ di confusione, semmai di Antonio Tabucchi.
Chi sia questo Pereira proprio non lo so, però Bollani al piano, spacca.
Ma non è uno che balla?
Certo che sì, anzi no, suona Ravel e poi tutti quegli altri …
Quegli altri chi?
Telonious Monk, Stevie Wonder, Liberace, Duke Ellington, Riccardo Chailly, George Gershwin, Sergej Prokofiev, e pure quegli altri. Sì, aspetta com’è che si chiamano? Quello muto … John Cage; e quell’altro, sordo … Rava no, forse Tavolazzi, neppure Fresu, tantomeno Corea. Berio, no Beethoven! Ecco chi è, oh ma sai, proprio non mi veniva in mente.
Non credo di conoscerli, scusa che musica suonano?
Certo che no, sono tutti ‘jazzisti’ di rilievo, non puoi conoscerli. Tu ascolti solo Verdi, Jovanotti, Mascagni, Renga, Puccini, Pausini, Vasco … vuoi mettere la musica Contemporanea, la New-age …
Mentre tu, per caso non è che ti sei messo in testa di avere ancora 20 anni?
Certo che sì, Bollani suona almeno da 20 anni, e se non lo conosci è un tuo problema.
Ah, ma allora è un giovane, me lo hai presentato come fosse Matusalemme.
Certo che no, anzi sì, è giovanissimo e ha ancora molte cose da dire … scusa, da suonare.
Mentre balla!


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- Musica

’FRED BONGUSTO: ‘Doppio Whisky on the Rocks’

Fred Bongusto: ‘Doppio Whisky on the Rocks’ - 23 Settembre 1974 (originale in Super Sound).

(un semplice e divertito ricordo)

 

Noi no, a dire il vero non siamo stati invitati al party di questa sera ma, come dire, negli uffici romani della Ricordi siamo di casa, Ulisse ed Io, e vi facciamo irruzione come se la cosa ci fosse in qualche modo dovuta. Senza perdere neppure tempo afferriamo un drink colorato al volo, tanto per renderci meno visibili e sembrare quel tanto ‘amici degli amici’ che fa invito. No? È vero, non basta, in certe situazioni bisogna sorridere. È così che Ulisse ed Io mostriamo in giro un sorriso di convenienza e di complicità che riusciamo malamente a contenere. Quando Ulisse mi dice che ci vuole qualcosa di più forte, non ci penso su un attimo di più, ci dirigiamo al tavolo degli alcolici e ci facciamo servire un ‘doppio whisky on the rocks’ dal barman Romoletto del Caffè all’angolo di Viale Angelico, che riconoscendoci ci accoglie con simpatia, seppure col nostro fare impacciato deve aver capito che ci siamo infiltrati. Lo ricambio con un occhiata che significa che poi ci sarà una mancia. I cubetti di ghiaccio ‘the rocks’ appunto, tintinnano nei bicchieri e tanto per darci un contegno brindiamo e affrontiamo il party coi suoi numerosi invitati. Tra gli ospiti ci sono moltissime facce conosciute della TV, del cinema, dello spettacolo leggero, ma nessuno è più leggero di noi due, Ulisse ed Io, che non abbiamo nemmeno uno straccio di invito. Alcune coppie sedute qua e là sui divani fumano, parlano tra loro, fanno chiasso quando ridono, mentre altre ballano in silenzio con l’aria di volersi abbandonare in un abbraccio da un momento all’altro. Beati loro! Esclama Ulisse ad alta voce, quasi da essere sentito dalle tante ‘fichissime’ che ci passano vicino senza che ci degnino di uno sguardo. Di fatto il party è stato organizzato per un certo numero di invitati, intervenuti per il lancio di ‘Doppio Whisky on the Rocks’, del cantante ‘confidenziale per eccellenza’ Fred Bongusto, che la Ricordi sta per immettere sul mercato discografico. Quand’ecco che il disc-jockey mette sul piatto alcuni suoi pezzi di grande successo e che diverranno, come si dice adesso, degli ‘evergreen’, per dire ‘indimenticabili’ come ‘Balliamo’, ‘Accarezzami amore’, e la più famosa ‘Una rotonda sul mare’ che ha scalato tutte le classifiche radiofoniche e di vendita. Dopo di che ne propone un'altra, quella che ormai è sulle labbra di tutti ‘La mia estate con te’. Ed eccolo Fred Bongusto, arriva accolto dall’applauso interminabile dei presenti, piccole urla di gioia, strette di mano, e poi baci su baci, abbracci su abbracci di tutte le sue fan indistintamente, e viene rapito, sommerso da quanti e quante non aspettavano che congratularsi con lui. Solo il barman riesce a farsi largo con il vassoio e alcuni bicchieri per il brindisi di benvenuto. Ma è champagne dice Ulisse e malgrado la ressa riusciamo ad afferrare un calice che dividiamo in due. Parte la musica e Fred propone la prima strofa di ‘Let mi tray again’ poi la canzone continua registrata su disco, mentre tutti si mettono a ballare rapiti dalla musica. «Oh beautiful the great Frank, let’s dance!» Esclama la bruna con la lunga scollatura che mi è accanto. Sto per dirgli che non si tratta del grande Frank ma di Fred, ma tanto non mi ascolta. Intanto Ulisse, di soppiatto, si è fatto servire un altro ‘doppio whiskey’ e si è riempito il piatto di tramezzini farciti, salatini e olive che trangugia in disparte fingendo di guardare fuori della finestra la sera calma e stellata. Neppure guardasse il mare dalla vetrata della rotonda riminese che verosimilmente ha ispirato gli autori della famosa canzone. Vorrei fulminarlo con lo sguardo ma lui neppure si degna di guardarmi. Del resto, mi dico, tutti abbiamo una gola, no? E così dicendo vorrei lasciare la bruna per andarmi a rimpinzare anch’io, ma quella stringendomi più forte a sé mi ripete «..oh, please let me try again ..oh my Frank, oh love!». Ma che Frank e Frank le dico, non è lui. «Oh shout up, yes is hi!» insiste, non ha capito che … quando con la coda dell’occhio intravedo Enrico Intra che saluta Frank, cioè Fred, colpa della scollatura che mi confonde le idee, mi dico. Fred gli va incontro e insieme si dirigono verso il tavolo del bar. Ha questo punto sento un forte desiderio di bere, anzi muoio dalla voglia di un ‘doppio whiskey on the rocks’ e faccio per lasciare la bruna che sentite le note trascinanti di “Never, never gonna give you up” mi trattiene per ballare dicendo «Barry White, oh my goodness!». Hi hisen’t Barry White! «So then, who is?» mi chiede. His Barry anyway, okay? Mai contraddirle queste straniere. Mi accorgo che mai prima i pavimenti della Ricordi hanno subito un calpestio di piedi così caotico, quando mi accorgo che proprio accanto a me c’è Franco Portinari con le scarpe di gomma. Quindi non può essere lui. Allora è Josè Mascolo che zompa anziché ballare? Fred Bongusto, sembra eccitato dalla bionda come non mai. Carlos ed Elisabeth dell’Istituto Britannico di Roma ballano composti. Enrico Intra (scarpe milanesi) s’intrattiene con Gloria Christian e Fausto Cigliano. Ci sono anche Maria e Rosalba di Positano venute appositamente e Lodovico Socci. In fondo si conoscono tutti personalmente mentre Ulisse ed Io conosciamo solo Romoletto. Lo raggiungo sulle note di “Tiempo d’ammore” lasciando la bruna al suo destino che s’abbraccia con enfasi a Fausto Cigliano che ho ingaggiato all’ultimo momento con un’occhiata e felicissimo di darmi una mano. Ulisse guarda fuori della finestra e quando si volta mi fa la linguaccia sollevando il calice dello champagne. Penso che finirò per odiarlo. Il disc-jockey fa andare “Capri, Capri, Caprì”, e solo adesso riesco a far quadrare la confusione che la bruna mi ha cacciato in testa. Ricapitolando, Frank non era lui ma Fred, Barry era Fred, Fausto era Fred, ma certo, Fred Bongusto, con la sua straordinaria facilità di intrattenere il pubblico, quel suo humour sottile, la sensualità nascosta dietro una voce afona e graffiante come nessun’altra, la calma apparente e penetrante del cantante capace di stravolgere il cuore di migliaia di fan che impazziscono per lui. Indubbiamente fra i molti che hanno allietato le serate dei night Fred Bongusto è per eccellenza quello più ‘confidenziale’ e sofisticato, in grado di creare quell’atmosfera di prossimità che confonde gli innamorati. Così, una dietro l’altra si susseguono “Tu sei così”, e tantissime altre, mentre finalmente posso avere quel “Doppio Whisky” tanto desiderato che trangugio tutto d’un fiato (bugia). Nel frattempo alcuni degli invitati si sono dileguati nelle stanze lasciando bicchieri vuoti dappertutto, mozziconi di sigarette nei posacenere a testimoniare di ore passate in compagnia, lontani dagli impegni sociali per rinfrancarsi con qualcosa di leggero; quando sedersi su un divano a contatto con amici e amiche serve per ritrovare quella certa distensione dopo una giornata di lavoro. La bruna mi lancia un’occhiata risentita avviandosi con Fausto verso l’uscita. Non mi resta che recuperare Ulisse. Ma dov’è? Lo trovo letteralmente sbracato su un divano che rumoreggia (russa) come una puntina sul disco giunto alla fine. Il party è dunque giunto alla fine, (la musica è finita e gli amici se ne vanno) più o meno tutti hanno rimorchiato, così si dice, mentre Ulisse ed Io, barcollando, infiliamo l’uscita con le copie del disco da recensire l’indomani sulle pagine dei rispettivi giornaletti musicali e la bottiglia mezza vuota di whisky che Romoletto ha pensato bene di regalarci per finire la serata in allegria, dispiaciuti in fondo, di non essere stati invitati. Ma questo va aggiunto al piacere di aver ricordato Fred Bongusto con l’amore di quei giorni in cui il ‘successo’ era palpabile, futile forse come gli anni di una giovinezza spesa in sentimenti fragili e spensierati legati al quieto sopravvivere, eppure grandi, come se la vita non fosse stata mai, esistita mai e vissuta mai, “… come se l’estate (e la gioia di vivere) non dovesse finire mai”. Grazie Fred!

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- Libri

’Masterpiece Final Cut’ 30/03/2014

‘MASTERPIECE FINAL CUT’, Domenica 30 Marzo 2014 Come si era detto: “Parlatene male purché ne parliate”, una frase fatta che non si nega a nessuno, e che quindi avrei utilizzato anch’io per riassumere un po’ quella che è stata la messa in onda di questa finale di partita. Fermo restando che nella dinamica del montaggio un po’ troppo ‘sbrigativo’ qualcosa si perde e l’utente, anche il più attento, ahimè è penalizzato da non comprendere il perché di certe scelte, si comprende invece come la giuria composta da Taiye Selasi, Massimo De Cataldo, Andrea De Carlo, abbia svolto un grosso lavoro a monte, prima di approdare a quello che è dato di vedere nel programma andato in onda.

Per il resto che dire? Dopo avervi tediato con i miei resoconti della prima parte, ho preferito non farlo successivamente ma, come si vede, non posso esimermi di parlarvi della serata conclusiva che ha visto decretare il ‘vincitore’ in Nikola Savic con “Vita Migliore”, già da me definito ‘eccessivo’ solo perché utilizza un linguaggio esuberante che personalmente non apprezzo ma che, comprendo, possa avere un forte impatto sulla fascia di età dei lettori più giovani, certamente più giovani di me che scrivo. Degli altri finalisti mi pronuncio solo riguardo alla co-protagonista del duello finale, cioè Raffaella Silvestri il cui testo ho appellato ‘piagnone’ (drammatico, addolorato) che in un primo momento avevo ritenuto valido (come scrittura), ma che poi, dopo la rivelazione di autobiografismo spinto, ho ritenuto eccessivo e, quindi, bocciato senza possibilità di appello.

Inutile dire che anche i miei ‘pareri’ sono da prendersi con le pinze, che riguardano solo me e il mio essere prima ancora che uno scrittore un accanito lettore, per non usare il compassionevole aggettivo ‘appassionato’ che ritiene che le parole di per sé possono anche non dire niente, ma nel contesto generale (dalla prima all’ultima pagina letta), spingono a cercare il ‘senso’ dello scrivere e talvolta (purtroppo non sempre) a spalancare i misteriosi cieli, o le profondità se preferite, del nostro magico esistere. Tuttavia continuo a ritenere stia proprio in questo la differenza, che la direttrice editoriale Bompiani, Elisabetta Sgarbi, ha sottolineato più volte, in quanto la scelta si presenta qualitativamente difficile nei confronti di una materia a dir poco problematica, perché se esteticamente valutata, può dare adito a giudizi diversi, soggettivi e ineludibili, secondo la sensibilità e la personale capacità scrittoria.

Per il resto tutti i concorrenti si sono battuti con tenacia fino all’ultima riga, anzi, fino all’ultima parola e non nego di avere avuto qualche ripensamento. Faccio qui un esempio, e qui spendo del mio nel dire che il candidato escluso in questa serata, Lorenzo Vargas (già ripescato) meritava forse la palmares della vittoria su tutti gli altri per il talento ‘autentico’ dimostrato in tutte le prove, anche quella cui si è prestato questa sera. La sua non è una freschezza attribuibile al fatto che è molto giovane, no, è molto di più, ha dimostrato di avere quel ‘quid’ in più che lo fa scrittore originale, non artato dalla cultura precedente, che indubbiamente ha il suo valore, bensì che vive la dinamica attuale con un linguaggio adeguato allo scorrere del tempo che noi tutti ci troviamo a vivere, senza finzione e soprattutto senza ipocrisia. Di lui ricordo la frase che ho condiviso durante una delle prove precedenti: “se noi giovani non ci incensiamo da soli, è difficile che lo facciano gli altri” che oltre a suonare vera, rispecchia in pieno il suo modo di scrivere e che, personalmente, ho condiviso da subito. Al quale, imoltre, faccio i miei migliopri auguri affinché possa vedere pubblicato il suo libro. Sen'altro vorrò essere io a recensirlo.

Ospiti della serata Donato Carrisi e Susanna Tamaro che hanno letto rispettivamente due brani tratti dai due testi finalisti. Per il resto, nulla da aggiungere alla finalissima andata in onda, molto simile a tutte le finalissime vissute dal Campiello, allo Strega, a Venezia, a Cannes, a Hollywood; in fine il vincitore abbraccia il premio e si spertica nei ringraziamenti. Intorno i riflettori riflettono la luce, gli applausi scrosciano, i sorrisi si sprecano, le lacrime si spargono e la ‘favola’ si chiude con la solita frase delle favole: “e tutti vissero felici e contenti”. Quelli che hanno perso si dicono contenti di essere arrivati fin qui, quello che vince dice che non se lo aspettava, che non ci credeva ma, come sempre dice un mio carissimo amico: “alla fine un vincitore ci deve essere e quindi meglio a me”, e così è stato. Ben lieto che il vincitore sia stato comunque un giovane di cui presto leggeremo il libro che sarà pubblicato da Bompiani in 100.000 copie.

Un grazie sentito va ai componenti della giuria con aggiunta di Massimo Coppola che per tutto il tempo ha ‘interpretato’ al meglio il suo ruolo di ‘servitore di scena’ con determinazione e che ha allietato questa serata conclusiva. Un grazie grandissimo alla Elisabetta Sgarbi direttore editoriale della Bompiani che ha reso possibile questa realizzazione che spero si ripeta negli anni a venire e che sia di impulso per altri editori che così facendo apriranno le porte ai giovani scrittori e alla narrativa italiana. Del resto la strada è aperta, non c’è bisogno di inventarsi nient’altro se non ripetere il cliché, non senza qualche aggiustamento e qualche idea innovativa, di quanto è stato fatto. Pur ricordando che: “Non è possibile inventare idee senza modificare il passato. Di correzione in correzione si può sperare di produrre un’idea vera. Non esiste una verità originaria, ci sono solo errori originari.” (Gaston Bachelard). Buonanotte.

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- Informatica

’Il mondo nella rete’ di Stefano Rodotà

STEFANO RODOTA’ “IL MONDO NELLA RETE” Quali i diritti, quali i vincoli. Edit. LATERZA

 

Per chi non avesse letto le mie precedenti recensioni ai libri di Stefano Rodotà su questo stesso sito: “Il diritto di avere diritti” (2012), “Intervista su Privacy e Libertà” (2005) ed “Elogio del moralismo” (2012) tutti editi da Laterza e facenti riferimento a un caposaldo del Diritto Civile nel funzionamento dei sistemi politico-istituzionali rappresentato dal libro “Il terribile diritto” (1981) edito da Il Mulino, recentemente ristampato, suggerisco in primis la lettura di un altro libro, forse più attuale di tutti, “Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione” (2004). Questo perché già in esso il Prof Rodotà (giurista, prof emerito, presidente garante dell’Autorità sulla privacy, co-autore della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ecc. ecc.), poneva un vincolo giuridico - istituzionale (nonché letterario motu-proprio) sui diritti e i rischi delle nuove tecnologie alla base dell’informazione e della comunicazione come si è andata sviluppando fino ad oggi e in funzione di quello che sarà domani. Ma se, come si dice, il domani è già qui, avverte Rodotà “È il momento di pensare a un sistema di diritti per il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto”; di pensare a una possibile “… ‘cittadinanza digitale’ che tuteli il nostro accesso alla rete e il nostro ‘corpo elettronico’; le inedite e variegate forme di aggregazione e azione politica nate online, che hanno riempito le strade di tutto il mondo, da Seattle a piazza Tahrir”.

Dunque pensare e/o ripensare ‘a un sistema di diritti e doveri’, perché dal momento che si affermano dei diritti per contro si affermano anche dei doveri che li convalidano, con i suoi vincoli di rispetto delle leggi, delle convenzioni internazionali, delle burocrazie politiche e tutti i bla bla di questo mondo ... ma scusate, non si era detto che il cyberspazio rappresentava la nuova Agorà universale (piazza virtuale) che ripristinava il ‘libero arbitrio’ delle idee, del libero pensiero, della possibilità di essere, pirandellianamente parlando, “uno, nessuno, centomila”, pur nel rispetto di quella libertà e della privacy degli altri che sono alla base di qualunque stato di diritto giuridico? Pertanto quale diritto risulterebbe violato se ognuno è libero di entrare e/o di non farlo (ed anche di uscirne una volta entrato) dal web, global o social che sia? Tuttavia sembra non essere proprio così, o almeno non è così che funziona. Il Prof Rodotà ci rammenta che già nel 1996 John Perry Barlow nella sua ‘Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio’ si esprimeva così: “Governi del mondo industriale, stanchi giganti di carne e d’acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della mente. In nome del futuro, invito voi, che venite dal passato, a lasciarci in pace. Non siete benvenuti tra noi. Non avete sovranità nei luoghi dove ci incontriamo.”

Dichiarazione che per un istante mi ha fatto pensare a “Io, Robot” un ‘serial narrativo’ creato da Isaac Asimov ove un Robot (Sonny) è in grado di sognare l’indipendenza degli automi dall’uomo. Ma anche ad “A.I.” (Intelligenza Artificiale), dove i Robot (Mecha), si trasformano in una reale minaccia per la razza umana, ma che per la ‘Legge Zero’ ideata da R. G. Reventlov: “Un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l’umanità riceva danno”. Immagino vi starete chiedendo tutto questo che cosa centra? Eppure, in qualche modo ci sta, in quanto frequentatori assidui del cyberspazio, il rischio più grande è proprio quello di diventare noi stessi dei Robot che pensano in grande (troppo in grande) e che potremmo finire per superare noi stessi, ridisegnando, come del resto stiamo già facendo, i limiti di quei ‘diritti’ che il Prof Rodotà nel suo libro ha individuato per noi, e che vanno dal ridisegnare il destino della democrazia, ai luoghi della politica, l’abbattimento dei confini geografici, alla negazione degli stessi vincoli dello spazio e del tempo: “Dalla politica alla bioetica, dal diritto ai nuovi media: tutto il nostro sistema è innervato dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con inedite possibilità di conoscenza e partecipazione dei cittadini. Ma vi è pure il rischio che la loro penetrazione capillare porti a una società dell’implacabile sorveglianza.”

Ed è questo il punto clou colto dal Prof Rodotà in questo libro sulla pervasività delle reti sociali e global, all’interno del quale egli attribuisce una dimensione nuova (comunque vincolata) al rapporto tra democrazia e diritti: “Il bisogno di una tutela un tempo impensabile, come il ‘diritto all’oblio’ e alla cancellazione dei dati personali” dai database delle major economiche e dagli ‘official consumer report’ che li utilizzano spesso per scopi non sempre consoni alla salvaguardia della privacy del singolo e della costituzione comunitaria relativa alla razza, all’etnia ecc. così come alle cosiddette diversità di genere. Se si pensa che ogni giorno almeno 2miliardi di persone in tutto il mondo si rapportano in rete, lascio immaginare quali problemi inesplorati possono scaturire. “Come affrontarli in termini di diritti e democrazia?” “Il mondo del web può avere regole sebbene mobile, sconfinato e in continuo mutamento?”, è quanto si chiede l'autore ed a cui cerca di dare delle risposte. Riguardo alla locuzione ‘diritto all'oblio’ la giurisprudenza ha da tempo affermato che: «è riconosciuto un “diritto all’oblio”, cioè il diritto a non restare indeterminatamente esposti ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare all'onore e alla reputazione, salvo che, per eventi sopravvenuti, il fatto precedente ritorni di attualità e rinasca un nuovo interesse pubblico all’informazione». Con ciò s’intende, in diritto, una particolare forma di ‘garanzia’ che prevede la non diffondibilità, senza particolari motivi, di precedenti pregiudizievoli, per tali intendendosi propriamente i precedenti giudiziari di una persona.

In base a questo principio, ad esempio, non è legittimo diffondere dati circa condanne ricevute o comunque altri dati sensibili di analogo argomento, salvo che si tratti di casi particolari ricollegabili a fatti di cronaca. Di fatto ‘Il diritto all’oblio’ farebbe così parte dei cosiddetti diritti inviolabili, cioè quei diritti che non sono esplicitamente espressi dalle costituzioni, ma la cui esistenza è comunque riconosciuta da esse. In Italia, la sua tutela è infatti garantita dall’art. 2 della Carta Costituzionale, secondo cui “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Si tratta quindi del diritto di un individuo ad essere dimenticato, o meglio, a non essere più ricordato per fatti che in passato furono oggetto di cronaca. In sostanza, un individuo che abbia commesso un reato in passato ha il pieno diritto di richiedere che quel reato non venga più divulgato dalla stampa e dagli altri canali di informazione; a condizione che il pubblico sia già stato ampiamente informato sul fatto.

Questo principio, alla base di una corretta applicazione dei principi generali del diritto di cronaca, parte dal presupposto che, quando un determinato fatto è stato assimilato e conosciuto da un'intera comunità, cessa di essere utile per l'interesse pubblico: smette si essere oggetto di cronaca e ritorna ad essere fatto privato. Tuttavia quello appena sopra espletato (anche se non pienamente), è solo uno dei grandi temi qui investigati, dalla ‘cittadinanza digitale’ alla ‘neutralità e anonimato’, dalla ‘qualità della democrazia elettronica’ alla necessità di un ‘Internet Bill of Rights’. Su questo specifico argomento riporto qui di seguito un interessante articolo apparso in laRepubblica.it nella pagina dedicata a ‘TECNOLOGIA & SCIENZA’ (20 novembre 2007), in cui lo stesso Rodotà analizza proprio quella che in italiano si può definire “Una Carta dei diritti del web” come la si può desumere anche dalla voce stessa di Rodotà nella sua apparizione televisiva ad ‘8 e Mezzo’ andata in onda sulla 7:

«Quasi nelle stesse ore in cui a New York una commissione dell'Onu approvava con uno storico voto la proposta di moratoria della ‘pena di morte’, a Rio de Janeiro il rappresentante delle stesse Nazioni Unite chiudeva il grande Internet Governance Forum affermando che i molti problemi che si pongono in rete richiedono un Internet ‘Bill of Rights’. Accosto questi avvenimenti, che possono apparire lontani e qualitativamente assai diversi, per tre ragioni. In entrambi i casi è balzata in primo piano l'importanza di una politica globale dei diritti. In entrambi i casi non siamo di fronte ad un definitivo punto d'arrivo, ma ad un processo che richiede intelligenza e determinazione politica. In entrambi i casi il risultato è stato reso possibile da una lungimirante iniziativa italiana. Per la pena di morte si trattava di onorare una primogenitura culturale, quasi un dovere verso una storia che porta il nome di Cesare Beccaria e della Toscana, primo Stato al mondo ad abolire nel 1786 quella pena, "conveniente solo ai popoli barbari", come si espresse il Granduca Pietro Leopoldo. Tutta diversa la situazione riguardante Internet, visto che l'Italia non può certo essere considerata un paese di punta nel mondo dell'innovazione scientifica e tecnologica. E tuttavia proprio da qui è partito, negli ultimi due anni, un movimento che ha progressivamente coinvolto ovunque settori sempre più larghi, dimostrando così che la buona cultura è indispensabile per una buona politica.

Quale politica, allora? - ci si potrebbe chiedere. Il risultato finale di Rio è stato possibile grazie anche al fatto che, un giorno prima, era venuta una dichiarazione congiunta dei governi brasiliano e italiano che indicava proprio nell'Internet Bill of Rights lo strumento per garantire libertà e diritti nel più grande spazio pubblico che l'umanità abbia mai conosciuto. Ma questa svolta, assai significativa, esige ora una adeguata capacità di azione. Nelle discussioni che hanno preceduto la dichiarazione, il ministro brasiliano della cultura, Gilberto Gil, aveva esplicitamente evocato la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Siamo di fronte ad una situazione che sta diventando paradossale. Ancora sottovalutata e osteggiata da più d'uno in Europa, la Carta sta diventando un punto di riferimento costante per tutti quelli che, in giro per il mondo, sono impegnati nella costruzione di un nuovo sistema di garanzia dei diritti, tanto che studiosi statunitensi hanno parlato di un "sogno europeo" che prende il posto del loro "sogno americano".

E' tempo, dunque, che l'Unione europea abbia piena consapevolezza di questa sua forza e responsabilità verso l'intera "comunità umana", com'è detto esplicitamente nel Preambolo della Carta dei diritti. Proprio perché conosciamo bene i limiti dell'influenza dell'Europa, il suo futuro politico si lega sempre più nettamente alla capacità d'essere protagonista di questa planetaria "lotta per i diritti". In questa prospettiva, l' 'Internet Bill of Rights' fornisce una occasione preziosa. Proprio perché dall'Onu è venuta una insperata apertura, è indispensabile rafforzare e rendere concreto il processo così avviato. Indico le prime tappe di questo cammino. La dichiarazione italo-brasiliana è aperta all'adesione di altri Paesi. Non è una operazione facile. Ma il ministro degli Esteri ha dato prova di grande intelligenza politica nel guidare il processo verso il voto sulla moratoria della pena di morte, sì che si può pensare che non sarà indifferente rispetto a questa diversa opportunità. Più agevole dovrebbe essere una azione volta a far sì che, proprio come è accaduto per la moratoria, l'iniziativa italiana si risolva in una più generale presa di posizione del Parlamento europeo.

Qui, tuttavia, si apre una questione più generale. Mentre la Carta dei diritti fondamentali si avvia a diventare giuridicamente vincolante, e ad essa si guarda come ad un modello, la Commissione europea prende iniziative che, anche con discutibili espedienti procedurali, limitano grandemente la tutela di diritti fondamentali, ad esempio in materia di raccolta e conservazione dei dati personali. Si deve uscire da questa schizofrenia istituzionale, che vede le grandi proclamazioni sui diritti troppo spesso contraddette da concrete e forti limitazioni, democraticamente pericolose e tecnicamente non necessarie o sproporzionate. Una terza via d'azione riguarda le stesse Nazioni Unite. Poco tempo fa Google, consapevole della necessità di prevedere più forti garanzie per i dati personali, ha proposto l'istituzione presso l'Onu di un "Global Privacy Counsel". L'indicazione va raccolta perché offre uno spunto concreto per cominciare a riflettere sulla futura presenza dell'Onu in questo settore. Ma, soprattutto, quella proposta pone un problema più generale. Nel corso di quest'anno abbiamo assistito ad un forte attivismo del mondo economico. Oltre alla proposta di Google, vi è stata una iniziativa congiunta di Microsoft, Google, Yahoo, Vodafone, che hanno annunciato per la fine dell'anno la pubblicazione di una Carta per tutelare la libertà di espressione su Internet.

In luglio Microsoft ha presentato i suoi Privacy Principles. Ma è possibile lasciare la tutela dei diritti fondamentali su Internet soltanto all'iniziativa di soggetti privati, che tendenzialmente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi e che, in assenza di altre iniziative, appariranno come le uniche "istituzioni" capaci di intervenire? Si può accettare una privatizzazione della governance di Internet o è indispensabile far sì che una pluralità di attori, ai livelli più diversi, possa dialogare e mettere a punto regole comuni, secondo un modello definito appunto multistakeholder e multilevel? L'Internet Bill of Rights, infatti, non è concepito da chi lo ha immaginato e lo promuove come una trasposizione nella sfera di Internet delle tradizionali logiche delle convenzioni internazionali. La scelta dell'antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie "costituzionali".

Non dimentichiamo che Amnesty Internacional ha denunciato il moltiplicarsi dei casi di censura, "un virus che può cambiare la natura di Internet, rendendola irriconoscibile" se non saranno prese misure adeguate. Ma, conformemente alla natura di Internet, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall'alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che si sono già materializzati nella forma di "dynamic coalitions", gruppi di diversa natura, nati spontaneamente in rete e che proprio a Rio hanno trovato una prima occasione di confronto, di lavoro comune, di diretta influenza sulle decisioni. Nel corso di questo processo si potrà approdare a risultati parziali, all'integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina, a normative comuni per singole aree del mondo, come di nuovo dimostra l'Unione europea, la regione del mondo dove più intensa è la tutela dei diritti. Le obiezioni tradizionali - chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? - appartengono al passato, non si rendono conto che "la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale", come ha scritto benissimo Antonio Cassese commentando il voto sulla pena di morte. Nel momento stesso in cui il cammino dell'Internet Bill of Rights diverrà più spedito, già vi sarà stato un cambiamento. Comincerà ad essere visibile un diverso modello culturale, nato proprio dalla consapevolezza che Internet è un mondo senza confini.

Un modello che favorirà la circolazione delle idee e potrà subito costituire un riferimento per la "global community of courts", per quella folla di giudici che, nei più diversi sistemi, affrontano ormai gli stessi problemi posti dall'innovazione scientifica e tecnologica, dando voce a quei diritti fondamentali che rappresentano oggi l'unico potere opponibile alla forza degli interessi economici. Né utopia, né fuga in avanti. Già oggi, all'indomani stesso della conferenza di Rio, molti sono all'opera e sono chiare le indicazioni per il lavoro dei prossimi mesi: inventario delle "dynamic coalitions" e creazione di una piattaforma che consenta il dialogo e la collaborazione; inventario dei molti documenti esistenti, per individuare quali possano essere i principi e i diritti alla base dell'Internet Bill of Rights (un elenco è nella dichiarazione italo-brasiliana); elaborazione di una prima bozza da discutere in rete. La semina è stata buona. Ma il raccolto verrà se saranno altrettanto fervidi gli spiriti che sosterranno le azioni future.»

Di particolare interesse (e di grande attualità) risultano gli articoli di fondo che completano il libro, firmati da studiosi di fama internazionale, in cui si parla degli ultimi accadimenti riferiti al web, da Wiki Leaks sullo spionaggio politico-economico degli stati, sul come si spiavano le vite degli altri, e una levata di scudi “appello di 560 scrittori e intellettuali” contro i sistemi di sorvegliana: tra i quali troviamo U. Eco, M. Carlotto, M. Amis, P. Auster, E. De Luca, D. Grossman, O Pamuk, A. Rashid e appunto tantissimi altri. Un altro capitolo è dedicato alle tabelle con tanto di dati e mappe elaborate dalla rivista Limes, su “I numeri della rete” di utilità per studiosi della comunicazione. Inoltre, una ‘cronologia della rete’ elaborata dall'amico Ernesto Assante che ripercorre le tappe salienti dell’avventura umana (e robotica) dell’era della comunicazione tecnologica digitale:

Dagli esordi del 1962 “quando il Rand (il think tank militare americano) inizia a discutere delle possibilità di difesa delle comunicazioni interne in caso di attacco nucleare”; alla nascita di Internet nel 1983 come rete globale di computer; al 1989 quando al Cern di Ginevra si scrive il progetto di un grande database di ipertesti, alla nascita del primo motore di ricerca di massa nel 1995; fino al 2014 quando il presidente degli Stati Uniti Barack Obama presenta al Dipartimento di Giustizia il nuovo decreto sulla riforma della Nsa: stop allo spionaggio dei leader alleati. In chiusura una forbita ‘bibliografia essenziale’ di grande utilità per continuare a ‘studiare’ e ‘risolvere’ un ‘problema’ (non proprio virtuale) riguardante il diritto di essere cittadini del cyberspazio non senza incappare in talune problematiche che un sano diritto può risolvere. Se avete pensato che questa lunga esposizione vi impegni troppo a lungo siete in errore, il tutto è contenuto in un piccolo libro di 136 pagine che si lasciano leggere al pari di un’avventura ‘sci-fi’ ma che invece corrisponde al vero. Purtroppo! e/o fortunatamente, sta a voi deciderlo.

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- Letteratura

’Milano città narrata, Milano città sognata’

MILANO CITTÀ NARRATA, MILANO CITTA SOGNATA

 

Non sono milanese ma a Milano mi sono recato spesso anche e non proprio solo di passaggio. In città ho soggiornato più volte per lavoro, nei miei andirivieni e per un’infinità di altre ragioni. Ancora a Milano ho maturato alcune importanti amicizie durevoli nel tempo, ho ottenuto testimonianze di rispetto e di gratificazione. Insomma: ‘in quanto romano mi sono fatto valere e infine sono stato amichevolmente accettato’. Fatto questo che credevo impossibile fino a quando, a distanza di tempo l'amicizia mi è stata confermata da un sano rispetto da parte di chi del ‘rispetto per gli altri’ ha fatto una filosofia di vita. Se pur ciò possa sembrare poco per amare una città diversa da quella d’origine, dico che è essenziale per entrare nella realtà di una città fatta di gente operosa, cordiale e conviviale che solitamente ‘premia’ chi sa farsi valere. Perché il ‘milanese’ più di altri tende a valorizzare la creatività in fatto di arte, di moda, di musica e di costume e, all’occorrenza, di un certo modo di divertirsi, non avulso dal mantenere un certo ‘quid’ aristocratico che corrisponde a un sano 'volere' operoso, in quanto permette una certa disponibilità d'incontro corrispondente senz'altro a un 'valore aggiunto' che mantiene il suo peso sociale.

In quanto ai miei ricordi della città vanno indubbiamente a ritroso, agli anni della ‘Milano da Bere’ (’80/’90) che sono e restano un punto fermo nella storia di questa città a volte uggiosa e malinconica, afosa e torrida quanto fredda e nebbiosa nelle stagioni mediane, ma anche luminosa e accogliente nelle stagioni intermedie in cui si preferisce spostarsi in bicicletta o in tram, passeggiare nei parchi e godere dell’aria aperta. A quando la sera, si andava tutti ai Navigli, quel sistema di canali irrigui e navigabili che formano il baricentro di un triangolo delimitato dal Naviglio Grande e dal Naviglio Pavese che ha come vertice la darsena di Ripa Porta Ticinese e copre una buona parte del quadrante della città. Ad accogliere il nottambulo c'erano allora le Vecchie Osterie oggi Loungebar, i Folk Club oggi Village-café, i ristoranti e le paninoteche, le fiere e i mercatini dove incontrarsi, scambiare idee, ascoltare musica, narrare storie e tantissimo altro. Tuttavia ‘altro’ sta anche per qualcosa che c’era e che non c’è più, che continua a vivere nei ricordi di quanti, scrittori, poeti, cultori della metropoli meneghina, hanno ‘narrato’ nel tempo, e in cui Milano continua ad essere ‘viva’, grandiosa come solo una vera capitale mitteleuropea dev’essere, ricca di fascino, lussuosa e indefinibile, quasi sfuggente ma, solo perché la sua nebbia azzurrina che in questa stagione l’avvolge, la nasconde agli occhi di chi non la conosce. Non sfugge però ai milanesi doc, i quali, sanno dove cercarla e, soprattutto, dove trovarla: dai Navigli a Porta Ticinese, a Brera nel ‘quartiere latino’, a Sant’Ambrogio, alla Scala, alla Galleria, al Castello Sforzesco, fino alla tanto decantata Porta Romana.

Sì, lo so, si sente che non sono milanese, per l’aver messo giù a caso nomi di luoghi che detti così sembrano non dire niente mentre, invece, appena soltanto evocati, sono in grado di suscitare innumerevoli memorie, reminiscenze, rappresentazioni di momenti storici importantissimi, che riguardano non solo l’aspetto urbanistico in sé, bensì artistico, in quanto a Milano l’attività del teatro impegnato e dello spettacolo più in generale continua a proliferare. Certo i miei ricordi più vivi sono datati, prendono spunto da ‘Via Broletto’ di Milly, le ‘Scarpe da tennis’ di Jannacci, I Gufi con Roberto Brivio, Giagni Magni, Lino Patruno, Nanni Svampa; e poi Dario Fo e Franca Rame, Cochi e Renato, Gaspare e Zuzzurro, Franca Valeri, Piero l’Italiano, Ivan della Mea, fino alla ‘Via Gluck’ di Celentano, agli amici Cerutti Gino e Riccardo (quello del biliardo) che ho diviso con Gaber e tanti altri. Per non dire poi degli allestimenti teatrali del Manzoni, dell’Elfo, del Piccolo, della Scala, ma anche del Carcano, del Niguarda, dell’Arcimboldi, insomma della Milano dei grandi registi come Strehler e Ronconi, fino alle Compagnie amatoriali come quella di Piero Mazzarella, Paolo Rossi, Claudio Bisio (Zelig), e non in ultimi gli spettacoli d'intrattenimento popolare di Felice Musazzi e di quella straordinaria compagine che ha nome I Legnanesi.

Anche qui la mescolanza è voluta, per mettere assieme il vecchio e il nuovo, per sottolineare la ‘vitalità’ di questa città dove tutto è possibile ‘nel bene e nel male’, nella realtà di cui si vuole essere partecipi, in quanto personaggi del jet-set oppure semplici amatori di conoscenza, dal Castello Sforzesco a Leonardo da Vinci; da Brera alle Mostre d’Arte Contemporanea; dalle grandi manifestazioni come la Fiera Campionaria di Milano (dal 1881), alla prossima ‘Expo’ del 2015, e delle quali è possibile scegliere se essere semplici visitatori o protagonisti tout-court. A Milano tutto è lasciato all’impulso creativo, dal manifatturiero al visionario la città accoglie, per dirlo con uno slogan, 'di tutto di più', purché abbia un che di innovativo e un progetto fattuale. Il resto è pressoché testimoniato dal tempo ‘passato e presente’ che ha permesso e permette a Milano di riscoprirla ogni volta diversa e di viverla ‘tutta d’un sorso’ e ubriacarsene fino a superare il gusto narrativo e a sognarla, un po’ come si fa e si dovrebbe fare più spesso con le cose della vita.

Ma non voglio inventarmi nient’altro nell'onorare questa città che pure mi ha dato tanto, per voler dire che non c’è altro da inventarsi ancora, basta avvalersi di un guida di ieri e di una di oggi per apprezzarla nella sua essenza cittadina, del presente come del suo passato. Allora accaparrarsi uno straordinario ‘vademecum’ dal titolo accattivante come “Milano città narrata” curata da Angelo Gaccione per le Edizioni Meravigli, può essere un modo, una curiosità in più. Titolo al quale ho sentito di aggiungere un co-titolo “Milano città sognata” perché, e forse qui mi ripeto, ognuno può ‘far propria’ (nell’accezione più ampia di ‘adottare’) la città, così come sognarla o addirittura inventarsela a proprio modo, a proprio uso e consumo, o anche lasciarsi adottare da questa Milano che stende il suo abbraccio universale mentre si prepara all’Expo 2015, e che si aspetta la visita di tutti noi. In primis di noi Italiani che, nel sostenere questo grande avvenimento, sosteniamo l’Italia che vuole risalire la china e si torni a farla ‘vivere’ agli occhi dell’Europa e del Mondo. Pertanto auspico che tutte le città di questa nostra bistrattata Italia abbandonino vecchie diatribe campanilistiche e regionalistiche e si vestano a festa per quella che dovrà essere l’Expo di tutti i popoli, e dico ‘grazie’ fin d’ora a quanti si prodigheranno al suo successo.

Se è vero, come apprendo dalle note di frontespizio del 'vademecum' appena presentato che: “ognuno di noi possiede una mappa ideale del proprio quartiere che lo lega e lo rassicura: è affezionato a un palazzo, a un albero, a un fregio, a un portale, a un’atmosfera che lo seduce, a una tonalità, a quell’humus che lo riconcilia con le cose e con gli uomini e che abolisce qualunque ostilità”, allora il libro curato da Angelo Gaccione, forma una ‘mappa ideale’ per conoscere una certa Milano, ‘tra poesia e bellezza’, impressa in una serie di bellissimi interventi realizzati da alcune delle personalità più in vista della vita culturale ‘meneghina’ che raccontano il loro particolare rapporto con alcuni luoghi della città, diventa non solo utile, bensì: “Un libro utilissimo per viaggiatori curiosi, turisti sognatori e milanesi ignari. Ma anche, e soprattutto, un atto d’amore verso la metropoli meneghina. Da leggere, regalarsi e regalare

Singolare per i non milanesi è l’appellativo di ‘meneghino’ rivolto a tutto ciò che riguarda la vita familiare milanese, soprattutto con riferimento agli aspetti più tradizionali della città, per cui è meneghino l’abitante della città, il dialetto milanese, la laboriosità e un certo modo di essere, al quale ho fatto riferimento precedentemente. E ‘meneghino’ di elezione è certamente Angelo Gaccione, nativo di Cosenza, poeta e musicista, scrittore e teatrante che alla città ha dedicato alcuni importanti libri di narrativa e poesia: “Milano, la città e la memoria”, “La città narrata” (apparso in diverse edizioni), “Poeti per Milano” e “Milano in versi”, e che da tempo vive e lavora a Milano dove dirige il giornale di cultura “Odissea” a cui collaborano prestigiose firme della cultura italiana e internazionale. Notevole è però il suo impegno civile espresso anche attraverso un’ampia produzione saggistica. Fra i suoi libri è di recente pubblicazione il volume “Ostaggi a Teatro” che raccoglie i suoi testi teatrali dal 1985 al 2007. Di particolare interesse per noi de larecherche.it è la sua produzione poetica che ho il piacere di ospitare in questo articolo:

 

Stamattina mi vestirò di bianco.

 

Stamattina mi vestirò di bianco

calcherò il cappello di traverso ed uscirò sulla via.

Saluterò tutti i passanti

e alla fanciulla che mi offrirà un sorriso

regalerò una rosa.

Mi imporrò di essere allegro e mi metterò a cantare:

non darò retta all’arrogante e, per una volta,

il pirata della strada non maledirò.

Del governo non mi darò cura -ma solo per oggi-

perché stamattina vorrò essere lieto e

come un uccello farmi leggero

essere sole nel sole

dimenticare il tempo che ci inquieta,

il male che ci attende

. . . ad ogni varco.

(Milano, 10-13 settembre 2011)

 

Passeggiare in un chiostro.

 

Passeggiare in un chiostro in pieno Agosto

in una città non mia trovarsi dentro un altro tempo

con le campane in festa a battere in pieno mezzogiorno.

E il pozzo al centro della stella

a comporre la divina proporzione

e sotto aldilà oltre le mura il respiro del mare sempre uguale.

Poi il silenzio denso come una vita che si ferma

raccolta dentro un quadrato di cielo

e il mio occhio che accoglie in un abbraccio

colonne archi capitelli e vele e logge e campanile e fregi

ed io che divento parte dell’insieme.

(Fano, agosto 2011)

 

L’albero a Porta Romana.

 

“Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio?

Solamente a pensarci soffoco” (Italo Svevo, La coscienza di Zeno)

 

C’ è un albero nel mio cortile i cui rami abbracciano la mia finestra

e gli uccelli vengono guardinghi a spiarmi mentre scrivo.

Se fossero meno timidi aprirei le imposte e direi loro: “Entrate” .

Di questi tempi gli uomini mi sono divenuti insopportabili;

così ostili che niente mi è più caro di un albero

e di uno stormo di uccelli sopravvissuti in città.

Il palazzo di fronte mi copre il cielo

e il sole lo posso vedere solo riflesso dai vetri.

Così gli uomini costruiscono prigioni senza avvedersene,

e ne sono contenti.

Eppure sono sempre partito dall’uomo

e nulla mi ha più interessato quanto il suo cuore.

Ora, seppure non vecchio torno ai rami e agli uccelli e quasi ne provo dolore.

(Da: ‘Poeti per Milano -una città in versi’- Viennepierre1999)

 

(Liriche pubblicate per gentile concessione di Angelo Gaccione).

 

Nota d’autore: da non mancare una visita alla storica ‘benemerita civica’ Libreria Meravigli, in via Torino a Cernusco sul Naviglio: info@meravigliedizioni.it, una vera ‘chicca’ per gli amanti della città, dove andare alla ricerca delle tante ‘curiosità’ letterarie e non solo della Milano di oggi e di ieri: ‘Una città che non si dimentica e non si lascia dimenticare’.

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- Società

’LE CONSEGUENZE DI FRANCESCO’ - Incontro a Roma

"Le conseguenze di Francesco"

La Fandango Incontro (Palazzo Incontro, Via dei Prefetti, 22)presenta "Le conseguenze di Francesco" - terzo numero 2014 di Limes la rivista italiana di geopolitica, dedicato al primo anno di pontificato di papa Jorge Mario Bergoglio, e che sarà in edicola già da mercoledì 12 marzo e quindi in libreria e su iPad con la copertina di Laura Canali.
All’iniziativa, organizzata dal Progetto ABC della Regione Lazio e dal Limes Club di Roma, prenderanno parte Lucio Caracciolo, Direttore di Limes, Gianni Valente, giornalista di “Vatican Insider” e scrittore, Dario Fabbri, giornalista esperto di questioni americane e mediorientali e Flavio Alivernini, coordinatore del Limes Club Roma.
“Le conseguenze di Francesco”, traccia un articolato bilancio del primo anno di pontificato di papa Bergoglio: l'agenda di politica estera, la centralità dell'America Latina, la visione evangelica, i cambiamenti all'interno della curia, il terremoto nell'opaco mondo delle finanze vaticane, i rapporti con le altre Chiese, la trasposizione “romana” dei riferimenti teologici latinoamericani.
Tematiche dell’incontro:
‘Il papa da Baires a Santa Marta’, descrive il profondo impatto di questo papato sulla geografia politico-istituzionale e sugli assetti di potere del Vaticano.
‘Le radici di Bergoglio’, indaga i riferimenti teologico-dottrinali di questo papa e il suo stile comunicativo.
‘Francesco nel mondo’, analizza i tratti salienti dell'azione internazionale di Francesco.






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- Musica

Recuerdo ... di Paco de Lucia

Recuerdo / Ricordo … di Paco de Lucia

 

“… y en la guitarra, resonante y trémula, la brusca mano, al golpear, fingìa el reposar de un ataùd en tierra …”

 

“... e nella chitarra, risonante e tremula, la brusca mano, al battere, fingeva il riposare di una barra in terra ...”

 

Così Antonio Machado esprime la profonda drammaticità che la chitarra flamenca comunica, onde il ‘tocaor de guitarra’, al pari di un asceta, sgrava il suo intimo dal peso dell’esistenza per presentarsi puro al cospetto di quel fantasma divino e insieme diafano che posto di fronte al musicista, per un ennesimo incontro col destino, fino al raggiungimento di quell’ ‘assoluto incontestabile’ ch’è racchiuso nella musica e che solo a pochi ‘eletti’ è dato di raggiungere. Relativamente pochi sono infatti i nomi che sono saliti alla ribalta della fama fuori della Spagna, luogo di adozione dello strumento din dalle invasioni arabe sul continente e non è questo lo spazio per ricordarli tutti. Ma è a Paco de Lucia che va la palma della internazionalizzazione della chitarra flamenca e del modo peculiare di suonarla. Le sue interpretazioni e rivisitazioni di classici hanno aperto le porte della new-age e l’hanno fatta apprezzare in questo nostro tempo relativamente giovane. Con le sue apparizioni al fianco di artisti di fama mondiale Paco de Lucia ha permesso il confronto comparativo tra due mondi distanti nel tempo e nella sostanza, fra due modi di concepire la musica che fino allora sembravano incompatibili e che invece, con il suo virtuosismo, ha permesso di affermarsi in un unico abbraccio stratosferico.

 

Tratto da "Musica Zingara": testimonianze etniche della cultura europea. A cura di Giorgio Mancinelli - MEF - Firenze Atheneum 2006 - premio Letterario 'L'Autore' per la Saggistica.

 

 

 

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- Poesia

Che cosa stai aspettando! 2

‘Che cosa stai aspettando!' 2, scrivi e pubblica, qualcuno prima o poi ti noterà, si accorgerà di te, che esisti, che respiri, che hai qualcosa da dire!

 

Navigando sulle acque sempre più affollate del WEB finisco spesso col perdermi in un mare di schede, portali nascosti che prima non c’erano, trabocchetti grandi come oblò o forse come fondali melmosi dai quali non riesco più ad uscire, finestre che si aprono improvvise dove s’affaccia qualcuno che chiama: Scrittore! Poeta! Dice a me? Sì, proprio a te! Sei già entrato in Facebook … e in Twitter … e in LikedIn? … Sì! Se non l’hai notato ti stanno cercando! A me? Certo, chi altro? Hai scritto un romanzo, racconti brevi, fiabe, hai raccolto le tue poesie in un e-book, vuoi pubblicare la tua tesi? Presto fatto, le offerte si sprecano, numerosissime, tutte fatalisticamente in attesa della tua penna, divenuta strepitosamente importante, e scommetto non te ne sei accorto? Accorto di che? Che sei uno scrittore importante, già ‘famoso’ ancor prima di inviare il tuo manoscritto. Da quando? Da oggi, beh no, magari facciamo da domani, dopo aver scelto tra i numerosi servizi che vengono offerti on-line, quello che più scopri adatto alle tue tasche. Si chiamano ‘on demand’, ‘self-publishing’ ecc. e rappresentano qualcosa di nuovo per il nostro mercato librario, polveroso e stantio, pieno di titoli riciclati di nomi altisonanti, e che invece s’avvia ad essere più immediato, leggi ‘cotto e mangiato’, senza passare per le lungaggini e le trafile degli EDITORI famosi, invecchiati insieme alle loro collane. Nulla di così veramente nuovo, all’estero lo si pratica il ‘self-publishing’ da almeno dieci anni e molti libri pubblicati con questa forma di editing sono poi entrati nella grande distribuzione. I casi sono migliaia e se ne enumerano di famosi. Tu, quindi, che cosa stai aspettando? Il salto che aspetti di fare da tempo, è a portata di ‘click’. Presto fatto, invia il tuo romanzo, il tuo e-book, la tua tesi, il tuo diario, la tua raccolta di poesie e fatti conoscere. Sei il benvenuto! E presto riscoprirai te stesso. C’è un poeta in te, un maniaco dell’horror, o forse un romanziere di successo, chi può dirlo? La cosa più immediata da fare è di mettersi alla prova. Quindi apri i tuoi cassetti segreti e pubblica, o almeno partecipa a uno dei tanti concorsi proposti da Concorsiletterari.net, col il piacere di farti un regalo che se arriva sarà davvero grande perché inaspettato. Ma fai attenzione, non lasciarti prendere la mano dall’avidità di un guadagno immediato, quelli ‘gratuiti’ sono forse quelli che danno maggiore soddisfazione. E se hai davvero la stoffa, qualcuno ti noterà, anche i muri dei ‘portali network’ hanno le orecchie. Ma forse dovrei dire hanno gli occhi per leggere. Poiché scrivo questa sorta di articoli per la rivista letteraria on-line intitolata a La Recherche di Marcel Proust, che inoltre consta di una sezione davvero molto interessante dedicata alla ‘poesia’, visitata da migliaia di giovani autori che si cimentano in quella che personalmente ritengo sia la ‘forma’ letteraria più stimolante della narrativa italiana; specialmente se letta con interesse guardando alle molte discipline linguistiche-socio-culturali-psichico-filosofiche che in essa si intrecciano a dar forma a un caleidoscopio immenso di prerogative. Da ciò il prevalere del mio interesse verso la poesia, forse anche perché io stesso oso cimentarmi con sostenuto piacere, al punto che qualche tempo addietro ho lanciato una sorta di indagine sul significato della poesia, proprio sulle pagine de larecherche.it con l’intento di indagare sul significato della poesia oggi.

Quello che segue è il resoconto dell’indagine. In verità non in moltissimi hanno espresso la propria opinione in proposito, né si sono gettati a capofitto nel rispondere, accettando un ‘colloquio’ fattivo che forse non era nelle cose, poiché, devo ammetterlo, il ‘contest’ non poneva domande specifiche. Bensì prendeva a pretesto una pubblicità apparsa sulla prima pagina del ‘Corriere della Sera’ riferita al lancio di una Collana di Libri di Poesia di autori celebri: "La poesia non cerca seguaci, cerca amanti" con il quale ricavato Alessandro Gasman sosteneva la campagna in favore di Amnesty International. Ma perché proprio la poesia per uno spot pubblicitario - mi sono chiesto, ma poi ammisi a me stesso che trovavo il messaggio davvero accattivante. Dunque lanciai l’appello “Voi che ne pensate? Vi sentite più seguaci o amanti?” Inviate i vostri commenti sul sito. Detto così, seguendo d’impulso di ciò che intendevo argomentare:

 

Cos'è la poesia tutti noi lo sappiamo: parola, verso, musica, canto, danza, bellezza, ecc. tuttavia volendo speculare sul significato intrinseco sul 'fare poesia', mi sento di assecondarla nel 'fare violenza', verbale s'intende, (ma non solo), poiché in fondo è questo che la rende 'viva' o quanto meno 'sentita', come dire, maggiormente 'vissuta', straordinariamente 'oltre' il senso della parola, così come va oltre il verso che la contiene, la musica che la diffonde, il canto e la danza che le danno forma, fino a raggiungere (quando la raggiunge) quella 'bellezza' che la rende sublime. Le risposte qui di seguito riportate, sono comunque molto interessanti per quanti scrivono o si occupano di poesia, e rivolgo questo appello soprattutto agli Editori che, a parer mio, dovrebbero attivarsi in tal senso con convegni, meeting e seminari sui diversi argomenti offerti dalla ‘poesia’ tout-court.

 

Lorenzo Mullon

Per me la poesia, per come la vivo, è una tecnica per avvicinarsi alla realtà così tanto da poter saltare dall’altra parte. Avevo scritto un aforisma su questo, è esattamente quello che sento. Credo che noi tutti (quasi tutti, insomma...) la poesia non la sappiamo utilizzare pienamente, rimaniamo troppo spesso all’involucro delle parole, all’aspetto intellettuale. C’è qualcosa che non riesce a realizzarsi, e si riflette negativamente nelle nostre vite concrete. Un parto che non avviene, un parto senza partenza. Restiamo dalla parte meno interessante della scrivania. Da qui una certa noia, di cui parlano molti poeti, che mi sembra davvero incomprensibile, se non in questo inceppo esistenziale. Gravissima la perdita della tradizione orale, aver staccato la parola dal corpo è un crimine forse non del tutto inconsapevole. Ahhh, il progresso...

 

Loredana Savelli

Indubbiamente più seguace, non credo di essere scelta come amante (troppa concorrenza! Tuttavia, se definiamo bene il termine "violenza", penso di essere d’accordo. Infatti la poesia di per sé, è inutile se provoca, invece, può avere una sua "utilità" nello scardinare certi vizi della parola stessa e ancora di più dei comportamenti. Però per "provocare" non è necessario essere "violenti", si provoca di più col silenzio, o con un suono sommesso che non appartiene al nostro mondo. Dipende. A volte uno strillo ben assestato è efficace. A volte basta uno sguardo, a volte una stretta di mano, a volte una battuta, a volte un delirio. Certo, io sono tra quelli che sostengono l’inutilità della poesia e dell’arte in genere. Che senso ha il movimento isterico di un contrabbassista in un assolo di jazz? Eppure poi tutto ti sembra più accettabile, più "semplice" (ho delirato?).

 

Chiarissima Loredana, mi scuso per aver atteso a rispondere, perché ho aspettato di sentire qualche altra voce del coro, pure chiamata all’appello, e non è la prima volta che lo faccio, che invece è rimasto disatteso. Se hai notato in quasi tutti i miei articoli o saggi c’è sempre una richiesta di collaborazione che ritengo utile non solo per noi frequentatori di poesia, volendo così rendere viva la rivista a cui collaboriamo. Ma è del tutto inutile, alla fin fine siamo i ‘soliti quattro amici al bar’ che rispondono, anzi se di privilegio si può parlare, puoi dire di essere la prima e la sola privilegiata a voler ‘comunicare’, grazie. Talvolta temo che le mie tematiche, sempre provocatorie, spaventino, oppure che siamo tutti così presi dal ‘leggerci addosso’ che non impostiamo queste pagine come un richiamo, come uno scambio di pensiero collettivo, e me ne dolgo. Comunque tengo a dire la mia supposizione di ‘violenza’ viene proprio da questo ‘forzare la situazione’ di quella ‘realtà’ che in qualche modo ci sfugge e che vorremmo far nostra, o che forse vorremmo ‘sfuggire’ al pari di una ‘fuga dalla realtà’ che non ci piace, o che non ci soddisfa. In questi lunghi anni che mi dedico allo studio della ‘psicologia del profondo’ credo di aver fatto delle scoperte sull’umano sentire che mi hanno lasciato interdetto. Per farti un esempio riporto qui un brano di un filosofo francese ancora poco studiato che si chiama Georges Bataille: “Tutte le scappatoie sono benvenute per allontanare l’immagine eroica (che costruiamo di noi stessi) e seducente della nostra sorte: non c’è più posto in un mondo dove il bisogno di essere fa difetto, se non per l’immagine senza attrattiva di essere utile. Ma se questa mancanza di bisogno è ciò che di peggio può capitare, essa è tuttavia sentita come una beatitudine. Il male appare soltanto se la persistenza dell’ ‘amor fati’ rende estranei al mondo presente”. Ti assicuro che c’è molto, ed è tantissimo di più. Ma questo per dirti ben venga chiunque sente il bisogno di comunicare. Se non altro significa che siamo vivi!

 

Domenico Morana

Forse attendersi qui che un "coro" risponda a un appello è già autopunirsi arresi alla delusione, considerato che chi si vota a contribuire con i propri scritti a questa bellissima avventura che è LaRecherche, lo fa proprio perché si sente voce "fuori dal coro". Questo mi sembra, se non mi sbaglio, al di là di maggiori o minori consapevolezze o di "scelte" di "poetica", lo spirito che anima pressoché tutti gli autori che pubblicano qui. Anche il "leggersi addosso" non credo sia vizio comunemente diffuso, a giudicare dal fatto che, commenti o non commenti, partecipazione a forum e discussioni o confronti o altro (abbiamo assistito, per la verità raramente, anche a vere e proprie gazzarre), la vita della rivista scorre sana, come è normale se vuole essere duratura: tra alti e bassi, tra accensioni "corali" e periodi in cui è l’andamento "sottotono" - sottotraccia direi piuttosto - a dominare, in cui si zittisce la voglia o la capacità di "confronto", quasi ciclicamente. E la corrispondenza quasi perfetta col susseguirsi di feste sacre e profane, il volgere delle stagioni o il richiamo a pubbliche o personali cronache negli idioletti multicolori che virano d’età in età, di sesso in sesso, dalla morte al mattino, dal grigio allo scarlatto sangue al nero più fondo, al verde, ad accensioni azzurre, non fa che parlarci di terrestrità, d’umanità che vuol esser letta mentre e perché scrive la propria vita o vive la propria scrittura. E, in breve, sempre di tensione all’altro si tratta, in muto o parlante desiderio, di uscita dalle prigioni del sé, a patto di tornarci nel momento in cui s’intende scrivere/descrivere il doppio movimento dell’impossibile fuga... E intendi che alludo proprio al poeta Bataille (guarda caso un filosofo rinnegato) e al suo "impossibile". Era in nome suo proprio la mia "Battaglia", pubblicata giorni addietro, il cui titolo aveva incuriosito il carissimo Nando per "affinità semantiche". Che dire, d’altro? Mi ripeto, o meglio ripeto quanto, prima e meglio detto da altri: non si fa letteratura con la letteratura, non si fa vita con la vita. Stiamo qui, tutti, mettendoci in gioco, tutti con generosità e talvolta rischiando (il senso d’incomprensione, la frustrazione, l’indifferenza, il dolore, la felicità, ecc.). Ti dico che io non so cosa è la poesia. Come non so cos’è la mia vita. Vedo solo che s’intrecciano e l’una attinge forza dall’altra, trova senso, vive e muore nell’altra, e viceversa. Altro non so. Mi sembra d’essere perfettamente d’accordo con te. Per il resto trovo le idee e le argomentazioni che le sostengono tutte estremamente convincenti. Soggiaccio sempre alla forza delle idee, specie quando vengono presentate in modo brillante. Sarà per una certa loro virtù d’attrazione magnetica. Ma mi resta sempre un fondo di sospetto, forse sono solo interessato a uscir fuori da me stesso piuttosto che rientrarci o forse sono solo una testa di legno. Pensavi a qualcuno in particolare, speravi che fosse proprio quel qualcuno a rispondere all’appello? È in gioco quella meraviglia che s’impossessa di noi quando vediamo come la nostra opinione sugli esseri che ci toccano da vicino possa modificarsi senza posa? Definiamo questo: metterci in gioco. Ma per gli altri, ci contentiamo di giudicarli alla grossa, e una volta per tutte. Come capita di fare nelle chiacchierate tra quattro amici al bar... Non è che forse non si trattava di dare un diverso taglio, meno "tecnico", alla tua "provocazione"? Magari puntando più direttamente al perché, diverso certo per ognuno di noi, di stare qui su LaRecherche? Forse non sarebbe stato disertato il tuo appello, o forse ugualmente. Ma gli splendori e le miserie di chi si vuole ‘indimenticabile’ saranno il solito affare dei biografi. Più che evocare Proust faremmo meglio a sperare in un nuovo Balzac, capace di rimpolpare di poesia gli esangui ectoplasmi delle nostre virtuali commedie umane. Con simpatia e affetto.

 

Lorena Turri

"Il mio sguardo si stupisce, si inchina, il mio cuore chiude tutti i suoi cancelli, per meditare di nascosto sul miracolo. Sei tanto bella." La frase è di Garcia Lorca che ha scritto inoltre: "Ah che fatica mi costa, amarti come ti amo!" Ecco, la poesia questo vuole: non essere seguita, come si segue una bella donna (o un uomo) invaghiti dalla scia del suo profumo, ma l’amore, quello faticoso degli amanti, disposti ad affrontare ogni ostacolo in nome del sentimento che li lega. Amanti nel senso "latino" della parola, guidati da un trasporto quasi involontario, da un ardore e una passione travolgente impensata, un sentimento più istintivo che razionale. Così, non basta sostenere un progetto e condividerne gli intenti,seguirlo, magari solo a distanza, ma occorre quella passione veemente che spinge all’azione, che è l’unico modo per giungere alla realizzazione effettiva. Personalmente dirmi amante della poesia potrebbe sembrare presuntuoso, ma, nel mio piccolo, mi sento tale solo per il fatto che scrivo guidata da una passione che ancora non ho ben capito da dove sgorghi e con grande fatica. Se fossi seguace, l’apprezzerei e la scriverei senza troppi tormenti interiori, come chi elabora o appoggia un progetto ma lascia poi faticare gli altri. Sono anch’io convinta del potere verbale della poesia, del suo "agire con forza", dunque della sua "violenza". Perchè poesia non è incanto, ma parola che smuove e scuote. Emily Dickinson diceva che era Poesia quando, leggendola, le scappellava la testa, e non credo si riferisse propriamente alla sua cuffietta.

 

Loredana Savelli a Lorena Turri.

Bella risposta! Chi non vorrebbe vivere una passione nei termini in cui l’hai descritta? Io sottoscriverei immediatamente. Ma, data la rarità del dono (poetico), ribalterei la questione: "Chi la poesia sceglie come amante e chi come seguace"? Scusate il pessimismo, direi che ben pochi sarebbero i prescelti, perciò io personalmente mi accontento di essere un segugio (più che un seguace), in questo esercitando un’insospettabile fedeltà.

 

Lorena Turri a Loredana Savelli.

Se la poesia cerca amanti, amanti dobbiamo farci trovare! E non sappiamo neppure se sceglie o prende tutti gli amanti che trova...Non defilarti a prescindere! Noi tutti che scriviamo poesia abbiamo ricevuto un dono. Anche il più piccolo ha un grande valore. E’ un atto di umiltà riconoscerlo. Rammenta il proverbio: a caval donato è il dentista disoccupato! Non so se ho reso l’idea!

 

Leonora Lusin

Definire è operazione antipoetica all’estremo e la violenza si addice, anzi è la natura della filosofia. Io mi sentirei forse di parlare degli effetti della poesia oppure di andare a spiarne concepimento, gestazione e nascita sulle orme di Diotima. Può interessare?

 

Rispondo volentieri al tuo commento Leonora, perché ritengo che ogni apporto è senz’altro utile per me, nel trovare quel ’filo’ che inseguo da tempo riguardo alla possibilità della poesia di essere in qualche modo ’aggressiva’ (per stemperare un poco quel ’violenza’ che pure ho usato interrogativamente). In realtà lo intendevo più nel senso di Horderlin che in quello di Diotima. Ma ben venga ogni possibile interpretazione, perché solo in questo modo potrò avere una gamma maggiore di ’concetti’ su cui muovermi e (forse) risolvermi nell’intricato labirinto in cui mi muovo (ahimè ancora al buio). Grazie per esserti proposta di interloquire con me su questo argomento.

 

Nando

Grazie, Giorgio, per averci proposto questo tema; e buon Natale! Forse non è la Poesia a cercare amanti, ma gli amanti a cercare la Poesia; in fondo, si cerca solo ciò di cui avvertiamo la mancanza e il bisogno, e noi abbiamo bisogno anche di quella bellezza che si dà in poesia. E in ciò, non vedo una distinzione tra autori e lettori, in questo la Poesia è un’amante "trasversale", e perciò non vuole seguaci... Cosimina Viscido Solo la Poesia ha occhi per la Poesia ovvero "La Poesia cerca Poesia, negli amanti e nei seguaci"...e non solo.

 

Un’altra occasione mi è stata offerta invece un pomeriggio domenicale (senza tè e biscottini) in occasione della presentazione alla Libreria Odradek, Via dei Banchi Vecchi, 57 Roma, in occasione della presentazione del “quaderno di poesia” edito da Edizioni L’Arca Felice di Salerno, di “Quanti di Poesia”, un’interessante quanto innovativa raccolta poetica dell’eclettico Roberto Maggiani.

Tra l'altro è stato detto: (sunto)

Non c’è ragione di prendersela necessariamente con qualcuno se oggi le cose vanno come vanno, se la poesia propriamente detta, dopo anni che se ne discute, si è definitivamente trasformata nella sorella ancora più povera della Cenerentola delle fiabe, se non con noi stessi. Indubbiamente ci sono stati tempi migliori, ad esempio, quando i poeti e i fini dicitori erano chiamati a esibire le loro capacità oratorie ed a far sfoggio della loro cultura, negli auditorium e nelle ‘public readings’. Tuttavia nel confronto con l’oggi, convengo che l’invito di Roberto Maggiani a misurarci e coniugare le nuove tecnologie con la poesia scritta e le nuove opportunità che la scienza offre, onde cercare nuove fonti di ispirazione: “nelle forme la cifra nascosta di una scrittura straordinaria”, e non solo per il poeta versatile, ma all’uomo stesso, come osservatore del nostro tempo, di questa realtà (o fantastica irrealtà) che lo rende tale. E ha ragione lui, c’è spazio per tutto e per tutti, ancor più dobbiamo cavalcare il drago a più teste (internet, web, i-Pad, ecc.), che non basta più recidere, ma imparare a domare e ricondurlo alla nostra utilità. Un po’ come fa l’eroe di Avatar che riesce a addomesticare l’indomabile drago di fuoco, che gli permetterà infine di vincere sul male e a riportare la pace su Pandora.

Ottimale dunque la ragione che interpone Loredana Savelli agli altri poeti sulla leggibilità in chiave musicale della poesia, sulla aleatorietà del suono che si fa parola, e viceversa. Come pure ha affermato l’accompagnatore di Leopoldo Attolico, intervenuto nel dibattito che ha fatto seguito all’incontro, sull’impostazione di un richiamo/rimando (effetto eco) del verso, onde “il suono prende il posto del sentimento che si è voluto esprimere con la parola di rinvio, far ritorno come suono di parola recepita, avvalorato/a di sentimento, che anzi crea sentimento”. Un concetto questo che non va preso come un semplice gioco di parole, bensì si apre al cospetto della sensibilità di tutti coloro che esortano per un ritorno allo stato puro della parola, (come appunto hanno detto in molti), e che dovrebbe essere il tè forte della nuova riscossa poetica che da qualche parte si avverte. Del resto i connubi tra poesia e musica, tra musica e pittura, così come tra poesia e pittura (arte più in generale) non si contano più, lo hanno bene espresso con le loro opere poeti del calibro di Rimbaud, Baudelaire, Apollinaire, musicisti come Satie e Debussy, pittori come Monet, De Chirico, Picasso, solo per fare qualche nome eccellente.

Qualcuno ha portato ad esempio l’opera di Bach “Variazioni Goldberg” a parafrasare un certo variare della scena, della situazione, del momento della poesia come qualcosa di non statico, di non stabilizzato, e non a caso ha citato Glenn Gould un interprete eccezionale se vogliamo, quanto personalissimo, delle “variazioni” di cui ci ha fornito, pur nella sua breve vita, almeno due versioni per piano, straordinarie e impareggiabili. Due versioni che sono due opere distinte, quasi a rappresentare l’una quand’era ancora giovanissimo, l’idea primaria (di Bach); la seconda più vicina alla sua maturità concertistica (di Gould), incomparabili tra loro se non per l’eccesso di virtuosismo che le distingue e che, invito tutti voi ad ascoltare. In verità in quell’occasione sono state dette alcune cose sagge, per il resto si sono sentite invettive, sabotaggi, dismissioni del tipo: la poesia va letta così, interpretata così, dichiarata così ecc. senza ravvisarvi una qualche concretezza. Ma è davvero così che dobbiamo fare così, scrivere così, leggerla così? Così è se vi pare!, avrebbe risposto Pirandello, che della libertà espressiva ha fatto un baluardo ancora non espropriato dagli attacchi della contemporaneità.

Così rispondo io (un nessuno qualsiasi) a quanti hanno intenzione di inglobare la poesia all’interno di una categoria, non è oggetto da merchandising, né tantomeno da mercatino delle pulci, semmai è la pulce che può far crollare l’andamento mercatale della letteratura. E probabilmente sbaglia chi, come qualcuno ha detto, che la poesia non lo rappresenta e che forse voleva dire che non lo raffigura. Semmai è vero il contrario, a sua insaputa le parole della poesia parlano per lui e di lui più che se avesse scritto il romanzo della sua vita. Lo sa bene chi ha dimestichezza con lo scrivere e il fruire la produzione letteraria che la poesia è ancor più capace di svelare (e quindi rivelare) anfratti segreti della nostra psiche più che una confessione.

C’è stato anche chi ha fatto l’elogio di se stesso, ma è umano e glielo perdoniamo; ed anche chi ha fatto prevalere il proprio ego su quello che scrive, migliorando o peggiorando con la lettura di un proprio testo, quello che aveva precedentemente scritto, per cui l’inflessione della parola, il sottostare al suo peso, il rimarcare un’allocuzione, un aggettivazione, infine è risultata la somma di una investitura autocertificata. Insomma ai poeti piace (chi non lo ammette è semplicemente un ipocrita) indossare la casacca del poeta, declamare per sentire la propria voce, per sentirsi dire le proprie parole, per poi dire che non è quello che vuole o che cerca. Perché? Si domanda uno stupido come me, non riusciamo ad essere veri, vivi, sinceri neppure con noi stessi? Che cosa c’è di banale o di recriminatorio ad ammettere di essere chi si è, a fare le cose banali del quotidiano come chiunque altro, che pure è chiamato a testimoniare della propria esistenza su questa terra, in questa logora società, su questo sporco mondo in cui viviamo? Ve lo dico io: niente! Quindi smettiamola di fare i piagnoni o di prendercela con un ipotetico qualcuno che è causa della nostra alienazione, e impariamo, una volta per tutte a denunciare tutto quello che c’è di contrario ai nostri principi, coscienti che sono i nostri principi, che non sono necessariamente quelli degli altri e, soprattutto, che non sono universali. Chi qualche volta ha affrontato le delizie e le peripezie di un viaggio in altri continenti, ben sa che altre popolazioni, altre etnie, e quindi altri esseri umani la pensano esattamente all’opposto di noi, e non è detto che non siano nel giusto, che in qualche modo non abbiano ragione.

Ce lo ha insegnato Marco Polo e siamo comunque in gran ritardo sul ‘quindi’, che non possiamo mettere un punto fermo su nessuna delle cose del mondo in continua evoluzione, così come è stato ribadito da Roberto Maggiani sponsor e organizzatore dell’evento che ha visto l’intervento di un gran numero di persone, addetti ai lavori e avventori, che hanno decretato il successo che la sua raccolta meritava.Il volume "Quanti di Poesia" si attesta quindi come un ottimo veicolo promozionale "con la duplice finalità di promuovere sias le peculiarità (nascoste) del singolo autore, sia un discorso critico globale, perseguendo l'intento di tracciare un possibile 'nuovo' itinerario rappresentativo delle 'voci' più interessanti della poesia contemporanea.

 

Un encomio particolare va alle Edizioni L’Arca Felice di Salerno e alla direttrice editoriale Ida Borrasi per il suo impegno (non indifferente di questi tempi) a proporre e a divulgare la poesia contemporanea con la sua Collezione di arte-poesia intitolata ‘Coincidenze’, di grande pregio tipografico e stilistico per le scelte oculate ma anche rappresentative di gran parte del patrimonio poetico italiano.

 

Ma già altri Editori di un certo riguardo si affacciano nel mondo onirico e surreale della poesia scritta con ‘collane’ nella più vasta produzione letteraria che gli compete. Di più recente pubblicazione, sono le uscite dell’Editore Manni, presente a “Più Libri Più Liberi” spazio incontri Bibliolibreria Fiera di Roma tenutasi al Palazzo dei Congressi in Dicembre in occasione della quale l’Editore ha tra l’altro annunciato l’uscita del libro di Alda Merini “Il sigillo della poesia” - La vita e la scrittura.

 

'Punto a capo' Edit., a cura di Luca Benassi, Manuel Cohen, Salvatore Ritrovato, con l’intervento di autori e collaboratori, è presente sul mercato on-line con “Punto. Almanacco della Poesia Italiana” - n. 3/2013. Più di una rivista e non solo un annuario, punto mira ad osservare con occhio attento e curioso il panorama frastagliato della poesia italiana e non. Infatti, raccoglie le recensioni dei migliori libri di poesia, e ha raggiunto ormai una diffusione capillare in Italia e ben attestata a livello internazionale. Lo scopo non è soltanto quello di dare visibilità alle migliori pubblicazioni di poesia e si avverte da più parti la necessità di dare una visibilità maggiore e più autorevole alla miglior produzione editoriale del settore, che tenti di ovviare almeno a livello informativo alle carenze distributive; ma anche quella di analizzare con occhio imparziale il passato recente e le possibili direzioni di sviluppo. Il che, crediamo, giustifica con chiarezza lo straordinario contributo della sua esistenza. Quale base migliore per costruire anno per anno una biblioteca virtuale della poesia italiana? Le recensioni dei primi due anni - in totale oltre 150 - sono già disponibili e scaricabili sul sito; quelle del numero attuale, 3/2013, lo saranno a inizio 2014: puntoacapo editrice almanacco.wix.com/punto

 

Da non sottovalutare, il Concorso di Poesia promosso dal Forum di Poesia Contemporanea che, come ogni anno, si attiva nell’ambito delle cerimonie del Premio Lorenzo Montano, promosso dalla rivista “Anterem” in collaborazione con la Biblioteca Civica di Verona. Forum di poesia dal titolo significativo “Agorà” che si tiene negli spazi della Biblioteca Civica di Verona, via Cappello 43; nel corso dei quali la poesia incontra la filosofia, la musica, la psicoanalisi e l’arte. La finalità del Forum curato da Flavio Ermini e Ranieri Teti, è far emergere l’intima relazione che unisce la poesia e le complesse problematiche del nostro tempo. La manifestazione muove da un’identità poetica molto precisa, caratterizzata dalla posizione concettuale e dal percorso di conoscenza della rivista “Anterem” avente come intento di far amare a un numero sempre più vasto di lettori la grande poesia contemporanea. Con questa iniziativa “Anterem” vuole dare una visibilità critica sempre maggiore alle opere dei poeti vincitori, dei finalisti e dei segnalati per tutte le sezioni in cui il Premio Lorenzo Montano si articola: “Raccolta inedita”, “Opera edita”, “Una poesia inedita”, “Una prosa inedita”, “Poesie scelte”.

 

Novità librarie anche nella ‘collana ‘Perle di Poesia’ di Giuliano Ladolfi Editore – 2014, oltre il già segnalato “Quarantun Poesie” di Vladislav F. Chodasevič - a cura di Nilo Pucci, ecco le novità più recenti: “Legni” di Paolo Pistoletti che, “..nel comunicare sottili emozioni senza mai alzare retoricamente il volume del dettato poetico, mantenuto nel solco di un’essenzialità non tanto scabra (secondo l’ormai usurata formula montaliana) quanto sobria, talora incline a disinvolte trasgressioni dell’ortodossia sintattica in ossequio a una mimesi del sermo cotidianus (si veda l’insistito uso della congiunzione dichiarativa che in apertura di periodo). Per converso, lampeggiano qua e là scorci di stile medio-alto, scanditi da un ritmo prossimo al registro lirico e spesso destinati a siglare la chiusa di un testo con un’immagine icastica” (Marco Beck).

Fino alla recentissima “Il ciliegio dei baci rossi: Una storia poetica di luoghi e stagioni”, di Giuliana Rigamonti con la quale l’autrice si presenta al suo pubblico ormai numeroso dopo il successo della precedente “L’acino della notte” una storia poetica svolta per capitoli “..che si aggruma intorno ad esperienze vissute e conservate in quel «nido d’ombra» che è il cuore, che solo più tardi riesce a restituirle in parole, a tradurle in colori che pure sono eco di quell’ombra, che pure sanno conservare la loro intensità intatta, senza perdere la forza e il calore con cui sono stati vissuti, pronti a disporsi nuovamente nel ritmo dei luoghi e delle stagioni; luoghi che solo una volta si incontrano, oppure luoghi che si ritrovano anno dopo anno, sono appuntamenti dell’anima, piuttosto che il rosario di giorni della vita quotidiana” (Laura Novati).

 

Giunti al dunque, non vi manca che darvi da fare e presentare le vostre raccolte a questi Editori che ,in un modo o nell’altro, prima o dopo vi risponderanno. E chissà che non sia la volta buona. L’importante è che continuiate a scrivere e a pubblicare amorevolmente e con la gioia nel cuore su larecherche.it.

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- Musica

’LUCIO DALLA - il Barbone e il Poeta.

LUCIO DALLA: il 'Barbone' e il 'poeta'.. Nasce, musicalmente parlando, tra le fila del Jazz per poi diventare arrangiatore melodico, cantautore sofisticato, paroliere impegnato nel sociale, amico sincero e compagno insostituibile di Tour con Francesco De Gregori, Gianni Morandi ed altri. E' stato inoltre personaggio di punta della TV, messo costantemente in onda dalle Radio, regista di spettacoli teatrali e di musical ma, e soprattutto, scrittore di testi poetici colti e raffinati. Perché infine è questo che va straordinariamente affermato parlando di Lucio Dalla, la sua grande capacità di comunicatore attraverso la parola scritta e messa in musica. Se ci fosse un ‘Oscar’ dedicato alla ‘poesia sociale’ questo lo si dovrebbe attribuire a Lucio, per la sua capacità di affrontare temi insoliti anche bruschi dell’esistenza umana, per aver riversato nella canzone quell’amore che anche altri hanno certamente cantato, soprattutto rivolto a singole persone o a fatti casuali, ma al quale solo Lucio ha saputo dare un afflato ‘universale’. Le ragioni di questa attribuzione/riconoscimento sono indubbiamente molteplici e vengono di lontano, almeno dal 1970 quando, assiduo frequentatore delle sale di registrazione della RCA Italiana a Roma ebbi l’occasione di incontrare e intervistare Lucio Dalla, un piccolo uomo barbuto dai modi un po’ rudi che ben presto sarebbe diventato un ‘grande’, certamente un ranocchio che si è poi rivelato un ‘principe’ capace di straordinaria tenerezza e delicatezza d’affetti riscontrabile in ogni sua composizione melodico/strumentale e nei suoi testi qualitativamente ‘poetici’. Un narratore in versi di brevi storie che affondano le mani nella terra, come ad esempio in “Storie di casa mia”, “Lucio dove vai” o in “Uno come me”; nelle emozioni esistenziali che toccano gli animi come in “Quale allegria”, “L’anno che verrà” “Amen”; e nell’affrontare temi scabrosi e insoliti, come in molti brani contenuti negli album “Anidride solforosa”, “Futura” e nei più recenti “Luna Matana”, “Ciao”, “Canzoni”, frutto di vicissitudini talvolta ‘vissute’ o ‘procurate’ che riconducono a una vena altamente poetica del Lucio scrittore, inventore e narratore instancabile del quotidiano, capace di restituire ad ogni singolo momento della vita la sua giusta importanza, il proprio ‘senso’. Dunque una ‘sensibilità’ umana che Lucio spesso ha appreso e riversato nella vita di ognuno di noi come emozione sociale, comunitaria, in chiave di ‘servizio pubblico’ per mettere l’accento su avvenimenti e misfatti della disattenzione, nei titoli: “Il bambino di fumo”, “Anna e Marco”, “Non vergognarsi mai”, “Prendimi così”, “Cosa vuol dire una lacrima”, “Amici”, “Trash”, “4/3/1943”, “Disperato erotico stomp”, “Domenico Sputo” e numerose altre:

 

“Cosa vuol dire una lacrima”

Cosa c’è dietro una lacrima /Sarà un colpo di vento chissà / È lì nei suoi occhi che luccica /Viene giù mentre parla con lui / Stiamo bene io e te /Non ci lasceremo mai /Da lontano si vede già il tram /Lui le chiede che cos’ha /E domani cosa fa /Lei si volta e siam tutti sul tram /Cosa vuol dire una lacrima /Che continua a cadere anche sul tram /In mezzo alla gente antipatica /Tutti tristi con le facce da bar /Ma perché non parli più /Non ci lasceremo mai /Lei lo guarda e si sposta più in là /Occhi neri di Gesù /Sono il re della città /Su di un tram che nel traffico non va /È passato tanto tempo ormai /Che se ci penso mi spavento /Stesse strade, piazze, stessi bar /Non più soli dentro /Cosa vuol dire una lacrima /E perché non è uguale anche per me /Per me che ogni giorno ho una maschera /Soprattutto quando parlo con te /Io che non ho pianto mai /Che quando penso, penso sempre a te /A te che non ho detto mai /Che tutto quello che mi dai /È che adesso ho bisogno di te.

 

Così come ha espresso nel canto la solidarietà e il dispiacere per accadimenti che hanno commosso l’opinione pubblica: “Ayrton” dedicata ad Airto Senna; e “Baggio Baggio” che ci ha reso partecipi della sua preferenza calcistica; o l’omaggio sconsiderato di “Serial Killer” e “Kamikaze” tanto per completare uno dei quadri possibili che si potrebbero realizzare volendo fare un inventario per tematiche delle sue canzoni. C'è però un altro aspetto di Lucio Dalla che pure ci è piaciuto, anche se non so quanto risponda al vero, per il fatto che dissimula non poco quell’essere un po’ introverso che pure lo riguarda, e che è tipico di chi offre se stesso al servizio degli altri ma che rifugge forme compassionevoli o misogine dall’una e dall’altra parte. Ed è un Lucio straordinariamente ‘smagliante, nella accezione di gioioso, o almeno brioso, e pur sempre animato dall’arguzia e dall’estro, non so quanto compiaciuto, come nel caso di canzoni (non canzonette) non sempre di sua composizione ma, certamente, adattate e arrangiate per se stesso, sulle modalità e le tonalità che caratterizzavano la sua voce particolare e unica: “Attenti al Lupo”, “Ambarabà Ciccìcocò”, “Canzone”, “Ballando Ballando”, “Se io fossi un angelo”, “Ciao”, “Siciliano”, “Zingaro” ecc. ecc. che lo hanno fatto conoscere al grande pubblico ed anche ai bambini che lo hanno spesso scambiato per un ‘principe barbone’ o forse un ‘orco delle fiabe’. Altro aspetto che va considerato va colto in quei testi che oggi, ancor più che ieri, possiamo catalogare alla stregua di autentica ‘poesia’ e che vanno considerati assoluti ‘capolavori’: “La casa in riva al mare”, “L’anno che verrà”, “Come è profondo il mare”, “Caruso”, “Quale allegria” già presenti nella colonna sonora d’ognuno di noi che le abbiamo ascoltate negli anni e che certamente resteranno nella grande storia della canzone italiana:

 

“Com’è profondo il mare”

Ci nascondiamo di notte /Per paura degli automobilisti /Degli inotipisti /Siamo i gatti neri /Siamo i pessimisti /Siamo i cattivi pensieri /E non abbiamo da mangiare/ Com'è profondo il mare /Com'è profondo il mare /Babbo, che eri un gran cacciatore /Di quaglie e di faggiani /Caccia via queste mosche /Che non mi fanno dormire /Che mi fanno arrabbiare /Com'è profondo il mare /Com'è profondo il mare /E' inutile /Non c'è più lavoro /Non c'è più decoro /Dio o chi per lui /Sta cercando di dividerci /Di farci del male /Di farci annegare /Com'è profondo il mare /Com'è profondo il mare /Con la forza di un ricatto /L'uomo diventò qualcuno /Resuscitò anche i morti /Spalancò prigioni /Bloccò sei treni /Con relativi vagoni /Innalzò per un attimo il povero /Ad un ruolo difficile da mantenere /Poi lo lasciò cadere /A piangere e a urlare /Solo in mezzo al mare/ Com'è profondo il mare /Poi da solo l'urlo /Diventò un tamburo /E il povero come un lampo /Nel cielo sicuro /Cominciò una guerra /Per conquistare /Quello scherzo di terra /Che il suo grande cuore /Doveva coltivare /Com'è profondo il mare /Com'è profondo il mare /Ma la terra /Gli fu portata via /Compresa quella rimasta addosso /Fu scaraventato /In un palazzo, in un fosso /Non ricordo bene/ Poi una storia di catene /Bastonate /E chirurgia sperimentale /Com'è profondo il mare /Com'è profondo il mare /Intanto un mistico /Forse un'aviatore /Inventò la commozione /E rimise d'accordo tutti /I belli con i brutti /Con qualche danno per i brutti /Che si videro consegnare /Un pezzo di specchio /Così da potersi guardare/ Com'è profondo il mare /Com'è profondo il mare /Frattanto i pesci /Dai quali discendiamo tutti /Assistettero curiosi /Al dramma collettivo /Di questo mondo /Che a loro indubbiamente /Doveva sembrar cattivo /E cominciarono a pensare /Nel loro grande mare /Com'è profondo il mare /Nel loro grande mare ?/Com'è profondo il mare /E' chiaro /Che il pensiero dà fastidio /Anche se chi pensa /E' muto come un pesce /Anzi un pesce /E come pesce è difficile da bloccare /Perchè lo protegge il mare /Com'è profondo il mare /Certo /Chi comanda /Non è disposto a fare distinzioni poetiche /Il pensiero come l'oceano /Non lo puoi bloccare /Non lo puoi recintare /Così stanno bruciando il mare /Così stanno uccidendo il mare /Così stanno umiliando il mare /Così stanno piegando il mare.

 

In molti, immagino, si domanderanno perché di tanto entusiasmo nel parlare di Lucio Dalla e così in ritardo dalla sua dipartita? Perché averlo conosciuto e avvicinato in alcuni momenti significativi della sua carriera di cantante è stato per così dire ‘toccante’, ci si rendeva immediatamente conto di non essere alla presenza di un artista qualunque, Lucio Dalla aveva dalla sua parte la ‘musica’, un pentagramma stracarico di note visibili che gli ronzava intorno alla testa, che lui teneva al caldo con i suoi numerosi zucchetti e cappelli, sprigionava musica dagli occhi scaltri, piccoli e vivacissimi, che s’impossessavano d’ogni movimento intorno, anche il più leggero, il più nascosto o sordido. Ricordo una delle occasioni in cui lo avvicinai per conto di “Big” (la rivista di musica) in Piazza Mancini a Roma in occasione di una sua esibizione al mitico Teatro Tenda in cui lo raggiunsi nella roulotte adibita a camerino. Lo trovai seduto sui gradini a fumare una sigaretta preso in pensieri che poi mi disse riguardavano la scaletta musicale di quella sera che avrebbe voluto cambiare e magari inserire qualche nuovo brano che gli girava per la testa, ma che non aveva ancora composto. Dopo averlo salutato mi disse che se volevo parlare di qualcosa che non fosse un’intervista potevo anche farlo: «piuttosto raccontami di te, che c… di lavoro il tuo, andare a rompere i c… alla gente nei momenti meno opportuni». Gli risposi che eravamo d’accordo così, che sarei andato a trovarlo prima del concerto. «Ah sì, ma vedi stasera mi mancano le parole, tutto questo vociare di voi ragazzi (ed eravamo davvero in tanti fuori del Teatro Tenda), mi suggerisce qualcosa, qualcosa che vorrei dire..» Un messaggio? – gli chiesi. «Ma che messaggio del c…, piuttosto che io sono con tutti voi là fuori ad aspettare uno str…. Che non ha nessuna voglia di stare su un palco a cantare cose per rallegrare un po’ la serata, ma mi dici ‘quale allegria?’ posso trasmettere in questo stato, figurati, un momento fa ho finanche litigato con Ron, l’ho mandato a fare in c…, dai lasciami in pace, ci risentiamo poi, te lo prometto.» L’indomani tra gli addetti ai lavori non si parlò di un gran concerto, i più malevoli dissero che Lucio si era cantato addosso. Ma Lucio comunque ce l’aveva messa tutta, e nella sua ‘stupenda solitudine’ aveva regalato a tutti noi momenti di autentica poesia, ricreando l’atmosfera auto-consolatoria della sua solitudine interiore:

 

“Quale allegria”

Quale allegria se ti ho cercato per una vita senza trovarti senza nemmeno avere la soddisfazione di averti per vederti andare via / Quale allegria, se non riesco neanche più a immaginarti senza sapere se strisciare se volare insomma, non so più dove cercarti / Quale allegria, senza far finta di dormire con la tua faccia sulla mia saper invece che domani ciao come stai una pacca sulla spalla e via... / Quale allegria, quale allegria, cambiar faccia cento volte per far finta di essere un bambino con un sorriso ospitale ridere cantare far casino insomma far finta che sia sempre un carnevale... Sempre un carnevale. / Senza allegria uscire presto la mattina la testa piena di pensieri scansare macchine, giornali tornare in fretta a casa tanto oggi è come ieri senza allegria / anche sui tram e gli aeroplani o sopra un palco illuminato fare un inchino a quelli che ti son davanti e son in tanti e ti battono le mani. / Senza allegria a letto insieme senza pace senza più niente da inventare. Esser costretti a farsi anche del male per potersi con dolcezza perdonare e continuare. /Con allegria far finta che in fondo in tutto il mondo c'è gente con gli stessi tuoi problemi e poi fondare un circolo serale per pazzi sprassolati e un poco scemi facendo finta che la gara sia arrivare in salute al gran finale. / Mentre è già pronto Andrea con un bastone e cento denti che ti chiede di pagare per i suoi pasti mal mangiati i sonni derubati i furti obbligati per essere stato ucciso quindici volte in fondo a un viale per quindici anni la sera di Natale...

 

Certo, a distanza di tempo è possibile riconfigurare Lucio Dalla nei diversi aspetti della sua produzione non solo canora e musicale e ricordare di lui alcuni fortunati successi, a cominciare da quando entra a far parte dei Flippers (1962), complesso composto da Franco Bracardi al piano, Massimo Catalano alla tromba, Romolo Forlai al vibrafono e alle percussioni e Fabrizio Zampa alla batteria, a cui Dalla si aggiunge quale voce solista, clarinetto e sax. Più avanti partecipa ad alcune incisioni di Edoardo Vianello, che i Flippers erano soliti accompagnare, come gruppo di supporto, nelle varie esibizioni canore. “Come raccontò lo stesso Dalla a Torinosette (settimanale de La Stampa), proprio con i Flippers firmò il suo primo contratto. Sempre nel 1962, suona per alcune serate nella sala Le Roi Lutrario di Torino, provocando numerose dispute con i padroni del locale che non approvarono la sua abitudine di esibirsi scalzo, affibbiandogli l'etichetta di "disadattato senza calzini". In merito a questo fatto Lucio ricordava divertito: «..una sera me li sono dimenticai e mi pitturai i piedi, così da farli sembrare dei calzini». In quel periodo poteva capitare, inoltre, di incontrare Dalla, non ancora impostosi al grande pubblico, nei bar di via Po alla ricerca di 100 lire per far suonare i suoi pezzi nei juke box.” Alle sue partecipazioni, sempre straordinarie perché ‘dal vivo’, ai concerti di piazza a Lugo, Bologna, Rimini, Perugia, raccolti in un CD di Paolo Conte con il gruppo dei Doctor Dixie Jazz Band formato da, (attenzione, attenzione!), oltre che da Paolo Conte impegnato al vibrafono, da Nardo Giardina, Luciano Scudellari, Silvano Salviati, Giancarlo Trambetti, Aimone Finotti, Gherardo Cassaglia, Umberto Melloni, Luigi Nassivi, Henghel Gualdi, Theo Ciavarella, in cui Lucio suona il clarinetto e si esibisce in voce in diversi brani:”Sheik of Araby”, “Georgia on my mind”, “Jeeps Blues”, “Flying Home”, “I can’t give you anything but love”. Arriviamo così al famoso Tour ‘evento’ a livello nazionale “Banana Republic” del 1979 con Francesco De Gregori, in cui Lucio si esibisce cantando e suonando clarinetto, piano, sax alto; Francesco canto e chitarra acustica, accompagnati da Ron chitarra ac. E piano; Gaetano Curreri minimoog, solina, mellotron; Fabio Liberatori fender rhodes; Ricky Portera chitarra el., acustica; George Sims chitarra el., acustica; Marco Nanni basso; Franco Di Stefano batteria e percussioni; Giovanni Pezzoli batteria e percussioni. Chi non rammenta i brani che compongono l’album cult? (oggi esiste anche un DVD del concerto): “Banana Republic” (De Gregori e altri), “Un gelato al limon” (Paolo Conte), “La canzone di Orlando” (Roversi, Dala), “Buffalo Bill” (De Gregori), “Piazza Grande” (Dalla, Bardotti e altri) e, insieme ad altre “Ma come fanno i marinai” (Dalla, De Gregori).

 

“L’anno che verrà”

Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po' e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò. / Da quando sei partito c'è una grossa novità, l'anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va. / Si esce poco la sera compreso quando è festa e c'è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra, e si sta senza parlare per intere settimane, e a quelli che hanno niente da dire del tempo ne rimane. / Ma la televisione ha detto che il nuovo anno porterà una trasformazione e tutti quanti stiamo già aspettando sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno, ogni Cristo scenderà dalla croce anche gli uccelli faranno ritorno. / Ci sarà da mangiare e luce tutto l'anno, anche i muti potranno parlare mentre i sordi già lo fanno. / E si farà l'amore ognuno come gli va, anche i preti potranno sposarsi ma soltanto a una certa età, e senza grandi disturbi qualcuno sparirà, saranno forse i troppo furbi e i cretini di ogni età. / Vedi caro amico cosa ti scrivo e ti dico e come sono contento di essere qui in questo momento, vedi, vedi, vedi, vedi, vedi caro amico cosa si deve inventare per poterci ridere sopra, per continuare a sperare. / E se quest'anno poi passasse in un istante, vedi amico mio come diventa importante che in questo istante ci sia anch'io. / L'anno che sta arrivando tra un anno passerà io mi sto preparando è questa la novità.

 

Ma c’è un altro aspetto artistico che non va sottovalutato a cui Lucio ha dedicato, specialmente in questi ultimi anni, la sua attenzione, ma che non ha ancora avuto un grande riscontro e di cui poco si parla, ed è quello del compositore e del regista teatrale di operetta e musical. Dopo la regia per il dittico “Pulcinella” musiche per il balletto di Stravinsky, e “Arlecchino” capriccio scenico di Ferruccio Busoni entrambi del 1977, dove Lucio ha interpretato la parte del ‘narratore’, è passato a “The Beggar’s Opera” (L’Opera del Mendicante) di John Gay, prodotto da Giuseppe Grazioli, drammaturgia e versione italiana di Giuseppe Di Leva, andato in scena al Teatro Duse di Bologna nel 2008 per la regia di Lucio Dalla con Marco Alemanno, Peppe Servillo, Angela Baraldi, Eleonora Buratto, Borja Quiza. Musiche originali di Austin , con un inedito dello stesso Dalla dal titolo “Scarpa”. Siamo di fronte a un’Opera poco rappresentata in Italia e quindi poco apprezzata dal grande pubblico, si pensi che il testo originale è alla base della più affermata “Opera da Tre Soldi” che Bertold Brecht e Kurt Weill, hanno portato alla fama internazionale. In questo caso la regia di Dalla, giocata sulla espressività gestuale della Commedia dell’Arte (senza maschere), e la capacità gestionale delle voci che si rivela determinante, quasi come ‘presenza scenica’ incorporea, alquanto commisurata alla dimensione ‘infuocata’ dei personaggi, più che alla loro dimensione teatrale. Successivamente con “Tosca, amore disperato” (2004), Lucio Dalla porta in scena l’Opera italiana di Puccini nella rivisitazione in chiave ‘musical’ (opera popolare) con Rossano Galatone e Rosalia Misseri, Vittorio Matteucci, Iskra Menarini, Attilio Fontana corpo di ballo e orchestra tutto ‘live’. L’opera musicalmente riscritta con nuove partiture e canzoni e diretta da Lucio Dalla, è andata in scena al Gran Teatro di Roma, dove una folla straripante gli ha decretato uno straordinario successo. Oltre 15.000 spettatori hanno assistito alle cinque serate dal 24 al 28 novembre in cui si è ripetuto il copione di una “standing ovation” spontanea che, nell’ultima rappresentazione di domenica sera, è arrivata al culmine di un applauso durato 30 minuti. “Così come la Tosca pucciniana conobbe nella sua città, Roma, il vero successo solo mesi dopo il debutto, lo stesso singolare destino sembra aver avuto questa Tosca dalliana, oggi riconosciuta capolavoro mondiale del teatro contemporaneo. “Tosca” ha poi ripetuto il successo nei Teatri e Palasport italiani ed internazionali: in particolare a Mosca, Vienna, Budapest e a Broadway per la definitiva consacrazione.

 

Ed eccoci arrivati ai saluti e non mi resta che dirti 'Ciao Lucio', sei stato grande e rimani comunque il numero uno!

 

Dal Musical 'Tosca', (sul disco la canta in coppia con Mina)vi propongo di leggere:

“Amore disperato”

Che cosa vuoi sapere, è meglio non sapere /L'amore che mi chiedi non può finire bene… /Non può finire bene… /Il cielo non lo vuole /Ha le nuvole in catene /Non fa più uscire il sole /Senza vento e senza vele /Il tuo amore non si muove /E' fermo come un sasso /Anche il sangue nelle vene… /E' amore in mezzo al ghiaccio /Nel guanto del potere /Un cuore che è vigliacco /E non sa volere bene /Prende le vite con un braccio /Le tiene chiuse al buio, coperte da catene… /Coperte da catene… /C'è un segno corto e chiaro /Laggiù nella tua mano /E' l'ombra del destino /Che come un frutto acerbo /O la prima stella del mattino /Rende l'amore eterno… /Amore disperato /Amore mai amato /Amore messo in croce /Amore che resiste /E se Dio esiste Voi, /voi Vi ritroverete là, là… /Amore… /Inizia la partita /Il diavolo vi sfida /Gli artigli del potere /Che come nera neve /Il lutto di una chiesa /Una candela accesa /Amore disperato/Amore mai amato /Amore messo in croce /Amore che resiste /E se Dio esiste Voi, voi /Vi ritroverete là, là… Amore.

 

Per questo testo: (Edizioni Pressing LIne srl) Per tutti gli altri testi riportati (Edizioni Universdal Music Publishing Ricordi). Altri testi su: http://www.angolotesti.it/L/testi_canzoni_lucio_dalla_1542/testo_canzone_amore_disperato_40737.html

Tutto su Lucio Dalla:

http://www.musictory.it/musica/Lucio+Dalla Per tutte le altre info su Lucio Dalla: Google - Wikipedia

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- Letteratura

’Il Tango della Vecchia Guardia’ -A. Peréz-Reverte

Arturo Pèrez-Reverte ‘Il Tango della Vecchia Guardia’ – Rizzoli 2013

 

Da qualche tempo a questa parte, ahimè, non mi è più capitato di leggere un libro degno d’essere catalogato come ‘romanzo’ a pieno titolo, cioè che risponde all’esigenza autentica del lettore di immergersi nel pieno senso delle parole, nella costruzione delle frasi, dei periodi e dei capitoli d’una storia affascinante e altresì coinvolgente, come appunto quella narrata in questo libro. In cui l’autore, Arturo Pérez-Reverte (‘Il Club Dumas’), riconduce i sentimenti e le emozioni nel pieno dell’esperienza straordinaria e magica della ‘seduzione’, mettendo in gioco la capacità di attrarre e conquistare l’altro/l’altra, fino allora estranei, in un caleidoscopio di segreti, di cose non dette eppure risapute, perché vissute interiormente ‘sulla pelle’ dai personaggi che non chiedono di conoscere la ‘verità’ della loro esistenza, ma che si accontentano di ‘viverla’ o forse di averla vissuta. Eros e Thanatos si incontrano ancora una volta nelle pagine di questo ‘romanzo’ nelle figure dei due interpreti Max Costa e Mecha Inzunza che, allacciati in un ‘tango’ con passione e tormento, trasportano il lettore attraverso i ‘roaring twenties’ fino agli anni ’60 del secolo scorso, mettendo in gioco ogni sorta di escamotage di sopravvivenza, fino allo spegnersi di quell’eco che li ha resi protagonisti sulla scena della vita e del proprio tempo.

Max e Mecha sono presi da una danza dei sensi che va molto oltre l’erotismo stilizzato del ballo: è l’inizio di un legame torbido, equivoco, che si protrae una volta finito il viaggio (all’inizio del loro incontro) esplorando i bassifondi di Buenos Aires alla ricerca del tango com’era prima di diventare di moda.” (n.d.t.)

Ed è comunque sulla scia del ‘viejo tango’, il ballo per eccellenza dei tangheri argentini, appunto definito della ‘vecchia guardia’ vs il ‘nuevo tango’ ballato oggi nelle moderne milonghe, che i due protagonisti si incontrano e si lasciano per poi tornare ad abbracciarsi ancora, due, tre, cento volte coi sentimenti e le emozioni che la vita non risparmia loro in alcun caso, allorché le loro strade si separano, ma non i loro cuori, le loro menti, che continuano a nutrire i loro corpi bellissimi e affascinanti perché invasi d’un amore reciproco, totale. Dove nulla è lasciato per dopo, e che continua ad ardere bruciando tutto quello che ci sta attorno. Una storia, quella narrata, che non si sgancia definitivamente dallo stile tutto ‘sudamericano’ alla Gabriel Garcia Marquez, seppure di ampio respiro internazionale, giocato sull’arte raffinata di una scrittura talvolta audace. Ed è forse proprio questa ultima connotazione che rende la scrittura di Arturo Pérez-Reverte entusiasmante, direi vitale, capace di attrarre e conquistare il lettore coinvolgendolo in una sfida contro il tempo inesorabile che consuma, più che ravvivare, un “amore che ignora lo spazio e il tempo”. Forse per questo nel leggerlo ho rammentato ‘L’amore al tempo del colera’ proprio di Garcia Marquez, perché in fondo è la dilatazione del tempo che noi europei non conosciamo, che ci fa apprezzare la letteratura sudamericana nel suo genere. Basta ricordare ‘Cent’anni di solitudine’ ancora di Marquez, o ‘I fiumi profondi’ e ‘Tutte le stirpi’ dello straordinario Angel Maria Arguedas, per comprendere quanto l’esperienza sorprendente e magica del passare ‘rallentato’ del tempo, in cui riusciamo a mettere in gioco noi stessi in modo totale, ci illuda di essere vissuti mille e più anni, in cui l’antica e pur sempre nuova ‘musica delle emozioni’ è risuonata nelle nostre orecchie all’infinito, che quasi ci stordisce. È ancora la musica del ‘viejo tango’ che si lascia ascoltare nel silenzio dei giorni a venire, in cui: “Se potessimo tornare indietro, forse le cose sarebbero state … Non so. Altre. (..) Ognuno trascina con sé la sua stella. Le cose sono ciò che devono essere”.

In ultimo, finiamo tutti per riconoscerci ed essere coinvolti nella trama, in una spy-story forse un po’ ingenua, con colpi di scena, servizi segreti, atti di spionaggio, scazzottate, uccisioni, eppure quello che più ci coglie, è lo sterminato amore di cui sono pervase le pagine del libro, con i rispettivi dubbi e le perplessità che sono identici, almeno in parte, a quelli dei due protagonisti che allacciano nel ‘tango’ (in verità più lascivo che elegante), le loro vite fatte per attrarsi e respingersi, in contrasto (inutilmente), con quella ‘seduzione’ che pure ci governa e che scalda il cuore ogni qual volta suona alla nostra porta. Ed è così che sulla musica del ‘Tango de la Guardia Vieja’ assistiamo all’uscita di scena di Max che, “con la flemma adeguata all’evento, (..) apre la porta, prende la valigia e si allontana verso il nulla”, oltre le pagine del libro. Mecha dal canto suo, siamone certi, attenderà il suo ritorno fino alla fine dei giorni, ascoltando la musica coinvolgente di un ‘tango’ che risuona all’infinito.

 

Arturo Pérez-Reverte è nato a Cartagena nel 1951. Per vent’anni reporter di guerra in Libano, in Eritrea, alle Falkland, in Nicaragua, in Mozambico, in Romania, in Bosnia e in altre zone roventi del pianeta, romanziere di lungo corso, è autore di libri pubblicati in quaranta lingue: tra i più celebri “Il club Dumas”, “La carta sferica”, la serie “Le avventure del Capitano Alatriste”. Con “Il tango della Vecchia Guardia”, il primo dei suoi romanzi pubblicato da Rizzoli, ha dominato per mesi le classifiche spagnole riuscendo nella rara impresa di ottenere un successo di pubblico e di critica insieme.

 

Ps Una vera 'chicca' per gli appassionati di Tango, soprattutto per chi fa del Tango il proprio stile di vita.

 

 

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- Musica

’LUIGI TENCO - Il poeta con la luna in tasca’

LUIGI TENCO: Il poeta con la luna in tasca.

 

Riascoltare oggi Luigi Tenco assume significato di riappropriazione di ciò che appartiene al presente più che al passato. Seppure gli anni ’60, sembrano lontani, che quasi il loro ricordo scolora, non è così. Alcuni artisti di quegli anni così tumultuosi, la cui eco la si sente ancora risuonare nell’aria, avevano prevaricato il loro tempo, quasi che il tempo concessogli fosse stato da loro in qualche modo ‘rubato’ o forse, per una qualche futile ragione, estorto o meglio, sottratto, strappato con la forza e con l’inganno, dalla malasorte. È questo il caso di Luigi Tenco cantautore di Alessandria (poi naturalizzato ‘genovese’), che proprio nel 1960 esternava la sua alienazione verso un sistema, quello dello show business discografico, contro la pochezza, la superficialità e le insulsaggini di certa cultura televisiva e radiofonica. Un disagio il suo, vissuto interiormente, direi quasi fisicamente, che gli arrivava da quella sorta di ‘rivoluzione mancata’, come venne definita l’animosità giovanile di quegli anni, che egli espresse nei testi delle sue canzoni, tutte impregnate di una malinconia struggente, anche quando la ‘leggerezza’ (si fa per dire) del sentimento provato non lo richiedeva. Ed è proprio in questo che sta la differenza, tra un sentimento vissuto da ognuno in maniera diversa e Luigi Tenco, che orse non conosceva altro modo di affrontarlo se non quello di interiorizzarlo e restituirlo poi, in un secondo drammatico momento, in forma poetica servendosi della sottile musicalità insita nella sua voce virile e penetrante, capace di scuotere o, forse, di ‘annichilire’ la sensibilità d'animo provata degli innamorati infelici. Quasi volesse metterli al cospetto della responsabilità dei propri sentimenti, delle proprie azioni quotidiane, con la stessa semplicità di una passeggiata lungo ‘..la solita strada’ o lo '..sfogliare le riviste femminili’, onde per cui tutto doveva avere un senso pieno, di vita vissuta. E forse aveva ragione lui, dico io che scrivo con il senno di poi, perché è questa vita che ci riveste e che talvolta soltanto ci sfiora, che in qualche modo spetta a noi di autenticare come 'nostra', pur nella legittimazione con gli 'altri'. Ecco, Luigi Tenco era in questo già oltre il suo tempo, anche se non so dire in che misura egli rientri in quello attuale. Fatto è che le sue canzoni ‘nichiliste’ sembrano scritte ‘in tempo reale’ e rispecchiano un certo ‘esistenzialismo’ decadente tornato improvvisamente di moda. Come se un muro (prendiamo a simbolo quello di Berlino), sia improvvisamente caduto disgiungendo l’esistenza di tutte le realtà sociali, dei valori come dei sentimenti, ed anche dei rapporti interpersonali, al punto di non riconoscere più la ragione di certe azioni, lo scopo ultimo di una contestazione in atto contro il nulla, contro ciò che, per dirla con Bauman, possiamo considerare la ‘società liquida’ avulsa dalla catarsi rigenerativa che la forma. Non ho mai incontrato Luigi Tenco (pensate che firmava i suoi pezzi con lo pseudonimo di Gigi Mai, quel 'mai' che non sarebbe stato), ma se mi fosse capitato l’avrei chiamato per nome: “amico” gli avrei detto per un consenso di colpa verso chi non stavamo a sentire, “fermati qui a parlare un poco con me, raccontami una storia che non sia vera”; solo perché la realtà uccide la poesia che invece ha bisogno dei sogni come delle illusioni per essere sempre all’altezza dell’amore. Di quell’amore che il cantautore, in qualche modo, ha trattenuto nelle sue parole, restituendone solo il dolore che esso produce e non la gioia che procura la sua emozione. E ciò non per eccesso di protagonismo intellettuale quanto per la lacerante contraddizione di quel fermento creativo, che ha contraddistinto gli anni ’60. Siamo all’apologia esaltata o esaltante di tutta una ricerca ‘sul campo’ svolta da intellettuali d’ogni risma che andavano scandagliando il territorio alla ricerca di ‘realtà’ semi-dimenticate (non obsolete) nel tentativo di restituire alla cultura italiana la sua ragione d’essere, che in verità ‘era’ stata. E che, per l'appunto ‘era stata’, cioè entrata a far parte della ‘contestazione’ in atto, perché in parte la si voleva dimenticare, perché aveva creato paure, dubbi esistenziali, come la guerra aveva portato fame e distruzione, e si aveva paura dei fantasmi della morte. È senz’altro facile oggi dubitare di queste cose, ma in quegli anni tutto ciò che ho elencato era ancora nell’aria e lo si respirava ancora nel respiro affannoso della gente comune che doveva affrontare un ‘miracolo economico’ improvviso quanto incredibile. Luigi Tenco nelle sue canzoni rappresentava tutto questo, l’umore umbratile della gente, il lato malinconico dei sentimenti … Ma “Quello che conta”, per citare una delle più belle canzoni da lui interpretate, in questo caso è fare luce non tanto su una biografia lacunosa e scostante su cui troppo spesso s’è ricamato e versato, col senno del poi, copiose lacrime di coccodrillo, quanto sui meriti (e i limiti) pubblici, concettuali e, soprattutto, musicali di un personaggio in netto anticipo e dunque in aperto conflitto coi suoi tempi. (..) Tenco incarna a fior di pelle, spesso suo malgrado e fino alle estreme conseguenze, le contraddizioni più profonde e laceranti, ma anche i fermenti più vivi e fecondi, che racchiude in un canzoniere di appena cento brani e tre soli album, non sempre all’altezza, complessivamente, delle punte più alte del suo idiosincratico talento lirico e compositivo. (..) Tenco ha attraversato e impietosamente ritratto la società italiana di quegli anni, il mondo asfittico della nostra canzone popolare, come un icastico incrocio di Jacopo Ortis e del personaggio interpretato da Jean-Louis Trintignant ne “Il Sorpasso” di Dino Risi. Oscillando stilisticamente fra l’esistenzialismo “decadente” e il pop-jazz da camera degli esordi e il folk impegnato (e purtroppo incompiuto) della cosiddetta “linea gialla”, fra una malinconica, sconsolata rassegnazione e una sferzante, quasi nevrastenica ansia di sovversione e rinnovamento. La sua prosa aspra e disadorna - prevalentemente in versi sciolti e così poco convenzionale rispetto all’estetismo puritano dell’epoca - che mescolava il soliloquio allucinato all’intimismo asciutto ed essenziale, la poesia crepuscolare delle piccole cose all’invettiva bruciante ed esasperata, al pari del suo personaggio scontroso e antisociale, ne fa un antesignano degli eroi tormentati e “maledetti” del rock alternativo (che più volte gli renderanno omaggio) ancor prima che dei cantautori militanti degli anni 70. Ecco allora che gli ‘altri’ non erano semplicemente gli ‘altri’, e i poeti/cantautori attivi nel decennio reclamavano un ‘altra’ realtà, un’uguaglianza e una libertà che elargisse anche ai sentimenti, alle emozioni come ai sogni, uno spicchio di luna, unica rimasta a sostegno degli innamorati. E si chiamavano Lauzi, Paoli, De André, Reverberi, Patruno, Gaber, Celentano, Minerbi, Jannacci, Bindi, Piero Litaliano (Ciampi), Dalla, ma anche Pasolini, Salce, Boneschi, Morricone e tantissimi altri dei quali oggi ci si dimentica, troppo spesso e troppo presto. Di Luigi Tenco (dopo che non c’è più) si è detto e si può dire di tutto: “una vita buttata via”, “una vita inutile”, “una vita sprecata”, ecc. ecc. Ma ancora una volta dico che non è così. Tenco ha dato un senso alla propria vita, per breve che sia stata; ha dato un senso alla sua morte, procurata e discutibile quanto si vuole, indubbiamente coerente con quella che era la sua indole di "..cantore dei lati più oscuri de decennio, e ne ha incarnato le contraddizioni più laceranti ma anche i fermenti più creativi. Fino al gesto estremo che gli conferì la sua statura tragica, proiettando un'ombra su tutta la canzone d'autore e la musica ‘alternativa’ italiana degli anni ’60 e oltre". Noi, i giovani di ieri, che ne siamo i testimoni, non possiamo non riconoscere a Luigi Tenco (non il solo) di aver portato in Italia quello che era lo ‘spirito’ del tempo, sia della “Nouvelle Vague” francese (Brassens, Brel, Ferré, Grecò, Camus, Sagan, Prevért, De Beauvoir); sia del ‘noir’ tipico dell’inquietudine, che dalla Francia aveva invasa l'Europa portando sugli schermi il ‘neorealismo’ francese ma anche  italiano e inglese, subito ripreso oltreoceano dalla nascente cinematografia hollywoodiana che più d’ogni altra individuò nel ‘noir’ una fonte inesauribile di creatività e di denaro. Ma non c’è in me che scrivo nostalgia per quegli anni, per certi aspetti migliori ma anche peggiori per altri, quanto forse il persistere di una certa malinconia rivolta agli affetti, di quando un poeta poteva andarsene in giro con la luna in tasca e scrivere le sue canzoni d’amore. Che piacessero o no Luigi Tenco le 'sue' le avrebbe scritte comunque, come del resto fece con molte delle sue meno conosciute e che spaziano dal folk-rock allo swing-jazz e che hanno il sapore degli anni giovanili del poeta/cantautore, non poi così diversi da quelli dei giovani d’oggi, pregne delle contaminazioni della musica cosiddetta ‘cool’ proveniente d’oltreoceano che tanto infervorava ieri e ancora oggi infervora l’immaginario giovanile, da Chet Baker, Gerry Mulligan, Paul Desmond, Miles Davies, ed altri. "L’anno che segna la svolta cruciale ma anche decisiva nella sua carriera d’artista è indubbiamente il 1962, foriero di eventi che sembrano schiudergli le porte di quella fama a cui s’è sempre accostato con un misto di riluttanza e curiosità. Anche se in realtà il tentativo di vendersi sul mercato discografico come la voce più originale e fuori dal coro della prima generazione di cantautori non andrà mai oltre un seguito limitato e una generica notorietà". Qualche anno dopo, Tenco difenderà questo suo atteggiamento, apparentemente ambiguo e inconsapevole, affermando: “..oggi gli strumenti per comunicare con la gente sono quelli e anche a costo di passare da qualche forca caudina, a quegli strumenti bisogna arrivare, perché sono strumenti formidabili … Il menestrello che oggi va a cantare sotto le finestre non dice niente, non serve a niente." Pur trattandosi di brani difficili, la sua interpretazione è sempre così intensa e personale da renderli di fatto inscindibili dal suo canzoniere più autentico: sontuosa, struggente e crepuscolare, che scintilla teneri barlumi fra le ceneri della mondanità e dell’ipocrisia: “..desso che il fumo cancella l’estate/ e il grigio ritorna scendendo su noi/ la lunga vacanza si chiude per sempre/ pure qualcosa di noi resterà”. Come unico antidoto all’alienazione, canta: “..ormai siamo soli nel centro del mondo/ qualcosa divide la gente da noi/ ma quello che conta è non essere soli/ quello che conta è che tu sei con me”. Nonostante un certo scollamento stilistico e tematico dovuto alla ridotta progettualità che ne consegue, Tenco è il prodotto della “scuola genovese” e un interessante precursore del cantautorato italiano che volse nella canzone una sorta di panacea dei conflitti sociali e personali, a cominciare da “Cara Maestra” , uno dei suoi migliori brani di sempre, dove, col picking sferzante e l’ironia irriverente d’un Brassens, Tenco mette alla berlina, attraverso tre vignette di grande efficacia, la società classista dell’epoca: “Cara Maestra un giorno mi insegnavi/ che a questo mondo siamo tutti uguali/ ma quando entrava in classe il direttore/ tu ci facevi alzare tutti in piedi/ e quando entrava in classe il bidello/ ci permettevi di restar seduti”. Altrettanto ardita, per l’epoca, è l’epica cabarettistica e boulevardien di “Angela” (misto di Brel e Weill), tutt’ora magnifico il torpido esistenzialismo alla Sagan di “Mi Sono Innamorato di Te” (cantata pianistica con accompagnamento d’archi), decisamente più ozioso e datato appare, invece, il surrealismo (quasi “buzzatiano”) a tempo di valzer di “Come Mi Vedono Gli Altri”: “La mia paura è che a vedere me come sono/ Io potrei rimanere deluso”. Eccezion fatta per il discreto successo di “Mi Sono Innamorato Di Te”, nell’anno in cui trionfano “Fatti Mandare Dalla Mamma” e “I Watussi” e “La Partita di Pallone”, il debutto di Tenco cade presto nel dimenticatoio, tarpato anche dalla censura della commissione Rai che boccia senza appello “Cara Maestra”, “Una Brava Ragazza” e “Io Sì”, inibendo per quasi due anni il cantautore tanto dai passaggi radiofonici che da quelli televisivi. Il periodo di esilio coatto acuisce ancora di più il suo rapporto contraddittorio con la celebrità: da una parte rivendica orgogliosamente la propria integrità artistica e morale: “Il personaggio, come l'antipersonaggio, sono qualcosa di costruito, uno stereotipo fatto in serie. E io invece voglio essere una figura vera, con le sue idee, sbagliate o giuste che possono apparire. E con quale metro giudicarle, con quello del conto in banca? Bene, lascio volentieri ad altri questo sistema metrico. A me non importa nulla di essere 'integrato' nel sistema organizzativo”. Successivamente Luigi Tenco segna un deciso passo avanti: più coeso, elegante ed elaborato, costruito su fastosi arrangiamenti da camera in cui confluiscono melodie popolari, armonie classiche e ritmiche jazzistiche, atmosfere languide, confidenziali, decadenti, e liriche che, in linea di massima, tralasciano gli spunti (anti)sociali per concentrarsi su un’ossessiva ed erratica introspezione. Musicalmente, senza dubbio il punto più alto nella breve carriera del cantante piemontese. Stilisticamente, un compendio delle influenze più significative assimilate fino a quel momento. L’insieme delle composizioni, pur nella ricercata ripresa dei motivi di fondo, è vario e ricco di sfumature: la propensione verso una forma nostalgica e retrò di pop-jazz è testimoniata da passaggi come “Tu Non Hai Capito Niente” (scandita da uno xylofono alla Hampton) e “Non Sono Io” (con armonie vocali da “quartetto di barberia”), ma laddove l’incalzante shuffle “Ah… l’amore, l’amore” sbandiera un riuscito connubio soul, “Ho Capito Che Ti Amo” e “Quasi Sera” (a tratti quasi lounge) indulgono in un suggestivo parallelo fra Bacharach e la chanson francese, su cui l’accorata “Com’è Difficile”: “Com’è difficile veder sfuggire / tutti i miei sogni in un bicchier d’acqua / senza neanche aver visto il mare”. “Vedrai Vedrai” (poi ripresa da Ornella Vanoni e Mia Martini) è una cupa e vibrante torch song pianistica, una toccante confessione dagli echi quasi pasoliniani (e freudiani): “Tu non guardarmi con quella tenerezza come fossi un bambino che ritorna deluso”, in cui affiorano, spogliate d’ogni estetismo retorico, le antinomie più intestine dell’artista (e dell’uomo): orgoglio e fragilità, fibra morale e senso di colpa: “..mi fa disperare il pensiero di te e di me che non so darti di più”, pessimismo e speranza: “vedrai, vedrai, non son finito sai/ non so dirti dove e quando ma vedrai che cambierà”. La sincopata marcia bandistica “Ragazzo Mio” (portata poi al successo da Loredana Bertè) è una sorta di profetica epistola a un immaginario erede: “Ragazzo mio, un giorno ti diranno che tuo padre/ aveva grandi idee per la testa/ ma in fondo poi non ha concluso niente”. ritenuto il suo testamento spirituale e manifesto del proprio idealismo, qua e là incrinato dalla disillusione: “Ma tu non credere, no/ che appena s’alza il mare gli uomini senza idee/ per primi vanno a fondo”. Infine, lo spleen madrigalesco di “Se Potessi Amore Mio” (a lungo nel repertorio live di Vinicio Capossela) che, col suo stile semplice e colloquiale, fruga nei sentimenti e nelle emozioni frustrate dal peso della quotidianità. Alla fine 1965 la musica italiana (e l’immaginario giovanile nel suo complesso) è aggredita da un fervido quanto epidermico subbuglio: si parla di Carnaby Street e del Vietnam come se fossero dietro l’angolo, si va a ballare al Piper (punto di riferimento della nuova scena e unica vetrina per ammirare astri nascenti come Who, Pink Floyd, Jimi Hendrix, i Genesis o i Soft Machine), alla radio “Bandiera Gialla” filtra le note della “British invasion”, si assiste alla prima volta dei Beatles in televisione e alla consacrazione internazionale del nuovo Dylan “elettrico” (e i Byrds che entrano anche qui da noi in Hit Parade con “Mr. Tambourine Man”), una variopinta e scombiccherata orda di gruppi italiani: Equipe 84, Rokes, Ribelli, I Corvi, I Nomadi, denominati comunemente beat, incidono inedite, pittoresche e abborracciate cover di successi stranieri. Tenco che era stato uno dei primi a “scoprire” il genio di Duluth, tanto da prodursi in una goffa cover di “Blowin’ The Wind”, “La Risposta è Caduta Nel Vento”, del 1964, suonata a ritmo ferroviario e con un testo adattato, un po’ alla meglio, insieme a Mogol, si accosta a questo ribollente carrozzone - un indigesto miscuglio di vecchio e nuovo, voci flautate e urli alla maniera dei neri, melodico e beat, mimetismo libertario e conservatorismo imprenditoriale, con l’ambizione di condurlo a una piena autonomia espressiva, alla consapevolezza delle proprie potenzialità comunicative, di dare una decisa sterzata sia in senso musicale che politico, saldando, sull’esempio di Dylan, musica da ballo e canzone di protesta, beat e folk. È questo un concetto che Luigi Tenco rivendicò fino all’ultimo, come in questa intervista a “Big” del gennaio 1967: “Secondo me la soluzione non è quella di guardare all'estero per imitare il genere degli altri. L'unica cosa da fare è sfruttare il patrimonio musicale nazionale. (..) Bisognerebbe prendere melodie tipiche italiane e inserirle nel sound moderno, come fanno i negri con il rhythm and blues, che proviene dal jazz, o come hanno fatto i Beatles, che hanno dato un suono di oggi alle marcette scozzesi invece di suonare con le zampogne. (..) Il patrimonio folcloristico di una nazione, lo ripeto, è tanto vasto che ogni cantante e compositore potrebbe attingervi mantenendo la sua personalità: se uno vuol fare la protesta, può protestare, se un altro vuol far ballare la gente, può farla ballare, ce ne sarebbe per tutti”. Le due anime di Tenco, quella decadente e quella engagé spartiscono in due filoni distinti la sua ultima produzione discografica: pezzi come “Lontano, Lontano”, serve per disincantate scene da un matrimonio: “Un giorno io ti sposerò, stai tranquilla/ così avrai diritto a tutte quelle cose/ che io oggi ti do solo per amore”. Ma è “Un Giorno Dopo L’altro”, già sigla del “Maigret” televisivo di Gino Cervi, uno dei suoi capolavori fatalisti di sempre: “La nave ha già lasciato il porto e dalla riva sembra un punto lontano/ qualcuno anche stasera torna a casa deluso piano piano/ Un giorno dopo l’altro la vita se ne va/ e la speranza ormai è un’abitudine”. All’altro filone sono riconducibili “Io Sono Uno”, autoritratto pennellato nello stile aspro e berciante d’un Barry Mc Guire, la dylaniana “E Se Ci Diranno”, declamatorio inno alla disobbedienza civile e capostipite assoluto della scena folk-rock (o folk-beat secondo la nomenclatura di allora) italiana, il garage-beat all’acqua di rose di “Ognuno è Libero”, e la stralunata “Ma Dove Vai”, stornello intonato su un’arietta merseybeat. E siamo così giunti all’epilogo. Se questa fosse una favola, ora assisteremmo a un lieto fine. Se fosse un giallo, qualcuno ci rivelerebbe l’identità del colpevole. Ma la vita di Tenco assomiglia piuttosto a un noir, uno di quelli realistici degli anni 30, scritto da Jacques Prevert e Marcel Carné, pieno di nebbie e di personaggi ambigui che celano la loro vera identità dietro un cappotto lungo e un cappello calato ad arte sugli occhi, ed è quindi logico, quali che ne siano le ragioni, che il protagonista vada incontro all’inevitabile scacco del destino, a una sconfitta solo apparente che gli conferirà una statura tragica degna della sua arte, un riconoscimento postumo alla sua diversità e al suo valore. Con l’ultima di quelle imprevedibili oscillazioni tipiche del suo carattere, Tenco, all’alba della protesta giovanile, spiazza tutti accettando la proposta di partecipare al diciassettesimo Festival di Sanremo, in coppia con la cantante francese Dalida. Ma forse è solo l’estremo tentativo da parte del cantautore di inseguire quel successo popolare che lo ha ossessionato come un malocchio nell’ultima parte della sua carriera, questo non lo sapremo mai. Quello che è sicuro è che la sua ultima canzone, “Ciao amore, ciao”, svilisce uno dei testi più lucidi e poetici mai scritti sullo spopolamento delle campagne e lo sradicamento culturale degli emigranti: “In un mondo di luci sentirsi nessuno/ (..) non saper far niente in un mondo che sa tutto/ e non avere un soldo neanche per tornare”. Dopo la sua tragica scomparsa le tre case discografiche con cui aveva inciso continueranno a sfruttare la sensazione dell’avvenimento e l’alone di mistero che tuttora aleggia sul personaggio pubblicando con successo un sfilza di antologie divise per periodo (cinque la Ricordi, due la Rca e una la Jolly/Joker). Nel nome di Tenco si affermerà, altresì, una battaglia per una musica pop di qualità, “alternativa” ai circuiti mediatici della grande distribuzione, libera dall’assillo del successo popolare e del consenso di massa, la testimonianza prima e la sopravvivenza poi di mondi 'altri e possibili' all’interno di questo angusto e vilipeso universo culturale. Nel 1972 Amilcare Rambaldi costituisce il Club Tenco, che due anni più tardi diventa anche un premio-omaggio ai valori tramandati dal cantautore piemontese e prestigioso riconoscimento all’eccellenza nell’ambito della canzone d’autore - assegnato, nel corso di più di trenta edizioni, ad alcuni fra i maggiori esponenti della musica italiana (De André, Conte, Guccini, Vecchioni, Gaber, Jannacci, Baustelle) e internazionale (Ferrè, Brassens, Brel, Cohen, Newman, Mitchell, Donovan, Waits, Cave, Cale). Numerosi sono, inoltre, gli omaggi musicali e i riferimenti a Tenco nella storia della canzone popolare. Oltre a una infinità di cover e tributi che coinvolgeranno esponenti vecchi e nuovi, provenienti sia dalla musica tradizionale sia da quella alternativa (dai Nomadi ad Alice, da Guccini a Capossela, dai La Crus a Parente, dagli Afterhours a Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo, da John De Leo a Mike Patton). Particolarmente significativi, per la loro valenza simbolica, sono alcuni versi a lui dedicati nel corso degli anni, da: “Preghiera in Gennaio” di Fabrizio De André, scritta di getto il giorno dopo la morte dell’amico, che onora nel suo lungo addio: “Quando attraverserà l'ultimo vecchio ponte/ ai suicidi dirà baciandoli alla fronte/ andate in paradiso, laddove vado anch'io/ perché non c'è l'inferno nel mondo del buon Dio” . “Festival” di Francesco De Gregori che in “Bufalo Bill” 1976, difende lo spessore umano di Tenco e la sua tormentata fragilità dalle speculazioni più morbose: "Qualcuno ricordò che aveva dei debiti, mormorò sottobanco che quello era il motivo/ Era pieno di tranquillanti, ma non era un ragazzo cattivo" e mette in risalto l’opportunismo con cui, dopo la tragedia, molti colleghi e discografici fecero a gara pur di brillare di macabra luce riflessa: "..si ritrovarono dietro il palco, con gli occhi sudati e le mani in tasca/ tutti dicevano: Io sono stato suo padre!', purché lo spettacolo non finisca". Più recentemente, nuovi omaggi sono venuti dai Baustelle, che in “Baudelaire” dice “Luigi Tenco è morto per te”; scorgono nel suo gesto un’aura quasi messianica, accostandone la figura a quella del grande poeta francese. Non in ultimo si deve a Fabri Fibra, che, al termine di una grottesca invettiva contro i king maker del pop italiano, vi si identifica nel pezzo “Andiamo a Sanremo”: “..lo trovano per terra sdraiato sul tappeto/ con una pistola in mano e un buco in testa/ non sono certo il primo che protesta/ che protesta a Sanremo!”.

 

Si ringraziano:

Per l’informativa musicale utilizzata in questo articolo, Simone Coacci di Ondarock.

 

Il sito Luigi Tenco 60's - La Verde Isola http://www.luigitenco60s.it/ per la passione profusa nel tramandare la memoria del cantautore di Cassine.

 

La rivista musicale “BIG” anno 1967 e successivi per la quale ho redatto innumerevoli articoli e interviste.

 

Il Club Tenco per la ha creazione nel 1974 del Premio dedicato. I riconoscimenti vengono assegnati ogni anno nel corso della "Rassegna della canzone d'autore", presso il Teatro Ariston di Sanremo, alla quale vengono invitati i nomi più interessanti della canzone d'autore. I premi si suddividono in due categorie: il Premio Tenco (assegnato direttamente dal Club Tenco alla carriera di cantautori e operatori culturali, solitamente internazionali); le Targhe Tenco (assegnate da una giuria di 170 membri ai migliori dischi dell'annata).

I premi del Club Tenco hanno guadagnato sempre più fama e valore nel panorama della critica musicale nel mondo. Club Tenco - Rassegna della canzone d'autore www.clubtenco.it/‎

Club Tenco. via Matteotti, 226. casella postale 1. 18038 Sanremo. T. 0184 505011. F 0184 577289. E info@clubtenco.it. Credits. E info@clubtenco.it Credits.

I siti web: Wikipedia, Youtube, Google.

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- Libri

’MASTERPIECE’ VI - 29 Dicembre 2013

MASTERPIECE VI, Domenica 29 Dicembre 2013

 

"C'è un momento in cui soprattutto all'inizio ti domandi, ma con tutti i libri che ci sono, se pure uscisse il mio? Non ci pensate, pensate che anche il vostro libro potrà essere letto e preferito ad altri" Diego De Silva e i consigli agli aspiranti scrittori #Masterpiece

 

Prima Serata per il ‘talent’ che sta raccogliendo consensi anche fra il grande pubblico di RAI3 seppure credere alla sua validità è difficile per il fatto che finora la giuria non sembra aver svelato la ‘cifra’ di quello che sta cercando. Vuoi per la ‘pochezza’ (a loro detta) dei testi presentati, vuoi per la carenza di ‘personaggi’ autentici. Molte sono le ‘riserve’ talvolta pretestuose, altre volte forzate per assecondare le regole del gioco che, deve rispettare il format (ad esclusione) col rischio, magari, di scegliere il testo sbagliato o, viceversa, spronare questo o quel concorrente ad aprirsi, a dare di più ecc. De Carlo, questa sera più misurato del solito, ha finalmente rivelato il proprio ‘punto fermo’ nel dire “che poco lo interessa il rapporto ‘personale’ con il testo, quanto il rapporto con la scrittura”; riferendosi quasi certamente al numero esorbitante di ‘autobiografie’, problematiche ‘personali’ che si pensano universali, ‘confessioni’ che mai vengono ammesse con se stessi, ecc. ecc.

Ben vengano i consigli e le artificiosità di scrittori navigati quali appunto sono i componenti la giuria: Taiye Selasi, De Cataldo, De Carlo, ma va detto che spesso non tengono conto che la letteratura, pur avendo delle sue regole, è alquanto soggettiva nei giudizi. Per cui ciò che può piacere, suggerire, emozionare uno, non necessariamente l’altro, per cui contano i valori che ogni singolo attribuisce alla propria scrittura e alla propria formazione culturale. Ciò non vuol dire che essi facciano male il loro mestiere di giudici ma che, a loro volta, risentono del personale background, quel bagaglio culturale che ognuno di noi si porta dietro. Pertanto, più che insultare o svilire i concorrenti, dovrebbero avere almeno quella umiltà che i loro ‘pareri’ non sono il ‘verbo’ e di conseguenza restituire al concorrente la dignità dell’essersi messo in gioco. È il caso di Taiye Selasi (nella foto) i cui interventi (molto esigui per via dell’italiano credo), sempre misurati e molto oculati, rivelano in lei un giudice sottile, molto umana, addentro alla perfezione lirica del testo più che hai contenuti. Un pregio questo di cui sono impregnati i suoi romanzi, molto belli, che scaldano l’anima.

A confronto con tanta letteratura straniera, il rischio reale nostrano è quello di cadere nella banalità, del già detto e sentito, nel dejà-vù, in quella pochezza di 'vedere in grande' che limita la nostra letteratura e che, Antonio Pennacchi (Premio Strega 2010) ospite della serata ha sintetizzato in ‘chiacchiericcio’ fine a se stesso, leggero, superficiale, tuttavia dando una sferzata ai giudici concludendo che "in fondo, ci si aspetta l’arte". E chissà se intendeva quella con la ‘A’ maiuscola riferita ai grandi romanzieri del passato. Fatto è che anche per quanto riguarda il cosiddetto ‘giallo’ di cui si è avuta qualche apparizione. In realtà si fa molta confusione tra ‘noir’ alla francese e quindi letterario, con il ‘giallo’ come lo intendiamo noi, una sequenza di accadimenti, omicidi, investigazioni e quant’altro. Al dunque, tra i concorrenti (secondo il mio parere tutti scadenti), una qualche rilevanza di ‘originalità’ era contenuto nel ‘chiacchiericcio’ di Kristin Maria Rapino (almeno era viva), e, per altre ragioni Adriana Di Meglio (nì). Negato l’accesso a Giampietro Miolato con il suo ‘fantasy’ forse solo un poco ingarbugliato, ma noi sappiamo che il ‘fantasy’ non è un genere che si fa breccia, come del resto non accade per testi ‘poetici’. Mentre, in un primo momento si è dato spazio a Pierangelo Consoli il cui testo, scurrile fino all’inverosimile, contro le donne, contro natura ecc., conteneva tuttavia qualche valore intrinseco non proprio chiaro, ma che poi è caduto inesorabilmente nello scontro finale, com’era opportuno che avvenisse.

Per la seconda fase del 'talent' che avverrà in Febbraio prossimo venturo, è stata scelta infine Raffaella Silvestri con un testo ‘piagnone’ (drammatico, addolorato) che in un primo momento anch’io avevo ritenuto valido (come scrittura), ma che poi, dopo la rivelazione di autobiografismo spinto, ho ritenuto eccessivo e, quindi, bocciato. Inutile dire che anche i miei ‘pareri’ sono da prendersi con le pinze, che riguardano solo me e il mio essere prima ancora che uno scrittore, sono un accanito lettore, per non usare il compassionevole aggettivo ‘appassionato’, ma ritengo sia proprio in questo la differenza, che le parole di per sé possono anche non dire niente, ma nel generale contesto (dalla prima all’ultima pagina letta), spingono a cercare il ‘senso’ dello scrivere e talvolta (purtroppo non sempre) a spalancare i misteriosi cieli, o le profondità se preferite, del nostro magico esistere.

Con quella di oggi è terminata la prima fase di Masterpiece il ‘talent’ di scrittura. Partecipa anche tu al ripescaggio web. Registrati, vota online e decidi quali concorrenti ammettere alla fase finale di Masterpiece in onda prossimamente su Rai 3. Registrati, vota on line e decide quali concorrenti ammettere alla fase finale.

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- Letteratura

’Gli sdraiati’ di Michele Serra

Michele Serra “Gli sdraiati” Feltrinelli 2013

 

Sia che siate figli o che siate genitori, come lo sono gli uni così gli altri, e comunque figli o genitori di un’altra generazione che vi ritenete ignorati, alienati o quantomeno trascurati, affrettatevi a leggere questo libro di ‘osservazioni diaristiche’ valido per una infinità di ragioni che vi riguardano. In qual senso? Semplicemente perché vi si rispecchia una certa realtà che puntualmente, come genitori non digerite ma che, soprattutto, non digeriscono i vostri figli, perché – scrive l’autore – “..entrambi ci conosciamo poco e male, e il cui destino sfugge giorno dopo giorno dalle nostre mani, ovviamente perché così è (e così va) la vita.”

Perché come va la vita?

Incominciamo (da un punto bisogna pure incominciare) dalle vicissitudini personali del quotidiano, per poi considerare le incompatibilità generazionali (ogni generazione ne ha di sue), per concludere (ma non è una conclusione) con le incomprensioni dei padri nei confronti dei figli e viceversa. Con la differenza che i padri (o presunti tali) ne soffrono, mentre i figli … beh i figli non si accorgono neppure di questa sofferenza dei padri e dei genitori in genere, loro non ne hanno. Le loro ‘sofferenze’ sono altre, e non si chiamano neppure sofferenze, per lo più sono di tipo ‘astenico’, ‘astrofico’, ‘esegetico’, compatibili con il ‘mobbing’ da stress genitoriale (padre), da ‘puerperio costante’ (madre), da ‘parentocrazia’ (parenti e amici dei genitori), da quelle che sono le facce obliterate e pur sempre ‘inquietanti’ degli ospiti di Galimberti.

Non spaventatevi, il nichilismo, almeno per questa volta resta fuori della porta, perché l’autore accompagna personalmente il lettore tenendolo per mano, narrandogli con la sua risaputa ironia, il suo dileggio scrittorio misurato non sulle parole quanto sulla loro musicalità, senza risentimento, quasi da far sembrare che tutto ciò che gli capita di annotare, in fondo non accade a lui medesimo, che piuttosto egli è solo un “..impacciato testimone” che osserva nell’ombra. E che poi è quella raffigurata sulla copertina del libro, così ben calibrata che un osservatore attento intuisce fin da subito dell’avvenuto passaggio generazionale di padre in figlio e viceversa. Anzi, di più, come dire che il figlio è la ‘controfigura’ del padre, insomma che ognuno ha il padre/o il figlio che si merita.

Qua e là tendente al sarcasmo e, tuttavia, mai ‘acido’ quanto invece lo sono sempre le parole che i figli rivolgono ai genitori, assistiamo alla presa in atto di un sentimento (nascosto tra le righe) talvolta amaro di certi riscontri, che Michele Serra elenca in veste di scrittore, ma che non riesce a nascondere completamente nei panni di padre attento e fondamentalmente buono, come si evince dalle pagine di questo libro che si pregia di una lingua franca, disincantata, e per questo capace di cogliere sia i risvolti acri, sia le effusioni paterne senza lo stucchevole rammarico del diarista pedante e rimarchevole. Piuttosto del padre che comprende le manchevolezze dei figli, ma che non ha imparato a incassare; così come dello scrittore che ha impressa la cifra del testo ma che non riesce bene a limitarlo. Onde per cui egli non da risposte a domande (che certamente non si fa), quanto invece le sdoppia in quelle azioni che si trova a dover affrontare, siano realisticamente personali o semplicemente annotate, siano apprese dai racconti degli altri.

Ma quando gli ‘altri’ sono i propri figli la cosa cambia, prende un diverso risvolto, e la chiave di lettura non può (non riesce) ad essere altro che quella dell’amore, per cui l’approccio non è indipendente (semplicemente non può), anzi, lo diremmo piuttosto ‘impertinente’ rientrante in quella dimensione del mondo in cui come padre avrebbe voluto che … in cui come scrittore vorrebbe che … per poi ritrovarsi a fare tutto quello che per sé non avrebbe fatto, ciò che mai avrebbe consentito, nelle parole, negli atteggiamenti, nelle azioni, riguardante la propria ‘immagine’, il proprio corpo fisico, il proprio vestire, e che invece, volente o nolente, si trova oggi ad ‘accettare’ (non si sa bene come e sebbene con qualche riserva). In ciò riscontriamo come la società in parte rivoluziona se stessa, come la dimensione del tempo perde i suoi connotati di etica, perbenismo, moralità, amor proprio, rispetto, pudore ecc. ecc.

Non c’è che dire, oggi è possibile affermare (e Serra lo fa con cognizione di causa), che in fondo erano ‘solo parole’ di cui ‘forse’ era possibile fare a meno, di cui ‘si deve e si può’ fare a meno, senza una vera ragione, senza un perché (?) A rifletterci su, in realtà non c’è un perché o, almeno non sempre, e questa è appunto l’eccezione che conferma la regola, che non sempre va cercata una risposta, perché una risposta non c’è. A meno che non se ne voglia trovare una qualsiasi che, sarebbe poi, già obsoleta quanto inutile, per il fatto che sarebbe ‘moralista’ o che (per concessione) sarebbe alquanto ‘logica’, cioè ‘scontata’; come direbbe Odiffreddi “..per chi desidera ascoltare un’ora chi si interroga sul tema da una vita.

Ma chi sono ‘gli sdraiati’?

“..Forse sono di là, forse sono altrove. In genere dormono quando il resto del mondo è sveglio, e vegliano quando il resto del mondo sta dormendo. (..) I figli adolescenti, i figli già ragazzi” – scrive Serra. Sono figli di un germe (oggi lo diciamo virus) che si è incuneato nella società dell’ozio, del benessere, del consumismo, dei ‘quanti’ si radunano, si assemblano, si coagulano all’unisono, tutti vestiti allo stesso modo, con le stesse nuance, gli stessi piercing, gli stessi tagli di capelli, che si incontrano in un rave party, o che si ammassano all’interno di un pub o quant’altro, senza avere niente da dire e da fare, che sostano davanti a un boccale di birra ‘persi’.. No, ma cosa dici mai? Volevo dire ‘riflessivi’, intenti a decostruire ogni forma ‘viva’ del linguaggio e del pensiero (meditativo). Non è stato così anche per i ‘figli dei fiori’, dei ‘capelloni’, dei ‘punk’, e adesso dei ‘metallari’, dei …

Oh sì, certo, le mode cambiano, e chissà poi perché mai in meglio! Diremmo noi (dei una generazione precedente) e che probabilmente diranno loro guardandosi all’indietro tra cinque anni (perché è così in fretta che cambiano le cose). Un virus che da semplice malattia infettiva (sviluppatasi nella precarietà del dopoguerra) è però diventato letale, passando dall’alienazione allo squilibrio demenziale, alla de-costruzione di tutto ciò che poteva avere un senso, a tutto ciò che dava un senso … In letteratura (in breve) si è passati dal particolare stato di inerzia dell’ ‘oblomovismo’, da ‘Oblomov’, nome del protagonista dell’omonimo romanzo di Gončarov, all’atteggiamento di apatia dell’ ‘Uomo senza qualità’ di Musil; dalla fatalistica indolenza di Swann per la promessa di felicità sulla quale Proust costruì il suo capolavoro, fino alla precarietà dell’esistenza esibita nella ‘classe morta’ di Kantor, in cui egli riassume una caratteristica alquanto emblematica del significato ‘vita’. Come pure lo ha esposto Moravia in “Gli indifferenti” e Pasolini nella figura di Carlo protagonista di ‘Petrolio’ simbolo di contraddittorietà e, soprattutto, in quei “Ragazzi di vita” che sono la cruda testimonianza dell’esistenza che si consuma senza una speranza, senza un futuro.

Ma se l’indifferenza (verso tutto o quasi tutto ciò che non li riguarda) dei più giovani la discriminiamo come ‘apatia’ (malattia psichica), e che invece è solo ‘impassibilità’ che diversamente ha rilevanza virtuosa (stoicismo), allora il ‘problema’ (se mai lo sia stato) è di per sé risolto, perché strettamente legato al concetto di ‘provvidenza’, onde si viaggia in assenza di esaltazione e del conseguente abbattimento, che lascia chi ne è affetto, fermamente convinto che ogni evento, anche spiacevole, sia teso verso il bene, quindi nell’assenza di passioni sconvolgenti, nella totale indifferenza (stoica) che gli permette di evitare la successiva disillusione (tristezza). Non male per chi ha fatto della propria sopravvivenza uno ‘status’ perfettamente riconoscibile e riscontrabile di una fascia deresponsabilizzata d’età.

Chi dovrebbe assumersene le colpe?

Nessuno è la risposta (forse solo di alcune responsabilità). La vita è (va) così, ed è così che deve andare. Io padre tu figlio scoordinati in un dialogo che il tempo ‘rarefatto’ man mano assottiglia fino a non comprendersi più; in un sdoppiamento che non può essere come vogliamo o come lo abbiamo pensato, è altro, va per la sua strada, o forse per il suo cielo; come quell’aquilone che abbiamo costruito e che un bel momento ci sfugge di mano, è allora che bisogna lasciarlo andare, allora noi “..non altri, sono quelle due sillabe. Io sono quello che deve. Forse non vuole, forse non può, comunque deve.” Tu sei l’altro, tutto quello che vorrai essere … anche di poter restare sdraiato.

 

Dalla presentazione:

 

Miche Serra si inoltra in quel mondo misterioso. Non risparmia niente ai figli, niente ai padri. Racconta l’estraneità, i conflitti, le occasioni perdute, il montare del senso di colpa, il formicolare di un’ostilità che nessuna saggezza riesce a placare. Fra burrasche psichiche, satira sociale, orgogliose impennate di relativismo etico, il racconto affonda nel mondo ignoto dei figli e in quello almeno altrettanto ignoto dei ‘dopopadri’. “Gli sdraiati” è un romanzo comico, un romanzo di avventure, una storia di rabbia, amore e malinconia. Ed è anche il piccolo monumento a una generazione che si è allungata orizzontalmente nel mondo, e forse da quella posizione riesce a vedere cose che gli ‘eretti’ non vedono più, non vedono ancora, hanno smesso di vedere.

 

Michele Serra Errante scrive su “la Repubblica”, “L’Espresso”, “Vanity Fair” il teatro e la televisione. Di lui vanno ricordati almeno altri due romanzi: “Tutti i santi giorni” (2006) e “Breviario Comico” (2008) editi da Feltrinelli. Buona lettura!

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- Libri

’MASTERPIECE’ V - 22 Dicembre 2013

‘MASTERPIECE’ V, Domenica 22 Dicembre 2013 Sempre più tardi, 0re 23 passate, dopo 2 TG e doppio spazio pubblicitario, prima dell’ennesima messa in onda del ‘contest’ Masterpiece talent dedicato agli aspiranti scrittori, prodotto in collaborazione da Rcs Libri, Rai e Fremantlemedia, che Le Monde, il quotidiano francese ha definito "Un 'masterflop'" dal risultato quasi scontato per un paese, l’Italia, che non legge. Al quale possiamo rispondere a tono, che se l’Italia non legge ha però una miriade di ‘ottimi scrittori’. Comunque, un pizzico di ragione a questi francesi gliela possiamo anche dare, volendo almeno essere buoni per Natale. Fra i molti ‘no’ (dati da me) e i molti ‘sì’ dati dai giudici ufficiali, ha fatto la sua apparizione un ‘poeta’ eureka! Trattasi di Luca Maletta, giovanissimo, che ha scelto per la sua ‘sortita’ in società nientemeno che un ‘romanzo in versi’ e per di più a sfondo storico. Non male se consideriamo che per essere la prima volta, di lui, nonché della poesia, fin da subito si è piazzato bene, addirittura mettendo in difficoltà per ben due volte la giuria che si è espressa ‘benevolmente’: la prima volta per essersi misurata con un testo che possiamo definire ‘fuori programma’; la seconda, perché nel contest in diretta ha scritto un ‘pezzo’ all’altezza del romanziere navigato, che non è poco. Un pizzico di fortuna in più ed era fatta se sulla sua strada non avesse trovato un ‘campione’ di tutto rispetto, quello con l’ X Factor, tanto per restare in tema: Stefano Trucco (un mio sì fin dall’inizio), che si è presentato con davvero un gran bel testo, sul quale, credo i giudici avranno poco da lavorare senza inficiare il taglio linguistico dell’autore. Un altro sì meritato poteva anche essere quello di Margherita Fiaccavento, forse troppo autobiografico ma che ha rivelato il coraggio ‘tutto femminile’ di rimettersi in gioco quando proprio tutto, dal lavoro alla vita all’amore, sembrava crollarle addosso e forse non avere più un senso. Di Alessandro Toso posso solo dire che per quanto il suo testo sia stato giudicato valido e originale (come punto di osservazione) dai giudici, a mio parere seppure ben scritto mi è sembrato senza emozioni (o forse senza cuore) quasi un esercizio di stile, intelligente quanto artato. Una piccola ‘défiance’ (perdonabile) questa volta è arrivata da De Cataldo, quando, a un certo momento ha fatto una confidenza per me fuori luogo ma che, ci permette di conoscere un po’ più a fondo il personaggio: “Quando scrivo un testo e lo faccio leggere a mia moglie, e se non va bene lei sa cosa fa? Lo butta via!” – ripetendo poi il gesto di buttarsi qualcosa alle spalle. Pls concedetemi almeno due domande (cattive), uno: De Cataldo (nella foto) si avvale di avere per moglie Misia Sert, Gertrude Stein, Virginia Wolf, la Sagan, la Maraini, la Fallace o qual altra? (solo per citarne alcune). Due: oppure la novena era riferita alla ‘piccola fiammiferaia’, e quindi alla prova del nove, nel senso che se va bene alla moglie/casalinga, va bene per tutti? E quindi ammettendo che anche lui trova umilmente il coraggio di mettersi in gioco, quando gioca? Quant’è umano magari ce lo conferma la prossima volta. Mentre noi siamo qui che lo aspettiamo al varco. Riguardo all’ospite, e questo va a beneficio della trasmissione, come al solito si è optato per una scrittrice d’eccezione: Simonetta Agnello Hornby, presente in libreria con numerosi titoli, tutti di successo, della quale vanno qui ricordati almeno gli ultimi due romanzi di grande impatto intimistico: “La cucina del buon gusto” (2012) e “Il veleno dell’oleandro”(2013) entrambi per Feltrinelli; “Il male che si deve raccontare. Per cancellare la violenza domestica” con Marina Callon, Feltrinelli, 2013. Con un programma che ha coinvolto le donne potenzialmente esposte a violenza e le aziende in cui lavorano, la Global Foundation for the Elimination of Domestic Violence (Edv) ha contribuito a contenere il fenomeno della violenza domestica in Inghilterra. Questo libro ha lo specifico obiettivo di creare una Edv italiana per applicarne il metodo nel nostro paese. Sicula, d’adozione inglese, in breve, ha centrato la ‘cifra’ dei due contendenti finalisti della serata e credo abbia dato un risvolto positivo a quelle che, almeno in parte, erano le intenzioni della giuria ufficiale. Non ci rimane che aspettare la prossima puntata che andrà in onda Domenica 29 Dicembre in prima serata alle 21,10 sempre su RAI3 . per chi invece volesse leggere i testi dei contendenti, si può cliccare sul sito www.masterpiece.rai.it. Buonanotte!

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- Musica

Buon Natale e Felice Anno Nuovo



BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO

Pensa quattro parole..
Scrivile su di un biglietto
Incornicialo di musica
Il tuo messaggio giungerà a destinazione
Sulle note festose di un flauto o di una celesta
Di un concerto di voci o nell’insieme di una grande orchestra.
Se l’amore ha un senso
Diamo un senso alla nostra vita..

 

Per Natale regala musica, libri e poesia.

 

 

 

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- Libri

’MASTERPIECE’ IV - 15 Dicembre 2013

‘MASTERPIECE’ IV, Domenica 15 Dicembre 2013

Avrei voluto iniziare questo articolo parlando di come diventano ‘umani’ gli italiani quando sono chiamati a indossare i panni di ‘giudici degli altri’ ma, come se non bastassero gli esempi negativi offerti dalla Giustizia più in generale, quasi ho creduto che ciò fosse possibile. Tutt’altro, la conferma che mi sbagliavo è arrivata dopo appena un quarto d’ora di trasmissione del programma e ancora una volta dallo spocchioso e maleducato De Carlo, che pure apprezzo come scrittore. Chissà perché ha scelto, ma non voglio pensare che sia davvero così dispotico e arrogante, di trattare in modo davvero 'miserabile' i partecipanti di questo ‘contest letterario’ di cui si sentiva la mancanza, e la cui validità, va riconosciuto, assume grande importanza nel ‘vuoto’ panorama italiano.
Riassumo qui le frasi trasmesse e quindi ascoltate da quanti seguono il programma:

La vostra è stata una prova miserabile!

Questo testo fa schifo!

Sarebbero da prendere a calci tutti e due! (neppure entrambi)

Cui ha fatto seguito, addirittura, l’aver tirato il 'testo' presentato da una concorrente (ancora una volta donna), com'era già accaduto nella prima puntata andata in onda.

Discutibile che uno dei giudici si permetta questa mancanza di rispetto verso dei partecipanti fintanto che ne risponde di persona, ma che la RAI in quanto ‘servizio pubblico’, seppure coadiuvata da FremantleMedia, in collaborazione con Rcs Libri, permetta certe bassezze e la totale mancanza di rispetto per i partecipanti è davvero intollerabile; che poi gli altri giurati glielo lascino fare, sappiano che così facendo, trascinano anche la loro partecipazione in una diatriba da osteria, il che mi sembra il colmo. Qualcuno dovrebbe dir loro che ne vale la loro stessa reputazione. Riferendomi più precisamente alla privacy dei concorrenti va inoltre aggiunto che in questo modo si da il proprio nome in pasto alla gogna mediatica e che, probabilmente, non avranno più la possibilità di presentare i propri testi ad altro editore, perché ormai bruciati.

Di fatto, siamo alle solite, molti testi ‘social’, poco spazio al ‘fantasy’, nulla al ‘poetico’ (non in quanto poesia). Tuttavia le scelte, a mio giudizio, sono state oculate per quello che è il materiale presentato. In conclusione si è preferito Gabriele Zedde (fantasy), con qualche riserva, a Lorenzo Raffaini (social); Yelena Kuzhecova (social), a Stefano Bussa (noir) esempio più unico che raro, collocatosi fra i finalisti della puntata in corso. Per il resto i tre giudici, oltre al già citato De Carlo, il gigione De Cataldo e la sempre misurata Taiye Selasi, (e molto, molto educata, da essere quasi umana), hanno dimostrato, mi piace ripetere una loro frase, il peggio di sé, almeno in ragione del fatto che non trasmettono la sensazione di essere motivati in quello che fanno. Secondo me non mettono in gioco quella giusta dose di entusiasmo che li rende accattivanti e che tanto piace al pubblico televisivo.

Apprezzato, seppure lasciato in penombra, l’intervento di Andrea Vitali, ‘infaticabile costruttore di storie’, presente sulla scena letteraria con il suo strepitoso successo “Di Ilde ce n’è una sola” – edito da Garzanti 2013, la cui presenza andava a mio parere ‘valorizzata’ dandogli almeno la visibilità che merita. E del quale leggiamo dalla sua biografia (Google), a mo’ di ‘percorso’ da seguire per ‘aspiranti scrittori’:

“Confesso che sin da giovane ho avvertito la necessità di scrivere, di usare la scrittura come mezzo di comunicazione con gli altri. Come confessione, me ne rendo conto, non è gran che, ma non riesco a partire da altro punto per tentare di spiegare come sono arrivato a raccontare un certo tipo di storie. All'inizio quindi era la scrittura, non concepita come esercizio solitario - nessun diario nella mia infanzia e nemmeno nella gioventù- ma come esperienza da condividere. Insomma, ci voleva qualcuno che leggesse quel che scrivevo.”
Buonanotte!

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- Sociologia

La Piazza Universale

‘La Piazza Universale’ by Giorgio Mancinelli

C’è gran confusione nella piazza del Vecchio Borgo, un andirivieni di gente arrivata da ogni parte del contado per l’occasione della ‘Fiera delle meraviglie’ come qualcuno la definì nei tempi andati. Un forte richiamo per i venditori che vi accorrono in massa, con carrette e teloni variopinti, mercanzie e oggetti d'artigianato che mettono in bella mostra. Ci sono gli ambulanti che richiamano l'attenzione del ‘gentile’ pubblico a raccolta; i contadini con i prodotti della terra, tuberi e granaglie appena macinate che riempiono cesti e canestri; l’arrotino, il falegname e l’impagliatore di sedie; il ritrattista, il fotografo delle grandi occasioni, lo speziale e anche il ciarlatano, degno parodista della buffonaggine umana che, in piedi sullo sgabello, declama gli ultimi ritrovati della scienza, l’ultima invenzione della tecnica, e commenta gli ultimi ‘sberleffi’ della moda.

Tra le bancarelle c’è chi espone le masserizie per la casa, utensili e pentolame, scarpe e ciabatte, stoffe e preziosi, ed anche chi, alquanto stravagante, da spettacolo di sé, di quel poco che possiede o che sa fare, ammirato e applaudito da un nugolo di bambini che scorazzano in qua e in là, ora incalzando il venditore di palloncini, ora facendo la fila davanti al banco dello zucchero filato e dei pasticcini coi canditi; e chi tra essi conduce un capro per le corna, chi porta del latte appena munto, chi rincorre il ‘cerchio’ e chi, per un soldo, si mette a fare le capriole sopra il prato. Ed è qui che, alle grida levate dal banditore, tutti accorrono per vedere aprirsi le porte variopinte della ‘Piazza Universale’, felici di assistere a più d’uno spettacolo offerto dalle Macchine da Fiera: del ‘Mostro divoratore’ e delle ‘Montagne russe’, nonché dai congegni meccanici del Luna Park, come la 'Grande Ruota' panoramica, la 'Giostra' che instancabilmente continuava a girare, coinvolgendo tutto e tutti nella fantasmagoria della musica e delle luci colorate. Non in ultimo, per l'attrattiva di fare i 'giochi' della Tombola e della Lotteria, o per tentare la Ruota della Fortuna e regalarsi un ‘sogno’ che, il più delle volte, si traduce in un innocente momento di svago.
Tuttavia lo spettacolo più grande è offerto dai ‘funamboli’ che, sospesi in equilibrio sulla fune tesa attraverso la piazza, fanno salire la tensione al cielo e arrestare il battito del cuore di chi li osserva: dal ‘mangiatore di fuoco’ che s’avvampa nell’incendio dell’immaginario, ai venditori di spezie ed erbe medicinali cosiddetti ‘speziali’ che rifilano 'elisir' ed altri 'aromi' afrodisiaci. Come pure dai Maghi, ideatori di numerosi artifici, e dagli Zingari dai costumi colorati, con i loro tipici strumenti musicali, le danze sfrenate e, soprattutto, coi loro animali ammaestrati, le cui capacità raggiungono talvolta l’inverosimile, tanto sono 'intelligenti'.
Nondimeno lo spettacolo è assicurato dai ‘saltimbanchi’ un po’ acrobati e un po’ buffoni che scatenano antiche paure del vuoto e il riso per la burla giocata ai buontemponi; il cui ruolo è riconducibile a quello del ‘trickster’, imbroglione della tradizione inglese, preso poi a soggetto della maschera grottesca del ‘clown’ che tutti quanti abbiamo e continuiamo ad apprezzare. Grazie al quale, ancora oggi, ci appaiono ‘veri’ tutti i personaggi di fondo che esso impersona: dai ‘burattini’ del romano Ghetanaccio, ai ‘mendicanti’ di Giovanni Serodine, ai ‘birbanti’ di Giuseppe Maria Mitelli, fino ai ‘maccaronari’ di Domenico Gargiulo, protagonisti di molte gesta leggendarie e di altrettanti romanzi popolari.
Tutto questo riguarda un passato prossimo non poi così lontano da noi, ma è qui d’obbligo ripercorrere la strada a ritroso per ritrovare quelli che sono i ‘motivi fondanti’ che hanno portato all’origine della tradizione della ‘fiera di piazza’ avente come scopo primario, lo scambio delle mercanzie e dei prodotti dei campi, sia in forma di acquisto diretto che di baratto. Nonché delle forme ludiche imprescindibili della ‘festa popolare’, con i suoi lazzi e giochi, competizioni, svaghi e intrattenimenti: dall’ ‘albero della cuccagna’, alla ‘rottura delle pignatte’, allo ‘scoppio dei petardi’, fino al ‘grande falò’ che veniva acceso, quasi a notte tarda, nella piazza del mercato, in cui venivano bruciate assieme ai rifiuti, le masserizie ormai inservibili.
Avvenimento questo del 'falò', che ancora oggi, lì dove è stato conservato, presenta almeno due aspetti antropologici di grande rilievo: uno mitico, certamente arcaico, con il quale si salutava la fine della passata stagione invernale e l'inizio della primavera; l'altro, più recente a carattere popolare che prevedeva di ‘saltare’ attraverso le fiamme. Un gesto sicuramente catartico atto a recuperare una originaria prova iniziatica di purificazione. L’occasione della Fiera, infatti, cadeva più volte all’anno e solitamente coincideva con il passare delle stagioni, quando la cacciagione o la raccolta permettevano di portare ‘in piazza’ le mercanzie e i prodotti stagionali della terra. Era allora che la ‘piazza’ si animava dei ‘giochi’ e delle ‘attività’, specifiche ed esemplari, che l’hanno vista trasformarsi con successo nella ‘Piazza Universale’.
Tali e tante erano le 'novità' che richiamavano ogni gente, di ogni ceto ed estrazione che si mostrava per quello che era, con le sue disponibilità economiche e le possibilità raffinate dei ricchi, con la povertà e la carenza culturale dei ceti più abbietti, ma anche con l’arguzia degli intelligenti in cerca di fare affari. Certo non sono mai mancati i traffichini, i farabutti, gli arrampicatori sociali o la gente di malaffare che vedeva nella ‘piazza’ l’occasione per arricchirsi rubando o mettendo a segno qualche vendetta personale. Ma era, per così dire, l’umana stortura di una società che s’avviava a confluire in ciò che oggi si chiama ‘collettività’ e che vede nella interazione popolare, una necessaria forma di conservazione e una certa scambievolezza reciproca.
Vanno qui inoltre menzionate le ‘attività comunitarie’: sia religiose, come partecipare alla Messa in Chiesa o sul Sagrato di fronte alle autorità cittadine, le processioni della Settimana Santa o del Santo Patrono, e le Sacre Rappresentazioni che portavano in scena i fatti salienti dei testi biblici; sia laiche come i balli, le mascherate, il teatro burlesco, fino ai più scenografici spettacoli che muovendo dall’interno delle Corti, sfilavano in quella che pubblicamente era considerata “La Piazza di tutte le Professioni del Mondo”, come la definì nel lontano 1500 il canonico Tommaso Garzoni, autore di curiose opere d'erudizione, caotiche e capricciose, nelle quali sono accatastate le notizie e le osservazioni più varie, cose, usi, costumi, vizî, passioni, virtù, miserie dei tempi antichi e moderni.
Opere queste che hanno messo in evidenza come a sua volta, la tradizione si è impossessata di quel ‘meraviglioso’ cui la ‘Piazza’ era legata da fila sotterranee fin dagli esordi della sua esistenza. Unico momento in cui, dopo i mesi di duro lavoro, era possibile conoscere le ultime novità, i fatti salienti della cronaca di altre città, acquistare e scambiare informazioni, ed anche per familiarizzare, per misurarsi con gli altri e mostrarsi in pubblico, il che conferiva ai molti di acquisire una certa ‘identità sociale’. E che, infine, si è rivelato uno dei filoni più ricchi della creatività popolare: l’arte dell’incontro, dello scambio reciproco e quindi del commercio, il cui esito arriva alla concezione della moderna pubblicità e al concetto fondante dell’attuale sviluppo delle Pubbliche Relazioni.
La ‘Piazza Universale’ dunque come banco di prova, luogo iniziatico dove si evincevano le antiche paure del singolo, per affermare noi stessi di fronte agli altri, nel reciproco scambio delle parti di giudici e giudicanti e raccogliere il necessario consenso di fronte alla comunità raccolta. Sebbene quello della Piazza sia stato sempre visto come forma di spettacolo ‘casuale’ o ‘procurato’, con esso si metteva a nudo una indistinguibile verità chiassosa che al ricordo degli avvenimenti anche più recenti, a volte ci da un brivido di inconsistenza che pure mette in azione i moti dell’anima, allorché per soddisfare la vanità che ci rivela, inventiamo il nostro effimero, lasciandoci guidare da ‘burattinai’ politicizzati e sindacalizzati, che nulla hanno a che vedere con lo spirito che in passato ha animato la ‘Piazza Universale’ cui si fa qui riferimento.
E sempre più ci sembra d’essere al tempo stesso ‘attori e spettatori’ di noi stessi, personaggi d’una rappresentazione che non ci appartiene, che ci procura quella strana, caduca sensazione, d’essere in bilico su un palcoscenico che oscilla, che vortica all’interno di un ingranaggio che non riusciamo più a fermare e che ci schiaccia, azionato da un altrui volontà: che sia l’orco affamato delle fiabe che ci rincorre, la divinità infernale del mito che ritorna, il mangiafuoco che ci divora, la globalizzazione che ci cannibalizza, che ci annienta come individui, come popolo, come ‘umani che mangiano altri umani’?, non so dire. Ma forse una risposta sta nel disconoscere il passato, i ricordi e i rimpianti che portiamo dentro di noi, e lasciarci ‘divorare’ dalla realtà di oggi, perché altrimenti finiremo per ridurci al solo ruolo di ‘attori’ della nostra vita, e quindi solo ‘spettatori’ della nostra ‘vanità’.
Anche per questa ragione oggi dobbiamo riprenderci la ‘Piazza Universale’, recuperare la nostra dignità dalle mani di quei ‘burattinai’ che si accordano per sottomettere la ‘piazza’ ai propri interessi economici, ai propri avidi propositi di potere. Allora la risposta non è che una: ‘libertà’ di pensiero, di parola, d’intendimenti, d’incontrarsi, di dialogare, di votare i propri capi elettivi; libertà di contribuzione, di cooperazione, di sopravvivenza; libertà di gestire, di misurarsi con gli altri, di esistere come entità umana pensante e discernente; onde abbattere le differenze sociali, le diversità di genere, le discordanze culturali e razziali, per riaffermare quelli che sono i ‘nostri diritti’, e noi stessi, nell’ambito di quella realtà socio-culturale economico-politica che più ci conviene, rappresentata qui dall’immagine della “Piazza Universale di tutte le Professioni del Mondo” e dell’intera umanità consapevole.
E allora chissà? Magari questa nostra umanità così oltraggiata e offesa, questa nostra vita così vilipesa, questa stessa nostra Terra sfruttata e derubata ritroverà la pace di cui abbisogna, e tornerà ad essere quella ‘giostra’ tante volte sognata, che ‘meraviglia delle meraviglie’ ad ogni Fiera di Piazza continua a girare, col movimento di un argano meccanico che suona, gira e suona, suona e gira, con le sue luci colorate e i cavallucci bianchi e morelli che nel girare oziosi s’alzano e si abbassano in attesa di prendere il volo, per un' 'altra' stagione della vita.

"La Piazza Universale" - Catalogo della Mostra a cura di Elisabetta Silvestrini - Mondadori/De Luca - Museo delle Arti e Tradizioni Popolari - Roma 1988

 

 

 

 

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’MASTERPIECE’ III - 01 Dicembre 2013

‘MASTERPIECE’ III, Domenica 01 Dicembre 2013-12-02

“Parlatene male purché ne parliate”, una frase fatta non si nega a nessuno, quindi ne faccio uso anch’io per riassumere un po’ quella che è stata la messa in onda di questa sera. Fermo restando che nella dinamica del montaggio un po’ troppo ‘sbrigativo’ qualcosa si perde e l’utente, anche il più attento, ahimè è penalizzato a non comprendere il perché di certe scelte, si comprende invece come la giuria abbia svolto un grosso lavoro a monte, prima di approdare a quello che è dato vedere nel programma.
Va detto, comunque, che la puntata è stata meno noiosa del solito, e sono stati evitati atti o gesti insopportabili. Si è invece compreso ‘finalmente!’, quello di cui i giudici sono alla ricerca, magari solo per imput ricevuto dall’editore, ma questo non è dato sapere. Dalle loro affermazioni, dai giudizi espressi e quant’altro, se ne ricava che sono alla ricerca di una certa ‘originalità’ nello scrivere ma che il ‘taglio’ non dev’essere poetico (visionario,) né fantasioso (fantasy), né giornalistico (cronaca), bensì ‘reale’ o quantomeno ‘realistico’, giocato esclusivamente sulla ‘veridicità’ della storia narrata, anzi per dirla meglio, della storia ‘scritta’ che, non è la stessa cosa e che fa la differenza.
Mentre ‘narrare’ una storia non necessariamente deve rispondere a ‘veridicità’, ha necessariamente bisogno di uno svolgimento temporale dilatato, non conforme al tempo medesimo di ciò che è narrato e, del resto il lettore stesso si prende tutto il tempo che vuole o che ha a disposizione per addentrarsi nella narrazione; mentre lo ‘scrivere’ una storia lo pretende, con i suoi tempi dinamici, attivi nel perseguire l’interesse costante del lettore, anche se qualcosa infine perde nell’economia della scrittura stessa che, necessariamente, risulta più asciutta, finanche scarna. Scrivere un ‘capolavoro’, che finora non sembra essere neppure apparso all’orizzonte, è ben più difficile che raccontare un qualcosa che richiede tempi narrativi più meditati, e per questo certamente meno razionali, di una scrittura dinamica che risponda a quelli che sono i requisiti fin qui analizzati.
Tuttavia l’argomento non si pone se consideriamo il fatto che tutti i ‘romanzi’ giudicati finora descrivono situazioni per lo più ‘emotive’ e, generalizzando, in certo qual modo ‘psicologiche’ del disagio umano e sociale dei concorrenti e che, strano a dirsi, talvolta arrivano all’ascoltatore dallo ‘scilinguagnolo’ sciolto, benché colto, messo in piazza dal coach Massimo Coppola nei pochi istanti dei suoi colloqui, e dalla capacità di alcuni concorrenti, nel lasso di tempo di ‘un minuto’ che passano in ascensore ‘dalla terra al cielo’ all’interno della Mole Antonelliana nel riassumere la loro opera. Che forse gli autori andrebbero lasciati parlare un po’ di più? Che fare spettacolo non sempre vuol dire per l’editore fare business? Non oso rispondere.
Di certo in questa terza serata MASTERPIECE ha rivelato una possibilità in più di essere un ‘talent’ da coltivare in futuro, magari con qualche aggiustamento e mandarlo ‘in onda’ in un orario più accessibile, visto che l’indomani è lunedì e il più degli spettatori è occupato nel quotidiano lavoro. Che dire infine dei partecipanti? Tra quelli più risentiti ci sono senz’altro la coppia Barberino e Lucillo entrambi siciliani il cui spirito comico (arguto e intelligente) si è rivelato fin da subito; e l’altro, allìapparenza un po’ presuntuoso Lorenzo Vargas con il quale ho condiviso almeno una frase: “..se noi giovani non ci incensiamo da soli, è difficile che lo facciano gli altri” che oltre a suonare vera, rispecchia in pieno il suo modo di scrivere che, personalmente, ‘dalla prova scritta’ mi è piaciuta molto. Ottima mi è sembrata la prova di Agnese Peretto la giovane ventenne che, oltre a mantenere un aplomb gioviale per tutto il tempo ha anche scritto un ‘pezzo’ (prova) che andava nella direzione ‘dinamica’ richiesta. Anche con il plauso che voglio qui restituire alla giuria, visto che, giunti alla fine, malgrado sembrino gli ‘orchi’ dell’antro cavernoso della letteratura, ogni volta mi trovo in accordo con le loro scelte.
La breve apparizione di Silvia Avallone (nella foto) scrittrice affermata che ci ha dato riprova delle sue capacità narrative ha concluso bellamente la serata con una breve lettura (De Cataldo) il suo romanzo d’esordio Acciaio (Rizzoli, 2010) ha vinto il premio Campiello Opera Prima, il premio Flaiano, il premio Fregene, e si è classificata seconda al premio Strega 2010. Il romanzo è stato tradotto in 22 lingue e in Francia, con “D’Acier”, ha vinto il Prix des lecteurs de L’Express 2011. Da Acciaio è tratto il film omonimo, per la regia di Stefano Mordini, con Michele Riondino e Vittoria Puccini, prodotto da Palomar. Il suo nuovo romanzo s’intitola “Marina Bellezza” (Rizzoli, 2013).





 

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’L’altra Sicilia’ di Carlo Barbieri

'L’altra Sicilia' di Carlo Barbieri

L’incontro è avvenuto ieri 21 Novembre a Roma. L’Inquirente Gaetano Savatteri (alias di se stesso) ha ‘sfrucugliato’ il Commissario Francesco Mancuso, (alias Carlo Barbieri), sul caso de “Il morto con la zebiba” (Todaro Editore - 2013) in un confronto pubblico cui hanno preso parte amici, lettori dei precedenti libri, curiosi, librai, giornalisti più curiosi degli altri. Lo scopo? Di scoprire non tanto come fossero andati i fatti di cronaca narrati, quanto invece l’identità dell’uomo con la zebiba. La zebiba?
Un tempo da lupi, con la pioggia che scrosciava fuori e l’abbassamento della temperatura, l’accogliente spazio della Libreria Pagina 348 (di Marco e Alessio Guerra) in Via Cesare Pavese, ha offerto un rifugio sicuro al meeting che possiamo ben definire ‘conviviale’, anche se non c’è stato il tè con i pasticcini perché l’orario era stato volutamente posticipato alle 06 p.m.. Meglio così, perché visto come vanno le cose italiane, in confronto non sarebbe stato poi così interessante e tutto sarebbe finito ‘a tarallucci e vino’. Il che non mi sembrava davvero il caso parlando di un ‘morto con la zebiba. La zebiba?
Devo però ricordare a chi non lo rammenta o che proprio non lo sa che il finale ‘a tarallucci e vino’ era parte integrante della tradizione arcaica dei ‘riti amatori per i defunti’; allorché si offriva a parenti e amici intervenuti un ‘rinfresco’ d’addio al defunto che talvolta diventava un vero e proprio banchetto a seconda delle possibilità economiche della famiglia o per onorare il lascito testamentario del defunto. Ora non saprei dire se il termine ‘rinfresco’ stesse per ‘a rinfrescare la memoria’ o cos’altro, anche perché tutti sapevano chi avevano accompagnato al cimitero con le solite trite frasi: “sono sempre i migliori che se ne vanno!”, “ah che persona meravigliosa era!”, “avete idea, un sant’uomo!”. Oppure se si officiava per placare la fame degli intervenuti dopo le ore passate al sevizio funebre e magari dopo aver affrontato un lungo viaggio. Qualcuno potrebbe dire che almeno in questo caso, tutte siffatte cerimonie non sarebbero state ‘politically corrected”, in quanto ‘fuori posto’, visto che il cadavere era quello di un emigrante musulmano ‘doc’, cioè con la zebiba. Con la zebiba?
Non è così, anzi, afferma l’autore del libro, a maggior ragione il ‘santo’ in questo caso è comprovato, vuoi per ‘la fede’ professata con vigore, e la zebiba lo dimostra pienamente; vuoi per il coraggio dimostrato nell’affrontare la drammatica realtà dell’emigrante che nel caso specifico qui si rappresenta: l’attraversamento del deserto e del tratto di mare su una barca fatiscente, ritrovarsi in un paese e una lingua che non conosce ecc. con tutti i rischi per la propria sopravvivenza che esso comporta; un doversi quasi scusare (mai vergognarsi) per la sua zebiba. Ancora con questa zebiba, ma cos’è?
Molto più di una fede corrisposta, è la ragione stessa di un modo di vivere in sintonia con la visione islamica da parte di ‘è devoto a Dio’, che si esprime anche con ‘salvare’ e ‘pacificare’, termini questi che vanno ricondotti agli insegnamenti del Corano e che, quindi, non hanno nulla a che vedere con il fondamentalismo islamico. Che andare per mare … Ed è forse di questo che in primis dovremmo parlare, propone Savatteri, di questo nostro mare che insieme avvolge e conchiude la Sicilia come fosse un’isola leggendaria in mezzo ‘agli orizzonti’, micro/macro cosmo e crocevia delle diverse ‘culture’ del Mediterraneo, che tutte le raccoglie e le trasforma in quella che è la ‘cultura’ specifica della Sicilia vista dai Siciliani. Anche loro ‘doc’ e dai nomi altisonanti come: Tomasi di Lampedusa, Pirandello, Sciascia, Camilleri e moltissimi altri, dall’una all’altre sponde con nomi diversi secondo le diverse origini: turco-greche, fenicio-arabe, germano-liguri, ispano-portoghesi anche se non hanno la zebiba. La zebiba?
Quei ‘Siciliani’ con la ‘S’ maiuscola che Savatteri, nel chiedere all’autore Carlo Barbieri, come si racconta un popolo attraverso la letteratura (?), ha voluto rinverdire il suo “I siciliani” (Laterza 2006), spostando il discorso su un aspetto della Sicilia che troppo spesso in letteratura è tralasciato e che invece rappresenta la base da cui partire sia per il ricercatore, sia per il lettore attento. Non di meno per il lettore di ‘gialli’ come nel caso di questo “Il morto con la zebiba” appena uscito in libreria che è già un caso letterario per le diverse ragioni che pure in esso sono contenute. E sono quelle stesse ragioni che Savatteri si deve esser chiesto a suo tempo, e che ora spingono l’autore di questo ‘serial thriller’, dal quale ci aspettiamo altri colpi di scena e azioni poliziesche da soddisfare la nostra curiosità ma, ed anche, un surplus di modi di dire e curiosità diverse da vero conoscitore della realtà siciliana.
Infatti, alla domanda di Savatteri, che si sviluppava in “Come si fa ... a comporre il fastoso mosaico di una regione densa di contraddizioni. Eccentrici aristocratici, madri tenaci, inossidabili potenti, donne tormentate, feroci assassini: vite e imprese che si mescolano in un viaggio curioso nel tempo e nei luoghi della terra di Sicilia, uno spazio "ad alta intensità letteraria", dove la pianta dell'uomo attecchisce nelle sue forme più limpide o barocche?!”, Carlo Barbieri risponde con semplicità di indagatore del quotidiano, della realtà della cronaca vissuta in prima persona: “..con la complicità di chi ha tante ‘minime’ storie da raccontare che comprendono un arco di vita (la propria vita di siciliano e ‘palermitano’) che va da ieri a oggi,  richiamate alla ribalta dal Commissario Mancuso frutto della sua creatività scrittoria e dall’estro della sua penna sciolta e loquace.
Ma più che la penna è il suo bagaglio personale a incuriosire l’assemblea degli uditori, è allora che Carlo Barbieri da sfoggio della sua esperienza di viaggiatore e allora racconta del Cairo, di Teheran, di Istanbul, si sofferma sui paralleli che, in qualche modo, appaiano la sua Palermo con quelle città, quasi da essere un’estensione della stessa, coi suoi introiti bizantini, greci, arabi e barocco-continentali, degli odori che tutte le accomuna, dei dolci e delle friggitorie, e delle leccornie del pescato, di cui l’autore si è certamente nutrito, o almeno ne parla elencandole, tali dall’essere paragonabili a quelle di un Gargantua e di un Nero Wolfe.
Pur tuttavia, lungi dall’essere ne l’uno, né l’altro, il palermitano ‘doc’ Mancuso è sì un Commissario per molti versi vicino al personaggio di Camilleri (siciliano, che fa uso di neologismi dialettali, che s’impone una ‘verginità’ più ideale che professata, ligio al dovere ecc.), ha poi tutti i difetti del siciliano riguardo la gelosia, la diffidenza, il sospetto; che si lascia trascinare in ‘circoli’ che farebbe volentieri a meno di frequentare e che inevitabilmente sono, in certo qual modo, legati alla criminalità cui va a sbattere forzatamente contro. L’unico modo se vogliamo per essere partecipe della quotidianità, onde ricavare le ‘soffiate’ ed essere informato sui fatti, e che, al tempo stesso rifugge, da buono scapolo qual è suo malgrado, un legame duraturo, pur ‘sostenendo’ la sua pretesa di possesso sulle donne, che lo amano e lo rifiutano allo stesso tempo.
Un 'altra' Sicilia dunque quella di Carlo Barbieri, nuova e pur sempre antica, tuttavia diversa da quella che ritroviamo fra le pagine di Camilleri, e che alla domanda dell'intervenuto di fare un parallelo con l'altro Commissario famoso, quel Montalbano televisivo pure di grande successo, la risposta dell'autore è breve e istantanea: "..Montalbano è Commissario di provincia molto ristretta e usa un dialetto desueto che è quello dei suoi ricordi, mentre Mancuso è Commissario di città, di più, di una città che fa la differenza, quella Palermo internazionale e cosmopolita vista, letta e vissuta in tutte le sue contraddizioni e ambiguità, ma anche nei suoi pregevoli e sofisticati intendimenti.
Mi scusi, e la zebiba?
“Mancuso assunse l’espressione di quando il professore di lettere gli chiedeva un esempio di perifrastica passiva. – Aveva la Zebiba? E che cos’è la zebiba?” La zebiba, ci spiega l’autore del ‘giallo’ è un segno che hanno sulla fronte i musulmani più devoti, che viene loro a forza di battere leggermente la fronte sul tappeto durante le cinque preghiere quotidiane. Un musulmano con la zebiba è certamente un buon musulmano, e quindi uno che non beve alcool. Cosa che fa la differenza, perché un vero musulmano con la zebiba nel modo più assoluto non beve, tantomeno si ubriaca. Al contrario il morto spiaggiato a Granitola era fortemente ubriaco, e quindi trattasi di omicidio. E questa volta le indagini, che partono dal ritrovamento del cadavere di quella che sembra una delle tante vittime degli sbarchi sulle nostre coste, porteranno Mancuso a scoprire un piano criminoso internazionale.
“Il morto con la zebiba” è il terzo caso del commissario Mancuso della Omicidi di Palermo, che segue a "Pilipintò" (una short story all’interno di una silloge edito da Youcanprint in seconda edizione 2013) dove s’affaccia per la prima volta la figura del Commissario Mancuso, e "La pietra al collo" (Todaro Editore 2012) suo primo ‘thriller’. Un autentico caso poliziesco in cui appaiono in nuce quelle che saranno le tematiche ‘realistiche’ che danno agli scritti di Barbieri la dimensione e direi la profondità del vero ‘giallo’ che possiamo definire all’italiana. Non ci rimane che leggere il libro dall’inizio con quella stessa voracità che solitamente riserviamo alle ultime pagine per conoscere come la storia va a finire. Comunque il caso è in ottime mani, il commissario Mancuso indaga e questo ‘giallo’ ha una sua sorprendente conclusione.

Carlo Barbieri, chimico e marketer pentito, ha vissuto a Palermo, Catania, Teheran, Il Cairo. Oggi vive e lavora fra Roma e Palermo senza riuscire a decidersi per l’una o l’altra città, perché ama Roma ma ha Palermo nel cuore, ma …
Nel 2012 ha pubblicato per la Todaro Editore “La pietra al collo”, ristampato all’inizio del 2013.


 

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’MASTERPIECE’ II - RAI3 24Novembre

‘MASTERPIECE’ II, Domenica 24 Novembre 2013

Oltre l’orario impossibile della messa in onda, il programma è stato, a mio avviso, deludente, molto deludente. Tale da confermare i dubbi della prima puntata. Infatti sfugge dall’essere un ‘talent in progress’ forse perché non sono state spiegate al pubblico le regole del gioco, che del resto non sono esplicate neppure nel ‘regolamento’ pubblicato. Fatto è che non risulta essere una spettacolo di intrattenimento ma un gioco alla mercé di una giuria molto discutibile che, ad esempio, nel caso specifico della puntata in oggetto, sembra aver assunto un atteggiamento più di sufficienza che di rigore. Tolta la maleducazione e la mancanza di rispetto da parte di un elemento della giuria di lanciare un libro in restituzione a una concorrente. Perché donna?, viene lecito chiedersi. L’avrebbe fatto lo stesso con un uomo che avrebbe potuto prenderlo a pugni in faccia? Io non lo credo.


Per entrare nel merito della kermesse, va detto che pecca di troppo ‘sintetismo verbale’ perché in certi momenti non si riesce a seguire ‘chi di cosa’ o, viceversa, ‘a quale scritto e a chi si fa riferimento’. Colpa del montaggio delle fasi e lo ‘sporco’ di certi spezzoni non ripuliti e messi in onda. Mancanza di professionalità? Forse, ma dove è finita la RAI?


Contenuti:
Biografismo? Fin troppo nei testi prescelti o forse giunti in redazione. Esordienti che hanno passato una prima scrematura, oppure?
Ricerca di uno ‘talento’ specifico, o del vuoto?
Coprire un ‘vuoto’ letterario, o cosa?

Trovate le malfunzioni del programma:
1)La mancanza totale di ‘senso’ (estetico), diverso dallo ‘scopo’ (pubblicazione), e che rappresenta ‘il ponte’ di congiunzione tra una sponda e l’altra, atto a stabilire il punto d’incontro, che chiamo “il punto dell’angelo”, posto al centro del ponte; vero trait d’union fra i due estremi della logicità e l’ illogicità, fra la musicalità poetica tradizionale e l’incongruenza verbale di un nuovo linguaggio, intrinseche nella combinazione delle parole all’interno di un testo scritto. Da cui l’accessibilità o inaccessibilità del ‘senso’ da parte del lettore, la cui esigenza, alla base delle sue scelte, è sempre stata e resta insindacabile, al quale “spiegare il linguaggio usato in termini di ‘ordinario’, costituisce un disconoscimento dei suoi valori specifici.” (..) Da cui parte “la necessità di trovare un’unità di essere: bisognerebbe avere tutte le età in una sola volta.” (Bachelard).

2)Mancanza del ‘quinto elemento’ portante oltre i tre scrittori e il direttore editoriale, cioè il ‘lettore’ tout-court, che potrebbe essere diverso di estrazione e d’età per ogni puntata, preso dalla strada, al parco, sull’autobus o sulla metropolitana delle grandi città, colui che legge per passione dal biglietto del tram, al quotidiano, al ‘romanzo’, e perché no, che si nutre di poesia, di musica e quant’altro ha a che fare con la parola scritta. Per cui: il lettore di poesia cercherà quanto di poetico c’è nel testo sottoposto; il lettore del quotidiano, se la cronaca di un noir è plausibile; l’accanito lettore di romanzi, se la storia o il dramma, raggiunge il patos necessario a proseguire e così via. Di certo il contributo esterno e tuttavia ‘fonte di giudizio’ potrebbe risultare disarmante per la giuria, in quanto approfondirebbe quelle che sono le priorità dell’interesse generale.

Bene si è pensato da questa puntata in poi di pubblicare on-line i testi del contest: www.masterpiece.rai.it, ma non è detto se i commenti avranno un qualche rilevanza specifica. Se, come è stato detto, “la parola è stata concessa all’uomo perché occulti il suo pensiero”, la ricerca della ‘verità’ all’interno di un testo, qualunque esso sia, esula dalla realtà dei fatti narrati e, non necessariamente rientra in quella che potrebbe essere la vita realmente vissuta, per così dire ‘biografica’ o ‘autobiografica’ che invece più spesso si cerca di individuare nei partecipanti al ‘talent’ da parte dei giurati. Fatto questo che non dovrebbe accadere, poiché un testo, qualunque esso sia, una volta scritto e rilasciato dal suo autore, vive di vita propria, i suoi personaggi da quel momento in poi si muovono autonomamente sulla scena che l’autore ha inventato o verosimilmente ricreato per loro. Non è necessario vederli in un contesto ‘realistico’ in quanto non lo sono comunque; neppure quelli di riferimento a fatti di cronaca.

È il caso della maggior parte dei ‘testi’ presentati ieri sera tra i quali non si è riscontrato alcun avvenimento ‘linguistico’ eclatante, che andasse oltre il linguaggio spudorato del quotidiano (magari!), bensì re-inventato per dare luogo a sensazioni spesso sottotono perché carenti di qualsivoglia cultura, quando non sopra le righe per dimostrare una eccitabilità del carattere più vicina alla paranoia che all’estro scrittorio. Tolti i casi, forse un po’ ‘ricercato’ quello di Federica Lauto, e un po’ ‘eccessivo’ ma perché esuberante di Nikola Savic.

Penso che se fosse stata fatta una pre-selezione con un dichiarato ‘senso’ piuttosto che il solo ‘scopo’, forse, si sarebbero avuti ‘testi’ decisamente più ‘liberi’ e magari anche creativi. Tuttavia senza depauperare, come purtroppo avviene da parte dei giudici, la ‘veritiera’ ragione per cui il testo è stato scritto: che non ciò che è vero è reale è veritiero in assoluto, e comunque non sempre e in ogni caso. Tutto cambia e tutto è soggetto allo stravolgimento, inclusa la ‘scrittura’. “Una delle attività più immediate del linguaggio va individuata nel linguaggio che immagina” (Bachelard). Ed è proprio questa necessità umana a rendere pianamente ‘vivo’ il linguaggio, altrimenti leggeremmo solo fatti di cronaca, stucchevoli elenchi del telefono, ricettari forbiti di dosaggi ecc. che, seppure sono di qualche utilità, certo non allietano lo spirito e non lasciano ‘immaginare’ l’impossibile, che non già lo scrittore ne ha bisogno, quanto il lettore in funzione del proprio straniamento. 


Mentre lo scrittore sappiamo, lo fa per diletto oltre che per un’infinita serie di motivi edonistici e/o psicologici, che vanno dal dare spazio alla propria sensibilità, al proprio narcisismo, al logorroico entusiasmo di imporsi, all’accrescimento economico, e altri ancora; il lettore da par suo, lo fa per estraniarsi dalla propria realtà per entrare in ‘altra’ cui talvolta non è ammesso. O, che pensa di poter imitare, quasi sempre sdoppiandosi da sé stesso e ‘vivere’, sebbene per la durata delle pagine di un libro, nell’irrealtà che supera di gran lunga, nel bene e nel male, la quotidiana routine del vissuto. Ecco perché il ‘parere/giudizio’ del lettore si rende indispensabile: affinché chi sta di qua dal teleschermo comprenda il/nel ‘senso’, la funzione di un sì concepito ‘talent’ che altrimenti sfugge del tutto.

Discreta prova per Walter Siti che si è aggiudicato il Premio Strega 2013. con 'Resistere non serve a niente' (Rizzoli), il quale ha affermato per l’occasione: "Le gare mi piacciono, ne ho perse tante e questa volta ho vinto". Un messaggio che si addice moltissimo anche ai partecipanti di questa serata, ancor più (chi più chi meno) ai conduttori di questo ‘talent’.

 

 

 

 

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- Libri

’MASTERPIECE’ - Primo Contest in TV

‘MASTERPIECE’ - Primo Contest nazionale di scrittura visto in TV Domenica 17 Novembre 2013 in formato ‘talent show’ sulla scia di ‘Masterscief ‘ e ‘Xfactor’ senza l’intervento del pubblico.

In Italia si sa, si scrive molto ma manca chi legge, e ciò è dovuto non solo a un fatto demografico in diminuzione e ai limiti della nostra lingua fin troppo bistrattata dai media, quanto alla pigrizia innata degli italiani dolentemente ‘disamorati’ e quindi privi di entusiasmo per una cultura artistica e letteraria che da sempre hanno sotto gli occhi, pesante come un macigno da portarsi sulle spalle, e che invece vorrebbero scrollarsi di dosso. Ma attenzione, non senza un perché. Le ragioni individuate sono almeno due: in primis la carenza dell’insegnamento scolastico venuto meno di entrambe le materie di studio; l’altra, dovuta agli alti costi della ‘cultura’, sia pubblica che privata, vedi l’alto costo dei biglietti d’ingresso nei musei o in occasione di una mostra tematica; sia del lievitare dei prezzi dei libri, dei cataloghi, così come dei concerti musicali, del biglietto del cinema ecc. in ragione delle tasse governative imposte alla ‘cultura’ stessa.
Non credete anche voi che la ‘cultura’ dovrebbe essere affrancata da una simile prigionia e lasciata libera di propagarsi a dismisura per quel molto che essa può dare al piacere della vita?
E invece sembrerebbe di no, in ragione di una carenza ‘economica’ di quanti, tra organizzatori museali, editori/imprenditori, testate giornalistiche, media televisivi e altri, dimostrano d’essere veramente incapaci di ricondurre alla ‘cultura’ la primaria funzione formativa della ‘conoscenza’. Il risultato è che se non si abbattono quei cos’ sopra elencati finiremo per diventare, se già non lo siamo diventati, un popolo di ‘persi’, smarritisi nel labirinto di quanto più ci contraddistingue: “conoscitori assidui e perspicaci della bellezza del mondo”. Né si può attribuire un simile default a questo o quel governo in cui tutta la classe politica risente di una acculturazione mediocre, votata all’apprendimento del ‘meno peggio’ che volutamente mantiene la ‘cultura’ a un bassissimo livello di attenzione, al fine di non sentirsi sminuita o, al contrario, superata e soprattutto giudicata.
In quanto a formulare ‘giudizi’ improvvisamente i Contest televisivi vanno alla grande, e così, dopo quelli culinari, di sopravvivenza, della canzone e della danza, qualcuno si è accorto che mancava, ma per fortuna è arrivato anche quello, un concorso letterario, il ‘primo in assoluto al mondo’, o almeno così viene pubblicizzato. E dire che di ‘concorsi’ più o meno realistici, più o meno retributivi, ne abbiamo a iosa, tutti quanti con fini diversi e non sempre leciti, ma nessuno sembra abbia contribuito a formare un quadro ‘giudicante’ davvero professionale e sotto gli occhi di tutti. In effetti questo ‘Materpiece’, elaborato sulla falsariga di ‘Masterscef’ e pur non avvalendosi della partecipazione del pubblico come per ‘X factor’, il suo staff esaminante formato da scrittori di diversa estrazione come Taiye Selasi, Giancarlo De Cataldo, Andrea De Carlo, coadiuvati da una professionista del mestiere qual è Elisabetta Sgarbi, si presenta qualitativamente un estimatore capace nei confronti di una materia a dir poco problematica, perché se esteticamente valutata, può dare adito a giudizi diversi, soggettivi e ineludibili, secondo la sensibilità e la personale capacità scrittoria.
A farne le spese quanti tra presunti scrittori, poeti e improvvisati giornalisti che abbiamo visti alla ribalta, tutti più o meno provati per la tensione di dover superare un ulteriore esame, quanti in una vita, si sono visti strappare i loro testi davanti ai telespettatori, insultati in ciò in cui avevano creduto vi fosse una possibilità di riscatto delle molte porte sbattute in faccia che hanno ricevuto, e da chi poi? Certamente da qualcuno come loro, che a sua volta, ha ricevuto il diniego (se non le porte in faccia) degli Editori, quando lo ha ricevuto. Ma se tutto ciò accade per far spettacolo, anche l’indignazione del telespettatore va accettata come legittima, e allora ben vengano le critiche a tutto il Contest, che vanno dai tempi registici che non scandiscono il passare delle ore e dei giorni da una prova all’altra; al montaggio (perché non si svolge in diretta) che non permette la visibilità del ‘contest’ bensì solo dello scopo finale, cioè la ‘vittoria’ consistente nella pubblicazione in 100mila copie del libro presentato; il taglio più giornalistico che letterario del ‘contest’ stesso.
Tuttavia ciò che il telespettatore qualunque può non conoscere perché non gli è dato, è invece tutto il lavoro fatto a monte e che pure trovo interessante far conoscere per averlo, io che scrivo, conosciuto e attraversato senza rimpianto, per l’aver scrutato centinaia di ‘prove letterarie’ per lo più dettate da problematiche sociali e private come idiosincrasie, perversioni di menti malate, particolari inclinazioni sessuali, fatti di cronaca nera, depressioni e fobie ecc., talvolta risolte a caro prezzo se non addirittura irrisolvibili, alle quali pseudo - scrittori hanno affidato le loro confidenze, le confessioni, le combattute ammissioni e dismissioni per un riscatto di là da venire che nessuno è in diritto di giudicare.
Ciò nonostante e per certi aspetti ‘Masterpiece’ rivela una sua validità proprio nella ricerca della ‘qualità’ scrittoria, vuoi nel linguaggio che preme sull’aspettativa letteraria del ‘talent’ vero o presunto; vuoi nella pretesa creatività come dinamica esistenziale dell’oggi. Ottima quindi risulta la ‘prima’ scelta avvenuta del giovane Lilith di Rosa il quale, soprattutto nel colloquio ‘ascensoristico’ avuto con il Direttore Editoriale Bompiani Elisabetta Sgarbi, ha dato ulteriore impulso al suo testo, risultato di una visione ‘altra’ della vita che è costretto a vivere suo malgrado, non costruita su false ideologie o fumose velleità come del resto non ci si aspetterebbe, altresì mettendo in luce il diverso modo di vedere (o forse di vivere) dell’attuale generazione di scrittori per così dire ‘audaci’, cui personalmente auspico di riuscire a dimostrare il proprio talento.

Anche se …

“Non è possibile inventare idee senza modificare il passato. Di correzione in correzione si può sperare di produrre un’idea vera. Non esiste una verità originaria, ci sono solo errori originari.”
                                                                                            Gaston Bachelard

 

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- Danza

Coinvolgendo il cielo ..a Carla Fracci

Coinvolgendo il cielo ..a Carla Fracci

Correva l’anno 1978 quando Maurice Bejart volle Carla Fracci per la premiere all’Arena di Verona per il ‘Bolero’ di Ravel. Una Fracci inedita, come non si era mai vista prima, si è presentata sul grande tavolo rotondo posto al centro della scena, scarmigliata e a piedi scalzi in un a-solo iniziale di grande effetto intimistico e sensuale. Il ‘tavolaccio’ grande quanto l’intero palcoscenico immaginifico s'andò poi animando di un numero di ballerini nudi fino alla cintola che la incitavano con l’andamento flessuoso dei loro corpi nel ‘crescendo’ della musica e della danza lasciandosi coinvolgere e onorandola con leggiadria e passionalità. Verona tutta era lì, sorpresa e stupefatta, ammutolita nel silenzio vibrante della musica di Ravel. E rimase così, fino al momento dell’esuberanza orchestrale che nel vortice della passione giungeva strepitosa al finale. L’applauso ristette per un lungo momento nelle mani di quanti avrebbero voluto trattenere l’attimo febbrile che li coglieva, poi esplose scrosciante, seguito dalle grida ‘brava!’, ‘bravi!’, che tutti infervorarono gli animi. A me piace immaginarla così, nel momento prima di andare in scena, allorché la vidi fuori del suo camerino eterea e leggiadra, esitante nel contare i passi che la separavano dal ‘tavolaccio’ da cui non sarebbe mai più discesa.


Io tacerò,
per rimirarti ancora
pallida e radiosa amante
che t’involi
sulle due punte
verso quel cielo
che la musica dei tuoi passi
silenziosi e scaltri
rende sublimi.
Io tacerò,
che rincorrerti anelo
per le antiche scale
di quel maniero
che ti vide una sera
or son passati gli anni
in quel di Verona
del Ponte scaligero
attraversar gli spalti.
Io tacerò,
per ascoltare ancora
il vento dei tuoi passaggi
sulla cortina merlata
della muraria cinta
del Castello
e uno ad uno conterò
gli istanti che in fin
ti condussero all’Arena.
Io tacerò,
d’averti vista scalza e
scarmigliata
danzare sopra
un tavolaccio
ruvido e legnoso
un ‘bolero’
degno di un focoso
amante.
Io tacerò,
quel che dei danzatori
fu il corale affanno
l’afflato della luna
e delle lontane stelle
del pubblico
il respiro che
nella danza s’involse
ed inebriò l’amante.
Sì, io tacerò,
ma invano dunque
del trionfo dell’arte
che della musica e la
danza s’avvalora
e del movimento
arcano delle sfere
onde s’avvia festosa
coinvolgendo il cielo.

“Carla Fracci, più leggera dell’aria, più lieve di un sospiro”

Una riflessione di Carla Fracci sulla sua vita di ballerina:

”Nel nostro lavoro bisogna essere sempre “nuovi” e pronti a rimettersi in discussione: io ho danzato centinaia di spettacoli, ho consumato migliaia di scarpine da ballo, ho percorso chilometri e chilometri sul legno del palcoscenico, ho viaggiato moltissimo, ma ogni volta, per me, è quasi “un debutto”. Anche nel mondo del balletto ci sono momenti di crisi; c’è chi litiga, chi è geloso, chi fa i capricci: ma questa forma d’arte è così esigente che sul palcoscenico si dimentica tutto. Una ballerina deve pensare a se stessa, a quello che deve fare, a non sbagliare mai; deve seguire la musica, ricordare, esprimere.
Ho danzato con i più grandi ballerini ed è superfluo dire che avere un buon partner ti aiuta moltissimo. Dà sicurezza. E moltiplica le possibilità di realizzare uno spettacolo di qualità. So di essere diventata un simbolo per tanta gente, occupo nel cuore di molti un posto che non avrei mai pensato di occupare e la popolarità mi ha dato tanti vantaggi. Le sale dei teatri agli spettacoli di balletto sono ancora zeppe di gente. Si dice – e io lo credo – che io e altri come me abbiamo aperto la strada a quelli che avanzano insieme a noi."

http://www.danzadance.com/special/carla_fracci/carla_fracci.html

 

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- Animali

Che cosa stai aspettando!, scrivi e pubblica ...

‘Che cosa stai aspettando!', scrivi e pubblica, qualcuno prima o poi ti noterà, si accorgerà di te, che esisti, che respiri, che hai qualcosa da dire!


Il prestito del titolo è riferito a un ‘libro’ di Lu Paer (EEE editore -2013) che, in qualche modo, ritengo ‘speciale’, e di cui ho intenzione di parlarvi nel prosieguo di questo articolo. Sempre che abbiate del ‘tempo’ da perdere e ne troviate dell’altro per leggerlo. Il problema di fondo è proprio questo, tutti scriviamo moltissimo e leggiamo pochissimo, ma sembra ci sia una spiegazione a ciò, addirittura studiata da scienziati autorevoli che ne hanno definita la inevitabilità, in ragione del fatto che siamo ‘stressati’ dalle comunicazioni intertestuali e dall’uso delle nuove tecnologie. Semmai dovrebbe essere il contrario mi dico, se no l’iPad, l’ i-Pod, il Tablet, il … vattelappesca che li abbiamo costruiti per fare? Se, anziché, fornirci una maggiore disponibilità di Tempo, abbandonando gli sprechi e i tempi morti della nostra ‘incomunicabilità’. Ma se andiamo a leggere su FaceBook, WhatsApp e altri, ci rendiamo conto benissimo di cosa parliamo e cosa leggiamo, non serviva scomodare la scienza per capire che siamo sulla buona strada per l’inevitabile ‘apocalisse’ del comunicare. Non in ultimo l’accadimento a Roma dell’ennesimo ragazzo che si suicida perché gay proprio perché non ha trovato nessuno a cui comunicare il suo problema, nessuno a cui interessasse mettersi in ascolto di quanto aveva da dire. Ma non è mia intenzione essere così drastico nel giudicare ciò che ormai è sotto gli occhi di tutti.
Come ormai avviene sempre più spesso, ci troviamo a confrontarci con il nuovo, nuove tecnologie, nuove procedure, nuovi programmi ecc. , come anche avviene per le pubblicazioni in rete, nuovi editori più o meno improvvisati, nuovi formati, nuovi linguaggi. Così, ho pensato che un adeguamento per così dire ‘adeguato’ da parte di chi scrive si renda più che mai necessario. Il punto però non riguarda solo chi scrive, commenta, recensisce e quant’altro, bensì anche e soprattutto la schiera dei nuovi lettori che imperversa sul web nella ricerca spasmodica di qualcosa da leggere che sappia di fresco, di vivace, di leggero (soprattutto), che impegni poco tempo di quel pochissimo che tutti noi (chissà perché) abbiamo a disposizione. E da poter leggere sui nuovi prodotti tecnologici che stanno rivoluzionando la vita di tutti, finanche degli animali di casa, costretti a rinunciare alle coccole, alle aggettivazioni cordiali, alle frasi amorevoli che fino a ieri erano rivolte loro, e che oggi vengono rivolte a emeriti sconosciuti che dall’altra parte dello schermo o dell’iPad, del Tablet e quant’altro, rubano a tutti noi e ai nostri animali, quello che va considerato il nostro ‘tempo’ e il loro ‘spazio’ vitale.
Come se non bastasse ci si mettono anche gli editori, anzi EDITORI, le maiuscole sono di rigore, che nelle nuove richieste vanno sul ‘difficile’: il testo deve essere redatto così, il corpo e il formato così, il conteggio delle parole e degli spazi, la trama riferita a questa o a quella virtù, che l’horror dev’essere 'horror', il giallo 'giallo', il romanzo melenso, che non deve offendere nessuno, non dev’essere spinto sessualmente e quant’altro, che viene spontaneo chiedersi se: ‘ma non potrebbero scriverseli per proprio conto e magari pubblicarli on-demand, o nel formato che desiderano e che sicuramente gli andrebbe bene? O, se preferiscono, in ‘android’? Che in un primo momento mi sono chiesto se volessero offendere la categoria ‘scrittori’, ‘poeti’, ‘redattori’, ‘commentatori’ e quant’altri dando a tutti, degli ‘ALIENI’. In un certo senso forse lo stiamo diventando e sicuramente lo diventeremo da qui a poco, ma per loro volontà; per quella sorta di risparmio del pubblicare che li vede attenti a economizzare su tutto, dell’accaparramento ingiustificato, del ‘non-impegno’ (perché senza controllo), nel corrispondere i diritti a ognuno, di quanti pur nella stragrande maggioranza di improvvisati, si sentono, si definiscono, si illudono di essere scrittori da premio Pulitzer se non da Oscar cinematografico.
Ma perché, mi dico, non lasciano che ci si illuda, è umanamente accettabile, o no?, e che tornino a fare il loro mestiere di editori, nel rispetto di chi scrive e soprattutto dei lettori che, scegliendo i libri di uno o dell’altro autore, riconosce la capacità letteraria dell'uno e l'intelletto dell’altro; così come apprezza la creativa intenzionalità dell’autore, e la rilevante ‘eccellenza’ dell’editore, quando c'è. Altrimenti chi gli riserverà mai un tale riconoscimento. Il successo? Sì, ma dell’autore. Mentre il suo, quello dell’editore, non sarà basato che sulle sue capacita di imprenditore e non in quelle di ‘intenditore’ o ‘scopritore di talenti’ ma solo quello economico, per aver venduto una manciata di libri più di quell’altro, destinati comunque a restare anonimi. Riconosciamo dunque a ognuno il proprio ‘ruolo’  e riprendiamoci il merito che ci spetta dall’una e dall’altra sponda dell’editoria, e  il piacere di leggere, di comunicare, di ascoltare e di comprendere gli ‘altri’ (ivi inclusi gli animali), tutti quegli ‘altri’ diversi per genere, che siamo tutti noi. Pretendiamo che gli EDITORI facciano il loro mestiere non di imprenditori tout-court ma, soprattutto, di compagni di viaggio, che è nel comunicare e nel comprendere che rendiamo il miglior servizio a noi stessi e riveliamo la nostra ‘eccellenza’, non nell’accumulo sconsiderato del denaro, bensì nel rispetto degli altri, che vale molto più dei 'trenta denari' che entrano nelle tasche. 


Com'è detto, il prestito del titolo è riferito a un ‘libro’ di Lu Paer (EEE editore -2013) che, in qualche modo, mi ha permesso di aprire uno spazio di dialogo sull’argomento qui rivolto agli EDITORI, sempre alla ricerca del nuovo e di autori definiti ‘emergenti’, forse intendendo con ciò, emergenti dal pantano letterario in cui noi (autori) e loro (editori) ci siamo cacciati. Ma il discorso ‘emergenti’ ha ben altro suono, e sembrerebbe come se i ‘vecchi’ noti e non noti, non abbaino più nulla da dire. Allora mi domando se agli ‘emergenti’ quel qualcosa di buono, quei pochi valori che ancora resistono, l’amore che alcuni di essi portano per le arti in genere, qualcuno deve pur averglielo insegnato, o no? Non posso pensare che l’abbiano apprese dalla tecnologia, anche perché sarebbe impossibile, proprio in funzione di essere androide e quindi aliena alla concettualità umana. Comunque, stando così le cose ringrazio l’editore (pur senza maiuscole) che ha attivato questa importante operazione di solidarietà e di sostegno che vede la sua autrice, questo libro, e quindi il suo editore Piera Rossotti Pogliano, Direttore Editoriale di Edizioni Esordienti E-book, per aver destinato i proventi delle vendite, ben pochi spiccioli, alle associazioni che si occupano della tutela degli animali.

 

Siete certi di non essere stati animali in un’altra vita? Beh, c’è sempre tempo per riconoscerci in essi e a redimerci, almeno nell'intenzione e del rispetto che dobbiamo a tutte le creature e a quel che ci rimane del 'creatto', glielo dobbiamo!

 

Anche per questo ho ritenuto doveroso lasciare la parola proprio all’editore cui va riconosciuta una qualche ‘eccellenza’ nell’ambito dell’editoria italiana e spero non solo.


Autobiografia? Sì, ma soltanto se diventa davvero un romanzo, di Piera Rossotti Pogliano.


Come penso accada a tanti editori, sono sommersa da manoscritti di tipo autobiografico. Tante persone vogliono raccontare la loro vita, ritenendola eccezionale. Ora, la nostra vita è sicuramente importante per ciascuno di noi, ma interessa agli altri? Personalmente, trovo noiose le autobiografie. Ecco, l'ho detto! Adesso mi farò odiare dai tanti autori di manoscritti che, trepidanti, mi hanno mandato i loro file che ovviamente non pubblicherò.Quando però l'autobiografia diventa romanzo, l'esperienza vissuta si fa racconto capace di trasmettersi al lettore, ecco che scatta qualcosa, attraverso la magia della scrittura.
È stato il caso con di un'autrice che ho amato da subito. «Sono nata in un paesino sperduto di montagna dal quale ho sempre desiderato fuggire. Mi sentivo soffocare da quelle cime alte e buie che consideravo un ostacolo verso l’infinito, finché, ormai quarantenne, ho iniziato a scalarle e ad amarle, se pur con un rapporto di toccata e fuga. Mi è capitato spesso, infatti, di essere in parete la mattina e di sentire il bisogno di vedere il mare nel pomeriggio. Della mia infanzia non ho memoria, ma credo sia stata un incubo. Mia madre mi rinfacciava spesso di averle causato un parto doloroso: non volevo nascere; penso ci sia una prudenza nascosta dentro di noi che a volte ci fa percepire cosa ci aspetta.
A pochi giorni di vita, poiché ero una bambina impegnativa, mi affidò a un’altra famiglia e, forse per sopravvivere al distacco, si dimenticò di avere una figlia. Pure questo me lo fece pesare, tanto che solo da adulta associai questo abbandono non soltanto al suo dolore, ma anche al mio. È resistito al buco nero di quegli anni unicamente il ricordo di un cucciolo di elefante bianco e rosso dal quale non mi staccavo mai. Così inizia la storia di Lu e del suo impulso a "buttare via" se stessa, ad autodistruggersi con l'alcol, i farmaci, la bulimia... fino a ritrovare la strada, attraverso un percorso assolutamente inatteso: l'amore per gli animali, soprattutto per quelli abbandonati, sfortunati, con i quali entra in immediata sintonia. Ma gli animali hanno bisogno di un posto per vivere, di cibo e di cure, e questo costa quattrini. Per procurarseli, occorre un lavoro redditizio. Così, Lu si mette a fare la escort. E, incredibilmente, è attraverso questo mestiere che arriva il riscatto e la capacità di continuare a dare amore. Perché dare amore è l'unico modo per essere felici.

Trovi questo e-book su tutti i webstore, Amazon, la Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria ecc. mentre ordinandolo sul sito dell’editore, anche in versione cartacea, non si pagano le spese postali.

 

 

 

 

 

 

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- Educazione

Stefano Rodotà - ’Elogio del moralismo’

Stefano Rodotà: “Elogio del moralismo” – Editori Laterza 2012

“L’obbligo di verità da parte delle istituzioni diviene diritto d’informazione sul versante dei cittadini”.

“Non un sussulto moralistico ma l’affidabilità stessa del politico rende inammissibile la menzogna”...

...Scrive Stefano Rodotà in questo breve e concentrato ‘elogio’ della moralità rivolto ai fatti più recenti della politica italiana e il quadro che se ne evince non è certo dei più illuminati della nostra storia patria. Tuttavia, “nessun discorso nostalgico, ma la presa d’atto dell’accantonamento colpevole di un tema politico centrale (la mancanza di moralità), causa non ultima della crisi di cui siamo (noi tutti) vittime” e aggiungerei ‘carnefici’. Quasi fossimo tutti quanti superstiti di una carneficina autolesionista che ci siamo inflitti masochisticamente. Ed è così. “Rifiutata, appunto, come manifestazione di fastidioso moralismo, l’aborrita «questione morale» si è via via rivelata come la vera, ineludibile «questione politica»” da tutti noi accettata e sostenuta coi nostri voti. “Ma questa spiegazione (per così dire) antropologica non è convincente, anzi rischia di offrire una giustificazione e una legittimazione ulteriore a chi vuole sottrarsi agli imperativi della legalità e della moralità pubblica” cui siamo chiamati, tutti indistintamente, a incominciare dai politici che abbiamo visti derubricare l’imperativo della ‘moralità’ a sostegno di situazioni materiali indecenti (leggi disoneste), e prendere le difese di posizioni immorali indifendibili.

“Di che cosa sia il moralismo si può certo discutere – scrive Rodotà – ma la critica non può trasformarsi in pretesto per espellere dal discorso pubblico ogni barlume di etica civile. L’intransigenza morale può non piacere, ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di fronte a fatti di corruzione pubblica, derubricandoli a ininfluenti vizi privati, annegandoli nel «così fan tutti» (e tutte, non tanto per tornare alla corretta citazione mozartiana, ma per alludere a recentissimi costumi). La caduta dell’etica pubblica, indiscutibile, è divenuta così un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità, ad una sua legittimazione, sociale”. Far decadere o archiviare una sentenza (per colpa o innocenza che sia) della Magistratura significa delegittimare uno Stato di Diritto a favore della barbarie istituzionale, la ratifica dell’illegalità, a scapito dell’autorità giudiziaria e l’imparzialità della giustizia.

L’esigenza di razionalità come criterio per discernere la qualità metodologica di un comportamento morale, corrisponde a una presa di coscienza formativa che ha come oggetto la ‘responsabilità morale’ (*) che, non andrebbe mai messa in discussione, come invece spesso avviene, in ambito politico. Poiché attinente alla dignità della persona, infatti, essa rientra in quella condizione, per cui ci si sente in dovere di rendere conto di atti, avvenimenti e situazioni in cui si ha una parte, un ruolo determinante: si dice, infatti: “assumersi le proprie responsabilità; fare qualcosa sotto la propria responsabilità; incarico, mansione di cui si è responsabili; così come assumere un impegno, o obblighi che derivano dalla posizione che si occupa, compiti, e incarichi che si sono assunti, ecc. per cui un soggetto giuridico è tenuto a rispondere della violazione amministrativa, civile, penale, da cui si forma spesso un giudizio”

Roger Scruton (*) ci ricorda che: “Le persone sono vincolate da leggi morali che articolano l’idea di comunità di esseri razionali che vivono nel mutuo rispetto e che risolvono le loro dispute attraverso il negoziato e l’accordo. Questi principi altamente astratti, che Kant chiama ‘formali’, sono meno significativi della procedura che implicano. Le persone hanno un solo e prezioso mezzo per risolvere i loro conflitti, un mezzo precluso al resto della natura. Infatti, esse sono in grado di riconoscersi a vicenda come esseri liberi, che si assumono le responsabilità delle loro decisioni e che, possiedono diritti e doveri rispetto alla loro specie. le idee di libertà, responsabilità, diritto e dovere contengono il tacito presupposto che ogni partecipante al gioco morale conti per uno e nessun partecipante per più di uno. Pensando in questi termini, riconosciamo ogni persona come membro insostituibile e autosufficiente dell’ordine morale. I suoi diritti, doveri e responsabilità sono cose che possiede in quanto persona. Solo lui può adempiere o rinunciare ad essi, e solo lui dev’essere chiamato a dar conto dei doveri che ha eventualmente trascurato”.

Non sto qui a dilungarmi oltre sulla questione morale che già Immanuel Kant sottolineò avere un carattere assoluto per cui i diritti non possono essere calpestati arbitrariamente o soppesati in relazione a un eventuale vantaggio di ignorarli. Va però aggiunto che il diritto morale va rispettato al di là degli interessi conflittuali, o di barriere create ad oc in opposizione ad esso. Ma se “tutti hanno il diritto di avere un’opinione su quali comportamenti possano considerarsi accettabili e di esprimere quell’opinione con tutta l’eloquenza e la forza di cui sono capaci”, tutti hanno anche il dovere di rispettare gli altri; è un fatto questo di ‘equità sociale’ (‘pari opportunità’) e, soprattutto, di ‘etica sociale’ (disciplina e solidarietà), secondo la definizione di Albert Schweitzer (*), Premio Nobel per la Pace 1952: “Il primo passo nell’evoluzione dell’etica è un senso di solidarietà con gli altri esseri umani”.
Moralismo, o grado minimo della deontologia professionale e dell’etica pubblica?

Rispondere a questa importante domanda non è cosa semplice, soprattutto se non abbiamo convinto noi stessi, almeno in astratto, che il problema dell’appartenenza deontologica sussiste in quanto la società odierna, è la “società dell’incertezza” e – come affermato da Zigmunt Bauman (*) – “..che respinge la stabilità e la durata, e preferisce l’appartenenza alla sostanza”. Perché, altrimenti, l’apparato ontologico decade e diventa un semplice esercizio squisitamente filosofico, ma di nessuna utilità pratica. Mentre invece – come giustamente rileva l’autrice de “Il segmento mancante” () la pratica ontologica, ha origine speculativa, cioè porta alla consapevolezza di una insostituibile risorsa antropologica.

Ed è forse qui che più si coglie il ‘senso’ del ragionamento di Daniela Verducci, che fa della ‘metafisica’ (già aristotelica, scheleriana, e husserliana), l’oggetto fondamentale del suo studio, lì dove questo si sposa con l’ ‘etica sociale’ che, l’esperienza sociale e psicologica della studiosa evidenzia. Ma quali caratteristiche presenta il fenomeno in questione? È una delle domande che ci si devono porre e alle quali in questo libro di Rodotà si cerca di rispondere in modo adeguato, portando all’attenzione una carenza marginale dell’edificio filosofico, ciò che in astratto ha nome ‘ontologia’ e che fluttua “tra la dimensione dell’ideale e l’approdo al reale”; senza la cui mediazione non è possibile condurre a un esito effettivo gli scopi e le intenzioni che la ‘saggezza’ filosofica indica all’agire, nella sua strenua ricerca di ‘senso’.

“Si vuole piuttosto ricercare nell’attualità dell’esperienza umana – aggiunge Daniela Verducci – la traccia di quel ‘segmento mancante’ che ha nome ‘ontologia’ ai fini del ripristino del contatto coscienziale con quel rivolo di energia vitale che, configurandosi in attività di produzione socio-politico-lavorativa, conduce alla realizzazione di scopi e intenzioni”. Come dire che il fattore ‘ontologico’ è un prerequisito indispensabile non solo alla comprensione meno superficiale dei fenomeni sociali (divergenze, differenziazioni, ecc.), ma anche alla individuazione di strategie di cambiamento.

Scrive ancora Rodotà: “Mentre la quotidiana attività legislativa smantella pezzo dopo pezzo lo stato costituzionale di diritto, negando quelli che sono i ‘diritti fondamentali’ è quasi fatale che il senso dello Stato venga relegato in un angolo considerato un intoppo del quale liberarsi. Interviene qui la questione del moralismo, (..) pertanto mi limito a registrare almeno due fatti: il primo riguarda l’uso italiano e inverecondo di esecrare il moralismo per liberarsi della moralità. È una vecchia trappola alla quale si può sfuggire solo se si hanno convinzioni forti e non si cede al moralismo da quattro soldi, che spinge ad accettare qualsiasi cosa in nome d’una politica senza respiro. Il secondo lascia aperto uno spiraglio alla speranza, in funzione proprio una rivolta in nome della moralità politica e dell’etica pubblica che ha scosso le fondamenta d’un potere che sembrava saldissimo e che i vecchi riti della politica d’opposizione non riuscivano a scalfire”.

Un esempio datato ma pur sempre valido, tanto che potremmo adattarlo a qualunque categoria, perché fondamentalmente è intercambiabile e applicabile a qualsiasi professione, basterà individuarne i fondamenti etici e giuridici. Scrive Michele Partipilo (*) in “Etica e deontologia”: “Il termine deontologia, letteralmente ‘dottrina dei doveri’, che oggi preferiamo chiamare ‘etica pubblica’ e che accoglie in sé sia l’etica privata che quella politica ha, nel corso degli anni, assunto significato di insieme dei principi e delle norme di comportamento interne a una determinata categoria di persone. La deontologia si differenzia dall’etica (vera e propria) perché accanto all’affermazione di principi (teorici), affianca sanzioni (pratiche) per le eventuali violazioni. Di qui la necessità di appoggiarsi al ‘diritto’ per procedere a una minima tipizzazione degli illeciti a rendere cogenti le prescrizioni che altrimenti resterebbero pure enunciazioni morali”.

Secondo Norberto Bobbio (*): “Norma deontologica vuol dire sostanzialmente ‘norma morale’. La differenza fra un ‘codice morale’ e un ‘codice giuridico’ è che il primo ha una sanzione puramente interna, mentre il secondo ha sanzioni istituzionalizzate: sono istituzioni la procedura giudiziaria, il giudice, l’avvocato, le regole per la conduzione del processo, la sentenza. Nel caso dei codici deontologici, invece, la sanzione tipica è la riprovazione dei membri dell’associazione”. Certo, a fronte di generici ed episodici richiami all’etica da parte dell’ ‘opinione pubblica’, come rileva Umberto Galimberti (*), dobbiamo constatare che viviamo “una sorta di spaesamento dell’etica, che ogni giorno deve confrontarsi con la sua impotenza prescrittiva. Sembra infatti che nel nostro tempo il ‘dovere’ non sia più nelle condizioni di prescrivere il ‘fare’, ma solo di inseguire gli effetti già prodotti dal fare”.

Indubbiamente – scrive Rodotà – “..c’è una trasparenza sociale della quale volentieri avremmo fatto a meno: quella minuziosamente, quotidianamente, incarnata da comportamenti che esibiscono la forza in luogo del diritto, la sopraffazione al posto del rispetto, l’impunità invece della responsabilità. E dunque forza, sopraffazione, impunità diventano regole e indirizzi, di fronte ai quali non può esservi solo frustrazione o acquiescenza. Proprio perché una vera reazione diventa più difficile, la scossa del moralismo può essere salutare. E questo rimane ancora necessario, forse ancora più necessario, anche dopo che la lotta alla corruzione ha segnato un’intera fase della vita italiana”.
“In questi anni, infatti il degrado politico e civile è aumentato, ha conosciuto accelerazioni impressionanti, si è dilatato ben al di là delle frontiere segnate. (..) Sono cresciuti il livello della corruzione e l’accettazione dei comportamenti devianti, con un mutamento profondo del contesto. (..) Abbiamo assistito al consolidarsi pubblico delle situazioni di illegalità e immoralità, con l’appannarsi di una politica che ha pensato di poter trarre profitto dall’affrancarsi da ogni controllo e da una assuefazione/mitridatizzazione della società, senza avvedersi che in tal modo non esorcizzava il moralismo, ma si negava come politica, preparando i contraccolpi che sono poi puntualmente venuti”.

Sono questi argomenti sempre attuali che molto hanno appassionato Alberto Melucci (*), definito il ‘sociologo dell’ascolto’, aperto ai temi della pace, delle mobilitazioni giovanili, dei movimenti delle donne, delle questioni ecologiche, delle forme di solidarietà e del lavoro psicoterapeutico. Il quale, in anticipo sui tempi, ha esplorato il mutamento culturale dell’ ‘identità’, in funzione della domanda di cambiamento proveniente dalla sfera lavorativa. E che, inoltre, ha affrontato i temi dell’esperienza individuale e dell’azione collettiva studiandone la loro ricaduta sulla vita quotidiana e sulle relazioni di gruppo, riconfermando la validità dell’interazione scientifica tra le diverse discipline, e apportando innovativi contributi alla ricerca sociologica.

Alberto Melucci, infatti, scrive: “Sono convinto che il mondo contemporaneo abbia bisogno di una sociologia dell’ascolto. Non una conoscenza fredda, che si ferma al livello delle facoltà razionali, ma una conoscenza che considera gli altri dei soggetti. Non una conoscenza che crea una distanza, una separazione fra osservatore e osservato, bensì una conoscenza capace di ascoltare, che riesce a riconoscere i bisogni, le domande e gli interrogativi di chi osserva, ma anche capace, allo stesso tempo, di mettersi davvero in contatto, con gli altri. Gli altri che non sono solo degli oggetti, ma sono dei soggetti, delle persone come noi, che hanno spesso i nostri stessi interrogativi, si pongono le stesse domande e hanno le stesse debolezze, e le stesse paure”.

Pur tuttavia – ci informa Rodotà – “Nudi patti di potere ancora ci avvolgono, indifferenti agli uomini e ai principi. Anche questa può essere, ed è, politica. Ma il suo prezzo si è fatto sempre più alto. Per praticarla, per imporre le sue regole ferree, non basta la tendenza insistita verso la cancellazione d’ogni forma di controllo – dei parlamenti, dei giudici, del sistema dell’informazione. Bisogna dimostrare visibilmente, ostentatamente addirittura, che ogni pretesa di far valere interessi generali, logiche non proprietarie, valori culturali, diritti dei cittadini è ormai improponibile: e c’è spazio solo per negoziazioni, accordi, sopraffazioni magari, ma solo tra soggetti forti, che creano essi stessi le regole, affrancati ormai da ogni legge o codice”.

Tantomeno sembra che tutto ciò abbia risolto la sempre più ampia e infinita discussione, sui limiti della politica benché, è innegabile, qualcosa è sopravvenuto a stravolgere il nucleo più duro da sempre presente nell’ ‘inconscio collettivo’ riguardante il ‘dominio’ oggettivo della politica, dalla quale ci si aspetta ancora il ‘riconoscimento’, e che, in psicologia, è conosciuto come ‘metodo del consenso’. Metodo che si basa sulla ‘cooperazione’ e non sulla ‘coercizione’, sebbene ciò richieda qualche sforzo in più per essere unitamente compreso e praticato. Se non c’è l’onesta / volontà di venirsi incontro (legittimazione paritaria), il metodo non funziona, in special modo quando ci si trova di fronte a gruppi eterogenei che intendono mantenere esclusive posizioni di potere, e che non possono o non vogliono cooperare.

L’applicazione del ‘metodo del consenso’ (*), dunque, va inteso come processo democratico che conferisce agli individui il potere di prendere decisioni e, al tempo stesso, richiede a ciascuno di assumersi la responsabilità di tali decisioni. Ciò che non è rinuncia al potere, è ‘potere-insieme’, e non chiede di trasferire responsabilità sugli ‘altri’, ma domanda agli ‘altri’ di rispondere personalmente e completamente delle proprie azioni, al di là delle ‘differenze di genere’ o di coperture coartate. Se non si comprende e si accetta questo, le politiche per le ‘pari opportunità’ hanno davvero ben poca possibilità di successo. Nella sua pur strenua possibilità di affermazione, il ‘metodo del consenso’, porta alla prevenzione dei conflitti nelle relazioni interpersonali, lì dove questi maggiormente si verificano o, come in alcuni casi, compromettono lo svolgimento di procedure etico - deontologiche, che regolano i rapporti interni alle strutture istituzionali. Presupposto necessario per la risoluzione delle contrapposizioni di molti conflitti psicologici che rientrerebbero così in una dimensione di legalità e di ‘giustizia sociale’.

Ovviamente i metodi di risoluzione dei conflitti dovrebbero andare ben oltre gli intenti di pacificazione convenzionali, o delle prese di posizione spesso animate da logiche politico-economiche preferenziali, che per lo più gratificano chi le applica. “Ma questa – spiega Rodotà – non è solo una storia di appetiti scatenati (..) che una teoria dei sentimenti morali può volgere al bene. È anche l’effetto di una vicenda culturale che ha visto due grandi metafore di questo secolo – la dottrina pura del diritto e l’autonomia del politico – piegate ad un uso volgare e vantaggioso. Con essi si volevano sottolineare la forza e la logica interna del diritto e della politica, non conoscibili ricorrendo ai canoni di altri sistemi di regole o di azioni. Ma la purezza del diritto non poteva significare né l’inconsapevolezza dei suoi usi, né la sua riduzione a mera tecnica (..) e l’autonomia della politica non poteva essere tradotta nell’assoluzione di qualsiasi pratica, nella sua definitiva separazione da tutto quanto la vicenda sociale porta con sé”.

E conclude: “È dunque una storia di abusi – politici, personali, concettuali – cui bisogna reagire, raccogliendo i cocci di costruzioni culturali frantumate, ma senza la pretesa di rimetterli ad ogni costo insieme. Bisogna ricostruire, per quelli che sono oggi, i nessi tra azione personale e sociale, tra interessi e valori, tra comportamenti e regole. Muovendo verso questo difficile orizzonte, può darsi che si offuschi la nettezza d’una distinzione tra chi si fa politico e chi si fa filosofo o portatore d’una spinta religiosa. Ma forse un moralista puro e pratico insieme, può dare una mano a chi si accinge a questa più lunga e impegnativa impresa, tenendo l’occhio aperto sulla folla dei fatti minuti e indecenti: registrandoli, denunciandoli e sapendo che la speranza di cambiare il mondo nasce sempre da un comune rifiuto delle deformazioni di quello in cui viviamo”.

“Contro malaffare e illegalità servono regole severe e istituzioni decise ad applicarle. Ma serve soprattutto una diffusa e costante intransigenza morale, un’azione convinta di cittadini che non abbiano il timore d’essersi moralisti, che ricordino in ogni momento che la vita pubblica esige rigore e correttezza”. (Rodotà)


C’è qualcosa d’altro da aggiungere? Bene, se sì, potete aggiungerlo nei commenti di questo articolo. Grazie.

Note:

(*) ‘responsabilità morale’ (cfr Sabatini Coletti: “Dizionario della
Lingua Italiana”).
(*) Roger Scruton (cfr. “Guida filosofica per tipi intelligenti” Il Sole
24 Ore – 2007).
(*) Albert Schweitzer, Premio Nobel per la Pace 1952.
(*) Zigmunt Bauman, “Intervista sull’Identità”, a cura di Benedetto Vecchi, Editori Laterza 2008.
(*) Daniela Verducci, “Il segmento mancante”, Carocci Editore 2003.
(*) Michele Partipilo in “Etica e deontologia” (cfr. Centro di Documentazione Giornalistica).
(*) Norberto Bobbio, "L'Età dei diritti" - Einaudi 2005.
(*) Umberto Galimberti, “Dizionario di Psicologia” Garzanti 2008.
(*) Giuliana Chiaretti e Maurizio Ghisleni (a cura di), Mimesis 2012., in “Sociologia di confine. Saggi intorno all’opera di Alberto Melucci”.
(*) ‘metodo del consenso’, (cfr. www.utopie.it/nonviolenza/metodo_del_consenso.htm).


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- Letteratura

’La Caduta’ libro di Giovanni Cocco

Giovanni Cocco “La Caduta” – Nutrimenti 2013

È un fatto, la ‘cronaca quotidiana’, o meglio dei ‘quotidiani’, entra in libreria dalla porta principale nelle pagine di questo libro che solo per volontà dell’editore possiamo definire ‘romanzo’. Per dire che non si sta parlando della grande letteratura bensì di una raccolta intelligente di ‘fatti’ che rientrano nel quotidiano di tutti noi. In quella storia stracolma di eventi di cui siamo rispettivamente partecipi e ‘non protagonisti’ come si usa dire in ogni premiazione cinematografica, alle prese con un protagonista che, per qualche ragione, ha dato il suo contributo alla ‘piccola o grande’ storia umana che è stata narrata. È il caso di questo libro di ‘fiction’, come bene annunciato nelle pagine del prologo e in quelle dell’epilogo, ma ancor più in quelle distinte come ‘nota dell’autore’ che egli ha posto, una volta finito di raccontare, in fondo, prima dell’ultima di copertina. In breve si tratta di una serie di ‘racconti’ ricostruiti sulla base di conoscenze e considerazioni personali che poco lasciano al lettore di avventurarsi nei meandri degli accadimenti quanto, invece, di ricevere stimoli e rendersi partecipe di fatti trascurati o superficialmente valutati e, ‘pensare’, ecco l’importante sollecitazione di un libro siffatto, di come ci si sarebbe comportati di fronte a tali accadimenti. Non è cosa da poco se si pensa che molta letteratura d’oggi si basa sul ‘nulla’ o sul ‘vuoto’ intellettuale. “Io non volevo essere uno strumento. Volevo essere un protagonista” – scrive Giovanni Cocco – in questa sua prima prova letteraria che, malgrado la sua negatività, si può definire riuscita, per quanto riguarda la scrittura sciolta e vivace, non tanto per la chiave di ‘romanzo’ che di per sé impegna e vuole essere impegnativa. Ma se l’importanza è esserci, come dire, leggere, pensare, scrivere, dire la propria, allora il risultato è ottimale, non secondo alla grande letteratura di cui parlavo poco prima. In fondo è il risultato che conta. Allora avventuriamoci nei contenuti. L’obiettivo riflette indubbiamente quello di un caleidoscopio le cui immagini decuplicate vengono scomposte e, in qualche modo, trasformate (da cui la fiction denunciata dall’autore). Così accade anche con i numerosi personaggi tenuti da un unico motivo conduttore qua e là spezzato e ricongiunto, come fosse un leit-motiv che ritorna più volte nella composizione della colonna sonora, i quali “si attraggono a tracciare una geografia” geo-politica inedita di “declino e riscatto”. Da cui il titolo “La Caduta” che altro non vuole essere dall’elencazione di altre ‘cadute’ che sono la ripetizione di se stesse, innumerevoli nella vita dell’uomo come della donna in questa società, che non permette di rialzare la testa e guardare in faccia le cose per quelle che sono, bensì solo attraverso la ‘finzione’ d’una realtà fittizia, immaginaria perché artata dal nostro osservarla attraverso il caleidoscopio che ci siamo costruiti e che ne deforma la concretezza.

Assicura Naomi Wolf nel suo "Il mito della bellezza" (Mondadori), che: "Le società si creano delle finzioni, alla stessa maniera degli individui e delle famiglie. (..) Finzioni che Enrick Ibsen chiama 'menzogne vitali' e lo psicologo Daniel Goleman asserisce interagiscono a livello sociale allo stesso modo. La collisione è mantenuta dirottando l'attenzione dal fatto terrificante, o riconfezionando il suo significato in un formato più accettabile. L'illusione che ne risulta si materializza in qualcosa di fin troppo reale; cioè smette di essere solo un'idea per diventare qualcosa di tridimensionale, incorporando in sé il modo in cui vivono e quello in cui non vivono gli eseri umani". 'La Caduta’ pertanto, rappresenta il male cui andiamo soggetti per effetto della transustanzialità dei nostri problemi irrisolti, 'mea culpa', che ci portiamo dietro. Un po’ come se la paura della ‘verità’, che invece dovremmo perseguire, fosse più forte di noi, quasi fosse in noi più difficile uccidere i nostri fantasmi che le nostre paure.
“Nella testa rimbalzano immagini e pensieri, in un vortice di emozioni che non mi lascia tregua. Sono imbevuta di pensieri che derivano dalle mie letture e a fatica, ora, riesco a distinguere ciò che è reale da quello che è suggestione” fa dire Giovanni Cocco a uno dei suoi personaggi. Ma fino a che punto può spingersi la volontà degli uomini? Dove inizia il male? In quale preciso istante un uomo sceglie deliberatamente di compiere un crimine? – queste ed altre domande si pone l’autore del libro, ma chi è in grado di rispondere se ognuno di noi è in qualche modo diseguale dagli altri. Una risposta lui l’ha trovata in Agostino (Sant’), il quale sosteneva che “..le ragioni del male compiuto dall’uomo fossero da attribuire al libero arbitrio concesso da Dio alla natura umana”. E ci dev’essere, anzi c’è senz’altro qualcosa di vero in ciò, se accettiamo che c’è fin qui lasciata la libera scelta di decidere per la ‘verità’ o altro, di guardare in faccia la ‘realtà’ senza ometterla, di determinare o no il nostro destino umano sulla terra. Per altro lasciamo a Dio di gestire le nostre anime. È questa una riflessione sulla quale Giovanni Cocco ci introduce con i suoi richiami (in apertura di ogni capitolo) alla ‘Apocalisse’ di Giovanni, non senza sostenerci nelle nostre risollevazioni dopo le ripetute ‘cadute’, neppure fossimo tutti poveri Cristi. Ma non c’è compassione, (probabilmente e meno male la parola non fa parte del suo vocabolario), non c’è però neppure pietà. Egli (l’autore) non si piange addosso, né si commuove alla prova della sventura degli altri. Semplicemente se ne fa partecipe e ci rende tutti partecipi di quella volontà superiore (struttura) che sembra fustigare questa umanità reietta (struttura nella struttura) che soggiace supina alla catastrofe (apocalittica) finale.
“Gli ultimi saranno i primi” – il detto evangelico citato da Giovanni Cocco non da garanzie di sorta e non fa sconti a nessuno. Ciò che non si capisce dalle pagine del libro è piuttosto il perché “gli ultimi saranno i primi”. Primi di chi? Davanti a chi? Solo perché attori ‘non protagonisti’ oppure in ragione di scalata sociale-economica-intellettuale non realizzata in questo suo primo libro, ma che potrebbe anche accadere se l’autore in seguito ci farà dono di un secondo libro/romanzo esplicativo e di più ampio respiro. Sulla cui ‘scia’ anche il lettore (sprovveduto) potrà aprire un credito a quel ‘riscatto’ che dice di voler raggiungere.


“È il 30 settembre, oggi. L’autunno sembra non avere intenzione di arrivare quest’anno.
Là fuori, adesso, riesco a sentire il rumore degli scontri.
Gli slogan del corteo.
Le sirene delle ambulanze.
La folla assiepata nella piazza del Nettuno, davanti alle Cortes, intona canti di protesta.
Chiudo la finestra.
Mi assicuro che radio e televisione siano spente.
Poi mi metto a letto.
C’è solo silenzio intorno”.

“Il resto è silenzio!” – scriveva W. Shakespeare nella chiusa  di ‘Amleto’.

Giovanni Cocco è nato a Como nel 1976. Vive a Lenno, sulla sponda occidentale del Lario. 'La Caduta' è il suo primo romanzo.

 

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- Musica

’Romeo e Giulietta: Ama e cambia il mondo’

‘ROMEO E GIULIETTA’ :'Ama e cambia il mondo’ – da W. Shakespeare
Produzione David Zard, musiche di Gerard Presgurvic, adattamento dei testi di Vincenzo Incenzo, regia di Giuliano Peparini.

Arena di Verona – 02/10/2013
Strepitosa ‘Prima’ per il musical ‘Giulietta e Romeo’ andata in scena ieri sera all’Arena di Verona, luogo imprescindibile della storia ‘d’amore’ per eccellenza che ha coinvolto e continua a coinvolgere generazioni di giovani amanti, e  non finisce mai di stupirci nonostante le numerose ‘versioni’ teatrali e i ‘rifacimenti’ cinematografici cui abbiamo assistito dacché fu scritta da William Shakespeare nel lontano 1595/6. Ma perché questa storia raccoglie un così ampio successo è implicito in quell’ ‘amore infinito’ che in essa si consuma, e che non avrà mai fine perché l’amore continua a vivere oltre la breve durata della ‘performance’ dei due protagonisti, superando il ‘tempo’ stesso della storia narrata. I due giovani non hanno che il loro amore per contrastare la ferocia di un’antica guerra fra le opposte fazioni che a Verona vede i Montecchi contro i Capuleti, storiche famiglie patrizie in lotta per la guida della città. E il ‘loro amore’ infine vincerà, al di là del ‘mito’ e del fascino straordinario che i due giovani, perché ‘l’amore è sempre giovane’, esercitano con la loro appassionata e drammatica morte.

"Il mio unico amore nato dal mio unico odio! Sconosciuto che troppo vidi, e troppo tardi conobbi!" W. Shakespeare.

La rivisitazione brillante e contemporanea della più tragica storia d’amore conosciuta al mondo è divenuta così un musical in chiave ‘rock’, diversa da quella originale francese e diventata ‘romantico/convenzionale’ (infatti sono sparite le scene acrobatiche decisamente rock) con un occhio ‘ad effetto’ rivolto alla sua commercializzazione e possibile internazionalizzazione, che ci coglie oltre che per gli arrangiamenti musicali (Prokofiev non è poi così lontano), anche per le ‘scenografie di luce’ che permettono una potente e drammatica illusione di vivere fuori del tempo storico in cui Shakespeare l’ha incastonata. La spettacolarità dell’Arena di Verona, la preziosità dei costumi, la musica travolgente in forte contrasto con la ‘dolcezza’ delle canzoni rivolte tra i due amanti (i belli e bravi Davide Merlini e Giulia Luzzi), gli assolo forti e chiari degli altri personaggi che determinano la storia: il Principe (Leonardo Di Minno), Tebaldo (Gianluca Merolli), Mercuzio (Luca Giacomelli), Benvoglio (Riccardo Maccaferri), Frate Lorenzo (Gio Tortorelli), i componenti le due famiglie dei Montecchi e dei Capuleti, nonché la strepitosa Nutrice (Silvia Querci); i duetti, i cori d’insieme, e la fin troppo semplice bellezza (affatto dimessa) dei due giovani interpreti, danno forma a un amalgama sicuramente vincente che avvolge e coinvolge il pubblico acclamante dell’Arena.
Straordinari tutti gli altri interpreti che numerosi prendono parte alla messinscena: coreuti, ballerini/ne, tecnici del suono e delle luci, costumisti e truccatori (i cosiddetti trucco & parrucco), funzionali ai tempi teatrali, al cambio delle scenografie 'di luce', all’entrata e uscita dei personaggi, alle scene d’insieme che coinvolgono l’intera Arena e ipoteticamente (come all’ora), l’intera città di Verona. “Ama e cambia il mondo..” dice la strofa iniziale del leit-motiv che include un messaggio universale di ‘pace’. “Credi e cambia il mondo..”, prosegue, a voler dire che se la morte, (che si respira fin dall’inizio nelle parole del Coro, nel clima di faida che si respira a Verona nel fragore delle armi e nelle minacce e che si conclude con il duello tra Mercuzio e Tebaldo), entra così prepotentemente in scena è a Dio che bisogna rivolgere la preghiera al fine di far cessare che la bella Verona si trasformi in una tomba. E che i ‘giovani’, non sono affatto i soli e gli unici ad essere colpiti dalla tragedia, con loro i genitori (colpa o non colpa) vivono con loro e muoiono con loro, e infine offrono il proprio riscatto alla vita.
L’insidia è nei ‘tempi’ della storia, la cifra è il ‘destino’ che ci facciamo da soli, e ‘credere’ è la fiducia che dobbiamo a noi stessi, dicono le parole dei numerosi messaggi contenuti nelle canzoni, contro l’egoismo, l’arroganza, i soprusi, contro ogni sopruso, ogni imposizione, contro il rispetto che dobbiamo a questa umanità infangata dalle guerre, dall’odio razziale, dalla ‘vergogna’ per le rivalse vendicative che mettono gli uni contro gli altri e che sono al centro di questo dramma dalle dimensioni universali e, se vogliamo, autentico perché, ancora oggi, riguarda da vicino tutti noi, le nostre colpe, le nostre responsabilità. “Chi tra i presenti (migliaia) può dirsi senza colpa?”, chiede ai fedeli riuniti in piazza San Pietro Papa Francesco, “Nessuno di noi!”, è la risposta a quell’ ‘atto di fede’ (peccatore o no, laico o clericale che sia) che, accompagnato dalla ‘volontà’ di dare un senso a questa nostra vita, dobbiamo fare insieme, perché comunque è ‘insieme’ che scriviamo i passi della storia.
Allora ben si torni a quell’amore che, cantato, sceneggiato, filmato, celebrato possa in fine ‘cambiare il mondo’, e basterebbe a confermarlo l’uso spregiudicato che invece facciamo del ‘tempo’ e dello ‘spazio’, e che dovrebbero essere finalizzati al bene reciproco, sacrificati all’immortalità dell’anima, perché in ultimo è quello che conta, nel momento in cui ‘ognuno’ trova la ‘pace’, in questo importante ‘musical’ mirabilmente rappresentata dal confronto fra l’amore e la morte, la consolazione e la salvezza che arricchisce il bagaglio umano dei protagonisti. Come anche sa il pubblico, sempre parte integrante della rappresentazione teatrale (di grande efficacia), poiché l’impossibile diventa sempre possibile sulla scena. Allora ‘quanto è importante amare e non odiare’ (?), quanto è rilevante e apprezzabile seminare amore e raccogliere speranza (?), ce lo insegna questa storia che ha segnato una svolta nell’opera letteraria di Shakespeare che sostituisce sulla scena la bellezza dell’amore e della vita al triste destino dei due protagonisti.


Da segnalare una calata di ‘effetto’ per un vuoto di scena pochi istanti prima del ‘gran finale’ dove il dramma si trasforma in tragedia con la morte dei due protagonisti che lascia l’amaro in bocca, per quanto il momento ‘teatralmente perfetto’ che permette il recupero della grandiosità scenica, in effetti c'è, ed è quando Romeo e Giulietta si levano dal letto di morte. È lì che tutti i partecipanti dovrebbero avanzare a gruppi verso il proscenio a ricevere gli applausi, e tutti (dovrebbero ma non lo fanno) cantare insieme (invitando il pubblico) il loro amore per la vita: “Ama e cambia il mondo”. Una variante che mi sento di suggerire al giovane ma già ‘grande’ Giuliano Peparini, e che certamente renderà ancora più entusiasmante la sua trascinante regia.

Discografia e Video consigli:

 

Sergei Prokofiev "Romeo e Giulietta" estratti dal 'Balletto' e dalle 'Tre suites' scelti da Claudio Abbado - Deutesche Grammophon 1977.

 

Hector Berlioz "Roméo et Juliette", Op.17, sinfonia drammatica per soli coro e orchestra su libretto di Emile Deschamps.


The Shakespeare Collection "Romeo e Giulietta" - piece teatrale d'epoca - BBC / Gruppo Editoriale L'Espresso 2009.

 

Cinematografia:

 

"Romeo e Giulietta", film diretto da Renato Castellani nel 1954, con le scenografie di Giorgio Venzi e le musiche originali di Roman Vlad. Interpreti Lawrence Harwey, Susan Shentall; vincitore del Leone d'oro a Venezia nel 1954, e  'nomination' come 'Miglior film straniero' dalla National Board Review Hawards che premiò Castellani come 'miglior regista'.


"Romeo e Giulietta" - film diretto da Franco Zeffirelli nel 1968 con Olivia Hussey e John McEnery. Vincitore di numerosi 'premi' internazionali: 2 Oscar (1969); 3 Golden Globe 1969 per il 'miglior film straniero'; Davide di Donatello 1969 alla regia di F. Zeffirelli; 5 Nasto d'Argento per i costumi di D. Donati e le musiche di Nino Rota.

"Romeo + Giulietta" - film in chiave moderna (e abbastanza caotico) di Baz Luhrmann con Leonardo Di Caprio e Claire Danes - 1986.



 

 

 

 

 

 

 

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- Cultura

’Flora della Riserva Naturale Regionale Sentina’

‘FLORA DELLA RISERVA NATURALE REGIONALE SENTINA’
Atlante fotografico delle piante vascolari a cura di Fabio Conti, Luca Bracchetti, Leonardo Gubellini, Edito da FastEdit – Acquaviva Picena per conto della Città di San Benedetto del Tronto.

Porto d’Ascoli - Hotel Nettuno, 28 Settembre 2013

Nella cornice marinara dell’Hotel Nettuno perla della Riviera Adriatica Marchigiana, alla presenza del Sindaco Giovanni Gaspari e dell’Assessore all’Ambiente Paolo Canducci, del Presidente della Riserva Naturale Sandro Rocchetti, si è tenuta la presentazione del volume ‘Atlante della flora naturale regionale della Sentina’, che porta a compimento un ‘percorso culturale’ già avanzato in altre pubblicazioni sul ‘territorio’ e sulla ‘fauna’ locali, e con il quale si è voluto illustrare le caratteristiche degli habitat presenti all’interno della Riserva e fornire informazioni utili al riconoscimento di alcune delle specie faunistiche e vegetali che vanno conservate.
La Riserva naturale della Sentina è “un paesaggio di acque e sabbia” di grande valore naturalistico, memoria di come un tempo si presentava l'intera area costiera. Variegata e numerosa risulta essere la flora presente negli ecosistemi dunali, negli ambienti umidi e nelle zone salate retrodunali, nonché presenti nella zona agricola. Una zona, quest’ultima che ha maggiormente risentito delle attività antropiche e che risulta ormai ben lontana dall’ecosistema agrario precedente la meccanizzazione del settore agricolo. Le siepi e i filari che un tempo erano parte integrante della presenza umana nel territorio, sono quasi del tutto scomparse, la rotazione delle colture agricole non essendo più praticata ha lasciato posto ad attività più intensive in un’area di grande interesse eco-ambientale-paesaggistico, tipico della foce del fiume Tronto.
Il mosaico ambientale, infatti, particolarmente ‘unico’ nel suo genere di tutta la costa adriatico-marchigiana, fornisce l’habitat a numerose specie animali e vegetali, la cui ‘unicità: la fauna è particolarmente ricca di uccelli con ben 150 specie, non mancano tuttavia anche mammiferi, rettili e anfibi, caratterizzato da un suolo con elevata concentrazione di sale a causa della presenza di falde idriche marine. In quest’aria è inoltre possibile riscontrare anche diversi specchi d’acqua superficiali che, a differenza degli ambienti umidi, hanno un forte carattere temporaneo e per ciò legati a piogge intense e mareggiate in grado di superare la barriera rappresentata dalla zona dunale. “Inutile dire che la salvaguardia della Riserva presenta diversi vincoli ambientali, umanistici, comunitari specifici che vanno oltre l’intento della semplice ‘conservazione’ che, altresì, va sospinta verso la ‘ri-valorizzazione’ del territorio, osservando le regole di uno sviluppo sostenibile di tutta l’area interessata”.
È quanto affermato dalla dott.sa Cinzia Gagliardi, Comandante Regionale Corpo Forestale dello Stato, intervenuta dopo la presentazione dell’eccellente documentario realizzato dai cineasti della Fondazione ‘Libero Bizzarri’, che ha regalato ai presenti momenti suggestivi e indimenticabili, soprattutto di come sia possibile realizzare con un ‘corto’ un’opera dalla dimensione ‘compiuta’ in ogni suo aspetto. Interessante anche il discorso introduttivo del Sindaco Giovanni Gasparri che ha illustrato (e come poteva essere diversamente) quelle che sono le difficoltà oggettive e gli impegni presi a livello comunale e regionale del degrado ambientale, dei diversi vincoli che hanno l’effetto di ritardare ogni opportunità di ripresa dell’intera zona. Tuttavia egli ha proposto una visione più completa dell’intero progetto, spostando l’obiettivo principale sullo ‘sviluppo armonico’ dell’intero comparto abitativo che, non in ultimo, riguarda lo sviluppo culturale e il valore umanitario della gente che risiede o soggiorna intorno alla Riserva e che egli vede come: “ulteriore fonte di sviluppo turistico”.
Sono seguiti gli interventi scientifici degli ‘addetti ai lavori’ ai quali vanno attribuite la ricerca botanica, la selezione delle specie, il monitoraggio costante, la scelta fotografica ‘sbalorditiva’ delle immagini floristiche che corredano l’Atlante: 140 pagine di scatti che da sole hanno la capacità di illustrare quelli che sono poi i ‘paesaggi della memoria’ che, credo facciano parte del curriculum di ognuno di noi, per una volta chiamati ad osservare quanto di bello c’è nel creato, a cominciare dalle ‘piccole verzure floreali’ che ci circondano. Un’emozionante ‘viaggio’ attraverso questo nostro mondo fatto di tante ‘piccole cose’ che vale la pena di conoscere ed amare.

Da bambino volevo guarire i ciliegi
quando rossi di frutto li credevo feriti
la salute per me li aveva lasciati
coi fiori di neve che avevan perduti.

Un sogno, fu un sogno ma durò poco
per questo giurai che avrei fatto il dottore
e non per un dio ma nemmeno per gioco:
perché i ciliegi tornassero in fiore

Sono le parole di “Un medico” tratto dall’album discografico “Non al denaro, non all’amore né al cielo” di F. De André, 1971, con le quali il Dott. Agronomo Sandro Rocchetti, presidente della Riserva Sentina apre la bella quanto nutrita pagina della ‘Prefazione’, e che aggiunge: “Da bambino sono stato sempre affascinato dal mistero del come da un pezzo di legno, in inverno secco e rattrappito, di lì a poco, potessero miracolosamente apparire fiori dai quali poi si raccoglievano frutti dolcissimi..”.

Gli interventi sono dovuti ai redattori dell’Atlante:
Fabio Conti (intervenuto), Scuola di Scienze Ambientali, Università di Camerino. Centro Ricerche Floristiche dell’Appennino (Parco Nazionale del Gran Sasso-Laga).

Luca Bracchetti, Università di Camerino Unità di Ricerca e Didattica di San Benedetto del Tronto (URDIS).

Leonardo Gubellini (intervenuto), Centro Ricerche Floristiche delle Marche.

Un particolare ringraziamento va alla Sig.a Enrica ….. dell’Hotel Nettuno per il suo cortese invito. Ed a Stefano Chelli (collaboratore e tecnico di sala), per alcune fotografie straordinarie che corredano il volume, e per l’accoglienza riservatami.

 

Bibliografia di riferimento:

"Sentina, storia e storie" di Albano Ferri e Mirco Pavoni - Ed. Marte Editrice 2009

"San Benedetto del Tronto, città adriatica d'Europa" di Giuseppe Merlini - Pubb. Amministrazione Comunale della Città - 2005

"Le marinerie adriatiche tra '800 e '900" Catalogo della Mostra tenutasi al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari - Roma 1990 Edito da De Luca.

"Vele e Simboli della Marineria Sambenedettese" di Umberto Poliandri, per la Mostra tenutasi a San Benedetto del Tronto - Edito da Maroni 1995.

 

 

 

 

 

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- Sociologia

Zygmunt Bauman: ’Paura Liquida’

“Paura Liquida”, Zigmunt Bauman – Editori Laterza 2006

Parlare di Zigmunt Bauman come di un ‘non positivo’ è indubbiamente riduttivo, così come aggettivarlo ‘catastrofista’ o addirittura ‘apocalittico’ è altrettanto calamitoso. Il suo occhio sociologico, ‘da grande fratello’, si scopre impegnato a cercare gli aspetti, tutti gli aspetti, relativi ai rischi ‘calcolabili e incalcolabili’ delle tensioni rilevanti la nostra ‘ignoranza’ o, come talvolta accade, della nostra ‘mancata risolutezza’ nel risolvere i ‘problemi’ che ci assillano. Perché di questo in realtà si tratta. In questo suo libro “Paura liquida”, infatti egli osserva “..la vita liquida che scorre, o si trascina, da una sfida all’altra, da un episodio all’altro. (..) mentre i pericoli che innescano le paure hanno finito per apparire compagni permanenti e ‘inseparabili’ della vita umana, anche quando si sospetta che nessuno di essi sia ‘insormontabile’. (..) Così, “..ora abbiamo ragione di considerare le probabilità negative troppo alte per giustificare la misura rischiosa, o troppo basse per dissuaderci dal correre il rischio” di combatterle.
Nel contesto ‘liquido-moderno’ innescato dal grande sociologo, il pensiero metodologico rincorre la ‘paura’ e ne sviscera i numerosi aspetti, fin dalla sua origine (la paura della morte e la paura del male), alla dinamica d’uso (volontà e necessità della paura); dall’orrore dell’ingestibile (precarietà e insicurezza come derivati della paura), al terrore globale (problematicità e catastrofismo insiti nella paura): arrivando, nella sua efficace analisi, a proporre i ‘rimedi’ o, perlomeno, le precauzioni e i suggerimenti per affrontare quelle che sono le ‘paure’ più diffuse, che egli ritiene nate e alimentate dalla nostra ‘costante insicurezza’. Da cui, nei due capitoli finali, “Far affiorare le paure” e “Il pensiero contro la paura” mette in evidenzia il paradosso di una “conclusione provvisoria per chi si chieda che fare”.
Tuttavia lo schema cui Bauman affida le possibilità di una presumibile risoluzione delle ‘paure’, non è dimostrativo, bensì ‘conoscitivo’, in quanto discopre alla ragione quanto c’è nel substrato umano di tipo psicologico, le cui certezze sono messe a rischio dal continuo mutare delle ‘paure’ cui andiamo soggetti, anche a nostra insaputa: dal ‘millenium bag’ alla febbre ‘aviaria’ o la ‘mucca pazza’; dalla minaccia del ‘buco nell’ozono’ alla ‘sofisticazione alimentare’ o la ‘guerra batteriologica’ la cui capacità distruttiva potrebbe mettere a dura prova la sopravvivenza umana; ecc. Ma queste sono solo le grandi calamità, più o meno vicine che denunciate, ci riportano alle apocalissi bibliche di là da venire. In verità, non c’è niente di ‘apocalittico’ in Bauman, se non che ci mette di fronte alle nostre ‘paure’ più prossime riguardanti il presente e la nostra capacità di ‘sopravvivenza’ economico-sociale, culturale e politica prossima futura.
I riferimenti sono per lo più alle nostre ‘paure’ quotidiane: “I mezzi sono i messaggi. Se le carte di credito e i libretti di risparmio ispirano certezza nel futuro, un futuro incerto reclama a gran voce un futuro degno di fiducia. (..) Un futuro che certo arriverà e che, una volta giunto, non sarà tanto dissimile dal presente (..) che darà valore a ciò cui noi diamo valore (..) prosperando sulla speranza / aspettativa / fiducia che, grazie alla continuità tra il presente e il futuro, farà la differenza, determinerà la forma del futuro”. Ciò non sorprende: “possiamo preoccuparci solo delle conseguenze indesiderabili che siamo in grado di prevedere, e soltanto queste possiamo cercare di evitare”. (..) Dobbiamo tuttavia notare che la ‘calcolabilità’ (di rischio) non significa prevedibilità ciò che si calcola è solo la ‘probabilità’ che le cose vadano male e che sopraggiunga il disastro. Il calcolo delle probabilità dice qualcosa di affidabile sulla distribuzione degli effetti di un gran numero di azioni simili, ma è quasi inutile come mezzo di previsione quando lo si impiega (alquanto impropriamente) per orientarsi in una specifica impresa”.
Un aforisma che mi sento di cogliere è il seguente: “L’incomprensibile è diventato normale”. Con ciò si mette in luce un aspetto della ‘paura’ tutt’ora sotterraneo, scaturita dalla sindrome spaventosa della ‘catastrofe personale’ per cui si teme di essere presi ‘a bersaglio’, di essere personalmente distrutti “.. per essere lasciati indietro, di essere esclusi”. “Che simili paure siano tutt’altro che immaginarie, lo si desume dalla preminente autorità dei mezzi di comunicazione, fautori – visibili e tangibili – di una realtà che non si riesce a vedere né a toccare senza il loro aiuto”. Acciò “potremmo dire che la Bibbia si è ridotta al solo Libro di Giobbe” – prosegue Bauman – mettendoci così sull’avviso che tutte le favole morali (che ci vengono inculcate) in verità agiscono seminando paura. Ma, mentre le favole morali di ieri servivano a redimere le minacce che le generava “per vivere una vita senza paura”; le favole morali del nostro tempo sono tendenzialmente impietose: non promettono alcuna redenzione.
“Irreparabile.. irrimediabile.. irreversibile.. irrevocabile.. senza appello.. Il punto di non ritorno.. il definitivo.. l’ultimo.. la «fine di tutto». Esiste uno e uno solo evento cui si possano attribuire a pieno titolo tutte queste qualificazioni nessuna esclusa, un solo evento che renda metaforico ogni altro loro impiego, l’evento che conferisce a quei termini il loro significato primario, incontaminato e non diluito. Quell’evento è la ‘morte’. (..) La morte incute paura per via di quella sua qualità diversa da ogni altra: la qualità di rendere ogni altra qualità non più superabile. Ogni evento che conosciamo o di cui siamo a conoscenza – ogni evento, eccetto la morte – ha un passato e un futuro. Ogni evento – eccetto la morte – reca una promessa, scritta con inchiostro indelebile anche se a caratteri piccolissimi, secondo cui la vicenda «continua». (..) Soltanto la morte significa che d’ora in poi niente accadrà più, niente potrà accadere, niente che possa piacere o dispiacere. È per questa ragione che la morte è destinata a restare incomprensibile a chi vive, e anzi non ha rivali quando si tratta di tracciare un limite realmente invalicabile per l’immaginazione umana. L’unica e la sola cosa che non possiamo e non potremo mai raffigurarci è un mondo che non contenga noi che ce lo raffiguriamo”.
L’endemico nella morte sta nella personificazione dell’ ‘ignoto’, l’unico tra tutti gli ignoti che sia pienamente e veramente ‘inconoscibile’: “Qualsiasi cosa abbiamo fatto per prepararci alla morte, la morte ci troverà impreparati. E anzi, aggiungendo il danno alla beffa, essa invalida e svuota la stessa idea di «preparazione», ossia di quell’accumulazione di conoscenze e capacità che definiscono il sapere della vita. Ogni altro caso di assenza di speranze, d’infelicità, d’ignoranza e d’impotenza potrebbe essere sanato, con sforzi adeguati. La morte è insanabile. La «paura originaria», la paura della morte, è qualcosa di innato, di endemico – appunto – che noi uomini sembriamo condividere con tutti gli animali, per via dell’istinto di sopravvivenza programmato nel corso dell’evoluzione in tutte le specie, o almeno in quelle sopravvissute abbastanza a lungo da lasciare sufficienti tracce della propria esistenza”.
E aggiunge: “Soltanto noi uomini sappiamo che la morte è inevitabile (sebbene non ce ne facciamo una ragione), e siamo alle prese con il compito tremendo di sopravvivere all’acquisizione di tale consapevolezza, con il compito di vivere con – e nonostante – la nozione dell’inevitabilità della morte”, spingendosi poi a citare Maurice Blanchot per cui “l’uomo non è a conoscenza della morte solo in quanto uomo, ma piuttosto è uomo solo in quanto è morte nel divenire”. Con ciò si vuole qui contrastare, o neutralizzare, la ‘paura’ che non viene dall’arrivare della morte, ma trasuda dalla nostra consapevolezza che sicuramente prima o poi essa arriverà. Ma Bauman va oltre, e spezza una lancia in favore di questa umanità defraudata della speranza, scolpendo una sua frase sulla dura pietra della filosofia: «Tutte le culture umane possono essere decodificate come ingegnosi congegni che rendono la vita vivibile, nonostante la consapevolezza della morte».
E questo è esattamente il lavoro del sociologo, ‘decodificare’ ciò che in filosofia è criptico e incomprensibile alla globalità; far affiorare e gestire le ‘paure’ antropologiche legate a origini animistiche e superstiziose occultate dal pensiero ermetico, volutamente oscuro, impenetrabile, imperscrutabile, allo scopo di rendere l’umanità consapevole del proprio vivere, del proprio essere su questa terra, cioè: «rendere possibile vivere nell’inevitabilità della morte». “Ricordare che la morte incombe, aiuta gli esseri mortali a restare sulla giusta via nel corso della propria vita, conferendo a quest’ultima uno scopo che rende prezioso ogni momento vissuto”. Frase che riflette della concezione ‘cristiana’ di Bauman con la quale egli esorta l’umanità a esercitare la convinzione di una ‘vita oltre la vita’ alla quale appellarsi nei momenti di maggiore sconforto, per cui è “..proprio quella vita ‘terrena’ così terribilmente breve ad avere ‘potere sull’eternità’, ciò che conferisce alla vita, la possibilità di viverla fino in fondo, nel bene e nel male, con tutto ciò che essa riserva.
Ed è qui che Bauman si spinge oltre, all’obbligo nel ‘memento mori’ di esercitare tale ‘potere’ per annullare lo stigma del peccato originale: “occorre dimostrare spirito di sacrificio e abnegazione – egli scrive – per capovolgere il significato della morte (..) e riconciliare i viventi con la propria natura mortale, conferire alla vita un senso, uno scopo e un valore che il verdetto di morte avrebbe certamente negato se ci si fosse fermati alla sua rigorosa e austera semplicità”. Lo stratagemma qui utilizzato è indubbiamente culturale - filosofico e consiste nello sforzo sistematico di eliminare dalla coscienza umana la preoccupazione dell’eternità (o meglio ancora, della durata in sé) e privarla dei poteri di dominare, formare e ottimizzare il corso della vita individuale.
Tuttavia il sociologo spinge a rendere ‘marginali’ le preoccupazioni per ciò che è irrevocabile, attraverso la svalutazione di tutto ciò che è durevole, persistente e a lungo termine: “..di qualsiasi cosa che abbia probabilità di sopravvivere alla propria esistenza individuale, o anche delle attività in cui è scandito l’arco della vita, ma persino di quelle esperienze che sono il materiale di cui è formata la materia dell’idea di eternità che incita a chiedersi quale posto si abbia in essa. (..) Esistono sostanzialmente due modi per far questo: uno è la decostruzione della morte; l’altro è la sua banalizzazione”. Sulla ‘decostruzione’ lo stesso Bauman cita Jean Baudrillard (in accettazione o in controtendenza non è esplicito), in cui questi dice: “..il simulacro (della morte) non equivale alla simulazione, in quanto ‘falsifica’ le caratteristiche della realtà e in tal modo, inavvertitamente, ne ripristina e riconferma la supremazia”.
Diversamente dalla ‘banalizzazione’ in quanto ‘simulazione’ lo spauracchio della morte “..nega la differenza tra la realtà e la sua rappresentazione, rendendo vuota l’opposizione tra verità e falsità, tra la rassomiglianza e la sua distorsione”. Tuttavia la ‘morte’ non è la metafora di se stessa, e la ‘paura della morte’ è cosa reale, concreta, tangibile, fondata, esistente e, non la si può ignorare, conclude l’autore: “..la morte compare nel dramma della vita liquido-moderna, differisce per vari aspetti vitali dall’originale cui rimane metaforicamente legata: una circostanza che non può che trasformare il modo di pensare e di temere la morte stessa”; ciò che Jung con grandissimo acume, nella sua infinita ricerca, ha trasformato in ‘archetipo’ originario, modello stesso di vita.
Oggi, viviamo un'altra realtà che non ha scacciato l’antica ‘paura della morte’, bensì una volta ‘destrutturata’ si è sovrapposta ad essa, ed è il “feticismo tecnologico” diffusosi dopo l’avvento della comunicazione elettronica e delle ‘reti’ mediatiche. Acciò Bauman cita Jodi Dean, economista americana che ha rilevato nel ‘feticcio tecnologico’ un aspetto prettamente «politico», per cui: “..la tecnologia agisce in nostra vece e di fatto ci mette in condizione di rimanere politicamente passivi. Non dobbiamo assumerci responsabilità politica perché, ancora una volta, è la tecnologia a farlo per noi. (..) È l’assuefazione a questa «roba» a farci credere che tutto ciò che occorre è universalizzare una particolare tecnologia, e che allora avremo un ordine sociale democratico o riconciliato” (niente di più vero/o completamente falso cui andiamo incontro).
Bauman ci rammenta, inoltre, che tutte le vittorie liquido-moderne sono temporanee, disponibili a innumerevoli cambiamenti (..) e che “..noi uomini, pur condividendo con gli animali la consapevolezza della morte e il timor panico che ciò provoca, siamo i soli a sapere molto tempo prima che la morte ci colpisca (fin dall’inizio della nostra vita cosciente) che essa è inevitabile e che siamo tutti, senza eccezione, mortali. Noi, e soltanto noi tra tutti gli esseri senzienti, dobbiamo convivere per tutta la vita con questa consapevolezza”. Ed è questa, ritengo, la causa più profonda dell’evoluzione non programmata, perciò casuale e maggiormente rischiosa, che possiamo attribuire allo sviluppo moderno e che ha indotto Jacques Ellul (citato nel libro), ad affermare che “..la tecnologia (le abilità e gli strumenti per l’azione) si sviluppa semplicemente per se stessa, senza che occorrano altre cause o motivazioni”.
Il ricorso alla ‘fantascienza’, dove le ‘macchine’ prendono il sopravvento sull’uomo e che ha foraggiato tanta letteratura e tanto cinema, è ormai una realtà del nostro presente, dacché la ‘profezia’ di Ellul, è il risultato di una ‘deviazione’: la più lunga, la vera «madre di tutte le deviazioni», causa abilitante di esse e modello da replicare all’infinito, autentica meta-deviazione, descrivibile, retrospettivamente, come tentativo di sostituire la nostra forza tecnologica e la nostra conoscenza alle forze della natura e alla nostra ignoranza, nel ruolo determinante-supremo della nostra condizione determinata. Ciò che, giunti ormai in fondo al grande balzo verso la libertà passato alla storia sotto il nome di «era moderna», ci fa dire che siamo ancora, come ai suoi inizi se non di più, ‘creature della determinazione’.
Incalza Bauman: “L’unica, ma formidabile differenza tra il punto di partenza e d’arrivo di questa ampia ‘deviazione’ è che ora, alla fine del tragitto, abbiamo perso le illusioni ma non le ‘paure’. Abbiamo cercato di allontanare quest’ultime esorcizzandole senza esserci riusciti; con questo tentativo siamo riusciti soltanto ad accrescere la somma degli orrori che chiedono a gran voce di essere affrontati e allontanati”. E, poiché “temiamo ciò che non siamo capaci di gestire, chiamandola ‘incapacità di comprendere’; ne viene che ciò che non siamo in grado di gestire ci è «ignoto» e l’ «ignoto» fa paura: “La più orribile tra le paure sopraggiunte è quella di non poter evitare la paura né di poter sfuggire ad essa”. Per poi aggiungere lapidario: “La paura è un altro nome che diamo al nostro essere senza difese”.
Giuseppe Galasso del “Corriere della Sera” non a caso ha definito questa analisi di Bauman di non comune interesse “minuziosa e impressionante”, in ragione del suo prevedere l’insinuarsi della ‘paura’ per effetto della ‘globalizzazione negativa’, per cui si può affermare, in aggiunta ai fattori precedentemente indicati, la ‘discontinuità’ che ha reso visibile la forza spaventosa di quella che possiamo/dobbiamo definire come la sfera dell’ignoto, dell’incomprensibile, dell’ingestibile. “Finora – egli scrive – questa fatidica novità è stata indicata con il termine semplificativo di ‘globalizzazione’ come effetto positivo, benché non si sia tenuto conto degli aspetti negativi che vi si nascondono. (..) Una ‘globalizzazione’ totalmente negativa: incontrollata, non completata né compensata da una versione ‘positiva’ che, nel migliore dei casi, è ancora una prospettiva lontana o, secondo alcune previsioni, è già una vana speranza”.
Il carattere ‘aperto’ della nostra società, (‘liquido’ secondo Bauman), ha acquisito in questi ultimi anni un lustro nuovo: “L’illegalità globale e la violenza armata si alimentano e si rafforzano reciprocamente. La globalizzazione del male e del danno si ripercuote nel rancore e nella vendetta globale. Affermazione che Karl Popper (citato), inventore dell’espressione «globalizzazione negativa», non avrebbe osato neanche sperare: “.. (quindi) non più prodotto prezioso, fragile di sforzi coraggiosi, faticosi di autoaffermazione, ma destino ormai irresistibile creato dalla pressione di formidabili esterne, effetto secondario della «globalizzazione negativa», vale a dire della globalizzazione altamente selettiva dei commerci e dei capitali, della sorveglianza e dell’informazione, della coercizione e delle armi – il crimine e il terrorismo, tutti fenomeni che ormai disprezzano la sovranità territoriale e non rispettano alcun confine”.
Siamo dunque di fronte a un ulteriore paradosso della ‘modernità-liquida’ scrive Bauman, eppure, contrariamente all’evidenza obiettiva, “ci si sente (e in realtà lo siamo) maggiormente esposti alle minacce, più insicuri e spaventati, più inclini al panico e molto più interessati a tutto ciò che possa essere messo in relazione con la sicurezza e incolumità”. «Tuttavia sembrano esserci vie d’uscita», ma l’apertura mediatica del sociologo va però verso una direzione univoca e imprescrittibile: “Sfuggiti a una società forzatamente aperta dalla pressione delle forze della globalizzazione negativa, il potere e la politica vanno sempre più alla deriva in direzioni opposte. La sfida fondamentale (il rischio) che questo secolo dovrà affrontare è, con ogni probabilità, quella di rimettere insieme potere e politica; e il compito che probabilmente dominerà l’agenda del secolo, sarà la ricerca di un modo per realizzare tale obiettivo”.
“La democrazia e la libertà non possono più essere assicurate soltanto in un solo paese o in un gruppo di paesi; difenderle in un mondo saturo di ingiustizia e abitato da milioni di esseri umani cui è negata la dignità corromperà inevitabilmente gli stessi valori che essa intende proteggere. Il futuro della democrazia e della libertà dev’essere messo al sicuro su scala planetaria, o non lo sarà affatto”. Non è l’ultimo messaggio lasciato da Bauman in queste pagine intense, che vanno lette secondo una specifica propensione di trovare ‘soluzioni’ ai problemi che ci assillano. Nella speranza del ravvedimento contro la crescente ‘paura’ che i nostri comportamenti vanno disseminando e che finiscono per sradicare le nostre ‘radici’ umane, renderci orfani di quella ‘collettività’ economico-politico-religiosa che, nel giusto o nell’errato, abbiamo contribuito a formare, e che dobbiamo (c’incorre l’obbligo) continuare a migliorare.
“Il secolo che viene può essere un’epoca di catastrofe definitiva – lo dicono le vicende politiche in atto e la ‘paura’ di una guerra totale che minaccia la sopravvivenza del nostro pianeta – o, che può essere un’epoca in cui si stringerà e si darà vita a un nuovo patto tra intellettuali e popolo, inteso ormai come umanità. Speriamo di poter ancora scegliere tra questi due futuri..”; che sia scongiurato il pericolo di incorrere in una apologia ‘di sistema’ come quella narrata da Edgar Allan Poe in “Il sistema del dottor Tarr e del professor Fether” (da “I viaggi immaginari” – Gargoyle 2013):
«Qui (siamo nella Maison de Santé nella Francia meridionale). Secondo la mia esperienza, il ‘sistema della dolcezza”, come sa allora in uso, che permetteva ai pazienti di vivere liberi e, di conseguenza, comportarsi particolarmente bene, tanto bene che ogni persona ragionevole avrebbe dovuto capire che si stava macchinando qualche piano demoniaco, proprio dal fatto che i pazienti si comportavano così notevolmente bene. E infatti, una bella mattina i guardiani si sono trovati mani e piedi legati, chiusi in celle dove venivano sorvegliati come pazzi, dai pazzi stessi che avevano preso il posto dei sorveglianti». Non c’è che dire, «..quando dei pazzi sembrano completamente sani, è proprio l’ora di mettergli la camicia di forza!»

Zygmunt Bauman è uno dei più noti e influenti pensatori al mondo. A lui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida», di cui è uno dei più acuti osservatori. Professore emerito di Sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia, ha pubblicato numerose ricerche sull’argomento, fra le quali mi sento in dovere di sottolineare: “Voglia di comunità” (2008); “La società sotto assedio” (2008); “Vita liquida” (2009); “Modernità liquida” (2009); “Intervista sull’identità” a cura di B. Vecchi, (2009).

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- Alimentazione

’A Tavola con i Tarocchi’ ... a Giuliano Brenna

A TAVOLA CON I ‘TAROCCHI’ … a Giuliano Brenna
Un modo divertente per combinare menu a sorpresa in sintonia con i vostri ospiti e amici.

Indubbiamente la migliore delle diete, e di questi tempi se ne fa un gran parlare, è quella di mangiare poco e bene, soprattutto con gusto. Oppure di sacrificare ai così detti ‘peccati di gola’ qualche chilo di troppo, da portarsi, comunque con dignità. Non so, scegliete voi. In entrambi i casi è lo spirito che conta. Ciò che i libri di solito suggeriscono in fatto di alimentazione spesso non coincide con il ‘carattere’ del momento. Come dire, non risponde in fatto di gola, al desiderio riposto.
È superfluo ricordare che una dieta, qualunque essa sia, va rapportata all’andamento della giornata. La scelta dei cibi, lungi dall’essere trascurata, è sempre una questione di intima rispondenza. Come dire, di umore. Non ci si può affidare al caso, non vi pare? La “casualità porta in tavola le bacche” dice un proverbio popolare, mentre un altro, fresco di conio, ci fa l’occhiolino: “Nutrirsi bene è intelligenza, nutrirsi in allegria è saggezza”.
Ecco ad esempio un modo diverso di mettersi a tavola, non senza però un pizzico di quella sana allegria che così bene ci predispone nei confronti d’ogni cosa, è così che cibi e bevande ritrovano improvvisamente il giusto corrispettivo sapienziale. Un po’ come il ruolo giocato dalla fantasia sulla cultura del cibo che ben conosceva l’Artusi: «L’arte di mangiar bene» (*), da non disdegnare una certa ‘cultura’ a tavola. E, poiché in cucina ci vuole estro e fantasia, nutrirsi assume significato di intenso piacere oltre che di avida golosità; così come di raffinatezza e di eleganza. Perché, come certamente sapete “anche l’occhio vuole la sua parte”.
È così che anche il semplice atto del cucinare, può essere preso come un innocente divertissement. In che modo? Ma nel modo più semplice, con l’ausilio, ad esempio, di un mazzo di carte: i preziosissimi Tarocchi e un prestigioso libro-gioco: «Mettiamo le carte in Tavola» (**), che gli autori Graziella D’Agata e Alessandro Bellenghi hanno creato per soddisfare quanti affidano alla fantasia, e perché no, all’influenza magica, il quotidiano rito della tavola.
Un modo fantastico di creare nuovi gusti per il palato, anche per il più raffinato, in tanti imprevedibili e facili menù, per due, per tre e quattro persone. Il tutto, semplicemente mescolando agli ingredienti di base un po’ di esperienza e una spruzzata di stravagante ‘follia’. Gli elementi ‘insostituibili’ sono: una dimora accogliente, una tavola ben apparecchiata, degli amici possibilmente gradevoli, una modesta disponibilità di tempo, i ventidue Arcani Maggiori, ed ovviamente una copia del più intelligente libro-gioco da mettere in tavola e, come di solito si usa dire: Buon divertimento!
Il modo più semplice di agire è quello di estrarre un solo Arcano dal mazzo lungamente ed accuratamente mescolato per poi andare a vedere o meglio, a ‘creare’ il corrispettivo menù consigliato, in cui è spiegato come arrivare alla migliore ‘ricetta’ adeguata. Presto detto, carte alla mano, una volta trovata la 'parola chiave' del gioco, non resta che consultarla sul libro.
Se invece si vuole organizzare un pranzo ‘completo’ oppure una cena con persone diverse e ognuna con i propri gusti, compresi umori e idiosincrasie, è il caso di procedere estraendo tre carte a caso per ognuno degli ospiti e si pongono sul tavolo così disposte: la prima al centro, la seconda a destra della prima, la terza alla sua sinistra. Così, mentre la carta centrale definisce, in sintesi, il tipo d’incontro, come dire, di situazione conviviale che state per affrontare; la seconda e la terza sono di guida alle scelte alimentari. Non c’è da dubitare sulla buona riuscita, l’Arcano posto al centro sarà indicativo e perfettamente adeguato a trovare la giusta armonia.
Le combinazioni suggerite sono molteplici, soprattutto se vi divertirete a mescolare tra di loro, i piatti che vi sembreranno più opportuni fra quelli riferiti, o meglio ‘predestinati’ ai singoli ospiti. Se volete che la vostra dieta non subisca brusche capovolte, basterà usare solo certi ingredienti e non altri. Non vi pare questo un modo simpatico e divertente di stare insieme? Anche se magari un filino, come dire, ‘esclusivo’.
Et-voila, les jeux sont faites! Il giuoco è fatto, ecco il menù scelto appositamente per l’occasione di stare insieme Io e Voi: come antipasto, un piatto semplicissimo a base di ‘cuore di lattuga’ accuratamente aperta per accogliere un composto di uova sode con dragoncello ed erba cipollina tritato e condito con olio, sale, aceto e senape. A consigliarlo è la carta del «Papa», Arcano particolarmente misurato che non concede alcuno spazio alla sovrabbondanza.
La carta della «Temperanza» suggerisce un primo piatto raffinato, si tratta di ‘riso ai tre sapori’ con frutti di mare, quali ad esempio, calamaretti, gamberetti sgusciati, cozze al vapore, olio, aglio tritato e molto prezzemolo. Per il secondo piatto, il «Carro», Arcano dalla forte personalità, suggerisce ‘orate al sale’. Mentre, per il dessert, non ci sarà nulla da eccepire se porterete in tavola un semplice amaretto o delle castagne glassate, ma nulla di più. Il tutto, ovviamente, accompagnato da un ottimo vino bianco “Passerina”, o “Pecorino” che sia, purché della vitivinicola Ciù-Ciù di Offida (Marche)servito ben fresco. E buon appetito!

DINE WITH TAROTS ON THE TABLE
An amusing way of mixing your menu with the surprise element, but doing everything with the collaboration of your guests and friends.

The best way to go about dieting, and in our time we talk about little else, is to eat little but well, and especially to eat relish. Or else to accept an extra kilo or two in the name of the good table. Either way, make your choice with gusto, the choice is yours. In both cases it is the way you go about it that counts-enthusiasm is of the essence. That which books usually suggest, when it comes to food, completely overlook the mood we are in when we sit down to eat. There is no mention of the specific thing you feel like eating as you go about your meal.
There is no need for us to remind anyone that an essential element in all talk about diets is the fact that they should take into account the way we pass our day, with all its different whims. We can hardly leave the whole thing up to chance, can we? «With pure chance you end up with berries on the table», days a popular saw, while another, a brand new one, states this gem: “Eating is a necessity, eating well is just intelligence, and eating with great cheer is pure wisdom”.
Here is an example of a new way of sitting down to your table, a system not without its own pinch of healthy cheer, a pinch that we could well insert into all our enterprises. With this system, food and drink suddenly become things of the above-mentioned wisdom. A little like the role played in culture by fantasy. The writer, Artusi, knows all about this, and believes in not forgetting culture when it comes to food, something we witness in his book: «The Art of Eating Well» (*).
And, granted that in the kitchen one needs both talent and imagination, eating takes on a sense of keen pleasure that is beyond the happy satisfying of appetite – it becomes a thing of refinement and elegance a thing of refinement and elegance. As you well know, “the eye has its appetite as well”. And so it is possible to turn the simple act of cooking into pure amusement. How? With the help, for example, of a pack of cards, the delicious Tarot cards, and the prestigious game-book: «let’s Put our Cards on the Table» (**). The authors of this book, Graziella D’Agata and Alessandro Bellenghi, intend to meet the needs of all those who desire to torn the daily rite of the table into a thing of imagination, and – why not? – into a thing of magical charm.
Here we are an imaginative way of creating new experiences for the palate, even the most particular and demanding one, with so many unexpected and quite simple menus, whether they be for two, three or four people. The whole of this is done by quite simple mixing into the base ingredients a pinch of experience and a sprinkling of outlandish folly. The “totally essential” ingredients are: a pleasant place to eat, a well-laid table, friends who are, hopefully, agreeable, a certain amount of free time, the twenty-two major arcane cards, and obviously, a copy of the most intelligent game-book in circulation, and as the saying goes: god fun!
The simplest way to go about things is to take one single arcane card from the pack, after it has been thoroughly and accurately shuffled, and then look up the menu which is suggested for this card. How do you get to the recipe or, better, to building up a real menu? Quite simple, if you can cope with some very amusing games using these cards. Then, once you find the key word, all you have to do is consult your book.
If, on the other hand, you want to organize a dinner, or any meal you like, with all kinds of people, all of them with their own tastes and idiosyncrasies, you have to follow this procedure: three cards are taken out from anywhere in the pack for each of your guests. You lay them down like this: the first in the centre, the second on the right of the first, the third on the left. The central card sets the tone for the combination, let’s say, the tone of the company’s situation, while the second and the third act as guides and show you how to find the right mixture.
Have no doubt it the menu suggested by the Arcana card in the centre will turn out to be perfectly right. The combinations suggested can multiple, as the courses that seem most appropriate to you can them be mixed with one another, while still being those predestined for each of your guests. And it is not necessary to add all of the ingredients, otherwise your diet could experience some sudden somersaults. So doesn’t this all look like a very pleasant and amusing way to pass some time together? Maybe you have hit upon something unique.
Et-voila les jeux sont faites! Everything‘s ready: here’s a menu made just for you as hors d’oeuvres, let’s have what I would like to call a “lettuce-heart” dish. What suggested this? The «Pope» card. This is an especially restrained Arcana card; it provides no possibility for excess, nor for any other kind of shortcoming. Open these leaves out and place at their centre a mixture of grated onion, dressed with oil, salt, vinegar and mustard.
The card «Temperance», offers a very refined dish. It is “three-flavor-rice”. It has sea food ingredients such as small squid, shelled prawns, mussels, oil, grated garlic, a lot of parsley. For the second course, the “wheel” card makes the wisest decision for us, it brings to the able golden maid fish in salt. We have no objection to your putting some simple macaroons or some marrons-glaces on the table, but nothing more. All of this to be served with an excellent cool white wine as the “Passerina”, or “Pecorino” made by Ciù-Ciù from Offida (Marche region of Italy) end, good appétit!


(*) Pellegrino Artusi, “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” – Einaudi 1970.
(**) Graziella D’Agata e Alessandro Bellenghi, “Mettiamo le Carte in Tavola” - Acanthus Editore, 1985.
Giorgio Mancinelli per Jolly Hotels – Magazine (1990)

 

 

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- Teatro

Giorgio Gaber: Il teatro del pensiero


‘Giorgio Gaber : Il teatro del pensiero’
di Mauro Germani – Editrice Zona 2013

All’origine era il Teatro. “Ogni giorno sperimentiamo una crisi che sembrerebbe imporre alla cultura un ruolo marginale rispetto ai disagi economici e sociali dei nostri giorni. Questa situazione rischiava – e rischia – di paralizzarci dentro un grande sogno irrealizzabile, la globalizzazione un ostacolo e Internet la morte dell’intelligenza?” – si chiede Monique Veaute Presidente della Fondazione Europa per l’Arte e la Cultura. Alla quale, sono certo, sarebbe piaciuto presenziare a un evento ‘gaberiano’ che già nel 1967 comprendeva – o meglio restituiva – al Teatro ciò ch’era del Teatro stesso, cioè all’Arte di fare Teatro l’originaria ‘utilità’ della comunicazione. Quell’essere presenza/assenza di un Tempo ‘dentro e fuori’ del Tempo, partecipe quindi del presente ‘attuale e futuro’ esposto, ma che possiamo anche definire in astratto ‘sospeso’ in una ambientazione costruita sul quotidiano, e per questo all’occorrenza intercambiabile a seconda dei casi e delle necessità. È così che arriviamo a parlare di ‘spazi’ o meglio di ‘campi’ di attività teatrale non già ‘sperimentale’ come si è voluto chiamare in certi anni (’70 - ’80), bensì ‘di evocazione’ nel modo in cui la intercetta Mauro Germani autore di questo libro sull’indiscusso protagonista teatrale ch’è stato Giorgio Gaber. Anzi, uso qui una terminologia fin troppo abusata ma che ben si attaglia al personaggio, riferito a quell’ ‘animale da palcoscenico’ che Gaber ha rappresentato nell’ambito della scena teatrale italiana. ‘Campi’ dunque, che sono tipici della comunicazione fin dalle origini del Teatro: il canto, la musica, la gestualità, la danza, come lo erano - e lo sono – la recitazione e l’arte del dicitore a cui l’auditorium e il teatro si offrivano come ‘spazi/campi’ di intercettazione e valorizzazione del quotidiano ‘sentire’, corrispettivo del più moderno ‘comunicare’. Perché è insito del comunicare la dicotomia ‘farsi ascoltare’ ed ‘essere ascoltati’, cioè seguiti ed ‘avere/dare’ seguito a un pensiero, a un’idea o un progetto, ed anche a un credo religioso o un’ipotesi rivoluzionaria, attraverso l’uso esclusivo della parola, ancor meglio se assecondata dalla musica o dal canto. Fanno testo i tanti jingles’ e sigle che accompagnano gli spot pubblicitari, i leitmotiv cantati che ripropongono i prodotti più accreditati, gli inni nazionali, i canti devozionali, quelli di protesta ecc.. Tutti, o quasi, che legano il ‘fare’ con il ‘pensiero’ del fare, del ‘dire’ con il divenire. Questa, in breve, la grande intuizione del ‘fare teatro’ di Gaber/Luporini: restituire all’ambito teatrale ciò che era insito nel Teatro già ai tempi di Aristofane, cioè l’autenticità della ‘comunicazione’ diretta, l’impatto fisico del dicitore con il pubblico, l’emotività, la sensualità, la violenza risolutamente astratta della parola, in cui il piacere dell’urto sonoro scansa le solitudini del nostro tempo, rigenerandosi e aprendosi al futuro. E quale è questo ‘futuro’ che ci sembra astratto? – si chiede l’autore del libro, se non questo squarcio di Tempo in cui viviamo. Qual è il ‘campo’ in cui troviamo l’esattezza assoluta delle parole, se non dentro le parole che comunichiamo. Per questo dovremmo ascoltare di più e, al contrario di quanto si dice, non parlare di meno ma, forse, parlare più correttamente, affinché gli altri – tutti gli altri – possano capire. Solo allora potranno essere cancellate le differenze di genere, di razza, di colore della pelle e le parole, sia quelle dette che quelle cantate, troveranno un senso comune, più alto e universale. Tutto questo – e molto di più – è racchiuso nel Teatro ‘evocativo’ o se preferite ‘evocazionale’ di Gaber/Luporini, nei testi che l’autore cronologicamente affronta e che differisce al presente come fossero di oggi “tra sradicamento e mistero” ponendoli “al centro della vita” quotidiana s’intende, in questa sorta di “società capovolta” in cui l’indignazione del presente presagisce un più cupo futuro di crisi, di interdizione per un “volo mancato”, per l’ “assuefazione” che incombe; quella “mancanza d’essere” che ci consuma, come una malattia che ci toglie la mente e il corpo, l’esistenza, la “libertà”. Questi i grandi temi racchiusi e affrontati nelle pagine di questo libro che rendono il ‘pensiero’ di Gaber al Teatro, alla Musica, all’Arte del ‘fine dicitore’ seppure qua e là un po’ impacciato, intimidito – più che timido – dalla grandezza dello spirito. Chi altro avrebbe potuto scrivere versi delicati come quelli contenuti in una sua canzone qui presa ad esempio: “Non arrossire, quando ti guardo..”, e sì, c’è anche un Gaber ‘evocativo’ che va osservato all’interno di un altro percorso artistico – uno dei molti frequentati dall’autore – che non dobbiamo dimenticare, ed è quello della musica.

Come scrive Mauro Gaffuri nella Premessa: “Fare oggi il punto su una figura così importante (..) ci aiuta parecchio in questo intento. La disamina distingue col dovuto scrupolo tra ‘Teatro Canzone’ e ‘Teatro d’Evocazione’: due facce di una stessa medaglia. Due generi scaturiti da una medesima tensione esistenziale, votati a interpretare il mondo secondo stilemi drammaturgici innovativi. Medesime le istanze, identiche le intenzioni, coincidenti poetica programmatica e poetica in atto: cambiare il mondo in cui viviamo, mutare l’uomo che lo abita, descrivendolo, e a volte attaccandolo, nella sua sfaccettata identità comportamentale”. Penso qui di poter sottolineare la parola ‘tensione’ sapientemente utilizzata da Gaffuri per affrontare un altro argomento che mi sta a cuore e riferito a Giorgio Gaber autore di canzoni di successo e uomo di spettacolo ‘distinguibile’ dalla massa dei cantautori nostrani per la sua originalità e pur tuttavia accomunabile, per certi versi a una corrente o, se vogliamo, a un genere – altro campo di intermediazione linguistica – molto frequentato dai suoi contemporanei: il Teatro-Cabaret con i suoi sconfinamenti nella canzone popolare, la satira socio-politica, il nonsense della comicità surreale e, non in ultimo, l’umorismo anticonvenzionale. A questo si aggiunga che l’ambiente milanese del tempo, all’incirca degli anni ’70 e ’80, era vivo e stimolante, si pensi che si muovono sulla scena personaggi del calibro dei:  I Gufi, Dario Fo e Franca Rame, Enzo Jannacci, Cochi e Renato, tanto per citare i più famosi, che affondano la loro ragion d'essere nella cultura popolare - e  contestataria.  Artisti che hanno dato al teatro leggero italiano e, in qualche caso internazionale, una svolta decisiva di una certa TV divenuta poi volano ‘intelligente’ per sketch e short-story di grande successo che perdurano ai nostri giorni. A questo proposito Germani riporta le parole di Giorgio Casellato, amico da sempre di Gaber, direttore musicale e arrangiatore di tutti i suoi spettacoli: “La canzone non è e non deve essere solo parole, così come non è e non deve essere solo musica. Parole e musica sono tutt’uno e arrivano alle nostre orecchie ed alla nostra sensibilità insieme, unite da una magia particolare. Certo, a volte possono colpirci di più le parole, altre la melodia, ma non si possono separare le une dall’altra. L’effetto che producono deriva proprio dalla loro unione e Gaber ne era consapevole”. Questa considerazione si attaglia a tutto il vissuto artistico di Giorgio Gaber assolutamente “non prigioniero di un dualismo ingiustificato” che lo voleva autore di canzoni popolari e teatrante impegnato pseudo-rivoluzionario, proletario ingiustificato che insegue ideali non suoi e tuttavia universali: la realtà, la libertà, la necessaria indignazione. Tutto questo ha un nome, oltre a seguire un certo aspetto dettato dalla moda del tempo? La domanda trova una sua certa legittimità se ci si pone davanti a una potenziale forma di ‘anarchia’ che contrasta con la società in cui si è costretti a vivere e nella quale l’ ‘umanità’, il ‘grigio topo’ gaberiano, si sente prigioniero, come animale nella tana che affronta i suoi dubbi e i suoi perché, in assenza della sua stessa presenza, in cerca dell’esattezza assoluta che possa riscattarlo.
Grazie Giorgio per essere ancora con noi, anche se racchiuso nelle pagine di questo piccolo/grande libro. Un amico.

Mauro Germani è autore di opere di poesia e narrativa, fondatore nel 1988 della rivista di scrittura, pensiero e poesia 'Margo' che ha diretto fino al 1992. Notevoli sono i suoi interventi critici su aotori classici e contemporanei. Altre sue opere sono: "Terra estrema" (in versi) per i titoli del L'Arcolaio 2011 e "L'attesa e l'ignoto" (curatore)per Dino Buzzati, L'Arcolaio 2012.


 

 

 

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- Letteratura

‘Spirito Noir Collectiòn’ - Short Stories

‘Spirito Noir Collectiòn’ – autori vari – Salani Editore 2013

Non nego che m’aspettavo un libro diverso comprendente il meglio del Noir Italiano in senso più completo, cioè che raccogliesse le diverse sfumature di quello che s’intende per Noir (alla francese); qualcosa di più particolare del ‘giallo’, certamente meno prepotente dell’ ‘horror’, per nulla affatto ‘cronaca nera’; come dire, tra il ‘psicologico’ e il ‘gotico’ volutamente trascurando il ‘fantascientifico’ e tuttavia entrando a pieno titolo anche nello ‘scientifico’ e perché no, nel ‘paranormale’. Un libro che fosse una sorta di compendio dei molti racconti partecipanti all’ormai prestigioso ‘Premio Zucca’ giunto al suo secondo anno (2012/13) che si svolge a Curmayeur, e che in gran parte abbiamo letto sul sito dedicato, alcuni dei quali senz’altro degni di entrare a far parte di questa raccolta che poteva essere, se non fosse così esigua da leggersi in un’ora, il nostro libro per l’estate, da sfogliare sotto l’ombrellone o anche nelle calde notti passate in terrazza, ovviamente prima di coricarsi. Questo perché, ormai è prassi comunemente accettata, che i Noir si leggono la sera o, appena fa buio, perché la notte ben si concilia con le atmosfere lunari, ambigue e malevoli, stregate e psicologicamente dubbiose che non siamo stati capaci di risolvere in tutta una vita, in primis la nostra che ci vede coinvolti, e successivamente nella vita degli altri in cui ci lasciamo coinvolgere, per dare ‘corpo’ (leggi un senso) alla nostra, infinitamente piatta del nostro quotidiano vacanziero. Se non è così per molti di voi, credetemi, c’è a fronte una maggioranza schiacciante che la vive in tal modo. Una tematica questa narrata da Ettore Bucci in “Ho ricominciato a sognare” un delizioso racconto pure contenuto nel libro in cui è detto: «Solo dopo anni ho scoperto la verità sugli incubi, non sono quelli che il cervello ci propone di notte che devono far paura, sono quelli che gli occhi ci mostrano di giorno». E che noi se non stiamo già leggendo un libro che ci distrae, dovremmo almeno risolvere con noi stessi, perché le brutture cui assistiamo e gli orrori che ci vengono trasmessi dai media alla fin fine hanno la meglio sulle cose ‘valide’ (per non dire belle) che allo stesso modo accadono nel mondo. È un fatto che almeno andando in vacanza si spera ci riempiano gli occhi. Poi torneremo (volendo) a immergerci nel frastuono dei dubbi e degli incubi dei nostri scrittori che, a dire il vero, ci meravigliano con i loro scritti a fosche tinte. È il caso della vincitrice del ‘Premio Zucca 2012’ Maria Elena Corbucci che con la sua prosa accattivante ci spedisce a Parigi verso la fine del 1800 per assistere a “L’ultima notte del boia” che, vi assicuro ci fa sentire un po’, come dire, accorciati di collo. Inquietante direi e ben costruito il racconto che segue di Antonio Agrestini dal titolo “Ogni riferimento è puramente casuale” col quale l’autore, in sintesi, ci dice che tutti possiamo renderci colpevoli di qualcosa, e noi della carta stampata (e webbisti del Noir) ne sappiamo qualcosa, si pensi a quanti esseri umani facciamo soffrire le pene dell’infermo, scaraventiamo giù dalla torre o conduciamo alla morte, solo perché abbiamo deciso così. E così è, perché in verità spesso è come in quei film che finiscono per mancanza d’attori, restiamo da soli e abbiamo paura dello ‘spirito noir’ che ci sconvolge la notte, ci intimorisce e ci … ma che poi per ‘immateriale spirito di sopravvivenza’, ci vede trasformati in assassini senza controllo. Ovviamente, come si dice, ‘ogni riferimento è puramente casuale’: «E la risposta ognuno di noi se la darà da solo, come vuole il noir, specchio distorto di ogni vita rispettabile», ci dice Piero Colaprico nella prefazione al libro creando per l’amico Marcello Fois quell’alibi ch’egli ci narra in “L’altro me” una sorta di ‘sdoppiamento’ con cui cerca di  riparare alle sue malevole e spregiudicate intenzioni.


Un'occasione perduta di fare un ‘grande libro’ di short-stories che avrebbe colmato il vuoto editoriale-estivo in ispecie ‘inediti frizzanti e invitanti' alla lettura. Comunque l’invito è stato raccolto e non ci resta che fare le nostre congratulazioni a Maria Elena Corbucci per il meritato riconoscimento e al 'Premio Zucca' per l'opportunità che offre agli aspiranti scrittori di Noir. Agli altri che non sono presenti nel libro, dico soltanto che ci sarà una prossima volta. Ad Majora!

www.illibraio.it
www.infinitestorie.it

 

 

 

 

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- Letteratura

‘Giuseppe Verdi e Milano’ di Luigi Inzaghi

‘Giuseppe Verdi e Milano’ – Vita, Opere, Aneddoti
di Luigi Inzaghi – Milano Expo – Meravigli Editore 2013

C’è una ‘forza’ segreta nella rete delle immagini che scorrono davanti agli occhi in questo piccolo libro che ripercorre la vita e le opere di un grande compositore di musica operistica, Giuseppe Verdi. Il ‘maestro dei maestri’ che di gran lunga ha superato il suo tempo, giungendo fino a noi che oggi ricordiamo nel 200esimo anniversario dalla nascita. L’autore, Luigi Inzaghi musicologo e giornalista, nella sua modesta prefazione, ci informa del ‘dovere’ che lo ha spinto a intraprendere il cammino faticoso di quest’opera, come di un sentire e un voler riportare le ‘voci’ di una certa Milano, antica e pur sempre nuova, che si rincorrono attraverso le diverse epoche generazionali nel mantenere ‘vivo’ il ricordo di chi ha dato lustro alla sua internazionalità. Ancora oggi in giro per il mondo dire Milano è come dire La Scala, e viceversa dire La Scala è come dire Verdi ecc. ecc.. Noi sappiamo che non è solo questo, che la ricchezza culturale della città offre altri titoli e altri nomi ma che Giuseppe Verdi resta l’altissimo ‘vessillo’ dell’Opera Lirica italiana in tutto il mondo.
Non c’è teatro né orchestra né coro che non si sia misurato con il pentagramma del grande Maestro, la cui musica ha valicato i confini e ha raggiunto i cuori dei popoli riempiendoli di sentimenti di fratellanza e di libertà. Chi non rammenta l’immagine filmica della grande folla che accompagnò le sue esequie, un ricordo che porto con me fin da bambino e che ho ritrovato in questo prezioso libro di ricordi: “Ed eccola Milano, in un breve filmato d’epoca in bianconero, che si trascina dietro il feretro al passo. È tutta lì, una volta ancora ‘presente nel presente’ luttuoso che la addolora, ad accompagnare l’autore del ‘Va’ pensiero..’ proprio mentre le sue spoglie adagio s’apprestano a involarsi altrove, nello specchio furtivo dove si svela l’enigma di tanta bellezza”.
Giuseppe Verdi – ci dice ancora l’autore nell’indice – è l’uomo dei simboli, il predestinato, l’uomo delle Cinque Giornate, della Scapigliatura, della fuga di ‘O terra addio!’; ma anche l’uomo di ‘O mia patria..’, dell’uomo che si ritrova a fare i conti col proprio misticismo in quello che di per sé rappresenta l’irraggiungibile ‘Requiem’. Ancor prima, non dimentichiamolo, egli è l’uomo del popolo, quel popolo che al grido di ‘Viva Verdi’ ha visto infuocarsi i cuori, e che ha dato all’Italia l’impeto del Risorgimento. Non saprei dire quale dei ‘Cori’ verdiani mi è più gradito, o più mi appaga, vero è che a leggere gli antefatti, gli aneddoti, le trattazioni contenute nel libro, riferito a quello che scrivevano i suoi detrattori o viceversa i suoi adulatori, si rivive il senso di un’epoca che non è poi così conosciuta, studiata, drammatizzata.

Per quanto, invece, risulta interessante proprio nel suo aspetto sociologico, poiché ci rivela quanto l’Opera Lirica e il Bel Canto fossero così intimamente ‘vissuti’ dalle popolazioni del Nord come quelle del Sud. Ricordo che mio nonno, se la memoria non mi inganna, conosceva gran parte delle romanze, le frasi dei cori, dei duetti e che li cantava in casa ad ogni piè sospinto. Solo molti anni dopo che se ne era andato a miglior vita, venni a sapere che era un illetterato. Cosa che ha dell’incredibile se solo pensiamo che le frasi che compongono i libretti d’opera non sono poi così semplici neppure per noi, letterati, ancora oggi. Mi si offre qui l’occasione per introdurre in breve il capitolo all’indice “Giuseppe Verdi a Milano, oggi” che giustamente l’autore ha inserito in quello che possiamo definire un ricercato ‘vademecum’ (anche il formato del libro è quello pratico di una guida), in cui le numerose immagini d’epoca, permettono di visualizzare, o meglio, di confrontare il vecchio e il nuovo di questa città che infine si ritrova nei luoghi della sua storia anche recente.
È così che in compagnia dell’autore attraversiamo la Via intitolata al grande Maestro, e quindi il vecchio Teatro Politeama in quel di Porta Ticinese, e quello che era il Conservatorio di Musica andato in parte distrutto, fino ad arrivare allo straordinario Museo della Scala che da solo merita una visita incondizionata per i cimeli e tutto quanto riguarda questa importante fondazione. Nonché la casa di Riposo per vecchi musicisti fortemente voluta dal Maestro e nella quale egli stesso riposa. Ancor più incontriamo il monumento a Verdi, opera dello scultore Enrico Butti (1913) che s’intrattiene nella bella piazza coi passanti, e che certi milanesi doc dicono di salutare ogni volta che passano di lì, e c’è pure chi ancora si toglie il cappello in segno di rispetto. “La scultura offre un’immagine di Verdi assolutamente familiare e non retorica, poiché sta in piedi con grande naturalezza, con le mani intrecciate sul dorso dietro la giacca, come se meditasse in attesa di parlare con qualcuno. I bronzei pannelli del basamento sono ispirati a figurazioni allegoriche che rappresentano la ‘melodia’, la ‘pace’, il ‘poema dell’amor patrio’ e la ‘tragedia dell’odio e del bene’. Nel suo complesso, una figurazione della vita dell’uomo dalla sua nascita alla morte, confortata dalle gioie ma anche intrisa di ‘umano’ dolore, come umani sono i ‘sentimenti’ altissimi espressi nelle ‘sublimi’ opere verdiane”.
Ovviamente non è tutto, c’è molto di più, tanto di più e tutto davvero molto entusiasmante, raccontato col gusto pieno di chi ha raccolto le preziose immagini che corredano questo libro che si lascia leggere come un ‘diario’ fitto di avvenimenti, di percorsi investigativi che coinvolgono la storia, il pensiero, ma anche tutti quei “momenti in cui sembrava che il mistero del mondo si illuminasse di bellezza” (Rella). Diciamo quindi grazie a Luigi Inzaghi per averci resi partecipi con la sua graditissima opera su Giuseppe Verdi, di questo bicentenario che noi tutti, in accordo con l’autore, sentiamo il ‘dovere’ di commemorare. Di Luigi Inzaghi vanno qui ricordati: ‘La Milano di Giuseppe Verdi’ (in collaborazione con F. Ogliari) – ediz. Selecta; ‘Giuseppe Verdi, storia di una vita’ – ediz. La Spiga.

 

 

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- Religione

’IL DIO IGNOTO’ - G.Napolitano G.Ravasi

“Il Dio Ignoto” di G. Napolitano, G. Ravasi, coord. F. De Bortoli ed. Corriere della Sera - Instant Book 2013

In apertura di questo piccolo quanto interessantissimo libro è riportata una breve epistola del non ancora dimenticato Papa Benedetto XVI, risalente al 21 dicembre 2009 poco conosciuta o forse sottovalutata e che qui trascrivo per l'importanza  profonda del messaggio lasciato da questo Apostolo di Pietro. Non in quanto teologica, bensì per il suo rapporto interno alla Chiesa, che risponde a una domanda che ci si poneva prima delle sue improvvise dimissioni che hanno lasciato tutti stupefatti: ‘dove sta andando la Chiesa?’
In realtà quanto in essa enunciato, esponeva a chiare lettere quella che Papa Benedetto XVI, in ragione di una possibile apertura ‘spirituale’ della Chiesa, rivolgeva a tutte le genti cui riferiva il suo ‘messaggio apostolico’. Una missiva che, nell’abbraccio con le altre confessioni, guardava a un possibile colloquio ‘aperto’ con gli atei e quindi con i non credenti, con i diseredati e con tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, erano (e sono) tenuti lontani dalla Chiesa, anche se non necessariamente dalla fede:
Penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di «cortile dei Gentili» dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto”. (S.S. Benedetto XVI)
Il riferimento è storico culturale, lo rivela Armando Torno nella postfazione al libro: “I Gentili nell’Antico Testamento erano gli appartenenti a stirpe non giudaica. Il termine corrisponde all’ebraico goyim. Indica, appunto, nazioni, popoli o etnie diversi da quella ebraica. Nel Nuovo Testamento, senza allontanarsi dalla sua accezione, diventa sinonimo di pagani, tanto che Paolo, impegnato a diffondere ovunque la parola di Cristo, è chiamato«Apostolo delle Genti». Nel Tempio di Gerusalemme, eretto durante i giorni e per volere di Erode il Grande, c’era un porticato esterno denominato Atrio dei Gentili. Si trattava dell’unica zona accessibile anche ai non ebrei. In essa, pur non potendo superarne i limiti, era possibile ritrovarsi, discutere, verificare le proprie tesi. Insomma, era un luogo dove la fede di coloro che si sentivano i veri credenti e quella degli altri aveva la possibilità di confrontarsi”.
È dunque questo il messaggio ultimo e forse il primo importante segno del pensiero di questo Papa dimissionario che tutti noi credevamo solamente concentrato nel far rispettare le ‘regole’ ferree di una Chiesa d’altri tempi e che, al contrario, ci lascia una grande importante eredità, cui la Chiesa, ma ancor prima tutti noi, dovremmo tener fede: la ri-costruzione oggettiva di quel ‘Cortile dei Gentili’ non più relegato al passato storico, quanto di apertura che guarda al futuro, che auspica l’incontro e il colloquio con le Genti.
“Papa Benedetto XVI ha pensato a questo spazio sito nell’antica Gerusalemme – scrive ancora Armando Torno – per favorire la nascita di una serie di incontri culturali che, sparsi nel mondo, si adoperino per rinnovare la consuetudine al dialogo. L’iniziativa è stata affidata al Pontificio Consiglio della Cultura e al cardinale Gianfranco Ravasi in particolare, volutamente chiamata «Cortile dei Gentili». Il 5 e il 6 ottobre del 2012, dopo importanti tappe a Parigi, Svezia, Spagna Albania, gli incontri sono avvenuti in Italia a Bologna, a Firenze e ad Assisi. (..) L’invito di papa Benedetto XVI si è concretizzato con eventi che si svolgono ormai, per l’intensità dei contenuti, nel desiderio di «raccogliere e dae forma al grido spesso silenzioso e spezzato dell’uomo contemporaneo» verso Dio. Che , per un numero crescente di persone, rimane uno “sconosciuto”.
Va detto che ‘il fatto’ di per sé sorprende non poco se, a una tale corposità di intenti, riscontriamo aver partecipato personaggi di rilievo quali il Presidente Giorgio Napolitano, in un confronto diretto con il cardinal Gianfranco Ravasi, condotto da Ferruccio de Bortoli nelle due giornate che hanno avuto come tema, appunto ‘Dio, questo sconosciuto’. Un titolo che, nato nell’ambito del Pontificio Consiglio della Cultura, sotto l’egida di Papa Benedetto XVI, ha in sé una lieve provocazione e, al tempo stesso, riflette una problematica di non poco conto. In quell’occasione il conduttore F. de Bortoli ha posto domande sia a Napolitano sia a Ravasi, portando le due esperienze in una sorta dio zona franca, dove entrambi hanno potuto parlare del loro rapporto con Dio senza preoccuparsi dei rispettivi ruoli istituzionali.
È in questo la forza di questo piccolo libro (poco più di 100 pagine) in cui il dibattito si discioglie in affermazioni di tipo ‘personale’ che mettono in luce sì le diverse e pur rispettabili posizioni ma, ancor più, si evidenzia lo spessore ‘umano’ la gentilezza d’animo dei due personaggi che, non in ultimo e lo si sente attraverso le righe, documentano perorare la stessa fede, anche se osservata e ‘vissuta’ da punti di vista diversi. Laurent Mazas che ha curato la prefazione al libro avverte essere “in questa prospettiva che s’intende l’aprirsi del Cortile dei Gentili come luogo di dialogo tra credenti e non credenti” e con “le altre religioni”, “soprattutto con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto, (..) cercando di scavare nel cuore delle questioni aprendosi alle ragioni dell’altro, fecondando il confronto con la coerenza della propria visione dell’essere e il rispetto per la visione altrui, a cui si riservano attenzione e verifica”.
Di particolare interesse sono i riferimenti testamentari all’Antico come al Nuovo Testamento (Ravasi), e quelli bibliografici ai contemporanei Bobbio, Bufalino, De Benedetti, Elia, ma anche a Nietzsche a Mann (Napolitano, De Bortoli) ed a personaggi della nostra storia-politica più recente (Napolitano), che destano non poche sorprese. La circostanza del tutto eccezionale – riferisce De Bortoli – cade nell’anno della Fede,il fatto che questa si svolga ad Assisi, luogo dello spirito e del messaggio francescano, la cattedra del dialogo interreligioso, il cenacolo della pace tra i popoli, aggiunge un significato particolare: il segno di un evento che resterà nella memoria di molti. Noi, non possiamo che ringraziare Ferruccio De Bortoli per aver permesso con questo libro, la testimonianza di un evento degno di essere ricordato che arricchisce di significato questo nostro tempo.

 

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- Cinema

Il Grande Gatsby’ la de-costruzione di un mito.

‘IL GRANDE GATSBY’: la de/costruzione di un mito.

1925, 1926, 1949, 1974, 1999, 2006, 2008, 2010, 2012, queste le date, o meglio, gli anni che hanno segnato l’evoluzione di un romanzo divenuto ‘cult’ per intere generazioni di lettori. Pubblicato per la prima volta a New York nel 1925 non fu salutato come un evento eccezionale, tuttavia la sua fama crebbe in seguito a una nota critica di T. S. Eliot che lo definì “il primo passo in avanti fatto dalla letteratura americana dopo Henry James”. Il suo autore, lo statunitense Francis Scott Fitzgerald, ‘Di qua dal paradiso’ (1920), seguito da ‘Belli e dannati’ (1922) ai quali faranno seguito altri romanzi più o meno di successo: ricordo per tutti ‘Tenera è la notte’, condusse una vita di importanti affermazioni tuttavia segnata da lunghi periodi di ‘depressione’, e comunque sempre superiore alle possibilità finanziarie di cui in realtà disponeva. Nel 1918 conobbe Zelda Sayre che sposò poco dopo, dando inizio a una vera e propria leggenda mondana, sebbene non duratura, poiché funestata dall’alcolismo di lui (che morì a soli 44 anni) e dalla malattia mentale di lei, costretta a frequenti ricoveri in casa di cura.
Nessun altro in verità ha descritto meglio di lui quelli che furono gli ‘anni ruggenti’ che edulcorò nei suoi romanzi più famosi e nelle numerose raccolte di racconti: ‘Storie dell’Età del Jazz’ (1922), e di saggi ‘L’età del Jazz’ (1945) successivi a un ultimo romanzo lasciato incompiuto ‘Gli ultimi fuochi’ (1941), usciti postumi:
“Il successo economico, la ricchezza, erano ormai metro di giudizio. Non c’era posto per i poveri, non c’era posto per i deboli, non c’era posto per i falliti nell’America di Ford. Poeti e pittori, critici e romanzieri, giornalisti e produttori, valevano soltanto se guadagnavano quattrini. Peggio per loro se non ce la facevano: voleva dire che erano cattivi scrittori, pessimi artisti. Chi non aveva quattrini non aveva credito e chi non aveva credito non aveva quattrini. La gente non voleva più sentir parlare di guerra: voleva sentir parlare di pace, e distrarsi in tutte le maniere possibili, distrarsi finché qualcosa accadesse, che finalmente non provocasse più delusioni” – scrive Scott Fitzgerald.
Per lo più magistralmente tradotti dalla nostra Fernanda Pivano i romanzi di Francis Scott Fitzgerald, appaiono in Italia a partire dal 1950. A lei dobbiamo l’ampio apparato critico, che di volta in volta accompagnava la traduzione dei testi di molti autori a noi sconosciuti, l’aver indotto un sempre più vasto pubblico di lettori alla letteratura del Novecento e alla maggiore comprensione, sono convinto di questo, di quelle che erano e rimangono le idee innovative ‘portanti’ della narrativa anglo-americana nel nostro paese.
‘Il grande Gatsby’ è soprattutto una ‘storia d’amore’ che definirei ‘sospesa’ fra il cielo e la terra, fra l’amore autentico e indivisibile (celestiale), e il desiderio ossessivo e carnale (terreno), la cui edonistica morbosità sconvolgeva allora e sconvolge oggigiorno allo stesso modo, per la sua ‘grandezza’ emotiva che scuote i sentimenti e l’ ‘amarezza’ di ciò che, al pari di un sogno irrealizzabile, non può durare per sempre e, comunque, è destinato a finire. Ciò che meglio definisce la ‘dimensione’ inalienabile del personaggio Jay Gatsby e del suo ‘folle sentimento’ per Daisy, esclusivo oggetto del suo desiderio, lo stesso che Scott Fitzgerald riservava a sua moglie Zelda. La storia, al di là dall’essere complicata si snoda nell’ambiente descritto nel romanzo, popolato esclusivamente da ricchi newyorchesi che passano da una festa all’altra e da una sbronza all’altra in una sorta di perenne baldoria, con la musica, le chiacchiere e le risate a coprire i sordi brontolii che preannunciano il disfacimento di un mondo che di lì a poco sarebbe naufragato con tutto il suo carico di orpelli e sregolatezze. Sul quale nondimeno si sarebbe fondato il fatidico ‘sogno americano’ destinato irrimediabilmente a restare tale.
Seppure segnato da un ineluttabile destino che gli sarà ‘fatale’ il sogno d’amore di Gatsby resta pur sempre un sogno, la cui ‘sospensione dorata’ gli sopravvivrà malgrado l’intransigenza del destino, a dispetto delle forze oscure che la realizzazione di quel sogno scatenano negli animi dei personaggi del romanzo che infine soccombono senza possibilità di una ‘verità’ che li riscatti. È questa una personalissima chiave di lettura di questo romanzo che il cinema aimè non è riuscito a cogliere, perdendosi spesso, nella superficialità delle descrizioni che pure l’autore considera come cornice di un quadro che non delimita la prospettiva della narrazione, in fondo Jay Gatsby è insieme uno degli artefici e la prima vittima del mondo che egli descrive, travolto dal suo stesso sogno di ‘felicità’ che vede sfuggirsi dalle mani, la cui fine segnerà per tutti, personaggi e protagonisti quali noi siamo come lettori, ‘la fine di un sogno d’amore’, bello in grandezza e dannato perché conduce alla morte.
Il 1926 è l’anno del primo adattamento cinematografico (muto) dovuto al regista Herbert Brenon con Warner Baxter, Lois Wilson e William Powell nella parte del narratore. È il tipico esempio di film andato perduto di cui molto si parla e che, stando alle notizie, si dice essere in assoluto il miglior adattamento filmico fino ad oggi prodotto. Un trailer, custodito presso National Archives è tutto quello che ne rimane.
Al 1949 si deve la prima versione cinematografica (sonora) ad Elliot Nugent regista, con Alan Ladd, Betty Field e Shelley Winters che, per ragioni di copyright non è più apparso sugli schermi, né tantomeno se ne conosce l’esistenza in DVD in lingua italiana (solo in iglese). Non avendo visto il film non sono in grado di darne un commento critico, tantomeno di fare un esame comparativo con i film successivi.
Risale al 1974 il secondo remake dovuto al regista Jack Clayton e alla penna di Francis Ford Coppola la versione fino ad oggi più famosa del film con Robert Redford, Mia Farrow e Sam Waterston nel ruolo del narratore Nick Carraway. Un film di pregio anche se un po’ troppo patinato ma che illustrava con garbo ed eleganza quella che invece era considerata un’epoca ‘roaring’ (ruggente): “Nelle notti estive giungeva la musica dalla casa del mio vicino...”, ci dice il narratore (lo stesso Scoot Fitzgerald), quelle più in voga: “What’ll I Do”, “We’ve met before”, “My favorite things”, “The Ring”, fantastiche canzoni di quello straordinario e romantico Irving Berlin, divenute in breve popolarissime, autore inoltre di molta musica per film e di musical di successo. “Ed ancora risa e chiasso e Charleston...”, dal titolo di un brano di C. Mack e J. Johnson che in breve aveva fatto il giro del mondo. E “Who?” di Oscar Hammerstein e Jerome Kern le cui note si perdevano ormai nei cieli dell’internazionalità, seguite dalle altrettanto melanconiche “The Sheik of Araby” di F. Weeler e B. Smith le cui parole erano sulle labbra di tutti gli uomini e nella testa di tutte le donne che, senza pudore ripetevano: “Io sono lo Sceicco d’Arabia, il tuo amore mi appartiene. La notte mentre dormi, entrerò furtivo nella tua tenda”, sull’onda travolgente di quel “mito” vivente che era Rodolfo Valentino idolo incontrastato della ‘Age of Jazz’.”
È infine per questo che il film verrà ricordato, penso, più per la bellezza delle scenografie e la completezza della colonna sonora che per la stucchevole interpretazione dei protagonisti: “Una musica da bere come lo champagne, da gettare via come un sigaro appena acceso, da usare come un eccitante pizzico di follia, magari immersi nella fontana ‘a bagno maria’ dopo un ultimo brindisi. (..) Gente con troppi soldi, pochissimo discernimento e nessuna tradizione che si abbandonava all’orgia del tempo. (..) Strano come sia radicato l’errore che più si fa chiasso e più si è importanti. La gioventù di quel tempo agiva da irresponsabile, si sfrenò un po’ più del dovuto e dopo anche negli Stati Uniti si erano visti anni di grande prosperità economica, tutta la nazione aveva ripreso il suo normale tran-tran quotidiano”.
L’anno 2000 è la volta del regista Robert Markowitz con una produzione TV americana interpretata da Toby Stephens, Paul Rudd e Mira Sorvino che non si distacca dal solito cliché dei sequel costruiti e ordinati. Ma non lasciamoci tradire dalle convenzioni mediatiche che richiedono un prodotto ben confezionato e torniamo per un momento di lettura autentica: “Gatsby rappresentava qualcosa di splendido, una sensibilità acuita alle promesse della vita (..) una dote straordinaria di speranza, una prontezza romantica quale non esisteva in altri e nella sua ambizione. (..) Ascolta! Il mondo esiste soltanto ai tuoi occhi, è il concetto che ne hai che conta. Puoi farlo immenso e piccino come ti aggrada” – scrive ancora Scott Fitzgerald narrando di quegli anni, con in testa le note di “Tre o’clock in the morning”, un valzerino lento e triste molto in voga, mentre gli invitati reclamavano a gran voce di ascoltare il Jazz. In lui c’era però qualcosa di più della semplice critica, c’era la straordinarietà e la disperazione di più di tutta una generazione.
“Il palazzo di Gatsby era qualcosa di colossale, una copia curata di qualche Hotel de Ville della Normandia, con una torre da una parte, incredibilmente nuova sotto una barba rada di edera ancora giovane, una piscina di marmo e più di venti ettari di prato e giardini azzurri dove donne e uomini andavano e venivano come falene tra bisbigli e champagne e stelle. Durante l’alta marea del pomeriggio io guardavo i suoi ospiti tuffarsi dal trampolino e prendere il sole sulla sabbia calda della spiaggia privata, mentre i suoi due motoscafi fendevano le acque dello stretto, rimorchiando acquaplani tra cascate di spuma. (..) Nei giorni di week-end la sua Rolls-Royce diventava un autobus, (..) ogni venerdì cinque casse di arance e limoni arrivavano da un fruttivendolo di New York, (..) arrivava un’intera squadra di fornitori con centinaia di metri di tela e lampadine colorate (..) sulle tavole dei rinfreschi guarniti di antipasti scintillanti, i saporiti prosciutti al forno si accatastavano coperti di insalate dai disegni arlecchineschi insieme a porcellini e tacchini ripieni, trasformati come per magia, in oro cupo. Nel salone principale era impiantato un bar con un’autentica ringhiera di ottone stracarico di Gin e di liquori e cordiali di marche dimenticate da tanto tempo”. Allorquando, sul fare della sera: “Già le sale e i saloni e le verande erano sgargianti di colori e di pettinature nuove e strane e di scialli, (..) le ronde fluttuanti di cocktail permeavano il giardino (..) l’aria risuonava di cicalecci e risa e frasi di convenienza ... le luci divenivano più festose mentre la terra si nascondeva al sole”.
“Il riso si faceva più facile minuto per minuto, veniva diffuso con prodigalità, donato a ogni parola gioconda. (..) C’erano vecchi che spingevano le ragazze all’indietro in continui circoli sgraziati, coppie di classe che si stringevano tortuosamente secondo la moda e restavano negli angoli, e una quantità di altre ragazze che ballavano sole o toglievano per un momento all’orchestra la preoccupazione del banjo o della batteria, mentre scoppi di risa felici e inutili si alzavano verso il cielo estivo” – (avete notato come un sarcasmo più nero fluttua talvolta in una sola frase del Fitzgerald sornione). Jordan Baker e Daisy, la favorita di Gatsby, stavano sul divano.. “...posate come una navicella di un pallone frenato con le gonne fluttuanti e drappeggiate, come fossero appena tornate da un breve giro intorno alla casa”.
Nel 1999 dal romanzo venne tratta un’opera (leggera) col titolo omonimo ‘The Great Gatsby”, commissionata da John Harbison per commemorare il 25anniversario del debutto di James Levine (direttore d’orchestra), che debuttò con la New York Metropolitan Opera.
Simon Levy nel 2006 ne ha tratto un adattamento per il The Guthrie Theater diretto da David Esbjornson, l’unica autorizzata in esclusiva dal The Fitzgerald Estate ripresa successivamente dal Seattle Repertory Theatre. Dalla quale nel 2012 venne tratta una nuova versione (remake) prodotta dal Grand Theatre in London, Ontario, Canada.
È del 2008 la versione radiofonica del romanzo commissionata dalla BBC World Service in 10 puntate letta da Trevor White nella parte del narratore. Ripresa successivamente nel 2012 in versione drammatizzata da Robert Forrest.
Nel 2010 Elevator Repair Service ne trasse una piece per il teatro sperimentale di gruppo e successivamente una versione teatrale intitolata “Gatz”, letta e recitata dall’attore Scott Shepherd con un cast di 12 attori.
“The Great Gatsby Musical “ prodotto da Ruby In The Dust per il Kings Head Theatre di Londra nel 2012, adattamento di Joe Evans e Linnie Reedman su musiche e canzoni del duo Joe Evans / L. Reedman e interpretato da Matilda Sturridge nella parte di Daisy Buchanan, fu accolto da una modesta presenza di pubblico e di critica. È comunque prevista un remake per il 2013, recasted delle coreografie di Lee Proud.
2013, giungiamo all’ultimo (ennesimo) remake in ordine di tempo del film ‘Il Grande Gatsby’ realizzato da Baz Luhrmann (Moulin Rouge), con Leonardo Di Caprio, Carey Mulligan, Tobey Maguire, Amitabh Bachhan e che rivediamo quasi fosse una copia, ben più chiassosa e sfolgorante, ma anche più imprecisa della prima che riduce la ‘leggibilità’ della trama, nel senso che è andata perduta l’atmosfera ovattata che conduceva allo stesso finale sorprendente, per quanto amaro, e per questo molto più pacato, del romanzo. Luhrmann rilegge accelerando qua e là il ritmo, scompone la scena col suo stile vistoso e pacchiano e tutto quanto in Francis Scott Fitzgerald è giocato su un equilibrio se vogliamo precario, sulla caduta di valori nella società statunitense prima della crisi del ’29, e sulla perdita di identità dell’uomo a causa di un amore impossibile.
“Bruciato dalla sua passione per Daisy, Gatsby voleva ad ogni costo ciò che aveva perduto, sebbene la maternità di Daisy e l’amore che aveva provato per il marito, toglievano al suo sogno impossibile l’attimo sublime che egli aveva creduto poter fare suo. Come la fenice nel volo ultimo teso a raggiungere l’infinito, egli poté soltanto stringere i pugni delle sue mani vuote, vittima consapevole della tragedia umana e sociale che si stava consumando in quel breve spazio di tempo fin troppo edulcorato e che si conclude con una pallottola che fatalmente lo colpisce alla schiena”.
In sintonia con i tempi attuali il film scorre il romanzo abbreviando i passaggi e aggredendo lo spettatore con un ritmo soverchiante in certi momenti ma che poi si perde nelle scene ‘piane’ colloquiali; nel dispositivo del ‘riconoscimento’ e in quella ‘sospensione’ che già preannuncia la tragedia umana che di lì a poco avrebbe colpito lo scrittore Scott Fitzgerald che, per una qualche coincidenza astrale negativa, si trovò a vivere come uomo. Un volo di fenice teso a raggiungere l’infinito arrestatosi prima del previsto, come quella gioventù dorata ch’egli aveva immortalata, così per un esile gioco della vita col destino, nei suoi romanzi. Come la fenice nel volo ultimo, egli poté soltanto stringere i pugni delle sue mani vuote, vittima consapevole della tragedia umana che si conclude con una pallottola che fatalmente lo colpisce alle spalle, mettendo fine al suo ‘sogno’ inespugnabile.
Gatsby alla fine si rivelò a posto; fu ciò che lo minava, la polvere sozza che fluttuava nella scia dei suoi sogni a stroncare momentaneamente il fuggevole orgoglio dell’uomo. Come ci dice il narratore: “E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo della villa di fronte alla sua, in cui Daisy viveva con la sua famiglia. Sì, aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così a portata di mano da non potergli sfuggire mai più. Non sapeva che il suo sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città, dove i campi oscuri si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggiava davanti a lui. Gli era sfuggito allora ma non importava – diceva – domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia ... in fondo, è una bella mattina!”
È qui che Nick Carraway (il nostro narratore) si scoprirà testimone, complice e disgustato, del tramonto del sogno americano: “Sono un branco di porci – gridai attraverso il prato – tu da solo vali più di tutti quanti loro messi insieme.” Sono sempre stato lieto di averglielo detto. Fu il solo complimento che gli rivolsi mai, perché lo disapprovavo dall’inizio alla fine. Dapprima fece un cenno educato e poi il viso gli si aprì in quel sorriso raggiante e comprensivo, come se fossimo sempre stati grandi complici. (..) Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”.
Non meravigliamoci quindi! Baz Luhrmann ci regala indubbiamente un altro show originale, diversamente trasposto nel musical, un genere che in altra occasione abbiamo visto attagliarsi di più, e che invece a fatto di Gatsby un paranoico insopportabile che tuttavia non attende alla trasformazione fisica del protagonista, la profondità dell’ossessione, necessarie a restituire l’anima del romanzo: “Ma c'è anche un'anima, nel romanzo, autobiografica e disperata, che parla molto più in sordina di quanto non faccia il film di Luhrmann, che pecca in più riprese di un'eccessiva esplicitazione dei sentimenti in campo, si compiace rovinosamente nel finale, e di fatto non trova una via altrettanto personale, se non quella di ripetere modi e caratteri di ‘Moulin Rouge’ il suo film sicuramente più fortunato” - (articolo ripreso da Internet). Di Caprio, ma anche gli altri, stanno al gioco come dei manichini che vengono spostati a seconda della sceneggiatura, alquanto scarna, che ci fa dire, che non bastano poche frasi ‘eccellenti’ per dare quelle emozioni che il pubblico pretende dal cinematografo, ci vuole ben altro. Per quanto si voglia dire neppure la colonna sonora, giocata sulla tecnicizzazione di vecchi motivi e dei nuovi ci accalappia più di tanto, un taglia e incolla di pezzi scollegati, senza un leit-motiv che almeno avrebbe dato una certa compattezza e, in più, avrebbe soddisfatto almeno l’udito, visto che il colpo d’occhio d’insieme manca del tutto.
Ma per de-costruire un ‘mito’ ce ne vuole. Ci hanno pensato Charlie Hoey e Pete Smith i creatori del video-game letterario ‘Il Grande Gatsby for NES’ un platform uscito per la prima console di Nintendo ma che in realtà è un videogame in 8 bit uscito nel 2010. Già nella schermata d'apertura regala un sussulto agli amanti del romanzo: dietro la classica scritta “Press Start” appare infatti il volto stilizzato su sfondo blu che compariva sulla sovraccoperta della prima edizione del libro, pubblicata dall'americano Scribner's nel 1925. La formula adottata è lineare e si svolge in quattro livelli che seguono la trama del romanzo. Nei panni di Nick Carraway ci troviamo a evitare i minacciosi camerieri della villa di Gatsby e gli ospiti ubriachi che ci lanciano contro bottiglie vuote e poi eccoci a New York, a West Egg, all'eterno inseguimento di Gatsby. Una sorta di Super Mario insomma in cui spicca l'omonimia tra l'amata di Mario, la principessa Daisy e la Daisy Buchanan del romanzo. Con l’uscita del film il gioco è tornato alla ribalta. Giocabile gratuitamente online sul sito ufficiale del gioco, si è rivelato un successone tanto da contare oltre due milioni e mezzo di visite dal febbraio 2011, 235 mila Like su Facebook e oltre novemila tweet. C'è da dire che la linearità di gioco e la semplicità dei controlli permettono di goderlo appieno anche con la tastiera anche se ovviamente il richiamo del controller si sente fin dai primi passi.

Cambiando genere ecco Classic Adventures: ‘The Great Gatsby’ anche su i-Pad – ci informa Alessio Lana. Questa volta siamo all'interno di un'avventura grafica per Windows (XP, Vista, 7 e 8) che ripercorre le vicende del romanzo seguendo il narratore Nick Carraway e facendoci rivivere i ruggenti anni '20 con ambientazioni ovviamente statiche e un buon numero di minigiochi che comprendono indovinelli e rompicapi. La versione di prova dura un'ora ed è gratuita mentre il gioco completo costa 2,99 dollari. Volendo si può giocare anche su i-Pad con la stessa formula: prova gratuita e poi 4,49 euro per arrivare in fondo alla storia. Certo, la fine la si conosce già ma giocarla ha tutto un'altro sapore.
Tuttavia il ‘mito’ continua a sedurre e ci aspettiamo che la sfida cinematografica possa continuare ancora. Di una sola cosa possiamo esser certi, che “Non si può ripetere il passato”.

 

 

 

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- Poesia

’Spazio Espanso’ di Roberto Maggiani


Roberto Maggiani: ‘Spazio espanso’, una sola lingua tanti linguaggi.

Con l’avvento di una maggiore presenza tecnologica nell’informazione, si è vista accrescere una maggiore attenzione verso il fenomeno della comunicazione nel suo insieme e nella diversità delle sue applicazioni. In molti casi, alla ‘conoscenza’ precostituita, definita 'concettuale' (radio, carta stampata, libro cartaceo ecc.), si è andata sostituendo una nuova gamma di 'linguaggi visivi' (visual language, visual art ecc.), che hanno dato avvio a unità di riferimento più avanzate (web, inernet, i-pod, android). E che, in breve, stanno soppiantando nell'ambito dell'informazione e della conoscenza tradizionali, quella ch'era stata fin qui la proposta socio-storico-linguistica, nonché formativo-educazionale di riferimento, che includeva i 'linguaggi non verbali' più diversificati (gestualità del corpo, graffiti rupestri, geroglifici, sabbie colorate ecc.), e le diverse forme di oralità, canto, poesia e narrativa:

 

“È spazio espanso intorno a noi / e agli ovunque-punti equivalenti / che dilatano in esistenza”.

Nel concetto innovativo dell’odierna ‘comunicazione’, sia in ambito della ricerca applicata alla scienza matematica e alle nuove tecnologie; sia nello specifico della ‘conoscenza evolutiva’ cui tendono i linguaggi interpretativi dell’informazione ecc., un tale ampliamento e spostamento di interessi non è casuale, bensì deriva, in massima parte, dalla presa di coscienza critica dei dati di una realtà socioculturale che è andata sempre più evolvendosi in misura consistente e a un ritmo così veloce che è impossibile non tenerne conto:

“Nel vuoto quantistico oscilla a un passo dal reale…”

Anche per questo, un nuovo approccio al fenomeno comunicativo si rende più che mai necessario se vogliamo interpretare la contestualità scrittoreo-poetica-filosofica del lavoro di Roberto Maggiani, quale egli ha espressa nell’e-book “Spazio espanso” edito da larecherche.it, sì da riconoscergli l’aver egli, con fare innovativo, innescato ‘in una sola lingua molti linguaggi’, in cui:

“L’intelligenza si espande nello spazio del mondo / come un raggio di luce lo evidenzia / ma non lo comprende”. In cui: “La vita è materia / con dentro un pensiero: / si osserva e cura sé stessa /–materia che mangia materia – /si organizza e spera”.

Ancor più se si vuole dare risposte plausibili alle domande che sempre più spesso ci vengono rivolte: “dove sta andando la scrittura?”; “dove si sta conducendo la poesia?”, alle quali se ne aggiunge un’altra: “quali altri muri ci restano ancora da abbattere?”. Lì dove ‘muri’ sta per tabù o impedimenti, nuove esperienze, o anche nuove idee come quelle che suggeriscono gli attuali media, come il web, internet, tablet, i-pad che ci si trova ad utilizzare.

“Se misurare con precisione / aumenta un’incertezza / allora il mondo galleggia / su un mare di probabilità”.

Indubbiamente il carattere innovativo delle tecniche utilizzate, la considerazione delle diverse ‘lingue’ non tradizionalmente scrittorie, sempre che esista in natura una qualche forma di scrittura ancestrale ed io credo di sì almeno come forma grafica, è innegabile che viene a crearsi un certo disorientamento sia nell’interlocutore, sia nel fruitore delle nuove tendenze poetico letterarie che vengono così denaturalizzate:

“Laggiù /– in verità non so dove – è il discutibile. / Un mondo particellare di parole / indistinte e mutanti. / Nel reale fumoso e incerto / segni / sostengono un macro / mondo di significati – / le parole si frantumano / fra ntu ma no / frant man mut arf f u o / a a l / z a r s t / v . z . . , s h / h”

È in questa trovata ‘dimensione’ che Roberto Maggiani, finisce con lo scegliere una sua particolare ‘maniera’ di esprimersi, linguisticamente ed espressivamente, che diviene la sua ‘cifra’ poetica. Pur con quelle variazioni di ‘registro’, connesse ai singoli elementi comunicativi, che bene dicono chi è il destinatario del suo linguaggio, qual è il suo scopo e quale la circostanza creativa di ogni suo singolo componimento:

“Solo otto minuti fa partiva dal Sole: /
Dts = 149 597 870,691 km / c = 299 792,458 km/s / t = Dts/ c = 499 s = 8,32 min /. Ora esalta la natura delle cose: / piani sovrapposti di complessità inanimate / su cui la biologia si sposta veloce / con gambe di formica – / o proietta ombra / quando sorvola con ali d’ape".

In tal modo, la risposta alle nostre domande, sarebbe significativa se fosse differenziata per ogni singola interpellanza, mentre invece è univoca per entrambe, per cui si evince che “l’arte poetica di Maggiani serve a Maggiani” in quanto maturata e contenuta nella più completa esigenza di progetto fattivo, di percorso culturale e intellettuale o, come si usa dire, di intento artistico ‘concettuale’, lì ove la ‘ricerca’ scrittoria si avvale di formule algebriche, espressioni conformi, estrinsecazioni, come forme ‘altre’ di un linguaggio collettivo ‘archetipo’ che diventa comunicazione divulgativa nel momento in cui egli ingloba e trasferisce quelli che sono i simboli della trasformazione in atto:

“La divisione tra mondo quantistico / e mondo classico non sembra essenziale / è solo questione di creatività sperimentale. // Il tempo emerge / dall’entanglement quantistico / attraverso il processo di Decoerenza”.

Il linguaggio poetico non risulta tuttavia cancellato dall’emissione dei nuovi simboli grammaticali o dalle formule matematiche usate, piuttosto va cambiato il ‘modo’ di leggere la ‘nuova poesia quantistica’ che Maggiani propone come forma ‘geroglifica’ che va decifrata come possibile ‘archeologia’ che abbraccia simboli e fonemi in movimento; come note vaganti nel loro divenire musica:

“C’è stato un tempo in cui nel Cosmo / non c’erano cose umane: solo terra / e l’inizio di un vasto oceano – / ma sotto il cielo della prima atmosfera / ribolliva una possibilità di vita”. 


Allo stesso modo di ciò che verosimilmente dev’essere stato il linguaggio parlato prima del suo divenire scrittura, ancor prima che Champollion mettesse insieme le tecniche che lo portarono a decifrare la famosa Stele di Rosetta. Per dire che, nell’affrontare la poetica di Maggiani, sembra a noi contemporanei di avere davanti una scienza misteriosa, che invece è frutto di una ricerca scientifica che ha i suoi utilizzi nella didattica e nella divulgazione futura:

“Tra le possibili combinazioni del reale / avverrà mai quella che in un attimo / mostra l’idea risolutiva / la combinazione perfetta / e discriminante rispetto a tutte / quelle maggioritarie?”

E ancora:

“La vita è un ingegno molecolare ben calcolato / sul bordo di un abisso arretrato”. // Dalle molecole alle cellule / aumenta la complessità in riduzione di entropia – / fino a comporre un uomo con istruzioni antichissime / dalla fabbrica dei viventi".

Chissà se in un prossimo futuro quella che a noi sembra solo un’arida formulazione algebrica, non possa divenire l’unico linguaggio capace di accomunarci tutti in una sola lingua, riuscendo lì dove tanti altri hanno fallito, col dare alle infinite forme della comunicazione quella scintilla che ‘la scoperta della particella di Dio’ ha dato alla moderna scienza:

“Chi sono i più antichi viventi dell’Universo – / coloro che hanno così avanzata scienza / che della fantasia facilmente fanno materia / rendendo reali i loro pensieri – / hanno diviso la bellezza dal dolore / e scelgono per il tempo che rimane / solo bellezza?”

Si pensi ai ‘primi uomini’ analfabeti, o ai ‘Popoli senza scrittura’ (Puech), alla rivoluzione avanzata dalla ‘scrittura’ che produsse quei 'segni' che pure interpretavano nelle forme più diverse le diverse culture delle genti, quella stessa che infine ha trasmesso a noi il grande patrimonio della parola e che ha prodotto la memoria dell’umanità:


“Secondo Shapiro e Feinberg / ci sono solo tre condizioni essenziali / all’origine della vita: / disponibilità di energia / materia capace di usarla / per diventare un sistema ordinato / e un tempo abbastanza lungo / a disposizione per realizzare / la complessità”.

È quasi impossibile immaginare oggi un mondo senza scrittura, eppure è stato così per milioni di anni; è la scrittura infatti che, con i suoi infiniti impieghi, rappresenta più che mai questo universo sorprendente in cui siamo chiamati a diffondere gli agenti patogeni della ‘civiltà’ che vorremmo darci ma che, per una strana combinazione d’astri, non riusciamo a completare del disegno divino:

“Ad minus erronea in Fide: / inesatta fede fu la vostra. / In questo tempo di nuova scienza / chi ci punirà?” // “Chi tiene salde le redini del buon senso / affinché i cavalli del reale non galoppino follemente – / il dolore resti quiescente nel corpo / il grido nella gola / la voragine nella terra / l’altezza nel cielo / la grande onda nel mare / l’elettricità nella materia / l’esplosione nel Sole?”

Quella quiescenza che Lu Ji in “L’arte della scrittura” ha ratificato nel segno di quella 'pace' distensiva e quantistica, in cui tutte le cose prendono forma: «Dal non essere nasce l’essere; dal silenzio, lo scrittore genera una canzone..»:

“Vorrei già essere al tempo / in cui le civiltà cosmiche s’incontreranno – / quando qualcosa dovremo pur dire / a quella vita altrove / come noi sorta dalla terra – / indotta all’intelligenza da un incastro molecolare / e dalla sua “buona stella”.”

È dunque dal nostro attuale ‘non essere’ che Maggiani estrapola il nostro ‘essere’ partecipe del  presente e forse, un giorno, ci vedrà uomini e donne del futuro:

 

"Siamo creature dell'Universo / e non c'è altro che vogliamo ammirare / se non la sua bellezza".

“Non si spenga per sempre / la coscienza della nostra esistenza – / e se questa continuerà eterna / vorremmo solo gioia e una pista infinita / un percorso senza varchi / passaggi limiti o scadenze”.

L’amore è uno spazio espanso” – scrive Roberto Maggiani a un certo punto della sua intima ricerca maturata nella ‘solitudine cosmica’ in cui mi piace immaginarlo, e che gli fa dire:

“In questo angolo di Universo / c’è un buco nel tetto / della casa che mi ospita: / nell’azzurro s’appiattisce l’infinito".

E in questo riconosciamo in lui il ‘poeta del futuro quantistico del mondo’:

Tu – che non giudichi né condanni / solo apri le braccia (chiodate) / stringendo tutti i dolori?”

 // "... il corpo nudo ci fa uguali".

 


(*) Tutti i corsivi sono estrapolati dalle poesie di Roberto Maggiani contenute nell e-book. 

 

 

 

 

 

 

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- Musica

’Concert’ per Saburo Takata

“Concert” …in onore del compositore Saburo Takata.

Ieri, 4 Maggio 2013, in Sant’Andrea della Valle si è tenuto uno dei più attesi concerti di ‘musica sacra’ del fitto cartellone degli avvenimenti artistici in Roma per il ‘cinquecentenario del Coro della Cappella Giulia’ e del ‘centenario della nascita del Maestro Saburo Takata’, uno dei grandi compositori giapponesi di fama internazionale. Per l’occasione la grande navata della chiesa si è riempita delle ‘voci’ straordinarie dei 120 coristi formanti il Tokai Male Choir, il Takata Tenrei Seika Male Choir ed il Choir Prayer for Peace, diretti dai maestri: Mr Suka Kelichi, Mr Suzuki Sunao, Ms Linuma Kyoko. Pianista e organista d’eccezione: Ms Lljlma Misako, Ms Kimura Emlko.
I Cori hanno eseguito Inni sacri liturgici composti dal contemporaneo Maestro Takata Saburo e dell’insuperato Maestro della ‘polifonia’ vocale sacra rinascimentale Pierluigi da Palestrina. Ciò non tanto per un confronto artistico che suonerebbe vuoto e inutile, quanto invece per il senso di continuità che con questa scelta si è voluto sottolineare, della creatività d’ispirazione cristiana che la distanza dei secoli non ha affatto scalfito, permettendo così a due culture lontane e distinte, come quella nostrana e quella giapponese, questo ‘incontro’ musicale altamente spirituale dei due compositori.
L’Oriente dunque, del Mr. Takata, proveniente dalla città Nagoya, la cui Musica Sacra, è stata definita da Padre Pierre Paul, direttore del coro della Cappella Giulia Vaticana, come: "un monumento alla fede Cattolica espressa attraverso la cultura Giapponese..."; e l’Occidente del Mr. Pierluigi da Palestrina che ebbe in Roma il suo centro di irradiazione e ancora oggi è tra gli autori più eseguiti nelle sedi concertistiche di musica antica. I frutti di questo ‘incontro’ hanno dimostrato di essere maturi per tutta la durata del Concerto, nei brani scelti ed eseguiti a cominciare dal ‘la’ sonoro che ha dato il via al coro ‘a cappella’ in “Kami wo Motomeyo” e il più famoso “Alleluia” del Mr. Takata in cui la tecnica vocale ‘contrappuntistica’ si è espressa con grande forza spirituale da far risuonare la volta della grande navata affrescata di Sant’Andrea della Valle.
Molto apprezzati dalla folla dei presenti intervenuti, in particolare il brano “Tenwa Kamino Eikouwokatari”, molto vicino al ‘canto piano’ sussurrato quasi mistico; e la più ampia ‘suite sacra’ che il Mr. Takata ha tratta dal ‘Vangelo secondo Giovanni’. Dopo gli applausi entusiastici e la breve pausa, il ‘miracolo musicale’ con Palestrina ha avuto luogo proprio sul piano ‘contrappuntistico’, lì dove il ‘contrappunto’ è stato segnato dall’alternarsi dei brani del due maestri: “O Salutatis Hostia” e “Jesu Rex Admirabilis” di Palestrina, con il “Tanigawa no Mizuwo Motomete” di Takata; tra “Sicut Cervus” e l’intensa espressività del Salmo 137 “Super Flumina Babylonis” di Palestrina, e l’intonazione del bellissimo “Elusalemuyo omaewo Wasureruyoriwa” di Takata.
Il culmine, tuttavia si è raggiunto nei due brani in chiusura del Concerto in cui l’insieme dei Cori ha interpretato “Mizuno Inochi” (L’Anima dell’Acqua) musica del Mr. Takata su testi di Kikuo Takano, in cui le ‘voci’, all’unisono abbandonano il ‘contrappunto’ e ondeggiano tra alte e basse sonorità in un ‘continuum’ di grande effetto sonoro, fino allo spumeggiante infrangersi sugli scogli in momenti di elevata bellezza canora. Un crescendo che si ripete nel successivo “Heiwa no Inori” (Preghiera per la Pace) su testi tratti dai versi di S. Francesco d’Assisi: «O Signore, fa' di me uno strumento della tua Pace..», in cui ancor più che la ‘lauda’ s’ode il contrasto ‘vivo’ e ‘fervente’ della preghiera jacoponica, sebbene l’intero canto, sembra trarre origine da una versione della preghiera stampata sul rovescio di un ‘santino’ raffigurante San Francesco, d’epoca tarda.
Strepitoso finale per un altrettanto magnifico Concerto che ha ottenuto il plauso a più riprese degli intervenuti che affollavano la bella Chiesa di Sant’Andrea della Valle. Composto e misurato, ben organizzato ed elegante, come solo i giapponesi sanno fare, il Coro, i Maestri conduttori, la pianista/organista dopo i ringraziamenti di rito hanno fatto dono di alcuni bis molto acclamati.

Saburo Takata, è inoltre compositore di musica vocale: "Ballad Based on a Folk Song from Yamagata”; musica da camera “Sonate pour violon et piano”, “Sonatine pour violoncelle et piano”, “Marionette pour quatuor à cordes”, “Meditatio pour orgue”, “Five Melodies of Japanese Folklore pour flûte, violon et piano” e l’Opera “Aoki okami” «Le loup bleu», di Yasushi Inoue.

Pierluigi da Palestrina, dotato di straordinario talento e fecondità di scrittura, fu autore di musica prevalentemente sacra (comprendendo praticamente quasi tutti i generi: messe, mottetti, lamentazioni, magnificat etc.), ma scrisse anche composizioni profane, come canzonette e madrigali, sebbene in numero decisamente inferiore. Alcune delle sue ‘messe’ sono comprese nel libro corale Missarum - Liber Tertius.

Il bellissimo brano "Mizu no Inochi" L'Anima dell'Acqua è reperibile su youtube, ascoltatelo.

 

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- Cinema

’Oblivion’ , un film di Joseph Kosinski


“OBLIVION”, un film di Joseph Kosinski. Con Tom Cruise, Morgan Freeman, Olga Kurylenko, Andrea Riseborough, Nikolaj Coster-Waldau – Universal 2013.

Pianeta Terra 2077. Siamo davanti a una svolta apocalittica, il pianeta è stato distrutto e invaso da una potenza aliena che si è impossessata della ‘mente umana’ e ha creato innumerevoli ‘cloni’ umani assoggettati al suo ‘volere’ di conquista per estrarre risorse vitali (l’acqua) per la propria sopravvivenza. Jack Harper (Tom Cruise), prescelto per le sue specifiche capacità tecniche di riparatori di ‘droni’ operanti sul nostro pianeta, porta avanti la sua missione che sta per concludersi di lì a poco, quando una infinitesima parte interstiziale della sua memoria cede a un déjà-vu che lo riporta indietro a un tempo ch’egli non rammenta per effetto di una forzata cancellazione, appunto l’oblio cui è destinato. Non esiste un’altra realtà che possa dirsi ‘possibile’ ma noi spettatori sappiamo e non possiamo astenerci dal conoscere, ed è quella del passato, la nostra storia, la nostra singola esistenza: "Se esiste un'anima, é l'amore che condividiamo!". Pertanto il ‘gioco’ (sottile), qui condotto con maestria da Joseph Kosinski, (lo stesso che ha diretto “Tron Legacy” quindi esperto di ‘fantascienza in digital graphic’), si svolge su due piani se vogliamo, entrambi ‘realistici’, e che riguardano l’angoscia vissuta dal protagonista e il post- sconvolgimento di quel che egli crede (e che noi pensiamo) essere la verità su se stesso e sulle cose che in realtà non è. Una coinvolgente e immaginifica rappresentazione della ricerca della verità di un passato che ritorna e, al tempo stesso, una profonda riflessione sulla nostra stessa sopravvivenza. Ma il ‘gioco’ continua e si fa pressante per l’eroe Jack Harper che prosegue il suo lavoro perlustrando gli straordinari cieli da migliaia di metri d'altezza, e noi con lui in immaginifici sconvolgimenti che hanno trasformato la Terra in un agglomerato geologico di materia primordiale e di straordinari avanzi di civiltà (la punta dell’Empire State Building, la Biblioteca Americana finanche la newyorkese Statua della Libertà del ‘Pianeta delle scimmie’ di fortunata memoria). Immensi cieli e canyon terrestri di grande effetto scenografico ch’egli percorre in cerca di dei ‘droni’ caduti e da riparare. È così che Jack intuisce esserci qualcosa di fondamentalmente sbagliato nella rappresentazione del mondo con il quale si confronta quotidianamente, durante i suoi atterraggi e partenze in luoghi impervi, e la scoperta di una valle rimasta intonsa (non contaminata) dov’egli si rifugia in contemplazione d’una vita che non conosce ma che si rivela essere la sua ancestrale attrazione di vita, quel paradiso terrestre forse abitato prima dell’apocalisse avvenuta. Tale è il motivo che lo angoscia sebbene egli viva una vita ‘perfetta’ sotto la guida di una ‘aliena’ che lo ama fisicamente, (che per questo lo rende schiavo). La sua esistenza crolla quando da uno spacecraft precipitato in cui si imbatte per caso, innesca una serie di eventi che lo costringono a mettere in dubbio la sua ‘missione’. In realtà si tratta del ritrovamento di un’astronave abbattuta dalla potenza occupante in cui vi sono dei sopravvissuti, fra cui una donna ch’egli sa di conoscere: "Però ti ho amata, da quando ne ho memoria. Non so come altro dirlo!", e che nel déjà-vu si rivela essere stata sua moglie, per cui il ‘gioco’ continua sullo scambio d’identità del protagonista che si sdoppia e che vive e lotta in simbiosi con l’altro se stesso, fino ad arrivare allo scontro finale con il ‘potere alieno’ che subisce la piena sconfitta e il ‘clone’ (l’altro Tom Cruise) è annientato. In fine ‘l’uomo’ (umano), recupera la propria libertà, per cui l’umanità è salva e può rigenerarsi.
Sebbene il finale (bucolico all’americana) sia scontato anche come immagini, il film si attesta tra i migliori del genere fantascienza per diversi motivi: la grafica strabiliante e gli effetti speciali apparentemente quasi pre-digitali (ossia molto verosimili) e soprattutto la struttura narrativa della sceneggiatura molto curata (senza sbavature). La ‘attanagliante’ colonna sonora di Anthony Gonzalez of M83 and Joseph Trapanese con l’inserimento del ‘cammeo’ “Whiter shade of pale” dei Procol Arum (1969) che avrei ripetuto in chiusura del film al posto dell’insulsa canzoncina dei titoli di coda. Ritengo inutile fare qui, come altri hanno fatto, una classifica dei film di genere o porre questa pellicola prima o dopo questo o quello, ogni film ha una sua proprietà e un suo messaggio che viene lanciato nello spazio e nel tempo angusto della sua esistenza . Il tempo darà ragione della sua validità e del suo successo, così come è stato per ‘Space Odissey 2001’, e tutti quelli che sono venuti dopo fino ad ‘Avatar’ e allo stesso ‘Trony Legacy’, per non dire di tutti gli altri che stanno nel mezzo a cominciare dallo straordinario e ‘infinitamente grande’ ‘Blade Runner’. C’è comunque una ragione che fa di questo film un ‘ottimo film da vedere’ e non solo per gli appassionati del genere, proprio per il messaggio ormai d’uso della salvaguardia di quei ‘beni comuni’ condivisibili di cui non dobbiamo ‘in alcun modo’ permettere l’appropriazione privata, perché ne vale la nostra libertà e la stessa ‘sopravvivenza’ dell’umanità tutta.
Oblivion Soundtrack details: Audio CD (April 9, 2013) Label: Backlot Music.

 

Così si sono espresse le altre critiche:

 

“L'eclissi della fantascienza” di Dario Zonta - L'Unità
Se anche la fantascienza non ha più immaginazione, allora siamo messi proprio male! Nel suo accedere molesto a tutto quello che è stato immaginato in materia d'apocalisse, Oblivion è il manifesto involontario di questa desertificazione, ultima e definitiva tappa dell'involuzione del post-moderno. La crisi, che si vuole economica, è evidentemente e prima di tutto una crisi dell'immaginario. L'apocalisse su cui da sempre si è favoleggiato, punto fermo posto a debita distanza comedistopico memento, non riesce più a produrre nuovi scenari, nuovi modi per rigenerare antiche paure, per poi disinnescarle nel continuo esercizio scaramantico. »


“Un futuro alla Kubrick per l'acrobatico Cruise” di Alessandra Levantesi - La Stampa
Potrà sembrare curioso, ma Oblivion per certi versi ricorda Wall-E, il bel cartone animato in cui il personaggio del titolo, un piccolo robot programmato per compattare rifiuti metallici, era rimasto l'unico abitante del nostro pianeta, devastato decenni prima da una imprecisata catastrofe. Qui siamo sulla Terra nel 2077; e Jack Harper (Tom Cruise) - di base con la campagna di lavoro Vika (Andrea Riseborough) in una specie di avveniristica torre sospesa fra cielo e terra - è il tecnico addetto alla manutenzione di potenti pompe idriche atte a rifornire d'energia il satellite lunare Titano, dove è emigrata la razza umana in seguito a un'invasione di alieni. »


Tuttavia quella che ho trovato più accattivante perché affronta l’aspetto meno toccato dalla critica cinematografica sul ‘futuro’ del film di fantascienza.
“Il genio di Kosinski riconduce dentro il sistema hollywoodiano la fumettizzazione del cinema d'avventura”, di Gabriele Niola (Internet).
La storia, scritta dallo stesso Kosinski per una graphic novel mai realizzata, è diventata progetto cinematografico dopo l'interessamento di Tom Cruise. Questa genesi aiuta a comprendere molti dei pregi di un film che sancisce la definitiva fumettizzazione del cinema blockbuster statunitense. Dopo il successo e il profluvio (per nulla terminati) di film direttamente tratti dai fumetti, negli ultimi anni tutto il comparto d'azione, anche quello originale, è contaminato da dinamiche, figure e strutture tipiche del fumetto.
La forma della graphic novel è la nuova cianografia su cui raccontare l'eroismo per il grande pubblico e non ne è immune nemmeno il regista di un capolavoro sperimentale come Tron: Legacy, sebbene le invenzioni e l'audacia audiovisiva di quel film qui siano lontane. Oblivion riconduce il genio di Joseph Kosinski dentro il sistema hollywoodiano più canonico e incanala le sue intuizioni fantascientifiche in uno svolgimento più consueto, specialmente per ciò che riguarda la figura del protagonista, il cui carattere e il cui percorso appaiono modellati sul corpo, sui trascorsi e sulla carriera di Tom Cruise.
Benchè non si tratti di un sequel, Oblivion attinge a piene mani dall'immaginario della fantascienza recente. Il protagonista è un Wall-E potente e avventuroso che gira per una Terra distrutta, lavorando come ripulitore, raccogliendo scarti del mondo che fu per riunirli in una casa/museo mentre sogna un domani migliore nelle pause lavorative, a questo sono abbinate suggestioni da La fuga di Logan (il film) e "Modello due" di Philip Dick, aggiornate al loro rimaneggiamento operato in Moon di Duncan Jones. Inoltre, assieme al direttore della fotografia e al designer di Tron: Legacy, Kosinski descrive il suo futuro postapocalittico a colpi di architetture memori di Syd Mead e paesaggi miyazakiani, caratterizzati cioè da una rivolta della natura e una sua riconquista del pianeta in seguito ai postumi della guerra e degli eccessi umani. L'elenco dei riferimenti potrebbe andare avanti a lungo ma per fortuna non è nei debiti che si misura la forza del film. Come la miglior fantascienza Oblivion sfrutta un contesto avventuroso per affrontare la dialettica tra speranze e timori per quelle evoluzioni dell'uomo e del pianeta che è possibile intravedere oggi, e lo fa attraverso il rapporto che egli intrattiene con la tecnologia e le sue possibilità. La visione cinematografica di Kosinski rimane sbilanciata sull'audiovisivo più che sul narrativo, sempre pronta a sacrificare la coerenza e l'inattaccabilità della sceneggiatura per una trovata visiva in più, purtroppo però la "normalizzazione" di questo secondo film porta con sè anche un ribaltamento del pensiero fondante del precedente, un ritorno alla tradizione del genere, ovvero il racconto della lotta per la riconquista della supremazia dello spirito sulla tecnologia. Non viene così portato avanti quel discorso molto più moderno e attuale di riscoperta dell'umanesimo proprio dentro il tecnologico e non in sua opposizione che poneva Tron: Legacy all'avanguardia nel genere.



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- Economia

Stefano Rodotà - ’Il diritto di avere diritti’

Stefano Rodotà
“Il diritto di avere diritti”, Laterza 2012

Nella conferenza su “La costituente dei beni comuni” tenutasi Sabato 13 Aprile 2013 al Teatro Valle Occupato di Roma e presieduta dal prof. Stefano Rodotà, con giuristi, economisti e altri eminenti studiosi, quali Ugo Mattei, Edoardo Reviglio, Gaetano Azzariti, Maria Rosaria Marella, Paolo Maddalena e appartenenti ai centri sociali e ai movimenti in lotta per i beni comuni, sotto l’egida: “per una prospettiva di cambiamento radicale del sistema economico/politico/sociale del paese”; è stato ribadito l’obiettivo di mettere in relazione una rete di realtà sociali per creare uno strumento che funga da volano per una riflessione organica diffusa su tutto il territorio e riapra quei canali di comunicazione tra società e istituzioni di cui la nostra società attuale è particolarmente carente.
Questi, i temi toccati durante la conferenza, rappresentativi degli ambiti di lavoro e discussione della “Costituente dei beni comuni”, sia in una prospettiva di proposta legislativa, sia su un piano di riflessione teorica più ampio e organico: “L’iniziativa romana – ha commentato il prof. Rodotà – ha una lunga storia, presuppone un grande lavoro comune che riprende un lavoro sui ‘beni comuni’ cominciato nel 2006 che ha dato grandi frutti, e si specificherà meglio con l’organizzazione dei rapporti tra una molteplicità di soggetti, che in questi anni hanno preparato specifiche proposte di legge sul diritto a Internet e sulla iniziativa legislativa popolare, sui beni comuni e sul diritto all’acqua, sul reddito minimo garantito e sulle decisioni di fine vita. Tutte queste proposte sono già nelle mani di tutti i parlamentari. Peraltro, l’apertura dell’iniziativa di ‘Assemblea 0’ deve essere e rimanere tale da consentire una partecipazione la più larga possibile, separata dalle preferenze personali su qualsiasi persona o formula politica”.
In rapporto con le politiche sociali, in base alle quali l’individuo dovrebbe regolare la propria vita personale e dare risalto alle scelte che si prospettano ancorché prevedibili per il futuro della società globalizzata, ritengo siano qui giustificabili valutazioni pedagogico-economiche riferite alla ricerca e alla formazione. Così come alla comunicazione culturale-scientifica e all’informazione, nonché alla didattica per l’investimento, allo scopo di raggiungere quel ‘consenso’ che più risponde alle esigenze di mantenimento degli equilibri esistenti e a una fattiva condivisione sociale per lo ‘sviluppo sostenibile’.
Una presa di coscienza questa che va oltre il concetto di ‘bene/comune’ in fatto di sostentamento e di sviluppo, e che ci spinge oggi a riconsiderare i limiti della conoscenza. Quindi di adesione con la raggiunta consapevolezza d’una ‘volontà primaria’ che pure deve esistere all’origine della motivazione/necessità implicita in una costruzione sociale dinamica che riconosce la formazione come ‘bene/mezzo’ in stretto rapporto col benessere sociale o ‘welfare’, che si vuole realizzare, e che sposta la ‘conoscenza’ nella primaria posizione di ‘bene/fine’ e il concetto di ‘capitale umano’ con quello di ‘bene/risorsa’.
Ma non solo, bensì amplia e supera la tradizionale accezione del ‘concetto di proprietà’ fin’ora incentrato esclusivamente sul ‘bene/singolo’ e quindi individuale, per ridefinirlo come ‘bene/pluralistico’, quindi pubblico, con un nuovo linguaggio socialmente accettabile, per cui il ‘bene’ deve, e non può essere altrimenti, estendersi alla conoscenza come risorsa dinamica efficiente a scardinare il comune senso di ‘proprietà’ che dobbiamo all’interazione culturale, avvenuta in illo tempore, e che ci portiamo dietro come masserizie di una realtà ormai in disuso.
Tutto questo nella volontà di evidenziare nuovi ‘processi formativi’ che, nella prospettiva dell’economia globale, portino a strategie di sviluppo in ambito socio-giuridico e che, a fronte di una ‘formazione’ adeguata, richiedono una più ampia apertura del concetto di ‘bene comune’ e la fruizione di altri modi del possedere che diano nuovo impulso all’attuale economia e alle ‘dinamiche sociali’, con uno sguardo in prospettiva alle politiche del welfare e allo sviluppo per una migliore qualità della vita.
Di conseguenza una maggiore equità sul piano del consumo critico, vuoi delle opportunità di sviluppo che d’inserimento in una diversa ridistribuzione dei beni/comuni a livello globale, vuoi di una maggiore efficienza nell’uso delle tecnologie e delle energie rinnovabili, vuoi per il conseguimento ultimo al ‘libero accesso’ delle risorse comuni è certamente la carta vincente per uno sviluppo più sostenibile e per il futuro del progresso scientifico e sociologico auspicabili, in vista di una radicale trasformazione della conoscenza.
Ciò per introdurre qui la dicotomia esistente tra bene/proprietà e possesso/provento di quei ‘beni’, un tempo considerati fittizi e aleatori che solitamente non venivano inclusi in alcuna categoria merceologica perché instabili ed economicamente incalcolabili, malgrado rispondessero ad esigenze individuali e comunitarie. Dicotomia che oggi vediamo trasformata in lotta per il potere, necessaria – si vuole – per l’acquisizione e la gestione di quegli stessi ‘beni’, un tempo ritenuti artificiosi se non addirittura simulati e oggi, divenuti economicamente illimitati, quali sono, ad esempio: la formazione, la conoscenza, l’informazione ecc., entrati in rapporto con la ‘proprietà intellettuale’.
S. Rodotà annotava in “Elogio del moralismo”: “Nudi patti di potere ancora ci avvolgono, indifferenti agli uomini e ai principi. Anche questa può essere, ed è politica. Ma il suo prezzo si è fatto sempre più alto. Per praticarla, per imporre le sue regole ferree, non basta la tendenza insistita verso la cancellazione d’ogni forma di controllo. (..) Bisogna dimostrare visibilmente, ostentatamente addirittura, che ogni pretesa di far valere interessi generali, logiche non proprietarie, valori culturali, diritti dei cittadini è ormai improponibile: e c’è spazio solo per negoziazioni, accordi, sopraffazioni magari, ma solo tra soggetti forti, che creano essi stessi le regole, affrancati ormai da ogni legge o codice”.
Ed è questo sicuramente un punto di svolta e, se vogliamo, allo stesso modo è una contraddizione in termini, anche se rispondente a una realtà inconfutabile, almeno fino a questo momento. Soprattutto perché manca, o almeno, sembra mancare in essa, la ‘volontà’ primaria di dare soluzione al problema evidenziato della sperequazione in atto tra bene/pubblico e bene/privato, tra ciò che è lecito e ciò che è illecito, nella divisione e nell’appropriazione dei ‘beni comuni’. E non solo, addirittura in quali sono o dovrebbero essere i ‘beni’ soggetti a una qualificazione.
La terminologia non aiuta a una definizione oggettiva del ‘bene comune’ perché alcune ‘materie’ interessate a questa spartizione, come ad esempio la conoscenza, il benessere ecc. entrano di prepotenza nello status delle priorità virtuali inconfutabili e spalancano le frontiere dell’immaterialità, per farsi parte programmatica della veridicità esistenziale a largo spettro, coinvolgendo ogni forma, materia e disciplina in atto; ancorché ridisegnando i confini (davvero illimitati della conoscenza umana), “senza perdere i benefici della trasparenza” che, soprattutto nella sfera socio-economico-politica, a fronte delle tecnologie più avanzate del Web, si rendono oggi possibili.

In 'Il diritto di avere diritti' - scrive ancora Rodotà: “Il diritto individuale alla ricerca della verità attraverso le informazioni, chiarisce bene quale sia il significato della verità nelle società democratiche, che si presenta come il risultato di un processo di conoscenza aperto, che lo allontana radicalmente da quella produzione di verità ufficiali tipica dell’assolutismo politico che vuole invece escludere la discussione, il confronto, l’espressione di opinioni divergenti, le posizioni minoritarie” . Polemica a parte, si apre qui una tematica ‘altra’ sulla conoscenza come funzione della trasmissione del sapere (critico) e della formazione (al settore produttivo), che Rodotà distingue come materia costituzionale, che sancisce: “il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”, a sua volta ripreso dall’articolo 19 della “Dichiarazione universale dei diritti umani” emanata dall’Onu. Tematica questa che ritroviamo anche in quanto affermato dal noto sociologo Z. Bauman che in “Modernità liquida” la oppone alla ‘modernità solida’ durkheimniana come atto finale: “sotto la cui protezione trovare riparo dall’orrore della propria transitorietà”.
Ed è proprio la ‘transitorietà’ (della vita) – secondo il mio modesto parere – a rimettere in discussione il concetto primario di ‘bene’ inteso come entità discriminante, rifugio ultimo e santuario di una continuità che supera i limiti tracciati dalla selettività naturale, per cui ciò che è ‘bene comune della conoscenza’ porta la conseguenza inalienabile della sostenibilità futura per la ricerca, la sperimentazione, la progettazione, la promozione, i sistemi formativi, l’utilizzo delle risorse comunicative, nella prospettiva d’una fattibile economia globale. Spetta dunque ai ‘processi formativi’ contribuire a formare il know-how necessario alla conoscenza e divulgare le competenze richieste, come processo che non si esaurisce nello spazio e nel tempo dell’apprendimento tradizionale dello sviluppo individuale del ‘bene come mezzo’, bensì riaffermare l’importanza della conoscenza nella prospettiva del ‘bene come fine’ ultimo del ‘libero accesso’.
Va con sé che un argomentare così fatto richiede una qualche introduzione esplicativa di ciò che finora è stato sotteso, cioè il ‘diritto alla libertà’ di pensiero, di parola, di verità intellettuale, a fronte di una deontologia che per sua natura include l’etica, la moralità, norme e regole che danno forma a una ‘conoscenza’ compiuta e definitiva, che va intesa come ‘bene assoluto’, incondizionato, creativo, formativo, improcrastinabile del benessere sociale, sotto la suprema direzione della ‘volontà’ (generale), capace da sola, di trasformare la ‘legge’ (che la governa) nell’unico spazio in cui la ‘libertà’ si concretizza.
Seppure in una logica che dovrebbe essere di fatto ‘sostenibile’, aprire qui un dibattito sul ruolo preponderante delle esternalità giuridico - economiche in ambito preminentemente economico-produttivo, che sia valido ed efficace, in quanto basato sulla ‘motivazione del bene’ e, di conseguenza, sul ‘rendimento di bene’ in termini prettamente necessari per un rapporto fattivo, non può che passare da un ‘contratto sociale’ complessivamente avanzato sul piano dell’equità. Allo stesso modo che necessita di essere legittimato dall’associazione politica, non in base alla ‘forza’ ma al ‘diritto’, e a come si può passare da un contratto iniquo, (quello stesso che ha sancito la disuguaglianza e il dominio del più forte), a un ‘contratto sociale’ fondato sulla ragione, che sia garante di un principio fondante di civiltà.
Quindi, ‘libertà’ come diritto “di esprimere la propria opinione, di scegliere il proprio mestiere e di esercitarlo, di disporre della proprietà e dei suoi beni” (B. Constant), così come dell’utilizzo della conoscenza acquisita e pertanto della ‘libertà di coscienza’ e il conseguente diritto soggettivo di esternarla con la scrittura e a quella ‘libertà di stampa’ evocata nell’ “Aeropagitica” dal precorritore John Milton; per giungere infine all’odierno concetto di ‘bene comune’ elaborato da C. Hess ed E. Ostrom in “La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica”.
Lo sviluppo della conoscenza, dunque, visto come processo ‘educazionale’ e di ‘apprendimento’, al pari dello sviluppo delle ‘risorse umane’ come ‘punto di forza’ di una qualsiasi organizzazione pubblica e privata, interessata al raggiungimento e all’apprendimento delle attitudini lavorative a tutti i livelli, relativamente a soluzioni occupazionali e di welfare. Rapportate, in primo luogo, all’effettivo scambio tra ‘cose’ e ‘risorse’, che definiamo come ‘beni’, di per sé attribuibili però alle ‘risorse umane’ tout-court, alla ‘capacità lavorativa’, così come alla ‘volontà organizzativa’ degli individui.
L’acquisizione di tali valori portanti, di principi e modalità di azioni, confluiscono nella teoria dell’economista Alvin Toffler , per il quale la formazione è un processo ‘adhocratico’ (qui inteso come sistema interattivo e flessibile per la gestione delle conoscenze), che non segue un metodo standardizzato ma è influenzato dalla situazione in essere dei sistemi informativi. In effetti esistono diversi tipi di formazione predisposti per risolvere problemi specifici di adattamento e cambiamento delle azioni comunicative, che prevedono l’ausilio di aggiornate competenze ‘pratiche’ utili per risolvere i problemi reali e, altri, di tipo cosiddetto ‘virtuale’, necessari per lo sviluppo socio-economico e psico-sociale degli individui.
L’acquisizione di informazioni in merito alle modalità di inserimento dei giovani (in quanto capitale sociale) nel mondo del lavoro, rappresenta qui un elemento utile ai fini dell’offerta formativa e di sviluppo dei cosiddetti ‘beni sociali’. Non di meno l’orientamento scolastico e professionale è un elemento importante nell’organizzazione pedagogica dei sistemi educativi che, sul lungo termine, indubbiamente incide sulla produzione di ‘conoscenza’ utile nelle scelte professionali, sia in fatto di favorire l’accesso all’occupazione, sia di agevolare l’immissione di ‘specialisti di settore’ nei campi diversificati dell’attuale società produttiva. La cui analisi, detta di ‘transizione’ è uno dei principali obiettivi previsti dai sistemi educativi, permette, inoltre, di valutare i risultati delle politiche di ‘formazione’ iniziale, e prendere, come quadro di riferimento, l’incremento annuale dell’occupazione, per apportare e/o migliorare quei ‘benefit’ che dovessero essere carenti o del tutto mancanti, necessari per un migliore svolgimento della vita sociale, di cui il ‘lavoro’ è infatti da ritenersi un ‘bene mezzo’ verso l’auspicato ‘benessere’ individuale e sociale.
“È con la consapevolezza della necessità di un radicale mutamento di prospettiva che il Progetto Rodotà, attraverso l’inserimento della categoria dei beni comuni, procede al recupero, prima ancora che a livello giuridico, a livello antropologico di un nuovo modo di possedere. (..) Un tale cambiamento impone necessariamente un passaggio obbligato nel piano giuridico, una revisione dell’attuale sistemazione della materia dei beni per sondare i margini per l’emissione della nuova categoria dei beni comuni. (..) Del resto lo stesso Rodotà in “Il terribile diritto”, già rilevava come fosse necessario non solo “..agire all’interno della proprietà, ma far si che essa non sia, nel complesso del sistema, la misura di tutte le cose”.
Il quadro che si offre oggi all’interpretazione, benché complesso, abbraccia tutta una serie di norme nelle quali il termine ‘bene’ non assume connotati costanti. Tuttavia, attraverso l’elaborazione del dato positivo, occorre allora sperimentare la possibilità di definire una nozione di ‘bene giuridico’ dotata di capacità conoscitiva e ordinante, in modo da determinare una regola minima da applicare a qualsiasi nuova entità qualificata come ‘bene’, per poi eventualmente verificarne la compatibilità giuridica con la categoria in esame, per quanto “costituisca termine di riferimento di un qualsiasi ordinamento, (..) che deve trattarsi insomma di entità che possono dar luogo a beni in senso giuridico” (Pugliatti). “Occorre dunque limitarsi ad assumere la nozione giuridica di ‘cosa’ (oggettiva o oggettivata) che si rileva nella fase precedente alla qualificazione giuridica, a seguito della quale si trasforma da entità del mondo fenomenico a ‘bene’ in senso giuridico” (Scozzafava).
Da cui la diatriba scaturita fra i due nello spazio dell’ordinamento giuridico, rientrata poi nell’ambito della vasta categoria delle ‘cose’, per cui “in senso giuridico può rientrare qualunque ‘cosa’ in qualità di ‘prodotto materiale’ nel senso comune dell’espressione” (Pugliatti). In tal senso appare condivisibile la nozione di ‘cosa’ fatta propria da D. Messinetti secondo il quale la nozione di cosa “comprenderebbe tutte quelle entità rispetto alle quali l’ordinamento configura modalità di appropriazione caratterizzate dal tratto dell’esclusività a prescindere dall’essere entità materiali o immateriali”. In altre parole, dire che sono ‘beni giuridici’ le cose oggetto di diritto significa tradurre sul piano giuridico una relazione che già sul piano fattuale manifesta i caratteri del dominio tra soggetto e realtà circostante.
Per quanto, il concetto di ‘bene’ presuppone sempre un riconoscimento da parte dell’ordinamento, le differenze tra le teorie realiste e quelle formaliste sta nel diverso modo di intendere il ruolo di tale qualificazione: “da un lato è il piano della realtà che determina e condiziona la qualificazione di ciò che è bene giuridico (tal senso ad esempio il concetto di bene giuridico si sovrappone a quello di bene economico); dall’altro è l’ordinamento che ritraduce in termini propri, secondo criteri autonomi, la complessa fenomenologia del reale, assumendo, e dunque distinguendo ciò che è bene giuridico da ciò che invece non lo è”.
Non è un caso che tutti gli ordinamenti, (prima di tutto quello comunitario, il cui, il cui obiettivo è un ‘livello elevato di protezione’ della proprietà intellettuale) hanno intrapreso una chiara strategia di ampliamento: “sia orizzontale (annessione al diritto d’autore di opere caratterizzate da una netta prevalenza utilitaristica); che verticale (istituzione di nuovi diritti di utilizzazione economica, compressione dell’area riservata alle ‘libere utilizzazioni’, rafforzamento dell’apparato sanzionatorio), dei ‘diritti di esclusiva’, sintetizzabili sotto la formula generale della ‘proprietà intellettuale’, determinando una progressiva attrazione della conoscenza ” – che ancori in maniera forte la nozione di ‘bene’ a quella di ‘cosa’ nell’ampio significato precettivo – peraltro non solo economico – del criterio di ‘riconoscimento’ dei ‘beni giuridici’.
“In tema di ‘beni comuni’ dunque – se si segue la via di un formalismo attenuato – non vi sarebbe una lacuna in senso tecnico, ma esclusivamente una lacuna ideologica, che necessiterebbe di essere colmata non dall’interprete ma dal legislatore. In tal senso, il progetto di riforma della Commissione Rodotà per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, “muovendo da una distinzione dei beni secondo gli interessi o le utilità che essi manifestano, procede all’elaborazione della categoria dei beni comuni per una qualificazione giuridica di quelle entità che esprimono utilità funzionali all’esercizio di diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità”.
“La scelta tutta politica tra carattere ‘pubblico’ e ‘privato’ della conoscenza, dunque, non sembra ammettere alternativa di sorta in ragione di ‘bene pubblico’, a meno di non accettare la disuguaglianza tra gli individui come un dato strutturale della ‘democrazia’, contravvenendo al alcuni diritti fondamentali sanciti fin dall’epoca dei lumi, quali il diritto all’istruzione, al perseguimento della felicità e dell’uguaglianza” – scrive Fiorello Cortiana nella ‘premessa’ all’edizione italiana dell’importante saggio di Charlotte Hess, direttrice della “Digital Library of the Commons” alla Syracuse University Library, ed Elinor Olstrom, professore alla Indiana University di Bloomington (Usa), una delle massime studiose delle conseguenze del rapporto tra gli ‘uomini e l'ambiente’, insignita del prestigioso Nobel 2009 per l’Economia.
Il loro importante saggio oltre a mettere in evidenza come tutta la conoscenza sociale accumulatasi nel corso dei millenni della storia umana, essendo frutto di una competizione di interessi e di una cooperazione, costituisce un ‘bene comune’, e si concentra infatti su un tema di grande rilievo nella società contemporanea: la necessita di considerare la conoscenza come ‘commons’, cioè un ‘bene comune’ disponibile per tutti, al pari della terra, dell'acqua e dell'aria, con la differenza che “la fruizione della conoscenza da parte di un soggetto non ne limita l'utilizzo da parte di un altro”.
Dichiarazione che permette di affrontare un rilevante aspetto della conoscenza ancora non del tutto esplorato, rivolto al ‘libero accesso’, agli ‘open content’ ed ai ‘creative commons’ rappresentativi, in fatto di ‘diritti d’autore’ con valenza giuridica (dal 2005), il cui sito ufficiale Creative Commons Italia è attualmente gestito (http://www.creativecommons.it/), dall' EIIT-CNR del Politecnico di Torino. “Oggi – scrive ancora F. Cortiana: – attraverso Internet la conoscenza è potenzialmente disponibile per tutti con un solo click. Ma proprio nel momento della sua apparente maggiore accessibilità, il sapere è soggetto a norme sempre più restrittive sulla ‘proprietà intellettuale’, che limitano l’accesso alle risorse on-line. Queste nuove forme di ipermoderne enclosures mettono a rischio il carattere di bene comune della conoscenza. E proprio di fronte a tale pericolo, questo volume ribadisce che il sapere deve essere una risorsa condivisa, il propellente stesso per le moderne società che legano la loro prosperità e il loro sviluppo alla ricerca, alla formazione e alla massima diffusione sociale di saperi creativi e innovativi”.


“Ma come preservare questo bene nell’epoca del neoliberismo informazionale globalizzato? Come evitare che il sistema ecologico-sociale della conoscenza ‘utile’ venga travolto dalla privatizzazione?”, ci si chiede.


È a queste domande che le due studiose, che hanno concentrato il proprio lavoro allo studio delle ‘risorse comuni’ e, in particolare, alla loro gestione della sostenibilità sociale, hanno voluto dare una risposta ‘forte’: “..per realizzare questo grande obiettivo democratico è necessario ripensare la proprietà intellettuale e il copyright, ma anche il ruolo delle biblioteche, delle istituzioni formative e delle forme di creazione e condivisione digitale dei saperi, così come il modo in cui i nuovi contenuti digitali possono essere conservati e resi disponibili attraverso il Web. Open content, Creative Commons e Open source possono costituire un efficace modo di garantire l’accesso alla conoscenza e una sua maggiore e più democratica diffusione globale”.
Segnalato dallo stesso Stefano Rodotà, l'operato di C. Hess ed E. Ostrom, mette insieme importanti contributi volti ad analizzare i ‘beni comuni’ della conoscenza nel nostro tempo, che da homo sapiens sapiens ci sta trasformando in homo digitalis (Web, Internet, i-Lab, i-Pad, e-boock, smartphone, tablet ecc.), mutando, come muta, sempre più la natura del lavoro, il suo processo e il suo prodotto grazie a un’innovazione tecnologica pervasiva. Il quale inoltre scrive: “Poteri privati forti e prepotenti sfuggono agli storici controlli degli Stati e ridisegnano il mondo e le vite. Ma sempre più donne e uomini li combattono, denunciano le disuguaglianze , si organizzano su Internet, sfidano i regimi politici autoritari. La loro azione è una planetaria, quotidiana dichiarazione di diritti, che si oppone alla pretesa di far regolare tutto solo dal mercato, mette al centro la dignità delle persone, fa emergere i beni comuni e guarda a un futuro dove la tecno-scienza sta costruendo una diversa immagine dell’uomo. È nata una nuova idea di cittadinanza, di un patrimonio di diritti che accompagna la persona in ogni luogo del mondo. (..) Da qui «la nuova proprietà», proiezione nel mondo nuovo di un passato rassicurante”.
E ancora: “Questa non è una illuminazione improvvisa. È l’esito di una riflessione che riguarda i ‘beni primari’, necessari per garantire alle persone il godimento di diritti fondamentali e per individuare gli interessi collettivi, le modalità di uso e gestione dei beni stessi. «Interessi collettivi e retroterra non proprietario hanno fatto così guadagnare al mondo istituzionale una terza dimensione, nella quale si muovono a disagio i cultori della geometria istituzionale piana.» “Da cui emerge un retroterra non proprietario che si manifesta concretamente l’esigenza di garantire situazioni legate al soddisfacimento delle esigenze e dei bisogni della persona. La via verso la riscoperta dei beni comuni è così aperta”. (..) Una ben visibile ‘terza via’ tra proprietà privata e pubblica, la cui portata si chiarisce meglio analizzando due riferimenti essenziali contenuti nell’art.42 (C.I.) – l’affermazione secondo cui la proprietà deve essere resa ‘accessibile a tutti’ e il ruolo attribuito alla sua ‘funzione sociale’”.
Pur tuttavia, data la possibilità di accedere e a un ‘bene’ senza necessariamente e strumentalmente affermare l’acquisizione di un titolo di proprietà, le due categorie, prese autonomamente in diverse situazioni, si presentano in palese conflitto: “In questo senso, l’accesso costituzionalmente previsto ben può essere inteso come strumento che consente di soddisfare l’interesse all’uso del bene indipendentemente dalla sua appropriazione esclusiva. (..) Come in passato si era distinto tra proprietà e gestione nella prospettiva di una contrapposizione tra proprietà formale e sostanziale, la distinzione tra proprietà e accesso è ormai da tempo un tratto che caratterizza la discussione pubblica”.
“La proprietà (..) non ha bisogno d’essere confinata, come ha fatto la teoria liberale, nel diritto di escludere gli altri dall’uso o dal godimento di alcuni beni, ma può egualmente consistere in un diritto individuale a non essere escluso a opera di altri dall’uso o dal godimento di alcuni beni” . Ciò stabilisce il passaggio, da una proprietà ‘esclusiva’ a una ‘inclusiva’ che, più correttamente, può essere descritta come “riconoscimento della legittimità che al medesimo bene facciano capo soggetti e interessi diversi. Il discorso (processo) di esclusione viene così tramutato in quello sull’accessibilità” a tutti e per tutti.


Mi chiedo se tutto questo non comporti il rischio di sfociare nel ‘libero arbitrio’? Ma la domanda resta sospesa in aria.


“In modo efficace si è detto che un uso estremamente lato dell’espressione ‘beni comuni’ – ha affermato M. R. Marella nella durante la conferenza – può comprometterne l’efficacia espressiva e banalizzarne il senso, sì che è indispensabile cercare di cogliere i caratteri comuni che attraversano gli usi eterogenei del termine per poi capire in che misura intorno alla definizione ‘beni comuni’ sia possibile costruire una categoria unitaria di risorse”.
Tuttavia se, diritti fondamentali e ‘libero accesso’ ai beni comuni, disegnano una trama che ridefinisce il rapporto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni, “questo almeno negli ultimi due secoli, era stato sostanzialmente affidato alla mediazione proprietaria e alle modalità con le quali ciascuno poteva giungere all’appropriazione esclusiva dei beni necessari”, proprio questa mediazione viene ora revocata in dubbio, in quanto: “la proprietà, pubblica o privata che sia, non può comprendere e esaurire la complessità del rapporto persona/beni. Un insieme di relazioni viene ormai affidato a logiche non proprietarie”.
Logica questa che, se si considera la conoscenza in rete, riapre la discussione e ci si avvede subito della sua specificità, ciò che porta a riesaminare in forme differenziate il rapporto tra accesso e gestione, dunque lo stesso significato della partecipazione al ‘possesso’. Luciano Gallino ne ha giustamente parlato come di un bene pubblico globale: “Ma proprio questa sua globalità rende problematico, o improponibile, uno schema istituzionale di gestione che faccia capo a una comunità di utenti, cosa necessaria e possibile in altri casi”.


Viene da chiedersi in rapporto con la conoscenza nel Web come si collocano ‘l’informazione’ e le diverse tipologie ‘creative commons’, ‘open content’ e ‘libero accesso’?La risposta stavolta viene dallo stesso Rodotà:


“Siamo di nuovo proiettati in una sfida che vede annullate le categorie abituali – scrive ancora Rodotà – in cui la tutela della conoscenza in rete non passa attraverso l’individuazione di un unico gestore, ma attraverso la definizione delle condizioni d’uso del bene che deve essere direttamente accessibile da tutti. (..) Almeno qui non opera il modello partecipativo e, al tempo stesso, la possibilità di fruire del bene non esige politiche redistributive di risorse perché le persone possano usarlo. È il modo stesso in cui il bene viene ‘costruito’ a renderlo accessibile a tutti. (..) Sono dunque le caratteristiche di ciascun bene, non una loro ‘natura’, a dover essere prese in considerazione, perché fanno emergere la loro attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono ‘a titolarità diffusa’, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere a essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero ‘patrimonio dell’umanità’ e ciascuno deve essere messo nella condizione di difenderli, anche agendo in giudizio a tutela di un bene lontano dal luogo in cui vive”.

Un libro/inchiesta/proposizione per un futuro aperto alle frontiere del nuovo, della socialità e della coooperazione, per un mondo più giusto e alla portata di tutti.



 

 

 

 

 

 

 

 

 

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- Letteratura

’Il cappotto di Proust’ di Lorenza Foschini

LORENZA FOSCHINI “Il cappotto di Proust” (storia di un’ossessione letteraria) – Mondadori 2010.

Se non il buio della notte, il crepuscolo della sera che lo ammanta, è indubbiamente la ‘cifra’ di Marcel Proust, come quel suo cappotto grigio antracite che gli scende dalle spalle fino ai piedi, con il quale egli si conduce attraverso il ‘tempo perduto e mai del tutto ritrovato’ di questo piccolo libro, per un certo verso davvero originale. Lo si legge velocemente come una ‘detective story’ in cui ad essere investigato è appunto un indumento di lana robusta foderato di pelliccia di lontra, che fa del suo proprietario quel ‘dandy’ sacrificato alla letteratura che, a sua volta, ci ha regalato il romanzo francese più tradotto e diffuso al mondo, certamente uno dei più importanti e ‘lunghi’ della letteratura europea del Novecento.
Come pure dirà lo stesso Proust in seguito, a proposito della lungaggine sproporzionata del suo celebrato romanzo “A la recherche du temps perdu”, per cui: "...écrire un roman ou en vivre un, n'est pas du tout la même chose, quoi qu'on dise. Et pourtant notre vie n'est pas séparée de nos oeuvres". A voler sostenere che, per quanto se ne possa dire, scrivere un romanzo o viverne uno non è affatto la stessa cosa, e tuttavia, non è possibile separare la nostra vita dalle nostre opere, per cui: “la costanza di un’abitudine è di solito proporzionale alla sua assurdità”, un aforisma questo divenuto in seguito il suo biglietto da visita.
Ancor più del suo passato di ‘dandy’ se vogliamo un po’ trascurato o, forse, nient’affatto ‘dandy’ come spesso lo si appella, semmai uno ‘snob’ per estrazione sociale e per cultura. Ma chi era poi questo famigerato ‘dandy’, se non un eccentrico che si divertiva a stupire il pubblico con atteggiamenti e gesti provocatori, con il suo particolare modo di vestire e di vivere? Se non un voler essere ‘ricercato’ nel vestire che non poteva considerarsi necessariamente un sinonimo del ‘dandismo’, riassumibile invece nel ‘vivere la vita come fosse un’opera d’arte’? Difatti il ‘dandismo’ o ‘dandinismo’ che dir si voglia fu anche una moda letteraria e artistica, considerato piuttosto uno stile di vita che coinvolgeva e condizionava ogni aspetto di un certo ‘vivere sopra le righe’.
Tratti caratteristici del ‘dandy’ erano infatti la ricerca di eleganza e perfezione non solo nel vestire, ma anche negli atteggiamenti e nei gusti personali, la consapevolezza di una certa superiorità intellettuale, la ricercatezza e l'originalità per differenziarsi dalle masse borghesi e la volontà di ribellarsi alle regole della società benpensante dell'epoca. Ciò, sebbene il ‘dandismo’ di per sé non fosse una esperienza estetica fissata nello spazio e nel tempo come la si può immaginare, bensì variava abbastanza notevolmente una volta a contatto con le diverse realtà culturali più o meno tipiche degli occidentali, soprattutto legate a una forma di ‘snobismo’ reiterato nel tempo.
Concepito come movimento artistico e culturale già dai ‘preraffaelliti’, una corrente artistica della pittura vittoriana (XIX secolo) sviluppatasi ed esauritasi in Gran Bretagna e ascrivibile alla corrente del ‘simbolismo’, che può essere definita - insieme al raffinato simbolismo di Klimt ed alle forme del liberty - l'unica trasposizione pittorica del ‘decadentismo’ reale, cui vanno ascritti tra i suoi esponenti principali, i pittori Dante Gabriel Rossetti ed Edward Burne-Jones. In Età Vittoriana e proprio in Inghilterra, patria di questo movimento culturale, tra i ‘dandy’ più conosciuti vanno ricordati inoltre i letterati Lord Brummell e Oscar Wilde, divenuti entrambi sinonimi di eleganza ed eccentricità.
L'influenza del ‘dandismo’ inglese pervase in seguito tutta l’Europa, a cominciare dal midi-monde francese, dove ad apprezzarlo furono soprattutto Charles Baudelaire e Joris Karl Huysmans. Un esponente famoso di questo movimento in Germania era ritenuto a suo tempo il compositore Franz Liszt, mentre in Spagna fu invece il pittore Salvador Dalì. Tra i più significativi ‘dandy’ italiani troviamo Gabriele D'Annunzio che nel suo romanzo dedicato al ‘Piacere’, identificò come radice del dandismo, un certo disgusto aristocratico e un risentito disprezzo antidemocratico delle masse. Nonché Italo Svevo che, in ‘La coscienza di Zeno’, mise in relazione con un costante senso di inadeguatezza la preminenza dell’ ‘inettitudine’ dell’individuo, che pure interpretava come sintomi di una malattia psichica che solo più tardi si scoprirà essere una malattia della società.
Ma torniamo al nostro ‘Cappotto’ e a quel ‘dandy letterario’ per eccellenza come può essere considerato Marcel Proust, contrastato forse soltanto da due altri scrittori famosi: l’austriaco Robert Musil, curatissimo nella persona e negli abiti ma dal portamento troppo militaresco che, con il suo ‘L’Uomo senza qualità’ pubblicato più o meno negli stessi anni della Recherche, rappresenta simbolicamente la ‘crisi’ dell’individuo nella società moderna; e il dublinese James Joyce uomo dal carattere ‘umorale’ e critico verso la società d’appartenenza (quella Dublinese). La sua opera ‘Ulisse’, sarà di fondamentale importanza per lo sviluppo della letteratura del XX secolo, in particolare della corrente moderna, che diverrà il manifesto dell’anticonformismo.

Ma siamo ben oltre, e possiamo considerare il ‘dandismo’ già scemato nel decadentismo o, se vogliamo, nella trascuratezza di una ‘moda’ destinata a finire. Come pure racconta Léon Pierre-Quint a proposito di Proust:

«Fin da quando era ragazzo, Marcel vestiva con estrema cura, ma con uno stile tutto particolare. Aveva, la ricercatezza del dandy mescolata già a una certa trasandatezza di vecchio saggio medievale … Sotto il colletto rivoltato, portava cravatte mal annodate o dei larghi ‘plastrons’ di seta acquistati da Charvet, di un rosa cremoso si cui aveva lungamente cercato la nuance. Era abbastanza magro da potersi permettere il gilet a doppiopetto. Una rosa o un’orchidea alla bottoniera della sua redingote … Guanti chiari, con impunture nere, spesso sporchi e sgualciti, comprati da Trois Quartiers, perché lì si forniva Robert de Montesquiou. Un cilindro dalle tese piatte e una canna da passeggio completavano l’eleganza di questo Brummel un po’ selvaggio. Ma anche nei giorni più caldi dell’estate, indossava questo pesante cappotto foderato di pelliccia, divenuto leggendario per quelli che lo hanno conosciuto.»

Un cinico dunque, o forse, come ho già avuto modo di scrivere, un edonista di tendenza epicurea se stiamo alla ‘metafora dell’orchidea’ (Sodoma e Gomorra) cha Marcel amava portare all’occhiello, mentre risulta palese se consideriamo una sua affermazione rimasta famosa: “Il cinismo è il profumo della vita, la procrastinazione il suo diffusore”. Ed è ancora Lorenza Foschini a informarci inoltre, (attraverso la scrittura di Paul Morand), che Marcel vestiva a quel modo dall’età di vent’anni. Non aveva mai cambiato abbigliamento, dando così l’impressione che per lui il tempo si fosse fermato. La sua immagine appariva come fissata negli anni della gioventù, come imbalsamata. A chi lo vedeva la prima volta dava la sensazione di un’apparizione:

«Un uomo pallidissimo insaccato in un vecchio cappotto foderato di pelliccia … folti capelli neri tagliati sulla nuca, alla moda del 1905, sollevavano sul dietro la sua bombetta grigia. La mano inguantata di capretto lucido color ardesia reggeva un bastone; le guance d’avorio opaco si ombravano verso il basso di un azzurro tenue … i denti erano grandi e belli; i baffi facevano risaltare le labbra marcate; le palpebre bistrate sovraccaricavano lo sguardo vellutato, profondo, velandone il magnetismo … Camminava con una sorta di lentezza impacciata, o meglio, non camminava, ma ‘appariva’ come un ombra nata dal vapore dei suffumigi, il viso e la voce mangiati dalla consuetudine della notte.»

È questo il Marcel Proust, malato e stanco vicino ormai alla fine, che ci viene incontro dalle pagine di questo libro prezioso, (impreziosito dalle immagini d’epoca in esso contenute) nel modo in cui non ce lo saremmo mai aspettato e che, al tempo stesso, ci sorprende e ci aiuta a comprendere la dedizione dello scrittore che non smette di scandagliare nelle peculiarità dell’esistenza umana, fino ad annullare se stesso in favore della propria opera letteraria. Mai si era conosciuta una generosità tale da strappare alla morte che lo incalzava attimi di vita per comporre la parola fine. Lui, il narratore instancabile della ‘Recherche’ non poteva che trasmetterci messaggi discontinui, se egli stesso si trascinerà poi come la controfigura di se stesso, nella figura dello scrittore tout court, che trascorrerà lunghissimi anni in una camera foderata di sughero, “..lontano da quella realtà di cui cerca di registrare i segnali, anche i più impercettibili, con il solo strumento - la scrittura - di cui dispone” (Lavagetto).
Ma di cosa disponeva a sua volta la nostra Lorenza Foschini nel redigere “Il cappotto di Proust”? Come lei stessa ci dice: ‘di un’ossessione letteraria’ e aggiungo ‘di un amore a lungo meditato’ che l’ha condotta a incontrare Piero Tosi, lo straordinario costumista viscontiano, il cui riconoscimento a livello internazionale supera di gran lunga ogni immaginazione, che la indirizza al Musée Carnavalet, e mi piace immaginare che quasi l’accompagna nella ‘ricerca del tempo perduto’, fino a sfiorare quel liso cappotto, ‘come fosse una reliquia’, scriverà in seguito.
Parigi, Musée Carnavalet, rue de Sevigné, è qui che Lorenza Foschini è arrivata a scovare, ‘il cappotto’ dimenticato in una scatola di cartone: “Mi avvicino lentamente a piccoli passi, sorridendo per l’imbarazzo e mi accosto al tavolo. Davanti a me c’è il cappotto, adagiato sul fondo della scatola, posato su di un grande foglio come su di un lenzuolo: irrigidito dall’imbottitura di carta che lo riempie, sembra davvero rivestire uin morto. Dalle maniche, anch’esse imbottite, escono ciuffi di velina. Mi sporgo di più, piegandomi sul piano di metallo dove è poggiata la scatola, mi sembra che vi sia al suo interno un fantoccio senza testa e senza mani. Pieno, corpulento, con un ventre sporgente”.
Ed è così che l’autrice di questo felice libello ci narra la storia del suo ritrovamento, affidandosi alla potente e molto proustiana capacità evocativa degli oggetti, nel ricostruire le vicende di alcuni dei personaggi che hanno gravitato intorno alla vita dell’illustre scrittore. Al tempo stesso – avverte l’editore – “Il cappotto di Proust” è un’elegante e (‘dandistica’) rievocazione della società parigina di inizio secolo, popolata di scrittori e artisti di rilievo, ed anche, un sentito omaggio ai particolari più umili dell’esistenza: “perché proprio le cose più comuni come un vecchio e liso cappotto, possono talvolta “svelare scenari di inaspettata passione”.

Lorenza Foschini è giornalista RAI, autrice e conduttrice di trasmissioni di successo, ha realizzato numerosi documentari e programmi di approfondimento. Fra i suoi libri, oltre a una traduzione di inediti proustiani, ricordiamo ‘Ritorno a Guermantes’, e ‘Misteri di fine millennio’.

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- Religione

VATICANO ... ’Habemus Papam!’

VATICANO … CHI COMANDA?
Habemus Papam!

Jorge Mario Bergoglio: "Quando camminiamo senza la croce, siamo mondani. Siamo vescovi, preti, cardinali, papi, ma non discepoli del Signore".

La prima omelia di papa Francesco, giovedì 14 marzo, nella Cappella Sistina con i cardinali che l'hanno eletto, ai quali ha anche raccomandato di chiedere scusa a Dio per quello che hanno fatto.

“Quindi, la digressione di S.S. Benedetto XVI avanza una 'uguaglianza' con il comune mortale che - a mio parere - non può e non deve prestare il fianco, pena la decadenza dei fedeli verso il riconoscimento di un Capo Spirituale alla guida della Chiesa che, invece, dovrebbe essere 'a divinis', come sempre si è creduto fino ai nostri giorni. E' dunque un atto, per quanto rispettabile, non condivisibile in seno ai credenti, che potrebbe creare (e sicuramente creerà) un defoult del potere della Chiesa di Roma, già in seria difficoltà. Ciò malgrado il Santo Padre Benedetto XVI abbia più volte affermato che non si abbandona la 'barca' quando sta affondando. Di certo è questo un atto maldestro che non resterà senza conseguenze”.


Ricordate? C’eravamo lasciati con queste parole e qualcuno di voi aveva sollevato qualche incertezza e qualche commento discordante. Ma quel ‘chi comanda?’ lasciato in sospeso, aveva una sua ragione d’essere, perché infine la risposta è arrivata con l’elezione in tempi rapidi del nuovo Pontefice di Roma S.S. Francesco, alias Jorge Mario Bergoglio del quale personalmente mi dico soddisfatto per molte ragioni di cui in primis il suo non essere un cardinale proposto dalla Curia Romana, quindi com’egli stesso ha affermato, proveniente da ‘quasi alla fine del mondo’ riferito al subcontinente sudamericano. Lo stesso nome che ha scelto ‘Francesco’ ci dice (e ci avverte) ch’è giunto il tempo di un ridimensionamento dello sfolgorio luccicante della Chiesa in tutti i sensi, a cominciare da un certo rigore ecclesiale che sembra smarrito nei meandri della modernità e che và recuperato, ne vale la credibilità stessa della missione cristiana e cattolica della Chiesa di Roma, e di cui soprattutto i fedeli sentono il bisogno.
Non necessariamente un ritorno alle origini, tuttavia il sentirsi uomo fra gli uomini, il richiamo all’uguaglianza, alla sobrietà dei costumi, alla missione pastorale della fede, alla necessità di essere illuminato nel proprio cammino dalla preghiera e dal sostegno dei credenti è insieme un atto di ‘umiltà’ grandioso, che ci sorprende in una così alta autorità di uno stato e di una diocesi come quella di Roma, quasi avessimo dimenticata l’esistenza di questa parola. L’invito alla preghiera, quell’attimo di silenzio straordinario e immenso che ci ha lasciato tutti commossi e sorpresi tanto è stato intenso, ci ha infine ricondotti a quell’eternità della morte che non dobbiamo temere ma abbracciare insieme con la croce di Cristo.
Benvenuto dunque di qua del grande mare oceano al messaggero di fede cristiana, venuto a ricordarci chi siamo, da dove siamo partiti e dove infine siamo chiamati a tornare, affinché non ci si dimentichi delle radici, dei porti da cui siamo salpati per questa nostra avventura umana. Allo steso modo ricordandoci di tutti coloro che abbiamo lasciato indietro, oltre ai nostri avi, ai nostri figli e fratelli in giro per il mondo, ai nostri vicini che dobbiamo accogliere in comunione e condividere con essi ciò che abbiamo e che loro non hanno, ciò che, dobbiamo ricordarcelo, non è mai stato nostro e che lasceremo qua, su questa terra, perché nulla è dato all’anima di tutto ciò che è superfluo.
La politica dello Stato Vaticano per il momento passa in secondo ordine, non perché non ci riguardi, bensì perché vogliamo vedere se sulla scia di San Francesco assisteremo a ‘fatti’ rivoluzionari pari a quelli che ne hanno decretato la sua santità e che, lo spero vivamente, ci faranno ricredere sulla missione stessa della Chiesa. Fatto è che la svolta c’è stata ed è eclatante. Non è affatto un caso che Papa Francesco, appartenga a una delle più antiche istituzioni del mondo, quella della Compagnia di Gesù i cui  ordinati sono particolarmente impegnati nelle missioni e nell'educazione. Va qui ricordato che i Gesuiti osservano il ‘voto’ di totale obbedienza al Papa di Roma e all’osservanza di una disciplina ferrea talvolta ‘inqiuetante’, ciò a dire che l’osservanza delle ‘regole’ sarà al primo posto nella conduzione del pontificato di S. S. Francesco.
Questo a ribadire che i poteri ‘forti’ sono scesi in campo e ‘..chi comanda’ ha la possibilità di legiferare 'pro' certe tendenze liberaliste ed evoluzioniste o, diversamente 'contro' ogni innovazione che distolga o addirittura sconvolga le leggi fondamentali della Chiesa dal suo mandato originario, cioè quello dei padri fondatori la sua costituzione. Staremo a vedere, i presupposti sembrano dare l’indicazione di un maggior rigore che tuttavia non ci dispiace. Fatto è che in un momento così difficile la Chiesa, logorata dagli scandali e dalla crisi finanziaria, vuole tirare su la testa e recuperare quella credibilità che l’ha fatta grande agli occhi del mondo. Il ‘credito’ e le ‘menti’ certo non le mancano e la ‘visione investigativa’ d’inizio ha già dato i primi risultati previsti, con una operazione di marketing a dir poco prestigiosa, nel momento in cui lo ‘sfascio’ dello stato italiano la sta travolgendo.
Tra i ministeri ai quali fin dall’inizio, dal suo fondatore Sant Ignazio di Loyola, i Gesuiti devono attendere, insieme alla catechesi, alla predicazione, alle lezioni sacre e al servizio della parola di Dio, la Formula del 1550 cita la "consolazione spirituale dei credenti, con l'ascoltarne le confessioni e con l'amministrazione degli altri sacramenti". Che dire, speriamo che un poco di quella consolazione arrivi fino a noi, diseredati da una crisi giunta inopportuna, ma grazie alla quale è venuto a galla ‘ciò che siamo’ (tutto il marcio che c'è in noi), pur se abbiamo mantenuta intatta la speranza di ‘ciò che vorremmo essere’.

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- Musica

GABRIELLA FERRI ... ’Sempre!’

GABRIELLA FERRI … ‘Ieri, Oggi, Sempre!’

‘Anche tu così presente, così sola nella mia mente ...’ , nel panorama della musica italiana e di quella romana in particolare Gabriella Ferri ha portato al nostro patrimonio culturale canzonettistico un contributo incalcolabile, non da ultimo per aver riproposto testi passati nel dimenticatoio ed altri di nuova composizione di pregevole fattura. Pur sempre sulla scia di una certa popolarità autentica, tipica della canzone romana, possiamo ben dire che la Ferri rappresenta un ‘a sé’ che la distingue dall’essere semplicemente folkloristica, specialmente quando, dopo i primi dischi di esordio come interprete delle canzoni popolari romanesche e napoletane, intraprese la carriera di ‘show-woman’ a tutto tondo, con “Stasera Cabaret”, “MazzaBubù”, “Sempre” ed altre importanti interpretazioni, impressionando, è il caso di dire, l’allora sterminata platea televisiva.

Nata e cresciuta nel rione romano di Testaccio, poi trasferitasi in via Etruria a San Giovanni, è figlia di Vittorio, un commerciante ambulante di dolci, ammiratore della canzone in dialetto romanesco. L’occasione la fa incontrare con Luisa De Santis (figlia del regista Giuseppe, celebre per 'Riso amaro') e ne diviene molto amica: insieme danno vita a un duo, con il nome di Luisa e Gabriella, che cerca di riscoprire il filo sottile che lega la canzone romana al folklore. Iniziano così i primi spettacoli, basati sul repertorio tradizionale della canzone romanesca come ‘Barcarolo romano’ e i canti da osteria come appunto erano gli ‘Stornelli romani’ ecc. Una sera, e siamo nel 1964, all'Intra's Club di Milano (in quel periodo sono ospitate da Camilla Cederna), vengono notate da Walter Guertler, che le mette sotto contratto e pubblica il loro primo 45 giri per l'etichetta discografica Jolly contenente una rielaborazione del brano popolare ‘La società dei magnaccioni’. Sempre nel 1964 le due ragazze hanno la prima esperienza in televisione, nella trasmissione 'La fiera dei Sogni' presentata da Mike Bongiorno in cui cantano 'La società dei magnaccioni' che, nei giorni seguenti all'apparizione televisiva, vende un milione e settecentomila copie di dischi, diventando uno degli inni dei giovani di quegli anni, anche se a me piace qui riproporvi i testi di alcuni 'Stornelli' tipici, la cui autenticità sta tutta nel 'sentire' umano della vera vgente romana:

“ROMA BELLA, ROMA MIA”

De li giaridini semo li mughetti
semo romani e'n più trasteverini
no pe' vantasse semo li più perfetti
cantamo tutti e semo ballerini.
Se dice gente allegra dio l'aiuta noi
semo allegri e voi sapè perché
ogni tanto na mangata e na bevuta
e tutto quanto er resto viè da se.
Semo romani, trasteverini
semo signori senza quatrini
ma er core nostro è na capanna
core sincero che nun t'inganna.
Se stai in bolletta noi t'aiutamo
però da micchi nun ce passamo
noi semo mangiatori de spaghetti
delle trasteverine li galletti.
Famo li pranzi mejio de Nerone
bevemio er vino co la cunculina
n'abbacchio in quattro credi va benone
e pe antipasto ognuno na gallina
na ciumachella che te brilla er core
che te vo bene e non te sa sa mentì
na serenata che sussura amore
me dichi amoco dove voi morì.
le milanesi con le toscane
se impareranno a parlà romano
e se diranno: <<s'annamo a beve 'n'antra foglietta>>.
La veneziana, ch'è fumantina,
la chiameremo cor nome Nina,
e le baresi e le napoletane…
lassatele passà che so' Romane!
Roma bella, Roma mia,
te se vonno portà via
er Colosseo co' Sampietro,
già lo stanno a contrattà.
Qui se vonno venne tutto
cielo sole e staria fresca
ma la fava romanesca
gliela potemo arigalà
venite tutti a Roma v'aspettamo
se dice che più semo e meglio stamo.
se dice che più semo e megio stamo.

Nel 1965 l’etichetta Jolly immette sul mercato un nuovo singolo delle ormai diventate 'artiste' che attingono questa volta al folk siciliano incidendo una loro personale versione di ‘Sciuri sciuri’ e ‘Vitti 'na crozza’, ed anche questo secondo singolo riscuote un discreto successo cui fa seguito un terzo 45 giri contenente la ‘La povera Cecilia’, una canzone tradizionale spesso cantata dai menestrelli e sul lato B ‘È tutta robba mia’, presa a prestito dallo spettacolo 'La manfrina' musicata da Ennio Morricone. Il duo però ha vita breve, a causa della timidezza di Luisa che non ama cantare in pubblico; Gabriella continua quindi da sola, incidendo anche un album apparso nel 1966. Nello stesso anno è in tournée in Canada con uno spettacolo teatrale di musica popolare per  la regia di Aldo Trionfo, assieme ad altri esponenti del folk italiano, quali Caterina Bueno, Otello Profazio e l'attore Lino Toffolo.

“FIORI TRESTEVERINI”

Quanno c'è 'r sole cò quer manto d'oro
pè tutto Lungotevere è 'na festa!
Li regazzini giocheno tra loro
le madri se li stanno a rimirà
quanta tranquillità! Ma ammalappena
spunta la prima stella: se cambia scena.
Lì sotto l'arberi de Lungotevere
le coppie fileno li baci scrocchieno...
si nun sei pratico de regge moccoli
pè Lungotevere nun ce passà!
Io m'aricordo sempre a San Lumino
cò li lampioni a gasse de 'na vorta
se dava quarche sordo a 'n regazzino
de corsa te l'annavaveno a smorzà
mò quelli posti poco illuminati
de prima sera già sò accaparati!
Lì sotto l'arberi de Lungotevere
le coppie fileno li baci scrocchieno...
si nun sei pratico de regge moccoli.

Dopo gli anni passati a Milano, torna a Roma alla fine del 1966, e approda al Bagaglino di Roma di cui diventa la cantante ufficiale; qui conosce Piero Pintucci, che diventerà suo collaboratore musicale abituale, col quale nel 1968 incide un 45 giri per la ARC, ‘È scesa ormai la sera’, che in Italia non ha un grosso riscontro commerciale. Il lato 'b' di questo singolo, ‘Ti regalo gli occhi miei’, raggiunge però i vertici delle classifiche in Sudamerica e Gabriella lo incide in lingua spagnola con il titolo ‘Te regalo mis ojos’ vendendo svariati milioni di copie. In seguito intraprende un tour nei paesi sudamericani con strepitoso successo per poi tornare a esibirsi al Bagaglino con Enrico Montesano.

Successivamente fa qualche sporadica apparizione col suo repertorio romanesco al Folkstudio di Roma, ma è una cantante già troppo nota per un locale underground e poi è già impegnata con il Bagaglino. Non disdegna comunque il beat, e si esibisce anche al Piper Clu. Dopo aver firmato un nuovo contratto discografico con la RCA Italiana, partecipa nel 1969 al Festival di Sanremo ma, nonostante presentasse, in coppia con Stevie Wonder, una bella canzone con sonorità beat e rhythm'n'blues, scritta da Gabriella insieme al padre Vittorio e a Piero Pintucci, intitolata ‘Se tu ragazzo mio’, l'artista viene eliminata al primo turno e forse per questa ragione Gabriella a Sanremo non tornerà mai più.

“SEI TU RAGAZZO MIO”

Se tu ragazzo mio
sei sempre triste e solo
non vita non aspetta
e se ne va
se prendi la mia mano
insieme correremo
verso il nostro mondo
l'amore nascerà.
I fiori sono alti
il cielo vedi è azzurro
la gente per le strade
ti sorride come me
rivedo il tuo sorriso
è nato il nostro mondo
non essere più triste
sei vicino a me.
Nasce un grande mondo anche per te
l'amore sta nascendo dentro me
la vita ti sorridere accanto a me
vedrai vedrai
nasce un grande mondo anche per te
l'amore sta nascendo dentro me
la vita ti sorridere accanto a me
vedrai vedrai.
Guarda il sole d'oro
illumina il tuo viso
qualcuno ha già capito
quanto amore che c'è in te
adesso non sei solo
un sogno s'è avverato
stringimi la mano
sei vicino a me.
Nasce un grande mondo anche per te
l'amore sta nascendo dentro me
la vita ti sorridere accanto a me
vedrai vedrai
nasce un grande mondo anche per te
l'amore sta nascendo dentro me
la vita ti sorridere accanto a me
vedrai vedrai.
Nasce un grande mondo anche per te
l'amore sta nascendo dentro me
la vita ti sorridere accanto a me
vedrai vedrai
nasce un grande mondo anche per te
l'amore sta nascendo dentro me
la vita ti sorridere accanto a me
vedrai vedrai.

Il disco comunque è un successo, e la canzone viene reinterpretata da molti altri artisti come I Camaleonti e Nada: questo spinge la RCA a pubblicare alla fine del 1969 l'album Gabriella Ferri, in cui canzoni più moderne si affiancano a brani della tradizione come ‘Ciccio Formaggio’. Il disco segna un passo importante nella vita di Gabriella anche per il tentativo di creare una nuova canzone romanesca che si riallacci alla tradizione: emblematiche in questo senso sono ‘Sor fregnone’, scritta dalla Ferri su una musica di Vittorio Nocenzi (il tastierista del Banco del Mutuo Soccorso), e ‘Sinnò me moro’, canzone scritta nel 1961 dal regista Pietro Germi su musica di Carlo Rustichelli per il film 'Un maledetto imbroglio' e cantata dalla figlia di Rustichelli, Alida Chelli (Gabriella l'aveva già incisa nel 1963 con Luisa De Sanctis).

Nel corso degli anni si appropria delle canzoni, vecchie o nuove non importa, che le danno la possibilità di costruire dei veri e propri numeri, quasi delle «macchiette», nelle quali però non c'è imitazione dei vecchi artisti napoletani ma il filtro di una personalità esuberante e irrefrenabile: così ‘Dove sta Zazà?’, che nel dopoguerra era stata il simbolo dell'Italia dissolta (Dove sta Zazà/Uh Madonna mia) tornava a essere nella sua interpretazione un brano intriso di perfidia e di amarezza, lo stesso fa con ‘Ciccio Formaggio’, vecchio brano cantato da Nino Taranto. Negli anni '70 aumentano le sue apparizioni in televisione: una serata speciale le era stata dedicata nel 1971, 'Questa sera... Gabriella Ferri', e verso la metà degli anni settanta aveva condotto per la televisione anche i varietà 'Dove sta Zazà' (1973), che prese il titolo dal motivo di successo che aveva contribuito a rilanciare, il 'Circo delle voci' (1974) e 'Mazzabubù' (1975).

Dopo l'esperienza televisiva di 'Giochiamo al varieté' (1980) e l'incisione di un disco con alcune canzoni scritte per lei da Paolo Conte (Gabriella, nel 1981, con la celebre 'Vamp'), si trasferì per qualche tempo negli USA, lasciando televisione e cabaret per dedicarsi unicamente alla musica. Rientrata in Italia nel 1987 incide la sigla del varietà televisivo 'Biberon'. Le sue due ultime uscite artistiche di rilievo avvengono nel 1996 al Premio Tenco di Sanremo dove si esibisce con la Piccola Orchestra Avion Travel e nel luglio del 1997 con un concerto a Parco Celimontana a Roma (inclusa nella manifestazione 'Voglia Matta Anni 60') davanti a 7.000 spettatori (se ne aspettavano un migliaio). Ancora nel 1997 incide l’album, 'Ritorno al futuro', poi il ritiro definitivo dalle scene, anche a causa di ricadute nella grave depressione che la tormentava a fasi alterne da anni; a parte qualche sporadica apparizione in spettacoli televisivi, scelse di condurre vita ritirata.

La sua ‘conferma’ in ambito internazionale avvenne però con un album dal titolo ‘Remedios’ (1974), titolo della canzone omonima contenuta nell’album, che vedeva Gabriella impegnata in brani senza età che facevano parte del patrimonio tradizionale dei paesi dell’America Latina, dalla Spagna a Cuba, al Messico e di ritorno all’Italia: ‘La paloma’ (testo e musica di Sebastiàn Iradier; ‘Grazie alla vita’ (testo italiano di Gabriella Ferri; testo originale e musica di Violeta Parra; ‘Cielito lindo’ (testo e musica tradizionali messicani), ‘Remedios’ (testo e musica di Gabriella Ferri), ‘La Malaguena’ (testo di Pedro Galindo; musica di Elpidio Burgos Ramirez; ‘La Cucaracha’ (testo e musica tradizionali messicani, ‘Semo in centoventitré’ (testo e musica tradizionali); ‘Nina, si voi dormite’ (testo e musica di A. Marino e R. Leonardi; ‘Canto de malavita’ (testo anonimo, musica di Gabriella Ferri; ‘E dormi pupo dorce’ (testo e musica di Gabriella Ferri); ‘Fiori trasteverini’ (testo e musica di Romolo Balzani); re-interpretati con enfasi nuova, e calibrate negli arrangiamenti da Maurizio e Guido De Angelis tendenti a valorizzare il timbro personale e le potenzialità canore dell’artista.

“REMEDIOS”

Remedios, niña pequeña, chiquita, hermosa, preciosa
Linda niñita quedada así, sentada en la orilla del mar
y las manos llenas de perlas
el sol en tu frente y en la sonrisa
blanca orquidea, alma y paloma
y la alegría, tú cantas consuelo,
tú cantas esperanza, tú cantas remedios,
espera que un día yo pueda decirte:
"te quiero pequeña, chiquita, preciosa,
hermosa, piccola, piccola, piccola, piccola, pico, pico, pico..."
Tu historia, una vez, nos la contó,
dios, tu hermanito con su guitarra,
tú estabas dormida baja la luna,
tú estabas feliz, pequeña Remedios,
espera que un día yo pueda decirte:
"te quiero, pequeña, chiquita, preciosa,
hermos, piccola, piccola, piccola,
piccola, pico, pico, pico..."
El sol en tu frente y en la sonrisa,
blanca orguidea, alma y paloma
y la alegría, tú cantas consuelo,
tú cantas esperanza, tú cantas remedios
espera que un día yo pueda decirte:
"te quiero, pequeña, chiquita, preciosa,
hermos, piccola, piccola, piccola,
piccola, pico, pico, pico..."

Il suo testamento spirituale è rintracciabile nella lunga raccolta di ‘Canti DiVersi’ dove, tra ritmi jazz, tanghi e flamenchi, con un incedere interpretativo e voce struggente che ricorda da vicino Amália Rodrigues (Coimbra), interpreta canzoni sue e di autori celebri come Paolo Conte nell'autoironica 'Vamp', Luigi Tenco 'Lontano lontano', Ennio Morricone 'Stornello dell'estate'. Ma ancor più in brani come ‘Una donna sbagliata’, ‘Sono partita di sera’, ‘È scesa ormai la sera’, una commovente ‘Via Rasella’: ("Via Rasella, Via Rasella t'hanno messo a pecorone ... maledetto sto' dolore ..."), e un altrettanto struggente ‘O sole mio’. Nel 2007 la sua canzone, ‘Remedios’, viene inserita nella colonna sonora del film ‘Saturno contro’ di Ferzan Ozpetec, e nell'album omonimo pubblicato nel Marzo 2007.

Ebbene, va qui detto che la popolarità raggiunta da Gabriella Ferri altro non fu che il riconoscimento oltre che della sua voce originalissima, di un saper sfruttare certe qualità di attrice teatrale drammatica, precipue del mimo e del clown, e che sono proprie dell’interpretazione ‘partecipata’ di ogni artista autentico. Chi non rammenta alcune sue apparizioni televisive in cui l’interprete era tutt’uno con il personaggio rappresentato, autentico perché sincero, non costruito a tavolino o dietro la macchina da presa. Era quella infatti la Gabriella più veritiera, graffiante e ironica che tutti conoscemmo in quei giorni, uscita clamorosamente allo scoperto dopo un successo di pubblico clamoroso che l’aveva sommersa di applausi a tal punto che, a un certo momento, si trovò costretta a interrompere con un suonante e altrettanto commosso “… e vammoriammazzati!” tipico, quanto bonario intercalare romanesco, che secondo l’inflessione, significa anche apprezzamento per il tripudio ricevuto.

Le canzoni cantate da Gabriella Ferri arrivarono sulla bocca di tutti, grandi e piccini, che ne ripetevano i ritornelli più conosciuti. Ed erano canzoni quelle che talvolta riemergevano dagli antichi canti di barcaioli, di carcerati, di morti ammazzati, ma anche di sincero amore per l’amato/a, per la città che le aveva dato i natali, quella Roma cui Gabriella Ferri amava fino allo stremo delle sue forze, e che infine, quando giunse a non riconoscerla più, preferì lasciare, esiliandosi in completo abbandono, fino alla fine ai suoi giorni.

Qualche benpensante del bel canto la definì una voce audace, a volte sfacciata, a significare ‘senza vergogna’. Ma di che si sarebbe dovuta vergognare Gabriella Ferri, del suo essere popolare? Del suo essere donna? O del suo essere ‘diversa’ da tutte le altre che, in certi casi senza arte né parte, in quegli anni riempivano la scena musicale italiana? Erano quelli alcuni degli appellativi che pure si era involontariamente accaparrati, ma noi oggi, a distanza di anni, dobbiamo riconoscergliene soltanto uno: ‘BRAVA’, scritto a lettere maiuscole, anche quando lasciava andare la ‘voce’ giocherellando con le note, qua e là andando fuori tempo con qualche gorgheggio in più del dovuto, ma che rientrava nella sua personalità canora e che Gabriella istintivamente inseriva, allo stesso modo che fossero vecchie canzoni o di nuova e originale composizione, e che le permettevano di mettere a fuoco quella commozione e quella gioia tipiche delle persone semplici, dei cuori infiammati dalla passione e dalla profonda umanità che l’animava.

È Gabriella stessa a fornirci la chiave della sua popolarità derivata dalla sua personale convinzione: “…che certe canzoni, siano esse d’origine araba, gitane, sudamericane, napoletane, romane, hanno tutte una comune matrice sanguigna, popolare e umana, che si ritrova nelle modulazioni della voce, di poca limpidezza, talvolta violenta, aggressiva, oppure dolce e melodiosa, come fossero un unico canto” – come disse durante l’intervista cui fa riferimento l’articolo da cui è tratta, e in “Super Sound” del 24 giugno 1974.

Al limite includo, (e rischio grosso nell’affermarlo), che la sua voce può essere simbolicamente paragonata alla stessa famiglia musicale del ‘blues’. Sto forse esagerando? È possibile, anche se il mio non è un commento musicalmente colto, ma viene da una certezza emozionale che mi porto dentro. Infatti credo fermamente che Gabriella Ferri sentisse e volesse cantare tutto ciò che amava davvero, per cui merita il nostro più sincero “BRAVA!” gridato con entusiasmo e il nostro applauso. E che per questo ha saputo conquistarsi nel pur piccolo spazio del nostro cuore un unanime quanto lusinghiero ‘sempre!’.

“SEMPRE” - (testo Mario Castellacci, musica Franco Pisano)

Ognuno è un cantastoria
tante facce nella memoria
tanto di tutto tanto di niente
le parole di tanta gente.
Tanto buio tanto colore
tanta noia tanto amore
tante sciocchezze tante passioni
tanto silenzio tante canzoni.

Anche tu così presente
così solo nella mia mente
tu che sempre mi amerai
tu che giuri e giuro anch'io
anche tu amore mio
così certo e così bello.
Anche tu diventerai
come un vecchio ritornello
che nessuno canta più
come un vecchio ritornello.

Anche tu così presente - sempre
così solo nella mia mente - sempre
tu che sempre mi amerai - sempre
tu che giuri e giuro anch'io - sempre
anche tu amore mio - sempre
così certo e così bello.

Anche tu diventerai
come un vecchio ritornello
che nessuno canta più
come un vecchio ritornello
che nessuno canta più.


Albums:
• 1966: Gabriella Ferri (Jolly LPJ 5072)
• 1968: Roma mia bella (Joker SM 3040)
• 1969: Roma canta (Joker SM 3041)
• 1970-06: Gabriella Ferri (RCA Italiana PSL 10463)
• 1970-10: ...Lassatece passà (RCA Italiana PSL 10480)
• 1971-11: ...E se fumarono a Zazá (RCA Italiana PSL 10515)
• 1972-05: L'amore è facile, non è difficile (RCA Italiana PSL 10534)
• 1972: Gabriella, i suoi amici...e tanto folk (Amico ZSKF 55083)
• 1973-05: Sempre (RCA Italiana DPSL 10588)
• 1974-04: Remedios (RCA Italiana TPL 1-1046)
• 1975: Mazzabubù (RCA Italiana TPL 1-1162)
• 1977: ...E adesso andiamo a incominciare (RCA Italiana PL 31281)
•1977: ...E adesso andiamo a incominciare (RCA Italiana PL 31305 con i Pandemonium)
• 1981, Gabriella (RCA Italiana PL 31595)
• 1987: Nostargia (Fonit Cetra LPX 184)
• 1997: Ritorno al futuro (Genius/BMG Ricordi 74321 487092
• 2000: Canti diVersi (Rossodisera/EMI Italiana RDS 20005)

*

- Musica

SERGIO ENDRIGO : ’La favola dell’uomo’

SERGIO ENDRIGO: 'LA FAVOLA DELL’UOMO'

Nel momento in cui la scena musicale italiana si arricchisce di nuove voci e volti, mentre altre e altri si accomiatano da noi, mi piace ricordarne alcune in particolare che pure ci hanno regalato momenti intensi che possiamo rivivere nell’ascolto delle loro canzoni, riassaporare quel tanto di generoso che c’era nelle loro parole, negli arrangiamenti e nelle musiche scritte appositamente per accompagnare quei sentimenti che talvolta riuscivano a smuovere in noi; a dare forma alla ‘colonna sonora’ dei nostri accadimenti personali. Che, appropriarsi di un motivo, di fare nostre certe frasi d’amore, o ricalcare certe emozioni che a loro volta noi stessi, ancor giovani, avevamo provate, è sempre stato uno sport molto in voga. Chi altro ci avrebbe suggerito certe frasi ‘spicciole ma ficcanti’ che poi avremmo utilizzate nel linguaggio quotidiano, in situazioni a dir poco, emotive e sentimentali. Quante canzoni ancora oggi a riascoltarle ci smuovono dentro quei ricordi che giacciono in fondo, o magari in cima, alla nostra anima sensibile e catturano la nostra attenzione, quante? E che il solo riascoltarne le frasi d’avvio riaffiorano alla nostra mente come se le avessimo scritte e cantate noi stessi, ieri, oggi, sempre, e che fanno ormai parte della nostra storia personale, o del film che un tempo, una volta, ci siamo fatti con la regia del nostro cuore, quante? O che hanno segnato ‘i migliori anni della nostra vita’ (dal titolo omonimo proprio di un vecchio film di William Wyler degli anni ’40; di una canzone portata al successo da Renato Zero; di una ormai famosa trasmissione televisiva condotta da Carlo Conti), quante? Tra le tante voci che ritornano ho scelto quella di Sergio Endrigo e le canzoni che ci ha lasciate: ‘Adesso si’, ‘Se le cose stanno così’, ‘Lontano dagli occhi’, ‘Io che amo solo te’, ‘Canzone per te’, ‘Era d’estate’, ‘Gli uomini soli’, ‘Marinai’, ‘Il dolce Paese’ ecc. ecc.


‘ADESSO SÌ’ – Ed.: Fonit Cetra Music Publishing S.r.l.

Adesso si
Adesso che tu vai lontano
Sono acqua chiara
Le nostre lacrime
E non servono più

Adesso è tardi
Per ritrovare le parole
Che tante volte
Volevo dirti
E non ho trovato mai

Senza di me
Tu partirai per altri mondi
Ti perderai
Tra gente e strade sconosciute
Non ci sarò
Quando qualcuno mi ruberà
Gli occhi tuoi

Adesso si
Adesso che tu vai lontano
Il mio pensiero
Ti seguirà
Sarò con te
Dove andrai ... Dove sei.

Di lui sappiamo che è nato a Pola il 15 Giugno del 19…; ma che importanza può avere l’età, i poeti non hanno età, specialmente quando le loro canzoni sopravvivono ad essi e continuano a regalarci ancora tante emozioni. Dopo diverse attività giovanili ha intrapreso la carriera di cantante al Lido di Venezia: “..era un bar all’aperto (è lo stesso Endrigo a raccontarlo dopo una ripresa televisiva), dove un quartetto suonava canzoni italiane per i turisti durante l’estate. Terminata la bella stagione, continuai a cantare in una sala da ballo di Mestre per tutto l’inverno. Mi esibivo il giovedì, il sabato e la domenica. Di orchestra in orchestra e di città in città sono riuscito a sbarcare il lunario per ben sette anni. Alla fine mi sentivo così stanco di cantare per ore e ore di filato con l’unica soddisfazione di ritirare la paga. Così decisi di tentare la strada discografica, ma non fu facile trovare compositori disposti a puntare una lira sulla mia voce, e così decisi di scrivere le canzoni da me”.


Una storia semplice, di un allora ragazzo determinato a mettersi in gioco, a cavarsela da solo ed esternare le proprie capacità facendone partecipi gli altri, tutti quei ‘noi’ che alla fine abbiamo cantato e ancora cantiamo le sue canzoni. Divenuto un cantante affermato Endrigo si trovò a raccogliere i frutti di un successo pacato, confidenziale, delle tante esperienze vissute che man mano si facevano più mature, quasi le sue canzoni volessero sottolineare una sua (e anche nostra), più intensa partecipazione alla vita.


‘ALTRE EMOZIONI’ di Endrigo / Incenzo - Ed Verba Manent / Noah’s Ark

E siamo arrivati fin qui
Un po’ stanchi e affamati di poesia
Le mani piene di amore
Che non vuole andare via
Abbiamo vissuto e fatto figli
Piantato alberi e bandiere
Cantato mille e più canzoni
Forse belle forse inutili
Altre emozioni verranno
Te lo prometto amica mia

E siamo arrivati fin qui
A cantare per chi vuol sentire
Abbiamo vissuto all’ombra
Di troppe false promesse
Oggi è tempo di pensare
Oggi è tempo di cambiare
E ancora cerchiamo e camminiamo
Sognando negli occhi
Di donne e uomini
Altre emozioni verranno
Te lo prometto amica mia

Abbiamo attraversato i deserti dell’anima
I mari grigi e calmi della solitudine
Abbiamo scommesso sul futuro
Abbiamo vinto e perso con filosofia
Altre emozioni verranno
Amica mia

E sono arrivato fin qui
Con questa faccia da naufrago salvato
E questo svelto andare
Da zingaro felice
Valige piene di speranza
Amici perduti e ritrovati
Qualche rimorso e pentimento
Senza rimpianti e nostalgia
Altre emozioni verranno
Te lo prometto amica mia

Abbiamo attraversato i deserti dell’anima
I mari grigi e calmi della solitudine
Abbiamo scommesso sul futuro
Abbiamo vinto e perso con filosofia
Altre emozioni verranno
Amica mia

Altre primavere verranno
Non di sole foglie e fiori
Ma una stagione fresca
Di pensieri nuovi
Altre emozioni verranno
Te lo prometto amica mia.

È così che ‘un po’ stanchi e affamati di poesia’ com’eravamo in quegli anni abbiamo apprezzato i suoi testi che, prima ancora di ricalcare un genere del tipo ‘ballata’ aprivano al confidenziale, in cui Endrigo andava raccogliendo i ricordi dismessi, il profumo dei giorni dell’amore, e li trasferiva in versi, nel realizzarsi di una sua visione del mondo, accettandone la buona e la cattiva e pur sempre umana sorte. E che lui stesso dedicava a una sua donna 'ideale' o forse amata, e gli apriva il suo cuore, come a quella: “Marianne che cos’è questa gran voglia che hai di correre.. non ti fermi mai.. se per sognare vendi i tuoi sogni, forse è disperata la tua gioventù (?)” . E' così che Endrigo compone, scrive, canta, ponendo in essere un aspetto del ‘sociale’ poco affrontato fino allora, se non dalla canzone di tradizione e da quella cosiddetta di 'protesta' che s'andava trasmettendo in quei lontani giorni.

‘DOVE CREDI DI ANDARE’ – Ed. Fonit Cetra Music Publishing S.r.l.

Dove credi di andare
Se tutti i tuoi pensieri
Restano qui
Come pensi di amare
Se ormai non trovi amare
Dentro di te

Con tante navi che partono
Nessuna ti porterà
lontano da te
Il mondo sai non ti aiuterà,
ognuno al mondo è solo
Come te e me

Dove credi di andare
Se il tempo che è passato
Non passerà mai
Povere le tue notti
Se tu le spenderai
Per dimenticare

Il mondo non è più grande
Di questa città
La gente si annoia ogni sera
Come da noi
Dove credi di andare
Se ormai non c’è più amore
Dentro di te

Con tante navi che partono
Nessuna ti porterà
Lontano da te
Il mondo sai non ti aiuterà,
Ognuno al mondo è solo
Come te e me

Dove credi di andare
Se il tempo che è passato
Non passerà mai
Povere le tue notti
Se tu le spenderai
Per dimenticare

Il mondo non è più grande
Di questa città
La gente si annoia ogni sera
Come da noi
Dove credi di andare
Se ormai non c’è più amore
Dentro di te.

Endrigo è stato più volte appellato il cantautore intellettuale per quel distacco che dimostrava nell’interpretare le sue canzoni e per quella sua voce stentata, a volte stereotipata che immancabilmente esprimeva in pieno la sua personalità di uomo e di cantautore impegnato, come in ‘La guerra’, ‘Perché non dormi fratello’, 'Canzone per la libertà’ ecc. ecc. Problematiche queste che egli ha saputo misurare, prendendo l’amore come metro di tutte le cose. Ma anche colui che ha vissuto personalmente le proprie canzoni, riscattandole, una dopo l’altra, nel momento creativo in cui trovava la sua ispirazione, e che dedicava al nome di una donna (di ogni suo amore segreto): ‘Maddalena’, ‘Annamaria’, ‘Teresa’, ‘Elisa’ e le tantissime altre che ci ha raccontate come solo un nostalgico avrebbe potuto fare. Si potrebbe parlare di Endrigo come colui che ha dichiarato al mondo il suo amore ‘per le piccole cose’ che all’improvviso, nelle sue parole diventavano ‘grandi’, di una grandezza ricolma di nobili sentimenti:

‘LONTANO DAGLI OCCHI’ – di Endrigo/Bardotti/Bacalov – Ed. Fonit Cetra Music.


Che cos’è?
C’è nell’aria qualcosa di freddo
Che inverno non è
Che cos’è
Questa sera i bambini per strada
Non giocano più
Non so perché
L’allegria degli amici di sempre
Non mi diverte più
Uno mi ha detto che

Lontano dagli occhi lontano dal cuore
E tu sei lontana lontana da me
Per uno che torna e ti porta una rosa
Mille si sono scordati di te
Lontano dagli occhi lontano dal cuore
E tu sei lontana lontana da me

Ora so
Che cos’è questo amaro sapore
Che resta di te
Quando tu
Sei lontana e non so dove sei
Cosa fai dove vai
E so perché
Non so più immaginare il sorriso
Che c’è negli occhi tuoi
Quando non sei con me

Lontano dagli occhi lontano dal cuore
E tu sei lontana lontana da me
Per uno che torna e ti porta una rosa
Mille si sono scordati di te
Lontano dagli occhi lontano dal cuore
E tu sei lontana lontana da me.

Oppure di un Endrigo trovatore medioevale che riafferma la validità del folklore: ‘Il treno che viene dal Sud’, ‘La ballata dell’ex’, ‘ Vecchia Balera’, ‘Via Broletto’, ‘San Firmino’ ecc. ecc. ma il discorso infine andrebbe comunque a cadere necessariamente sulla linea tradizionale dell’uomo politicamente impegnato, per poi divagare in concessioni a volte popolari (oggi diremmo populiste), altre fin troppo di parte, come ad esempio in ‘La Colomba’ da una poesia di Rafael Alberti, e ‘Anch’io ti ricorderò’ dedicata a Ché Guevara, e quella ‘Camminando e Cantando’ adattata da un testo del brasiliano Gerardo Vandré che fece il giro del mondo.

‘CAMMINANDO E CANTANDO’ - Endrigo/Bacalov - Ed. Fonit Cetra Music Publishing.

Camminando e cantando la stessa canzone
Siamo tutti uguali chi è d'accordo e chi no
Nelle fabbriche, a scuola, nei campi in città
Camminando e cantando la stessa canzone

Fa chi vuole fare e chi vuole andare va
Chi è stanco di aspettare una strada troverà
Fa chi vuole fare e chi vuol sapere sa
Che la speranza è un fiore ma frutti non ne dà

Il soldato armato, amato o no
Con in mano il fucile non sa cosa fa
In caserma si insegna una antica lezione
Di morir per il re e non sapere perchè

Fa chi vuole fare e chi vuole andare va
Chi è stanco di aspettare una strada troverà
Fa chi vuole fare e chi vuol sapere sa
Che la speranza è un fiore ma frutti non ne dà

Nelle fabbriche, a scuola, nei campi in città
Siamo tutti soldati armati o no
Camminando e cantando la stessa canzone
Siamo tutti uguali chi è d'accordo e chi no

Nella mente l'amore e negli occhi la gioia
La certezza nel cuore, nelle mani la storia
Camminando e cantando la stessa canzone
Imparando e insegnando una nuova canzone

Fa chi vuole fare e chi vuole andare va
Chi è stanco di aspettare una strada troverà
Fa chi vuole fare e chi vuol sapere sa
Che la speranza è un fiore ma frutti non ne dà


Non in ultimo in ‘L’Arca di Noè’ che gli fruttò il riconoscimento della critica italiana per il miglior testo letterario (oltre alla soddisfazione di vedersi assegnato il disco d’oro per aver venduto un milione di copie):


‘L’ARCA DI NOÈ’ di Endrigo/Bacalov Ed. Fonit Cetra Music Publishing.

Un volo di gabbiani telecomandati
E una spiaggia di conchiglie morte
Nella notte una stella d’acciaio
Confonde il marinaio
Strisce bianche nel cielo azzurro
Per incantare e far sognare i bambini
La luna è piena di bandiere senza vento
Che fatica essere uomini

Partirà la nave partirà
Dove arriverà questo non si sa
Sarà come l’arca di Noè
Il cane il gatto io e te

Un toro è disteso sulla sabbia
E il suo cuore perde kerosene
A ogni curva un cavallo di latta
Distrugge il cavaliere
Terra e mare polvere bianca
Una città si è perduta nel deserto
La casa è vuota non aspetta più nessuno
Che fatica essere uomini

Partirà la nave partirà
Dove arriverà questo non si sa
Sarà come l’arca di Noè
Il cane il gatto io e te.


Il successivo impegno di Endrigo ci presenta una diversa silloge di ‘temi’ che egli raccolse in “La voce dell’uomo”: “..il primo amore cos’è? Il matrimonio che cos’è? La religione che cos’è? La solitudine di cos’è? Che cos’è la libertà se non si gode in gioventù? A volte è tutta una vita la gioventù. Che cos’è la verità? Da quando ero bambino c’è sempre stato qualcuno che ha voluto impormi la sua volontà, che cos’è allora, la libertà?”. A tutte queste domande Endrigo ha sempre dato una risposta che si è rivelata poi una risoluzione poetica: “..dove l’uomo non arriva giungono le parole … pensa, pensa, ragazzi e ragazze che tornano dal mare a raccontare che è finita la paura e partono domani per raccontare al mondo la pura verità”; e sono forse quei ragazzi marinai e quelle ragazze pulite, che da sempre, e di cui oggi ci sarebbe ancora bisogno, che si danno una mano per fare quel ‘girotondo intorno al mondo’ che Endrigo auspicava in pace e fraternità.

Un Endrigo dall’utopia facile, direste voi, ma è forse utopia guardare a un orizzonte più sereno dove i popoli si scambiano doni e i giovani si sorridono e si abbracciano felici? È utopia guardare sorgere l’alba o assistere al tramonto del sole con trasporto e gli occhi commossi, o assistere al miracolo della nascita di un figlio, o guardare alla trovata pace alla fine di una vita? Tutto questo ci suggerisce ‘la favola dell’uomo’ (dall'album omonimo) composta da Sergio Endrigo, colui che ha visto “..uomini soli che non sanno il perché … e donne sole che sognano storie d’amore, ma l’amore dov’è? … giovani soli e ragazze già vecchie chiuse in cucina ad inventare minestre ... e vecchi aspettare la morte senza parlare ... per tutti c’è un solo Dio … ma è solo anche Dio”. Colui che nella solitudine creativa dei suoi ultimi anni ha ascoltato 'la voce dell’uomo' anche quando era violenta e uccideva il fratello; 'la voce dell’uomo' più forte del vento della vita e del tempo; 'la voce dell’uomo' che quando chiama, gli rispondo”.

Successivamente Endrigo ha trovata una personale autodeterminazione che lo riconduce al mare, a quella ‘isola nella corrente’ che è dentro ogni sua espressione artistica, ragione per cui non è stato sempre facile classificarlo, anche se oggi ci chiediamo perché di questa necessità che già allora non aveva senso. Importanza rilevante assumono altre sue produzioni artistiche realizzate con Giuseppe Ungaretti, Vinicius De Moraes in cui sono raccolte sue poesie e canzoni: “La vita amico è l’arte dell’incontro’, ‘La casa’, ‘L’Arca’ che raccoglie canzoni-fiaba di Vinicius indirizzate ai bambini, ma che non dispiacciono neanche agli adulti.

‘LA CASA’ - Bardotti / de Moraes – Ed. Fonit Cetra Music Publishing S.r.l.

Era una casa molto carina
Senza soffitto senza cucina
Non si poteva entrarcdi dentro
Perchè non c'era il pavimento
Non si poteva andare a letto
Perchè in quella casa non c'era il tetto
Non si poteva fare la pipì
Perchè non c'era vasino lì

Ma era bella, bella davvero
In via dei matti numero zero
Ma era bella, bella davvero
In via dei matti numero zero

Era una casa molto carina
Senza soffitto senza cucina
Non si poteva entrarcdi dentro
Perchè non c'era il pavimento
Non si poteva andare a letto
Perchè in quella casa non c'era il tetto
Non si poteva fare la pipì
Perchè non c'era vasino lì

Ma era bella, bella davvero
In via dei matti numero zero
Ma era bella, bella davvero
In via dei matti numero zero

Era una casa molto carina
Senza soffitto senza cucina
Non si poteva entrarcdi dentro
Perchè non c'era il pavimento
Non si poteva andare a letto
Perchè in quella casa non c'era il tetto
Non si poteva fare la pipì
Perchè non c'era vasino lì

Ma era bella, bella davvero
In via dei matti numero zero
Ma era bella, bella davvero
In via dei matti numero zero.

Nel frattempo, Endrigo ci parla ancora di sé: “Parlando di me, mi piace la calma, la buona tavola, i buoni amici, i buoni libri, i francobolli, le armi antiche, la natura, gli animali, la pesca subacquea, i luoghi poco affollati; non mi piacciono i dritti, i disonesti, i dilettanti presuntuosi, i seccatori, gli invadenti, le salse agrodolci…”; lo dice con quella sua voce da narratore convincente che va raccontando le favole di sempre ai tanti bambini che ormai non gli prestano più ascolto, come facciamo noi ormai divenuti grandi, non poniamo più orecchio del resto, a quelle verità intrinseche che un giorno, a un poeta, hanno permesso di scrivere quel ‘la favola dell’uomo’ che è un po' anche nostra:

 

'LA VOCE DELL'UOMO', di Endrigo /Jubal /Noah's.

 

Ho sentito la voce del mare

di uccelli e sirene

le voci del bosco del fiume e tamburi

e chitarre di Spagna le orchestre profane

e l'organo in chiesa ho sentito

la voce dell'uomo

anche quando è bugiardo

e tradisce il fratello

la voce dell'uomo

quando parla gli rispondo.

Ho sentito l'urlo di belve

in gabbia e in catene

il passero in cerca di pane il silenzio

della prigione il grido degli ospedali

che nasce e chi muore ho sentito

la voce dell'uomo

che canta per fame

per rabbia ed amore

la voce dell'uomo

quando canta io l'ascolto.

Ho sentito fanfare di guerra

e passi in cadenza

per le strade imbandierate le canzoni

dei soldati di trionfo o di dolore

chi vince e chi perde ho sentito

la voce dell'uomo

anche quando è violenta

e uccide il fratello

la voce dell'uomo

quando parlo mi risponde

è più forte della tortura e dell'ingiustizia

delle fabbriche dei tribunali è più forte

del mare e del tuono più forte del terrore

più forte del male più forte

la voce dell'uomo

più forte del vento

della vita e del tempo

la voce dell'uomo

quando chiama gli rispondo.

 

La sua è stata una breve stagione, anche se negli anni, negli incontri e negli amori ha certamente incontrato validi colleghi tra compositori e orchestratori  e cantanti che lo hanno supportato nel suo 'andare per mari sconosciuti' in cerca di quell'  'isola in mezzo alla corrente' che egli stesso era e che abbiamo conosciuto.

‘UNA BREVE STAGIONE’, di Endrigo/Bardotti/Morricone.

Mia, è la tua gioventù
Nel mare dei tuoi occhi chiari
Già so che mi perderò

Mia, la tua felicità,
È come un vento che ci prende per mano e ci porta via

Dove andrai sarò
Nessuno al mondo può dividere due mani
Dividere noi due

Mia, per sempre mia, la tua stagione può finire
Ma ormai tu non morirai in me
Ma ormai tu non morirai in me.

Endrigo debuttò al Festival di Sanremo nel 1966 con ‘Adesso sì’ (che in quello stesso anno venne incisa anche da un esordiente e sconosciuto Lucio Battisti in una raccolta sanremese della Dischi Ricordi, divenendo la sua primissima incisione). Sempre nel 1966 uscì il terzo LP che si intitolava di nuovo Endrigo e comprendeva, oltre inoltre ‘Girotondo intorno al mondo’, ‘Teresa’, ‘Dimmi la verità’, ‘Mani bucate’, ‘La donna del Sud’ di Bruno Lauzi, e ‘La ballata dell'ex’ (canzone che tratta il tema della guerra partigiana e della fine delle speranza che aveva alimentato la lotta a causa della continuità tra l'Italia di prima della guerra e quella degli anni '50). Nel 1967 fu ancora a Sanremo con ‘Dove credi di andare’, abbinato con Memo Remigi. L'anno seguente ottenne la vittoria con ‘Canzone per te’ in coppia con Roberto Carlos. Lo stesso anno Endrigo partecipò anche all'Eurovision Song Contest con ‘Marianne’.

 

Nello stesso periodo usciva il nuovo LP, sempre intitolato Endrigo, che comprendeva, oltre alla vincitrice di Sanremo, classici come ‘La colomba’, ‘Il primo bicchiere di vino’, ‘Dove credi di andare’, ‘Anch'io ti ricorderò’, ‘Perché non dormi fratello’, ‘Il dolce paese’, ‘Il treno che viene dal Sud’. Nel 1969 Endrigo arrivò secondo a Sanremo, cantando in coppia con la gallese Mary Hopkin la sua ‘Lontano dagli occhi’. L'anno successivo si classificò terzo con ‘L'arca di Noè’ cantata assieme a Iva Zanicchi. Di minore riscontro fu la sua sesta partecipazione consecutiva nel 1971, quando si posizionò undicesimo con ‘Una storia’, abbinato con i New Trolls che ne diedero una versione in stile rock-progressivo. Endrigo quindi tornò a calcare il palcoscenico sanremese nel 1973 con ‘Elisa Elisa’, nel 1976 con ‘Quando c'era il mare' e l'ultima volta nel 1986, con ‘Canzone italiana’, che a differenza di tutte le altre con le quali aveva gareggiato in passato, non era scritta da lui ma da Claudio Mattone.


È questa la ‘favola dell’uomo’ che Endrigo ci ha lasciato e che è ancora di grande attualità, ma che a differenza di allora, oggi avrebbe assunto di certo quella rassegnazione che gli faceva cantare d’essere nato in ‘un dolce paese’:

‘IL DOLCE PAESE’ – Musy/Endrigo/Bacalov - Ed. Fonit Cetra Music Publishing.

Io sono nato in un dolce Paese
Dove chi sbaglia non paga le spese
Dove chi grida più forte ha ragione
Tanto c’è il sole e c’è il mare blu

Noi siamo nati in un dolce Paese
Dove si canta e la gente è cortese
Dove si parla soltanto d’amore
Tanto nessuno ci crede più

Qui l’amore è soltanto un pretesto
Con rime scucite tra cuore e dolore
Per vivere in fretta e scordare al più presto
Gli affanni e i problemi di tutte le ore

In questo dolce e beato Paese
Vive la gente più antica del mondo
E con due soldi di pane e speranza
Beve un bicchiere e tira a campà.

Sergio Endrigo, ha cantato in tantissimi paesi del mondo: Stati Uniti, Canada, Argentina, Brasile, Cuba, ex Unione Sovietica, ex Jugoslavia (Croazia, Bosnia e Serbia), ex Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Giappone, Israele, Grecia, Svizzera, Spagna, e le sue canzoni sono oggi ancora interpretate da molti giovani cantanti che oltre a riscoprire la validità di certi suoi testi, ce li ripropongono in nuove versioni che nulla tolgono alla 'poesia' di cui sono impregnate le parole. Grazie Sergio!

Parte dell'intervista è ripresa da un articolo apparso in "Super Sound" del 5 agost

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- Musica

’Vola vola vola’ - A. Sparagna F. De Gregori

Ambrogio Sparagna & Francesco De Gregori
“Vola vola vola - Canti popolari e canzoni”. Parco della Musica Records 2012.

La produzione culturale comprende processi e prodotti che devono il loro valore economico e sociale principalmente al contenuto simbolico incorporato: si tratta del sistema massmediatico, cioè l’industria culturale musicale, del sistema della produzione artistica confezionata per un pubblico d’élite, e della sempre più ampia gamma delle imprese discografiche, video e televisive grandi e piccole che producono beni d’immagine, occasioni per il tempo libero e l’intrattenimento, servizi di comunicazione che incrementano di contenuto simbolico questa nostra era. Se la cultura di un popolo si misurasse sulle mode musicali e canzonettistiche di passaggio perderebbe ogni particolare significativo, mentre, al contrario la musica popolare non conosce una qualche forma di stasi o di annullamento e di tanto in tanto assistiamo a una ‘rinascita’ erroneamente detta. Perché nella realtà essa persegue invece una certa continuità, seppure, in alcuni casi lenta e difficile a causa della contaminazione appunto di certe mode ‘inflazioniste’ entrate di straforo nella propria evoluzione.
A meno che non venga cancellata dalla faccia della terra insieme al popolo che la rende viva, la cultura musicale popolare prosegue nel suo avanzamento di pari passo con la storia, anzi è la storia stessa, la sua identità sociale e umana del popolo che l’ha prodotta. È un fatto che quando si parla di cultura musicale popolare o ‘tradizionale’ si fa sempre mente locale al passato, mentre invece ci proietta automaticamente in un tempo per così dire ‘estemporaneo’ che, altresì collega la tradizione a una certa attualità che va a integrarsi allo sviluppo musicale e culturale relativamente più vicine. Quella stessa che dà forma alla cultura attuale, ‘vissuta’ all’interno della vita sociale che ci troviamo a spendere. L’uso in voga della rivisitazione, del recupero, chiamiamolo anche del ‘revival’, sottolinea una certa continuità discorsiva con quei valori, mai completamente perduti, che ci permette di poter dire, di possedere una certa cultura nostrana, tipicamente italiana da esportare, sicuramente da trasmettere alle generazioni future.
È nello scoprire il fascino ancestrale della musica nei suoi caratteri originali e popolari che l’infinita ricerca di noi stessi si amplia di nuovi importanti capitoli che vanno ad aggiungersi alla macroscopica storia che andiamo scrivendo. Ne sanno qualcosa i nostri tanti autori e musicisti sempre più impegnati nel recupero di quel ‘mondo interiore’ che ci appartiene, che ancora ci appassiona e che talvolta ci emoziona. Davvero molte sono le ‘opere’ di pregevole fattura sia per i testi, spesso veri e propri componimenti poetici elaborati in musica da Conte, Dalla, De Gregori, De Andrè, Paoli, Endrigo, Ciampi, Ruggeri, Baglioni, Cocciante, ma anche Zucchero, Jovanotti, Nannini, Vasco Rossi e un infinito elenco di altri a noi contemporanei. Sia per gli arrangiamenti e le composizioni di musicisti impegnati come Morricone, Rota, Piovani, Einaudi, Allevi, Sparagna, Fresu, Allulli, conoscitori di quei mondi sonori che spesso ignoriamo, in cui le note si lasciano afferrare nell’alchimia dei sentimenti, anche dei più delicati, i cosiddetti ‘melodici’, o dei più forti ‘rockettari’.
Cantava Edoardo Bennato ‘non sono solo canzonette’, e aveva ragione, perché in effetti esse rappresentano un tassello particolarmente significativo della produzione musico-culturale della nostra epoca, luogo per eccellenza in cui si coniugano ideazione creativa e orientamento culturale, concentrazione poetica e filosofica per imparare a vivere che, sempre più spesso, fungono da ‘colonna sonora’ di sentimenti condivisi, di momenti felici o amari, l’inizio e la fine di amori, di ‘spinte’ di credulità e di speranza per i nostri cuori. Insomma, non dovremmo smettere di considerarle il nostro pane quotidiano, cultura per pochi e cultura per molti, che rendono la vita meno arida e, sopra le righe, anzi ‘sopra le note’, qualche volta ci permettono di sopravvivere alle brutture della vita, la guerra, la morte ecc.

Ma non voglio fare qui un elenco delle cose peggiori, voglio invece parlare di ‘opere’ forse trascurate dal grande pubblico ma, non per questo, meno rilevanti e apprezzabili di tante altre e, guarda caso, frutto di ‘operazioni’ culturali e musicali che più danno lustro a chi le organizza e a chi, come me, talvolta le apprezza dal ‘vivo’ di un concerto tenuto in un teatro o di manifestazioni e spettacoli appunto ‘popolari’ nelle piazze di questa nostra Italia sempre meno apprezzata e di quella musica ‘nostrana’ ancor più bistrattata.
Risale appena all’anno scorso l’uscita di un album ‘straordinario’ registrato (in parte) ‘dal vivo’’ al Parco della Musica di Roma, che ha visto Ambrogio Sparagna dirigere l’Orchestra Popolare Italiana e il Coro Popolare durante il concerto che ha visto la partecipazione straordinaria di Francesco De Gregori e di alcuni ospiti di rilievo come Maria Nazionale e il gruppo vocale Amarcanto. In tutto, cento a dir poco, tra musicisti, cantanti, corali in scena, dove la musica e il canto non era soltanto di contorno a un avvenimento, bensì ha visto la presenza partecipata del numeroso pubblico presente. Gli autori Ambrogio e Francesco inoltre si sono rivelati per quel che in realtà sono, artigiani e prosecutori di una tradizione di qualità, creativa e investigativa di nuovi apporti letterari, del resto mai venuta meno nella storia dei due compositori, la cui collaborazione, iniziata già nel 1996 al Teatro Alighieri di Ravenna con la ‘favola’ musicale “La via dei Romei” (oggi un disco edito da BMG) per orchestra e coro polifonico ideata e musicata da Sparagna, che appunto ha visto la partecipazione di Francesco De Gregori nella parte del ‘Cantastorie’, di Lucilla Galeazzi in ‘Chiarastella’ e quella di Gianni Iacobacci nel ‘Narratore’.

Ma è la musicalità degli strumenti tradizionali mixati con quelli elettrificati attualmente utilizzati in studio che la grande conoscenza di Sparagna in senso compositivo e negli arrangiamenti si fa avanti con enfatica superiorità nella vasta schiera di musicisti oggi impegnati a far musica. Il suo ‘accordéon’, versione francese della fisarmonica che a differenza di questa ha la tastiera costituita da bottoni e non da tasti (vedi pianoforte), è qui tradizionalmente usato come strumento di accompagnamento alla danza popolare, che possiamo apprezzare soprattutto in finale del brano intitolato ‘Piovere e non piovere’ ripreso dal folclore. Una sorta di ‘pizzica’ travolgente e chiassosa, sostenuta da un ritmo incalzante e ‘magicamente’ trascinante, in cui il coro ‘popolare’ restituisce la dimensione esatta dell’avvenimento cui ho fatto riferimento. Non meno nella strepitosa ‘Volavola’ di Francesco che ci regala una delle sue più belle ‘poesie’ dopo le tante: ‘La donna cannone’, ‘Buonanotte Fiorellino’, ‘Rimmel’ , ‘Alice’, ‘Generale’, ‘La Storia’, ‘Viva l’Italia’, ‘ Scacchi e Tarocchi’ e se proprio volete … aggiungetene voi che mi leggete. Non va inoltre sottovaluta l’importanza di un’altra collaborazione di Francesco De Gregori con Giovanna Marini e con il Coro e Banda della Scuola di Musica Popolare di Testaccio diretti da Silverio Cortesi per la Caravan che ha prodotto l’album “Il fischio del Vapore”, in cui vengono riproposti canti assai frequentati, qui nella loro versione ‘originaria’ che forse pochi conoscono.
Tuttavia, mentre di Francesco da sempre parlano le cronache musicali come cantautore 'cult', ultimo 'mito' di una certa canzone italiana, non da meno è l'importanza che voglio riservare ad Ambrogio Sparagna, cresciuto nel solco della tradizione musicale popolare (coltivata da entrambi i genitori nel Paese d'origine), ha frequentato corsi di Etnomusicologia presso l'Università di Roma, partecipando, assieme a Diego Carpitella, a diverse campagne di rilevamento della musica popolare italiana, tese a registrarne il ricco patrimonio, catalogarlo, studiarlo e conservarne la memoria e la vitalità, anche attraverso la riedizione e rielaborazione degli strumenti e dei temi tradizionali. A sua volta interprete di questo genere musicale, si è dedicato attivamente alla sua promozione a partire dal 1976, fondando a Roma la prima scuola italiana di musica popolare contadina, aperta presso il Circolo Gianni Bosio. In tale ambito, nel 1984 ha dato vita a un proprio gruppo, la Bosio Big Band, basata su un originale complesso di organetti, strumenti tipici della musica popolare. Autore inoltre di numerosi saggi e pubblicazioni sulla musica popolare, protagonista di una ricca attività concertistica di respiro internazionale realizzata periodicamente in numerosi paesi europei ed extraeuropei.
Virtuoso dell'organetto, si distingue anche per il suo significativo impegno nella didattica della musica popolare italiana.

Tra le sue collaborazioni si ricordano tra gli altri, con Angelo Branduardi, Lucio Dalla, Teresa De Sio, Nino D'Angelo e Giovanni Lindo Ferretti. Risale al 1988 la sua prima "opera folk" organizzata attorno al tema di una favola, “Trillillì, Storie di magici organetti e altre meraviglie”. A questa prima opera ne segue una seconda, “Giofà il servo del Re” (1992) e la cantata “Voci all'aria”, prodotta per RAI Radio Tre. Nel 1995 Sparagna pubblica l'album “Invito”. La consacrazione a livello nazionale dell'artista arriva nel 1996, quando la sua nuova opera, “La via dei Romei”, con Francesco De Gregori, ottiene un ampio successo al Grand Prix Italia '96. Nel 1997 collabora a propria volta come musicista con De Gregori, figurando tra gli esecutori del doppio album del cantautore romano, “La valigia dell'attore”. Nel 1998, in occasione del bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi, Sparagna compose Un canto s'udia pe' li sentieri: la cantata fu trasmessa in diretta dalla RAI nell'ambito delle celebrazioni leopardiane; nello stesso anno collabora con Claudio Lolli, suonando nell'album “Viaggio in Italia”.
Nel 1999 compone le musiche per “Sono tutti più bravi di me”, un musical promosso dall'Accademia della Canzone di Sanremo e diretto da Emanuela Giordano. Nell'ambito del Festival Musicorum Tempora di Villa Adriana, mette in scena “La serva padrona” di Giovanni Battista Pergolesi; tra gli interpreti Lello Arena, nel ruolo di Vespone. In occasione del Giubileo del 2000, Sparagna ha composto una "Messa popolare" per soli, coro, assemblea, orchestra d'archi e strumenti popolari (rappresentata a Ravenna e a Roma in S. Ignazio) e pubblica un album: “L'avvenuta profezia, Viaggio nelle Pastorali e nei repertori del Natale”. L'anno successivo si esibisce con la Bosio Big Band presso la Cappella Paolina del Palazzo del Quirinale per i Concerti di Radio Tre (aprile 2001) e pubblica l'album “Vorrei Ballare”. A dicembre va in scena una sua "sacra rappresentazione", “Voi ch'amate”, per attori, soli, coro e orchestra di strumenti popolari.
Nel 2002, con Giovanni Lindo Ferretti, compone “Attaranta. Tradizione/Tradimento”. Durante il 2003 compone “Passaggio alla città”, una cantata originale con testi di Rocco Scotellaro e con il patrocinio della Regione Basilicata. Nell'inverno dello stesso anno torna a collaborare con Giovanni Lindo Ferretti componendo un oratorio sacro, “Litania” presentato in diretta radiofonica alla Cappella Paolina del Quirinale e poi pubblicato. Allo stesso tempo pubblica il decimo album, “Ambrogio Sparagna”, nel quale interpreta il ruolo per lui inedito di cantastorie. Nel 2004, ancora in collaborazione con Giovanni Lindo Ferretti, ha pubblicato l'album “Litania” che propone, accanto a preghiere tradizionali, frammenti del repertorio dei CCCP e dei CSI.
Nel 2004 prende parte alla “Notte della Taranta”, il grande evento di musica popolare salentina (Pizzica) come direttore dell'orchestra nata anche grazie al suo contributo: l'Orchestra Popolare La Notte della Taranta. La sua partecipazione a questo evento si ripete anche negli anni 2005 e 2006 con grande impegno del maestro che ha dichiarato di essere stato più tempo nel Salento che nella sua residenza. Accompagna Nino D'Angelo all'organetto come ospite nel brano “Jammo jà” durante la terza serata del Festival di Sanremo 2010. Nel 2012 inizia un sodalizio musicale con il cantautore Francesco De Gregori, che lo porta in giro per le piazze d'Italia con lo spettacolo "Vola, vola, vola".

 

"In tournée con De Gregori canto la poesia popolare – ha detto Ambrogio Sparagna - L'interesse del pubblico agli strumenti della tradizione è un messaggio: riscopriamo le nostre radici, nonostante siano in crisi”. Riporto qui alcune risposte della lunga intervista rilasciata da Sparagna a Micaela Osella:
Come è nata questa idea?
"Mi sono sempre occupato di canti popolari. Negli ultimi cinque anni ho maturato la consapevolezza che fosse interessante valorizzare il patrimonio musicale italiano. L’incontro con De Gregori ha trovato completezza, in tutto questo. Abbiamo riempito le sue canzoni con suoni meno conosciuti. Rielaborarli con strumenti come la ghironda, la ciaramella, la fisarmonica, il clarinetto, il violino a tromba, che raccontano la storia del nostro paese, gli ha conferito una nuova originalità".

Il rischio era che tutto questo finisse nel dimenticatoio?

"Esiste una matrice colta alla base della nostra poesia popolare, che neanche i contadini - nonostante fossero analfabeti - volevano andasse dispersa. A quella poesia oggi la musica dà tono e sostegno; la tramanda".

Ed ecco alcune delle canzoni/poesia che corredano l’album “Volo vola vola”:

“Volavola” di F. De Gregori (Parco della Musica Records)

Vola il pavone e vola il cardellino
Se vai cercando un sassolino d’oro
Vedi che nel mio cuore c’è n’è uno
Che se lo trovi non ti pare vero

E vola vola vola vola vola vola
Solo per un’ora per un’ora sola
E vola come le parole e le sciocchezze
E vola come i baci e le carezze

Se risalisse il fiume alla foresta
Se ritornasse l’acqua alla montagna
Se rivenisse l’ora della festa
Sarebbe ancora grano la farina
Se si tenesse il mare in una cesta

E vola vola vola vola vola vola
Solo per un’ora per un’ora sola
E vola come le parole e le sciocchezze
E vola come i baci e le carezze

“Vorrei ballare” di A. Sparagna (Finisterre Records)

Vorrei ballare per tutta una notte
Su una terrazza della costiera
Piena di gente che canta alla vita
Ricca di fiori profumi e limoni
Cento canzoni e cento tamburi
Per ritardare l’arrivo del sole
Così aspettare che il giorno ci prenda
Portandoci dentro a mille rumori
...
Sogno una notte che mai tornerà
Sogno una festa passata lontano da questa città
Piena di archi di luce stordita da mille sapori
Di terra di mare e sudore
D’incenso di fuoco di mirto e ginestra
...
E ritornare per un momento
Verso i terreni che portano vino
In quelle vie di dolce collina
Provare a gustare il segreto dell’oro
E poi ancora una volta cercare
Le strade dei boschi dei frutti spinosi
Seguire i passi di un forte cinghiale
Primo a scoprire i ricci caduti
...
Sogno una notte che mai tornerà …
...
Lungo sentieri di pietra appuntita
Fare corone di origano e salvia
Ed aspettare il riposo del forno
Con l’olio verde il pane caldo mangiare
E nel girare e rincorrere il tempo
Il suono del vento d’un tratto sentire
Che fa armonia con cento campane
Di pecore capre e cani guardiani
...
Sogno una vita che non ha più età
E già finita ormai non tornerà
Volti scavati da grandi fatiche
Cuori donati senza farsi vedere.

*

- Religione

Sul soglio di Pietro ... chi comanda?



Sono qui stupito e assorto per le improvvise dimissioni di S.S. Papa Benedetto XVI la cui nomina credevo fosse 'a divinis' quando vengo a conoscenza della possibilità canonica di questo evento che credo davvero pochi conoscano. Mi chiedo se ciò sia legittimato da una legge vaticana che esula il Papa dall'impegno preso, davanti a Dio e al mondo, di guidare la Chiesa di Roma verso quella verità e quella luce che da sempre professa nella buona e nella cattiva sorte, al di sopra di tutti gli accadimenti avvenuti in seno ad essa e nel quotidiano che spendiamo su questa terra. Qual è l'antefatto? - mi chiedo - ignaro delle vicissitudini papali interne allo Stato Vaticano che possano aver causato un tale fatto. E credo che la domanda sia lecita, dal momento che siamo ancora qui a 'giudicare' il gesto del suo predecessore Celestino V più volte condannato dalla letteratura e dalla storia. Sappiamo tutti della macchinazione, ad opera di Gregorio VII, che portò alla rinuncia del Papa "..che fece il gran rifiuto" e della congiura che lo portò alla morte. Il caso allora venne chiuso anche se si conoscevano i mandanti e gli esecutori del suo omicidio. Dunque, perché di una rinuncia, quando ogni altro papa invecchiando si è occupato solo di 'esserci' gestendo le poche pratiche della 'pace' e della salute delle 'anime' dei credenti e in preghiera aspettava il tempo della chiamata di Dio Padre, qualcuno deve pur dirlo ai fedeli che, sbigottiti, non capiscono. S.S. Bendetto XVI ha dimostrato di non essere uno sprovveduto che si abbandona agli acciacchi dell'età quando le forze gli vengono meno. Tutti noi ci ricordiamo delle sofferenze di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II che fino alla fine hanno sorretto con le ultime forze quella croce che gli era stata data dalle mani di Dio. In che cosa ha sbagliato Benedetto XVI della sua 'missione', quale 'peccato' non gli viene rimesso per la sua gravità; quale assunzione di 'consapevolezza' lo sta allontanando dal suo ministero? Domande, certo, che in cuor suo, ogni fedele si chiede ed altre sono certo ne seguiranno. Una in particolare mi viene immediata alla mente: può un papa appellarsi a quel 'libero arbitrio' che in verità è dato a tutti noi comuni mortali, sebbene in funzione blanda, superficiale?; quanto invece è certamente dato 'in toto' al Santo Padre in virtù di Capo assoluto della Chiesa di Pietro. Ed è proprio questo che fa difetto in tutta questa storia: se il Papa può appellarsi al 'libero arbitrio' come può farlo un comune mortale allora è una questione di 'uguaglianza'. Così dicendo, è come ammettere che c'è qualcuno più uguale degli altri, da che gli scismi che nella storia si sono succeduti, basati (ovviamente non solo) sul riconoscimento dei poteri spirituali del Papa. Quindi, la digressione di S.S. Benedetto XVI avanza una 'uguaglianza' con il comune mortale che - a mio parere - non può e non deve prestare il fianco, pena la decadenza dei fedeli verso il riconoscimento di un Capo Spirituale alla guida della Chiesa che, invece, dovrebbe essere 'a divinis', come sempre si è creduto fino ai nostri giorni. E' dunque un atto, per quanto rispettabile, non condivisibile in seno ai credenti, che potrebbe creare (e sicuramente creerà) un defoult del potere della Chiesa di Roma, già in seria difficoltà. Ciò malgrado il Santo Padre abbia più volte affermato che non si può abbandonare la 'barca' quando sta affondando. Di certo è questo un atto maldestro che non resterà senza conseguenze.

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- Letteratura

Le botteghe color cannella - una rivisitazione

“Le botteghe color cannella” Bruno Schulz – Einaudi (ristampa) 2012

Che fosse per il profumo di ‘cannella’ contenuto nel titolo o per via della copertina appunto ‘color cannella’ dell’edizione Einaudi del 2008, che sono andato a riscoprire questo autore “visionario” che, a suo tempo, mi ha così affascinato al punto di essermi votato alla sua straordinaria immaginazione senza remore. È un fatto di sensibilità mi sono detto, più o meno acuita da una qualche forma di insana follia scrittoria. Eppure so che non è così, che c’è in ognuno di noi, semplici lettori assorbenti, una tale volontà di accedere in ciò che leggiamo a un qualcosa che va ‘oltre’ le parole, oltre le righe della scrittura, oltre il libro che teniamo tra le mani, e che vogliamo ‘fortemente’ fare nostro. Qualcosa che ci riguardi da vicino. Qualcosa che avremmo voluto confessare e che non abbiamo mai confessato a nessuno, neppure a noi stessi. Oppure di voler vivere, in prima persona, quel qualcosa che non abbiamo vissuto ma che ci sarebbe piaciuto vivere. È allora che sopraggiunge l’accattivante e insana ‘fame’ del lettore che chiede solo di divorare il pasto che detiene tra le mani e che pagina dopo pagina in effetti divora fino alla fine, con voluttà. Allora va bene pure solo l’idea del profumo di una spezia ricercata, perché preziosa e rara come la ‘cannella’, per solleticare l’appetito e far pervenire alla bocca quel languoroso desiderio di tutto ciò che non abbiamo ancora assaporato o, al contrario, di riscoprire e riassaporare quel certo retrogusto di ciò che una volta abbiamo davvero gustato per la delizia del nostro palato. Che sia questa la molla che fa scattare il desiderio di rileggere un libro non lo so, tuttavia mi piace pensare che, di tanto in tanto, tornare a una sana lettura, in mezzo a tanta insana letteratura che ci viene proposta, non può che far bene, se non altro – almeno nel mio caso – mi riconcilia pensate, col resto dell’umanità e, nel caso di Bruno Schulz con la natura ‘immaginaria’ dell’essere persona. Di lui si è scritto essere uno scrittore ‘visionario’ e davvero non ne comprendo la ragione, perché nelle sue descrizioni oculate ho trovato piuttosto una certa ‘conoscenza’ delle cose, suggerita da un’osservazione attenta e scrupolosa, dove la natura corrisponde all’essere della natura, i colori sono quei colori e certe atmosfere descrittive, sono autenticate dall’ambiente in cui esse prendono corpo. Per Schulz che sia la neve o il chiarore della neve o l’idea della neve, oppure il ricordo della neve, non smette un istante di essere bianco e luminoso o, più semplicemente, luce, chiarore, neve. Tanto per fare un esempio “le botteghe” sono tutte color della cannella, almeno in una certa strada del suo perdersi, perché forse nel suo ricordo di fanciullo lì in quel posto egli sentì l’odore della ‘cannella’ che gli piaceva tanto, che lo deliziava, che lo stordiva. O perché, vai a sapere, quella strada era famosa per le botteghe di dolciumi e allora, la ‘cannella’ dal gusto esotico e dolciastro, eccitava il suo olfatto, assumeva quel significato ‘altro’ che lo portava a ‘sognare’. Perché più che ‘visionario’, come è stato definito, piuttosto lo direi un sognatore, un ‘creatore’ di sogni straordinariamente immaginifico. Di lui è stato scritto non moltissimo anche se oggi è ritenuto un caposaldo della letteratura contemporanea, ed io ho scelto quanto segue perché mi è sembrato che corrisponda a un mio modo di sentire che ho riscontrato nell’opera più famosa dell’autore e che riporto dalla postfazione di “Le botteghe color cannella” di Francesco M. Cataluccio:


«Il punto di partenza della fantasia visionaria di Bruno Schulz è l'affollata e disordinata bottega di stoffe del padre: un vecchietto-demiurgo che sconvolge in modo imprevedibile tutte le regole della fisica e della ragione. Jakob si arrampica come un ragnetto per gli scaffali, inseguendo i ragni; elabora arzigogolate cosmogonie interpretando a modo suo i segni del cielo; si circonda di specie bizzarre e variopinte di volatili, diventando anche lui una sorta di feroce condor; si trasforma in pompiere con tanto di divisa rosso fiammante e alamari d'oro... Metamorfosi, travestimenti, viaggi nello spazio e nel tempo (basta come pretesto, ad esempio, un vecchio album di francobolli) si accavallano con l'ausilio di una lingua poetica schioppettante di metafore. Scettico sulle possibilità di conoscenza umane, Schulz dette libero sfogo alla fantasia e alla «mitizzazione» della realtà. Nella infinita varietà dei suoi aspetti, l'opera di Schulz, sia letteraria sia pittorica, ha una sua unitarietà. I racconti, assieme ai disegni, costituiscono un Libro: una sorta di Bibbia dell'infanzia perduta, di quel periodo in cui, grazie al Padre, tutto sembrava - ed era - possibile: «Mi sembra che il genere d'arte che mi sta a cuore sia proprio una regressione, sia un'infanzia reintegrata. Se fosse possibile riportare indietro lo sviluppo, raggiungere di nuovo l'infanzia attraverso una strada tortuosa - possederla ancora una volta, piena e illimitata -, sarebbe l'avveramento dell’ ‘epoca geniale’, dei ‘tempi messianici’, che ci sono stati promessi e giurati da tutte le mitologie. Il mio ideale è ‘maturare’ verso l'infanzia». ‘Le botteghe color cannella’, la sua prima e più famosa raccolta di racconti, è un'autobiografia trasformata in una fantasiosa mitologia dell'infanzia. Uno dei massimi esempi di come la letteratura possa riscattare la banalità della vita quotidiana con le armi del grottesco e dell'invenzione linguistica».

Secondo Thadeus Kantor, che ha costruito ‘La classe morta’ da un suo racconto, «tutta la nostra generazione è cresciuta di fatto all'ombra di Schulz. Piú leggo Schulz - forse non dovrei dirlo - ma in alcuni dei racconti [...] direi che sia meglio di Kafka. Vi è un vigore piú grande in alcune delle sue storie».

Isaac Bashevis Singer, ha scritto di lui: «Tutti i racconti di uno dei maggiori scrittori del Novecento, per molti ormai un mito, pubblicati per la prima volta con le illustrazioni originali dell'autore; Il libro idolatrico: un sorprendente racconto in forma di immagini; gli scritti teorici e critici, molti dei quali ritrovati fortunosamente soltanto negli ultimi anni».


Così Bohumil Hrabal: « Ricordo come fosse oggi che, letta mezza pagina de Le botteghe color cannella di Bruno Schulz, riposi il libro e me ne andai a passeggiare; mi si era fatto buio davanti agli occhi, e ancor oggi è lo stesso, mi sento mancare per quanto insolito è quel libro, per quanto prezioso e penetrante è quel testo, un testo che rientra nella sfera della genialità...»


Ed anche Italo Calvino: «Dopo Kafka e Musil il sorprendente libro di uno dei maestri della letteratura mitteleuropea che apre gli infiniti universi che stanno accanto e dentro di noi».


Ma c’è di più, molto di più, a settanta anni dalla sua scomparsa Ugo Riccarelli dalle pagine di ‘La Lettura n.53’, (supplemento al Corriere della Sera), così ricorda il suo impatto con questo libro di racconti dal titolo singolare: « “Le botteghe color cannella” si rivelano un caleidoscopio inesauribile di metamorfosi e di visioni, di immagini e di poesia. Schulz era scrittore e disegnatore, era un poeta che fu spazzato via dalla furia del suo tempo poco incline nel permettere a qualcuno di addentrarsi nella “Repubblica dei sogni” da lui propugnata, tantomeno a un sognatore ebreo, piccolo e gentile. Bastò una pallottola, sparata a bruciapelo per una sorta di vendetta trasversale dalla pistola del capitano Gunther delle SS, per togliere di mezzo quel fastidioso esploratore dei nostri universi interiori: era il 19 novembre 1942, esattamente 70 anni orsono».

L’autore dell’articolo prosegue poi «… fortunatamente le pallottole non uccidono i libri e oggi possiamo conoscere Schulz attraverso una bella edizione de “Le botteghe color cannella” in una edizione curata da Einaudi, originale nel vero senso della parola, perché è stata ricomposta assieme alle illustrazioni con cui l’autore aveva ideato “Il sanatorio all’insegna della clessidra” , una delle due raccolte di racconti comprese in questa edizione. Inoltre, sempre nel volume sono presenti altri frammenti, testi critici e autocritici, testi politici e l’incredibile panorama di immagini del “Libro idolatrico”, la geniale opera grafica che, per la prima volta in Italia, è stato possibile ammirare dal vivo in una esposizione organizzata qualche anno fa a Trieste e a Genova».

C’è tuttavia un altra ragione che mi ha spinto a tornare oggi a parlare di Bruno Schulz, e che va oltre la commemorazione, ed è il riconoscimento, attraverso le parole di Ugo Riccarelli del suo essere ‘poeta’. Perché in fondo è di questo che stiamo parlando, di un autentico poeta che si esprime in prosa, quasi che ogni verso di questo capolavoro dia forma a una riga di poesia, fitto di richiami, di rimandi, di sollecitazioni che sono tipici della poesia. Vi invito pertanto a leggere su tutti ‘La bufera’, uno dei molti racconti della raccolta, ma anche ‘Primavera’ o ‘La notte della Grande Stagione’, e perché no ‘Pan’ , ‘Agosto’, inoltre ovviamente, 'Le botteghe color cannella’ che da il titolo al libro. La scoperta della sua ‘Poesia’ lineare, diretta ma anche imprevedibile, vi sconvolgerà e per una volta almeno vorrete essere rapiti nel ‘suo’ sognare, nella sua ‘mitologia’ ricreata dell’infanzia che vi portate dentro, ognuno lo fa, anch’io che scrivo, fra ‘gesti’ esoterici, nascosti, riservati, incomprensibili; con parole ‘in-folio’ ricolme di illustrazioni di ciò che non avete/abbiamo dimenticato, ma solo accantonato in chissà quale ripostiglio della memoria: “..fra discorsi assonnati di tempo, inosservato, passato di corsa disuguale, formando una sorta di nodi nello scorrere delle ore, divorando qua e là intere pause vuote”.

Tutto questo, e molto di più, mentre “… Adela fa risuonare il mortaio, pestando la cannella. Mia madre riprendeva la conversazione interrotta, mentre il commesso Teodor, nel tendere l’orecchio alle vaticinazioni del solaio, faceva ridicole smorfie sollevando alte le sopracciglia e ridacchiando fra sé”.

Buona lettura!

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- Letteratura

Guide a l’usage d’un Voyageur en Italie

“Guide a l’usage d’un Voyageur en Italie”.


Più volte pubblicato da editori diversi, questo piccolo prezioso cofanetto in elegante veste grafica edito da Stampa Alternativa/Biblioteca del Vascello 1987, è la ristampa del quaderno manoscritto e illustrato di 64 pagine in lingua originale e un volume di 72 pagine con il testo tradotto e commentato, riferito a un “viaggio italiano” di un noto scrittore nel 1828, nientemeno che Stendhal, che ho ritrovato in questi giorni tra le cianfrusaglie di una bancarella. Trasformato, a suo tempo,  in un radio/raccconto per Studio “A” della Radio Vaticana col titolo in italiano “Guida ad uso di chi viaggia in Italia”, ho pensato di riproporlo alla vostra attenzione per quel tanto di ‘originalità’ e di ‘sorpresa’ che già aveva suscitato in me.


«Ecco una delle principali norme di un Viaggio in Italia: bisogna vedere nell’andata un mucchio di cose che farebbero alzare le spalle al ritorno.. » , almeno stando a quanto andava dicendo Henry Beyle a suo cugino Romain Colomb, nel marzo del 1828, poco prima che questi prendesse posto sulla diligenza che da Parigi lo avrebbe condotto a Susa e da li a Torino, a Firenze, a Roma, a Napoli e quindi, sulla strada di ritorno, a Venezia, a Milano e di nuovo a Parigi.


Il quadernetto, fitto di annotazioni e di consigli pratici quanto essenziali, coglieva l’attenzione di Colomb mentre la diligenza, lasciatesi le Alpi alle spalle, giungeva in Italia: il paese che Beyle faceva coincidere con la gioia di vivere. Tutto vi è detto con estrema concisione: come viaggiare, dove fare tappa, in che modo spendere, in quali locande dormire e mangiare, che cosa vedere, chi incontrare nell’Italia del 1828. Più di quanto, in una lettera di qualche anno prima, indirizzata a sua sorella Paolina, il cugino Beyle aveva scritto:


«Quali sono i piaceri di un Viaggio in Italia? Almeno sette: respirare un’aria dolce e pura; vedere paesaggi superbi; vedere belle chiese; vedere dei bei quadri; vedere belle statue; sentire della buona musica e “to have a bit of a lover”, (in inglese nel testo), e corrispondente a “farsi corteggiare”».


Beh, non mi sembra da poco e, sebbene questi possano sembrare semplici consigli, c’è in essi il piacere di un “viaggiare” molto pittoresco, che restituiscono integro all’Italia il fascino della seduzione che la distingue, capace di spingere gli animi a “volerla” conoscere, seppure in modo molto personalistico di straordinaria modernità. Ma chi era dunque questo Beyle che dell’Italia conosceva tutto o quasi così bene, e che esprimeva il suo amore tanto apertamente da, in qualche modo, lasciarsi influenzare nel carattere dell’uomo e dello scrittore? Nientemeno che il viaggiatore solitario conosciuto come Stendhal, celebrato autore de “Il rosso e il nero” e “La certosa di Parma”, che non disdegnò, a un certo punto, di scrivere una “Guida di Roma, Napoli e Firenze” e le più famose “Passeggiate Romane”, contenenti autentiche rivelazioni percorse talvolta da giudizi folgoranti, che preannunciavano il successo delle successive “Memorie di un Turista”, a utilizzo di chi giungeva in Italia per la prima volta.


Pensate, a distanza quasi di un secolo e mezzo l’itinerario annotato dal cugino Beyle si può ripetere con facilità di mezzi e (ovviamente) in minor tempo, pur essendo, nel frattempo, cambiato qualcosa. Indubbiamente è cambiato il paesaggio, anche se qua e la rovine di architettura rurale ci dicono che “un tempo non lontano dal nostro”, forse c’erano delle abitazioni sparse nella campagna. È notevolmente cambiato l’impiantito delle strade, un tempo di terra battuta, polverose e sconnesse, specialmente dopo l’inverno a causa delle piogge. Diverso è ovviamente il mezzo di trasporto, alla diligenza trainata dai cavalli, volendo si può usare il treno, con la difficoltà degli orari e delle coincidenze, oppure scambiarlo con una più moderna auto. Tuttavia in qualche luogo quelle che un tempo erano “locande”, oggi trasformate in alberghi o agriturismo, è possibile gustare i “piccoli piaceri” suggeriti a suo tempo, basta seguire passo dopo passo, quasi direi pagina per pagina, questo piccolo vademecum di gusti e di sapori arricchito di 21 disegni in stile ottocentesco secondo l’abitudine delle stesso Stendhal, di annotare i suoi manoscritti con schizzi di suo pugno.


Ma eccoci giunti all’ora della partenza (anche se non ricordo dove c’eravamo fermati), e dunque è il caso di dire: «Signori in carrozza!».


«Il vetturino parte alle cinque del mattino, si ferma da mezzogiorno alle tre e fa di tutto per arrivare al tramonto, nel momento che in Italia chiamano dell’Ave Maria. (..) Giunti a Torino prendere alloggio da Doufour in Piazza Castello, la camera 30 o 47, pranzare secondo la lista. Se le gambe sono buone si può andare fino a Superga; la chiesa non è un gran che, ma la vista è superba. (..) Si potrebbe andare a Genova con la diligenza, ma è molto meglio prendere il vetturino, c’è il vantaggio di vedere da vicino 4 o 5 italiani e di conoscerli più a fondo di quanto non si farebbe con cinquanta visite. (..) A Genova bisogna andare alla pensione Svizzera, vicino ai Banchi, la Borsa ha questo nome, bisogna chiedere la camera 26 al quarto piano, dalla quale si vedono il porto e la montagna. (..) Costa un franco, un franco e venticinque al giorno».


Il “vetturino” così detto, era una vettura più ampia della diligenza a cavalli, addetta al servizio pubblico per effettuare trasporti di merci o persone. Oltre alle argute osservazioni del tipo: “di stare attenti ai ladri dopo la mezzanotte”, “gli italiani non pranzano quando sono in viaggio, e che a pranzo si accontentano d’una minestra di riso e di un caffè”, “che bisogna o che non bisogna dire questo o quest’altro” e di “stare attenti a non affogare se la Magra è in piena” ; “che la “crazia”, una suddivisione del “paolo” (moneta in uso all’epoca), è la moneta più leggera al mondo (con qualche probabile doppio senso). Consigli arguti, se vogliamo, ed anche pratici per i viaggiatori dell’epoca, che pure evidenziano la natura godereccia di chi le ha scritte, seppure un eminente scrittore come Stendhal, il quale prosegue con altre raccomandazioni:


«A Firenze si raccomanda di prendere alloggio dalla signora Jmbert, baccano di un grande albergo, 25 camerieri, disordine, la camera costa 30 crazie e vi si incontrano almeno 30 inglesi. Di cenare al San Luigi Gonzaga o al Leone Bianco in Via della Vigna, e che bisogna soprattutto cercare di cercare di cenare con italiani; (..) che non bisogna trascurare nessuna occasione per conoscere il carattere di questo popolo che da qualche anno in qua è diventato ancora più diffidente». Così come pure si raccomanda « ..la domenica, di andare alla messa grande in Santa Trinita, per poi fare una passeggiata sul Lungarno; mentre al tramonto non dimenticare la “passeggiata” alle Cascine» - tra virgolette nel testo originale, utile quanto capricciosa raccomandazione. Non vi pare?


Tutto ciò, a far da contraltare all’immagine di un’Italia ancora non sovraffollata e tutta percorribile da un capo all’altro attraverso le dolci colline appenniniche, tra il verde dei campi e dei boschi e la trasparenza dell’acque che rigogliose l’attraversano tutta dal Nord al Sud del paese e che rigogliose discendono in rivoli sinuosi a formare laghi e laghetti disseminati qua e la su tutto il territorio, per poi ricomporsi nei letti dei fiumi poco profondi e risvegliarsi e gettarsi con slanci fragorosi in altrettante cascate, come quella di Terni che il cugino Beyle definisce “la più bella del mondo” e, quella di Tivoli, più discreta forse, certamente non meno gradevole alla vista, se si considera nell’antro misterioso che l’accoglie.


«Da Firenze, si raggiunge Roma per Perugia, vi si va in 5 o 6 giorni spendendo 50 o 60 franchi francesi al massimo, offrire 45 franchi al vetturino».


Ecco qui un altro aspetto che differenzia il viaggio. Mentre qui si poteva barattare il prezzo del trasporto oggi questo non lo si fa, per via che il biglietto di trasporto è stabilito dalle tariffe in corso. Ad esempio per pochi franchi francesi si poteva ottenere un posto buono sulla diligenza, cioè in fondo alla carrozza, e che i vetturini abituali facevano pagare ogni giorno un franco in più ai passeggeri, una particolare abitudine tradizionale dei vetturini.


«A Perugia si può prendere la diligenza papale, ma si farebbe meglio a prendere il vetturino poiché arrivato a Roma, uno può essere certo di avere 5 amici».


Ed avere cinque amici a Roma aveva, a quel tempo, un significato non indifferente. In certo qual modo, valeva ad essersi assicurati un gradevole quantomeno interessante soggiorno nella città papale.


«A Roma si deve andare da Franz in Via dei Condotti; se non avesse posto, andare da Giacinta di fianco alla Dogana. Chiedere la camera al terzo piano, che ha 4 finestre e costa 3 paoli. Andare a cena dall’Armellino al Corso, di fianco a Palazzo Sciarra: cenare con 26 baiocchi (100 baiocchi fanno 5 franchi e 40, ci sono 10 paoli in uno scudo romano)».


Chiese, monumenti, strade, orari di visita, costi e monete, tutto è descritto secondo “tre principali itinerari” che il cugino Beyle consiglia di consultare nell’ultima guida della città redatta dal Nibby:


«Si segna con la matita quel che si vede, aggiungendovi la data. (..) Si studino le carte dell’antica Roma, raccomando quella compilata dal Brocchi: mostra lo stato fisico del suolo di Roma quando Romolo vi prese dimora; del resto fino alla comparsa di Brenno, nulla è più incerto della storia romana».


Se vogliamo, è un’affermazione un tantino azzardata, ma per un turista che si trova a visitare la città Caput Mundi per la prima volta è più che sufficiente, non vi pare?


«Cercare di andare a Napoli con un artista francese. Gli artisti francesi s’incontrano a Roma al Caffè Greco, di fianco a Franz. (..) Non è facile trovare alloggio a Napoli: vedere l’albergo dell’Universo sopra il Caffè Italia; vedere gli alberghi a Santa Lucia e prendere una camera al quarto piano: si vedono il Vesuvio e il mare. Tutte le sere, alle 6, più di una barca parte per Ischia; vengono richiesti 10 carlini (moneta napoletana); se ne danno 3 o 5 al massimo. Si arriva alle 7 del mattino. (..) Andare a Casamicciola, prendere alloggio da un contadino; gli si danno 2 o 3 carlini il giorno, la moglie cucina; andare alla villa che sovrasta la cittadina fino a che non ci si trova dirimpetto a Capri. (..) Dall’isola d’Ischia ci si potrebbe imbarcare per Mola di Gaeta, dove prendere alloggio alla casa di Cicerone, fissare il prezzo; la colazione, la cena e la camera devono costare cinque franchi. (..) tutti i vetturini che vanno (tornano) a Roma passano sotto le finestre. Si trovano posti per Roma ad ottimi prezzi. (..) Ma fare attenzione: l’albergatore che è un furfante, vi tiene nascosti alcuni vetturini».


La diligenza riprende il suo viaggio sulla strada di ritorno per la strada che da Napoli conduce a Roma e di lì a Ferrara passando per Ancona e Bologna e, infine, a Milano, quando improvvisamente si cambia vettura in direzione di Venezia:


«… la diligenza veloce costa 24 franchi e impiega 20 ore. Ci si potrebbe anche imbarcare a una lega da Ferrara, a Ponte Lagoscuro. È molto pittoresco, si vedono Padova e le rive del Brenta. (..) Una volta a Venezia dimorare alla Locanda della Luna, a venti passi da Piazza San Marco».


Noi ci fermiamo qui, nell’accogliente e generosa città di Venezia, dove già le maschere deposte, rivivono nell’attesa di un altro carnevale. La diligenza prosegue il suo viaggio attraverso la Svizzera e di lì fino a Parigi, dove certamente Colomb s’incontrerà con suo cugino Beyle, al quale narrerà, a sua volta, le sue impressioni su questa nostra Italia del 1828. A noi resta il piacere di una rilettura di questo vademecum “un’autentica chicca per amatori” ricco di note biografiche e riferimenti paralleli con gli altri più noti “viaggi” stendhaliani.


Musica per un viaggio in Italia: (soundtrack della trasmissione realizzata).


Gioacchino Rossini - “Sonata n.3 in Do Mag.” I° m. –
Anonimo – “La Ghirlandeina” – Luciano Pavarotti.
Linda Lucci – “Mormorio dei Platani”, (strumentale) Ed. limitata.
Luigi Cherubini – “Se tu m’ami” canzone – Lieder Quartet.
Linda Lucci – “Fontane all’alba”, (strumentale) Ed. limitata.
Anonimo – “Tutte le fundanelle” – Corale G. Verdi.
Linda Lucci – “Canto del Tirreno”, (strumentale) Ed. limitata.
Gioacchino Rossini - “La danza” – Beniamino Gigli.
Del folklore – “Italian festa” – (strumentale) Ed. limitata.
Gioacchino Rossini - “Sonata n.5 in Mi bem. Mag.” I° m. –
Gioacchino Rossini - “Il carnevale di Venezia” – Lieder Quartet.


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- Cinema

’La migliore offerta’ un capolavoro del cinema ita

‘La migliore offerta’ di Giuseppe Tornatore, un capolavoro del cinema italiano.

In puro stile Tornatore, cioè flemmatico, avvolgente, coinvolgente, per quanto alle prese con una trama originale e una sceneggiatura impeccabile, questo film si apprezza anche per le altre qualità d’insieme, a cominciare dal gusto, elegante e raffinato delle inquadrature, quel po’ di sofisticato ‘viscontiano’ nella ricercatezza scenografica che non guasta, e infine, ma non in ultimo, la gestione dei personaggi, resi vigorosi da un impianto teatrale che molto toglie al cinematografico ma che rende loro lo spessore e la credibilità che necessitano nel raccontare ogni loro singola esperienza. Non sempre imprevedibile la trama, ricorda qua e là altre situazioni déjà vu (La partita, La stangata), e tuttavia intrigante e fascinosa, in cui la simulazione affronta temi ben più sottili e difficoltosi tipicamente nostrani, eppure quasi mai resi così apertamente ‘visibili’ nel cinema, come la sensibilità artistica (tipicamente italiana) del collezionista, la rinuncia di se stessi per uno scopo, la senilità che incombe sul desiderio, l’illusione e la speranza di poter dare una svolta alla propria vita. Questi i risvolti sottili e ‘coinvolgenti’ del film, difficili da esternare in immagini ma che il regista ha sottolineato, forse senza ironia, certamente con destrezza e capacità intellettuale, volendo compenetrare - come egli stesso ha detto in una recente intervista - quella che è l'Arte del cinema nel mondo dell'Arte tout court. E forse c'è riusciuto, mixando in ciò che di 'visibile' le due arti hanno in comune, lo stupore sottile della bellezza. Lo si direbbe un thriller dotato di un suspense per così dire ‘alterato’ nell’effetto, che non ha fretta di arrivare a una conclusione oggettiva ma che, all’uopo tende a diluirla nel ‘tempo e nello spazio’, la sequenza ‘hitchcockiana’ degli orologi lo rivelano, che lascia allo spettatore di ritrovare la sua pacatezza (o la propria inquietudine a seconda dei casi), e per qualche istante, lasciarlo dirigere il suo personale film, fuori dello schermo.

Straordinari tutti gli interpreti a cominciare dal suo protagonista Geoffrey Rush, la cui impassibile interpretazione lascia a momenti sconcertati; a Donald Sutherland sempre grande anche nelle piccole parti, e a tutti gli altri, da Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Philip Jackson, Dermot Crowley capaci e misurati, e comunque ber orchestrati dal regista Tornatore che con questo film sembra aver recuperato la sua autentica maturità. Strano a dirsi, che aveva già dimostrato nel suo film presentato a Cannes “Una pura formalità’ del 1994. L’ottima colonna sonora di Ennio Morricone ovviamente si commenta da sola, opera di un vero ‘maestro’ il cui riconoscimento è ormai planetario.

Nb: risulta un tantino ripetitivo e piuttosto statico nella parte centrale che si potrebbe accorciare e che non penso inficerebbe la validità del film.

 

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- Cinema

’Cloud Atlas’ - un puzzle senza sorprese

CLOUD ATLAS – (L’Atlante delle Nuvole) – genere fantasy
Scritto e diretto da Lana Walchowsi & Tom Tykwer & Andy Wachowski, (creatori della staordinaria saga di Matrix), tratto dal libro ‘cult’ di David Mitchell – Frassinelli 2012.

(Sinossi ufficiale del film)
«Un'epica storia del genere umano nella quale le azioni e le conseguenze delle nostre vite si intrecciano attraverso il passato, il presente e il futuro come una sola anima è trasformata da un assassino in un salvatore e un unico atto di gentilezza si insinua nei secoli sino ad ispirare una rivoluzione »

Spacciato per un film di fantascienza che non è, così come il libro non è da elencarsi in tale categoria, si propone come una sequenza di immagini cartolina sicuramente belle da vedersi, commiste ad altre di scarso interesse antropologico, perché artate, e infiniti e lenti primi piani che ricordano da lontano una certa disciplina Zen. La trama ruota intorno a una visione della storia dell’umanità, probabile quanto impraticabile, suddivisa in temi ricorrenti. Nel film come del resto nel romanzo, questi sono giocati sull’ipotesi del ‘destino’ e la ‘reincarnazione’, sull’esistenza di ‘vite parallele’ e ‘futuribili destinazioni’, legati indissolubilmente (questo il senso del film) attraverso lo spazio e il tempo, attraverso numerosi richiami e citazioni pseudo-filosofiche. Come dire, c’è troppa carne sul fuoco, e la durata del film a lungo andare stanca anche il più volenteroso degli spettatori che, preso dal seguire le sei storie parallele che si alternano e sfumano una nell’altra, come per l’effetto di uno spettacolo di ‘ombre’ cambogiane dove, alla fine dell’intera giornata di tea trazione, si è messi in difficoltà nel seguire lo svolgimento delle trame e ci si sente come dei sopravvissuti. In tutto questo mancano ‘le nuvole’, cioè quella poesia, o se preferite quella liricità, insita nel titolo ‘L’Atlante delle Nuvole’, e nella musica di cui si compone la ‘colonna sonora’ (tecno-classico). Nulla dello ‘straordinario’ annunciato per l’uscita del film, e nulla di più nel messaggio subliminale cui sembra rimandare. Fatto è che mentre nel sequel di Matrix c’èra dato il tempo di ‘gustare’ e ‘digerire’, sequenza dopo sequenza, una certa storicità filmica, che infine era accettata dallo spettatore, in questo concentrato di tre ore, in cui l’impianto narrativo risulta troppo spezzettato e troppo volutamente ‘sensazionalistico’, come appunto un arguto critico ha commentato: “..come se i registi avessero come primario obiettivo quello di stupire lo spettatore piuttosto che di raccontare una storia”. E, alla fine ci si sente colti da problemi di digestione.


Rimane il grandioso tentativo di raccontare l’umanità intera attraverso un film ed è questo quello che fa di ‘Cloud Atlas’ un esercizio visivo e visionario da cineteca, un tormentato viaggio nell’animo umano che se pur mostrato in differenti ere e situazioni rimane sempre uguale (mentre il mondo tutt’attorno cambia), sempre alle prese con lo strenuo tentativo di capire e realizzare le proprie aspirazioni.


Bravi gli interpreti e in generale l’intero cast: da un rigenerato Tom Hanks ad Halle Berry, la coreana Doona Bae, Jim Sturgess, Jim Broadbent, Hugo Weaving, Hugh Grant, Susan Sarandon, insomma tutti si impegnano a rendere il loro contributo essenziale alla storia ma senza prevaricarla, in modo da rimanere come tessere di un puzzle, uniche nella loro singolarità ma perfettamente integrate in un disegno più ampio. Sicuramente straordinari i truccatori e i parrucchieri, i costumisti e gli scenografi, in quanto agli ‘effetti’, tolte alcune immagini futuribili, il resto è lasciato all’ormai ottimale fotografia.

Così le critiche:

Cloud Atlas’, è uno dei film più brutti usciti recentemente al cinema, ma si badi, il macroscopico handicap dell'opera non risiede tanto nell'effettiva qualità, quanto piuttosto nell'enorme, catastrofica, ciclopica differenza tra le ambizioni contenutistiche e il risultato formale”.


Scopo di questo viaggio spazio-temporale è quello di mostrare in che modo i destini degli uomini siano interconnessi e il modo in cui un'azione compiuta nel passato - benigna o maligna che sia - abbia ripercussioni tangibili e fondamentali nel futuro, sancendo così una sorta di fratellanza solidale tra i componenti del genere umano (e non solo)”.

Per questo motivo il film (e anche il libro, ma con una struttura narrativa diversa) passa attraverso sei storie, ognuna riflettente un genere cinematografico: si va dall'ottocentesco romanzo d'appendice antischiavista, la storia d'amore omosessuale - romanzo di formazione musicale dei primi del Novecento, la spystory ecologista ambientata negli anni 70, la commedia senile contemporanea, la distopia totalitaria del futuro prossimo, e l'action post-apocalittico e misticheggiante del "Dopo la caduta". Un guazzabuglio di ambientazioni, personaggi, situazioni differenti, che, nelle intenzioni dei registi, dovrebbe essere unificato dalla presenza dei medesimi attori nelle varie sezioni (anime peregrine attraverso il fluire del tempo)”.

Vediamo così le innumerevoli trasformazioni di Tom Hanks, Halle Berry, Hugo Weaving, Susan Sarandon e il resto del cast, ovverosia una sfilata di mostruosità ambulanti, grotteschi e ridicoli manichini, resi tali da un trucco e un reparto costumi da far impallidire per incompetenza le peggiori recite scolastiche cui abbiate mai assistito. Sarebbe in fondo un dettaglio da poco, se non fosse che in questo modo qualsiasi approccio empatico a quanto passa sullo schermo scompare all'istante. Non è raro infatti sghignazzare nei momenti di maggiore pathos e chiedersi, durante i titoli di coda in cui vengono mostrate le varie incarnazioni degli attori, come è stato possibile che qualcuno non abbia fermato una simile pazzia”.

Ma un film non è costituito solo dai suoi attori, c'è anche una storia da sviluppare. E la nota dolente della narrazione, infatti, è che ognuna delle sei storie è poco più che lo stereotipo avvizzito, il canovaccio risaputo e stanco del soggetto classico di partenza. Una volta comprese le premesse di partenza sarà molto semplice per lo spettatore, e per nulla appassionante, indovinare come si svilupperà la sezione, nonostante i vari salti di montaggio”.

Sarebbe stato forse meglio sfrondare, guadagnando in compattezza, caratterizzazione dei personaggi (poco più che funzioni narrative) e sviluppo? Nessuno può dirlo con certezza, ma sicuramente ‘Cloud Atlas’ è il primo grande fallimento del nuovo anno cinematografico”.


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- Letteratura

I libri che non ho letto e che forse non leggerò..

I Libri che non ho ancora letto, e quelli che forse non leggerò mai (perché ancora non sono stati scritti).

Il nome degli autori dei libri che ancora non ho letto non ha qui alcuna importanza, anche perché non volendo offendere nessuno, mi astengo dal citarli. Qua e là posso riferire invece di alcuni che più mi hanno incuriosito, ma anche in questo caso non saprei dire cos’è che solitamente mi colpisce in un libro e che mi spinge al suo acquisto. Un tempo sono stato uno di quei topi di biblioteca che inforcavano gli occhiali e non avevano timore di impolverarsi le mani e che passava il tempo a sfogliare pagine su pagine in cerca di non so bene che cosa. Quasi che il libro dovesse raccontarsi da solo il perché l’avessi svegliato dal suo ozioso torpore. Fatto è che, colto da presunto interesse era possibile che lo chiedessi in prestito al bibliotecario e me lo portavo a casa, per poi posarlo  sul mio comodino da notte, lasciandolo in un attesa gravosa di pensiero. Sì, perché non era detto che lo leggessi subito, poteva passare anche molto tempo. Talvolta, rammento, che sollecitato dal bibliotecario dal quale mi ero recato per un’altro prestito, lo restituivo senza averlo letto. Anche in quel caso però, il fatto di per sé non corrisponde a verità assoluta, perché sono fermamente convinto che la compagnia di un libro, che vive con noi e condivide parecchio del nostro tempo, e che in qualche modo ci ha onorato della sua presenza, come dire, ci ha offerto la sua disponibilità alla lettura con pazienza di tomo e prodigalità di pagine, alla fin fine ci ha lasciato qualcosa di suo. La sua immagine, lo spazio occupato, il vuoto lasciato, per non dire della copertina che, se non era del tutto anonima, portava seco la compiacenza di uno sguardo, che fosse quello dell’autore o del personaggio della storia narrata, l'immagine a colori di un paesaggio che tutto sommato mi riconciliava con la natura, almeno con quella che si vedeva fuori della mia finestra, allorché, immerso nel buio della mia camera da letto, ero capace di passare dall’euforia della compagnia, alla tetraggine dell’insonnia.

Era in quei momenti che spesso agguantavo il primo libro che mi capitava in mano e lo sbrindellavo sui cuscini scomposti, tra un sopravvenuto sbadiglio e l’urgenza di andare al bagno a fare pipì. E dipendeva sempre dall’entusiasmo del momento, dalla paura inculcata da certe pagine orrifiche, dai passaggi deliziosi di un erotismo virtuale che vagheggiavo, se era il caso di alzarmi e lasciarlo lì fra le coperte in rivolta. O, se venivo preso dalla fregola di andare avanti, lo conducevo con me in bagno per continuarne la lettura sulla tazza del water (ma forse è meglio chiamarlo cesso). Tuttavia, il libro, non per questo si sentiva vilipeso, o in qualche modo offeso dalla possibile puzza, o dal venire sfogliato in modo irrispettoso perché malagevole, o stanco perché talvolta finivo per abbandonarlo sullo sgabello e l'obbligavo a sentire lo scroscio dell’acqua dello sciacquone. Chissà se avrà avuto paura di un possibile temporale? Non deve essere molto piacevole per un libro soggiacere all’acqua che lo fradicia, quella di uno sciacquone poi (?).

Chissà che un giorno non si arrivi a un libro per così dire ‘liquido’, allora basterà berlo per conoscere tutto il suo contenuto. Che sia utopia liquida la mia? In una realtà dove a dire dei molti tutto è liquido, la società, la modernità, l’amore, la paura, la democrazia, penso ci sia posto anche per il libro liquido, magari non necessariamente subordinato all’acqua che scende nel cesso. Ma torniamo per un momento alla storia, non quella del libro, ovviamente, ma la mia. Nel frattempo non frequento più le biblioteche, credo le abbiano chiuse, ‘perché non servivano più’ – hanno detto. Ho però costituito una mini biblioteca personale nello studio dove lavoro ed alla quale ho accesso quando voglio, adibita solo ai libri che ritengo siano degni di tale onore, dove i libri si sentono al centro dell’attenzione, vengono curati (non sempre letti), più nel senso di spolverati, e vi giacciono in ozio, come dire, a far bella mostra di sé.

Rammento che un giorno mio figlio, ormai in età della ragione, mi ha chiesto cosa ne facessi di tutti quei libri che secondo lui soffocavano le stanze. Non dirmi che li hai letti tutti? – mi ha chiesto. Beh, sai, qualche volta mi capita di sfogliarne qualcuno, in quanto a leggerli... È da folli pensare di poterli leggere tutti! Beh vedi - ho tentato di discolparmi - non è così che funziona, avendo del tempo a disposizione, magari un giorno, tu potresti... Non pensarci nemmeno! – ha aggiunto mentre trafficava col suo i-Pad.

Fatto è che con l’avanzare dell’età, ho preso la sana abitudine di portarmi un libro in tasca (o in mano a seconda della grandezza), e andare a leggerlo al parco. Qualche volta finisce che a causa di aver dimenticato gli occhiali lo tengo con me mentre passeggio e posso dire che se è uno di quelli che ho conservato perché mi era piaciuto molto, mi scalda il cuore sfogliarne alcune pagine e rammentare (non rileggere) quei passaggi che in qualche modo me lo hanno reso caro. No, non faccio il lettore di professione, anche se posso dire di aver letto molto, specialmente in passato, e qualche volta provo una sorta di rimpianto per certi giorni della mia vita in cui con un libro in mano anche frequentare un bar e sedersi a un tavolino per un caffè, poteva dare piacere. Allora si coglieva l’occasione di incontrare uno scrittore famoso, o un giovane poeta che rincorreva farfalle di fantasia, o che si crucciava dei ‘dolori’ dell’anima e dove, ogni momento speso non era mai, per così dire, speso a vuoto.

Ovviamente continuo a leggere anche il 'nuovo', i nuovi romanzi, i nuovi racconti, le nuove poesie che tolta qualche rara occasione pur tuttavia non mi dicono niente di 'nuovo'. Pochi sono i libri in verità, che hanno la capacità di affabulare il lettore e convincerlo di quello che dicono dalla prima pagina all'ultima, da lasciarlo addirittura senza fiato, per la loro sconvolgente autorevolezza. Spogliato qua e là di una marcata presa di posizione che non cambia l'indirizzo etico ed estetico del mio dire, trovo che il libro “La manomissione delle parole” di Gianrico Carofiglio sia un voler rincorrere concetti di cui abbiamo perduto il senso, che l’autore saggiamente recupera e ci omaggia con una lettura più vicina a noi, per dire, al nostro tempo, alla società attuale che, sempre più, si perde nelle concatenazioni superate e fittizie della politica.
Nell'economia del libro, infatti, la politica è nelle cose, negli atti, così come nei pensieri e addirittura nelle parole divenute "sconvenienti" perché - come egli scrive - manomesse in funzione di qualcos'altro che non è il terreno originario per cui sono state coniate. Inutile dire che qualcosa non funziona in questa società (che voglio qui ricordare abbiamo costruito noi), in questa democrazia che pur noi ci siamo dati. Qualcosa certo non deve aver funzionato a dovere se stiamo ancora qui a sbattere la testa contro il muro, dopo aver affrontato ogni argomentazione ed esserci fatti buoni propositi, aver fatto promesse (a noi stessi prima che agli altri), se poi siamo rimasti più o meno quelli che eravamo un secolo fa. Viene da domandarci a cosa sono servite tutte le guerre se ce ne sono ancora in corso? Tutti gli incontri al vertice (G8 - G10 - G20 e quelli sulla fame, sull'ecologia, sul nucleare, sul salviamo il mondo) tra le nazioni, se tutto rimane come è sempre stato, anzi peggiora di giorno in giorno?

Tutto questo, ovviamente se vogliamo pensare in grande riguardo alla società, alla comunità, all'intera umanità; ma che succede se per un istante ci inoltriamo nel "labirinto" di noi stessi, noi intesi singolarmente come entità pensante e giuridicamente responsabile? Come accade nel "Paradiso Perduto" di Milton "siamo fregati", o ci hanno fregati? No, la verità insita in questo saggio che non pretende di essere il verbo, bensì ricondurci alla realtà dei fatti, e oserei dire dentro una verità scontata: "ci siamo fregati da soli". Ovviamente l'autore non si esprime in questo modo pedestre, vola più alto, ma seguirlo non è affatto pesante, anzi restituisce alle parole un senso che dovremmo tornare a far nostro. E ciò che egli vuole dirci è che dovremmo re-incominciare a chiamare le cose con il loro nome, ripensare il linguaggio come un gesto in prospettiva che vada verso il futuro, "immaginare una nuova forma di vita".

Scrive Ezio Raimondi in "Le voci dei libri": “Il libro vero parla sempre al momento giusto. Lo inventa lui, il momento giusto; con il colore della parola, con la singolarità della battuta, con il piacere della scrittura”, ed è davvero così. Avviene tutto per sintesi, che addirittura potremmo dire per simbiosi, data dalla necessità interiore che ci fa stendere la mano verso un libro e non un altro. Perché è proprio quello di cui necessitiamo in quell’istante e che funge da richiamo. Così accade per il colore o la mancanza di colore di quella copertina, delle grafica che ci cattura lo sguardo, ci lusinga, ci abbindola.

Quante volte abbiamo aperto un libro e scorrendo le sue pagine ci è sembrato di aver trovato proprio quello che volevamo leggere, o magari, solo sentircelo dire. Ogni libro ha un suo odore, non è forse così? Poco dopo che lo maneggiamo, riconosciamo nella carta e nell’inchiostro un sottofondo odoroso che lo fa nostro, per cui sappiamo dire finanche dove siamo arrivati a leggere senza l’uso del segnalibro. Altre volte, rammento, di aver sfogliato un libro e averlo subito riposto, perché non lo sentivo adatto in quel momento; oppure di averlo ricevuto in regalo e messo subito via, nel limbo delle attese.

Come dire, in stand-by, aspettando il momento migliore per leggerlo e che talvolta è arrivato dopo anni, che quasi non rammentavo neppure di averlo. "Invece era lì...", che aspettava il momento giusto per imporsi alla mia attenzione, e accipicchia, quante volte l’ha spuntata lui, il Libro, e devo ammettere che ‘in qualche modo’ davvero mi ha cambiato la vita. È accaduto con “Pinocchio”, “Cuore”, “Tre uomini in barca”, e con “Bel-Ami” quando ormai avevo l’età giusta, e ancora con “La luna e i falò”, “I fratelli Karamazov”, “Il Maestro e Margherita”, e tantissimi altri.
Ma il grande libro che più mi ha conquistato, e che è quasi inutile citare, è stata “La Divina Commedia”, a seguire “I promessi sposi”, “L'Iliade” e “L’Odissea”, “Don Chisciotte” e poi “L’interpretazione dei sogni”, “L’idiota”, “La nausea”, “L’odore dell’India”, “Cent’anni di solitudine”, “Memorie di Adriano” e immancabilmente e irrimediabilmente “La Recherche” di Marcel Proust. Quanti altri? Tantissimi, che per uno come me, che legge anche il biglietto del tram, non può bastare questo articolo per elencarli tutti. Tuttavia, forse, avrei dovuto citare almeno i nomi degli scrittori, oltre a quelli dei poeti che dopo Dante si sono susseguiti instancabilmente nelle mie letture: Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, Marinetti, Campana, Pasolini, Ungaretti, Neruda, Hölderlin, Kerouac, Carver, Celan ecc. ecc. O forse i grandi saggi ...

Chiedo scusa, smetto subito di tediarvi. Fatto è che mi è capitato più volte di aprire un libro e “trovare”, quasi come un trovarobe di teatro, qualcosa che in verità non stavo cercando ma che, guarda caso, era esattamente quello di cui avevo bisogno in quel momento. A dircelo è il curatore di quella intelligente e originale raccolta "I libri ti cambiano la vita" che è Romano Montroni, la cui idea di mettere assieme, per quanto diverse, le esperienze letterarie di cento scrittori, giornalisti, compositori, attori, più o meno conosciuti, più o meno lettori, più o meno impegnati. I quali, hanno dato fuoco ai loro ‘segreti’ librari, lasciandosi scoprire in attitudini letterarie inconsuete e, in qualche caso, inaspettate e, “con generosità hanno accettato di condividere emozioni, sensazioni e pensieri nati dalla lettura”.
Inutile dire che la geniale idea non poteva che venire a un esperto del settore librario quale è Montroni: “un uomo che dei libri ha fatto una delle ragioni della propria vita”; il quale, con questa raccolta, ci propone anche qualche ripensamento, ad esempio, affiancando pareri diversi di uno stesso libro; ri-proponendo alcuni libri “secondi” destinati al dimenticatoio e che, guarda caso, vale invece la pena di riscoprire. Inoltre ci sono libri di cui, personalmente parlando, non conoscevo l’esistenza, perché forse il loro odore, il loro colore, il loro ‘essere’ essenzialmente lontani dai miei interessi, a suo tempo, non mi avevano attratto.
Ecco qui un altro termine di raffronto, l’attrazione, il fascino, la seduzione e l’incanto, lo scherzo intelligente di esistere eppure di nascondersi a noi cercatori d’oppio letterario che, stanchi, lasciamo talvolta al caso di offrirci le sue leccornie passate. È il caso de “La gola”, “Il profumo”, “Follia”, di cui, forse, non troverete notizia neppure in questa raccolta ma che pure consiglio di leggere per la loro ricercatezza e nascosta seduzione. Un libro fatto di libri, quindi, che riapre una discussione sempre in corso e mai conclusa, sulla lettura e sui lettori, nel momento in cui i mezzi, gli scrittori, gli editori, i lettori, stanno cambiando con il cambiare della società e dei suoi interessi.
Fa colpo trovare lo “Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana”, proposto da Cesare Bartezzaghi, nel momento in cui la ‘lingua’ sta perdendo e acquisendo connotati talvolta controversi. O “L’arte della cucina moderna” proposto da Allan Bay, quando ormai sembra non si parli d’altro ma che forse torna utile per contrastare le ‘stupidità’ di certi programmi televisivi, improbabili quanto inutili. Interessante è dir poco l’enunciato di Ginevra Bompiani che in “Vari” spiega quanto segue: “Se i libri non ti cambiano la vita, certo la fanno. Direi piuttosto che i libri ti costruiscono la vita, la ondeggiano, la sprofondano e poi la sollevano, come un sentiero in cresta fra le colline. I primi libri, quelli letti da bambino, le danno la patina l’illusione specifica. I libri letti da ragazzi non hanno autore, sono sottomarini anonimi che colpiscono e affondano la corazzata bambina. Non c’è difesa da loro, non c’è protezione. L’emozione e la cattura sono totali. L’emozione non ha sempre a che fare con la qualità, piuttosto con la forza. Quando si invecchia, si scopre che l’emozione è una forma di malattia. Non sempre si guarisce, ma quando la malattia si spegne, si rimane svuotati, come in una mattina di ottobre, tersa, pungente, senza veli di nebbia, persi in un orizzonte che non ha segreti”.

Ed è questa malattia che spesso diventa ‘magia’ capace di stravolgere la vita con le parole. Una ‘magia’ che incanta e che lascia spazio ai sogni, alle illusioni, al canto lirico e alla poesia, quando ottimisticamente “credevamo altresì di trovarci all’alba di qualcosa di nuovo”, quel qualcosa che Enrico Brizzi nel parlarci de “Il giovane Holden” di Salinger, ci ha condotti per mano nella sensazione d’incredulità irreligiosità e diffidenza che ci attraversa tutti.

Molti altri in verità sono i libri che porterei con me in un ultimo viaggio, per rileggerne alcuni nel tempo dell’attraversamento, se non fosse per l’extra che mi verrebbe richiesto, dovuto al sovrappeso. E sarebbe un eccesso bagaglio che comunque pagherei volentieri. Pochi tuttavia sarebbero quelli che mi accompagnerebbero fino alla meta, cioè oltre la soglia della nuova casa che dovrebbe ospitarmi: la "Bibbia", la "Divina Commedia", le "Mille e una Notte", il "Milione", "Moby Dick" e sicuramente un libro piccolissimo “non meno grande degli altri” di Jean Starobinski “Ritratto dell’Artista da Saltimbanco”. Un breve saggio (che si legge come un romanzo) pari ad un ‘gioiello’ che mai arte orafa abbia elaborato, e c’è più di un perché che lo rende ‘prezioso’. Mai come questa volta sto parlando di un ‘libro’ per il piacere di descriverne il contenuto nella pur brevità del testo che l’accompagna: il discorso iconografico affine alla tematica dell’arte, l’accessibilità della scrittura elegante per quanto ricercata, la pregiata scelta poetica che include Baudelaire, Apollinaire, Rilke ed altri, la sobrietà del ritratto culturale di un mondo quasi scomparso che rivive in queste pagine al pari di una resurrezione.
L’autore attinge alla ‘storia dell’arte’ estrapolandone l’elemento ludico del Clown: Buffone di corte, Arlecchino, Pierrot, Augusto ecc. di shakespeariana e goldoniana memoria (solo per citarne alcuni), districandosi in un percorso immaginativo che sfugge finanche all’ottimo cultore; a quella ‘storia del teatro’ che i migliori storici non hanno saputo spiegare; alla raffinata critica letteraria per cui le parole acquistano senso; alla psicologia del profondo incredibilmente attuale, spiegata con la garbatezza di chi (l’autore), pur dovendo fronteggiare una ineluttabile ‘fine’, riesce a farci amare. Ma preferisco qui rifarmi alla colta introduzione di Corrado Bologna: “Ritratto del critico da domatore di fantasmi”, la cui peculiarità sta nel fornire al lettore la chiave di lettura della ‘cifra’ letteraria e psicologica di Jean Starobinski che, altrimenti, finirei per sminuire o malvolentieri scopiazzare.
“Il saggio si interroga sulla natura dell’interesse che da più di un secolo gli artisti hanno portato alla figura del saltimbanco, dell’acrobata, del clown, sino a identificarsi in quella. La scelta dell’immagine del clown non è solo d’ordine pittorico o poetico: sotto mentite spoglie equestri, gli artisti hanno spesso consegnato il proprio autoritratto, e insieme si sono interrogati sulla natura della propria condizione, per molti versi affine a quella del saltimbanco: da Flaubert a Jarry, da Joyce a Picasso, a Henry Miller. Frutto di una sensibilità originalissima in cui si mediano livelli diversi di lettura critica – da quella psicologica a quella più propriamente letteraria – la rivisitazione del mito del clown sembra qui assumere la stessa levità fantastica dell’oggetto che descrive: emerge così una storia di immagini e per immagini i cui significati reconditi vengono accennati, sfiorati, mai imbrigliati in una trama di spiegazioni totalizzanti”.
Totalizzante è invece la straordinaria ampiezza della tematica che si apre davanti ai nostri occhi nel rivivere con occhio critico i momenti salienti di un qualcosa che è parte integrante della nostra ‘storia’ personale, almeno di quanti di noi, ancora oggi, vedono nell’arte circense e in particolar modo nella figura del clown, quel ‘meraviglioso’ che ci ha accompagnati durante l’infanzia e ancora oggi ci sorprende e ci affascina, con quel tanto di malinconia che lo accompagna. La ‘Grande Fiera’ e il ‘Luna Park’ come sinonimi che si compenetrano e si completano a vicenda. Chi non ha vissuto questa esperienza, forse, non comprende ciò di cui sto parlando, tuttavia era, e tutt’oggi lo è, si pensi al “Cirque du Soleil” che ha estrapolato e continua a farlo, quel mondo fantastico dell’arte circense, che andava ‘oltre’ i limiti geografici della comprensione e della conoscenza: quella ‘Piazza Universale’ in cui noi ragazzi e non più giovani ‘clown senza arte ma pur sempre clown’, avremmo volentieri giocato all’infinito.

Tra gli ultimi letti, ma non ultimo, porterei con me un breve racconto prezioso: "La strada" del premio Pulitzer Cormac McCarthy, che apre al futuro e che contiene un messaggio universale di grande impatto emotivo: «Ce la caveremo, vero, papà?» «Sì. Ce la caveremo» «E non ci succederà niente di male» «Esatto» «Perché noi portiamo il fuoco» «Sì. Perché noi portiamo il fuoco». Un libro questo che, pur nella sua esiguità letteraria, risulta fin troppo crudo, a tratti violento, eppure straordinario. Il Libro, tornato ad affacciarsi alla ribalta grazie alla trasposizione cinematografica (mera traduzione filmata diretta dall’australiano John Hillcoat che lo ha presentato in concorso all'ultima Mostra di Venezia, e che se non altro, è valsa a testimoniare al più ampio pubblico, certamente più ampio dei lettori che avranno letto il libro), ci fa regalo di un altissimo messaggio d'amore tra padre-figlio, (di cui non si trova quasi traccia nella letteratura contemporanea). Una storia forse non nuova, ma di certo avvincente, “incentrata sui postumi di un Armageddon, in cui un padre e un figlio si trascinano attraverso scenari post-apocalittici, tra le rovine della civiltà, assediati da fame, disperazione e uomini regrediti che riscoprono gli istinti bestiali del cannibalismo”. Che è anche messaggio d’amore e di vita, per una consumata esistenza-sopravvivenza, che funge da trama portante in un mondo “di puro orrore” dove, il nuovo pericolo incombente della radioattività nucleare, ci presenta uno scenario che riprende le atmosfere metafisiche della fantascienza apocalittica, confermandole.
Un'opera (sia il libro che il film) che andrebbe portata a conoscenza di tutti, a incominciare dalla scuola, per il suo alto valore umanistico che infine ci riscatta dall’essere portatori di fame e distruzione, ma anche di nuova vita. Ciò a discapito delle critiche (più cinematografiche che letterarie) che comunque hanno rilevato una forte valenza escatologica del testo, in contrasto con il film che, “se da un lato appiattisce la poesia in una confezione tanto ineccepibile – paesaggi agonizzanti, fotografia sporca, musiche suggestive – quanto fredda; dall’altro, si pone il sospetto che si sia letto il romanzo solo per il suo contenuto, perdendone la scrittura. Lo conferma ciò che vediamo nella didascalica ripetizione per immagini, cui manca imperdonabilmente l’anima" (Gianluca Arnone). E tuttavia senza nulla togliere all’ottima prova di Viggo Mortensen e del piccolo Kodi Smit-Mcphee, (padre e figlio) smunti, sporchi e amabilmente tragici nel loro “essere portatori del fuoco (della vita)”, restano pur sempre due protagonisti senza nome di un romanzo/film in cui il grigio incombe come “un lugubre sudario su tutta la natura che ha perso i suoi colori vitali”.

Ma se la pagina accende l'immaginazione del lettore, “il film, cupissimo, rigoroso, molto fedele al romanzo, è quasi insostenibile per lo spoglio realismo. Una metafora universale in tempi di guerra come questi, che però evita con classe le trappole e i ricatti del genere" (Fabio Ferzetti). Qui “ogni spettacolarità è bandita, se non la naturale meraviglia del nulla. Per mesi la distribuzione del film è stata in bilico. Potrebbe impressionare, questa palpabile caduta di ogni orizzonte dell'uomo... Vero come un pensiero onesto e ossessivo, e che per questo fa paura" (Silvio Danese).
Non mi rimane che andarmi a rileggere questo incredibile 'piccolo' libro, per accertarmi di ciò che la sconvolgente “realtà” dell’autore (quasi una profezia di quanto sta davvero accadendo) ha portato alla ribalta in un momento come questo, in cui più serve la nostra partecipata riflessione. Adesso vogliate scusare la fretta che mi incombe di riprendere l’autobus per tornare a casa, leggo sul biglietto che il tempo di validità sta per scadere. Ah, dimenticavo, questi sono i libri che non ho ancora letto, mentre quelli che forse non leggerò mai, sono quelli che ancora non sono stati scritti. Ma forse sto solo delirando.

 

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- Musica

The Entertainers I ’frenetici’ anni ’50 / ’60

I ‘FRENETICI’ ANNI ‘50/’60”
(da Musica e Dischi, ripreso da Super Sound magazine).

In quegli anni, il cinema di Hollywood ancora giovane andava sperimentando nuove alternative per interessare e sbalordire il pubblico sempre crescente. Sulla scia dei grandi successi teatrali di Broadway, di cui ormai si parlava sulle principali testate giornalistiche, le Major cinematografiche andavano riproponendo quelle che erano state le ‘commedie’ che avevano totalizzato la maggiore affluenza di pubblico e, ovviamente, riscosso i maggiori incassi della stagione. Il genere era preferibilmente la ‘commedia’, meglio se con l’aggiunta di musiche e canzoni in voga che potevano allietare il pubblico. Nel giro di qualche anno la ‘commedia musicale’ divenne materiale di largo consumo e al cinema si cominciarono a vedere solo ‘film musicali’. Sì, in passato vi erano già stati esempi clamorosi. Dopo che nel lontano 1927 Al Jolson aveva aperto, per così dire, la stagione del ‘sonoro’ con “Il cantante di Jazz”, dove lui ‘bianco’, appariva tinto di ‘nero’ in una celeberrima parodia dai toni ‘blues’ che lo rese molto famoso, la strada sembrò aperta ad ogni altra esperienza. Si pensi che le sei canzoni contenute nel film fecero il giro del mondo. Era stato quello l’inizio di una nuova corrente cinematografica sotto il segno della musica. Fred Astaire, Ginger Rogers, Bing Crosby, Judy Garland, solo per citarne alcune, erano allora stelle di prima grandezza le più luminose del firmamento cinematografico, e facevano brillare di lustrini e polvere dorata, l’atmosfera musicale del momento, divenendo in breve ‘miti’ del più grande successo commerciale mai conosciuto. Già negli anni ’40 la gente, risvegliatasi dal torpore ‘post war’, prese ad affluire nei teatri, ed accorreva in massa al cinema ogni qual volta si proiettava una pellicola sonora, per vedere e sentire il film sonoro, la musica che l’accompagnava, cantare le canzoni dei suoi beniamini. Nelle sale da ballo dove infuriava la musica sudamericana, si scatenava con le orchestre di Xavier Cugat, Perez Prado, Celia Cruz e tanti altri fino allo sfinimento. Nel frattempo, lo swing, attraversato l’Oceano, portava ‘la voce’ di Frank Sinatra in tutta Europa. Il film musicale che aprì effettivamente il 1950 fu “Un americano a Parigi” diretto da Vincent Minnelli con Gene Kelly, un ballerino-cantante-acrobata che avrebbe fatto sognare le teen-ager di tutto il mondo. Le musiche erano del già famosissimo George Gershwin. Con “Cantando sotto la pioggia”, il mondo ritrovò la gioia di vivere, trasformata in esuberante allegria ed entusiasmo; i problemi che aveva lasciato la guerra erano affrontati dalla frenetica baldanza giovanile con la sicurezza data dal new-deal economico, con la sicurezza di chi è vincente nella vita. Come in “Bulli e Pupe” (1955), in “Pal Joy” (1957) fino allo scontro generazionale di gruppo con “West Side Story” (1961) a completamento di quel panorama straordinario che erano stati gli anni ’50. Ma esaminiamo questi tre momenti e i diversi aspetti della vita americana che in essi vengono proposti. In “Bulli e Pupe”, interpretato dall’allora debuttante Marlon Brando e Frank Sinatra, nonché da quell’attraente icona che è stata Jean Simmons, aveva inizio l’era del ‘ragazzo duro’, già visto in “Fronte del porto”, e che troverà più tardi un maggiore coinvolgimento con James Dean di “Gioventù bruciata”. Quello che venne dopo è tutta un’altra storia. La gioventù americana fu letteralmente scossa dagli accordi convulsi di un ‘nuovo sound’ e dagli scuotimenti di un ragazzo dinoccolato dal ciuffo ribelle e le basette lunghe fino a metà guancia, che indossa stivaletti da cow-boy e porta la chitarra a tracolla, che grida e singhiozza: Elvis Presley. È il nuovo astro nascente che esalta le folle con la sua voce e le vibrazioni della sua chitarra, e scuoterà milioni di giovani in tutto il mondo. Fin da subito nascono i cosiddetti ‘fan-clubs’ che accoglieranno genti di tutte le razze e tutte le età sotto il segno della nuova musica nascente, il Rock’n’roll che riprendeva, con assonanze diverse, il vecchio Boogie-woogie. Inutile dire che tutta la musica ne fu condizionata, stravolta da un terremoto che spazzò via il vecchio e riempì i suoi spazi di elettrificazione e bombardamento percussivo. Era stravolgente, gli appena nati Juke Box quasi scoppiavano per la superproduzione di brani ‘rock’ che ormai si appropriavano della melodia tradizionale, rendendola certamente più ‘grintosa’, ‘spingente’, volutamente ‘trasgressiva ’. Ecco, se c’è una parola che più rende il senso di quello che era diventata la musica in quegli anni potrei definirla ‘liberatoria’, perché disubbidiente e, in un certo senso, provocatoria. Ma allo stesso tempo e per moltissimi aspetti era ‘straordinaria’, basti qui ricordare oltre al grande Elvis alcuni altri nomi: The Platters, Bill Haley, Little Richards, Pat Boone, Chuck Berry, Fats Domino, The Beach Boys, ed altri, tantissimi altri che sarebbe impossibile qui elencare, la cui eco delle loro voci giunge fino ai nostri giorni. Un film su tutti: “Il delinquente del Rock’n’roll” con Elvis Presley, scatena una vera e propria ‘rivoluzione’ in termini, dando il via al più colossale fenomeno sociale mai visto. Una generazione di giovani si riconosce in lui, si veste come lui, si atteggia come lui, porta i capelli come lui, si scatena nelle strade alle sua musica, entra per la prima volta nei bar, fonda i club, dando luogo al più grande fenomeno commerciale e sociale che si fosse mai visto. Beniamini della canzone, e attori del cinema indossano blue-jeans e giubbotti di pelle, si lasciano crescer i capelli, masticano chewing-gum, bevono Coca – cola, mangiano pop-corn, chiamano le loro coetanee ‘pupe’, si atteggiano al volante di auto, di moto di grossa cilindrata, affronta la vita ‘on the road’ su imitazione di Jack Kerouac. Qualcosa di più di una semplice infatuazione, che diede luogo a un fenomeno collettivo che aprì le porte all’alcool e alle droghe che portarono alle nevrosi e alla depressione, ma anche all’esaltazione del macho, del superman ed altro ancora e che raggiunse, in certi momenti vertici impressionanti riversatisi poi sulle generazioni successive. L’ondata di ‘revival’ cui assistiamo oggi, nel processo del divenire storico, si ripresenta più come ‘nostagia’ di quegli anni che come moda a se stante. Sembra più una fuga dalla storia che dovremmo scrivere, ma di cui ci manca la creatività e soprattutto il coraggio. Ma che è anche “un modo per riappropriarsene, uno stratagemma per vincere la consumazione del tempo” (Argan); un voler sottolineare che le stesse cose tornano solo in quanto diverse, nel momento in cui le difficoltà sembrano prevaricare su tutto, che accresce le perplessità sulle linee da seguire e che disorientale nostre scelte, per versarli ai facili travestimenti del consumismo. In fondo il ‘rock’, pur osservato nelle sue differenziazioni, non è mai cessato di esistere, dal fatto che vi si riscontra per via della continuità ininterrotta del suo successo: si pensi al gruppo dei Rolling Stones ‘grandissimi’ che, proprio in questi giorni, celebra i 50 anni della sua formazione. Una serie di film e commedie musicali abbastanza recenti, inoltre, hanno riportato gli anni ‘50/’60 in auge e vale qui la pena di elencarli: “American Graffiti”, “Stardust”, “La febbre del sabato sera”, “Hair” “Grease”, “Godspell”, “Orfeo 9” (unico in Italia), “Jésus Christ Superstar”, che gli autori ci vanno riproponendo come di un ‘tempo’ ormai sospeso nell’aria, osservato nel riflesso del ricordo, pronto ad essere rivalutato da nuove esperienze; quasi lo si volesse riscattare, in un momento di vuoto creativo, per i suoi valori musicali e di costume, precocemente lasciati per la fretta ‘liquida’ di bruciare i tempi. Avrei voluto qui elencare i gruppi ‘rock’ e i tantissimi album che hanno fatto la sua storia, ma poi vi ho rinunciato, in quanto molti sono fin troppo noti, altri sono ormai introvabili se non su You Tube. In fondo, va detto, che mi sono proiettato nel pieno di un ‘revival’ nostalgico di certi anni passati un po’ polverosi, tuttavia ancora scintillanti di musica fortemente creativa che vi invito ad ascoltare e sono certo ne rimarrete affascinati, per accorgervi poi che sono ancora quegli anni... “i frenetici anni ‘50/’60” che tutti noi, fan e no, non potremo mai dimenticare.

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- Musica

GINO PAOLI ... una lunga storia d’amore.

GINO PAOLI . . .una lunga storia d’amore.
(elaborazione dell’articolo apparso in: ‘Panorama della Musica Italiana’ – Super Sound 22 Luglio 1974)

Si era agli inizi degli anni ’60 vicino alla Foce, a Genova, un bar conobbe la più bella e importante stagione musicale di quegli anni. In una piccola sala dal vago gusto ‘bohèmien’ si incontravano coloro che avrebbero definitivamente infranto gli schemi della canzone italiana...


...sull’innesto della cultura d’oltralpe, sviluppatasi dalla Rive Gauche della Senna negli anni successivi all’ultima guerra, e detta ‘esistenzialismo francese’. Era già in voga a Parigi, sulla scia delle nuove idee della ‘metafisica’ da cui prendeva le mosse, al che giovani filosofi emergenti si fecero artefici di questo ‘movimento di pensiero’ sorto attorno alla ‘ricerca dell’essere’, all’ ‘essere e il nulla’, sul procedimento di ‘performance’, ecc.. Molti i nomi roboanti che ne facevano parte: Jean-Paul Sartre, Boris Vian, Albert Camus, Simone de Beauvoir, M. Mulean-Ponty, H. Bergson, e sulla scia dei ‘poeti maledetti’ forse il più sconsolato di tutti Jacques Prévert e molti altri, solo per citarne alcuni, che influenzarono la allora cultura dominante, in Francia come nel resto dell’Europa. Erano gli anni ‘50/’60 della contestazione anarchica e della esuberanza giovanile, sedata più volte con autorevolezza dai governi in diverse nazioni che risposero con arresti e violazioni dei diritti di libertà. Nel frattempo, però, il virus della contestazione aveva innescato una sorta di rivoluzione sottile che era penetrata nel tessuto sociale e già mieteva le sue vittime e i suoi trionfi. Inevitabilmente il vero ‘trionfo’ giunse nel campo dello spettacolo e della musica, lì dove il teatro-cabaret aveva piantato le sue bandierine di vittoria, e non solo tra i così detti bohemien dell’ultima ora.


Con l'arrivo del Be-bop i jazzisti francesi avevano affinato i loro strumenti e dato vita a un genere originale che aveva coosciuto un grande successo internazionale con: Sidney Bechet, Claude Luter, Django Reinhardt, Stéphane Grappelli, Michael Legrand, Jacques Loussier, che avevano affiancato i colleghi d’Oltreoceano, e che imperversavano nella Parigi di quegli anni: Charley Parker, Thelonius Monk, Dizzie Gillespie, Bud Powel e tantissimi altri. Né vanno dimenticate le ‘voci’ della canzone popolare come Charles Trenet, Ray Ventura, Tino Rossi, Edith Piaf, George Brassens, Léo Ferré, Jacques Brèl, Juliette Grèco, Yves Montand, Serge Reggiani che da Parigi invasero i luoghi della musica (radio, teatri, manifestazioni di piazza ed altro) e spesso anche le pagine dei quotidiani.

 

Ma torniamo in quel Bar della Foce, a Genova, dove... in una piccola sala dal vago gusto ‘bohèmien’ si incontravano coloro che avrebbero definitivamente infranto gli schemi della ‘canzone’ popolare, i cui nomi sono ancora oggi tra i più noti e affermati: Fabrizio De André, Gino Paoli, Bruno Lauzi, Luigi Tenco, Umberto Bindi ed altri, che avrebbero definitivamente infranto gli schemi della mediocrità musicale dell'epoca. Il loro era un ‘poeticare’ decisamente diverso e diversificato, in senso di originalità e innovazione, pervasi da una struggente partecipazione e sentimenti autentici da essere universalmente accettati, e che noi tutti, almeno quelli che li ascoltavamo, non potevamo che esserne coinvolti. Erano quelli temi che, in alcuni casi suggerivano risposte, proprio a quegli ideali che andavamo perseguendo in quegli anni, intrisi di contrapposizione alla guerra, di apertura ai sentimenti, alla libertà di parola e di informazione, di giustizia ecc.

 

Lì, accomunati dalla stessa fede e dallo stesso rifiuto per i luoghi comuni e per le convenzioni, gli ‘esistenzialisti’ nostrani andarono controcorrente... non curandosi di assecondare il gusto facile e inquinato del pubblico, abituato com’era alla rima facile cuore-amore. Non fu per niente facile farsi ascoltare e comprendere dal grande pubblico. A volte le loro canzoni vennero fraintese e rifiutate nelle competizioni canore e gli stessi autori accusati di appartenere ad una cerchia elitaria che non aveva senso di esistere. Anche per questo venne attributo loro l’epiteto di ‘maledetti’ com’era stato per i loro colleghi francesi. Ma se di èlite vogliamo parlare, facendo un classismo fuori luogo, questa divenne irrimediabilmente una cerchia alla quale tutti finimmo per appartenere, se non altro perché rispecchiava un certo sentire che avevamo fatto nostro.

 

E qui, nel piccolo Bar della Foce che incontriamo per la prima volta Gino Paoli e le sue canzoni... Con lui c'era Luigi Tenco che lo accompagnava al piano e che già, per proprio conto, era destinato a diventare un ‘grande’ inseguitore di sogni impossibili da rivestire di parole. E fu Gino Paoli stesso a rispondere alla domanda di come ricordava quegli anni: “Distribuisco inquietudini, io, solletico dubbi, pongo domande. Se mi guardo alle spalle, perché non so mai che cosa aspettarmi dal passato. E c’è chi vorrebbe leggere il futuro! Io faccio fatica a sapere che cosa è stato ieri, con l’oggi mi arrabatto, il domani è una sbronza di possibilità”.

 

Ma è anche vero che oggi, nessuno ricorda quegli anni se non li ha vissuti, e forse è giusto che sia così. Tuttavia Gino Paoli non ha mai smesso di scrivere canzoni d'amore e, forse, a distanza di tempo posso dire che nessun’altro ne ha più scritte come lui, con partecipazione completa e senza riserve; chi non avverte il disagio di vivere in un mondo che lascia sempre indietro qualcosa, non può capire il suo ‘mondo’ poetico, e quel suo solitario grido di dolore e di solitudine di cui sono intrise le sue canzoni. Certo, è passato del tempo e, in molti possiamo dire di conoscere Gino Paoli attraverso le sue canzoni...

 

...ed è con questi ricordi e pensieri nella testa che alla fine di Maggio (198?) siamo andati in molti ad ascoltarlo a Roma, CLUB 84 dove si esibiva: “I tavolini ancora vuoti, la luce soffusa, il barman che fa tintinnare il ghiaccio nel bicchiere di Gino che seduto su un alto sgabello, se ne sta in penombra nell’angolo del bar. È vestito di nero, pantaloni e maglia ‘dolce vita’, e con gli occhiali scuri che gli avvolgono il viso e lo fanno sembrare un gatto avvolto dall’oscurità che, sornione e schivo, trattiene la vitalità felina della riservatezza e piena indipendenza da ciò che lo circonda. Eppure, vivo e guardingo, attento a cogliere i suoi momenti indimenticabili che poi racchiude nel suo mondo di ‘poeta’ e trasferisce nelle sue ‘canzoni-poesie'. Al tavolo siede con noi, intervistatori improvvisati, e ci parla delle sue canzoni. Gli ricordiamo dei primi anni genovesi e delle sue disavventure, lui si schernisce dicendo che è tutto normale quando si è giovani, ma noi sappiamo che non è così, che ci è voluto un gran coraggio e cuore per stare dall’altra parte della barricata.

 

Oggi Gino Paoli è un artista affermato anche senza aver rincorso il successo, tuttavia è arrivato dove è arrivato con le canzoni-storie che tanto lo hanno reso famoso. Lontano da certi atteggiamenti di moda e da certe polemiche che a quel tempo gli avevano fatto male...

 

...Seduto al tavolino con noi beve di tanto in tanto piccoli sorsi di whisky che sembrano rincuorarlo dei suoi molti ‘passati’, il festival di Sanremo, gli incontri, le sue storie, e i molti suoi amori, mai dimenticati del tutto, dice: – “Un mestiere difficile il mio, alle prese con gli ambienti più disparati, (..) ma il vero compito dell'artista è quello di attivare le idee e di dare un calcio in culo alle coscienze”. È allora che Gino ripercorre partenze e ritorni, digressioni e interludi della sua musica e della sua vita, come di un lungo viaggiare che ha il sapore di un’epoca. Il bicchiere è ormai vuoto quando, trattenendo la mano su di esso, si scusa per quel suo ‘dover andare’ e ancora una volta lo fa silenziosamente, senza far rumore, proprio come il gatto che è sempre stato e che, non a caso, ha dato il titolo alla sua prima canzone ‘La gatta’. Ci siamo, è mezzanotte, il locale adesso rigurgita dei fan venuti ad ascoltarlo, lui vive nella nebbia delle molte sigarette accese e che ha creato una cortina di fumo che lo separa dal pubblico, riservandolo a quella privacy che necessita alle sue canzoni. La musica attacca ‘Senza fine’ col suo lento giro armonico che ritorna e introduce alle sonorità che ci ha abituato la sua voce trascurata pur così profondamente sentita che scalda i cuori degli uomini ed eccita le signore presenti. Una dietro l’altra riascoltiamo le sue poesie-canzoni più note: ‘In un caffé’, ‘Sassi’, ‘Il cielo in una stanza’, ‘Un amore di seconda mano’, ‘Invece no’, ‘Basta chiudere gli occhi’, ‘Che cosa c’è’, ‘Le cose dell’amore’ e ci convinciamo, una volta di più, che esse hanno un ruolo imprescindibile dalla sua interpretazione.

 

Ancor più Gino lo dimostra, se mai ce ne fosse stato bisogno, interpretando due canzoni fuori del suo repertorio: ‘Reginella’ e ‘Ma se ghe pensu’ con classe veramente consumata e che egli dice: “..avrebbe voluto scriverle lui”...

 

...Ed è stato a questo punto che un giovane cantautore, Piero Ciampi, gli ha gridato: “Vai fuori classe!”, un’espressione convincente per un artista ‘out’ da certi schemi e lontano dal tiro di certi ‘incensati’ cantautori nostrani. L’atmosfera creata dalle sue canzoni: ‘Devi sapere’, ‘Anche se’, ‘Albergo a ore’, ‘Un uomo vivo’, Non andare via’, ‘Due poveri amanti’, ‘Ieri ho incontrato tua madre’, ‘Rileggendo vecchie lettere d’amore’, ‘La nostra casa’ ci hanno rivelato l’origine ‘bohemien’ della sua lunga stagione passata, che non è mistificazione di quell’esistenzialismo d’oltralpe che in lui diventa intimistico, si fa prezioso dell’opacità del fumo delle sigarette, del vetro crinato di pioggia (fuori è iniziato a piovere), del tepore del camino acceso nella hall che la fiamma, altresì sembra avvolgere la sua voce mite, così come la sua figura mitigata di poesia, contenuta nell’ombra del suo mondo di artista e di uomo.

 

Ho tralasciato volutamente di elencare le sue innumerevoli canzoni, perché sono ormai radicate nel tessuto della storia di noi tutti. In particolare una, però, non posso non citarla, ed è quel ‘Sapore di sale’ che – ricordo – mi fece conoscere la voluttà che può venire da un corpo di donna che si stende al sole e che ti giace accanto, con le sue calde promesse d’amore; e un’altra, permettetemi, quella ‘Come si fa, a non vendersi l’anima, quando sei tu che vorresti comprarmela, come si fa a sprecare anche un attimo, quando ti da la maniera di vivere”; oppure ‘Averti addosso’.

 

Ma basta, so che devo smetterla qui, altrimenti dovrete leggermi almeno per altre quindici pagine di ricordi e di sensazioni, di amori e quant’altro. A cominciare da quel ‘Insieme’ il grande concerto tenuto al Sistina di Roma nel 1985 con Ornella Vanoni, sua musa ispiratrice, prodotto da Sergio Bardotti (che va necessariamente citato per ciò che ha dato alla musica italiana), e con l’orchestrazione di Peppe Vessicchio, magistrale arrangiatore delle canzoni contenute nel doppio album che confermò il successo di quella serata indimenticabile. Voglio invece parlarvi di un primo ‘incontro’ avvenuto proprio nei primi anni ’50 tra Gino Paoli e Lea Massari in occasione della messa in scena di una commedia di Luigi Squarzina “EMMETI” al Teatro Stabile di Genova che segnò fortemente il Paoli compositore strumentale. Infatti i pezzi orchestrali ‘Il traffico’, ‘N°8’, ‘Eccetera’, poi arrangiati da Piero Soffici erano originali del cantautore genovese d’adozione.

 

Ricorda Luigi Squarzina: “Le cantilene di Gino Paoli scritte per “EMMETI” sembrano aver vinto l’usura del consumo più di tutta l’altra musica leggera italiana dal suo esplodere verso la fine degli anni ’50. Chi si è sentito nelle ossa in una ormai favolosa estate il ‘lieto fine’ della guerra fredda, svaniva il predominio della storia, si annunziava con la coesistenza pacifica l’irrompere di un vitalismo sfacciato e di un tecnicismo oltre le note, che associava le prime melopée di Paoli balbettate dai grammofonini fioriti dovunque, al sole delle spiagge d’estate”.

 

Il grande regista e commediografo teatrale (giustamente qui ricordato), aggiunse in riguardo a quella felice collaborazione: “Ci siamo parlati poco e ci siamo capiti molto, lo dimostra la sua penetrazione musicale di tutti i temi della mia storia: sia che abbia espresso in jazz l’incubo del traffico urbano o la banda di paese lo squallore di un luna-park ; o la canzone del titolo, una delle più belle dicono, che egli abbia mai composto, evitando da artista le trappole della canzone impegnata o da cabaret o weilliana; ed evocando tutti i suoni che ci divertono e stufano oggi, dalla bossa nova del ‘Gatto d’Angora’ allo shake di ‘Eccetera’. Se un canzoniere come il suo resiste alle spallate del ‘nuovo’, alla impazienza e volubilità del gusto adolescienziale, è per qualche valore di fondo, io credo, per l’impasto di sensualità e beffa e invocazione, per aver difeso l’amore con una piccola voce accanita e insinuante nel freddo e nel frastuono della morale capitalistica. E proprio per questo ho domandato a Paoli di riempire il juke-box di EMMETI che, oltre alla sua, ha permesso di conoscere la voce di Lea Massari, così lancinante, spiritosa, sbrigativa: un accoppiamento che da solo varrebbe a giustificare la vita di questo disco”. Un reperto archeologico questo disco, uscito nel 19... per la CGD – Messaggerie Musicali.

 

Scrive Gino Paoli, nella presentazione dell’album “Senza contorno solo...per un’ora”: “Se c’è una cosa che non mi va è guardare indietro, ricordare. Questo però è uno strano momento. Un momento di confusione, di delusione, di smarrimento ed io ho sentito il bisogno di riguardae quello che è stata la mia vita. Ricordarmi i visi, le situazioni, gli amici, gli atti, i modi di pensare e di vivere. Forse per rendermi conto del perché insieme a tutti anche io sono arrivato a questo capolinea. Come se un uomo vince, tutti gli uomini vincono (e questo è il vero significato dello sport), quando altri uomini perdono anche tu perdi. Allora è necessario trovarsi delle colpe o forse trovarsi degli alibi. Questo, quindi, potrebbe essere un esame di coscienza, un riguardare le cose in cui credevo, le cose che pensavo e che forse penso ancora o che forse non riesco più a pensare. Tutto oggi è contorno, tutto è rumore, tutto è confezione e io ho preferito togliere a quello che sono stato ogni abbellimento, ogni alibi, ogni struttura per lasciare la verità sola. Adriano Pennino (arrangiatore e produttore) mi ha aiutato come un catalizzatore perfetto a essere quello che volevo. Saenza contorno, solo un pianoforte. Poteva anche questo essere un titolo: ‘solo’. Mi sento sempre più solo, diverso da tutti, non d’accordo con nessuno. Sempre più isolato nel rifiuto. Rifiuto della violenza, che ci assale da tutte le parti, di tutti i tipi di violenza. È un uso, un costume: la violenza delle opinioni, delle urla, dell’aggressione, la violenza di volerti far pensare come fa comodo ad altri, la violenza dell’informazione che non ti da fatti ma opinioni, la violenza dell’inutilità e della stupidità. Anche la violenza dello spettacolo. Ho voglia di chiudere la porta. Ma Paola dice che se qualcuno venisse a bussare per parlarne un po’, io probabilmente la riaprirei di nuovo. Forse.

 

Quand'ecco la porta è stata da lui riaperta. Parliamo quindi dell’ultimo Gino Paoli, quello che va riscoprendo il jazz o, forse, dovrei dire, che più recentemente il jazz ha riscoperto lui. È del 2007 l'uscita della raccolta Milestones ‘Un incontro in jazz’, con la collaborazione di artisti come Emilio Rava, Danilo Rea e Roberto Gatto; riproposto nel 2011 all’Auditorium di Roma con Flavio Boltro, Danilo Rea, Rosario Bonaccorso, Roberto Gatto. È del 2009, quando Paoli ha compiuto i cinquant'anni di carriera artistica, l’uscita dell'album ‘Storie’; al 2012 risale la pubblicazione dell’album con Danilo Rea ‘Due come noi’. Beh che dire? Una riscoperta che sa di recupero del tempo perduto, dove l’amalgama col passato non è che un aroma che dal profondo sale alle labbra, per accorgersi che il ‘sale’ del tempo non ha perso il suo gusto, quel sapore che, a tratti, ci ha scaldato la vita.


Scrive ancora Gino Paoli: “Non potrei mai cantare la medesima canzone da più di quarant’anni, se ogni volta non fosse per me un’emozione diversa. E può succedere l’impensabile; che una serata, un certo pubblico, o un sogno fatto la notte prima, oppure un sorriso inaspettato che qualcuso mi ha rivolto durante la giornata, mi sbattano contro la canzone con un’intensità e un avvertimento di irripetibilità tali che, quando ci sono dentro fino al collo, non so più se l’ho già cantata, o se la sto scrivendo lì su due piedi. Magari mi sta componendo lei”.


Biblio - discografia utilizzata:
Gino Paoli, “Sapore di note”, una biografia. Editori Laterza 2005.
Gino Paoli e Lea Massari, “Le canzoni per EMMETI” – CGD – FGP 5027
Ornella Vanoni e Gino Paoli, “Insieme” 2Lp – CGD 21213
Gino Paoli, “Senza contorno solo ... per un’ora” – WEA LC 4281

Numerosi sono i premi riconosciutigli che è quasi inutile qui elencarli, pertanto rimando alla sua ‘biografia’ che si trova nelle pagine web a lui dedicate.
Vanno inoltre ricordati gli indimenticabili Giorgio Calabrese, Sergio Bardotti, Paolo Conte ed altri.

Molte le canzoni di sua composizione portate al successo da altri cantanti, come: Ornella Vanoni, Mina, Iva Zanicchi, Patti Pravo, Zucchero Fornaciari, ed altri ancora.

 

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- Letteratura

’Cinquanta sfumature di grigio’: tra erot. e porn.

“Cinquanta sfumature di grigio: tra erotismo e pornografia", romanzo di E. L. James - Mondadori 2012

La differenza che passa tra sex appeal e seduzione, (nonché tra eccitazione e orgasmo), seppure patinata, e solo in qualche caso, raffinata ed eloquente, potrete trovarla in questo romanzo che è anche la storia di una ossessione senza possibilità di scampo. In cui gli ‘orgasmi’ dei due interpreti Anastasia e Christian vengono ripetuti a sfinimento, tali da essere ripresi e moltiplicati, con tanto di particolari aggiuntivi, che non lasciano nulla all’immaginazione. Una sorta di ‘manuale erotico’ che permette a chiunque di riproporsi nell’interpretazione ‘mercificata’ dei rispettivi ruoli. Niente di veramente nuovo se non un mixed up di pamphlet di successo, a cominciare da quel “Venere in visone” di John O’hara, portato al cinema nel 1960 da Daniel Mann, con Elizabeth Taylor e Laurence Harvey che ne diedero un’interpretazione sublime, tale da diventare un ‘cult movie’, dal quale vengono riprese alcune battute in questo romanzo. Ma gli esempi non finiscono qui, ve ne sono di eloquenti come “L’amante” di Marguerite Duras, (al cinema per la regia di J.J. Annaud), le cui situazioni erotiche sovrastano di molto la storia narrata e, tuttavia, non all’altezza della spregiudicata “Lolita” di Vladimir Nabokov, (regia di Stanley Kubrick); ed anche, e soprattutto, “Pretty Woman”, di J. F. Lawton, deliziosamente interpretato da Richard Gere e Julia Roberts (regia di Garry Marshall), del quale è qui ripresa, con dovizia di particolari la soap-opera del 1964. Tutti film di successo da vedere e rivedere instancabilmente da chi non proscrive l’erotismo a qualità esclusivamente pornografica. Tuttavia, l’arbitrio vituperato della ‘seduzione’ che già non soddisfaceva la bella Julia del cinema, non soddisfa l’Anastasia del romanzo; entrambe chiedono quel “qualcosa di più” che in fondo ‘il sesso per il sesso’ non può dare, e che solo la profondità dei sentimenti, arriva a soddisfare. Ma che ne sarà delle nostre ‘eroine’ una volta superata la febbricitante ossessione? Meglio non chiederselo e lasciare che la ‘fiaba’ si concluda da sé, accompagnata dal leit-motiv di quell’ ‘amore’ la cui speranza non deve mai venire meno e che, altrimenti, ci trascina lontani da quella ‘illusione letteraria’ che, nel tempo, si è espressa con stupendi ‘capolavori’ del genere erotico.

Ma questa è tutta un’altra storia. Ci vorranno ‘cinquanta sfumature di grigio’ e poi altre ‘cinquanta sfumature di nero’ e ancora ‘cinquanta sfumature di rosso’ per completare il sequel di 560 pagine ogni volta e più di 1500 amplessi, per venirne a capo. Siete pronte/i ad assumervene tutte le fin troppo scontate imprudenze? La bella Anastasia nel primo pamphlet sembra non farcela: “Oddio... cos’ho fatto?” Crollo sul letto, con le scarpe e tutto, e mi metto a urlare. È un dolore indescrivibile... fisico, mentale... metafisico... È ovunque, mi si infiltra nelle ossa. Una tragedia. Questa è una tragedia, e sono stata io a provocarla. Nel profondo di me stessa, un pensiero spontaneo e sgradito arriva dalla mia dea interiore, che ha un ghigno sul volto... il dolore fisico delle cinghiate non è niente, niente in confronto a questa devastazione. Mi raggomitolo, stringendo disperatamente il fazzoletto di Taylor, e mi abbandono alla disperazione”.


La porta dell’avvenire sta per aprirsi. Lentamente. Implacabilmente. Io sono sulla soglia. C’è soltanto questa porta e ciò che v’è nascosto dietro. Ho paura. E non posso chiamare nessuno in aiuto. Ho paura” – scrive Simone de Beauvoir in ‘Una donna spezzata’, un classico che ha fatto della liberazione femminile la sua bandiera, andando oltre la sottigliezza psicologica di identità, di ruolo, di prospettive che la teneva legata alla propria condizione di donna, per far fronte a una sconfitta senza appello. Se siete curiose di conoscere il resto della storia, fate pure, ma poi non dite che non eravate state informate.

Market di fantasie erotiche sadomaso il romanzo ha già una sua versione cinematografica tutt’ora in lavorazione. Inquanto all’autrice, E. L. James londinese la sua biografia la descrive come moglie e madre di due figli che lavora alla televisione, che ha sempre sognato di scrivere storie di cui i lettori si sarebbero innamorati, ma che aveva accantonato fino a oggi questa passione per concentrarsi sulla famiglia e sulla carriera. Che quadretto impeccabile! E che dire di certe fantasie erotomani-autolesioniste e sadomasochistiche della protagonista? Il romanzo è stato accolto dalla stampa ‘come un ciclone inarrestabile’ (di ripetuti orgasmi) tuttavia che non ha destato scandalo conquistando le lettrici attraverso la diffusione prima in e-book, poi in edizione tascabile, giunto al primo posto in tutte le classifiche del mondo vendendo 3milioni di copie nella sola prima settimana.

The New York Times:
“Cinquanta sfumature è il romanzo erotico che ha elettrizzato tutte le donne d’America: hanno diffuso il verbo su Facebook, in palestra, a casa, con le amiche, con i mariti...”

Entertamment:
“Scandaloso, bollente, il betseller di cui non si può smettere di parlare”

The Guardian:
“Quello che ogni donna vuole. Ovviamente.”




 

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- Cinema

The Entertainers - King Kong

That’s Entertainment VI: King Kong

“Don’t ever let me go... You great big Gorilla!”, grida la bionda Fay Wray che il ‘mostro’ (affettuosamente parlando) tiene tra le braccia in alcune scene del film horror più famoso al mondo: King Kong. Lo stesso che ripetutamente dopo gli anni ’30 ha continuato a terrorizzare New York scalando la vetta dell’Empire State Building seminando il panico tra la folla. Come allora, nessuno avrebbe mai pensato che i casuali passanti sarebbero rimasti intimoriti dalla visione del ‘pallone’ raffigurante King Kong, in nylon e vinile alto 26Mt, issato all’altezza dell’88° piano che avrebbe poi raggiunto la sommità del 102° in un tempo schedulato di quattro giorni. In realtà ce ne vollero dieci a causa del vento contrario durante i due falliti tentativi di farlo aggrappare del grattacielo più famoso d’America. Il Daily American che il 15 aprile del 1983 ne riportava la notizia, informava inoltre che si trattava di una originale trovata pubblicitaria messa a punto dalle più importanti reti televisive in occasione di un party dato nei locali dell’Osservatorio che si trova(va) all’86° piano, per l’occasione ribattezzato col nome Kong-Course da Don Wolfson ideatore e portavoce del progetto. A conclusione del quale, si provvide all’abbattimento del gigantesco gorilla con schegge di vetro opportunamente lanciate al petto e alla spalla, allo stesso modo in cui uno stormo di biplani lo feriva durante il noto attacco sferratogli contro, in conclusione della pellicola diretta da Merian C. Cooper ed Ernst B. Schoedsack nel lontano 1933. Una data importante nella storia del cinema mondiale non soltanto sul piano emotivo, inquanto con King Kong trovava affermazione quel filone cinematografico del genere horror/fantasy che in seguito avrebbe raccolto altri prosecutori entusiasti e il favore di un pubblico sempre più vasto. Ma se davvero è il pubblico a determinare il successo di un ‘divo’ (benché mostro), a distanza di tempo credo, senza per questo essere tacciato di gretto romanticismo, che King Kong sia il ‘mostro’ più amato in assoluto.

Nato da un’idea di Delos W. Lovelace (autore del libro), la sceneggiatura del film di Merian C.Cooper in collaborazione con Edgar Wallace (il famoso scrittore di gialli) e la RKO – Radio Pictures Inc. vede fra i produttori un certo David O. Selznick (Duello al sole, Il caso Paradine, ecc.) a capo di uno staff tecnico a dir poco grandioso per quel tempo, che comprendeva i nomi più prestigiosi del momento. La colonna sonora venne altresì affidata al compositore della grandiosità per eccellenza, Max Steiner, lo stesso che più tardi appose la sua firma all’indimenticabile leit-motiv di “Via col vento”. Per l’occasione Steiner si avvalse di brani orchestrali di grande effetto, mischiati ad altri di importante valore etnomusicologico, accuratamente scelti dalla tradizione musicale indonesiana. Segnalo qui “The making of King Kong” di Orville Goldner e George E. Turner edito da Ballantine Book N.Y., decisamente più che un semplice libro illustrato indirizzato agli appassionati del cinema sonoro. In esso, inoltre, è data notizia dei primi film del genere horror/fantasy la cui creazione rivela non pochi retroscena del cinema di oggi: dalle battaglie a fior di miliardi di dollari delle case di produzione per accaparrarsi il soggetto, allo sviluppo della creatività dei primi artigiani fino a “E.T.”, pionieri dei cosiddetti ‘effetti speciali’ a volte grandiosi come quelli visti di recente in “Avatar”. Un fare cinema che nel caleidoscopio dell’attualità assume rilevante importanza storica, la cui conoscenza si rivela fondamentale per tutti coloro che intendono intraprendere la carriera cinematografica.

Il libro si rivela oltremodo prezioso per i materiali fotografici raccolti che vanno dai bozzetti di scena ai fotogrammi del film ultimato; alle note sul cast completo di chi prese parte alle riprese, ai titoli dei brani che ne compongono la colonna sonora, sebbene, personalmente non conosca se sia mai apparsa su vinile. L’unico riferimento in mio possesso è il Sound System messo a punto in quegli anni dalla RCA Photophone, utilizzato per il sonoro. Ma la preziosità del libro riserva ancora una sorpresa interessantissima, si tratta nientemeno che, la lista e i costi relativi, stimati nel lontano 1932 per i soli Sound Effect ripresi dal quaderno dei conti di Murray Spivack, curatore appunto degli ‘effetti sonori’ poi inclusi nella pellicola. L’elenco è fitto di titoli curiosi, di suoni stereotipi, di appendici strettamente connesse con i fotogrammi che rappresentano l’effimero di un lavoro decisamente creativo che quasi scompare nel momento della sua interazione con la colonna musicale di cui sottolinea e completa l’efficacia.

Successivamente due delle più affermate Mayor americane, la Universal (che ne acquisì i diritti dagli autori del libro), e la Paramount (dietro la quale si celava in qualità di produttore indipendente, Dino De Laurentiis), si sono contese a suon di miliardi i diritti di riportare sullo schermo la figura ormai divenuta ‘mitica’ del gigantesco gorilla la cui fama non sembra ancora esaurita nel pubblico che “... in fondo lo ha sempre amato”. Facile immaginare quali interessi rappresentasse la sua produzione a livello commerciale. Da parte sua la Universal si trovava a dover inventare un altro ‘mostro’ e proseguire così la propria parata iniziata con “Terremoto” e “Lo squalo”, film che di terrificante aveva un ‘budget’ pubblicitario sovrastimato e valutato in dodici milioni di dollari, recuperato grazie agli introiti di gadget e altro ispirati al film. Per la Paramount che, a suo tempo, aveva già iniziate le riprese, si trovò a sospenderle fino a che non vennero pagati 25 milioni di dollari di indennizzo per l’utilizzo dei diritti alla Universal. Entrambe, tuttavia, arrivarono ad un accordo pacifico che portò contemporaneamente alla realizzazione di due film su King Kong con l’uscita sugli schermi a distanza di un anno l’uno dall’altro. Due versioni dello stesso soggetto con la sola differenza che la fatidica scena finale si svolgeva sulla vetta del Trade Center (Torri Gemelle) per il film della Paramount/De Laurentiis; mentre in quello della Universal/Peter Jackson, il gorilla, come nell’originale del ’33, torna a scalare l’Empire State Building.

Ed è ancora a quest’ultimo che faccio ritorno nella mia classifica dei film che hanno fatto la storia del cinema, perché sebbene possa essere interessante andare a vedere (per chi non l’avesse già visti) i due re-make, ancor più, può esserlo, tornare a vedere o rivedere l’amato “King Kong” nell’edizione originale del ’33 che, la pur avanzata tecnologia non ha superato, nella sua inimitabile messinscena hollywoodiana che ha segnato l’epoca d’oro del cinema mondiale. Qualcuno ancora oggi parla di ‘revival’ come di sdolcinata malinconia di un cinema superato (quello del muto o del primo cinema sonoro in bianco-nero); sprazzi di un cinema destinato al dimenticatoio. Ciò nonostante credo che pochi registi moderni abbiano mai regalato allo spettatore tali emozioni quali il vecchio cinema ha saputo dare. È così che tra i tanti film degni di rilievo ho voluto inserire il vecchio King Kong quale soggetto inimitabile della fantasia di un’epoca e dell’incontrastata popolarità che lo accompagna.



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- Cinema

The Entertainers - Hellzapoppin’

HELLZAPOPPIN? – di Giorgio Mancinelli - (in AudioReview 17 Maggio 1983)

C’ero anch’ io.
Sì, adesso ricordo, alla TV c’era il telegiornale, quello delle nove in punto. No, è stato molto tempo prima, la TV ancora non c’era. Dev’essere stato al cinema, prima ancora che il cinema diventasse quello che è diventato, cioè un delirio di effetti speciali in 3D che ha già stancato il pubblico dei più giovani. Il mio (nostro) cinema era fatto di gag esilaranti, una specie del sideshow, circo, burlesque, freak, e di tutto quanto in futuro non sarebbe usato in uno show televisivo. Peccato la TV ha perso quel treno fin da allora e non si è più ripresa. I nostri sideshow sarebbero stati solo brutte copie di quella che è possibile definire una ‘genialata’ degli anni ’40 intitolata Hellzapoppin’, un film comico, innovativo per l'epoca di produzione, entrato nell'immaginario collettivo internazionale ormai considerato "di culto". Un susseguirsi di situazioni al limite dell'assurdo e del non-sense: il tutto causato dall'improvvisa passione dell'operatore di sala per una donna e la conseguente confusione nelle ‘pizze’ da proiettare. Dicevo, c’era il Telegiornale, quando entra un fattorino con un pianta tra le braccia, un tecnico accende alcune luci di scena, arriva una barella. Subito pensi a un incidente, macché! Intanto la segretaria di produzione parla ad alta voce col regista, quando arriva la madre di Oscar, Oscar, Oscar! Il montatore, addetto alla pellicola, sforbicia un’intera scena di revolverate, che pensi non serva più, ma forse devo aver cambiato canale, mi dico che dev’essere accaduto inavvertitamente, altrimenti? Nel frattempo entrano due donne delle pulizie, carine, mentre una manicure attraversa la scena rincorrendo Gretagarbo, è in quel momento che si sente il primo ‘ciack’ seguito dal megafono ‘si gira!’. Dietro le quinte, no, davanti, insomma sulla scena il fotografo s’abbraccia con ballerino, un certo Alexander Alxandrovic principe russo, rosso di capelli (nella versione a colori, ovviamente).

Penso a una sequenza precedente dove Betty se l’intendeva con Woody, no era con Jeff e suo padre aveva sguinzagliato Jeremy Cheese-Cake, un investigatore. Devo ammettere che la figura dell’investigatore al cinema mi è sempre piaciuta e questo, ce le ha tutte, da Holmes a 007, è comico quanto basta. Intanto c’è un’altra sparatoria, arrivano gli infermieri con la barella e portano via la Betty che si è rotta come una bambola (che fosse una bambola?). Ecco torna la madre di Oscar, Oscar, Oscar!, che si sgola chiamandolo. Tra gli intervenuti c’è un critico del Daily News, e per un momento m’è sembrato d’esserci anch’io (tale era il coinvolgimento). Istantaneamente il macchinista alla camera sposta l’inquadratura sul produttore che blocca la signora Jones proprio quando il regista interrompe la scena. Lo dico un errore. Ma accipicchia, devo essermi distratto, in un primo momento ricordo d’aver visto un uomo con una pianta, che fine avrà fatto? Quando credo di dare un’occhiata alle previsioni del tempo, affatto buone, ecco uno spezzone di un telefilm d’avventure dove Robin Hood incalza gli armigeri dello sceriffo di Nottingham e.. e.. è una parola, come ve lo racconto? Le parole, per dire le gag sono tante che non riesco ad afferrarle in tempo per trascriverle, quando dai titoli di testa apprendo che: «Qualsiasi somiglianza tra Hellzapoppin’ ed un film è puramente casuale». Beh, mi dico, potevano anche dirmelo prima, o no? Ricominciamo daccapo: ci sono due comici di quelli che sanno far ridere (oggigiorno non è poi così facile trovare due comici che sanno far ridere); loro entrano e escono dalla scena, la attraversano, la bucano, aprono una infinità di porte, no in verità è una sola ma sembrano tante, che s’aprono e si chiudono.

Ragazzi che gag, che versatilità, quasi che da soli potrebbero... beh, non lo so cosa potrebbero inventarsi d’altro, fatto è che squassano la scena in ogni fotogramma. In realtà non sono mai da soli, con loro c’è sempre un sacco di gente che va e che viene, che appare e scompare, come ad esempio un fotografo che entra e dice: «Posso prendere un ritratto? Certo, dicono i presenti, e quello si porta via un quadro d’autore dalla parete». La Betty è una stronza, una finta tonta che sa d’essere cretina e la fa di un bene che uno quasi la crede. Quand’ecco torna la madre di Oscar, Oscar, Oscar! Il cameraman la insegue, lei lancia un’occhiataccia che scatena un putiferio: diavoli con tanto di forcone che saltano su avvolti dalle fiamme. Dov’è finita Gretagarbo? –mi chiedo. Che sia alla festa organizzata in casa della Betty? Accipicchia che eleganza di costumi di Ferdinando e le scenografie di Thalia, degne di una tragicommedia all’arancia. Qualche riserva alle coreografie. Però che efficienza quei servitori di scena... Un dialogo tratto dal film riporta la seguente frase: «È proprio roba da matti...in quindici anni che proietto film uno come questo non mi era mai capitato...Questo è un film pazzo!
Eccome! È Hellzapoppin'».


Quanto narrato è solo una parte minima del film, inframmezzato con scene del ‘musical’ portato in scena al Majestic Theatre di Broadway con grande successo il 22 settembre del 1938, e continuò ad essere messo in scena fino al 17 dicembre 1941, per un numero complessivo di 1404 volte, record per l'epoca. La sceneggiatura venne scritta da John "Ole" Olsen e Harold "Chic" Johnson, le musiche e i testi delle canzoni da Sammy Fain e Charles Tobias. estratto dal titolo di un libro degli anni '70 "Il pianeta Hellzapoppin". Poi arrivò il film diretto da H.C. Potter e con attori gli stessi Ole Olsen e Chic Johnson, protagonisti del musical, ma anche Martha Raye e Shemp Howard, divenuto in seguito una pietra miliare della filmografia comica. Il film usa una sorta di campionario di tutti gli errori e le trasgressioni possibili alle regole base del cinema narrativo classico: fermo immagine, spezzoni proiettati a marcia indietro e capovolti, sguardi in camera, attori che parlano con gli spettatori e addirittura l'ombra di un ragazzino nell'ipotetica sala cinematografica che si alza perché viene richiamato a casa, sua madre lo cerca, è Stinky Miller. Innovativo sia nell'uso della pellicola sia negli effetti speciali, il film si caratterizzava per il largo uso di non-sense e ricco di colpi di scena, comicità che rasenta l'assurdo, interventi del pubblico e molta ironia, da rendere l'espressione Hellzapoppin' proverbiale. Il film comparve nelle nomination degli Oscar 1943 per la miglior canzone con Pig Foot Pete (musica di Gene de Paul, testo di Don Raye) ma non si aggiudicò il premio. Nonostante apparisse attribuita al film sia fra le nomination che nel programma dell'Academy, la canzone apparteneva in realtà a Razzi volanti (Keep 'Em Flying) di Gianni e Pinotto, prodotto e distribuito dallo stesso studio di Hellzapoppin', uscito nel 1941 e pertanto fuori regolamento.

Ma qualcuno di voi sa cos’è l’Helzapoppin? All’inizio era il titolo di un film, poi è diventato il nome con cui identificare un intero genere cinematografico che nei Monty Python ed in Mel Brooks trova i suoi massimi esponenti. Il genere mescola le carte della comicità in maniera tale da far perdere qualsivoglia importanza alla trama in quanto tale per focalizzarsi interamente sulle gag e sulle singole situazioni; in generale i film ad esso appartenenti sono degli incredibili minestroni, dei circhi confusi e confusionari in cui alla fin fine sembra quasi impossibile trovare alcun significato che vada oltre il divertimento fine a se stesso!La parola Hellzapoppin' è un misto di significati tra i quali Hell (inferno); zap (esplosione) e pop (o 'popular', ovvero la società). Nella prefazione del libro 'Il pianeta Hellzapoppin' si dava alla parola il significato di "destabilizzazione dell'ordine costituito". Bene lo hanno re-interpretato nel 1982 gli artisti del Teatro dell’Elfo, allora al primo posto nel futuro della commedia musicale (musical) in Italia, dopo il debutto trionfale nel 1981 con “Sogno di una notte di mezza estate” dall’omonima piece di W. Shakespeare, con sovrapposizioni di Gabriele Salvatores e Mauro Pagani in veste oltre che di compositore di interprete delle musiche di scena.

Lo spettacolo, di cui esiste almeno un documento sonoro (*), conteneva più di un motivo d’interesse: dalle trovate comiche più conosciute, come ad esempio, quella dell’indigeno americano a cavallo che chiede dove fossero andati gli "altri" (citata anche da Umberto Eco ne “Il pendolo di Foucault” e da Luciano De Crescenzo nel suo libro “Ordine e disordine”, ascrivendolo ovviamente tra le forze del disordine); al coinvolgimento del pubblico, dall’equivoco ostentato all’azione realizzata con l’ausilio dello schermo. Il gioco era comunque quello del remake sull’idea del musical andato in scena a Broadway e l’irresistibile macchina comica creata ad Hollywood per il film, qualche anno dopo. Su questo background il Teatro dell’Elfo realizzò la propria messinscena puntando, seconda la moda dell’ultima generazione (anni ‘80), al kitsch e il punk-style, nonché alla rivalutazione di un certo teatro leggero italiano scomparso anzitempo che andrebbe ripresa ancor oggi, inquanto invenzione stimolante quanto eclettica, che gli conferisce un carattere ora surreale ora folle, tra la finzione e la precarietà spettacolare che solo Hellzapoppin’ ha saputo creare. Ma il gioco non finisce qui, i brani contenuti nel film “Hellzapoppin'” (1941) “Ending Conga Sequence "Conga Beso" – “Jane Frazee, Martha Raye, & The Six Hits”, “Helzapoppin Hip hop ballet”,“Hellzapoppin' Swing Dance Scene” sono tutti rintracciabili e godibili su YoyTube; mentre le numerose canzoni create da Mauro Pagani e incise dagli Anyway Blues su disco (CGD 20337), completano il divertissement originale quanto eccentrico di Hellzapoppin’. La storia? Sì, c’è una storia di fondo, se così si può chiamare ...beh, che succede? Due giovani si amano, ma lei è promessa ad un altro... quando ecco proprio sul più bello appaiono i titoli di coda ...e dire che ricordo stavo guardando solo il Telegiornale.

(*) Il film inoltre ha dato il titolo ad una nota rubrica radiofonica trasmessa a diffusione nazionale dall'emittente Radio24. Inoltre ha ispirato Dylan Dog in un numero extracollana: Dylan Dog presenta Groucho: ‘Horrorpoppin’, la cui trama è del tutto simile a quella del film, sia per la storia che per il montaggio originale.







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- Scienza e fede

Vito Mancuso fra ’coscienza’ e ’libero arbitrio’

“Obbedienza e libertà”, saggio di Vito Mancuso – Campo Dei Fiori – Fazi Editore 2012

Vito Mancuso fra ‘coscienza’ e ‘libero arbitrio’.

Siamo disponibili a rimetterci in gioco, cioè a ri-pensare il pensato e a discuterne con chi senz’altro ne sa più di noi in fatto di religiosità e ancor più di cattolicesimo. Tuttavia è sempre arduo affrontare il dibattito sul piano critico partendo da prese di posizione ineluttabili, quand’anche discutibili, come ad esempio, partendo dalla logica del potere esercitato dalla Chiesa cristiano-cattolica su gran parte dell’opinione pubblica che, altresì, difende i propri ‘sentimenti’ di laicità, pur riscattando una ‘fede’ cristiana che si perde nei meandri dei giochi politici ed è sempre tardiva di fronte alla istanza di globalizzazione d’una società civile in continuo sviluppo. Ritardo questo, che il saggio “Obbedienza e libertà” di Vito Mancuso, denuncia in molte sue pagine ma che, tuttavia, egli rivolge anche alla parte ‘laica’ per quel suo ‘non sentire’ o ‘non (voler) vedere’ quanto la propria ‘fede’ faccia acqua da tutte le parti: “causa principale della malattia che l’affligge” – egli scrive che si è spostata da un ‘potere cieco’ = la tradizione, ad un altro ‘potere accecato’ = la politica. Per poi ammettere che “districarsi in questo labirinto di dogmi, ipocrisie, precetti, tatticismi” è, per un verso o per l’altro, un fare politica da cui la società non si è mai completamente liberata e, sono convinto poiché la storia lo insegna, non si potrà mai liberare perché altrimenti va incontro all’anarchia, al caos, alle prese di posizione dittatoriali, alla perdita della propria libertà di espressione, e di “incorrere in ciò che il potere definisce eresia”. E aggiunge: “Eresia e verità sono contrarie e incompatibili solo per il potere, ma non lo sono in alcun modo per la ricerca del vero, del bene, del giusto”, tuttavia questo Mancuso non lo spiega se non dando per scontato che esiste una ‘verità’, un ‘bene’ e ‘un giusto’ prestabiliti di cui dobbiamo farci carico e, di conseguenza, operare a questi fini. Quanto di più errato se consideriamo che la società odierna non ne riconosce l’autenticità dei valori ma solo i loro controvalori, per cui siamo veri, giusti e operiamo a fin di bene solo quando facciamo il gioco del potere ufficiale, solo quando ci sottomettiamo a quella ‘obbedienza’ che egli riporta nel titolo e che, per quanto si vuole forzarla, non rientra in alcun modo nel concetto di ‘libertà’ che si vuole affermare. Non è quella la ‘libertà’ cui le giovani generazioni si rivolgono o alla quale anelano, non è quello il pane della devozione francescana cui rivolgere la propria ‘spiritualità’ e che i teologi e i filosofi si sforzano a voler far accettare. Lo dicono gli striscioni, basta leggerli, ascoltare le voci che si levano dalle manifestazioni di piazza, dai centri sociali, nelle riunioni scolastiche, tra i giovani nelle università; contrariamente a quelle mistificatorie organizzate dalle fazioni politiche laiche e religiose che, pur non ammettendolo, silenziosamente (non poi tanto) danno seguito a una ‘guerra fredda’ che non è mai terminata e che, anzi, portano avanti a colpi di scure dall’una all’altra parte. In questo libro Vito Mancuso, devo ammettere, non risparmia nulla a nessuno e lancia i suoi anatemi critici a pro e contro ciascuna delle fazioni ‘guelfe’ e ‘ghibelline’ entrando spesso di contropiede spingendo in avanti le sue idee con coraggio e vigore, oltre all’impegno di rigore e onestà nella ricerca dei testi e delle citazioni, che quasi viene da porsi una domanda: ma lui, da che parte sta? Tuttavia chiedendocelo, commetteremmo un errore grave, poiché la ricerca in questo caso ha un suo fine diverso da quello che anche noi, condizionati dal dover sempre fare una scelta di campo, alla fine commetteremmo, e che non a caso è qui concentrata in quella che è la domanda intrinseca nel titolo che – a parer mio – manca dell’interrogativo: ‘obbedienza’ o ‘libertà’? Significativo è il sottotitolo: “Critica e rinnovamento della coscienza cristiana” lì dove ‘coscienza’ sta per ‘libertà’, sebbene ‘operare in coscienza’ o ‘secondo coscienza’ non sia la stessa identica cosa, a discapito della libertà di scelta, di quel ‘libero arbitrio’ che possiamo e dobbiamo rivendicare a ogni costo. Una contraddizione in termini che si scontra con un’altra affermazione pure contenuta nel testo in cui è detto: “Questa stessa attenzione alla logica dinamica e contraddittoria della vita pone in dialettica quanto finora da me affermato a proposito del potere, portando a considerare che l’ordine, la disciplina e il potere sono valori importanti, dimensioni essenziali per l’edificazione di una società, e prima ancora di un’esistenza umana. Il loro contrario (il disordine, l’indisciplina, l’anarchia) sono rappresentazioni del caos contro cui continuamente occorre lottare per far emergere il volto buono della realtà, quella dimensione dell’essere amica della vita e che promuove la vita”. La spiegazione che ne segue è la conferma di questa contraddizione palese ma, al di là dall’essere più critici del critico, per amore della ‘verità’ che qui si vuole costantemente affermare, va detto che è tutto accettabile quando sia la società laica, sia la Chiesa, assumano un atteggiamento consono, e non mi si dica che l’ordine, la disciplina e il potere, così come sono amministrati da entrambe le parti, possano insegnare qualcosa in fatto di morale e di etica a qualcuno. Finché le riflessioni rimangono nel ‘vago generalizzato’ sono indubbiamente accettabili, non quando si pretende di spostarle sul piano dell’ ‘attuabilità oggettiva’ perché in quel caso andrebbe reimpostato e sovvertito il disegno sociale fin dalle sue fondamenta. Non facciamoci ingannare dalle apparenze, non tutto in questo ottimo lavoro di ricerca è incoerenza o in contraddizione, bensì molti dei passaggi teologici e filosofici contenuti offrono spunti per riflessioni costruttive che vanno ben oltre la superficialità del pensiero cui siamo abituati a riconoscerci. La profondità di pensiero nel risalire all’origine della spiritualità umana a volte lascia sgomenti, la dinamicità delle congiunzioni penetra in labirinti sconosciuti per risalire fino al principio dell’essere, a quel “fine ultimo delle nostre energie” che apre a una visione della vita “che meglio di ogni altra è in grado di rendere al contempo l’insegnamento della scienza contemporanea e il vivo senso del Dio cristiano, che è amore, quindi impegno, passione, capacità di sacrificio e di lavoro, dramma”. È questo uno dei punti forti di questo saggio che Vito Mancuso ha messo insieme, nello sguardo d’insieme di un’esistenza che ‘vuole’ e che ‘deve’ essere spesa nella certezza della sua dinamicità, “non nella perplessità della contraddizione”, sebbene si colori talvolta di un ‘pessimismo drammatico’ ma che, per chi possiede lo sguardo d’insieme delle cose e mette in gioco se stesso pur nel rispetto della logica in cui si muove la vita, deve saper tramutare in ‘ottimismo costruttivo’. Scrive ancora Mancuso: “È la vita infatti a procedere per affermazioni e per negazioni, delle quali le principali sono la vita e la morte, alla mente spetta solo riconoscerlo”. Ben venga allora la citazione di Teilhard de Chardin che in una lettera alla cugina scrive: “Adotta come principio questa massima, e non stancarti di ripeterla in giro: uno dei segni più certi della verità della religione, di per sé e in un’anima in particolare, si ha osservando fino a che punto essa spinge all’azione, ossia in che misura essa riesce a far scaturire, dalle sorgenti profonde che sono in ciascuno di noi, una massimo di energia e sforzo. L’azione e la santificazione vanno di pari passo e si sostengono a vicenda. (..) Ti raccomando questo: sii fondamentalmente felice...fai fiorire e conserva sempre sul tuo volto il sorriso”. Ma non è tutto, molte altre tematiche vengono qui affrontate e alle quali l’autore risponde, e che vanno dai limiti della dottrina cattolica, all’insegnamento della catechesi, alla spiritualità dell’anima, al primato della coscienza, della morale; dalla sinderesi, all’ordine cosmico della spiritualità, al caso Englaro, allo Ior, all’origine esistenziale del concetto di laicità, alla costruzione del giudizio morale, fino ad arrivare alla contrapposizione tra ‘diritto’ e ‘politica’ e cioè di quei “principi non negoziabili” di cui pure parla Benebetto XVI e che, più di altri, vanno riferiti al concetto di ‘libero arbitrio’ che riporta alla dimensione onirica della spiritualità come finalità dell’esistenza umana. In questo la Congregazione per la Dottrina della Fede, non ha avuto il minimo timore a esprimere con chiarezza cristallina il primato della coscienza, senza per questo temere l’accusa di relativismo etico: “Soltanto la coscienza del soggetto, il giudizio della sua ragione pratica, può formulare la norma immediata dell’azione. La legge morale non può essere presentata come l’insieme di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione”. Occorre però precisare – scrive ancora Mancuso – che la coscienza non è fine a se stessa. Non lo è, perché prima ancora la libertà, di cui la coscienza è strumento, non è fine a se stessa. Sostenere il primato della coscienza non conduce quindi necessariamente a fare di se stesi e dei propri desideri il criterio dell’agire, così come sostenere il ‘libero arbitrio’ non conduce necessariamente all’arbitrio”. D’accordo o no con l’autore, in questa luce che Mancuso da acceso: “L’uomo deve inserirsi in modo creativo e insieme armonioso in un ordine cosmico o metafisico che lo supera e che dà senso alla sua vita. Infatti tale ordine è impregnato di una sapienza immanente. È portatore di un messaggio morale che gli uomini sono in grado di decifrare”. Questo il messaggio ultimo di questo saggio che risponde, o almeno tenta di farlo con esperienza e sollecitudine, alle nostre infinite domande sulla spiritualità cristiana e mi piace qui riportare quanto riportato sull’ultima di copertina in cui Vito Mancuso spiega il suo perché di questa ricerca teologica e sapienziale: “In questo mondo che passa, e passando consuma ogni cosa; in questo mondo che ora fa gioiere per il semplice fatto di esserci, ora gemere di rabbia e di dolore come schiavi alla catena; in questo mondo teatro dell’essere e del nulla, libera scelta e cieco destino, allegria della mente e disperazione dell’anima; in questo mondo di fantasmi e di poesia, io non conosco nulla di più grande del bene”.



Vito Mancuso, teologo, docente, editorialista per “la Repubblica” è autore inoltre di libri di grande successo quali “Io e Dio”, “L’anima e il suo destino” e “La vita autentica” definito dalla critica un testo lucido e provocatorio.

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- Letteratura

Giorgio Guaiti : ’La vita è una schiscetta’

“La vita è una schiscetta” - Avventure di ogni giorno raccontate anche in milanese.

Di Giorgio Guaiti – Pagine Disparse ed. LittleItaly – Milano 2012

È tempo di riaffermare chi siamo e da dove veniamo, ed ècco che accanto alla lingua italiana formatasi elitariamente, proviamo a riscoprire lo straordinario patrimonio linguistico e culturale dei dialetti regionali che solo in minima parte ha trovato corrispondenza nella lingua nazionale. Caratteristiche voci e locuzioni dialettali ricorrono non infrequentemente nella lingua parlata e talora anche in testi letterari che, per lo più sono divenute incomprensibili. Questo perché è venuto meno l’uso frequente e perché in molti casi non ne conosciamo la versione scritta. Il persistere e il riaffiorare di molte espressioni nel nostro linguaggio corrente, spesso deriva dalla forza comunicativa di locuzioni che, tradotte nelle corrispondenti espressioni ‘italiane”, hanno perciò perduto il loro peculiare “sapore” ed è senz’altro a noi che spetta recuperarlo. È questo il caso del titolo del libro di racconti di Giorgio Guaiti che qui presento e per la prima volta redatto in italiano/milanese da Alma Brioschi, contenente una parola dialettale tipica del dire popolare: “schiscietta”, dalla forma schiacciata della gavetta (portapranzo militare), e forma riduttiva e vezzeggiativa di “schìscia”, amante, morosa, fidanzatina. In fondo la “gavetta” era la cosa più amata dopo la “morosa”, o forse prima, dipendeva dalla considerazione. Non c’è che dire, la pubblicazione dei racconti di Guaiti in italiano/milanese, ci permette un’analisi approfondita di una moltitudine di modi di dire tutt’oggi in uso nella lingua parlata anche colta, con cui spesso si fa ricorso per “colorire” e dare “efficacia” al parlare comune. Una sorprendente raccolta di “avventure e sventure cittadine” pubblicate nella rubrica settimanale de “Il Giorno” intitolata Specchio segreto, fra il 1987 e il 2009, qui raccontate, con quel pizzico di ironia rivelatrice di significati reconditi, la cui conoscenza ci fa meglio apprezzare e usare più consapevolmente la ricchezza della nostra lingua. L’occhio attento e qui direi anche l’orecchio aguzzo di Giorgio Guaiti spesso colgono quello che il condominio, il quartiere e la città e il fuori porta, offrono alla penna dell’osservatore episodi e personaggi della città di ieri e di oggi, scrutati con uno sguardo a volte affettuoso, spesso ironico, garbatamente critico o sottilmente umoristico, sempre attento ai cambiamenti e mai impulsivo o sconsiderato che, pur se la ride divertito degli altri come pure di sé, magari sotto i baffi, offrendo in questi racconti, uno spaccato di “vita giornaliera” tutt’altro che trascurabile, inquanto termometro della “febbre” di una città in continuo fermento.

La correlativa traduzione in milanese realizzata da Alma Brioschi, anima inossidabile del Circolo Filologico, che insegna la “lengua milanesa” nella prestigiosa istituzione meneghina, la più antica associazione culturale di Milano, arricchisce indubbiamente questa raccolta in cui è frequente il ricorso all’intreccio con materiali dialettali popolari che è alla base dei racconti, con in più la sorpresa finale di quattro racconti tradotti anche in latino (da Giancarlo Rossi, coordinatore della Sodalitas Latina Mediolanensis del Filologico), un po’ per sfizio, un po’ per dimostrare quanto dell’antica lingua è rimasto nel milanese e per offrire, a chi la vuole cogliere, una rara occasione di verificarlo.

Il Circolo Filologico Milanese, fondato nel 1872, è la più antica associazione culturale della città di Milano e una delle prime in Italia. Scopo statutario è quello di "promuovere e diffondere la cultura e particolarmente lo studio delle lingue e delle civiltà” con iniziative culturali che vanno dallo studio delle lingue sia individuale che per gruppi, di inglese, francese, spagnolo, tedesco,
russo, arabo, portoghese, neogreco, giapponese, cinese e corsi di italiano per stranieri. Il particolare interesse per la storia e la cultura delle antiche civiltà ha sviluppato la rara opportunità di seguire presso il Filologico corsi di Greco classico, Latino, Ebraico e Sanscrito, dando risposte sempre attuali alla crescente domanda di cultura delle giovani generazioni.

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- Musica

The Entertainers - Il Grande Gatsby

THAT’S ENTERTAINMENT II

Seguito di “Ragtime... o l’era dell’innocenza” (apparso in AudioReview 1983).

Nel best-seller "Ragtime" di E. L. Doctorow la vicenda si svolge nel 1906, periodo dell’immigrazione in massa dall’Europa verso l’America, un mondo che si sta trasformando e che l’autore ha reso vivo e stimolante nelle pagine del suo libro, come: “un affresco umano di passione e di pietà, di amori giovanili, di orgoglio eccessivo, di commedia che spesso assume i colori della tragedia”. Ma la fortuna del libro e quella del suo autore sono legate alla musica inconfondibile di quegli anni, il Ragtime appunto, racchiusa nella cornice forse mistificatoria ma senz’altro eccitante di un’epoca che nessuno era ancora riuscito a definire allo stesso modo, quella dell’avvento del nuovo secolo, la cui andatura “Rag” è qui incorniciata perfettamente.
“È raro che un mondo tanto folle acquisti un senso come in questa vicenda. Ma io rispetto immensamente gli autori (E. L. Doctorow e Michael Weller) della sceneggiatura, sebbene, penso che per riproporre in modo giusto il lavoro di uno scrittore devi necessariamente violarlo ” – ha detto durante una intervista Milos Forman regista del film omonimo, riferendosi al fatto di aver apportato dei ritocchi molto personali alla sceneggiatura stessa. Fatto è che la vicenda narrata da Doctorow inizia con lo scandalo più clamoroso che sia mai stato raccontato, in cui di fronte a centinaia di persone, il playboy miliardario di Pittsburg Harry K. Thaw accecato dalla gelosia, uccide a colpi di pistola l’ex amante della sua giovane moglie, il celebre architetto Stanford White nel roof-garden del Madison Square Garden, la sera della prima mondiale di “Mamzelle Champagne”. Prima dell’inevitabile omicidio...
Nella versione filmica di Milos Forman (che ricordiamo anche per “Hair” e “Qualcuno volò sul nido del cuculo”) invece, gli avvenimenti raccontati nel libro si riducono nella storia di Rheinlander Waldo commissario di polizia, di una famiglia e una ragazza madre ma, soprattutto di un pianista nero di successo Coalhouse Walker la cui esistenza si conclude in un dramma autentico di tutta una generazione bianca, quella americana, che non accetta l’uguaglianza segnata dal colore della pelle dei neri. Con la morte del pianista, infatti, l’America segnerà il suo declino perdendo la sua prima battaglia urbana e quella che era stata definita “l’era dell’innocenza” e del Ragtime si chiude per sempre. “L’America è un errore, un enorme errore!” – conclude Doctorow le pagine del libro, mentre nel film tuttavia si lascia intravedere una possibilità di riscatto.
La lavorazione del film iniziata nell’agosto del 1980 a New York si è protratta per venti settimane per poi concludersi negli studi della Shepperton a Londra. Lo scenografo inglese John Graysmark e la sua collega Patrizia von Brandstein, con l’aiuto di cartine e fotografie originali reperite negli archivi pubblici americani e in collezioni private, sono riusciti a garantire al film una perfetta adesione alla realtà di quegli anni ricreando per il set cinematografico edifici e scorci vittoriani di New York scomparsi da tempo. Costruzioni che hanno occupato quattro dei più grandi teatri di posa d’Europa ed una vasta estensione che circonda gli studi. È stata ricostruita per l’occasione la zona di Madison Avenue all’altezza dell’incrocio con la 36° Strada, esattamente com’era nel primo novecento, grazie all’aiuto di cianografie d’epoca.
“Ragtime”, dimostra quanto il regista ponesse attenzione alla scelta del soggetto, alla stesura del copione ed degli attori, affidando i ruoli principali sia a quelli  esordienti e tuttavia di grande talento, sia ad attori noti che avevano preso parte ad altri suoi film. Molto interesse ha suscitato il ritorno alle scene di un mostro sacro del cinema hollywoodiano, James Cagney che, dopo 20 anni di assenza, all’età di 83 anni interpreta il ruolo magistrale del burbero Capo della Polizia di New York. Lo affiancano alcuni nomi che in seguito diventeranno famosi, come Norman Mailer, Eloise e Pat O’Brien, Howard E. Rollins, debbin Allen, Elizabeth McGovern (nel ruolo di Evelyn Nesbit), Bob Boyd (Presidente Roosvelt), Jeff De-Munn (nella parte di Harry Houdini). Direttore della fotografia Miroslav Ondricek, coreografa d’eccezione Twyla Tharp, aveva già collaborato ad “Hair”; costumi di Anna Hill Johnstone al suo 48° film.
Il film, al pari del romanzo ha creato non poca attesa e una curiosità insoliti. In realtà, attraverso una trama non convenzionale “Ragtime” porta lo spettatore a visionare una radiografia dell’America di cui la musica è l’inconfondibile voce. Pur se, quasi per sottile ironia della sorte, nel film non c’è ombra di quella musica “Rag” contenuta nel titolo e del suo più importante autore Scott Joplin (forse perché ormai inflazionata), che pure aveva fatto scrivere a Doctorow le cento-una storie che nel romanzo s’intrecciano e pagine di soffusa gaiezza. La colonna sonora originale del film, composta e diretta da Randy Newman, ricrea semplicemente l’atmosfera di quegli anni del ‘900 con pacata e sottintesa complicità di non riuscire a scandire il ritmo frizzante dell’America del tempo.
Ma ripercorriamola insieme questa “Age d’Or” come qualcuno la definì quando ancora non era conclusa. Nel 1918 vengono pubblicate in Inghilterra le poesie di Rupert Brooke; nel 1920 E. O’Neil pubblica “La Luna dei Caraibi”; nel 1921 Charlie Chaplin gira “Il Monello”; nel 1922 J. Joyce pubblica l’ “Ulisse”, e nello stesso anno in italia L. Pirandello rappresenta “Sei personaggi in cerca d’autore”. Nel 1924 muoiono M. Proust, J. Conrad, F. Kakka; nel 1925 vengono pubblicati “New York” di Dos Passos, “Il Processo” di Kafka, “La paga del soldato” di Faulkner, “Il sole sorgerà ancora” di Hemingway. Dopo lo straordinario successo ottenuto dal romanzo “Di qua dal Paradiso” del 1920, Francis Scott Fitzgerald diviene l’autore più celebrato e ricco d’America. In fondo il suo successo rispecchiava quello che da sempre agognava nei suoi romanzi. Nel 1922 esce il suo “Belli e dannati” che avrà una tiratura di 43mila copie , una vera eccezione per quei tempi e, successivamente, i “Racconti dell’Età del Jazz”, che darà il nome all’epoca che stiamo qui rivisitando.

“The Great Gatsby Style” (articolo apparso in Nuovo Sound n. 11 - 1975)

Ogni volta che medito sulla legge naturale questa strana logica che coesiste con la verità rivelata penso...”che troppo spesso la naturale gaiezza agli sciocchi appetiti e snobismi dell’educazione e della nostra troppo sofisticata incapacità di capire l’essenza profonda e fondamentale degli Anni Venti. Del resto soltanto pochi capiscono cosa vuol veramente dire “divertirsi”. (..) Gli Anni Venti erano meglio dell’isterismo e della stanca sazietà degli anni che sono venuti dopo”. (..) Fu un’età di miracoli artistici ma anche di eccessi”. Fu anche un’età satirica, con americani che ordinavano abiti in quantità enormi a Londra e i sarti di Bond Street erano costretti a modellare il loro taglio sul gusto dell’epoca, amante della giubba a vita lunga e degli indumenti larghi. Accadeva così, un’intera razza era diventata edonistica e si dichiarava per il “piacere” assoluto, chiassoso e alquanto squilibrato.
“Una coppia decisamente francese e di ottima famiglia si drogava, era una delle tragedie di quei tempi. Una loro amica, una principessa francese, condivideva i loro gusti, preferiva la cocaina all’oppio ... un giorno trovò in un vaso di porcellana quella che credeva fosse cocaina e ne attinse a piene mani. Solo dopo alcune settimane che la prendeva seppe dalla cameriera che stava rubacchiando le ceneri del padre della sua ospite. Che epigrafe per quei tempi!” – narra Angus Wilson (*). “Il successo economico, la ricchezza, erano ormai metro di giudizio. Non c’era posto per i poveri, non c’era posto per i deboli, non c’era posto per i falliti nell’America di Ford. Poeti e pittori, critici e romanzieri, giornalisti e produttori, valevano soltanto se guadagnavano quattrini. Peggio per loro se non ce la facevano: voleva dire che erano cattivi scrittori, pessimi artisti. Chi non aveva quattrini non aveva credito e chi non aveva credito non aveva quattrini. La gente non voleva più sentir parlare di guerra: voleva sentir parlare di pace, e distrarsi in tutte le maniere possibili, distrarsi finché qualcosa accadesse, che finalmente non provocasse più delusioni” – scrive Scott Fitzgerald.
E invece “Fu un’età di proteste e di rivolte, delle utopie più ottimistiche e delle delusioni più spietate. Era la rivolta contro tutto e tutti in nome della libertà. Si voleva libertà di pensiero, libertà nell’egemonia del denaro, dalla rispettabilità borghese, dalle tradizioni (bigotte) vittoriane, dal proibizionismo, dal conformismo, dai rituali religiosi; si voleva bere, fare all’amore, e vivere senza badare a come spendere il denaro; si voleva farla finita coi tabù e i falsi pudori, con gli scrupoli e i legami. Era molto snob andare in uno “speakeasy” molto sofisticato, per usare una parola del tempo. È anche il periodo in cui l’industria cinematografica hollywoodiana ha un forte sviluppo, grazie anche ai potentissimi mezzi finanziari può accaparrarsi i migliori tecnici, i migliori artisti europei e tanti altri ne creerà, e che l’avvento del sonoro contribuì a ingigantire.
Nei film americani di quegli anni infatti, si riscontra un alto livello artistico grazie al quale la cinematografia americana penetra nei mercati commerciali di quasi tutto il mondo. Non meno interessanti sono questi anni per la musica Jazz. È il periodo delle grandi cantanti nere del “Blues” come Bessie Smith, Ma Raney, e di musicisti come Louis Armstrong, Duke Ellington, Jelly Roll Morton, King Oliver, Fats Waller e tantissimi altri bianchi come Bix Beiderbecke, Tommy Dorsey, George Gershwin. Scrive ancora Angus Wilson: “La più sfrenata delle generazioni, quella che era stata adolescente durante la confusione della Grande Guerra, bruscamente spinse da parte a spallate i suoi contemporanei e si mise a ballare alla luce della ribalta. Era questa la generazione delle ragazze che si dava un’aria drammatica presentandosi come maschiette sofisticate. (..) Era veramente un periodo carinissimo da non dirsi, con quelle incantevoli teste lisce alla garçonne , quei grandi cappelli, quei mantelli, tutti quei veli! Noi li trovavamo deliziosi come quando venne di moda la linea “efebica” ancora non ci eravamo completamente liberati dall’idea che la donna fosse una specie di lampada a stelo da riempire di fronzoli...”
Ci fu pure chi obiettò che quella era una generazione che corrompeva i più vecchi e che infine superò se stessa più nella mancanza di gusto che nella mancanza di principi morali. Che sebbene nel 1922 la cosa continuasse, diveniva però sempre meno seguita dai giovani, e che la generale decisione di “divertirsi” a tutti i costi presa durante i “cocktail parties” aveva origini più complicate, in breve, non rispondeva più al solo libero arbitrio di dichiararsi in favore della libertà dei costumi, quanto era economicamente e commercialmente guidata. C’era pur sempre la musica e la parola Jazz era ormai sulla bocca di tutti e andava riscontrato che, nella sua marcia verso la rispettabilità, andava assumendo significati diversi: dapprima era stata sensualità, poi danza, infine musica associata allo stato di eccitazione nervosa pari a quella che da essa scaturiva, non poi così dissimile dalla frenetica vita che si conduceva nelle grandi metropoli.
Era il 1925 quando Francis Scott Fitzgerald pubblicava il suo romanzo più acclamato: “Il Grande Gatsby” che diverrà il simbolo assoluto di tutta l’epoca, nel quale raccoglieva i significati e le denunce di generazioni di americani, rivelatosi poi, a distanza di anni, una schietta critica diretta alla società americana, denuncia di una rivolta culturale e letteraria che fece tremare tutta l’America. Così scriveva Scott Fitzgerald – “Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente: Quando ti viene voglia di criticare qualcuno, ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu”. Ma in “Il grande Gatsby” c’era qualcosa di più della semplice critica, c’era la straordinarietà e la disperazione di più di una generazione d’uomini.
“Nelle notti estive giungeva la musica dalla casa del mio vicino...”, quella più in voga di: “What’ll I Do”, “We’ve met before”, “My favorite things”, “The Ring”, fantastiche canzoni di quello straordinario e romantico Irving Berlin, divenute in breve popolarissime, autore inoltre di molta musica per film e di musical di successo.
“Ed ancora risa e chiasso e Charleston...”, dal titolo di un brano di C. Mack e J. Johnson che in breve aveva fatto il giro del mondo. E “Who?” di Oscar Hammerstein e Jerome Kern le cui note si perdevano ormai nei cieli dell’internazionalità, seguite dalle altrettanto melanconiche “The Sheik of Araby” di F. Weeler e B. Smith le cui parole erano sulle labbra di tutti gli uomini e nella testa di tutte le donne che, senza pudore ripetevano: “Io sono lo Sceicco d’Arabia, il tuo amore mi appartiene. La notte mentre dormi, entrerò furtivo nella tua tenda”, sull’onda travolgente di quel “mito” vivente che era Rodolfo Valentino idolo incontrastato della Age of Jazz, interprete de “Il figlio dello Sceicco”, tratto dal romanzo "The Son of the Sheik" di Edith Maude Hull (1925) per la regia di: George Fitzmaurice e tantissimi altri tra i quali mi piace qui ricordare "The Fuor Horsemen of the Apocalypse" (I quattro cavalieri dell' Apocalisse), tratto dal romanzo omonimo di Vicente Blasco Ibañez (1918) per la regia di: Rex Ingram.

“Strano come sia radicato l’errore che più si fa chiasso e più si è importanti. La gioventù di quel tempo agiva da irresponsabile, si sfrenò un po’ più del dovuto e dopo anche negli Stati Uniti si erano visti anni di grande prosperità economica tutta la nazione aveva ripreso il suo normale tran-tran quotidiano. Gatsby rappresentava qualcosa di splendido, una sensibilità acuita alle promesse della vita (..) una dote straordinaria di speranza, una prontezza romantica quale non esisteva in altri e nella sua ambizione. (..) Ascolta! Il mondo esiste soltanto ai tuoi occhi, è il concetto che ne hai che conta. Puoi farlo immenso e piccino come ti aggrada” – scrive Scott Fitzgerald narrando di quegli anni avendo in testa le note di “Tre o’clock in the morning”, un valzerino lento e triste di quell’anno, mentre gli invitati reclamavano a gran voce di ascoltare il Jass.
“...Una musica da bere come lo champagne, da gettare via come un sigaro appena acceso, da usare come un eccitante pizzico di follia, magari immersi nella fontana “a bagno maria” dopo un ultimo brindisi. (..) Gente con troppi soldi, pochissimo discernimento e nessuna tradizione che si abbandonava all’orgia del tempo. Il palazzo di Gatsby era qualcosa di colossale, una copia curata di qualche Hotel de Ville della Normandia, con una torre da una parte, incredibilmente nuova sotto una barba rada di edera ancora giovane, una piscina di marmo e più di venti ettari di prato e giardini azzurri dove donne e uomini andavano e venivano come falene tra bisbigli e champagne e stelle. Durante l’alta marea del pomeriggio io guardavo i suoi ospiti tuffarsi dal trampolino e prendere il sole sulla sabbia calda della spiaggia privata, mentre i suoi due motoscafi fendevano le acque dello stretto, rimorchiando acquaplani tra cascate di spuma...”.
“...Nei giorni di week-end la sua Rolls-Royce diventava un autobus, (..) ogni venerdì cinque casse di arance e limoni arrivavano da un fruttivendolo di New York, (..) arrivava un’intera squadra di fornitori con centinaia di metri di tela e lampadine colorate (..) sulle tavole dei rinfreschi guarniti di antipasti scintillanti, i saporiti prosciutti al forno si accatastavano coperti di insalate dai disegni arlecchineschi insieme a porcellini e tacchini ripieni, trasformati come per magia, in oro cupo. Nel salone principale era impiantato un bar con un’autentica ringhiera di ottone stracarico di Gin e di liquori e cordiali di marche dimenticate da tanto tempo. (..) Alle sette arrivava l’orchestra, un intero mucchio di oboe, tromboni, sassofoni, cornette e flauti, e viole, tamburi grandi e piccoli”.
Ed erano orchestre straordinarie dai nomi altisonanti, come quella di Fletcher Henderson, di Duke Ellington, di Louis Armstrong, e ancora di Count Basie, Glenn Miller, Tommy Dorsey che formavano le Grandi Jazz Band e tantissime altre. Pensate, ci fu un momento in cui quasi tutte riprendevano un motivo assai di moda, quel “Pippo non lo sa” di Tullio Mobilia che le Band si divertivano a stravolgere con a-soli strumentali virtuosistici pur sempre in versione strettamente Jazz, e il divertimento era assicurato. Ma torniamo a Gatsby, quando sul fare della sera: “Già le sale e i saloni e le verande erano sgargianti di colori e di pettinature nuove e strane e di scialli, (..) le ronde fluttuanti di cocktail permeavano il giardino ... l’aria risuonava di cicalecci e risa e frasi di convenienza ... le luci divenivano più festose mentre la terra si nascondeva al sole”.
“Il riso si faceva più facile minuto per minuto, veniva diffuso con prodigalità, donato a ogni parola gioconda ... C’erano vecchi che spingevano le ragazze all’indietro in continui circoli sgraziati, coppie di classe che si stringevano tortuosamente secondo la moda e restavano negli angoli, e una quantità di altre ragazze che ballavano sole o toglievano per un momento all’orchestra la preoccupazione del banjo o della batteria, mentre scoppi di risa felici e inutili si alzavano verso il cielo estivo” – (avete notato come un sarcasmo più nero fluttua talvolta in una sola frase del Fitzgerald sornione). Jordan Baker e Daisy, la favorita di Gatsby, stavano sul divano.. “...posate come una navicella di un pallone frenato con le gonne fluttuanti e drappeggiate, come fossero appena tornate da un breve giro intorno alla casa”.
Bruciato dalla sua passione per Daisy, Gatsby voleva ad ogni costo ciò che aveva perduto, sebbene la maternità di Daisy e l’amore che aveva provato per il marito, toglievano al suo sogno impossibile l’attimo sublime che egli aveva creduto poter fare suo. Come la fenice nel volo ultimo teso a raggiungere l’infinito, egli poté soltanto stringere i pugni delle sue mani vuote, vittima consapevole della tragedia umana e sociale che si stava consumando in quel breve spazio di tempo fin troppo edulcorato e che si conclude con una pallottola che fatalmente lo colpisce. La stessa tragedia umana che infine avrebbe colpito lo scrittore Scott Fitzgerald che, per una qualche coincidenza astrale negativa, che si trovò poi a vivere come uomo: un volo di fenice arrestatosi prima del previsto, come quella gioventù dorata ch’egli aveva immortalata nei suoi romanzi, così per un esile gioco della vita col destino.
Gatsby alla fine si rivelò a posto; fu ciò che lo minava, la polvere sozza che fluttuava nella scia dei suoi sogni a stroncare momentaneamente l’interesse nei dolori passeggeri e nei fuggevoli orgogli degli uomini: “E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo della villa di fronte alla sua, in cui Daisy viveva con la sua famiglia. Sì, aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così a portata di mano da non potergli sfuggire mai più. Non sapeva che il suo sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città, dove i campi oscuri si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggiava davanti a lui. Gli era sfuggito allora ma non importava – diceva – domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia ... in fondo, è una bella mattina!”

Note:
I brani riportati sono liberamente tratti da “Per chi suona la cloche” di Angus Wilson edito da Adelphi.
Da “Ragtime” di E. L. Doctorow edito in Italia da Mondadori.
Dai romanzi di F. Scott Fitzgerald “The Great Gatsby” edito dalla Penguin Books, e da “L’età del Jazz” (diario intimo di una generazione perduta) - Il Saggiatore.
Le note storiche sono di Fernanda Pivano tratte dalla prefazione che scrisse per “Gli ultimi fuochi” romanzo di Scott Fitzgerald uscito postumo; e da “Crack Up” apparso nella collana I Meridiani edito da Mondadori.
La colonna sonora originale del film omonimo diretto da Jack Clayton è edita da EMI e vede la grande orchestra di Nelson Riddle nelle vesti di arrangiatore e musicista impegnato in una ampia scelta di motivi che bene hanno ricreato l’atmosfera “affascinate e fantastica” dell’epoca.

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The Entertainers - Walt Disney

THAT’S ENTERTAINMENT IV - WALT DISNEY: “Benvenuti a Fantasyland” – (Articolo apparso in Audio Review 1984).

Fantasyland è una regione che non appare in alcun atlante geografico, ma che pure esiste nella mente di quanti si lasciano condurre, seppure per qualche momento, nel mondo della fantasia. Un mondo dove ogni cosa impossibile trova posto nell’astrazione e nella fiaba. È quella la terra delle fate e degli gnomi, di leggendari reami giacenti in fondo al mare e di città sospese sopra le nuvole; di nobili cavalieri d’arme e di maghi e streghe nefaste. Un mondo favolistico che antiche leggende e saghe popolari hanno reso del tutto invisibile, palpabile, udibile. Quel mondo che il genio creativo di Walt Disney ha felicemente trasposto nei suoi film d’animazione, cosi detti “cartoons” e con i quali tutti noi siamo cresciuti e che ci permettono oggi di ripercorrere le tappe della più fantastica avventura nei regni del colore, del suono e del movimento che il cinema ricordi.
Al suo debutto ufficale, avvenuto nel 1928, con un cortometraggio dal titolo “Steamboat Willie”, il cui principale protagonista altri non era che un certo Michey Mouse, Walt Disney dovette superare non pochi ostacoli di carattere tecnico. Non ultimo quello di dare una voce alla creatura più originale che fosse uscita dalla sua fantasia di disegnatore: Topolino. Da non credere, eppure fu proprio quel film, il primo completamente sonoro della storia del cinema, che invece viene attribuito al “The Jazz Singer” con Al Jolson che non lo era, benché occasionalmente presentava sequenze sonore (musicali). Negli anni che seguirono quella prima esperienza sonoro-visiva walt Disney realizzò una serie di short (corti) dal titolo “Silly Simphony” nei quali rivelò un notevole senso del ritmo con la creazione di gag e libere associazioni per musica e immagini. Fu questa successiva quanto geniale intuizione a permettere a Walt Disney di dare a una fauna di oggetti e figure antropomorfe, la possibilità di esprimersi in un linguaggio vocale e musicale, e comunque sonoro, riconducibile e catturabile in ogni idioma, da cui derivarono il suo strepitoso successo e il suo riconoscimento internazionale.
Appartiene a quei primi anni l’ambizioso progetto di utilizzare la grande musica per uno spettacolo imperniato sulla figura di Topolino ricavata dall’antica fiaba “L’apprendista Stregone” musicata da Paul Dukas, gaia e ricca d’emozioni. Ma si trattava dal punto di vista tecnico del più ambizioso brano musicale che Walt Disney potesse usare in un film, per quanto fosse stata scelta perché la più adatta al cartoon che egli si prefiggeva di realizzare. Il progetto richiedeva un’esecuzione di livello professionale che desse credibilità alla fiaba e non solo ad essa, inquanto c’era da tener presente che a mimarla sarebbe stato un “topolino”. Fu così che Walt Disney pensò all’allora direttore d’orchestra tra i più acclamati, Leopold Stokowski al quale affidò l’incarico di trascrivere un intero concerto ad ampliamento della sua idea quantomeno originale. Nacque così, quasi dal nulla, ma a tutti gli effetti, uno spettacolo realizzato nella completezza delle immagini su otto grandi composizioni musicali, quel capolavoro d’insieme che “Fantasia” ha rappresentato e ancora oggi rappresenta nella storia del cinema d’animazione.
Da quel primo incontro scaturirono la presuntuosa leggiadria degli ippopotami in tutù che danzano “ridicolarmente” la “Danza delle ore” di Pochielli; l’ingegnosa trasposizione del “Lo Schiaccianoci” di Tchaikowsky e di “Una notte sul Monte Calvo” di Mussorgski, e la magica quanto suggestiva danza dei dinosauri e vulcani, improntata sulla “Sagra della Primavera” di Stravinsky. Nonché la gemma più preziosa di quella che è poi divenuta la colonna sonora del film: l’ “Ave Maria” di Schubert, in cui decine di piccole luci si muovono in processione ai margini di un bosco verso la piccola chiesa, nella delicata versione per coro e orchestra, su testo della poetessa Rachel Field, che chiude il film. Una vera rarità per amatori e collezionisti poiché si tratta dell’unica registrazione esistente.
Il film permise a Walt Disney di raggiungere il grande pubblico internazionale e diede a Topolino l’opportunità di entrare nel mito fra i grandi nomi della cinematografia mondiale. Come si trovò a dire lo stesso Disney: «Certo, probabilmente Bach e Beethoven, dei quali sono state usate rispettivamente la “Toccata e fuga” e la “Sinfonia n.6” (Pastorale), si sarebbero risentiti per l’essere stati riproposti da Topolino, ma fu proprio qui la trovata fantastica e buffa insieme. Creare “Fantasia” non significò soltanto ascoltare la musica, bisognò organizzare le cose in armonia con essa; catturare i gesti e le situazioni, cogliere quei caratteri e colori che la musica suggeriva alla tavolozza dell’immaginazione. E infine, trasporla in frasi e note visive e soprattutto in colore». «Cosa questa che tradotta in musica, bisognò guardare la musica e ascoltare le animazioni», aveva poi concluso il maestro Leopold Stokowski.
Particolari accorgimenti tecnici, quasi impensabili per l’epoca in cui vennero realizzati, furono necessari per la registrazione della colonna sonora del film. Nei 18 mesi di lavorazione che occorsero alla sua realizzazione, la Philadelphia Orchestra diretta dallo stesso Stokowski, venne suddivisa in otto cori strumentali collegati simultaneamente da 33 microfoni per nove canali di registrazione. Fu necessaria inoltre, l’installazione di un imponente apparato tecnico-sonoro mai realizzato prima per un film. Se si pensa che venne registrata nel lontano 1940, essa rappresenta un’autentica avventura pionieristica. A distanza di tempo, anche dopo la riproposta del film nello splendore del Cinerama e nella bellezza del suono stereofonico, “Fantasia” rappresenta ancora un’esperienza unica e irripetibile.
Sulla scia di quella meravigliosa avventura Walt Disney conseguì ulteriori tappe nell’arte del cinema d’animazione con l’applicazione di una tecnologia sempre più avanzata che gli permise di sublimare il felice connubio con il reale e con il successivo accostamento con personaggi reali, come in “Mary Poppins”. Una raccolta delle partiture musicali e delle canzoni più famose e tratte da altrettanto celebri cartoon, dagli esordi del 1928 al 1977, è quanto contenuto nel cofanetto-strenna di 4Lp dal titolo “The Magical Music of Walt Disney”, coordinato e illustrato da Dick Schory in occasione del cinquantenario di Topolino, rappresenta davvero una bella raccolta di brani che copre un arco di circa 50 anni di cinema in musica. Una meravigliosa avventura in musica, un viaggio entusiasmante al di là dell’immaginazione che vi porterà in quella “Fantasyland” che vi avevo promesso all’inizio.
Ammettetelo, chissà quanti di voi non ha provato anche un solo momento di sana nostalgia, quando, presi dalla routine giornaliera hanno esultato nello scoprire fra i tanti cartelli pubblicitari l’annuncio dell’ennesima proiezione di “Lilli e il Vagabondo”, o de “La carica dei 101”, e perché no di “Bambi” o “Cenerentola” ecc. ecc. e, anche con il timore di ammetterlo, prima ancora di trovare la scusa di condurvi i propri figli o i nipotini, non avete esitato di attendere con commozione l’apertura del cinema. Quel giorno davano “Biancaneve”, oppure “Peter Pan”? “La Bella addormentata” o “Pinocchio”? E perché no, quello straordinario “Fantasia” che i bambini guardavano intimoriti, per via che lo spettacolo era tanto più grande di loro, che quasi non capivano perché ce li aveste portati, ma dove pur infine, il bene trionfa sul male e la bontà si avvede della cattiveria.
Ecco, questa è Fantasyland, ammettete di esserci stati anche voi almeno una volta?

Bibliografia:
“Storia del cinema mondiale” – Georges Sadoul – Feltrinelli.
“The Art of Animation” – T. Bob – W. Disney – Golden Press 1958.
“The Disney Films” – Maltin & Leonard – Crown Published 1973.
“Michey Mouse, 50 Happy Years” – B.D.H. Bruce – Harmony Books – 1977.
“Disneyland” – Annual Book 1981.

Discografia:
Walt Disney’s Christmas Favourites – Disneyland SNM 939.
Collana Storytellers (Lp + Album illustrato) – Disneyland Record.
Collana “I classici di W. Disney” – Disneyland Record
“Fantasia” – Original Soundtrack – Buena Vista BVS 101/2.
“Mary Poppins” – Original Soundtrack – Buena Vista BV 426.
“Il Libro della Giungla” – original Soundtrack – Buena Vista BV 422.
“The Magical Music of W. Disney” – Ovation OV5000.
“Disney’s songs in the Satchmo way” – Luois Armstrong – Buena Vista BV4044.
“Disneyland, motivi celebri dai film” Vol.1/2 eseguiti dal Piccolo Coro dell’Antoniano diretto da Marielle Ventre. – Ri-fi Record Rel-Set.
Filmografia:
(vedi in Wichipedia alla voce Walt Disney film).

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- Musica

The Entertainers - Ragtime

THAT’S ENTERTAINMENT - RAG-TIME!!! : Il mondo migliore di Scott Joplin – (Articoli apparsi in Nuova Scienza-Ricerca Etnologica e Nuovo Sound).

“Accidenti che giornata! Ad andare a far compere con Alice c’è da impazzire. Non ho capito se si diverta di più a rifiutare i regali che le piacerebbero o a parlare degli oggetti che le piacerebbero e che mi offro di comprarle. Ora mi faccio un lunghissimo bagno coi Sali alla gardenia e un mucchio di dolci e poi ballerò sino a cancellare Alice dalla mia povera testa. Oh! Quante chiacchiere, certe così divertenti quando riesco a capirle e certe di un’idiozia da morire. Perché sono sciocchezze, per Eugen e tutti quei pervertiti no, ma per Dick lo sono, e ridiamo da matti quando stiamo insieme. Lo sai che non c’è una sola parola che abbia la minima pretesa di verità. Sono tutte scemenze da serve, tesoro mio, ammettilo! Ed era vero. Tata era molto intelligente, anche se gli piaceva far finta di essere solo una bestiola da salotto: ma poi volle a tutti i costi guadagnarsi da vivere! Suonava il piano in un cinemino dalle parti di King’s Cross Station, un orribile posto piccolissimo e buio. Andarci diventò di moda e ai suoi amici lui dedicava sempre determinate canzoni, a ognuno la sua. Un pomeriggio ci andai anch’io e lui sapendo che c’ero, suonò dieci volte la mia canzone preferita “Kitten On the Keys”. Alla fine il direttore gli disse che la sua musica distoglieva il pubblico dalle faccende del film, sicché lui lasciò quel lavoro e si mise a fare in casa paralumi per gli amici”.
Il brano qui sopra riportato e gli altri che seguiranno, sono liberamente tratti da “Per chi suona la cloche” di Angus Wilson, e che, in qualche modo, ha reso possibile introdurre l’argomento che tratta questo articolo ripescato dal mio personale archivio, dal titolo: “The Entertainers” (Nuovo Sound Dicembre 1974), cioè quei suonatori di piano che al cinema accompagnavano i film del “muto”, a partire dai primi corti di Charlie Chaplin, alle pantomime di Buster Keaton, Stan Kenton e i fratelli Max che ancora oggi ammiriamo e riscopriamo ogni volta così ricchi di inventiva e originale comicità, e che furono all’origine dell’odierna “colonna sonora”. Articolo che oggi vi ripropongo, per il fatto che vale la pena ricordarli e non solo per la creatività musicale, quanto perché hanno dato alla musica quello slancio di cui aveva bisogno per diventare internazionale e immancabilmente popolare.
Fin dal 1890 al 1917 circa America ed Europa letteralmente impazzirono per la musica, un fenomeno non eguagliato fino all’avvento del ‘Rock’n Roll’, una delle prime forme identificabili di quella che verrà in seguito denominata ‘Rag’ e che già preannunciava l’avvento del ‘Jass’. Una musica prettamente con una propria forma e struttura che – si vuole – sia nata verso la fine del XIX secolo nelle città del Middle West come Sedalia e ST. Louis dove i cosiddetti “Entertainers” erano per lo più di colore, ma che ben presto venne suonata anche da bianchi sullo stile dei neri. Indubbiamente africane erano le sue origini alla quale i compositori neri di ‘Rag’ avevano aggiunto una sorta di ritmo sincopato con lo spostamento dell’accentazione, risultato dalla fusione tra la musica africana e quella europea, e ben presto assunse al suo nome quello di ‘Rag-time’.
Il successo del ‘Rag’ fu travolgente, infiammò l’America da costa a costa e fece il giro del mondo: nel 1900 passò dai Minstrel Shows ad un posto di primo piano nella musica commerciale alla moda, trascinando nel vortice anche Londra (cui fa riferimento Angus Wilson), e Parigi, abbagliata com’era dalla Belle Epoque decantata da Zola, Proust, Satie, Lautrec, interessate non a modificare quanto a godere dei piaceri che il bel mondo offriva loro, e viverlo in quanto “spettacolo”, “gioia di vivere”, “edonismo”, “bellezza” e scoprirlo, nella sua essenzialità di cornice di un’epoca, quella dell’inizio degli inizi del nuovo secolo, a sottolineare i momenti edulcorati della scena e rendere lo “spettacolo” partecipe delle sensazioni e dei moti dell’animo di tanti personaggi divenuti poi “miti” letterari, del teatro e del cinema di allora, e che pure dietro l'euforica allegria del momento nascondevano la miseria di sempre.
All’inizio i compositori di Ragtime incisero i loro pezzi su rulli per pianola meccanica che furono venduti in migliaia di esemplari, come oggi gli attuali dischi, ma questo accadeva prima dell’era del disco per cui se ne sapeva poco fino a qualche tempo fa. Forse fino a che Mrs Vera Broadsky Lawrence nel 1971 rispolverò dagli scaffali polverosi della The New York Public Library, un involucro di carte che portava la scritta “The Collected Works of Scott Joplin”, cosa che fece esultare l’America come per la conquista della luna. Una luna splendente di milioni di dollari che la vasta produzione jopliniana avrebbe fruttato grazie all’entusiasmo che la raccolta avrebbe suscitato in tutto il mondo e alla conseguente attività di tutta la musica americana, valorizzandola nell’ambito della carente tradizione classica.
Precedentemente, e si era negli anni cinquanta, era stata ritrovata una serie di rulli in parte in negozi di antiquariato che era poi risultata in parte inascoltabile, in parte scollegata da qualsiasi unitarietà per poter fornire una base musicale prettamente americana. Tuttavia, ma solo successivamente al ritrovamento della Broadsky Lawrence è stata riprodotta in fac-simile su dischi dalla Monkey Records col titolo “Jazz Piano Rolls”, due album che ripropongono ben dodici pianisti nei loro “a solo” più importanti, mai pubblicati prima. I rulli riprodotti assumono qui una loro particolare vitalità quale potrebbe essere ottenuta solo da una incisione dal vivo. Una panoramica di pianisti e brani di successo che hanno segnato l’ “Età del Jazz” dal titolo del romanzo omonimo di un’altro scrittore di fama F. Scott-Fitzgerald. Ma elenchiamoli: Jelly Roll Morton “Dead Man Blues”, J. P. Johnson “Charleston”, Fats Waller “Squeeze Me” e tantissimi altri, da Cow Cow Davenport a Duke Ellington e ancora Clarence Williams, Willie Smith “The Lion”, J. Scott, Louis Chauvin ed anche qualche esecutore bianco che hanno contribuito a fare del ragtime e poi del Jazz (finalmente così definito) la musica dei cosiddetti “Roaring Twenties”, ovvero quegli “anni ruggenti” che infiammarono l’America da New Orleans a Chicago a New York.
È della Nonesuch Records “Heliotrope Bouquet Piano Rag’s” di cui William Bolcon è lo straordinario interprete che ha saputo riproporci l’atmosfera briosa del Rag e che raccoglie brani di quelli che ben sono stati definiti i “pionieri della musica americana”: Tom Turpin, fondatore del St. Louis Style, dal gusto dolce e orecchiabile che fu anche definito il “pane e burro” del ‘Rag’ è presente con una marcia-rag “A Rag-time Nightmare”; Scott Joplin ritenuto il creatore del rag e il più grande compositore nero, con “The Entertainers” e “Maple Leaf Rag” che trovarono una loro grande riaffermazione anche nel film “La stangata” col quale si è dato vita al grande revival jopliniano e a tutto il periodo cosiddetto “d’oro”degli anni ’20 e ’30. L’album rivela però altre sorprese e altri nomi importanti della storia del Ragtime, come Louis Chauvin di origine francese, “Wall Street Rag” è giustamente considerato uno dei migliori pezzi di sua composizione; C.L. Roberts “Pork and Beans”; Joseph F. Lamb che si accattivò le simpatie dello stesso Joplin, e che trovò la sua personale affermazione presso lo stesso editore, John Stark, è presente con “Ethiopia Rag” che meglio rappresenta la fusione del ritmo sincopato del Rag e - in senso armonico – il respiro delle grandi composizioni classiche.
In Italia, una riproduzione fedele dei piano-rolls di Scott Joplin è fornita dalla Impact per la serie Classic Jazz contenente una raccolta eccezionale sia per la ricercatezza dei brani originali risalenti nientemeno che al 1899 che meglio rappresentano l’evoluzione del Rag nella produzione jopliniana fino al 1914, anno in cui Joplin compose il suo “Magnetic Rag” e quel “Stoptime Rag”, difficili da trovarsi in altre riproduzioni. Nella serie Classic Jazz edita dalla Impact troviamo inoltre “documenti” riferiti a compositori di colore e non che hanno segnato il percorso della storia del Jazz delle origini: “King Oliver’s Creole Jazz Band”, “Fletchter Henderson Orchestra”, “Scott Joplin Ragtime Pionier”, “New York Jazz Scene 1917-20” e “Piano Blues 1927-33” ed altre interessanti raccolte con le quali la Impact intende soprattutto rivalutare il patrimonio musicale internazionale. Altro grande album dedicato interamente alla figura di Scott Joplin è quello di Joshua Rifkin edito dalla CBS contenente i migliori brani, scelti tra gli oltre mille del compositore, che formano la colonna sonora del film “La stangata” (1973) di George Roy Hill, seguito a ruota da “Ragtime” (1976) di Robert Altman tratto dall’omonimo best-seller di E. Doctorow.
Ma, se è vero che nella storia dei popoli tutto si ripete, eccoci trasferiti nel bel mezzo di un’epoca che molti di noi non hanno conosciuta, se non attraverso vecchi films e documentari da cineteca che di tanto in tanto (sempre meno) vengono proposti alla televisione in occasione di qualche revival che di buon grado oggi ritroviamo talvolta nel ripetersi di mode funny, ma che, se non altro serve a recuperare un passato che è anche futuro. Del resto, come ancora ci avverte Angus Wilson: “Giudicare gli esseri umani secondo i consueti principi del decoro sarebbe molto piacevole, ma anche molto sciocco. Bisognava guardare le cose come stavano, e non come le fanno vedere nei romanzi (e al cinema), a meno che non siano quei grandi affreschi dell’umanità intrisi di cinismo ma estremamente reali presentatici dal grande scrittore Somerset Maugham. (..) Bridget e Tata danno una festa nel loro appartamento ai News. A quei tempi sapevano veramente che cosa significasse star pigiati. Feste! Feste! Erano l’essenza della vita di Masie! Il Tatler ne parlava, il Daily Express le disapprovava ma, il resto dell’Inghilterra e del mondo continuava a vivere la vita. Ragtime, Fox-trot, Shimmy, Charleston, Tango, Boogie Woogie, erano allora l’anima delle feste, la “gioventù dorata” più si faceva notare e più ci godeva, era un mondo troppo brillante e fin troppo rumoroso, però i giovani sapevano veramente cosa volesse dire divertirsi”.
Dal Ragtime al Boogie Woogie, più esplicitamente musica da ballo, il passaggio è lungo almeno una ventina d’anni, in cui fece la sua apparizione un nuovo stile pianistico, che si affermò a Chicago come derivazione strumentale del “Blues” su un ritmo più veloce cosiddetta “stride piano” per la sua andatura a grandi passi che i pianisti erano costretti a improvvisare per seguire i fotogrammi filmati, e lo svettare rapido delle gambe nei nuovi balli di moda, e i cui esponenti furono Clarence Lofton, Jimmy Yancey e Clarence “Pine Top” Smith, il quale, nel 1928 usò per la prima volta il termine su disco con il suo “Pine Top Boogie Woogie” spesso con la complicità di componenti orchestrali riunitesi in Band o intere orchestre swing (di musica leggera) come ad esempio quella di Count Basie o di Duke Ellington e commercializzato a livello internazionale.
Voglio qui evidenziare che quella del Ragtime non fu soltanto una evoluzione innovativa bensì una vera e propria presa di coscienza dei “neri” che si imposero sulla scena dell’ “entertainment” americano con una funzione propositiva, quella di far conoscere ai “bianchi” la loro davvero grande capacità interpretativa della musica originaria africana importata con gli schiavi e riscattare così quella supremazia culturale che i “bianchi” con arroganza ostentavano da sempre nei loro confronti. L’apparizione dell’unica “opera” nel vero senso della parola composta da un nero avvenne in quegli anni e la si deve a Scott Joplin col titolo di “Treemonisha” (1915) (articolo apparso in Nuova Scienza: “Ricerca Etnologica” 1980), e che conosciamo grazie a una recente messa in scena del Miller Theatre di Houston che ha ottenuto un notevole successo di pubblico e di critica e che dopo sessanta anni trova quel successo che Joplin passionalmente desiderò e che rimase un sogno senza realizzazione, quando la morte lo colse ad Harlem il 1 Aprile del 1917.
Sotto la maschera della favola-folk l’opera contiene un messaggio tipico del suo tempo, invocante l’evento sociale della liberazione dei neri dalla schiavitù cui erano sottoposti, a cominciare proprio dal riscatto attraverso la più antica cultura delle loro origini. Una storia semplice in cui si narra di una ragazza che attraverso il conflitto interiore e comunitario del “giusto ed errato”, del “buono e il cattivo” si fa portatrice di giustizia nell’ambito della propria comunità di contadini. Un riscatto spirituale quindi, capace di sopperire alla latente superstizione della razza. Da cui l’insegnamento che “la ragione-illuminata dirada le tenebre della superstizione”. Una favola costruttiva dai toni magici, poetica ma non romantica, paragonabile per certi aspetti al “Flauto Magico” di Schikaneder-Mozart. L’impasto musicale rappresenta infatti l’incontro tra la musica popolare nell’evoluzione del Rag con la musica colta, per il rigore degli spazi e dei tempi, che risulta addirittura “nuova”, dove non c’è davvero nulla di intentato: dalla freschezza degli impasti musicali, alla comunicabilità del tema, all’attualità del messaggio, all’insegnamento che può esistere anche “un mondo migliore”, del ritorno alla natura, senz’altro quello che Scott Joplin ci prospetta in questa sua opera. “Treemonisha”, la ragazza re-incarnazione dell’albero (tree) sotto il quale probabilmente è stata concepita.

Note:

I brani letterari sono liberamente tratti da “Per chi suona la cloche” di Angus Wilson – Adelphi.

Le note storiche da “Jazz” di R. P. Jones – Vallecchi
e da “Il libro del Jazz” di Berendt – Garzanti.

I dischi recensiti sono editi da Fonit Cetra, Rifi Records e Ricordi, e Deuteshe Grammophon, alle quali vanno i miei sentiti ringraziamenti.

L’opera “Treemonisha” appare su due Lp della D. G. (DG 2707083) con il cast originale, gli arrangiamenti, orchestrazione e la supervisione di Gunther Schuller; le scene di Franco Colavecchia, la scenografia di Louis Johnson, la produzione di Frank Corsaro.

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- Musica

The Entertainers Oh! That Cello - Charlie Chaplin

THAT’S ENTERTAINMENT III by Giorgio Mancinelli.
“Oh! That Cello” - The music of Charlie Chaplin (*).

Quando nei titoli di testa di “Luci della Città” (1931), apparve la dicitura: “Commento musicale di Charlie Chaplin”, si pensò da parte di molti a una ‘civetteria’ ma i fatti dovevano smentire in maniera sostanziale l’atteggiamento negativo che alcuni critici dell’epoca assunsero nei confronti dell’improvvisato musicista. Non poi così ‘improvvisato’ direi, poiché il suo sodalizio con la musica risaliva a vecchia data, quando cioè all’età di soli cinque anni aveva debuttato sul palcoscenico del teatro di Aldershot (Inghilterra), interpretando un motivo allora molto in voga: “Jack Jones”. Va anche ricordato che nel 1916 aveva diretto l’Orchestra di Sousa nell’ouverture di “Poeta e Contadino” e che a quello stesso anno risale la partitura strumentale utilizzata in seguito per “La pattuglia della pace”.
Riandando indietro nel tempo va detto che Charlie Chaplin prima ancora di essere ‘quello che è stato’, nasce come musicista autore di canzoni di successo che hanno fatto il giro del mondo e che ancora oggi entrano a far parte del repertorio standard di molti cantanti famosi. Solo per ricordare alcune delle sue canzoni più note: “Oh! That cello”, “There always someone you can’t forget” del 1916; “Sing a song” e “With you dear in Bombay” del 1920, in seguito utilizzate nella riedizione sonora del film “La febbre dell’oro” (1925). Nonché quella “Falling Star” entrata nella colonna sonora de “Il grande dittatore” (1940), senza omettere i tre motivi “A Paris Boulevard”, “Tango bitterness” e “Rumba”, scritti per “Monsieur Verdoux” (1947). E che dire di “Smile” inserita in “Tempi Moderni” (1936), il cui strepitoso successo fece il giro del mondo e ancora se ne ascolta l’eco in numerosi arrangiamenti canori e per orchestra, banco di prova di ogni cantante di un certo riguardo.
Ma interrompiamo qui questa scaletta di successi che ogni artista a buon titolo vorrebbe annoverare nel proprio curriculum, e occupiamoci invece di Charlot, quell’omino dall’aria triste e dinoccolata, eternamente in lotta con un destino più grande di lui. A Charlot il cinema deve davvero molto, senza il suo personaggio, la bombetta, il passo incerto e indeciso, il “teatro delle ombre” (come era chiamato il cinema degli esordi), avrebbe stentato anni, forse, prima di diventare un’arte veramente popolare. Il film, lungo appena pochi metri di pellicola, in cui Charlie Chaplin veste per la prima volta i panni di Charlot venne presentato dalla Keystone il 2 Febbraio 1914, col titolo davvero premonitore “Per guadagnarsi la vita” (1914). Fu quello l’inizio di una ininterrotta serie di avventure eroicomiche apparentemente in bilico fra il patetico e il sentimentale, seppure con una forte introspezione psicologica nel risvolto della realtà che veniva mostrata.
Con l’avvento del sonoro nel 1929, l’ombra del dubbio appannò per un momento la certezza di Charlie Chaplin, il quale, dopo la proiezione di una delle prime pellicole sonore annotava: “Uscii dal teatro convinto che il sonoro avesse i giorni contati”, ma ben presto, come poi si vedrà, non ebbe altri tentennamenti. “Era il tramonto del cinema muto. Fu davvero un peccato, perché cominciava a perfezionarsi proprio allora. (..) Io però ero deciso a continuare a fare film muti, perché credevo che ci fosse posto per ogni sorta di svaghi. (..) Proseguii pertanto la lavorazione di “Le luci della città”. Impiegai più di un anno a girarlo, non restava che da registrare la musica. Uno dei vantaggi del sonoro consisteva nella possibilità di controllare la musica che perciò composi personalmente. Cercai di comporre una musica romantica ed elegante, che fosse in contrasto con il personaggio del vagabondo, perché la musica elegante conferiva ai miei film una dimensione emotiva. Questo gli arrangiatori lo capivano di rado. Loro volevano che la musica fosse divertente. (..) Io volevo che fosse un contrappunto di grazia e delicatezza”.
La conferma e, se vogliamo, la svolta arrivò dopo “Melodie di Broadway”, una commediola musicale sonora a lungometraggio, scadente sotto il profilo artistico, che però riscosse un buon successo economico, le sue incertezze cedettero il posto a una nuova creatività. Prima di ogni suo film entrava regolarmente in sala di registrazione e incideva la sua musica. Ed erano tutti brani straordinari, chi non ricorda: “Eternamente”, e quel “Limelight” leit-motiv di “Luci della ribalta” (1952); o “This is my song”, “Mandolin Serenade”, “Napoli march”, per “La Contessa di Hong Kong” (1967). Tuttavia nei suoi film troviamo, accanto ai propri temi musicali, brani composti da altri spesso con intenti comici o dissacratori come “La violetera” e “Io cerco la Titina” cantata dallo stesso Chaplin in un guazzabuglio linguistico in “Tempi Moderni”.
Ma se nel cinema il suo genio concepì una forma d’arte autonoma, la veste musicale che ha accompagnato i suoi film, ha indubbiamente, aggiunto una rara vitalità nella pur sua essenziale intuizione. Ciò che sempre sfuggiva ai suoi detrattori e ai critici della sua epoca, e che ancora oggi sfugge ai ‘conoscitori’ del suo estro musicale, è che in Chaplin tutto era, e lo è tutt’ora ogni qual volta visioniamo un suo film, trasposizione in musica di emozioni e sentimenti, ‘fotogramma dopo fotogramma’, dove il gesto diventa essenziale, ogni movimento poesia, scansione musicale, e nel suo insieme un’irripetibile coreografia.
“Sono nato il 16 Aprile 1889, alle otto di sera, in east Lane, Walworth. Subito dopo ci trasferimmo in West Square, St. George’s Road, Lamberth. Stando a mia madre il mio fu un mondo felice. Le nostre condizioni erano relativamente agiate; abitavamo in tre stanze arredate con gusto...”. Con queste parole Charlie Chaplin da inizio alla sua nota “Autobiografia” (*), il cui destino di attore, mimo, ballerino e musicista, era già segnato. Il resto è storia, anzi leggenda!

Hanno detto e scritto di lui i colleghi:

Vittorio De Sica – “Noi tutti usciamo dalla sua celebre bombetta, come gli autori russi dell’Ottocento dicevano di uscire tutti dal “Cappotto” di Gogol!”

Michelangelo Antonioni – “Non posso non riconoscere in lei un grande maestro della comunicabilità”.

Federico Fellini – “Io, Maestro, mi chiamo Federico Fellini: senza di lei non sarei scappato di casa a diciotto anni, non avrei fatto il disegnatore o lo scrittore umoristico, non avrei ‘guardato’ in faccia la vita. Da lei ho appreso la lezione della libertà ed ho imparato a guardare l’uomo a tutto tondo, restituendone le malinconie canine, i soprassalti della coscienza, la disperazione, la grande ambizione e anche la sgangherata speranza”.

 

Robert Bena-Joumn, noto vritico cinematografico - "E' meraviglioso vedere come il suo entusiasmo e la sua cultura riescano ad entrare perfettamente in ogni personaggio. Un istrione che non conosce ne calcolo ne metodo, ma che si affida per ogni cosa ad una certa purezza interiore".

Hanno scritto di lui i poeti:

Umberto Saba - “In volto / Sotto il cappello a bomba un poco obliquo / Ha gli occhi attenti del cane che in fretta / va per paura. / Oscura / è la sua pena, e forse invoca d’essere / Raccolto, / O almeno ucciso”. 

Vladimir Majakowsckij – “Una città d’Europa. / Ammiccano / Gli occhi delle case. / E negli occhi / lacrime multicolori. / Sui pali, nello spazio, in mille modi. / Un nome solo: Charlie Chaplin! / Un debole omino calpestato / da Los Angeles a qui / recita attraverso gli oceani”.


Raffaele Carrieri – “Hai fatto col freddo e la fame / l’America umana / e umano l’americano / che piange i suoi conigli / nel cassone del frigorifero. / Ha smesso di prenderti a calci / nei giorni dispari / e il sabato quando è un po’ brillo / pagherebbe fino a tre dollari / la visita di un angelo”.

Corrado Govoni – “ Con le tue scalcagnate scarpe / buone da far bollire nella pentola / nei giorni della carestia; / pagliaccio schiaffeggiato dai milioni: / girerai sempre l’ironico disco / della luna dei poveri / col tuo sacco di eterno vagabondo, / usignolo fischiato dal silenzio, / sull’ipocrita cadaverico cuore del mondo”.


Bibliografia:
(*) Charlie Spencer Chaplin, “La mia autobiografia” - Mattioli 1885. Ripubblicata da Mondadori nel 1964.
“Opinioni di un vagabondo” (Mezzo secolo di interviste) – Minimum Fax
“Un comico vede il mondo” – Le Mani-Microart’S

Discografia:
“Oh! That Cello” musica di Charlie Chaplin, straordinariamente eseguita al violoncello da Thomas Beckmann e al piano da Kayoko Matsushita – 2 CD BMG – 1993.
“I film di Charlie Chaplin” – Lonnie Baxter Orchestra – Vedette.
“A tribute to Charlie Chaplin” – Stanley Black dirige la London Festival Orchestra & Chorus.
“Omaggio a Charlie Chaplin” – Orchestra M. Villard – Vogue.
“La musica di Charlie Chaplin” – Gli Oscar del Disco – Ariston.
“Musiche per i film di Charlie Chaplin” – Alphonse Ensamble – Carosello.

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- Cinema

Magnifica presenza

MAGNIFICA PRESENZA di Ferzan Ozpetek, con Elio Germano, Paola Minaccioni, Margherita Buy, Claudia Potenza, Beppe Fiorello, Vittoria Puccini, Andrea Bosca e la partecipazione straordinaria di Anna Proclemer.

Se non amate i fantasmi, non cercateli, non chiamateli e, soprattutto, non fategli del male. Perché probabilmente il male lo hanno già subito in quanto fantasmi che sopravvivono a noi e in noi che li abbiamo creati. Il plurale è dovuto, in quanto nel film di Ozpetek sono otto di numero, un’intera Compagnia teatrale che si aggira nella casa del loro subìto misfatto. Il dramma però, ci dice il regista, non è solo in loro, è anche in noi che li viviamo come ‘magnifica presenza’ nel nostro inconscio quotidiano. É il dramma del protagonista (Elio Germano) che si trova a dover rivedere l’impostazione della sua vita tra passato e presente, tra l’ambiguità e l’assolutezza di vivere. Come del resto hanno sempre fatto loro (i fantasmi) in qualità di attori (e che attori), con le loro maschere appiccicate sul volto che non hanno più pulito dal trucco e dagli orpelli della scena. Da quando, nel 1943, per effetto della guerra sono dovuti scappare dal teatro, luogo sacralizzato dalla loro esistenza, piazza universale di un mondo che devono ancora scoprire. Che noi stessi dobbiamo scoprire, anche se, recitare senza copione e senza parte è quello che facciamo regolarmente nel nostro quotidiano vivere. Loro vivono là, annichiliti dentro la sceneggiatura che li contempla, anche se ormai sono fuori del tempo, fuori da questo mondo che in parallelo col passato chiede di entrare nella storia. Ma noi che dovremmo restituirli alla dimensione del presente, per essere davvero noi, presenti a noi stessi, saremo mai in grado di farlo? Forse per fare questo, dovremmo quantomeno amarli.

Una sceneggiatura da brivido al limite del nichilista, tuttavia poetica e inquietante, che unisce le due diverse realtà dentro la fantastica figura del giovane protagonista, tra il candore e l’incredulità, la sfiga e la semplicità (difficile da raggiungere), in mezzo a uno stuolo di attori che dimostrano avere grande spessore psicologico (sulla scena) e di mestiere (nel cinema). Bravi davvero tutti indistintamente, all’altezza di una stagione pirandelliana da ‘Compagnia dei Giovani’ di buona memoria.
Riguardo alla regia, la mano felice di Ozpetek raggiunge in questo suo ottavo film, l’armonia ricreata di un brano orchestrale diretto da un grande maestro, che dal pianissimo iniziale diventa maestoso nella coralità finale, lì dove come in un giro di valzer, il protagonista accompagna in tram la Compagnia alla scoperta della moderna città, a convalida del loro essere presenti. Ottime le luci e la fotografia, buono il ritmo nel montaggio delle scene anche se un po’ sciatto, che mi fa dire peccato, un così bel film sciupato per l'inavveduta confezione.
Discutibile la scelta musicale (solitamente così azzeccata), sebbene i brani benché accattivanti, qua e là sembrano evidenziare un’ambientazione medio orientale che di fatto non è. Ma questo possiamo ben concederlo al regista turco di nascita per la lezione (tutta italiana), che sta impartendo al nostro cinema, in prosecuzione di quanti, in passato, si sono cimentati nel genere. E sono nomi celebri, anzi direi altisonanti della nostra letteratura e del cinema della migliore tradizione: Pirandello, De Filippo, Castellani, Flaiano-Pietrangeli, Fellini, tra i quali, adesso, e a buon titolo, s'inserisce Ozpetek.
Ma come si sa i fantasmi italiani sono diversi da quelli di ogni altra parte del mondo, sono ironici, scherzosi, ‘affattucchiati’, capaci di rendere questa vita un po’ meno amara tirando qualche scherzetto in buona fede, così per ammazzare il tempo della malinconia e della solitudine. E perdoniamoli se talvolta sono un po’ sornioni, come quei gatti che oziano all’Argentina, che stanno a cuore a tanti romani e a tanti stranieri e che, in fondo, non fanno del male a nessuno.


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- Musica

Woody Guthrie: Il Poeta con la chitarra in spalla

WOODY GUTHRIE: “Il poeta con la chitarra in spalla”.

Comunemente considerato il più grande folk - singer americano, ‘maestro’ dei più noti cantanti di ballate, country western, canzoni folk, work-songs, Woodrow Wilson Guthrie (Okemah, Oklahoma 1912-New York 1967). Lui stesso diceva di sé: «Scrivo le cose che vedo, le cose che ho visto, le cose che spero di vedere, da qualche parte, in un posto lontano». Era soprattutto un poeta, così detto per la sua vena di versificare su ogni cosa: storie interminabili, ballate popolari che parlano della vita della gente, dei lavoratori, delle loro lotte, degli scioperi e della fatica quotidiana per la sopravvivenza. Era capace di intonare una canzone accompagnandosi con un paio di cucchiai o percuotendo una scatola di latta vuota con le mani nude, componendo versi che bisbigliava, fischiettava o gridava con la sua voce rauca ben intonata per gli scaricatori di porto, barcaioli che lavorano lungo i fiumi, contadini che incontra nei campi, nelle foreste come nelle strade e nelle bettole di città.

Imparò a suonare l'armonica, la chitarra e il mandolino. Per un breve periodo suona in una country band in Texas perfezionando il suo personalissimo modo di suonare la chitarra, dalla quale non si distaccava mai. Ed è infatti con la chitarra a tracolla che tutti in America, dagli anni ’40 in poi, si ricordano di lui come una figura, longilinea e asciutta, con una sorta di sorriso stampato sulla faccia che, a buon vedere nelle pieghe del volto, nascondeva un’amarezza profonda, quasi non si aspettasse null’altro dalla vita più di quello che aveva, cioè la sua libertà. In realtà Guthrie cantava e suonava per tutti, che fossero Russi, Slavi, Svedesi, Norvegesi, Irlandesi, Neri e Bianchi d’America, da sopra un carro di fieno o il tetto di un vagone merci di un treno in arrivo o in partenza verso qualche posto, vicino o lontano che fosse, per lui non aveva quasi mai importanza. La vita era grama e il suo essere trasandato rispecchiava palesemente quanto, allora, nell’America che ancora non conosceva ‘il sogno americano’, il lavoro e il pane bisognava cercarli dov’erano, vicino o lontano, da una costa all’altra e viceversa, dovunque se ne sentiva il richiamo: «Sembrava che tutti cercassero conforto sulla spalla degli altri, e le canzoni e le melodie non avevano né razza né colore. Perché ciò che è giusto per un uomo, ovunque sia, è giusto anche per te, dovunque tu ti trovi».

Ben presto fu considerato un simbolo, per non dire un vero e proprio mito per molte generazioni a venire che l’avrebbero osannato e imitato, come cantautore e come personale stile di vita, soprattutto come ‘spirito viaggiatore’ in cui si rifletteva ogni momento della sua esistenza. Infatti poteva dirsi ‘menestrello’ o ‘trovatore’ ma solo per ricordare alla lontana un qualche suo più nobile predecessore. Woody Guthrie partì molto giovane dall’Oklahoma dov’era nato, quando, nel 1936, si trovò ad affrontare la misera realtà che lo circondava, decise di abbandonare la pampa texana. Prese il suo primo treno per la California, lasciando la famiglia e una moglie che non aveva voluto seguirlo. E ovunque andò, fece conoscere la sua musica. Dopo, fu un susseguirsi di imprevisti, solcò quasi tutti i mari, prese parte a tre sbarchi dei Marines, inclusi quelli delle isole britanniche e della Sicilia, Così ricorda quei giorni:

«Nutrii cinquanta fucilieri, lavai piatti sporchi, pulii la loro sudicia mensa e non cambiai mai di grado né in su né in giù, mai. Ho cantato povere canzoni per combattenti malnutriti, come me».

Si dice abbia percorso tutti i 48 Stati dell’Unione di allora, spostamdosi continuamente:

«Ho fatto un po’ di tutto. Mi sono spostato insieme alle città del petrolio e mi sono spinto molto a Ovest, fino a Hobbs nel Nuovo Messico. Più ci si spinge a Ovest e più il paese si fa scuro, caldo, immobile e deserto. Ho imparato a suonare alla chitarra un po’ di accordi più facili, e girato da un locale all’altro come un predicatore che si rechi in continuazione da un angolo all’altro delle varie strade.

Dalla sua biografia apprendiamo che arriva a New York alla fine degli anni trenta ed incontra un gruppo di intellettuali che stanno riscoprendo la musica popolare. Fra loro ci sono Pete Seeger, Alan Lomax e altri, che trovano in Woody il rappresentante di quella genuina arte popolare che cercavano. Woody scrive moltissime canzoni e diventa ben presto un punto di riferimento della musica folk statunitense. Entra a far parte del gruppo Almanac Singers con i quali si esibisce per un certo periodo, poi prosegue da solo e collaborando con altri musicisti folk come Pete Seeger, Cisco Houston e con bluesmen come Leadbelly e Sonny Terry. E che, all'entrata in guerra degli USA con gli alleati nella seconda guerra mondiale Woody è imbarcato nella marina mercantile. Le navi su cui è imbarcato vengono silurate ed affondate, cosa che gli capita due volte, in una delle quali approda come naufrago in Sicilia insieme all'inseparabile Cisco Houston e Jim Longhi. Alla fine della guerra riprende a suonare e incidere canzoni, ma la sua collocazione nella sinistra statunitense nel sindacato gli procurano un posto nelle liste nere della "caccia alle streghe" durante il Maccartismo, rendendogli la vita ancora più difficile.

Solo dopo molti anni e dopo molte peripezie, non prima di aver raggiunto una certa notorietà, Guthrie riesce a pagarsi il viaggio sul treno del ritorno e si riconcilia coi propri congiunti. Ed è qui che, attraverso i canali di una emittente radio locale, da inizio al racconto della sua vita avventurosa, suonando e cantando le ballate e le canzoni composte e quelle raccolte un po’ ovunque. Nessuno può dire quante canzoni egli abbia composto. C’è chi sostiene di averne contata più di mille, ma si tratterebbe solo di brani che ha avuto cura di mettere sulla carta. Il numero non comprende quelle canzoni probabilmente portate via da una tempesta di sabbia in cui certamente è incappato, o quelle volate via con lo sferragliare di un treno merci preso in corsa e che nel suo lungo viaggio avrebbe valicato pianure e montagne, stati e città, quasi sempre dimenticate dopo una notte buia.

Ma chi era Woody Guthrie? Ce lo racconta lui stesso in una delle sue tante chiacchierate registrate alla radio dell’epoca:

«Io sono niente più di un tizio che cammina. A fatica potreste riconoscermi in mezzo a una gran folla: sono assolutamente uguale a qualunque altro. Strade, parchi, grandi fiumi, io viaggio! Non siete contenti che io viaggi e lavori? Se io mi fermassi, dovreste alzarvi e lasciare il vostro impiego e mettervi a viaggiare, perché c’è dannatamente tanto da viaggiare che dev’essere fatto … Mi sono messo le scarpe e ho attraversato il mondo, disegnando quadri nella mia mente e ascoltando poesie e canzoni, parole che arrivavano e danzavano nelle mie orecchie così alla svelta che non ho mai potuto metterle giù per iscritto. Un’alluvione di sensazioni aperte, fresche come l’aria libera, chiare come il cielo, come io ho provato camminando, parlando, guardando».

Un comunicatore instancabile e determinato, che per conoscere il mondo, o almeno la terra in cui viveva e che condivideva con gli altri, ha avuto la forza e la capacità di mettersi in viaggio, sapendo che non era per mera illusione o spirito di conoscenza, forse anche quello, ma senz’altro spinto da spirito di sopravvivenza, che gli diceva all’orecchio attento e scrupoloso nel cogliere i segni del cammino, in quale direzione spingersi. Un poeta dunque, che con la chitarra in spalla, estraeva dalle parole: “quella musica che un giorno salverà il mondo”.
Seppure tardiva, la riscoperta di Woody Guthrie da parte delle generazioni successive, segna un punto d’incontro/scontro tra generazioni. Un riconoscimento allo ‘spirito’ libero di un artista (suo malgrado), per il quale essere ‘contestatario’ era nella natura delle cose. Lì dove la società non offriva altro, c’era davvero ben poco da inventarsi, e lui si arrangiava come poteva, cantando le sue ballate e le sue canzoni che a riascoltarle s’impongono a sollecitare l’arida contestazione di oggi. Canzoni in cui si sente il ritmo della vita, l’eco della rabbia contro la povertà incombente, e la meschinità di chi poteva fare qualcosa e non l’ha fatto; e che dimostrano di non avere preferenze di colore o di pelle, ma che restituiscono a ognuno l’orgoglio del proprio ego e del proprio lavoro, ‘qualunque esso fosse’, che secondo Guthrie, rispondeva a quella dignità che l’uomo porta in sé, anche se non sempre la spende nel migliore dei modi. Canzoni che parlano d’amore, di solitudine, di dolore, in cui affiora un’orgogliosa e caparbia voglia di vivere e soprattutto di farcela, di svoltare, pur restando comunque se stesso.
In quegli anni, questo accadeva negli anni ’30 e ’40, in quella America, chi poteva studiava, chi non poteva era fuori dagli schemi accademici, animati solo da un’empirica disposizione a tentare vie non convenzionali. Prima di Gutrhie in America c’era stato senz’altro Charles Ives (*) che, in un peculiare sincretismo (tutto americano), aveva coniugato stilemi tradizionali con elementi idiomatici di una qualche modernità. Senz’altro dopo che il panorama si era già arricchito per l’arrivo di molti musicisti emigrati dall’Europa in seguito agli avvenimenti politici o alle persecuzioni razziali, come: Hindemith, Stravinskij, Schonberg fino a Cage, che furono particolarmente influenti, per così dire, sulla musica americana di Gershwin, di Copland e di molti altri.

Per altro, a parte tali figure d’eccezione, il terreno che meglio espresse una qualche originalità ed esercitò la più vasta influenza nella canzone popolare, fu proprio quello della musica di consumo, sia quella diffusa dai mass media dell’epoca, cioè radio e incisioni discografiche a basso prezzo, sia quella più legata alla tradizione e pensate, dalla tradizione europea che, proprio sul finire dell’800 si era espressa con Carl Loewe (*), tedesco, autore di ‘ballate’ (Lieder) in stile trovadorico “Tom der Reimer” (Tom the Rhymer), “Loving Burial” già stravolte dal vento dello “Sturm und Drang”, il movimento letterario cui appartenne il giovane W. Goethe. E, ovviamente, l’inizio del cinema sonoro. È di quegli anni la nascita, sulla scia del popolarissimo Rag-time, il rivoluzionario Jazz che fece letteralmente impazzire le folle e attraversò l’Oceano fino a raggiungere la già ‘vecchia’ Europa, sconvolta dalla stragrande influenza della ‘follia nera’ importata e rivisitata che imperversava a Parigi: dalle slave-songs al blues, dal jazz al pop, che porterà, dopo gli anni ’60 all’importante corrente minimalista che da Cage, attraverso Terry Riley e Steve Reich arriva fino a Phil Glass.

Ma già siamo in un’altra epoca, il salto è stato piuttosto lungo. In realtà quelli appena citati, messi a confronto col nostro Guthrie, sono giganti della musica propriamente detta. Lo stesso Charles Ives di “A farewell to land” e “Tom sails away”, rimanda a citazioni extramusicali, come negli inni religiosi, nelle musiche per banda. Ma infine, quello che più ci piace di lui sono le ‘canzoni’ che, proprio in quegli anni ’40 cominciavano ad avere una certa circolazione sul tutto il territorio, e la sua figura esile e dinoccolata, diviene punto di riferimento per i giovani americani, almeno fino all’ultima guerra e oltre. Tuttavia nessuno, davvero proprio nessuno, fu così originale come Guthrie, almeno tra quelli che allora si distinsero come fautori della musica popolare cosiddetta ‘bianca’. Ed era proprio questa la distinzione che si faceva, anche se oggi si stenta a crederlo, c’era la musica fatta dai ‘bianchi’, che oggi etichetteremmo come country - western (diversa dall’altra più attuale e detta west-coast); e c’era la musica fatta dai ‘neri’, come appunto il ragtime, il blues, il jazz.

Woody Guthrie non fu solo il primo, bensì l’unico, a infrangere questi confini, a cantare per così dire ‘per tutti’, e le sue ballate divennero così popolari proprio perché non conoscevano i limiti imposti dalle etichette, dai fili spinati dei confini, dalle imposizioni sociali (così poco democratiche), ma che si adattavano a ogni sorta di circostanza, che fosse bianca o nera, senza distinzione. Poi, arrivarono tutti gli altri, i così detti “On the Roads”, narratori, scrittori, musicisti, cantautori, i cui nomi oggi ci fanno levare un hurrà di compiacimento , subendone, ovviamente, la decisiva influenza: Harry Jackson, Bob Dylan, Bruce Springsteen e Joe Strummer, ed anche Dobbie Brothers, Frankie Avalon, Don Gibson, Ray Peterson, Glenn Campbell, Harry Nilsson, Don McLean. E poi i grandi Johnny Cash, Joan Baez, Pete Seeger, Ry Cooder, Cisco Houston, The Kingston Trio, The Weavers, Peter, Paul and Mary, Tom Paxton, Country Joe McDonald, Judy Collins, Ramblin' Jack Elliott, John Mellencamp, Odetta, Richie Havens, Ani DiFranco, Billy Bragg, James Talley e il figlio Arlo Guthrie. Non in ultimi gli U2 (Jesus Christ, 1988), e i gruppi degli Eagles, e gli America, fino a raggiungere i suoi due ‘estremi’ con Leonard Cohen e Tom Waits, più raffinato il primo, più grezzo l’altro. Una infinità di grandi interpreti, tutti suoi adepti e prosecutori, soprattutto nati o cresciuti sulla sua scia e che, in qualche modo, hanno contrassegnato un tentativo di presa di coscienza degli americani, tardivo ma che pure va letto come un fenomeno sociale che merita considerazione. Da segnalare il tributo dei Klezmatics, autori di 'Wonder Wheel', un disco composto da dodici pezzi scritti da Guthrie e mai incisi.

Nel 2003 la cantante folk Joan Baez, nel suo album Dark Chords on a Big Guitar, omaggia Guthrie nel brano Christmas in Washington, il cui testo, scritto da Steve Earle, è un dialogo immaginario con Guthrie, in cui gli si chiede di tornare per riprendere la rivolta e aiutare gli statunitensi nella difficile epoca di George W. Bush. La canzone è inserita anche nell'album live della Baez Bowery Songs del 2005, con una variazione di testo nell'ultima strofa: mentre nella versione originale si chiedeva l'intervento, oltre che di Guthrie, di Emma Goldman, Joe Hill, Malcolm X e Martin Luther King, nella nuova versione live il nome della Goldman è sostituito con quello del Mahatma Gandhi. Precedentemente aveva portato al successo internazionale la canzone 'The Ballad of Sacco e Vanzetti' scritta in collaborazione con Ennio Morricone, in occasione del film omonimo. In Italia hanno interpretato alcune sue canzoni gli Stormy Six, Edoardo Bennato, Fabrizio De Andrè, Luca Barbarossa, Moni Ovadia, Modena City Ramblers, Lorenzo Bertocchini & The Apple Pirates, Gang, Enantino e Beppe Gambetta. Giulio Casale ha interpretato 'This Land is Your Land' nello spettacolo di teatro canzone "La canzone di Nanda" (2009-2011) e nell'omonimo cd.

Lo spirito ribelle e positivo di Woody Guthrie accompagna ancora oggi chi lotta contro la Malattia di Huntington che lo colpì nel 1954. Nel 1956 le sue condizioni di salute peggiorarono: colpito da una grave malattia ereditaria, la Corea di Huntington, entra in ospedale e non ne uscirà quasi più fino alla morte, avvenuta il 3 ottobre 1967. Quest'ultima, tragica fase della sua vita è accennata nel film “Alice's Restaurant” dove il figlio Arlo Guthrie e l'amico Pete Seeger interpretano sé stessi al capezzale di Woody. Nel 1967 sua moglie, Mjorie Guthrie, fondò il Comitato per combattere la Malattia di Huntington (Committee to Combat Huntington's Disease), un movimento che a distanza di anni è ancora attivo e continua a crescere in tutto il mondo.

Woody Guthrie quindi, come una riscoperta, ma questa volta da parte del cinema americano che sempre più, successivamente a quegli anni, è sembrato impegnato nella ricerca di se stesso, di una realtà che lo ha visto ridimensionato, che ha sostituito i propri eroi (un tempo detti) di celluloide, con personaggi appartenenti alla vita reale, per così dire ‘realmente vissuti’, seppure le loro storie erano spesso rimaneggiate ai fini dello spettacolo cinematografico e talvolta spinti verso una moralità bigotta, che in vita non avevano conosciuta, di cui Woody Guthrie è uno dei più genuini rappresentanti. Lo conferma almeno un film a lui dedicato: “Bound for Glory” basato su una sceneggiatura di Robert Getchell, rivisto di recente nel circuito d’essai, con il titolo italiano “Questa terra è la mia terra” (titolo di una sua nota canzone). Una rilettura - senza boria - che viaggia sul filone dell’autocritica americana, già affrontata e messa in risalto in pellicole di rilievo, quali: “Nashville” di Robert Altman, “New York, New York” di Martin Scorzese e, soprattutto in “Ragtime” sempre di Altman, tratto dal libro di successo di E. L. Doctorow (Mondadori). E inoltre in: “È successo qualcosa” di Joseph Heller, “Easy Ryder” di Dennis Hopper, “Thelma e Louise” di Ridley Scott, e gli ultimissimi “I diari di una motocicletta” di Gael Garcia Bernal e lo straordinario “Into the Wild” di Sean Penn, dove l’America si mette a nudo in una radiografia stratificata che si fa critica dell’idea che ha di se stessa e del suo recente passato.

David Carradine, che ha rappresentato nel tempo (e per molti di noi) un vero e proprio ‘mito’ cinematografico, sembra perfetto come figura e interpretazione nella parte di Woody Guthrie, segnato, per così dire, dalla ‘immagine’ che Al Ashby doveva avere di lui come personaggio, e che ha accettato di firmare la regia. Leonard Rosenman che ha curato la colonna sonora originale del film, (United Artists), ha ammesso di non aver trovato alcuna difficoltà a trovare, tra musiche e canzoni del suo repertorio, quelle che di per sé costituiva già un filone di consequenzialità e adattarle all’occasione. Ma voglio qui segnalare una raccolta di canzoni eseguite dallo stesso Woody Guthrie, titolata: “Verso la gloria” (Albatros) e corredata di un libretto con testi in inglese e in italiano, contenente oltre alle canzoni utilizzate nel film, moltissime altre, tra le più significative, che Woody ha portato in giro per il mondo.

Sue ballate e canzoni:

“QUESTA TERRA È LA MIA TERRA”
Questa terra è la mia terra, questa terra è la mia terra
Dalla California a New York
Dalle foreste di pini rossi alla Corrente del Golfo
Questa terra fu creata per te e per me
Mentre io me ne andavo per quel tratto di strada
Vidi sopra di me un cielo senza fine
Vidi sotto di me quella valle tutta d’oro
Questa terra fu creata per te e per me
Ho vagabondato e girato ed ho seguito le mie stesse orme
Verso le sabbie scintillanti dei suoi deserti di diamante
Tutto quanto intorno a me una voce diceva
Questa terra fu creata per te e per me
Quando il sole risplendeva, allora mi mettevo in cammino
Mentre i campi di grano ondeggiavano e le nuvole di sabbia
Avanzavano
Una voce cantava, mentre la nebbia si alzava
Questa terra fu creata per te e per me
Questa terra è la tua terra, questa terra è la mia terra
Dalla California a New York
Dalle foreste di pini rossi alla Corrente del Golfo
Questa terra fu creata per te e per me.


“JESUS CHRIST”

Jesus Christ was a man who traveled through the land
Hard working man and brave
He said to the rich, "Give your goods to the poor"
So they laid Jesus Christ in his grave
Jesus was a man, a carpenter by hand
His followers true and brave
One dirty little coward called Judas Iscariot
Has laid Jesus Christ in his grave
He went to the sick, he went to the poor,
And he went to the hungry and the lame;
Said that the poor would one day win this world,
And so they laid Jesus Christ in his grave
He went to the preacher, he went to the sheriff,
Told them all the same;
Sell all of your jewelry and give it to the Poor,
But they laid Jesus Christ in his grave
When Jesus came to town, the working folks around,
Believed what he did say;
The bankers and the preachers they nailed him on a cross,
And they laid Jesus Christ in his grave
Poor working people, they follered him around,
Sung and shouted gay;
Cops and the soldiers, they nailed him in the air,
And they nailed Jesus Christ in his grave
Well the people held their breath when they heard about his death,
And everybody wondered why;
It was the landlord and the soldiers that he hired
That nailed Jesus Christ in the sky
When the love of the poor shall one day turn to hate
When the patience of the workers gives away
"Would be better for you rich if you never had been born"
So they laid Jesus Christ in his grave
This song was written in New York City
Of rich men, preachers and slaves
Yes, if Jesus was to preach like he preached in Galillee,
They would lay Jesus Christ in his grave
sung to Jesse James.

“GESU 'CRISTO”

Gesù Cristo era un uomo che ha viaggiato per il paese
Uomo che lavora duro e coraggioso
Ha detto ai ricchi, "Lascia la tua beni ai poveri"
Così dunque deposero Gesù Cristo nella sua tomba
Gesù era un uomo, un falegname a mano
I suoi veri seguaci e coraggioso
Un piccolo sporco codardo chiamato Giuda Iscariota
Ha messo Gesù Cristo nella sua tomba
Andò ai malati, è andato ai poveri,
E andò per gli affamati e gli storpi;
Ha detto che i poveri un giorno sarebbe vincere questo mondo,
E così dunque deposero Gesù Cristo nella sua tomba
Andò al predicatore, andò allo sceriffo,
Detto tutti la stessa cosa;
Vendere tutti i gioielli e darlo ai poveri,
Ma dunque deposero Gesù Cristo nella sua tomba
Quando Gesù è venuto in città, la gente lavora intorno,
Credeva in ciò che ha detto;
I banchieri ei predicatori lo hanno inchiodato su una croce,
E dunque deposero Gesù Cristo nella sua tomba
Povera gente che lavora, lo follered in giro,
Cantato e urlato gay.
I poliziotti ei soldati, che lo avevano inchiodato in aria,
E hanno inchiodato Gesù Cristo nella sua tomba
Beh, la gente tiene il fiato quando hanno saputo della sua morte,
E tutti si chiedeva il perché;
Era il padrone di casa ed i soldati che ha assunto
Che Gesù Cristo inchiodato nel cielo
Quando l'amore per i poveri è uno giorno turno di odio
Quando la pazienza dei lavoratori dà via
"Sarebbe meglio per voi ricco se non fossi nata"
Così dunque deposero Gesù Cristo nella sua tomba
Questa canzone è stata scritta a New York
Dei ricchi, predicatori e schiavi
Sì, se Gesù è stato quello di predicare, come predicava in Galilea,
Avrebbero laici Gesù Cristo nella sua tomba
cantata da Jesse James.

“THE GREAT DUST STORM”
(Dust Storm Disaster)

On the fourteenth day of April of nineteen thirtyfive
There struck the worst of dust storms that ever filled the sky.
You could see that dust storm coming the cloud looked deathlike black
And through our mighty nation it left a dreadful track.

From Oklahoma City to the Arizona line
Dakota and Nebraska to the lazy Rio Grande.
It fell across our city like a curtain of black rolled down
We thought it was our judgment we thought it was our doom.

The radio reported we listened with alarm
The wild and windy actions of this great mysterious storm.
From Albuquerque and Clovis and all New Mexico
They said it was the blackest that ever they had saw.

From old Dodge City, Kansas, the dust had rung their knell,
And a few more comrades sleeping on top of old Boot Hill.
From Denver, Colorado, they said it blew so strong,
They thought that they could hold out, they didn't know how long.

Our relatives were huddled into their oil-boom shacks,
And the children they were crying as it whistled through the cracks.
And the family, it was crowded into their little room,
They thought the world had ended, and they thought it was their doom.

The storm took place at sundown. It lasted through the night.
When we looked out next morning we saw a terrible sight.
We saw outside our window where wheatfields they had grown,
Was now a rippling ocean of dust the wind had blown.

It covered up our fences, it covered up our barns,
It covered up our tractors in this wild and dusty storm.
We loaded our jalopies and piled our families in,
We rattled down that highway to never come back again.


“LA GRANDE TEMPESTA DI POLVERE” da: "Woody Guthrie Songbook" / traduzione Fabrizio Piazza.
(Il disastro della tempesta di polvere)

Nel quattordicesimo giorno di aprile del 1935
capitò la peggior tempesta di polvere che mai abbia riempito il cielo
dovevate vederla quella tempesta arrivare la nuvola era nera come la morte
e lasciò una traccia terribile attraverso la nostra grande nazione

da Oklahoma city fino al confine con l'Arizona
in Dakota e Nebraska fino al lento rio grande
cadde sulla nostra città come un sipario nero srotolato
pensammo che era il giorno del giudizio pensammo che era la nostra fine

la radio l'annunciò ascoltammo allarmati
l'azione selvaggia e violenta di questa misteriosa tempesta
da Albuquerque a Clovis e in tutto il New Mexico
dicono fosse la peggiore che avessero mai visto

dalla vecchia Dodge City la polvere suonò i suoi rintocchi
e molti compagni adesso dormono sulla vecchia collina degli stivali
da Denver Colorado dicono soffiò così forte
loro tenevano duro ma non sapevano quanto a lungo

i nostri parenti erano radunati nelle baracche del boom petrolifero
mentre bambini piangevano fischiava attraverso le fenditure
la famiglia era stipata nella piccola stanza
pensarono che era la fine del mondo pensarono che sarebbero morti

la tempesta arrivò al tramonto e durò tutta la notte
quando guardammo fuori il mattino successivo fu uno spettacolo tremendo
guardando fuori dalla finestra dove erano cresciuti i campi di grano
adesso c'era un oceano increspato di polvere soffiata dal vento

coprì le staccionate coprì i fienili
coprì i trattori una selvaggia tempesta di polvere
caricammo le nostre bagnarole ci mettemmo dentro le nostre famiglie
partimmo sferragliando sulla strada per non ritornare mai più.


“AIN'T GOT NO HOME IN THIS WORLD ANYMORE”

I ain't got no home, I'm just a -roamin' 'round,
Just a wand'rin' worker, I go from town to town.
And the police make it hard wherever I may go,
And I ain't got no home in this world anymore.

My brothers and my sisters are stranded on this road,
A hot dusty road that a million feet have trod.
Rich man took my home and drove me from my door,
And I ain't got no home in this world anymore.

Was a farmin' on the shares and always I was poor,
My crops I laid into the banker's store.
My wife took down and died upon the cabin floor,
And I ain't got no home in this world anymore.

Now as I look around it's a mighty plain to see,
This world is such a great and a funny place to be.
All the gambling man is rich and the working man is poor,
And I ain't got no home in this world anymore.

“BLOWIN' DOWN THIS ROAD” (Testo e musica di Woody Guthrie e Lee Hays - basata su un motivo tradizionale).

(I Ain't Going To Be Treated This Way)

I'm a-goin' down this road feeling bad,
I'm a-goin' down this road feeling bad,
I'm a-goin' down this road feeling bad, bad, bad,
An' I ain't a-gonna be treated this a-way.

I'm goin' where the water taste like wine,
I'm goin' where the water taste like wine,
I'm goin' where the water taste like wine, wine, wine,
An' I ain't a-gonna be treated this way.

Takes a ten-dollar shoe to fit my feet,
Takes a ten-dollar shoe to fit my feet,
Takes a ten-dollar shoe to fit my feet, Lord, Lord,
An' I ain't a-gonna be treated this way.

Your two-dollar shoe hurts my feet,
I said your two-dollar shoe hurts my feet,
Your two-dollar shoe hurts my feet, Lord, God,
An' I ain't a-gonna be treated this way.

I ain't a-gonna be treated this way,
I ain't a-gonna be treated this way,
I ain't a-gonna be treated this way, Lord, God,
An' I ain't a-gonna be treated this way.

Discografia:

“Charles Ives: Songs” - Dietrich Fischer-Dieskau, - Deuteche Grammophon LP 2530696.
“Carl Loewe: Balladen” - Dietrich Fischer-Dieskau, - Deuteche Grammophon LP 2531376.

Woody Guthrie, “Bound for Glory”, United Artists …
Woody Guthrie, “Questa terra è la mia terra”, LP Albatros …

*

- Musica

Rod McKuen: l’uomo, il poeta e la sua musica

Rod Mc Kuen e la scoperta dell’ “altra” faccia dell’America.
(Articolo apparso in “Super Sound”, 24 Giugno 1974; recensione in “Musica & Dischi” 1974).

È il 31 maggio del 1974 quando, fuori della biglietteria della Royal Albert Hall di Londra, l’assembramento di gente, tra cui moltissimi giovani, spingevano per accaparrarsi un biglietto d’ingresso, ormai esauriti da un pezzo, per il concerto che si sarebbe tenuto quella sera stessa da un certo Rod McKuen, un cantante americano stanziale della California europeizzato che aveva venduto 12/16milioni di dischi e di libri, (una cifra esorbitante per quegli anni ‘60/’70), due nomination all’Oscar e una per il Pulitzer, del quale, personalmente non sapevo niente. Una carenza imperdonabile, com’era possibile? – ricordo che mi chiesi. Per me che ero sempre alla ricerca di avvenimenti sensazionali da cui traevo i miei reportage sugli spettacoli nelle capitali europee, suonò come uno smacco: ma come un cantante americano si esibisce sulla scena londinese e tu non lo conosci neppure, sebbene avesse già scritto più di mille canzoni, ed avesse all’attivo una collaborazione con Henry Mancini. Che avesse tradotto e cantato canzoni di Gilbert Becaud “The importance of the rose” e “Merci Beaucoup”, nonché la versione inglese di brani di Jacques Brel “Ne me quite pass” divenuta “If you go away”, “Amsterdam”, “Season in the sun”, oltre alla magistrale interpretazione di “And so goodbay” del grande Leo Ferré.
Era dura rispondere al mio capo che le cose stavano così, ma era la verità. Non erano bastati né Variety e Rolling Stones, o le italiane Super Sound e Musica & Dischi per le quali allora scrivevo, a farmelo conoscere. “Sold Out” diceva il cartello affisso alla porta d’ingresso e non c’era verso di sfondare il muro di gente che lo occupava. Se non altro per presentarmi come giornalista venuto appositamente dall’Italia, (non era vero mi trovavo già sul posto), poteva in qualche modo avere il suo effetto – mi dissi. Non fu così, e decisi che forse mi sarei risparmiato un bagno di folla di cui non sentivo affatto il bisogno, dopo essere stato al concerto di un milione di persone per ascoltare i favolosi Pink Floyd tenutosi all’aperto nel parco di Kenwood. Ma vuole il caso che, mentre mi allontanavo dall’area urbana del Royal, scendo dal marciapiede e distrattamente guardo dal lato opposto da cui arrivavano le auto, (in U.K. il senso di guida è inverso al nostro), vengo quasi investito da un’auto nera lanciata a grande velocità e che per evitarmi va a occupare l’altra corsia mancando un crash con un’altra auto che arrivava in senso opposto e che sarebbe stato da film.
Allo stesso modo avevo fatto anch’io che, imbranato come sono, finii sull’asfalto col rischio di essere investito, questa volta per bene, dall’auto che seguiva la prima. Come solo può accadere in una metropoli di gente civile, tutta la scena trovò una battuta d’arresto, gli occupanti delle due auto, autisti e occupanti inclusi, scesero a vedere l’accaduto, si scusarono fra loro. Qualcuno si chinò a chiedermi come mi sentivo, mi sorrise, lo riconobbi, era il cantante che doveva esibirsi quella sera stessa al Royal. Sì, Rod McKuen, proprio lui in persona, che mi diede una mano a rialzarmi. Un po’ dolorante mi invitò a sedermi nella sua auto. Mi chiese cosa potesse fare per me, se avevo bisogno di un medico, o cos’altro. Colsi l’occasione per presentarmi dicendo che stavo appunto recandomi al suo concerto col preciso scopo di chiedergli un’intervista. Detto fatto, fui con lui in auto e arrivai al concerto. Da non credere – mi dissi, quando ormai ero seduto in prima fila con le centinaia di persone che erano la fuori a cercare qualche sparring ticket. Quando si dice che la fortuna aiuta gli audaci (?).
Quand’ecco assisto a uno dei rari concerti di un artista insolito e pressoché sconosciuto, (almeno in Italia o forse solo da me), che aveva un fortissimo impatto emozionale nei paesi anglosassoni, e scopro che in realtà non era affatto un cantante ma un autentico poeta che “declamava” le sue poesie canore, da lui stesso musicate, con la semplicità di chi elargisce un dono o chissà quale altra cosa, e lo fa con generosità. Per me era davvero un pacchetto regalo elegantemente legato con un nastro d’oro, uno di quei regali ad-personam che non si vorrebbe mai disfare se non fosse per la curiosità di conoscerne il contenuto. E la scoperta, credetemi, fu grande, perché nel pacchetto regalo trovai non soltanto un compositore che andava raccogliendo le testimonianze del presente, bensì uno show-man dei più qualificati il cui sorriso possedeva quel magnetismo contagioso capace di dominare la scena, e non era poco. Fin dal primo impatto, fui accalappiato dal timbro sonoro della sua voce, personalissima, (non esile e melensa, bensì impostata, graffiante alla Alberto Lupo o forse all’Arnoldo Foà); un uomo dall’atteggiamento distinto, (non da cantante plastificato), gradevole e accattivante, quasi si trattasse di un caro amico che mi/ci stesse facendo partecipe della propria intimità, particolarmente intensa, vissuta nelle parole che usava, al pari di sensibili emozioni. Spesso trasformando le sue poesie e quelle degli altri (che citava) in malinconie che avevano il calore entusiastico e romantico di chi davvero crede che sia l’amore a far girare il mondo. Ma forse, era solo una mia impressione – mi dissi.
Successivamente me lo confermarono le sue poesie, dimostrando un intimo rapporto con la sua natura di poeta d’altro genere, diverso dagli americani che l’avevano preceduto e che facevano sognare le giovani generazioni sui fuochi ancora non spenti del Vietnam. No egli cantava il presente, l’attimo fuggevole dei sentimenti, catturati nella ricerca del vero amore, che ricordo mi era sembrato (e ancora adesso quando lo riascolto) sincero, per l’eccellenza degli affetti che esprimeva, talvolta momentanei, certamente non frutto di una costruzione a fini consumistici. Infatti, come mi disse poi in occasione della breve intervista, e con la semplicità che lo distingueva, che era dall’aprile del 1969 che non si esibiva in pubblico, dopo il fantastico successo riportato al Carnegie Hall di New York, con la grande orchestra diretta da Peter Matz, registrato dal vivo su due LP editi dalla Warner, contenete oltre a suoi testi, e le straordinarie interpretazioni di due suoi poemi: “Listen to the warm” e “The Sea”, che promise di farmi avere e che ha poi mantenuto facendomeli recapitare in albergo.
Mi disse anche che, amante della natura com’era, sarebbe dovuto restare a vivere in un ranch sperduto nella prateria, con cavalli, cani e gatti in gran quantità come da sempre faceva; che era un appassionato di mongolfiera, cosa che aveva praticato per un certo tempo, ma che poi, vuoi per l’amore infinito per il mare, quell’Oceano da cui traeva ispirazione e che gli aveva suggerito poesie e canzoni; vuoi per la composizione in musica (del quale va qui ricordato il “Concerto for Piano and Orchestra”), finirono per condizionargli la vita, onde per cui sentì di dover conoscere dell’altro, tutto quello che c’era d’altro oltre i suoi immaginabili confini.
Un fatto questo che ci rivelano ancora una volta le sue poesie, i poemi e le prose raccolte nei molti libri che ha scritto: “The Sea” quel: “noi ci amavamo e ci guardava il mare”, una delle più intense raccolte di poesie sull’amore, (pari forse solo a Prevert anche se più nichilista), e questo “The Sea Araound Me…The Hills Above” (1974), dal quale traggo le liriche riportate:


IV
This book is for an unnamed ocean,
that separates me from myself.

This book begins
as love leaves off
then goes with me
as I go on
from sea to sea
and back- alone.
Later
finally in the hills
love opens one more door.
As always
I expect this new experience
to be the lasting,
final one.
As always
I come away
not beaten
or beat down
but less alive
and more confused.

Questo libro è per un oceano innominato,/quello che mi disgiunge da me.
Questo libro comincia/quando l’amore se ne và/poi torna da me/quando io l’inseguo/da mare a mare/e torno indietro - da solo./Più tardi/e finalmente sulle colline/l’amore apre una porta./Come sempre/Io mi aspetto che questa esperienza nuova/possa essere durevole,/finale. Come sempre/Io vengo via/non battuto/o abbattuto/ma meno vivo/e più confuso.

 

Treasures.
Seeking
More important treasures
than the common clam shell
every tide gives up,
I’ve been out collecting
bits of driftwood and debris
to decorate your dresser top.

A conch from where I shook
an irritated hermit crab,
other shells and stones
of no importance
and a half-pint bottle,
amber in its colour
not yet chipped or broken.

Starfish, white
against the winter sand
(I sailed the pink ones-
limp and living still)
back into the sea.
Some I’ll find again tomorrow
midway through my morning walk.

Back they’ll go
and back they’ll come
another day, another hour later.
Some of us are only
treading water, hiking sand
beach to beach and not beyond,
pretending we’re the sea’s extension
hoping we can pass it off.

Though we seldom do
we go on trying.
Riding out the rainstorms when we can.
Fighting off the fog with friendship,
sailing through each storm
with all the confidence
of those who reel in sails
nightly and forever,
we tread the water
like mosquito.

Cercando/più importanti tesori/che il guscio di vongola comune/ogni marea abbandona,/Io vado raccogliendo/pezzi dal cumulo di detriti e frammenti/onde decorare il top del suo costume./Un coccio da dove io scossi/un granchio di eremita irritato,/altri gusci e pietre/di nessuna importanza/e una bottiglia di mezza-pinta,/del colore dell’ambra/non ancora tagliata o rotta.
Stella di mare, bianca/contro la sabbia d’inverno/(Io navigai in colori rosa – zoppicando e ancora vivendo)/indietro nel mare./Altri ne troverò di nuovo domani/a mezza strada attraverso la mia passeggiata mattutina.
Loro forse se ne andranno/altri indietro torneranno/un altro giorno, un’altra ora più tardi./Così come alcuni di noi sono solamente/acqua che calchiamo, sabbia che calpestiamo di spiaggia in spiaggia/ e non oltre, e che non torna indietro/ frutto di un'escursione a piedi lungo l’arenile/con la pretesa d’essere un’estensione del mare/sperando di passarlo e via.
Sebbene noi raramente facciamo/continuiamo a tentare./Cavalcando oltre i temporali quando possiamo./Lottando contro la nebbia con amicizia,/navigando attraverso ogni temporale/con tutta la fiducia/di quelli che raccolte le vele/ogni notte e mai,/ sorvoliamo l'acqua/come le zanzare.

Birds II.
Rested, restless now
they move as one.
Picking up formation
they fly straight forward overhead
blinking in the sunlight
till a better place to perch is found.

I stumbled on your suitcase
in the hallway
half an hour ago.
Have you been looking
out the window at the birds?

I have seen you move so often.
Set sail on so much unknown sea
That I can feel the readiness
Within you to be gone
But this time
I’ll do all the running.
You needn’t fly or migrate with the birds.
Stay.
I wish you life
In great abundance
Down your lifetime.
Whoever’s coming,
Known or unknown
On his way to you
I pray that he
Will not be long
In finding you.

Don’t forget
To send a postcard
Telling me the news.
Did the seals
Come back this year,
Did the grunion run
And did you out-distance
All the near and distant strangers,
Capture them and captivate them
one by one?

Write me.
I’d be unhappy if I thought
That you were still out running
And had not been caught.

Tomorrow
I’ll be that lone bird
Winging past the morning moon
On my way below
To belt of California.

Rimasti senza riposo,/gli uccelli ora si muovono come fosse uno./Raccogliendosi in formazione/volano diretto e diritto/lampeggiando nella luce del sole/in cerca di miglior luogo dove appollaiarsi/e sembra l’abbiano trovato./Io inciampai sulla Sua valigia/nell'atrio/circa mezz'ora fa./Lei sta guardando fuori della finestra gli uccelli? / L'ho veduta muoversi così spesso./Prendere il largo e volare in alto/sul mare ignoto/che mi ha fatto sentire/come se fossi lì/per muovermi insieme a Lei/e al tempo stesso/ero Io che la facevo volare./Lei non ha bisogno di volare o emigrare con gli uccelli. / Stia./Io gli auguro di vivere/in abbondanza/per tutta la vita./Chiunque stia affacciandosi,/conosciuto o ignoto/sulla strada che la porta a Lei/prego che non impieghi molto/nel trovarla. /Non dimentichi/di spedire una cartolina/dandomi notizie, dicendomi le novità./Metterò i sigilli/affinché quando ritorna quest’anno,/per fare la corsa di ‘grunion’/e Lei la fuori-distanza/farò in modo che tutti i vicini e gli stranieri distanti,/li catturi e li incanti/uno per uno?/Mi scriva./Sarei infelice se pensassi/che Lei ancora sia lì fuori correndo/e ancora non è stata presa. /Domani/Io sarò quell’ uccello che da solo/superando la luna di mattina/sulla strada di sotto/vedrà cingere la California.

Nonché queste altre, tratte da: “Coming close to the Heart” (1977)
What if.
Where do we go from here?
Away if we had any sense.
me cut off from all your lies
and you from my pretensions.
That’s too easy I suppose.
You demand that we sleep on together
I’m told by you that it would make us closer friends.
I ask that we sleep closely too
you as my love and I as your lover.

Surely there’s an in-between.
The sky is not the answer,
The sea has little for us.
The closer we can stay to earth
Perhaps the better chance we’d have
Of being people.

If we could have gotten
Beyond the buildings
And the bullshit
We could have sailed,
Faded in and out together.

Quale se./Dove andiamo da qui?/Via se noi avessimo alcun senso./Io tagliato fuori da tutte le tue bugie/e tu dalle mie pretese./Ma è troppo facile suppongo./Tu mi chiedi se possiamo dormire insieme./Io mi sono detto che ciò ci renderebbe amici più vicini./
Ma anch’io ti chiedo di dormire più vicini/come se tu fossi il mio amore ed io il tuo innamorato.
Certamente c’è qualcosa che ci unisce./Il cielo non è la risposta,/il mare ha poco per noi.
Il più vicino che noi possiamo stare è qui a terra/ed è forse la migliore opportunità che noi abbiamo/di essere le persone che siamo.
Se noi avessimo potuto ottenere/oltre agli edifici/e la merda di toro/certo avremmo potuto navigare,/dentro e fuori di noi, insieme.

Contrast.

I know love
by its first name
and living by its last.
I’m not afraid
of what’s upcoming
or what has gone before
and if there’s nothing
left to know about or learn
I’ll review the early lessons
yet again.
But, please
don’t turn the light switch yet
as valuable and friendly
as the darkness is
leave the porch light on
for contrast.

Io conosco l’amore/dal suo primo nome/vivendolo dentro il suo ultimo./E non ho paura/di quello che è imminente/o ciò ch’è stato prima,/e se non c'è niente/lascia che io sappia all’incirca o che io impari/e farò una rassegna delle prime lezioni/ancora, di nuovo./Ma, per favore/non girare ancora l'interruttore della luce,/come preziosa e amichevole/può sembrare talvolta l'oscurità,/lascia che il portico resti acceso,/per contrasto.

Aspiration.

Never satisfied
we turn from earth to heaven
knowing we’re not angels yet
we pray aloud
not proud but sure
that given opportunity
another try
with one more hour
another day perhaps
a time of concentration
we could rise up
surpass, surprise ourselves
and all of our ambitions
maybe even thrust
an unclenched fist
through an empty cloud
or pass a golden galaxy
and with some patience
and no little practice
even touch the lower sky.

Mai soddisfatti/noi ci rivolgiamo dalla terra al cielo/sapendo che non siamo ancora angeli/noi preghiamo ad alta voce/non orgogliosi ma sicuri/dell'opportunità che ci è data/un'altra prova/un’ora in più/un altro giorno forse/il tempo della concentrazione/
e noi potremmo sorgere ancora/superare, la cosa non ci sorprenda/tutte le nostre ambizioni/forse spinta pari/a un pugno schiuso/attraverso una nube vuota/aspettare che passi una galassia dorata/e con pazienza/e davvero poca fatica/si possa toccare il cielo più basso.

Ma chi è davvero Rod McKuen? – è giunto il momento di conoscerlo.

È un gigante culturale che un paese, e forse il mondo, raramente ha visto. Rodney Marvin McKuen nasce il 29 aprile 1933 ad Oakland, California. Di umili origini (non conobbe mai suo padre e cominciò a lavorare all'età di 11 anni), come addetto alla ferrovia, tagliaboschi, cowboy di rodeo, cascatore, e fantino, nonché attore, cantante, troubadour popolare, radio disc-jockey, pressoché percorrendo tutte le strade che un uomo può calcare. Costruendo artisticamente, nell’arco di dieci anni circa, i suoi molti - talenti come una leggenda moderna, al punto che ci si chiede come possano essere contenuti in un essere solo tanti e così diversi talenti, quali egli ha dimostrato di avere. Ma è solo negli anni recenti (siamo nel 1975) che egli ha raggiunto la sua maturità professionale di poeta e cantante che gli ha permesso di poter realizzare i suoi molti progetti. Poeta con milioni di suoi libri venduti in diverse edizioni e tradotti in molte lingue, quasi che uno o più dei suoi libri sono praticamente in ogni scaffale librario, Rod produce ogni anno un "Calendario” e un “Data-libro" con cui trarre profitto per la sua Fondazione, a scopo benefico, per la salvaguardia, la preservazione e il mantenimento delle specie animali, e nell’addestrare veterinari per le comunità agricole. In seguito all’essere divenuto editore di se stesso, ha pubblicato quattro dozzine di “Stanyan dono-libri”, la linea più riuscita di libri-regalo nel paese. Nel campo della musica, la sua produzione consiste di circa 1000 canzoni, ed ha venduto almeno 100 milioni di dischi suoi e di altri artisti del calibro di Frank Sinatra, Petula Clark, Kingstom Trio, Jacques Brel, Eddy Arnold, Neil Diamond e Glen Campbell, e virtualmente molti altri legati alla musica popolare e country. Ha ricevuto nomine all’Oscar e ha vinto molti Premi Grammy, entrando nel Consiglio di Amministrazione dell'Accademia Nazionale di Registrazione, Arti e Scienze che amministrano il Grammy Awards. Coinvolto profondamente nella composizione classica, avendo egli scritto concerti per violoncello, chitarra e pianoforte, due Sinfonie, un Adagio, e un Opera “Black Eagle”. Tra i suoi lavori figura anche una "Ballata delle Distanze", eseguita dall’Orchestra Sinfonica di Edmonton, e un Oratorio per voce e orchestra, dal titolo "La Città", commissionatogli dalla Louisville Orchestra Society – (la commissione più prestigiosa che un compositore di classica americano può ricevere). Si pensi che gli altri compositori che nel tempo hanno ricevuto tale onorificenza includono Leonard Bernstein, Aaron Copland, Lukas Foss Virgil Thompson, Roy Harris Charles Ives e Villa-Lobos. Inoltre, ha condotto i suoi propri lavori classici alla Hollywood Bowl, alla Carnegie Hall e all'Albert Royal Hall di Londra. Nel 1973 ha preso parte all'apertura dell'Opera House di Sydney, ed altri lavori gli sono stati commissionati in America da compagnie di danza e coreografi di spicco. In musica ha dato la sua collaborazione ad alcuni dei compositori più eccellenti del nostro tempo come Henry Mancini, Francisco Lay, Anita Kerr, Georges Moustaki.

Quanto basta direi, per vergognarmi di non conoscerlo prima e mai abbastanza. Ma come lui stesso dice: C’è sempre una prima volta.

The First Time.

Beyond the trees of what the world
terms wilderness, there is a first time.
Not to be confused with anything
that’s yet to happen or what has gone before.
It feels not merely more, but all there must be
All there is.

Oltre gli alberi di quello che il mondo/termina in una regione selvaggia, c'è una prima volta./ Non lasciarti confondere da qualsiasi cosa/quello che deve accadere ancora o quello che è stato prima/non serve più, ma ci deve essere. Anzi, c'è.


L’intervista.

È difficile immaginare come questa si sia svolta molto tardi nella hall del suo albergo e che, non conoscendo tutto quello che conosco oggi, non avessi gran ché da chiedergli, quindi le domande erano per lo più sul colloquiale, come di due vecchi amici che s’incontrano “per caso” e che non hanno molto da dirsi l’un l’altro. Tuttavia la sua cordialità e le sue parole successivamente hanno avuto un peso non indifferente nei colloqui avuti con altri artisti.

Mr. McKuen perché ha sentito di dover cantare le sue poesie, non tutti i poeti lo fanno?

Ognuno di noi mette le parole insieme come fossero poesia, e ognuno nel loro proprio modo segue la musica che le accompagna, io stesso sono così indulgente.

Scrive le sue canzoni come scrive le sue poesie?

Lo scrittore dovrebbe avere un ego grande abbastanza così che quando lui sente la spinta di scrivere vada incontro alle sue parole, guardando verso il nuovo. Gran parte degli scrittori non hanno occasione di farlo così direttamente, io lo faccio.

Lo fa parlando di sé, è così?

Probabilmente l’autobiografia inconsapevole è la migliore forma di catarsi. Con lo scrivere qualcosa che riguarda la sua vita sulla pagina vuota, o che affronta ogni giorno, lui guarda fuori e dentro di sé, divenendo così psichiatra e paziente, anche. Con poche eccezioni le parole riguardano di solito quanto accaduto in passato. La vita della quale io parlo è veritiera a me, e cerco di metterla senza danno o fare male a chiunque voglio bene.
Mr. McKuen, non pensa che permettere al pensiero di volare con la fantasia, ognuno di noi possa continuare a curare in tutta sicurezza le proprie speranze e le proprie illusioni, sebbene travestite da sogni?

Non saprei. So soltanto che come io precipito nel sonno mi capita di usare il passaggio dalla realtà per addormentarmi, come un mezzo per lasciare i cattivi pensieri al di fuori, come qualche cosa che rimane tra le nebbie a me.

Le sue poesie, le sue canzoni parlano sempre e solo dell’amore, di che tipo di amore si tratta, è possibile che lei lo stia ancora cercando?

Io credo che ogni volta che noi amiamo o tentiamo di amare, inconsapevolmente noi cerchiamo qualcosa che somiglia a qualche altra, cloni di altri sogni, di altri amori. Questo perché, probabilmente, l’aiuto di qualcos’altro, di qualcosa ch’è stato, come magneti ci tirano dentro, indietro, nel tempo. Non so, ma questo ha forse una qualche durata.

Come scrive le sue canzoni, si annota delle cose, oppure ..?

Io ho cominciato a tenere note così che io dopo ricordo come se stesse accadendo e veramente accadde. Non tutto è sempre chiaro, elaboro, ma ci sono anche i tempi alti, in cui la creatività si risvegli in me e ...

In esse si parla di lasciti, abbandoni, un po’ tristi non le pare?

Ma di solito io sollevo così alto sulla tristezza che dimentico in fretta, nel mentre accadono le buone cose, e allora mi sbrigo a buttarle giù.

Mr. McKuen, mi dice d’essere sempre in viaggio, quando trova il tempo per scrivere, fare concerti, cinema ecc.?

L’uomo fu fatto per conoscere, e non può trattenersi dal farlo. Il viaggiatore è uomo sempre, il suo vasto interesse riguarda tutto il mondo. In fondo “… una bussola è una piccola cosa, se rimane sul cruscotto dell’auto o chiusa nella mano” – dice, leggendo da un piccolo appunto. Io non sono sicuro che alcuna bussola possa dire la verità su dove stiamo andando. Alcuni forse più di altri sanno quello che ci aspetta. L'ago vibra, in un punto o più punti e quella è la nostra direzione. Io sono sicuro che questa coincidenza (del nostro incontro casuale) in fondo, sia solo una coincidenza …

Sa almeno adesso dove si trova?

La nozione che la terra sia soltanto un luogo da cui partire non vale che il tempo che trova. Il cielo o l’inferno si eguagliano, ma servono ad aprire la nostra immaginazione, ma certamente la terra su cui siamo incagliati, da sola è la nostra casa. Se facciamo spazio all'interno delle nostre teste e nei cuori, forse potremmo arrivare nello spazio che tutti noi cerchiamo, ma insieme.

Mr. McKuen, davvero la ringrazio di tutto, e mi scuso se la smetto qui di farle domande, anche perché è quasi mattina e io come tutti i comuni mortali cado dal sonno. Bene, allora, buona notte! Le farò avere l’intervista, per le foto immagino le prenderò dalle copertine degli album o dei libri che ha promesso di recapitarmi in albergo - dissi io, cercando di filarmela.

Oh, thank you to you, noi non ci diciamo mai ciao, anche se oggi questa parola viene facile e senza sforzo, forse perché ormai siamo tutti attaccati ai fili delle linee telefoniche, sono sicuro che ci sentiremo ancora, se non altro per ricordarci di questa notte mezzo-ubriaca, in cui ho sentito il piacere e la gioia di averti conosciuto. Nessun altro fin’ora era riuscito a trasmettermi questo sentimento.

Ci siamo salutati con una stretta di mano, e poi ancora con un’altra bevuta (non consumata da parte mia), e un altro saluto e un abbraccio … bye friend! Ovviamente non l’ho mai più sentito, se non fosse che trovai il materiale, dischi, libri e foto, al desk del mio albergo, l’indomani. Oggi l’avrei salutato con le parole stesse di una sua poesia:

Thank you for the magic show
perfect to the last detail.
Flowers, fish and tambourines
side-show scenes
I might have missed…
. . .
The saddest thing
About a magic show,
I guess
Is that when the final trick is done
The gypsy wagon travels
Down the road, is gone.


Grazie per il magico show/perfetto fino all'ultimo dettaglio./Fiori, pesce e tamburelli/ scenografie/ che io probabilmente avrei perso.
. . .
La cosa più triste/di un magico show,/Io l’indovino/è che quando il trucco finale è compiuto/il viaggio del carro zingaro/giù lungo la strada, è andato.


A proposito di “Il Mare”: «… noi ci amavamo e ci guardava il mare», parole di Rod McKuen, musica di Anita Kerr, tradotto in italiano da quel raffinato traduttore che era Giorgio Calabrese, ed eseguito da un dicitore dalla voce elegante e accattivante come Arnoldo Foà.

Titoli e brani contenuti nel disco Derby/CBS – Sugar DBR 65677 – 1973, contenete sue poesie “bellissime” che nell’insieme danno forma a una storia d’amore sincera e convincente.

“Il mio amico il mare”
“Alla deriva”
“Doni dal mare”
“Il meriggio”
“Ombre pomeridiane”
“Ti piace la pioggia?”
“Balliamo?”
“Le nuvole”
“Sapore di sole”
“La tempesta”
“Il mare innanzi a noi”
“L’accampamento zingaro”
“Oltre la curva”
“Il mare”


“Il Mare” – a scritto Giorgio Calabrese – è il frutto di una collaborazione è stato per me un invito a nozze. Per uan volta tanto, né editore né produttore sarebbero intervenuti dicendo: «senti, cambia questa parola, non è commerciale». Mesi fa, Johnny Porta della CBS mi chiese se mi sarebbe interessato tradurre “Il Mare” di Rod McKuen. Si trattava di un lavoro di soddisfazione e di un certo prestigio, con buone probabilità di finire in fondo ad un cassetto per sempre, dato che, come disco, avrebbe affrontato un problema realizzativo piuttosto serio: mancava chi avrebbe letto il testo. Poiché i lavori inutili sembravano essere diventati ultimamente la mia specializzazione, il discorso quadrava. Poi, un giorno, qualcuno disse: «Perché non ne parliamo con Arnoldo Foà?» e si vide assegnare in quell’occasione l’Oscar per la migliore battuta dell’anno. Difatti, eravamo tutti convinti che Arnoldo Foà sarebbe stato l’attore ideale per il nostro disco, ma eravamo altrettanto convinti che Rod McKuen tradotto da Giorgio Calabrese lungo un filo conduttore di musica leggera, anche se firmato da Anita Kerr, avrebbe fatto sorridere il nostro ipotetico interprete che, peraltro con estrema cortesia, ci avrebbe pregato di andare al diavolo. Invece no. Forse è vero che la fortuna aiuta gli audaci. L’idea a Foà è piaciuta, le musiche anche e per quanto concerneva i testi, almeno per cortesia, disse che gli andavano bene. Allora ci siamo chiusi alla Fonorama, abbiamo seduto Mario Carulli al banco di registrazione e siamo arrivati al disco. Nella versione originale il mare era chiaramente l’Oceano. Qui forse, ha assunto qua e là colorazioni di Adriatico o di Mar Ligure. In fondo però a qualunque longitudine o latitudine, la storia non cambia. E non cambierà fin quando i suoi personaggi continueranno ad essere un uomo, una donna e il mare.

Anita Kerr, compositrice, arrangiatrice e produttrice americana era, a suo tempo, una delle arrangiatrici più richieste della West Coast ed ha vinto due Grammy Awards (l’Oscar americano del disco).

Rod McKuen fu, a suo tempo, definito: “il miglior autore di canzoni che ci sia oggi in America” dalla rivista High Fidelity. Mentre il London Times ha commentato il suo libro “Coming close to the Earth”: «Probabily the most diversified collection of verse from this best.selling poet and chansonnier, it can be seen as a kind of journal, unrelenting in its honesty and always in touch with the complex emotions which govern our lives. It is certainly Rod McKuen’s most intense and personal work to date».

"Probabilmente la raccolta più differenziata di versi di questo poeta di successo e cantautore, che può essere considerato un genere di diario, inesorabile nella sua onestà, sempre in linea con le emozioni complesse che governano le nostre vite. Certamente è il lavoro di Rod McKuen più intenso e personale che abbia messo insieme."

W. H. Auden ha scritto di lui:

“Rod McKuen’s poem are letters to the world and I am happy that some of them have come to me and found me out. Perhaps that is the secret of Rod McKuen ‘s gift. He has found all of us out and made us better for it.”

"I poemi di Rod McKuen sono lettere al mondo ed io sono felice che alcune di loro sono giunte a me e mi hanno permesso di spingermi oltre. Forse quello è il segreto del suo donare. Lui ha scoperto tutto di noi e ci ha fatti migliorare, per lui."

Rod McKuen di Rod McKuen:

“Songs are the sum total of me. They are what I am. And people are to me not like the wind or the willows. They are like songs”

“Le mie canzoni sono la totale somma di me. Sono quello che io sono. E le persone non sono a me come il vento o i salici. Loro sono come le mie canzoni”.

Poesie:

And Autumn Came.
Stanyan Street & Other Sorrows.
Listen To The Warm.
Lonesome Cities.
In Someone’s Shadow.
Caught In The Quiet.
Field Of Wonder.
And To Each Season.
Come To Me In Silence.
Moment To Moment.
Celebrations of The Heart.
Beyond The Boardwalk.
The Sea Around Me … The Hills Above.
Coming Close To The Earth.

Raccolte:

Twelve Years of Christmas.
A Man Alone.
With Love.
The Carols of Christmas.
Season In The Sun.
Alone.
The Rod McKuen Omnibus.
The Sea Around Me … The Hills Above – Elm Three Books – London
Coming Close To The Earth – Elm Three Books – London

Prose:
Finding My Father.
On His Own Words.

Collane:

New Ballads.
Pastorale.
The Songs of Rod McKuen
Grand Tour.

Discografia:

“Love’s Been Good To Me” – (14 songs) - Stanyan Records
“Time of Desire” – Rod’s first poetry recording – Stanyan Records
“Listen to the Warm” – Stanyan Records
“Concerto for Piano and Orchestra” – con la Royal Philarmonic Orchestra. (registrato alla The Royal Albert Hall) – Stanyan Records
“Rod McKuen Sings His Own” - Stanyan Records
“Sleep Warm” - EMI Records – EMC 3105
“McKuen Country” - EMI Records – EMC 3136
“Love Songs” – 2LP Stanyan Records

"Season in the Sun" - EMI Records - EMC 3036
(In questo album RodMcKuen canta  McKuen/Brel Songbook. Cioè le canzoni scritte  e reinterpretate frutto della lunga collaborazione con Jacqyes Brel: da "If You go Away" (Ne me quite pas),  "The Lovers", "Les Bourgeoise", "The Women" e una doppia versione di "Season in the Sun").

“The Rod McKuen Show” – EMI Records (registrazione del concerto tenuto a Londra).
(In questo doppio live sono inoltre presenti brani non suoi come: “Oh me, oh my” di Jim Doris, “Both sides now” di Joni Mitchell, “here, There, Everywhere” di Lennon – McCartney, “Mr. Bojangles” di J. Jeff Walker, nei quail Rod dimostra una grande capacità interpretativa, originale e decisamente sincera).

*

- Cinema

The Artist

THE ARTIST
«Bene, non ci mancava che questo!» – avrebbe esclamato Charlie Chaplin quando, nel 1929, il cinema da muto diventò sonoro e, per moltissimi anni a venire, mai l’ombra del dubbio appannò per un momento le sue certezze. L’attore (regista, musicista, sceneggiatore e scrittore), non ebbe tentennamenti, al punto che dopo la proiezione di una delle prime pellicole sonore annotava: «Uscii dal teatro convinto che il sonoro avesse i giorni contati». Chissà come se la riderebbe oggi Chaplin nel vedere che si fa la fila per entrare nei cinema dove si proietta The Artist, un film muto, in bianco e nero, che parla di cinema, ricreato dall’ “intelligenza” registica di Michel Hazanavicious (...per non dir del cane!). Tutto questo proprio mentre il sonoro si avvia alla tridimensionalità degli effetti speciali e della motion capture. Bene, tantopiù che abbiamo riso anche noi – plurale maiestatis – quando dopo la proiezione in sala e mentre scorrevano i titoli si è levato un applauso di godimento pieno, convinto e inaspettato. Come ha spiegato dettagliatamente lo stesso regista, durante la conferenza stampa al festival di Cannes, si tratta di un “tipo di cinema dove tutto passa attraverso le immagini, attraverso l’organizzazione dei segni che un regista trasmette agli spettatori. E poi è un cinema molto emozionale e sensoriale: il fatto di non passare per un testo ti riporta a una modalità di racconto estremamente essenziale che funziona solo sulle sensazioni che sei in grado di creare”. Hazanavicious, autore della stessa sceneggiatura, ha confermato per la realizzazione della pellicola la coppia composta da Jean Dujardin (francese), che a sua detta “funziona sia sul primo piano, grazie all’espressività del suo volto, sia sul campo lungo, grazie al suo linguaggio corporeo”. Infatti ha un viso senza tempo, che può facilmente essere vintage; e la fascinosa Berenice Bejo che, almeno nel film, “emana una grande freschezza e positività quasi eccessiva! In un certo senso, i personaggi che interpretano sono abbastanza vicini a loro, o quanto meno, alla visione che ho di loro”.
Il trucco c’è ma non si vede ed è nella non facilità di recitare senza dialoghi, pur calandosi nella parte, e facendo finta che questi ci siano, anche se poi il sonoro non viene registrato. Una prova non indifferente, direi, che premia (era ora!) il cinema muto per quello che ci ha dato e, visto che all’epoca non c’era l’Oscar, credo che oggi questo film lo meriti davvero, anche dovesse essere “alla carriera”. Infatti rivedere oggi un “vecchio” fil del muto, (e questo è nuovo di zecca), oltre che a farsi apprezzare per essere così all’avanguardia e ancora pieno di idee, ci rinfranca lo spirito da tante pellicole “spazzatura” che non hanno neppure la dignità di chiamarsi CINEMA. D’accordo con Chaplin quando, dopo aver visionato “Melodie di Broadway”, una commediola sonora del genere musicale molto scadente sotto il profilo artistico, disse: « Peccato, perché cominciava a perfezionarsi proprio allora … io però ero deciso a continuare a fare film muti, perché credevo che ci fosse posto per ogni sorta di svaghi». Una “civetteria d’autore”? No lo credo, era la conferma di un’arte, quella cinematografica, che proprio in quegli anni si andava diffondendo in tutto il mondo, per il nostro effimero piacere.
I virgolettati sono ripresi dalla biografia di Charlie Chaplin edita da Mondadori e dalla rivista di cinema 35MM.IT Magazine.

*

- Cinema

Le Idi di Marzo

"Le Idi di Marzo"

George Clooney firma questo intenso film tratto dall’omonimo play di Beau Willimon, in cui si racconta la storia di un ragazzo idealista, membro dello staff di uno dei candidati alla Presidenza USA, che resta travolto da giochi di potere e politici corrotti, proprio nel bel mezzo della campagna elettorale. Pur tuttavia la storia che vi si racconta non è quella appena descritta, altrimenti non si comprende il perché fuorviante del titolo: “Le Idi di Marzo” ? Una domanda che si pongono in molti appena usciti dalla proiezione ma pochi lo rapportano con la rilettura di Le Idi di marzo (latino: Idus Martii) riferite al 15 di marzo del calendario romano, utilizzato per il 15esimo giorno dei mesi di marzo, maggio, luglio e solitamente usato per indicare la data dell'assassinio di Giulio Cesare. La storia dunque, e per di più a fosche tinte, entra in questo noir psicologico dalla porta d’ingresso quasi non vista, quasi inascoltata, perché nell’incrociarsi delle sequenze, i primi piani, i dialoghi sempre sulle righe e pur tuttavia mai convenzionali, disorientano dal cimentarsi con l’intento moralistico del film, in cui, una fiducia mal riposta fa crollare il rapporto di lavoro consistente e audace come quello di un promoter di successo alle prese con l'occasione di una vita. Ma non c'è spazio per il tradimento (che essendo nelle intenzioni era pertanto come già consumato) che si trasforma in un debito con la propria coscienza, e che resterà senza possibilità di riscatto. Cinema di grande impatto sociale che rispecchia uno degli aspetti più “violenti” della corruzione politica.
Cast di levatura eccezionale: Jennifer Ehle, Jeffrey Wright, Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Ryan Gosling e George Clooney che ancora una volta, da prova della sua capacità di fine tessitore di sequenze visive, colto nei dettagli “epidermici” della fotografia, quasi che la sola immagine lasci trasparire il compimento dei dialoghi, prima ancora che lo svolgersi della trama. Sottigliezza registica questa che avevamo già riscontrata in “Good night and Good luck” e che fa di George Clooney un regista se vogliamo patinato ed effimero, non per questo meno audace e al passo coi tempi.

*

- Musica

Piero Ciampi: il suo tempo ... il nostro tempo.

PIERO CIAMPI: il suo tempo … il nostro tempo.

Rivisitazione di un articolo apparso su “Nuovo Sound”, 18 Novembre 1974 col titolo: “Il paroliere questo sconosciuto”.

20.000, 40.000, 100, 1milione, 2milioni, 3milioni, 4milioni. Merda! La fortuna è dall’altra parte, chissà mai perché? E tu Piero non l’hai giocata tutta. Fra tante tiritere volte unicamente a un facile consumo, c’è da stupirsi come il conformismo non abbia ancora soffocato gli sporadici casi di talento!”.

È il caso di Piero Ciampi, come dice il testo di una sua canzone. Nato a Livorno il 28 settembre di qualche tempo fa, dopo le scuole regolari si iscrive a Ingegneria e comincia a studiare la chitarra mentre suona il contrabbasso in un piccolo complesso locale. E pur avendo il “senso” della musica come si suol dire “dentro”, non è soddisfatto della via intrapresa. Seguono anni di incertezza e di delusioni, soprattutto è deluso delle grandi città. Dopo Roma e Milano, si reca a Parigi, dove si accosta al modello culturale degli chansonnier francesi Brel, Brassens e altri. Fatto questo che lo vedrà interprete sofisticato e tuttavia amaro di un certo essere non proprio ma che lo condurrà a formarsi un suo stile originale e che caratterizzerà il suo genere. È tuttavia nella capitale francese che Piero comincerà a raccogliere i primi riconoscimenti, tanto da divenire popolare prima all’estero che in Italia col nome di Piero Litaliano (senza apostrofo) e con il quale firma le sue prime canzoni: “Fra cent’anni”, “Autunno a Milano”, “Fino all’ultimo minuto”, “Confesso”, “Lungo treno del Sud” musicate da G. F. Reverberi.
Le sue a dire il vero non sembrano, o forse non vogliono essere canzoni, o almeno, non solo canzoni. Piuttosto affascina l’intensità delle sue interpretazioni “recitate” più che “cantate” pur contenendo quella indissolvibile musicalità che è insita nella poesia delle sue parole, che anzi, dobbiamo considerare più come “poesie che parlano d’amore” che semplici canzonette. Sebbene, l’amore di cui Piero parla e fa parlare è un amore al limite del sentimento d’amore, fatto di quotidianità, di piccole cose e di grandi affetti. L’amore, questa parola magica che fa soffrire, anche quando, o forse soprattutto quando: “… non ho una lira e tu lo sai, perdonami, sono uno strano uomo che può frequentare solo te.. abbracciami.. se ti procuro dei guai.. il dolce non lo mangi quasi mai.. perdonami, il segreto di un amore in dissolvibile fatto di piccole cose.. una presenza.. una carezza, un bacio”.
Le canzoni di Piero potrebbero esistere anche senza note, perché, come dicevo pocanzi, possiedono un colore proprio, una cadenza musicale naturale: "egli canta il suo mondo vero, che non gli risparmia la tristezza che raccoglie intorno a sé, pur annientando senza lasciare scorie, ogni superflua malinconia, ogni accademia del dolore, che nelle sue parole diventa disperazione o più semplicemente verità (sociale); scontata se volete, e che pure ci restituisce quel certo sarcasmo (molto livornese) che è racchiuso in ogni sua frase". Ciò che più colpisce noi ascoltatori (di ieri e di oggi) è sentire il gravo dei tanti stupidi pensieri che affollano la nostra esistenza, il tarlo della coscienza che graffia l’antica indifferenza: “… cosa resta di noi due, resta un’ombra che fugge nel mattino e un bel viso nella testa, è successo un caso strano non ti ho amato e non ti amo, ma non capisco la tua scelta.. perché vai sempre contro il tuo destino”; “impariamo ad amare la vita con le sue manchevolezze, leggerezze, piccole soddisfazioni senza soddisfazione..”.
È così che Piero ci racconta le piccole grandi verità della vita di tutti i giorni, tragiche e no nel contrasto e nel compromesso esistente tra vigliaccheria, ipocrisia, pregiudizio, ignoranza; non a caso parla dell’amore come del solo stato d’animo capace di farci continuare a vivere o, forse, soltanto a sperare. Ma parlare a un “paroliere” suona oggi cacofonico, come dire, fuori luogo, se non addirittura un controsenso. Tuttavia, se vogliamo rendere giustizia a un autore di “testi di canzoni” quale Piero Ciampi in fondo è stato, o solo per soddisfare la necessità di fare luce su questo “sconosciuto della penna”, se non altro per rendere giustizia alla sua capacità di sensibilizzare entro delle semplici frasi i propri e gli altrui sentimenti frustrati, richiede qui di dover dare una valutazione letteraria, o quanto poetica, della sua stessa personalità artistica. Tuttavia, volendo qui tratteggiare un suo ritratto, mi viene da dire che la sua figura come “autore” si rivela inquieta, sradicata da un contesto sociale propriamente detto, che indubbiamente riguardava una certa società degli anni in cui ha vissuto, e di quanti come lui che non erano propensi a concedere né a sacrificare nulla alla notorietà o a un discorso esclusivamente discografico.
Il suo percorso, anzi togliamolo anche da questa cornice, assomiglia a quello di un “ubriaco della vita” che a un certo punto del suo peregrinare incontra il favore di un altro artista straordinario, Gino Paoli, anch’egli autore di tante bellissime canzoni, che s’innamora dei versi delle sue “poesie” e le trasforma in altrettanti successi: “Hai lasciato a casa il tuo sorriso”, “Fino all’ultimo minuto”, “Lungo treno del Sud” che fece conoscere Piero al grande pubblico dandogli quella notorietà che come autore meritava:

Lungo treno del Sud /che a mezzogiorno/passa accanto al mio campo/distruggendo un silenzio..
È tardi/per pensare all’amore/e per andare sui monti/a parlare col sole di noi due..”
“Gira la ruota/e la fune del tempo/ci fa far l’altalena/e un bel giorno si spezza..”
“Ora che non ci sei più/io desidero silenzi,/infiniti silenzi/infiniti deserti/ usignoli tutti bianchi e pensieri sereni/ su una strada piena di luce/ che non ha mai fine..”
“La polvere si alza/nasconde la tua ombra e chiude i miei ricordi/in fondo a questa strada.. La polvere si alza, nasconde queste pietre/è come la mia voce che non ha più parole ..”
“Non chiedermi più/chi di noi due ha ragione/ma pensa a quel tempo/che abbiamo vissuto insieme/pensa alla pazienza/che ho dovuto avere..”.

Ma si era nel lontano 1961 quando grazie all’amico Paoli ci si accorgeva di Piero Ciampi, di questo paroliere schivo e arrabbiato rimasto fedele ai suoi principi, alle sue idee spontanee e illuminate che non danno mai la sensazione di un lavoro fatto “a tavolino” quanto invece lasciano all’immediatezza del momento creativo. Seguiranno altre canzoni, altri accostamenti musicali, come ad esempio la sua collaborazione con Gianni Marchetti, determinante nella continuazione e nella traduzione visiva di certe atmosfere notturne (sfigate) e degli stati d’animo dell’autore.
Dopo verranno gli anni di “L’amore è tutto qui”, “Io e te, Maria”, “L’incontro”, “Ma che buffa sei”, o delle più socialmente impegnate come “Andare, camminare, lavorare”, “Ha tutte le carte in regola”, “In un palazzo di giustizia”, “L’assenza è un assedio”, solo per citarne alcune, in cui il “paroliere, questo sconosciuto” è l’interprete, o se preferite il protagonista della propria storia, per lo più autentica, che possiamo definire autobiografica, di un autore che ha fatto della propria realtà “la storia della propria vita”. Paragonabile, solo per certi versi, ai francesi Brel e Brassens, Piero Ciampi ha fatto scuola tra i nostrani “cantautori” che hanno visto in lui un precursore dei tempi, e pur essendo in molti ad essersi messi sulla sua strada, non tutti possono dirsi suoi continuatori.
Oltre all’intramontabile Gino Paoli, troviamo Umberto Bindi, Luigi Tenco e, per un certo verso, il più originale, musicalmente parlando, Paolo Conte. Si dovrà attendere Sergio Endrigo per ritrovare il senso “intimistico” profondo della canzone d’autore e, più recentemente, affidarci a Sergio Cammariere e certamente a Gianmaria Testa che, a ragione, considero il suo più diretto continuatore, sebbene abbia ampliato lo spazio d’azione del Piero introverso, liberando la sua ispirazione oltre i confini in cui era segregata, al di fuori di quel mondo piccolissimo che in Ciampi era il suo “io”, seppure limitato e allo stesso tempo grandissimo. Così come possiamo vedere nella sequenza dei testi trascritti qui di seguito.

Delicato e infrangibile come in “Bambino Mio” di Ciampi /Pavone/Marchetti:
"Pian piano/per la strada/tu mi tieni /per la mano./Caro caro/ nel giardino/tu mi vieni/ più vicino./Forte forte/con amore/tu ti stringi/sul mio cuore./Senti senti/vuoi tornare/ da quell’uomo dei palloni./Piano piano/dici sì/poi finisce/tutto qui./Lento lento/passa il tempo/non so proprio/cosa fare./Tu capisci/e vai a giocare/col bambino più vicino./Quando vedi/che ti parlo/tu fai finta di volare./Fai due passi /tocchi terra/per il mio compiacere./Io ti guardo/faccio sì/poi finisce/tutto qui./Piano piano/viene sera/tu mi tieni/per la mano./Senza dire/una parola/noi sappiamo/di tornare./Forte forte/con amore/tu ti stringi/sul mio cuore./Senti senti/mi fai tu/che la mamma/viene su./Torna presto/faccio sì/poi finisce/tutto qui".

Così come in “Te lo faccio vedere chi sono io” dove si rintraccia un certo straordinario Jannacci:

"Una regina come te in questa casa?/Ma che succede?/Ma siamo tutti pazzi./Ma io adesso sai che cosa faccio?/Che ore sono, le undici?/Io fra, guarda, fra cinque ore sono qua/e c’è una casa con 14 stanze./Te lo faccio vedere chi sono io./E che sono quei cenci che hai addosso, ma che? Ma fammi capire,/ma se, ma io, ma come/tu sei la mia e stiamo in questa stamberga coi cenci addosso?/Ma io adesso esco,/sai che cosa faccio?/Ma io ti porto/una pelliccia di leone con l’innesto di una tigre./Te lo faccio vedere chi sono io./Senti però, tanto però c’è un problema./Siccome devo uscire/mi puoi dare mille lire per il tassì,/in modo che arrivo/più in fretta a risolvere questo problema volgare che abbiamo./Te lo faccio vedere chi sono io./Lascia fare a me, lascia fare a me,/lascia fare a me, perché?/Ti devi fidare./Ma che cosa ti avevo detto, una casa?/Ma io sai che cosa faccio?/Ma io ti compro un sottomarino./Perché, se qui davanti a casa nostra/quelli hanno una barca/e rompono le scatole/io ti compro un sottomarino./Così sei, li fai ridere tutti questi, hai capito./Intanto facciamo una cosa./Io tra cinque minuti sono qua./Tu metti la pentola sul fuoco/ci facciamo un bel piatto di spaghetti al burro/mentre aspettiamo il trasloco./Poi ci mettiamo a letto e/te lo faccio vedere chi sono io./Ti sganghero!/Te lo faccio vedere chi sono io./Te lo faccio vedere chi sono io./Sono un uomo asociale, ma sono un uomo che ti../Io non te lo compro un sottomarino/ti compro un transatlantico./basta che tu non scappare,/perché se scappi col transatlantico/ti affogo nell’Oceano Pacifico./ Dai, dai coricati che te lo faccio vedere chi sono io".

Mentre in “Andare camminare lavorare”, c’è già incluso Rino Gaetano, e Adriano Celentano della Via Gluck e tanti altri:

"Andare camminare lavorare/andare a spada tratta/banda di timidi/di incoscienti d’indebitati/di disperati./Niente scoramenti/andiamo/andiamo a lavorare./Andare camminare lavorare./Il vino contro il petrolio./Grande vittoria,/grande vittoria/grandissima vittoria./Andare camminare lavorare./Il meridione rugge./Il Nord non ha salite./Niente paura/di qua c’è la giustizia./Andare camminare lavorare./Rapide fughe, rapide fughe, rapide fughe./Andare camminare lavorare/i prepotenti tutti chiusi a chiave./I cani con i cani nei canili./Le rose sui balconi/I gatti nei cortili./Andare camminare lavorare./Andare camminare lavorare./Dai, lavorare!/ E che cos’è questo fuoco?/Pompieri, Pompieri!/Voi che siete seri,/puntuali,/spegnete questi incendi/nei conventi/nelle anime/nelle banche./Andare camminare lavorare./Queste casseforti che infernale invenzione./Viva la ricchezza mobile./Andare camminare lavorare./Andare camminare lavorare/ lavorare, lavorare, lavorare./Andare camminare lavorare./Il passato nel cassetto chiuso a chiave./ il futuro al totocalcio per sperare/ il presente per amare/ non è il caso di scappare./ Andare camminare lavorare/ Andare camminare lavorare./Dai, lavorare!/Nutriamo il lavoro, alé/ Gli agnelli pascolare con le capre./Fra i nitriti dei cavalli/questi rumorosi!/Vigilarsi tutti./La truppa dei pastori./Andare camminare lavorare./Niente paura./ Azzurri!/Azzurri!/Attaccare, attaccare, /attaccatevi a calci nel sedere, che cazzo!/La domecica tutti sul Bordoi a pedalare/lavorare, pedalare, lavorare./Con i contanti/all’osteria con i contanti/ tanti tanti tanti auguri agli sposi./Andare camminare lavorare./La penisola in automobile,/tutti in automobile al matrimonio/alé la penisola al volante/ Questa bella penisola/è diventata un volante./Andare camminare lavorare./Andare camminare lavorare".

Ma siamo già oltre, oltre il suo tempo … nel nostro tempo, e ciò che di Piero rimane, oltre a qualche canzone, la quieta poesia del ricordo. Grazie.

Discografia essenziale:
“Piero Litaliano” – LP Amico ZSLF 55041 (1961)
“Io e te abbiamo perso la bussola” – LP Amico ZSLF 55133 (1963)
“Il mondo di Piero Ciampi” – CD RCA-BMG 512452 – (1997)
“Piero Litaliano” – CD CGD 9031 712933333-2 – (1993)

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- Letteratura

Intervista a Cassandra - a Christa Wolf

“INTERVISTA A CASSANDRA” ... in memoria di Christa Wolf

“Tremila anni … ecco dove accadde. Lei è stata qui. Questi leoni di pietra, ora senza testa, l’hanno fissata. Questa fortezza (Micene), una volta inespugnabile - cumulo di pietre ora - fu l’ultima cosa che vide”.
Nessuno la credette allora, nessuno le avrebbe creduto – mito nella leggenda, intessuto nella tela dei secoli:
“Tremila anni … - così il verdetto del dio si mostrò duraturo: nessuno le avrebbe creduto” – mai per l’eternità.
Nessuno le crede ancora sebbene il suo fantasma si aggiri ancora come altre volte (quante) nel passato, sui guasti della guerra: Troia come Micene, Varsavia come Beirut, Afganistan come Birmania, come … quante altre? – Un nemico da tempo dimenticato e i secoli, il sole, la pioggia, il vento, l’hanno spianate. Immutato è rimasto il cielo, un blocco d’azzurro intenso, alto, distante:
“Vicine, oggi come ieri, le mura ciclopiche che orientano il cammino: verso la porta dal cui fondo non fiotta più sangue. Nelle tenebre. Nel macello. E sola.”
Cassandra! … la cui voce ha fatto tremare un tempo le mura di Troia, sfuggita al destino mitico che la teneva imbrigliata, è tra noi, nelle pagine di un libro audace, almeno quanto i personaggi della tragedia eschilea a sciogliere furtivamente i nodi della verità occultata per così lungo tempo. Quella verità che non appartiene alla storia, ma è vissuta interiormente dal personaggio che reclama di diritto di entrarne a far parte da protagonista. Un personaggio di secondo piano, una comparsa si direbbe in gergo teatrale: che viene inavvedutamente alla ribalta e che improvvisa una parte non assegnatale. Ma che si riscatta – infine – per essere rimasta nella penna dei suoi autori, come nel pensiero di quell’Apollo che le aveva conferito il dono della veggenza, e il cui verdetto risuonò come un anatema nell’eco dei secoli.
Lei, Cassandra … la cui figura mitica, di eroina vigorosa e temibile, improvvisamente proiettata nel presente nella scrittura di Christa Wolf, che nelle pagine del libro recupera la sua anima inquieta, il suo sguardo, la sua voce di sacerdotessa – “per darci il racconto della liberazione femminile e del bisogno di pace” – universali.
“Voglio pregarvi di seguirmi in un viaggio …” – scrive Christa Wolf riferendosi a un viaggio fatto in Grecia ma anche alle vie percorse, dopo che Cassandra ha “preso possesso di lei”:
“La vidi subito. Lei, la prigioniera, mi imprigionò, lei, oggetto essa stessa di fini che le erano estranei, si impadronì di me. L’incanto ebbe subito effetto. Credetti a ogni sua parola. Provare una fiducia incondizionata era ancora possibile. Tremila anni-dissolti … Mi sembrò degna di fede … mi parve che in questo dramma, forse l’unica a conoscere se stessa”.
Iniziamo così a seguirla tra le rovine delle città greche, nella discussione delle teorie degli archeologi, attraverso la ricostruzione della storia dei miti, sulle tracce di una società (forse) matriarcale, (forse) pacifica, alla ricerca di un passato mitico. Cassandra ... la veggente figlia di Ecuba e Priamo attende la morte nella fortezza di Micene. Agamennone, il vincitore che l’ha condotta con sé da Troia distrutta, ha già varcato la soglia oltre cui morirà per mano di Clitennestra, sua sposa. Da questo punto la narrazione scivola all’indietro, lungo i dieci anni della guerra di Troia, fino alla sua fanciullezza. Nell’arco di un tramonto nel cielo arrossato di Micene, la principessa troiana ripensa al cielo fiammante di Troia in rovina e subito le tornano alla memoria la traversata dell’Egeo in tempesta, l’arrivo a Troia delle Amazzoni, gli orribili delitti di Achille la bestia, la rottura con il padre Priamo, accecato dal meccanismo inarrestabile della guerra …
Ma Christ Wolf – scrive Anita Raja che ha curato la traduzione delle sue opere in italiano e la colta introduzione al testo – non si consola con l’idealizzazione di condizioni sociali primitive, illusoria e pericolosa concessione all’irrazionalismo. Prosegue esplorando le vie del gelido pensiero maschile - in contrasto con la vita nelle comunità femminili sulle rive dello Scamandro e lo stesso amore di Cassandra per Enea – come anche quello della patriarcalizzazione, fino agli esiti ultimi della perdita di senso della letteratura, della feticizzazione, della minaccia atomica:
Che cosa può fare Cassandra, (come ogni donna), schernita, inascoltata, dichiarata fuori della norma, in questo territorio maschile dove domina un’estetica inventata per proteggersi dalla realtà? Può parlare, scrivere, non più storie di eroi, di guerra e di assassini, ma forse, dare concretamente un nome alla preziosa vita quotidiana, trovare parole adeguate per ciò che “ci riservano gli anonimi tecnici della pianificazione nucleare”, oppure raccontare la lotta delle donne e degli uomini per diventare soggetti l'uno dell'altro (?).
Scrive ancora Christa Wolf:
“Senza sapere ciò che cercavo, e solo perché sarebbe stato imperdonabile lasciarsi sfuggire quell’occasione, volli partire per la Grecia. Sui moduli scrissi «turismo» a motivo del viaggio, tacqui a tutti, anche a me stessa … ho più simulato che provato un’attesa gioiosa e mi sono attenuta soprattutto a una disposizione ironica «cercando con l’anima la terra dei greci», col pretesto di voler assaporare impressioni non mediate mi sono solo scarsamente provvista di informazioni … il caso avrebbe governato il viaggio, un sovrano dispotico, imprevedibile, che è difficile capire, complicato ingannare, impossibile dominare”.
Ma ecco che dalle pagine toccanti del libro, sgorga quel canto che fa dell’autrice una poetessa generosa che pochi conoscono e che dona a piene mani:
“Quando stetti per l’ultima volta sulle mura (di Troia) a contemplar la luce insieme a Enea … Ho evitato di pensarci fino ad ora. E ora viene la luce. Enea, che non aveva mai esercitato pressioni su di me, che mi aveva sempre accettata per quello che ero, che non aveva mai voluto piegarmi o mutarmi in alcunché, insistette perché andassi con lui, giunse al punto di ordinarmelo. Era insensato gettarsi in una rovina che non si poteva più arrestare. Dovevo prendere i nostri figli – disse: i nostri figli! - e lasciare la città. Era già pronta a questo scopo una piccola schiera di troiani, e non dei peggiori, con le provviste e le armi necessarie e decisi ad aprirsi un varco. A fondare da qualche parte una nuova Troia. A ricominciare daccapo … Tu mi fraintendi, dissi esitando. Non è per Troia che devo rimanere. Troia non ha bisogno di me. Ma è per noi. Per te e per me”.
E cos’è questo se non un parlare d’amore, di quella poesia che all'amore suggerisce parole incancellabili, che sovrasta ogni cosa, ogni azione della nostra vita (?). Cassandra ... come Medea (altra eroina del mito per Christa Wolf), sono in primis donne che amano, carnali e umane, entrate di forza a far parte di quell’amore superiore che pur regna incontrastato e che ancora fa girare il mondo. Lo dimostrano i passi che seguono:
“Era chiaro a tutti i sopravvissuti, i nuovi padroni (gli Achei) avrebbero imposto la loro legge. La terra non era grande abbastanza per sottrarsi a loro. Tu, Enea, non avesti scelta: dovevi strappare alla morte qualche centinaia d’uomini. Eri il loro capo. Ma presto, molto presto saresti diventato un eroe. Sì! Hai esclamato. E allora? - Vidi nei tuoi occhi che mi avevi compresa. Non posso amare un eroe. Non voglio vivere la tua trasformazione in un monumento. Caro. Non hai detto che questo non ti succederà. O, che potrei evitartelo. Contro un’epoca che ha bisogno di eroi non c’è nulla da fare, lo sapevi bene quanto me. Hai gettato in mare l’anello a serpente. Dovevi andare lontano, molto lontano, e non sapevi che cosa sarebbe accaduto. Io resto. Il dolore ci ricorderà di noi. Grazie adesso, dopo, se ci rincontreremo, e qualora un dopo esista, potremo riconoscerci”.
Dunque la luce si spense … si spegne.
“Oh, l’umano destino, se felice, a un’ombra assomiglia; se sciagurato – passandogli sopra, l’umida spugna lo cancella! E più d’ogni altra cosa, questo spegnersi mi fa male”.
Il caso quindi, sostanza volatile, senza cui non nasce racconto che voglia sembrare naturale, eppure così difficile da catturare.
E allora: “Va’ Cassandra! Entra. Lascia questo carro, sottomettiti al giogo!”
Ancor prima che Cassandra apra la bocca per parlare, noi lettori già sappiamo che la guerra di Troia è finita. Agamennone, il re che ha guidato gli Achei per dieci lunghissimi anni fa ritorno a Micene, atteso da sua moglie Clitennestra e dai suoi vegliardi che erano restati. Egli arriva, accanto a lui siede sul carro di trionfo Cassandra, la troiana, figlia del re Priamo, che è morto, come sono morti tutti i suoi fratelli e la maggior parte delle sue sorelle. Troia è distrutta, e lei tutto questo l’aveva predetto, restando inascoltata … i suoi compatrioti non le hanno creduto: “ho immediatamente subodorato la maledizione che pende sulla casa degli Atridi” – dirà.
“Ora si permette di predire agli stranieri che l’attorniano che il loro re, appena invitato dalla moglie Clitennestra ad entrare nella rocca, calcando il tappeto di porpora steso al vincitore, e proprio da questa verrà assassinato … Cassandra non accoglie il pur nobile invito di lei a prendere parte al sacrificio che si prepara all’interno: "E sola, con questo racconto vado nella morte …”.
“Ma che vuole, essere immortale, Lei che è una donna?” – si domanda l’autrice. E ancora, di seguito: “Di cosa oscuramente si ricorda Eschilo quando crea donne come questa? Chi vorrebbe che Omero sparisse o addirittura riapparisse in veste di storiografo fedele alla realtà? Quanti anni aveva Cassandra quando morì? Trenta? Trentacinque? Conobbe la sensazione di essere sopravvissuta a molte, troppe cose?”.
Quante, troppe domande che chiedono una qualche risposta. Ed ècco che una ne arriva: “Era una cosa nuova per me domandarmi … non vogliamo assolutamente sapere il male che ci aspetta. Non solo i vincitori, anche le vittime sono salite sull’Acropoli. L’uomo e la bestia. Anche per gli dèi è così. Colui che viene prima, colei che viene prima, è sempre anche la vittima di chi viene dopo”.
“Ecco dove accadde. Questi leoni di pietra (sulla porta d’ingresso di Micene) l’hanno fissata. Al mutar della luce paiono animarsi …”. Tremila anni che non sono passati, che non possono essere passati invano.

Un particolare ringraziamento va a Elisa Ferri delle edizioni E/o, per la sua disponibilità di imprenditrice e ispiratrice di questa trasmissione radiofonica; ad Anita Raja che ha saputo mettere nelle parole un così alto senso musicale e, ovviamente a Christa Wolf (a ricordo del suo forte impegno sociale) e per averci lasciato sì memorabili opere: “Cassandra” e “Premesse a Cassandra” edizioni E/o.

Opere tradotte in italiano.
• 1960 - Pini e sabbia dal Branderburgo
• 1968 - Riflessioni su Christa T.
• 1974 - Sotto i tigli
• 1975 - Il cielo diviso
• 1976 - Trama d'infanzia
• 1979 - Nessun luogo. Da nessuna parte
• 1983 - Cassandra
• 1983 - Premesse a Cassandra
• 1987 - Guasto
• 1989 - Recita estiva
• 1992 - Nel cuore dell'Europa
• 1994 - Congedo dai fantasmi
• 1996 - Medea. Voci
• 1999 - L'altra Medea
• 2002 - In carne e ossa
• 2003 - Un giorno all'anno. 1960-2000
• 2005 - Con uno sguardo diverso
• 2009 - "Che cosa resta"

Soprattutto dopo la riunificazione tedesca le opere di Christa Wolf hanno dato luogo a molte controversie. La critica della Germania occidentale rinfaccia alla scrittrice di non aver mai criticato l'autoritarismo del regime comunista della Germania orientale (così, per es., Frank Schirrmacher). Altri hanno parlato di opere intrise di "moralismo". I suoi difensori hanno invece riconosciuto il ruolo svolto dalla scrittrice nel far emergere una voce letteraria della Germania orientale.[3] Con la sua monografia sui primi romanzi di Christa Wolf, e con successivi saggi su quelli più tardi, Fausto Cercignani ha contribuito a promuovere la consapevolezza della vera essenza della produzione narrativa della scrittrice, a prescindere dalle sue vicende politiche e personali. L’enfasi posta da Cercignani sull’eroismo delle protagoniste create da Christa Wolf ha favorito la nascita di altri studi sugli aspetti puramente letterari di questi romanzi.

Hanno scritto di lei:
A. Chiarloni, Christa Wolf. Le forme della dissidenza contenuto in Le dissenzienti. Narrazioni e soggetti letterari, a cura di C. Bracchi, Lecce, 2007, pp.103-120.

«Addio a Christa Wolf, scrittrice del dissenso». Corriere della Sera, 1 dicembre 2011. URL consultato in data 1 dicembre 2011.

Dal web - ilsussidiario.net sez. cultura. Int. Franz Haas - venerdì 2 dicembre 2011
Si è spenta ieri a Berlino la scrittrice tedesca Christa Wolf. Una vita trascorsa sotto i regimi totalitari: prima il giogo nazionalsocialista della Germania di Hitler, e poi il comunismo della Repubblica democratica tedesca, che Wolf abbracciò con convinzione in gioventù, salvo poi prenderne le distanze nella seconda metà della vita, senza però mai «abbattere» quel Muro che i seguaci di Marx e Lenin misero in piedi per proteggere la loro costruzione politica dalle cattive sirene del mondo libero. Christa Wolf nacque nell’attuale Polonia nel 1929 - allora parte della Germania -, venne inquadrata nella gioventù nazista, a vent’anni scelse il blocco sovietico e si iscrisse al Partito socialista unificato di Germania. Germanista, critica letteraria, la sua prima opera letteraria di fama internazionale fu Il cielo diviso, uscita in Germania nel 1963, a due anni dalla costruzione di quel Muro di cui Christa Wolf prese le difese. Successivamente la sua ortodossia cominciò a incrinarsi. Criticò il regime, senza però mai abbandonare il socialismo. Dopo quello scorcio di novembre del 1989, che sancì la fine del blocco orientale e cambiò la storia europea, denunciò da posizioni socialiste la crisi dell’occidente. La notizia della morte è stata diffusa ieri da Der Spiegel.
«Faccio una cauta difesa di Christa Wolf» dice a IlSussidiario.net Franz Haas, germanista, docente nell’Università statale di Milano. «Sicuramente andrebbe assolta dall’accusa di esser considerata una scrittrice di regime. Si potrebbe dedurre da alcune opere, è vero, ma la sua produzione nell’insieme non lo giustifica. Resta in ogni caso la scrittrice più rappresentativa della Germania comunista».

Come cambia la personalità di Christa Wolf nell’arco di tempo che va dalla sua prima produzione letteraria al crollo del Muro?
Mentre nel primo periodo della sua attività, che comincia nei tardi anni cinquanta con Moskauer Novelle, Wolf è ancora completamente schierata dalla parte del regime comunista e in linea con il partito, successivamente ne prende le distanze, ma rimanendo all’interno dell’orizzonte ideologico della Ddr. Wolf divenne critica nei confronti del regime fino alla soglia del punto di rottura, ma senza spingersi oltre: se avesse fatto un «passo» in più, sarebbe stata cacciata o messa in prigione, come è stato per tanti altri.
In che modo il rapporto con il potere ha influenzato le sue opere?
Si tratta di un condizionamento presente e innegabile, ma che si evolve nel tempo. Lei stessa rinnegherà molti scritti del periodo giovanile, rimproverandosi di essere stata troppo credente in quella «chiesa» che era il comunismo.
Una delle sue opere più note è Il cielo diviso, tradotto in italiano nel 1975.
Sì, è forse l’opera più nota. È una storia d’amore in cui la protagonista, fedele al regime, vuole rimanere a Berlino est, mentre lui va all’ovest e per questo impersona la figura negativa, colui che tradisce la patria. Non è molto noto che questo libro è la risposta al romanzo di un altro scrittore tedesco orientale dell’epoca, Uwe Johnson, che nel 1959 pubblica Congetture su Jakob, in cui la situazione è invertita: c’è una coppia di amanti in cui la ragazza va in occidente e il giovane, invece, rimane. Johnson, non potendo pubblicare il romanzo in Germania est, lo fece uscire in Germania ovest ma questo gli costò l’abbandono della patria. Wolf replicò a Johnson con una cauta difesa del regime comunista.
Il 1989 cambiò qualcosa nella posizione di Wolf?
Rimase traumatizzata dagli attacchi che le vennero rivolti nel 1993, quando si seppe che era stata una collaboratrice informale della polizia segreta. Scrisse anche un libro di saggi in cui si difendeva, e tutte le sue opere da allora sono state la trasfigurazione letteraria di problemi politici tipici delle dittature. Criticò il totalitarismo, ma nel paradosso di un’autodifesa della sua appartenenza ideologica. Certamente non è rimasta la comunista «credente» che era all’inizio degli anni sessanta.
Che dire delle sue opere dal punto di vista letterario?
Molte opere valgono ancora. Il cielo diviso non è una grande opera letteraria, ma è un ottimo «documento» in grado di far rivivere al lettore l’atmosfera di quel periodo, in Germania e nel blocco comunista. Sono di rango superiore le successive Cassandra e Medea.

Perché il ricorso a queste figure mitologiche?
Per poter parlare apertamente di cose di cui non avrebbe potuto parlare. Allora c’erano due grandi movimenti, quello pacifista e quello femminista. Siamo nei primi anni ottanta, al culmine della guerra fredda tra est e ovest, Cassandra li ammonisce entrambi e dice cose che senza travestimento mitologico non avrebbe potuto dire. All’epoca di Cassandra, nel 1983, la Wolf aveva già preso le distanze dal regime.
Se Il cielo diviso non è un’opera d’arte, allora quali sono i lavori di Christa Wolf che vale senz’altro la pena di leggere?
Molto più validi del Cielo diviso sono Trama d’infanzia, del 1976, e il precedente Riflessioni su Christa T., del 1968, due opere più o meno autobiografiche nelle quali la Wolf riflette sulla sua infanzia sotto il nazionalsocialismo e sulla sua gioventù sotto il comunismo. Queste sono opere d’arte certamente avanzate, oltre a Cassandra e a Medea.
Il suo consiglio al lettore italiano?
Se è disposto ad affrontare una scrittura particolarmente ostica, suggerisco le Riflessioni su Christa T. Dico ostica perché siamo nel 1968, in un periodo in cui la letteratura tedesca molto gioca sullo sperimentalismo, utilizza una prosa riflessiva, contorta, difficile, con continui salti avanti e indietro nel tempo. Più abbordabile, invece, Cassandra.
Trad. Federico Ferraù.

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- Danza

L’assenza intrapresa - a Pina Bausch

L’ “assenza” intrapresa (quando già l’anima abbandona il corpo)




Strano come in teatro il chiassoso attendere di una “andata in scena” si trasformi talvolta in frantumi di un’orchestrazione immaginaria, formuli proposizioni di aspettative incoerenti con l’oggettività della rappresentazione, per la quale l’attesa, seppure prolungata per una premiér, possa avere una qualche ragione di essere. Solitamente l’attendere, sia pure per un’ “andata in scena” non esprime concetti, tantomeno formula proposizioni, semmai aggiunge immagini stereotipe a simboli preesistenti inerenti alla natura del teatro più che alla rappresentazione in se stessa. Casomai si relaziona col forzato scambio di osservazioni che riguarda il linguaggio extra-teatrale, talvolta alterato da troppa minuziosità tecnica o perché smentito da avventata incompetenza, come appunto accadeva la sera, in cui al Teatro Olimpico di Roma si esibiva per la prima volta, il Tanztheater Wuppertal, diretto da una esordiente sulla scena della danza contemporanea che aveva però già fatto parlare di sé la stampa europea degli “addetti ai lavori”, e non proprio in maniera entusiastica: Pina Bausch. 

Il suo nome è legato al termine Tanztheater (teatro-danza), adottato negli anni '70 da alcuni coreografi tedeschi - tra cui la stessa Bausch - per indicare un preciso progetto artistico che intende differenziarsi dal balletto e dalla danza moderna e che include elementi recitativi, come l'uso del gesto teatrale e della parola. La sua carriera artistica inizia da adolescente, esibendosi in piccoli ruoli di attrice nel teatro di Solingen. In seguito si trasferisce a New York, grazie ad una borsa di studio. Perfeziona la sua tecnica alla Juillard School of Music. Successivamente viene scritturata, come ballerina, dal New American Ballet e dal Metropolitan Opera. Nel 1962, dopo il suo rientro in Germania, che la vede impegnata ancora come danzatrice, compone le prime coreografie per il corpo di ballo della sua scuola nel 1968, la Folkwang Hochschule, che dirigerà dall'anno successivo. Nel 1973 fonda il Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, cambiando nome al già esistente corpo di ballo di Wuppertal. I suoi spettacoli riscuotono fin da principio un indiscusso successo, accumulando riconoscimenti in tutto il mondo. I primi lavori sono ispirati a capolavori artistici, letterari e teatrali, ma è con Café Müller (1978), il suo spettacolo più celebre, composto sulle musiche di Henry Purcell, che si assiste ad una svolta decisiva nello stile e nei contenuti. Mentre le sue prime opere erano animate da una dura critica alla società consumistica e ai suoi valori, le opere più mature approfondiscono sia il contrasto uomo-società, sia la visione intima della coreografa e dei suoi danzatori, che sono chiamati direttamente ad esprimere le proprie personali interpretazioni dei sentimenti. La novità del suo lavoro non consiste tanto nell'invenzione di nuove forme e nuovi gesti da riprodurre uguali a se stessi, quanto nell'interpretazione personale della forma che vuole rappresentare. Un altro elemento di novità è costituito dall'interazione tra i danzatori e la molteplicità di materiali scenici di derivazione strettamente teatrale - come appunto le sedie del Café Müller - che la Bausch inserisce nelle sue coreografie. Il 2009 la vede impegnata in un progetto cinematografico in 3D di Wim Wenders che s'interrompe in seguito alla sua morte improvvisa. Il film-documentario "Pina" uscito postumo quest'anno, è un lungometraggio interamente dedicato al suo Teatrodanza, successivamente portato a termine dal solo Wenders e presentato con successo al 61° Festival di Berlino nel 2011.

Io immaginavo che le stanze della danza assumessero nella mente di quelli che la amano una dimensione fuori dell’ordinario, di tipo “superlativo” per pochi adepti o conoscitori colti, ma quella sera c’era stato un affollamento inconsueto e per certi aspetti sorprendente, che pensai dovuto alla straordinaria sete (o fame dipende) del nuovo che spesso incalza, soprattutto quando si arriva a una saturità di cose viste, lette, ascoltate, quando non addirittura artate e divenute ormai polverose, insomma, che non entusiasmano più. In passato c’eravamo abituati a vedere una danza senza alcuna necessaria relazione con il mondo reale, intrappolata entro formule e gesti convenzionali in quanto surreali, atteggiamenti corporei che avevano perso la dimensione umana per entrare in quella immaginaria dell’eloquenza fine a se stessa, del garbo dell’eleganza, immersa in una coltre di sognata realtà che apparteneva ad esseri alati forse, certamente caricati di angeliche virtù. Mentre solo alcuni nomi, che oggi definiamo “rappresentativi” di un percorso artistico, avevano portato in scena (con coraggio o meno) la propria fisicità, per così dire avevano espresso con il proprio corpo quella “tensione” muscolare e nervosa, specchio di umana forza e fragilità, che in seguito elegemmo ad “eroi” di un passato a latere della nostra epoca e della storia della danza artistica. 

Prima di lei, solo Isadora Duncan aveva osato tanto, e pur rifacendosi a una classicità millenaria, aveva infranto le regole convenzionali portando la danza fuori del teatro, per restituirla alla libertà espressiva con coreografie aeree di grande effetto, accentuate dalla sua dirompente corporeità, cui fece seguito un lunga e infausta stagione di silenzio. Fino ad arrivare a quella fatidica sera “della prima” in cui Pina Bausch apparve sulla scena a interrompere l’incanto illusorio di un danzare fine a se stesso, con la violenza di una macchina mangiapersone (pubblico incluso) che trasfondeva il linguaggio della danza nel linguaggio del corpo fisico, dove fin anche le emozioni divenivano epidermiche, i corpi stessi ritrovavano nella nuda preziosità della terra la loro ragione di esseri, uscivano per così dire “dall’oscurità del mondo alla ricerca di una perduta immagine primordiale”, (K. Kraus). Improvvisamente la dimensione della danza si appropriava dello spazio scenico e del teatro, usciva all’esterno di esso e diventava urbana, ossia metropolitana, assumeva i lineamenti dell’umana gente, i ritmi convulsi del quotidiano, penetrava nelle viscere costipate (materiali) dei corpi, delle nevrosi e delle paure che la colpiva nella psiche, in cui i dettagli erano la realtà oggettiva degli sguardi tesi, a dipanare patologie devianti, senza possibilità di riscatto. Così il “Café Müller” luogo di incontro e di comunicazione si trasformava in luogo di perdizione psicologica, d’incomprensioni senza appello, di estenuanti lotte di prevaricazione e di predominanza assoluta. In cui la musica, altro elemento ingombrante ma necessario, scandiva sulla musica di Purcell (stereotipo) il linguaggio dei gesti e le funzioni dei corpi, chiamati dalla coreografa a rappresentare se stessi: quell’umana gente che in effetti rappresentano al pari delle loro emozioni e dei loro sentimenti. Allora gli alberi del bosco, la terra, la roccia, la pioggia, il vento nella corsa, le strutture architettoniche, i treni, le auto, tutta la meccanicità del mondo, anche quando non sono presenti, (e non potrebbero esserlo), tutto si muove contemporaneamente e dinamicamente nel ripetersi dei gesti della quotidianità che vuole che anche se stiamo fermi, la terra continua a muoversi contribuendo così al movimento costante delle cose, esseri umani compresi. 

Perfino lì dove l’ “assenza” oggettiva della scenografia, seppure minima e necessaria, si rivela frutto di ricerca di spazialità che restituisce ai corpi, se non il predominio, l’essenzialità di una coesistenza coatta, al tempo stesso libera e spontanea, utile ma non indispensabile, come frutto di coinvolgimenti e ricongiungimenti. Così come nella “Sagra” di Stravinskij(ana) memoria, in cui l’invasiva presenza della terra (in scena) ne esclude ogni altra, per il ritorno a un rito ancestrale che vede la nascita e la morte come il conseguimento di un iter di apocalittica memoria. È allora che in Bausch la terra diventa madre e padre, amante e figlia, primogenitura di esseri umani e realtà oggettive pur differenziate che accoglie indistintamente nella sua natura: “assenza intrapresa”, voluta, di un certo modo di essere che esclude ogni priorità, ogni presunzione di primariato, rimettendo il tutto all’interno di quell’ “uovo cosmico” in cui ogni cosa trova la propria ragione di esistere. Ma ècco che, incapaci come noi siamo, di sostenere l’assenza di peso dei nostri corpi alati (di Icaro memoria), nel tentativo di levarci altissimi fin dove la Bausch ci vede fatti di luce e di splendore, nella divinità infinita dei nostri corpi, veniamo presi dai nostri indefiniti dubbi che ci portiamo dietro e ci torna infine la paura di non farcela a sostenere il calore infuocato del sole, e meschini torniamo miserevolmente a essere umani, precipitando così, irrimediabilmente verso il basso, e infine ricongiungerci alla terra da cui veniamo. Ragione per cui, forse, non saremo mai déi. 
Pina Bausch un autentico “mito del silenzio”.

Riconoscimenti:
La Biennale Teatro di Venezia, diretta da Franco Quadri, nel 1985 alla Fenice dedica una retrospettiva agli spettacoli di Pina Bausch e del suo Tanztheater. Tra i numerosi premi vinti dalla Bausch per la sua attività con il corpo di ballo del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch sono da ricordare: il Premio Ubu nel 1983 per il miglior spettacolo straniero; un secondo Premio Ubu assegnato nel 1990 e un terzo nel 1997. Nel 1999 le viene attribuito il Premio Europa per il Teatro e la laurea honoris causa in arti performative dall'Università di Bologna. Nel 2003, a Parigi, viene nominata Cavaliere dell'ordine nazionale della Legion d'onore, mentre nel 2006, a Londra, le viene conferito il Laurence Olivier Award e viene nominata direttrice onoraria dell'Accademia Nazionale di Danza di Roma. 

Come attrice è apparsa in: 
'Die Generalprobe', regia di Werner Schroeter (1980)
'E la nave va', regia di Federico Fellini (1983)
'Parla con lei' (Hable con ella), regia di Pedro Almodóvar (2002)
'Pina', regia di Wim Wenders (distribuito nel 2011)

Regista e sceneggiatrice:
Die Klage der Kaiserin (1990)

(da Wikipedia l’enciclopedia libera).
È difficile immaginare cosa sarebbe il teatro della danza dell'ultimo quarto di secolo senza la paradigmatica esperienza e creatività di Pina Bausch. Questa coreografa dall'inconfondibile silhouette nera e dall'effigie esangue, sofferente, come in preda all'imminente consunzione ma in realtà da anni potente e energica capofila del genere teatrodanza (o Tanztheater), è riuscita a modificare gli orizzonti culturali ed estetici della danza del nostro tempo, guadagnandosi non solo una schiera di imitatori ma anche un pubblico insospettabile: forse il pubblico più largo e nuovo che qualsiasi altro coreografo di oggi abbia attirato a sé. Complice del suo successo, almeno in Italia, è proprio il termine Tanztheater da lei adottato per definire il suo teatro della danza, o 'della vita' e 'dell'esperienza': in realtà un termine d'uso, strettamente correlato a un preciso progetto artistico comune a un'intera generazione di creatori e coreografi tedeschi come lei ingaggiati, già negli anni Settanta, all'interno di grandi strutture e teatri d'opera della Germania. Per segnalare che la loro produzione artistica non avrebbe più avuto alcuna attinenza con il balletto o la danza moderna, precedentemente accolti in quegli stessi teatri, essi preferirono chiamare le loro compagnie, nonché definire la loro stessa produzione, Tanztheater. Nella lingua tedesca questo vocabolo composto significa semplicemente teatro della danza, ma in molti paesi di lingua non tedesca, come appunto l'Italia, esso ha dato adito alle più diverse e spesso improprie traduzioni/interpretazioni. Tanto è vero che la tentazione di inscrivere la geniale Bausch nell'alveo dei registi teatrali, sminuendo così sia la sua formazione strettamente coreutica che quella dei suoi interpreti-ballerini, ha provocato non pochi equivoci nell'iniziale esegesi del suo teatro, almeno sino a quando la sua evidenza danzante e le recise affermazioni della stessa B., che tante volte ha dato di sé persino la definizione di `compositrice di danza', per rimarcare l'importanza della musica e dell'ispirazione musicale nelle sue opere, hanno finito per convincere anche i più increduli della natura eminentemente coreografica, anche nell'uso del gesto teatrale e della parola, del suo 'teatro totale'.
L'immagine dell'adolescente e timidissima Pina che trascorre i suoi giorni sotto i tavoli del ristorante del padre e ne osserva, in desolata solitudine, gli avventori (un flash che servirà poi per ricondurre a memorie personali il suo indiscutibile capolavoro del 1978: Café Müller) è la prima di un'agiografia che contempla pure lo sconforto della ballerina in erba dai piedi troppo lunghi (a dodici anni calzava già il 41) per calzare le scarpette a punta. Ma prima di entrare, quindicenne, alla Folkwang Hochschule di Essen, diretta da Kurt Jooss, allievo e divulgatore delle teorie e dell'estetica dell'Ausdruckstanz (danza espressionista) promulgata da Rudolf von Laban, la B. non aveva mai frequentato veri corsi di balletto o di danza; compariva assiduamente, però, nel teatro della sua città e ben presto ne divenne una comparsa, utilizzata in operette e piccoli ruoli e anche in serate di balletto. A Essen, dove ha la fortuna di studiare proprio con Jooss, si diploma nel 1959 e ottiene una borsa di studio dal Deutscher Akademischer Austauschdienst (l'Organizzazione tedesca per i programmi di scambio accademico) che le consente di perfezionarsi negli Usa. A New York è `special student' alla Julliard School of Music, dove studia, tra gli altri, con Antony Tudor, José Limón, Louis Horst e Paul Taylor; contemporaneamente entra a far parte della Dance Company Paul Sanasardo e Donya Feuer, creata nel 1957. Viene quindi scritturata dal New American Ballet e dal Metropolitan Opera Ballet diretto da Tudor. Nel 1962 Jooss la invita a tornare in Germania e a diventare ballerina solista nel suo ricostruito Folkwang Ballet. Dopo l'elettrizzante esperienza americana, il nuovo impatto con la realtà tedesca è deludente. Il lavoro dei danzatori non è così approfondito e severo come a New York: la B. cerca partner infaticabili, che le somiglino, e inizia a collaborare con il danzatore e futuro maestro Jean Cébron che sarà suo partner nelle prime esibizioni italiane (al festival dei Due Mondi di Spoleto del 1967 e del '69). Dal 1968 diviene coreografa del Folkwang Ballet e nell'anno successivo ne assume l'incarico di direttrice. Risale a quel periodo anche la creazione di 'Im Wind der Zeit' (1969) che le vale il primo premio al Concorso di composizione coreografica di Colonia, seguito, tra gli altri lavori dell'epoca, da Aktionen fur Taumnzer (1971) e da Venusberg per il 'Baccanale' del Tannhauser di Wagner (1972). Nel 1973, su invito del sovrintendente Arno Wüstenhöfer, accetta la direzione della Compagnia di balletto di Wuppertal, ben presto ribattezzata Wuppertaler Tanztheater: i suoi primi collaboratori sono lo scenografo Rolf Borzik, scomparso nel 1980, e i danzatori Dominique Mercy, Ian Minarik e Malou Airaudo.
Nel 1974 crea la pièce Fritz (su musiche di Mahler e Hufschmidt), l'opera-ballo 'Iphigenie auf Tauris' (riallestito nel 1991 all'Opéra di Parigi), la rivista Zwei Krawatten, il balletto su musiche da ballo e canzoni del passato 'Ich bring dich um die Ecke' e 'Adagio-Fünf Lieder von Gustav Mahler' : una danza sui Lieder mahleriani. Il 1975 è l'anno della realizzazione scenico-coreografica di 'Orpheus und Eurydike' di Gluck, ricomposto nel 1992 e ammirato anche in Italia (Teatro Carlo Felice, 1994), e dell'importante trittico stravinskiano Frühlingsopfer (Wind von West, Der zweite Frühling e Le sacre du printemps ), seguito dalla prima svolta nella carriera dell'artista che coincide con un progressivo allontanamento dalle forme canoniche della coreografia, ben evidente in opere ormai di rilevante importanza storica, come Die sieben Todsünden su musica di Kurt Weill (1976), Blaubart, Beim Anhören einer Tonbandaufnahme von Béla Bartóks Oper"Herzog Blaubarts Burg", su motivi dell'opera bartókiana Il castello del duca Barbablù , che nel 1998 affronta da regista, su invito di Pierre Boulez. E ancora Komm tanz mit mir (1977), una pièce accompagnata da antiche canzoni popolari, l'operetta Renate wandert aus (1977) e un originale adattamento del Macbeth shakespeariano ( Er nimmt Sie an der Hand und führt Sie in das Schloss, die anderen folgen, 1978). Gli allestimenti successivi al capolavoro 'Café Müller' (quaranta minuti di danza su musica di Henry Purcell, per sei interpreti in tutto, tra cui la stessa coreografa che sino alla fine degli anni Novanta non accetterà più di comparire in scena) tengono conto soprattutto della scoperta del linguaggio, del verbo, della parola e di un'intera gamma di suoni originari, intesi come possibilità di articolazioni animali (ridere, piangere, urlare, sussurrare, tossire, piagnucolare) già sperimentata in 'Blaulbart' : vero spettacolo di riferimento per il passaggio alla sua nuova `drammaturgia totale'. Proprio in questo spettacolo frantumato e elettrizzato dal fruscio delle foglie secche disseminate in scena, la coreografa inizia a mettere a fuoco un nuovo metodo di lavoro. 
Invece della tradizionale imposizione ai ballerini di movimenti e passi, si propongono dei `questionari' scritti e orali ai quali la risposta potrà essere verbale o corporea. Istigando la sua troupe, la Pina Bausch finisce per sostituire le partiture e i testi drammatici (Stravinskij per il suo madido e furioso 'Sacre du printemps', Brecht per 'Die sieben Todsünden', Shakespeare per il già citato 'Macbeth' del 1978, che ha il titolo di una lunga didascalia) con un variegato collage di risposte a domande quali: «Da piccolo avevi paura del buio?», «Cosa fai quando ti piace qualcuno?», «Qual è il tuo maggiore complesso fisico?». Il risultato eclatante della sovvertita pratica coreografica - come dimostra lo spettacolo 1980, Ein Stück von Pina Bausch - non consiste però solo nell'entrata in scena di urla, gesti sonori, canti, parole e musiche di riporto - tutte novità relative nella storia della danza, in specie per il ceppo espressionista, a cui Pina Bausch, con il tramite del suo maestro Jooss, ma anche nella progressiva demolizione del mito e dell'estetica tradizionale del ballerino. Trasformarlo in `persona' che si muove in abiti quotidiani (giacca e pantaloni per i danzatori, sottovesti, ma soprattutto lunghi abiti da sera per le danzatrici) crea uno scandalo negli edulcorati ambienti del balletto europeo e costa a Pina Bausch accuse di volgarità e cattivo gusto germanici, specie da parte della critica americana, sbigottita di fronte al realismo del pianto delle sue danzatrici, e persino accuse di sadismo verso il vissuto interiore degli interpreti.
In Italia, spettacoli degli anni Settanta e Ottanta come 'Kontakthof' del 1978 (incredula e ancora impacciata l'accoglienza al Teatro alla Scala nel 1983), 'Bandoneon', creato nel 1980, subito dopo un lungo soggiorno in Sud America e 'Auf dem Gebierge hat Man ein Geschrei gehört' (1984) ottengono un riconoscimento ufficiale a Venezia, grazie a un'antologia della Biennale Teatro alla Fenice (1985). Prima di questa importante vetrina solo 'Café Müller' e 'Keuschheitslegende' (1979), entrambi presentati al Teatro Due di Parma nel 1981, con 'Nelken' (1983), allestito nell'anno di nascita al Teatro Malibran di Venezia, avevano turbato, rapito e scosso il pubblico italiano. E mentre alcune opere importanti come 'Arien' (1979) e 'Walzer' (1982) attendono non solo una prima italiana ma di essere riallestite, la coreografa viene consacrata negli anni Novanta un po' ovunque. Nelle sue pièce totali si scopre quanto abbia saputo dolorosamente scavare nella psiche del danzatore, restituendogli una gestualità senza maschere e una padronanza totale della scena. Errate interpretazioni del suo metodo di lavoro, come già si diceva, hanno tentato di accostarla al mondo del teatro di improvvisazione. In realtà, la B. ha sempre utilizzato a sua esclusiva discrezione i materiali espressivi dei ballerini, anche affidando il vissuto di un danzatore a un altro, come se avesse a che fare con semplici passi di danza e non con un frammento di vita: il piglio un poco dittatoriale - in lei sofferto e gentile - è quello tipico di molti coreografi. 
E coreografa alla potenza si è rivelata nel saper gestire il respiro scenico dell'universo dei suoi interpreti a cui è toccato ricostruire le anomalie del vivere sociale, l'irrisolta battaglia tra i sessi, lo sgretolamento dei valori più saldi della generazione successiva all'Olocausto, in un corollario di vizi e virtù umane del popolo tedesco ma non solo, esposte non senza una potente patina di divertimento e di ironia. Basti pensare alla creazione di quegli assolo, che restano a futura memoria nell'iconografia del suo teatrodanza, in cui l'invenzione gestuale è tanto minima quanto freschissima (in 'Nelken', Luzt Förster traduce con l'alfabeto dei sordomuti la canzone 'Someday he'll come along' e Anne-Marie Benati se ne sta sola, senza vestiti ma con un paio di mutande bianche e una fisarmonica al collo, nel campo di garofani che accoglie la pièce), o a quei trionfali `passi à la Bausch, ritmati e a larghe volute, con i quali ha tanto spesso spedito (come in 1980 , morbido ma agrodolce party dal sapore hollywoodiano) i suoi fedelissimi tra il pubblico, in una manovra di avvicinamento alla non-fiction sempre più insistita e fisica. Nell'arco creativo che corre da 1980 a Palermo, lo spettacolo sontuoso e degradato, allestito nel 1991 sul campo degli scempi siciliani (si assiste al crollo di un muro che inevitabilmente evoca quello di Berlino) la B. ha indubbiamente creato il suo teatrodanza maggiore. E si è concessa poche libertà d'autore: il vezzo molto tedesco di definire Stücke , ossia 'pezzi', tutte le sue opere collettive, come schegge romantiche della sua fantasia musicale, e l'altro vezzo del viaggio goethiano, esotico e ricognitore, tuttora inarrestabile. La creazione a getto continuo di scenografie vive e naturali (di Rolf Borzik, prima, e di Peter Pabst, poi) ha contribuito a alimentare la trasognata spettacolarità degli Stücke sempre vestiti della prediletta costumista Marion Cito.
L'acquario con veri pesci fluttuanti e la serra di piante grasse di 'Two Cigarettes in the Dark' (1984), la terra che dall'alto cade nella fossa `romana' di 'Viktor' , lo spettacolo creato nel 1986 e dedicato alla città caput mundi ; il deserto punteggiato di grandi tronchi spinosi e ingombranti di 'Ahnen' (1987) come l'acqua che ostacolava le disperate corse di Arien e il prato profumato di '1980' , hanno di volta in volta preservato la sua inventiva dal pericolo di reiterare la formula-cliché deflagrata e a frammenti del suo teatrodanza. Nello spettacolo 'Danzon' (1996) la scena proiettata e a 'cartoline illustrate' di Peter Pabst indica un momentaneo allontanamento dagli elementi vivi della natura a lei cara: tra pesci tropicali che scorrono in immagini filmiche torna a danzare, con le sue braccia morbide e tormentate, la stessa B., sublime e decorativa mentre saluta il pubblico alzando una mano. Due episodi cinematografici, come la partecipazione, nei panni di una contessa non vedente nel film 'E la nave va' di Federico Fellini e la confezione del lungometraggio 'Die Klage der Kaiserin' (1989), in cui l'influenza felliniana e l'impianto visionario non giungono però a comporsi in un ritmo narrativo efficace e serrato, non la distolgono dal proseguire il suo viaggio goethiano alla scoperta di paesi e città del mondo. Dopo Roma e Palermo, le nuove tappe sono Madrid ( 'Tanzabend II' , 1991), Vienna, Los Angeles, Hong Kong, Lisbona. Nascono il californiano 'Nur Du' (1996), il cinese 'Der Fensterputzer' (1997), concepito nel momento della cessione di Hong Kong alla Cina e il portoghese 'Masurca Fogo' (1998): tre spettacoli 'leggeri', più corti e rapidi di quelli storici degli anni Ottanta (spesso condotti oltre il limite delle tre ore), con ritmi incalzanti e musiche a collage, sempre festose. La nuova risorsa della coreografa di Wuppertal è infatti la riscoperta della danza pura - il tango di 'Nur Du' , il folklore rivisitato di 'Danzon', le ammalianti passerelle di 'Masurca Fogo' - nell'utilizzo di danzatori sempre nuovi ai quali sembra però assai più difficile poter sottoporre i `questionari' del suo metodo, così adatto a generazioni di ballerini a lei coetanei ma forse sprecato per le generazioni danzanti telematiche e cibernetiche, alle quali non a caso assegna sempre più spesso ruoli muti e di puro movimento nel confronto ancora strettissimo con i grandi e riconoscibili interpreti del Wuppertaler Tanztheater che non l'hanno abbandonata (oltre a Minarik e a Mercy, l'attrice Mechthild Grossmann).
Nato negli anni Settanta, come il cinema neorealista a cui fu strettamente legato, sullo sfondo di una cultura tedesca disposta a mettersi in crisi, il teatrodanza di Pina Bausch si deve considerare un edificio storico che funge da spartiacque: esiste infatti un teatrodanza precedente alla B. e di origine tedesca, che non ha mai ottenuto il successo e il riconoscimento di quello bausciano, mentre la coreografa ha fatto tesoro sia dell'insegnamento di Jooss che di quello di Tudor (il maestro del balletto psicologico ), andando a influenzare le arti limitrofe, come il teatro a cui ha svelato la portata dell'eredità di danza e balletto, nel segno di un neo-espressionismo che non ha certo esaurito la sua funzione estetico-artistica-sociale, anche se fatica a superare le modalità compositive spledidamente cristallizzate dalla coreografa. Esemplare resta il suo lascito coreutico in opere come 'Le sacre du printemps' e 'Café Müller' , in cui la tecnica coniuga i fondamenti della danza libera nell'utilizzo espressivo soprattutto degli arti superiori. Nel teatrodanza della B. il corpo del danzatore necessita di una formazione accademica - frequente l'uso di figure tipiche del balletto ( arabesque, attitude ) e di pirouettes - anche se nel suo irrinunciabile avvicinamento alla vita la coreografa rompe continuamente la prigionia dei codici o vi fa ritorno per paradosso, in episodi, spesso ironici, di riflessione sulla danza stessa e sulla fatica di danzare, che costituiscono uno dei leitmotive non secondari della sua coreografia 'totale'.


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- Musica

Inti-Illimani: l’eredità antica della terra

INTI-ILLIMANI: l’eredità antica della terra, di Giorgio Mancinelli.

Intervista rilasciata in Genzano di Roma, pubblicata in “Nuovo Sound” n. (?) anno 1978 e, in occasione della registrazione di uno speciale televisivo RAI, condotto da Lilian Terry.

Nella lingua Aymara, che prende il nome dal popolo autoctono che abita lungo la Cordigliera delle Ande, il nome di questo gruppo: Inti-Illimani, sta a significare “sole della montagna Illimani” ma che nel contesto storico della Nuova Cancion Chilena, assunse un nuovo significato con l’effetto di una dichiarazione di guerra, pari a una vera e propria rivoluzione in musica, lì dove Inti è la “luce che irradia” e Illimani è, per estensione, tutto il “Popolo dell’America Latina”, presi a simbolo del rinnovato impegno civile per l’affermazione dei diritti umani, calpestati dai regimi totalitari che si sono succeduti nel continente negli anni che vanno ’70.
Un movimento di liberazione quello della Nuova Cancion Chilena, basato sulla convinzione e la fiducia che ogni forma d’arte in genere, nello specifico, la musica e la canzone accolte in uno stretto abbraccio con la tradizione, potessero risollevare le sorti del popolo cileno, e non solo, nella volontà di risollevare le culture autoctone dal letargo forzato, e con esse sollevare le genti contro la repressione in corso, potesse servire alla causa politica e sociale in atto, dopo il golpe di stato che portò in Chile la sanguinosa dittatura di Pinochet, e che di fatto contribuì, nel tempo, alla sua caduta. Si pensi che all’epoca i singoli intellettuali e tutti i gruppi musicali furono arrestati e costretti all’esilio quelli che al momento si trovavano fuori dal paese.

Hacia la Libertad
“Patria de los confines
semilla pan y cobre
das de tu tierra virgen
hijos libertadores.
Voz indomable
de Araucanía
lanza Lautaro un grito
en cada amanecer.
Naciste combativa
contra los opresores
defendida bandera
de todos los rincones.
Desde los Andes
la llamarada
brilla la independencia
viene la libertad.
Es tu historia que avanza
a la nueva unidad nos lleva.
Chile, por ti juramos
no habrá noche que nos detenga.
¡La patria llama!
vamos con ella
hacia la libertad.
La razón del obrero
se alza en las salitreras
a transformar la vida
a organizar las fuerzas
grito de alerta,
Luis Recabarren,
la tierra soberana
debemos conquistar.
A la aurora extendida
marchan los oprimidos
fue el trabajo de todos
y el fruto compartido,
Allende ¡hermano!
cantan los pueblos
tu palabra levanto
tu ejemplo vivirá”.

“Patria dei confini/seme pane e rame/dai della tua terra vergine/figli liberatori./Voce indomabile/di Araucanía/lancia Lautaro un grido/in ogni alba./Nascesti combattiva/contro gli oppressori/difesa bandiera/di tutti gli angoli./Dalle Ande/la fiammata brilla l'indipendenza/viene la libertà./È la tua storia che avanza/alla nuova unità ci porta./Cile, per te giuriamo/non ci sarà notte che ci fermi./La patria chiami!/andiamo con lei/verso la libertà./La ragione dell'operaio/si solleva nei giacimenti di salnitri/a trasformare la vita/ad organizzare le forze/grido di all'erta,/Luis Recabarren,/la terra sovrana/dobbiamo conquistare./All'aurora estesa/vanno gli oppressi/fu il lavoro di tutti/ed il frutto condiviso,/Allende fratello!/cantano i paesi/la tua parola alzo/il tuo esempio vivrà”.

Gli artisti, i musicisti, i poeti non ebbero altro modo per poter far ascoltare la propria voce, poiché le radio non trasmettevano più né le loro voci né la musica popolare ch’era stata fino ad allora di sostentamento alla continuità della tradizione. Lo stesso faceva la televisione di stato che non permetteva si parlasse d’altro se non di quello che era nell’interesse della dittatura; tale che non permetteva la trasmissioni delle immagini che riguardavano gli scontri e le rivolte popolari. Da considerare che all’epoca non c’era la quantità dei mezzi di comunicazione che ci sono oggi, e la stampa era stata imbavagliata a dovere, pena la morte.
Accomunati dalla stessa passione per la musica popolare tradizionale, dalla quale da sempre attingono l’eredità antica che li sostiene e fonte della loro affermazione, gli Inti-Illimani: Horacio Duren Vidal, José Seves Sepulveda, Jorge Coulon Larranaga, José Miguel Camus Vargas, Horacio Salinas Alvarez cileni, e l’equatoriano Max Bernu Carriòn, che all’epoca, in età tra i 23 e 30 anni, forti dell’eredità ricevuta, rappresentarono una testa d’ariete fuori dal continente che li aveva allevati e riuscirono lì dove altri non fecero, a far sentire la voce di tutto un popolo in lotta, facendo conoscere al mondo intero la loro indignazione. Una eredità – come loro stessi affermano nell’italiano stentato di Jorge Coulon – “ … che abbiamo ricevuta dalla terra e che ci è servita per coltivare, sviluppare e difendere, senza discriminazione alcuna, la nostra dignità di esseri umani, capaci insieme di raccogliere la forza stessa che ci proviene dal suolo aspro del monte irraggiungibile, come dal vento cantore che fa suonare gli strumenti, e che ci permette di percorrere ogni strada del nostro grande paese, attraversando le frontiere, arrivando fino ai teatri delle grandi metropoli del mondo, la cui tradizione cerchiamo di riprodurre nella nostra musica e nei nostri canti, così come l’abbiamo appresa dai popoli delle alture del Perù, della Bolivia, del Chile, e di altri posti dove ci siamo recati”.
Il linguaggio strumentale degli Inti-Illimani, ora limpido e trascinante, ora patetico e commovente, sospinto com’è a recuperare l’essenza musicale dei suoni puri, di una sonorità cristallina che affascina e che quasi sgomenta, è reso tale dagli strumenti, di fattura artigianale e per questo autentici, di cui fanno uso, e che sono la quena  una sorta di flauto composto di canne di diversa misura, diffuso in tutto l’altipiano andino; il sikus o zampona, un flauto di Pan di dimensioni anche grandissime; il cuatro venezuelano simile alla chitarra; il tiple colombiano; il charango, piccola chitarra costruita con il carapace dell’armadillo; il rondador sorta di chitarra acustica; la chitarra basso. Inoltre un certo numero di percussioni come: il bombo ricavato dal tronco di un albero e la pandereta una specie di gran cassa; il cascabel e le maracas; la tinya un piccolo tamburo a barile ricoperto alle due estremità da pelli di capra, che viene suonato con le mani nude ed è assai diffuso per le sue dimensioni di facile trasporto; seguono la quijada uno strumento a percussione ricavato dalla mascella del cavallo; il rullante, la matraca ela trutruca strumento a fiato tipico dei Mapuches, indigeni del Sud del Cile ed anche il chullchu una specie di sonaglio formato da anelli metallici che si vuole derivato dalla strumentazione primitiva, risalente almeno all'epoca del ferro.
Nonostante le influenze straniere subite nel corso della storia, gli Indios degli altopiani andini hanno conservato le proprie tradizioni indigene in maniera veramente straordinaria. Motivi a ballo, canzoni, e specialmente i suoni, e ovviamente gli strumenti musicali, per quanto possano essere stati variamente modificati dagli influssi esterni (elettrificazione, computerizzazione ecc.), l'insieme è rappresentativo di un passato mai venuto meno, che  trova una costante rigenerativa nel presente. Ma è uno strumento a percussione come il citato bombo, nell'antica lingua incaica "huancar", a destare il nostro interesse etnomusicologico, e proprio perché si tratta di uno strumento a percussione, forse tra i primi strumenti utilizzati dall'uomo; si vuole che il suo suono si poteva sentire anche a una distanza di quattro chilometri, e che talvolta percosso nella giusta misura, sostituiva alle parole, non sempre presenti, quello che era il suono rimandato dall’eco della montagna.
Così come altri strumenti rimandano il grido del condor o dell'aquila lontani nel cielo terso, o anche della stessa voce umana per esprimere un sentimento, un dolore acuto dell’anima o del corpo. Suoni che, al tempo stesso, sono anche avvolgimento e coinvolgimento di quell'abbraccio di comunanza e solidarietà, che sono l'espressione nostalgica dei popoli andini. Nostalgia per il proprio paese lontano, esperienza di vita spezzata, ricordo di gioia infranta, spensieratezza di un’età che non c’è più, di quando le tradizioni avevano un senso compiuto, erano motivo di fiesta, e che sono rintracciabili ormai, nella sobrietà dei costumi: nei tessuti fantastici dei poncho, nelle intrecciature dei sombrero; negli usi cordiali e socievoli, certamente accoglienti come lo sono i "colori" (le colorature) smaglianti della musica di questi popoli.
“Quella stessa musica – ci dicono ancora – che ricavano dagli strumenti tipici, suonati in maniera tradizionale, seppure con competente e moderna enfasi, che assume talora toni delicati, talora modulazioni aspre a seconda dell’interpretazione che siano di gioia o di dolore”. Ne sono una conferma i due LP che abbiamo avuto modo di ascoltare e riascoltare: “Viva Chile” (*) e “La Nueva Cancion Chilena” (*), ancor più nei due nuovi album in preparazione dal titolo molto significativo “Canti del popolo andino”, di cui abbiamo ascoltato alcuni brani frutto di ricerca sul territorio.

Y Arriba Quemando el Sol

“Y Arriba Quemando el Sol
Cuando fui para la pampa
llevaba mi corazón contento
como un chirigüe,
pero allá se me murió,
primero perdí las plumas
y luego perdí la voz,
y arriba quemando el sol.
Cuando vide los mineros
dentro de su habitación
me dije: mejor habita
en su concha el caracol,
o a la sombra de las leyes
el refinado ladrón,
y arriba quemando el sol.
Las hileras de casuchas,
frente a frente, si, señor,
las hileras de mujeres
frente al único pilón,
cada una con su balde
y su cara de aflicción,
y arriba quemando el sol.
Fuimos a la pulpería
para comprar la ración,
veinte artículos no cuentan
la rebaja de rigor,
con la canasta vacía
volvimos a la pensión,
y arriba quemando el sol.
Zona seca de la pampa
escrito en un cartelón,
sin embargo, van y vienen
las botellas de licor,
claro que no son del pobre,
contrabando o qué sé yo,
y arriba quemando el sol.
Paso por un pueblo muerto
se me nubla el corazón,
aunque donde habita gente
la muerte es mucho peor,
enterraron la justicia,
enterraron la razón,
y arriba quemando el sol.
Si alguien dice que yo sueño
cuentos de ponderación,
digo que esto pasa en Chuqui
pero en Santa Juana es peor,
el minero ya no sabe
lo que vale su sudor,
y arriba quemando el sol.
Me volví para Santiago
sin comprender el color
con que pintan la noticia
cuando el pobre dice no,
abajo, la noche oscura,
oro, salitre y carbón,
y arriba quemando el sol”.

“Quando fui per la pampa/portava il mio cuore contento/come un chirigüe,/ma là mi fu morto,/primo persi le piume/e dopo persi la voce,/ed approda bruciando il sole./Quando vide i minatori/dentro la sua stanza/mi dissi: meglio abita/nella sua conchiglia la lumaca,/o all'ombra delle leggi/il raffinato ladro,/ed approda bruciando il sole./Le file di casupole,/di fronte a davanti, se, signore,/le file di donne/di fronte all'unico mucchio,/ognuna col suo secchio/ed il suo viso di afflizione,/ed approda bruciando il sole./Andammo alla posteria/per comprare la razione,/venti articoli non contano/il ribasso di rigore,/col cesto vuoto/ritornammo alla pensione,/ed approda bruciando il sole./Zona secca della pampa/scritto in un cartellone,/tuttavia, vanno e vengono/le bottiglie di liquore,/indubbiamente non sono del povero,/contrabbando o che cosa io sapere,/ed approda bruciando il sole./Passo per un paese morto/mi è offuscato il cuore,/benché dove abita gente/la morte è molto peggio,/seppellirono la giustizia,/seppellirono la ragione,/Se qualcuno dice che io sogno/racconti di ponderazione,/ dico che questo passa in Chuqui/ma in Santa Juana è peggiore,/il minatore non sa oramai/quello che vale il suo sudore,/ed approda bruciando il sole./Diventai per Santiago/senza comprendere il colore/con che dipingono la notizia/quando il povero dice non,/abbasso, la notte oscura,/oro, salnitro e carbone,/ed approda bruciando il sole”.

L’intervista:

N.S. – Volete raccontarci un po’ delle vostre origini?
Inti – Abbiamo iniziato come complesso (gruppo musicale) di ricerca etnologica della musica originaria della Latinoamericana e abbiamo cercato di mettere assieme il frutto delle nostre ricerche cercando per prima cosa ciò che l’accomunava, raccogliendone le espressioni più caratteristiche e trasferendole negli strumenti.
N.S. – Nel senso inglese di “catch the sound” come si fa per le lingue?
Inti – Esattamente così. Dopo di ché, durante il periodo che è seguito al nostro apprendimento,abbiamo visitato gli altri paesi del continente prendendo parte in “vivo” alle manifestazioni locali, paese per paese, venendo a contatto con numerosi esecutori spontanei, musicisti virtuosi dei singoli strumenti, cantori improvvisati e facendo lla conoscenza di altri strumenti, alcuni dei quali abbiamo poi accolti nella nostra formazione.
N.S. – Qual è il problema che più incide sulla vostra musica al momento, adesso che siete fuori dal pericolo incombente nel vostro paese?
Inti – Il problema che abbiamo incontrato e che sentiamo più forte è senz’altro l’aver interpretato la “coscienza libertaria” del nostro popolo.
N.S. – Qual è la vostra posizione di uomini e di musicisti nei confronti del vostro paese?
Inti – La radice culturale nazionale è per noi come una voce, un richiamo assai forte, di tipo ancestrale dei valori che hanno dato luogo alla nostra formazione.
N.S. – Cosa significa essere musicisti, per voi?
Inti – L’artista, sia esso musicista o altro, deve mantenersi legato alla realtà del momento in cui vive, il nostro impegno vuole essere l’espressione di un movimento sociale, pertanto tutto per noi è orientato al raggiungimento dell’impegno preso. Con noi stessi e col popolo latinoamericano
N.S. – E’ questa la posizione dell’artista, ma quale quello degli uomini?
Inti – Come uomini impegnati vuole con ciò riscattare l’uso esclusivamente commerciale di fare musica su questo impegno, perché se dovessimo fare musica per il solo scopo commerciale, magari avremmo fatto dell’altra musica, che nell’idea del nostro gruppo è sbagliata.
N.S. – Quindi, secondo voi, esiste una linea di demarcazione tra il fare musica e fare politica, quale è?
Inti – No, non esiste una separazione netta politico-musicale tuttavia il contributo artistico è a quanto pare il solo che noi possiamo dare per attivare le coscienze e accattivarci la solidarietà nazionale di cui, in questo momento il Chile ha bisogno, sia per isolare la giunta militare al potere, sia i problemi reali con cui il popolo è chiamato a confrontarsi in Chile e non solo in questo paese. Quindi tutti i mezzi di comunicazione a disposizione sono utili, compreso il canto e la musica.
N.S. – Pensate che il movimento della “Nueva Cancione Chilena” riscontri il voluto successo? Potrebbe esso, stanco di usare le voci e le chitarre, trasformarsi in un movimento violento?
Inti – Per adesso, il movimento sembra funzionare, soprattutto all’estero, in Europa ci siamo scontrati con tante realtà e correnti ideologiche diverse, tuttavia abbiamo visto riunite molte genti, accomunate dalla musica che hanno confermato la loro solidarietà. Sa, quando si tratta della libertà ci sono poche scappatoie.
N.S. – Raccontateci un fatto importante che vi è capitato.
Inti – Eravamo a New York, dopo aver ottenuto un certo successo della critica locale, quando un giornale cileno ci ha attaccato, ribadendo che noi puntiamo la strada della commercializzazione e non facevamo davvero un discorso popolare; che eravamo banditi assoldati, una sorta di mercenari al servizio di una causa non nostra. In realtà banditi lo eravamo davvero, dalla giunta militare che ci impediva di rientrare in Chile, pena il carcere duro. E a questo punto tutti sanno cosa significa.
N.S. – Quindi i vostri dischi vengono prodotti fuori del Chile?
Inti – Si, in Italia e in parte in Francia, ma i “companeros” ben sanno che il nostro dialogo con la terra non è mai venuto meno. I nostri dischi in Chile sono stati vietati e bruciate le lacche di molte nostre produzioni, così come è proibito l’uso degli strumenti che suoniamo come armi di protesta.
N.S. – Potete spiegarci perché di tutto questo, perché qui le ragioni vere sfuggono alla comunicazione; come può la musica essere strumentalizzata al pari dell’uso di armi?
Inti – No. È soltanto un pretesto, o forse una paura crescente che viene dalle forti tradizioni a cui noi ci aggrappiamo con tenacia. Ecco, forse è la tenacia con cui noi malgrado tutto suoniamo, facciamo uso degli strumenti, cantiamo le parole come invettive, le parole dei poeti della rivoluzione, forti della tradizione popolare ancora viva nel nostro paese, per cui la nostra cultura è ormai sinonimo di sovversione!
N.S. – Potete dirci qual è la vostra missione nell’ambito del movimento?
Inti – Le nostre voci sono la testimonianza di molte altre voci imbavagliate , soprattutto adesso, perché rappresentiamo un grido levato per la libertà e siamo qui per denunciare quanto avviene in Chile in questo momento, per dire quello che cerchiamo oltre alla libertà, un’altra grande parola: giustizia, e non in ultimo perché lottiamo, ovviamente per riportare l’ordine e la pace in tutto il continente. La gente deve vedere attraverso i nostri occhi i volti di coloro che sono caduti per conquistare queste e altre cose, così come quelli che oggi scontano con dignità una condanna che pretende di mettere il bavaglio al libero pensiero, tenere in prigione il passo della storia. Siamo la voce di migliaia di gole tagliate, di speranze troncate, di mani che non suoneranno più una chitarra, di migliaia di occhi che non vedranno la luce, di labbra che non baceranno il futuro dei figli.
N.S. – Un fine unico dunque, propenso alla causa rivoluzionaria, qualunque essa sia?
Inti – Indubbiamente, quale mezzo universale di lotta e unico fine, affinché tutto il mondo si levi in un unico canto contro la repressione dei popoli, di tutti i popoli senza distinzione di razza. Pertanto è con fervore e commozione che chiediamo di farvi partecipi nel momento del bisogno, di levare alti i vessilli di pace e di fratellanza ovunque ce ne sia bisogno.

N.S. – Nell’apprezzamento del vostro messaggio, vi diciamo grazie per il costante restituirci, con la vostra musica, momenti di pieno coinvolgimento.

En Libertà

“Quisiera tener alas para volar,
para volar,
quisiera tener alas para volar,
quisiera tener alas para volar.
Para volar
cruzar por el espacio en libertad
cruzar por el espacio en libertad.
En libertad, como los pajarillos
en libertad
que nadie me pregunte: ¿a dónde vas?
Camino sin fronteras quisiera ser,
quisiera ser,
camino sin fronteras quisiera ser,
camino sin fronteras quisiera ser.
Quisiera ser,
sin prisa ni motivo para volver
sin prisa ni motivo para volver.
En libertad, como los pajarillos,
en libertad,
que nadie me pregunte: ¿a dónde vas?
Quisiera ser espuma y ola en el mar,
ola en el mar,
quisiera ser espuma y ola en el mar,
quisiera ser espuma y ola en el mar.
Ola en el mar
que llega hasta la orilla y vuelve atrás
que llega hasta la orilla y vuelve atrás.
En libertad, como los pajarillos,
en libertad.
Que nadie me pregunte: ¿a dónde vas?
Un beso cada día al despertar,
al despertar,
un beso cada día al despertar,
un beso cada día al despertar.
al despertar,
de labios que te dejen en libertad
de labios que te dejen en libertad.
En libertad, como los pajarillos,
en libertad.
Que nadie me pregunte: ¿a dónde vas?”.

“Volesse avere ali per volare,/per volare,/volesse avere ali per volare,/volesse avere ali per volare./ Per volare/attraversare per lo spazio in libertà/attraversare per lo spazio in libertà./In libertà, come i pajarillos/in libertà/che nessuno mi domandi: a dove vai?/Cammino senza frontiere volesse essere,/
volesse essere,/cammino senza frontiere volesse essere,/cammino senza frontiere volesse essere./Volesse essere,/senza fretta né motivo per ritornare/senza fretta né motivo per ritornare./In libertà, come i pajarillos,/in libertà,/che nessuno mi domandi: a dove vai?/Volesse essere schiuma ed onda nel mare,/onda nel mare,/volesse essere schiuma ed onda nel mare,/volesse essere schiuma ed onda nel mare./Onda nel mare/che arriva fino al bordo e ritorna dietro/che arriva fino al bordo e ritorna dietro./In libertà, come i pajarillos,/in libertà./Che nessuno mi domandi: a dove vai?/Un bacio ciascuno giorno al risveglio,/al risveglio,/un bacio ciascuno giorno al risveglio,/un bacio ciascuno giorno al risveglio./al risveglio,/di labbra che ti lascino in libertà/di labbra che ti lascino in libertà./In libertà, come i pajarillos,/in libertà./Che nessuno mi domandi: dove vai?”.

Venceremos

“Desde el hondo crisol de la patria
se levanta el clamor popular,
ya se anuncia la nueva alborada,
todo Chile comienza a cantar.
Recordando al soldado valiente
cuyo ejemplo lo hiciera inmortal,
enfrentemos primero a la muerte,
traicionar a la patria jamás.
Venceremos, venceremos,
mil cadenas habrá que romper,
venceremos, venceremos,
la miseria (al fascismo) sabremos vencer.
Campesinos, soldados, mineros,
la mujer de la patria también,
estudiantes, empleados y obreros,
cumpliremos con nuestro deber.
Sembraremos las tierras de gloria,
socialista será el porvenir,
todos juntos haremos la historia,
a cumplir, a cumplir, a cumplir”.

“Dal profondo crogiolo della patria/si alza il clamore popolare,/si annuncia già la nuova alba,/tutto il Cile comincia a cantare./Ricordando al soldato coraggioso/il cui esempio gli facesse immortale,/affrontiamo in primo luogo alla morte,/tradire mai alla patria./Vinceremo, vinceremo,/mille catene avrà rompere,/vinceremo, vinceremo,/
la miseria, al fascismo, sapremo vincere./Contadini, soldati, minatori,/la donna della patria anche,/studenti, impiegati ed operai,/compieremo il nostro dovere./ Semineremo le terre di gloria,/socialista sarà il futuro,/tutti faremo insieme la storia,/
a compiere, a compiere, a compiere".

È il caso di dire che l’attualità del nostro tempo non ci risparmia niente e dovremmo far nostre le parole, le frasi, le canzoni che hanno ispirato la Nueva Canción Chilena e ripeterle a gran voce dagli spalti e dalle barricate alzate in ogni città dove la LIBERTA’ è negata, dove la GIUSTIZIA ha valore relativo solo per chi non ha potere, per chi ha ancora fiato in gola per chiedere SOLIDARIETA’, e che invece dovrebbe pretendere di diritto ciò per cui ha combattuto per 2011 anni per la propria sopravvivenza, investendo in una società più civile e più democratica, al riparo delle guerre e delle sopraffazioni, di quella in cui ci troviamo a vivere. Io ci ho creduto e credo che ancora sia possibile. E se così non fosse, non me ne farò mai una ragione. Dicono i versi di una canzone degli Inti-Illimani che è insieme vessillo, inno, incitamento …

“El pueblo unido camà serà vencido! ...”.


Discografia Inti-Illimani:

“A la revolución mexicana” -1969
“Inti-Illimani” - 1969
“Si somos americanos” -1969
“Canto al Programa” - 1970
“Inti-Illimani” - 1970
“Autores chilenos” - 1971
“Canto para una semilla” Inti-Illimani + Isabel Parra + Carmen Bunster - 1972
“Canto de pueblos andinos”- 1973
“Viva Chile” - 1973
“La Nueva Canción Chilena” - 1974
“Canto de pueblos andinos 1” - 1975
“Hacia la Libertad” - 1975
“Canto de pueblos andinos 2” - 1976
“Chile resistencia” - 1977
“Canto para una semilla” - Inti-Illimani + Isabel Parra + Marés González - 1978
“Canto per un seme” - Inti-Illimani + Isabel Parra + Edmonda Aldini - 1978
“Canción para matar una culebra” - 1979
“Gracias a la vida” - (Jag vill tacka livet) Inti-Illimani +Arja Saijonmaa - 1980
“Inti-Illimani en directo” - 1980
“Palimpsesto” - 1981
“Con la razón y la fuerza” - Inti-Illimani con Patricio Manns - 1982
“The flight of the condor” - 1982
“Imaginación” - 1984
“Return of the condor” - 1984
“Sing to me the dream” - Inti-Illimani + Holly Near - 1984
« Chant pour une semence » - Inti-Illimani + Isabel Parra + Francesca Solleville - 1985
“De canto y baile” - 1986
“La muerte no va conmigo” - Inti-Illimani con Patricio Manns - 1986
“Fragmentos de un sueño” - 1987
“Leyenda” - 1990
“Conciertos Italia'92” - 1992
“Andadas” - 1993]
“Arriesgaré la piel” - 1996
“En el Monumental” - 1997
“Amar de nuevo” - 1998
“Lejanía” - 1998
“Inti-Illimani performs Víctor Jara” - 1999
“Inti-Illimani sinfónico” - 1999
“La Rosa de los Vientos” - 1999
“Antología en vivo” - 2001
“Lugares comunes” - 2002
“Viva Italia” - 2003
“Pequeño mundo” - 2006
“Música en la Memoria - Juntos en Chile” - 2006
“Antología en vivo” - 2006
“Esencial “ - 2006
“Meridiano” - Francesca Gagnon & Inti-Illimani - 2010
“Travesura” - 2010

Singles:

“Fiesta del domingo” - Quilapayún & Inti-Illimani - 1972
“De fútbol y paz” - 2005

Colectivos:

“X la CUT” - 1968
“Voz para el camino” - 1969
“Chile Pueblo (en el 2º Año del Gobierno Popular) - 1972
“No volveremos atrás” - 1973
“Primer festival internacional de la Canción Popular” - 1973
“Folklore internacional” – 1973
“Politische Lieder” - 1973
“Koncert für Chile” – 1974
“4. Festival des politischen Liedes” - 1974
“Compañero presidente” - 1975
“Canto a la revolución de Octubre” - 1978
“Desde Chile resistimos” - 1978
“A concert for Chile” - 1978
“13. Festival des politischen Liedes” - 1983
“Tercer festival de la Nueva Canción Latinoamericana” – 1984
“Vorwärts, nicht vergessen solidarität! ” - 1985
“Tributo ad Augusto” (Nomadi) - 1995
“Todas las voces todas 1” - 1996
“Todas las voces todas 2” - 1996
“Konzert für Víctor Jara” - 1999
“Prima della pioggia - Sila in festa” - 2002
“Canto por el cambio” - 2004
“Música en la Memoria - Juntos en Chile” - Quilapayún - Carrasco & Inti-Illimani 2005

Colaboraciones:

“Iquique” - Pepe Ortega - 1969
“Canto libre” - Víctor Jara - 1970
“El derecho de vivir en paz” - Víctor Jara - 1971
“Tiempos que cambian” - Víctor Jara - 1974
“Barricadas” - Santiago del Nuevo Extremo - 1985
“Íntimo” - Max Berrú - 2004
“Cantando como yo canto. INTImo 2” - Max Berrú - 2010


*

- Letteratura

Charles Bukowski: uno sporco blues di città

CHARLES BUKOWSKI: UNO SPORCO BLUES DI CITTA’ – di Giorgio Mancinelli.


Scheda biografica:

Nasce il 16 agosto 1920 ad Andernach in Germania. Trasmigra in America. Risiede un po’ ovunque nelle grandi metropoli americane. Le uniche Università che frequenta sono numerose cliniche e case di prostituzione dalle quali riceve molti riconoscimenti e Academy Prize: piattole, botte e ammaccature in risse, arresti per alcolismo, schiamazzi notturni e relativo disturbo della quiete pubblica, e per aver abusato violenza nei confronti delle donne. Fa diversi lavori: impiegato alle poste a Los Angeles, sguattero e uomo di fatica a Las Vegas, inserviente a New Orleans, pulitore a New York (New-York). Diventa (non si sa come) scrittore su diversi settimanali e riviste dell’underground americano. Alcuni suoi racconti (short stories) sono pubblicati su molte riviste e tradotti in varie lingue. Ha scritto sei romanzi, centinaia di racconti e migliaia di poesie, per un totale di oltre sessanta libri. Il contenuto di questi tratta della sua vita, caratterizzata da un rapporto morboso con l'alcol, costellata da frequentissime esperienze sessuali, da rapporti tempestosi con le persone. Una vita dedita inoltre alle scommesse ippiche, all'ozio e all'autodistruzione. Muore a San Pedro, il 9 marzo 1994, e lascia una figlia di non so quanti anni (e chissà quanti altri figli sparsi in giro per l’America e non solo).

Dove, come, quando, perché leggere e ascoltare Bukowski:

A scuola: molti studenti ascoltano e si raccontano la cronistoria delle sue erezioni ed eiaculazioni direttamente dalla sua voce su invito delle università, il che porta a pensare che i professori sono tutti possibili Bukowski.
Al Centro Culturale ci sono tutti i suoi libri (non ci sono invece alla Biblioteca Nazionale).
Una sana lettura?: «Fac-totum».
Una lettura insana?: William Burroughs dei «Ragazzi selvaggi».
Radio Bremen ha riconosciuto in lui l’uso della lingua appartenente alla bassa plebe americana dei sobborghi, che usa il linguaggio degli ubriachi, dei drogati e delle prostitute.
Realizzazione di programmi di lettura e recital nelle Radio e TV private (mentre la televisioni ufficiali si tirano le seghe).
Il Kammerspiel Theatre di Frankfurt e Radio Berlino realizzano uno speciale dedicato allo scrittore dal titolo: “Hello. It’s good to be back” ovvero “quarantadue orgasmi circondati dal silenzio”, (la definizione è di Beniamino Placido), che raccoglie le esperienze sessuali di un’esibizionista. Poesie, conosciute e non, tratte da “L’amore è un cane che viene dall’Inferno” e da “Storie di ordinaria follia”.

Dove trovare la raccolta in LP delle poesie di un esibizionista del rigetto americano, apparso sul mercato d’importazione. L’album contiene 21 testi tra poesie e short-stories dette da Charles Bukowski, registrato dal vivo all’Hamburger Markthalle edito da Zweitausendeins prenotabile presso: Zweitausendeins-Postfack 710 249, D-6000 – Frankfurt am Main 71 – Germany.

Bibliografia: (in italiano)
“L’amore è un cane che viene dall’inferno” – Savelli.
“Storie di ordinaria follia” – Feltrinelli
“Factotum” – SugarCo 1975
“Compagno di sbronze” - Feltrinelli
“A sud di nessun nord” – SugarCo
“Donne” – (Women, 1978) SugarCo 1980.
“Post Office” – SugarCo 1971.
“Storie di una vita sepolta” – SugarCo
“Panino al prosciutto” (Ham on Rye,) Guanda 2000.
“Hollywood, Hollywood! (Hollywood, 1989), Feltrinelli 1990.
“Pulp. Una storia del XX secolo (Pulp, 1994) Feltrinelli 1995.

Poesia:
“Poesie” (raccolta di 23 poesie a cura di Vincenzo Mantovani tutte già pubblicate e tradotte nella precedente raccolta "Poesie (1955-1973)"), Mondadori 1996.
“Los Angeles 462-0614”, Poesie. Introduzione di Giorgio Mariani ; postfazione di Alex MacQuarrie. (raccolta di poesie tratte da "Love is a dog from hell") - Savelli , 1982.
“Tutto il giorno alle corse dei cavalli e tutta la notte alla macchina da scrivere (You Get So Alone at Times That It Just Makes Sense”, Minimum fax 1999.
“Notte imbecille (prima parte di The roominghouse madrigals: early selected poems 1946-1966, SugarCo Edizioni 1993.
“Non c'è niente da ridere” (seconda di The roominghouse madrigals: early selected poems 1946-1966, SugarCo Edizioni 1996.
“Nato per rubare rose” (terza parte di The roominghouse madrigals: early selected poems 1946-1966, SugarCo Edizioni 1997.
“Le poesie dell'ultima notte della Terra (Last Night of the Earth Poems, , Minimum Fax 2004, cofanetto che raccoglie quattro volumi.

Teatro:
“Bukowski amore mio” (?)
“Racconti sparsi” – short stories apparse su “il Male”, (non li avete letti?).

Altro:
“Shakespeare non l'ha mai fatto” (Shakespeare Never Did This 1979) (diario di viaggio) Feltrinelli 1996.
“L'ubriacone” (sceneggiatura del film Barfly) SugarCo 1991
“Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle”. Fernanda Pivano intervista Charles Bukowski, Feltrinelli 1997.
“Il Capitano è fuori a pranzo” (The Captain Is Out to Lunch and the Sailors Have Taken Over the Ship, 1998) (diario con illustrazioni di Robert Crumb) Feltrinelli 2000.
“Urla dal balcone. Lettere”, Volume primo (1959-1969) (Screams from the Balcony e Living on Luck), Minimum fax 2000.
“Birra Fagioli, crackers e sigarette”. Lettere, Volume secondo (1970-1979) (Living on Luck e Reach for the Sun), Minimum fax 2001.

Ma perché cercare Bukowski in qualche altro posto che non è il suo e dove in fin dei conti non potrebbe stare? Cerchiamolo piuttosto fra le pareti di casa. Bukowski sta lì tra le pagine dei suoi racconti e nelle sue poesie che non volete sentire, che vi vergognate di leggere.

Charles Bukowski è …

Attore e regista di se stesso che scrive ciò che anche altri dicono seppure in maniera diversa. È Bunuel delle situazioni grottesche de “Il fascino discreto della borghesia” ma anche del “Fantasma della libertà”. È Bertolucci/Brando di “Ultimo tango a Parigi”, è … ma è anche e soprattutto l’eroe di “Midnight Cow-boy” di John Sclesinger, Henry Miller, Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, predecessori e contemporanei sono tutti in lui. Tutti portano – per dirla con lui: “l’impronta del cazzo di Dio”, la natura animalesca degli istinti. “Il messaggio – ha detto Ginsberg – è allargare l’area della coscienza”. Ed è su questo fronte che Bukowski affronta con risolutezza la convenzionalità per uno scontro incondizionato con se stesso. Anziché reprimere il suo egoismo Bukowski lo coltiva. Il suo io mantiene confini e demarcazioni ben precise: non vuole come per i beat, fondersi col mondo. “Bukowski non va – sulla strada – il suo punto di osservazione preferito del mondo è la finestra di una stanza – (ha detto preferibilmente). Nelle sue poesie celebra il trionfo del privato, certamente di un privato anarchico e forse dissacrante dei valori borghesi”, annotano Paola Ludovici e Giorgio Mariani. In questo modo Bukowski si fa partecipe della corsa alla vita, a modo suo logicamente. Vive alla giornata: “… una doccia se riesce a farsela; una donna se riesce a trovarsela. E questo vivere alla giornata cos’è se non lo stoicismo – predicato anche se non praticato – da Hemingway (uno scrittore che a Bukowski piace tanto), ultima risorsa in un mondo in cui non c’è più niente di sacro”, (come nota B. Placido). Ma … “E fuori dalla finestra, la desolazione, la desolazione e il terrore, l’angoscia e il fallimento: un carico di facce, facce orribili di puttane, orangutan, bastardi, pazzi, killer? Tutti miei maestri – c’è solo il sole a farli sentire bene ma bisogna prendere quel che capita”. (C. Bukowski).

Dicono di lui: (gli americani)

Per Bukowski Topolino è un nazista.
Ha fatto il pagliaccio alla fagiolata di Barney.
Bukowski porta le mutande nere.
Si pulisce il culo con la carta da pacchi.
Ha fatto la figura del somaro alla tavernetta di Shelly.
È geloso di Ginsberg.
Bukowski non ha fatto la guerra (del Viet-Nam).
È invidioso della Cadillac modello ’69.
Non capisce Rimbaud.
Bukowski è solo un vecchio sporcaccione.
È dal 1963 che non scrive una poesia decente.
Presto vedremo una sua statua al Cremlino che si spara una sega.
Bukowski e Castro gruppo statuario ai giardini pubblici dell’Havana coperto di cacca di uccelli.
Bukowski e Castro in tandem che pedalano verso la vittoria, Bukowski dietro.
Bukowski che frusta una mulatta di 19 anni con un frustino da domatore, una mulatta dall’enorme seno, una mulatta che legge Rimbaud.
Bukowski cucù nel salotto del mondo si domanda chi avrà spento la fortuna.
Bukowski odia Babbo Natale.
Bukowski intaglia figurine deformi nella gomma da cancellare.
Bukowski sarà morto fra 5 anni.
È un fatto che quando l’acqua sgocciola Bukowski piange, quando Bukowski piange l’acqua sgocciola.

Un suo scritto: (elaborazione)

Oh sancta sanctorum, oh fontane zampillanti, oh zampilli di sperma, oh gran bruttezza dell’uomo dovunque come stronzo di cane che calpesti al mattino avendolo visto un’altra volta, oh possente Polizia, oh armi potentissime, oh potente dittatore, oh dannati imbecilli che siete dovunque, oh la povera piovra solitaria, oh il ticchettio delle lancette che ci trafigge tutti, tutti equilibrati e squilibrati, santi e stitici, oh barboni, oh vagabondi che siete nei vicoli di miseria d’un mondo dorato, oh i figli che diventeranno brutti, oh i brutti che imbruttiranno ancora, oh la tristezza e le sciabole e le pareti che si rinchiudono in niente babbo Natale, niente Sorcetta, niente Bacchetta Magica, niente Cenerentola, niente Grandi Maestri d’Ogni Tempo – cucù – solo dottori senza pazienti, solo nubi senza pioggia, giorni senza giorni, oh Dio onnipotente che ci hai dato tutto questo.

In esso si evidenzia la sonorità delle parole e delle frasi che ovviamente nella lingua originale, l’inglese, suona diversamente. La traduzione qui riportata sottolinea solo le possibili connessioni che intercorrono tra una frase e l’altra in chiave onomatopeica, che ridimensiona “l’insieme” a un non-sense, mentre a suo modo la liricità di Bukowski ha un senso proprio nella sua non-dimensione.

Scheda di inibizione musicale:

“Bukowski pianse quando Judy Garland cantò al Philarmonic di New York e allo stesso modo pianse quando Shirley Temple cantò “I got animal crackers in my soup”. Bukowski ha pianto … ma sta attento a dove vomita e non l’ho mai visto pisciare sul pavimento”.

“Ti va di sentire qualcosa di Lenny Bruce? No, grazie. Ginsberg? No, no. Lui, deve sempre tenere acceso il registratore, oppure il giradischi, senza requie. Alla fine mi propina Johnny Cash che canta ai carcerati nella prigione di Folson. Mi sa tanto che Johnny gli propini fregnacce ai detenuti, come Bob Hope quando racconta barzellette ai soldati in Vietnam per Natale. Io la penso così. I carcerati applaudono invece, certo li hanno fatti uscire dalle celle, vanno in visibilio. Ma a me fa l’effetto come se gettassero ossa spolpate, anziché biscotti, agli affamati e ai rinchiusi. Non ci trovo nulla di santo, nulla di eroico. C’è soltanto una cosa da fare per i carcerati: farli uscire. C’è da fare una cosa sola per i combattenti: fermare la guerra”.

“Suona il blues: “ ..hai bisogno d’amore, hai bisogno d’amore”; era tutto ok e non gliene fregava più niente se qualcuno gli avesse suonato il blues oppure no. Satchmo, vai a casa. Shostakovitch, con la tua Quinta lascia perdere. Peter Ill.Chike, visto che avevi sposato una soprano pazza con le borse sotto gli occhi e per di più lesbica, e che poi non eri neppure uomo, lascia perdere. Ci siamo fatti tentare tutti dal fuoco e abbiamo fallito tutti come leccaculi, artisti, pittori, medici, magnaccia, parà, lavapiatti, dentisti, trapezisti e raccoglitori di pere. Ognuno inchiodato alla sua croce personale.
Suona il blues: “ ..hai bisogno d’amore, hai bisogno d’amore”.”

“Bukowski ama Mahler ma nessuno saprà mai, perché?”
“Bukowski commosso da Judy Garland, quando ormai era tardi per tutti”.

Scheda delle fobie clinico - psichiatriche:

Ricoverato in seguito a un’emorragia addominale, rimane tra la vita e la morte per alcuni giorni. In seguito a un miglioramento delle condizioni generali, viene dimesso ma continua a soffrire di emorroidi e di vomito continuo a causa dell’uso smodato che fa di alcol e di fumo (nota di Carlo A. Corsi). Gli si riconosce una forma acuta di alienazione da strutturalismo, convenzionalità, burocrazia, sentimentalismo, rapporti famigliari, un’accertata allergia alla politica americana e alla politica in genere, alle femministe e gli omosessuali.

Bukowski è pieno di terrori incondizionati.
Bukowski ha paura delle donne.
Bukowski odia i vocabolari, le monache, le monete, gli autobus, le chiese, le panchine del parco, i ragni, le mosche, le pulci e i depravati.
Bukowski ha lo stomaco in cattivo arnese, si ciba di alcol e di sesso, pensa al sesso, fa sesso, si svena di sesso, parla e scrive di sesso: insomma, Bukowski è il sesso”.

Diagnosi conclusiva: Bukowski è un cadavere sulle ruote che il consumo dell’alcol presto ucciderà.

Scheda antropologica:

Charles Bukowski appartiene a quella folla di maniaci sessuali, spesso falliti per scelta e nevrotici, nonché emarginati dalla società, di cui le grandi metropoli sono sovraccariche. Appartiene di fatto a quella generazione di dissociati (amorali, apolitici, atei) che nel riconoscere una realtà diversa, riescono a cogliere differenze che sconvolgono e rimettono in discussione la cultura e l’organizzazione sociale. E che ribaltano, per così dire, l’impianto dell’ipocrisia morale dettata dalle convenzioni. Contrassegno del rigetto di una società politicamente e tecnologicamente avanzata. In questo caso la società americana nel suo insieme, che suona quasi come una presa di coscienza. Recupero della primitiva (ancestrale) libertà? Forse più semplicemente, riappropriazione non mistificata della storia e della cultura proprie dell’uomo? Riaffermazione di una più vera identità naturalistica (aborigena), che permetta di comprendere meglio e in modo più profondo, il senso di una identità che sfugge? O recupero della naturale animalità intrinseca nell’uomo?

“Se Bukowski fosse una scimmia, probabilmente lo caccerebbero via dalla tribù” – è stato scritto di lui. Ma, ad un esame sociologico e antropologico del fenomeno, attento a definire il soggetto Charles Bukowski, egli fuoriesce dalle cavità dell’underground di un’America neandertaliana, fosca, raucedinosa, violenta, ubriaca di democrazia, fallita, che misconosce per quali vie sotterranee si siano formate certe peculiarità e certi atteggiamenti, mentre era favolisticamente trasportata dal “sogno americano”. Indubbiamente è successo qualcosa se dalla “beat generation” hanno preso fuoco Marcuse e Orwell, Ginsberg e Kerouac; se si sono scatenate le bande dell’ “Arancia Meccanica”, de “I guerriglieri della notte” e i più pacifici ragazzi di “Hair”, i cosiddetti “figli dei fiori”. Improvvisamente la macchina dell’ingranaggio sociale deve non aver funzionato, “l’arancia a orologeria” non ha segnato il tempo record della corsa, qualcuno avrebbe dovuto fermarla, perché in fondo non è giusto che qualcuno resti indietro. Se c’è una corsa in atto la si deve poter correre tutti insieme e non importa chi arriva primo o ultimo, “l’importante è partecipare”. Salvo ad accorgersi che l’arancia usata da Bukowski è quella universalmente riconosciuta valida è quella della poesia. Un’arancia a orologeria che esplode solo a guardarla, accusatoria, sprezzante delle istituzioni, mai compiaciuta, che lascia intravedere con orrore, raccapriccio, divertimento caustico, l’ansia e l’angoscia di quell’io diverso, che pure s’aggira nascosto in tutti noi. In quell’io che bestemmia quando deve fare la fila, che s’incazza in ufficio di giorno, che non dorme la notte perché il pupo piange, che si alza insoddisfatto dal letto di sventura con la moglie che non lo soddisfa (o che non è soddisfatta), che si chiude nel cesso a farsi le seghe, che deve tener conto delle scadenze, dei codici, delle riunioni di condominio, dei referendum per cazzate come l’aborto e il divorzio, e che invece si scoperebbe la ragazzina sull’autobus o la segretaria del direttore dentro lo sgabuzzino delle pulizie. Quell’io spermatozoico e insofferente delle serate passate davanti alla televisione, quando vorrebbe rincorrere le puttane in giro per la città e schiaffarglielo nel culo.

Hanno scritto di lui:

“Pornografia e oscenità in letteratura” – Die Horen
“Prosit alla nostra cultura” – Deutsche Nationalzeitung
“L’unico vero poeta della nostra era” – Le Matin
“Il Baudelaire con la Polaroid” – Le Point
“Il Majakovskij del Pacifico” – Le Monde
“Un nuovo caso letterario americano” – La Repubblica
“Una leggenda vivente, un oggetto di culto” – Der Stern
“Una prostituta affettuosa” – Die Welt
“Uno scrittore tra i più pornografici di oggi” – Munchner Merkur
“Uno dei più grandi poeti della generazione attuale” – Los Angeles Times
“Freddo e cinico, dall’umore secco, fatiscente” – Rolling Stones

Scheda li libidine letteraria e di coito repentino:

(brano tratto da “Storie di ordinaria follia”)
“C’era tutta quella paglia nel granaio. Che bello, che pacchia. Comunque sia, salimmo sul fienile, ci spogliammo. Eccoci nudi come pecore tosare, tremanti, e la paglia ci pungeva la pelle come aghi. Diavolo, era come si legge nei vecchi romanzi, perdio, e non era mica un sogno! Glielo ficcai su. Che bello. Cavalcavo che era una bellezza quando tutto a un tratto, fu come se un esercito nemico avesse fatto irruzione nella stalla. Basta! Basta! Lascia quella donna! Smonta giù immediatamente! Togli subito la nerchia via di la! Smetti subito bestiaccia! Tiralo fuori prima che viene o ti partono le palle! Io accelerai invece, ma fu inutile. Erano in quattro. Mi staccarono, mi ribaltarono sulla schiena. Dio bono nipotente! Varda la quell’affare! Tutto rosso peperino! Paonazzo rosso come un giaggiolo! Lungo quanto un braccio d’uomo! Gigantesco! Fremente! Tutto brutto! La facciamo una mattata? Può darsi che ci giochiamo il posto. Può anche darsi che ne valga la pena”.

(da “Compagno di sbronze”)
“Lo so, tutto cominciò con Kafka (..) che cos’è? guardo la foto, è proprio un cazzo. Che genere di cazzo? Un cazzo duro, enorme. È il mio. E allora? Non hai notato? Cosa? Lo sperma. Già, vedo, non volevo dirlo … E perché no? Cos’è che ti succede? Non capisco. Fammi capire, lo sperma lo vedi oppure no? Spiegati meglio, ma insomma, mi sto facendo una sega. Non capisci com’è difficile farsene una? Non è affatto difficile, io me le faccio con lo spago. Ti rendi conto che razza di acrobazia ho fatto? Per restare immobile, per evitare di andare fuori fuoco, eiaculare e premere il pulsante contemporaneamente? Non fare le fotografie (..) Bada bene, capisci o no che mi ci sono voluti tre giorni per fare questa semplice fotografia? Lo sai quante seghe sono stato costretto a farmi? Quattro? Dieci!”.


CHARLES BUKOWSKI: GENIO O BARBONE? – di Giorgio Mancinelli.

Articolo pubblicato in “Audio Review” n.(?)

Il nuovo poeta “maledetto”, salito dalla strada alla cronaca letteraria, tiene molto occupati i grandi dell’editoria mondiale che si contendono i diritti di pubblicazione delle sue “eiaculazioni grafomane”. Le migliori case discografiche pretendono di mettere in microsolco le sue sporadiche prestazioni davanti ai microfoni. L’operazione riesce alla discografia tedesca con un LP che ha suscitato non poco scalpore. I registi cinematografici e di teatro gli riconoscono un carisma a dir poco devastante e fanno a gara per accaparrarsi l’esclusiva delle sue opere, sebbene il film di Marco Ferreri, uscito di recente, abbia conseguito un risultato mediocre col ricalcare soltanto i fatti sporadici dell’esistenza dell’autore e poco delle sue opere letterarie. Genio o barbone, Charles Bukowski è qui messo a nudo in un graffiante e irreverente ritratto che sembra scaturito proprio dalla sua penna, il poeta ha rilasciato la seguente intervista (si fa per dire) successivamente al “concerto” tenutosi all’Hamburger Markathalle il 18 maggio 1978.

C’era un pianoforte a coda sul palcoscenico e lui, Charles Bukowski, era stato invitato per tenere un Concerto. Sì, avete capito bene, un Con-cer-to! di musica e poesia, anzi, certamente di qualcosa che doveva assomigliare alla poesia accompagnata dalla musica, anche se non si capiva chi mai avrebbe suonato quel piano, dove il poeta ubriaco da due giorni di bevute continuate, entrando ci si è avvicinato, ha alzato il coperchio e ci ha vomitato dentro. Quindi ha guardato il pubblico con deferenza, certo che ce l’avrebbe fatta, ha abbassato il coperchio del pianoforte e ha incominciato a leggere. Com’era prevedibile, più che recitare la sua poesia si è limitato a leggere alcune pagine (fogli) tratte dai suoi libri, intervallate da ricordi, e chiacchierate ricche di pause di riflessione che non portavano a niente. E che, a un certo momento, gli sono cadute dalle mani spargendosi sul tavolato del palcoscenico. Al che non ha fatto una piega, si è semplicemente guardato intorno, mentre gli inservienti toglievano le corde del piano e lavavano l’interno dello sporco che l’aveva imbrattato, e ha ripreso la sua “solitaria” affabulazione. Dire che non capiva niente di quanto diceva, tra colpi di tosse scatarrate e bofonchiamenti, è dire forse troppo. Ma se si pensa che a un certo momento sembrò a tutti che russasse all’impiedi come fanno i cavalli da tiro, forse si capisce il tono del fatidico “concerto”.

Rimetto dunque a Carlo A. Corsi il giudizio sulla sua opera poetica, come è apparso in una recente presentazione del suo ultimo libro.

Charles Bukowski più che fare poesia si esprime in forma di germinazione poetica: “paragonabile per potenza iconica al fenomeno artistico dell’iperrealismo, di una realtà mostruosamente aleatoria e al tempo stesso ripetitiva come quella dell’urbanesimo statunitense; in particolare, di una città come Los Angeles, dove la frantumazione del paesaggio ha raggiunto livelli finora sconosciuti”.

L’intervista.

Si riconosce un grande poeta?
Gli chiedo mescolandomi ai tanti intervistatori intervenuti, quando già era alle prese con una bottiglia di Whisky ridotta a metà. Pertanto le risposte qui riportate non sono il frutto di un discorso continuativo, bensì raccolte, anzi strappate e ricucite, nella confusione generale.

“Ricordo un’affermazione di Whitman che diceva: per avere grandi poeti c’è bisogno di un grande pubblico..” – ma credo che la frase doveva suonare così: “per avere un grande pubblico c’è bisogno di grandi poeti”.

In quale tipo di poeta si riconosce?

“Tutte le mie poesie non servono a niente. Le donne che ho scopato non servono a niente. Le donne che non ho scopato non sono servite sicuramente a niente. Dio, ma perché? Ho bisogno di qualcuno che mi suoni il blues! … qualcuno che mi dica, capisco amico, adesso prendi su e muori”.

Pensa spesso alla morte?

“No, ma è la vita che rende matti … e stupidi per giunta. Il mondo è ben strano, abbiamo tutto ma è come se non avessimo niente”.

Qualche volta le capita di guardarsi all’indietro? Come si vede?

“Si, talvolta ripenso a New York. Partii da lì e non ci tornai mai più, non ci tornerò più. Le grandi città sono fatte per uccidere la gente … ci sono delle città fortunate e altre meno, soprattutto quest’ultime. Ricordo la “L” passava accanto alla mia finestra. Il treno illuminava tutta la stanza e io guardavo un carico di facce, erano facce orribili … la razza umana mi ha sempre disgustato … Ciò che, in sostanza, me la rende disgustosa è la malattia dei rapporti famigliari, il che include il matrimonio, lo scambio di poteri e aiuti, cosa che è per me come una piaga, una lebbra … tutti quanti che s’abbrancano stronzamente gli uni agli altri, nell’alveare della sopravvivenza, per paura credo … e stupidità animalesca. Poi viene il tuo vicino di casa, il tuo quartiere, la tua città, la tua contea, la tua patria … tutta la nostra vita con le sue cadute e i suoi singhiozzi … C’è solo il sole a farti sentire bene, ma bisogna prendere quel che capita”.

Con quale spirito affronta la società degli intellettuali?

“Ho conosciuto troppi intellettuali di recente. Mi annoiano a morte quegli intellettuali preziosi che devono dire diamanti ogni volta che aprono bocca … mi annoio a dover lottare per ogni alito di vento che faccia respirare la mente. È questa la ragione perché mi sono tenuto lontano dalla gente per così tanto tempo e, adesso, che vado in società, scopro che devo tornare nella mia caverna. Ci sono altre cose oltre alla mente … che so, gli insetti, i palmizi, i macinini da pepe, e io terrò con me un macinino da pepe nella mia caverna, così allegria!”.

Come vede il suo futuro?

“Ci riempiamo la bocca di parole che non hanno senso, io metto insieme vecchi proverbi mentre me ne vado in giro come uno straccione, e non penso a niente, il vuoto, secondo cui la conoscenza che non viene seguita dall’azione è peggio dell’ignoranza … anche perché se tiri a indovinare e non ci prendi, puoi sempre dire: merda, gli déi mi sono avversi! Ma se sai e non fai, vuol dire che in testa hai soffitte e anticamere buie da percorrere avanti e indietro a cui pensare … non è per niente una cosa sana da fare, produce serate noiose, per me un eccesso di alcol e seghe”.

C’è qualcosa che vuole dire, che può essere d’insegnamento?

“Se sei capace di amare, ama prima te stesso … ma tieni sempre presente la possibilità che puoi perdere tutto, sia che il motivo della sconfitta ti sembri giusto o no. Un assaggio prematuro di quello che sarà la morte non è necessariamente un male. La solitudine è così grande in questo mondo che la puoi vedere nel lento movimento delle lancette dell’orologio … gente così stanca, mutilata o dall’amore o dalla sua mancanza. Il fatto è che gente non è buona con gli altri, con ognuno, intendo. I ricchi non sono buoni coi ricchi, altrettanto i poveri non sono buoni con quelli più poveri di loro. Abbiamo paura. La scuola d’ogni ordine e grado ci dice che possiamo diventare tutti pezzi grossi, ma non ci dice niente di come si tocca il fondo o si diventa suicidi … o dell’angoscia di una persona che soffre in qualche posto da sola … senza essere sfiorata … senza che nessuno le parli. No la gente non è buona con gli altri, è più quella che si odia che si ama, se lo fosse, la morte non sarebbe così triste”.

Al dunque è tornato a parlare di morte, le fa così paura?

“Ritengo la morte una gran noia, la storia finisce così, con la Morte che passa per il naso di Ovunque. Avete mai pensato a quant’è a buon mercato? A quant’è plagiaristica, quant’è brutale? Una polpetta cruda che olezza sulla cucina a gas, calzini e mutande sul pavimento, piatti sporchi nel lavandino, una tratta della macchina non pagata, le bollette del gas accatastate con quelle della luce e del telefono, insieme a elementi abbandonati in quasi tutti gli stati dell’Unione, in amici buttati via … triste, molto triste. Chi sapeva suonare il blues come loro? Nessuno … siamo fatti soprattutto di sangue, ossa e dolore … ma la morte rimane una gran noia, perfino le tigri e le formiche non sanno quant’è noiosa e le pesche un giorno grideranno”.

“Vallejo che scrive sulla solitudine mentre muore di fame; l’orecchio di Van Gogh rifiutato da una prostituta; Rimbaud che scappa in Africa in cerca d’oro e trova un caso incurabile di sifilide; Beethoven che diventa sordo; Pound trascinato per le strade in una gabbia; Chatterton che si prende il veleno per i topi; il cervello di Hemingway che cade nel succo d’arancia; Pascal che si taglia le vene in una vasca da bagno; Artaud rinchiuso in un manicomio; Dostoevskij messo contro il muro; Crane che si getta sulle pale di un’elica; Lorca ucciso per la strada dai soldati spagnoli; Barryman che si getta da un ponte; Burroughs che spara alla moglie; Mailer che invece l’accoltella – è questo quello che vogliono: un fottutissimo spettacolo, un cartellone illuminato nel bel mezzo dell’inferno. È questo quello che vuole quel branco di ottusi incapaci, innocui, monotoni, ammiratori dei baracconi.

Non crede possa esserci un riscatto?

“No, senz’altro dev’esserci un modo. Anzi, certo dev’esserci un modo al quale non abbiamo ancora pensato. Ancora non ho risposto alla domanda su chi mi ha messo questo cervello nella testa? … Di certo so, che / una notte / in qualche camera da letto / presto / passerò / le dita / tra / i capelli / soffici e puliti. / Come canzoni che nessuna radio trasmette. / Allora tutta la tristezza / si scioglierà / in un sorriso.

La pietà si trova a volte in posti così strani.

Alla fine lo abbiamo lasciato attaccato alla sua bottiglia senza che lui neppure si accorgesse dell’essere rimasto da solo. In fondo era tutto O. K. E non gliene fregava più niente se qualcuno gli avesse suonato il blues.

(tratto da “Storie di ordinaria follia”).
“Su milioni di donne che vedi, ogni tanto ce n’è una che ti fa stravedere. Costei ha qualcosa (sarà per le sue forme o per come si muove, o per via del vestito che indossa) ha qualcosa che ti frega. Questa che dico io sedeva sulla panca con le gambe accavallate, era vestita di giallo. Aveva le caviglie sottili e delicate, i polpacci ben torniti, le cosce grosse, un culo da non dire. Il viso aveva un’aria sminchionata, come se ridesse di me e cercasse di non farsi accorgere. (..) Mi diressi verso la fermata, dove lei sedeva ancora sulla panca. Ero in trance. Non mi padroneggiavo. Al mio sopraggiungere ella si alzò e si allontanò di buon passo. Quelle chiappe mi ammaliavano, mi toglievano il sonno. La seguii da vicino. (..) Che mi succede? – pensavo. Ho perso il controllo. Chi se ne frega, mi rispose una voce. (..) Aveva i capelli biondo – rossicci. Tutto in lei era di fuoco. Lei mi guardava. Ora si mette a strillare – pensai. L’affare mi si fece duro. Avanzai su di lei, la presi per i capelli e per il culo, la baciai. Si dibatté, cercando di liberarsi, spingendo. Indossava ancora quell’abito giallo attillato. Mi staccai, la presi a schiaffi. Quattro sonori ceffoni. Quando l’abbrancai di nuovo incontrai minor resistenza. Barcollammo avvinghiati. Le strappai il vestito dio dosso. Le lacerai il reggipetto. Seni enormi, vulcanici. Le baciai le tette, poi le presi la bocca. Intanto trafficavo con le mutande. Gliele tolsi. Glielo ficcai dentro. Me la pappai all’impiedi. Finito che ebbi, la scaraventai sul divano. La sua sorca mi guardava. Era ancora invitante (..) Come ti chiami? Vera”.

Ecco, questo è Bukowski, io sono Bukowski! E voi?


*

- Letteratura

V. De Moraes - Quando la musica diventa poesia

VINICIUS DE MORAES: “Quando la musica diventa poesia”, di Giorgio Mancinelli.

Articolo pubblicato in “Audio Review” n.11- 1982; e in “Notiziario Fonit-Cetra” e Brochure di Stampa Phonogram per la “Tournée italiana di Vinicius De Moraes e Toquinho” , a Roma Teatro Sistina.


Marco Vinicius da Cruz de Melo Moraes (1), nato a Rio de Janeiro, Brasile, si è dichiarato più volte amico dell’Italia e noi, italiani, abbiamo ricambiato questo suo affetto con fraterna amicizia, tanto da accoglierlo sempre con grandissimo entusiasmo, dimostrato soprattutto in occasione dei suoi recital tenutisi a Bologna, Firenze, Milano e ripetutamente Roma al Teatro Sistina, trasformatosi nel “tempio della musica brasiliana”. Chi non ricorda i lunedì del Sistina organizzati da Franco Fontana? Rammento che durante la sua permanenza a Roma era sempre accompagnato da un giovanissimo Toquinho e dai suoi più cari amici, a cominciare da Sergio Bardotti (scomparso recentemente) che curerà la traduzione dei suoi testi, la realizzazione e la produzione dei suoi brani; Leone Piccioni, che scriverà la presentazione di tutti i suoi dischi italiani; e Gianni Minà, giornalista, che lega la sua attività di intervistatore di tanti artisti brasiliani. E che facevano da trait d’union con noi della carta stampata e delle radio private, che andavamo a intervistarlo alla Fonit Cetra (2) in occasione di registrazioni, o di presentazioni dei nuovi dischi realizzati in lingua italiana con Sergio Endrigo, Giuseppe Ungaretti, e più tardi con Ornella Vanoni. Erano quelli, veri “momenti storici” per la musica italiana, così come del resto i nostri cantanti erano molto apprezzati in Brasile, a cominciare da Mina che allora cantava le canzoni di Cico Buarque de Hollanda e Antonio Carlos Jobim.
Già allora si diceva di lui che fosse un “poeta”, il più “nero dei bianchi d’America”, e infatti non aveva bisogno di presentazioni, Vinicius era un poeta autentico, “un poeta che canta”. Le sue raccolte poetiche “Cammino verso la distanza” del 1933, “Forma e Exegese” del 1935, e “Novos Poemas” del 1938, erano già famose prima che egli giungesse in Italia con le sue canzoni. Soprattutto in Inghilterra dove aveva vinto una borsa di studio del governo britannico in Lingua e Letteratura Inglese presso la Oxford University e in seguito diventato giornalista e critico cinematografico. Nel 1943 pubblica “Cinco Elegias” e inizia la sua carriera diplomatica che gli permette più tardi di stringere amicizia con Pablo Neruda. Successivamente, nel 1953, è a Parigi come segretario d’Ambasciata che gli offre la possibilità di incontrare i più grandi poeti allora esistenti: dagli spagnoli Joào Cabral de Melo Neto e Rafael Alberti, al cubano Nicolàs Guillén, e oltre ai moltissimi altri, l’italiano Giuseppe Ungaretti al quale “èra già legato da affetto vero, umano ancor prima che d’ammirazione grande”, e che traduce le sue poesie e canzoni che oggi sono incluse in un album (Lp) ormai divenuto un cult”. Nel 1954 esce a Rio, presso le edizioni A Noite, la prima “Antologia Poetica” fonte da cui trarrà molte delle sue future canzoni. Parallelamente Vinicius da ampio spazio alla musica, sua profonda passione, e invita Jobim e Luiz Bonfà a comporre le musiche di scena per la rappresentazione teatrale della tragedia “Orfeu da Conceicao”, dal quale nel 1959, Marcel Camus trasse un film “Orfeu Negro”, che vince la Palma d’Oro a Cannes e l’Oscar a Hollywood come miglior film straniero:

“A felicidade” - da “Orfeu Negro” (3).

Tristezza non ha fine / Felicità, sì..
La felicità è come la piuma / Che il vento porta per l’aria / Vola lieve / Ma ha una vita breve / Bisogna che il vento non cada.
La felicità del povero somiglia / Alla grande illusione del Carnevale / Si lavora l’anno intero / Per un momento di sogno / Per fare un costume / Di re, o di pirata o di giardiniera / Poi tutto finisce il mercoledì.
Tristezza non ha fine / Felicità, si..
La felicità è come la goccia / Di rugiada sul petalo di un fiore / Brilla tranquilla / Dopo oscilla lievemente / E cade come una lacrima d’amore.
La mia felicità sta sognando / Negli occhi della mia innamorata / E’ come questa notte / Che passa, che passa / In cerca dell’aurora / Parlate piano, per favore.. / Perché lei si svegli allegra come il giorno / Offrendo baci d’amore.
Tristezza non ha fine / Felicità, sì..

È l’apoteosi del “saudade brasiliano” (4) e Vinicius trova insieme a Jobim la vena aurifera della musica e ne fa oggetto di cultura, di divinazione, così come il tango sta all’Argentina, il nuovo sound del samba prima e della bossa-nova dopo, diventa l’emblema del moderno Brasile. Non c’è chi nel mondo non ha cantato, ballato, canticchiato o magari anche solo fischiettato le loro “Felicidade” o “Manha du Carnaval”. Nel 1962 accade il grande incontro con Baden Powel col quale inizia la sua collaborazione musicale in “Afrosamba” (5) e “Samba da Bencao” inserito nella colonna sonora del film “Un uomo, una donna”; prende a cantare in pubblico con Joao Gilberto e Maria Bethania, lanciando tra l’altro “Garota de Ipanema”. Incontra il grande obà della musica creola di Bahia, Dorival Caymmi (6) col quale farà nel 1964 uno “storico” concerto. Nel 1968 , durante un breve soggiorno in Italia, ritrova il suo amico Giuseppe Ungaretti che traduce alcune poesie per l’ “Approdo”. Con Ungà (in senso amichevole) e Sergio Endrigo registra un Lp in italiano interamente dedicato alle sue poesie e canzoni, dal titolo molto significativo: “La vita, amico, è l’arte dell’incontro” (7). Ancora nel 1971 torna in Italia dove in maggio e giugno, compone e registra un album di canzoni per bambini: “L’Arca” (8) con la partecipazione di molti artisti italiani. Nel 1975 partecipa con Toquinho alla registrazione dell’album di Ornella Vanoni “La voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria” (9), grande successo. Nel 1977 direttamente dal Tempio della Musica Brasiliana , il Canecao di Rio de Janeiro, giunge in Europa in tournèe strepitosa. Nel 1980 lavora al suo libro eternamente incompiuto “Mappa lirica e sentimentale della città di San Sebastiano del Rio de Janeiro dov’è nato, vive in transito e muore d’amore il poeta Vinicius de Moraes” – dal quale sarà poi tratto un doppio Lp con il titolo “Antologia Poetica” (10).
Questo in breve il suo curriculum artistico anche se c’è, com’è ovvio ci sia, molto e ben altro da raccontare del talentuoso poeta, musico e ambasciatore: “un artista continuamente teso in una vitalità che dell’amore si alimenta, pur con tutti gli abbandoni, le malinconie, la “saudade brasiliana” – così lo descrive l’amico Piero Piccioni nella presentazione di “Per vivere un grande amore”, curato da Sergio Bardotti, un album di raffinata bellezza ai primi posti per originalità e peso d’ispirazione, che si avvale dell’alternanza di musica e versi recitati e cantati dallo stesso Vinicius:

“Per vivere un grande amore” (11).

Io non vado solo / Io vado sempre in compagnia / Con la mia chitarra / Con la mia donna / E la poesia.
Per vivere un grande amore è necessario / Molta concentrazione e molto tatto / Essere molto serio e molto matto / Per vivere un grande amore è di dovere / Che uno si consacri cavaliere / E sia della sua donna per intero / Costi quel che costi / Fare del corpo la casa dell’amata / E rinchiudere la casa dell’amata / E rinchiudere là l’innamorata / E vegliare di fuori con la spada / Per vivere un grande amore.
Per vivere un grande amore è pertinente / Stare un poco alla larga dalla gente / Che è generalmente / Molto invidiosa dell’amore / Tagliar corto con club e boites / Con il jet-set e la café-society / E tutti i suoi tristi disperati / Per vivere un grande amore in realtà / Dovresti fare tua la verità / Che non c’è amore senza fedeltà / / Di corpo, d’anima e cuore / Chi tradisce l’amor per vanità / Misconosce la grande libertà / Quell’immensa, assoluta libertà / Che porta un solo amore.
Per vivere un grande amore è molto bene / Molto importante stare sempre insieme / E persino se mai, morire insieme / Per non morir di dolore / Dovrai sempre guardar la donna amata / Come se fosse la prima innamorata / E la tua vedova anche sotterrata / Nel suo finito amore.
Per vivere un grande amore ti dirò / È necessario che tu sappia un po’ / Di arte culinaria e di judo / Per vivere un grande amore / È importante sapere di cucina: / Uova sbattute, gamberi, salsine / Tagliatelle, consommé, tartine / Per il dopo-l’amore / Che c’è di meglio che chiudersi in cucina / A preparare due buone fettuccine / E una ricca, gustosa insalatina / Per il tuo grande amore?
Io non vado solo / Io vado sempre in compagnia / Con la mia chitarra / Con la mia donna / E la poesia. / E bisogna sapere bere whisky / Con chi bere non sa tu corri rischi / Ed essere insensibile ai giudizi / Di chi odia l’amore.

È ancora Piero Piccioni a darci una attenta definizione del “saudade” di Vinicius nel parlare d’amore: “Che si rivolga a donne, a bambini, o ad amici, le sue parole sono sempre d’amore: ci parla del “solo amore” che nella vita va vissuto con fedeltà; ci dice anche che “le donne sono molto strane” ma rivolge una bellissima preghiera al Signore perché “abbia pietà delle donne”. Conosce la durezza della vita, ma non bisogna viverla da soli ma in compagnia; tutto merita pietà e l’unica regola è “avere amore e dare amore e ricambiare amore finché ce l’hai”, in quell’inimitabile dosaggio tra tristezza e felicità, tra sorriso e lievi, controllare lacrime, che solo i più grandi brasiliani sanno trasferire al nostro cuore”. Come anche ci dice che: “Vinicius va a letto alle sette della mattina, che parla profetico e con ironia, che canta la bellezza della donna e la sua struggente malinconia”. Fu di Bardotti l’idea di incidere un disco che fosse un omaggio all’amicizia fra Vinicius e Ungà che aveva appena tradotto suoi nuovi e vecchi versi. E va detto che Ungaretti entrò volentieri in un piccolo studio di registrazione con cantanti, suonatori, tecnici. Bardotti, come era solito fare, aveva organizzato tutto alla perfezione per il grande incontro.
“Ottima la ritmica – scrive ancora Piero Piccioni – perfetta la chitarra di Toquinho; Vinicius pronto a parlare, a cantare, a recitar versi; Endrigo a prestare (merito particolare del disco)) la sua voce ed il suo amore alla vera musica popolare. (..) Una scelta vasta, dalle canzoncine per i bambini che Vinicius scrive da sempre (gioielli inarrivabili), ai grandi temi di Baden e di Tom, al famoso “Samba delle benedizioni”, e cori di bambini disponibili e tanti filoni di “saudade” e di felicità, di allegria e di tristezza toccati insieme”. Tanto materiale che bisognava poi montare bene, e Bardotti si sa anche in questo era maestro. Il montaggio del disco, infatti, è tra i più sapienti e dosati: ci sono due idee guida, le “benedizioni” di Vinicius che aprono e chiudono il disco dando definizioni bellissime della “sua” musica:

“Samba delle benedizioni” (12)

Meglio essere allegro che esser triste / Allegria è la miglior cosa che esiste / E’ così come un sole dentro il cuore / Ma se vuoi dare a un samba la bellezza / Hai bisogno di un poco di tristezza / Se, non è bello fare un samba, no.
Se no, è come amare una donna solo bella e beh! / Una donna deve avere qualche cosa in più della bellezza / Qualche cosa che piange, qualche cosa che ha malinconia / Un’aria di amore tribolato / Una bellezza che viene dalla tristezza di sapersi / Donna fatta per amare, per soffrire / D’amore e per essere solo perdono.
Fare un samba non è una barzelletta / chi fa samba così non è poeta / Il samba è preghiera se lo vuoi. / Samba è la tristezza fatta danza / la tristezza che ha sempre la speranza / di non essere triste, prima o poi.

La voce di Ungaretti che legge frammenti o versi proposti a “collage” in mezzo a tanta musica, a spunti diversi, e “Deixa” che traspare, e la “Marcia dei fiori” che rielabora un tema di Bach, ed Endrigo che canta “Perché”, “Il poema degli occhi”, “Se tutti fossero eguali a te”, e Vinicius che legge la terribile poesia sul “Giorno della Creazione: il sabato”, toccante come sempre nella sua amara ironia e un forte senso di religiosità, seppur dovesse bestemmiare, cosa che non fa. Senso di mistero, di magici oscuri motivi che regolano la vita, che bene Vinicius ha conosciuto approfondendo, insieme a Baden, il “candomblé” (13) di Bahia, i riti di magia nera, che dall’Africa si sono in quelle rive trasferiti, per rimanervi, senza subire sofisticazioni, arricchiti, sempre, di sensi nuovi, autonomi, a sé, com’è della tradizione della musica popolare del Brasile, e tante altre cose ancora.
Giuseppe Ungaretti è stato a lungo in Brasile tra il ’37 ed il ’42, ha insegnato Italiano all’Università di Sao Paulo, e in quegli anni si accorse subito del grande talento del giovane De Moraes che volle includere nell’Antologia della Poesia Brasiliana uscita nel 1946. I due vecchi amici in seguito si sono ritrovati a Roma e insieme, nell’inverno del ’69 hanno messo a punto la traduzione della lunga e toccante “ballata” dal titolo “Patria Mia”, dedicata al lapidario amore per la sua terra; e “Il tuffatore”, al segreto senso d’amore; che riprende nel “Sonetto dell’amore totale” e in “Poetica 1”, che leggiamo qui di seguito:

“Poetica 1” (14).

Di mattina abbuio / Di giorno attardo / Di sera annotto / Di notte ardo.
Ad ovest morte / Gli vivo contro / Del sud captivo / Mio nord è l’est.
Gli altri computino / Passo per passo / Io muoio ieri / nasco domani.
Vado dov’è spazio / - Mio tempo è quando.

Il commento che segue non poteva che essere di Piero Piccioni, i suoi articoli, anche a distanza di tempo, rimangono comunque considerevoli: “Ungaretti ha tradotto con la passione, la perizia tecnica, la forza inventiva che ha: assorbe prima tutto del testo straniero che deve diventare suo, digerisce tutto, lo ripropone nella sua lingua poetica, non forza né tradisce, ma rende “suo”, porta il suo tocco inconfondibile. E nel leggere, ancora e sempre, è come se ripercorresse lo stato di febbrile ansia del comporre poetico, è come se ritrovasse accenti e parole, nel travaglio creativo, in quella specie di parto che è nell’operazione di scavo d’ogni parola dall’abisso. Per questo è inconfondibile lettore di poesia, e (come Strehler dice) maestro inarrivabile; se leggere poesia vuol dire, appunto, cercare di rendere lo stato d’animo, il senso profondo delle parole, dei suoni, dei sentimenti”.


Come poeta e paroliere Vinicius de Moraes ha scritto le parole di un gran numero di canzoni diventate poi dei classici; come musicista ha composto un buon numero di melodie e come interprete ha cantato in molti importanti album non suoi. Più noto ancora, tra i più, è per essere il poeta di quasi tutti i nuovi “samba” apparsi in quegli anni sulle musiche di Jobim, Baden Powell, Caetano Veloso, Gal Costa, Elis Regina, Jorge Ben che aggiungono la loro fama a quella di Wilson Simonal, Roberto Carlos, senza dimenticare la più grande, forse, Elizeth Cardoso (15). Un elenco delle sue tante collaborazioni è pressoché impossibile stilarlo, delle sue 400 canzoni, oltre alle già citate, vanno segnalate “Insensatez”, “Amor en paz”, “Per toda minha vida”, “Chega de Saudade”, “Consolacao”, “Berimbau”, “Canto de Ossanha” , “L’apprendista poeta”, e tantissime altre, che lo hanno reso popolare nel mondo. Per avere un’idea del successo riportato dalle sue canzoni è sufficiente ricordare che i più “grandi interpreti” della canzone mondiale, si sono misurati con le sue creazioni: Ella Fitzgerald (16), Frank Sinatra (17), Diana Krall (18), solo per citarne alcuni.

“Samba in preludio” (19).

Preludio.
Io senza te / Ho perso anche me / Perché senza te / Mi manca un perché / Io sono una fiamma / E luce non do / Io sono una barca / E mare non ho / Perché senza te / Rinnego l’amore / Uccido la vita / E canto il dolore / Tristezza che va / In cerca di me / Ho paura di vivere senza te.
Samba.
Ah, che bei giorni / I ricordi mi fanno sentire meno sola / Ho tanta voglia di averti con me / Le mie mani han bisogno di te / Ma sono triste / Non ha niente da darmi la vita com’è / La vita esiste / Ma ho paura di vivere senza te.

Indubbiamente le sue canzoni eseguite personalmente “con quella sua voce così particolare ” nella sua lingua, il brasiliano, che più gli è confacente, e con la musicalità della “Bossa Nova” (20) acquistano un sapore di magica follia che non è facile spiegare con  parole semplici, anzi le parole proprio non arrivano a mostrare tutto il “sapore” della musica brasiliana in sé, e non servono. Si fa prima a mettere sul piatto un disco, e qui la scelta è davvero ampia, e soffermarsi semplicemente ad ascoltare. L’orecchio non conosce il timore o la timidezza del suono, si rallegra quando, ad esempio si accostano due voci che duettano con il sottofondo di strumenti acustici suonati in modo da scorrere al “tempo” di una melodia, allo sdrucciolare di una ritmica che non è mai rumore, che non offende l’animo gentile di chi ama crogiolarsi con parole d’amore. Infatti sono straordinari i “duetti” eseguiti da Vinicius, con voce quasi sussurrata, quasi recitante, con quella di Maria Bethania (*), ruvida, volitiva; di Vinicius con Maria Creuza (*) calda, sonora; di Vinicius con Elis Regina, e con Miù, Marilia Medalha (*), Gilberto Gil, Baden Powell (*), Tom Jobim (*), Ornella Vanoni (*) e Toquinho (*), Gal Costa e infiniti altri. Tuttavia, la sua grandezza rimane quella del poeta, di “un poeta che canta” il suo amore per la vita: (* vedi discografia Vinicius De Moraes riportata qui di seguito).

“Assenza” (21).

Io lascerò che muoia in me il desiderio di amare i tuoi occhi che
sono dolci.
Perché nulla ti potrò dare tranne la pena di vedermi eternamente esausto.
E io sento che nel mio gesto esiste il tuo gesto e nella mia voce la
tua voce.
Non voglio averti perché nel mio essere tutto sarebbe terminato
Voglio solo che tu sorga in me come la fede nei disperati
Perché io possa portare una goccia di rugiada in questa terra
maledetta.
Che mi resta sopra la carne come un marchio del passato
Io lascerò … tu andrai e accosterai il viso a un altro viso
Le tue dita allacceranno altre dita e tu sboccerai verso l’aurora
Ma non saprai che a coglierti sono stato io, perché io fui il grande
intimo della notte.
Perché ho accostato il mio viso al viso della notte ed ho ascoltato il tuo
bisbiglio d’amore.
Perché le mie dita hanno allacciato le dita della nebbia sospese
nello spazio.
Ed ho portato fino a me la misteriosa essenza del tuo abbandono
disordinato.
Io resterò solo come i velieri nei porti silenziosi
Ma ti possiederò più che nessuno perché potrò partire
E tutti i lamenti del mare del vento del cielo degli uccelli delle
stelle.
Saranno la tua voce presente, la tua voce assente, la tua voce
rasserenata.


“Tenerezza” (22).

Io ti chiedo perdono di amarti all’improvviso
Benché il mio amore sia una vecchia canzone alle tue orecchie.
Delle ore passate all’ombra dei tuoi gesti
Bevendo nella tua bocca il profumo dei sorrisi
Delle notti che vissi ninnato
Dalla grazia ineffabile dei tuoi passi eternamente in fuga
Porto la dolcezza di coloro che accettano malinconicamente.
E posso dirti che il grande affetto che ti lascio
Non porta l’esasperazione delle lacrime né il fascino delle promesse
Né le misteriose parole dei veli dell’anima …
È una calma, una dolcezza, un traboccare di carezze
E ti chiede solo che tu riposi quieta, molto quieta
E lasci che le mani ardenti della notte incontrino senza fatalità lo
sguardo estatico dell’aurora.

“Quem vai pagar o enterro e as flores / Se eu me morrer de amores?”.

Discografia:
Vinicius De Moraes:
“La vita, amico, è l’arte dell’incontro”, con Giuseppe Ungaretti, Sergio Endrigo – Cetra Lpb 35037, contiene “Il tuffatore”, “Poema degli occhi”, “Poetica1”,”Samba delle benedizioni”, e altre.

“Per vivere un grande amore”, con Toquinho – Cetra Lpb 35050 – 1974, contiene alcune poesie/canzoni tra cui la famosa “Testamento”, tradotte da S. Bardotti, arrangiamenti e direzione d’orchestra di Luis E. Bacalov.

“L’arca”, con Sergio Endrigo, Maria Sannia, Ricchi e Poveri, Vittorio dei New Trolls – Cetra Lpb 35044, contiene tra le più belle canzoni per bambini (e grandi) tradotte da S. Bardotti, arrangiamenti e direzione d’orchestra di Luis E. Bacalov.

“Os Afro-Sambas”, con Baden Powell – Universal 1966 , contiene i brani che segnarono il passaggio dal Samba alla Bossa Nova, “Canto de Ossanha”, “Canto de Iemanhjà”, “Tristeza e Solidao”; l’album del 1966 fu il frutto di un’esperienza Nova che portò i due grandi interpreti della canzone brasiliana al nuovo evento.

“Black Orpheus”, Soundtrack del film di Camus, contiene le canzoni più belle “A felicidade”, “Manha de carnaval”, “Samba de Orfeo” e tantissime altre molto popolari scelte per il carnevale, come “O nosso amor”.

“La voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria”, con Ornella Vanoni, Toquinho – CGD 9031-70669-2 – 1980. Contiene la poesia “L’assente” detta da Vinicius de Moraes.

“Antologia poetica”, con Edu lobo, Jorginho, Toquinho, Tom Jobim – Philips 2Lp – 6641708 – 1977 – contiene molte poesie inedite dette dallo stesso De Moraes.

“Vinicius + Bethania + Toquinho”, con la grande interprete popolare di Bahia Maria Bethania, voce ruvida, cattiva, indimenticabile. Lp – Pathe Marconi, contiene “A tonga da mironga do kabulete”, “ È de manhà”, “Samba da rosa”, “Como dizia o poeta”, “Testamento”.

“Le Bresil de Vinicius De Moraes”, con Maria Creuza e Toquinho. Lp Emi- Columbia, amabile come un buon soave, l’album contiene “Berimbau – Consolacao”, “Samba em preludio”, “Si Todos fossem iguais a voce” ed altre.

“Como dizia o poeta..”, con Marilia Medalha e Toquinho. Lp Derby DBR 65958 – 1974, una voce dolcissima come un sussurro. L’album contiene “Valsa para o ausente”, “Tarde em Itapoan”, “Como dizia o poeta”, ed altre.

“Sao demais os perigos desta vida..”, con Toquinho. Lp DerbyDBR 65542 – 1973, contiene “Tatamirò”, “Valsa para uma menininha”, “Cotidiano n.2”, ed altre.

“Um pouco de ilusào”, con Toquinho.Lp Ariola 201.600, contiene “Anigo meus”, “Samba pra Endrigo”, “Valsa do bordel”, “Escravo da alegria”, “Por que serà”, ed altre.

“Toquinho e Vinicius”, Lp PDU – Pld A5060 – 1972, contiene “Essa menina”, “O poeta aprendiz”, “Blues per Emmett”, ed altre, con E. Bacalov.

Dorival Caymmi:
“Caymmi” - contiene “Canto do Obà”, “Itapoan” e la famosissima “Oracao de Mae Menininha” – EMI-Odeon 1972.

Elizeth Cardoso:
Vol. I (1968) – II (1975) – III (1977), con Zimbo Trio e Jacob do Bandolim - Museu da Imagem e do Som – MISLP 11907 –, contiene registrazioni dal vivo di autori diversi, tra cui Vinicius De Moraes, Baden Powell, Tom Jobim, Ary Barroso, Luiz Antonio, Pixinguinha, Chico Buarque, Mauricio Tapajos, e dello stesso J. Do Bandolim. Tra le più popolari: “Barracao” e “Cansao de amor demais”.


De Moraes Internazionale: (solo per citare alcuni dei grandi interpreti che si sono cimentati con la sua musica).

Ella Fitzgerald, “Ella abraca Jobim”, 2Lp - Pablo 1981, con Paulinho da Costa, Oscar Castro –Neves, Joe Pass, Zoot Sims. Non ha bisogno di presentazione né di aggettivi se può bastare “unica”; vanno solo ricordati alcuni dei brani firmati Jobim-De Moraes: “Favela”, “Garota de Ipanema”, “Agua de beber”, “Insensatez”, “Ele è carioca”, “A felicidade”.

Frank Sinatra, “F. A. Sinatra & A. C. Jobim”, Cd Reprise 1967-1971, un must della discografia mondiale, con i seguenti brani firmati Jobim/De Moraes: “Garota de Ipanema”, “Insensatez”, “O amor en paz”, “Agua de beber”, “Someone to light up my life”, “Estrada Branca”

Diana Krall, “Quiet Nights”, Cd Verve 2009 – jazz per palati sofisticati che, oltre a brani di Jobin come quello che dà il nome all’album, contiene la versione di “Garota de Ipanema” trasformata in “The boy from Ipanema” semplicemente straordinaria. Ed anche in “From this moment on” - Cd Verve 2006 – con un solo brano “How Insensitive” (Insensatez), unico!

Note:
1) Vinicius de Moraes, “Poesie e Canzoni” – Vallecchi editore – Firenze 1981.
2) Fonit Cetra è stata una delle più note case discografiche italiane, attiva tra il 1958 e il 1998; nasce ufficialmente il 16 dicembre 1957 dalla fusione di due case discografiche antecedenti: la Cetra, azienda di stato di proprietà della Rai (e prima ancora dell'Eiar), con sede a Torino (fino agli anni '50 in via Assarotti 6, poi in via Avogadro 30 e infine in via Bertola 34), e la milanese Fonit (l'acronimo è Fon. I.T., e significa Fonodisco Italiano Trevisan), nata nel 1911. Anche Cetra è un acronimo e significa: Compagnia Editoriale Teatrale Radio Audizioni.

3) “Orfeu da Conceicao”, è il titolo originale della rappresentazione teatrale scritta nel 1955 da Vinicius De Moraes, e pubblicata a Rio de Janeiro con illustrazioni di Carlos Scliar, per le edizioni Edicao de Autor. Successivamente utilizzata da Albert Camus per il film “Orfeu Negro” (vedi discografia) che nel 1959 che vinse numerosi premi, tra cui l’Oscar per il miglior film straniero. Un altro film, “Un uomo, una donna” di Claude Lelouch, palma d’oro al Festival di Cannes nel 1966 contiene due canzoni che Vinicius ha scritto con Toquinho, suo amico personale: “Para uma menina com uma flor” e “Samba da Bênção”.

4) “saudade”: ricordo affettuoso, rimpianto, rimembranza, desiderio vivo di rivedere (persone e luoghi); tributo di lagrime ai morti, e anche tutte queste cose insieme.

5) “Afrosamba”, esperienza musicale operata con Baden Powell nel 1966, improntata sulla ricerca etnica dei ritmi africani presenti sul territorio: animismo, candomblé ecc. (vedi discografia).

 

6) Dorival Caymmi, patriarca della musica popolare brasiliana, obà di Bahia, un maestro riconosciuto dello spirito ancestrale che vige sulle povertà delle favelas e delle cose dell’amore (vedi discografia).
7) “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”, Lp – (vedi discografia)
8) “L’arca”, Lp – (vedi discogarfia)
9) “La voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria”, Lp con Vinicius de Moraes, Ornella Vanoni, Toquinho – (vedi discografia).
10) “Antologia poetica”, Lp – (vedi discografia)
11) “Per vivere un grande amore”, Lp – (vedi discografia)
12) “Samba delle benedizioni”, Lp – (vedi discografia)

 

13) Il “candomblé”, è una religione afro-brasiliana praticata prevalentemente in Brasile ma anche in stati vicini come l'Uruguay, il Paraguay, l'Argentina e il Venezuela. Mescolanza di riti indigeni, credenze africane e Cristianesimo, questa religione consiste nel culto degli Orixa, divinità di origine totemica e familiare, associati ciascuno ad un elemento naturale, e si basa sulla fede in un'anima propria della natura. Giunta in Brasile dall'Africa, portata da sacerdoti africani e fedeli che erano stati deportati come schiavi. Viene chiamato anche Batuque, specialmente dopo il diciannovesimo secolo, quando il Candomblé si è diffuso maggiormente. Entrambe le parole derivano da lingue della famiglia Bantu. In particolare la parola Candomblé sembra significare “danze di negri”, ed è anche il nome di un antico strumento.

14) “Poetica 1”, in Vinicius de Moraes: “Poesie e Canzoni”, op. cit.
15) Elizeth Cardoso, la più grande in assoluto. Nel 1958, pubblica l'album “Cancao do amor demais”, che include canzoni del duo de Moraes/Jobim (vedi discografia).
16) Ella Fitzgerald, Lp – (vedi discografia)

17) Frank Sinatra, Lp – (vedi discografia)

18) Diana Krall, Lp – (vedi discografia)

19) “Samba in preludio”, canzone in Vinicius de Moraes: “Poesie e Canzoni”, op. cit.

20) “Bossa Nova” (in portoghese "nuova onda") è un genere musicale, nato in Brasile alla fine degli anni '50, che trae origine dal samba suonato in modo generalmente minimalista, spesso soffuso, senza particolare enfasi vocale e senza vibrato, su ritmo lento, se non lentissimo, in particolare nella forma detta samba canção e, in genere, dalla tradizione musicale brasiliana. I padri e co-inventori della “bossa nova” sono comunemente considerati il compositore e musicista Antonio Carlos Jobim, il poeta Vinicius de Moraes e il cantante e chitarrista João Gilberto. I precedenti però si trovano in Dorival Caymmi e nel tipo di “samba-cançao” da lui elaborato e, più indietro ancora nel tempo, in alcune composizioni originali di Ernesto Nazareth, ma con un incedere incalzante dovuto, normalmente, al caratteristico stile chitarristico attribuito, principalmente, a João Gilberto. La "batida", così fu soprannominato lo stile tipico di Gilberto e dei suoi seguaci, è un modo particolare di usare la mano destra sulle corde della chitarra, la particolarità è però di natura soprattutto ritmico-armonica, e ciò dà la sensazione che il ritmo della chitarra sembra essere sempre in "recupero" sul tempo. La data ufficiale di nascita della bossa nova è generalmente fatta coincidere con l'uscita, nel 1958, del disco Canção do amor demais della cantante Elizeth Cardoso, su musiche di Antonio Carlos Jobim e testi di Vinicius de Moraes, che conteneva la canzone “Chega de saudade” nella quale suonava proprio João Gilberto. La fama internazionale per la bossa nova arriva nei primi anni '60 ad opera di João Gilberto. In seguito il sassofonista jazz Stan Getz importa i ritmi brasiliani nel suo disco del 1962 Jazz Samba (con il chitarrista Charlie Byrd), poi realizza un album (Getz/Gilberto) con i protagonisti del nuovo genere, Antonio Carlos Jobim e João Gilberto, ottenendo in entrambi i casi un clamoroso successo commerciale. Le canzoni lanciate da João Gilberto Desafinado, Garota de Ipanema, Saudade da Bahja, Rosa Morena, (le ultime due prese dal repertorio di Caymmi), È luxo sò (di Ary Barroso), Maria Ninguém (di Carlos Lyra) diventarono veri standard e resero la bossa nova uno dei generi più in voga negli anni sessanta influenzando tutta la musica mondiale.

21) “Assenza”, poesia in Vinicius de Moraes: “Poesie e Canzoni”, op. cit.

22) “Tenerezza”, poesia in Vinicius de Moraes: “Poesie e Canzoni”, op. cit.




 

 

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- Letteratura

Rafael Alberti: il volto inedito di un poeta

RAFAEL ALBERTI: IL VOLTO INEDITO DI UN POETA
di Giorgio Mancinelli.

(Intervista inedita del 04 Aprile 1974, rilasciata all’autore, e mai pubblicata per ragioni di carattere politico, non meglio specificate dall’editore).

Rafael Alberti nasce nel 1902 a Puerto de Santa Maria, vicino Cadice, in Andalusia, passa un'infanzia tranquilla e nel 1917 si trasferisce a Madrid dove comincia la sua avventura artistica come pittore pur rimanendo attaccato alla sua terra d'origine. Nel 1922 i suoi lavori vengono esposti nell’ateneo di Madrid, poco dopo entrerà in contatto con gli artisti e gli scrittori nella Residencia de Estudiantes, che saranno in seguito i protagonisti della Generazione del 27.Nel 1924, mentre è costretto a vivere nella sierra (Guadarrama y Rute) a causa di una malattia alle vie respiratorie, pubblica la raccolta di poesie "Marinero en tierra", un canto d'amore per il mare, che vince il Premio Nacional de Literatura. Nel 1927 partecipa alle celebrazioni per i trecento anni dalla morte di Luis de Góngora in omaggio al quale pubblicherà "Cal y Canto". Sono del 1929 le dolorose liriche "Sobre los angeles" risultato poetico di una profonda crisi personale. Quegli anni li passa a contatto con Federico Garcia Lorca, Salvador Dalì e Pablo Picasso, amici e compagni di strada, pubblica poi "Sermones y moradas" e "El hombre deshabitado".Una nuova fase inizia con l’avvento della Repubblica franchista. Nel 1931 entra nel Partido Comunista de España (PCE), studia teatro nell'Unione Sovietica e dirige con la moglie Maria Teresa Leon, la rivista rivoluzionaria "Octubre" e dal '36 al '39 partecipa alla guerra civile nelle file repubblicane.Nel 1939, dopo la sconfitta repubblicana, si rifugerà in Francia, poi in Argentina dove rimane per 24 anni in esilio. Dal 1963 vive a Roma a testimoniare al mondo l’impegno civile spagnolo contro la dittatura. Di quegli anni sono i suoi "Poemi d'amore" i versi per "Roma, pericolo per i viandanti", "Gli otto nomi di Picasso". Rientrerà nella sua città in Spagna, solo dopo la morte di Francisco Franco, nel 1977. Nel 1990, dopo la morte della moglie nel 1988, si sposa con Maria Asuncion Mateo. Le rime "Amore in bilico" sono dedicate all'erotismo e alla sua donna, sua nuova e giovane compagna. Sempre in quell’anno ottiene il Premio Cervantes. Muore a Puerto de Santa Maria, per arresto cardiaco, il 28 ottobre 1999.

Bibliografia essenziale: (in italiano)

“Cal Y Canto” – Lerici edit. Roma 1969
“Il poeta nella strada” – A. Mondadori 1969
“Poesie” – A. Mondadori 1964
“Teatro” – A. Mondadori 1967
“Teatro” – Einaudi 1970
“Roma, pericolo per i Viandanti” – Mondadori 1972
“Disprezzo e meraviglia” – Editori Riuniti 1973
“Il quartiere dei profeti” – De Donato Ed. 1974

Discografia: (poesie)
Io Rafael Alberti. “Fra il garofano e la spada” – Fonit Cetra – LPZ 2062
Musiche di Sandro Peres eseguite dall’autore e un inedito di Paco Ibanez.

“Aguaviva ..la que mana y corre naturalmente” – Carosello – CLN 25.002
Con due straordinarie poesie: “Poetas Andaluces”, “Creemos El Hombre Nuevo”, con Manolo Diaz.

“Aguaviva ..la casa de san jamas” – Carosello – CLN 25.031
Con “La cancion de que se esta quieto”, con Manolo Diaz.

Rafael Alberti ha partecipato personalmente, con la sua simpatica compagna Maria Teresa Leòn, alla realizzazione di questo LP di sue poesie dal titolo significativo “Fra il garofano e la spada” in cui la voce del poeta si alterna a quelle degli attori Angela Cavo e Luigi Sportelli, che interpretano le poesie, e alla chitarra di Sandro Peres, che sottolinea e punteggia la recitazione. La sequenza dei brani costituisce anche una sorta di biografia poetica di Alberti, attraverso i vari momenti della sua produzione e della sua vita intensa. È qui rievocata la gioventù andalusa e marinara, (periodo detto del “garofano”), la sua faticosa maturazione di uomo e di artista (periodo degli “angeli”), l’amore come esperienza rasserenata nel ricordo (i “ritorni dell’amore”), e il sorridente abbraccio di Roma, sua seconda patria. Il periodo detto della “spada”, cioè di denuncia e dell’impegno sociale del poeta, la dolorosa esperienza della guerra civile in Spagna, la solitudine dell’esilio, conclusa con l’invocazione a una pace concreta e umana, “nella passione del grande e nell’illusione del piccolo”.

Drammaturgo e saggista, poeta civile e umano, pittore e padre di tante generazioni d’uomini che oggi con rabbia stenta a riconoscere, Rafael Alberti ha il volto segnato dal tempo che l’età ha sorpreso per le strade dell’esilio, dalla Francia all’Argentina e poi in Italia, fino al suo rientro nella Spagna finalmente liberata della dittatura del Generalissimo Franco, “non come vincitore ma come umile figlio” – egli dice – apprestandosi ad affrontare le critiche e gli elogi del popolo spagnolo, mentre va incontro a quella libertà finale che lo vede recuperare il terreno che sembrava aver perduto per sempre. Quanti hanno pensato a Rafael Alberti come possibile “guida morale e civile” del popolo ispanico, lo accolgono al suo rientro in Spagna, col calore riservato a un figliol prodigo che ha visto l’avverarsi d’una profezia, con la quale, pure auspicava e cantava l’avvento nel suo paese dello spirito della libertà. La sua voce, benché abbia assunto una corposità dolente, possiede ancora una straordinaria musicalità dai toni accesi, ma caldi, solo leggermente enfatici, cari al romance medievale spagnolo. Durante le sue molte pause riflessive (…), egli assume talvolta atteggiamenti cupi che lasciano intravedere una qualche ricerca di infallibilità nella risposta.

Maestro, cosa pensa del mondo attuale?

“Come sa, io sono un poeta costretto fuori della mia patria considerato quindi un “senza terra” … quindi devo fare attenzione a non fallare in niente per non essere messo alla porta … Ma sono anche un uomo del mio tempo, e ho seguito la strada che ho ritenuta giusta … un poeta semplice che quando ha voluto parlare della luna ne ho parlato come sentivo … certo, sempre che si guardi alla luna con gli stessi occhi … perché quella luna è cambiata: ora è una bottiglia di Coca Cola e una bandiera di plastica”.

E della guerra?

“Sulla guerra, posso dire solo che è ingiusta, ma anche necessaria, quando sono i sani principi … gli ideali di libertà a essere stravolti. Il clima instaurato dal regime franchista da oltre trent’anni a questa parte, ha avuto come conseguenza di isolare la scena poetica spagnola dal contesto europeo e di spingere i migliori ingegni a prendere la via dell’esilio. Io sono fra quelli”.

Come certamente sa, i giovani d’oggi le decretano la priorità di “avamposto” negli ideali di libertà fin dal 1965, quando ottenne il Premio Lenin per la pace. Senz’altro ha qualcosa da dire ai giovani che si trovano ad affrontano queste problematiche?

“I giovani devono avere un indirizzo ben preciso … oggi è fondamentale avere un punto di partenza anche se non è possibile vedere un futuro vicino e sicuro … Oggi in molte parti del mondo ci sono giovani artisti contestatari ai quali non è permesso di esprimersi … e che pure riescono a farsi sentire al di fuori dei loro territori, nella lotta per i diritti dell’uomo … come in Spagna così in altri posti dell’America Latina, in Cile, in Uruguay …”.

Come in Spagna, ha detto?

“Oggi in Spagna ci sono molti giovani artisti contestatari ai quali non è permesso molto e che pure … lottano per quei diritti dell’uomo che ognuno dovrebbe difendere sempre … La Spagna è una grande nazione colpita dal più terribile dei mali: il franchismo ... mai come adesso più dilaniata e divisa da forti contrasti … Da una parte i franchisti, uomini venduti al servizio del potere, dall’altra una parte del popolo che ancora non ha acquisito una vera coscienza civile … poi ancora c’è la Chiesa … in nessun paese del mondo la Chiesa ha avuto “potere” come in Spagna … nei contrasti spirituali fra Castigliani e Catalani, fra Baschi e Andalusi”.

Intende dire che si arriverà a una spartizione?

“È un nuovo discorso che viene alla luce … quando dopo gli avvenimenti del vescovo di Bilbao, Antonio Anoveros, (8 Marzo 1974), ci si è trovati affiancati ad attaccare direttamente e più da vicino il comune nemico, fintanto da intraprendere un pezzo di strada insieme, su un unico fronte … poi si vedrà … le pretese di ognuno. Siamo soltanto all’inizio e la Spagna … deve e dovrà sempre restare unita … … non posso dire quale sarà la fine … La Spagna oscura, delle barbare uccisioni, violenta e deformata che noi vogliamo che sparisca … e che pure è una verità palpabile … è ancora quella di Goya terribilmente viva e vera … ma la realtà va (anche) vista con occhi che guardino al futuro … Noi, intellettuali spagnoli non vogliamo la guerra … si muore già tutti i giorni … personalità come Carrero Blanco vengono assassinate sotto gli occhi della polizia, senza che questa intervenga ... e questo è un fatto. In Spagna si crede ciò venga fatto dagli stessi Baschi, perché è questo che le istituzioni fanno credere ... non si spiega altrimenti … se non che lo abbiamo lasciato fare. Oggi, tutto è delitto in Spagna … anche vivere”.

Cosa può fare un “poeta”, oltre a scrivere delle poesie?

“Noi poeti esiliati serviamo più fuori che non in patria … nel senso che non poter parlare davanti a certi avvenimenti è come lasciarsi morire in silenzio … sarebbe come lasciar fare agli altri ciò che avremmo dovuto fare noi … e io non mi stancherò mai di gridare … di far sentire la mia voce oltre i confini … anche fino in Spagna. Siamo pronti anche alla guerra civile se dovesse succedere. Non ci faremo ammazzare così con una semplice scritta sul petto, come martiri … La poesia non muore con gli uomini, resta viva nel tempo, non ha l’età del poeta ma ne accusa e ne esalta la sua umanità”.

Ritiene che la poesia può avere una sua efficacia, come dire, un suo ruolo?

“Soprattutto quando essa si spinge oltre il fatto semplicemente territoriale o intimo, e abbraccia il problema più vasto, quando fa un discorso umanitario ... Agli inizi ero un giovane che voleva fare il pittore in Andalusia ma, una volta a Lisbona, mi interessai all’avanguardia culturale e politica e divenni prima di tutto poeta … un poeta civile intendo. Non credo nell’accademismo puro, … credo invece alla forma di ricerca ma in senso chiaro … io ho voluto essere soprattutto semplice, come la gente di strada. Penso che ci si deve aprire … gridare, violare se è necessario … essere poeta per il fatto di essere oscuro (ermetico), non si è miglior poeta”, l’ermetismo di oggi cos’è?”.

Qual è l’impegno artistico e culturale della Spagna, oggi?

“Da un punto di vista culturale penso che la Spagna sia all’avanguardia. Una parola che non mi piace perché io ho fatto parte dell’avanguardia nel 1925 e quella di oggi non è che un ricalcare certe forme inadatte … Noi veramente abbiamo cambiato qualcosa. Picasso ad esempio, ha cambiato tutto, rimettendo in discussione e risolvendo certi valori non solo nell’arte ... All’inizio era creduto un pazzo, oggi finalmente ci si sta abituando a una certa forma data da un modo di vedere, per così dire, “trasformato” che ci fa maggiormente partecipi della società in cui viviamo”.

Ritiene Picasso un precursore del nostro tempo?

“Non va dimenticato il fatto che egli è stato il Direttore del Museo del Prado … Alcuni anni fa, poco prima della sua morte, parlando con lui, affermò di avere ancora quell’incarico poiché … disse: “nessuno mi ha mai destituito” ... Come del resto a lui mi sono ispirato nella piece teatrale andata in scena a Roma alcuni giorni fa al Teatro Belli dal Gruppo Teatro Incontro, e che conto di portare in altri teatri del mondo: “Notti di Guerra al Museo del Prado”.

Cosa mi dice dei poeti, quei poeti che come lei hanno “gridato” contro l’oppressione?

“Ricordo che Neruda, un poeta suggestivo, molto introverso, passionale, mi affidò il suo primo manoscritto “Residence en la Tierra” per trovargli un editore disponibile a pubblicarlo, perché lo ritenevo di valore. Allora percorsi tutta Madrid senza trovarne nessuno. Non fu facile per quei tempi ... la poesia era ormai una forma poco popolare in Spagna, direi quasi dimenticata dalle elite … Fu proprio durante la guerra che ebbe inizio un certo interesse per essa come fonte di espressione popolare soprattutto con la rivista “El Uomo a Sul” (L’abito dell’operaio) … Dopo la guerra la poesia divenne l’unico modo di esprimersi e far circolare le idee … Garcia Lorca, Jimenez, Machado, Quasimodo, Neruda, Leon Felipe, Emilio Prado, sono tutti morti in esilio, nei campi di concentramento … Ancora oggi essi rappresentato la voce del popolo spagnolo, la voce libera dell’umanità oppressa”.

“Quevedo ha fatto certamente il meglio nella critica della Spagna. Bunuel si è inserito in quel tipo di visione grottesca esagerata che è la Spagna spaventosa di Gutierrez, di Goya, nell’idea dell’Esperanto. Cioè di quella violenza che noi poeti andiamo combattendo … Ma dove sono finiti gli Uomini, dove sono finiti i Poeti? … La Spagna, il mondo intero, ha bisogno dei suoi poeti per lottare contro le ingiustizie, contro le oppressioni: giustizia io chiedo, che sia fatta giustizia! … Oggi, ancora una volta ho scritto dei versi su questo tema, eccoli, li legga!”.

“Oggi, fuori il cielo non è più azzurro / il sole non posa sopra di esso la sua mano calda / è morta la giovinezza del mondo / il profumo dei giardini, la primavera dei campi / qui non c’è posto per chi ride / ma solo per chi piange e muore / ci mancherà la terra per coprirli tutti / città senza risposta / fiumi senza parole, vette senza echi, oceani muti / non sanno. Uomini fissi in piedi / sulla sponda delle immobili tombe./ Giustizia! Chiedo sia fatta giustizia!”.

Ritiene che l’Italia sia un paese libero?

“Oggi, all’età di 75 anni, dopo averne passate tante, devo dire di essere fortunato di avere ancora al fianco la mia amata Maria Teresa (Lopez) … che mi ha seguito nel mio lungo esilio, e di poter ancora vivere la mia vita qui in Italia … dove ho trovato un calore così umano, così grande e bello, così vicino … troppo vicino che devo chiudere la porta … dove mi è possibile sentire il flusso e il riflusso del mio mare … Si, l’Italia è un paese dove è possibile vivere … anche quando ci sono spinte opprimenti intente a sopprimere la libertà … qui riesco a sentirmi vivo e anche libero … posso dire che l’Italia è un paese libero, cosa che per me non lo è stata neppure la Francia”.

Maestro, se le decretassero il premio Nobel per la poesia, lo accetterebbe?

“Non considero il premio Nobel come un traguardo ma come riconoscimento e anche se non ho l’intenzione di voler essere o apparire umile, dico che lo accetterei perché i soldi hanno la loro importanza, specialmente quando come me si è vissuti “per la strada” lontano da ogni semplice e umano conforto”.


RAFAEL ALBERTI: IO CANTO LA LIBERTA’
di Giorgio Mancinelli.

(Articolo pubblicato in “Super Sound”, il 25 Febbraio 1974).

Sono bastati alcuni giorni di pioggia e la Roma sotto “austerity” priva di riscaldamento e di elettricità, è sprofondata di colpo nel buio più triste e freddo, con le strade buie, dilaniata dagli scioperi e dagli scandali.
Tanto che i vecchi all’angolo dell’osteria parlando dell’accaduto dicono: “sembra d’essere in guerra, presto finiremo per fare di nuovo le barricate”. E dire che loro, la guerra, l’hanno vista davvero, e sanno cosa significa.
In quello stesso giorno, nel cuore antico della città che è Trastevere, il Gruppo Teatro Incontro, innalza davvero la sua barricata, la prima in tutta la città, e già si combatte duramente.
“Chi siete?”
Domanda il capitano dei miliziani accorsi a riempire la scena di “Notti di guerra al Museo del Prado”, in quel del Teatro Belli, per la regia di Ricardo Salvat.
“Siamo il popolaccio, gente delle strade e delle piazze, di ogni piazza della città”.
È il maggio del 1808, quando l’ultimo eroe di Spagna muore sotto le fucilate degli armigeri disposti per l’esecuzione, dopo i moti rivoluzionari, rivestiti delle grida stridenti dei colori di Francisco Goya.
“Nell’arena scorre il sangue sudato dell’ultimo Toro di Spagna” – diranno in quei giorni, i visitatori del Museo del Prado, quando nel maggio del 1936, la rivoluzione civile in Spagna, contrassegna l’ottusità della guerra, che culminerà col radere al suolo la città basca di Guernica, il 26 aprile del 1937.
Ma ecco che alcuni passi già calcano il selciato lucido di pioggia della Piazza Santa Maria in Trastevere presieduta dai miliziani che non lasciano passare nessuno.
Sono ancora quelli dei ragazzi che nelle sere d’estate amano sedersi sui gradoni della fontana, venuti a rallegrare l’aria con le loro risa e i canti, i fischi e le urla, al suono di una chitarra scordata. Ma è solo un lontano ricordo, in realtà se ne sono andati come gli uccelli migratori.
Un anziano signore dall’aria pacata avanza solitario lungo la via schivando le ombre dei miliziani che non si accorgono di lui.
“Chi siete? Fatevi riconoscere!”
Gli chiede qualcuno dalla parte opposta della barricata.
“Chi sono io, sono l’autore” (Umberto Raho che si cimenta nei panni del poeta F. Garcia Lorca, più tardi sarà un Goya di eccezionale espressività).
“Lasciatelo passare!”
Esclama il comandante dei rivoluzionari.
“È lui, quel Federico poeta dei Canti Andalusi”
La sua entrata in scena fa sì che si abbassino le luci e ognuno (degli intervenuti) prenda posto fra i sacchi di stracci raccolti nei sotterranei della casa della pittura, appunto quel Museo del Prado, che la gente comune vuole salvare dalla distruzione, riproposto da un suggestivo impianto scenico.
Passano i quadri dei grandi (riprodotti in sequenza): Raffaello, Tiziano, Goya, Velasquez …
“Fermatevi un momento!”
Chiede commosso il Poeta davanti alle “Fucilazioni di Maggio 1808” di Francisco Goya.
“Avevano le stesse facce, la voce di tutto un popolo!”
Le palle di cannone che passano accanto al solenne edificio museale fanno tremare le pareti, e con esse, quelle figure, destandole da sotto la vernice. Le passiamo in rassegna una per una:
“Maestà, il suo regno è in pericolo!”, esclama sarcastico il buffone Don Sebastiano de Mora al suo re, ed ecco che già la corte di Filippo IV si scrosta della regalità che Velasquez gli ha attribuita … prendendosi così la rivincita sui calci presi nel di dietro.
“Adone morente lascia Venere a piangere sopra il triste destino che l’incombe”, quasi che Tiziano abbia voluto scrivere una pagina appassionata sull’abbandono in amore.
“Una schiera di Angeli vagano alla ricerca di un Paradiso che sembra perduto” è il tema della pala del Beato Angelico che segna un momento di alta poesia culminante in vero lirismo.
“Dovevano ucciderlo tutto il popolaccio, prima delle barricate. Dovevano asciugarle tutte le penne (le voci) dei poeti di Spagna! Tutti: Federico, Antonio, Rafael, la vostra voce ancora vibra dentro la mattanza della corrida! Olé! Olé!”, (*) sulla scia di queste parole fa il suo ingresso il popolaccio.
È questo il momento clou dello spettacolo, quando il popolaccio si presenta sulla scena avvolto dei suoi miserabili “stracci”. Le popolane (Angela Redini e altre), s’improvvisano dame di corte della regina, dando un esempio grottesco in una graffiante satira della nobiltà.
Entra un semplice soldato monco (l’attore Franco Meroni) paladino del gruppo, attorno al quale ruota tutto lo spettacolo, e chiede all’Autore:
“Il Poeta, cosa pensa di questa guerra?”
È una guerra di forti contrasti che il Gruppo Teatro Incontro affronta risolvendo una discontinuità del testo, nato come canto poetico che risuona dei passi cadenzati del flamenco. L’efficacia evocativa dei momenti d’insieme si fonde con il pubblico presente in sala. È il momento del popolaccio che vuole vivere e riscattarsi dall’oppressione.
“Volontari di questa barricata non c’è tempo da perdere … uniti faremo in modo che la nostra barricata sia inespugnabile” (*), grida il soldato nel momento della verità. Siamo alla ultime battute. Gli attori si schierano in massa sulla scena, quando si leva un ultima lirica, profonda, accorata.
“È una notte di eroi questa, anche le pietre cantano … Olé! Olée! Olée!” (*)
Il popolaccio chiede giustizia e una volta ritrovata la libertà, impicca i fantocci dell’oppressione.
“Hei tu, criminale! Quanto sangue hai bevuto stanotte?”
“E tu, generalissimo, sei nello stesso tempo il conquistatore e il conquistato, se lasci che i poeti muoiano” (*) – che la tua voce non vale un flamenco!

Entra il Toro, l’ultimo Toro di Spagna. È sporco di sangue sudato. L’arena gremita, resta muta davanti al “Guernica”, cui l’attore (William Ciccarelli) che interpreta Picasso, compendia con la poesia che segue l’arco della storia:

“Il Toro del popolo monta / straripa il toro di Spagna. / Cresce per le vie, immenso / si erge furioso, salta. / È un ciclone di bravura, / una tromba di fulmini e sangue. / Vive il toro, torna il toro. / Non c’è arena per lui, non c’è circo / staccionata che lo contenga /e ferri che lo costringano. / Il Toro del popolo è tornato / la sua arena è tutta la Spagna!”.(*)

Altre bombe cadono sul Museo del Prado. Il popolaccio trema, ma il prezzo della tirannide non riscatta tutto un popolo il cui canto risuona alto e vivo:

“Popolaccio di questa barricata difenditi come puoi … usa la mia testa come bomba, dentro ci sono cento, mille, un milione di scintille d’odio!” (*).

(*) estratti dal copione teatrale di “Notti di Guerra al Museo del Prado”.

Poetas Andaluces.

“Che cantano i poeti andalusi di ora? / Che guardano i poeti andalusi di ora? / Cantano con voce di uomo / ma dove sono gli uomini? / Guardano con occhi di uomo /ma dove sono gli uomini? / Sentono con petto di uomo / ma dove sono gli uomini? / Cantano, e quando cantano / sembra che siano soli. / Che oramai l’Andalusia sia / rimasta senza nessuno? / Che forse nei monti andalusi / non ci sia più nessuno? / Che sui mari e nei campi andalusi / non ci sia più nessuno? / Non c’è più chi risponda alla voce del poeta? / Chi guardi nel cuore senza mura del poeta? / Cantate forte / e udrete che odono altri orecchi. / Guardate in alto / vedrete che guardano altri occhi. / Sentite con forza. / Saprete che palpita alto altro sangue. / Non è più il poeta chiuso giù / nel suo sotterraneo. / Il suo canto sale dal più profondo quando / libero nell’aria / è ormai di tutti gli uomini”.

In occasione dello spettacolo tenutosi al Teatro Sistina di Roma dal titolo “Noche de Sangre” di Federico Garcia Lorca, Rafael Alberti ha dedicato una bellissima poesia ad Antonio Gades, ballerino e coreografo dello spettacolo, una delle massime figure del flamenco.

“Antonio Gades, te digo: / Io que yo, / te lo diria mejor Federico. / Que tienes pena en tu baile, / que los fuegos que levantan / tus brazos son amarillos./ Eso yo, me lo sé yo, / te lo dirìa mejor / Federico. / Que el aire baja a tus pies / y el corazòn se sube / a la garganta hecho amicos. / Eso yo, lo pienso yo, / te lo dirìa mejor / Federico. / Que te adelgazas, que tiemblas / que te doblas, que te rompes / y esaltas come un cuchillo. / Eso yo, bien lo sé yo,/ te lo dirìa mejor / Federico. / Pero él ya no està. / Antonio Gades, te digo: / lo quel yo, / esto que te he dicho yo, / lo hubiera dicho mejor / Federico”.

“Antonio Gades, ti dico: / Io ciò che meglio ti direbbe Federico. / Che hai pena nella tua danza, / che il fuoco che solleva / le tue braccia è una febbre. / Questo è quanto io sento, / te lo direbbe meglio Federico. / Che l’aria balla sotto i tuoi piedi / e il cuore s’innalza / sale alla gola come anice. / Questo è ciò che io penso /te lo direbbe meglio / Federico. / Ciò che ti smagrisce, che ti tempra, / che ti sdoppia, che ti spezza / e che ti esalta come una lama. / Questo io, lo so ben io, / te lo direbbe meglio / Federico. / Però egli non c’è. / Per questo/ Antonio Gades, ti dico: / ciò che io, / ciò che io ti dico, / te l’avrebbe detto ancor meglio / Federico”.

Hanno scritto di lui:
Antonio Bodini nella prefazione di “Il poeta nella strada” - Mondadori

Rafael Alberti, è stato il primo ad avvertire in Spagna il deficit di una posizione minoritaria e a cercare di adeguare la sua poesia, prima al servizio della rivoluzione sociale, poi a quello del suo popolo in lotta contro il fascismo internazionale. Ha cantato la resistenza e l’esilio senza preoccuparsi se nella sua nuova produzione l’oratoria contrastava il terreno alla poesia. Dal piano del poeta come eccezione a quello del poeta uno fra gli uomini. Resta un suo segreto inimitabile la sua perfetta equidistanza fra la semplice grazia popolare e la raffinatezza che fa di lui un classico. Potremmo distinguere tre fasi nella poesia civile di Alberti: la prima ha inizio prima ancora della guerra di Spagna e va dal 1931 al 1936. Il suo candido rivoluzioniamo ci appare derivante assai più da Cervantes che da Marx. La seconda fase, coincide con la guerra civile spagnola e comprende i canti che esaltano l’eroica difesa popolare della Spagna. La terza che raccoglie i canti dell’esilio, il rimpianto della patria, l’incitamento alla resistenza, la riscoperta dell’Europa pacificata, la poesia per la pace nel mondo.

Ignazio Delogu, nella prefazione a “Il quartiere dei profeti” – De Donato Editore

Certo, nella poesia il sentimento più generale e la motivazione collettiva prevalgono sui motivi individuali o di gruppo, ma restano nella poesia civile, e in quella di Alberti in maniera particolare, una ribellione anche individuale, un furore che non possono essere trasferiti e che danno a questa poesia un accento inimitabile e una estrema, travolgente persino, capacità di persuasione.