chiudi | stampa

Raccolta di articoli di Giuseppina Bosco
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

- Letteratura

Le differenze tra l’immaginario maschile e femminile

Le differenze tra l'immaginario maschile e femminile nella letteratura

 

Uno dei meccanismi presenti in un processo di idealizzazione della persona oggetto di interesse è la proiezione, ovvero la tendenza a trasferire sull’altro, proiettandole, una serie di caratteristiche, di sentimenti, di impulsi e pensieri che probabilmente ci appartengono. In questo modo l’immagine che noi abbiamo dell’altro/a è spesso distante da quello che è in realtà, per cui questi viene rivestito di alcune qualità e si tenta di immaginare una perfetta sintonia con questa persona.

Tale situazione si collega ad altri processi che riguardano la personalità di colui che tende ad idealizzare un partner: c’è chi trova qualcuno che apparentemente rivela affinità e valori condivisi, così se l’ipotetico lui/lei muta il modo di essere e di pensare, non vengono più riscontrate queste affinità e quindi viene meno l’idealità riposta in quella persona. Viceversa, vi sono persone talmente immature nella relazione con l’altro che si costruiscono l’uomo o la donna ideali, senza fare i conti con la realtà

Certe psicologie sia maschili sia femminili sono state ben analizzate da scrittori uomini in misura maggiore rispetto alle scrittrici, visto che i dati ci spingono a considerare gli scrittori in numero maggiore rispetto alle scrittrici. Le cause di questo gap si conoscono: gli uomini hanno storicamente avuto più possibilità di potersi dedicare maggiormente alla scrittura rispetto alle donne, ma è pur vero, come dice Virginia Woolf, che se le donne avessero goduto di queste opportunità, sarebbero state quei geni celebrati al posto di tanti autori di sesso maschile come Shakespeare; e “nella vita come nell’arte,” afferma sempre Virginia Woolf, “i valori delle donne non sono i valori degli uomini” (1).

È indubbio quindi che le donne raramente hanno avuto la libertà di progettare il proprio destino rispetto agli uomini, in quanto sono state spesso condannate ad una atavica emarginazione e ad essere dipendenti dall’uomo: non potevano accedere all’istruzione (se non di base) e ad una professione.  è necessario dedurre, quindi, che le vite degli uomini sono state di gran lunga più libere di quelle delle donne, perché essi hanno sempre avuto la possibilità di leggere tutti i libri messi a loro disposizione oppure assistere a tutte le rappresentazioni teatrali, frequentare circoli culturali, scambiandosi idee su come scrivere dei romanzi. Tuttavia, in queste stanze, in cui molti di loro meditavano, e nelle esclusive serate letterarie in cui gli scrittori uomini erano soliti confrontare storie e tecniche narrative, avranno certamente attinto dai racconti delle donne (nonne, nutrici, madri) ad esempio sui dolori del parto, sulle intenzioni suicide di ragazze sedotte e abbandonate, di cui hanno riempito le proprie opere.

È opportuno dunque riflettere sul fatto che i maggiori stereotipi sulla donna “salvatrice” o fonte di dannazione presenti in molti romanzi di scrittori uomini, sono il frutto dell’immaginario maschile. Prendiamo ad esempio “I tre moschettieri” di Dumas, romanzo d’avventura ambientato nella Parigi del 1600 ai tempi di Luigi XIII e del cardinale Richelieu, essi sono eroi positivi sui quali aleggia l’atmosfera romantica dell’eroe coraggioso e affascinante al servizio dei reali, il cui prototipo è D’Artagnan. Invece Athos, sembra, di contro, avere ragione della sua sadica vendetta nei confronti di Milady, quando, catturata, si ritrova sola, in balia di un tribunale di uomini offesi e traditi da lei e affidata al boia, viene decapita senza pietà per decisione di Athos. O peggio ancora accade alle cosiddette eroine della letteratura dell’Ottocento, che cercano di emanciparsi sognando un amore totalizzante, abbandonandosi ad una relazione extraconiugale, come per esempio avviene per Madame Bovary, che è bistrattata dall’autore Gustave Flaubert, nella quale proietta la parte peggiore della sua formazione romantica di cui vuole liberarsi e le continue infedeltà di Louise Colette (la sua amante); anche la descrizione della morte di Emma, che si suicida a causa dei numerosi debiti contratti, non lascia spazio alla commozione, come se fosse la logica punizione dei suoi misfatti. Un atteggiamento più rispettoso nei confronti della sua “eroina” è quello di Lev Tolstoj nel suo romanzo “Anna Karenina”. Ma la passione di Anna nei confronti del conte Vronskij, viene vissuta come scelta, a dispetto delle ipocrisie e delle convenzioni sociali, difatti il marito voleva che lei continuasse a vivere sotto il proprio tetto coniugale pur mantenendo la sua relazione; invece la Karenina rompe con gli schemi conformistici di una società legata alle apparenze, abbandonando il marito e di conseguenza anche il figlio, e subendo la condanna sociale, per cui diventa lo strumento di Tolstoj per porre l’accento sulle disparità sociali e di genere. Infatti la morte di Anna Karenina, che si suicida gettandosi sotto un treno, non toglie valore alla denuncia del disagio che sgretola l’ipocrita società conformista e la relativa integrità dell’istituzione familiare, affermando una volontà di cambiamento e di verità. In un altro romanzo di Tolstoj, dal titolo “Sonata a Kreutzer”, è evidente la consapevolezza dell’autore delle ingiustizie sociali di cui le donne erano vittime: il protagonista Pozdnysev confessa ad uno sconosciuto di aver ucciso la moglie perché sospettata di averlo tradito con un musicista, ma poi ripensa al barbaro omicidio commesso e ammette “l’abisso di errori” in cui viviamo riguardo le donne e i rapporti con loro”, come se l’autore, attraverso  le parole del personaggio, sottolinei questo sbilanciamento dei sessi frutto di una società maschilista e  che si può evincere dalla sequenza,  del capitolo XIV del romanzo (rr.59-61): “si accorda libertà alla donna nei corsi universitari e nei tribunali, ma si continua a guardare a lei come a un oggetto di godimento; insegnatele a considerare se stessa nel modo in cui la consideriamo noi, ed essa rimarrà sempre una creatura inferiore.”(2)

Altro autore che proietta le sue paure nella relazione con l’altro sesso è Henry James, il quale nella sua opera “Ritratto di signora” sembra tratteggiare un personaggio femminile che incarna la donna americana moderna: Isabel Archer, protagonista del suddetto romanzo. Isabel sembra apparentemente indipendente e, dopo aver ereditato un cospicuo patrimonio, vuole dedicarsi ai viaggi e ad una vita ricca di esperienze, senza pensare al matrimonio, ma la trappola romantica le viene tesa da Gilbert Osmond che la fa innamorare di sé e la sposa. Però l’incomprensione tra i due è frutto delle paure di Osmond per l’autonomia intellettuale di Isabel, come si evince da un passo del quarantaduesimo capitolo: “La sua mente avrebbe dovuto appartenere a lui, essere una dipendenza della sua come un giardinetto lo è di un parco di cervi. […] non voleva che fosse una stupida. Al contrario perché era intelligente che gli era piaciuta. Ma si aspettava che questa intelligenza operasse completamente a suo favore.” (3)

L’intenzione di James, in realtà, nel costruire questo personaggio femminile, è quella di sottolineare le difficoltà relazionali nella vita di coppia, soprattutto quando si corre il rischio che ci sia la sopraffazione di un elemento sull’altro. Difatti a causa del suo solipsismo, lo scrittore James non ha mai vissuto un rapporto stabile con una donna, fattore che ha determinato le sue difficoltà di relazione con l’altro sesso. Ad avere invece ben tratteggiato una donna moderna, benchè americana di adozione e non di nascita, è Edith Wharton con il personaggio di Ellen Olenska del romanzo “L’età dell’innocenza”. Ellen separatasi dal marito, uomo rude e violento, rivendica con il divorzio la sua libertà, ma ciò provoca la condanna verso di lei da parte di una società puritana e retriva qual è quella americana della fine dell’Ottocento. La Warton denuncia così queste contraddizioni di due culture falsamente perbeniste e sessiste: quella europea e quella americana.

Le opportunità degli scrittori di raccontare storie e fare della scrittura uno strumento di comunicazione per eccellenza e di affermazione del proprio talento sono state anche favorite dalla presenza di una donna.

Difatti, la scrittrice  Ginevra Bompiani nel suo libro “L’altra metà di Dio” sostiene che “all’inizio dei tempi” dal periodo del matriarcato, quando non c’erano ancora storie da leggere ma solo da ascoltare, e poiché “anche le storie hanno il loro inconscio”, la narrativa degli uomini non sarebbe altro che la parte sepolta e oscura della narrativa orale femminile.

Figure fondamentali che hanno svolto un ruolo significativo nel destino di numerosi scrittori, influenzandone la scrittura, sono quelle delle madri.

Ad esempio, lo scrittore Roman Gary, nel libro autobiografico “La promessa dell’alba” idealizza la propria madre, Mina Owczynska, dandone un’immagine “monumentale”. Lei era di origini lituane e si trasferisce a Nizza con il figlio ancora adolescente, il cui nome era Roman Nacew. Nel capitolo “Una madre, troppe donne”, lo scrittore riporta il giudizio di un amico riguardo la madre dell’autore:  “vostra madre avrebbe dovuto fare il conservatorio; disgraziatamente gli avvenimenti non le hanno consentito di sviluppare il suo talento […]” lo scrittore apprende anche che era stata figlia di un orologiaio ebreo di Kursk, nella steppa russa. Di lei Roman ricorda “una voce melodiosa […]; un riso spento di una felicità stupefacente […], un profumo di mughetto, una capigliatura scura che mi cade a ondate sulla faccia”. (4)

Fu sempre la madre a voler cambiare il nome di Roman in Romain Gary, come pseudonimo, perché più idoneo per un futuro scrittore rispetto al suo cognome russo: il cognome Gary ricordava il nome di un divo del cinema americano (Gary Cooper), benchè “Gary” è il modo imperativo russo che significa “brucia”, in quanto la madre sperava che il figlio, infervorato dalla passione della scrittura, potesse un giorno diventare un grande scrittore e un uomo di successo.

In realtà, altre donne hanno avuto un ruolo importante nella vita di Romain Gary per la sua formazione di uomo e di scrittore e se pose fine alla sua vita con un suicidio meditato ad arte (di cui parla nel romanzo “Vita e morte di Emile Jair”), lo fece per la paura di invecchiare e di perdere tutte le sue energie vitali.

Un rapporto più conflittuale ebbe invece lo scrittore Alberto Moravia con la propria madre, che influì fin dall’età adolescenziale, nel far maturare in lui un’ambiguità dal punto di vista sessuale: una forma di omosessualità latente, palpabile in molti suoi romanzi. Ad esempio, il ritratto di una madre fredda e distaccata si evince nel romanzo “Agostino”, in cui è pure ben delineata psicologicamente l’esperienza omosessuale del protagonista oppure ne “Il conformista”, nel quale il personaggio della moglie del professor Quadri, circuisce con ambiguo interesse Giulia, moglie di Marcello Clerici.

Se il rapporto edipico di Moravia con la madre condizionò le sue relazioni con le donne, in Kafka la relazione con l’altro si instaura in modo problematico, a causa dell’ostilità e dell’odio dello scrittore nei confronti del padre; questa conflittualità si ripercuoterà difatti sulla sua sfera sentimentale e nei rapporti con le donne, per le quali Kafka nutrì morbose e selvagge passioni, con una totale assenza di equilibrio (infatti non si sposò mai).

 

 

Un altro tema di cui gli uomini hanno nutrito la letteratura è quello del coraggio, del senso dell’onore, e della guerra, come   violenza distruttiva e crudeltà. Tolstoj in “Guerra e pace” come in molti altri suoi romanzi descrive la guerra come un carneficina prodotta da uomini-boia e solo pochi “uomini”, in cui prevale il senso di humanitas,  esprimono il loro eroismo denunciando la follia delle guerre e dimostrano una superiorità spirituale e morale anche nei confronti dei propri simili.

Infatti Freud nel suo saggio “Eros e Thanatos” parla della doppia natura delle pulsioni umane: quella legata alla ricerca del piacere e del desiderio e quella legata invece alla distruzione e alla morte, per cui le guerre, i genocidi e distruzioni di ogni tipo sono connaturate alla natura umana. Ma c’è da chiedersi: fino a che punto il genere femminile partecipa di questo aspetto distruttivo dell’uomo contro il proprio simile?

In effetti, nel libro “Le tre ghinee” di Virginia Woolf, pubblicato nel 1938, l’autrice, immagina di ricevere una lettera da un’associazione con una richiesta di denaro per tre cause diverse. Una di queste è la diffusione della cultura della pace attraverso la costruzione di un college che dovrebbe insegnare “non l’arte di dominare sugli altri […] di uccidere, di accumulare terra e capitale, bensì l’arte di comprendere la vita in cui si eliminano conflittualità, competitività e odio”. (5)

Oltre al tema della guerra che connota la letteratura maschile, vi è anche quello del rito di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Emblematico, a tale proposito, è il romanzo di Joseph Conrad, “La linea d’ombra”, in cui il protagonista sperimenta questa fase evolutiva con la sua capacità di essere un coraggioso uomo di mare e la guida di una nave, che gli era stata affidata, diviene una prova di virilità. Difatti, lo scrittore e critico letterario, Alberto Aros Rosa, nel saggio “L’eroe virile”, dice appunto che la linea d’ombra è la prova crudele per diventare se stessi.

A questo punto c’è da chiedersi se questo rito di passaggio fra l’età adolescenziale e quella adulta riguardi solo gli uomini e non le donne. In realtà, le prove di coraggio e resistenza al dolore sono prova di virilità per eccellenza e in tutte le civiltà sono legate all’avventura e alla capacità dell’uomo di superare diversi ostacoli. I riti di passaggio al femminile sono invece connessi ai soli cambiamenti fisiologici con l’assenza di prove da superare: nella donna il passaggio alla maturità coincide con la comparsa del ciclo mestruale, che viene vissuto a livello psicologico con timore e turbamento e la resistenza al dolore viene sperimentata durante le doglie del parto .

Se nella letteratura maschile comunque emergono questi aspetti identificatori e relazionali, ciò non significa che questo possa valere per molti scrittori, i quali non usano un linguaggio e una cultura inclini al solo mondo maschile. Raramente gli scrittori leggono opere di donne con l’intento di scoprire la loro vera visione dei sentimenti e del mondo, e difficilmente si sono immedesimati in loro, tranne qualche rara eccezione.

Tra i pochissimi intellettuali che hanno letto le donne e che hanno riconosciuto il genio femminile, anche nella loro formazione letteraria e umana, vi è lo scrittore Roberto Calasso, che nella sua opera autobiografica “Memè Scianca” dice: “Quella notte non finiva mai. Volevo andare avanti ad ogni costo, precipitare a capofitto nella storia, che era anche la prima storia d’amore ad avermi conquistato […] credo che fino ad allora non sapessi con esattezza che cos’è la passione […] il libro della Bronte apriva la via verso una regione ignota e fascinosa di cui nessuno parlava”. (6)

Anche la scrittrice inglese Jane Austen è stata capace di immedesimarsi nei suoi personaggi femminili, scandagliando il loro animo e riuscendo a scardinare quella cultura patriarcale e classista che vedeva i padri borghesi inglesi costringere le loro figlie a tentare l’escalation sociale, sposando ricchi aristocratici. Attraverso i personaggi di Elisabeth Bennet e Fitzwilliam Darcy, l’autrice cerca di scardinare gli stereotipi della società inglese del tempo in cui l’uomo aveva bisogno di una donna sottomessa e servile che lo affiancasse negli affari pubblici per avere una propria rispettabilità sociale. La donna doveva appunto curare l’economia domestica e assicurare una stirpe. Infatti Elisabeth, rispetto alle altre donne della famiglia, risulta poco frivola e non incline ad una sistemazione matrimoniale a tutti i costi e sa mantenere alto l’onore della sua famiglia quando verrà umiliata per la sua inferiorità di classe.  Darcy, infatti, appare freddo, distaccato e sprezzante nei confronti di chi non è alla sua “altezza”, ma entrambi riescono a superare il pregiudizio dovuto alla differenza di classe e l’orgoglio che cela i loro veri sentimenti.

La modernità del personaggio di Elisabeth si vede in questo dialogo del trentaquattresimo capitolo «Fin da principio, posso quasi dire dal primo momento della nostra conoscenza, i vostri modi mi hanno rivelato tutta la vostra arroganza, la vostra presunzione e il vostro egoistico disprezzo dei sentimenti altrui. Questo è bastato a formare la base di quella disapprovazione sulla quale gli eventi successivi hanno costruito una irremovibile antipatia; […] sareste stato l’ultimo uomo al mondo che io avrei pensato a sposare!» (7), dopo che Darcy le aveva rivolto queste parole: <<Non mi vergogno dei sentimenti che vi ho palesato. Erano giusti e naturali. Vi aspettavate forse che mi rallegrassi dell’inferiorità della vostra famiglia? Che mi congratulassi di acquistare dei parenti, la cui posizione nella scala sociale è di tanto inferiore alla mia?» (8)

Successivamente invece, quando Darcy si adopererà per la felicità di una delle sorelle di Liz, acquista valore ai suoi occhi, ma soprattutto la dignità di lei fa emergere la parte veramente nobile e sentimentale di lui, che rinnega il suo orgoglio, soprattutto quando dice: << Da bambino mi hanno insegnato quello che è bene, ma senza insegnarmi a correggere il mio carattere. Mi furono dati dei buoni princìpi ma permisero che li seguissi pieno di orgoglio e di presunzione. Purtroppo, come unico maschio, e per molti anni anche come figlio unico, sono stato viziato dai miei genitori che […], permisero, incoraggiarono, quasi mi insegnarono a essere egoista e altero, […] a giudicare quasi con disprezzo tutto il resto del mondo o, perlomeno, a pensare che il giudizio e il valore degli altri era poca cosa in confronto al mio.>> (9)

Entrambi i personaggi, quindi, mettendo da parte gli aspetti negativi del loro modo di essere, riescono così a raggiungere un perfetto equilibrio etico e umano.

 

 

 

 

Bibliografia

1.    Tratto da “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf

2.    Tratto da “Sonata a Kreutzer” di Lev Tolstoj,(capitolo XIV),  trad. di Mario Visetti, Bur Rizzoli, 1980

3Tratto da “Ritratto di signora” di Henry James

4.    Tratto da “La promessa dell’alba” di Roman Gary

5.    Tratto da “Le tre ghinee” di Virginia Woolf

6.    Tratto da Memè Scianca di Roberto Calasso

7.    Tratto da “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen, cap. trentaquattresimo.

8.    Ibidem

9.    Ivi, capitolo cinquantottesimo

 

 

 

 

 

 

*

- Letteratura

L’identità di genere nell’umorismo pirandelliano

Pirandello è un autore moderno e di respiro mitteleuropeo, in quanto nella sua poetica si trovano tematiche vicine alla filosofia tedesca e all’arte espressionista.

Pirandello infatti, pur essendo siciliano, nativo di Girgenti e appartenente ad una famiglia di commercianti di zolfo, poté studiare prima a Palermo e poi Roma e a Bonn, da cui trarrà un arricchimento decisivo per la sua formazione culturale: inizia la traduzione delle “Elegie romane” di Goethe, e nel marzo 1891 si laurea in Glottologia con una tesi sul dialetto di Girgenti, dal titolo “Suoni e sviluppi di suono nella parlata di Girgenti”.

Nel frattempo aveva già pubblicato delle opere, come il poemetto “Pasqua di Gea” del 1891 e poi, sotto l’influsso di Capuana, si dedica alla narrativa, con la pubblicazione del romanzo “L’esclusa” del 1901.

Ritornato in Italia, la sua vita è fervida dal punto di vista culturale, pubblica diverse opere e ha legami con alcuni scrittori e giornalisti e soprattutto con Luigi Capuana, mentre dal punto vista individuale e affettivo è più travagliata, dato che Pirandello tronca il fidanzamento con la cugina Lia.

Pertanto, a causa della continua precarietà economica della famiglia, lo scrittore decide di contrarre un “matrimonio di surfaro”, un legame cioè tra famiglie che si dedicano al commercio dello zolfo per tutelare i reciproci interessi: così, nel 1894 sposa Antonietta Portulano. Nello stesso anno pubblica la raccolta di novelle “Amori senza amore”. Ben presto però, mal sopporta la distanza intellettuale che lo separa dalla moglie, ingenua e incolta, e che inizia a manifestare i primi segni di fragilità psichica. E quando poi la moglie apprende la notizia dell’allagamento della solfara di famiglia, viene colta da una paralisi e successivamente sarà rinchiusa in manicomio. Forse proprio a causa di questa difficile situazione familiare lo scrittore rappresenta nelle sue opere il tema della famiglia intesa come trappola, così come anche la follia sarà una tematica sempre presente nella sua poetica. Però, da scrittore moderno, è legato a molte problematiche esistenzialiste e soprattutto alla scissione dell’individuo tra essere e apparire, tra vita e forma, cogliendo spesso l’assurdo e il caso che condizionano l’esistenza dell’uomo.

In una società che nei primi anni del Novecento era in pieno mutamento, non poteva sfuggire al nostro conterraneo il problema dell’emancipazione femminile. In effetti un’attenzione verso questa tematica è costituita dalla recensione di Pirandello al romanzo “Una donna” di Sibilla Aleramo, pubblicata su “La gazzetta del popolo” il 27 dicembre 1906. Si tratta di un romanzo autobiografico, che la scrittrice pubblica con il fine di far conoscere, soprattutto al figlio, la scelta necessaria e inevitabile che lei fu costretta a compiere, quale l’abbandono del tetto coniugale per sottrarsi alle violenze fisiche e psicologiche di un marito rozzo, incolto, violento e legato a stereotipi maschilisti: le impediva di leggere, scrivere articoli e avere relazione culturali con altri uomini. Unica gioia per la scrittrice fu  appunto la nascita del figlio Walter, ma quel senso di soffocamento causato dall’essere reclusa in un paesino del Centro-sud, fortemente legato allo stereotipo dell’uomo “pater familias” e della donna “angelo del focolare” determinò il tentativo di suicidio dell’Aleramo. Successivamente riuscirà a trovare la forza di una possibile liberazione nella scrittura.

Si trasferisce così a Roma, diventando direttrice della rivista “L’Italia femminile” su cui scrivevano studiosi e intellettuali del calibro di Ada Negri, Giovanni Cena, Maria Montessori, e coordina le attività del movimento femminista: si batterà quindi, insieme ad altre donne, per rivendicare il diritto di voto femminile e la parità tra i sessi.

Tuttavia, in quella recensione Pirandello giudica il romanzo di Sibilla Aleramo da un’ottica più maschile che femminile;

lo scrittore agrigentino da un lato esprime ammirazione per la scrittura di Sibilla Aleramo, ma, partendo dal principio dell’arte umoristica, per cui essa non deve rappresentare la vita, giudica in modo negativo l’autrice per aver ridotto a materia di romanzo la sua vita personale e avere trasmesso, mediante l’opera, valori e ideali quali il rispetto della persona umana, dell’emancipazione della donna, mettendo in secondo piano il suo ruolo di madre.

In Pirandello infatti, prevale una visione della vita volta alla relativizzazione di tutti i valori, in cui l’uomo non esiste più nella sua interezza, ma è frantumato in molteplici rappresentazioni. Impossibile voler trovare tale finalità nell’opera di Sibilla Aleramo, che attraverso il suo romanzo intende far prendere coscienza ad un pubblico di lettori, sia donne che uomini, borghesi e non, della marginalità della condizione femminile e del mancato riconoscimento dei suoi diritti  in una società legata ancora a codici patriarcali di discriminazione sessista.

Pertanto, con il romanzo “Una donna”, l’autrice intende spingere le istituzioni governative e la classe politica del tempo a farsene carico. In realtà, in Pirandello la lettura di questo romanzo ispirerà la realizzazione di un’opera sull’emancipazione femminile, dal titolo “Suo marito”, in cui il personaggio di Silvia Roncella, proiezione dello scrittore siciliano, riesce ad imporsi con la sua arte creativa in un ambiente dominato da scrittori di sesso maschile, diventando consapevole del suo talento di artista. Lei è una donna semplice, sposata a Giustino Roncella (nato Boggiolo) ed ha una grande dote, quella di saper scrivere, ma che avverte con un senso di colpa, come se fosse per questo meno virtuosa, visto che nello stereotipo maschilista una donna scrittrice trascurerebbe le cure domestiche. Il marito, invece, per niente infastidito dalle doti della moglie, diviene anzi il “promoter” dei romanzi e delle novelle di Silvia, che fa tradurre in tedesco, ricavandone dei buoni profitti.

Lei però, quando prende coscienza del fatto che il marito considera la sua arte una fonte di guadagno e speculazione, attraversa una crisi di ispirazione e non è più in grado di scrivere.

La Roncella in realtà prende coscienza di essere un semplice oggetto delle aspirazioni e ambizioni del marito quando si trasferisce, per riprendersi dal parto, nelle montagne della Val Susa, e precisamente a Cagiore, paese natale di Giustino, venendo accudita dalla suocera.

Lì ha una rivelazione, quella di essere una vera scrittrice.

La svolta interiore di Silvia è il frutto della tranquillità di quel luogo e del contatto con una natura così pura, fonte di emozioni: ammirava quelle nuvole e quei monti <<che sembravano ora languide […] ora tonando e lampeggiando assalivano quei monti con furibondi impeti di rabbia>>.

In questa cornice naturale lei sperimenta ancora di più l’epifania dell’assoluto, nella quale si rivela la sua vocazione letteraria,. Pertanto, consapevole del proprio genio artistico, non vuole più ridursi a oggetto delle ambizioni del marito che vuole renderla una macchina produttrice di opere, così Silvia si rimpadronisce di se stessa e delle sue doti.

 La sua ribellione coincide quindi con l’allontanamento dal marito per abbandonarsi successivamente ad una relazione con Maurizio Gueli, il quale invece ha sempre creduto nella sua arte.

Pirandello in realtà in questo romanzo non è uno scrittore “femminista”, in quanto la protagonista Silvia Roncella, la cui interiorità è ben delineata nella seconda parte del romanzo, costituisce il suo alter ego, in quanto la donna  rompe con la maschera della madre amorosa, subordinata all’uomo, per diventare una scrittrice libera di esprimere tutta se stessa nelle sue opere.

Un altro piano di interpretazione è legato all’analisi del rapporto tra il marito e le opere composte dalla protagonista, in quanto Giustino Boggiolo rappresenterebbe quel mondo ridicolo e vuoto dei salotti intellettuali e di tanto giornalismo critico che alluderebbero alla mercificazione dell’arte, divenuta prodotto di consumo per un pubblico borghese mediocre e incolto.

In effetti, a rendere interessante il personaggio di Silvia Roncella è la chiave umoristica attraverso cui viene presentata la sua figura che, riconquistata la sua autonomia, è riuscita a smascherare l’io egocentrico maschile del marito e dell’amante Maurizio Gueli. Entrambi rappresentano infatti quel fallimento superomistico che si erano costruiti, all’ombra delle proprie compagne: il Gueli, che avrà paura di vivere pienamente la relazione con Silvia, tornando dalla vecchia amante, il marito  che invece subirà la solitudine a causa del suo goffo arrivismo; essi sono l’emblema del loro imploso narcisismo: una sorta di beffa che Pirandello attua di quell’ideologia di virile mascolinità che il ventennio fascista imporrà, irridendo quell’immaginario femminile primonovecentesco in cui la donna veniva descritta come femme fatale, divoratrice dell’energia vitale maschile, arrampicatrice sociale, ballerinetta goffa e ammaliatrice dai comportamenti isterici, madre arcigna e snaturata  oppure come figura materna, protettiva e rassicurante.

                                                                  Giuseppina Bosco

 

  

 

 

 

 

 

 

*

- Letteratura

Trio, l’ultimo romanzo di Dacia Maraini

"TRIO"

L’ULTIMO ROMANZO DI DACIA MARAINI

Con quest’ultimo romanzo, ambientato durante la la peste che colpì Messina nel 1743, Dacia Maraini affronta il tema dell’amicizia e della solidarietà che unisce due donne, Agata e Santuzza, il cui legame ha radici profonde e risale all’infania, quando insieme ricamavano sotto “lo sguardo severo di suor Mendola”.

La ricostruzione dell’atmosfera di morte e di paura a causa dell’epidemia che si diffonde di più a Messina, ma in reltà in quasi tutta l’isola, è molto simile alla drammatica situazione che abbiamo vissuto negli ultimi mesi in tutta Italia per la pandemia causata dal Covid-19.

 Simili sono i sentimenti di angoscia e l’isolamento degli abitanti a causa dei contagi descritti dall’autrice. La decimazione della popolazione di Messina, per la peste propagatasi, ci riporta alla tragica esperienza dei numerosi decessi dei mesi scorsi nelle zone rosse di alcune regioni d’Italia (Lombardia, Emilia Romagna, ecc…). Il lungo periodo di quarantena, che ha bloccato la vita sociale ed economica facendoci ripiombare in una situazione da dopoguerra per la mancanza di alcuni generi di prima  necessità, è uguale alla descrizione del disagio provato dalle protagoniste per le difficoltà nel recuperare le scorte di cibo.

Naturalmente al centro dell’opera “Trio” vi è la complicità e i sentimenti delle due donne, che si manifestano e si rafforzano attraverso il reciproco scambio epistolare, nonostante l’epidemia le allontani fisicamente. Ciò che le unisce è la condivisione dell’amore per lo stesso uomo, Girolamo: marito di Agata e amante di Annuzza. Questo equilibrio di un rapporto a tre si rivela necessario per capire meglio la psicologia maschile.

La contesa dello stesso uomo è uno dei “topos” della letteratura, e soprattutto della narrativa del Settecento-Ottocento, ma nella storia narrata in questo racconto lungo (più che romanzo) si supera lo stereotipo del triangolo marito-moglie-amante per dare spazio a forti e profondi valori come l’amicizia, la generosità, la solidarietà, che vissuti da donne cementano un grande legame di “sorellanza”.

Se spesso nella vita degli uomini l’amore di diverse donne alimenta il loro narcisismo, in questo romanzo l’uomo è una figura evanescente: compare quando è evocato nelle confidenze delle due donne per poi allontananarsi e rinchiudersi nel suo isolamento. Soffocato dall’amore smisurato della madre, Girolamo rivela quindi le sue fragilità e debolezze. Ama la moglie Agata ed è legato alla figlia Mariannina, ma nello stesso tempo nutre una grande passione per Annuzza, che gli riempie alcuni vuoti della sua esistenza: “ Per lui due donne che amano lo stesso uomo non possono che pensare al velendo o al coltello”, e invece il legame tra Annuzza e Agata non è contaminato dalla gelosia e si rafforza sempre di più.  In una lettera Agata scrive ad Anna, ricordandole i loro giochi da piccole “Mi è piaciuto il modo in cui mi lanciavi la palla di stracci dell’infanzia, senza competere con me, ma come se volessi parlarmi nel linguaggio allegro e arcano del gioco”; forse Girolamo rappresentava quel giocattolo dell’infanzia, la cui preziosità è costituita dal modo con cui le donne lo guardano e lo ammirano.  Questo sguardo a due richiama specularmente la teoria di Ariostotele sull’essenza dell’amicizia, quando afferma che “L’amicizia è sola anima che abita in due corpi, un cuore che batte in due anime” e nell’universo femminile, rappresentato dall’autrice, questo unico sguardo di Agata e Annuzza è volto a considerare con compassione e tolleranza le “miserie umane”.

Se il Settecento è stato già lo scenario del romanzo “La lunga storia di Marianna Ucria”, che racconta del trauma della giovane aristocratica Marianna (a causa dello sturpro subito a soli tredici anni da uno zio, perdendo l’uso della parola), la cornice dell’epidemia di peste di Messina del 1743 consolida invece la gioia di un antico rapporto di amicizia tra le due protagoniste e in questo consiste la libertà e “l’emancipazione” di Agata e Annuzza; così come la scrittura e la lettura costituiranno il tramite attraverso cui Marianna Ucria si ribellerà a quel mondo ipocrita della nobiltà settecentesca, in cui il prestigio di facciata era più importante della felicità di una persona, visto che la famiglia la aveva data in sposa al suo stupratore.

I romanzi di Dacia Maraini, ambientati  in epoche storiche del passato o più contemporanee, al cui interno  sono narrate vicende di donne (adolescenti, madri, bambine, ecc…) sono un pretesto per riflettere non solo sulla condizione femminile, ma sull’ umanità in generale.

La capacità dell’autrice è quella di saper cogliere tutte le sfumature della sensibilità dell’animo umano, riuscendo tuttavia a rendere sublimi i sentimenti e le peculiarità dell’universo femminile.

 

GIUSEPPINA BOSCO

*

- Letteratura

La manomissione delle parole

 

Saggio sul libro La manomissione delle parole 

di Gianrico Carofiglio

Gianrico Carofiglio, magistrato e uomo politicamente impegnato, ha rivelato doti di scrittore, soprattutto di romanzi gialli, in special modo quelli dell’avvocato Guido Guerrieri e del maresciallo Pietro Fenoglio. Nell’ottobre 2011 è stato finalista al Premio Strega con il romanzo “Il silenzio dell’onda”; nel 2012 scrive il saggio “La manomissione delle parole”.
Il saggio è nato per caso, in quanto l’autore nel precedente romanzo dal titolo “Ragionevoli dubbi” aveva citato tale opera attraverso Ottavio, uno dei protagonisti del romanzo, proprietario della libreria “L’osteria del caffellatte”.
Questo libro, che di fatto non esisteva, ha indotto lo scrittore a scriverlo e a spiegarne il titolo “La manomissione delle parole”. Come si può evincere da una sequenza delle prime pagine del saggio, l’autore chiarisce: “Le nostre parole sono spesso prive di significato. Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare, dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle.”1
Il termine “manomissione”quindi può avere diverse interpretazioni in base al suo utilizzo: può essere sinonimo di “alterazione, violazione, danneggiamento” oppure assumere una valenza diversa quando è manipolata da un regime politico per creare consenso.
Dunque l’uso delle parole è fondamentale nella creazione della realtà. Lo scrittore per questo motivo, cita Rosa Luxemburg la quale affermava che “chiamare le cose con il loro nome è un atto rivoluzionario” e pertanto bisogna conoscere e usare le parole per comprendere la situazione comunicativa.
Ed è pertinente anche la citazione del saggio di Orwell del 1946 “La politica e la lingua inglese”, in cui l’autore si ribellava all’uso di un linguaggio vuoto, fatto di metafore e similitudini vuote.
Per lui, infatti, la lotta contro l’inglese moderno era un primo e necessario passo verso il rinnovamento della politica.
Nel romanzo “1984”, Orwell dimostra questo processo “patologico” di un nuovo linguaggio che si converte all’ideologia dominante con l’eliminazione di parole chiave del lessico politico e civile.
Il regime di Oceania, luogo inventato dallo scrittore britannico, crea un nuovo linguaggio eliminando alcune parole per rendere impossibile ogni altra forma di pensiero, riducendo al minimo il lessico; pertanto, parole come “libertà”,”democrazia”,”rivoluzione” e tante altre vennero eliminate dal vocabolario affinchè la popolazione non potesse comprendere e capire la propria condizione di subalternità.
Un’altra citazione di rilievo presente nel saggio di Carofiglio , riguarda uno studio dello storico e filologo Klemperer (ebreo figlio di un rabbino che nel 1912 si convertì al protestantesimo) sul linguaggio del Nazismo, dal titolo”La lingua del terzo Reich”. In quest’opera è dimostrato che la lingua del potere è pervasiva nel senso che, attraverso frasi fatte e ripetizione di parole in modo ossessivo, essa si insinua “nella carne e nel sangue del popolo” (Riscattare la patria, insistere sull’eroismo dei tedeschi e sul giudeo nemico).
Se Orwell nel suo romanzo distopico aveva creato un mondo “orribile” attraverso le parole, ma che esisteva solo nella realtà della scrittura, Klemperer, invece, attua uno studio filologico e attento della lingua del terzo Reich, utilizzata come lingua del regime, perché fondata su un unico modello di pensiero e basata su un vocabolario minimo.
Di contro, una società democratica si basa sul numero di parole conosciute e usate, difatti il giurista Gustavo Zagrebelsky nel suo saggio “ Imparare la democrazia” dice: “Il numero delle parole conosciute è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica”2. E anche l’etica democratica include la fede in qualcosa “la cura delle personalità individuali, lo spirito del dialogo, il senso di uguaglianza, l’apertura verso la diversità, la diffidenza verso le decisioni irrevocabili, l’atteggiamento sperimentale, la responsabilità dell’essere maggioranza e minoranza, l’atteggiamento altruistico.”3
Un aspetto importante del saggio riguarda soprattutto il significato che l’autore vuole attribuire a cinque parole chiave del nostro lessico, come vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta.
La parola “vergogna” si contrappone a decoro,dignità,onore.
Se nelle lingue classiche tale termine deriva da “verecondia”,e dal verbo vereor,che significa “rispettare”, in italiano, invece, il termine vergogna è legato al sentimento della violazione dinanzi a se stessi e dinanzi agli altri di una norma, di un principio etico.
Invece il termine “giustizia” si contrappone ad "ingiustizia e a parzialità", perché nel termine giustizia è anche insito per estensione il concetto di libertà; è in virtù della giustizia che si garantisce la libertà ai cittadini e le leggi non devono essere parziali, nel senso che non devono fare gli interessi di una parte, ma devono garantire tutti.
Infatti, come lo studioso John Rawls ha scritto, “La giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali,così come la verità è il primo requisito del pensiero”. Del termine “ribellione”, i suoi contrari sono repressione, obbedienza, rassegnazione e tirannia.
Ribellione significa “dire di no”, ma non in senso anarchico, cioè non volendo rispettare le leggi, ma con l’intenzione di contestare leggi ingiuste: “È un’arte difficile e perduta, quella di dire no. No alla brutalità della politica, no alla follia delle ingiustizie economiche che ci circondano, no all’invasione della burocrazia nella nostra vita quotidiana. No all’idea che si possano accettare come normali le guerre, la fame, la schiavitù infantile”.4
E quindi, quando la democrazia può essere attaccata e messa in pericolo, "ribellarsi è giusto ed è un gesto di responsabilità”5.
Per quanto riguarda il termine “Bellezza”, dal punto di vista semantico non concerne la sola categoria estetica ma anche quella morale, difatti la bellezza si contrappone alla bruttezza, all’orrore, alla grossolanità, alla sgradevolezza, alla sconcezza: “La bellezza senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei”, come asserisce Camus in “L’uomo in rivolta”.
Se analizziamo invece la parola“Scelta”, essa comprende come suoi opposti i termini rinuncia ed indifferenza. Quest’ultima , così come Bob Dylan la definiva nella canzone Blowin’ in the wind, è “la più insopportabile dimostrazione di un’inumanità dell’uomo sull’uomo”e la risposta, per l’artista irlandese, “soffia nel vento”, cioè a dire che, di fronte alle ingiustizie sociali più insopportabili e alla corruzione più intollerabile, l’uomo non può voltare la testa e far finta di non vedere, ma la sua scelta responsabile è quella di denunciare e di reinventare un mondo più umano. Lo stesso messaggio che Antonio Gramsci pubblica nella sua rivista del 1917 "La città futura", nell'articolo dal titolo “Contro gli indifferenti” che giunge a noi come un grande manifesto politico e morale: “L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.”
Scegliere, invece, significa partecipare, prendere posizione, quindi non essere indifferenti. scegliere può significare tante cose e può essere anche connesso con il termine libertà.
Dobbiamo però,oltre a queste parole astratte che comunque sono fondamentali nella costruzione di un sistema di valori, fare riferimento al saggio di George Simenon che parla di" parole materia" cioè di parole che significano per tutti la stessa cosa.
Si costruiscono le frasi più semplici con parole concrete come “vento”, “caldo”, "freddo"; parole più tecniche che sono tipiche dei testi pragmatici e riportano informazioni necessarie all'utilizzo del destinatario, ma non per questo viene meno lo stile formalmente perfetto. La Costituzione italiana ad esempio è considerata dal punto di vista linguistico eccellente e anche letterariamente elegante, perchè è un testo che comprende un lessico di base, come sostiene il linguista Tullio De Mauro, chiaro ed esauriente sul piano concettuale.
In definitiva, quello che bisogna ribadire, per quanto riguarda l'importanza della nostra lingua italiana, è che la ricchezza della lingua corrisponde all'arricchimento dei concetti e delle opportunità culturali, e pertanto la semplificazione estrema del linguaggio e un uso povero delle parole crea le maggiori diseguaglianze ed emarginazioni sociali.

Giuseppina Bosco   

 


Note
1: G. Carofiglio, La manomissione delle parole, pg. 13
2: G. Zagrebelsky, Imparare la deocrazia, Torino, Einaudi, 2007
3: op. cit.
4: G. Carofiglio, op. cit, riferimento a Josè Saramago, pag. 98.
5: Cfr. J. P. Sartre, Ribellarsi è giusto! Editore Pgreco, 2012