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Raccolta di articoli di Redazione LaRecherche.it
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Intervista

Gli autori di Il ramo e la foglia edizioni

 

Proponiamo qui i collegamenti alle pagine con le interviste agli autori della casa editrice nostra partner Il ramo e la foglia edizioni, interviste rilasciate in occasione della pubblicazione del rispettivo libro riportato a fianco del nominativo dellautore:

 

🙋‍♂️ Roberto Maggiani, autore di Poscienza (poesia)

🙋‍♂️ Stefano Moscatelli, autore di Fuori di strada (racconti)

🙋‍♂️ Massimiliano Città, autore di Agatino il guaritore (romanzo)

🙋 Serena Penni, autrice di La destinazione (romanzo)

🙋‍♂️Paolo Ruffilli, autore di Maschere e figure. Repertorio dei tipi letterari (saggio)

🙋‍♂️Francesco De Girolamo, autore di Luci segrete (haiku)

🙋‍♂️Davide Antonio Pio, autore di Anche se fosse vero (romanzo)

🙋‍♂️Luigi Weber, autore di Navi nel deserto (romanzo)

🙋‍♂️Pedro Eiras, autore di Bach (racconti)

🙋‍♂️Armando Santarelli, autore di È un demonio, quel Proust! (saggio)

🙋‍♂️Raffaele Donnarumma, autore di La vita nascosta (romanzo)

🙋‍♂️Francesco Tronci, autore di L’età della rovina (romanzo)

🙋‍♂️Alberto Toni, autore di Tempo d’opera (saggio)

🙋Giulia Tubili, autrice di Codice a sbarre (racconti)

🙋Sophia de Mello Breyner Andresen, autrice di Il giardino di Sophia (poesia)

🙋‍♂️Gennaro Oliviero, autore di Il mio Proust (saggio)

🙋Emanuela Monti, autrice di Memorie di unavventuriera (romanzo)

🙋‍♂️Alessandro Cortese, autore di La mafia nello zaino (romanzo)

🙋‍♂️Elio Pecora, autore di Tre monologhi (racconti)

🙋‍♂️Manuel de Freitas, autore di Poco allegretto (poesia)

🙋‍♂️Carlo Kik Ditto, autore di Immacolata intercessione (romanzo)

🙋‍♂️Gualberto Alvino, autore di Rethorica novissima (poesia)

🙋Concetta D’Angeli, autrice di Le rovinose (romanzo)

🙋Margherita Pascucci, autrice di Il tempo tessuto di Dio (saggio)

🙋‍♂️Alessandro Trasciatti, autore di Acrobazie (racconti)

🙋‍♂️Timothy Megaride, autore di Adolesco (romanzo)

🙋Mariella Bettarini, autrice di Haiku alfabetici (haiku)

🙋‍♂️Leonardo Bonetti, autore di L’isola che non c’era (romanzo)

 

 

 

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- Intervista

Gabriele Greco

 

L’autore qui intervistato è Gabriele Greco, terzo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VII edizione 2021, nella Sezione B (Racconto breve).

 

 

Ciao Gabriele, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?

 

Salve a tutti, mi chiamo Gabriele Greco. Sono salentino di origini, ma motivi professionali mi hanno portato a viaggiare e conoscere molti altri luoghi in Italia e all’estero. Questo, in parte, ha rafforzato la mia propensione alla curiosità. Mi definisco un attento osservatore delle vicende umane.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Ho partecipato a questo concorso perché mi è stato suggerito come tra i più seri nel panorama nazionale per le particolari modalità di valutazione dei testi.

I premi letterari, per me che sono un appassionato e non un professionista, sono un modo per misurarmi con altri autori. A mio parere rappresentano una cassa di risonanza nel panorama del settore e hanno un importante ruolo di stimolo per i singoli partecipanti.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Avendo avuto una formazione classica, sono stato molto influenzato da autori come Italo Calvino, Albert Camus, Franz Kafka, James Joyce, Gabriel García Márquez, Jorge Luis Borges, senza tralasciare i russi, con Nikolaj Vasil’evič Gogol’ e Michail Afanas’evič Bulgàkov in testa. Sono intriso di quella letteratura, che mi ha formato e continua sicuramente a influenzare il mio modo di interpretare il mondo e poi di raccontarlo.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

L’arte del narrare è connaturata con l’essere umano, è quasi una necessità. Cambiano le forme, c’è stato il teatro greco con la tragedia e la commedia, c’è stata l’opera di Shakespeare e si è arrivati poi ai giorni d’oggi con le serie tv, ma alla base c’è sempre quella ricerca di produrre pensiero, riflessioni, emozioni o semplice evasione.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ho sempre sentito la necessità di esprimermi con parole non banali, ma questa è rimasta per lunghissimo tempo solo una mia esigenza privata. Solo recentemente, attraverso lo studio della narrativa, ho cercato di strutturare questa mia passione. Non ho pubblicato, ho solo scritto racconti più o meno lunghi. Un incontro decisivo è stato quello con lo scrittore Carlo Parri, che considero mio maestro, il quale ha contribuito in maniera significativa a valorizzare la mia creatività e a indirizzarmi verso una corretta forma comunicativa.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Per quanto possa sembrare strano, parto sempre dal titolo e poi la storia magicamente si forma man mano, riga dopo riga, pagina dopo pagina.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

 

Dopo questo terzo posto, mia moglie dice che devo necessariamente scrivere un romanzo… di successo! Vedrò di non deluderla.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Tento di raccontare storie senza il filtro del patinato, cercando di renderle vivide, con personaggi credibili, episodi realistici anche nella loro crudezza.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

Non credo di avere “ossessioni”. Raccontando storie di uomini, raccolgo i temi ricorrenti che travalicano i generi e le epoche, intercettando disagi, bisogni, speranze e sogni che accompagnano da sempre il cammino dell’uomo.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

In realtà i miei primi scritti adolescenziali sono in versi, non escludo prima o poi di tornare alla mia antica passione.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Come detto provengo dal Salento, una terra di incroci culturali con antichissime civiltà. Questo ha influenzato molto la mia formazione, il mio amore per la classicità e di conseguenza la mia scrittura.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Senza dubbio. Infatti, per esempio, io immagino lo scrittore come un essere con i piedi ben piantati per terra, per "sentire il reale", e la testa tra le nuvole, per “vedere il fantastico”. Ecco, io ora l’ho immaginato, l’ho descritto e chi ha letto lo ha potuto vedere immaginandolo a sua volta. La narrativa è un tramite tra il reale e l’immaginario.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Non avendo pubblicato, i miei lettori sono per forza di cose le persone a me più vicine.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Questo è quello che sanno fare i grandi autori classici nella narrazione, dare strumenti al lettore per conoscere meglio se stesso, attraverso gli errori, i successi o le sconfitte pagina dopo pagina nella storia del protagonista.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Un testo, a mio avviso, deve essere scorrevole nella lettura, coerente nelle dinamiche e raccontare una storia nella quale riconoscersi.

Non ho mai fatto interventi critici o recensioni di testi altrui.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

La critica più bella che ho ricevuto è stata che, pur non essendo al momento un mio testo in esame ancora adeguato, aveva tutte le caratteristiche per un sicuro miglioramento futuro.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Vale la stessa risposta data alla domanda precedente.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Ho in mente di realizzare l’auspicio di mia moglie, che come ho già detto è quello di scrivere un romanzo (di successo ovviamente).

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Sono un appassionato sportivo e pratico triathlon da molti anni. Uno sport individuale che richiede impegno, dedizione e disciplina. Come la scrittura d’altronde.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Trovo che sia un fatto meritorio pubblicare in modo accessibile a tutti. Spero che l’iniziativa continui per lungo tempo.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Approfitto di questo spazio, che mi avete gentilmente offerto, per ringraziare di cuore l’Associazione per l’opportunità che dà agli autori di esprimersi, misurarsi nel concorso e alla platea dei lettori di goderne.

 

 

Grazie.

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- Intervista

Raffaele Floris

 

L’autore qui intervistato è Raffaele Floris, secondo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VII edizione 2021, nella Sezione A (Poesia).

 

 

Ciao Raffaele, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?

 

Calmo, riflessivo, inconsueto, paradossale, serio ma non privo di humor (nero), educato, non inerme se c’è da dibattere, solitamente taciturno al limite del mutismo. Concepisco esclusivamente le mezze misure; memoria ai limiti della capienza, narcisismo inapprezzabile (spero). Mio padre era sardo, mia madre piemontese. Sono sempre vissuto qui, in provincia di Alessandria, al confine con l’Oltrepò Pavese e la Lomellina, quindi il mio dialetto non è piemontofono.

 

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Se non ho niente di nuovo da proporre non partecipo. Se invece sono – o credo di essere – a buon punto con una silloge, propongo due o tre poesie inedite per ciascun concorso. Mi sembra una buona soluzione: da un lato evitare di autogiudicarmi, dall’altro limitare una fitta e continua corrispondenza con amici autori che hanno anche altro da fare. Solitamente scelgo 10-12 concorsi, affinché la silloge sia quasi completamente esaminata, sia pure da diverse giurie. Prediligo i concorsi che hanno tradizione e serietà alle spalle. Io stesso sono giurato al concorso Gozzano-Monti di Terzo (AL) nella sezione “poesia singola inedita”: mi ha fatto piacere sentire, da parte di più di un autore, lusinghieri giudizi sulla nostra serietà e imparzialità. L’infallibilità non esiste, qualche lavoro buono, talvolta ottimo, può sfuggire, considerato soprattutto l’altissimo numero di partecipanti. In altre parole, un buon concorso dovrebbe contribuire a far emergere buona poesia. Tornando a me, laddove possibile, preferisco affidare i miei lavori a giurati che conosco poco o non conosco affatto, affinché l’anonimato non sia solo un requisito di facciata. Non è nuovo il dibattito sulla serietà dei concorsi. Se ne aprissimo un altro sulla serietà dei poeti?

 

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Guido Gozzano e Giovanni Pascoli sono tra quelli che ho letto di più, quindi significa che li ho anche apprezzati. Ho cominciato dai classici: Omero, Dante, Petrarca, Tasso, Leopardi, Foscolo (per citare i più noti); soltanto dopo ho affrontato il ‘900, perché quella è una miniera tutt’altro che esaurita, scavando si trovano pepite preziose e rare. Ma la formazione vera è un’altra cosa; non ho avuto, in gioventù, frequentazioni accademiche: questo è un handicap. Inoltre, avendo concluso da pochissimo la mia vicenda lavorativa, ho perso - per ragioni professionali e personali - innumerevoli occasioni di crescita, dibattito, confronto. Quando ancora internet non esisteva, una delle poche “finestre poetiche” veramente accessibili era il mensile (ora bimestrale) POESIA, di Crocetti. Anche ora che minori impegni lo consentirebbero, mi rendo conto che sono innumerevoli le lacune da colmare, gli autori da leggere, le note critiche e i saggi da esaminare. In ogni caso la mia biblioteca è abbastanza ben fornita, e i libri su cui si è deposta la polvere sono decisamente pochi.

 

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Gianfranco Isetta ha affermato: “La poesia non serve a niente, per questo è indispensabile.” È un paradosso felice, in cui mi ci ritrovo. Sono convinto che figure come Silvio Ramat, Giacinto Spagnoletti, Elio Gioanola, Giorgio Barberi Squarotti, Vincenzo Guarracino, Mauro Ferrari dovrebbero essere conosciuti da chi legge almeno un giornale. Sui frequentatori di talk-show - grandifratellesche adunanze di esperti in vaniloqui estenuanti - sugli habitué di MasterChef o di x Factor non possiamo certo contare. Sono i media stessi, in altre parole, a peccare d’omissione. La società attuale sembra indifferente alla cultura. Si potrebbe anche tentare una riflessione sulla globalizzazione, sull’efficientismo, sulla massimizzazione del profitto, che tuttavia ci porterebbe troppo lontano. Sono convinto inoltre che nessuno ci costringa davvero all’adesione acritica di tali modelli, che nuovi non sono per niente. Forse ci viene somministrato esattamente quello che chiediamo: panem et circenses.

 

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Il mio percorso poetico è fatto di “füga e scapüsc”: cito un bel verso dialettale di Luigi Balocchi che con due parole (fuga e inciampo, o caduta, per estensione) riesce a inquadrare il concetto meglio di molte perifrasi. Ho cominciato a scrivere versi a diciassette anni, riservando la metrica esclusivamente alla satira e affrontando il verso libero nelle altre composizioni; che ovviamente risentivano dell’età e di un’esperienza ancor tutta da fare. Nel corso degli anni mi sono reso conto che il verso libero non mi apparteneva: per questo ammiro molto quegli autori che, invece, lo padroneggiano con eleganza. Ho pubblicato, sotto la direzione editoriale di Mauro Ferrari (che ho conosciuto negli anni ’90), L’ultima chiusa nel 2007, Mattoni a vista nel 2017, Senza margini d’azzurro nel 2019. Il tempo è slavina (1991) raccoglie invece quei lavori giovanili di cui oggi farei volentieri a meno, se escludiamo due o tre componimenti accettabili. Sul perché non ho risposte, come a dire: perché ci si innamora?

 

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Mi piacerebbe poter affermare che avviene per “asciugatura”, “spoliazione”, partendo da un materiale ancora magmatico e incandescente, ma non ci sarebbe nulla di più falso. In realtà è quasi una clonazione: prende forma da una cellula (può essere un’idea, un concetto, un’idea; un ricordo, una sensazione visiva, o olfattiva, più raramente acustica) che ultimamente ha la forma della quartina in endecasillabi. Rimati, per giunta! Da questa cellula ne nascono altre due. Sono consapevole dei rischi connessi all’uso della forma chiusa: si può spalancare un abisso di retorica, incappando nella tagliola di rime usate e abusate; perché, come affermava Giorgio Manacorda in un articolo del 1995 pubblicato su POESIA, “un profluvio di sonori endecasillabi non fa, non dico un libro, ma neppure una poesia.”

 

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

 

Un bellissimo testo di Fabrizio De André, Khorakhané, ha un passo illuminante: “saper leggere il libro del mondo con parole cangianti e nessuna scrittura (…)”. “Nessuna scrittura” a parte, ovviamente, perché un conto è leggere una poesia, quindi vederla, un altro è ascoltarla, credo che per scrivere versi occorrano lenti bifocali. Per vedere chiaramente da vicino senza rinunciare a guardare lontano. L’autore credo debba avere una visione: di sé, della vita, del mondo, e non possa far altro che proporla. Per questo alcune definizioni quali “poesia intimista” o “poesia civile” mi lasciano piuttosto perplesso, così come molte altre categorizzazioni e catalogazioni.

 

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Alcuni mi sembra che abbiano “buttato a terra la brocca di cristallo della poesia e stiano giocando con i cocci” (Giorgio Manacorda). Sarebbe da parte mia presuntuoso accostare me stesso a nomi che hanno tutte le caratteristiche per entrare nella casa della poesia dalla porta principale, per le loro opere, le loro traduzioni, i loro saggi critici. Tuttavia non mi sottraggo alla domanda: i versi di Carlo Tosetti e del compianto Gabriele Galloni credo mi siano affini. Gabriele, purtroppo, non l’ho conosciuto e Carlo devo ancora conoscerlo personalmente, quindi il riferimento a questi due autori è doppiamente sincero. Leggo sempre volentieri, inoltre, le opere di Alfredo Rienzi, di Fabrizio Bregoli, di Gianfranco Isetta, di Ivan Fedeli, di Alessandra Paganardi, di Luigi Cannone, di Piero Marelli, di Marco Maggi…L’elenco sarebbe più lungo, in realtà, ma so che gli amici non citati mi perdoneranno. Questa settimana sicuramente ordinerò l’ultimo libro di Raffaela Fazio, pubblicato per i tipi di puntoacapo, casa editrice che mi ha accolto e incoraggiato durante tutti questi anni.

 

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

Pur apprezzando altre strade poetiche che sono certo non potrei percorrere, le mie ossessioni sono sempre quelle, ed è inevitabile ripetersi (me ne scuso): la vita, la morte, gli affetti, le assenze, i morti che sono “più permanenti di noi” (M. Ferrari), il tempo – che torna e che non torna – la ciclicità delle stagioni. Non so dire se ci sia stata un’evoluzione, se non dal punto di vista stilistico (non uso quasi più la metafora e anche l’aggettivazione è ridotta all’osso); so di pretendere da me stesso onestà, scegliendo innanzi tutto cosa scrivere, poi come scrivere. La conseguente domanda è: quell’onestà che pretendo da me stesso, poi, l’ho ottenuta?

 

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

In realtà ci ho già provato, con il romanzo breve La croce di Malta, pubblicato nel 2013. Ma affrontare la scrittura del romanzo o del racconto è per me enormemente difficile: non credo ritenterò, a meno che fiorisca qualche buona idea. Sarebbe un florilegio tardivo, data l’età, sempre meno affine ai gigli e sempre più protesa verso i crisantemi. Mi sono complimentato recentemente con Daniela Raimondi per La casa sull’argine, una stupenda saga familiare che merita tutto il successo che sta avendo e che avrà. La lunghezza media dei miei articoli (è recentissima la mia collaborazione con l’International Web Post, con le rubriche Proposte di lettura e Rileggendo POESIA) non eccede un A4.

 

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Forse non sono neppure un poeta, se consideriamo che non ho mai utilizzato la parola “mare”; inoltre, “luna” ricorre ben poche volte. Che disastro! Ma quanti riferimenti, invece, alla pianura, ai fossi, alle rogge, ai gelsi, alle viti, alle robinie, alle colline (ma in lontananza!) anche in queste ultime poesie presentate al Babuk. Quando ascolto interventi di assessori alla cultura apparentemente inappuntabili, sempre ben disposti alla loquela discettante “le nostre radici culturali” vorrei chiedere loro: com’è possibile recuperarle, dal momento che avete (che abbiamo) fatto di tutto per estirpare le radici dei salici, dei gelsi e delle viti? Non sappiamo più che sapore hanno le more bianche, le pesche da vigna o le amarene selvatiche. Quindi non sappiamo più niente.

 

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Se per immaginazione s’intende la visione utopica del futuro, cioè della realtà del domani (la definizione è di Mons. Bettazzi), allora il compito dello scrittore è quello di riallacciare i fili pendenti del tempo, sperando che siano di numero pari: in questo caso sì, lo scrittore è a cavallo: ma stare in sella non è sempre facile, si rischia di essere disarcionati alla prima occasione. Se per immaginazione s’intende invece fantasia pura e semplice, credo il rapporto funzioni meglio nella narrativa: è più fecondo e proficuo.

 

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Inutile qui ribadire che la poesia può contare su un numero esiguo di lettori. Ma qualcuno c’è. Se escludiamo i poeti stessi, con cui più o meno abitualmente ci si confronta e si discute, ricordo un messaggio che mi è molto caro: “l’ultima poesia che hai postato è così vera e bella da far male”. Forse toccava nervi scoperti di entrambi: ciascuno aveva perso da poco un genitore.

 

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Ne sono convinto anch’io, e forse in parte ho già risposto, rileggendo la domanda precedente. Mi piace pensare che quella “specie di strumento ottico” siano le lenti bifocali di cui parlavo prima.

 

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici?Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Gli indicatori, gli strumenti non cambiano nel tempo. Il tema centrale, cioè il nucleo della poesia, dev’essere individuabile, altrimenti il testo è sfocato. Cosa ha voluto dire l’autore? E, successivamente, come lo ha detto? Non ho la competenza sufficiente per definire le caratteristiche di una buona scrittura, non avendo mai scritto recensioni, ma so che, leggendo 999 poesie, difficilmente potrebbe sfuggirmi la millesima.

 

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Se escludiamo le prefazioni di Ivan Fedeli e di Mauro Ferrari (bellissime entrambe) alle mie ultime pubblicazioni, non ho molte frecce nella mia faretra. Non mi piace autopropormi, tanto meno impormi. Naturalmente accetto volentieri gli inviti. Credo che Francesco Destro, sul blog AlmaPoesia, abbia fatto una lettura eccellente di Senza margini d’azzurro. Anche la recensione di Paolo Pera ha spunti felici e notevoli. Molto gradita, mi è giunta una mail di Silvio Raffo, che tuttavia non voglio “sbandierare come fosse un trofeo” (cito Alfredo Rienzi e il suo blog Di sesta e settima grandezza: in quell’occasione egli si riferiva a Bàrberi Squarotti, generosissimo e disponibile con tutti). So che anche il grande Angelo Lumelli ha scritto qualcosa su Mattoni a vista, ma non ho ancora avuto l’occasione di chiedergli il “pezzo”. Quando ci rivedremo (magari) lo farò.

 

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Non ancora, ma non è mai troppo tardi. Le critiche, quand’anche fossero stroncature, sono sempre legittime e fanno parte di un tavolo a tre gambe: l’autore, la critica, il pubblico. Tre o meglio quattro, se consideriamo il tempo.

 

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Credo che il titolo definitivo della mia nuova raccolta sarà proprio La macchina del tempo: in questa scelta c’è anche riconoscenza verso il Babuk e LaRecherche, indubbiamente; in ogni caso credo sia il titolo più adeguato a un’eventuale pubblicazione, che non so ancora se e quando arriverà.

 

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Se escludiamo la lettura, mi appassiona molto la musica, o meglio, un certo tipo di musica (il melodramma, il canto gregoriano): quando un brano mi interessa cerco di procurarmi lo spartito. Per chi ne ha la possibilità, “vedere” la musica è altrettanto bello che sentirla. Mi piace il calcio (ma forse soltanto un certo tipo di calcio), la buona cucina, gli ambienti caldi e confortevoli. Detesto la fatica fisica e sono ormai quasi dimentico dell’attività motoria. Mi piacerebbe seguire un corso di cucito (a mano e a macchina), ma “in presenza”: niente tutorial su YouTube. Saranno anche gratuiti, ma la verbosità intrinseca è davvero eccessiva. Sinceramente, fatico a comprendere come si possa parlare tanto senza soffrire neppure un po’ la sete.

 

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Su LaRecherche mi sono già espresso prima, sottintendendo quanto sia importante il lavoro in rete di blog seri e ben costruiti. Uno di essi, certamente non l’unico, è quello di Fabrizio Bregoli, che seguo sempre con interesse. Poi c’è AlmaPoesia;Umberto Fiori, in quella sede intervistato, affermava: la Rete può servire in parte, ma mi sembra generi anche un polverone, dove il meglio e il peggio stanno un po’ sullo stesso piano.

 

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Sono talmente poche le interviste che mi hanno riguardato, che la mia esperienza in tal senso può definirsi inconsistente. È più probabile che ci siano domande a cui non vorrei rispondere: talvolta le mie affermazioni sono volutamente paradossali, scarsamente politically correct, in qualche caso dedite al sofisma. Scatenerei soltanto polveroni.

 

 

 

Grazie.

 

Grazie a voi e a chi vorrà leggere.

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- Intervista

Emanuele Monaci

 

L’autore qui intervistato è Emanuele Monaci, terzo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VII edizione 2021, nella Sezione A (Poesia).

 

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Ciao Emanuele, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?

 

Con una stretta di mano, visto che nome, cognome e città di provenienza sono già noti dalla classifica: in verità non ho una biografia o un curriculum di particolare interesse, quindi passerei volentieri ad altro.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Per farmi un'idea di quale potesse essere la percezione delle cose più recenti che avessi scritto da parte di qualcuno che fosseveramente esperto del ramo: il valore principale di un concorso, a meno che non si vada a far bacheca, per me è appunto la possibilità di capire che cosa arrivi delle proprie composizioni. Della comunità di cui alla terza domanda conosco poco, praticamente solo quanto si legge nei siti o nei blog dedicati alla poesia: sembrerebbe che alcuni dei premi siano quasi tappe di un cursus honorum dei nomi nazionali più noti, ma poi non so se alla fine siano i titoli che trovano degli autori oppure il contrario.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

In ambito poetico Pasquale Panella, Manlio Sgalambro, Tomaso Kemeny, Giulia Martini, René Char, Paul Éluard, Philippe Soupault, Paul Valéry, Nuno Júdice, Golgona Anghel, Ana Luísa Amaral, Tasos Livaditis, Charles Simić, Tomaž Šalamun, Bora Ćosić, Ivan Lalić, Gojko Đogo, Nina Cassian, Nika Turbina e Stevie Smith.

In modo obliquo Giuseppe Pontiggia, Enzo Russo, Fruttero & Lucentini, Leonardo Sciascia, Tiziano Sclavi, Pier Vittorio Tondelli, Paolo Villaggio, Giorgio Scerbanenco, Dino Buzzati, Giorgio De Maria, Luciano De Crescenzo, Irvine Welsh, James Ellroy, Philip Dick, Shirley Jackson, Louis-Ferdinand Céline, James Ballard, Robert Harris, H.P. Lovecraft, Raymond Chandler, Stephen King, Guy Mankowski, William Hjortsberg, David Peace, Robert Graves, Mack Reynolds, Thomas M. Disch, Jack Bates, Harper Lee, Charles Bukowski, Robert Bloch, Cornell Woolrich, Arthur Koestler, A.J. Cronin, Dashiell Hammett, Strieber & Kunetka, Alex Garland e David Graham.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Più o meno quelli che secondo Stefano Disegni aveva Biagio Izzo nei film con Christian De Sica. Seriamente, credo possano variare nella misura in cui forma, contenuti ed aspirazioni dell'autore creino, coincidano o colgano il sentire di una o più parti della società in questione: dubito che Graves apprezzerebbe, ma purtroppo la realtà è Varese.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Faccio fatica, oltre che un po' anche a non ridere, nel pensarmi in certi termini: tra “scrittore” e me c'è lo stesso rapporto che esiste tra un portiere vero ed uno di quei malconsigliati che, con  titolare espulso o infortunato a sostituzioni esaurite, scelgono di mettersi una maglia di colore diverso dai compagni e vanno tra i pali, nella preoccupazione generale del resto della squadra, di solito. Ciò premesso, come quasi tutti, prima di scrivere ho iniziato a leggere: fumetti, racconti, romanzi ma anche giornali, riviste, saggi, collane sui vari argomenti di mio interesse, non necessariamente in armonia con l'età che avevo; di pari passo ho cominciato pure, come gioco, a creare le mie storie, di solito accompagnate da disegni, ed a riempirci blocchi, album, quaderni eccetera eccetera.

Le poesie, in mancanza di altri termini, sono arrivate più tardi, nell'adolescenza. Avevo alcuni amici ed amiche coetanei già versati, che mi hanno  introdotto alla pratica e mi han fatto da recensori, revisori, neon e lampioni: la mia produzione di quel periodo è tutta in una raccolta intitolata “La strada di casa è sempre la più lunga”, che oggi non avrei il coraggio di infliggere neppure ai miei peggiori nemici. Ho scritto versi fino circa al 2005, poi per un decennio intero nient'altro, un po' perché sono stato in tutt'altre faccende affaccendato e un po' perché sentivo di non aver nulla da dire. Nel momento in cui mi è sembrato non fosse più così, ho ripreso, sempre per piacere e mai per comando.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Difficilmente segue un percorso lineare: a volte parte da un'idea che trova le parole, in altri casi sono le parole che iniziano a formare un'idea, ma quasi sempre da lì alla stesura finale tutto può succedere, mi piace (o forse non riesco a fare a meno di) provare soluzioni alternative, revisioni, fusioni con testi altrettanto in itinere, scissioni in più opere e così via. A prescindere dagli argomenti, per me c'è sempre una componente ludica, di sfida a sé stessi, nello scrivere.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

 

In generale capire se sia possibile dare una forma scritta soddisfacente, su più livelli, alle cose che mi passano per la testa o che lì han preso residenza e (vedi sopra) farsi un'idea di quanto il tutto sia poi sia comprensibile a qualcun altro. 

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Non credo di aver inventato oppure rivoluzionato alcunché, è un lavoro per gli artisti, che però si tagliano le orecchie, no grazie: scherzi a parte, può darsi ogni tanto riesca ad assemblare su un foglio (o uno schermo) elementi, almeno apparentemente, lontani e a farla franca.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

Le interferenze del passato sul presente, la complessità delle relazioni umane in generale e di quelle uomo-donna in particolare, il dritto e il rovescio della realtà quotidiana, infine tutta una serie di personalissimi riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti. Per quanto riguarda l'evoluzione: sì,  rileggendomi sembrerebbe che col tempo abbia acquisito un controllo maggiore sulle composizioni e una certa, limitata, capacità di muoversi anche fuori dallo strettamente autobiografico; per ora eviterei di battermi troppo il petto, comunque.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

Sì, raccontini di narrativa di genere, con grande lentezza: solo per completisti.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Non ho un rapporto stretto con il territorio in sé, ma ne ho uno molto forte con i luoghi (e con le loro pertinenze) che abbiano oppure abbiano avuto importanza per me: si ritrovano spesso nei testi, non per forza con il loro nomi o la loro collocazione originaria.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

A meno che l'autore non stia scrivendo cronaca, saggistica o un qualsiasi altro tipo di lavoro che presupponga (e uso il termine perché non è che manchino esempi contrari in questi generi di trattazione) una stretta aderenza alla realtà, la parte immaginaria è metà dell'opera: quindi sì, direi che gli scrittori dovrebbero essere frequentatori di entrambi, seppure in maniera variabile.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Evito “un pubblico di soli parenti” solo perché ricordo di aver evitato di tediare la mia famiglia, anche se numericamente siamo lì; articolando meglio la risposta, se togliamo le varie giurie dei concorsi si tratta finora di pochissime persone amiche, la cui opinione ed i cui consigli meritano attenzione e riflessione. 

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Può non essere vera per tutte le opere, ma per alcune è davvero così; la poesia, almeno per me, ci riesce abbastanza di frequente.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Dipende dal genere, dalle aspettative, dalla familiarità con l'argomento: parlando di testi in versi, come si può intuire da alcuni degli autori che ho citato come influenze, apprezzo chi è capace di trasmettere immagini, significati e storie usando un linguaggio incisivo dove ogni parola sia lì a creare nessi insospettabili tra il noto e lo sconosciuto. Critiche e recensioni non ne ho mai fatte, tranne lo scambio di pareri con quelle persone con cui condivido questo interesse.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

A pari merito metto una segnalazione di Soqquadro celeste, che recita “Sicura sintesi di scenari contrapposti e stridenti che creano arditi panorami e bagliori imprevisti in un mondo di sostanziali contraddizioni” (la prendo per vera, ma con moderazione)e un “Penso che ti sarà difficile avere soddisfazioni se scrivi così” ricevuto da una poetessa standard.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Mi è stato detto che “il mio IO” (sic) compariva troppo spesso nelle poesie; mi ha dato lo spunto per iniziare a far parlare anche altri.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Revisiono una raccolta del meno peggio di questi anni e scrivo nuove composizioni. Penserò a pubblicare se e quando sarò abbastanza convinto che tutto torni e tutto quadri, tanto nessuno dovrebbe trattenere il fiato nell'attesa.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Storia, politica, società e militaria contemporanee, senza negarmi approfondimenti su altri periodi; mi interessano le arti visive, principalmente dalle Avanguardie in poi, la letteratura, la musica, e il cinema, soprattutto di genere, dagli anni Sessanta fino ai primi anni Duemila. Mi piacciono le auto datate,gli sport (calcio in primis), gli scacchi, la danza, gli animali, con un posto speciale per i gatti.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Direi “Quanto scrivete!”, in senso positivo, s'intende. Sui due punti successivi la considerazione che mi sentirei di fare è come la rete, in questo ambito, sia un mezzo, uno strumento, e che quindi in ultima istanza stia alle persone che la utilizzano farne buon uso: mi è capitato di leggere cattive, se non pessime, poesie e prose in forma digitale ma anche di scoprire nomi di grande talento, che in seguito ho letto anche su carta (che resta il formato preferito, pur ammettendo che potersi portare dietro intere biblioteche in una scheda di memoria del telefono è una gran bella comodità).

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Solo un saluto e un ringraziamento particolari a quel ristretto novero di persone amiche che negli anni ha letto le poesie che ho commesso senza esserne obbligato.

 

 

Grazie.

*

- Intervista

Daniele Petruccioli

 

Intervista a cura di Giuliano Brenna

 

 

 

Come ti presenti ai nostri lettori?

 

Ciao, mi chiamo Daniele e faccio il traduttore.

Questo è il minimo – e la cosa più importante – che mi sento di dire su di me.

Poi ho fatto e faccio anche tante altre cose, dalla pratica teatrale alla critica e all’insegnamento delle traduzioni, ho pubblicato poesie, saggi e un romanzo, ho fatto due figli, ho scritto canzoni, ho avuto e ho perso amici, ho perso tanta gente, troppa. Ma non la capacità di innamorarmi – anche soltanto di una certa luce a una cert’ora.

 

 

Su quali libri ti sei formato, quali autori ti accompagnano e da quali ti senti contaminato?

 

Eh tantissimi, ovviamente. Ma allo stesso tempo niente di speciale, credo, quelli di tutti: i decadentisti in adolescenza, insieme ai russi – Tol’stoj e Dostoesvskij innanzitutto ma non solo, per arrivare presto a Majakovskij e Bulgakov – e ai francesi (Stendhal e Zola, poi Balzac: a Flaubert sono arrivato dopo, mi intimidiva). Ah, sempre in adolescenza sono stato rapito da Dante e Boccaccio, soltanto in seguito Ariosto. Poi, crescendo, poco prima dei vent’anni sono arrivati gli inglesi (più Austen e Defoe che Dickens e le Brontë, devo confessare). I miei vent’anni, a parte ovviamente il teatro (di cui non faccio nomi perché sono stato veramente onnivoro, da Eschilo a Stephen Berkoff), sono le avanguardie: da Kafka a Joyce passando per Woolf e naturalmente Proust (che avevo già letto quindicenne ma che ho riletto a quell’età, e poi a quarant’anni: rileggere Proust è curativo, secondo me), ma anche Eliot e Pound e Apollinaire (rileggendo meglio Mallarmé) insieme a Musil e Canetti, Beckett e Mann oltre al mio amore assoluto per Roth (Joseph, non Philip). Da lì sono passato in modo più massiccio ai saggi, se devo fermarmi a prima dei trent’anni sicuramente Barthes e lo strutturalismo da cui sono risalito ai formalisti russi trasferiti in Francia, e poi Freud e Marx naturalmente, ma anche Deleuze e Debord. Ancora entro i trent’anni almeno Cervantes, Gadda, Morante e Pasolini, Bernhard e Quenau non posso non nominarli. Ce ne sono altri, ovvio, moltissimi altri, ma ho cercato di risponderti di getto.

 

 

La casa delle madri” è il tuo primo romanzo, ma prima hai pubblicato altri libri, ce ne vuoi parlare?

 

Ho pubblicato due saggi sulla traduzione, che è il mio mestiere e la cosa che insegno all’università, ma da esterno: mi definisco un traduttore militante, la pratica della traduzione è per me molto, ma molto, più importante del suo insegnamento – dalla pratica viene tutto, anche la didattica e soprattutto il pensiero sulla traduzione; personalmente mi fido molto poco di chi parla o scrive di traduzione, o la insegna, senza praticarla se non saltuariamente. Comunque, i titoli dei saggi sono Falsi d’autore, uscito per Quodlibet nel 2014, molto più divulgativo e pamphlettistico, che voleva sensibilizzare su questa fondamentale pratica creativa davvero troppo misconosciuta; e Le pagine nere, un libro in cui invece cerco di riflettere più a fondo su come si traduce, ma fuori dalle categorie linguistiche e pure semiologiche, direi, e molto più dal punto di vista dell’atto creativo.

Prima avevo pubblicato un libro di poesie, uscito nel 2007 per Zona: Sonderkommando. È un libro che usa la più terribile delle metafore del lager (i Sonderkommando erano i gruppi di Häftlinge che dovevano portare i cadaveri dalle camere a gas fino ai forni per poi “smaltirli”: gli unici, cioè, a sapere veramente tutta la verità sull’orrore dei campi di sterminio) per raccontare la perdita dell’identità, il sentirsi scacciati dal consesso sociale e il tentativo di sopravvivere comunque. Ho scritto diversi volumi di poesie, e anche se questo è l’unico che ho pubblicato (ho provato a mandarne in giro altri due, uno sotto pseudonimo perché mi sembrava giusto per un editore con cui però lavoravo come traduttore, ma non ho ricevuto risposta in nessun caso) secondo me sono le cose più belle che ho scritto.

No, non è vero: le cose più belle che ho scritto sono alcune mie traduzioni – e, di queste, ne ho fatte (tra quelle pubblicate e quelle che stanno per uscire) credo almeno un centinaio.

 

 

Come è avvenuto il processo di traduzione dal tuo linguaggio interiore a quello presente nel libro “La casa delle madri”?

 

Come sempre: con gioia e con fatica. In questo caso non avevo altre parole a farmi da guida quindi ho preparato una scaletta, che ho seguito un po’ sì e un po’ no, come sempre avviene, almeno credo, almeno a me. Quando scrivo cose “solo mie” (per quel poco che questo significa per me, ma insomma è per capirci) faccio sempre una scaletta, sia di tematiche che di trama, che ovviamente vale soltanto come traccia e che modifico in parte in corso d’opera: non ho né il talento di chi parte da una frase e poi si lascia andare, né la fantasia di chi inventa storie meravigliose, e devo dire che li invidio molto. Ma si deve partire dalla coscienza dei propri limiti, credo, sempre, quando si vuol tentare di fare una cosa bella. In questo caso, poi, io sapevo di voler arrivare a questa sintassi qui, quindi anche le tematiche e la scaletta derivano dal tipo di linguaggio.

 

 

La casa delle madri” si apre su un appartamento svuotato delle vite precedenti, è un meccanismo che ha qualche attinenza con “Estinzione” di Bernhard? È una sorta di punto di non ritorno dal quale osservare a ritroso le esistenze?

 

Bernhard è un autore fondamentale per la mia formazione, lo dicevo prima. Ho aperto Il soccombente quando uscì (ero a malapena adolescente) e dopo 20 pagine l’ho richiuso: sapevo che non ero ancora pronto (una cosa simile mi è successa solo con L’uomo senza qualità, che ho fatto aspettare circa cinque anni per imparare il tedesco, perché volevo leggerlo almeno anche in originale). L’anno dopo ho letto tutto quanto era uscito di Bernhard fino a quel momento e ho continuato a comprare ogni libro che ha scritto fino alla sua morte (da quando avevo imparato almeno un po’ il tedesco anche in originale: Auflöschung, Estinzione appunto, l’ho letto prima che venisse tradotto in italiano). Però non pensavo a quel libro, quando ho deciso di usare questo escamotage narratologico, per così dire. Forse l’avevo letto troppi anni prima. Sicuramente può essere una reminiscenza inconscia, di sicuro non è una citazione (nonostante nella Casa delle madri ce ne siano tante – ma questa no).

Quanto alla seconda parte della tua domanda, no, in realtà è appunto un escamotage, come dicevo. Siccome il tempo del libro non è lineare, avevo bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi, e la dimensione più ovvia (anzi le tre dimensioni più ovvie) come contraltare del tempo è appunto lo spazio: da cui le case. Il fatto che siano sventrate perché in ristrutturazione o in rovina ha ovviamente una serie di significati simbolici, primo tra i quali quello che è uno dei principali temi del romanzo, ovverosia la perdita, ma anche una funzione banale: se il tempo va avanti e indietro, le istantanee degli spazi dove si svolgerà di volta in volta l’azione devono essere prese giocoforza nel punto più lontano possibile – alla fine del tempo, appunto.

 

 

Dalla lettura della Casa delle madri restano sensazioni fisiche, ad esempio ho un netto ricordo della luce che illumina le case, sebbene questa non venga descritta. A cosa è dovuto questo effetto secondo te?

 

Non so, posso azzardare, ma immagino che per ogni lettore sia diverso. Quel che mi sento di dire avendolo scritto sono due cose. La prima è che sebbene la luce non sia descritta nelle sue tipologie (tecnicamente: non sia accompagnata da aggettivi e apposizioni, non abbia qualità) è però presente nel romanzo in modo massiccio: dall’unico momento di pace nella scena della festa di compleanno all’inizio del romanzo, in cui i gemelli “giocano” e il narratore “riflette” con/su i quadrati di luce riflessi dalla portafinestra sul balcone, fino alla casa dei bambini tutta bucherellata di finestre per cui sempre intensamente illuminata (che serve a fare da contrasto al buio pesto del corridoio in cui i bambini giocano a scappare dall’Orso). La seconda è che – sempre, ma in questo romanzo l’ho fatto in modo particolarmente e molto volutamente evidente... o insomma, ci ho provato – per me le parole sono oggetti fisici, ho forte consapevolezza del fatto che chi legge le “ascolta” anche solo nella mente, ne sente il suono, il ritmo – e così le tratto. Forse, le sensazioni fisiche di cui parli potrebbero venire da qui.

 

 

A quante ristrutturazioni è stata sottoposta questa casa prima di vedere la luce? È stato un processo travagliato?

 

Immagino tu intenda il romanzo [sorriso]. A molte. Ma non è stato affatto un processo travagliato, anzi. Da traduttore, sono abituato a rilavorare molto i miei testi, prima da solo e poi con gli altri. Della Casa delle madri ho scritto la prima stesura in circa sei mesi, credo nel 2011 o 2013, ed era lunga più di 600 pagine. Lo avevo mandato a Giuseppe Girimonti Greco  per un parere tecnico da parte di un grande traduttore e intellettuale raffinato, quale lui senz’altro è (un parere di leggibilità, più che di pubblicabilità: ero sicuro di voler scrivere così, ma non lo ero affatto che fosse un modo di scrivere leggibile) e con la generosità che lo contraddistingue mi ha detto che trovava il libro molto bello e di volerlo far leggere a qualche editor o direttore di collana (ovviamente la cosa mi ha molto lusingato). Il primo riscontro positivo che ho ricevuto non è stato da TerraRossa ma da un altro editore, che mi ha chiesto – com’era ovvio e giusto, per un esordiente di quasi 50 anni – di accorciarlo molto. Siccome però non mi piaceva l’idea di tagliare senza criterio, ho deciso di togliere intere linee narrative, che significava case (ce n’erano più di tre), personaggi, temi. Nel processo ho anche spostato molti episodi da una parte all’altra. Per esempio, la prima versione arrivata a TerraRossa era lunga 350 pagine circa e cominciava e finiva con quelli che adesso sono gli episodi dell’intermezzo. Così facendo, mi sono reso conto che stavo eliminando quasi tutte le parti luminose e vitali (tra cui molte sul sesso, di cui è rimasta solo la notte d’amore tra Elia e i suoi due amici, oltre a quelli sui gemelli bambini e appena adolescenti, che parlano sì di sesso ma se vogliamo più polimorfo che genitale). Quando ho capito che con quell’editore non c’era molta sintonia ho chiamato Girimonti Greco per ringraziarlo e per dirgli che preferivo rinunciare alla pubblicazione. Allora lui mi ha parlato di Giovanni Turi, editore di TerraRossa, che conoscevo per il bel lavoro che fa, dicendomi che voleva fare un tentativo anche con lui. Ero sinceramente scettico, pensavo che forse stavolta Giuseppe si era sbagliato e il mio romanzo non fosse così buono come lui insisteva a voler credere. Del resto l’ho già detto: per me la pubblicazione non è una priorità. Mi fa molto piacere ogni riscontro positivo, e ci mancherebbe, ma non a tutti i costi – e non sono certo il tipo che si crede un genio. Invece Turi mi ha mandato una lettera (vabbè, un’email, ma era una lettera) bellissima, dicendomi quanto era rimasto colpito dalla mia scrittura e che non voleva lasciarsi scappare quella storia. Per dimostrarmelo, all’email era allegato un contratto di edizione. Non succede spesso, che io sappia – e sono 20 anni che lavoro in editoria.

Allora gli ho telefonato, e siccome era fine primavera e io non ero ancora contento della forma che La casa delle madri aveva assunto, gli ho chiesto di darmi ancora quell’estate per rilavorarci e poi, a settembre, quando gli avrei mandato una nuova versione, se ancora lo avesse convinto avremmo cominciato a lavorare insieme. Ho fatto ulteriori tagli, altri spostamenti, gli episodi hanno preso la posizione che hanno oggi nel libro, e a fine agosto gli ho mandato il manoscritto. Dopo poche settimane mi ha scritto che gli piaceva ancora più di prima (anche Turi è un uomo molto generoso) ed è iniziato l’editing redazionale.

Giovanni Turi mi proponeva tagli e dubbi, ma sempre accompagnando ogni invio con una paginetta di commenti, domande, cose che gli piacevano e altre che gli dispiacevano. Io tagliavo anche più di quanto mi chiedeva, ma altre volte invece riscrivevo, o aggiungevo. Adesso il libro è di poco meno di 300 pagine, e rispetto a quella versione settembrina ne avremmo tagliate una cinquantina, ma almeno un’altra decina devo averla aggiunta nel processo del lavoro.

Ma non è finita (scusate se mi dilungo, ma il lavoro di queste persone lo merita). Francesco Dezio, che ha ideato e composto il disegno e la grafica della copertina, ha voluto lavorare a stretto contatto con me e mi ha chiesto tutta un’iconografia per capire il mio immaginario, prima di produrre quella che secondo me è una copertina stupenda, e anche in fase di ultima rilettura e di correzione di bozze ci siamo scambiati dubbi e domande con chi le faceva, che mi hanno costretto a chiarirmi ancora meglio le idee e a intervenire di nuovo, a volte, sul romanzo. Quando lavori con una redazione così attenta e appassionata, le cose possono solo migliorare.

 

 

I gemelli Elia e Ernesto rappresentano due versioni di un singolo, come si è detto e come si vorrebbe/dovrebbe essere, vi è forse celato un rimpianto verso un aspetto che ti appartiene ma che non hai voluto incontrare?

E nel desiderio di Sarabanda nel non fare pesare la diversità di Ernesto, anche in modo un po’ forsennato, attraverso esercizi e cure, c’è forse una volontà di ricondurre la diversità a una apparente normalità?

 

No, nessun rimpianto, casomai uno specchio. Per me ogni personaggio ha lati di me, non solo i due gemelli. Non mi interessa tanto come sono, ma che siano coppie oppositive. È quello, per me, il punto.

Anche quanto a Sarabanda, personalmente l’ammiro: è vero che per Ernesto il suo rischia di sembrare un “accanimento terapeutico” (ma vorrei dire che lei non lo imbottisce di psicofarmaci come farà Speedy: chi ha ragione allora, chi ha torto?, anche Speedy fa quello che può...) ma solo perché tutti pecchiamo per eccesso (per hybris). Il suo tentativo di non relegare il figlio al ruolo di “disabile” a tutti i costi, di non accettare l’ipocrisia della compassione sociale e di incontrare o inventare una sua normalità mi sembra molto encomiabile e degno di essere preso come esempio.

Capisco che molti lettori prendano partito (per Nina o Ilide, per Sarabanda o Speedy, per Ernesto o Elia), me lo sono sentito dire più volte – ed è legittimo, ci mancherebbe, ogni lettore è padrone della sua lettura. Però per me non è così. Non volevo dare nessun esempio “positivo” o “negativo”, solo descrivere il coraggio e la forza che ciascuno di noi mette nel tentativo di vivere sotto un complesso sistema di morali (magari fosse una morale unica: no, troppo facile) purtroppo molto asfittico (ecco: se c’è un personaggio negativo è questo, per me). E per forza sbagliamo. Perché, c’è qualcuno che non sbaglia? L’importante, secondo me, è provarci. Poi si fa quel che si può.

 

 

In questi ultimi anni il termine “famiglia” è stato spesso usato in modo distorto da fondamentalisti e oppositori di schemi familiari inclusivi. I topi che, a un certo punto, invadono una delle case posso pensarli rappresentativi di questa “intrusione” nel concetto di famiglia?

 

Per me, assolutamente no, mi dispiace. Tutto è legittimo, lo ripeto, e ognuno vede quello che vuole in ciò che legge – figuriamoci se da traduttore potrei pensarla in modo diverso – però per quanto mi riguarda stavolta non volevo scrivere un pamphlet. Tutto il contrario: volevo scrivere la fatica di esistere sotto certi schemi. Anche chi fa una scelta come dici tu “fondamentalista” sta soccombendo a quegli schemi, forse peggio di chi cerca di destabilizzarli. I topi – questi topi – sono solo un’intrusione del selvaggio, della natura, non una metafora del fascismo. Certo, ora che mi ci fai pensare capisco che possa venire in mente, anche se il mio è un libro così povero di certezze che un po’ me ne stupisco. Comunque no, non mi è mai venuto in mente neanche per un attimo, soprattutto perché, sebbene io sia convintamente antifascista, questo per me non è un libro che vuole insegnare niente a nessuno né prendere una parte piuttosto che un’altra. Di nuovo: al contrario, è un libro sul dubbio, una storia che tenta di descrivere quanto sia facile sbagliarsi, o quantomeno sbagliare mira, quanto alle nostre convinzioni più profonde.

 

 

Nel conflitto tra i gemelli si nasconde la paura dell’inadeguatezza?

 

Secondo me lì sotto si nasconde piuttosto la paura dell’incompletezza. Se vogliamo un riferimento immediato, direi che potrebbero essere letti (almeno per come li capisco io) come un’allegoria dell’io diviso secondo Laing.

 

 

Da cosa nasce la scelta dei nomi fortemente evocativi dei personaggi principali? I nomi Sarabanda e Speedy sembrerebbero rappresentare maggiormente una percezione esterna, mi verrebbe da dire più un agito che un vissuto, un modo di fare che rappresenta dei modelli genitoriali al di là del loro effettivo essere. Questo è dovuto al fatto che sono queste figure ad essere “la casa” dalla quale si generano “le madri”? E in considerazione di questo sono i gemelli ad essere il vero elemento vitale della casa?

 

A dire il vero, tutti i nomi di questo romanzo sono nomi parlanti, come si dice in gergo. Anche Ernesto e Elia, che si potrebbero tradurre come “lo scuro” e “il luminoso”, anche Nina (che è un diminutivo, quindi un non nome, o diversi nomi insieme) e Ilide, che invece è un nome un po’ rétro ma anche un composto chimico; perfino il fatto che i nonni maschi dei gemelli non hanno nome è un nome parlante, forse più di tutti gli altri. Speedy e Sarabanda sono solo il segnale più chiaro (o almeno, questa era l’intenzione, poi bisogna vedere se ci sono riuscito) che questi non sono personaggi “reali” ma simboleggiano qualcosa.

La casa delle madri è il linguaggio in cui ho scritto (provato a scrivere) questa storia. Non è figlia di nessuno. Tutti, al contrario, sono figli suoi. Anche il libro. La prima cosa che ho pensato, prima di qualsiasi altra, è stato che volevo provare a raccontarmi una storia con quella sintassi lì.

 

 

Sempre in tema di nomi a Sarabanda e Speedy contrapponi Elia ed Ernesto nomi che rappresentano solidità, fermezza e, per uno di essi, il principio generatore, o primo stadio in alchimia. Mentre all’altro gemello attribuisci il non facile fardello dell’importanza che da Wilde in poi si attribuisce al suo nome. Sarà forse questo fardello a farlo “schizzare” fuori delle orbite della casa?

 

Sì, anche per me è così. Come dicevo prima, Ernesto è lo scuro, il bloccato, quello che non si sposta (infatti si muove troppo, fisicamente: sbatte). Elia per me forse più che dall’elio viene da helios, il sole. È l’apollineo. Ma in fondo non c’è tanta differenza, credo.

 

 

Sono i figli a raggiungere le altezze che i genitori recano in pectore?

 

Assolutamente no, poveri dii! Poi certo, inconsciamente forse molti genitori ci spererebbero. Ma io spero (e lo spero prima di tutto per i miei) che trovino la forza di staccarsi, o meglio di evolversi, dalle loro origini per svilupparsi secondo i loro desideri, il loro talento, le loro aspirazioni. Le loro e quelle di nessun altro, fosse pure qualcuno di così importante come “mamma” e “papà”.

 

 

Cosa ti ha spinto a un utilizzo deciso delle parentesi?

 

Il fatto di voler usare un modo di parlare che ho imparato dalle donne e in particolare dal femminismo – liquidato da una certa cultura maschista come “chiacchiera” – e che non si accontenta mai di una sola verità ma cerca di vedere tutti i lati del prisma insito in qualsiasi situazione. Credo di far parte della prima generazione che ci è cresciuta in mezzo, è un linguaggio che mi ha formato e mi ha fatto molto crescere, quindi volevo per così dire rendergli omaggio.

Ma anche il fatto che volevo scrivere come si parla tra amici molto intimi, o tra amanti, o tra persone che hanno lavorato creativamente insieme e a lungo, diciamo dopo le tre del mattino, quando la tavola è piena di piatti sporchi e l’ultima bottiglia è quasi vuota, in quel momento e in quell’intimità quando le parole seguono i pensieri in ogni loro divagazione senza paura di perdere il filo, perché si è in contatto molto profondo gli uni con gli altri.

Come dicevo prima: volevo raccontarmi una storia in questo modo qui.

 

 

Il narratore onnisciente che racconta le vite e le case, ampie descrizioni invece di dialoghi, un linguaggio composito e dalle frasi lussureggianti, si direbbe l’antitesi dell’imperante “autofiction” costellato di dialoghi e frasi brevi. Una scelta ponderata o più uno scrivere che ti si è imposto costruendo l’opera?

 

Non so se le frasi brevi siano da imputarsi proprio all’autofiction (del resto nel mio libro c’è molto di autobiografico – e molto no, anche questo è vero) e non piuttosto alla regola di una certa letteratura americana legata alle scuole di scrittura creativa che va generalmente sotto l’etichetta di “show, don’t tell” – il che pure non vuol dire “scrivi frasi brevi” ma “non fare la spiega, usa l’azione”. Ecco, a me questa regola appartiene poco. Secondo me “la spiega” è foriera di molte epifanie – ce l’ha insegnato prima la psicanalisi, poi l’autocoscienza femminista, appunto. Poi hai ragione, oggi l’autofiction coniugata al show, don’t tell va abbastanza di moda. Ma non è detto che non produca cose anche molto belle.

Di nuovo, ci tengo a dire che se il mio non è (né vuole essere) un pamphlet politico tanto meno vuole esserne uno letterario: io volevo scrivere così, ma se un altro vuol scrivere in un altro modo va benissimo. Anzi, spero ci sia spazio per tanti modi di scrivere – e di raccontare – diversi, il più possibile disparati uno dall’altro.

 

 

Leggo dal tuo libro: “Non è facile fare tabula rasa, però, soprattutto se abiti ancora nella casa dove sei cresciuto, dove tua madre è morta. Ernesto si imbatteva continuamente in mobili, ninnoli, libri, scorci di stanze, odori pregni del ricordo di Sarabanda, di lui ragazzo quando lei ancora c’era, quando almeno qualcosa sembrava più facile di adesso.”

A parte che questa frase mi ricorda il secondo soggiorno a Balbec del giovane narratore della Recherche, quando si rende conto che dall’altra parte del muro la nonna non c’è più, a parte questo, nelle ristrutturazioni che cambiano volto alle case c’è un tuo desiderio o una predilezione, di fare tabula rasa?

 

Non c’è nessun desiderio, almeno non per me. È quello che credo succeda quando perdi una persona cara: il lutto è orrendo, lo vuoi solo eliminare, cancellare dalla tua esistenza. Ma non puoi. Puoi solo attraversare quel deserto, e poi, uscendone (se mai se ne esce) scopri che qualcosa hai anche trovato, perfino nella perdita. Ma che la perdita di una persona amata faccia schifo e nessuno (mica solo Ernesto) voglia neanche un briciolo di quel dolore orrendo, chiunque ci è passato lo sa bene.

 

 

Il ménage a trois vissuto da Elia è una proiezione di un desiderio incestuoso?

 

Tutto è legittimo, per chi legge. Ma se devo rispondere per me, no. È una via di fuga. Per questo sono in tre: questa storia è tutta costruita per coppie oppositive soffocanti. Elia, il luminoso, è l’unico che prova a salvarsi. E l’unico modo per salvarsi, per uscire dal due, è servirsi del tre. E lo fa col sesso perché il sesso è la cosa più salvifica, la cosa più vitale che conosco.

Poi ok, c’è anche un malcelato omaggio a Queneau, quando all’inizio di quel capolavoro che è la Piccola cosmogonia portatile dice più o meno (cito a memoria): “Erano in tempi quando l’uno cominciava a stuzzicare il due, così che da questo loro fornicare nascesse finalmente il tre”.

 

 

Domanda prevedibilissima (Giuliano ride): che effetto fa essere arrivato nella dozzina dello Strega, e, da quanto sento in giro, molto supportato “dal basso” (librai e lettori in genere)?

 

Gratitudine profonda ma senza nessuna velleità o illusione. Il quarto d’ora di celebrità di warholiana memoria, ovunque ti porti, fosse pure in vetta, dopo un quarto d’ora è già passato. Sapere questo ti permette di non angosciarti, anzi anche di divertirti abbastanza, mentre c’è.

 

 

Ci parli del lavoro di traduttore?

 

È un terreno troppo vasto, ci vorrebbe un’altra intervista e vi ho già tediato abbastanza: comunque rimando ai miei due saggi sul tema. Qui posso solo dire che è un lavoro davvero troppo misconosciuto, bistrattato e malpagato rispetto a quello che fa per la cultura di tutti i paesi: chi ci marcia, chi non se ne rende conto, chi non vuole rendersene conto perché è vittima del mito dell’“Autore” con la A maiuscola. Bisognerebbe parlarne molto di più, e in modo molto meno superficiale di quanto si fa di solito.

Ecco, vedi? Un argomento su cui divento pamphlettistico lo abbiamo trovato...

 

 

Come decidi quale testo tradurre? È una scelta tua o ti viene per così dire “commissionata”?

 

È il mio mestiere, quindi accetto tutte le commissioni che implicano un tempo di lavoro e un compenso che mi consentano di garantire i miei standard di qualità, che per superare il computer devono essere abbastanza alti. Nessuno che traduca solo le sue proposte o che si permette di scegliere dal punto di vista del gusto vive di questo. Un traduttore professionista per mantenere la famiglia deve tradurre tra le 10 e le 20 pagine al giorno. Ti pare che può permettersi di scegliere? Senza contare il fatto che tradurre ciò che non ti piace ti insegna a farti piacere tutto, che è l’esercizio di pratica ermeneutica più proficuo che io conosca.

Ma siccome il lavoro non è che abbondi, in realtà ogni traduttore è molto scout, propone cioè anche molto. Io per esempio sono specializzato in letteratura brasiliana contemporanea (ma traduco anche da francese e inglese: sono laureato in portoghese ma per vicissitudini familiari conosco bene queste due lingue – e culture, almeno nel loro ambito europeo – fin da bambino) e faccio una media di 4 o 8 proposte l’anno... Ma non tutte vengono accettate, nessuno si vede accettare tante proposte di traduzione da poterci pagare le bollette.

 

 

Ci parli di “Il cibo dei morti”?

 

È uno dei tanti romanzi (nel frattempo ne è uscito un altro e un altro ancora uscirà a settembre, senza contare quelli usciti prima) di uno scrittore russo che da un certo momento in poi si è trasferito in Francia e ha cominciato a scrivere in francese (prima, ovviamente, scriveva in russo). Una biografia che esprime una mescolanza succosissima dal punto di vista linguistico e culturale di per sé. Poi è un libro stupendo, che parla di morte e di masturbazione, di champagne e morti di fame, di letteratura e di suicidio in uno stile davvero inusitato. Era appunto una delle proposte che avevo nel cassetto – da anni.

Anche qui devo ringraziare la lungimiranza di Giuseppe Girimonti Greco, che dirigeva la collana di letteratura straniera per Tunué e si è subito innamorato del testo.

 

 

Pensi di continuare a scrivere romanzi? Ne hai già uno nel cassetto della tua mente?

 

Mi viene da sorridere, perché scrivo da sempre. Il mio primo romanzo l’ho scritto a 17 anni. Solo che fino ai 30 anni bruciavo tutto quanto scrivevo. Ogni tanto ritrovo forse una poesia su un risvolto di copertina di qualche vecchio romanzo. Dopo i 30 anni ho cominciato a conservare quello che scrivo. Ma come credo di avere già detto (quest’intervista è lunghissima, madonna, perdonatemi), molto raramente mando qualcosa a un editore. Prima e dopo La casa delle madri ho scritto diversi volumi di poesie, di racconti, e – credo – altri tre romanzi. I romanzi non li ha ancora letti nessuno. Solo Giovanni Turi ne ha uno in mano, ma non è detto che gli piacerà e che vorrà pubblicarlo. È un editore troppo intelligente per agganciarsi a un quarto d’ora di celebrità che dopo un quarto d’ora passa.

 

 

Grazie Daniele.

 

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- Intervista

Saverio Maccagnani

L’autore qui intervistato è Saverio Maccagnani, secondo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VII edizione 2021, nella Sezione B (Racconto breve).

 

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Ciao Saverio, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?

 

Sono nato e vivo a Reggio Emilia. Mi avvio a toccare i tre quarti di secolo (virus permettendo!). Ho svolto attività di docente e poi di dirigente scolastico. Sono soprattutto scrittore di racconti. Ho anche al mio attivo una produzione di testi di accompagnamento per opere didattico-musicali per il comune di Suzzara (MN). Ho vinto alcuni premi nazionali di narrativa. Ho ottenuto numerosi piazzamenti e menzioni in concorsi letterari nazionali.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Intanto ringrazio per il riconoscimento ottenuto. Non è la prima volta che invio i miei testi al Premio Letterario “Il Giardino di Babuk”, rientrando spesso nella selezione finale degli autori di Racconti brevi, ma non avevo ancora ottenuto un risultato così importante. Tra i tanti premi letterari offerti a chi ama scrivere ho sempre apprezzato lo “stile” di questa manifestazione, capace di assicurare ai partecipanti attenzione disinteressata e competenza nei giudizi, oltre a promuovere i testi (sia in prosa che in poesia) di chi ha la passione per la scrittura.

La mia partecipazione a vari concorsi letterari non presuppone l’ambizione di una carriera di autore. Non ho mai creduto che qualche editore pensasse a investire su di me, tanto meno ora che non posso essere considerato una “giovane promessa” né ho mai potuto contare – anche per mia noncuranza– su una distribuzione affermata oltre l’ambito locale.

In fondo ho sempre scritto le mie storie fin dalla giovinezza, ma la professione – soprattutto quella di dirigente scolastico – mi ha completamente assorbito. Dato che in fondo più che uno scrittore sono uno come tanti” a cui piace scrivere”, adesso per me un riconoscimento come questo aiuta soprattutto a incoraggiare la mia autostima e stimolarmi ad affinare la mia capacità espositiva. In realtà sono un “dilettante”, ma da intendersi nel senso più nobile della parola.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Non mi è facile rispondere a questa domanda. I “miei” autori sono tanti, forse troppi, forse troppo rivelatori della mia età: Hemingway per l’uso sapiente del dialogo; Borges per i contenuti fantastici; Céline per la sua “petite musique” capace di rendere la velocità e l’ingorgo dei sentimenti; Tolstoj per la visione potente dell’animo umano e della storia. Mi piacciono in particolare gli scrittori sudamericani per il loro approccio alla realtà a volte un po’ surreale. Non provo particolare interesse per gli autori italiani, salvo Pasolini, Sciascia, l’emiliano Guareschi e il reggiano Silvio D’Arzo.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

In fondo siamo tutti scrittori quando vogliamo comunicare intenzionalmente agli altri un nostro pensiero o trasmettere un’emozione. Alla luce di questa concezione “democratica” diffido quindi dello scrittore per mestiere, un intellettuale che mi pare condannato a doversi esibire continuamente, magari seguendo “l’onda” piuttosto che generare idee e opinioni

Personalmente preferisco mantenere un margine di riservatezza e tanta prudenza, soprattutto in rapporto all’invadenza dei social. Purtroppo nessuno scrittore è riuscito a trasformare il mondo. Forse per questo perfino i fondatori delle grandi religioni non hanno lasciato nulla di scritto di loro pugno, privilegiando l’oralità. Hanno lasciato fare ad altri, forse imprudentemente. 

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ho incominciato a interessarmi alla scrittura creativa già dalla scuola media, grazie all’influenza di un bravo insegnante che favoriva nei suoi alunni il gusto della lettura (dai classici agli autori “moderni”, soprattutto di area anglosassone), la “competizione” letteraria e una “visione” fantastica e liberatoria (ma non “anarchica” e fine a se stessa) della realtà.

Sono caratteristiche che mi hanno accompagnato in tutto il corso di studi fino all’università, quando proprio la “realtà” si è fatta sentire prepotentemente (si era dalle parti del ’68). Mi ritrovai all’interno di un gruppo di amici a scambiarci libri e a produrre alcuni numeri di una “fanzina” ciclostilata nella quale, in forma di scrittura, i temi “sentimentali” (naturali a quell’età) si mescolavano alle istanze politiche e sociali.

Poi le ragioni della vita hanno fatto prendere altre strade ad alcuni di noi, ma sempre “dalle parti” della valorizzazione espressiva. Capitava, però, in alcune occasioni di incrociarsi e confrontarci alla luce delle varie scelte: l’insegnamento, il giornalismo, la fondazione di una piccola casa editrice, addirittura il mestiere di burattinaio, tante occasioni per mantenere vivo l’interesse per la comunicazione espressiva.

Alcuni miei racconti sono stati inseriti all’interno di volumi antologici pubblicati dalle Edizioni Diabasis di Reggio Emilia, nelle raccolte n. 5,6,7 dei “Racconti Emiliani” delle Edizioni Consulta di Reggio Emilia e sono comparsi sulla stampa nazionale, locale e a cura di altre case editrici in occasione di concorsi letterari nazionali.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Da dilettante quale mi ritengo, non vivo il processo creativo come un impegno doveroso, ma come un’espressione liberatoria, occasionale a secondo dell’interesse che un fatto, un sentimento, un’emozione, un ricordo hanno suscitato in me. Mi piace utilizzare differenti registri espressivi: da quello più alto -fino alla ricerca della prosa d’arte- a quello popolaresco vicino al “parlato”. Mi piace inserire un pizzico di erudizione nell’uso dei termini, fare attenzione a tutte le possibilità espressive offerte dalla lingua, curare la precisione della parola e la costruzione del periodo, nel quale a volte nascondo apposta (“darzianamente” appunto) ritmi e pause presi in prestito dal linguaggio poetico. Poi lascio che la scrittura mi porti dove vuole. Alla fine, però, ho bisogno di un lungo processo di rielaborazione e di revisione dei miei testi. Magari di mistificazione. Non sono mai soddisfatto.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

 

La scrittura è soprattutto un piacere; è sperimentare me stesso in uno sforzo di autocoscienza in un mondo dove sempre si corre e si mercifica tutto; è la speranza di un dialogo seppure a distanza con un lettore paziente che si dà il tempo di “ascoltare” e di riflettere a sua volta; è la possibilità di meditare con calma sulle proprie esperienze e sulla propria umanità, per mettere in evidenza quanto in esse ci sia di universale.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Non credo di essere particolarmente originale né nei contenuti (ma chi lo è se ormai “tutto” è stato detto?), né nel linguaggio. Mi ha sempre colpito il periodare “manzoniano”, articolato, a volte complesso. Vorrei tanto essere più chiaro (più moderno?) e più comprensibile a una prima lettura. Anche secondo il giudizio di alcuni che hanno avuto la pazienza di leggermi tendo alla complessità del periodare (eccesso di ipotassi?) e all’allusività a rischio di apparire un po’ “oscuro”.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

Sono consapevole che molti miei testi – magari quelli che ritengo meglio riusciti - alludono al mio vissuto. Ma pur avendo lavorato per moltissimi anni nel settore dell’istruzione, non ho mai avuto la tentazione di parlare del mondo della scuola o delle mie esperienze in esso.  Neppure in maniera trasfigurata. Rimozione? Eppure è stata un’attività che mi ha dato moltissimo sul piano professionale e umano. Invece ho continuato a scrivere racconti un po’ surreali sulla realtà d’oggi. Soprattutto è l’universo femminile che mi interessa perché credo che siano le donne l’elemento di congiunzione tra le persone, i fatti, i luoghi, le memorie. Eppure nei miei testi non manca una dose di pessimismo, perché ritengo il mondo irriformabile nonostante le buone intenzioni. 

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

Non mi sono mai impegnato a scrivere versi, almeno degni di essere proposti a lettori un po’ esigenti. La produzione poetica non è mai stata nei miei interessi. Però non vuol dire che non abbia utilizzato nella scrittura una scansione versificata per sostenere ritmicamente il periodare (endecasillabi, settenari, alessandrini…). Ho utilizzato questa tecnica in racconti brevi e lunghi, anche pubblicati. A volte mi accorgo che la scrittura mi ha portato naturalmente su questa strada, allora la lascio fare, anche se ho notato il pericolo che questa melodia occulta mi prenda la mano. Ma è un buon esercizio per costruire un linguaggio più sintetico.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Molto. Devo molto alla mia terra: le storiche lotte della sua gente, l’arguzia e la cordialità delle persone; la natura incontaminata del crinale appenninico e il paesaggio ben antropizzato della pianura; le città e i borghi; le storie legate al Po quel grande fiume che disegna a nord i confini della mia regione; la cultura, da quella popolare (i burattini) alle forme più sofisticate delle varie arti.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Credo che un esempio del rapporto tra immaginazione e realtà sia rappresentato proprio dal mio racconto segnalato quest’anno. In esso la realtà è stata trasfigurata in modo paradossale. In fondo quella fuga dalla realtà del protagonista in volo su una seggiola è il racconto di un momento di disagio personale all’interno della percezione delle crisi della società moderna (la pseudo scienza, la cultura mercificata, l’insulsa comunicazione sociale, la banalizzazione della fede, l’ingordigia di beni materiali…) a cui diventa impossibile sottrarsi se non rifugiandosi nella contemplazione della natura e affidandosi all’imponderabile. L’invettiva, almeno in questo caso, non serve. Invece è proprio appropriata la “leggerezza”.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Ahimè! A volte non sono nemmeno profeta in patria, in quanto quelli che io chiamo “i miei tre adorabili lettori e mezzo” cioè mia moglie, le due figlie e la nipotina - per le ragioni del lavoro e dell’età - faticano a trovare il tempo, le motivazioni e la concentrazione per dare retta alle mie fantasie.

Al di là dello scherzo, quando mi è capitato di rendere pubblici i miei testi (nei concorsi, nelle edizioni a stampa, sui giornali…) ho ricevuto graditi apprezzamenti. Ma il fatto che non ambisca alla grande tiratura (né cerchi una fastidiosa notorietà, né doviziosi emolumenti) consapevolmente mi confina ai margini della notorietà.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

In effetti nonostante la curiosità verso il nuovo possa essere un pregio, non si dovrebbe leggere a caso pressati dalle mode. Quando invece leggere è una scelta ponderata non ci si accontenta di sfogliare le pagine rischiando la dimenticanza. Abbandonarsi al piacere della vicenda è imporsi la disciplina dell’attenzione, soffermandosi su ciò che l’autore ci sta comunicando di sé, ma anche di noi. È annotare, magari sottolineare la pagina, ripensare e interrogarsi sui “perché” emersi che, guarda un po’, possono essere proprio quelli che riguardano “noi” e l’umanità che ci circonda.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Non ho l’ambizione (l’illusione?) di credere che quello che scrivo debba essere esemplare, fatto salvo che credo sempre in ciò che propongo per una pubblicazione. I miei parametri per prendere in considerazione un testo altrui forse sono ancora un po’ troppo da “insegnante”. Faccio un po’ fatica a superare i concetti “crociani” di contenuto e forma, ma li considero una buona base di partenza. Apprezzo se una narrazione, magari anche costruita intorno a un argomento scontato, viene proposto in modo originale. Apprezzo anche la chiarezza espositiva di un testo, l’uso non banale del dialogo, l’attenzione alla competenza lessicale, l’intreccio non forzato da soluzioni cervellotiche.

Da alcuni anni partecipo a una competizione letteraria nella quale altri scrittori “dilettanti” come me valutano, in forma anonima i romanzi altrui e a loro volta ricevono la valutazione del proprio.  Pur prestando attenzione a non esprimere consensi temerari, ma anche a non offendere l’autore di un testo improponibile (riconosco però che “noi” che ci dilettiamo di scrittura siamo tutti suscettibilissimi davanti a un giudizio troppo critico!) raramente mi sono imbattuto in qualcosa di notevole. Se da un lato apprezzo in un testo un buon ritmo narrativo, senza inutili luoghi comuni, in cui i personaggi sono descritti efficacemente e agiscono con naturalezza, da un altro lato non posso apprezzare una narrazione che non si sottrae alla prolissità e a una certa vacuità linguistica o che non presenza originalità stilistica né nei dialoghi né nel racconto

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

«Il volume contiene testi tra il surreale e l’esoterico, ricchi di echi letterari. Tra bizzarre vicende di Amore e Morte tra il ‘900 e oggi in un territorio simile al nostro, si sviluppano sette brillanti narrazioni venate d’ironia.»

(pubblicato nel 2017 sul quotidiano “Il Resto del Carlino” in occasione della vincita del “3^ Premio Letterario Silvio D’Arzo” con il volume di racconti “La Ricreazione. 7 storie per 7 giorni”)

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”

 

Un amico a cui a volte mostro in bozza le mie scritture, spesso sottolinea quella che lui chiama una certa “oscurità”, pur apprezzando l’impianto narrativo. Se l’ ”oscurità” è dovuta alla pesantezza della costruzione sintattica, cerco di semplificare il più possibile il testo in forma paratattica. Se invece l’“oscurità” riguardava il contenuto sottinteso… be’,allora....

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Continuo a scrivere racconti e a inviarli (singoli o in raccolta) a qualche concorso letterario nazionale che lasci trasparire una parvenza di serietà. Inoltre pubblico da anni su una rivista di storia locale alcune mie ricerche.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Tra i miei interessi emerge preponderante un’antica passione per la Storia. Leggo soprattutto riviste e saggi storici. Sono socio corrispondente della locale Deputazione di Storia Patria.

Come tanti spero di tornare presto a frequentare cinema, teatri (prosa, concerti) e a visitare mostre.

Mi piace viaggiare e vivere il più possibile all’aria aperta. Pratico (con moderazione) l’esercizio della bicicletta che pedalando-pedalando, come suggerisce un famoso politico di queste parti, favorisce la meditazione.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Dalla mia modesta esperienza ho ricavato che il piacere della scrittura è impagabile e va al di là dei riconoscimenti. Aiuta a conoscersi e a migliorarsi.

La libera scrittura in rete rappresenta una grande opportunità per farsi conoscere, ma io sono ancora molto legato alle edizioni cartacee.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Se mi domandassero: “Rifaresti tutto quanto?”, risponderei: “Dato che “Non escludo il ritorno” (come si legge sull’epitaffio di un famoso cantante) cambierei tante cose, ma non rinuncerei al piacere della scrittura”. Non sarebbe bello?

 

 

Grazie.

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- Intervista

Davide Savorelli

 

L’autore qui intervistato è Davide Savorelli, prima classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VII edizione 2021, nella Sezione B (Racconto breve)

 

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Ciao Davide, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra d’origine?

 

Sono nato nel cuore della Pianura Padana, a cavaliere tra Lombardia, Veneto ed Emilia, in un nevoso giovedì di gennaio. Mi ostino a vivere tuttora ma poi, vittima come tutti del decadimento e dell’entropia, morirò. Ho scavallato la cinquantina e sono scioccamente persuaso che d’ora in poi la mia esistenza sarà tutta in discesa: un povero illuso, insomma. Dopo gli studi matti e disperatissimi nelle materie classiche, pur di non lavorare, ho optato per la professione giornalistica. Aduso ai piaceri di Bacco e Tabacco più di quanto sia lecito e più di quanto non voglia io stesso ammettere, mentre stendasi un velo pietoso sulle faccende di Venere, ho l’incomprensibile pallino di voler comporre racconti e romanzi. In tale attività ho ottenuto anche qualche soddisfazione, alcuni premi e perfino un paio di pubblicazioni. Proprio tali pubblici riconoscimenti, purtroppo, mi fanno illudere di essere un autore niente male, con tragiche ricadute sul mio ego e sulla mia ingiustificata vanità intellettuale. Pertanto, incoraggiato dall’eccessiva, condiscendente e forse anche pietosa benevolenza dei miei lettori, continuerò malauguratamente a scrivere, con grave nocumento per le patrie lettere e l’italica lingua.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Avevo già partecipato al concorso nel 2017, rientrando nella trentina con il racconto “I guitti”. Avevo preso parte alla cerimonia di premiazione a Trastevere e mi ero molto divertito, così ho deciso di riprovarci quest’anno. I premi letterari sono fondamentali: consentono a tutti di mettersi alla prova, di porsi in gioco, di essere valutati. Chiunque scriva, se la sua opera non è posta al vaglio di lettori/giudici, rischia di credersi grande d’una grandezza latente senza nessun riscontro oggettivo. A volte va bene, a volte male: non tutto ciò che realizziamo può piacere e anche una solenne “bocciatura” può essere un utile ammaestramento. Le competizioni letterarie, perciò, permettono a tutti gli autori di farsi conoscere e magari notare, far scoprire nuovi talenti e nuove voci che altrimenti rischierebbero di rimanere nell’ombra. Alcuni scrittori interessanti, infatti, vengono lasciati purtroppo e immeritatamente al di fuori dei canali letterari più blasonati e spesso autoreferenziali o, più semplicemente, preferenziali, in base a logiche che talora esulano dal reale valore artistico della singola opera.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

In generale sono un lettore onnivoro, senza preclusioni di genere. La mia rimane comunque una formazione classica che comprende fondamentalmente l’antichità e la letteratura occidentale con tutti i suoi giganti. Tuttavia gli autori che ho amato di più sono Gadda, Marquez, Amado, Bulgakov, Guareschi, Marai, Grass, Dickens e Joseph Roth, citandoli alla rinfusa. Alcuni per la lingua, altri per le trame e i personaggi, altri ancora per la capacità di creare atmosfere surreali e di grande fascino.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Non ho molta simpatia per gli scrittori engagés, raramente leggo qualcosa di loro. Credo che il ruolo del narratore, in una società che comunica prevalentemente per slogan e immagini, sia quello di cantastorie, far sognare tramite l’insolito o anche il grottesco, con un pizzico di poesia, magari, e anche quello mantenere viva la nostra lingua, contrastando un vocabolario che si sta impoverendo e imbastardendo d’inutili anglicismi. Seppure comprenda l’utilità di una koinè internazionale, trovo che barattare l’identità dell’italiano, la sua ricchezza e peculiarità per adattarsi a modelli in voga, sia un terribile errore che ci omologa e appiattisce verso il basso.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni?

 

Credo di aver cominciato perché mi riusciva quasi spontaneo, fin da piccolo. Forse ambivo all’applauso silenzioso del lettore o a un pulpito da cui affascinare e stupire. Da tanti anni scrivo in maniera professionale come giornalista, ma la modalità di comunicazione è altra rispetto alla scrittura creativa. Così, verso la fine degli anni ‘90, mi è venuta voglia di esprimermi altrimenti, come passatempo, e, per mio diletto, di comporre testi totalmente diversi da quelli che ogni giorno realizzavo per lavoro. Forse avevo bisogno di disintossicarmi, ma da allora non ho più smesso: evidentemente la terapia ha avuto successo e continuo a curarmi anche ora. Ho all’attivo diverse pubblicazioni di racconti all’interno di antologie, ma solo due romanzi: “I giorni prima” e “L’anno di Silla”, entrambi per i tipi di Porto Seguro Edizioni. Il primo racconta una vicenda ambientata nella Pianura Padana all’epoca del devastante terremoto del 1077. Il secondo si svolge all’interno di una casa di riposo nel secondo decennio degli anni 2000, dove gli anziani scoprono potenzialità e rischi dei social media nonché l’impatto devastante delle fake news sull’opinione pubblica contemporanea che, nel nostro Paese, hanno terreno fertilissimo a causa del preponderante analfabetismo funzionale.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Non esiste una regola in generale, ma, di solito capita che, al mattino presto, mi svegli con in mente il finale di una storia: quindi non mi resta che percorrere a ritroso le tappe che, messe in fila l’una dopo l’altra, conducano all’esito che avevo preventivamente immaginato. Lo so che può sembrare strano, ma questo mi consente di avere sempre presente, e a priori, dove voglio arrivare.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

 

Divertire, stupire, resuscitare lemmi desueti e creare costruzioni inaudite. La mia vuole essere una scrittura d’intrattenimento, se possibile: mi piacerebbe che il lettore provasse lo stesso piacere, condividesse la stessa allegria e leggerezza che sento io quando redigo un testo.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello degli altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Secondo gli altri non lo so dire. Mi piace mescolare, intrecciare l’alto con il basso, dall’espressione dialettale al costrutto aulico, dal termine raro a quello più terra terra per conferire un movimento continuo allo scritto: questa forma di espressività mi è congeniale e trovo che sia una mia caratteristica, non unica, certo, ma quantomeno piuttosto inusuale.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

Non parlerei di “ossessioni”, ma di temi che mi sono molto cari e ricorrenti, che evocano mondi fantastici in cui posso spaziare con familiarità: la cultura contadina, i detti popolari, le tradizioni della campagna, la religiosità semplice e, in qualche modo, sincretistica dell’universo rurale, le dinamiche delle piccole comunità, la provincia con i suoi valori e anche con il suo provincialismo, il patrimonio di leggende e miti rusticani, una volta così radicato e ora in via di estinzione. Insomma una passione inesausta per la demologia padana e il suo folklore lungo il corso del Grande Fiume.

Più che un’evoluzione, direi che c’è stata un’involuzione, ma in senso positivo, ritengo. Fin dall’inizio mi sono espresso con le modalità che adotto attualmente, ma c’è stato un periodo in cui avevo abbandonato questa forma di scrittura per andare incontro ai lettori: tanti mi dicevano che proponevo testi supponenti, zeppi di termini incomprensibili e intrisi di una sorta di tracotanza verbale, quasi che avessero come unico scopo quello di mettere in difficoltà o in soggezione i fruitori. In realtà mi sono reso conto che quello era solo il mio modo più genuino di raccontare e quindi ho deciso di andare à rebours: non voglio più semplificare per piaggeria o per una specie di captatio benevolentiae. Se al lettore va, stia con me al mio gioco per divertirci insieme.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

Mi è capitato di scrivere poesie, come a tutti gli adolescenti. Confesso che i miei versi erano meno che mediocri. Oggi lo faccio assai di rado e solo quando mi viene l’ispirazione, ma si tratta di un lavoro molto intimo che ha solo me come destinatario, anche perché è una vena espressiva che non mi appartiene. Però mi piace parecchio leggere i poeti: hanno una forza che io non possiedo, pertanto non posso fare altro che ammirarli e invidiarli.

 

 

Quanto della tua terra d’origine vive nella tua scrittura?

 

Praticamente tutto, sia per temi che per ambientazioni. D’altro canto ciascuno scrive solo di ciò che conosce e io, nonostante una patina di cultura, rimango un figlio dei campi. Come dice Zucchero nella sua canzone “Bacco Perbacco”, anch’io “c’ho l’anima nel fondo del Po”.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Non direi che lo scrittore sia una sorta di anfibio tra immaginazione e realtà. Entrambi i mondi, se vogliamo, confluiscono in un’unica dimensione, condividendone la natura pur differente. Forse è proprio grazie a questo connubio, nella terra di mezzo del possibile, delle potenzialità in divenire, che possono concretizzarsi o meno, che nasce il racconto: proprio qui matura il nuovo che sfonda l’orizzonte dell’aspettativa, l’insospettato che si invera e che, nelle parole o nella fantasia, crea una diversa interpretazione del reale o, quantomeno, uno sguardo inusitato su di esso.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Non saprei delineare un identikit dei miei lettori. Mi auguro solo che per loro i miei testi costituiscano una simpatica e stimolante parentesi, quando decidono di donarmi il loro tempo per ascoltare quanto ho da dire, e spero che non siano critici troppo severi, qualora si accorgano di averlo sprecato nel seguirmi.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa ne pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Forse lo scritto è davvero una sorta di cartina di tornasole per il lettore, magari uno specchio, anche distorto, attraverso il quale comprendersi meglio. Di sicuro ognuno interpreta un testo alla luce di se stesso, di ciò che conosce, delle sue esperienze e la stratificazione dei significati è penetrata in modo direttamente proporzionale dalla capacità del fruitore di interpretarla. Di certo ogni lettura è un viaggio soggettivo e personale, pertanto può addirittura accadere che il lettore dia un senso altro al messaggio dell’autore e che va al di là delle sue intenzioni. Sotto questo specifico aspetto trovo che la definizione di “strumento” sia senza dubbio la più calzante.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Personalmente utilizzo due parametri: la capacità della trama di avvincermi e di rapirmi, tenendomi incollato alla lettura, e la qualità della lingua utilizzata. Non è necessario che debba essere sempre particolarmente elaborata, ma congruente rispetto al tema trattato. Io stesso, raccontando determinate storie, ho usato un linguaggio lineare oppure crudo, a seconda di quelle che ritenevo fossero le caratteristiche narrative del testo. Non mi sono mai occupato di interventi critici, anche perché non credo di avere le competenze per farlo, mentre ho recensito volentieri le opere di amici che me ne hanno fatto richiesta.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Una volta mi hanno detto che certi passaggi erano poetici. Mi ha fatto molto piacere, anche perché, non occupandomi di poesia, mi gratifica sapere che talora la mia prosa è profonda e rivelatrice al pari di un’opera in versi.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Critiche negative ne ho avute parecchie, soprattutto, come ho già detto, a causa della supposta complessità del mio vocabolario. Per un certo periodo mi sono sforzato di semplificare il mio modo di esporre, ma poi ho dovuto rinunciare: non mi veniva naturale e non amo scrivere in maniera sorvegliata, se l’argomento che tratto non lo richiede. Un conto è un articolo di giornale e un altro è un testo letterario: hanno finalità differenti e richiedono, credo, stili diversi. Quindi i giudizi sfavorevoli non mi hanno fatto migliorare, ma piuttosto mi hanno confermato che, per come intendo io la letteratura, ero sulla strada giusta e ho dovuto tornarci.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Al momento sto scrivendo un romanzo ambientato nel 1873 nella provincia di Mantova. Si tratta di un episodio storico poco noto che vide i parrocchiani eleggersi da soli il sacerdote, rifiutando quello nominato dal Vescovo. Ovviamente ci sono parecchia ironia e molte libertà rispetto al reale svolgimento dei fatti, ma credo che sia un esperimento divertente. Tra pochi giorni, per Ivvi Editore, uscirà un mio romanzo breve che si intitola “Karhu”: ha per protagonisti un padre, un figlio e un orso. Una storia dura, scabra come la terra dove si svolge: le gelide distese della Carelia, al confine tra Finlandia e Russia. È il racconto di un salvataggio che aspira alla redenzione, al riscatto ad ogni costo, con tutti i mezzi. Spero possa avere una buona accoglienza presso i lettori.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre alla scrittura?

 

Naturalmente la lettura, che pratico in maniera massiccia. Poi c’è la cucina: un universo pieno di attrattive per una buona forchetta come me. Mi diletto anche a fare il cuoco: ritengo di essere bravino, ma il giudizio sui miei piatti spetta senz’altro ai miei commensali, anche se ora non posso invitare nessuno a causa delle restrizioni per la pandemia. Mi auguro di poter ricominciare presto a preparare pranzi e cene per stare in compagnia, così come di poter tornare a uscire per andare nei ristoranti e nei bar: un’altra passione inconfessabile.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Cosa ne pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Il web consente a tutti la massima libertà di espressione e proporre i propri testi nel mare magnum della rete è sempre un’opportunità, non solo per farsi conoscere, ma anche per avere uno spazio nel quale condividere le proprie produzioni. Se queste sia poi gradite o meno, è un altro paio di maniche, ma intanto, così come accade con LaRecherche.it, si spalanca un palcoscenico per tutti e quindi il mio pensiero a tal proposito è ampiamente positivo e favorevole.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti dare una risposta?

 

Sì: perché lo fai? Perché mi piace et de hoc satis.

 

 

Grazie.

*

- Intervista

Raffaela Fazio

 

L’autrice qui intervistata è Raffaela Fazio [fotografia di Dino Ignani], prima classificata al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VII edizione 2021, nella Sezione A (Poesia)

 

*

 

Ciao Raffaela, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?

 

Sono una ex-apolide (dai 19 ai 29 anni ho vissuto in Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera, Belgio, e mai più di 2 anni di seguito nello stesso paese), una sedentaria per caso (da 20 anni mi trovo a Roma, nello stesso lavoro, a cui sono approdata nella maniera più inaspettata), e una neo-nostalgica della mia Toscana (ad Arezzo ora torno sempre più volentieri). Molte cose sono cambiate nella mia vita, tranne l’amore per la poesia, presente da quando avevo 7 anni. Oltre alla poesia e alle lingue, mi sono appassionata in particolare all’arte e alle scienze religiose. Sono curiosa di tutto ciò che mette in moto il cervello e il cuore, anche a costo di perdere a volte l’equilibrio. La vita continua a sorprendermi, in positivo e in negativo. Le mie esperienze più dure mi hanno comunque insegnato a concentrarmi sull’essenziale e a rimanere fedele alla mia coscienza. Ho due figli adolescenti, Juliette e David, che sono la sfida più bella e più faticosa.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Ho scoperto tardi Il Giardino di Babuk, perché a lungo i concorsi non mi hanno interessata. Pubblico dal 2008, ma ho partecipato a un premio per la prima volta nel 2019 (d’altronde la prima presentazione di un mio libro è avvenuta solo nel 2017). Per anni ho scritto e letto poesia rimanendo abbastanza in disparte, limitandomi all’intimità del cartaceo, senza ricercare altri contatti. Nonostante permanga in me una certa diffidenza di fondo nei confronti degli eventi sociali organizzati intorno alla poesia, col tempo ho imparato ad apprezzarne l’utilità come canali di confronto/feedback e (in rare, fortunate occasioni) come opportunità di incontri che poi sfociano in amicizie (se vi è una reale frequentazione). L’anno scorso ho deciso di partecipare al Premio Il Giardino di Babuk, perché mi è piaciuta l’idea dell’assoluto anonimato (le poesie non sono in nessun modo riconducibili all’autore, perché mai pubblicate, neppure su fb, su blog o altri canali non cartacei). In generale, penso che i concorsi servano a far circolare i testi e, se questi vengono premiati, a conferire loro maggiore visibilità. Due aspetti sicuramente apprezzati da ogni autore. Tuttavia, credo che non si dovrebbe mai dimenticare che la visibilità non è il risvolto automatico della qualità.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formata e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Dato che il mio interesse per la poesia è nato prestissimo, i primi autori sui quali mi sono formata sono quelli studiati a scuola. Ripeto spesso che i vecchi amori non si dimenticano mai. Tra questi, gli ermetici (da Ungaretti a Luzi) e i simbolisti francesi. Però, alle elementari, ricordo anche che Pascoli mi colpì per la capacità di addensare il mondo in un dettaglio, e Leopardi per quella, quasi opposta, di aprire il dettaglio alla sconfinatezza (solo in seguito ne ho apprezzato la disincantata resilienza). Ora rileggo spesso Rilke, Tagore, Salinas, e le mie poetesse preferite: Antonia Pozzi, Emily Dickinson, Hilde Domin. Poi la poesia polacca, come la Szymborska, Zagajewski, Twardowski. La lista è ovviamente più lunga, e in crescita continua.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Lo scrittore, a mio parere, dovrebbe mantenere vivo ciò che esiste di più umano nell’umano. Ad esempio, la capacità di provare empaticamente dolore o gioia, indignazione o gratitudine. Dovrebbe far sorgere domande in chi legge, e offrire piste alternative, capaci di scuoterlo dal torpore, dall’acriticità o dal sentire omologante. E credo che, tra le sue responsabilità, vi sia anche quella di far trasparire la bellezza (intesa in senso ampio, come forza rigenerante) persino all’interno della notte più buia. Perché la vita ha sempre due polarità, non una.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittrice, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ricordo che ero una bambina molto riflessiva. Ho iniziato a scrivere a 7 anni, perché era il modo più libero e più “vero” per esprimere la voce che avevo dentro. Le mie primissime poesie erano trascrizioni di canzoni che mi passavano per la testa. Da allora la musicalità del verso è sempre stata fondamentale per me. Di incontri significativi ne ho fatti diversi, ma forse il più importante avvenne a quattordici anni, quando conobbi, sempre per motivi legati alla poesia, un vecchio professore che, insieme a sua moglie, mi accolse come una persona di famiglia e mi accompagnò per lunghi anni nel mio percorso, sia umano che letterario. Si chiamava Salvatore Matarazzo. La prima raccolta “matura” è stata “Per ogni cosa incompiuta”, nel 2008, con una casa editrice ormai scomparsa. Tra gli ultimi libri menzionerei “L’arte di cadere” (Biblioteca dei Leoni, 2015), canzoniere amoroso, la cui pubblicazione fu all’epoca incoraggiata da Paolo Ruffilli; “Ti slegherai le trecce” (Coazinzola Press, 2017), rivisitazione della mitologia classica al femminile; “L’ultimo quarto del giorno” (La Vita Felice, 2018), scansione del tempo interiore; “Midbar” (Raffaelli Editore, 2019), rilettura di racconti e archetipi veterotestamentari; “Tropaion” (Puntoacapo Editrice, 2020), poetica del “polemos” esistenziale; “A grandezza naturale. 2008-2018” (Arcipelago Itaca, 2020), riproposta di vecchi testi e nuove riscritture; “Meccanica dei solidi” (Puntoacapo Editrice, 2021), piccolo pro-memoria sull’esistenza concreta del coraggio. Mi sono inoltre occupata della traduzione di Rainer Maria Rilke, in “Silenzio e tempesta. Poesie d’amore” (Marco Saya Edizioni, 2019), e di Edgar Allan Poe, le cui poesie mi auguro che possano uscire quest’anno.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Per quanto riguarda il “materiale” (ovvero l’ispirazione), è naturalmente la vita stessa a offrirlo. Si tratta di esperienze vissute e rivisitate, oppure di riflessioni intorno a eventi e/o temi specifici. Circa l’elaborazione, i tempi variano. A volte occorre una maggiore sedimentazione. Altre volte, l’urgenza di scrivere, nella sua immediatezza, dà buoni risultati. La regola è comunque: rileggere a distanza di settimane, per verificare se quanto si è espresso e il modo in cui lo si è espresso tiene.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

Mi piacerebbe offrire uno scorcio sia inedito che familiare. Un po’ come dire: non c’è niente di nuovo sotto il sole, ma ciò che è “vecchio” può essere vissuto in modo sempre nuovo.  Sarei felice se la mia scrittura riuscisse a riprodurre questo duplice movimento che, a mio parere, è benefico, nell’incontro con il mondo (e con noi stessi): dapprima un passo indietro, per diventare “estranei” a ciò che si crede noto (o addirittura scontato), e poi un passo avanti, per accogliere l’alterità, senza cancellarne il mistero.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Vorrei che fossero i lettori a rispondere a questa domanda.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

Non penso di avere “ossessioni”. Mi piace scrivere su tutto ciò che mi colpisce. La varietà di quello che ho pubblicato finora credo lo dimostri. Non saprei giudicare con precisione l’evoluzione della mia scrittura. Forse col tempo ha abbracciato temi più ampi, più diversificati rispetto all’inizio, ovvero rispetto alla poesia esclusivamente lirica. Ma continuo a considerare importanti alcuni aspetti: la musicalità, la densità, lo spazio che la parola-immagine apre senza rinunciare a un pensiero sottostante.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

Nonostante abbia appena pubblicato un libro di mini racconti (“Next Stop. Racconti tra due fermate”, Fara Editore 2021) come raccolta prima classificata nel premio Narrapoetando 2021, confesso che si tratta di materiale appartenente alla mia giovinezza, limato di recente per l’occasione; non penso che avrà un seguito. Rimarrà un “unicum”. La poesia è il mio canale preferenziale. Al momento non sento la necessità di trovarne altri.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

Come dicevo all’inizio, ho vissuto in paesi, contesti e ambienti molto diversi. Credo che ogni luogo lasci in noi una traccia. Forse la Toscana mi ha lasciato il gusto irrinunciabile della bellezza, l’esigenza di chiamare le cose con il loro nome, una certa allergia alla sovrabbondanza di elementi e alla teatralità.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

In senso ampio (non letterario), la realtà esiste e non è semplice frutto dell’immaginazione. Altrimenti, esisterebbero tante realtà quante persone esistono al mondo. Tuttavia, la realtà non è un oggetto osservabile, e tanto meno è osservabile da un unico lato. La realtà è un insieme composito di tutto ciò che è esperito. In questo insieme non c’è solo l’evento in sé, ma anche il sentimento, l’intuizione, il pensiero, la memoria. Pertanto l’esperito, che costituisce la realtà, pur inscrivendosi in un tempo preciso, scavalca questo tempo, essendo continuamente esposto all’interpretazione, ovvero alla ricerca di un senso. Un senso che non necessariamente cristallizza la realtà, ma che ne permette il rinnovato dischiudersi nelle sue potenzialità. In tale processo, anche l’immaginazione svolge il suo ruolo. L’immaginazione è uno dei ponti gettati sul reale: non è né il polo opposto della realtà, né la sua matrice. Si tratta piuttosto di un circolo virtuoso: la realtà alimenta l’immaginazione e l’immaginazione è uno degli strumenti per interpretare la realtà. Nel caso specifico della letteratura, il discorso è un po’ diverso: l’immaginazione, che si nutre del vissuto dell’autore, crea la realtà della scrittura. Grazie all’immaginazione, la scrittura diventa una realtà nel mezzo delle altre realtà. Tanto più vera quanto indagatrice onesta del senso profondo delle cose.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Ho amici (e quando dico amici mi riferisco a persone che mi conoscono davvero, frequentandomi) che mi leggono, altri che non lo fanno perché la poesia è un linguaggio a loro estraneo. Poi ci sono poeti che si sono avvicinati alla mia scrittura perché uniti dagli stessi interessi. Naturalmente spero (come spera ogni autore) che facciano parte dei miei lettori anche sconosciuti che hanno trovato spunti e risonanze tra i miei versi.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Sono d’accordo. Si tratta quasi sempre di offrire una messa a fuoco. Tra lettore e autore deve esserci un terreno comune che permetta il riconoscimento. A volte, però, se il lettore è pronto a mettersi in discussione, può avvenire anche un sovvertimento, uno squarcio che rivela qualcosa di totalmente “altro”, che scaraventa il lettore fuori da sé, e solo in un secondo tempo lo riconduce al suo interno.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Dico subito che non sono una critica, né ambisco ad esserlo. Posso permettermi di leggere quello che mi piace, in veste di semplice fruitrice. Se parlo di opere altrui (mi è capitato), ne sottolineo gli aspetti per me interessanti, che possono variare, e che non sono necessariamente presenti allo stesso livello: qualità letteraria (almeno ciò che io percepisco come tale), intenzione dietro la scrittura, tema trattato. Personalmente, sono attratta da scritture che, oltre all’originalità e alla cura della forma (senza ovvietà e toni teatrali, ma anche senza artifici ed espressioni cervellotiche), aprano spazi, lascino corso alla libertà e alla suggestione, ma facciano anche trasparire un pensiero, un’unità articolata, ovvero non si perdano per strada, con la scusa che in poesia tutto è ammesso.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

Quella “facciale” di mia figlia, quando, leggendo una mia poesia, per la prima volta non ha storto il naso o alzato le sopracciglia.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Sì. Quando ero adolescente mi è stato suggerito di prosciugare la mia scrittura, tentando di concentrarmi sull’essenziale. Da adulta, mi è stato consigliato il contrario, di non eccedere nella “sintesi”. Immagino che per me la sfida sia tuttora trovare un giusto equilibrio.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Attualmente sto lavorando a una silloge poetica, di cui fanno parte i testi inediti inviati al premio Il Giardino di Babuk. Quest’anno dovrebbero uscire una raccolta interamente dedicata ai miei figli, in occasione del mio cinquantesimo compleanno, e un libro di versi di Edgar Allan Poe, che ho tradotto per riproporlo nella sua veste meno nota di poeta.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Un’altra mia passione è l’arte, e più precisamente l’iconografia/iconologia, con un interesse particolare per i primi secoli, che segnano il passaggio dall’immaginario pagano a quello cristiano, con una ripresa formale di motivi figurativi che si sono poi arricchiti, nel corso del tempo, di nuovi contenuti. Spesso, dietro immagini che abbiamo continuamente sotto gli occhi e che diamo per scontate, è possibile scoprire un intreccio di rimandi e di significati del tutto inatteso.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Non sono un’esperta nel campo. Mi pare però che il mezzo digitale e la rete abbiano permesso una diffusione della poesia che sarebbe altrimenti rimasta relegata a scaffali introvabili. Via web ho scovato scritture in cui sarebbe stato difficile imbattermi in forma cartacea. Il prezzo da pagare per questa maggiore (e positiva) capillarità è naturalmente un certo sovraffollamento, senza distinzioni di qualità e di sostanza. Cosa dire? Leggere molto, di tutto, ma non temere di essere selettivi nei propri gusti.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Quest’intervista è forse la più lunga che mi sia mai capitata! E sono davvero grata per l’opportunità offertami di esprimermi su aspetti così disparati. Sono anche grata per la cura e per le energie di chi sta dietro all’organizzazione de Il Giardino di Babuk e de LaRecherche.it Non ho dunque altro da aggiungere, se non la speranza che qualche lettore ce l’abbia fatta ad arrivare fino in fondo alle mie risposte…

 

 

Grazie. Raffaela.

 

*

- Intervista

Giaime Maccioni

 

L’autore qui intervistato è Giaime Maccioni, terzo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VI edizione 2020, nella Sezione B (Racconto breve) con “Pi-ri-pì!

 

 

Ciao Giaime, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?

 

Ciao. È difficile presentarsi, perché ho la sensazione che qualunque cosa scriva non riuscirei a fornire altro da un’immagine che probabilmente ha poco a che fare con me. La terra di origine della mia famiglia è in parte la Sardegna, in parte la Toscana. Io sono nato e vissuto nel centro di Roma, quando ancora somigliava un po’ a un piccolo paese circondato di bellezze. Le due dimensioni della grande città e dell’isola coesistono in me. Sono un musicista, scrivo da sempre, odio il traffico, il caos urbano, i ritmi inutilmente veloci, gli schemi generali, l’idea che il giusto modo di vivere sia uno. Credo che non smetterò mai di mettere il gioco al primo posto tra le attività preferite di un giorno qualunque. Ma appunto, magari ci si può figurare un tipo etereo con il naso aquilino e le maniche larghe della camicia, che vaga per le strade sovrappensiero, e non sono io. Io sono quello in bicicletta con i pantaloncini da tennis.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Ho partecipato più di una volta. La prima per amore di Proust. Voi mi avete inconsapevolmente ricambiato, portando sempre in finale i miei pur non proustiani racconti. Alla prima premiazione c’era un ambiente molto tiepido, affettuoso. Le letture fatte sul palco mi piacevano. Ho scambiato con gli organizzatori delle strette di mano e dei sorrisi che ho riconosciuto solidali. Da allora il concorso è diventato un appuntamento familiare.

Non riesco a pensare i premi letterari come una categoria unica. Non so che ruolo rivestano al momento nel panorama letterario, ma posso pensare al valore che potrebbero avere se rispondessero ad alcune caratteristiche. Essere liberi, senza quota di iscrizione, innanzitutto. Privi di altre richieste dall’invio dell’opera, nessuna biografia o breve curriculum o presentazione, nell’idea che un’opera di qualunque arte, quando viene fruita, non debba portare con sé ornamenti riguardanti la vita dell’autore. L’interesse per queste informazioni, se mai ci deve essere, va a mio avviso separato e posticipato. E mi piacerebbe anche che nelle valutazioni le giurie fossero libere da ogni ragionamento o prospettiva commerciale. Ecco, il luogo dei concorsi potrebbe opporsi a quello del mercato, o quanto meno prescinderne. In questo vedrei una loro utilità.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Ci sono due fasi della mia vita di lettore. Una più giovanile in cui leggevo solo per il gusto della lettura, e una che è iniziata circa quindici anni fa, quando ho iniziato a scrivere narrativa in maniera più costante e la lettura e diventata anche osservazione, analisi e studio. Più che pensare a chi mi abbia influenzato, preferisco citare alcuni tra quelli che ho amato e amo di più. Non escludo che le due cose possano in parte sovrapporsi.

Nabokov, di cui ho letto e riletto l’Opera intera, e che continuo a leggere e rileggere. Un suo libro è sempre con me. Lucidità scacchistica, perfezione strutturale, potenza immaginifica, una miscela di poesia e di scienza in equilibrio sul ciglio del troppo, senza cadere mai.

Proust, che ritengo l’emblema di una letteratura altissima distante dalle trame a orologeria. La profondità introspettiva del suo sguardo è inarrivabile. Come il suo soffermarsi sui particolari finché le cose non prendono vita propria. Capisco il Marcel protagonista quando dice di amare le lunghe infinite descrizioni del suo autore preferito, e di scoraggiarsi quando l’azione riprende.

L’Ulisse di Joyce lo leggevo con mio padre quando ero molto piccolo. Di tutte le reazioni emotive che procura quel libro straordinario, al tempo la principale era il ridere. Lo continuo a rileggere con lentezza e grandissimo piacere, ammirato di tutto ciò che una sola pagina possa contenere e di tutti i fili con cui si leghi al resto.

Gombrowicz, che ha portato la ricerca sulla forma a vette inimitabili di splendore inventivo.

Salinger, un mistero di perfezione e semplicità, che più di chiunque è riuscito a rendere l’ordinario straordinario.

John Fante, per come riesce a dare alla scrittura i connotati della carne.

Durrenmatt, con la sua esattezza tra lo spietato e il lirico.

Robbe-Grillet e la puntualità del dettaglio che trasforma una trama in una geometria.

Cheever, i racconti di quelle zone residenziali, espressione di un disfacimento dietro una maschera americana.

Kafka, non solo le sue strutture paradossali ma anche molte meravigliose soluzioni letterarie. La frase conclusiva del Processo, per dirne una.

Rilke, poesie, lettere, pensieri. Tra le tante cose, i poemi sui miti di Orfeo e Euridice e di Alcesti. Al loro miglior traduttore, Giaime Pintor, brillante scrittore anch’egli, devo in parte il mio nome.

Robert Coover, un grandissimo autore americano, di cui è stata finalmente pubblicata la traduzione italiana di una corposa raccolta di racconti. Unico, inconfondibile, il suo stile sarà moderno e innovativo anche tra cento anni.

Poi un filone di narratori del centro e sud America, da Borges a Hernandez, a Guimaraes Rosa, e anche certe cose di Garcia Marquez. Una letteratura tutta diversa, piena di libertà visionaria, con un piede nel surreale. Un ponte possibile tra quella e l’Europa è il poema “La fine del Titanic” di Ezensberger, un altro che mi piace molto, scritto a L’Avana, perduto, riscritto trent’anni dopo tra memoria dell’originale e nuova invenzione.

Tra gli italiani senz’altro Italo Calvino, soprattutto quello di Palomar, degli Amori difficili e delle Lezioni americane. Vitaliano Brancati, un’eccellenza stilistica che trasuda immediatamente anche dalla frase più piccola. Guido Ceronetti, il cui punto di vista è sempre un misto di originalità e di peso a fondo del pensiero. E due grandi scrittori che, seppure autori di romanzi, sono più noti come giornalisti sportivi: Gianni Brera e Gianni Clerici. Ogni loro articolo è un piccolo pezzo di letteratura.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Quello di ogni artista, col proprio linguaggio specifico. Offrire un mondo nuovo con nuove regole, orizzonti sconosciuti, un’altra prospettiva non meno vera della cosiddetta realtà.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Sembra vanitoso e posticcio, e la cosa un po’ mi imbarazza, ma la verità è che ho imparato a scrivere molto prima del tempo scolastico, intorno ai tre anni, e ho sempre scritto, in varie forme. Ho racconti compiuti che risalgono ai miei sette o otto anni, ma anche diari, riflessioni, invenzioni satiriche, brani comici scritti per gli amici, lettere. Immergermi nella scrittura è un fatto estremamente naturale. La mia piccola storia di scrittore di narrativa, o di qualcuno che vuole fare principalmente questo, inizia circa quindici anni fa. Da allora ho scritto moltissimo, e ho pochissimo tentato di pubblicare, ma questa è storia per un’altra chiacchierata. Alcune cose sono uscite nell’ambito di antologie dedicate ai vincitori e finalisti di altri premi letterari. All’inizio di questa seconda fase della mia vita di scrittura, l’incontro con Annamaria Cesarini Sforza e con sua figlia Benedetta Cascella, scrittrice che al tempo aveva messo su un piccolo laboratorio, è stato molto importante.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Credo che le parole non riescano a raccontare del tutto certi meccanismi. Potremmo dire che ogni tanto una piccola idea si accende come la scintilla di una miccia, innescando un’esplosione. L’osservazione attenta dello scoppio e la descrizione delle sue conseguenze costituiscono una storia.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

 

Di rileggermi dopo un tempo sufficiente a “dimenticare” il momento della scrittura, e di trovare convincente ciò che rileggo. La struttura, la lingua e lo stile sono gli aspetti che mi interessano. Più dell’argomento avvincente in sé. Credo che un romanzo o un racconto ben strutturati possano parlare di qualunque cosa. Vedi Salinger, ad esempio, che ha scritto dei racconti memorabili su un nulla apparente. Non credo sia vero che le “grandi” storie sono più interessanti, o che una storia debba trasmettere un qualche messaggio. Nel dettaglio, nei meccanismi nascosti del quotidiano, negli universi privati e nella puntualità della narrazione spesso si annidano tesori molto preziosi. E dovrei qui dire: pensiamo a Proust.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Non riesco a fare dei miei contemporanei un gruppo omogeneo rispetto al quale confrontarsi. Posso provare a individuare dei tratti stilistici comuni a molta produzione recente, e argomenti più battuti di altri. Forse il fatto che lo scrivere sia radicato in me fin da prestissimo mi aiuta a non scivolare nell’uso pedissequo di certe “norme” per la buona riuscita di un testo che sono insegnate nelle varie scuole del settore e talvolta erroneamente trattate come piccoli dogmi, ricette sicure per il successo. Non penso sia sbagliato studiare e sperimentare e cambiare, ma ritengo un errore grave quello di abbandonare la propria voce originale a favore di un modello. Vorrei che fosse questo a distinguermi dagli altri, come scrittore. La mia autenticità, il mio essere profondamente me stesso.  

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

Ci sono probabilmente degli argomenti e dei temi ricorrenti. L’innamoramento. Le relazioni uomo-donna. Le presunte regole preesistenti, e il coraggio di romperle per restare fedeli a sé stessi e alla vita. Il peso del Caso. La distanza tra i sogni e la loro realizzazione. Il rapporto dell’uomo con i luoghi e con il clima. Tuttavia ogni storia è a sé, e nuovi territori da esplorare emergono naturalmente.

L’evoluzione della mia scrittura riguarda principalmente il controllo e la consapevolezza. Saper individuare in anticipo certi vizi. Saper scegliere tra i toni disponibili quello più adatto. Riuscire a riprodurre le condizioni per scrivere con il giusto abbandono. Non perdere di vista la struttura e la compattezza. Quando ero più giovane mi dilungavo in lunghissime descrizioni, ripetizioni, aggiunte di orpelli senza una direzione, per il gusto puro della frase. Non ho nulla contro le lunghe descrizioni, le ripetizioni, o qualsiasi altro elemento narrativo, purché non sia lì per caso.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

Sì, anche se di rado. E in versi scrivo quasi esclusivamente di questioni personali, cosa che mi capita molto meno in prosa.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Come ho detto sono nato e cresciuto nel pieno centro di Roma da una famiglia sarda. Anche nelle vacanze invernali non ho mai conosciuto montagne, ma sempre il mare. Direi che nella mia scrittura sono comparsi a più riprese respiri immaginifici propri dell’insularità. Il benessere che mi restituisce immediatamente una dimensione di solitudine, silenzio, immersione nella natura, potrebbe avere a che fare anche con le mie origini, oltre che con il mio modo d’essere. E oltre a ciò un certo umorismo piuttosto folle, divaricato sul surreale, che è proprio di certi sardi sofisticati.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

La realtà è un concetto troppo personale per poterlo rendere oggettivo. Non esiste una realtà. La parete dello stesso edificio, per fare un esempio, è diversa per un passante, per un residente di quel palazzo, per un muratore esperto che ci vedrà il tipo di lavoro fatto, e così via. L’immaginazione non è meno vera. L’artista apre una nuova possibilità, erige una nuova parete, per stare all’esempio precedente. Poco importa che non la si possa toccare fisicamente.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Per anni la mia lettrice principale è stata la mia vicina di casa Annamaria, che ho citato prima riguardo agli incontri importanti per la mia scrittura. Appena finito un racconto, correvo giù a portarglielo. Ci sono altri amici fidati, e cioè la cui sensibilità, che non è detto sia coincidente alla mia, ritengo tale da far sì che un loro parere sia più prezioso del parere di altri. E scelgo quelli schietti, che non hanno remore a fare critiche dure.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Proust è sempre lucido e profondo. Non ricordo sue affermazioni che non fossero interessanti e che non aprissero sulle cose un punto di vista originale. Sono abbastanza d’accordo con quanto dice, e soprattutto ritengo sia un modo estremamente efficace e poetico di metterla giù. Si potrebbe ipotizzare che, oltre a ciò che di già presente disvela, una lettura possa aggiungere al sé qualcosa che poi altre letture permetteranno di discernere o di rielaborare. In questa prospettiva, oltre che strumento, l’opera sarebbe anche tesoro da cui attingere.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Nabokov diceva che l’organo con cui si deve giudicare un’opera è la spina dorsale. Sono d’accordo. Gli autori che ho amato e amo, prima di tutto, mi procurano dei brividi di piacere fisico e intellettuale. Poichè i miei brividi sono legati alla concatenazione delle parole in un periodo, alla vividezza di un’immagine suscitata dalla potenza di un’espressione, al senso di appagamento e di eccitazione che mi danno una soluzione elegante e una struttura intelligente, posso dire che sono immune al fascino dei passaggi di trama che tengono incollati alla pagina, mentre posso incantarmi sulla descrizione di una sedia, se è fatta come si deve. Le sole recensioni che ho scritto, per un noto giornale, non sono state per adesso pubblicate. Ma è un qualcosa che non mi viene molto naturale.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

In generale, le critiche che mi fanno più piacere sono quelle che elogiano ciò che io stesso elogerei se mi leggessi senza sapere di essere l’autore.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Sì, e per fortuna sempre la stessa, fatta da persone diverse che non si conoscono tra loro. Per un amante della matematica, è stato confortante. Quando sono riuscito non solo a vedere ciò di cui mi parlavano tramite i loro occhi e le loro parole, ma in prima persona rileggendo me stesso, è stato un passaggio importante.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Al momento una raccolta di racconti è in lettura presso un editore che stimo. E sto completando un lungo romanzo, che è stato il mio lavoro principale negli ultimi tre anni.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

E la lettura, naturalmente. La musica, anche professionalmente perché insegno chitarra. Il cinema. Lo sport, e in particolare il tennis.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Sono uno scettico che è rimasto col suo scetticismo senza impegnarsi per approfondirne le cause. Credo ancora nella carta. E credo nella pubblicazione tramite un editore. L’oceano del fai da te mi fa sentire smarrito allo stesso modo in cui mi sento cercando informazioni su internet e trovando tutto e il contrario di tutto. La lettura su supporto elettronico non mi piace molto, ma la sopporto talvolta per questioni pratiche. Il vero vantaggio che rilevo è di poter leggere al buio, senza disturbare chi ti dorme a fianco e ti urla: “spegni!” proprio mentre sei assorto in un passaggio fondamentale. Il discorso della comodità di portarsi dietro migliaia di libri in un oggettino piccolo e leggero mi convince fino a un certo punto. Sono i libri di carta quelli che ho letto e riletto, sgualcito, consumato, e mi sono rimasti dentro, come avveniva con i compact disc per la musica. La troppa disponibilità spesso fa il paio con il poco approfondimento.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

In generale, le domande che non si pongono sono quelle ritenute confidenziali, e alle quali in molti invece avrebbero una gran voglia di dare risposte. Sotto il dominio del formalismo, spesso si definisce sconveniente tutto ciò che è appena più intimo di ciò che prevede l’etichetta, e ci si perde in chiacchiere irrilevanti. Trovo del tutto lecito che una persona appena conosciuta ponga una domanda personale, se ne ha desiderio. Meglio se ha anche poi la pazienza di ascoltare la risposta.

Stando all’intervista, invece, vorrei dire che le domande fatte da voi sono state stimolanti, e questo mi conferma tutto ciò che di positivo penso del vostro premio. Vi ringrazio, e vi auguro un buon lavoro per le prossime edizioni.

 

 

Grazie.

*

- Intervista

Maria Teresa Infante

 

L’autrice qui intervistata è Maria Teresa Infante, seconda classificata al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VI edizione 2020, nella Sezione A (Poesia) con “Evasioni (in)certe

 

 

Ciao Maria Teresa, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?

 

Intanto ringrazio la Redazione per questo approccio che mi permette di presentarmi anche se parlare di se stessi non è mai semplice. Sono nata e vivo a San Severo in provincia di Foggia, nella splendida pianura di Capitanata. Mare, campagne e sole sono uno scenario di cui non potrei fare a meno. Una vita apparentemente tranquilla per chi mi conosce poco (sposata e con due figli meravigliosi, Michele di 34 anni e Marika di 30) ma piena di risvolti tali da poterci scrivere un romanzo, cosa che in effetti ho fatto – dosando realtà e fantasia ­­– di prossima pubblicazione. Non riuscirei a concepire un’esistenza senza un libro accanto ma mai avrei pensato di scriverne a mia volta. Da bambina, rubacchiavo quotidiani al parentado e sognavo di diventare giornalista. L’eccessiva sensibilità, che considero dote e maledizione al contempo, mi ha spinta poi verso la poesia; per il giornalismo in parte il sogno si è avverato. Ho un trascorso da giocatrice di volley e allenatrice; quando le giunture hanno cominciato a cedere evidentemente sono cambiate le prospettive e ho riversato energie in altra maniera. Ho un bisogno costante di obiettivi da raggiungere e progetti da inseguire altrimenti non riuscirei ad alzarmi neanche dal letto al mattino.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Ritrovarmi tra i vincitori del Premio potrei definirla una sorpresa “sperata.” Credo di essermi iscritta al sito circa tre anni fa considerandolo uno spazio poetico interessante con autori di rilievo. Amo cimentarmi nei sani confronti con il giusto approccio, cioè con entusiasmo ma senza eccessive aspettative. Ho inviato poesie che ritenevo all’altezza di un contesto di prestigio e per questo non posso che sentirmi onorata del risultato.

Considero un concorso poetico una sfida solo con me stessa, ottenere un riconoscimento non è surclassare qualcuno ma aver superato un altro limite che mi ero autoimposta; se “perdo” mi impegno per fare meglio, “mi alleno” forte dei retaggi di un trascorso sportivo, in cui perdere non è mai una sconfitta ma uno dei punti di partenza. Non siamo mai migliori di nessuno, ognuno di noi ha la sua bellezza intrinseca. Vincere significa solo che in quel momento, con quelle liriche, sei riuscita a dialogare con il lettore (giuria) e a farti ascoltare.

Oggigiorno, forse più di ieri, vista la scarsa considerazione in cui è tenuto il mondo della poesia, credo che anche un riconoscimento in un Premio poetico “accreditato” possa essere un valore aggiunto, magari anche una maniera, come in questo caso, per farsi conoscere. Inoltre amo aprirmi per avere un riscontro e capire in che maniera vengono recepiti i miei scritti. D’altronde, perché no? In fondo esistono concorsi in ogni campo, anche in quello lavorativo e come qualcuno disse “gli esami non finiscono mai.” Aggiungo però che partecipo a pochi Premi, selezionando quelli che, a mio parere, si adoperano seriamente e a vantaggio della cultura.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Sono sempre stata una lettrice famelica il che ha giocato a mio vantaggio nel non assimilare influenze specifiche. L’amore per la poesia nasce sui banchi di scuola con Leopardi (anche se lo capirò in seguito) e ad oggi sono tanti gli autori che amo nella loro diversità, potrei citare Caproni o Raboni, Pozzi o Neruda, Hikmet e Rosselli, Bukowski e Borges ma farei un torto a molti altri ancora. Non posso non citare Terzani “il viaggiatore” ma ciò che reputo sia stato “formativo” per la mia scrittura è lo studio della filosofia. Confrontarti con il libero pensiero, spinge a riflessioni di natura universale, all’accettazione del dubbio come entità indispensabile, al superamento dei limiti della non conoscenza in un continuo esercizio mentale che, successivamente avviene, tuo malgrado. Parti da Platone, Aristotele, arrivi a odiare Kant e Hegel quando devi preparare le tesine per poi capire, a distanza, quanto bene ti abbiano fatto. Ad oggi seguo il prof. U. Galimberti, P. Singer, l’attualissimo affabulatore Peter Sloterdijk oltre a un caro amico il prof. E. Marco Cipollini, le cui pubblicazioni trovo interessanti e fruibili al lettore attento. Amo spaziare, anche in questo caso.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Se il libro esiste lo deve allo scrittore e i libri sono un dono dal valore inestimabile a vari livelli. Scrivere è semplice, il difficile è traslare il proprio pensiero al lettore, renderlo fruibile, attraente, erotico (citando U. Galimberti). Quando questo accade lo scrittore ha assolto all’importante funzione del dialogo, della comunicazione, diviene un tramite tra il sé e gli altri, e il sé diventa universalità. Ogni epoca ha avuto i suoi grandi “comunicatori” che ci hanno lasciato eredità di cui possiamo ancora godere. Una società senza libri, ergo scrittori, sarebbe sterile e già morta e la nostra società agonizzante credo possa sostenersi solo aggrappandosi alla cultura e alla conoscenza per non sprofondare ancor più nelle sabbie mobili in cui è invischiata. L’uomo deve riappropriarsi della capacità del libero pensiero e uno scrittore può essere considerato un “servitore”, può aiutare a scuotere le menti e le coscienze: uno stimolo, oltre che un tramite.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Non c’è un inizio, l’ho sempre fatto; carta, penna e libri erano i miei giochi preferiti. È stata un’evoluzione naturale, di pari passo con la crescita e la maturazione ma scrivere era un qualcosa da dover nascondere per pudore affinché i miei pensieri non venissero letti. La poesia è comparsa invece all’improvviso, in seguito a un momento buio, tetro, senza uscita e mi ha offerto la possibilità di comunicare in una maniera diversa, mi ha liberata dalla timidezza di fondo e dalle paure. Ecco, per me la poesia è liberazione. Riporto gli ultimi versi di una mia lirica “rinascere è una fatica immane / morire è stato semplice / come non puoi capire.”

L’accesso a un portatile è giunto in aiuto al mio disordine naturale; ho imparato così a catalogare conservare, salvare e poi con un gesto d’incoscienza la mia prima pubblicazione nel 2012 per avere tra le mani una creatura di carta che fosse solo mia. Il titolo “Quando parlerai di me” è una dedica ai miei figli. Pensavo sarebbe finita lì, invece è stato solo l’inizio. Fu come entrare in un corridoio in cui una porta ne apriva un’altra, di volta in volta, con esperienze e conoscenze diverse e stimolanti. Finalmente sapevo cosa farne di tutto il caos che avevo in testa. Avevo trovato il metodo.

Sono nate così sette sillogi poetiche, di cui una pubblicata e distribuita in Serbia (in cui sono presente in tante antologie letterarie); una raccolta di poesie per bambini “Rap di-verso”, un romanzo “Il richiamo” e cinque antologie contro la violenza di genere e in difesa dei diritti dei minori che hanno dato vita alla Collana “Ciò che Caino non sa”.

Fondamentale è stato anche l’incontro, agli esordi, con Massimo Massa (BA) grazie al suo neonato sito poetico in cui fui tra i primi iscritti. Cominciammo a consigliarci, consultarci e nacque un sincero rapporto di stima e amicizia – cosa rara tra un uomo e una donna – che perdura ancor oggi a dieci anni di distanza. Siamo diventati collaboratori fondando l’associazione culturale L’Oceano nell’Anima insieme a un’altra cara amica Barbara Agradi (PV) con all’interno la casa editrice Oceano Edizioni e il Premio accademico internazionale di letteratura contemporanea L. A. Seneca, affiancato dall’Accademia delle Arti e delle Scienze Filosofiche di Bari e ancora il giornale on line OceanoNews e l’omonima rubrica letteraria mensile.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Le mie poesie sono un atto naturale, spontaneo. Nascono così come le riporto nei miei libri, senza costrutti artificiosi, di getto. Anche la metrica, spesso presente, è una mia caratteristica innata, dettata da una musicalità interiore. Eppure non sono frutto di improvvisazione, tutt’altro; sono la risultanza di un profondo esame su me stessa o sulle cose del mondo che sento sulla mia stessa pelle; sono la sintesi, la tesina di una “logica sentimentale” codificata in versi. Un rigetto liberatorio e catartico che dopo il compimento, soddisfa.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

 

Nessun obiettivo prefissato; scrivere mi appartiene. Sarebbe come chiedermi “Perché bevi?” “Perché ho sete.” Tutt’al più è il tentativo di comunicare, di uscire dalla solitudine di cui non ci rendiamo conto, così immersi in una moltitudine di indifferenti; un’opportunità di dialogo, di svelamento. L’atto di coraggio che mi ha salvata.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Questa è una domanda “tendenziosa” (sorrido) perché riesco a parlare in relazione solo a me stessa. Potrei dire che ogni mia poesia racchiude in sé una storia, quasi fosse una narrazione in versi con il suo prologo, il climax e l’epilogo. Non lascio mai il lettore in sospeso, so da dove parto e dove voglio arrivare, servendomi molto delle metafore perché credo che i messaggi migliori siano quelli che si lasciano percepire, supportati da emozioni e vissuti personali. Potrei aggiungere che è “onesta.” La poesia prima si vive poi si scrive.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

L’evoluzione è sinonimo di crescita e maturazione, sarebbe preoccupante se non avvenisse. Io stessa rimango meravigliata dai cambiamenti e dalla mutevolezza della mia scrittura, sempre diversa, mai simile a se stessa. Non so mai cosa e come scriverò domani. Più che una scrittrice mi piace definirmi per questo una “creativa”, seguo l’istinto, l’ispirazione, il miraggio che si profila dinanzi ai miei occhi. Ho sempre più progetti in corso d’opera e li porto avanti a seconda dell’umore, dello stato d’animo, delle esigenze interiori. Non tiro mai la corda, aspetto che sia il momento giusto. Ogni cosa conosce il tempo del suo accadimento. Ed è anche per questo che non credo di essere ossessionata da tematiche particolari; c’è il periodo intimistico e c’è quello in cui il sociale prende il sopravvento. Ho scritto e pubblicato molto contro la violenza di genere e verso il mondo dell’infanzia e ho sentito su di me tutto il peso di quanto riversavo sui fogli. Un lavoro durato anni che mi ha “sfiancata”, frutto anche di studi e aggiornamenti continui.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

Ho sempre scritto in prosa poi la poesia ha preso il sopravvento, da tiranna e la pubblicazione del mio primo romanzo è avvenuta solo successivamente, nel 2017 con “Il richiamo” che a dire il vero mi ha gratificata tanto, essendo stato apprezzatissimo. I romanzi hanno un “pubblico” più ampio, è risaputo. Ho al palo altri due romanzi, già terminati, in attesa del momento propizio per la pubblicazione. Inoltre scrivo per il giornale della mia città “Il Corriere di San Severo” con collaborazioni passate anche con “Il corriere nazionale” e “Il Corriere di Puglia e Lucania, oltre a vari blog letterari. Sono caporedattore del giornale on-line OceanoNews in cui curo anche una rubrica personale.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

I profumi, i colori, la bellezza della mia terra sono spesso presenti insieme all’amarezza e alla malinconia di ciò che era e non sarà più. Anche il romanzo pubblicato è pura espressione della mia territorialità con una narrazione che tratta, in maniera atipica, di emigrazione, donne, amori, senso di appartenenza e antico orgoglio; scrivere per ricordare e continuare ad amarci. La mia terra ha radici profonde in me, che nulla potrà estirpare. Una terra che fa soffrire nel vederla morire in tutta la sua bellezza. Ne parlo e gli occhi mi diventano lucidi. L’ho elogiata in molte mie poesie.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

La fantasia è il mio motore ma non potrebbe prescindere dal circondario come base di partenza. Interpreto la realtà rendendola fantastica e trasformo l’immaginazione in realtà cercando di annullare i confini tra le due condizioni. Una mera descrizione diverrebbe cronaca senza l’intervento della creatività.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Con tanti miei lettori, cioè quelli che mi seguono da anni ho instaurato dei rapporti di amicizia, solidi e duraturi nel tempo. Ho un’educazione di fondo improntata alla stima e al rispetto per l’altro, a maggior ragione per chi si prende la briga di leggermi e degnarmi della sua attenzione e credo che questo venga percepito. Se veniamo considerati scrittori lo dobbiamo solo a loro e cerco di ringraziali ogni volta che la situazione lo permette.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

È una profonda verità soprattutto per quanto concerne la poesia; di solito piace una poesia in cui ci si compenetra, che funge da molla ad emozioni sopite o dimenticate, a ricordi narcotizzati o repressi. È per questo che considero il poeta un nobile comunicatore “d’interni.” Non a caso il titolo della mia ultima silloge è “Collisione d’interni” (Il Convivio Editore, 2019)

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Credo di avere recensito oltre cinquanta libri tra narrativa e poesia e i criteri sono i più disparati ma essenzialmente rifuggo la banalità e l’ovvietà. Dando per scontato una buona cultura di base, “tutto è già stato detto” la differenza consiste nella specificità, nell’originalità con cui si riesce a trattare argomenti da angolazioni sempre nuove e diverse. Faccio parte della Commissione del Premio Nazionale “N. Zingarelli” che, in questi anni, mi ha permesso di allenare “l’occhio” per quanto riguarda la narrativa edita; a volte basta la lettura di poche pagine per comprendere la qualità dello stile letterario, delle abilità linguistiche, del costrutto o della validità della trama. Non è mai gradevole valutare, ancor più in un concorso di poesie in cui le emozioni sono immediate e impattanti; cerco di porre un muro che mi spinga a considerare il testo in sé, senza pensare alla mano che lo ha scritto, cioè alla persona che c’è dietro altrimenti mi sentirei in forte difficoltà, per quel senso di rispetto di cui accennavo.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Confesso di averne ricevute tante, anche attraverso recensioni spontanee di cui mi sono sentita onorata, ma vorrei citare un episodio atipico.

Qualche anno fa il professore preposto a relatore della mia silloge “Il Viaggio” mi disse “Se non ti conoscessi avrei pensato che questo libro sia stato scritto da un uomo.” Il professore è un teologo, filosofo, era appena rientrato da una conferenza a Roma con una platea di 300 ascoltatori e subendo un po’ la sua caratura intellettuale lo presi come un complimento chiedendogli “In che senso”. Rispose “perché le donne scrivono poesie ‘svolazzanti’” accompagnando la frase con un cenno della mano “le tue poesie oltre ad avere cuore denotano una mente fervida e attenta.” Un complimento a suo modo ma che mi ha in parte confusa essendo anch’io un appartenente al genere femminile.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Sono il peggior critico di me stessa, mi metto sempre in discussione. Critiche negative non me ne sono giunte direttamente ma di certo ce ne saranno state e ce ne saranno ancora credo, come è ovvio che sia. Nessuno ne è immune. Invece sono stata oggetto di un paio di episodi imbarazzanti e divertenti allo stesso tempo in cui mi è stato chiesto pubblicamente “perché cavolo voi poeti scrivete cose incomprensibili e non vi fate mai comprendere da chi legge?” Mi sono offerta di spiegare, abbiamo dialogato, ci siamo confrontati e ora quelle due persone sono miei amici da anni e leggono i miei libri.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Credo di avere oltre 500 poesie inedite che pian piano sto cercando di selezionare per future pubblicazioni e so già che ci sarà un “abbattimento” da mattanza. Come ho già detto, sono severa con me stessa. Al momento sto limando per l’ennesima volta il mio secondo romanzo “L’Arma”. Vorrei pubblicarlo in autunno. Una narrazione che, partendo da una base autobiografica vuole evidenziare problematiche e risvolti psicologici a carico dei figli – soprattutto se molto piccoli – che subiscono il trauma dello sgretolamento famigliare in seguito alla separazione dei genitori. Un alibi forse, per parlare di una tenera quanto sofferta storia d’amore.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Nessuna, soprattutto per mancanza di tempo. I vari campi culturali in cui sono impegnata mi assorbono completamente e non mi permettono di dedicarmi ad altro, soprattutto tenendo conto che la cura della mia famiglia ha la priorità. Scrivo quasi sempre di notte e di giorno riesco a rubacchiare un po’ di tempo per mantenere la forma fisica (leggo i libri sulla cyclette per ottimizzare il tempo). L’unico punto fermo è sempre stata la scrittura, per altri hobby sono sempre stata instabile; non ho il pollice verde, sono una frana con i colori, ho abbandonato la chitarra quando ho capito che oltre il “giro di Do” non sarei mai andata; ho smesso la collezione di francobolli quando tra i vari album non mi raccapezzavo più… Se solo potessi tornerei sul campo di volley.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

La scrittura in rete, con le pagine e siti poetici sono lo specchio del mutamento della società contemporanea, in cui il flusso di notizie viaggia veloce e azzera le distanze favorendo la comunicazione e la diffusione dei messaggi. Manca il famoso filtro, certo, ma questo vale per tutti e tutto, ed è sempre più difficile distinguere qualità e competenze, visto l’enorme proliferare di testi in cui ognuno promuove se stesso. Ma continuo a credere che il vero riscontro si abbia nei contesti reali, i social assolvono bene alla funzione di vetrina. A deludere è l’editoria in generale, anch’essa uniformata al potere del consumismo e alle dure leggi del mercato e del profitto. L’editore non va più alla ricerca di talenti sommersi ma del personaggio del momento o peggio ancora del personaggio con “scandalo annesso.”

Per gli acquisti, quando è possibile, cerco di rifornirmi direttamente presso il mio libraio. Credo dovremmo farlo tutti perché le librerie rischiano di scomparire, dobbiamo aiutarle a rimanere in vita. Anche quando non hanno il libro a disposizione lo ordino e arriva dopo pochi giorni.

Agli autori de “LaRecherche.it” invece vorrei fare dei complimenti sinceri, ho letto liriche di rilievo, davvero degne di attenzione.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Ho davvero poco da aggiungere, siete stati molto incisivi e vi ringrazio per l’opportunità concessami ma questa intervista avviene ai tempi del Corona virus e mi verrebbe da chiedervi “come state?” sperando in una risposta positiva corale. Ecco, per essere provocatoria, è una domanda che mi viene rivolta raramente. In questo periodo lo sto chiedendo a tanti, amici, parenti, contatti virtuali: “Come stai?” A me solo tre persone hanno sentito la necessità di chiedermelo. Ho il brutto vizio di riflettere; ci lamentiamo per la mancanza di un abbraccio, una stretta di mano, del contatto umano. Eppure pare che a mancarci siano le futilità, l’happy hour, l’aperitivo e l’apericena, non il contatto umano. Il contatto umano avviene anche senza toccarsi. Siamo proiettati sempre più verso noi stessi e non verso gli altri. Oppure penso troppo in grande e la verità è più semplice, la rigetto perché fa male. L’amarezza incalza mentre tra la gente salgono le polemiche, i giudizi, le critiche e disgreghiamo piuttosto che unire. Non mi ci ritrovo.

Apro il pc, penso per non pensarci. Mi rilasso. Ritrovo il silenzio. Scrivo. Torno con la mente alle vecchie, care lettere:

“Come stai? Io bene, così spero anche di te.”

 

 

Grazie!

 

*

- Intervista

Bruno Centomo

 

L’autore qui intervistato è Bruno Centomo, primo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VI edizione 2020, nella Sezione A (Poesia) con “Ci aveva traditi, Giacomo?

 

 

Ciao Bruno, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?

 

Buongiorno a tutti coloro che avranno la pazienza di leggermi. Sono molto lieto ed assai grato per l'opportunità di essere ospite a La Recherche con questa intervista. Sono nato a Schio, nel Vicentino, nel 1960 ed abito, con mia moglie e le nostre due figlie, poco distante da lì, a Santorso, un piccolo paese che quietamente si adagia sotto una corona di monti e colline che paiono custodirlo. Certamente le mie poesie un po' vi si rintanano, un po' vi si sentono soffocate. Come noi che lì viviamo e vorremmo scappare, ma poi quando siamo lontani, desideriamo tornare. Ho una preparazione scolastica di tipo tecnico e sono autodidatta in campo letterario. Adesso, dopo il conseguimento di una qualifica professionale idonea allo scopo, lavoro come operatore in una Comunità terapeutica, dopo un trascorso invece da impiegato in fabbrica.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Avevo già partecipato ad un paio di precedenti edizioni di questo Premio (risultando orgogliosamente sempre tra i finalisti). Io partecipo ai Premi letterari, scegliendoli per serietà e valore, selezionando però solamente quelli che non prevedono quote di iscrizione, se non simboliche. A mio avviso non si dovrebbe corrispondere una tassa di lettura per farsi leggere. Lo scopo dei concorsi dovrebbe essere quello di permettere un confronto tra gli autori, una reciproca lettura, stimolando la creatività, la ricerca dei testi altrui, una sana “competizione” di talenti ed idee. Ai premi comunque non va assegnato un valore “assoluto”. A me spesso è capitato che una mia poesia, inviata ad un concorso, passasse del tutto inosservata, per poi magari vincere un premio in un'altra sede. E questo sottolinea, se mai ce ne fosse bisogno, quanto è variegato e in fermento l'ambiente letterario contemporaneo. Oltre che quanto gusto personale, preparazione, specificità influenzino ogni giudizio. Con questo spirito, del resto, anch'io ho fatto e faccio parte di giurie letterarie.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Fin da giovanissimo ho frequentato la poesia. I primi libri di poesie che ho “divorato” a quindici/sedici anni sono stati quelli di Montale (tutti meravigliosi!) e quelli di Rilke. Poi ho intrapreso la lettura dei francesi: Baudelaire, Rimbaud, Apollinaire e da allora ho iniziato a cercare scrittori che mi emozionassero e ho scoperto Adonis, Penna, Caproni, Bertolucci, e poi Mariangela Gualtieri, Ida Travi, Nanni Cagnone, Pierluigi Cappello, passando per Sandro Penna, Bigongiari, Luzi, Bertolucci, Eluard, Pavese, Ramat, T.S.Eliot, Llamazares, Cortazar e tanti, tantissimi altri.

Tra i romanzieri che leggo più volentieri vorrei citare Haruki Murakami, per quella sua capacità visionaria di mescolare storia, mito fantastico, sogno, raccontando la fragilità dei sentimenti, la caducità delle esistenze.

Un altro grande romanziere che mi piace ricordare è Francesco Biamonti che molto mi ha influenzato con la sua scrittura dolcemente malinconica, minuziosa, deliziosamente poetica. Non si può non leggere il suo “L’angelo di Avrigue”.

Leggo qualunque poeta mi capiti sotto mano, lamentandomi del poco che si trova in libreria, della fatica che si fa nelle biblioteche che pure permettono conservare testimonianze anche piccole che andrebbero altrimenti dimenticate, svanendo inevitabilmente.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Lo scrittore non è, non dovrebbe, stare astrattamente al di sopra del quotidiano, ma viverlo appieno, per testimoniarlo, ma a proprio modo, con la propria capacità, inventiva, intuizione, fantasia. In fin dei conti il poeta, il narratore raccontano le cose di tutti i giorni, a ben guardare, ma lo fanno con la straordinarietà che solo la scrittura permette. Si scrive, come afferma Franco Arminio, “perché abbiamo le ora contate, perché ogni giorno può essere l'ultimo” e lo scrittore ha il dovere di rendicontare il tempo che passa.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Io ho iniziato a scrivere, un po’ come fanno tutti gli adolescenti: pensieri, pseudo-aforismi sulla vita, sull’amore, sul perché la prima cotta è rimasta a binario unico. A 14-15 anni scrivi per cercare di mettere un po’ d’ordine tra gli istinti, le passioni, le voglie, le paure. Poi questo bisogno primordiale di mettere ordine, diventa necessità di provarci sul serio, per tentare di capire cosa stai combinando. Tanto già lo sai che non c’è risposta e bisogna solamente provarci. Perché il bello sta proprio nel tentarvi e allora cominci ad avere bisogno di stimoli, di conferme, di esaltazioni e cominci a scoprire i poeti che ti piacciono, le liriche che vorresti aver scritto tu, tenti creare un tuo stile, ti appassioni, ci metti l'anima, senti che scrivendo, stai bene! Desidero però ricordare la scomparsa poetessa Mirka Bertolaso Nalin e il poeta Mario Meneghini, tra i giurati al primo concorso giovanile poetico in ambito locale (organizzato dal bravo e compianto Padre Martino dei Cappuccini di Schio) cui ho partecipato a sedici anni, che mi hanno incoraggiato e suggerito strumenti, letture, approcci letterari.

Ho pubblicato alcuni volumi di poesia e un testo di micro-racconti. Ho poi sempre cercato sinergie con altri poeti e scrittori, costituendo prima il Circolo Amici della Poesia di Schio e poi Il Leggio a Santorso, progetti importanti che hanno visto, nel tempo, la realizzazione di vari momenti artistici, mostre, pubblicazioni. Parallelamente, partecipando a qualche concorso, arrivano i premi, ti impegni ancor di più, capendo che quel che scrivi può essere riconosciuto e apprezzato.  Collaboro poi assiduamente con un cantautore vicentino, Leonardo Buonaterra. Ho partecipato anche a qualche suo concerto con delle mie proposte letterarie. Mi piace spaziare. Provarci, almeno.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Mi torna alla mente una intervista rilasciata da Mario Luzi, che diceva: “Io voglio essere presente negli eventi. [...] Certo, oggi la sento di più questa condizione dell’uomo inserito nel vivente, parte del processo grandioso dell’universo.” Ecco, credo bisogna farsi coinvolgere, da una foglia che cade, dall'astronave che decolla, dalla paura, da un abbraccio, dal riconoscere i problemi del mondo, dal sentirsi immerso negli eventi. Protagonista. Lo stimolo è la vita stessa.   

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

 

Emozionare. Emozionarmi è ciò che cerco anch'io leggendo un testo. Ovviamente non basta dire che il cielo è meravigliosamente blu o la notte straordinariamente nera. Va detto, ma allora è la forma, la musica delle parole che caratterizzano il trasporto emotivo e fanno la necessaria, passionale differenza.

 

  

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Davvero non saprei. Non cerco paragoni o confronti in tal senso. Spero che chi mi legge, con un minimo di assiduità, tra le righe, mi riconosca. Nulla di più.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

C'è un programma su Internet che permette di conteggiare quante volte, in un elaborato, compaiono determinati termini. Forse per confermarmi quanto immaginavo, ho provato a inserirvi una notevole quantità delle mie poesie e il risultato è stato: tempo, parole, vita,  giorno, neve, vento, cielo e così via. Per quanto si divaghi, sempre si ritorna a dire delle cose fondamentali che già narravano i lirici greci oltre 2500  anni fa e che son quelle che accompagnano tutta la nostra esistenza. Montale, nel suo discorso all'accademia svedese per il ricevimento del Nobel, ha sottolineato che la poesia non morirà mai perché rappresenta “[...]una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile. […].

L'evoluzione che ha accompagnato la mia scrittura è dipesa certamente dalle letture svolte negli anni, dall'apprendere dagli altri, dall'imparare, dall'ascoltare  e pure dal diventare “adulto” con gli annessi e connessi che il fatto implica. Noi siamo fatti di incontri, di esperienze, di trovate, di colpi di genio e di colpi bassi che ci colpiscono. Trovarmi a cinquant'anni a dovermi re-inventare un lavoro, rimettermi a studiare, perché nessuno in fabbrica ti vuole più, diventare operatore in comunità, affrontando tematiche e mondi assolutamente sconosciuti prima, non è stato facile. La mia poesia è fatta certamente anche di queste esperienze, prove, fatiche, e sfide.  

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

Scrivo prevalentemente poesie. Ho però pubblicato anche un libro di racconti brevi (anzi brevissimi, sono 100 racconti ciascuno composto da 100 parole).  Scrivo, con meno costanza delle poesie, racconti e da troppi anni, in realtà, ho il progetto, perennemente incompiuto di un romanzo, abbozzato più e più volte. Chissà mai troverà realizzazione.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

In casa, con gli amici, io parlo in dialetto veneto. Ho provato a scrivere in dialetto, ma i risultati sono stati assai mediocri. Ciò nondimeno i paesaggi cui apparteniamo, la nostre radici, la storia vissuta e quella solo respirata c'è dentro di noi. Ogni scrittore, ciascuna persona porta in sé quel che la sua gente è stata, ha sofferto, ha maturato, ha creato. Ed è il bello del piccolo, del locale, del particolare nel contesto dell'Universo, degli altri, del Mondo intero. 

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Per quanto uno scriva di fantascienza o pura fantasia, nel mondo reale poi ci vive. Perciò mi chiedo e domando: quale è il confine e c'è davvero?

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Ho una pagina facebook dove mi piace pubblicare le mie opere. E' lì che ricevo tanti commenti, applausi e discussioni. Poi alle serate letterarie cui partecipo mi capita essere fermato, confrontato. Mi piace perché trovo intendimenti e contrasti con giovani ed anziani. Con ognuno c'è qualcosa su cui soffermarsi, dialogare. E imparare.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Secondo la “finestra di Johari” di J.Luft e H.Ingham (1955) la persona, in base al comportamento, è suddivisa in quattro tipologie: “aperta” (nota a tutti e a sé stessa), “cieca” (nota agli altri, ma non a sé stessa), “nascosta” (nota solo a sé stessa), “ignota” (sconosciuta a tutti e pure a sé stessa). Credo che lo scrittore, seduto a questa immaginaria finestra, ci si trovi benissimo. O forse no. Forse qualche volta vorrebbe essere altrove, per non doversi barcamenare tra tutti questi sé stesso.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Mi sono divertito a prefare i più vari generi:  testi poetici e diaristici di Franca Smiderle, una silloge di poesie (ma non solo) di Stefano Caranti, un romanzo giallo di Giuseppe Mandia,  un volume (tra il serio e il faceto) di poesie e boutade comiche di Antonio Pegoraro. Ho recensito, su riviste, pittori e scrittori. E' una bella prova di lettura e di scrittura “critica”. Mi guida sempre la passione, la capacità di emozionare, stupire, coinvolgere. Scrivere per scrivere, magari in bella forma, ma senza cuore, senza cercare complicità, non mi entusiasma certo.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Molte sono state le critiche positive, le recensioni ottenute negli anni, i giudizi espressi in circostanza del conferimento di premi. Credo sintetizzi un po' tutta la mia opera, questa, ricevuta in occasione del Premio Incontri di poesia giovane che organizzava il gruppo Fara di Bergamo: “Il denso ironico spartito del testo, nitido nella sua rivisitazione dei miti e cristallino nella sua forma poetica, con non retorici interrogativi poetici, scopre il senso e il modo d'essere dell'attualità con venature surreali di tranci filosofici di realtà”. Credo sia un buon sunto di quel che spero sia la mia poesia. Poi quando un lettore mi viene a dire che in una poesia ha trovato sensazioni e spunti che io mai mi sarei prefisso, beh, ragazzi, quello è il massimo! Stimolare, emozionare...le parole d'ordine.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Di ogni critica va fatto tesoro, anche se va sempre tenuto in considerazione chi la esprime (ma questo vale in ogni ambito, non solo letterario). Comunque diciamo le negative sono state “archiviate” e messe in saccoccia. Mi piace scrivere per divertimento e soddisfazione personale prima di tutto e non ho ambizioni letterarie particolari. Poi, un po' di vanità, ci sta, no?   

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Ho in cantiere un nuovo libro di poesie. E' in fase di progettazione. Il materiale c'è. Si tratta di organizzarlo. Sistemare in fila tutto ciò che vorrei dire. Mettere un punto fermo e ripartire.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Come già ho detto, mi piace camminare in montagna, ma il tempo da dedicarvi, complice qualche acciacco, è sempre meno, purtroppo. Ma poi mi interessa viaggiare, conoscere luoghi, persone, opere d'arte, visitare musei, chiese, testimonianze di quanto meravigliosa è la capacità umana di costruire la bellezza, quando riesce a stare in simbiosi con la Natura.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Ben venga ogni esperienza che permetta di mettersi a confronto, di farsi leggere e di poter leggere. Scopri talenti insospettabili, energie e ideazioni spessissimo da invidiare. L'odore dell'inchiostro, il fascino del buon libro da sfogliare tra le mani, lasciando il tempo vi si infili inesorabilmente tra le pagine, però, rimangono sensazioni personalissime, non pianificabili in rete, non vivibili on-line. Assolutamente intramontabile. Assolutamente magico.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Bella domanda. Facile chiedermi cosa vorrò mai fare da grande. E ancora più facile rispondere  che non ci ho ancora pensato. O meglio, proprio per non passare dal Peter Pan che un po' mi inquieta, lo lascerò scritto nella mia ultima poesia, per chi la vorrà leggere. O magari in quella dopo. 

 

 

Grazie.

 

Grazie a voi per l'occasione e a tutti un abbraccio forte, pur virtuale, visto il momento tragico che stiamo vivendo in questi giorni di pandemia che ci costringono a stare lontani da chi magari vorremmo invece stringere e sulla cui spalla far scivolare  una lacrima, ricordando chi se ne è dovuto andare miseramente in solitudine, senza che nessuno gli potesse tenere la mano.

 

*

- Intervista

Annalisa Rodeghiero

 

L’autrice qui intervistata è Annalisa Rodeghiero, terza classificata al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VI edizione 2020, nella Sezione A (Poesia) con “Eco di polvere” (fotografia di Enzo Bacca).

 

 

Ciao Annalisa, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?

 

Spero si possa capire qualcosa di me attraverso le risposte che via via mi appresto a dare.

Ho avuto la fortuna di nascere ad Asiago nell’incantevole conca dell’Altopiano dei Sette Comuni. Conservo negli occhi il verde respiro dei suoi prati di rugiada e tarassaco, lo porto come recessivo, presente in doppia dose, mi ossigena ogni volta che la nebbia di Padova, mia città d’adozione dai tempi dell’università, stende bruma sulle rive dei suoi portici.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Ho partecipato al vostro Premio perché proposto dalla redazione de LaRecherche.it che negli anni ho avuto modo di apprezzare, ho aderito per poter conoscere il giudizio dei vostri Giurati nei confronti della mia poesia. Una lettura di stimati poeti è stimolo alla partecipazione, qualunque sia il risultato. Questo è il valore primo che attribuisco a un Premio Letterario. C’è poi un valore aggiunto non trascurabile: laddove è prevista una cerimonia di premiazione, essa può diventare una vera occasione d’incontro con altri poeti e critici letterari. Mi è accaduto più volte di aver incontrato persone meravigliose che hanno impreziosito la mia vita e il mio percorso artistico.

Purtroppo credo che nel panorama culturale e artistico italiano siano ben pochi i Premi gestiti in piena onestà e trasparenza che agiscono slegati da interessi economici o amicali e che sono veramente tesi alla scoperta o alla valorizzazione della poesia.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Sono stata e sono una lettrice insaziabile di poesia, perennemente spinta dalla curiosità di conoscenza. Ritengo che tutto ciò che leggiamo, possa in qualche modo contribuire alla nostra formazione anche gli autori meno amati, se non altro per non seguirne il solco. In età giovanile ho incontrato i grandi cantori dell’amore, cardine attorno a cui si muove tutta la mia poesia. Solo più tardi ho imparato ad amare Dante, Leopardi, i nostri maestri. Tra i poeti del Novecento, soprattutto Ungaretti. Negli ultimi anni mi sono avvicinata a Sereni, Caproni, Raboni, Cristina Campo.

Quando un poeta mi cattura, leggo tutta la sua produzione e chissà quanti richiami trattengo a nutrire i miei versi. Nella recente scrittura ci sono spesso rimandi alla grande poesia di Rilke, Eliot, René Char, Brodskij e Marina Cvetaeva oltre a Celan, e al nostro Pierluigi Cappello.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Oggi più che mai la poesia deve veramente occuparsi dell’umanità e prendere posizione anche di fronte ai grandi cambiamenti che minacciano l’equilibrio del nostro pianeta.

In una società tesa al profitto, all’efficienza, al potere, in questo frenetico sistema mediatico dove la parola viene sempre più privata del suo senso, il poeta compie un gesto profondamente civile. Un vero atto di resistenza, anche solo per il fatto che egli agisce nella totale gratuità del gesto, svincolato da qualsiasi movente se non quello di comunicare, anzi “esprimere” ciò che si può solamente “sentire”.

La poesia, inoltre, ci porta alla conoscenza della parte più vera e immutabile di noi stessi e tale conoscenza è fondamentale per la comprensione degli altri. Senza questa comprensione la società si frammenta.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Perché ho iniziato a scrivere? Perché è accaduto. Come accade l’amore, come il latte che trabocca dal bricco. Come una malattia. Lo scivolamento dalla lettura alla scrittura è stato graduale e quasi impercettibile ma ancora ricordo la sensazione di svuotamento e d’estasi dopo la stesura di quella che ho percepito essere la mia prima poesia.

Poi è diventata necessità, dipendenza, a volte preghiera.

La prima pubblicazione come singola autrice è del 2013 con Percorrimi tutta seguita da Di spalle al tempo (2015), Versodove (2017) e Incipit (2019).

 

Con altri autori ho partecipato alla realizzazione di Antologie non legate a premi letterari: Leucade- Antologia poetica a tema Il padre di Nazario Pardini (2017), Antologia Pensieri d’amore curata da Rina Gambini (2017), Il segreto delle fragole 2018 Agenda Poetica (LietoColle), Lunario in versi (11 poeti italiani) iPoet 2018 di LietoColle, Madre Quaderno di poesia del Gruppo poeti UCAI  (2019),  Antologia proustiana Una notte magica, La Recherche (2019) Antologia proustiana 2018: Cherchez la femme- di Aa Vv La Recherche.it.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Il processo creativo è la realizzazione di un’urgenza di dire, il desiderio di fermare l’istante che fora il tempo, qualunque sia la sua origine, quasi sempre remota. Sì, perché c’è un tempo preparatorio d’attesa, il ritorno frequente di un pensiero che si concretizza solo al momento dell’ispirazione, cioè nell’attimo in cui si riesce a catturare il verso primigenio. Poi il rito si compie e la poesia “si scrive” dettando la sua strada.

Il miracolo si realizza alla fine della prima stesura ed è la gioia di avere scritto. Solo più tardi inizia il lavorío attorno alla parola e ai suoi silenzi, a dare forma al contenuto, senza mai perdere la fedeltà all’ispirazione. Null’altro conta.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

 

Riuscire a dire la verità della realtà più vera, pur nella consapevolezza che non possa esistere una verità assoluta. Farlo attraversando ciò che abbiamo vissuto. Rivelare l’essere in rapporto al mondo. Tradurlo nei modi che si addicono alla poesia e cioè intuendo la bellezza, poiché credo fortemente che verità e bellezza siano i pilastri su cui si fonda il fare poesia.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Ho sempre sostenuto che la poesia è sopra ogni altra cosa, un modo di essere al mondo. Si può essere poeti senza scrivere poesia ma non si può diventare poeti senza averla vissuta, senza essere già nel pensiero, poesia. Quando mi è stato detto che nella mia poesia si percepisce una sensibilità da nervo scoperto, ho capito che in quello sfilacciamento di guaina mielinica che accompagna i miei giorni, forse sta il timbro che si riflette nei versi. 

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

Credo che la mia sia una meditazione continua su cosa sia davvero il rapporto tra vita e morte, tra bene e male, indagando ciò che avviene in natura e nelle sue epifanie di bellezza e rovina e nella nostra anima con il miracolo e con la tempesta dell’amore.

 

La risposta alla seconda parte della domanda ha a che fare con i continui cambiamenti che accompagnano il lavoro sulla parola. La forma della scrittura è sicuramente cambiata negli anni. Ricordo stesure in metrica da cui mi sono sganciata molto presto per abbracciare il verso libero che libero non è mai del tutto. In realtà quando si scrive un verso, esso diventa già obbligante nei confronti del secondo. Ricordo una scrittura quasi del tutto intelligibile, per scelta di chiarezza come dono al lettore e mi ritrovo ora con frammenti scritti recentemente che contengono una quota di assoluto mistero.

Credo, in generale, che sia la poesia a scegliere la strada per chi al verso si abbandona. Importante è riuscire a mantenere la propria cifra, facendola diventare personale forma di bellezza, il marchio che identifica.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

Mi appartengono la brevità della poesia, la sintesi che essa racchiude, il suo essere folgorazione. Non saprei dire diversamente le cose.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Gli aromi di sottobosco e resina hanno nutrito e continuano a nutrirmi l’anima a distanza, anche oggi - 30 marzo 2020 - che sono rinchiusa in casa, come tutti, e non posso raggiungere la mia terra. Humus fertile per la scrittura sono i profili dorati delle mie montagne sulle piane, i girotondi degli abeti sentinelle del mio sonno, tutto il bianco della neve che si adagia sotto la luna. Lassù l’anima si immerge nel silenzio della natura incontaminata e ne esce ricca di cromatismi e sapori che diventano parola, che diventano carne nei versi, da sempre.

Con La slitta del Sergente ho risposto in versi all’interrogativo di Mario Rigoni Stern sul destino dell’amore nel mondo. In quella piana ho scritto Sì, torneranno dedicandola a Ermanno Olmi dopo aver visto il capolavoro Torneranno i prati. Ancora lassù, per i miei abeti crocifissi sotto un sudario di neve, ho scritto Disordine verticale ricordando la devastazione causata dalla tempesta Vaja nell’ottobre 2018.

Con il suo universo di memorie ed echi, la mia terra sostanzia quasi tutta la mia produzione poetica.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Immaginazione o ancora meglio “visione” e realtà sono sinergiche perché in arte e nello specifico in poesia, non basta copiare la realtà, né descriverla. Visione e realtà si alimentano reciprocamente, immergendosi l’una nell’altra, compenetrandosi, diventando così terra di mezzo per la scrittura, sublimandola.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Ci sono gli amici fedelissimi che cercano una poesia per lo più intelligibile che si accordi al loro sentire e che utilizzano le mie parole, e soprattutto gli spazi di silenzio tra di esse, per dare un nome ai loro moti inespressi. Tra i lettori, molti sono anche poeti stimati e con loro il rapporto è di supporto, critica costruttiva, confronto.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Parole sacrosante e tanto più vere quanto più la poesia diventa espressione di un sentire universale, un sentire insieme, una com-passione. La poesia ha bisogno di attenzione e tempo per compiersi in chi la legge e diventa specchio del lettore prendendo nuova forma ogni volta, secondo il concetto pasoliniano delle continue rinascite del testo nella successione delle letture. La polisemia è uno dei prodigi della poesia.

 

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Sopra ogni cosa l’autenticità, l’onestà d’intento.

Conta “ciò che si dice” come contenuto di originalità sentimento, sensibilità e intelligenza e conta “come lo si dice”. Conta lo stile che non può prescindere dalla contemporaneità. Il poeta ha la responsabilità della parola come ricerca di linguaggio, semplice o complesso ma efficace e mai banale.

Di tutto questo tengo conto quando mi trovo a “valutare” un testo. La valutazione, però, ha il sapore del numero, mentre ciò che dovrebbe essere indicatore di poesia è la folgorazione, ben tradotta da Emily Dickinson: “Se leggo un libro che mi gela tutta, così che nessun fuoco possa scaldarmi, so che è poesia (…)”.

 

La critica letteraria è lavoro serio che richiede competenze specifiche e grande cultura.

Mi capita di scrivere note di lettura a testi che entrano prepotentemente nella mia anima ma lo faccio sommessamente senza pretesa di visibilità e solo come gratitudine del lettore all’autore.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Sono immensamente grata a chiunque abbia dedicato tempo e parole alla mia scrittura, tante sono le persone che lo hanno fatto e vorrei davvero citarle tutte.

C’è tuttavia un’osservazione dell’amico Stefano Valentini che riporto con piacere. Poeta, critico letterario, direttore responsabile di Nuova Tribuna Letteraria, Valentini ha letto e recensito ogni mia pubblicazione dal 2013 a oggi. L’osservazione gradita da lui fatta, mentre si discuteva di dilemmi legati alla poesia è che la mia scrittura è in continua evoluzione e più matura ad ogni nuova prova. Critica gradita, data la mia ciclica perplessità nei confronti della mia poesia. Sicuramente lui saprebbe esprimere meglio di me questo concetto e forse mi perdonerà questa traduzione di pensiero e lo svelamento.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

“Non va ancora bene, non sei ancora arrivata all’essenza del dire né al destino che la parola pretende…” sono io a ripetermelo sempre. Sono il critico più severo di me stessa.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Le tre poesie inedite che voi avete premiato e di questo vi sono grata, appartengono a una silloge inedita che intendo pubblicare entro l’anno. I testi si propongono come brevi frammenti di visione, tracce di un percorso meditativo su silenzi e frastuoni della vita, in una sorta di dialogo a distanza con alcuni tra i poeti sopra citati: Marina Cvetaeva, Rainer Maria Rilke, René Char e Cristina Campo.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

In ordine casuale: la lettura, che alla scrittura è propedeutica, l’attività sportiva a nutrire il corpo, l’amore rotondo a cui attinge tutta la mia poesia e… camminare, camminare, camminare.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

La libera scrittura in rete svela, nel bene e nel male ciò che siamo, ci mette a nudo sotto i riflettori mediatici. La Recherche.it è luogo d’elezione per la scrittura, aperto alla pubblicazione di testi e articoli e al confronto. Permette visibilità e condivisione ed è stimolo continuo alla lettura. Lodevoli le proposte di partecipazione a e-book o antologie tematiche promosse dalla Redazione.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Quale quota di assenza, quale peso e pianto si insinuano in te quando Poesia, la sofferta gioia, seppur fugacemente ti abbandona?

 

 

Grazie.

 

*

- Intervista

Patrizia Passarelli

 

L’autrice qui intervistata è Patrizia Passarelli, seconda classificata al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VI edizione 2020, nella Sezione B (Racconto breve) con “La reliquia del peccato

 

 

Ciao Patrizia, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?

 

Mi presenterei con un buongiorno a tutti. Sono nata e vivo a Roma. Mi piace moltissimo camminare, soprattutto in montagna. Da tanto tempo sono un’appassionata lettrice ma solo da pochi anni ho iniziato a scrivere. Mi piacciono la letteratura e l’arte in tutte le loro forme perché riescono ad entrare in contatto con la parte più profonda di ognuno di noi e sono un rifugio dalla bruttezza.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Mi sembrava una buona occasione per mettermi alla prova. Non è facile trovare qualcuno che – come voi - selezioni le opere in modo critico, secondo principi di serietà e trasparenza importantissimi per la valutazione. Il valore e il ruolo del premio letterario dovrebbe essere proprio colmare lo spazio spesso lasciato vuoto sia dalla critica che dagli editori, per individuare e promuovere nuove proposte nel panorama culturale e artistico. Questo non è poi sempre vero per tutti i premi letterari che hanno, tra loro, mille diversità.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Mi hanno affascinata (e continuano a farlo) autori classici di tutte le epoche come Shakespeare, Cervantes, Austen, Hoffmann, Poe. Mi sono lasciata commuovere dal romanticismo degli scrittori russi – Dostoevskij per primo – e da autori del ‘900 Proust, Canetti, Mann, Calvino, Pasolini con una nota di passione per Virginia Woolf. Mi piacciono Carver, Haruf, Gordimer tra gli autori contemporanei ma ce ne sono ancora tanti altri. Una scrittrice molto brava che ho “incontrato” da qualche anno è Donatella Di Pietrantonio.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

L’utilità di oggi è quella di sempre: dar voce a sentimenti, emozioni e sensazioni profonde che ciascuno di noi vive e che magari non riesce a mettere a fuoco. Uno scrittore scrive quando sente di avere una storia da raccontare ma un buono scrittore fa trapelare una sensibilità più acuta e più attenta al mondo che lo circonda. Non è necessario vivere situazioni straordinarie ma avere capacità di guardare, ascoltare, percepire, di provare ad immedesimarsi.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ho iniziato a scrivere per necessità cioè per l’urgenza che sentivo di dare chiarezza alle mie emozioni. Scrivere ha un potere taumaturgico e tante volte mi è capitato di sentire risolte situazioni che prima, dentro di me avvertivo come conflittuali. Poi mi ha sempre appassionato la conoscenza e lo studio delle lingue come forma e capacità di espressione dell’essere umano. Prima di scrivere ho fatto e pubblicato diverse traduzioni dall’inglese soprattutto e dallo spagnolo. Quello del traduttore è un lavoro certosino, di limatura, in cui si lavora tanto alla ricerca della parola più adatta e che interpreti al meglio lo scritto originale. Questa stessa attenzione mi accompagna sempre quando scrivo. Per quel che riguarda la scrittura ho avuto due incontri importanti. Il primo con un mio professore che mi fece capire l’importanza della “profondità”. L’altro è stato con quello che ritengo il mio maestro, un poeta, Gianfranco Palmery con il quale ho avuto la fortuna di collaborare per tanti anni nella casa editrice da lui fondata e diretta “Il Labirinto”. Con questa casa editrice ho pubblicato un libro “L’Angelo del dolore”.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Quasi sempre è legato a qualcosa che colpisce la mia attenzione, può essere un evento banale o qualcosa di più grande. Sono molto lenta quando scrivo, cambio, correggo e riscrivo tante volte. È un processo di sfoltimento, in cui cerco sempre di tagliare, di ridurre all’essenziale. Forse per questo la forma del racconto breve è quella che più mi si addice. Poi devo staccarmi per un periodo da quello che ho scritto e riprenderlo per guardarlo con uno sguardo diverso fino a che non mi sembra concluso.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

 

Mi piacerebbe riuscire a trasmettere a chi legge le emozioni che provo. Ognuno di noi reagisce alle cose in modo diverso, non c’è un solo modo di vivere le cose né di descriverle o narrarle. Questo obiettivo è un po’ la mia sfida.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Per rispondere, utilizzo un pensiero dalla recensione al mio libro L'Angelo del doloreuscita proprio su La Recherche, “Patrizia Passarelli sa dare carne e sangue al sentimento dell’uomo e ai suoi ricordi. Lo fa con una scrittura piana e però partecipe e puntuale fin quasi all’immedesimazione con la materia perturbante di cui si fa carico. Al tempo stesso, ne irradia il senso al lettore.” Domenico Vuoto.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

Credo che la mia “ossessione” sia il dolore. Non un dolore in particolare ma il dolore nelle sue diverse accezioni, compresa quella della sua risoluzione, della liberazione dal dolore e della rinascita alla vita.

Se la mia scrittura ha subito un’evoluzione vorrei che me lo dicesse qualcun altro. Ogni volta che inizio a scrivere mi sembra la prima volta.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

La poesia la leggo spesso, con piacere e passione ma ancora non mi sento di scrivere in versi. Provo, nei confronti della poesia, una sorta di “timore reverenziale”.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

A proposito di poesia, ho incontrato questi versi che parlano di Roma, di un poeta straordinario, non conosciuto come dovrebbe, Alessandro Ricci “Ho amato la mia città. Il sacro odio d’esservi vittima e complice non la tocca.” Roma crea delle suggestioni molto forti, positive e negative. A volte è entrata nei miei racconti ma non con riferimenti precisi. Più come una suggestione appunto.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Un po’ sì. Sono due mondi necessari l’uno all’altro, che si intrecciano e si lasciano in continuazione, anche se per me l’idea di un racconto nasce sempre da un elemento di realtà.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Non sono tante le persone a cui faccio leggere i miei racconti. Quasi sempre sono amici o persone che sento affini, che stimo per la loro capacità di giudizio e sincerità.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Sento di peccare di presunzione, ma è quello che intendevo dire prima nella risposta sull’utilità dello scrittore. Proust – ovviamente - lo ha detto meglio di me.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Mi piace leggere testi in cui l’espressione sia asciutta e elegante. Mi piacciono le storie in cui succede qualcosa di spiazzante, che non ci si aspetta o che sovverte l’ordinario punto di vista, magari descritto con ironia. Mi è capitato anche di leggere libri dalla forma improbabile, ma di grande forza narrativa. In generale, per il racconto breve penso sia importante creare nel lettore l’attesa, non dire troppo ma lasciare svelare poco a poco la situazione o il personaggio. Ho scritto una recensione, pubblicata sul sito de “La Recherche”, al libro di Domenico Vuoto “Nessuna direzione” pubblicato con le edizioni Il Labirinto.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

“Mi sono emozionata, mi sentivo parte integrante del racconto tanto da immedesimarmi nel protagonista, nei luoghi descritti. Ho rivissuto, per brevi attimi, sensazioni di eventi personali.” Un’altra grande soddisfazione è stata la richiesta di tradurre il mio libro in inglese. Più positiva di così!

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Sì. “Dai troppi dettagli nel descrivere le situazioni, le spiegazioni troppo precise tolgono al lettore il suo spazio d’immaginazione.” Ora faccio più attenzione a costruire le situazioni in modo da bilanciare chiarezza e curiosità. Ecco, questa è un’evoluzione della mia scrittura.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Questo racconto è nato dall’idea di un progetto fatto con un’amica pittrice e scultrice.

Ci piacerebbe che diventasse una raccolta di tre racconti, associati a delle opere pittoriche che parlano del ricordo e dell’oggetto “reliquia” come attivatore della memoria.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Coltivo fiori, con cui mi piace fare composizioni. E mi piace leggere.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Su La Recherche ho trovato moltissimi brani e proposte di valore. Quindi direi che è uno spazio prezioso per la scrittura. Anche l’editoria in rete è un’opportunità. È importante che ci sia un filtro, una selezione, per evitare che la grande offerta generi scarsa qualità.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Non per convenzione ma vorrei fare i complimenti a Sara, la vincitrice del premio. Ha un bellissimo modo di raccontare e una scrittura a tratti poetica. Il suo racconto poi parla di un cammino e di montagne e già solo con questo, per me, ha vinto due volte.

 

 

Grazie.

A voi.

 

*

- Intervista

Sara Galeotti

L’autrice qui intervistata è Sara Galeotti, prima classificata al Premio letterario nazionale “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, VI edizione 2020, nella Sezione B (Racconto breve) con “Il senso di una fine”.

 

 

Ciao Sara, come ti presenteresti a chi non ti conosce? Qual è la tua terra di origine?

 

Nata sotto il Cupolone quando là intorno era tutta campagna (ma non c’erano ancora i cinghiali), mi sono annoiata finché non ho scoperto l’alfabeto. Ricercatrice universitaria di professione e topo di biblioteca per vocazione, studio gente morta, scrivo di gente morta, leggo per sentirmi viva. Adoro passeggiare tra le lapidi, ma non sono un vampiro.

In breve, per citare qualcuno davvero pieno di talento, non sono niente. A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo [F. Pessoa].

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Ho partecipato al Premio ‘Il Giardino di Babuk’ per la sua fama di concorso serio, severo e molto competitivo. Poiché sono incapace di resistere a una sfida e avevo da parte un raccontino che mi pareva accettabile, ho deciso di cimentarmi.

Non credo sia possibile esprimere un giudizio assoluto sui premi letterari, tanto diversi possono essere i giurati, come gli intenti degli organizzatori: si va dallo scouting più o meno attrezzato alla sagra di paese; dalla fiera delle vanità al Barnum poetico. Per quel che mi riguarda, i premi letterari sono una buona scusa per evadere dalle angustie della letteratura scientifica; il mio spazio di libertà espressiva e, se vogliamo, di puerile vanità autorale. Non credo invece – e mi spiace – concorrano a innovare o ad arricchire il tessuto culturale italiano, giacché raramente si propongono come qualcosa di diverso da meri amplificatori autoreferenziali dell’ego di chi partecipa (me per prima).

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Da bambina, volevo essere la nuova Simone de Beauvoir, poi ho scoperto Bulgakov, Solženitsyn e Tolstoj. Devastata dalla morte del principe Andrej, sono sprofondata in Mann, Musil, Hesse e Kafka. A vent’anni, ho dedicato un’intera estate alla Recherche (sì, sono tra quelli che hanno letto davvero Proust) e assorbito una quantità di francesismi dai quali ancora non sono riuscita del tutto a emendarmi. Oggi attendo con ansia ogni nuova pagina di Joyce Carol Oates, Ian McEwan, Donna Tartt, Paul Auster, Haruki Murakami, Julian Barnes e Jeffrey Eugenides. Degli autori italiani, amo in particolare Pier Vittorio Tondelli, Paolo Cognetti, Niccolò Ammaniti, Grazia Verasani, Benedetta Cibrario e Giulia Alberico.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Difendo il diritto dello scrittore d’essere in-utile: autolegittimare la propria esistenza alla luce di un supposto ruolo sociale-politico-educativo, ai miei occhi, è una resa. Per altro, chi pretende di avere una parte importante nel presente del proprio Paese scivola con facilità in un noioso ‘trombonismo’.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ho cominciato a scrivere racconti nell’estate dei miei ventidue anni, mentre lavoravo alla tesi di laurea. Allora era soprattutto un modo per distrarmi e per sfuggire al rigore della giurisprudenza, poi è diventata una dipendenza, al punto che non ho più smesso. Non avendo ambizioni letterarie di sorta, non mi reputo una scrittrice, al più una ‘raccontatrice’ dilettante. Sono stata pubblicata dal Corriere della Sera, dopo aver vinto nel 2018 il premio La Quara, e ho una ventina di racconti antologizzati, ma le uniche pubblicazioni cui tengo davvero sono le mie – noiosissime – monografie di Diritto Romano.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Spesso è la rielaborazione di un ricordo, di una conversazione captata, di una confidenza ricevuta. In potenza, chiunque abbia a che fare con me potrebbe finire in un racconto.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi, se ci sono, con la tua scrittura?

 

Nessun obiettivo: scrivo solo se ho una storia da raccontare.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Poiché detesto quello che scrivo un minuto dopo averlo completato, preferisco riferire il parere di altri: pare che la mia sia una scrittura ‘asessuata’. Leggendomi, dicono, non s’indovina facilmente che a scrivere sia una donna. Per me è un magnifico complimento.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato un’evoluzione nella tua scrittura?

 

Tutti i miei racconti – ma proprio tutti, tutti, tutti – sono una variazione sul tema dell’identità: scrivo quasi solo di gente che l’ha perduta, che l’ha negata, che l’ha ricostruita o che ancora la cerca. Altri motivi costanti nelle mie pagine sono il rapporto con il padre, il viaggio e la ferocia degli anni giovani.

La mia scrittura è mutata molto negli anni, perché ho imparato a togliere tutte le parole di troppo. Direi che si è asciugata – e mi pare un bene.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

Mai scritto un verso in vita mia e non credo che accadrà in futuro, poiché manco del tutto della sensibilità e della tecnica necessarie.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Quasi niente. Amo Roma, ma viaggio molto per lavoro e sento di appartenere a ogni luogo in cui sono stata.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Ho pochissima immaginazione: la mia scrittura è quasi solo rielaborazione di esperienze mie o di conoscenti. Anche da lettrice, preferisco opere saldamente ancorate al reale.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Scrivo come se i lettori fossero tutti morti. In linea generale, cioè, racconto quel che vorrei leggere per prima. Se quanto ho prodotto mi sembra accettabile, lo sottopongo alla mia migliore amica. Al suo giudizio, quale esso sia, seguono spesso una terza e una quarta limatura, al termine delle quali decido comunque d’aver prodotto una porcheria.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Convengo solo a metà con quest’arguta riflessione. Credo, infatti, che la scelta di un’opera sia spesso condizionata, al contrario, proprio dalla sicurezza di trovarvi temi e motivi che il lettore già sente come propri. È il repetita iuvant dei latini.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici? Hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Un buon testo, secondo me – e mi riferisco alla sola prosa, poiché, come ho detto, non ho le competenze per valutare un’opera poetica – deve prima di tutto raccontare qualcosa. Detesto le narrazioni ombelicali: pretendo una storia. La buona scrittura, a mio avviso, è quella che tratta la lingua come marmo e la scalpella a dovere. Odio le prose barocche, il profluvio di aggettivazioni e di metafore, gli avverbi alluvionali: meno sono le parole, per me, più efficace è il messaggio.

Recensioni e interventi critici li lascio ad altri: soffro già quando devo valutare i miei studenti.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

“Quando ti ho letto, ho pensato a Marguerite Duras”, a pari merito con “Ma io credevo che fossi un uomo!”

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Oltre alle lavate di capo della mia Maestra, mentre scrivevo la tesi di dottorato, quanto più ha inciso nella mia volontà di migliorare è stata la lettura del bellissimo ‘Gli occhi di Malrico’ di Mattia Conti: un racconto tanto perfetto nella lingua e negli ingranaggi narrativi da farmi piangere per la frustrazione di non esserne l’autrice. Da allora non ho mai smesso di sperare di potermi avvicinare un poco a quel livello.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Sto lavorando alla mia terza monografia di Diritto Romano e a due articoli: nulla che qualcuno possa aver davvero voglia di leggere!

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Sono una Tombstone Tourist, effetto collaterale, suppongo, del mio maneggiare l’epigrafia nel quotidiano. La mia ambizione è quella di visitare, un giorno, tutti i cimiteri monumentali d’Europa.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Agli autori del sito faccio i miei complimenti per il coraggio di mettersi quotidianamente in gioco, in alcuni casi con pagine tutt’altro che dilettantesche. La libera scrittura in rete, come l’editoria digitale, sono, a mio avviso, eccellenti risorse, se non si rinuncia a priori a un filtro qualitativo, perché quella dell’uno vale uno è la dittatura della mediocrità. Se un editore è serio, non ho problemi ad acquistare un ebook. L’editoria minore mi ha spesso regalato, anzi, piccoli gioielli inaspettati.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Direi che vi ho tediato anche troppo!

 

 

Grazie.

 

Grazie a voi!

*

- Intervista

Mario Fresa

 

Mario Fresa, la traduzione come autobiografia spirituale

di Prisco De Vivo

 

 

L’ultimo numero del semestrale “La Revue des Archers” di Marsiglia, diretto da Dominique Sorrente, ha dedicato l’apertura ad alcuni testi poetici di Mario Fresa, uno dei nomi più significativi della nostra poesia più recente. Dopo essere apparse, negli ultimi anni, sulle principali riviste letterarie italiane ( “Paragone” , “Nuovi Argomenti”, “il verri”, l’ “Almanacco dello Specchio” di Mondadori) le poesie di Fresa sono dunque approdate in Francia, grazie alla traduzione di Viviane Ciampi. Lo abbiamo intervistato.

 

Come si può leggere una poesia, oggi?

«Senza la pretesa di sciogliere per intero gli enigmi che essa nasconde sempre. Il lettore deve ricordare che nessuna poesia è parafrasabile o spiegabile con altre parole rispetto a quelle che sono state scelte dal poeta. Si deve accettare, insomma, l’ipotesi che una parte della poesia che si legge possa rimanere misteriosa o non del tutto comprensibile né, tantomeno, “comunicabile” ad altri: è impossibile, secondo me, cercare di “insegnare” a leggere compiutamente una poesia; la responsabilità della sua lettura è personale, appartiene solo al lettore».

 

La poesia può essere letta senza traduttore?

«Sì, ed è la cosa migliore. Sarebbe opportuno conoscere la lingua nella quale una poesia è stata scritta, e poi tradurla personalmente, senza affidarsi al lavoro altrui. Studiare e tradurre da soli una poesia scritta in un’altra lingua è un esercizio critico entusiasmante; e infinibile».

 

Come si è accorto di avere una predilezione per la traduzione dei testi?

«Ho sempre voluto interrogare e analizzare i testi originali in modo diretto. Perciò, di solito, dopo averla studiata a lungo, tendo ad accantonare la lezione del traduttore e mi metto a ritradurre daccapo il testo che decido di approfondire, ricorrendo, se possibile, ai dizionari e ai vocabolari storici, cioè quelli che risalgono al tempo del poeta e dell’opera da esaminare. È una sorta di amorosa lotta a corpo a corpo con la lingua dell’Autore».

 

Quanto le ha insegnato, per esempio, tradurre i “Fiori del Male” nel suo recente libro “Alfabeto Baudelaire”?

«Mi ha insegnato ad amare ancor di più le vertiginose altezze belcantistiche dei versi baudelairiani (studiati da più di vent’anni: il primo saggio di traduzione apparve su di una rivista, nel 1997); e mi ha insegnato, soprattutto, quanto siano fallimentari l’ambizione del calco isometrico, o il desiderio di imitare la struttura metrica o prosodica o fonica di quei potentissimi testi. Non si deve imitare o ricalcare: ma evocare, o rievocare, senza fingere di riprodurre l’atmosfera stilistica o espressiva del tempo dell’Autore. Il passato non può mai ritornare: e il traduttore non è un restauratore o un mago o un Medium. Un traduttore è un interprete e un critico e non può e non deve mai sostituire il poeta che traduce».

 

La traduzione poetica può pareggiare la bellezza del testo originale?

«È qualcosa di diverso, di altro. La traduzione è pericolosa e affascinante perché può trasformarsi in un gioco bizzarro, un “gioco di ruoli”. Una cosa da nevrotici: succede allorquando il traduttore, per un attimo, pensa di essere diventato un altro, cioè l’Autore che sta traducendo. Come gli attori che pensano di essere, sulla scena, i personaggi che stanno interpretando. C’è qualcosa di folle, in questo mascheramento, in questo gioco a nascondersi e ad essere un altro da sé stessi. Ma ciò può essere terapeutico. Parlare con la bocca di un altro è una confessione mascherata, differita, apparentemente non sincera. Ma ogni confessione mascherata nasconde l’inizio (e l’indizio) di un’autobiografia inconscia, cioè spirituale: dunque, profondamente vera. Le maschere, tutte le maschere che noi indossiamo, siano diurne siano notturne, servono a questo: a dirci chi siamo, procedendo nel buio».

 

*

- Intervista

Giacomo sansoni

 

L’autore qui intervistato è Giacomo Sansoni, terzo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, V edizione 2019, nella Sezione B (Racconto breve) con “Laura”.

 

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

La parola è stato il mio primo incantamento, il primo strumento per entrare appieno nel mondo, di riappropriarmi di un mondo, di costruirmene uno plausibile, dopo la mia esperienza personale, che mi aveva visto da bambino sradicato da una realtà, solo topologica e topografica? chi può dire, e portato nel piccolo paesino, lato sud del Gran Sasso dove si può desiderare quello che non si ha e avere solo ciò che non si desidera: paese di mia madre. Quel mondo nuovo già in età precoce volevo respirarlo, nonostante gli iati asmatici, addentarlo a morsi pieni, farmene e rivendicarne una proprietà, colmare un vuoto. Vuoto, a quell’età? Chi può dire quali sono i vuoti che ereditiamo per lascito mendeliano o escatologia acquisita. stupirmi della viridità nuova dei boschi, dei prati. Della cospirazione dei gialli primari. Del sangue sacrificale dei papaveri, dell’assolutismo dottrinale del cinabro, dell’azzurro sconfinato del cielo, deflorato dalla virilità dei monti. La corruzione temporalesca da parte del grigio giorgionesco del blu di prussia. Le pietre: grumi di silenzio. Quelle accatastate nel rimario consolatorio delle case. Il patimento delle metamorfosi sedimentarie delle rocce. La copula ardimentosa e temeraria della terra, con il cielo, nelle vette. L’ossido del tempo, rappreso come un fiato fisiologico, che varia dall’ocra al terra nelle storie dei vecchi. Le derive gravose dell’incoercibile male necessario del tempo, nella sua fatale deriva precipitosa, sia dai davanzali delle finestre, dalle bifore e dai ballatoi, o lacrime senili dalle palpebre. Forse da questo nasce l’amore per la scrittura: dalla scoperta della natura? Per rubare la soverchieria delle troppe emozioni; iniziare a costruirmene un abecedario. Ero, sono, forse sarò un eretico, un eretico che attenta l’attimo per creare agguati al futuro. Assediarlo nelle sue ore prossime alla fiacca, bonificarlo ai confini tra il determinismo e l’eterno presente della inafferabile valenza quantistica. Scrivere è prendere ostaggi, creare una progenitura o figliolanza riconosciuta. È volere un’alba, un tramonto, un sole, una speranza, un cielo, un abbraccio, un amore, affatturando la realtà. Come un manierista violare il soggetto, prima d’appropriarsene con le pennellate di una disperata tavolozza. Scrittura, atto supremo di libertà e creazione. Avocarsi un deità egolatra? Istinto ferino di egemonia? Possesso di determinabilità indeterminabili e limiti rivendicabili, al pari dei cani che rogitano i confini delle maggiorie, con l’urina? Forse rincorrere, come da bambino, metafore come farfalle? Quelle celestine, del fiume, ebbre di suggere melodie dai fiori, o quelle illuse dal relegato miracolo, dei cieli antinomici delle effimere pozzanghere. Metafofore, simulacri di vita, schegge vetrose di specchi, bottini piccoli, tessere sparigliate per un mosaico da sperare. Irrealtà da accumulare nel formicaio, sottoterra, per il freddo, che prima o poi verrà? Pegno per riscattare un futuro? Quant’altro è la scrittura, e collateralmente l’altra forma di scrittura che mi ha, anche se saltuariamente, sempre accompagnato: la pittura. A circa 12 anni avevo scritto una silloge di poesie. Raccolta poetica che mia madre scoprì e della quale si fece un vanto fiero, quale reliquia per magnificare la sensibilità di un’anima. Per me schivo fu solo vergogna, e fu tanta. Una profanazione. Non volevo che si sapessero quali ruminazioni saturavano la mia anima, come le vacche che per il fieno umido necessitavano del subbio per essere liberate dalla fermentazione. Dovetti prendere coscienza di avere un’anima dolente con tutta la vergogna di possederla. Sono tornato alla scrittura in tempi prossimi all’acquisizione dell’età della ragione, quando ho inteso l’ammonimento Borgesiano che le più chiare prodezze perdono lustro se non vengono coniate in parole. Cosa mi spinge a scrivere? Cosa mi/ci spinge a vivere? Cosa ci spinge a sperare? Cosa ci spinge ad amare? Per dar conto dell’altra linea germinale che non sono i geni con cui si perpetua l’uomo al di là dell’uomo? Per dar conto delle strategie che usa il destino, che sono strategie quantistiche, seppure sembrino deterministiche, per far incontrare gli uomini, corrompersi reciprocamente, magnificarsi reciprocamente, assurgere a verità transeunti ad interrogazioni irrisolvibili, scontare e dar, quotidianamente conto, della perdita, o dello scampo del paradiso, tutto perpetuato per l’incontro degli uomini che è soggetto a volontà rette da probabilità binomiali o poissoniane di tipo et-et dove alla composizione di un evento concorrono tutte le microprobabilità che ci fanno continuare a desiderare di essere uomini e a rifuggirla, allo stesso tempo, questa natura con le sue strettezze termodinamiche, e tutta la ineluttabile corruzione entropica?

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Posso esprimere desideri e volontà, non affermarne la conquista. Nella scrittura io cerco, non solo le solleticazioni sensitive ma anche quelle edificatorie, intese nella duplice valenza: di ricercata edificazione pittorico-architettonica e d’edificazione, morale. La forma può essere già informazione. Per me l’avventura semantica è quasi imprescindibile. Forse, come rilevato da Montale “non v’è arte senza artificio”? Però sincero, in buona fede. Tutto perseguito con stoica umiltà. Perseguire l’avventura delle emozioni anche formali e solleticazioni che provocano pruriti al cervello e al cuore, che quand’anche inafferrabili, pizzicano lo strumento che siamo, evocandone, per simpatetìa echi emozionali. Cerco di rifuggire la non peculiarità, la assoluta sovrapponibilità e non riconoscibilità, la convenzionalità del linguaggio, per predilezione solo della trama, per pochezze congenite ed altro che sommariamente possono essere definite pochezze, che purtroppo sono spesso osannate dalle pubblicità che lavorano perché la massa resti in un pressappochismo povero, una mediocrità ben dominabile, affinché sia più facile accaparrarsi redditizi consensi.

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue?

 

Benché, le mie “ossessioni” non riguardino in modo stringente la contingenza, non necessariamente il dove e il quando, comunque sono assillato dal sentimento del tempo. Il tempo, per dominare il quale, l’uomo gli ha dato la libertà condizionata degli orologi e, senza tempo, non v’è dolore, senza dolore, non v’è tempo, senza dolore e tempo, non v’è uomo; senza uomo non v’è perpetuazione del tempo. Però, nonostante la freccia del tempo, le pseudo nuove acquisizioni esistenziali, il cuore è sempre lo stesso. Forse l’uomo è sempre lo stesso: sempre più libero e assoggettato, rivoluzionario e troglodita, sempre più ad olfare sentore di trascendenza e terrena istintività ferina. In fondo nulla può affrancarci dalle anidridi dell’anima e dagli ossidi della carne, che bruciano come calcare, sulle ferite, o si depositano a strati, come madreperla su difetti originali, che ci faranno preziosi? Se non preziosi, materia cretosa da modellare. Inseguo le rivelazioni della perpetuazione dell’animo umano e i segni che ci doniamo come semi per la condivisione di un pane salso di lacrime? Cerco di dare ragione del dolore che è il figlio impuro della diacronia? Senza tempo non v’è dolore, senza dolore non v’è tempo, senza dolore e tempo non v’è uomo, senza uomo non v’è perpetuazione con la scrittura: questo filo invisibile eppure tenace con cui teniamo il ciclotimico palloncino dei sogni e delle speranze, ancorato ad una qualche inesprimibile eternità? È l’uomo un Dio impuro che può assurgere a giudicare Dio? E per farlo ha usato e usa i neumi eterni che, con non affrancabile inadeguatezza, sono a testimoniare la dipendenza dalla terra e l’adescamento naupatico del cielo. Avere contezza consolatoria che pure un Dio può provare l’orgoglio d’essere giudicato dal figlio uomo, impastato con materia infantile di gioco: terra e sputo, al pari della prestevole e duttile materia delle Parole? Schiavo io, schiavi tutti della precaria consanguineità telepatica vera? Forse è soggiacere all’inebriamento di essere partecipi di uno dei pochi atti divini: sporcarmi le mani di creazione? Eppure ogni parola che è scritta è salma d’avvenuta crocifissione. Bufalino ha detto che se non avessimo memoria saremmo immortali. La memoria, con la scrittura, ci affranca dalla ripetizione di errori compiuti, eppure ci avoca la morte? Questa aritmetica aerina del ricordo, che usa tempere, pennelli e aria colorata è la nostra salvezza o la nostra condanna? Anche io schiavo di avere sempre misura di un prima e di un dopo, per patirne il dolore e l’orgoglio del raccontarlo, come dice Mallarmé che il mondo esiste per approdare ad un libro, o Omero che i dei tramano sventure perché i poeti possano cantarle? Per dar conto che nonostante l’incontrovertibile unidirezionalità del tempo, il cuore è sempre lo stesso? Che un dio probabile ci abbia dato la memoria perché non attentassimo la sua deità? Non si scoprirà in un futuro che la costante che discrimina non è la velocità della luce ma chissà quale componente che possiamo domare con il cuore con l’anima o chissà diavolo cosa, così da restare ancorati alle visioni Agostiane? Che lo spazio-tempo si distorce, come biglie su un telo, non in virtù della velocità della luce con cui ci si muove, ma con qualche qualità universale che possiede l’uomo con cui, inconsapevolmente partecipa all’equilibrio architettonico del mondo. Tutti figli di un quantismo vero e del corollario inespugnabile dell’indeterminabilità, descritta da Heisenberg, che può essere trasposta utilmente in questo modo: Se l’uomo sa chi è non può sapere dov’è e cosa fa, se sa dov’è non può sapere chi è e che fa e se sa che fa non sa chi è e dov’è. A dar misura dello sconforto di tale insufficienza e, quando l’arcano fosse penetrabile, darne conto o rinnegarlo con l’atto avallante e perpetuativo della scrittura?

Scrivo e scriviamo per attestare la forma di un’empiria esistenziale, per rendere conto della nostra incomprensibile sorpresa di esserci.

 

 

Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

Sì inevitabilmente, benché non sempre, le mani che ghermiscono il timone, sono consapevoli dei ciclotimici beccheggi del mare. Come non essere schiavi dei naufragi, aggrapparsi ai relitti, con consapevolezza che i naufragi si scontano a terra, entro il gheriglio insondabile della coscienza.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

Sì ho pubblicato due sillogi: “I labirinti relativi di Zenone” e “Ossidi”.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Forse siamo figli più dei luoghi che del tempo: I luoghi che ci informano, ovvero che ci conferiscono forma e plasticità. Ognuno ha un suo luogo, dalla cui creta si incarnò. Un fiume che ci offrì letto, bonacce e gorghi che ci levigano. Facile il rimando ai fiumi di Ungaretti. Ogni fiume, ogni luogo, ogni sentimento, perché ne venga definita in modo esatto la valenza propria e i confini, soggiace al naturale confronto con l’archetipo fiume, luogo e volti visti in tempi precoci, quando si impressiona la sindole della nostra coscienza ancora intonsa e si costituiscono le prime terne cartesiane e unità di misura. Dopo, in tempi successivi tutto è nuovo accatastamento, nuova voltura, nuovi confronti. Per restare nella metafora dell’acqua, come non perdersi nell’alfabeto delle sue riflessioni, nelle dissonanze delle rifrazioni, nelle verità effimere e transfughe dei miraggi. Acqua che ci consegna, il rovello dolente della gravità. Che come nella gioventù dell’uomo è rovinosa, nel tempo, dove si abbeverano gli uomini, teme il nodo che intorbida, e nascono le storie. Inizia la sua musica modulando i vagiti sorgivi in uno scherzo appagato, imprigiona, con il suo orgoglio atomistico, la luce negli arcobaleni, sogna nei notturni. A valle al mulino l’attende il mugnaio che corregge le sue note nel pentagramma doganale. Acqua, note e vita s’incupiscono e s’ingrossarono nei nodi sacrificali e dolorosi, o al presagio di tortura dopo il requiare sospeso della raffota o negli innumerevoli stertori di vita. Il tempo con il suo fiume imperterrito può, a volte offrire rinascenze, così come nella scrittura, disacerbare o rivangare toni amari. Come l’acqua dopo la scarcerazione dalla raffota il canto si può inflettere ad una legatura nei crescendi, in una smania di fuga. Lontano forse si potranno dimenticare gli accidenti, rimeditare uno scherzo musicale, comprendere il pathos dei notturni. Tutto cambia tutto si trasforma, così la scrittura. Si tema chi ha certezze incoercibili sulla punta delle dita, si abbia affinità con chi è ramengo nell’incertezza del dubbio metodico. Come non essere schiavi del caso, delle occasioni, dei luoghi non facilmente rideterminabili dalle volontà, vulnerabilmente schiave della soverchieria entropica e dell’alterigia del tempo che con le sue sgorbie ci forma, incide, scava e rimpasta prolissamente.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Ogni scritto è frutto di propri o anche non propri vissuti, comunque filtrati dalla propria autocoscienza e autobiografia. La fantasia può avere o essere forma artificiosa, la pregnanza introspettiva, sempre auto contaminata. Le subalternità umane, possono passare per le parole. Si può essere schiavi delle parole. Si può arrivare ad essere un personaggio di cartone, una persona che agisce in funzione di un artificio letterario che non ha più relazione con la realtà, come Don Chisciotte che, benché personaggio letterario, condizionato da artificio letterario, è tanto reale quanto lo sono quell che soffrono per irrealtà credute reali, che definiamo malati mentali e Tobino malati della magnifica libertà dagli schemi. Quindi la irreale realtà può rendere l’uomo informabile, ovvero passibile di forma, come e più della realtà stessa? Allora cos’è la realtà? E l’illusione di credere reale l’irreale o l’illusione di credere irreale la realtà, o…adesso basta perché possiamo farci male. Però cos’è la realtà? È la realtà Newtoniana, o quella che come una ennesima matriòsca che la comprende e la relativizza o ulteriori matriòske non ancora rivelate dalla scienza, solo subdorate per vertigini escatologiche, ratificate dalla scrittura? Forse è la vita è, per sua natura metaforica? di una irrealtà sconfortantemente reale, che sia la vita fittizia, un gioco nelle mani di tante suscettibilità e di chi può terne i fili. Solo il dolore è vero: la causa per cui si dolora, può essere fittizia, non reale? Ci ammaliamo d’irrealtà, in fondo. Anche la storia allora, a ben vedere, è una tra le tante metafore: quella condensatasi per chissà quale sconosciuta artefazione, in uno dei possibili mondi paralleli. La realtà è quella che ci giustifica nel mondo parallelo in cui siamo relegati per giustificarlo? Per tornare a un nucleo virtuoso, senza doversi perdere per forza, è bene dire che sono importanti i sentimenti non perché si provano, è fondamentale la strada non la meta.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

I miei amici e una piccola cerchia di relazioni umane, che mi spronano e mi redarguiscono, qualora gli artifici cromofori non albergano in tavolozze condivise.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Tutto è filtrato dalla propria coscienza personale, o come in una accezione di nuova frontiera: “proprio contattoma”, ovvero insieme del bagaglio geneticoambientale e patrimonio esperienziale, iscritto progressivamente nella rete dendritica del nostro gheriglio cerebrale. Reale, non metaforica questa tipologia di scrittura.

Anche un poeta non è poeta se non ci sono sensibilità allineate sulla stessa lunghezza d’onda di risonanza emozionale.

Lo scrittore propone uno specchio, atarassico, metempirico, più o meno deformato, abbrunato come quelli dell’Ottocento, concavo che rimpicciolisce, convesso che deforma, incrinato, rotto in mille schegge, poi la volontà di usufruirne appieno o meno è dettato dal grado di immedesimazione, dipendente da mille variabili, addebitabili sia al lettore che allo scrittore. La sensibilità personale spalanca o no le infinite porte dell’introiezione e investigazione, disacerba cataratte, ripristina cristallini autocoscienziali, immette in mondi altri. Come dice Eco che chi non legge vive solo gli anni che gli sono concessi, chi legge ha vite quasi immortali. Ho piacere di fare altre citazioni: Marquez “Ho sempre creduto che la buona scrittura sia l’unica felicità che basta”

Chinu Achebe: “Gli scrittori non prescrivono ricette mediche... ma provocano dolori alla testa”

Franz Kafka: “Di una cosa sono convinto, un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”

Gustave Flaubert: “Non leggete come fanno i bambini, per divertirvi o, come gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere”

Anonimo: “I libri sono i compassi, i telescopi, i sestanti e le cartine che altri uomini hanno preparato per aiutarci a navigare nei pericolosi oceani della vita umana”

Petrarca: “I libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di familiarità attiva e penetrante”

Emily Dickinson: Non esiste un vascello veloce come un libro, per portarci in terre lontane, né corsieri come una pagina di poesia che si impenna”

Margherite Yourcenar: “Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici. Ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”

Karl Kraus: “Quando il sole della cultura è basso, i nani hanno l’aspetto di giganti”

Henry Brougham: “La cultura rende un popolo facile da guidare, ma difficile da trascinare: facile da governare, ma impossibile a ridursi in schiavitù”

Henry David Thoreau: “Quanti uomini hanno datato l’inizio d’una nuova era della loro vita dalla lettura di un libro.

Emil Cioran: “Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle”

G. Bufalino: “Un libro deve essere un pericolo. Una biblioteca potrebbe essere una polveriera”

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo?

 

Il coinvolgimento riguardo molte prospettive. Che sono quelle generiche per cui qualcosa ci coinvolge o no, che non sempre sono oggettivabili con ortogonalità scientifica. Argomentazioni, sensibilità che ha simpatetìa con la cultura, storia personale, momento temporale che si sta vivendo. Come già detto, non potrei prescindere dal coinvolgimento di ricercatezza semantica e profondità di argomentazioni, prospettive e vedute altre, anche scomposte e ricostruite caleidoscopicamente. Un libro è bello quando è bello. Oh bella!

 

 

Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Per rispondere alla domanda posso dire quale è un libro bello, per me. Per me una delle bellezze di un libro è la scrittura, lo stile. L’avventura semantica è quasi imprescindibile. L’avventura nelle emozioni anche formali. Le solleticazioni che provocano pruriti al cervello e al cuore, che anche se inafferrabili, comunque pizzicano lo strumento che siamo, evocandone, per simpatetia gli echi emozionali.

Molto in sintesi, l’affascinazione del barocchismo gaddiano, bufaliniano, la metafisicità e infinito umanesimo di Borges, il realismo fantastico di Marquez, l’insondabile pathostemia di Dostoevskij, la chirurgica scrittura di Primo Levi, l’impurezza di assurgere alla giustizia divina di Kafka. Per contraltare il divulgazionismo ispirato del mondo fisico di Davies o il rigore matematico-logico di Russel e tant’altro ancora. Sono come il topo Firmino di Savage che ha prestato il palato per sconfinate terre cartacee e di fantasia letteraria. Con ripetizione, per me, il terrore è la non peculiarità d’alcuni scrittori contemporanei, la loro assoluta sovrapponibilità e non riconoscibilità, la convenzionalità del linguaggio, per predilezione solo della trama, per pochezze congenite ed altro che sommariamente possono essere definite pochezze.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Raramente.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Che è molto pittorica, olfattiva e ricercata.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Ogni giudizio è da parte mia degno di valutazione e sollecitazione a ripensamenti che mi inducono a riflettere e ad assestare la rotta. Come quella di essere troppo ermeticamente complesso, infatti in queste note è patente che sono molto leggibile.

O no?

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Ho una serie di racconti che potrei concedere alla corrosione delle intemperie del tempo e un romanzo storico che non ha ancora avuto la debita concrezione della parte finale.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Lettura, Pittura e ricerca delle premeditazioni anfotere della natura e del sole, come gli uomini primitivi

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su La Recherche.it?

 

Benvenuti in questo convivio.

 

 

Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Sono figlio della carta. Quando mi appresto a leggere un libro, con una prassi consolidata, anzi sclerotizzata, forse nevrotica, vergo il libro al sommo della prima pagina, con data e nome, quasi a rogitare il possesso del libro, e con esso il possesso fuggevole ed effimero di quello stazzo di tempo ed emozioni, sempre rivendicabili. Credo, in fondo che non delle piramidi o dei megaliti ha forma l’uomo ma dell’effemerità e della più o meno consapevole padronanza della genealogia dei suoi crucci, che il sole è lo stesso che desiderò l’ombra dei megaliti e solo la notte è invenzione dell’uomo. Poi apro, con atto stuprante il libro, quasi da sverginatore, in preda alle prurigini promissive, rompendone la costa, con una maestria assoluta, quasi da fisiatra dell’osteologia letteraria. Da ciò si evince che non sono un fruitore del testo elettronico, Anche quando scrivo e scrivo in formato elettronico, se non stampo non riesco a definire a fondo i contorni esatti della produzione, se non trasposto su carta. Mi è pienamente comprensibile solo sulla carta. A mia parziale discolpa dall’accusa di attentato all’integrità del patrimonio boschivo, per questa mia predisposizione congenita, mi piace riferire che, nella mia vita mi sono abbondantemente adoperato, in forma preponderale per un decennio, a mettere a dimora un numero rilevantissimo di piante, in ogni dove, direttamente con le mie mani e, ancora ora, mi diletto a coccolare le mie piante, frequentare la natura e piangere la moritura degli alberi pubblici. Per scongiurare questa assediante alterazione della natura dovuta all’effetto serra, si può ovviare con alcuni presidi, tra i primi quello di predisporre rimboschimenti di aree rilevanti del mondo, perché la clorofilla con la fotosintesi e l’organicazione del carbonio che cattura l’anidride carbonica mediante il ciclo di Calvin, è il metodo più semplice di produrre ossigeno ed eliminare anidride carbonica. Amerei che almeno in Italia si legiferasse affinché per ogni albero abbattuto dalle intemperie o, per ogni nuovo nascituro si piantumassero in aree definite, nei vari comuni, due piante per evento.

 

 

Grazie.

 

*

- Intervista

Rita Stanzione

 

L’autrice qui intervistata è Rita Stanzione, terza classificata al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, V edizione 2019, nella Sezione A (Poesia) con “Dal lavorio dei tetti”.

 

 

Ciao Rita, come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sono una persona pacifica, tendenzialmente introversa ma incline all’ascolto. Al chiasso della vita mondana preferisco luoghi e contesti più intimi e contemplativi. Sono curiosa di conoscenza e scoperta, convinta del bisogno di migliorarsi, senza mai sentirsi a un traguardo ultimo. Portata idealisticamente a fare tanti progetti, mi ritrovo a doverne puntualmente abbandonare una parte. Ma sognare non costa nulla, piuttosto ha effetti benefici sull’umore.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

I premi letterari hanno il merito di far conoscere l’opera di un autore che si è distinto, di rendere partecipe un pubblico più o meno ampio di non scriventi e quindi diffondere la cultura della scrittura contemporanea. Per gli autori, così come posso dire dalla mia esperienza, sono occasioni per acquisire il giudizio competente di una giuria scelta e per confrontare il proprio lavoro con quello di altri. Alcuni concorsi offrono l’opportunità della pubblicazione con regolare contratto editoriale, un’ulteriore buona motivazione a mettersi in gioco.

Ma esiste una miriade di concorsi e tra essi, purtroppo, alcuni che finiscono col mercificare valori nati per uno scopo lontano dall’essere commerciale. Bisogna fare attenzione nella scelta, o si rischia di fare esperienze negative anche riguardo a un’ingannevole valutazione delle opere. Al premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie” ho partecipato perché lo ritengo degno di attenzione, grazie al pregevole lavoro della redazione de LaRecherche.it nella gestione del sito e delle iniziative atte a diffondere la scrittura.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Non so se sia stata o sia influenzata da qualche autore in particolare. Forse da tutte le letture e da nessuna. Penso a tanto tempo fa, ai libri di Oscar Wilde ed Edgar Allan Poe. Ricordo l’incanto provato per Gabriel Garcia Marquez: Cent’anni di solitudine è un capolavoro di bellezza che solleva dalla realtà e fa capire che un libro a volte è meglio di un viaggio. Leggevo affascinata Pirandello, Calvino, Proust, Tolkien; ammirata Elsa Morante, Marguerite Duras, Virginia Woolf; preda dell’inquietudine in Kafka, affascinata da Dostoevskij, Tolstoj, Kundera, Oliver Sacks. Tra i poeti che prediligevo, mi vengono in mente Prevért, Baudelaire, Neruda, García Lorca, Ungaretti, Montale. Col tempo ho conosciuto meglio e apprezzato altri grandi. Per citarne alcuni: Emily Dickinson, Nazim Hikmet, Ghiannis Ritsos, Ada Negri, Sylvia Plath, Wislawa Szymborska, Marguerite Yourcenar e anche poetesse arabe contemporanee, la cui poesia è viva e coraggiosa. L’elenco delle letture continuerebbe a lungo, ed è in evoluzione.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

La scrittura è conoscenza tramite il linguaggio, la sua funzione è percepire il visibile e l’invisibile, riflettere e portare a riflettere, cercando il senso di ciò che accade dentro di noi e intorno. La cosiddetta “alterità” dello scrittore, e in particolare del poeta, è apparenza: il modo di raccontare fenomeni ed eventi può sembrare talvolta, e in alcune scelte espressive, astruso e scollegato dalla realtà, ma non è così. Il contatto con la realtà non può che essere radicato. È la sua elaborazione che, per fortuna, si presenta tanto diversificata nelle voci degli autori. L’utilità della scrittura può essere paragonata a quella di una finestra: l’apriamo e ci lasciamo illuminare. Non che essa sia la soluzione a ogni dramma umano, ma, come ogni arte, aiuta la consapevolezza, può portare ad apprezzare la bellezza e di contro a ribellarsi e protestare contro insidie e brutture.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ho iniziato a scrivere, senza averne in precedenza precisa intenzione, in tempi relativamente recenti. Si è trattato di un momento in cui sentivo il bisogno di raccogliere e conservare immagini nitide e forti dettate da un ricordo familiare. Poi ho continuato, senza interruzione, variando temi, percorsi, esperienze. Ho conosciuto, ricordo, una poetessa che mi ha proposto di scrivere a tema: io e lei, per poi leggerci a vicenda e cercare di fare un’analisi dei testi, eventualmente suggerirci revisioni e rielaborazioni. È stato un lavoro costruttivo, ma ancora di più con altre conoscenze in seguito, singole o nell’ambito di laboratori più o meno occasionali.

Molte mie poesie sono pubblicate in riviste e siti di letteratura nazionali e internazionali (tradotte in altre lingue). Dal 2016 collaboro con il Movimento letterario UniDiversità di Bologna, quale autrice della Collana viola e poesie per la rivista bimestrale Quaderni.
Ho all’attivo diverse pubblicazioni, raccolte di poesie. Del 2012 L’inchiostro è un fermento di macchie in cerca d’asilo Libreria Editrice Urso, Spazio del sognare liquido ed. Rupe Mutevole collana Heroides, Versi ri-versi Carta e Penna editore, Per non sentire freddo ebook Editrice gds Diffusione Autori. Del 2013 È a chiazze la mia bella stagione Libreria Editrice Urso.

Del 2016 In cerca di noi Collana Viola dell’Associazione Culturale UniDiversità. Del 2017 Canti di carta Fara Editore, Di ogni sfumatura Libreria Editrice Urso, Grammi di ciglia e luminescenze 60 Haiku, Vitale Edizioni.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

L’elaborazione di una poesia per me avviene quasi sempre con l’idea dell’incipit, prendendo spunto da un fatto, un’immagine, una persona, un’evocazione. Dopo la parte immediatamente acquisita, sviluppo l’intero testo. Mi piace scandagliare oltre le superfici, dare luce a un dettaglio, sconfinare nella fantasia. Se l’atmosfera è quella giusta, ci provo.  Mi sono abituata a scrivere in ogni situazione e periodo del giorno, (ovviamente fatta eccezione per il tempo del lavoro): mi estraneo quanto basta dall’ambiente, anche a singhiozzi, per dedicarmi al piacere di scrivere.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Non ho obiettivi fissi. So che vorrei continuare a spaziare dal diletto al messaggio sociale, dalla celebrazione della natura all’esternazione di pulsioni interiori, dalla dedica particolare all’interpretazione di un’opera pittorica o fotografica.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Non saprei, credo che tocchi agli altri esprimersi a riguardo. Una volta, ricordo, mi è stato detto che dipingo quadri surreali eppure realizzabili. Sarà vero? A ogni modo, sono ancora grata all’autore di questo giudizio.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

Ossessione per me è il tempo cronologico che non si lascia modellare alle necessità, con la conseguente dissolvenza degli attimi preziosi vissuti. Un sogno sarebbe addomesticarlo al tempo interiore, farne una scultura che non si lasci scalfire dal gelo o dall’arsura. Forse è stata proprio tale ossessione una delle spinte a farmi intraprendere la strada della poesia. All’inizio scrivevo più di getto e affidandomi alla spontaneità delle percezioni. Man mano negli anni ho maturato una cura maggiore per la singola parola, l’adozione di qualche nuova figura di suono e l’interesse per la metrica, che comunque non sempre sento vincolante per la musicalità.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

Ho scritto in prosa pochi racconti brevi o brevissimi, alcuni di essi sono già pubblicati nel sito LaRecherche.it. Trovo stimolante il campo della prosa, il riuscire a raccontare in maniera avvincente, a trasportare il lettore e insinuare in lui curiosità. Vorrei poter continuare questa esperienza, pur se in maniera sporadica. Di recente ho partecipato, in più fasi di accorpamento, alla stesura di un romanzo collettivo su un tema dato, ancora in fase di redazione e in uscita probabilmente nel luglio prossimo.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

La terra d’origine non è molto presente nella mia scrittura. Di tanto in tanto sì, in maniera più che altro indiretta, quando ad esempio il mare o qualche altura mi evocano sensazioni di reciproca appartenenza che traduco secondo l’umore del momento.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

L’immaginazione e la realtà spesso si intersecano nella scrittura. Lo scrittore si fa influenzare da entrambe e dà al risultato la sua impronta, la motivazione individuale che lo caratterizza.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Mi piace pensare (molte volte è così) che i miei lettori siano persone che, come me, vorrebbero afferrare l’istante, fissare il pensiero. Sentimenti, ricordi, osservazioni, immagini e visioni altrimenti perduti in posti lontani. Sono sensibile al giudizio dei lettori, in particolar modo se si tratta di persone che riscuotono la mia stima, compresi altri autori. Con loro ho interessanti scambi e condivisioni, direi che si tratta di supporto e complementarietà.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Sono pienamente d’accordo col pensiero espresso da Proust. Immagino sempre che la poesia possa concedere un margine d’immaginazione, come un’ombra o rigo bianco, prendere strade diverse a seconda del lettore, finire in atmosfere che forse non erano palesi nella mente dell’autore. Ciò non mi dispiace, sempre che le suddette atmosfere non si allontanino troppo dall’intento originario del testo.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Per me la poesia è sonorità capace di trasmettere suggestioni, eventi emotivi, sfioramenti e attraversamenti sul piano della realtà o su quello della fantasia: un respiro urlante a cui si affida un messaggio. Richiede buona conoscenza e uso della lingua, delle figure di significato e suono. Dovrebbe realizzare un ritmo che la distingua dalla prosa. Laddove gli elementi formali sono ridotti al minimo, deve avere qualche proprietà di toni e immagini a cui si possano attribuire enfasi e originalità, un simbolismo nel verso libero tale da realizzare la corrispondenza poetica tra forma e significato.

Ho scritto valutazioni e recensioni di opere di altri autori, facendo parte della giuria in un premio letterario nazionale, lo scorso anno.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Versi stupendi per sottigliezza di pensiero ma soprattutto per contenuti significanti di altissimo pregio, forse la più bella critica è questa, di cui riporto uno stralcio. Ricordo anche Autrice che sa dosare la parola come pochi e La tua poesia resterà come musica eterna. Rileggendoli, non saprei dire quale mi emoziona di più.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Una critica negativa (anche più di una) la ricordo, riferita a una poesia del mio primo periodo, a proposito dell’opportunità di limare il testo, eliminando il sovrappiù di aggettivi. È stata ben accetta, ne ho tratto spunto di riflessione.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

Per ora mi sto dedicando alla libera ispirazione, in attesa di ordinare le idee anche per una possibile pubblicazione - chissà? - ma non ancora in programma.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Lettura, cinema, arte, musica, da fruitrice. Mi piace la cucina, ma non sempre mi ci dedico con la fantasia che vorrei. Mi piacciono le piante da giardino e da appartamento, solo che da un po’ ho delegato mia madre alla loro cura, non trovando tempo a sufficienza. Conservare fiori secchi, quello sì, riesco a farlo di persona.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Penso che pubblicare e leggere testi su LaRecherche.it o su altri siti letterari sia una grande risorsa, occasione di conoscenza e scambio. Forse la facile reperibilità di poesie e racconti in rete penalizza la vendita e la diffusione del cartaceo, ma credo che gli appassionati della scrittura non rinuncino a visitare le librerie o almeno ad acquistare opere in formato elettronico, che hanno il vantaggio di occupare uno spazio praticamente nullo, trasportabili senza difficoltà. Personalmente, però, preferisco leggere su carta, percepire addirittura che un libro trattenga qualche traccia di me.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Aggiungo un sentito Grazie a tutti i lettori e poeti che mi hanno sostenuta e incoraggiata a continuare nel percorso di autrice. A chi mi offre, consapevole o meno, spunti per creare. Non ultimo, agli organizzatori e alla giuria del premio che mi ha dato questo riconoscimento.

Non so quale domanda scegliere dopo tutte queste, che trovo esaustive. Allora, la prima che mi viene: “Qual è un tuo segreto desiderio?”. Darei risposta a me stessa.

 

 

Grazie.

 

Grazie a tutti voi.

 

*

- Intervista

Anna Maria Voltan

 

L’autrice qui intervistata è Anna Maria Voltan, seconda classificata al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, V edizione 2019, nella Sezione B (Racconto breve) con “Geremia”.

 

 

Ciao Anna Maria, come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Con un sorriso e una stretta di mano.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

È la seconda volta che partecipo a un premio letterario. Sono stata spinta dalla curiosità di mettermi alla prova, in un mio raro momento di coraggio. Tra le centinaia di concorsi letterari che affollano la rete ne ho scelti due, tra cui “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, che garantissero serietà e trasparenza.

I premi letterari hanno a mio avviso un grande valore: possono accompagnare i lettori alla scoperta di nuovi autori ed essere occasione di confronto e visibilità per gli scrittori emergenti; ma bisogna informarsi con attenzione prima di partecipare: moltissimi concorsi ‘puzzano’ di truffa per rubare sogni. Quelli che vengono organizzati e portati avanti con reale passione e serietà, come il vostro, sono pochissimi e svolgono per questo un ruolo importante: resistete!

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Leggo tanto, da sempre: dai grandi classici agli autori contemporanei americani, senza dimenticare: Calvino, Romain Gary, Alice Munro, Paula Fox, Antonio Tabucchi, Anna Maria Ortese, Julian Barnes, Margaret Atwood…; mi diverte sempre da matti leggere e rileggere i testi esilaranti di Woody Allen, di David Foster Wallace. Sono interessata anche ad autori non molto conosciuti come Sam Lipsyte o esordienti: ho appena terminato il piacevolissimo romanzo di un giovane autore norvegese, Johan Harstad.

 

 

Secondo te quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

La scrittura come ogni forma d’arte è sempre uno specchio della società. Il ruolo dello scrittore è quello di raccontarla, magari analizzandola secondo un inedito punto di vista.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittrice, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ho sempre preferito essere una buona lettrice piuttosto che una scrittrice mediocre, così per tanto tempo ho cercato di frenare la mia tentazione di scrivere. Poi, in un momento della mia vita un po’ complicato, ci sono cascata anch’io. All’inizio scrivevo racconti, solo per me: era liberatorio (e meno costoso della psicoanalisi), ma non ho mai fatto leggere un mio racconto. Con la partecipazione al vostro concorso è caduto anche questo ultimo tabù.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Per lavoro mi è capitato di scrivere alcuni saggi, volumi sull’architettura, sulla fotografia, sull’incisione: c’è una grande preparazione, un progetto minuzioso e preciso a monte. Per i racconti è completamente diverso: nascono di getto da una qualche esigenza e se sei veloce abbastanza con la penna o con la tastiera, a volte è davvero come se il tuo inconscio scrivesse per te. Solo in un secondo momento è necessario rileggere e limare.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Cerco di essere pulita, sobria, di utilizzare le parole giuste; le parole sono importanti, vanno rispettate, come le regole grammaticali. Rispetto e regole, due cose importanti: nei libri come nella vita.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Non ne ho idea

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

Credo che di fatto ognuno scriva della sua vita, delle sue preoccupazioni, delle sue angosce: quella per la morte è la mia banalissima ossessione.

Finché si è vivi, più si legge, più si impara, più si migliora. Anche imparare a leggersi dentro, aiuta.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

Non ci ho mai pensato. Mai dire mai…

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Napoli è impossibile non portarsela addosso, non sentirla dentro. In tutto quello che faccio c’è odore di salsedine o di tufo, di panni stesi al sole, di caffè, di zolfo.

Un amico un giorno mi disse: “solo questo siamo: figli di un mare sempre nuovo e di un vulcano mai domo”. Mi piace moltissimo questa definizione ed è vera; ho cambiato case, lavori, città, ma sono sempre, prima di tutto, napoletana.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

La vita è a cavallo tra questi due mondi, guai se non fosse così… E la scrittura non può che seguire la vita.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Non ho mai avuto lettori, ma regalo sempre i libri che mi hanno emozionato, quelli che ho fatto ‘miei’ alle persone che amo. E devo alcune scoperte letterarie a persone a me care. Pennac scrisse: “Quel che abbiamo letto di più bello lo dobbiamo quasi sempre a una persona cara. Ed è a una persona cara che subito ne parleremo. Perché la peculiarità del sentimento, come del desiderio di leggere è il fatto del preferire. Amare vuol dire, in ultima analisi, far dono delle nostre preferenze a coloro che preferiamo. E queste preferenze condivise popolano l’invisibile cittadella della nostra libertà. Noi siamo abitati da libri e da amici”. Non saprei scriverlo meglio.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Credo che tendiamo sempre a scrivere di qualcosa che conosciamo e che tendiamo ad apprezzare, nella lettura, qualcosa che ri-conosciamo e dunque che la lettura e la scrittura in ultima analisi finiscano per identificarsi.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Apprezzo, oltre alle idee interessanti, la pulizia, la sobrietà, il rispetto delle parole, del loro suono e del loro significato. Se un testo mi piace cerco di condividerlo scrivendone subito una recensione (di solito utilizzo pseudonimi), perché voglio che altri lo leggano, lo apprezzino e che lo scrittore si senta gratificato. La bellezza va diffusa, incoraggiata!

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Non so se vale, ma quando leggo a voce alta i miei racconti, il cane scodinzola…

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

La critica che mi muovo io stessa è quella di essere un po’ pesante. Mi manca quella leggerezza, quell’ironia che riconosco, amo e invidio in molti scrittori di talento.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Beh…avete letto un mio racconto e avete deciso di premiarlo, vi ringrazio, ne sono molto felice e onorata; e ho appena saputo di essere tra i finalisti anche del secondo concorso a cui ho partecipato. Questi risultati mi hanno portato ad avere maggiore fiducia in me stessa. Sto rileggendo e correggendo alcuni racconti che ho scritto negli anni e magari, chissà… (eventualmente è ‘colpa’ vostra)

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Ambientalista dalla nascita, sono volontaria per Retake, un’associazione di cittadini volontari impegnata nella riqualificazione e valorizzazione delle aree urbane degradate. Compiamo azioni concrete a supporto del decoro urbano per risvegliare una coscienza collettiva capace di ri-appropriarsi delle proprie città (il mio impegno è diviso tra Roma e Napoli) ed è una cosa in cui credo molto. è più che mai necessario prendersi cura del bene comune, riportare la bellezza alla gente, nelle strade, nelle scuole, in ogni angolo di periferia e non darla mai per scontata. Non so se definirla una passione, ma ormai il retake-pensiero ha modificato in meglio il mio stile di vita.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Quello che ho letto finora mi è piaciuto; la rivista è interessante e la grafica elegante.

Sono favorevole ad ogni forma di editoria seria, ad ogni valida maniera di promuovere i libri.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

No, grazie: “a volte la cosa peggiore che può capitare alle domande è la risposta” (R. Gary)

 

 

Grazie.

 

*

- Intervista

Nicola Grato

 

L’autore qui intervistato è Nicola Grato, secondo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, V edizione 2019, nella Sezione A (Poesia) con “Ciro ci ha detto che gli figlia l’asina”.

 

 

 

 

Ciao Nicola, come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sono Nicola Grato, palermitano di nascita e paesano per scelta (vivo con la mia famiglia nel centro antico di un paese della Sicilia interna in provincia di Palermo). Sono un insegnante di scuola media, leggo e scrivo.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Ho partecipato a questo premio per fare conoscere le mie poesie. Per me i premi letterari dovrebbero avere il precipuo scopo di mettere in relazione gli scrittori tra loro e con il loro ipotetico pubblico.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Montale in primis, il poeta della mia adolescenza insieme a Pascoli e Caproni. Poi Rocco Brindisi e Pasolini. Rocco Scotellaro mi ha fatto scoprire la poesia civile che non abbandona il modus lirico, mio orizzonte di riferimento stilistico.

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Fortunatamente nessuna utilità, nel senso che la poesia non appartiene alla categoria dell’utile, dell’economico o della dialettica costo/beneficio: la poesia deve essere sempre eversiva, deve mirare a far conflagrare tra loro parole e cose, deve capovolgere e mostrare quelle che Cioran chiamava “verità nocive”, ovvero il precipitato chimico di ogni sistema filosofico e sociale. La poesia deve coltivare il pensiero divergente per insinuare dubbi più che per proclamare certezze. Attraverso la poesia si possono inoculare germi critici nella politica, nella vita sociale, anche nella vita strettamente familiare.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ho iniziato a dodici anni: ho composto una trentina di poesie scritte a mano su un quadernetto che ancora conservo. Poi gli anni del liceo e della conoscenza dei poeti, come ho detto Montale su tutti. Allora scrivevo per sfogarmi, come tutti gli adolescenti del Pianeta mi sentivo incompreso e solo: la scrittura in tal senso mi faceva compagnia, mi dava la possibilità di inventarmi mondi. All’università lo studio tecnico della lingua, le prove, gli esperimenti di scrittura. Il mio primo libro di poesie, Deserto giorno, risale al 2009 per la casa editrice palermitana “La Zisa”: frutto del lavoro su Lucio Piccolo e Ripellino. Dal 2005 al 2010 ho svolto il ruolo di dramaturgo presso il Teatro del Baglio di Villafrati in provincia di Palermo: facevamo teatro di ricerca, teatro di poesia. In questi anni ho approfondito le scritture di personaggi non illustri: diari, lettere, memoriali. Dall’esperienza teatrale lo studio su Consolo, D’Arrigo, Bordonaro, Pasolini, Penna. Il teatro è stato decisivo per la mia scrittura, lo è stato il regista Enzo Toto, maestro e amico. Lo è tuttora mia moglie Salvina, l’unica ammessa alla lettura in anteprima delle mie poesie. Il suo giudizio è per me fondamentale. Nel 2018 ho pubblicato il libro di poesie Inventario per il macellaio per “Interno poesia”, libro di svolta per la mia scrittura. Il titolo me lo ha suggerito mia moglie.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Per me è essenziale stare fuori, guardare, passeggiare. Ascoltare racconti. Sedermi a mangiare il siero della ricotta nel posto dove ancora la fanno in casa; per me le cose devono illuminarsi tra loro. La mia è una poesia degli oggetti in relazione tra loro, dei racconti, delle fotografie. Cerco di affinarmi come artigiano, ci tengo a dirlo. Artista è parola che mi crea un certo imbarazzo quando non un aperto e manifesto fastidio.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Raccontare, fare memoria, creare spazi sempre più larghi di sacro nel quotidiano.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Dicono sia una scrittura sincera. Bene, questo mi fa molto piacere. Sincera ma non ingenua: so di avere una tradizione poetica alle spalle che ho tanto studiato, almeno quanto la poesia contemporanea. Sono un curioso e so bene che non si scrive senza prendersi enormi responsabilità. Sgalambro diceva che non si scrive impunemente.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

Ricerco costantemente l’evoluzione nella scrittura attraverso lo studio, la pratica; le mie ossessioni sono le cose e i racconti dei vecchi.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

Scrivo sempre in prosa prima di trasformare completamente gli scritti in versi, in ritmo. Per ora non credo di volere scrivere un romanzo, il racconto mi è più congeniale.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

La Sicilia, l’isola, è consustanziale alla mia scrittura: anche solo l’atto di prendere una penna (scrivo ancora a penna) per me sarebbe impossibile senza l’isola, senza il mare di terre che vedo ogni giorno.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Immaginazione è atto poietico: il poeta deve sapere di essere responsabile di quello che scrive. Non parlo evidentemente del diritto d’autore, ma del dovere di testimoniare il proprio tempo con la propria opera.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Molti lettori sono contatti dei social network: attraverso questi canali multimediali mi sono creato un mio piccolo pubblico che mi incoraggia, che apprezza il mio lavoro.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Penso sia esattamente quello che i miei lettori dicono accada leggendo le mie poesie. In questo senso mi sento un medium senza alcunché di esoterico.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Sono fondamentalmente un lettore. Per me la scrittura deve essere necessaria, deve permanere come un buon vino. La scrittura deve cercare la profondità, deve attraversare il fuoco del corpo, deve avere materia nel duplice senso di materialità e di argomento. Ho scritto molte recensioni, alcune le ho pubblicate. Sono atti di ammirazione nei confronti di chi lavora sulle parole. Ho una mia idea della recensione, che è mia e magari sarà anche sbagliatissima: se scrivo per qualcuno è perché ne ammiro il lavoro, ne sento il lavorìo nella scrittura, per dirla con Carmelo Bene. Le stroncature non mi piacciono. Intendiamoci: possono stroncare tranquillamente il mio lavoro, ognuno è libero nei limiti del rispetto umano di scrivere quel che vuole, non mi piace il sadismo della stroncatura, ecco.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Sebastiano Aglieco ha scritto che è una scrittura chiara. Questo mi ha convinto a proseguire su una strada che ho intrapreso grazie a mia moglie, poetessa e scrittrice, raffinata lettrice.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Giacomo Cerrai ha criticato il mio Inventario pedagogicamente: non mi ha detto di darmi all’ippica ma di modificare alcune cose, di derogare su certe insistenze tipiche della mia scrittura, come il riferimento al passato che egli sentiva come modo crepuscolare. Nulla nella mia scrittura ha a che fare col crepuscolarismo, mi piace però tanto Gozzano.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Sto lavorando a un nuovo libro, le poesie che ho presentato a questo Premio ne faranno parte.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Le cene con gli amici, dunque il vino e il cibo ma senza esagerare; poi le camminate, le escursioni paesologiche nel territorio laddove le cose sono in abbandono.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Il mezzo elettronico è appunto un mezzo. Come tanti altri. Nessuna preclusione per la pubblicazione in rete dei testi, anzi. Bisogna creare relazioni, credo di averlo già detto, e in tal senso il mezzo elettronico può essere importante per mettere in contatto autori, persone.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Pensi che la poesia debba avere anche un ruolo politico nella società? Certo, la poesia è politica, ma la politica non è poesia, con tutti i danni enormi che questo ha prodotto e produce. Intendo poesia, lo ribadisco, un modo di stare al mondo conforme alla cura del mondo stesso: bisogna curarsi del mondo, e qui ecco la politica.

 

 

Grazie.

 

*

- Intervista

Nilla Licciardo

 

L’autrice qui intervistata è Nilla Licciardo, prima classificata al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, V edizione 2019, nella Sezione B (Racconto breve) con “La gerla”.

 

 

 

Ciao Nilla, come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sono una lettrice appassionata, una musicista e un’insegnante di pianoforte. Dopo gli studi classici, che ho affiancato a quelli musicali, ho scelto di portare avanti questi ultimi, mantenendo la mia passione letteraria nella sfera del privato. Lavoro nella scuola da molti anni e amo la mia professione perché, oltre al piacere di diffondere e coltivare la musica, mi permette di restare in contatto con gli adolescenti, che con la loro spontaneità mi aiutano a guardare la vita con occhi sempre nuovi e sinceri.

Fin da bambina ho amato perdermi nei libri e giocare con le parole. Tento di interpretare, tra le pagine che leggo e quelle che scrivo, le consonanze e le dissonanze dell’esistenza umana.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Ho iniziato l’anno scorso a partecipare a concorsi letterari per mettermi in gioco, per trovare uno stimolo che mi spingesse a impegnarmi seriamente nella scrittura e per la curiosità di verificare se ciò che scrivevo poteva incontrare i gusti dei lettori. Ho già avuto la soddisfazione di un primo premio al concorso “Mille e… una storia” e ora questo riconoscimento è per me un’ulteriore iniezione di fiducia che mi porterà a perseverare nei miei progetti.

Penso che i premi letterari, soprattutto quelli onesti e imparziali come il vostro, siano una grande opportunità di confronto per gli aspiranti scrittori di ogni età. I concorsi hanno sempre rappresentato un fattore di aggregazione culturale all’interno delle comunità locali e forse oggi la loro fortuna è aumentata grazie alla facilità di accesso alle informazioni in rete. Si sente spesso dire che il numero degli scrittori sia in continua crescita, a dispetto del calo dei lettori, ma non si può negare che le due cose siano spesso collegate. Ben vengano dunque tali occasioni che veicolano una crescita culturale nel territorio nazionale.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Dai sette anni in poi ho letto un po’ di tutto. Ho divorato i classici per ragazzi e ho affrontato presto la letteratura ottocentesca, sia europea che russa. Ho molto amato, Fogazzaro, De Amicis, Deledda, Dickens, Dumas, Flaubert e Zola. C’è stato poi il periodo di Dostoevskij, Tolstoj, Cechov e Gogol. Durante gli anni del liceo mi sono appassionata a Hesse e Moravia e ho letto Pasolini, Sartre, Proust, Kundera, Garcia Marquez, Calvino e molti altri.

Ho sempre avuto un’attenzione particolare per la letteratura siciliana, da Verga, Pirandello e Capuana fino a Tomasi di Lampedusa, Brancati, Sciascia, Patti e poi ancora Consolo, Bufalino e Camilleri. Ho avuto un periodo di grande fascinazione per Rosetta Loy e per Maria Bellonci, grazie alla quale ho iniziato ad apprezzare i romanzi storici e le biografie. Ho molto amato anche Vassalli e Tabucchi. Solo di recente mi sono accostata agli autori americani. Tra i contemporanei apprezzo molto Mc Ewan e Allende.

 

 

Secondo te quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Per me lo scrittore ha oggi più che mai il dovere di essere testimone del presente senza distogliere gli occhi dal passato. Senza una riflessione storica non può esserci vera consapevolezza del proprio tempo.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittrice, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Per me scrivere è sempre stato un gesto naturale e spontaneo, a volte una pressante esigenza interiore; da quando ho imparato a scrivere non ho più smesso. Per molto tempo è rimasto però un fatto intimo e personale: nonostante le pagine che si accumulavano nel mio cassetto, non ho cercato riscontri o consensi esterni.

L’insicurezza mi aveva portato a considerare questa passione come una sterile velleità, un capriccio. A un certo punto mi sono resa conto che la riservatezza e il timore di essere giudicata mi avevano fatta rinchiudere in un guscio dal quale non riuscivo più a uscire, che mi impediva di crescere e di evolvermi. Ho deciso allora di concedere maggior spazio alla mia inclinazione letteraria: ho iniziato a frequentare corsi di scrittura creativa, per cercare di affinare lo stile, e ho rispolverato vecchi progetti. Mi sono anche iscritta a un circolo letterario, dove ho avuto l’occasione di fare parecchi incontri stimolanti: scrittori, editor, docenti ed esperti di linguistica, personalità affascinanti e di grande spessore culturale che mi hanno spinto a riprendere la penna in mano con una nuova consapevolezza. Non rimpiango di essermi aperta agli altri e di aver trovato il coraggio di sottopormi alle critiche. Anche il semplice confronto tra lettori appassionati e scrittori dilettanti si è rivelato proficuo e costruttivo. Ho all’attivo alcuni articoli e delle collaborazioni editoriali in ambito musicale; alcuni miei racconti sono stati pubblicati su riviste e in antologie di concorsi letterari.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

A volte parto da un’idea, uno spunto che mi cova in testa anche per mesi, che rimane in incubazione finché non è pronto per venire alla luce. Mentre guido o cammino per strada riordino le fila di una scena, di un dialogo, o delineo un personaggio. Quando l’idea è matura avverto l’urgenza della sua stesura: come se dovesse per forza separarsi da me per acquisire una propria autonomia. Inizio allora a scrivere la traccia e poi la sviluppo. A volte scrivo di getto ma in genere sono piuttosto lenta e pignola e continuo a rifinire e a limare i miei scritti finché non sono soddisfatta del risultato, tornandoci su più volte, anche a distanza di tempo.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Innanzitutto, trattare argomenti che mi stanno a cuore e raccontare storie di cui avverto la valenza umana e sociale. Con la segreta speranza di riuscire a comunicare agli altri in maniera efficace, ma con leggerezza, un contenuto, un’emozione; di coinvolgerli in storie in cui riescano a trovare delle assonanze personali, in cui possano riconoscere frammenti di sé stessi.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Non saprei, non sono in grado di giudicarmi da sola.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

All’inizio i miei scritti erano più che altro a carattere autobiografico ma col tempo ho imparato a prendere le distanze da me stessa. I temi ricorrenti della mia scrittura sono le storie familiari, spesso ambientate nel passato e viste da una prospettiva femminile. Mi affascina esplorare la storia e ricostruire antiche vicende, ricucendone con la fantasia gli strappi e i punti oscuri, come un restauratore che riempie le lacune di un affresco per ricreare l’armonia dell’immagine.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

Ho scritto versi fino ai vent’anni circa, poi ho smesso, per prendere le distanze da un’ipersensibilità che vivevo come dolorosa. Per proteggermi dalla sofferenza ho rinunciato alla poesia, ma non escludo che in futuro mi ci accosterò ancora.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Sono nata e vissuta in Veneto ma sono di origine siciliana. Entrambe queste terre fanno parte di me: la mia mente razionale e il mio presente abitano il nord est mentre la mia irrazionalità e la mia inquietudine emotiva hanno profonde radici meridionali. Non ho mai interrotto il rapporto con la Sicilia, nella quale ambiento spesso le mie storie e in cui torno ogni anno come una turista sentimentale, mossa dal richiamo del passato e dalle sensazioni perdute delle lunghe estati dell’infanzia. Subisco il fascino contraddittorio di questa terra, che a volte mi attrae, a volte mi indigna, ma da cui non riesco a prescindere. Spesso tornarvi è doloroso, perché la modernità del suo aspetto attuale e le mille incoerenze che ancora l’affliggono non mi aiutano a ritrovare quel suo aspetto che mi porto dentro, per il quale provo un’incoerente nostalgia.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

La scrittura è quel mondo magico dove realtà e finzione si compenetrano e si confondono. In ogni storia inventata c’è qualcosa di reale o autobiografico, così come in ogni storia vera che si voglia raccontare c’è sempre qualcosa di irreale, in quanto non può non prevalere la soggettività del narratore. Forse è proprio questo uno dei motivi di maggior fascino della letteratura: è un territorio libero, dove gli unici confini sono quelli della fantasia.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Finora i miei lettori sono stati soprattutto parenti, amici o conoscenti. Proprio per questa eccessiva vicinanza nutro parecchi dubbi sulla loro obiettività. Mio marito, che ringrazio, è il lettore più severo e obiettivo di cui dispongo, perché mi aiuta a mettermi ogni volta in discussione.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

È una frase molto efficace, che descrive una sensazione che tutti abbiamo sperimentato nel rapporto con un buon libro, che apprezziamo proprio per questa sua capacità.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Un buon testo, a parer mio, deve semplicemente catturare l’attenzione del lettore facendogli venire voglia di proseguire la lettura. Quando un libro mi piace lo leggo e lo rileggo più volte, lo interiorizzo e non lo dimentico più. Dev’essere privo di inutili verbosità, di pedanteria, presunzione o autocompiacimenti stilistici, deve avere un ritmo nella narrazione e una struttura coerente; deve dimostrare rispetto per la sensibilità di ogni lettore. Al di là delle vicende narrate, che possono anche essere drammatiche, dovrebbe sempre lasciare un messaggio positivo, che possa far chiudere il libro con la sensazione di essersi appropriati di qualcosa di bello e di autentico.

Non ho mai fatto recensioni di libri, solo qualche intervento critico informale.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

“Mi sembrava proprio di essere dentro quella scena…”

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Parecchie critiche mi hanno spronato a migliorare: sarebbe troppo lungo elencarle tutte. Avevo una scrittura un po’ ridondante, che spero di aver imparato a contenere.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Ho tante buone intenzioni e dei progetti di cui, per scaramanzia, è prematuro parlare!

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

La musica, la lettura, la storia, l’antiquariato, i viaggi e la buona cucina.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Tutto il bene possibile. Sono le grandi chance della modernità. È bello che ogni autore possa esprimersi liberamente pubblicando i propri testi come è giusto che il lettore abbia il diritto di dire la sua opinione, di commentare e valutare un testo.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Domanda: da uno a dieci, quanto sei felice di aver vinto il Premio Babuk?

Risposta. Dieci!

 

 

Grazie.

 

Grazie a voi, di cuore!

 

*

- Intervista

Marco Senesi

 

L’autore qui intervistato è Marco Senesi, primo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, V edizione 2019, nella Sezione A (Poesia) con “ante meridiem”.

 

 

 

Ciao Marco, come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Ciao… rispondo di getto, a ruota libera, in nome della spontaneità (come dimostrerà l’uso ossessivo dei puntini di sospensione!)… beh, rischio di apparire superbo, ma direi che il modo migliore per presentarmi siano proprio le mie poesie: basta leggerle, io sono là…

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

In tutta onestà, non so di preciso cosa mi spinga a partecipare ai premi letterari… certamente - non mi vergogno ad ammetterlo - essendo il sottoscritto più squattrinato di Paperino, una segreta e malata parte di me mira ai premi in denaro (che, superfluo dirlo, non azzecco mai!), ma certamente vibra anche il desiderio che qualcuno legga e apprezzi le mie poesie… forse cerco di mettermi in contatto con un “commilitone”… i premi letterari (quelli vinti) hanno per me un valore modesto: indubbiamente sono occasione di vera gioia (tremavo nel leggere il mio nome in cima alla vostra classifica…), ma solleticano certe piccole vanità, e alla fine rischiano di distrarmi, di allontanarmi dall’obiettivo cosciente: maturare un linguaggio sempre migliore e sempre più potente (se ne sono in grado, naturalmente)… Non so quale ruolo abbiano i premi letterari nella comunità culturale e artistica italiana… posso solo dire che quelli a cui ho assistito - una dozzina in circa 5 anni - mi hanno fortemente deluso, rattristato, spaventato: cerimoniali vuoti, alienati… sentimentalismo e retorica a fiumi… tanto che pensavo: “cos’altro devo aspettarmi, un concerto unplugged di Eros Ramazzotti come accompagnamento alla lettura delle poesie?”… pochissime volte ho riconosciuto la vera forza (ricordo Anna Elisa De Gregorio e Maurizio Paganelli, ad esempio).

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Sono un vero e proprio onnivoro… ho sempre letto tutto ciò che mi capitava a tiro… i miei “idoli” sono Erich Fromm, Seneca, Marco Aurelio, Cicerone, Stephen King, Dino Buzzati, Tiziano Sclavi, Kierkegaard, Zygmunt Bauman, Pasolini, Etty Hillesum… la lista è lunga!... ma se ci limitiamo alla poesia, non ho dubbi: devo tutto a Eugenio Montale e, ancora di più, a Tomas Transtromer…

 

 

Secondo te quale “utilità” e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Beh, mi sembra giusto usare le virgolette: “utilità” tradisce il tipico approccio razionalistico (proprio nel senso etimologico di “reor”, calcolare) del capitalismo, secondo cui se qualcosa (o qualcuno…) non “serve” allora non ha valore (ma quando, da bambini, giocavamo felici con l’hula-hoop, non ci chiedevamo “a cosa serve?”...). Il ruolo di uno scrittore oggi, e di qualsiasi artista in generale, dovrebbe essere in primis portare un’autentica testimonianza di Vita, e poi recuperare il linguaggio dei simboli e dei miti… perché l’arte non è solo una risorsa: è anche un riscatto, una ribellione, una vendetta. Contro l’inferno della società industriale… una vita che non ha davvero alcun significato. Quale ruolo abbia invece effettivamente uno scrittore nella società attuale, non saprei… probabilmente la sua opera finisce schiacciata nell’immenso magma digitale, diventando un semplice flatus vocis… è impresa ardua oggi lasciare un’impronta…

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Scrivevo, com’è tipico, da adolescente, spinto dal desiderio di dare corpo a sentimenti che mi apparivano come una condanna, ma mi mancava il coraggio di guardare in faccia il dolore. Poi, dopo oltre 10 anni di vuoto (o meglio, di vigliaccheria), il fuoco si è riacceso e quel coraggio l’ho finalmente trovato: sono ormai 5 anni che la poesia è divenuta una parte imprescindibile della mia vita… Gli incontri più importanti sono stati due: il primo, in carne ed ossa, con Elio Pecora, che mi ha premiato nel 2013 al Diana Nemorensis; il secondo, on-line, con Luigi Arista, autore di un bellissimo saggio critico sulla mia unica silloge di poesie finora pubblicata, “post meridiem” (casomai foste curiosi, lo trovate qui...).

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Si tratta di un rito: attendo, come una rara congiunzione astrale, alcuni momenti del giorno; spengo le luci, accendo una candela, inforco le cuffie con musica di accompagnamento, e mi lascio andare totalmente come fossi sotto l’effetto di un allucinogeno. Oppure vestito di stracci e senza lavarmi mi reco in quei luoghi che per me hanno una grande potenza evocativa; mi trasformo in “sentinella del Tempo”, e mi lascio andare totalmente come fossi sotto l’effetto di un allucinogeno (soltanto in un secondo momento mi occupo, razionalmente, di limare, rattoppare con ago e filo, lucidare con la cera). Mi sento un Testimone.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Come ho scritto prima, un obiettivo cosciente è maturare un linguaggio sempre migliore e sempre più incisivo. Un altro obiettivo, è rimanere vivo… un altro ancora, mantenere una promessa fatta a un’amica tanto tempo fa… poi ci sono gli obiettivi “inconsci”, che, ovviamente, ignoro!

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Eh… proprio perché nascono in uno stato di semi-coscienza, mi riesce molto, molto difficile l’esame critico, esegetico, delle mie poesie… non saprei… forse la prima caratteristica (non necessariamente positiva) che balza agli occhi è la forte carica onirica, poi un senso di appassimento, di languore, caratteristiche che raramente riscontro in altri… per quanto riguarda i punti di vista altrui, vi rimando al saggio critico di cui sopra… Elio Pecora mi scrisse che la mia poesia lo convince “per il tono e la fluidità, ma soprattutto per la sostanza che vi corre dentro”.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

Buzzati diceva che ogni scrittore, nel corso dell’intera vita, scrive di una sola cosa: nel mio caso si tratta dell’Assurdo (o del Tempo… credo che siano sinonimi…)… sì, sono sempre in costante evoluzione… i temi restano gli stessi, ma il linguaggio cambia: ho notato che l’onirismo va accentuandosi, tendo non più a descrivere o esplicitare, ma a suggerire, alludere, indicare (proprio nel senso letterale di “mostrare con il dito”)… d’altronde, è solo in questo modo che l’arte è davvero potente, credo.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

No… ho deciso da tempo di restringere il campo concentrandomi soltanto sulla poesia.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Moltissimo…è qui, che il Tempo ha distrutto tutto (in “cotidie” trovate le parola “cappellaccio”, che è un tipo di terreno tipico delle mie parti, e l’espressione “Valle Degli Spiriti Beati”, un’incantevole zona del mio paese dove visse Michael  Ende, fonte di ispirazione per “La Storia Infinita”…). Anche se io tratto di argomenti universali, non credo che sarei capace di scrivere altrove.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

…domande da un milione di dollari... credo si tratti di due dimensioni non parallele, che quindi si intersecano… e uno scrittore fa continuamente la spola fra i due mondi…

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Purtroppo non “ho” lettori… la mia silloge è stata accolta con indifferenza. Avrei avuto bisogno di una promozione come si deve.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

…che è assolutamente vero! Io, in particolare, mi riconosco completamente in queste parole: sono il mio ritratto. Leggere mi costa fatica: devo sforzarmi, per non pensare a me stesso e focalizzarmi sul contenuto…

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Premetto che le mie considerazioni fanno riferimento all’arte in generale, non alla scrittura nello specifico. Per me, nella “valutazione” la conditio sine qua non è la presenza di un’autentica sofferenza, o, cosa più rara, un’autentica gioia. Secondo, l’arte deve essere per l’artista una necessità vitale, come mangiare o bere. Last but not least, il linguaggio, che deve essere efficace e innovativo: non conta più tanto ciò che dici, ma come lo dici (“Le storie le abbiamo esaurite da secoli: quello che conta è solo il linguaggio”, Tiziano Sclavi)… il “come” è diventato più importante del “cosa”, la caratteristica principale di una buona scrittura. Sì, ho fatto in passato interventi critici, ma solo “casalingamente” su opere di cari amici.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Le parole più belle non sono venute dagli sterili e snob ambienti accademici… si tratta di una dolcissima mail d’encomio, ricevuta da una ragazza… si chiama Giada Giordano, anche lei poetessa: se non la conoscete, cercatela sul web, ha un suo blog… è straordinaria, i suoi versi sono accecanti… (senza dimenticare Elio Pecora e Luigi Arista, naturalmente).

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Certamente: “frena la foga verbale”…da allora, ho imparato a “sfrondare”…

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Sto lavorando ad una seconda raccolta di poesie, che si intitolerà “ante meridiem”. Ma di certo non uscirà a breve… so che la poesia è la più grande e la più difficile di tutte le arti… richiede coraggio: per me scrivere è come stare con le punte dei piedi a 5 centimetri dall’orlo di un precipizio: se riesco a guardare di sotto, allora porto a termine la poesia… ho imparato a rallentare, dosare, diluire, scrivendo non più di 5/6 composizioni l’anno. Attendo che il vino nella botte invecchi…

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Musica (compongo e suono da dj), cinema, letteratura, autoproduzione e downshifting… e la citronella: ne ho una splendida pianta in terrazzo…

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Auguro a tutti gli autori del vostro sito - me compreso! - di riuscire ad emergere da quella poltiglia violacea e informe che è internet… infatti, la libera scrittura in rete è un’arma a doppio taglio: da un lato, aumenta la visibilità, dall’altro, come accennavo prima, si finisce schiacciati nell’abbondanza… ma questa è la nostra epoca, e sarebbe sciocco comportarsi da ludditi: quindi via libera all’editoria elettronica, nella speranza di riuscire a piegare questo mezzo ai nostri fini.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Sono felice che non mi abbiate esplicitamente chiesto: “cosa significano le tue poesie?”… meglio non sapere… sarebbe come conoscere tutti i trucchi di un illusionista: la magia scompare…

Una domanda che non mi hanno mai posto è la seguente: “Chi è quel misterioso ‘tu’ onnipresente nelle tue poesie?”… non darei mai una risposta: come la più stakanovista delle guardie del corpo, proteggo giorno e notte quella ragazza…

 

 

Grazie.

 

…a voi!

 

*

- Intervista

Federica Gullotta

 

[ A cura di Roberto Maggiani ]

 

 

 

 

1. Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Federica Gullotta?

 

Non so se sia una buona idea conoscermi, consiglio alle persone di leggermi come poeta e di non volermi conoscere come persona, a parte quei coraggiosi che ci tengono veramente, e allora sono i benvenuti.

 

 

2. Come e perché hai iniziato a scrivere e in particolare poesia?

 

Ho iniziato a scrivere racconti a 6 anni dopo un periodo di totale rifiuto dell’alfabetizzazione, sapevo già leggere e scrivere ma fingevo di non saper fare perché vedevo i libri come la peste; poesia a 6 anni e mezzo per partecipare ad un concorso cittadino che ho vinto insieme ad altri bambini. Un verso di una di quelle poesie l’ho infilato nel mio nuovo libro per Edb.

 

 

3. Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formata e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Ho frequentato il liceo classico quindi sono molti i testi che hanno influenzato la mia scrittura a partire dai greci e latini fino ai contemporanei. Diciamo che nell’adolescenza il mio modello di scrittura assoluto era Truman Capote, mentre per quanto riguarda la poesia amavo particolarmente Baudelaire, Cocteau, Ungaretti, Ginsberg e Majakovskij. Poi dai 20 anni in poi ho cominciato ad approfondire poeti del ‘900 e attuali come De Angelis, Raboni, ma anche poeti dell’Ottocento che non avevo letto prima come i Simbolisti francesi. È brutto da dire, ma a scuola non li avevamo nemmeno accennati.

 

 

4. Ci proponi in lettura una poesia di un autore contemporaneo? (se edita citare anche l’editore) Ci spieghi il perché della scelta?

 

Ho scelto una poesia di Silvia Caratti, tratta dal libro “La trama dei metalli” (LietoColle, 2001). Non la conosco personalmente ma è tra i poeti attuali che apprezzo per la loro padronanza della parola:

 

Spesso la notte faccio simili pensieri

quando lieve tu mi dormi accanto

mi domando cosa ci leghi

all’ultimo pianeta

o se l’universo produca un suono

o se il tempo non sia un imbroglio

e in realtà noi ci dobbiamo ancora amare.

Io so che tutte le domande hanno un nome.

 

 

5. Che cos’è la poesia? A che cosa “serve”?

 

La poesia è disturbare il lettore. Anche con l’eccessiva serenità o l’eccessiva bellezza, non necessariamente con il dolore o i turbamenti, dipende, vanno bene entrambe le cose. A cosa serve? A portare turbamento appunto, a me personalmente la bella poesia, la poesia fatta bene mi dà adrenalina, come una “droga” senza conseguenze fisiche (o quasi).

 

 

6. Qual è il ruolo sociale del poeta?

 

È una bella domanda. Già se il poeta facesse bene il suo mestiere saremmo a cavallo. Poi come diceva Kant “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” (E se ci fosse anche solo il cielo stellato, saremmo già a cavallo).

 

 

7. Ci proponi in lettura una tua poesia? (meglio se inedita)

 

Un mio inedito:

 

Come animale sento –

e come sento odoro –

e odoro quello che penso –

come animale un tempo, mi adoravano

tutte le mani e tutti i respiri

di freccia in furia

tra gli alberi sonori

 

Come animale spacco –

e come spacco celo –

e celo quello che penso –

un tempo, orgogliosa come un

palo fulminato, e risoluta,

scortecciata, piena di umori

riavvicinai la terra scoperta

e lunga

 

 

8. Che cos’ha di caratteristico la tua poesia, rispetto a quella dei poeti tuoi contemporanei? Si dice che ogni poeta abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue?

 

Lo straniamento, i mostri creati dalla natura, dall’uomo e dalla nostra mente, molti temi però non saprei definirli: io scrivo a intuito dopodiché rifinisco la forma, limo le frasi, ma di solito non torno sui contenuti, non mi ritengo particolarmente intelligente, penso solo di avere talento nella scrittura e stop. Ho però un obiettivo preciso nella mia sperimentazione poetica, ovvero ridurre al minimo gli orpelli, usare volendo anche parole dure, parole che si adattano alla situazione, dare la poesia a pesci in faccia al lettore, non rassicurarlo. Se rileggo mie poesie del passato mi deprimo leggendo tutte le frasi che potevo benissimo cancellare.

 

 

9. La critica più bella e la più brutta che hai ricevuto come poeta.

 

Che scrivo come…

Che il mio attuale libro si gratta (cioè è piacevole da leggere, è un mio modo di dire).

Le peggiori che scrivo in modo infantile, che non ho letto abbastanza poeti del ‘900.

 

 

10. Come avviene il tuo processo di scrittura? In quali ore e luoghi, con quali modalità? Pubblichi ciò che scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti? Che criteri adotti per mettere insieme le poesie di una raccolta? C’è qualcuno a cui fai leggere le tue poesie prima di ogni altro?

 

Sì, le leggo ad una persona a me molto cara. E con grande spirito critico e intelligenza. Poi le faccio leggere a quei poeti che stimo e ammiro particolarmente, che considero dei “maestri”.

Se voglio scrivere impiego massimo un’ora poi successivamente ricontrollo la poesia per perfezionarla. Sono molto perfezionista. Per una raccolta il criterio è il senso di fondo, ad esempio nel mio ultimo libro le poesie sono tutte un po’ astratte e metafisiche.

 

 

11. Hai incontrato o incontri difficoltà nel pubblicare i tuoi testi? Se sì quali?

 

Pensavo di peggio, ho avuto la fortuna di incontrare grandi poeti attuali – perché così li considero – che hanno creduto in me, mi hanno sopportato nonostante le mie intemperanze che forse a volte sono state eccessive, insomma dei santi.

 

 

12. Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare un testo poetico o una intera raccolta? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona poesia?

 

Quelle che ho detto prima: destabilizzare il lettore, musicalità, ritmo e varietà di lessico, padronanza del pensiero e della parola.

 

 

13. Molti utilizzano, per catalogare i poeti e la loro presunta o reale “importanza”, le categorie “poeta maggiore” e “poeta minore”. Esiste realmente tale distinzione? L’editoria è veramente capace di discernere tra queste due categorie?

 

Come ho scritto recentemente nel dibattito sui social riguardo l’articolo di Ladolfi sulla poesia performativa, chiunque pratichi una certa arte partecipando a festival, concorsi o pubblicando, automaticamente scende nell’arena, diventa un professionista e non più un dilettante e come tale va giudicato, nel bene e nel male. Non avete questo coraggio, questo desiderio di impegnarvi seriamente? Non pubblicate, non partecipate.

 

 

14. Che cosa ne pensi della critica letteraria e dei critici che la esercitano? Ti sembra che siano rispettosi della pluralità delle voci poetiche contemporanee?

 

Sì e no. Ci sono critici che stimo a prescindere da possibili divergenze nella visione della poesia. Io fondamentalmente stimo chi è intellettualmente onesto, in ambito critico. Attualmente credo che alcuni critici possano essere penalizzati nel giudizio dal seguire le “mode” del momento o magari dalla paura di perdere la propria posizione di prestigio.

 

 

15. Puoi citare alcuni poeti che a tuo avviso non hanno adeguata attenzione critica?

 

Diciamo che quelli che vedo sui social sui blog e sulle riviste più osannati dai critici, anche fra i giovani poeti, della mia generazione cioè degli anni ‘90 o poco più grandi, non sono esattamente nella mia top ten dei poeti attuali.

 

 

16. Perché la poesia è poco letta? Che cosa ne pensi? Secondo te di chi è la responsabilità (se di responsabilità si può parlare): dei poeti, degli editori, dei lettori, dei librai, dei mezzi d’informazione?

 

Penso che ciò sia una naturale conseguenza del fatto che attualmente le persone sono meno riflessive e parlo anche per me: mi piace leggere ma se prima di dormire devo scegliere fra leggere un libro o guardare un video su Youtube, di solito preferisco il secondo. Sono favorevole alle tecnologie, ai social, non capisco chi si preoccupa ad esempio della robotizzazione del lavoro. Se non ci saranno più i lavori tradizionali cambieremo, troveremo altri lavori, i cambiamenti e il progresso sono necessari per la nostra vita. Perciò credo che la poesia non debba affatto temere la nostra epoca e che la supererà egregiamente, nonostante le difficoltà non credo in un “declino” della poesia.

 

 

17. È appena stata pubblicata da EDB edizioni, nella collana “Poesia di ricerca”, curata dal poeta Alberto Pellegatta, una tua raccolta dal titolo singolare “Gli angeli bianchi escono dai frigoriferi”, la pubblicazione, senza titolo, è condivisa con il poeta portoghese Manuel de Freitas, ce ne vuoi parlare?

 

È un libro in cui credo molto, così come anche in quello precedente “La bestia viziata” pubblicato da LietoColle nella collana Apolide curata da Mary B. Tolusso, anche se rappresentano due periodi della mia creazione poetica molto diversi; il libro precedente derivava dalla mia adolescenza, questo deriva dalla mia visione del futuro.

 

 

18. Sempre riguardo alla suddetta pubblicazione senza titolo, in cui si trova la tua raccolta “Gli angeli bianchi escono dai frigoriferi”, perché un lettore, che normalmente non legge poesia, dovrebbe leggerla? Perché, invece, un lettore avido di poesia dovrebbe leggerla?

 

Un lettore che normalmente non legge poesia potrebbe comprare il mio libro prima di tutto perché è breve e non è ingabbiato all’interno di rime o schemi metrici che potrebbero risultare allontananti; perché è strano anche.

Un lettore invece avido di poesia lo potrà leggere per conoscere un nuovo autore, come faccio io quando leggo poesie.

 

 

19. Che rapporto hai con la narrativa?

 

Ottimo, fino ai 20 anni ho letto molta più narrativa che poesia e da bambina e adolescente scrivevo quasi esclusivamente prosa (racconti prevalentemente) almeno fino ai 15 anni quando ho cominciato a scrivere poesia più assiduamente e non solo per i concorsi.

 

 

20. Quali progetti hai per il futuro?

 

Migliorarmi da tutti i punti di vista, raggiungere i massimi livelli che possa raggiungere, perché per me non è mai abbastanza. Essere in salute, essere serena, vivere in modo spensierato. Poi chiaramente mi piacerebbe pubblicare nel futuro con una grande casa editrice, come tutti gli umili che si rispettino, anche se per inciso io ritengo grandissime anche le case editrici per cui ho pubblicato fino ad ora.

 

 

21. Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale e in tutta franchezza, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Molto positivamente, credo che le piattaforme come LaRecherche.it e altre aiutino molto gli autori a farsi conoscere e a condividere i propri testi in maniera libera e aperta.

 

 

22. Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti dare una risposta?

 

Non direi

 

 

23. C’è una domanda che vorresti fare? (a chiunque tu voglia)

 

Vorrei chiedere in generale a poeti e critici se ritengono che tuttora possano esistere criteri soggettivi e oggettivi per valutare un testo poetico, perché io ritengo di sì, ma vedo che alcuni sostengono che bisogna affidarsi al mero gusto personale e a come suona un verso all’orecchio…

 

 

24. Infine, le tue preferenze, botta e risposta, se vuoi puoi accennare un perché:

 

il cantante: ne ho tantissimi che spaziano dalla musica classica alla trap, però in assoluto direi i Beatles, anche se non sono della mia epoca

il film: Il Signore degli Anelli, il poliziesco Mauvais Genres, Le lacrime amare di Petra von Kant del regista Fassbinder, Il Pianista, Gruppo di famiglia in un interno, io comunque sono appassionata di cinema

la pietanza: amo molto il cibo, ma direi le uova, tutti i formaggi, la torta Sacher, gli spatzle di spinaci, tutte le verdure

tre gusti di gelato: cioccolato, stracciatella, nutella

l’albero: cipresso

il fiore: la calla

il paesaggio: le Alpi tirolesi

la città: Venezia, Ferrara

la nazione estera: Austria, ma non ho ancora viaggiato abbastanza da giudicare

il giorno della settimana: venerdì

il mese: dicembre perché c’è meno sole e tante feste

 

 

Grazie.

 

 

Leggi alcune poesie di Federica Gullotta pubblicate nella sezione Poesia della settimana

 

*

- Intervista

Alberto Pellegatta

 

[ A cura di Roberto Maggiani ]

 

 

 

1. Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Alberto Pellegatta?

 

Sono uno scrittore e lavoro come critico d’arte e giornalista. Sono nato a Milano nel 1978.

 

 

2. Come e perché hai iniziato a scrivere e in particolare poesia? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni…

 

Scrivo dall’adolescenza ma ho iniziato a farlo con consapevolezza dopo i diciott’anni. Ho avuto la fortuna di conoscere subito poeti importanti come Maurizio Cucchi, Giovanni Raboni, Luciano Erba, Umberto Bellintani, Giancarlo Majorino, Giampiero Neri, Vivian Lamarque e Milo De Angelis. La mia plaquette d’esordio, Mattinata larga (Lietocolle 2002), è stata ricevuta con interesse dalla critica. Nel 2011 è uscito il mio primo libro, L’ombra della salute, nello Specchio Mondadori. Nella stessa collana, l’anno scorso, è uscito Ipotesi di felicità.

 

 

3. Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

I primi libri che ho letto sono stati i bellissimi romanzi che ancora rileggo, quelli di London, Stevenson, Dahl, e poi Kafka, Walser, Fitzgerald, Poe ecc. Ma la folgorazione è stata la poesia, dai classici greci e latini del liceo a quelli italiani e stranieri, non ultimi Baudelaire, Eliot e Ashbery. La scoperta della poesia contemporanea è però stata la svolta: non solo Montale, Ungaretti, Penna, ma anche i tanti autori del Secondo Novecento, da Dario Bellezza a Rocco Scotellaro, da Costantino Kavafis a Antonio Gamoneda, da Valerio Magrelli a Mark Strand.

 

 

4. Ci proponi in lettura una poesia di un autore contemporaneo? (se edita citare anche l’editore)

 

Con piacere, vi propongo una poesia di Jack Underwood, un giovanissimo autore inglese pubblicato da Faber & Faber, che ho tradotto per Edb Edizioni (in Wilderbeast e Bisestile 2016):

 

13 dicono

 

Quando è morto Neil Armstrong mi hai chiamato al tuo computer:

«Guarda! Degli 89 commenti all’articolo, 13 dicono “è sulla

luna adesso”! Perché dovrebbe essere sulla luna? È assurdo!»

Così ho messo mia nonna sulla luna. Ho messo Iain, che è morto,

sulla luna con Hilary, che è morta. Ho messo i gatti grandiosi sulla

luna, che rimbalzano senza peso e perplessi; e metterò

tutti noi che non siamo morti ma che moriremo, sulla luna,

che da qui sembra un posto tranquillo, fuori portata e strano,

con un vento forte che la percorre: una pietra tombale rotante

che richiede un passo da gigante, e una triste e felice bugia, per arrivarci.

 

 

5. Che cos’è la poesia? A che cosa “serve”?

 

Se la si vuole piegare a uno scopo propagandistico o retorico non serve a molto, diversamente è una ricerca sul linguaggio insostituibile. Mantiene in salute la lingua. Solo con parole sane possiamo pensare lucidamente e far progredire la società. L’opposto, insomma, di quello che succede oggi: un linguaggio posticcio e televisivo ha appiattito i discorsi pubblici, non c’è da stupirsi che poi le persone votino chi urla più forte, anche se dice solo pericolose sciocchezze.

 

 

6. Qual è il ruolo sociale del poeta?

 

Come sopra, quello di mantenere in salute il linguaggio e contribuire alla circolazione delle idee.

 

 

7. Che rapporto hai con la narrativa? Hai mai scritto in prosa?

 

Ho scritto dei racconti. Amo i buoni romanzi. Ultimamente ho riletto Canada di Richard Ford, per esempio, Max Aub, Romain Gary e Truman Capote. Sono laureato in Filosofia e abituato a leggere molta saggistica.

 

 

8. Ci proponi in lettura una tua poesia?

 

Vi propongo un inedito.

 

 

LA BUONA VOLTA

 

 

La primavera inizia con i motorini e le iniezioni. Nessuno dormiva, gli scorpioni erano affettuosi, i camini spenti con i ladri in appostamento - il sole a mandorla.

 

Solo acqua navigabile e disinfettata luce riavvolgibile sui citofoni.

Cadevano tutti gli oggetti più piccoli di un movente.

 

Nel riquadro i bidoni incendiati, i bicchieri ripuliti

le stanze dove dormono i maschi nello zolfo

i litigi negli uffici postali. Ci siamo spazientiti.

In poche ore diventiamo quattro sei dodici.

 

Non solo i delfini saltano alle conclusioni.

 

 

9. Che cos’ha di caratteristico la tua poesia, rispetto a quella dei poeti tuoi contemporanei? Si dice che ogni poeta abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle prime pubblicazioni?

 

Sono un serbatoio di ossessioni. Ho sempre cercato di mettere in discussione i risultati raggiunti, per cui ogni libro indaga cammini differenti – e non è solo una questione di temi. Tutta la riflessione umana gira intorno a quattro o cinque argomenti (la morte, l’amore, l’universo, l’ambiente ecc.), lo scarto è costituito dal modo in cui vengono trattati. La fantasia è fondamentale.

 

 

10. La critica più bella e la più brutta che hai ricevuto alle tue poesie.

 

Qualcuno ha parlato di “amori disordinati”, la trovo un’espressione azzeccata. Le critiche negative, se costruttive e argomentate, sono utilissime.

 

 

11. Come avviene il tuo processo di scrittura? In quali ore e luoghi, con quali modalità? Pubblichi ciò che scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti? Che criteri adotti per mettere insieme le poesie di una raccolta? C’è qualcuno a cui fai leggere le tue poesie prima di ogni altro?

 

Prendo appunti nelle ore (e nelle situazioni) più disparate, ma la confezione del testo avviene in un secondo tempo. Dopo una stagnazione. È un lavoro lentissimo, paziente, spesso sonnambulo. Ogni poesia deve essere autonoma. Quando ne raccolgo un certo numero comincio a dividerle in proto-capitoli… Ho pochissimi amici a cui faccio leggere gli inediti. Il pubblico dei reading è perfetto come cavia.

 

 

12. Hai incontrato o incontri difficoltà nel pubblicare i tuoi testi? Se sì quali?

 

Non ho mai avuto problemi a trovare un editore, e credo che il punto non sia certo l’assenza di pubblicazioni, semmai la moltiplicazione di prodotti che hanno ben poco di letterario. Pubblicare non è difficile, difficile è avere una voce personale e un pubblico, soprattutto se il mercato spinge in direzione di letture facili e innocue.

 

 

13. Quale tra le tue pubblicazioni ti ha dato più soddisfazione e perché?

 

Il mio ultimo libro, Ipotesi di felicità (Mondadori 2017), è senz’altro il più complesso e contiene un’appendice con le mie prime poesie. Offre quindi al lettore un quadro completo e variegato del mio lavoro. Le copie sono in esaurimento e la critica ne ha parlato con sensibilità. Ma soprattutto ho avuto riscontri da poeti e artisti che stimo, da lettori incalliti.

 

 

14. Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare un testo poetico o una intera raccolta? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona poesia?

 

Curo da anni una collana per un piccolo editore milanese, Edb Edizioni, e ho sempre scelto testi, anche di esordienti, che dimostrassero un’evidente qualità intellettuale e estetica, la vera poesia non è noiosa, la sua scrittura è rinfrescante e nutritiva. Deve esserci talento ma anche capacità, immaginazione e idee.

 

 

15. Molti utilizzano, per catalogare i poeti e la loro presunta o reale “importanza”, le categorie “poeta maggiore” e “poeta minore”. Esiste realmente tale distinzione? L’editoria è veramente capace di discernere tra queste due categorie?

 

Esiste un sottobosco editoriale che ha poco a che fare con la letteratura, che si nutre di suggestioni alla penultima moda. La poesia minore è sempre esistita (già Montale ne parlava e nel Settecento fioriva) il problema è che oggi i surrogati sono numerosissimi e la società incoraggia versioni anemiche e inoffensive dell’arte. È il trionfo della mediocrità.

 

 

16. Che cosa ne pensi della critica letteraria e dei critici che la esercitano? Ti sembra che siano rispettosi della pluralità delle voci poetiche contemporanee?

 

La critica è scomparsa da tempo, rimangono singole personalità in possesso di sensibilità artistica, pochissime. Il resto è una schiera di professori-poeti, di critici on-demand e di parrocchia che trascurano completamente la ricerca più interessante. Sul web la deriva è evidente. Come può essere affidabile una critica fatta da chi dovrebbe essere criticato e dai suoi sodali?

 

 

17. Puoi citare alcuni poeti che a tuo avviso non hanno avuto adeguata attenzione critica?

 

L’Italia è un paese che ha sempre riservato una pessima attenzione ai suoi artisti. Molti pittori, anche del Secondo Novecento, sono morti in miseria. Tanti sono anche i poeti dimenticati. Pensiamo al grande Sandro Penna, di cui nessuno parla, a Luciano Erba, a Dario Bellezza, a Antonio Porta...

 

 

18. Perché non si legge poesia? Che cosa ne pensi? Secondo te di chi è la responsabilità (se di responsabilità si può parlare): dei poeti, degli editori, dei lettori, dei librai, dei mezzi di informazione?

 

La responsabilità (o quanto meno la complicità) è collettiva e non riguarda solo la poesia. Si legge poco perché non c’è rispetto per la cultura, perché la superficialità predomina. L’apparenza prevale sui contenuti, sul pensiero. Predomina la tecnologia, infatti, non la scienza. L’esempio di molti genitori (dediti alla vacuità e all’arricchimento) è deleterio, come quello proposto da giornali e tv. Esiste una cultura criminale di prevaricazione che sta desertificando le menti.

 

 

 

19. Qui  è possibile leggere tre poesie tratte dal tuo “Ipotesi di felicità”, Lo Specchio – Mondadori, clicca qui per leggere ] ce ne vuoi parlare? Come è nato questo libro?

 

 

È un libro di lunga gestazione, è nato come un percorso dal sogno alla veglia, passando per intermezzi politici e amorosi. C’è anche un bestiario in prosa. E tuttavia il cuore del libro è alla fine, con il poemetto che dà il titolo alla raccolta, un testo difficile sul dolore.

 

 

20. Sempre riguardo a “Ipotesi di felicità”, perché un lettore, che normalmente non legge poesia, dovrebbe leggerlo? Perché, invece, un lettore avido di poesia dovrebbe leggerlo?

 

Il mio libro riflette sulla poesia stessa, per questo può interessare l’appassionato e il neofita, offre continui riferimenti ai poeti che mi hanno preceduto, perché credo fermamente in un senso di “cammino collettivo”. Non è però un libro solo per specialisti, è vario nei temi e nelle forme.

 

 

21. A cosa stai lavorando? Hai pubblicazioni in programma a breve?

 

Sono uno scrittore lento e pigro. Sto lavorando a nuove poesie ma per il prossimo libro ci vorrà tempo.

 

 

22. Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale e in tutta franchezza, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

La rete offre un’opportunità straordinaria e inedita di libertà: mai prima d’ora tante persone hanno avuto la possibilità di esprimere pubblicamente i propri pensieri. Sono fiducioso del fatto che in futuro sapremo gestire meglio tanta libertà, esisterà un galateo della rete per emarginare fake news e haters – che amplificano l’ignoranza di cui si nutre il populismo dell’estrema destra. Sento la necessità di piattaforme autorevoli che sappiano orientare l’internauta con spirito critico.

 

 

23. Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti dare una risposta?

 

Desidero solo ringraziarvi per l’ospitalità.

 

 

24. C’è una domanda che vorresti fare? (a chiunque tu voglia)

 

Le domande delle quali vorrei una risposta le hanno formulate i filosofi: sulla complessità del reale e sulla natura umana.

 

 

25. Infine, le tue preferenze, botta e risposta:

 

il cantante: Ute Lemper o Alfred Deller

il film: per sdrammatizzare, Monty Python’s The Meaning of Life

la pietanza: il risotto alla milanese, ma la lista dei miei piatti preferiti è lunghissima e preferibilmente vegetariana

tre gusti di gelato: sarò scontato, crema, nocciola e pistacchio

l’albero: la magnolia, molto diffusa nei cortili milanesi

il fiore: la gerbera

il paesaggio: lacustre o marino

la città: Milano

la nazione estera: la Spagna

il giorno della settimana: qualsiasi

il mese: un mese autunnale

 

 

Grazie.

*

- Intervista

Raffaele Floris

 

L’autore qui intervistato è Raffaele Floris, terzo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, IV edizione 2018, nella Sezione A (Poesia) con “Macchia cieca; Corredo; Schegge”.

 

 

Ciao Raffaele, chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sono una persona mite, passabilmente educata, silente ma non del tutto introversa, che ama molto ascoltare. Non per questo rinuncio a esprimere un’opinione, tendo ad argomentare per paradossi, spesso con qualche battuta scherzosa che può anche essere male interpretata e generare non poche perplessità.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Ho scelto di formarmi leggendo il più possibile i classici, soprattutto in lingua italiana, data la mia scarsa dimestichezza con le lingue straniere: nella mia piccola biblioteca ci sono tutti gli autori della letteratura italiana. Se poi dovessi citare a livello esemplificativo due poeti che mi hanno “attratto”, direi Giovanni Pascoli per quanto riguarda il secolo scorso (ma qual è per me il secolo scorso? Me lo domando, a volte!) e Franco Loi per i contemporanei. Dopodiché le influenze sono molteplici, siccome ora è più facile rispetto a un tempo la lettura di autori quali Alessandra Paganardi, Ivan Fedeli, Luigi Cannone, Dario Marelli, Gianfranco Isetta, Fabrizio Bregoli, Marco Maggi e molti altri. Molti ma non moltissimi, intendiamoci!  Mi rendo conto di aver citato anche alcuni amici. La diffusione negli anni ’80 del mensile Poesia mi ha consentito di documentarmi anche sui “mostri sacri” quali Milo De Angelis, Luigi Raboni, Elisa Biagini, Isabella Leardini, Maria Luisa Spaziani, e tanti altri, in perfetto disordine anagrafico.

 

 

Secondo te quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Credo molto più marginale rispetto a un tempo, soprattutto se si parla di poeti e se per ruolo s’intende l’eventuale voce in capitolo che possono avere, capace di farsi ascoltare.

Se, diversamente, per ruolo intendiamo un “còmpito” la risposta è più facile: continuare a scrivere.

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storiadi scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ho iniziato a scrivere parodie, tra i diciassette e i vent’anni: alcune di queste sono veramente impubblicabili, se non per una ristretta cerchia di persone, sia per il linguaggio, sia per le situazioni particolari di un microcosmo prima scolastico poi lavorativo. La mia formazione, in questo caso particolare, è stata sui libretti d’opera, i cui testi sono spesso banali e brutti (Francesco Maria Piave, il librettista del melodramma verdiano dell’Italia risorgimentale, era un ubriacone) ma che tuttavia mi hanno dato una padronanza metrica già dagli “esordi”. Nel ’91 ho pubblicato la mia prima raccolta Il tempo è slavina, una silloge di poesie giovanili che per fortuna non ha lasciato traccia. All’inizio degli anni ’90 l’incontro con Mauro Ferrari (ora direttore editoriale di puntoacapo) mi ha permesso di entrare in contatto con diversi altri autori, e, sollecitato anche da questi, nel 2007 ho pubblicato L’ultima chiusa; poi sono venuti La croce di Malta (romanzo breve del 2013), L’òm, l’aşi e ‘pulóu, (detti proverbi e filastrocche in dialetto pontecuronese, 2016) e infine Mattoni a vista, silloge poetica del 2017.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Concepisco una poesia non soltanto come un lavoro a sé stante, ma come un tassello che si incastra in un progetto che tento di definire a priori, ma non è detto che questa aspirazione sia sempre riuscito a realizzare. Mi piace molto l’idea che una silloge poetica sia un po’ come un concept album. Con molte variazioni sul tema, ma tenendo ben presente un filo conduttore. Spesso questo percorso si svolge inconsapevolmente, con una visione che sembra essere razionale ma che è spesso dettata dall’inconscio, o dalla coscienza, se vogliamo, più che dalla ragione.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Raggiungere il lettore anziché i lettori: sperando che le mie parole siano al tempo stesso comprese e amate da ciascuno, non da tutti; l’unanimismo è inquietante, spesso prelude alla fine della scrittura creativa, almeno per come concepisco quest’ultima.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Mauro Ferrari e Ivan Fedeli hanno parlato di un poeta “fuori dal tempo” e di una “poesia gentile”. Ci hanno azzeccato, pur essendo stati sin troppo generosi nei miei confronti. A me piace confrontarmi col verso classico (un tempo il novenario e il settenario, alternati magari a versi liberi; ora prevalentemente l’endecasillabo): per me la forma è sostanza, e quasi sempre l’abito fa il monaco. Ma ovviamente anche questo è un paradosso: se qualcuno s’inquieta mi diverto.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

Fabrizio de André diceva: “Io ho poche idee, ma fisse”. Pur apprezzando, e in taluni casi invidiando altre strade poetiche che sono certo non potrei percorre, le mie ossessioni sono sempre quelle: la vita, la morte, gli affetti, le assenze (i morti credo davvero siano più permanenti di noi); ma soprattutto il tempo, che sembra apparentemente ciclico nei miei lavori (i ritorni stagionali, gli amori, la campagna assolata delle estati roventi o la desolazione autunnale) ma che invece è un tempo-freccia. “Non c’è mai niente che ritorna davvero” è l’unica autocitazione che mi permetto qualche volta di usare.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

Ho provato a scrivere un romanzo breve, La croce di Malta appunto, per verificare la mia capacità di scrittura, esclusi gli articoli per diversi giornali locali o brevi riflessioni sulle poesie di altri autori. Ma capisco che mi manca il “passo” del narratore: perché se la prosa è anche lavorare abilmente con la fantasia, la poesia è essenzialmente verità. Non temo questa parola, sebbene oggi mi sembra erigersi la dittatura (o il totem)del dubbio, che rassicura perché così si riesce a far parte del “gruppo”.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Praticamente tutto. Questa pianura è il titolo di una mia poesia, ma quest’espressione ricorre diverse altre volte, sia ne L’ultima chiusa, sia in Mattoni a vista.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittoresi trova a cavallo di due mondi?

 

L’immaginazione personalmente la lascio alla prosa. La poesia immagina quando “vede oltre”: è questione di lenti; c’è chi non vede al di là del proprio naso e può talvolta rifugiarsi nella retorica, c’è chi intravede una “super-realtà” invisibile agli altri, come diceva Lisa Morpurgo, arguta astrologa ma anche scrittrice di valore. Ma non so se esistono i due mondi: qualche volta l’immaginazione è autentica e preziosa profezia, qualche volta è follia, il più delle volte è banale ingenuità.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Persone che, soprattutto attraverso i social, hanno ripreso ad avere qualche dimestichezza con la poesia: molti non credo abbiano biblioteche memorabili, però il fatto di poter scambiare impressioni anche con i classici “non addetti ai lavori” è qualcosa che mi conforta e allieta. Se poi sono persone giovani, ne sono doppiamente e favorevolmente stupito.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Ma certo! In poesia il linguaggio, per piano che sia, non si può esimere da certi dettati anche estetici, quindi è ancora questione di lenti: chi legge usa le sue, ed è legittimo che veda (e senta) quello che altri non vedono, ma che riconosce in sé come autentico.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Non ho la passione, né forse la capacità, di affrontare un trattato. Facendo parte tuttavia della giuria del concorso “Gozzano” di Terzo (AL), ho scritto le motivazioni per la sezione “poesia singola inedita”: gli autori premiati, bontà loro, hanno apprezzato anche al di là della semplice cortesia personale. Gli indicatori che utilizzo sono quasi una bussola: dov’è il nord? Ovverosia, qual è il tema centrale? Dove sono gli opposti? Una poesia, o un libro di poesie, dovrebbe avere testi che “galleggiano”, con levità, quasi in assenza di gravità (un po’ come il canto gregoriano, che non ha attrazione tonale), dove le riprese del tema sono riproposizioni e variazioni più che ripetizioni ossessive, talora ribadite con forza. Mutuando un’espressione musicale, si potrebbe affermare che la poesia “non risolve” in modo tradizionale, e tuttavia non può essere neppure “dodecafonica”. Milo De Angelis in questo è un maestro, ma inviterei anche a leggere alcune liriche di Gianfranco Isetta (sebbene di lettori, nell’ambito del blog Alganews, ne abbia già più che a sufficienza! Ma di questo sono lieto, beninteso).

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Ho una ritrosia innata a proporre i miei testi a chicchessia, non per spocchia o per timore di critiche anche severe (vivaddio!), ma semplicemente perché mi chiedo perché un critico letterario, un blog che ospiti autori famosi e bravi, debba prendere in considerazione anche me. Ma forse è soltanto pigrizia.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

No, per i motivi che spiegavo poc’anzi: ma le critiche sono benvenute. Sempreché non si autodefiniscano “costruttive”, termine che difficilmente riesco a comprendere. Ci sono valanghe di parole vuote che ogni giorno ci travolgono: preferisco una stroncatura netta a infinite perifrasi lessicali di difficile decrittazione. Anche una buona critica ha il dovere, come la buona poesia, dell’autenticità, della ricerca del vero e del bello: non può essere autoreferenziale, magari attingendo a termini abusati e omnicomprensivi.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Senza margini d’azzurro è il titolo di una silloge completata pochi mesi fa e che vorrei pubblicare prossimamente. Ho iniziato una nuova silloge, il cui titolo mi piacerebbe fosse Gli occhi della guerra, dal momento che è ispirato all’omonimo blog www.occhidellaguerra.it; ma per questo è necessario il consenso di quest’ultimo: quando riuscirò a mettermi in contatto li ragguaglierò su questa mia ambizione. Spero abbiano la percezione di considerare tutto questo come fonte d’ispirazione e non come un “mezzuccio” per racimolare una qualche notorietà.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Sono l’antitesi al salutismo: le mie passioni sono tutte sedentarie. Un tempo credevo di avere qualche velleità come musicista, ma mi rendo conto che sarei diventato un pianista mediocre, anche se la passione per la musica rimane: non tanto per l’ascolto, ma per la lettura del brano sullo spartito, che è una soddisfazione straordinaria. Inoltre, mi rallegro quando è necessario il mio apporto per creare un testo sulla base di una melodia già predisposta, sia perché il testo ancora non esiste, sia perché è in lingua straniera: in questo caso non si può assolutamente parlare di traduzione, in quanto la musica ha le sue esigenze, evidentemente ineludibili, e il testo deve adattarsi con le sillabe alle note.

Poi ci sono le passioni più comuni ma ugualmente importanti: la passione per gli animali (ma che non posso tenere prigionieri in casa, quindi mi limito a guardarli ogni tanto), la passione calcistica (sono interista, quindi nella sofferenza redento). La fede cristiana, che cerco di praticare nella comunità più che di sfoggiare come fosse un foulard. La lettura di Tex Willer, che considero la saga più paradossale, originale e suggestiva della letteratura popolare. M’interesso di molte altre cose, ma non credo siano d’interessante lettura.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Il mio principio è innanzi tutto quello di rispettare le opinioni della giuria anche quando arrivi ultimo. Questa è la prima cosa. Ogni pressione, ogni discussione postuma sarebbe odiosa, oltreché insignificante e meschina. La seconda è “non ringraziare i giurati”, ci pensi l’organizzazione a ringraziarli! (Anche questa è ovviamente una battuta). Inoltre, un argomento non banale è l’obiettivo di un possibile autofinanziamento, dal momento che la poesia può contare, salvo eccezioni, su vendite esigue. Se poi la giuria è composta da critici e autori di riconosciuta competenza, c’è anche una piccola, momentanea soddisfazione personale.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

La rete è un mezzo, così come l’editoria elettronica, per raggiungere un fine, che è la diffusione della scrittura poetica. Ho qualche perplessità non tanto sul mezzo, che mi pare efficace, adeguato ai tempi e accessibile a tutti, ma sul numero esorbitante di Pagine, Blog, premi letterari, riviste on-line che m’induce a pensare sia statisticamente impossibile un livello qualitativo di alto profilo per tutte queste realtà. Non mi riferisco certo a LaRecherche.it, basti guardare il nome dei giurati, ma credo occorrerebbe un trip advisor anche per la libera scrittura in rete. Talvolta la poesia avrebbe bisogno di fischi, non soltanto di applausi. Persino Pavarotti fu fischiato al Metropolitan!

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Non ora: ci saranno altre occasioni, inoltre non ho tutte queste domande e risposte che mi assillano. Guardo l’orologio: sono già le 2.20. Anche Marzullo è a dormire da un pezzo!

 

 

Grazie, Raffaele.

 

Grazie a voi.

 

*

- Intervista

Luigi De Rosa

 

L’autore qui intervistato è Luigi De Rosa, terzo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, IV edizione 2018, nella Sezione B (Racconto breve) con “La leonessa”.

 

 

Ciao Luigi, chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sono prima di tutto un libraio, professione che prima di me hanno esercitato mia madre, mia nonna e il mio bisnonno. Sono anche un appassionato esploratore di foreste; una delle esperienze più belle che amo vivere, quando ho del tempo libero, è quella che i giapponesi chiamano shinrin-yoku (bagno nella foresta).

In fondo libri e alberi vanno letti, entrambi hanno molto da raccontarci, e a pensarci bene l’etimologia di “libro” ci insegna che con la parola “liber” anticamente si indicava proprio la parte interna della corteccia arborea; la parte più importante e vitale di questi esseri meravigliosi che ci nutrono, ci proteggono e ci permettono di respirare dalla notte dei tempi. In sintesi, sono nato fra i libri, spero di potermi permettere un giorno una vita in perenne contatto con la natura.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

È inutile dire che come libraio ho la fortuna di leggere di tutto, non sono uno snob, credo che ogni autore abbia qualcosa di originale da condividere. Certo ho delle preferenze, amo profondamente Ernest Hemingway, Jonathan Frenzen, Philip Roth, Cormac McCarthy, Italo Calvino, Alberto Moravia, Dino Buzzati, Ennio Flaiano, José Saramago e infine Chuk Palahniuk, questi sono gli autori ai quali non rinuncerei mai.

 

 

Secondo te quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Lo scrittore geniale coglie il segno dei tempi, individua le pecche della società che lo circonda e, eventualmente, indica una delle possibili strade alternative per un miglioramento collettivo della qualità della propria e altrui esistenza.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Fino al compimento del mio quarantesimo anno di età ho sempre e solo letto e, avendo la fortuna di fare il libraio, ho letto tantissimi autori classici e non, di ogni genere letterario. Poi qualche anno fa, quasi per gioco, ho partecipato al mio primo concorso letterario “Il Racconto nel cassetto”, organizzato da Cento Autori. Avevo una storia nel cuore che volevo narrare e alla fine sono stato premiato anche come primo classificato. Dopo la partecipazione al concorso di Cento Autori ho provato a scrivere ancora, sempre scavando a fatica dentro me stesso, ho tirato fuori un altro racconto con il quale ho vinto “Racconti nella rete” organizzato da LuccAutori. È stata una grande soddisfazione perché ho capito che le cose che scrivevo davano emozioni anche agli altri non solo a me stesso. Così, come suggerisce Raymond Carver, scrivo quando ho qualcosa da dire.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Quando mi imbatto in un personaggio, mi identifico totalmente in lui, divento lui e alla fine scrivo come se fossi lui, un po’ quello che succede agli attori che seguono il metodo Stanislavskij.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Scrivo per emozionarmi e per emozionare. Le emozioni condivise con altre persone che hanno la tua stessa sensibilità sono impagabili, mi fanno sentire vivo.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Sinceramente non so rispondere a questa domanda, posso solo dire che sono ancora alla ricerca di un mio linguaggio, un modo di scrivere nel quale identificarmi totalmente.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

Amo il riscatto, amo la resilienza, amo i miei personaggi che sono ai margini e che, senza arrendersi, cercano una rivincita alle ingiustizie della vita.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

Sì, scrivo anche poesie. Ho una stima profonda per i poeti, proprio per questo motivo mi ritengo, senza falsa modestia, un poeta mediocre ma non rinuncio per questo a buttare giù qualche verso quando il cuore o la pancia mi inducono a farlo.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

All’inizio scrivevo molto della mia terra di origine, ora non più perché sento il bisogno di liberarmi da certi luoghi comuni. Voglio dire, io sono di Sorrento e che il mare luccica e tira forte il vento su una vecchia terrazza davanti al golfo di Surriento l’ha giàscritto un grandissimo autore italiano come Lucio Dalla, io voglio scrivere altro sulla mia terra per darne la mia particolare versione.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Sì, è come scrivete voi, l’autore è a cavallo di due mondi. A questo proposito mi viene in mente la serie TV in onda su Sky “Westworld”. Il nostro mondo, intendo dire quello creato dalla fantasia di noi scrittori, è ricco di personaggi che come quelli di Westworld cercano paradossalmente di fuggire nel mondo reale. Qualcuno fra i personaggi immaginari riesce nell’impresa, penso al Piccolo Principe di Saint’Exupery che è diventato il compagno di viaggio “reale” di milioni di lettori. È fantastico tutto questo!

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

I miei lettori sono soprattutto i miei amici o gli addetti ai lavori con i quali scambio idee e opinioni un po’ su tutto.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Beh non c’è nulla da aggiungere. È come dice Proust, la lettura anche per me oltre che un piacere è anche un esercizio molto faticoso di autoanalisi.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Ogni tanto mi capita di fare recensioni ma è un’attività che non amo; un mio amico mi definisce il “Vincenzo Mollica” dei critici letterari perché stroncature non sono capace a scriverne anche se molti testi che ho letto le avrebbero meritate. Quello che distingue un grande scrittore da uno mediocre è, secondo me, la capacità dell’autore vero di sviluppare una lingua propria e soprattutto la chiarezza e la semplicità nell’esposizione dei concetti. Penso a Domenico Rea, che in un suo breve scritto paragona il lavoro di scrittura ad un’anatra che nuota nello stagno. Noi osserviamo l’uccello che si sposta sul pelo dell’acqua con grazia ed eleganza dimenticando che sotto di esso le zampe pinneggiano faticosamente per permettergli movimenti così fluidi. Con questo intendo dire che la scrittura di un grande autore è sempre figlia di tanto lavoro che noi lettori spesso ignoriamo.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

L’anno scorso mi sono classificato terzo in un concorso letterario “88.88” la cui premiazione si è tenuta al Salone del Libro di Torino; il mio racconto descriveva la triste vicenda di alcuni bambini che vennero abbandonati (siamo nell’Italia degli anni ‘30) dalle proprie madri in stato di indigenza nelle mani di medici e infermieri di “Villa Azzurra”, manicomio di Grugliasco. Gli operatori sanitari di quel manicomio, fu appurato da un’inchiesta giornalistica dell’Espresso negli anni ‘70, invece di mostrare pietà per i piccoli, li sottoposero alle stesse torture con le quali “curavano” i degenti psichiatrici. I giurati dissero che uno scrittore sorrentino li aveva sorpresi e commossi raccontando con intelligenza e sensibilità un dolore tutto torinese.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Sì, una professoressa diceva che spesso scrivevo cercando il consenso del lettore. Ho smesso di farlo. Probabilmente sono diventato più sicuro dei miei mezzi. E poi devo aggiungere: la punteggiatura, il mio tallone d’Achille. Non potete immaginare l’invidia che provo per Saramago che ne ha inventata una tutta sua e si è rivelata anche un’idea vincente.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Sto attraversando un momento particolare della mia vita che non mi permette di occuparmi come vorrei della scrittura, ho un romanzo in testa ma non ho avuto, come dire, ancora la forza di metterlo su carta.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Amo la pittura, passo ore e ore a studiare quadri o installazioni ma non ho preferenze, per me Caravaggio o Fontana sono geni, in modo diverso, ma sono puri geni che meritano lo stesso rispetto e lo stesso ammirato studio.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Ho partecipato perché avevo un racconto nel cassetto che volevo condividere. Ho studiato il vostro concorso, mi sono fatto l’idea che siete persone serie e competenti e ho inviato il testo. Beh, che altro posso aggiungere sui concorsi letterari; ci sono di quelli studiati a tavolino per spillare soldi a noi aspiranti scrittori, che spesso siamo mossi solo da un patologico narcisismo, e quelli fatti da persone perbene che vogliono fare Cultura in un paese che alla prima crisi economica rinuncia immediatamente all’acquisto di libri, dei biglietti d’ingresso a teatro o di quelli per i musei.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Scrivere in rete è una bella esperienza, almeno lo è stata per me. Mi è capitato anche in questo campo di stringere amicizia con persone con la mia stessa passione e ho conosciuto anche scrittori molto competenti che mi hanno dato utilissimi consigli per migliorare. Certo, non è tutto rose e fiori, mi viene in mente la pirateria, oggi sempre più spesso ritrovo testi protetti da copyright offerti gratis senza alcuna autorizzazione, questo rappresenta un vero e proprio furto oltre che una mancanza di rispetto nei riguardi del lavoro altrui. Credo che bisognerebbe sedersi a tavolino e trovare il giusto compromesso perché se è vero che la Cultura è giusto che venga fruita da quante più persone senza distinzione di classe o ceto, è altrettanto vero che il lavoro intellettuale non deve essere svilito trattandolo come l’aforisma a sorpresa nella carta regalo di un cioccolatino, non so se sono stato chiaro.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Che fine faremo noi librai? L’editoria è in crisi, la grande distribuzione e i grandi gruppi on-line stanno spazzando via le piccole e medie librerie, eppure io sono convinto che noi librai abbiamo dato molto alla cultura di questo Paese e meriteremmo più rispetto. Personalmente ho sempre avuto come esempio, al quale aspirare, il triestino Umberto Saba che, oltre che un grande poeta, è stato anche un attento libraio. Tutto questo patrimonio rappresentato da chi i libri li valorizza e li sa consigliare che fine farà?

 

 

Grazie, Luigi.

 

*

- Intervista

Elisabetta Cipolli

 

L’autrice qui intervistata è Elisabetta Cipolli, seconda classificata al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, IV edizione 2018, nella Sezione A (Poesia) con “Flehmen”. Fotografia di Irene Carmassi.

 

 

 

Ciao Elisabetta, chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sono nata e vivo a Livorno, per molti anni mi sono occupata di mass media e telecomunicazioni, e recentemente ho maturato la scelta di dedicarmi a tempo pieno alla composizione ed alla scrittura.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formata e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Nella casa dove sono cresciuta c’era, e c’è ancora, una grande libreria. Già prima che per me iniziassero le scuole elementari mio zio, appassionato di classici, e mio padre, con la sua predilezione per l’epica e la fantascienza, mi hanno tramandato l’amore per leggere e scrivere. Tra le mie prime letture alcune raccolte di filastrocche, le favole dal mondo, le novelle di Hans Cristian Andersen, ed i racconti di Jules Verne. La maestra riuscì poi ad accrescere in me l’attenzione alla poesia e alla natura. Per l’eco che ancora risuona nelle mie scritture degli autori conosciuti da bambina sento di dover ricordare Saffo, Gianni Rodari, Tali Sorek, Trilussa, Cangillo, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Mario Lodi, René Guillot, Italo Calvino, Anna Frank e Karl Bruckner. Più tardi è avvenuto l’incontro con Dante e gli altri Toscani, con Giacomo Leopardi ed Eugenio Montale, con Johann Wolfgang Goethe e Bertold Brecht, Rainer Maria Rilke, Guillame Apolinnaire, i poeti maledetti, Jacques Prévert e Antonin Artaud. La letteratura del secolo scorso ho potuto approfondirla negli anni delle scuole superiori, grazie all’attenzione della docente di lettere alla mia volontà di scrivere, ed è stata molto importante per i miei elaborati giovanili. Tra le indomite influenze di quel periodo impossibile non citare Elio Vittorini, Luciano Bianciardi, la Beat Generation, Anaïs Nin e Henry Miller, Charles Bukowski, George Orwell, Ray Bradbury ed altri autori distopici pubblicati nella mitica collana Urania ed in tante fanzine. Nello stesso periodo ho scoperto anche la mia passione per la produzione saggistica, spaziando da Machiavelli a Michel Foucault. Gli altri scrittori che è opportuno nominare in queste liste post-moderne, che mi rammentano un po’ quelle di Pier Vittorio Tondelli, sono: Franz Kafka, Fëdor Dostoevskij, Jack London, Elias Canetti e José Saramago.

Successivamente, è stata fondamentale per la mia riflessione, circa la musicalità e il lessico poetico, l’esperienza del movimento letterario Nuyoricano, ed in particolare l’opera di Miguel Piñero. È così che mi sono avvicinata alle mie più recenti ricerche sui campi comuni tra composizione musicale e poetica; col tempo si sono aggiunti l’ascolto della slam poetry e del rap e le letture di molte autrici, dalle più remote alle più prossime come Alda Merini, Maria Luisa Spaziani, Gloria Fuertes, Sylvia Plath e molte altre autrici ed autori esordienti ed emergenti, come ad esempio Viola Barbara e Daniele Cerrai, che amo leggere anche in rete.

 

 

Secondo te quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Sintetizzando molto direi che è l’insieme degli sforzi per giungere ad una narrazione onesta, è dare voce ai silenzi ed alle possibilità.

Mi vengono in mente anche le parole di Jean Cocteau: “So che la poesia è indispensabile ma non saprei dire per cosa”. Di questa sorta di indicibile ho scritto anch’io in un testo mai pubblicato, ma che qui mi appare pertinente, dal titolo“Lettera agli editori”eche ha quest’incipit: “Non vi so dire la fatica per portare la poesia nel mondo, so dire dello iato e del dittongo, del metro e di questo mestiere, ma dire non so della fatica del lavoro del poeta, quelle parole non sono state inventate, è come la forza di infinite miserie da sillabare ed esser reincarnate.”

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittrice, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ho iniziato a scrivere le mie prime filastrocche e canzoncine quando ancora non andavo a scuola. Mi piaceva molto ed ancora mi piace trascorrere così il tempo. I miei primi riconoscimenti risalgono agli anni della scuola superiore, quando mi fu proposto di partecipare a diverse iniziative dedicate alla scrittura, di cui ancora conservo memorie bellissime. In particolar modo ricordo l’edizione del 1994 del Premio Intervallo, promosso dal Liceo classico Piccolomini di Siena, quando fui premiata insieme ad un altro compagno di classe, Jorge Mazzoni, che come me ancora scrive. Nello stesso anno scrissi “Altrove”,che raccoglieva sette brevi biografie di donne non celebri; dopo varie peripezie editoriali, e visto che ero ancora minorenne, il marito di mia madre decise per la stampa e la rilegatura di qualche copia casalinga, introducendomi senza volere all’editoria indipendente. Da lì iniziò il mio viaggio nell’autoproduzione e traendo dalle mie scritture giovanili ho poi autopubblicato, in forma cartacea e digitale,“Versi Scelti” (1981-1991); “Istituto Tecnico Commerciale” (1990-1994); “La fine del Mondo” (1995-1999); “L’oggettistica ci salverà” (2000-2003).

Dal 1999 al 2004 ho lavorato in un’emittente radiofonica, un’esperienza di vita unica che porto nel cuore assieme ai mei colleghi del periodo, e dove ho avuto modo di misurarmi con la scrittura di testi per alcune trasmissioni. Di queste vorrei richiamare “Tanti Auguri” con Barbara Goti e “Radio Utopia”ideata da Sandro Nullo Vincenzoni Sainati. Dopo la chiusura della radio e qualche breve esperienza all’estero presi ad occuparmi di video, di musica, di cinema e di teatro. Scelsi così di seguire dei corsi ed anche di impegnarmi in alcune realtà del cosiddetto underground livornese, proprio quest’anno tratteggiato in una serie di interviste nel libro “Voci potenti e Corsare”, edito da Agenzia X e scritto dal mio concittadino Luca Falorni, in cui ho potuto raccontare queste avventure. Fondamentali per la miaformazione ed i mei sconfinamenti in altri ambiti della scrittura sono state infatti le mie esperienze con i collettivi TiltTV e Mob-Com Autoproduzioni Video,tra le principali video-inchieste prodotte: “A Livorno non c’è nulla?”(2005), “La Rivoluzione Individuale” (2006), “100%Precario”(2007), e del Teatro Officina Refugio, una lunga esperienza che mi ha dato la possibilità di misurarmi anche con l’attorialità, la drammaturgia e la composizione musicale insieme ad Alessandra Falca, Michela Lomi, Maria Giovanna Morelli, Emiliano Dominici, Paolo Spartaco Palazzi, Selvaggio Casella e Charlie Atomix, solo per dirne alcuni anche se vorrei ricordali tutti, e per la quale è praticamente impossibile dare una lista esaustiva dei lavori svolti.

Appassionata fin dai primi tempi universitari al tema della bioetica, una decina d’anni fa mi sono avvicinata allo studio della filosofia e della sociologia. In particolare mi sono dedicata alla metodologia socioanalitica, partecipando ai corsi promossi dall’Università Popolare Alfredo Bicchierini e ad alcuni cantieri narrativi che sono stati successivamente pubblicati dalla cooperativa editrice Sensibili alle foglie: un incontrotra i più importanti del mio percorso. Con questa realtà editoriale ho in seguito pubblicato come coautrice “Elettroshock”(2014) e come autrice “Radici Scalene” (2016) in cui sono confluite le scritture rimaste escluse da altre autopubblicazioni: “Lapis & Rinoceronti” (2003-2006), “Frottole al Telefono” (2005-2015) e “Falsa distica livornese” (2015).

Alcuni dei miei testi sono stati pubblicati in alcune antologie, quelle che mi vengono in mente con particolare emozione sono “Il Federiciano 2013” – Aletti Editore e “Uovo alla Pop. Il catalogo” – Vittoria Iguazu Editora – 2017.

Dal 2014 lavoro ad un progetto dal titolo “Solstizi che durano un lustro”, di cui ho già stampato i capitoli “Le parole sono molotov”(2014), “Poesie Aliene” (2015), “Poema: Scema” (2016), “Carattere Torrentizio”(2017).

 

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Avviene in vari modi. A volte è inaspettato, altre invece è suggerito da molte letture, dall’ascolto, dall’incontro, dalle riflessioni e gli spostamenti, dalle conversazioni e dai confronti.

Altre volte ancora semplicemente scrivo.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Per dirla con Walt Whitman: “Contribuire con un verso al potente spettacolo della vita”.

Può suonare ambizioso ma, sinceramente, per me è un esercizio di umiltà quotidiana.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Per me, forse, l’intenzione quasi decostruzionista, ovvero alla ricerca della profondità semantica e della possibilità che ha la scrittura di essere moltiplicatrice della realtà, ma a pensarci bene forse non c’è niente di caratteristico in questo.

Dagli altri sono stati sottolineati alcuni aspetti ma non saprei dire se posso definirli caratteristici.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

I temi che da sempre ricorrono sono relativi al Tempo, al Cosmo, alla Natura ed a noi che la abitiamo con le nostre istanze di libertà e felicità. Altri argomenti di cui ho spesso trattato riguardano i fenomeni connessi alla parola.

Col passare del tempo si verifica un certo grado di mutazione fisiologica della scrittura, dicendo questo penso di descrivere un sentore comune, nel mio caso è necessario aggiungere che ha rappresentato una svolta convivere con un problema alla vista. Il mio scrivere è forse divenuto un gesto altro e un altro gesto e si è diretto verso le sinestesie.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

Si, come già detto, scrivo anche in prosa.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Assai.

Credo sia naturale. Il mare, il vento, il sale... sono le mie radici diseguali, scalene.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

La scrittura è stata anche descritta come una forma benigna di dissociazione, così come qualsiasi altra espressione artistica. A mio avviso il gesto creativo, nel suo tentativo di strappare dal Niente, è sempre un movimento tra due mondi.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

I lettori che conosco direi che sono parecchio eterogenei ed è impossibile racchiuderli in una categoria; quando posso converso con chi ha avuto la pazienza di leggermi, anche attraverso la rete. Altri ancora non ho avuto modo di conoscerli ed è questo infatti uno dei miei progetti per il futuro.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Sono profondamente in accordo con le parole di Proust, e sento di allargare questa riflessione anche alle altre espressioni artistiche. L’arte è una lente; è un caleidoscopio.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

L’indicatore principale è l’emozione. O meglio le emozioni. Questo mi sento di dire come lettore.

Mi capita di presentare diversi libri, quindi più che interventi critici direi che principalmente tratto l’introduzione dei temi affrontati da altri autori in modo da lasciare piena libertà critica ai presenti ed ai lettori.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Ne ho almeno due a pari merito:

“Una poesia in bilico tra l’elegia e l’anomalia”, della Professoressa Fiorella Pagni;

“Espressionista del Caos”, dell’esperta in comunicazione Margherita Luperini.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Un amico e poeta, Aldo Galeazzi, tempo addietro, mi disse di approfondire lo studio della metrica. Ancora lo ringrazio. Ricordo poi con infinito affetto le conversazioni con Patrizia e Lorenzo Rodomonti, Aliroots, Alessandro Granata Seixas, Edo De Maio, con gli Stato Brado ed altri gruppi della mia città, con l’immenso Giuliano Nannipieri e con Alessandro Orfano, Sara Belleggia, Viola Barbara e Andrea Apostolo che hanno scritto dei miei lavori.

Mi hanno colpito inoltre alcune critiche, mosse a commento proprio della premiazione de “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, circa l’attenzione al linguaggio ed allo stile, questioni che cerco sempre anch’io di tenere ben presenti. Poi va da sé che non si può piacere a tutti.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Attualmente sto lavorando, assieme alla sociologa Eleonora Zucchelli, ad una pubblicazione sul tema del biopotere, proposto nel Percorso Filosofico MaloXX , e al quinto e penultimo capitolo di “Solstizi che durano un lustro”.Mi auguro poi di proseguire un altro progetto già abbozzato.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

I miei affetti più cari.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Dopo le esperienze scolastiche non avevo più partecipato ai premi letterari. Nel 2013, durante un periodo di convalescenza, ho sentito la necessità di confrontarmi di nuovo con il panorama letterario italiano. Non partecipo a molti concorsi, ma ho trovato nel regolamento del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, forti garanzie di imparzialità e dunque di libera critica. Questi a mio avviso sono i giusti elementi, che ogni premio dovrebbe avere, per svolgere concretamente il ruolo culturale ed artistico che si prefigge.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Vorrei porgere i miei complimenti a tutte le autrici e a tutti gli autori de LaRecherche.it, che leggo spesso e volentieri ed invitare alla prosecuzione di quest’esperienza.

Sono sempre stata a favore di tali modalità di scrittura ed ho iniziato ad adoperarle da giovanissima quando la rete muoveva i primi bytes. Permettono conoscenza e relazione e possono rappresentare uno scenario dell’arte futura.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

“L’ultimo che ricordo ero al mare.”

Questa è la risposta.

Quanto alla domanda, mi piacerebbe che al mattino mi chiedessero dei miei sogni - così come facevano i Senoi della Malesia conosciuti grazie a Nicola Valentino - iniziando la giornata con la narrazione collettiva dei viaggi onirici, per un allontanamento dalla dimensione individuale del sogno e dalle paure e per un concreto abbraccio con ogni ispirazione.

 

 

Grazie, Elisabetta.

  

Grazie a voi.

*

- Intervista

Davide Cortese

 

L’autore qui intervistato è Davide Cortese, secondo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, IV edizione 2018, nella Sezione B (Racconto breve) con “L’uovo”. (Fotografia di Alessia Siano)

 

 

Ciao Davide, chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Per presentarmi mi affiderei a queste parole di Walt Whitman: “Mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini”. Sono essenzialmente un inquieto, una persona complessa che ama però le cose semplici: il tempo speso con gli amici, la famiglia, i romanzi, l’arte, il cinema, i viaggi.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Sono soprattutto poeti: Rimbaud e i maledetti dell’Ottocento francese, Dino Campana, Emily Dickinson, Dylan Thomas, Walt Whitman, i poeti della Beat Generation, Pasolini. E poi gli scrittori: Calvino, ancora Pasolini, Parise e, tra gli stranieri, Hesse, Genet, Amado, Kerouac, Carver e molti altri.

 

 

Secondo te quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Per capire quanto sia importante, oggi come ieri, la figura dello scrittore, basta immaginare per un attimo come sarebbe il mondo senza i romanzi, senza i racconti, senza la loro inesauribile miniera d’umanità. Sarebbe un mondo nel quale poter vivere in felicità e in pienezza? Non credo affatto.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

L’amore per la scrittura è nato quand’ero piccolo: ho iniziato a raccontare e a raccontarmi sui banchi di scuola, grazie agli stimolanti temi assegnati dalla mia maestra, l’indimenticabile signorina Tonuzza. I primi testi erano piccoli racconti. Poi, da adolescente, ho cominciato a scrivere versi. A ventiquattro anni ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie: “ES” (Edizioni Edas), alla quale sono seguite le sillogi: “Babylon Guest House” (Libroitaliano), “Storie del bimbo ciliegia” (Autoproduzione), “Anuda” (Aletti), “Ossario” (Arduino Sacco Editore), “Madreperla” (LietoColle), “Lettere da Eldorado” (Progetto Cultura) e “Darkana” (LietoColle). Ho pubblicato anche due raccolte di racconti: “Ikebana degli attimi” (Firenze Libri), “Nuova Oz” (Edizioni Escamontage) e un romanzo breve: “Tattoo Motel” (Lepisma).

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Non mi siedo mai alla scrivania con l’intenzione di scrivere. Le idee mi catturano quando meno me l’aspetto, per strada o in qualsiasi altro luogo. Ovunque io sia, allora, mi fermo e scrivo. I versi o le storie da raccontare mi arrivano all’improvviso, come inattese missive da un mondo lontano e misterioso, come lettere da Eldorado.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Credo che lo scopo della mia scrittura, in versi e in prosa, sia unicamente il viaggio dentro al mio mistero, l’esplorazione di una delicatissima complessità, l’indagine, lo scavo di un buio alla ricerca di un volto da portare alla luce e da salvare dall’oblio.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

La “consapevole distanza dal presente linguistico”, rilevata dal poeta e critico letterario Manuel Cohen. Di questa distanza, nella sua prefazione alla mia silloge “Darkana”, Cohen dice: “Non è casuale ed è una scelta voluta, precisa ed insistita, consapevole e rischiosa. Come se l’autore ci tenesse a rimarcare il proprio dissenso, o piuttosto, la propria disappartenenza a una lingua della poesia contemporanea comunemente connotata da formularità lineari e da medietà tonali e sintattiche spesso tendenti a una comunicazione tanto semplificata quanto ovvia, e spesso sconfinante nelle lingue di sabbia o di plastica della comunicazione e della prosa più adiacente o prossima”.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

Credo che il tema del tempo e quello della morte siano tra i più presenti nella mia scrittura, sia in poesia che in narrativa. Penso che l’evoluzione della mia scrittura sia indissolubilmente intrecciata alla mia evoluzione come persona. Tuttavia, non saprei definire questo genere di evoluzione, né qualificarla in alcun modo.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

La mia terra di origine è determinante per la mia scrittura. Io sono dell’isola di Lipari. Tutto ciò che so della vita l’ho imparato alle Eolie: sulla mia isola ho conosciuto la bellezza, l’amore, il dolore, l’arte, la poesia. Le Eolie, la mia Lipari, il mare, costituiscono la mia identità. Tutta la mia scrittura è impregnata di luce eoliana. Le Eolie sono presenti nei miei versi anche quando non sono esplicitamente nominate, sono presenti nella conturbante natura a cui do spesso espressione in versi e in prosa, nella natura che è per me incessante fonte di ispirazione e di stupore. La mia idea di scrittura è avvolta da un’aura di mare, il mio mare, e intesa come viaggio mitico alla scoperta di se stessi.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Immaginazione e realtà sconfinano l’una nell’altra, incessantemente. Il punto in cui si incontrano, si mescolano e si dissolvono costituisce la landa misteriosa in cui inizia l’avventura di chi scrive.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Oltre alle persone care ci sono dei lettori sconosciuti, quelli preziosi perché autenticamente imparziali nel giudizio. Spesso mi contattano attraverso i social network per comunicarmi le loro impressioni di lettura, dando vita ad un significativo e proficuo scambio.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Sono assolutamente d’accordo e non potrei dirlo meglio di Proust.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Valuto come buona la scrittura che mi conquista lentamente ma inesorabilmente, la scrittura che mi avvolge in un’aura di mistero, quella nella quale avverto un presagio che mi guiderà fino all’ultima pagina. Non ho mai fatto interventi critici: mi piace di più scrivere storie, tutto qui.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Mi hanno detto spesso che la mia scrittura è “cinematografica”. Una volta, con un azzardo, l’hanno addirittura definita “lynchiana”. Da amante del cinema e di Lynch, mi ha fatto, naturalmente, molto piacere.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Certamente, sì. Di alcuni racconti mi è stato detto che erano “farraginosi”. Le critiche negative sono, in ogni caso, quelle dalle quali si trae maggiore profitto.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Sto raccogliendo in un piccolo volume alcune poesie che ho scritto nel mio dialetto: il dolce e musicale eoliano.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Disegno (ho illustrato alcuni libri) e faccio parte di un gruppo performativo chiamato “Artisti innocenti” col quale dal 2013 mi diverto moltissimo a dare vita a bizzarre azioni artistiche.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Volevo semplicemente scoprire che riscontro avrebbe avuto il mio testo. So che tutte le opere inviate al Premio “Il Giardino di Babuk” sono sottoposte alla giuria in maniera del tutto anonima e questo, ovviamente, garantisce l’assoluta sincerità del giudizio. È stata una grande soddisfazione essere premiato per un mio racconto. Un premio è certamente uno stimolo a continuare il percorso intrapreso con maggiore smalto.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Con gli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it voglio solo complimentarmi. Le vostre sono sempre ottime proposte e le apprezzo molto, così come apprezzo la libera scrittura in rete e l’editoria elettronica.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Desidero solo manifestare tutta la mia stima e la mia gratitudine a “LaRecherche.it”.

 

 

Grazie, Davide.

 

*

- Intervista

Federico Zucchi

 

L’autore qui intervistato è Federico Zucchi, primo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, IV edizione 2018, nella Sezione A (Poesia) con “Strade tagliafuoco”.

 

 

Ciao Federico, chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Buongiorno, ho 38 anni, lavoro come insegnante alle scuole medie, scrivo quando riesco, mi ostino a giocare a calcio nonostante gli acciacchi e cerco di tenermi più vicino possibile a quanto amo di quello che c'è.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

I primi libri che ho amato sono stati “La Guerra dei bottoni” e “I Ragazzi della via Pál”. Ricordo ancora oggi le emozioni che ho avvertito, il desiderio di correre incontro alla vita insieme ad amici selvaggi per cui si è pronti perfino a morire. Altri autori che mi hanno segnato sono sicuramente Dostoevskij (i fratelli Karamazov sono sempre avvinghiati all'atrio sinistro del mio cuore), Tolstoj, Melville, Faulkner, P. Roth, Buzzati, Fenoglio, Camus, V. Llosa… potrei continuare.

Ho iniziato a leggere poesia alle superiori nascondendo vecchi e ossuti volumi dietro quaderni di algebra e trigonometria. Sono stati e sono molto importanti per me Garcia Lorca, Emily Dickinson, W. Whitman e poi Derek Walcott, Ghiannis Ritsos, Zbigniew Herbert, Osip Mandel'štam, W.H.Auden…

E non posso dimenticare le poesie in friulano di Pasolini e i libri di P. Cappello…

Non so come queste letture influenzino la mia scrittura, sicuramente sono presenze, a volte dense quasi quanto un ricordo di infanzia che galleggia in un pomeriggio ventilato di giugno.

 

 

Secondo te quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

In un'epoca come questa, dove funzionalità, procedure, efficienza, trasparenza, visibilità sembrano essere i nuovi comandamenti (ma si continua a morire sotto bombe opache e quasi anonime), lo scrittore dovrebbe forse ricordare a tutti che le cose importanti sono sempre le stesse: l'amore, un certo modo di ricevere e dare luce, la preparazione impossibile agli addii, la morte, il contatto con la natura, il modo con cui indossiamo la tragica bellezza della vita, come sbarchiamo il lunario, la libertà, gli spioncini invisibili con cui il mistero ci parla. Ecco, credo che oggi questo sia fondamentale: ridare alle cose il loro peso, ridare alle parti il loro Tutto. Non trattare le storie come se fossero conchiglie divise per sempre da un accesso al mare. La nostra psiche è a rischio implosione, sottoposta a infinite sollecitazioni sempre più invasive, ma in fondo quasi sedata, depressa, distolta da quanto davvero riluce. Se una storia, una poesia, riescono a riportarci a casa nel mondo, a farci riscoprire il magnifico nesso che collega tutti gli esseri viventi, allora siamo di fronte a un piccolo miracolo. Sottrarci alla cattiva solitudine, questo può fare la letteratura

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ho iniziato a scrivere perché la realtà a volte mi commuove profondamente e la scrittura mi permette di salvare ed esplorare queste emozioni in differita. Poi ci sono tanti altri motivi, insieme profondi e banali: lenire un dolore profondo, conoscere una ragazza dagli occhi di brace, tenere a mente l'esatto ritmo di una mattina o la formazione di una remota squadra di calcio.

Adesso scrivo nelle pause dal lavoro, di solito il venerdì.

Ho pubblicato due libricini di poesie: “Nel mare non manca nessuno” e “Dinamo Isba”. Spero possa uscire presto il terzo, vedremo.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Attendo che sia la realtà a parlarmi, perché la poesia non è nostra e noi possiamo solo approfittare dei varchi che a volte si aprono nel mondo e ci invitano a condividere il processo creativo. Quello che cerco di fare è allenare lo sguardo, non addormentarmi in una visione del mondo troppo confortevole e mai provocata, camminare in campo aperto anche se piove. Allora prima o poi un animaletto esce dalla tana, un temporale si trasforma in neve, una piuma si posa su una casa diroccata, una bocca si apre verso un torrido bacio, una voce chiede un'ultima carezza nel reparto di rianimazione. Probabilmente, proprio in questo momento, in un disadorno garage del mio quartiere, qualcuno sta costruendo un'altalena con pneumatici usati del secolo scorso.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Non ho obiettivi precisi. Mi piacerebbe che chi leggesse quello che scrivo sentisse una piccola scossa di intensità di vita da poter usare come meglio crede. Per respirare meglio, per accendere un piccolo falò nel gelo della stanza, per uscire allo scoperto della propria ispirazione. Forse chiedo troppo, ma non riesco a pensare a qualcosa di diverso.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Non ho mai riflettuto su questo, né ho avuto grandi riscontri da altri critici o scrittori.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

Credo che alcune ossessioni ci siano: il saccheggio della perdita, la morte che arriva nell'estate dell'infanzia, il possibile colloquio tra i vivi e i morti amati, il mare e i boschi salendo in montagna, la bontà minuta non premeditata, il desiderio che denuda le caviglie dell'estate, la presenza di un interno più divino.

Non è da molto che scrivo con costanza, credo che la scrittura segua la mia vita, a volte pare ampliarsi al vento, a volte sembra trincerarsi in difesa di una linea.

Non credo alle scuole di scrittura, le storie vere nascono dai segni che la vita ci lascia (e anche dalle sue amputazioni).

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Poesia, scrivi anche in prosa? Se no, pensi che proverai?

 

Ho scritto qualcosa in prosa, ma poco e male. Un giorno mi piacerebbe trovare il tempo e il passo per scrivere una storia di lungo respiro. Una storia con personaggi che contengano il sapore degli ulivi centenari.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Molto. Il Friuli Venezia Giulia è una regione bellissima. Il mare e le montagne sembrano essersi appena staccati e in certi giorni si chiamano dai moli, dalla pianura in battuta di sole, dai più riposti passi alpini. Certo, ci sono anche l'asprezza, il silenzio indurito, la valle in ombra perenne, le zone industriali in stato di amianto, ma dentro di me prevale un sentimento di meraviglia per quanto attraverso ogni giorno. E quando la luce si stende sul litorale, ti accorgi di essere a Oriente.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Se fossi posto a guardia del confine tra Realtà e Immaginazione farei un pessimo servizio. Non saprei tracciare un margine di frontiera, tanto mi sembra che tutto sia compenetrato. La realtà ha bisogno di vivificarsi nelle immagini e l'immaginazione per avverarsi ha bisogno di un tempo in cui incarnarsi. Quando questa danza funziona, tutta la sala da ballo è attraversata dall'applauso.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Non ho molti lettori. Degli amici, chi mi vuole bene, qualche sconosciuto che mi legge un po' per caso. Vedremo in futuro.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Penso che sia vera. La letteratura ci rende più vasti e nello stesso tempo ci dona lenti interiori per medicare la cecità. E a volte quando alziamo gli occhi dal libro è come se qualcuno ci avesse tolto una benda e il nostro nome apparisse più chiaro e il senso si facesse strada dentro di noi quasi senza attrito.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Non ho mai fatto interventi critici o scritto recensioni.

Nel valutare un testo per me è importante la sua capacità di far risuonare qualcosa che giace addormentato nella mia memoria, qualcosa di vero e silenziato. Non mi piace la retorica, l'effetto esibito, il desiderio di compiacere. Mi piace un testo quando mette in scena la realtà senza sottometterla al culto di un'idea o alla disciplina di un'intenzione. Un testo riuscito, a mio parere, nasce sempre da uno scontro a fuoco di tensioni diverse che va lasciato raffreddare con ardore (senza spegnere il fuoco).

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Qualche lacrima versata, credo.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Forse quella di limare, di togliere, di chiamare ogni tanto la signora delle pulizie a togliere le ragnatele, gli stucchi, la puzza di sigaretta, l'odore di chiuso dalle parole. Non sono molto bravo a ridurre all'osso, a scarnificare.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

C'è una raccolta di poesie in attesa di un editore. E poi ci sono le piccole storie che con pazienza raccolgo ogni giorno e solo in parte riesco a scrivere.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Amo leggere, ascoltare musica, andare al cinema. Negli ultimi anni ho camminato moltissimo in giro per L'Europa, zaino in spalla, il sole sulla testa, la natura che ti fiancheggia e quasi ti incorpora. Senza dimenticare il gioco del calcio.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Ringrazio molto la Giuria del Premio “Il Giardino di Babuk” e la redazione de LaRecherche.it per l'impegno e la passione che dedicano a questo progetto. Ho partecipato perché, pur essendo una persona che ama scrivere in solitudine e fatica a partecipare ad eventi letterari, a volte è bello condividere e confrontarsi con altri autori. Un premio per me significa che qualcuno è riuscito a riconoscere nella mia scrittura qualcosa degno di attenzione. Cosa che naturalmente mi fa piacere. Non so bene che ruolo abbiano i premi letterari nella comunità culturale italiana, possono essere occasioni per discutere e farsi conoscere, ma anche trappole di conformismo.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

La rete è piena di occasioni e di insidie. Credo che sia importante maneggiare con molta attenzione la libertà che ci offre la tecnologia. C'è sempre un lupo in agguato nei giardini senza apparenti inferriate. Se fosse per me sceglierei sempre la carta. Detto questo, dobbiamo abitare il presente e la rete spalanca anche grandi opportunità. E per chi vuole scrivere in libertà ci sono spazi molto belli come appunto LaRecherche.it.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Ho già detto troppo. Un caro saluto a tutti e grazie per questa possibilità.

 

 

Grazie, Federico.

 

*

- Intervista

Andrea Catalano

 

L’autore qui intervistato è Andrea Catalano, primo classificato al Premio Letterario Nazionale “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, IV edizione 2018, nella Sezione B (Racconto breve) con “La scimmia”.

 

 

Ciao Andrea, chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Ho 48 anni e vivo e lavoro a Napoli. Mi occupo da oltre 15 anni di questioni ambientali come funzionario, prima del Ministero dell’Ambiente e poi della Regione Campania. Laureato in Scienze Politiche negli anni ‘90 ho mosso i miei primi passi nel mondo del lavoro nell’ambito della cooperazione internazionale non governativa, anche sulla spinta di un genuino quanto ingenuo idealismo. Non ancora trentenne, sono stato più volte in Portogallo e poi in Mozambico al seguito di due ONG. Amareggiato da alcune esperienze personali, ho lasciato la cooperazione allo sviluppo e sono rientrato definitivamente in Italia.

Sono sposato da quattro anni, non ho figli e vivo in un luogo incantato, sospeso tra cielo e mare, la Pedamentina di San Martino di fronte al Golfo di Napoli ed al Vesuvio che tutti i giorni, da lontano, mi fanno l’occhiolino, sicuri della loro impareggiabile bellezza.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Leggo tantissimo e tutti i giorni. Mi è impossibile addormentarmi se non apro, almeno per una mezz’ora, un testo. Solo così riesco a dare forma ai miei sogni, dove rincontro i personaggi lasciati poco prima imprigionati nella carta e nell’inchiostro di un libro o nelle chine di un fumetto.

Ho cominciato a leggere Topolino all’età di 4 o 5 anni, per poi passare ai grandi classici per ragazzi come Jules Verne con “Il giro del mondo in ottanta giorni”, Carlo Collodi con “Le avventure di Pinocchio” o Lewis Carroll ed il suo “Alice nel paese delle meraviglie”. Da adolescente mi sono innamorato di tanti libri e personaggi. Tra i tanti mi sovvengono quelli incontrati ne “Il nome della rosa” di Umberto Eco, così come, mentre ora scrivo, risento le forti e dolenti emozioni provate per “Cronache familiari” di Vasco Pratolini.

Tuttavia, gli autori che maggiormente hanno segnato il mio percorso, nel periodo ricompreso tra gli anni del Liceo e dell’Università, sono Italo Calvino, James Joice, Thomas Mann (in particolare con i “Buddenbrook”), Fëdor Dostoevskij, Michail Bulgakov, Hermann Hesse, Stendhal, Jeorge Amado, Gabriel García Márquez. Intorno ai trent’anni, ho poi subito la totale seduzione per le parole di Erri De Luca. Sebbene il mio stile è totalmente opposto e la cifra che inseguo nella scrittura è la leggerezza, quanto avrei voluto essere l’autore di “In alto a sinistra” o “Non ora non qui”. Per me quelle pagine, dalla prima all’ultima, sono percorse da un brivido di grande emozione.

 

Sono anche un accanito lettore di graphic novel. Ne leggo almeno uno al mese. Adoro questo genere letterario e ci sono autori che hanno significativamente influenzato il mio stile di scrittura. Giusto per rimanere in Italia, penso all’immenso e compianto Andrea Pazienza, al maestro del disegno Sergio Toppi, al geniale ed attualissimo Zerocalcare o a Gepi. Ma varcando i confini nazionali, ci sono autori fecondi di idee e di bellezza: Jodorowsky, Moebius, Jeff Smith o ancora Marjane Satrapi o Guy Delisle, per citarne solo qualcuno. Ed ancora il reporter disegnatore Joe Sacco, sempre al fianco degli ultimi del pianeta, con le sue chine affilate come lame contro le insopportabili ingiustizie in Palestina o in Bosnia.

 

 

Secondo te quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Dipende da cosa lo scrittore è chiamato a raccontare. Se si tratta di un giornalista il suo ruolo coincide con l’utilità di far comprendere i fatti agli altri, fornire chiavi di lettura e strumenti di comprensione critica della realtà. Se si tratta di un romanziere, di un cantastorie o di un poeta allora la scrittura deve emozionare. L’utilità – se così si può dire – della poesia o della narrativa sta nelle emozioni che riesce a far emergere, nell’immaginazione che riesce a far ruminare dentro la nostra pancia, nella suggestione che riesce a farci esplodere in testa. La scrittura è arte maieutica: le emozioni sono dentro di noi e un buon libro, donandoci gioia, può farle germinare.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore, breve o lunga che sia? Gli incontri importanti, le tue eventuali pubblicazioni.

 

Ho iniziato durante l’adolescenza, quando inviavo cartoline dalle località di vacanza (quando ancora esistevano le cartoline!!!) con versi umoristici e giochi di parole.

Da allora ho scritto diversi racconti brevi ed uno lungo che potrei definire romanzo ed a cui sono particolarmente legato, ma tutti i miei scritti sono inediti. “La scimmia” è il mio primo racconto che partecipa ad un premio letterario e che viene pubblicato.

Rispetto alle persone significative, fondamentalmente ho due cari amici con cui condivido la passione della scrittura. Confrontarmi con loro è sempre stato stimolante ed ho sempre avuto molto da guadagnare, in termini di arricchimento culturale. Uno di loro è diventato uno scrittore con varie pubblicazioni all’attivo ed un romanzo, “Orfanzia”, edito nel 2016 da Bompiani che mi è piaciuto tantissimo. I suoi suggerimenti su “La scimmia” sono stati più che preziosi. L’altro è un compositore di musica e scrive bellissimi testi di canzoni, oltre a dilettarsi con racconti esilaranti e personaggi improbabili che mi ricordano tantissimo lo stile di Stefano Benni.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Da bambino ero ossessionato dai dettagli delle vicende, dalle espressioni dei volti delle persone che popolavano il mio mondo. Una curiosità immensa per tutto ciò che mi circondava. Ho immagazzinato mille storie, le ho deformate sotto la lente della comicità e le ho rielaborate frequentemente, mettendole nero su bianco. Il mio processo creativo origina nel mio vissuto. C’è fondamentalmente una componente autobiografica alla base della mia scrittura.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Scrivo perché mi diverte, augurandomi di divertire e magari emozionare anche gli altri.

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Un elemento che più volte mi è stato fatto notare è il ricorso a termini aulici, espressioni leziose o parole desuete fuori contesto. Questa cifra linguistica caratterizza soprattutto i miei testi comici o umoristici.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

L’infanzia è un luogo del mio tempo interiore cui tendo sempre a fare ritorno e che probabilmente potrebbe rappresentare, se non la mia ossessione, un tema ricorrente. Sicuramente la mia scrittura si è evoluta nel corso degli anni. Tutto si trasforma con l’incedere del tempo, compresa la scrittura. Panta rei, insomma!!

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

Secondo i miei amici sono un “poeta matrimonialista”. Ho scritto oltre cento componimenti in versi. Si tratta di filastrocche per compleanni o composizioni in rima per amici che si sposano. Sono quasi tutte canzonatorie, senza alcuna presunzione di fare poesia, ma unicamente con l’obiettivo di ridere e condividere un momento gioioso. Tuttavia, alcuni di questi componimenti sono particolarmente riusciti come brevi biografie umoristiche, cui gli amici riconoscono il merito di aver tracciato con leggerezza e in poche righe l’essenza della personalità del protagonista.Ma, almeno al momento, con sono interessato ad andare oltre, preferendo restare ancorato alla narrativa.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

La città natale di Napoli, croce e delizia esistenziale, grumo di bellezza e di contraddizioni, ha profondamente influenzato il mio pensiero, così come il mio modo di scrivere. C’è sempre una geografia che fa da sfondo quando scrivo, il genio di un luogo che si riverbera sui suoi personaggi, sul loro modo di parlare, di scherzare, di ridere o di piangere.

Napoli è fiume carsico, penetra impetuoso e ti scava dentro senza riparo. È il sussurro ancestrale delle sirene che ti riconduce alle sue radici salate. Allora capisci che le sue contraddizioni sono le tue. E la tua scrittura segue la traccia di questa città, come la mano di un cieco tocca un volto per scorgerne i tratti.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Credo che l’immaginazione sia uno dei tanti modi per declinare la realtà, per ridisegnarla da una prospettiva differente, che magari piace o convince di più. L’immaginazione è il luogo della libertà del pensiero e la scrittura è la sua ancella. Chi scrive è sicuramente a cavallo dei due mondi, prigioniero come chiunque della realtà ma in grado, quando vuole, di liberarsene attraverso l’atto creativo (e per questo curativo) della scrittura.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

I miei lettori sono fondamentalmente i miei amici ed i miei familiari. Sono ghiotto delle loro indicazioni e suggerimenti su come articolare diversamente una frase, eliminare o aggiungere qualcosa. Apprezzo lo sguardo critico su ciò che scrivo. È valore aggiunto alla mia scrittura.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Dicevo prima che la scrittura è arte maieutica che ci consente di fare emergere le emozioni nascoste o semplicemente sopite. È un bellissimo aforisma che condivido pienamente.

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura? Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Ho esercitato più volte il diritto di abbandonare un testo, seguendo le prescrizioni Daniel Pennac nei “10 diritti del lettore”. Ci sono storie che non mi divertono. Racconti che, ancorché scritti mirabilmente, non mi interessano perché non aggiungono nulla in termini di emozioni o di capacità di incuriosirmi. Se un autore mi tiene inchiodato ad occhi sgranati sul suo libro, sebbene sia stanco morto all’una di notte, allora è riuscito a scrivere un buon libro. Se durante il pomeriggio, malgrado sia affaccendato in mille attività, non vedo l’ora che si faccia sera per riprendere a leggere una storia, lasciata il giorno prima, quello per me è il migliore indicatore di buona qualità di un libro.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

La frase di mia moglie, dopo averle sottoposto un mio testo, “Mi sono troppo divertita!”

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Ho scritto un racconto lungo, non pubblicato. Si chiama “Maputo” ed è la storia romanzata della mia esperienza in Mozambico nel 1998. Sono sentimentalmente molto legato a questo testo, che trovo intenso e suggestivo. Tuttavia dovrei lavorarci molto sopra per rendere maggiormente organiche alcune sue parti e fargli acquisire la necessaria freschezza e leggerezza di cui spesso manca. L’ho sottoposto a vari amici ed uno di questi ha fatto una critica serrata, ricca di suggerimenti puntuali e spunti narrativi da sviluppare ed indicazioni mirabili su come reimpostare i dialoghi, troppo spesso ingenui, poco credibili o addirittura noiosi.

Ha snocciolato come un rosario (e senza infingimenti) tutti i punti di debolezza, in una critica costruttiva che ho davvero molto apprezzato. Dovrei partire da lì e forse, avrei il coraggio di mandarlo in giro per provare a pubblicarlo.

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Abbozzo storie e continuo ad annotarmi episodi quotidiani che in qualche modo mi colpiscono e che si prestano ad essere descritti in chiave umoristica. Non ho opere in attesa di pubblicazione… o forse ne ho alcune (come per “La scimmia”) che aspettano il momento giusto per essere proposte al pubblico. Vedremo!

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Mi piace fare lunghissime camminate al sole o uscire per mare in barca per un allenamento di canottaggio. Queste sono le funzioni dinamiche della mia esistenza.

Però, quale legge di contrappasso, mi piace anche poltrire nel letto e leggere ininterrottamente per ore (o godermi tre episodi di fila di qualche serie TV). Ah, i meravigliosi privilegi del sabato mattina!

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale e artistica italiana?

 

Ho partecipato, perché in tanti mi hanno spinto a mettermi alla prova, invitandomi ad inviare un mio racconto a qualche concorso. “È troppo carino, perché non provi a presentarlo a qualche premio letterario?” “Mi sonno sbellicato dalle risate… dovresti renderlo pubblico!”.

L’incitazione degli amici è stata tanta ed allora mi sono messo alla ricerca in rete, incrociando il concorso de “Il Giardino di Babuk”. I premi letterari sono una grande opportunità per chi, come me, non ha legami con il mondo editoriale e vuole comunque provare a proporre qualcosa. Questo de LaRecherche.it, in particolare, mi è sembrato “trasparente e pulito”, per cui mi sono convinto che fosse cosa buona e giusta candidare un mio racconto. La lettura del bando, la previsione di un totale anonimato e la circostanza che la partecipazione fosse gratuita sono stati per me elementi fortemente motivanti.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Non saprei cosa dire o quali suggerimenti dare, se non quello di buon senso di usare piattaforme indipendenti, per dare visibilità alle proprie opere, senza per questo essere fagocitati dalle logiche commerciali della imprenditoria editoriale. La scrittura in rete è strumento potente e l’editoria elettronica può rappresentare una reale alternativa alla logica del profitto o dello sfruttamento commerciale di un prodotto del proprio intelletto. Chiaramente questo è vero sempre che le idee personali di chi scrive convergano verso questo tipo di impostazione.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

No, non ho nulla da aggiungere. Quest’ultima domanda poi, mi suona troppo come quelle di Marzullo ed ancora non mi sento all’altezza di scalare questa montagna!

 

 

Grazie, Andrea.

 

*

- Intervista

Mario De Santis

 

[ a cura di Roberto Maggiani ]

 

 

1. Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Mario De Santis?

 

Di solito uso la formula: sono un poeta, faccio il giornalista. Le due cose hanno accompagnato la mia vita – prima la poesia, poi dai 25 anni il lavoro alla radio, diventando poi giornalista nel 1995. Ho lavorato a Italia Radio, facendo programmi culturali, fino al 2001, poi a Radio Deejay diventando autore e redattore per Linus e poi con Radio capital, dal 2010 al 2014, tornando a condurre programmi e occupandomi di libri. Oggi lavoro alla newsroom di radio capital, scrivo recensioni per Robinson di Repubblica e per “Poesia” di Crocetti Editore. Ogni tanto pezzi per Doppio Zero o Per Nazione Indiana. Come esperienza aggiuntiva di identità, devo molto a tutti i viaggi fatti, al volontariato in Africa, ai miei rapporti con progetti solidali a Calcutta in India. Ed è lo sguardo sul mondo e la ridefinizione delle identità attraverso lo scambio che sento –  l’essere italiano inevitabilmente, prigioniero della mia lingua come poeta – e il voler essere parte dei tanti flussi di umanità che attraversano il mondo.

 

 

2. Come e perché hai iniziato a scrivere e in particolare poesia? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni…

 

Ho iniziato ascoltando la musica. Musica rock a metà anni ’70, da adolescente. Intorno ai sedici anni, per quelle esperienze classiche e formative (i “dolori del giovane”) ho cominciato a chiedermi cosa dicessero i testi in inglese delle canzoni in cui più risuonavano le mie emozioni e ho cominciato a tradurre i testi. Erano ovviamente scritti in versi, quell’andare a capo è rimasto il tratto dello choc e delle spezzature, delle ferite emotive esistenziali. Poi il confine fu a 18 anni durante la maturità: lessi, anche se non previsto dal “programma” (non ci eravamo arrivati come tutti), Montale. Ero l’ultimo ad essere interrogato, era già luglio, estate, faceva caldo, sudavo sui libri e il “meriggio” – mi accorsi leggendo – era effettivamente “pallido e assorto”, in più avevo in mente tutto l’aspro paesaggio del paese dei miei, d’estate, petroso anche se montanaro e non ligure, ma insomma, fu una classica illuminazione. E capii che la poesia non era l’italiano incerto e piatto delle mie traduzioni dei testi delle canzoni, ma era quella ragnatela di corrispondenze sensoriali e intellettuali che originavano da quell’esatto testo. E decisi di iscrivermi a Lettere. Rimando la risposta sugli incontri alla quarta domanda. Dall’università ai 43 anni è stata tutta una storia di “formazione” perché – nonostante facessi come giornalista, già dal 1988, molti incontri ed ero fortunato  – andavo a casa di Giulio Einaudi, intervistavo Raboni, Fortini, Giudici, Zanzotto, oppure per fare un nome su tutti, Enzo Siciliano, imperatore del mondo letterario nazionale ma romano, con sue le corti, – e poi nei primi anni 90 tutti gli esordienti oggi diventati scrittori di 50-60 anni e affermati – e oltre, davvero da Camilleri in giù, tutti – non ho mai allungato il mio manoscritto a nessuno.

Soltanto all’Università a Biancamaria Frabotta – rimando sotto – per il resto ho continuato a scrivere a correggere, a studiare, ad approfondire. Devo a Biancamaria Frabotta tuttavia gli insegnamenti di tutto quel che so sulla poesia, su cosa sia anche oltre ovviamente le aule universitarie. Il suo è stato un magistero di alto profilo sul piano letterario – ottimo dal punto di vista academico ma che accompagnava noi aspiranti giovani poeti, in quegli anni universitari, ad incontrare, anche fisicamente, i poeti contemporanei, nei locali, nelle cantine della roma primi anni ‘80, a volte in aula. Il massimo fulgore fu il corso su Giorgio Caproni, letto con una profondità senza pari – ma soprattutto corredato della presenza a volte dello stesso Giorgio Caproni in aula. Il resto dopo l’università è stato per me, a Roma, continuare a fare il flaneur solitario e ad approfondire quella lezione, senza curarmi dei gruppi e circoletti.

Solo col trasferimento a Milano in un ambito più serio e meno corrotto – va detto – meno legato alle dinamiche parentali e amicali, ho trovato persone con cui confrontarmi seriamente, anche se, per paradosso, la persona che ha preso a cuore i miei testi mi ha indirizzato a Roma, ancora, a Marisa Di Iorio, persona seria e appartata infatti, che mi ha pubblicato il primo libro “Le ore impossibili” con Empiria, nel 2007. Poi il secondo l’ho pubblicato con Crocetti, “La polvere nell’acqua” nel 2012 perché le poesie che nel frattempo avevo scritto erano piaciute a Nicola e a chi lavorava in casa editrice e ho avuto questo privilegio. Poi, a catena, dato che il libro di Crocetti era piaciuto a Matteo Fantuzzi, ci conoscevamo, e quando è diventato direttore di collana con Ladolfi Editore, mi ha chiesto se avessi un libro, e gli ho dato la raccolta “Sciami”, uscita nel 2015.

Incontri reali, frequentazioni che mi abbiano stimolato, oltre quello con Frabotta, aggiungerei, tra i grandi poeti, Milo De Angelis e Cesare Viviani, di cui ho l’onore di condividere amicizia. Frequento poco, autori contemporanei, anche se ho cordiali incontri saltuari con molti di loro. Li leggo tutti, li frequento poco, però.

 

 

3. In un tuo post su facebook (del 17 febbraio 2018) tra l’altro scrivi così: “[…] INSOMMA sono un poeta senza tetto e un giornalista culturale (?) Senza posto - nel mondo e senza generazione né creatura. E ora fatti i 54 anni ho l'età degli esodati e vado in giro per il mondo proprio per confermare che non c’è posto e sfuggire a questa mancanza di collocazione.”

Che cosa vuoi dire? Forse, nell’“ambiente” della poesia, non c’è spazio per i cinquantenni scrittori che non si siano “affermati” in giovane età?

 

La mia valutazione, sulla base di esperienza, ma anche di analisi, letture, in questo caso da giornalista e critico, del fenomeno della poesia, è che ci sia stata una parabola discendente di attenzione al genere che ha fatto toccare i minimi livelli negli anni ‘90, poi negli ultimi anni, complice anche l’iniziativa delle università, dei centri di poesia che sono nati, di qualche festival (come Pordenonelegge) c’è stato un rinnovato interesse, nato anche dalle migliori occasioni trovate proprio in certe sedi istituzionali delle generazioni più giovani, così che oggi è molto più facile trovare attenzione a debutti editoriali di ventenni (complice anche l’editoria mainstream che ha fatto “dell’esordiente” il fenotipo ripetuto di più d’una stagione editoriale) a questo si aggiunge il fatto che, per paradosso, le generazione dei venti-trentenni soffrono di una precarizzazione del lavoro e di una incerta visione del futuro; tutta questa attenzione è stata “tematizzata” (sempre in ambito editoriale mainstrem vedi i tanti romanzi della “generazione 1000 euro”). La mia generazione è la prima che ha sofferto di una classe dirigente vecchia, che occupava tutti i posti (di conseguenza il fenomeno si estendeva a tutti gli ambiti) ma ci siamo fatti anni d’attesa e di gavetta, senza che diventasse un “topic” della comunicazione. Ci aggiungo forse anche il fatto che io non ho coltivato amicizie strumentali, non sono stato interessato da una paradossale “prevalenza della poetessa giovane” messa in atto da direttori editoriali di festival maschi cinquanta-sessantenni che riversava sulle aspiranti autrici donne l’attenzione per motivi che oggi sono balzati alla cronaca col movimento #metoo ma che negli ambienti della poesia era visibilissimo e risaputo. Oltretutto la “speciale attenzione” che maschera un interesse sessuale va anche oltre il gender, riguarda anche “giovani poeti”. So benissimo che dire questo è urtante, che può sembrare rancore, ma non lo è, sono fuori dai giochi, sono appunto “esodato” posso permettermi di dire cose scomode. Del resto i miei inviti a festival, letture, incontri posso contarli sulle dita di una mano in 12 anni di impegno attivo come autore e come recensore.

 

 

4. Sei uno scrittore, ma prima di tutto, immagino, un lettore. Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

All’inizio fu Montale, che è una montagna da scalare, sempre, e superare ma da percorrere. Poi c’è stato Milo De Angelis, Cesare Viviani, Zanzotto, molto. Poi per disintossicarmi da Zanzotto, ho letto tutto Giudici e poi sono arrivato a Sereni, che è la mia stella variabile tuttora. Mario Benedetti (l’autore italiano ovviamente) è l’ultimo in ordine di tempo, che mi ha influenzato. Ora sto ristudiando Fortini. Ma la lettura di un autore come Guido Mazzoni, specie l’ultimo libro, mi dà molto da pensare e indirizza il senso della mia attuale ricerca - una ricerca fatta però di molti dubbi.

Hanno avuto influenza anche autori tedeschi: Celan, Bachmann e tra i contemporanei, Grunbein. Mi hanno molto influenzato anche testi filosofici, come quelli di Blanchot, di Agamben, di Benjamin.

 

 

5. Che cos’è la poesia? A che cosa “serve” nella contemporaneità?

 

La risposta è ovviamente difficile. Che cosa sia la poesia, per me dipende molto dalla sua funzione sociale, ma non necessariamente perché la poesia debba essere civile, comunicativa ecc. Che ruolo ha la poesia per i lettori? Il poeta si posiziona sul confine di questa domanda, cerca di capire, di lavorare il linguaggio della sua esperienza artistica, in una continua dialettica, o in un continuo scarto o contropelo di quello che è il linguaggio della poesia diventato canone tra i lettori, tra i lettori reali e non addetti ai lavori. La poesia serve però al singolo lettore, e la sua esperienza poetica è di una “comunità che non ha comunità” per dirla con Agamben o Blanchot e Beckett. Ma mi influenza molto anche l’arte contemporanea. Preferisco una biennale a molti libri di poesia. E anche la saggistica d’arte, in generale vedere mostre, ascoltare musica – classica, rock, di ricerca. A volte il cinema. Diventano proprio stimolo per una riflessione sul procedere del mio linguaggio, non solo uno stimolo generico.

Ecco una cosa che sta impoverendo la poesia contemporanea è il suo essersi allontanata dall’arte, i poeti miei contemporanei non frequentano l’arte contemporanea, e questo si sente.

 

 

6. Che rapporto hai con la narrativa? Hai mai scritto in prosa (racconti o romanzi)?

 

Mai scritto romanzi, né racconti. Mai provato. Mi piace scrivere in prosa nella scia della tradizione dei tableaux di Baudelaire, di una certa prosa alla Char. O di Sereni, ovviamente.

Per quanto riguarda la lettura invece sono un fortissimo lettore di narrativa – anche per motivi di lavoro. Nel tempo è stata classica, poi molto ‘900, contemporanei. Leggo molta narrativa italiana. Per la lingua, ma con scarsa soddisfazione rispetto al numero. Alcuni mi hanno anche influenzato.

Ce ne sono alcuni, ma ne cito solo uno due, tra coloro che – pochi però – ritengo procedano con una mente anche poetica nel loro narrare: Giuseppe Genna e Giorgio Falco.

 

 

7. Che cos’ha di caratteristico la tua poesia, rispetto a quella dei poeti tuoi contemporanei? Si dice che ogni poeta abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

L’autoanalisi non mi appassiona, anche se la faccio, privatamente, per procedere. Ma ho in avversione quelli che si incensano. Ho delle ossessioni: la forma della città, la polvere, tutto il mondo pulviscolare, le cose concrete, la morte. Ma la mia principale ossessione credo sia “la casa” in tutto questo, dentro e fuori – quindi anche il “senza” della casa, la dispersione, il deserto. La mia prima pubblicazione è stato il mio primo libro e da allora la mia voce è quella, non conto il lungo lavorìo per approdare alla mia scrittura. Se devo cercare di rispondere a cosa abbia di caratteristico la mia poesia, alcune cose posso dirle: il lavoro sull’immagine, che non è simbolo. La costruzione di un puzzle di allegorie. Affidare alla sintassi il disegno di un procedere mentale, di ragionamento. Mantenere forme di armonia sotterranea. Lavorare sull’accumulo di segnali, stimoli, interferenze del soggetto, sulla sua destrutturata percezione.

 

 

8. La critica più bella e la più brutta che hai ricevuto alle tue poesie.

 

Se è negativa e argomentata non è brutta. La più brutta allora è quella di chi ha letto i miei versi e non mostra di dirlo – oppure non li ha letti proprio volutamente – per motivi che non hanno a che fare con la poesia, ma con il “posizionamento dei poeti”. La più bella è di chi, pur non essendo un lettore specializzato, mi ha raccontato, facendo osservazioni sparse, di aver trovato almeno qualche chiave che ha aperto suoi cassetti interiori. Mi fa piacere perché ho il difetto di scrivere una poesia certamente difficile, se ogni tanto fa breccia anche in lettori meno attrezzati – non è una critica negativa, io sono poco attrezzato per tante arti che pure frequento, per esempio la musica – bè quella è la critica che mi dà più piacere.

 

 

9. Come avviene il tuo processo di scrittura? In quali ore e luoghi, con quali modalità? Pubblichi ciò che scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

 

Per anni ho scritto, riscritto a lungo, anche radicalmente. Ho portato con me testi che cambiavano, fino a trovare la loro forma – ma anche dopo anni c’era qualche sillaba che cambiavo, qualche segno di interpunzione. Nell’ultimo anno sto mettendo in discussione radicalmente il mio modo di scrivere e anche il senso dello scrivere. Se abbia un senso per me continuare. Continuare così, perché sento spesso di essere diventato manierista di me stesso, indipendentemente dagli apprezzamenti altrui. Nel senso che sì, mi piace quel che ho scritto fino ad ora e come l’ho scritto, ma quando scrivo qualcosa che mi sembra possa essere simile ai testi che ho già scritto stilisticamente, per qualche repertorio di immagini, non sono soddisfatto. Quindi sto facendo esperimenti. Tra questi anche pubblicare testi dopo averli rivisti poche volte – quasi in modo incosciente – approfittando di internet, anzi proprio perché immessi in una fruizione distratta, veloce, immediata, provare io stesso a cavalcare questa tigre difficile che è l’onda del web. Ora però ho smesso di fare anche questo.

 

 

10. Hai incontrato difficoltà nel pubblicare i tuoi testi? Se sì quali?

 

Quelle che ho descritto sopra. Più legate ai rapporti che non alla letteratura. Ora dovrei contraddirmi rispetto all’autocritica o all’incensamento di me steso, ma diciamo che vedo molta pessima poesia pubblicata facilmente.

 

 

11.  Quale tra le tue pubblicazioni ti ha dato più soddisfazione e perché?

 

Tutti e tre i libri, in egual misura e per motivi differenti, una moderata soddisfazione. Moderata perché la ricezione, ovviamente, subisce gli stessi influssi della pubblicazione. Devo dire che ho trovato con mia sorpresa più persone che mi parlavano di “Sciami” – ma perché è quello in cui ho riversato un più cauto impegno a sciogliere certi nodi contratti dei mei testi – cercando di leggerli con uno sguardo da lettore a più livelli. Di conseguenza ha trovato lettori inaspettati, complice anche il fato che l’ho pubblicato mentre partecipavo ad un’esperienza di “show” di poesia chiamato “Parole Note” a cura di due amici, un dj e un lettore, entrambi legati a Radio Capital (il titolo è anche quello di una trasmissione di poesia di Radio Capital ) e quindi ho potuto incrociare molti lettori ( non addetti, non da cricca festivaliera o da circoletto degli amici) e grazie ai social ho avuto più feedback.

 

 

12. Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare un testo poetico o una intera raccolta? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona poesia?

 

Personalmente, deve arrivarmi innanzitutto la “voce” o la sua “grana”, il segno di un’espressione, come nell’arte, e questo è immediato, alla prima lettura. Anche senza stare troppo a pensare ai testi. Poi, però, una raccolta la rileggo, la scavo, deve costruire via via un senso e un discorso, deve mostrare coerenza, compattezza di testi, nel loro livello – anche per sezioni, non necessariamente l’intero libro che può essere costituito da sezioni nate in tappe diverse del percorso del poeta. Ma in quella sezione devo avvertire una coerenza di pensiero – pensiero poetante, ma pensiero.

 

 

13. Molti utilizzano, per catalogare i poeti e la loro presunta importanza, le categorie “poeta maggiore” e “poeta minore”. Esiste realmente tale distinzione?

 

Sì, io la uso per me, dipende dal loro valore letterario. Poi questo valore che ognuno attribuisce in base alla sua personale esperienza di lettura si incrocia con la sua rilevanza sociale, la sua circolazione tra i lettori. Ovvio che a quel punto nascono le discussioni. Ad esempio un autore che ho dimenticato di citare ma che anche prima di Milo De Angelis per me è stato di grande influenza è stato Nanni Cagnone – è uno dei “maggiori” poeti italiani, per me. Ovvio che la sua circolazione con case editrici più piccole, il suo vivere appartato, lo rende “meno” rilevante rispetto ad altri – ma per me, e non solo per me, resta uno dei “maggiori”. E sicuramente più intimamente legato al mio personale laboratorio interiore.

 

 

14. Perché non si legge poesia? Che cosa ne pensi? Secondo te di chi è la responsabilità (se di responsabilità si può parlare): dei poeti, degli editori, dei lettori, dei librai, dei mezzi di informazione?

 

Della scuola, principalmente. In generale la scuola ammazza la lettura in genere. Ovvio che un genere letterario che necessita di una percezione fatta di attenzione e ascolto – non necessariamente strumenti critici ma forse un po’ sì, sicuramente attenzione – un genere che necessita di attenzione viene penalizzato dalla scuola che si impegna più per la soddisfazione delle richieste del pubblico – come gli editori – che per l’insegnamento di strumenti di lettura. Un’altra grande responsabilità è dei cosiddetti “lettori forti”, persone attrezzate e preparate, che leggono anche cinque, sei o più libri al mese – e, spessissimo, mai un libro di poesia. Poi ci sono i poeti, gli editori, i librai, eccetera, ovviamente la risposta è sì: ne sono responsabili.

 

 

15. A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Il libro è in testa, ma non è scritto. Materialmente non arriva la chiave di volta che dispieghi la scrittura. Spiritualmente mi sento pieno di dubbi, specie se abbia senso aggiungere l’ennesimo libro da 500 copie e ritrovarsi con la necessità di impegnare l’80% delle energie in relazioni pubbliche. In ogni caso il progetto è un misto tra prosa e poesia. Ma dato che non c’è, inutile parlarne.

 

 

16. Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Sono favorevole alla pubblicazione in rete e all’editoria elettronica, ma credo sia necessario ritrovare una forte presenza della critica letteraria, una maggiore selezione critica del pubblicato. Quanto meno: la critica dovrebbe accompagnare, con competenza, ciò che si pubblica. Esiste  molto lavorìo su blog, facebook ecc. Ma c’è bisogno di lettori, chiamiamoli “ critici letterari” se volete, comunque persone che abbiano un bagaglio competente,  attrezzati – poi ci si divide come accaduto in passato tra poetiche e scuole e tendenze, non c’è un giudice supremo, ma vorrei che all’interno di un gruppo, anche omogeno per “poetica”, ci fosse una critica che facesse emergere “i maggiori” appunto.

 

 

17. Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti dare una risposta?

 

La stessa riposta della 16: è mancata una domanda specifica sulla critica letteraria e questo mi sembra significativo.

 

 

Grazie.

 

*

- Intervista

Sebastiano Aglieco

 

[ A cura di Roberto Maggiani

 

 

1.       Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Sebastiano Aglieco?

 

Una persona come tante che cerca di essere “persona” nel miglior modo possibile. Anche attraverso la scrittura.

 

 

2.       Come e perché hai iniziato a scrivere e in particolare poesia? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni…

 

Ero un bambino che già scriveva. Poi un lungo apprendistato di scrittura adolescenziale – spesso leggo in giro cose che personalmente ho archiviato da tempo –. Il primo libro “Minime” fu pagato con i soldi della mia prima supplenza a Milano (800 mila lire ai tempi, per 600 copie!). Successivamente un lungo periodo di studi non letterari, approdati alla stesura di un libro ambizioso quanto frammentario, “Grandi Frammenti”. Il primo manoscritto, un quadernone di oltre cento pagine, fu perso in treno, nel tragitto Monza-Milano, e quindi riscritto. Ciò che rimase furono “Grandi Frammenti”, appunto. Il rapporto con i miti e con la propria storia personale ricompare in un altro libro, “Le colonne d’Ercole”, diario di un viaggio effettivamente intrapreso fino alle Colonne d’Ercole, in Portogallo. Una parte di quelle poesie è poi confluita in “Dolore della casa”. “Nella storia” è un libretto che recupera un manoscritto rimasto lungamente inedito, lungamente limato. Con “Compitu re vivi”, libro molto apprezzato devo dire, scopro il dialetto e le mie origini. L’ultimo lavoro è “Infanzia resa”, appena pubblicato.

 

 

3.       Sei uno scrittore, ma prima di tutto, immagino, un lettore. Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

A un certo punto ho scritto: “senza più maestri e letteratura”… Avviene quando la persona che ti influenza più di tutti è ora  il tuo doppio. I maestri si superano, rimangono nello sfondo. Chiaramente, recensendo e leggendo molti libri di poesia, s’incontrano voci, presenze, grandi e piccoli poeti. Qualcosa rimane sempre, degli altri, in ciò che fai e pensi. Mi sono cari molti nomi, non solo di poeti, ma anche di musicisti e di pittori.

 

 

4.       Che cos’è la poesia? A che cosa “serve” nella contemporaneità?

 

Non serve a nulla. Nel senso che la poesia “serve”, letteralmente, ma non è asservita. È un organismo che, attingendo dalle fonti più disparate, si ritrova il gravoso compito di servire a se stessa. Di esistere nel migliore dei modi.

 

 

5.       Che rapporto hai con la narrativa? Hai mai scritto in prosa?

 

Da ragazzino ho incominciato a scrivere soprattutto prosa e teatro. Molti manoscritti inediti. Ad un certo punto non ho più scritto in prosa per motivi in parte misteriosi. Comunque assai recentemente è venuto alla luce un nuovo testo che vorrei pubblicare.

 

 

6.       Che cos’ha di caratteristico la tua poesia, rispetto a quella dei poeti tuoi contemporanei? Si dice che ogni poeta abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Si rimane sempre fedeli alla propria voce interiore, anche se passano gli anni. I miei temi più ricorrenti sono: l’esilio, la terra d’origine, i bambini, il destino, le figure famigliari, la preghiera, l’etica, Orfeo, Narciso... Non credo a una poesia tagliata con l’accetta; ogni poesia ha le sue zone lucenti e quelle o/scure.

 

 

7.       La critica più bella e la più brutta che hai ricevuto alle tue poesie.

 

Brutte devo dire neanche una – difficile, oggi, che un poeta riceva una critica brutta –. Una recensione superficiale sì, forse anche in buona fede, ad opera di un giovane poeta.

 

 

8.       Come avviene il tuo processo di scrittura? In quali ore e luoghi, con quali modalità? Pubblichi ciò che scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

 

Non scrivo mai a casa ma sempre in giro: nei treni, nei bar, sulle panchine… Scrivo di getto ma i testi, prima della pubblicazione, rimangono a lungo nel cassetto.

 

 

9.       Hai incontrato difficoltà nel pubblicare i tuoi testi? Se sì quali?

 

Tutti i poeti potrebbero raccontare la stessa storia. Sappiamo come funziona l’editoria di poesia. In genere non s’incontrano difficoltà a pubblicare. Sempre che non ti rivolgi a Mondadori o a Einaudi. Lì bisogna percorrere vie misteriosissime. Il problema riguarda, piuttosto, la capacità di preservarsi, di garantire a sé stessi una certa serietà; relazioni giuste e serie, per esempio.

 

 

10.  Quale tra le tue pubblicazioni ti ha dato più soddisfazione e perché?

 

Il libro che ha ricevuto più recensioni, anche in situazioni “importanti”, è stato “Dolore della casa”. “Compitu re vivi” ha ricevuto, invece, parecchi premi.

 

 

11.  Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare un testo poetico o una intera raccolta? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona poesia?

 

Adotto un criterio molto semplice. Un libro deve superare un livello di sufficienza, a quel punto il problema è “come parlarne”, altrimenti si mette da parte e via. Non credo che una brutta o cattiva recensione possa migliorare le sorti della poesia. Piuttosto non scrivo di un libro. Cosa diversa, e ben più importante, è parlare con l’autore, discutere, ma in genere è difficile da fare perché i poeti tendono ad aggrapparsi alla propria scrittura e si offendono facilmente.

 

 

12.  Molti utilizzano, per catalogare i poeti e la loro presunta importanza, le categorie “poeta maggiore” e “poeta minore”. Esiste realmente tale distinzione?

 

In “Radici delle isole”, un mio libro di critica un po’ sui generis, ho scritto un capitoletto dedicato ai poeti minori. Il discorso è complesso. La storia della letteratura è fatta anche di poeti minori. Ma è un meccanismo stritolante, che riproduce la legge naturale del più forte. Molti poeti maggiori si alimentano delle parole dei minori, ma sono cose sulle quali poco si indaga. La comunità letteraria è, appunto, una comunità che funziona per osmosi. Ciascuno ha il suo compito.

 

 

13.  Perché non si legge poesia? Che cosa ne pensi? Secondo te di chi è la responsabilità (se di responsabilità si può parlare): dei poeti, degli editori, dei lettori, dei librai, dei mezzi di informazione?

 

Vecchio e irrisolvibile tema, di cui, forse, non vale più neanche la pena di parlare. Io direi che le responsabilità vanno equamente distribuite.

 

 

14.  È appena uscita, per i tipi Il Leggio Libreria Editrice, la tua raccolta di poesie: “Infanzia resa”, di cui qui possiamo leggere due poesie (link alle poesie), ce ne vuoi parlare? Come è nato questo libro? Perché la scelta di questo editore?

 

La pubblicazione di un nuovo libro è, deve essere, un gesto serio. Dunque ho aspettato parecchio prima di pubblicare “Infanzia resa”. Esisteva un primo manoscritto, che poi è cresciuto nel tempo perché sono cresciuti e cambiati i bambini. Mi interessava adottare, rispetto a “Compitu re vivi”, un linguaggio abbassato, più umile, se possibile, quasi dimesso ma altamente riflessivo su che cosa voglia dire, oggi, insegnare. Il tema del libro è esclusivo e riguarda, appunto, il mio lavoro di maestro con i bambini che ho seguito in questi ultimi anni a Milano. Qualcuno mi ha detto: “Difficile scrivere dopo un libro come “Compitu re vivi”. È uno dei motivi per cui ho perseguito una strada più in sordina, sviluppando comunque un tema che mi appartiene profondamente.

Chi ha seguito la polemica su facebook, sa che, a un certo punto, nella ricerca di un nuovo editore, mi sono rifiutato di sottoporre il mio testo a un comitato di lettura. Mi serviva una situazione vergine, piuttosto; ancora all’inizio, e così è avvenuto, grazie all’iniziativa di Gabriela Fantato e dell’editore Sandro Salvagno. Spero che non si debba pentire di questa sua inedita avventura con la poesia.

 

 

15.  Sempre riguardo a “Infanzia resa”, perché un lettore che normalmente non legge poesia dovrebbe leggerlo? Perché invece un lettore avido di poesia dovrebbe leggerlo?

 

È un libro che è costruito su una specie di correlativo oggettivo: ciò che dico ha una precisa corrispondenza nella realtà. Non vendo parole, linguaggi metaforicamente vertiginosi. Mi interessa la profondità del discorso. E poi il tema è attualissimo e bruciante: la scuola, l’educazione, il significato dell’essere maestro, i debiti che si pagano alla propria infanzia...

 

 

16.  A cosa stai lavorando? Hai altre pubblicazioni in programma a breve?

 

Sì… ma preferirei non parlarne.

 

 

17.  Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Non sono contrario, anche se appartengo alla categoria degli estimatori della carta stampata. Anche per motivi affettivi e di artigianato – sono uno che usa molto le mani –. Credo che editoria tradizionale e elettronica debbano lavorare in sinergia.

 

 

18.  Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti dare una risposta?

 

Polemicamente vorrei porla io una domanda: ma perché Mondadori non mi ha ancora pubblicato?

 

 

Grazie.

 

 

[ Leggi due poesie tratte dal libro Infanzia resa ]

 

*

- Intervista

Massimiliano Mistri

 

[ A cura di Roberto Maggiani ]

 

 

1.      Salve, potrebbe gentilmente presentarsi a chi non la conosce e dirci qual è il suo ruolo all’interno delle Edizioni La Gru?

 

Salve a tutti. Sono il co-fondatore della Gru, progetto nato, da me e mia moglie Serena, nel 2010 sulle ceneri di una piccola libreria indipendente padovana. Tecnicamente mi occupo della scelta dei testi, della loro correzione, dei contatti con gli autori che realizzano le copertine, eccetera. Un po' di tutto, eccetto amministrazione e ufficio stampa.

 

 

2.      Può presentarci le Edizioni La Gru in poche battute? Come siete nati, perché, da quanti anni, quanti siete, dove siete diretti, eccetera.

 

Per l'appunto siamo nati nel 2010. A settembre 2010, per la precisione, con "Il mendicante di pensieri", di Meri Nigro. Siamo in 3 e mezzo, perché il mezzo è impegnato anche in un suo progetto editoriale, Entropia, che ha ideato per pubblicare me. Siamo in viaggio, un viaggio attento al bilancio e alla libertà di scegliere quale direzione prendere di volta in volta.

 

 

3.      Rispetto ad altre case editrici in cosa vi distinguete? Qual è il vostro ruolo nel mondo dell’editoria e in quello della letteratura?

 

Mah, non penso che ci distinguiamo per qualcosa. Faccio molta fatica a trovare evidenti differenze tra editori, eccetto alcuni che mi vengono in mente e che hanno una vivida linea di demarcazione (Sur, Iperborea). Forse facciamo una selezione feroce (il 98% per materiale che ci arriva, viene cestinato), ma non so sinceramente come si muovano gli altri. Trovo poco interessante stalkerare il prossimo. Preferisco centrarmi sul mio progetto. Nel mondo della letteratura cerchiamo di inserire meno spazzatura possibile. Cerchiamo storie che per vari motivi arrivino a toccarci e cerchiamo di essere meno banali possibili.

 

 

4.      Ricevete molte proposte editoriali? Leggete tutto il materiale che vi arriva? Rispondete a tutti o solo a chi interessa ai fini della pubblicazione?

 

Riceviamo una media di 5 dattiloscritti al giorno. Leggiamo tutto il materiale che ci arriva, eccetto fantasy, erotici, rosa, graphic novels, paranormal romance e romanzi storici. Quelle storie non ci interessano e di conseguenza non vi perdiamo tempo.

Una volta rispondevamo a tutti, ma è successo di essere stati insultati da autrici e autori infastiditi dal rifiuto, per altro ampiamente motivato. Di conseguenza abbiamo smesso, seppure controvoglia perché trovo comunque interessante uno scambio di opinioni, fermo restando che un NO deriva, per lo meno nel nostro caso, da un gusto personale.

 

 

5.      In linea generale quali criteri adottate per selezionare gli autori che pubblicate?

 

Ci devono piacere le storie. Le storie devono essere messe al primo posto, ma la mia sensazione è che si vendano gli autori, non le storie. Ed è un peccato perché questo abbassa in modo drammatico il livello medio.

 

 

6.      Riguardo al web, vi muovete in rete alla ricerca di scrittori da pubblicare? Vi è mai capitato di intercettare un autore sul web e di essere voi a fargli un’offerta di pubblicazione?

 

Ci è capitato di intercettare qualcuno sul web e di chiedere di pubblicare con noi. Per esempio Lorenzo Mele che a giorni vedrà pubblicato "Tu mi abbandoni" con Entropia, la sorellina minore della Gru.

 

 

7.      Effettuate un editing sui testi?

 

Certo. Non si possono pubblicare libri senza un lavoro sul testo.

 

 

8.      In percentuale, sul totale dei libri che ricevete in lettura, a suo avviso, quanti sono insufficienti? Quanti sufficienti, buoni o ottimi?

 

Insufficienti direi un 97-98%. Il resto si divide nella percentuale rimanente.

 

 

9.      In fondo una casa editrice è una Impresa commerciale che per mantenersi deve vendere, almeno per pareggiare i conti, come riuscite a fare letteratura e a tenere in piedi l’Impresa?

 

Pareggiare i conti non basta a comprarsi il pane. Deve sempre entrare più di quello che esce, altrimenti è inutile anche solo mettersi su un libro. Noi ci muoviamo in microeditoria, stampiamo quel che ipotizziamo di vendere, tenendo conto che possiamo sempre ristampare anche piccole quantità a prezzi buoni e in tempi velocissimi (24/48 ore). Quindi è un po' come se avessimo un magazzino infinito, senza avere il costo di merce ferma.

 

 

10. Ci può, in breve, parlare delle collane delle Edizioni La Gru e dirci quali sono quelle che hanno più difficoltà di vendita?

 

Catarsi è la collana dedicata ai racconti. Un genere che ci piace moltissimo e inspiegabilmente sottostimato. 14° piano è la collana riservata ai romanzi. Scintille è quella di poesia mentre Le Gru sono i tascabili. Non c'è una collana che ha maggiori difficoltà di altre. L'importante è trovare autrici e autori che credono nel proprio libro e ci aiutino a supportarli. Che ci stimolino a trovare presentazioni, che ci stimolino a trovare idee. Serve un continuo faccia a faccia.

 

 

11. Riguardo alla poesia, è vero che vende poco? Perché eventualmente continuare a pubblicare poesia? O le vostre vendite di poesia si situano al di fuori della tendenza nazionale? Quali sono le difficoltà nel mantenere aperta una collana di poesia?

 

Dipende da quale poesia. Se parliamo degli slammers, allora la poesia non vende poi così poco. Anche se dipende sempre da cosa si intende per "poco". Se stampo 100 copie e ne vendo 90, ho venduto bene. Se ne vendo 1000 e ne ho stampate 6000, ho venduto male. Parlo dal punto di vista dell'editore. L'autore, visto che non paga un euro per pubblicare con noi, è ovviamente più interessato al dato di vendita che a quello di bilancio.

 

 

12. Molti editori obbligano gli autori, da contratto (alcuni addirittura fuori contratto), ad acquistare copie delle proprie pubblicazioni, non solo per andare in pari ma finanche per guadagnarci, voi come vi comportate?

 

Siamo No-EAP.

 

 

13. Quali sono le vostre strategie di distribuzione e promozione dei libri che pubblicate? Quali difficoltà incontrate? Si diversificano per genere letterario?

 

Abbiamo una distribuzione nazionale che si occupa della diffusione a qualunque libreria faccia rischiesta. Cerchiamo di organizzare più presentazioni possibile anche extra librerie. Le difficoltà che incontriamo sono di rendicontazione da parte delle librerie che ricevono volumi in conto deposito. E il pagamento delle fatture emesse. Sono anni che combattiamo con librai insolventi, volgari e maleducati. Gente che insulta al telefono solo perché richiediamo il saldo del dovuto. Posso dire che i librai mediamente non mi stanno simpaticissimi, su.

 

 

14. Se un libro non ha sufficiente visibilità è colpa dell’autore, dell’editore, del distributore, del libraio? Qual è il punto debole della catena? O, in positivo, se ha una ottima visibilità da chi o da che cosa dipende?

 

Non è colpa di nessuno. Sono cose che succedono, con tutti i libri che escono ogni anno in Italia, anche a causa del selfpublishing. Abbiamo una saturazione. Se si ha una buona risposta, il merito è prevalentemente della sincronia autore/editore. I librai hanno un peso specifico minore di quel che avevano una volta perché la libreria ha perso un po' quel ruolo di aggregatore culturale che aveva tanti anni fa.

 

 

15. Che rapporto avete con i Premi letterari e con i Media?

Con i media abbastanza buono. Alla fine siamo arrivati su Panorama, Rai, Messaggero, Corriere, Repubblica, Rolling Stones, molti blog e giornali online e locali. Con i premi letterari, medio. Ogni tanto partecipiamo, ma cerchiamo di sceglierli con oculatezza.

 

 

16. Ha un aneddoto da raccontarci?

 

Certo. La notte insonne a finire di correggere "Incubi a Nordest" di Alberto De Poli. Ci siamo resi conto, a poche ore dalla spedizione del materiale alla tipografia, che vi erano incongruenze tra le date riportate nel testo. Ricordo il gelo sceso al tavolo, ricordo un messaggio di allarme inviato ad Alberto la sera e ricordo fogli e fogli di appunti, di date, di incroci, di schemi per arrivare ad una quadratura. Saltammo il sonno e il libro venne sistemato e partì per il suo viaggio.

 

 

17. Quali libri ci consiglia di leggere editi dalle Edizioni La Gru? Uno per ogni collana (almeno uno di poesia ce lo deve consigliare).

 

Scelta complicata. Come scegliere tra i propri figli.

Ad ogni modo tra i romanzi appunto "Incubi a Nordest". Una storia divertente e drammatica scritta da un autore diventato un vero amico. Una persona che stimo a livello umano e artistico. Una persona che se mi chiedesse di raggiungerlo oggi stesso a Treviso, prenderei il treno immediatamente.

In poesia direi "Cartoline da un paese in dismissione" di Vera Bonaccini. Una poetessa con un talento molto superiore a quel che pensa di avere.

Per i racconti penso a "Dieci piccoli passi" di Francesco Pierucci. Il mio primo vero amore editoriale. Storie piene di umanità. Però non posso assolutamente dimenticare "Dovevo dirtelo" della fantastica Sara Vannelli. Penna vigorosa e vitale.

Tra Le Gru ho un grande amore per "Luci e ombre" di Greta Ghiselli. Anche Greta è diventata una amica vera, al punto che la scorsa estate abbiamo passato una settimana di vacanza assieme con le rispettive famiglie. E speriamo di bissare. Quindi Greta, se leggerai… Basta che non mi torturi con il Duca Bianco, per favore.

 

 

18. Se vuol aggiungere altro a suo piacimento la ascoltiamo molto volentieri.

 

Vorrei menzionare "Qualcosa non va.." di Giulia Zatti. Un libro fondamentale non tanto per noi quanto per l'Italia. Dentro vi è il coraggio di una giovanissima donna che ha raccontanto da dentro il Disturbo Ossessivo Compulsivo. Abbiamo avuto la fortuna di poter ospitare Giulia a casa nostra per un mese. Un mese di vita assieme. Un mese di film, passeggiate, pranzi e cene. Un mese di parole e di silenzi. Un mese in cui abbiamo conosciuto qualcosa di veramente forte. Qualcosa con cui Giulia lotta tutti i giorni. Ma so che Giulia ce la farà perché è intelligente e combattiva.

 

 

Grazie Massimiliano.

 

*

- Intervista

Daniela Monreale

 

L’autrice qui intervistata è Daniela Monreale, seconda classificata nella Sezione A (Poesia) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, III edizione 2017 con “Il coraggio della parola”.

 

 

 

Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

In poche righe non è per nulla facile presentarsi. Quasi quasi lo farei con una metafora: sono un cuore d’aquila che sogna le alture, da dove poter contemplare la bellezza dell’arte e della conoscenza.

Ma più “terra terra”, ecco che mi presento: una donna di 53 anni, che da quando era piccola scrive poesie, divora libri, non si stanca mai di apprendere e di scoprire cose nuove. Sono siciliana d’origine ma vivo da quasi vent’anni ormai in Toscana, nel Valdarno fiorentino. L’arte e la scrittura sono stati sempre i miei grandi amori. Da qualche anno mi dedico anche alla scrittura autobiografica, ho conseguito il diploma di esperta presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e conduco corsi di formazione presso strutture pubbliche e private.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Ho letto tantissimo e francamente non so quali autori, classici e contemporanei, abbiano ispirato la mia scrittura, magari le loro suggestioni  si sono sedimentate in maniera impercettibile e solo il lettore delle mie poesie potrà coglierne le sfumature. Tra gli autori che amo cito almeno Emily Dickinson, Giovanni Pascoli, Camillo Sbarbaro, Cesare Pavese, Eugenio Montale, Alda Merini, Milo De Angelis, Helle Busacca, Lucio Zinna, Antonella Anedda, Patrizia Cavalli…

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Mi viene in mente la definizione di Montale sulla poesia in quanto “inutile”. In effetti, la poesia non può essere “utile”, non è un arnese, una merce, e dunque è pertinente la sua “inutilità”. Lo stesso discorso lo estenderei alla scrittura in genere: sebbene il mercato oggi abbia invaso tutte le occupazioni umane, arte compresa, c’è comunque sempre una dimensione di libertà nella scrittura, di sua autonomia  dai circuiti funzionali e tecnologici. La funzione estetica è come uno specchio che rimanda all’origine le fattezze di un’opera creativa, perché essa possa declinarsi in contemplazione. Lo scrittore dunque, perché sia “utile” alla società, a qualsiasi società, secondo me deve salvaguardare questa sua libertà, non servire nessuno, se non l’autenticità della propria scrittura. Da questa salvaguardia e solo allora potranno scaturirne critica sociale, impegno civile, direzione morale.

Nello specifico di questa società, lo scrittore può divenire argine contro la barbarie e la volgarità di una dimensione mediatica del parlare che pure nei livelli quotidiani sta infangando le relazioni umane, vedi le bufale e la spicciola cattiveria che dilaga nei social…

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Ho iniziato a scrivere a tredici anni. L’esordio è stato triste, una mia compagna di scuola era morta di tumore e sentii il bisogno di mettere su carta dei versi. Da quel momento non mi sono più fermata, ho pubblicato fin adesso una decina di libri, tra volumi e plaquette. I miei primi consiglieri sono stati Anna Maria Bonfiglio e Lucio Zinna, poeti palermitani, a cui sono grata per l’importante incoraggiamento che mi hanno dato, negli anni in cui mettevo insieme dei testi per le mie prime pubblicazioni. In seguito ho conosciuto Maurizio Cucchi, che mi invitò nella sua casa di Milano, negli anni Novanta. Fu una chiacchierata molto simpatica, lui apprezzava i miei versi e anche questo incoraggiamento fu di nutrimento alla mia “militanza” poetica. Poi nel tempo ho avuto altri incontri con autori e critici, per lo più saltuari e rapidi.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

A volte per vera e propria folgorazione, che mi tiene incollata alla pagina per ore e ore (un mio libro di 33 poesie fu composto in un solo giorno), altre volte in un processo più lento, in cui i vari frammenti poetici vengono poi cuciti insieme, in un ricamo laborioso ma assaporato con un piacere quasi corporeo.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Di dar voce all’intensità di un’immagine, di un sentimento, di uno scavo interiore. Vorrei rendere percettibile un nodo esistenziale, una gioia sottile, un colore emotivo.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Anche qui, valgono le impressioni dei lettori. Non saprei, sono troppo “vicina” alla mia scrittura per coglierne la specificità rispetto ad altri autori contemporanei.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Nelle mie prime raccolte dominava il tema amoroso, in una dimensione raccolta e malinconica. Da “Gli occhiali di Spinoza” (Ed. L’Arca felice, 2011) c’è stata un’importante svolta, i contenuti si sono ampliati in una riflessione esistenziale, filosofica, e questo allargamento di visuale è proseguito nelle pubblicazioni successive.

Adesso nella mia poesia compaiono, oltre al sempreverde  argomento sentimentale, temi quali la critica alla decadenza della società - soprattutto nel versante del degrado della comunicazione e della solitudine della dimensione urbana - poi l’attenzione al mondo naturale, visto nella sua sapiente piccolezza e innocenza, e l’esaltazione della Bellezza, intercettata nell’inaspettato contatto con la meraviglia che può suscitare un gesto autentico, uno scarto dall’abitudine e dalla generale indifferenza.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all’altro genere letterario?

 

Penso che poesia e scrittura siano due cammini paralleli, ugualmente importanti, che possono svelare l’universo delle parole per come esse scelgono di rivelarsi.

Con la poesia sono cresciuta, certo, ma la prosa sta diventando per me uno strumento di scrittura sempre più desiderato e coinvolgente. Negli anni recenti ho scritto dei racconti, alcuni dei quali pubblicati su riviste. Ora sto pensando a un romanzo.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Molto. La Sicilia, con i suoi intensi colori, sapori e profumi, ha intriso moltissimi miei versi di un immaginario lussureggiante, di un accento corposo e sensuale, come se il magma delle emozioni avesse cercato in tutti i modi di scorrere nelle mie parole. Nelle ultime raccolte ho invece  “moderato” certe accensioni liriche, ricercando un equilibrio che levigasse il verso, per un dettato più asciutto, essenziale.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Un rapporto dialettico, che lo scrittore cerca di mediare e di trasferire in una parola che riporti l’evidenza della realtà esteriore, inscritta però in un immaginario altrettanto reale, fatto di desideri, sentimenti ed emozioni reali. Secondo me l’immaginazione, il sogno, la fantasia non sono antitetici al reale, sostanziano semmai la verità di un vissuto senza la quale il reale decadrebbe a semplice fotogramma, documento muto di un’esistenza.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Risposta secca: economici. Purtroppo la realtà editoriale è fatta per lo più di contributi economici da parte dell’autore, a meno che non sei un autore già famoso oppure introdotto dall’ala protettrice di un critico. Non lo dico polemizzando, ma come dato di fatto, perché le pubblicazioni fanno parte anch’esse di un’industria, di un mercato.

La richiesta di un corrispettivo rivela poi, in certi casi, il rischio di scarsa cura dell’editore per la qualità dei testi. Come dire: tu mi paghi, ti pubblico il libro e poco vale se non è scritto bene.

Ultimamente però ho incontrato degli editori che non chiedono soldi, mosche rare in uno scenario molto omogeneo.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Ho lettori che mi seguono, con i quali si crea poi una corrente di simpatia che è una delle gioie più belle procurate dalla scrittura: la condivisione di un atto creativo, che diventa specchio per altrui emozioni, riflessioni.

 

 

Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Penso che il lettore si rispecchi nel testo, perché nel processo della lettura avviene un’identificazione, un’immersione nel testo, e così è anche quando si guarda un film: l’immedesimazione in un personaggio, in una situazione o in un’immagine poetica porta il lettore/spettatore a far collidere la propria storia con un’altra storia. Ma non sono d’accordo con l’affermazione di Proust sulla visione “strumentale” tout court di un’opera letteraria. Secondo me storia personale e testo letterario rimangono autonomi e intatti, nonostante il contatto tra loro originato dalla lettura.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Mi dedico costantemente alle recensioni, collaborando con alcune riviste letterarie. Per valutare un testo  guardo soprattutto alla capacità della scrittura di veicolare un messaggio significativo, attraverso un linguaggio distintivo, caratteristico dell'autore. La buona scrittura per me è fatta di originalità, di chiarezza dell'autenticità, e ovviamente di piacevolezza del linguaggio.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Quella di Mario Fresa, come prefazione a  “Gli occhiali di Spinoza”. Un testo pieno di intuito e sapienza critica, che ha colto gli elementi più salienti della mia poetica.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Ho una raccolta  di poesie inedite, già pronta. E poi sto elaborando la trama del mio primo romanzo.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Amo l’arte pittorica: mi piace visitare musei, mostre e collezioni. Poi colleziono libri antichi, soprattutto volumi illustrati per l’infanzia. E mi dedico anche a passioni molto diffuse, come la collezione di francobolli e di monete antiche

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Ho partecipato perché ne ho apprezzato la qualità della giuria. I premi hanno per me il valore della condivisione dei testi, del riconoscimento dell'efficacia comunicativa del testo e, cosa molto importante, della possibilità di incontrare scrittori, critici e lettori appassionati.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Agli autori presenti su LaRecherche.it vorrei dire di curare la condivisione dei loro testi e di interagire tra loro, perché una comunità di scrittori è un valore aggiunto e un derivato prezioso dell'attività di scrittura. Apprezzo la circolazione della scrittura in rete, la rapidità e la facilità di fruizione che il mezzo informativo agevola. Sull'editoria elettronica, pur apprezzandone le capacità di diffusione, sono molto diffidente, perché amo il libro non solo in quanto testo, ma come oggetto, che oltre a leggere posso toccare, odorare, insomma sentirne il “peso”.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Vorrei dire che vivere e scrivere non sono per me due cose alternative, come diceva Pirandello, ma possono benissimo farsi compagnia lungo il tragitto misterioso e dolceamaro dell'esistenza.

 

 

Grazie.

 

*

- Intervista

Giuseppe Lamarca

 

L’autore qui intervistato è Giuseppe Lamarca, terzo classificato nella Sezione B (racconto breve) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, III edizione 2017, con “L’Agrimensore di mia moglie”. È possibile leggere il suo racconto nell’e-book del premio, scaricabile gratuitamente a questo indirizzo: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=217; nello stesso sono presenti le Opere dei primi dieci classificati per entrambe le sezioni.

 

*

 

Ciao Giuseppe, chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Ho trentun’ anni e sono sposato con Pamela da sette mesi. Questa prima frase è opera di mia moglie che mi ha obbligato a inserirla. Sono alto un metro e novanta e somiglio a Brad Pitt. Lo dico perché sono sicuro che nessuno vedrà la foto, vero? A parte gli scherzi, abito a Milano da cinque anni ma sono cresciuto a Ruvo di Puglia in provincia di Bari. Ho studiato economia ma ho sempre avuto la passione per la scrittura.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Mi sono formato sui testi di Wodehouse e di tanti altri autori comici come Jerome, Adams e Bennet (la lista è troppo lunga, mi fermo qui). Anche il cinema mi ha influenzato: amo Woody Allen come se fosse mio zio. Anche la commedia italiana fa parte del bagaglio che apro quando comincio a scrivere: Troisi, Verdone, Villaggio. Tra i miei scrittori preferiti, attualmente, c’è Francesco Muzzopappa. Credo che il suo “Una posizione scomoda” sia già un punto di riferimento per chi vuole fare comicità in Italia.

 

 

Secondo te quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Credo che lo scrittore abbia due ruoli. Il primo rimane quello di raccontare e cioè di soddisfare uno dei più grandi bisogni dell’uomo: la narrativa. Poi, secondo me, deve essere una specie di termometro dell’umanità, come in passato. Con l’umorismo, per esempio, si può fare tanto da questo punto di vista.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

I primi passi li ho mossi con il rap. Ho cominciato a quattordici anni, riempiendo i miei diari scolastici di rime. Poi, essendo un grande appassionato di pallacanestro, ho scritto per molto tempo articoli per vari siti. Da tre anni, invece, scrivo racconti. Studio presso la scuola di scrittura di Raul Montanari. È stato un incontro fondamentale perché mi ha aiutato a cambiare il mio stile da giornalistico a narrativo.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Comincio partendo da un personaggio o da una storia che mi ha colpito. Lo faccio continuamente e sul cellulare ho un mare di appunti. Sono uno che sta attento a tutto. Per esempio, quando sono in fila al supermercato o in posta, ascolto i dialoghi degli altri. Molti sottovalutano la potenza narrativa che ogni persona possiede. C’è in giro gente che ha milioni di storie da raccontare e io cerco di nutrirmene. Se non ho ispirazione, provo a ricordare qualcosa che ho ascoltato o che ho vissuto e, dopo un paio di minuti, sono già davanti alla pagina bianca.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Far ridere. Credo sia da sempre il mio obiettivo primario. Cerco di analizzare i rapporti familiari, le amicizie, i sentimenti, pensando sempre al lato umoristico che ognuno di questi porta con sé. I miei racconti nascondono una generale tristezza di fondo. Il protagonista è sempre qualcuno che non riesce a raggiungere il suo scopo e che comunque fa mille tentativi. Tutti noi cerchiamo di nascondere i nostri fallimenti. Io adoro mostrarli per spiegare ai lettori che non esiste niente di cui vergognarsi.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

È una domanda complicata. Mi è capitato più volte di ricevere questo commento: “Ho letto il tuo racconto e ho capito subito che eri tu ad averlo scritto. Avresti potuto non metterci la firma. Hai uno stile inconfondibile.” Non so spiegarne il motivo, ma adoro sentirmelo dire.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Tutti abbiamo delle ossessioni. È vero. Ci sono temi che ritornano in tutti gli scrittori. Io amo parlare del sud e degli anziani. Ruvo, la mia città, fa parte dei miei racconti quasi sempre. Un’altra figura che amo è quella della zia. Ho sempre pensato che gli zii siano fondamentali nella crescita di una persona. I miei sono straordinari e particolari, quindi c’è sempre qualcosa di loro in tutto quello che faccio.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all’altro genere letterario?

 

La poesia mi piace. Ho scritto per anni poesie dedicate a mia moglie. Ho dei quaderni pieni a casa e prima o poi dovrò decidermi a farglieli leggere.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Quasi tutte le mie storie si svolgono in Puglia. Per due motivi: il primo è che conosco benissimo i luoghi e riesco a utilizzarli come ambienti dove far muovere i personaggi che creo. Il secondo è che amo molto Ruvo e il sud. Le battute e le scene umoristiche che preparo non esisterebbero senza l’influenza della mia terra.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

L’immaginazione è necessaria per affrontare meglio la realtà ed è un bene a cui nessuno dovrebbe rinunciare. È un mezzo potente e gratuito che può aiutarci ad affrontare momenti di noia e solitudine. Io la uso spesso in tram, specie quando non ho nulla da leggere. Noto una persona e costruisco una storia della sua vita ponendomi alcune domande: “Dove sta andando?”, “Perché è così elegante?”, “Sua moglie cosa avrà preparato per cena?” È chiaro, d’altro canto, che lo scrittore deve essere bravo a non distanziarsi troppo dalla realtà per mantenersi su quella linea di demarcazione che la separa dall’immaginazione.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Bè, sto lavorando a un romanzo. Sicuramente incontrerò delle difficoltà per la pubblicazione ma sono pronto ad affrontarle.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Una di loro è diventata mia moglie… Devo dire, però, che non ho con tutti un rapporto così confidenziale. Per ora, tramite il mio blog, ho radunato un buon numero di persone che leggono le mie cose. Mi piace che la gente si interessi a quello che faccio, che mi dica che ha passato dieci, quindici minuti di allegria.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

È vero. Questo, spesso, il lettore lo ottiene identificandosi con il protagonista di una narrazione che sta affrontando. Sobbarcandosi gli ostacoli che quest’ultimo deve superare per raggiungere il suo obiettivo finale, si trova a riflettere su aspetti che fanno parte del suo quotidiano.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Finora no, ma mi piacerebbe!

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Una signora mi disse: “È stata una brutta giornata, ti giuro. Stavo pensando che fosse totalmente inutile quando, all’improvviso, è arrivato il tuo racconto e mi ha fatto ridere. Grazie.”

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Sono su più fronti e, infatti, è un periodo abbastanza prolifico. Sto preparando due racconti lunghi e un romanzo. Spero di renderli pubblici il prima possibile.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Mi piacciono molto le pulizie di casa. Scherzo, ovviamente. Credo che mai nessuno, a parte mia nonna (era una vera appassionata), abbia mai risposto così a questa domanda. In realtà adoro seguire lo sport (non praticare). Leggo molto e sono un collezionista di qualsiasi cosa. Negli ultimi anni mi sono dato alla raccolta delle tazze da colazione.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

I premi letterari sono importanti perché permettono agli scrittori emergenti di farsi le ossa e di migliorare. Un risultato negativo, per esempio, ti porta a analizzare gli errori che hai fatto e a capire dove intervenire.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

La libera scrittura aiuta tanti a farsi conoscere e, per questo, può essere un trampolino di lancio. Non si sa chi può venire in possesso del tuo libro o del tuo racconto. È, inoltre, un modo rapido per arrivare al lettore. Magari sei in metro e non hai con te un libro: vai su LaRecherche.it e leggi.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Vorrei dire che sono molto contento di aver raggiunto il terzo posto con un racconto comico. Spesso si tende a sottovalutare il potere dell’umorismo, considerandolo inferiore agli altri generi letterari. In realtà è uno degli stili più complicati da adottare perché occorre calibrare al massimo ogni personaggio. Il rischio più grosso è proprio quello di non far ridere.

 

 

Grazie.

*

- Intervista

Daniela Neri

 

Intervista ai primi tre classificati, Sezione A e Sezione B, del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, a cura della Redazione de LaRecherche.it

 

 

Iniziamo la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, III edizione 2017, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere nell’e-book del Premio: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=217

 

*

 

L’autrice qui intervistata è Daniela Neri, prima classificata nella Sezione B (racconto breve) con “Mille colori”.

 

 

Ciao Daniela, chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sono una persona che vive intensamente ogni sensazione, nel bene e nel male. 

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formata e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Sono sempre stata una lettrice onnivora, fin da giovanissima. Durante gli anni delle scuole medie e al liceo ho letto un po’ di tutto: da Nietzsche a Edgar Allan Poe, da Kundera ad Hesse, passando per i grandi classici italiani e i poeti maledetti. A 16 anni mi sono perdutamente innamorata di Virginia Woolf, del suo stile incentrato sullo “stream of consciousness”, sul flusso di pensieri, emozioni e ricordi che acquistano maggiore importanza rispetto alla trama. Il suo insegnamento più bello per me è racchiuso in queste parole: “La vita non è una serie di lampioncini disposti simmetricamente; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine.” In quello che scrivo ho sempre cercato quell’alone luminoso, quell’involucro semitrasparente in grado di avvolgere ogni singola frase. 

 

 

Secondo te quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Lo scrittore è un tramite, una sorta di lente attraverso la quale il lettore riesce a vedere meglio se stesso e quello che lo circonda. Dal mio punto di vista chi scrive dovrebbe essere un bravo musicista, un bravo pittore e allo stesso tempo una persona capace di creare il silenzio e il buio attorno, un silenzio e un buio in grado di generare un momento di riflessione.

Nella società attuale, in particolare, il ruolo dello scrittore assume una grande importanza: oggi siamo tutti connessi, ma manca una connessione intima, profonda e vera. Siamo bombardati da una miriade di informazioni, molte delle quali inutili o fasulle, abbiamo tutti gli strumenti per raggiungere un determinato luogo, ma non siamo in grado di trovare il centro di noi stessi. La lettura in questo senso diventa anche un momento di raccoglimento nel quale ognuno può ritrovare le “proprie coordinate”.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittrice? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Una delle prime poesie l’ho scritta intorno ai 10 anni per consolare la mia sorellina rimasta sconvolta dopo una visita ad un allevamento di carpe. Aveva visto le carpe nuotare allegre e felici e poi agonizzanti dopo essere state pescate e ne era rimasta scioccata. Mi ricordo che scrissi una poesia con protagonista una carpa che guizzava allegra nel paradiso dei pesci!

Tra gli incontri importanti voglio ricordare mia nonna paterna che, insieme a mia madre, mi ha trasmesso l’amore per la lettura; il mio amico Giordano al liceo; la mia amica Antonella durante gli anni dell’università; Rachele, che ogni giorno mi invita a scrivere scrivere scrivere; la scrittrice Rosa Manauzzi, che mi ha seguito nella pubblicazione del mio saggio “Palinsesti woolfiani” e il musicista e cantautore Giovanni Nuti, grande amico di Alda Merini, che durante una conversazione telefonica sulla poetessa mi ha ispirato alcune idee letterarie.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Scrivo la sera, di solito, perché amo le luci soffuse. Quando scrivo di giorno tendo ad abbassare le serrande per tenere alla larga la luce. Accendo qualche candela, indosso le cuffie per ascoltare della musica per pianoforte (Philip Glass e Ludovico Einaudi in particolare) e mi verso un bicchiere di vino rosso di quelli buoni, quelli che annusi sempre a lungo prima di sorseggiarli lentamente. Spengo il cellulare, sempre, perché oltre alla luce in quei momenti per me è essenziale tenere fuori anche il resto del mondo. Quando scrivo ci siamo solo io, la musica, le candele, il vino e il mio computer.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Potrei dire che la scrittura su di me ha un effetto catartico, ma sarebbe riduttivo. Potrei dire che la scrittura per me è vitale, ma a quel punto sarebbe esagerato, perché le cose vitali sono altre. Allora mi limito a parafrasare Charlie Chaplin, che disse “Un giorno senza un sorriso è un giorno perso”. Ecco, per me un giorno senza scrittura è un giorno perso. Solo quando riesco a scrivere qualcosa di significativo sento di aver vissuto veramente, di aver vissuto quel giorno fino in fondo. Scrivere per me è liberarsi di tutto il rumore che ci circonda, rannicchiarsi in se stessi e ritrovarsi. Mi piacerebbe che le mie parole avessero lo stesso effetto su chi legge: sarebbe bello se chiunque mi leggesse riuscisse per un po’ a liberarsi da tutto il rumore intorno, a rannicchiarsi in se stesso e ritrovarsi.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

A questa domanda dovrebbe rispondere chi mi ha letto. Posso dire, comunque, quello che mi piacerebbe non mancasse mai nella mia scrittura: il colore e la musicalità.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Come accennavo prima, quello che cerco sempre quando scrivo è il colore e la musicalità. Mio nonno materno era pittore e musicista e credo mi abbia trasmesso l’amore per la musica e la pittura. Non saprei dire esattamente come si è evoluta la mia scrittura, ma credo che ultimamente tenda ad essere più “strutturata” rispetto al passato. Anni fa scrivevo di getto dando pochissima importanza alla trama, adesso tendo ad organizzare il discorso in modo più articolato.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all’altro genere letterario?

 

Ho iniziato scrivendo poesie e per gran parte della mia vita ho prediletto la scrittura in versi. Da alcuni anni mi dedico quasi esclusivamente alla Prosa. La Poesia non l’ho abbandonata, comunque. Non penso che sia possibile farlo, almeno non completamente. Una volta che hai scoperto la Poesia te la porti sempre dentro, magari per un po’ se ne sta rintanata in un cantuccio, ma c’è sempre.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Ho accennato più volte alla musica e al colore che cerco di mettere in quello che scrivo e credo che questi due elementi, insieme alla poesia delle cose, rappresentino al meglio l’Italia.

Ho avuto la fortuna di viaggiare moltissimo e tuttora vivo in bilico fra l’Inghilterra e il Belpaese. Ho visto molti luoghi bellissimi, ma non ne ho mai trovato uno con un mix di poesia, musica e colore migliore del nostro.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Quello fra immaginazione e realtà è un confine labile. Lo scrittore si trova in bilico tra questi due mondi.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Ammetto molto candidamente che, finora, non ho fatto grandi sforzi per cercare di pubblicare i miei testi. Ho partecipato ad alcuni concorsi letterari in passato, riscuotendo sempre un certo successo e in alcuni casi i miei scritti sono stati pubblicati in antologie, ma sono stata sempre un po’ pigra nel bussare alla porta di case editrici e simili chiedendo di essere pubblicata. Ho tuttavia promesso a molte persone che quest’anno mi impegnerò di più!

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Credo che i miei lettori siano fondamentalmente persone sensibili che amano il potere suggestivo delle parole. Il rapporto che ho con loro? Di amore e timore. Amo scrivere e amo essere letta, ma allo stesso tempo ho spesso paura di non riuscire a trasmettere appieno quello che ho da dire attraverso le parole. Amare implica assumersi grosse responsabilità e avere sempre paura di non dare mai abbastanza.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

In una risposta precedente ho affermato che lo scrittore è una lente attraverso la quale il lettore riesce a vedere meglio se stesso e quello che lo circonda. Pertanto condivido pienamente la frase di Marcel Proust e ritengo sia una definizione azzeccatissima della figura dello scrittore.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Per alcuni anni sono stata fra i relatori di una serie di conferenze su temi letterari nel mio paese natale, Ciampino.

Dal mio punto di vista una buona scrittura è quella in grado di trasmettere qualcosa. Un buon testo è un testo scritto bene, ovviamente, senza errori grammaticali e fluido, ma deve essere anche e soprattutto un testo “sentito”, scritto con passione.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Mi è stato detto che il mio racconto Mille Colori riporta alla mente il movimento artistico del Fauvismo: bello, colorato e apparentemente radioso ma forte e quasi violento nelle sue espressioni artistiche, intriso di una vena di tristezza sottostante che non ti abbandona mai durante la lettura. L’ho trovata una critica bella e molto particolare.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Attualmente mi diletto a scrivere racconti e sono in procinto di sottoporre all’attenzione di alcune case editrici il manoscritto di un romanzo. La prossima pubblicazione? Spero molto presto!

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

La lettura, ovviamente, perché prima di scrivere bisognerebbe sempre leggere, leggere molto, con fame, entusiasmo e attenzione. Poi amo viaggiare e fare lunghe passeggiate, e ho una grande passione per il vino. Mi piace girare per enoteche e scoprire sempre nuovi vini e ho letto varie opere di argomento enologico. Del vino amo ammirarne il colore e gustarne il profumo prima di assaporarlo. Un giorno mi piacerebbe seguire un corso per sommelier... e poi magari scrivere un libro sull’argomento!

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Erano anni che non partecipavo ad un concorso letterario. Ho deciso di partecipare al Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie” spinta dalla trasparenza, serietà e professionalità della redazione di LaRecherche.it

I concorsi letterari dovrebbero essere una vetrina e un trampolino di lancio per autori emergenti, ma sfortunatamente spesso nascondono dinamiche poco trasparenti e si rivelano specchietti per le allodole.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Il mio consiglio è semplicemente lo stesso che rivolgo ogni giorno a me stessa: scrivete, scrivete, scrivete. Ma cercate di farlo interpellando prima il cuore. Scrivete di getto e lasciate l’esercizio di “limatura” solo per una fase successiva. Mi capita spesso di leggere cose scritte benissimo, ma prive di anima. La libera scrittura in rete è, appunto, “libera”, e come tutte le cose libere rimanda a qualcosa di positivo.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Voglio aggiungere un immenso GRAZIE per le persone che hanno letto il mio racconto Mille Colori, indipendentemente dal fatto che lo abbiano apprezzato o meno. Hanno dedicato alcuni istanti della loro vita a leggermi, e io li ringrazio. La domanda che non mi hanno mai posto è: A chi dedicheresti il tuo libro più bello? E la risposta sarebbe: a mia sorella Cristina, a mio papà Salvatore e a mia mamma, Mirella Pescatori. A loro devo tutto.

 

 

Grazie.

 

*

- Intervista

Mauro Barbetti

 

Intervista ai primi tre classificati, Sezione A e Sezione B, del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, a cura della Redazione de LaRecherche.it

 

 

Continuiamo la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, II edizione 2016, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere nell’e-book del Premio: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=200

 

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L’autore qui intervistato è Mauro Barbetti, terzo classificato nella Sezione B (Narrativa) con l'Opera “Terra di confine”.

 

 

 

Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Amo, ribaltando i miei dati anagrafici, definirmi un “giovane” scrittore, perchè la mia seconda vita letteraria è cominciata nel 2008. Sono una persona piuttosto schiva e la poesia mi dà il giusto occultamento e la giusta possibilità di introspezione. Sono nato e vivo nelle Marche dove insegno inglese nella scuola Primaria. Amo il lavoro che faccio e vivo, per mia fortuna, un'intensa e appagante dimensione familiare.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

In poesia il mio primo innamoramento l'ho vissuto ai tempi del Liceo per Ungaretti e Montale e per  Leopardi riguardo alla sua “weltanschauung”, mi sono poi avvicinato alle avanguardie del secondo Novecento (gruppo 63 su tutte) e tra le figure più recenti nutro un grande amore per la poesia di Giuliano Mesa e, su un diverso versante, per la lirica di Antonella Anedda (soprattutto quella di “Notti di pace occidentale”)

Non sono un gran lettore di narrativa invece, non mi interessano le storie e le trame in genere, sono più colpito dalle riflessioni e dalle complicazioni psicologiche che queste determinano. Quindi frequento più la letteratura fantastica (Borges e Calvino) che quella realista, mi piace essere sorpreso da un andamento non lineare degli eventi, ad esempio amo molto la tecnica narrativa di una scrittrice come Marguerite Duras.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Non ci deve ingannare l'apparente marginalità della letteratura nel mondo odierno, la letteratura è uno dei “bisogni” dell'individuo: di poco posteriore al mangiare, al vestire, all'abitare, quello del raccontare (o leggere) l'esperienza comune è un dato insopprimibile che ci diversifica dalle altre specie animali, ovviamente cambia con il tempo e con i mezzi tecnici a disposizione, quindi si aggiornerà, si diversificherà e si contaminerà, ma non scomparirà mai del tutto. Il ruolo dello scrittore è sempre un ruolo di sentinella sul mondo, a volte anticipa, altre registra in modo indelebile lo scenario in cui si vive.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Il primo bisogno di scrivere risale all'età di 10 anni e mi ha poi accompagnato per tutta l'adolescenza. Dico “bisogno” perchè allo stato iniziale credo si presenti così un po' per tutti. Poi la consapevolezza fa sì che da questa necessità di dare voce a se stessi, si passi alla riflessione sul perchè e sul come farlo aprendosi ad una dimensione più “generale”. Penso comunque che la possibilità di operare in modo creativo sul mondo (scrivevo e contemporaneamente suonavo in qualche band locale) mi abbia “salvato le chiappe” in quel periodo esaltante e al contempo drammatico che è l'adolescenza. In quegli anni ho avuto anche modo di conoscere personalmente Franco Scataglini, grande poeta neodialettale anconetano, che teneva una bottega di scrittura presso l'associazione culturale di cui facevo parte. Devo dire che gli stimoli sono stati molti, ma anche le stroncature, io facevo riferimento ad esperienze un po' troppo lontane dal suo modo di sentire.

Poi alle soglie dei trent'anni ho mollato con la poesia. Lavoro, matrimonio, figli, c'era da mettere la testa a posto e tirar la carretta. Inoltre il mondo stava cambiando, certi ideali, all'ombra dei quali ero cresciuto, sembravano ormai svuotati della loro forza e della loro capacità di attrarre. Era il momento del cosiddetto “riflusso”. Ho passato quasi vent'anni così, vent'anni in cui comunque ho agito, riflettuto, immagazzinato esperienze varie, spesso senza neanche rendermene conto. Poi nel 2008 sono tornato a scrivere, forse avevo nuovamente qualcosa da dire, forse il momento era maturo. Il resto è storia recente, diversi premi vinti, due pubblicazioni in versi, la prima nel 2011 “Primizie ed altro”  (La scuola di Pitagora ed.) e la seconda nel 2013 “Inventorio per liberandi sensi” (Limina mentis ed.) e un nuovo incontro importante con il poeta Danilo Mandolini che mi ha coinvolto nel progetto di Arcipelago Itaca che, nata come rivista online, è recentemente divenuta casa editrice.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Casualmente, non mi forzo, vivo lunghi periodi in assenza della scrittura. Dedico però molto tempo al “labor limae”, il che mi rimanda a un concetto di buon artigianato più che a quello di genio artistico.  I miei testi cambiano molto dalla prima stesura, di getto, alla forma conclusa (ammesso che ce ne sia una, la tentazione di cambiare qualcosa infatti c'è sempre, quasi fosse un “work in progress” continuo). Ultimamente lavoro molto intorno a dei “concept” strutturando le cose che scrivo attorno a una tematica precisa, un po' come i vecchi album di musica “progressive”.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Dopo aver “perso” una ventina d'anni dietro ad altra bisogna, non mi pongo grandi obiettivi. Vivo alla giornata senza aspettative troppo alte, né stress. In un mondo che si arrabatta per darsi visibilità, io aspetto. Ad altri l'ardua sentenza, se son rose fioriranno...

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Non lo so, sono gli altri che dovrebbero dirlo. Da parte mia c'è estrema cura nel coniugare forma e contenuto, nel fornire comunque a chi legge un percorso, che pure attraverso l'indeterminatezza propria del mezzo poetico, sia rintracciabile, intellegibile. Non amo il dire troppo diretto, ma il suggerire. Il tutto passa poi attraverso un linguaggio che deve essere lontano dal già sentito, dal troppo abusato. Cerco inoltre un ritmo, una sonorità nei versi, ma anche nella prosa, a questo certi miei trascorsi musicali non sono certo estranei. Ecco quello su cui baso le mie scelte, se però ci riesca è un altro paio di maniche...

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Per quanto riguarda i miei (pochi) racconti ho notato che c'è sempre un evento che poi scatena un cambiamento del (o dei) personaggi e spesso questo evento è legato a una morte. Con un po' di humor nero potrei dire che evidentemente l'evento più interessante per me in una vita (da un punto di vista letterario) è la sua fine e il rapporto che si ha con questa.

In poesia direi che il tema dominante è il senso del tempo che passa e la condizione umana effimera e mortale. Non sono credente, quindi ritengo che il senso della nostra vita si debba trovare all'interno del nostro breve percorso, in ciò che si dà e si riceve. Trovo che ci sia qualcosa di eroico in questa lotta disperata per “darsi senso”. Credo anche nella funzione sociale dell'arte e in diversi testi penso che questo traspaia. Ad esempio nel 2014 sono stato premiato al Castelfiorentino per una breve raccolta che è una sorta di dialogo post-mortem con Margherita Hack, in cui si intrecciano i temi della laicità, della libertà di coscienza e del fine vita.

Per quanto riguarda l'evoluzione della mia poesia, forse si è via via fatta un po' meno sperimentale e un po' più lirica, ma l'intento sarebbe quello di riuscire a coniugare queste due anime, agire sul significante senza perdere il significato, destrutturare la forma senza perdere la potenza del suono.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all'altro genere letterario?

 

La poesia è e resta il mio unico e grande amore letterario. Per quanto riguarda la narrativa invece mi ci avvicino in modo sporadico e per lo più casuale.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Ho sempre pensato a me stesso in senso illuministico come cittadino del mondo e mi sono sempre sentito molto distante da campanilismi, regionalismi, patriottismi e altri ismi del genere. Dopo di che, l'esperienza è quella che forma per buona parte le persone, perciò in certa misura è chiaro che sono influenzato dal luogo dove abito e dal suo modus vivendi e cogitandi. Comunque la mia poesia parla soprattutto di ambienti chiusi, di stanze o città anonime perchè oggi le vite e i luoghi dove esse si svolgono tendono a somigliarsi, ad omologarsi un po' tutti.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

No, per me esiste un solo mondo e lo scrittore ci vive dentro. L'immaginazione è solo una chiave per analizzarlo, sublimarlo, superarlo magari; comunque sia è con questo ben determinato mondo che dobbiamo fare i conti.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Penso di essere stato abbastanza fortunato (oltre che cocciuto e coerente con le mie idee). Per chi vuole pubblicare versi la strada è piuttosto dura, l'assunto che “la poesia non vende” fa sì che la maggior parte delle pubblicazioni si realizzino con il contributo economico dell'autore. Sono sempre stato contrario a questa logica, soprattutto perchè se io pago per pubblicarmi non posso avere la certezza che le mie cose siano edite in quanto valide piuttosto che in quanto fonte di guadagno per l'editore che può speculare su bisogni e vanità dell'autore. Purtroppo di esempi in tal senso ce ne sono molti. Le mie raccolte di poesia sono uscite da due diverse selezioni letterarie in cui al vincitore veniva pubblicato gratuitamente il lavoro, perciò non mi posso lamentare di come è andata. Certo, sul versante del supporto promozionale in questi casi puoi chiedere ben poco all'editore. Non a caso conservo ancora le cose che ritengo migliori dentro il cassetto, perchè ho intenzione di pubblicarle solo con un editore che conosco e di cui mi fido.

Un'altra valida alternativa per far circolare il proprio materiale possono essere le pubblicazioni in ebook o in rete di cui la vostra rivista è un esempio meritorio.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Penso proprio di non averne. I miei unici lettori sono le giurie a cui sottopongo i miei lavori e il (poco) pubblico che è presente alle mie (rare) performance poetiche (quasi sempre in collettiva). Manzoni era di molto al di là con i numeri in confronto.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Sottoscrivo, assolutamente.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Nella mia veste di redattore di Arcipelago Itaca ho avuto modo di recensire alcuni poeti. Però non sono certo un critico letterario, l'ho fatto da amante della poesia. Non uso indicatori rigidi, ma i due cardini fondamentali su cui orientare l'analisi sono il grado la potenza comunicativa e l'originalità di contenuto e forma.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Ricordo con particolare piacere l'incontro con Marco Rota, presidente di giuria al Premio Aurelio Goretti di Lierna (CO) nonchè traduttore di fama. In quell'occasione mi disse che le liriche con cui avevo vinto l'edizione di quell'anno erano poesia “vera”. Sembrava sincero...

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Per il prossimo autunno dovrei pubblicare una raccolta poetica (anche qui al termine di una selezione letteraria) con o/esse, nome con cui sta ripartendo l'ex Sigismundus, una casa editrice marchigiana che aveva un gran bel catalogo per la poesia, in cui spiccavano gli ultimi lavori di Roberto Roversi.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Il viaggio, a volte gli stessi premi letterari mi danno modo di visitare luoghi fisici e realtà umane che non avrei altrimenti avuto modo di conoscere. Un'esperienza che ricordo con piacere è stata quella di un Premio Letterario in Olanda, a Den Haag: vi ho vissuto due giorni intensissimi per emozioni e scoperte. Poi la montagna, soprattutto attraverso lo sci escursionistico e da fondo, anche se le mie uscite si sono di molto diradate e il mio fisico si sta sempre più conformando alla prossima stagione, quella della terza età.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Sarò molto onesto, non attribuisco ai premi letterari per l'inedito grande valore, la bontà di uno scrittore si misura in altro modo e su un arco di tempo diverso. Però, mancando nella nostra epoca un mecenatismo delle arti, quella dei concorsi è forse una buona scusa per non sentire che quello che fai è solo una perdita di tempo e una rimessa economica. E l'essere riconosciuti come meritori di un premio fa sempre piacere. Il vostro è sicuramente un premio a cui la competenza della giuria e l'importanza dell'impegno culturale del vostro web-magazine danno grande lustro e valenza.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Mi sembra veramente un'ottima palestra, io l'ho frequentata alla fine della mia partecipazione a un altro forum letterario, quello di Scripta Volant, e prima dell'inizio dell'impegno in Arcipelago Itaca. Ogni tanto ci faccio una capatina o leggo gli ebook che pubblicate, ho recentemente postato un contributo poetico in favore della concessione della grazia al poeta Ashraf Fayadh, mi sembrava un atto dovuto e sono contento dell'esito positivo della cosa.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

No. Mi pare di aver parlato anche troppo. Grazie del vostro spazio.

 

 

Grazie Mauro.

 

*

- Intervista

Fabrizio Bregoli

 

L’autore qui intervistato è Fabrizio Bregoli, primo classificato nella Sezione A (Poesia) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, III edizione 2017, con “Diversa densità degli infiniti”.

 

 

 

Ciao Fabrizio, chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

L’anno scorso ho risposto alla stessa domanda:

“A chi non mi conosce direi che sono un uomo che vicino ai quarant’anni ha riscoperto una passione che coltivava durante gli anni del liceo: la poesia, da cui si era indebitamente sottratto per le vicissitudini della vita e la scelta di un curriculum di studi e professionale squisitamente tecnici (sono un ingegnere). Sono dunque un uomo che scrive poesie, che spera attraverso di esse di suscitare riflessioni nella coscienza di chi le leggerà, perché la poesia consente di trasformare l’individuale (dell’autore) in universale (di tutti) grazie all’opera fattiva di chi la legge e la fa rivivere dentro di sé.”

Quest’anno aggiungo che sono sempre più incapace di pensarmi senza l’esercizio costante della poesia, il suo valore terapeutico.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Sono in realtà numerosi, essendo costantemente mosso dalla curiosità e dal confronto col nuovo. Fin dall’adolescenza uno dei miei numi tutelari è stato Pavese, a cui poi sono seguiti Montale e più recentemente Sereni, Caproni, Giudici, Bellezza, Raboni, Fortini, Luzi. Principalmente autori italiani, non perché non consideri di pari valore gli stranieri, ma perché credo che la traduzione possa solo restituire parzialmente il senso di un’opera poetica – e conosco discretamente solo l’inglese, per cui mi familiarizzo maggiormente con la letteratura anglosassone dove ammiro Eliot e Pound. Credo ineluttabile per chiunque voglia fare poesia la lettura di Cavalcanti, Dante, Leopardi, Rimbaud, Rilke.

Nel corso dell’ultimo anno sto approfondendo con entusiasmo Zanzotto.

La varietà e la diversità delle letture credo siano lo stimolo più importante per la scrittura.

 

 

Secondo te quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Il mondo contemporaneo tende ad escludere lo scrittore in quanto eversivo, coscienza di cui non vuole ascoltare le ragioni.

Credo che non esista poesia che non sia politica. Proprio nella misura in cui la poesia ambisce ad essere universale si fa interprete dell’umanità, delle sue pulsioni, dei suoi vizi, delle sue aspirazioni. Non si dà poesia che abbia una finalità puramente estetica o consolatoria. La poesia deve poter trasformare le coscienze, scavarle negli antri più riposti e sommuoverle attraverso la forza dirompente della parola, che va restituita al suo cuore primordiale e depurata dalle brutture e dal depauperamento del linguaggio quotidiano. La forma è essa stessa una declinazione del contenuto: forma e contenuto sono la stessa cosa, vivono dello stesso respiro. Sono l’inscindibile magma in cui si fa concreta la poesia.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Ho iniziato da adolescente, con un evidente intento imitativo degli autori che preferivo. È poi seguito il lungo silenzio fino alla soglia dei quarant’anni in cui si è risvegliata questa passione. Ho ricominciato per gioco a scrivere versi, ho scoperto che esistevano premi letterari a cui ho partecipato per curiosità ottenendone da subito positivi riscontri che mi hanno incoraggiato a continuare. Oggi pratico la scrittura con una certa regolarità, ispirazione e tempo permettendo.

Un incontro importante è stato quello con Alberto Casiraghy con il quale ho realizzato il mio libriccino PulcinoElefante; nella sua casa ho potuto confrontarmi con altri autori, parlare con loro di poesia, da loro apprendere ed essere consigliato. I premi letterari mi hanno consentito il dialogo con altri autori, creazioni di sodalizi e scambi di suggerimenti e punti di vista.

Poi c’è stata la frequentazione della casa della poesia di Milano, dove ho partecipato ai seminari tenuti dai fondatori fra cui Tomaso Kemeny in particolare. Mi hanno aiutato a costruirmi una maggiore coscienza critica.

Importanti anche il supporto e lo sprone che ho sempre avuto dal collega poeta Ivan Fedeli e dal mio attuale editore e poeta Mauro Ferrari, e con loro di molti altri.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

La poesia nasce sempre dall’ispirazione dalla quale non può esimersi; può essere anche solo il lampo di un verso o un’embrionale materia da costruire. Ne segue la decantazione mentale con l’architettura interiore del rapporto fra ritmo/musica e contenuto. Spesso articolo questo lavorio mentale per ore o giorni costruendo nella mente quella struttura che solo successivamente scrivo su carta per rielaborarla e cesellarla per stadi progressivi fino all’esito ritenuto finale. Spesso non è tale, comporta la revisione di singoli passaggi a distanza di settimane o mesi; la mia è una scrittura per certi versi in fieri che riesce a consolidarsi solo poco prima della scelta – per così dire irreversibile – della pubblicazione. Da quel momento la poesia non è più mia, diventa patrimonio di tutti, vive negli altri. Talvolta si maturano rimpianti, ritrattazioni, ma in fondo è giusto considerare ogni poesia lo specchio di un proprio momento interiore che va cristallizzato a documentare una fase della propria vita, buona o cattiva che ne sia la riuscita.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Scardinare i luoghi comuni, screditare l’ovvio e riscoprire l’inconsueto, il tutto con il tramite di un linguaggio necessariamente ibridato e spurio che possa rappresentare le contraddittorietà del presente. La poesia presuppone sempre la propria proposizione personale di un linguaggio.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Mi è difficile rispondere. Credo tuttavia sia il bisogno di trovare un equilibrio fra la grande tradizione letteraria del passato e la prepotenza della modernità, del suo linguaggio destrutturato e frammentario. Rifuggo l’imitazione, adoro la citazione. Per me è un gesto d’affetto alla poesia e agli autori che amo. Cerco di essere originale, personale. Agli altri giudicare se sia tale.

Non mi reputo nulla di più che una delle tante voci in un coro, uno degli attori fra tanti.

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Un poeta deve rappresentare il suo tempo, viverlo.

I miei temi ricorrenti sono la riscoperta memoriale del passato e delle nostre radici, la critica spietata del conformismo che impone la contemporaneità mediante il ricorso a un’ironia sferzante sul presente, il disvelamento del labile equilibrio fra individuo e società, verità e scienza. Rispetto a quanto sostenuto nell’intervista dello scorso anno credo che questa cifra personale si stia consolidando e sedimentando.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all’altro genere letterario?

 

Attualmente scrivo solo poesie e non narrativa Mi sembra che la misura del racconto o del romanzo sia lontana dall’esigenza di sintesi che la società frenetica di oggi richiede. Il romanzo è un’impresa titanica: ammiro chi se ne fa carico, mi è impossibile sostenerla. Non ne ho forse gli strumenti idonei.

La narrativa contemporanea tende ad essere sempre più svago e sempre meno letteratura, difficilmente coglie il senso delle cose. La poesia deve ambire di converso ad essere letteratura. La vita procede sempre più per frammenti che solo la poesia può cogliere; la mia è quasi una scelta di merito.

Mai direi mai per il futuro, tuttavia.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Direi che è un’ossessione costante e salutare. In particolare lo è il contatto con la campagna, con la vita di provincia, il valore del suo essere frusta e al contempo inimitabile, inquieta nella sua fissità. Molte mie poesie sono sospese sul filo del ricordo, della riscoperta di quei valori che si trasformano fino a divenire una mitologia interiore che si auto-rinnova, dà linfa alla mia materia poetica. Questo anche quando parlo d’altro.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Il poeta riplasma la realtà con il tramite della sua immaginazione e la rende quindi fruibile nei suoi aspetti più nascosti, la svela. Si potrebbe dire che diventano una sola essenza.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Il mio primo lavoro è stato auto-pubblicato, i successivi sono stati realizzati come riconoscimento per la vittorie a premi letterari, l’ultimo dopo essere stato vagliato da una casa editrice.

Il limite principale che oggi l’autore di poesie incontra è la necessità di dover contribuire economicamente alla pubblicazione, perché la poesia difficilmente è remunerativa per l’editore – anzi non lo è quasi mai. Non tutti hanno mezzi per farlo, rischia di essere escluso chi è realmente valido. La situazione si aggrava nella misura in cui l’editore snaturando il suo ruolo diviene solo a pagamento, ossia una sorta di stamperia prezzolata. Questo alimenta naturalmente le puerili pulsioni dei presunti poeti o scrittori.

Credo che iniziative come la vostra de La Recherche servano proprio a scardinare queste logiche.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Sono soprattutto curiosi che non si fermano davanti all’interpretazione ovvia della realtà, che hanno voglia di sfidare il codificato, che non temono di cimentarsi in una lettura irta e tutt’altro che rassicurante.

Ho pochi lettori, ma molto fedeli e critici, spero possano crescere giorno per giorno. Per la più parte sono anche loro autori e quindi ci si scambia opinioni, idee, talvolta critiche.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Credo che la poesia viva solo se letta; è il lettore interiorizzandola a trasformarla in qualcosa di diverso da sé, a dargli quel significato che il poeta da solo non riesce a cogliere. Spesso lettori mi hanno fatto osservazioni su miei lavori, che sottendevano interpretazioni molto lontane dal germe di quei versi, ma che ho poi dovuto ammettere fossero contenuti congeniti, insopprimibili effetti collaterali senza i quali forse quei versi non avrebbero avuto senso. Questa per me è la polisemia – termine abusato - di cui spesso si ragiona.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Considero la critica letteraria un lavoro molto serio che richiede professionisti imparziali e con una grande cultura e un’illuminante visione della letteratura e del mondo. Non credo, ad oggi, di potermi annoverare in quel numero.

Secondo il mio metro personale reputo valida un’opera poetica che sia originale pur nell’eredità culturale da cui non può esimersi, che usi un linguaggio distintivo e trascenda la mediocrità del parlato quotidiano, si faccia interprete della contemporaneità, riesca a redimersi dai cliché e dalla retorica storica e letteraria, mi sorprenda con l’inatteso, mi trasmetta novità ad ogni reiterata lettura.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

L’affermazione, da parte degli scrittori e dei poeti che stimo, che scrivo poesia. Può essere un’ovvietà, ma non la considero tale. Rientrare nella categoria poesia con i propri scritti è un grande traguardo.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Sto lavorando su un possibile manoscritto che credo di consolidare entro fine anno. La mia intenzione sarebbe di pubblicarlo per inizio 2018, con il mio attuale editore Puntoacapo con il quale vige un rapporto di reciproca stima. Credo che vi includerò anche gli inediti presentati a questo premio.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Soprattutto la lettura che ne è il presupposto. Oltre alla poesia da sempre sono appassionato di storia contemporanea, epistemologia, fisica nucleare e quantistica, storia della scienza. Ci sono poi le letture imposte dal lavoro, più subite che godute.

Gradisco ascoltare musica contemporanea, meno la classica per cui ho scarsa educazione.

Quando mi riesce viaggio, mi metto a curiosare per il mondo.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

È il terzo anno consecutivo che partecipo e questo dimostra di per sé il mio presidio dei premi letterari che reputo validi.

Credo che i premi siano uno strumento per sottoporre i propri lavori al giudizio altrui, sperabilmente ad una giuria qualificata ed equamente critica; consentono quindi di essere un momento di verifica per capire la strada che si sta percorrendo, evitando di cadere nel solipsismo e nell’autocelebrazione di sé. Peccato che i premi siano veramente troppo numerosi, solo pochi – come il vostro – rispondano a quei requisiti di cui sopra. È sempre più diffusa la credenza che chiunque possa fare poesia e i cattivi concorsi alimentano questa assurdità, premiando spesso testi mediocri, scontati, inutili. Questo alimenta attese che non possono avere riscontri, screditando la poesia nella sua totalità. Consiglio chiunque – me in primis – prima di pubblicare o inviare un proprio lavoro a un premio, di porsi la seguente domanda: “Sarei disposto a dedicare alcuni minuti a leggere questo scritto? Che valore potrei trarne? Cosa dice di nuovo o autentico? Può significare qualcosa per gli altri?”. Ma sappiamo che nulla è più difficile che giudicare con obiettività sé stessi…

Concordo soprattutto con la vostra analisi inclusa nell’antologia del premio dove invitate gli autori a lasciar sedimentare il materiale letterario, sottoporlo a revisione nel tempo: la poesia è la negazione della estemporaneità (salvo che si sia geni assoluti, ma è per pochi).

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

LaRecherche.it è un bastione a difesa della poesia e della letteratura in genere, consente la condivisione e la comunità degli autori. Ancora più importante questo per la poesia, che non potendo neanche lontanamente – e fortunatamente – ambire ad una oggettiva remunerazione economica, deve essere patrimonio comune, a tutti indistintamente fruibile. Io stesso ho aderito all’iniziativa e condivido miei lavori, sperando siano di stimolo o per lo meno di piacevole lettura per gli altri. Questo non esclude ovviamente la pubblicazione tradizionale tramite case editrici.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Credo che le vostre domande abbiano dato un quadro abbastanza completo della mia persona e della mia scrittura. Nulla da aggiungere se non ringraziare per questa opportunità

 

 

Grazie.

 

 

***

 

Di seguito è pubblicata l'intervista rilasciata da Fabrizio Bregoli, pubblicata il 30 aprile 2016, in quanto autore terzo classificato nella Sezione A (Poesia) con l'Opera “Queste care, fragili ossa”.

 

 

Continuiamo la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, II edizione 2016, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere nell’e-book del Premio: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=200

 

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Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sono un uomo che vicino ai quarant’anni ha riscoperto una passione che coltivava durante gli anni del liceo: la poesia, da cui si era indebitamente sottratto per le vicissitudini della vita e la scelta di un curriculum di studi e professionale squisitamente tecnici (sono un ingegnere). Sono dunque un uomo che scrive poesie, che spera attraverso di esse di suscitare riflessioni nella coscienza di chi le leggerà, perché la poesia consente di trasformare l’individuale (dell’autore) in universale (di tutti) grazie all’opera fattiva di chi la legge e la fa rivivere dentro di sé. Spero di restituire frammenti di verità e bellezza, distrarli dalla patina opaca dell’esistere.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Sono in realtà numerosi, essendo costantemente mosso dalla curiosità e dal confronto col nuovo. Fin dall’adolescenza uno dei miei numi tutelari è stato Pavese, a cui poi sono seguiti Montale e più recentemente Sereni, Caproni, Giudici, Bellezza, Raboni, Fortini, Luzi. Principalmente autori italiani, non perché non consideri di pari valore gli stranieri, ma perché credo che la traduzione possa solo restituire parzialmente il senso di un’opera poetica – e conosco discretamente solo l’inglese, per cui mi familiarizzo maggiormente con la letteratura anglosassone dove ammiro Eliot e Pound. Credo ineluttabile per chiunque voglia fare poesia la lettura di Cavalcanti, Dante, Leopardi, Rimbaud, Rilke.

In ogni caso credo che ogni autore dia il proprio contributo in un unico diuturno dialogo attraverso il tempo e lo spazio con tutti gli altri autori, celebri o sconosciuti – questa è per me la poesia. Quindi ogni autore – anche il più sconosciuto – è una necessaria voce del coro, lascia un segno di cui siamo comunque eredi, anche se inconsapevoli.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Credo che non esista poesia che non sia politica. Proprio nella misura in cui la poesia ambisce ad essere universale si fa interprete dell’umanità, delle sue pulsioni, dei suoi vizi, delle sue aspirazioni. Non si dà poesia che abbia una finalità puramente estetica o consolatoria. La poesia deve poter trasformare le coscienze, scavarle negli antri più riposti e sommuoverle attraverso la forza dirompente della parola, che va restituita al suo cuore primordiale e depurata dalle brutture e dal depauperamento del linguaggio quotidiano. La forma è essa stessa una declinazione del contenuto: forma e contenuto sono la stessa cosa, vivono dello stesso respiro. Sono l’inscindibile magma in cui si fa concreta la poesia.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Ho iniziato da adolescente, con un evidente intento imitativo degli autori che preferivo. È poi seguito il lungo silenzio fino alla soglia dei quarant’anni in cui si è risvegliata questa passione. Ho ricominciato per gioco a scrivere versi, ho scoperto che esistevano premi letterari a cui ho partecipato per curiosità ottenendone da subito positivi riscontri che mi hanno incoraggiato a continuare. Oggi l’esito è che sono un poetry-addicted.

Un incontro importante è stato quello con Alberto Casiraghy con il quale ho realizzato il mio libriccino PulcinoElefante; nella sua casa ho potuto confrontarmi con altri autori, parlare con loro di poesia, da loro apprendere ed essere consigliato. I premi letterari mi hanno consentito il dialogo con altri autori, creazioni di sodalizi e scambi di suggerimenti e punti di vista. 

Poi c’è stata la frequentazione della casa della poesia di Milano, dove ho partecipato ai seminari tenuti dai fondatori fra cui Giancarlo Majorino e Tomaso Kemeny che curerà la postfazione della mia prossima opera “Il senso della neve” con i tipi di Puntoacapo Editrice. Anche se ho già pubblicato alcuni lavori dal 2013 ad oggi, considero questo libro la mia autentica opera prima perché raccoglie e porta a compimento l’insieme di riflessioni, ricerche contenutistiche e formali, in una sola parola il laboratorio poetico del mio, ancorché breve, cimento poetico.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

La poesia nasce sempre dall’ispirazione dalla quale non può esimersi; può essere anche solo il lampo di un verso o un’embrionale materia da costruire. Ne segue la decantazione mentale con l’architettura interiore del rapporto fra ritmo/musica e contenuto. Spesso articolo questo lavorio mentale per ore o giorni costruendo nella mente quella struttura che solo successivamente scrivo su carta per rielaborarla e cesellarla per stadi progressivi fino all’esito ritenuto finale. Spesso non è tale, comporta la revisione di singoli passaggi a distanza di settimane o mesi; la mia è una scrittura per certi versi in fieri che riesce a consolidarsi solo poco prima della scelta – per così dire irreversibile – della pubblicazione. Da quel momento la poesia non è più mia, diventa patrimonio di tutti, vive negli altri. Talvolta si maturano rimpianti, ritrattazioni, ma in fondo è giusto considerare ogni poesia lo specchio di un proprio momento interiore che va cristallizzato a documentare una fase della propria vita, buona o cattiva che ne sia la riuscita.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Scardinare i luoghi comuni, screditare l’ovvio e riscoprire l’inconsueto, rivitalizzare le coscienze, stilisticamente avere come riferimento costante la metrica anche quando deliberatamente la si viola.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Mi è difficile rispondere. Credo tuttavia sia il bisogno di trovare un equilibrio fra la grande tradizione letteraria del passato e la prepotenza della modernità, del suo linguaggio destrutturato e frammentario. Troppi contemporanei sono tassidermisti, robivecchi, rabdomanti. Rifuggo l’imitazione, adoro la citazione. Per me è un gesto d’affetto alla poesia e agli autori che amo. Cerco di essere originale, personale. Agli altri giudicare se sia tale.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

I miei temi ricorrenti sono la riscoperta memoriale del passato e delle nostre radici, la critica spietata del conformismo che impone la contemporaneità, l’ironia sferzante sul presente, il disvelamento del labile equilibrio fra individuo e società, verità e scienza. In questi anni direi che sono passato dal primo balbettio di un neonato alla capacità di esprimere la compiutezza di un pensiero, declinarla in contenuto e forma, darle spazio certo. Tuttavia credo che il mio percorso sia ancora tutto da scoprire, probabilmente demolendo quanto credo sia più definito e immodificabile. 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all'altro genere letterario?

 

Attualmente scrivo solo poesie. Mi sembra che la misura del racconto o del romanzo sia lontana dall’esigenza di sintesi che la società frenetica di oggi richiede. La narrativa contemporanea tende ad essere sempre più svago e sempre meno letteratura, difficilmente coglie il senso delle cose. La poesia deve ambire di converso ad essere letteratura. La vita procede sempre più per frammenti che solo la poesia può cogliere; la mia è quasi una scelta di merito.

Tuttavia nella vita è interessante scoprire di poter cambiare. Magari in futuro anche la narrativa potrà incuriosirmi.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Direi che è un’ossessione costante. In particolare lo è il contatto con la campagna, con la vita di provincia, il valore del suo essere frusta e al contempo inimitabile, inquieta nella sua fissità. Molte mie poesie sono sospese sul filo del ricordo, della riscoperta di quei valori che si trasformano fino a divenire una mitologia interiore che si auto-rinnova, dà linfa alla mia materia poetica anche quando parlo d’altro.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

L’immaginazione e la realtà sono la stessa cosa, è la poesia a fonderle e a ricondurle alla loro comune radice. La poesia è azione. Non si dà poesia che non si ponga come obiettivo la trasformazione della realtà.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Il mio primo lavoro è stato auto-pubblicato, i successivi sono stati realizzati come riconoscimento per la vittoria di premi letterari.

Il limite principale che oggi l’autore di poesie incontra è la necessità di dover contribuire economicamente alla pubblicazione, perché la poesia difficilmente è remunerativa per l’editore – anzi non lo è quasi mai. Non tutti hanno mezzi per farlo, rischia di essere escluso chi è realmente valido. La situazione si aggrava nella misura in cui l’editore snaturando il suo ruolo diviene solo a pagamento, ossia una sorta di stamperia prezzolata. Questo alimenta naturalmente le puerili pulsioni dei presunti poeti o scrittori.

Credo che iniziative come la vostra de La Recherche servano proprio a scardinare queste logiche.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Sono soprattutto curiosi che non si fermano davanti all’interpretazione ovvia della realtà, che hanno voglia di sfidare il codificato, che non temono di cimentarsi in una lettura irta e tutt’altro che rassicurante.

Ho pochi lettori, ma molto fedeli e critici, spero possano crescere giorno per giorno.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Credo che la poesia viva solo se letta; è il lettore interiorizzandola a trasformarla in qualcosa di diverso da sé, a dargli quel significato che lo scrittore da solo non riesce a cogliere. Spesso lettori mi hanno fatto osservazioni su miei lavori, che sottendevano interpretazioni molto lontane dal germe di quei versi, ma che ho poi dovuto ammettere fossero contenuti congeniti, insopprimibili effetti collaterali senza i quali forse quei versi non avrebbero avuto senso. Questa per me è la polisemia – termine abusato - di cui spesso si ragiona.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Non ho mai preparato recensioni o studi di lavori altrui. Considero la critica letteraria un rovello che è bene affidare ad altri, responsabilità troppo grande giudicare o pesare l’oro o l’ottone altrui.

Secondo il mio metro personale reputo valida un’opera poetica che sia originale pur nell’eredità culturale da cui non può esimersi, che usi un linguaggio distintivo e trascenda la mediocrità del parlato quotidiano, si faccia interprete della contemporaneità, riesca a redimersi dai cliché e dalla retorica storica e letteraria, mi sorprenda con l’inatteso, mi trasmetta novità ad ogni reiterata lettura.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Recentemente un autore che stimo, leggendo il mio prossimo libro a lui mandato in anteprima, mi ha detto che ho potenzialità di crescita che nemmeno immagino. È la mia visione della poesia: cercare sempre di rinnovarsi, riscoprire le potenzialità inespresse della parola, appropriarsene, esserne testimoni.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Ho consegnato il mio nuovo lavoro “Il senso della neve” all’editore PuntoaCapo e ne è prevista l’uscita a Maggio 2016, con prefazione di Ivan Fedeli e postfazione di Tomaso Kemeny. È un lavoro che verte interamente sulla riscoperta del ruolo della poesia come unico strumento possibile per redimerci dal ghetto di arrendevolezza e conformismo in cui siamo afflitti dalla società contemporanea. Includerà anche i lavori presentati a questo premio.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Soprattutto la lettura che ne è il presupposto. Oltre alla poesia da sempre sono appassionato di storia contemporanea, epistemologia, fisica nucleare e quantistica, storia della scienza. Ci sono poi le letture imposte dal lavoro, più subite che godute.

Gradisco ascoltare musica contemporanea, meno la classica per cui ho scarsa educazione.

Quando mi riesce viaggio, mi metto a curiosare per il mondo.

Nel tempo libero con una certa regolarità pratico attività fisica per una punta di narcisismo che non guasta. Del resto quale autore di poesia non ne soffre?

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Sono uno strumento per sottoporre i propri lavori al giudizio altrui, sperabilmente ad una giuria qualificata ed equamente critica; consentono quindi di essere un momento di verifica per capire la strada che si sta percorrendo, evitando di cadere nel solipsismo e nell’autocelebrazione di sé. Peccato che i premi siano veramente troppo numerosi, solo pochi – come il vostro – rispondano a quei requisiti di cui sopra. È sempre più diffusa la credenza che chiunque possa fare poesia e i cattivi concorsi alimentano questa assurdità, premiando spesso testi mediocri, scontati, inutili. Questo alimenta attese che non possono avere riscontri, screditando la poesia nella sua totalità. Consiglio chiunque – me in primis – prima di pubblicare o inviare un proprio lavoro a un premio, di porsi la seguente domanda: “Sarei disposto a dedicare alcuni minuti a leggere questo scritto? Che valore potrei trarne? Cosa dice di nuovo o autentico? Può significare qualcosa per gli altri?”. Ma sappiamo che nulla è più difficile che giudicare con obiettività sé stessi…

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

È un valore fondamentale, consente la condivisione e la comunità degli autori. Ancora più importante per la poesia, che non potendo neanche lontanamente – e fortunatamente – ambire ad una oggettiva remunerazione economica, deve essere patrimonio comune, a tutti indistintamente fruibile. Io stesso ho aderito all’iniziativa e condivido miei lavori, sperando siano di stimolo o per lo meno di piacevole lettura per gli altri.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Sono già troppe le domande che affollano la mia mente ogni giorno, ho imbrattato già forse troppe pagine con le mie poesie e parlato troppo rispondendo alle vostre domande. Preferisco concludere invitando ciascuno di noi a riscoprire il ruolo del nostro più prezioso compagno, il silenzio.

 

 

Grazie Fabrizio.

 

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- Intervista

Slobodan Fazlagić

 

Intervista ai primi tre classificati, Sezione A e Sezione B, del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, a cura della Redazione de LaRecherche.it

 

 

Continuiamo con la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, II edizione 2016, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere nell’e-book del Premio: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=200

 

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L’autore qui intervistato è Slobodan Fazlagić, secondo classificato nella Sezione B (Narrativa) con il racconto “Sarajevo 1992. Il treno verso Sud”.

 

 

 

Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sono Slobodan Fazlagić, nato a Sarajevo (Bosnia-Erzegovina, ex Jugoslavia) il 13/01/1948. Ho frequentato il liceo scientifico di Sarajevo e sono laureato in Fisica presso l’Università di Sarajevo. La laurea è stata riconosciuta in Italia dall’Università di Trieste. Nel 1999 mi sono trasferito in Italia (Castelnovo ne' Monti, poi a Casina, in provincia di Reggio Emilia). Ho conseguito il dottorato di ricerca in Geofisica nel 2003, presso l’Università di Genova in consorzio con le Università di Modena e Torino.

Dagli anni ‘70 fino a gli anni ‘90 sono stato prima ricercatore e poi vicedirettore dell'Istituto meteorologico di Sarajevo; in seguito collaboratore scientifico e ricercatore esterno presso l'Università di Modena. Attualmente sono docente di Fisica presso istituti scolastici superiori di Reggio Emilia.

In qualità di giornalista ho collaborato con la Televisione di Sarajevo, Radio Sarajevo, Radio Zid – Sarajevo, col quotidiano “Oslobodjenje” di Sarajevo nel periodo che va dal 1992 fino ad oggi.

Dal 1996 al 1997 sono stato responsabile informazioni e portavoce della Delegazione della Federazione della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa a Sarajevo; dal 1997 al 1999 vicedirettore e autore /conduttore televisivo del Programma USAID (United States Agency for International Development) di educazione pubblica in Bosnia-Erzegovina;

autore/coautore di articoli scientifici pubblicati in diverse riviste nazionali e internazionali (26 articoli).

Pubblicazioni e Curriculum Vitae sulla pagina web dell’Università di Sarajevo – Facoltà di scienze naturali e matematiche

(www.pmf.unsa.ba/fizika/index.php/clanovi)

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Classici anglo-sassoni, classici russi, classici serbo-croati-bosniaci... Molto oltre il programma obbligatorio di un liceo. All’epoca mi interessavano molto le discussioni filosofiche tra le preferenze metafisiche occidentali (hegeliane) e le premesse materialistiche (marxiste) che dominavano nel mondo dell’est – divenute attuali perché la Jugoslavia era il crocevia tra i due mondi.

Oggi leggo i contemporanei: autori anglosassoni, italiani, serbo-croati-bosniaci, …

Leggo abbastanza e ho letto molto dall'età giovanile. All'epoca, come studente delle scuole medie e superiori, ho divorato una biblioteca a Sarajevo, per “arruolarmi” poi come volontario in una biblioteca giovanile nel quartiere dove abitavo.

Direi che, naturalmente, la mia scrittura è stata influenzata maggiormente dagli autori in lingua serbo-croata, partendo da Ivo Andric, Ranko Marinkovic, Mesa Selimovic, Danilo Kiš in passato e Miljenko Jergovic oggi.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Credo che l'utilità non si dovrebbe discutere, ma evidentemente non si riconosce abbastanza. La società attuale è influenzata maggiormente dai mass-media, dallo streaming, dai social network. Lo sviluppo tecnologico non si deve negare, è benvenuto, chiaro, però un adeguato equilibrio con la letteratura classica non si può perdere. Cito Marshall McLuhan che ricorda come all'epoca della scoperta del telefono da parte del Graham Bell si credeva che le informazioni sarebbero passate veloci e il telefono avrebbe significato la fine dei giornali. Ho l'impressione che una situazione analoga si verifichi oggi e che la parola scritta dovrà tenere il posto nella percezione e comprensione della vita che ci circonda perché fa parte della comunicazione naturale tra le persone. Non siamo macchine e non lo diventeremo mai…

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Scrivo dall’età giovanile; come molti ho iniziato con poesie nell'età adolescenziale. Ho scritto anche qualche saggio filosofico-estetico basato sul parallelismo tra l’andamento del pensiero umanistico e fisico-matematico all’epoca dello studio della fisica. Erano lavori in cui mi esercitavo e non cercavo di pubblicarli. Ho accumulato una raccolta di poesie in quel periodo, dalla quale dopo ho rielaborato una poesia premiata nel 2013 a Reggio Emilia (Concorso di poesia Fipac – Confesercenti).

Ciò che mi motiva a scrivere proviene dal fatto che lo sento dentro di me, che scrivendo riesco ad esprimermi in maniera più ordinata e completa rispetto agli altri modi di comunicazione.

Non posso dire, a parte le numerose apparizioni nei programmi televisivi, nelle trasmissioni radio, che ho avuto molti incontri con il pubblico o altri autori.

Ultimamente sono tornato più intensamente alla poesia e alla scrittura, principalmente dei racconti. L'innesco principale per i racconti nasce con l'impulso di raccontare la straordinaria, o meglio travolgente e tragica storia legata all'assedio di Sarajevo dal 1992 al 1995. Sto preparando una serie di memorie, organizzate in racconti, sulla mia esperienza e percezione di una situazione in cui l'uomo è stato portato a sfidare se stesso, con ciò che di peggio e meglio è dentro di sé... Un tema eterno ma, come si riesce a intuire, rinnovabile…

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Direi che il mio processo creativo non avviene, è uno stato già presente in me. La mia mente lavora costantemente. L'analisi dell’accaduto, le associazioni innescate con qualche evento osservato, sono una fonte permanente che ho sempre davanti. Sono un osservatore instancabile, ovvero non riesco mai fermarmi, a non osservare tutto ciò che succede intorno a me – le persone, gli avvenimenti, le situazioni occasionali o pianificate, le reazioni delle altre persone su cioè che avviene. Dopo, accumulate le idee, un racconto comincia a crescere in me mentre cammino per strada, o guido la macchina, o leggo qualche libro, articolo di giornale...

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

L'analisi del comportamento umano, la risposta alla domanda: quanto stiamo contribuendo al richiamo della natura che ci offre la possibilità straordinaria di una materia diventata consapevole della propria esistenza? Come andare avanti?  La natura si presta a migliorare la nostra presenza nell'universo infinito, dove lo spazio e il tempo sono intrecciati in un vortice eterno. Quanto riusciamo ad utilizzare quell'occasione straordinaria? Questa è la domanda principale che mi pongo e il campo della mia ricerca. Poi, mi viene spontaneamente di tentare di rispondere scrivendo... La scrittura per me è un dialogo con il mondo intorno a me e con me stesso, certo…

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Spero che mi sono spiegato sopra – direi la deviazione professionale di un fisico di trarre le conclusioni logiche che provengono da un’ipotesi e un esperimento in seguito - una spinta interminabile all'analisi del nostro comportamento e delle conseguenze avvenute… Nonostante sembri che un mondo rigido di un campo fisico sia molto diverso dall’insieme degli istinti umani, le leggi causali sono validi per entrambi – dettati dalla natura in sé… Io cerco di trovarmi in quella simmetria.

 

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

La mia ricerca era orientata sempre al rapporto tra l'individuo e la collettività, la persona e il sistema sociale. Ho avuto l’occasione di nascere in un sistema che si potrebbe definire socialista, di vedere le difficoltà e il tramonto di un’idea e dei cambiamenti radicali innescati con la confusione nelle menti degli individui trovatisi senza una bussola certa, di passare a vivere in un altro sistema nel quale non mancano le difficoltà nel rapporto tra l’uomo e il sistema stesso…

Ho già detto che sono stato influenzato principalmente dalla scrittura di classici serbo-croati-bosniaci. Se devo ripetere un nome, sarà il nome di Mesa Selimovic (1910 – 1982), autore di due romanzi eccezionali: “Il derviscio e la morte” (Derviš i smrt)  e  La fortezza” (Tvrđava).

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all'altro genere letterario?

 

Ho iniziato con le poesie tanto tempo fa; oggi vi sto tornando ancora più interessato di prima... La narrativa l'ha coltivata da sempre, a frequenze alterne ...

Se devo distinguere tra la poesia e la narrativa, credo che la complessità degli avvenimenti ci indirizza sempre verso la narrativa, almeno vale per me. La poesia ha un altro valore - rimane la modalità per esprimere un grido intenso, emotivo o filosofico, un concentrato di idee...

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Decisamente rappresenta il punto fermo e la fonte di ispirazione. Il vortice proveniente dal cambiamento radicale del sistema sociale, la creazione delle nuove forme del tessuto anche statale, di una società diversa da quella in cui sono nato e cresciuto, offre tante possibilità per un osservatore e pone tantissime domande rispetto alle possibilità  dell'evoluzione, alla rivoluzione o al degrado in cui si è trovato l'uomo dei Balcani... Penso non molto diversamente dagli altri; le strade dell’uomo sono sempre le stesse, ma percorse da persone diverse e in tempi diversi...

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Per me, essendo uno che ha studiato le scienze esatte, la realtà ha sempre avuto un ruolo predominante... L'immaginazione è un ponte indispensabile, ma temporaneo, tra le due stazioni portuali ancorate nell’oceano della realtà...

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Fino ad oggi non ho fatto molto tentativi di pubblicare i miei testi o le poesie in quanto vorrei accumulare ancora altro materiale... Quindi, non saprei esattamente come si è trasformato il mondo dell’editoria, ma sento tante lamentele riguardo alla poesia... Sinceramente, credo che un testo valido, prima o poi, trovi il modo di essere pubblicato... Spero di non sbagliarmi; i tempi degli artisti geniali e incompresi mi sembrano appartenenti ad un passato molto lontano dalla nostra realtà e dal modo di comunicare di oggi...

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Come detto sopra, non sono molti...

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di; miotico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Se posso dirlo, se non l'avesse scritta lui, vorrei averla scritta io! Penso esattamente così. Dai primi giorni, concludevo che un autore era bravo se riconoscevo i miei pensieri dentro il suo testo... Anzi, direi che questo sarebbe il mio criterio per considerare un’opera letteraria valida: deve rappresentare un modo di comunicare tra le persone a distanza non solo spaziale ma anche temporale...

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Fino adesso ho scritto esclusivamente recensioni scientifiche su testi scientifici... Presumo che gli indicatori siano gli stessi anche per la letteratura – la consistenza dell’autore, l'idea principale, lo sviluppo dell'idea stessa e la capacità di arrivare alla conferma, al convincimento del lettore con le conclusioni... Poi, certamente, la tempistica, il ritmo, lo spannung... Infine, il rispetto delle regole, poste dall'autore stesso o dal genere letterario, il linguaggio utilizzato... l’originalità dell'espressione, finalmente.... Se un giorno dovessi fare critica letteraria credo che seguirò questi concetti.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Quella della mia fidanzata, che è un osservatore molto severo e competente... Poi ci sono state molte opinioni di lettori di diverse generazioni...

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Sto lavorando su una raccolta di poesie a tema libero. Poi, dovrò anche finire il mio ciclo di racconti su Sarajevo durante la guerra 1992 -1995, iniziato tre anni fa, ma non sono ancora sicuro se non li trasformerò in un tentativo di qualcosa di più corposo, un romanzo, per esempio... Quindi, non ho un traguardo con scadenza fissa per la prossima pubblicazione...

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Può sembrare strano, ma lo sport, precisamente il tennis, è la mia seconda passione. Una partita di tennis è il miglior purificatore per la mente... niente mi libera la testa come la ricerca della concentrazione per raggiungere un bel colpo eseguito in armonia tra il corpo e la mente...

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Volevo misurarmi con tante altre persone per avere o no la conferma della validità, del mio modo di dire le mie idee... Direi che i premi letterari sono da sempre una macchina che accelera l'interesse dei lettori e sono benvenuti... certamente se sono organizzati in maniera passionale come ho visto per quello della Recherche.

Credo che non dirò nulla di nuovo affermando che i premi sono largamente presenti nella cultura italiana e la loro penetrazione capillare nelle tantissime e piccole realtà possono aiutare, stimolare gli autori e contribuire a coltivare i talenti...

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Il mio supporto è pieno, certo. Torno al pensiero precedente – la possibilità di scrivere, l'occasione di mettersi in contatto con le altre persone con lo stesso interesse per la letteratura è diventato straordinario. Praticamente, oggi, quasi non esiste più la possibilità che un talento venga trascurato o perso, soppresso dal sistema conservatore di una volta...

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Vorrei esprimere il mio entusiasmo e i miei complimenti per l’idea portata avanti dalla LaRecherche.it. Siccome credo che il dialogo tra diversi autori potrebbe aiutare ad incrementare la qualità della scrittura, penso che con il lavoro dell’associazione siamo sulla strada giusta. Magari, organizzare qualche tavola rotonda, certamente in rete, su un tema specifico, potrebbe dare un ulteriore impulso.

 

 

Grazie Slobodan.

 

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- Intervista

Katia Colica

 

Intervista ai primi tre classificati, Sezione A e Sezione B, del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, a cura della Redazione de LaRecherche.it

 

 

Continuiamo la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, II edizione 2016, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere nell’e-book del Premio: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=200

 

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L’autrice qui intervistata è Katia Colica, seconda classificata nella Sezione A (Poesia) con l'Opera “La carne degli angeli”.

 

 

 

Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sono una che ha la fortuna di fare il mestiere che la rende felice.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formata e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Ho cominciato presto a leggere le fiabe dei Grimm, Andersen e Perrault, mi sono addentrata bambina nel  mondo oscuro e barcollante degli archetipi e di figure contorte come Barbablù.  Ho continuato l’esplorazione grazie a cantautori come Nick Cave e Dylan. O De Andrè, che mi ha accompagnato per mano dentro Spoon River; Edgar Lee Master ha fatto il resto. Mi ha condizionato molto Dostoevskij nel tratteggio dei personaggi  che si propongono in piani diversi ed eterogenei, mai lineari. Ho imparato molto dal linguaggio esile e allo stesso tempo intenso di Silvia Plath ed Emanuel Carnevali. Ho assorbito le atmosfere sospese e rarefatte di Marguerite Duras e Peter Handke. Mi hanno sempre attirato gli autori che sanno indagare il sottobosco umano dell’imperfezione e della fragilità.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

La forza della parola scritta resiste al tempo e alla memoria. In una società costruita sull’immagine la parola può inchiodare ancora una volta riflessioni che non trovano spazio nella scivolosa era delle apparenze. Lo scrittore deve assumersi la responsabilità di usare uno strumento che rafforza la conoscenza non certamente per il messaggio, che può esserci come può non esserci. Ma col percorso di crescita che non lascia mai uguali a prima. Così è sempre stato e così sarà.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Ho iniziato soprattutto a leggere prestissimo, in maniera avida e disperata. Fin da piccola avevo la consapevolezza di trovare nei libri un ambiente salvifico. Era lì che volevo stare. Sono stata fortunata e ho cominciato pubblicando il mio primo racconto in una raccolta di Oscar Mondadori e questo risultato mi ha incoraggiata a continuare. Scrivevo soprattutto da giornalista e faticavo a lasciare la dimensione dell’articolo che, in un modo o nell’altro, era rassicurante dal punto di vista lavorativo. Ho iniziato con una via di mezzo prudente: “Il tacco di Dio”, il mio primo libro è un’inchiesta dall’impronta romanzata.  Ho continuato con questo genere in “Ancora una scusa per restare” (tutti e due a cura di Città del Sole Edizioni). Poi ho lavorato su drammaturgie con alcune compagnie teatrali e l’ultima “Un altro metro ancora - Monologo sul bordo della vita,” è diventata un libro. Collaboro per Sdiario di Barbara Garlaschelli con i miei racconti. Così ho trovato la maniera di distanziarmi dal giornalismo e scrivere altro, anche  l’ultimo mio libro è un romanzo: “Lo spazio adesso” (Ottolibri). Ma mantengo una collaborazione improntata alla ricerca sulla rivista di scienze sociali “Helios Magazine”.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Sono molto rigorosa e mi impongo un ritmo quasi impiegatizio: se dovessi aspettare la famosa ispirazione non produrrei molto, pigra per come sono. Allora l’ispirazione me la vado a cercare, mi circondo di bellezza, di arte, cerco di assaporare la genialità che sta dietro un pezzo musicale, respiro l’odore di acrilico in una mostra, leggo autori che non lasciano mai uguale. E se non riesco a creare come pretendo mi concentro sull’editing, sulla parte “arida” che un testo richiede: abbrevio, amplio, segmento frasi, le rifinisco in un lavoro di cesello. Ma non faccio passare quasi mai un giorno senza scrivere.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Nessun obiettivo che sia diverso da quello che potrebbe avere qualsiasi altra persona al mondo e che fa qualsiasi altro mestiere al mondo: cerco di lasciare qualcosa di meglio rispetto a ciò che ho trovato già. Ci si riesce a tratti, ma questo è secondario.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Mio malgrado mi ritrovo sempre ad avere un approccio “sociale”. Mi attraggono le esistenze che prendono strade strane, mi interessano gli antieroi, le vite nascoste agli angoli delle strade, ai semafori, dentro mondi distanti eppure paralleli. 

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Evidentemente le mie ossessioni tornano in forme identiche anche se cambiano storia e luogo. Mi hanno fatto notare che anche quando parlo di uomini ci sta sempre una figura femminile, che sia essa reale o un archetipo, una suggestione. Tendo a concentrarmi sugli aspetti fragili dell’umanità, mi interessa ciò che ha un percorso di sofferenza non per meccanismi catartici, o di analisi sociale. Solo mi interessa raccontare. Credo nell’importanza della narrazione. E in questo sì, mi sono evoluta non nel significato ma nella forma, per fortuna meno ingenua e più consapevole.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all'altro genere letterario?

 

La poesia è un argomento a parte che ancora mi intimidisce, la trovo fragile e tuttavia con una forza centripeta devastante. Scrivere poesia mi lacera, mi toglie da dosso filtri e difese. La poesia mi pretende selvatica e  primitiva per cui spesso la evito con cura. Poi mi viene a cercare e le cedo arrendevole fino al riparo successivo. Ho pubblicato una silloge: “Parole rubate ai sassi”. La narrativa mi scarnifica molto di meno: ci convivo ogni giorno.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

La mia Reggio Calabria mi nutre e mi respinge. La scrittura è nata assieme alle mie origini, ho steso inchieste sul territorio, sulla mia difficoltà a staccarmene, sui suoi figli più nascosti e meno fortunati. Da un po’ la mia scrittura cerca di affrancarsi dalla Calabria, come è giusto che sia. Succede così in ogni rapporto madre-figlia.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Lo avverto come un equilibrio fugace  e precario. Che tuttavia perdura da sempre: evidentemente è un connubio imprescindibile.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Sono stata fortunata e ho trovato subito rispondenza alle mie proposte. Ho incontrato senza troppa fatica persone importanti che hanno creduto in me e così della scrittura sono riuscita a farne un lavoro, anche grazie alle attività indirette rispetto alla pubblicazione in sé: tengo corsi di scrittura, scrivo per il teatro, faccio reading musicati nelle scuole, in associazioni e locali, ho un’agenzia di comunicazione e ufficio stampa, collaboro con case editrici per consulenze esterne di lettura, editing, ghost writer. Il mio lavoro ruota attorno alla parola scritta.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Sono variegati e diversi: i libri inchiesta e gli articoli di approfondimento sono letti più dagli uomini e dai professionisti. La narrativa e il teatro sono seguiti perlopiù da fasce d’età cha vanno sopra i 35/40 anni. Le donne in più preferiscono anche leggere i miei racconti brevi pubblicati sulle riviste. Forse il target che non sono riuscita ad attrarre in maniera sostanziale sono i giovanissimi  ma ho avuto diverse esperienze di reading nelle scuole e ho trovato ragazzi che mi hanno restituito fiducia: appassionati e coinvolti soprattutto per i miei scritti improntati sul sociale. Servirebbe un percorso di formazione rispetto all’approccio con i libri: questi ragazzi sono sopraffatti dall’immagine e dalla velocità del click.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Ho sempre trovato questa frase concreta: il cammino che si intraprende leggendo un libro è spesso una sorpresa anche dolorosa. Chi è che non ha sanguinato assieme al “sognatore” che si innamora di Nasten'ka ne “Le notti bianche” di Dostoevkij?  Chi non ha soffocato con Desdemona ancora prima che Otello la uccidesse, mentre già non era creduta? Questi percorsi emozionali sono di certo lo specchio di alcuni passi che anche noi abbiamo tentato, in un modo o nell’altro.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

In genere recensisco solo ciò che mi piace, non sono adatta a stroncare, e non mi interessa. Invece presto attenzione a ciò che travolge i sensi, alla scrittura fatta di carne. Un testo che leggo deve lasciarmi diversa,  in qualche maniera strana che non saprei dire.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Un signore mi ha scritto che dopo aver visto uno spettacolo teatrale  da me scritto, “Un altro metro ancora”,  non si è dato pace fino a quando non è riuscito a scrivere il proseguo della storia di quel personaggio. Ha inventato una vita oltre la vita che io volevo raccontare perché non riusciva a lasciarlo andare, lo voleva ancora con sé a fargli compagnia. Lo ha sentito come una specie di compagno di viaggio da non abbandonare, gli ha proposto di continuare l’esistenza solo per lui e per me è stato molto gratificante.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Il mio agente ha un manoscritto inedito in attesa di pubblicazione. È una storia d’amore e di precarietà, il protagonista è un carcerato che fa i conti con errori e con possibilità inaspettate che però non è abituato a cogliere. In più ho appena iniziato a scrivere un altro romanzo ma è solo una bozza. Parla di una donna ferita dalle scelte altrui. 

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Non saprei immaginare la mia vita senza l’arte. Ho bisogno di nutrirmi quotidianamente di bellezza: letture, suoni, visioni, teatro.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Con i premi ho un rapporto raro,  prudente e ponderato. Forse dal tono snobistico a pensarci un po’, ma tant’è. Mi interessano come peso culturale, li reputo ambiti vitali e preziosi per gli autori. Ma non trovo rispondenze nella maggior parte dei bandi che comunque spulcio. Sarò molto schietta: molti di questi sono specchietti per le allodole, sfruttano impropriamente nomi di grandi poeti per fare cassa in cambio di tristissime targhe e cesti di prodotti tipici. Ma, soprattutto, spesso sono sentieri iniqui per portare gli autori verso quella che ritengo una vera piaga della scrittura: l’editoria a pagamento, in ogni sua forma. Per quanto mi riguarda ho partecipato a pochissimi e selezionati bandi: al Merini (quello organizzato con il benestare della famiglia) e al De Andrè (quello organizzato dalla Fondazione De André di Dori Ghezzi) arrivando seconda. Ho partecipato a “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie” e sono arrivata seconda. A parte la sindrome del secondo posto alla Toto Cutugno, mi ritengo soddisfatta di aver scelto poco e bene: de “Il Giardino di Babuk” mi ha convinto il bando snello che non complica la vita all’autore, la qualità delle sue pubblicazioni e, non ultimo, il premio in denaro a fronte di nessuna tassa d’iscrizione. Un’attenzione importante verso chi fa un mestiere non semplicissimo da farsi retribuire. E come dico spesso: anche i poeti ogni tanto mangiano. Poco ma mangiano.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Sono convinta che LaRecherche.it stia andando nella giusta direzione: la libera scrittura spesso confonde il lettore con un’offerta al ribasso. L’editore informatico, quindi, ha un compito molto più gravoso e impegnativo nel selezionare la qualità.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

La mia immaginazione non è così ricca. Non so immaginare una domanda che ancora non mi hanno fatto e soprattutto preferisco aspettare le domande che gli altri mi sanno fare. Poi se saprò rispondere risponderò, certo non lo garantisco. Però posso sempre farmi aiutare.

 

 

Grazie Katia

 

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- Intervista

Paola Zeni

 

Intervista ai primi tre classificati, Sezione A e Sezione B, del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, a cura della Redazione de LaRecherche.it

 

 

Continuiamo la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, II edizione 2016, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere nell’e-book del Premio: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=200

 

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L’autrice qui intervistata è Paola Zeni, prima classificata nella Sezione B (Narrativa) con il racconto “La ricerca”.

 

 

Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Mi chiamo Paola, sono una studentessa di Lettere, ho venticinque anni.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Il primo autore che ha colpito la mia sensibilità è stato Kafka. Mia madre mi regalò La Metamorfosi quando ero solo una ragazzina: la prigione di Gregor la sentii attorno a me durante tutta la lettura. Ed è ancora questa, l’abilità imprescindibile che cerco in uno scrittore: la capacità di suggestionare la mia mente. In età più matura ho amato i grandi classici della letteratura russa: Tolstoj, Dostoevskij. Ho letto molta tragedia greca antica. Mi sono formata sui classici e tuttora leggo esclusivamente quelli, ripromettendomi che quando avrò finito di leggerli, passerò ai contemporanei. Mi chiedo se ce la farò mai.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Lo scrittore ha un’utilità immensa, in quella attuale come in qualunque altra società. È un soggetto che mette a disposizione parole, e qualsiasi parola non pronunciata da noi stessi può condurci a riflettere su cose che non avremmo pensato. Ecco, definirei lo scrittore un dispensatore di pensiero potenziale. Quanto al suo ruolo, non saprei nemmeno dire se ne abbia uno. Credo che lo scrittore sia semplicemente una persona che non riesce a fare a meno di scrivere e di raccontare: possiamo parlare di ruolo? Scrivere è una necessità, non un adempimento.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Incontri importanti? Pubblicazioni? Non ho mai pubblicato niente, non ho mai partecipato a eventi culturali in cui incontrare gente importante. Ho iniziato a scrivere perché avevo un sacco di cose da raccontare. Cose non reali, che accadevano solo nella mia testa. Nella mia testa iniziavano a stare strette, e le ho trasferite su carta. Da piccola ero un’inguaribile bugiarda: ecco, se non avessi iniziato a scrivere, avrei dovuto continuare a raccontare bugie.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Mi alzo la mattina, esco di casa, conduco la mia normale giornata da studentessa che abita in un piccolo paese di provincia. Ma mentre apro la finestra e vedo un ulivo penso a che succederebbe se vedessi un cervo; mentre prendo l’autobus penso a che accadrebbe se decidessi di andare a piedi; mentre seguo il corso di letteratura latina mi chiedo che accadrebbe se la professoressa iniziasse a cantare. Parto dalle cose semplici che ho davanti agli occhi e faccio percorrere loro delle strade alternative. È semplice, molto.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Dal momento che scrivo per liberare la mia mente, cerco principalmente di alleggerirmi dalle fantasie che ho involontariamente creato. Facendolo, cerco di renderle interessanti a un ipotetico lettore: mi prefiggo lo scopo di catturare la sua attenzione, cercando di scegliere sempre la strada meno battuta.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

L’ho già ammesso in precedenza: non leggo i contemporanei. Non so esattamente quali siano le tendenze d’oggi, ma della mia scrittura potrei dire che cerca sempre di essere invisibile. Non vorrei si dicesse “come scrive bene, questa!”, vorrei che si parlasse semplicemente dei miei personaggi, come se la voce che li ha raccontati fosse stata talmente naturale e credibile da non esserci stato nemmeno bisogno di commentarla.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

La ricerca è stato il mio primo racconto completo, ho sempre e solo scritto brani di scene ai margini di quaderni di scuola, prima di questo, non posso quindi descrivere un’evoluzione della mia scrittura. Di ossessioni ne ho molte, la più influente è quella di voler descrivere il ‘normale’ in modo da renderlo riconoscibile come tale, ma stimolando negli occhi del lettore la rivelazione di quanto questo ‘normale’ sia incredibile ed entusiasmante.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all'altro genere letterario?

 

Ho un rapporto decisamente più confidenziale con la narrativa che con la poesia, sia a livello di fruizione che a livello di scrittura. Confesso di aver tentato di scrivere poesie, qualche volta, ma non augurerei a nessuno di imbattersi nei miei versi. La mia per la narrativa non è una preferenza ponderata: sono una persona prolissa, anche nella vita di tutti i giorni, lo spazio di un verso mi sta stretto mio malgrado.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Credo di non riuscire a stabilirlo con precisione, ma immagino tanto. Ho studiato la letteratura della mia terra con un entusiasmo grande, inedito nei confronti delle altre. Sulle stradine sterrate del piccolo paesino in cui vivo ho visto camminare i miei personaggi.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Mi piace questa immagine, direi di sì, che si possa dire così. Il rapporto tra immaginazione e realtà credo sia basato su profonde occhiate di circospezione dell’una verso l’altra: l’una non sa cosa vuole e cosa può prendere in prestito dall’altra, e viceversa. Ma lo scrittore non dovrebbe curarsi troppo di questo rapporto, io credo. È un piacere che personalmente riservo a me stessa solo alla fine, quello di andare a rivedere cosa ho preso dal mondo reale e cosa ho immaginato, nello scrivere.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Non ho mai tentato di pubblicare niente. Vi saprò dire…

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Per ora nessuno ha mai letto nulla di ciò che ho scritto, siete stati voi i primi.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Il tempo ritrovato è denso di perle di saggezza, la frase che avete riportato qui ne è un meraviglioso esempio. Proust ha ragione, un libro è in grado sempre di raccontarci qualcosa di noi stessi. Ne consegue che un qualsiasi brano di una qualsiasi opera ha tanti significati quanti sono i lettori del brano stesso. C’è qualcosa di magico, in questo.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Non mi sono mai trovata a dover recensire opere altrui. Se dovessi trovarmi a farlo, credo assegnerei primaria importanza all’invisibilità della scrittura. Mi spiego: credo una buona scrittura sia una scrittura che utilizza la parola come un mezzo per veicolare situazioni, idee, pensieri. Quando, in un’opera, percepisco che la parola è il fine mentre la vicenda, la filosofia, la storia sono solo il mezzo, ho l’impressione di avere dinanzi a me un prodotto scadente. E anche peggio: autoreferenziale.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Il mio professore di Italiano, al Liceo, mi rimproverava di scrivere l’italiano che scrivevano i padri fondatori. È una critica fintamente positiva, ma è l’unica che ho ricevuto, e ci sono affezionata.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Sto scrivendo una sceneggiatura, ho scelto di misurarmi con questo tipo di scrittura. Ma è quasi terminata, quindi ora dovrò pensare a cosa fare. La vittoria di questo premio mi ha regalato una grande soddisfazione, credo mi dedicherò ad altri racconti.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Sono un’appassionata di cinema. Mi piacerebbe definirmi una cultrice, sto ‘lavorando’ per questo.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Ho partecipato perché mi ha attirata il nome di Proust, autore che amo. Ho letto il regolamento, non avevo mai portato a termine uno scritto prima di allora, ho pensato “questa volta voglio riuscirci”, e così è stato. Non conosco abbastanza bene i premi letterari e i loro meccanismi, per valutarne il ruolo nella comunità culturale. Posso dire che trovo sia una realtà bellissima, quella di un insieme di persone che sceglie di dedicare le proprie attenzioni a gente che scrive, in un’epoca in cui ciò che non odora di denaro non sembra essere attraente.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Non saprei che dire, sono una di loro, quindi li invito semplicemente a continuare a scrivere e scrivere ancora, per dare la possibilità a chiunque di leggerli. In rete o su carta, il concetto di libera scrittura mi rimanda a qualcosa di buono, curioso e positivo, sempre.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Voglio solo aggiungere la mia gratitudine nei confronti di coloro i quali hanno deciso di leggere il mio racconto.

 

 

Grazie Paola.

 

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- Intervista

Vincenzo Ricciardi

 

Iniziamo la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, II edizione 2016, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere nell’e-book del Premio.

 

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L’autore qui intervistato è Vincenzo Ricciardi, primo classificato nella Sezione A (Poesia) con l'Opera La città felice.

 

 

Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Non avrei molto da raccontare, la mia vita non presenta fatti particolarmente interessanti. Chi non mi conosce avrà la pazienza di sopportarmi anche in mancanza di un curriculum scintillante. Mi sono formato negli anni ‘60 e ‘70 e credo che la distanza cominci ad avvertirsi. Qualche volta scrivo.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Da ragazzo, Quasimodo, Seferis, Dylan Thomas, Evtushenko. Dopo, soprattutto Vittorio Sereni e Lucio Piccolo: il primo, per la capacità di riproporre l’esperienza del mondo con un linguaggio apparentemente quotidiano; il secondo, per la densità poetica quasi insostenibile di ogni parola. Nella maturità Rilke, Hoelderlin, Orazio. Stratanovski, per quel poco disponibile in italiano. Poi i grandi astri, quelli di quasi insostenibile luminosità, Dante, Leopardi, Pascoli, il primo Montale, Goethe, ma anche il D’Annunzio di Alcyone. Poi quelli fuori moda, Vincenzo Monti, Parini ... qui mi fermo.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Francamente non saprei. Credo molto ridimensionati rispetto al passato anche recente. Mi astengo da considerazioni socio-politiche e mi limito a registrare il crescente predominio dell’immagine, fissa e in movimento, e dei simboli espressivi rispetto alla scrittura; la comunicazione è veramente globale e per raggiungere tutti ha quindi bisogno di strumenti semplicissimi. L’ampiezza ingigantita va per forza a scapito della complessità. Non so se siamo in una fase di passaggio o se tutto questo sia definitivo; credo però che lo scrittore vero prima o poi saprà infondere qualità anche a linguaggi ritornati primitivi.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Mi colpì l’ermetismo, ho cominciato a scrivere – nell’ilarità familiare – imitandone rozzamente la maniera. Imitare aiuta a trovare un proprio linguaggio. Ma non ho una storia di scrittore, se non rivolta al mio interno, né ho pubblicazioni. Sono lieto di aver avuto il buon senso di buttare quasi tutto quel che ho scritto; ciò che è rimasto basterebbe a fatica per un libriccino, e pure così mi sembra tanto.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Può restare fermo per mesi e anni. Poi quel che si raccoglie nell’anima viene fuori in forma di parole, apparentemente di getto, ma in realtà è sedimento maturato che produce scrittura. Qui è questione di carta e penna; poi trascrivo al computer e rivedo, accorcio, smonto e rimonto, mi faccio l’editing. Torno sui testi, ci sono sempre ripetizioni, carenze di ritmo, banalità, parole fiacche, aggettivi che non esprimono nulla; arriva il giorno che il testo mi convince oppure che finalmente capisco che non ne verrà fuori niente di buono.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Non lo so. Forse, capire qualcosa del mondo attraverso la sua riproposizione poetica: bella presunzione.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Credo nulla di rilevante; diciamo che un mio coetaneo potrebbe ritrovarvisi con facilità, i venti-trentenni probabilmente ci sentirebbero qualcosa di sorpassato sul piano lessicale ed espressivo.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Non mi sembra di avere “ossessioni”, semmai ho avuto tematiche interiori che per periodi più o meno lunghi sono state maggiormente presenti. Ma questo, credo, vale per tutti quelli che hanno la sorte di attraversare più fasi della vita.

Quanto all’evoluzione della scrittura, forse con la maturazione si tende a un risparmio sui mezzi, una relativa capacità di non usare troppe parole. Ma si perde freschezza.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all’altro genere letterario?

 

Non scrivo in prosa (se non per lavoro, ovviamente) e non prevedo di farlo, credo di non avere sufficiente tenuta.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

La mia terra d’origine è la Sicilia. Ora, la Sicilia ri-creata poeticamente di Quasimodo e Piccolo è talmente alta e inattingibile da risultare inutilizzabile sul piano della scrittura; si finirebbe nello scimmiottamento. La Sicilia di lotta e di ribellione di Ignazio Buttitta è estinta. La Sicilia vera e concreta di oggi, del tutto all’opposto, è un luogo così insquallidito da non suscitarmi alcuno stimolo positivo.

Ma, contraddittoriamente, di recente ho scritto versi in dialetto. C’è stato un momento in cui ho avvertito un’afasia bloccante nel tempo stesso che sentivo la necessità di dire; allora ho scritto in siciliano, per la prima volta usandolo come lingua materna e come un grimaldello per dire cose che non avrei potuto esprimere in italiano.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Mamma mia che domanda difficile. E poi io non sono uno scrittore. Penso che tutti gli esseri umani siano a cavallo di più mondi, tutti immaginano e al tempo stesso sono aggrediti dalla realtà: lo scrittore, se è bravo, lo scrive e gli altri possono capirne qualcosa.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Non ho mai pubblicato. Pubblicare è facile, basta andare in tipografia, e gli strumenti informatici oggi rendono tutto rapido ed economico. Ma la vera difficoltà è che mi piace tornare sui testi e rivederli, aggiustarli, adattarli, anche dopo decenni. Se pubblico, mi spossesso del testo. Ho delle resistenze. Rivendico le mie manie. Certo, la tentazione è forte, la vanità incombe …

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

I miei lettori sono tre quattro amici, indulgenti perché amici, e membri di giurie dei quali in genere non so nulla ma che ammiro per la faticosa dedizione a un compito che non porta loro né gloria né soldi.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

I francesi, anche i migliori, hanno una tendenza all’arguzia che li rende talvolta giustamente antipatici. Da Kant in poi non abbiamo dubbi che chi conosce deve dare una parte di sè per costituire l’oggetto della conoscenza. Certo che il lettore legge anche se stesso, il semplice fatto di leggere glielo impone, ma il lettore cerca molte altre cose a lui esterne; la frase citata mi sembra limitativa.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

No, né recensioni né interventi critici.

Quanto alla valutazione di un testo, dipende. Sempre, massimo rispetto di lessico, grammatica e sintassi. In un testo di lavoro, la concisione e la capacità di presentare gli sviluppi argomentativi in un ordine chiaro. In un testo letterario, la capacità di affascinare, la capacità di sorprendere, la sincerità espressiva, la tecnica. Hai detto niente. Per questo non mi piace Petrarca.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

=========

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

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Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Il tempo delle passioni è trascorso. Ho amato il mare, i giardini, le auto d’epoca.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Mi ha fatto simpatia tutta l’impostazione del Premio e quella della Rivista; mi ha convinto il buon livello delle pubblicazioni, sopra la media dell’editoria informatica e di molta editoria cartacea.

Ai premi letterari mi sono accostato solo nel 2011, c’è del buono e del meno buono, con un po’ di esperienza si impara a orientarsi. Possono essere molto utili se se ne prende spunto per rivedere criticamente, seriamente, i propri testi prima di sottoporli a una giuria. Come la grappa, i concorsi vanno però assunti in piccole dosi; conosco persone irreprensibili che ne hanno fatto un vizio.

Quanto al loro ruolo, li vedo come momenti di emersione e di presentazione al pubblico di nuovi talenti e di nuove tendenze, e come occasione di incontro e confronto tra persone che credono nella letteratura come fattore di crescita umana. Certo, un mondo minoritario.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Gli strumenti informatici sono economici e semplici, offrono una libertà espressiva e una capacità di contatto favolose. Chiaramente, c’è un problema di inflazione di testi, quel che gli autori guadagnano in semplicità diventa difficoltà e caos per i lettori. Così, l’editore elettronico dovrebbe guardare molto al lato della domanda, recuperare una propria funzione essenziale di contributo alla possibilità di orientamento del lettore. Nell’insieme, mi sembra che prevalgano gli aspetti positivi.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Amo poco le domande, figuriamoci quelle che dovrei pormi e alle quali dovrei rispondere da solo!

Un caro saluto a tutti.

 

 

Grazie Vincenzo.

 

*

- Letteratura

Speciale Pier Paolo Pasolini

 

LaRecherche.it

presenta

 

SPECIALE PIER PAOLO PASOLINI

 

A cura di Emanuele Di Marco

 

 

2-11-1975

2-11-2015

 

 

La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi

Pier Paolo Pasolini, “Una disperata vitalità”

 

 

Sono ormai 40 anni che Pier Paolo Pasolini ci manca. E non per la brutalità del suo omicidio, per il suo corpo disfatto dai colpi che causarono la sua lunga agonia, per il suo cuore scoppiato sotto il peso dell’amata Alfa 2000 Gt o perché mandanti ed esecutori materiali di quella mattanza non sono mai stati trovati né, in realtà, veramente cercati.

Questo ci offende, semmai. Ma, in realtà, non il suo omicidio in sé, non l’uso strumentale e la spettacolarizzazione di quella data ci interessano.

Pasolini ci manca profondamente perché quell’assassinio ci ha privato di una delle voci culturali più alte di sempre. Rappresenta, infatti, un “vulnus” incancellabile alla nostra nazione, alla nostra società, a noi come consesso civile e umano.

Intellettuale a tutto tondo, poeta, regista, narratore, sceneggiatore, giornalista, critico politico, letterario e di costume, editorialista, filosofo, attore, pittore. Ecco di cosa ci ha privato l’assassinio di quella dannatamente famosa notte del 2 novembre 1975.

In Francia, in Germania, negli Stati Uniti, in Svezia, visitata appena due giorni prima della morte, in qualunque altro paese del mondo, Pasolini sarebbe stato cittadino onorato e prediletto e, proprio per questo, anche protetto da tutta la collettività nazionale; avrebbe, oggi, dedicata un’università, una piazza, una via, un monumento, in ogni città.

Ma non in quell’Italia. E non in quest’Italia che, annosamente pigra e ritardataria, pure sembra dare, in questo quarantennale, segni di un interesse reale, non solo di facciata.

Alla voce dell’artista, dunque, è dedicata questa pagina. E all’incolmabile vuoto che il non averla più ha lasciato.

 

***

 

Mi sia concesso aprire con un personale, breve, racconto che, in certo senso, sintetizza quanto detto sopra. “Il tardivo omaggio”:

 

www.larecherche.it/testo.asp?Id=1249&Tabella=Narrativa

 

Questo il vero omaggio di Roma a PPP: l’orazione funebre di Moravia a Campo de’ Fiori:

 

 

 

***

 

Pasolini si impone all’attenzione di un vasto pubblico solo all’inizio degli anni ’50, dopo l’arrivo a Roma, e, in particolare, con il romanzo “Ragazzi di vita” di cui offriamo uno stralcio:

 

 

A quanti volessero meglio comprendere la produzione pasoliniana del periodo, proponiamo il saggio “Luoghi e situazioni di quelle ‘Storie della città di Dio’”

 

www.larecherche.it/testo.asp?Id=12&Tabella=Saggio

 

e, per uno sguardo d’assieme più ampio, la tesi di laurea “Squarci della Città di Dio. I racconti romani del ’50-’52 di Pier Paolo Pasolini”

 

www.pierpaolopasolini.eu/2indice.htm

 

con un’intervista a Walter Siti, curatore dell’Opera Omnia di Pasolini per i Meridiani di Mondadori.

 

L’ultimo, straordinario, lavoro narrativo di PPP sarà “Petrolio”, romanzo “summa” di una vita, rimasto incompiuto per la prematura morte dell’autore: eccone un brano:

 

 

***

 

Pier Paolo Pasolini nasce poeta: ogni suo fare è eminentemente poetico. Essendo davvero impossibile proporre una scelta che si rifaccia a criteri univoci, offriamo ai lettori la lettura di “Le ceneri di Gramsci” e “Il pianto della scavatrice”

 

www.club.it/autori/grandi/pierpaolo.pasolini/leceneri.html

 

nonché di “Poesia in forma di rosa”

 

 

 

e di “Supplica a mia madre”

 

www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Proposta_Poesia&Id=2793

 

recitate dall’autore stesso, per finire con un frammento di “Trasumanar e organizzar”

 

pasolinipuntonet.blogspot.it/2012/03/frammento-da-trasumanar-e-organizzar.html

 

A queste, umilmente, accosto tre mie poesie, pubblicate negli anni su LaRecherche, dedicate a PPP:  “L’angelo”

 

www.larecherche.it/testo.asp?Id=1182&Tabella=Poesia

 

“Esser morti o esser vivi”

 

www.larecherche.it/testo.asp?Id=452&Tabella=Poesia

 

“Memento Pasolini”

 

www.larecherche.it/testo.asp?Id=5852&Tabella=Poesia

 

***

 

Il 2 aprile 2012 LaRecherche.it promosse una serata intitolata “Pasolini e il Teorema del sacro”. Il sacro, tema pasoliniano centrale nell’universo iconico nonché in tutto l’itinerario artistico e umano del poeta, viene riletto dal sottoscritto, e grazie ad altri preziosi interventi, a partire dal romanzo e film “Teorema”. Qui il link del video

 

 

Ho continuato, nel tempo, gli studi sull’argomento, ampliando, mai abbastanza, gli spunti che portarono a quell’incontro: chi volesse approfondire, può confrontarsi con il saggio “Il ‘Teorema’ del sacro. Pasolini fra abiura e Cielo” pubblicato dalla rivista “In Limine” n° 11-2015

 

www.inlimine.it/ojs/index.php/in_limine/article/view/368/459

 

Propongo anche un brevissimo stralcio del recente lavoro “Bestemmia. Le parole della carne di Pasolini” in via di pubblicazione su “Mosaico Italiano” anno XIII n°141, e a breve disponibile nella sua interezza anche online

 

www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Saggio&Id=522

 

***

 

Di Pasolini regista potremmo dire, scrivere e suggerire moltissimo. Ci piace qui ricordare un’opera insolita e preziosa, “Comizi d’amore”, docu-film nel quale vediamo il regista alle prese con interviste a persone comuni e a intellettuali dell’epoca, alla ricerca di una definizione del comune sentire italiano rispetto ai temi dell’amore e del sesso, testimoniando i tabù, le antiche intolleranze, la speranza in un futuro di reciproca accettazione. Eccone i primi minuti

 

 

Seguono brani de “Il Vangelo secondo Matteo”

 

 

“La ricotta”

 

 

“Teorema”

 

 

“Il Decameron”

 

 

Non potremmo terminare questa, per forza di cose, incompleta presentazione di Pier Paolo Pasolini, quest’omaggio alla sua figura intellettuale, senza far cenno all’impegno nella critica sociale, politica, civile presente in tutta la sua opera così come nei suoi interventi pubblici, ma evidentissimo nell’attività di editorialista in tante riviste e quotidiani fra cui Il Corriere della Sera, fino alla sua ultima, terribile, profetica intervista rilasciata a Furio Colombo poche ore prima di essere assassinato all’Idroscalo di Ostia

 

www.girodivite.it/Siamo-tutti-in-pericolo-intervista.html

 

Rimandiamo il lettore soprattutto ai volumi, “Le belle bandiere”, “Il caos”, “Lettere luterane”, “I dialoghi” e, naturalmente, “Scritti Corsari”.

Del Pasolini più apertamente “civile” ci sembra utile ricordare ancora due interventi televisivi: ospite di Enzo Biagi affronta il tema dell’intrinseca antidemocraticità della televisione

 

 

 

intervistato a Sabaudia parla della drammatica mutazione antropologica della società italiana

 

 

Vorrei segnalare, curiosa e originale testimonianza dell’attualità del pensiero di PPP (e delle sue intuizioni sulle caratteristiche della cultura di massa così come le possiamo osservare perfettamente ancora noi oggi, 40 anni dopo le sue parole), una creazione del videomaker (anche se lui non ama tale definizione) Konserva, “Pasolini e l’anarchia del potere”

 

www.larecherche.it/video_grande.asp?Id=35

 

***

 

Suggeriamo alcuni siti pasoliniani di sicuro interesse per chiunque voglia davvero conoscere cosa abbia rappresentato e rappresenti tutt’ora Pasolini per la cultura di questo paese e per la cultura in generale. La lista che segue tratteggia unicamente alcune linee guida: al lettore di questa pagina è lasciato il gusto della scoperta delle innumerevoli fonti web, e non solo, dedicate al nostro.

 

www.pierpaolopasolini.eu/

Pagine Corsare. Sito di riferimento per chiunque voglia approcciare l’argomento: curato con straordinaria dedizione da Angela Molteni fino alla sua morte, rappresenta tutt’ora uno sterminato archivio, incredibilmente ricco di informazioni, interventi critici, contributi di visitatori.

 

www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/

Centro Studi Casarsa della Delizia. Il più autorevole sito pasoliniano: costantemente aggiornato, è, di fatto, imprescindibile fonte di notizie e informazioni nonché istituzione promotrice delle più preziose manifestazioni dedicate al poeta friulano.

 

www.cinetecadibologna.it/archivi-non-film/pasolini

Centro Studi - Archivio PPP – Cineteca di Bologna. Il più completo archivio fisico su PPP, raccoglie, fra l’altro, l’eredità dell’Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, preziosa creatura “romana” di Laura Betti, prima amica e sodale di Pier Paolo, poi instancabile custode della sua memoria.

 

www.vieusseux.it/archivio-contemporaneo/elenco-dei-fondi/pier-paolo-pasolini.html

Gabinetto Vieusseux. Carteggi, manoscritti, dattiloscritti, scritti vari, fotografie, opere d’arte, disegni e molto altro ancora: irrinunciabile punto di partenza per ogni studioso pasoliniano.

 

***

 

Mi permetto un’ultima proposta, un raccontino, una “paraboletta” che scrissi parecchi anni fa ad Ostia, esattamente sul luogo, allora terra battuta, lontane casupole e sporcizia, oggi così mutato, dove fu trucidato Pier Paolo Pasolini: il titolo proprio “Pier Paolo”

 

www.larecherche.it/testo.asp?Id=145&Tabella=Narrativa

 

***

 

La chiusa la lasciamo allo stesso Pasolini, dalla poesia “La Guinea”

 

 

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- Intervista

Michel Houellebecq

 

 

*

- Intervista

Silvia Morotti

 

Continuiamo con la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, I edizione 2015, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere qui: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=180

 

L’autrice qui intervistata è Silvia Morotti, terza classificata nella Sezione A (Poesia) con le poesie raggruppate nel titolo: L'Arpa di Abele

 

Le interviste sono a cura della Redazione de LaRecherche.it e seguiranno cadenza settimanale secondo il seguente calendario di pubblicazione: Gianfranco Martana (pubblicato il 26/04/2015: leggi), Nicola Romano (03/05/2015: leggi), Mikol Fazio (10/05/2015: leggi), Emilio Capaccio (17/05/2015: leggi), Giulia Tubili (24/05/2015: leggi), Silvia Morotti (31/05/2015)

 

*

 

Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Non saprei come rispondere... mi presenterei semplicemente con il mio nome e cognome.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Mi sono laureata su Corazzini e, dopo la laurea, ho discusso una tesi di dottorato sulla teatralizzazione del discorso lirico nella poesia del primo Novecento, dedicandomi soprattutto a Gozzano. Non so quanto i miei studi mi abbiano influenzato. A volte si è influenzati da autori che crediamo di non amare.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

È difficile definire il concetto di “utile” ed anche l’idea di un “ruolo” dello scrittore non può essere chiara. Sono domande alle quali, credo, i contemporanei non possono dare risposta.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

La lettura e la scrittura sono sempre stati per me un luogo protetto. Mi piace leggere e scrivere, come piace a tanti. Ho incontrato due persone a cui devo moltissimo: Elena Salibra, studiosa di letteratura italiana e poetessa, che mi ha seguito per la tesi di laurea e per il dottorato; Roberto Amato, che ho conosciuto dopo aver recensito il libro con cui ha vinto il Premio Viareggio, Le cucine celesti. Ho collaborato con la rivista  “Soglie” con recensioni e saggi; saltuariamente, con altre riviste letterarie; per la Bonanno ho pubblicato una monografia su Gozzano; sto lavorando a un saggio per la Prufrok su Corazzini e Soffici (pubblicazione/premio per il concorso “In realtà, la poesia”); ho pubblicato con Lampi di Stampa, per la collana di poesia diretta da Valentino Ronchi, I fuochi di Sant’Ermete; sulla rivista “Poesia” sono usciti inediti dal libro Il sarto in certi romanzi, che sarà pubblicato a settembre dalla Perrone editore.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Scrivere per me, che sono quasi atea, è una specie di preghiera.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Come dicevo, scrivere, per me, è come pregare: l’obiettivo di una preghiera è parlare con Dio; io non credo (almeno, non sempre); la scrittura, per me, è una preghiera senza oggetto, un modo per uscire da sé e tentare di ritrovarsi.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Non lo so. Restando sul piano della forma, tra i contemporanei italiani, prediligo quelli che, come direbbe Montale, non rinunciano al canto. Mi piacerebbe che la mia scrittura non fosse priva di musicalità.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

I temi della mia scrittura sono abbastanza comuni:  l’amore (per i vivi e per i morti), la ricerca di Dio, la difficoltà di riconoscersi “unici e interi” (Yeats). Con il passare del tempo sono divenuta, spero, meno ermetica.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all'altro genere letterario?

 

Sono del tutto incapace di scrivere racconti e romanzi. Anche quando scrivo in prosa, la mia scrittura ritorna sempre su stessa.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Sicuramente, la lingua parlata nella mia terra (la Versilia) condiziona i versi, che riprendono il fluire del racconto orale.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Non credo che l’immaginazione sia un altro mondo: è un modo di essere di questo mondo.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Il primo libro, I fuochi di Sant’Ermete, è uscito con Lampi di Stampa, nella collana diretta da Valentino Ronchi. È stato importante far leggere il manoscritto a due poeti, Roberto Amato ed Elena Salibra. Ho ascoltato i loro consigli, prima di cercare un editore. Ho inviato libri a diversi editori non a pagamento, tra i quali Crocetti, che mi ha dato la possibilità di pubblicare alcuni inediti su “Poesia”, nella rubrica curata da Maria Grazia Calandrone. Grazie al concorso Walter Mauro, pubblicherò, con Perrone editore, il mio secondo libro, Il sarto in certi romanzi. Per l’editoria non a pagamento i tempi sono lunghi, ma ritengo che sia preferibile aspettare.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Se penso a un lettore sconosciuto, provo stupore.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

È vero, come vero anche ciò che Proust dice in Sodoma e Gomorra e che ci riporta alla domanda sul rapporto tra realtà e immaginazione: “la vera realtà non è tratta alla luce che dalla mente, è l’oggetto di un’operazione intellettuale, così che noi conosciamo veramente solo quanto siamo costretti a ricreare col pensiero quanto la vita di tutti i giorni ci nasconde”.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Ho scritto diverse recensioni su poeti contemporanei. Una buona scrittura deve dare quell’impressione di bellezza di cui parla Borges, la bellezza che si sente prima ancora di pensare al significato.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

La critica più bella che ho ricevuto è quella di Roberto Amato, quando ha paragonato I Fuochi di Sant’Ermete alla “pittura silenziosa degli amanuensi, agli spazi istoriati intorno alle maiuscole”.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

La mia prossima pubblicazione sarà, come dicevo, Il sarto in certi romanzi: il titolo allude a I fantasmi del cappellaio di George Simenon. Nella raccolta, il sarto è un personaggio osservato dall’alto, da una finestra. Ad osservarlo è una donna, Anna, tesa ad interpretare la propria vita alla luce della mistica ebraica. I testi con cui ho partecipato al concorso de LaRecherche fanno parte del progetto di un altro libro, L’arpa di Abele, che riprende e sviluppa il personaggio del sarto.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Fino a qualche anno fa, suonavo, da dilettante, il clarinetto.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Ho partecipato attratta dall’impostazione del concorso e da Proust, che stavo rileggendo proprio in quel periodo. I premi letterari forse sono troppi numerosi. A me piace partecipare, per vedere se quello che scrivo può interessare. Trovo che siano utili i premi che propongono la pubblicazione, perché contrastano l’editoria a pagamento.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Credo che LaRecherche.it si ponga come comunità di lettori e di critici e pertanto offra agli autori ciò di cui hanno bisogno. Nutrivo una forte diffidenza per la scrittura in rete e per l’editoria elettronica, ma comincio a capire che si tratta di un pregiudizio: i lettori di oggi sono chiaramente anche lettori in rete, quindi la scrittura in rete ha la sua ragione di essere.

 

 

Grazie Silvia.

 

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- Intervista

Giulia Tubili

 

Continuiamo con la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, I edizione 2015, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere qui: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=180

 

L’autrice qui intervistata è Giulia Tubili, terza classificata nella Sezione B (Narrativa) con il racconto dal titolo: L’atto che muore

 

Le interviste sono a cura della Redazione de LaRecherche.it e seguiranno cadenza settimanale secondo il seguente calendario di pubblicazione: Gianfranco Martana (pubblicato il 26/04/2015: leggi), Nicola Romano (03/05/2015: leggi), Mikol Fazio (10/05/2015: leggi), Emilio Capaccio (17/05/2015: leggi), Giulia Tubili (24/05/2015), Silvia Morotti (31/05/2015: leggi)

 

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Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Non credo mi dilungherei in autobiografie particolarmente dettagliate in quanto, secondo me, una persona va scoperta con il tempo. Sono Giulia e vorrei che le persone mi conoscessero attraverso ciò che scrivo e interpreto. Sarebbe bello se notassero la freschezza dei miei imminenti ventidue anni così come la fragilità di cui sono schiava consenziente. Frugando fra le righe di un mio testo o fra i sospiri di un mio monologo, chiunque sarebbe libero di incontrarmi. Non è un caso se, spesso, mi definiscono un libro aperto. Ho bisogno di ben poche parole per presentarmi perché, tutto sommato, credo di aver già rivelato il necessario.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Tendenzialmente mi affido con piacere ad una “scrittura urbana”, quindi autori quali Welsh, Bukowski, Palahniuk vanno per la maggiore per quanto concerne le ambientazioni che spesso scelgo così come le atmosfere che ricreo. Quello che ritengo un vero maestro, elegante stimolo, è Nabokov: mi ha stregata e, nei suoi scritti, ho rivisto molto di quello che, nel mio piccolo, esprimo. Aggiungerei anche Baudelaire e l’intimo rapporto lugubre che si crea fra i suoi testi e me. Onestamente, mi piacerebbe dilungarmi ma, ogni volta che mi viene fatta una domanda simile, finisco con il perdermi nei meandri della risposta.  Questi sono solo alcuni esempi ma li considero senza dubbio fondamentali.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Lo scrittore è un raffinato portavoce del Cosmo il cui rilievo, purtroppo, è andato sbiadendosi nel tempo. Questa, almeno, è la triste impressione che ho rispetto al suo ruolo nell’Italia contemporanea. LaRecherche.it sta profondendo un impegno più che lodevole per dare lustro a tale figura la cui magia è ancora così vivida da meritare ben più attenzioni di quelle che le vengono riservate.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Ho iniziato a scrivere poesie che ancora frequentavo le elementari. Ricordo con orgoglio quando le mie insegnanti lessero in pubblico una mia poesia su Auschwitz e ricordo che fu un grande incentivo a continuare. Da quel dì, malgrado la mia scrittura abbia subito notevoli mutazioni, non ho mai smesso. Ad oggi, l’attività alla quale mi dedico più volentieri, è la scrittura a quattro mani con le mie amiche più care. Da anni creo personaggi e le loro storie: sono una sorta di demiurgo delle loro vite che, giorno dopo giorno, brillano un po’ di più.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Di solito il mio cervello è costantemente sovraccarico di idee. Non sempre si tratta di idee valide o praticabili e, spesso, è sfiancante districarle al fine di produrre qualcosa di logico e gradevole ma cerco di trovare la mia dimensione nella calma. Una tazza di tè bollente, la musica e via! Tutti gli appunti che raccolgo un po’ ovunque, strada facendo, vengono riportati su un foglio di Word è prendono un’autentica forma. Sì, perché quando ho l’illuminazione non è importante dove sia: basta anche un tovagliolo di carta sul quale scribacchiare le parole chiave e, soltanto allora, mi tranquillizzo.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Tramite il benessere che provo nel produrre qualcosa di esclusivamente mio, cerco di arricchire l’anima grazie a continue sfide. Non dipendo dal giudizio altrui ma amo scrivere per le persone a cui tengo e, quando lo faccio, il mio obiettivo è quello di delinearle attraverso il mio stile spesso intricato e le metafore di cui faccio uso con frequenza. È mia intenzione non spegnere mai la fiamma della creatività neanche quando sento incombere il peso del cambiamento nelle mie creazioni. Non miro alla fama ma a mantenere un sano equilibrio fra umiltà e oggettività nel riconoscere un lavoro quando è ben svolto.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Spesso temo di essere prolissa ma, la mia scrittura, prevede quegli arabeschi lessicali che tanto mi mandano in sollucchero. Magari rischio di appesantire i testi nei quali cimento le mie abilità ma tendo ad avere una visione cinematografica del mondo che, prontamente, riverso sui miei fogli come stessi componendo tante sceneggiature di film che, ahimè, non vedrò mai realizzati se non nella mia testa.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Inizialmente spaziavo molto e sceglievo di dedicarmi a tematiche piuttosto trite. Ho attraversato una fase “fantasy” che tutt’ora rispolvero per affetto ma, i temi rappresentati un perno per la mia scrittura sono le metropoli, la psiche umana, il sesso, il cinema, l’omosessualità, l’amore morboso e l’introspezione. Certo, potrei anche dedicarmi a testi un po’ più allegri ma proprio non è nel mio stile!

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all'altro genere letterario?

 

Alla poesia ero molto legata da bambina ma, ora come ora, temo faticherei molto a scriverne una. Leggerne, invece, è sempre un piacere e, in alcuni casi, un onore. Sono comunque votata alla narrativa che, una volta scoperta, mi ha letteralmente stregata spingendomi a desiderare di farne parte a mio modo, con un piccolo contributo.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

In realtà, quasi niente. Principalmente scrivo di personaggi ed ambienti stranieri, focalizzandomi soprattutto sulla Gran Bretagna, da sempre meta dei miei sogni. Tendo ad informarmi maggiormente sulla cultura inglese, francese o americana perché lo vedo come un ottimo modo per evadere. Questa mia scelta non è assolutamente legata al voler rinnegare la mia terra di origine che, comunque, amo moltissimo.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Si tratta di un equilibrio sottilissimo che lo scrittore ha il compito di gestire con maestria. Cerco sempre di permettere a questi due “mondi” di coesistere in quanto ritengo si tratti di una convivenza necessaria. Noi stessi siamo ancorati alla cruda realtà ma abbiamo libero e costante accesso alla fantasia e questo rende la routine meno pesante da sostenere. Non è detto che lo scrittore non possa prediligere la rappresentazione totalmente fantastica o immaginifica o, al contrario, rimanere ancorato ad una narrazione realistica ma il “mio” autore si trova a cavallo fra i due mondi od in continuo transito tra l’uno e l’altro, trovando in questo viaggio un terzo non luogo da abitare dinamicamente.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Dato che, come già detto, scrivo giornalmente a quattro mani, spesso ho paura di non stimolare la persona con la quale sto creando la storia. Magari mi blocco, mi incaglio sui discorsi diretti del personaggio di cui muovo le fila e mi preoccupo di non fargli dire cose stupide o inappropriate. La mancanza di ispirazione mi coglie raramente ma, quando succede, non posso fare a meno di infuriarmi con me stessa. So che capita e so che non dovrei farmi il sangue amaro ma la scrittura è da sempre la miglior valvola di sfogo, per quanto mi riguarda.

Vista la mia giovane età e gli obietti “intermedi” che mi prefiggo di raggiungere nel campo della scrittura, le difficoltà di pubblicazione che incontro sono praticamente tutte autoreferenziali. La pubblicazione come “atto pratico” per me è semplice: i forum a cui sono iscritta sono i miei vivai, i miei laboratori mentre LaRecherche.it è il mio accogliente editore e, sino ad ora, non ha mai rifiutato un mio lavoro.

Tutt’altra cosa avviene nel mio ambiente di studio/lavoro: per un’aspirante attrice cinematografica è difficilissimo arrivare anche solo all’intervista preliminare, quella che di solito precede l’eventuale provino. È un mondo lavorativo estremamente chiuso, spesso “rigettante” nel senso più spregiativo del termine e, troppo frequentemente, non sono le competenze o il talento gli indicatori seguiti nel valutarti. Sono ben altre le dinamiche che, di fatto, intervengono nella decisione e, quasi mai hanno a che fare esclusivamente col valore della persona e del suo portato. Suppongo sia simile a ciò che accade allo scrittore esordiente o non affermato che “bussa” alla porta dei vari editori.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Principalmente le persone con le quali interagisco a livello pratico. E’ bello il confronto costante che mi rende lettrice e scrittrice quasi in contemporanea. Con queste persone ho un rapporto speciale e, in molti casi, tale rapporto è andato consolidandosi proprio grazie alla nostra passione comune per la scrittura.

Con i lettori sporadici, quelli che incontro e m’incontrano quando pubblico (sempre in ambiente libero e digitale) rivolgendomi ad una platea decisamente più ampia, cerco di avere un rapporto di rispetto che include il non “offenderli” con qualcosa d’improvvisato o raffazzonato e il rimanere aperta a suggerimenti e critiche benché, sinceramente, non posso negare che queste ultime siano un po’ meno semplici da elaborare. Ciò che scriviamo e pubblichiamo è una specie di figlio: se siamo noi a “parlarne male” è normale ma se lo fa una  persona terza è tutto un altro paio di maniche.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Penso sia incredibilmente veritiera. Con estrema chiarezza, Proust ha evidenziato una realtà che adoro assaporare sia quando leggo e mi rivedo nel testo, sia quando tento di riportare in maniera efficace anche l’ordinario più noioso nei miei stessi scritti.

Il suo concetto è estremamente corretto e profondamente moderno: l’opera d’arte non è fine a se stessa ma diviene strumento di autocoscienza per il fruitore che entra in un processo di riconoscimento del sé e del proprio sentire.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Non ho mai scritto più di qualche sincero commento a testi letti quindi non sono mai finita a valutare davvero l’operato altrui. Posso dire che, per conquistarmi, uno scrittore deve essere camaleontico e malleabile. Mi piace riscontrare fluidità anche in uno scritto composto da periodi brevissimi ed ho bisogno di identificarmi in un operato sensibile, pieno dei dettagli utili a figurarmi la scena descritta, con dovizia, come fosse una pellicola avvincente.

Per il resto non ritengo di avere sufficienti esperienze e maturità per potermi permettere di improvvisarmi critico o valutatore, fermo restando quanto già espresso sopra.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Quando la mia migliore amica legge un mio post e, in seguito, mi comunica d’aver avuto la tachicardia o di essersi commossa io sono felice. Non ho bisogno di critiche arzigogolate ma mi nutro delle sensazioni che sono capace di far sbocciare negli animi di chi entra in relazione con me tramite i testi. Sapere di aver smosso la sensibilità di qualcuno in maniera così incisiva è, a dir poco, lusinghiero. Quindi, la critica più bella non esiste: esistono dei “feedback empatici” che ci restituiscono le nostre parole dopo aver permesso loro di transitare nelle proprie vite e di deporvi un seme.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Ora come ora mi sto concentrando sul personaggio che è stato protagonista del racconto proposto al Concorso Letterario. In realtà, lavoro su di lui da anni e non smetto mai di donargli nuove sfaccettature affinché viva. E’ una parte importantissima di me e sono convinta che me lo porterò dietro sino alla morte, con i suoi pregi ed i suoi difetti. Spero di poter continuare a pubblicare lavori inerenti le sue vicende senza annoiare mai il lettore.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Ho da sempre la passione per la recitazione e, a tal proposito, sto studiando in un’accademia nella speranza di realizzare il mio sogno d’attrice principiante. Ovviamente, nutro grande interesse anche per il teatro ed il cinema ma, soprattutto, per il cinema. Mi definisco una cinefila accanita e sono sollevata dal fatto che, la lista di film da vedere, appaia costantemente ricca di nuovi titoli interessanti.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Sono stata spronata a partecipare in quanto mi è stato fatto notare che possedevo delle qualità spendibili in questo Concorso. Non ho titubato molto: quando mi sono convinta di essere all’altezza mi sono messa all’opera e sono arrivata dove sono arrivata con mia grande sorpresa. Riconoscere un talento è importante e gratificante in qualsiasi ambito ma non si deve mai dipendere dal premio e, questa, è un’ovvietà che mi sentivo comunque di scrivere.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Oltre a scrivere su LaRecherche.it, faccio parte di diversi forum da anni e questo mi rende una grande sostenitrice della libera scrittura in rete. Cosa posso dire agli autori e ai lettori? Spero che gli uni continuino a deliziarci con le loro opere e gli altri a partecipare a quel processo (co)generativo che caratterizza la lettura, secondo la famosa massima Proustiana poco sopra riproposta, in un clima armonico come quello che ci viene offerto dal vostro (nostro?) sito.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Aggiungere? Solo grazie per avermi offerto, nel tempo, tante opportunità ed in particolare l’ultima adrenalinica esperienza vissuta nella giornata della Premiazione. Quanto alla “domanda inespressa” ce n’è una ma non troverebbe posto in questa sede. “Signorina Tubili, abbiamo apprezzato il suo curriculum e i suoi provini. Sarebbe disposta a recitare nel nostro prossimo film?”. La risposta la lascio, per rispetto, alla vostra immaginazione.

 

 

Grazie Giulia.

 

*

- Intervista

Emilio Capaccio

Continuiamo con la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, I edizione 2015, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere qui: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=180

 

L’autore qui intervistato è Emilio Capaccio, secondo classificato nella Sezione A (Poesia) con le poesie raggruppate nel titolo: Se tutti ti chiamassero Mario

 

Le interviste sono a cura della Redazione de LaRecherche.it e seguiranno cadenza settimanale secondo il seguente calendario di pubblicazione: Gianfranco Martana (pubblicato il 26/04/2015: leggi), Nicola Romano (03/05/2015: leggi), Mikol Fazio (10/05/2015: leggi), Emilio Capaccio (17/05/2015), Giulia Tubili (24/05/2015: leggi), Silvia Morotti (31/05/2015: leggi)

 

*

 

Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Spendo molto del mio tempo nella lettura, la scrittura, le traduzioni; ho pochi altri interessi.

Mi piace condurre una vita tranquilla, lontano dai frastuoni, dai crocevia, dalla calca; una vita che mi lasci il tempo di meditare sulle cose che fluttuano intorno a me, sui cambiamenti, sui propri stati d’animo.

Non ho mai aspirato a una vita frenetica; non seguo le mode o la politica, non guardo i programmi televisivi e ho la sensazione di essere al passo con i tempi e più informato degli altri.

Credo che ognuno dovrebbe avere il dovere di meditare sulla propria condizione, sul significato della coesistenza, con altri uomini, con l’ambiente, con gli animali; volersi bene, sondare la propria coscienza e curare i propri affetti.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Non ho autori ai quali mi ispiro, o forse mi ispiro in modo inconsapevole. Le mie letture, i miei articoli e i miei approfondimenti, spaziano da un autore all’altro, da un tempo all’altro, da un paese all’altro. Ci sono migliaia di poeti sparsi per il mondo che ci hanno tramandato e continuano a tramandarci pagine splendide di altissima poesia, di cui noi non sospettiamo nemmeno l’esistenza.

In generale, dedico meno tempo agli autori noti e più a quelli inediti, attraverso un costante lavoro di ricerca e traduzione che spero possa servire anche ad altri che vogliano approfondire gli autori che propongo su siti e riviste con cui collaboro.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Lo scrittore e il poeta devono avere una lucidità e una sensibilità straordinarie, devono offrire spunti di riflessione, indicare un sentiero, suscitare emozioni o più semplicemente accogliere e confortare con la loro parola nel senso comune del “sentire”.

Devono essere le sentinelle dei disagi, dei mutamenti e delle inquietudine della loro epoca e mostrarli alle persone, affinché possano essere consapevoli, responsabili e mature dentro il loro tempo.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Non so perché abbia intrapreso quest’attività silenziosa del cuore e della mente, so che è stata sempre una mia naturale inclinazione, sin dall’età di 15 anni. Considero, oggi, la scrittura una delle cose più naturali di me, da cui non riuscirei a separarmi. La mia biografia è disponibile sul sito de la Recherche.it, alla mia pagina personale.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Credo che la chiave sia nell’amore che ho sempre serbato per il suono delle parole, disposte una dietro l’altra, secondo una logica misteriosa, da cui scandiscono i significati le loro magie e qualche volta si staccano le montagne e si rovesciano gli oceani.

Medito, traggo un verso e poi ne amplio il concetto, la portata, e costruisco i rimandi, le assonanze, le metafore.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Vinco la mia battaglia con l’incomunicabilità e l’incomprensione ogni qualvolta una poesia viene percepita dalla gente in ogni singola parola e spazio di parole, e esitazione tra una parola e l’altra.

La mia poesia deve essere semplice, diretta e capiente, come una stiva, di “sostanza” e di senso; non mi interessano le ricerche linguistiche eccentriche e fine a se stesse, gli stridii di parole oscure, scomposte, illogiche e incomprensibili.

La poesia deve tendere all’universalità dei sensi, perciò deve essere liquida nel suo significato e semplice nella forma, perché il poeta deve parlare con la “substantia” concreta e spessa del proprio essere e con la voce chiara e nuda dell’anima.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Come già accennato nella precedente domanda la mia poesia si contraddistingue per la “semplicità” del suo dire, e per una costante volontà di non cadere mai nell’ovvietà e nella banalità di cose che si dicono tanto per dire.

Sono queste le mie uniche paure. Più si rasenta la “semplicità”, più il pericolo si fa concreto, forse è per questo che è tanto difficile la “semplicità” e pochi ne parlano, e quando ne parlano appaiono banali.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Temi ricorrenti delle mie poesie sono la “morte” e il “tempo”; sono punti fermi dei miei pensieri che a volte accantono (o nego forse a me stesso i loro eventi) e a volte recupero, tentando di tracciarne umanamente, per quel che posso, l’anatomia e il volto, di descriverne il colore, l’odore, di dar forma all’invisibile, all’inaspettato, al ticchettio, sul cammino che mi dovrà condurre prima o poi verso il senso di un’accettazione.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all'altro genere letterario?

 

Mi occupo principalmente di poesia, che scrivo o che traduco; ho scritto saltuariamente qualche breve e fugace racconto. Non sono riuscito mai a dedicare più tempo alla prosa, però ammetto che pubblicare almeno una raccolta di racconti è uno di quei pensieri che mi piacerebbe assecondare.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Le lunghe pause dei rumori che ritrovo nella mia terra solo le stesse che si ritrovano a volte nelle mie poesie; la sospensione dei moti durante le lunghe giornate estive, l’invito alla meditazione e il desiderio di evadere lo sguardo contemplando l’esistenza del Mar Tirreno. Come si può prescindere dal luogo in cui sei nato? Come si fa ad alleggerirsi delle proprie radici, e chi vorrebbe farlo veramente?

Io quando voglio farmi ondeggiare dai pensieri, penso alla mia casa!

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

È esattamente così: “il poeta si trova a cavallo di due mondi”. Per quanto mi riguarda, visito poco quello reale.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Oggigiorno, paradossalmente, non si incontra nessuna difficoltà nel pubblicare i propri testi, se si è disposti a pagare il “prestigio” della pubblicazione, soprattutto nelle 200 antologie l’anno, che promuove la maggior parte delle piccole case editrici, in cui sono presenti altrettanti autori che venderanno esattamente “200 copie”, (cioè la somma di quelle che comprerà ognuno di loro per sé). Anch’io, sono passato per questo meccanismo subdolo e distorto dell’editoria italiana, quando anni fa decisi di pubblicare i miei primi testi.

Nessuna di queste case editrici è interessata alla qualità dei testi, solo al numero degli autori, ovviamente.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Non saprei dire chi sono in realtà i miei lettori. È sicuramente gente a cui ancora piace spendere un po’ del loro tempo leggendo una poesia e lasciando una loro impressione, un giudizio, un commento, su qualche sito qua e là.

È per questo che li ringrazio. Come potrei non essere riconoscente? Non è forse questo l’unico e il più nobile compenso che dovrebbe spettare a un poeta? L’affetto dei propri lettori!

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Sono d’accordo considerando quello che scriveva Proust nelle sue opere: leggendo anteponiamo la nostra esperienza, il nostro “io”, la nostra capacità di comprensione e i nostri limiti a tutto quanto scrive l’autore, e l’autore finisce per rivelare in fondo quello che noi siamo, attraverso quello che noi comprendiamo.

Ma come potrebbe valere la stessa cosa leggendo un libro giallo tascabile che si compra nelle edicole delle stazioni?

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Non mi sono mai occupato di recensire un’opera altrui. Da lettore, riferendomi esclusivamente alla prosa, posso dire che l’opera deve avere una originalità intrinseca e non essere scontata; la scrittura deve risultare fluida e non deve richiedere un eccessivo sforzo di comprensione da parte del lettore, al contempo non deve essere scarna di contenuto o di forme o di lessico e deve dire, deve dire qualcosa di considerevole per cui valga la pena affermare che è importante la cultura.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Quella che mi devono ancora fare!

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Sto curando un’antologia poetica che vorrei pubblicare nei prossimi mesi, dovrei inoltre pubblicare qualche raccolta poetica di due poeti inediti, di cui mi sono occupato della traduzione.

Curo una rubrica: “Il poeta del lunedì” sul sito www.irisdikolibris.net in cui ogni settimana propongo un poeta inedito o seppellito ingenerosamente nei meandri della memoria, da me tradotto dall’inglese, francese, spagnolo o portoghese, con relativa biografia.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Mi piace viaggiare, anche se non mi riesce tanto spesso, ascoltare musica, rivedere qualche vecchio amico d’infanzia.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

In genere non partecipo ai concorsi. Ho partecipato a questo premio perché ritengo che “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie” sia uno dei pochi premi spinto ancora da uno spirito autentico di promozione e condivisione della poesia, secondo l’antica formula della gratuità e della liberalità.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Ognuno può scrivere quello che sente e confrontare le proprie idee con i lettori o altri autori, la poesia però è ben altra cosa, richiede studio, ricerca, lettura, sensibilità, genialità che molti non dimostrano di avere, e di certo non aiuta la poesia, l’editoria elettronica che pubblica tutto quanto venga proposto, ma esigendo contributi economici a carico degli autori, spropositati e ingiustificati, se si pensa che i costi per realizzare un e-book sono praticamente pari a zero.

Le case editrici, ovviamente hanno tutto l’interesse a promuovere la pubblicazione elettronica, facendola passare come la nuova frontiera dell’editoria, adducendo che il grado di diffusione dell’opera in formato e-book è potenzialmente infinito, rispetto alla circolazione cartacea del libro.

Questo sarebbe vero se l’e-book fosse gratuito, ma avendo anch’esso un prezzo di vendita, sia pure inferiore rispetto a quello del libro, la distribuzione di cui parlano si riduce a poco più di quella cartacea.

In altri termini, non ravviso un vantaggio concreto per l’autore dell’opera rispetto alla pubblicazione cartacea, i contributi economici richiesti sono sempre gli stessi.

Leggere un e-book, poi, a mio avviso, non sarà mai come leggere un libro, inutile convincermi del contrario.

L’unico vantaggio è quello che hanno previsto per loro le case editrici, in termini di costi da sopportare pressoché nulli e maggiori introiti derivanti dalla pubblicazione.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Vorrei ringraziare LaRecherche.it per avere ideato e realizzato il Premio e per avere dato a tutti gli autori la possibilità di esprimersi nella forma della poesia e della narrativa.

 

 

Grazie Emilio.

 

 

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- Intervista

Mikol Fazio

 

Continuiamo con la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, I edizione 2015, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere qui: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=180

 

L’autrice qui intervistata è Mikol Fazio (fotografia di Massimo Todisco), seconda classificata nella Sezione B (Narrativa) con il racconto dal titolo: Winter Sonata

 

Le interviste sono a cura della Redazione de LaRecherche.it e seguiranno cadenza settimanale secondo il seguente calendario di pubblicazione: Gianfranco Martana (pubblicato il 26/04/2015: leggi), Nicola Romano (03/05/2015: leggi), Mikol Fazio (10/05/2015), Emilio Capaccio (17/05/2015: leggi), Giulia Tubili (24/05/2015: leggi), Silvia Morotti (31/05/2015: leggi).

 

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Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Mi chiamo Mikol e ho diciannove anni. Sono determinata e molto diretta ma allo stesso tempo semplice e un po’ persa nel mio mondo. Diciamo che sono una sognatrice che ogni tanto rimette i piedi per terra.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Ho sempre adorato Dante, Pirandello e Montale. Nel mio percorso di studi sono stati sicuramente gli autori su cui mi sono soffermata con maggiore interesse. Ho letto l’Inferno quando avevo undici anni e anche se non lo compresi del tutto a causa della mia giovane età, molte immagini e sensazioni rimasero radicate dentro di me. Tuttavia confesso di avere un maggiore debito personale nei confronti di Isabel Allende e Gabriel Garcia Marquez, con cui sono praticamente cresciuta. Le loro storie mi hanno sempre regalato emozioni intense, difficili da cancellare perfino con l’incessante scorrere del tempo.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Ho sempre pensato che lo scrittore avesse un ruolo fondamentale di identificazione: identificazione con il dolore, identificazione con la speranza, identificazione con l’esprimere quelle idee che non tutti riescono a liberare dal loro silenzio. Credo che essere scrittore comporti una grande responsabilità, verso se stessi e le proprie spinte emotive, ma sopratutto verso tutti gli altri. Si scrive in nome di un’interiorità personale che comunque può e deve essere condivisa.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Ritengo che tutti gli scrittori abbiano cominciato a scrivere in seguito a una grande passione per la lettura. I miei genitori mi hanno cresciuta a pane e storie, quindi l’incontro con il mondo della letteratura è stato in qualche modo inevitabile: da quando sono stata capace di leggere da sola, ne sono rimasta talmente coinvolta da non riuscire a farne a meno. I libri hanno cominciato a trasmettermi emozioni così forti da farmi pensare che mi sarebbe piaciuto essere in grado, un giorno, di trasmettere emozioni altrettanto forti. Alle elementari ho cominciato a scrivere una storia sul quaderno di italiano, poi alle medie sono riuscita a realizzare il mio primo romanzo di circa trecento pagine. A partire dal liceo mi sono dedicata principalmente alla stesura di racconti brevi e ho iniziato a partecipare ai concorsi. Grazie alle diverse edizioni del concorso nazionale ArtediParole sono riuscita a conseguire le prime soddisfacenti pubblicazioni: la prima nel 2010, con la raccolta di racconti Amori Stretti (Polistampa); la seconda nel 2013, con la raccolta di racconti L’Attesa (Polistampa); la terza nel 2014, con la raccolta di racconti dal titolo Confini (Polistampa).

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Io credo che sia un meccanismo del tutto naturale che comincia in noi stessi. Osservare quello che ci circonda, riflettere su quello che proviamo e vorremmo provare sono punti di partenza da cui iniziare a creare qualcosa. È un po’ come comprendere al meglio la realtà in cui viviamo, ma, paradossalmente, allontanarsene. Le idee nascono da esperienze concrete, sogni, che poi inesorabilmente si ampliano e sfuggono al controllo dei loro presupposti.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Il mio più grande desiderio è condividere tutta me stessa con chi mi legge, senza paure, senza segreti. Lanciare punti di contatto, trovarsi in un continuo scambio di emozioni, poi continuare a vivere, ma sapere di potersi sempre ritrovare. Ecco, vorrei che il mio scrivere riuscisse a fare questo: creare presenze costanti con cui potersi confrontare, immagini da ricercare ogni giorno, sensazioni per cui vale la pena cambiare e diventare migliori.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Suppongo che sia lo stile. Mi è sempre piaciuto scrivere con una certa ricercatezza formale che tende all’astratto, al non dire esplicitamente quello che si deve capire solo tramite allegorie. Mi piace lasciare continue sospensioni, negare risposte, spezzare le frasi senza concluderle. Credo sia un bel modo per spingere alla riflessione sull’importanza di ciò che conta davvero.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Anche se scrivo da quando ne ho memoria, ho sicuramente ancora molta strada da fare. Uno scrittore si evolve con la pratica, ma anche e sopratutto con la sua crescita in quanto individuo. Negli ultimi anni mi sono concentrata principalmente sull’eliminazione di ridondanze e pesantezze che un tempo ricercavo, concentrandomi sul rendere i periodi più semplici e puliti, pur mantenendo le caratteristiche peculiari del mio stile. Se invece si parla di temi privilegiati, direi che i miei sono gli affetti familiari e la lontananza. Ho un fratello e una sorella a cui sono molto legata e, che lo voglia oppure no, finiscono sempre per entrare di soppiatto nelle mie storie. Per quel che riguarda la lontananza invece, ritengo che sia un tema molto difficile da affrontare, ma anche forte e importante, con cui dobbiamo imparare a convivere. Perché esiste la lontananza da una persona, ma anche la lontananza da un’opinione, da un’etica, perfino da noi stessi.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all’altro genere letterario?

 

Ho provato a scrivere alcune poesie ma il risultato non mi ha mai soddisfatto. Attraverso il verso non riesco a dire tutto quello che vorrei, è come se mi sentissi soffocare, quindi finisco per buttare giù frasi che non esprimono nulla e si cristallizzano nella loro banalità. Comunque la poesia è un genere letterario che mi affascina molto e spero di approfondirne la comprensione in futuro. Però per il momento mi trovo molto meglio con la prosa, che infatti è il genere che preferisco.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Sinceramente non ho un legame particolare con i luoghi in cui sono cresciuta. Solitamente i miei testi sono ambientati nel nulla, in posti non precisamente identificati, forse proprio per la mia mancanza di un certo senso di appartenenza. Le atmosfere che descrivo rimandano più a paesaggi vissuti in viaggio e cambiano ogni volta.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Senza dubbio. Tutte le volte che si parla di manifestazioni artistiche, ci troviamo a fare i conti con questa eterna lotta. Inoltre penso che sia proprio uno dei compiti primari della scrittura: vivere attraverso le pagine di una storia o di una poesia è già di per sé una totale accettazione del non-reale, di qualcosa che possiamo sentire, avvertire, ma non vedere o toccare; però scrivere quello che si vive, significa anche estrapolare dalla realtà quello che vogliamo raccontare.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Non ho pubblicato molto, ma fino a ora non ho incontrato problemi rilevanti.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Come dicevo, ancora non sono molto conosciuta nell’ambiente, quindi non ho nemmeno un mio particolare pubblico. Ma mi auguro di averne presto uno con cui stringere un rapporto sincero basato sul confronto e lo scambio di opinioni.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Penso che Proust avesse proprio ragione. È vero che si scrive sempre ipotizzando la presenza di un lettore, ideale o reale, ma in definitiva si scrive principalmente per un’esigenza che nasce dalla propria anima e che spesso non si è nemmeno in grado di comprendere. Alla fine si finisce per passare al setaccio tutte le caratteristiche, i ricordi, le vicende che ci riguardano nel profondo, quasi senza rendersene conto. È da lì che poi parte tutto.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Non ho nessuna esperienza in questi campi ma credo che gli aspetti principali di un testo siano legati alle peculiarità dello stile e al modo in cui l’autore riesce a sfruttarle attraverso le trame della sua opera.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Circa un mese fa, una mia professoressa mi ha detto: “Scrivi bene, forse anche troppo!”

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Attualmente mi sto concentrando sulla correzione di un romanzo a cui mi sono dedicata negli ultimi anni. Tengo molto a questa storia e spero di poterla pubblicare in un futuro non troppo lontano.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Mi piace ballare da quando avevo tre anni e anche adesso continuo a frequentare lezioni di danza classica e contemporanea. Insegno anche a un gruppo di bambine dei livelli inferiori e devo ammettere che ne sono davvero fiera!

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

I premi letterari sono importanti per chi ancora non si è affermato nel mondo editoriale, o comunque coltiva il sogno di seguire questa strada, perché è un riconoscimento stimolante nonché un confronto aperto con altre persone.  La scrittura non ha punti di arrivo, è una crescita continua e senza fine, quindi se ci sono terreni su cui poter gareggiare in modo onesto, per comprendere al meglio come sfruttare le proprie abilità e correggere le proprie debolezze stilistiche, perché non sfruttarli?

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Credo che sia un bel modo per condividere i propri testi con altri scrittori o lettori, scambiarsi consigli, e quindi crescere dal punto di vista pratico. Inoltre pubblicare racconti o poesie in rete permette a un maggior numero di persone di leggerli e, di conseguenza, aumenta la diffusione e la circolazione di tutto il mondo letterario.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Aggiungo solo che questo concorso è stata una bellissima esperienza. È stata una sorpresa per me essere nominata tra i finalisti ma anche una meravigliosa fonte di gioia. Se la mia scrittura è riuscita a trasmettere qualcosa ai membri della giuria, mi auguro con tutto il cuore di riuscire nel medesimo intento con un numero sempre più vasto di persone.

 

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- Intervista

Nicola Romano

 

Continuiamo con la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, I edizione 2015, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere qui: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=180

 

L’autore qui intervistato è Nicola Romano, primo classificato nella Sezione A (Poesia) con le poesie raggruppate nel titolo: In sottrazione

 

Le interviste sono a cura della Redazione de LaRecherche.it e seguiranno cadenza settimanale secondo il seguente calendario di pubblicazione: Gianfranco Martana (pubblicato il 26/04/2015: leggi), Nicola Romano (03/05/2015), Mikol Fazio (10/05/2015: leggi), Emilio Capaccio (17/05/2015: leggi), Giulia Tubili (24/05/2015: leggi), Silvia Morotti (31/05/2015: leggi)

 

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Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Imbarazzante presentare se stessi, comunque per questo preciso contesto dico che sono del 1946, che “nel mezzo del cammin” ho incontrato la Poesia e da quel momento non l’ho più abbandonata, facendone anzi uno strumento di vita che, fra l’altro, mi ha permesso di conoscere tanta gente e di partecipare a diversi scambi culturali.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

La formazione avviene evidentemente a seguito di tante letture, ognuna delle quali fa capire il diverso modo di tradurre le tematiche in risultanze poetiche. Volendo fare adesso una casistica di massima, devo dire che ho sempre prediletto i poeti meridionali, li ho “sentiti” maggiormente dentro di me, sarà per il colore/calore del linguaggio o forse per la maggiore “passionalità” che attiene agli scrittori del sud. E quindi, ho letto Alfonso Gatto, Vittorio Bodini, Leonardo Sinisgalli, Raffaele Carrieri, Lucio Piccolo, Bartolo Cattafi. Tenuti in buon conto i classici (Leopardi, Montale, Ungaretti, Quasimodo, ecc.) mi è sempre piaciuto cogliere tra le cosiddette “retrovie”, scoprendo voci che a mio parere nulla hanno da invidiare a quelli che la critica ufficiale ha ritenuto come “maggiori”, e inoltre ho molta simpatia per quei poeti non omologabili come, per esempio, Giorgio Caproni o Sandro Penna.

Comunque sia, l’essenziale è leggere tutti questi autori e dimenticarne le tracce, e forse questa necessaria “dimenticanza” ha influenzato la scrittura mia come quella di coloro i quali si sono dedicati convenientemente alle letture. Ma ancora adesso conservo molta curiosità, seguo la contemporaneità e soprattutto mi piace ascoltare i giovani e le loro eventuali proposte emergenti, anche se spesso non mi ritrovo nella poesia performativa o in quelle che sono le “installazioni vocali” che sviliscono la liricità della poesia.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

Oggi lo scrittore ha un ruolo più importante e più delicato di ieri, dal momento che egli si dovrebbe fare carico d’interpretare questo nostro tempo e di rimettere insieme tutte quelle dispersioni che sono avvenute e che continuano ad avvenire in seno alla società civile e, inoltre, ribadire le storie e le condizioni per risistemare l’Uomo in quella centralità che gli appartiene. Ma per tutto questo trovo un po’ di pigrizia negli scrittori, che per ora amano rifugiarsi nel passato.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Fin da giovane ho vissuto “in pectore” la poesia, ma non sapevo esprimerla. Le prime pulsioni interiori le ho ricevute attraverso i brani dei cantautori degli anni ’60, e precisamente dalla terna Sergio Endrigo-Gino Paoli-Luigi Tenco. Sicuramente cominciavano i primi innamoramenti, ma mi rendevo conto che una stessa cosa seppur detta con belle parole, espressa in maniera diversa dalla comune parlata conduceva verso dimensioni da sogno. Tale accumulo sentimentale ha fatto sì che la mano a un certo punto cercasse la penna per poter chiarire a me stesso, in buona sostanza, quel che succedeva dentro e, affascinato dalla Parola, superai anche gli esami alla Siae come “paroliere”. L’esercizio, a poco a poco, mi ha portato a confrontarmi con i vari aspetti della vita, e lo sprone a perseverare mi è stato dato dalla pubblicazione di una mia poesia sulla rubrica “Il Canzoniere” del «Giornale di Sicilia», ed eravamo a fine anni ’70.

L’incontro che mi fece però comprendere i risvolti “professionali” della poesia fu quello avuto con Lucio Zinna (poeta e critico di fama nazionale). Egli non m’insegnò a fare poesia (non si può insegnare!) ma, attraverso i discorsi improntati sulla sua maturata esperienza e sulla sua levatura letteraria, compresi che la dedizione alla poesia non può essere superficiale, disimpegnata o part-time, ma deve essere improntata essenzialmente sulle letture, sullo studio, sulla sperimentazione, sulla sofferenza e sull’onestà  espressiva. Lessi inizialmente T.S.Eliot,  Angelo Maria Ripellino, Lucio Piccolo – poeti suggeritimi da Zinna – e poi tanti altri che strada facendo mi incuriosirono e mi arricchirono.

La mia prima pubblicazione avvenne nel 1983, e ricordo che lo stesso Zinna, uno dei due presentatori, concluse la relazione dicendo: “Per altre prove, lo aspettiamo al varco”. Questa frase mi caricò di quella necessaria responsabilità che ho tenuto sempre presente, e così in maniera recidiva sono seguite altre pubblicazioni con libri, opuscoli e plaquette, cercando di mettere in atto quei doverosi e probabili affinamenti, frutto sempre di continue ricerche e di confronti.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Difficile individuare il preciso percorso che porta alla stesura creativa d’un testo, perché molto appartiene al subconscio; di sicuro so che per scrivere devo essere investito da forti sensazioni non a livello di epidermide ma a livello viscerale. Alcune vibrazioni possono presentarsi a distanza di tempo da quando si è vissuto il particolare momento, e allora senti che urge qualcosa, che la pentola emette i primi bollori o che il bambino scalcia in grembo e quindi ti senti pronto ad affrontare una nuova “avventura”. E, come si sa, alla prima fase della poesia di getto che serve da fermo immagine, segue sempre quella adeguata rivisitazione per dare migliore forma ad un paradigma che alla fine potrà soddisfare o meno.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Il primo vero obiettivo è quello di poter spiegare a me stesso quel che accade all’interno del mio “essere sensibile”, cercando di decrittare al meglio le sensazioni, le emozioni, gli stupori ed i risentimenti che a mano a mano inevitabilmente rumoreggiano. Certamente un poeta non funziona da agenzia spirituale per gli altri, ma se qualcuno s’identifica in un preciso dettato, allora la cosa procura tanto piacere.

Semmai, così come per ognuno di noi alla fine resterà probabilmente un album fotografico, alla stessa stregua si tratterà di lasciare un album di “pose interiori”.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Avere una caratteristica o un proprio stilema sarebbe già un punto di arrivo. Rivolgere un certo occhio ai dettagli della quotidianità ed a quelle che sono le stizzose sbavature dei comportamenti umani e sociali ha sempre distinto, penso, la mia versificazione. Io non ho prodotto mai raccolte a tema, perché ritengo che l’unico tema possibile sia quello della persona che cammina e col bagaglio della sua anima si confronta con tutto ciò con cui viene a contatto. Ma a tale proposito, se penso che in occasione della mia prima raccolta (1983) Lucio Zinna ebbe a dire: “In alcune liriche, il quotidiano, intinto di lievi colorazioni romantiche, assurge a particolari rarefazioni…”, e se nella prefazione al mio ultimo libro (2011) Paolo Ruffilli dichiara che “ci si muove dentro la mitologia del quotidiano…”, ecco che questi due noti poeti mi hanno fatto capire che il mio percorso è stato abbastanza coerente nel tempo e, in buona sintesi, suscettibile di connotazione.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Se devo dire la verità, non ho nessun tipo di “ossessione” se non quella di prendere atto che la poesia non è riuscita e non riesce a cambiare, non dico il mondo, ma i dintorni più immediati. Da trentacinque anni, sia come operatore culturale che come autore, ho sempre sperato che la bellezza e le energie benefiche della poesia potessero servire a migliorare le coscienze, invece è andata sempre peggio, con evidenti risultati al ribasso. Purtuttavia, dobbiamo restare custodi di tale sublime patrimonio.

Penso che dalle prime pubblicazioni un’evoluzione di metodo nella mia scrittura ci sia stata, se non altro nel modo di trasporre per immagini il magma dei pretesti interiori. Dapprima veniva fuori una certa ricercatezza che forse voleva sopperire ad una incompletezza degli strumenti a disposizione, ma poi è subentrata la consapevolezza che è più difficile fare poesia con un linguaggio lineare e coinvolgente.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all'altro genere letterario?

 

Il mio rapporto con la poesia è vicendevole, non so chi dei due cerchi l’altro e comunque sia costituiamo ormai un’unione di fatto che riesce a motivare i miei giorni, specialmente da quando non ho più impegni di lavoro. A molti poeti succede di approdare poi alla prosa, ma sinceramente finora non ha avvertito questo richiamo, ho soltanto alcune pagine di storie familiari tramandatemi da mia madre e che voglio lasciare ai miei nipoti. Volendo fare un paragone con l’atletica, mi sento più uno sprinterista, forse non ho il fiato che occorre ad un mezzofondista.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Secondo me i luoghi influiscono e contaminano il sangue d’una scrittura, sia a livello linguistico che contenutistico. Tanto per esplicitare, alla casa di Pirandello (al “Caos” di Agrigento) su di un marmo si nota in rilievo una poesia del famoso drammaturgo, una poesia che è potuta nascere solo lì e che non si poteva rivelare in nessun altro luogo. Penso, quindi, che la mia Sicilia piena di calore, di sofferenza e di contraddizioni sia presente nella linfa che anima i miei versi, così come quelli di altri autori siciliani che vivono biologicamente quell’insularità che nel tempo è divenuta anche una distinguibile condizione di “mediterraneità”.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Penso che sia stata sempre la realtà a dare gli stimoli all’immaginazione, non ci si può involare se non c’è una base da cui la fantasia possa spiccare il volo. Non è necessario estraniarsi a tutti i costi dalla realtà se in essa si possono cogliere senz’altro quegli elementi che condurranno sicuramente a particolari astrazioni. La forza d’uno scrittore sta, appunto, nel miscelare e nel ben dosare le due dimensioni.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Finchè ci si rivolge, pagando, ad un’editoria minore, non s’incontra alcuna difficoltà. I problemi cominciano allorquando si vorrebbe salire doverosamente qualche gradino pur sapendo che gli editori non scommettono per niente sulla poesia. Alcune medie editorie poi sono a compartimento stagno e, da quelli che sono i cataloghi facilmente consultabili, s’intuisce che vi si può accedere solo per conoscenze o raccomandazione. Ho sempre pubblicato con editori diversi, perché non esiste un solo motivo per legarsi a una casa editrice.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Evidentemente ci sono lettori palesi e lettori occulti. Poi ci sono i lettori del frammento (su riviste, sui network e sul web) e i lettori d’occasione. Con chi si palesa, di solito avviene un confortante scambio d’opinioni che alla fine ci fa sentire congruenti nello spirito e nel modo d’intendere la vita. Mi fa particolarmente piacere quando mi avvicina qualche giovane, poiché comprendo che nonostante la differenza di generazione ho trasmesso qualcosa di meditativo anche a loro.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Io sono molto convinto su questo assunto, perché una volta che l’autore ha deliberato un suo testo sarà poi il lettore a farlo suo, a lavorarlo, a re-inventarlo sulla scorta del proprio bagaglio emozionale e culturale, allargandone eventualmente gli orizzonti. Un errore che ha fatto (e non so se continua a fare) la Scuola è stato quello di chiedere allo studente che cosa voleva dire l’autore, quando invece la domanda da porre sarebbe su cosa gli comunica l’autore! Insomma, per far funzionare un testo bisogna essere in due, autore e lettore, ritenendo normale il fatto che tra la stazione emittente e quella ricevente ci debbano essere per forza delle…interferenze.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

“Siamo preti e quindi diciamo Messa” diceva un’allegoria di Sinisgalli. Praticamente, facendo parte militante del consesso poetico, mi è capitato di redigere prefazioni, recensioni e presentazioni di libri, mettendo in campo quelle conoscenze che si acquisiscono col tempo. Faccio parte indegnamente anche di alcune Giurie di concorsi, e una certa esperienza ormai porta a valutare dei testi “ad odorato” (soprattutto i poesismi), mentre con altri testi devi penetrare la fase concettuale e tecnica per poter approdare a qualche convincimento. Confesso che per una completezza di giudizio, a volte adotto l’analisi del testo che rappresenta una cartina di tornasole per verificare il mestiere e lo spessore d’un progetto creativo.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Quella recente di Paolo Ruffilli che, come ho detto sopra, ha riscontrato nell’ultima mia raccolta una “mitologia del quotidiano”.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

A distanza di quattro anni dall’ultima pubblicazione, sto lavorando ad una raccolta di circa sessanta poesie che ho già pronta, ma il lavoro di revisione che è in corso è peggiore del momento creativo, perché subentra la tentazione (o la necessità) di qualche variazione formale o perché in qualche tratto può cambiare il punto di osservazione, specialmente in quei testi scritti qualche anno addietro.

Penso che vedrà la luce alla fine di quest’anno o agli inizi del prossimo.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

La “passione” della famiglia: tra moglie, figli e nipoti non intravedo benché minimi spiragli che mi possano condurre a momenti di noia.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Ho partecipato a “Il Giardino di Babuk” perché spinto dalla serietà e dalla professionalità della redazione de «La Recherche» nonché dalla qualificata consistenza della Giuria preposta. Io non son solito partecipare a concorsi di poesia, non mi piace fare il cavallo da corsa, partecipo ogni tanto per testare dei nuovi lavori e, comunque, sempre in ambiti attendibili dove non ci sia poesia come trastullo o vanagloria. I premi letterari hanno una loro validità se tendono a scoprire ed a proporre delle voci  interessanti o dei buoni poeti emergenti, in maniera che la nostra comunità culturale possa fruire di tali risorse ed arricchirsene. Spesso, diciamolo pure, taluni Premi tendono invece a dare visibilità agli organizzatori o ai politici che gli piombano addosso, indorando magari la manifestazione con un vincitore “di grido” e penalizzando così un eventuale emergente.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Bisogna continuare a trasmettere le proprie istanze poetiche, a farle veicolare, e il sito de «La Recherche» è molto indicato per accoglierle, perchè è frequentato da validi poeti e da gente esperta che sanno intervenire con competenza, con giuste motivazioni e con eventuali e garbati suggerimenti. Bisogna dare atto che la redazione ha saputo creare intorno a sé una robusta comunità letteraria.

Sull’editoria elettronica ho qualche perplessità, per formazione e per tradizione sono affezionato al corpo fisico del libro, alla sua tattilità ed al suo odore.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Una domanda che mi si potrebbe fare è la seguente: “Ma in un periodo come questo che stiamo vivendo, improntato all’utilitarismo e al tornaconto, in cui il protagonismo deve essere raggiunto con ogni mezzo, a chi e a cosa serve la poesia?”. E la mia risposta rimarrebbe racchiusa dentro un lacrimoso silenzio.

 

 

Grazie Nicola

 

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- Intervista

Gianfranco Martana

 

Iniziamo la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, I edizione 2015, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere qui: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=180

 

L’autore qui intervistato è Gianfranco Martana, primo classificato nella Sezione B (Narrativa) con il racconto: Come Quando Fuori Piove

 

Le interviste sono a cura della Redazione de LaRecherche.it e seguiranno cadenza settimanale secondo il seguente calendario di pubblicazione: Gianfranco Martana (26/04/2015), Nicola Romano (03/05/2015: leggi), Mikol Fazio (10/05/2015: leggi), Emilio Capaccio (17/05/2015: leggi), Giulia Tubili (24/05/2015: leggi), Silvia Morotti (31/05/2015: leggi)

 

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Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sarei tentato di rispondere “Uno dei sette miliardi di esseri umani che popolano la Terra”, ma non vorrei passare per uno snob. Diciamo allora che mi considero una persona che cerca ogni giorno di preservare ed esercitare la propria libertà, pur essendo a volte succube della pigrizia e degli sbalzi d’umore; sono anche insofferente nei confronti dei soprusi, dei ragionamenti illogici e delle responsabilità. Un’altra informazione importante: ho sempre vissuto sul mare, e dubito che potrei starne lontano a lungo. Anche quando ho deciso di lasciare Salerno per l’Inghilterra, ho preso in considerazione soltanto le città lungo la costa, come se di quella nazione non esistesse altro che il perimetro. È così che sono finito a Brighton.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Dopo aver divorato innumerevoli libri di avventura (Salgari, Verne e Stevenson su tutti), il primo libro “serio” che ho letto per scelta e non per costrizione è stato l’Ulisse di Joyce. Non è stata una grande idea, lo so; infatti l’ho iniziato a sedici anni e l’ho finito a ventidue. Credo che abbia davvero cambiato il mio modo di pensare, ma forse dipende solo dal fatto che in sei anni, a quella età, si cambia comunque. Il mio primo poeta è stato Pasolini, che pescai dalla piccola biblioteca di mio padre. I primi libri di poesia che ho comprato sono stati delle raccolte di Prévert, Lorca e Neruda, per poi passare alla Terra desolata di Eliot e alle Elegie duinesi di Rilke. Ho avuto una grande passione per Luigi Meneghello, un autore su cui ho scritto la mia tesi di laurea. Libera nos a Malo è un capolavoro di sapienza, oltre che di invenzione linguistica e narrativa. Roland Barthes è stata un’altra lettura importante, a cavallo tra filosofia e letteratura. I suoi Frammenti di un discorso amoroso sono stati “il” libro di un periodo della mia vita. Negli ultimi tempi ho cominciato a rileggere Calvino (ho appena finito Gli amori difficili), uno degli autori per me più importanti, per la sua capacità di scovare il lato fantastico del reale e la vivida asciuttezza delle descrizioni. Da lui, Pasolini, Pavese, Sciascia, Silone ho anche imparato a leggere letterariamente la storia e la cronaca del presente. Da quando il mio inglese è diventato sufficientemente buono sto provando a leggere o rileggere in originale alcuni classici recenti come i racconti di Carver, La fattoria degli animali di Orwell e Il giovane Holden di Salinger. Mi fermo qui, altrimenti rischio di diventare noioso.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

I medici aiutano a vivere in salute; gli architetti a vivere in ambienti più armoniosi e funzionali; gli scrittori a pensare meglio, e possibilmente a farci sentire parte attiva della famiglia umana. Bisogna però avere la fortuna di incontrare quelli giusti. Ognuno dà il contributo che le sue forze gli consentono, ma la responsabilità di come va il mondo è distribuita su così tanti livelli che è davvero un’impresa disperata definire l’ampiezza delle ricadute che il lavoro di ciascuno ha sulla comunità, piccola o grande, a cui si rivolge.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Tolti i temi delle Medie e del Liceo, che erano in genere verbosi, impeccabili e conformisti, direi che ho iniziato a scrivere con un minimo di consapevolezza soltanto all’università, soprattutto poesie d’amore influenzate da poeti come Sanguineti (leggevo e rileggevo il suo Stracciafoglio), piccoli appunti e brevi testi bizzarri, da cui talvolta ancora traggo spunto per i miei racconti. Per una serie di circostanze cominciai a scrivere soggetti e sceneggiature, e quella è stata per alcuni anni la mia attività “letteraria” prevalente. C’è stata poi una lunga pausa, coincisa con la mia decisione di trasferirmi in Inghilterra. E proprio nel momento in cui mi sono ritrovato in terra straniera ho sentito più forte l’esigenza di raccontare le storie della mia terra, che infatti costituisce lo scenario principale di molti miei racconti. Tolti brevi testi pubblicati su fogli locali e un paio di trattamenti cinematografici pubblicati su una rivista torinese in anni lontani, miei racconti sono apparsi in raccolte come «Toilet», nella rivista «Alibi» e in un ebook di autori vari con l’editore Autodafé. Incontri importanti, di persona, non ne ho avuti: sono sempre stato un solitario, tendenza accentuata dalla mia scarsa simpatia per gli ambienti letterari della mia città (ho sempre preferito la compagnia di pochi amici). Perfino quando ho avuto occasione di incontrare Meneghello, mi sono limitato a scambiare con lui poche battute: quello che aveva da dirmi, me l’aveva detto nei suoi libri. Certo, la telefonata con cui mi diceva di aver letto e apprezzato la mia tesi resta indimenticabile, ma il contenuto di quella conversazione preferisco tenerlo per me.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Questa è davvero la parte più misteriosa e interessante di tutta la faccenda. A volte parto da una scena a cui ho assistito, da un’immagine insolita, da due frasi scritte indipendentemente l’una dall’altra che poi, per qualche motivo, si cercano, si attraggono, come se chiedessero di far parte di un unico testo. Da lì comincia a svilupparsi una catena di associazioni che vanno nelle direzioni più disparate, e il lavoro più grosso è quello di tenerle a bada, di eliminare quelle che mi porterebbero troppo lontano o che non mi sento in grado di maneggiare. È un processo di gemmazione, che mi fa pensare a quei video a velocità accelerata nei quali si vede una pianta crescere e mettere boccioli, fiori e foglie. Una cosa che faccio spesso è riproporre alcuni elementi all’interno del racconto con piccole varianti o slittamenti di senso. Un esempio in Come Quando Fuori Piove è la “carriera militare” che accompagna diversi momenti della vita del bambino e poi dell’uomo, ma anche il titolo stesso, che ricompare nel finale in modo spiazzante. Un’altra regola alla quale cerco di non derogare è quella di non dividere mai i miei personaggi in buoni e cattivi: quasi tutti, come ognuno di noi, possiedono qualcosa di sgradevole e di attraente insieme. M’interessa di più guardare alle relazioni che si stabiliscono fra loro e con l’ambiente in cui vivono; al lettore chiedo eventualmente di giudicare quel mondo nel suo complesso, non di parteggiare per Tizio o Caio. Conclusa la prima stesura, che in genere faccio al portatile, stampo tutto e faccio una prima revisione “manuale” con una roller rossa. Sono particolarmente sensibile ai refusi e alle espressioni trite, che cerco di eliminare quanto più possibile. A volte faccio leggere il racconto a persone fidate per avere un primo punto di vista esterno. Spesso, se non sono del tutto soddisfatto, mi prendo qualche giorno di tempo prima di rendere pubblico il racconto. I punti deboli continuano a tormentarmi, e in genere le soluzioni migliori arrivano mentre sono in viaggio, che sia a piedi, in autobus o in treno: il tempo sospeso fra due impegni è quello in cui il pensiero può muoversi più agilmente. Il processo di revisione, però, è potenzialmente infinito; se e quando mi fermo, è solo per una specie di nausea, o perché, per fortuna, vengo attratto da nuove idee e nuovi progetti.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

La scrittura per me è principalmente una sfida e una terapia. La sfida è quella di riuscire a rendere comprensibili a me stesso e poi comunicare a un pubblico ideale di lettori alcune intuizioni sullo stare al mondo. È una terapia perché creare dei personaggi, comprendere le ragioni delle loro azioni, investirli di una forma di pietas va incontro al mio ideale di fratellanza universale, e compensa qualche mia pigrizia nei rapporti umani, che mi fa apparire a volte come una persona scontrosa, anche se mi illudo di non esserlo affatto. Non credo che lo scrittore debba trasmettere “messaggi”, semmai condividere scoperte: non è un educatore, ma un esploratore. Anche quando scrivo racconti che toccano temi socialmente “sensibili” non lo faccio mai con intenzioni moralistiche o pedagogiche: la scrittura nasce da un movente drammatico, che può prodursi nell’incontro/scontro fra due o più persone, e allora avremo un racconto “intimista”, o fra una persona e la comunità in cui vive, e allora avremo un racconto “sociale”, con tutte le possibili intersezioni e sfumature del caso.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Devo dire che sono ancora molto impegnato a setacciare il Novecento, sono rimasto un po’ indietro, soprattutto con gli autori italiani più recenti, anche perché, vivendo in Inghilterra, non posso più andare in libreria a sfogliare libri come facevo un tempo. L’unico che in questi anni ho seguito con una certa regolarità è Erri De Luca. Amo molto la sua scrittura per la capacità di coniugare concretezza e simbolismo, quello che tento di fare anch’io, senza riuscirvi altrettanto bene. Vista la portata limitata del mio osservatorio, però, non mi sento in grado di fornire una risposta sensata alla domanda. Posso dire soltanto che spesso mi capita di trovare in rete racconti di autori italiani più o meno affermati; mi sembra che la linea prevalente sia quella di un “minimalismo depresso” che vorrebbe ispirarsi a Carver, ma in cui mi sembrano assenti gli elementi simbolici, l’ironia e la teatralità. Ecco, da questo punto di vista mi sento abbastanza inattuale.

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Forse la mia ossessione letteraria è “trovare posto nel mondo”. Per questo molti miei racconti hanno per protagonisti bambini, adolescenti o giovani adulti, che vivono con più acutezza lo scarto fra aspettative e realtà, ingenuità e consapevolezza. Insomma, il contrasto e l’integrazione fra reale e fantastico sono per me degli elementi letterariamente irresistibili. Trovo più difficile rispondere alla seconda domanda: faccio fatica a vedere dei cambiamenti, anche perché continuo a seguire almeno due linee di scrittura, una più “intimista” e una più “sociale”; pertanto, dovrei dire che cambio continuamente, ma non è così. Forse l’unica differenza percepibile è la velocità di esecuzione. Qualche anno fa scrivere un racconto m’impegnava qualche settimana. Ora a volte mi basta una notte. Probabile che ciò dipenda, banalmente, da una maggiore esperienza e sicurezza. Non dico che sia un progresso, perché magari definisco “sicurezza” una pericolosa spavalderia, ma lo registro come un dato di fatto.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all’altro genere letterario?

 

Ho praticato l’una e l’altra, poi a un certo punto ho smesso con la poesia. Non saprei dire nemmeno io quando e perché. Forse quando l’amore (le mie poesie parlavano tutte a questa o quella donna) ha smesso di essere per me un tema centrale e ho cominciato a trovare più interessante rivolgermi a un pubblico plurale. Questo passaggio non mi è riuscito in poesia, mentre ho trovato nella scrittura cinematografica prima e nella narrativa poi delle forme espressive più adatte allo scopo.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Moltissimo, è una continua fonte di ispirazione. D’altra parte, il dialetto è stato la mia lingua materna al pari dell’italiano, non potevo tenerlo fuori dalla mia scrittura. Anche per questo Libera nos a Malo, che racconta dell’infanzia “VI-fona” (ovvero in cui la lingua materna era il dialetto vicentino) di un bambino durante l’affermazione del fascismo, è stato una scoperta sensazionale. Come lo è stato il Pasolini delle storie romane, che mi ha fatto anche scoprire il discorso indiretto libero, che utilizzo spesso. Quello che della mia terra mi stimola, letterariamente parlando, è il contrasto fra le bellezze naturali e certi riti rassicuranti da un lato (la passeggiata al lungomare, i bagni in costiera), e dall’altro la devastazione dell’ambiente e delle coscienze voluta dall’incuria, dall’ignoranza o dall’avidità dei più, che hanno trasformato un piccolo paradiso in un purgatorio. Napoli e la Campania hanno generato nel corso del Novecento autori di grande valore, noti e meno noti: La Capria, Prisco, De Simone, Ramondino, Erri De Luca, oltre a un gigante come Eduardo e al mio concittadino Alfonso Gatto, che è stato sia poeta sia narratore di grandissimo talento. Aver potuto leggere i loro testi conoscendo la realtà e la lingua di cui si sono nutriti è stato ed è un grande privilegio.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Il reale si costruisce immaginandolo, proprio come l’immaginazione stilla dalla realtà. Insomma, credo che il confine tra questi due mondi sia meno netto di quanto comunemente si pensi. Per non addentrarci troppo in discorsi filosofici, diciamo che uno dei compiti possibili dello scrittore è quello di rivelarne, attraverso il testo, l’inestricabilità, l’interdipendenza talvolta paradossale. Più o meno quello che ha fatto Platone duemilaquattrocento anni fa.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Ho cominciato a proporre i miei racconti da relativamente poco tempo. Devo dire che quando li ho sottoposti singolarmente per la pubblicazione, ho avuto quasi sempre riscontri positivi. Ora ho due raccolte pronte: una che affronta temi più socialmente rilevanti, con racconti quasi tutti ambientati a Salerno e dintorni; un’altra, che considero il mio personale “ciclo dei vinti”, è caratterizzata da un tono più patetico e/o surreale, con ambientazioni meno definite. Da qualche mese ho cominciato a inviarle a diversi editori, vedremo se ci sarà un interesse. Più travagliata è la storia del mio primo romanzo, che ho finito di scrivere alcuni anni fa, ed è stato ignorato o respinto da varie case editrici. Recentemente, però, è piaciuto a un piccolo editore digitale di Milano. Dopo un leggero editing, siamo quasi arrivati alla correzione delle bozze...

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Una volta completato un testo, il dialogo con i lettori è la cosa che m’interessa di più. Mi piace molto confrontarmi, e non temo le critiche negative: se ben motivate, sono molto più stimolanti dei complimenti, quando questi si riducono a semplici esclamazioni. Negli ultimi due anni ho pubblicato i miei racconti (più altri testi di vario tipo) su una piattaforma per scrittori, dove avevo qualche affezionato lettore. I miei testi venivano regolarmente commentati, ed era una cosa che trovavo molto piacevole. Recentemente me ne sono allontanato perché non tolleravo certe dinamiche che si stavano sviluppando fra i suoi membri, quindi ora mi manca un po’ questo tipo di riscontro. Spero che gli utenti della Recherche vogliano essere così gentili da colmare questo vuoto.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Sono pienamente d’accordo. Dico di più: io leggo per poi scrivere. Spesso mi capita di “leggere alzando la testa” (R. Barthes), ovvero di interrompere la lettura per fantasticare a partire dalle suggestioni offerte dal testo. Da quelle fantasticherie vengono fuori a volte delle buone idee. Insomma, più un testo è coinvolgente, più mi riesce difficile finirlo. Un bel paradosso, no?

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

No, mai, se non in maniera molto informale. Da uno scrittore mi aspetto che mi offra un nuovo sguardo sul mondo, o anche su una minima porzione di esso. E non importa che lo faccia con un testo drammatico, ironico o comico, o con una mescolanza di questi elementi (che è in genere quello che faccio io); l’importante è che si veda una ricerca, un’immaginazione originale al lavoro, e non una banale ripetizione di vecchi stilemi. Ecco perché ogni grande scrittore è un innovatore, e questo non ha nulla a che fare con quello che normalmente si definisce “avanguardia”.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Come dicevo, ho un rapporto anomalo con la critica: per me quella più bella è la più motivata, non importa se positiva o negativa. È quella che mi dà la possibilità di iniziare un dialogo con un lettore, per capire qualcosa di più del mio modo di scrivere e comunicare, e quindi per migliorarmi. Se proprio devo fare un esempio, mi viene in mente un episodio di un secolo fa. Avevo consegnato a mano una mia sceneggiatura a un piccolo produttore, che mi richiamò un paio d’ore dopo perché voleva parlarmi. Tornai subito al suo ufficio, e fui accolto con queste parole: “È una delle cose più sconclusionate che io abbia mai letto, però c’è del buono. E non è facile trovarne”. Poi non se ne fece nulla, ma quelle parole, tutt’altro che celebrative, sono state le prime a farmi pensare che forse ero capace di scrivere. Come tutte le “prime volte”, quell’episodio è rimasto profondamente inciso nella mia memoria. Sulla vanità dello scrittore, poi, tengo sempre a mente la reazione del giovanissimo Pasolini quando seppe che Contini avrebbe recensito favorevolmente la sua prima raccolta di poesie: “Chi potrà mai descrivere la mia gioia? Ho saltato e ballato per i portici di Bologna; e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno di Bologna è stata esaustiva: ormai posso benissimo farne per sempre a meno”.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Come accennavo sopra, il mio primo romanzo (il titolo non è stato ancora deciso con certezza) dovrebbe uscire a breve in ebook. Si tratta di una storia drammatica con risvolti gialli e noir, ambientata a Salerno. Nel frattempo ho cominciato a trasformare in romanzo la mia sceneggiatura Mammaliturchi!, che è stata finalista al Premio Solinas 2004 e che, nonostante questo importante riconoscimento e l’appassionato lavoro di un produttore come Sergio Pelone (ha prodotto, tra gli altri, L’ora di religione e Buongiorno, notte di Marco Bellocchio) non è mai diventata un film. È una commedia corale ambientata in un’immaginaria cittadina del Cilento, a sud di Salerno; uno di quei casi in cui faccio uso del dialetto e provo a mettere in scena il bello e il brutto della mia terra.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Negli ultimi anni sono stato impegnato attivamente con un gruppo Facebook della mia città che fa controinformazione sulle vicende salernitane. È stata una grande palestra, che mi ha portato, nonostante la lontananza, a contribuire al dibattito pubblico, e talvolta a svelare qualche menzogna propalata dal potere politico locale. In conseguenza di ciò, ho avuto l’occasione di collaborare con un quotidiano, fino a quando non sono stato messo alla porta per “incompatibilità di carattere”. Nel frattempo avevo cominciato a cimentarmi con le illustrazioni satiriche. Nel giro di un paio d’anni credo di averne realizzate almeno un centinaio. Essendo incapace di disegnare, lavoravo modificando e assemblando immagini trovate in rete, a cui aggiungevo brevi frasi o slogan. Poi ho abbandonato quest’impegno perché il mio equilibrio psichico cominciava a risentirne... Più di recente ho sfruttato le mie nuove abilità grafiche per realizzare le copertine dei miei racconti, una cosa che mi diverte moltissimo. Infine, mi piace correre nel parco vicino a casa, quando riesco a vincere la pigrizia. Non lo faccio solo per tenermi in forma fisicamente: correre e camminare sono per me due potenti stimolatori del pensiero.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Il vostro è stato il primo concorso al quale ho partecipato con un racconto, e devo dire che mi è andata più che bene. Per me i concorsi sono innanzitutto un modo per farmi leggere e per confrontarmi con altri autori, un modo per valutare il potenziale della mia scrittura. Quando ho avuto notizia del vostro bando, i motivi che mi hanno spinto a partecipare sono stati, nell’ordine: la gratuità (questa per me è una precondizione), l’ampia e qualificata giuria, l’anonimato, il premio in denaro (all’ultimo posto, giuro). In genere sono molto sospettoso ed esigente, trovo spesso nei bandi qualcosa che non mi convince, e allora rinuncio. Altre volte vengono richiesti racconti molto brevi, e faccio davvero fatica: il fenomeno di gemmazione di cui sopra finisce sempre per farmi scrivere troppo. Riguardo al ruolo dei premi nella comunità culturale, molto dipende dal loro grado di onestà e credibilità, e non aggiungo altro.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Sono un novizio della Recherche, ho appena cominciato a orientarmi. In ogni caso, avendo io stesso reso disponibili in rete i miei racconti (sono tutti su una piattaforma americana che si chiama Scribd, e qualcuno è anche sulla Recherche) ed essendo prossimo alla pubblicazione di un ebook, evidentemente non ho alcun pregiudizio negativo nei confronti dell’editoria digitale. Il problema principale è quello che riguarda anche il cartaceo: la possibilità di essere letti da un numero quanto più alto di lettori, non solo e non tanto per riuscire a campare scrivendo (quello riesce solo a pochissimi autori, e non sempre i migliori), ma perché solo così si può riuscire a incidere minimamente nel dibattito culturale. Il rischio, insomma, è quello di scrivere per i venticinque lettori di cui parlava Manzoni. Solo che lui faceva un esercizio di modestia, mentre molti faticano davvero ad arrivare a quel numero. In definitiva, il mio consiglio (ammesso che abbia una qualunque legittimazione a darne) è il seguente: pubblicate sulla Recherche, perché avrete subito una platea più o meno ampia di lettori, ma siate aperti alle critiche e ai suggerimenti, e siate pronti a darne onestamente; in caso contrario, non vi servirà a nulla.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Sì, c’è! “Quando smetterai di scrivere?”. Mi rispondo citando il Parise dell’Avvertenza ai Sillabari: “dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A. e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore”. Ecco, io mi auguro di seguire il suo esempio. Intanto voi potete sempre smettere di leggermi, o non cominciare affatto.

 

 

Grazie Gianfranco.

 

*

- Intervista

Roberto Maggiani

 

[ A cura di Liza Bellandi ]

 

In un mio articolo ho deciso di rispondere a Montale che, trent’anni fa, in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel, si chiedeva se fosse ancora possibile la poesia. Montale accusa i nuovi mezzi di comunicazione di massa (all’epoca TV e radio) di aver reso l’arte spettacolo, esibizionismo, annientandone ogni elemento di introspezione e lirismo che facevano della poesia luogo di grande riflessione culturale e scrigno dell’essenza di un’epoca. La modernità l’ha gettata nel vortice del consumismo, dove tutto è effimero e di breve durata, e l’ha degradata a semplice prodotto di serie, soggetto alle leggi della moda e del mercato.

Montale però auspica, che, quasi per reazione, la cultura di massa possa produrre un giorno una cultura che sia anche argine e riflessione.

A mio avviso quel giorno è arrivato o comunque è molto vicino dato che, dietro l’apparente superficialità e ordinarietà dei nuovi social media, si nasconde una riflessione che si stacca dalle mode e acquisisce stabilità, mentre, quasi paradossalmente, oggi è il mercato editoriale ad essere sempre più soggetto alle leggi del gusto.

Un elemento che porto a sostegno della mia tesi è proprio l’esperienza de LaRecherche.it, per questo vorrei sapere:

 

1.  Quale ideale o proposito ha spinto tu e Giuliano Brenna a creare LaRecherche.it e cosa vi aspettavate, e ancora, le vostre aspettative sono state soddisfatte?

 

LaRecherche.it è stata messa on line nel dicembre del 2007.

Non so se alla base di questa nascita ci sia un “ideale” o un più semplice “proposito”, posso però affermare che LaRecherche.it è fondata sulla convergenza di due personalità molto diverse, provenienti da due esperienze di vita decisamente differenti, per alcuni aspetti all’opposto. Dalla profonda amicizia tra me e Giuliano Brenna, si è avviato il sistema di pensiero da cui ha preso le prime mosse la rivista letteraria, orgogliosamente definita libera. L’immagine di due personalità dissimili, che si ritrovano capaci di instaurare un fecondissimo dialogo, contiene, in nuce, ciò che caratterizza LaRecherche.it.

Giuliano era, ed è, un fine e attento lettore di opere in prosa, io invece ero, e sono, caratterizzato dalla passione per la poesia. Dai nostri scambi e confronti emergeva una cosa su tutte, ci sconfortava e irritava la banalità di certe pubblicazioni che a nostro avviso sembravano trascinare la cultura italiana nel vortice effimero e di breve durata del consumismo, essendo queste segnate da un mero esibizionismo capace di catturare le masse al fine di vendere vendere vendere. Dall’altra parte conoscevamo di persona, soprattutto io, molti scrittori che, per quanto impegnati in un percorso di scrittura e ricerca artistica, non ci sembrava avessero spazi per rendersi visibili e poter mostrare-scambiare tra loro i propri lavori, in quanto soggiogati dal potentato della casta mediatica fatta di editori, autori affermati, conduttori televisivi e radiofonici, giornalisti e critici. Ci si rese conto che la maggior parte delle proposte di autori e libri erano di fatto consigli per gli acquisti, dunque poco finalizzate a far conoscere diverse proposte autoriali e editoriali.

Rilevammo l’assenza di luoghi di libero confronto, molte persone non sapevano a che santo votarsi per avere voce come lettori e come scrittori. Così, spronati da questi pensieri, abbiamo messo on line LaRecherche.it, pensandola come una casa per coloro che cercano uno spazio di libero pensiero, confronto, crescita artistica e culturale, soprattutto nella scrittura. All’epoca facebook non era così potente come lo è oggi, diventato un fiume mediatico in cui, dai suoi vari affluenti, confluisce di tutto, facendo talvolta perdere all’utente l’obiettivo del proprio navigare.

Fin dal nostro primo giorno, quando eravamo pochissimi, sulla pagina “Chi siamo” si trova scritto: “Questo è, prima di tutto, un luogo di partenza, di aiuto reciproco, di lavoro comune e di confronto sulla scrittura: da qui si parte, non si arriva; o meglio, qui si arriva soli per partire insieme...”

Fin da allora pubblichiamo recensioni di libri di autori che si trovano situati tra due poli, quello della notorietà e quello dell’anonimato. Talvolta si tratta di autori alla loro prima pubblicazione, li proponiamo cercando di mettere in luce gli aspetti positivi della loro scrittura e, eventualmente, dando qualche indicazione di un possibile percorso di lavoro. Facciamo tutto ciò con l’ausilio di collaboratori impegnati nel panorama della scrittura contemporanea, qualcuno più, qualcuno meno, ma in ogni caso ad essa attenti, cercando di non farci influenzare da mode o ridicoli pensieri di immediatezza. Forse non siamo dei Critici, ma lettori assidui e attenti sì.

Gestire LaRecherche.it richiede impegno. Ogni suo servizio e spazio è gratuito, ma il segreto della sua gratuità risiede nella capacità di qualcuno di donare-donarsi. Senza donazione non c’è gratuità. Ed è proprio la donazione delle capacità e delle competenze di alcune persone a essere alla base del suo funzionamento.

La messa in opera di tutto il sistema che chiamiamo LaRecherche.it, fatto di competenze artistiche ma anche tecnologiche, relativamente al web, è stato possibile perché abbiamo avuto la fortuna di avere persone che riassumono in sé stesse la passione artistico-letteraria ma anche quella scientifico-tecnologica in grado di mettere in atto tutto il sistema informatico che la sostiene nelle sue varie sezioni, mi riferisco in particolare ai codici di programmazione.

LaRecherche.it è libera perché nessuno, su nessun fronte, ci chiede soldi, e noi non li chiediamo a nessuno, anche se, essendo Associazione, è prevista la possibilità di associarsi e fare donazioni (nessuna delle due cose è obbligatoria per registrarsi e scrivere liberamente sul sito), quelle che arrivano sono impiegate per attività artistiche e culturali, nessuno di noi è pagato. Abbiamo da poco ricevuto una donazione di duemila euro che ci ha permesso di mettere in piedi il Premio Letterario per inediti “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, a partecipazione gratuita, il montepremi è tutta la somma ricevuta in donazione.

Essendo liberi da finanziatori, prendiamo le strade che preferiamo, anche in base a indicazioni-suggerimenti che gli utenti, autori e/o lettori, ci inviano; si tratta di una casa comune in cui tutti hanno il diritto e il dovere di stare bene e di fare stare bene, per crescere nell’arte e nella cultura.

Ogni tanto arriva qualcuno che ci accusa di censurare testi o commenti, ciò è falso. Chi ci accusa sono le pochissime persone ineducate che pensano di poter liberamente inveire, in varie forme, contro chi vogliono, questo comportamento scortese non è ben accetto su LaRecherche.it. Ecco perché nel regolamento, che ciascun utente deve sottoscrivere per registrarsi e pubblicare, c’è scritto questo: “I testi gravemente offensivi la comune decenza e convivenza, deleteri per l’immagine di questo sito o dei suoi autori o di qualunque persona, Istituzione o Associazione, eccetera, potranno essere tolti dalla pubblicazione in qualunque momento senza previa informazione all’autore.” Insieme a poche altre norme che garantiscano un civile e educato svolgimento della vita comune.

Infine una parola sul nome. LaRecherche.it deriva dall’opera proustiana “À la recherche du temps perdu” di Marcel Proust, perché pensiamo che Marcel rappresenti, tra gli scrittori, ma non è ovviamente l’unico, l’anima di una scrittura non commerciale che si fa strada per la forza della sua ragione e della sua bellezza, perché varca i confini della parola per entrare in risonanza con la parte più intima di una persona, l’opera proustiana è specchio della natura umana di tutti i tempi.

Riguardo alle aspettative devo dire che sì, per ora sono soddisfatte, ma tutto è in continua evoluzione. Se dovessimo quantizzare le cose devo dire che da quando siamo nati, di mese in mese e di anno in anno, le visite al sito sono sempre in costante aumento.

 

2. Che tipo di poesia e dialogo culturale si fa su LaRecherche.it?

 

Su LaRecherche.it non si fa un tipo particolare di poesia, visto che la Poesia, per sua grazia, è un “tipo” non classificabile, questo è il mio punto di vista. Per quanto riguarda il dialogo culturale, devo dire che siamo aperti alle più diverse realtà culturali e alle novità.

Abbiamo da poco messo in piedi una sezione di e-book che si chiama “Indovina chi viene a cena?” È una Collana di “Arti varie”, curata dall’amica e redattrice Maria Musik, in cui proponiamo giovani artisti il cui filone di ricerca non percorre necessariamente quello della poesia strettamente intesa, ma arte poetica a tutto campo.

Passano a sfogliare le nostre pagine moltissime persone che provengono dalle più disparate esperienze culturali, scrittori famosi o in erba, ecco dunque che LaRecherche.it cerca di mettere in atto un altro dei suoi propositi, quello di rimescolare le esperienze, facendole circolare e mettendole a contatto, quelle più mature con quelle più acerbe, quelle di autori che ancora sono in via di definizione di una poetica e di uno stile, con quelle di autori che la poetica e lo stile l’hanno già ben definito. Cerchiamo anche di fare rete con altre esperienze analoghe, per esempio, in tal senso abbiamo dato avvio alla Collana “E-book da poesia condivisa” che ci vede collaborare con un altro importante blog di letteratura e cultura, Poesia 2.0, in particolare con la sua rubrica “Poesia condivisa”.

Ma il dialogo culturale non ha fronti ben definiti, i quali si espandono nella misura della disponibilità a innovare e a rinnovarsi nello spirito del tempo che viviamo, restando attenti alle istanze delle persone che lo rappresentano e che su LaRecherche.it hanno libertà di proposta e intervento.

In ogni sezione del sito, di fatto, si mette in atto un dialogo culturale, i testi proposti sono commentati, ci si confronta. Ogni autore può proporre, all’attenzione degli altri, i propri testi o i testi di altri autori, sia di poesia che di narrativa, oppure pensieri e aforismi, intorno ai quali si può instaurare un dialogo, un confronto. Altre due sezioni sono quella del Book Crossing, per fare circolare i libri nelle strade, e la sezione “4mani”, nella quale si mette in atto una scrittura collettiva imparando a innestarsi nel pensiero altrui con continuità. Hanno anche molto successo le interviste di autori che proponiamo. In determinate ricorrenze pubblichiamo antologie coinvolgendo molti autori. Insomma l’attività culturale non ci manca.

 

3. Montale auspica una cultura mediatica che sia “argine e riflessione” e non uno dei capricci del momento. Come contribuisce LaRecherche.it alla riflessione? Che strumenti offre per lo scambio di idee? Come si è creato, in questo ambito, un dialogo culturale? Quali frutti ha dato per il momento?

 

Riformulo la domanda per mettere in evidenza alcune contraddizioni, non della domanda ma del sistema: Come può la cultura mediatica, che caratterizza la nostra contemporaneità, essere “argine e riflessione” nei confronti di una tendenza culturale esibizionista e consumista messa in atto proprio dalla stessa cultura mediatica? Questa è una domanda molto interessante, sembra che un gatto si morda la coda. Siamo di fronte a un problema serio, visto che anche alla base della cultura mediatica dominante c’è un finalismo dirompente, e cioè quello della massimizzazione del profitto! Il profitto si massimizza se le immagini e i suoni esibiscono stereotipi tali da indurre al consumismo, dunque capaci di vendere. Secondo questo paradigma anche la cultura, i libri, l’arte in genere, devono essere vendibili, altrimenti non trovano spazi mediatici importanti, e vengono relegati da parte, in contesti fumosi di insoddisfazione.

Per respirare “aria buona” sarebbe necessario sconfiggere questa modalità mediatica. Potremmo farlo con la pressione di una cultura alternativa su quella dominante governata dal profitto. E qui sorge il problema, poiché tra le culture alternative si affastellano una miriade di esperienze mediatiche senza capo né coda, oppure esperienze ognuna delle quali è in realtà la brutta copia di quella dominante, essendo anch’esse intente a espandere i propri influssi mediatici e i propri piccoli-grandi interessi, cercando di allargare lo spazio dei propri fruitori e ottenere essenzialmente la stessa posizione delle strutture mediatiche a oggi dominanti. Insomma, i paradigmi di base non cambiano, quello che succede è che una esperienza mediatica vuole sostituire l’altra ma senza, di fatto, un reale cambiamento.

Tuttavia la speranza non viene meno e LaRecherche.it cerca di rafforzare una linea di pensiero, quella della gratuità, che è la nostra più importante caratteristica, il paradigma di base che ci rappresenta, tutto l’opposto dell’interesse del profitto. La gratuità, come già detto, prevede la capacità di donarsi. Pensiamo infatti che una nuova esperienza mediatica, capace di essere “argine e riflessione”, deve essere fondata su una cultura che pone a fondamento la gratuità e la democraticità dell’uguaglianza, dando opportunità in uguale misura a tutti, allontanandosi anche da una logica meramente meritocratica, ma entrando nella logica di un affiancamento fraterno e artistico capace di aiutare le persone a evolvere nella propria specificità, avendo cura dell’unicità insita in ciascuna natura umana, qualcosa che non sopraffà le altre, perché ognuna, insieme all’altra, completa lo sguardo sulla bellezza, che è poi, a mio avviso, lo sguardo sulla verità. La tendenza oggi è quella di lasciare indietro le persone: “Tu sei bravo, tu no”. “Tu puoi pubblicare, tu no”. Perché? “Perché devo vendere e ottenere soldi dalla tua produzione artistica”. Questo sistema uccide la cultura, l’arte, la bellezza, la verità, ci fa procedere a rilento sulla strada della conoscenza. Invece è necessario credere che ogni persona ha il suo campo di merito specifico ed è una risorsa unica per l’intera comunità, non solo dal punto di vista culturale, infatti la luce si espande, la persona umana è un tutt’uno, l’intera società potrebbe cambiare, stabilizzandosi non più su un sistema corrotto perché diseguale, ma su un sistema veramente democratico perché coinvolge tutti nella crescita.

È un obiettivo alto? Sì lo è. Ma è possibile incamminarci credendoci e non aspettando ritorni immediati. L’unione e il rispetto reciproco fanno la forza, dobbiamo scardinare i vincoli imposti da una mentalità che fa dell’arte un mestiere con cui arricchirsi.

È necessario mettere insieme le forze delle persone e le loro buone volontà, e ce ne sono. Lo dico con cognizione di causa, essendo, con LaRecherche.it, in uno snodo particolare e privilegiato di esperienze, vedo persone che sanno “regalare”, che si affrancano dalla logica dominante dell’interesse perché conoscono il significato della parola donazione, e non solo in campo artistico. LaRecherche.it cerca di mettere insieme tali persone.

Ecco quello che proviamo a fare, ed ecco i frutti, uno scambio fecondo di idee, una “Parva acies” che può diventare una forza per realizzare ciò che Montale auspicava, e non solo lui.

 

4. Puoi dirmi di più sulla pubblicazione gratuita di e-book? Quanto pensi che sia importante valutare gli e-book per la pubblicazione basandosi su giudizi di validità artistica senza vincoli imposti dalle mode del momento. Quali altre possibilità la rivista offre all’artista per farsi conoscere? Ci sono casi di scrittori emergenti per i quali è stata importante trampolino nel mondo della scrittura?

 

Parto dal “trampolino” e dico subito che questo modo di pensare non ci appartiene. Non vogliamo essere trampolino di lancio, bensì luogo di scambio e crescita, per alcuni un luogo di partenza alla ricerca della propria poetica, cioè di quel diamante che giace, bellissimo, nell’inconscio, e che magari neppure si sospettava di avere, così è successo a molti che conosco. Alcune persone, alle quali, come si usa dire, non avrei dato un soldo dal punto di vista artistico, mi hanno stupito per le loro potenzialità quando hanno individuato in sé stesse quel diamante e l’hanno fatto emergere. La poesia, in senso più ampio, è un affare tutto umano, a cui ogni uomo è sensibile, si tratta solo di riuscire a mettere a tacere quel mostro che è il rumore mediatico circostante, fatto di trasmissioni televisive orrende, di libri e programmi radiofonici che propinano solo arte per l’interesse di pochi (mi riferisco anche a trasmissioni culturali incapaci di allontanarsi dall’orticello dei soliti nomi noti di autori o case editrici, eccetera). Ci caschiamo dentro e pensiamo che quella sia l’arte assoluta e inarrivabile, mentre invece ci allontanano sempre di più da quello che è il nostro essere e la gioia di trovare in noi e negli altri il quid artistico che è la novità che tutta l’umanità attende.

Gli e-book “Libri liberi” de LaRecherche.it osano proporre, come già accennato, scrittori a tutti i livelli di maturità artistica – ma ovviamente non siamo gli unici –, in alcuni casi si tratta di scrittori anche molto noti, in altri casi di scrittori sconosciuti, all’inizio del loro percorso. Li proponiamo dandogli fiducia, anche se talvolta la loro scrittura non è ancora matura, ma fanno capire che hanno scoperto in sé stessi il diamante di cui accennavo e sono intenzionati a farlo emergere e risplendere per la gioia di tutti.

Tutto ciò è possibile, e siamo credibili, perché non abbiamo interesse a guadagnarci sopra, non siamo costretti a seguire le mode del momento. Ci sono alcune case editrici che propongono di tutto senza selezionare, anche autori in erba. Lo fanno perché ci guadagnano, l’autore paga la pubblicazione, e dunque non stampano un libro per amore della scrittura ma per amore del soldo che può portare loro la scrittura delle persone che sono indotte a pensare, dalla mentalità esibizionista corrente, che pubblicare possa procurargli successo, per questi autori è più una velleità che non una necessità. Ma ci sono editori che pur facendosi pagare le pubblicazioni, perché con i libri di poesia non si va in pari con i conti, fanno una seria e decisa selezione dei testi proponendo autori di grande valore. Spesso non rischiano su autori un po’ più deboli. Noi invece possiamo permetterci di investire anche sui più “deboli”.

Per quanto riguarda noi, funziona così. Gli autori ci inviano le loro proposte, le leggiamo, se riconosciamo nella scrittura una scintilla di ricerca sincera, dettata da una sorta di necessità latente nel testo (ogni autore è un mondo a sé stante), sottoscriviamo un semplice “Accordo di pubblicazione” e ci lavoriamo sopra fino ad arrivare alla pubblicazione.

Normalmente da quando un autore ci invia una proposta di pubblicazione, a quando rispondiamo, passa un po’ di tempo, poiché le forze sono quelle che sono e le richieste sono molte. Proponiamo e-book che spaziano dalla narrativa alla poesia alla fotografia alla pittura.

La gratuità della pubblicazione è anche per il lettore che potrà liberamente scaricare l’e-book in formato pdf o epub, con la possibilità di inviare l’e-book anche sul Kindle in formato mobi. Il libro rimane visibile per lungo tempo in prima pagina sul sito dedicato agli e-book, www.ebook-larecherche.it, collegato a www.larecherche.it. Lo pubblicizziamo presso i nostri contatti, ma soprattutto è l’autore che può pubblicizzarlo come meglio crede, avendo sempre il libro disponibile per i suoi lettori nello scaffale-vetrina virtuale; cosicché nel tempo i downloads, visibili in corrispondenza del libro, aumentano. A differenza dei libri a stampa, l’e-book è sempre disponibile.

 

5. Cosa risponderesti alla domanda di Montale: “Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?”

 

Certo che sì, caro Montale. Poiché la poesia è un affare tutto umano, e finché ci sarà un uomo, anche dietro un monitor, non necessariamente dietro un libro, la poesia ha ottime chance di vivere, e anche bene, magari in forme a noi ancora ignote, chi può saperlo. È proprio questa nota di dubbio, come pensava Leopardi, che ci porta verso la verità, ma mai ce la farà raggiungere, perché la verità è fatta di continua novità, è sempre un po’ più avanti, anche all’uomo più illuminato.

 

 

Ti ringrazio di cuore per la collaborazione.

 

Grazie a te Liza

 

 

[ Questa intervista è stata realizzata da Liza Bellandi per scrivere un articolo pubblicato su RadioEco.it, il cui titolo è: La poesia al tempo dei social - rispondendo a Montale ]

 

*

- Intervista

Alessandro Cortese

 

[ Intervista a cura di Giuliano Brenna ]

 

 

1. Chi è Alessandro Cortese?

 

Un giocatore. Un sognatore. A volte credo di essere un folle. Più spesso, un illuso. Per quanto possa sembrare una battuta, credo anche di essere una persona umile, a modo mio. Sono un cinico e, paradossalmente, uno che ha tanta fiducia nel mondo. Mi piace ridere ma lo faccio poco. Capita che io appaia agli altri come una persona complessa ma, in realtà, sono piuttosto semplice. Penso in modo semplice e arrivo altrettanto semplicemente alle conclusioni. Diciamo che non sono propriamente pieno di pregi.

 

2. Come hai iniziato a scrivere e perché? Chi o cosa ti ha spinto a scrivere?

 

In realtà, non si inizia. Io ho sempre sentito le voci. Erano le voci dei giocattoli con cui mi piaceva passare il tempo da piccolo e, quando gli altri bambini facevano combattere i loro pupazzi urlando suoni gutturali, io costruivo storie in cui quelle voci uscivano dalla bocca di ogni robot, guerriero o bambolotto. Ognuno aveva un suo ruolo e quel ruolo cresceva nel tempo, da un pomeriggio all’altro.

La testa di uno scrittore funziona in modo strano. Un attimo prima non c’è niente e l’attimo dopo c’è tutto quel che serve per raccontare la storia. È come se la storia ti raggiungesse e a spingerti a scrivere è proprio lei, la storia che ti ha raggiunto, perché la storia evidentemente vuole che sia tu a raccontarla, altrimenti perché sarebbe venuta a cercarti?

Inutile nascondere, poi, che ci sono anche i deliri di onnipotenza. Si scrive perché, finito un romanzo, ti senti come un dio: hai creato la vita dove prima c’era il nulla. È vita vera, quella che hai messo sul foglio, perché i personaggi nelle tue pagine piangono e ridono e muoiono e s’innamorano.

 

3. Come hai capito che era giunto il momento per te di pubblicare un libro?

 

Non ho mai cercato un editore come se fossi arrivato alla canna del gas. La mia priorità non è mai stata quella di pubblicare ma quella di scrivere. Scrivere mi aiuta ad autopsicanalizzarmi, mi permette di mantenere una valvola di sfogo attraverso la quale far fluire idee disordinate verso schemi ordinati. Scrivere, per me, è il principale contributo che, con la mia vita, sto dando alla lotta contro l’entropia.

Però c’è stato un momento, nel 2009, in cui ho sentito la necessità di vedere i miei lavori pubblicati. Avevo già scritto La Città Oscura, Eden, Ogni Maledetto Proiettile, Alì, Polimnia era a buon punto e avevo iniziato i due libri seguito della Città. Fino ad allora avevo ricevuto solo alcuni rifiuti (conservo qualcuna di quelle lettere, la prima è datata 20 Ottobre 2004 e una piccola casa editrice milanese mi diceva che il libro che gli avevo presentato, La Città Oscura, era decisamente troppo grosso per essere un’opera prima), ma solo durante il 2009 ho sentito che era davvero il momento di provare in modo serio a trovarmi un editore. Per me era diventata quasi un’ossessione, sono arrivato al punto di valutare anche la pubblicazione a pagamento e, se non avessi scoperto su internet che le persone con cui avevo preso contatti erano state tacciate di truffare i propri autori, probabilmente l’avrei fatto. Non lo feci e, preso dallo sconforto, convinto che non avrei mai pubblicato, cominciai a pensare che era semplicemente destino che le cose andassero così.

Poi ArpaNet, casa editrice che mi pubblicò un racconto in un’antologia nel 2007 e a cui avevo mandato Eden in visione solo qualche mese prima, mi scrisse che sarebbe stata “felice di pubblicare la mia suggestiva opera prima”. Letta la loro risposta ho capito che il destino, inteso come successione di eventi acausali (per usare alcuni termini di Jung), deve starci e ci accompagna lungo una via.

 

4. Quale è stata la tua prima pubblicazione? E come la vedi ora?

 

Un racconto: “Vita e ricordo di Mary Ann Nichols. Prostituta”, pubblicato nel dicembre 2007 nell’antologia Concept – Storia di ArpaNet.

Mary Ann Nichols fu la prima vittima di Jack lo squartatore, ma il racconto non trattava di quello. Avevo preferito usare quel pretesto per raccontare come si potesse ledere la dignità delle prostitute nell’Inghilterra vittoriana. Avevo caratterizzato Mary Ann sul modello della Medea disperata di Euripide… la trovavo un’idea originale 7 anni fa e continuo a reputarla tale anche adesso.

Non sono uno che scrive racconti, io i racconti non li so fare: sono abituato a sviluppare storie lunghe che intreccino diversi personaggi e situazioni, e un racconto in genere non mi trasmette la sensazione di poter fare quel che mi pare. Quindi racconti ne ho sempre scritti pochi… ma quando lo faccio, trovo siano fatti nel modo giusto. E finisce che io li ami più dei miei romanzi perché più immediati.

 

5. I tuoi autori preferiti? Chi consideri un tuo “maestro”?

 

Questa è una domanda difficile, perché io ho letto e amato davvero centinaia di libri e centinaia d’autori. Diciamo che tutto quel che ho letto e leggo, in generale, mi ha pure in qualche modo formato. Non parlo soltanto delle storie che gli autori raccontano, parlo anche della storia delle vite di questi autori. Mi piace capire come la vita di uno scrittore diventi o influenzi la sua narrativa e, spesso, la vita particolare di un autore me lo fa apprezzare più di altri. Mi è capitato con Poe, Lovecraft, Hemingway e Bukowski, ad esempio, giusto per citare solo qualcuno.

Tuttavia, se dovessi dire il nome di uno che mi scuote, direi sempre Palahniuk. Le prime due pagine di Invisible Monsters andrebbero studiate nei corsi di scrittura, tanta è la tecnica che Palahniuk padroneggia. In più, fa parte di quella ristretta cerchia di scrittori che scrivono quel che gli piace scrivere, senza badare troppo agli aspetti commerciali e sperimentando moltissimo. Fa libri difficili e un libro difficile, lo dico per esperienza, alla fine della lettura sa premiare alla grande il lettore. Per tutti questi motivi, se mi si chiede un nome, quel nome per me è Chuck Palahniuk.

 

6. Quale libro hai sempre sul tuo comodino? A quale non rinunci quando viaggi? Quale invece butteresti volentieri nel fuoco?

 

I libri sul mio comodino cambiano di frequente, ma da un po’ di tempo permane Il Libro dei Simboli (ed. Taschen). Ha una mole enorme e si tratta praticamente di un’enciclopedia. Chi mi conosce sa che, indipendentemente dal poco tempo libero a mia disposizione, le mie ore di libertà sono dedicate alla ricerca. Sono convinto, come lo erano i grandi pensatori del secolo scorso (Jung, Schrödinger, Heisenberg, Schopenhauer e molti altri, padri della psicoanalisi come della filosofia, della biologia molecolare e della meccanica quantistica), che il mondo intorno a noi ci parli e lo faccia attraverso i suoi simboli. Se impari a riconoscere quei simboli, allora saprai ascoltare il mondo e il mondo ti rivelerà i suoi segreti.

La mia è una ricerca mai settoriale, non studio separando i concetti. La mia ricerca è circolare e tutto ciò che leggo va ad arricchire un unico quadro. Quando morirò, il mio unico rimpianto sarà quello di non aver chiuso il cerchio, perché per farlo c’è bisogno d’un po’ più di tempo di quello contenuto in una vita sola e d’un po’ più di quello che ti rimane dopo il lavoro, ahimè!

In viaggio non rinuncio a un libro agile, leggero e che possa concludere.

Butterei nel fuoco i libri mal fatti. Quei libri dove si strombazzano in copertina frasi come: “Il nuovo maestro del giallo storico italiano!”, poi leggi la prima pagina e vedi che questo ennesimo nuovo maestro non conosce la punteggiatura.

 

7. Ci racconti la genesi dei tuoi romanzi? Cosa fa scattare la “molla”? Dall’idea iniziale come giungi al romanzo finito e pubblicato?

 

Come accennavo prima, per me scrivere un nuovo romanzo non è mai stato faticoso. Non ho mai avuto il blocco dello scrittore e se non scrivo vuol dire che, purtroppo, non ho il tempo che immagino mi serva per scrivere tutto quel che voglio scrivere in un capitolo.

Ho idee continuamente e le appunto ovunque, sui miei taccuini, sull’agenda, sul telefonino. A volte finiscono tutte dentro un libro, altre volte finiranno in altri o, addirittura, diventeranno loro stesse nuovi romanzi.

Come già detto, non scatta la molla. È semplice interpretazione narrativa della realtà. Per spiegare cosa sto dicendo, prendo in prestito John Fante e il suo Chiedi alla Polvere; Arturo, il protagonista del libro, fa una nuotata notturna a Santa Monica in California e viene portato a largo dalla corrente, quindi ragiona: “Sebbene dovessi pensare a nuotare per salvarmi la vita, tutto ciò che continuavo ad avere in mente era come quel che stavo vivendo sarebbe diventato una nuova pagina scritta”. Secondo me sta tutta qui la differenza tra chi è uno scrittore e chi lo fa: chi lo è vive la sua vita in funzione di ciò che scriverà nel prossimo libro, interpretando la propria realtà narrativamente. Quel che vive è già scritto, ma soltanto nella sua testa.

Tutto questo rappresenta allora l’idea iniziale, un plot a cui segue una bozzaccia, ed è facile che il romanzo finito sia molto diverso rispetto alla prima versione per diversi motivi. Il primo di questi dipende dalla maturità artistica di chi scrive: un autore maturo è il più feroce critico di se stesso e, ad ogni lettura della propria bozza, taglia via tutto ciò che gli pare troppo ingenuo, banale, poco funzionale, fuori ritmo, etc. Più letture l’autore fa, quindi, più cambia il testo rispetto alla prima versione.

Quando il libro è diventato accettabile per chi l’ha scritto, allora inizia il lavoro con l’editor.

Molti credono che l’editor sia il nemico, qualcuno che non sa nulla del tuo libro e che vuole solo cambiartelo; in realtà, l’editor è un professionista del settore, e se sei fortunato, con sufficiente esperienza da essere davvero molto bravo. È un tecnico, ruolo diverso dal creativo, e sa vedere gli aspetti, normali e logici nella mente dell’autore, che possono sembrare poco chiari, nebulosi e criptici per il lettore. Collaborare con un buon editor significa spostare capitoli, fare altri tagli e scrivere nuove aggiunte, sulla base delle sue indicazioni e della vostra discussione sulle sue indicazioni; è un lavoro lungo ma, inutile nasconderlo, una volta finito si notano tutte le differenze con il testo iniziale e, se tutto è filato liscio, allora quanto hai tra le mani è un libro vero, di gran lunga migliore della bozzaccia che avevi prima.

Fatto ciò, puoi scegliere: ti stampi decine di copie del romanzo e lo mandi a tutte le case editrici che hanno in catalogo opere affini, oppure cerchi di trovare un agente che creda nel tuo lavoro. Io credo più in questa seconda via, sebbene conosca autori che, cresciuti nel sottobosco, siano approdati a grandi realtà editoriali senza l’appoggio di alcuna agenzia. Se l’agente è bravo, pubblicare il libro è semplicemente questione di mettere le firme sui contratti.   

 

8. Da Lucifero, di “Eden” e “Ad Lucem”, a Leonida, di “Polimnia”, il passo è breve?

 

Apparentemente, non lo è! Ma in sostanza è brevissimo. Mi spiego: si raccontano personaggi che devono stare tra le proprie corde, un po’ come si vede fare agli attori cinematografici, che accettano parti che rispecchino comunque certi aspetti della loro personalità. Si tratta in ogni caso di immedesimazione.

Così Lucifero esprime spesso la mia voglia di veder cambiare le cose, magari attraverso capovolgimenti anche violenti di ordini costituiti che tanto ci raccontano di democrazia e libertà e poi, guardando solo con un po’ più di accortezza, è chiaro che nascondono dittature solo mascherate da democrazia. Ma Lucifero racconta pure di continue ricerche, senza le quali la mia vita non sarebbe quella che è.

Diversamente, Leonida è un personaggio romantico, un eroe puro, pulito e dagli alti ideali, qualcuno capace di morire per un’idea. La caratterizzazione di Leonida ha molti tratti di mio padre, burbero ma buono, fin troppo spesso inflessibile e coriaceo, reso così dalla vita piena di battaglie che ha avuto.

Passare da un personaggio a un altro, quindi, richiede passi brevi se i riferimenti usati per costruire i protagonisti delle proprie storie sono solidi e diversi, e per diversificarli è necessario vivere quanto più possibile: parlare con le persone, viaggiare, ascoltare musica, guardarsi un film o una serie tv; insomma, fare tutte quelle cose in grado di arricchire in termini di contenuto, così che i contenuti tornino fuori quando si scrive.

 

9. I tuoi romanzi denotano una notevole ricerca della perfezione nel linguaggio, non temi di apparire troppo distaccato al lettore?

 

Sono sempre stato un perfezionista e, in quanto tale, provo a riformulare frasi e passaggi fino a quando mi sembrano, appunto, perfetti.

Una volta Paola Presciuttini, autrice di romanzi toscana che mi ha materialmente insegnato moltissimo con i suoi corsi di scrittura creativa, mi ha detto: “I tuoi libri sono troppo puliti. Devi sporcarti un po’!” Ovviamente stavamo parlando proprio del mio eccessivo staccarmi da quel che racconto per favorire altro. Credo che, per certi versi, questo mio difetto sia più evidente in Eden e Polimnia che non in Ad Lucem, perché Ad Lucem è figlio di una scrittura più recente mentre gli altri due libri sono frutto del mio primo periodo artistico. Tutto sta nel trovare il giusto equilibrio, secondo me, tra il modo con cui voglio continuare a raccontare le mie storie e la tecnica usata per raccontarle. È ironico, perché ho la sensazione che quest’equilibrio io lo abbia finalmente raggiunto in quello che sarà il mio romanzo più squilibrato, AristeaXXX, che spero possa uscire nel 2016.

 

10. Tra conoscenza perfetta delle fonti e controllo del linguaggio, quanta anima e quanto di esperienziale e personale - quanto Alessandro - c’è nei tuoi romanzi?

 

È facile che i personaggi di cui racconto nei miei libri abbiano molto del mio modo di fare e di pensare; mi piace credere che ogni scrittore racconti anche la sua vita nelle proprie storie, e che la sua vita sia mascherata con quelle storie che ci racconta. Fa tutto parte della magia della scrittura, secondo me.

La conoscenza delle fonti è d’obbligo: costruisce il background, migliora lo studioso, aiuta la fantasia. Sta a chi scrive saperla trasmettere senza essere didascalico. Per fare un esempio a me vicino, in Polimnia la scelta è stata quella di usare al massimo le note a pie’ di pagina, così da staccare il materiale informativo, importante per chi pretende che da un libro storico si capisca il percorso fatto dall’autore per scrivere il libro stesso, dalla narrativa pura, così da rendere quest’ultima più fluida nella lettura.

Quanto al linguaggio, sono siciliano e la Sicilia ha un passato importante in questo senso: la lingua italiana attuale deve molto alla scuola siciliana di Federico II; credo che ognuno conservi il retaggio del posto da cui proviene: io porto con me l’attenzione nel modo di esprimersi, Pirandello, il barocco, i profumi e i colori. Tutto questo completa la mia persona e, se fa parte di me, allora può ritrovarsi anche nei miei libri. Così, in Ad Lucem, Lucifero vede il vulcano e tutta la vita che cresce rigogliosa intorno al vulcano, esattamente come capitò di vedere a me la prima volta che andai in gita sull’Etna; in Polimnia, Siagro si reca da Gelone, a Siracusa, e la prima cosa che vede sono tutti i colori della Sicilia, così come Leontiade parla della mia Sicilia quando racconta della sua Tebe, e se Temistocle guarda il mare di Grecia i suoi occhi sono i miei che guardano il mare di Sicilia.

C’è tantissimo di mio, in tutto ciò che racconto. Basta saper andare appena un po’ più in là di quanto è stato soltanto scritto.

 

11. C’è un messaggio o un disegno unitario che lega i tuoi romanzi?

 

Se mi si chiede se c’è qualcosa tipo La Torre Nera di King, cioè un crocevia che metta sullo stesso piano di esistenza tutto quanto racconto, la risposta è no. Ci sono dei temi comuni, invece, e sono i temi che mi sono stati trasmessi dai libri che ho amato di più: il significato della lotta, la lealtà verso il compagno, l’onestà, sono gli stessi valori che ho trovato ne Il Signore degli Anelli di Tolkien o in Alexandròs di Manfredi, come pure il piacere di gustarsi una sana vendetta verso chi lo merita l’ho imparato con Il Conte di Montecristo di Dumàs.

Certi libri si amano perché è facile sentire dentro di sé quanto permane nelle loro pagine, e mi piace ancora una volta ripetere il termine circolarità: quel che gli autori hanno dato a me, lettore, con i loro libri, oggi provo a darlo io ai miei lettori con i testi che scrivo. Tento sempre di proporre agli altri i libri che mi piacerebbe leggere, e questa mia volontà è davvero il trait d’union tra tutti i miei lavori.

 

12. Mi hai detto che la scrittura di Polimnia è durata 10 anni, come mai questo lungo tempo?

 

I motivi sono tanti. Innanzitutto è stato necessario costruire il giusto serbatoio di conoscenze, un lavoro lungo e faticoso che però mi è toccato fare, se volevo scrivere un romanzo storico senza cambiare la Storia in funzione delle mie opinioni. Su Sparta ho letto e studiato molte cose che in Polimnia non sono neanche nominate, ma per me era fondamentale conoscerle comunque.

Durante la scrittura del libro, poi, mi sono trasferito a Milano per questioni lavorative e lì non riuscivo proprio a buttar giù nemmeno due righe; scrivevo solo quando tornavo a casa mia, in Sicilia, dove avevo la giusta tranquillità e potevo concentrarmi. Poi mia madre è stata piuttosto male e non c’è stato verso di scrivere neanche quando scendevo giù in patria.

Aggiungi che, per un paio d’anni, ho creduto di voler smettere di scrivere e, di fatto, non ho più scritto. Privarmi di un canale di sfogo per me così abituale mi ha quasi provocato un esaurimento nervoso e l’ho capito solo dopo, quando ho ritrovato i giusti stimoli per tornare a farlo, aiutato da una certezza finalmente chiarissima: per me scrivere è come respirare. Se smetto di respirare, allora muoio. Se smetto di scrivere, forse posso continuare a vivere, ma non sarebbe vita vera.

Polimnia mi ha accompagnato in questo viaggio fatto di esperienze, belle e brutte, che mi ha permesso di conoscermi meglio. La conoscenza di sé richiede tempo e, purtroppo, a pagare per questo tempo è stato proprio Polimnia. Peccato perché, se avessi finito il libro entro il 2006, come era nelle mie intenzioni, mi sarebbe piaciuto vedere se il film 300, uscito proprio nel 2006 e capace di ottenere un successo incredibile, avrebbe spinto anche il mio libro.  

 

13. Hai qualche consiglio per chi vuole seguire le tue orme di romanziere?

 

I consigli li danno i vecchi e non sono ancora abbastanza vecchio per darne! Mi limito a dare qualche suggerimento, allora: tutti voi, che volete fare gli scrittori, fatevi venire tanto pelo sullo stomaco e allargate bene le spalle, vi auguro di avere un bel paio di palle capienti! Se terrete duro e insisterete, di certo verrete pubblicati. A quel punto sarà meglio che siate pronti a farvi un culo così per farvi conoscere, altrimenti il vostro libro non lo compreranno neanche gli amici e i parenti. I libri non si vendono da soli e un libro rimane in giro fintanto che il suo autore lavora perché vi rimanga.

Magari qualcuno vi leggerà e magari gli piacerete pure, così quel qualcuno vorrà parlare con voi di perché avete scritto quella storia o di altro: beh, non permettetevi mai di snobbarlo e non permettetevi mai di snobbare nessuno, perché il vero nessuno è l’autore e l’autore ha una fioca speranza di diventare qualcuno solo se comunica con gli altri.

Magari qualche giornalista non leggerà il vostro libro ma scriverà comunque una recensione o un articolo dove se ne parla malissimo: sì, lo so, non c’è motivo del perché lo faccia ma capita anche questo. Voi scrivete una risposta pubblica e sputtanate chi voleva sputtanarvi, perché se non tirerete fuori denti e unghie il mondaccio dell’editoria vi masticherà.

Imparate a sopportare librai che fanno finta di aver ordinato il vostro libro e di averlo finito. Imparate a fare una bella presentazione e fatela in libreria, non al bar. Imparate a sopportare quelli che vengono alle presentazioni e a cui del vostro libro non frega proprio nulla, che non lo comprano né lo compreranno, ma fanno delle domande solo per far vedere agli altri lì presenti che ne sanno più di voi. Imparate a sopportare i sedicenti professionisti del settore, quei ciarlieri dal curriculum autoreferenziale che popolano i social network e vorrebbero spiegarvi come far bene il vostro lavoro. Imparate a sopportare tutti quelli che vi avvicinano per farvi leggere i loro libri e chiedervi di trovargli un editore. Più di ogni cosa, imparate a sopportare editori masochisti, a volte incapaci di capire che una casa editrice è un’azienda e un’azienda richiede visione d’impresa e gioco di squadra, incapaci di capire che sono e resteranno piccoli perché ragionano in piccolo, incapaci di capire che quando vi raccontano una panzana non siete stupidi e non vi si può prendere per il culo, incapaci di trovare una risposta migliore di: “ma facciamo così per esigenze e/o standard editoriali”.  

Imparate a sopportare tutto questo, se volete fare davvero gli scrittori… perché se non riuscirete a imparare l’arte della sopportazione, allora sarete divorati dalle vostre ulcere.

 

14. A che punto è la letteratura in Italia e dove sta andando?

 

È al punto di esser messa peggio che nel resto del mondo. In Italia, come in Grecia, la gente non legge e molti ragazzini attuali è facile che non leggeranno mai un libro in tutta la loro vita. Non è un caso che Italia e Grecia, paesi dove le statistiche ci dicono si legga meno in Europa, siano anche i due paesi dell’Unione dove le cose vanno peggio.

L’Italia è un paese che manca di cultura perché molti credono che, siccome le cose vanno male, allora manchino tempo e soldi per comprare un libro o per frequentare ambienti che permettano di guadagnare conoscenze. A mio avviso, tutta questa gente non ha capito che le cose vanno male e mancano tempo e soldi proprio perché hanno deciso di disinteressarsi totalmente alla costruzione della propria cultura. Magari mi sbaglio, ma io la mia preparazione ho sempre saputo rivenderla, e se guardo i paesi nordici, dove la scuola è potenziata affinché i ragazzi acquisiscano cultura vera e diversificata, mi pare che le cose vadano un po’ meglio che in Italia e in Grecia. Così, tanta gente ripete a vanvera quanto sente in televisione e spesso non c’è un reale ragionamento sull’informazione ricevuta, così che le persone siano piene di news che non servono a niente se non a perpetuare il qualunquismo.

È inutile continuare a dire che siamo il paese più bello del mondo, che l’Italiano se la cava sempre, che come da noi non ce n’è e il resto di tutta questa propaganda scadente e scaduta, guardiamoci in faccia: siamo un paese scarso. È l’ignoranza che produce il razzismo, la xenofobia, l’omofobia, il bullismo, la cattiva finanza, la cattiva politica, le associazioni a delinquere e il resto della nostra deriva.

Ovviamente, la letteratura in libreria non può che rispecchiare lo stato generale delle cose: molti libri sono scritti male, sono privi di qualsiasi sostanza e infarciti di luoghi comuni, spesso ci sono errori evidentissimi di sintassi, di punteggiatura, inesattezze in quanto riportato nelle bandelle interne o in quarta di copertina.

Tanti autori poveri di contenuto producono i loro libri poveri di contenuto per quei lettori poveri di contenuto… la gente che invece vorrebbe leggere qualcosa di decente che motivo avrebbe di comprare questi prodotti? Non si legge, è vero, e per lo più non lo si fa perché non ne abbiamo voglia, ma la maggior parte dei libri pubblicati dalle grandi case editrici (e qualche libro pubblicato da case editrici meno grandi) non dà mica una mano a chi magari vorrebbe farlo.

La nostra è una crisi di sistema, i buchi da cui esce l’acqua stanno da tutte le parti e non basta più la solita mano di stucco per nascondere le crepe; serve un programma di ristrutturazione profonda che ricostruisca culturalmente noi, i nostri figli, i nostri nipoti, reintroducendo le ore di narrativa nelle scuole elementari e medie, potenziando attività formative alle scuole superiori, valorizzando chi decide di studiare. Utopia? Ma certo che sì! Altrimenti qualsiasi governo, di qualsiasi colore e orientamento, che si è succeduto alla guida di questo paese, non avrebbe sposato una linea di condotta esattamente contraria al rafforzamento della cultura del proprio popolo.

L’ignoranza fa bene al Potere.

 

15. E-book o carta?

 

Cartaceo. Sempre e comunque. La gente si lamenta dello spazio? C’è sempre spazio, in casa, per una nuova libreria. E se conosci un buon falegname, allora un buon falegname può farti una nuova libreria in spazi che non conoscevi neanche. Aggiungo che non è necessario comprare tutti i libri del mondo, visto che sono pochi, qualche centinaio, i libri che davvero vale la pena leggere e possedere. Mi riferisco ai grandi classici, sia più “datati” che “moderni”. Non tutti i libri meritano di occupare lo spazio nella mia libreria, di spazio ne ho ancora a sufficienza e, fintanto che ne avrò, la ragione principale per preferire un e-book a un libro vero non sussiste.

 

16. Citazione proustiana: “Allo stesso modo, produce opere geniali non chi vive nell'ambiente più squisito, chi ha la conversazione più brillante, la cultura più vasta, ma chi, cessando bruscamente di vivere per sé, ha avuto il potere di rendere la propria personalità simile a uno specchio, in modo che la sua vita, per quanto possa essere mondanamente e anche, in un certo senso, intellettualmente, mediocre, vi si rifletta: perché il genio consiste nel potere riflettente e non nella qualità intrinseca dello spettacolo riflesso.” Che cosa pensi al riguardo?

 

Penso che Proust abbia la capacità di trasformare qualsiasi testo in letteratura! E ovviamente, sottoscrivo ogni sua parola. Il suo punto di vista, che poi è anche il mio, il lavoro dello scrittore consiste soprattutto nell’osservare, smontare e archiviare. Quanto vede va analizzato e sezionato, così che i pezzi ottenuti possano essere sistemati in registro. Tirati fuori al momento opportuno, lo scrittore potrà rimontare quei pezzi nella stessa sequenza o trovare nuove combinazioni, resuscitando situazioni di per sé scialbe per infondere loro nuovo interesse, così da renderle interessanti sia per chi vorrà leggerle, ma anche per chi le ha vissute in altre forme e circostanze. A volte sarebbe davvero più semplice ricordarsi di alcune esperienze passate per come possiamo riformularle, piuttosto che per come si sono svolte davvero.

 

17. I tuoi progetti per il futuro e, se ti va, puoi svelare qualcosa sul tuo prossimo romanzo?

 

Farò di più e svelerò qualcosa sui prossimi due libri!

Attualmente, io e la mia agente siamo alla ricerca di un editore per Alì, romanzo breve che racconta una storia di vita e di sport. Dal titolo appare abbastanza ovvio che si parlerà del leggendario Muhammad Alì, pugile capace di cambiare il modo di fare pugilato; eppure il mio protagonista, che di nome fa proprio Cassius Clay, non è quel Cassius Clay che poi divenne Alì: è un cameriere sfigato, siciliano, che combatte con i clienti nel pessimo ristorante in cui lavora e con la sua titolare, la signora Nunziatella. La sera va allo scantinato per allenarsi, cioè nella palestra del suo maestro Vito, e lì ci prende un’infinità di botte. È una storia d’amori: amore per la boxe, amore per gli amici e amore per una ragazza. È divertente, un aspetto che nei miei libri precedenti non s’è visto quasi mai. È narrato in prima persona, dopo tre romanzi con narrazione in terza persona. Insomma, mi è sembrato di ricominciare la carriera praticamente da capo!

Nel 2016 sarà il turno di AristeaXXX, un libro che è più facile aspettarsi da me, ma è il libro che nessuno si aspetta. Con questo romanzo, narrato ancora in prima persona, inauguro un’area di appartenenza per alcuni dei miei testi futuri, un’etichetta che mi piace chiamare: “Narrativa Clandestina da Combattimento”. Aristea racconta di un transessuale. È un libro amaro, scorretto, feroce e caustico. Mi auguro che venga capito, ma sono certo che farà incazzare un sacco di gente.  

 

18. Dopo “Eden” ed “Ad Lucem” si concluderà la trilogia? Qualche anticipazione?

 

È il caso di parlare di una quadrilogia. Il libro conclusivo, Genesi, si sviluppa in due volumi: Libro Primo – Il Grande Giubileo e Libro Secondo – Sitra Ahra. L’idea originale non era questa ma poi, ragionando sul plot, mi sono reso conto che c’è un momento, nel raccontare la storia, in cui il climax è troppo potente perché si trovi semplicemente a metà romanzo. È un climax di forza tale che vale la pena amplificare, facendo finire lì il Libro Primo. Non solo: dopo questo finale, per me è stato possibile mandare la storia sottosopra, totalmente altrove, nel Libro Secondo, in un modo che mi permette da un lato di cambiare tutte le carte in tavola e, dall’altro, di ripotare ogni cosa a Eden.

Fin dall’inizio, la storia di Eden mi ha raggiunto con la sua completezza. Non può che finire tutto come tutto è cominciato. Dove tutto è cominciato. È una storia costruita sui miti della Cabala, e se non è ancora uscita non è perché io abbia qualche problema con essa ma, semplicemente, perché mi piacerebbe che il mio bacino di utenza si allargasse, prima di tornare a Eden. Mi piacerebbe che Lucifero, caratterizzato come forza furiosamente anarchica e capace di abbattersi sull’ordine riconosciuto, possa portare un messaggio politicamente scorretto a quanta più gente possibile.

 

19. La penna è più potente della spada? (Con buona pace di Edward Bulwer-Lytton)

 

Assolutamente. La parola ha la magia di saper mettere a nudo colui che la pronuncia e colui che la subisce. Puoi uccidere chiunque con un’arma, ma solo la parola può farlo soffrire, ridere, piangere. La spada può colpire di punta e di taglio, ma la parola ha più sfumature. E se puoi vedere una spada colpirti… non sai mai dove ti colpirà una parola, se quella parola è la parola giusta.

 

20. Il tuo difetto peggiore al quale non rinunceresti mai?

 

Sono genuinamente arrogante. Ho la convinzione, basata comunque su una discreta esperienza di vita, di essere l’unica persona logica e razionale che io abbia finora conosciuto. Va da sé che ho la continua sensazione di essere circondato dall’illogicità, spesso incarnata in chi mi trovo di fronte. La mia è un’arroganza di difesa, a volte, e di offesa, in altre occasioni. Ma non sono pazzo, giuro. Semplicemente non ho la pretesa di piacere a tutti e fare antipatia a qualcuno non mi disturba minimamente.

 

21. Tra tutte le precedenti, quale domanda ti ha irritato di più? E quale avresti voluto ti facessi?… E se la formuli devi anche rispondere…

 

Quella sui consigli da dare agli aspiranti romanzieri! Ma non per la domanda in sé, ci mancherebbe, quanto perché nel rispondere ho ricordato tutto quanto c’è stato da sopportare e si sopporta, pur di fare quel che si vuol fare davvero.

Mi sarebbe piaciuto che tu mi domandassi quanto guadagno come scrittore! Ti avrei risposto che, sotto il profilo strettamente economico, guadagno quel poco che serve a pagare qualche bolletta (il che, sentendo dei colleghi, è già tantissimo!). Poi c’è un vero guadagno, che ricevo ogni volta che ho il piacere e l’onore di parlare con qualcuno che ha letto un mio lavoro e l’ha apprezzato, o che l’ha letto e non l’ha apprezzato ma ha da farmi una critica costruttiva. La scrittura è magica e parte della magia sta nel rapporto di condivisione tra autore e lettore, due persone che non si conoscono ma che vengono unite da un libro.

 

22. Un messaggio per i lettori e gli autori de LaRecherche.it?

 

Continuate così, armatevi e armiamoci di tanto coraggio e forza, perché è una guerra quella che ci aspetta. È la guerra di chi vuol salvare la cultura in un mondo sempre più rapido, intermittente, frammentario, in cui chi gestisce il nostro intrattenimento lo fa vendendoci l’immediatezza. Alla cultura si dedica il proprio tempo, la propria pazienza e la propria vita, perché ci vuole tempo, pazienza e vita per costruirla. Chi la demolisce, chi vuol farci dimenticare di Essa, non ci toglie la cultura, quindi, ma ci toglie tempo e vita.

Abbiamo il dovere di servire la buona cultura perché la buona cultura ci servirà, ma se un tempo la servivamo per affermarla, oggi la serviamo soprattutto per farla sopravvivere.

 

Ciao Alessandro, grazie!!

 

Grazie a tutti Voi, perché questa è l’intervista più bella (e faticosa!) che io abbia mai fatto!

 

*

- Intervista

Salvo imprevisti

 

“SALVO IMPREVISTI” E “L’AREA DI BROCA”:

FAR POESIA SOGNANDO UN MONDO PIU’ GIUSTO

Di Mariella Bettarini (intervista a cura di Roberto Mosi, pubblicata sulla rivista Testimonianze)

 

I quarant’anni di una ricca esperienza letteraria e culturale quale quella di «Salvo imprevisti» (su cui si è innestata poi «L’area di Broca») sono qui raccontati da una delle fondatrici, Mariella Bettarini. Una rivista che è stata ed è un punto di riferimento e che continua a dare il suo contributo anche per superare quel distacco tra politica e cultura, tra poesia e società che spesso si presenta oggi come incolmabile.

All’intervista seguono due testi gentilmente concessi a firma di padre Ernesto Balducci (che «Salvo imprevisti» ebbe come collaboratore fin dagli esordi).

 

In quegli utopici anni Settanta

 

Nel febbraio del lontano 1973 fu pubblicato il primo numero della rivista “Salvo imprevisti”, numero unico in attesa di autorizzazione. Dopo venti anni di vita, dal 1993, è stata innestata nell’alveo di questa esperienza quella de “L’area di Broca”, una pubblicazione periodica ancora viva e vitale. Mariella Bettarini scrive nel supplemento all’ultimo numero della rivista (n. 6-7, luglio 2012-giugno2013), dedicato a quest’anniversario: “Fondata negli utopici primi anni Settanta da Silvia Batisti e dalla sottoscritta, prendendo poi il sottotitolo di “quadrimestrale di poesia e altro materiale di lotta”, autofinanziata, interdisciplinare, caratterizzata da fascicoli monografici, “Salvo imprevisti” raccolse intorno a sé vivi interessi, dibattiti e circa quattrocento collaboratori, in un itinerario di ricerca e sperimentazione piuttosto raro per vivacità e durata. (…) Una rivista, un lavoro ormai “storicizzati”, presenti, tra l’altro, in volumi di autori come Fortini, Pasolini, Manacorda, Asor Rosa, Zagarrio, Marco Marchi, Giorgio Spini, ecc.».

«L’area di Broca» – dalla zona del cervello dedicata alle funzioni del linguaggio – si è innestata su questo «tronco» di ricerca e di passione, una rivista di “letteratura e conoscenza» nella quale si alternano testi creativi e scientifici, narrativa e filosofia, poesia e politica. Alcuni titoli dei numeri monografici: Cervello, Fotografia, Acqua, Caos, Macchine, Suoni, Tempo, Amicizia/cooperazione, Cinema/video/TV, Numeri, numeri, Gli altri, Denaro, Cibo, Lavoro, Memoria, ecc.

Prezioso il supplemento della rivista, ora citato: con l’indicazione dei fascicoli pubblicati dal 1973 a oggi, è riportato l’elenco dei collaboratori e collaboratrici che hanno partecipato a questa esperienza (circa ottocento). Fra questi, nomi alquanto significativi della letteratura e della cultura italiana, quello di Ernesto Balducci. La redazione si presenta all’appuntamento dei quaranta anni, con un risultato quanto mai importante per il mondo della cultura. Sono oggi consultabili sui siti www.emt.it/broca e www.emt.it/salvoimprevisti i 26 numeri de «L’area di Broca»; dei 37 fascicoli di «Salvo imprevisti» ne sono oggi consultabili 11, in attesa della registrazione degli altri numeri che sarà effettuata prossimamente.

 

L’INTERVISTA A MARIELLA BETTARINI

 

D. Il primo numero di “Salvo imprevisti” portava il titolo “I perché di una pubblicazione”. Puoi ricordare questi perché e dirci se, in qualche misura, sono ancora attuali?

 R. “I perché” che dettero il via alla pubblicazione (ormai quarantennale) di “Salvo imprevisti”- che poi mutò il titolo con “L’area di Broca” - mi paiono tuttora assai vivi. Si iniziava dicendo della scarsità del numero dei lettori, e tuttavia si affermava la necessità di dar loro alternative mediante una cultura che avesse un fiato più ampio, soprattutto che si rivolgesse “al mondo di coloro che non hanno mai fatto né pensato la cultura, ma l’hanno soltanto subìta”.

 Certo, oggi il cosiddetto “mondo della carta stampata” è divenuto il mondo di Internet, del Web, di FaceBook, degli e-book, e via discorrendo, ma il senso profondo dei problemi legati alla cultura, alla letteratura è rimasto lo stesso, specie in un’Italia in cui il consumismo, la scarsa democrazia, il lassismo etico, la scarsissima passione civile continuano imperterriti ad imperare, a contare numerosissime “vittime”.

 Un altro dei “perché” di questa iniziativa consisteva, appunto, nella necessità di “conoscere il fine di questi mezzi di massa”. Scrivevo allora dell’indispensabilità di una cultura che vedesse finalmente concludersi “la vergognosa divisione del lavoro”, che rappresentasse “la rottura della subordinazione del lavoro manuale all’opera d’arte”. Mi pare che questi problemi non siano passati di attualità. Al contrario…

 

D. È possibile distinguere fasi, caratteristiche diverse nella vita di “Salvo imprevisti” e “L’area di Broca”? Quando sono stati più vivi i rapporti con la vita politica e culturale della città?

R. Direi che le caratteristiche di “Salvo imprevisti” e de “L’area di Broca” risultano piuttosto simili, anzitutto nella volontà di affrontare di volta in volta, di fascicolo in fascicolo, precisi temi monografici, ossia di fare delle due riviste, sempre, un “territorio” di ricerca e di approfondimento su temi via via individuati dalla redazione e proposti ai vari collaboratori, piuttosto che generiche “antologie” di testi in versi e in prosa.

 Se, però, c’è una certa differenza tra “Salvo imprevisti” e “L’area di Broca” questa consiste, semmai, nel fatto che “Salvo imprevisti” aveva affrontato tematiche più sociali e, diremmo, “civili”, mentre “L’area di Broca” ha ampliato piuttosto gli interessi culturali, occupandosi anche dell’aspetto scientifico - e non solo letterario - della cultura.

 Per quanto riguarda i rapporti con la vita politica e culturale della nostra città, direi che, forse, tali rapporti sono stati più intensi nella fase 1973-1992, ossia con “Salvo imprevisti”, fase che corrisponde, poi, ad anni un po’ più “impegnati” di quelli seguenti (direi meglio: un po’ meno “disimpegnati” di quelli che sono seguiti…).

 

D. Ci vuoi parlare di uno dei ricordi più cari, più emblematici legati alla vita della rivista.

R. Non mi è affatto facile fermarmi a un solo ricordo legato alla vita della rivista. Si tratta di moltissimi, vivi, variegati ricordi lungo questi quattro decenni d’incontri, discussioni, lavoro, gioia, fatica, condivisione, conoscenze nuove, conferme, difficoltà, occasioni straordinarie di collaborare spesso con la più viva “intellighenzia” che la nostra nazione abbia avuto e abbia, e così via, così via…

 Potrei citare i nomi – tutti! – dei molti amici e amiche della redazione, con cui ho condiviso (e condivido) questa magnifica esperienza. Così come potrei citare i nomi dei moltissimi collaboratori e collaboratrici (esterni alla redazione), che con assoluta generosità ci hanno onorato della loro presenza sulla rivista, che non ha mai avuto “fini di lucro”, non si è mai servita di denaro pubblico e che è stata tenuta in vita con il contributo economico volontario da parte dei componenti la redazione e con svariati abbonamenti (diminuiti nel tempo, pure per il fatto che la rivista è - ormai da anni, com’è giusto e necessario - consultabile anche in Internet).

 

D. Tra i collaboratori appare il nome di Ernesto Balducci. Cosa puoi dire a questo proposito e del rapporto con padre Balducci?

R. La collaborazione di padre Balducci a ”Salvo imprevisti” risale addirittura al numero zero della rivista (uscito nel settembre 1973) come risposta a un questionario (proposto dalla sottoscritta) su cultura di classe e neofascismo.

 Seguì poi, tre anni dopo, la collaborazione al fascicolo 9 di “Salvo imprevisti” (settembre-dicembre 1976) dedicato al tema “Dopo il Sessantotto” . Questa consisteva in una magnifica intervista da parte di Silvia Batisti dal titolo “Sessantotto, fede e ideologia”.

 Per quanto personalmente mi riguarda, la mia conoscenza di padre Balducci risale, invece, ai primissimi anni Sessanta. Allora vivevo a Roma, erano gli indimenticabili anni del Concilio, e padre Ernesto era stato “allontanato” da Firenze e viveva nei pressi della “Città eterna”. Ci furono fin da allora, per me, molte preziose occasioni d’incontro. Tra l’altro, padre Balducci diceva spesso Messa nella piccola chiesa di S. Lucia, a due passi dalla via Teulada, in cui – giovanissima - abitavo con la mia famiglia.

 Tutto questo ha rappresentato per me, senza dubbio, uno degli incontri umanamente e spiritualmente più “fecondi” della mia vita.

 

D. Sembra di poter cogliere un maggiore distacco tra la politica e il mondo della cultura, una netta distanza fra poesia e realtà sociale. Ci sono possibilità per ridurre questo distacco e cosa può fare uno strumento culturale come “L’area di Broca”? I giovani oggi sono sensibili al mondo della poesia?

R. Domanda, domande assai “tormentose”, complesse… Sì, è vero: c’è ormai un enorme, “epocale” (come direbbe padre Ernesto), forse incolmabile distacco tra politica e cultura, tra poesia e società.

 Ci si chiede che cosa può fare una rivista come “L’area di Broca”. Direi, senza infingimenti e con dolore, praticamente quasi nulla. O forse nulla del tutto… Eppure, eppure credo, crediamo ancora che non sia giusto cedere a un totale, irrecuperabile pessimismo. Credo, crediamo che forse non è ancora tutto perduto. Magari sono un’inguaribile ingenua, siamo inguaribili “idealisti”. Eppure bisogna tentare di non disperare, anche se i cosiddetti “segnali” di ripresa sono davvero scarsissimi e quasi spenti. E tuttavia, se non sarà certo la poesia a “salvare il mondo”, se alcuni giovani - che ancora seguono, scrivono, amano in qualche modo la poesia – non saranno coloro che determineranno un cambiamento, credo che i forti IDEALI di cui la letteratura, la poesia (degne di questi nomi) sono portatrici contribuiranno a un rafforzamento degli IDEALI di eticità e di cooperazione, di giustizia e di condivisione tra gli abitanti della Terra. IDEALI che dovranno divenire FATTI CONCRETI, fruttodi appassionato Pensiero e di approfondito uso della Parola, ossia frutto di CULTURA come indispensabile complemento e compendio di quei civili, etici Ideali.

 Spero di avere (in sia pur minimo modo) risposto a questa complessa e tuttavia indispensabile domanda, così come alle altre, mentre sentitamente ringrazio per l’ottima occasione e per l’accoglienza, anche a nome e da parte delle amiche e amici della redazione.

 

Inchiesta su cultura di classe e neofascismo

(Contributo di Ernesto Balducci su «Salvo imprevisti», n. 0, settembre 1973)

 

«II compito dell’uomo di cultura è di mettere se stesso sotto sospetto in quanto in una società caratterizzata dalla divisione del lavoro egli ha ragione di temere che l’esercizio dell’intelligenza vissuto in modo acritico faccia di lui un agente ideologico del sistema di sfruttamento. Il fascismo sotto vari nomi si diffonde appunto tramite la cultura che segue le spinte del condizionamento economico creando i “valori” e i “miti” con cui il sistema si camuffa e guadagna consensi. Non ci dobbiamo distrarre. Il fascismo di Almirante è solo la punta dell’iceberg fascista il cui corpo massiccio ingloba anche le nostre coscienze. Il vero uomo di cultura è quello che si congiunge organicamente alle classi subalterne e ne traduce in termini di immaginazione o concettuali la spinta di autoliberazione, la carica di negazione del mondo costituito. Anche la poesia trova il suo luogo in questo prolungamento immaginativo della critica e della alternativa utopica che è l’anima di ogni rivoluzione. La sinistra italiana ha appunto questo compito in quanto è sinistra che usa come suo strumento l’intelligenza o l’immaginazione creativa. Molti intellettuali di sinistra sono in realtà borghesi perché scambiano il rifiuto rivoluzionario col vezzeggiamento dell’irrazionale, del primitivo e dell’erotico: sono funzionali al sistema che infatti li ricambia di premi e di larga ospitalità. Per uscire dall’equivoco occorre che l’impegno di partecipazione alla lotta sia il più possibile aderente alle provocazioni reali, assuma ciò che è veramente vissuto dagli oppressi ed ivi maturi il proprio gesto, la propria proposta specifica. Una rivoluzione culturale è anch’essa un mito drogante se non sconta se stessa nella puntualità del ribaltamento critico dei miti e nella solidarietà vissuta, in qualche modo, con la lotta comune. Ormai anche i sindacati come quello dei metalmeccanici esprimono esigenze culturali, spazi destinati ad uno sviluppo della cultura operaia. Bisogna cogliere queste occasioni per un nesso vivo tra gli intellettuali e la classe operaia la quale resta la forza portante per la rivoluzione. Quando poi questa ci sarà è impossibile dirlo. Bisogna agire come se ci dovesse essere domani»

 

Sessantotto, fede e ideologia

(Intervista a padre Ernesto Balducci a cura di Silvia Batisti, su “Salvo Imprevisti” n. 9, dal titolo Dopo il Sessantotto – settembre-dicembre 1976)

 

1 ) Che cos’è stato il ‘68 per lei uomo politico, uomo di fede, uomo di cultura?

2) Se dovesse collocare storicamente e sociologicamente il "dopo ‘68", gli anni Sessanta, questi anni, da quale presupposto partirebbe”?

3) La fede. La politica della fede. Crede che la fede sia, come dice Althusser, l’ideologia dell’ideologia?

 

“Intanto, come moltissimi della mia età, anch’io sono rimasto preso alla sprovvista dal ‘68, non ne he saputo cogliere immediatamente la portata rivoluzionaria e solo successivamente sono rimasto fedele, mentre per molti il ‘68 è stato una parentesi subito chiusa, a quello che ho ritenuto essere il messaggio politico-culturale del ‘68, tanto che sono solito, nella mia periodizzazione della storia che stiamo vivendo, considerare il ‘68 come l’anno della frattura storica. È col ‘68, a mio giudizio, che è diventata patrimonio comune della coscienza (parlo di una coscienza che sia coscienza, che non sia perciò al rimorchio del condizionamento della società esistente) la scoperta, la percezione del carattere conflittuale della società, non solo a livello delle strutture ma - come del resto chiunque accettava l’ideologia della classe operaia sapeva bene – anche a livello delle sovrastrutture.

Col ‘68 la società è diventata globalmente conflittuale e il conflitto viene avvertito anche là dove si realizza il rapporto fra la coscienza e le istituzioni; c’è, dal ‘68 in poi, uno scollamento progressivo delle istituzioni di ogni tipo dalla realtà effettiva della condizione umana. C’è quindi un’incrinatura, una frattura che attraverso come uno spacco l’intero universo dell’esperienza dell’uomo nel suo contatto con le istituzioni.

 Le istituzioni hanno così perduto rapidamente di credibilità, e secondo me in modo irreversibile, per cui i conati riformistici delle istituzioni da allora in poi sono destinati tutti a vanificarsi.

Per me, dunque, il ‘68 è un momento fondamentale anche della mia autobiografia, e poi della storiografia. Infatti, il "dopo ‘68" si può leggere in due modi: uno (quello che mi sembra sia quantitativamente dominante) come un soprassalto sovrastrutturale del mondo giovanile in specie, che aveva un carattere utopico, e che perciò si è spento rapidamente, riconsegnando la società alla "saggezza" dei padri, per cui i padri sono ritornati a gestire come sempre il mondo di tutti. A me sembra invece di cogliere una specie di trapasso dal carattere traumatico che ebbe all’origine il ‘68 a una specie di normalità fisiologica. Si è cioè generalizzato il distacco delle nuove generazioni nei confronti del mondo degli adulti. Anche quei giovani che non si pongono problemi in modo acuto, esplicito, vivono però alla deriva, il mondo tradizionale non ha più vera presa su di loro. Questo vuoto della forza attrattiva delle tradizioni è riempito dal meccanismo dei condizionamenti della società dei consumi.

 Non oserei dire che nei confronti del "prima del ‘68" oggi c’è più libertà: niente affatto. Forse il conformismo prevale; un conformismo che è diventato grigio, proprio alla maniera con cui (su questo mi trovavo d’accordo) lo descrisse Pasolini: un conformismo dilagante. Tuttavia, all’interno di questo conformismo, aumentano quelle che sono le minoranze rappresentative, nelle quali il senso del distacco dalla società dei padri è definitivo, senza rimpianti, e c’è una maggiore capacità di tradurre in progetto politico il messaggio di rinnovamento del ‘68. Qual è questo messaggio (m’ero dimenticato di dirlo)? È la riappropriazione della sovranità, il rifiuto di una società in cui si scambia la democrazia per la delega; un bisogno di partecipazione diretta, di gestione diretta della realtà. Questo è, in sintesi, il "messaggio" del 1968. Naturalmente, ripeto, la resa storica di questo messaggio è minima, però io sono fra quelli che credono che questa linea di tendenza allora emersa non sia introdotta, anzi agisca nel profondo della società, anche là dove non ha scatti traumatici, emergenze vistose, come una specie di fisiologia latente all’interno della coscienza collettiva.

Questo ha coinvolto anche il mondo dei cristiani. Infatti è proprio in quell’anno che si è rotto l’unanimismo conciliare nella chiesa a cui appartengo. Da allora in poi è finita l’illusione di poter rinnovare la chiesa con unanimità all’interno degli spazi istituzionali che avevano fatto proprio il messaggio del concilio. Ed è da allora che l’intuizione fondamentale del concilio è passata nelle mani delle comunità di base, della coscienza del credente, che ha sempre di più ridotto la propria identificazione con l’istituzione. Anche l’istituzione-chiesa è stata vista, alla stregua delle altre istituzioni come dicevo sopra, quale un prodotto storico, il cui intento è di gestire le coscienze, di condurle dall’alto.

Per me dal ‘68 (non solo in Italia: questo è valido per la chiesa universale) ha preso evidenza un modo alternativo di essere chiesa. Persino un’assemblea di comodo com’è stata quella della chiesa italiana ai primi di novembre ha riconosciuto, con un linguaggio discutibile, l’esistenza di una chiesa parallela, di una chiesa "altra", diversa. Essa si identifica, secondo me, con questa presa di coscienza delle proprie responsabilità di fede e della decisione di spendere questa fede in una scelta storica che sia una scelta di cambiamento radicale della società. Questa è poi la "politica della fede". È inutile che dica che io sono fra coloro che non mettono nessun nesso di necessità tra la fede e una certa scelta politica, che sottolineano anzi con forza la sfera autonoma della fede, il suo mondo di valori che coincide con le dimensioni dell’uomo che si riferiscono al senso ultimo della storia collettiva e della storia individuale. Perciò la fede non deperisce nella nuova congiuntura; essa viene del tutto spogliata dalla pretesa di portare una proposta ideologica, e quindi il compito essenziale di questa fase è - a mio giudizio - la liberazione della fede da tutte le commistioni ideologiche in cui si era come sedimentata. Un ritorno a una radicalità germinale della fede.

Che poi questa sia una nuova ideologia, è tutto da vedere. Personalmente ritengo che una fede che non si confronti con delle enunciazioni fisse e ferme, con delle teorizzazioni già date, ma si confronti con quello che per il credente è il punto essenziale della manifestazione del progetto di salvezza, cioè con la croce (che è la vittoria del potere sull’uomo giusto, che ha aperto le prospettive del regno ai poveri, agli emarginati); ecco, il confronto con quel punto essenziale, con quel focus che è la croce di Gesù di Nazareth, questo confronto, questo riferimento è un riferimento extra-ideologico, cioè un riferimento in cui la coscienza fa leva per liberarsi via via dalle sedimentazioni e dalle subalternità ideologiche. Quindi io non credo affatto che la fede sia l’ideologia dell’ideologia: essa è il punto critico dell’ideologia. Questo è il mio punto di vista.”

 

*

- Intervista

Saverio Bafaro

 

[ Intervista a cura di Sandro de Fazi ]

 

 

1. L’inspiration c’est travailler tous les jours, diceva Baudelaire. Non esistono ineffabilità metafisiche ma il lavoro quotidiano, nulla dies sine linea. Vorrei che mi spiegassi qualcosa del tuo laboratorio personale. Ci sono specifiche ore della giornata nelle quali ti dedichi alla scrittura? Soprattutto, come ti accorgi che il risultato che hai raggiunto corrisponde a quello che volevi dire?

 

Baudelaire afferma esattamente quanto anch'io penso e di cui vado sempre più convincendomi. Ricordo i primissimi periodi, intorno ai dodici anni, in cui presi la penna in mano con l'intenzione di comporre poesia, fatto questo mi capitava di rimanere “in attesa” che qualcosa di magico o misterioso potesse accadere lasciando sul mio foglio il capolavoro. Ad eccezione di queste primissime fasi di inesperienza ed illusione la realtà mi ha, invece, sin da subito insegnato che se qualcosa accadeva era da imputare in gran parte al mio darmi da fare attivamente durante la composizione, non aspettando un moto accidentale, ma provocando un sentimento, un'immagine e procedendo poi alla sua realizzazione. E per realizzare ci vuole costante esercizio: innanzitutto molta lettura, progressiva introiezione dei modelli di riferimento, comprensione dei loro personali registri, delle possibili variazioni e così via. Amare profondamente degli autori, quando si è fortunati, non significherà emularli ma “rubare” il loro modo di funzionare, il loro pensiero, finendo poi per “calarlo” in un contesto diverso che è quello della propria esistenza, tutta da vivere in prima persona, imparando con gran fatica che ci è richiesto essere anche giudici di noi stessi. Non  a caso proprio Baudelaire è stato il primo che con estrema determinazione ha postulato una convivenza-lotta, nel poeta moderno, dell'artista e del critico, colui che imprime la sua forza nel mondo e colui che soprassiede a questo, favorendo una scelta consapevole dei prodotti migliori, con più tempo vagliati e resi un bene sociale e non un lascito narcisistico, quest'ultimo destinato a essere “vuoto” e dalla vita breve. I manuali, i vecchi insegnanti, le conversazioni superficiali continuano a  nutrire un mito completamente infondato, quello del “genio romantico”, essere quasi soprannaturale, in grado di tutto potere. Il Simbolismo ha iniziato a ridimensionare ogni nostra possibilità, solo la forte consapevolezza dei limiti permette di scavalcare e accedere a visioni privilegiate del mondo, avvenute, in fondo, solo per starci meglio dentro.

Venendo a me, in coerenza con quanto appena detto, non ho particolari momenti in cui scrivo, se mi date un taccuino e una biro (che come scrittura di “prima mano” preferisco decisamente alla tastiera del computer) posso in qualsiasi momento, aprendo una dimensione che in me mai vuole tacere. Semmai ci sono momenti in cui il bisogno può essere più forte, basta solo trovare lo spazio e il tempo e quelli spesso mancano, magari ne avessi di più. Da adolescente ho avuto una “media” anche di dieci poesie al giorno, cosa che mi ha fatto accumulare negli anni a venire tantissimo materiale (gli occhi “a posteriori” mi hanno fatto invero salvare poco...); più di recente, purtroppo, scrivo in nicchie temporali molto limitate, ma credo di esser diventato più bravo perché scrivo di meno e “salvo” di più. Mi capita di salvare una bozza di quello che poi svilupperò anche sul telefono cellulare, se non porto con me della carta, poi appena posso sedermi a tavolino trascrivo e ci lavoro, a partire da quella immagine. Sicuramente rispetto al passato ho compreso l'importanza di procedere a versioni successive, è, infatti, rara e casuale la scrittura di una cosa “buona la prima”...

Rispetto al momento della giornata non faccio distinzioni ma, ho notato una cosa interessante: quando assecondo il processo creativo in quelle fasi prossime al sonno come prima di dormire oppure dopo un sogno - mi è capitato, infatti, di svegliarmi con in mente i versi che chiedevano di venire appuntati - la coscienza si prende più spazio e facilita il suo viaggio interiore verso dimensioni poco esplorate, rimanendo a metà strada tra la percezione della realtà e di qualcosa che va “oltre” essa.

Una opera d'arte, poesia o pittura o qualsiasi altra forma non è mai del tutto pronta per il mondo, ha bisogno di un lettore che la umanizzi, la avvicini al suo modo di vedere e pensare alle cose. Per cui anche quando il risultato è “sufficientemente convincente” c'è sempre l'incontro con l'altro, con chi è estraneo a quel messaggio. Quindi bisogna avere, da una parte, tanta esperienza nel comprendere (prendere dentro) il gusto delle persone più varie: una sorta di sommatoria immaginaria e dinamica del gusto di una popolazione di potenziali lettori sotto determinate coordinate spazio-temporali, indietro nel tempo, nell'oggi e nel futuro (auguri!) e, dall'altra, la possibilità di vivere tutto con autenticità per produrre qualcosa di onesto. Quando la collettività si muove all'interno del singolo artista, è questo il grande mistero, avviene “una condizione felice” e si può dire di aver sfiorato una possibilità universale di comunicazione e condivisione.

 

 

2. Assistiamo in Italia al singolare fenomeno per cui ci sono decine di migliaia di sedicenti poeti mentre i lettori di poesia sono di numero assai minore, come sappiamo, e la scelta dell’industria culturale non facilita certo la diffusione di poesia. Perché hai privilegiato proprio la scrittura in versi rispetto alla prosa?

 

Da quanto ho detto prima si intravede come se non si ha una “vocazione”, in qualche modo, il grande sforzo disincentiva la possibilità di occuparsi di poesia, o comunque di continuare ad affrontare un discorso al suo cospetto. La poesia arriva in maniera imprevista, ma una volta che si insinua nell'orecchio e nella carne non se ne va più, è il tuo remare, la tua ragione principale di poter vedere  oltre il visibile, di poter conoscere meglio gli oggetti del mondo. E in tutto ciò è Lei a scegliere e “prenderti in affitto”, a visitare i tuoi spazi più intimi, a spronarti progressivamente nel compiere il viaggio al suo fianco. Credo che la forma poetica, rispetto a quella della prosa si contraddistingua per l'elezione di un pensiero sintetico, un pensiero qualitativo e filosofico abbracciato a un gusto estetico particolare (per le immagini e i suoni in primis). C'è quindi una convergenza tra estetica e promozione di una riflessione sulla vita, godere o dispiacersi delle forme e approdare poi a un pensiero più consapevole, con tanto spazio bianco attorno alla pagina, senza lo sforzo cognitivo di leggere troppe pagine e seguire una trama più o meno complessa. Io amo molto la saggistica, la poesia è, tra l'altro, come un saggio davvero molto breve, altamente estetizzato, in un equilibrio difficilissimo per fare in modo che non siano calcate le sue citazioni, le sue scuole, le sue dottrine, le sue categorie, ma “come se” fossero state scoperte e dette per la prima volta in quel momento.

Riguardo alla questione della proliferazione di molti (troppi) autori, credo di aver in gran parte risposto nella domanda precedente: è una grave “illusione” e una mancanza di rispetto verso chi lavora sodo. Il disamore dei lettori per la poesia che bisogna riconoscere per quello che è: una implosione della cultura italiana, una negazione del suo cuore generativo e fondativo, nella mia visione è da imputare in gran parte al sistema educativo, al fatto che la poesia sa troppo di lavoro scolastico da mandare a memoria, con il quale abbiamo sprecato molte ore della nostra fanciullezza, lasciando quindi un piccolo trauma dal quale allontanarsi per non riportare “brutti ricordi”. Qualcuno di non ben identificato ha insinuato che la prosa faccia viaggiare, indagare e intrattenere, la poesia, per contro, crea immobilità e noia. Poi c'è una ragione più “tecnica”, la messa in teca della poesia, o meglio del suo cadavere libresco, si ha perché non c'è più la percezione di un suo statuto come genere letterario dotato di una sua stabilità interna. L' “immaterialità” è quanto di più aleatorio rispetto alla cultura del mezzo, del profitto, della produttività grossolana. Gli sperimentalismi, gli ermetismi hanno fatto perdere la fiducia alle persone nel poterla capire. Il compito più gravoso per i poeti, infatti, è quello di far tornare lo stupore, il sorriso, la speranza sul volto di coloro che “si scoprono” lettori di versi (diversi?), producendo in loro un messaggio puro e diretto in grado di far sentire un toccamento inaspettato delle menti e delle viscere.

 

 

3. È vero anche dal mio punto di vista che la poesia è una forma estetizzata di saggismo. Io mi spingerei perfino a pensare, e in parte anche a dire, che è diventata critica letteraria e saggio, e non è detto che sia un male. Dissento semmai sulla “memoria”: le scuole di ogni ordine e grado dovrebbero – condizionale d’obbligo, perché è diventato un luogo comune prendersela sempre con la scuola, ossia con noi che vi operiamo quotidianamente e in condizioni non sempre facilissime (è un problema di volontà politica) - ritornare a far imparare versi a memoria, in modo da non tener relegata la vitalità dei testi in una inutilizzata quantitatività libresca. Comunque ciò mi rimanda a qualcosa che è irrimediabilmente extratestuale, probabilmente un approccio “paranoico” ai testi, nel dissolvimento – benvenuto! – dei generi letterari è l’unico che possa collocare adeguatamente la poesia nello spazio che le compete. Sono provocatorio, lo so, ma sono certo che saprai interpretare questa mia domanda sottoforma di affermazione, in quanto se molti e troppi sedicenti autori proliferano, il gusto decade e siamo in una sorta di notte hegeliana in cui tutte le vacche sono poeti. Allora, meno cripticamente, la mia affermazione è la seguente: la fama non è solo espressione di vanità e narcisismo. Per Hume la fama difatti era strumento indispensabile per far conoscere agli altri, nel suo caso, il proprio pensiero. Tu che cosa ne pensi?

 

Quando dicevo “sistema educativo” intendevo, allineandomi a te, una questione molto più grossa: il problema è politico senz'altro, ma ancora di più culturale, per cui la pervasività di certe idee formatesi a negare l'altissima dignità a cui dovrebbe ambire la poesia in Italia è così fuori dal controllo che tutti ne siamo un poco schiavi. Era quindi lungi da me attaccare i singoli operatori o le singole strutture scolastiche, se vogliamo immaginare una metafora le scuole sono come delle cellule di un tessuto cutaneo molto più esteso e, per fortuna ne esistono di eccezioni, abbastanza da non ritenermi catastrofista. Ho ripetuto più volte l'importanza di avere ottimi “filosofi” ¬ ovvero i maestri (a tutti i livelli) ¬ e l'importanza di  disporre di ottimi “guerrieri” ¬ ovvero gli agenti delle forze dell'ordine e simili  ¬ come base e garanzia di un buon funzionamento sociale. Solo costoro sono i promotori del cambiamento perché rappresentano le fondamenta della civiltà, della Repubblica. Finché i docenti non avranno incentivi pecuniari, da creare una “selezione naturale” dei più bravi in maniera tale da portarli ad auto-candidarsi per quella professione sull'onda di un'autentica vocazione, finché i ragazzi e le ragazze desiderosi di diventare poliziotti non verranno selezionati molto di più per il curriculum di studi ed esperienze maturati, ben poco cambierà in quel senso, e incapperemo spesso nel “preconcetto”, nell'immobilismo e nell'auto-svalutazione del corredo stipato nella cassapanca, nella nostra stessa casa...

Rispetto alla “fama” bisogna finalmente dire qualcosa in merito. Oltre a essere un aspetto pericolosissimo dell'illusione collettiva, è anche qui un atto di ingiustizia per chi si dedica al proprio lavoro con metodicità, passione, orgoglio (possiamo far valere il discorso ovviamente per qualsiasi e dico qualsiasi lavoro dignitoso esistente). I tantissimi “talent show” trasmessi in televisione (di recente anche atti a dimostrare capacità letterarie) alimentano un sogno americano tramontato da tempo e svelato appunto come “illusione”. I pensatori europei sono quelli che a torto hanno continuato a proporre il loro pensiero in maniera narcisistica e auto-referenziale, anche quando i risultati erano eccellenti. Non è un caso se i filosofi più interessanti degli ultimi 50 anni siano americani, due fra tutti: Richard Rorty e Willard Van Orman Quine.

Ricontestualizzando al mondo dell'arte e alla sensibilità, umiltà e “investitura” che fa di un autore quell'autore bisogna principalmente conoscere al meglio le proprie potenzialità e risorse così come i propri limiti, integrando costantemente le due cose, in un lavorìo costante, come mi piace dire in breve: “il poeta ricomincia sempre da una pagina bianca!”; non ci sono traguardi, anche se si ottengono riconoscimenti, la partita con se stessi è aperta fino alla fine (un po' analogamente alla “santità”). È ben tramontata l'idea del Genio romantico, dai poteri “sovraumani” e dalle possibilità inspiegabili insite nel suo talento. Come direbbe Keats il poeta «sulla scala dell'essere sta tra la scimmia / E Platone...». Una sorta di esperimento genetico tra l'istintualità selvaggia e l'intelletto più sensibile, un medium a cui è richiesto sin dalla nascita di mettere in comunicazione il cielo con la terra e la terra col cielo. Fa parte della varietà degli ambienti affidare a ciascuno un “compito specifico”, senza interferire sul lavoro e sulle attività degli altri. Ognuno quindi getti della luce dentro di sé e sia onesto, anche se il tempo, come già accennavo, è un fattore deterrente nei confronti delle iniziative e dei moti dell'animo “non autentici”, insomma qualche “mucca impoetica” è sempre dietro l'angolo...e ci si scontra, specie al buio...

 

 

4. L’introiezione dei modelli di riferimento cui avevi accennato prima è fondamentale per un serio apprendistato di scrittura, anche quando i modelli sono altissimi. Potrà forse il risultato non essere così elevato ma sottolineo la disponibilità a uscire da sé e lasciarsi travolgere: questo punto ritengo sia fondamentale per chi è “chiamato”, anche se non sappiamo da chi. Non so tu, ma io parlo tanto della vita quanto dell’opera, anche durante l’apprendistato per il quale è necessario molto esercizio (“Devi scrivere scrivere scrivere scrivere scrivere!” mi diceva, tanti anni fa, Dario Bellezza) e accanto ovviamente alla conoscenza di tutti i poeti precedenti sia della letteratura nella cui lingua si scrive, sia i maggiori delle altre a cominciare dagli antichi. Indiscutibilmente è Renzo Paris oggi in Italia il più illustre rappresentante del neo-antico, ho letto Il fumo bianco e l’ho trovato un autentico capolavoro. Ti so sensibile a questo discorso sugli antichi, recensendo tempo fa il tuo Eros corale ho voluto mettere in risalto il pregio della tua operazione (l’ho chiamata “pseudo-epistolografia filosofica”) e, aggiungo, il coraggio di confrontarti con quegli irraggiungibili esempi in termini amorosi. Vorrei allora arrivare a quest’altro punto: il rapporto tra vita e opera. La Musa “detta” sia nella vita sia nell’opera, secondo me. Sei d’accordo? So che è una vera crux dei poeti dai tempi di Omero, ma te la propongo ugualmente – al di là di estetiche decadenti (Wilde e D’Annunzio, certo Pasolini e, di nuovo, Bellezza) – in quanto la realtà sociale odierna sembrerebbe non riservare quasi altro rifugio che la pagina.

 

Completamente d'accordo, credo questo abbia a che fare con l' “apporto personale”, potremmo fare studiare a dei computer le letterature di ogni tempo e poi aspettare quali combinazioni nuove ci proporrebbero...ma quella non è letteratura! Mi viene in mente un racconto di Tommaso Landolfi in cui, attraverso l'estrazione di “bigliettini” con scritte sopra varie categorie linguistiche (sostantivi, aggettivi, verbi, ecc.), il fantomatico scrittore-protagonista del racconto finiva per scrivere sorprendentemente “L'infinito” di Giacomo Leopardi. Questa è, inoltre, anche una tecnica compositiva (il cosiddetto cut up) valida come non valida, opportuna come no, non superiore o inferiore ad altre, tutto in base al come viene praticata, in quale contesto e con quali effetti.

Sempre per sintetizzare: non sono le lettere a fare il poeta, dovremmo sempre più riflettere sul fare poesia nella tradizione giapponese, ad esempio, all'interno della quale il momento di “scrittura” non era che la fase finale di un processo di viaggio e meditazione, di rivelazione di una conoscenza a sua volta pronta a interagire e influire sul cambiamento della realtà.

È chiaro, dunque, che la vocazione e il talento letterario oltre ad “aspettare”, da un lato, si nutrono come loro unico humus delle esperienze del quotidiano, di qualsiasi sorta esse siano. Solo in questo modo avremo un “ripasso” della tradizione con lo sforzo o il tentativo di aggiungere qualcosa di nuovo, aggiungendo tasselli ulteriori: non importa quanti. Sulla coincidenza, interdipendenza, complementarietà tra Opera e Vita ormai hanno già detto in molti e io mi trovo assolutamente in linea, vorrei, e con questo chiudo, solo ricordare in che termini questi due producono la maggiore consapevolezza durante il percorso di un autore: la Vita ingloba tutte le possibilità, essere allenati a riconoscere quali opportunità sono più prolifiche per il proprio operare predispone  a percorrere un sentiero fertile, ai due lati del quale gli alberi hanno sui rami i fiori della primavera, le “opere” ci lanceranno un “segnale” di riconoscimento,  si avvicineranno ed entreranno in nostro contatto, così come noi avremmo fatto dei passi in avanti per incontrarci con loro a metà strada, quando intuiremo di aver scritto qualcosa di interessante e valido (perché risulta anche agli altri) ci renderemo presto conto di come quel “prodotto” era come se fosse sempre esistito...

 

[ Biografia di Saverio Bafaro ]

 

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- Intervista

Manlio Sgalambro

 

Conversazione di Renato Minore con Manlio Sgalambro.

Il testo che proponiamo è parzialmente inedito (sarà pubblicato in un prossimo libro di ritratti a cura di Renato Minore).

Questa conversazione, in forma ridotta, è stata pubblicata su “Il Messaggero” il 4 aprile 1982 e poi riproposto su “La Città” il 1 marzo 2014.

La fonte della fotografia che ritrae Manlio Sgalambro è Wikipedia

 

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Abita in un palazzo al centro di Catania. La facciata conserva una sua dignità architettonica da inizio Novecento, l’ingresso è fatiscente. Si bussa e una moglie premurosa conduce nello studio che è proprio all’entrata, isolato rispetto alla casa che si pensa rumorosa, abitata com’è da cinque figli tra i sedici e gli otto anni. Di fronte al modesto tavolino da lavoro c’è una parete altissima di libri, molti dei quali nella lingua originaria. Dominano i classici della filosofia tedesca: Kant, Hegel, Schopenauer. Questo è il regno di Manlio Sgalambro, il filosofo di cui probabilmente si parlerà nei mesi futuri come di un’autentica rivelazione. Le sorprese del nostro panorama culturale da un po’ di tempo sembranoessere tutte decentrate. Ieri Bufalino da Comiso, oggi Sgalambro da Lentini, entrambi dello stesso lembo di Sicilia: metafisica, barocchetta, immobile. Di Sgalambro, Adelphi ha appena pubblicato il primo libro: “La morte del sole”. Già la citazione hegeliana con cui esso inizia è un assaggio sufficiente per quotarne l’ambizione:

“C’è molto movimento ma movimento di vermi”. Sgalambro combatte un autentico corpo a corpo con i filosofi tanto amati, li percorre con furia e impassibilità, torna alla luce portando la perla preziosa di una citazione, di una frase, di un ammicco spesso anche letterario. Come quando allude a “Morgue” di Benn, uno dei suoi autori preferiti: “Corpi che si sfasciano, carni putrefatte, ureteri che gocciolano, vagine maleodoranti, retti che si svuotano e, tra l’uno l’altro, l’irrequieto sperma che seminala vita. La pietra che dura più di me, la noia, il dolore, il fetore dell’alito specchio dell’anima”.

Sgalambro sostiene che le filosofie peggiori sono quelle che migliorano il mondo. Per lui la verità è un muto cenno che è rivolto alla vittima designata; per lui l’idea eterna dell’uomo è il suo cadavere. Ironizza sulle ultime novità, sui flash d’agenzia cui è legata la massa urbana. Ed è ambiguamente attratto da questa massa che vive in quella che lui (come tanti altri pensatori apocalittici) chiama la città mondiale, un vero e proprio nuovo luogo dove si celebra il vuoto e si attende che il nuovo destino si compia. Quello che più colpisce è il suo stile: prosciugato e fulmineo, scintillante e inesorabile. Si arriva alla fine come stremati e stregati da questa parola che non spera nulla, che non aspetta nulla. E nelle ultime pagine c’è una sorta di impassibile ritratto di una specie quasi in estinzione, il pensatore, immerso nella quotidiana tortura, con i nervi che, tesi sotto il peso delle cose, emettono lamenti acuti, che gli altri raccolgono solo come pensiero. Quali segnali arrivano da quest’uomo, da questo disincantato cinquantottenne che si appresta al rito dell’intervista? C’è, innanzitutto, il gesto masochistico di chi si è voluto cancellare per quasi quarant’anni, rinunziando a tutto (anche all’obiettivo più a portata di mano: una laurea in filosofia) e accettando il ruolo precario di “piccolo, piccolissimo possidente agrumario”, integrato da lavori d’ogni tipo: da compilatore al nero di tesi a piccole supplenze. Tutto ciò ha permesso una certa organizzazione dei bisogni connessa all’intendimento preciso di non assumere oneri pratici. Perché questa scelta?

 

“Non possiamo occuparci tutti degli stessi problemi. Bisogna far forza su alcune accidentalità dellapropria vita. E poter pensare ad altro. Quel minimo che ho mi consente di poter fare a meno di occuparmi di problemi economici. Ciò non lo considero un errore. Al contrario. Tra l’altro, ci sono decine di migliaia di persone che s’interessano di queste faccende; dalla finedella seconda guerra mondiale l’Europa non s’è occupata che diproblemi economici, da un punto di vista teorico. Perché dovrei farmene carico io? Io mi occupo diciò che mi interessa”.

 

Ma vedrà pure un rapporto tra questa sua scelta e quello che ha scritto. Non voglio fare del sociologismo rozzo, però…

 

“La domanda è pertinente. I tanti milioni di sesterzi che possedeva Seneca non credo che siano irriverenti nel considerare la sua saggezza”.

 

C’è poi questa sua seconda scelta: vivere in provincia.

 

“A Catania vivo dal ‘47. Prima stavo a Lentini. Ho un po’ viaggiato per ragioni di studio. Ora vivo qui, dove ogni tanto nasce qualche iniziativa, ma tutte si spengono. Oppure sono velleità, e non nascono come discussione”.

Si lamenta?

 

“No. Forse qui c’è una calma sufficiente per potere guardare le cose in manieraspersonalizzata. C’è quella possibilità, che una volta era la possibilità della saggezza di una situazione conoscitiva più favorevole.La città rende saggi per forza”.

 

Qui, però, lei vive isolato…

 

“Vedo pochissime persone, un prete, qualche professore di università. D’altro canto non ho mai mitizzato la vita di qui, non ho mai avuto la febbre quartana di certo folclorismo che coglie alcuni letterati. Sono uno di qui, ma nella misura in cui non intendo esserlo,anche questo avrà un certo valore. È un osservatorio, il mio. Ci sto,ci devo stare”.

 

Non c’è nessuna illusione comunitaria nel suo discorso…

 

“Ma vede, in queste campagnuzze, non si trova una vita databile, ma neppure indatabile. Nemmeno la vita arcaica e nemmeno la vita dell’Ottocento. Non è la grande città. Questi paesi che sono privi di connotati individuali, hanno come emblemi individui senza connotati, come se avessero subito quel lavaggio, quel ridimensionamento cui si dice che sono responsabili le grandi città”.

 

È un fenomeno conosciuto: lo scardinamento dei valori connesso alla crisi dei valori tradizionali?

 

“No, assolutamente no. I valori sono ben realizzati, semplicemente, altro che scardinati. La civiltà al suo compimento li realizza dopo averli tanto tempo solo sognati. La crisi comincia da quelmomento. Libertà, salute, reciproca fiducia, il bene in tutti i sensi sono divenuti. Ma i valori realizzati mostrano i loro limiti che come sogno erano rimasti celati. La loro stupidità irrimediabile”.

 

Questa idea è costante nel suo libro. La miseria di ciò che è alla portata di tutte le borse - penso alle sue pagine di fuoco sul “conoscere senza fatica”, sullo stomachevole concetto di formazione - nasconde il terrore della realtà. “Sta in agguato la paura”. Ecco allora la filosofia...

 

“La competenza del filosofo la vedrei proprio qui. Lui arriva post mortem, come medico legale, come l’anatomista. Spicca il suo volo al crepuscolo, quando cioè tutto è finito, non c’è più niente da fare. C’è da vivisezionare. Non è una scienza protagonista, è una specie di lamentazione, forse”.

 

Ma oggi tutti parlano di ritorno alla filosofia: lei stesso, con il lancio che le si prepara, è dentro il fenomeno?

 

“C’è un innegabile protagonismo della filosofia, ora. Lo spirito del mondo gioca i suoi scherzi e chiunque vi è messo dentro. In ogni caso è necessario che la filosofia ritorni a essere quello che deve essere, con un ruolo minore, monologante, di commentatore. Non come forma di comunicazione. Perché il rischio è di tramutarsi in ideologia. Una volta, forse, la filosofia informava: su Dio, sul mondo. Nell’ambito del sistema medioevale Dio è un mezzo di comunicazione di massa perché comunica, aggrega, costituisce fonte di notizie e d’informazione per il conducimento della propria vita. Ma guai al filosofo che si traveste da ideologo. Il filosofo è un piccolo aggeggio che si mette nell’ingranaggio e tenta di disturbarlo: non perché voglia disturbare ma perché questa è la sua funzione. È il parassita molesto della prassi che, in ogni momento, che ogni giorno, ogni notte, si agita e si riposa travestita da milioni di uomini, per riprodurre le cose”.

 

Tra tanti che tornano a parlare di filosofia, sente di avere dei compagni di viaggio?

 

“Ogni filosofia è sola. Il filosofo brucia progetti, continuamente, come il poeta. Ne salverà uno? Oppure no? Non so. Compagni di viaggio? Non so. Vede, sono tanti anni che coltivo il discorso filosofico e l’ho visto spegnersi attorno a me lentamente. C’è un tipo di filosofia all’italiana anche nella composizione del libro: il libro è composto di cose uscite qua e là, da esperienze molteplici chiuse da un’avvertenza”.

 

Vuol dire che non ha punti di riferimento?

 

“Oggi i nostri giovani filosofi non leggono la storia della filosofia, non leggono i grandi autori dellastoria della filosofia dell’Ottocento. Qui c’è la storia, ma c’è ancora l’abbandono alla filosofia, c’è questo cedere ad essa. D’altro canto questi giovani fanno rumore:la loro è una filosofia giovanilistica, robusta, di iniziative, di coraggio, iattante e sicura. Cosa vuole che possa dire io che ho i nervi stanchissimi e rotti?”.

 

L’immagine dell’uomo pressato dai nervi ricorre costantemente nel suo libro. Si direbbe una sorta di maschera conoscitiva.

 

“Credo che oggi sia necessaria più che una Critica della Ragione, una critica dei Nervi, ben diversa da quella di Freud. Una critica che esamini la funzione delle grandi nevrosi nei riguardi della conoscenza,non nei riguardi dell’individuo. Continuamente si liberano situazioni nevrotiche, non a difesa dell’individuo, ma a difesa di situazioni complessive. Inibiscono conoscenze che sarebbero spiacevoli. Formano blocchi. La nevrosi è paradossalmente una tutela”.

 

Ma dove inizia e dove finisce la crisi della filosofia?

 

“La crisi della filosofia e la crisi di una forma, si passa dalla summa al saggio. Il problema dello scrivere si avverte di più. Va insieme a quello che uno deve fare, a quel pensiero che deve svolgere. Pensi alla “Cognizione del dolore” di Gadda. Il contenuto è di una solenne banalità (la vita e sofferenza). Ma è necessario che questo intrigo di cose venga fatto risentire all’interlocuzione di oggi, ricapire”.

 

Dire Gadda significa dire la grande letteratura del Novecento. Un filosofo si nutre di essa?

 

“Non ho fatto mai distinzione tra le due cose. Io ho praticato le due forme contemporaneamente. Non dico che sono sialo lettore perché dire lettore oggi è dire nulla”.

 

A dire il vero oggi si parla di indici di lettura più elevati, di italiani che leggono di più. Allora è cambiato il modo di leggere?

 

“Esattamente. Oggi il lettore è colui che sfoglia, guarda è butta. La lettura è ascolto del libro, entrare in esso lento, muto. C’è ancora oggi un lettore adatto a poter leggere Proust? La mia generazione potè leggerlo perche leggeva in altra maniera, non era assediata da una notevole quantità di libri. O forse perché viveva in provincia”.

 

Ma il suo lettore come se l’ immagina? Il libro entra in un circuito, cerca lettori...

 

“Certo io desidero che si venda, altrimenti l’editore non me ne stampa più. L’interlocutore? È spesso come nei nostri paesi Ì cacciatori di dote: c’è chi possiede qualche idea e un nugolo di cacciatori va dietro. Io credo che l’unico rapporto con un sistema di idee sia mistico: sprofondare in esse. Ciò che rimane e ciò che vivrà e varrà”.

 

A proposito di futuro. Come lo vede? È ottimista o pessimista?

 

“Bisognerebbe sfruttare una frase malfamata: se qualcuno mi parla di futuro, tiro fuori la pistola. Il futuro è una specie di tradimento che si compie. Noi siamo qui, noi siamo vìvi. Il futuro è degli altri. Esso è succube di una nozione di continuità del tempo. Ma basta innestare una condizione di discontinuità e allora siamo tutti simultanei...”.

 

Ma non abbiamo nulla da dire agli altri, nessun messaggio da consegnare?

 

“Il nesso tra noi e gli altri (il futuro) si sta indebolendo. Ci avviamo verso un’altra era.

Non sarà più l’idea di pietà a dominare. Se non c’è pietà, perche si dovrebbe lavorare per il futuro per cui finora ha lavorato il padre travestito da figlio? Quando si vede la fotografia dei figli sul tavolo, viene la buffa idea che siano spermatozoi coltivati… Oggi siamo già nella fase della scristianizzazione, cioè dell’abolizione del concetto di prossimità. Al filosofo tocca questo molesto e delittuoso compito di additare questo percorso”.

 

Sgalambro è inesauribile. Parlerebbe per ore dei suoi argomenti preferiti. Dice che - almeno una volta nella propria vita bisogna abbandonarsi alla autorità di una filosofia - il nostro potrebbe essere un tempo propizio alla riflessione, “perché il lavoro di disillusione lo si fa da tanti punti, lo si fa in tante cose, lo fa la stessa vita quotidiana”. Ogni tanto la moglie entra, si informa amorevolmente, va via. Dà l’idea di una realtà familiare abituata a fare i conti con un grande assente: “Sto qui, posso starci anche diciotto ore. Ci congediamo parlando del suo caso che può esplodere: non ha paura di essere interrogato su tutto, lui che odia l’intellettuale che interviene su ogni argomento, senza averne né l’attendibilità, l’autorità? E come pensa che sarà letto “La morte del sole”? Il commiato ha punte di contenuto sarcasmo, come sempre: “Il mio scritto non può sottrarsi al suo destino di libro. Non c’è dubbio. Si cerca ancora una forma di comunicazione e di espressione diversa. Ma quale? Il rapporto orale? Il guru? Il primo presuppone non questa, ma la piazza di Atene. Il guru presuppone l’India, non Milano, non Catania. Quindi il mio è un libro: che sarà letto o non lo sarà, non so. Né, a dirle la verità, m’interessa”. E sorride un po’ freddamente, spiando in qualche modo la mia reazione, il mio comportamento.

 

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- Intervista

Marco Righetti

 

Intervista a Marco Righetti a cura di Paolo Polvani, in occasione della pubblicazione del romanzo “La vita è molto più”, Leone Editore (2014).

 

 

Marco, per favore, puoi raccontarci qualcosa di te che permetta, a chi ancora non ti conosce, di avvicinarsi alla tua persona e alla tua opera? Chi è Marco Righetti?

 

Mi sono presto reso conto che siamo tutti contemporaneamente emittenti e destinatari di parole e immagini e mondi che però restano volatili, mutevoli, illusori. Possiamo paragonare ciascuno di noi a una finestra. Nella mia vita ho sempre visto molte finestre aperte, ma paradossalmente mi hanno dato e mi danno molta più sicurezza le finestre chiuse, perché dichiarano subito di non voler rivelare nulla, e tu finisci con l’intuire quel che celano; e forse non aiuterebbe molto se qualcuno dichiarasse qualcosa, perché ‘un pensiero rivelato è già menzogna’, diceva Tjutcev. Quelle aperte invece sono insidiose perché possono far entrare qualunque cosa, il mistero e la rugiada, l’orrore e lo stupore. Le finestre aperte sono libri da leggere, menzogna e sortilegio… Scrivere storie è un modo di guardare dentro le finestre aperte, di indagare l’umanità che vive al di là di queste, e di ritrovare quella parte di me dispersa altrove. Da ragazzo raccontavo quello che avevo visto, perché non fuggisse e restasse meglio in memoria. Scrivevo anche per farmi domande ulteriori. Conoscere, immaginare, raccontare sono solo la premessa di una navigazione maggiore: non scrittura di viaggio ma viaggio attraverso la scrittura. Mi sono messo seriamente in viaggio tardi, verso i quarantacinque, dietro consiglio paterno: intendo ho iniziato a partecipare a concorsi (con risultati più che lusinghieri) e a mettere insieme poesie da pubblicare. Nella mia nota in appendice a Il seguito mancante (Puntoacapo editrice, 2010), secondo, corposo volume di poesie, mi chiedevo: “A che ora sono nel mio rapporto con la vita fatta, col mondo già vissuto? Che punteggio ha, oggi, la mia coscienza di un bene ricevuto, di un’umanità ferita, conculcata? A quanto va la consapevolezza delle nostre radici letterarie e storiche, imprescindibili? Quali orizzonti mi apre un dire che esce dalla mano passando per il cuore? Ho scritto Il seguito mancante... L’occhio della scrittura completa e interpreta quello storico, intravede collegamenti, scopre vite vissute, riorganizza le scene intorno a eventi privati e pubblici di cui si è consumato il tempo ma non la memoria, rifà l’amore e la perdita, scompone la morte e la ricompone in dialoghi. Ritrova le letture fatte e vi mette il collante della conoscenza: quelle immagini ricevute negli anni possono finalmente posizionarsi a finestra della mente, oltre che del cuore. La poesia ritrova l’altro e la sua voce; in questa fase lotta per non tacere e per non dire troppo, in una parola: per reggersi.”

Ho pubblicato quindi pièces, il romanzo Sole Nero (Leone editore, 2012) cui accennerò dopo, ho un corpus considerevole di racconti che prima o poi troverò il modo di far uscire senza far concorrenza temporale alla mia narrativa lunga; ho infatti altri due romanzi quasi pronti. Fra le esperienze entusiasmanti quella di poter parlare di letteratura ai ragazzi, talvolta infatti sono ospite presso scuole romane medie o superiori in occasione delle giornate dedicate agli autori.

 

Qual è Marco il tema centrale del tuo romanzo “La vita è molto più”? la precarietà, la difficoltà dei rapporti umani? l’autismo ? la ricerca di un senso nella vita?

 

 

Mi sono messo a scriverlo senza altro desiderio che voler affidare alle pagine qualcosa che urgeva, un nucleo di affettività, emotività, pensieri, ricordi, immagini prese dalla mia e da altre vite. Chi scrive ha sempre in sé altre biografie, vite che gli sono entrate nei pori della mente e del cuore, vite che ha respirato nella sua esistenza, spesso senza accorgersene. Non è così difficile: quando noi guardiamo uno spettacolo naturale ne portiamo poi dentro per un po’ i colori, le atmosfere, i silenzi, rubiamo al paesaggio qualcosa che prima era solo suo e ora è anche nostro. Così è per il nostro vivere quotidiano: la partecipazione alla vita non è mai affare individuale, volenti o nolenti c’è molto degli altri nelle nostre azioni, pensieri, convinzioni, proprio per quel filo tenue e solido di umanità che ci fa presenti gli uni agli altri in un dato momento qui, su questa terra. Holderlin diceva “pieno di merito, ma poeticamente l’uomo abita su questa terra” , cioè non c’è solo attività nell’uomo (il merito nel fare) ma anche ricezione di qualcosa che ci viene già dato e che ci previene (e che per Heidegger sarà poi l’appartenenza al linguaggio della poesia). Quando noi diciamo ‘che bello’ oppure ‘è terribile’ non facciamo altro che ricevere emozioni già pronte, di fronte alle quali non c’è alcuna nostra attività. Ecco, la scrittura permette di trasformarle in attività, in possibilità di tirar fuori da quei momenti, che sono entrati in noi, un discorso, un ragionamento e - nel caso di un romanzo - un’immagine della stessa vita. Mi sono messo a scrivere La vita è molto più perché avvertivo il bisogno di chiarire qualcosa che mi portavo dentro e volevo dirlo a tutti (incluso naturalmente me stesso). Non avevo un tema ben definito, avevo piuttosto la guida di una vicenda, il plot narrativo: ho lasciato che fosse questa ad assumere i temi che poi sono entrati a far parte del romanzo. L’urgenza della scrittura per me non è mai un fatto tematico ma qualcosa di più profondo e misterioso: è appunto questa risalita della parte ‘passiva’ della mia vita e la conseguente necessità di tradurla in parole, segni concreti, e di comunicarla a quante più persone possibile.

 

In certi passaggi del romanzo si avverte contiguità con il linguaggio della poesia. Quali differenze di temperatura riscontri tra la scrittura narrativa e quella poetica?

 

Sono due codici fondamentalmente diversi, la poesia privilegia una verticalità che costringe alla riflessione, al verso in luogo della frase, alla pausa in luogo di un discorso. La prosa distende le sue idee, invece, racconta (anche poeticamente) ma sempre accompagnando il lettore, ne indirizza le reazioni, non lo lascia mai solo come fa invece certa poesia, che ti cade addosso con le sue improvvise manette che ti costringono a quel sintagma, a quel nesso voluto dall’autore e non spiegabile. Una prosa che oggi non chiarisca il suo rapporto col lettore, che non dia conto delle sue ragioni è una prosa incompleta, monca, in ultima analisi: una prosa mancata. In poesia è diverso: nessuno scriverebbe più versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire, ricordava Montale. E Borges era dello stesso avviso: ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere.

Ecco perché a mio avviso ci sono più (falsi) poeti che (veri) narratori, proprio perché la prosa costringe invariabilmente a prendere posizione nei confronti del destinatario, costringe l’autore a un rapporto dialettico con lui, e quindi ad adottare una tecnica, una condotta che convincano, che siano coerenti con il genere scelto, e cioè (semplificando) racconto o romanzo.

La prosa permette, come la poesia, di varcare quell’altrove che è in ogni cosa, in ogni situazione della vita, ma lo fa accumulando linguaggi (Meneghello, Gadda, Bufalino), espressività che oscillano fra lingue della memoria (immaginifica, mitica, viscerale, ancorata al territorio) e incisività della lingua che ne risulta. La contaminatio fra generi e l’impasto che ne deriva sono una via diversa in direzione della libertà della parola, verso la migliore coscienza della verità della vita.

Diverso è il caso in cui il rapporto con la scrittura è via di provvisoria salvezza. Pavese scriveva per reagire all’inconciliabilità fra sé e la vita, per esorcizzarla, salvo poi uscirne con una coscienza drammaticamente più acuta. La realtà quotidiana diventò per Pavese proibita e imprendibile, come osservò la Ginzburg, stimolando in lui la maturazione di una tragicità irreversibile.

 

Perché l’autismo?

 

Perché fa parte di quel ‘patrimonio di verità’ (per usare un sintagma caro a Croce) che fa la nostra esistenza su questa terra. Nel libro non ci sono naturalmente accenni tecnici a questa patologia, mai avrei potuto inserirne, non ne ho la minima competenza.

Il mio è un romanzo: e allora l’autismo diventa immediatamente, nelle pagine, la cartina di tornasole del mondo altro, quello privato e sconosciuto ai riflettori dei media, un mondo dove dolore e amore sono uniti molto più saldamente del solito. Ma Francesco, il bambino autistico, ha un dono meraviglioso, particolare: l’empatia. Ed è per questa via che proprio lui apre alla speranza. Francesco potrebbe diventare la storia della speranza… Bisognerà vedere quanto i genitori siano pronti e disposti a capirlo. Dunque l’autismo a questo punto da dramma diventa fonte di luce.

C’è poi un’altra lettura, è il caso di dire: l’autismo di Francesco è la chiave migliore per stanare l’autismo della società che lo ghettizza e lo giudica. Ci sono alcune situazioni emblematiche, nel romanzo, ma non le svelo.

Non solo: è ancora lui, col suo grande problema, a dettare ai genitori il tempo delle scelte. Ma di fronte a questo tempo c’è – non si comprende se sua causa o suo effetto - un flusso di eventi talora ingovernabile. Basti pensare al modo traumatico con cui il padre di Francesco, Jacopo, apre il romanzo...

La malattia di Francesco, e la sua empatia, radicalizzano i fatti, le atmosfere, le attese, i timori, sono dei reagenti che ‘accelerano’ la pagina

 

Quanto di autobiografico affiora nel romanzo ?

 

Vicende che sono in vario modo entrate nella mia vita, e che non potevano lasciarmi indenne. Mi sono lasciato coinvolgere: questo romanzo è solo il secondo tempo, il frutto di esperienze personali e di vite tangenti alla mia, come accennavo prima, che si sono stratificate. C’è in ciascuno di noi una geologia dell’esperienza storica, emozionale, immaginativa che a un dato momento risale in superficie e diventa ragionamento, inquietudine, crisi, passione, scrittura.

 

Nel romanzo la tua scrittura è sorvegliatissima, è per te un atteggiamento naturale o è coerente con la delicatezza della vicenda affrontata?

 

Se io consegno un oggetto a una persona cerco di porgerlo con cortesia, con rispetto. Scrivere in modo ‘sorvegliato’ è anche una questione di rispetto del lettore, un impegno dell’autore a essere nulla più e nulla meno di quello che gli viene chiesto: uno che scrive storie.

Non credo a una scrittura sciatta o qualunquista. Non credo alla supina mimesi del quotidiano. Barthes diceva che la scrittura è una funzione, è il rapporto fra la creazione e la società, è l’impegno di chi opera una scelta in vista della destinazione della sua opera.

Scrivere è anche un fatto di responsabilità, è un consegnare al pubblico una parte di realtà altra rispetto a quella vera, che è abbaglio, illusione, irrealtà: la fantasia è spesso l’unico modo per conoscere davvero i fatti, la luce e l’ombra che li accompagnano (ciò vale in ogni campo, pensiamo a un capolavoro di Rembrandt, il ‘Bue squartato’: è vero quel bue? È molto più che vero, è, cioè esiste, così come esistono di vita propria, con copia di significati, le carcasse dipinte da Soutine e il ‘Bue scuoiato’ di Chagall).

Baudelaire scriveva che “l’immaginazione è la più scientifica delle facoltà, perché è l’unica a comprendere l’analogia universale; l’immaginazione è la regina del vero,”. Dunque l’artista, lo scrittore contribuisce alla conoscenza del mondo.

Ci sono altre posizioni, molto più articolate, sul tema. In un saggio uscito nel 2001 il filosofo americano Richard Rorty ha affermato che la letteratura ci aiuta a inglobare nella nostra coscienza nuovi modi di essere, il che modifica, allargandola, la nostra stessa capacità percettiva. Un romanzo non aumenta le nostre conoscenze ma, permettendoci di entrare direttamente in altre storie e di indagarle intimamente con l’occhio del loro autore, ci fornisce una migliore capacità di comunicare con coloro che sono diversi da noi. Ed è proprio quanto mi è capitato al termine della stesura del romanzo: mi è sembrato di saper meglio comunicare con chi è affetto da autismo. Il felice e misterioso cortocircuito è che sono io stesso autore del libro e beneficiario di questa nuova capacità comunicativa.

E il cortocircuito fra realtà e invenzione diventa emblema della condizione umana nel romanzo Le Pietre Volanti di Malerba, laddove il protagonista-pittore ritrova in una pietra egizia la perfetta riproduzione di un suo quadro dipinto cinque anni prima, e si chiede chi governi le ‘assurde simmetrie’ fra la sua pittura e quella che noi chiamiamo realtà, chi abbia ‘guidato la mano dell’antico scalpellino egizio’.

 

Quali variabili influiscono sul successo, anche commerciale, di un’opera narrativa ?

 

Il gusto del mercato è risposta fin troppo scontata. Ma il gusto è adespota, non ha un vero responsabile o padrone, e può essere influenzato da temi forti, attuali. La sofferenza, l’amore, la speranza sono – credo – temi ineludibili sotto qualunque orizzonte. Altra cosa è la visibilità di un romanzo: e qui entrano in azione l’editore, il passaparola, la pubblicità online.

 

Che cosa ti aspetti da questo romanzo?

 

Certi libri hanno una loro storia, intendo come prodotto autonomo rispetto alla mente che li ha concepiti: partono come libri di intreccio ma in breve tempo lo superano in nome di una visione più ampia. Il tempo funziona come reagente chimico sulla loro natura: non più solo romanzi ma visioni, metafore, viaggi interiori. È come se quei testi sviluppassero dei passaggi nel tempo fino a far imboccare al loro stesso autore una nuova coscienza di sé e del mondo. Mi piacerebbe che anche il mio appartenesse a quel genere di romanzi.

Di fatto nelle poche settimane dalla sua uscita ha già riscosso un autentico successo di critica; il mio sogno è saperlo nelle case degli italiani. Questo libro è un microfono con cui parlo a tutti coloro che hanno la pazienza di ascoltarmi, è una sorta di apparecchio di filodiffusione con cui mi piacerebbe per una serata intrattenere le persone in modo diverso dal solito. Le librerie chiudono, gli amanti della lettura no.

 

Quanto hai impiegato per scriverlo?

 

Come scrittura un anno, più alcuni mesi particolarmente intensi di tutta la mia vita precedente.

 

Le tue fonti d’ispirazione?

 

È una domanda a cui un critico può rispondere meglio del sottoscritto. Vale l’osservazione che ogni scrittura, e dunque anche la mia, non è mai un prodotto isolato ma risente dell’humus da cui è nata. Vi sono scrittori che mi hanno impressionato ma l’elenco è lungo e probabilmente fuorviante. Voglio tuttavia citarne alcuni. Mi colpì, leggendo Retablo, l’affermazione che «Prima viene la vita, quella umana, sacra, inoffendibile, e quindi ogni altro: filosofia, scienza, arte, poesia, bellezza…».

Nel celebre carteggio con Flaubert, che riteneva la vita tollerabile solo a patto di non farne parte, George Sand scriveva che sua sola gioia era restare con i suoi nel cammino che saliva, e che la felicità è accettare la vita così com’è.

«Amare la vita e crederci vuol dire anche amarne il dolore» scrisse ancora la Ginzburg

 

“Sole Nero”, il brillante, coinvolgente, inquietante ecothriller uscito ad agosto 2012 era un cortoromanzo. Questo è invece un libro di quasi 200 pagine, peraltro molto fitte. Qual è stato l’aspetto più impegnativo?

 

Seguire la vicenda con gli stessi protagonisti, mettermi dal lato loro, nella loro mente e nel loro cuore. E poi non lasciare nulla al caso, non abbandonare mai neppure una riga. Il catulliano ‘destinatus obdura’, la capacità di resistenza, vale anche per la scrittura.

 

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- Intervista

Giuseppina Torregrossa

[ Intervista a cura di Maurizio Morelli e Roberto Maggiani ]

 

 

 

Chi è Giuseppina Torregrossa?

 

In ordine alfabetico ginecologa madre, siciliana.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittrice? Come è avvenuto il salto da un piccolo editore come Iride, con cui hai pubblicato, nel 2007, “L’assaggiatrice”, a Mondadori, con cui hai pubblicato, nel 2009, “Il conto delle minne” ottenendo un grande successo di pubblico, addirittura tradotto in dieci lingue?

 

Ho iniziato a scrivere da piccola, mi piaceva, e poi lo aveva deciso mia madre: “Scrivi un diario” mi disse “serve  a migliorare il modo di esprimerti”. Ho il sospetto che lo leggesse di nascosto, era un buon modo per controllarmi. Poi ci ho preso gusto e ho trovato altre forme di espressione: poesie, racconti brevi, annotazioni, pensieri… fino all’Assaggiatrice. Nel 2009 l’incontro casuale dentro una libreria di Matera con Giulia Ichino, responsabile della narrativa italiana di Mondadori. Io non sapevo della sua esistenza, lei della mia. Giulia acquistò una copia dell’Assaggiatrice e mi contattò dopo averlo letto. Io avevo appena iniziato a scrivere “Il conto delle minne”. Le mandai trenta cartelle, ebbi subito un contratto… un colpo di fortuna.

 

 

Ne “Il conto delle minne”, a tratti, grazie ad uno stile narrativo agile, sobrio e fluente, “percepiamo” quasi gli odori, la vita e gli umori della tua terra. Sembra che l’elemento biografico si fonda con quello prettamente narrativo, fantastico. Come avviene per te il processo di creazione narrativa?

 

La mia è una scrittura sensoriale. Parto da una sensazione. Mi abbandono e viene fuori un personaggio, un’ombra tremula e indistinta, che nel corso dei giorni prende corpo e si consolida, finché il profumo, il colore si trasforma in una emozione e prende vita una storia.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Divertire, intrattenere, stimolare un pensiero logico, rassicurare, sostenere il lettore, consolarlo se ne ha bisogno, testimoniare.

 

 

Il conto delle minne” rappresenta il ritorno ad una letteratura dal “sapore siciliano” che accarezza i grandi autori “moderni” di questa scuola, come Verga, Pirandello, Sciascia e il più recente Camilleri. Che rapporto hai con gli scrittori della tua terra?

 

Li amo molto e li rileggo con gioia. Verga, il mio preferito. Poi Goliarda Sapienza, un vero genio del cuore. Camilleri, il più leggero, ma è figlio del suo/nostro tempo. Pirandello con le sue meravigliose novelle, Sciascia un lucido visionario equiparabile a Pasolini, Vitaliano Brancati, infarcito di un erotismo cerebrale e talvolta distorto…

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei narratori tuoi contemporanei?

 

Il ricordo, coltivato fino all’ossessione, perché sulla memoria si fonda la nostra identità. La Sicilia, non solo luogo dove si svolge l’azione, ma la vera protagonista delle mie storie. La lingua, quella dei miei nonni, che ha il sapore della nostalgia.

 

 

Nel tuo romanzo le “minne” rappresentano il “file rouge” che lega il sacro al profano; elementi all’apparenza distanti tra loro che si intersecano insieme: religione, sesso, amore e consuetudini che solo quest’isola può custodire, tutte in una. Quanta sicilianità rivive in te, quanta ne porti addosso?

 

Non so quantificarla, ma dopo quaranta anni a Roma, continuo a sentire fortissimo il richiamo di Palermo, solo lì mi sento a casa.

 

 

Nel tuo libro la protagonista si abbandona all’amore estremo, peccaminoso, che brucia di un ardore che solo la clandestinità può alimentare, fino ad annientarsi per rinascere. L’amore, per usare i versi di una canzone, “conta gli anni a chi non è mai stato pronto”?

 

Non saprei interpretare questo verso, ma certo che l’amore mi fa sentire viva.

 

 

Nell’opera non mancano elementi di riflessione sociale come l’approccio della protagonista ad una malattia tanto grave quanto subdola. Nella tua esperienza professionale di medico, qual è l’approccio mentale per chi soffre di questi problemi?

 

Nel corso degli anni le cose sono molto cambiate. Male incurabile un tempo, oggi le prognosi sono molto migliorate. Curarsi significa anche cambiar vita. È questo che spesso succede a chi si ammala, si cambia e la vita talvolta può anche migliorare.

 

 

Qual è il ruolo sociale di uno scrittore, in particolare di un narratore?

 

Io credo che la vita sia testimonianza e un narratore, come tutti gli altri, ha il compito di testimoniare con le parole oltre che con l’esempio.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Il narratore si trova a cavallo di due mondi?

 

La realtà è la vera fonte di ispirazione. Si attinge dal mondo esterno, poi la fantasia aiuta a rendere “verosimile” il racconto.

 

 

Tornando da un argomento serio ad uno faceto: ma tu, dopo tutto, le sai cucinare queste famose minne?

È un dolce molto difficile da preparare. Il risultato risente di molte variabili, comprese temperatura e umidità dell’ambiente. Le faccio, talvolta sono buone, talvolta appena sufficienti.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Molte donne, ma anche uomini, sensibili e sognatori. Mi scrivono, vogliono raccontarsi, chiedono consigli, amano confrontarsi. Io rispondo e talvolta sono nate anche delle belle amicizie.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Credo che il libro sia uno psicanalista alla portata di tutti. È uno specchio, prezioso e affidabile. Sì, sono d’accordo con Proust.

 

 

Ti piacerebbe vedere i tuoi personaggi muoversi su uno schermo?

 

Non lo so. Le immagini sono fatte per raccontare un’azione e nei miei libri ci sono tanti stati d’animo che andrebbero persi. Ma naturalmente sarei lusingata dalle attenzioni di alcuni registi…

 

 

Che altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

La lettura, senza di essa non può esserci buona scrittura. Il ballo che stimola il cuore in tutti i sensi. La cucina, perché siamo quello che mangiamo. Le passeggiate, il mare, i figli, le amiche.

 

 

Dopo “Manna e miele, ferro e fuoco”, Mondadori, 2011, “Panza e prisenza”, Mondadori, 2012 e “Adele”, Nottetempo, 2012, che cosa dobbiamo attendere in libreria?

 

Uscirà a marzo, l’otto, data simbolica fortemente voluta dall’editore. È una saga familiare che ruota attorno al caffè, ma la vera protagonista è la città di Palermo.

 

Per contattare Giuseppina Torregrossa o avere altre informazioni sulla sua scrittura visitare il suo sito internet: http://giuseppinatorregrossa.com/

 

 

 

*

- Intervista

Carla de Falco

[ Intervista a cura di Maria Musik ]

 

 

M. Ho letto una tua nota biografica. Mi ha colpita subito la decisione di lasciare una carriera più remunerativa in favore dell’insegnamento. Come si collega questa scelta con la tua attività di scrittrice? Che nesso c’è, secondo te, fra poesia e didattica?

 

C. Per molti anni, in effetti, sono stata una “donna in carriera”. In quel tipo di vita non c’era lo spazio, né il tempo per la scrittura. E, in definitiva, non c’ero io. Sono stati anni di grande prestigio sociale e di immensa frustrazione personale. Quando ho lasciato l’azienda per la scuola, che ho sentito da sempre come la mia missione, è arrivata anche la scrittura. Tra poesia e didattica c’è un nesso di fondo: entrambe non scoprono nulla, ma aiutano a rivelare il segreto che è potenzialmente in ognuno.

 

 

M. Cosa significa per te essere poeta? In base alla tua esperienza, l’essere donna ha costituito un ulteriore ostacolo rispetto ai tanti che già incontra chi si avventura sulla stretta strada della poesia in un contesto civile che non concede il sufficiente spazio ad arte e bellezza?

 

C. Essere poeta è farsi brace ed ustionare anche le coscienze più indifferenti. Come molti incendi, la poesia nasce in limine, tra arbusti dimenticati e – diciamo così – fuori controllo. È poeta oggi chi sa difendere un’idea, la dignità di un sogno e le emozioni, rinunciando ad ogni centralità sociale. L’essere donna, in tal senso, paradossalmente aiuta. Ahimè.

 

 

M. E cosa pensi di un “mercato editoriale” che sembra negare le possibilità di successo a quanti non si pieghino ad omologarsi a quello che spesso si disvela come un furbo dilettantismo?

 

C. È un mercato miope, che ha perso il senso del futuro. Dopo la mercificazione della cultura, siamo decisamente alla “fase due”: la culturificazione della merce. La “cultura” in cui siamo immersi sa di sballo e frastuono, di centri commerciali e format televisivi, induce alla fruizione (ed incoraggia la produzione) di libri costruiti ad arte per toccare le corde più vulnerabili di lettori sempre meno consapevoli e per vellicarne  sentimentalismi pigri e stantii. Siamo sommersi da libri che vivono una sola stagione, testi ai quali non si chiede di essere reinterpretati e riletti dalle generazioni, come Calvino sosteneva dei classici, ma di diventare gadget. Interessanti quanto un portachiavi in polistirolo.

 

 

M. “Il soffio delle radici” è la tua prima silloge, dopo numerose pubblicazioni su antologie. Hai, anche, partecipato a diversi concorsi e premi letterari. Ti reputi una poetessa esordiente o ritieni che questo libro sia l’espressione di una raggiunta “maturità”?

 

C. L’idea di fondo che informa di sé la mia esistenza è che io non mi sono mai “raggiunta”, non auspico porti definitivi, amo solo gli arrivi che sanno di ripartenza. Allora non sono né esordiente né matura: sono in transito. Perennemente alla frontiera tra due orizzonti possibili.

 

 

M.  Come è nata questa opera? Quanto tempo ti è occorso per arrivare a considerarla “matura” per la pubblicazione? E quanto è stato difficile trovare un editore che la apprezzasse?

 

C. Il soffio delle radici nasce come trascrizione di un dialogo aperto tra me e l’esistenza. Non credo la mia poesia abbia verità da proporre né risposte da dare, ma  piuttosto per intuizione, approssimativamente, ricostruisce i messaggi di un contemporaneo franto e scomposto, in una sorta di transito di frontiera tra un passato tradito ed un futuro decisamente incerto. Ho provato insomma a dipingere, in un mosaico di versi, la bailamme dei rumori del presente, dei tipi umani, degli affetti scarnificati, delle nevrosi e delle crisi contemporanee (individuali, generazionali e sistemiche). Trovare un editore che apprezzasse il testo non è stato difficile, ma in vari casi le proposte sono state di pubblicare con contributo, anche minimo. Ho rifiutato. Poi, quasi per caso, è arrivata l’opportunità giusta, quella nella quale l’editrice (Laura Capone, Milano) ha assunto su di sé tutto il rischio imprenditoriale. E ho accettato. Per vedere nascere Il soffio delle radici, in definitiva, c’è voluto più di un anno di lavoro tra scrittura, labor limae e ricerca dell’editore giusto.

 

 

M. Nella prefazione, Simone Camassa, pone molto l’accento sulla sfera emozionale quale “motore primo” della tua poetica, fil rouge che collega le quattro sezioni che compongono il libro. Condividi questa lettura? Cosa vorresti aggiungere?

 

C. Scrivo per esigenza di dialogo e parlo prevalentemente di emozioni. Camassa ha colto e sottolineato questo, credo. Scrivo perché mi sento libera di vivere la poesia come arte “inutile”, l’unica che consenta di mettersi alla ricerca di particolari apparentemente muti che sussurrano piccole verità ai margini delle strade percorse da tutti, da sempre.

La mia è poi una silloge tutta in minuscolo. Con questo, voglio affermare che la poesia non “significa”, non va a capo, non inizia, non termina, non interrompe mai il proprio incessante dialogo interiore con le generazioni. La poesia solca. Il soffio delle radici è una sorta di breve percorso di donna, dentro questo solco. Nella mia poesia il femminino è fecondità e, nel mistero della procreazione, si sottrae al divenire, è fonte del tutto, pura incorruttibilità, fiamma e semina. L’archetipo, quindi, di ogni radice. 

 

M. In apertura, citi Charles Bukowski. È una dichiarazione d’intenti che fai tua, per comunicarci con forza la tua scelta di campo o c’è qualcosa di più che ti lega a questo autore?

 

C. Adoro Bukowski. La citazione iniziale è un tributo al segno che egli ci ha lasciato nel messaggio autenticamente rivoluzionario che non tutti siamo nati poeti e che nessuna speranza abbiamo di diventarlo se dello scrivere ci manca un bisogno nervoso, sanguigno, morboso, ossessivo.  Alla poesia bisogna saper sacrificare ogni cosa. Altrimenti resterai sempre solo uno che scrive versi, senza essere mai divenuto poeta.

 

 

M. C’è ne “Il soffio delle radici” una poesia che prediligi e una che, a pubblicazione ormai avvenuta, desidereresti riscrivere? E, se sì, perché?

 

C. Ne prediligo diverse.

seduta e la passante, forse, sono quelle che meglio mi rappresentano, evocando sin dal titolo la dicotomia irrisolta tra il bisogno di radicamento e l’irrinunciabile desiderio di erranza a cui tutta la silloge, fin dall’ossimoro del titolo, si ispira.

commiato per un’amica è invece un grido di dolore, per un’amica morta di cancro qualche mese fa. La riscriverei, perché nel turbamento del dolore, ho dimenticato di dire quanto dolci fossero i suoi sorrisi, anche nella sofferenza.

O forse non desidererei riscrivere nessuna delle poesie già scritte e pubblicate, perchè so che, molto più di esse, amerò la prossima che scriverò.

E’ stato così sempre, da sempre.

 

 

M. Napoletana, da quarant’anni…”. Biografia e silloge pongono l’accento sull’appartenenza alla terra. Quanto appartieni a Napoli? Oppure ti riconosci con un Sud più ampio, un Sud “del mondo”?

 

C. La terra d’origine è per tutti i poeti una fonte d’ispirazione, anche – diciamo così –simbolica. Ciascuno di noi porta con sé nella vita il bagaglio di ciò che è stato prima di lui: le sue origini, le sue radici. Si tratta di luoghi, colori, tratti, certo, ma anche di elementi primigeni, che condizionano la nostra identità diciamo così “umana”. Sono l’amore, l’odio, il desiderio, la violenza, la passione, la rabbia, il dispetto, la speranza, la paura, la nostalgia. E di queste “radici” canta anche la mia poesia.

Le mie origini biografiche invece sono nel sud profondo, in Calabria e a Napoli, come dicevi. Radici dolorose, perché affondano in una realtà in cui quel po’ che sopravvive sembra offeso per sempre. Talvolta mi fermo ad osservarlo, il relitto capovolto di questo mio sud. Ad ascoltare se ancora respira.

Su Napoli… che dire? A volte, gli stessi aspetti che me la fanno odiare, me la fanno poi anche amare. Fondamentalmente, Napoli non è mai neutra o “scenografica”. Non se ne sta lì a farsi guardare o disprezzare, amare o detestare. Lei ti entra dentro, ti turba, ti disgusta, ti incanta e ti cambia. Ti scuote, sempre, rimanendo immobile nella sua indolente resilienza. Lei resta uguale, sei tu che cambi.

Mi capita di uscire di casa serena e di dover affrontare poi l’ordinaria giornata napoletana con tutti i suoi “disguidi”, con tutti i suoi ostacoli. Ero serena e. dopo un quarto d’ora, Napoli mi ha già fatto incazzare. Al contrario, però, mi capita anche di essere triste. Di immergermi nel magma della città, feroce ed infernale, e di fluire in esso. Una scena, un dialogo, un sapore o un profumo … mi cambiano l’umore ed il senso della giornata in positivo. E torno allegra.

Napoli influisce su di me, profondamente, come un’amante. Per questo non la sopporto. E non posso smettere di amarla.

 

 

M. Vuoi lasciare un tuo messaggio a quanti, scrittori e lettori, si confrontano su questo sito?

 

C. Intanto voglio ringraziare La Recherche per lo spazio che mi concede. Molte delle mie poesie sono nate qui, dal confronto con tanti poeti e lettori, alcuni dei quali, negli anni, sono divenuti veri e propri amici. Sarebbe ingeneroso citarne alcuni e forse anche superfluo. Perciò non lo farò.

 

Per quel che riguarda il messaggio, credo che oggi il poeta sia rimasto in coda alla fila. Non ha più messaggi da dare, sta cercando, ultimo tra gli ultimi, solo di ascoltare ancora la bellezza vera, quella che resta, con tutta la sua ossimorica inutilità. Proprio per questo, però, il poeta riesce ancora a sentire con integra consapevolezza la vita, con tutte le sue piaghe aperte e con le sue frontiere esposte ad invasioni ed incertezze. In un tempo come questo nostro, è davvero poco difficile, per me, rappresentarmi come “bottiglia” con dentro il suo bel messaggio.

 

 

*

- Intervista

Valdo Immovilli

[ Intervista a cura di Paolo Polvani ]

 

Valdo Immovilli, è nato a Reggio Emilia. Attualmente vive ad Albinea. Le sue prime poesie sono uscite all’inizio degli anni ‘70 sulla rivista TAM TAM, diretta da Adriano Spatola. Per diversi anni ha collaborato con TAM TAM e le edizioni GEIGER, fondate a Torino da Adriano Spatola e suo fratello Maurizio. Ha pubblicato il suo primo libro nel ‘77, con il titolo sarcastico e provocatorio “Mi faranno santo”, con la prefazione di Giulia Niccolai. In seguito Valdo Immovilli ha pubblicato “Parigi e le altre”. Infine, nel romanzo “Il cacciatore di mosche”, pubblicato con lo pseudonimo Aldo Komenov, è raccontato come avvenne l’incontro con Spatola, che nel romanzo assume il nome di Giulio:

-         Mi ricordo di quando incontrai Giulio la prima volta. Avevamo letto un articolo su una rivista, dove si parlava di lui e si diceva che abitava da quelle parti, così, assieme a Dante che era allora il mio migliore amico, andammo a cercarlo.

-         Giulio, oltre a essere un riconosciuto e apprezzato poeta, pubblicava una rivista e una piccola collana di libri che curava con amorevole attenzione.

-         Dante e io, ovviamente, portammo con noi  le nostre poesie; dopo averle esaminate, Giulio non disse nulla, un nulla che nell’ansia dell’attesa risuonò nella nostra mente come un tutto; tutto il peggio che ci potesse dire. Accortosi poi del nostro scoraggiamento cercò di rincuorarci ma Dante non si rincuorò affatto e da quel giorno non lo vidi più. Io apprezzai la sincerità, fu così che Giulio divenne il mio maestro di poesia, ed io lo ricambiai facendogli da autista e da maestro di musica, su e giù per le colline da un’osteria all’altra, cantando a squarciagola in perfetta disarmonia. Nelle lunghe serate invernali tutto era poesia: il cane, il gatto, il fuoco del camino, la neve sugli alberi secchi.

(Per inciso: “Il cacciatore di mosche” è, anche, il titolo di un’opera di Spatola pubblicata nell’’80 in collaborazione con Giuliano Dellacasa, nell’intervista che segue è spiegata l’origine del titolo).

Alla morte di Spatola, avvenuta nel 1988, ha scritto per lui la poesia “Il fuochista”, pubblicata nel ‘93 con le edizioni del Laboratorio di Modena nell’antologia curata da Carlo Alberto Sitta, “I nomi del fuoco”.

 

 

Il fuochista

 

Andata e ritorno, i passi nella neve

la distanza tra la casa e il fiume.

Non c’è più il camino acceso.

L’odore del fumo, il gatto che fa le fusa.

Non avrei mai scritto per te una poesia, prima:

non è mai stato facile sentire la tua assenza.

 

Andata e ritorno i passi nella neve

la distanza tra la casa e il fiume.

Mi mancano le tue zampate di orso fuochista

i tuoi amabili rigurgiti mattinieri

e i tuoi latrati notturni, quando fingevi d’essere ubriaco.

 

Ne hai scolate di bottiglie per ingannarci

e non posso credere che hai scolato l’ultima.

 

La morte è un fatto quotidiano.

La vita rimane l’eterno dialogo tra noi

e l’altro, colui che tutto sa ma poco concede.

 

*

 

1) Il tuo approccio alla poesia è avvenuto così come raccontato nella pagina iniziale de Il cacciatore di mosche?

Diciamo di no e anche di sì. Avevo già scritto molti quaderni, quaderni a righe di quelli rilegati con le molle, (dovrei ancora averli da qualche parte); diciamo tuttavia che dall’incontro con Spatola, da quel momento in poi, molte cose sono cambiate. E quell’incontro è avvenuto, più o meno, come descritto nel romanzo “Il cacciatore di mosche”, anche se Giulio ha ben poco a che vedere con Adriano.

Adriano diede un’occhiata, assai veloce, alle poesie che io e Dante gli avevamo portato e poi ci disse che potevamo buttarle nel camino. Tempo dopo mi arrivò un bigliettino dove mi diceva che avrebbe pubblicato due miei testi sul numero di Tam Tam in uscita.

Ed io ero contento di sapere che non li aveva bruciati.

 

Da lì iniziai a frequentarlo, ma in tutto il tempo che ci siamo frequentati, non mi ricordo di avere mai fatto con Adriano dei discorsi circa la poesia.

 

2) Come sei entrato nella redazione di Tam Tam?

Anche questo corrisponde al romanzo, ho iniziato a frequentare il Mulino regolarmente, mi fermavo a volte per qualche giorno, aiutavo in tipografia. Ero senz’altro tra i più giovani, altri andavano e venivano. Come ho detto, Adriano non è Giulio, non era un personaggio “facile”. Aggiungo anche che Giulia non è Livia e Selina non è mai stata da quelle parti. Lo dico perché qualcuno che conosceva quell’ambiente, si aspettava di leggere nel romanzo una specie di cronaca di quegli eventi. Non era mia intenzione. Io volevo scrivere un romanzo e raccontare cose, che poco o nulla hanno a che fare con quella realtà.

 

3) Com’era l’atmosfera a Mulino di Bazzano?

Se parliamo di atmosfera allora sì, allora qualcosa corrisponde al romanzo, e forse è da lì, da quella atmosfera che è nata l’ispirazione, o almeno la voglia di scrivere, di raccontare. Naturalmente è la “mia” atmosfera, e per capire bisognerebbe leggere il capitolo “osteria” o “la tipografia” o “ dal pastore, o altro.
L’atmosfera del romanzo è tutta un riverbero dell’ atmosfera che io ho vissuto in quei giorni. Ripeto, che io ho vissuto, e per la quale non posso negare una notevole nostalgia. Ma credo sia difficile trovare qualcuno che non ha nostalgia della sua giovinezza.

 

 

 

4) Quali erano i poeti più assidui ? come si svolgevano le riunioni?

Io mi ricordo in particolare di Sitta, Marie Luise Lantengre, Bisinger, Betrametti e molti altri. A quei tempi, Mulino di Bazzano era veramente un punto di riferimento a livello internazionale per la poesia, ma basta vedere un numero di Tam Tam per rendersene conto.

 

5) Ricordi qualche episodio particolare?

Tantissimi. E mi spiace un po’ di non averli utilizzati per il romanzo. Ma era impossibile, perché, come detto,  Adriano non è Giulio. E il mio intento era parlare di Giulio. Tuttavia i ricordi sono davvero tanti. Adriano era imprevedibile, amava tutto ciò che poteva rompere la monotonia del quotidiano. Quando non era ubriaco era una persona deliziosa, questo succedeva soltanto al mattino presto, appena sveglio, dunque era necessario abitare lì per sorprenderlo in quella condizione. Comunque per lui era indispensabile sempre e comunque essere al centro dell’attenzione, cosa gli veniva sempre in un modo o in un altro, abbastanza naturale.

“Una sera incontrai Adriano e altri, in una osteria, a Reggio Emilia. Era molto che non lo vedevo. Io ero in compagnia di un’amica e mi fermai con loro solo il tempo di un saluto. Il giorno dopo leggo sul giornale “Il poeta Adriano Spatola arrestato”. Leggo l’articolo e mi scappa da ridere: aveva preso a parolacce un vigile urbano. I particolari non me li ricordo, mi ricordo però che andai a trovarlo qualche giorno dopo. Mi raccontò la storia, ed era felice come una Pasqua, l’esperienza di una notte ( o forse due o tre ) in carcere gli mancava, e l’aveva esaltato.

 

6) Com’è nata la poesia sull’orso fuochista?

Ho scritto quella poesia il giorno in cui ho saputo della morte di Adriano. Devo tuttavia aggiungere una cosa: in quella poesia ci sono dei riferimenti molto precisi ad un testo di Gerald Bisinger, in un certo senso è un omaggio a Bisinger che per me è stato ed è tutt’ora un punto di riferimento principale. Con Bisinger ci siamo incontrati al Mulino di sfuggita un paio di volte e non c’è mai stato un dialogo preciso diretto. Tuttavia ci sono, e lui l’ha visto prima di me, molti punti in comune tra il nostro modo di scrivere e intendere la poesia. Bisinger, ha tradotto quasi tutte le mie poesie, e le ha pubblicate ovunque gli capitasse e senza dirmi nulla, ed è stata per me, giovane “poeta” una sorpresa notevole vedermi pubblicato in antologie da lui curate assieme ai più importanti poeti del tempo, a livello internazionale. Una volta mi sono arrivati 500 Marchi dalla Germania, da una radio nazionale, dove erano state lette alcune mie poesie.

 

7) Cosa ti è rimasto di quei fermenti?

Molta nostalgia, mi è capitato di passare di là, ultimamente. Non posso negare che ho sentito un tuffo al cuore nel vedere le finestre chiuse. Mi aspettavo di intravedere Giulia dietro la finestra, mi aspettavo che il cane mi corresse incontro, e il sorriso indefinibile di Adriano in canottiera, già mezzo ubriaco a metà mattina.

 

8) Com’è nata l’idea del Cacciatore di mosche?

Tutto è nato dal titolo. Una sera, eravamo intenti alla solita battaglia con le mosche e mi è venuta in mente quella frase. Adriano disse che avrebbe scritto una poesia intitolata “il cacciatore di mosche” con sotto scritto “titolo rubato”. Io scrissi quasi subito un racconto con quel titolo, un breve racconto che corrisponde più o meno a quello che poi divenne il prologo del romanzo. Già allora scrissi anche il primo capitolo. Tutto il resto è recente.

 

9) Perché hai utilizzato uno pseudonimo per il Cacciatore di mosche?

Non c’è stata una premeditazione, è venuto da sé. Il romanzo è narrato da Aldo in prima persona, all’inizio io e Aldo eravamo la stessa cosa, poi lui è diventato Komenov ed ha preso un po’ le distanze da me, si è messo a pensare e a scrivere in proprio, per cui mi è sembrano onesto che fosse lui a firmare il romanzo.

 

10) Dove va la poesia ?

Mah! La poesia va dove tira il vento. Posso dirti dove soffio io.

Per me tutto il significato della poesia, è racchiuso in pochi versi di Charles Baudelaire:

 

Signore, dammi la forza e il coraggio di contemplare

il mio cuore e la mia anima senza disgusto

 

Quando ho letto questi versi la prima volta sono rimasto colpito profondamente. Benché fossi giovanissimo c’era in me una urgenza: l’urgenza di guardarmi dentro, di fare un po’ di luce in quella immensa confusione. Tuttavia mi ricordo che non capivo il termine “disgusto” avevo più o meno sedici anni e in me, a quella età, di disgustoso non c’era obbiettivamente nulla. Tuttavia compresi che la poesia poteva essere, era, lo strumento che cercavo, di cui avevo bisogno per la mia ricerca. E se avessi mai avuto bisogno di una conferma avrei potuto trovarla in questi splendidi e inequivocabili versi di Ungaretti:

 

“Quando trovo

in questo mio silenzio

una parola

scavata è nella mia vita

come un abisso”

 

Non è un caso se questi versi vengono ripresi e approfonditi in un discorso sulla poesia tra Aldo e Giulio, nel romanzo “Il cacciatore di mosche”.

 

Per me la poesia è parte integrande di un più ampio percorso che tocca ogni aspetto della vita ed ha come scopo la ricerca interiore e la conoscenza di se stessi. Lo scopo della poesia non è, tuttavia, trovare il nome a qualcosa che non ha nome, e pertanto non può essere conosciuto e tanto meno definito. Lo scopo della poesia è amare e fare amare quella “cosa” infinita, e descriverne l’odore, il sapore, lasciare una traccia, delle tracce, affinché si sappia che quella “cosa” esiste, confermarne l’esistenza.

 

11) E l’editoria legata alla poesia?

La poesia non ha un mercato, ed è una fortuna, senza mercato è molto più libera. Le moderne tecnologie creano già un mutamento colossale. Credo debba esserci un legame diretto tra autori e lettori.

Ognuno mette in rete i suoi testi e chi è interessato se li prende.

Purtroppo c’è una invasione tale di poeti e poesie che il rischio è quello della dispersione.

Vedremo come andrà a finire.

*

- Intervista

Loretto Mattonai

[ Intervista di Maria Grazia Cabras ]

 

 

 

È prassi domandare all’Autore una auto-presentazione…

 

Ho sempre creduto di rivelarmi a me stesso e agli altri attraverso la scrittura, la parola non consacrata a sé stessa ma considerata medium tra l’Altrove e il Dove: tra l’interiorità che affonda nel Inside world e l’esperienza della quotidianità illuminata (a volte arsa) dal sole. In tal senso la mia modalità di scrittura è conseguente; percepisco un flusso incessante di coscienza, cui in qualsiasi momento è possibile attingere, naturalmente ponendosi in una condizione psichica adeguata.

Accade talvolta che questa corrente esondi e ci investa…         

 

 

Quali autrici/autori, quali letture sono state fondamentali per la tua iniziazione alla scrittura?

 

Naturalmente alcuni dei poeti che tutti incontriamo nel nostro percorso di studi: ricordo una affezione giovanile per Petrarca, una empatia Leopardiana, una cronica attrazione per i lirici greci arcaici.

La svolta a 20 anni quando ebbi occasione di leggere “Poesia degli ultimi americani” (Antologia della beat generation a cura di Fernanda Pivano) e una raccolta di giovani poeti inglesi, ed. Einaudi. Dal punto di vista linguistico e formale fu un succedersi di rivelazioni (un tuffo nell’oceano delle parole ardenti); il mio primo libro Canti cloridrici ciarlieri fu l’immediata “dionisiaca” risposta.

 

 

Quali incontri umani e letterari ti hanno segnato profondamente?

 

La lunga amicizia con Mariella Bettarini (che mi era stata indicata da Walter Siti, a suo tempo relatore della mia tesi di laurea) e Gabriella Maleti, l’incontro con Daniela Marcheschi, hanno senz’altro contribuito al mio percorso letterario.

 

 

La tua opinione sui premi letterari

 

Li ho quasi sempre evitati; mi sono bastati gli apprezzamenti di persone che io ritengo autorevoli nel campo della letteratura. Non posso negare che nutro dubbi sulla reale utilità di molti di questi: approssimazione dei criteri valutativi e giurie dalla discutibile competenza non possono fare del bene a coloro che si affacciano all’universo della scrittura.

 

 

Musica e Poesia…

 

Ho sempre ascoltato musica; la lettura del libro “I poeti del rock” a cura di Riccardo Bertoncelli (sì, proprio quello coinvolto da Guccini nella sua “Avvelenata”) mi coinvolse molto, in particolare coi versi più visionari e destrutturati di Morrison, Zappa, le ballate di Dylan, Cohen e altri. In effetti tentai allora un paio di composizioni, recentemente riproposte sulla rivista “L’area di Broca”.

Il libretto Fuochi di stelle dure è un ritorno ad un antico amore, ed ho alcuni altri testi che spero in futuro di udir cantare. Non si tratta di poesie da musicare, bensì di versi nati nella voce nel canto.

 

 

Il tuo rapporto con la Prosa

 

Nel corso dell’adolescenza ho letto molta più narrativa che poesia, in particolare i racconti di letteratura Fantastica intesa nel suo senso più ampio: da Hoffmann a Borges a Linebarger, passando attraverso autori della cosiddetta  Science fiction, Dick, Delany, Disch, Lafferty: Il giardino di Lin Piao ne costituisce in sostanza un omaggio.

Nel campo della saggistica ho avuto interessi molto vari: dalla Mistica alla storia militare.

 

 

Tu sei cresciuto in campagna: quale il tuo rapporto con la Natura, l’elemento femminile e la luna così spesso presenti nei tuoi versi?

 

Potrei alludervi dicendo che è stato un rapporto non esente da elementi panici (anche il mito tratta degli amori tra Pan e Selene), momenti di quella che chiamerei una “verde possessione”, esperienze fàniche.

La fatica, i lavori della campagna, la vicinanza delle persone a me care ne manifestavano, nella loro concretezza, il sofferto umanissimo controcanto.

 

 

I tuoi progetti futuri, anche in relazione al tuo essere un autore eclettico?

 

È accaduto in passato che abbia scritto libri diversi usando differenti scritture, e questo non in seguito a un disegno teorico, ma perché tematiche divenute di volta in volta attuali richiedevano specifiche forme espressive. Recentemente ho intrapreso un percorso di scrittura umoristico-surreale: uno sguardo critico rivolto alle convenzioni linguistiche e di pensiero presenti nella societ&agra

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- Intervista

Laura Donnini

Simonetta Fiori, in occasione della Fiera di Francoforte, conversa sullo stato dell’editoria con Laura Donnini, Direttore Mondadori  - La Repubblica  9-10-2012 a p.38-39

 

 

«Sì, dobbiamo aspettarci una stagione ad alta temperatura erotica. Sono già al lavoro diverse autrici, italiane e americane. E tutte scrivono trilogie, nel solco tracciato dalla James». Dietro il successo nazionale delle Cinquanta sfumature, il bestseller bollente che ha travolto le classifiche (forse anche la demografia) di tutto il mondo, c’è Laura Donnini, responsabile della direzione generale di Mondadori. Quarantanove anni, toscana di Follonica, una brillante laurea in Economia e Commercio, vasta esperienza internazionale, Donnini sembra esemplarmente incarnare l’ultima leva della grande editoria libraria, da domani raccolta nella Buchmesse di Francoforte. È la terza generazione dei publisher italiani, quella dei manager puri, venuta dopo la stirpe dei padri fondatori e i loro eredi ancora sospesi tra cultura e mercato. «No, non ho mai letto Thomas Mann, ma non credo sia un problema. Io mi metto all’ascolto di chi Mann l’ha letto, e cerco di trarre il meglio dalla squadra di editori che dirigo».

Passione, pragmatismo, anche umiltà. No, I Buddenbrook non li ha mai letti, ammette timidamente confermando la voce messa in circolo da un editor non più alla Mondadori, ma sembra anche chiedersi: ce n’è davvero bisogno?

Il mondo è cambiato, la rottura culturale degli ultimi anni ha modificato profondamente gerarchie del sapere, mercato dei libri e ancora molto altro. Laura Donnini ha imparato le strategia di marketing dall’industria di largo consumo – borotalco, saponette, dadi e perfino risotti di cui parla con piglio brioso e autoironico – rivendica di saper tutto del pubblico femminile grazie ai molti anni trascorsi alla guida di Harlequin Mondadori (regina delle storie d’amore con il marchio Harmony), ha rivitalizzato una sigla un po’ appannata come Piemme, e oggi occupa la poltrona più ambita della Mondadori, quella di responsabile dell’intera produzione libraria. Il suo sogno? Avvicinare il più possibile i libri ai lettori. E rendere più pop la cultura d’élite. In che modo? Ascoltiamola.

 

Lei arriva dall’industria di largo consumo, prima Manetti & Roberts, poi Johnson Wax e infine Star. In che modo questa esperienza le è servita con i libri?

«Tutta la mia esperienza è fondata sulla conoscenza del consumatore. Mi sono sempre sforzata di intercettarne bisogni e tendenze, progettando nuovi prodotti e adoperandomi il più possibile per comunicarli al potenziale acquirente. È la strategia del marketing, che poi ho messo al servizio del lavoro editoriale».

 

Si riferisce ai sette anni da Harlequin Mondadori?

«Là ho potuto conoscere a fondo l’universo delle lettrici, che è poi quello che più incide sul mercato. Una macchina internazionale molto complessa, che mi ha fatto capire cosa si pubblicava in Giappone o negli Stati Uniti. La produzione era tagliata sui gusti delle lettrici, dopo averne sondato gli orientamenti. Un laboratorio interessante, in cui ho potuto osservare in anticipo importanti fenomeni editoriali».

 

Quali?

«L’esplosione di Twilight è stata largamente anticipata dagli Harlequin americani. Lo stesso è accaduto con la moda del romance erotico, che oggi trionfa nella trilogia di E. L. James. Era già tutto in quei romanzi rosa».

 

Ne saremo travolti?

«Sicuro. È già all’opera un’intera squadra di scrittrici che però non rinunceranno ai topoi classici della storia d’amore, il principe azzurro e il lieto fine. In Italia la trilogia delle “sfumature” ha riscosso un successo che non ha avuto altrove, esclusi gli Stati Uniti e il Regno Unito: due milioni di copie venduti in soli tre mesi».

 

Come lo spiega? Un popolo molto depresso?

«No, più una questione di strategia editoriale. Ad Harmony ho imparato che le lettrici di questo genere di racconti sono afflitte da una forma di addiction, di dipendenza. Così abbiamo deciso di mandare in libreria i tre volumi a distanza di poche settimane l’uno dall’altro».

Nell’editoria libraria, lei rappresenta la terza generazione, quella dei manager puri. Vi accusano di non avere gli strumenti per occuparvi di libri.

«Un’accusa insensata. Il manager trasferisce in numeri la qualità delle scelte fatte dagli editori, che sono i responsabili delle singole collane. Il mio compito è organizzare una squadra di talenti, che hanno totale autonomia nella scelta di autori e testi. Quel che mi propongo è valorizzare al massimo il loro lavoro. E farlo arrivare ai lettori: un dialogo che in passato non sempre ha funzionato».


Primum vendere. Ma con questo criterio non rischia di scoraggiare scelte editoriali meno popolari?

«No. Noi abbiamo un duplice obiettivo: da un lato intercettare i bisogni dei lettori sul piano dell’intrattenimento, dall’altro però dobbiamo continuare a investire nel dibattito intellettuale. La difficoltà è quella di far emergere i libri più complicati, ma la nostra missione è continuare a pubblicarli».


Però nel profilo di Mondadori questa “missione culturale” è oggi meno caratterizzante, specie sul piano della saggistica.

«È meno visibile, ma le assicuro che esiste. Il problema è più generale, e va oltre la Mondadori. Quest’anno abbiamo assistito a un fenomeno nuovo che è la “varizzazione” della saggistica: oggi hanno fortuna testimonianze di attori, protagonisti dello sport o della televisione, che si sono messi a nudo raccontando vicende dolorose. Un genere che un tempo apparteneva alla “varia”. Mentre ha sofferto molto la saggistica impegnata. Forse abbiamo bisogno di evadere, anche – e paradossalmente – con i dolori degli altri».


Marketing e lavoro editoriale, giovani e seniores: tutti seduti intorno allo stesso tavolo. Lei ha introdotto un modo diverso di organizzare il lavoro.

«Sì, più orizzontale. In un mondo che cambia così rapidamente dobbiamo tutti metterci in ascolto. Il mio stile di lavoro è fondato sulla condivisione delle idee di tutti – dall’editoriale al marketing, dal cartaceo al web – sempre con l’obiettivo di valorizzare il più possibile i libri. Certo aver messo in discussione posizioni e modalità del lavoro editoriale può aver generato fastidio, e in un caso una buona dose di veleno».


Come reagisce ai rimproveri che le sono stati mossi?

«Vado avanti, senza farmi condizionare. Non sono tenuta a essere un’esperta di letteratura, e penso che il mio compito sia un altro. Un anno fa qualcuno disse: vedremo i risultati. A un anno e mezzo dall’incarico al vertice di Mondadori posso già fare un bilancio: nell’annus terribilis della crisi, noi siano l’unico editore che cresce, in termini di quote di mercato e di classifiche. Abbiamo vinto Strega e Campiello, lanciato nuove collane, acquisito nuovi autori, sperimentato sul digitale. Il risultato è più che soddisfacente».


Avete perso Saviano.

«Io non ho avuto la fortuna di lavorare con lui, e dunque non posso dire di averlo perso. Lo considero un pilastro della cultura italiana: quello che ha da dire merita il massimo rispetto. La sua è una scelta personale che naturalmente rispetto, ma non mi crea problemi».


Quanto al premio Strega, rilevo un’anomalia. Ogni anno arrivano tra i cinque finalisti sia la Mondadori che l’Einaudi, marchio nobile che fa parte del gruppo. Quest’anno è toccato a Marcello Fois, finalista dell’Einaudi, fare da portatore di voti per Piperno, vincitore con Mondadori. Quattro anni fa fu ancora più eclatante il caso di Diego De Silva, candidato einaudiano che in finale di partita perse quasi tutti i voti. Non ritiene che questa compresenza in gara di due marchi dello stesso gruppo sia un fattore inquinante?

«No, le cose non stanno così. La verità è che siamo davvero concorrenti: ciascuno gioca le proprie carte, ed entrambi siamo messi nelle condizioni di concorrere ad armi pari».


Però, con qualche rara eccezione, vincete sempre voi.

«Ripeto: non si fanno strategie di alcun tipo. E – a dirla tutta – in prossimità della gara, tra le due case editrici sale la tensione. Forse per evitare questo tipo di polemiche si potrebbe decidere di competere un anno con Mondadori e un altro con Einaudi. Ma entrambi i marchi hanno una produzione narrativa di altissima qualità».


Come vorrebbe che fosse ricordata la sua Mondadori?

«Vorrei rendere un po’ più pop la cultura alta. Abbiamo appena promosso via facebook la vita di Dante di Marco Santagata: un successo insperato. Bisogna raggiungere i lettori, a qualsiasi costo. Senza snobismi o sopracciglia inarcate».

 


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- Intervista

Carlo Maria Martini

L'ultima intervista a Carlo Maria Martini a cura di Georg Sporschill e Federica Radice Fossati Confalonieri. Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme, e Federica Radice hanno incontrato Martini l'8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo».

 

 

Come vede lei la situazione della Chiesa?

«La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (…) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell’istituzione».

 

Chi può aiutare la Chiesa oggi?

«Padre Karl Rahner usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vede nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».

 

Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?

«Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura nei media? Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (…) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (…). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti. Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l’indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (…). L’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: “Signore non sono degno…” Noi sappiamo di non essere degni (…). L’amore è grazia. L’amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»

 

Lei cosa fa personalmente?

«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».


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- Intervista

Caterina Davinio

[ Dodici domande a cura di Paolo Polvani ]

 

 

Hai scelto un titolo, “Il libro dell’oppio”, ricco di suggestioni letterarie, mentre le poesie sembrano appartenere più alla vita vissuta che alla letteratura. Ti piace confondere le acque?

 

Certo... a confondere arte e vita si dà sapore a entrambe e si vivono più emozioni nell’una e nell’altra, però si rischia di farsi male... Se non c’è vita sotto la pelle della poesia, la letteratura la rende cosa dotta e grigia. In certa misura le suggestioni letterarie fanno parte anche della vita, quando la letteratura è nella tua formazione, negli studi, nella storia personale. La poesia è linguaggio, e il linguaggio è chiave di lettura della vita; senza linguaggi non potremmo non solo raccontarla, la vita, ma neppure decodificarla, compiutamente viverla. Così linguaggio e vita si compenetrano e completano a vicenda continuamente.

 

 

La raccolta è rimasta nel cassetto per oltre vent’anni. Cosa ti ha fatto decidere che i tempi erano maturi per la pubblicazione?

 

“Il libro dell’oppio” è parte di una raccolta molto più grande, “Fatti deprecabili”, suddivisa in vari libri, che contiene oltre quattrocento testi dal 1971 al 1997. Quando ho scritto molte delle poesie incluse nel volume non avevo interesse a pubblicare; ciò era fuori dal mio orizzonte, non possedevo nulla, non avevo energie, né personali, né economiche, per occuparmi di libri e rapporti con editori: la vita s’inoltrava in tortuosi sentieri fuori dalle righe e dalle regole, che allora m’interessava percorrere, in cui volevo cadere, perdermi, scomparire. Poi le cose sono cambiate e temevo che il libro potesse creare di me un’immagine che non era quella che volevo dare, e, se da un lato non ritenevo onesto edulcorare o falsificare la realtà di certi momenti presenti nell’opera, dall’altro non desideravo neppure renderli di dominio pubblico così com’erano. Semplicemente li ho messi da parte, come una specie di diario segreto di un tempo che a poco a poco è divenuto remoto. Poi le carte si dimenticano, finché un giorno mi sono ricapitate tra le mani e le ho rilette, a distanza di tanti anni, con rispetto, come un pezzo di vita di un altro, come se fossero state scritte da un’altra persona, qualcuno cui, nonostante tutti i suoi errori, sentivo di dovere qualcosa, anche di ciò che sono oggi. Quello è stato il momento in cui è scattato il convincimento che pubblicare quel libro, in un certo senso, fosse un dovere.

 

 

Mi piace molto la dedica del tuo libro: alle mie cattive compagnie.

 

“Cattive” per modo di dire. Forse sono il genere di compagnie che i genitori non si augurano per i propri figli, che una certa mentalità diffusa giudicherebbe non buone. Ma per me non era così e ho voluto rivendicarlo nella dedica del libro. Erano i miei compagni di allora, con cui ho fatto un pezzo di strada di vita. Posso ricordare ognuno dei volti di quelle persone, alcuni dei quali ritratti nei versi del libro. Alcuni sono morti, non ci sono più. Ho voluto ricordarli con affetto, dedicando a ognuno di loro questo libro.

 

 

Tu scrivi: – Voglio ricordarlo questo momento, questo sfuggire infinito / e questo è tutto. – Stanno qui le ragioni del tuo scrivere?

 

No, non stanno solo in questo. Il verso si riferisce all’effetto della droga, di cui parla quella poesia; la droga è solo tempo presente e la poesia cerca di fissare sulla carta il momento fugace per non perderlo, prima che svanisca, un modo per prolungare qualcosa di tremendamente effimero. Viene usata quella capacità “eternatrice” della poesia per trattenere l’esperienza che il drogato ama di più: l’effetto immediato della droga. Ma la poesia è non solo presente, è anche memoria, anticipazione, immaginazione, visionarietà, anche se tutto viene filtrato nel presente della scrittura. Io non conosco le ragioni del mio scrivere. Potrei dirtene mille e domani le cambierei. Solo dopo aver scritto mi rendo conto che avevo cose fondamentali da dire, oltre quello che pensavo di voler dire, e che dovevano essere dette. È un’esperienza vitale con radici connaturate con ciò che semplicemente il poeta è, al limite del fisiologico. Scrivere è il momento in cui la letteratura, la cultura e tutto ciò che sappiamo si fondono con la dimensione fisica, biologica, per consentire e concretizzare questa estroflessione, emissione di vita sotto forma di linguaggi, che chiamiamo arte, poesia. Questa è l’unica poesia viva, che a me interessa, che non mi lascia indifferente.

 

 

Nella raccolta ci sono momenti molto intensi di poesia, per esempio in questi versi: – Noi risorgemmo dal nostro inferno come lievi angeli / con il solletico di dio nelle vene giudiziose / graffiati da artigli, aghi come baci – Qui sembri suggerire che per risorgere come angeli sia necessario attraversare l’inferno. È un tema caro alla letteratura.

 

Oggettivamente non penso che si debba attraversare l’inferno per risorgere, sarebbe “ingenuamente” romantico, o decadente, e autolesionista, e non lo credo. Dipende anche da cosa vuoi chiamare inferno: ci sono alcune vite segnate da esperienze violente, estreme, o che diventano tali per il modo che il soggetto ha di guardare al mondo e alla vita, all’esperienza in tutti i suoi aspetti. Tuttavia, se in una vita non accade nulla, se si rimane solo sulla superficie rassicurante delle cose, se non si rischia niente, non si ha niente da raccontare. In quei versi ho cercato una metafora e un ossimoro che potessero rendere l’intensità di un momento, il senso di salvazione, di resurrezione che accompagna l’ingresso in determinati “paradisi artificiali”, scrollarsi di dosso il male di vivere, la colpa di essere semplicemente uomini, o solo il male della sindrome di astinenza, per dirlo con parole poco poetiche. Si va in una direzione che sembra quella del paradiso e ci si ritrova traditi, un inferno dal quale si può risorgere solo reiterando l’uso della sostanza.

 

 

Spesso le tue poesie sono legate al viaggio. Che significato ha per te il viaggio?

 

Sì, spesso ho amato dedicare poesie a luoghi della Terra dove sono stata, dove ho vissuto in epoche diverse della mia vita, concretizzando tutta la dimensione interiore che caratterizzava quell’incontro con paesi esotici e lontani o talvolta vicini; questa poesia dei luoghi è attraversata anche da geografie interiori e della memoria, o da ambienti immaginati, come il nostro pianeta visto dallo spazio, per esempio.

Ho dedicato al viaggio tre raccolte: “Alieni in safari”, che sto traducendo in inglese, “Cadere all’infinito”, cui sto ancora lavorando, che sono due libri di poesia e fotografia; e “Aspettando la fine del mondo”, che uscirà a ottobre, con testo inglese a fronte, per i tipi della Fermenti Editrice di Roma.

Viaggiare è un momento in cui coltivo tutto il mio senso di estraneità come una preziosa risorsa su cui contare: sentirsi straniero ovunque e di casa in ogni posto.

Viaggio in un atteggiamento di umiltà, per imparare, per guardare negli occhi l’altro, incrociare quei volti, quegli sguardi che non rivedrai mai più e in quel momento devono dirti qualcosa sulle radici profonde dell’essere uomini e donne come te.

Viaggiare è il modo migliore di apprendere, è cultura, è anche anticipazione, immaginazione, aspettativa e studio, che ci fanno preparare al viaggio stesso – un viaggio non “preparato” sa di poco – e infine un viaggio fatto continua a darti qualcosa per tutta la vita, perché diventa bagaglio di riflessione, memoria.

Viaggiare significa essere disposti a farci mettere in discussione da ciò che incontriamo, capire che le nostre certezze non sono incrollabili, che nessuna paura è insuperabile, perché viaggiando ci si espone sempre più o meno a qualcosa di ignoto, che percepiamo come possibile pericolo. Bisogna lasciarsi “attraversare” dall’esperienza di ambienti, atmosfere, facce, cose, persino animali. Ho dedicato delle poesie ad animali esotici e non conosciuti in viaggio. Anche l’animale è un compagno di viaggio, può essere un incontro fortuito di viaggio, bisogna guardarlo negli occhi.

L’Africa, l’India, il Brasile, il Nepal, per citare solo alcuni dei luoghi trattati in molte poesie, hanno lasciato in me un segno infinito e sono un serbatoio inesauribile di suggestioni e immagini, mi hanno aiutato ad andare a fondo in me stessa e a cogliere poi le cose da una prospettiva poetica che sempre rinnova quelle esperienze, le ripropone e le rigenera. Tra viaggio e scrittura scattano delle sinergie.

 

 

Come sono stati gli anni della tua discesa all’inferno?

 

Se ti riferisci agli anni del libro dell’oppio devo dirti che a ripensarli nella luce di oggi mi sembrano bellissimi perché sono quelli di una splendente, ancorché disordinata, gioventù, e anche se pericolosi e attraversati da penosi sbandamenti e incertezze, dal continuo cercare di sfuggire alla noia, dal non sapere bene che fare della propria vita, dal sentire la società organizzata e la famiglia come insopportabili, incomprensive, limitanti, fatte di pregiudizi e ostili. Sono stati edonistici, dannati, divertenti e folli. Certo scherzando col fuoco si finisce per bruciarsi, ma fa parte del gioco e io non ho paura. Diciamo che nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta si è perso qualcosa: alcuni sogni, speranze, anche politiche, di cambiare il mondo in direzione dell’uguaglianza e della pace, sono caduti, lasciando il posto a un vuoto e a una scelta agghiacciante: o integrarsi in una società competitiva, vuota e superficiale, in cui non ci si poteva e voleva riconoscere, o autoemarginarsi; in fondo, autoemarginarsi è stata una scelta culturale di una generazione che, prima, a certi ideali forse ci aveva creduto.

Determinate esperienze estreme narrate nel libro non sono l’inferno, perché comunque i protagonisti vivono una vita piena, temeraria, sperimentano tutto, talvolta ferendosi con i loro giocattoli taglienti; più che inferno, è una dimensione patologica quella da cui nascono e in cui sfociano droga, alcolismo, abuso di farmaci, depressione, malattia mentale. La tossicodipendenza è una malattia. È la malattia che può essere un inferno, non l’esperienza in sé.

Il vero inferno sono la noia, la banalità, il non avere nulla da dire, il ritenersi integrati e “normali” e invece condurre con apparente normalità una vita assolutamente insensata.

 

 

Scrivi dall’età di quattordici anni. Com’è avvenuta la scoperta della poesia?

 

Come tutti, penso, ho scoperto la poesia tra i banchi di scuola. Un giorno, avevo quattordici anni, presi una delle prime, solenni sbronze... e sentii l’impulso di afferrare carta e penna per affidare a un foglio una verità, un’invenzione, una menzogna, una frase capace di dirci qualcosa di profondo sull’essere umano... su ciò che siamo, sul nostro senso. Mi ricordo quel momento: fu un atto cruciale e volitivo. Così è cominciato tutto. Poi iniziai a comprare libri di poesia, al liceo.

 

 

Ci sono poeti che hanno segnato o segnano il tuo percorso?

 

Non direi abbiano segnato o segnino il mio percorso, ma letti e riletti più volte e sono tra i preferiti (poeti e narratori): T. S. Eliot, Garcia Lorca, Rimbaud, Baudelaire, Ezra Pound, Friedrich Nietzsche, tutti gli autori della Beat Generation, Charles Bukowski, Robert Musil, Dostoevskij, Tolstoj, Ugo Foscolo e ovviamente ne potrei citare moltissimi altri.

 

 

Ti occupi di poesia elettronica. È il mezzo che distingue questa nuova ricerca da quelle che l’hanno preceduta? E mi riferisco alla poesia visuale, sonora, alle varie forme di sperimentazione che si sono succedute a partire dagli inizi del 900.

 

La e-poetry usa nuovi media come il computer, il video, Internet, anche in installazioni e vari ambienti interattivi e forme ibride, tuttavia tali mezzi non sono neutri, ma alterano la struttura dell’opera poetica in profondità. L’elettronica non deve essere solo un supporto, ma entrare nella sintassi. La poesia elettronica è un genere vicino all’arte elettronica e alla net art, anche se in modi diversi elabora elementi di linguaggio verbale in quel contesto. Sviluppa a livello tecnologico l’esperienza e alcuni concetti di base posti dalle avanguardie e della neoavanguardia, della poesia visiva e sonora, performativa, concreta. Nella e-poetry però l’attenzione si sposta dal prodotto finito al processo di elaborazione: è lì che si può cogliere la struttura e che si possono analizzare le differenze, capire come funziona l’opera e in cosa è diversa da un’altra. Diciamo che oltre a mutare la struttura dei vari lavori realizzati e le modalità operative degli artisti, l’e-poetry ci ha costretti anche a modificare l’approccio critico.

 

 

Che futuro vedi per l’editoria legata alla poesia?

 

Da un lato è diffusa la pratica della pubblicazione a pagamento e gli editori non si impegnano nel pubblicizzare i libri che stampano, dall’altra i grandi editori, che non stampano a pagamento, pubblicano pochissimi nomi, non sono quindi rappresentativi della poesia contemporanea nella realtà del paese, inoltre il mercato è obiettivamente molto difficile. Opportunità praticabili si presentano a chi attua una via di mezzo, costruendo un serio progetto culturale e attivandosi nella promozione dei prodotti editoriali che mette in cantiere. Gli operatori seri e onesti riescono prima o poi a farsi conoscere e a creare una proposta che alla lunga è vincente e riesce a emergere e ad affermarsi. Questo vale sia per gli imprenditori del settore, che per i loro autori. Le pubblicazioni elettroniche possono essere un futuro e sono una realtà da tenere d’occhio, perché hanno costi molto contenuti e rapida e maggiore possibilità di circolazione rispetto a un libro, anche se minore durata.

 

 

Com’è la vita quotidiana di Caterina? Oltre alla poesia che interessi coltivi?

 

Purtroppo molte ore al computer, spesso faccio così tardi che dormo allo studio. I miei interessi: l’arte contemporanea, la fotografia, il video, l’arte e la poesia elettronica, i libri – scrivo anche romanzi e saggistica – viaggiare, la musica rock e underground, i grandi festival goa e psy trance, Mozart, Wagner, la F1, e molte altre cose.

 

 

16 luglio, 2012

 

 

[ Le fotografie qui di seguito pubblicate sono dell’autrice, la quale, detenendone tutti i diritti, dichiara di assumersi tutte le responsabilità legali in ordine all’eventuale violazione della privacy delle persone presenti nelle stesse.]

 
 

 

 


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- Intervista

Leonardo Bonetti

[ Intervista a cura di Giuliano Brenna ; fotografia di Massimo Forchino ]

 

 

Chi è Leonardo Bonetti?

Una persona affetta da inquietudine e tenerezza nei confronti della vita. Che cammina sulla riva dell’espressivo alla ricerca di un varco. Per dare fondo al nucleo d’energia avvertita intorno e dentro di sé.

 

 

Come ha iniziato a scrivere, e perché? Ci tratteggia la sua storia di scrittore?

Scrivo dai quindici anni, dal momento, cioè, in cui sono nato alla vita consapevole, non prima (sono un ritardatario, infatti). Ma agli inizi il mio approccio nasceva insieme a una predisposizione alla vaghezza e al gioco, in una mescidanza linguistica di musica e di poesia. Diciamo che il fascino sprigionato dalla parola vive per me nella sua risonanza materna, ancestrale e prelogica. E questo aspetto è ancora molto vivo all’interno della mia scrittura. Diciamo che l’espressività rappresenta per me una possibilità di congiunzione, esperienza e rifondazione del reale, del mondo. Di lì è venuto il resto, tra musica e poesia. Fino all’esordio in prosa; molto tardi, come dicevo, sulla soglia dei quarantasei anni.

 

 

Quali sono le voci ispiratrici della sua scrittura?

Le più profonde affinità sono legate alla poesia, a cominciare dal Tasso e dal Leopardi, per arrivare a Campana e a Sereni attraverso Baudelaire e i simbolisti francesi. Non disdegnando la scapigliatura nostrana. Di quest’ultima mi hanno sempre affascinato le incongruità delle premesse e degli esiti. Quella certa sciatteria o incompletezza sposata alle grandi ambizioni. E una sofferenza che quei poeti scontavano senza possedere la grandezza dei maestri. Quindi, sul versante della prosa, non posso non citare la grande esperienza del romanzo ottocentesco, tra la vastità dei russi e la sensibilità psicologica dei francesi. In Italia, per ciò che concerne il novecento, non posso dimenticare Verga, Tozzi e Svevo e, in seconda battuta, Pirandello. In Europa invece Mann, Proust, Joyce e Musil oltre, più di recente, a Bernhard e Sebald, che mi ha permesso di riscoprire il genio di Robert Walser. Tra gli italiani contemporanei cito Antonio Prete per la poesia e Michele Mari per la prosa.

 

 

Lei sta componendo una tetralogia di cui tre volumi sono già stati pubblicati: “Racconto d’inverno”, “Racconto di primavera” e “Racconto d’estate”, per Marietti. Come mai una tetralogia?

In realtà in origine non avevo chiaro il progetto complessivo. Mi muovevo nel piccolo raggio della parola, seguendola quanto più possibile con lo stupore delle sue mille scoperte. Appena scritto Racconto d’inverno, però, mi sono scoperto a immaginare e, quindi, a scrivere (quasi di nascosto) il Racconto d’autunno poi abbandonato e, a tutt’oggi, in fieri; quindi sono stato letteralmente sommerso dal Racconto di primavera che, bruciando le tappe, si è imposto quasi contro la mia volontà. Non è dunque l’aspetto logico e razionale il primum della mia ispirazione, ma semmai una rielaborazione di materiali spontanei, irriflessi, di cui poi, nel lavoro sussidiario, sono andato scoprendo agganci e rimandi più o meno espliciti. Ma la questione non è chiusa. Il Racconto d’autunno, infatti, sta tra le mie carte come un corpo freddo, di fronte al quale provo un dolore o una resistenza foriera di non so cosa. La questione, più in sostanza, è quella della compiutezza o compimento dell’opera. Si tratta di un problema avvertito intimamente, che frena o crea un attrito con la volontà di comprensione complessiva del reale che sta dietro allo sviluppo del ciclo delle stagioni. In termini più chiari: io non so se riuscirò a compiere quest’opera. E, immaginando che si tratti di un’affermazione troppo forte, nelle circostanze in cui mi trovo ad operare, prendo atto che c’è una parte di me che ostacola il completamento del disegno complessivo. Forse perché apparentemente troppo predeterminato. Ma non saprei dirlo con certezza. Del resto è anche vero che le richieste di quel “corpo freddo”, del Racconto d’autunno già a sua volta iniziato, poi abbandonato e, ora, soggetto attivo, desideroso di cure, postulante di resurrezione, diventa a tratti straziante. Mentre il disegno complessivo pretende ogni mia attenzione. Insomma, in questo frangente devo interrogarmi più a fondo per impedire che gli aspetti inessenziali e le implicazioni inerenti la scrittura e la pubblicazione, interferiscano in modo deleterio sull’organismo dell’opera. Viviamo tempi in cui i condizionamenti non vengono tanto dall’esterno, o non solo dal cosiddetto “mondo”, ma, con più evidenza e esizialità, dalle zone colonizzate della nostra anima. È lì che si combatte la battaglia più aspra. Una battaglia che prevede tregue solo molto brevi e mai risolutive.

 

 

Qual è il fil rouge che lega i suoi quattro romanzi?

Poiché la mia quadrilogia delle stagioni, o almeno l’impianto che ha assunto tale forma allo stato attuale delle cose, è anche una negazione della quadrilogia stessa, non ci sono connessioni che possano rimandare a un disegno evidente. Manca infatti una consecuzione drammaturgica di situazioni, vicende e personaggi. Il centro di questo lavoro è, semmai, nella scoperta del ciclo esperienziale come dimensione interiore, scoperta avvenuta ad un certo punto della mia vita. Direi suppergiù dopo i quaranta anni, e segnata dall’esperienza della paternità. In modo riduttivo potrei dire che diventare padre ha significato per me un allargamento degli orizzonti e un passo indietro dell’io lirico di cui ero andato facendo esperienza sin dalle mie prime prove di scrittura.

E allora il senso della quadrilogia appare, in fondo, come una direzione. Con i romanzi delle stagioni (che si determinano significativamente come “racconti”, per essere precisi) ho la possibilità di illuminare da angolazioni diverse lo stesso nucleo duro, resistente, a cui fa riferimento l’espressione. Questo nucleo che, credo, ha a che fare direttamente con l’energia espressiva, un cuore del quale ho bisogno più che della bellezza stessa. Anzi, è proprio il rapporto tra bellezza ed energia che, nella vita come nell’arte, mi inquieta e mi attrae. Tutto questo avviene però nella continuità della focalizzazione interna: un io narrante, camera oscura della coscienza che si fa filtro, attraverso cui le vicende, i personaggi e le situazioni prendono corpo. Non si tratta, credo, di un espediente tecnico ma della stessa forma in cui è andato costituendosi questo cammino di scrittura. In quanto il bivio che si è posto di fronte al narratore è stato sempre quello della scelta tra due approcci opposti nei confronti della realtà: quello dell’indagine e quello dell’esperienza.

 

 

Quattro opere… richiamano alla mente Wagner, anche l’andamento delle stagioni può essere sovrapponibile all’Anello del Nibelungo; ritiene vi siano affinità fra la sua opera e quella wagneriana?

La tetralogia wagneriana è impiantata su una continuità drammatico-musicale che prevede svolte stilistiche solo parziali, salvo quelle dovute alla lunghissima gestazione dell’opera. Il mio ciclo, invece, è fatto di scarti anche bruschi dal punto di vista delle situazioni, delle vicende, dei personaggi e, ovviamente, degli stili. Ciò che è indubbio, comunque, è che l’elemento musicale, nel mio modo di scrivere, è sempre presente e avvertito.

 

 

Nella sua tetralogia si avverte un andamento sinfonico, è un effetto che lei insegue?

“Andamento sinfonico” mi sembra formula particolarmente adeguata, una notazione felice, soprattutto se rapportata alla varietà timbrica che è alla base di ognuno dei miei romanzi. Quella certa coloritura compiuta attraverso il linguaggio. La sinfonia viene giocata sui registri del colore, del tempo, dell’alternanza del ritmo e del respiro. Un desiderio di sperimentare l’intera gamma espressiva in vista della questione finale: l’energia che muove l’interrogazione intorno all’esperienza del vivere. Quell’elemento irriducibile con cui facciamo i conti ad ogni istante. Si tratta di un’interrogazione praticata nello stupore. Una mescolanza di stadi intellettuali ed emotivi che è alla base dell’esperienza poetica vera e propria. Così il lento, il moderato, il rapido, l’allegro, sono movimenti attraverso i quali si potrebbero trasporre altri aspetti di forma e sostanza narrativa, i colori e le loro sfumature (nero, verde, giallo, rosso), gli elementi (acqua, terra, aria, fuoco), i tempi verbali (passato remoto, imperfetto, presente, futuro), le fasi della vita (gestazione, parto, emancipazione, morte), le età (maturità, fanciullezza, gioventù, vecchiaia). Questa, credo, sia la sinfonia dei miei romanzi delle stagioni; a concorrere i leit motiv, le variazioni, gli sviluppi, le riprese.

 

Pensa che in un panorama letterario come quello italiano, frammentario e in cui molti lettori inseguono la novità, offrire un lavoro composito come la sua tetralogia possa “fidelizzare” il lettore alla sua penna?

Non credo che un’opera di ampio respiro possa oggi attrarre o, ancor meno, creare artificialmente un “pubblico”. D’altronde la contraddizione di chi scrive appare evidente già in origine: si nega la realtà del lettore espellendolo dal proprio spazio privilegiato e sovrano (quello della propria scrivania), pretendendo poi che assurga a interprete del proprio mondo. Un mondo che non è più nostro nel momento stesso in cui lo licenziamo pubblicandolo. Eppure tale contraddizione, essendo esperienza imprescindibile, mostra una specificità drammatica davvero trascurabile. Perché è un’altra la questione davvero essenziale e impossibile da aggirare. Un motore tanto profondo da perdurare inalterabile nel corso del tempo. Mi riferisco alla qualità primaria di ogni autentica pratica espressiva, quell’urgenza che ha come correlativo l’esperienza del dono e dell’atto gratuito. Così che il rapporto tra scrittore e lettore è meno subdolo di quanto si possa credere. Esso nasconde, nonostante tutte le filosofie del sospetto e del cinismo oggi imperanti, un cuore tenero e indifeso, capace di una lealtà che gli scettici considererebbero d’altri tempi. Scrivere non è insomma atto deprecabile e narcisistico ma, semmai, dedizione a un’opera realizzata con amore e per amore. Se non crediamo in questo è impossibile ogni scrittura. Dobbiamo sconfiggere quella tendenza tipicamente moderna e, soprattutto, postmoderna, a costruire maschere di indifferenza atte a nascondere il cuore dell’umano: perché noi siamo la nostra scrittura.

 

 

Proust per evitare l’effetto “già visto” (o del sequel) cambiò i titoli di quei capitoli che dovevano essere Sodoma e Gomorra 3 e 4, lei non teme lo stesso effetto proponendo quattro titoli così simili? (Capisco che nell’economia dell’opera deve essere così, sto cercando di immedesimarmi in un lettore medio che scorre distratto i titoli).

Il lettore esiste nel momento stesso in cui ci dimentichiamo di lui. È così che otteniamo il suo rispetto. Quando scriviamo, infatti, il lettore non c’è o, per meglio dire, viene trascinato con noi nella fatica della scrittura prima di divenirne il lettore. A ritroso, per così dire, anche lui scrittore come noi prima di divenire se stesso. Così come noi, terminato il nostro compito, ormai sovrani spodestati, siamo presi per mano da coloro che ci leggono iniziando un cammino intorno e all’interno del testo.

Le esigenze legate all’effetto di un titolo su un ipotetico lettore rappresentano in fondo un aspetto secondario, esterno, seppure rispettabile. E del resto è l’opera stessa ad imporle un titolo piuttosto che un altro.

 

 

A questo proposito, esiste un “lettore ideale”?

Non credo a una figura dai connotati stabiliti una volta per tutte. L’esperienza della lettura è così vasta e implica ogni volta un cambiamento così profondo e sottile, che il suo profilo mi appare più nelle forme del divenire che della fissità.

 

 

Oltre alla tetralogia in quali altri lavori è impegnato?

Ho scritto un libro di meditazioni o aforismi o frammenti in prosa poetica dal titolo A libro chiuso. Opera che è stata pubblicata nel marzo scorso e ha ricevuto un importante riconoscimento con il Premio Montano. Prossimamente uscirà per Raffaelli la mia traduzione de Il libro di Daniele, dall’Antico Testamento. Intanto traduco anche da I fiori del male di Baudelaire, un’esigenza che sento forte, non legata a progetti editoriali. Quindi altre scritture, dalla poesia alla prosa, qualche saggio (uno su un racconto di Calvino da Le Cosmicomiche che uscirà prossimamente su L’Illuminista), un’altro sull’ultimo libro di Antonio Prete, Se la pietra fiorisce, in pubblicazione sul prossimo numero de l’immaginazione per Manni.

 

 

Ci vuole parlare di “A libro chiuso”?

Il libro è per me legato a un’esperienza che affonda nell’infanzia. Un totem e un mistero legato alla sua sostanziale insondabilità. Da subito ho vissuto il rapporto con il libro come un desiderio di scoprire il segreto che custodiva. Sentivo che qualcosa di importante e profondo sarebbe venuto dall’esperienza della lettura. Ma ogni volta dovevo rimandarne gli esiti ad un punto successivo. C’era una delusione e nello stesso tempo uno stimolo imprevisto a spingermi di nuovo verso il libro dopo averlo chiuso. E mi sono reso conto che a distanza di tempo, di molto tempo, il libro chiuso, finito, abbandonato nella libreria, aveva operato in me senza che me ne rendessi conto. Da qui è nata l’esigenza di ripercorrere in una serie di meditazioni o aforismi la linea iterativa, quasi liturgica, che stava alla base del mio rapporto col libro, della mia riflessione intorno alla figura del libro.

Essenziale, a questo proposito, è stata la collaborazione - una sorta di controcanto sapienziale - con Ettore Frani, pittore ed artista cui una lunga consuetudine e un rapporto umano e di ricerca mi legano profondamente. È stato lui ad interpretare la partitura immaginale di questo lavoro. Così che le riproduzioni delle sue opere, create in un rapporto di autonomia e nello stesso di risonanza con il testo, stanno al centro del volume come cuore vivo e prodigio capace di rendere questo mio lavoro davvero unico. Seppure umile e piccolo e indifeso.

 

 

Cosa pensa dei premi letterari? Uno scrittore li può considerare come traguardi o sono solo bei momenti in un percorso?

I premi sono, per me, un segno della realtà di quanto vado scrivendo, ulteriore presa d’atto che il corpo dell’opera è vivo. Dapprima c’è la pubblicazione, poi il contagio nell’immaginario dell’altro, del lettore; quindi il riconoscimento ad opera di una giuria scelta. Ma questo, ovviamente, non rappresenta un traguardo. L’opera è un cammino fatto in piena autonomia, e noi non abbiamo più alcun potere su di essa. È lei, semmai, a tenerci in scacco, a segnare il punto dei nostri limiti, delle nostre insufficienze. Conducendoci, attraverso l’eperienza di chi ci è vicino - lettore, critico o giurato - lungo un percorso imprevedibile.

 

 

Quali sono gli obiettivi che si prefigge con la sua scrittura?

La scrittura, credo, non può avere obiettivi. È interna a se stessa pur non essendo mai puramente autoreferenziale. Nel senso che nutre in sé la sua forza e la sua giustificazione vivendo in un rapporto autentico con ciò che è vivo e profondo. Per questo è possibile che esperienze tanto intime come quelle dell’espressivo possano divenire universali e valide oltre i recinti delle epoche storiche.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la sua scrittura, rispetto a quella dei narratori suoi contemporanei?

Il fatto è che non mi considero un vero e proprio narratore ma, semmai, una persona che cerca attraverso il linguaggio la via dell’espressivo. E per far questo intraprende percorsi artistici veri e propri, quelli dell’artifex, paziente artigiano alle prese con la materia da plasmare. Ma nel corso dell’opera - pur essendo tale pratica un valore assoluto fatto di amore e dedizione senza la quale l’espressivo resterebbe un puro sfogo spontaneista - non dimentica che c’è un prima della forma, un prima della scrittura, momento che rappresenta il cuore misterioso e originario dell’umano. È in questo senso che la contraddizione dello scrivere mi pone su vie apparentemente diverse da quelle di altri scrittori. Sebbene io creda che l’espressivo sia un fiume già scavato, giocato su due sponde, fra tradizione e infrazione, tra lingua materna e lingua ufficiale. E che questo valga per me come per tutti quelli che si trovano ad affrontare tale esperienza.

 

 

Come avviene il suo processo di scrittura? In quali ore e luoghi, con quali modalità?

Scrivere è vivere. Sebbene vivere non sia, propriamente, scrivere. E allora non esistono momenti e luoghi, perché tutti i luoghi e tutti i momenti sono già scrittura. E dirò di più: ogni essere umano scrive, ma sulla sabbia, nel cielo, su uno specchio d’acqua. Ciò che distingue le pratiche della scrittura sono le scelte iniziali e quelle di lungo respiro; quale materia, quali corpi, quali mondi. Perché lo scrittore, a un certo punto - e a me è avvenuto un po’ contro la mia volontà, avendo tentato di resistere contro l’iscrizione a tale categoria - si rende conto che ha operato su una pietra, ha inciso una parola definitiva, che sfida il tempo, e allora deve prendere atto che questa è già in parte la sua condanna. La scrittura potrebbe vendicarsi su di lui.

E allora, poiché scrivere è vivere, e questo è vero per me come per ogni altra persona lungo questa via, sul corso di questo cammino, si continua a farlo in ogni luogo, sempre e comunque. Si osserva la realtà e se ne fa esperienza dallo speciale punto di vista di chi incide la pietra con la parola.

I modi nei quali si andrà via via realizzando materialmente tale scrittura potranno essere i più disparati: computer, taccuino, foglio di carta, libro. Ma da quel momento scrivere è vivere.

 

 

Ha mai pensato a “Racconto di primavera” come a un film? Le piacerebbe vedere i suoi personaggi muoversi su uno schermo?

No. Anche se ho realizzato personalmente alcuni video nei luoghi della vicenda, esperienza esaltante e che ha operato su di me una fortissima suggestione. Ma un film, un lungometraggio di Racconto di primavera non è entrato nella mia immaginazione. Cosa che invece è avvenuta per il mio primo romanzo, Racconto d’inverno. Se dovessi pensare a un’opera cinematografica a partire da uno dei miei libri, infatti, penserei senz’altro a quest’ultimo.

 

 

Ha qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensa, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

Credo che ogni mezzo capace di dare spazio alla creatività e all’espressione sia il benvenuto e debba essere utilizzato nel modo più virtuoso.

Senonché il problema della scrittura in rete è legato, a mio avviso, al “rumore” che ne determina il contesto di fondo. La letteratura è un’esperienza intima, di riflessione, c’è in essa un aspetto persino religioso, e gli strumenti della moderna tecnologia stimolano, invece, la velocità e la connettività su più livelli, sacrificando uno degli aspetti essenziali della lettura: il silenzio. Senza quest’ultimo è inevitabile che si legga più con gli occhi di un pubblico che con il cuore di un lettore.

Il libro, ritengo, è insostituibile proprio perché non permette distrazioni. La sua natura rimane fondamentalmente “dispotica” e totalizzante. Mentre la lettura attraverso gli strumenti che presiedono alla rete si struttura secondo una orizzontalità che muove a una continua distrazione.

Per questo penso che il libro trionferà, ma solo nell’intimo della coscienza, e soprattutto senza bisogno di trionfalismi.

Agli autori che pubblicano su LaRecherche, invece, dico: concentratevi sulla vostra opera e non dedicatevi ad altro. Fate il vostro lavoro con dedizione e pazienza. Di lì, ne sono certo, verranno le scoperte e le sorprese più durature.


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- Intervista

Roberto Deidier

[ Intervista di Patrizia Stagnitta ]

 

 

1 Roberto, vivi e insegni a Palermo ormai da più di dieci anni. Tu sei romano, cosa ti ha portato in terra di Sicilia?

Il lavoro, anzitutto. Negli anni dopo la laurea, a Roma non venivano banditi concorsi, non c’erano opportunità. Molti dei miei amici e colleghi, infatti, avendo scelto di non muoversi sono entrati all’università molto più tardi di me, ma ne comprendo le ragioni, che erano d’ordine affettivo o di famiglia. Io ero libero di spostarmi, invece, e non ho avuto problemi a farlo quando si è presentata l’occasione di un concorso a Palermo. Considera poi che la mia famiglia è originaria di Napoli, quindi nel meridione mi sento ovunque e comunque a casa mia. Ecco, i siciliani vanno in continente a lavorare, io invece ho fatto il percorso opposto. E invece di prendere casa a Villa Sperlinga o a viale Strasburgo l’ho scelta tra la Vuccirìa e la Cala, con grande disappunto di diversi amici artisti palermitani, pensa tu…

 

 

2 Rispetto alla poesia come hai trovato Palermo negli anni in cui sei arrivato?

Un silenzio assordante, con poche presenze di rilievo e, come dire, molti “localismi”. Ero stupefatto: tanti narratori interessanti venivano fuori in quegli anni (Alajmo, Calaciura, Conoscenti, Evelina Santangelo, Vanessa Ambrosecchio) e con alcuni di loro è nata una bella amicizia, ma con la poesia le cose andavano diversamente. Eppure la poesia italiana era nata proprio qui, possibile che anche dentro l’università fosse così trascurata? Così ho cominciato a tenere qualche corso, ma alla facoltà di scienze della formazione, dove avevo vinto il mio concorso, ho sempre avuto pochi studenti. Ricordo quel periodo senza tristezza, però: la mia era una materia a scelta, e gli studenti che venivano a seguire le mie lezioni erano davvero interessati, eppure nessuno aveva il coraggio di chiedermi una tesi sulla poesia. Come avrebbero potuto spenderla sul mercato del lavoro, dovendosi laureare in giornalismo o in pubblicità? Sentivo poi un atteggiamento diffuso di diffidenza verso la poesia cosiddetta “nazionale”, come se la vera poesia avesse confini. Così, nel 2003, quando l’Unesco mi chiese di organizzare una giornata della poesia a Palermo, per il 21 marzo, invitai dei poeti per la prima volta. In una grande sala del Politeama, che mai mi sarei aspettato di vedere piena, vennero a leggere Luciano Erba, Marcia Theophilo e Umberto Fiori, un poeta con un passato di cantante (era una delle voci del rock progressivo italiano, ricordi gli Stormy Six?) che naturalmente cantò…. delle canzoni su poesie di Franco Loi. Fu un successo, ma anche un caso isolato. Insomma, cercavo di darmi da fare come potevo, ma non sempre i riscontri erano quelli sperati. Non ho smesso, però, come vedi. La poesia non è solo un “vizio solitario” come diceva Sbarbaro, uno dei maestri di Montale: è anche un bel vizio collettivo e tu che organizzi da due anni il reading a piazza Garraffello ne sai qualcosa, no?

 

 

3 Per diversi anni hai collaborato con Antonio Presti ai progetti poetici di Fiumara d'arte, mi racconti?

È stata un’esperienza importante, costruttiva, nel senso che Presti ha voluto “usare” la poesia come se questa potesse ancora avere voce e impatto nel nostro berlusconissimo presente (oggi forse possiamo dire passato prossimo e speriamo che presto diventi remoto). Ci ha fatti sentire utili e importanti, ci ha messo davanti a un pubblico con cui condividere emozioni e battaglie: per Librino, per il parco del fiume Oreto, per il recupero di una intima e forte dignità. Sono stati anni in cui davvero siamo tornati a pensare di avere una voce e tutti i poeti invitati (li sceglievamo io e Maria Attanasio in modo libero e soprattutto eterogeneo tra i nomi migliori della poesia contemporanea) ritornavano a casa pieni di qualcosa che nelle loro città non riuscivano più a sentire. Da Milano a Roma si era creata una mitologia intorno a quello che facevamo tra Catania e Palermo. E poi, leggere tra i bambini, con i bambini… gli incontri nelle scuole, soprattutto nelle elementari, sono riusciti benissimo. I bambini hanno un’attitudine naturale al linguaggio della poesia, che poi, purtroppo, le scuole superiori affossano. Questo è un altro argomento di cui si discute poco, di come la scuola non crei lettori ma disaffezioni nei confronti della letteratura. Ma torniamo a Presti: qualche risultato, sul piano politico, è infine giunto. Però devo dirti questo, o meglio te lo dico in forma di domanda. È meglio sentirsi vivi combattendo, anche se con le armi della poesia, che se sono ben dirette sono tutt’altro che spuntate, o adagiarsi sugli allori della vittoria? Quando quei riconoscimenti sono arrivati, mi sono intristito. Era come se si chiudesse un periodo pieno di stimoli. Anche le ultime manifestazioni della Fiumara non hanno più l’energia di quelle battaglie, purtroppo, sono diventate delle kermesse molto scenografiche e un po’ fricchettone. Pensa invece che a Catania, a Librino, eravamo ospiti nella parrocchia di un prete che raccontava barzellette sconce sul papa; tutto il quartiere partecipava, venendo ad ascoltarci e poi cucinando per noi. Ma si stava tutti insieme, era una grande festa. C’era un contatto profondo dei poeti tra di loro e con i presenti, c’era intesa e soprattutto voglia di intendersi, di comunicare. C’era una curiosità autentica verso i poeti mentre leggevano. Un silenzio ricchissimo.

 

 

4 Hai cominciato prestissimo a scrivere di saggistica occupandoti di autori come Calvino, Penna, Bellezza, Amelia Rosselli. Come concili il lavoro critico con la poesia?

Con la schizofrenia. Quando faccio poesia (e accade quando vuole accadere: non sono un versificatore da tavolino) devo cercare di dimenticare l’eco dei poeti che amo e leggo e magari studio. Per esempio ogni tanto devo disintossicarmi da Penna, che con la sua bella musicalità ti entra nell’orecchio e non ti molla più. Sai che ci sono autori sui quali, per continuare ad amarli, non ho mai voluto scrivere di critica? Non che quelli di cui mi occupo non li ami più, ci mancherebbe, ma la critica a volte è un po’ come una vivisezione, come un’autopsia. Bisogna imparare a dosare bene entusiasmo, amore e scienza. Se uno di questi ingredienti prevale, rischiamo di combinare un pasticcio. Per esempio di poeti che continuo ad amare, come Larkin o Gunn, non riesco a scrivere nulla. Al massimo posso tradurli, come ho fatto di recente con Anne Sexton. Comunque, ho cominciato presto, il primo saggio l’ho pubblicato che avevo ventidue anni, non ero neppure laureato. Quando mi sono presentato a Palermo, al concorso universitario, mi sono accorto solo allora di avere scritto e pubblicato tantissimo. Non avevo la possibilità di viaggiare, quindi leggevo e scrivevo senza rendermi conto di quanto stessi incamerando. Sono stato un viaggiatore mentale, in compagnia dei miei libri. Quel poco che potevo permettermi di spendere, e che mi veniva da borse di studio o contratti precari, finiva quasi tutto nelle librerie romane (gli acquisti online non esistevano ancora). Ma non mi sono certo lamentato, anzi… la poesia continua a darmi una grande felicità, è la mia vita da sempre. È il momento, per me, di più alta solitudine e insieme di massima condivisione con l’umano.

 

 

5 Recentemente hai tenuto un laboratorio di poesia ad Alcamo, come ti è sembata questa esperienza?

Mi sono divertito e stancato, spendendomi molto. Dunque, c’erano una ventina di partecipanti, dalla casalinga attempata all’insegnante in pensione, alla psicoterapeuta, al dottorando di filologia classica. Insomma, tenere un linguaggio che potesse andare bene per tutti è stata davvero un’impresa, una scommessa, ma stando ai giudizi è stata vinta. Un laboratorio di poesia non è un laboratorio di scrittura, questo è un grande malinteso: non esiste una scuola di creatività che non sia, anzitutto e soprattutto, una scuola di conoscenza di ciò che stiamo facendo attraverso il modello di chi quelle cose le ha fatte al meglio. Chi giudica dal di fuori i laboratori e pensa che siano delle truffe organizzate ha un atteggiamento pregiudiziale e fintamente naif, in realtà molto snobistico. Se tutti siamo artisti, nessuno lo è: ci sono questioni di cui si deve essere a conoscenza. L’improvvisazione non è un’arma vincente, in poesia. E io, col mio laboratorio, non devo certo creare o avallare poeti: non ho né questo potere né questo scopo, piuttosto voglio che ci siano nuovi e più consapevoli lettori. Insomma, chi crede che Baudelaire o Rimbaud fossero degli improvvisatori prende un granchio colossale. Invece abbiamo visto e commentato insieme filmati con Ungaretti, Montale, Pasolini; abbiamo letto e riletto fino allo stremo Leopardi e Baudelaire, Saba e Kavafis, Penna e Rilke. Ci siamo emozionati insieme, ci siamo scoperti e conosciuti, fino ad arrivare alle nostre poesie, ma solo alla fine. E in molti hanno cominciato a comprendere da soli, concludendo questo percorso, cosa poteva funzionare e cosa non funzionava nei loro versi. Hanno cominciato a sentire la musica, il ritmo in quello che scrivevano; hanno rivisto certe immagini, si sono confrontati tra loro; hanno guardato a tutto il loro scrivere con occhi diversi. Alcuni, tramite email o facebook, ancora mi scrivono e questo contatto nel tempo mi supporta anche nel mio lavoro presente. Certo, è un lavoro che richiede perizia, dimestichezza, sensibilità, psicologia. Non so se sono riuscito a conquistarmi tutte queste cose, ma per l’appunto, ci ho lavorato e il lavoro deve essere riconosciuto. Non si capisce perché in Italia si pretende che i poeti debbano lavorare gratuitamente, anche quando danno dei pareri. Nel mondo inglese e americano, per esempio, le riviste pagano le collaborazioni, qui da noi invece è tutto volontariato. Internet, poi, è divenuto nel tempo un luogo pericoloso dove si creano illusioni, perché non ha filtri qualitativi. E c’è pure chi è pronto a spararti se non rispondi subito. Il primo parere sulle mie poesie l’ho atteso quasi un anno…

 

 

6 Che mi dici del tuo sodalizio più che ventennale con Elio Pecora?

Elio è una delle voci davvero autentiche della poesia del secondo Novecento. Un maestro della parola. E soprattutto di quello che sta dietro le parole. Mi mandò da lui la mia prima vera lettrice, Amelia Rosselli, ma queste cose le ho scritte anni fa in un racconto pubblicato su “Nuovi argomenti” e non sto a ripeterle. Dovevo andare da lui per editare un possibile libro, invece quel libro, nella forma che pensavo, non uscì mai. E io, piuttosto che tornare a casa dai miei, rimasi lì per molti anni, appunto, dividendo la quotidianità, ricostruendo nella sua famiglia la mia famiglia dispersa. Credo di avere imparato molto da lui, di aver appreso i tempi dell’ascolto. Elio mi ha aiutato a trovare la mia voce, la mia lingua. Mi ha messo in mano Auden e me lo ha fatto tradurre. Mi ha trasmesso l’amore per le prose di Brodskij, per il suo affrontare corpo a corpo, con una tensione unica, la poesia degli altri. Mi ha reso familiari i manoscritti del nostro maggior lirico, Sandro Penna. Ha creduto in me come poeta e come studioso. Mi ha coinvolto nella redazione della rivista “Poeti e poesia”, dove abbiamo pubblicato di tutto, compresi tantissimi giovani. E ha rafforzato in me la diffidenza verso il potere, da qualsiasi fonte provenga. Lui stesso, pur essendo molto noto negli ambienti letterari e avendo avuto frequantazioni di altissimo livello, da Palazzeschi a Wilcock, da Moravia a Penna, dalla Morante a Bellezza e alla stessa Rosselli, è giunto tardi a quei riscontri che altri autori invece avevano ricevuto ben prima, ma la mia non è polemica, ognuno di noi è quel che è nel bene e nel male. So solo che questo essere amico dei più grandi senza però adulare il potere di una certa società letteraria gli ha nuociuto, ma certo non sul piano della qualità dei suoi scritti. Ed è questo che conta, scommettere fino in fondo su noi stessi ma con una grandissima dose di umiltà, accanto alla costanza e alla caparbietà. Elio non è stato temuto se non dai mediocri, che vedevano in lui il rivale che non era: piuttosto è stato ed è amato. Anche per il suo rigore. Ed è solo questo, infine, che vogliamo, come dice Carver in una splendida poesia: vogliamo essere amati qui, amati sulla terra. Sì, è stato facile amare Elio.

 

 

7 Omosessualità e poesia, cosa mi dici?

Facciamo una seduta spiritica e lasciamo che risponda Bellezza! Dunque, mi sono sempre più convinto che la sessualità, omo o etero, sia uno dei tanti temi della letteratura. Ci sono autori che hano costruito un’opera (o un’immagine) intera su questo tema. Ma questo non legittima che si possa parlare in senso stretto di una letteratura omosessuale. Se c’è al mondo qualcosa che rifiuta qualsivoglia incasellamento in questo o in quell’aggettivo, credo sia proprio la letteratura: dunque quando si parla di letteratura omosessuale mi domando di cosa si stia parlando, in realtà. Di un’opera scritta da un omosessuale? Di un’opera dove ci sono personaggi gay? Non mi paiono ragioni sufficienti. La cosa mi puzza di discriminazione al contrario e dunque di omofobia strisciante da parte di chi non ha pienamente fatto i conti con la propria sessualità. Chi è tranquillo col proprio eros (ma chi di noi in fondo lo è davvero?) non si aspetta che un autore più o meno scopertamente gay scriva per forza storie gay, tanto meno la sua. Esiste una grande libertà e varietà di temi che ci viene dalla modernità e dunque ognuno scriva di quello che gli va, di quello che si sente di trasmettere, di ciò che lo occupa maggiormente sul piano delle emozioni condivisibili. Del mio eros, se devo dirla tutta, sento di avere poco e nulla di interessante da dire, tranne per qualche curioso un po’ morbosetto, forse. Bellezza invece ha fatto della sua omosessualità un tema centrale, ma ne aveva di cose da condividere! Un poeta greco, premio Nobel, come Odisseo Elitis poneva come condizione della poesia il raggiungimento di un’essenzialità che vada oltre l’individuo. Ecco, in ogni nostro tema noi dobbiamo aspirare proprio a questo, altrimenti ci terremmo i nostri versi nel cassetto o ci esporremmo al chissenefrega dei lettori. Ho scritto tante poesie d’amore, ma l’amore in poesia è qualcosa in cui tutti dovremmo poterci riconoscere. Così quando rileggo Bellezza mi importa fino a un certo punto che sotto i miei occhi stiano scopando due uomini e spesso se lo so è perché penso che Bellezza era omosessuale; invece non sempre nelle sue poesie c’è l’esibizione della fisicità. E se nei miei versi l’oggetto d’amore resta spesso indefinito, senza genere, non è per scelta volontaria o per autocensura, come qualche lettore frettoloso insiste a dirsi, ma perché mi viene naturale rivolgermi a chi amo direttamente, in seconda persona. E il tu non ha genere.

 

 

8 Sei stato un giovane che è andato alla ricerca di padri letterari. Qual è il tuo rapporto con i giovani di oggi? E cosa pensi del loro lavoro?

Credo che ci sia un problema e che stia tutto nella prima parte della tua domanda. È verissimo, io sono andato alla ricerca di padri letterari. Nei libri ma anche e soprattutto nella vita. Elio è stato e continua ad esserlo, per me: sai che ancora non tiro fuori un verso se prima non so da lui cosa ne pensa? Oggi è lui a chiedermi di fare lo stesso. Ci sono tanti poeti che a Roma hanno esordito grazie a Elio, che li ha seguiti sempre in ogni loro pubblicazione, leggendo con loro i testi, limando, suggerendo, intervenendo. Potrei farti tanti nomi: da Alberto Toni a Giovanna Sicari, da Baldo Meo a Paolo Febbraro, fino a un giovane poeta siciliano che è anche un ottimo e stimato pittore, Francesco Balsamo. A volte i padri sono fratelli severi, come Isherwood nel caso di Auden. Ecco, nella tradizione inglese esiste questa figura del “poet reader”, ovvero di una persona di fiducia a cui il poeta si rivolge per l’editing, che nel nostro caso corrisponde essenzialmente al lavoro di lima, al taglio dei versi ridondanti. Invece i giovani di oggi non cercano padri, hanno la sindrome dei “rottamatori”, il che per me si traduce in una prospettiva storica assai ridotta e meschina: i padri sono necessariamente potenti e mafiosi. La cosa si commenta da sé. Ma sanno ancora ascoltare? Quanto sono disposti? Sembrano così inderogabilmente sicuri di quello che fanno da non avere bisogno di nessuno, ma così facendo ricadono su loro stessi. Sono convinti, e questo è molto triste, che internet conceda loro sempre e comunque quella libertà e quella visibilità che gli editori gli negano. Ma quanto si fatica, invece, per raggiungere un editore, piccolo o grande che sia? Tutta quella sana palestra che si faceva un tempo pubblicando sulle riviste autorevoli, prima di approdare a un libro, sembra oggi rinnegata. Il problema è esordire, fare il libro, anche a proprie spese, magari, andando incontro a un flop o, nel migliore dei casi, all’autoreferenzialità, ovvero alla circolazione all’interno di gruppi ristretti quanto chiusi. Ecco, internet purtroppo può produrre questi tristi giardini d’infanzia dove tutti sono convinti di essere poeti. Siamo approdati alla democrazia degli imbecilli, allora, o di quelli che si lasciano frustrare dalle proprie illusioni disattese. Ma non è poi, in fondo, la vecchia storia della volpe e dell’uva? Questo, purtroppo, è il quadro della maggioranza, ma è anche normale che sia così. Poi ci sono le eccezioni. Quelli che ti cercano, che insistono, che ti fanno capire che averti contattato per loro è davvero importante. E allora ne vengono delle vere scoperte. Due nomi, Luca Minola e Marco Aragno. Di “Poeti e poesia”, a cui lavoriamo dal 2004, se mi mettessi a rivedere gli indici, beh, perderei il conto dei giovani che abbiamo pubblicato come poeti, come traduttori, come saggisti. Sono tanti, davvero tanti, felicemente tanti. Il nostro lavoro però si ferma qui: nessuno di noi lavora in case editrici, nessuno di noi, neppure Elio Pecora con la sua autorità, ha il potere di far pubblicare un libro, o anche solo di far leggere un manoscritto a un redattore.

 

 

9 La poesia giovane in Sicilia: hai incontrato poeti interessanti? Qual è il loro futuro?

Insegno a Palermo dal 1999. Qualche volta ho trovato sulla mia scrivania dei libri di poesia, pubblicati a proprie spese. Per carità, lo faceva anche Saba e Lucio Piccolo spedì a Montale una plaquette con le sue poesie stampate in proprio presso una tipografia locale. Il primo editore di Palazzeschi era il suo gatto. Quindi un’occhiata la do sempre. Però però però… Nessuno invece mi ha mai cercato di persona, eppure è facilissimo trovarmi. Detto questo mi sono imbattuto in alcuni poeti interessanti: Balsamo, che ti ho già citato, Alessandro Di Prima, e i più giovani Conticello e Mazziotta, anche se hanno ancora da lavorare. E poi c’è Sergio Costa, un mio allievo che alla fine del corso mi ha confessato di scrivere: sta già pubblicando su riviste importanti e Maurizio Cucchi, al quale si è rivolto per primo (ecco l’eccezione felice) lo ha fatto esordire sull’Almanacco dello Specchio. Costa è un perfetto sconosciuto senza alcun “aggancio”, se dobbiamo esprimerci in termini di consorterie letterarie: eppure un poeta esigente come Cucchi si è convinto del talento di questo giovane e lo ha appoggiato. Ma quanto coraggio e quanta umiltà deve essere costato a questo ragazzo il primo invio dei suoi versi a un poeta importante… Costa non cerca il libro facile, cerca la qualità di ciò che va facendo. Non saprei dirti del mio futuro, figurarsi del loro: preferisco restare nel presente. Temo però una cosa: che internet possa esplodere e soprattutto far esplodere, creando psicologie distorte dalle false attese e piene di livore nei confronti di chi lavora seriamente e in disparte, avendo comunque il suo posto e la sua autorità, guadagnati sul campo con anni di lavoro riconosciuto sul piano nazionale e magari internazionale. Su facebook invece impazzano tanti versificatori che intasano il network (e la tua casella) di poesie posticce, piene di anime e di cuori e di lune e di stelle, di facili e ingenue esternazioni di sentimenti che nulla hanno a che fare con la poesia. E un vero poeta, in tutto questo marasma, rischia di perdersi, di non riuscire neppure a farsi notare. Quanto ai blog, ognuno può crearsi il suo e sparare a zero sulla folla, se crede. Io invece credo che la poesia abbia bisogno di altri canali, tutto ciò crea solo confusione. E illusioni, appunto.

 

 

10 Cosa ne pensi della piccola editoria? E cosa del fatto che si è costretti a pagare per l’uscita di un proprio libro?

È una domanda con un doppio risvolto. Da una parte non mi sembra giusto pagare, perché ci sono editori che raggiungono introiti di un certo spessore proprio approfittando dell’ingenuità e della vanità altrui. E pensa che mettono pure nel loro catalogo qualche poeta importante da usare come richiamo, come specchietto per le allodole. Purtroppo c’è una lista molto lunga di questi editori, i cui filtri di selezione sono giocoforza deboli, assai deboli, perché più selezionano e meno guadagnano, ovviamente. Ecco, come regola diffido degli editori che pubblicano troppi libri di poesia all’anno. D’altra parte mi chiedo perché un editore, magari piccolo e con mezzi limitati, dovrebbe scommettere su un giovane sconosciuto e su un mercato francamente povero come quello della poesia. Quindi non sarebbe del tutto ingiusto contribuire con una certa equità alla pubblicazione del proprio libro, a patto che sia garantita la qualità sia dei testi che della sigla editoriale. Chi non può permetterselo può ricorrere ad altre formule, come si faceva un tempo: prima di mandare in tipografia un libro pubblicato a proprie spese, Saba faceva girare delle cartoline di prenotazione e su quelle regolava la tiratura. Del resto, è esattamente quello che fanno oggi gli uffici marketing dei grandi editori, facendo girare tra i librai le schede dei libri in anteprima così da poterne valutare l’impatto. Se guardo indietro al Novecento, sarebbe impossibile negare che la piccola editoria sia stata la spina dorsale della poesia che abbiamo più amato. Senza editori come Enrico Vallecchi, come Piero Gobetti, come gli Scheiwiller o Giorgio Devoto (pensa che alla morte di Vanni Scheiwiller il presidente del premio Mondello mi chiese di entrare in giuria al suo posto e io ne fui particolarmente onorato, proprio perché si trattava di un piccolo, straordinario editore) cosa sarebbe stata la poesia di Ungaretti, di Montale, di Penna? E le collane che nascevano dalle riviste, come quelle della “Voce”, di “Solaria”, di “Letteratura”? Tutto il nostro miglior Novecento è lì. Non pochi autori, poi, sono passati dal piccolo al grande editore: in questo senso Montale parlava di Scheiwiller come di un “pesce pilota”, perché le sue edizioni si chiamavano “All’insegna del pesce d’oro”. Oggi quella funzione viene svolta da editori come Crocetti, marcos y marcos, La Vita felice, fra quelli di qualità. Ho tentato più volte di suggerire a Sellerio una collana di poesia, ma non ho trovato interesse.

 

 

11 Non pensi che sia come sfuggito il controllo rispetto alla qualità dei testi?

Certo che sì e internet ha delle grandi responsabilità, o meglio l’uso che se ne fa. Chi giudica chi e su quali basi? Oggi i poeti che collaborano con gli editori e selezionano la qualità sono davvero rari. Dopo la scomparsa di Giudici, Fortini e Raboni, poi, temo siano rimasti solo Cucchi e Magrelli a garantire la continuità di una figura chiave specie per i giovani poeti. Io e Pecora possiamo solo limitarci a proporre le novità dalle pagine di “Poeti e poesia”, ma non disponiamo di altri mezzi.

 

 

12 Cosa deve fare un giovane poeta per porsi all'attenzione di un pubblico? Pensi sia utile partecipare ai concorsi di poesia?

Il pubblico lo si forma nel tempo, cominciando ad apparire su riviste qualificate, poi in qualche antologia ad ampia diffusione, poi pubblicando un libro e dandosi molto da fare per promuoverlo e per seguirne le sorti, per quanto possibile. Certo, c’è una sordità agghiacciante dei media nei confronti della poesia e quelli che potrebbero essere importanti, come internet, sono male utilizzati. È davvero un peccato. Dunque non bisogna attendersi grandi riscontri né restare delusi se nessuno ci applaude al primo tentativo. Se i giovani leggessero di più le biografie dei poeti si renderebbero conto di tante cose, ma temo siano troppo presi da se stessi. È anche comprensibile la loro ingenuità, la loro voglia di protagonismo: sono almeno tre generazioni ad essere state narcotizzate da un sistema mediatico perverso. Ma torniamo alla poesia: oggi gli autori devono farsi promotori di se stessi, nessuno li aiuta dal di fuori. Perfino se si riesce a pubblicare con un grande editore, il suo ufficio stampa non si darà molto da fare per un libro di versi, sono troppo occupati dal mercato della narrativa. I concorsi? Certo, sono utili anche questi ma con un distinguo essenziale: bisogna evitare quelli con le tasse di iscrizione e quelli senza giurie autorevoli. Altrimenti che vale? Spostarsi da una parte all’altra d’Italia per andare a ritirare una targa placcata in argento, consegnata da qualche oscuro assessore locale o da qualche sedicente quanto sconosciuto poeta significa solo perdere tempo.

 

 

13 Cosa pensi dei poeti performer?

La poesia nasce in un tutt’uno rituale con la musica e la danza, quindi la performatività è nel suo dna. Le performance, che oggi richiamano soprattutto un certo pubblico di giovani, sono un fenomeno interessante che segue ai grandi reading degli anni settanta, da Castelporziano in poi. Non bisogna però commettere l’errore di scambiare la performatività con la sostanza stessa della poesia e cerco di spiegarmi: la parola della poesia, così scarna ed essenziale, unica e insostituibile, è già di suo una parola potente e naturalmente performativa. Non sto giudicando il fenomeno in sé, ma certe esecuzioni che rischiano di sopraffare la poesia. Pensa alle serate di Dylan Thomas o cerca su youtube qualche filmato di Amelia Rosselli e capirai meglio cosa intendo: un equilibrio assoluto tra ciò che è dietro la parola e ciò che le si pone davanti. La poesia deve farmi smuovere dalla sedia, sia che me la legga da solo sia che la ascolti da qualcuno, deve giungermi come uno schiaffo preciso e ben assestato, senza alcuna ridondanza.

 

 

14 Quali sono stati i tuoi autori di riferimento nel corso del tempo?

Se intendi gli autori che in qualche modo mi hanno formato e influenzato, in realtà ho cercato di leggere quanto più ho potuto, a partire dai classici, ma ricordo che quand’ero studente divoravo soprattutto Montale e Baudelaire, li introiettavo, li imitavo. Poi sono venuti gli inglesi, Auden resta per me un caposaldo. Sì, probabilmente è stato il mio vero diapason. Tra i contemporanei ho amato molto Giudici e Fortini e un poeta oggi molto trascurato come Margherita Guidacci. Ma ogni attraversamento di un poeta mi ha dato il senso della temperatura della lingua poetica che si esprimeva intorno a me. Forse, più che di autori, dovrei parlare di singoli testi che a lungo mi hanno ronzato nella testa. Penso a “Via Scarlatti” di Sereni, a “I papaveri” di Bertolucci, a “Nel tempo della madre” di Pecora, per restare agli italiani. Invece Penna, che è il poeta che ho più studiato, non c’entra nulla con la mia poesia. Ma come si fa a restare indifferenti a Penna?

 

 

15 Per due volte consecutive sei stato ospite del reading palermitano "La bellezza e la rovina - poeti al Garraffello". Questa estate ti sei trovato a leggere con autori come con Luigi Nacci, Rosaria Lo Russo, Domenico Ingenito, pur essendo i vostri percorsi così diversi e lontani. Sei aperto ai diversi generi che la poesia contemporanea propone?

Il Garraffello è una bella esperienza e come esperimento funziona proprio perché tu lo fondi sulla varietà espressiva. Posso dirti che tutto quello che mi emoziona mi incuriosisce e lo faccio mio. Se apri il mio ultimo libro, Gabbie per nuvole, apparso come i precedenti da un piccolo editore (qualcuno lo ha preso per un quaderno di traduzioni e invece è un viaggio sentimentale nella poesia altrui) ci ritrovi autori che mi somigliano e altri che sono diversissimi da me. Amiamo la diversità, no? Cosa mi porta altrimenti a tradurre poeti come Artaud, Apollinaire, Keats o la stessa Sexton? Perché la traduzione è uno strato molto profondo dell’interpretazione, e richiede amore e fatica. I latini esprimevano questi concetto con una sola, splendida parola: “cura”. E la cura si esprime anche attraverso la critica: nei miei libri ritrovi passaggi su tanti poeti, sia italiani che stranieri, che con la mia scrittura non hanno nulla a che vedere, ma che per qualche ragione sono riusciti a parlarmi. E io ho lasciato che mi parlassero. La vita di un poeta non è solo nel suo cuore e nella sua mente: è anche nel suo orecchio. Sì, mi fermo sempre ad ascoltare.


*

- Intervista

Oreste De Rosa

SCRIVERE PER SUPERARE L’EMARGINAZIONE

[ Intervista a cura di Roberto Maggiani ]

 

Ecco una bella esperienza di vita vissuta in cui lo scrivere è diventato un importante strumento di integrazione e di superamento dell’isolamento.

Chiunque si sia cimentato con la narrazione scritta, conosce la grande potenzialità espressiva dell’ideare e del mettere per iscritto, qualunque sia il genere specifico praticato. Meno noto, però, è che in alcuni casi particolari, la scrittura possa diventare strumento di superamento dell’isolamento. Ne parliamo con Oreste, che ha vissuto questa esperienza nella sua famiglia.

 

Chi è Oreste?

Ho 52 anni, e lavoro come dirigente commerciale in una grande azienda informatica. Sono sposato ed ho tre figli. Il terzo di questi, che si chiama Federico, è un autistico ad alto funzionamento, oggi ha 18 anni.

 

Forse, prima di andare avanti, potrebbe essere utile parlare brevemente dell’autismo, perché immagino che qualcuno possa averne un’idea un po’ vaga.

Hai ragione. L’autismo non è una malattia né un handicap in senso stretto, anche se spesso può diventarlo per come la società è organizzata. Possiamo dire che per motivi che la scienza non ha ancora appurato, esistono alcuni esseri umani che nascono con un cervello che funziona in modo diverso dal nostro. Generalmente, questa differenza si sostanzia nel percepire (a livello sensoriale) e rappresentare la realtà in modo a volte diverso, un autistico dispone di un profilo di capacità mentali diverso dal nostro.

Gli autistici sono quasi sempre molto differenti tra di loro e non è facile generalizzare. Sono persone fortemente in difficoltà nel comunicare con noi non autistici ma a volte sono dotati di capacità eccezionali in alcuni campi, come ad esempio la matematica o la musica.

In alcuni casi l’autismo può essere molto lieve, quasi impercettibile, mentre in altri può arrivare a ridurre quasi a zero le capacità dell’autistico di interagire con le altre persone.

Dicevo che l’autistico è una persona il cui cervello funziona in modo diverso. Nel momento in cui si inserisce in un mondo di persone che, nella stragrande maggioranza sono non autistiche, la sua condizione può determinare una serie di handicap, soprattutto in ambito comunicativo e sociale.

 

Tuo figlio Federico, che tipo di autistico è?

Fino ad un anno di età, Federico era un bambino come tutti gli altri. Nei mesi successivi abbiamo notato che le sue capacità comunicative e di interesse per il mondo esterno, anziché crescere naturalmente con l’età, andavano regredendo.

Abbiamo quindi avviato un processo di analisi e monitoraggio medico che passando per la pediatra, poi per i servizi dell’ASL ed infine per un reparto di neuropsichiatria infantile, ci ha condotto alla diagnosi di una forma di autismo non verbale, poi evoluta con l’età in autismo ad alto funzionamento.

 

Ad alto funzionamento, in che senso?

Nel senso che esistono casi in cui l’autismo si può accompagnare ad un ritardo mentale, più o meno marcato, mentre Federico dispone di un elevato livello di intelligenza. Oggi, in quarto Liceo Scientifico, ha nove in Latino ed otto in Chimica ed in diverse materie raggiunge prestazioni notevoli, anche se è in grande difficoltà in ogni forma di interazione verbale con i suoi compagni di classe.

 

Capisco. Veniamo allora al tema che più ci interessa. Parola verbale e parola scritta.

Uno dei più grossi problemi nella gestione di Federico nei suoi primi anni di vita è stato il fatto che lui non era in grado di parlare. Solo in momenti di forte coinvolgimento emotivo poteva tirare fuori una singola parola o una singola frase, ma nella normalità era capace di passare anche una settimana senza riuscire a pronunciare una sola parola.

Questo per noi familiari, mia moglie ed io ma anche per suo fratello e sua sorella, è stato innanzitutto un grande dolore. Vedere un proprio familiare crescere negli anni della scuola materna e poi della scuola elementare, senza poter mai sapere cosa sente, cosa vive, cosa pensa, è una condizione triste e dolorosa.

Questa incapacità comunicativa quasi totale chiedeva a noi, suoi familiari, di credere quasi fideisticamente nell’esistenza della sua personalità interiore, in quanto questa non si manifestava nella comunicazione interpersonale, perché Federico non parlava e comunicava molto poco anche in termini non verbali.

Ci sono poi stati diversi problemi pratici. Non poteva dire di stare male ed era difficile acquisire da lui qualsiasi tipo di informazione operativa.

 

Deve essere stata dura…

Beh, tutta la famiglia ha dovuto ridefinire la propria visione della vita, dello stare insieme, i propri valori. E’ stata una strada dura, dolorosa, faticosa, ma che ha anche consentito di superare tanti falsi problemi che spesso nelle famiglie esistono e di far crescere l’amore, richiamando tutti all’essenziale. Federico è stato la nostra scuola di vita.

 

E quando entra in gioco la parola scritta?

In seconda elementare, nella nostra costante ricerca di tutto ciò che potesse aiutare una persona autistica, siamo entrati in contatto con un metodo riabilitativo che, nel corso degli anni, è stato identificato con nomi diversi: “Comunicazione Facilitata”, poi evolutasi in “Comunicazione Aumentativa Alternativa”, “Metodo WOCE”.

 

Di che cosa si tratta?

Qualcuno aveva scoperto che in molte persone autistiche esisteva una difficoltà nel passare dalla decisione di fare una cosa al farla veramente, un passaggio mentale che per noi non autistici è addirittura difficile da concettualizzare.

In concreto, alcune persone autistiche, messe da sole di fronte alla tastiera di un personal computer, rimangono inerti, incapaci di fare qualsiasi cosa. Se però una persona, adeguatamente addestrata a tale metodo, prendeva nel palmo della propria mano il polso destro dell’autistico ed accompagnava la mano verso la tastiera, quasi a voler dare un abbrivio, questi cominciava a scrivere parole di senso compiuto.

Si scoprì poi che, con l’esercizio e con il tempo, tale metodo aveva una efficacia progressiva, nel senso che l’autistico imparava a scrivere sempre di più e che il suo “facilitatore” poteva far regredire il contatto dal polso dell’autistico all’avambraccio, poi al gomito, alla spalla, alla clavicola e così via.

Al termine, alcuni autistici arrivavano a scrivere completamente da soli.

 

E’ una cosa molto bella. E questo metodo come è entrato nella vostra vita?

Abbiamo subito portato Federico in un centro specializzato per un test, dove ci hanno detto che nonostante il suo autismo fosse molto forte e la sua chiusura alla comunicazione interpersonale molto marcata, appariva loro in grado di apprendere tale metodo.

Io e mia moglie abbiamo quindi iniziato ad usare questo metodo e nel tempo si sono uniti a noi anche gli altri due figli. La capacità di facilitare Federico è stata poi estesa anche alla sua insegnante di sostegno, in modo che potesse aiutare Federico a scrivere in ambito scolastico. Lui dispone inoltre di una assistente specializzata in tale metodo, che affianca l’insegnante di sostegno.

 

A questo punto sono curioso di sapere cos’è accaduto.

Le scoperte sono state tante ed anche sensazionali. Innanzitutto Federico, cui a stento usciva una parola ogni tanto, aveva già a sette anni una perfetta padronanza della lingua italiana. Nella sua intelligenza, per certi versi superiore, comprendeva perfettamente il linguaggio, se scritto, ed era capace di esprimersi scrivendo, con una ricchezza di costruzione e di vocaboli decisamente superiore a qualsiasi ragazzo della sua età.

 

Immagino che sia stata una svolta nella sua vita.

Il primo grande cambiamento è stato il poter dialogare con i propri familiari, l’esprimere il dolore e la rabbia per la propria condizione, di cui era perfettamente consapevole, ma anche di ricevere aiuto e comprensione, attraverso un dialogo umano, affettivo, che è andato via via crescendo ed ampliandosi.

Si è poi creata la possibilità di una dialogo pratico, dal “cosa vuoi mangiare” al “come ti senti” o al “dove ti fa male”. Di fronte a qualsiasi problematica pratica di vita, noi andiamo con Federico davanti al PC e possiamo interagire perfettamente.

Abbiamo poi avuto una grande applicazione scolastica di questa forma di comunicazione scritta, perché Federico è diventato capace di partecipare ai compiti in classe e di rispondere per iscritto alle domande di una interrogazione. Così ha potuto esprimere e mettere a frutto la sua grande intelligenza. Lo scorso giugno ha concluso il terzo anno di Liceo Scientifico, dove studia con un PEI (Piano Educativo Individualizzato) riconducibile ai programmi curricolari, con la media del 7,5.

Avvicinandosi la maggiore età, è emersa una nuova grande area di applicazione di questa tecnica, legata alla possibilità per Federico di scegliere tra più opzioni possibili e di decidere quindi della propria vita. Oggi, spesso, il sabato, io e mia moglie, passiamo la serata con lui e facciamo scegliere a lui cosa fare. Abbiamo quindi appreso che le cose che preferisce sono il cinema, l’ascoltare musica dal vivo (soprattutto jazz) e l’andare al ristorante. Non in un ristorante qualunque, però, perché lui ha una sua precisa scala di preferenze, anche in questo, che esprime perfettamente.

 

Ha imparato a scrivere da solo?

Ancora no. Dal palmo della mano sotto il suo polso destro, siamo passati al toccare un avambraccio, poi il gomito destro ed ora la spalla destra. Stiamo lavorando al passaggio del contatto dalla spalla destra alla sinistra e così ci allontaniamo progressivamente dalla sua mano che scrive.

Il punto d’arrivo è farlo scrivere da solo, ma ci vorrà ancora tempo e lavoro.

 

E nei contenuti del suo scrivere, cosa emerge?

Emerge la sua differenza da noi che autistici non siamo. Lui stesso se ne rende conto e la sa spiegare molto bene. Ai suoi compagni di scuola, ed agli altri suoi amici, ha spiegato per iscritto in cosa lui autistico è diverso da loro e come loro possono fare ad entrare bene in relazione con lui. Aiuta quindi i suoi interlocutori ad interagire efficacemente con lui.

Nei contenuti del suo scrivere, evidenzia alcune cose che ha in meno rispetto a noi, ad esempio il non riuscire a capire quando, in una certa situazione, ci sia da sbrigarsi. Nel contempo però esprime una sorprendente capacità di fotografare in pochissimo tempo l’umanità di qualsiasi persona in cui si imbatte e di capirla profondamente nei suoi pregi e nelle sua aree di miglioramento. E’ quindi molto profondo, sensibile ed anche molto equilibrato nella sua valutazioni.

 

Questo suo comunicare per iscritto, lo ha portato ad inserirsi almeno in parte nel tessuto sociale?

Federico ha un ottimo rapporto con i suoi compagni di classe, che gli consente di vivere molto bene il contesto scolastico. Alcuni di questi compagni, poi, sono di tanto in tanto a casa nostra per vedere insieme un film, fare un gioco da tavolo o una cena.

 

Un gioco da tavolo? E Federico gioca senza parlare?

Federico gioca molto bene a Risiko. Scrive le mosse che vuole fare ed è molto equilibrato tra attacco e difesa. Tra i suoi compagni di classe è uno dei migliori in questo gioco. Soprattutto viene molto avvantaggiato dalla sua tendenza ad essere sempre equilibrato ed attento nella valutazione, il che gli evita mosse di gioco avventate.

 

Incredibile. Stavamo dicendo del contesto sociale.

Oltre ai compagni di scuola, Federico frequenta la parrocchia, per sua propria scelta, e fa parte di un gruppo di ragazzi che si riunisce una volta la settimana e fa a volte uscite nei week-end o di una settimana nel periodo estivo.

 

E come gestisce una situazione in cui, durante un incontro, immagino, la gente sta seduta in cerchio e parla?

Lui innanzitutto è molto contento e motivato a partecipare. Deve essere accompagnato da una persona che sappia assisterlo nella scrittura, ed allora partecipa alla discussione scrivendo. E’ anche molto apprezzato dagli altri ragazzi, perché quando si discute di un tema, la sua profondità e sensibilità lo portano ad esprimere opinioni valide  e profonde che sono di grande contributo al dialogo nel gruppo. A volte diversi ragazzi si dicono d’accordo con ciò che lui scrive e nel tempo si è quindi anche guadagnato una certa leadership sui temi esistenziali.

 

Bello. Lo scrivere, quindi, ha rimesso in gioco una vita che appariva bloccata. Non è così?

Direi proprio di sì. E non sappiamo dove tutto questo potrà portarci. Certo la fatica ed anche il dolore non mancano, perché la società spesso non è tenera con chi è diverso. Però è anche una esperienza capace di cambiare la vita di chi gli sta vicino e di donare grandi significati anche a piccoli atti quotidiani.

 

Federico sa di questa intervista che lo riguarda?

Di questa in particolare no, ma sa che noi genitori siamo impegnati, quando possibile, nel fare qualcosa per diffondere una corretta conoscenza dell’autismo. Lui stesso è impegnato in questo senso. Tramite un’associazione che riunisce famiglie di ragazzi e ragazze autistici, Federico riceve delle email da parte di mamme che hanno bambini piccoli e che gli chiedono aiuto per interpretare l’origine dei loro comportamenti. Lui risponde a tutte, cercando di aiutarle per quanto possibile.

 

Ha mai scritto una poesia?

Solo su richiesta degli insegnanti a scuola. Non credo sia un genere di espressione capace di attrarlo.

 

Ci puoi proporre un breve testo scritto da lui, che lui è contento di donarci? Porta per favore a Federico i nostri saluti, da tutti i lettori e gli autori de LaRecehrche.it. A voi i nostri migliori auguri. Grazie.

 

Ecco una piccola parte del testo che Federico ha scritto via email ad un suo amico:

“Vedi io sono molto solo perché non riuscire a comunicare a voce è un grosso limite. Non riesco proprio a capire come fate voi non autistici a trovare nella vostra testa al volo tutte quelle parole così giuste e a dirle così velocemente ed anche con espressioni del volto che completano ciò che volete comunicare. Per voi è normale ma a me sembra un miracolo. io a fatica riesco a scrivere una lettera per volta e solo se papà mi è vicino.

Anch'io però so fare delle cose per voi difficili, come parlare e ascoltare allo stesso tempo o ascoltare e comprendere due persone che parlano contemporaneamente di cose diverse. In sintesi, la mia mente lavora in un modo diverso da quella degli altri e ciò mi mette in difficoltà.

Spero che diventeremo amici nonostante le differenze tra di noi. Qualsiasi cosa tu pensi io possa fare per te chiedi, così la mia amicizia potrà essere concreta e quindi vera.

 

E sulla sua ricerca personale sui temi della trascendenza, condotta insieme ai suoi amici della parrocchia:

 

4/4/2011 – Si discute della speranza. Ogni ragazzo viene invitato a scrivere la sua definizione sia di speranza che di speranza cristiana. Federico scrive:

 

(La speranza)

 

La speranza è sentire che le cose si possono migliorare. L’amore genera la speranza in chi si sente amato. Quando ti senti veramente amato, questo ti apre nel cuore una prospettiva di speranza. Se nessuno ti ama allora sei disperato.

 

(La speranza cristiana)

 

La speranza del cristiano per me è credere e sentire profondamente che l’amore che mettiamo nelle situazioni concrete della vita può veramente cambiarle per il meglio perché amare è partecipare alla vita di Dio. L’amore è presenza di Dio che risana l’umanità.


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- Intervista

Antonella Anedda

[ Intervista a cura di Vera Lúcia de Oliveira (fotografia reperita in internet) ]

 

L’intervista che segue è stata realizzata nell’ambito degli incontri di “Poesia a Palazzo dei Priori”, di Perugia, che il Gruppo di Sperimentazione e Ricerca Poetica “Il Merendacolo” ha organizzato dal 1989 al 2009. Più precisamente, è stata fatta il 7 dicembre 2000, dopo un’intensa serata in cui Antonella Anedda ha parlato della sua poesia e ha letto versi della raccolta Notti di pace occidentali (Donzelli Poesia, 1999), allora pubblicata da poco.

Queste e altre interviste da me fatte a vari poeti italiani contemporanei, come Andrea Zanzotto, Mario Luzi, Franco Loi, Valerio Magrelli, Paolo Ruffilli, Gianni D’Elia, Vivian Lamarque, Maurizio Cucchi e Giuseppe Conte sono state pubblicate nella rivista brasiliana Insieme (São Paulo, dal numero 7 al 9, 1998-2001) e sono inedite in Italia. Debbo all’amico Paolo Polvani e al suo interesse per queste interviste il fatto di essere andata a ricercarle, accorgendomi che oggi, più che mai, in un momento in cui l’Italia vive una crisi profonda, le parole dei suoi poeti, ancorché poco ascoltate, illuminano il presente e suggeriscono percorsi di ricomposizione etica e sociale sui quali varrebbe la pena di riflettere.

 

Quando hai cominciato a scrivere? La scoperta della poesia è il risultato di un processo, o è avvenuta per rivelazione, per illuminazione?

 

Ho iniziato a scrivere presto, ma ho pubblicato le prime poesie tardi, dopo i trent’anni. La “scoperta della poesia” come tu la chiami è avvenuta attraverso la lettura verso i dodici, tredici anni di una poesia di Aleksandr Blok. Ricordo che quei versi “Ha portato il vento di lontano...” hanno avuto su di me l’effetto di uno spalancamento. C’era una porta tra il paesaggio esterno e quello interiore che a volte la poesia poteva aprire. C’era uno spazio con buone correnti dove mi potevo mettere come un uccello o un pesce. Al liceo ho letto i classici alla luce di questo spalancamento: l’aria che trema di “claritate” di Cavalcanti aveva alle spalle il Cantico del Pentateuco e davanti Blok.

 

Qual è il tuo percorso, che poeti hai letto, che scrittori ti hanno segnato?

 

L’elenco è complicato e naturalmente cambia un po’ nel tempo. A caldo: Dante, Foscolo, Puskin, Hopkins, Mandel’štam Cvetaeva, kavafis, Gertrud Kolmar Zbignew Herbert. Ho amato e amo moltissimo Cecov e Dostoevskij (soprattutto da L’Idiota ai Fratelli Karamazov) e Leskov e dei contemporanei mi piacciono Victor Pelevin e Ludmilla Ulickaja. Sulla corrente di Blok ho letto subito dopo Guerra e Pace di Tolstoj e Le anime morte di Gogol. Ero giovane, ma credo che questa lettura mi abbia dato la misura del respiro, l’importanza che ha nella scrittura l’ampiezza. Da allora non temo la solitudine: mi basta aprire un romanzo... Però ci sono molti altri scrittori non solo poeti o romanzieri che penso mi abbiano segnato: Flaubert, Proust e Beckett (per il quale ho un vero e proprio culto) Kierkegaard, Wallace Stevens e Marianne Moore, Paul Klee, gli scritti di Mondrian. Fra i poeti contemporanei è stato importantissimo Philippe Jaccottet.

Oggi sento il bisogno di contenere l’attrazione per i russi, ma anche per i mistici: da Giovanni della Croce a Maria Zambrano. Mi sono riavvicinata alla poesia in lingua inglese, ma non amo la poesia confessionale americana. Da qualche tempo ho riletto con attenzione Elizabeth Bishop (che infatti prende le distanze dalla poesia confessionale). Capita di leggere un poeta, di ammirarlo magari, ma non di “vederlo” davvero. Mi è capitata la stessa cosa con Pascoli.

 

Hai affermato che la poesia sostituisce talvolta una stretta di mano, che è atto di comunicazione, un ritrovarsi con l’altro. Ma il poeta è solo quando scrive e spesso è solo perché non può stare dove si compiono i riti della volgarizzazione della vita e anche della morte. La solitudine è una condizione e la poesia è il ponte per uscirne?

 

“La poesia come una stretta di mano” è un’affermazione di Paul Celan altro poeta per me importante che mancava all’elenco. Questo però non esclude la solitudine che è una condizione non necessariamente negativa, almeno per me. Anzi.

 

Il “nome è anche raggiungere se stessi”, hai scritto in una poesia. Ma allo stesso tempo conviviamo con l’appiattimento della lingua, con nomi che non significano, che non riportano più né alle cose né agli esseri, talmente sono logori e generici. Può il poeta, da solo, reinaugurare la lingua, rifondare un nuovo rapporto fra il nome e le cose?

 

Il verso “se nome è anche raggiungere se stessi” mi è stato suggerito da una riflessione di Giacoma Limentani nel suo libro Il Midrash, quando nota che in ebraico Shem (nome) e Sham (luogo, ma nel senso di andare verso un luogo, moto a luogo) hanno la stessa radice. Raggiungere il proprio nome come se fosse un luogo è mettersi in cammino verso se stessi, non solo diventare se stessi, ma smettere di essere ciò che si era accettando di attraversare la propria aridità, il proprio deserto. Non penso però che il poeta debba o possa “rifondare un nuovo rapporto tra il nome e le cose”. Le cose sono qui e le parole possono essere logore, anzi “logoro” è una parola molto bella. L’importante è provare a non essere generici, ma questo è un problema di attenzione, di sforzo. C’è la tentazione a volte di lasciar perdere, di abbandonarsi al suono della propria poesia, alla genericità (che è anche abilità).

 

In un verso hai scritto: “dài forma al buio”. È quello che resta al poeta di oggi? Perscrutare, modellare, ordinare il buio?

 

Intendevo proprio un gesto concreto. Plasmare il buio come una materia, come si fa nella scultura. Alla poesia “restano" in realtà molte cose, ma le fa guardando, pensando, ascoltando e scrivendo e riscrivendo.

 

Ogni poeta ha un concetto di poesia, ne da una diversa definizione. Per te, che cos’è la poesia?

 

Una cosa terrena, un dono e un lavoro, provando ad andare avanti e invece magari tornando indietro. Insomma un fare molto precario, come la vita.

 

Scrivi spesso? Lo fai metodicamente, come tanti poeti? O per te la poesia è quel lampo, quell’illuminazione che avvolge e coinvolge tutto l’essere nel momento del suo manifestarsi?

 

No, non scrivo spesso, soprattutto a tavolino. Leggo e appunto qualche verso sui libri alla fine delle pagine. A un certo punto, a volte c’è non “un lampo”, ma un fuoco che si accende e poi si spegne. Allora lo seguo e divento metodica. Oppure in certi periodi sono così metodica che accendo con i miei rami quel fuocherello.

 

Come vede la poesia italiana in questo secolo? Ci puoi tracciare un breve panorama?

 

Non sono in grado di tracciare un panorama o una mappa: il Novecento italiano è una terra sterminata, mi sembra però che sia fra i coetanei che fra i più giovani ci siano molte brave poetesse e molti bravi poeti. L’elenco sarebbe lungo, ma comprenderebbe orientamenti diversi senza recinti di scuole. M’interessa moltissimo la poesia dialettale, la leggo come leggerei una poesia straniera, ma forse essendo di origini sardo-corse leggo anche gli italiani così.


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- Intervista

Mariella Bettarini

[ Pubblichiamo questa intervista per festeggiare il settantesimo compleanno di Mariella Bettarini, 31 gennaio 2012. L’intervista è a cura di Fulvio Castellani, pubblicata, nel giugno 2005, sulla rivista L’Areopago Letterario ]

 

 

Cosa significa per lei occuparsi di letteratura e di poesia in modo particolare?

 

Significa continuare a dar senso alla vita, alla mia vita. Personalmente non posso immaginare la mia vita senza la presenza della scrittura (con questo termine, in una sola parola, abbraccio tutta la scrittura: poesia, prosa creativa e critica, saggistica, traduzioni, e così via). Voglio, però, qui precisare che non ritengo la letteratura, la poesia, la scrittura un privilegio quanto un compito, un impegno, quasi un “servizio”: l’esatto contrario  dunque, del privilegio, della “torre d’avorio”, di un “ruolo” che dà molti diritti e pochi doveri.

Il disagio, il dolore, la consapevolezza della dura condizione umana, non solo propria ma di tutti gli umani (anzi, di miliardi di persone che non hanno nulla, dinanzi a noi colti-scrittori-bianchi-occidentali che, al loro confronto, abbiamo davvero tutto) dovrebbero far avere allo scrittore un “di più” di partecipazione umana, e non – come purtroppo talora accade – un arrogante solipsismo.

 

 

Lei, a mio avviso, ha il piacere della parola, dell’intrigo della parola, del suono della parola, dell’inseguirsi delle parole similari o contrapposte. Ci può spiegare il motivo?

 

Poiché per me, nella mia ormai lunghissima esperienza di scrittura, la parola è stata sempre un piacere contrapposto al dolore, un antidoto (necessitante sin dalla ormai lontana adolescenza) all’angoscia familiare, a certe profonde incomprensioni, a molte sofferenze e disagi, è naturale che per me la parola, specialmente poetica, sia stata – e talora sia – anche gioco, divertissement, non mai, però, fini a se stessi, come in certa sedicente neo-vetero-avanguardia. In più, mi pare, una precisa e ricercata e tuttavia quasi “spontanea”, sonorità. Senza contare il mio essere “figlia d’arte”, e per tanti anni – infantili e adolescenti – io stessa alunna-pianista.

Le parole nascono, zampillano, derivano da altre, in un fluire per me assai “naturale”. Il che non toglie un durissimo laboratorio, una fucina ininterrotta, una passione infinita per la parola, i suoi significati, sinonimi, etimologie e per la sua vita, la sua storia. Una convivenza, una consanguineità, quasi, che da allora non mi hanno più lasciato.

 

 

Costa fatica l’essere poeti in una società come l’attuale in cui è la superficialità a scandire i ritmi del successo?

 

Sì, costa fatica. Ma è anche l’unica cosa possibile, quella da farsi per chi – essendovi predisposto,  portato – assiste al degrado di una società corrotta, involgarita, banale; una società tesa quasi solo al benessere, all’egoismo, al denaro, al successo. Che cosa di più libero e “gratuito” della poesia? Attenzione, però. Che se il  vizio, il virus  dell’ambizione e del successo s’infiltrano anche nel far poesia, scrittura, arte, nell’anima e nella mente di coloro che la praticano, allora è persa ogni speranza di metamorfosi, di “conversione” di questa buia, troppo spesso sordida società.

 

 

A proposito di successo, è importante per chi scrive pubblicare le sue opere presso un grosso editore oppure anche un piccolo editore è in grado, se un’opera è valida, di imporre all’attenzione del grande pubblico un poeta o un romanziere? Ne parli.

 

Nessun editore (tanto meno se piccolo) è in grado, credo, di “imporre” la poesia  all’attenzione del grande pubblico. Per antonomasia, la poesia è una proposta, non una imposizione; una scelta, non un dovere; una vocazione, non una professione. Per la narrativa, il discorso è molto diverso. Un narratore autentico con un editore capace di proporlo, distribuirlo in libreria, farlo conoscere, ecc., può arrivare – spesso di fatto arriva – al cosiddetto grande pubblico.

Non altrettanto la poesia. Il piccolo editore (che di solito ha piccole tirature, scarsa o nulla distribuzione, pochissimo “potere” su riviste e giornali)  può, certo, operare scelte coraggiose, scoperte assai importanti nei riguardi di autori sinora ignoti (o ignorati) sia dalla grande editoria che dal “grosso” pubblico. Scelte e scoperte senza sospetto di consorterie, privilegi, scambi di favori. Scelte e scoperte, ripeto, talora importanti, grandiose, magari controcorrente rispetto a ciò che ufficialmente si muove nella editoria cosiddetta “maggiore”. Maggiore soprattutto in quanto a mezzi, a poteri, non certo e non sempre in quanto a libertà e coraggio nei confronti di poeti ancora ignoti, e magari per sempre tragicamente destinati – in questo osceno stato di cose -  a rimanere tali.

 

 

Lei che ha antologizzato dal 1963 al 1999 un centinaio di scrittrici italiane di versi, ci può dire quale o quali di queste scrittrici l’hanno maggiormente colpita, e perché?

 

Come si fa ad affermare – in un numero tanto vasto – quale o quali scrittrici di versi mi ha/hanno colpita di più? Potrei  tentare di dire quali maggiormente hanno sofferto (e soffrono) di ingiustizia, di invisibilità. Ma questo, veramente, vale per la quasi totalità di esse. E dunque? Se si escludono i pochissimi nomi “celebri” e “celebrati”, antologizzati, pubblicati da uno dei due o tre editori di collane di poesia “a diffusione nazionale”, come si usa dire (è presto detto: Mondadori, Einaudi, Garzanti e – per la poesia – quasi nessun altro. I nomi delle autrici? Rosselli, Spaziani, Merini, Frabotta, Lamarque, Cavalli, Insana, Valduga, Anedda e, tra le più giovani, Lo Russo e Biagini: e si arriva a poco più di dieci), per le altre circa novanta donne, poesie, voci, il silenzio è quasi totale. Certo, fra questi “canonici” (e “canonizzati”) dieci-undici nomi, la voce poetica in assoluto più grande è – a mio avviso – quella di Amelia Rosselli. Ho così risposto alla sua domanda? Mi pare.

 

 

Come bilancia nelle sue opere immaginazione, realtà e menzogna?

 

Non credo di riuscire a “bilanciare” alcunché. Voglio dire che i primi due elementi (realtà e immaginazione) sono di solito intimamente impastati in ogni poesia, nella poesia (e, dunque, credo anche nella mia). Quanto alla “menzogna”, penso che questa soprattutto riguardi una certa narrativa, la cosiddetta fiction.

Per ciò che mi riguarda, le mie poche opere di narrativa sono soprattutto una “filiazione” della poesia, frutto di una visione “globale” di quella scrittura di cui parlavo sopra. Più che di “finzione”, parlerei – nel mio caso – di metamorfosi, sublimazione, oltrepassamento rispetto alla cosiddetta “realtà”. Questo per quanto mi riguarda.

 

 

Qual è la critica che le ha fatto più piacere? I motivi.

 

Dal 1966 (tale è, infatti, la data dell’uscita del mio primo libro di poesia, dal titolo Il pudore e l’effondersi) ad oggi ho pubblicato più di trenta libri (tra poesia, prosa creativa, saggi, qualche traduzione, senza contare le foltissime collaborazioni a giornali e riviste). È assai difficile dire quale critica mi abbia fatto più piacere in tanti decenni, e con tanti libri pubblicati. Certo, quelle di Luzi,  Betocchi, Valeri, Palazzeschi, Fortini, Pasolini, Roversi, ecc. (anche sotto forma di privata corrispondenza)  mi hanno fatto indubbiamente molto piacere, facendomi avvertire la presenza di veri e propri maestri. È però anche vero che le attenzioni e l’interesse verso il mio lavoro poetico (ma anche, e insieme, verso la  modesta persona che sono) mi riempiono sempre di sorpresa e di gioia soprattutto se provengono da più giovani e meno noti poeti e critici, da – come mi piace dire – “sodali”, “scrittori-amici”, “compagni di viaggio”.

Si sarà forse capito – a questo punto – che mi fanno più che altro piacere testimonianze  umane di stima, di contiguità, di affetto, anche se non nego che la tesi di laurea (discussa nel 2003 da Maria Amelia Sucapane all’Università La Sapienza di Roma) dedicata alla mia poesia, sia stata, per il mio più che quarantennale lavoro,  una  soddisfazione.

 

 

Che concezione ha dell’amore?

 

L’amore è, per me, davvero, quello “che move il sole e l’altre stelle”. L’amore è l’Amore. E che cos’è la poesia se non amore? Amore degli altri e di sé. Amore della parola. Della natura. Amore di tutte le creature. E questo in senso speculare, reciproco: amore “per” e amore “da parte di”. Credo che i più gravi e seri mali dell’umanità nascano proprio da una mancanza d’amore, da un bisogno d’amore (magari talvolta non percepito, non riconosciuto, se non addirittura rifiutato).

Certo, i mali socialmente più nefasti nascono prima di tutto da una mancata giustizia, ma subito dopo anche da mancanza di amore, di solidarietà, di empatia, di rispecchiamento, di identificazione gli uni negli altri.

Amore, dunque, è ciò che più d’ogni altra cosa ci abbisogna. Amore che illumina e riscalda il pensiero, la ragione, la cultura, l’arte, la storia,  qualsiasi umana espressione ed esperienza.  È questo ciò che sento e penso.

 

 

C’è un libro che ha scritto e che dopo averlo riletto preferirebbe riscrivere? Perché?

 

Non mi pare. Sono convinta, infatti, che ogni libro sia frutto di un momento personale (oltreché storico) preciso. Che senso avrebbe riscrivere ciò che è intimamente legato a quell’esatto momento della propria vita, della propria esperienza culturale ed umana?

È vero: nel 1986 io stessa mi sono “antologizzata” nel volume di versi dal titolo Tre lustri e oltre (che raccoglieva una scelta delle mie poesie dal ’66 ai primi anni Ottanta), ma si è trattato, appunto, di un’auto-antologia nella quale – più che riscrivere – ho severamente eliminato (perché le sentivo superate dal punto di vista formale) tante poesie, mentre molte altre le ho ferocemente tagliate, limate. Sono da sempre convinta, infatti, che sia il lavoro sulla forma a distinguere una poesia scadente, sciatta, da una poesia stilisticamente  significante. Una poesia che, oltre ai propri essenziali, indispensabili “contenuti”, si caratterizza per una massima, inesausta cura formale (parlerei addirittura di rovello formale). A questo proposito, si veda in parte anche la risposta alla domanda n. 2.

 

 

Come considera l’attuale momento della poesia in Italia, lei che, tra l’altro, cura, assieme a Gabriella Maleti, le Edizioni Gazebo, e che quindi ha la possibilità di vagliare le opere di diversi autori? E del romanzo italiano in genere, cosa pensa?

 

Attualmente in Italia si fa, si scrive molta, moltissima poesia, anche da parte di giovani e giovanissimi autori ed autrici. La scolarizzazione di massa ha permesso a (quasi) tutti l’accesso alla parola, alla scrittura, alla possibilità di esprimersi in proprio, oltreché di essere informati, di leggere, di “acculturarsi” (come si dice). Questa è una fondamentale conquista per qualunque società che aspiri a fregiarsi dell’aggettivo di “civile”.

Tuttavia, da una espressività “di base”, da uno scrivere corretto, diretto e spontaneo all’autentica poesia, ad una scrittura “formalizzata” il passo è molto lungo ed arduo. Non basta scrivere qualche poesia ( o anche moltissime) per essere poeta.  È questo – ne sono convinta – il discrimine fondamentale tra “scrittori” e “scriventi”, tra poeti che hanno piena coscienza della poesia, e i cosiddetti “poeti della domenica” (o “poeti dilettanti”: che dilettano forse soltanto se stessi…).

Per quanto riguarda il delicato lavoro che Gabriella Maleti ed io portiamo avanti con le Edizioni Gazebo (da noi stesse “varate” nell’ormai lontano 1984, e che hanno al proprio attivo più di centosessanta titoli prevalentemente di poesia, ma anche di prosa creativa e critica), devo dire che la nostra severità e “selettività” sono invero notevoli. Infatti, la Maleti ed io non ci limitiamo a leggere e a  “giudicare” i vari inediti che ci vengono proposti, ma in parecchi casi ci permettiamo di suggerire all’autore/autrice una talora profonda revisione dei testi medesimi, intervenendo non di rado in una “collaborazione di lavoro” con l’autore/autrice sul testo da rivedere, limare, modificare, ridurre, re-impostare, ecc. Si tratta – ne sono convinta, ne siamo convinte – quando ce ne sia bisogno, di un suggerimento di lavoro che risulta  assai maieutico  nel prosieguo del lavoro poetico/scrittorio  degli autori invitati a re-intervenire sui propri scritti.. Una sorta di “laboratorio” cui noi ci sentiamo di fornire – con fatica, ma anche con profondo senso di responsabilità – la nostra lunga esperienza e passione. Senza falsi pudori. Con lealtà e franchezza.

Per ciò che riguarda, infine, il mio giudizio sul romanzo italiano, ritengo che – da una parte – vi siano oggi alcuni ottimi autori (che però, purtroppo, non sempre sono i più noti e i più letti) e, per contro, una gran quantità di libri pre-confezionati, pre-disposti per fare successo. Il che confonde spesso totalmente le idee dei lettori meno preparati ed accorti, e rende la narrativa italiana di questi anni – come quasi tutta la narrativa cosiddetta “di consumo” – un campo minato, un “tabù” infarcito di malcostume, di ingiustizie, di falsi “valori” che – come il denaro e il  successo – quasi niente dovrebbero avere a che fare con una narrativa e una letteratura degne di questi nomi.

 

Firenze, gennaio 2005


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- Intervista

Vincenzo Fresa

[ Intervista a cura di Carlo Pagliai ]

 

 

 

Vincenzo Fresa, scrittore, poeta e sceneggiatore cinematografico, ha pubblicato da poco un romanzo, “La sindrome di Saul” (Gruppo editoriale l’Espresso, 2011), che è innanzi tutto una grande e policroma costruzione narrativa in cui si mescolano l’ambiguità del simbolico e la viva concretezza della Storia, col sostegno di una prosa plastica e nervosa, continuamente tesa a rilevare e a raccontare le pieghe misteriose della coscienza umana e le ineffabili e macchinose angosce del nostro tempo.

 

 

Domanda. Qual è, oggi, la situazione del romanzo in Italia ?

 

Risposta. Si osserva, già da tempo, un declino  generalizzato del romanzo - in termini di qualità, naturalmente, non dal punto di vista della quantità - in tutta l’Europa. Esso tocca perfino la Francia che, nel campo della narrativa, contendeva il primato, indiscusso e indiscutibile, alla Russia. Dopo, infatti, Mauriac, Bernanos, Céline, Gide, Malraux, in quel Paese, non si è prodotto, riguardo al romanzo, quasi nulla di veramente significativo. Per quanto concerne, l’Italia, poi, lo “stato di salute” del romanzo sempre, ad ogni modo, in relazione alla qualità ( la quantità è strabocchevole), direi che è addirittura pessimo. Scomparsi i grandi narratori della prima metà del Novecento, tra i quali- il maggiore- Luigi Pirandello (grande narratore ma pessimo scrittore, a giudizio di Attilio Momigliano), in questo ambito, l’orizzonte è andato via via restringendosi fino a immeschinirsi nei fumi dello sperimentalismo, nelle angustie dell’erotismo fine a se stesso e nella evanescenza di un sentimentalismo povero di sentimento. Tra gli anni '50-'60, la discesa verso quota zero (o sotto zero) ha avuto come una sosta rappresentata dal neo-realismo ( trasmigrato dal Cinema nella Letteratura). La narrativa neorealista ha riscosso, a suo tempo, il pieno consenso di Giacomo De Benedetti. Questi, rifacendosi alla tesi di Michel Butor, secondo il quale un romanzo «è una risposta ad una situazione di coscienza», conclude che la produzione neorealista, nelle sue diverse variabili, rifletta, appunto, una coscienza attiva e operante, nei suoi maggiori esponenti, e si presenta, adeguata al rinnovato clima, morale e socio-culturale della società nazionale. Quella del neo-realismo fu una stagione breve e, già prima di esaurirsi, emergevano gli organici limiti di fondo e, soprattutto, i  vizi di una  strumentalizzazione  ideologica sempre più accentuata, che oscurava, o trascurava, le finalità primarie del romanzo, il quale è, e deve essere, anzitutto, opera di poesia e testimonianza, non datata, di umanità. Ormai dei quasi mitizzati Cassola, dei Pratolini, ecc. ci si ricorda solo per ridimensionarli, se non azzerarli. In fondo, di tutta la narrativa neorealista rimane valida e attuale l’opera di Cesare Pavese - il “cronista”, sommesso e malinconico, dell’eterno grigio quotidiano dell’esistenza - e di Italo Calvino, un neorealista sui generis, magico e surreale cantore di una realtà parallela. Indubbiamente al neo-relasmo vanno ascritti altri narratori degni, anche oggi, di essere rivisitati e apprezzati. Ma cito Cesare Pavese e Italo Calvino perché essi, meglio degli altri, hanno saputo tutelare la propria libertà di espressione, senza lasciarsi soffocare nella trappola del genere. La crisi del romanzo in Italia ( ma non solo) ha una poligenesi patologica, la quale si riassume in un fenomeno imperversante quasi in ogni campo dei rapporti socio-culturali. Esso è il cosiddetto minimalismo che, specialmente in letteratura, opera in conflitto non tanto e non solo con la tradizione ( il che non  sarebbe un gran male), ma anche con tutto ciò che abbia un  senso  in termini di responsabilità artistica e di culto dei valori di riferimento. Ma che cosa è, in ultima analisi, il minimalismo? Un’ anacronistica imitazione  di Joyce di Proust, sotto le mentite spoglie di una nuova corrente letteraria di basso profilo? Una specie di neo-alessandrinismo? Una scelta consapevole e intenzionale che privilegia gli aspetti volatili, la minutaglia della realtà in omaggio alla dottrina da ombrellone balneare dell’usa e getta? Per me è, semplicemente, un’ abdicazione alla serietà  della “scrittura” e una resa alla sagra dell’effimero.

Se è vero che nel presente si pongono le premesse del futuro, a mio parere, da noi, il romanzo ha un futuro molto incerto. Del resto, non so se per una sorta di compiacimento masochistico o sulla base di una obiettiva osservazione, ci si domanda se la lingua italiana stessa abbia un futuro.

 

Domanda. Quale è, secondo lei, il ruolo di uno scrittore nella società? Quali sono o dovrebbero essere le sue responsabilità politiche?

 

Risposta. Secondo me la cultura umanistica, per la sua peculiare macroscopicità e possibilità di accesso all’individuo e alla collettività, più delle altre sfere dell’attività intellettuale- scienze comprese- rappresenta lo specchio dei valori, o dei disvalori, di una società. Uno scrittore, perciò, si propone, direttamente o indirettamente, come punto di riferimento culturale, morale, umano e, naturalmente, politico Checché se ne dica, noi viviamo immersi, addirittura sommersi nella politica e, purtroppo, a volte, anche nel lerciume di essa. La stessa “antipolitica” è, in effetti, un più o meno  meditato atteggiamento politico. Uno scrittore coglie, o almeno dovrebbe cogliere, gli aspetti, i problemi e le problematiche della società e farne un’analisi, quanto più obiettiva possibile nell’ ottica politica ma salvaguardando, contemporaneamente,  la  propria libertà e soggettività di coscienza e di giudizio. Se, poi, lo scrittore è pure un autore di romanzi, egli dovrebbe proporre, in termini artistici e poetici, la sua personale visione del mondo e della complessa e multiforme realtà di cui è interprete e testimone.

 

Domanda. Quando è iniziata la sua avventura letteraria?

 

Risposta. Tanti decenni fa. Prese avvio, quando avevo diciotto anni, da una serie di soggetti cinematografici e sceneggiature, che realizzai per la Mondial Film, una casa editrice specializzata, collegata con la Casa hollywoodiana Darryl F. Zanuck. Da allora è proseguita, anche se con non grande fortuna, tra specifica attività poetica (vinsi il terzo premio Vallombrosa), saggistica, storiografia e, soprattutto, narrativa.

 

Domanda. Secondo il suo parere, quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla narrativa?

 

Risposta. Piaccia o non piaccia, critica e critici svolgono un ruolo essenziale rispetto alla narrativa nella valutazione, nella valorizzazione e nella promozione di un romanzo. Il critico, però, proprio per la delicatezza e la decisiva importanza del suo ruolo, dovrebbe essere obiettivo, giusto, “onesto”, libero da condizionamenti e consapevole che la fortuna di un romanzo di un certo livello dipende, per la gran parte, dalla posizione assunta dalla critica.

 

Domanda. Quando affronta la scrittura, crede di più nel “magico” apparire dell’ ispirazione o nello studio e nel rigore della disciplina?

 

Risposta. Da sempre, poiché voglio scrivere solo quello che ritengo valido, prima per me e poi per gli altri, l’ispirazione- che io dentro di me leggo e rileggo criticamente- costituisce una premessa ineludibile. Ma un’ispirazione, anche  se ben delineata e convincente, per valere effettivamente, ha bisogno di essere tradotta in fatto creativo e, a tal fine, sono necessari lo studio e il rigore della disciplina. Scrivere è impegno intellettuale totale, fatica, a volte, anche tormento!


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- Intervista

Giulia Niccolai

[ Intervista a cura di Paolo Polvani ]

Fotografia di Domenico Di Raco (www.domenicodiraco.it)

 

[ Giulia Niccolai (Milano, 1934) è una fotografa e poetessa italiana. Di madre americana e padre italiano, frequenta giovanissima il gruppo del bar Giamaica e si lega al Gruppo 63. Vive a lungo tra l'India e una casa di campagna a Mulino, nell’Appennino Parmense. Nel 1966 pubblica da Feltrinelli il suo primo romanzo in italiano: Il grande angolo; traduce Gertrude Stein, Virginia Woolf, Patricia Highsmith, Dylan Thomas. A lungo legata sentimentalmente ad Adriano Spatola fonda con lui la rivista Tam tam e l’omonima collana di poesia sperimentale; la fine della relazione fra Spatola e la Niccolai è narrata nella canzone Scirocco di Francesco Guccini. dal 1990 è monaca buddista. Tra le sue pubblicazioni si ricorda la raccolta Harry’s Bar e altre poesie (Feltrinelli, 1981) e FrisbeesPoesie da lanciare (Campanotto, 1994), Premio Feronia-Città di Fiano 1995. (Fonte Wikipedia) ]

 

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Nella sua casa abitano una poetessa, una monaca buddista, un Grand Ufficiale. Vanno d’accordo? litigano? coabitazione felice?

Ci abita qualcun altro?

 

La sua domanda mi mette subito di buon umore e col sorriso sulle labbra. Può considerarla già una risposta? Per spiegarmi meglio le cito un breve testo del Lama tibetano, Kalu Rimpoche:

Viviamo nell’illusione e nell’apparenza delle cose.

C’è una Realtà. Noi siamo quella Realtà.

Quando lo comprendiamo, vediamo che siamo niente.

Ed essendo niente, siamo tutte le cose.

Ecco tutto.

“Essere niente” non è solo un criptico modo di dire, bensì il frutto di una effettiva, profonda Rinuncia e di un lungo e difficile cammino spirituale nel quale si può anche riuscire a liberarsi della tirannia del tempo.

  Come battuta conclusiva (perché lei potrebbe anche essere troppo giovane per saperlo), sono anche stata fotografa dal ’50 al ’64 (v. Antonella Russo, Storia culturale della fotografia italiana, Einaudi, 2011).

 

 

Come si è trasformato nel tempo il suo rapporto con la curiosità?

 

Non avrei mai potuto immaginarmelo prima di iniziare un cammino spirituale nel 1985, ma da allora, lentamente, la mia curiosità è del tutto scomparsa. Vivo questo fatto come una meravigliosa liberazione!

 

 

Come è iniziata la sua avventura nella scrittura?

 

Credo proprio che sia iniziata da Lewis Carroll…I giochi di parola, l’umorismo, le parole che diventano materia, biglie di cristallo colorate…

 

 

Scrivere può essere considerato il primo passo verso il meditare?

 

Per me lo è stato sicuramente. Perché scrivendo, ho sempre cercato di capire meglio anche me stessa – direi che scrivo proprio per questa ragione. Cerco la “verità”. Anche se per il Buddismo vi sono due verità: una, relativa, che è come le cose ci appaiono; e una, ultima, che è come le cose effettivamente sono. Dunque, cerco di accorciare il gap tra le due, anche se, per vederle come effettivamente sono, bisogna aver effettivamente raggiunto la Buddità.

 

 

Igea travagliato

Trento Treviso e Trieste

di disgrazia in disgrazia

fino a Pomezia

Como è Trieste Venezia

 

Si ricorda in che circostanza fu scritta questa poesia?

 

Lo ricordo perfettamente. Eravamo appena saliti in auto Spatola e io e la frase “Como Trieste Venezia” venne contemporaneamente in mente a entrambi, ma la disse prima lui. A lui non ho mai detto che ero certa che ci fosse stata “mandata”, dato che era arrivata anche a me e, per come la pensavamo allora, non poteva essere così!

 

 

La rivista Tam Tam riuniva poeti di diversi paesi. Alcuni di questi immagino siano stati molto amati da chi in quegli anni si avvicinava alla poesia. Penso soprattutto a Bisinger e Beltrametti.

Che ricordo ha di quel periodo e di quegli autori?

 

Il ricordo di quegli anni Settanta straordinari l’ho scritto in un capitolo, Gli anni di Mulino, di Esoterico biliardo, un mio libro di memorie edito da Archinto nel 2000. Avevamo contatti con poeti di tutto il mondo che venivano a trovarci nell’Appennino emiliano, a Mulino di Bazzano, in una casa della famiglia del poeta Corrado Costa, sebbene non avessimo nemmeno il telefono. Come con il ’68, si pensava che fosse l’inizio di qualcosa di meraviglioso, e invece fu la fine, il canto del cigno di qualcos’altro, un’altra epoca. In gennaio, parlerò invece di Beltrametti a Gorgonzola..

Due altri libri che parlano proprio di Mulino di Bazzano e di quegli anni sono: Eugenio Gazzola,“Al miglior mugniaio” Adriano Spatola e i poeti del Mulino di Bazzano, Diabasis, Reggio Emilia, 2008; e La repubblica dei poeti – Gli anni del Mulino di Bazzano, a cura di Daniela Rossi, collaborazione di Enzo Minarelli, Campanotto Ed. Udine, 2010.

 

 

Ha progetti in corso?

 

Ho appena terminato un saggio su Corrado Costa, scritto per la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, che aveva invitato Aldo Tagliaferri, Giuseppe Caliceti e me a parlare di lui il 2 dicembre per il ventesimo anniversario della sua morte. In gennaio, parlerò invece di Beltrametti a Gorgonzola, anche se il vero argomento dell’incontro è il libro del direttore della biblioteca di quella cittadina, Franco Galato, nelle cui poesie parla spesso di Beltrametti. E insomma, anche per queste chiacchierate ci si deve preparare.

Tra un paio di mesi dovrebbe uscire anche una antologia della mia poesia, con un saggio di Milli Graffi, per la collana fuoriformato di Le Lettere, Firenze, a cura di Andrea Cortellessa.

 

 

Anche lei pensa che non viviamo davvero ciò che non riusciamo a raccontare?

 

Non lo penso con tale assolutismo, ma certo scrivere aiuta ad avere una maggiore consapevolezza nei confronti di ciò che si sta raccontando. A meno che non si bari o non si inventi di sana pianta.

 

P.S. A proposito delle domande solo accennate: mi sveglio verso le 7, faccio colazione, medito, faccio la spesa o scrivo e leggo, preparo il pranzo, pennichella dei vecchietti, medito di nuovo, vedo amici o gente che mi vogliono parlare per questo o per quello, il lunedì e il mercoledì vado al Centro buddista per insegnamenti dalle 20 alle 22, torno a casa, ceno, TV, leggo o medito, letto alle 23. Due fine-settimana al mese: insegnamenti al Centro Buddista.

 

La mia casa è di 2 stanze più bagno e cucina, in tutto, 67 metri quadri. Poco spazio, troppi libri, mancano cassetti e armadi ma va bene anche così:

 

Corpi unici compatti e ronzanti

 

Corpi unici compatti e ronzanti

incollati ai soffitti dei pronai,

tra le colonne, o agli spioventi dei tetti,

grappoli a semisfera di api, larghi e lunghi

più di un metro, sono sempre visibili

all’esterno dei templi buddisti. Stanno

forse a simboleggiare, a confermare

il “miele”, la purezza e la dolcezza

delle menti dei grandi Lama

che pregano e meditano all’interno.


*

- Intervista

L. Zinkowski

[ In poche parole..., intervista a cura di Giuliano Brenna ]



Lei è lettrice di una importante casa editrice italiana, ci vuole dire quale?
Di Adelphi

 

Ci vuole dire il suo nome?

L. Zinkowski

 

 

Perché ha scelto tale lavoro? Come si diventa lettori?

La mia è stata una scelta dovuta in parte al caso, ma mi è sempre piaciuto leggere.

 

 

Come avviene la scelta di un libro da pubblicare? Quale iter segue un manoscritto che lei ritiene adatto alla pubblicazione? Chi lo favorisce e chi lo ostacola?

Naturalmente dipende dalle case editrici. Da Adelphi la selezione è molto dura, e avviene attraverso un comitato di lettura severo. Se il parere positivo è unanime un romanzo viene pubblicato.

 

 

Quando legge un manoscritto che cosa la convince a proporlo per la pubblicazione?

Vari fattori: innanzitutto la qualità della scrittura e in secondo luogo una narrazione avvincente.

 

Esiste un criterio, o più di uno, sul quale si basa per valutare un testo?

L’interesse che suscita.

 

 

Qual è la cosa che le rende assolutamente sgradito un testo?

La sciatteria.

 

 

Qual è l’errore più comune degli aspiranti scrittori? Che cosa devono evitare per non rischiare di non essere presi in considerazione?

Troppi scrivono senza leggere. Troppi scrivono senza correggere. Scrivere è difficile.

 

 

Che cosa rende un testo un ottimo libro?

Come dicevo la qualità, ma anche l’autenticità.

 

 

Vi è un elemento che condanna irreparabilmente un testo?

La presunzione.

 

 

Vi è un libro che secondo lei è un capolavoro ma non ha avuto alcun successo commerciale?

Ci sono alcuni buoni libri che vendono poco (i capolavori sono una chimera);  il successo commerciale è sempre più raro vista la miriade di libri pubblicati ogni anno.

In passato ci sono stati casi famosi come The Recognitions, Call it sleep  o Orcynus Orca…

 

 

E un libro ottimo che ha giustamente avuto successo?

Recentemente? Forse Carofiglio.

 

 

Le è mai capitato di proporre per la pubblicazione un testo che non le hanno inviato ma che le è capitato tra le mani, magari su internet?

Certo.

 

 

Qual è la tendenza attuale della letteratura italiana e in che direzione si sta evolvendo?

Direi che le direzioni sono varie, non una soltanto.

 

 

Un consiglio per chi vuole iniziare a scrivere un libro (non vale come risposta “lasciar perdere”)…

Leggere, leggere, leggere. Di tutto: dai classici alle riviste; dagli autori contemporanei ai quotidiani.

 

 

Che cosa le piace leggere non per lavoro? Quale è il suo autore preferito?

Roberto Bolaño.

 

 

Che libro le piacerebbe trovare sotto l’albero di Natale?

E se non fosse un libro? In caso Jennifer Egan o Walker Percy.

 

 

Ci dice il titolo di un libro sul quale i nostri utenti potrebbero cimentarsi nella scrittura?

Pinocchio, di Manganelli. Gli accoppiamenti giudiziosi, di Gadda. Di Adelphi, chiaro.


*

- Intervista

Babbo Natale

[ Intervista a cura di Maria Musik. Sul luogo dell’intervista non possiamo dire nulla perché ci è stato chiesto da Babbo Natale di mantenere il segreto, sappiate soltanto che Maria è partita con un piumino e due cappotti l’uno sull’altro, sciarpa, cappello di lana e scarponi con tripli calzettoni, ma, nonostante ciò, è tornata congelata. Per tutta l’intervista Babbo Natale aveva al suo fianco una delle renne, quella con le corna rosse ]

 

 

Maria:

Buona sera… come la devo chiamare? Santa Claus, Plaku i Vitit te Ri, Gaghant Baba, Père Noël, Djed Mraz, Дядо Коледа, Weihnachtsmann, Άγιος Βασίλης, Daidí na Nollag, Święty Mikołaj, los Reyes Magos, Santa Lucia, Papai Noel, Noel Baba, サンタクロース/サンタさん,  聖誕老人 o 聖誕老公公

 

Babbo Natale:

Guarda, Maria - anche se lo so benissimo che non ti chiami così e che da piccola ti rivolgevi alla concorrenza… dimmi, poi, se hanno torto a chiamarla Befana! – (risata) basta che non mi chiami “Papi”! (risata).

 

Maria:

(imbarazzata) Beh, sa… ero una femminista ante litteram e, poi, a quei tempi  Lei, mi scusi eh, ma a Roma non era molto popolare… forse, a Milano! Comunque, la chiamerò Babbo Natale.

Ho parecchie domande da sottoporle: la prima… ma Lei, esiste?

 

Babbo Natale:

Domanda scontata… da secoli la sento ripetere: evidentemente sì. Mi stai parlando… dunque, esisto. Rielaborando un’antica massima di Cartesio “Credono che esista, dunque, sono!” – (risata) – Volendo approfondire, quando diciamo che qualcuno o qualcosa esiste?

 

Maria:

Furbo: adesso le domande le fa lei! Allora… mi verrebbe da risponderle: “Quando ci sono prove oggettive, dimostrabili ed inconfutabili che l’oggetto/soggetto in questione è un’entità rilevabile, misurabile; quando vi siano un numero sufficiente di prove scientifiche che ne dimostrino la presenza in natura”.

 

Babbo Natale:

Lo sai che da bambina eri più riflessiva?

 

Maria:

A quanto pare portava doni anche al piccolo Einstein.

 

Babbo Natale:

Sì… un abaco, una bussola… ma con lui era tutto relativo! Anche a te portai un pallottoliere in legno ma non mi pare che i risultati siano stati i medesimi (risata)

 

Maria:

Già… che humour! Spirito di Natale, direi! Ma torniamo alle domande. Se lei esiste devo supporre che sia immortale, viaggi su una slitta trainata da renne, si infili nei camini e porti doni a tutti i bimbi del mondo. Ma a me risulta, da autorevoli fonti che si avvalgono del diritto all’anonimato, che un numero impressionante di bambini non ha ricevuto un bel niente da lei. Erano tutti cattivi?

 

Babbo Natale:

Non esistono bambini cattivi ma esistono adulti cattivi, anzi, crudeli. Questi adulti governano le nazioni con il terrore, lasciano che la più desolata miseria alligni fra il popolo e nei loro cieli la mia slitta non può arrivare.

 

Maria:

Ma, allora, lei può raggiungere solo i paesi capitalisti… come dire che Babbo Natale esiste per chi ha già un minimo di ricchezza ma non può avvicinarsi ad un povero.

 

Babbo Natale:

Se la metti su questo piano la risposta è sì. Da solo non ho nessuna possibilità: ho bisogno di aiuto e non dagli elfi ma dagli uomini. In realtà io sono solo lo Spirito del Dono, posso accendere il desiderio di far felice un piccolo, posso volare nella sua fantasia, posso inanellare ghirlande di leggende e fiabe ma non posso portare doni senza che un uomo si faccia mio tramite.

 

Maria:

E lei, alla sua veneranda età, ancora si fida degli uomini? Ma non si è scocciato di tutti  gli  Scrooge ed i Grinch che alla sola parola “gratuito” si fanno venire le bolle?

 

Babbo Natale:

E come potrei non fidarmi? Io vi amo e vi ricordo tutti così come eravate da bambini. Ricordo i vostri sogni, i desideri, le paure. Ricordo la vostra curiosità, la vostra fame di storie magiche che vi portava su in alto, sui tetti a sondare il cielo in cerca della mia slitta. Ricordo le vostre manine paffute che accarezzavano la schiena di Rudolph, che gradiva così tanto da farsi diventare il naso rosso fuoco.  Vi rivedo nei lettini, insonni, le orecchie tese ad ogni minimo rumore, pronti a sgusciar fuori dalle coperte per cogliermi in flagrante. E ricordo i vostri padri e le vostre madri. C’era la guerra ed io potevo lasciar loro solo due noci e un mandarino secco ed infreddolito. Quanto erano belli. Voi non immaginate la loro gioia di fronte a quei gusci e come si divertivano a schizzare il succo delle bucce degli agrumi sulla fiamma di una candela di sego. Le scintille sprizzavano dalla vampa e dai loro occhi. Non sai il dolore per quegli occhi quando li ho visti chiudersi, esterrefatti di fronte allo strazio che cadeva dal cielo per togliergli la luce.

Oggi i vostri figli pestano i piedi e lasciano i giocattoli abbandonati in terra senza averci giocato neanche una sola volta. Non si stupiscono, non lanciano gridolini di meraviglia e negano, saccenti, la mia esistenza. Il troppo “stroppia” e toglie il piacere dell’inatteso.

E mentre guardo loro fare gli schizzinosi di fronte all’abbondanza, vedo tutti gli altri, quelli che non potrò raggiungere, quelli che sognano di avere una bambola, una macchinina. Molti sanno cos’è un giocattolo perché passano dodici ore al giorno a costruirli. Sai cosa desiderano, più d’ogni altra cosa? Di avere il tempo per fare una corsa, un bagno nel fiume e, a fine giornata, una ciotola di riso ed un pezzo di pesce secco da non dover dividere con nessuno.

 

Maria:

Deve essere tremendo. Non immaginavo. Pensavo lei fosse solo un’invenzione per vendere di più. Invece è tutto vero. Cosa possiamo fare per aiutarla?

 

Babbo Natale:

Maria, chiudi gli occhi e torna indietro. Ecco ci sei. C’è una donna bruna, con gli occhi un po’ severi e mani bellissime e dolci. È in cucina e frigge in una padella nera delle crocchette di patate che profumano di limone. Accanto a lei, una donna anziana, anche lei corvina malgrado gli anni. È seduta e fuma di nascosto una sigaretta. Ha gli occhi già un po’ velati da uno strano dolore che sa di morte. Parlano fitto. Si accorgono di te e ti invitano ad entrare. Ti dicono che quella notte, quando alle dodici suoneranno le campane, toccherà a te mettere il bambinello nella mangiatoia e, poi, dovrai leggere la tua letterina. Te lo ricordi, Maria, te lo ricordi?

 

Maria:

Sì, lo ricordo. Avevo rinunciato ad uno dei regali ed avevo chiesto che fosse portato cibo ad un bambino del Biafra. Ci avevano fatto vedere le foto a scuola. Quel bimbo aveva grandi occhi spalancati sul mondo, ricoperti da mosche, un corpo scheletrico ed il pancino gonfio. Avevo pianto: non era giusto. Così avevo scritto, nella mia letterina piena di porporina e stelline autoadesive, che tu e la Befana andaste in Africa e che il Bimbo Gesù facesse scomparire la fame e le mosche.

Ma questo che c’entra? Sappiamo bene tutti e due che non basta la “carità pelosa” di un solo giorno per dare risposta a tragedie di portata mondiale.

 

Babbo Natale:

Devi scrivere, Maria. Tutti dovete ricominciare a scrivere lettere. Scrivete a tutti. Chiedete giustizia e pace e uguaglianza. Pretendetele. Chiedete che sgombrino i cieli affinché la mia slitta raggiunga tutti i bambini del mondo. Chiedete agli uomini di aprire i cuori e le menti al Dono. Quindi, questo Natale, non scrivete a me, ma a tutti coloro che dirigono le sorti del mondo: ditegli che lo volete diverso!

 

Maria:

Babbo Natale, che cosa ci consiglia di leggere questo Natale?

 

Babbo Natale:

Vi invio una letterina con alcuni consigli di lettura, la scrivo stanotte, così venerdì, prima della Vigilia, la potete pubblicare, e chi vuole i libri fa in tempo a chiedermeli per il Natale… Oh Oh Oh!

 

Maria:

Può lasciarci anche una poesia da proporre ai nostri lettori?

 

Babbo Natale:

Va bene… non sono un poeta, è un po’ ingenua ma esprime bene il mio pensiero e augurio… la intitolerò Poesia ingenua di Babbo Natale:

 

Perché pensi che io abiti al Polo Nord

e non invece al Polo Sud?

Ti dico che il mio cuore abiterebbe

più volentieri al Sud, tu però mi obblighi al Nord.

I bambini sono tutti uguali,

così puri nel loro pensare,

è per questo che abito volentieri anche al Nord

dove il capitalismo è spudorato

e il consumismo è impastato

alle vite dei grandi

da farmi detestare quei tuoi pensieri

di regali esagerati.

Il mio Natale è da babbo

ma i miei bambini del Sud

neppure sanno chi io sia

dovrei portargli in dono una nuova vita

una cioccolata

almeno una vitamina.

Amo i bambini del Nord

perché certe notti

risplendono come stelle

(così diseguali da voi adulti)

da diventare padri e madri di altri bambini

per i quali desiderano doni,

perché non ce n’è uno a cui io

possa arrivare

se qualcuno non ne ha desiderio dal cuore.

Così, ogni Natale, mi rallegro per ogni bambino che gioisce al Nord

per i miei doni che tu gli porti a mio nome

mi rattristo per quelli che al Sud non hanno chi li pensi.

Il volo delle mie renne

vale a niente se rimango solo una fantasia

e non mi porti con te, nel tuo cuore, verso il Sud…

Partiamo?

 

Nota: Nord e Sud rappresentano, rispettivamente, regioni di povertà e regioni di ricchezza del mondo, anche se non necessariamente poste a nord o a sud della Terra.


*

- Intervista

Fabio Franzin

[ Intervista a cura di Paolo Polvani ]

 

 

Nell'Italia di oggi si stenta a credere che il Nord Est abbia alle spalle una storia di emigrazione.

 

Ho due zii materni emigrati in Canada (o meglio, in Canadà, come continua a dire mia madre, o come dice la famosa canzoncina della casetta) nel primo dopoguerra; credo che, qui in Veneto, ogni famiglia ne abbia ancora, o ne abbia avuto, qualcuno: sia nelle Americhe, oppure in Svizzera, Belgio, Francia… due miei coetanei, compagni di giochi in gioventù, hanno aperto delle gelaterie in Germania, dove vivono e operano da almeno un ventennio. Ora assistiamo alla fuga dei cervelli, che in sostanza vuol dire che chiunque abbia qualche capacità e spirito di avventura, parte per l’estero a cercare la fortuna che qui gli/ci è negata per le ragioni che tutti sappiamo. In tutto ciò c’è quel “nomadismo” naturale dell’umano (e di ogni altra creatura), che li ha sempre portati, già da epoche lontane, a spostarsi se i pascoli si inaridivano o se avverse condizioni minavano la sopravvivenza della specie.

Nella terra in cui vivo, terra che, come ripeto, ha avuto una massiccia epopea di emigrazione, si è assistito a un bieco individualismo, a una triste mutazione antropologica, tutta spesa nell’assurdo tentativo di “recintare” il proprio eden privato - e non solo, a mio vedere, a causa dei manifesti razzisti della Lega, essa semmai ha saputo fiutare e incanalare tale pulsione -, a un finto oblio di comodo, abilmente shakerato con l’ipocrisia e la convenienza (proprio come fosse una sorta di spritz, l’aperitivo tanto di moda, qui) e con quello spruzzo egoistico di Aperol, che si può riassumere nel titolo e nel sottotitolo di un saggio di Gian Mario Villalta: “Padroni a casa nostra – perché nel nord est siamo tutti antipatici”; quelli che in osteria, ancora oggi, blaterano di mandare via “i foresti” da “casa nostra”, sono quelli che gli hanno affittato a prezzi esosi case coloniche prive di luce e acqua chiuse da decenni, quelli che li assumono nelle loro fabbriche in crisi in luogo dei “padani”, perché essi, essendo forse più disperati, si rivelano più malleabili all’inumana flessibilità richiesta ora dai mercati, e perché più ricattabili, spesso pagati in nero, o con assegni postdatati.

 

 

La scelta del dialetto appare più di una vocazione, qualcosa di profondo, viscerale.

 

Il dialetto, lo affermo da almeno due decenni, è la lingua della mia anima, lingua viscerale proprio come dici tu. In più la sento più schietta e concreta dell’italiano, più aderente al mio dettato. Se avverto che la mia scrittura va ad indagare sino al nucleo, alle radici della vita, le parole nascono in dialetto, in esso ritrovano la sorgente ove sono sgorgate.

 

 

Come sono i ricordi della tua infanzia ?

 

Sono i ricordi di un ragazzino che ha vissuto i suoi primi sette anni di vita in città, a Milano; trapiantato in un territorio che, allora, nel 1970, era ancora vasta campagna. Con tutti i nomi che una campagna conteneva, insieme ai fossi, alle siepi, agli alberi. Nomi da dover imparare per essere accolto dai coetanei. Nomi che poi sono penetrati a fondo in me, proprio come certe radici, avvitate ai sassi del costato, ardue da estirpare. Oltre alla campagna, proprio di là della strada, di fronte al rione di case popolari dove sono vissuto sino ai trent’anni, c’era una fabbrica abbandonata (uno dei primi capannoni del famoso, ed ex ormai, miracolo economico dei distretti industriali); lì dentro, fra polvere e merde, quadri elettrici scassati, schegge di vetrate e tubi pendenti dal coperto, vi passammo tutta la nostra infanzia a giocare e far prove di coraggio. Fra il chiuso del capannone e l’aperto dei campi siamo cresciuti. Ora mi sembra che la nostra infanzia abbia combaciato perfettamente con la modificazione subita dal paesaggio in questo lasso di tempo.

 

 

Esiste un rapporto tra la tua scrittura e il paesaggio ?

 

Certamente, ne è parte fondante. Aver avuto un gigante come Zanzotto nella stessa provincia, poi, non poteva non acuire questo rapporto. Le sue battaglie, le sue invettive, le sue amare riflessioni sui mutamenti così repentini e caotici, avvenuti nel paesaggio in queste terre, sono ora nostre per eredità e memoria.

Io penso il paesaggio non come a uno scenario, o a un misero fondale davanti a cui l’uomo recita le sue passioni, ma come benigne creature: erbe, fiori, alberi, bestie, cieli… che interagiscono con le passioni umane, come è nelle tele della grande pittura veneta del ‘500, e proprio nel Giorgione, Tiziano, nel Bassano, nelle loro arcadie o nei loro luoghi ameni io trovo il conforto di un luogo che ritorna origine e beltà, gesto e parola.

 

 

Hai un metodo di lavoro? ci sono poeti legati a vezzi, manie, abitudini e scaramanzie circa il metodo di scrittura.

 

Scrivo solo quando sento di aver qualcosa da dire. Sennò leggo o faccio altro. Non me l’ha ordinato il dottore di scrivere. Posso farlo febbrilmente per giorni, preso da un lavoro, da un’idea, quando scocca, come posso star mesi senza scrivere neanche una sillaba.

Non ho vezzi particolari, anzi, il mio “tavolo di lavoro” è una piccola scrivania posta in una rientranza del corridoio d’entrata dell’esiguo appartamento in cui vivo con la mia famiglia, interrotto spesso da mio figlio che mi chiede di giocare con lui, o da mia moglie, dal gatto che miagola e vuole le sue crocchette. Mi basta. Se qualcosa mi sfugge, o si perde per le interruzioni, come disse una volta Aldo Busi, vuol dire che non era poi così importante. Però se alzo gli occhi verso il muro, c’è un bel quadro rosso di Trucano, con un cuore grande tutto percorso da fil di ferro e schegge di vetro; ecco, se un vezzo c’è, è questo cuore infranto e innervato cui non so rinunciare per cercare con gli occhi la parola che non viene.

 

 

Coltivi altre passioni al di fuori della scrittura ?

 

Da giovane, prima di essere coinvolto totalmente dalla parola, la mia grande passione è stata correre. Ho un passato di discreto mezzofondista, da 4’05 sui 1.500 metri, ma mi sono poi spinto sino alla maratona, intorno ai trent’anni. Ora, alla soglia dei cinquanta, amo fare lunghe camminate, sia in pianura sia in montagna. Camminare è un esercizio che allena anche il pensiero, che lo purifica dalle scorie della realtà, ora così dissestante. Amo anche giocare a biliardo, con la stecca, la geometria delle sponde per raggiungere la palla di retro. Mi piace anche parlare con la gente, se non è spocchiosa, il mondo interiore che si svela, fra le parole, la compagnia che fanno le “ciacole”, magari davanti a un buon bicchiere di vino.

 

 

Nelle tue poesie si avverte una forte tensione etica, ma è la carica umana che le rende indimenticabili. Sei d’accordo?

 

L’etica, così demodée di questi tempi, è, insieme all’onestà, l’umile, ma immensa eredità avuta in dono da mio padre. Non per educazione imposta, ma solo per esempio. Mio padre non ci ha mai detto, a me e ai miei fratelli “bisogna comportarsi così e cosà”, ma l’ha fatto davanti ai nostri occhi. Così, per amore, è penetrata in noi. Poi, l’essere cresciuto in un ambiente umile, popolare, di gente che faticava a tirare avanti la carretta, ma lo faceva, comunque, con dignità e decoro: col vestito da festa la domenica, uno e solo quello, ma impeccabile, mi ha sempre fatto sentire parte di quell’umanità, testimone di una comunità che condivideva tutto, bene e male, ansie e speranze.

In un’altra intervista ho confidato che la molla che mi ha portato a scrivere è stato entrare in un bar, molti anni fa, e assistere alla dura reprimenda che il gestore di quel locale impartiva a una giovane cameriera, umiliata di fronte agli avventori. In quel volto arrossato dalla vergogna ho visto scritte le mie prime parole.

 

 

Il titolo del tuo prossimo libro, “Canti dell'offesa”, non lascia margini di dubbio sul contenuto. Secondo te, sono possibili spiragli di speranza ?

 

La speranza, come dice il noto proverbio, è sempre l’ultima a morire. C’è sempre una speranza da coltivare in noi, soprattutto in questa epoca così in crisi, e per crisi non intendo solo economica. Ma la speranza deve essere affiancata dall’azione, dal tentativo che è richiesto a ognuno di noi di aiutare le cose a cambiare. Con i miei “Canti dell’offesa” intendo dar voce al disagio, e all’offesa, che quella porzione di umanità (anziani, extracomunitari, portatori di handicap…) ha e sta subendo da parte di una società sempre più egoista, competitiva e menefreghista; che è poi quella porzione di umanità in cui sono cresciuto, come dicevo. Uno dei miei compagni di giochi, in quella fabbrica abbandonata di cui sopra, era un ragazzino down, e faceva parte del gruppo come chiunque altro, senza essere dileggiato o, peggio, compatito. E quando morì, tre anni fa, il suo funerale è stata l’occasione per rivederci tutti, anche se con alcuni ci eravamo persi di vista.

 

 

Pensi che la poesia possa svolgere un ruolo in un auspicabile processo di riscatto ?

 

La poesia offre la possibilità di “leggere” la realtà da una nuova angolazione, spesso inedita. E’ come per il biliardo: tu puoi colpire la palla direttamente, frontale, o andarla a prendere da un altro lato nel disegno creato dalle sponde. Quando ti è concessa un’altra possibilità, per quanto ardua e complicata, non sei mai davvero perso. Il disegno che le parole compongono sullo spartito dei versi è come quello dei bambini, dove il cielo è verde, l’uomo ritorna un rastrello piantato nella terra, nel mare i pesci si vedono.

Nel mio caso specifico, la poesia è stata un riscatto sociale, come nelle “confessioni di un malandrino” di Esenin: l’umile operaio cresciuto in un paesino di tremila anime è ora un poeta.

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Di fabio Franzin proponiamo tre poesie tratte dalla raccolta Canti dell'offesa


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- Intervista

Franco Fortini

Intervista dell'8 maggio 1993, tratta dalla Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche www.emsf.rai.it ]


CHE COS'È LA POESIA?


1 Professor Fortini, proviamo ad iniziare in modo diretto, immediato, con la domanda essenziale: che cos’è la poesia?

Rispondere è come se si volesse rispondere a "che cos’è l’uomo" o a "che cos’è il mondo". Bisogna aggirare la difficoltà. Ammettendo che si sappia che cos’è il linguaggio articolato di cui ci serviamo e quali sono i diversi aspetti, le diverse funzioni che coesistono in ogni atto del linguaggio, si può dire che nel linguaggio umano c’è una funzione che tende a mettere in evidenza soprattutto, o almeno in modo particolare, il linguaggio stesso, ad attirare l’attenzione sulla forma della comunicazione. Ebbene questa è la funzione poetica.

Certo bisogna tener presente che quando si parla di poesia questa parola significa due cose: da un lato, appunto, un tipo particolare di discorso parlato o scritto che si distingue da altri modi di comunicazione; dall’altro, invece, un’attribuzione di valore per cui si dice "poesia" per dire qualcosa di bello, di importante, di riuscito, di meritevole di stima o di attenzione.

Nel parlare comune, "poesia" significa due cose: per un verso è un discorso, o ragionamento, o una comunicazione dove prevalgono elementi di ritmo e cadenze, di ripetizioni, di immagini che alterano i significati immediati e che gli conferiscono, oltre ai primi, anche significati interiori. Per un altro verso, quando noi diciamo "questa è poesia" intendiamo in genere qualcosa di elevato e di nobile, di rassicurante o di commovente o di rasserenante, di vivace, pungente ecc.

Facciamo un esempio. Se io dico: "Madre dei santi, immagine della città superna, del sangue incorruttibile conservatrice eterna" ecc. - con quello che segue nella Pentecoste del Manzoni - posso dare importanza al ritmo, ai gruppi di sillabe, al sistema di accenti e di rime e naturalmente posso anche sapere, oppure qualcuno ce lo spiega, che in questo caso l’appello è diretto alla chiesa cattolica. Invece se io dico: "Trenta dì conta novembre con april, giugno e settembre, di ventotto ce ne è uno, tutti gli altri ne han trentuno", anche qui trovo ritmo - infatti sono quattro ottonari - e trovo delle rime.

Insomma, se devo chiedermi come classificare l’inizio di una delle più famose composizioni letterarie della lingua italiana, oppure di un soccorso mnemonico come quello che ci vuole informare di quali siano i mesi che hanno trenta o trentuno giorni non c’è dubbio che l’uno e l’altro devono essere considerati in questo senso: poesie o testi poetici. Si potrebbe obiettare che nell’un caso ci sono delle parole desuete, arcaiche, solenni, nell’altro caso no. Ma non è del tutto vero perché, per esempio, nel testo manzoniano ci sono delle parole come "superna" oppure delle inversioni - si dice: "del sangue conservatrice" invece che "conservatrice del sangue"- ma anche nel proverbio rimato troviamo per esempio delle parole in disuso come "dì", oppure delle abbreviazioni o troncature come "april" invece di "aprile".

Ecco, è a questo punto che viene avanti il secondo significato correntemente attribuito alla parola "poesia". Nel primo caso c’è un oggetto sublime; si tratta niente di meno che della discesa dello Spirito Santo e poi soprattutto non ha nessun senso isolare questi primi versi che ho letto da quelli che seguono; mentre nella seconda è una canzoncina puerile con dei fini di sostegno alla memoria. Ora qui dobbiamo decidere: ci occupiamo della poesia come oggetto di bellezza, di commozione o di espressione o ci occupiamo piuttosto della poesia come oggetto verbale, ossia come un tipo particolare di comunicazione, sospendendo per il momento ogni giudizio di valore ?


2 Allora approfondiamo questo aspetto della poesia proprio come "oggetto" verbale. Che cosa è che chiamiamo una "poesia"?

Certamente oggi - non due o tremila anni fa quando, probabilmente, la questione sarebbe stata diversa - quando noi diciamo "una poesia" intendiamo una composizione, un testo non lungo dove sia possibile identificare un certo sistema che è indicato graficamente dagli "a capo" e poi anche da un congegno di pause maggiori, quelle che separano una unità ritmica da un’altra. Ebbene, queste possono corrispondere o non corrispondere alle intonazioni cosiddette naturali e in questo caso comunque le chiamamo "verso".

Ora, se io parlando o scrivendo faccio tornare ad intervalli uguali certi accenti e certi accenti tonici, si forma, come si suol dire, un’attesa tecnica. Prendiamo la comunicazione normale: "se mi dai quella mezza matita che è posata vicino al tuo libro, ti sarò molto grato, mio caro, e al più presto te la renderò". Questo enunciato è un gruppo di quattro decasillabi e chi ascolta o legge si aspetta che il discorso continui ripetendo lo stesso schema ritmico. Molto spesso dei prosatori fanno uso di questi schemi ritmici con effetti vari.

Nel Cinquecento un retore veronese o padovano, Sperone Speroni, iniziava così una sua orazione: "Noi Padovani generalmente siamo allegrissimi non solamente per l’onor nostro particolare e per la pubblica utilità, onde noi siamo non poca parte, ma per l’onore di tutto il popolo": era una serie di quinari con i quali egli credeva di dare sostenutezza al suo discorso. In epoca contemporanea è possibile vedere come certi scrittori, per esempio il bravissimo Silvio D’Arzi, abbia costruito un suo racconto in novenari abbastanza nascosti per cui il lettore non se ne accorge ma, insensibilmente, gli viene suggerito un ritmo. Questo è un procedimento che naturalmente i grandi prosatori hanno in qualche modo sempre seguito, e che spiega perché si sia potuto parlare di un "ron ron" per esempio per la prosa di Flaubert. Ognuno avverte che ci sono degli elementi di scansione anche nelle scritture in prosa.

Ora, se a questo punto alle ricorrenze degli accenti si aggiungono le ricorrenze sonore, certi nessi vocalici o consonantici che vengono chiamati nel linguaggio della retorica le allitterazioni, le omofonie, o le rime, l’attesa dell’ascoltatore e del lettore si farà sempre più forte, sia che essa sia adempiuta, sia che essa resti delusa. Prendiamo un esempio del Metastasio: "Se a ciascun l’interno affanno si vedesse in fronte scritto, quanto quei che invidia fanno ci farebbero pietà". Sono quattro gruppi di otto sillabe legate anche da rime, ma se io invece di "pietà" scrivessi "commozione" che cosa verrebbe? Verrebbe: "se a ciascun l’interno affanno si vedesse in fronte scritto, quanto quei che invidia fanno ci farebbero commozione": a questo punto avremmo una delusione nella nostra attesa. Però, attenzione: le cose possono diventare più complesse e due delusioni messe ad adeguata distanza e rimate tra loro non ci deludono più. Per esempio in questi versi sempre del Metastasio: "Sogna il guerrier le schiere/ le selve il cacciator/ e sogna il pescator/ le reti e l’amo./ Sopito in dolce oblio/ sogno pur io così/ colei che tutto il dì/ sospiro e chiamo".


3 Oggi è quasi naturale identificare la poesia con la poesia lirica, intendendo una espressione di sentimenti soggettivi, mentre noi sappiamo che la poesia come momento del linguaggio e dell’esperienza può trovarsi naturalmente nell’epica come nella drammatica, nella narrativa e persino anche negli scritti critici, nei diari, negli scritti epistolari, memorialistici. È così professor Fortini?

Certamente, è così. Però si tratta di sapere se la comunicazione è orientata all’informazione, alla narrazione, alla recitazione: se il soggetto che parla si ritira o no sul fondo; allora, in questo caso, potremmo parlare di "racconto", di "favola", di "leggenda", di "scena teatrale", di "monologo". Facciamo un esempio. Se io dico: "Fuggii da casa col circo/ perché mi ero innamorato di madamoiselle Estralada/ la domatrice dei leoni" oppure "Il maestro ci aveva fatto ad alta voce, e come allora usava, la lettura: 'Immagina un bambino che va solo in America, solo a trovare sua madre'"- e se io non so di dove vengano quelle parole e chi le sta pronunciando posso pensare che si tratti di due passi di conversazione di un uso televisivo, oppure di un appunto di diario. Se invece io so che le prime parole che ho ricordato sono l’inizio di una delle più di duecentotrenta immaginarie lapidi funerarie in un immaginario cimitero americano, quello di Spoon River, pubblicate nel 1915 dal poeta americano Edgar Lee Masters e che quelle parole si suppongono pronunciate da un defunto, ecco che allora gli elementi fonici e ritmici, le figure di discorso, la ripetizione, che erano servite per definire come poesia i versi della Pentecoste manzoniana o quelle del proverbio sui mesi, perdono una parte della loro importanza e sono altri elementi invece esterni al testo in quanto tale a intervenire. Per esempio il pathos che è connesso con la voce di un morto fra i tanti di un villaggio, quindi col mito e col brivido del morto vivente: siamo quindi al confine fra la lirica e il monologo.

L’altro esempio fatto viene da una poesia di Umberto Saba. È necessario mettere in evidenza che quelle righe che ci sembravano prosa: "il maestro ci aveva fatto ad alta voce, come allora usava, la lettura: 'Immagina un bambino che va solo in America a trovare sua madre'" invece sono organizzati in tradizionali endecasillabi, di cui è fatta la stragrande maggioranza della poesia italiana lungo otto secoli, e che quindi è come se, per dir così, ci venisse consigliato non di leggere "immagina un bambino che va solo in America" quale sarebbe l’intonazione colloquiale, bensì "Immagina - pausa forte, a capo - un bambino che va solo in America".

Insomma noi oggi abbiamo la tendenza a sopravvalutare come poesia l’espressione dei sentimenti soggettivi, invece anche quella poesia moderna, come è il caso della poesia di Saba, che sembra essere un moto immediato dell’animo, è una intenzionale e organizzata finzione.


4 Allora la definizione di "lirica" come "poesia dell’espressione soggettiva" non è più vera?

Certo che è vera. Però bisogna ricordarsi che, oggi, la poesia è capace di liricizzare, per così dire, il materiale meno soggettivo, meno emotivo. Ci sono degli autori delle avanguardie letterarie, soprattutto del periodo surrealista, che inserivano nei loro libri di versi interi passi di testi pubblicitari o frammenti degli orari ferroviari o passi dell’elenco del telefono, così come c’erano degli artisti che esponevano una ruota di bicicletta o una sedia contando sull’effetto di "spaesamento".

Ora lo spaesamento effettivamente fa di un testo un altro testo, spesso può essere anche solo la sede editoriale quella che assegna a un determinato messaggio un uso non pratico. Quando pensiamo per esempio a certe celebri poesie di Ungaretti molto brevi, dobbiamo renderci conto che non si tratta soltanto di mettere in evidenza la loro ritmicità che suggerisce una lettura solenne e attonita, da oracolo o da voce sovraumana: questa non viene solo dalle indicazioni per la scansione che sono date dagli a capo, dall’isolamento delle parole, ma anche da tutto il più vasto bianco della pagina e, per dirla tutta, anche dalla collocazione in una serie che ci permette di indentificare questa come poesia. Come se si accendesse un segnale preventivo, una luce rossa che annuncia "qui poesia" e noi siamo quindi disposti a non trovare in questo testo un’informazione ferroviaria ma a interpretare quest’ultima come un nesso fonico o simbolico, cioè una poesia.


5 A questo punto, ha ancora senso distinguere tra poesia lirica e poesia non-lirica?

Certo,il nostro secolo ha una sorta di "imperialismo" della lirica per cui, tra l’altro, Benedetto Croce aveva sostenuto che ogni poesia è poesia lirica. Ma da qualche decennio c’è un rigetto di questa nozione di lirica, in quanto si parla di poesia come di testi autosufficienti e intimamente coerenti all’interno dei quali prevale la funzione poetica.

Io vorrei prendere l’esempio di una brevissima poesia di Brecht che ha anch’essa un’epigrafe. "Qui giace/ Karl Liebknecht/ che combatté contro la guerra. Quando fu assassinato/ la nostra città c’era ancora". Si noti che di fronte a un testo come questo viene a mancare quasi del tutto l’idea corrente che la poesia sia intraducibile perché il baricentro, il peso di questi versi non è interno ai versi stessi, è esterno: consiste nel sapere dei destinatari, dei lettori. Per esempio se i lettori non sanno che questo Liebknecht è un rivoluzionario socialista tedesco che è stato ucciso da militari della destra nazionalista tedesca alla fine del 1918, insieme a Rosa Luxemburg; e se non sanno che "la nostra città" di cui si parla è Berlino e che la distruzione di questa città nella seconda guerra mondiale è avvenuta ventisette anni dopo la morte di Liebknecht, questa poesia ci diventa incomprensibile. Tutte le nozioni storiche, morali e politiche che premono intorno a quelle quindici parole - "Qui giace Karl Liebknecht che combatté contro la Guerra, quando fu assassinato la nostra città c’era ancora" - premono intorno a queste parole non diversamente da quanto faccia per esempio la teologia intorno alla poesia cristiana o la mitologia classica per poter capire il canto di Ulisse di Dante. La "guerra" che ha distrutto la "nostra città" di cui si parla nella poesia non è quella contro cui si batté Liebknecht però il suo assassinio è stato un passo verso quella distruzione; ma questa non sarebbe ancora una poesia, la si avverte, anzi essa diventa una poesia, se si capisce che il rapporto di causa e di effetto per la morte del dirigente rivoluzionario e pacifista e la distruzione di un’intera capitale crea un personaggio, non quello dell’assassinato, il personaggio di colui che parla. Quest’ultimo passa da un pensiero all’altro, "qui giace Liebkneicht che combatté contro la guerra - pausa - quando fu assassinato la nostra città c’era ancora": c’è lo stupore e la tristezza di questa scoperta e di questa connessione tra epoche diverse. Chi parla non è l’autore Brecht, è un suo personaggio, il visitatore della tomba, il berlinese che fra sé e sé ripercorre sinteticamente un cinquantennio di storia. È questa la forza poetica dell’epigrafe. Naturalmente poi non conta molto che la città sia stata ricostruita, anche Troia fu ricostruita: dalla distruzione di Troia a quella di Berlino l’umanità ormai in proposito ha una lunga esperienza.


6 Ma allora a chi si rivolge la poesia?

Ecco, qui bisognerebbe ricordare una cosa che è stata detta da un famoso critico canadese in modo paradossale ma anche in modo molto serio, che definiva la poesia lirica come quel genere di poesia nella quale l’autore "finge" l’assenza di pubblico, finge di parlare o di scrivere per se o tutt'al più per un "tu" o per un "voi", come destinatari immaginari o reali, come destinatari di una epistola, come ascoltatori di una orazione. Insomma non c’è poesia lirica che non implichi la costituzione di una persona almeno a cominciare da quella che parla. Ora questa persona però non è intesa nel senso anagrafico; è colui che lo scrittore o il parlante finge sia l’autore. Insomma bisogna cercare di evitare l’inganno della identificazione che è così corrente scolasticamente. Quante volte noi diciamo: "allora Dante dice a Virgilio". No, Dante non dice nulla a Virgilio. Dante dice che un personaggio che egli chiama "Dante" si rivolge a un personaggio che egli dice "Virgilio". Quando noi diciamo: "Petrarca dice che..." o "Leopardi lamenta che...", bisognerebbe dire: "Il personaggio che il poeta Petrarca ha scelto come enunciatore suo, come suo portavoce o altro che sia e di cui ha costruito la figura dice che la signora Laura, ecc.". Oppure Leopardi ha costruito una o più figure di personaggi eroici infelici ai quali fa pronunciare la propria composizione; queste figure possono avere un nome reale, storico - per esempio Saffo o Bruto - possono essere dei personaggi immaginari, possono essere il "pastore errante dell’Asia", o possono altre volte dire "io": ma in questo senso si equivalgono.


7 È difficile pensare a un giovane adolescente studente che non si sia cimentato, perlomeno una volta, con la scrittura di una poesia. Ecco, perché in ogni età, cultura e condizione si scrivono versi?

Effettivamente con la successione delle tendenze letterarie e delle tendenze culturali o, diciamo ideologiche, degli ultimi due secoli a partire pressappoco dall’età della Rivoluzione francese, la scrittura in generale e la scrittura poetica in particolare sono diventate uno strumento di introspezione, sono diventate una via alla ricerca della propria identità. Insomma ogni scrittura che non abbia delle finalità puramente pratiche, sembra guidare alla scoperta di se stessi: allora scrivere versi diventa, in misura minore, anche tenere un diario o scrivere delle lettere reali o immaginarie. Scrivere versi diventa un modo rapido, un modo economico e, ahimé, un modo illusorio di risparmiarsi una crescita psicologica o un trattamento psicanalitico. Per esempio è diffusa l’idea che le scritture poetiche private siano alcunché di gratuito che uno può fare o può non fare, invece ci si accorge che questa è la conseguenza del fatto che le classi dominanti a partire dall’inizio dell’Ottocento avevano investito la categoria degli intellettuali di quelle funzioni che erano state nei secoli precedenti propri della casta sacerdotale, e esaltarono all’interno di questi intellettuali i letterati e i poeti come dei portatori di qualcosa di particolarmente rilevante, libero, gratuito, sublime e hanno continuato a mantenere questa sorta di illusione attraverso l’educazione di massa, attraverso i media audiovisivi, nonostante che appunto l’educazione di massa e i media audiovisivi, l’industria culturale dei nostri tempi, abbiano tolto ogni mandato sociale, ogni compito collettivo al letterato. So benissimo che mi si dirà che questo non è del tutto vero. Certo, fittiziamente vengono mantenuti, ma vengono mantenuti con una funzione analoga a quella che hanno i corazzieri al Quirinale. Il poeta si lascia adulare grazie ai suoi supposti rapporti col mondo dell’invisibile e dell’inconscio, come vedremo supposti, ma non del tutto falsi. Insomma per risolvere dei problemi affettivi, morali, psicologici, religiosi, metafisici è meglio non fare assegnamento sulla scrittura dei versi. Se si scrivono o se si leggono dei versi senza qualche coscienza critica o storica della tradizione letteraria per un verso e della loro destinazione, della loro collocazione nella realtà di oggi, si fa una strada falsa, non dimenticando che una letteratura di consumo di apparente immediatezza esiste ed è quella che troviamo per esempio in molte forme pubblicitarie, nell’uso della parola nei testi pubblicitari o nelle canzoni di consumo. Anzi è molto educativo, è molto importante leggere e considerare i testi delle canzoni per vedere a quali antecedenti di metro, di linguaggio, di argomento, di situazioni essi si richiamino. Per chi conosca questo settore della nostra cultura è facile vedere dietro le parole dei cantautori più moderni come si ritrovano, come si leggono in filigrana cose che fanno parte della tradizione letteraria recente o remota. Leopardi, per esempio, pensava, sognava, immaginava che in ere remote c’era stata una vicinanza della lirica con la poesia cosiddetta popolare e diceva: "la poesia è l’espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito nell’uomo" e dispiace dirgli che si sbagliava, si sbagliava moltissimo e lo dimostrava lui stesso con l’altissimo livello di autocontrollo critico che poneva nella sua opera di poeta, e quindi anche nel continuo ricorso che egli faceva alla tradizione letteraria. Insomma l’arte della lirica è cosciente di se stessa, è bisognosa di un’atteggiamento critico-culturale per non essere ignara del deposito di lingua e di forme alle quali attinge necessariamente.


8 Può provare a spiegarci qual è la differenza tra un linguaggio normale, il linguaggio della comunicazione, da quello della persuasione oratoria, oppure da quello poetico?

Innanzitutto bisogna dire che il linguaggio poetico è uno spazio chiuso su se stesso nelle singole opere, è una identità, un perenne ritorno di elementi, in esso tendono a prevalere la simmetria, l’armonia o al contrario l’asimmetria e la disarmonia che poi si ricompongono in altra simmetria; è un gioco calcolato di elementi variabili e di elementi invarianti. Di qui abbiamo la presenza costante della ripetizione, del raddoppiamento, del ritorno, del parallelismo che è uno degli elementi fondamentali della tradizione poetica dai tempi più remoti fino ad oggi e naturalmente poi c’è tutta una serie di livelli che va dalle scelte lessicali, alle figure foniche e ritmiche, allo svolgimento tematico, all’argomento, alle riferenze ideologiche che vi stanno intorno, etc. Ora, ognuno di questi livelli interferisce con ognuno degli altri e con tutti gli altri. Il lettore tende a commutare la propria attenzione ora sull’uno ora sull’altro. Una poesia breve, di versi molto ritmati, molto connessi da assonanze o da omofonie presenta innanzitutto una dimensione fonica o ritmica. Ecco per esempio alcuni versi di Marino Moretti: "Lenta lenta lenta va/ nei canali l’acqua verde/ e co’ suoi cigni si perde/ nella grigia immensità/ Oh dolcezza del mio cuore/ dei miei sensi un poco stanchi!/ Vanno i cigni i cigni bianchi/ sullo specchio dell’amore". In una poesia senza rime, con ritmi meno insistiti, con pause ritmiche meno folte tenderà, invece, a diventare importante il tema, l’argomento, la vicenda. Per esempio: "Vent’anni è stato in giro per il mondo./ Se ne andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne/ e lo dissero morto. Sentii poi parlarne da donne, come in favola, talvolta/ ma gli uomini più gravi lo scordarono, ecc.". Naturalmente questi versi di Pavese hanno anch’essi un ritmo. Succede, tuttavia, che chi ascolta i versi di Pavese fa attenzione soprattutto al racconto della vicenda e dopo avverte che c’è una cadenza da cantastorie, da discendente di Omero. Invece chi ascolta i versi di Moretti ascolta prima di tutto la melodia e solo ad un secondo livello si accorge o può capire che stiamo parlando di un canale olandese. Insomma, tutta la poesia ha con se dei fini di persuasione, di esclamazione, di informazione e di emozione; afferma qualcosa, lo nega, lo chiama, ragiona ecc. Tutto l’intero discorso poetico è disposto in modo tale da evocare una separatezza da quei fini, in modo da mostrare una seconda finalità, è disposto in modo da costringere il lettore, l’ascoltatore ad avvertire una quantità di sintomi che negli altri discorsi non ci sono o che non sarebbero così importanti, come ad esempio la quantità delle figure retoriche o del discorso, gli effetti fonici, le scelte lessicali e così via, in rapporto con strutture che apparentemente sono simili a quelle che appaiono nella comunicazione non poetica. In un passo del vecchio Goethe si legge: "quando si hanno delle cose da dire si dicono in prosa, è quando non si ha nulla da dire che si scrivono poesie", il che è abbastanza sorprendente considerando che chi diceva queste cose aveva scritto credo una massa di poesie sterminata per tutta la sua vita. E tuttavia c’era qualcosa di vero: quando non si ha nulla da dire nel senso di comunicazione, quale può essere la comunicazione prosastica, allora si adopera quel mezzo di comunicazione che dice altro da quello che direbbe la prosa. La poesia non vuole comandare, non vuole persuadere, non vuole indurre, non vuole dimostrare. Si impone con l’autorità dell’ istituzione letteraria che essa evoca o rivive, si impone con l’adempimento di un rituale, di un cerimoniale. Insomma, anche la poesia più apparentemente privata chiama in vita una parte della coscienza collettiva, allude al valore non individuale del linguaggio, produce un senso.


9 Ma se allora il dire della poesia non è un dire strumentale, un dire fattuale o positivo , che cosa dice la poesia?

La poesia parla di qualcosa e nello stesso tempo parla di se stessa. La voce della poesia dice questo o quello, ma lo dice in modo che un effetto d’eco ci ricorda sempre che non la si può prendere in parola. Naturalmente questo irrita coloro che vogliono opinioni, vogliono scelte, sentimenti immediati. Ebbene questa sua ambiguità fondamentale è la sua lezione, una lezione insostituibile. Insomma, nella poesia ci si trova di tutto ma lo si trova ad una distanza tale che ricorda continuamente la necessità di prendere le distanze. Qualcuno alla fine del Settecento, scrisse che la poesia era un sogno fatto in presenza della ragione; forse sarebbe più esatto dire invece che la poesia è un ragionamento fatto in presenza di un sogno, cioè un discorso che in apparenza è un discorso come un altro cioè un discorso di amore, di dolore, di descrizione, di esortazione, di sapere, di sapienza che è fatto sotto lo sguardo di un fantasma sotto uno sguardo che tutto tramuta, tutto apparentemente lasciando intatto come accade appunto nei sogni.


10 Se il dire della poesia non è un dire strumentale dobbiamo immaginare che la poesia non ha nessuna intenzione di agire sulla realtà?

Qui si tocca un punto molto importante e delicato. C’è stato per esempio Adorno che ha scritto che la specificazione formale di una poesia lirica si pone di per sé come antagonista al mondo storico-sociale che le sta intorno e ha affermato che quando all’interno di un testo le tensioni raggiungono un grado elevato di energia e di vitalità, la presenza dell’oggetto estetico la "poesia" nega e avversa e contesta tutto quello che è accettato nel quotidiano ripetuto. È interessante che Adorno prendeva come esempio una breve poesia di un autore romantico tedesco Moerike, che era una descrizione di un crepuscolo in una cittadina tedesca primaverile, quindi qualcosa che apparentemente non aveva nessun contenuto eversivo, né rivoluzionario. Ebbene - diceva Adorno - è proprio quella immagine che noi potremmo chiamare pascoliana per intenderci, che è un suggerimento di speranza di felicità che può avere nell’animo di chi ne partecipa un valore dirompente; è una promessa di felicità che tende a fare avvertire la insopportabilità del mondo schiavistico e volgare nel quale noi viviamo. Spesso - dice Adorno - ciò che apparentemente sembra il più lontano, il più remoto dall’appello all’azione e all’immediatezza, ha la funzione di mostrare l'insostenibilità del mondo che ci sta intorno, la stessa funzione che ha il bicchiere di grappa dato al soldato che deve uscire dalla trincea per affrontare il fuoco nemico. Certo aveva ragione quel grande scrittore e poeta cinese che negli anni Trenta circa diceva che una canzone battagliera anche di pessima qualità, come possono essere gli inni patriottici, serve benissimo per incitare gli animi, per commuoverli, ma che per battere il nemico - Lu Sun parlava degli ufficiali di artiglieria - è meglio usare i cannoni. E tuttavia esistono opere poetiche apparentemente lontanissime dall’impegno che hanno avuto la funzione di indirizzare gli animi ad azioni generose, a scelte moralmente ricche come è il caso per esempio della poesia di Leopardi, cosa che il nostro De Sanctis aveva visto benissimo. Appunto a questo proposito sarebbe curioso ricordare un dialogo fra il rivoluzionario russo Alexander Herzen e Giuseppe Mazzini a Londra poco dopo la caduta della Repubblica Romana quando a Mazzini, che obbietta alla poesia di Leopardi di non esssere sufficientemente animatrice di generosi sentimenti, Herzen invece risponde dimostrando che appunto è proprio questa sua apparente separatezza morale quella che ne fa la forza . Ne segue una scena molto bella in cui Aurelio Saffi, combattente della Repubblica Romana del 1849 e compagno di Mazzini, va con Herzen in una misera osteria londinese di profughi e di esuli a leggere le poesie di Leopardi. Se noi teniamo presente che il messaggio che in una poesia si indirizza al lettore è comunicazione di certi particolari contenuti, ma, nello stesso tempo è anche comunicazione di "altro" attraverso per esempio l’inconsueta inversione -"caro mi fu"- l’aggettivo antiquato, latineggiante "ermo", l’anticipazione, anch’essa latineggiante "ermo colle" invece che "colle ermo", allora non solo questo ma tutto il fatto che quest’intera affermazione è contenuta in una sequenza ritmica cui il nostro orecchio è abituato, il verso di undici sillabe, con una sosta sulla sesta sillaba "sempre caro mi fu/ questo ermo colle". Questi elementi intervengono sul contenuto, sull’informazione che ci viene data; non la sopprime ma la muta: chi ascolta o legge non può non avvertire che gli vengono inviate anche altre informazioni.


11 Nessuna interpretazione esaurisce la poesia, ma nessuna poesia può fare a meno dell’interpretazione. Condivide questa affermazione?

Direi senz'altro di sì. Leggere una poesia, anche fra sé e sé o ad alta voce, è eseguirla, interpretarla e quindi anche modificarla, ricrearla. In una certa misura criticarla. Quando si dice che un testo poetico non è interpretabile solo a partire da se stesso si allude alla sua situazione nella cultura e nella storia. Chiunque legga una poesia, indipendentemente dal suo grado di coscienza o di conoscenza culturale rapporta le parole a una sfera di competenza e di risonanza che non è soltanto linguistica ma che è di tutta la sua mente, di tutta la sua coscienza, di tutto il suo inconscio. Anzi questo avviene in un modo diverso, e possiamo dire, per certi aspetti, più profondo o più coinvolgente di quanto non sia per altre forme di comunicazione linguistica proprio perché è ambigua, proprio perché ha un’apparenza informativa, comunicativa e persuasiva che viene modulata, per dir così, in una forma. Questa forma diventa deformatrice del messaggio e lo rende risonante come avviene nel sogno, in cui certe figure, certi personaggi sono dotati di doppie identità. Questo potere è stato attribuito alla poesia da tutte le più remote e diverse tradizioni della poesia e tradizioni culturali, e questo spiega anche tra l’altro l’equivoco continuo che c’è tra la sacralità di tipo religioso e la funzione del poeta. L’idea che il poeta sia ispirato dalle muse o dall’inconscio o da qualche demone segreto o dalla divinità è qualcosa che effettivamente accompagna direi tutte le tradizioni perché vi è stata un’epoca nella quale la funzione della poesia era quella di comunicare con una zona oscura, esterna alla cerchia illuminata dal fuoco della tribù, nella quale e dalla quale lo sciamano, il sacerdote e il poeta, il cantore facevano pervenire, dicevano che pervenivano i loro messaggi. Spesso mi è occorso di ricordare, in queste circostanze, il passo assolutamente straordinario della Odissea quando Ulisse ha compiuto la sua vendetta sui Proci, ha compiuto la terribile strage a colpi di frecce e tra i morti e gli agonizzanti si fa avanti il cantore, colui che in sostanza cantava narrazioni epico-liriche alla mensa dei Proci; gli si fa incontro, gli abbraccia le ginocchia, lo scongiura di non ucciderlo e lo scongiura di non ucciderlo dicendo: "sì, è vero io ho cantato per questi usurpatori ma l’ho fatto perché vi ero costretto e d’altronde sappi che io sono prontissimo a cantare anche per te; ma astieniti dal sangue di colui che in qualche modo è consacrato ad Apollo e che è quindi un personaggio sacro". Qui troviamo nello stesso tempo affermata l’elemento di diciamo di grandezza e di miseria della tradizione letteraria, per cui per un verso c’è una sorta di invisibile tonsura sacra sul poeta, e nello stesso tempo c’è l’abiezione di colui che vive mendicando alla tavola dei padroni e dei potenti. Naturalmente Ulisse non uccide il cantore e da quel momento il destino del poeta e del letterato nella cultura occidentale è segnato.


12 Se c’è una contiguità della poesia con la verità e con la sacralità e se nello stesso tempo si afferma che la poesia è portatrice di verità, qual è la differenza a questo punto tra la poesia e la filosofia, la poesia e la scienza?

Le verità teologiche, per esempio di Alighieri, le verità filosofiche e antropologiche di Leopardi, la visione dei rapporti umani quali si rivelano per esempio nella poesia di Giovanni Pascoli o in quella di Vittorio Sereni, non sono né da prendere letteralmente e quindi da misurare nella loro verità o parziale o integrale o falsità, né da considerare senza importanza. Ricordiamo che Croce, per esempio, la struttura teologica della Divina Commedia la considerava non poetica, pressoché inutile al suo senso poetico. Noi sappiamo assolutamente che non è così; questo non significa che noi dobbiamo necessariamente condividere fino in fondo il pensiero cattolico dell’Alighieri. Un celebre studioso americano, Singleton diceva: "il lettore non dimentichi mai che il poeta Dante Alighieri è un poeta cattolico", ed effettivamente l’aspetto in questo caso teologico, di verità teologica, come anche le affermazioni di verità materialistiche in Leopardi, non sono elementi soltanto accessori, sono elementi integranti e integrali della poesia. Questi elementi sono inseparabili dalla rappresentazione, non sono delle verità vestite con un abito diverso, sono inseparabili dalla rappresentazione di questa o di quella situazione immaginaria che si tratti di parlare dell’oltretomba o della sera di sabato in un villaggio italiano, o del raccapriccio di morti in una valle toscana come nel tardo Pascoli o del brivido della trasformazione sociale della morte individuale nella poesia lombarda di Vittorio Sereni. Tutto questo non ci induce a cogliere dei letterari enunciati di verità: se io voglio cercare questi letterali enunciati di verità li troverò piuttosto, per esempio, nelle pagine dello Zibaldone leopardiano, nel De vulgaria eloquaentia o nel Convivio di Dante, o nelle prose di Pascoli o di Sereni che non nei versi; tuttavia mentre sarebbe assolutamente assurdo di prendere alla lettera le affermazioni teoriche o filosofiche di Dante e di Leopardi, il fatto che non si condivida, come ho detto, le idee di Dante sulla Trinità o sulla istituzione del Purgatorio né quelle del Leopardi sul pessimismo cosmico, non vuol dire che debbano essere considerati dei superati, degli inattuali, degli illusi perché quello che essi ci dicono a proposito di cose che noi possiamo considerare superate o false è qualche cosa di non superato e di vero.



ABSTRACT

Dopo aver isolato all'interno dell'universale linguaggio umano la "funzione poetica", cioè quel tipo di comunicazione che attira l'attenzione su se stessa, Franco Fortini distingue due accezioni del termine "poesia": il primo indica una particolare struttura formale del discorso, in cui prevalgono precise regole ritmiche, metriche ed acustiche; il secondo implica un giudizio di valore sul contenuto di un discorso dotato di bellezza, di capacità evocativa e di suggestione (1). Secondo Fortini per poesia si può intendere una composizione che determina un'attesa tecnica di un certo schema ritmico (allitterazioni,omofonie, rime) e che si può rintracciare anche in grandi prosatori come Flaubert (2). Contro la tendenza crociana a sopravalutare la poesia lirica come espressione del sentimento soggettivo, Fortini porta l'esempio del poeta americano Edgar Lee Masters e di Umberto Saba, che hanno scritto componimenti apparentemente prosaici che attingono liricità da elementi esterni al testo in quanto tale (3). Successivamente Fortini commenta la definizione di "lirica" come "poesia" dell'espressione (4) e per distinguere la poesia lirica dalla poesia non-lirica ricorda un'epigrafe di Bertolt Brecht (5). Secondo Fortini, poi, nella poesia avviene una finta comunicazione che parte da un soggetto che non va identificato anagraficamente con l'io poetante, ma con colui che l'autore finge essere il personaggio poetante, come se Dante dicesse che un personaggio che chiama "Dante" si rivolge a un personaggio che chiama "Virgilio" (6). Di fronte al fenomeno molto diffuso, soprattutto in età adolescenziale, della scrittura come strumento di introspezione e di ricerca terapeutica della propria identità, Fortini esprime delle perplessità e delle riserve, esprimendo un severo giudizio critico sull'attuale industria culturale e sulla letteratura di facile consumo, priva di un solido autocontrollo critico e di un riferimento sicuro alla tradizione letteraria (7). La poesia, dice Fortini, può privilegiare la dimensione fonico-acustica e ritmica o può richiamare l'attenzione sul "pathos" del contenuto: essa è un discorso polisemico e a vari livelli, in cui la persuasione, l'informazione, il riferimento ideologico, l'evocazione, il ragionamento, lo svolgimento tematico interagiscono vicendevolmente, portando il lettore a scegliere uno di questi codici, costruendo il "senso" poetico (8). La poesia parla di qualcosa e parla di se stessa: in questa sua ambiguità, secondo Fortini, sta la sua originalità (9). Questo non significa, però, che il discorso poetico non abbia efficacia pratica: Adorno, anzi, rintraccia una carica di impegno sociale e politico proprio nelle poesie meno eversive, perchè capaci di evocare un mondo ed una promesssa di felicità, facendo avvertire l'insopportabilità della quotidianità. Fortini, per questo, fa una sottile esegesi dell' Infinito"di Leopardi, la cui poesie Mazzini giudicava non sufficientemente suscitatrici di slancio civile, mentre Saffi le leggeva ai profughi italiani a Londra (10-11). Riguardo al rapporto tra verità e poesia, ideologia ed arte, Fortini respinge la posizione di Croce che, ad esempio, riteneva la struttura teologica della Divina Commedia estranea alla sostanza poetica dell'opera e ritiene che la poesia possa formulare anche enunciati teorici e filosofici che fanno parte integrante del discorso poetico (12).

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- Intervista

Andrea Zanzotto

Proponiamo, per i novant’anni di Andrea Zanzotto, la bella intervista rilasciata a Vera Lúcia de Oliveira a Perugia, nel 1993, e pubblicata per la prima volta nella rivista brasiliana Insieme, dell’Associazione di Professori di Italiano di San Paolo (Brasile), e poi anche nel sito www.veraluciadeoliveira.it, curato da Claudio Maccherani. Quasi due decenni sono passati e questa intervista mantiene tutta la sua pregnanza e attualità, dovute alla grande forza di vita e all’intensità di uno dei più grandi poeti italiani viventi.

 

 

INTERVISTA AD ANDREA ZANZOTTO

 

Vera Lúcia de Oliveira

 

Spesso i poeti hanno rapporti difficili con la propria città, la propria terra, un rapporto di amore-odio intenso e sofferto. Lei, che legami ha con Pieve di Soligo?

 

È un rapporto molto ambiguo, perché io sono nato in questo paesello prealpino veneto, sono sempre vissuto qui, mi sono spostato poco e sempre meno volentieri, con il passare degli anni. Questo fondo di angolo nascosto mi dava la possibilità di restare in una specie di rifugio "dalla storia". Era un rifugio non certo del tutto sotterraneo, ma formato di cunicoli che potevano condurre all'aperto o al chiuso a seconda delle esigenze di riparo, entro la mobilità onirica di quel caos che tutti abbiamo in noi.

Lo stare, il dimorare, l'immorare in un luogo unico, lo vedo d'altronde come semplice residuo di quella realtà contadina nella quale pochissimi, a meno che non fossero costretti da necessità di migrazione o fame o guerra, si muovevano. Si andava a fare il viaggio di nozze (qui da noi) magari fino a Treviso o a Venezia, e ciò quando già si era abbastanza in su nella gerarchia sociale.

Credo di aver ereditato certi pattern comportamentali da questo mondo contadino perché non sento un gran desiderio di muovermi, fermo restando che potrei amare svisceratamente qualunque luogo del mondo, perché la natura è sempre ricca di meraviglie, di paesi e di paesaggi capaci di ogni diversa seduzione, e di luoghi degni di viverci, e di "essere sognati".

Ma, penso, il rapporto con il luogo e con la terra deve essere feroce ed esclusivo, come un innamoramento, altrimenti non possiamo capire niente né di noi, né della terra né dell'ambiente, né dell'universo. Ho già avuto modo di parlare di alienazione turistica. C'é gente che viene portata di qua e di là come sacchi di patate, mentre occorrerebbe quel voyage o grand tour che era possibile fino a tempi abbastanza recenti, una grande avventura di formazione spirituale che durava mesi o anni (però soltanto per pochi privilegiati).

Un'altra possibilità è il piccolo voyage, o meglio trip (e talvolta grande trip) per il quale non ho bisogno di incentivazioni, perché posso compierlo in continuazione. Posso ripercorrere all'infinito le stesse strade, gli stessi minimi itinerari che, pur in perenne mutazione, nella loro apparente stabilità testimoniano i misteri della continua metamorfosi della natura. Devo aggiungere che per me contò sempre moltissimo la vicinanza di Venezia, dove "tutti" finiscono per arrivare, rendendomi possibile i più straordinari incontri di letterati e artisti di tutto il mondo.

Ma poi, anche questo rapporto con la propria terra, come tutti gli amori, è destinato a finire: ad un certo momento ci si sente lontani da tutto. Alle volte penso che abbandonerei volentieri il mio paese, anche perché più si diventa vecchi più si vedono scomparire attorno a noi i compagni di vita. Si diventa un po' sconosciuti, e io per parte mia comincio già a conoscere poco i giovani del paese. Continuo ad andare di tanto in tanto nelle scuole, però ho in prevalenza rapporti con quei giovani e con quegli insegnanti che vengono a cercarmi perché hanno vivi interessi per la letteratura e la scuola.

 

Come è stata la sua infanzia? È stata felice? E quanto questo suo attaccamento e amore per la natura hanno inciso nel suo modo di essere e nel suo fare poesia?

 

Già nella lontana infanzia, mi fu duro avvertire la situazione anomala della mia famiglia, in lotta con la precarietà. Si era reso difficilissimo il lavoro a mio padre per la sua opposizione al regime. Poteva mancare da un giorno all'altro il sostentamento. Si apparteneva a una fascia piccolo-borghese ma quasi di miseria. Mio padre ha spesso dovuto cercare lavoro all'estero o in zone difficili dell'Italia, come l'alto Cadore. Nel nostro paese pochi avevano votato contro il fascio nel plebiscito del 1929 e, fra questi, c'era mio padre, cosa che tutti sapevano. Ricordo che la maestra a scuola ci aveva presentato sulla lavagna la scheda elettorale col "sì" e tutti i bambini dovevano ricopiarla. Io invece, memore degli insegnamenti familiari, ho scritto "no". la maestra si è precipitata a distruggere le "prove" perché non venisse compromessa la mia famiglia. Nei paesi infatti, fortunatamente, c'era una specie di catena di Sant'Antonio di solidarietà che attutiva il peggio.

Mio padre era insegnante di disegno, artista appassionato. Spesso egli usciva a dipingere en plein air e io non di rado lo accompagnavo, fin da piccolo. Mi sentivo esaltato, ma anche un po' sopraffatto dalla sua bravura (e forse ciò mi ha allontanato dal dipingere). Ma questa continua sollecitazione mi aveva creato un senso di omogeneità tra arte e natura. La natura era bella, mio padre la ritraeva, la riportava in casa; era tutto un pullulare di fattori di alta suggestione. Ricordo soprattutto colori, suoni, i paesaggi che lui dipingeva, le musichette comuni che risuonavano per le strade del paese e nella mia casa, grazie a improvvisati cantori e a vetusti grammofoni. Ricordo tutti gli elementi che mi affascinavano, che mi davano il senso di un possibile "modo di essere" più alto, migliore. E fin da bambino avvertivo quel canto interno della lingua che è la poesia, attraverso filastrocche e passi di poesiole (lette in casa o alle elementari) che scintillavano e tintinnavano nella loro essenza fonico-ritmica.

Posso dire che c'è in me un fondo idillico, ma che talune circostanze hanno attivato anche un fondo drammatico che mi ha portato, lungo il tempo, verso tensioni violentissime nel campo espressivo e quindi alla necessità della sperimentazione, di cercare nuove vie, diversi equilibri (o squilibri formali...).

Del resto ho sofferto lutti familiari pesantissimi, da cui è derivato il senso di provvisorietà spaventosa che ha accompagnato la mia infanzia. Quando avevo circa sette anni è morta una mia sorellina che non ne aveva nemmeno sei, e la sua gemella morì anch'essa, sempre per malattie che oggi si sarebbero curate con poche iniezioni. La mortalità infantile era allora altissima. Durante l'ottobre a casa mia c'era un gran rigiro di angioletti di latta montati su croci ad asta e questi angioletti portavano il nome, il cognome e la data di nascita e morte dei bambini. Andavano a finire nell'angolo di cimitero ad essi riservato e le famiglie facevano dipingere o rinfrescare per i giorni della Commemorazione questi angioletti. Mio padre aveva un sovrappiù di lavoro di questo tipo, da cui ricavava poche lire, un po' di patate, frutta o fagioli. C'erano dunque nella mia infanzia degli elementi strani, inquietanti, come appunto quel lato del cimitero con le croci di latta che stridevano al vento e sembravano fatte apposta per la retorica della morte e dell'innocenza. Insomma non ho mai vissuto la natura come avrei voluto, con totale partecipazione, perché c'erano delle spine irritative sia all'interno della mia storia privata sia nell'ambito generale.

 

Qual è il suo rapporto con il dialetto?

 

Il mio rapporto con il dialetto è stato inconsapevole: era per me un dato naturale, appreso così, parlando in famiglia, nel gruppo, parlando come si respira. Solo più tardi ho preso consapevolezza della lingua, e poi delle lingue, aiutato da un certo plurilinguismo prodotto dai molti immigranti che ritornavano stagionalmente, e dalla presenza "mitica" del latino della chiesa. Di fatto, le persone più colte e scolarizzate parlavano anche l'italiano nelle situazioni formali e lo usavano scrivendo. Come lingua internazionale si aggiungeva poi il francese: si restava entro una fraternità neolatina.

 

È un abitudinario? Quando scrive meglio, al mattino o di sera?

 

Io faccio ora la vita di un pensionato. Quando ho lasciato la scuola, dopo 35 anni di insegnamento, avevo intenzione di spostarmi a Milano, dove ho un bugigattolo occupato ora dai figli. Ho cominciato invece ad essere tormentato da acciacchi abbastanza pesanti: disturbi psicosomatici, dolori persistenti e quindi l'accentuarsi di balordi elementi fobici che hanno ridotto il mio circuito di movimento. Tutto ciò si attenua solo se riesco a imboccare i vecchi filoni della mia preistoria affettiva che va verso il mito "ambientale", nonostante tutte le devastazioni che lungo i decenni, e specie qui nel Veneto, l'hanno sopraffatto. Devo faticare per ritrovare qui la mia geografia originale: tutto è cambiato, e anche questa è una causa di grande disagio. Ora non mi sento più dentro un paesetto ben articolato in mezzo ad altri paesetti, ma dentro uno sfilacciamento urbano e non urbano nello stesso tempo. Dovrei adattarmi all'idea che il Veneto è già una megalopoli inconsapevole di esserlo e che io ci vivo. Invece conservo ancora un'idea infantile degli spazi e non la rifiuto perché, infine, imboccare una stradina mai imboccata prima in tanti anni o trovare una valletta nuova è sempre una scoperta.

Tornando alla mia giornata, siccome il mio sonno è incerto, trascorro il mattino cercando di liberarmi delle nebbie dei sonniferi, con piccoli lavori poco impegnativi. Ma ci sono continuamente occasioni d'incontro: sia con vecchi amici, sia con circoli locali. E ci sono anche dei giovani che vengono ad aiutarmi a riordinare un po' le mie scartoffie.

Ho poi sempre un enorme arretrato di progetti non attuati da riprendere. Però il momento poetico viene, come si sa, quando viene, posso scrivere in qualsiasi momento, specie di notte. A volte scrivo magari cinquanta frammenti tutti di seguito. Ma mi piace anche molto indulgere ai diari-brogliacci dove annoto le mie fantasticherie di tipo vecchio e di tipo nuovo. Poi magari li elimino in buona parte. Essi servono soprattutto a farmi capire quanto sono scombinato, ma qualche volta funzionano da vecchi muriccioli su cui ha attecchito un seme. Ho una specie di attività da flâneur. Ma ritengo che per la poesia occorra lasciarsi trasportare come sugheri dalle acque. Per trovarsi magari nel pantano...

 

Lei, nella sua opera, cerca un linguaggio per questo tempo, la poesia possibile all'uomo di oggi, così turbato, inquieto, senza risposte, lacerato dalla guerra, dallo sfruttamento indiscriminato dell'ambiente, dal consumismo. Il suo sperimentalismo, le sue ricerche linguistico-strutturali non sono, pertanto, fini a se stesse, nel senso di un neovanguardismo gratuito e vuoto, ma sono un percorso essenziale, intimo e traumatico. Vuole descrivere un po' questo percorso?

 

L'idea dello sperimentalismo l'ho sempre implicitamente accettata perché non ho mai creduto a una poesia "immobile", pur avendo sempre davanti modelli classici, irrinunciabile luce ed enigma. Il mio era un andare avanti con molta incertezza, al contrario dei movimenti avanguardistici che avanzano un po' a carro armato, con forte apparato teorico. Io credevo alle amicizie, alle sintonie parziali, non ai gruppi. Il gruppo rappresentava per me la gestione di qualcosa di extraletterario, mentre io pensavo che ognuno dovesse seguire la sua strada e poi confrontarsi con gli altri. Già in anni lontani avevo elaborato l'idea del "convenzionismo", per cui ogni modello di scrittura o prospezione era da accettare soltanto come una "morale provvisoria", e per qualche aspetto falsa. In ciò si rispecchiava il diluvio di falsità che sentivo intorno a me, anche come fatto politico e sociale. L'incombere del cosiddetto "equilibrio del terrore" mi sembra trattenere l'intera realtà in un ossimoro paralizzante. E uno sgomentante disagio si sta protraendo nell'oggi, diverso, ma forse in peggio, da quella situazione: e basti pensare agli orrori della ex-Jugoslavia. Per questo non può apparire che convenzionale, già nata falsa, qualunque innovazione.

D'altra parte l'accumulo esponenziale di imprevisti di ogni genere e la trasformazione disordinata della realtà nei recenti decenni provocavano il senso di un amorfismo, di una derealizzazione sempre più soffocante. Nello sperimentalismo si rispecchiava tutto questo, e insieme si sviluppava un tentativo sempre frustrato di superarlo. Anche se appariva, talvolta, il lampo di un'innovazione positiva.

Comunque, la meditazione sul linguaggio e sulle sue impotenze (varie come le sue potenze), l'avvertire il linguaggio come qualcosa da mettere perpetuamente in questione, come uno strumento che dovesse mutare in continuazione per offrire qualche chance operativa - e nella realtà e nel lavoro poetico - hanno avuto per me una continua, intensa stimolazione, anche in situazioni limite.

Fin dalla primissima giovinezza mi ero soffermato su temi psicoanalitici, antropologici, linguistici come la convenzionalità e lo slittamento dei significati in rapporto ai segni, l'irreperibilità - quando si parla - di un "vero" e preciso referente esterno. Certe esperienze in vivo mi moltiplicavano all'infinito le durezze di quei temi. Da una parte esisteva il linguaggio immediato ed eterno della "natura" che non afferma eppure non nega: il suo avvolgimento mi si presentava come più dolce che tenebroso. Invece quando entrano in scena esseri umani il linguaggio è sempre sul punto di non funzionare. Forse di là viene anche la mia primitiva tendenza a tener sotto mano modelli d'espressione "sicuri". E per queste vie andavano le mie meditazioni sul petèl, sul linguaggio infantile, risalenti agli anni quaranta, a quando non conoscevo affatto Jakobson. Mi sorprendevo a riprendere - anche ironicamente - il gusto del bamboleggiare con linguaggi pseudo-infantili, con dialetti inventati o effettivamente usati, magari col gatto di casa. E, appunto, non perdevo di vista la tradizione, che, in un certo senso, poteva sovrapporsi senza difficoltà alla natura perché ormai era tale da apparire emanazione di una sapienza della natura stessa...

 

Secondo lei, quali sono i rapporti fra storia, storiografia e poesia?

 

Continuo a pensare che non esista storiografia più precisa della poesia, se essa viene correttamente interpretata, perché nel suo corpo "ectoplastico" si infiltrano tutte le più acuminate realtà della storia e in esso si esprimono, anche (soprattutto) negli aspetti formali.

Noi sappiamo di più, forse, della realtà del mondo antico attraverso un frammento di vissuto "salvato" dalla poesia che attraverso la ricerca archeologica.

L'ultimo gradino dell'essenza, l'ultimo distillato del vivere si accompagna con questo andirivieni della poesia e corrisponde ad esso. Resta tuttavia la compresenza, per me, di un mito, quello di una certa poësis perennis, cioè immune dal tempus edax, che si sgranocchia via tutto. Del resto, si sa che anche le lingue muoiono, e con esse la verità più intima dei messaggi che esse hanno portato.

 

Che cosa pensa del momento difficile che viviamo, momento di imbarbarimento quasi generalizzato? La poesia può fare qualcosa, può darci speranza?

 

Oggi non si sa bene più cosa sia l'uomo. Fino a non molto tempo fa si credeva di saperne molto, sull'essenza dell'umano, su ciò che fosse la vera humanitas, e su quel frutto dell'evoluzione, tutto sommato positivo, che l'uomo appariva. Durante il secondo dopoguerra, tuttavia, e soprattutto negli anni del riarmo atomico, che dava una soffocante carica di nonsenso generale al "dato umano", si è molto diffusa una specie di sfiducia globale dell'uomo verso se stesso. Si tentava di cancellarla con l'attivismo di uno sviluppo economico e di un presunto progresso politico, che poi si è ridotto a poca cosa, anche se non si può negare che vi sia stato qualche filo lucente di positività. A distanza di molto tempo, ormai, dai primi anni del dopoguerra il bilancio si rivela deludente, perché l'uomo sembra vivere soltanto di residui di ideologie, marcate da forti interrogativi anche se non annullate del tutto (come molti pensano) e minate da una violenta "carica" nichilista. L'uomo sembra assumere in proprio il sentimento dell'entropia in atto. Cosa può la poesia in un simile quadro, pur nascendo dai sottofondi più celati della vita? Forse potrebbe dire qualcosa di valido per l'umanità, ma non esiste il parametro per definire questo "qualcosa". E sapere almeno qualcosa sul proprio senso (destino?) è necessario. L'uomo sta ribollendo nel proprio enigma, e la poesia non può dare che dei lampi di "consolazione", nei quali appare ancora il miraggio dell'autofondazione e dell'autogiustificazione dell'essere. In essa c'è dunque un qualche valore, almeno provvisorio. Ma il quadro che abbiamo di fronte è quello di una catastrofe "ecologica" della mente (ricorderei qui Bateson): l'urgenza di una visione ecologica del mondo si è resa necessaria nel momento in cui si è concretizzata la minaccia apportata all'ecosistema in generale da quel piccolo, terribile sistema che diciamo uomo.

La poesia continua (per ora!) a dare il suo bip-bip che poco presume ma si sente non tacitabile. E chissà che non vi sia chi lo coglie. Bisognerebbe poi ricordare (insieme con i Surrealisti) che la poesia dovrebbe essere fatta da tutti, non da uno.


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- Intervista

Vera Lúcia de Oliveira

[ Intervista a cura di Paolo Polvani ]

 

Conosco Vera da oltre dieci anni e appartiene alla consuetudine associare alla delicatezza dei suoi gesti, al fascino della sua voce in cui affiora, come una dolce musica, un incantevole accento brasiliano, la potenza di una visione capace di penetrare la bellezza e spingersi fino a percepirne il progressivo incresparsi nelle pieghe della sofferenza, lo sguardo radicato sulla soglia epifanica del dolore.

Ho sempre molto amato una poesia di Vera, tratta da Tempo di soffrire, s'intitola Il gatto e la fisica, e mi accorgo di ricordarla a memoria anche nella versione portoghese. Recita un verso: la fame muove il gatto alla domanda.

Lo sguardo di Vera riconosce in ogni cosa, in ogni persona una segreta, implicita fame, una vocazione intrinseca alla inevitabile deriva che ogni cosa porta scritta in sé come destino.

È in questo sguardo che si riconosce quella devozione al luminoso male di vivere, secondo la felice espressione di Vincenzo Guarracino.

 

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1) Se possedere una lingua è possedere un mondo, avere più lingue a disposizione è una ricchezza senza limiti; in che misura ti senti consapevole di tale ricchezza ?

 

Vivere in due lingue talvolta può essere molto complicato. Cerco di non mescolarle, dall’inizio ho sempre seguito questo principio anche perché ogni lingua ha il suo ambito, il suo ritmo, il suo universo culturale. E poi perché ho scoperto che potevo utilizzarle per partire e tornare da una lingua all’altra e di rendere, così, sempre presente la magia di vedere e di nominare le cose come se fosse la prima volta. Il bambino è poetico perché le parole gli servono per nominare il mondo, egli non si è ancora assuefatto ad esse, le pronunzia con stupore, convinto che nella parola ci sia qualcosa della realtà che egli nomina. I poeti conservano questo stupore, altrimenti non si accorgerebbero della magia e bellezza che hanno certi vocaboli, anche di uso quotidiano. Ci sono grandissimi poeti, come Manuel Bandeira, che mostrano che anche il registro linguistico più umile o più quotidiano è poetico quando ha in sé quella carica di autenticità e di intensità e di vita.

Ogni lingua è una prospettiva sul mondo, ogni lingua nasce in un tempo e in uno spazio per rispondere alle esigenze di chi la parla, di chi l’ha plasmata nei secoli. Le lingue ci abitano e sono abitate da noi. Così, visto che mi sono trovata nella confluenza di due culture e due lingue, cerco di usarle anche per arrivare più dentro e più a fondo, per scandagliare l’anima mia e del mondo.

 

2) Secondo te c'è un criterio selettivo per cui le poesie vengono a cercarti talvolta in italiano e talvolta in portoghese ?

 

Sicuramente c’è un criterio, dipende dal momento e da quello che inseguo. Per me la poesia è introspezione, riflessione e così passo molto tempo in certi percorsi in profondità, sollecitata da tutto ciò che mi sta attorno, dalle persone vicine e lontane, dalle sensazioni, dai sentimenti, dalle parole e dai silenzi. La cosa che mi stupisce è che non so mai il momento in cui comincio a scrivere un libro, cioè non decido che scriverò questo o quello e poi mi metto seduta al computer e via. Comincio a scriverlo per vie traverse, a volte anche contro me stessa, contro i miei desideri, perché fare certi viaggi nell’anima delle cose può essere molto doloroso. Mi ritrovo spesso, però, già dentro percorsi impervi nei quali mi sono portata dietro una lingua e poi quella è la lingua in cui debbo esprimermi. Mi rendo conto che avrei dovuto fare il mio percorso solo in portoghese o solo in italiano, perché così finisco emarginata nelle le due tradizioni letterarie, ma poi penso: perché dovrei rinunziare a questa ricchezza, a questa doppia possibilità di camminare?

 

3) Il dolore è uno dei tuoi luoghi poetici più frequentati; lo avverti come una limitazione o come un'occasione che dona luce alla vita ?

 

Penso che il dolore non sia mai un bene. Ci sono persone che impazziscono, che si ammalano per il dolore. Ci sono persone che diventano aride, cattive e rancorose per il dolore. Afferma Franco Rella, nel libro Figure del male, che il dolore “rende l’uomo res relicta, cosa abbandonata, cieca a tutto se non alle vampe oscure della sofferenza” (p. 28). Raramente il dolore porta luce alla vita, come affermi. La teologia del sacrificio e della croce serve per consolarci della nostra fragilità, per aiutarci a sopportare la malattia, per dare un senso alla morte. Eppure, anche nella sua negatività, il dolore apre canali di conoscenza. Quando è morto mio padre ero molto giovane, ma ho avuto la sensazione fisica che un grande velo mi si fosse lacerato dentro, nel dolore vedevo di più, sentivo di più e soffrivo anche di più. Se qualcuno mi chiedesse “ma vale la pena?”, “questo conoscere di più paga la pena del dolore?”, risponderei che non possiamo scegliere, quando abbiamo aperto gli occhi abbiamo cominciato a vedere e, in un certo senso, a sofffrire, perché ci accorgiamo di essere, ci accorgiamo di noi, della nostra coscienza e del nostro corpo e, subito, della nostra grande fragilità.

 

4) Se la poesia è un'effervescenza di parole che certifica la gioia di stare al mondo, in che misura ti riconosci in questa affermazione e come pensi possa conciliarsi con la situazione disastrosa del pianeta e col dramma di ogni singola persona ?

 

Innanzitutto non sono sicura che la poesia certifichi la gioia di stare al mondo, forse proprio il contrario. La poesia oggi viene emarginata perché è il linguaggio della discesa nell’anima e nel cuore umano. Si può fare poesia su tutto, anche sulla sagra di paese, sull’amore, sul cibo, sulla bellezza di un corpo, ma, se vuoi arrivare a certe profondità, se vuoi fare un viaggio verticale nell’essere e nel mondo, solo la poesia ti accompagna e, allo stesso tempo, ti illumina e ti salva. Per la sua sintesi e densità, per la capacità di unire i contrari e di incorporare le contraddizioni, per la sua forza e radicalità, solo la poesia è capace di guardare dentro cose che mai avremmo potuto o voluto vedere.

Hannah Arendet, nel bello e terribile libro La banalità del male, nel quale fa una cronaca dettagliata del processo a Adolf Eichmann, tenutosi a Gerusalemme nel 1961, afferma che la tragedia e lo sterminio sistematico e quasi “scientifico”, se così possiamo dire, per la meticolosa organizzazione, di milioni di ebrei e zingari durante la seconda guerra mondiale non può essere compresa “fuori del regno trasfigurante della poesia”. (p. 236) E in più momenti del libro lei ritorna su questo, convinta che solo la poesia possa dare conto di una così grande tragedia.

Per tutto questo, la poesia è il linguaggio della lentezza e della profondità, della riflessione e del silenzio. È anche il linguaggio della gioia, della celebrazione del miracolo di essere vivi, ma non della risata ottusa ed esteriore dei presentatori e ospiti televisivi che ci propongono un mondo patinato, dove tutti sono belli e felici, sani e abbronzati. I problemi più grossi che hanno questi “modelli” del genere umano possono essere come dimagrire per la “prova costume” in estate, come si è conciata la regina per la festa del suo compleanno, quale è il taglio di capelli di moda per Natale.

Qualche volta guardo, per masochismo, uno di questi programmi che infestano tutti i canali e mi viene da pensare che, scegliendo la poesia, mi sono messa in una strada molto solitaria…

 

5) Sebbene sia ignorata dal mercato, esiste tuttavia un grande fermento e una grande curiosità intorno alla poesia, anche grazie alla rete e alle possibilità che offre; quale futuro prevedi per la poesia ?

 

Non so, dipende dai giorni. Se mi arriva, anche grazie alla rete, una bella poesia, se leggo un libro nuovo e intenso, allora ricomincio a credere davvero che la parola poetica sia un grande fermento del mondo e per il mondo. Vorrei credere che possa trovare più spazio, ma mi rendo conto che tutto nella nostra società trama contro di essa. Eppure, so con certezza che ci saranno sempre grandi poeti, che si “contagiano” a vicenda, come una specie di malattia che prendono e che uno trasmette all’altro, di un altro tempo e di altri spazi, la poesia viaggia, nelle valigie, nei libri, nelle canzoni, nelle lettere, attraversa le frontiere.

 

6) Ci sono luoghi in Italia che avverti come particolarmente affini e che ti ispirano poesia e perché ?

 

L’Italia è un paese che ho amato anche prima di conoscerlo fisicamente. Ho iniziato, anzi, a conoscerlo tramite i poeti, più precisamente Ungaretti, che è stato importante nella mia decisione di fare poesia. Prima scrivevo prosa, racconti.

Quanto alla tua domanda, non ho un posto specifico in cui fare poesia, ogni posto frequentato e vissuto dagli uomini, miei fratelli, del presente e del passato e anche del futuro è carico di storia e poesia. Inseguo tutte le tracce, i segni, i solchi lasciati dall’umanità per vivere, per edificare o per distruggere qualcosa, per plasmare una statua, comporre una musica, costruire una casa, piantare un albero, seppellire una persona amata. Dell’Italia mi piace che si vive dentro la storia.

 

7) Hai un ricordo legato al momento in cui ti sei accorta che la poesia veniva a cercarti?

 

Ho tanti ricordi, ma uno è particolare perché, nel momento in cui l’ho vissuto, mi si è palesata, in forma concreta, una mia inquietudine forte, anzi, un turbamento, una domanda che mi accompagnava da sempre e che si è trasformata in linguaggio, nel testo “La storia” (della raccolta Tempo de doer / Tempo di soffrire):

 

LA STORIA

 

il corpo di un torturato

scava attraverso i secoli

la sua intensità di dolore e morte

 

ma Dio, per il quale non esiste la storia

come sopporta l’orrore

dell’istante

in cui ciò che cambia

è solo la bocca

che grida?

 

Ho iniziato a scrivere questo libro, pubblicato nel 1998, una domenica in cui facevo con mio marito una passeggiata a Ferentillo, in Umbria. Siamo abituati (allora ben più di adesso, purtroppo), a organizzare gite nel fine settimana fra le tante città ricche di storia e arte dell’Italia centrale (Umbria, Marche, Lazio e Toscana). Una domenica decidemmo di andare a visitare Ferentillo, in Val Nerina, nella cui chiesa sono conservate diverse mummie risalenti al XV secolo. Il curioso fenomeno si è verificato perché i corpi seppelliti nella cripta della chiesa hanno subito un processo di mummificazione naturale, dovuto alla particolare conformazione del terreno.

Appena iniziammo a visitare la chiesa, tuttavia, mi impressionai tanto che mi fu impossibile completare il percorso con gli altri visitatori. Dovetti uscire, presa da una forte emozione, da una grande angoscia, non per quelle povere mummie, non per la morte in sé che esse rappresentavano, ma per quello che esprimevano i loro volti, nonostante tutti i secoli passati. Una, in particolar modo, mi impressionò: la mummia di un uomo, un condannato a morte per impiccagione. Il suo volto era ancora contorto dal dolore, nel suo corpo il dolore era rimasto impresso, immutabile per sempre. Nulla aveva potuto cancellare o attenuare la sua pena e io mi sono chiesta se, per tutti questi secoli, qualcuno avesse sentito l’urlo silenzioso e disperato di quell’uomo.

Un forte nucleo di riflessioni si concretizzò in immagini, parole e furono necessari mesi di concentrazione per questo viaggio dentro le cose e le persone. Lavorai freneticamente, ogni poesia ne chiedeva un’altra, sollecitava un nuovo testo. È come se il libro fosse stato già completo dentro di me, come se avesse avuto solo bisogno di uno stimolo esterno per concretizzarsi.


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Leggi sei poesie di Vera proposte nella sezione "Poesia della settimana"

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L'intervista è segnalata sul sito dell'"Itau Cultural", una delle Fondazioni Culturali più note e importanti del Brasile: http://conexoesitaucultural.org.br/?p=3113


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- Intervista

Lucianna Argentino

[ Loredana Savelli intervista Lucianna Argentino ]

 

 

 

Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Lucianna Argentino?

 

Sono una donna (e una mamma) che ama e sente la vita in tutte le sue sfaccettature, la vita con il bene e con il male e che la vive senza pregiudizi, ma con attenzione e curiosità, con amore soprattutto. Consapevole che essa ha sempre da offrirci tanto, che sempre c’è tanto da imparare e da scoprire.

 

 

Perché e quando hai iniziato a scrivere e in particolare a scrivere poesia? Ci tratteggi la tua storia di scrittrice? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Ho cominciato a scrivere durante l’adolescenza per placare il senso di spaesamento e di solitudine che a quell’età si prova. Il foglio bianco era un ottimo compagno e soprattutto non mi sentivo giudicata, guardata, ero io che guardavo e in certo qual modo “giudicavo”. Ero finalmente libera di essere me stessa, una me stessa in divenire, di cui non riuscivo a comprendere tutto, di qui le inquietudini che la scrittura a volte placava a volte alimentava.

Ho continuato a scrivere perché mi sono resa conto che la scrittura, la poesia in particolare, mi dava la possibilità di uno sguardo diverso, uno sguardo ulteriore non solo su me stessa, ma anche sugli altri, sul mondo, sulle cose e sono sempre stata avida di vita. La vita è sempre stata, e lo è ancora, fonte di immenso stupore anche in questo momento che rispondo qui, davanti a una finestra al sesto piano e vedo il volo delle rondini, sento il loro garrito e più su il cielo azzurro in cui una mezza luna trasparente resiste alla luce del sole... E tra poco i visetti ancora assonnati dei miei bimbi con la loro meravigliosa infanzia che pure è un dono preziosissimo. Tutto ciò pure se noto e familiare mi stupisce, mi riempie il cuore ogni volta, come le voci che salgono dal mercato qui sotto, i clacson delle auto, le sirene delle ambulanze che mi dicono della vita che non so, della vita degli altri. Tutto ciò per dire che siamo sì di passaggio, ma questa consapevolezza dovrebbe farci sentire con maggiore forza la responsabilità del nostro essere umani tra umani, l’irripetibilità di questa straordinaria esperienza, straordinaria e terribile. Perdonami queste divagazioni. Dicevo che ho continuato a scrivere e poi a mandare le mie poesie ad alcune riviste e da lì la mia strada ha cominciato a prendere consistenza anche per l’incoraggiamento di alcune persone che hanno creduto in me. Il 1991 fu un anno importante, l’anno del mio esordio in quanto partecipai a Poesia 90, Primi Versi, una rassegna organizzata da Giorgio Weiss e Riccardo Reim e venni selezionata per l’antologia che si intitolava proprio “Poesia ‘90” edita da Il Ventaglio. E in quello stesso anno pubblicai la mia prima raccolta che si intitolava “Gli argini del tempo” a cui seguirono altri quattro libri: “Biografia a margine”, “Mutamento”, “Verso Penuel” e “Diario inverso”.

 

 

Sei una scrittrice, ma prima di tutto una lettrice. Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formata e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Vorrei premettere che pur avendo cominciato a scrivere poesie attorno ai quattordici/quindici anni, l’amore per la poesia è venuto un paio di anni dopo, grazie a una professoressa del liceo che ci leggeva poeti che non erano in programma e lo faceva con una tale sensibilità e trasporto che sono stata totalmente conquistata. A quell’età comunque leggevo Leopardi che era vicino alle mie stesse inquietudini, Tagore per l’amore verso il creato e le creature, Ungaretti per il senso del dolore. Ma il poeta a cui devo di più è senz’altro Mario Luzi. Naturalmente poi ho avuto (e continuo ad avere) grandi e profondi innamoramenti per Rilke. Marina Cveateva, Ghiannis Ritsos, Odisseo Elitis, Paul Celan, Renè Char, Yves Bonnefoy, Ingeborg Bachmann e tanti tanti altri perché la poesia mi nutre. Così come mi nutre la prosa (Dostoewskij, Virginia Wolf, Kafka, Borges, Maria Zambrano, Simone Weil). Tuttavia non sono soddisfatta nel fare questi nomi perché tanti tanti altri, nei miei lunghi anni di lettrice, mi hanno dato qualcosa di sé ed è praticamente impossibile dire con esattezza chi sia stato più incisivo e decisivo. In questo momento ho da poco finito di leggere Flannery O’Connor e sto rileggendo Cioran, ma sul tavolino ho Miguel de Unamuno e Teresa d’Avila e la Kabbalh e il suo simbolismo di Scholem. La curiosità e la voglia di conoscere sono grandi!

 

 

Come avviene il tuo processo di scrittura? In quali ore e luoghi, con quali modalità? Pubblichi ciò che scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

 

In genere scrivo di mattina quando sono sola in casa, a volte la sera. Ho una piccola scrivania davanti la finestra della camera da letto da cui posso vedere un’ampia porzione di cielo che mi aiuta nella concentrazione. Rivedo sempre quello che ho scritto e a volte la prima stesura, per così dire, mi soddisfa altre invece ci lavoro sopra. Comunque quando ho finito una poesia o un libro di solito lo lascio stare per un po’, cerco di dimenticarmene, mi occupo d’altro. Poi lo riprendo e vedo che effetto mi fa! In genere è la forma che rivedo.

 

 

Sei tentata dalla prosa o la tua è prevalentemente una vocazione poetica?

 

In passato in verità ho scritto dei racconti, di cui solo uno, più recente, è stato pubblicato su un blog. Gli altri li tengo in una cartellina in attesa di gettarli o di riscriverli completamente il giorno in cui mi sentirò pronta.

 

 

La critica più bella e la critica più cattiva che hai ricevuto alle tue poesie.

 

Non è facile rispondere a questa domanda. Di recensioni e di lettere in risposta all’invio di un qualche mio libro ne conservo tante e in genere sono buone soprattutto perché si sente che vengono da una lettura attenta e partecipe. Diciamo che una delle cose che più mi ha fatto piacere fu una telefonata di Stefano Crespi del Sole24ore che si scusava per non avermi risposto prima ma era stato in ospedale e al suo rientro a casa, tra la posta, aveva trovato il mio libro, “Verso Penuel”, e me ne lesse una poesia, la prima che aveva letto aprendolo e che a quanto pare non solo gli era piaciuta ma gli era stata di conforto. Di critiche cattive nel senso stretto del termine non ne ho ricevute, almeno non ancora. Mi spiace molto tuttavia lo sparire di alcune persone, colleghi poeti intendo, il loro silenzio, e mi spiace quando mando un libro di non ricevere cenno alcuno.

 

 

La tua poetica è permeata dal tema della compassione. Osservi gli altri (mi riferisco per esempio alla raccolta “Le stanze inquiete”, inedito) e restituisci loro una grande dignità umana. Quanto conta la dimensione religiosa nella tua poetica?

 

Sono contenta che hai fatto accenno a “Le stanze inquiete”, un libro, ancora inedito, cui tengo molto perché molto mi è costato in termini umani e poetici. È un libro nato da un’esperienza lavorativa alla cassa di un supermercato e nel quale, detto brevemente, ho voluto raccontare l’umanità che mi è passata davanti in quel periodo. Un libro in cui il linguaggio oscilla tra la prosa e la poesia, proprio come la vita.

La dimensione religiosa è presente nella mia poesia perché della vita ho un profondo senso religioso, ho sempre sentito che c’è qualcosa che sfugge alla nostra ragione, “di una cosa almeno prendi coscienza, non tutto è in mano ai vivi”, ecco questo verso di Elitis dice esattamente il mio pensiero. Dunque la dimensione religiosa conta in poesia, così come nella vita, come un diverso approccio, una diversa e senza dubbio più intima prossimità al creato.

 

 

“Vorrei tornare a questa vita col privilegio/ di chi non si è mai guardato in uno specchio/”. Due splendidi versi dalla raccolta “Verso Penuel”: alludi anche ad una sorta di felice incoscienza del poeta?

 

Non proprio. Quando scrissi questa poesia vivevo dei cambiamenti nella mia vita e pensavo dunque piuttosto a uno stato primigenio, ad una epifania, quella di non sapere che volto si ha e scoprirlo. Il ritorno a uno stato di innocenza, per ritrovare meraviglia e stupore e libertà. Uno stato che certamente è anche quello che precede la scrittura.

 

 

Secondo te il poeta somiglia alla propria poesia? Che rapporto c’è tra la tua poesia e la auto-riflessione? In altre parole la tua poesia ti “serve” per dare luce a parti oscure di te stessa?

 

Mi è capitato di incontrare poeti che conoscevo solo attraverso le loro poesie e di trovarli completamente diversi sia fisicamente sia umanamente da come li immaginavo. A volte migliori dei loro versi a volte peggiori. Altri invece perfettamente aderenti alla loro poesia. Tuttavia sentendo la poesia come un’entità a sé, spesso ho la sensazione di una vera possessione, come un’altra persona dentro di me con la quale si instaura un dialogo e dunque è probabile che la mia poesia non mi somigli oppure sì, e che il legame che intercorre tra il poeta e la sua poesia ha a che fare con un patrimonio genetico misterioso che si esprime come sintomo di un legame profondo con se stessi e attraverso se stessi con il mondo che ci circonda. È difficile scindere le due cose. Però è innegabile che ci siano stati poeti che hanno scritto versi bellissimi mentre umanamente lasciavano molto a desiderare. Ma ripeto un conto è scrivere poesie, un conto è vivere, essere una persona tra persone. Inoltre nella quotidianità ci si deve adattare un po’ a varie situazioni, ma lo sguardo e la vibrazione interiore rimangono sempre e solo poetici. La poesia senza dubbio è uno strumento prezioso per far luce dentro di sé perché presuppone ascolto, scavo – il poeta è un minatore diceva Caproni.

 

 

Fino a che punto ritieni che le tue esperienze biografiche abbiano inciso sulla tua vocazione poetica? Si dice che alla base dell’impulso creativo ci sia un vuoto. Sei d’accordo?

 

In effetti spesso mi sono chiesta e continuo a chiedermi perché, passate le inquietudini dell’adolescenza (ma sono davvero passate?) io abbia continuato a scrivere, a fare poesia. Tutto sommato ho avuto un’infanzia serena, con la mamma casalinga che badava a noi tre fratelli e papà che lavorava fuori e che vedevamo solo il fine settimana. Un padre, tuttavia, presente, che quando c’era ci portava in bicicletta, a pattinare sulla rotonda di Ostia, al Luna Park dell’Eur, ci controllava i compiti. Un padre che amavo e di cui avevo una certa soggezione. Anche mia madre scriveva da giovane, teneva un diario e poi qualche poesia, dei racconti. Ma soprattutto disegnava. Le sarebbe piaciuto dipingere, frequentare la scuola d’arte... purtroppo mio nonno, che pure suonava nella banda della polizia, non volle. Forse è da lei che ho respirato l’aria dell’arte, della poesia. E devo dire che prima della poesia il mio rapporto con la scrittura si consumava attraverso le pagine di un diario con la copertina di pannolenci rosso regalatomi a 11 anni per la Prima Comunione. Quindi la scrittura ha sempre avuto un posto nella mia vita, mi ha accompagnata lungo il mio percorso umano e spirituale. E comunque la poesia è un evento che va al di là dei dati biografici, è essa stessa un mistero... Dici del vuoto. Sì forse c’è un vuoto o un pieno (forse sono la stessa cosa). Forse c’è lo strappo della nascita che in qualcuno non si rimargina mai e che diviene lo spazio (l’asola di una mia poesia) delle infinite possibilità umane e poetiche.

 

 

La tua scrittura è densa e piana, pensosa e necessaria. Se la tua poesia fosse un elemento della natura o un paesaggio a quale la paragoneresti?

 

Al mare!

 

 

Quale relazione a tuo avviso c’è fra l’amore, la morte (o il nulla) e la poesia?

 

Credo ci sia una strettissima relazione, una relazione ariosa, vitale. Sono tre elementi a me familiari, cari, necessari e ineluttabili in qualche modo. Ineluttabile è la morte e lo anche l’amore e lo è la poesia. L’amore è l’origine, la poesia è il cammino e la strada, la morte è il mistero che getta la sua luce sulla vita, ma lo fa dalle nostre spalle perché io sono tra quelli che credono che la morte ci sta alle spalle e non davanti. Credo che davanti abbiamo Dio, il Dio dei viventi.

 

 

Puoi sintetizzare quindi in poche parole-chiave la tua poetica?

 

Molto semplicemente potrei dire che la mia è una poetica della vita e ancor più del mistero che sento vibrare all’interno di essa.

 

 

Sei autrice e protagonista di spettacoli molto suggestivi (l’ultimo è “La vita in dissolvenza” con il chitarrista Stefano Oliva). Cosa aggiunge la lettura scenica alla tua poesia?

 

In verità un lavoro come “La vita in dissolvenza” è la prima volta che lo affronto e sono molto contenta di aver conosciuto Stefano Oliva, un giovane, ma preparato e determinato, musicista e compositore che ha scritto delle musiche in perfetta armonia con i miei testi, io li chiamo poemetti-monologhi, perché sono una sorta di ibrido tra la poesia e il monologo teatrale. È un’esperienza molto bella e coinvolgente anche per noi che la offriamo. Consapevoli tuttavia della totale autonomia delle due arti, ma anche del fatto che probabilmente sia la musica sia la parola recitata, detta che, dunque, esce dalla carta attraverso una transizione di fase, ossia l’inchiostro che si fa voce, riescano a rendere il tutto più forte e incisivo e con una diversa e più profonda presa sul pubblico. È pur vero che molti poi mi hanno chiesto di poter leggere i testi. Comunque ho scritto i poemetti senza pensare al fatto che un giorno li avrei recitati in teatro con la musica di Stefano Oliva e le immagini delle opere di Mariagrazia Benvenuti e le fotografie di Davide Simiele. Mi piaceva l’idea di fare una cosa corale, di unire diverse espressioni d’arte, cosa peraltro già fatta da molti. Spero che un giorno “La vita in dissolvenza” diventi un libro, intanto lo propongo in teatro o in altri spazi adeguati che è pure un modo di far girare la poesia.

 

 

Quali sono a tuo avviso gli indicatori di una buona poesia?

 

Una poesia mi colpisce quando c’è armonia tra la forma e il contenuto, il senso e il significato; quando crea immagini nuove pure se esprime cose vecchie e dunque le rifà nuove; quando smuove corde intime della mia anima; quando getta la sua luce nelle tenebre dell’inconscio e le nutre.

 

 

Sei impegnata anche nella divulgazione della poesia, organizzatrice di eventi e di reading nei quali proponi altri autori. Ci parli di questa tua esperienza? Puoi indicare qualche nome nuovo, magari giovane e poco noto nell’ambiente romano?

 

In effetti agli inizi degli anni ‘90 con alcuni poeti tra cui Francesco De Girolamo, che gli amici della Recherche conoscono, creammo una serie di incontri settimanali in un locale a Testaccio. La rassegna si chiamava “Percorsi in versi” e ospitò voci nuove e voci già “accreditate”, fu un esperienza molto bella e per certi versi irripetibile che andò avanti per alcuni anni. Era bello perché il locale era sempre affollato di giovani, c’era un’atmosfera vivace ed elettrizzante! Mi mancano molto quelle serate. Ora mi capita più sporadicamente di organizzare incontri di poesia anche per mutate situazioni biografiche. Partecipo a letture organizzate da altri e trovo che, a volte, possono essere dei bei momenti di condivisione e scambio, di arricchimento umano e poetico.

 

 

Tra le novità della poesia sul piano nazionale, invece, quali tendenze indicheresti?

 

Non è facile rispondere a questa domanda perché il materiale “poetico” di cui si può fruire oggi è molto ampio. Con l’avvento di Internet e degli innumerevoli blog letterari c’è una grande confusione. Chiunque metta in colonna delle parole si fregia del titolo di poeta. In un primo momento ho considerato questo fenomeno come positivo, voglio dire che il fatto che tanti scrivano è indice comunque della ricerca di qualcosa che vada oltre, più a fondo, di quanto ci viene proposto oggi, penso ai deleteri modelli proposti dalla tv. Scrivere è un interrogarsi, un tentare delle risposte; uno scavare in se stessi per una maggiore consapevolezza e dunque un maggior amore e rispetto per il mondo e per gli altri. È un rifiuto della superficialità, dell’apparenza per andare all’essenza di sé e delle cose. Poi mi sono resa conto che solo per pochi è così. Che le motivazioni che spingono una persona a fermare i propri pensieri sulla carta non sono poi molto profonde e autentiche. Comunque anche tra i critici non mi sembra ci siano delle chiare e nette prese di posizione, vuoi anche per l’inafferrabilità della materia che trattano. C’è chi vorrebbe una poesia meno letteraria, chi al contrario la vorrebbe meno poetica. Ma mi sembra che i poeti, quelli veri, continuino a scrivere poesia senza preoccuparsi delle “tendenze”, e stanno semplicemente in ascolto di sé e del loro tempo e anche del tempo che verrà.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato (o incontri) nel pubblicare i tuoi testi in versi? Che cosa pensi dell’editoria italiana?

 

Le difficoltà sono legate alla ricerca di un editore degno di questo nome perché ce ne sono effettivamente pochi. Per quanto riguarda poi il pubblicare su riviste o blog non ho trovato particolari difficoltà. Comprendo tuttavia le difficoltà degli editori specie con la poesia. Ma non credo sia colpa né della poesia, né dei poeti, né dell’editoria è semplicemente così. La poesia è la necessaria invisibile, la linfa vitale nascosta che pure nutre l’albero.

 

 

Qual è il tuo punto di vista sull’editoria on-line? Secondo te la notorietà coincide con la visibilità?

 

Come dicevo prima on-line si trova di tutto, ma se ti riferisci agli e-book devo dire che anch’io ne ho pubblicati due. Il primo per curiosità, poi ho visto che può essere un ottimo modo per “affrontare” il pubblico prima di una edizione cartacea. Notorietà e visibilità apparentemente sembrano legati ma non è detto, ci vuole dell’altro. In poesia, e mi riallaccio a una delle domande precedenti, notorietà e visibilità sono dei termini vaghi e forse inappropriati a meno che non si riesca a diventare un caso mediatico e la poesia non lo sarà mai ed è bene che sia così. Anche se poi in tv a volte si chiamano pure i poeti a dire la loro su argomenti di attualità.

 

 

A che cosa stai lavorando ora?

 

Ho appena terminato di scrivere il quinto poemetto che andrà a far parte de “La vita in dissolvenza” e con il quale penso di aver esaurito quanto avevo da dire al riguardo. In verità di storie di vita in dissolvenza ce ne sono tantissime, io ne ho raccontate alcune che mi hanno particolarmente colpita e se un’ altra storia verrà a me per farsi raccontare sarà ben accolta. Poi vorrei rivedere la raccolta inedita “L’ospite indocile” che dovrebbe essere pubblicata il prossimo anno.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori de LaRecherche.it?

 

La Recherche mi sembra sia un luogo dove si incontrano persone che condividono la stessa passione, lo stesso amore per la poesia e l’arte in genere e che denotano quindi già una certa predisposizione al bello, a quanto sfugge all’omologazione. Per cui mi sento di rivolgere a tutti un’esortazione a continuare per questa strada, a non smettere di porsi domande su se stessi, sugli altri e sul mondo che ci circonda. Gli antichi greci avevano un unico termine per dire ciò che è bello e ciò che è giusto e credo che gli artisti abbiano sentito sempre e reso attraverso la loro arte questa profonda unione di giustizia e bellezza, due entità di cui oggi abbiamo più che mai bisogno.

 

 

C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

Domanda. Quale poeta del passato ti piacerebbe essere?

Risposta. Marina Cvetaeva.

 

 

Invito i lettori a interessarsi di questa poetessa tanto schiva quanto profonda, di un’intensità asciutta, saggia e incisiva.

 

Ecco alcuni inediti da L’ospite indocile:

 

 

***

 

C’è qui – mentre le voci dei bambini

impollinano il tempo – come una nostalgia

simile a quella che del corpo hanno i morti.

Acqua acqua fuoco fuoco - giocano

a chi trova ciò che è nascosto

un gioco che durerà ancora,

a lungo.

 

***

 

Il foglio è altare

su cui concelebro la vita

su cui consacro – questo è il mio corpo

questo è il mio sangue – la parola

in passaggio di sostanza

impasto particole

mi comunico.

 

***

 

Scrivo di nascosto da Dio

che nella bocca voglio parole mie

e niente niente

nel passaggio dalla fronte alla spalla

dal gomito alle dita alla punta della penna

al suo muoversi sul foglio

per mio sentire altro

per meditato silenzio e pulsare di tempie

per mio stare accovacciata

presso lo scavo con l’angelo geometra

e la sua corda a misurare

quanta benedizione c’è sulla terra.


*

- Intervista

Fedele Mazzetti

[ Intervista a cura di Maria Musik e Roberto Biagiotti ; nella fotografia di Roberto Maggiani, da destra verso sinistra: Fedele Mazzetti, Massimiliano Lalli, Gabriele Delvecchio, Alessandro Pontesilli, Maurizio Morelli ]


Roberto Biagiotti ed io ci siamo recati nei locali dove Fedele Mazzetti prova con il suo gruppo. Ad attenderci, abbiamo trovato la band al completo che, prima dell’intervista, ci ha offerto l’opportunità di assistere alle prove. Si è, quindi, creato un clima particolarmente favorevole a rendere l’incontro molto intenso e fecondo. L’intervista si è svolta nella sala stessa mentre, fra una domanda e l’altra, saltava fuori un accordo, un suono, uno scorrere di dita sulle corde di una chitarra. In realtà, quello che vi restituiamo, è solo l’estratto di una lunga e partecipata conversazione.

Spetta a me il compito di “rompere” il silenzio che segue l’ascolto dei brani.

 

 

Sono abituata a “preparami” (in questa occasione, poi, l’ho fatto avvalendomi della competenza in campo musicale di Roberto Biagiotti) prima di un’intervista ma tentare di trovare qualcosa su Fedele Mazzetti è stato come cercare il famoso ago nel pagliaio. Non so se la mia è stata un’intuizione o una fantasia ma ho percepito un nascondimento, quasi un’assenza, voluto, un marketing che viaggia su altri canali, se non addirittura su e per altri “valori”.

Questo ha reso ancora più intrigante la domanda che apre ogni intervista:

 

1.      “Chi è Fedele Mazzetti” e perché sembra qualcuno (senza evocare mistici paragoni) che è rimasto nel deserto in attesa del “tempo maturo” per lasciarsi conoscere?

Sono un cantautore come tanti. Dopo l’esperienza del gruppo rock, vissuta negli anni ’90, ho provato, tra il 2000 e il 2005, a far ascoltare qualcosa in giro, in occasione di premi musicali, senza ricavare da queste esperienze grandi soddisfazioni. Sono uscito di scena, per quanto fosse una piccola scena. L’incontro con Maurizio, Alessandro, Massimiliano ed, in ultimo, Gabriele è stato discriminante. Adesso i tempi sono maturi.

Non voglio passare per uno snob: in realtà non amo pubblicizzarmi su Internet perché sono molto severo con me stesso e credo che se ci si deve far conoscere bisogna farlo, sempre e comunque, attraverso qualcosa che sia degno di essere ascoltato. Credo molto nel concerto e nel disco. Dal punto di vista manageriale e del marketing sono e sono stato molto scarso, anche se mi rendo conto che per promuovere i propri lavori, oggi sia indispensabile usare anche questi canali di massa.

 

2.     Quale è l’esigenza che ti ha portato a comporre e a suonare ed interpretare? E’ mutata nel tempo?

È semplicissimo: mi piace raccontare le storie. Niente di programmatico, politico: già vivere è fare politica, attraverso le proprie scelte. Semplicemente… il pianoforte e la voglia di raccontare queste storie. Niente di intellettuale.

(Interviene Maurizio Morelli, il bassista) In realtà la capacità evocativa dei testi e della musica di Fedele è incredibile, affascinante. Ogni volta che ci propone un nuovo brano, riusciamo ad immaginare ciò che racconta e, quindi, lo abbiamo incoraggiato in tutti i modi a portare alla luce questo suo dono di saper raccontare una storia in musica, è per questo che siamo insieme.

 

3.     Per chi compone musica e testi Fedele Mazzetti? Puoi rappresentarci, se c’è, il tuo interlocutore ideale?

Interessante. Non ci ho mai pensato. È una domanda impegnativa che mi trova impreparato.

 

4.              Roberto Biagiotti: c’è una Musa, una persona, un “soggetto” d’ispirazione, qualcuno al quale ti rivolgi quando cerchi le parole?

L’ispirazione arriva e basta: hai la fortuna di trovarti sintonizzato su una particolare situazione. E’ bizzarro, a volte sei lì, fai un la minore, un do settima e non ti dicono nulla. Capita, poi, il giorno in cui stai al pianoforte, suoni gli stessi accordi ed arriva la melodia che ti conduce a “vedere il film” del pezzo. Ti volti e la strada è lì, senza che tu l’abbia cercata. La fatica, la vera fatica, sta nel percorrerla e nel “coprire” la distanza che c’è fra una composizione e l’altra.

Ci sono, poi, i momenti più depressivi, quando sei a secco e la creatività sembra spenta. Quando non scrivi, non ti senti bene.

 

5.     Come nasce una tua canzone? Componi di getto o rivedi più e più volte le tue canzoni?

Dipende dai brani. Il processo è sempre lo stesso, parto sempre dalla musica. Per il resto ho avuto brani in cantiere per più di un anno ed altri che ho trovato per me “finiti”, dal mattino alla sera. Ci sono, poi, pezzi che “scottano”, devi “toglierteli dalla testa”, hai bisogno di tempo per poterli rivisitare. Qui viene in aiuto la tecnologia. Si registra e, al momento giusto, quando i tempi sono maturi, torni a “fare i conti” con il tuo brano.

 

6.     I soggetti e/o i “luoghi” delle tue canzoni sono per lo più frutto di fantasia oppure prendi spunto dalla realtà? Persone realmente esistite o personaggi d’invenzione?

Un mix, anche se prediligo la fantasia, sempre. Sì, decisamente la fantasia. Poi, credo di dire qualcosa di abbastanza ovvio, ci sono pezzi in cui le due componenti si sovrappongono, si completano. Ma la realtà mangia già troppa parte della nostra vita…

 

7.     E come ti senti a “opera” finita?

Bene, fisicamente, non solo spiritualmente. Intendo l’arte come Werner Herzoc intende il cinema: è una questione fisica. Ha sempre detto: “Quando non ce la farò più a portare una telecamera sul Rio delle Amazzoni, smetterò di fare cinema!”. Tutti i sensi, il corpo sono impegnati non solo l’intelletto.

Quindi, tornando alla risposta nella sua semplicità: … “bene!”.

 

8.     I quattro cinque strumenti musicali di cui non potresti fare a meno?

Questa domanda me la dovevate porre mentre stavo da solo: qui ci sono gli altri musicisti, diventa imbarazzante rispondere. A parte gli scherzi. I primi due sono speciali, gli altri importanti. Il timbro del pianoforte acustico, magari non suonato da me, insieme a quello del contrabbasso. E’ un suono che mi cattura: è il mio binomio preferito. Ovviamente, poi, tutti gli strumenti presenti nella band, altrimenti non ci sarebbero. La batteria di Gabriele, le chitarre, anche se devo dire che la chitarra elettrica è un po’ uno stereotipo del rock ed, in questo senso, non mi appartiene, ma qui ci sono due chitarristi eccezionali che sanno interpretare lo strumento. Poi, cosa manca? Il sax: un giorno lo avremo nel gruppo.

 

9.     Chi è artista?

(Lungo silenzio) La definizione d’artista… Nell’arte sono importanti in egual misura chi la fa e chi l’apprezza. Artista è colui che crea un’opera ma anche chi ne sa godere appieno.

Mi viene da ridere: un giorno Maurizio (il bassista) mi ha detto: “Io tengo il tempo anche quando metto la freccia mentre guido l’auto.” Ecco: questo è un artista. A Gabriele neanche lo chiedo… terrà il ritmo anche con i tergicristallo!

(Interviene Gabriele, il batterista) Diceva la persona che mi impartiva le prime lezioni, un musicista afro-americano: “Se tu ascolti bene quando rotola una bottiglia per terra, ti accorgerai che lo fa in 6/8, perché il ritmo dell’universo è in 6/8. Il 6 è un numero sacro, come tutti i multipli del tre”.

(Alessandro, uno dei chitarristi). Noi facciamo gli operai. Del connubio che abbiamo con Fedele, scherzando, diciamo che lui è l’artista e noi gli artigiani. Come ribadivamo prima, Fedele è libero da qualsiasi incombenza di tipo pratico, così fungiamo da “zavorra”, in senso buono. Da un certo punto di vista è anche indifeso e noi gli facciamo da scudo. Prima vivevamo più la dimensione di artisti, scrivevamo pezzi. L’incontro con Fedele ci ha portato a diventare musicisti e a collaborare con lui. Scomodo una citazione importante. Di Monet è stato detto: “Era solo un occhio ma che occhio!”; nel suo caso possiamo dire: “E’ solo una voce ma che voce!”.

 

10. La musica ha nell’attuale società lo stesso ruolo che aveva quando eri un ragazzo di 16/17 anni?

Questa intervista è di una profondità che non mi aspettavo: volete che mi metta a nudo.  (Rimane in silenzio)

 

11.  Qualche autore ti ha, in qualche modo, ispirato, influenzato o ha, addirittura, tracciato una sorta di solco interiore?

Ce ne sono tanti. Sicuramente, fondamentali direi Tom Waits e Paolo Conte sicuramente sono stati molto importanti. Però, una ventina d’anni fa, quando ascoltavo tanto rock, un’artista come Lou Reed lo è stato altrettanto. Sono anche un amante di Eric Satie, anche se quest’ultimo entra in un altro aspetto del mio modo di vivere la musica ed, istintivamente, nella mia composizione, nel mio scrivere, nella mia vita... E così anche Van Morrison…i Pink Floyd, Springsteen… ognuno di loro sicuramente mi ha dato qualcosa. Tra gli Italiani ho tanto stimato Vinicio Capossela, Sergio Cammariere, Sergio Caputo…Sto dimenticando sicuramente altri importantissimi…stasera quando starò nel letto dirò:”Oh noo, non è possibile!” (Risate generali, poi prosegue) “Mi verrà a citofonare  questo o quell’altro artista e mi dirà ma scusa…” (altre risate). Nick Cave per esempio, …David Bowie, Bob Dylan! Comunque il mio artista Jazz preferito, lo dico tranquillamente, è Thelonious Monk che io non considero solo un pianista jazz, ma – e qui qualcuno avrà da ridire qualcosa – l’unico cantautore jazz! Racconta delle storie con il suo pianoforte come fanno i veri grandi cantautori. I suoi “assolo” con il piano, sono la cosa più bella che io ho del jazz. …(Si ferma, folgorato da un nuovo nome) Bill Evans!

 

12. Ti definiresti più vicino ad un melodico all’italiana o ad un crooner?

Io non mi sento di appartenere a nessuno dei due generi, ma se il gioco è rispondere per forza ad una delle due domande allora rispondo: in modo assoluto ad un melodico all’italiana! Sono anche un amante della musica napoletana e, poi, tornando al discorso delle influenze, Ivano Fossati! Anche lui stanotte verrà a bussare alla mia porta, insieme a Cesare Andrea Bixio e tutti gli altri!

 

13. Guardando i video mi ha molto colpita la tua gestualità, il “danzare” delle mani. E’ come se volessi “spingere” la relazione comunicativa oltre la parola, oltre la musica: un linguaggio non verbale che si coniuga con gli altri, un “dirigere” l’orchestra interiore ed esterna od una scelta voluta, un espediente scenico per rafforzare la performance?

Forse, la prima ipotesi è la più calzante. Sento di dover aiutare la canzone: c’è una motivazione che è nella mia storia musicale. Alcuni miei pezzi hanno vissuto anni di buio ed è come se dovessi spingerli, dargli una mano. C’è il bisogno di “liberarsi” di certi sentimenti, è un bisogno fisico. E qui torniamo all’inizio dell’intervista, il cerchio si chiude: c’è il corpo che partecipa.

 

14. Tor Bella Monaca?

Sono nato e cresciuto qui… per l’esattezza, al piano di sopra. Ho sempre vissuto la borgata senza viverla. Non avevo qui la mia comitiva, non passavo il tempo seduto al bar. Molti, forse, non mi conoscono. Ma conosco questa borgata meglio di tante altre persone: ne avverto le pulsazioni e… canto. Non posso dire quanto abbia inciso sulle mie composizioni l’essere nato e vissuto qui: non riesco a quantificarne l’influenza. A parte la canzone “Il pullman Gino”, uno dei miei pezzi ispirati a qualcosa di assolutamente vero. Quando ero piccolo, passava un pullman e l’autista, un signore dai grandi baffi, si chiamava Gino. Gino faceva fermate per tutto il quartiere, caricava a bordo le persone, le portava ai “cancelli” (n.r. spiaggia pubblica del litorale romano) e, a sera, le riportava a casa.

 

15. Quando uscirà il suo nuovo cd?

Prima dell’estate, se ce la facciamo. (n.r. … ed ecco che riemerge il Fedele lontano dalle logiche del marketing e della promozione).

 

16. Ci presenti i componenti della band che ti accompagna?

Si presentano da soli questi musicisti.  Li avete ascoltati.

 

17. Per chiudere, vuoi dire qualcosa ai lettori ed agli scrittori de larecherche?

“Scusate, mi sento poco bene”.  Scherzi a parte, direi loro: “Continuate così!”.

(Interviene Maurizio) Vorrei ringraziarvi per l’impegno, la preparazione, la puntigliosità. Vorrei dirvi che fate un lavoro incredibile. Frequento il sito e si respira la professionalità e la passione non fine a se stessa, vissuta da persone che amano ciò che fanno. Vorrei dirvi grazie perché in questi tempi in cui tutto è prevaricante, distorto, lontano dalla voglia di emozionare le persone, questo sito porta l’arte alle persone.


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Fedele Mazzetti in concerto: il 3 giugno 2011 al quartiere San Lorenzo in Roma, presso il locale Riunione di condominio, via dei Luceri  13, ore 21.00.

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Ecco alcuni video in cui puoi vedere e ascoltare gli artisti:









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- Intervista

Marzia Alunni su Maria Grazia Lenisa

[ Intervista a cura di Roberto Maggiani: proponiamo questa intervista a Marzia Alunni sulla poetessa Maria Grazia Lenisa. Possiamo affermare che la sua voce poetica, e non solo, sia rappresentativa di molte voci italiane che hanno lavorato o lavorano con grande passione per la lingua e con la lingua italiana, per questo motivo la proponiamo in occasione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia ]


 

 

DOMANDA.

Cara Marzia, questa intervista è in onore e in memoria di Maria Grazia Lenisa, il 13 febbraio 2011 sarebbe stato il suo settantaseiesimo compleanno, ma Maria Grazia ci ha lasciati il 28 aprile 2009, dopo una lunga malattia che purtroppo lei stessa mi comunicò con una sua lettera – a cavallo del Duemila, usavamo ancora le lettere di carta. Conobbi il suo nome grazie a una sua bellissima silloge poetica, “laude dell’identificazione con Maria”, Edizioni Gazebo, 1992, che mi fu regalata da Mariella Bettarini nel 1998 e che mi conquistò. Le scrissi un anno dopo per chiederle la prefazione alla mia seconda silloge poetica “Forme e informe”, pubblicata dallo stesso editore… ma andiamo con ordine. Marzia, potresti gentilmente presentarti ai nostri lettori, in particolare proprio in relazione a Maria Grazia Lenisa?

 

RISPOSTA.

L’esperienza, di avere una scrittrice come lei per madre, è stata significativa per tutti gli aspetti del nostro rapporto, dal quotidiano della formazione iniziale, alle scelte umane, culturali e di studio successive. Il suo stile educativo era responsabile, esigente, ma anticonformista. Come donna si appellava al mio senso critico, con molta ironia, chiedendo una condivisione dei valori che fosse libera, ma vissuta fino in fondo, impegnandosi.

 Maria Grazia Lenisa non si tirava indietro quando era necessario apparire scomoda, è una lezione dignitosa che non ho mai dimenticato. Per me è stato importante scegliere di laurearmi in filosofia, con una tesi su un filosofo antidialettico del sec. XII, una scelta approvata dalla scrittrice e dalla madre. Convinto è stato anche il suo appoggio ai miei interessi di poesia, culminati con la pubblicazione de “Il Semacosmo” (edito da Bastogi nell’aprile 2002) e continuati dall’elaborazione di un’opera ancora inedita. Ora m’intriga soprattutto la critica letteraria, prediligo la lettura e l’analisi interpretativa, sebbene da una posizione felicemente autoreferenziale.

 

DOMANDA.

Ci parli di Maria Grazia? Ce la presenti? Alcuni dei nostri lettori ancora non la conoscono.

 

RISPOSTA.

È nata a Udine nel 1935, vivendo gran parte della sua esistenza a Terni. Fin dagli anni ‘50 le sue sillogi poetiche vengono notate da parte di critici straordinari quali: A. Capasso, F. Flora, F. Palazzi, F. Pedrina e E. Allodoli. Nel 1955 ha pubblicato “Il tempo muore con noi”, seguito da “L’uccello nell’inverno” e, durante la sua breve residenza a Brindisi, da “I credenti”. Gli anni ‘70 conducono Maria Grazia ad una revisione totale della precedente poetica, di questa crisi, sono testimonianza “Terra violata e pura” ed “Erotica”. Si assiste perciò a una svolta nel modo di intendere il femminile e l’eros. Per rispondere all’esigenza di rinnovamento, si rivelano fondamentali le poesie de “L’ilarità di Apollo”. In esse prevale un’ironia demistificante, espressa da versi fintamente narrativi, in un contesto poetico dall’erotismo metarealistico, basato sull’invenzione di un mondo immaginario. La nuova scelta è dibattuta con il critico-poeta Giorgio Barberi Squarotti che nelle prefazioni alle sue opere si propone come l’interprete più fedele al suo dettato.

Svariate sillogi sono state scritte poi nell’ultimo trentennio, da alcune si è attinto per l’antologia “Verso Bisanzio”(Bastogi), qui ricorderei: la “Laude dell’ identificazione con Maria” (Editrice Gazebo), promossa dalla mediazione critica di Mariella Bettarini, ma ancheLe Bonheur”,” La predilezione”,” L’ombelico d’oro”, “Eros sadico”, “Incendio e fuga”, “La rosa indigesta”(opere bastogiane), le “Amorose strategie”(Rhegium Julii 2008) e, inedito-postumo, “Il Canzoniere Unico”. Originale studiosa di critica letteraria, Maria Grazia Lenisa, si è interessata di nomi quali: A. Capasso, G. Barberi Squarotti, A. Zanzotto, G. Ruggero, S. Spartà, G. Mascioni, A. Coppola, M. Luzi, M. Bettarini, F. Delfi, A. Bonanno, A. Manuali e C. Calabrò e molti altri ancora. Ha elaborato un saggio di estetica fenomenologica, “La dinamica del comprendere”, che ripensa innovativamente il ruolo dell’ispirazione, coautrice mia sorella, Francesca Alunni.

Insignita dall’Istituto di Cultura Superiore del Mediterraneo di Palermo e Monreale, nel novembre del 2003, del “Diploma honoris causa” ha diretto la collana del Capricorno (Edizioni Bastogi). È nella “Storia della Civiltà Letteraria” (UTET). Il 28 aprile 2009 è venuta a mancare.

 

 

DOMANDA.

Quando ti sei resa conto di essere figlia di un poeta e che cosa ha significato per te?

 

RISPOSTA.

Da bambina ricordo la mamma sempre con la penna in mano. A ottto anni ero… gelosa, la volevo tutta per me. Successivamente ho mutato atteggiamento del tutto, scoprendo lati sempre nuovi della sua personalità. Ad esempio, mia madre è stata molto coinvolta dalla mia ‘tesi’ sul filosofo antidialettico Aelredo di Rievaux (sec. XII), a tal punto da aiutarmi a ricopiarla nella stesura finale. Non mi è facile dire molto della sua figura umana, senza soffrire, sebbene non provi una vera sensazione di abbandono perché vince la “maturità.” ! A volte, quando era viva, mi ripetevo, come un mantra: “Mia madre è il sole della mia vita!” Ora è necessario che questa luminosità non si perda nella dimenticanza. È un impegno costruttivo, simile a tutto ciò che lei intraprendeva.

 

 

DOMANDA.

Riporto alcuni versi della silloge “laude dell’identificazione con maria”: “Ahi! Quella chiusa / adolescenza ingrata / nella casa di Udine, / remota. / Così quel giorno / che apparisti all’Altra… / Come ombrello che s’apre / il tuo frusciare, per scrollarti le gocce, solo un modo, fra tanti, di annunciare… / M’avessi detto: / ‘Maria, sarai madre…’, / t’avrei cacciato e chiuse / le finestre. / Non avevo io dietro / le ali, ma la schiena pudica, un poco curva per i seni / inizali. / E quella luce su tante / miserie: la povera cucina, quattro pentole, Elisabetta / intenta a ventilare / un fuoco che non prende. / E ritrovarmi una ragazza- / madre? // […]”. Non vorrei apparire invadente, ma è un testo che ha un vago sentore autobiografico, mi sbaglio? Ci racconti qualcosa della giovinezza di Maria Grazia? A quale età ha iniziato a scrivere e perché? Che cosa e chi ha influito maggiormente sulla sua scrittura? Quali erano le letture preferite da tua madre? Quali sono stati i suoi maestri nella scrittura?

 

RISPOSTA.

Arlesti Maria venne riconosciuta da sua madre Ada, in pericolo di vita nel metterla al mondo, e ricevette quindi il nome di Maria Grazia e il cognome ‘Lenisa’. Crebbe come una “bambina scura dagli occhi bassi”, dall’amore appassionato verso la sua mamma, giovane e ragazza madre, una condizione scomoda, un marchio. Mariucci (in friulano) era precoce nell’amore per la poesia, già a sei anni componeva, basti pensare che la nonna Irene, suo reale genitore, era povera e non istruita (ma tanto sensibile). Ad indirizzarla verso gli studi classici fu la maestra elementare che le regalò tutta la sua biblioteca, fu… un’orgia di endecasillabi, di stanze, ottave e poemi per imitazione. Durante il liceo entrò in contatto con Aldo Capasso, il primo degli importanti intellettuali a credere in lei. Divenne in poco tempo un’esponente di spicco del movimento “Realismo Lirico”, erano gli anni della giovinezza, del Premio “Città di Catania”. La mamma era contornata da giornalisti scherzosi e da camerieri che al ristorante la viziavano! La sua poesia manifestava però caratteri di assoluta originalità anche rispetto ad altri autorevoli poeti della corrente.

Cambiarono le tendenze, mia madre (sposatasi, poi, negli anni ‘60) non concesse molto al gusto imperante, però ebbe il bisogno di scrivere un libro, in un certo senso, sociale, come “I credenti”, dedicato al Sud. Con “Erotica” e, soprattutto “L’Ilarità di Apollo”, il suo percorso prese una svolta totalmente differente, ma restava, in un ambito che privilegia ora tuttavia l’immaginario, “…una sana fresca innocente sensualità…”(Pref. di A. Capasso a “Il tempo muore con noi”). Si tratta di una nota destinata a svilupparsi in direzione anche del sacro, specialmente nelle opere seguenti. L’ultima produzione, successiva a “Verso Bisanzio”, metabolizzerà la dura esperienza del cancro, che non vorrei definire assolutamente un maestro, sebbene sia stato una dura scuola di vita. Molti critici hanno dato ali, estro e fantasia ai suoi versi, ma i numerosi amici sono stati, a loro volta, assai determinanti.

 

DOMANDA.

C’è un detto africano che afferma che i figli crescono guardando le spalle dei genitori, cioè crescono imparando da essi molte cose senza che i genitori se ne accorgano. Quale eredità morale, etica, spirituale e artistica ti ha lasciato tua madre? Che passioni ti ha trasmesso volontariamente e involontariamente?

 

RISPOSTA.

Sarei tentata di rispondere: tutto! Sarebbe la verità, però la mia personale idea è che il rapporto umano abbia avuto un significato importante per maturare un vissuto autentico, motivo ispiratore e spunto di riflessione. Alludo ad una poetica non smaccatamente confessionale e all’empatia come approccio al testo. Sul piano etico vibrante è stata la sua richiesta di giustizia per sé, per la Poesia con la maiuscola e per tutti i ‘suoi poeti’.

 

 

DOMANDA.

Sul tuo blog (http://marzialunni.blogspot.com/), presentando una poesia di Maria Grazia, in occasione del suo compleanno, scrivi: “In occasione del 13 febbraio, anniversario della nascita di Maria Grazia Lenisa, vi propongo semplicemente questa poesia per riflettere su una vocazione, quella del letterato, piena di responsabilità. Scegliere di sostenere la Parola significa impegnarsi in una battaglia che dura tutta la vita”. Ci racconteresti più in dettaglio cosa intendi dire dicendo che il letterato ha una vocazione piena di responsabilità, di quale responsabilità parli? Qual è il pensiero di Maria Grazia in relazione a tale responsabilità? C’è qualche momento particolare, che ricordi, nella vita di tua madre, in cui è particolarmente evidente la fatica di questa battaglia a sostegno della Parola?

 

RISPOSTA.

La responsabilità cui mi riferisco e quella interferente, come diceva spesso mia madre. Si tratta di agire conformemente alle proprie idee, senza compromessi, ma neppure fanatismi. Essere determinati significa testimoniare, passare per scomodi e non riuscire a comunicare in maniera adeguata la propria posizione, per le troppe umane conflittualità: potere contro merito, giustizia opposta a clientelarismo, autenticità in luogo di artificio.

Il letterato è ciascun uomo intelligente che apre un libro, qui sta la differenza con il passato, disponiamo degli strumenti, a volerli usare. I critici accreditati rispondono su un piano ulteriore, a loro compete la correttezza metodologica, non unicamente riducibile all’esattezza dei riferimenti testuali e bibliografici. C’è un dovere, che entrambe riconoscevamo, proprio dello studioso: mettere in discussione i cosiddetti “maestri”, verificare o forse falsificare le teorie già note. Mia madre non riteneva, a priori, valide ‘linee’ e ‘gruppi’ di poesia, preferiva distinguere profili ed esperienze nel crogiuolo del ‘900 ancora, a suo giudizio, confuso. Non è difficile intuire che questo atteggiamento le ha portato adesioni, ma anche problemi. Un discorso a parte merita poi l’erotismo in poesia che per Maria Grazia era persino opposto al vissuto ( l’eros genera arte, la sessualità, vita). È sempre stato faticoso difendere questo punto di vista, soprattutto con i letterati maschi di idee meno aperte, disposti a sostenere quelle scrittrici aproblematiche e magari disposte a …fraternizzare. È dura sempre per le donne in gamba!

 

DOMANDA.

In una tua e-mail, inviata a me e ad altri per proporre la lettura della poesia di tua madre pubblicata sul tuo blog, riproposta anche su LaRecherche.it, scrivi: “Non può essere tollerato l’uso e l’abuso della donna, compiuto da media e politici, a vario titolo e per ragioni di opposti schieramenti, quando esistono scrittrici e, in generale, intellettuali, che riservano la loro esistenza alla difesa del valore.” Che cosa direbbe, o scriverebbe Maria Grazia su questi tempi di malaffare (sempre citandoti)?

 

RISPOSTA.

Riderebbe dei protagonisti, senza con ciò esprimere giudizi di carattere politico, a lei abbastanza estranei. La sua politica era quella dell’onestà, purtroppo non si rivela affatto la migliore oggi. Dietro la risata, comunque, mia madre celava spesso un’amarezza, sul futuro, ben condivisibile. Non amava inoltre il termine “poeta”, usato al femminile, voleva rivalutare la parola “poetessa”, come titolo di merito, da portare con orgoglio. Credeva nel rispetto dell’integrità personale, scanzonata e assolutamente libera nell’espressione, sebbene da vivere con intelligenza. Il corpo è tutt’uno con la mente, non deve essere sbattuto in prima pagina, piuttosto ‘svelarsi’ come un miracolo che non smette di stupire, né si può comprare, un dono ardito.

 

 

DOMANDA.

Maria Grazia ha scritto molto, leggiamo, nella sua biografia che “Fin dagli anni ‘50 le sue pubblicazioni poetiche sono state oggetto di studio da parte di valenti critici quali A. Capasso, F. Flora, F. Pedrina e E. Allodoli.” Inoltre, in un bellissimo articolo, pubblicato sul numero 89-90, uscito nel 2010, della rivista fiorentina di letteratura e conoscenza, “L’area di Broca”, il poeta e critico Franca Alaimo, anche membro della redazione de LaRecherche.it, così si esprime: “[...] La Lenisa appare, di fatto, così consapevole della unicità della sua vocazione da porsi, come già aveva fatto Dante, nel numero dei grandi poeti che l’hanno preceduto o che le sono contemporanei, e da non risparmiare sapide frecciate all’indirizzo di certi bei nomi delle lettere italiane. [...]”.Come ha vissuto Maria Grazia la relazione con la critica? Che cosa si aspettava, che cosa non le è stato concesso che invece si aspettava e si sarebbe meritata? Pensi che l’opera poetica di tua madre sia stata considerata adeguatamente dalla critica? Che cosa prevedi per il futuro? Hai progetti per mettere maggiormente in luce la meravigliosa forza dell’opera poetica di tua madre?

 

RISPOSTA.

La critica letteraria ha dato molto, in termini di spunti e riflessioni, a Maria Grazia Lenisa. Il suo epistolario rivela parecchie discussioni approfondite sul senso della poesia, della letteratura, e sul ruolo che attribuiva se stessa in tale contesto. Il riferimento a Dante è certamente una provocazione costruttiva, per muovere a riflettere sulla poesia che non rinuncia alla sfida della grandezza, del pluristilismo e, scherzosamente, su un certo particolare naso! Mia madre è stata capace anche di crearsi, ne “Il Canzoniere Bifronte”, un coautore, Max Bender, e un critico, Pietre Visser, che sono esclusivamente parto della sua fantasia, ancora una volta, volava alto sulle convenzioni. Le è mancata l’intesa con alcuni intellettuali, quelli che ringraziavano solamente all’invio dei libri, o rispondevano che: “La sua era una poesia assai valida, però non rientrava nei loro schemi”. La logica ultima di certe reazioni sfugge davvero. Negli ultimi anni si era convinta che in fondo aveva avuto il meglio: tutto il divertimento di scrivere assolutamente come le pareva, pazienza per il grande editore! La battaglia per il merito è in salita per tutti, non c’è da stupirsene, l’edizione più accreditata non protegge dalla dimenticanza. Solo incrementare l’abitudine di leggere è una garanzia per il futuro di tutta la cultura.

 

 

DOMANDA.

Entriamo un po’ di più nell’opera di Maria Grazia e nel suo fare poesia. Sempre nell’articolo di Franca Alaimo, si legge: “[…] In verità, sembra che proprio in ciò consista l’operazione poetica della Lenisa: sacralizzare, attraverso la Parola poetica, tutto l’esistente, sia esso sperimentabile con i sensi, o teologicamente vero benché invisibile, o soltanto possibile perché immaginabile; e poi bruciarlo nella grazia del ritmo, nell’innocenza dell’invenzione, nell’emozione del molteplice sentire; e, in fin dei conti, sacralizzare se stessa e la propria parola, cingendosi il capo del lauro dell’eternità. […]”. Queste di Franca sono parole bellissime che, a mio avviso, riassumono molto bene il lavoro in versi di tua madre. Che cosa ne pensi, in particolare del sacralizzare tutto l’esistente e se stessa attraverso la parola?

 

RISPOSTA.

Franca Alaimo, ha colto magistralmente uno degli aspetti più interessanti nel suo percorso poetico, è un ritratto di rara efficacia. C’è in Maria Grazia Lenisa quella spinta a dire l’indicibile, attraverso la mediazione dell’eros e del sacro, non convenzionali. Appare, metatestualmente, una straordinaria vocazione alla vita “altra” nei suoi versi. Non dubito affatto che il premio vero sia la gloria, perciò si avverte una sorta di fede, in tale orizzonte creativo: la fiducia nel potere della parola, come Poesia e come presenza viva, religiosa, della Grazia.

 

DOMANDA.

Altro elemento fondante la poesia della Lenisa è l’eros, si leggono poesie pervase da un erotismo sano, umano, necessario, primigenio, addirittura la Alaimo parla di eros come “soggetto dominante” della sua poesia. Nell’ultima raccolta di tua madre, con la quale ha vinto il Premio Rhegium Julii, dal titolo “Amorose strategie”, pubblicata a cura del Circolo Rhegium Julii, ma anche nelle sue opere precedenti, Lenisa usa, talvolta, parole che normalmente, nel comune parlare, come nella poesia, si cerca di evitare per una sorta di falso pudore, invece lei riesce a comporre, con la sua grazia poetica,un mosaico di parole che si sorreggono l’una l’altra mostrando un disegno armonioso e piacevole che va al di là dei significati delle parole stesse, come in questa di pagina 23 intitolata “Ciò che non voglio”: “Ti piace l’uva passa, il capo nel tepore / del grembo palpitante, / il movimento / della bocca sembra / sporcarlo di vin santo. // Amore sei ciò che non voglio: sesso, / amore sei ciò che voglio: amore. // Non è colpa mia se il nido è / un orecchio, se il pène non suona il piffero / che dentro il circuito / delle vene. / Corsa di Indianapolis, chi / l’avrebbe detto che sarei arrivata prima. / Scorre lo champagne.” Che cosa ne pensi? Come riusciva, Maria Grazia, a conciliare la sua forte spinta alla trascendenza con una decisa tensione all’immanenza?

 

RISPOSTA.

La fede non è certo un trattato di geometria, neppure l’eros, la necessità di conciliare, quindi, gli opposti, semplicemente, è rimandata a una dimensione ultima, “in fieri”, allusiva e mai risolta teoreticamente. Ritengo poi che trascendenza e immanenza siano le cifre di una contraddizione, insita nel nostro tempo, di cui la Lenisa è stata testimone appassionata.

 

DOMANDA.

Ho l’impressione, per esperienza diretta, che Maria Grazia avesse una predilezione per i poeti spersi, esordienti o non considerati dalla critica ufficiale. Tua madre mi accolse nella sua amicizia, all’epoca ero esordiente al secondo libro. Ogni tanto ci scambiavamo lettere importanti in cui ci confrontavamo su vari temi, non necessariamente con molte parole, erano più che altro domande che rimanevano sempre aperte, su Dio, la fede, la poesia, la scienza. Ricevere una sua lettera mi dava sempre grande gioia e forza. Che cosa ne pensi? Ti comunicava le sue esperienze in relazione alla sua attività di poeta? Ha diretto la collana del Capricorno per la Casa Editrice Bastogi, come procedeva alla selezione dei testi? Ti parlava mai dei poeti che a lei si rivolgevano?

 

RISPOSTA.

Nella tua vicenda personale ci sono già le risposte più vere ai quesiti che mi poni. Legava con autori, per così dire, spersi, come atto di fiducia assoluto verso la poesia e nei confronti dell’uomo-poeta. Non badava a blasoni di nobiltà, metteva in discussione i potenti e voleva essere stimata dai suoi amici per se stessa, unica Maria Grazia! Le sue esperienze sono state la mia vita, ora i suoi amici contribuiscono ad arricchirmi intellettualmente. Conservo tutte le sue lettere e metabolizzerò con il tempo la strordinaria lezione culturale che mi ha lasciato. La selezione per il Capricorno Bastogiano, a riprova del suo impegno, era legata all’ empatia per la testualità altrui. La lettura ha assunto perciò un ruolo centrale ( e faticoso) nella quotidianità per anni, era oggetto di scambi verbali tra noi ( anche mia sorella partecipava) e di interesse per la varietà delle voci analizzate. Un ‘900 alternativo, poi, rientrava nell’impostazione editoriale della Bastogi, come attestano i numerosi volumi critici, come ad esempio “L’Altro Novecento” di V. Esposito.

 

DOMANDA. Tu scrivi poesie? Non ti è mai passata per la testa l’idea di prendere l’eredità poetica di tua madre e svilupparla scrivendo tu stessa poesie?

 

RISPOSTA.

Scrivo poesie dall’età di quindici anni, ma non sono certa di essere uno sviluppo all’altezza della sua complessa dimensione artistica. Evito di collocarmi dunque nella sua scia, il mio libro d’esordio è stato pubblicato in un numero modesto di copie ed ho un inedito nel cassetto, forse vi resterà. Attualmente desidero sviluppare invece il discorso critico.

 

DOMANDA.

Che cosa vorresti raccontare di tua madre, poeta, donna e madre, che non hai mai avuto l’occasione di dire? C’è una domanda che vorresti ti facessero per mettere in luce aspetti ancora non ben evidenziati della sua vita? Insomma la parola è tua, domanda a tema libero…

 

RISPOSTA.

Vorrei che mi si chiedesse per quale motivo i poeti dovrebbero leggere un suo libro. Risponderei che, se crediamo davvero nel diritto di non essere dimenticati per ottenere un’adesione al nostro percorso artistico, dobbiamo accertarci che sia riconosciuto il valore degli autori che hanno lottato prima di noi. È una cattiva premessa, per tutti, lo scandalo dell’oblio. Oggi l’abbondanza di informazione può tradursi nel rischio della caoticità. Lottare per Maria Grazia Lenisa è difendere il suo e il nostro diritto ad essere ascoltati.

 

DOMANDA.

La cara amica Franca Alaimo, sapendo di questa intervista, mi ha chiesto di porti questa domanda: “Maria Grazia soleva dire che il gesto poetico “sub specie aeternitatis” è ineliminabile. Però mi sconcerta il fenomeno dell’arte sempre più ridotta all’ “usa e getta”; per cui, una volta usciti da questo mondo, sembra che un glaciale silenzio si stenda sull’opera di poeti di grande qualità. Che cosa ne pensi del fenomeno, anche in relazione alla poesia di tua madre?”

 

RISPOSTA.

Condivido la preoccupazione espressa, tuttavia ritengo utile ribadire quanto ho già detto, la costruttività del nostro interesse per il valore artistico, personale e collettivo, ci deve spingere a solidarizzare con i poeti validi che non sono più fisicamente tra noi. Le loro poesie rimangono e nessuno, in effetti, può cancellarle, tranne la nostra decisione di chiudere la disponibilità al dialogo. Mia madre non è stata ancora dimenticata, allora forse anche voi, e i lettori di questa intervista, sarete ricordati, o letti se scrivete, con amore. Maria Grazia Lenisa, sappiatelo, non vi avrebbe mai dimenticato!

 

DOMANDA.

Hai una sua poesia da proporci in lettura per ben terminare l’intervista?

 

RISPOSTA.

Da “Arianna in Parnaso” vi propongo il testo intitolato “Vi lascio la Parola”:

 


VI LASCIO LA PAROLA

a Sergio Pautasso

Un’anima così

specchio del mondo ove si mira in fiore

la fanciulla,

ove il ragazzo si contempla il corpo appena

usato dal piacere e contende con la spada vivente la vita,

un’anima così non vale niente? Valgono i corpi soggetti

alla morte e Dio ci specchia, Anima del mondo, ironico,

nascosto.

 

A volte è l’urlo, perché lo specchio più non

specchia niente.

 

Lo vidi umano solo nella Donna che gli fu nido, voleva

esser stretta come conchiglia che chiude la perla.

Sortì la perla, aperta con la punta d’un coltello affilato,

dentro restava soltanto una goccia, un semacosmo

e si leggeva intera la Parola.

Dove cercare, uomo d’ogni

croce sulla terra la gioia?

Se mi sospinsi in mezzo

alla parola, fu per vivere intera la Speranza, sennonchè

l’uomo mi rigetta fuori dalla parola come fosse il guardiano

geloso d’ogni sillaba di gloria.

Cosa vi lascio, se mi perdo

in questa bolgia ch’è buca d’interessi e si compra l’anima

al prezzo di ogni rimorso.

Vi lascio la Parola a cui

mi afferro come al ramo che pende sull’abisso. E passa

Cristo, imbracciando una corda, si china, io l’afferro,

non precipito.

 

 

Grazie.


Leggi anche l'eBook Poetica Unità d'Italia


*

- Letteratura

Larecherche.it a Letteratronica

Proponiamo
l'intervento di presentazione del sito LaRecherche.it al convegno

 

LETTERATRONICA

Riviste, editoria e scritture nella rete globale

Roma, Biblioteca Vallicelliana, 9 marzo 2011

 

A cura di Roberto Maggiani e Giuliano Brenna

 

LaRecherche.it deriva, se non altro nel nome, dalla grande opera proustiana di cui siamo estimatori, La Recherche, da cui cito due frasi che abbiamo riportato sul sito:

Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso.

(da Il tempo ritrovato - Marcel Proust).

E ancora:

Ho amici ovunque vi sia un gruppo d’alberi piagati, ma non vinti, che si sono uniti per implorare insieme con patetica ostinazione un cielo inclemente che non ha pietà di loro.

(da Dalla parte di Swann - Marcel Proust).

Poche righe che esprimono ciò che LaRecherche.it vorrebbe essere, un gruppo di autori e lettori ostinati, che si sono uniti sotto il cielo inclemente di forze avverse alla cultura, come alternativa alle tendenze elitarie di alcune correnti culturali e editoriali italiane, cercando di offrire una sorta di strumento ottico per vedere altro, come, ad esempio, altri autori mai visti/letti prima.

La pagina Chi siamo del nostro sito si apre così:

Questo è, prima di tutto, un luogo di partenza, di aiuto reciproco, di lavoro comune e di confronto sulla scrittura: da qui si parte, non si arriva; o meglio, qui si arriva soli per partire insieme...

LaRecherche.it è uno spazio libero, in cui il tuo pensiero può scorrere verso altre menti. Ogni servizio offerto è completamente gratuito e necessita di una semplice registrazione.

LaRecherche.it nasce dall’idea, di Giuliano Brenna, qui presente, e mia, di creare, per mezzo della rete, opportunità di libera condivisione di idee, pensieri e bellezza attraverso la scrittura, in un confronto che accresce e sviluppa la stessa scrittura. Tale idea ha preso il suo avvio dalla nostra comune passione per la lettura e la scrittura, sulla quale abbiamo investito il nostro tempo e le nostre competenze, architettando il progetto e realizzando il sito nell’estate del 2007. Nel dicembre di quello stesso anno LaRecherche.it è andata online sostituendo completamente una prima struttura che si chiamava Lapared.it, La parete, nata nel lontano 2002 dalla mia semplice idea di dare l’opportunità, ai naviganti, di attaccare ad un muro virtuale, in modo informale e libero, i propri scritti.

L’idea di base de LaRecherche.it è, quindi, quella di creare opportunità, di visibilità e scambio, a scrittori e scritture, dalla narrativa alla poesia, altrimenti invisibili nel panorama culturale italiano, dominato e indirizzato a proprio piacimento dalle grandi case editrici e da un potentato di letterati e autori che decidono della vita o della morte letteraria di molti altri autori. LaRecherche.it è quindi un luogo di lettura, che sfrutta la rete e la sua capillarità a sostegno di una rinnovata concezione più democratica del sapere, dove chiunque può pubblicare i propri scritti – so che, con questo chiunque, facciamo accapponare la pelle a molti che vorrebbero fare della letteratura il proprio piccolo recinto e degli scrittori la propria mandria, con tutte le conseguenze di vita e di morte.

Vorremmo, diversamente da quanto spesso avviene altrove, nel limite delle nostre possibilità, essere interlocutori presenti, provando a dare risposta ad ogni persona che cerca in noi, in qualche modo, un riferimento, inviandoci e-mail, lettere, testi, libri, eccetera, nel tentativo di proporre e sviluppare la propria scrittura mettendosi in gioco. Lo facciamo se non altro per educazione, contro la maleducazione imperante dell’assenza di risposta che molte istituzioni letterarie riservano a chi, sconosciuto, tenta di interloquire con loro. Talvolta il nostro tentativo di onestà intellettuale fa sì che alcuni si allontanino, ma molti rimangono e con essi inizia un percorso di crescita, insieme, che non raramente coinvolge anche altri aspetti della vita, oltre a quello della scrittura. Spesso nascono amicizie che costituiscono la vera rete de LaRecherche.it, la rete delle donne e degli uomini in carne ed ossa che stanno dietro ai monitor.

Crediamo nel valore comunitario della scrittura, pensiamo che la letteratura attuale e del futuro debba fondarsi sullo scambio e sulla condivisione costruttiva e pacifica della diversità delle idee e delle scritture, che devono circolare liberamente. Pensiamo che ogni uomo abbia il diritto, se avverte il potente richiamo alla scrittura, ad assecondarlo, almeno a provarci: esprimere il proprio più profondo sentire nell’arte in genere e in particolare nella scrittura, è un diritto ma anche un dovere.

Ogni autore registrato ha una sua pagina pubblica dalla quale è possibile visualizzare tutte le pubblicazioni e gli interventi dell’autore sul sito, personalizzata con una immagine, un motto, un biglietto da visita, una biografia e il collegamento a un possibile sito di interesse dell’autore.

La redazione è composta da Franca Alaimo, Maria Musik, Giuliano Brenna e da me, Roberto Maggiani, coordinatore di redazione; abbiamo anche la gioia e la fortuna di avere vicino a noi vari collaboratori, tra i più stretti cito Loredana Savelli, Francesco De Girolamo e Roberto Biagiotti (consulente musicale).

Possiamo affermare che LaRecherche.it è un luogo di partenza e non tanto di arrivo. A differenza di altri blog e riviste letterarie che stimiamo moltissimo, e che per noi sono un riferimento, abbiamo fatto la scelta di dare spazio di libera scrittura a tutti, in una sorta di grande laboratorio in cui cerchiamo di accompagnare gli autori nella realizzazione del proprio stile e nell’esplicitazione dei propri temi. Tale laboratorio si avvale di opportune sezioni del sito che sono punto di riferimento per tutti – che affiancano quelle di libera scrittura – dove si è certi di trovare esempio e sprone per sviluppare, migliorare o consolidare la propria scrittura, tali sezioni sono: Intervista a, Poesia della settimana, Recensioni, Altri autori e testi proposti, Libri liberi (sezione dedicata agli eBook). In queste sezioni vengono proposti, esclusivamente dalla redazione, autori e letture capaci di essere esempio di buona scrittura – fa eccezione la sezione Altri autori e testi proposti nella quale possono essere pubblicate liberamente, da parte di tutti gli utenti, proposte di lettura di altri autori. Inoltre è fondamentale, in questa sorta di laboratorio, il fatto che tutti possano commentare, pubblicamente o privatamente, un dato testo in modo da metterne in evidenza i punti di forza o di debolezza.

Vorremmo mettere in luce gli autori contemporanei, quelli noti come quelli meno noti, poiché i noti non sempre sono così noti tra coloro che sono agli esordi e tra i meno noti emergono spesso figure di vero interesse per vita e acutezza di pensiero. Ecco allora che tra le interviste proposte troverete nomi come Elio Pecora, Maurizio Cucchi, Franco Buffoni, Valerio Magrelli, Maria Grazia Calandrone e nomi meno noti come Lorena Turri e Anna Belozorovitch, la prima che non ha mai pubblicato un solo libro ma scrive in vari blog online, la seconda forse sconosciuta ma già alla sua quarta raccolta poetica.

Nella sezione Poesia della settimana, proponiamo, ogni lunedì, fino al successivo, autori contemporanei di varia notorietà, qualcuno anche sconosciuto, ma i cui testi sono riconosciuti avere qualità tali da essere di esempio per la scrittura di altri, normalmente proponiamo inediti.

Nella sezione Recensioni ci proponiamo di recensire e segnalare, in particolare, libri di scarsa distribuzione e visibilità, di piccole case editrici, ma anche libri di grandi case editrici. Prendiamo in considerazione tutti i libri che ci arrivano, o attraverso la proposta della recensione sul sito o privatamente scrivendo all’autore qualora il libro risultasse eccessivamente debole. Riceviamo tantissimo materiale i tempi di risposta si allungano, ma cerchiamo di non farla mancare a nessuno. Pubblichiamo le recensioni solitamente il martedì e il venerdì, quella del venerdì è anche lettura consigliata con la copertina esposta sulla prima pagina. Ogni tanto recensiamo anche le riviste per portarle all’attenzione dei lettori e degli autori del sito. Le recensioni sono anche visibili sul sito collegato www.recensionidilibri.eu.

Nella sezione Altri autori e testi proposti, come detto, lasciamo invece liberi gli autori di proporre testi di altri autori che possano essere esempio di scrittura, ai quali gli autori si ispirano e vogliono sottoporre all’attenzione degli altri autori o lettori della comunità.

Tra le varie proposte abbiamo, inoltre, i cosiddetti libri liberi, eBook liberamente e gratuitamente scaricabili, nessuno paga, né gli autori né i lettori, gli unici che pagano, in tempo di lavoro impiegato nella lettura, nell’eventuale editing e nell’impaginazione, siamo noi redattori. Anche tra gli eBook annoveriamo nomi noti e nomi meno noti, alcuni esordienti. Riceviamo molte richieste di pubblicazione nella nostra collana di poesia e narrativa, nel limite del possibile leggiamo tutti e facciamo una selezione provando ad accontentare tutti. Se occorre facciamo un lavoro di editino. Cerchiamo di non pubblicare più di tre eBook al mese. Anche tra gli eBook proponiamo nomi noti, quali Pecora, Deidier, Buffoni, Calandrone, Bettarini, Maleti, eccetera, insieme a nomi meno noti o esordienti. Gli eBook sono pubblicati sul sito www.ebook-larecherche.it, collegato a LaRecherche.it.

Da diversi mesi abbiamo inoltre avviato una serie di incontri fisici de LaRecherche.it, aperti a tutti, un modo per conoscersi e scambiare idee e scritture/letture anche intorno a un tavolo.

Inoltre, per favorire la circolazione dei libri abbiamo una sezione dedicata al Bookcrossing che vi invitiamo a visitare, anche per il Bookcrossing vi sono due siti collegati a LaRecherche.it: www.librovagabondo.it, www.librisullastrada.it. A Roma il bistrot Cheese and Cheers, via P. Falconieri 47, è il nostro punto privilegiato di scambio, anche se i libri possono essere abbandonati ovunque, previa registrazione nell’apposita pagina de LaRecherche.it, al fine di tracciarne gli spostamenti.

E vado verso la conclusione dicendo che è nostra intenzione rimescolare le acque, non per intorbidirle ma per avvicinare scrittori già affermati e di grande esperienza con scrittori esordienti o ancora nei primi tentennanti tentativi di uscire a vita pubblica con la propria scrittura. Abbiamo vari esempi di autori in cui è evidente un cammino verso una scrittura eccellente, avendo avuto l’esordio su LaRecherche.it.

LaRecherche.it è in fase di continuo sviluppo, spesso modifichiamo le applicazioni e le caratteristiche del sito e le sue funzionalità in base alle esigenze che ci segnalano gli utenti, è pertanto un blog in continua evoluzione, che si adatta e si modella, nella sua usabilità, alla comunità che lo abita. Di mese in mese le visite al sito sono in continuo aumento.

Infine ogni proposta di recensione, poesia della settimana, intervista, eBook, e ogni altra proposta rilevante de LaRecherche.it è pubblicizzata sulle sue pagine pubbliche di facebook e twitter.

Vi aspettiamo per una visita, grazie per l’attenzione.


Roberto Maggiani


*

- Intervista

Maria Grazia Calandrone

[ Intervista a cura di Franca Alaimo e Roberto Maggiani ]



ROBERTO.
Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Maria Grazia Calandrone?

RISPOSTA.
Una che ama la vita. Con gratitudine crescente.


ROBERTO.
Perché hai iniziato a scrivere e in particolare poesia? Ci tratteggi la tua storia di scrittrice? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

RISPOSTA.
Veramente io non volevo. Anzi, ho davvero lottato perché non fosse. Infatti non facevo leggere quello che scrivevo. Poi nel 1999, senza che io fossi né abbonata né tanto meno – neanche meno! – “conosciuta”, cominciò ad arrivarmi “Poesia”. Al terzo numero mi sentii in imbarazzo e telefonai in redazione per segnalare l’errore e mi rispose al telefono un simpaticissimo Fabio Simonelli. Dopo poche parole venne al sodo e mi chiese se scrivevo, io dissi un po’ e lui disse manda qui alla mia attenzione e io dissi sì grazie e mandai due poesie inedite e dopo molti mesi (otto, nove…) mi telefonò uno che disse sono Crocetti, sarò a Roma tra una settimana e desidererei incontrarla e io dissi sì vabbè! Invece era lui.


ROBERTO.
Sei una scrittrice, ma prima di tutto una lettrice. Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formata e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

RISPOSTA.
Noiosamente monogama come io sono, do la stessa risposta da anni: Rilke, Anedda, Mandel’stam, Cvetaeva saggista. Da ultimo, senza rinnegare gli amori passati e grazie a uno studio che mi è stato commissionato, ho riscoperto Brodskij, ovvero le propaggini della grandezza russa nel nostro tempo e nel nostro luogo.


ROBERTO.
Come avviene il tuo processo di scrittura? In quali ore e luoghi, con quali modalità? Pubblichi ciò che scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

RISPOSTA.
Dipende. Talvolta i testi definitivi sono frutto di una lunga elaborazione, altre volte nascono già esatti. Certo è che ovunque e in qualsiasi situazione sono disponibile a essere raggiunta da parole che facciano cortocircuito. Prendo appunti sempre e però sempre lascio a raffreddarsi le cose scritte, prima di pubblicarle. Poi, ho una fermissima autodeterminazione nel lavorare quotidianamente, fare continuo abuso di scrittura. Tutti i giorni al risveglio, se non sono in viaggio: caffè e scrivania, ore di scrivania.


ROBERTO.
C’è differenza tra prosa e poesia?

RISPOSTA.
Certo che c’è. Infatti io non so scrivere in prosa. La prosa ha le idee, il discorso, la poesia ha la lingua e la folgorazione, aggruma per associazioni che non devono essere spiegate.


ROBERTO.
La critica più bella e la critica più cattiva che hai ricevuto alle tue poesie?

RISPOSTA.
La più bella non la ricordo. La più incompiuta, più che cattiva, mi è stata fatta tramite facebook da una persona che non conoscevo e della quale non farò il nome. La riporto integralmente: “raramente ho visto qualcuno prendersi così sul serio come fai tu. Quanta pesantezza. Quante parole sprecate. Quanta pomposità. Fuori epoca. Leggo quel che scrivi e chiudo senza che nulla sia aggiunto a quanto so e vedo intorno. È raro che io mi permetta di scrivere simili commenti, ma dato che sei fra i miei "amici" me lo concedo qui in privato, prima di chiudere questa falsa amicizia virtuale. Già la tua dichiarazione in apertura è rovinosa (Brullo), talmente contraria a quanto mi spinge a scrivere che provo stranamente quasi nausea. Ma perché scegliere di essere tanto pesanti? Volutamente arzigogolati. Io credo nell'efficacia della parola semplice, nella poesia che possa farsi comprendere. Altrimenti è tutto inutile. E il narcisismo di coloro che ti commentano è devastante. Cosa può cambiare grazie a riflessioni come le tue, le loro? Non aggiungo altro, ché rischio d'esser pomposa a mia volta, se già non lo sono stata. Ma in quel che scriverò e nelle presentazioni delle cose mie mi divertirò molto a sorridere di tanta serietà. Continua su questa strada, comunque, che non si incrocerà con la mia.” Purtroppo la senz’altro valente poetessa, che nel tempo ho scoperto essersi messa in rete alla cerca di “quelli che vivono semplice” ovvero di “musicians for music/poetry projects”, ha voluto negarmi le istruzioni per l’uso della semplicità calate in qualche luminoso esempio della sua propria scrittura, che così immediatamente le richiesi: “Puoi farmi degli esempi della tua scrittura semplice per favore?” E in tal modo spirò miseramente la mia ultima speranza di farmi comprendere.


FRANCA.
In una delle tue e-mail mi scrivevi che il poeta è, secondo te, una persona crudele, e però una delle qualità che permea la tua pronuncia poetica sembra essere la compassione. Ed allora come riesci a sciogliere il nodo di questo ossimoro?

RISPOSTA.
Riportavo una frase ascoltata dalla bocca di Vivian Lamarque durante una recente lettura comune svolta per RomaPoesia in un Dipartimento di Salute Mentale (per inciso, esperienza caldissima e con vivi bagliori di utilità). Non è riflessione nuova ma ogni volta colpisce. Sì, il poeta è crudele in quanto usa tutto quello che vive e che vivono quelli dei quali ha notizia diretta per metterlo al servizio dei suoi versi – i quali però, quando sono poesia, raggiungono la temperatura altissima della compassione, dove ogni io si scioglie, fonde, diventa tu(tto).


FRANCA.
Mi confidi di esserti spesso occupata di poeti “innocenti che ti fanno piegare le ginocchia”: Che cosa intendi? A chi ti riferisci?

RISPOSTA.
Mi riferivo alla categoria umana in generale. Credo che l’innocenza degli adulti, quella sì, sia crudelissima, poiché è chiaro che una creatura adulta sia per forza di cose contaminata e dunque solamente finga di non conoscere o riconoscere il male. Ne parlo in un poemetto su Maria. Maria era giovane e quasi non più giovane e mise tutti in pericolo con la sua innocenza. Tutti vorremmo credere all’innocenza. In questo sta il pericolo di chi si presenta innocente: incarna il più profondo dei nostri desideri, la umanizzazione del bene, della Fiducia.


FRANCA.
Un’altra affermazione (tratta da un tuo pubblico intervento sulla poesia) che vorrei tu mi commentassi ampiamente è la seguente: “Non m’interessano i poeti che non somigliano alla propria poesia”.

RISPOSTA.
La poesia si fa con il corpo. La parola modella il corpo di chi la scrive, non c’è separazione. Se c’è separazione è letteratura e a me non interessa. A me interessa la nudità assoluta, la nudità di chi è così completamente disinteressato a se stesso che usa di sé a piene mani. Vedi come quel corpo non potrebbe produrre altre parole che quelle che scrive. Prova a immaginare, per esempio, le poesie di Montale sulla bocca di Penna. O D’Annunzio in bocca a Caproni. Caricature.


ROBERTO.
Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo poetico o una intera raccolta? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona poesia?

RISPOSTA.
Se mi ispira a scrivere a mia volta, se mi contagia, se mi trasporta in un volere bene o in un dolere o in un gioire che non mi appartiene se non come a uno tra gli oggetti del mondo.


FRANCA.
Fino a che punto ritieni che le tue esperienze biografiche abbiano inciso sulla tua vocazione poetica? Sei d’accordo che alla base dell’impulso creativo ci sia un “vuoto”?

RISPOSTA.
Sì, ma non credo indispensabile che il vuoto sia vero, può anche essere semplicemente la percezione di una cosa perduta. Ma per scrivere bisogna avere la sensazione di dovere oltrepassare una distanza. Più grande è la distanza colmata, più grande è la poesia. Le parole sono ottimi mezzi di trasporto.


FRANCA.
Quali emblemi porta con sé la figura materna, così precocemente perduta, e così presente nella tua poesia?

RISPOSTA.
Senz’altro l’acqua che l’ha raccolta. Credo anche la forza che ha trascinato molta mia poesia giovanile, che è stata spesso definita fluviale, onnivora portatrice di detriti, tronchi (umani e non) insieme a cose a volte meno oscene.


FRANCA.
La tua scenografia poetica accoglie le creature vegetali e animali assai più frequentemente che quelle umane, cosa che mi pare una vera rivoluzione rispetto alla gran parte della produzione poetica contemporanea, essendo quest’ultima piena di cose inanimate: da che cosa deriva questo atteggiamento? Quale rapporto senti di avere con le “piccole creature” terrene?

RISPOSTA.
Io entro in relazione con ogni cosa, viva o inanimata che sia, considerando vivo anche l’inerte o il già morto. Ma amo talmente la sovrabbondanza generosa e infiltrante della natura che a volte credo di volerla emulare! Amo i colori, gli alberi, i bambini, gli animali, il sole. La campagna distesa sotto il sole mi commuove. Le voci dei bambini mi commuovono. Lo si può ancora dire?


FRANCA.
La tua poesia è spesso abbondante e fluviale, senza però essere barocca; non è che concepisci anche la lingua come corpo da esporre?

RISPOSTA.
Appunto.


FRANCA.
Dici ancora: “Le parole di un poeta sono il rumore bianco di chi ama senza più oggetto”. Quale relazione c’è allora fra l’amore, la morte o il nulla, e la poesia?

RISPOSTA.
Come ho detto, bisogna aver perduto qualcosa, per scriverne. Non certo un calzino o una penna. Diciamo un amore, diciamo non per forza nella morte. Ma non è ovviamente vero che se si hanno molti lutti si diventa poeti: alla morte bisogna aver aggiunto una malattia propria, una ossessione propria per la voce – e come questa nasca e poi si radichi non so dirlo. A volte sono concatenazioni di strane coincidenze a formare i destini.


FRANCA.
Sulla rivista “Poesia” tieni una rubrica in cui accogli poeti spesso trascurati dalla grande editoria e che, tuttavia, lavorano nei loro cantieri verbali in modo prezioso. Secondo te, perché accade questo? E, inoltre, pensi che la notorietà debba per forza coincidere con la visibilità?

RISPOSTA.
La rubrica che Crocetti mi ha concesso mi dà una gioia grandissima, oltre a un inimmaginabile impegno (ogni giorno ricevo circa 5 o 6 tra dattiloscritti e file). Ma tutto è cominciato perché da anni avevo nei cassetti virtuali un piccolo gruzzolo di poeti a mio parere eccellenti che, per i più disparati motivi, non avevano ancora pubblicato. Motivi a volte privati. Bisogna agire sempre con molta delicatezza nell’esporre un poeta. Non tutti schiumano e smaniano per venire alla luce, non tutti – o per lo meno non subito! Alcuni tra quelli che ho proposto e proporrò sono nel tirocinio da molti anni e solo di recente si sono detti pronti, hanno preparato il temperamento adatto ad affrontare la generosa insolenza della lettura altrui.


FRANCA.
Come commenteresti questa affermazione di Edmond Jabès. “Ogni libro non sarebbe che torbida somiglianza con il libro perduto”?

RISPOSTA.
Profondamente vero. Il libro onirico, quello che forse nessuno scriverà mai, quello al quale tutti vorremmo approssimarci.


ROBERTO.
A cosa stai lavorando?

RISPOSTA.
A un testo teatrale dove è in scena una donna che smette la parola e comincia a latrare. La scimmia bianca dei miracoli. Verrà rappresentato in giugno da Sonia Bergamasco.
E poi a un volume di poesia dal titolo Il bene morale. Spero che il titolo parli da sé. Io proseguo in poesia la mia lotta privata e probabilmente inutile o utile per micronumeri contro la solitudine e la precarietà che ci spaventa.
E, ovviamente, poi, lavoro alla lettura di quelli che mi si offrono.


ROBERTO.
Quali difficoltà hai incontrato (o incontri) nel pubblicare i tuoi testi in versi? Che cosa pensi dell’editoria italiana?

RISPOSTA.
Nessuna perché appunto non volevo, è andata come ho detto. L’editoria è sommersa da proposte anche buone, lo vedo nel mio piccolo. Si fa letteralmente quello che le 24 ore del giorno permettono di fare. Ma ormai si cerca l’ottimo, l’eccellenza, perché il livello medio è molto alto.


ROBERTO.
Ci sono novità nella poesia italiana?

RISPOSTA.
Le cerco tutti i giorni. Ho proposto alcuni autori che spero con il tempo diventeranno classici! Sul futuro di alcuni tra loro metterei la mia firma.


ROBERTO.
Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica? Non pensi che Internet possa pareggiare i conti con i “baroni” della scrittura mettendo tutti su una nuova linea di partenza? E che nel futuro non esisterà più il grande poeta ma, finalmente, una collettività di poeti?

RISPOSTA.
Io ho avuto bisogno di maestri e di compagni. Credo siano necessari i grandi ai quali riferirsi insieme a quelli che più modestamente camminano con noi. Io sono ormai sicura che la vera grandezza sia interamente rivestita di umiltà. Se la pubblicazione in rete ha alle spalle un vero editore ha valore quanto quella cartacea. Quanto alla libera scrittura, ciascuno di noi vale in rete quanto vale fuori dalla rete.


ROBERTO.
Nel prossimo 2011/2012 potremo leggere nel nostro catalogo di eBook una tua raccolta di versi?

RISPOSTA.
Immagino di sì.


ROBERTO.
Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

RISPOSTA.
Guarda, me l’hanno fatta proprio ieri a bruciapelo a Fahrenheit: che libro vorresti essere? E sorprendendo me stessa a bruciapelo ho risposto La trilogia della città di K.


Grazie.

Grazie. A voi entrambi!


:: bio-bibliografia di Maria Grazia Calandrone »

*

- Intervista

Daniele Santoro

[ Intervista a cura di Roberto Maggiani ]


DOMANDA.
Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Daniele Santoro?

RISPOSTA.
Sono nato a Salerno 38 anni fa e qui ho compiuto i primi passi in ambito letterario. Poi, grazie anche alla conoscenza di mia moglie e motivi di lavoro, mi sono trasferito a Roma dove da quattro anni insegno materie letterarie nei licei. Ho esordito come poeta relativamente tardi, con un libretto nel 2006, preceduto da diverse pubblicazioni di testi poetici e contributi critici su varie riviste, cartacee e in rete. Direi che sono un innamorato, prima ancora della poesia, della storia sia greca e romana sia del Novecento. Fuori da questi interessi, che pure occupano parte delle mie giornate, amo la pittura di Salvador Dalì, l’opera lirica e l’heavy metal. Adoro viaggiare e prendermi cura del mio stupendo gatto.


DOMANDA.
Come e perché hai iniziato a scrivere e in particolare poesia? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni…

RISPOSTA.
La scoperta della poesia è avvenuta per caso, intorno ai dieci anni. Ricordo ancora il mio primo componimento. Era una giornata uggiosa e affacciato al davanzale della finestra, di improvviso, ho sentito l’esigenza di trascrivere l’emozione offertami dalla visuale del panorama; sull’onda di quel trasporto emozionale ho steso di getto i miei primi versi che, con sorpresa, ho trovati convincenti e che ancora conservo gelosamente. Di lì, poi l’interesse è progredito senza più abbandonarmi, stimolato anche dalle molte letture fatte nel corso degli anni. Solo più tardi ho però provato a inviare qualche testo a varie riviste sollecitando suggerimenti, pareri che fortunatamente non sono mancati. Tuttavia, questo lavoro in penombra (cioè prima di arrivare alla pubblicazione) è servito a maturarmi non poco, perché ho potuto avere come referenti culturali, prima di accedere alla letteratura contemporanea e ai contatti con poeti e riviste, la nostra migliore tradizione e in qualche modo ho potuto seguire le tappe, senza fermarmi ad interpretazioni già date ma coltivandone delle mie, della letteratura come documento sociologico, una memoria collettiva che si perpetua, arriva ai giorni nostri. Finora, gli incontri letterari importanti sono stati pochi, ma tutti ugualmente interessanti. Uno di questi è stato quello con Giuseppe Conte che ho conosciuto di persona in occasione del “Festival delle letterature” a Roma presso la Basilica di Massenzio, anche se già eravamo in contatto e che mi è stato, e tuttora lo è, di grande incoraggiamento. Quanto alle pubblicazioni, come dicevo (ad accezione di diverse raccolte edite in riviste e in rete) devo per ora menzionare il mio unico libro dal titolo Diario del disertore alle Termopili, una plaquette in pochi esemplari che ho destinato ad amici e poeti e che è servita a darmi un po’ più di visibilità. Mi ha fatto piacere che il libro sia piaciuto a Luciano Canfora, per esempio, e che ad esso abbia dedicato una particolare attenzione Giorgio Linguaglossa, che ha poi scelto di inserirmi nel volume di saggi La nuova poesia modernista italiana. Numerose sono state le pubblicazioni su riviste alle quali non avrei mai creduto di approdare: “Caffè Michelangiolo”, la cui collaborazione è per invito; le prestigiose riviste americane “Italian Poetry Review” e “Gradiva”, quest’ultima, sia grazie a un’illuminante recensione di Mandoliti al mio Diario sia grazie ad alcuni miei testi pubblicati in traduzione inglese; e tante importanti riviste attente al dibattito poetico quali “Sincronie”, semestrale della facoltà di lettere dell’università di Roma Tor Vergata, “Capoverso”, “La Mosca di Milano”, “Erba d’Arno”; non ultima la contentezza di sapere che alcune mie poesie di “Hiroshima”, già pubblicate in rete su “LiberInVersi”, erano state lette nel 2008, in occasione di un incontro a Rovereto “in ricordo delle bombe di Hiroshima e Nagasaki”, insieme a testi di Corso, Aragon, Baczynski, Turoldo, Quasimodo, Wiesel ed Eluard.


DOMANDA.
Sei uno scrittore, ma prima di tutto un lettore. Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

RISPOSTA.
È difficile dare una risposta esaustiva. Direi che nasco sotto il magistero di Leopardi e Rimbaud; intendo le mie prime letture partecipate. Poi è sopraggiunta (già durante gli anni del ginnasio, grazie anche alla fornitissima biblioteca del mio istituto) la scoperta della poesia antica, rafforzata in occasione dei miei studi universitari in lettere classiche. Ho amato a lungo taluni Inni omerici e alcuni libri dell’Odissea (che ultimamente ho riadattato in poesia), l’erotismo di Properzio più di Catullo, Orazio giambico più del lirico, Lucano e taluni poeti bizantini che, in corrispondenza con gli interessi per la mistica, pure hanno contribuito a maturare il mio interesse intorno al discorso del “sacro”. Trovo insostituibile il magistero di Eschilo; imprescindibile, per un poeta di qualsivoglia “scuola”, la poesia dei lirici greci (non già però nella traduzione di Quasimodo, quanto in quella di Valgimigli se non addirittura di Romagnoli). Della nostra letteratura non posso fare a meno di Dante, che mi è continuo punto di riferimento (trovo, inoltre, che alcune pagine della Vita Nova sono insuperabili), Dei Sepolcri di Foscolo e, più vicini a noi, di Block, Kavafis, Jotzef, Dickinson e Anne Sexton, di D’annunzio alcionio e di talune Odi navali, dei Poemi conviviali di Pascoli, di Quasimodo civile, delle Occasioni di Montale, di Govoni e Turoldo. Dei prosatori: Dostojesky, e in genere la narrativa russa (Tolstoy, Gogol, Goncarov), Huysmans, Celine (Morte a credito, nell’ottima traduzione di Caproni). Tuttavia, le mie preferenze vanno ancora una volta ai classici greci e latini (Plutarco delle Vite parallele, Seneca delle Epistole morali, Cicerone oratore). Ma un particolare soggetto di studio che preferisco da qualche anno è la saggistica storica; essa mi è servita ad approfondire alcuni eventi del Novecento che hanno ispirato diversi miei testi, non ultima una mia raccolta poetica in attesa di pubblicazione. Ritengo infine irrinunciabile la lettura, per quanti, come me, sono sensibili alla ricerca storica, della Lettera allo Chauvet di Manzoni, che ritengo un documento programmatico di grande levatura. Ovviamente gli interessi letterari non sono i soli che coltivo; amo molto gli studi in genere sull’arte classica e del Rinascimento.


DOMANDA.
Che cos’è la poesia? A che cosa “serve” nei tempi moderni?

RISPOSTA.
È una domanda a cui puntualmente non so dare una risposta precisa, che non sia invece un abbozzo, una parvenza di risposta, forse perché ne esigerebbe così tante che già darne una, chiuderla in una unica formula, è in qualche modo limitarla. Mi avvalgo perciò di una definizione neutra ed etimologica (nutrendo, peraltro, un particolare interesse per le etimologie): poesia dal greco “poiesi” e, dunque, da “poièo” che sta per “invento”, “compongo”, “creo”; pertanto, poesia come creazione, seppure dal punto di vista artistico; un tentativo da parte dell’uomo di eternizzare se stesso? una “illusione”, tragica eppure grandiosa, di esorcizzare la morte, di vincerla foscolianamente attraverso qualcosa che possa sopravviverle/ci? Convincente ritengo, da tempo, la definizione del critico Angelo Marchese quando scrive che la poesia è “un’arte verbale per eccellenza, un valore espresso linguisticamente”. Perderemmo la vera essenza della poesia, se non tenessimo presente questo. Si può parlare all’infinito di poesia, definirla nei modi più disparati, eppure la poesia è sic et simpliciter operazione culturale che da sempre veicola valori fondanti e costitutivi dell’uomo; al pari di qualsiasi altra forma creativa, essa è arte (della parola) e l’arte, si sa, è una irrinunciabile attività umana, un’attività creativa che l’uomo ha “coltivato” sin dalle sue origini, sin da quando, superata la soglia della sopravvivenza, ha iniziato a interrogarsi sull’io e sul mondo, sui grandi misteri della vita e della morte, sull’arché delle cose (non è un caso infatti che i primi filosofi siano stati giustappunto poeti). Per cui se non serve alla sopravvivenza dell’uomo, essa è ciò che rende, oggi come ieri, singolare la sua esistenza, la sua humanitas, la sua capacità di emozionarsi, di sentire il mondo e di tradurne le impressioni con quanto i mezzi più congeniali della propria natura sanno offrirgli; in una sola parola, direi, che Arte (e dunque, Poesia) è la Cultura dell’Uomo, il suo Valore, seppure si tratta di “un valore espresso linguisticamente”. E della cultura non si può farne a meno, a condizione che non si voglia (o si debba coartamente) regredire allo stato pre-umano, alla soglia della sopravvivenza.


DOMANDA.
Che rapporto hai con la narrativa? Hai mai scritto in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, un giorno pensi che lo farai?

RISPOSTA.
No, non ho mai avuto rapporti con la narrativa, ma non escludo di interessarmene in futuro; in fondo, da quando avevo dieci anni, trovo che l’attività poetica sia un’esperienza ineguagliabile, ricca di suggestioni che accompagna il mio divenire, e che la prosa credo difficilmente sia in grado di dare. Trovo infatti suggestivo della poesia quel meraviglioso apporto metrico-prosodico che le è connaturale, non esente l’energia del suo linguaggio, asservito al materiale segnico più eterogeneo, attraverso cui prendono corpo e vita, per esempio, quegli spazi bianchi altrimenti inerti, quella punteggiatura (quando non è negata) tutt’altro che relegata a ruolo di mera funzione tecnica e sintattica; non ultima poi la rappresentazione iconica del testo che “disegna” ut pictura il foglio bianco, lo dipinge, anzi gli dà luce, movimento.


DOMANDA.
Che cos’ha di caratteristico la tua poesia, rispetto a quella dei poeti tuoi contemporanei? Si dice che ogni poeta abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

RISPOSTA.
Sì, mi piace il termine ossessione che adoperi; d’altronde in latino ossessione deriva da obdisidēre, “assediare”, “stare seduto presso qualcuno al punto da isolarlo dagli altri”, dunque occuparlo, impadronirsene; è così, il poeta, un po’ come ogni artista, opera in solitudine, è solitario cantore del mondo, un invasato di sentimenti, di stati d’animo, pur consapevole che il suo umano sentire lo rende partecipe di quel gran flusso creativo pregresso, universale, collettivo. Ne consegue che l’ossessione di un poeta è sempre ciò che lo distingue dagli altri; ognuno, d’altronde, ha una personale visione del mondo e dunque una singolare capacità di adattare tale “visione” al suo modo di sentire, di rapportarvisi, di trasmettere soggettivamente le sue impressioni. Trovo che la mia poesia ruoti intorno a diversi nuclei tematici: imprescindibile l’eros e l’ambito di ricerca relativo al tema del “sacro”; mio filone principale, però, è senza dubbio il discorso storico. Non pochi sono stati quanti hanno sottolineato questo aspetto della mia poesia; menziono volentieri Linguaglossa che ha parlato a proposito del mio libretto di esordio giustappunto di “una sorta di discorso sulla verità, occulta e occultata”, di “un logos sulla menzogna”. Probabilmente, la passione che nutro per la storia, mi spinge alla riflessione di cosa è realmente accaduto dietro quegli eventi che avverto più congeniali alla mia ricerca (atomica, Shoah, colonialismo, storia antica in genere), consapevole - beninteso - di non necessariamente giungere alla pura (sempre inattingibile) verità, ma quantomeno al disvelamento di menzogne costruite ad arte, per esempio, dalle logiche di potere; cosa che ho fatto con il mio Diario del disertore alle Termopili presentando, attraverso un esame più addentro le fonti storiche, una mia lettura di come credo si sia svolta verosimilmente l’“eroica” vicenda di Leonida e dei suoi Trecento. Pertanto, posso dire che la mia attuale scrittura stia perseguendo proprio questo filone di ricerca, di smascheramento, già presente nel primo libro, anche se però in chiave più ironica e, talora, più marcatamente sarcastica; è il caso di un’opera a cui sto lavorando e che si ispira ai miti e ai personaggi storici della Grecia e della Roma antica, allo scopo di offrire una chiave di lettura “altra”, alternativa a quella ufficiale, prefissata, spesso univoca e inamovibile. C’è però, in questa mia ultima raccolta, anche una componente che avevo pressoché accantonato, vale a dire la riscoperta del mito, dovuta essenzialmente alla rilettura dell’Odissea, delle Metamorfosi ovidiane e soprattutto della Biblioteca di Apollodoro, che mi ha offerto chiavi di lettura nuove, inaspettate, preferibili di gran lunga alle opere dei tanti mitologisti di professione.


DOMANDA.
La critica più bella che hai ricevuto alle tue poesie?

DOMANDA.
…e la più brutta?

RISPOSTA.
Non saprei, ho ottenuto diversi giudizi lusinghieri; sarei irriconoscente non menzionarli in parte. Senz’altro citerei alcuni attenti commenti ai miei testi apparsi su diversi blog, da “La dimora del tempo sospeso” di Marotta a “Imperfetta Ellissi” di Cerrai, a “LiberInVersi”; le pertinenti recensioni di Fresa e Lucini, Ghignoli e Piazza; la precisione di analisi filologica di Mandoliti e Venturini, gli incoraggianti Bàrberi Squarotti e Ferrari, l’ottimo Rega e Salari, l’acuto Linguaglossa fino a Giuseppe Conte che ha usato parole molto belle sia per il Diario del disertore che per altri testi sottopostigli; non ultimo un giudizio, per il quale sono molto onorato, di mons. Ravasi. Non ricordo invece di avere ricevuti giudizi negativi. Certo, non sono mancati rifiuti su riviste sulle quali avrei voluto pubblicare, non supportati - purtroppo - da una motivazione che sarebbe valsa quantomeno ad innescare una riflessione in merito, a sviluppare un’autocritica.


DOMANDA.
Come avviene il tuo processo di scrittura? In quali ore e luoghi, con quali modalità? Pubblichi ciò che scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

RISPOSTA.
Non c’è un’ora della giornata che preferisco né in genere un luogo privilegiato. Trovo che un ambiente di sollecitazioni culturali sia da sempre, oltre il mio studio, la biblioteca (quella nazionale centrale di Roma mi è da qualche tempo familiare). Prediligo, altresì i parchi, ovviamente nelle stagioni miti, e anche qui la capitale me ne offre di suggestivi, primo tra tutti il parco del Colle Oppio; la suggestiva visuale del Colosseo, la sua inclusione all’interno dell’antica Domus Aurea, mi offre particolari stimoli. Quanto al metodo, di solito, sottopongo le poesie, nate di getto, a un processo di lenta revisione che può durare anche mesi, con la conseguenza talora di stravolgerle del tutto; in ogni modo, trovo che proprio questa fase “revisiva” di scrittura sia quella più avvincente e appagante di tutto il processo poetico, oltre che la più impegnativa e lunga. Questo è anche il motivo che mi induce a scrivere non currenti calamo, ma a riflettere continuamente sul testo, sulla sua resa espressiva. Inoltre, preferisco non rileggere le mie poesie, una volta concluse, se non a distanza di tempo, forse per non essere tentato dal rimaneggiarle; non escludo tuttavia che questa insoddisfazione abbia un suo aspetto positivo, perché vuol dire che il nostro processo creativo è dinamico, è perennemente in progress; un po’ come se la poesia fosse una seconda pelle (credo che Merini scrivesse così in suo aforisma) e, dunque, un’attività che accompagni, scandisca le tappe del nostro percorso esistenziale. In compenso, leggo molto; lettura che è poi sempre un processo di “riscrittura”, di partecipazione e condivisione a quanto il testo vuole trasmetterci. Anche per questo amo tanto la poesia: per quell’ambiguità di fondo, per il senso sempre imprevedibile e sfuggente, per la capacità straniante che me la fa riscoprire ogni qualvolta la rileggo, essendo in fondo, barthesianamente, una “struttura aperta di segni” di cui il lettore, collaboratore attivo e partecipe, è sempre un novello interprete.


DOMANDA.
Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

RISPOSTA.
Fortunatamente poche; fatte rare eccezioni, ho sempre trovato poeti che hanno saputo consigliarmi, indirizzarmi e fungermi da incoraggiamento. Devo dire anche che qualche volta ho trovato interessanti proprio le osservazioni di amici, conoscenti, di persone insomma estranee al mondo della poesia; i loro pareri sono stati pertinenti, rassicuranti e, soprattutto, non condizionati da quella deformazione deontologica che caratterizza molti miei colleghi-poeti con i quali non sempre è stato possibile instaurare un colloquio formativo, un incontro, uno scambio di opinioni, di idee.


DOMANDA.
Hai pubblicato recensioni su riviste note. Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo poetico o una intera raccolta? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona poesia?

RISPOSTA.
Di solito, nell’interessarmi all’opera di un autore, deve avvenire tra me e i testi come un “cortocircuito”; i testi devono trasmettermi quell’emozione, quel quid in grado di “entusiasmarmi”, che solo può darmi la congiunzione tematica/espressiva o piuttosto viceversa. Non credo di essermi mai occupato di un libro che non mi convincesse sul piano formale né ho mai ignorato nei miei interventi - o piuttosto “possibili” letture - un’analisi delle strutture segmentali riguardanti l’opera; anzi, trovo che sia proprio questo il discriminante di un buon libro, non dimentico che il prodotto poetico (perché di prodotto si tratta dopotutto) prevede imprescindibilmente il connubio forma/significato. C’è di più; nutro un particolare interesse per l’aspetto fonetico delle parole e per come esse si relazionano in un quadro di insieme contribuendo a rendere singolare quel testo e arricchendolo non meno di quanto facciano gli espedienti metrici e retorici. Da tempo, ho fatto mia una massima di Oscar Wilde che dice pressappoco “non esistono libri belli o brutti, ma solo libri scritti bene o male”. D’altronde, abbiamo detto, che la poesia è arte verbale, è l’arte di come la parola veicola un messaggio evocativo, di come essa rende il contenuto, lo traduca, lo innervi, gli dia un “possibile” (perché sempre diversivoco, reversibile) senso; trovo in questo, la bellezza, la forza della poesia, la sua riuscita.


DOMANDA.
Molti utilizzano, per distinguere i vari poeti e la loro presunta importanza, le categorie “poeta maggiore” e “poeta minore”. Esiste realmente la distinzione tra poeti minori e poeti maggiori? Che cosa vuol dire essere poeta minore e che cosa vuol dire essere poeta maggiore?

RISPOSTA.
Credo che siano categorie ambigue, eppure necessarie, elaborate a posteriori, ad usum canonis, responsabile il criterio di distinzione più o meno riconosciuto da chi detiene lo scettro delle decisioni; esse tuttavia rispondono a quella consuetudine secondo la quale il successo di un’opera è dovuto alla sua più o meno ricettività da parte dei lettori di un’epoca e non invece al valore sociologico che essa riveste (in tal senso non avrebbe ragione di esistere una tale compartimentazione). Sta di fatto che non posso non riconoscere l’emozione, la suggestione che mi dà un canto di Leopardi piuttosto che un sonetto di Giambullari. La prima ritengo sia una poesia universalmente valida, e non già perché depositaria di un messaggio necessariamente nuovo; valida, invece, in virtù di quella combinazione perfettamente riuscita tra contenuto e forma, cementata però da un alone di ineffabile mistero che la rende unica e soprattutto distinguibile, riconoscibile dal novero di altre opere. La seconda - perché no? - magari una buona poesia ben elaborata quanto a contenuto ed espressione, ma imitabile e, pertanto, non originale. Ovviamente, bisogna tener conto, come già dicevo, anche della più o meno fortuna di pubblico e dunque di leggibilità che un’opera ha nel corso della sua storia, sia coeva che posteriore alla sua pubblicazione. Non sempre purtroppo, ieri come oggi, alcune opere hanno l’occasione, o la fortuna, di godere l’avallo di chi - grandi editori, giornalisti di quotidiani nazionali, critici di “fama”, professori di università ecc. - gestisce spazi di “comando” da permettere alla stesse una visibilità adeguata presso il grande pubblico, complice anche il gioco di potere, l’ostruzionismo delle fazioni, delle amicizie e quant’altro. E a tal proposito mi si offre l’occasione in questa sede di spezzare una lancia a favore dei tanti Gaio Cornelio Gallo, un poeta di età augustea, ritenuto da Virgilio uno dei massimi poeti del suo tempo. Ebbene, caduto in disgrazia presso Augusto (cui pure lo legava la politica), le sue opere andarono perdute; ovviamente è un esempio a caso (e quanti ce ne sono, nella letteratura di sempre!), ma aiuta a riflettere sull’etichetta di “poeta minore”. Cornelio Gallo è un poeta minore, un poeta meno conosciuto, perché soggetto ad un ostracismo da parte delle logiche di potere editoriale e culturale del tempo, perché magari ligio eticamente ai suoi ideali, non allineato al sistema, non compromesso, al contrario magari di un Petrarca che di quel Potere fu abile servitore e seppe sempre ben barcamenarsi nel mantenerlo, complice la conoscenza di pontefici e cardinali - senza per questo togliere nulla alla sua grandezza e unicità. Certo, questo è un altro aspetto della questione che richiama il sempiterno rapporto tra classe intellettuale e potere. Ben vengano, dunque, quegli studiosi - critici accademici, militanti o semplicemente appassionati recensori - che sappiano riportare alla luce opere dimenticate o quelle di autori la cui visibilità non è favorita dal mercato; opere che, prive del grato impegno di costoro, continuerebbero ingiustamente a giacere nella “selva selvaggia” della letteratura, nel sottobosco.


DOMANDA.
Perché non si legge poesia? Che cosa ne pensi? Secondo te qual è la responsabilità dei poeti (se di responsabilità si può parlare); quale quella degli editori; quale quella dei lettori e, non ultima, quella dei librai e dei mezzi di informazione?

RISPOSTA.
Non è facile liquidare la questione in poche righe; parte della risposta è già in quanto ho detto sopra. Se non si legge molta poesia (e intendo tanta quanta ne è pubblicata) un po’ è perché si è disabituati o si tende a preferire la narrativa che è di solito più diretta, più immediata, più denotativa, meno soggetta ad ambiguità per sua natura. Anche qui, premetto che è un discorso difficile da affrontare, responsabile nondimeno il nostro tempo, la velocità del nostro mondo che sembra non permetterci di fermarci a riflettere; la comprensibilità di un testo poetico necessita di strumenti idonei alla sua possibile decodifica; esige un’ttività e competenza per la quale, a volte, c’è bisogno di un apprendistato lento e faticoso, oltre che sorretto da passione. Talora, la colpa è anche dovuta al retaggio di come si apprende la poesia nelle scuole, dell’ingrato compito di quanti, docenti, si limitano alla spiegazione di un testo, magari senza nemmeno leggerlo o straziandolo (nei casi più fortunati) con analisi testuali preconfezionate, come se fosse carne da macello, insomma, senza offrire propedeuticamente quegli strumenti o codici che permettano al lettore di discernere tra poesia e non. Tuttavia, non sono del parere che la poesia oggi non si legga; il proliferare in rete dei blog e di quant’altri luoghi di discussione (Facebook, anche) risponde a un indice di gradimento tutt’altro che trascurabile. Se invece intendiamo la poesia pubblicata dalle case editrici (il discorso coinvolge sia le grandi che le medie e piccole) e del fatto che non vendano e anzi lamentano i guadagni (bisognerebbe domandarsi anche quante copie effettivamente mettono in circolazione!) non sarà forse perché tale poesia non incontra il gusto dei lettori o quegli stessi gusti che ci propinano in varie salse hanno stufato, e che magari i costi sono proibitivi per qualche andata a capo e per spazi bianchi a iosa? Con lo stesso prezzo, e anche meno, volentieri acquisterei un tascabile del Tasso o tutto il teatro di Shakespeare! Molte altre sono ovviamente le cause, mi limito a proporne alcune: il mercimonio editoriale, una vera e propria piaga letteraria, disposta a pubblicare, sempre e comunque, in cambio del dovuto (e non sempre meritato) guiderdone; la crescita esponenziale dei premi di poesia, spesso gestiti da giurie di dilettanti allo sbaraglio o da vere e proprie lobby “massoniche”; la voluta cecità o la poca professionalità dei direttori di collana; i correi, a livelli alti di formazione, docenti universitari che preferiscono anchilosarsi su triti e ritriti studi passatisti, piuttosto di investire, di mettersi in discussione, fino a rischiare la faccia, ma con consapevolezza, responsabilità e senso alto del proprio dovere, su quanto propone di vivo il pur presente dibattito culturale in atto.


DOMANDA.
A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima raccolta di poesie o altra pubblicazione?

RISPOSTA.
Di lavori ne ho molti in cantiere, sia che si tratti di raccolte poetiche che di traduzioni o piuttosto di adattamenti in poesia da scrittori in prosa. Attualmente sto lavorando ad un libro dal titolo Triumphus feritatis (che sta in latino per “Trionfo della bestialità”); esso si ispira, in virtù della mia predilezione per gli studi classici, ad alcuni di quei personaggi ed eventi della storia antica che ho trovato più congeniali alla mia ricerca poetica, scandagliati non senza il ricorso alle fonti letterarie e storiche del tempo; vorrei che fosse il mio personale e appassionato omaggio al mondo greco e latino, ai suoi miti, ai suoi protagonisti, ai suoi cruciali eventi storici. Contemporaneamente, sto lavorando a una raccolta dedicata al capitano James Cook e ai suoi viaggi esplorativi nel Pacifico; anche qui la chiave vuole essere verosimilmente storica, in ottemperanza alla lettura dei suoi diari di bordo con l’intento di denunciare certa politica coloniale. In attesa di pubblicazione c’è invece un lavoro che mi ha impegnato per diversi anni. È un libro dall’argomento problematico, discusso, frutto di un’appassionata indagine su testi ufficiali e meno conosciuti; anticipo solo che si tratta di una mia lettura, dall’interno, vale a dire dall’ottica dei suoi protagonisti, della politica genocidiaria nazista.


DOMANDA.
Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

RISPOSTA.
Cito volentieri un aforisma di Garcia Lorca: “la poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. Può apparire facile retorica, eppure credo fermamente che, se non si attinge a questo insegnamento, si perda il senso autentico dello scrivere poesia. Chiunque scriva, viva il confronto con gli altri come un’esperienza unica, straordinaria, simpatetica e non si arrocchi solipsisticamente nella sua torre d’avorio o si atteggi a maestro. La poesia non cerca precettori né ragiona in termini di scambio a far incetta di proseliti; essa abbisogna solo di appassionati, di cultori che coltivino con cura (come suggerisce l’etimo latino della parola cultura) questo dono e ne trasmettano la funzione valoriale alle generazioni presenti e future. È solo in nome di questo che la poesia si perpetua, diventa documento artistico e patrimonio umanitario. Quanto alla “scrittura in rete”, pur trovando insostituibile il fascino della rivista cartacea, non posso fare a meno di riconoscere oggigiorno il ruolo di internet. Sono dell’opinione che chi pubblica poesia sul web, debba riconoscere la possibilità che gli si offre di essere sottoposto a critiche, a commenti, siano positivi o meno; essi, infatti, sono sempre forieri di riflessioni, mettono in discussione le nostre certezze, le scuotono, aiutano a intravedere difetti che magari ci sfuggono o ci sollecitano a migliorie, insomma, contribuiscono a sviluppare un senso critico intorno alla poesia e a quanto le fa da corollario; il fatto che esista un lettore è la dimostrazione che la poesia vive, respira. Un’altra possibilità che offre l’editoria elettronica è, da una parte, la rapidità (che non necessariamente è un aspetto positivo) con cui il testo viene pubblicato, rispetto ai più pacati tempi di pubblicazione delle riviste cartacee, dall’altra, la maggiore visibilità che dà all’autore (e lo sviluppo di una più rapida coscienza autocritica), che però quando è eccessiva rischia di disperderla, inflazionarla in un vero e proprio e-presenzialism che ha il solo scopo magari di allungare la lista (manco fosse quella della spesa) delle bibliografie critiche o peggio di alimentargli la narcisistica boria di essere asceso a chissà quale vetta dell’Elicona. Mi capita spesso infatti, partecipando ai blog letterari, di incontrare pareri elogiativi non supportati da motivazioni; ritengo, invece, che la lettura dei testi debba sempre offrire spunti di dialogo, spiegazioni, consigli, anche quando il testo è “geniale” e non è raro incontrarne, anzi, proprio perché ritenuto tale, bisognerebbe spiegarne il perché. Ecco, questo credo sia il compito di chi gestisce siti letterari; filtrare quei commenti che presentino uno spazio di riflessione e non il contentino di un “bello”, “complimenti”, “bravo” e via dicendo che, oltre ad intasare la rete, non giova in primis alla poesia. Se dovessi gestire un blog in futuro, questo è quanto farei: chiederei, anzi esigerei dal commentatore perché quel testo sia stato scelto e abbia ottenuto la sua approvazione, pena la cancellazione del post; con la conseguenza, lo so, di vincolare la libertà del lettore, di privarlo di quel fattore emozionale che spesso lo coinvolge e di cui ho scritto in precedenza, ma quantomeno agendo allo scopo di costruire un discorso collettivo, un dialogo in profondità improntato alla riflessione intorno alla singolarità letteraria di quel prodotto, al “disvelamento” di quel costitutivo che lo renda in superficie emozionale, fruibile.


DOMANDA.
Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

RISPOSTA.
No, non direi, per adesso. Piuttosto ringrazio te, Roberto, e i redattori de LaRecherche della disponibilità offertami di esprimere, di dire la mia opinione circa questo meraviglioso parto dello spirito umano che è la poesia (già! parto, creazione: una delle mie possibile definizioni di poesia?).


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Grazie.

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- Intervista

Lorena Turri

[ Intervista a cura di Maria Musik ]

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DOMANDA. Ciao, Lorena. Sono felice che sia stato affidato a me il compito di intervistarti perché amo molto il tuo scrivere (non le chiamo “opere” altrimenti rischio subito una delle tue ironiche tirate d’orecchie). Cominciamo con una domanda di rito: se dovessi dire, a chi s’imbatta in questa intervista senza averti letta, chi è Lorena, come ti presenteresti?

RISPOSTA. Grazie Maria. Sorvolo sul tuo inciso che già fornisce una caratteristica non trascurabile di me, e m’inoltro in questa ardua risposta (quasi quasi avrei preferito mi fosse stata commissionata un’opera in endecasillabi!).
Lorena è una signora cinquantaduenne, da svariati anni casalinga a tempo pieno e indeterminato, che si può incontrare quasi esclusivamente al supermercato, giacché conduce una vita molto ritirata, in (rumoroso) silenzio e solitudine, un po’ per scelta, un po’ per destino (ahimè). Sopra a tutto è una mamma.
Ma per meglio definirmi, dico: sono quella che “strizzerei anche la tovaglia”! E mi spiego.
Durante una di quelle belle e ormai perdute riunioni familiari natalizie o pasquali, intorno alla metà degli anni ’60 quando ero una bambina, mia zia, a fine pasto, divise equamente fra tutti i commensali l’unica bottiglia di spumante che il nostro stato economico consentiva, per il brindisi augurale. Io pensai bene di gustare centellinando, anziché tracannarla come gli altri, la mia porzione di vino, tra una risata e un discorso e l’altro. Sennonché, mia nonna iniziò a sparecchiare e, accidentalmente il mio bicchiere cadde e quel dito di spumante che ancora conservavo come fosse una reliquia, andò a inzuppare la tovaglia. Il mio dispiacere fu così grande da attirare l’attenzione dei presenti che io guardai ad uno ad uno con grandi occhi avviliti, dicendo “Strizzerei anche la tovaglia!”
Ecco, sono quella bambina che dal calice della sua vita ha gustato solo una parte del buono che conteneva e il resto, accidentalmente, si è rovesciato.
Forse “il mio scrivere” è oggi il mio modo di strizzare quella tovaglia per recuperare ciò che ho perso.
Adoro la parola “forse”, poiché non do mai nulla per certo e perché ha intrinseca una sua ironia.
C’è una poesia di Borges in cui mi specchio ed è: “Mi vida entera”, particolarmente in alcuni versi:
“Soy esa torpe intensidad que es un alma” e i due versi finali: “Creo que mis jornadas y mis noches se igualan en probeza y en riqueza a las de Dios y a las de todos los hombres”.


DOMANDA. Perché scrivi e da quando hai iniziato a farlo?

RISPOSTA. In parte ho già risposto, ma non fu proprio questo il motivo iniziale.
Nel corso della mia vita ho sempre scritto, seppure con grandi intervalli di tempo. Nei primi anni ’80 decisi, un bel giorno, di scrivere poesie, ma dopo qualche tentativo rimasto su un quaderno, compresi che non era cosa a me consona. Nel 1986 mi cimentai, con la collaborazione dei miei compagni di teatro, nella stesura di una commedia musicale in due atti che realizzammo e mettemmo in scena. Poi mi sposai e lasciai il teatro. Negli anni ’90 scrissi alcune favole per il teatro dei ragazzi insieme a mia cugina, maestra con l’esigenza di inventare qualcosa di originale per le recite di fine anno scolastico.
Ma fu quando cominciai a navigare in Rete che “la mia penna ammattì”.
Risale al maggio del 2001 la mia prima connessione. Decisi di entrare in una chat.
Tutti gli sconosciuti interlocutori mi chiedevano quali fossero i miei hobby ed io non sapevo cosa rispondere, poichè in quel periodo mi dedicavo solo al lavoro e alla casa oberata da un’infinità di problemi e molte angosce. Così un giorno, per non sentirmi troppo ignorante nei confronti di chi mi citava versi, cominciai a dire che scrivevo poesie.
Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. E fu proprio nell’estate di quell’anno, durante una vacanza balneare con mia figlia in Versilia, che una sera, passeggiando sul lungomare, mi ritrovai davanti ad una libreria. Entrai dentro e cercai subito lo scaffale della poesia. Acquistai tre libretti di poco valore: una piccola antologia di poesie d’amore da Saffo ai giorni nostri, un’altra di poesie tutte al femminile e una di Emily Dickinson che non conoscevo. Lessi la biografia velocemente e rimasi affascinata da quella donna. Il giorno dopo, al sole in spiaggia, lo lessi tutto d’un fiato. Tornai in albergo arrostita davanti e bianca di dietro! Al ritorno dalle vacanze cominciò a restringersi quel mare tra il dire e il fare e anche la mia vita che, come Emily, cominciai a chiudere dentro casa. Chiusi anche la chat. E mentre i problemi familiari e di lavoro aumentavano, io scrivevo, di nascosto, le mie paure, le angosce, le mie proteste, i sogni, le solitudini, i ricordi e le fantasie.


DOMANDA. Come avviene la tua scrittura? In quali ore, in quali luoghi e su quali supporti?

RISPOSTA. Ho quasi sempre scritto di mattina, che è la fase del giorno in cui riesco a concentrarmi meglio. Certe volte mi ronza in testa, mentre cucino o mentre faccio le faccende, un pensiero, una frase, un verso, così lo annoto sul primo pezzo di carta che mi capita sottomano: carta igienica, scottex o anche il sacchetto del pane. Poi, appena ho un po’ di tempo, mi siedo davanti al computer, apro word e scrivo. Come per magia, quello che avevo scritto sul foglietto diventa un testo compiuto. Quasi mai ne esco soddisfatta, ma mi consolo dicendomi che per le mie capacità e per la mia scarsa cultura è abbastanza.
Il mio pc sta in una stanzetta situata tra due camere da letto, senza finestre. E’ la stanza buia da cui io guardo il mondo e me stessa, e quello che scrivo è il frutto del mio guardare. In quella stanza ho tutto: i libri, i ricordi, il computer, la tavola da stiro e i panni da stirare. Ho anche i pupazzi di peluche che mi fanno compagnia. Ad alcuni do una voce e diventano i miei amici parlanti. Mia figlia mi dice che soffro di “animismo infantile”, ma credo che questa mamma un po’ bambina e un po’ giullare non le dispiaccia.


DOMANDA. Che cosa ti ha indotto a pubblicare i tuoi scritti? Quando e come lo hai fatto la prima volta? (scusa la domanda un po’ voyeuristica)

RISPOSTA. Devi sapere che io sono molto gelosa delle mie cose e a maggior ragione dei miei scritti seppure li sparpagli nel vento. Pertanto, quando chiusi con la chat, avendo fatto leggere a qualcuno di quegli interlocutori ciò che scrivevo, per timore che i miei pensieri perdessero le loro radici, pensai di dar loro una “maternità pubblica” avvalendomi delle possibilità che il Web offre. Avevo sentito parlare di questi siti letterari dove è possibile pubblicare e subito ne cercai uno e poi un altro e altri ancora. Così scoprii un mondo di persone accomunate dalla passione per la scrittura. Persone che ho sempre ritrovato lungo il mio percorso durante tutti questi anni girovagando tra un sito e l’altro. Una volta decisi di inviare alcuni testi a Maurizio Cucchi che su La Stampa web cura (o curava?) la rubrica “Lo Specchio” attraverso la quale esprime i suoi giudizi o fornisce consigli per migliorarsi. Non mi aspettavo certo un’esultanza da parte sua, ma nemmeno mi sarei aspettata il suo totale silenzio che mi pose davanti a un bivio: continuare a scrivere o smettere? Ritenni, al di là di ogni motivazione circa quel silenzio, che smettere sarebbe stata la scelta sbagliata perché mi avrebbe precluso la possibilità di continuare a imparare. Perché, sostanzialmente, di questo avevo e ho bisogno: imparare. E si impara non solo attraverso lo studio ma anche attraverso l’esperienza. Per anni ero stata assente dai libri di letteratura, avendo dovuto per necessità lavorative e familiari, dedicarmi ad altro e ad altri “studi” e sentivo che era giunto per me il momento di riparare in qualche modo a quell’assenza.


DOMANDA. Dopo aver pubblicato innumerevoli poesie su LaRecherche.it, per un periodo, hai scelto di rimanere in silenzio. Sembrava fossi rimasta senza parole. Poi, sei tornata, più splendente di prima. Cosa ti aveva portato a “smettere” e perché “hai ricominciato”?

RISPOSTA. Alla fine del 2007 ero appena uscita da un periodo molto duro della mia vita; ero provata e depressa, avevo chiuso ogni rapporto con i vari siti letterari pervasa da timori e fisime di ogni genere, vagavo in uno stato di confusione mentale e di apatia e non riuscivo più, quasi fosse un rifiuto interiore, a scrivere una parola. Poi, un giorno - forse fuori pioveva pure -come in “Kiss me Licia”, incontrai Giuliano (Giuliano Brenna) per caso e conobbi LaRecherche.it.
Citando Richard Bach, credo che “niente è per caso”, ma anche se lo fosse, fu proprio un bel caso! Quindi, approdata come un naufrago, con tutta la sua ungarettiana allegria, cominciai a proporre il “già scritto”. Infatti nello spazio riservato alla biografia personale si può leggere: “sono alla ricerca dell’ispirazione perduta”. Quando pensai di aver esaurito le mie proposte, cernendole dai miei scritti, rimasi in silenzio non senza grande sofferenza. Perché volevo scrivere e in quel preciso momento più che mai. All’improvviso, anzi, suddenly, come in “Yesterday” dei Beatles, la notte di Halloween, mentre negli Stati Uniti eleggevano Barack Obama Presidente, grazie al cercarime da poco messo a disposizione da LaRecherche, scrissi una filastrocca, quella di Zucca Barucca. E così da un gioco di rime e di parole la “mia penna” riprese i suoi incerti passi. Ora io chiamo LaRecherche.it “la mia casetta della poesia”.


DOMANDA. Spesso hai affermato di non essere Poeta. Visto che a me pare che tu lo sia, mi viene spontaneo chiederti perché rifiuti questo appellativo e quali sono, invece, le caratteristiche che una persona e/o i suoi scritti devono avere perché si possa fregiare di tale titolo?

RISPOSTA. Come ho già detto, cominciai a scrivere quasi per “darmi un tono”, per “non essere da meno”, pensando che essere poeti fosse soltanto la capacità di assemblare due o tre parole ad effetto. Ma scrivendo mi sono accorta che non è così. Che il poeta non può dirsi tale se la poesia, in primis, non alberga nella sua essenza di uomo e, in secundis, se non ha le conoscenze e le basi culturali per far sì che quella poesia possa essere resa con le parole in modo efficace e soprattutto universale. Quando ad esempio leggo “Mattino” di Ungaretti, penso che non può esserci un modo migliore, o parole migliori per esprimere lo stesso sentimento. Penso che quella è poesia allo stato puro, che riesce a trasmettermi molto di più di quanto, probabilmente, era nell’intenzione del Poeta. Perché la Poesia deve superare il Poeta, una volta che il Poeta l’ha scritta. Allora, scuoto la testa, sorridendo mestamente di me e delle mie parolette incerte e confuse. La parola poetica deve rilasciare emozioni, vere e forti, “scappellare la testa”, come diceva Emily Dickinson. Il Poeta ha una grande responsabilità, sociale, oltre che umana. Però, ogni responsabilità assunta, richiede grande impegno e competenza. Competenza che io ancora non possiedo e, nonostante la mia foga di impegno, la mia scrittura non ha ancora trovato un suo stile. Scrivo in forme diverse, almeno a me pare così. Spazio dal gioco di parole, alle filastrocche per bambini, scrivo in rima oppure no, a volte persino in metrica e altre in modo prosaico, colloquiale o intimista. E tutto senza delle solide basi di conoscenza, ma in modo estemporaneo e spontaneo, che io chiamo “a modo mio”.
Credo che solo chi legge possa definirmi tale, ma io voglio sentimi svincolata da un titolo che non sono sicura di poter onorare. Voglio restare libera di continuare a scrivere, quando posso e come posso. Quel giorno che non avrò pensieri, emozioni, idee da scrivere, non voglio trovarmi “costretta” a scrivere comunque, magari sfoggiando capacità tecniche acquisite, per non perdere l’eccellenza del nome. E non è vigliaccheria, la mia, ma un modo per rispettare la Poesia (m’è venuta anche la rima e così sia!).


DOMANDA. Quali sono i tuoi autori preferiti? E, fra i generi letterari, quale ti è più consono?

RISPOSTA. Non ho mai approfondito un autore in particolare, fino a sviscerarlo e farlo mio e sono abbastanza digiuna di conoscenze dei generi letterari di cui ho vaghe e lontane reminiscenze scolastiche. Amo leggere poesie e quando ne trovo una che mi fa vibrare anima e corpo m’informo sull’autore e ne cerco altre sue da leggere. Ci sono infatti poeti che leggo più spesso come Emily Dickinson o Eugenio Montale. Mi piace Borges, Pessoa e i suoi eteronimi, Leopardi (soprattutto il Leopardi delle lettere e delle Operette morali), Catullo, Apollinaire (ho letto “Gli amori” e mi sono innamorata), Hikmet, i Carmina Burana. In gioventù leggevo soprattutto autori teatrali come Plauto, Moliere (di cui interpretai alcune delle sue scaltre cameriere oltre che alla Notte e Alcmena nell’Anfitrione), Goldoni, Machiavelli, Pirandello, Ionesco che sento molto attuale e mio per il tema dell’incomunicabilità e, ovviamente, Oscar Wilde, la cui ironia è esilarante. L’ermetismo è uno dei generi letterari che mi affascinano molto. Ho letto Queneau e sono impazzita per lui, Bergson e ho imparato molto, così come ho imparato molto da De Mauro e la sua “Storia linguistica dell’Italia Unita” e dai miei vecchi studi di linguistica e filologia romanza. Ai romanzi preferisco i saggi, sicuramente. Adoro Richard Scarry e Gianni Rodari, con i quali ho allevato mia figlia, insieme ai fratelli Grimm.
Ma non ho un modello di riferimento e mi fa piacere quando un lettore/commentatore, legge nei miei scritti l’eco di un qualche autore. In quei momenti mi sento anch’io (ma appena appena) Poeta.


DOMANDA. Sei una delle “presenze storiche” de LaRecherche.it. Descrivici la tua esperienza nel sito, come lo vedi, i suoi pregi e difetti.

RISPOSTA. Fu Giuliano Brenna a farmi conoscere LaRecherche.it. Lo visitai, vidi che era ai suoi albori, poco frequentato, silenzioso e tranquillo. Ritenni fosse il “luogo” (parola che preferisco a “sito”) adatto a me in quel periodo. Mi sono sentita subito ben accolta e a mio agio. Lo dimostra il fatto che ho costruito al suo interno “la mia casetta”. Ho sempre espresso liberamente il mio pensiero e quando, a volte è successo, sono stata scorbutica per motivi miei, nessuno mi ha giudicata o, tantomeno censurata, come invece mi è capitato in altre sedi. Quando ho azzardato una qualsiasi proposta è stata accolta e questo mi ha fatto davvero un immenso piacere.
L’ho visto crescere, con calma e sommessamente e anche io credo di essere cresciuta al suo interno.
Si respira un’aria di sensibilità e serietà che mi piace. Forse mancano un po’ di “incontri ravvicinati”, in senso virtuale, tra i vari autori. Si legge e qualcuno commenta, ma ci si conosce poco. Personalmente, poi, non conosco nessuno neppure di persona. Appena potrò, colmerò questa lacuna.
Ora si è molto arricchito, con gli e-book, con le poesie settimanali, con le nuove importanti presenze, coi dibattiti che si fanno nel “back-stage” delle pubblicazioni.
Credo che nella mentalità di chi è abituato a frequentare altri tipi di siti, che io stessa frequento o ho frequentato, LaRecherche.it appaia poco movimentata, poco frizzante. Questa è almeno la sensazione che ne ho ricavato quando ho invitato qualcuno a visionarla o a partecipare. E’ perché non si veste di lustrini e paillettes. Rimane composta nei suoi abiti minimalisti ma, per chi vuol vedere, colorati di buon gusto.
Grazie dunque a Giuliano che, trovatami sperduta nel Web, mi ha condotta “a casa”!
E grazie, davvero, di cuore a tutti, con un battito speciale per Roberto Maggiani.


DOMANDA. Pensi che la tua proposta poetica continuerà in forma elettronica e per singoli testi o succederà che proporrai testi in una raccolta, elettronica o a stampa?

RISPOSTA. Non lo so, non ci penso. Posso solo dire che non condivido le pubblicazioni a pagamento e preferisco il cartaceo all’elettronico. Ma di me non so niente.


DOMANDA. Vuoi dire qualcosa anche ai tuoi compagni di viaggio su LaRecherche.it?

RISPOSTA. Sì, solo una citazione, senza nominare la fonte…
“Volemose bene”.


Grazie Lorena.

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- Intervista

Antonello De Sanctis

[ Intervista a cura di Maria Musik ]

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Ho incontrato Antonello De Sanctis su myspace dove mi sono allocata, senza merito alcuno, per seguire i progressi di un amico cantautore. Sin dai primi scambi, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad un uomo portatore di belle emozioni, sentimenti e valori e, almeno per la sua storia personale ed artistica, particolarmente attento alle persone. Mi è piaciuto per la sua passione, per la coscienza della propria professionalità abbinata ad una giusta dose di umiltà e per la sua autoironia (deliziosa la complice competizione con la giovanissima figlia, scrittrice emergente). Nasce da questo casuale incontro l’intervista che segue e che spero vi farà conoscere meglio l’autore delle parole di canzoni che hanno attraversano gli anni di tutti noi, giovani e, ancor di più, adulti e dei due libri: “Non ho mai scritto per Celentano”, No Reply, Collana Velvet, 2007, e “Oltre l’orizzonte”, No Reply, Collana Velvet, 2010, quest’ultimo è il suo nuovo romanzo.


DOMANDA. Cominciamo con una domanda d’obbligo per permettere a chi leggerà l’intervista di contestualizzare le tue risposte. Potresti, in breve, tracciare la tua biografia/storia?

RISPOSTA. Sono nato a Rieti e, fino ai quattro anni, mi hanno tirato su i nonni. Quella cittadina rugginosa, il Velino che scorreva sotto casa e che guardavo per ore, mi hanno insegnato la riflessione e l’introspezione. La curiosità ce l’avevo già del mio. A quasi cinque anni sono tornato a Roma dai miei genitori, ho iniziato la scuola e ho studiato con passione fino a quando, verso i quindici, hanno fatto irruzione nella mia vita la musica – il rock si prese l’anima della mia generazione – e le ragazze. E così la scuola è passata in secondo piano. Per tre anni ho lavorato in commedie musicali di Garinei e Giovannini, poi ho cantato in club privati, ho fatto l’assicuratore, il disoccupato, il direttore di un ristorante… Nei primi 70 ho sostenuto un provino come cantante alla Rca e lì mi hanno consigliato di appendere l’ugola al chiodo e di provare a scrivere dei testi. Ho ottenuto un buon successo nell’intero decennio ma negli 80, per irrequietezza e voglia di nuove esperienze, ho abbandonato la penna e mi sono dedicato al sociale. Nei 90 ho ripreso a fare il paroliere per fame e recuperata voglia di dire e adesso scrivo libri. È un mestiere che mi appassiona e penso sia l’ultimo cambio di rotta di questa mia vita incasinata, fatta di craniate e qualche soddisfazione, ogni tanto.


DOMANDA. Leggendo la tua biografia si evince un legame indissolubile con la parola. Cosa ha significato per te, quando è avvenuto il “primo incontro”? È un rapporto nato per caso o volutamente costruito e perseguito nel tempo?

RISPOSTA. Ho iniziato ad amare la duttilità delle parole da quando ho apprezzato la rotondità delle vocali e delle consonanti a fronte dell’impalato ripetersi delle aste. Sono le parole che hanno cercato me, non trovandomi in molti casi.


DOMANDA. Parliamo di Antonello De Sanctis come paroliere. Quando hai cominciato?

RISPOSTA. Correva il 1971 quando scrissi “Padre davvero”, il mio primo testo di un certo rilievo. Il brano fu affidato all’intensità di una quasi debuttante Mia Martini e suscitò grande scalpore perché scalfiva il perbenismo di facciata che ancora imperava in quegli anni. Mimì ed io avemmo l’onore delle prime pagine di molti quotidiani. Incassammo apprezzamenti e critiche, la censura della RAI e sfiorammo addirittura un’interrogazione parlamentare. Il tempo ci ha reso giustizia, mi pare.


DOMANDA. In genere sono i cantanti e/o i musicisti a cercare te o ti proponi a quelli che pensi potrebbero meglio interpretare i tuoi testi? Quali sono i testi più importanti della tua carriera? Quali hai amato di più e quali ti hanno portato maggior successo?

RISPOSTA. In genere sono i cantanti a cercarmi. Tra i testi che ho amato di più, oltre al citato “Padre davvero”, sceglierei “Col tempo imparerò” sempre interpretato da Mimì e uscito postumo e “In te”, canzone interpretata da Nek nel Sanremo del 93. Anche questa suscitò reazioni a non finire perché i media vollero interpretarla come un brano reazionario e antiabortista. Maggiore successo commerciale hanno riscontrato “Anima mia” dei Cugini di Campagna, “Bella dentro” di Paolo Frescura, “Tu mi rubi l’anima” dei Collage, “Figli di chi” di Mietta, “Laura non c’è” e “Lascia che io sia” di Nek e molti altri che non sto a ricordarti per brevità.


DOMANDA. Qualche rimpianto od occasione mancata?

RISPOSTA. Occasioni mancate, quante ne vuoi. Rimpianti nessuno. Ho sempre provato ad andare avanti rispettando la mia natura, con l’obiettivo di non farmi stritolare dalle logiche di qualsivoglia sistema. Ho provato a essere un uomo libero, insomma.


DOMANDA. Sempre rispetto all’attività di paroliere, qual è il sogno nel cassetto di Antonello De Sanctis?

RISPOSTA. Quel mestiere mi ha dato molto e molto ha tolto alla mia voglia di spaziare al di là dei limiti di una metrica e di precisi obiettivi commerciali. Ho una grande voglia di togliermi da questa gabbia e provare l’ebbrezza di un viaggio solitario, così scrivo libri e mi prendo i rischi che questa mia scelta comporta considerando la perdurante crisi dell’editoria libraria.


DOMANDA. Quando e perché hai cominciato a pensarti come scrittore?

RISPOSTA. È la mia naturale vocazione credo e penso sia arrivato il momento di darle spazio, anche perché scrivere un romanzo è terapeutico e mi riappacifica con me stesso.


DOMANDA. Quali sono i generi letterari che preferisci?

RISPOSTA. Quelli che mi arrivano dentro, di qualsiasi tipo essi siano. Sono molti i libri che abbandono prima della decima pagina, molti altri invece mi coinvolgono al punto che li rileggo cento volte.


DOMANDA. Quali sono i tuoi autori preferiti? Fra i poeti chi prediligi?

RISPOSTA. Amo Hemingway e Bukowski. Tra i poeti, Prévert e Neruda.


DOMANDA. Quale rapporto tra poesia e musica?

RISPOSTA. La poesia è. Vive in perfetta autonomia e basta a se stessa. I testi delle canzoni sono vincolati da molti condizionamenti, ma non li considero poesie minori. Sono poesia popolare, diciamo, nel senso più nobile di questa accezione.


DOMANDA. Perché “Non ho (hai) mai scritto per Celentano”?

RISPOSTA. Non mi è mai capitato di incontrarlo, sinceramente. Non mi ha mai cercato né io ho mai cercato lui. Del resto, Adriano si è sempre circondato di autori e compositori di talento e le nostre distanze non hanno certamente nuociuto alla sua pluriennale carriera.


DOMANDA. Parlaci del tuo ultimo libro “Oltre l’orizzonte”, No Reply, Collana Velvet, un romanzo. Ci sono componenti autobiografiche?

RISPOSTA. Il romanzo ha molto di autobiografico. Parlo di tre figli che si riuniscono intorno alla madre, affetta da un grave tumore ai polmoni, per aiutarla a combattere la malattia e affido al personaggio di Matteo le mie emozioni. Emozioni che ho provato sulla pelle perché Marta, la protagonista della storia, era mia madre.


DOMANDA. Nei nostri precedenti scambi mi hai segnalato la decisione di destinare parte dei proventi alla ricerca sul cancro. La tua scelta da cosa è motivata? Puoi illustrarci il tuo pensiero sul fenomeno di abbinare l’adesione a campagne umanitarie alla pubblicazione di un libro piuttosto che di un CD o ad uno spettacolo?

RISPOSTA. La risposta alla tua domanda sta in quello che ti ho accennato prima. Hai ragione, un libro non ha lo stesso appeal di un CD o di uno spettacolo ed è forse meno vendibile. Ma ha una sua particolare dignità e poi ho voluto seguire una strada solitaria, senza che nessuno mi dicesse “Accelera” o “Frena”. Ora il romanzo è affidato alla gente e la gente risponde quando è chiamata a sostenere una buona causa. E poi è un gran bel libro, lasciamelo dire. Per sgomberare il terreno da qualsiasi dubbio di una bieca operazione promozionale, voglio chiarire una cosa: da questo lavoro, alla fine, né io né l’editore trarremo utili. La ricerca forse sì, se saranno in molti a leggermi.


DOMANDA. Ci siamo incontrati su myspace, la tua campagna di diffusione viaggia molto su Internet. È una scelta che dipende dal considerare questo mezzo come il più efficace per fare marketing o ci sono altri motivi?

RISPOSTA. Pubblico con un piccolo editore e non mi chiamo Umberto Eco. Internet è una grande strada da seguire, con tutte le incognite che si porta dietro. Ma io ci credo ed è per questo che affido in gran parte al web la diffusione di Oltre l’orizzonte seguendo personalmente i miei contatti. Mi sostengono tre mie amiche – Antonella, Erica e Marta – che hanno creato una pagina su face book intitolata al romanzo. Sono molto presente lì e, libro o non libro, amo approfondire le mie nuove conoscenze virtuali. "La vita, amico, è l'arte dell'incontro" ebbe a dire il grande Vinicius De Moraes.


DOMANDA. Hai visitato il nostro sito www.larecherche.it. Come lo giudichi? Cosa vorresti dire agli autori, più o meno affermati, che a vario titolo lo “abitano”?

RISPOSTA. Sono innamorato del vostro sito. Sa di libertà e adoro la vostra battaglia a favore degli editori e degli scrittori “invisibili”. Agli autori affermati faccio il mio in bocca al lupo, ai meno conosciuti dico di insistere, affinarsi, scavare nei luoghi più sconosciuti delle loro anime e insistere, insistere, insistere.


DOMANDA. Quali progetti per il futuro?

RISPOSTA. Scrivere ancora romanzi, con l’obiettivo di stabilire con i lettori le stesse consonanze che si sono create con gli oltre venti milioni di amici, sparsi nel mondo, che hanno amato le mie canzoni.

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Grazie.

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- Intervista

Stefanie Golisch

[ Intervista a cura di Franca Alaimo e Roberto Maggiani ]

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DOMANDA. Come si presenterebbe a persone che non la conoscono? Chi è Stefanie Golisch? Di che cosa si occupa?

RISPOSTA. Scrive Max Frisch – non ricordo dove – che a un certo punto della vita, ognuno s’inventa la storia che ritiene poi la sua… Sono appena tornata da Vienna dove ho comprato una cartolina di Kafka con la seguente citazione: “Sich kennt er, den anderen glaubt er, dieser Widerspruch zersägt ihm alles”. Traduco liberamente: “Conosce sé stesso, nell’altro crede, questa contraddizione gli spezza tutto”.
Vive, legge e scrive dal 1987 in Italia. Questo è la mia solita nota biografica. Mi piace l’essenziale. Mi piace lasciare spazio all’immaginazione. Mi piace rimanere invisibile. Mi piacciono i segreti. Mai pensare di sapere tutto, piuttosto rimanere nel dubbio e – importantissimo! – aggiungere a tutte le possibili considerazioni un Forse. Un umile e al contempo fiero Non lo so.


DOMANDA. Ha il suo bilinguismo, esercitato anche attraverso una serie di opere tradotte, una ricaduta negli esiti espressivi della sua scrittura e fino a che punto?

RISPOSTA. Non credo.
Tradurre è per me un atto di voluta estraneità. Quando traduco sono un’attrice che recita un ruolo che non ha nulla a che fare con il proprio essere. Tradurre è una specie di antidoto: contro un io ridicolmente ingombrante che, come quello di quasi tutti gli scrittori e artisti, veri o falsi che siano, tende a gonfiarsi. Immergendosi in mondi altrui, lontani dal proprio, quasi automaticamente si ridimensiona. Perciò mi piace tradurre autori molto diversi tra di loro e – da me. La massima sfida da questo punto di vista sono stati Tommaso Filippo Martinetti e Edoardo Sanguineti.


DOMANDA. Tra gli scrittori tradotti, ce ne sono alcuni di nazionalità ebrea. Come vive oggi un tedesco la memoria della Shoah? Fare conoscere a tutti noi la loro voce può considerarsi, da parte sua, un gesto di risarcimento nei loro confronti?

RISPOSTA. La Shoah è una ferita che non si chiude perché non si può chiudere. E’ così per chi si rende conto e per chi non si rende conto. Come ogni assassinio, anche quello degli ebrei d’Europa, è stato al contempo un suicidio. La cultura tedesca, in particolare la letteratura, da allora non si è mai ripresa veramente. Il suo corpo, se posso dire così, non è più integro. Gli manca una gamba per camminare ben retto. Mancano certe atmosfere, certe sfumature, quell’inconfondibile insieme nella diversità, quello scambio organico che, se anche soltanto per un breve periodo, è esistito. In particolar modo in Austria a cavallo dei secoli, fino agli anni 30. Penso ad autori come Schnitzler e Josef Roth…

Non credo che si possa parlare di risarcimento, semplicemente non è possibile. Anche se al livello personale, si vorrebbe sì fare un po’ di pace. Insieme alla mia collega e amica Adelmina Albini ho tradotto le poesie della giovane Selma Meerbaum Eisinger (1924-1942), ebrea di lingua tedesca di Czernowitz, capoluogo della leggendaria Bukovinache all’epoca si trovava agli estremi confini dell’impero austro-ungarico, oggi Ucraina. Selma sarebbe sicuramente diventata un scrittrice di rilievo. Purtroppo è stata uccisa a soli 18 anni.

Forse l’intento era di fare un po’ di giustizia, ma alla fine non è possibile.


DOMANDA. Sappiamo anche della sua grande passione per Alejandra Pizarnik. Che cosa l’attrae verso questa scrittrice così difficile e complessa? In che modo si è occupata di lei?

RISPOSTA. Ho divorato sia i diari, sia le poesie della Pizarnik circa due anni fa, fulminata dalla loro lucidità, dalla spietatezza e dallo stile che dimostra un’ammirevole libertà interiore. Ma è una passione che non è durata a lungo. Ciò che mi ha fatto prendere quasi immediatamente le distanze è stata la consapevolezza che quella morbosa concentrazione sul proprio io, quel continuo rispecchiarsi, quell’autoinnamoramento senza limiti è un vicolo cieco. Non può questa apoteosi dell’io non portare direttamente all’annientamento. In ultima conseguenza, l’ipersensibilità della Pizarnik, si trasforma in forza negativa, autodistruttiva, sia a livello umano, sia a livello letterario. Kafka – o forse era Flaubert – diceva che nella battaglia tra l’io e il mondo bisogna sempre schierarsi dalla parte del mondo. All’inizio del XX secolo, la scoperta dell’io, cioè del mondo interiore, ha indubbiamente potenziato le possibilità della scrittura letteraria, ma non per questo dobbiamo considerarla verità ultima. La più grande sfida della scrittura è, secondo me, dare voce e credibilità a colui che è il più distante da me: il mio estremo contrario, la mia contraddizione sui generis, il mio nemico innato.

Credo che, nella letteratura così come nella vita, l’io vada guardato da fuori, nel modo più lucido e distaccato possibile. Va tenuto a bada, e, se necessario a guinzaglio. Soltanto così si possono evitare le due trappole più pericolose, il ridicolo e il pathos.


DOMANDA. Quale autore (autrice) si appresta a tradurre?

RISPOSTA Sto traducendo un libro di un autore americano, Terrence Des Pres, apparso nel 1976 negli Stati Uniti. Il suo titolo è : The survivor. An anatomy of the death camps. Considerando sia i campi di concentramento nazisti, sia i gulag sovietici, l'interesse dell’autore si concentra sulla figura del sopravvissuto o, forse più precisamente, su quella del sopravvivente, cioè sulle caratteristiche e strategia che l'uomo ha o assume per garantire in condizioni estreme la propria sopravvivenza fisica. L'atto del sopravvivere viene analizzata come conseguenza di una decisione elementare per la vita e contro la morte.


DOMANDA. Qual è la sua posizione rispetto al problema così dibattuto della traduzione?

RISPOSTA. Non ho alcuna posizione. Credo che non ci possa essere una teoria della traduzione e che non sia possibile insegnare a tradurre. Sta alla sensibilità del traduttore di intuire ogni volta la specifica necessità del testo in questione. Ogni testo – e non soltanto quello poetico - vuole essere tradotto da di dentro, dal suo centro interiore. Come traduttore devo cercare di intuire da dove nasce per prendere delle decisioni, per valutare cosa devo salvare e cosa, eventualmente, devo sacrificare. La traduzione perfetta, si sa, non esiste, ma questo non parla certo contro di lei. La traduzione è dinamica, ha una storia, è un processo, un work in progress che non finisce mai. E’ proprio ciò che molti vedono come un dilemma che io trovo estremamente stimolante. Alcuni anni fa ho tradotto – o forse devo dire - ho cercato di tradurre L’infinito, appassionandomi in seguito alla ricerca di tutte le traduzioni precedenti. Quanti Infiniti! Interessantissimo è quello di Rilke: una perfetta poesia di – appunto – Rilke.


DOMANDA. Certamente i suoi riferimenti culturali appartengono più all’area germanica che a quella italiana. Tuttavia, c’è un qualche autore italiano (o più autori italiani) che ha (hanno) influenzato in modo determinante la sua formazione culturale?

RISPOSTA. A dire la verità, quando sono venuta in Italia, non conoscevo bene la letteratura italiana. Però, quasi da subito, ho cercato di avvicinarmi a questo paese, che ho imparato ad amare molto lentamente, attraverso la sua letteratura. Non sistematicamente, ma semplicemente affidandomi al caso, a consigli personali, articoli letti, nomi appresi da qualche parte. Per fortuna non avevo intenzioni serie! Non mi volevo appropriare del corpus della letteratura italiana, ma soltanto conoscere meglio il paese dove ero capitata. Leggevo come da ragazza, senza guida né intenzionalità. Non mi vergogno di dire che non sono mai riuscita a leggere la Divina Commedia come si deve, ma al margine della cultura ufficiale ho scoperto – e tradotto – la meravigliosa, imparagonabile poesia di Camillo Sbarbaro e di Lorenzo Calogero, per nominare soltanto due poeti che mi sono particolarmente cari.


DOMANDA. Se dovesse indicare agli studenti d’oggi alcuni maestri di scrittura di entrambe le aree linguistiche (germanica e italiana), quali autori e quali opere indicherebbe, e perché?

RISPOSTA. Credo che per chi s’interessa davvero della Germania e in particolare di quell’inguaribile ferita di cui si parlava prima, dovrebbe leggere Uwe Johnson (1934-1984). E’ l’autore nella compagnia del quale ho trascorso 10 anni della mia vita e che conosco meglio di tutti. E’ Johnson che dà voce alla tragedia in tutte le sue sfumature. E’ l’autore più tedesco, più nordico immaginabile. Il suo paesaggio è il Mecklenburg, che si estende dal nord di Berlino fino alle coste del mar baltico. Johnson voleva che il lettore leggesse i suoi romanzi così lentamente come lui li aveva scritto. Desiderava un lettore attivo, attento e disponibile a seguirlo nel heart of darkness. Voleva il lettore impossibile. Johnson è un monolite. Ingombrante e poetico al contempo. Un terremoto per se stesso e per gli altri. Eppure – e non lo dico tanto per dire - un grande scrittore nell’antico senso dell’espressione. Non lo leggo più da tempo, ma ho imparato molto da lui, soprattutto di lasciare tra una parola e l’altra sempre uno spazio vuoto.

Il poeta Günter Kunert paragona l’uomo Uwe Johnson alle statue sulle isole di Pasqua: imponenti e totalmente incomprensibili.


DOMANDA. Trova delle linee (nelle idee, negli esiti stilistici ) che possano in qualche modo accomunare la letteratura contemporanea tedesca ed italiana?

RISPOSTA. Sono dell’opinione che spesso si faccia troppo contemporanea, sia una, sia l’altra.


DOMANDA. La diversa storia delle due aree della Germania ha in qualche modo influito sulla produzione letteraria degli scrittori dell’Est e dell’Ovest, e come?

RISPOSTA. Il drammaturgo Heiner Müller diceva che non c’era da meravigliarsi che nella DDR si scriveva la migliore letteratura: soltanto sotto la dittatura la parola poteva ancora caricarsi di significato.

Naturalmente era una provocazione. Una provocazione però che contiene una triste verità. Dove tutto è ammesso, dove si può dire e scrivere veramente qualsiasi cosa, la parola si riduce a essere un povero contenitore di vuoti variopinti. Così come l’io nasce per combattere contro il mondo, anche la parola ha bisogno di confrontarsi per diventare più chiara a se stessa. Dove l’agnello e il leone cammineranno mano nella mano, probabilmente non si scriverà più. E’ una contraddizione che, per forza, rimane aperta. Siamo davanti al problema della libertà. Può essere definita valore assoluto o lo è soltanto nelle mani di chi è in grado di gestirla?


DOMANDA. Che cosa pensa abbia determinato un rifiuto delle cose dello Spirito nell’ambito della produzione artistica europea?

RISPOSTA. Il materialismo assoluto che sta alla guida del cosiddetto processo della modernizzazione. In Nord Europa lo spirito ha fatto le valige da tempo. Per chi non conosce la Germania del Nord, l’atmosfera che vi regna, è difficilmente immaginabile. Quando passeggio per la zona pedonale di una qualsiasi città, lo posso vedere, l’uomo contemporaneo, ridotto ad essere contenitore di cibi ipercalorici, di piaceri istantanei e di trash di ogni genere. La cultura contemporanea - naturalmente non tutta! - parla a questa triste caricatura dell’uomo. Lo accetta così com’è. Non vuole più migliorarlo, non vuole farlo pensare, ma, anzi, ha deciso di farsi sempre più uguale affinché egli rimanga esattamente quello è diventato nel corso dei secoli: l’esatto contrario di un soggetto autonomo come lo prefigurava Kant. O, detto in termini meno astratti, di un essere umano capace di amare e di pensare a se stesso e agli altri non soltanto come funzione, ma come essere feribile…


DOMANDA. Sappiamo che lei ha scritto anche dei racconti. Tra le varie forme di scrittura, quale le ha dato maggiore soddisfazione?

RISPOSTA. La poesia, essendo la più breve, la più sintetica, la più essenziale, la più taciturna.
La poesia prepara al silenzio.


DOMANDA. A quale sua opera sta ultimamente lavorando e con quali intenti? Sappiamo inoltre che sta adoperando la lingua italiana. Che cosa ha influito sulla scelta di una lingua non del tutto “sua”?

RISPOSTA. Ho scritto un libro ibrido che s’intitola “Luoghi incerti” che uscirà tra poco. E’ un libro di ispirazione autobiografica, il tentativo di comunicare all’eventuale lettore italiano l’essere tedesco. Scrivere in Italiano è stato una sfida a tutti i livelli. Si scrive diversamente quando si scrive in una lingua straniera, soprattutto quando si tratta, come in questo caso, di esperienze anche personali. Eppure, alla fine ci si trova di nuovo dentro il testo. Mascherato, eppure sempre riconoscibile.
Chi sa, dovrò passare a un'altra lingua ancora…


DOMANDA. Lei è redattrice del blog letterario www.lapoesiaelospirito.wordpress.com ci racconta la sua esperienza in rete? Che cosa pensa di siti quali www.larecherche.it e della libera scrittura in rete

RISPOSTA. Non lo so. Da una parte mi sembra che il valore di un testo venga davvero svalutato in mezzo a l’infinità di testi che appaiano ogni giorno. Dall’altra parte, soprattutto riguardo alla poesia – essendo breve – la rete può essere un canale di diffusione realistico, una possibilità per affermare la sua esistenza, per renderla presente in un mondo che la esclude quasi totalmente da tutti gli ambiti. Perciò sono fiduciosa che le mie traduzioni di poesie del mondo che pubblico regolarmente in LPELS entrino in circolazione, che qualche verso, di qui e di là, trovi una risposta nei pensieri o nei sentimenti del lettore sconosciuto.


DOMANDA. Sappiamo che le è stato conferito il premio Würth. E’ stato per lei un riconoscimento gratificante e che cosa pensa, in genere, dei concorsi e dei premi?

RISPOSTA. I premi fanno bene all’io. Questo è un dato di fatto ed è inutile negarlo. Ma come tutte le gratificazioni che vengono da fuori durano quanto un giro nelle giostre del luna park. In verità, tutte queste cerimonie hanno del ridicolo e non sono capace di non rendermene conto. Hofmansthal era fiero di essere ein Mann des Privatdrucks, un uomo della stampa privata, distribuita a forse dieci amici.

Probabilmente, perché fu un uomo molto vanitoso, lo diceva soltanto. Ma mi piace pensare che il vero scrittore dovrebbe essere totalmente indipendente da tutto ciò che è esterno alla sua scrittura. Ammiro una figura solitaria come quella dello studioso Andrea Emo, un buon conoscente di Cristina Campo, che ha studiato e scritto tutta la vita, senza pubblicare una riga. E’ quel nobile senso della sfera privata come una scelta privilegiata, così lontana dal voler essere pubblico come una rana che regna oggi. A volte non è facile, ma bisogna stare attenti e tenersi pronti a combattere quella versione meno degna di se stessi che, nonostante tutto, sarebbe pronta a esibirsi per quattro soldi e due lusinghe sul pubblico mercato.

Ma è facile dire quando non si è mai stati tentati.

Non sono tanto d’accordo con il e non indurmi in tentazione. Credo che si dovrebbe pregare al contrario: per favore, inducimi in tentazione – affinché io possa sapere chi sono in verità.


DOMANDA. Vuole aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non le hanno mai posto e alla quale vorrebbe invece dare una risposta?

RISPOSTA. Ciò che ho amato a 14 anni e che amo tuttora è quel momento in cui ho la sensazione di aver afferrato e trasformato un pezzo di vita o di realtà in una parola o in una frase o in un verso. Mi sento una specie di divinità, capace di guardare più in profondità, di trasformare o, detto più precisamente, ri-creare il mondo. Ma per fortuna quest’attimo dura poco. Guardo me stessa assai imbarazzata e mi dico: vedi, è esattamente quello che devi superare…

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Grazie Stefanie.

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- Intervista

Pier Paolo Pasolini

L’ULTIMA INTERVISTA a PIER PAOLO PASOLINI
“Siamo tutti in pericolo”, pubblicata da "Tuttolibri", settimanale d'informazione de "La Stampa", l'8 novembre del 1975, a pagg. 3 - 4. L'intervistatore era Furio Colombo.

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DOMANDA. – Pasolini, tu hai dato, nei tuoi scritti e nei tuoi articoli, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò “la situazione” e tu sai che con ciò intendo parlare della scena in cui, in generale, ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La “situazione”, con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito ed il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della “situazione”. Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi.

RISPOSTA.– Sì ho capito, ma io non solo lo tento quel pensiero, ma anche ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare ad un loro congresso). In grande un esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un fatto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso. Eichman, caro mio, aveva una gran quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno, alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava una volta al giorno per i bisogni e il pane e l’acqua per i deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche. Ma non ha mai inceppato la macchina.
Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, la “situazione” e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. Ed in che modo.


DOMANDA.– Ecco, descrivi allora la “situazione. Tu sai benissimo che i tuoi interventi ed il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella, ma si può anche vedere o capire poco.

RISPOSTA.– Grazie per l’immagine del sole ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso o di dieci anni prima, e poi diciamo: ma strano che questi due treni non passano di lì, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito, o è un criminale isolato, o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. È facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o uno per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione “Parigi brucia” tutti sono lì con le lacrime agli occhi ed una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita, (un frutto del tempo è che lava le cose come le facciate delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per scegliere. Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e collabora (mettiamo alla televisione). Sia per campare, sia perché non è mica un delitto. L’altro, o gli altri, i gruppi, ti vengono incontro o addosso con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi, e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e slogan, ma che cosa li separa dal “potere?


DOMANDA.– Che cos’è il potere per te, dov’è, dove sta, come lo sani?

RISPOSTA.– Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione e una manovra di borsa, uso quella.
Altrimenti una spranga. E quando uso la spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.


DOMANDA.– Ti hanno accusato di non distinguere politicamente ed ideologicamente, di aver perso il senso della differenza profonda che deve pur esserci tra fascisti e non fascisti, soprattutto tra i giovani.

RISPOSTA.– Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dall’altra? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco dl genere. Ecco io vedo così le truppe di intellettuali, sociologi, esperti, giornalisti dalla intenzioni più nobili. Le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è più il fascismo.
Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anche io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia. Con la vita che faccio ho già pagato un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno, se torno, ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.


DOMANDA.– E qual è la verità?

RISPOSTA.– Mi dispiace aver usato questo termine. Volevo dire “evidenza”. Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: un’educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti nell’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In quest’arena siamo spinti come una strana e cupa armata con cannoni e spranghe. Allora una prima divisione, classica, è “stare con i più deboli. Ma io dico che in un certo senso tutti sono deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.


DOMANDA.– Allora, fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, ed hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema ed hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (in fatti hai in genere molto successo popolare, sei “consumato” avidamente dal tuo pubblico), ma anche di una macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo.
Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?

RISPOSTA.– A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, il mondo diventa nostro, e non dobbiamo usare né la borsa né i consigli di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano c’era il padrone turpe con il cilindro ed i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che con i suoi pargoli chiedeva giustizia. Il bel mondo di Brecht, insomma.


DOMANDA.– Come dire che hai nostalgia di quel mondo.

RISPOSTA.– No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanto predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere di che segno sei. Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse, se ha qualche soffio di vita, a quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa-effetto, prima loro, poi lui o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la “situazione” È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, un’acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un gran fiume. Però per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del “cantando sotto la pioggia”. Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico non perdiamo tutto il tempo a mettere un’etichetta qui ed una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta acqua prima che restiamo tutti annegati.


DOMANDA.– E per questo tu vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici?

RISPOSTA.– Detta così sarebbe una stupidaggine: ma la cosiddetta scuola dell’obbligo forma per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di sé stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà ispirarmi una delle prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e bandiere diverse. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione. Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato la “vita violenta”.
Non vi illudete. E voi siete con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di quest’ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere sul delitto la vostra bella etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano queste cose si trova la pace fabbricando scaffali.


DOMANDA.– Ma abolire vuol dire per forza creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri per esempio, che fine faranno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente salvata nella sua visione di un mondo diverso non può essere più primitiva e se non vogliamo usare l’espressione più avanzata…

RISPOSTA.– Che mi fa rabbrividire…


DOMANDA.– Se non vogliamo usare frasi fatte un’indicazione ci deve pur essere. Per esempio: nella fantascienza, come nel nazismo si bruciavano libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiuse le televisioni, come anima il suo presepe?

RISPOSTA.– Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere nel mio linguaggio vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico, disperato, quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata, intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire. Signori questo è un cancro, non un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido o un disgraziato? Prima del cancro, dico. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici, e divento pazzo. Non sanno di che paese stanno parlando, sono lontani come la luna. E i letterati, i sociologi, gli esperti di ogni genere.


DOMANDA.– Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?

RISPOSTA.– Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri ed i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.


DOMANDA.– Pasolini, se tu vedi la vita così non so se accetti questa domanda: come pensi di evitare il pericolo ed il rischio?

È diventato tardi, Pasolini non accende la luce ed è difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande. “Ci sono punti che mi sembrano un po’’ troppo assoluti. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare, lascio le note che aggiungo per domattina.

*

Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di P. P. Pasolini era all’obitorio della polizia di Roma.

*

- Intervista

Antonio De Marchi-Gherini

[ Intervista a cura di Roberto Maggiani ]


DOMANDA.
Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Antonio De Marchi-Gherini?

RISPOSTA.
Un artista tout court, un poeta totale, nell’accezione primigenia del gruppo ’63, e sostenuta fino alla fine, della sua non lunga vita, da Adriano Spatola. La spina nel fianco al conformismo poetico imperante, alla restaurazione lirica e romantica praticata a partire dalla ‘parola innamorata’, dal neo-orfismo ai miti reinventati, mentre fuori tutto un mondo sta crollando e i valori di riferimento sono altri. Quindi non c’è più osmosi, passaggio di notizie, interesse attorno al tema poesia.
La poesia è diventata una specie di convento di clausura dove alcuni adepti si scambiano i ruoli, io scrivo tu mi leggi, poi tu scrivi ed io ti leggo e così via.
Questo crea un mercato asfittico di do ut des, e chi ha più da offrire si impalca a vate, solo perché ha trovato, a furia di sgomitare, la via giusta per arrivare al grande editore e così essere considerato a tutti gli effetti un poeta laureato, mentre altri cento, bravi quanto lui e forse anche di più, stanno a contrattare con una milizia di editori piccoli e medi, dagli appetiti voraci, quanto costa pubblicare la loro opera che quasi nessuno leggerà e non verrà distribuita, né sostenuta con una qualche forma di pubblicità.
Entrate in una libreria qualsiasi di Milano, di Roma o di Como, sempre uguale, trovate uno spazio grande come un armadietto da spogliatoio, lì ammassata troverete tutta la poesia, dalla Commedia di Dante all’ultimo libro di Franco Loi, quando c’é.


DOMANDA.
Ci tratteggi la tua storia artistica? Sei scrittore, poeta visivo e sonoro. Hai prodotto opere visive e grafiche, con tecniche varie, sparse in gallerie alternative e archivi di tutto il mondo. Che cosa è l’arte per te?

RISPOSTA.
Innanzitutto bisogna avere uno smisurato interesse per tutto quello che è arte, scrittura, creatività in senso lato e olistico, insomma la famosa poesia totale di cui parlavo sopra.
Detto questo ho cominciato ad operare con la poesia visiva negli anni ottanta, frequentando saltuariamente Ugo Carrega, Adriano Spatola, Gio’ Ferri, Luciano Caruso, ora purtroppo deceduto, e molti altri, facevo e faccio veloci puntate in città per tenermi aggiornato sui nuovi temi e stilemi dibattuti, poi fatte le mie riflessioni, mi metto all’opera. A volte nascono poesie visive pure, altre volte degli ibridi di testo e immagine condensati, ad esempio Xilolen un testo di fine anni ottanta, che ora è anche un’opera lirica musicata da Franco Ballabeni.
Poi sono debitore di una libertà anarchica, che la mia educazione borghese non mi avrebbe mai permesso, acquisita collaborando con artisti e poeti totali come Carla Bertola e Alberto Vitacchio con la loro ‘Offerta Speciale’ a Torino e con ‘Terra del Fuoco’ di Carmine Lubrano a Napoli, o più didattica e conformista, la mia partecipazione alla ‘fondazione’ di Tracce e Post-scriptum, che comunque mi è servita come prima palestra ‘critica’. Ricordo di aver intervistato Franco Cavallo, un bravo poeta di Napoli, direttore della rivista ‘Altri Termini’, scomparso qualche anno fa e altri. Dall’incontro con questi artisti-poeti sono nate le personali, le microcollettive a tre quattro artisti, le collettive in tutte le parti del globo, e le partecipazioni all’Arte Fiera di Bologna. In seguito ho partecipato anche alla 49° Biennale di Venezia con Bunker Poetico curato da Marco Nereo Rotelli e Adam Vaccaro, (giugno 2001).
Ma quello che ci tengo a dire è che considero l’arte un atto gratuito svincolato da leggi di mercato, possibilmente fruibile da tutti, e che sia anche d’aiuto ai più deboli, non è un caso che gli ultimi lavori di grandi dimensioni li ho fatti per alcuni dipartimenti universitari di Spagna, Francia e U.S.A., che si occupano di disturbi mentali e di arteterapia.


DOMANDA.
Per realizzare le tue opere visive e grafiche quali tecniche utilizzi?

RISPOSTA.
Io parto dal presupposto che in arte ormai sia stato detto tutto, quello che si fa è ripetizione, ma deve essere una ripetizione intelligente dove tu, pur utilizzando idee e strumenti già visti, ci metti del tuo.
Uso molto il collage perché se c’è una macchia di colore, un particolare grafico, un’inezia che trovo su libri, riviste patinate o anche depliants pubblicitari, basta strappare, assemblare, aggiungere le parole o le lettere dell’alfabeto giuste e il gioco è fatto.
Altre volte su veri e propri quadri dipinti a tempera a olio o con i colori acrilici, ma che sembrano insipidi, basta aggiungere un frammento d’immagine, dei graffi, delle ustioni o altro, e il lavoro raggiunge il livello estetico che mi ero proposto e veicola il messaggio che avevo in mente di trasmettere. Chiaramente, a volte, il messaggio è un’opera aperta, nell’accezione, di Umberto Eco, cioè un’opera che lascia libera scelta di interpretazione al fruitore, lettore.
Questa tecnica, comunque, intendo l’idea di opera aperta, è stata applicata anche a diverse pubblicazioni di poesia lineare, ad esempio ‘La passeggiata di Carmen’(1985), ‘La guerra ascellare’ (1989) e buon ultimo ‘L’Altro (L’evanescenza dell’Angelo)’; non è che io parta dicendo adesso faccio un’opera aperta, succede dopo, rileggendola capisco che è carica di polisensi, di multiformi significati che possono essere agganciati e compresi dal lettore in base alla sua cultura ai suoi giudizi e anche pre-giudizi.


DOMANDA.
Scrittura e arti grafiche sono forse necessarie, insieme, per completare un qualche tuo percorso di ricerca? Voglio dire, sono tra loro complementari o l’una potrebbe sostituire l’altra?

RISPOSTA.
Credo di aver in parte già risposto a questa domanda. Il pensiero nasce prima come immagine, poi si genera come verbum, parola; ma non è detto che si possa praticare il processo inverso, utilizzare l’immagine da sola per far sgorgare dalla mente e dal cuore un insieme di parole e immagini ulteriori, evocative di situazioni piacevoli o meno che si sono vissute o che si vogliono trasmettere.
E d’altra parte siamo ancora, ma poi cambierà anche questo, in piena epoca dell’immagine, basta pensare alla rivoluzione di questi ultimi vent’anni, circa l’accelerazione che abbiamo avuto nella comunicazione che quasi è divenuta afona, perché tutto avviene via cellulare, e-mail con allegati di immagini o foto in movimento ecc.
Per finire, torno a dire che immagine, suono, gioco fonetico sulla parola o sul verso, pittura, installazione, scultura…tutto fa parte della poesia totale.


DOMANDA.
Parliamo della tua poesia, quali sono i tuoi incontri importanti, la tua formazione, le tue pubblicazioni, ma soprattutto perché hai iniziato a scrivere?


RISPOSTA.
Pier Paolo Pasolini conosciuto a Bari, alla libreria Laterza nel 1973, qualche anno prima della sua morte, e poi frequentato per un certo periodo in altri incontri pubblici e privati, colpiva in lui, a parte quella particolare voce metallica, l’amore sconfinato per l’arte la poesia e la cultura come strumento di riscatto delle classe operaia; in seguito la lettura e lo studio delle sue opere e di tutto quello che mi passava per le mani, sia in prosa che in poesia. Poi le lezioni di Filosofia Antica di Giovanni Reale all’università cattolica di Milano, un uomo che sapeva, e sa, inculcare l’amore e la passione per il bello, anche partendo da un frammento di sei, sette parole.
Ma qui l’elenco si dovrebbe allungare con Vincenzo Consolo, Stanislao Nievo, Domenico Rea, David Maria Turoldo, Luciano Erba.
Ho iniziato a scrivere verso i trent’anni, un po’ prima a dedicarmi alle arti visive, con le idee, allora un po’ confuse, poi sono entrato nel ‘merito’ e anche la produzione verbo-visiva e grafico scritturale ha assunto una valenza ben precisa.
Ho pubblicato sei raccolte di versi, più un certo numero di plaquettes.

DOMANDA.
Sei uno scrittore, ma prima di tutto un lettore. Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

RISPOSTA.
I primi, i più grandi, e tali resteranno sempre per me, sono gli scrittori russi da Dostoevskij a Cechov, Bulgakov, Pasternak, poi viene il letto e riletto Kafka, tra gli italiani preferisco di gran lunga, ma ho letto di tutto, Federigo Tozzi e sono sempre a caccia di edizioni antiche o ‘novità’ su di lui. Rifiutati perché imposti, ho poi letto e riletto, pure i ‘Promessi Sposi’ di Alessandro Manzoni e credo che ancora tanto avrebbero da insegnare, anche alle nuove generazioni.
Tra i poeti cito nomi scontati che tutti più o meno abbiamo letto, Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba, Clemente Rebora, a cavallo tra Otto e Novecento. Tra i contemporanei, il mio poeta preferito è Giorgio Caproni, ma ho letto pure tutto Mario Luzi, Alfonso Gatto, Raboni, Antonio Porta, Tiziano Rossi, Eugenio De Signoribus e Giampiero Neri.
Comunque ripeto, io leggo tutti e di tutto, poi ovviamente, se richiesto, do un giudizio in merito.
Ma non ho Maestri in senso lato, tutti e nessuno, mi hanno formato.
Forse quello che più mi ha mutato dentro è stata la lettura attenta del Vangelo, della Bibbia e dei mistici cristiani, buddisti, come Milarepa, santo, mago e poeta, gli scritti del Dalai Lama e i monaci Sufi.


DOMANDA.
Perché non ti fermi alla parola scritta e manifesti invece una sorta di necessità verso l’interpretazione visiva e sonora della stessa?

RISPOSTA.
Perché mi viene spontaneo. Anche quando scrivo versi lineari, scarabocchio, faccio dei disegnini, e alle volte mi escono carini, così li ingrandisco e li uso come base per opere visive, sulla poesia sonora mi aveva appassionato Adriano Spatola, suo fratello Tiziano, che recitava le poesie urlate, e Luigi Pasotelli, purtroppo anche lui passato a miglior vita, ma insomma non sono più giovane nemmeno io, quindi è normale incappare, ogni tanto, in qualche dipartita.
Circa la poesia visiva vera e propria, voglio ricordare che la poesia arcaica, oltre ad essere cantata, spesso veniva scritta a forma di vaso, di luna, di stella e altre sagome, i cosiddetti calligrammi.
Comunque il libro d’arte e la poesia visiva ti permettono di dire o ampliare suggestioni e concetti, che la sola parola scritta, alle volte, non è in grado di esaurire.
Certo resta sempre aperto il discorso se, questo genere di opere, debbano essere collocate tra le arti grafiche pittoriche o la letteratura, ma il dilemma è risolto nell’idea e pratica della Poesia Totale.


DOMANDA.
Che cosa pensi che caratterizzi la tua scrittura poetica, rispetto ai poeti tuoi contemporanei? Quali sono il filo conduttore e l’aria ispiratrice che fin dai primi versi ti accompagnano? Come si è evoluto il tuo scrivere rispetto alle tue prime raccolte?

RISPOSTA.
Innanzitutto una continua ricerca, non ho paura di perdere la ‘mia voce’ perché dentro me, come dentro tutti, vivono diverse personalità e quindi esprimo in quel dato momento, cioè quando compongo un testo e poi li assemblo per fare una raccolta, quello che per me è più urgente dire, e allora la mia poesia può essere erotica, grottesca, lirica, mistica e memoriale.
E poi una vita e una sola personalità non mi bastano, sono un mutaforma, esercizio che riesce bene agli sciamani siberiani, per restare in letteratura cerco di emulare Antonio Ferdinando Pessoa, e qui ho detto solo una parte minimale dei suoi nomi e cognomi e nulla delle sue svariate personalità, altra cosa che me lo rende vicino, è l’interesse per l’esoterismo occidentale e orientale.
Comunque la voce di ogni poeta è sempre inconfondibile, altrimenti non siamo di fronte a un poeta ma ad un dilettante di versi.
Il filo conduttore è quello di tutti e di sempre, sono le grandi eterne domande che l’uomo si pone e si porrà sempre, perché si nasce, perché si vive, perché si muore e il senso di tutto questo.
Chi azzarda altri temi è solo perché maschera con le parole questi eterni concetti.
Poi inframmezzato ci sono pure gli alti e bassi della vita, i momenti di gioia, di dolore di tenerezza, la voglia di giocare stando attenti a mai soffocare il bambino che è in noi.


DOMANDA.
Pensi che la critica abbia colto il carattere della tua scrittura?

RISPOSTA.
Critica è una parola grossa. Oggi non esiste più una critica che possa definirsi tale. Ci sono solo dei battitori liberi asserviti alle logiche di mercato editoriale che a volte recensiscono, si fa per dire, senza aver letto il libro.
Poi ci sono i ‘buoni di cuore’ che recensiscono o mandano lettere a tutti e così il disastro è completo.
Comunque, per quanto mi riguarda, non mi posso lamentare, ho sempre avuto giudizi per la stragrande maggioranza, altamente positivi, qualche nome: Luciano Erba, Antonio Porta, Adriano Spatola, Gio Ferri, David Maria Turoldo, Domenico Rea, Giorgio Bàrberi Squarotti, Alberto Mario Moriconi, Ciro Vitiello, Antonio Spagnuolo, Rubina Giorgi, Brandolino Brandolini D’Adda, Alberto Cappi, Fabio Simonelli, Andrea Bonanno, Vincenzo Guarracino, Giampiero Neri, Guido Zavanone e molti altri, senza contare i nuovi bravi autori che ho conosciuto frequentando il sito ‘larecherche’ che mi sembra poco fine citare qui, perché giochiamo in casa.
Però sono un grande disordinato e se dovessi andare a cercare tutti gli articoli usciti , le note ecc. temo che troverei sì e no il 50 o 60% di quanto è stato scritto su di me.
In questo, adesso internet, mi dà una mano, perché posso andare a cercare il quotidiano, o la rivista e stampare la pagina, oppure chiedere all’editore il numero arretrato.


DOMANDA.
Come avviene il tuo processo di scrittura, in particolare in versi? In quali ore e luoghi, con quali modalità? Scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

RISPOSTA.
Sono nato il 21 aprile alle tre di notte, Toro ascendente Acquario, e come tale lavoro quasi esclusivamente di notte, quando tutto tace ed io penso di essere solo al mondo e così rifletto, medito e scrivo.
Solitamente l’incipit mi ronza in testa, poi, quasi sempre il testo mi viene di getto, faccio pochissime correzioni, in questo dovrei adottare un maggior controllo, ma sono fatto così e ho fretta di passare ad altro, perché ho sempre la sensazione che il tempo a disposizione per leggere, scrivere, creare sia poco.
Comunque prima di ‘dare alle stampe’ un mio libro, gli ultimi sono tutti esiti di premi per l’inedito, lascio sedimentare anche un anno o due gli scritti, poi li rileggo, se mi stupiscono e mi paiono ‘belli’ li invio a chi di dovere.


DOMANDA.
Se tu dovessi dare indicazioni introduttive in un corso di scrittura poetica quali punti toccheresti? A livello pratico, quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo poetico? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona poesia?

RISPOSTA.
Credo poco o nulla ai corsi di scrittura, anche se qualcuno dice di avervi tratto giovamento. Non ci sono scorciatoie, bisogna applicarsi ad uno studio ‘matto e disperato’, certo nel leggere si deve provare anche piacere, ma alle volte, anche terminare un libro che sembra noioso può arricchire e anche se sembra non averti dato nulla nell’immediato, ti accorgi che col tempo certe idee, certi trucchi del mestiere ti tornano utili.
Quindi leggere, leggere molto, sia autori italiani che stranieri, sia in prosa che in poesia.
Oggi tanti, troppi si mettono a scrivere ma sono culturalmente appena alfabetizzati e questo non basta, anche se si ha il dono della creatività di cui parlavo all’inizio, questo dono è come una pianticella che va coltivata, annaffiata, concimata perché possa diventare un albero maestoso.
Comunque per rimanere in Italia, agli apprendisti poeti, ma lo siamo tutti e per tutta la vita, consiglierei la lettura ripetuta di tutte le poesie di Montale per apprendere il ritmo, la musicalità del verso, quelle di Giorgio Caproni per arricchire la fantasia, la bellezza delle immagini e comprendere la solitudine dell’uomo contemporaneo, Vivian Lamarque per imparare la leggerezza e Tiziano Rossi e Giampiero Neri per cogliere l’essenza delle cose, senza sbrodolare.
Questi, ovviamente, sono i miei gusti, ma si potrebbero trovare altre combinazioni altrettanto utili.
A tutti poi consiglio un libro, ingiustamente passato sotto silenzio o quasi, ‘Che noia la poesia’ di Hans Magnus Enzenberger e Alfonso Berardinelli, Edizioni Einaudi; il primo l’ho conosciuto al premio Lericipea nel 2002 ed ho l’onore di essere in un antologia con lui, è persona squisita e nello stesso tempo sulfurea per la plasticità delle sue idee e i concetti che esprime.
I criteri, invece, per valutare una buona poesia sono vari e personali, dipende da chi è l’autore, non a tutti si può applicare lo stesso metro di giudizio, e si devono pure accantonare i luoghi comuni di certa critica, si valuta il testo come forma e contenuto, se emoziona, se muove qualcosa dentro, se dice qualcosa di nuovo oppure dice cose risapute ma viste da una nuova angolatura, ecco allora posso dire questa è una buona poesia.
Resto comunque dell’opinione che non ci sono grandi poeti, ma grandi poesie, al vaglio del tempo, sulle lunghe distanze, ovviamente, di un poeta anche celeberrimo si salvano dieci, venti poesie e tutto il resto rimane come esercizio. La poesia è una scrittura a togliere, non a mettere, perché resti il puro distillato, quello più dolce, più fragrante.


DOMANDA.
Hai vinto numerosi e importanti Premi letterari e finalista in altrettanti, pensi che i Premi letterari possano aiutare la diffusione della cultura poetica? Perché uno scrittore dovrebbe partecipare a tali Premi? Puoi dare un consiglio per capire a quali partecipare?

RISPOSTA.
La risposta è in parte negativa, forse per la narrativa aiutano a vendere, ma vincere premi di poesia ti gratifica solo al momento e soprattutto se la giuria è autorevole e il premio è consistente, lo reputo una sorta di risarcimento per tutti i libri che compro, qualcuno mi dice che usa quei soldi per pagare la pubblicazione di altre raccolte, gli altri premi sono assegnati a tavolino a poeti già affermati, ma le loro vendite si attestato sempre e comunque in qualche migliaio di copie, quando va bene.
Inoltre i premi non ti aiutano a trovare editori e poi c’è, in qualche caso, la parabola discendente di autori noti che, per una legge non scritta, ma applicata, ad un certo punto non trovano più Garzanti, Mondadori o Einaudi e devono ripartire anche loro da editori a pagamento.
Evito di fare nomi perché è già sgradevole il fatto in sé, ma qualcuno di questi è mio amico e ve ne potrebbe raccontare delle belle sulle ‘mafie’ letterarie, perlopiù locate in quel di Milano e in parte a Roma.
Partecipare ai premi è divertente, ma sarebbe bene evitare, per quanto possibile, quelli che chiedono la famigerata tassa d’iscrizione o la mascherano dicendo che per un anno sei socio della tale o tal’altra associazione.
E’ utile, talvolta, perché si ha la possibilità di incontrare poeti e scrittori noti, e passare con loro una e alle volte, anche due o tre giornate in località turistiche e parlando di gossip letterario, di libri, di autori che piacciono o meno, alle volte nascono delle belle amicizie che poi durano nel tempo.


DOMANDA.
Perché tanti lettori trovano difficile la poesia? Che cosa ne pensi? Qual è la responsabilità dei poeti (se di responsabilità si può parlare); quale quella degli editori; quale quella dei lettori e, non ultima, quella dei librai e dei mezzi di informazione?

RISPOSTA.
La poesia ci ronza in testa. Dico la struttura, la rima, l’armonia. A partire dalle canzoni, per arrivare ai canti liturgici, ai salmi ecc., anche se non si può parlare di poesia pura, di forma mentis, sì.
Ma la poesia non vende e non si legge perché forse ce l’hanno fatta odiare a scuola, oppure perché in poche righe si inizia ed esaurisce una storia e noi siamo abituati al prolisso, al ripetitivo, ci piace farci cullare dal noto, perché rassicura e via dicendo. La vita stessa è una sorta di ripetizione di gesti coatti, anche quando pensiamo o crediamo di fare qualcosa di diverso.
Comunque credo che le responsabilità vadano equamente ripartite fra tutti.
La poesia, a volte, per sua stessa natura non è semplice e nonostante i laudatores, vorrei vedere quanti hanno veramente letto Andrea Zanzotto, Ezra Pound, Dylan Thomas o anche Eliot che è di gran lunga più semplice.
Insomma il discorso è complesso e risposte certe non ne ho.


DOMANDA.
Quali sono i tuoi attuali impegni letterari che cosa ti appassiona di più?

RISPOSTA
Sto lavorando a una serie di racconti e quotidianamente ‘produco’ opere visive e testi lineari che metto in cartellette di diverso colore, poi, dopo la sedimentazione e l’ulteriore decantazione, scelgo cosa pubblicare e cosa no.
Circa l’appassionarmi dipende dai giorni, alle volte ho voglia di piantare tutto, ma poi come un ‘vizio assurdo’, per dirla con Cesare Pavese, riprendo in mano carta, penna, colla e tutto l’armamentario richiesto e riprendo ‘il lavoro usato’.


DOMANDA.
L’ultima tua pubblicazione è stata, su larecherche.it, 'L’Altro (L’evanescenza dell’Angelo)', ci puoi dire come è nata questa raccolta di poesie? Con quale intento. Chi è l’Altro?

RISPOSTA.
E’ nata dalla fretta che mi ha messo un certo Roberto Maggiani, ma sono contento di averlo fatto, anche se mi ha fatto correggere due testi che avrei lasciato così, ma mi sono detto, se non li capisce lui, probabilmente non li capirebbero neanche i venti o trenta lettori che di solito trova la poesia, invece con mia grande gioia ne ho trovato qualche centinaio.
Per la verità anche delle mie raccolte precedenti non ne ho più una copia che è una, ma solitamente io regalo, non vendo. Anche perché come ho detto sopra le ultime pubblicazioni erano fuori commercio, essendo esiti di primi premi per l’inedito.
Detto questo ‘L’Altro (L’evanescenza dell’Angelo)’, sarebbe da considerare una sezione di una raccolta ben più vasta e già pronta, ma poi ho visto che sta bene così, che regge senza ulteriori aggiunte e non sono sicuro se verranno pubblicate, oppure adeguatamente modificate potranno formare un nuovo libro, con altri testi che nel frattempo sono nati, anche se piuttosto diversi come taglio e argomento rispetto a queste che sono datate 2002-2007.
L’Altro è il senza forma, l’idea pura, l’angelo della conoscenza… insomma, quello che banalmente si chiama Dio, ma è qualcosa che non si può ingabbiare… perché evanescente, per capirlo devi diventare anche tu dio, come sostengono i filosofi e i mistici orientali, ma non è cosa facile, direi.
Non si può ottenere la suprema saggezza, senza avere una mente pura e di menti pure, a partire da me, ne vedo in giro pochine, ammesso che sia possibile vedere la mente.


DOMANDA.
Tra le tue scritture quale ti ha dato più soddisfazione?

RISPOSTA.
Alcune poesie, soprattutto due, ‘Battuta di Caccia’, costruita attorno alla memoria di mio padre e ‘Amore in Novembre’, una tipica malinconica sera d’inverno sul lago, con le brume, la pioggia e un amore che segna il passo.
Poi se vogliamo parlare, come tu intendevi nella domanda, anche quando riesco a vendere delle opere visive provo gioia, non per il denaro in sé, ma perché per i più questo è il metro di valore di un’opera d’arte, ed io, senza apparati critici di sostegno, vendo a gente che se ne intende e questo mi gratifica ancora di più.
Anche se devo dire che l’80% della produzione visiva viene offerto in omaggio a musei, gallerie, e dipartimenti universitari che ti gratificano con il catalogo, il sito internet, e, quando necessario, con l’ospitalità gratuita per la mostra e/o delle performance.


DOMANDA.
Ti sei mai cimentato in una opera narrativa?

RISPOSTA.
Non ci ho mai provato, perché sebbene io ami leggere narrativa, saggistica e soprattutto le biografie o gli epistolari, perché amo curiosare la vita altrui, sono troppo pigro per creare un personaggio, dargli vita e seguirlo troppo a lungo, questo nella poesia e affare di qualche minuto, al massimo una mezz’ora.
C’è da dire, però, che l’unico racconto pubblicato ha trovato il plauso e il consenso di Vincenzo Guarracino, che ne ha scritto addirittura sul Corriere di Como, e lui è uno che se ne intende, quindi sarei autorizzato a continuare, ma il racconto lo posso esaurire in qualche ora o mezza giornata, un romanzo richiede tempi più lunghi e, come già detto, al momento non mi appartengono.


DOMANDA.
Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su larecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete?

RISPOSTA.
Si rischia di aprire un contenzioso, ma sono abituato a parlar chiaro. Ci sono testi egregi, come quelli di Gabriela Fantato, Maria Grazia Lenisa, Pietro Citati e altri, che il pubblico del sito non ha capito, mentre certe litanie alla Lucio Battisti sono andate vie come il pane. Secondo me ci vorrebbe un filtro più severo, se si vuole elevare ulteriormente il valore del sito che comunque è già buono.
Sulla scrittura in rete, se curata bene come fate voi, è ottima cosa, e per quanto mi riguarda potrebbe anche sostituire il tradizionale libro cartaceo, certo non può e non deve diventare per il poeta e lo scrittore l’unica via, ma è un’esperienza che consiglierei anche agli scettici più incalliti.


DOMANDA.
Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

RISPOSTA.
Innanzitutto devo ringraziare te, Roberto Maggiani e quelli che lavorano con te, per la grande opportunità che mi hai dato di pubblicare, a questo punto direi con ‘successo’, la mia raccolta e perché il sito mi ha permesso di fare nuove conoscenze o di ritrovare qualcuno che avevo perso di vista.
La domanda è: ‘Ma perché continui a scrivere e leggere poesie in un mondo che sta diventando sempre più una giungla di ingiustizie, razzismo, intolleranza e egoismo?’ ‘Perché mi piace continuare a credere nell’utopia che la poesia salverà il mondo.’


Grazie.
Grazie a te e a chi avrà la pazienza di leggere.

*

Note di mimosa a Volvera (8 marzo) »
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*

- Intervista

Franca Alaimo

[ Intervista a cura di Roberto Maggiani ]



DOMANDA.
Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Franca Alaimo?

RISPOSTA.
Se le persone fossero i lettori della mia poesia, direi loro di spingere bene il loro sguardo dentro le sue zone di luce come quelle di buio per capire chi sono. Come ogni umana creatura, sono un miscuglio delle due cose. E avrei pudore, come sempre, di svelare al di fuori dei versi, un’esperienza biografica attraversata da traumi, lutti, eventi “miracolosi”, grazia ed errore. Una vita intensa e dolorosa come la mia è diventata, tuttavia, la materia ruvida e scintillante che la poesia, frequentata e scritta fin dall’infanzia, ha rielaborato e rielabora costantemente, insistendo sulle mie figure mentali più tenaci, come la morte, l’abbandono, il dolore, sorrette da un sentimento religioso della vita (nonostante) che danno loro come compagne di viaggio le altre opposte figure della rinascita, dell’amore, della gioia. In ogni caso, mi percepisco come un flusso d’energia amorosa che si abbandona a quello emanato dalle altre creature che mi attorniano, nella convinzione che tutti siamo immersi nel Tutto.

DOMANDA.
Ci tratteggi la tua storia di scrittrice? Gli incontri importanti, la tua formazione, le tue pubblicazioni, ma soprattutto perché hai iniziato a scrivere e in particolare poesia?


RISPOSTA.
La mia mamma adottiva era una maestra mancata ed io sono stata la sua prima ed unica alunna, fin da quando fui in grado di intendere. Così, mentre si stava attorno alla tavola con gli altri familiari, ognuno intento alle sue occupazioni, lei recitava a memoria i canti di Dante, le poesie del Pascoli e del Carducci e anche qualche testo in francese. Vivevo, insomma, dati i tempi miseri, di tanta poesia e scarso companatico. Scribacchiavo, anche, di nascosto versi, ma senza mai farglieli leggere, temendo di deluderla. Sono venuta allo scoperto per caso, nel 1989, quando un mio amico pensò di far conoscere i miei versi a Nat Scammacca, un rappresentante dell’Antigruppo siciliano, che in quel momento consumava un itinerario molto interessante di protesta contro l’editoria dominante, sposando la tesi di una poesia per tutti, recitata nelle fabbriche e nelle piazze, anticipando, così, il fenomeno della spettacolarizzazione dell’evento-poesia, che diverrà così tipico nella società americana. Benché per vocazione estranea a tale atteggiamento, ebbi in questo modo la possibilità di conoscere tanti poeti siciliani, di leggerli e farmi leggere. Pietro Terminelli, autore di versi lunghissimi, ideologici, sanguigni, mi volle accanto a sé come redattrice della rivista “L’involucro”, dove pubblicavano autori fortemente impegnati, che “violentavano” il linguaggio per fare uscire la poesia dalle secche della rassegnazione.
La partecipazione, più tardi, come redattrice, alla rivista “Spiritualità e Letteratura”, diretta dall’amico e poeta Tommaso Romano e stampata a Palermo, ma diffusa su territorio nazionale, mi fornì l’opportunità di confrontarmi con molti tra i più importanti poeti e scrittori, italiani e non: Luzi, Bonaviri, Loi, Squarotti, Spaziani, J. Rosa Pita, Lanuzza, Bettarini, Lenisa, Russell, Flaminien, Pazzi, Carifi, Ruffilli, e tantissimi altri, (vorrei nominarli tutti, ma come potrei!) con molti dei quali è nato un solido rapporto amicale.
Ho pubblicato fino ad oggi dieci libri di poesia, quattro saggi su altrettanti autori della letteratura contemporanea, scritto centinaia tra recensioni e prefazioni, tradotto alcune poesie di Russell, ed, infine, ho al mio attivo anche un breve romanzo.
L’ultima parte della domanda mi chiede perché abbia scelto proprio il genere letterario della poesia. La risposta sta nella fame che ho sempre avuto, che ho, di una comunicazione più profonda e più libera di quella che caratterizza le conversazioni quotidiane, in cui tutto viene solo sfiorato e pronunciato secondo luoghi comuni sia mentali che verbali.


DOMANDA.
Che cosa è la poesia per te?

RISPOSTA.
Mi riallaccio a quanto detto poco fa. La poesia è uno spazio in cui il poeta denuda il linguaggio delle sue vesti logore e sbiadite, spingendolo ad esplorare i territori più difficili dell’inconscio, dell’immaginazione, e a ripercorrere, vestito di altri simboli e significati, quelli della realtà, per conoscerla meglio, per rifare l’unità fra spirito e materia. Il linguaggio viene così restituito alla comunicazione profonda, rinnovando continuamente sé stesso. Quanto a me, essa ha costituito anche uno strumento terapeutico, che mi ha permesso di stare in equilibrio, attraverso la rielaborazione “musicale” delle dissonanze personali e sociali. Non voglio affatto affermare che la poesia sia una comoda via di fuga; al contrario mettere in evidenza come, pur guardando diritta negli occhi la realtà, essa costituisca uno dei pochi strumenti capaci di renderla tollerabile, anzi degna d’amore perfino nei suoi lati più oscuri e crudeli.


DOMANDA.
Sei una scrittrice, ma prima di tutto una lettrice. Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formata e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

RISPOSTA.
Sono una lettrice onnivora, perché sono una persona curiosa, e soprattutto perché tutto il territorio della letteratura mi sembra una riserva di caccia dov’è possibile imbattersi, per un’improvvisa grazia, in “esemplari” di straordinaria bellezza. Antichi e moderni, a qualsiasi nazionalità appartengano, i poeti mi piacciono tutti. In un’altra intervista ho parlato della poesia come una sorta di coro polifonico, i cui cantori innalzano note di diverso timbro e colore, che si fondono in una sola armonia. Ma certo, poi ci sono quelli preferiti: tra le donne Saffo, Stampa, Dickinson, Pizernik, Plath, Pozzi, Cvtaeva, Campo, Merini, Lenisa; tra gli uomini i poeti della classicità, soprattutto Virgilio ed Orazio, quelli del Dolce Stil Novo, Dante e Petrarca e Leopardi, e poi Donne, Rilke e un po’ tutti i poeti dello straordinario secolo appena trascorso, e ancora, tra i moderni, non italiani, Eliot, Pound, Pessoa, Merton; e, tra i contemporanei, Loi, Luzi, Bonnefoy, Russell, Gherardini e tanti, tanti altri. Ma non posso trascurare le emozioni che mi hanno dato i grandi romanzieri; trovo che specialmente le donne abbiano una pronuncia quasi vicina alla poesia; parlo della Woolf, in particolare, della Yourcenauer, della Morrison, della Campo e di molte altre. E poi ci sono gli autori giapponesi da Basho in poi, magnifici, raffinatissimi sia nella poesia che nella prosa. Non credo, tuttavia, di potere considerare nessuno quale maestro. Li amo perché sono diversi, ma desidero essere me stessa. E, allo stesso tempo, penso che mi siano stati tutti maestri, così come lo siamo sempre gli uni agli altri. Voglio, però, ricordare i libri che mi sono stati maestri di spiritualità: il Vangelo, prima di tutto, e poi quelli, per nominarne alcuni, di Guenòn, Eliade, Panunzio, i mistici sufi, San Juan de La cruz, le mistiche italiane.
Infine, credo che la sonorità e la limpidezza del dettato mi siano giunte dal mondo classico, nella conoscenza del quale mi sono specializzata nel corso dei miei studi.


DOMANDA.
In una recensione di Antonio Spagnuolo al tuo “Corpo Musico”, Ed. Il Bisonte, 2007, apparsa sulla rivista “Vico Acitillo”, egli afferma: “Si percepisce in queste pagine un sentimento preponderante che attanaglia l’autrice e la pone in un certo contrasto con il linguaggio incoerente e sprovveduto della contemporaneità”. Ci puoi dire qualcosa al riguardo? Inoltre, che cosa caratterizza la tua scrittura poetica, rispetto ai poeti tuoi contemporanei? Quali sono il filo conduttore e l’aria ispiratrice che fin dai primi versi ti accompagnano? E come si è evoluto il tuo scrivere dalla prima raccolta del 1989, “Impossibile luna”, Antigruppo siciliano, al tuo ultimo “Amori, amore”, Ed. La lampada di Aladino?

RISPOSTA.
Penso che la sperimentazione poetica si sia spinta dagli anni ’60 in poi in direzioni spesso forzate e troppo cerebrali. Non mi piace una poesia che sia solo specchio di un eventuale disastro epocale. Trovo che, in questo modo, rinunci al suo ruolo essenziale di capire comunque e preparare il nuovo, il diverso, trasformandosi da strumento attivo di rinnovamento a registrazione passiva, senza scopo. Levi leggeva la poesia sempre “fermentante” di Dante agli internati dei campi di concentramento, diffondendo semi di luce e di speranza nella più disperata delle condizioni umane. Questo lievito vivo della poesia non deve mai mancare. Per questo la poesia deve dire qualcosa, e non può servirsi, quindi, di un linguaggio incoerente e sprovveduto, come dice Spagnolo, qual è, per esempio, quello della politica contemporanea. Ma non credo, ovviamente, di essere l’unica a pensare queste cose. Per fortuna, siamo in tanti, davvero! Se devo, poi trovare un filo conduttore che leghi le varie sillogi poetiche, direi che è la fede nell’uomo e nella vita, e soprattutto l’accettazione e del dolore e della gioia come mezzi di conoscenza e di iniziazione alla sapienza. Non so se ci sia stata un’evoluzione; ho cominciato a pubblicare da adulta; penso piuttosto di avere scelto varie forme espressive per il gusto di provare nuovi modi di dire. Così, per esempio, gli ultimi due libri, pur essendo stati scritti quasi contemporaneamente, adottano linguaggi diversi.


DOMANDA.
Come avviene il tuo processo di scrittura, in particolare in versi? In quali ore e luoghi, con quali modalità? Scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

RISPOSTA.
Il più delle volte, la poesia mi visita nelle ore notturne, quando gli altri, a casa, tacciono, addormentati. Il silenzio è infatti la condizione più opportuna per ascoltare sé stessi, per accogliere le parole che germogliano dal profondo. Ma mi capita spesso di “sentire” qualche incipit ( è importantissimo fare risuonare dentro di sé il primo verso! ) nei posti più disparati; per questo porto sempre con me un taccuino e una penna con cui prendere nota di quanto visita la mia mente. Anche la composizione non ha una regola fissa; a volte scrivo tutto il testo di getto, in modo quasi frenetico, quasi inconsapevole; altre volte fatico a completare certi testi che sembrano rivelarsi e nascondersi allo stesso tempo. Il lavoro di revisione mi sembra sempre necessario e non in tempi immediati. Va creato un po’ di distanza, in modo da essere giudici il più possibile imparziali. Contenuto e forma costituiscono per me un tutt’uno per cui se la forma non convince, anche il contenuto risulta debole.


DOMANDA.
Se tu dovessi dare indicazioni introduttive in un corso di scrittura poetica quali punti toccheresti? A livello pratico, quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo poetico? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona poesia?

RISPOSTA.
E’ difficile insegnare a scrivere poesia. I corsi di scrittura, che da qualche tempo fioriscono dappertutto, a me sembrano tempo perso. Meglio sarebbe insegnare a leggere, a cominciare dalla scuola. Ed ovviamente non è detto che un lettore forte possa essere un buon scrittore; viceversa è invece doveroso. Tuttavia, immagino, che possano esserci degli indicatori, sebbene, fino adesso, ( e lo sto proprio dicendo a me stessa mentre scrivo questa risposta ) non abbia giudicato la poesia degli altri secondo degli indicatori. Se c’è poesia in un testo, avviene qualcosa dentro di me, una trasformazione. Però mi chiedi, caro Roberto, in vista di una prossima rubrica sulla tua rivista, di formularne qualcuno, ed allora sto appunto pensando quali possano essere e come nel catalogo biblico procedo per negazione: in un testo poetico sono da bandire sciattezza, volgarità, incongruenze, stecche sonore, furti d’imitazione, approssimazione, improvvisazione. Un bel testo è quello che mette in moto ragione, sentimento, spirito, memoria, sogno. Che crea una dimensione diversa in cui tutti, però, si riconoscono. Una bella poesia è quella che prepara la lingua del futuro. Che ti fa dire : è davvero bella! Che senti il bisogno di rileggere e, forse, anche di memorizzare, capacità oggi perduta e però tanto essenziale alla poesia.


DOMANDA.
Vi sono case editrici che, approfittando del desiderio di molti di vedere stampate le proprie opere, pubblicano qualunque testo, anche scadente, dietro compenso. Che cosa ne pensi di questo atteggiamento? Secondo te è necessario arrivare alla pubblicazione su carta stampata per essere annoverati tra gli scrittori?

RISPOSTA.
Questo atteggiamento è estremamente colpevole, perché confonde i lettori sulla natura e la qualità dell’arte poetica. Lo scriverla è ovviamente, un diritto di tutti; il guaio è, come una volta mi disse il noto critico Barberi-Squarotti, che tutti si sentono poeti dopo avere pubblicato un libro. Certo, anch’io, tranne che in pochi casi, mi sono autofinanziata. Purtroppo non ci sono case editrici, come accade in altre parti d’Europa, che finanzino i poeti, scommettendo anche su quelli ancora poco noti. Non ricordo chi abbia detto, ma sono senz’altro d’accordo con lui, che la misura della civiltà di un popolo sta nell’importanza sociale e culturale che essa attribuisce alla poesia.
E’ necessario arrivare alla carta stampata per essere annoverati tra gli scrittori? Non so. Ma il libro è un oggetto ineliminabile. Si tocca, si porta con sé, si odora, si sfoglia, si sottolinea, si perde, si strappa, si ritrova, si rilegge. Fa parte delle cose che servono ad esistere. E soprattutto invecchia ed ingiallisce, dando anch’esso la misura del tempo, segnando i ritmi del nostro vivere. Tant’è che la prima cosa che faccio quando leggo qualche bel testo sul video del computer, è quella di stamparla e di tenerla con me, fra le altre. Però pubblicare on-line è una bella opportunità; si raggiunge un gran numero di lettori, senza alleggerire il portafogli. Infatti, un altro brutto “vezzo” delle case editrici è quello di stampare il libro e non procedere alla distribuzione.


DOMANDA.
Perché non si legge poesia? E’ una tendenza italiana o anche all’estero è così? Perché tanti lettori trovano difficile la poesia? Che cosa ne pensi? Qual è la responsabilità dei poeti (se di responsabilità si può parlare); quale quella degli editori; quale quella dei lettori e, non ultima, quella dei librai e dei mezzi di informazione?

RISPOSTA.
Credo di avere risposto precedentemente ad alcune di queste domande in modo implicito od esplicito. L’Italia è uno di quei paesi che non si cura dei suoi poeti e, quindi, se ne deduce, visto quanto detto prima, che si trova in piena crisi di civiltà. In altri paesi i poeti sono più in vista, vengono sentiti come necessari al farsi della cultura e della società; penso ai paesi slavi, ad altri dell’America Latina, forse per le diverse condizioni storiche che li caratterizzano.
I lettori trovano difficile la poesia perché non sono educati a leggerla. E, tuttavia, mi sembra, questa, una delle affermazioni che servono da alibi all’editoria. Penso ad una rivista come Poesia che vende migliaia di copie! Penso a dei recital di poesie affollatissimi. Ad una poetessa come Alda Merini, conosciuta da tutti, anche perché trasformata in un personaggio mediatico. Alle letture dantesche di Benigni. Ritengo, insomma, che il pubblico abbia bisogno di ascoltare poesia, purché vera e bella.
Quanto ai librai, ti dico soltanto che la libreria Mondadori, a Palermo, che si estende su cinque piani molto ampi, dedica ai libri di poesia un minuscolo scaffale, dove stanno appena, in tutto, una cinquantina di titoli, la maggior parte dei quali rimandano ad autori classici.


DOMANDA.
Ti occupi di critica letteraria. Ci piacerebbe che ci raccontassi di più su questo “mestiere”.

RISPOSTA.
Ho cominciato a scrivere critica letteraria per accontentare qualche amico che mi chiedeva di parlare del suo libro. Poco a poco è diventata un’occupazione che prende una buona parte del mio tempo libero. Diciamo che ho imparato a fare il critico con lo scrivere pezzi critici. È un esercizio che evita una lettura superficiale dei testi poetici e che mette a nudo l’officina di ogni autore, il suo modo di procedere, i suoi stilemi. Costituisce , quindi, un utile confronto e un modo per crescere come poeti, rendendo naturali quelli che prima avrebbero potuto apparire soltanto artifici della tecnica. Padroneggiare, infatti, gli strumenti rende più libero il poeta di re-inventarli e, se è il caso, anche di trasgredirli. Sono solita leggere un libro sei-sette volte almeno, in modo da afferrarne i nuclei fondamentali e parlarne senza tenere le sue pagine aperte. Procedo, infatti, secondo una lettura a strati: la forma, i contenuti, i simboli, le figure dominanti, il confronto intertestuale e così via. L’ultima lettura ingloba tutte le precedenti.
Penso, tuttavia, che oggi non esista più una critica che sappia selezionare. Per fortuna- dicono molti. Io non ne sarei sicura. E’ vero che spesso i critici di un tempo hanno preso solenni cantonate, ma è anche vero che i veri capolavori sono egualmente riusciti ad affermarsi. In ogni caso l’autore veniva discusso e, dunque, pubblicizzato e letto.
Meglio dell’appiattimento e del mare magnum di oggi. E’ tanto vero che nemmeno i pareri favorevoli di grandi critici riescono a dare più visibilità ad un autore.


DOMANDA.
Quali sono i tuoi attuali impegni letterari che cosa ti appassiona di più?

RISPOSTA.
Sto dedicandomi alla scrittura di un romanzo in cui la autobiografia si mescola all’invenzione, come credo avvenga quasi sempre. Su questo stesso sito, LaRecherche.it, sarà edito a Maggio il mio primo libro di poesia on-line. Parteciperò ad una iniziativa sulla composizione di una poesia plurima, cioè a più mani, ideata dallo scrittore sperimentale Antonino Conciliano. Sto occupandomi della Pizarnik in vista di un convegno di studi a lei dedicato, che si terrà proprio a Palermo in questo mese di Febbraio, grazie all’interessamento dello scrittore Arturo Donati. E, ovviamente, scrivo recensioni e prefazioni ai libri che mi giungono in lettura.
La mia prima passione è leggere e scrivere versi; quando lo faccio mi sento “a casa mia”, libera ed intera. Mi piace anche disegnare e dedicarmi alla cura dei fiori.


DOMANDA.
A quando la tua prossima raccolta di poesie o altra pubblicazione?

RISPOSTA.
Se ti riferisci a pubblicazione cartacea, devo rispondere che non lo so. Ho almeno tre sillogi pronte; una di sole sette poesie dovrebbe uscire gratuitamente per il Bisonte, corredato dai disegni dei ragazzi dell’Accademia, proprio quest’anno. Un libricino raffinato, in tiratura limitata.


DOMANDA.
Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete?

RISPOSTA.
Che si tratta di autori abbastanza “puri”, perché sanno benissimo di non potere ricavare alcun guadagno da una pubblicazione su rivista on-line. Nello stesso tempo sono “giustamente” ambiziosi, perché desiderano farsi conoscere. Se si scrive è perché si cerca di rendere communis la propria opera. E quindi voglio raccomandare loro di continuare ad essere puri e giustamente ambiziosi, e di non stancarsi mai di leggere e imparare. La scrittura in rete è una forma moderna che va accettata ed incoraggiata purché eviti il chiacchiericcio. Ce n’è già troppo in giro.


DOMANDA.
Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

RISPOSTA.
Vorrei che mi chiedessero se ho sacrificato qualcosa per scrivere poesia. Risponderei che il poeta, in generale, deve rinunciare, in buona parte alla “vita”. Egli ha bisogno, infatti, della solitudine, per interrogare la vita. E aggiungerei che, sacrificandola, per paradosso, la vive più intensamente e la comprende più a fondo, acquisendo la straordinaria capacità di sapere anche ciò che non ha direttamente sperimentato e di guardare gli eventi più sconcertanti e crudeli senza perdere la fiducia nell’umanità. Aggiungo, infine, che il mio sogno è la Biblioteca universale di Borges. Ma sono certa che con i nuovi mezzi tecnologici sarà, prima o poi, realizzata. La poesia non potrà mai scomparire. Se accadrà, vorrà dire che l’uomo è già morto.
Naturalmente voglio anche ringraziare te, Roberto, e gli altri redattori della rivista La Recherche per avermi dato la possibilità di raccontarmi a tutti i suoi lettori.


Grazie a te Franca.

*

- Intervista

Nicola Lecca

[ Intervista a cura di Anna Guzzi e Giuliano Brenna, la fotografia è di Francesco Berni, Milano 2009 ]

*

DOMANDA.
Chi è Nicola Lecca?

RISPOSTA.
Nicola Lecca è uno scrittore viaggiatore che a 33 anni ha già visitato 200 città.


DOMANDA.
Com’è iniziato il suo percorso nella scrittura? Qual è stato il primo stimolo e cosa le ha fatto capire che la sua professione sarebbe stata lo scrivere?

RISPOSTA.
Ricordo che, fin da bambino, quando cominciavo a raccontare si faceva un certo silenzio tutt’attorno e le persone ascoltavano con piacere. Raccontare non lo si impara a scuola o dai libri. E’ – credo – una dote innata.


DOMANDA.
Chi l’ha maggiormente influenzata nello stile e nella metodologia narrativa? Chi considera suoi “maestri” di scrittura?

RISPOSTA.
Stig Dagerman, Thomas Bernhard, Marcel Proust, Ingeborg Bachmann e Malamud


DOMANDA.
Quali sono i suoi contemporanei che apprezza di più?

RISPOSTA.
Mario Rigoni Stern, Sergio Maldini e Giovanni Raboni


DOMANDA.
Cosa sta leggendo in questo momento? E quale libro tiene sul comodino?

RISPOSTA.
Sto rileggendo “Il commesso di Malamud". Gran libro. Sul comodino ho “Federica. Morte di una figlia”, di Fausto Gianfranceschi. Una lettura da poco conclusa, ma che necessita approfondimento.


DOMANDA.
Secondo lei dove sta andando la letteratura italiana? È vero che gli italiani leggono sempre meno? Qual è la sua percezione?

RISPOSTA.
Io abito all’estero dal 2000 e non mi piace parlare in generale delle persone. Ognuno è un caso a sé. Dunque non so rispondere alla sua domanda.


DOMANDA.
È stato scelto a rappresentare l'Italia a bordo del Literaturexpress, un treno patrocinato dall'Unesco – con a bordo 100 scrittori di 46 paesi – che, nell'estate del 2000, ha viaggiato da Lisbona a Mosca. Vuole raccontare ai lettori de larecherche.it la sua esperienza a bordo del Literaturexpress? Pensa che la letteratura sia in grado di abbattere definitivamente i confini nazionali e creare un sentire comune fra le genti d’Europa?

RISPOSTA.
E’ stata un’esperienza straordinaria, soprattutto perché, all’epoca, avevo 24 anni. La letteratura ha, secondo me, tre possibilità: informare, incantare e intrattenere. In questo dimostra la sua varietà e anche il suo potere.


DOMANDA.
I suoi romanzi “Il Corpo odiato” e “Ritratto notturno” sono ambientati a Parigi mentre “Hotel Borg” e “Ghiacciofuoco” in Islanda: questi sembrano essere luoghi che lei predilige, come mai? Inoltre, esiste una similitudine tra due isole che per lei sono importanti: la Sardegna e l’Islanda?

RISPOSTA.
L’Islanda e la Sardegna sono due isole profondamente diverse, così come profondamente diversi sono i sardi e gli islandesi. Ho vissuto a lungo in Islanda e ne conservo un ricordo ancora emozionante. Quando le balene entravano in porto le navi non partivano per paura di disturbarle. Parigi la conosco bene e la frequento spesso: ma ho vissuto per più lungo tempo in Austria, Svezia, Spagna e Ungheria. Tra i miei luoghi prediletti c’è senz’altro l’isola di Gotland e ci sono Innsbruck, Zagabria e Sarajevo.


DOMANDA.
Nelle sue opere descrive paesaggi nordici, ghiacciati. Ma ci sono ancora spazi incontaminati o luoghi in cui l’arte possa attecchire nel mondo contemporaneo?

RISPOSTA.
L’arte esiste nel momento stesso della sua creazione. L’arte non manca. Manca, semmai, il pubblico.


DOMANDA.
I suoi racconti, soprattutto quelli di “Concerti senza orchestra”, hanno spesso come protagonisti giovani di talento insidiati dalla follia, dal tormento psicologico. Penso a Veronique, al genio folle di “Angoscia di un genio”, ecc. Perché sceglie proprio queste persone?

RISPOSTA.
Sono affascinato dalla profondità della mente umana proprio come un subacqueo lo è dalle profondità marine. La complessità mi ha sempre incuriosito e, nei miei libri, ho cercato di ridurla ai minimi termini e di raccontarla semplicemente. L’amore per i viaggi include anche quelli nelle stanze buie della coscienza.


DOMANDA.
Come è nato “Il corpo odiato”? Come mai è stato scritto in forma di diario?

RISPOSTA.
Il corpo odiato nasce dalla notizia del suicidio di un modello che si vedeva brutto. Penso che oggi l’esteriorità abbia un’importanza molto più grande che nel passato e molto più grossa di quanto meriti. Ho sentito il bisogno di chiedermi il perché e di rispondere. Troppe persone entrano in guerra con il proprio corpo e si odiano senza motivo. Lo trovo inconcepibile. Eppure è così.


DOMANDA.
Le sue opere sono pervase dalla musica classica. L’ultimo racconto, Ascoltando Schumann, parla di uno scrittore che sogna di esibirsi in teatro. C’è una frase che dice «purtroppo, però, sono un creativo, la musica è parte integrante della mia vita, ma io non posso suonarla, non ne sono capace». Cosa significa? Qual è, per lei, il rapporto tra narrazione e musica?

RISPOSTA.
La musica è ritmo. Anche la narrazione lo è. La musica usa le note: la scrittura le parole. In questo musica e scrittura hanno molto in comune.


DOMANDA.
Sempre in questo racconto, nel sogno in cui lo scrittore si immagina musicista, il teatro, a un certo punto, resta vuoto e da un palco laterale rimane solo un giovane spettatore che saluta levandosi il cappello, con un gesto raffinato. Che valore ha questo spettatore? Rappresenta un tipo di pubblico?

RISPOSTA.
E’ difficile per uno scrittore capire perché ha scritto ciò che ha scritto. Credo che sia compito del lettore interpretare in maniera personale le incognite del libro.


DOMANDA.
Mi ha molto incuriosito il saggio “Di quasi tutto non ci accorgiamo” e mi spiace che sia scritto, mi pare, solo in olandese. Ci sarà un’edizione italiana? Intanto me ne può parlare?

RISPOSTA.
E’ strano: certi miei lavori sono assai più popolari all’estero che in Italia. E’ il caso di questo piccolo saggio filosofico che invita a fermarsi e a scoprire che proprio accanto a noi c’è l’incanto: e non è nemmeno nascosto. E’ proprio lì, ma spesso non abbiamo il tempo e la curiosità per accorgercene.


DOMANDA.
Quali sono i suoi progetti per il futuro e il fatidico “sogno nel cassetto”?

RISPOSTA.
Sono una persona che ama realizzare i propri sogni e, fin da quando ero bambino, ho cercato di realizzarli anziché tenerli nel cassetto. La determinazione e la disciplina credo siano due bei modi per andare incontro alla felicità. Non trova anche lei?


DOMANDA.
Quali consigli vuole donare a chi si accinge ad entrare nel mondo della scrittura?

RISPOSTA.
Siccome sono certo che i redattori della Recherche.it siano persone di spirito, consiglio per esempio non usare mai il verbo “accingersi” perché è un po’ notarile e stona molto quando lo si legge a voce alta.

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Grazie. Invitiamo a visitare il sito web ufficiale di Nicola Lecca: www.nicolalecca.it

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- Intervista

Elio Pecora

[Intervista a cura di Roberto Maggiani]

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DOMANDA.
Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Elio Pecora?

RISPOSTA.
Uno che da diversi decenni, fin dalla prima adolescenza, ha creduto che vivere significava conoscersi e conoscere per sentire meglio, per esistere più attentamente e più intensamente. Vale ancora oggi.


DOMANDA.
Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, la tua formazione, le tue pubblicazioni…

RISPOSTA.
Ho cominciato a scrivere poesie a quindici anni. Erano anni in cui dedicavo molte ore delle mie giornate alle letture più diverse. Ho scritto molto per anni, poi ho strappato tutto e ho ricominciato, lasciando Napoli, vivendo a Roma dal 1966 . Ho pubblicato il mio primo libro nelle edizioni Cappelli, nel 1970, e lì dentro, fra versi e prosa, è confluito tanto di me e del mondo che traversavo. Di là ho sviluppato temi e dilemmi che ancora mi nutrono e mi spingono. Da allora ho pubblicato libri di poesia, di narrativa, di saggistica, di fiabe. Ho curato antologie di poesia. Ho scritto dieci testi di teatro tutti rappresentati e due radiocommedie. Ho curato per la Rai alcune decine di programmi letterari. Ho collaborato con quotidiani e riviste, da “La Voce Repubblicana” a “La Stampa-Tutto Libri”, da “Il Mattino” a “La Repubblica-Mercurio” , da “Tempo Illustrato” a “L’Espresso”, per la critica letteraria. Ho pubblicato racconti e poesie su riviste e settimanali. Che più? Migliori informazioni, per chi voglia saperne di più le fornisce il computer con le sue ricerche perfino eccessive. Gli incontri importanti? Incontri con persone a cui ho dato la mia amicizia e il mio affetto, e da cui ho avuto altrettanto, e che mi interessavano per la ricchezza umana e per il talento. Non li ho ammirati, li ho amati, e nell’amore comprendo anche la capacità di vederne le fragilità e le contraddizioni. Qualche nome? Potrei farne decine. Bastino Wilcock, Penna, Moravia, Pasolini, Elsa Morante, Bellezza, Amelia Rosselli, e tanti altri, da Lalla Romano a Volponi, da Elsa De Giorgi a Palazzeschi. Troppi, e tutti frequentati molto, visti nella loro quotidianità, avendone l’affetto e la confidenza. La mia formazione? Ho frequentato il liceo classico, l’università. Intanto leggevo tantissimo, m’innamoravo di quel che leggevo, credevo nella forza e nella verità della parola che arriva all’espressione e si consegna. Ero ancora bambino e leggevo tutto quel che mi capitava. Ma già l’ho raccontato in una lunga libro-intervista curato da Paolo Di Paolo e pubblicato da Empiria l’anno scorso. Ho letto da ragazzo molto più gli stranieri, soprattutto narratori, diaristi, pensatori. Così, a Roma, nel mezzo della società letteraria, la maggiore di allora, portavo quel che mi avevano già dato Max Frisch e Gombrowicz, Henry Miller e un Nietzsche letto fuori dei pregiudizi, Virginia Wolf e tanti altri ancora. La mia formazione è stata libera, così è stata libera e ampia la mia attenzione alle opere altrui, di cui ho scritto per qualche migliaio di volte in libri e giornali. Ho anche sentito intorno a me non poche stretture della cultura nostrana, e ne sento oggi tante più. Ma respiro forte ogni volta che apro un libro che mi prende, può essere un racconto di Alice Munroo o la prosa recente e coraggiosa di Sandra Petrignani, di Biancamaria Frabotta, o una poesia di Fernando Bandini o quella di uno sconosciuto che ha concorso all’ultimo Premio Penna che presiedo. Che altro?


DOMANDA.
Sei uno scrittore, ma prima di tutto un lettore. Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formato e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

RISPOSTA.
Ho già risposto sopra. Preciso. Pretendo di arrivare alla comunicazione, quella della poesia e della scrittura che si consegna per trattenere, per muovere dentro, per aprire porte. Credo nella scrittura e nella poesia come nella più essenziale delle comunicazioni . Per questo, già negli anni del ginnasio, ho amato enormemente la poesia dei greci e quella dei latini, da Lucrezio a Ovidio. E poi Leopardi e, dopo, quando già scrivevo da anni e tutto si era formato, mi sono conosciuto vicino a Saba e a Penna. Ma gli incontri avvengono di continuo, anche nei miei anni (tardi?), se tuttora mi emoziono, stupisco, sono travolto, attratto, per una frase, un verso, un pensiero.


DOMANDA.
Che cosa caratterizza la tua scrittura poetica, rispetto ai poeti tuoi contemporanei? Quali sono il filo conduttore e l’aria ispiratrice che fin dai primi versi ti accompagnano? E come si è evoluto il tuo scrivere?

RISPOSTA.
Spetta ad altri chiarire quel che mi differenzia o mi caratterizza come autore. Qualche mese fa l’editore genovese San Marco dei Giustiniani, per conto dell’Università di Palermo, ha pubblicato in una splendida edizione tutta una serie di studi critici, firmati da studiosi di varia età ed estrazione, sui miei libri. Un autore che si rispetti spiega le sue opere attraverso le sue opere. Posso soltanto affermare che quanto scrivo affiora da un’urgenza interiore che m’accompagna da tanto. Credo che la parola della poesia si ponga davanti a noi come un continente insieme prossimo e remoto nel quale troviamo le nostre più ardue domande, le risposte aperte a nuove domande. So che potrei fare a meno di scrivere, ma non potrei fare a meno di leggere. Ho bisogno in ogni istante di nutrirmi, di nutrire quel che insisto a nominare come anima e come cuore. Non so quanto si sia evoluta la mia scrittura. S’è piuttosto arricchita di toni e di modi. Già nel mio primo libro pubblicato la prosa conviveva con la poesia e la limpidezza del dettato era la stessa che rivendico nel mio ultimo libro e in quello che vado componendo. Ho già scritto, alcuni anni fa, di ritenere che l’artista porta in sé, dai suoi inizi, nodi e domande e ossessioni che lo spingono a esprimersi e intorno a quelli lavora per tutta l’esistenza. Pensate al Dante de "La vita nova", al Goethe del primo Faust.


DOMANDA.
Come avviene il tuo processo di scrittura, in particolare in versi? In quali ore e luoghi, con quali modalità? Scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

RISPOSTA.
Se le scritture in prosa seguono un progetto che richiede un impegno giornaliero, la scrittura in versi si presenta quando si è fatta più urgente e necessaria, in qualsiasi luogo, con qualsiasi modalità. Il primo verso, come hanno sostenuto tanti poeti ormai promossi agli altari delle letteratura, lo detta “Dio”, ossia viene da una spinta inesplicabile, dall’intensità di un’emozione, di una percezione, di un pensiero. Il resto è anche lavoro, abbandono all’inesplicabile prima di renderlo esplicabile (fino a che punto?), quindi il lavoro dell’artista che è il proprio primo lettore e che dunque interviene per far cadere oscurità gratuite, inutili ornamenti, intellettualismi capziosi. Forma e contenuto sono tutt’uno, affiorano già avvinti l’una all’altro. In questa unità si compie il lavoro della poesia che è spontaneità ricreata, fuoco acceso in un altrove durevole.


DOMANDA.
Se tu dovessi dare indicazioni introduttive in un corso di scrittura poetica quali punti toccheresti? A livello pratico, quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo poetico? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona poesia?

RISPOSTA.
Non credo nei laboratori di scrittura. Sono invece assai propenso a laboratori di lettura. Bisogna saper leggere e leggere il meglio di quel che ci ha consegnato il passato per formarsi un gusto, che è capacità di scelta. Ho scritto di qualche migliaia di libri, dopo averli letti attento e nei casi migliori partecipe. Mi sono pronunciato e mi pronuncio sulla base del mio gusto, e questo gusto viene da modelli che per me significano reali traguardi espressivi. Una buona poesia è quella che non si consuma in parole vuote: l’amore non va nominato, ma raccontato, mostrato; così il dolore, la felicità eccetera. I cattivi poeti, e ce ne sono tanti nel nostro paese, paese in cui si legge poco e male, trafficano sulle superfici, si beano di parole che non levano echi, si perdono in estetiche mal digerite. Credo, come sosteneva Gottfried Benn, che il miglior libro si regga su quattro-cinque poesie “buone”, “risolte”. Il poeta rimane “rara avis”.


DOMANDA.
Vi sono case editrici che, approfittando del desiderio di molti di vedere stampate le proprie opere, pubblicano qualunque testo, anche scadente, dietro compenso. Che cosa ne pensi di questo atteggiamento? Secondo te è necessario arrivare alla pubblicazione su carta stampata per essere annoverati tra gli scrittori?

RISPOSTA.
Le pubblicazioni servono a pochissimo se non seguono a un’attività poetica che ha già un suo rilievo attraverso le buone riviste di poesia e per la fiducia e l’attenzione di quei pochissimi fra critici e antologisti di qualche autorità che hanno un gusto affinato per la poesia. Le case editrici che commerciano sulla vanità degli autori sono deprecabili. Va anche detto che sono diverse migliaia le persone che confidano di darsi un’identità, un motivo di esistere, facendosi pubblicare un librino: che distribuiscono fra gli amici e che, fra difficoltà e delusioni, per qualche tempo dà qualche conforto. Si può sempre sperare di essere scoperti e indicati al mondo da chi ne ha o ne avrà il potere. E’ accaduto ad alcuni dei più grandi. Non va taciuto che è accaduto e accade di scovare nelle minime case editrici autori di valore che, nei casi più fortunati, arrivano alla notorietà e alle pubblicazioni maggiori.


DOMANDA.
Perché non si legge poesia? E’ una tendenza italiana o anche all’estero è così? Perché tanti lettori trovano difficile la poesia? Che cosa ne pensi? Qual è la responsabilità dei poeti (se di responsabilità si può parlare); quale quella degli editori; quale quella dei lettori e, non ultima, quella dei librai e dei mezzi di informazione?

RISPOSTA.
La poesia è stata letta nel passato da un’aristocrazia e da una borghesia che frequentava scuole in cui la poesia veniva molto studiata e soprattutto imparata a memoria. La società di massa è stata educata all’apparenza. La poesia chiede partecipazione, vicinanza interiore, coinvolgimento estremo. Il poeta se è tale parla di sé e del mondo, ossia parla di sé e insieme dell’altro, del lettore. E questi sfugge alla riflessione sulla propria limitatezza, sul destino di morte, sul tanto che regola e opprime la vita umana ma anche la esalta e la nobilita. Si legge nei paesi in crisi. Si leggeva molta poesia nella Russia dell’oppressione, nell’Europa delle dittature. Non si può accostare la poesia se si è occupati e distratti dai riti televisivi e dai minimi consumi. A queste mancanze contribuiscono le scelte editoriali, i commerci librari, le pagine dei libri: tutti facenti parte del sistema.


DOMANDA.
larecherche.it ha recensito, e proposto come lettura consigliata, la sua ultima raccolta di poesie “Simmetrie”, Mondadori, dalla quale riprendo: “[…] si legge un poeta molto elaborato nella scrittura e nel pensiero, alla ricerca di una possibile via di fuga dal reclusorio della materia corporale ma che, nello stesso tempo, è affezionato al luogo della sua detenzione; talvolta il suo versificare è misterioso e assorto, come se il poeta si perdesse in meditazioni sue personali che scrive sul foglio non tanto per comunicarle a probabili lettori ma quanto appunto per meditare in sé stesso. […]”. Ci piacerebbe un tuo commento in tal senso, è necessario fuggire dal corpo? Come è nato questo libro?

RISPOSTA.
Chi scrive e pubblica deve pure essere esposto a fraintendimenti. Spesso il “critico” porta nella lettura i suoi timori e le sue opinioni. Per fortuna non pochi di quelli che hanno scritto del mio Simmetrie, e che conoscono bene i miei libri precedenti, hanno inteso quel che da tanto nutre e motiva quanto scrivo. Non è un caso che il mio verso più citato sia “Io compio l’avventura di restare” che è dentro il mio Motivetto apparso nel 1978. Il corpo lo si abita non lo si lascia, ma lo si abita accettandone i limiti, la precarietà, le paure. Io vivo la vita con allegria, ossia con energia. Ma rinnego le vecchie scadute illusioni e i grandi fantasmi. Il corpo non è una detenzione, ma è un limite, una stanza che ha stretture e angustie, pure ha finestre luminose e spazi godibili. Quanto alle meditazioni “personali”, l’individuo raccoglie in sé l’umano nella sua essenza e vastità e se arriva alla poesia è perché conosce nella sua verità la verità di tanti e di tutti. La meditazione, per essere tale, non può che risolversi nella discesa dell’io nel sé. Penso ad Agostino, penso al Leopardi dell’infinito che siede dietro la siepe e annega nel mare della sua visione e con lui annega il lettore che sappia riconoscersi nelle sue parole.


DOMANDA.
Tra le attività e gli impegni letterari attuali quali ti appassionano di più?

RISPOSTA.
Io vivo le mie giornate con passione, nel senso che le traverso attento e partecipe, patendo e godendo. Ritengo che l’eternità dell’uomo consista nella capacità di cogliere ogni attimo della sua giornata. L’attimo colto, vissuto intensamente, (e può essere un morso di mela, la forma di una nube) è eterno nel senso della pienezza, della totalità.


DOMANDA.
A quando il prossimo libro di Pecora? Poesia o narrativa? Se qualcosa è imminente, ce ne potresti dare una piccola anticipazione?

RISPOSTA.
Negli ultimi due anni sono apparsi quattro miei libri. Troppi, ma due libri accolgono vecchi scritti, uno pubblicato da Guida è una scelta di scritti letterari apparsi nel tempo su quotidiani e riviste, ed è intitolato “La scrittura immaginata”. L’altro, appena pubblicato da Bulzoni, comprende quattro miei testi teatrali e s’intitola “Teatro”. L’estate scorsa ho lavorato a un romanzo, che ho da rivedere lungo il prossimo inverno. E’ ancora un romanzo con una folla di persone che vi si muovono, così come accadeva nel mio “Estate” pubblicato da Bompiani nell’81. Ma è prematuro parlarne.


DOMANDA.
Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su larecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete?

RISPOSTA.
E’ un nuovo modo di pubblicare questo di riviste come “La recherche” che, a ben vedere, si differenzia dalle riviste cartacee solo per il mezzo più esteso e meglio rinvenibile. Merita molta attenzione questo fenomeno che va dilagando soprattutto fra i più giovani e che può travalicare difficoltà editoriali e cecità di redazioni. Debbo aggiungere che diffido delle riviste che si dedicano alle vanità dei propri redattori. La cultura è circolazione , ma è soprattutto gusto e qualità. Quanto alla libertà in rete non deve significare accoglimento di tutto. La resa nella scrittura comporta passione e fatica, in più ricchezza di umori e vivezza di sentimenti. Non ho mai creduto che tutti possano tutto. Ognuno di noi, anche dei più dotati, può qualcosa e là deve dedicarsi per trarne frutti.


DOMANDA.
Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

RISPOSTA.
Sono tante le domande che ho ancora da rivolgere a me stesso.

R. Grazie.

*

- Intervista

Valerio Magrelli

[Ringraziamo Valerio Magrelli per questa bella intervista che ci ha concesso invitandoci nella sua residenza romana. Lo ringraziamo per l'ospitalità.
Intervista a cura di Roberto Maggiani (R.) e Giuliano Brenna (G.) :: Fotografia di Roberto Maggiani]


*


DOMANDA.
Come si presenterebbe a persone che non la conoscono? Chi è Valerio Magrelli? Di che cosa si occupa?

RISPOSTA.
Ho incominciato a scrivere nel 1975, quindi sono più di trent’anni che scrivo; ho pubblicato cinque libri di poesia e due libri di prosa; insegno letteratura francese e mi sono laureato in Storia della Filosofia. Ho abbandonato la Filosofia perché era un amore non ricambiato, mi piaceva molto ma non riuscivo a parlarne, ero come afasico. Allora passai alla letteratura, sempre tenendomi un po’ sul crinale filosofico. Dato che avevo passato un anno a Parigi – il mio primo anno universitario – ho iniziato a tradurre, ho insegnato in scuole di traduzione, ho diretto una Collana di traduzione sperimentale e appassionante per Einaudi per una decina d’anni. Si trattava di una Collana trilingue in cui venivano presentati testi di due autori, entrambi stranieri (il traduttore e anche il tradotto), mentre in basso, sul fondo, correva la traduzione in italiano. Per esempio, avevamo l’originale inglese di Conrad, a sinistra, la traduzione francese di Gide, a destra , e sotto la versione italiana dall’originale, in modo da poter trovare sulla pagina tre lingue insieme. Era un bel lavoro tipografico, perché, girando pagina, si andava a capo contemporaneamente in tre lingue. Abbiamo pubblicato tredici titoli, alcuni ebbero un certo successo, anche di vendite, malgrado fosse una Collana difficile. Ecco, questo è stato uno dei miei lavori. Quindi riepilogando, io scrivo , traduco e mi occupo di critica letteraria.

DOMANDA.
Lei è uno scrittore. Nella sua prima raccolta di versi, “Ora serrata retinae”, di cui parleremo tra poco, lei scrive: “Io non conosco / quello di cui scrivo, / ne scrivo anzi / proprio perché lo ignoro. / […] / Per me la ragione / della scrittura / è sempre scrittura / della ragione.” Che cos’è per lei la scrittura? Perché il giovane Magrelli ha iniziato a scrivere? E’ stato un dovere, un volere o una necessità? Che cosa ricercava, in particolare, nella poesia? Perché l’adulto Magrelli continua a scrivere? Che cosa ricerca ora nella poesia?

RISPOSTA.
La prima cosa da dire è che la scrittura rappresenta un’avventura e un piacere – le prime due risposte, preliminari. E’ un’avventura nel senso che quando si incomincia una poesia non si sa dove si andrà a finire, e la bellezza della scrittura, voglio spiegarlo per chi non scrivesse, consiste proprio in questo andare avanti a tentoni, brancolando. Nessuno sa quanti versi avrà una poesia, se tre, trecento o di trenta, quindi c’è un vero tuffo nel vuoto. Ogni testo – parlo di poesia ma potrei parlare di romanzi – è sempre una scommessa, una puntata sulla sorte. L’avventura è perciò il suo primo tratto caratteristico. Il secondo è invece il piacere. Quanto al dovere, beh, bisogna stare attenti alla retorica. Per quanto mi riguarda, amo molto una risposta di Paul Valéry all’amico proprio di Gide, il quale, sempre molto enfatico , gli aveva scritto una lettera in cui diceva: “Se mi vietassero di scrivere, mi ucciderei”. Ebbene, Valéry gli rispose: “Se mi costringessero a scrivere, mi ucciderei”. Io sono del secondo partito. Certo che esiste una necessità, ma c’è innanzitutto piacere, passione.

DOMANDA.
Chi sono i suoi maestri nella scrittura, coloro che hanno contribuito, con la loro scrittura o con la loro diretta conoscenza, alla sua formazione/affermazione come poeta e scrittore in genere.

RISPOSTA.
Quelli che ho conosciuto e che hanno creduto in me. Quanto ai critici, inutile che li elenchi: sono coloro che mi hanno accompagnato sin qui. Fra gli scrittori, invece, in senso più personale e meno pubblico, vorrei ricordare Elio Pagliarani, Enzo Siciliano e Antonio Porta per primi, e poi Giorgio Caproni. Mi piacerebbe poi citare Giovanni Macchia, di cui seguii i corsi di Letteratura Francese all’Università di Roma. In quel periodo guadagnavo qualcosa scrivendo sui giornali. Quando vinsi il dottorato, andai da lui e gli dissi: “Professore finalmente ho uno stipendio, sia pure per tre anni, quindi potrò lasciare i giornali per dedicarmi alla ricerca”. Al che lui mi rispose: “Non lo faccia mai. E’ fondamentale continuare a scrivere sui giornali, per evitare l’ossificazione, la paralisi della scrittura. Il giornale è una specie di antidoto, che la obbliga a scrivere rapidamente e le permette di tenere una scrittura viva, vivace”. Fu straordinario; il giovane risultava molto più conformista del maestro ottantenne! Così, da un lato ora esce, dopo vent’anni di ricerche, un libro che ho iniziato nel 1989, dall’altra magari mi chiamano alle sei di pomeriggio e mi chiedono un articolo per le sette. Mi piace molto questo doppio registro: qui una scrittura titubante e lentissima, là una veloce, istantanea e adrenalinica. Quanto ai maestri, infine, sono quelli che uno scopre da sé. I primi che mi vengono in mente sono Mandel'štam – maestri stranieri – Michaux, quelli che mi hanno dato i brividi. Un russo, un belga e forse ci metterei Bruno Schulz , un narratore polacco che è stato per me una rivelazione. Poi gli italiani, numerosi. Ancora l’altr’anno ho riletto le operette morali di Leopardi. E poi mi piace la letteratura dialettale, Carlo Porta e Tessa, per il milanese , e Belli – sono un adoratore di Belli – nel romanesco.

DOMANDA.
Ciò che può fare la fortuna di uno scrittore, o sfortuna talvolta, è la novità che egli porta con la sua scrittura, novità che si inserisce in un contesto culturale e letterario ben definito, in cui vi sono scrittori più o meno affermati e ai quali ci si può ispirare, in uno slancio iniziale, sia nei contenuti che nella forma, che assunti e fatti propri alimentano la caratterizzazione di uno scrittore. Ad esempio, per certi versi la sua scrittura ricorda la polacca Wislawa Symborska, con i suoi toni un po’ beffardi, sempre sinceri e spontanei, ironici. La domanda è se tale poetessa ha influito nella sua scrittura e quali altri poeti lo hanno fatto? Che cosa la caratterizza rispetto ai poeti suoi contemporanei? Quali sono il filo conduttore e l’aria ispiratrice che fin dai primi versi l’accompagnano?

RISPOSTA.
Una caratteristica della mia scrittura è quella di cambiare – mi è anche stato rimproverato – penso che la mobilità sia fondamentale. Il più grande complimento è stato quando un amico mi ha detto che sì, i miei lavori cambiano, ma si vede sempre l’impronta. Questo per me è lo scopo cui ambirei arrivare. Il primo libro è un libro di stasi, di concentrazione, monolitico; il secondo era fatto di sparpagliamenti, di frammentazioni. Il terzo, ancora più sperimentale, è una raccolta con prose e traduzioni, mentre il quarto è tutto un testo mimetico che ha la forma del quotidiano (ho voluto imitare il giornale, ogni poesia rappresenta una rubrica di giornale). L’ultimo, infine, ha l’aspetto di un trattatello filosofico. Insomma, per me non è essenziale cambiare, ma è naturale, è spontaneo farlo. Non posso immaginare un nuovo libro senza immaginare una nuova invenzione, una nuova forma, sperando però che in questo ci sia un elemento costante. Rispetto poi alla Szymborska, mi piacciono moltissimo i suoi saggi, e anche alcune sue poesie, ma per il resto la somiglianza arriva fino a un certo punto, perché lei persegue un’esposizione sguarnita, elementare, volutamente ingenua. Si deve comunque a lei la frase più bella che io abbia mai ascoltato sulla poesia (l’ho addirittura usata come occhiello di un mio libretto intitolato che “Che cos’è la poesia?”, Luca Sossella Editore). Io da ragazzo scrivevo, ma mi vergognandomene. Si faceva la politica, si faceva sport, e io di nascosto scrivevo poesie. Ebbene, la Szymborska ha scritto questa frase che è un autentico emblema: “Preferisco la vergogna di scrivere poesie, alla vergogna di non scriverle”. Immagine magnifica, perché ammette che scrivere poesia è una vergogna, ma spiegando che resta una vergogna anche il non scriverle!

DOMANDA.
Al suo esordio letterario, che risale al 1980, era molto giovane, aveva soli ventitre anni, avvenne con la pubblicazione della raccolta di versi “Ora serrata retinae”, Feltrinelli (premio Mondello opera prima), nella quale, oggetto del poetare sono, forse, in primo luogo la scrittura , lo sguardo e il sonno. Ci può dire qualcosa della genesi di questa sua prima opera fino alla pubblicazione? Che significato ha avuto per lei allora e che significato ha oggi?

RISPOSTA.
Mi fa piacere parlare del sonno, perché in origine il titolo era dedicato al sonno, era un titolo sul sonno; poi, invece, ho deciso di mettere l’accento sulla visione, e quindi ho trovato un titolo tratto dal latino scientifico. Si tratta di un’espressione medica, tanto che quando andai dall’oculista, qualche mese dopo dall’uscita del libro, questi mi accolse dicendo: “Non sapevo che fossimo colleghi, ho visto che ha scritto un libro…” In effetti il titolo proviene da un atlante medico; mia madre era medico, tirai giù i suoi libri di oculistica e di anatomia comparata, e trovai la soluzione. Il libro raccoglie le poesie di quasi cinque anni, e al momento di raccoglierle lavorai molto sulla scansione, e lo divisi in due parti di quarantacinque testi ognuna: i primi quarantacinque erano già usciti in rivista, i secondi quarantacinque erano tutti inediti. Diedi due sottotioli, sempre con un riferimento all’occhio, “Rima palpebralis” e “Aequator lentis”, quindi scelsi tre titoli di origine medica e volli un numero in qualche modo simbolico, il novanta, che mi ricordava il gioco dell’oca. In una parola, volevo governare e razionalizzare questa materia. Ma mi veniva da ridere, perché ogni volta che telefonavo al direttore della Collana Feltrinelli, Aldo Tagliaferri, a cui devo molto, e gli dicevo, posso fare così? Posso fare cosà? La risposta era invariabilmente “sì”. La libertà era assoluta: ma devo metter un titolo? Come ti pare. Ma lo devo dividere? Come ti pare. Tutto questo, però, mi metteva paura, paura di una libertà completa: forse proprio per questo motivo architettai un sistema di regole.

R. Quindi iniziò a pubblicare molto giovane, a ventitre anni…

Però sottolineo sempre una cosa: è vero che esordii molto presto, ma è anche vero che iniziai a spedire i testi alle riviste a diciassette anni. Ecco semmai è questo da segnalare. Tutti mi dissero: “Hai avuto una partenza bruciante, come i bestseller di oggi”. Io rispondo di no: se i bestseller hanno una partenza bruciante, io aspettai sei anni.

R. E la prima poesia pubblicata quale fu?
La prima poesia uscì nel 1976, mi pare, in “Periodo ipotetico”, scelta da Elio Pagliarani, poi, dal 1976 al 1980, uscirono in dieci, venti riviste. E’ una cosa a cui tengo molto, perché altrimenti la mia prima pubblicazione sembrerebbe una cosa caduta dal cielo, un meteorite: non è così. Anche allora le attese erano lunghissime, con tutto che la situazione editoriale era molto più favorevole di oggi: c’era sempre molto da aspettare. Ho sempre avuto questo senso della gavetta, non mi sono sentito un miracolato.

DOMANDA.
Nella nota alla pubblicazione di Einaudi “Poesie (1980-1992) e altre poesie”, lei dice: “Sono convinto che una raccolta, laddove non si tratti di un’opera prima, costituisca innanzitutto un mezzo di segnalazione . Come il bengala lanciato da chi è perso, […]: il nuovo testo è la testimonianza di un avvenuto disorientamento”. Un’opera prima che cos’è? E’ una terraferma? Una certezza di inizio di un viaggio che poi seguirà rotte impensate? C’è il rischio di perdersi? Può esplicitare questo suo pensiero in relazione alla fase iniziale del viaggio?

RISPOSTA.
C’è una grande differenza – lo dico perché spesso i lettori non lo immaginano – tra la poesia e la narrativa. Nel secondo caso, uno scrittore spedisce il suo libro all’editore, il quale, se tutto va bene, decide di pubblicarlo. quindi io passo Dall’oggi al domani, dal lunedì al martedì, si passa da potenziale autore a scrittore consacrato; è quello che nelle teorie matematiche si chiama catastrofe, c’è un momento, cioè, in cui cambia tutto. E’ questo quanto accade nella narrativa. Nella poesia non è così, la poesia è una lentissima opera di costruzione, arriverei a dire che in poesia l’opera prima non esiste, perché si tratta sempre di un’opera ultima. La mia opera prima, appunto, era la pubblicazione di un libro in cui la metà dei testi era già uscita su rivista. Io avevo fatto già decine di letture in pubblico, venti pubblicazioni, tre antologie, quattro traduzioni, e voglio sottolinearlo, perché spesso i lettori non lo sanno. Si tratta di un passaggio molto più graduale rispetto alla narrativa. Per questo dico che si arriva all’opera prima come a una conquista, dopo anni e anni di contatti, di spedizioni, di francobolli, di file alla posta: questo è quanto io ho fatto, non voglio esagerare, per cinque o sei anni. Cominciai a scrivere nel 1974-75, e dopo sei anni, essendo uno dei più fortunati della mia generazione, solo dopo sei anni sono arrivato al libro, quando c’è gente che ci arriva dopo dieci o quindici. Questa è la poesia. L’opera prima nella poesia, lo ripeto, rappresenta un lento, lentissimo perseguimento, mentre nella narrativa è un colpo ai dadi, o come l’ambo vinto all’enalotto, casuale, istantaneo: può andar bene o male, ma non ha un prima o un dopo. Per finire il discorso editoriale, dopo sette anni avevo trovato un editore, Feltrinelli; pubblico il mio primo libro, ma l’editore chiude la collana di poesia. Ebbi un momento di smarrimento, e dovetti ricominciare la caccia. Per fortuna il libro era andato bene , se ne era parlato e aspettai di meno, però tra la prima e la seconda raccolta passarono di nuovo sette anni.

DOMANDA.
Ad “Ora serrata retinae” seguì, nel 1987, la pubblicazione della raccolta “Nature e venature”, nella quale tratta anche il tema del nostro quotidiano, fatto allo stesso tempo di tecnologia e di degrado, che cosa pensa della modernità?

RISPOSTA.
Tutto il bene e tutto il male possibile insieme…. Nel mio secondo libri appaiono i telefoni, appaiono le sirene della macchine, i cinema, gli autobus; è un testo completamente diverso rispetto al primo, che era astratto, poteva essere scritto nel Seicento. In “Nature e venature” parla la modernità, che si mostra soprattutto sotto l’elemento del guasto, del danno, della crepa. A me della tecnologia colpisce soprattutto la precarietà, la vulnerabilità, e questo è un tema ripreso anche in seguito, in “Didascalie per la lettura di un giornale”, dove menziono addirittura dei computer rotti, tutto quanto costituisce il lato in ombra dello splendore tecnologico.

DOMANDA.
Da alcune sue poesie pare che lei scriva molto nelle ore notturne. Come avviene il processo di scrittura? In quali ore, con quali modalità? Pubblica ciò che scrive di getto oppure rivede i suoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

RISPOSTA.
Scrivo di notte perché di giorno lavoro; anche volendo non potrei trovare il tempo, se non alla fermata dell’autobus, in treno, in momenti strappati alla giornata lavorativa. Tutti i testi che pubblico vengono rivisti e rivisti per mesi, per anni addirittura, cambiati, manipolati. Sono molto grato alle riviste, proprio in quanto genere letterario, perché mi permettono di saggiare il testo, di vederlo stampato, decidere cosa non va, modificarlo, ritirarlo. Molti testi pubblicati in rivista, per esempio, non li ho mai ripresi in un libro. E’ un tentativo, come con una macchina: la mandi in giro, scoppia, ripari la carrozzeria, la smonti e non la usi più, la si collauda. Nel primo libro c’è una poesia che formata da quattro poesie tutte riunite insieme, segate, c’è proprio un lavoro proprio di falegnameria. Nel terzo libro ce n’è una a cui sono molto affezionato, che è nata unendone due; viceversa ce ne sono altre che erano lunghissime e sono state tagliate. La più breve del primo libro, “Ora serrata retinae”, Einaudi, è tre versi ed era la più lunga, erano quasi quaranta versi, poi ho deciso di buttarne trentasei. Ora mi piace molto, perché per me ha l’aspetto di uno spezzone, come di una colonna infranta; eccola:

Già i nidi delle rondini si staccano
e l’edera mi abbraccia il cuscino:
il mio letto è una foresta.

R. Se non sbaglio il 2003 è la data di esordio in campo narrativo con “Nel condominio di carne”, Einaudi…

Le sue prose erano nate insieme a quelle uscite nel 1992, perché “Esercizi di Tiptologia” ha delle prose; cominciai da lì e ne scrissi altre nel 1992, prima di arrivare all’idea di un libro in prosa sono passati undici anni; ecco, come dicevo, i tempi lunghi…

R. E’ impressionante che lei parla di dieci anni in dieci anni, ma è giovane…

E’ come dal fruttivendolo: basta mettersi in fila presto. Io ho preso il bigliettino di buon’ora…

DOMANDA.
Se non sbaglio il 2003 è la data d’esordio in campo narrativo, con “Nel condominio di carne”, Einaudi, vibrante racconto dedicato al corpo, in cui riprende molte delle tematiche affrontate fin da “Ora serrata retinae”, Einaudi. Perché questa prediletta attenzione al corpo? Che significato ha per lei il corpo?

RISPOSTA.
Beh, forse tutto, il corpo è proprio il nucleo. Cerco di tematizzarlo di studiarlo. Per esempio, anche nella letteratura francese, che è il mio lavoro, ho cercato di approfondire questo tipo di argomento attraverso altri autori. Per questo nel 2002 ho scritto un libro su Paul Valéry, uscito da Einaudi col titolo “Vedersi, vedersi. Modelli e circuiti visivi nell'opera di Paul Valéry”. E’ uno studio sul tema dello sguardo, sul rapporto tra sguardo e corpo. A me questo argomento interessa sia dal punto di vista della scrittura sia dal punto di vista della critica.

DOMANDA.
Lei ha contribuito alle pagine culturali di diversi quotidiani e riviste culturali fra cui “Il Messaggero”, “L'Unità”, “Diario” e “Avvenire”; ha diretto, tra il 1987 e il 1993, la Collana di poesia italiana e straniera La Fenice dell'editore Guanda; nel 1993 ha invece assunto, per Einaudi , la direzione della Collana Scrittori tradotti da scrittori. Ecco la domanda: perché tanti lettori devìano davanti alla poesia? La trovano forse difficile? Qual è la responsabilità dei poeti (se di responsabilità si può parlare); quale quella degli editori; quale quella delle pagine culturali; quale quella dei lettori?

RISPOSTA.
Quanto alle colpe, i poeti sono gli unici che non ne hanno. Dipende molto dagli editori e dalle pagine culturali, perché non c’è fiducia. Non c’è fiducia nella poesia. Certamente un poeta può vendere diecimila copie, a volte succede, però bisognerebbe capire che il pubblico va coltivato, ci sono delle responsabilità.

DOMANDA.
All’attività di poeta e giornalista lei affianca quella di traduttore dal francese di poeti come Valéry, Mallarmé, Verlaine, Jarry, Char e Ponge; ha curato inoltre l’antologia “Poeti francesi del Novecento” (Lucarini, 1991); tra i suoi lavori critici troviamo lo studio “Profilo del Dada” (Lucarini, 1990) e la monografia “La casa del pensiero”. “Introduzione all'opera di Joseph Joubert” (Pacini, 1995). “Vedersi, vedersi. Modelli e circuiti visivi nell'opera di Paul Valéry”, (Einaudi, 2002). Che cosa l’appassiona di più, scrivere testi suoi, in prosa o narrativa, tradurre i testi di altri o il suo lavoro critico?

RISPOSTA.
Ho tradotto molto per il teatro, ho tradotto Beaumarchais, “Le nozze di Figaro”, poi un Koltès, un drammaturgo francese morto dieci anni fa, grandissimo. Adesso ho tradotto l’ultimo libro di Roland Barthes, sulla morte della madre, un libro toccante, dovrebbe uscire a gennaio da Einaudi.

R. Ha curato anche l’Antologia “Poeti francesi del Novecento”…

C’è una battuta di Mandel'štam, dice: “Non c’è niente di più grave per un poeta che tradurre, è come mangiarsi il cervello per la fame”. E’ un lavoro sostanzialmente ingrato, ti assorbe una enorme quantità di energie intellettuali, per poi ottenere un prodotto caduco per definizione; le traduzioni ogni vent’anni, trent’anni vanno rifatte, perciò già sai che lavorerai a qualccosa che scade. E’ come se ti dicessero: “Vuoi scolpire una statua di marmo o di panna montata?” Farla di panna montata richiede una fatica uguale, solo che dopodomani s’è squagliata. La traduzione è destinata a morire.

G. Come mai questa passione per il Dada?

Mah, è un po’ casuale, perché me lo chiese un mio professore, un professore che credette in me, Pasquale Iannini. Io ero giovanissimo, non ero neanche laureato, però aveva sentito un mio intervento a un convegno, era rimasto interessato, allora mi disse: “Io dovrei fare un lavoro per una enciclopedia, non ho tempo, lo vuole farlo al posto mio?”; risposi di ignorare la materia, non sapevo neanche che cosa fosse il dadaismo, lui non solo mi offrì un lavoro pagato (avevo vent’uno anni ), ma aggiunse: “Questa è la mia libreria, prenda tutti i libri che vuole”. Così uscii da casa sua con due valige piene di libri, mi chiusi in una stanza e per tre mesi lessi solo cose sul dadaismo; alla fine gli riportai i libri. Fu un privilegio, e devo dire che per me è stato fondamentale, per la mia formazione, per la mia poesia: tutto ha risentito di questo incontro felice. Sono molto grato a questo docente. E’ stato bello che dopo vent’anni abbia ristampato il mio studio da Laterza, una nuova edizione, una ristampa, un lavoro cui sono affezionato.

DOMANDA.
Riguardo alla sua attività di traduttore, è molto interessante un breve testo presente nella sua ultima opera in prosa, “La vicevita”. Treni e viaggi in treno, edito da Laterza nel 2009. Racconta di come tempo fa si sia trovato all’ultimo momento, in treno, diretto a un convegno a Trieste, a tradurre l’elegia di un traduttore francese del Seicento, Guillaume Colletet, intitolata Discorso contro la traduzione. Ma, dopo essersi accorto di aver dimenticato a casa gli “strumenti” per la traduzione, dizionario dei sinonimi e rimario, mentre temeva di dover lasciare perdere, si ritrova invece ispirato dal ritmo del treno, e sul ritmo stesso del ta-tàm del treno sulle rotaie, si lancia a tradurre il testo e a concludere così la narrazione di quell’esperienza: “[…] Rullavano, i miei giambi ferroviari, e come avrei potuto lasciarli andare? Cosa c’era di meglio che tradurre, stando dentro un metronomo? Così, facendo a meno di ogni libro, mi abbandonai a quella possente ipnosi ritmica, e composi la mia versione italiana come un invasato, come un posseduto. Di solito si va in trance per una poesia; a me successe per una traduzione.”
Il testo tradotto recita così, in base alla sua traduzione pubblicata su “La vicevita”:

Son stufo di servire, basta con l’imitare,
Le versioni sviliscono chi è in grado di inventare:
Sono più innamorato di un Verso che ho prodotto
Che di tutti quei Libri in prosa che ho tradotto.
Seguire passo passo l’Autore come schiavi,
Cercare soluzioni senza averne le chiavi,
Distillarsi lo Spirito senza capo né coda,
Far di un vecchio Latino un Francese alla moda,
Spulciare ogni parola come fossi un Grammatico
(Questa funziona bene, quella ha un suono antipatico),
Dare a un senso confuso uno sviluppo piano,
Unire a ciò che serve tutto un linguaggio vano,
Parlare con prontezza di quello che più ignori,
I Dotti, dei tuoi sbagli, rendere spettatori,
E seguendo un capriccio spinto fino all’eccesso
Capire chi neppure si capì da se stesso:
Ormai, questo lavoro mi ha talmente stancato
Che ne ho il corpo sfinito, lo spirito spossato.

Qual è lo spirito – il pensiero – del traduttore Magrelli nei confronti della traduzione dei testi dal francese all’italiano, quello che emerge dalla elegia che vuole proporre ad un convegno a Trieste, quindi un Magrelli dal “corpo sfinito, lo spirito spossato” a causa del lavoro di traduttore, o quella che emerge dalle ultime righe del suo breve racconto, un traduttore appassionato alla traduzione? Anche per lei vale questa frase? “Sono più innamorato di un Verso che ho prodotto / Che di tutti quei Libri in prosa che ho tradotto.”

RISPOSTA.
E’ bella questa contrapposizione fra due anime che poi in realtà coesistono; innanzitutto c’è lo sfinimento, però certe soluzioni fanno anche piacere, e rendono il lavoro appassionante. Ho davvero un metronomo, sta lì. Ho studiato per quasi vent’anni pianoforte. Ma non sono mai riuscito a preparare l’esame, lo considero un fallimento; viceversa vado molto fiero d’aver superato l’esame di teoria e solfeggio: sono un maestro solfeggiatore. Per me è importante, ho passato giorni e giorni su questo metronomo, e quando dico “trovare un nuovo ritmo”, non uso una metafora, ma mi riferisco a qualcosa che corrisponde a un vissuto profondo, alle ore che ho passato nella casa del mio maestro a scandire note con il pentametro davanti. In qualche modo aggiungerei che, nel mio lavoro sulla metrica, probabilmente si è travasata parte dell’esperienza musicale.

DOMANDA.
La sua ultima pubblicazione, come già accennato è il libro intitolato “La vicevita”. Treni e viaggi in treno, recensito e proposto come lettura consigliata su larecherche.it, da cui leggo: “Questo libro di Magrelli è strutturato in brevissimi racconti in cui sono narrate meditate esperienze autobiografiche tratte dalla sua vita di viaggiatore che, fin dalla prima giovinezza, per varie motivazioni, lo porta a stare in treno […]”. Nella prima pagina del libro si legge: “Chi sta in treno, è segno che vuole andare da qualche parte, e lo fa sempre e solo in vista di qualcos’altro. Il suo scopo, cioè, risiede altrove […] Sono i momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi. E’ ciò che chiamerei: la vicevita.” Ancora riporto dalla recensione: “Un libro snello da leggere, riposante – come il verde attraente della copertina già sta a significare –, a tratti divertente, sa strappare sorrisi svagati. Un libello che mette in luce aspetti ironici e tragici dell’esistenza umana e della convivenza civile, a guizzi provocatorio…

M. Mi ha colpito che citava quella cosa da Auschwitz. Cioè appunto, è importante sottolineare la parte svagata però poi… cioè mi piace lavorare per contrapposizioni

…Ci fa soffermare su quanto mai semplici, e per questo acute, meditazioni circa il senso della storia e di eventi accaduti nel passato e che hanno nel treno un evocatore che porta sensazioni, dentro la propria pancia, e rivela consuetudini dell’Italia e delle sue gentili o isteriche convivenze.” Come nasce questo libro? Noi l’abbiamo consigliato a tutti , a lei piacerebbe consigliarlo a qualcuno in particolare? A che cosa sta lavorando attualmente?

RISPOSTA.
“La vicevita” nasce in un intervallo del mio sterminato libro su Baudelaire, sviluppato nel corso di vent’anni, che uscirà tra poco. All’inizio avevo fatto un corso su un sonetto di Baudelaire, poi per caso l’anno seguente scopro lo stesso sonetto in Beckett; passano due anni, e per caso ritrovo lo stesso sonetto citato in Perec; passano altri due anni, e lo ritrovo in Céline. Insomma, per farla breve, ogni due o tre anni ritrovo lo stesso sonetto. Alla fine l’ho rintracciato in dieci scrittori, dieci scrittori francesi, tranne Nabokov, da Queneau a Colette, fino a Michaux. Tutti lo hanno usato nelle loro opere, una volta, questo sonetto, tutti lo stesso sonetto e senza sapere uno dell’altro. Ora, probabilmente, anche con altri sonetti accadrà questo, perché Baudelaire famosissimo, però la cosa fa impressione. Il libro inanella e segue questa storia di dieci riscritture, dieci trapianti, con la stessa poesia che sbuca, sbuca, sbuca… Ma la cosa più divertente sono le forme di un simile trapianto, la cosa che interessante è come ognuno di loro l’ha ripreso in una maniera diversa: chi per un accenno, chi riscrivendolo, chi negandolo, chi attaccandolo, chi prendendolo in giro – in due o tre casi ci sono delle parodie. Fatto sta che mentre mi concentravo su questo libro che non finiva mai (andavo in giro a fare conferenze, poi un amici mi chiamava uno dicendo: “Ma sai che ho trovato un nuovo caso di innesto”; allora lo aggiungevo, pubblicavo il saggio, ma mi scrivevano per dirmi che ne avevano trovato un altro ancora e così via, in un tam tam), ecco, a un certo punto ho scritto “La vicevita”. Anna Gianluca, che è la direttrice della collana Laterza, mi disse: “Ma perché non scrivi nulla per la nostra collana Contromano?” A me questa Collana piaceva molto già dal titolo, una Collana che attraversa i generi, permette una libertà assoluta, ma risposi di non avere tempo, e di non sapere cosa scrivere. E’ stata lei che mi ha detto: “Ma come, sono vent’anni che vivi in treno…” Sono rimasto folgorato, e per la prima volta in vita mia ho scritto un libro in sei mesi, come in una specie di ricreazione, di parentesi felice. Mi sono molto divertito a scriverlo, perché è come se avessi ricevuto una parola magica per catalizzare tutta una vita trascorsa praticamente in treno. è l’emozione di aver scoperto una chiave, mi sono molto appassionato. Poi mi è venuta in mente l’idea delle sezioni (ho creato quattro sezioni, numerate in maniera abbastanza equilibrata), ma anche questo lo devo a Anna Gianluca. Non c’è niente da fare, la casa editrice è importante. L’interlocutore è fondamentale, non deve essere un editor che ti dice togli questa parola e così via , bensì qualcuno che entra nel libro.

R. Lo consiglierebbe a qualcuno in particolare?

A differenza dei libri di poesia, questo ha mille entrate. I libri li vedo, a volte, come delle fortezze; alcuni che hanno un unico ingresso, c’è un ponte levatoio e basta. Questo è un testo molto aperto, disponibile all’incontro. Per quello su Baudelaire, invece, la scommessa è stata di non farne un libro universitario. Ho impiegato quasi un anno di revisione per scriverlo in maniera molto lineare; ovviamente non posso pretendere che un idraulico, un manager , un calciatore, vi si appassionino. Certo, sarebbe possibile, però è difficile; ma non vorrei neanche che questo libro venisse letto solo da francesisti. La scommessa con l’editore è stata di scriverlo nella maniera più lineare, senza dare mai nulla per scontato. Quando dico Proust, specifico, il famoso autore e narratore della Recherche, e così via; non mi piace escludere le persone sulla base delle nozioni, semmai le escluderei sulla base dell’interesse. Chi non ha interesse abbandona la lettura, però io voglio dare a tutti la possibilità di seguire questa riflessione, anche perché il sonetto, non l’ho detto, è davvero scottante, incandescente: Baudelaire che si rivolge al dolore chiedendogli aiuto. Assistiamo a una situazione profondamente contraddittoria, in quanto di solito si maledice il dolore. Il dolore in francese è femminile, quindi diventa la Musa; Baudelaire si rivolge alla Musa, madre, amante, sorella, figlia, quello che si vuole, per chiedergli aiuto, ma lei è il dolore: come si fa a chiedere aiuto al dolore? Ecco cosa ha sollecitato tanti lettori. Arrivo al caso estremo, veramente è impressionante –relativo alla morte della figlia di Trintignant, l’attrice che fu uccisa dal suo compagno, un cantante rock, del gruppo musicale francese Noir Désir… Il capo di questa band era fidanzato con la figlia di Trintignant, e durante una lite la uccise a pugni, la picchiò fino ad ucciderla (era drogato, tossico). Ebbene un giorno una mia amica mi telefona: “Compra Le Figaro immediatamente”; vado a comprare Le Figaro, e scopro che la madre di questa ragazza era stata interrogata e la polizia, e si scoprì che l’ultimo SMS della vittima era l’inizio del sonetto di Baudelaire spedito alla madre. Perché? Perché è una specie di parola d’ordine. Il primo verso, appunto, in cui ci si rivolge al dolore, non è soltanto un ricordo letterario scolastico, libresco, ma significa qualcosa che viene usato anche nei momenti più tragici, come un talismano. Questo perché la letteratura, quando agisce, quando è viva, non è qualcosa di accademico, di freddo, distaccato dalla vita, ma diventa essa stessa strumento di vita. Per quella giovane donna, la poesia di Baudelaire era un flebile, esilissimo mezzo di difesa. Insomma questo sonetto è diventato un’ossessione. Ma oggi hanno telefonato dicendo che lunedì arriveranno le bozze del libro….

R. Quindi il libro quando uscirà probabilmente a…?

Penso a febbraio.

R. Per l’anno nuovo, poi ce lo fa sapere così lo leggiamo.

Spero sia leggibile.

DOMANDA.
Già dal 1992, con Esercizi di tiptologia, e anche in “La vicevita” si nota la sua tendenza a mescolare versi, traduzioni, prose, in direzione di una scrittura ibrida e contaminata, continuerà in questa direzione? Amplificherà tale commistione?

RISPOSTA.
Non ne ho idea. Per adesso no, per adesso non ho in progetto nuovi libri di poesia: intanto scrivo poesie poi vedremo.

DOMANDA.
Ed ora una domanda per soddisfare una mia curiosità. Il suo ultimo libro in prosa “La vicevita”, a tratti, non so come mai, mi ricorda certi film di Woody Allen. E’ plausibile la mia sensazione? Anche perché mi pare di aver letto da qualche parte che lei ha studiato cinema…

M. Sì il primo anno in Francia, in realtà all’università io studiai cinema.

…e comunque qual è il suo rapporto con il cinema? E’ per caso lei il Valerio Magrelli, primo dermatologo, in Caro Diario del 1993 di Nanni Moretti?

RISPOSTA.
Sì sono io. Ho avuto anche altre offerte, devo dire la verità, però non ho accettato.

R. E come ci è finito dentro il film di Nanni Moretti.

Beh, perché allora eravamo amici ci vedevamo spesso. Poi ci aveva unito la pallanuoto. Io gli dedicai un testo in Esercizi di tiptologia, un testo sulla pallanuoto che era nato leggendo una sua intervista. Moretti si chiedeva: “Perché ha trascorso tanti anni in acqua?”… Mi piacque talmente questa domanda, che l’applicai a me stesso. Poi lui in qualche modo è diventato il rappresentante ufficiale della pallanuoto nella rappresentazione immaginaria del pubblico italiano, dato che quel film, a cui sono affezionatissimo, è uno dei suoi più belli. Però la pallanuoto per me fu molto seria, vincemmo addirittura il campionato italiano giovanile. Quando mi invitò a partecipare al film “Caro diario” accettai , lo confesso, anche perché avrei dovuto fare la parte del medico, e siccome mia madre è medico... Io ho sempre avuto problemi con la medicina, come si vede con “Nel condominio di carne”… L’idea di fare un medico che sbaglia mi parve splendida, fu una vendetta; la mia è stata una vendetta.

R. E Woody Allen?

Ne ha fatti troppi di film, diciamo che alcuni film erano come le mie traduzioni che lo hanno fatto vivere, però la sua ironia è veramente magistrale. Certo, passo la vita vedendo film, quello mi è rimasto. In un giorno ne vedo anche due: per me il cinema è ossigeno. E’ un grande amore. Con Fellini, ad esempio, ci siamo visti per anni, anche se raramente, perché Fellini era interessatissimo alla letteratura italiana, conosceva molti scrittori. Mi telefonò a casa, un bel giorno, anzi pensavo fosse uno scherzo, quando era uscito il primo libro, nell’Ottanta. Mi ricordo ancora, era agosto, stavo a casa , squilla il telefono, era Fellini, e disse: “La vorrei conoscere”…

DOMANDA.
In tutta libertà e sincerità che cosa pensa di siti, quali larecherche.it, che danno la possibilità di pubblicare testi online ad autori altrimenti sconosciuti?

RISPOSTA.
Ogni spazio d’ascolto secondo me è proprio quanto di più necessario si possa pensare per la letteratura; la letteratura vive della comunicazione, della circolazione. Una volta feci un esempio che forse funziona ancora, quello degli squali: gli squali non si possono fermare, perché non hanno apparato respiratorio. O nuotano, o si fermano in particolari punti dove ci sono correnti molto forti, altrimenti non si possono fermare, perché morirebbero. Questa è la letteratura: non si può bloccare, deve sempre girare. Tutto quanto gli assicura circolazione rappresenta la sua vita. Ciò detto, però, è assai importante l’idea di filtro: una rivista, cioè, è importante sia per quello che pubblica, sia per quello che rifiuta, perché, dove c’è una redazione, c’è un filtro, e questo vale anche per il Blog in genere. Una pubblicazione senza filtro, finisce un po’ per essere una tautologia. Sarebbe come immaginare case editrici che pubblicassero tutto. Pubblicare tutto vuol dire non pubblicare più nulla.
Un altro punto sul quale ho delle riserve riguarda la differenza tra il lettore e il critico. Quello che non bisogna mai far venir meno è la figura del critico; quando si inizia a parlare di un libro, bisogna tener presente che ci sono delle competenze che il lettore comune non può avere. C’è sempre un salto, secondo me, tra la dimensione del lettore e la dimensione del critico. Attenzione, non dico tra la persona del lettore e la persona del critico, perché io posso essere, per esempio, lettore di un testo sulla medicina, e contemporaneamente critico di uno sulla letteratura, o viceversa. Il medico che leggerà me come lettore, probabilmente non ha strumenti per capire come funziona una poesia, ma diventa mio maestro e critico per quanto riguarda invece un libro di medicina. Nessuno è inchiodato per sempre ad un ruolo, ma volta per volta le competenze girano. Ora, anche la letteratura è una competenza. Quante a volte sul Blog si tende a dimenticarlo! Insomma, io valuto diversamente il parere del lettore comune e quello di Mengaldo. Se Mengaldo mi dice una cosa su un libro, io lo ascolto come un luminare, ma non mi farei mai operare ai denti da Mengaldo, piuttosto vado dal mio dentista. Questa è qualcosa da sottolineare, perché il problema vero è solo quello delle competenze, e dell’autorevolezza, tutto qua.

DOMANDA.
Che cosa consiglia a chi vorrebbe provare a pubblicare i propri testi in un libro? A quali editori dovrebbero rivolgersi? Se è poesia è meglio desistere? Va bene pubblicare contribuendo alle spese di pubblicazione?

RISPOSTA.
La cosa più importante sono le letture pubbliche e le riviste. La poesia incomincia da lì, e ora sui Blog, certamente, cioè riviste telematiche, riviste cartacee, letture pubbliche. Stabilire dei contatti con dei gruppi di ascolto predisposti, con dei lettori di eccezione, con dei critici. Cos’hanno in più di me? Hanno esperienza. Se uno fa il redattore di una rivista, ha visto mille testi, quindi saprà stabilire differenze tra mille testi, mentre io, che ne ho letti solo due o tre, ho tutto da imparare. Mi limito a proporre quello che ho fatto io: ho scritto alle riviste, ho iniziato a seguire le letture, andavo agli incontri delle redazioni, nei dibattiti, iniziavo a farmi conoscere, facevo leggere i miei testi. Per la poesia la diffusione è una cosa graduale, a differenza del romanzo. E’ inutile mandare i testi direttamente al grande editore, bisogna far decantare, creare come una stratificazione di pubblicazioni, per piccoli passi… ripeto questo è il mio parere. Però è quello che ho visto funzionare in tanti casi, vedendo autori arrivati alla grande pubblicazione gradualmente; mi sembra una cosa sana e devo dire che in Italia funziona. Faccio un nome tra tutti, l’ho incontrato, proprio l’altro ieri, a Pordenone, al festival “Pordenone legge”. Franco Buffoni, che è un poeta, da dieci anni cura dei quaderni di giovani poeti. Era una tradizione della Guanda e di Einaudi, ebbene ora Buffoni segue questa serie straordinaria, sceglie gli autori, li trova leggendoli su rivista. Ecco, il vero canale è proprio questo.

R./G. Grazie

*

- Intervista

Roberto Biagiotti



DOMANDA. Chi è Roberto Biagiotti?

RISPOSTA. Un uomo/ragazzo con un amore, una passione per la musica che non lo ha mai abbandonato.

DOMANDA. Se permetti sull’affermazione “uomo/ragazzo” torneremo più avanti. Rimaniamo sulla passione per la musica. Quando è nata?

RISPOSTA. .Fin piccolo ballavo sulle note dei dischi di Rock & Roll dei miei genitori. Un ricordo in particolare: la sigla di chiusura di una serie televisiva degli anni ’70, “ Starsky & Hutch”. Mi piaceva in modo speciale, soprattutto il suono della chitarra elettrica. Quel suono mi rimase in testa sino a che, a circa sedici/diciassette anni ho capito che volevo suonare.

DOMANDA. E cosa hai fatto?

RISPOSTA. Quello che facevano tutti i ragazzi: ho chiesto ad un amico più esperto di insegnarmi ad accordare la chitarra e, già dopo la prima “lezione”, mi ero così entusiasmato da riesumare una vecchia chitarra che avevamo in casa. I primi giri di accordi, poi, cominciai a cercare le note, le melodie. Incidevo le mie canzoncine grazie ad un vecchio registratore e le facevo ascoltare agli amici che, facile da immaginare, mi sfottevano. Ma questo non mi scoraggiava.
Verso i venti anni ho sentito che “andare a rubare il mestiere con gli occhi” nelle sale prove non mi bastava più. Avevo bisogno di basi più solide. Così mi iscrissi ad una scuola di musica per dare fondamenta teoriche alle capacità dell’autodidatta.

DOMANDA. E, dopo lo studio, cosa è cambiato?

RISPOSTA. È iniziata la stagione delle band. Gruppi che nascevano, cambiavano assetto, si scioglievano. Fondamentalmente, sperimentando, ci si divertiva. Qualche serata, suonate fra amici…

DOMANDA. Ad un certo momento il tuo nome si associa con quello di un gruppo: “Le Nuvole”. Tuttora è visitabile il sito di questa band e si possono scaricare dei tuoi brani piuttosto datati e i promo di alcuni più recenti. Che importanza hanno avuto “Le Nuvole” e come mai ne troviamo ancora traccia?

RISPOSTA. Ci sono state anche altre band. Le Nuvole sono state un gruppo che è esistito sino a tre anni fa. Nella sua continua evoluzione ha visto entrare ed uscire molti musicisti, alcuni di talento. Orlando Salvitti, il tastierista, ed io siamo stati gli unici “punti fermi”. Gli altri si alternavano, a volte lasciando qualcosa, a volte portandola via.
Di fatto le musiche ed i testi sono sempre stati, per un abbondante 90%, miei. Quindi, il progetto musicale, essendo un cantautore, era sempre molto mio. Non era facilissimo trasferire i propri obiettivi a chi non scrive musica ma la esegue. Coinvolgere tutti, rendere il gruppo coeso rispetto alle finalità di un sogno, una “visione” fondamentalmente individuale, era lo scoglio più arduo ed anche, il maggior limite che avvertivo.
Credo sia per questo che sono arrivato ad abbandonare l’idea di avere una band e ad immaginarmi e, poi, volermi come autore: dovevo assumere tutte le responsabilità della mia musica. Ho capito che di un mio progetto musicale volevo prendermi tutti gli oneri, giocarmi “il nome e la faccia”, poter scegliere i musicisti che avrebbero contribuito alla realizzazione del prodotto finale.

DOMANDA. Mi pare di capire dal tuo racconto che sei passato dall’essere un leader ad essere l’imprenditore di te stesso, se mi lasci passare questo termine più afferente il mondo economico che quello artistico.

RISPOSTA. Leader è una parola grossa, come lo è imprenditore. Non credo di avere le competenze di un imprenditore. Diciamo che oggi sono il manager di me stesso. Gestisco ogni aspetto della produzione artistica: la prima idea, il momento creativo, il progetto, l’analisi di fattibilità, le possibilità di marketing. Curo anche il supporto e la copertina: materiali, grafica. Sono io a scegliere se affidarmi ad un produttore od utilizzare altri canali di promozione e diffusione.
Non che questo non si possa fare con un gruppo. Si può, a patto che la compagine nasca da un’aggregazione spontanea e creativa intorno al progetto e che tutti contribuiscano in egual misura, a livello artistico, alla sua realizzazione.
Ma oggi vivo questo mio cammino da autore.

DOMANDA. Mi pare di ravvisare in ciò che affermi una “svolta epocale”. Da un atteggiamento quasi adolescenziale che affidava il rapporto con la tua arte all’occasione, all’incontro, allo “spirito” del momento ad un comportamento adulto, meno velleitario, più riflessivo. Come dire: un passaggio dall’improvvisazione alla progettazione, una sorta di approdo al professionismo.
Oggi hai, forse, trovato la maturità necessaria per spiccare il volo da solo, per realizzare qualcosa di più completo, concreto, duraturo nel tempo. Anche questo CD che uscirà a fine anno ne è la prova tangibile.

RISPOSTA. Credo che la tua sia un’interpretazione corretta anche se la parola “adulto” mi mette un po’ paura, specie se coniugata alla maturazione musicale ed artistica. Identifico la mia parte più creativa con l’adolescente che è in me e che spero non mi abbandoni mai. È anche vero che la presa di coscienza di non essere più un ragazzo di belle speranze che in virtù della propria giovinezza può incuriosire ed avvicinare mi ha fatto tirare fuori altre risorse. Ho meno tempo per giocare ma scelgo con maggiore decisione e serenità le strade da percorrere senza disperdermi in mille rivoli. La consapevolezza delle proprie possibilità e della necessità di agire in autonomia mi consentono di utilizzare tempo ed energie in modo mirato.
Malgrado tutto, però, mi sento ancora adolescente.

DOMANDA.Come è nato questo tuo nuovo progetto e, quindi, il CD “Stasera do una festa”?

RISPOSTA. Tutto è partito da un’idea: diventando adulti si dimentica, fatalmente, di essere stati bambini, adolescenti, ragazzi.
Ci si rivolge ad un adolescente come ad un essere misterioso, quasi “malato”, da correggere, aiutare e non ci si accorge (o, forse, neanche si immagina) che un quindicenne, a volte, paradossalmente, guarda all’adulto nello stesso modo: un individuo malato, stanco, frustrato, che non si sa godere la vita e non vuole che tu ti goda la tua. Gli si può dare torto?
“Stasera do una festa” è il dialogo fra Roberto/adolescente e Roberto/adulto, tra ragazzi/bambini e grandi, tra studente e professore e viceversa, con continui cambiamenti di fronte, attraversando le fasi della vita, dall’infanzia alla – udite, udite – maturità.

DOMANDA. L’ascolto dei pezzi che hai reso pubblici ci fa percepire una crescita professionale di non scarsa rilevanza: Siamo passati da singoli prodotti ad un’opera completa e musicalmente carica di umori ed influenze provenienti da cantautori italiani, dal migliore rock anglo/americano, dal sound latino americano. Una contaminazione riuscita, accattivante ma ben amalgamata. C’è in te la coscienza di questa evoluzione?

RISPOSTA. “Opera”, un’altra parola grossa. Non la userei dovendo descrivere questa produzione.

DOMANDA. Ancora il Roberto/adolescente che fa capolino. Cos’è mancanza di autostima, paura di affermare ad alta voce: “E sì, sto crescendo”?
Capisco dalle tue smorfie che su questo terreno proprio non ci vuoi scendere. Allora un altro tipo di domanda. Quando componi, nella tua mente cosa nasce prima: la musica o le parole? Cosa ti ispira maggiormente e quali sono i periodi più creativi?

RISPOSTA. Molto spesso, la musica risuona all’improvviso nella mia testa. Altre volte è una frase che mi colpisce, evoca sensazioni e mi spinge a scolpire suoni.
Quanto all’ispirazione il cielo stellato ed il mare sono elementi naturali che mi mettono in sintonia con la mia creatività ma anche i rumori, intesi come “composizione sonora”, il vissuto ed, in questo periodo, la ricerca della semplicità.
Quanto ai periodi più fecondi, purtroppo, ho scoperto che di solito coincidono con i momenti più difficili, magari segnati da grandi cambiamenti. Crisi, conflitti, persino rotture. Ma c’è sempre l’eccezione che conferma la regola: quest’estate l’ispirazione è arrivata in un momento in cui ritrovavo la pace in Corsica, un’isola che per me ha il sapore della natura e della vita.

DOMANDA. Componi di getto o rivedi più e più volte le tue canzoni?

RISPOSTA. Di getto: è una condizione essenziale. Mi piace l’irruenza delle “prime” parole, i tratti grezzi. Poi, rivedo tutto: aggiusto il sound delle parole, la potenza di una rima, cerco di ridurre drasticamente il manierismo che è sempre in agguato.
Il momento successivo è quello della decantazione: qualche giorno in stand by. Quando riprendo in mano la “prima bozza” può succedere che non mi piaccia più, che la senta banale o inutile. Più raramente, continua a convincermi e allora ci lavoro. Ci butto sopra delle parole senza senso ma che abbiano il suono giusto; un po’ come buttare argilla su argilla per fare massa e, poi, modellare, scolpire, piano piano.

DOMANDA. E come ti senti a “opera” finita?

RISPOSTA. Bene. È bello! È come osservare il dipinto della tua anima. Scopri un lato di te che non conoscevi profondamente, come avere una nuova identità da mostrare o, semplicemente, da raccontare. Un altro tassello di un mosaico di cui non conosci i confini.

DOMANDA Per chiudere, vuoi dire qualcosa ai lettori ed agli scrittori della recherche?

RISPOSTA. Seguo in modo piuttosto silenzioso la recherche ma ho anche avuto ocassione di scambio con alcuni autori/lettori. Mi piacerebbe che il sito divenisse un luogo d’incontro fra le diverse forme di arte, di scambio. Così mi offro volontario per cominciare: avrei molto piacere di potermi confrontare con quanti vogliano condividere con me questa esperienza.


GRAZIE.

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Per ascoltare alcuni brani del nuovo lavoro di Biagiotti, "Stasera dò una festa", clicca qui >>

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(Intervista a cura di Maria Musik)

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- Intervista

Mario Fresa




DOMANDA.
Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Mario Fresa?

RISPOSTA.
Nella vita reale, insegna materie letterarie e dirige due collane editoriali per le Edizioni di arte-poesia L’Arca Felice. Ha scritto qualche libro e ha lavorato come giornalista pubblicista. Nella vita poetica (in quella, cioè, non legata alle contingenze delle noiose attività lavorative che dant panem), è un innamorato della musica e del silenzio.
È un disordinato che ama l’ordine.
Infine, è un amante dei viaggi che odia tutti i mezzi di locomozione.


DOMANDA.
Riporto qui di seguito alcune informazioni bibliografiche che ti riguardano:

“Suoi testi poetici sono apparsi sulle principali riviste letterarie («Caffè Michelangiolo», «Paragone», «Nuovi Argomenti», «Almanacco dello Specchio», «Gradiva», «Semicerchio», etc). È presente in varie antologie, tra cui Nuovissima poesia italiana, a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi (Mondadori, 2004).
Ha scritto un saggio in forma dialogica sulla poesia, Il grido del vetraio, in collaborazione con Tiziano Salari (2005). I suoi libri di poesia sono: Liaison (2002, prefazione di Maurizio Cucchi), L’uomo che sogna (2004), Il bene (2007), Alluminio (introduzione di Mario Santagostini). Ha curato, insieme con Tiziano Salari, un volume di indagine critica a più voci, dal titolo La poesia e la carne (2009)”.

Tutto questo da dove ha avuto inizio? Perché la scrittura? Chi è stato a dirti che sei un poeta, o a dartene conferma?

RISPOSTA.
Prima di occuparmi di scrittura poetica e di critica letteraria, mi sono dedicato alla pittura e alla musica. A partire dai diciannove e fino ai ventidue anni ho studiato canto come baritono e mi sono occupato di critica musicale, scrivendo articoli e recensioni. Dalla musica, poi, sono passato ai versi, per uno strano accidente: essendo piuttosto difficile rintracciare le traduzioni in lingua italiana di alcuni Lieder di Schubert, Schumann e Hugo Wolf, che amavo ascoltare e cantare, mi misi a tradurli io stesso. Mi accorsi, però, che - mentre traducevo - rielaboravo i testi fino a riscriverli.
Lo stesso feci traducendo alcuni libretti d’opera come Il Ratto dal serraglio, Il flauto magico, Didone ed Enea. Mi divertivo, anzi, a scrivere versioni ritmiche, cioè isometriche, in modo da poter cantare le stesse traduzioni seguendo la prosodia della musica.
A poco a poco, però, iniziai a scrivere versi per mio conto.
Dieci anni fa, inviai qualche verso a Maurizio Cucchi. Una sera del 1999 fui raggiunto da una sua telefonata: «ho scelto un suo testo. Sarà pubblicato sul prossimo numero dello “Specchio della Stampa”». Ne fui molto felice. Negli anni successivi, Cucchi ha continuato a credere nel mio lavoro poetico, firmando la prefazione del mio primo libro, inserendomi nell’antologia Nuovissima poesia italiana, uscita per la Mondadori, ospitandomi nel suo Dizionario dei poeti e, ultimamente, pubblicando varie poesie sull’«Almanacco dello Specchio».
La sua generosità e la sua attenzione sono state fondamentali per farmi capire che potevo continuare a scrivere. Sono arrivate altre importanti conferme, poi, da parte di riviste sulle quali non è facilissimo pubblicare, come «Caffè Michelangiolo», «Paragone» e «Nuovi Argomenti».


DOMANDA.
Chi sono i tuoi maestri nella scrittura? Quali sono le tue letture preferite? C’è un autore in particolare che reputi essere il tuo preferito?

RISPOSTA.
Per la prosa: Flaubert, Balzac, Mann. Per la poesia: Lucrezio, Dante, Baudelaire, Leopardi, Pascoli.
Ma ho scolpiti nella mente anche versi indimenticabili di Eliot (in particolare dei Quattro Quartetti), di Mandel’štam, di Rodolfo Wilcock, di Michelangiolo Buonarroti, di Amelia Rosselli.
M’interessano, poi, il teatro (con due antichi amori: Molière e García Lorca), la critica musicale (da Kierkegaard a Hermann Abert), la psicanalisi (Jung, Hillman), i saggi d’arte (memorabili gli scritti di Dino Formaggio dedicati a Pero della Francesca e a Goya), le letture filosofiche (con una tendenza anti-hegeliana: diretta dunque, fondamentalmente, allo studio di Schopenhauer e di Nietzsche; le Lettere a Lucilio di Seneca e tutti i libri di Walter Otto; e, infine, i magnifici saggi di Giorgio Colli dedicati al mondo filosofico presocratico).
Tra le letture più importanti, però, devo citare quelle relative ai testi-chiave della teologia negativa: La Teologia tedesca dell’Anonimo Francofortese (nella benemerita traduzione di Marco Vannini), I Sermoni di Meister Eckhart, Il pellegrino cherubico di Angelus Silesius, La notte oscura di Juan de la Cruz.


DOMANDA.
Per uno scrittore, in particolare per un poeta, quanto è importante la lettura e il confronto con altri scrittori?

RISPOSTA.
La lettura è fondamentale. I confronti spesso imbarazzano e inibiscono (come potresti mai tentare di scrivere una poesia dopo aver letto anche un solo verso della Vita nuova?).
Ma c’è un’altra attività che trovo entusiasmante: la ri-lettura.
Molti libri li ho ri-letti anche cinque, sei, sette volte.
I libri molto amati, consumati e continuamente riletti non sono più gli stessi: perché la scrittura si trasforma, si rigenera, si arricchisce e moltiplica, incessantemente, i suoi volti imprendibili.


DOMANDA.
Che cosa caratterizza la tua scrittura? Quali sono il filo conduttore e l’aria ispiratrice che fin dai primi versi ti accompagnano? Sottolineeresti qualche elemento di diversità o novità rispetto ai poeti tuoi contemporanei, o rispetto alla tradizione poetica italiana?

RISPOSTA.
La prima raccolta, Liaison, era un canzoniere erotico-amoroso, misto di versi e di prose, interamente dedicato alla mia compagna di sempre: mia moglie.
L’immagine scardinante dell’amore come perdita dell’io, attraverso il buio dell’eros e della con-fusione, mi era venuta in mente ascoltando una splendida composizione musicale di Stockhausen, intitolata Liaisons.
Successivamente, mi sono avvicinato a una linea meno personale e più obiettiva, ovvero più sfumata e indiretta, in cui tutto si integra, si mischia e si sovrappone: inganno e verità, invenzione e memoria, vita reale e visione sognata.
Quanto alle diversità o alle novità dei miei lavori rispetto alla poesia contemporanea, non sta a me giudicare, credo. Spetterà agli altri, in futuro: se resterà qualcosa della mia scrittura.


DOMANDA.
In relazione al tuo libro Separazione dalla luce, mi è molto piaciuta questa nota di Francesco Marotta:

Tra tutte le accensioni che premono dietro la pupilla contratta del desiderio, la poesia è l’attimo di una luce che riverbera sulla pagina il chiarore inudibile di una lacerazione, il soffio del distacco, il presagio di un’assenza (…) Il verso dimora nel varco tra due mondi, tra le pieghe amorose di una luce-non-più luce che si pensa, e si osserva, nel suo essere parte di un’ombra-non-ancora-ombra: inafferrabile labirinto di colori già stati o di là da venire, di acque memoriali dove le forme emergono per reclamare sillabe di esistenza, la carità di un segno che le coaguli per sempre nel solco della sua necessità: prima di affidarsi all’unico abbraccio che le placa – come movenze di una danza carnale che dileguano nel buio, ritornano nel respiro che ha mosso la prima ora e l’ultima, la prima cadenza e la quiete.

Il verso che dimora nel varco tra due mondi”, è molto interessante il fatto che la tua poesia sembra nascere da una frattura nella realtà, la frattura tra il mondo fisico delle forme già presenti in questo mondo e una sorta di iperuranio dove stanno forme ancora da arrivare o già state ma che non hanno avuto le sillabe adatte a farle permanere nell’esistenza, “la poesia è l’attimo di una luce che riverbera sulla pagina il chiarore inudibile di una lacerazione”.
Anche in “Alluminio”, recensito e consigliato su larecherche.it la poesia sembra nascere nel dormiveglia, sul limite del mondo tra la veglia e il sogno/presagio; riporto dalla recensione:

“Nel mondo quantistico-poetico di Fresa escono particelle di senso dal nulla, così come nella fisica quantica del mondo reale, si possono materializzare particelle dal vuoto quantistico, che subito, se non trovano un supporto energetico per prendere forma di materia stabile, tornano nel nulla dal quale sono emerse; tale supporto energetico, nelle poesie di Fresa, risulta essere il mondo delle sensazioni e dei pensieri, l’emotività del poeta, la sua cocente riflessione affettiva: ‘Poi mi chiedevi un dono, un orologio per contare / le formiche degli assalti, le feste vinte / da un angelo leggero: / una ressa d’introvabili parole che invitava / all’ingegnoso salto nel buio. / Era un docile lamento che imbrogliava la vista / dei giganti: io ti guardavo / ansiosamente stringere la mano / dei penultimi confini. ’”

Potresti dirci qualcosa al riguardo? La poesia è come sangue che esce da una ferita, da una lacerazione nella realtà e nello spirito umano?

RISPOSTA.
La poesia è la ferita immedicabile dovuta alla separazione che contrappone l’essere all’Essere, il finito all’infinito. È un misto di gioia e di ansia che sempre invade lo spirito di chi varca quella soglia bifronte, in cui si avverte la vertiginosa vastità di uno spazio vuoto, che ci ricorda la dolorosa esperienza dell’esserci e la sua divisione dall’Uno.
Mi seduce e mi inquieta molto, questo approssimarsi ai limiti dell’ombra, ovvero quell’attimo in cui si avvera un’aurorale sospensione tra materia e invisibilità, tra immediatezza ed eternità.


DOMANDA.
Le tue poesie sembrano a tratti echeggiare un mondo fisico (non solo di forme) fatto di leggi ben precise e di comportamento indeterminato, talvolta fatuo, sembra che la tua parola poetica trovi sostegno, e nel contempo esprima le leggi fisiche di questo mondo. Che cosa pensi del rapporto tra poesia e scienza? Pensi che in qualche modo la lingua poetica possa essere investita anch’essa del ruolo che la matematica ha nella scienza, cioè possa interpretare la natura delle cose?


RISPOSTA.
Ogni forma di pensiero, diretta all’analisi e all’interrogazione degli eventi, è sempre fondata sulla scienza (ricordiamo che la parola viene da scire, conoscere). Trovo impressionanti e sconvolgenti alcune indagini propriamente scientifiche, soprattutto quelle ancora lontane dall’esattezza e dalla risoluzione. Ad esempio: che cos’è, o meglio che cosa nasconde la cosiddetta “materia oscura”, presente ovunque? È pensabile una totale assenza di spazio e di tempo prima dell’esplosione del Big Bang? È pensabile intendere l’universo come infinito? Tutte queste domande – non ce ne accorgiamo, forse – non sono poste non solo dai cosmologi o dagli scienziati in senso stretto. Esse sono state ripetute, e sono ripetute, in forma meno diretta, da pittori, scrittori, musicisti, psicanalisti. Nel mondo antico, soprattutto nel mondo greco, il pensatore era, contemporaneamente, poeta e filosofo, musico e matematico, astronomo e teologo.
È l’epoca moderna, a partire soprattutto dal positivismo, ad aver creato le divisioni e le specializzazioni. Questo è uno dei più gravi traumi del nostro mondo culturale: un sapere settorializzato, chiuso in se stesso, dunque più povero e limitato.


DOMANDA.
Come avviene per te il processo di scrittura? Scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

RISPOSTA.
Penso, rifletto. Ripeto continuamente suoni, parole, immagini, titoli, frasi. Trascrivo, riscrivo, cancello. Getto e poi smarrisco i foglietti dei quali sono sempre piene le mie tasche. Poi mi dispero nel non trovarli (escono fuori dopo mesi).
Quindi rielaboro ancora, cancello tutto di nuovo e riscrivo daccapo. Il tutto fino alla stampa. I correttori di bozze non hanno vita facile con me.


DOMANDA.
Come trovi l’editore adatto ai tuoi testi? Quali sono le difficoltà che hai incontrato nel pubblicare una raccolta di poesie?

RISPOSTA.
Molti editori li ho incontrati per caso. Ad esempio, Alfonso Conte della Plectica lo conobbi in modo informale. Gli piacque molto il mio primo libro e decise di pubblicarlo, coprendo personalmente le spese di stampa. Un gesto generoso. Fu casuale anche l’incontro con Franco Alimena delle edizioni Orizzonti Meridionali, che conobbi a Cosenza: anche in quel caso, avendo vinto un Premio, organizzato dalla redazione della rivista “Capoverso”, la raccolta fu stampata a spese della casa editrice, in una prestigiosa collana che ha ospitato, tra gli altri, Mariella Bettarini, Luca Canali, Corrado Calabrò, Tiziano Salari, Carlo Cipparrone. La difficoltà non sta nel pubblicare o nello stampare un libro, ma, semmai, nel farlo leggere, girare, valutare.


DOMANDA.
Hai pubblicato tuoi testi su varie riviste di letteratura. Quale è secondo te il ruolo di tali riviste?

RISPOSTA.
Vista la poca distribuzione dei libri di poesia, soprattutto dei piccoli e medi editori, è quasi preferibile pubblicare testi su riviste (quelle, ovviamente, a diffusione nazionale). Il limite di molte di queste pubblicazioni, però, consiste nella loro eccessiva settorialità: è assurdo leggere una rivista che si occupi solo di poesia (o, in generale, di letteratura). L’ideale sarebbe poter leggere una rivista culturale in senso lato, capace di accogliere riflessioni e indagini su tutte le forme della conoscenza, dalla poesia al teatro, dalla pittura alla musica, etc.


DOMANDA.
Perché tanti lettori trovano difficile la poesia? Che cosa ne pensi? Quale è la responsabilità dei poeti, quale quella degli editori, quale quella dei lettori?

RISPOSTA.
Chi dice che sia negativo il fatto che la poesia è spesso “difficile”? Se partiamo dal presupposto che l’esistenza è, nella sua quasi totalità, piena di domande irrisolte, di lati oscuri e incomprensibili, di risoluzioni inaspettate o assurde, e se non ci convinciamo del fatto che la poesia non è un’evasione o un ornamento della vita, ma un potenziamento e uno specchio della stessa vita, allora non possiamo che trovarci di fronte a una scrittura che dev’essere per forza composita e complessa, in modo che sia capace di produrre continuamente, incessantemente, nuove domande. Lasciamo la (cosiddetta) poesia “facile” ai cantautori, autori di autentiche fesserie in versi, o ai gazzettieri della finta cultura, o ai luoghi comuni del linguaggio giornalistico-televisivo; lasciamo la scrittura ricompositiva e consolatoria ai giornaletti che si occupano dell’ovvio e del banale.

Quanto alle responsabilità:

1) I poeti dovrebbero smetterla di pensare soltanto al loro narcisismo e al loro solipsismo; dovrebbero imparare a comunicare e a dialogare, perché con il confronto si impara a vedere le cose non solo dal proprio limitato punto di vista. Ciò è difficile, soprattutto con i poeti (veri e finti) della mia generazione, che al massimo amano costituire piccoli gruppi (o meglio clan) sempre in guerra e in competizione. È stato molto più facile, per quanto mi riguarda, comunicare e scambiare opinioni con poeti come Cucchi, Salari, Parri, Bettarini, Santagostini, Majorino, Spagnuolo, Fontanella, Furia, Marotta, Cerrai, etc., che con i miei coetanei.

2) Gli editori dovrebbero finirla di comportarsi da salumieri, badando meno ai soldi e provvedendo a costruire un autentico discorso culturale. Qualche anno fa, proposi a un editore di media importanza, riconosciuto a livello nazionale, una mia raccolta. Al telefono mi disse (avendo a malapena letto il titolo): «Va bene, va bene, ma quanto è disposto a spendere per pubblicarlo?».


3) I lettori dovrebbero tornare ai libri davvero importanti e lasciare stare le attuali idiozie para-letterarie, come ad esempio i romanzacci da Liala raccomandati ai Premi e che l’anno successivo sono già belli e dimenticati. Devono scegliere in maniera autonoma, liberandosi delle nefaste mode correnti.


DOMANDA.
In tutta libertà e sincerità che cosa pensi di siti, quali larecherche.it, che danno la possibilità di pubblicare liberamente testi online ad autori altrimenti sconosciuti? C’è qualche cosa che vorresti dire agli autori/lettori che frequentano larecherche.it?

RISPOSTA.
La mia esperienza con i siti letterari è stata sempre molto positiva. Soprattutto perché sono nate amicizie, rapporti di collaborazione. Ho avuto modo di conoscere molti bravi critici e poeti contemporanei.
Naturalmente, apprezzo i siti che scelgano i testi da pubblicare dopo un attento e consapevole esame selettivo, dando spazio anche ai commenti dei lettori.
Vedo con piacere che larecherche.it percorre questa strada.


DOMANDA.
Hai qualcosa da aggiungere, qualche auto-domanda da porti?

RISPOSTA.
Adesso no.


Grazie.
Grazie di cuore a te e alla Redazione.


(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

*

- Letteratura

Anna è viva

Un pubblico attento e interessato ha seguito la presentazione del volume "Anna è viva". Storia di Anna Politkovskaja, "una giornalista non rieducabile" di Andrea Riscassi, Ed. Sonda, a Carrara il 19 giugno al Locale Fuori Porta. La presentazione è stata introdotta da Maria Mattei e Marzia Dati che dirigono il Centro Open Nikolaj Gogol' di Carraraper la diffusione della cultura russa in Italia.
In particolare Marzia Dati ha ricordato che con la presntazione si è voluto celebrare il bicentenario della nascita del grande scrittore russo Nikolaj Gogol' che con la Politkovskja non aveva in comune solo la terra di nascita l'Ucraina, ma ben altro: temi quali la violazione dei diritti umani, la censura, la liberta di stampa e di espressione sembrano essere il fil rouge che li unisce, problemi che in forma diversa sembrano connotare da sempre la storia della Russia.
Andrea Riscassi, giornalista della Rai di Milano è stato intervistato dalla vice caposervizi della Nazione di Carrara e ha illustrato oltre la vita della Politkovskaja, spaccati della democrazia russa, delle responsabilità dell'Europa e della situazione in Cecenia. Riscassi grazie al suo impegno nel ricordare la giornalista russa nel dicembre del 2008 ha ricevuto la medaglia d'oro della Provincia di Milano , il "Premio riconoscenza" 2008. E' intervenuto anche il presidente dell'Associazione Annaviva di Milano il giovane slavista Matteo Cazzulani, che ha anninciato l'apertura di una sezione dell'associazione a Carrara. L'Associazione è apolitica ed aperta a tutti , si occupa della situazione sociopolitica e culturale dei paesi dell'Est, della Russia, e dei paesi dell'ex spazio sovietico. La prossima presentazione del libro sarà a Roma il 25 aprile alle ore 18.00 presso la FEDERZIONE ITALIANA DELLA STAMPA, CORSO VITTORIO EMANUELE 349.

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- Intervista

Roberto Nobile - Attore

DOMANDA. Il grande pubblico la conosce per aver interpretato i ruoli del giornalista Nicolò Zito in "Montalbano" e quello del poliziotto Antonio Parmesan in "Distretto di polizia". Gli amanti del cinema l’hanno potuta apprezzare in film come Un attimo sospesi, La stanza del figlio e Caos calmo, Sotto il sole della Toscana, L’Intervista, solo per citarne alcuni. Forse sono di meno ad averla seguita nella sua carriera teatrale. In realtà, non si trovano in giro delle sue biografie esaurienti.
La prima domanda, quindi, è la più ovvia ma la risposta potrebbe essere la meno scontata.
Chi è Roberto Nobile?

RISPOSTA. Per il teatro ho scritto insieme ad Enrico Bonavera, “Il testamento del capitano”, spettacolo di commedia dell’arte. Poi il testo di un mio monologo sulle guerre coloniali “Teneo te Africa”. Ho passato anni significativi a Genova presso l’ospedale psichiatrico locale, coinvolgendo col mio gruppo i degenti in attività teatrali. Col suddetto gruppo “Sentimental circo” ho vissuto una intensa stagione di teatro di strada in Italia ed all’estero. Poi sono stato attore “sotto padrone” in diverse compagnie. Riguardo alla mia biografia, ho fatto tante cose nella vita, tanti mestieri e non so quanto possano interessare. Per non sfuggire alla domanda principe, dirò che Roberto Nobile ha lanciato in tutti questi anni messaggi nella bottiglia, come naufrago in isola disabitata. Nessuno è venuto a salvarlo, e forse non era possibile e forse non accadrà mai; però i messaggi erano scritti benino, e questo è ciò che conta alla fine.

DOMANDA. Lei ha scritto pieces teatrali e sceneggiature che negli anni ’90 hanno vinto premi significativi, il libro “Voglio un posto in paradiso - La vera storia del preservativo raccontata da lui medesimo” con in appendice alcuni contributi della LILA ed ha pubblicato un suo racconto nella raccolta antologica “Qualcuno ha morso il cane. Racconti di doppia vita”, che vede scrittori affermati, emergenti ed esordienti affrontare i temi del doppio e dell’omosessualità.
In ultimo il libro “Col cuore in moto”, anche recensito sul nostro sito www.larecherche.it.
Ha scritto e pubblicato altro?

RISPOSTA. Nel 1981 ho pubblicato per l’editore Ottaviano il romanzo “Andata e ritorno per ferie”

DOMANDA. Quando ha iniziato a scrivere e perché?

RISPOSTA. Scrivo da sempre, compresi i diari e le poesie adolescenziali anche del tipo più ingenuo, lacrimoso e convenzionale. Ho capito che sapevo scrivere, quando mi sono impegnato nella mia tesi di laurea in storia del Risorgimento, dove non c’era spazio per la mia animella ferita, ma solo per considerazioni oggettive, sociali ed “epiche”. Sul perché credo di aver già risposto.

DOMANDA. Nelle “dediche” che chiudono il suo libro “Col cuore in moto”, proprio nell’ultima pagina, dichiara: “Si può restituire un’eredità, o farsela cambiare da chi te l’ha lasciata? Qui, nella scrittura, grande officina di riparazioni del passato si può…”.
Vuole approfondire per noi quest’affermazione?

RISPOSTA. Credo che la MEMORIA sia un attrezzo imprescindibile per lo scrittore. Questa frase è generica, me ne rendo conto, e poiché non sono un critico letterario, trovo più onesto parlare di me, in prima persona. Dunque, una certa difficoltà esistenziale, mi ha portato a vivere il presente con una partecipazione discontinua, inceppata, dolente a volte. Questo mi ha impegnato in una attività costante, anche ossessiva, come una fatica di Sisifo, quella di capirlo, di dargli un senso, di riaggiustarlo nel ricordo (il presente ormai passato). Alcuni psicanalisti dicono che lo scopo della terapia è quello di accettare e rimettersi d’accordo con la propria storia personale. In questo senso la scrittura è stata ed è per me una terapia, “Un’officina di riparazioni”.

DOMANDA. Quando scrive che cosa la ispira? Scrive di getto? Rivede e corregge i suoi testi?

RISPOSTA. Prima di scrivere, ovviamente, devo avere un’idea di impianto generale, ciò di cui voglio parlare con urgenza. Riguardo alla pagina, non scrivo se prima non mi è chiaro il fulcro di quella pagina, il messaggio, la morale della favola, o la metafora fondamentale. Ma ancora non basta…mi deve essere chiara la strada per arrivarci a quel fulcro, il percorso, direi retorico (nel senso non negativo della parola). Forse sono un po’ criptico, ma non mi so spiegare diversamente.
Poi scrivo di getto, improvvisando, fidandomi della scrittura che si scrive da sola. Passo molto tempo a correggere, ma si tratta sempre di dettagli e di piccoli tagli.

DOMANDA. Ha incontrato difficoltà nel pubblicare il suo libro? Se sì, quali?

RISPOSTA. Le difficoltà classiche…mancate risposte, risposte sempre generiche e formali e stitiche, quando arrivano, dopo tempi biblici…

DOMANDA. Dai racconti del suo “Col cuore in moto” traspare una capacità di costruire, attraverso la sua passione per le moto, continue metafore sulla vita, sui sentimenti, sulle emozioni forti. Come ha maturato questa “formula” narrativa?

RISPOSTA. Non sono consapevole di una formula narrativa; anzi, credo che tutti gli scrittori siano fondamentalmente costruttori di metafore più o meno importanti… uno vede una cosa che lo impressiona e ci fa una metafora…poi bisogna vedere se ciò che ti impressiona è veramente importante, oltre che per te, per il mondo. I rischi sono tanti… essere frivolo, autoreferenziale, presuntuoso ecc.

DOMANDA. Quali sono i suoi progetti futuri come scrittore?
RISPOSTA: Sono in attesa di “risposte” per un mio testo “L’ospedale della lingua italiana”, un piccolo dizionario di parole malate (perché sostituite dall’Inglese), dove le suddette si lamentano e vengono consolate…

DOMANDA. Vorrebbe dire qualcosa agli autori che si confrontano su questo sito, da scrittore a scrittore?

RISPOSTA. Lei solletica il mio narcisismo; dunque dirò qualcosa sul narcisismo, arma a doppio taglio di noi attori, che spesso ci ferisce: Se fai vedere che sai scrivere, la gente dirà che sai scrivere, ma si perderà quello che hai scritto, se mai hai scritto qualcosa…allo stesso modo, se un attore strappa l’applauso per sé, e non per quello che ha detto, fa un pessimo servizio a quello che doveva dire ed, infine, anche a sé stesso (l’applauso non è a te come persona, ma alla tua maschera)… Ciò non vuol dire che lo sforzo (e la gioia) di scrivere bene e di recitare bene siano inutili. Bisogna camminare in equilibrio sul filo…il crinale è stretto: da un lato puoi cadere nel “ma quanto sono bello, quanto sono bravo!”, dall’altro nel messaggio che non arriva, perché freddo, “attufato”, come si dice a Roma. Comunque Manzoni sintetizzava tutta sta’ pappardella in “Il Vero attraverso il Bello”.


(Intervista a cura di Maria Musik)

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- Intervista

Valerio Meledandri





DOMANDA. Chi è Valerio Meledandri? Noi la conosciamo per il suo videolibro “La bella vista della camera 70” (leggi la recensione de larecherche.it), che abbiamo visto/letto, apprezzato e recensito su laecherche.it, ci può dire qualcosa su di lei che ci aiuti a capire chi è Valerio Meledandri?

RISPOSTA. Sono nato nel 1950 a Tonara, un paese collocato nella Sardegna centrale, alle pendici di un monte che si erge come avamposto occidentale del massiccio del Gennargentu.
Ne ho respirato l’aria per i primi tre anni della mia vita assorbendone odori ed umori, poi è stato un peregrinare attraverso vari paesi dell’isola.
Mio padre era un maresciallo dei carabinieri, da lui ho ereditato un forte realismo; mia madre una violinista, mi ha comunicato sensibilità e amore per l’arte oltre che una spiritualità pacata e, ad un tempo, vivace ed irrequieta.
Idealismo e razionalismo, difficile seguire due maestri spesso in conflitto; ci ho provato, con qualche successo, credo.
Mi sono laureato in Lettere ed ho insegnato per tutta la vita a vari livelli e vari contenuti, persino l’uso delle armi (orrore!) da sergente istruttore.
Oggi risiedo a Villacidro con mia moglie Bruna, con la quale ho condiviso gli studi e la vita sin dal liceo ed a cui è dedicata una poesia della mia raccolta; vivono felicemente con noi anche due cani e due gatti; mio figlio adottivo Ricardo, brasiliano di nascita, vive e lavora a Londra, la lontananza non ci separa.


DOMANDA. Quali sono le letture, i libri o gli autori, che da sempre l’accompagnano?

RISPOSTA. Tutt’oggi, dopo aver letto una lirica del Leopardi, mi ritrovo a capo chino, stupito e meditante, non triste, mentre Manzoni mi scorre veloce sotto gli occhi con tutte le sue sculture viventi: rileggo di tanto in tanto i classici “scolastici” con uno spirito diverso da allora ovviamente e vi trovo sempre qualcosa di diverso.
Leggo con piacere i “sudamericani”, una autentica esplosione di fantasia, di originalità, di freschezza, battitori di piste sconosciute a noi Europei.


DOMANDA. Quando ha iniziato a scrivere e perché?

RISPOSTA. Da prima di imparare a scrivere.
All’età di quattro anni, rimproverato da mio padre, tentai una improbabile fuga con l’immancabile fagotto, bastone e fazzoletto, contenente pane, formaggio, un asciugamani e dieci lire, mi fermai sull’uscio abbagliato e terrorizzato dai fari di un camion. Retromarcia ingloriosa.
Ferito nell’orgoglio, mi rifugiai nel letto ed immaginai come sarebbe potuta proseguire la fuga.
L’indomani mattina raccontai a mia madre una storia dalla trama robusta con tanto di lieto fine.
“Pareva leggessi su un foglio inesistente” mi disse in seguito.
Da sempre ho sentito una spinta verso lo scrivere, quasi che lo scrivere sia stato fin dal mio passato remoto una legittimazione del mio impegno di vivere.


DOMANDA. La conosciamo come scrittore di poesia, si è cimentato con altri generi? Ha scritto e pubblicato altre raccolte prima de “La bella vista della camera 70”?

RISPOSTA. “La bella vista della camera 70” è opera prima in quanto a pubblicazione, ma i miei cassetti, grazie alla persona che vive accanto a me, contengono scritti di varia natura letteraria.
Vi sono momenti di forte creatività che si alternano a pause più o meno lunghe, è fondamentalmente una questione di stati d’animo.
Al momento sto portando a termine una serie di racconti alcuni dei quali ispirati al contenuto delle mie poesie.


DOMANDA. Perché ha deciso di pubblicare i suoi testi?

RISPOSTA. Come ho detto sopra, scrivo per il gusto di scrivere e sono, sostanzialmente, una persona aliena dall’idea di popolarità, successo ed affini, tanto più che se si vogliono raggiungere traguardi di quel certo tipo la poesia è il mezzo in assoluto meno indicato.
Perché allora ho deciso di pubblicare?
E’ successo che varie persone che hanno letto le mie poesie, evidenziandomi il valore e la profondità dei messaggi in esse contenuti, mi hanno chiesto di diffondere quei contenuti tramite una pubblicazione.
Probabilmente sono ottimi persuasori. Mi hanno convinto.


DOMANDA. Quando scrive che cosa la ispira? Scrive di getto? Rivede e corregge i suoi testi?

RISPOSTA. Maturo l’idea portante in un qualunque momento della giornata traendo spunto dagli elementi più disparati: un albero sradicato dal vento, un animale ferito magari dai cacciatori, un articolo di giornale su un fatto di cronaca o sui “mali “ dell’umanità.
L’elaborazione è altra cosa: vi sono argomenti che sento profondamente “miei” ed allora lo scritto prende la sua forma definitiva nel rapido fluire di parole, concetti, punti e virgole; altre volte la ricerca delle parole atte a rendere con efficacia l’idea di base è faticosa, esige diverse rivisitazioni con tanto di correzione di varie parti.
Insomma nel primo caso scrivere è un autentico piacere, nel secondo è anche fatica allo stato puro, ma forse proprio per questo conduttore di maggiore soddisfazione.


DOMANDA. Per uno scrittore qual è la parte più importante da non sottovalutare, a suo avviso, nel “mestiere” dello scrivere?

RISPOSTA. La spontaneità, la naturalezza, il sapersi inchinare davanti alle esigenze della creatività pura e genuina, senza mai indulgere a “preziosismi” linguistici che inquinano, compromettendola, ogni velleità artistica.
Esempio: non sono rari i sedicenti poeti che, alla ricerca dell’arca perduta, cioè la poesia classica, si affannano a cercare sul vocabolario una serie di “parole difficili” ed il fare poesia consiste per loro nell’assemblaggio più o meno sensato di tali termini.
La poesia diventa allora un puro fatto estetico in cui si pone l’idea è al servizio delle parole e non sono le parole ad essere al servizio di precisi messaggi: il risultato è spesso quello del parrucchino o della chirurgia estetica, capelli biondi e magari fluenti, seno e glutei turgidi ed appariscenti così come le labbra; tutto posticcio, innaturale, omogeneizzato sul presunto valore estetico.


DOMANDA. Perché ha scelto di pubblicare un videolibro? Pensa forse che l’immagine e la recitazione possano aiutare ad avvicinare le persone alla poesia?

RISPOSTA. Se ne parla da tempo, da decenni, ma sono pochissime le case editrici che, a causa dei costi elevati, si cimentano nel campo dei videolibri.
Sì, penso che la recitazione in video possa avvicinare il pubblico, soprattutto quello giovane, alla poesia.
Personalmente ho avuto il seguente riscontro: i giovani hanno prima visto ed ascoltato il DVD e poi letto il booklet, mentre le persone mature hanno seguito l’ordine inverso.
Una prova che comunque, almeno in parte, lo scopo è raggiunto: avvicinare i giovani alla poesia.


DOMANDA. Quali difficoltà ha incontrato nel pubblicare il suo videolibro?

RISPOSTA. Sostanzialmente difficoltà relative al contratto con l’editore.


DOMANDA. Che riscontri ha avuto dalla critica?

RISPOSTA. Ho ottenuto varie recensioni, finora tutte positive; viene evidenziato soprattutto il robusto tessuto strutturale dell’opera, l’originalità dello stile e, come sottolineato dalla recensione de “La recherche”, una vibrante sensibilità.
Nel mese di Novembre 2008, tramite il mio videolibro, ho conseguito il diploma di finalista al premio “Mario Soldati” organizzato dal “Centro Pannunzio” di Torino; nel mese di Aprile 2009 un gratificante secondo posto nel prestigioso concorso letterario “L’Astrolabio” di Pisa si è aggiunto al precedente premio.
Il riconoscimento da parte di giurie altamente qualificate può senza dubbio essere uno stimolo in più, ma essenzialmente, ripeto, scrivo per il gusto di scrivere.


DOMANDA. Dalla recensione, pubblicata su larecherche.it, a “La bella vista della camera 70”, si legge: “Sul fronte esistenziale, strettamente umano, manifesta una sensibilità affinata, probabilmente, sul dolore che il vivere, inevitabilmente, ci riserva. Anche l’aspetto trascendentale rimane sempre molto immanente e legato alla materialità, vi è un forte disagio verso coloro che dovrebbero rappresentare in qualche modo la spiritualità del perdono e che spesso invece conducono inesorabilmente verso la cupa sensazione di una condanna certa”, si ritrova in queste parole? Perché?

RISPOSTA. Sicuro che mi ritrovo.
La morte, la religione, la chiesa costituiscono infatti uno dei temi dominanti della mia raccolta.
Così si è espresso un mio carissimo amico:
“Mi sembra che nelle tue poesie vi sia un trasmigrare da un labirinto ad un altro, un entra ed esci continuo tra le porte della religiosità e dell’ateismo, del panteismo e dello spiritualismo che pare sfumare a tratti in una religiosità di tipo cosmico con chiaro rimpianto per il cristianesimo delle origini come ne “ Le scarpe di Francesco”.”
Vi è tuttora, ma soprattutto era presente nella chiesa della mia adolescenza, quasi una penalizzazione insistita della speranza sia orizzontale sia verticale o, quantomeno, un porla in subordine rispetto alla pedagogia del peccato, del castigo, del dogma, dell’ “horror vacui“ che coglie prima o poi il non credente, della punizione eterna che contrasta in modo stridente con la presumibile bontà di un Padre.
La chiesa, quella ufficiale, troppo spesso si arrocca dietro alcuni valori che dichiara imprescindibili, chiudendosi davanti alle istanze intricate e complesse dell’uomo moderno, che non è certo l’uomo dell’alto medioevo.
L’aver “liquidato” la teologia della liberazione del Sud-America quasi con brutalità, ad esempio, è un bruttissimo peccato mortale della chiesa contemporanea.
Oggi, milioni di sudamericani che un tempo ascoltavano e seguivano il messaggio di redenzione anche terrena del teologo della liberazione Leonardo Boff “bruciato” dalla curia papale, si sono letteralmente gettati nelle braccia delle innumerevoli sette che stravolgono le menti svuotando i portafogli.


DOMANDA. Dai testi del suo videolibro traspare una rilevante e fine sensibilità nei riguardi della natura e delle relazioni che intercorrono tra l’umanità e le cose naturali, piante e animali. Bellissime sono le poesie “Una solida ragione”, “Lazzarina” e “Trilogia del cane”. Come ha maturato questa sensibilità?

RISPOSTA. Devo di nuovo tornare alla preistoria della mia vita.
All’età di tre anni e mezzo fui aggredito dal pastore tedesco che viveva in cattività nel giardino della mia casa.
Zampate poderose e numerosi morsi mi tinsero di rosso la testa ed il maglioncino.
Mi trovai nella classica posizione di resa, spalle in terra, mentre l’odore ed il sapore del sangue eccitavano il cane.
Riuscii a sfilarmi dalla presa “remando” all’indietro con le mani.
Corsi da mia madre, ne ricordo ancora l’urlo, e mi abbandonai tra le sue braccia finché non giunsi sul lettino di un medico.
Quando mio padre decretò la morte del cane “per fucilazione” mi ribellai con forza: l’avevo provocato con un frustino, la colpa era mia, il cane era innocente. Lo salvai.
Sono ancor oggi orgogliosissimo di quel gesto.
Amo i cani ed amo il loro amore, forse un po’ ruffiano, ma capace di un altruismo senza confini. Pagano la dipendenza dall’uomo con la moneta più preziosa che esista: l’affetto che non si estingue.
Insieme alle piante costituiscono gli elementi naturali che circondano più da vicino l’uomo donandogli molto più di quel che ricevono. Metafora onnipresente della generosità della natura davanti all’irriconoscenza umana.


DOMANDA. Vorrebbe dire qualcosa agli autori che si confrontano su questo sito, da scrittore a scrittore?

RISPOSTA. Qualche tempo fa, mentre vagavo per la Boqueria, un famoso mercato di Barcellona, dietro una bancarella di souvenir locali notai una ragazza intenta assai più a scrivere su un quadernetto che a richiamare compratori.
Incuriosito, le chiesi cosa mai scrivesse di tanto importante da distoglierla dal suo lavoro.
“Un racconto” mi disse “ho tratto spunto da qui” aggiunse mostrandomi un libro di Erich Fromm.
Le manifestai tutta la mia ammirazione senza tralasciare di dirle che il mondo ha bisogno di persone, in particolare giovani, che leggono, pensano, scrivono, comunicano fosse anche “solamente” con i venticinque lettori di manzoniana memoria.
Dico agli scrittori che si confrontano sul sito de “la Recherche”: Se amiamo scrivere, scriviamo! Purché la nostra passione sottenda il desiderio di esprimere un autentico messaggio, magari in bottiglia, vagante nel mare d’indifferenza della nostra epoca distratta: qualcuno prima o poi lo troverà, lo aprirà e, leggendolo, avrà la sensazione di aver trovato un tesoro.
Felice scrittura a tutti.

Grazie.


(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

*

- Intervista

Maurizio Cucchi

DOMANDA. Come si presenterebbe a persone che non la conoscono? Chi è Maurizio Cucchi? Di che cosa si occupa?

RISPOSTA. In effetti la domanda è imbarazzante, proprio perché oggi nessuno ti chiede “come stai?”, ma “cosa fai?”. Oggi occorre rispondere indicando un’attività socialmente riconosciuta, e dunque che produca reddito. La poesia non rientra in queste categorie. Per questo preferisco glissare, magari scherzando con battute, tipo: “carrettiere”, o “latifondista”, o “mendicante”.


DOMANDA. Lei è uno scrittore, ma, prima di tutto, siamo di fronte a un lettore. Quali sono gli autori e i testi sui quali si è formato e si forma, e che hanno influenzato e influenzano la sua scrittura?

RISPOSTA. Sono un lettore appassionatissimo, da sempre, e oggi, se possibile, anche di più. Dovrei indicare moltissimi titoli e nomi. Risalendo indietro nel tempo, e dunque citando autori e opere che da ragazzo mi hanno indirizzato, direi T. S. Eliot, soprattutto per il suo Prufrock; Baudelaire; Federigo Tozzi per l’insieme dei suoi romanzi e racconti, ma anche per un testo anomalo come Bestie; Kafka, soprattutto per America; Proust e la Recherche; Edgar Allan Poe.


DOMANDA. Ha pubblicato la sua prima raccolta poetica nel 1976, a trentuno anni, “Il disperso”, Mondadori. Dunque una scrittura adulta: chi o cosa l’ha spinta a scrivere testi in versi e poi a pubblicarli?

RISPOSTA. Adulta sì, comunque il libro è stato scritto tra il ’70 e il ‘73/’74, dunque da un giovane tra i venticinque e i ventotto anni. Ho sempre scritto, che mi ricordi, per lo meno dai quindici/sedici anni in poi. Ho scritto in prosa (inizialmente soprattutto) e in versi (in seguito quasi soltanto). Ho scritto soprattutto in versi perché la sintesi estrema della poesia mi era più congeniale, perché nella poesia il valore e le virtualità della parola emergono e si incidono con maggiore energia. Chiunque scriva desidera pubblicare, lo sappiamo. Io ho avuto la possibilità di esordire nella collana più prestigiosa e la cosa mi ha fatto ovviamente piacere.


DOMANDA. Con la sua prima raccolta poetica si impone all’attenzione della critica e del pubblico. Come è riuscito a pubblicare con una casa editrice tanto importante fin dalla sua prima pubblicazione? Ci può dire qualcosa di questa sua prima opera?

RISPOSTA. In effetti le ambizioni erano più basse, anche perché osservando la realtà e le cose, frequentando librerie e biblioteche, vedevo che per un giovane Lo Specchio di Mondadori non era propriamente la sede più facilmente raggiungibile. Avevo peraltro pubblicato in Almanacco dello Specchio, all’inizio del ’74, e lì c’era stata una serie di consensi netti, come quello di Pasolini che non avevo e non ho mai conosciuto. Il disperso era stato mandato alla Mondadori da Giovanni Giudici che lo aveva molto apprezzato. In casa editrice piacque a Forti, fu apprezzato esternamente da Raboni, ebbe la decisiva approvazione di Sereni, e così decisero di farlo.


DOMANDA. Che cosa caratterizza la sua scrittura poetica rispetto ai poeti suoi contemporanei? Quali sono il filo conduttore e l’aria ispiratrice che fin dai primi versi l’accompagnano? E come si è evoluto il suo scrivere?

RISPOSTA. Non credo di poter essere io a rispondere alla prima domanda. Quello che posso dire è che ho cercato sempre di praticare una scrittura plausibile e antiretorica, di escludere ogni possibile esibizione di artificio, di avvicinarmi il più possibile a un registro prosastico conservando la massima attenzione all’armonia del suono. Nel corso del tempo credo di essermi mosso verso una maggiore asciuttezza espressiva, verso un’economia della parola che ritengo un dovere morale del poeta.


DOMANDA. E’ del 2005 il suo primo romanzo, “Il male è nelle cose”, Mondadori, seguito, nel 2007, dalla sua seconda opera narrativa, “La traversata di Milano”, Mondadori, e nel 2008 dalla terza, “Jeanne d'Arc e il suo doppio”, Guanda. Sta decisamente andando verso la narrativa?

RISPOSTA. Non direi. Il romanzo è uno solo, ed è stato scritto tra il ’65 e il ’66. L’ho ripreso quasi quarant’anni dopo, l’ho sistemato e tagliato, l’ho ambientato al nostro tempo, ma nella sostanza (protagonista, comprimari, vicende varie, finale) è rimasto lo stesso. La traversata di Milano è un libro di prose, non direi neanche narrative, ma libere “passeggiate” in prosa. Jeanne d’Arc e il suo doppio è un libro di poesia in versi per teatro, scritto in una prima versione nell’89 e solo ampliato prima della nuova uscita in vista di una nuova rappresentazione. La prosa mi piace, forse ne scriverò ancora, ma non sono un narratore. Infatti in maggio uscirà il mio nuovo libro di poesia.


DOMANDA. Come avviene il suo processo di scrittura, in particolare in versi? In quali ore, con quali modalità? Scrive di getto oppure rivede i suoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

RISPOSTA. Rumino parole, frasi, versi; ripenso a motivi, sensazioni, immagini. Prendo appunti dove capita, e quando è il momento, quando l’insieme mi sembra vicino a essere maturo, metto in ordine, copio o trascrivo. E a quel punto, in genere, entra qualcosa di nuovo e di imprevisto. Che so: un verso, solo una parola. E magari è la parola decisiva.


DOMANDA. Oltre ad essere scrittore, si occupa anche di critica. Scrive sull’”Unità” e su “Tuttolibri”, ha una rubrica di consigli poetici sullo “Specchio della Stampa”. Insomma ha un punto di vista privilegiato sul mondo della letteratura italiana e della poesia in particolare? Che cosa vede? Dove si sta andando?

RISPOSTA. Sull’Unità ho scritto tanto tempo fa. “Specchio della Stampa” è a sua volta un’esperienza ormai remota. In ogni caso ho sempre fatto attività di giornalista culturale (sono iscritto all’albo dal ’71 … ) ed è cosa che faccio sempre volentieri. Purtroppo, di poesia in senso stretto, i giornali parlano poco, eppure la poesia è in salute e le ultime generazioni (i nati negli anni ’70 e ’80) sono particolarmente vive e ricche di promesse e nomi validi. Il problema è che i media si occupano d’altro, le case editrici maggiori quasi non pubblicano poesia, e il rischio è che questi giovani rimangano chiusi in un ghetto che rischia di renderli autoreferenziali. Spero che sia una crisi di passaggio. Ma il contesto non è tale da indurre ottimismo.


DOMANDA. Perché non si legge poesia. E’ una tendenza italiana o anche all’estero è così? Perché tanti lettori trovano difficile la poesia? Che cosa ne pensa? Quale è la responsabilità dei poeti (se di responsabilità si può parlare); quale quella degli editori; quale quella dei lettori e, non ultima, quella dei librai e dei mezzi di informazione?

RISPOSTA. Non si è mai letta molta poesia. Purtroppo. Oggi i lettori sono aumentati, ma non quelli di poesia. I media spingono verso il facile e l’immediato. Propongono surrogati come le canzoni, perché il mercato domina e vendere cantautori è molto più facile che vendere poesia. I poeti hanno colpa solo se corrompono il loro mezzo e il loro esercizio per accontentare richieste banali. E di solito non lo fanno. Non è un problema culturale in senso stretto, ma, appunto, è un problema di mercato. Un tempo leggevano in pochi e leggevano mediamente bene. E facevano opinione. Oggi leggono in molti, quasi tutti male e i pochi che leggono bene non contano più niente.


DOMANDA. Lei ha collaborato con riviste quali: “Paragone”, “Belfagor”, “Nuovi Argomenti” e, dal 1989 al 1991, ha diretto il mensile “Poesia”. Quale ruolo hanno le riviste letterarie, in particolare nel mettere in luce le nuove generazioni di poeti e nella divulgazione della poesia contemporanea?

RISPOSTA. Le riviste letterarie dovrebbero agire in rapporto al sistema d’informazione del loro tempo. In prevalenza, invece, sono gestite come se nulla fosse mutato in un secolo. Salvo eccezioni, sono quasi solo antologie di testi con recensioni, senza un progetto forte. E passano quasi soltanto tra le mani di chi le fa e ci scrive. In Italia non esiste un mensile culturale capace di far passare un discorso di cultura alta e di informazione seria che metta insieme cinema, arte, teatro, musica, letteratura in genere compresa la poesia.


DOMANDA. Da sempre lei sembra attento alle giovani e nuove proposte, quali sono i “metri” con cui misura la bontà di un autore di versi?

RISPOSTA. Non esistono, ovviamente, regole sicure. Esiste il cosiddetto gusto, che non è cosa banale come molti credono, ma qualcosa che si forma attraverso la cultura, l’esperienza, la lettura continua e appassionata. Solo chi frequenta abitualmente un linguaggio (e dunque non solo quello poetico) può esprimere giudizi competenti e attendibili su quel linguaggio. Anche se, ovviamente, le conclusioni di “esperti” diversi possono essere diverse. Ma questo è anche il bello e il fascino dell’arte in genere.


DOMANDA. Ha qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su larecherche.it? Che cosa pensa, più in generale, della libera scrittura in rete? Quali consigli darebbe ad un autore per lavorare al meglio i propri testi?

RISPOSTA. C’è un solo modo per migliorarsi: leggere e continuare a leggere, frequentare assiduamente il linguaggio poetico, ma leggere anche prosa, narrativa di qualità, cercando di conservare un margine il più ampio possibile di autonomia di giudizio. Rete o pagina scritta, non vedo molta differenza. Importante è la consapevolezza, ma anche la modestia. Della rete quello che non tollero sono gli anonimi. Chi non si manifesta apertamente è un poveretto e un incivile e non deve avere spazio.


DOMANDA. A quando il prossimo libro di Cucchi? Poesia o narrativa? Se qualcosa è imminente, ce ne potrebbe dare una piccola anticipazione?

RISPOSTA. Ho completato a metà gennaio un nuovo libro di poesia, scritto nel corso dei sei anni che corrono da Per un secondo o un secolo a oggi. Ne sono soddisfatto, e spero che lo saranno anche i lettori. Un libro di poesia non si può riassumere o descrivere, quindi invito chi fosse interessato ad aspettare metà maggio, quando sarà in libreria. Posso solo anticipare il titolo: “Vite pulviscolari” e l’editore, Mondadori.


DOMANDA. Vuole aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non le hanno mai posto e alla quale vorrebbe invece dare una risposta?

RISPOSTA. No, non mi pare. Voglio comunque ringraziarvi per la vostra attenzione.

Grazie.

(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

*

- Intervista

Antonio Spagnuolo



DOMANDA. Come si presenterebbe a persone che non la conoscono? Chi è Antonio Spagnuolo?

RISPOSTA. – Una domanda, questa, che prevede diverse possibilità. Definire un personaggio è cosa delicata e difficile, specialmente quando si parla di se stessi. Sono – se me lo si permette – un poeta a tutto tondo. Nasco poeta, ho vissuto come poeta, mi sento poeta, anche se come formazione professionale sono un medico che ha dedicato tutta la sua vita all’arte medica, sia per ascoltare con pazienza e devozione il dolore del malato sia per prodigarmi nella perfezione di diagnosi e terapie. Allora mi piace dire che io ho vissuto intensamente due vite parallele, realizzando in tutte e due conquiste che mi hanno ampiamente soddisfatto.


DOMANDA. Lei ha pubblicato quasi una ventina di raccolte poetiche dal 1953 in poi. Ultimamente abbiamo letto, e recensito su larecherche.it, il suo romanzo “Un sogno nel bagaglio”, Manni Editori (2006) e la raccolta di racconti “La mia amica Morel e altri racconti”, Kairós Edizioni (2008). Poi ha scritto qualcosa per il teatro, eccetera. Perché ha iniziato a scrivere? Che cosa l’ha spinta inizialmente? E’ stata una necessità? E cosa la muove ancora a scrivere?

RISPOSTA. Molto difficile ricordare e puntualizzare il perché ed il come io abbia iniziato a scrivere “poesia”. Posso soltanto riferire che la poesia è nata nel mio intimo sin dalla giovanissima età, forse già a quattordici-quindici anni quando i versi sgorgavano spontanei per allegria o per fatui innamoramenti. Posso confermare allora che lo scrivere è stata una necessità che mi ha punzecchiato sempre. Così ancora oggi non posso fare a meno di ubbidire ad un atto istintivo che nasce dal “pensiero” per tramutarsi in “versi”.


DOMANDA. Poesia. Chi sono i suoi maestri nella scrittura? Che cosa caratterizza la sua scrittura poetica rispetto ai poeti suoi contemporanei? Quali sono il filo conduttore e l’aria ispiratrice che fin dai primi versi l’accompagnano?

RISPOSTA. Ho letto tanti libri che non riesco a distinguere più quale potrebbe essere stato un autore preciso ad incidere sulla mia “formazione” di scrittore. Chi mi affascinò, più di cinquanta anni orsono, fu Gabriele D’Annunzio, con la sua meravigliosa esplosione di “parole”, con la sua stimolante “eleganza”, con la sua singolare “cultura”.
La mia ricerca è sempre stata a trecentosessanta gradi per cui ho assimilato e digerito pagine e pagine di poesia, giungendo ad una mia personale espressione che è – a detta della critica ufficiale – ben distinguibile ed facilmente individuabile.
Un filo conduttore per quasi tutti i miei volumi di poesia possiamo ritrovarlo nella ricerca appassionata e imperitura dell’Eros. Un Eros che non sia semplice erotismo, o facile sensualità, bensì sublimazione dell’amore per una continua esorcizzazione di Thanatos.


DOMANDA. Bàrberi Squarotti di lei dice: “Per l'originalità di un discorso che è narrativo e meditativo, visionario e puntualmente descrittivo, con perfetta armonia di toni e misure. Hai inventato una forma assolutamente nuova, di fascinoso splendore”. Che cosa intende Squarotti dicendo “Hai inventato una forma assolutamente nuova, di fascinoso splendore”?

RISPOSTA. Il simpatico ed affettuoso Squarotti credo si riferisse alla mia capacità di sorprendere il lettore con le metafore, scritte in maniera fulminante e pregne di significati multipli. Così che il verso risulti semplicemente colorato e contemporaneamente saturo di una certa cultura.


DOMANDA. Quale è la relazione tra poesia e narrativa nelle sue opere? Che cosa la porta a scrivere in poesia invece che in prosa o viceversa?

RISPOSTA. Anche qui devo far riferimento alla critica, la quale ha puntualizzato con attenzione e con intelligenza una verità fondamentale, che io stesso non saprei dire se è un bene o un male per la mia pagina. E’ stato detto che anche nelle mie pagine di prosa si riscontra continuamente un influsso poetico molto determinante.


DOMANDA. Mi pare che l’ultima raccolta di poesia che ha pubblicato sia stata nel 2004, “Per lembi”; poi due opere in prosa. C’è forse, nella sua vita di scrittore, una svolta verso la prosa?

RISPOSTA. Per la precisione l’ultima raccolta di poesie è “Fugacità del tempo”, con prefazione del caro Gilberto Finzi, (Lietocolle editore 2007). Non c’è una svolta nella mia opera di scrittore verso la prosa, anche perché in precedenza io ho già dato alle stampe “Monica e altre” (racconti 1980) e “Una pausa di sghembo” (romanzo 1994).


DOMANDA. Quali sono le sue letture preferite? C’è un autore che reputa il suo preferito?

RISPOSTA. In tanti anni di vita ho letto decine di migliaia di pagine per cui i ricordi si fondono e si confondono, e la lettura è stata assorbita come un succulento nettare che si è piacevolmente depositato nelle mie meningi. In linea di massima preferisco la “saggistica”, la “filosofia”, la “psicoanalisi”, intervallata da qualche romanzo di autore italiano o straniero. L’ultimo straniero che ho incontrato è David Grossman con il suo volumone “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, che non mi assolutamente detto nulla di positivo e mi ha piuttosto annoiato, mentre contemporaneamente Claudio Magris con il suo “Alfabeti” mi ha stimolato molto.


DOMANDA. Come avviene il processo di scrittura?

RISPOSTA. Molto semplice. Per la poesia particolarmente. Un verso , una frase, un fulmine di parole si affaccia nel pensiero, ed ecco la necessità di correre al computer e scrivere per annotare. Da quel verso, da quella frase piano piano si rincorrono altre immagini o altre percezioni che danno corpo alla pagina.


DOMANDA. Dalla recensione al suo romanzo “Un sogno nel bagaglio”, pubblicata su larecherche.it si legge: “[…] Il linguaggio della narrazione è fortemente poetico ed evocativo ed alterna elementi metaforici con pause più descrittive che insieme creano un tessuto molto elegante in cui gli elementi del quotidiano e quelli onirici o del ricordo sono perfettamente amalgamati […]”. La sua scrittura sembrerebbe essere sospesa nell’incontro tra prosa e poesia, tra realtà e ricordo (o sogno) si ritrova in questo? Di chi è quel sogno nel bagaglio? Il romanzo può essere autobiografico?

RISPOSTA. Come vede si conferma quanto ho detto prima. Prosa e poesia sembrano fondersi nella mia capacità di scrittura, senza che io possa in maniera determinante svicolare verso l’una o l’altra. Il “sogno nel bagaglio” è pura invenzione, anche se alcuni passaggi e alcune intuizioni sono larvatamente auto biografiche. Non si può scrivere una pagina se non si è personalmente colpiti da qualche avvenimento.


DOMANDA. Dalla recensione di Giuliano Brenna alla sua raccolta di racconti “La mia amica Morel e altri racconti”, pubblicata su larecherche.it, si legge: “[…] Spagnuolo, tesse leggiadro, intrecciando colori suoni e profumi tipici della provincia del meridione d’Italia, raccontandoci fatti anche minimi, ma con un modo talmente affascinante da rendere ogni scorcio un piccolo, gustoso, capolavoro.”. Lei sembra aver scelto di intessere i suoi racconti su fatti minimi e su un paesaggio provinciale, a mio avviso una scelta vincente che ricorda un po’ certo Pirandello o certo Verga, quale è il rapporto con questi scrittori? I suoi racconti sono pura invenzione narrativa o si documenta, anche attraverso il ricordo di fatti, persone o paesaggi realmente conosciuti?

RISPOSTA. Pirandello è uno degli autori che ho amato molto nella mia gioventù, più di Verga. Non saprei quanto possa aver influito sulla mia scrittura. Gli ultimi miei racconti sono pura fantasia, arricchita da alcuni “fatti” reali che mi hanno colpito per una loro propria singolarità. E’ molto divertente fondere allora la realtà con l’immaginazione e creare personaggi o luoghi o avventure che si concretizzano parola dopo parola.


DOMANDA. Lei gestisce il sito Poetry Wave-Dream – Aggiornamenti Intorno Alla Poesia Contemporanea – (http://poetrydream.splinder.com ) ci parla del suo progetto?

RISPOSTA. Impegno molto oneroso questo del sito internet e forse molto presuntuoso. Io ho constatato che molta gioventù contemporanea non conosce quasi nulla della “poesia” non solo attuale, ma anche della scorsa stagione. Non conoscono autori come Saba, Ungaretti, Giovanni Raboni, Mario Luzi, Maria Luisa Spaziani, Alda Merini eccetera. Ecco che mi piace proporre allora un vero e proprio “invito alla lettura”, affinché si sappia cosa hanno fatto gli ultimi autori e cosa propongono i nuovi poeti. Nel sito cerco anche di aggiornare con notizie su premi e concorsi, e su riviste di poesia.


DOMANDA. Molte persone si dilettano a scrivere testi di narrativa e poesia e vi sono case editrici che, approfittando del desiderio di molti di vedere stampate le proprie opere, pubblicano qualunque testo dietro compenso. Che cosa ne pensa di questo atteggiamento? Secondo lei è necessario arrivare alla pubblicazione su carta stampata per essere annoverati tra gli scrittori? Lei si occupa della collana di poesia della casa editrice Kairós, quali criteri adotta per la selezione degli autori da pubblicare?

RISPOSTA. Purtroppo dobbiamo constatare che si pubblica indiscriminatamente qualunque testo, senza una vera e propria severità di scelta. Abbiamo allora tre posizioni: la grande editoria che pubblica soltanto autori già storicizzati, o che siano capaci di vendere alla grande come “personaggi della TV”, “giocatori di calcio”, “vedette dello spettacolo”, “prelati”, con libri di nessun valore culturale. Una piccola editoria che riesce a pubblicare volumi di notevole interesse e a volte molto validi. Altra piccola editoria che pubblica ogni cosa purché si paghi.
Io dirigo la collana “Le parole della Sybilla” e scelgo soltanto dei testi che abbiano un valore indiscutibile, ben sapendo però l’editore che la “poesia” non si vende, perché non esiste un vero e proprio pubblico della “poesia” (!).


DOMANDA. Quali sono i suoi progetti futuri in relazione alla scrittura?

RISPOSTA. Non mi piace parlare di progetti futuri alla mia età, perché il tempo scorre inesorabilmente e non sappiamo cosa sarà il domani, sia politicamente che culturalmente parlando. Voglio soltanto dire che giorno dopo giorno mi propongo alla tastiera e scrivo con grande lena e con passione invariata.


DOMANDA. Se vuole aggiungere qualcosa che abbiamo dimenticato di chiederle ci fa piacere…

RISPOSTA. Penso che abbiamo toccato vari punti interessanti.


DOMANDA. Ha qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su larecherche.it? Che cosa pensa della libera letteratura in rete?

RISPOSTA. La libera letteratura in rete potrebbe e dovrebbe essere una grande risorsa di cultura a disposizione di un vasto pubblico che cresce quotidianamente.
Purtroppo anche qui non sempre ci imbattiamo in siti che siano severi nelle scelte e oculati nelle proposte. Ma non esiste un metro che possa rigorosamente incidere sul da farsi.


(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

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- Intervista

Alessio Romano

Alessio Romano è nato a Firenze ventitré anni fa. Vive da sempre nella culla della Lingua Italiana ma è “contaminato” dalle origini sicule paterne. Oltre che il sapore di Trinacria sicuramente il padre, pittore ed illustratore, gli ha trasmesso l’amore per l’arte che, per il figlio, trova la sua massima espressione nella parola. Alessio non scrive, è poeta. Dai suoi componimenti si evince una precoce scelta di campo, di certo non scevra di tormenti e rinunce.
Vive come un poeta maledetto, immerso nelle sue letture e nell’ascolto della musica. Scrive e legge ininterrottamente.
Il suo motto è: "Finché avrete qualcosa da dire non avrete paura di parlare". Il suo pseudonimo, che non sempre usa, Alicante, è stato scelto per la sonorità e per il rimando ad una poesia di Prevert.

DOMANDA.
Queste notizie sulla tua persona sono tratte da tue biografie. Ora vorremmo che ci dicessi “in diretta” chi è Alessio Romano?

RISPOSTA.
Alessio Romano è un poeta che vorrebbe dare tutta la sua vita per la poesia.

DOMANDA.
Quando hai cominciato a scrivere e cosa ti ha “spinto”?

RISPOSTA.
Quando ero solo un bambino, rammento che circa in terza elementare ci fecero studiare un poeta, forse Carducci, forse Foscolo, forse Pascoli: non rammento. Ma avvenne in un pomeriggio autunnale, forse invernale, in cui dovevo studiare quella poesia a memoria, che dopo averla letta mi sono detto: “Io voglio essere poeta”. Quando qualcuno mi domandava cosa avrei voluto fare da grande, generalmente rispondevo: <<Il cantante, o il mago>>, e a diciassette anni, dopo aver vissuto quegli ultimi due anni (16-17) fumando canne e facendo uso di altre sostanze stupefacenti, mi sono chiuso in casa cessando recisamente di frequentare tutte le mie amicizie men che una. E’ di quei giorni il ricordo, quei giorni in cui mia madre o era fuori per le vacanze o per lavoro, in cui trascorrevo quei lunghi pomeriggi invernali in casa con la stufa accesa, solo con il mio gatto sulle gambe, seduto sul mio letto, con un quaderno e una penna in mano, dell’avvicinamento supremo all’arte. Ricordo che mi specchiavo nei miei versi e la mia mente ancora tersa, avvertiva la mia piccolezza in tutta la sua essenza. A scrivere mi spinse l’ispirazione, l’ispirazione: colei che fa di un uomo un poeta, e di un poeta un uomo. Mi spinse quindi l’amore per la vita.

DOMANDA.
Cominciamo dalla domanda più ovvia: come mai un ragazzo di ventitré anni ha scelto di scrivere utilizzando lemmi antichi e schemi metrici che spaziano da un poetare del ‘300 italiano sino al '800 del Leopardi?

RISPOSTA.
Credo che nessuno si scelga il proprio abito, ma credo che un abito sia destinato a ciascuna persona. Posso però certamente dire che il mio amore per la lingua italiana nelle sue fondamenta sia il motivo unico che mi porti a manifestarmi arcaicamente. Un uomo quando è ispirato e da sfogo alla sua ispirazione non si chiede mai il motivo di quel che fa: sa a prescindere che quello che fa è buono.

DOMANDA.
Non pensi che questa scelta sia un po’ “elitaria” che, in qualche modo, escluda dal tuo potenziale pubblico quanti non abbiano familiarità con un linguaggio aulico o che amino uno stile asciutto e contemporaneo, meno strutturato ma più immediato?

RISPOSTA.
Penso che se una cosa è bella è bella, e l’importante è essere sinceri. C’è anche bisogno, talvolta, di un ritorno al passato!.

DOMANDA.
Solo su “La Recherche” hai pubblicato più di sessanta poesie, nove brani in prosa ed una recensione, in un periodo di soli quattro mesi. Una produzione copiosa alla quale vanno aggiunte le liriche e le prose pubblicate nel tuo primo libro “O Verdone”.
Come ti è possibile tenere questo ritmo?

RISPOSTA.
Tutto merito dell’ispirazione. Ciò che scrivo è molto di più rispetto a quanto io pubblichi su “La Recherche”.

DOMANDA.
Il tuo è uno scrivere e pubblicare estemporaneo o “lavori” le tue opere? Ritieni sia importante un lavoro di editing? Sugli scritti meno recenti operi un restyling o li pubblichi nella loro versione primitiva?

RISPOSTA.
Ho conosciuto poco tempo fa un ragazzo di nome Claudio Tedesco, questo ragazzo ha solo due anni più di me e dimostra pienamente la sua bravura come compositore, pianista. Parlando con lui mi ha detto: <<Io non sono un compositore come pensi tu e tanti altri, io improvviso>>: E’ così che ho pensato a me e a tutte le poesie del libro “O Verdone!”, scaturite tempestivamente, senza elaborare in modo costruttivo e ben evidente la loro struttura. L’idea sboccia poco prima nella mente, parte dell’idea è da noi ignorata, parte è nota, poi dobbiamo esprimerla tramite i noti mezzi di comunicazione. Ultimamente mi succede che vengo preso da ispirazione, affiorano nella mente i versi iniziali e quelli finali (qualche volta anche tutta la poesia) e poi mi metto a scriverla e assume una forma, in definitiva, completamente diversa a ciò che mi aspettavo.
Però le poesie che sono contenute nel libro “O Verdone!” le ho corrette più o meno tutte secondo mia predilezione, nella metrica, e continuo a correggerle anche dopo averle pubblicate in un libro. Correggerle mi piace, e sono sorpreso da questo perché un tempo, poco dopo averle scritte, non avrei osato toccarle (ritoccarle) per niente al mondo.

DOMANDA.
Tuo padre è pittore ed illustratore. Per la copertina del tuo primo libro hai scelto un suo autoritratto giovanile.
Quanto, il fatto di essere figlio di un artista, ha influenzato ed influenza la scelta di diventare poeta? Quanto i temi cari a tuo padre riecheggiano nei tuoi scritti?

RISPOSTA.
Il fatto di essere figlio di un artista non ha condizionato tanto il mio mestiere di poeta, quanto la mia vita spirituale, trovandomi coinvolto nella marea dell’arte con più suggestione, sballottato da più passioni, da più sentimenti quali insoddisfazione, gloria ecc.
I temi di mio padre non riecheggiano nei miei scritti, sono pienamente convinto che un artista è preso dalle medesime cose da cui è preso un altro: la morte, l’amore, la voluttà, la natura, la beltà…: pensiamoci, non sono forse temi comuni in tutti i più grandi artisti?.

DOMANDA.
“Or che di beltà mia ho molto perso,
mi guardo addietro e veggio nuvoloni
trasmutar i volti o ripien coglioni,
già che vanno in ciel candido e terso.”
Nelle tue poesie, spesso, ci sono rimandi a bellezza, purezza e bontà perse. Sembra che tu attribuisca a questa perdita di “verginità” una influenza negativa sulla tua crescita come poeta. Cosa intendi realmente? Perché ricorrono tanto i temi della vecchiaia precoce, della corruzione, della morte?

RISPOSTA.
Avete preso in esempio dei versi da me scritti che sino ad ora non so se ritenere validi o pessimi, a differenza di molti altri. Comunque, in questi esprimo realmente i miei sentimenti. Parlando con Claudio, l’altro giorno, siamo convenuti entrambi che <<è la purezza a dare l’arte>>, che <<senza purezza, l’arte non esisterebbe>>. Ritengo che un poeta scriva quello che è, ed io mi ritengo una persona in parte corrotta, per questo sono anche una persona molto infelice.

DOMANDA.
Quali sono i tuoi progetti futuri?

RISPOSTA.
Il mio unico progetto futuro è quello di migliorarmi e di migliorare perciò la mia poesia.

DOMANDA.
Vuoi dire qualcosa agli scrittori e ai lettori de “La Recherche”?

RISPOSTA.
Agli scrittori di La Recherche non posso dare consigli: loro sanno bene come andare avanti.
Ma ne approfitto per porgere tutti loro un caro saluto e un in bocca al lupo!.
In quanto ai lettori, spero che non rimangano delusi dalle opere degli autori. “La Recherche” è un sito interessante e sinceramente non ne conosco uno che lo eguagli. E’ serio ed offre varie possibilità.


(Intervista a cura di Maria Musik)

*

- Intervista

Franco Buffoni

L'intervista è a cura di Roberto Maggiani e Giuliano Brenna (Roma, ottobre 2008) che si sono presentati a casa di Franco Buffoni, da lui gentilmente invitati, con un piccolo registratore. Nonostante qualche domanda fosse stata preparata, è nato un dialogo molto interessante in cui Buffoni parla di sé, della sua scrittura e quindi, inevitabilmente, con lucidità intellettuale, esprime alcune sue posizioni in relazione anche a Stato e Chiesa. Vi sono anticipazioni della sua nuova raccolta di poesie intitolata "Roma" che uscirà nel 2009 per Guanda. Chiunque voglia rivolgere domande a Franco Buffoni, può farlo inviandole alla redazione de larecherche.it.

Legenda: F. - Franco Buffoni, R. - Roberto Maggiani, G. - Giuliano Brenna

*

R. Franco Buffoni. Non sei molto conosciuto dal grande pubblico, anch’io ho avuto modo di conoscere la tua scrittura da non molto tempo, leggendo alcune tue opere, sei uno scrittore non molto evidente, un po’ nascosto, ma che sa catturare subito il lettore che ignaro passa sulle tue pagine.

F. Appunto, ed è quello che a me interessa perché essere troppo conosciuti finisce coll’essere pericoloso e a volte controproducente… Come molti non mancano di farmi capire: rompo già abbastanza le scatole così. Comunque, capisco il punto: se non vai in televisione alle nove della mattina e alle otto di sera, sei comunque un anonimo per il grande pubblico. Si tratta anche di scelte. Ricordo che anni fa quando uscì Suora carmelitana (1997) rifiutai di andare al Costanzo Show: lo ritenevo pericoloso. Così ho continuato, con una certa coerenza, e mi trovo benissimo.

R. Ci diresti chi è Franco Buffoni?

F. Ho insegnato, ho fatto il professore in università per oltre trent’anni, in varie università, ho insegnato letteratura inglese e letteratura comparata a Trieste, Torino, Cassino, e ancora a Parma e a Bergamo. Attualmente a Milano IULM insegno Teoria e Storia della Traduzione Letteraria. E poi scrivo poesia, ho cominciato a pubblicare tardi, verso i trent’anni, non subito, infatti le prime poesie mie escono nel 1978 su “Paragone”, nel ‘79 da Guanda. Ero già maturo, compio adesso i trent’anni di poesia; non ho in giro scheletri nell’armadio, libretti giovanili di cui magari vergognarmi: tutto quello che ho pubblicato l’ho pubblicato da adulto. Dal punto di vista professionale è stato tutto piuttosto lineare. Avendo studiato lingue sono stato molto all’estero e questo in un certo senso ha ritardato il mio inserimento nella società letteraria italiana, almeno di dieci anni… furono dieci anni molto utili per i miei coetanei che ebbero tutti un esordio precoce negli anni Settanta. Io in quegli anni ero in Scozia per il dottorato e poi a Parigi e in Germania. Praticamente sono arrivate dieci anni dopo, le mie pubblicazioni e anche le mie frequentazioni con la società letteraria italiana. Per contro il mio esordio è molto precoce in campo accademico: divenni subito ricercatore e poi in pochi anni professore associato e ordinario. Diciamo che mi sono fatto le ossa con la scrittura saggistica e anche adesso traggo vantaggio da questa severissima formazione iniziale. Questa formazione molto severa, molto poco italiana, mi ha portato ad avere un atteggiamento filosofico eccentrico rispetto alla nostra tradizione. In sintesi posso dire che la mia è una formazione filosofica di tipo analitico, inglese, ecco.

R. Praticamente rispondi anche alla domanda successiva che leggo: da dove ha origine la tua scrittura poetica? Che cosa successe prima del 1979, quando esordisti in poesia con la raccolta “Nell’acqua degli occhi”? Intendo dire, perché Giovanni Raboni ti pubblicò alcune poesie su “Paragone”? Come lo conoscesti?

F. Devo moltissimo a Raboni sul piano poetico perché nel 1978 mi pubblica su “Paragone” - che era la rivista più importante allora - senza nemmeno conoscermi. Gli avevo spedito delle poesie - tra l’altro non ero nemmeno in Italia - per cui inviai questo plico e lui senza nemmeno rispondermi pubblicò i miei testi prima su “Paragone” e poi in uno dei quaderni dei collettivi di Guanda. Lì uscì la mia prima raccolta nel 79. Conobbi Raboni quando uscì poi il libro, il redattore era Maurizio Cucchi che scrisse la nota introduttiva. Quindi, come dire, sono entrato dalla porta principale e forse ho anche avuto l’illusione che tutto fosse così semplice; invece non lo è, sono semplicemente stato fortunato, avevo trovato subito un grande interlocutore. Roboni è rimasto tale per me sino alla fine: ho una sua lettera del 2004 - che risale a due settimane prima dell’ictus che lo condusse alla morte nel giro di pochi mesi - in cui parla di “Guerra”, il libro mio poi uscito da Mondadori nel 2005. E lui mi dice che gli piace molto perché aveva avuto il dattiloscritto, ecco trenta anni dopo era ancora lui l’interlocutore… una lettera bellissima. E lui la scrisse senza sapere che era una delle ultime cose in assoluto che scriveva. Quindi a Raboni senz’altro riconosco questo debito e anche forse un debito di poetica più in generale, nel senso che ciascuno si crea la propria, ovviamente, di poetica, però una certa affinità con la linea, che poi Raboni stesso eredita da Sereni, se vogliamo, questo credo che sia realistico riconoscerlo. Poi Raboni scrisse anche la prefazione al mio libro I tre desideri che è uscito nel 1984 a Genova da San Marco dei Giustiniani. Insomma è stato molto generoso, non a caso ha tradotto la Recherche…

G. Raboni ha quindi subito riconosciuto il tuo valore…

F. Io posso dire di essere in qualche modo legato alla poetica prima di Sereni poi di Raboni. Sta ad altri fare questa deduzione che a me fa molto piacere.

R. La tua ultima raccolta, “Noi e loro”, Donzelli Editore, ha una semplicità di fondo ma al contempo un valore di contenuti e di stile, è proprio un libro eccezionale.

F. Grazie: è un libro che ha causato “mixed feelings” o “mixed reactions”. L’editore Carmine Donzelli era entusiasta del libro e anche le due figlie Marta e Elisa erano molto contente di pubblicarlo; poi ho avuto reazioni molto positive da persone che non mi sarei aspettato, come Giuseppe Conte o Alberto Bevilacqua che ha fatto un pezzo per il Corriere. Poi però è stato subito chiaro che se vai a toccare la suscettibilità dei cattolici in Italia - soprattutto in questa fase politica - ti scateni contro l’avversione di molte, troppe persone. Gente che magari ti era amica prima, quando la tua scrittura era meno… “netta”. Noi e loro è un libro un poco schematico nella struttura, nel senso che ha preso due figure: l’immigrato e l’omosessuale e ho cercato di farle interagire. E’ un libro che ha una sua costruzione quasi narrativa, se vogliamo. Uno lo legge e capisce che c’è un discorso anche culturale, sociale e politico, non soltanto poetico in senso stretto. E questo naturalmente, come dicevo, presta il fianco alle critiche più feroci da parte di persone che siccome sono irritate dagli argomenti, ma non possono dire di essere così retrogradi da provare fastidio per questi argomenti, e allora se la prendono con la poesia, che come al solito, poverina, non può difendersi. E’ chiaro che, siccome non sono nato ieri, sapevo benissimo che le reazioni sarebbero state di un certo tipo. Comunque la reazione peggiore è stata quella di ignorarlo. I più astuti e perfidi (e probabilmente omofobi) sanno che se comunque ne discuti puoi indurre qualcuno ad andarselo a leggere e allora da parte loro c’è stato proprio il silenzio e questa è la dimostrazione che ho centrato il bersaglio e ho dato fastidio.

R. L’oscurantismo?

F. Sì sì sì, conformismo e moralismo. Però era assolutamente previsto, anzi devo dire che mi aspettavo anche qualcosa di peggio: ma forse il conto non l’ho ancora pagato del tutto.

G. C’è stato il momento della scelta: pubblico o non pubblico?

F. no, questo no, semmai era pubblico dove e con chi. Nel senso che in origine questo libro doveva uscire da Guanda perché avevo fatto una piccola overdose di Mondadori con due libri nello Specchio a distanza di meno di cinque anni ed è impossibile pubblicare nello Specchio tre libri in sette anni. Avevo questi due libri nuovi pronti - uno è “Noi e loro” e l’altro è “Roma” che uscirà da Guanda nel giugno 2009. Allora, in un primo momento l’accordo con Donzelli era che io avrei fatto un Collected poems. Poi però avendo Noi e loro già pronto e avendo “Roma” che ormai urgeva, ho chiesto a Donzelli di sostituire il Collected poems - libro che posso fare in qualunque altro momento – con Noi e loro. Questo è un periodo molto fertile: vale la pena di assecondarlo. E qundi è andata così: Donzelli che doveva farmi un Collected poems mi ha fatto Noi e loro e il libro che dovevo fare con Guanda è diventato quello nuovo: Roma. Ma queste sono solo strategie editoriali: a me quello che importa è la poesia. Mi interessa che - comunque - arrivi qualche cosa di politico, di civile, anche dai libri di poesia.

R. In effetti la gente sta lontana dalla poesia perché spesso non si capisce niente, la gente apre un libro di poesia ma lo richiude perché non ci capisce niente, c’è un messaggio incomprensibile…che cosa ne pensi?

F. Ci sono stati due momenti storici in Italia che hanno portato a questa situazione, tu hai tradotto la vulgata, l’opinione corrente è questa. Il primo momento, anche altissimo, è stato il momento ermetico perché già la definizione stessa di ermetismo, che era stata data in negativo, per altro, ha fatto sì che per molti poesia cominciasse a significare qualche cosa di oscuro. Però c’era ancora il grandissimo carisma del poeta, per cui Montale, Quasimodo vincono il Nobel, Montale diventa senatore a vita in quanto poeta. Poi c’è stata la seconda fase che ha segnato proprio l’acme di questo discorso che stai facendo tu, che è stato quel connubio osceno tra la neoavanguardia degli anni Sessanta e il cosiddetto neo orfismo degli anni Settanta. La neoavanguardia che, per quanto si dica, è sempre basata sul pastiche, sul polilinguismo; e il neo orfismo che, molto astutamente, ha giocato su un termine storico della poesia, l’orfismo, e nei primi anni Settanta ha finito col consegnare l’oscurità a tutti coloro che si sono affacciati alla poesia nei decenni Settanta/Ottanta. Costoro avevano due modelli: da un lato Sanguinati, Balestrini, il manifesto di Giuliani, e dall’altro questa poesia esile e scarna detta neo orfica, magari schermata dal grande prestigio di Paul Celan. Ma Paul Celan può fare Paul Celan perché ha quel vissuto alle spalle: quando tu fai Paul Celan nascendo tranquillamente negli anni Cinquanta a Milano in una ricca famiglia borghese sei meno credibile. E questo è un po’ ciò che è avvenuto con una certa serie di autori… I giovani, il pubblico sorbirono il connubio di neo avanguardia e neo orfismo: non si doveva capire con la neo avanguardia, non si doveva capire col neo orfismo e le conseguenze sono quelle che hai descritto. Poi c’è anche da dire che uno dei grandi maestri, uno che secondo me è l’uomo, il poeta più intelligente d’Italia - Andrea Zanzotto - diciamo che non ha facilitato l’accesso. Uno sente il nome, lo sente circondato da un’aura diciamo di grande prestigio, compra un libro di Zanzotto, dopodiché pensa la poesia non fa per me. Anche questo ha portato… sono stati tutti elementi che si sono accumulati, mentre io sono dell’avviso… può anche essere riduttivo, però un lettore deve essere in grado di prendere un libro e di capirlo. Ovviamente il discorso è molto complesso. Io leggo Zanzotto come oggetto di studio, godo di quella intelligenza allo stato puro, ma se voglio leggere poesia per il piacere di leggere poesia, non lo posso scegliere. Ecco io ho scelto…anche se andando a vedere i miei esordi, se vado a vedere quello che scrivevo appunto nella seconda metà degli anni Settanta, quella raccolta che è uscita da Guanda nel ‘79 e ancora I tre desideri, è chiaro che in quella morsa tra neo avanguardia e neo orfismo c’ero finito in parte anch’io. Nessuno può dirsi estraneo al proprio contesto, estraneo al proprio tempo: è evidente che anch’io risentivo di quel clima, provavo un forte disagio di fronte a queste due correnti imperanti, ma quando sei giovane pensi che sia così che si debba fare. E’ soltanto con la maturità, è soltanto in questi ultimi decenni che ho capito perché allora fossi a disagio. Però poi è proprio attraverso le difficoltà che ci si forgia, per cui oggi sono ancora più deciso ad andare nella direzione che mi sono scelto. Che poi il linguaggio poetico, sia un linguaggio - per definizione - impegnativo e che per definizione un lettore di poesia debba leggere con concentrazione, mi pare evidente. E pure è evidente che la poesia o è questo, o non è.

R. Tornerei un attimo a “Noi e loro”. Come sai abbiamo recensito su larecherche.it il tuo libro, una breve scheda di presentazione per i lettori, abbiamo scritto: “E’ una raccolta di poesie scritte in modo completamente svincolato da inutili bigottismi. Buffoni tratta il tema della passione per l’uomo, avvicinandosi alla bellezza delle forme umane e toccandole, con sguardo poetico, in modo intelligente e rispettoso, smanioso dell’armonica bellezza delle fisionomie”. Che cosa ci puoi dire al riguardo? Che cosa è per te la bellezza? Come vedi l’umanità?

F. Lo scrivo anche nella nota finale a Noi e loro, mi sembra giunto il momento di estendere, di riguadagnare - pensando alle letterature classiche greco-latine e anche ad altre letterature pre-cristiane - di riconquistare al sesso omoerotico spazi che nella nostra tradizione sono stati quasi totalmente appannaggio dell’ambito etero. Anche se la poesia si è saputa lo stesso incuneare. Certamente non a caso i sonetti di Michelangelo dovevano cambiare il nome del dedicatario: insomma Tommaso de’ Cavalieri diventava una fanciulla perché non si poteva tollerare che il trasporto omoerotico fosse esplicito. Questo crimine della falsificazione del genere del dedicatario è una cosa che la letteratura si porta dietro e dentro. Oggi, tutto questo può essere guardato al passato. E lo dico da europeo, perché se dovessi sentirmi italiano, e guardare ai miei vicini dirimpettai di oltre Tevere (indica la finestra)… sono la più grossa accolita omosessuale che esista oggi al mondo… ma sono anche dei grandi ipocriti e riescono a inacidire la situazione italiana sul sociale e sul politico. Tanto più la classe politica è povera intellettualmente tanto più le pressioni vaticane diventano rilevanti. E’ chiaro che se avessimo maggiore dignità come classe politica non saremmo in questa situazione con i diktat vaticani su coppie di fatto, procreazione assistita, testamento biologico e quant’altro. Siamo in questo stato proprio perché soffriamo di questa miseria culturale da parte della politica in genere, e di chi ci governa attualmente in particolare. Io ho sempre nutrito speranza, voglio essere ottimista; non sono stupido, però cerco sempre di vedere the bright side of things e non quella scura. E la parte luminosa è l’Europa: Bruxelles, Strasburgo. Io mi sento europeo, tra qualche mese ci saranno le elezioni europee e il parlamento europeo in questi anni ha impartito molte direttive che l’Italia continua a disattendere specialmente nel campo dei diritti civili. Tuttavia siamo in Europa e io continuo a guardare verso Nord e a sperare. Mentre osservo questa tendenza delle destre a farci diventare “Vaticalia”: questo parlamento non ratificherebbe nemmeno la presa di Roma… no no, non lo dico per scherzo sono convinto di questo. Se abbiamo il monumento a Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, è perché c’è stato un trentennio tra dopo la presa di Roma sino alla prima guerra mondiale in cui l’Italia è stato un paese laico e liberal-socialista con i cattolici fuori dalla politica. E’ stato l’unico periodo in cui si intitolarono le vie a Cavallotti, a Giordano Bruno, a Galilei, se no non li avremmo. Oggi nessuno si permetterebbe di fare un monumento a Giordano Bruno a Campo de’ Fiori. Dobbiamo esserne consapevoli, e dobbiamo dirlo alle nuove generazioni perché si rendano conto del momento storico che stanno vivendo. Che è poi il prolungamento, il singulto di ciò che sono stati i patti lateranensi, il concordato di Mussolini, la pietra miliare che ci ha regalato il clerico-fascismo. Dunque io mi aggrappo all’Europa in senso quasi letterale. Solo dall’Europa possono venire spiragli di speranza per gli italiani che credono che i diritti civili sono i diritti civili e non delle ipocrite questioni eticamente sensibili.

R. Grazie perché dici cose che fanno meditare e questa apertura verso l’Europa è molto bella.

F. Assolutamente, a parte che per vocazione avendo studiato all’estero mi sento fondamentalmente europeo, poi sono un lombardo di frontiera che vive a Roma; amare Roma è un fatto mio personale, amare l’Italia è un fatto mio personale, amare il Mediterraneo… però io mi sento cittadino europeo, voglio che l’Europa mi difenda da questo clerico-fascismo sempre più vischioso.

R. Ma tu politicamente…

F. Non sono mai stato marxista se è questo che vuoi sapere. Pur essendomi formato negli anni Settanta, avevo venti anni nel ‘68. A differenza di tanti altri che oggi fanno... diciamo che oggi militano in forze di destra, io sono sempre stato un libertario, un vero liberale, un radicale ecco, ho sempre lottato per i diritti civili: io mi affaccio al mondo adulto della politica con il referendum sul divorzio del ‘74, sono pulitissimo da questo punto di vista. Non sono il solito ex comunista che poi si ricicla a destra. Non ho mai avuto bisogno di cambiare nulla nella mia collocazione politica. Non perché sia statico, ma perché feci subito la scelta giusta. Ero compagno di università di Emma Bonino, per intenderci: come la vorrei presidente del consiglio a capo di una coalizione veramente socialista, come Zapatero in Spagna. Questo è tutto il mio estremismo: figurarsi!

R. Tu scrivi anche prosa. Nel 2006 hai pubblicato “Più luce, padre. Dialogo su dio, la guerra e l’omosessualità”, (Luca Sossella Editore); Aldo Nove su Liberazione, a proposito del libro afferma: “Essere di sinistra oggi vuole dire anche confrontarsi con un libro, se l’ineluttabilità delle questioni che mette in gioco lo rende quanto mai urgente. ‘Più luce, padre’ è infatti la più lucida riflessione su tematiche come la guerra, la religione e l’omosessualità (intesa anche come cultura del diverso) degli ultimi anni”. Sono parole importanti. Oggi, a due anni di distanza dall’uscita del libro, con gli eventi accaduti, politici e sociali, con le posizioni di questo governo e della Chiesa Cattolica contro i PACS, e l’omosessualità in particolare, è sempre valida l’affermazione di Aldo Nove? Il libro ha come sottotitolo “Dialogo su Dio, la guerra e l’omosessualità”, secondo te c’è una reale possibilità di dialogo con queste istituzioni forti oppure l’unico mondo aperto al dialogo, almeno all’apparenza, rimane quello della letteratura, dove ancora c’è spazio per il “diverso” di esprimersi?

F. Il libro parte dal fascismo storico perché mio padre - nato nel ‘14 - era un ufficiale dell’esercito italiano. Quindi io sono cresciuto in questo clima, mio padre aveva fatto la guerra e due anni di Lager in Germania per non aderire alla Repubblica di Salò. Era stato educato dal cattolicesimo nel fascismo e dal fascismo nel cattolicesimo. Il libro consiste in un dialogo con un ventenne di oggi, studente di scienze politiche, che mi chiama “zio”, sul nonno e sull’esperienza del nonno, dunque sul fascismo, sulla guerra, sugli anni cinquanta e sessanta. Quindi, nella seconda parte, discuto del presente con questo giovane, che è su posizioni no-global. E mi insulta molto, ma diciamo francamente, con affetto. Tu mi chiedi che speranze ci sono oggi in Italia? Questo Parlamento è talmente spostato a destra che difficilmente riuscirà a produrre qualcosa di sensato nell’ambito dei diritti civili… mentre nel Parlamento precedente sarebbe bastato qualche senatore in più e i Dico sarebbero passati. Oggi guardo alla maggioranza parlamentare nella sua miseria morale, nella sua povertà culturale, che rispecchia quella del popolo italiano…benché ormai la società civile è un po’ più avanti complessivamente rispetto a questo parlamento, ho questo sentore… Persino nella chiesa cattolica bisogna distinguere, le gerarchie vaticane sono quello che sono - oggi credo proprio il peggio del peggio, penso lo riconoscano tutti – ma molti preti in privato ti confermano di sentirsi profondamente frustrati e umiliati. Purtroppo, e qui devo dire l’infausto connubio tra oscurantismo cattolico da un lato e politica miope italiana dall’altro ha fatto sì che quel minimo di libertà che i preti avevano ancora all’epoca di Paolo VI oggi sia completamente scomparsa. E per un fatto tecnico. Perché fino all’epoca di Paolo VI i preti ricevevano la congrua, che era un piccolo stipendio, dallo stato italiano. Noi laici fummo contenti quando la congrua venne abolita: si pensò “i cattolici si mantengano i loro preti come è giusto che sia”. Invece saltò fuori la questione dell’otto per mille, il cui imbroglio è noto a tutti: fu notoriamente Tremonti - uno dei “Reviglio Boys” all’epoca di Craxi – il genio dell’otto per mille. Impedendo che la cifra possa essere destinata alla croce rossa o alla ricerca sul cancro, ma debba andare soltanto a una chiesa. E se un contribuente non la indica, come fa la maggioranza degli italiani, la chiesa che ha avuto più suffragi prende più soldi, e siccome la chiesa cattolica ha il 25% circa di persone che la indicano finisce che poi prende il 70% dell’introito totale dell’otto per mille. Ma l’imbroglio non si ferma qui, cioè al fatto che in questo modo la Chiesa Cattolica ha oggi più soldi di quanto non ne avesse all’epoca di PaoloVI cioè negli anni Settanta. C’è un dato molto più pericoloso sul piano politico: sono spariti i preti del dissenso che invece negli anni Settanta c’erano ancora. Perché? Perché mentre con la congrua versata dallo stato italiano i sacerdoti erano abbastanza liberi, oggi i soldi dell’otto per mille servono sì per mantenere il clero ma passano tutti attraverso la presidenza della CEI. E quella italiana è l’unica conferenza episcopale al mondo il cui presidente non viene eletto, ma viene nominato direttamente dal papa: infatti prima il presidente era Ruini, adesso è Bagnasco. E’ costui che decide la destinazione dell’otto per mille. Per cui questa enorme massa di danaro non solo può essere indebitamente usata per boicottare referendum democraticamente convocati - come accadde per la fecondazione assistita -, ma serve anche per soffocare qualunque dissenso interno, semplicemente riducendo alla fame chi non si allinea. Questo meccanismo è veramente perverso. Al primo punto del programma di un governo serio veramente socialista dovrebbe esserci la revisione e l’eventuale abolizione del concordato attualmente in vigore. E comunque la Chiesa Cattolica di errori ne ha fatti talmente tanti da sempre… la cosa curiosa è che quando si accorgono che una determinata posizione non conviene più tenerla e cambiano politica, impongono quella nuova come se fosse una loro trovata. Per esempio la pena di morte: è indicativo, se ti rivolgi a un giovane di oggi, casualmente, e gli chiedi chi è contro la pena di morte, ti dice i preti … ma i preti l’hanno abolita nel 1969 dal codice vaticano la pena di morte! Lo Stato pontificio non solo l’ha sempre praticata, ma l’ha tenuta nel proprio codice fino alla strage di piazza Fontana! Siamo stati noi laici, noi atei, a partire da Beccaria, che quando i preti mandavano sulla forca le persone, cominciammo a parlare “Dei delitti e delle pene” e chiedemmo e infine ottenemmo l’abolizione della pena di morte. Che oggi il Vaticano passi come il difensore dei condannati a morte, dal punto di vista storico è un nonsenso. Hanno sempre torturato, hanno sempre condannato a morte, ma almeno per pudore che tacciano, invece parlano. Parlano basandosi sull’ignoranza di chi li ascolta, ignoranza proprio in senso etimologico… Soprattutto quando la classe politica è così inerme e pavida… Se avessimo Gaetano Salvemini, se avessimo ancora certi uomini della Resistenza, non potrebbero permettersi di essere così ipocriti, invece abbiamo chi sappiamo.

R. Quali saranno le tue prossime pubblicazioni?

F. Questo libro qua che si chiama “Roma”, e che è finito e andrà in bozze in novembre da Guanda e uscirà a giugno del 2009 però forse non è il caso che ti racconti questo libro perché…

R. Due parole per dirci cosa c’è dentro…

F. E’ il mio rapporto con Roma, il rapporto di grandissimo amore con Roma che ha un non romano, ecco questa potrebbe essere una definizione e per poterla storicizzare in modo diacronico e sincronico assieme io mi sono basato su altri che amo particolarmente e che in passato hanno avuto la stessa storia, cioè hanno abitato, sono vissuti, sono morti magari a Roma, hanno sofferto hanno goduto a Roma ma non erano romani e allora ne ho scelti alcuni che particolarmente mi stimolavano per ragioni poetiche, non necessariamente poeti, coi quali nel libro intesso un dialogo, attualizzando in qualche modo la loro presenza. Attualizzo nel senso che vedo riflesso nel mondo attuale le loro istanze. Per intenderci, ci sta Caravaggio, ci sta Leopardi, ci sta Galilei, l’inizio è pasoliniano e il finale è penniano, nel senso che sono quelli i personaggi, nella Roma degli anni Cinquanta-Sessanta all’inizio del libro è dominante la figura di Pasolini; nella Roma degli anni Trenta-Quaranta che c’è alla fine del libro, è dominante quella di Sandro Penna. Anche se non li nomino però è evidente l’intonazione, il dialogo che è in corso. Nel centro del libro trovi Leopardi e Keats che erano contemporanei. Keats venne a morire qui a pochi metri da dove siamo adesso, a piazza di Spagna, e Leopardi, quando parla di questi fiori gialli che cingon la cittade, oltre che alle pendici del Vesuvio, si riferisce a Roma. E’ attraverso queste ginestre che cingevano le paludi pontine che passa la carrozza di Keats per giungere a Roma. Keats stava già molto male e in quel momento in carrozza è vittima di un’epifania. Nel senso che vede un cardinale vestito da cardinale, che imbraccia il fucile e spara agli uccelli. L’autore della “Ode to a Nightingale”, l’ode a un usignolo, riceve questo saluto da Roma: lo sparo all’usignolo da parte di un cardinale. Questo episodio si trova nell’epistolario di Keats, non me lo sono inventato. Nel frattempo ho pensato al passaporto di Leopardi. Leopardi è un suddito della Reverendissima Camera Apostolica – come allora si chiamava il governo vaticano. Quando contino Giacomo giunge a Milano dall’editore Stella ha in mano il passaporto dello stato Pontificio. Poi in un’altra sezione di ROMA c’è Galilei quando scopre i satelliti di Giove, qui sopra il Gianicolo dove adesso è l’American Academy. Galilei piazza il suo cannocchiale sulle mure aureliane, sopra quello che è oggi l’orto botanico. E lì c’era ancora, e ci sarebbe stato fino alla presa di Roma, il bosco Parrasio. Gli arcadi erano monsignori, cardinali, e questi parlavano versificando, l’ultimo custode dell’arcadia è stato Agesandro Tesporide, avevano tutti nomi grecizzanti, al secolo era ciociaramente Monsignor Ciccolini. Quindi questo contrasto tra Galilei che vede il futuro e questi che invece facevano gli arcadi, con le pastorellerie e con tutto il trito, ipocrita, modo che si supponeva dovesse essere quello del poeta tra virgolette, ecco questo contrasto è l’oggetto della mia poesia. Poi noi sappiamo la fine che ha fatto Galileo perché questa gente è ipocrita ma è anche piuttosto cattivella quando ci si mette. Ecco adesso ti ho raccontato alcune delle situazioni che nel libro prendono corpo, sono tutte situazioni romane; e guarda caso i poteri di cui si parla nel libro sono sempre gli stessi poteri e quindi ecco che io divento ancora più feroce oggi e sono ancora più contento di avere Bruxelles e Strasburgo a cui guardare. Mentre il povero Leopardi che doveva andare in giro con quel passaporto non era difeso, lui non poteva dire “però ho i miei diritti, ho il tribunale di Strasburgo”… Ah volevi che ti leggessi una poesia…

R. Quella su Galileo…

F. L’unica cosa è che la devo pescare, essendo un libro ancora in bozze non ho dimestichezza, volevo trovare un punto con i personaggi che ho menzionato.
Ecco questa sì, è anche uno dei testi più prosastici del libro, la zona è quella leopardiana. Qui c’è un’epigrafe tratta da una lettera di Leopardi a Luigi de Sinner: “La mia filosofia”, scrive Leopardi, “è dispiaciuta ai preti, i quali, e qui, e in tutto il mondo, sotto un nome, o sotto un altro possono ancora e potranno eternamente tutto”. L’ha scritto Leopardi. Questo invece l’ho scritto io:


Di Leopardi che ritorna col pensiero a Roma

Dalle pendici del Vesuvio: “Anco ti vidi

de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade

che cingon la cittade”. Desolazione per desolazione,

Naturale per intellettuale, deserto per deserto…

Di Leopardi suddito dello stato pontificio

Liberale clandestino in ideologico isolamento

- Il ridicolo e il grottesco delle Operette

Per eccellenza armi illuministiche

Contro antropocentriche metafisiche -

In quell’angusto regno del silenzio

Dalle mostruose tipologie censorie

Che fu il governo della

Reverenda Camera Apostolica.

Roma desertica.


Ricordo che questa poesia è piaciuta molto a Valerio Magrelli, che è uno dei miei più cari amici e che ha letto tra i primi questo libro… mi disse: “ci sento Belli qui dentro, ci sento Belli” e sì probabilmente… ne vuoi un’altra? … ecco… Questa è quella su Galilei, però ti devo leggere qualche verso della poesia precedente quindi questa che leggo all’inizio è la parte finale della poesia precedente:


Sono nere rotonde

Ben pressate le ombre della cornice

Alla parete: coppie di sante sulle trabeazioni

Bernini da par suo inseriva

Realizzando cantorie.

E quando guardo questa statua, il suo

Marmo debordante,

Vedo in ginocchio il vecchio Galilei

Dinanzi ai cardinali tronfi e bolsi.

++

E la sera dei santi Abbondio e Procolo

Il quattordici di aprile

Per osservare il cielo dalle Mura

Galileo salì col telescopio sul Gianicolo.

Proprio da sopra il Bosco Parrasio

- Vasca in marmo a quadrifoglio, con al centro

Due tritoni in travertino

Distesi sul fianco a sorreggere

Fiori e frutta, dal canestro

Fuoriesce uno zampillo -

Scoprì i satelliti di Giove dimostrando

Del sistema solare la struttura.

L’albero di Giuda cresce ancora lì attorno

Tra sempreverdi alloro e fillirea, e in aprile

Presenta un’intensa fioritura color porpora

Intonata alle vesti di Agesandro

Tesporide, al secolo Monsignor Ciccolini,

Arcade e custode del Bosco.


Sull’ultimo numero di Nuovi Argomenti ce ne sono quattro o cinque come anticipazione, altre se ne trovano sul mio sito www.francobuffoni.it, poi guarda sono qui ancora coi foglietti e con i versi da inserire è un libro su cui sto lavorando ancora. Questo per quanto riguarda la poesia, mentre per la prosa il libro nuovo s’intitola Zamel, è appena stato finito, lo sto rileggendo, circolerà dal mese prossimo sul tavolo di qualche editore, non so ancora dove uscirà e con chi, però penso che nel corso del 2009 uscirà. E’ una storia gay, ambientata in parte nel Maghreb, ed un libro a cavallo tra narrativa e saggistica, una sorta di storia del movimento omosessuale dialogata. Ma c’è anche un delitto, purtroppo. Purtroppo perché l’episodio è realmente accaduto.

R. Quindi prosa e poesia, bene, quando sarà il momento leggeremo e commenteremo

F. Sono convinto che Più luce, padre sia molto impegnativo da leggere, mentre Reperto 74 è un romanzo breve con dei racconti, insomma è una cosa molto più facile da leggere e lo può leggere chiunque, mentre “Più luce, padre” contiene anche parti di riflessione filosofica. Più luce, padre è il libro che io dovevo scrivere nel senso che sentivo di dover dare questa testimonianza e per me è stato proprio un po’ un punto di arrivo… parlo della prosa, ovviamente. Quando ho finito Più luce padre ho capito che ciò che per me era essenziale dire in prosa lo avevo detto. Adesso – avendo ancora vita – continuo…

R. In discesa…

F. Sì! … o comunque un po’ più leggero, mi sono “sgravato”…

R. Sappiamo che sei fondatore, direttore e responsabile della rivista “Testo a fronte”

F. Che festeggia quest’anno il ventennale della fondazione perché la rivista esce dall’89. A Milano all’università IULM l’11 di novembre si è tenuta una giornata di studio per ricordare il ventennale di Testo a fronte e i suoi 40 numeri: perché è un semestrale che non ha mai perso un numero.

R. Infatti è famosa anche per questo: non ha mai perso un numero perché di solito le riviste ogni tanto saltano un numero…

F. …e non ha mai fatto un numero doppio, si è un punto d’orgoglio, di conseguenza io non ho mai fatto le ferie per vent’anni, ma questo va da sé…

R…e appunto edita da Marcos y Marcos di Milano; quindi in poche parole - detto in modo molto semplice - si occupa di traduzione…

F. Teoria della traduzione sì, io ho tradotto, sono usciti i miei poeti romantici inglesi da Mondadori nel 2005 (32 autori antologizzati) e… traduco poesia, è uscito un quaderno mio di traduzioni nel ‘99, Songs of Spring da Marcos y Marcos. Adesso ne ho pronto un altro, quindi, diciamo, il mio ambito di studio è la teoria della traduzione, teoria della traduzione letteraria, la traduttologia.

R. In due parole ci spieghi che cosa si intende per traduttologia?

F Il termine traduttologia è stato riconosciuto dal ministero dei beni culturali che è sempre più frizzantino mentre il ministero dell’università e della ricerca scientifica la chiama ancora “teoria e storia della traduzione”, quindi “traduttologia” è un termine “borderline”: è un calco sul francese traductologie; in Germania si parla invece di Uebersetzungswissenschaft da almeno un secolo, e sarebbe scienza della traduzione; in inglese invece in modo molto più anodino, come sempre, si parla di translation studies. Per quanto riguarda la nostra posizione teorica, siamo convinti che la traduzione letteraria e di poesia in particolare, prima che un esercizio formale, sia un'esperienza esistenziale intesa a rivivere l'atto creativo che ha ispirato l'originale. Naturalmente non si pretende di ignorare l'immenso patrimonio scientifico che decenni di speculazione in ambito formalistico, strutturalistico e semiotico sono in grado di fornirci. Tuttavia è innegabile che nei decenni scorsi l'assoluta egemonia di tali discipline mise in ombra e talvolta irrise alla possibilità di riflettere su tematiche di ordine traduttivo nell'ottica della filosofia estetica. Testo a fronte intende continuare a porsi al centro del dibattito tra i due ambiti, nella convinzione che non possa esistere teoria senza esperienza storica; accettando quindi anche gli assiomi della linguistica teorica, ma soltanto se in costante rapporto dialettico con le teorie generali della letteratura e dell'ermeneutica filosofica. Fondamentale, per noi, è il riconoscimento di dignità artistica per il testo tradotto, in virtù del quale viene anche valorizzato il momento della ricezione, ovvero della risonanza culturale che una traduzione - in quanto testo autonomo - sortisce sul pubblico. A questo punto sono destinate a cadere le classiche antinomie "fedele/infedele", "letterale/libera", "fedele alla lettera/fedele allo spirito", "contenutistica/stilistica" ecc. perché sono costruite sull'equivoco che da un lato consegna la poesia al dominio dell'ineffabile (e quindi dell'intraducibile: questa - in sintesi - era la posizione crociana) e dall'altro considera veicolabile soltanto un contenuto: che è pura astrazione. Comunque se a qualcuno interessa l’argomento, è uscito nel 2007 un mio libro che si intitola Con il testo a fronte dall’editore Interlinea di Novara, sono 250 pagine, e lì c’è quasi tutto quello che so sulla traduttologia, sul tradurre poesia, sui poeti che traducono e su quelli che vengono tradotti.

R. L’ultimissima cosa, questa intervista è per larecherche.it che è un sito di vari autori non professionisti, cioè persone che hanno dentro di sé una necessità di scrittura e la esprimono scrivendo, anche su larecherche.it, in maniera molto semplice e spontanea i loro testi, alcuni sono più elaborati, con una forma stilistica ben definita, altri sono totalmente spontanei. Tu cosa pensi di queste scritture “on line” in cui c’è un confronto tra persone, hai qualcosa da dire al riguardo?

F. Io sono assolutamente contento che esistano perché se penso a com’era la situazione quando ero giovane io, alle difficoltà che si incontravano nel leggere e nel farsi leggere, oggi tutti possono leggere tutto e dappertutto: questo mi sembra un vantaggio enorme. Forse lo può apprezzare maggiormente chi ha provato l’altro sistema, chi si è formato in un’epoca pre-informatica. Io sono uno che ogni volta che accende quell’affare lì (il PC ndr) è felice, perché mi ha semplificato la vita. Anche scrivere un libro di narrativa è quasi divertente oggi, è riposante con il computer… invece un ragazzo che comincia oggi… per lui il computer è la normalità: non si rende conto della grande fortuna che ha. Penso che questo lo si possa dire anche per la luce elettrica o per l’acqua calda in casa, insomma noi diamo per scontato che ci siano ma c’è stato un momento in cui hanno semplificato e reso gradevole la vita alle persone. Sono il solito illuminista. E quindi ben venga l’informatica, ben venga perché è un mezzo per mettere in contatto le persone, per farle parlare. Poi è chiaro che l’arte si sa, l’arte costa fatica e costa difficoltà quindi in un contesto dove i controlli sono solo operativi è evidente che ci trovi di tutto. Però io sono convinto che questo faccia democrazia, faccia socialità e, alla lunga, faccia anche cultura. Sono favorevole e peraltro penso che anche il futuro della poesia sia lì insomma, il futuro della poesia contemporanea è ovvio che sarà sempre più basato sulla rete; anche i giornali che ancora oggi compriamo saranno sempre più un retaggio del passato. Oggi mi emoziona molto il fatto che io possa avere un sito dove posso inserire molti testi; come dicevo ci trovi già anche l’anticipazione di Roma. Inoltre il blog della cui redazione faccio parte che è Nazione indiana ha pubblicato un’altra anticipazione di Roma, poi la seconda anticipazione l’ho data a Nuovi Argomenti, ma la prima anticipazione l’ho messa in rete, e quella anticipazione è già nel mio sito per cui anche io uso, lo uso insomma, uso questo metodo. Dicevo che per me è una bellissima emozione pensare che un ragazzo della Valtellina, uno del Salento, se amano queste cose, possono con una minima spesa, leggere. A questo punto è solo una questione di desiderio e di volontà, mentre prima uno doveva andare a cercarsi la libreria a Sondrio o a Lecce con una certa difficoltà per trovarsi un libro. Mi sembra che oggi le potenzialità siano enormi: io vorrei avere 20 anni solo per vedere quante altre potenzialità ci saranno nel prosieguo del secolo, perché mi entusiasma… Sono veramente innamorato della scienza e delle sue applicazioni: è una cosa che proprio mi commuove vedere l’intelligenza che si sviluppa e che produce cose che poi semplificano la vita e la rendono più gradevole, quindi mi interessa la scienza in tutti i campi, dalla medicina, alla biologia, alla fisica e poi, naturalmente, si fa poesia… però io fondamentalmente ammiro gli scienziati.

G. Quali sono le tue letture?

F. Di poesia? Ammiro Zanzotto ma non riesco ad amarlo; se devo leggere un poeta che mi piace, dell’epoca di Zanzotto, scelgo Caproni o Cattafi… però io non leggo poesia in modo preponderante: leggo moltissima saggistica, e narrativa molto con discrezione. La leggo però non sono uno che si tuffa nella narrativa facilmente, forse perché negli anni della mia formazione ho avuto la fortuna di leggere i testi fondamentali della narrativa europea cioè mi sono letto Proust, Thomas Mann, Kafka, Joyce, Musil, tutti tra i sedici e i venti anni ecco, ma perché sono stato fortunato, perché forse avevo qualche suggerimento giusto e quindi è evidente che poi tutto il resto in narrativa è stato un po’ in discesa, nel senso che i grandissimi li avevo già letti. Poi fai altre tue scoperte, però direi che tra narrativa, saggistica e poesia, il genere letterario che uso frequentare maggiormente è quello della saggistica. Infatti anche i libri di narrativa che scrivo hanno una bibliografia e un indice dei nomi. Lo capisco che è abbastanza anomala come situazione però se prendete Più luce padre vedete che alla fine la bibliografia vi serve. Anche se il libro è di narrativa l’aggiunta dell’indice dei nomi e della bibliografia mi sembra un dato di onestà intellettuale: un consegnare al lettore le chiavi della tua biblioteca. Ecco io la penso così anche perché io non amo la narrativa di invenzione. Nell’ultimo libro in prosa – Zamel - la nota finale chiude con una riga che dice esattamente così: “La mia nuova non-fiction novel rispecchia il proposito non di inventare storie verosimili ma di raccontare la realtà come se fosse una storia verosimile”.

R. Domanda a bruciapelo: hai letto “La solitudine dei numeri primi”?

F. Sì, direi che come sempre avviene quando su un libro si concentra una attenzione enorme, quando un libro ha successo, salta fuori il birignao dell’intellettuale che storce il naso. Giordano è un bravo scrittore di racconti, così giovane è un bravo scrittore di racconti, ci sono due bei racconti in quel libro. Leggendolo, appena pubblicato, pensai: crescerà poi magari scriverà un bel romanzo. Ecco questa è stata la mia reazione. Poi vedere tutto il battage che si è creato su questi due racconti mi è sembrato un po’ eccessivo rispetto al prodotto in sé, però il mio giudizio sullo scrittore è positivo. Capisci cosa voglio dire, dopo mi ha un po’ spaventato l’enfasi che si è creata attorno al libro. E’ chiaro comunque che se un ragazzo mi dice voglio leggere un libro bellissimo, gli consiglio Il giovane Toerless di Musil, per esempio o Tonio Kroeger di Mann. Così, per fare partire anche lui dall’alto, come accadde a me. Comunque, per chiudere su Giordano, è un libro intrigante, e visto che l’Italia ha questa mentalità antiscientifica o a-scientifica, se grazie a lui, almeno qualcuno in più saprà cos’è un numero primo non è un danno.

R. Io ti ringrazio perché è un’ora e un quarto che stiamo qua…

F. Ma guarda che io vado avanti ancora…

R. Torniamo, non c’è problema, intanto leggo questi due libri e poi torno…

F. Mi sei simpatico perché insegni fisica… però quelle cose che ti ho detto sulla mentalità a-scientifica degli italiani - o addirittura antiscientifica - le ho scritte anche in Più luce padre. Dopo che hai letto ne riparliamo.

R. Sì, sicuramente c’è molta ignoranza lo vedo anche a scuola i ragazzi veramente non hanno passione per lo studio.

F. Molti si riempiono la testa con quella paccottiglia che va dagli oroscopi alle messe nere: un disastro. La sotto cultura clerico-fascista produce a sua volta altra sotto sotto sotto sotto cultura...

R. Sì c’è da riportare un po’ di passione per la scienza, per la ricerca…
F. nei paesi civili dell’Europa occidentale è un paio di secoli che questi discorsi si fanno, noi abbiamo avuto delle remore che stiamo pagando carissime. Siamo una nazione a-scientifica se non addirittura antiscientifica e questo a causa anche di personaggi – e ministri della pubblica istruzione - come Benedetto Croce.

R. e G. Grazie.

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- Letteratura

Auçuba: grande e buon sentimento (Italia-Brasile)

“Auçuba” è una parola di origine indigena della tribù TUPI del territorio brasiliano e significa “grande e buon sentimento”. E’ anche il nome di una ONG che lavora da 19 anni nel nordest del Brasile con i giovani.
In Italia l’Auçuba lancia la sua prima proposta con il libro per l’infanzia “L’incontro di Pinocchio con Saci Pererê” scritto da Fiammetta Lucattini e Marinita Neves.

Sito: Chi è il Saci Pererê?

Marinita: La storia del Saci è legata alle leggende brasiliane. Il Saci Pererê è un folletto della foresta, dispettoso, cammina con una sola gamba, è nero e porta sempre un cappellino rosso. Il suo personaggio è molto conosciuto in tutto il Brasile soprattutto dopo che Monteiro Lobato lo ha inserito nei suoi libri.

Sito: Come è nata l’idea dell’incontro con Pinocchio?

Marinita: E’ nato tramite il mio incontro con Fiammetta. Io sono brasiliana e frequentavo Fiammetta per avere lezioni private d’italiano. Siamo diventate amiche, confidenti e ci aiutavamo a vicenda. Tutti i progetti che creavo passavano per le mani di Fiammetta e lei, pian piano, mi parlava delle sue poesie, della sua passione per la letteratura, ecc. Un giorno abbiamo organizzato un piccolo evento con il Saci intitolato: “Favole e Fagioli”. Da lì è nata l’idea del libro.

Sito: Il libro come va?

Marinita: Molto bene. Abbiamo pubblicato l’edizione zero per sondare il gradimento soprattutto da parte dei bambini e delle insegnanti, dato che è indirizzato ai bambini della scuola materna e del primo ciclo delle elementari. Tutti gli esemplari sono stati venduti in una settimana. Adesso stiamo preparando la prima edizione con 10 storie, copertina dura e altre sorprese…

Sito: l’Auçuba è una Ong anche in Italia?

Marinita: In questo momento, no. Sarà una Ong nel futuro? Lo speriamo. Adesso è un progetto, stiamo in contatto con il Brasile, io ufficialmente rappresento l’ AUCUBA in Italia e sono anche fondatrice di quella istituzione in Brasile. Abbiamo già realizzato tanti progetti. Adesso bisogna capire bene il percorso fatto e tuffarsi nella nuova missione transcontinentale e interculturale. Il sito brasiliano è: www.aucuba.org.br

Sito: E’ possibile elencare le attività che già avete fatto in Italia?

Marinita: La prima esperienza è stata la realizzazione di una “Scuola Interculturale di Video” insieme con la Onlus Philoxenia.

L’anno scorso abbiamo presentato una proposta al Comune di Ciampino, città dove abito. Si tratta di un progetto interculturale che abbiamo chiamato “Recife-Ciampino”, come riferimento alle città brasiliana Recife, dove sono nata, poi a Ciampino, dove vivo. Quindi abbiamo realizzato questi obiettivi:
. Scuola di Frevo (ballo tipico di Recife);
. Mostra di fotografia della cultura popolare del nordest brasiliano;
. 4 incontri con artisti brasiliani e italiani, per scambio di esperienze;
. 2 Sessioni Solenni nella Sala del Comune come omaggio ad artisti e intellettuali che si impegnano nell’integrazione culturale;
. 2 mostre di pittura degli artisti con sponsor del governo brasiliano;
. Presentazione della “Festa da Lavadeira”, importantissima festa di strada che si svolge tra il bosco atlantico e il mare nello stato di Pernambuco - BR .
. Favole e Fagioli , una proposta di fagiolata con favole brasiliane;
E finalmente il nostro libretto del 20 settembre 2008.

Nel Brasile abbiamo anche lanciato la proposta interculturale nell’ Istituto ” Dante Alighieri” con la presenza del Console italiano e, per l’occasione c’erano due mostre di fotografie degli artisti di Ciampino.

Spero che questa finestra, aperta da voi con questa intervista, possa allargare il nostro interscambio italo-brasiliano. Ringrazio, di cuore, per il vostro sostegno e attendo, con Fiammetta, suggerimenti da parte vostra.

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- Intervista

Sophia de Mello Breyner Andresen

 

Incontro con Sophia de Mello Breyner Andresen
“Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, Firenze, 6 maggio 1997


Maurizio Certini:

Ringraziamo Sophia di essere presente qui oggi, la biografia di Sophia è nota, è noto come con Giovanni abbiamo avuto l’onore di conoscerla ed essere suoi ospiti a Lisbona nella sua casa, invitati da lei stessa per farle conoscere meglio Heleno, l’ispirazione profonda della sua poesia e della sua vita di cristiano, ispirazione che Heleno trovava in un grande personaggio dei nostri tempi, Chiara Lubich, che rappresenta nel nostro mondo l’anelito all’unità.
Vorrei cominciare con una citazione di un poeta, Stefan George, il quale dice: -“Nessuna cosa sia dove la parola manca”. Nella società dei consumi, che è la nostra società, le prime ad essere consumate sono le parole, c’è una inflazione di parole, che porta ad un silenzio che non è ascolto, ma “non comunicazione”, un silenzio che non è custodia delle parole ma bensì loro dissipazione, dimenticanza, il loro oblio, così perdiamo la nostra comunicazione con le cose e non sapendo più dire il nome vero delle cose perdiamo il significato stesso, e le cose che non si possono dire diventano una folla estranea di oggetti, in un mondo in cui non si può vivere. Così la parola che diviene inflazionata è seccata, inaridita. Io credo che il poeta, e con lui ogni uomo che è “essere capace di parola”, ha il compito di risvegliare le parole, di recuperare il senso creativo e sociale. La parola serve per la comunicazione, per la relazione, serve per fare memoria, per ricordare l’antico ma anche per dire il nuovo, c’è un uso sovversivo, rivoluzionario della parola, e Sophia è un forte rappresentante di questo. Sophia è stata ad un certo punto della sua vita, negli anni ‘60, deputato alla Costituente del Portogallo, ha lavorato molto durante il periodo della dittatura, i suoi libri erano all’indice, ha subito molte perquisizioni, dopo la rivoluzione gli è stato chiesto di diventare Ministro della Cultura, presa un po’ di sorpresa ha detto inizialmente di sì e poi non ha dormito tutta la notte, il giorno dopo passando per un quartiere povero, un bambino l’ha chiamata e lei gli ha chiesto se la conoscesse, il bambino ha risposto che la conosceva perché stavano leggendo un suo libro a scuola, allora Sophia ha capito che la sua vocazione, il suo impegno era quello della scrittura e non quello della politica, che vedeva totalizzante, e così ha detto no a questo incarico che volevano assegnarle. Leggo da questo libretto: (...)


Giovanni Avogadri:

Come diceva Maurizio abbiamo avuto questo grande piacere di essere a Lisbona, ed in quella occasione abbiamo detto a Sophia, vieni a dirci qualcosa, e lei ha risposto, no, non posso venire perché poi mi chiedono che cosa è la poesia e non so che cosa rispondere. Allora, siccome con alcuni di noi Heleno è stato un po’ un tramite tra te e noi, già abbiamo un po’ conosciuto la tua poesia, a me sembra la cosa migliore non tanto commentare, ma per coloro che non conoscessero abbastanza la poesia di Sophia, leggere due poesie che a noi sembrano centrali, importanti. Sophia, vanno bene queste due? (Sophia annuisce).
Voi sapete come Sophia è stata importante nel cammino di Heleno come uomo, come intellettuale e anche come persona, in un certo senso Heleno ci diceva sempre che aveva trovato nella poesia di Sophia la dimensione del “divino celebrato nel terrestre” come Sophia dice in una sua poesia e questa dimensione della vita noi l’abbiamo trovata in questa poesia, che non ha bisogno di nessun commento, ve la leggo e basta: (A Creta)
Nel rapporto durato diversi anni che Heleno ha stabilito con la poesia di Sophia e nella sua ricerca, che adesso costituisce una voluminosa tesi per la cui pubblicazione stiamo lavorando, una tesi immensa che speriamo possa dare un contributo alla conoscenza della poesia di Sophia, a noi pare che questa non è una poesia qualsiasi, ma che ha da dire qualcosa su problemi fondamentali, sulla dimensione del sacro nel nostro mondo: Heleno ha trovato in Sophia una sintesi tra la dimensione dell’immanenza, della divinità delle cose ed il cristianesimo, il Dio “trascendente”, ed è questa una dimensione che è profondissima nella poesia di Sophia, in un certo senso meno evidente della dimensione “greca”, ma molto presente nel cuore della poesia di Sophia. Heleno ci diceva sempre dell’importanza di un poema dove ritorna lo spazio mitico di Creta. (...)


Maurizio Certini:

Io vorrei aggiungere che Sophia ha cinque figli, questa dimensione di poesia è quotidiana e passa attraverso la vita semplice della famiglia, della casa, non è separata da tutto il resto. Mi veniva in mente che Sophia intitolerà questo libretto di Heleno “Le ombre di Olinda”, indica una dimensione di dolore, sempre presente in Heleno, che era un aspetto, una chiave per la resurrezione, e mi veniva in mente come le ombre dicono la luce, portano alla luce. Grazie Sophia!


Sophia de Mello:

Io ricevo molte telefonate che mi rendono furiosa, giacché se sto troppo al telefono poi non ho tempo per scrivere; ma un giorno ha telefonato una persona sconosciuta, che era Heleno. Dopo il primo momento ho sentito una voce così simpatica che non ho avuto il coraggio di rispondere un po’ bruscamente come mi accade in casi simili! Io sento questo uso del telefono spesso come una “violenza” del mondo moderno nei confronti della persona, la gente vuole da te firme sui libri, non so io cosa, ma io rispondo sempre che ciò che io ho fatto è nei miei libri, non nella mia persona. A quella prima telefonata risposi di avere molto da fare, e gli chiesi di telefonare la settimana seguente. Heleno ha richiamato un’altra volta ed io gli ho risposto nello stesso modo, che avevo molto da fare, che non era la settimana giusta, e gli ho chiesto di richiamare un’altra volta; a quel punto sono rimasta un po’ scioccata dalla pazienza che lui dimostrava, ed ho pensato che non avrebbe più telefonato. Ma, invece, telefonò per la terza volta, ed a quel punto gli dissi di venire a casa. È venuto, ha parlato molto della mia poesia, io non sapevo chi fosse, e mi sono detta: -“Sarà forse un prete?”, lui ha parlato con molta insistenza del lato religioso della mia poesia, paragonandola a Rilke, già il Vescovo di Porto aveva messo in evidenza questo aspetto a proposito dei miei “Racconti Esemplari”. Ma quando Heleno è andato via io mi sono detta: - “Quest’uomo è venuto a dirmi qualcosa di molto importante”.
Heleno era sempre molto preoccupato con lo stato della nostra civilizzazione, ed in questi ultimi anni mi sembra che le cose vadano ancora peggio. Il consumismo sta trasformando l’uomo in un modo orribile, le idee migliori di questa epoca, la democrazia, l’uguaglianza dei diritti, il suffragio universale, tutto sta dando risultati negativi.
C’è una parte del mio paese, al sud, che era molto bella, con città bellissime, pulitissime, in cui si poteva mangiare sulla strada, adesso sono sporche, piene di grattacieli. La gente era così onesta che una volta io persi la chiave di casa ed abbiamo vissuto tutti i mesi dell’estate senza la chiave, lasciando la porta aperta. Adesso ciò è impossibile, nella casa si devono mettere le sbarre alle finestre. Tutto è cambiato. Quando dico “il sindaco di quella città è un brigante” mi sento rispondere che però guadagna molti voti, oppure se dico allo stesso sindaco “guarda quanto il turismo ha trasformato la nostra città in un posto orribile lui mi risponde che ciò porta molti soldi. La gente che abita lì ha perso tutto e non capisce che cosa ha perso. Negli autobus si vedono persone che magari guadagnano di più ma non possono permettersi la casa. Ancora, pur vivendo di fronte all’oceano la gente non compra più il pesce fresco, perché non può’ più permetterselo, e mangia il pesce congelato. Molte volte ho pensato se non è possibile creare una “cultura della frugalità”, non di miseria, ma di frugalità e dare alle persone ciò che è importante per vivere meglio.
Se qualcuno chiede ad un poeta perché scrive, una buona risposta per me sarebbe:” Scrivo per vivere meglio”. Che vuol dire vivere in un rapporto migliore con le cose, vedo le persone che cercano “qualcosa” nel comprare, forse perché sono inquiete, insoddisfatte. In questo senso io credo nel valore educativo della poesia e dell’arte. (...)
Questa situazione mi ricorda una storia narrata da un gesuita che era in Brasile nel secolo diciassettesimo. Un giorno egli fece un viaggio da un convento ad un altro, e per qualche ragione andava con molta fretta. Assieme a lui andavano diversi indios. Una mattina gli indios dissero che non avrebbero continuato il viaggio, alla richiesta del perché da parte del padre, essi risposero che a causa della fretta con cui avevano viaggiato le loro anime erano rimaste indietro, e perciò non potevano continuare senza le loro anime. E questo è un po’ quello che è successo nella nostra civiltà, le persone corrono sempre in fretta.
In uno dei miei primi poemi (Sinal de Ti) ho posto un confine nitido tra poesia e religione, ma l’incontro con Heleno mi ha fatto ri-pensare questo problema, questo confine. Il punto è che ci sono “metodi” nella poesia così come nella vita spirituale, come l’attenzione, l’ascolto, la gratuità. Una forma che trovo ben espressa in una definizione della poesia che dà Jorge de Sena, poeta portoghese (la poesia è) “Una fedeltà radicale alla responsabilità di essere al mondo”. Ciò che avviene è che questo metodo di ascolto, di fedeltà può portare tutti gli uomini alla stessa anima.


Alessandro Cecchi:

Nella sua poesia ricorre la Grecia, che è forse la terra in cui il Sacro si è avvicinato di più agli uomini, inoltre Lei l’altra sera ci diceva che occorrerebbe educare i bambini alla poesia, alla musica, alla ginnastica, la Grecia quindi come un ideale storico, perciò Le chiedo se la poesia può essere il tramite, oggi, perché sia possibile una esperienza simile del Sacro, riportare il Sacro nel mondo?


Sophia de Mello:

Io credo di sì, non è forse vero che sempre la poesia ha portato il Sacro? Io penso che il Magnificat è il più bel poema che esiste. E poi la Bibbia, che ha portato il Sacro in tutte le culture. La poesia religiosa egiziana, siriaca, caldea, quella della preistoria, di cui non ci rimasto lo scritto. Ma certamente l’uomo della preistoria cantava e danzava.


Zogo, scultore africano:

Mi è piaciuto molto tutto quello che lei ha detto. Vorrei sapere se lei ha mai scritto una poesia sull’Africa, visto che il suo paese ha sempre avuto molto a che fare con quel continente.


Sophia de Mello:

Ho scritto vari poemi sull’Africa, sono in una raccolta che si intitola Ilhas. Sono anche stata in Africa, ma solo dopo la rivoluzione, sono stata a Sao Tomè, Capo Verde, Angola, ma non in Mozambico.
La cosa che più mi è rimasta impressa è la lettura dei miei poemi che ho tenuto in Angola e Capo Verde, ho notato una grande attenzione alla poesia ed alla musica delle parole, allora avevo una bella voce... (“Ma lei ha sempre una bella voce!” - risponde...). Chi recita rimane colpito dal silenzio di chi ascolta, il silenzio degli altri innalza il poema. Io ero ad una tavola rotonda, ma a me non piacciono molto le discussioni, e neanche alla gente che partecipava, erano tutti un po’ annoiati. Ad un certo punto un mio amico africano mi ha detto: -“Sophia, andiamo là dentro a leggere poesie!”- E siamo stati tre ore a leggere mie poesie, è stato bellissimo! (lettura di una poesia da “Ilhas”).


Luigi Stralla:

Io vorrei chiederle, Signora Sophia, come le è nata questa vocazione alla poesia, che cosa l’ha spinta ad esprimere la sua personalità nella poesia?


Sophia de Mello:

Io ho avuto la fortuna che mia madre, quando sono nata io, aveva una cameriera molto simpatica e intelligente ma che non sapeva leggere, mia madre le insegnò e le dette un libro di lettura dove c’era un poema tradizionale portoghese del secolo diciassettesimo, molto bello, il poema parlava di una nave perduta in mare. Siccome i miei cugini avevano imparato a memoria delle poesie, la mia domestica volle che anch’io ne imparassi uno, ma io avevo solo tre anni, lei mi insegnò quel poema e da allora chiedevo sempre a mia madre, poi a mio nonno che mi dicessero poesie a voce alta, così prima di saper leggere ho imparato le poesie a memoria.
Nel mondo attuale si dice sempre che la poesia non ha lettori, ma quando facevo la campagna elettorale per il Partito Socialista, avevo spesso comizi nelle campagne, nei quali dovevo tutti i giorni parlare delle elezioni, delle liste. Un giorno, parlando della libertà, dissi che siccome per me la libertà era la poesia, avrei letto alcuni poemi. In tutto i posti dove ho fatto questo ho trovato un silenzio ed una attenzione molto grandi di fronte alla poesia.


Giovanni Avogadri:

Come già abbiamo sentito, Sophia ha scelto 46 poemi di Heleno da pubblicare, noi che in vari modi siamo amici di Heleno, saremmo interessati a sapere qualche tua impressione di questo lavoro che hai fatto sulle poesie di Heleno.


Sophia de Mello:

È stato un lavoro molto difficile anzitutto perché erano tanti poemi e poi perché non erano ordinati… Le poesie di Heleno sono molto ricche di tantissimi elementi, lui è un po’ come Senghor, da una immagine ne viene fuori un’altra. Ho molto pensato a quale ordine dare, perché è molto importante l’inizio, io penso di cominciare il libro col poema della madre, poi quello di “Venezia”, un poema bellissimo, che crea una specie di choc, poi il poema sull’ Africa, un poema molto doloroso, pieno dell’anima di Heleno, poi alcuni poemi scelti da “Cais do fin do mundo”, “Arcano Arcanjo”.


***

 


Sophia de Mello Breyner Andresen sull’arte poetica
Tratto da “Geografia”, Editorial Caminho,
(Traduzione a cura di Giovanni Avogadri)

La poesia non mi chiede propriamente una specializzazione, poiché la sua arte è l’arte dell’essere. Ugualmente non è il tempo o il lavoro che la poesia mi chiede. Non mi chiede una scienza, né una estetica e nemmeno una teoria. Mi chiede anzitutto l’interezza del mio essere, una coscienza più profonda della mia intelligenza, una fedeltà più pura di quella che io posso controllare. Mi chiede una intransigenza senza lacuna. Mi chiede di trarre, dalla vita che si corrompe, si guasta, si consuma e diluisce, una tunica senza cuciture. Mi chiede di vivere attenta come un’antenna, mi chiede di vivere sempre, che mai mi distragga. Mi chiede un’ostinazione senza tregua, densa e compatta.
Poiché la poesia è la mia convivenza con le cose, la mia partecipazione al reale, il mio incontro con le voci e le immagini. Per questo il poema non parla di una vita ideale ma di una vita concreta: angolo di finestra, risonanze di strade, di città e di appartamenti, apparizioni di volti, silenzio, distanza e luci di stelle, respirazione della notte, profumo di tiglio e origano.
È questa relazione con l’universo che definisce il poema come poema, come opera di creazione poetica. Quando c’è relazione con una materia c’è artigianato.
È l’artigianato che chiede specializzazione, scienza, lavoro, tempo e una estetica. Ogni poeta, ogni artista è artigiano di un linguaggio. Ma l’artigianato delle arti poetiche non nasce da se stesso, questo è relazione con una materia, come nelle arti artigianali. L’artigianato delle arti poetiche nasce dalla propria poesia, alla quale è consustazialmente unito. Se un poeta dice “oscuro”, “ampio”, “barca”, “pietra” è perché queste parole nominano la sua visione del mondo, il suo legame con le cose. Non saranno scelte esteticamente per la loro bellezza, ma saranno scelte per la loro realtà, per la loro necessità, per il loro potere poetico di stabilire un’alleanza. È dall’ostinazione senza tregua esigita dalla poesia che nasce l’“ostinato rigore” del poema. Il verso è denso, teso come un arco, esattamente detto, perché i giorni furono densi, tesi come archi, esattamente detti. L’equilibrio delle parole tra loro è l’equilibrio dei momenti tra loro.
E nel quadro sensibile del poema vedo dove vado, riconosco il mio cammino, il mio regno, la mia vita.


***


Testo letto da Sophia de Mello Breiner Andresen alla Sorbona in Parigi, nel dicembre del 1988, in occasione dell’incontro “Le Belles Etrangeres”
(Traduzione a cura di Giovanni Avogadri)

Nella mia infanzia, ancor prima di saper leggere, ascoltai recitare ed imparai a memoria un antico poema tradizionale portoghese, conosciuto come “Nau Catarineta”.
Ho avuto così la sorte di cominciare direttamente dalla tradizione orale, la sorte di conoscere il poema prima di conoscere la letteratura.
Di fatto ero così piccola da non sapere che i poemi fossero scritti da persone, ma credevo che essi fossero consustanziali all’universo, che fossero la respirazione delle cose, il nome del mondo detto da lui stesso.
Pensavo anche che se fossi riuscita a rimanere completamente immobile e muta in certi angoli magici del giardino, sarei riuscita ad ascoltare uno di quei poemi, che l’aere stesso portava in se.
In fondo, per tutta la mia vita ho tentato di scrivere questo poema immanente.
E quei momenti di silenzio nel fondo del giardino mi hanno insegnato, molto tempo dopo, che non c’è poesia senza silenzio, senza aver creato vuoto e spersonalizzazione.

Un giorno a Epidauro - approfittando di un momento di pace durante il pranzo dei turisti - mi sono messa nel centro del teatro ed ho pronunciato a voce alta l’inizio di un poema.
E udii nell’istante seguente là, in alto, la mia stessa voce, libera, ormai slegata da me stessa.
Tempo dopo ho scritto questi tre versi:

La voce sale gli ultimi gradini
Ascolto la parola alata impersonale
Che riconosco non essere più mia.



[A cura di Giovanni Avogadri]

*

- Intervista

Davide Rondoni




DOMANDA.
Iniziamo con una domanda che le dà spazio per presentarsi con l’ampiezza che desidera. Chi è Davide Rondoni?

RISPOSTA.
Come si fa a rispondere…Potrei farlo solo indicando i tanti legami che fanno la mia vita…coni nomi di altri che ieri e oggi hanno dato e danno forma a questo mio abbaiare in poesia contro l’infelicità e al mio sorridere dinanzi al segreto stupendo del vivente.

DOMANDA.
Perché lei è un poeta? Che cosa significa essere poeta?

RISPOSTA.
Ch’io sia un poeta lo dicono gli altri. E il perché uno lo diventi è difficile saperlo… Essere poeta è un modo di guardare il mondo e di farsi attraversare. E’ una esaltazione ed una lacerazione profonda allo stesso tempo. Essere poeta è la mia massima libertà: non il fare ciò che mi pare e piace, ma l’agire di quell'energia che ci fa aderire alla realtà e alla promessa di bene che c'è dentro.

DOMANDA.
Quali sono state le sue esperienze più importanti che, nel corso degli anni giovanili, l’hanno condotta ad essere lo scrittore di poesia, e non solo, che oggi è?

RISPOSTA.
Quello che posso dire in proposito, oltre al fatto di essermi trovato tra le mani il dono dell’uso della parola in modo poetico, cioè vivo, pieno di tensione al reale e di creazione –in persone come i miei nonni, in certi miei padri, in certi grandi amici- è l’aver avuto per fortuna o per grazia la possibilità di fare incontri con persone che mi hanno preso sul serio ed insegnato a non buttarlo via o ad usarlo come un giochino con cui baloccarsi. Ho cercato e incontrato dei maestri, nel vero senso della parola: persone che mi hanno avuto a cuore e provocato ad andare al fondo di ciò che ho ricevuto. Maestri e padri, come don Giussani, o poeti e scrittori come Testori, Luzi, Caproni, Bigongiari, Loi… che poi sono anche tra i miei scrittori preferiti. Ed io per natura ho aggiunto la forza del mio rischiare, del buttarmi nell’avventura.

DOMANDA.
Quali sono state e sono le letture più importanti che hanno segnato, in qualche modo, il suo percorso di scrittore?

RISPOSTA.
Tanta poesia, di tutti i tempi: Dante, Leopardi, come dicevo Luzi e Caproni ma anche Péguy, Eliot, Rimbaud, Baudelaire, Omero… racconti, romanzi…

DOMANDA.
Lei è laureato in Lettere. Immagino che avrà letto molte opere di poeti classici e contemporanei. Su larecherche.it si confrontano vari autori, sia di poesia che di narrativa. Come si può imparare a scrivere buone poesie? Secondo lei, in questo senso, è importante leggere i poeti contemporanei più noti od emergenti?

RISPOSTA.
E’ importante leggere. Leggere come se si trattasse di incontri personali in ciascuno dei quali c’è una cosa unica ed originale da fare propria, come quando uno ti incontra e ti dice: “Ehi, fermati, ti devo raccontare la cosa più importante che mi è successa…!”. Puoi ascoltare per formalità, oppure immedesimarti, condividere quell’esperienza e allora… In questo senso non esiste tempo, contemporanei o antichi, emergenti o sconosciuti, tutti possono avere qualcosa di unico e speciale da dire. Il problema poi non è che siano “noti o emergenti” i poeti che si leggono, ma che siano buoni poeti. E le cose non è detto che coincidano.

DOMANDA.
A proposito di Caproni lei afferma: “…mi scrisse una letterina dopo aver ricevuto il mio primo libretto ("La frontiera delle ginestre") dicendo di essere come un sarto che tasta la stoffa e dice: è buona. E si soffermava sui testi che lo avevano colpito di più e su alcuni difetti. Allora continuai”. Quali erano i difetti e come li ha superati? Più in generale, secondo la sua esperienza, quali sono i difetti di chi inizia a scrivere poesia? Può dare alcune indicazioni utili per imparare a scrivere poesia?

RISPOSTA.
I difetti erano quelli contro cui deve lottare chi inizia. Per scrivere non fermarsi alla prima stesura, occorre tornare sulle parole, sulle immagini, sul ritmo e il taglio del verso. Questo è il lavoro più difficile, perché una volta che uno ha come “partorito” il nucleo della sua poesia, gli sembra di avere fatto tutto e invece poi il “bambino” va lavato, ripreso in braccio, guardato come creatura che prende il suo avvio, ri-conosciuto e sapere che una volta che la poesia è fuori di te, come un figlio, non è più tua. Appartiene già al mondo.

DOMANDA.
E’ appena uscito, pubblicato da Mondatori nella Collana Lo Specchio, la sua nuova raccolta di poesie, Apocalisse amore, come è nato questo libro? Perché questo titolo?

RISPOSTA.
Sono due parole, e due esperienze, da ricomprendere. Per me, e per la nostra epoca. L’apocalisse indica il senso del tempo, della storia –generale e personale- che può essere catastrofe, magari annoiata, o rivelazione di vittoria. E l’amore, è il fuoco in cui si gioca il destino di ogni uomo. Non è un sentimento (la nostra è un’epoca maledettamente sentimentale e dunque non buona, povera di gratuità e di sacrificio) ma una forza che muove “il sole e l’altre stelle” come diceva Dante. A cui si partecipa o da cui ci si separa.

DOMANDA.
Lei ha un sito personale (http://daviderondoni.altervista.org) sul quale si legge: “Non ho mai concepito il lavoro poetico come "a parte" dall'impegno critico, sia in campo letterario che, più largamente, in campo sociale e politico”.
In Apocalisse amore in che misura si trovano questi elementi di critica letteraria, sociale e politica?

RISPOSTA.
Mah, si può parlare anche della stazione di Milano all’alba, indicando un orizzonte di questioni sociali e politiche. La poesia nasce dalla vita interamente sentita, e dunque nessuna dimensione del vivere è esclusa dalla poesia.

DOMANDA.
Ancora dal suo sito: “L'essere un cristiano cattolico, non mi ha mai messo in quell'imbarazzo verso l'arte in cui taluni vorrebbero. Come quelli che alla grande Flannery O'Connor, appunto, chiedevano come facesse lei, nel XX sec., ad essere cattolica ed artista. E lei rispondeva: proprio perché sono cattolica non posso che essere un'artista”.
Se ha riportato l’affermazione di Flannery O'Connor vuol dire che in qualche misura la sente sua, ci può spiegare meglio che cosa significa tale affermazione?

RISPOSTA.
Come spiego sul mio sito, io sono cattolico non per grandi riflessioni sulla fede, e nemmeno per un qualche merito…Non penso di esser migliore di nessuno, anzi…Però mi affascina il Mistero dell’Incarnazione, come l’ho incontrato testimoniato nella vita di santi e di gente normale, di amici e di gente lontana da me: l’inserzione del divino nell’umano che fa sì che tutto l’umano venga valorizzato, introdotto in un destino di bene. Se si parte da questa considerazione, non c’è nulla della realtà che non possa esser guardato con occhio poetico e ritrasmesso con le parole della poesia, neanche lo spettacolo più sordido o doloroso. L’arte, la poesia, non è una questione solo di bellezza, ma la comunicazione di un’esperienza di verità che ti segna la carne. Da qui l’urgenza del dire… e si può dire di tutto.

DOMANDA.
Quali saranno le sue prossime pubblicazioni? Che cosa sta scrivendo?

RISPOSTA.
Sto raccogliendo vari scritti che ho pubblicato in circostanze disparate sull’argomento artistico –un viaggio in versi e in prosa tra tanti artisti del presente e del passato-. Ho una ritraduzione dei Fiori del Male di Baudelaire, che già tradussi vent’anni fa, su cui sto lavorando. Ed ho in progetto di raccogliere tutto ciò che ho scritto su Dante.
Stanno uscendo anche traduzioni delle mie poesie all’estero, in francese, spagnolo…

DOMANDA.
Lei ha fondato e dirige il Centro di Poesia Contemporanea dell'Università di Bologna (http://www.centrodipoesia.it/). Ci può parlare di questa esperienza? Per quale motivo l’ha fondato? A quale scopo?

RISPOSTA.
Per me la poesia è la vita. Così come fortunatamente all’inizio della mia attività di poeta ci sono stati incontri valorizzatori del mio lavoro, che mi hanno spinto a proseguire, desidero che ci sia un luogo vivo, per tutti, non accademico, di incontro anche personale con chi scrive, dove chi è interessato all’argomento possa trovare spazio per il confronto, il lavoro. Organizziamo incontri con poeti e scrittori, corsi di scrittura e traduzione, un festival della poesia per poeti emergenti, per dare spazio alle giovani voci che si vogliono lanciare in quest’avventura. La novità di quest’anno è che siamo diventati anche sede del centro internazionale della canzone d’autore. Nel corso dell’inverno scorso si sono svolti incontri e laboratori che hanno avuto termine nel festival “Lyrics”, che ha dato la possibilità a giovani cantautori di condividere esperienza e palco con personaggi già affermati nel mondo della musica, come Dalla e Lindo Ferretti. Si dice che la poesia è morta… ma nulla è morto se c’è ancora qualcuno che ci si spende con passione.

DOMANDA.
Quando aveva vent’anni ha iniziato a fare, con alcuni amici, la rivista clanDestino, ci può dire qualcosa su questa esperienza? Quale è il ruolo di una rivista come clanDestino? Chi pubblica normalmente sulla rivista? E’ possibile abbonarsi? Se sì come?

RISPOSTA.
L’inizio è stato l’avventura della passione per la poesia condivisa con alcuni amici, quasi una scommessa. Il lavoro negli anni, una continua provocazione a non lasciar perdere, anche nei momenti più grami, l’attaccamento a questa voce della vita che è la poesia. E’ stato una scuola, la possibilità ripetuta nel tempo di tanti incontri straordinari, di imparare, di essere aperti a tutta la realtà, lo sprone verso letture sempre nuove, scoperte. Credo che la voce della rivista si caratterizzi soprattutto per il suo tono anti-accademico: c’è frequentemente spazio per la prima pubblicazione di nuovi poeti di talento che nella schiera delle rivista che parlano della poesia con pretese saccenti e chiuse non troverebbero spazio. Insomma, forse è un po’ una spina nel fianco a tutti coloro che hanno già stabilito il ruolo, l’essere viva o morta della poesia nell’ambito dell’arte e della vita, di chi ne parla senza crederci più, pour parler…
Ci si può abbonare, anzi è “un dovere”!!!! L’editore è Raffaelli di Rimini, costa solo 25 euro e tutte le informazioni più precise si trovano sul sito della rivista http://www.rivistaclandestino.com/

DOMANDA.
Molto sinceramente, che cosa pensa di siti come larecherche.it dove vi sono autori che previa registrazione possono pubblicare liberamente testi in formato elettronico? Vorrebbe dire qualcosa agli autori de larecherche.it?

RISPOSTA.
Navigo poco virtualmente, perché viaggio moltissimo fisicamente: il mondo e i libri li giro di persona. Ho un mio sito e i miei libri si possono comprare anche via internet. Ho anche pubblicato cose che si trovano solo su internet. Bello che ci sia spazio per tutti. Ognuno ha i suoi gusti e se la possibilità di pubblicare è ristretta solo a coloro che sono già affermati, che libertà sarebbe? Poi si può dire che si trovano cose discutibili o che non sono di mio gusto o non mi corrispondono, ma hanno da dire qualcosa di prezioso ad altri diversi da me. Conta molto l’autorevolezza dei siti. Il fatto che ci sia spazio per tutti mette appunto in questione cosa è che rende autorevole una proposta rispetto ad un’altra.
In arte il problema non è la visibilità ma la visione. Non la fama ma la verità. Se no, invece di arte è promozione, magari tristissima autopromozione.
Tra chi scrive c’è chi non cerca necessariamente la fama, l’affermazione, ma anche soltanto uno spazio per essere ascoltato… A tutti coloro che scrivono, da poco o da tanto, bravi o meno, dico sempre: andate avanti, ma leggete, lavorate, vivete prendendovi sul serio. Il lavoro su di sé, e quindi anche sulla tradizione che ti ha formato, è il nutrimento che ti rende “autore”, cioè uno che può nutrire (da augeo) la vita altrui.


(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

*

- Intervista

Luigi Fontanella

DOMANDA.
Luigi Fontanella, sappiamo che ha studiato all’Università “La Sapienza” di Roma, laureandosi in Lettere, per poi conseguire il dottorato alla Harvard University.
Attualmente è professore di italiano presso il Dipartimento “European Languages, Literatures, and Cultures” alla Stony Brook University. È fondatore e Presidente dell’IPA (Italian Poetry in America) e l’Editor di Gradiva (una rivista internazionale di poesia italiana) ed ha all’attivo varie pubblicazioni. Nonostante questo, come si presenterebbe a persone che non la conoscono? Chi è Luigi Fontanella?

RISPOSTA.
Vorrei saperlo anch’io. Credo di non essere in grado di rispondere in modo sufficientemente organico ed esauriente a questa domanda, se non, mettiamo, di volta in volta che essa mi venisse rivolta in un dato momento della giornata, tale è il coacervo di sensazioni-emozioni-riflessioni che occupano il mio io nel corso del mio vivere quotidiano… André Breton si pone la stessa domanda nell’incipit di Nadja, quel suo bellissimo antiromanzo, paradiaristico, che non mi stanco mai di rileggere, giungendo a una conclusione del tutto condividibile, e cioè che forse soltanto nell’esatta misura in cui saremo in grado di comprendere in che cosa consista la nostra differenza rispetto agli altri potremo rivelare a noi stessi chi siamo, di quale messaggio siamo unici latori, e soprattutto ciò che siamo venuti a fare in questo mondo.
Più in generale, considerando che è impossibile capire e interpretare qualcosa che non è finito, e cioè il magma esistenziale del nostro vivere giorno per giorno, potrei dire che forse solo dopo la morte potremo dire chi siamo (stati); cioè noi sapremo che cosa è stata la nostra vita solo dopo che saremo morti. E saranno altri a farlo, ma anche lì con tutti i limiti e le supposizioni soggettive di chi, quella vita, vorrà documentarla, valutarla e interpretarla. Mi viene in mente Pasolini quando in Empirismo eretico afferma che noi non ci esprimeremmo se fossimo immortali, cioè o essere immortali e non esprimersi o essere mortali ed esprimersi. Da qui l’impossibilità di una risposta esauriente alla sua domanda, perchè sarei chiamato a interpretare un io, il mio, che non è ancora finito, che è ancora in via di evoluzione, aperto a tutte le possibilità e a tutti gli imprevisti dell’esistenza.


DOMANDA.
Quali sono le letture, i libri o gli autori, che da sempre l’accompagnano?

RISPOSTA.
Sicuramente i lirici greci e latini che ancora oggi – seppure in modo sempre più saltuario – vado rileggendo. Poi, facendo un bel salto temporale leggo e rileggo (Bontempelli diceva che non bisogna leggere ma rileggere), alcuni autori del Settecento e Ottocento italiano ed europeo: in primis Novalis, Foscolo e Leopardi; poi i grandi romanzieri russi; poi ancora scrittori come Ibsen, Laforgue, Flaubert, Huysmans. Della prima metà del Novecento per me sono irrinunciabili: Italo Svevo, Arthur Schnitzler e Robert Walser (metto questi tre per primi perché sono gli scrittori che assolutamente sento più consanguinei), ma subito dopo aggiungerei Breton, Campana, Tozzi, Kafka, Beckett, Pessoa, Rilke, Pavese, Eliot, Auden, Hart Crane, e qualche altro che ora non mi viene in mente. Del secondo Novecento italiano, in poesia: sicuramente Sinisgalli, Gatto, Bertolucci, Sereni, Cattafi, Risi, Caproni, Cesarano e Raboni su tutti. Ma ci sono anche poeti, purtroppo assai negletti nelle nostre storie letterarie, che amo leggere e rileggere, poeti che andrebbero sicuramente rivalutati. Faccio esemplarmente i nomi di Lorenzo Calogero, Vittorio Bodini, Angelo Maria Ripellino, Antonia Pozzi. Fra i narratori italiani del dopoguerra metterei certamente ai primi posti delle mie letture/riletture Anna Maria Ortese, Elsa Morante, Giuseppe Berto, Tommaso Landolfi, Antonio Delfini, Paolo Volponi.
Sono scrittori, questi che sono andato man mano citando - me ne rendo ben conto –, assai diversificati, alcuni di loro lasciano molto spazio al senso del magico e del surreale, ma che al contempo avevano alle spalle intense, talora laceranti esperienze di vita vissuta.
Salto i poeti italiani contemporanei, anche se, in poesia, vorrei menzionare almeno i nomi di Doplicher, Cucchi, Conte, De Angelis, Fiori, Magrelli e Giovanna Sicari: poeti più o meno a me coetanei coi quali mi sono spesso utilmente confrontato e dai quali ho tratto suggestioni feconde per la mia creatività.


DOMANDA.
Quando ha iniziato a scrivere e perché?

RISPOSTA.
Ho scritto la mia prima poesia intorno ai 18 anni sul diario scolastico di una mia compagna di classe della terza liceo classico; glielo avevo momentaneamente rubato perché - molto timido - volevo dichiararmi a lei mettendoci dentro una mia lettera d’amore. Sfogliando questo diario di Patrizia (si chiamava così la ragazza della quale ero segretamente innamorato) mi accorsi con mia grande sorpresa che conteneva riflessioni e varie poesie della stessa Patrizia! Per me fu come un’agnizione: mi rendevo improvvisamente conto che la poesia era un’esperienza praticabile, non depositata solo nei libri. Strappai la lettera e scrissi una poesia, la mia prima poesia. In quel momento si decideva il mio destino di poeta.
Senza caricare troppo quanto sto per dire, potrei dichiarare che in fondo ogni mia poesia sia nata da una “reazione”: un atto d’amore o di fratellanza; una mia voce interna che m’imponeva di oppormi con tutte le mie forze a qualcosa che ritenevo profondamente ingiusto. L’unica arma che ha un poeta è la sua parola e la necessità di esprimerla. Voglio dire che alla base dello scrivere poesia ci deve essere un’autentica passione, una vera necessità. Non potrei mai scrivere una poesia “astratta” a tavolino o avulsa dalla realtà, e credo che poeti di forte passione civile come lo sono stati Pasolini, Risi, Sereni, Cesarano, Raboni, Majorino, siano stati per me e per tanti poeti impegnati della mia generazione degli esempi forti e probanti. Detto questo, non credo, però, che la poesia possa risolversi o strumentalizzarsi esclusivamente in una forma di lotta politica o di impegno civile. Credo invece che essa debba anche avere il coraggio di confrontarsi con i grandi temi dell’esistenza: l’amore, la morte, il tempo, il dolore, le ingiustizie, ecc., senza enfasi e senza cadute retoriche, ma interrogandosi a fondo sull’enigma del nostro esserci. Per un poeta la realtà va decrittata e interpretata, allo stesso tempo cogliendo in essa il mistero con cui si presenta ogni momento davanti ai nostri occhi. Io amo quei poeti di forte immaginazione che hanno saputo coniugare analisi concreta con un’innata capacità visionaria, poeti che interrogando/interpretando profondamente la realtà del loro tempo riescono, per così dire, ad oltrepassarla, parlandoci nel tempo.


DOMANDA.
Come poeta ha mai passato momenti di sconforto?

RISPOSTA.
Sì che li ho passati e tuttora li passo. E le cause possono essere di diversa origine: all’inizio della mia esperienza americana i momenti di sconforto scaturivano, per la maggior parte, dal mio essere lontano dall’Italia e dai miei amici. Mi ero trasferito in America in seguito a due borse di studio piuttosto prestigiose (una Fulbright alla Princeton University e una Full Fellowship alla Harvard University), ma arrivavo negli Stati Uniti già con un’esperienza di vita e di cultura alle spalle, e soprattutto con una lingua espressiva (l’italiano) dalla quale non potevo e non volevo separarmi. Forse se fossi arrivato in America da adolescente e avessi assorbito in modo naturale l’inglese la mia vita, e di conseguenza la mia poesia, avrebbero preso una piega diversa. Un altro costante motivo di sconforto è il mio rapporto con il Tempo; vivo con angoscia il suo trascorrere inesorabile. Non sono riuscito, non riesco ancora a pormi olimpicamente, neutralmente, al di sopra di esso. Ci sono dentro in ogni minuto, in ogni istante del mio vivere. Al tempo ovviamente è legato il pensiero della morte. Non riesco a capire, e forse un po’ le invidio, quelle persone che passano la propria vita senza essere mai sfiorati da questo pensiero. La poesia, per me, quando arriva, ha da questo punto di vista anche un fine pratico: può esorcizzare la malattia del tempo, in qualche modo sospendendolo in una sfera che Leopardi avrebbe chiamata “vaga”. Devo anche dire, però, che in questi ultimissimi tempi mi sento più sereno rispetto alla problematica del tempo. Se la vita può essere la metafora di una giornata nella quale sono belle ed eccitanti l’alba, la mattina e la fase di luce piena (rispettivamente l’infanzia, la giovinezza e la maturità), altrettanto belli e seducenti, con una loro dolcezza infinita, possono essere il pomeriggio e il crepuscolo…


DOMANDA.
Quando scrive che cosa la ispira? Scrive di getto? Rivede e corregge i suoi testi?

RISPOSTA.
Scrivo sempre in seguito a una mia “reattività” verso una situazione precisa o un’occasione esistenziale o un’immagine forte e circostanziata; insomma verso qualcosa che in quel dato momento stia incidendo fortemente dentro di me, ovunque io mi trovi in quell’istante. E siccome spesso mi capita di viaggiare, non poche mie poesie sono nate “in viaggio” (aereo, treno, metropolitana, sale d’aspetto, camere d’albergo, ecc.). Altre volte i miei testi sono nati e tuttora nascono mentre leggo un libro di particolare presa emotiva e intellettuale; vado allora all’ultima pagina bianca di quel libro e lì scrivo di getto i versi di una nuova poesia. Ma per quanto mi riguarda è altrettanto importante il lavoro accanito di revisione, talora la ricerca ossessiva anche di una sola parola all’interno di una poesia; una parola che sia precisa, che sia quella e solo quella a esprimere quel dato verso o quel singolo passaggio. Tendo con tutto me stesso a prosciugare, a decantare (proprio come si fa con il vino) al massimo ogni mio componimento, sfrondandolo di ogni inutile orpello o aggettivo superfluo. Voglio arrivare a una poesia “elementare” (spero che questo termine non sia inteso banalmente) che contenga in sé il massimo concentrato di espressività e di “mistero”.


DOMANDA.
Per uno scrittore quale è la parte più importante da non sottovalutare, a suo avviso, nel “mestiere” dello scrivere?

RISPOSTA.
Sicuramente il lavoro di revisione testuale. Per il resto si veda la mia riposta precedente.


DOMANDA.
Come è considerata la poesia italiana, ed europea in genere, negli Stati Uniti? Ci spiega meglio la sua attività di Presidente dell’IPA?

RISPOSTA.
Purtroppo la poesia italiana, nella sua ampiezza e varietà, non è molto conosciuta negli Stati Uniti, eccezion fatta per alcuni autori ormai canonici del Novecento (Ungaretti, Montale, Quasimodo, Penna, Sereni, Luzi, Zanzotto, Pasolini, e pochi altri – sono questi i primi nomi che mi vengono in mente), ma già per esempio poeti come Sbarbaro, Palazzeschi, Govoni, Gatto, Landolfi, Bertolucci (e sicuramente sto dimenticando più di qualche nome) ancora attendono di essere tradotti in inglese (voglio dire in modo esauriente), e sono tutti poeti di primissimo piano. Se poi rivolgo la mia attenzione alle due generazioni successive la conoscenza e la considerazione verso la poesia italiana risultano per così dire diseguali e contraddittorie, nel senso che ci sono poeti come Doplicher, Conte, Spatola, De Angelis, Buffoni, la Merini, Achille Serrao, Magrelli, Cavalli, (faccio dei nomi a caso) che sono stati tradotti e sono discretamente conosciuti (Cucchi è in via di traduzione da parte di Michael Palma per l’editrice newyorkese Chelsea Editions, diretta da Alfredo de Palchi, che con l’omonima rivista ha fatto tanto per la poesia italiana negli Usa), ma per molti altri validi poeti della mia e della precedente generazione la conoscenza da parte del pubblico americano (quello comunque relativo alla poesia) resta ancora (re)legata all’esclusiva apparizione in riviste americane – sia pure importanti. Penso a poeti come Giampiero Neri, Elio Pecora, Dario Bellezza, Gregorio Scalise, Patrizia Valduga, Roberto Mussapi, Umberto Fiori, ecc., dei quali a tutt’oggi non esiste un volume esauriente tradotto e pubblicato in inglese.
In effetti, quando circa trent’anni fa arrivai negli Stati Uniti la situazione era davvero desolante per la nostra poesia. E uno dei miei imperativi – una volta che decisi di lavorare in questo paese – fu, fin dai miei primi anni, quello di adoprarmi con tutti i miei mezzi per farla conoscere meglio e di più nel Nordamerica. Questo è stato il mio obiettivo primario, prima con la fondazione della IPSA (Italian Poetry Society of America), poi con la IPA (Italian Poetry in America), e, parallelamente, in modo costante, attraverso la rivisita Gradiva e l’editrice Gradiva Publications, da me dirette fin dal 1982 (ma “Gradiva” esisteva fin dal 1976). Molto è stato fatto in questi ultimi vent’anni attraverso la pubblicazione di alcune antologie significative e il lavoro di traduttori e studiosi americani (che spesso sono poeti in proprio) come Ruth Feldman, I.L. Salomon, Joseph Tusiani, Jonathan Galassi, John Taylor, Luigi Bonaffini, Michael Palma, W.S. Di Piero, Emanuel di Pasquale, Charles Wright, Irene Marchegiani, Robert Hahn, Geoffrey Brock, Adeodato Piazza Nicolai, Rina Ferrarelli, Ann Snodgrass, Barbara Carle.


DOMANDA.
Ci parla di Gradiva (International Journal of Italian Poetry)?

RISPOSTA.
Questa domanda/risposta è indissolubilmente legata a quella precedente, in quanto la “funzione” di questa rivista (in particolare la terza e attuale serie) è da sempre stata quella di divulgare la buona poesia italiana contemporanea e il discorso critico che si svolge su di essa sia in Italia sia America. Mi permetto riportare qui di seguito quanto da me scritto nell’editoriale del n. 27-28, un fascicolo doppio che tre anni fa segnò il trentesimo anniversario di Gradiva di cui narra sommariamente la storia e gli scopi.

“Con questo numero doppio, Gradiva festeggia il suo trentesimo anno di vita. Trent’anni… e qui il ricordo va ovviamente al 1982, anno in cui ne assunsi la direzione (a quel tempo Gradiva aveva già alle spalle sette anni di lavoro).
Mi fa piacere, a distanza di tre decenni, riassumere brevemente la storia di questa rivista. Ideata nel 1975 da Adriano Berengo, il primo fascicolo uscì nell’estate del 1976. Vi comparivano, fra gli altri, saggi e note dello stesso Berengo (su Beckett), di Norman N. Holland (a quel tempo direttore, a Buffalo, del Center for the Psychological Study of the Arts), di Mark Heumann (noto studioso di psicanalisi e direttore americano di Gradiva che in seguito sarebbe andato a insegnare all’università di Gerusalemme), di Michel David, che, con Giacomo Debenedetti, si può considerare uno dei capostipiti della critica psicanalitica italiana (il saggio da lui pubblicato nel fascicolo iniziale si intitolava proprio Psychoanalytic Criticism in Italy), e di Stefano Agosti che commentava due bei libri di Francesco Orlando (Lettura freudiana della Phedre e Per una teoria freudiana della letteratura, ambedue editi da Einaudi, rispettivamente nel 1971 e nel 1973).
Come si può evincere da questo breve resoconto, Gradiva si proponeva precipuamente di indagare i rapporti tra psicanalisi e letteratura; del resto lo stesso titolo scelto per questa rivista, riferentesi a una delle più seducenti opere di Freud, via Jensen, non lasciava adito ad alcun dubbio.

Dal 1976 al 1982, periodo che costituisce la prima serie di Gradiva, la rivista ospita, dunque, studi rivolti al campo della critica psicanalitica, alla critica analogica e a quella semiologica, con feconde incursioni nelle avanguardie storiche, con particolare riferimento al surrealismo: significativi, in tal senso, i saggi di Anna Balakian, Jan Kott, Umberto Eco, Jacques Lacan, Lucien Goldmann, Jay Martin, Giovanni Sinicropi, Norman N. Holland, che usciranno nei vari numeri successivi.

Dal 1982, con la mia direzione, la rivista diventa essenzialmente un periodico di letteratura italiana e, oltre alla psicanalisi, apre anche ad altre metodologie critiche, come la critica stilistica, lo strutturalismo, la critica marxista. Il comitato direttivo viene radicalmente rimaneggiato: entrano studiosi e poeti come Cesare Garboli (ricordo un suo saggio bellissimo su Antonio Delfini proprio nel primo fascicolo della seconda serie), Dante Della Terza (che fin da allora, oltre che per i suoi contributi critici, ci è stato sempre vicino con consigli e suggerimenti), Alfredo Giuliani, Glauco Cambon, Octavio Paz (ho ancora qui davanti a me la sua garbata lettera di adesione), Edoardo Sanguinati e Giuliano Manacorda, questi ultimi due diventati nel tempo amici e compagnons de route, cui sono molto affezionato. Devo poi qui riconfermare la mia riconoscenza a George Carpetto, il quale dal 1982 al 1985 condivise con me la direzione di Gradiva (Carpetto era entrato nella rivista nel 1978, come Associate Editor, e nel 1986 si trasferì in Florida, dove tuttora risiede esercitando la professione di psicologo).
Altro significativo cambiamento (arricchimento) della rivista, dal 1982 in poi, è costituito dall’ingresso di testi creativi. Mi piace ricordare che le primissime poesie pubblicate nel fascicolo iniziale della seconda serie erano di Philippe Soupault - con Breton e Aragon, uno dei fondatori storici del surrealismo, che mi mandò una lettera appassionata e un testo autografo (di fatto pubblicammo la sua poesia, Toujours le silence, proprio nella sua forma manoscritta), di Edoardo Sanguineti, Milo De Angelis e Alfredo Giuliani. Mi sembra incredibile che siano già trascorsi 23 anni da quel vicino/lontano 1982. Da allora sono centinaia e centinaia i testi di poeti italiani pubblicati da Gradiva, talora affiancati anche dalla traduzione in inglese

Questa seconda serie di Gradiva, iniziata nel 1982, si estende fino al 1999. Dall’anno 2000 in poi la rivista diventa un semestrale esclusivamente di poesia e poetologia italiana. Con l’anno Duemila inizia anche la terza serie. Il comitato direttivo e redazionale subisce un ulteriore rimaneggiamento, con l’adesione di poeti e studiosi come Giorgio Baroni, Luigi Bonaffini, Alfredo De Palchi, Barbara Carle, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Jonathan Galassi, Laura Lilli, Valerio Magrelli, Plinio Perilli, Robert Pinsky, Rebecca J. West.
La rivista si assesta strutturalmente con rubriche specifiche curate da singoli studiosi; si arricchisce graficamente, e aggiunge una “Fototeca”, ossia un piccolo archivio fotografico che documenta eventi e personaggi della poesia italiana, passata e presente. Un’idea, questa, che mi venne suggerita da Giovanna Sicari tre anni fa. Di questa sezione si sarebbe dovuta occupare Giovanna stessa se la malattia non l’avesse vinta. Il n. 26 di Gradiva, interamente a lei dedicato, ha inaugurato questa nuova rubrica.

Intanto nascono le Edizioni Gradiva (Gradiva Publications), piccola editrice che, fondata timidamente nel 1985, ha gradualmente rafforzato e precisato professionalmente la propria attività editoriale. Scopo primario di Gradiva Publications è di far conoscere la poesia italiana nei paesi di lingua inglese, attraverso la pubblicazione di volumetti bilingui, ben curati, di poeti italiani ancora non troppo familiari al pubblico di lingua inglese, o addirittura mai tradotti prima in questa lingua. A questa collana di base, si affianca l’altra di poeti americani contemporanei di origine italiana. Il catalogo, leggibile sulla quarta di copertina della rivista, rende conto di quanto è stato finora pubblicato. Quattro anni fa a Gradiva Publications è stato assegnato, da parte del Ministero dei Beni Culturali, il Premio Internazionale per la Traduzione.

Non posso, a questo punto, non rivolgere un doveroso riconoscimento, per la sua lunga dedizione a Gradiva, a Sylvia Liberti Morandina, che, dal 1986 a tutt’oggi, è stata la nostra preziosa Managing Editor, oltre che amica insostituibile. Un altro, altrettanto doveroso, lo devo a Michael Palma, poeta e traduttore finissimo, che da anni ci è stato di valido aiuto specialmente per la revisione dei contributi in lingua inglese.

Forse solo chi ha diretto un periodico letterario può veramente sapere quale e quanta fatica deve affrontare, direi quasi giornalmente, chi la dirige. Non mi faccio illusioni. So bene quanta precarietà caratterizzi questo lavoro. Mi consola il fatto che l’ho svolto sempre senza pressioni di parte, con libera autonomia e onestà, traendone a volte il piacere di qualche scoperta, e sorretto infine - last but not least - da un Ideale, senza il quale ogni vita umana non avrebbe senso. ”


DOMANDA.
Ci può fare una panoramica della poesia contemporanea statunitense? Quali sono le figure di riferimento e, se vi è, quale lo stile dominante?

RISPOSTA.
La poesia americana diversamente da quella italiana ha, per lo più, una tradizione “narrativa”. Naturalmente questa è una prima, generica considerazione, perchè non mancano nella poesia novecentesca statunitense poeti assai sofisticati, di forti impennate ellittiche, che hanno fruttuosamente attraversato il simbolismo, l’espressionismo visionario o astratto e lo sperimentalismo; penso per es. a poeti, anche diversificati, come Wallace Stevens, John Berryman, E.E. Cummings, Sylvia Plath, John Ashbery, Richard Wilbur, Edward Hirsh, Paul Auster (oltre a essere il noto romanziere, Auster è un eccellente poeta), Charles Simic, Maura Stanton, Luisa Rossina Villani, ecc. (queste ultime due fra l’altro da me tradotte in italiano). Credo però – per rispondere alla sua domanda – che “lo stile dominante” della poesia americana contemporanea sia tuttora quello di tipo narrativo, dal quale o attraverso il quale – fra l’altro - ho riscoperto, per quanto mi riguarda, anche il gusto per la prosa poetica o per la ballata.


DOMANDA.
Quest’anno ha pubblicato, con Archinto, la raccolta di poesie “Oblivion”, recensita su larecherche.it e proposta come libro consigliato. Nella quarta di copertina v’è un pezzo di Raboni che afferma: “Nella poesia di Luigi Fontanella c’è una grande libertà di forme e di intonazioni. Egli non prende formalmente partito con violenza; la sua poesia ospita momenti di narratività colloquiale, quasi in prosa, e momenti in cui c’è una tensione lirica molto forte…”. Sono parole molto belle che esprimono bene l’aria che si respira nel libro, il quale è un capolavoro, direi, di semplicità poetica, che rispecchia una tonalità umana nitida e definita nonché uno spessore culturale notevole, che fa sì che la sua poesia si legga piacevolmente, anche da parte di chi è meno avvezzo alla lettura dei versi, bordeggiando appunto “momenti di narratività colloquiale”. Ci può dire qualcosa al riguardo? Ci parla delle sue scelte stilistiche e compositive?

RISPOSTA.
Non ho molto da aggiungere a quanto rilevato da Raboni; lo stralcio da lei citato fa parte di una sua lunga Nota critica (uscita in “Paragone”, dicembre 2001) su Azul, libro da me pubblicato quello stesso anno. Posso aggiunge questo: ogni poesia detta lo “stile” con cui essa dovrà essere scritta; non esiste a monte una modalità espressiva fissa e immutabile, perché le esperienze di vita da cui scaturisce un dato testo sono di per sé varie e perfino contraddittorie. Naturalmente resta, come dire?, il “tono” (in inglese si direbbe forse the voice) espressivo del poeta, che resta immutabile nel tempo. È quello che, in fondo, pur nella varietà contenutistica e formale dei testi, rende riconoscibile la voce di un vero poeta.


DOMANDA.
Quali saranno le sue scritture e attività future?

RISPOSTA.
Ho appena finito un romanzo (il secondo, dopo Hot Dog pubblicato circa vent’anni fa) che mi sono trascinato dietro per molto tempo e che sapevo in cuor mio che dovevo finire. Mi piacerebbe scrivere una serie di racconti sulla mia esperienza americana (sul genere “racconto” ammiro moltissimo Gianni Celati) e portare a termine alcuni lavori teatrali (uno di questi, Don Giovanni a New York è stato già rappresentato sia in Italia sia in America).


DOMANDA.
Vorrebbe dire qualcosa agli autori de larecherche.it?

RISPOSTA.
Non conoscevo, in tutta onestà, questa rivista, che è anzi più di una semplice rivista, perché la vedo come un forum attivo di idee, un forum libero da pregiudizi e da condizionamenti, aperto alle letterature. Mi sono accorto di questa totale libertà di giudizi e di scelte de “larecherche” quando una mattina di aprile entrando nella mia posta elettronica ho trovato una recensione in questo “forum” – recensione gradita quanto del tutto inaspettata –, fra l’altro una delle primissime, al mio libro Oblivion , che era uscito appena due mesi prima. Mi piace il fatto che questa “piazza” possa essere un luogo libero di letture/scritture/discussioni/ commenti di libri e fatti culturali; una discussione davvero indipendente che può servire, per uno scrittore (specialmente per un giovane autore alle prime esperienze), anche a confrontarsi e magari a migliorarsi. Non posso dunque che farvi i miei più sinceri auguri di crescita e di fermo mantenimento di questa vostra autonomia!


(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

*

- Intervista

Michela Duce Castellazzo



DOMANDA. Chi è Michela Duce Castellazzo?

RISPOSTA.
Una che ha imparato ad amare la vita e ad apprezzare se stessa soprattutto grazie alla scrittura.

DOMANDA. Quali sono le letture, i libri e gli autori che da sempre l’accompagnano?

RISPOSTA.
Montale, V. Woolf, Nietzsche, Dostoewskij, E. Dikinson; poi anche le letture in ambito psicologico e filosofico (J. Hillmann; P. Waztlawick; D. Demetrio).

DOMANDA. Quando ha iniziato a scrivere e perché?

RISPOSTA.
Le prime poesie risalgono al 1980; credo che il motivo scatenante, perlomeno all’epoca, fosse tentare di convertire il pessimismo e le energie negative che sentivo e per esorcizzare una radicale insofferenza nei confronti di me stessa.

DOMANDA. La conosciamo come scrittrice di poesia; su larecherche.it il suo ‘Ambliopìe’ è stato recensito e proposto come libro consigliato. Ci racconta la sua attività come scrittrice? Prima di Ambliopìe, pubblicato nel 2003 dalle Edizioni del Leone, ha fatto altre pubblicazioni? E dopo? Si è cimentata in altri generi oltre la poesia?

RISPOSTA.
Ambliopie è la mia prima pubblicazione, e per ora è anche l’unica. Prima del 2003 ho conseguito menzioni di merito e d’onore a vari concorsi nazionali di poesia e sono arrivata in finale al premio David di Carrara sempre in quell’anno. Nel frattempo, dal 1999 mi sono dedicata maggiormente alla prosa e fino ad oggi ho scritto 5 romanzi e una dozzina di racconti, di cui 9 contenuti nel mio primo romanzo, Terapia di gruppo.
All’attivo ho anche un saggio inedito su Nietzsche, che dovrebbe essere pubblicato prossimamente in una collana curata da Giorgio Barberi Squarotti che, tra l’altro, ha recensito in bozza tutti i miei romanzi inediti oltre a Paolo Ruffilli.

DOMANDA. Perché, ad un certo punto, ha deciso di pubblicare i suoi testi? Non bastava scriverli e leggerli a pochi intimi?

RISPOSTA.
Pubblicare credo sia un’ambizione legittima e forse anche necessaria, se la scrittura rappresenta un’autentica esigenza esistenziale. Chi sostiene di scrivere soltanto per se stesso forse non ha davvero bisogno di scrivere per vivere.

DOMANDA. Quando scrive che cosa la ispira? Scrive di getto? Rivede e corregge i suoi testi?

RISPOSTA.
Inizialmente m’ispiravano soprattutto le emozioni e i sentimenti forti, estremi, viscerali. In particolare quelli distruttivi, disgreganti e paralizzanti. Allora la scrittura diventava un po’ una medicina, cosa che comunque in parte è ancora adesso. Poi, quando ho deciso di provare a scrivere in prosa, ad ispirarmi è stata soprattutto la vita nei suoi aspetti meno evidenti: il senso mistico delle cose e la sua ricerca nel quotidiano; la complessità delle dinamiche relazionali fra le persone; il problema della costruzione dell’identità personale, dell’autenticità e delle scelte esistenziali.

DOMANDA. Per uno scrittore quale è la parte più importante da non sottovalutare, a suo avviso, nel “mestiere” dello scrivere?

RISPOSTA.
Il metodo e i mezzi utilizzati. Intendo con questo un insieme di cose quali: la regolarità nell’attività quotidiana; la curiosità; l’amore per la verità e per i particolari; il coraggio di raccontare proprio ciò che non conosciamo ma vorremmo scoprire, resistendo alla tentazione di manipolare i personaggi e la storia secondo i nostri schemi rassicuranti e ansiolitici.

DOMANDA. Che riscontri ha avuto dalla critica?

RISPOSTA.
Devo dire ottimi, sia per quanto riguarda la poesia che per la prosa. Come dicevo prima, nomi come Barberi Squarotti e Ruffilli hanno recensito in bozza i miei romanzi incoraggiandomi con entusiasmo a proseguire nel mio percorso. Gioanola, Depetro, Nisticò, Nanni e numerosi altri esperti altrettanto autorevoli, hanno dimostrato di apprezzare molto le mie poesie.

DOMANDA. Ha avuto difficoltà a trovare un editore che la pubblichi?

RISPOSTA.
Per quanto riguarda la poesia non direi. Paradossalmente, in questi anni ne ho avuti di più con la narrativa.

DOMANDA. Paolo Ruffilli, nella sua introduzione ad Ambliopìe, afferma: “…C’è molta sofferenza sotto questi versi, un allarmato e ferito rapporto con la realtà, il senso di una ‘inferiorità’ malinconica che cerca appagamento e sfogo nella scrittura …”, che cosa ci dice al riguardo?

RISPOSTA.
In realtà sono parole di Elio Gioanola, noto critico letterario d’ispirazione psicanalitica e mio professore all’Università di Genova. Credo di aver in parte già risposto più sopra. In ogni caso ribadisco che il senso di insufficienza esistenziale, almeno nel mio caso, è stata la molla principale che mi ha portato a ricercare risposte, equilibrio e serenità proprio nella scrittura.

DOMANDA. Ecco alcuni versi, dal suo Ambliopìe, che mi hanno incuriosito: “Come far emergere / le parole e i suoni / gli echi magici e le memorie sommerse / custoditi con tanta inutile gelosia? // […]”. Che cosa significano questi versi?

RISPOSTA.
Sono versi di una poesia composta molti anni fa. Riletti oggi, potrebbero riportare al mondo infinito che ciascuno di noi custodisce dentro di sé e di cui spesso non ha consapevolezza. Il riferimento non è soltanto al passato ricordato, dimenticato o rimosso che appartiene alla memoria di ogni uomo, ma anche – e ne sono più che convinta -, alle molte vite precedenti che abbiamo già vissuto e che costituiscono il nostro karma - o se si preferisce il nostro destino – , da cui possiamo imparare a diventare sempre di più quello che siamo, vale a dire noi stessi.

DOMANDA. Quali saranno le sue scritture e attività future?

RISPOSTA.
Come dicevo prima, ho appena terminato di scrivere il mio quinto romanzo. Appena avrò completato la revisione definitiva lo proporrò al mercato, in quanto ritengo che abbia maggiori possibilità di ottenere una proposta editoriale rispetto agli altri miei lavori precedenti.
Per il resto, sto portando in giro dei reading-concerto in collaborazione con un gruppo musicale di Lucca, che si chiama ‘Progetto in la minore’. Proponiamo uno spettacolo che prevede l’esecuzione di molti brani di De Andrè alternati a letture recitate di alcune poesie tratte da Ambliopie e altre inedite lette da me personalmente. E’ un progetto che trovo interessante sotto molti profili; non ultimo perché a mio avviso la poesia in particolare ha bisogno di essere letta, recitata e assaporata insieme alla musica; se poi questo avviene attraverso la viva voce di chi l’ha scritta, direi che è l’ideale.

DOMANDA. Vorrebbe dire qualcosa agli autori de larecherche.it che la leggono?

RISPOSTA.
Molto volentieri. Mi rivolgo a chi scrive: spesso si sente dire che per scrivere occorre leggere moltissimo. Io però vorrei lanciare una provocazione; a mio avviso s’impara a scrivere soprattutto scrivendo tanto e non lasciandosi scoraggiare da questo tipo di affermazioni. E’ chiaro che leggere molto aiuta, ma l’aiuto più efficace credo stia nella determinazione a continuare a scrivere nonostante i rifiuti, i silenzi e gli eventuali insuccessi, lasciando che sia proprio l’incessante desiderio di comprendere la nostra vita attraverso la scrittura ad insegnarci come fare e come perfezionare il nostro modo di farlo.


(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

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- Intervista

Dante Maffia

DOMANDA. Come si presenterebbe a persone che non la conoscono? Chi è Dante Maffia?

RISPOSTA.
Mi presenterei con un sorriso, guardando le persone negli occhi. Ma credo che lei voglia sapere che cosa direi sul mio essere scrittore. Ecco, dunque. Leggete qualcosa di mio, senza pregiudizi. Io nelle parole cerco di mettere il cuore. Se leggerete con attenzione e con complicità vi accorgerete che sono un grande poeta, un ottimo narratore. Lo direi senza presunzione, ma con la coscienza di chi si conosce e vuole distrarre gli interlocutori dall’ indifferenza.

DOMANDA. E’ indubbio, si evince guardando la sua bibliografia, che lei sia uno scrittore. Come ha iniziato a scrivere? In che occasione ha pensato per la prima volta di essere uno scrittore?

RISPOSTA.
Ho iniziato a scrivere fin da quando ero ragazzo. Piccoli componimenti in rima baciata. È stato un fatto naturale. A un certo punto ci si trova dentro senza accorgersene.

DOMANDA. Come è avvenuto che figure del calibro di Aldo Palazzeschi, Leonardo Sciascia e Dario Bellezza l’abbiano conosciuta e ritenuto uno dei più importanti poeti italiani?

RISPOSTA.
Aggiungerei anche i nomi di Claudio Magris, di Giuseppe Pontiggia, di Rafael Alberti, di Dacia Maraini, di Alberto Bevilacqua, di Giacinto Spagnoletti, di Tullio De Mauro, di Mario Sansone, di Nelo Risi, di Mario Luzi, di Giorgio Caproni, di Sergio Givone, di Remo Bodei,eccetera. Si tratta di scrittori che hanno una coscienza vera della funzione della scrittura, che quando hanno visto o vedono chi lavora seriamente lo dicono senza mezzi termini, non favoriscono, come si fa adesso per lo più, soltanto i “compari”.
La conoscenza con Palazzeschi è avvenuta perché l’ho cercato appena arrivato a Roma per frequentare l’Università. Era uno degli scrittori a cui guardavo da giovane. All’Università ho conosciuto Dario Bellezza che si iscrisse soltanto, senza concludere nulla. Sciascia, se non ricordo male, lo vidi la prima volta alla Libreria Rizzoli di Via Veneto (forse con Carlo Arturo Jemolo e con Diego Valeri) che adesso non esiste più. Poi le visite, gli scambi di lettere, gli incontri… le letture dei testi. Nulla di straordinario. Alla fine ci si incontrava anche senza volerlo, alla Libreria Croce di Corso Vittrorio Emanuele, nella sede di “Paese Sera”, a presentazioni di libri, a convegni, alla Feltrinelli di Via del Babuino.

DOMANDA. Chi sono i suoi maestri nella scrittura? Che cosa caratterizza la sua scrittura poetica rispetto ai poeti suoi contemporanei? Quali sono il filo conduttore e l’aria ispiratrice che fin dai primi versi l’accompagnano?

RISPOSTA.
I primi maestri sono stati mia madre, una vecchia del mio paese di nascita che intratteneva me e altri per ore e ore inventando storie infinite, un lontano zio che mi raccontava della prima guerra mondiale e un pecoraio che alla sera tornava al paese e ci portava il latte a casa. Questi mi raccontava le sue sensazioni, i sogni che faceva mentre la greggia pascolava. Poi ci sono stati libri fondamentali come Le mille e una notte, I Miserabili, La luce che si spense, Kim, per parlare delle prime letture. Più tardi ho scoperto Apuleio, Cervantes, Sterne, Rabelais e poi i russi (Gogol, Sologub, Cecov, Turgenev, Tolstoi), i latino americani (Scorza, Juan Rulfo, Borges) i giapponesi (Kobo Abe, Mishima, Soseki, Tanizaki, Kawabata) e Musil, Kafka, Lorca, Singer, Canetti… Ma non ho avuto mai maestri in senso totale; di ognuno ho preso ciò che mi coinvolgeva, mi illuminava, mi apriva la mente e il cuore, mi dava sostanza nuova. Man mano gli orizzonti si sono dilatati e a un certo punto sono arrivato alle generazioni di poeti e narratori italiani che mi hanno preceduto, con cui mi sono confrontato in maniera diretta. Dovessi fare dei nomi direi Saba, Quasimodo, Cardarelli, Sinisgalli, per la poesia, e Cassola, Berto, Bassani, Landolfi, Levi, Alvaro per la narrativa.
Che cosa caratterizza la mia scrittura poetica rispetto ai miei contemporanei? La chiarezza del dettato, la necessità della scrittura. Tranne qualcuno, adesso i miei contemporanei scrivono senza sentire, senza necessità, quella necessità rilkiana che fa morire se non ci si esprime.
Mi accompagna la vita, in tutte le sue espressioni, e mi accompagnano le radici che io metto sullo sfondo delle opere e da cui traggo alimento attualizzando le esperienze. Non esiste nessuna attualità, nessuna novità o rinnovamento senza il peso del passato, che naturalmente bisogna tenere a debita distanza e deve soltanto illuminare la coscienza del presente.

DOMANDA. Come avviene il processo di scrittura? Lei scrive di getto oppure rivede i suoi testi, sia nella forma che nei contenuti?

RISPOSTA.
Scrivo di getto, ma poi ritorno per mesi o anni sulla scrittura. Le macerazioni sono lente e lunghe, ma poi fioriscono celermente e nonostante le macerazioni, poi sento il bisogno di affinare, di approfondire. Pensi che qualche volta i versi, ma non solo i versi, arrivano ad affermate il contrario di ciò che hanno affermato alla partenza. Lavoro soprattutto nel togliere. Le parole non devono sprecarsi.

DOMANDA. Nel suo libro “Al macero dell’invisibile”, edito da Passigli, afferma “…s’approssima il tempo della tautologia…”, che cosa intende di preciso? Forse anche nella poesia si corre il rischio che tutto sia già stato detto?

RISPOSTA.
Sì, soprattutto per i superficiali, poeti e lettori, che credono che la poesia sia una qualsiasi notizia di giornale, senza alone di nessun genere. La ripetizione reiterata può diventare ossessione e l’ossessione ridursi a rintocchi funebri in cui si salmodia del vuoto. Ci sono troppi poeti accreditati oggi che non dicono nulla, che ripetono il bla bla televisivo e scimmiottano il vuoto e il niente o la precarietà della cronaca. Non è scimmiottando il vuoto e il nulla che si ottiene poesia, ma facendo toccare con mano il segno del nostro tempo vuoto e misero. La poesia non è una imitazione, ma una creazione, una innovazione dell’essere e quindi del linguaggio.

DOMANDA. Lei afferma, in una sua poesia, che “[…] // La poesia è una baraccopoli / nella quale cadono le stelle / e nessuno ci fa caso.” Che cosa intende dire?

RISPOSTA.
Più o meno quel che ho detto prima. Che si sta abbassando talmente il tono della poesia e la si sta riducendo a gioco effimero, o tutt’al più a battuta da cabaret; che si è arrivati al punto che non ci si accorge dei miracoli che ogni giorno accadono: il sole che nasce, per esempio.

DOMANDA. Da alcuni testi poetici si ravvisa la sua totale avversità alla guerra, è un tema che l’ha toccata in qualche modo in prima persona?

RISPOSTA.
Forse sono i racconti di quello zio che mi sono rimasti dentro. Io ero ragazzo e sentire che il Tagliamento una mattina era diventato rosso di sangue, mi ha troppo ferito… forse alcuni libri che mi hanno fatto toccare con mano la devastazione dell’uomo, a cominciare dal Diario di Anna Frank e finire a Se questo è un uomo di Primo Levi… Qualsiasi forma di violenza la trovo aberrante e anche inutile, ripeto, inutile! Figuriamoci le guerre.

DOMANDA. Quest’anno, per Mursia, ha pubblicato “Il poeta e lo spazzino”. Il libro è una raccolta di brevi racconti che ha per protagonisti gli uomini dell’Ama: gli spazzini – od operatori ecologici, o netturbini – di Roma. Leggo, dalla prefazione di Walter Veltroni: “Dai cassonetti emerge il mosaico di un’umanità amara e fragile persa nella frenesia di ciò che consuma, ma ancora capace di sogni, di emozioni”. Ce ne parla? Come è avvenuta la scrittura di questo libro, è forse dai personaggi che racconta e dai luoghi popolari dove vivono che nasce la necessità dei sogni più alti? Sembra che lei prenda le distanze dai palazzi, dalle ricchezze, dalle scelte gravi della politica e delle intellettualità, dove il passato sembra ripetersi in una noia mortale e priva di novità.

RISPOSTA.
La sua conclusione è molto vera. Da giovane ho fatto politica: era un rincorrersi di menzogne e di compromessi, anche tra persone che avevano senso civico ed etico. Tutto si guasta quando bisogna progettare il futuro degli altri e succedono cose troppo brutte, addirittura che sfuggono di mano.
Il poeta e lo spazzino è nato in seguito ad esperienze fatte proprio con alcuni spazzini di Roma, burloni, giocosi, ironici. Poi è bastato che mi guardassi attorno per scoprire che il mondo non ha una sola faccia e un solo cuore.

DOMANDA. Lei collabora a varie riviste e per anni ha curato la rassegna dei libri per RAI2, quali sono gli spazi dedicati, in questi luoghi “istituzionali”, agli autori poco conosciuti e all’editoria piccola e media?

RISPOSTA.
Purtroppo gli spazi dedicati all’editoria piccola e media sono residuali. Ci si occupa dei libri delle grandi case editrici non per scelta dei redattori o dei direttori, ma perché altrimenti le grandi case editrici non danno più la pubblicità. Solo se c’è in atto uno scoop allora si mettono in moto le forze malefiche della notizia. Le edizioni Lepisma hanno pubblicato le poesie di Maria Marchesi che nel 2004 ha vinto il “Premio Viareggio”e hanno pubblicato un libro di Tommaso Pignatelli in dialetto napoletano. Si è detto che Pignatelli forse potrebbe essere il Presidente della Repubblica. Allora a quel punto tutte le testate hanno scritto di Pignatelli; e della Marchesi perché aveva vinto un premio così prestigioso e prima non aveva mai edito un solo verso.

DOMANDA. Quali sono le sue letture preferite? C’è un autore che reputa il suo preferito?

RISPOSTA. Ho già fatto alcuni nomi. Comunque anni fa, preso dalla furia delle continue letture, non avrei mai fatto un unico nome. Ho detto che di ogni scrittore mi piace qualcosa.. Ogni autore dà sempre qualcosa di utile. Ma oggi direi senza ombra di dubbio Elias Canetti. Sono arrivato a questa conclusione dopo essermi posto questa domanda: “Sarei in grado oggi di scrivere un libro come Lo straniero di Camus? come Shosha di Singer, come La morte di Virgilio di Broch, come I racconti di Dublino di Joyce? Si badi che sono stati libri a cui mi sono abbeverato. E ho risposto che sì, sarei in grado. Poi ho aggiunto se sarei in grado di scrivere Auto da fe’ di Canetti. Mi sono sentito perduto. Per me questo libro è in prosa quello che è la Commedia di Dante in poesia.

DOMANDA. Nella sua veste di scrittore che consiglio darebbe a chi scrive su larecherche.it, condividendo online i propri testi, in relazione allo scrivere? E come lettore?

RISPOSTA.
I consigli sono sempre pericolosi e fedigrafi, direbbe Machiavelli, ma credo di non potermi sottrarre alla domanda. Dico quindi che la libertà portata dal computer è un bene immenso. Finalmente può avvenire la conoscenza e a costo irrilevante. Lei pensi che durante gli anni di Stalin non erano permessi neppure a tutti gli elenchi telefonici in URSS. Perciò mi piace che uno apra la sua “scatoletta” e ci trovi il mondo e se lo ritagli a proprio piacimento. Non ci sono più ostacoli e dunque trovo importante poter scambiare, senza che si venga travisati, i propri testi. C’è il rischio che senza filtri di nessun genere si finisca per avere online una marea indistinta di versi e quindi impossibile da arginare e da scegliere. Ma ormai i filtri non esistono neanche più nelle case editrici, non esistono più né Pavese, né Calvino, né Niccolò Gallo, né Giuseppe Ravegnani, né Vittorio Sereni, né Giacinto Spagnoletti, né Giancarlo Vigorelli che hanno fatto grande il secolo della poesia italiana con le loro scelte. E allora ben venga lo tsunami. Chi avrà la giusta educazione per recepire il bello e il buono si salverà. Il resto annegherà nel mare uniforme delle pretese e dell’aridità. Ma credo che larecherche.it non si abbandoni al tutto e sappia arginare.
Come lettore sono pessimo. Sono troppo abituato alla carta stampata. È una emozione sentirne la consistenza, l’odore. Io appartengo alla zoologia dell’analogico e non del digitale, anche se del digitale ne vedo e ne constato tutti i benefici.

DOMANDA. Molte persone si dilettano a scrivere testi di narrativa e poesia e vi sono case editrici che, approfittando del desiderio di molti di vedere stampate le proprie opere, pubblicano qualunque testo dietro compenso. Che cosa ne pensa di questo atteggiamento? Secondo lei è necessario arrivare alla pubblicazione su carta stampata per essere annoverati tra gli scrittori?

RISPOSTA.
Essere annoverato tra gli scrittori è un desiderio che chi ce l’ha se lo gode e opera in quella direzione come può. Il problema non è di essere annoverato o meno. E non c’entra la carta stampata o il computer. Ognuno ha diritto di tendere alla propria realizzazione, con tutti i mezzi leciti. Se poi sia uno scrittore perché ha pubblicato, non so. Uno scrittore dovrebbe incidere con le sue parole sul cuore e sulle menti dell’uomo e restare un punto fermo anche dopo il suo tempo. Ma tenga presente che enciclopedie importanti non registrano neppure il nome di alcune prestigiose firme e le case editrici che dovrebbero avere il compito non solo di fare soldi (parlo delle grandi case editrici), ma anche di proteggere il patrimonio intellettuale, culturale e poetico, lasciano nel dimenticatoio opere e autori che ancora potrebbero dire la loro. Ormai sono troppi gli autori importanti che non esistono. Il nostro tempo va verso la smemoria, come disse qualcuno, e senza memoria il baratro è già apparecchiato…

DOMANDA. Dopo “Il poeta e lo spazzino” che cosa aspettiamo? Poesia o narrativa? Che progetti ha?

RISPOSTA.
Non scrivo poesie (se si escludono due brevissimi testi dell’agosto 2007) dal febbraio del 2004. Una scelta per vari motivi, primo fra tutti quello di arginare e di punire un po’ la mia vena naturale. Ma ho raccolto le poesie trovate (davvero trovate per caso in mezzo a libri e carte varie) a cominciare da quando avevo sedici anni circa. Sono molti testi. Molti altri li ho eliminati. Ci sto lavorando da più di due anni, in maniera maniacale, cercando di puntare all’essenziale. Li pubblicherò come ultima opera di poesia.
Invece in narrativa sono in ebollizione. Ho centinaia di racconti e almeno tre o quattro romanzi nel cassetto. Anche su questi però bisogna che lavori col bulino e con la pazienza del certosino. E poi mi piacerebbe raccogliere le centinaia di pagine (elzeviri, saggi, profili, recensioni) dedicate alla Calabria e ai calabresi, oltre a pubblicare almeno due o tre grossi volumi che raccolgono saggi, recensioni e relazioni ai convegni riguardanti autori come De Sanctis, Carcano, Capuana, Tasso, Campanella, Isabella Morra, Deledda, Goldoni… Chissà… forse resterà tutto nel cassetto o forse avrò una esplosione. Non ho fretta, ormai credo che il tempo non esista e ne sono felice.


Il sito ufficiale di Dante Maffia è www.dantemaffia.com

(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

*

- Intervista

Giuseppe Conte

DOMANDA.
Leggendo sul suo sito personale la sua biografia c’è da spaventarsi per la “potenza culturale-letteraria” che traspare, sviluppata fin dalla giovane età e nel corso degli anni assestata con azzeccate scelte (invitiamo i lettori a dare una sbirciata al sito personale di Giuseppe Conte: www.giuseppecontewriter.com). Nonostante questo, leggendo il suo libro di poesie, “Ferite e rifioriture”, si percepisce un poeta semplice e snello, oseremmo dire pratico, con un forte senso dello humor, nonostante la serietà dei testi proposti e delle tematiche trattate, per fortuna abbiamo letto la sua biografia soltanto dopo la lettura dei suoi testi... Che cosa rimane di quel ragazzo che scrive in inglese un diario umoristico che poi dona ai suoi padroni di casa dopo la scuola estiva di inglese a Bath?

RISPOSTA. Scusatemi, ma perché fa paura la cultura e la complessità, e soprattutto perché viene intesa come volontà di potenza e non come desiderio di conoscenza? Nel mio caso, assicuro che cultura e passione di conoscenza coincidono. Sono affamato di sapere, mi pongo ogni giorno domande e cerco risposte possibili. Mi piace fare sul serio, prendere le cose di petto, considero l’endemica mancanza di serietà una delle piaghe che affligge la cultura e la società italiana da secoli. Nella mia vita privata poi, da quando ero ragazzo a oggi –in realtà mi sento sempre ragazzo- ho sviluppato humour e gusto del ridere più di tanti, certo più di tanti comici (molti di quelli che ho conosciuto nella vita sono ometti sussiegosi e tristi) e di tanti autori che puntano su sberleffo, parodia, dissacrazione e simili cazzate.

DOMANDA.
Dal 1964 al 1968, cito dal suo sito, “abbandona ogni pratica religiosa, pur restando legato a una visione religiosa delle cose”. La sua visione religiosa delle cose si percepisce sia nella raccolta sopra citata sia nel suo ultimo romanzo “L’adultera”, perché ha scelto di dare voce all’adultera del Vangelo secondo Giovanni? La domanda banale che nasce è in quale percentuale la voce dell’adultera è la voce di Conte che vive la sua prima esperienza sessuale a diciassette anni (così come scritto nella sua biografia), in un periodo storico in cui la libertà cosiddetta sessuale risultava essere ancora non pienamente espressa?

RISPOSTA. La mia religiosità, dopo un periodo giovanile di materialismo assoluto, è nata dal senso del mistero e dal rispetto della sacralità dell’universo. Mi sono riavvicinato al Cristianesimo per scrivere L’adultera, ma nel libro c’è anche la religiosità stoica di Seneca, per esempio. L’adultera del romanzo non sono io, non sono così flaubertiano (vi ricordate, quello di Madame Bovary c’est moi). L’adultera è un archetipo che io metto in scena in carne e ossa, vorrei che fossero le lettrici e i lettori a immedesimarsi nel personaggio. Ricevo molti messaggi soprattutto di lettrici che scrivono di avere “divorato” il libro. E’ il verbo che preferisco, una specie di comunione fisica tra chi legge e la pagina.

DOMANDA.
Sempre riguardo “L’Adultera” come mai ha scelto di farla ricadere nel peccato, voleva forse additare le continue cadute dell’umanità apparentemente indifferente al messaggio di Cristo?

RISPOSTA. La storia della mia adultera è quella di una redenzione impossibile. La donna insegue le proprie passioni e afferma la sua libertà anche nei suoi errori. Nondimeno cerca se stessa e la sua verità, soprattutto dopo l’incontro decisivo con il Maestro, che afferma una nuova legge fatta di pietà, mitezza e perdono.


DOMANDA.
Prendo dal suo sito: “Nel 1979, esce ‘L’ultimo aprile bianco’. E’ una raccolta di versi dove affiorano i temi del mito e della natura, che viene accolta con molto interesse e favore. Il giovane poeta apocalittico e lawrenciano, che scrive per distruggere le città dell’Occidente, si vede accettato e si impone di colpo come una delle voci del rinnovamento della poesia italiana. Naturalmente questo gli attira molti odi, che continuano e di cui lui si stupisce ancora ora”. In che cosa consistette tale rinnovamento? Perché attirò tanti odi? Un poeta può essere odiato? A che cosa si riferisce?

RISPOSTA. La poesia, attenzione, vive in sé ma anche nella storia della cultura, non è innocente esternazione o dolente esibizionismo dell’ego. Storicamente, quando io ho pubblicato le mie prime cose, il mondo della letteratura era dominato da poetiche nichiliste, tese alla parodia, alla negazione, alla dissoluzione, oppure dall’impegno dogmatico e coercitivo del dopo Sessantotto. Io , che venivo da esperienze d’avanguardia e che nel Sessantotto ero alla Statale di Milano, epicentro del Movimento, mi ribellai in nome della creazione poetica a tutto ciò. Per me la poesia doveva riprendere ad avere sintassi, metafore, simboli, passioni, eros, doveva riavvicinarsi alla natura e al mito, al sacro, all’anima, al destino. Il mito. Ce n’era abbastanza per farsi odiare per generazioni. Se un poeta può essere odiato? Chiedetelo alla memoria di Pasolini. E John Keats non morì per gli attacchi odiosi a cui fu sottoposto?

DOMANDA.
Nel 1994 promuove, a Firenze, l’occupazione pacifica della Chiesa di Santa Croce, dove un gruppo di poeti italiani leggerà “I Sepolcri” davanti alla tomba del Foscolo e verrà lanciato un programma per ridare vigore sociale e spirituale alla poesia contro una società che sta dimenticandola. Oggi lo rifarebbe? La poesia adesso è uscita dal dimenticatoio?

RISPOSTA. Certe cose si fanno una sola volta nella vita. Avevo 49 anni. Fu l’ultimo (?) colpo di giovinezza. Come ci siamo divertiti, alla fine. E che adesioni arrivarono, Ferlinghetti da San Francisco, Gao Xingjian (il futuro premio Nobel cinese, mio caro amico) da Parigi, Luzi non era a Firenze e mandò una bella lettera. Chi non capì quell’azione era vecchio. Stantio, novecentesco, pavido, rassegnato. Fu l’ultima volta che di poesia di parlò sui media. Oggi c’è un cono d’ombra su tutto ciò che riguarda la poesia.

DOMANDA.
Secondo lei la letteratura italiana è libera di esprimersi? C’è possibilità di visibilità per nuovi autori? Che cosa pensa dell’editoria italiana? Lei ha rapporti con scrittori esteri ed è tradotto in altre lingue, c’è differenza tra il leitmotiv delle case editrici italiane e quelle straniere?

RISPOSTA. Ci sono molti nuovi autori, c’è un giallista per ogni vallata, una densità di autori di thriller e noir più fitta di un banco di acciughe, un casino di blogger, diaristi, cabarettisti ecc. Solo che la libertà di esprimersi non è di per sé letteratura. Ma io sono contento che tutti scrivano. Qualcosa verrà fuori e di tutto quello che verrà fuori, qualcosa, poco, pochissimo, ma resterà. Dell’editoria ho imparato a pensare che fa quello che può fare. All’estero è lo stesso. Solo, in certi paesi allo status sociale dello scrittore è annesso più prestigio che in Italia, e si fa di più per difendere la propria lingua e la propria tradizione.

DOMANDA.
Riceviamo spesso richieste, da autori e frequentatori de La Recherche, di consigli sulla strada da intraprendere al fine di pubblicare i propri testi e ottenere una certa visibilità, a quali case editrici rivolgersi. Lei che consiglio darebbe a coloro che volessero tentare la strada della pubblicazione cartacea dei propri testi? Sappiamo che nel 1975 pubblica a sue spese (100.000 lire di allora) per le edizioni di Altri Termini di Franco Cavallo una plaquette intitolata “Il processo di comunicazione secondo Sade”. Come fare a capire se una casa editrice che pubblica a pagamento dice il vero sulla qualità dei testi?

RISPOSTA. Quando pubblicai la mia prima plaquette, ora ristampata da Pequod con una bella introduzione storica di Francesco Napoli, la pubblicai presso una casa editrice che era in realtà una costola di una rivista impegnata come Altri Termini di cui ero anche redattore. La garanzia culturale era quella. Oggi è impensabile il fervore e la passione che noi profondevamo allora nelle riviste, dove abbiamo fatto l’apprendistato letterario. Consigli: crederci, insistere, sacrificarsi se solo senti di non poterne fare a meno, se no è meglio fare altro. Alla fine un editore arriva.

DOMANDA.
Lei ha avuto qualcuno, nel suo percorso di scrittore, che l’ha aiutata ad affermarsi, sia nel lavoro sui testi, con un confronto di revisione di forma e contenuti, sia nella ricerca di riviste ed editori adatti ai suoi testi?

RISPOSTA. Ho avuto la fortuna di incontrare sulla mia strada critici e scrittori come Pietro Citati e Italo Calvino, i primi che mi hanno davvero aiutato. Poi editor come Luciano De Maria alla Mondadori e Edmondo Aroldi alla Rizzoli. Infine un editore immenso come Mario Spagnol, alla Longanesi. A tutti loro devo molto.


DOMANDA. Molto probabilmente lei riceve dozzine di libri con richieste di recensioni, come si comporta? Li legge? Risponde agli autori? Dà consigli? Ha mai aiutato qualcuno ad emergere?

RISPOSTA.
Le recensioni è giusto che le chiedano i giornali. Ne scrivo di classici e di grandi temi, raramente di contemporanei. Ricevo moltissimi libri e manoscritti. Cerco di rispondere a tutti sin dove è possibile, alle volta in lunghi periodi di assenza da casa la posta si accumula, ed è difficile recuperare. Rispondendo, mando una mia impressione di lettura.


DOMANDA. Quali sono i suoi progetti futuri, scriverà altri romanzi o proseguirà con la poesia? Quale dei due generi le dà maggior soddisfazione?

RISPOSTA.
Ho molti progetti, ma ancora da precisare. Io non distinguo tra poesia e prosa, che trovano un loro fattore unificante nella ispirazione e nella visione del mondo. Sì, questa è la mia follia e mia sincerità : io credo che un autore tragga il diritto maggiore a scrivere quando ha da far avanzare una visione del mondo. Una grande utopia disperata. Una speranza infinita di luce. Per me è così, perdonatemi.


Il sito ufficiale di Giuseppe Conte è www.giuseppeconte.eu

(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

*

- Intervista

Paolo Ruffilli

DOMANDA.
Come si presenterebbe a persone che non la conoscono? Chi è Paolo Ruffilli?

RISPOSTA. Un cercatore.

DOMANDA.
Lei è un poeta, chi è stato a dirglielo?

RISPOSTA. Eugenio Montale, nel 1978, recensendo il secondo mio libro. Riconosceva una mia “traiettoria sghemba” rispetto alla tradizione e, in quella, indicava la mia originalità e la mia vocazione, scommettendoci.

DOMANDA.
Che cosa caratterizza la sua scrittura? Quali sono il filo conduttore e l’aria ispiratrice che fin dai primi versi degli anni Settanta l’accompagnano?

RISPOSTA. La critica ha parlato di incisività, leggerezza, poesia di pensiero, immaginazione, a partire dall’autobiografia ma senza fare autobiografismo, alla ricerca delle ragioni profonde della vita e del suo mistero. Sono indicazioni in cui mi riconosco, come pure per la definizione data da Luigi Baldacci che la mia è una “vocazione alla pura partitura musicale”. In effetti, per me in poesia la musica è tutto.

DOMANDA.
Come avviene il processo di scrittura? Lei scrive di getto oppure rivede i suoi testi, sia nella forma che nei contenuti? Come ottiene la notevole musicalità dei suoi componimenti?

RISPOSTA. A trascinarmi è sempre un’ossessione profonda da cui mi lascio guidare, trascrivendo quello che mi gira per la testa. Poi, ci torno sopra, a più riprese e nel tempo. Rileggo a voce alta centinaia di volte, finché l’orecchio non mi dice che la musica funziona.

DOMANDA.
Quest’anno ha pubblicato, per Marsilio, la raccolta poetica “Le stanze del cielo”, dall’ultima del 2001, “La gioia e il lutto”, sono passati sette anni, come mai tanto tempo? Nel frattempo, nel 2003, ha pubblicato il libro di narrativa “Preparativi per la partenza”, ci racconta le vicende che uno scrittore deve affrontare negli intervalli che intercorrono tra una pubblicazione e l’altra?

RISPOSTA. Pubblico raramente, a distanza di anni, quello che scrivo (che, dunque, rimane molto tempo nei cassetti a stagionare). Ma scrivo di continuo, lavorando contemporaneamente a cose diverse: narrativa e poesia. Scrivo perciò cose nuove che finiscono nel cassetto e ne tiro fuori di vecchie da rileggere e rivedere. Continuamente. Per me, la letteratura è sempre una prova di scrittura. Senza la scrittura non c’è letteratura. Come può immaginare, non apprezzo perciò la politica dei nostri editori che privilegiano gli “scriventi” e gli “scrivani” rispetto agli scrittori. Ci vogliono anni per scrivere un libro appena discreto…

DOMANDA.
Ci parla del suo ultimo libro “Le stanze del cielo”? Come è nato? Su questo stesso sito è stato recensito e consigliato agli autori/lettori che vogliano leggere poesia attenta a tematiche socialmente rilevanti come la profonda crisi esistenziale che attanaglia la vita di un detenuto e la piaga della droga; lei, in qualche modo, ha avuto possibilità di avvicinare questi due mondi oppure ha lavorato di pura invenzione e informazione?

RISPOSTA. “Le stanze del cielo” è nato come gli altri miei libri, dietro a un’ossessione profonda: quella della perdita della libertà. Non serve finire in prigione o nel laccio della droga per accorgersi di come non siamo veramente liberi… Ma, spesso, ce ne accorgiamo solo in queste situazioni estreme. Per me la poesia è sempre metafora: si dice una cosa per intenderne un’altra. Il libro è appunto la metafora della libertà che perdiamo continuamente, imponendoci catene e vincoli che ci impediscono di essere liberi. Per il resto, c’è naturalmente l’esperienza della mia vita: il fatto che ho avuto amici caduti nella tirannia della droga e con problemi anche di carcerazione. Ma per me scrivere è usare sempre l’immaginazione. Se non posso immaginare, non scrivo. Perché la così detta realtà è sempre al di là di quello che chiamiamo “realismo”. Se non usi l’immaginazione, non arrivi al cuore e ti fermi all’abbaglio dell’evidenza.

DOMANDA.
Perché tanti lettori trovano difficile la poesia? Che cosa ne pensa? Quale è la responsabilità dei poeti, quale quella degli editori, quale quella dei lettori?

RISPOSTA. La poesia è una pratica esoterica, cioè di ricerca profonda dell’identità. Dunque, non è divagazione o intrattenimento, cioè non è consumo. In questo senso, non è “facile” e tuttavia non è affatto vero che sia difficile. La poesia pretende un’adesione totale, cioè una scelta di campo, fatta la quale tutto diventa necessario e sufficiente. Se uno è spinto autenticamente a ricercare, non si ferma dinanzi a niente.

DOMANDA.
Lei è consulente editoriale e dirige la collana di poesia delle Edizioni del Leone di Venezia, quindi riceverà in visione molti testi, quali sono i criteri che utilizza per “valutare” se una raccolta di poesie è pubblicabile o meno? Dà indicazioni per la revisione dei testi?

RISPOSTA. Il primo criterio è quello dell’autenticità. E’ autentico ciò che era necessario da scrivere per l’autore. Questo si capisce al volo leggendo. Poi, naturalmente, dentro l’autenticità ci sono vari gradi di qualità letteraria. Il massimo di qualità letteraria è il massimo di originalità creativa personale, cioè la libertà più assoluta dagli schemi e dagli stereotipi anche letterari. Le indicazioni sono sempre generali, perché è l’autore che deve scegliere le soluzioni espressive.

DOMANDA.
In tutta libertà e sincerità che cosa pensa di siti, quali larecherche.it, che danno la possibilità di pubblicare testi online ad autori altrimenti sconosciuti?

RISPOSTA. Sono un’occasione sempre importante, appunto di ricerca, indipendentemente dai limiti e dalle contraddizioni che caratterizzano comunque i siti, come pure del resto le riviste cartacee, i premi e le altre iniziative relative alla scrittura.

DOMANDA.
C’è qualche cosa che vorrebbe dire agli autori/lettori che frequentano larecherche.it?

RISPOSTA. La cosa importante da capire, relativamente al proprio scrivere, è perché si scrive. Se si scrive per vendere quello che si scrive, si entra nella logica del mercato (delle mode, dei generi di consumo, dell’intrattenimento…) e si punta, consapevolmente o no, all’idea dello scrittore professionale. Niente di male, si intende. Ma chi cerca se stesso non fa della propria scrittura una professione. La ricerca non scende a compromessi con la logica del mercato. L’importante è sapere cosa si vuol fare.


Il sito ufficiale di Paolo Ruffilli è www.paoloruffilli.it

(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

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- Intervista

Marcel Proust

Due questionari di Marcel Proust

Al giovane Marcel fu chiesto di riempire dei questionari durante due eventi mondani: una volta quando aveva tredici anni, durante la festa di compleanno di Antoinette Felix-Faure, e l’altra quando ne aveva venti.

A tredici anni...

LA TUA VIRTÙ PREFERITA. Tutte quelle che non appartengono in particolare ad una setta, quelle universali.
LA QUALITÀ CHE PREDILIGI IN UN UOMO. L'intelligenza, il senso morale.
LA QUALITÀ CHE PREDILIGI IN UNA DONNA. La dolcezza, la spontaneità, l'intelligenza.
LA TUA OCCUPAZIONE PREFERITA. La lettura, la fantasticheria, i versi, la storia, il teatro.
LA TUA CARATTERISTICA PRINCIPALE. …
IL TUO IDEALE DI FELICITÀ. Vivere accanto a tutti quelli che amo in mezzo all'incanto della natura, con una quantità di libri e di spartiti, e non lontano da un teatro francese.
LA TUA IDEA DI “MISERY”. Essere separato dalla mamma.
I TUOI COLORI E FIORI PREFERITI. Mi piacciono tutti e, quanto ai fiori, non lo so.
CHI AVRESTI VOLUTO ESSERE, OLTRE TE STESSO. Non dovendomi porre il problema, preferisco non risolverlo. Però mi sarebbe molto piaciuto essere Plinio il Giovane.
DOVE VORRESTI VIVERE? Nel paese dell'ideale, o meglio, del mio ideale.
IL TUO AUTORE DI PROSA PREFERITO. George Sand, Aug. Thierry.
IL TUO POETA PREFERITO. Musset.
IL TUO PITTORE PREFERITO, E COMPOSITORE. Meissonnier, Mozart, Gounod.
IL TUO EROE NELLA VITA REALE. Una via di mezzo tra Socrate, Pericle, Maometto, Musset, Plinio il Giovane, Aug. Thierry.
LA TUA EROINA NELLA VITA REALE. Una donna di genio che conduca l'esistenza di una donna comune.
IL TUO EROE PREFERITO NELL’INVENZIONE LETTERARIA. Gli eroi romanzeschi, poetici, quelli che sono più un ideale che un modello.
LA TUA EROINA NELL’INVENZIONE LETTERARIA. Quelle che sono più che donne senza uscire dal loro sesso, tutto quello che è tenero, poetico, puro, bello in tutti i generi.
IL TUO CIBO E LA TUA BEVANDA PREFERITA. …
I NOMI CHE PREFERISCI. …
COSA NON SOPPORTI. Le persone che non hanno il senso del bene, che ignorano le dolcezze dell'affetto.
QUALE PERSONAGGIO DELLA STORIA AMI DI MENO. …
QUAL È LO STATO ATTUALE DI TUOI PENSIERI. ….
PER QUALE MANCANZA SENTI MAGGIORE INDULGENZA. Per la vita privata dei geni.
IL TUO MOTTO. Uno che non si può riassumere perché la sua più semplice espressione è quel che c'è di bello, di buono, di grande nella natura.

A venti anni...

IL TRATTO PRINCIPALE DEL MIO CARATTERE. Il bisogno di essere amato e, più precisamente, il bisogno di essere vezzeggiato e viziato ben più che di essere ammirato.
LA QUALITÀ CHE DESIDERO IN UN UOMO. Qualche tratto di fascino femminile.
LA QUALITÀ CHE PREFERISCO IN UNA DONNA. Qualche virtù da
uomo e la franchezza nel cameratismo. .
QUEL CHE APPREZZO DI PIÙ NEI MIEI AMICI. Che siano teneri verso di me, se la loro persona è abbastanza delicata da attribuire un gran valore alla loro tenerezza.
IL MIO PRINCIPALE DIFETTO. Non sapere, non poter «volere». La mia occupazione preferita. Amare.
IL MIO SOGNO DI FELICITÀ. Ho paura che non sia abbastanza elevato, e ho paura di distruggerlo dicendolo.
QUALE SAREBBE, PER ME, LA PIÙ GRANDE DISGRAZIA. Non aver conosciuto né mia madre né mia nonna.
QUEL CHE VORREI ESSERE. Me stesso, quale mi vorrebbero le persone che ammiro.
IL PAESE DOVE VORREI VIVERE. Quello in cui certe cose che vorrei si realizzerebbero come per incanto e in cui la tenerezza fosse sempre corrisposta.
IL COLORE CHE PREFERISCO. La bellezza non è nei colori, ma nella loro armonia.
IL FIORE CHE AMO. Il suo - e, poi, tutti gli altri.
L'UCCELLO CHE PREFERISCO. La rondine.
I MIEI AUTORI PREFERITI IN PROSA. Oggi Anatole France e Pierre Loti.
I MIEI POETI PREFERITI. Baudelaire e Alfred de Vigny. I miei eroi nella finzione. Amleto.
LE MIE EROINE PREFERITE NELLA FINZIONE. Bérénice.
I MIEI COMPOSITORI PREFERITI. Beethoven, Wagner, Schumann.
I MIEI PITTORI PREFERITI. Leonardo da Vinci, Rembrandt. I miei eroi nella vita reale. Darlu, Boutroux.
LE MIE EROINE NELLA STORIA. Cleopatra.
I MIEI NOMI PREFERITI. Ne ho uno solo per volta.
QUEL CHE DETESTO PIÙ DI TUTTO. Quel che c'è di male in me.
I PERSONAGGI STORICI CHE DISPREZZO DI PIÙ. Non sono abbastanza istruito.
L'IMPRESA MILITARE CHE AMMIRO DI PIÙ. II mio volontariato!
LA RIFORMA CHE APPREZZO DI PIÙ. …
IL DONO DI NATURA CHE VORREI AVERE. La volontà, e qualche seduzione.
COME VORREI MORIRE. Migliore - e amato.
STATO ATTUALE DEL MIO ANIMO. II fastidio di aver pensato a me per rispondere a tutte queste domande.
LE COLPE CHE M'ISPIRANO MAGGIOR INDULGENZA. Quelle che comprendo.
IL MIO MOTTO. Avrei troppa paura che mi portasse sfortuna.

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- Intervista

Luciana Caranci

Pubblichiamo una breve intervista all'autrice del bellissimo libro "Le vie dei ritorni", Bastogi Editrice Italiana, già recensito da larecherche.it su proposta dall'Agenzia letteraria Contrappunto di Torino.



DOMANDA. Chi è Luciana Caranci? Dove vive?

RISPOSTA. Già ordinaria di latino e greco nei licei e docente in corsi universitari di latino, vivo a Napoli.

DOMANDA. Prima della sua raccolta di racconti “Le vie dei ritorni”, di cui abbiamo recentemente pubblicato la recensione sul sito larecherche.it, aveva già pubblicato qualcosa?

RISPOSTA. Ho diverse pubblicazioni nel campo degli studi classici, sia di carattere scientifico che scolastico.

DOMANDA. In quali ambiti spazia la sua scrittura?

RISPOSTA. Sempre nell’ambito degli studi classici, con particolare attenzione alla filosofia.

DOMANDA. Chi sono i suoi scrittori di riferimento? In “Le vie dei ritorni” cita Proust, ha avuto qualche influenza sulla sua scrittura?

RISPOSTA. Gli autori classici, i romanzieri russi e francesi, ma mi sono sempre nutrita di tutte le novità più rilevanti, di qualsiasi provenienza. Quanto a Proust, forse inconsciamente ha influenzato la mia scrittura, ma più sul piano filosofico e dell’indagine psicologica.

DOMANDA. Come nascono i suoi scritti? Ha luoghi o momenti privilegiati in cui scrive?

RISPOSTA. Scrivo ogni volta che emozioni o forti avvenimenti della vita personale e collettiva sollecitano l’immaginazione e la mia sensibilità, in genere nel silenzio della sera o delle prime ore del mattino.

DOMANDA. I racconti di “Le vie dei ritorni” come sono nati? Sono stati scritti nello steso periodo o coprono un arco di tempo più ampio?

RISPOSTA. Questi racconti sono nati come una specie di diario intimo in forma narrativa, quindi originariamente non destinati alla pubblicazione. Coprono un ampio arco di tempo.

DOMANDA. Nei racconti de “Le vie dei ritorni” parla spesso della guerra, è una esperienza che ha vissuto direttamente o attraverso racconti di altre persone?

RISPOSTA. La guerra è un’esperienza che ho vissuto direttamente, riportandone molti drammatici ricordi, ma anche una profonda conoscenza della vita che mi ha fortificata.

DOMANDA. Nel racconto “Alla radice del male” parla di un errore giudiziario, ha preso spunto da un fatto reale? Voleva essere polemica con il sistema giudiziario?

RISPOSTA. Né spunti da fatti reali né alcuna polemica nei confronti del sistema giudiziario, bensì una presa di coscienza degli effetti devastanti che l’incomunicabilità, rappresentata metaforicamente nella “prigione”, può avere sull’animo umano, quando diventa tale da trasformare una persona, agli occhi del mondo, ma certamente di un mondo “miope”, diversa da quella che in realtà è.

DOMANDA. Nel racconto di chiusura della suddetta raccolta parla di odio razziale e di campi di sterminio, le sembra che il mondo non sia progredito molto da allora?

RISPOSTA. Indubbiamente vi sono stati dei progressi, ma improvvisi rigurgiti di razzismo rivelano che il seme dell’odio contro chi viene considerato “diverso” ancora cova sotto la cenere, pronto ad esplodere non appena se ne presenti l’occasione.

DOMANDA. Prendendo due dei suoi protagonisti si sente più Giulia o Miriam Neumann, ovvero si sente più osservatrice o protagonista degli avvenimenti?

RISPOSTA. In realtà mi sento più Claire, la giornalista che a ogni costo vuole giungere alla verità, una verità con cui finisce per confrontarsi giorno dopo giorno. Ma molte le affinità con la forte e dignitosa Giulia Neumann, legata al suo Elia da un amore che va al di là della morte.

DOMANDA. Quali sono i suoi prossimi progetti editoriali?

RISPOSTA. Non parlerei di progetti editoriali, ma piuttosto di tante idee che si affollano e urgono nella mente, finché ad un tratto prendono forma nella scrittura perché non si può più trattenerle, sostenute, tuttavia, dalla speranza che siano condivise da chi legge e soprattutto ne raggiungano il cuore. E’ questa la più grande ricompensa.

DOMANDA. Ha qualcosa da dire a chi vuole intraprendere la strada della scrittura?

RISPOSTA. Di credere fino in fondo in ciò che si scrive, senza pregiudizi né condizionamenti di sorta:
le parole verranno fuori da sé.


(a cura di Giuliano Brenna)

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- Intervista

Mariella Bettarini

CONVERSAZIONE CON MARIELLA BETTARINI


DOMANDA. Partiamo dalla tua esperienza di scrittura.

RISPOSTA. L’inizio della mia esperienza di scrittura risale a vari decenni fa, ai primi anni '60. Da allora non ho più smesso di scrivere e insieme a testi poetici ho scritto anche prosa, sia creativa che critica, e tantissime lettere: specialmente da 15-20 anni, sono, in pratica, una scrittrice di “epistole”. Sono davvero molte le persone che si rivolgono a me, a noi sia per la casa editrice, che per la rivista, che con la corrispondenza personale.
La poesia, la scrittura credo siano state (e siano tuttora) una grandissima “fetta” della mia vita, forse la più importante, anche se dire “la più importante” fa torto alla vita: senza vita non ci può essere scrittura, però nella mia esperienza personale una vita senza scrittura non potrei concepirla. Credo che la scrittura sia stata “un grande dono”, nato però da gravi privazioni, da problemi affettivi, familiari, da cose che sono state assenti. La scrittura è sempre stata, se non allegra in sé certamente felicitante; mi ha dato tenerezza. Attraverso la scrittura ho trovato modo di riempire quei grandi vuoti, e parlo in particolare della figura di mio padre che, pur essendo fisicamente presente, era invece del tutto assente, anzi purtroppo molto negativa.
Questo è il senso del mio vivere. Se ripartissi dal principio, rifarei le stesse cose: leggerei, scriverei moltissimo, vivrei ugualmente. Ho anche insegnato per molti anni ed è stato bello ed importante, ho esperienze di vita bellissime, certo non solo cartacee, ma la scrittura è forse la cosa che mi ha dato più felicità.

DOMANDA. Hai toccato un punto diciamo "critico" in quanto secondo alcune autrici un nodo nella poesia della donne è proprio legato alla figura del padre più che della madre.

RISPOSTA. Nella scrittura poetica delle donne, la connessione “centrale” con la figura del padre è stata teorizzata da alcune donne-poeta. Per la verità, io non arriverei a farne una teoria specifica. Il fatto è che il problema del rapporto “corpo-mente” nella scrittura delle donne è molto complesso. Certo, ci sono moltissimi casi di scrittura poetica di donne nelle quali c'è, da una parte, forse, una carenza della figura materna e spessissimo una presenza in negativo di quella paterna, ma generalizzare mi sembra una forzatura: sarebbe come dire che la mente, il pensiero, la scrittura, l’arte, sono forme maschili, mentre il corpo è il femminile. Che la donna abbia sempre avuto, tragicamente, il “primato” della corporeità e solo di questa, è da attribuire a un dato storico, ad una terribile sudditanza secolare. Ripeto, però, che il problema è molto complesso, e non mi pare il caso di semplificarlo troppo.

DOMANDA. Parliamo delle riviste che hai diretto: "Salvo Imprevisti" e ora "L'Area di Broca".

RISPSOSTA. Salvo Imprevisti ha sempre avuto un forte legame con il sociale, è stata una rivista che, in sintesi, coniugava letteratura e società. L’Area di Broca ha, poi, individuato un’apertura verso tematiche legate alla conoscenza in senso più ampio, ad esempio abbiamo affrontato temi come il cervello, la fotografia, le macchine, il caos, sino ad arrivare ai fascicoli più recenti, uno dei quali dedicato al tema “Terra”; un interesse, dunque, anche scientifico (e persino tecnico), che tuttavia in qualche modo si riallaccia a tematiche a noi sempre care (ricordo due piccoli fascicolo di “Salvo Imprevisti” dedicati ai fossili e agli alberi).
Come si vede, ci sono certe differenze tra le due riviste, ma anche una precisa continuità, tant’è vero che la numerazione dei fascicoli è proseguita dall’una all’altra.
Più recentemente, con “L’Area di Broca”, data la terribile situazione politica italiana (e mondiale), abbiamo ripreso con forza un discorso sociale. Infatti, il prossimo fascicolo della rivista sarà dedicato al tema “Contro”.

DOMANDA. Come ti pare sia la situazione della produzione delle donne in poesia, oggi, dal tuo osservatorio privilegiato di rivista e casa editice.

RISPOSTA. Oggi indubbiamente c'è una produzione ricca, vasta, con ottimi esempi di vera poesia. Dire “vera poesia” può sembrare un’affermazione limitante ed élitaria, poiché così si fa una distinzione rispetto a produzioni meno “vere” e quindi meno valide, come a dire che una poesia che ha meno senso di essere, anche se poi ognuno ha il diritto di scrivere ciò che vuole e quanto vuole. Ma quando parlo di “vera” poesia intendo poesia di un certo livello, testi poetici formalmente consapevoli. Ci arrivano molti scritti di donne interessanti, importanti, con un taglio di ricerca originale, anche se, a mio parere, oggi si pubblica troppo. Molti testidi poesia mi pare avrebbero bisogno di una maggiore sedimentazione, rielaborazione, ma questo dipende anche dall'editoria cosiddetta “minore”, che non seleziona affatto, contribuendo ad un eccesso di sedicenti “poeti” e alla (si fa per dire) “circolazione” di libri che potrebbero forse anche non esserci…
Oggi siamo in molti a scrivere, a lavorare, c’è una ricchezza, uno scambio, ma spesso manca il collegamento, il coordinamento, cosa che peraltro si dice da molti anni. Una grave carenza, poi, è nella critica: ci vorrebbe un maggiore atteggiamento critico e soprattutto autocritico.
Un discorso a parte è, infine, quello che riguarda le antologie di poesia. Qui - per quanto riguarda le donne - siamo ancora agli anni '50 (o peggio). Le antologie, diciamo classiche, sono quasi completamente “al maschile”, generalmente scritte e curate da uomini. Viceversa, nella quantità del materiale che arriva anche da noi, nella bellezza di certi testi, spesso nei discorsi teorici fatti da molti critici, la poesia delle donne risulta assai importante. Ho ascoltato più volte tali critici (che poi magari, quando curano un’antologia, non le antologizzano), rilevare la novità e l'importanza della poesia espressa dalle donne, dicendo che oggi quest’ultima è più originale, talora più forte di quella degli uomini. C’è, quindi, un'incongruenza da cui non sembra facile uscire, anche perché è legata a fattori spesso extraletterari, relativi a ruoli, relazioni personali, ecc. Ciò vuol dire far emergere solo la piccola punta dell’iceberg-poesia: il resto rimane sotto, e sono tutte, tutti coloro che non riescono ad accedere a quelle quattro-cinque case editrici di rilevanza e diffusione nazionale; coloro che, per pubblicare, si rivolgono a piccoli o piccolissimi editori.
Per quanto ci riguarda, Gabriella Maleti ed io, con Gazebo, pubblichiamo testi spesso straordinari di autrici e autori, che magari non hanno neanche tentato di proporsi alle case editrici maggiori. Ma se talora si confrontano testi di autori e autrici non antologizzati, non “storicizzati” a livello nazionale con quelli di poeti antologizzati, si notano talvolta delle differenze macroscopiche nel senso della ricerca, dell’espressività, della rilevanza del discorso poetico. E tutto ciò magari proprio a favore degli autori meno noti rispetto ai soliti noti. Per questa quantità di donne ed uomini, si tratta di un trauma, di una sconfitta, poiché rivolgendosi a piccoli editori generalmente si è costretti a non avere distribuzione, quindi a non farsi leggere, o a farsi leggere pochissimo. In più, per le donne (che da poco tempo sono arrivate ad avere una “visibilità”), la sconfitta sembra anche maggiore. In realtà, oggi - come dicevo prima - ci sono voci di donne anche giovani, trentenni, molto rilevanti, ma presso gli editori “nazionali” o nelle suddette antologie ne “passano” veramente pochissime, una o due su molte, magari ugualmente valide. Non credo sia un problema da poco.
Certo, quel che più conta è la consapevolezza soggettiva - per quelle che veramente operano con originalità - di essere “abilitate” alla poesia, anche avendo magari solo trenta lettori, che tuttavia confermano la valenza della voce. Quel che più conta è il tesoro della propria passione, della propria dedizione, della propria vita. Per il resto le notizie non sono confortanti.


(a cura di Gabriella Musetti)


INTEGRIAMO LA CONVERSAZIONE CON ALCUNE RIGHE IN CUI MARIELLA PARLA DI SE' E DELLE SUE PUBBLICAZIONI:

Vivo e lavoro a Firenze (dove fino al ’92 ho insegnato nelle scuole elementari), città dove sono nata il 31 gennaio 1942.
Dopo una parentesi torinese negli anni dell’infanzia e un doloroso soggiorno di tredici anni a Roma, e dopo corroboranti esperienze nella mia città natale (la città di La Pira e di don Milani, di padre Balducci e dell’Isolotto: le mie radici), nel 1973, in un postsessantotto colmo di disperate speranze, con alcuni amici scrittori diedi vita a “Salvo imprevisti”, quadrimestrale autog12/11/06cato fascicoli monografici dedicati a temi come “Cultura e meridione”, “Donne e cultura”, “Dopo il sessantotto”, Pasolini, “Poesia e inconscio”, “I bambini/la poesia”, “Poesia e teatro”, “Poesia e follia”, “Del tradurre”, ecc: Ho, infatti, sempre sentito strettissimamente connessa la mia ricerca etico-estetica con il rovello, la ricerca, l’esperienza etico-culturale di altre persone (prima che poeti/scrittori), in una comunitaria, non competitiva passione insieme letteraria e sociale.

Dal 1992 “Salvo imprevisti” si chiama “L’area di Broca”, semestrale che privilegia temi scientifico/conoscitivi, oltre che letterari.
Intanto, dal 1961 scrivevo molto, soprattutto poesia (ma anche prosa creativa e critica: recensioni prefazioni, brevi saggi), leggevo moltissimo, traducevo la Weil, partecipavo attivamente, su fogli e riviste, al dibattito in corso sui sempre difficili rapporti tra letteratura e società.

Da allora ad oggi ho pubblicato ventisei titoli di poesia, sette tra libri e plaquettes di narrativa,due di saggistica (sulla condizione della donna e la sessualità nel 1978 e nell’80 una serie di interviste a 33 poeti di varie generazioni); ho partecipato a dibattiti, letture pubbliche, convegni, ecc.
Poiché credo nella cooperazione culturale (e amo profondamente la scrittura degli altri), sono sempre stata contraria ai premi letterari. Così, dal 1984, in questa linea di intensa partecipazione e collaborazione, assieme a Gabriella Maleti (che ne è stata l’ideatrice) curo la piccola Editrice Gazebo, che ha collane di scrittura creativa e critica. Nel 1996, con i genitori di Alice Sturiale, ho curato Il libro di Alice (ripubblicato da Rizzoli nel 1997).

Oggi continuo a lavorare molto, ad amare la parola: scritta, letta, orale, creativa, saggistica, epistolare. La parola/segno. La parola/bi-sogno. La parola/intenzione di dialogo, affinità, amore. Così come amo da sempre l’archeologia, l’arte, la botanica, l’astronomia, la fotografia, il cinema e la matrice poliedrica di tutto questo: la misteriosa/”naturale” natura: dall’infinitamente grande e lontano, interstellare, invisibile, all’infinitamente piccolo e prossimo (anch’esso talora invisibile). Parola che si fa carne. Carne (minerale, vegetale, animale) che si fa parola. Misteriosamente. A specchio.

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- Intervista

Yorick

DOMANDA. Chi è Yorick?

RISPOSTA. Yorick, nome del buffone cui appartiene il teschio che Amleto tiene fra le mani in una delle più famose tragedie shakespeariane, è da anni lo pseudonimo con cui firmo i miei scritti e le mie creazioni sul web. Amo di questa figura il contrasto tra l’allegria del buffone e l’aspetto inquietante del teschio, il parallelo tra le risate e la morte, l’agrodolce e la dissonanza che sono riassunte nel simbolo.
E dietro lo pseudonimo, ci sono io: ho 26 anni, vivo a Milano, e mi impegno in attività che spaziano dalla fotografia alla musica, dalle community a tema fino alle net-label. Sempre oriento i miei interessi al sogno, all'arte e al magico del mondo, osservandone i dettagli con stupore, a volte con malinconia, e cercando di farli trasparire nelle mie creazioni.

DOMANDA. Tu scrivi, che cosa ti ispira, cosa ti spinge a scrivere di solito?

RISPOSTA. Ciò che vedo, le persone che incontro, i fatti che mi sono sotto gli occhi nella vita di ogni giorno e che mi emozionano in modo particolare. Le storie che ho scritto non narrano di avvenimenti grandi o persone famose: sono tutte scene di vita quotidiana, con personaggi semplici, che sono vicini alla gente "normale" e si incontrano ovunque, ma per qualche strano, particolare motivo, fanno nascere sensazioni profonde, suonano corde nascoste e mi rimangono impressi.
Quello che mi fa sentire il bisogno di scrivere è la necessità di esternare e mettere in parole le emozioni che ciò che vedo mi fa provare: è una valvola di sfogo forse, o magari un modo di razionalizzare. Quel che è certo è che scrivo principalmente per me prima che per i lettori, sebbene non possa negare che sapere che qualcuno mi legge mi fa molto piacere.

DOMANDA. Qual è il tuo genere di scrittura? Poesia, narrativa, eccetera, come ti esprimi al meglio? Quali sono le tue prove di scrittura?

RISPOSTA. Mi piace sperimentare: in ogni campo, anche nella scrittura, adoro provare nuovi stili, nuove espressioni, strade non ancora percorse. Lo stile che impiego per raccontare le emozioni spazia dalla prosa alla poesia, dal testo di canzone fino al mix di immagini e brevi frasi, in base a ciò che a mio avviso può generare le sensazioni legate al tema trattato in modo più efficace. Le mie prime prove letterarie sono state delle brevi poesie, con uno stile quasi ermetico: le appuntavo su un notes che portavo sempre con me e che ancora conservo come un caro ricordo. Nel periodo immediatamente successivo ho voluto cimentarmi nella prosa, con la stesura di brevi racconti di svariato genere, ma negli anni successivi ho voluto provare anche forme più vicine al teatro o alla canzone, fino ad approdare anche alla creazione di racconti collettivi sul web.
In particolare, nel mio libro “La corte dei miracoli” ho scelto di raccogliere racconti brevi, caratterizzati tutti dal medesimo stile e da una comune linea espressiva, sebbene abbia volutamente “sporcato” la prosa dei testi con l’inserimento di due versi in chiusura di ogni racconto che potessero veicolare l’epilogo con l’immediatezza e l’efficacia che solo la poesia possiede.

DOMANDA. Hai una scrittura di getto, oppure rileggi i tuoi scritti, fino a dargli la forma e la sostanza desiderate?

RISPOSTA. Ciò che scrivo, lo scrivo di getto, tutto di seguito senza correggere neppure gli errori di battitura. Non voglio “perdere il filo”, non voglio che si sovrappongano le idee narrative con la revisione stilistica. Quando il grosso del racconto è sulla pagina, passo alla correzione della forma e dell’ortografia, cercando di rendere scorrevole e musicale l’insieme del testo; di solito non apporto grosse modifiche, ma la rilettura – anzi, diverse riletture – sono comunque una fase che non può essere tralasciata ed è importante quanto la composizione. Mentre la prima stesura rappresenta la materia di partenza, le successive riletture sono gli affinamenti e le rifiniture che conferiscono un carattere di pregio allo scritto, conservandone l’impulso iniziale, ma dandogli la direzione precisa perché possa raggiungere con effetto il lettore.

DOMANDA. Hai scrittori di riferimento, più o meno noti, ai quali ti ispiri? Se sì, chi sono? Se no, perché?

RISPOSTA. Ho sempre amato leggere, e nel corso degli anni ho assaporato lo stile degli scrittori classici di prosa, poesia e teatro. Come dal mio nick si evince, ho amato Shakespeare, soprattutto nell’adolescenza; ma con lui ci sono stati Hesse, Doyle, Dumas, Baricco, Hugo, Leopardi, Wilde, Ungaretti, Blake, Poe e moltissimi altri. Da tutti loro qualcosa mi è rimasto di certo, ed ora forma il mio “background”, il mio punto di partenza. Quando scrivo però non penso di voler somigliare a nessuno: l’obiettivo che mi pongo è quello di comunicare in modo efficace, d’impatto, lo stile è secondario, così come le somiglianze.

DOMANDA. Che cosa vorresti trasmettere a chi ti legge?

RISPOSTA. A volte penso che alla gente manchi il senso della meraviglia, la capacita di stupirsi, di lasciarsi confondere. Forse perche viviamo in un mondo che teniamo sotto controllo in modo ossessivo con cellulari, navigatori e orologi, o forse perche ci si illude facilmente di conoscere la spiegazione di tutto. Con quello che scrivo mi piacerebbe solo si ricordasse che c'è anche qualcosa di non misurabile, qualcosa di non tangibile ma indubbio, dietro la routine, sebbene spesso non ci si soffermi a guardarlo e non lo si consideri. Descrivo momenti vaghi, che sembrano a cavallo tra sogni e realtà: scelgo questi soggetti e questo modo di narrare appositamente per lasciare un alone di mistero, per trasmettere il senso di magico e di miracoloso che la vita ha per sua stessa natura. Mi piacerebbe che dopo aver letto uno dei miei scritti si rimanesse confusi per una frazione di secondo, con qualche difficoltà a riaccendere il cervello, abbandonandosi alle sensazioni, per una volta senza doverle per forza spiegare o controllare.

DOMANDA. Abbiamo letto il tuo libro “La corte dei miracoli”, una raccolta di brevi storie (come tu dici, quasi poesie) liberamente scaricabile da internet o acquistabile in forma stampata. Perché un libro scaricabile anche da internet?

RISPOSTA. Perché, semplicemente, desidero lo legga il maggior numero di persone possibile. Anche chi non si può permettere di spendere il prezzo di copertina di un libro "print on demand". Appoggio e approvo la pubblicazione libera, e la utilizzo spesso per la diffusione delle mie creazioni poiché la trovo un ottimo mezzo di condivisione, senza la quale non ha senso rendere pubblica un’opera, qualsiasi essa sia.

DOMANDA. Quando hai scritto questo libro?

RISPOSTA. I racconti che sono inseriti ne "La corte dei miracoli" sono tratti dal mio diario personale, dalle pagine degli ultimi due anni. Non sono stati creati originariamente con l'intenzione di raccoglierli in un'unica opera, quindi il libro non è stato steso come tale a partire da una data precisa, bensì composto di recente, con gli scritti già esistenti dai mesi precedenti. La loro raccolta e rilettura ha naturalmente portato ad una revisione finalizzata ad uniformarne lo stile e conferire coerenza al libro, che ha tuttavia mantenuto intatto il carattere multiplo e variegato della raccolta.

DOMANDA. Come hai scelto il titolo?

RISPOSTA. Mi è salito alla mente da solo, mentre osservavo la scena insolita che descrivo nell'ultimo dei racconti, che chiude il libro e gli dona appunto anche il titolo: si tratta di una piccola piazza cittadina nella luce del tramonto, popolata di giocolieri dilettanti, passanti ed individui singolari. L’espressione “corte dei miracoli” ricorda un po' il circo, un po' l'arte di strada, ma anche qualcosa di segreto, sotterraneo, e racchiude in sé molti dei concetti che sono per me chiavi principali quando scrivo e cerco di comunicare le mie sensazioni.

DOMANDA. Hai scritto o scriverai altri libri come "La corte dei miracoli"?

RISPOSTA. Forse, non saprei. Al momento sto pensando a raccogliere alcune delle mie narrazioni più orientate al fantasy, ma ancora è tutto solo un progetto. Non mi piace scrivere con ritmi forzati, come fosse un dovere: la scrittura deve essere innanzitutto naturale per quel che mi riguarda, dunque posso solo dire che in futuro si vedrà, non mi pongo vincoli o scadenze di alcun tipo.

DOMANDA. Hai qualcosa da aggiungere per i lettori de larecherche.it?

RISPOSTA. Mi piace sempre ricevere commenti e critiche: se vi capitasse di leggere “La corte dei miracoli”, amerei un vostro breve riscontro, buono o cattivo che sia, da cui prendere spunto per migliorare lo stile e le idee.


(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

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- Intervista

Anna Belozorovitch

Anna Belozorovitch è nata a Mosca nel 1983 ha vissuto in Portogallo e in Italia, dove si è stabilita dal 2004. E’ una giovane scrittrice, per Besa Editrice ha pubblicato “Anima bambina” (2005) e “L’uomo alla finestra” (2007). La Recherche ha recensito il suo ultimo libro e lo ha proposto come libro consigliato.
Si affacciano sulla scena poeti nuovi, nuove voci, silenziose voci che hanno qualcosa da dire di veritiero. L’abbiamo contattata per una breve intervista.

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DOMANDA: Di te si sa poco, chi è Anna Belozorovitch?

RISPOSTA: Su questa domanda sto lavorando da tempo. Ogni persona è ciò che fa, e io ho tutta la vita davanti: penso che non sia il momento giusto per rispondere.

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DOMANDA: Dalla tua biografia risulti nata a Mosca, poi hai vissuto in Portogallo e quindi in Italia. Il tuo stato di quasi apolide in che modo ha contribuito alla tua formazione e maturazione personale?

RISPOSTA: Penso proprio di sì. Quando ero più piccola mi dispiaceva di non sentirmi radicata nei luoghi dove mi trovavo a vivere. Ciò mi faceva sentire molto più fragile degli altri. Ma col tempo si scopre una capacità straordinaria di produrre radici. Da una parte legarsi per scelta ai luoghi e agli ambienti permette un legame che considererei quasi più consapevole; dall’altra, si comprende quanto tutto sia relativo fino all’inverosimile. Questa scoperta può produrre una sensazione quasi di vertigine, ma, una volta che si è abituati, si comprende anche che non c’è momento o luogo dal quale non si può ricominciare, credendo.

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DOMANDA: In “Anima bambina” dici di aver inserito versi che fanno parte di “una marea di pensieri che mettevo per iscritto sotto forma di diario tra i 14 e i 19 anni”. Perché hai iniziato a scrivere?

RISPOSTA: In verità non ho “iniziato a scrivere”. Mio fratello, più grande di me, mi ha insegnato a scrivere quando ero così piccola, da non ricordare il momento preciso. Da allora in poi, gradualmente, ho sempre “composto” qualcosa con le parole, in maniera più giocosa o più seria. Per quanto riguarda “Anima bambina”, non si tratta delle “prime cose in assoluto” che io abbia scritte, ma solo di un punto in cui l’intensità e l’impegno nella scrittura hanno preso un posto importante nella mia vita. Le poesie contenute in quel libro in particolare, infatti, erano semplicemente “il mio diario”, qualcosa di intimo che coltivavo per me stessa, e non pensandolo letto da altri.

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DOMANDA: In “Anima bambina” parli in maniera insistente di amore, che cosa è per te l’amore? Può essere “terribile” l’amore?

RISPOSTA: Proprio perché, come dicevo prima, “Anima bambina” contiene testi che riflettevano i miei più intimi pensieri, considerando la fase della vita a cui appartengono non immagino quali altri temi, e soprattutto in quale proporzione, avrei potuto desiderare di affrontare! D’altronde, indipendentemente dalla fase della vita, sarebbe difficile immaginare un qualsiasi creatore, di qualsiasi cosa, per il quale l’amore non sia un propulsore del pensiero. Io non so che cosa significhi per me. Come non so se è individuabile un qualsiasi ambito dell’esistenza dove non sia presente e necessario, o una qualsiasi età dove non lo si coltivi, non lo si ricerchi, non lo si desideri. E’ un nutrimento. E’ la soluzione per tanti, se non tutti i problemi. L’aggettivo “terribile” è associabile se parliamo dell’amore strettamente romantico: quello incorrisposto, tradito, calpestato, non riconosciuto, dispensabile, è terribile per chi lo dà; quello soffocante, sordo, inammissibile, può essere terribile per chi riceve… E’ qualcosa di talmente meraviglioso che naturalmente diventa terribile dal momento in cui è offuscato da qualsiasi imperfezione, irregolarità, vizio; proprio perché ne abbiamo così bisogno, lo viviamo come terribile quando le imperfezioni si manifestano.

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DOMANDA: C’è una poesia in “Anima bambina” che ha molto colpito per il punto di vista che proponi sulla primavera, parli di “indifferenza mostruosa” in relazione al manifestarsi della primavera, ad esempio, nel canto degli uccelli; parli di una primavera “stanca di fare primavera”, questa è una tua caratteristica, sei capace di deviare dal filone del pensiero comune, e quindi sei capace di stupire, questa è una buona cosa in generale, riconosci in te questa capacità sia nella scrittura che nella vita?

RISPOSTA: In quella poesia ho solo voluto affermare due punti che credo fondamentali e dedurne qualcosa: il mondo, in ogni sua manifestazione (specie umana esclusa), è un continuo, impetuoso miracolo, qualcosa che possiede una bellezza sconvolgente che potremmo, volendo, notare in ogni dettaglio che ci circonda. Noi, uomini, al tempo stesso, non siamo destinatari di questa bellezza: il sole non pensa a noi quando si alza da dietro l’orizzonte, il vento non soffia per pettinare i nostri capelli. E’ passato così tanto tempo dalla cosmologia tolemaica eppure non abbiamo mai imparato a pensare che non esiste tutto per noi, anzi, tutto si scontra con noi o viene incanalato da noi. La primavera non è un concerto e non è un quadro, sono solo i nostri occhi a darle un senso finito e a trasformare una sequenza di fatti in un racconto. Ovunque incontriamo le manifestazioni del mondo naturale, accade qualcosa. E invece dovremmo mandare giù l’idea della nostra insignificanza e imparare a godere umilmente della posizione che occupiamo, comprendere che nessuno ci toglierà tutta questa bellezza a meno che non siamo noi stessi ad accanirci contro di essa, e che il fatto che “non sia lì per noi” non debba offendere la nostra dignità.
Per quanto riguarda il secondo punto, quello di deviare per stupire, non dubito che possa essere davvero una mia caratteristica anche nella vita, ma non sempre è necessariamente qualcosa di buono. Solitamente è liberatorio, può diventare persino potente. Può essere anche meccanico si guarda qualsiasi cosa, e si dice: e se fosse l’esatto contrario? Che si tratti di situazioni della vita, di opinioni, dottrine, regole, sistemi… si scopre quasi sempre che invertendolo si ottiene qualcosa di assolutamente plausibile. Anzi, è come se la verità fosse sempre l’insieme di una cosa, quella a cui si crede o che si assume, più il suo opposto.
Si rischia, però, di fare diventare la deviazione repentina un modo per sfuggire all’ammissione di ogni assoluto, un’illusione in cui ci sembra di essere liberi da qualsiasi vincolo e non dover rispondere ad alcuna verità, anzi sceglierla a seconda della comodità del momento. L’ho rischiato ma non lo rischio più: nonostante la relatività di tutto di cui ho parlato, esistono cose che considero assolute (anche se soggette a rielaborazione).

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DOMANDA: In “L’uomo alla finestra” riesci, in 83 pagine, a tessere un racconto convincente di un uomo che narrando la propria vita a ignari interlocutori, rivela la sua assurda esistenza fatta di odio verso l'umanità, arrivando, sempre nell'oscurità, a rivelare sé stesso alle persone che gli si avvicinano, attirate forse dalla sua noncuranza verso ciò che lo circonda, forse dalla sua gelida e inalterabile presenza, fino a eliminare, in un moto spontaneo e all'apparenza totalmente sereno, coloro che dell'umanità gli rappresentano la famiglia, l'amicizia, l'amore.
Hai detto: “Non capisco perché quasi tutti quelli che leggono “l'Uomo alla Finestra” pensano che sia "il mio animo", o "il mio alter-ego", o, insomma, comunque in qualche modo autobiografico. Nessuno coglie l'amore per la vita di cui invece l'uomo alla finestra è pieno”. Ci puoi dire di più? Chi è l’uomo alla finestra.

RISPOSTA: L’uomo alla finestra è l’uomo perduto: ha terrore degli altri, perché possono conoscerlo e persino amarlo. Rifiuta la vita perché può coinvolgere, trasportare, rendere partecipi e strappare l’animo dalla posizione di osservatore, quasi cecchino. E’, infine, un uomo che non crede a nulla e che non ha fede. Di conseguenza è un essere senza volto, senza nome, senza sesso, convinto di conoscere se stesso fino in fondo: per poter mantenere tale convinzione non può fare altro che limitare qualsiasi campo della sua esistenza con sistematicità maniacale, dal momento in cui sono le contraddizioni (inevitabili se si entra in contatto con altri, ci si lascia trasportare dai sentimenti, si crede in qualcosa di superiore) a sollevare dubbi.
E’ una specie di “omuncolo” che può esistere dentro chiunque, straziato dalla tensione insopportabile che tutti portiamo dentro, tra la curiosità e la paura. Immagino questo racconto come un oggetto cucito all’inverso, che ognuno deve girare per vedere la forma esterna: il racconto in sé è una specie di parabola, di metafora, o meglio ancora di trasposizione dei meccanismi interni in fatti osservabili. Quest’uomo rifiuta ogni cosa, ma nel frattempo ha una madre che, in un modo o nell’altro, attende; ha qualcuno con cui finisce per dialogare, e arriva a lasciarsi trascinare dall’amore anche se non lo ammette. E’ sensibile, e, da osservatore che è, finisce per essere molto più suscettibile degli altri verso i più minimi dettagli. E’ persino più delicato e più fragile di chiunque altro.
Pensa di odiare la vita, ma non si uccide perché ciò costituirebbe una presa di posizione: lui vuole credere di essere passivo. I suoi incontri, e l’evoluzione del suo odio, non sono altro che l’evoluzione delle scoperte che tutti facciamo “nel bene”: l’amore per la nostra famiglia, l’arrivo di amicizie importanti, l’innamoramento che offusca ogni altra cosa: infine, un’età adulta che ci trova formati interiormente al punto di percepire determinate discipline, attività, l’arte, in maniera viscerale. L’uomo alla finestra vive tutto ciò, ma tramite la distruzione.
Il suo ultimo incontro è con la fede. E’ lì che il suo ragionamento distruttivo, fatto “all’inverso”, lo porta a chiudere un cerchio che, in fin dei conti, è comune a chiunque altro. Riluttante, schiacciato, non ha più modo di mantenersi gelido verso ogni cosa. Il suo percorso di vita non è diventato un esempio di non-umanità, ma solo un’altra forma di umanità: più infelice di qualcun altro. E ciò è davvero mediocre.
Questo racconto è in realtà un ragionamento. Ed è un inno alla vita perché questo ragionamento vuole portare a galla la stupidità del rifiuto, l’inutilità dell’ignoranza, l’impossibilità di essere insensibili per davvero. E’ un modo per prendere qualsiasi convinzione negativa a dire: e poi? E ancora: e poi? Fino a portare la negazione ad un colmo che non è più sopportabile e che si dimostra impraticabile.

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DOMANDA: Il tuo “L’uomo alla finestra” è praticamente un romanzo poetico, la poesia è soltanto una fase di passaggio verso la prosa?

RISPOSTA: Assolutamente no. Le cose che scrivo in poesia non potrebbero esistere in prosa, e vice-versa. La poesia e la prosa sono solo due strumenti, a volte confinanti, per rappresentare ciò che si vuole nel modo più adeguato. Sono insostituibili, per me, e difficili da “intercambiare”. L’uomo alla finestra non potrebbe essere “un racconto” o “un romanzo” perché è un canto, un pensiero unico. Cercare di raccontare in prosa ciò che scrivo in poesia, o mettere in forma poetica un mio racconto in prosa sarebbe come aggiungere la base “tecno” ad una composizione classica, colorare una foto in bianco e nero per “sistemarla”, correggere un quadro di qualcun altro. Forse è proprio questo il punto: sono parti diverse di me, quelle che si occupano di una cosa o dell’altra.
D’altronde, io non sono una lettrice di poesia: mi sembra sempre che poesia implichi qualcosa di aereo, vaporoso, poco preciso e melodrammatico. Mi annoio per la maggior parte delle volte, perché mi sembra che non parli di niente. Naturalmente generalizzo, lasciando fuori autori, epoche, ecc. Quello che voglio dire è che per me la poesia è un sentiero interno che serve ad accorciare la strada verso il significato, ma anche una forma che permette una grande sinteticità. Un racconto poetico è una struttura sorprendentemente comoda che, non si sa perché, “non va di moda”, mentre invece permette di mettere insieme la dinamicità poetica e l’intreccio narrativo.

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DOMANDA: Che consigli daresti a un giovane autore come te che voglia pubblicare il suo primo libro?

RISPOSTA: Anche io gradirei un consiglio, in termini pratici sono molto inesperiente. L’unico consiglio che posso dare è quello di scrivere perché si ama scrivere, indipendentemente da successi e insuccessi, con tutto il cuore e senza aspettative. L’idea di “pubblicare” può portare, secondo me, a dei “tic”, mancanze di spontaneità, compromessi creativi che nessuno ti ha chiesto. Le occasioni che si presentano, poi, raramente si possono considerare riflesso diretto del merito, un mezzo di misura della propria qualità: quelle c’entrano solo con un’intraprendenza personale che è lecito avere e non avere. Così come i rifiuti non devono servire mai da scusa per una crisi o mancanza di fiducia: nulla è cambiato da prima a dopo il rifiuto, non c’è motivo di cambiare idea sulle proprie capacità. Se la persona che scrive si ferma, così rimarrà; se continuerà a scrivere con la stessa intensità di prima, andrà oltre e supererà se stessa passo per passo.

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DOMANDA: Quali sono i tuoi progetti futuri riguardo alla scrittura?

RISPOSTA: Sono in attesa di una pubblicazione: un romanzo in prosa. Non nascondo che provo un po’ di insicurezza, ma d’altronde, se seguo i consigli che ho appena dato… Poi ho diverse cose “pronte” nel cassetto, soprattutto raccolte di poesie, una forma di continuum anche cronologico di “Anima bambina”. Recentemente ho partecipato ad un piccolo ma interessante progetto in cui mi è stato proposto di illustrare un libro fotografico: le poesie (precisamente cinque) raccontano le fotografie e creano una continuità di significati. E’ un qualcosa che si trova ancora in fase di produzione.
Infine, ho qualcosa in mente che porto da tempo, e che un giorno verrà scritto. Sono due storie separate ma che crescono in parallelo nel mio immaginario, sulla carta solo appunti. Fino a che nessuna prevale in termini di contenuti e coinvolgimento, non riesco a decidermi: quando accadrà mi dedicherò e mi lascerò andare per lunghi mesi.

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DOMANDA: Vuoi aggiungere qualcosa?

RISPOSTA: E’ la mia occasione per non essere logorroica: non aggiungo nulla.

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Di Anna Belozorovitch proponiamo due poesie tratte dalla raccolta “Anima bambina”:

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Ha grazia, e cammina con timore
dove l'esterno butta il piede con spensieratezza;
e sa tremare e piangere ogni volta
perchè non ha imparato quella precedente.
È dolce e fresca ed imprudente
e sa amare solo con il cuore.
Il suo incubo è la propria leggerezza:
la fa peccare brillantemente in ogni cosa.
Lei non si pente, sa di essere assolta.
Lei ride (e quando ride, schizza forza)
di quello che l'esterno prende con serietà.
Si dice che riposa, ma non riposa mai.
È fragile, eppure non la si uccide.
Sa tutto, ma non ha età:
il suo sapere è altro.
È impalpabile, e nulla la divide.
Vuole ricevere, ma, senza aspettare, dona.
È l'anima bambina che ognuno ha,
e lei è sempre buona.

Cammina dolce e fedelmente spaventata.
Non le interessano né i fatti né le azioni,
eppure non è solo emozioni
e la sua paura non è sempre infondata.
Sa soppravvivere nella malvagità,
non crede alla menzogna o all' errore
e luccica anche persino negli sguardi spenti
perché non perde mai l'amore e la pazienza.
Dentro ad ogni uomo o donna che cammina, cammina,
sotto i movimenti apparenti,
la loro anima bambina.

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C'è un'indifferenza mostruosa
nel cantare degli uccelli
e nell' assurda decisione
della natura stanca
di fare primavera.
lo cresco un altro po'.
E ora so che il caldo venticello
che mi accarezza
non lo fa per me;
e non c'è nulla di intenzionale
nell'allegria di quest'erba verde;
e non ha nulla a che fare con la mia esistenza
l'ebbrezza degli alberi che si risvegliano
per salutare il nuovo anno.
E si riscaldano le pietre,
e la terra si ammorbidisce.
Io so che non lo fanno
per provocare il mio sorriso.
Né il cielo che si ingiallisce.
Mi sento in ogni modo grata
di poter contare sempre e comunque sulla trasformazione.
Di esserci e di poterne usufruire.
Ma anche se non ci fossi, il mondo continuerebbe a fiorire
con la stessa decisione.
Sono comunque riconoscente,
a chiunque sia, per poter gioire
insieme alla natura del suo gioco.
E so che non è poco il fatto
che per ora la sua primavera sia anche per me.

Ma so che non c'è relazione
né collegamento tra noi due,
e ti inseguirò.
E che se soffro, lei non avrà difficoltà a ridere comunque,
e che mi spingeranno i raggi morbidi dal cielo
con la stessa intenzionale tenerezza
di qualcuno che in metropolitana mi sfiora con la borsa.

... E piovono dagli alberi ruscelli
di canti casuali ed innocenti,
di note come gocce di rugiada,
degli uccelli colti di sorpresa
da questa esplosione inattesa.

E sono anch'io un animale di questo pianeta.
Un po' ridicolo, ma buono.
E vivo, come tutti quelli che lo sono,
la situazione sconcertante della mia esistenza
in cui mi è permesso solo il ricevere,
eppure nulla è mio.

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Intervista a cura di Roberto Maggiani

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- Ecologia

Cambiamento clima, l’Europa adotta...

CAMBIAMENTO CLIMA, EUROPA ADOTTA PACCHETTO ANTINQUINAMENTO

Tre euro a settimana per ogni cittadino dell'Unione europea, grosso modo tre pieni di benzina l'anno, è il costo del pacchetto di azioni presentato oggi dalla Commissione Ue per fare dell'Europa la guida nella lotta mondiale al cambiamento climatico. "Oggi abbiamo preso decisioni storiche a favore del nostro pianeta", ha detto il presidente dell'esecutivo José Manuel Durao Barroso, molto soddisfatto per aver ottenuto il consenso del collegio, anche se a prezzo di qualche annacquamento sugli impegni delle industrie pesanti. "E' un pacchetto storico ed ambizioso con il quale traduciamo le intenzioni in misure concrete e vincolanti".

Con cinque progetti di legge, più un documento sugli aiuti di Stato, Bruxelles assegna i compiti a Stati e industrie per ridurre del 20% le emissioni di gas ad effetto serra entro il 2020 rispetto ai livelli del 1990 e portare, nello stesso arco temporale, al 20% il consumo energetico da fonti rinnovabili (contro l'8,5% del 2005), includendo una quota del 10% di biocarburanti per il settore dei trasporti, così come concordato dai 27 al vertice di primavera dello scorso anno. L'Italia dovrà aumentare la sua quota di consumi energetici puliti del 17% e ridurre del 13% le emissioni di CO2 per i settori (trasporto, edilizia, rifiuti) non inclusi nel sistema di scambio delle emissioni (Ets) introdotto dal protocollo di Kyoto. "Per il cambiamento ci saranno dei costi, ma sono ragionevoli e sostenibili", ha detto Barroso, presentando il piano al Parlamento europeo che lo dovrà approvare insieme agli Stati membri. "Io preferisco parlare di guadagni e di utili.

Le proposte sono ambiziose, ma realizzabili. Il pacchetto creerà posti di lavoro e darà alle nostre imprese la possibilità di essere leader nel mondo perché hanno il vantaggio di chi compie la prima mossa". L'aumento dei consumi energetici da fonti rinnovabili potrebbe generare, secondo Bruxelles, un milione di nuovi posti di lavoro. Tutti i target nazionali sono stati decisi sulla base del Pil procapite, seguendo il criterio 'chi e' più ricco più pagà. Dodici paesi con livelli di ricchezza inferiore potranno infatti aumentare le loro emissioni. Le industrie europee inserite nel sistema europeo di compravendita dei diritti ad inquinare dovranno ridurre i loro gas ad effetto serra del 21% entro il 2020, rispetto a 2,8 miliardi di tonnellate di CO2 emesse nel 2005. Il nuovo sistema di quote sarà dal 2013 a pagamento, non più gratuito, e genererà tra i 30 e i 50 miliardi di euro l'anno di entrate addizionali per gli stati membri, parte delle quali dovranno essere usate per sostenere progetti innovativi. Il prezzo indicativo per ogni tonnellata di C02 è di circa 39 euro. "Il nostro sistema Ets sarà un modello per gli altri paesi", ha commentato il responsabile Ue all'ambiente Stavros Dimas. Bruxelles ha già in corso contatti per stabilire legami con i sistemi di scambio di Canada, California ed Australia. E nei prossimi mesi intende rafforzare la pressione sui partner internazionali per arrivare ad un accordo globale contro il riscaldamento del clima perché essere pionieri può essere un vantaggio, ma restare isolati potrebbe rivelarsi un boomerang.

"Ci sono settori in cui il costo della riduzione delle emissioni potrebbe avere un impatto reale sulla loro competitività internazionale", ha detto Barroso. "Non ha senso essere rigorosi in Europa se questo significa trasferire la produzione verso paesi che consentono di fare ciò che si vuole con le emissioni. Un accordo internazionale è il miglior modo per affrontare questa questione, ma dobbiamo anche dare la certezza giuridica alle industrie sul fatto che noi intraprenderemo le azioni necessarie", ha detto il presidente annunciando per fine 2010 una valutazione di impatto per le aziende energivore. Anche se molto ambiziosi, gli obiettivi sul fronte dei consumi energetici da energie rinnovabili "sono un'occasione - ha detto il commissario Ue all'energia Andris Piebalgs - da non mancare", anche per far fronte ai costi sempre più elevati del petrolio, di cui la Ue è grande importatrice. "I vantaggi del pacchetto si misurano anche in termini di sicurezza energetica", ha martellato Barroso che ha ostentato ottimismo sulle sorti del negoziato che si aprirà da domani con ciascun stato membro. "Sono fiducioso. Nessun paese considera i target inaffrontabili e tutti hanno ben chiaro che i costi della mancata azione sarebbero enormemente più alti.
Le conseguenze negative del cambiamento climatico potrebbero portare via fino al 20% del nostro Pil", ha ammonito.(ANSA - Marisa Ostolani)

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- Scienza

Antartide, scoperto vulcano attivo

C'e' un vulcano attivo sotto i ghiacci dell'Antartide. Si trova nella zona occidentale del continente e ha un'estensione confrontabile a quella dell'Emilia Romagna. La sua ultima eruzione risale a poco piu' di 2.000 anni fa (al 325 avanti Cristo) ed e' stata la piu' violenta avvenuta nel continente bianco negli ultimi 10.000 anni. La scoperta, pubblicata on line sulla rivista Nature Geosciences, e' dei ricercatori dell'istituto britannico per la ricerca in Antartide (British Antartic Survey, Bas). Secondo gli studiosi, che lo hanno identificato grazie al radar, il vulcano sta provocando cambiamenti importanti nei ghiacci e i nuovi dati aiuteranno a costruire scenari futuri sul loro eventuale scioglimento e sulle variazioni del livello del mare. ''E' una scoperta unica'', osserva il coordinatore della ricerca, Hugh Corr.

I dati radar hanno permesso di ricostruire la dinamica dell'eruzione, che provoco' una nube di cenere e gas alta 12 chilometri. Ma anche di interpretare in una nuova luce alcuni eventi, come l'avanzamento di uno dei piu' grandi ghiacciai della calotta occidentale, il Pine Island. Secondo il co-autore della ricerca, David Vaughan, ''l'avanzamento di questo ghiacciaio si e' accelerato nelle ultime decadi ed e' possibile che questo sia dovuto al calore del vulcano.

Tuttavia - aggiunge - la presenza del vulcano non riesce a spiegare il diffuso scioglimento dei ghiacciai della calotta occidentale, responsabili dell'innalzamento del livello del mare di 0,2 millimetri l'anno''. I vulcani svolgono un ruolo importante in Antartide. Molti di essi sono ormai spenti, mentre altri sono ancora attivi, come il Monte Erebus, Deception Island e South Sandwich Islands. Le eruzioni erano molto comuni in Antartide 25 milioni di anni fa ed hanno coinciso con il periodo di grandi cambiamenti climatici che ha portato alla formazione della calotta antartica.(ANSA)