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Raccolta di articoli di Michele Nigro
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Cinema

Il professore e il pazzo, passando per De André...

La parola non può essere imprigionata. Essa appartiene a tutti: all'uomo ordinario, socialmente inquadrato e all'individuo geniale, disadattato e maledetto. Possiamo ricercare in maniera certosina e scientifica le sue origini etimologiche e ripercorrere filologicamente la sua evoluzione storica nei secoli, possiamo setacciare le citazioni letterarie che la contengono come i cercatori cercavano pagliuzze d'oro setacciando la sabbia dei fiumi, ma ritorna ad essere parola viva nel presente, nel nostro quotidiano, solo quando interagisce con la materia pulsante dell'esistenza, con gli elementi concreti a cui è legata per un'antica convenzione, solo quando diventa linguaggio reale per redenzioni, rinascite sentimentali e impensabili perdoni...

È taumaturgica. La parola guarisce, lentamente, come medicina che penetra nell'anima: ogni fonema è una molecola di farmaco che entra nella cellula malata per ristrutturarla e ripensarla. Per renderla di nuovo disponibile all'amore e alla vita. I contenitori di questo farmaco miracoloso sono i libri, ma anche certi fogli inediti imbrattati di pensiero mandati in giro a trasmettere idee o a donare tasselli per un lavoro immane e apparentemente infinito. 

La parola rende liberi, sia gli uomini già liberi ma prigionieri di schemi accademici e di pregiudizi classisti, sia gli uomini realmente prigionieri delle sbarre invalicabili di un manicomio criminale e dei propri fantasmi. La parola non ha pregiudizi, è democratica, non si nega a nessuno: si lascia plasmare, ricombinare e rielaborare da ogni mente degna di compiere nuove acrobazie in nome della bellezza e della libertà interiore. Al punto che, alla fine della storia, diventa difficile capire fino in fondo chi è l'uomo incatenato e chi l'uomo libero di andarsene.

Solo la "pazzia", termine il cui significato - almeno oggi, grazie alle battaglie di uomini visionari come Franco Basaglia e altri - ha fortunatamente margini labili ed elastici e non più così netti come in passato, può creare dei corto circuiti creativi che in soggetti normali vengono definiti "geniali": si ripropone ancora una volta l'eterno confine tra genialità e follia. A definire tale confine ci pensano certi schemi mentali e i pregiudizi a essi collegati ed ereditati per convenienza sociale.

Il nozionismo, la preparazione accademica, l'ordine conoscitivo delle cose, l'approccio scientifico al sapere, l'anatomia del significante attraverso il tempo, rappresentano la base, l'humus necessario per dare vita a solide creazioni che sopravvivono agli anni; ma giustamente c'è chi ha paragonato l'atto poetico a una forma di autismo, e certi istinti non si conquistano attraverso titoli accademici. La "pazzia" fa perdere i freni inibitori della lingua (che non significa straparlare ma collegare significati in maniera trasversale), trasforma un'impresa impossibile per menti ordinarie in gioco salvifico, apre canali comunicativi altrimenti inesplorabili (tutto è incomprensibilmente più chiaro e interconnesso, si ha una visione limpida dell'insieme), rende possibile l'unione tra concetti apparentemente inconciliabili creando bellezza. Non tutti sanno riconoscere il bello creato in questo modo, non tutti accettano i processi creativi che si discostano dall'ordinario: si bada più alla forma non sconveniente che all'efficacia finale del contenuto. Meglio, quindi, tenere nascosta la componente folle di un successo, meglio non rendere pubblici un nome e un cognome che potrebbero mettere in imbarazzo l'istituzione e la sua élite. 

Grazie a un gioco di analogie, mi ritorna in mente la canzone di Fabrizio De André intitolata "Un matto (Dietro ogni scemo c'è un villaggio)": anche in quel caso gli abitanti del villaggio - esempio miniaturizzato della società in cui viviamo - non riescono ad accettare la presunta stranezza dello "scemo" e quella sua insana ostinazione nel voler "imparare la Treccani a memoria" (trasposizione deandreiana dell'Enciclopedia Britannica del "matto" di Edgar Lee Masters, Frank Drummer, immortalato nell'Antologia di Spoon River).

Anche in quel caso, come nel film The Professor and the Madman del regista P. B. Shemran, vi è un dizionario di mezzo, o comunque un immenso lavoro enciclopedico da portare a compimento; con la differenza che mentre il Frank Drummer di Masters/De André è a piede libero quando comincia la sua sovrumana opera mnemonica, per poi essere promosso a "matto" agli occhi dei benpensanti e per questo rinchiuso, il medico "pazzo" del film (William Chester Minor) decide di dare il proprio contributo alla redazione della prima edizione dell'Oxford English Dictionary di Sir James Murray, già in qualità di matto visionario, assassino messo sotto chiave e pericolo pubblico certificato.

In comune tra le due storie c'è ovviamente la parola; canta De André:

"E sì, anche tu andresti a cercare 
le parole sicure per farti ascoltare: 
per stupire mezz'ora basta un libro di storia, 
io cercai di imparare la Treccani a memoria, 
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto, 
continuarono gli altri fino a leggermi matto."

Se per il matto di De André la meticolosa ossessione in ordine alfabetico per le parole diventa motivo di internamento, per il pazzo del film, interpretato da Sean Penn, è occasione di riscatto mentale, sentimentale, addirittura sociale, non senza periodi di ricaduta. Nel primo caso si cerca di dominare la parola per assomigliare ai "normali", per comunicare il mondo che si ha nel cuore e farsi ascoltare da loro; nel secondo i raffinati strumenti di comunicazione sono stati messi a tacere dalla follia, ma il dominio della parola è già verificato da una solida formazione culturale, è preesistente al motivo dell'incarcerazione (infatti il film è tratto dal saggio di Simon Winchester intitolato L'assassino più colto del mondo). I libri, tra le quattro mura della prigionia, diventano appigli, ancore di salvezza, ali per volare fuori... Diventare collaboratore volontario di Sir James Murray, un modo per comunicare con l'esterno, per contribuire a migliorare il mondo delle parole e quindi un'occasione di redenzione. Perché le parole possono davvero cambiare il mondo, a cominciare dal proprio.

Due tentativi di riscatto finiti in maniera decisamente differente: per il pazzo di De André - almeno secondo una sciocca vulgata dura a estinguersi - "Una morte pietosa lo strappò alla pazzia" mentre era ancora rinchiuso in manicomio; per William Chester Minor - grazie soprattutto all'aiuto dell'amico Murray - la libertà, la riabilitazione mentale, fino al reinserimento in società e a una morte dignitosa in casa propria.

 

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- Educazione

Dieta da social e dieta da cibo

Dieta 'social'

 

Brevi considerazioni quasi evangeliche su due tipi di diete

 

Dalla seconda lettera (la prima s'è persa)

di San Michele Apocrifo ai webeti

 

Fratelli e, perché no,... Sorelle!

Che relazione intercorre tra la dieta da cibo e la dieta da 'social'? Apparentemente nessuna, almeno dal punto di vista formale: in entrambi i casi, però, ci si priva di qualcosa che desideriamo o pensiamo di desiderare. Viviamo in una società che ci ha convinti - tutti, nessuno escluso - di aver bisogno del surplus come se fosse una cosa normale: surplus di informazioni, o meglio, vedi i social, di presunte informazioni; nella maggior parte dei casi, tranne rari esempi e in presenza di utilizzi pensati del mezzo, sono di più i dati rilasciati in giro dai nostri movimenti virtuali e riutilizzati dai Signori del Social Networking per motivi politico-commerciali, che le informazioni per noi realmente utili nella vita pratica: andando a stringere, togliendo i selfie, le notizie su noi stessi non richieste, come i piatti mangiati o i luoghi visitati, le considerazioni sui cantanti dell'ultimo Sanremo, le cosiddette informazioni di ritorno utili per le attività che amiamo o per la nostra stessa "sopravvivenza" sociale, sono veramente poche, anzi pochissime. Quindi, in soldoni, sui social diamo più di quel che riceviamo. Ma era cosa nota. 

Surplus di alimenti. In questo caso accade esattamente il contrario: riceviamo di più di quello che in seguito riusciremo realmente a trasformare in energia per vivere; dove per vivere s'intende sia l'attività fisiologica di base, quella che ci permette di non morire, sia l'attività di lusso, le azioni che riguardano il nostro essere intellettuale e quindi culturale, relazionale, dinamico, insomma il nostro essere Homo sapiens sapiens sul pianeta Terra: il doppio 'sapiens' serve a sottolineare che l'Uomo non solo è capace di procurarsi il materiale e le conoscenze tecniche grazie alle quali costruirà la propria abitazione o il proprio mezzo di trasporto, ma dopo si autoelogerà, o addirittura si autoesalterà, cantandone o scrivendone (grida Marinetti nel Manifesto del Futurismo: <<Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.>>) Mentre invece un picchio resta sostanzialmente umile dinanzi al buco praticato a suon di becco nel tronco di un albero: da qualche parte dentro di sé, sa che deve farlo per crearsi un riparo e nidificare; possiede una coscienza limitata del perché, pur essendo presente a se stesso mentre lo fa. Non produce una poetica del buco: a quella ci penserà il poeta (discendente, a volte, non sempre, del sapiens sapiens) che passeggiando nei boschi ammirerà il creato e le meravigliose gesta innate dei suoi abitanti. Ognuno, in questo mondo, interpreta il ruolo che più si confà alla propria natura e quindi alle proprie caratteristiche: c'è chi fa e chi ne canta. I più in gamba fanno e ne cantano.

Quindi la poesia è un prodotto del surplus? Non di quello alimentare (o forse un po' anche sì: provate a comporre versi a stomaco vuoto! E vedrete che "poema disperato e ululante" ne verrà fuori...) ma certamente di un surplus di coscienza determinato dall'evoluzione. 

I due tipi di diete hanno però in comune una cosa: la rabbia. Nel caso di una dieta da cibo, la mancata introduzione nell'organismo di sostanze confortanti e gratificanti, rende il soggetto irascibile, smanioso, cattivo in quanto famelico, perché il corpo è convinto di non ricevere ciò che l'abitudine ha meccanicamente reinterpretato, ai tempi del surplus, come necessario. Ma bastano poche ore o pochi giorni e l'organismo tenderà, obtorto collo, ad adattarsi: si "accorgerà" di avere a disposizione riserve che ignorava o che fingeva di ignorare stando lontano da specchi e bilance. Riserve a cui mettere mano, come i lingotti d'oro custoditi presso la Banca d'Italia e da utilizzare solo nel caso di una reale emergenza economica e finanziaria. Superata la rabbia, e constatata l'avvenuta sopravvivenza, a dispetto dell'allarme infondato scatenato dallo stravolgimento di certe abitudini meccaniche, si torna ad utilizzare l'essenziale. Gurdjieff sottolineava la differenza tra personalità ed essenza: nel nostro specifico caso "alimentare" la personalità è data dalle convinzioni provenienti dall'esterno e fatte proprie in materia di false necessità caloriche; l'essenza è il prodotto della lotta tra questa personalità e la coscienza che in un certo qual modo si risveglia e dal di fuori comincia a osservare il corpo e la quantità di energie in esso imbrigliate e non utilizzate. E soprattutto osserva inorridita la quantità di energia che quel corpo continua a ricevere sotto forma di cibo nonostante non ne abbia realmente bisogno, al netto dell'importanza del gusto dal punto di vista psicologico e della cultura enogastronomica,identitaria di un popolo, da salvaguardare.

Nel caso di una dieta da 'social' accade, ancora una volta, esattamente il contrario: la rabbia è determinata non da quel che non riceviamo bensì da ciò che non riusciamo più a dare al mondo attraverso le nostre perle di saggezza social (esattamente come per il presente post non richiesto e non indispensabile!). Anche in questo caso si tratta di una necessità sopravvalutata; in realtà non è il mondo ad avere bisogno di noi ma siamo noi che avvertiamo la necessità di sentirci indispensabili per qualcuno là fuori, nel web. E nel crederci indispensabili non facciamo nient'altro che alimentare il nostro essere dei "giullari del consenso" - per dirla alla Inìsero Cremaschi (Il mite ribelle) - in cerca di proseliti del Mipiacismo (o Likesimo a seconda della zona geografico-linguistica d'appartenenza), questa nuova immateriale religione, tanto bella e colorata, forse addirittura più immateriale delle altre già in voga. Siamo un po' tutti Testimoni del Network che citofonando a casa della gente (Salvini docet!) annunciamo il Regno di Zuckerberg... Tutti vogliono salvare tutti dalla fine del mondo, ma a conti fatti vogliamo salvare solo noi stessi usando gli altri, facendo finta di prenderci cura di loro e della loro salvezza.

Un equivoco social! Perché, come cantano i Baustelle parafrasando forzatamente D'Annunzio per questioni di metrica cantautorale:

"... Piove su immondizia, tamerici
Sui suoi 5000 amici, sui ragazzi e le città
Tanto poi ritorna il sole..."

Fratelli e Sorelle, non abbiate paura di scoprire le "riserve aurifere" nascoste in voi, lontane dal flusso insensato dei social e da questo distratte affinché restino inutilizzate: riscoprite la lettura, quella cartacea; il silenzio, alleato di mille viaggi interiori; l'ozio creativo da contrapporre al falso impegno comunicativo; il tempo, anche quello impiegato scrivendo per voi stessi e non per individui che non conoscerete mai. Riscoprite il valore della non condivisione: fate economia di voi stessi, risparmiatevi per la realtà, per il dialogo vero fatto di schizzi di saliva e aliti cattivi; riscoprite la sospensione del giudizio, la strada, i piccoli spazi quotidiani, le lettere scritte a mano e non spedite, il pensiero non amplificato ma analogico, l'ombra e la lontananza, il distacco e la piccola verità, il potere immaginifico della radio, la lentezza della risposta; senza rinnegare l'amore dato e ricevuto, riscoprite infine la triste gioia che c'è nell'essere dimenticati...  

E alla domanda dell'algoritmo "A cosa stai pensando?", finalmente risponderete, ma solo in cuor vostro: sono cazzi miei!

 

Parola di Nigro

Rendiamo grazie a Dio

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Zelig e i nuovi anni 20 »
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- Cinema

Joker: i supereroi non esistono

I supereroi non esistono: non per le cose fantastiche che fanno e per i superpoteri improbabili che posseggono. Non possono esistere perché sono il frutto irreale di ciò che vorremmo essere, la condensazione in un’unica persona creata a tavolino del meglio dell’umanità, l’epicizzazione e la razionalizzazione dell’immagine di noi che vorremmo dare al mondo, l’idealizzazione di quella parte nobile della nostra anima che ancora riusciamo a considerare salva. Salva dal punto di vista della visione comune di quello che è il bene e il male: un limite che le sovrastrutture imposte dall’educazione e dalle regole di una parte della società che cerca di isolarsi dal marcio imperante, cercano di mantenere vivo. Il bene comincia, guarda caso, dove iniziano gli interessi dei pochi: il potere difende, grazie alle leggi e alle forze dell’ordine create per eseguirle, la propria stabilità, ma taglia i fondi che servono a proteggere e curare i più deboli. Il “reddito di cittadinanza della salute mentale” è poca cosa se confrontato con i mirabolanti progetti dei tanti imprenditori pronti a scendere in campo e ad impegnarsi in politica in prima persona.

C’hanno sempre fatto credere che i “cattivi” fossero i necessari alter ego dei protagonisti buoni, la “spalla” anti-idealistica per giustificare il bisogno cieco di servire il Bene, quello supremo, alto, così alto nei cieli da dimenticare, più in basso, lì dove viviamo noi, le cause del Male, sempre le stesse, apparentemente irrisolvibili; ce l’hanno fatto credere (è successo anche con certe pagine di storia scritte dai vincitori e assunte senza fiatare come farmaci alle scuole primarie) e invece è esattamente il contrario: ma ci accorgiamo di questa differenziazione forzata solo quando l’arte, il cinema come nel caso del film di Todd Phillips intitolato “Joker”, pellicola dedicata alla lenta evoluzione (per i meno audaci ‘involuzione’) psichiatrica del famigerato anti-eroe creato dalla DC Comics e magistralmente interpretato dal notevole Joaquin Phoenix, riesce a trovare il coraggio di essere politically incorrect e soprattutto a distaccarsi dalle regole non scritte dei cinecomics riguardanti il rispetto dei ruoli, della caratterizzazione dei personaggi e da altre catene narrative e cronologiche.

Nonostante la nostra speranzosa (a volte ingenua) reazione uguale e contraria, come c’insegna la fisica, nonostante “la risposta” che tentiamo di dare alla vita, alla fine non siamo nient’altro che il maledetto risultato dell’azione di forze esterne esercitate in maniera costante sul nostro corpo e sulla nostra mente (con buona pace del corredo genetico vincente di cui pochi fortunati sarebbero provvisti): il diverso, non per forza dal punto di vista mentale o sessuale - si può essere diversi in tantissimi altri, più o meno impercettibili, modi (lavoro assente o tipologia dello stesso quando c’è, disponibilità economica, fede religiosa, cultura etnica, lingua, gusti sportivi o assenza di gusti, fortuna con le donne o con gli uomini, modo di vestire, se vivi ancora con i tuoi, disabilità, capacità comunicative,… devo continuare?) - subisce questa pressione in maniera incidentalmente più dannosa. La sua congenita debolezza, i casi fortuiti e bizzarri della vita, la mancanza di quella che certi ricchi e fortunati radical chic travestiti da democratici chiamano - abusando del termine a fini propagandistici per mettere in mostra un paese vincente che in realtà non esiste - resilienza, rendono il diverso più esposto alle “intemperie” del vivere sociale, ai suoi repentini e poco gentili cambi di rotta: all’inizio della sventura a prevalere è ancora la gentilezza, il lathe biosas (“vivi nascosto”) di epicureana memoria che entra in conflitto con l’esigenza di far sapere al mondo che esisti (il from zero to hero dei terroristi radicalizzati, p.e.), il rifiuto delle armi quale mezzo non solo per difendersi ma anche per imporsi e pareggiare i conti, la caparbietà moraleggiante a non risolvere i problemi della vita adoperando la violenza, perché così c’hanno insegnato, seguendo la linea gialla tracciata sul pavimento che porta verso la tomba.

Il diario, che una psicologa stanca ha consigliato di tenere per seguire eventuali progressi, raccogliere ricordi o cogliere sprazzi di guarigione, diventa vomitorio scritto, confessionale spiegazzato, disordinato ricettacolo di pensieri incondivisibili, a volte comici, molto spesso dolorosi e antichi. L’insostenibilità dell’esistenza non si manifesta attraverso un unico, grande atto di ingiustizia ma per mezzo di microspilli conficcati quotidianamente, per anni, nella pelle del nostro riprovarci con fede, di etichette marchiate a fuoco, di piccole dosi di sfiducia da parte del prossimo e disistima coltivata in proprio: al termine della giornata non sappiamo se siamo puntaspilli di carne o porcospini umani. Poi succede qualcosa, anzi una serie infausta di qualcosa: la pressione a cui si accennava aumenta ogni giorno sempre di più, cerchi di rialzarti e di sorridere, di far sorridere gli altri rispettando il dettame genitoriale, ma ricadi, non sempre per tua incapacità a camminare, e ti ricacciano con la faccia nel fango da cui cerchi di ripulirti dignitosamente; far ridere, raccontare barzellette, addirittura raccontarsi per provocare ilarità (anche le tue aspirazioni per molti sono fonte di spasso!), essere comici per il mondo ma prima ancora per se stessi, per avvertire un po’ meno la crudeltà dell’esistenza. Ma non funziona, o meglio non può funzionare per sempre: certi eventi ti costringono a reagire, a non soccombere, a non dover spiegare tutto con serenità ed equilibrio. Cerchi di dire educatamente alle persone che quella tua risata improvvisa non è irriverenza nei loro confronti ma è causata dal tuo bipolarismo, dai tuoi problemi mentali che affondano le radici nell’infanzia e nella tua storia sfortunata, e che anche tua madre, per quello stesso motivo, fin da bambino ti chiama “Happy” (perché sei L’uomo che ride di V. Hugo). E quando accade, quando reagisci tra una risata e l’altra, quando ti permetti di reagire nonostante la tua posizione sfavorevole nella scala sociale e nell’universo, ti accorgi che ti piace, che ti si addice addirittura, che hai perso tempo standotene buono, che eri un artista della violenza e non lo sapevi, che non sapevi dell’esistenza di questa meravigliosa via d’uscita così sanguinaria e inebriante più dell’alcol. Dove e soprattutto come hai vissuto fino a ieri? Ti chiedi. Da bravo ragazzo hai messo a tacere la rabbia, hai accudito amorevolmente chi è stato artefice di una parte grottesca del tuo destino. E per un attimo l’ironica fisicità del villain, i suoi movimenti divertenti, la bizzarra danza a cui s’abbandona un secondo prima di commettere un atto efferato, fanno dimenticare la gravità del personaggio, il dolore perpetrato che lo ha (tras)formato lentamente negli anni; persino il sangue schizzato sulla faccia è parte integrante del nuovo trucco, diventa il rosso che mancava per completare il sorriso di Joker. Dalla sofferenza causata agli altri, agli insensibili che calpestano l’altrui sensibilità, che ridicolizzano il nostro vissuto, può nascere un nuovo tipo di autostima e di gioia perversa? Sì, perché tutto è relativo, la stessa morale lo è, e come afferma Fleck/Joker in diretta tv, all’apice della sua rabbiosa trasformazione: “La comicità è soggettiva, come la nostra idea di bene e di male!”

Quanto somiglia la società della Gotham City del 1981 alla nostra attuale? L’irrisolvibile problema dell’immondizia e la conseguente emergenza sanitaria, la cecità dei governanti, la disoccupazione e la precarietà esistenziale che alimentano l’intolleranza e la microcriminalità, le dilaganti nevrosi in una città pronta ad esplodere, la mancanza di amore (al punto da inventarselo, fantasticando sulle passanti di cui cantava De André) o di un semplice contatto umano compensata dalla pornografia (aspetto sfiorato con delicatezza, con immagini velocissime, dal regista che lascia intravedere il peso di una solitudine che va ben oltre l’affermazione economica e sociale), la confusione ideologica e politica, la disuguaglianza sociale che i “berlusconi” di turno (da intendere non come cognome ma come concept del nuovo modello di politico non proveniente dalla politica) ribattezzano ogni volta chiamandola “invidia sociale”: la lotta - quella sì supereroica - per una migliore qualità della vita si trasforma in un fastidioso “dispettuccio” ordito da masse di invidiosi; la lotta di classe, che un tempo aveva dignità filosofica, ideologica e quindi partitica, diventa così, per il ricco Thomas Wayne (il papà del futuro Batman che da filantropo nei film precedenti è diventato un arrogante affarista che mira a scendere in politica) e per tutti quelli come lui, la capricciosa autocommiserazione di una parte della società costituita da vigliacchi “clown” che non riesce a vivere normalmente. Di gente che preferisce nascondersi dietro una maschera (vedi i ragazzi che oggi, nel 2019, continuano a protestare a Hong Kong nonostante il divieto di indossare qualsiasi tipo di mascherina, pena la reclusione o il rischio di venire sparati in strada!) perché non ha avuto il coraggio di costruire la propria fortuna con determinazione e per questo motivo merita di soccombere e di sparire dalla vista dei cittadini che contano: le regole darwiniane applicate all’economia e quindi al welfare.

Scrisse Oscar Wilde: “L’uomo è meno se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera e vi dirà la verità”. Dietro lo strato di biacca, inizialmente usata per un modesto ma onesto lavorino, Arthur Fleck è costretto a ritrovare se stesso, il suo vero io tragicomico e stanco di subire, la sua voglia di ribellarsi alle ingiustizie e alle bugie della vita, e alla violenza della società nei confronti di chi non ce la fa (canta Branduardi nel brano Domenica e lunedì: “non è da tutti catturare la vita / non disprezzate chi non ce la fa”. E invece la società disprezza e come: tutti, anche se con differenti gradazioni, disprezziamo tutti). Le persone care, i miti televisivi da sempre amati, le poche amicizie nel quotidiano, la sua stessa storia personale, anagrafica: tutto viene messo finalmente e drammaticamente in discussione, e tutti vengono rivisitati violentemente in chiave liberatoria. Persino il distacco genitoriale (altro che gli innocui bamboccioni di Padoa Schioppa!) non avviene in maniera meno cruenta. Non si torna più indietro! La liberazione è cominciata. Si salva solo chi in passato ha dedicato un gesto compassionevole al diverso, al disadattato, alla persona disagiata bisognosa di gentilezza e di bellezza, di ascolto e di autentica comprensione, non quella di una precaria psichiatra di stato. Perché Joker non è pazzo, Joker ha memoria; e come direbbe il Padrino di Coppola: “Io nun mo scordo!”.

Eppure c’è una scena del film in cui Arthur - ed è l’unico in quel momento, dopo anni, a essere veramente libero da stereotipizzazioni - passa tranquillamente a volto scoperto, proponendo un se stesso riscoperto e senza trucco, attraverso una piazza piena di manifestanti in rivolta che al contrario indossano la maschera che lo rappresenta, quella del “clown assassino di ricchi e bravi ragazzi” salito agli onori della cronaca, nuovo simbolo insurrezionale da seguire ed emulare: non si sentirà mai, almeno non inizialmente e non consapevolmente, alla testa di un “movimento” politico (e di un clownistico “vaffa day”), culturale, artistico-rivoluzionario o anti-distopico (come accade con il personaggio di “V” nel romanzo a fumetti V per vendetta di Moore e Lloyd). Arthur, che è diventato nel frattempo un esempio per altri disadattati assetati di vendetta sociale e personale, in realtà desidera liberare solo se stesso dalla tragedia in cui è stato costretto a vivere per anni e abbracciare finalmente la commedia esistenziale determinata da altri ma alla fine accettata e divenuta rappresentazione violentemente artistica dell’ironia in cui ogni vita umana - nessuno si senta escluso! - è immersa: la commedia nasce dall’incontro tra l’assurdità del proprio esserci in maniera imperfetta e sbagliata, e l’accettazione di questa imperfezione che diventa arte violenta, da portare in strada, in tv, tra la gente insoddisfatta, offesa e oppressa. Da sublimare in gesti comici che rendono persino simpatico l’anti-eroe (chi, alla fine del film, non abbraccerebbe empaticamente e fraternamente Arthur Fleck? Affrontando caso mai il rischio di vedere interpretato il gesto compassionevole dell’abbraccio in buonismo garantista). Solo a quel punto il trucco diventa indelebile, fisso sulla faccia di Arthur, parte integrante della scena quotidiana: così come i supereroi scelgono il costume che li caratterizzerà a vita.

La “pazzia”, per cui assumeva inutili psicofarmaci, era causata in realtà dalla supina accettazione della precedente e deleteria rappresentazione teatrale imposta dal passato e che ora lascia spazio a una nuova catarsi tragica: una volta liberata e veicolata l’energia raccolta nel tempo verso la propria spettacolare natura e i relativi sbocchi soggettivi, la “mente” - almeno nella finzione cinematografica - non ha più bisogno della chimica farmacologica e dell’aiutino di stato. Il ragazzo impaurito, ossequioso, rispettoso delle regole, amorevole in famiglia benché considerato “strano” in base a discutibili parametri incancreniti nella cultura di massa, fiorisce e diventa a suo modo un “artista” - ancora grossolano come in qualsiasi esordio - della vendetta, della rivalsa che guarisce… La risata compulsiva non è più un difetto per cui giustificarsi continuamente, ma diventa caratteristica diamantina del personaggio, colonna sonora che precede il crimine, così come prima precedeva l’imbarazzo. Una risata che ci permette di comprendere un particolare indispensabile: Arthur è sempre stato Joker, anche senza biacca; Joker era solo rinchiuso nel bambino abusato e violentato, e successivamente nel ragazzino con problemi psichici, fino all’uomo servizievole in cerca di un posto nel mondo. Ad un certo punto il trucco ridicolo e massiccio usato per lavorare diventa elegante sfumatura colorita che si adatta a un volto che prevale, a una nuova personalità ormai terribilmente definita. Ecco perché non ha bisogno di usare maschere rigide dietro cui nascondersi.

Quelli che per la fetta potente della comunità sono i benefattori di Gotham City, per Joker sono solo ipocriti da abbattere, perbenisti capaci di seppellire il passato scomodo utilizzando la propria posizione, privilegiati abituati ad avere sempre ragione e mai torto (come ricorda Guccini nel brano Dio è morto). Al di là dei mezzi discutibili e delle soluzioni adottate, si può negare a questo anti-eroe un certo consenso? Ma la società, seppur malata essa stessa e ormai morente, trova la forza “morale” per rinchiuderlo nuovamente; è suo dovere incanalarlo per l’ennesima volta nell’iter dell’ascolto di stato, degli psicofarmaci per tenerlo buono, per fare in modo che non disturbi i ricchi e i potenti… Non questa volta, non più.

E allora cosa resta da fare per sopravvivere a se stessi, al destino, alla società nemica, alle prepotenze e alle bizzarrie della vita? Fuggire dalla stanza bianca, rivestire i panni del clown, attendere che Bruce Wayne diventi adulto, uccidere chi si mette sul cammino di una riscoperta libertà, commettere crimini come se fossero “gesti artistici”, continuare a sorridere, e a ridere incontrollatamente di questa esistenza folle, ingiusta e illogica. E a cantare sottovoce insieme a Sinatra: “That’s life!” 

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- Storia

La vera banalità del bene

 

Quand'è che la retorica commemorativa rischia di diventare più dannosa del crimine storico che si va a ricordare puntualmente ogni anno?

Strumenti mnemonici importanti ma ormai spuntati, affidati a vecchi testimoni sotto scorta, stanchi o decimati dal tempo, hanno assunto il ruolo stantio di vessilli politici usati a piacimento dai protagonisti istituzionali del momento, coinvolgendo in egual misura maggioranza e opposizione, nessuno escluso: lo stesso è accaduto con gli immigrati, gli appartenenti alle comunità lgbt, ecc. Tutti o quasi tutti vogliono saltare sul carro della commemorazione o di una qualche causa sociale senza però badare alle condizioni delle strade su cui quel carro si trova e si troverà a passare, senza risolvere i problemi che sfidano l'integrità (e la credibilità) delle sue ruote: buche economiche in cui i passanti inciampano, profonde spaccature sociali che mettono a dura prova gli ammortizzatori psicologici dell'individuo, asfalti legislativi scadenti, una dubbia segnaletica ideologica, tombini intasati dalla retorica, crepe culturali in cui può attecchire di tutto, dalle erbacce sovraniste fino a ben più preoccupanti e possenti arbusti razzistici le cui radici, come qualcuno scrisse riferendosi ad altro, "non gelano". Ancora una volta, parafrasando un vecchio proverbio, quando la Storia indica la luna, la politica stolta guarda il dito; se oltre il dito guardasse anche la mano o addirittura il braccio a cui è collegata, già sarebbe un progresso: si condanna l'accaduto, ci si indigna, ci commuoviamo ascoltando le testimonianze o guardando un film da Oscar, ma non facciamo assolutamente niente per prevenire le cause che puntuali ritornano come in una sorta di ciclo storico quasi periodico. Pur essendo stato "breve", e avendo quindi a nostra disposizione più strumenti per poterlo "riassumere", ci stiamo perdendo per strada l'insegnamento del secolo scorso.

Ed è alla luce di questa premessa che il Bene predicato, insegnato, romanzato, predigerito da registi e sceneggiatori di fiction, testimoniato, istituzionalizzato, oserei dire "imposto" (ma mai veramente metabolizzato) dal pensiero unico, diventa inevitabilmente banale e controproducente; un leitmotiv scaduto che garantisce ampi spazi ad assurde manovre negazioniste, a riconsiderazioni nazionalistiche, a sovranismi di pancia in cerca di pieni poteri e a nuovi "cameratismi totalitaristici" in grado di captare e addensare i vari disagi sociali. Se la Storia crudele che si presenta in assenza di memoria (come accadde durante la Seconda Guerra Mondiale) è già di per sé condannabile, come dovremmo considerare oggi chi permette, dal punto di vista politico, il suo ripetersi in presenza di una equivalente dinamica socio-economica ormai nota persino allo studente delle scuole secondarie di primo grado (le "scuole medie" dei miei tempi!) alle prese con un programma di storia di livello medio-basso? Se la Repubblica di Weimar fu un laboratorio a cielo aperto da cui ancora oggi è possibile imparare molto, noi rappresentiamo gli studenti distratti che guardano fuori dalla finestra mentre il docente spiega per l'ennesima volta le cause riproducibili e i noti effetti dell'esperimento.

La retorica commemorativa, che almeno all'inizio ha avuto il merito di far uscire da una coltre di silenzio e di autocensura le preziose testimonianze dei sopravvissuti, oggi non è più fattore di concentrazione sul fenomeno storico ma è ormai diventata giocattolo inflazionato in mano a buonisti inconsapevoli di cosa sia il vero bene e a "banchi di pesce" rappresentanti il nulla mentale e ideologico, strumento qualunquistico e autoreferenziale per una ricorrenza resa inutile, gestita da chi non è realmente intenzionato a compiere una profonda opera di prevenzione: talmente profonda da non riguardare mai direttamente gli elementi macroscopici di cui si occupa la commemorazione. Gestita da chi non conosce la realtà sociale o pur conoscendola statisticamente non ha la "volontà di potenza" necessaria per superarsi e superare privilegi concentrati in poche mani, schemi economici e fiscali dettati da entità finanziarie sovra-governative o addirittura sovra-nazionali, comportamenti lassisti e non equilibrati in materia di diritti civili... Costringendoci a un vergognoso "c'ero prima io!" come se stessimo in fila negli uffici della Storia.

La Memoria, quando non supportata dalla Giustizia Sociale (che è data non solo dal lavoro e dall'equità fiscale ma da una miriade di fattori non analizzabili in questa sede), è destinata a trasformarsi in mero esercizio artistico e mondano in uso a personaggi politically correct e ipocriti che adottando una catartica "politica del ricordo" tentano di anestetizzare le masse non nei confronti dell'evento storico in sé, che resta diligentemente sotto i riflettori dell'azione commemorativa con tanto di violini e lumini accesi, bensì verso la loro impotenza politica nel tempo presente. Il riproporre la testimonianza commuovente, senza aver prima bonificato le paludi dell'insoddisfazione e dell'ingiustizia, è un rito privo di efficacia educativa sulle lunghe distanze. Prevenire non significa proiettare in loop documentari storici sulle televisioni nazionali; prevenire non significa organizzare un tour attraverso i principali campi di concentramento... Grazie a questo tipo di prevenzione si fa cultura, che da sola non basta. La cattiveria si nutre attraverso radici profondissime e complesse, e la cultura rappresenta lo strato di humus più superficiale.

Ebbero ragione a scrivere "Il lavoro rende liberi" (Arbeit macht frei) sull'ingresso dell'inferno in terra: ma non il lavoro di facciata, quello fasullo e ingannevole che precede la morte nelle camere a gas della precarietà; il lavoro reale, solido, duraturo, rende veramente gli uomini liberi, equilibrati, speranzosi, lungimiranti, costruttori di pace e non arrabbiati. Il lavoro e la sua cultura politica liberano il cittadino dalle sabbie mobili dell'ideologia farneticante, da un' "invidia sociale" utilizzata a sproposito in campagna elettorale da ricchi imprenditori scesi in campo per interessi personali e che ha lentamente sostituito quella che un tempo era una sacrosanta e dignitosa lotta di classe. E la lotta, si sa, se mossa dalla sola invidia, è già perdente in partenza.  

Fino a quando continueremo a scindere le cause dalla nostra quotidianità attribuendo loro una fatalità che non spiega gli effetti, fino a quando continueremo a fissare il dito senza considerare la mano e il braccio, la Storia peggiore sarà destinata a ripetersi e la Memoria sarà ridotta a evento culturale seguito da apericena e cafè chantant.

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- Scrittori

Intervistando Michele Nigro

Intervistando Michele Nigro

 

a cura di Davide Morelli

 

Michele Nigro, nato nel 1971, vive a Battipaglia (Sa). Si diletta nella scrittura di racconti, poesie, brevi saggi, articoli. È un artista poliedrico. Dimostra talento in ogni cosa in cui si cimenta. Il suo ingegno è versatile. Ha diretto la rivista letteraria “Nugae” fino al 2009 e attualmente cura il blog personale “Nigricante”: http://michelenigro.wordpress.com. Ha pubblicato la raccolta di poesie “Nessuno nasce pulito”,  la raccolta di racconti “Esperimenti”, il racconto lungo “Call Center” e il saggio “La bistecca di Matrix”. Ha scritto su un quotidiano di Salerno e in tanti altri posti. Oltre ad essere poeta e scrittore è anche giornalista partecipativo. Ha frequentato nel 2008 a Roma, presso la Giulio Perrone editore, il Corso di Giornalismo Culturale. Ha partecipato al Laboratorio di scrittura creativa Rai Eri “Il libro che non c’è”. Ha vinto numerosi premi letterari e ha ottenuto vari consensi da parte della critica. Suoi racconti e poesie sono stati pubblicati in molte antologie.

Chi lo segue sui social sa che non lesina battute argute sui fatti del giorno. È ironico e anche autoironico. Riesce ad essere, come si suol dire, sempre sul pezzo. Scrive aforismi pregevoli. È sempre presente su internet ma rifugge dall’esibizionismo e dal successo. Questa è una descrizione molto sintetica di Michele Nigro. Non ho voluto fare il critico letterario e neanche il biografo. In questa intervista gli ho rivolto delle domande, forse un po’ banali ma utili a comprendere di più l’autore. Se volete saperne di più leggetela attentamente e poi magari commentate. (d.m.)

 

DM. A che età hai iniziato a scrivere?

MN. Mi chiedi di compiere un “carotaggio mnemonico” nei terreni del Passato: credo che i primi esperimenti risalgano alla seconda metà degli anni ‘80. Ricordo che mi divertivo a scrivere delle sottospecie di componimenti poetici utilizzando l’inchiostro di china e il pennino: il fatto di dover intingere di tanto in tanto, con un gesto d’antan, mi forniva una pausa dalla scrittura compulsiva e mi induceva a riflettere. Oggi con la videoscrittura questa lentezza è andata un po’ persa, ma cerco sempre di fare un “passaggio lento” su carta prima di riversare tutto in un file, almeno per le scritture a cui tengo di più. Poi c’è stato un lunghissimo periodo diaristico, quando vivevo a Napoli: il diario s’intitolava “Napoli e io”, seppellito in garage; sono trascorsi quasi vent’anni dall’ultima pagina scritta lì sopra, ma non ho ancora trovato il “coraggio” di rileggerlo. Un giorno, quello giusto, lo farò: sono convinto che troverò molte “materie prime” per la scrittura di oggi.


Da quanto tempo sei un artista multimediale?

Ah, lo sono? Non sapevo di esserlo… Se con la definizione “artista multimediale” ti riferisci all’esperienza di webpoetry sul mio blog “Nigricante” (http://michelenigro.wordpress.com) con cui cerco di integrare coerentemente poesia (o altri tipi di testo), immagini e video musicali in un unico post, allora possiamo parlare di una sorta di multimedialità. Per il resto non credo di aver sperimentato chissà che. L’arte multimediale è ben altra situazione: ne sanno qualcosa gli organizzatori dell’OLE Festival di Napoli (Festival Internazionale della Letteratura Elettronica); la vera multimedialità applicata all’arte prevede anche un compromettente grado d’interazione tra autore e fruitore, che può addirittura modificare l’opera: nel mio caso non si va oltre l’ipertestualità o il classico “mi piace”, la condivisione e i commenti, tipici del blogging e del social networking. Sono ben lontano dai più moderni concetti di Crossmedialità o di Transmedialità. 


Ti definisci un lettore onnivoro, ma quali sono state le letture che ti hanno formato?

Assolutamente onnivoro: la monotematicità mi ucciderebbe. Di libri importanti ne ho incontrati tantissimi; dal punto di vista letterario non ho una formazione accademica (per fortuna o per sfortuna) quindi non ho dovuto leggere un elenco di libri consigliati per superare gli esami. Ricordo con affetto i libri sugli animali che mia madre acquistava a Port’Alba a Napoli tra la fine dei ‘70 e gli ‘80, e poi gli almanacchi di Topolino e Paperino, la Bibbia, una raccolta di fiabe giapponesi, le mitiche enciclopedie “Conoscere” e “Universo” (altro che Wikipedia!), l’Atlante geografico De Agostini, e ovviamente la letteratura fantascientifica… Ma le letture interessanti e formative sono quelle che ancora devo fare: la mia libreria chiama!

 

Alcuni ritengono che i blog non abbiano più modo di esistere. Cosa ne pensi a riguardo?

Penso che, al contrario, i blog rappresentino (almeno per quel che riguarda il web) l’ultimo avamposto prima della definitiva invasione di una certa “liquidità”, a cui faceva riferimento Bauman, applicata alla scrittura in rete. Il social networking ha amplificato a dismisura questa condizione disumanizzante: qualcuno parla, a ragione, di “soliloqui incrociati” trasportati da un flusso elettronico verso il mare del Nulla. Anche un blog è effimero: basta un clic e addio! Ma se il blogging è curato, nutrito con materiali consistenti, se è articolato e non teme di essere complesso, può rappresentare un valido argine all’effimero individualismo del web. C’è chi afferma che i post, per essere efficaci (termine relativo: efficaci per chi, per fare cosa?), debbano avere una struttura elementare, essere brevi, leggeri, mi verrebbe da dire “liquidi”, appunto. Io invece dico: scrivete, quando è possibile, post lunghissimi, difficili, “pesanti”, articolati. Avrete molti visitatori frettolosi in meno, questo è sicuro, ma non sarete trasportati dalla corrente del fiume: la “vostra rete” sarà salda, più solida, meno trafficata ma più resistente al tempo. Tutto il resto, poi, dipende dai motori di ricerca e dall’indicizzazione dei contenuti. Se un libro è valido, anche se collocato in un punto dello scaffale poco frequentato, perché non dovrebbe meritarsi di esistere?

E poi, mi tolgo qualche sassolino dalla scarpa, non comprendo lo snobismo di certi “scrittori”, solo perché sono stati pubblicati da qualche casetta editrice, nei confronti dei blogger, non ritenuti “veri scrittori” perché non hanno ancora partorito il “prodotto-romanzo”: anche il blog è una palestra di scrittura (non tutti i blog, ovviamente); molti libri cartacei hanno avuto origine da forme embrionali sul web, così come molti libri stampati proseguono “la discussione” in rete (penso a “Medium” http://medium.com/guida-a-medium e ad altre piattaforme simili per l’interazione autore/lettore, come l’italiana Rivista Letteraria Libera “La Recherche.it” http://www.larecherche.it/index.asp).


Alcuni giornalisti dicono tutto il male possibile del web. Cosa ne pensi?

Penso che questi giornalisti siano ignoranti, nel senso che ignorano le potenzialità di un mezzo a cui loro stessi, come categoria, attingono a piene mani continuamente: basti pensare a quante volte vengono nominati i social network nel corso dei telegiornali per sottolineare l’andamento dell’opinione pubblica in merito a una questione politica o a una notizia di cronaca. Credo che il giornalismo professionistico si lamenti, giustamente, del web in riferimento al fenomeno delle cosiddette “fake news”: partendo dal presupposto che anche molti “giornalisti professionisti” hanno creato false notizie, non hanno verificato fonti, sono stati di parte, non vi è un luogo sicuro, nel mondo delle notizie, a prova di “falso”. Il “giornalismo partecipativo” ovviamente rappresenta una minaccia per i giornalisti vecchio stampo (anche se l’adeguamento ai tempi è in corso!): per fortuna non bisogna essere iscritti all’Ordine dei Giornalisti o avere il tesserino da pubblicista per scrivere la verità o per “partecipare attivamente” alla creazione di notizie. Anche quelle culturali: quest’intervista è un esempio di “giornalismo culturale partecipativo”.

 

Cosa ne pensi del trolling? E degli hater?

Anche se sul mio blog mi sono autodefinito scherzosamente hater e fautore del trolling, penso dei troll e degli hater le stesse cose che penso dei normali “detrattori” nella vita reale: inizialmente possono essere fastidiosi, in seguito si rivelano preziosi per immunizzarci e renderci più forti, o meglio, resilienti, come molti amano dire oggi. A Roma si usa l’espressione: “me rimbalzi!” ovvero ‘mi scivoli addosso’. Solo così si può capire se una passione è forte, se un interesse perseguito è quello giusto o è solo un capriccio momentaneo per cui non vale la pena combattere. Gli hater, come i detrattori, svolgono una funzione oserei dire fondamentale: ci permettono di conoscere e di diventare noi stessi. E quindi, paradossalmente, andrebbero ringraziati.

 

Quali sono i poeti contemporanei che preferisci?

Se per contemporanei intendi anche quelli non recentissimi e i non viventi allora, comprenderai, l’elenco diventa un tantino lungo e complesso: però, per non fare torto ai miei coevi, dimenticandone qualcuno, mi terrei largo e parlerei di Ritsos, Pessoa, Kavafis, Raboni, Merini, Szymborska, Boris Vian, Giorgio Manganelli… e Jim Morrison (sì, hai letto bene!). Ma ce ne sarebbero altri: mi fermo qui.

 

Quali sono gli scrittori contemporanei che preferisci?

Umberto Eco, Franzen, Nothomb, Erri De Luca, Philip K. Dick, Timur Vermes, Enzo Striano, Andreas Eschbach, Roth, Pamuk, il “collettivo” Luther Blissett, fino a… Vinicio Capossela (hai letto di nuovo bene!). Come per i poeti, m’imbarazza stilare elenchi: anche perché non è detto che mi piacciano tutti i libri di uno stesso autore di un sottogenere letterario. E comunque hai dimenticato di farmi la medesima domanda per gli autori di sola saggistica! Sarà per la prossima volta. 


Nella vita reale frequenti artisti oppure no?

Di più in passato. Non sono un tipo da circoli letterari, da “manifesto programmatico”, per intenderci. Anche se questo non è sempre un bene: l’arte se non s’impregna di azione sociale, di interesse politico, di cultura popolare, di condivisione, prima o poi muore. Credo nella poiesis come “atto solitario”, ma senza esagerare. Alcuni “artisti”, invece, li evito scientificamente per una sperimentata incompatibilità: ci tengo alla mia salute mentale.


Scrivi sempre oppure aspetti l'ispirazione?

No, a volte leggo anche! Scherzi a parte: l’ispirazione è un fenomeno sopravvalutato a cui è stato attribuito per troppo tempo un carattere miracolistico. Come scrisse Neruda: “Venne la poesia / a cercarmi.” Ed è vero: però all’evento “divino”, creazionistico, segue sempre un momento artigianale “umano” che non è meno affascinante dell’ispirazione, anzi. 


Per te è terapeutica la scrittura?

La poesia in modo particolare, e senza esagerare, posso affermare che ogni giorno mi salva la vita! In senso lato. Ma non potrei concepire la poesia come “sfogo”. Se ricordi all’inizio dell’intervista ho parlato di un periodo diaristico: sono momenti legittimi, soprattutto quando si è giovani, che nulla hanno a che fare con la ricerca poetica, con la formazione di uno stile. Se voglio scrivere degli appunti per dare forma a un pensiero libero con finalità terapeutiche, scelgo un linguaggio quotidiano da consegnare a foglietti volanti, utilizzo degli spazi che ovviamente non diventano di pubblico dominio. Scegliere una forma letteraria da donare al mondo è una scelta seria. Gli “sfoghi” lasciamoli ai dermatologi!


Cosa ne pensi della neoavanguardia? Secondo te ha esaurito la sua funzione o a tuo avviso ha ancora modo di esistere?

Credo che ci sia ancora tantissimo bisogno di una ricerca neoavanguardista, senza per questo ricadere nella parodia e nel non-senso: certi sperimentalismi esagerati furono necessari in quelle epoche in cui si avvertiva l’esigenza di rompere determinati schemi linguistici; schemi evidentemente riconducibili anche a livello sociale, culturale, politico, religioso. Oggi che si fa un gran parlare di “analfabetismo funzionale” forse sarebbe neo-neoavanguardista la riscoperta della normalità; gli schemi linguistici non solo sono stati dissacrati, di più, sono stati annullati, rasi al suolo da un’ipertrofia di dati - a cui tutti contribuiamo - che ha disarmato il significante (e di conseguenza ha impoverito il significato delle parole). Bisognerebbe ricominciare dai fonemi, dalla scrittura a penna, dalla lettura, dal gusto delle parole. Dal silenzio. La non scrittura potrebbe essere il titolo provocatorio del punto primo di un ipotetico manifesto neo-neoavanguardista del XXI secolo.


Sempre più artisti scrivono prosa poetica. Cosa ne pensi?

Credo che molti elementi tipici della poesia possano riscontrarsi anche in un testo in prosa. La faccenda dell’ “andare a capo” per considerarsi poeti, credo sia stata inventata proprio per prendere un po’ in giro chi crede che basti spezzare una frase per fare versi. Sarebbe molto più onesto scrivere direttamente prosa poetica. Quanta musicalità si riscontra in certa narrativa; non sempre la prosa assicura una distinzione netta tra significante e significato, e quando accade il risultato è piacevole come quello prodotto da... una poesia. Possiamo noi discriminare tali scritture solo perché non assicurano il rispetto di una tradizione metrica? Così come la struttura metrica dei versi non va controllata con il metronomo. È vero, qualcuno ha scambiato il “verso libero” con il “verso libertino”, ma chi può determinare quale sia (e dove sia) il confine tra la forma testuale e la sua poeticità? Tempo fa, leggendo una recensione alla mia raccolta di poesie Nessuno nasce pulito, il recensore scriveva: “Peccato che abbia abbandonato (riferendosi al sottoscritto, n.d.a) del tutto le forme della tradizione poetica, con la sua sapienza lessicale e con l'intelligente utilizzo delle figure retoriche, avrebbe anche lì capacità espressive di livello.” Una mia possibile risposta potrebbe essere: “Le forme scelte, al netto della loro poeticità, rappresentano sempre l’esigenza neurolinguistica dell’individuo storico, che vive in una determinata epoca, che si esprime in un certo modo e in un dato mondo; esigenza che non guarda in faccia ad alcuna tradizione. In parole povere: al ‘busto stretto’ del sonetto, seppur grazioso all’orecchio, prediligerò sempre il verso ‘sfigurato’ da un enjambement.”  


Secondo te oggi la poesia ha una funzione sociale? Se sì, quale?

Avrei preferito che tu mi chiedessi: “Secondo te oggi la società ha una funzione poetica?” E ti avrei risposto: “sì, come sempre!”. Come ho scritto in una precedente risposta, abbiamo bisogno di socialità, di partecipazione, di condivisione e di vicinanza, per nutrirci innanzitutto di umanità; la poesia è una conseguenza anche di questo aspetto dell’esistenza. Ma non credo che la poesia possa “cambiare il mondo” o “favorire la pace sul pianeta Terra”, come dichiarano le signorine che si presentano a Miss Mondo per fare colpo sulla giuria. È già una fortuna se le poesie riescono - senza per questo scadere in uno sterile intimismo - a migliorare la vita interiore del poeta stesso; da qui ad avere un’influenza sulla società, ce ne vuole… È tutto così relativo: se una sola persona mi confessa di aver riflettuto (o essersi emozionata) grazie a un mio verso, è come se avessi vinto il Nobel! Anche questa è “funzione sociale”, sebbene ristretta. Poi c’è chi per funzione sociale intende “fare del bene con i proventi delle copie vendute”: a questi promotori dico, se potete farlo, fatelo, anche a nome mio, ma la poesia nasce da esigenze diverse. Come ho scritto più volte: la letteratura è utile solo quando è inutile; si scrive per scrivere, non “in vista di”. I benefici sociali sono incidentali.

Un’opera, ad esempio, che ebbe ambizioni sociali, nel senso di risveglio di un’identità popolare e di una coscienza della lotta di classe, fu Canto General di Pablo Neruda. Ma, appunto, stiamo parlando di Neruda! L’essere poeti impegnati socialmente e politicamente non è solo una scelta estetica o metrica, come scrivevo prima, ma può portare a conseguenze drammatiche. È di questi giorni, infatti, la notizia proveniente dal Cile riguardante la vera causa della morte di Neruda: non fu il cancro alla prostata a portarselo via, bensì un avvelenamento. Il regime di Pinochet ha voluto così assicurarsi il definitivo silenzio del poeta, amico del deposto Allende.


Cosa ne pensi dell'editoria a pagamento?

Non la frequento. Preferisco una più sana, gratuita e onesta autoeditoria (o self-publishing): è una scelta ecologica (si “spreca” carta solo se c’è un reale lettore che acquista; niente resi, niente macero, niente distributori e librai insonni, niente deforestazioni…) e in più permette all’autore di non aspettare inutilmente di entrare nelle grazie di qualche editore per vedere stampata una propria opera. Il self-publishing (che è anche in formato ebook) è un modo per cominciare a farsi leggere, non è l’alternativa assoluta all’editoria tradizionale. È evidente che quando si sceglie l’autopubblicazione, per essere credibili, occorre applicare non il doppio ma il quadruplo della cura che avrebbe una normale casa editrice per un’opera. Gli editori tradizionali intelligenti, comunque, hanno compreso l’evoluzione in atto e stanno cercando di incontrare il mondo dell’autoeditoria, di captarne le potenzialità anche in termini di nuovi autori da scoprire ed eventualmente ripubblicare. Caso mai, in una prossima intervista, potremmo parlare delle condizioni da schiavismo capitalistico dei lavoratori di Amazon o di che cosa si nasconde dietro le grandi piattaforme di self-publishing. Non esistono sistemi perfetti.

 

Potresti spiegare in parole povere perché talvolta usi la decostruzione narrativa?

Mi sono divertito ad applicarla, se non erro, solo in un mio racconto lungo - Call Center - pubblicato su Amazon: le trame cronologicamente lineari a volte possono risultare noiose. Il personaggio prima fa questo, poi fa quello, scende, sale, apre, dice… Seguire passo passo i protagonisti, non solo nel presente ma anche in altri tempi, è un modo per spezzare l’integrità del testo classicamente inteso. Andare avanti e indietro nel tempo, utilizzando dei flashforwards (e non solo i più classici flashback), è un espediente della metanarrazione, figlia legittima della letteratura postmoderna. Alcuni pensano che si tratti di “trucchetti” nati con il cinema: la letteratura, invece, è piena di esempi autorevoli di decostruzione narrativa.


Potresti dirmi tre buoni motivi per cui acquistare la tua raccolta poetica "Nessuno nasce pulito"?

Motivi da fornire non ne ho, francamente. Si arriva a leggere l’opera di un autore seguendo le stesse strade misteriose che hanno indotto a scriverla. Ci si sceglie per caso, annusandosi. Credo nel book marketing, ma fino a un certo punto: il resto se deve avvenire, avviene. A volte si è diffidenti dinanzi all’opera prima di un poeta e si pensa “perché dovrei essere proprio io a dare fiducia a questa penna?”. E caso mai, dopo anni, si ritorna su quell’opera perché si è letto altro di quell’autore, scritto in seguito al suo esordio. Le vie della lettura sono infinite, come per la metanarrazione a cui accennavo sopra.


Che consigli daresti a un giovanissimo che vuole scrivere?

Assolutamente nessun consiglio. I consigli sono il frutto della logica e la mia razionalità consiglierebbe di seguire strade più facili e redditizie. La scrittura è una scelta dell’anima e io nelle anime altrui non ci entro declamando decaloghi o disseminando consigli. 

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- Musica

Elogio del vinile

L'appartamento era semibuio e insolitamente immerso in un silenzio salvifico. L'unica presenza vivente aggiunta era rappresentata da un gatto indifferente che sonnecchiava sulla spalliera del divano in attesa di pasti notturni. L'uomo assetato di solitudine accese il rispolverato impianto stereo che emise un tonfo ribelle dalle casse nere e severe, segno che la corrente elettrica era gloriosamente ritornata dopo anni di assenza a ripercorrere i circuiti abbandonati ma perfettamente funzionanti di quella macchina meravigliosa e obsoleta, motivo di ilarità per irriverenti spacciatori di mp3 e spavaldi futuristi digitalizzati. No, quella sera non avrebbe usato i suoi fedeli cd, non avrebbe fatto tremare i vetri della sua stanza con il suono perfetto e quasi inumano dei nuovi supporti musicali imposti dal mercato. Con un gesto antico, difficile da descrivere e carico di un fascino in via d'estinzione, fece scivolare fuori dalla copertina in cartone rigido e dalla busta bianca in carta di riso che l'avvolgeva intimamente da anni, il suo disco in vinile preferito, riesumato dai depositi mnemonici del suo passato analogico. Adagiò delicatamente l'oggetto circolare, lucido e nero, sul perno in metallo al centro del piatto fino a quando questo non capitò nel piccolo foro centrale del disco, possedendolo voluttuosamente e stabilendo la posizione adatta per permettere all'apparecchio di compiere le operazioni successive. L'ascoltatore aveva attraversato tempi, mode e tecnologie per giungere in orario a quell'appuntamento con la sua storia personale: non era impaziente come quando inseriva nervosamente i suoi compact disc nel lettore del personal computer. Prese con la punta delle dita l'estremità del braccio del giradischi e avviando il movimento di rotazione del piatto senza il quale la magia non avrebbe avuto luogo, fece scendere con fede laica la puntina della testina fonografica lentamente e con dolcezza sui solchi invisibili del disco, andando a caccia di vibrazioni da tradurre e amplificare. La memoria spiraliforme di quell'oggetto oscuro come un buco nero conservava intatti i segnali sonori ereditati dalla gommalacca. Vista da vicino la testina sembrava il carrello di un aeroplano un istante prima di toccare il veloce suolo sottostante di una pista d'atterraggio sonora. La silenziosa pausa iniziale carica di mistero e di tensione mistica, cedette il passo per l'ennesima volta, dopo una lunga pausa dettata dalla comodità del digitale, a un miracolo analogico che in pochi ricordavano. L'incipit scricchiolante si trasformò in meraviglia acustica tornando a sorprendere l'udito dell'ascoltatore come se fosse il primo suono della sua esistenza terrena. L'intramontabile fascino del vinile e la profondità del suono analogico avevano riconquistato l'orecchio frettoloso dell'uomo moderno. Presenza, profondità, qualità: la scena sonora riacquistava la propria dignità con tutti i suoi difetti, gli occasionali click e le sue adorabili imperfezioni. Le normali distorsioni della vita lo stavano rieducando. Ora ne aveva le prove.