chiudi | stampa

Raccolta di articoli di Valentina Corbani
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

- Letteratura

Incontriamo Valentina Corbani intervista

 

Incontriamo

Valentina Corbani

 

[Giornale Indipendente di Padova

Bologna, Maggio 2013

D. Valentina, Lei ha scritto libri di grande interesse (romanzi, poesie, saggi). Oggi vorremmo concentrarci principalmente sulla Sua produzione saggistica che, in prevalenza, si occupa del Proust della "Recherche". Perché Proust?

R.

 

E‟ una domanda che mi fanno in tanti, e io rispondo sempre e puntualmente che, in realtà, non c‟è un motivo per cui "è" Proust e non un altro. Ho iniziato a interessarmi a Proust per motivi molto poco accademici. La cosa che mi ha colpita è stata vedere la sua faccia, triste, in copertina della "Recherche": non so se ha presente quella foto in cui lui è seduto su un divano e si tiene il viso con una mano? Ecco, secondo me, è un‟immagine molto triste, e da quel giorno ho cominciato a interessarmi sempre più a lui. Per il resto, mi scusi, ma la domanda è inconsistente.

 

D. Sono contento che abbia aperto questo argomento. Un critico ha scritto di Lei: "A [Corbani] se una persona non è infelice o triste non Le interessa". E’ d’accordo con questa definizione?

R.

 

In parte. Non credo che la tristezza o l‟infelicità siano i miei parametri di giudizio: questo no. Però, sì: credo che, soprattutto nell‟arte di qualunque tipo, siano state prodotte le migliori opere sotto il segno della tristezza. Questo sì: lo credo e l‟ho detto più d‟una volta. Credo, insomma, che né Proust né Leopardi né Majakovskij o chi per loro avrebbero prodotto quello che hanno prodotto se non fossero stati infelici, tristi, soli. Intendiamoci, probabilmente avrebbero scritto comunque, ugualmente bene, altre cose; oppure no: magari non avrebbero scritto affatto.

D. Lei in un’intervista ha dichiarato che "mai si è prodotto qualcosa di buono col cuor contento e a pancia piena". Impossibile scrivere se non si è tristi?

R.

 

Io non metterei la questione in questi termini. Direi, piuttosto, che bisogna identificare bene che cosa è la tristezza e tenere in conto che se c‟è una tristezza produttiva ce ne è anche una controproducente. C‟è un libro vecchissimo dove questa idea, secondo me, è espressata molto bene. In questo libro si dice – vado un pò a braccio perché non ho buona memoria – che quando digiuni non devi avere una faccia triste perché gli altri non si rendano conto che digiuni e che quando preghi devi chiuderti nel silenzio della tua stanza, non metterti in mezzo alla folla così che

nessuno possa vedere che tu preghi. Ecco, deve essere un pò così: la tristezza produttiva, quella che fa scrivere e permette di andare oltre la tristezza stessa, non deve essere conosciuta da alcuno fuorché da chi la prova.

 

D. Riguardo ai saggi, ce n’è uno che si intitola "Gabbie e confini (più o meno volontari): Marcel Proust e Ezra Pound". Come Lei saprà la nostra rivista si occupa prevalentemente di narrativa anglo-americana, dunque le chiediamo, oltre a Proust, come ha scoperto Pound? Come è nata l’idea di questo saggio, di avvicinarli e confrontarli?

R.

 

Mah, Pound l‟ho scoperto per lo stesso sentiero di Proust. Non mi interessava all‟inizio perché non lo conoscevo o lo conoscevo solo molto superficialmente, conoscevo le voci di corridoio che stupidamente dicono: "Pound fascista, razzista". Poi ho visto una bellissima intervista fatta a lui da Pasolini, nel 1967, e ho cominciato ad interessarmi a Pound molto di più. L‟idea di avvicinarlo a Proust è nata semplicemente dalla constatazione che, se c‟era qualcosa che poteva unirli, qualcosa che poteva avvicinare il francese asmatico esiliato al perpetuo lavoro del suo libro, all‟americano chiuso in gabbia lavorando al suo di libro, era proprio questo: "la letteratura sofferta", un nuovo genere di letteratura che si crea solo nel dolore. E, chiaramente, l‟esilio, la clausura (forzata o no), l‟isolamento che sia di sughero o di metallo.

D. E Pound non era fascista, secondo Lei?

R.

 

Pound non era fascista, ma non secondo me: obiettivamente non era fascista. Non è mai stato veramente fascista. Pound fa parte di quella massa di scrittori, intellettuali della seconda metà del „900 che vennero accusati di fascismo, che è un‟altra cosa. Io penso, anzi sono sicura, che Pound, di tutta l‟ideologia fascista, fosse stato affascinato, in realtà, solo dall‟estremo ordine, dalla profonda pulizia, chiarezza con cui il tutto veniva presentato. Bisogna tenere in conto, quando si parla di queste cose, del sogno di Pound: "Utopia", che lui definiva "la città nella mente industruttibile", "il luogo in cui le idee si realizzano". E, in più, bisogna assolutamente non dimenticare l‟immensa ingenuità di Ezra Pound, il fatto che era lui "a baby in the woods" ("il bambino nel bosco", ndr).

E per questo c‟è un aneddoto molto eloquente: Pound incontra Mussolini una sola volta: a Palazzo Venezia, nel 1933. Gli porta una copia dei "Cantos" fino ad allora pubblicati, il Duce li sfoglia e finge di capire, e dice che sono divertenti. Ora, lei capisce la superficialità assoluta del giudizio del Duce, il quale si riferiva, forse, alle particolarità tipografiche dei "Cantos". Pound non la capì, ed ingenuo com‟era penso subito ad un giudizio di valore estetico sulla sua opera. E infatti scrive nei "Cantos" che "the Boss, il Duce, capisce le cose che non capiscono gli esteti", non capendo invece lui [Pound] l‟assoluta superficialità del giudizio di Mussolini. E questo è divertente.

D. Non lo sapevo. Lei come giudica il castigo dato a Pound dopo la II Guerra Mondiale?

R.

 

Guardi, il castigo di Pound che consistette in una dichiarazione di pazzia e in tredici anni di manicomio senza processo fu, a suo modo, geniale, perché salvava il poeta, salvava l‟artista. Chiaramente salvando l‟artista, dichiarava inconsistente l‟economista che era Pound. Questo perché non nuoce al poeta, all‟artista un pò di pazzia, ma la stessa pazzia non viene accolta in un economista; e chiaramente immagino lei capisca che quello che veramente interessava era ciò che lui diceva sulle banche, contro l‟usura, sull‟economia; insomma non è stato tredici anni in manicomio per la poesia.

D. Certo. Per quanto riguarda la critica feroce di Ezra Pound contro l’usura, c’è un canto che si intitola appunto "With Usura"

("Contro l’Usura")

. Quali sono secondo Lei i punti fondamentali di questa critica poundiana all’usura?

R.

 

 

 

Lei va in profondo e io non so se sono all‟altezza. Comunque, quello che posso dirle, è che Pound riteneva – e lo si vede precisamente nei "Cantos" – che la ricchezza è nella mente e nel cuore degli uomini e che l‟usura è "un meccanismo che impedisce la crescita naturale delle cose". Guardi che in questa idea di Pound dell‟usura, c‟è assolutamente contenuto anche il suo essere tutt‟altro che guerrafondaio: l‟usura, chiaramente, vive sulle guerre perché è con le guerre che lo stato si indebita. Pound tra le altre cose amava molto gli scacchi e riteneva che le guerre andassero fatte giocando con gli scacchi, perché tutto è limpido e chiaro nel gioco degli scacchi.

 

D. Lei come giudica tutto quello che successe a Pound: l’internamento a Pisa, il manicomio, il silenzio effettivo di Pound che smise quasi di parlare verso la fine della sua vita?

R.

 

E‟ il dramma del profetismo, e Pound era un profeta. I profeti sono sempre inascoltati, incarcerati, derisi o dichiarati pazzi. Lei guardi cos‟è successo a quel profeta di Nazareth! Il fatto è che lo si capisce anni dopo che quel profeta aveva ragione. Infatti, se lei ci pensa, quante persone ora leggendo quella critica all‟usura di Pound, possono dire: "Sì, è vero. E‟ così"? Tutti. Chiunque abbia un pò di libertà intellettuale. Aveva ragione ma lo si sa adesso. Per quanto riguarda, invece, il discorso del silenzio di Pound, io credo dipenda da due fattori, uno dei quali è la grande colpa della cultura italiana dell‟epoca di non averlo cercato mai, di non essersi occupata di Pound. L‟intervista di cui le dicevo prima fu un‟eccezione, Pasolini fu un‟eccezione perché, in linea di massima, la cultura italiana non si è occupata di Pound. E, purtroppo, il Pound migliore, il Pound più grande era un Pound che faceva fatica a parlare. D‟altra parte, secondo me, dietro questo silenzio di Pound, c‟è sicuramente la frase che vide iscritta nel Tempio Malatestiano,a

Rimini, e che subito fece sua: "Tempus loquendi, tempus tacendi"

 

("C’è un tempo per parlare e uno per tacere", ndr).

Dall‟uscita dal manicomio alla fine della sua vita fu, per lui, "Tempus tacendi".

 

D. Beh, al profeta di Nazareth è andata peggio! Qual è la caratteristica di Pound che Lei apprezza di più?

R.

 

Io provo una grande invidia verso Pound e verso Proust. Entrambi, uno per la poesia e l‟altro per la prosa, sono stati i più grandi non solo del „900 ma, azzardo, di sempre. Se lei legge la "Recherche", da una parte, e i "Cantos", dall‟altra, noterà che c‟è un fenomeno curioso e intelligente in entrambe le opere: nei "Cantos", soprattutto, è molto evidente il fatto che, a una prima lettura, non ci si capisca assolutamente nulla, ma non importa. Guardi, per capire veramente i "Cantos" bisognerebbe conoscere tutto quello che Pound conosceva: la saggezza cinese, Confucio a cui da tanto spazio, il greco, l‟arabo, la musica, la scultura; bisognerebbe sapere tutto quello che lui sapeva; bisognerebbe essere stati in quella gabbia, in quel manicomio, aver creduto quello che lui credeva, aver "Utopia" ben impressa in mente; la cosa grandiosa – e qui sta il genio – è che non importa: l‟opera si legge e si apprezza benissimo anche senza sapere tutto quello che dicevamo. Ecco, io vorrei saper scrivere così.

D. Qual è, secondo Lei, anche alla luce di questa analisi, la bellezza di Pound?

R.

 

L‟ha detto lei: è la bellezza. Pound è uno che ha sempre seguito la bellezza, in tutti i modi, in tutte le forme: nell‟arte, nella vita, nella società. Tante volte lui nei "Cantos" scrive: "la bellezza è difficile, la bellezza è difficile". Pound ha sempre creduto nella bellezza, intesa in senso ampio chiaramente. Ha sempre creduto nella forza della bellezza. Nei "Canti Pisani" che sono scritti, come lei saprà, nella gabbia a Pisa, nella quale sta imprigionato tre mesi prima del manicomio negli USA, sotto il sole, sotto l‟acqua, in condizioni disastrose; ebbene, in quelle condizioni, lui scrive due dei suoi versi migliori. Scrive: "Sotto nuvole bianche, cielo di Pisa, da tutta questa bellezza qualcosa deve uscire".

D. Bello, direi! Bene, ci avviciniamo alla fine dell’intervista. Noi La ringraziamo per la gentilezza, l’acume delle risposte e anche, è il caso di dirlo, la bellezza della Sua persona. Concluderei con un’ultima domanda: nel Suo ultimo libro uscito "Dove tu sei" (Urso Ed., Avola 2013) c’è un bellissimo verso che dice: "Essere dove tu sei, perché dove tu non sei, dove tu non ci sei, sono macerie e pianto". Sono quelle macerie e quel pianto che fanno scrivere?

R.

 

Se sono macerie e pianto produttivi: sì. Altrimenti bisogna far qualcosa perché lo diventino o, alla meno peggio, cercare di andare oltre quelle stesse macerie e quel pianto. Quello che vorrei fosse chiaro è che ho tentato di disseminare in tutta l‟opera

l‟idea che si debbano assolutamente superare macerie e pianto: non si vive se le si portano dentro.

 

D. Grazie Valentina!

Abbiamo intervistato Valentina Corbani (Rimini, 1987) come "Giornale Indipendente di Cultura", Padova 2011. Intervista a cura di Paolo Rosa.

Bologna, 24-05-2013

*

- Letteratura

Intervista a cura di Carlo de Maria

Intervista a Valentina Corbani, scrittrice bolognese, 25enne con all’attivo due romanzi, un volume di poesia saggi di critica letteraria su Marcel Proust e la Recherche. Oggi parlerà con noi del suo ultimo libro uscito “Dove tu sei” (vincitore del concorso Urso, Avola 2013).
D. Valentina, grazie per averci concesso l’intervista. “Dove tu sei” è il volume di poesia vincitore dell’ultima ed...izione del concorso indetto da Urso Ed. Complimenti! Come è nato il libro? R. Come lei sicuramente saprà, spesso non c’è un’idea precisa di come un libro deve essere o del perché deve nascere in quel particolare momento. Credo d’averlo già detto altre volte: quando scrivo, non mi chiedo mai perché lo faccio. Sento che ho quell’esigenza, che devo scrivere e scrivo. D. Dunque è un’esigenza, per lei, scrivere? R. In parte. Nel senso che io credo che uno scrittore può iniziare a scrivere per esigenza, che ci sia qualcosa di simile a una necessità quando si scrive. Ma che, come tutte le cose, anche la scrittura debba portarsi a uno stato “superiore”, diciamo, più precisato. Insomma, si può iniziare a scrivere per esigenza, ma poi l’esigenza deve perfezionarsi, deve inglobare qualcosa di più. Altrimenti non si dura. D. Qual è questo “qualcosa di più” per lei? R. Beh, io ho una promessa da mantenere. Ma non mi chieda di più. D. Non lo farò. “Dove tu sei” è un libro molto triste, quasi senza speranza. E’ così che si sente lei? R. Vede, una cosa che spesso mi capita – e credo capiti anche ad altri – è provare dei sentimenti, degli stati d’animo, delle esigenze quando scrivo un libro e non provarli più o provarli meno o in modo diverso una volta che il libro è pubblicato. Per questo prima le dicevo che non si può vivere e non si può scrivere solo sulle necessità e sui sentimenti, che ci vuole qualcosa di più. D. Insomma, lei non è più quella di “Dove tu sei”? R. Solo in parte. In fondo, non sono nemmeno più quella delle “Dieci perle” e, in parte, forse nemmeno quella dello “Studio 78”.
D. C’è una frase, nel libro, che mi ha particolarmente colpito. Lei, a un certo punto, scrive: “Il mio povero cuore piange perché ti cerca e non ti ha trovato che troppo tardi”. R. Credo possa capitare. Anche se, in realtà, quello che volevo fare io scrivendo il libro era, probabilmente, raccontare uno stato d’animo, un sentimento, un amore. C’è un libro di Buzzati che si intitola, appunto, “Un amore”. Credo abbia poco a che vedere col mio, però è interessante il titolo, l’articolo “un”: indica “un” amore, non l’amore, non un tipo ma un modo, quell’amore, fatto da quelle due persone, iniziato in un modo preciso e finito in un modo altrettanto preciso. D. E com’è l’amore di cui ha parlato lei? R. Beh, legga il libro e lo saprà! D. L’ho letto. Per questo glielo domando. Ho avuto una sensazione, come le dicevo, di tristezza, sconforto, sfiducia. E’ solo così? E’ tutto così? R. Mah, non saprei cosa risponderle. Credo sia quello che le ho detto prima: i sentimenti che si provano mentre si scrive, poi mutano. Non passano, questo no, però cambiano e si fanno più o meno intensi. Credo comunque di trovarmi in un buon periodo, ora. D. Lei una volta ha dichiarato che gli scrittori hanno bisogno di stimoli per scrivere. Bologna le da questi stimoli? R. Io ho detto questo? Non ricordo d’averlo detto, ma credo sia così. Per quanto riguarda Bologna, diciamo che è una città che ha mosso in me diversi sentimenti. Io sono arrivata qui quasi cinque anni fa, e all’inizio ero disperata: non mi piaceva, perché venivo da un paese e non mi ci trovavo a Bologna. Poi mi ha ossessionata: potevo stare solo a Bologna. Ora ci sto né bene né male, ma ci sono diverse cose di Bologna che mi stancano. Anche perché gli stimoli di cui ho bisogno per scrivere, mi vengono molto raramente dall’esterno. D. Che cosa di Bologna la stanca? R. Vuol farmi esiliare? [ride, ndr] Bologna è troppo, secondo me. E’ troppo caotica, c’è troppa gente e, soprattutto, si è perso forse un po’ il senso dei cicli, direi, delle stagioni, dei giorni, delle feste. A Bologna è sempre festa, ci sono sempre i negozi aperti, giorno e notte si distinguono poco. E’ troppo perché si perde il senso di quando è festa e quando non lo è, di quando è domenica e quando non lo è. Non so, forse io ho una sensibilità così … da anima bella, ma ne soffro abbastanza. D. Sono d’accordo. L’ultima domanda: nel libro ho letto: “Il mio cuore non cessa di reclamarti”. Parlavamo di sentimenti che mutano, emozioni, esigenze. Questo è ancora così?
R. Questa è una domanda troppo personale. D. Va bene. Allora: grazie e invitiamo tutti a leggere “Dove tu sei”, vincitore dell’XI Concorso di Poesia indetto da Urso Ed. Complimenti!
Bologna, 13/05/2013 a cura di   Carlo de Maria

*

- Letteratura

Il male di vivere: Montale, Proust e Leopardi

“Spesso il male di vivere ha incontrato il mio povero cuore nel tempo”.

Montale, Leopardi e Proust, che cosa li accomuna se non il male di vivere, la tristezza e il loro povero cuore malandato attraverso il tempo?

“L’argomento della mia poesia”, ha detto Montale in un’intervista, “è la condizione umana in sé considerata. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio” [1].

Ecco il punto comune della prosa di Proust e della poesia di Leopardi e Montale; ecco che cosa unisce questi scrittori lontani (nel tempo e nello spazio, per dirla con Proust) e abbastanza diversi: non solo il povero cuore, il male di vivere, ma quella volontà di cui parla Montale “di non scambiare l’essenziale col transitorio”, non confondere, allora, ciò che conta da ciò che non conta, da ciò che non è importante.

E ciò che non è importante, nemmeno noi, i lettori, dobbiamo tenerlo in considerazione: non dobbiamo perderci, perdere il tempo dietro a ciò che non conta.

Non è importante allora che come scrittori siano molto diversi, che due siano italiani e uno no; che uno sia dell’ottocento e gli altri due no. Non importa che non si siano conosciuti, che non parlassero la stessa lingua; che probabilmente non si sarebbero capiti; quello che importa è che tutti e tre questi scrittori, seppur diversi, avessero bene in mente che cosa conta, che cosa è importante, e che di quello abbiano scritto.

E’ importante perché, come Proust ci insegna, “la durata eterna non è maggiormente promessa alla opere che agli uomini” [2]; tutto passa, quindi, il tempo si perde (e non è facile ritrovarlo), perciò non ci si può permettere di scambiare, altra assonanza Proust - Montale, “l’essenziale col transitorio”, il tempo perduto e quello ritrovato.

Ma che cos’è l’essenziale? Il sogno. E’ il sogno l’essenziale; sia in Proust che in Montale che in Leopardi. Il sogno è l’essenziale.

“Chi potrebbe”, infatti, “affermare tranquillamente di non esser che un tentativo nel vuoto, se non il sognatore di un tale sogno, tale sognatore particolare di un sogno specifico, che egli è il solo a poter raccontare in questi termini – e quel sogno è anche universale, è il sogno di tutti e di chiunque? [3]

Ci si conosce, allora, anche se si è lontani, anche se i corpi non si sono mai toccati e gli occhi mai incontrati, ci si conosce perché si sogna un sogno specifico che è anche universale; è il sogno di tutti che si sogna.

Ma che cos’è il sogno? Qual è, o meglio, che caratteristiche ha questo sogno specifico, individuale ma di tutti, universale?

Il sogno, se seguiamo la caratterizzazione di Federico Bertoni, è articolabile in quattro punti:

1) Il sogno è oblio del mondo: «sottrae i suoi eventi alle riprove categoriche della realtà. Nel non essere del sogno ci è consentito dimenticare i vincoli onde la realtà grava ogni singolo fatto»;

2) Il sogno abolisce il tempo: «La distruzione di questi vincoli fa che l’inesorabile imperio del tempo venga nel sogno eluso e come dimenticato a sua volta»;

3) Il sogno sopprime la logica, come nell’immaginario infantile: quando «il meccanismo segreto della conseguenza era non soltanto ignoto, ma volutamente ignorato»;

4) Il sogno disgrega il soggetto: «In questo dileguare verso i fuochi misteriosi del sogno è smarrito il senso di un io centrale coordinatore a cui sia riferibile ogni parte della realtà nota» [4] .

Il problema del sogno è l’irrealizzabilità e, soprattutto, la solitudine: si sogna ma si è soli.

“Si vive come si sogna: perfettamente soli” [5] scrive Conrad nel suo Heart of darkness, ed è così.

Quel sogno di cui si parlava prima è sì universale e di tutti, ma il sognatore, l’uomo, nel sognare è perfettamente solo.

E solo rimane perché, lo si diceva, il sogno non si realizza, non può concretizzarsi, mai.

“Il sogno è oblio del mondo” è la prima caratteristica rilevata da Bertoni, e quest’oblio è l’inizio, il fattore primo, la spinta e lo start alla solitudine.

Il mondo viene temporaneamente ‘cancellato’, dimenticato per un attimo quando si sogna. Ci si isola, allora, dal mondo, da quella che tutti considerano la realtà quando si sogna: si è soli con il proprio sogno.

Si sogna con la sola compagnia del proprio sogno; allora la solitudine, forse, più che la conseguenza dell’estraniamento dalla realtà, è una caratteristica del sogno (e del sognatore).

Si sogna soli perché ciò che si sogna non è nel mondo e noi, quando sogniamo, non stiamo nel mondo, o meglio, “siamo nel mondo ma non del mondo” [6] perché, in quel momento, siamo tutti del e per il nostro sogno; per questo una caratteristica fondamentale (la prima d’altronde rilevata) è “l’oblio del mondo”.

Il sogno, poi, abolisce il tempo, lo spezza, ne ristabilisce i ritmi. Il sogno, si legge, elude “l’inesorabile imperio del tempo”,  svincola dal tempo, non fa parte di esso; frena allora la lenta discesa verso il tempo perduto e permette, forse, che il tempo venga ritrovato.

“Un home qui dort”, scrive Proust, “tient en cercle autour de lui le fil des heures, l’ordre des années et des mondes” [7]; e colui che sogna, nel suo sognare, non solo controlla le ore, gli anni e i mondi ma ne crea di nuovi: fa nascere, chi sogna, tutti i mondi che sono possibili nel suo sogno perché quello reale non gli serve, non gli importa. Il sogno è estraneo al mondo e al tempo e, questo, non lo può controllare, regolare, decidere, stabilire. Al sogno, come all’amore, non si comanda né lo si può costringere nel nostro tempo, nel nostro mondo e in questa misera cosa che è la realtà.

“La réalité”, scrive ancora Proust, “est le plus habile des ennemis. Elle prononce ses attaques sur les points de notre cœur où nous ne les attendions pas, et où nous n’avions pas préparé de défence” [8]. Il sogno, invece, come la lettura, come la scrittura dimentica per un attimo questa realtà nemica, lascia da parte questo mondo che spietato lancia i suoi attacchi sul nostro ‘povero cuore’.

Anche Leopardi, da parte sua, deve aver conosciuto questa realtà spietata che, senz’altro, ha lanciato i suoi attacchi anche sul suo di cuore. Non è raro, infatti, sentir parlare nelle poesie di Leopardi del suo ‘povero cuore’ che è, in definitiva, il suo ‘male di vivere’, il suo ‘tempo perduto’.

“E anche tu sei presente, amore mio, tu sempre, immancabilmente, sotto le parole, sopra le sillabe, a esaltare il ritmo della vita” [9]. Questo è Nabokov, ma potrebbero essere parole di Leopardi.

“Amore mio, tu sei presente” scrive Nabokov, e quell’ “amore mio” è presente, sta nel sogno, nel ‘povero cuore’ di Leopardi e nel ‘tempo ritrovato’ di Proust. Quell’ “amore mio” che Nabokov scrive anni dopo Proust e Leopardi è quello davanti alla cui maestà si sta come davanti alle rose del Bengala, come davanti a un ‘povero cuore’ malandato.

Ma che cos’è l’essenziale? Che cos’è il sogno?, ci si era chiesti prima. Che cosa si sogna?, ci si poteva invece chiedere; ed ecco, la risposta è arrivata da sé, senza necessità di porre la domanda. Questo si sogna: l’ “amore mio” di Nabokov, “la bella imago” [10] di Leopardi; e come si sogna? Soli, abbiamo detto, ma per necessità. Quando si sogna – soli come Marlow – si è soli perché soltanto così si sta nel nostro sogno, davanti alle rose del Bengala, a un ‘amore’ o a ‘un povero cuore’.

Prima parlando del sogno si è parlato di ‘attimi’e ‘momenti’, perché? Perché un sogno non può durare di più?

C’è un aspetto tremendamente pericoloso nel sogno: la sua dimensione d’irrealtà. Una delle sue caratteristiche rilevate da Bertoni è, infatti, il fatto che “il sogno disgrega il soggetto”, lo spartisce, e questo non può durare più d’un attimo.

Attimo è il tempo giusto per far durare un sogno: infatti l’attimo, come il sogno, non è definito; quanto dura un attimo nessuno può dirlo e quindi non risponde, l’attimo, al nostro tempo, non segue questa realtà e, proprio come il sogno, anche nell’attimo c’è un oblio, un dimenticarsi del mondo.

Tuttavia, non ci si può dimenticare del mondo per più d’un attimo; è pericoloso il contrario. La letteratura, come il sogno, ha senz’altro un forte potere terapeutico (vedi saggio n. 6) ma, al tempo, pericoloso.

Permanere più d’un attimo nel sogno, in quell’altro mondo non “meno o pi reale di questo, soltanto diverso” [11], può però voler dire estraniarsi a tal punto dalla realtà da non riconoscersi più alla fine del viaggio. “Il ritorno del viaggiatore” [12] è essenziale tanto quanto la sua partenza.  

Insomma, alla fine di un viaggio, di un sogno, di una lettura o della scrittura del romanzo bisogna tornare. Ritornare, quindi, a questa realtà nemica, non per ricevere indifesi i suoi attacchi al nostro ‘povero cuore’, ma certi che ora, alla fine del viaggio, il viaggiatore, il sognatore è tornato forte del suo sogno e sa, magari, in qualche modo, tenere a debita distanza, non lasciarsi del tutto invischiare, infangare dalla realtà.

Sa il sognatore di ritorno che c’è un’altra realtà, altri mondi possibili tanto quanto i suoi sogni; ora sa che esiste un posto dove vivere non fa paura, dove non si sente affatto quel ‘male di vivere’ di cui si parlava. Conosce, forse, ora il sognatore che ritorna qualcosa che prima non aveva assaporato (non poteva) in questa misera realtà: il gusto di vivere.

Questo settimo – e penultimo – breve saggio, allora, termina con un mio augurio per voi che state leggendo e, quindi, in qualche modo, siete ‘partiti’: io, che tante volte sono partita ma non l’ho ancora trovato, vi auguro di essere più fortunati, e alla fine di qualunque viaggio, al capolinea di qualsiasi sogno, lì dove state fissi davanti a qualunque amore il vostro ‘povero cuore’ provi; io vi auguro di trovare il gusto di vivere e, una volta trovato, sappiate che il viaggio non sarà stato vano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Eugenio Montale in Storia letteraria d’Italia, Il Novecento, Tomo II (a cura di) G. Luti, Piccin Nuova Libraria, Padova, 1993, p. 859

[2] Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano 1998, p. 889

[3] Giuseppe Galli (a cura di), Interpretazione e autobiografia, Marietti, Genova 1989, p. 124 

[4] Cfr. Federico Bertoni, Sogno, articolo per The Edinburgh journal of Gadda studies (www.gadda.ed.ac.uk)

[5] Joseph Conrad, Heart of darkness, 1902; trad. it. Cuore di tenebra, Einaudi, Torino 2005, p. 79

[6] Cfr. La Bibbia, Vangelo secondo Matteo

[7] Marcel Proust, Á la recherche du temps perdu, cit., p. 2

[8] Ivi, p. 890

[9] Vladimir Vladimirovič Nabokov, Pale fire, 1962; trad. it. Fuoco pallido, Adelphi, Milano 2002, p. 59

[10] Cfr. Giacomo Leopardi, Il primo amore in Canti, (a cura di) Federico Bandini, Garzanti, Torino 2007, p. 84

[11] John Fowles, La donna del tenente francese, cit., p. 59

[12] Federico Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della lettura, cit., p. 214