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Raccolta di articoli di Roberta Volpi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Società

I prodotti della terra...

...e l’impegno sociale.

La globalizzazione ci obbliga ad una sempre maggiore deferenza verso nuovi “valori”: libero scambio, competitività, investimenti, produttività, progresso tecnologico. Ma tutto ciò renderà meno poveri i più poveri? Migliorerà le nostre condizioni di vita? Manterrà insolubile l’etica dei nostri imprenditori? Favorirà l’occupazione? Garantirà l’ecosistema? Domande retoriche per le quali abbiamo già pronte delle risposte. Io mi sono interrogata sull’Arte. Che ispirazione possono trarre dalla globalizzazione gli artisti contemporanei? Riuscite voi ad immaginare un’opera d’arte “globalizzante”?

Il Cinquecento è il secolo dei ritratti, della riflessione sulla religione e sul destino dell’uomo. La riscoperta del “naturale”, della verità oggettiva, vengono introdotte tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento da Annibale Carracci e da Caravaggio: è questo un secolo in cui convivono lusso e miseria, abbondanza e carestia, libertà creativa ed oppressione politica, festosità e lutto. Ed anche l’arte, ovviamente, risente della presenza contraddittoria di questi elementi.

Carracci dipinge il “Mangiafagioli” (1584) perchè è mosso dagli stimoli della storia, perchè avverte l’esigenza di ispirarsi alla verità naturale, perchè vuole giungere ad una pittura che colpisca al cuore e all’immaginazione. E vi riesce superbamente. Il contadino è lì a consumare il suo semplice pasto, seduto ad un tavolo umilmente apparecchiato: minestra di fagioli, pane, del vino rosso. Abitudini semplici, tempi lenti, ritmi di vita assai duri ma probabilmente non stressanti, l’antitesi delle nostre vite di oggi: pasti veloci, precucinati, surgelati, in piedi davanti ad un bancone self-service; obesi galleggiamo in paludi di maionese ed anneghiamo in ettolitri di birra e tavernello, con l’auricolare del cellulare nell’orecchio e il palmare nella destra, per combattere solitudine e stress e per produrre come i cinesi.

Nel 1596, sempre ispirandosi al ”naturale” Caravaggio dipinge il “Canestro di frutta”: le forme così seducenti, i colori così vividi, così invitanti che che si ha quasi la sensazione di poterne aspirare i profumi. Se fosse ancora vivo, se avesse dovuto ispirarsi al “naturale”, l’artista maledetto avrebbe potuto dipingere, sempre magistralmente da un punto di vista tecnico, ma suscitando minori emozioni, zucchini clonati, frutti gonfi di acque reflue, sfere dai nomi bizzarri incrociate geneticamente, che ci indurrebbero, tra l’altro, a porci qualche domanda sul genere e sul numero (si dice il “mapo” o la “mapa”? E il plurale?) arance lucidate con la cera, uve trasudanti di pesticidi, pompelmi transgenici e melagrane con metastasi.

Rodolfo II e i cavoli

In quegli stessi anni Giuseppe Arcimboldi traeva ispirazione dal Dio delle messi e dell’abbondanza per dipingere “Vertumno” (1591), lo stravagante ritratto di Rodolfo II di Strasburgo. La sua tensione per il nuovo, la ricerca di una espressività che uscisse dalle regole consuete per provocare reazioni ed emozioni avrebbe dovuto, anche in questo caso, contentarsi dei frutti della terra che il mercato della globalizzazione oggi offre e temo che la sua fantasia ne sarebbe rimasta profondamente ferita.

L’”ultima cena” del Tintoretto del 1592, nella sua ambigua relazione tra miracolo (gli angeli che aleggiano nel buio) e realtà, evoca invece il cibo degli dei, la lentezza nelle preparazioni, la semplicità e la cura e non già le raffinatezze inaccessibili che il geniale Stefano Benni ci descrive nel suo racconto “Il più grande cuoco di Francia”, satira memorabile contro gli snobismi enogastronomici: ”ostriche imbalsamate in gelatina, tartufi alle braci con limoni, quaglie alla negresca, zuppa di tartaruga malgascia, spuma ai pistacchi, biscotti nocciolati dei padri di Saint Verres, bignè alle pere moscadelle: una cuisine nababe da opporre alla nouvelle cuisine, “porzioni da convento di suore nane!”.

La natura e la realtà quotidiana nella pittura di denuncia

Con il Settecento si cambia musica: gli artisti si dedicano soprattutto alla decorazione ma è durante questo secolo che compaiono i primi accenni ad una pittura sociale che si manifesterà pienamente nell’800. In Francia il maggior interprete è Jean Francois Millet con le sue “Spigolatrici” del 1848. In Italia saranno i Macchiaioli ad innovare il linguaggio pittorico: al soggetto storico o all’allegoria essi contrapporrano la visione diretta della natura e della realtà quotidiana e per questi motivi verranno fortemente avversati dalla critica e respinti dalle mostre ufficiali. Il paesaggio rurale, la durezza del lavoro dei contadini, il disagio sociale, la sacralità degli animali ispirano Giovanni Fattori: con “Le macchiaiole” del 1865 e “Il carro con i buoi” del 1887 Fattori partecipa al mondo i suoi sentimenti di ammirazione e di rispetto per le faticose attività dei contadini della Maremma e delle zone agricole depresse della fascia tirrenica toscana. Anche Angelo Morbelli, come Fattori, è legato a temi di impegno sociale ed umano: tocca il cuore una sua tela in cui sono ritratte delle mondine, curve su sé stesse, con i piedi in ammollo negli acquitrini piemontesi e lombardi, impegnate nella raccolta del riso. “Per 80 centesimi” del 1893 è un concreto j’accuse sia rispetto al misero salario sia rispetto alle condizioni di lavoro tremende cui le donne erano sottoposte. Ma al contempo Morbelli riesce a lirizzare la funzione che l’agricoltura aveva ed dovrebbe avere ancor oggi nelle economie dei paesi del mondo.


Realismo sociale quello rappresentato nel celebre “Quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo del 1898. Siamo alla fine dell’800 ed una nuova classe sociale, quella degli operai, incombe in tutte le regioni del settentrione italiano: lo sviluppo dell’industria provoca massicci spostamenti di lavoratori dalla campagna alle nuove periferie cittadine con una serie di conseguenze sociali, economiche, urbanistiche. Pellizza rappresenta una folta e compatta schiera di uomini e donne che lascia un fondale dove si intuisce un paesaggio verdeggiante e viene avanti in un progressivo schiarirsi dei colori dal fondo al primo piano. Definire la classe dei lavoratori delle industrie “quarto stato” significò prendere coscienza della nascita di una nuova realtà.
L’unità d’Italia del 1870, le delusioni post-unitarie, la necessità di una rapida riconversione dell’economia verso l’industria, il formarsi di un ceto nuovo avrebbero potuto offrire agli artisti italiani più sensibili l’occasione per una pittura nuova, non priva di un senso di denuncia.
Ma non andò così: le Avanguardie del ’900 si concentrarono su altri temi: Cubismo, Dadaismo, Astrattismo, Futurismo dapprima, e la Pop Art poi, dovevano rifiutare i i valori e i modelli della cultura tradizionale e così i paesaggi bucolici, il disagio sociale, la ruralità in genere furono relegate, marginalizzate, se non addirittura disconosciute dall’arte stessa.



Il silenzio è stato rotto dall’avvento della fotografia e, più tardi, dal cinema, che hanno saputo svolgere, dalla metà dell’800 ad oggi, una azione continua ed inesorabile di rappresentazione della realtà, anche la più dolorosa, fissando fin dai primi dagherrotipi, fin dai primi centimetri di pellicola, immagini e sequenze in bianco e nero, che conserviamo gelosamente per testimoniare, con un po’ di nostalgia e un po’ di noia (per le generazioni future!) quel che oggi non c’è più, quei personaggi, quei paesaggi, quegli ambienti, quelle atmosfere, quella natura e quei frutti della terra che avevano sapori ed odori che il nostro palato ed il nostro olfatto non possono davvero immaginare.

Id: 14 Data: 05/12/2007

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- Società

Le ossessioni dell’imprenditore (Silvio)

Le ossessioni dell’imprenditore (Silvio!) e lo smantellamento del sistema educativo

L’ultima trovata della signora Moratti è quella della eliminazione dell’insegnamento della musica. E Roman Vlad ha cominciato a delirare....... Forse, fra non molto, anche il solo ascolto della musica potrà essere considerato un delitto.....



La “Politica”, quella con la “P” maiuscola, è stata definitivamente relegata al ruolo di un accessorio scomodo. Il Paese inteso come un’azienda. La sanità intesa come un’azienda. Anche la scuola intesa come un’azienda. Le tre "I" che Berlusconi ululava nella sua campagna elettorale del 2001 (Inglese, Informatica, Impresa) comunque mal si coniugano con le richieste degli imprenditori che invece inneggiano alle tre "S": Sapere, Saper fare, Saper essere. Tre "S" di cui la riforma Moratti non ha tenuto in alcun conto.

I danni che questa riforma ha provocato sono incalcolabili. E tutti devono preoccuparsi: genitori, studenti, insegnanti, imprenditori. L’abolizione di taluni insegnamenti, il finanziamento alle scuole private, la revisione dei testi scolastici tacciati di filocomunismo, la contrazione del numero dei docenti, l’aumento del precariato, l’abolizione del tempo pieno sono tutti provvedimenti che lasciavano già un anno fa presagire un disastro che avrebbe investito non solo il sistema istruzione ma anche quello sociale.

Gli insegnanti che avevano gridato allo scandalo di fronte alla "passerella" introdotta dalla riforma Berlinguer (la possibilità, cioè, per uno studente, di entrare ed uscire dal mondo della scuola per sperimentare il mondo del lavoro anzitempo) sono la categoria più a rischio, quella che, a voler essere catastrofisti, è destinata a scomparire. A fine legislatura potrebbero essere sostituiti da un comodo e non ingombrante kit software, o collegarsi ad internet da un personal computer (per il cui acquisto contribuirà lo Stato con una sovvenzione di 150 euro, come dice la pubblicità che viene trasmessa da qualche tempo in televisione) per poter apprendere in modalità elettronica oppure restar svegli di notte per seguire le lezioni su RAI Education o su qualunque altra rete (preferibilmente MEDIASET!!) che proporrà videoconferenze su arte, storia, lingue straniere (purchè non si tratti di idiomi dei paesi comunisti), matematica e religione, perché no?

La scuola intesa come un’azienda. Certo, i produttori di software hanno pubblicizzato la e-learning come la panacea per tutti i problemi di formazione ed aggiornamento professionale del personale delle imprese. E’ un sistema economico, non necessita di spostamenti fisici, l’apprendimento è personalizzato, consente di dialogare con il tutor, prevede pure una classe virtuale e, se l’azienda acquista una bella piattaforma per l’ e-learning (fondamentalmente un bel contenitore vuoto a 100-200 mila euro) si possono addirittura contare i click che il mouse ha eseguito, monitorare il numero degli accessi, controllare a quale lezione il discente è arrivato, verificare se ha svolto i test di verifica dell’apprendimento, quale punteggio ha ottenuto, e così via. E, grande vantaggio per le aziende, siccome essere competenti ed aggiornati è un diritto/dovere del lavoratore, si studia al di fuori dall’orario di lavoro contrattuale. Altro che Grande Fratello!

Fermo restando il personale apprezzamento per talune offerte (vedasi, ad esempio, il sito dell’ENEA Casaccia, che propone una ventina di corsi gratuiti on line su varie materie, dai sistemi di qualità Vision al florovivaismo), ritengo che la tecnologia in questo settore possa dare sì un contributo ma non essere sostitutiva. L’apprendimento elettronico comporta dei grossi disagi: la solitudine, la difficoltà a confrontarsi con gli altri, l’assenza di rapporti sociali, la freddezza del mezzo, l’architettura dei contenuti che sono necessariamente standard e non tarati sulla maturità individuale dell’allievo che è anche e soprattutto una persona. Da un software possiamo esigere tecnicalità ma non psicologia comportamentale ed empatia.

Evviva la scuola allora, anche quella con i muri imbrattati, anche quella con i cessi otturati, con la Prof che ti mette la nota sul registro e ti rimprovera perché ti stai frugando nel naso, con il Preside che manda a chiamare i tuoi genitori perché sei senza il libretto delle giustificazioni! Pazzesco, ma ne avremo nostalgia.

C’è un altro aspetto che mi inquieta, quello della possibile modificazione del tessuto sociale. Già nel suo Rapporto del 2003 l’OCSE affermava che è sempre più comprovata la relazione tra apprendimento ed investimento nel capitale non solo con un aumento del PIL ma anche con una maggiore partecipazione civica, un maggior senso di benessere ed un minor tasso di criminalità. Anna Diamantopolou, Commissaria UE, rafforza questa tesi dichiarando che "la nostra società e la nostra economia sono basate sulla conoscenza, che c’è un deficit di qualifiche e discrepanze tra domanda ed offerta, che il mondo sociale e politico è diventato complesso e che pertanto gli obiettivi della UE non possono che essere la cittadinanza attiva, l’inserimento sociale, la capacità di inserimento professionale e la realizzazione personale".

Riappropriamoci, dunque, della funzione della nostra scuola, combattiamo la dispersione scolastica, finanziamo progetti in partnership con gli altri paesi europei, restituiamo dignità ai nostri docenti, investiamo più soldi nella loro formazione continua, allunghiamo i tempi di permanenza a scuola, aggiorniamo i programmi didattici, introduciamo l’insegnamento di nuove materie, ridisegniamo i tempi delle nostre città: l’accesso all’istruzione ed alla qualità dell’istruzione non sono negoziabili!!

In fondo, cara Ministra, non è difficile, basta copiare! Copiare quel che si è fatto nel resto d’Europa. Sempre che, in Europa, questo Governo ci voglia restare. L’Europa vuole cittadini istruiti, consapevoli, partecipi, competenti, integrati ed occupati e la “riforma” che questo governo sta applicando va, ahinoi!, in senso opposto. Io sogno una “controriforma”. E voi?

Id: 13 Data: 05/12/2007