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Raccolta di testi in prosa di Alessandra Ponticelli Conti
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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La sindrome di Stendhal »
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Scrivere per non morire

(Dal mio diario)

Domenica mattina. Mi vesto in fretta ed esco.

In cortile la mimosa è già fiorita. Rifletto sulle parole della signora che ho appena incontrato in ascensore.

"A volte fare una scelta è terribilmente doloroso, non crede?"

Già! Come darle torto.

Le domeniche di questi tempi si somigliano tutte, un po' come le famiglie felici di Tolstoj, penso.

Metto in moto. Parto.

Peccato che abbiano tagliato quel cipresso secolare, mi dico. A mia madre sarebbe preso di sicuro un colpo.

Ogni volta che in giardino si potava un albero succedeva l'inferno.

Chissà come saresti avvilita ora che la pandemia non ci consente di uscire sempre. Due infarti, un intervento a cuore aperto, eppure non riuscivamo a tenerti in casa. Nemmeno d'inverno.

Certo che ci hai fatto proprio dannare, mamma!

 

Devo ricordarmi di comprare le sigarette.

"Non fumare" dice mio fratello ogni volta che ci vediamo.

Ma con tutte le specializzazioni che esistono, proprio l'otorinolarigoiatra dovevi fare? 

Sorrido.

La mattinata è bellissima.

Raggiungo Settignano. Il bar nella piazza è aperto. Scendo.

Visto dal basso il cielo sembra terso. Che dire? Ci vuole un gran coraggio a credergli.

Bastardo!

Non è mai abbastanza per te, eh? Un giorno o l'altro però dovrai pur deciderti a dirmi che cosa ti ho fatto per odiarmi così tanto.

Sai che ti dico? Che con me hai proprio sbagliato indirizzo. Perché io non mi arrendo...

 

"Buongiorno" dice Paolo.

Paolo è il barista. Lo conosco da una vita.

"Ne usciremo mai?" Chiede con quei suoi occhi che somigliano a due punti interrogativi.

"Ha notizie del suo amico?" Domando.

"Dicono che sia ancora in terapia intensiva." Risponde, mentre mi prepara il caffè da portare via.

Cala il silenzio.

Entra una donna anziana. E' vestita di rosso. Ride.

"Avete guardato Sanremo? Che pena la gioventù di oggi!" Esclama.

Paolo fa una smorfia con le labbra e si gira dall'altra parte.

"Se non sbaglio lei, signora, ha una figlia?" Mi chiede.

"No, signora, si sbaglia. Un figlio. Io avevo un figlio."

Cala di nuovo il silenzio. E questa volta di tomba. 

Pago, saluto ed esco.

Mi guardo intorno. La città ha una faccia di bronzo, quasi come il cielo che è sempre più terso.

Dall'altra parte della strada, una donna un po' rattrappita mi osserva.

Ho caldo, mi tolgo la sciarpa.

La donna ha occhi sporgenti e una spilla attaccata sul bavero della giacca. Chissà chi gliel'avrà regalata. Suo marito? Suo figlio?

M'incammino verso la macchina. Accanto non ho nessuno.

 Abbasso la mascherina, bevo il caffè e dalla tasca prendo una sigaretta. L'accendo.

 Più in là un uomo anziano scuote la testa.

Pare che voglia dire: "non le piace vivere a lungo?"

Se devo soffrire troppo, no, non mi piace affatto.

E' ora di tornare a casa. E' ora di rimettersi a scrivere.

Scrivere per non morire. Non morire dentro.

Metto in moto. Riparto.

Sono arrivata.

In cortile una luce argentea illumina le foglie degli alberi e dei cespugli.

Sai che è vero? Penso. Le domeniche di questi tempi si somigliano tutte, un po' come le famiglie felici di Tolstoj. 

 

 

*

Ti ricordi di me?

E' magnifico il Béarn.

Specialmente quando il vento del sud, incrociando il foehn che soffia dai Pirenei, illumina di colpo il cielo trasformandolo in una cupola incredibilmente bella.

La prima volta che vidi l'uomo vestito di grigio fu d'estate.

Era luglio.

Apparve, all'improvviso, un lunedì, sopra l'alta muraglia che cinge il piccolo cimitero di Oloron Sainte-Marie dove, ogni anno, vado  a deporre un fiore sulla tomba di Jules.

A dire il vero, non ho mai incontrato Jules di persona. Ma, nella vita, fra le tante cose che accadono, può capitare perfino di voler bene a uno sconosciuto.

Vi è mai successo di amare uno scrittore soltanto per aver letto i suoi romanzi?

A me, sì.

E Jules era uno scrittore.

Mi chiesi, sbalordita, come avesse fatto a salire tanto in alto.

Mi guardai attorno: il minuscolo camposanto, ravvivato da una luce smagliante, era completamente deserto. I riflessi di un sole alto e lucido, che si riverberavano sulla pietra opaca delle vecchie tombe a stele, mi accecarono.

Una sensazione angosciosa mi pervase. Pareva che la morte, inquadrata da quell'esplosione dirompente di luce, mi si fosse parata davanti per parlarmi.

Incredula, mi domandai cosa stesse accadendo.

Ero, forse, impazzita?

Mentre disorientata mi concentravo su quella riflessione, il mio nome risuonò nel silenzio.

Alzai lo sguardo: immobile, l'uomo vestito di grigio mi stava chiamando.

"Chi sei?" Dissi.

"Dovresti saperlo" rispose, fissandomi con i suoi occhi scuri e sottili. "Hai, forse, dimenticato che l'amore per i libri è per sempre?".

Di colpo, un forte odore di carta inondò l'aria.

Mi chiesi, esterrefatta, da dove provenisse quel profumo e come facesse, quell'uomo, a conoscere il mio nome. Spaventata mi diressi, correndo, verso la viottola di ghiaia decisa a raggiungere l'uscita.

"Ti ricordi di me?" Tuonò, mentre con passo claudicante si spostava al centro del muro da dove svettava un'imponente croce in arenaria.

La sua voce cristallina si era trasformata, ora, in cupa e profonda.

Mi fermai.

"E' Jules che mi manda" aggiunse. "Sono Charles. Charles Delsol".

Charles Delsol? 

Intanto che il pensiero correva veloce all'indietro, nel tentativo di recuperare quel nome fra i tanti fantasmi del passato, un dubbio mi assalì.

Come poteva averlo mandato Jules, se Jules era morto il 17 maggio del 1960?

Un lampo illuminò la mia mente.

Adesso, sì. Adesso ricordavo.

Mentre una nuvola sottile e stratificata transitava verso ovest, mi rammentai di lui, dello "zoppo del cielo", di quell'affascinante personaggio di Jules il quale, scoprendosi morto, cerca fra le tante ombre che popolano il cielo, lei, Marguerite, l'unico amore della sua vita.

"Ben arrivata!" Esclamò. "Non disperare" aggiunse. "Io, Marguerite, l'ho ritrovata. Guarda! E' ancora seduta, al suo posto, di fronte a me, nella biblioteca della Sorbonne dove la vidi la prima volta. Vuoi ritrovare anche tu coloro che hai amato? Allora, cerca. Cerca, dentro quella nuvola".

La nube, che nel frattempo si era ingigantita, conteneva tutta la mia vita.

Fu soltanto allora che capii di essere morta.

Come nel racconto di Jules Supervielle, anch'io, come Charles Delsol, lo zoppo del cielo, non sapevo quando né come fosse successo.

Forse era accaduto d'estate.

Forse in una di quelle caldissime notti di luglio nelle quali, seduta sulla mia poltrona, mi addormentavo con un libro in mano.    

   

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Il cappello »
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De brevitate vitae ( lettera dal mio diario)

Firenze 26 marzo 2007

Ho sognato di essere seduta accanto alla finestra, in un angolo della mia casa nel quale si respiravano solo ricordi. Erano talmente tanti da togliermi l'aria; li vedevo accumulati ovunque, accatastati come mucchi di libri. Uno sull'altro, riposti in modo disordinato ma tutti riconoscibili alla prima occhiata. Costole di volumi scortecciate e qua e là strappate dalle quali era comunque possibile ancora decifrare il titolo del libro. Ricordi piccoli e grandi: alcuni dalle copertine a colori, altri senza più copertina, altri ancora in bianco e nero. Non avevo nessuna voglia di metterli in ordine perché ero convinta che non sarebbe servito a niente. Sarebbe stato solo un modo per far crollare tutto. Intimamente sentivo che la mia vita era fatta solo di ricordi, di momenti passati che, paradossalmente, avvertivo sempre più vicini man mano che si allontanavano. Ad un tratto riuscivo a mettere a fuoco un'immagine di grandi dimensioni; una sorta di affresco colorato dalle tinte una volta vivaci che il tempo e gli eventi della vita avevano sbiadito. Era come se qualcuno avesse deciso, comunque, di coprirlo con una mano di vernice trasparente per fare in modo che si conservasse negli anni. Sì, quella ero proprio io, con mio marito e il mio bambino. Un'immagine serena, nella quale guardavamo avanti pieni di speranza, perché avevamo dato vita a un sogno: nostro figlio Gaetano: Avrei voluto distogliere lo sguardo, coprirmi gli occhi o chiuderli per sempre per non vedere più. Ma non potevo. Il mio bambino, sorridente, mi diceva di continuare a osservare quella scena. Stava a me decidere. Lui non sapeva ancora che la sua vita sarebbe durata appena diciotto anni e continuava a sorridermi chiedendomi di non smettere mai di guardare. " Perché?".
" Non c'è un perché, mamma", mi diceva. Ho deciso: d'ora in avanti resterò a fissare quella scena per sempre, fino alla fine dei miei giorni, illudendomi di non sapere ciò che la vita aveva stabilito di riservarmi poi. Non mi chiederò più come possa accadere che un ragazzo muoia, improvvisamente, senza far rumore, in una giornata di aprile, dopo avere tradotto il " De brevitate vitae", ma...ecco, adesso sembra che il mio bambino si sia addormentato; cercherò di fare piano per non svegliarlo, aspettando che lentamente il sonno prenda anche me.