chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di Caterina S. Fiore
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Linea 1 - Trasfert

 

 

 

 

Il rumore della metropolitana in corsa mi arriva ovattato.

Il vagone semivuoto a quell’ora della sera, quei pochi passeggeri silenziosi, chiusi nella loro stanchezza, fanno sì che a tratti mi si abbassino le palpebre, nel tentativo di assopirmi.

Dieci anni.

Dieci lunghi anni con un uomo che, questa mattina, scompare improvvisamente dalla mia vita.

Solo un biglietto, lasciato sul tavolo della cucina, a ricordarmi della sua esistenza.

Il treno si ferma a Cadorna, gli ultimi passeggeri scendono. Non sale nessuno.

Il dondolio riprende, mi culla, mi annebbia la mente ed i ricordi di questa mattina si anestetizzano un poco.

Vorrei ucciderlo.

La paura di scoprire dentro di me una tale forza omicida mi sconvolge, mi fa mancare il respiro.

Mi avesse dato dei segnali, mi avesse dato del tempo.

Per abituarmi all’idea.

Volevo abituarmi all’idea.

Una morte lenta, un lutto annunciato, poco per volta.

Invece la sua mancanza di rispetto ha oltrepassato il limite.

Ancora ho in mente la mia espressione meravigliata, l’intorpidimento cerebrale che ha impedito questa mattina di realizzare immediatamente ciò che era scritto in quel biglietto.

Alzo le palpebre per un istante. Il rollio del treno continua a cullare la mia incredulità.

La sera prima Luca era arrivato a casa con una rosa rossa.

 Io ero ai fornelli e stavo preparando la cena. Mi sento il respiro caldo sul collo e mi volto, spaventata, mi trovo lui, il volto semi nascosto da quella enorme spropositata maledettissima rosa rossa.

Vorrei ucciderlo.

Fermata Lotto. Nessuno sale.

Stordita.

Le rotaie fuggono davanti agli occhi, tentano di ricordarmi che tutto è aleatorio, tutto passa.

Prima di uscire dal mio studio ho ingoiato due pillole di un tranquillante di cui non ricordo il nome, il torpore si sta impadronendo di me, una benedizione, una carezza sulla mia anima sconvolta.

Molino Dorino.

 Vedo entrare due uomini. Uno di questi…….ti prego, no, fa che non sia lui.

Il primo si siede lontano, nell’ultimo posto a l termine del vagone, mentre l’altro si siede di fronte a me.

L’uomo indossa un giubbotto nero, la cerniera rotta e sfilacciata, la pelle  di metà viso ustionata lo fa sembrare a quelle maschere che giocano l’effetto del doppio ruolo.  Gocce di sudore luccicano sulla sua fronte. Jeans e scarpe da ginnastica, l’uomo porta meccanicamente l’anulare alla bocca e ne disegna ripetutamente il contorno con fare ossessivo e mi pianta gli occhi addosso.

L’altro, anche senza guardarlo,  so com’ è vestito, ha un completo grigio in seta di Tasmania, camicia bianca a quadretti celestini e cravatta azzurra, ben curato, una ventiquattrore in cuoio arancione che sicuramente avrà posato sulle gambe, come è solito fare.

Lo so perché quell’uomo è Luca.

Lui non guarda verso di me, io lo vedo in lontananza, sfocato, mi sembra di avere la nebbia davanti agli occhi, penso che sia la rabbia che mi sta accecando, penso che la mia pressione altissima mi stia ottenebrando il cervello, la vista.

 Luca non volge mai lo sguardo verso il resto del vagone, è immobile.

Ecco, ora vorrei alzarmi e andare davanti a lui, urlargli quello che sento dentro da stamattina, dirgli che non è degno di essere chiamato uomo e prenderlo a schiaffi e pugni.

Ma le mie gambe sono paralizzate. Non riesco a muovermi, non riesco a sollevare le palpebre più di tanto, mi costa un’enorme fatica fare tutto questo.

La mia mente è viva e altamente ricettiva a stimoli a cui il mio corpo non può rispondere.

Ma che succede? Improvvisamente l’uomo di fronte a me si alza e si avvicina a Luca, dopo qualche istante sento che iniziano a parlare animatamente, l’uomo dal giubbotto nero sta urlando qualcosa che non capisco e poi tira fuori un coltello e comincia a colpire Luca alla faccia, poi allo stomaco. Luca si accartoccia sulla sua ventiquattr’ore, il sangue comincia a colare sul pavimento del vagone che imperterrito continua la sua corsa.

Vengo scossa da un tremore che assomiglia molto da vicino ad un attacco clonico.

 Ho paura.

 L’uomo dal giubbotto nero continua ad urlare qualcosa che non riesco a decifrare, le mie orecchie sono volutamente chiuse, mentre Luca è ormai per terra senza vita.

Improvvisamente l’uomo con il coltello alza lo sguardo verso di me e mi osserva, come se si rendesse conto solo ora di avere una testimone del suo gesto efferato, comincia ad avanzare, sballottato di qua e di là, attraversa tutto il vagone fino alla mia postazione.

Signore, ti prego, non voglio morire sotto la furia omicida di questo pazzo. Frammenti di ricordi di questa mattina si mischiano con l’immagine di un rinoceronte che avanza verso di me, chiedo perdono a Dio e concedo il perdono a Luca, perdono tutti, chiunque nella mia vita mi abbia fatto soffrire, dico chiunque è perdonato ma ti prego, Signore, ti prego, NON VOGLIO MORIRE QUA E NON VOGLIO MORIRE IN QUESTO MODO ASSURDO!!

Sento il mio corpo scosso violentemente da qualcosa, una mano sta prendendo a schiaffi la mia faccia .

Un viso cadaverico, di un biancore spettrale, è vicinissimo al mio, sento il suo alito che sa di zenzero pungermi la gola e finalmente apro gli occhi.

Un uomo in divisa da controllore tenta di dirmi qualcosa.

Mi guardo intorno stranita e vedo il vagone vuoto.

Mi alzo come ubriaca, l’uomo spettro cerca col suo braccio di trattenermi ma io mi divincolo e mi dirigo affannata verso il fondo, alla ricerca del corpo e delle tracce di sangue che non trovo.

Completamente stordita scendo dal vagone.

-------------------------------

 

Fuori la gente mi spintona di qua e di là, talmente presa dai ritmi della vita quotidiana che è capace di farti cadere e calpestarti sotto i piedi senza nemmeno accorgersene.

L’aria fredda mi sveglia del tutto e allora ecco, come una deflagrazione mi arriva il ricordo di ciò che urlava quella bestia su quel vagone.

Diceva: “Lo capisci che di quella rosa rossa non so che farmene!”.

 

*

Il sugo

IL SUGO

 

Briciole di carne immerse in un pomodoro rosso sole danzano davanti alla mia bocca semiaperta, pezzetti che si spingono impazziti gli uni contro gli altri come a volersi dare spazio in questo tegame troppo piccolo.

Giro con monotona ripetitività il mestolo di legno di mia madre, immerso in un sugo il cui colore comincia già a volgere al tramonto.

La vita umana ha potenzialità illimitate. La mia evidentemente no.

Anche in un genio una parte del cervello rimane inattiva per tutta la vita.

Ergo, io devo essere doppiamente genio, visto che ho quasi tutto il cervello inattivo.

L’ho scoperto da poco.

Una lama penetra nel mio occhio sinistro e mi lascia un ricordo di luce iridescente, dalla finestra semiaperta entra l’ultimo bagliore di un raggio di sole insistente, insieme al profumo intenso del basilico piantato da Livia, appena una settimana prima che morisse.

Mamma ancora deve riconoscermi.

Ormai è trascorso più di un anno dalla morte di mia sorella, la sua assenza non annunciata ha sventrato la memoria di mia madre, riducendola a fotogrammi ingialliti di un passato dove io non ero e non sono tuttora compresa.

Non riuscirò mai a rendere morbida e cremosa questa carne, lei si arrabbierà con me perché, anche questa volta, non ho seguito le sue regole.

Questa mattina appena sveglia qualcosa, dentro di me, non si è incastrato bene con il resto del mio universo interiore, le mie cellule non si sono riconosciute appartenenti ad un unico individuo, si rifiutano di essere, catalogate, soggette anche loro ad un karma che determinerà il loro futuro.

Mi sono sentita come un dado, le sei facce tutte dentro me.

Solo, devo riuscire ad assemblarle, per non fare confusione.

Non ho nome.

Cioè, ce l’ho.

Mi chiamo Leonarda, ma per mia madre sono sempre stata “quella cosa inutile”.

Un quaderno mi porto appresso da mesi, le parole dentro che non escon fuori, non si tramutano in segni che possano lasciare una traccia indelebile di me anche solo su pezzi di umile carta a quadretti.

Vorresti diventare una scrittrice…tu?” sentivo ridere sguaiatamente mia madre, mentre le spiegavo che non potevo lavare i pavimenti perché prima dovevo finire di metter giù il sempre primo, solo, unico capitolo di quello che a quel tempo voleva essere il mio esordio come scrittrice.

Devo sbrigarmi, devo finire questo sugo, altrimenti sarà vero che “quella cosa inutile” non è in grado nemmeno di preparare un ragù.

Ieri ho portato su in camera di mamma il grosso album di famiglia, una reliquia spaventosa in velluto marrone con inserti in finto oro raffiguranti della frutta.

Polveroso e con una ragnatela attorno che già un anno fa aveva deciso di renderlo proprio.

Un inserto si era staccato mollemente tra le mie mani, l’ho lasciato cadere dalle scale, noncurante.

Questa chi è, mamma, chi è, eh, la riconosci?” dicevo alla donna grigia stesa sul letto che mi guardava come fossi un ombra cinese.

Livia. E’ Livia, la mia cara, dolce, bella Livia.

Ecco, lei la riconosceva, toccava con le sue dita ossute la foto, quel viso, gli occhi, la bocca sfocata della figlia che non c’era più.

A fianco, abbracciata alla giovane, c’ero io.

Lei mi guardava in quella foto, poi alzava gli occhi su di me e mi chiedeva chi fossi, dentro di me la morte.

Devo fare in fretta, devo sbrigarmi, prima che loro arrivino a prendermi.

Sento puzza di bruciato.

Il sugo.

Inavvertitamente si è attaccato al tegame, creando un caramello amaranto che staccandosi dal fondo si spande, come cellule maligne dentro questa sostanza ormai seviziata da ore.

Lo detesto. Il suo odore, la sua consistenza, si porta appresso la materialità di ciò che non c’è più, un plancton animale parentale di chi… non c’è più.

Questo sugo è vita e morte al tempo stesso.

Mamma sono io, Leonarda, la tua Leonarda, non mi riconosci?” le dicevo persino che ero “quella cosa inutile” di sua figlia, mi presentavo da sola nella mia essenza, lei però scuoteva la testa, no no, chi è questa donna, chi è.

Non ho nome.

Ecco perché non riesco a scrivere.

Esisto e non esisto. Mi trovo in uno stato che trascende sia l’esistenza che la “non” esistenza.

Sono stata appena percettibile a me stessa, figuriamoci pretendere di essere riconosciuta da una madre!

La verità è che NON HO SOSTANZA.

Da giorni, ormai, mi sono arresa all’arrivo di coloro che recideranno l’ultimo filo che mi tiene legata a questa vita.

Rea, io, di averne recisa un’altra.

Pensavo, speravo, che quella donna di sopra non li avesse più cercati, invece……

Salgo in camera mia a prendere in fretta le mie cose, loro non devono trovarmi qui quando arriveranno.

Ecco, il sugo è pronto.

Ho voluto celebrare così la mia liberazione, mentre per mamma sarà l’ultimo irriconoscibile ricordo della sua amata Livia.

Tutto è a posto, tutto è in ordine, mi guardo attorno e sento, nonostante tutto, ancora una forza che mi attira, non sono sicura di volerlo fare ma poi penso che è tutta mia questa cosa, non mi trattiene nessuno, non si può trattenere chi non si riconosce, chi non si ama.

Ma una cosa sento di volere con certezza e cioè che l’ultima sensazione che il mio corpo vuole percepire, prima di staccarmi da questo luogo, è quella del contatto delle mie dita con una penna e un foglio di carta.

VOGLIO SCRIVERE….. costasse anche la vita.

La vita di chi, non lo so.