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Raccolta di testi in prosa di Andrea Guidi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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La suora di Vigevano

30 Giugno 1976: data fatidica in quanto, il giorno seguente, avrebbe avuto inizio, con la prova scritta di italiano, il mio esame di maturità, e di conseguenza l'inizio della libertà dall'oppressione scolastica giornaliera!

La data si rivelò fatidica anche per un altro motivo, unico nella storia della maturità. Una suora, preside di un istituto privato di Vigevano, si fece indurre in tentazione da un sedicente provveditore agli studi ed aprì il plico contenente i titoli dei temi, innescando una fuga di notizie che in fondo rappresentava il sogno di tutti gli studenti: conoscere in anticipo gli argomenti su cui vertevano i temi! La suora ebbe però una crisi di coscienza è rivelò l'inghippo.

Quella sera, al telegiornale, si rincorsero le notizie più disparate: avrebbero rimandato la prova?

Ci furono vorticosi giri di telefonate con i compagni di classe. Che facciamo? Che faranno? L'incertezza regnava sovrana. Qualcuno non fu possibile contattarlo perché i genitori, per preservare la sua tranquillità, avevano staccato telefono e tivù... e sinceramente mi parve eccessivo.

Comunque decidemmo di presentarci a scuola il giorno successivo, ed apprendemmo che l'esame sarebbe iniziato il 2 Luglio con la prova scritta di latino, mentre al ministero avrebbero lavorato alacremente per predisporre altre tracce che carabinieri e poliziotti, che avrebbero sicuramente avuto altro da fare visto che quelli erano “anni di piombo” tra brigate rosse e nere, dovettero consegnare in tutta Italia. Ed il 6 Luglio potemmo finalmente recuperare la prima prova.

Maturità speciale, unica nella storia: ma noi tutti del '57 siamo speciali, unici ed irripetibili!

Ma la suora di Vigevano che fine ha fatto? E l'anonimo falso provveditore? Mah... comunque mi piace pensare ad una versione moderna di Gertrude, la monaca di Monza, e dello scellerato Egidio: lui le chiese i titoli, “e la sventurata rispose”.


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1977: L’Esordio

La passione per la musica è sempre stata nelle mie corde; forse ci sarà anche una motivazione genetica: il mio bisnonno suonava il clarino nella banda del paese, mentre mio nonno suonava il mandolino e la chitarra.

Sia come sia, verso i 12 anni ho sentito forte il bisogno di suonare; in particolare ero attratto dal pianoforte. Non so dire perché: forse mi affascinava il contrasto tra il bianco avorio e il nero ebano dei tasti (strano… da interista il bianconero già mi disturbava). O magari sognavo i virtuosismi di Arthur Rubinstein e di Arturo Benedetti Michelangeli.

Mi accordo con un maestro di musica, ed inizio a studiare. Naturalmente prima di mettere le mani sullo strumento mi aspettano ore, giorni, mesi di teoria musicale. La mia Bibbia diventa il “Bona”, famosissimo metodo di solfeggio. Trovo analogie tra musica e matematica: la divisione musicale, il valore delle note, le pause, tutto deve rientrare nella battuta, che rispetta rigorosamente il tempo prescelto. E’ un mondo affascinante!

Ricordo il primo pezzo che mi fu dato modo di suonare: “Le petite montagnard”. Un brano ovviamente elementare, e trascritto in partitura facilitata proprio per i principianti. Poi fu un crescendo, fino a brani di media difficoltà di autori importanti.

Insomma, la base più o meno c’era, ma a casa non potevo permettermi un pianoforte, neppure verticale, e quindi ripiegai su una più agevole tastiera elettronica. Ed ogni giorno suonavo, suonavo per il gusto di farlo. Finché con alcuni amici, con i quali avevo in comune la stessa passione, decisi di formare un complesso (all’epoca era quello il termine usato per indicare una band di 4-5 elementi).

Suonavamo per divertimento, e per divertimento componevamo anche musica “nostra”, ma le esibizioni erano limitate alla cerchia di amici e conoscenti. E fu proprio uno di questi conoscenti che, nel 1977, fu pronubo di una svolta epocale. Ci chiese di partecipare ad uno spettacolo di musica, teatro, mimo, che si sarebbe svolto di lì a qualche mese al Palasport di Pisa.

Con l’incoscienza dei vent’anni accettammo entusiasticamente.

Fu un’esperienza che ricordo ancora con tenerezza; conoscemmo un trio comico alle prime armi, i “Giancattivi”, formato da Alessandro Benvenuti, Athina Cenci e Franco Di Francescantonio (che poi sarebbe stato sostituito da Francesco Nuti) e dividemmo con loro il pranzo alla mensa universitaria e il viaggio in filobus – senza pagare – fino al Palasport…

Salendo sul palco per fare qualche prova ebbi un colpo al cuore: mi avevano messo a disposizione un organo Hammond! Un vero Hammond, un Hammond originale, dal suono purissimo, cristallino, affascinante. Sì: ho esordito in pubblico suonando lo strumento sognato da tutti i musicisti!

E, per di più, davanti a qualche migliaio di persone.

Ero emozionatissimo: all’inizio dello spettacolo mi tremava la gamba; non riuscivo a controllare la pedaliera del volume. Poi tutto è venuto naturale, e alla fine i complimenti non sono mancati. Da lì è partito un percorso che per me è durato circa 20 anni, con esperienze di vario tipo: dalle feste di piazza agli spettacoli impegnati, dal complesso al pianobar.
Ma questo esordio, a 20 anni, davanti a tantissima gente, e suonando un Hammond (cosa mai più accaduta), è un ricordo che rimane indelebile nel mio cuore malgrado il trascorrere degli anni.




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Blue Not(t)e

 

Faccio correre veloci le mie dita sui tasti di ebano e di avorio.

 

Accordi armonici maggiori inframezzati da una percettibile dissonanza, da quel toccante Mi bemolle, leggermente calante, la blue note, a cercare tra le pieghe di uno spartito che sa di jazz quella cosa che taluni si ostinano a chiamare anima.

 

Chissà se esiste davvero.

 

Certo, mi dico, se esistesse dovrebbe essere la somma delle esperienze vissute, della sensibilità, dei sogni, delle aspettative future, e non può, non deve, evocare tristezza. La ricerca della felicità è nel nostro DNA. Il percorso sarà pure tortuoso e frastagliato, periglioso e ricco di insidie, ma le infinite risorse del nostro essere umani ci consentono di pescare un sorriso anche nel buio più profondo.

 

Pare un controsenso, ma anche la musica triste mi dà gioia: è davvero un linguaggio universale che mi interconnette al mondo intero.

 

Guardo fuori e vedo che è già notte.

 

Ma è una notte strana, una notte blue; e mi chiedo se anche tu vedi questo stesso cielo, là dove vivi, tra scogliere e isole, cornamuse e violini, Guinness e black and tan. Eppure mi piace immaginarti davanti ad una cioccolata calda, con tanta panna, e gli occhio fissi a quel cielo, che è così bello quando è bello, con la mia musica come sottofondo.

 

Forse l'anima è racchiusa nella dissonanza di una nota blue.

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Spartaco


A volte le parole non servono; oppure ne servono davvero poche. Guardi negli occhi una persona e cogli tutta una vita.

Qualche anno fa decisi di percorrere la Via Tosco Romagnola dall’inizio (Pisa) alla fine (Forlì) e fare poi una puntata nell’entroterra romagnolo. A scanso di equivoci: no trekking, no mountain bike. Non sono mai stato attratto da avventure di questo tipo!

Auto, cartine del Touring Club (i navigatori satellitari all’epoca erano forse nel pensiero di chi poi li avrebbe inventati), e via, attraversando città, borghi di interesse storico ed artistico, e natura ancora poco sfruttata dal punto di vista turistico commerciale.

A metà del guado, cioè in piena attraversata dell’Appennino tosco-emiliano, arriva l’ora di pranzo. E il destino volle che proprio su un impegnativo tornante campeggiasse l’insegna “Trattoria da Spartaco”.

Ci fermammo; locale bruttino, scarsa igiene, pochissimi avventori. E lui, Spartaco, il proprietario: spiccatissimo accento romano, che non avrebbe perso neppure vivendo cent’anni altrove; capelli bianchi, lunghi, raccolti in una coda sulla nuca; età indefinibile, e due occhi chiarissimi in un viso scavato, segnato da rughe, da pieghe amare, che lasciavano trasparire un vissuto non allegrissimo.

“Abbiate pazienza se dovete aspettare un po’, ma oggi lo chef è svogliato… adesso lo richiamo all’ordine … Marco, dai, mettiti ai fornelli!”

Andando in bagno, passai vicino alla cucina: ai fornelli c’era lui, Spartaco. Era chiaro che lì c’era solo lui: proprietario, cameriere, cuoco… Ma non dissi niente, anche se guardandoci capimmo che io avevo capito che lui aveva capito.

Pagando (pochissimo, per la verità) gli chiesi: “A Spartaco, ma che ce fai qui?” Rispose con tre sole parole: “E’ la vita”. Tre parole che mi hanno accompagnato, incuriosito, commosso, insieme ai suoi occhi tristi e alla sua vita travagliata e dignitosa, racchiusa nel suo sguardo. Una vita della quale non sapevo niente, ma della quale intuivo tutto.

E’ la vita; tornando quest’anno in quel luogo speravo di ritrovarlo. Niente da fare: non c’è più l’insegna, non c’è più il locale pieno di fumo e povero di clienti. Chiedo a una signora che abita nelle vicinanze: “No, se n’è andato tre anni fa”. E’ la vita; è la vita anche quando la vita non c’è più!

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Non Ti Ho Mai Baciata

Avevamo vent’anni, e fatale fu l’aver scelto lo stesso corso di laurea, Scienze Agrarie, e la stessa Università, Pisa.
Per me non era stato un grosso cambiamento: bene o male a Pisa ci ho sempre vissuto. Tu invece arrivavi da lontano, dal Venezuela, in virtù di quei “posti riservati” a studenti dei cosiddetti paesi in via di sviluppo.

Ci conoscemmo in Aprile, nell’aula di entomologia, tra collezioni di lepidotteri e lezioni sull’apparato boccale del dociostaurus maroccanus o della blatta orientalis.

 

Non ricordo chi chiese che cosa a chi, ma rimasi colpito da due occhi scurissimi, di taglio quasi orientale, e da una massa di capelli corvini che facevano cornice ad un viso dai lineamenti mediterranei, leggermente abbronzato.

Ti chiamavi Ana, mi dicesti, e la tua famiglia aveva delle aziende agricole in Venezuela; in questo paese si era concentrata un’immigrazione proveniente da ogni parte del mondo, e tu eri per certi versi il prodotto di questo mischiarsi di sangue e di razze. Più ti guardavo, più ti trovavo bella. Non di una bellezza vistosa, ma riposante, rassicurante, e quell’italiano con notevoli inflessioni spagnole era come una dolce musica per le mie orecchie.

 

Quel giorno, da entomologia, tornammo insieme in facoltà, a piedi, lungo il Viale delle Piagge, che costeggia l’Arno, e che offre piste ciclabili, percorsi verdi, piante e alberi secolari. E molte panchine, per riposarsi e respirare a pieni polmoni; e perché no, stare vicini vicini.

 

Abitavi con altre tre ragazze, tue conterranee, in un piccolo appartamento “per studenti” in pieno centro storico. Via dei Notari, ricordo benissimo: una di quelle viuzze strette, lastricata in pietra, rigorosamente zona pedonale.

Ma era breve il tragitto per la Piazza dei Miracoli, dove secoli di storia sono racchiusi nel complesso monumentale eretto in marmo bianchissimo, che si staglia sul verde scintillante del prato.
Ti affascinava questa piazza, e come tutti i turisti, tu e le tue compagne facevate foto su foto divertendovi a cercare le pose più bizzarre, quelle nelle quali sembra, per effetto ottico, che la persona stia sostenendo la Torre pendente. Ogni volta mi meravigliavo del tuo meravigliarti: lo so, purtroppo l’abitudine, la routine, ci fa passare accanto a queste meraviglie gettando loro solo uno sguardo distratto… tanto le vediamo ogni giorno!

Ci piaceva trascorrere le serate sulle spallette dell’Arno, vicino al Ponte di Mezzo, o davanti alla Chiesa della Spina, che ricorda, in sedicesimo, il gotico Duomo di Milano. Era bellissimo anche sedersi in Piazza Santa Caterina, dopo una pizza e una passeggiata in Borgo Stretto. Qualche volta, con la mia 126 rossa, facevamo una puntata al mare, a Marina di Pisa, visto che quell’anno il mese di Maggio era stupendo.

Finirono le lezioni. Dovevi tornare a casa tua, ma tanto a Settembre saresti stata di nuovo qui; ti accompagnai all’aeroporto, e ci scambiammo un abbraccio: fu l’ultima volta che ti vidi. Non ho mai saputo il perché, ma nessuna di voi quattro è mai più tornata.

E adesso, se ci penso, lo sai ? Non ti ho mai baciata!