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Raccolta di testi in prosa di Angelo Ricotta
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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I dialoghi di Platone

Credo fosse il 1963. Mio padre aveva una cartoleria con vendita al minuto e all'ingrosso. Trattava, oltre agli articoli scolastici, molti tipi di carta. Ricordo in particolare cataste di balle di carta pane, carta paglia e  grandi pacchi (75x100 cm) di fogli di pelleaglio e di cellophane scrocchianti e dall'intenso odore di acetato. Le balle di carta paglia pesavano 42 kg cadauna: lo ricordo bene perché occasionalmente, dopo la scuola, davo una mano, caricandomele sulle spalle, a scaricarle dal camion della ditta che ce le portava per depositarle in magazzino. All'epoca mi divertivo molto in questa attività (devo pur riconoscere che allora avevo la forza di farlo). Insomma mio padre riforniva molti negozi della zona. Uno di questi era una libreria. Il libraio aveva accumulato un discreto debito nei nostri confronti e non si decideva a saldarlo nonostante le sollecitazioni di mio padre. Ad un certo punto, spazientito, mi diede l'ordine di andare a riscuotere il credito! Rimasi molto sorpreso per questo compito. Ero un ragazzo, anche timiduccio. Non avevo proprio idea di come riscuotere un credito. Comunque ubbidii e mi presentai dal libraio. Prima di confessargli quel che ero andato a fare mi misi a girare per la libreria sfogliando avidamente una gran quantità di libri. Il libraio mi guardò incuriosito attraverso le sue spesse lenti "Vedo che ti interessano molto i libri". Risposi timidamente "Si tanto, soprattutto quelli di filosofia". Mi indicò il ripiano più alto di uno scaffale "Sono stato professore di filosofia. Lassù ci sono delle collane di Filosofia e Pedagogia della Paravia e della Sansoni e anche letteratura della BUR. Vedi ciò che ti interessa". Salii sull'alta scala e cominciai a leggere di traverso i titoli dei volumetti: Aristotele-Logica, Isaac Newton-Antologia, Anselmo (Sant') D'Aosta-Proslogion e poi parecchi di Platone: Fedone, Fedro, Filebo, Gorgia, Teeteto, Repubblica...e quindi Bergson-Introduzione alla metafisica...Antòn Cechov-Il monaco nero, André Gide-La porta stretta...e tanti altri. Stavo lassù da un bel po' quando il libraio mi sollecita "E allora?". Non so come trovai il coraggio di pronunciare con flebile voce "Non so decidere...mi interessano tutti!". Il libraio mi osservò intensamente per qualche tempo e poi disse "Prendi tutti quelli che vuoi". Non me lo feci ripetere. Andando perigliosamente su e giù dalla scala scaricai per terra ben 76 volumetti polverosi dal prezzo che andava da 200 a 700 lire cadauno. Mi dovetti far dare uno scatolone. Mentre me lo portavo via a fatica gli dissi "Poi ci pensa mio padre a pagare". Il libraio mi guardò con un lieve sorriso benevolo e rispose "Va bene ragazzo, e auguri".   

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Musicisti

Mi trovavo a casa dell'amico Ennio C., eccellente chitarrista jazz. Ad un certo punto, inaspettatamente, è arrivato in visita  un suo vecchio amico, Mario F. direttore di orchestrine jazz. L'intento di costui, un personaggio singolare, irruente, era quello di convincere Ennio a ritornare sul palco, dopo tanti anni, per un  concerto che stava organizzando. "Devi assolutamente venire Ennio. Pensa che ci sono pure degli archi dal Conservatorio. Un bel mix di jazzisti e classici. Sarà un successone" diceva Mario. Ennio scuoteva la testa "Se ci sono dei classici allora si devono leggere gli spartiti e tu sai che io non sono molto bravo a leggere". Mario però replicò "Ennio a te non serve lo spartito quello è solo per quegli asini del Conservatorio". L'espressione mi divertì molto. Avevo ben chiaro il valore di Ennio come musicista ma assistere a quel tipo di attestato di stima mi fece capire molto di più sui musicisti e sul loro rapporto con la musica. Durante la mia vita ho conosciuto diversi musicisti perché anch'io, in un certo periodo, mi dilettavo a suonare e a cantare. Ma avvertivo una differenza rispetto ai veri musicisti. Io avevo sempre bisogno di conoscere in anticipo tutte le sequenze armoniche di un brano mentre essi erano capaci di modificarle strada facendo, di inventarle, senza interruzioni. Se chiedevo "Che diavolo di accordo stai facendo" mi rispondevano "Che ne so come si chiama, il nome lo cerchiamo dopo". Essi erano guidati solo dal loro orecchio e navigavano senza sforzo apparente nel flusso musicale. Non c'era spartito, solo una traccia melodica con degli accordi di base. Si iniziava, in sordina, da questo schema ma poi le cose si complicavano rapidamente e di molto ed è proprio in questo momento che iniziava la magia musicale. Io dovevo studiare, me li dovevo scrivere gli accordi, dovevo trovare loro un nome, una sigla, per memorizzarli, per giustificarli. Ma ai veri musicisti tutto questo non interessava. Quando ritenevano di aver raggiunto il livello da essi desiderato nella jam session, attaccavano il registratore e via sull'onda dei suoni. Qualcuno di loro aveva più confidenza con la lettura e scrittura musicali e in seguito trascriveva alcune sequenze. Il grosso però lo facevano fare a degli specialisti che sulla base di questi appunti, della registrazione sonora e con la collaborazione dei musicisti, producevano lo spartito da commercializzare. D'altronde lo stesso Mozart diceva "Le note scritte sono solo cacche di mosca, la vera musica è qui" indicando la sua testa. Ma io avevo il pallino di trovare il nome, ovvero la sigla, di ogni accordo e così sollecitavo Ennio ad aiutarmi a decifrare certe complesse strutture sonore. Il tenore dei nostri dialoghi era il seguente. Ad esempio, suono come basso il Do e le note dell'accordo sono Re, Mi, Fa#, Sol, Sib. Riconosco in Do, Mi, Sol l'accordo base di Do maggiore, il Re è una nona  (si potrebbe dire anche seconda?), il Fa# è una quarta eccedente, ovvero quinta bemolle ma anche una undicesima diesis. Insomma la sigla potrebbe essere Do7(9/#11) ma anche Do7(b5/9). E che succede però se come basso  suono il Mi, con tutto il resto immutato? Se il Mi è l'effettiva tonica dell'accordo allora la sigla dovrebbe essere Misus2/7(#5/9/#11). E se invece, per semplificare, scrivo Do7(9/#11)/Mi o similare, qualcuno mi picchia? E simultaneamente facevamo le prove sulle chitarre, l'uno di fronte all'altro, e ogni tanto partiva qualche sequenza melodica connessa a questi accordi e si divagava , si divagava finché ad un certo punto ci chiedevamo "Che dovevamo fare?". Che periodo meraviglioso questo passato immersi in quel mare di suoni! Lontani dai rumori molesti del mondo, dimentichi degli affanni, dei meschini problemi della quotidianità. Poi la vita mi ha portato altrove e non ho più suonato. Ora il mio amico non c'è più. Però conservo ancora la mia vecchissima chitarra che giace buttata in un angolo a prendere polvere. Non ho più voglia, fiaccato dalla fatica del vivere, "The thrill is gone" come diceva quel vecchio blues. Ma in certi giorni bui e tristi nei quali nulla sembra andare per il verso giusto, nella penombra della mia stanzetta, perché in questi momenti aborro il sole, la riprendo in mano e provo, con le mie dita ormai incerte, qualche vecchio motivo. Sto lì a compitare le note come un bambino, a cercare di ricordarmi gli accordi, le sequenze armoniche. Provo e riprovo, smetto per la frustrazione, poi ricomincio ed ecco, ci sono, finalmente le dita ritrovano le antiche posizioni, parte "Garota de Ipanema" e la stanza si accende di una soffusa luce azzurrina. 

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Giovanni il contadino

Nel 1957 mio padre decise di rispedirmi in Italia in quanto riteneva che in Venezuela stessi acquisendo delle cattive abitudini. Da quando ero arrivato a El Sombrero nel 1951, all'età di quattro anni, mi ero rapidamente ambientato e scorazzavo con i miei amici per le strade polverose del paese, spesso a piedi nudi, e ci bagnavamo nelle fangose pozze di acqua piovana grandi come piscine. "Questo bambino mi sta diventando un selvaggio" si lamentava mio padre con mia madre "devo rimandarlo in Italia per farlo educare". E così fu. Feci il viaggio con mia madre, in nave. Andammo ad abitare presso mio zio Feliciano, il fratello di mia madre, il quale all'epoca abitava nel casino del dott. Romani in località Ponte Nuovo, appena fuori Sulmona. In questo grande casale abitava anche un'altra famiglia, quella di Giovanni il contadino. All'epoca Giovanni avrà avuto una quarantina d'anni. Lavorava duramente nelle campagne dietro il casale. Nei lunghi pomeriggi dopo la scuola ero solito bighellonare per queste campagne seguendo i solchi irrigui e i sentieri, tra i filari e le coltivazioni, cogliendo i frutti di stagione, rincorrendo qualche animaletto, osservando la natura e Giovanni zappare. Non ricordo come iniziò ma presi l'abitudine d'intrattenermi a parlare con lui. Egli era incuriosito dal fatto che io, pur essendo ancora un ragazzino, e italiano, avessi già vissuto per anni in una terra straniera. Voleva che gli descrivessi il Venezuela, il paesaggio, gli avvenimenti, le persone, la lingua, ogni cosa. Mi confessava che egli non era mai andato da nessuna parte, neanche fuori Sulmona, anzi neanche lontano dal casale in cui era nato, via da quelle campagne. Queste sue ammissioni stimolavano la mia vanità, mi spiace dirlo ma è quello che provavo: mi faceva sentire superiore! Allora cominciai a condire i miei resoconti di storie inventate. Si creò una tacita intesa fra noi. Pressoché ogni giorno, più o meno alla stessa ora, ci ritrovavamo tra le campagne. Egli posava la zappa, si sedeva in un canto, mentre io in piedi gli raccontavo le mie mirabolanti e fantasiose avventure di foreste impenetrabili, feroci indios che ci inseguivano lanciandoci, con le cerbottane, frecce avvelenate, di pericolosi giaguari in agguato nelle roride oscurità della giungla. Egli pendeva letteralmente dalle mie labbra, mi faceva domande su dettagli, si vedeva che sognava ad occhi aperti. Se per qualche ragione un giorno non andavo all'appuntamento si informava tutto preoccupato da mio zio. Con il passare del tempo i miei racconti diventavano sempre più elaborati e, a ripensarci ora, anche più incredibili. Gli sarebbe bastato riflettere sul fatto che avevo appena dieci anni per capire che non potevo aver passato tutte quelle vicissitudini ma, evidentemente, il suo desiderio d'evasione dall'opprimente realtà in cui era costretto a vivere soverchiava la sua razionalità. Davo anche dei titoli ai miei racconti. Uno era "La foresta allagata": un drammone ante litteram degno dei migliori film catastrofici. Anzi, adesso che ci penso, fu proprio mentre gli raccontavo questa storia che venne mio zio a sollecitarmi di andare a fare i compiti invece di importunare il povero Giovanni che doveva lavorare. Giovanni gli disse che non solo non gli davo fastidio ma intercesse affinché io finissi di raccontargli come era finita. Senonché mio zio gli rispose "Ma Giovanni, sono tutte storie inventate!". Giovanni rimase di stucco. Nonostante il suo viso scavato, bruciato dal sole, già pieno di solchi, mi sembrò vi apparisse un’ulteriore smorfia prima di delusione e poi di profondo dolore "Non è vero niente!?" farfugliò. Mio zio mi portò via rimproverandomi. Il giorno dopo Giovanni non mi volle parlare "Mi hai ingannato" sentenziò continuando a zappare. Provai un po' di dispiacere per questo fatto, ma solo un poco, perché si sa i bambini sanno essere anche crudeli, non per intenzione ma per natura, per incoscienza. Di lì a poco sarei tornato in Venezuela per un altro anno e poi la mia vita mi avrebbe sospinto sempre più lontano, su un percorso senza ritorno. Non ho più rivisto Giovanni.

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Archimede lo sapeva

Qualche giorno fa sguazzavo in una piscina d'acqua dolce. Nella parte più profonda avevo buttato una moneta da due euro con l'intento di andarla a recuperare per allenarmi nelle immersioni. Siccome non sono né un buon nuotatore e men che mai un subacqueo, non riuscivo ad arrivare al fondo respinto, com'ero, in superficie, da un'irresistibile forza. Così, mentre mi ero abbandonato a galleggiare paciosamente stremato dai tentativi, mi sono messo a pensare al Principio di Archimede sui fluidi: ogni corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l'alto pari al peso del volume di fluido spostato. D'improvviso mi è balenata una domanda: ma qual è il mio volume? Abbiamo una forma complicata, non mi veniva in mente nessun procedimento pratico per determinarlo. Mentre pensavo mi sono messo a giocherellare con la respirazione, incamerando aria a più non posso e poi espellendola quasi fino al soffocamento. Ad un certo punto ho notato che quando espellevo al massimo l'aria il mio corpo tendeva ad inabissarsi. Mi sono abbandonato a questo stato e il corpo andava sì sotto il pelo dell'acqua ma non in fondo. D'improvviso mi si è accesa una luce: ecco il modo per determinare il mio volume! L'acqua dolce ha una densità di circa 1000 chilogrammi a metro cubo. Se il mio corpo è totalmente immerso nell'acqua, in equilibrio con essa, significa non solo che il mio peso viene equilibrato dalla spinta di Archimede ma che questa spinta è il peso del volume d'acqua spostato che è proprio il volume del mio corpo. Il mio peso è di 80 chilogrammi. Essendo 1 metro cubo d'acqua uguale a 1000 litri significa che l'acqua dolce pesa 1 chilo per 1 litro ossia 80 chili per 80 litri e quindi il mio volume è proprio 80 litri! Coincidenze numeriche dovute alla particolare densità dell'acqua dolce e al fatto che operiamo in un'accelerazione di gravità standard (9,81 m/s²). Ho fatto provare anche ad altri e anch'essi stavano in equilibrio sotto il pelo dell'acqua. Archimede sicuramente lo sapeva, e forse anche alcuni di voi lo sanno, e adesso lo so anch'io: pesatevi (nudi preferibilmente) e conoscerete il vostro volume in litri! L'aspetto interessante di questi risultati è che il corpo umano, pur essendo costituito da ossa, muscoli e grasso ha una densità media pari a quella dell'acqua dolce!  Certo la cavità polmonare non si può annullare anche espellendo il più possibile l'aria, ma io comunque penso che il calcolo precedente sia una buona approssimazione. A questo punto mi sono fatto coraggio ed espellendo quanta più aria potevo mi sono spinto sott'acqua toccando il fondo e ho recuperato, finalmente, la mia moneta da due euro. Prima di questo esperimento mi sentivo così pesante, in certi giorni proprio di piombo, ora, non so perché, cammino più lieve conscio di essere una bolla d'acqua dolce ambulante.