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Raccolta di testi in prosa di Salvatore Armando Santoro
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I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Uno sguardo oltre la finestra

Ogni giorno che passava la vita gli diventava sempre più difficile.
Alberto, dopo aver smesso di fare il boscaiolo, aveva lavorato sempre alla catena di montaggio con enormi difficoltà per via della sua invalidità.
A dire il vero le deformazioni alle dita della mano non erano state dovute ad un infortunio sul lavoro, ma gli erano state procurate molti anni prima, nel corso dell'ultima guerra mondiale, in conseguenza della sua passata attività di antifascista.
In fabbrica, nonostante avesse diritto ad un posto meno faticoso, scelse di lavorare alla catena di montaggio, vicino ai suoi compagni di lavoro, visto che l'attività che doveva svolgere poteva eseguirla lo stesso nonostante le mani rovinate.
Il compito di guardiano, proprio, non lo riteneva appropriato. Gli sembrava di dover svolgere un ruolo di controllo dei suoi compagni ed immaginarsi che qualcuno avesse potuto appioppargli l'epiteto di spia proprio non gli andava giù. Così con grande spirito di sacrificio, ma con grande ammirazione da parte degli altri addetti alla catena, aveva voluto fare l'identico loro lavoro.
Ad ogni cambio di stagione, però, avvertiva tutti i dolori di questo mondo e sovente era costretto a restare a casa in malattia. E questo gli pesava tanto.
"Non ti preoccupare - si sentiva ripetere dai colleghi che andavano a fargli visita - l'azienda è grande ed una persona in più o in meno nessuno la nota". Ma ad Alberto non piaceva mangiare a sbafo. Da vecchio compagno stalinista soleva sempre rispondere: "chi non lavora non mangia"; e ce la metteva tutta a recarsi al lavoro quando altri sarebbero rimasti a casa per molto meno.
Ma quel giorno se fosse rimasto a casa forse sarebbe stato meglio. La mano gli faceva troppo male: non era concentrato ed in un attimo la pressa fece il resto.
Con la mano maciullata fu portato rapidamente in ospedale e si avviò una impossibile ricostruzione di un arto che già aveva subito in passato altre mutilazioni.
L'avevano sistemato da solo in una stanza bianca con una finestra dalla quale poteva scorgere la montagna. Era il minimo che si potesse fare per un ex-partigiano insignito con la medaglia d'oro della Resistenza.
La solitudine ed i boschi che intravedeva in lontananza gli riportarono ricordi lontani e tutta la sua vita cominciò a scorrere come su uno schermo.
Ogni tanto si appisolava, ma il dolore improvviso che l'incidente gli aveva procurato lo svegliava di soprassalto e provava un senso di paura e ti terrore accorgendosi di non essere a casa sua.
Il pensiero andava all'ultimo rastrellamento eseguito dai nazi-fascisti sull'appennino tosco-emiliano molti anni indietro.
L'avevano beccato come un merlo mentre si dissetava ad una fonte dopo essere riuscito, insieme ad altri compagni, a liberare una diecina di ebrei che erano stati rinchiusi in una scuola in disuso in attesa di essere trasferiti nei campi di sterminio in Germania.
Inutilmente cercò di dimostrare di essere un boscaiolo, esibendo un certificato fittizio di lavoro. Fu tutto inutile perché un fascista locale l'aveva riconosciuto e per lui era iniziato il calvario.
Quasi subito fu sottoposto ad uno stringente interrogatorio teso ad estorcergli la località dove gli altri suoi compagni erano riparati. Chiaramente Alberto non era disposto a tradire e dovette subire una serie di pestaggi bestiali che gli fecero perdere i sensi.
Si era risvegliato in una stanzetta di tre metri per tre. Appena riusciva a muoversi. Sanguinava abbondantemente dalla bocca, dal naso, dalla testa.
L'odore del sangue lo stordiva. Ad ogni movimento avvertiva dolori lancinanti in tutto il corpo e poi aveva sete, tanta sete, ed un languore tremendo allo stomaco. Aveva perso la nozione del tempo. Sentiva solo le conversazioni nelle stanze vicine tra i tedeschi ed i fascisti. Conversazioni miste ad imprecazioni e a perentori ordini.
Anche per i fascisti non doveva essere un bel momento. Abituati come erano con la loro arroganza e prepotenza ad infierire su chi non la pensava come loro doveva essere umiliante dover subire la strafottenza e gli insulti dei tedeschi circa la inettitudine dei soldati italiani.
Alberto aveva già compiuto numerose operazioni. Tre quattro volte si erano concluse con la liberazione di altri ebrei o antifascisti destinati ai campi di concentramento, ma molte altre volte con l'assalto alle caserme dei carabinieri o a presidi di nazi-fascisti, sparsi alle pendici dell'appennino, con lo scopo di recuperare armi e munizioni e spesso anche generi alimentari.
Scatolette e gallette erano le derrate più ambite. Non pesavano molto e potevano conservarsi a lungo anche celati in nascondigli improvvisati che solo Alberto e compagni sapevano al momento opportuno trovare.
Si muoveva con facilità in quei luoghi. Lui era davvero un boscaiolo e della montagna conosceva asperità e sentieri e sapeva come dileguarsi facendo sparire anche le tracce del suo passaggio .
Ma quella volta gli era andata male. Quella sosta gli era stata fatale e per giunta aveva perso un po' di tempo per darsi una rinfrescata. Era convinto che i nazisti non sarebbero stati in grado di organizzare il rastrellamento in tempi così rapidi. Ma aveva fatto i conti senza considerare che qualche fascista locale potesse anche lui essere un buon conoscitore della montagna e dei suoi sentieri e questa leggerezza gli era costata molto cara. I suoi compagni, pur essi assetati, avevano preferito proseguire e si erano salvati.
La stanza si illuminò d'un tratto di una luce intensa.
Aveva gli occhi gonfi e quella luce lo tormentava. Non riusciva a vedere chi avesse intorno ma chiaramente capiva che era circondato da tedeschi e diversi sicuramente componenti dei reparti speciali delle famigerate SS.
Aveva già messo in conto che da quella stanza non sarebbe uscito vivo ed il pensiero era corso alle discussioni che spesso si svolgevano tra i compagni prima di ogni operazione.
In caso di cattura di qualche compagno occorreva resistere alle torture per qualche ora. Il tempo necessario per consentire al gruppo di disperdersi e cambiare località. Se un compagno non si ricongiungesse al gruppo nel giro di mezzora era un segnale evidente che qualcosa fosse andata male e bisognava disperdersi per non rischiare di restare intrappolati nel corso dei rastrellamenti.
Quindi, sapeva che avrebbe dovuto tacere, ma comprendeva anche che il dolore fisico a volte diventa insopportabile e la tentazione di parlare possibile.
Ma in lui era forte anche il ricordo dei tanti partigiani catturati che erano stati poi impiccati sulle piazze dei paesi e che presentavano evidenti i segni delle torture subite. Questo gli faceva capire che, comunque, la sua fine ormai era segnata.
"Morire per morire - pensava - tanto vale la spesa provare a resistere".
E questo era anche il sistema migliore per garantire ai compagni di disperdersi il più lontano possibile.
Gli fu portata dell'acqua, lo fecero bere, lo fecero lavare. Un ufficiale nazista cercò di convincerlo a parlare. Aveva portato una carta topografica della zona, ma Alberto aveva gli occhi troppo gonfi e non riusciva a vedere. Cercò di spiegare queste cose intercalando qualche espressione in tedesco e l'ufficiale diede alcuni ordini perentori che Alberto non riuscì a capire e dopo tutti uscirono dalla stanza lasciandolo nuovamente solo.
Era contento: pensava che forse lo stratagemma stesse funzionando. Intanto i suoi compagni potevano essere già in salvo ed anche se l'avessero maciullato a quel punto era contento di aver salvato almeno la vita dei suoi amici.
Un paio d'ore più tardi un ufficiale medico entrò nella stanza e cominciò a medicarlo. Le ferite furono ripulite e collirio e pomate cercarono di rimediare i danni che le brutali percorse avevano provocato agli occhi e alle altre parti del corpo.
Gli portarono anche una tazza di minestra che Alberto riuscì a bere perché a masticare non ne avrebbe avuto la forza per via del forte dolore che provava ogni volta che muoveva le mascelle. Ma la fame era troppa ed in qualche modo bisognava fermare i crampi allo stomaco che lo tormentavano.
Un paio di giorni dopo, si era alquanto ripreso. Lo prelevarono per trasferirlo in un'altra località. Riconobbe il paese perché l'appartamento in cui era stato condotto era proprio sopra un bar che ogni tanto frequentava nei periodi di riposo dalla sua attività di boscaiolo.
Fu certo che il titolare che era sulla porta l'avesse riconosciuto, ma questi fu subito allontanato con urla sgraziate ed imperiose da parte dei soldati tedeschi.
L'interrogatorio riprese qualche ora dopo. Prima i tedeschi si dimostrarono gentili rassicurandolo che se avesse indicato i rifugi dei ribelli sulla montagna l'avrebbero lasciato andare libero; ma di fronte alla indeterminazione ed alla reticenza dimostrata da Alberto, che asseriva di non conoscere le località che i tedeschi gli indicavano sulla cartina, l'atteggiamento di chi conduceva l'interrogatorio cambiò radicalmente e quasi subito le violenze ripresero in modo sempre più inaudito e spietato.
Dopo circa due ore era nuovamente irriconoscibile. Aveva perso i sensi più volte, ma l'avevano sempre rianimato intercalando momenti di gentilezza a nuovi soprusi. La mano destra era ormai una poltiglia informe.
La sinistra era stata torturata in modo selvaggio. Non riusciva più a restare seduto e scivolava in continuazione sul pavimento e la sofferenza che provava quando lo tiravano su per proseguire nell'interrogatorio era insopportabile.
Il gerarca fascista che assisteva all'interrogatorio non aveva partecipato al massacro. Alla fine però era intervenuto minacciando di coinvolgere i suoi familiari.
"Sappiamo dove abiti e conosciamo la tua famiglia - aveva aggiunto - cerca di evitare delle sofferenze ai tuoi cari".
E per rendere credibile la minaccia si era rivolto ad un subalterno ordinandogli di andare a prendere il padre.
Alberto, a questo punto, aveva compreso che non c'era più nulla da fare. Voleva assolutamente evitare le stesse sue sofferenze anche ai componenti della sua famiglia e, soprattutto, non voleva che suo padre lo vedesse in quelle condizioni.
Era sul punto di parlare e svelare tutto quello che sapeva.
Ma in quel momento si avvertirono all'esterno dell'edificio una serie di esplosioni ed alcune scariche di mitra spappolarono le persiane dell'appartamento.
Urla indistinte arrivavano da ogni parte accompagnate da deflagrazioni di armi da fuoco e da urla lancinanti di moribondi.
Perse i sensi. Si risvegliò alcuni giorni dopo in un letto d'ospedale circondato da un gruppetto di partigiani armati fino ai denti.
"Coraggio Alberto, resisti - si sentì dire - sei al sicuro. Il barista ci ha avvisati subito della tua cattura. Gli alleati stanno risalendo lo stivale. Ti abbiamo portato nella zona già liberata. Le tue sofferenze sono finite"
Alberto non credeva di essere in salvo. Un sonno lieve lo avvinse e nel dormiveglia fu tormentato da orrendi incubi. Vedeva il sangue scorrere abbondante dalle sue ferite e questo gli impediva di respirare. Si sentiva soffocare e s'agitava scompostamente nel lettino.
Un medico gli praticò un'iniezione e Alberto si senti trasportare leggero sulle nuvole. Una sensazione di liberazione e di tranquillità lo avvolse e sprofondò in un sonno profondo.
Si risvegliò attorniato dai suoi cari, che non avevano ancora compreso quale pericolo avessero schivato, ed una ragazza del paese, a cui faceva la corte ma alla quale non aveva mai avuto il coraggio di svelare il suo amore, lo accarezzava dolcemente.
La medaglia d'oro arrivò molto tempo dopo. Si era ormai dimenticato anche del bene fatto portando in salvo tante famiglie di ebrei e aiutando altri deportati a fuggire. Un riconoscimento tardivo anche per la sua partecipazione alla lotta contro l'oppressione nazi-fascista. Quello che ricordava spesso era di aver contribuito alla liberazione del suo paese e sottolineava che i giovani avrebbero dovuto apprezzare il suo sacrificio e quello di tanti altri partigiani e non permettere più in futuro che la libertà venisse negata ai popoli.
Era un invito che ripeteva spesso anche se era convinto che quanti non avessero vissuto quei brutti momenti sicuramente non sarebbero stati in grado di comprendere pienamente il senso del suo messaggio.
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Ormai era trascorsi quasi trenta giorni dal suo ricovero. Per la sua mano non c'era stato nulla da fare. Cercarono solo di ricostruirgliela come meglio possibile per evitare di dovergliela amputare. Per il resto era già tanto malmesso prima, in conseguenza dei colpi ricevuti con il calcio dei fucili che gli avevano rifilato i tedeschi durante gli interrogatori, ma in queste condizioni un suo impiego in attività produttive che richiedessero l'uso delle mani era diventato praticamente impossibile. Non accettando di vivere con la sola rendita di invalidità, agli amici che venivano a trovarlo, ebbe ancora la forza di sorridere ed affermare: "Alla fine dovrò proprio rassegnarmi di fare il guardiano visto che non ho altre possibilità di svolgere lavori più utili ed io resto sempre con le mie convinzioni che chi non lavora non mangia".

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Il pianto dei bambini (Racconto breve)

Una coppia che un tempo era legata da un rapporto affettivo si ritrova in chat dopo tanti anni e riavvia un discorso interrotto diversi anni prima.

 

Lei scrive: - “Che fai, piangi?” -

 

Lui risponde: - “No, non piango. A volte mi commuovo ma su chat, messaggi, esternazioni amorose e su foto e filmati del passato. Io penso a te com'eri fino al 7 agosto 2010. Poi ti sei scoperta essere un'altra persona. Ed a me interessava quell'altra persona, quella con difetti e pregi ed esternazioni di quel tempo. E' quella persona che quando la ricordo mi fa commuovere. Ma tu hai ribadito più volte che sei cambiata e che io sono rimasto bambino e che sarebbe l'ora di diventare adulto. E su quest'ultimo punto ti do ragione. Non mi accorgo che il mondo cambia e neppure che io sia cresciuto. In fondo la persona da curare sono io. Ma forse mi sono chiuso nel mondo dei bambini perché i bambini dicono sempre la verità e spesso piangono anche per niente. Ovvero noi pensiamo che piangano per niente. Ma loro attraverso il pianto lanciano un messaggio che gli adulti spesso non riescono ad interpretare e pensano che loro facciano le bizze.
Invece, loro cercano amore. Siamo noi adulti che siamo diventati aridi e non riusciamo più a leggere i sentimenti dei bambini!” -

 

Salvatore Armando Santoro
Boccheggiano 13.1.2018

 


 

La foto è tratta dal portale:
http://www.meteoweb.eu/…/ricerca-il-pianto-dei-bamb…/690105/

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Lettera ad un maestro di scuola

Caro maestro,
che buffa la vita e che strani i suoi ritorni. Eppure un tempo spesso non stavamo neppure ad ascoltare le sue lezioni e sovente i suoi sermoni ci annoiavano profondamente e sembrava cadessero su un terreno poco fertile per attecchire.
Ma quante volte, invece, quei sermoni li ho incrociati nei miei momenti di difficoltà con mio figlio, con i miei colleghi di lavoro o in altre occasioni della vita?
Tante volte davvero! E tutte le volte l'ho rivista, come allora, con quei pochi capelli pettinati con la divisa in modo da coprire l'incipiente calvizie, passeggiare avanti ed indietro nell'aula e soffermarsi tra i banchi con quel suo sorriso scanzonato e buono, con quel suo viso eternamente bambino, con quel suo brontolare che si limitava a qualche battuta allegra che suscitava l'ilarità di tutta la classe e che risvegliava l'attenzione sulle sue lezioni.
Penso che sarebbe felice oggi se potesse leggere queste righe. Penso che gioirebbe se sapesse che quel suo motto "potea non volle or che vorrea non pote" anch'io l'ho ripetuto più volte a mio figlio ed ancora oggi è presente nel mio cuore e, forse, un domani non lontano lo ripeterò ancora ai miei nipotini che crescono.
Quel motto è servito anche a me, pur se con qualche difficoltà, ma forse anche con molta testardaggine, sono riuscito ad onorare gli impegni scolastici fino in fondo e far felice mia madre.
"Potea non volle" più volte ripetevo spesso a me stesso e quasi a vincere una sfida con un avversario immaginario in tutti quei momenti che le incombenze del lavoro e della famiglia mi lasciavano margini insufficienti per completare gli studi per lungo tempo interrotti; ma tra me aggiungevo: "anche se non posso devo farcela lo stesso" ed andavo avanti per la mia strada rinunciando ad uno svago e buttandomi a capo fitto nei miei studi fino a notte inoltrata, addormentandomi più d'una volta stanco sui libri.
Tanti anni le ho comunicato che avevo raggiunto il mio obiettivo. Mi sembrava giusto farglielo sapere visto che, più d'una volta, quando l'avevo incontrata in quelle rare volte che ero ritornato nella mia città, non perdeva occasione di rilanciarmi quella frase che ormai era diventata martellante nel mio cervello. "Potea non volle".....
E quella sera anch'io richiamai quella sua frase e gliela ripetei ricostruita a mio uso e consumo: "Potea non volle or che vorrea pote"; e lei rise divertito.
Ma si commosse anche per la mia telefonata che quella sera proprio non si aspettava. Era la vigilia di un natale che non ricordo più e fu l'ultima volta che la risentii.
Ma le sue parole sono ancora qui nella mia mente e mi distruggono il cuore:" Il ricordo di un allievo verso il proprio maestro è un dono tra i più graditi che un vecchio insegnante possa ricevere. Le medaglie scolastiche alla carriera sono piccola cosa. Rappresentano un avvenimento burocratico che si consuma con una fredda cerimonia periodica. Ma il ricordo di un allievo è la ricompensa più grande e gratifica più di cento medaglie in quanto rinsalda la convinzione interiore di aver vissuto la propria vita con dedizione ed impegno per educare e formare tante generazioni di giovani che oggi ti ripagano con una semplice carezza che per me rappresenta il dono più ambito che un vecchio maestro possa ricevere". 

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Il suicidio

Aveva deciso di togliersi la vita.
Armando ci stava pensando da tanto tempo. Considerava tale evento come un gesto di grande coraggio. Non valutava quell'azione come un segno di viltà, anzi. Dal momento che aveva raggiunto la consapevolezza interiore che era arrivato il momento di lasciare questa terra, si stava organizzando per farlo nella massima consapevolezza e nella maniera migliore. Con raziocinio, quindi, e non con disperazione.
Un suo zio si era tolta la vita con grande dignità e lui lo ripeteva spesso a tutti che il suicidio è un atto di coraggio e non di viltà se eseguito razionalmente e non sulla spinta dell'emotività della disperazione. Lo zio aveva finanche collaudato il trave che avrebbe dovuto sostenere il suo corpo. Era andato a colpo sicuro. Per giorni aveva trascinato in soffitta secchi di sabbia. I suoi non avevano sospettato nulla. Era solito fare dei lavori in soffitta e a nessuno passava per la testa quello da tempo stava prospettando. Ma quella terra non serviva per impastare del cemento, ma per riempire il sacco che avrebbe dovuto simulare il peso del suo corpo. Quando fu sicuro che il trave avrebbe retto, passò il cappio attorno al collo e lo trovarono appeso a tarda notte quando andarono in soffitta a vedere se era successo qualcosa, preoccupati che non fosse sceso neppure a cenare.
Per la religione tale azione é giudicata come un atto sacrilego e di viltà ed un'offesa a Dio. Per la psiche dell'uomo è tutt'altra cosa. Ma se Dio c'entrava in questa storia, ebbene questa fine l'aveva già scritta da qualche parte anche lui ed i conti tornavano.
Armando aveva anche acquistato una corda già qualche anno prima. Amava tanto la natura e le querce gli ispiravano la potenza e la forza ma, soprattutto la robustezza di sostenere il suo corpo che sfiorava il quintale.
Morire circondato dal verde e dai fiori, baciato dal sole e con il cielo terso era anche una evenienza che aveva più volte valutato.
In altri momenti che la disperazione l'aveva assalito per un amore finito male aveva anche pensato un salto dal Ponte Romano di Pont St. Martin in Valle d'Aosta. "Il ponte del diavolo" si prestava anche bene alla scelta del suo trapasso. Ma dopo aver guardato giù le acque scorrere in modo tumultuoso gli era sorto il dubbio che poteva anche non morire e restare invalido. E la cosa lo preoccupò. Scartò, quindi, questa ipotesi optando per l'altra forse più facile da eseguire e con risultato certo.
Ma i suoi problemi erano tanti e tutti abbastanza conflittuali e l'idea della morte lo accompagnava in ogni momento della giornata.
A volte percorrendo le grandi arterie aveva pensato anche di infilarsi a tutta velocità sotto uno di quei tir che incrociava sulle strade. Anzi questa era una seconda idea che accarezzava come alternativa all'impiccagione. Spingere la vettura a tutta velocità e poi andarsi ad infilare sotto uno dei tanti mezzi pesanti che incrociava durante i suoi spostamenti. L'impatto, pensava, avrebbe posto fine ai suoi giorni senza dover troppo soffrire.
Ed un giorno che la disperazione aveva prevalso sulla ragione e vide arrivare a tutta velocità un grosso mezzo dalla direzione opposta, senza pensarci su due volte, sterzò di colpo e andò sbatterci contro urlando, con tutta la rabbia che aveva dentro, un sonoro "affanculo" al mondo.


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Si risvegliò abbagliato da una luce intensa in una stanza tutta bianca. Nei momenti di serenità mentale era convinto che la morte fosse la fine di tutto. Ma evidentemente si sbagliava. Non riusciva a capire dove fosse. Al momento avvertiva una profonda beatitudine interiore e non si rendeva conto di essere ancora vivo. Pensava di essere già morto e stesse pregustando quello stato di benessere che tante volte le persone che erano state in coma descrivevano avvertissero nell'incoscienza.
Ma lui non lo sapeva. Era stato imbottito da sedativi. Il colpo era stato tremendo, ma lui ne era uscito illeso anche se un po' maltrattato per l'impatto.
Insomma, non si era fatto proprio nulla. L'airbag si era aperto per tempo, la carrozzeria si era piegata nei posti prestabiliti dal costruttore e lui era rimasto incastrato nella sua vettura un po' malconcio ma vivo.
Sorte peggiore era capitata al conducente dell'altro mezzo, ignaro del matto che stava incrociando sul suo percorso.
Questi, quando si accorse che la piccola auto che procedeva in senso contrario stava per andare a sbattere a tutta velocità contro il suo mezzo cercò di evitarla sterzando disperatamente. Il mezzo era andato a schiantarsi contro uno dei piloni del ponte che stava attraversando ed il tremendo urto aveva schiacciato tutta la cabina di comando incastrandolo tra le lamiere della carrozzeria.
Il suo risveglio era stato più traumatico. Avvertiva chiaramente una insensibilità agli arti inferiori. Cercava di tirare su le gambe nel lettino del reparto ortopedico dove era stato ricoverato, ma le sue sensazioni motorie si fermavano al cervello. L'impulso partiva lucidamente ma le gambe non rispondevano.
Il referto fu drammatico per lui: paralisi agli arti inferiori.
Come avrebbe potuto fare adesso? La sua vita era completamente cambiata in una frazione di secondo per colpa di un matto incosciente che aveva perso il controllo della sua vettura a causa dell'alta velocità a cui l'aveva spinta.
Non immaginava minimamente che quell'impatto era stato ricercato e voluto, anzi studiato forse anche nei particolari già tanto tempo prima.
Il finale, però, doveva essere completamente differente per colui che aveva organizzato lo scontro. A morire, o restare invalido, ci doveva essere stato lui e non un'altra persona.
Al camionista neppure ci aveva pensato. Al sicuro in alto nella sua cabina avrebbe avuto al massimo solo dei danni al mezzo e qualche contusione guaribile in pochi giorni. Per il resto l'assicurazione avrebbe risolto i problemi del risarcimento dei danni.
Questi, stava viaggiando abbastanza tranquillo, ascoltando delle canzonette alla radio e canticchiava allegramente alla guida del suo mezzo ignaro del dramma che da li a qualche secondo avrebbe sconvolto la sua vita e quella della sua famiglia.
La giornata era bella, vi era una buona visibilità e la musica aiutava ad ingannare le lunghe ore di guida che lo aspettavano. Invece! Aveva percorso forse 100 o 120 km ed ecco che un pazzo gli va a sbattere contro scombussolandogli la giornata.
I giorni passavano. Armando era migliorato ed era stato dimesso. L'aver visto la morte negli occhi avevano ridestato in lui la voglia di vivere.
"Il diavolo non mi ha voluto - ghignava - dovrò starmene in questo inferno ancora per chissà quanti anni a continuare a patire".
Aveva accantonato l'idea di ripetere quel gesto. Aveva ormai deciso di convivere con le disgrazie del mondo. E poi in quell'ospedale di disgraziati che volevano vivere ne aveva visti tanti. E se della gente che stava peggio di lui aveva tanto desiderio di vivere, perché morire?
Poi le sorse la domanda: "E l'altro?"
Già, l'altro, il conducente del mezzo pesante. Come stava?
Appena si era ripreso dal colpo aveva chiesto di lui e gli avevano risposto che era stato ricoverato, in pessime condizioni, prima nel reparto di rianimazione a Torino e dopo in quello di ortopedia.
Quando le sue condizioni glielo permisero decise di recarsi a fargli visita in ospedale. Cosa gli avrebbe raccontato? Gli avrebbe inventato di un malore improvviso o detta la verità?
Non aveva deciso nulla.
Aveva acquistato delle buone bottiglie di barbera e si era presentato nella sua camera di ospedale alle Molinette di Torino!
"Accidenti com'è messo male" borbottò dentro di se vedendolo tutto ingessato e con dei pesi che gli tiravano le gambe. Un profondo senso di colpa lo assalì.
In fondo quell'uomo se ne andava tranquillo per la sua strada, stava guadagnandosi il pane per se stesso e per la sua famiglia, forse quel mezzo, ora mezzo scassato, le era costato un patrimonio, forse aveva ancora le rate da pagare, forse era profondamente preoccupato per il suo futuro e, cosa alquanto più grave, le sue condizioni fisiche non sembravano eccellenti e chissà quali tristi pensieri gli frullavano per il cervello per il suo futuro.
Stava pensando di tornarsene indietro, ma ormai era giunto davanti all'ingresso della camera e non poteva tagliare la corda come un vigliacco qualsiasi, lui che aveva sempre dimostrato un grande coraggio finanche a programmare la sua morte.
La notizia che quell'uomo aveva perso la funzionalità delle gambe, che non avrebbe più potuto guidare un mezzo lo aveva profondamente turbato. In fondo lui era in pensione da qualche anno. Il suo reddito non era niente male, c'erano milioni di persone che stavano peggio, ma molto peggio di lui, altri milioni e milioni che pativano la fame, la sete, la miseria. Ma che cazzo voleva dalla vita alla fine?
Queste considerazioni lo stavano combattendo psicologicamente ed il fatto di rendersi consapevole che era stato lui la causa principale di questo casino e della prostrazione fisica e morale di un'altra persona e della sua famiglia lo sconvolgevano ulteriormente.
Si avvicinò al letto e si presentò senza esitazione e senza più pensarci sopra.
"Mi dispiace - esclamò - non è stato un incidente causale. Io stavo cercando di togliermi la vita"
L'uomo rimase profondamente turbato nell'apprendere la verità. Era dibattuto tra un sentimento di rabbia e di pietà e guardava quell'uomo, che aveva cercato lucidamente la morte, perfettamente in salute e lui, che pensava solo alla sua vita, a guadagnarsi il pane per la sua famiglia ed al suo lavoro, si trovava ora ridotto in quelle condizioni a causa di un matto esaurito ed insoddisfatto della vita.
"Ormai è andata così - esclamò rassegnato - non ci possiamo fare più nulla".
Armando capì, invece, che lui non poteva lavarsi le mani e far finta che nulla era accaduto. Sarebbe stato troppo facile. Lui aveva causato quella situazione e non poteva dire soltanto "mi dispiace" e "arrivederci".
Cominciò a frequentare giornalmente l'ospedale. La continua vicinanza e le discussioni stavano facendo nascere un rapporto più intenso e cordiale tra i due. Armando aveva capito che il suo gesto aveva rovinato la vita di un'altra persona ed a questo punto si doveva assumere fino in fondo le proprie responsabilità e riparare il danno subito.
I continui contatti ormai avevano approfondito la conoscenza reciproca. Il camionista ormai conosceva ogni angolo nero della vita di Armando e, questi, a sua volta, aveva acquisito informazioni sufficienti per capire la storia dell'altro. Ormai erano diventati due amici come se si conoscessero da lunghissimi anni.
Anche per i parenti del camionista le visite giornaliere di Armando e la lunga permanenza in corsia erano diventate così talmente familiari che ormai i parenti lo consideravano una persona di famiglia ed avevano addirittura ridotto la loro presenza in reparto in quanto Armando aveva dato tutta la sua disponibilità ad assistere il camionista.
Arrivò anche il giorno delle dimissioni ed Armando pensò che fosse giunto il momento di chiarire quale fosse stato il suo ruolo futuro nei confronti del nuovo amico di sventura.
Avrebbe preso il suo posto nella conduzione della piccola attività di autotrasporto e nell'attesa che il giovane figlio raggiungesse l'età per poter conseguire la patente di abilitazione alla guida dei mezzi pesanti, si sottopose a dei corsi e poi ad esame per ottenere lui stesso l'abilitazione necessaria alla guida di un automezzo pesante.
Si stabilì nel paese di residenza del camionista e contribuì alle spese di riparazione del mezzo incidentato e, dopo un breve periodo di prove pratiche guidando il mezzo per brevi percorsi, iniziò l'attività che il camionista non avrebbe più potuto svolgere.
Armando mai avrebbe potuto pensare che dopo dieci anni che era andato in pensione avrebbe dovuto di nuovo ricominciare a lavorare. Ma questa volta non lavorava per se stesso ma per il nuovo amico.
Tra i due si stabilì un rapporto affettivo molto forte ed intenso. Armando nei momenti di libertà aiutava l'amico a fare delle lunghe passeggiate spingendo la sua carrozzella a rotelle. La sua vita ormai era tutta per l'altro, alla morte non ci pensava più.
Anzi, pensava di molto alla vita ed ogni volta che accusava un qualche acciacco si preoccupava moltissimo, non certamente per lui, ma perché voleva essere in perfette condizioni fisiche per non dover creare problemi all'amico facendo mancare il suo aiuto giornaliero.
La sua fatica si concluse quando il più giovane dei figli conseguì la patente di guida ai mezzi pesanti.
Da quel momento Armando poté ritornare a fare il pensionato e questa volta per sempre. Ma il suo rapporto con la famiglia del camionista divenne a questo punto solidissimo, anzi sembrava ormai uno della famiglia. E, soprattutto ormai non pensava più alla morte.
Aveva capito che la sua vita poteva essere preziosa ed utile agli altri.
La morte? Ma dove stava? Neppure più ci pensava anzi cercava di esorcizzarla perché adesso ne aveva davvero paura. E poi doveva pensare ai suoi nuovi nipoti dal momento che i figli del camionista da un pezzo avevano preso il vezzo di chiamarlo zio.
A questo punto la sua esistenza era tutta per l'amico, ormai aveva davvero trovato non solo un amico ma anche una famiglia. E una simile rapporto non poteva concludersi ma era destinato a rafforzarsi nel tempo.
Armando, però, pensava ai suoi anni e non voleva far trasparire i suoi pensieri, ma ogni giorno che passava sentiva che le sue forze cominciavano a venir meno. Sottoponeva il suo fisico a grandi sforzi per spingere la carrozzina, ma non voleva far mancare quell'aiuto al suo amico e, soprattutto, voleva dimostrare che continuava a possedere la prestanza fisica di un tempo.
Decise, perciò, di nascondere le sue preoccupazioni, ostentando ancora la prestanza di un tempo e continuando a tirare avanti fin quando le forze l'avrebbero sorretto.
Ma fino a quando tutto ciò sarebbe potuto durare?

 

Salvatore Armando Santoro

Donnas 11/8/09 15,54

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Perché scriviamo poesie

Presentazione di Santoro Salvatore Armando al 1° incontro dei poeti salentini a Patù – Palazzo Liborio Romano – 24.11.2013


Le poesie si scrivono per dare sfogo alle passioni che fermentano continue dentro di noi e che ci fanno vivere. Si scrivono per comunicare emozioni (ed il genere umano è ricco di passioni che generano le emozioni) e spesso incontriamo anche anime pure che socializzano queste nostre emozioni e le condividono. E tutto ciò è condizionato dal fatto che le emozioni variano da individuo ad individuo. Ma quando riusciamo a socializzare proviamo gratificazione e siamo spinti a continuare a scrivere perché in fondo la poesia regala pace e serenità all'anima, ci fa credere nella possibilità di un mondo migliore e, come sosteneva Mario Luzi, nella certezza che serva ad eliminare la guerra dal cuore dell'uomo e dal mondo e, soprattutto, di poter diventare, in questo modo, anche noi migliori.
Anch'io stamattina appena mi sono svegliato ho analizzato i miei sentimenti, e i miei comportamenti anche passati, ed ho considerato che l'unico errore che fa l'uomo è quello di pensare che i propri sentimenti siano condivisi al 100% dalle persone che incontriamo. E lo stesso errore si verifica anche in amore. Ma non bisogna mai stancarsi di amare gli altri ed io non mi stanco di farlo e, da quello che ho capito, lo stanno facendo anche tante persone qui presenti, che si dedicano al volontariato. E, questa voglia di amare l'ho notata anche in molte delle poesie che hanno scritto i giovani scolari che oggi sono qui tra noi, ed anche numerosi, e questo mi riempie di gioia perché sono certo che lasceremo il testimone della poesia, e dell'amore che la poesia racchiude, in ottime mani.
Da queste considerazioni traggo le conclusioni dicendo che molti di voi siano migliori di me perché io non trovo più il tempo per fare altro, in quanto per me la poesia è come una droga e mi avvince e coinvolge totalmente al punto che "perdo tempo" a sognare e non mi accorgo che il tempo passa e con il tempo vanno via velocemente anche i miei anni e ritengo, razionalmente parlando, che il mondo abbia anche bisogno di testimoni d'amore reali e non di sognatori.
Ma io sono pascoliano e quindi appartengo a quella razza di poeti che ondeggia tra crepuscolarismo e decadentismo letterario ed alla mia età, ormai, non riuscirò più a cambiare. Ma il mio impegno l'ho dato anch'io nel sindacato, con oltre trent'anni di attività sindacale alle spalle e di dedizione completa agli altri, trascurando anche, e soprattutto la mia famiglia, e questo non è stato né buono e neppure giusto perché poi si paga sempre un prezzo. Ma con il senno del poi non si riparano le cose. Ma questo è un altro errore che bisognerebbe evitare e che spesso prende la mano, forse per una sorta di esibizionismo infantile che sopravvive in molte persone che pensano che senza di loro il mondo precipiti nel baratro e si fermi. Ma non è così e molti, tanti direi, non se ne accorgono e pensano di essere eterni, insostituibili, indispensabili ed unici.
Purtroppo in Italia di veri poeti ne sono rimasti forse meno di dieci, visto che sono scomparsi da non molto tre ultimi testimoni, Mario Luzi, Ada Merini e Andrea Zanzotto* (che ho avuto la fortuna di ascoltare per l'ultima volta al telefono pochi mesi prima che morisse perché eravamo stati inclusi dalla Regione Toscana nell'antologia** “Pater” sulla figura del padre dove c'erano due nostre poesie), e quelli che sono rimasti viaggiano in ordine sparso e senza coordinarsi tra loro e, qualcuno, ed evito di fare il nome, si è dato al "commercio della poesia" inondando i portali di "annunci promozionali", illudendo migliaia di persone buone ed ingenue, solo per fare affari alle loro spalle. Ma queste persone illudendosi da certe valutazioni non veritiere, e distribuite ad arte ed a pioggia, a volte pensano di poter diventare veri poeti ed investono e sprecano quattrini in pubblicazioni che in fondo dovrebbero servire solo per socializzare sentimenti e suscitare emozioni ma non sposta di una virgola la propria condizione sociale o professionale.
E forse è anche per questo che la poesia non riesce più a trovare terreni fertili come ai tempi della mia generazione che usciva fuori da un conflitto che aveva disumanizzato il mondo.
Per certi versi, allora, dovremmo ringraziare Benigni, che non è un poeta ma uno che ci fa affari con la poesia, che sta tentando di rilanciarla. E dovremmo ringraziare prima di lui Paolo Limiti, che nessuno ricorda più, che in una sua vecchia trasmissione televisiva “Ci vediamo in TV” di qualche anno indietro, ci aveva inserito un bel capitolo sulla poesia utilizzando un bravissimo poeta e declamatore eccezionale, Alessandro Gennari, che poi è deceduto, anche in età molto giovane, per un male incurabile.
Tutti gli altri poeti che affollano anche la rete sono, e siamo, soltanto o dei poeti mediocri o dei dilettanti, disposti in ordine gerarchico vario, ma sempre compresi in questa categoria, anche se poi tra questi magari si nascondono poeti anche validi, ma che non sono né massoni e neppure amici degli amici di certe case editrici e di certi critici letterari, che ormai non fanno più letteratura e cultura ma commercio.
A molti di questi poeti piace anche una certa poesia particolare (ma forse non più di moda perché troppo complessa a comporla) e l'approfondiscono leggendo testi e manuali pesanti e noiosi per cercare di perfezionarsi (senza presunzione di diventare maestri), ma questi, se avranno fortuna, saranno scoperti qualche centinaia di anni dopo la loro morte. Ma l'unica azione buona che avranno fatta sarà stata quella di tenere viva la passione per la poesia e di cercare di trasmetterla agli altri, come stiamo facendo noi, senza aspettarci ricompense o prebende, anzi spesso esponendoci anche economicamente in prima persona e dimostrando, però, che non è vero il vecchio detto che dice che "neppure i cani muovono la coda per nulla".

A queste condizioni, la poesia potrà vivere in eterno in noi senza bisogno che altri valutino i nostri scritti e non dovremo mai stancarci di scrivere, stroncando la possibilità di trasmettere ai nostri figli, o nipoti od amici, le nostre emozioni, o pensare che la valutazione altrui su quello che scriviamo sia un incentivo o meno (e determinante) per poter continuare o smettere di scrivere poesie.
Spesso non uso l'ipocrisia per valutare gli altrui lavori anche perché il sentimento non può essere pesato o valutato da entità estranee alla nostra ragione ed al nostro cuore. Lo faccio quando sono costretto a "selezionare" dei testi nelle Giurie di diversi Bandi Letterari dove mi hanno voluto immeritatamente inserire. Ma in quel momento non giudico i sentimenti ma effettuo una analisi del testo, cerco le eventuali novità in esso nascoste, la forma ed il contenuto della lirica e la sua composizione in particolare, avendo sempre presente che da oltre 2600 anni si scrivono poesie e già i Lirici greci hanno detto tutto quello che nell'animo umano matura anche ai giorni nostri e che oggi è difficile scrivere altro e, chi riesce a farlo, è davvero un poeta ma neppure lui lo sa.

* Andrea Zanzotto è deceduto il 18.10.2011 a Conegliano Veneto
** Pater, Edizioni Morgana – 2007 – Firenze
http://www.morganaedizioni.it/default.asp?sec=34&ma1=product&pid=148