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Raccolta di testi in prosa di Bianca Mannu
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Non sono quella della scala6

«Ma lei è della polizia?» «No, signora, come le ho detto, sono una giornalista

«E che vuole da me una giornalista?»

 «Adesso le spiego… Intanto, per riservatezza, le attribuisco un nome convenzionale: le va bene Diotima?» «Sì, così non mi riconosce nessuno. Mi chiamano Mimma, quei pochi … Ma l’importante è che sono io, sì.»

 «Ecco, signora… Lei sa… ricorda perché è qui?»

«E certo! Sono in ospedale! Quello che mi è capitato quasi non si può raccontare. Sembra una cosa dell’altro mondo. Le devo dire che sono in confusione, sa? Mi tornano anche le vertigini, ma non sono matta.»

«Certo che no. Ma a me interessano gli effetti… dello shock. Cioè mi interessa il modo in cui lei ha vissuto e vive ancora le ripercussioni della paura, dello spavento. Vorrei che lei mi raccontasse quello che le ritorna in mente, così come le viene… Vogliamo attirare l’attenzione sulla situazione di trascuratezza in cui vive il suo e altri quartieri della periferia. Cominciamo? Io registro e mi sforzerò di non interrompere mai il suo discorso… »

«Noi anziani abbiamo tanti timori, sa? Siamo fragili e la mente, pensando tante cose, va un po’ così, che qualcosa ricordi e molto dimentichi… perché ci sono i malesseri…

Quel giorno… Ieri? Ma non so se era mattino o forse pomeriggio… Un sonno che non riuscivo a vincere mi tingeva di scuro gli oggetti e li toglieva dalla vista. E a un tratto mi vedo arrampicata sul davanzale della finestra a guardare di sotto. E intanto rumori brutti, da paura… Poi niente. Ho pensato alla  mia pensione, prelevata dall’ufficio postale. Cinquecento. Il mio capitale mensile. Ma io l’ho infilato, pure gli spiccioli, sotto la mattonella smossa dove poggia un piede del mio letto! - Io non mi faccio fregare né dai topi, né dalle “merdone” a due gambe - ho pensato. E che, per questo mese, non mi sarei fatta fregare nemmeno da quelli del governo. Quelli sì, lesti coi fiocchi!

Mi frullavano in capo queste idee un po’ tra l’annebbiamento e gli attimi di distensione della paralisi che mi afferrava il dorso - sai quella parte esposta e sensibile appena sotto le scapole? - Qui. Qui ancora correva come una piccola scarica elettrica, ma durevole. Ero scossa e mi pareva di non potermi muovere. E intanto, mi vedevo seduta sul solito divano, ruotavo intorno alla mia schiena, che era come un bastone freddo e duro. E, a quel punto, sento scrosciare l’acqua della doccia, nel bagno. E non so come si fosse aperto il rubinetto… Lo scroscio mi ronzava nelle orecchie e diceva: «Ti ammazzo, ti ammazzo...» Ascoltavo. Ma poi era un normale scroscio di doccia. E come era cominciato? Lottavo col sonno per poter avere memoria. Avevo dimenticato il getto aperto? E da quando? Ed ecco che mi arrivava uno strepito di passi, colpi di tosse e rumori che non capivo come… E mi sembrava di trovarmi in una grotta buia, fredda… E il freddo è quello che ti prende alle mascelle.

-Adesso sono prigioniera! - Ho pensato e di colpo ero bloccata su una sedia. Eppure scivolavo senza potermi afferrare a niente. E andavo, andavo dentro il budello che va a incontrare la porta del bagno, come se non finisse mai e fosse a piombo invece che piano.

-Mi sta girando anche la testa - Ho pensato. Vedevo? Certo che no, dato che avevo chiuso gli occhi per via delle vertigini, ma anche perché non volevo guardare. Mi stavo risparmiando il brutto colpo del vedere. E mi dicevo: «Questo è il segno che mi sta succedendo un fatto molto brutto. Humh! sono sicura che se apro gli occhi diventerò cieca di terrore.»

Li stringevo, infatti, e cercavo di non vedere altro che i diavolini di luce delle palpebre. «C’è qualcuno!» Mi sono detta. E quest’idea mi è arrivata nel cervello come una palla di fuoco. E allora ho interrotto il respiro come se avessi potuto spegnere quel fuoco per mancanza d’aria... Poi non so. Se ho dormito, o forse sono svenuta, l’ho saputo quando mi sono svegliata e mi è sembrato di ritrovare i  miei piedi poggiati sulla terraferma di matto nelle rosse del solito pavimento.

«Ah, ecco, non è accaduto proprio niente!» Mi sono detta, cercando di respirare. - Ho l’indigestione - ho pensato. E, di colpo, mi vedo appesa al davanzale della finestra aperta, come se mi fossero cresciute le ali.

-Che strano! Di solito anche stare alla finestra mi dà il voltastomaco! E come!

E, come l’ho pensato, ecco la nausea. E cerco di sbirciare senza muovermi. Sbirciare? E con quali occhi? Indovino voci, una macchia scura di gente sotto casa. Sento che arriva anche il Bogino, a sirena spiegata... Ma davvero? 

- Ah! A furia di guardare filmetti mi sto istupidendo del tutto - ho pensato. Però pareva tutto reale, perché davvero c’è uno spazioso corridoio d’aria tra i due casermoni grigi, dove abito. Così la mia finestra può guardare lontano, sulla spianata di erbacce e vedere il traffico del pezzo di strada a serpentone, che lo spedisce verso la statale.

«Che è successooo?» Provo a gridare. Ma mi pare di capire che la mia voce non arriva laggiù. E, infatti, non la sento neppure io. E allora non so se sono sveglia o sono allucinata… E’ perché la mia pressione alta questi giochetti me li fa…

-Tutto l’ambaradan del Bogino … per chi sarà mai? - ho pensato. E mi monta una stizza: gli piscerei addosso a tutta quella gente, per far capire che ci sono anche altri, oltre quelli o quelle vattelappesca di quella scala lì! Dove i cani ci pisciano proprio.

«Quassù va tutto ok! » 

Era come uno sparo che non so da chi uscisse.

«Ok, ok!» Ripeteva. E mi pareva che il suono fosse di porta sbattuta. Ed ecco che mi salta alla vista questa frase, come su un cartiglio: “Noi, ex gente di campagna e di pecore, diciamo ok come gli yankee, dato che ci siamo fatti i casermoni come a Brooklyn.”  

Mi era tanto piaciuta sul momento… perché disprezzava il parlare americano con le fave bollenti in bocca. Noi sardi ne capivamo di fave! Anche io, vecchia lollona, ho imparato a dire ok, senza accorgermene. Quante cose s’imparano dalla TV! Oh, io so che imparo. E mi ripetevo, come avessi una specie di ridarella:

«Per me va abbastanza ok. Non faccio come Teresa che si ferma sempre all’abbastanza... Sto abbastanza» dice.

«Althzeimer.» Le rispondo io, allora. Però ho il sospetto che pure io…

Ecco, quello di prima: un incubo, l’invenzione del cervello per scaricare nel sonno la mala digestione… Mi prende al volo sulle staffe del puledro indiano lanciato nella prateria del Wyoming.

Non rida, sa, signora giornalista! Se pronunciassi a voce alta la parola Wyoming  che pare una bestemmia, detta a quel modo lì, all’inglese, la gente di qui direbbe che sono matta. Ma non sono matta. Io so quello che dice la TV e lo imparo. Tutti noi pensionati, da cinquecento al mese o giù di lì, sappiamo abbastanza del Wyoming, del secolo scorso e quasi tutto quel c’è da sapere di New York, oggi, al tempo della crisi. Solo che c’è chi impara e ricorda e chi è soltanto un colabrodo a buchi grandi. Di pensionati così ne trovi di più nella seconda categoria. Si ricordano solo il giorno di san paganino… Mica possiamo frequentare i teatri o leggere i giornali! E poi i giornali hanno una scrittura così piccola che ti stanchi prima di aver cominciato. E non sono interessanti, proprio come qui che, di interessante, non c’è proprio niente. Infatti io, io non so proprio nulla, per esempio, del mio isolato. Non sono pettegola, io. E mi faccio i fatti miei. Io sto alla scala 5, in via Sa Forada Manna, dove non succede mai nulla che valga la pena di sapere…

«Anche lei sta aspettando la visita medica?» «No, signora Diotima. Sono la giornalista, ricorda? Mi stava dicendo che arrivava anche la polizia …»

«Ah, polizia! Sì, per quelli della scala vicina. Meno male che io sto alla scala 5. Me lo dicono i miei piedi fermi e ben piantati sulle mattonelle rosse di casa mia, al piano 7 della scala 5 di via De Sa Forada Manna 13 di Villamarina-Sud. Villaggio ex-turistico... Oh, Gesù, no! Mi torna la nausea! E’ il segno che non ci sto con la salute… Mi gira la testa come fossi sospesa sui fili del filobus! Ahi, ecco, la senti? Vai che comincia a gracchiare! La radiosveglia con le cifre sbagliate, dico. Attacca il solito notiziario delle stupidaggini locali! Te li servono così i fatti del giorno, in diretta, come dicono. Là dietro, un tizio al telefono riceve le scorregge del vicinato; tra l’una e l’altra ti propina le canzoni più strapazzate, mischiate con la pubblicità più cretina; e poi le condisce con l’elenco degli incidenti stradali, dei furti nei pollai e delle saghe. Senti? In via Sa Forada Manna, al numero civico 13, scala 6 un vero fiume d’acqua rossa o arrossata che pare sangue…

Ma a me che cosa importa di un rubinetto che cola? Io non abito alla scala 6!»

C’è bisogno di aggiungere che il cattivo sogno è una dura realtà di solitudine, d’indigenza e di abbandono?

Nel quotidiano locale apparve il seguente titolo sopra un brevissimo trafiletto:

Anziana donna cade dal 7° piano

Si salva sopra lo stenditoio del sesto.

*

Il corpo e la parola - da Camilla -

 

Fu bussato alla porta: <Dottore, per cortesia, venga subito!>

Era Ignazia, l’infermiera che avevo assunto perché si occupasse di Camilla durante le ore diurne, per fornirle un’assistenza femminile adeguata e tale che potesse con efficacia  sostituirmi quando  io ero fuori casa o al lavoro.

 <Perché un’infermiera? Non sono ancora così malandata>, aveva osservato Camilla quando ne ebbi preannunciato l’ingresso in regime abituale.

<Certamente! Lo so, ma non mi sembra giusto che tu rimanga sola quando sono assente; potresti avere una necessità improvvisa.>

<Tanto non potrà salvarmi!>

<Può darsi che ti salvi da sola … Sono certo che tu hai tante di quelle risorse che nemmeno te le immagini! Piuttosto verifica se la persona ti aggrada umanamente, oltre che professionalmente … Altrimenti ne troveremo un’altra.>

<Non dovresti interpellarmi prima, sulle cose che mi riguardano?> E si ributtò sullo schienale volgendo il capo dalla parte opposta alla mia. Piangeva e io mi scusai perché aveva ragione.  Andava talora così, a colpi di scuse tardive.

Ero, dunque, accorso dietro a Ignazia in soggiorno. Camilla, disfatta e terrea si  tergeva il volto con un asciugatoio umido cercando di frenare un convulso di pianto che schizzava dagli occhi stralunati e una sorta di respiro sibilante che si mutava in conato di stomaco e si prolungava in una specie di muggito.

. <No, no, non voglio che tu mi veda così!>, urlò appena si avvide del mio ingresso. <Via, via, fammi portare via … Voglio morire in ospedale! Voglio morire!>

Non dicevo niente, semplicemente la stringevo a me e la trascinavo dolcemente verso la camera da letto, intanto che Ignazia apriva la porta finestra e faceva pulizia. Forse erano cominciate le crisi temute.  O forse era il rifiuto fobico del male. Occorreva che lei non si spaventasse troppo e che non si ponesse problemi di natura estetica. Lei aveva tutti i diritti e nessun dovere, se non quello di reggere gli assalti della malattia.   Nemmeno mi lasciai vincere dal pianto, che pure mi serrava la gola, per non spaventarla ulteriormente. Semplicemente l’abbracciavo, le carezzavo i capelli, il volto, le mani aspettando che quietasse.

Si quietò e forse si appisolò, esausta. La tenni così finché si riscosse. E dopo mi occupai della sua toletta con tutto ciò che poteva risultare gradito al tatto, all’olfatto e alla vista, lentamente. E il suo respiro lentamente si normalizzava.

E allora l’avvicinai allo specchio. Non osava guardarsi. Dolcemente la forzai. E quando sollevò lo sguardo e si vide i capelli ricadere inanellati e lucidi sugli omeri, e un’ombra rosea segnare gli zigomi frizionati con la crema, lei sorrise a sé e a me dallo specchio … Allora le porsi il rosso per le labbra e poi un abito, come per andare al ristorante o al teatro …

< Ti prendi gioco di me?>

<Ma che dici? Forse ti sembrerò ridicolo, ma io ti amo, Camilla. Faccio le cose che posso, che voglio imparare a fare con te, per me. Forse non gradiresti andare fuori, ma possiamo sempre cenare da noi, se te la senti. Oppure  vedere insieme un film, oppure leggere qualcosa o semplicemente parlare.>

<Sì, ecco, voglio che parliamo, che diciamo tutto quello che sentiamo di voler dire. >

Sì, vorrei ripetere ogni parola che lei ha pronunciato, ogni gesto con cui l’ha accompagnata; ma non sono sempre in grado di seguire il filo del prima e del dopo, la logica del discorso e dei contesti. Racconterò il disordine del ricordo e gli assemblaggi postumi con i quali io la chiamo ancora accanto a me. Dirò ancora il venir meno del coraggio e il reiterarsi delle mie vigliaccherie.

Finché dura la vita, niente è per sempre: questo ho capito.

*

Un pomeriggio come tanti da Camilla

Un pomeriggio come tanti  

 

Ecco che uno dei tanti pomeriggi simili,  mi venne fatto di pensare che, forse dal momento del suo insediamento nella casa, non avevo neppure dato un’occhiata alla camera occupata da lei, neanche per curiosare su come l’aveva sistemata; né lei mi aveva invitato a farlo..  E allora, quasi senza accorgermi, ecco che mi appresso all’uscio. vi appoggio l’orecchio articolando <Camilla?> e rinforzando il sussurro con un tocco del dito medio. No, nessuno. E sul gesto della mano alzata sulla maniglia mi prende un sussulto, come di vergogna. Me ne torno quatto quatto al divano per consumarvi il tempo dell’attesa.

E intanto che aspetto, mi è passata del tutto la voglia di buttare l’occhio dentro il  giornale, di sfogliare il libro che custodisce la matita, di rallegrarmi per la turgida bellezza d’una dalia amaranto che spicca, in giardino, sul fogliame bruno della pianta. E mi sento prendere da un’inquietudine che mette corna e denti e vuol sapere perché Camilla ci mette tanto a ricomparire, una volta fra cento che riesco a mollare il lavoro prima del solito, spinto da una specie di urgenza di  percepire la sua presenza nella casa, il suo inciampare dentro le pantofole sul marmo lucido del pavimento, il respiro accelerato dietro quel suo andare e quieto tramenare in cucina o, chi sa, nello stanzino delle scope … E intanto che me la figuro - parendomi di cogliere dentro la sua smaccata assenza uno sgarbo fatto a posta contro quell’urgenza mia di lei, che mi cresce dentro come un’onda – avverto la sua sagoma sul vialetto, la quale seminascosta dalla siepe si blocca per qualche secondo, come per un intoppo … Eccitato dalla curiosità, sbircio meglio. E’ come se lei, intuita la mia presenza in casa, voglia guadagnare un tempo - che so?- per ricomporsi dopo uno spavento o un insulto, e parere la Camilla solita e normale. Ma lo scontento  e il profilo di  una smorfia inusuale, che le aleggia sulla bocca, sono più di una sirena  e il mio quesito esige una risposta. Lei si butta sul divano e protesta una stanchezza da pullman tardivo e pieno di viaggianti, e lei non è altro che un’anatra zoppa. Lei non richiama intorno a sé il senso dell’umana gentilezza … E nel suo dire afflitto, la testa, quasi di bambina sull’esile collo, è abbandonata sullo schienale dove i capelli si spargono in cascata e chiamano a una fuggevole carezza. Sedendo accanto a lei, la mano a mezz’aria per un impulso indecifrabile e irresoluto, cerco uno sguardo che un po’ si nega e scioglie due lacrime dense in un silenzio che raccoglie ai bordi del suo foro le domande più banali.  

<Ma no, no … Che è stato? No, no, non piangere … > E già non si capisce più di chi siano le lacrime, né più si sa chi sia l’afflitto e chi il gaio, per che cosa e chi si stia smarrendo, e chi e perché vada a incontrarsi col più autentico sé.

Iniziò così la spartizione fisica degli affetti, sulla cresta della sua ricorrente afflizione di essere come era, senza potersi figurare un rimedio; ma solo il sottile viraggio della casualità. Ah, poter accettare da me alcunché di tenero potesse giungerle, almeno come una parziale compensazione al suo precario senso di sé. Io non me ne adombravo, né mi sarei risentito se anche fossi stato vissuto come suo strumento di consolazione. Anzi.  Perché per me quanto ci accadeva aveva un sapore assolutamente gratuito e regale: sapevo di amarla. Lei taceva e sgranava quei suoi occhi all’indirizzo di un punto lontano e indefinito.

Da principio temetti il suo disgusto, che poi non si palesò. Continuai a temere gli effetti di un  suo turbamento tardivo, che non si manifestò. Poi  mi preoccupai anche che l’assenso fosse apparente e silenzioso, che nascondesse una sua disperata acquiescenza, la quale mi configurava violento e rapace. Ma. lei non mi restituiva quell’immagine. Continuai a preoccuparmi. Temevo il momento della sua noia, temevo che lei desiderasse ciò che io non sapevo offrire, temevo che lei manifestasse il desiderio di tornare nei suoi luoghi, malgrado la recente sua decisione di chiudere quella pagina, temevo la ricorrenza insormontabile della sua malinconia e la mia fondamentale e maschile estraneità … Mi preoccupavo e tacevo anche io. Temevo e non pensavo che a me. E fu allora che riproposi viaggi e vacanze.

Così partimmo. E fu come se si sciogliessero i ceppi. Come se mai ci fossimo incontrati come consanguinei. E fummo pazzamente folli d’amore e non ci furono segreti dell’uno per l’altra, tali che fummo capaci di  sottoscrivere senza falso pudore il nostro stato. Trovammo parole: poche e pacate. E se il non ancora detto rimase impigliato nel cono d’ombra retrostante a un abbagliante irruzione di sole, nessuno se ne dolse. E se talvolta ciascuno di noi - lei un po’ di più - si abbandonò in qualche momento alla malinconia d’una carenza, fu per dirne la distanza, fu per opporre alla faccia avara della vita un nuovo scongiuro. 

*

<Da nonna Annetta>,cap.XX: Il sole nero,pp.275-80

DA NONNA ANNETTA –Cap. XX : Il sole nero, pp. 275-280

 

Entrò col cappello in mano. Un piantone si fece ripetere le generalità e il motivo della visita… Al che Alfano sentì montarsi il sangue alla testa… “Il motivo me lo dovete fornire voi…” e già sentiva che la sua voce si alterava pericolosamente, perché il piantone lo stava puntando con malcelata ferocia… Fu allora che si riscosse come da un cattivo sogno e consegnò il foglio che gli avevano lasciato gli innominati visitatori.

Un’andata e un ritorno del milite e Alfano fu introdotto in un ufficio, dove un uomo pelato in borghese sedeva a una scrivania. Aveva ugualmente una grinta militare.

Alfano sperimentò la stessa tattica che aveva subito da soldato. Nessuno rispose al suo saluto. Stette in piedi, mentre l’uomo alla scrivania continuava a scartabellare come fosse solo. Di colpo brontolò qualcosa alle carte e Alfano non capì di essere interloquito. Allora l’uomo ebbe un gesto d’impazienza e alzando il capo l’apostrofò: “Nome cognome paternità e professione”, dimenando in aria il foglio e appiattendolo sul tavolo.

“Alfano, cerca di fare il bravo fesso come già ieri notte, se no qui finisce che ti sbattono dentro senza neanche chiarirti la ragione del  fatto che sei qui”, si disse e chiese scusa per non aver capito.

L’uomo parve rabbonirsi e gli indicò una sedia. E dopo aver chiuso con meticolosa attenzione una pesante cartella, lo guardò in faccia. Alfano ricambiò lo sguardo con apparente tranquillità.

“Allora, sig. Mirau… Perché lei fa Mirau di cognome, giusto? Lei viene dalla Sardegna, no?”

“Sì. Per lavoro.”  <Il lei è un buon segno> pensò Alfano.

“Così sembra,” fu il commento ironico del funzionario.

In breve Alfano, malgrado la sua circospezione, fu trascinato in una sorta di conversazione che ondeggiò tra l’amichevole e la paternale. Lentamente il bravo commissario gli snocciolò tutto il curricolo suo, dai parenti della Sardegna a quelli residenti nel Continente. Alfano rimase a bocca aperta e non vedeva lo sbocco di tanto discorrere e girare intorno al proprio contesto geografico e sociale. Venne fuori la relazione di affinità con l’ex consigliere provinciale socialista, Cristoforo Lampis, che, “giustamente”, era andato a curare i propri veri interessi in un luogo tranquillo. Saltarono fuori dalla scatola i problemi di salute mentale di suo fratello, Seafino Mirau, la vivacità politica e polemica di Valerio Mirau, altro fratello, altra situazione problematica … e di Alfano, già armiere del Regio Esercito …

“Armiere viene da arma,eh eh eh!  Il medagliere di guerra annovera un certo Pietro Mirau fra i caduti con onore, ma …

“Ma non mi dica, Signor Commissario, che ha mandato quattro uomini nel mio alloggio, a frugare fra le mie carte per comunicarmi quest’ampia informativa sulla mia parentela!”

“Ah ah ah! Vedo che lei ha un certo senso dell’umorismo…No, certo che no! E che? Nun avimm’a pazzià! E’ che lei, signor Mirau, ha avuto delle frequentazioni non esattamente conformi alle sue belle speranze …”  E nel dire così, gettò sul piano della scrivania un mazzo di opuscoletti che Alfano riconobbe come propri.

“Cercavano questi, allora, nel mio alloggio i suoi uomini! Ma guardi che sono reperibili in qualunque biblioteca…”

“Sì, vede … Per quanto mi riguarda, lei potrebbe essere tranquillamente quel che si dice un’anima bella che coltiva in proprio idee di rinascita universale … Ma lei è il più stretto collaboratore di un certo ingegnere, col quale è stato anche a Genova … Con chi si è incontrato a Genova il suo ingegnere?”

“L’ingegner Bini non è affatto mio, come io non sono suo. Ho creduto e credo sia al servizio della ferriera. Di questa natura sono e sono stati i nostri rapporti. Di altro non so”.  

“ Lei è stato visto entrare e uscire più volte dal Sinarchia . E il Sinarchia qui a Napoli – lei lo sa meglio di me – non è affatto quello che appare, cioè un locale per giocatori di biliardo e di scacchi… Non mi dica, signor Mirau, che lei è all’oscuro… Ma via! Lei sa perfettamente, signor Mirau, chi sono gli anarchici… Lei ricorda perfettamente che cosa hanno fatto a Parma e in Toscana, appena l’anno scorso…Lei legge i giornali! Diversi giornali!

“I giornali parlano degli anarchici e di altre cose…Comunque non sono anarchico.”

 “Sì, vede… Per quanto mi riguarda lei potrebbe essere tranquillamente quel che si dice un’anima bella che coltiva in proprio idee di rinascita universale … Ma lei è il più stretto collaboratore di un certo ingegnere…Col quale è stato anche a Genova…Con chi si è incontrato a Genova il suo ingegnere?”

“L’ing. Bini, non è affatto mio, come io non sono suo. Ho creduto e credo sia al servizio della ferriera. Di questa natura sono e sono stati i nostri rapporti. Di altro non so.”

E’ sicuro?”

 “Sono sicuro di me, solo di me.”

“Lei è stato visto entrare e uscire più volte dal Sinarchia. E il Sinarchia, qui a Napoli - lei lo sa meglio di me - non è affatto quello che appare, cioè un locale per giocatori di biliardo e di scacchi… Non mi dica, signor Mirau, che lei è all’oscuro… Ma via! Lei sa perfettamente, signor Mirau, chi sono gli anarchici… Lei ricorda perfettamente che cosa hanno fatto a Parma e in Toscana, appena l’anno scorso…Lei legge i giornali! Diversi giornali!

“I giornali parlano degli anarchici e di altre cose…Comunque non sono anarchico.”

“E farebbe bene a non esserlo. Gli anarchici sono una lebbra, di cui per forza bisogna che ci liberiamo!… L’Italia ha bisogno di disciplina e ordine, lealmente, da parte di tutti…Dico tutti!…”

Alfano guardava quel dito puntato contro contro di lui e taceva, aspettando la conclusione e resistendo alla tentazione di controbattere, per non essere costretto a fare considerazioni e ammissioni che -nella sua opinione- appartenevano al dominio della stretta autonomia personale.

“In sintesi, signor Mirau Alfano di Sinarrios, Provincia di Cagliari, Sardegna -continuò il commissario sbagliando comicamente tutti gli accenti- siamo in possesso di una segnalazione - non trascurabile, perché proveniente da fonte attendibile -che ci mette sull’avviso circa le sue relazioni politico-sindacali con personaggi anarchici.

Alfano adesso era veramente sbalordito. Che fosse stato attratto dalla figura dell’anarchico Novatore – peraltro rimasto ucciso in un conflitto con i carabinieri poco tempo prima della propria trasferta a Genova con l‘ingegner Bini- e che avesse letto in piccoli periodici clandestini alcuni articoli di Bruno Filippi, era vero. Ma non poteva certo dichiararlo al poliziotto che lo stava accusando di attività contro lo Stato. Gli si affacciò anzi la preoccupazione di lasciare al suo pensare troppa briglia sul collo, data la sua situazione di accusato politico. “Perché questo ti sta accadendo, caro mio!”, si disse. E allora premette le mani sugli occhi, quasi a impedire che il suo pensare potesse da un momento all’altro schizzar fuori e sbandierare più del dovuto. Perciò intanto che l’uomo rimenava le cartelle e parlava a ruota libera come un normale chiacchierone poco offensivo, si buttò a ricordare che un anno avanti, avendo capito a naso dove portava il vento, si era liberato della stampa compromettente… Forse dopo il fallimento dello sciopero o forse prima, dal danneggiamento del bar di suo cognato… E dopo di allora era stato piuttosto a guardare, preso nei lacci di Gianna e anche credendosi invisibile nel proprio anonimato, bloccato com’era nel groviglio di idee confuse -fra cui si salvava, solo e istintivo, il suo antifascismo…Ecco che si era rimesso a pensare e a rischiare di avere dei lapsus rivelatori… “Ma rivelatori di che, poi? ’Dell’ing Bini –chi era, infine?- Non ne sapeva davvero nulla… nulla! Negare, negare sempre… E sentire antipatia, disprezzare – puh che schifo! - chi ti sta accusando. No, questo non è per niente un brav’uomo, è un servo, una spia… No, guarda, io proprio non penso niente di me e, se penso, penso di te – nausea - che mi conti frottole per raggirarmi e indurmi a fornire, a inventare informazioni per mandarmi o mandare in malora qualche altro...”

La cosa curiosa era anche questa: intanto che durava l’interrogatorio Alfano si faceva l’idea che era lì per una sorta di montatura senza fondamento… Che si poteva sgonfiare seduta stante, dato che non si poteva fare il processo alle intenzioni presunte. “Ma che peso possono avere le mie intenzioni? A chi possono interessare?” Perché lui non era davvero nessuno! E invece di tremare… Per tremare, tremava….Tremava e si chiedeva che sugo ci fosse a “torchiare” lui, lui che ne sapeva meno delle pietre. Veramente – ma per che cavolo era lì?- neppure poteva raccontarsi che lo stessero davvero “torchiando”. Il colloquio - benché… no, non era proprio un colloquio, era uno schifoso annusare, fiutare spingere la merda della propensione a dar fuori - procedeva in modo apparentemente ineccepibile: toni burbero morbidi, il lei! Recchione!… .Da solo a solo, senza testimoni e senza verbale… Vuoi vedere che questo serpente mi distrugge la vita con Gianna

E fu a questo punto che Alfano cominciò a intuire l’origine e il senso della sua situazione…

“Proprio non vuole collaborare, eh?”

“Commissario, mi dica chiaro che cosa si vuole da me; perché io su tutto il giro di questioni che lei ha posto non saprei proprio che cosa  dire…Sono forestiero e anche solitario. Lei lo sa quanto me.”

“Ecco, bravo! Sa che cosa c’è scritto qui? E sventolò un foglio. C’è scritto che lei è un anarchico individualista. E chi lo sottoscrive non è un pellegrino qualunque… Questo è il legittimo sospetto di persona che ha ottime ragioni per allontanare l’anarchico Alfano Mirau da ogni riferimento personale e politico! Non so se mi spiego…Lei, signor Mirau, non ha alcuna speranza! Lei deve fare la valigia e tornare di gran carriera nel suo paesello! Così semplicemente. E senza nessun rumore. Capito?”

“Signor Commissario, mi scusi, ma lei vuole scherzare! Io ho qui il mio lavoro, la mia vita…una do…, una…fidanzata…!”

“Ma signor Mirau, lei in che sogno vive? Lei non ha alcuna speranza e tanto meno una fidanzata…Non mi faccia dire di più.  Se lei insiste, mi vedo obbligato a iniziare un procedimento formale; e poi sarà lei a doversene difendere. E lei sa che non sarà facile, ammesso che ne abbia le ragioni e le prove.

Il funzionario appariva spazientito dall’ottusità del giovane; e quasi combattuto, tra la voglia di levarselo dai piedi e il senso di fastidio a iniziare una specie d’indagine senza nessun vero nesso e speranza d’interesse per il suo ufficio. Continuò con il tono paterno: “Dia retta a me, vada via con le sue gambe,. Solo così lei potrà uscire dal contesto inquirente… Altrimenti devo procedere e lei saluterà per sempre la sua pace. Che lei lo sia o no, se resta qui e insiste   sarà anarchico per sempre. Perciò vada via. Guardi che non sto minacciando, le sto offrendo ciò che non dovrei: un salvagente! Lei non ha che la mia nera ala. Vale quarantotto ore. Buona fortuna.”

Il commissario si era alzato: gli tendeva i documenti e la mano. Alfano s’era levato anche lui. Titubò un istante e gliela strinse, pallido, senza una parola.

 

***

Si sa che la speranza è l’ultima a morire. E Alfano, tornando frastornato e furioso verso il suo alloggio, sperava che Gianna si facesse viva in qualche modo. Intanto la sua testa, snebbiandosi, cominciò a dare senso alle parole del funzionario e a riconsiderare le sue elucubrazioni genovesi come un grave peccato di ottimismo. Altroché. Ora la situazione si rivelava di gran lunga peggiore di quanto allora avesse osato rappresentarsela. Lui, un piccolo operaio sardo, un nessuno senza speranza di esistenza, aveva osato infilarsi in un terreno vietato, illuminato dal sole più nero che avesse illuminato la più solare delle città… La mente ancora stravolta non trovava nulla che lui potesse fare per arginare gli effetti di quella macchina perversa che stava riducendo la sua vita a un foglio di carta… Non c’erano istanze di giustizia, non c’erano meriti possibili da opporre - neanche a diventare squadrista, si disse in un impeto di amara ironia.

Nell’irrompere di tale violenta consapevolezza, però, gli tornò in mente il modo con cui Gianna, al suo ritorno da Genova, aveva allentato i lacci di ogni ipoteca sulla loro relazione. Sperò, non tanto nel ripetersi dello stesso miracolo, ma nella possibilità di guardare insieme con lei alla situazione presente e insieme decidere come amministrarsi… Perché da parte sua era pronto a correre i rischi che ne sarebbero seguiti, ma avrebbe voluto sapere se Gianna era disposta a correrli con lui o no. Avrebbero messo in comune le rispettive informazioni e calcolato la forza dei loro sentimenti per mettere in atto una strategia salvifica del loro legame… Il comportamento sfumato del funzionario aveva lasciato intravedere altre possibilità… Non era tutto perduto.

L’attesa divenne spasmodica e volta a volta combinata con le fantasie più rosee e più nere. Dov’era Gianna? Che informazioni aveva? Perché non dava un segno qualunque di vita? Egli avrebbe capito e avrebbe intuito entro quali modalità corrisponderle. Ma il passare delle ore evidenziava tanto la propria solitudine, quanto quella che Gianna stava forse vivendo. In più avvertiva il senso d’impotenza derivante dal fatto che ogni suo movimento in direzione di un qualunque approccio con lei poteva far precipitare ogni possibilità positiva nel suo rovescio, compreso il proprio arresto e magari, come minimo, l’avvio al <confino>, come già avveniva per gli anarchici veri. Non risultava forse anarchico anche lui? E che cosa aveva saputo lei di questa montatura? Eppure qualcosa, qualcosa di negativo - d’insostenibile forse- le era stato comunicato. Alfano adesso non aveva dubbi che dietro a tutto c’era la lunga mano del suo renitente <suocero>…per eliminarlo dall’orizzonte proprio e di Gianna. E lei? Che cosa realmente pensava ora di lui? Che fosse un falso anarchico o uno vero? Forse lei avrebbe osservato che lo era nel nocciolo.

 


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"da nonna Annetta": pagine scelte

La guerra di Ranieri

Ranieri, camminando non vedeva quasi nulla davanti a sé, gli occhiali punteggiati di pioggia. Ma certo sentiva. E sentiva qualcosa… qualcosa di somigliante a voci. Sempre più chiaramente sentiva voci, voci ansimanti, strane, come emissioni sfrangiate, in corsa… Mugolii anche, ma umani, troppo umani, femminili, anzi…femminili e nasali, da lingua torpida. “Qui? E come può essere?”

Di colpo s’accorse che s’era fatto buio. E sì, le cose buone che pensava erano luminose di suo, dentro la testa. E lui aveva continuato a camminare come se avesse seguito il loro riverbero. E invece il buio era denso per via del pulviscolo di pioggia. Il terreno sconnesso gli disse che aveva raggiunto la pietraia, il letto d’un torrente secco. Avendo voluto scorciare, doveva passare da lì. E però non sapeva a che punto fosse. E se era in mezzo, voleva togliersi, perché con quello che a tratti gli turbava le orecchie e il pensiero, lui non voleva entrarci. Si bloccò di colpo spaventato del rumore dei propri passi. Stette in piedi, fermo come un tronco, per pensare meglio e cercare d’indovinare un riparo. Gli pareva d’intravedere sagome di opunzie, cespugli, muri a secco, immersi in un’ombra dilagante, troppo lontani, gli pareva… E in quel silenzio improvviso che sembrava spiarlo, ecco di nuovo il frullato di voci e anche un istantaneo bagliore senza suono. Si sentì esposto e nudo in quella pietraia, malgrado il buio. Cercava d’indovinare la presenza d’un masso contro cui addossarsi. E fu lì che scivolò e il fracasso d’inferno che ne seguì, non era dei sassi...Era una mitragliata che gli scagliava addosso una grandine di piombo. E infatti qualcosa di caldo gli bagnò l’inguine e le gambe… “Beccato”, pensò accasciandosi e aspettando il dolore e la morte. Ma seguiva solo un’eco di sassi smossi che non capiva bene se fossero dentro o fuori dal proprio corpo… Si teneva la testa e aspettava il colpo alla nuca… Sentiva infatti l’incalzare dei passi e l’impeto perentorio delle voci, e i propri denti arrotarsi in bocca con un rumore insopprimibile e le gambe irrigidirsi dentro i pantaloni bagnati... L’anima gli uscì dal petto e come un cencio di vapore grigio restò a dondolare, infilzata in qualcosa, come un ciuffo di cardi secchi, nella pioggia nera. Era morto e non poteva farci niente.

“La morte ha una meridiana che i vivi non capiscono…Beh, quella, la morte, è un tasto di niente che interrompe i fili del corpo e del cervello…Quella se ne tornò indietro con quello straccetto d’anima forata dal cardo molentino e s’ingusciò nel cuore del…fortunato? Boh! Tasto di niente e ti svegli, sbatti le ciglia e sei tutto pancia, perché un sobbollire sordo e fastidioso ti fa tremare i visceri, e la merda ti esce dal corpo come acqua… Ecco, così…psfs”

E’ predi Atzori che fa parlare in questa guisa il povero Ranieri, che invece così proprio non sapeva parlare. Ranieri aveva percepito, sì, l’avvio del motore di quella camionetta… Solo un morto non avrebbe riconosciuto il minaccioso scaracchio di quella. La paura ha mille antenne. E Ranieri, avendone forse mille e una, non volle sapere che cosa come e sopra chi, con la pioggia e con la notte, compissero i saturni padroni del momento e della camionetta. Atterrato sotto il cappuccio di sacco coi suoi trabiccoli puntati sulle costole, volle fuggire come poteva, appiattendo il suo spessore. Ma sentì quel ronfo avvicinarsi incombente come se avesse avuto occhi per vedere lui, Ranieri, che sminuiva senza poter sparire… E allora impedì al suo corpo di conoscerne anche il peso fisico e tutto il crocchiare che, ballando, avrebbe fatto sulle ossa del suo corpo e lo slittare a vuoto dei copertoni sull’impasto di carne, sangue, merda e fango che lui stava per divenire…Piuttosto morto. Ecco. Andò così.

Ma la morte, che non ha avuto modo, a causa d’un’astuzia emozionale, d’autenticare la sua firma, mantiene tracce di reversibilità. Così Ranieri, da morto che era, si riprese giusto in tempo per udire l’attenuarsi del rombo, come di tuono che andasse a morire lontano, verso l’altipiano. E quando l’aria tacque del tutto, lo prese una gioia così intensa, così folle, che lo fece voltare faccia in su. E fu lì che si addormentò.
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Ranieri continuava a dormire come se dovesse scontare un anno intero di veglie. Ma di quando in quando quel sonno placido e stranamente solido si apriva verso finestre di sogno, nelle quali s’accendevano lampi multicolori che deflagravano in curiosi tambureggiamenti e in sarabande musicali. Poi si spegnevano e tornava il silenzio.

Una mattina i suoi occhi si aprirono come se fossero nuovi e guardavano dai vetri i ghirigori di brina che scintillavano sugli arbusti dell’orto. Si alzò senza pensare a niente e senza alcuno stupore. Cominciò a vestirsi piano piano, tendendo l’orecchio alle voci di fuori. Infatti lentamente e da varie direzioni esterne alla casa cominciò a montare un’inconsueta animazione: erano accenti familiari, femminili e infantili; poi altre voci rotolavano verso di lui scivolando oltre, sempre più numerose, come bolle rotonde che scorressero in rapida, diretta verso il fiume… E allora, sentendo vuota la casa, si fece sull’uscio: era come se tutto il paese, case comprese, andasse incontro a un’aria di vetro, gelida e pura. “Che cosa fai sull’uscio come un babbeo, Ranieri? Vieni con noi, dai!”, gli gridò Sara di Gesuina. “Ma va! Qualcuna l’aveva messo a fuoco? …Creature strane le fem…No! I tedeschi si sono squagliati?! Squagliati! Urlò per se stesso, e gli rispose una salva di martelletti pasquali. Sganciò la vecchia mastruca della buonanima e si buttò anche lui tra la folla. Anche lui entrò nella festa dei discorsi incrociati e gridati, in mezzo alle corse tortuose dei bambini che, palleggiando le cartelle scolastiche, scandivano ritmicamente: “Niente scuola, niente scuola”.Si sentì incredibilmente leggero, dimentico di ogni cosa che non fosse il respirare l’aria gelida e, come tutti, avere una nuvoletta biancastra intorno alla bocca e andare… Qualcuno aveva scovato un tricolore, qualche altro s’era messo a sventolare uno straccio rosso appeso a un manico di zappa, un gruppetto di donne teneva alto uno stendardo della Vergine e tutti a passo di marcia verso il municipio, verso Sa Panga, verso la chiesa, o forse verso l’altopiano a vedere di persona il vuoto lasciato dai tedeschi.

E già i più agili avevano preso la rincorsa in salita, e quando ebbero passato il ponte, tutti dovettero voltarsi all’unisono, come a un richiamo perentorio e universale… Le campane della chiesa s’erano sciolte e suonavano <a gloria>, festose come a Pasqua di Resurrezione, intanto che il sole già alto faceva brillare le sciolte gocce di brina sui ricami della croce in cima al campanile.

 

  




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