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Raccolta di testi in prosa di Stefano Colombo
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Pezzi di corpo

Il bagno è il luogo più intimo delle mia casa: il punto in cui i primi momenti di coscienziosità mattutina prendono forma e l’ultimo in cui abbandono la mente razionale per poi immergermi nel riposo onirico.

L’unica stanza dove posso veramente osservarmi, dove lo specchio può riflettere la mia immagine, che altresì non mi sarebbe concesso vedere.

L’area in cui il mio viso è ritratto virtualmente, ma replica alla perfezione la mia vera essenza e le mie forme: posso assaporare il mio volto squadrato, dotato di una mascella imponente, i miei occhi scuri mi fissano al di là di quella superfice e io fisso loro, si interfaccia uno scambio reciproco con me stesso.

Più mi guardo e più comprendo di essere corpo: testa, braccia, busto. La dimensione dello specchio è delimitata fino all’altezza del bacino, oltre non posso vedere, ne oserei abbassare lo sguardo per verificare un’esistenza che in questo luogo non si riproduce.

Le mie mani si avvicinano al viso per garantirmi cura e pulizia, richieste per un’apparenza pubblica decente. Quando la mia cute spessa e dura, a causa dei calli, viene a contatto con altra mia pelle si genera un senso di vita, si sprigionano sensazioni che mi rendono consapevole della cenestesi: se non potessi vedermi allo specchio potrei comunque sentirmi presente nel mondo.

Sono composto da parti anatomiche imprescindibili dal mio essere, io sono pezzi di corpo uniti fra di loro. Mani, polso, ossa, muscoli, braccia, spalle, sternocleidomastoideo, legamenti, testa, umore vitreo, retina, con cui posso osservare tutto questo e, dove non posso avere un diretto riscontro visivo, il mio cervello ha acquisito immagini da libri o da filmati attraverso i quali posso ricostruire tutto il mio essere. Il mio essere fino al bacino ovviamente, fintanto che le dimensioni dello specchio sono limitanti.

Se penso di essere corpo in qualche modo io dovrò essere anche mente; ma non mi riferisco al cervello con tutte quelle rughe, con i suoi sistemi fisiologici, con l’amigdala, con l’ipotalamo e tutti gli altri pezzi, ma alludo alla sua complessità, al suo giocare con noi.

L’esempio più calzante, per spiegare questa situazione, coincide con un mio piccolo vizio: il fumo. Odio l’odore del tabacco, crea fastidi ai pezzi del mio corpo, al mio naso, alla mia trachea, ai miei polmoni, ma appaga la mia mente. Lo trovo un modo fantastico per attaccar bottone, io adoro interfacciarmi con altre persone.  “Scusi! Ha l’accendino per favore, l’ho dimenticato a casa” “ha una sigaretta, cortesemente? Oggi sono uscito senza!” “Anche io sono un fumatore accanito, aaaahh quante storie potrei raccontarle…”.

Quando esco dal bagno è giunto il momento di separami da me stesso e immergermi nella massa, quello è il punto di rottura del mio individualismo intimo a favore di un collettivismo pubblico.

Mi allaccio entrambe le scarpe, ultimo indumento da indossare in seguito alla vestizione e sinonimo dell’inizio della giornata lavorativa. Sento la necessità di stringere maggiormente il piede destro, la scarpa non calza come dovrebbe: è un fastidio abituale della mattina. Una routine che ho da troppi anni.

Mi osservo finalmente al di sotto del bacino: sono pronto per uscire!

La sedia a rotelle è scalpitante a pochi passi e aspetta che io prenda posto.

Chiamo mia moglie per farle sapere che sono pronto…

*

Una sera qualunque

I brevi avvenimenti che andrò a raccontare sono sospesi tra reale e surreale. Ciò che ho vissuto potrebbe essere ricondotto ad un concreto avvenimento della mia vita, ma è altrettanto vero che potrebbe essere stato solo frutto della mia immaginazione.

Fatto sta che il peso di quel momento grava ancora nel mio organismo, senza tuttavia inficiare il comune svolgimento della mia vita.

Per capire, forse, sarebbe più facile iniziare a raccontare la storia.

Durante il ritorno da una serata di tranquillo svago, stavo guidando verso casa, pronto a immergermi nelle coperte e godermi un meritato riposo.

Di fianco a me l’ultimo amico da accompagnare verso la propria abitazione, solo questo mi separava dalle braccia di Morfeo.

Strada poco illuminata che collega il mio paesino a quello dell’ultimo amico congedato.

Semaforo rosso.

Mi fermai.

Ero pronto, non appena fosse apparso il verde, a svoltare a destra per imboccare la via verso la meta prestabilita.

Notai di fianco a me una macchina accostata, con le luci spente, ma al cui interno due figure si stagliavano nell’ombra.

Scambio di sguardi con il mio passeggero: avranno bisogno di aiuto? Si sarà fermata la macchina e non riescono più a partire? Staranno male?

Domande lecite, che necessitavano di risposta, dovevamo soddisfare la nostra fame di sapere e compiacere il nostro buon istinto di persone magnanime.

Ci accostammo alla vettura e abbassai il finestrino.

Nessun segno di vita.

Gesticolammo per attirare l’attenzione, bussammo contro il vetro per richiamare i due individui.

Nessun segno di vita.

Osservammo sconcertati, ora non ricordo con precisione la corretta quantità di tempo, quell’insolito comportamento.

I due sconosciuti stavano fissando il parabrezza senza batter ciglio, senza muovere un muscolo, con il capo rigido e lo sguardo rivolto dritto davanti a loro.

Sembravano vacui e quasi spettrali.

Non ricevendo alcuna risposta, abbandonammo il nostro intento d’aiuto e ci dirigemmo verso casa.

Ricordando questo avvenimento mi sembra inverosimile sia successo. Probabilmente avrei dei dubbi se fossi stato solo: uno scherzo della stanchezza, dell’infausta mente.

Eppure non ero solo, eravamo in due ad aver visto e ad aver vissuto questa scena.

Allucinazione collettiva?

Bizzarrie dell’essere umano?

Non saprei dare alcuna risposta.

*

Imperfezioni

Cosa rende attraente una persona? Quale magia mi strega quando percepisco la bellezza in qualcuno?

I miei occhi stanno osservando la figura davanti a me, il mio olfatto capta il denso profumo emanato dal suo corpo, le mie mani si avvicinano alla sua pelle, il contatto intimo si instaura improvvisamente, tutti i miei sensi banchettano ad una tavola di sensazioni fugaci.

Sono sazio, momentaneamente sazio. Ma non del tutto appagato.

Cosa devo fare per soddisfare il mio impulso erotico?

Non cerco la bellezza esteriore, non il contatto fisico, non un semplice amplesso, non il sesso.

L'avvenenza mi stanca, mi sembra scialba, così inflazionata, mero oggetto di sé stessa.

Non è un bel carattere che cerco, non la voracità intellettuale, non una semplice discussione, non un rapporto relazionale.

L’intelligenza mi stanca, mi sembra riduttiva, così costruita, semplice artificio sociale.

Ma ha importanza?

Mi nutro del corpo della persona al mio fianco, faccio mia la sua essenza.

Mi illudo di capire cosa mi separi dalla realizzazione.

Continuo ad osservare la sua pelle, ad inspirare il suo profumo e ad espirare il mio: me ne approprio, ne faccio parte di me.

Non ci riesco! È un essere così dannatamente fantastico, puro nella sua bellezza.

Posso vedere il flusso della sua mente fluire nella stanza, mi sta accerchiando. È così fottutamente soverchiante.

Tutto ciò mi dà la nausea.

Mi concentro sul suo petto. I miei occhi si soffermano intorno al capezzolo destro, è stranamente enorme, di un colore inusuale, di una forma in cui non mi ero mai imbattuto.

La sensazione di malessere, che fino a quel momento mi aveva attanagliato, pian piano svanisce per lasciare il posto ad una felicità irrazionale.

I miei occhi galoppano immediatamente sul capezzolo opposto: è più piccolo della sua controparte, si avvicina maggiormente alla normalità.

Questa diversità mi sta attirando sempre di più, di più, di più…

Non possono smettere di guardare, la soddisfazione si propaga, non possono smettere di pensare a quelle imperfezioni.

Sì! Ecco cosa adoro, cosa bramo, cosa ricerco.

L’IMPERFEZIONE.

Ora si sta vestendo.

I jeans, che ha appena indossato, deformano il suo sedere, lo rendono più brutto se considerato all’interno di una convenzione estetica.

Libidine suprema.

La maglietta sta coprendo i suoi capezzoli così fantastici, non vedo l’ora di poterla togliere, per riportare alla luce quella meraviglia, per poter godere.

Mi sorride, i nostri sguardi si incontrano.

I nostri occhi si fondono.

Le pupille nere risplendono.

Sono in estasi.

*

Le stelle sono luminose

Karoline, il protagonista di questa storia, è un giovane uomo amante di ogni essere vivente. Una persona dall’animo gentile; se fosse un colore sarebbe di certo il bianco. Durante il giorno lo si può osservare mentre cura i suoi adorati animali domestici, la notte amoreggia con la flora sparsa nel suo appartamento; se fosse un colore sarebbe il verde. Gli piace sorseggiare il tè sul balcone nei momenti liberi, immergendo nell’infuso i peli persi dagli animali in ogni angolo della casa; se fosse un colore sarebbe il rosso. Il Sole lo bacia nelle giornate calde, le stelle lo illuminano nelle notti più oscure; se fosse un colore sarebbe il giallo. La storia che voglio raccontare inizia nel momento in cui ne finisce un’altra: in casa di Karoline sta per fare la sua comparsa un nuovo inquilino, mentre un secondo ormai se ne è andato; se questa storia fosse un colore sarebbe una farfalla.

Karoline accoglie tutte le creature bisognose senza timore, lo spazio in casa sua c’è sempre o viene realizzato appositamente. Un giorno qualunque, di un mese qualunque, di un anno qualunque, mentre passeggiava per strada aveva trovato un uovo all’interno di un cassonetto, era stato gettato come spazzatura, come se la sua esistenza fosse insignificante o priva di valore. Karoline si commosse alla vista di quel guscio ellittico e candido. Così, pensando fosse l’uovo di un cane, lo portò a casa in attesa della sua schiusura e della nascita di un dolce cucciolo. Quando il perlaceo guscio si ruppe, un pinguino fece capolino nella vita di Karoline, in quel preciso momento il giovane uomo si ricordò che i cani non depongono uova.

Ci sono tanti altri racconti simili, ma sarebbe tedioso ascoltarli tutti e nella loro interezza, pertanto elencherò gli animali domestici di Karoline, almeno finché la stanchezza non prenderà il sopravvento: oltre al pinguino, un pesce rosso, due gatti, un cane, un ornitorinco, sette anguille, un dromedario, zero cammelli, un’aquila, cinque elefanti, venti mosche, sei api, quindici balene, animali pelosi, piumati, squamosi, viscidi, ma nessuno ultraterreno.

D’altro canto quando una di queste creature lascia l’abitazione, il giovane uomo si sente in dovere di rimpiazzarla. Il legame che si instaura tra lui e il mondo è estremamente forte, perciò nel momento di perdita si crea un vuoto nelle profondità di Karoline. L’unico modo per riempire questo malinconico vortice interiore è ristabilire l’equilibrio sensoriale dopo la privazione.

Questa storia prende avvio quando uno dei gatti di Karoline perse la vita, esattamente all’età di tre anni, tredici mesi, trecentosessantasei giorni. Era un gatto allegro, a cui piaceva giocare tutto il giorno. Ma questo suo lato non impressionava Karoline, ciò che caratterizzava questo animale era la sua capacità culinaria. Riusciva a preparare squisiti manicaretti: pietanze dolci, salate, agrodolci, agrosalate, tutte una delizia.

La tavola imbandita con queste pietanze richiamava ogni singola creatura nella casa, dando così avvio a lunghi lunghissimi pasti.

Nei giorni successivi alla morte dell’adorato gatto, la tavola continuava ad essere diligentemente preparata.

Karoline pensò che i gatti non sanno cucinare, anzi a loro piace essere serviti, quindi era impossibile un atto del genere da parte di quell’animale ormai trapassato. Fino a quel momento aveva vissuto nella menzogna, probabilmente era lui stesso a preparare il cibo senza accorgersene. Poi invece si ricordò che gli elefanti sanno cucinare egregiamente, senza alcun dubbio uno di loro era quell’abile chef. Karoline non si fece mai più nessun quesito sull’argomento.

Come detto precedentemente la caratteristica del defunto gatto, che Karoline adorava di più, era la sua giocosità, una vivacità primitiva e pertanto spensierata. Ora il giovane uomo avrebbe vissuto nell’ombra della noia, senza il divertimento procurato dal suo amico felino.

<> pensava il giovane uomo tre giorni dopo alla dipartita terrena dell’animale <>

Nel frattempo sorseggiava una tazza di tè alla luce delle morbide stelle della volta celeste.

La vera storia inizia proprio in questo momento.

Quello raccontato fin ora potreste anche non leggerlo, è inutile ai fini della narrazione; forse solo qualche informazione è necessaria, ma di certo non tutto quello che è stato detto.

Karoline stava, giustappunto, degustando dell’ottimo infuso di erbe aromatiche e di peli d’animale sul proprio balcone. Il giovane uomo pensava alla maestosità dell’universo, mentre osservava il cielo ricco di piccoli puntini luminosi <> ripeteva incessantemente come se qualcuno potesse ascoltarlo dall’alto, stolto!

<<Troverò di certo un nuovo gatto, nella maestosità di questo universo>> cercava di convincersi, per deviare da quella monotonia che lo attanagliava a causa della scomparsa del suo amato felino. <> si domandava senza trovare alcuna risposta, la noia ormai lo aveva invaso in ogni suo fibra fisica e mentale.

Ad un certo punto, nel giorno di cui sto raccontando, ad un’ora imprecisata, ma di sicuro durante la sera, Karoline alzò le mani verso il cielo e con un abile movimento di polso riuscì a creare una scala che lo collegasse con le stelle. <<Andrò a fare un giretto aspettando il sorgere del Sole>> diceva tra sé e sé mentre molto lentamente alternava il piede destro al sinistro sopra i vari gradini celesti, verso una meta indefinita. Durante la sua ascensione, potè osservare tutto il mondo terreno, le stelle illuminavano perfettamente ogni cosa: edifici e…

… in realtà solo quelli, perché Karoline risiede in un complesso abitativo circondato solo da enormi palazzi, senza alberi, senza verde. Forse per questo motivo, il giovane uomo ha costruito all’interno della propria casa un habitat perfetto per ogni tipo di flora e di fauna.

Ma continuiamo, non sono qui per fare congetture! Il mio scopo è raccontare una storia vera, così come l’ho vista.

Riprendiamo.

Karoline, per diminuire la fatica durante il tragitto, stava ascendendo al cielo per mezzo di un ascensore celeste, quale modo più semplice se non quello di una somiglianza semantica? Le pareti della cabina erano trasparenti, in questo modo il giovane uomo aveva la possibilità di ammirare le meraviglie sottostanti. Di fianco a lui, tantissimi altri si stavano innalzando al cielo per mezzo dei più disparati mezzi di trasporto: scale mobili celesti, scale celesti tradizionali (tradizionali perché non si muovono? Perché sono sempre statiche?), scivoli celesti che, piuttosto che farti scivolare, ti trascinavano verso l’alto. Tutti erano più lenti di Karoline, proprio perché la via migliore per salire al cielo era utilizzare l’ascensore. Ovviamente.

<> salutava il giovane uomo dall’alto della sua posizione privilegiata, metaforizzando gli altri essere umani a questi animali, la cui caratteristica principale è ben chiara al lettore.

La durata del viaggio per raggiungere il cielo dipende dal mezzo utilizzato, per farvi capire, se dovessi farne una media direi circa del tempo. Proprio dopo questo tempo, Karoline raggiunse l’apice della volta celeste, dove numerosissime stelle brillavano lontane, intoccabili. Il piano celeste era inumano per la sua bellezza, indicibile nella sua meravigliosa tranquillità. L’ambiente in cui era immerso Karoline era rilassante, quasi utopico per la mente. Il giovane uomo si lasciò trasportare dalla corrente dei sensi, sollecitando sia il piacere fisico sia il piacere intellettuale. Iniziò a volteggiare in un’estasi ascetica, al di sopra di ogni concezione umana.

Le parole terrene non possono spiegare questo tipo di concetto e lo limiterebbero ulteriormente. Nel caro lettore insorgerà una difficoltà di comprensione, se lui stesso non abbia sperimentato personalmente tale situazione. Lascerò all’immaginazione, o all’esperienza, la restante parte descrittiva e narrativa di questo speciale momento.

La notte è ancora lunga, la storia che voglio raccontare nemmeno all’inizio, sebbene abbia più volte dichiarato il contrario.

Tutto questo è veramente superfluo!

Dovrei giungere al succo della narrazione, ma come ho detto la notte è ancora lunga.

Almeno per me.

L’elevazione del corpo e della mente portarono Karoline alla sublimazione dello spirito.

Il momento in cui riprendo a raccontare è proprio questo: dove il mio pensiero può evincere le reali azioni del protagonista, dove la mia bocca può esprimere un significato logico, dove la mia mano segue la linea intrinseca del giovane uomo e della sua storia.

Quando nella volta celeste si scontrarono elementi dall’inusuale forma e dimensione, una teogonia ebbe inizio a nostra insaputa. Fu la nascita di ogni sapere e comprensione, ciò a cui l’uomo aspira, non tanto quanto individuo in sé, ma quanto essere umano.

Il rumore che si manifestò ruppe la calma assoluta dell’idillio celeste, il peso della conoscenza piombò come un macigno in una landa desertica.

Se non avessi assistito, non avrei captato alcun suono, non avrei dato importanza a quegli eventi.

Lo spirito di Karoline collise con il sapere, ne divenne parte, ma distinto nella sua essenza ed esistenza. Il vociare dei suoi pensieri si fece largo nell’infinito, fino a raggiungere coloro che porgevano l’orecchio, curiosi.

Il giovane uomo osservò gli esseri viventi << Quelli sono dinosauri!>> esclamò << Le pattuglie di sicurezza del futuro, quali splendidi esemplari>>. << E quei cavalli di seta? Imponenti nel loro galoppare tra le dune di gelatina color indaco e le splendenti palme di piombo>>. Karoline poteva vedere, poteva capire, poteva soprattutto spiegare, ma quest’ultima azione la tenne per sé.

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Probabilmente il sonno gioca brutti scherzi. In questo punto mi addormentai o mi distrassi momentaneamente, fatto sta che non colsi le parole di Karoline.

Mi destai troppo tardi, quando molti avvenimenti avevano già compiuto il loro percorso. Non so cosa successe, ne se fosse interessante. Ma in ogni caso dovrò narrare ciò che accadde ormai giunta l’alba.

Sono spiacente per i lettori, ma non posso rimediare.

Io devo raccontare una storia vera, così come l’ho vista!

Sarei un infame, se facessi il contrario.

Il Sole stava per sorgere. In lontananza scomparivano stelle dopo stelle per lasciare posto ad una più grande, almeno per noi.

Il calore e la luminosità stavano aumentando sempre di più, a quella temperatura perfino il fluido più ruvido si sarebbe sciolto.

Rividi Karoline di nuovo seduto sul suo balcone, mentre la tazza di tè era ormai completamente piena.

Le piccole macchie del manto celeste stavano scomparendo, mentre Karoline cercava di raggiungerle nuovamente.

Fallì miseramente.

Triste guardò il pavimento sopra la sua testa, meditò e rimase cogitabondo di fronte al muro.

Tutta quell’interiorità fu distratta da un fastidio, proveniente dal basso, dai pantaloni. La mano di Karoline scivolò velocemente nella fessura dei jeans. Durante il tragitto di ritorno verso casa, alcune stelle si erano subdolamente infiltrate negli indumenti del giovane uomo. Per liberarsi da questo fardello, le luminose entità furono gettate in una lettiera lì vicino.

Poco prima del sorgere del Sole, Karoline stava accarezzando il suo nuovo gatto. Animale comune nella maestosità dell’universo. Il vuoto interiore era stato colmato. Ora la luce dell’alba coccolava con dolcezza la sua figura, mostrando la tranquillità di un animo umano nell’equilibrio interiore.

Qui si conclude la storia, dal momento in cui non c’è più nulla da narrare. O forse non ho più voglia di continuare?!

Ora vi starete chiedendo la mia identità, dico bene?

Avete presente il famoso detto “se i muri potessero parlare…”, ottimo! Osservate con attenzione la casa di Karoline e, se non potete, immaginatela, facendovi guidare da me. Scorriamo le pareti, in un angolo troverete una sedia, anche le sedie hanno il loro “da dire”. Concentratevi su quella sedia, vedete ora?

E sì…

Sono proprio io!

Il fratello di Karoline, che seduto comodamente, ha raccontato questa storia.

*

Un viaggio inaspettato

Il buio più assoluto mi avvolgeva quando aprii gli occhi, non potevo vedere nulla né percepire alcun tipo di suono.

Una volta risvegliato non riuscivo a guardare oltre ad un palmo di distanza, ma di sicuro non mi trovavo a casa mia.

Il primo pensiero fu quello di scappare per la paura ma le tenebre regnavano intorno a me e non potevo azzardare comportamenti affrettati.

Le mie palpebre erano stanche così come tutto il mio corpo, ogni fibra del mio essere era priva di energia e mi sentivo talmente stanco da non riuscire ad alzarmi.

Le gambe mi sembravano come gelatina e incapaci di sostenere il mio intero peso, ma stranamente una volta in posizione eretta non caddi a terra.

Cominciai a tastare quello che mi circondava per capire dove mi trovassi; l’ultimo ricordo a cui potevo risalire nella mia mente era quando andai a coricarmi la notte precedente.

Un brillio apparve all’improvviso e mi accecò nei primi istanti, l’oscurità presente fino a quel momento mi aveva reso debole a qualsiasi fonte luminosa.

Piano piano iniziarono a materializzarsi alcune forme che divennero sempre più definite: capii di trovarmi in una stanza, ma non era la mia camera da letto. Mi guardai intorno per cercare una via di fuga ma fu del tutto inutile.

L’ambiente in cui mi trovavo era spoglio da qualsiasi arredamento, se non per un comò nel centro della stanza.

Mi avvicinai a quell’unico oggetto e notai sopra ad esso un marchingegno che lampeggiava alternativamente tra il verde e il rosso.

“Non toccarlo” mi ammonì una voce sconosciuta, mentre le mie mani avevano quasi raggiunto il macchinario.

Sobbalzai per lo spavento, le mie pupille corsero celermente per cercare il proprietario di quella voce “Chi sei?” chiesi perplesso e a nel contempo intimorito “e dove mi trovo?” avevo bisogno di risposte e di sicurezze: ero in un luogo estraneo e non sapevo chi mi avesse trasportato durante il sonno e il suo movente.

Da una porta al lato della stanza, che non avevo ancora notato, entrò una giovane figura con passo deciso “seguimi e capirai tutto” non pronunciò altro.

Non avevo molte possibilità di scelta così, sebbene titubante, fui costretto a seguire il suo ordine; lasciai con qualche esitazione quella stanza e senza accorgermene ero già all’esterno dell’edifico.

Dopo pochi minuti raggiungemmo uno stabilimento non molto lontano da dove mi svegliai, il tragitto fu stranamente troppo silenzioso e questo mi rese ancora più nervoso: ero in pericolo o mi potevo fidare di quella persona?

Salimmo per diversi piani di scale e infine varcai una porta, oltre la quale vi era una stanza con all’interno un enorme tavolo.

“Siediti” mi ordinò l’individuo mostrandomi una sedia libera, senza obiezioni mi piazzai dove indicato e l’uomo scomparve nuovamente.

Ero l’unico ad essere presente nel locale così ebbi il tempo per chiudermi in me stesso: la mia mente era incapace di compiere un pensiero logico a causa dell’agitazione.

Dovetti calmarmi per non rischiare di impazzire, infatti sempre più domande affollavano la mia testa e ognuna senza una risposta concreta.

Non so quanto aspettai, ma ad un certo punto lo sconosciuto ricomparve “Infila un dito in questo buco” mi ordinò, mostrando una scatola alla cui estremità era presente una fessura.

Ancora una volta dovetti ubbidire e adempii a quella richiesta. Non appena la mia falange superò l’apertura sentii come se qualcosa pungesse la mia pelle e l’attraversasse, ma il dolore fu breve e sopportabile.

Una lucina verde si accese e il ragazzo sorrise “è giusto, potete entrare.” Improvvisamente la porta si spalancò e fecero il loro ingresso una ventina di persone.

Uomini e donne presero posto intorno al tavolo, non proprio in maniera silensiosa, e aspettarono che uno di essi si posizionasse a capo tavola.

Colui che sembrava a comando, sia per la posizione privilegiata al tavolo sia perché era l’unico in piedi, prese la parola “buongiorno a tutti e bentornati” la sua voce era decisa ma al contempo pacata “come abbiamo appena sentito si è unito a noi un nuovo componente” mi indicò e sempre più attonito guardavo intorno a me in attesa di spiegazioni.

“So di per certo che le mie parole ti sbalordiranno, ma tu sei nostro fratello e sei qui per aiutarci come membro della nostra famiglia!” un proiettore scese dal soffitto alle spalle di quell’uomo “prima di ogni tipo di presentazione lasciami spiegare quello che ti sta succedendo” un fascio di luce illuminò lo schermo “dopo potrai farmi tutte le domande che vorrai, ma dovrò finire il mio discorso senza interruzioni”

Sembravo come un animale in gabbia, non avevo alcuna via di scampo ed ero nelle mani dei miei cacciatori: loro dettavano le regole e non potevo in alcun modo ribellarmi.

“Sei stato sottoposto ad un test del DNA ed è risultato positivo, ciò dimostra che sei imparentato con noi. Per essere più precisi tu in parte sei noi. Mi spiego meglio. Ogni persona che vedi in questa stanza corrisponde ad un ipotetico te. Tutti noi abbiamo un capostipite in comune e da lui il nostro albero genealogico ha inizio. Come i rami si dividono nella discendenza, così da quel punto si diramano varie linee temporali a seconda delle condizioni ambientali e causali che si verificarono. Giunti a questo punto ognuno di noi è un consanguineo e apparteniamo tutti alla medesima generazione, sebbene abbiamo età diversa, caratteri e aspetti altrettanto disparati.”

Sgranai gli occhi e mi guardai intorno: tutte quelle ragazze e ragazzi erano me. In alcuni notai delle somiglianze, in altri non capivo come potessero avere la mia stessa linea di sangue.

Necessitai di qualche minuto per capacitarmi di quelle informazioni così strane e apparentemente assurde. La paura stava svanendo e piano piano veniva rimpiazzata dalla curiosità.

“Se ho ben capito, dunque, voi siete me ma allo stesso tempo non lo siete. Mi sembra una favola molto accattivante ma nel contempo impossibile.”

“Invece è esattamente come ti ho appena spiegato” sullo schermo apparvero disegni e grafici per chiarirmi la questione “ti prego di lasciarmi continuare perché questa era la parte più semplice. Ti starai chiedendo dove sei e perché ti trovi qua con noi!” esclamò come se mi leggesse nel pensiero “prima di tutto devi riporre completa fede in quello che ti sto raccontando e con questo presupposto crederai alla restante parte della storia”

Se mi stava chiedendo fiducia potevo certamente concedergliela. In fin dei conti ero ancora vivo e non mi era stato fatto del male, pertanto avrei continuato ad ascoltare e poi avrei deciso come agire.

“Per rispondere alla prima domanda devi accettare l’esistenza delle linee temporali. Devi sapere che non te ne puoi andare da qui, non come luogo fisico ma come dimensione spazio/temporale. La macchina che hai visto al tuo risveglio, se l’hai notata, serve per viaggiare attraverso le linee temporali: il nostro addetto ai viaggi la sa azionare e con quella può viaggiare da questa linea ad un’altra, con la condizione che nell’altra linea temporale sia presente un appartenente al nostro albero genealogico e più precisamente alla stessa generazione dell’utilizzatore della macchina. L’unico viaggio consentito è in direzione di quella linea temporale ed è costretto a tornare al punto di partenza con massimo un ospite, in questo caso tu, in un tempo limite di 24 ore. Il nostro crononauta può viaggiare tra le varie linee temporali, ma non può scegliere quale linea e in quale preciso momento arrivare. Non conosciamo in maniera approfondita altri dettagli se non che tutt’ora, nella linea da cui sei stato prelevato, tu esisti fino e non oltre al momento del tuo spostamento temporale” comprendere appieno queste parole era difficile, ma lasciai proseguire la spiegazione mentre il mio cervello stava elaborando dati su dati per giungere ad una conclusione sensata.

“Ora arriva la parte che ritengo più traumatica e capirai perché sei qui con noi e perché ci servi” il tono della sua voce si fece più profondo e serio, quell’argomento doveva essere della massima importanza “in circa un mese sono riuscito a raggruppare più di trenta dei nostri consanguinei in questa linea temporale. Come potrai notare il nostro numero si è ridotto e non di poco: una persona sta viaggiando tra le varie linee temporali, durante la nostra infanzia, per eliminare “il noi da bambino”. In questo modo colui che viene ucciso scompare completamente dall’esistenza di ogni linea temporale, cancellandone ogni traccia. Nel lasso di tempo in cui vi ho riuniti sono scomparse circa una dozzina di persone e questo numero continuerà a crescere se non troviamo una soluzione. Il motivo per cui sei qui è quello di aiutarci a portare a termine il nostro piano.”

La sensazione di pericolo, che avevo provato fino a quel momento, non era solo una mia impressione ma era fondata su un rischio concreto per la mia vita.

Cominciai ad agitarmi nuovamente, le mie mani iniziarono a sudare e il cuore accelerò così forte da poter sentire le mie tempie scoppiare.

Il destino era ineluttabile, non potevo lottare contro di esso: un’onda immensa mi stava per travolgere e mi sentivo uno spettatore inerme di fronte a quella disgrazia.

“Ma co… come possiamo fermarlo se non sappiamo chi” feci una breve pausa “chi ci sta uccidendo e non possiamo raggiungerlo” la mia voce uscì strozzata e singhiozzante dalla bocca.

“In realtà sappiamo chi è il nostro carnefice e per spiegartelo dovrò rivelarti il corso degli eventi” rispose il mio interlocutore con decisione “la linea temporale in cui ci troviamo e da cui non possiamo fuggire è quella del famigerato assassino. Il tutto è iniziato circa quaranta giorni orsono, quando nella mia linea temporale è comparso un uomo. La sua aggressività fu subito chiara nei miei confronti perché mi assalì con un coltello non appena mi vide. La colluttazione fu breve: ero nettamente più forte di lui grazie ai numerosi anni di arti marziali che avevo praticato nel corso della mia vita. L’unica cosa che quell’uomo poté fare fu scappare verso una piccola scatola luminosa che aveva lasciato a breve distanza. Ovviamente lo inseguì per non lasciarlo fuggire e consegnarlo alla polizia, ma in questo modo iniziò un nuovo scontro tra noi due. Senza accorgermene gli sottrassi la scatola, che nel frattempo aveva iniziato ad emettere uno strano bagliore, e finii in questa linea temporale lasciando quell’aggressore nella mia linea. Passò una settimana prima che capissi il funzionamento di quella che oggi chiamiamo macchina del tempo e, grazie a svariati tentativi ed esperimenti ben riusciti, oggi siete tutti qua. I problemi iniziarono dopo qualche giorno rispetto ai primi viaggi dimensionali: una persona piano piano scomparve davanti ai nostri occhi. Dedussi che colui, che mi aveva attaccato per togliermi la vita, avesse creato un’altra macchina del tempo. La mia ipotesi fu convalidata durante un viaggio temporale, infatti casualmente mi imbattei in lui durante una ronda. Le sue parole e le sue azioni mi ferirono dritte al cuore e si marchiarono indelebilmente nella mente “Con te ho fatto un errore, dovevo partire fin da subito dai piccoletti” pronunciò questa frase con un ghigno contorto sul viso, che lo rendeva ancora più agghiacciante e infine aggiunse “tu non puoi fare niente per fermarmi, la mia vendetta sarà inesorabile!” uccise davanti ai miei occhi un ragazzino in lacrime e scomparve, non lo incontrai mai più.”

Il suo volto era contrito ed amareggiato, esprimeva quell’impotenza di cui anche io in quel momento ero vittima.

Improvvisamente un barlume di speranza illuminò i suoi occhi “Ma” riprese il fiato “c’è un “ma”! Infatti, non so per quale motivo, siamo capitati nella linea temporale di quell’assassino quando è ancora un ragazzino. In questo mese ho compiuto varie ricerche e pochi giorni fa ho scoperto la sua identità. Nel frattempo sei arrivato tu e oggi è il giorno indetto per decidere le sorti del futuro di ognuno di noi.”

La platea esultò con un urlo liberatorio che si librò energicamente in tutta la sala, la felicità e l’esaltazione di quel momento erano palpabili nell’aria.

Un coro all’unisono affermò “a morte l’assassino, a morte l’assassino!”

Cattiveria, rabbia, angoscia sfociarono in quel momento, più queste crescevano più la paura prendeva il sopravvento in ognuno dei presenti.

Capivo quelle emozioni e io stesso le sperimentavo: ero una vittima tanto quanto loro. Quella decisione, tuttavia, mi sembrava affrettata e non condivisibile.

La confusione era così assordante che necessitai di qualche tentativo prima che si accorgessero di me. Il comandante del gruppo mi concesse di esprimere la mia opinione “credo che questa scelta sia un po’ precipitosa, se dovessimo togliere la vita al ragazzo non saremmo tanto diversi da colui che ci sta uccidendo nella varie linee temporali; in fin dei conti il giovane non ha ancora fatto niente”

“Ma lo farà” “è un assassino, dobbiamo aspettare che ci uccida tutti?” “è un mostro, dobbiamo vivere noi” “Lui è feccia in confronto a noi” fischi e frasi d’insulto mi furono rivolte contro.

“Calmatevi tutti” il capo cercò di placare gli animi “la decisione più saggia e unanime è sacrificare un vita per salvarne molte altre, ovvero le nostre.” poi si rivolse a me “anche tu sai che è l’unica soluzione, se eliminiamo il ragazzo da questa linea temporale scomparirà da qualsiasi altra, non causandoci più ulteriori problemi.”

Dovetti controbattere ad ogni costo, dovevo far cambiare l’idea al gruppo “ma siamo sicuri che sia il ragazzo giusto? E se così non fosse, sarà solo un agnello sacrificale? Potremmo aspettare e capire la causa scatenante della sua trasformazione in assassino, senza togliere una vita prematuramente. Qualcosa deve aver innescato la sua rabbia omicida nei nostri confronti.”

Le mie parole si persero nel vento, ormai nessuno mi stava più ascoltando. La loro missione era quella di eliminare una volta per tutte quel giovane.

“Prima torturiamolo” “Giusto, deve soffrire per i nostri compagni deceduti” quella sete di sangue era irreversibile, cercavano un capro espiatorio e l’avevano trovato.

Iniziarono a gridare il suo nome “a morte Besso, a morte Besso” una folla inferocita era pronta per giustiziare un innocente per il bene di tutti.

Per qualche giorno avevano monitorato le sue abitudini e i suoi spostamenti, quindi conoscevano il luogo in cui viveva.

Non potevo unirmi a quel corteo, dovevo fare mente locale ed escogitare a mia volta un piano: a tutti costi era mia intenzione salvare il ragazzo dal linciaggio.

Mentre tutti erano diretti a casa di quel futuro assassino, io raggiunsi la stanza dove mi ero svegliato e rubai la macchina del tempo.

In un piccolo momento di lucidità, in quella confusione più totale, avevo pensato di salvare il ragazzo trasportandoci in un’altra linea temporale. Se avevo capito correttamente i viaggi spazio/temporali erano casuali e la probabilità di trovarci una volta partiti sarebbe stata bassissima.

Fui talmente veloce da raggiungere la processione di morte che si stava dirigendo verso casa di Besso; le persone si fomentavano a vicenda urlando e assaporando il dolce momento della loro rivalsa.

Percorremmo qualche chilometro e infine giungemmo davanti ad una piccola villetta “esci Besso siamo qui per te” la strategia non era il loro forte, in quel modo avrebbero di certo spaventato e forse fatto fuggire il ragazzo.

Gli schiamazzi si espandevano per tutto il vicinato, il caos più totale regnava in quel preciso istante.

Cercai di calmarmi e ideare un modo per raggiungere il ragazzo prima degli altri. Nel frattempo una pioggia di pietre e altri oggetti fu scagliata contro la casa che avevamo di fronte.

Di soppiatto circumnavigai l’abitazione e fortunatamente entrai dalla porta posteriore di servizio, non fu difficile trovare l’inquilino: era posizionato in una camera del piano superiore, in un angolo che piangeva.

“Tu chi sei?” domandò impaurito e alquanto confuso dalla situazione. Il suo volto era completamente rigato dalle lacrime, la posizione del suo corpo esprimeva la sconsolazione più totale.

“Non ho molto tempo per spiegarti” risposi e velocemente cercai di inquadrare la situazione, che mi avesse creduto oppure no “dobbiamo scappare ora o ti uccideranno.”

Gli mostrai la scatola che avevo rubato e gli spiegai la sua funzionalità. Gli porsi quel marchingegno e lui nella foga di una salvezza schiacciò vari tasti e scomparve insieme alla macchina.

Mi lasciò solo nella stanza mentre la pioggia di oggetti infuriava sempre più, seguita dal rumore dei vetri in frantumi.

Fui raggiunto poco dopo dagli altri, mentre inneggiavano la morte del ragazzo ormai scomparso.

Quando mi videro nella stanza, un silenzio tombale calò improvvisamente e sentii tutti gli occhi puntati su di me.

“È andato, non è più qua” fu l’unica cosa che riuscii a dire.

La follia omicida del gruppo doveva essere sfogata in qualche modo: fui subito assalito e percosso. La mia mente fu stranamente lucida ma nel contempo isolata dall’esterno e per sfuggire dal dolore mi rifugia in essa.

Tutto ciò non sarebbe accaduto se gli altri mi avessero ascoltato.

Sentii una fitta improvvisa alla bocca dello stomaco, caldo sangue sgorgava copioso da una ferita infertami con un coltello. Stavo per morire, le forze mi stavano abbandonando, tutto si stava facendo più oscuro.

L’ultimo mio pensiero fu di vendetta, vendetta che si stava consumando mentre esalavo l’ultimo respiro: ognuno di loro sarebbe in ogni caso perito grazie all’assassino che io avevo salvato.

*

La morte dell’imperatore

Il regno di Reseret si estende oltre tutto il continente a nord del mondo.

La sua nascita si attribuisce al grande condottiero Thel, colui che aveva esplorato e conquistato le antiche terre fredde in cui nessuno aveva mai osato avventurarsi. Al di sotto delle calotte glaciali aveva trovato ricchezze incommensurabili, armi dalla pregevole fattura e una città ormai dimenticata da tempo.

Questa scoperta consentì all’avventuriero di arricchirsi e di rivendicare la proprietà di quel territorio senza nome: Thel divenne Johegel primo, sovrano di un regno nascente e destinato alla prosperità.

La città sperduta sotto il manto di neve, una città dimentica e in rovina, rinacque con Johgel e fu battezzata Yoromii (nell’antica lingua “fiore che sboccia”); numerose furono le guerre al nuovo sovrano, poiché scoprirono un giacimento di materiale prezioso che sorgeva proprio alle spalle di Yoromii.

La tenacia e la forza di Johgel lo portarono a superare qualsiasi avversità e a vincere ogni guerra condottagli contro. La sua forza militare e politica aumentò sempre più in maniera vertiginosa, fino a che ogni terra e possedimento del nord finì sotto il suo controllo.

Il sovrano divenne ben presto imperatore e collegò tutte le principali città delle terre esterne a Yoromii, che divenne capitale e sede del potere regio: Reseret era nato.

Joghel I morì pochi anni dopo aver visto compiersi quello che oggi è l’impero più grande del nostro pianeta; suo discendente fu il primogenito Joghel II, un sovrano rispettabile ma che non eccelse in alcuna qualità.

L’attuale imperatore di Reseret è chiamato con il titolo di Joghel XII, governatore severo ma al contempo saggio e giusto: floridi commerci con le terre libere del sud, bassa criminalità e basso malcontento caratterizzano il suo impero.

Questa utopica situazione iniziò a svanire quando fu improvvisamente diagnosticata una malattia incurabile all’imperatore; senza la sua supervisione e la sua minuzia nel controllo finanziario il regno stava collassando su se stesso, nessuno dei suoi subordinati era in grado di gestire il flusso monetario e commerciale che aveva creato.

L’unica soluzione era scegliere un erede: i tre gemelli nati dal rapporto con la prima moglie erano destinati a comandare, ma in quale ordine? Come era tradizione, tutti gli altri figli maschi della progenie di Joghel XII sarebbero stati inviati in altre città fondamentali per il regno di Reseret, mentre le femmine sarebbero state accudite e considerate principesse della città di Yoromii fino allo loro morte.

Uno dei tre figli era destinato a succedere al comando, difatti fino a quel momento era stato insegnato loro l’arte teoretica del governare, sia dal padre stesso sia da altri grandi maestri di corte.

L’imperatore avrebbe dovuto decretare una prova per poterli valutare e infine scegliere il figlio che a suo parere fosse stato il più adatto.

Joghel XII chiamò al suo capezzale Terham, Olys e Framph e spiegò loro la situazione; il sovrano aveva ideato un esame per mettere al vaglio le loro abilità: i tre avrebbero dovuto recarsi in una qualsiasi città del regno e amministrarla per una settimana. Colui che avrebbe gestito al meglio le risorse e avrebbe aumentato il benessere della città e dei suoi cittadini sarebbe stato avvantaggiato per la carica d’imperatore, infine un sondaggio popolare per ognuna delle città comandate dai fratelli avrebbe decretato il vincitore.

I figli considerarono l’idea alquanto sciocca, soprattutto lasciare una decisione così importante al popolo. Dissero al padre che avrebbero potuto salvarlo, se si fossero diretti nelle terre del sud a cercare cure non disponibili nei lori territori. In questo modo avrebbe scelto con più calma e con maggiore lucidità il proprio erede.

L’unica frase proferita da Jorghel XII fu che ormai era giunta la sua ora, il suo corpo lo stava abbandonando e non avrebbe più avuto le forze per comandare un impero così grande.

I ragazzi pensarono stesse delirando a causa della malattia, loro sapevano per certo cosa fosse necessario per il bene del padre e l’unico modo era salvarlo e sconfiggere la morte.

Si accordarono loro stessi per decretare chi sarebbe stato il legittimo erede: colui che per primo avrebbe trovato una medicina e sarebbe tornato a Yoromii nel minore tempo possibile. Pertanto non obbedirono al loro amato padre e così il giorno successivo ognuno partì per la propria strada; il viaggio verso sud era iniziato!

Framph fu il primo a varcare il confine delle calde terre del sud per merito della sua scorta, infatti il principe aveva radunato i migliori topografi e allevatori di werrerot (animali dalla grossa stazza ed eccezionali per il trasporto) con il fine di raggiungere la propria meta il più velocemente possibile e senza ostacoli.

Questo suo vantaggio, tuttavia, non gli portò alcun beneficio: la lussuria sfrenata e l’anarchia della città in cui si era stabilito lo affascinarono e lo conquistarono.

Le terre del sud erano così diverse dal disciplinato continente del nord poiché nessuna precisa regola vigeva in quel luogo, il divertimento e il godimento ne erano al comando.

Gozzoviglie, piaceri della carne e della mente ubriacarono Framph e tutto il suo gruppo facendoli perdere nel delirio della città del peccato Dianarys.

Terham raggiunse la città, prestabilita come principale tappa del suo viaggio, non molto dopo l’arrivo di Framph nel sud.

Il ragazzo non perse tempo e cercò subito un medico disponibile a curare il padre; offrì a ogni specialista monili e pietre rare di ogni tipo, ma in quel luogo aveva valore solo il baratto: a quel materiale così prezioso non si dava importanza.

L’insistenza e la prepotenza del principe nel ricercare una cura lo portò ad affrontare diverse problematiche, infatti iniziò ad essere malvisto dai nativi di Ohoare.

L’esasperazione dei cittadini fu tale che durante l’ennesimo litigio con uno sciamano del luogo Terham fu accoltellato al costato, la sua convalescenza durò circa un mese.

L’ultimo ad abbondonare il continente nord fu Olys, sebbene la sua permanenza nelle terre del sud fu brevissima.

Il colore più scuro e l’odore della pelle degli abitanti di quelle regioni meridionali incuteva in lui disagio e lo disgustava.

Il tempo trascorso a cercare una cura fu nullo perché il principe decise di dirigersi subito verso casa, rimanendo nascosto per la vergogna fino a che anche gli altri fratelli non avessero fatto ritorno: la sua possibilità di occupare il trono era già scemata.

L’imperatore venne a conoscenza solo successivamente della decisione dei figli e ne rimase molto amareggiato.

Gli ultimi suoi istanti di vita li avrebbe passati nella speranza di un loro ritorno, senza avere alcuna possibilità di raccomandarsi e dare consigli preziosi prima della sua morte.

Non appena recuperò leggermente un po’ di energie, chiamò a se tutti gli altri figli per congedarsi e lasciare qualche frammento di se stesso noi loro cuori.

Durante il suo mandato di governante non poté prendersi cura di tutta la sua progenie: otto femmine e sei maschi, esclusi i primogeniti.

Il tempo libero che ebbe lo dedicò solamente ai tre gemelli frutto del suo seme con la prima moglie, mentre tutti coloro che erano nati da altre relazioni furono considerati principi con tutti gli onori, ma trascurati dal padre.

Il discorso di addio che fece fu toccante, con il poco fiato in gola cercò di dimostrare tutto l’affetto che avesse per ognuno di loro sebbene non fu mai in grado di dimostrarlo personalmente.

Le parole pronunciate raggiunsero soprattutto Requp. Il ragazzo era nato dall’unione dell’imperatore con la sua seconda moglie, deceduta durante il parto.

Questo principe aveva sempre provato astio nei confronti di Jorghel XII, sia perché non era mai stato considerato importante sia perché l’imperatore, l’uomo più potente di tutti, non era riuscito a fare nulla per salvare sua madre.

Il ragazzo capì, vedendo il padre senza forze, come anch’esso fosse un uomo comune e incapace di sottrarsi alla morte. Fino a quel momento lo aveva considerato cinico e senza cuore, ma quel discorso era veramente sincero: esprimeva tutto l’amore di un padre verso la sua famiglia.

Da quel giorno Requp si recò il più possibile, e quando gli era concesso, al capezzale dell’imperatore e i due si scambiarono aneddoti, racconti e storie fino alla morte di Jorghel XII.

Nel momento prima che l’imperatore spirasse, confessò al figlio:

“Ho sempre amato tua madre, ho amato ognuno di voi. Ma ho dovuto amare anche il mio popolo perché spesso il ruolo che assumiamo è più grande di noi, è nostro compito portare avanti il destino che ci è stato assegnato.”

I tre figli tornarono quasi tutti in contemporanea pochi giorni dopo la morte del padre, nessuno ovviamente con alcun tipo di cura.

Terham, Olys e Framph assistettero impotenti al funerale del padre e altrettanto inermi alla nomina di nuovo imperatore del fratellastro Repuq, che assunse la carica di Jorghel XIII governante di Reseret.

Il rapporto nato nell’ultimo periodo tra Jorghel XII e Repuq si era consolidato al tal punto da far decidere all’imperatore di incaricarlo come nuovo sovrano, punendo in tal modo la disubbidienza dei legittimi eredi.

I tre fratelli non concordarono con quella decisione: rabbia e frustrazione riempirono le loro menti, ma ormai non si poteva tornare indietro.


Jorghel XIII fu trovato morto qualche settimana successiva all’incoronazione, il suo corpo freddo ed esanime giaceva disteso nel letto.

I medici di corte dissero che era stato avvelenato, ma nessuno poté o volle denunciare il colpevole.

Un nuovo sovrano doveva essere eletto: la battaglia per la corsa al trono tra Terham, Olys e Framph ebbe inizio.

Reseret era ancora lontano dal suo tramonto!

*

Il flusso sul lago

Le mie gambe sono così strane in questo momento sembrano senza vita lì a penzolare nel vuoto risi ad osservarle morte si sembrano morte le mie gambe recentemente avevo perso mio nonno era deceduto in un incidente aereo con le sovvenzioni dello Stato tutte le persone in pensione iniziavano a viaggiare intorno al mondo forse era addirittura lo Stato ad aver creato fondi per far viaggiare gli anziani forse per farli sentire meno inutili? non posso esserne certo non mi è mai piaciuta la politica la trovo noiosa preferisco costruire, ma la società ci impone vincoli sui lavori ci dice cosa dobbiamo fare non mi è mai piaciuto il nostro sistema ma alla fine è inutile pensarci non posso fare niente come le mie gambe sembrano proprio morte il giorno del funerale di mio nonno ho visto mio fratello piangere erano molto legati io lo ero un po’ meno ma si sa che le persone hanno preferenze per me stare insieme al nonno paterno o materno era indifferente anche le nonne andavano bene l’occhio ha iniziato a lacrimarmi il vento mi ha sempre dato fastidio ma non quella volta al funerale di mio nonno lì non piansi consolai mio fratello lo aveva appena lasciato la ragazza quella era la seconda volta che lo vidi piangere ma era un dolore diverso ora vive lontano ci vediamo una volta all’anno nella festività preposta al ritrovo famigliare lui è il preferito della famiglia dopo scuola ha trovato subito lavoro è un grande ballerino invece le mie gambe inermi stanno dondolando avanti e indietro non sono mai stato bravo nelle attività fisiche o nelle arti nemmeno un grande pensatore ma so aggiustare bene le cose, quella volta a mia madre riparai il frullatore non mi ringraziò i suoi occhi erano puntati su mio fratello che grande ballerino io avevo concluso gli studi ormai da due anni al giorno d’oggi subito dopo il diploma la società ti assicura un lavoro ma ormai tutte le scuole sono di musica spettacolo ballo no non fa per me io sono bravo a costruire, quella volta avevo riparato il televisore era un ferro vecchio ma grazie a me era tornato come nuovo anzi forse meglio ma a mio padre interessava lo spettacolo di mio fratello lui sì che è un bravo ballerino era uscito con il massimo dei voti nella scuola d’arte che io stesso ho frequentato sono stato uno studente decente non ho mai brillato in alcuna attività io sono bravo a costruire, ma la società ci impone rigide strade da percorrere forse non sono nemmeno così prestabilite ma se non ti adegui probabilmente finisci senza soldi anche se sei bravo in qualcos’altro ad esempio io sono bravo a costruire, ma ormai le macchine fanno quel lavoro ci sono i progettisti della macchine ma io non sono capace non ci arrivo in quelle cose infatti me lo hanno sempre ripetuto alla fine ero uno studente nella media anzi forse anche sotto la media non sono bravo come mio fratello lui ha trovato subito lavoro in uno dei più prestigiosi teatri del nostro paese e gira per il mondo io al massimo giro per casa vivo ancora con i mei genitori perché non ho un lavoro mi fanno sentire come un peso non concludo mai nulla ma io sono bravo a riparare, l’altro giorno ho controllato il frigo aveva un’anomalia ho fatto risparmiare dei soldi credo ma mio fratello si esibiva a Mesck era addirittura in TV quella televisione l’avevo riparata cinque mesi fa funziona ancora sono proprio bravo a riparare, ma non conta nulla per trovare un lavoro avevo fatto diversi colloqui ma tutti mi guardavano sempre male non avevo tatuaggi mia madre mi ha sempre detto di farne uno ce l’hanno tutti non potevo essere il diverso già che non ero come mio fratello così propenso alla danza ciò che la società considera l’eccellenza oggi io avrei potuto trovare un lavoro onesto avrei potuto insegnare ai più piccoli suonare la chitarra il mio diploma era in musica dieci anni passati a studiare una cosa che non mi soddisfa tutt’ora quando prendo in mano quello strumento sento una fitta allo stomaco come se mi picchiassero sono destinato a vivere in questa società sono chiuso in un involucro da cui è impossibile uscire il peso dei miei fallimenti è sempre più schiacciante ora mi manca il fiato devo respirare ma non riesco il mio corpo lo sento rigido mentre le mie gambe si ergono sopra a quell’ammasso di acqua il lago Karoshi è sotto di me sto seduto sul ponte sento le onde infrangersi contro la struttura metallica penso che mi lascerò cadere ecco l’ho fatto la fresca brezza mi accarezza da capo a piedi il rumore del vento mi risuona forte nei timpani chiudo gli occhi e sorrido penso che andrà tutto bene io sono bravo a costruire, oggi avevo già sorriso due volte era da tanto tempo che non mi sentivo così la caduta mi sembra interminabile il rumore del vento da piacevole diventa sempre più fastidioso si acuisce ogni secondo apro gli occhi per il fastidio, da parte a me un signore che mi osserva mi dice qualcosa non lo ascolto il rumore del vento è ancora nelle mie orecchie sento un improvviso dolore al braccio lo guardo con aria stupefatta sorrido nuovamente quel rumore riverbera ancora “abbiamo finito” percepisco mentre la mia mente sta ancora vagando esco dall’edificio in cui mi trovo mi guardo il braccio che bello io sopra il ponte osservavo l’acqua con le gambe distese nel vuoto un tatuaggio perfetto ora è il tempo di trovarmi quel lavoro.

*

Il figlio

La calda aria d’estate era più soffocante del normale, Luglio metteva a dura prova la resistenza di qualsiasi persona vivesse nella piccola cittadina di Lienbrj.

Una torrida cappa di calore muoveva i propri tentacoli in ogni anfratto, senza nessuna eccezione: i quaranta gradi che si depositavano sulla pelle rendevano pesante ogni movimento.

Il giovane Rember, oltre a sopportare questa temperatura arsa, era sottoposto a critiche e rimproveri dei propri genitori: “perché non esci a giocare?” “Trovati qualche amico, non puoi restare sempre in casa” “non hai nessun gioco, perché non sei come gli altri”.

Un giorno sua madre gli si avvicinò e dopo averlo guardato negli occhi disse “Oggi andiamo a fare un giro insieme, ti porto da un mio amico”. Suo figlio non la degnò di una risposta e continuò a far roteare una piccola penna tra le mani, osservandola animatamente e perdendosi nei suoi movimenti.

La madre infastidita dal comportamento di Rember, poco rispettoso a suo avviso, lo strattonò per il braccio e contro la sua volontà lo fece salire sulla macchina. Lo sguardo del giovane perse ogni sprizzo di energia e vitalità, mentre scrutava svogliatamente il paesaggio dal finestrino della macchina.


Il pomeriggio precedente i suoi genitori avevano avuto un’ardua discussione sui comportamenti tenuti da Rember: “è il diverso e a scuola non ha alcun amico, è il peggiore della classe” affermò la madre rivolgendosi al marito.

“Magari è solo un periodo di passaggio, una cosa momentanea” cercò di rassicurarla l’uomo, sebbene la voce tremolante e insicura tradisse il suo reale pensiero sulla questione.

“Dobbiamo fare assolutamente qualcosa” la donna era categorica “ne va della salute di nostro figlio, sono certa che non può vivere bene così” scoppiò in lacrime per la disperazione e per l’enorme stress che aveva accumulato fino a quel momento. “Frequenta la quarta elementare e in questi anni non è riuscito a farsi un amico, le maestre dicono che è al di sotto della media. Va bene avere un figlio un po’ stupido, ma almeno che possa vivere felice e insieme agli altri” si sfogò la donna, buttandosi tra le braccia del marito.

“Posso chiedere ad un mio conoscente il numero di uno psicologo, mi ha riferito che di questi tempi sono molto ricercati e preparati” l’uomo guardò la moglie negli occhi “andrà tutto bene” con queste parole i due si rasserenarono, un professionista li avrebbe di certo aiutati.


“Prego si accomodi signora” madre e figlio avevano raggiunto l’ufficio di uno psicologo del paese vicino a Lienbrj “sono il dottor Andt” si presentò con una stretta di mano decisa. “Lei deve essere…” Andt sfogliò alcuni plichi sul proprio tavolo e dopo qualche minuto estrasse un foglio “la signora Rotten, ci siamo sentiti per telefono”.

La donna annuì “si dottore, è proprio una caso urgente della massima importanza!” comunicò ansiosamente, muovendo il corpo in maniera convulsa per l’agitazione.

“Mi ricordo, infatti mi ha riferito” i verdi occhi dello psicologo iniziarono a viaggiare velocemente tra le righe del documento “… che è proprio urgente, ma non ha voluto accennarmi nulla per telefono e ha detto che la questione necessitava di un’alta priorità” il suo sguardo si spostò dal foglio alla donna “ora può spiegarmi?”

“Mio figlio, mio figlio è strano” iniziò il discorso con queste parole, mentre il ragazzino era nella stanza affianco con la segretaria del dottore “non ha amici, non vuole giocattoli normali, va male a scuola ed è stupido” lacrime iniziarono a sgorgare sul volto della donna “io e mio marito facciamo di tutto per lui, deve curarlo dottore, la scongiuro, deve curarlo!” pregò la donna per un intervento tempestivo sul suo amato figlio prima che la situazione diventasse irrecuperabile.

“Quindi il problema è vostro figlio” il dottore iniziò a scrivere su un pezzo di carta “io non sono un esperto dell’infanzia, potrei indirizzarla verso una mia collega molto esperta e competente” si spiegò con chiarezza.

“Deve aiutarlo adesso, immediatamente, se poi è troppo tardi sarà per sempre escluso dalla società” singhiozzò mentre il suo viso era ancora rigato dal pianto.

La donna non voleva sentire ragioni e non ascoltava le parole dello psicologo: voleva solo il bene del proprio figlio e assicurargli un ottimo futuro.

“Va bene, la prego di aspettare un attimo fuori” il dottore fece spostare la donna fuori dal suo ufficio e al suo posto prese in seduta il piccolo Rember.

Dopo circa un’ora il dottore richiamò la madre “Signora, suo figlio è molto acuto e non è per nulla stupido. La posso rassicurare che è completamente in salute” queste parole e lo sguardo sincero del dottore non convinsero la madre “magari possiamo trovarci una volta anche con suo marito se vuole, così ne posso discutere con entrambi” affermò Andt.

“Cosa centriamo io e mio marito, deve concentrarsi su mio figlio. Lei è un incapace” urlò infuriata la donna “ci serve un vero dottore, uno che sia realmente capace di curare!” Le voce altisonante della donna risuonò in tutto l’ufficio e, prendendo con forza il figlio per il braccio, uscì sbattendo la porta alle proprie spalle.

Il dottore rimase amareggiato da quel comportamento: primo perché la donna se ne era andata senza pagare e poi perché aveva visto in Rember un piccolo genio. Andt sollevò un foglio da terra e sospirò meramente “un’opera fantastica per un bambino di quell’età!”


“Oggi andiamo da un bravo dottore” disse la madre di Rember al figlio, che a queste parole iniziò a piangere disperatamente. “Non preoccuparti” la donna cercò di rassicurarlo “questo è molto meglio dell’altra volta, questo dottore è il migliore!” esclamò con forza e determinazione, quasi volesse contagiarlo del proprio entusiasmo.

Rember, tuttavia, continuò a gemere preoccupato e iniziò a scuotere la testa in segno di dissenso; con tutta la forza in corpo si ancorò alla gamba del proprio letto e con decisone non volle abbandonare la presa.

“Smettila di fare i capricci” ordinò imperativa la madre “e ora vieni con me senza fare tante storie” i suoi occhi si tinsero di rabbia e con la stessa ferocia strappò il bambino dal suo appiglio “lo faccio per il tuo bene” sentenziò aspramente.


Un’ampia sala con le pareti bianche immacolate accolse Rember e la madre, che fu subito soddisfatta dell’ambiente in cui si trovavano. Una dolce infermiera li ricevette e invitò loro a sedersi durante l’attesa, in quella sala d’aspetto così professionale.

Da una porta in fondo alla stanza apparve un uomo dalla statura possente, avvolto nel suo candido camice. Il suo aspetto era così elegante e autoritario, che conquistò immediatamente la donna. “Signora Rotten, la prego si accomodi” la voce del dottore riverberò con vigore nell’aria.

La donna spiegò la situazione al medico in ogni minimo dettaglio “dottor Zepam c’è qualche speranza?” chiese non vedendo un barlume di speranza in fondo a quel tunnel oscuro.

“Signora c’è sempre una soluzione” rispose orgoglioso “in fin dei conti dobbiamo solamente portare suo figlio da uno stato A negativo ad uno B positivo” il medico estrasse una cartellina da un cassetto e la porse alla signora “ci sono molti modi per giungere al nostro obiettivo. Legga il contenuto di quel fascicolo: è una cura sperimentale e innovativa, diciamo pioneristica nell’ambito medico, creata da me con alcuni colleghi”.

La signora ispezionò velocemente il contenuto del plico “Ma funziona?” in realtà non aveva capito quasi nulla, ma non importava dato che il medico le aveva assicurato una soluzione efficace.

“Questa cura è stata sottoposta a cinque soggetti e tutti i risultati sono stati soddisfacenti: le garantisco che suo figlio non avrà più problemi”.

Il viso della donna si fece raggiante, si illuminò per la felicità e non riuscì a contenere la propria gioia “Bene, sì… è proprio quello che cercavo” strepitò appagata “quando si può iniziare?”

“Prima dovrò visitare il piccolo Rember e in uno o due giorni possiamo iniziare” si alzò e aprì un armadietto, prelevando un piccolo flaconcino bianco sulla cui etichetta spiccava una piccola faccia gialla e sorridente “con queste pillole andiamo ad intervenire su alcune zone del cervello, in questo modo vedrà cambiamenti in suo figlio. Dopo aver visitato il bambino, le spiegherò la dose giornaliera e la modalità d’assunzione della medicina”.


“Prendi la tua caramellina Rember” la donna porse una pastiglia dalla forma ellittica al bambino “ti vengo a prendere io quando finisci la scuola, a pranzo viene da noi quel tuo amichetto a mangiare?” chiese conoscendo già la risposta, ma godendo nel sentirsela dare da suo figlio.

Rember annuì senza pronunciare altre parole, ma rallegrò la madre per la risposta affermativa.

Il bambino uscì da casa e si diresse verso il pulmino della scuola, che in tutta la sua ingombrante eleganza aspettava alla fermata prestabilita di fronte all’abitazione.

“Ora prende anche il pulmino, prima dovevamo portarlo noi a scuola” disse con occhi pieni di speranza al marito “e poi dopo arriva anche un suo amico a mangiare, non vedo l’ora” esaltata scambiava queste parole con il proprio consorte, che gioiva anch’esso ma in maniera più contenuta.


Il dottor Andt nel suo giorno libero passò davanti ad una scuola e casualmente vide dei bambini divertirsi in cortile durante la ricreazione; con la coda dell’occhio gli sembrò di scrutare il piccolo Rember che giocava spensierato con i suoi coetanei. Non era del tutto sicuro che fosse Rember, ma non poteva nemmeno escluderlo a priori poiché lo aveva visto solo una volta e i tratti del suo viso erano abbastanza generici.

Le tristi parole del bambino gli riaffiorarono nella mente “non gioco con gli altri, non mi capiscono, a loro piace fare altre cose” “non mi piace parlare nemmeno con i miei genitori, urlano sempre e mi sgridano” “a me piace disegnare, da grande diventerò un artista; si come quello che ho visto nei libri di nonna, aveva fatto un’opera bellissima c’erano due tigri ed un pesce, uno usciva dalla bocca dell’altro”.

*

Show dei talenti

“Anche a me hanno sempre detto così, ma oggi è la nostra occasione! Non credi anche tu?”

“Si, dobbiamo metterci il massimo impegno e vedrai che entrambi riusciremo a passare il turno; quando saremo sul palco dobbiamo esibirci nella nostra miglior performance”.

“Soprattutto perché questa sarà la mia ultima occasione, se fallisco oggi lascerò questo mondo”.

“Mi sembri leggermente drastico, non puoi accantonare la musica a tuo piacimento perché sappiamo entrambi la sua importanza: è la nostra passione e il nostro amore! Non essere ridicolo ci saranno altre possibilità, ne sono sicuro!”

“Oramai sono cinque anni che provo a sfondare nello spettacolo, evidentemente non sono abbastanza bravo. I miei genitori sono stanchi di questa situazione e se non guadagno con ciò che amo fare, sarò costretto a trovarmi un vero modo per vivere”.

“La pensi davvero in questo modo?”

“No, però…”

“505 è il tuo turno” una voce metallica interruppe la discussione tra i due ragazzi.

“… devo andare hanno chiamato il mio numero, spero di rivederti alla fase successiva”.

“In bocca al lupo!”

“Così sia!”

Un ragazzo comune, dall’aspetto insignificante apparì sull’enorme palco; il suo passo lento e titubante trasudava palesemente l’insicurezza, l’agitazione e la paura di fallire in quella che lui aveva definito la SUA ULTIMA OCCASIONE.

“Ciao come ti chiami?” una voce femminile fece capolino, mentre il ragazzo stava cercando di mettersi a suo agio e calmarsi.

“Sono Sider, ho 25 anni” il suo tono era sommesso e alquanto insicuro dato che non si era ancora ambientato nella situazione particolare in cui si trovava.

Sider non si era mai esibito di fronte ad un pubblico così vasto, ma per ottenere successo nel mondo discografico avrebbe dovuto abituarsi a contesti simili.

“Bene il 505 è Sider” disse la donna guardando le altre due persone al suo fianco “e quale canzone hai deciso di portare per la tua performance di oggi?”

“Sono un cantautore e quindi vi farò ascoltare uno dei miei pezzi personali, sia base sia testo sono stati creati da me; spero vi piaccia!” da quel momento la prova decisiva per Sider era iniziata.

Le luci si posizionarono sull’esile figura del ragazzo, accecandolo momentaneamente, la tensione era palpabile ma non appena Sider avvicinò il microfono alla bocca ogni insicurezza svanì.

Tutti gli artefatti intorno a lui sparirono: giudici, riflettori, pubblico erano solo un’immagine di sottofondo; sul palco c’erano solo Sider e la propria musica.

L’esibizione fu esilarante e spettacolare, la canzone scritta da Sider era un mix di metafore che rappresentavano la società in maniera ironica e geniale.

Alcune volte il testo della canzone si spingeva verso paragoni non facilmente comprensibili al primo ascolto, ma nella sua totalità la performance fu divertente e accolta di buon grado dal pubblico.

Il boato che proveniva dagli spalti era assordante e si stava prolungando per un lungo periodo di tempo, in quel momento l’unica cosa di cui era preoccupato Sider era il verdetto dei giudici e non il feedback degli spettatori.

Non appena l’estasi delle persone si placò, i tre giudizi iniziarono ad esprimere i propri pareri sullo spettacolo proposto dal numero 505.

“Molto interessante e finalmente ho visto qualcosa di diverso” esordì il giudice donna “il mio voto è senza alcun dubbio un SÍ!”

Il primo giudizio positivo era stato espresso, ma il percorso era ancora arduo. Per riuscire a superare la fase preliminare dello show Sider avrebbe dovuto ricevere almeno un altro “sì” dai giudici.

“Personalmente non sei stato di mio gradimento, a pelle non mi piace il modo in cui canti. Mi dispiace ma secondo il mio parere non hai una buona prospettiva commerciale. Il mio voto come avrai capito è un no” asserì con decisione e senza alcun ripensamento il giudice seduto a destra della donna.

Uno spiacevole macigno cadde sopra Sider, le parole del giudice risuonavano morbose nella sua testa “nessuna prospettiva commerciale” “per me è no”; aria uscita così leggera dalla bocca di una persona, che in realtà possedeva un peso enorme per il giovane uomo.

Ora il destino di Sider era nella mani dell’ultimo giudice, la sua decisione sarebbe stata quella decisiva.

“Il modo in cui canti, lo stile possiamo dire, è l’opposto di quello che sto cercando. La tua canzone può essere gradevole, ma questa competizione verte intorno alle cover. Penso che con la tua voce tu non sia in grado di poter andare avanti in maniera competitiva. Quindi…” il giudice fece una breve pausa “anche per me è no mi dispiace”.

Per Sider era davvero finita: le sue convinzioni di non essere all’altezza si consolidarono.

Fino a quel momento aveva pensato di non essere stato abbastanza fortunato nel trovare occasioni giuste per esprimersi e mostrare le sua capacità, ma ora era chiaro.

Ammutolito osservò davanti a se, fissò i giudici senza dire una parola e abbassò il capo ormai immerso nello sconforto.

Non era adatto a diventare un cantante, il suo sogno era svanito ancor prima di cominciare.

“Cover” ripeteva disperatamente Sider nella sua testa. All’improvviso un’idea gli balenò nella mente come quando, sotto la doccia, l’acqua ti avvolge nel suo caldo abbraccio e mille idee geniali inondano il tuo lato creativo.

“Potrei…” osò pronunciare con voce flebile “… potrei avere un’altra possibilità? Questa volta una cover”.

I giudici si guardarono vicendevolmente e annuirono in segno di approvazione; gli occhi di Sider si illuminarono a quel gesto, l’opportunità di diventare un cantante non era ancora sfuggita dalle sue mani.

Per eseguire una performance adeguata, Sider necessitava di una chitarra e un tecnico uscì prontamente dalle quinte per soddisfare la sua richiesta.

Il ragazzo si sedette a cavalcioni sul bordo del palco, imbracciò la chitarra con tutta l’energia in corpo e si avvicinò al microfono “Questa canzone ha un forte significato per me!”

La sua anima si espanse attraverso la sua voce, il suo cuore si aprì e le calde parole che uscirono dalla sua bocca deliziarono il pubblico.

L’esibizione fu struggente e altamente emozionante: Sider aveva messo in scena il lato di sé che solitamente teneva nascosto.

Il silenzio regnava sovrano fino a che uno dei giudici ruppe quel momento quasi surreale e magico.

“Mi hai toccato dentro, non pensavo che potessi essere in grado di fare una cosa del genere. Sono sbalordito”. Il giudice, che precedentemente aveva negato il passaggio di Sider alla fase successiva, sembrava essersi redento. “Però ho visto un cambio così repentino da un momento all’altro, posso fidarmi di una persona del genere?” domandò con schiettezza.

Sider fu preso da sgomento, ma in maniera inaspettata rispose con semplicità e spontaneità “credo che la musica non sia una cosa unica all’interno di una persona: la musica può far divertire, può e deve far ridere; la musica può trasmettere messaggi, può veicolare le proprie idee; la musica deve suscitare emozioni profonde, può provocare scalpore e lasciare cicatrici nell’anima. Se riesco in uno di questi intenti io ho fatto musica e sono fiero di aver cantato, raggiungendo il pubblico in un modo o nell’altro!”

Il giudice sorrise all’affermazione di Sider “va bene, per adesso ti do il mio SÍ. Vedremo nelle prossime fasi come ti comporterai”.


“Ora verrà consegnata ad ognuno di voi una lista con i titoli delle canzoni che dovrete cantare nella prossima fase” la voce metallica fuoriusciva ad intervalli regolari dal trasmettitore appeso al soffitto, la sua litania ruppe la calma che si era creata dopo la prima fase dello show.

Il gruppo dei vincitori contava circa 30 partecipanti, prontamente posizionati dagli organizzatori del programma in una stanza d’attesa.

“Limitate i contatti, quando sarà chiamato il vostro numero superate la porta in fondo alla sala e aspettate!” questi erano gli ordini dettati dall’altoparlante.

“505” nella sala era rimasta una dozzina di persone, finalmente era il turno di Sider.

Il ragazzo si alzò da un angolo della stanza, fino a quel momento era rimasto isolato perché non era riuscito a trovare facce conosciute ed aveva limitato i contatti come era stato imposto.

Non appena superò lo porta che gli era stata indicata, si trovò in un luogo angusto dove erano presenti solo un tavolo con due sedie.

All’altra estremità un signore sulla cinquantina fissava davanti a sé “prego si sieda numero 505” disse mentre estraeva un foglio da un plico sul tavolo.

“Mi chiamo Sider” disse il ragazzo.

L’uomo non lo degnò di uno sguardo “505 questa è la sua lista, abbiamo scelto per lei 3 canzoni. Le saranno fornite base e testo, tra una settimana ci sarà la seconda fase ad eliminazione dello show. La aspettiamo puntuale” le parole sembravano meccaniche, come se quella persona fosse un automa.

Sider prese il foglio in mano e lo esaminò “le conosco queste canzoni, ma non sono il mio genere. Non potrei avere altre opzioni?” chiese gentilmente.

La risposta sbalordì il ragazzo, la freddezza del suo interlocutore era inumana “io non faccio le regole, se ti hanno assegnato queste canzoni c’è un motivo. Il motivo è semplice: devi cantarle! Ora puoi uscire dalla porta dietro di me e non da quella da cui sei entrato. Una settimana e dovrai esibirti, puntuale!”

Sider non poté controbattere, si alzò della sedia e con passo desolato lasciò quel luogo.


“Numero 505? Per favore venga con noi” due energumeni in giacca e cravatta si posizionarono di fronte a Sider fissandolo negli occhi.

Il ragazzo obbedì più per paura che per volontà e seguì i due uomini in uno stanzino appartato, al cui interno era presente un giovane molto elegante.

“505, giusto? Sider se non sbaglio” il nuovo personaggio sorrise calorosamente “bene, bene! Ho sentito che nell’esibizione di oggi non si atterrà alla nostra lista. Eh… Le voci corrono! Comunque non le conviene farlo. Non mi piacciono le persone che fanno ciò che gli pare” spalancò la bocca in un sorriso a 32 denti, ma questa volta il suo sguardo era minaccioso.

Sider non sapeva cosa rispondere, perchè non si capacitava di come l’avessero scoperto.

“In ogni caso se non si attieni a ciò che le abbiamo detto, i giudici hanno l’ordine di non farla passare alla fase finale. In questo modo diciamo che sarà eliminato per sempre dal mondo musicale e mi assicurerò che lei non ne faccia mai parte. Ora caro 505 ha due possibilità: o fa come le diciamo o firma questo foglio in cui attesta la rinuncia ad un posto in questo spettacolo e potrà continuare per la sua strada, da solo. Ora spetta a lei!” così dichiarò l’uomo, mentre porgeva un foglio e una a penna a Sider.

Mille pensieri affollarono la testa del giovane “ho una mia identità, la posso accartocciare così come se nulla fosse?” “ma se non faccio come dicono, sono finito!” “se cominciano a controllarmi ora, che farò poi? Dovrò sempre sottostare alle loro regole” “io voglio cantare le mie canzoni, ciò che canto è speciale! Ma sarà davvero così?” “non voglio essere modellato come tutti gli altri, la mia personalità e creatività sono uniche” “sono così sicuro di essere speciale? Fino ad ora non ho concluso nulla”.

Sider prese il foglio e la penna, li strinse nelle sue mani per alcuni minuti. Guardò negli occhi gli uomini davanti a lui e, dopo aver annuito, riconsegnò il materiale che gli era stato affidato e uscì dalla stanza.

Sulla lunga linea in fondo al foglio, nello spazio preposto per la firma…