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Raccolta di testi in prosa di Dora Millaci
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Una luce nelle tenebre

Sentivo un vuoto dentro. Un vuoto che non comprendevo, ma sapevo che non potevo andare avanti così.

Riflettevo nel silenzio della mia stanza. Che cosa mi serviva? Possedevo una bella casa; una famiglia che mi amava; non avevo problemi economici, eppure mi mancava qualcosa.

Da giorni la tristezza aveva preso il sopravvento. Cercavo di mascherarla dietro a finti sorrisi, ma la mia anima stava morendo. Come una candela, mi stavo lentamente spegnendo.

Quel pomeriggio decisi di fare una passeggiata per cercare di distrarmi e non so come, mi ritrovai a percorrere alcune stradine del centro. Erano luoghi poco sicuri, poiché frequentati perlopiù da delinquenti, spacciatori e donne di facili costumi. Che cosa ci stavo facendo lì?

Camminavo lentamente, guardando questa gente che mi osservava come fossi un’aliena. L’aria era pregna di un odore acre, irrespirabile. Spazzatura era gettata ad ogni angolo, così come buttati sui cartoni, c’erano delle persone. Una scena apocalittica, che m’impressionò.

Possibile che tutto questo si trovava nella stessa città dove vivevo io? Tornai a casa sconvolta. Quanta miseria; quanta bruttezza.

La notte non riuscii quasi a dormire, ripensando a quello che avevo visto ed al fatto che nonostante vivessi nel lusso, mi sentissi così povera e vuota.

Ero io che avevo bisogno, ma ancora non comprendevo di cosa.

Non so per quale strana ragione, ma l’indomani tornai in quelle stradine. Come se lì, potessi trovare la soluzione al mio problema.

Ancora una volta però i miei occhi disgustati per ciò che vedevano, cercarono una via d’uscita e così quasi correndo scappai, ritrovandomi in una piccola piazza.

“Ha bisogno di qualcosa?” disse una vocina alle mie spalle.

Mi voltai e dietro di me c’era un ragazzino minuto. Era sporco e con gli abiti più grandi di lui, ma con due occhi penetranti che facevano tenerezza.

“No, ti ringrazio” risposi in fretta cercando di allontanarmi.

Tornai a casa ma quegli occhi, mi seguirono. Quello sguardo mi era rimasto nel cuore. Poteva essere uno dei miei figli.

Nei giorni che seguirono, tornai a cercarlo. Volevo conoscerlo e parlare con lui. Mi aveva lasciato una sensazione dentro, inspiegabile.

Fu così, che tutto cominciò.

Aveva solo tredici anni, abitava nei vicoli come molti altri e si arrangiava per vivere.

“La fame è brutta” mi diceva “Sono solo e nessuno si preoccupa di me. Rimedio qualcosa per strada, aspettando la generosità delle persone, ma non va sempre bene”.

Faceva impressione vedere quel visino parlare come un adulto. Cominciai così a portargli degli abiti puliti e roba da mangiare. Non voleva però allontanarsi dal quartiere. Come se fosse costretto a restare lì.

Passavamo diverse ore assieme ed io pian piano cominciai a colmare quella mancanza, che sentivo dentro.

Trascorsero settimane, durante le quali tutti i giorni andavo a trovare il piccolo Filippo. Il mio umore era cambiato. Mi sentivo viva. Finalmente avevo uno scopo: aiutarlo e questo mi riempiva di gioia.

Si avvicinava la Santa Pasqua ed avevo preparato un pacco speciale da portargli. Quel pomeriggio mi recai al solito appuntamento con un po’ d’anticipo. Ero ansiosa di vederlo. All’orario stabilito però, non si presentò. Pensai ad un semplice ritardo e così lo attesi senza preoccuparmi.

Trascorse un’ora e di lui, nessuna traccia. Iniziai a cercarlo chiedendo in giro nei vicoli, a quelle persone che mi guardavano in maniera strana. Nessuno lo conosceva. Come fosse stato un fantasma. Ad un certo punto, un anziano sdraiato per terra, udendo le mie parole, si alzò di scatto.

“Ha detto Filippo? Un ragazzino dai capelli neri ricci?”

“Sì, perché lo conosce?” chiesi agitata.

“Buon Dio!” esclamò facendosi il segno della croce.

“Che cosa succede?”.

“Anche lei… è incredibile!”

“Non capisco” proruppi scossa “Che cosa vuol dire, mi spieghi. Dov’è Filippo?”.

L’uomo si passò le mani sul viso ed iniziò a raccontarmi una storia che aveva dell’incredibile.

“Conosco bene Filippo, siamo cresciuti assieme….”

Già a quella frase pensai che delirasse, ma lo lasciai continuare.

“Vede laggiù vicino alla piazza? Tanti anni fa c’era un orfanotrofio. Era lì che abitavamo” aveva gli occhi lucidi, inumiditi dalle lacrime “Mi sembra ieri e son passati cinquant’anni. C’era la guerra e sulla città in quei giorni terribili cadevano le bombe. Era sera ed una cadde proprio su questa strada. Ricordo i palazzi che tremavano e venivano giù come castelli di sabbia. Noi, una dozzina di ragazzini terrorizzati non sapevamo dove nasconderci. Filippo ci venne incontro con una lampada a petrolio e ci disse di seguirlo. Di seguire quella luce nel buio. Uscimmo tutti dalla struttura, proprio in tempo. Non lui però, perché non riuscì a salvarsi. L’enorme portone gli precipitò addosso. Rimase intatta solo la lampada, che continuò ad illuminare la via”.

Ad ascoltarlo mi erano venuti i brividi, ma ero convinta comunque che si trattasse solo di una storia inventata. Quell’uomo era in evidente stato di ebrezza.

“Lei non mi crede?” disse d’un tratto guardando il mio viso perplesso “Venga, mi segua”.

Mi condusse in un cortile adiacente alla piazza, quella nella quale m’incontravo sempre con il ragazzo e fu lì che la vidi: la sua effigie.

C’era un piccolo busto con la sua immagine e sotto una scritta: “Ecco la luce nelle tenebre, che ha condotto alla salvezza i suoi pari. Anno 1943”.

Tremante guardai l’uomo e lui continuò la sua storia, dicendomi che molte persone da allora, affermavano di averlo visto. E non solo, ma dopo l’incontro avevano ricevuto aiuti.

Non riuscii a dire nulla.  Ero sconvolta. Mi mancava l’aria. Mi sembrava tutto così assurdo. Lasciai quel luogo senza mai voltarmi indietro.

Nel viaggio verso casa ripensai a quella storia pazzesca; a Filippo, ai nostri discorsi e compresi.

Conducevo un’esistenza da benestante ma sterile. Non conoscevo la serenità, perché avevo perso me stessa. Vagavo nelle tenebre e da qui, quel vuoto che sentivo dentro. Filippo mi aveva illuminata. Lui era stata la luce, quella che mi aveva ricondotto lentamente verso la vita.


*

Foglie al vento

 

Quanto più sono stati emozionanti, tanto più riaffiorano prepotenti.  Basta così poco perché riemergano e ti ritrovi a rivivere momenti che credevi di aver dimenticato.

 

Era estate e avevo preso l’abitudine per andare al lavoro di attraversare Parco Lambro.  La strada non era più corta o più veloce ma ogni volta che passavo di lì, mi sembrava di rivedere momenti della mia vita. Una sorta di dejà vu. Provavo un’indescrivibile sensazione di benessere. Forse l’odore delle piante, il vociare dei bambini o magari scorgere quel vecchio signore, che pareva in quel luogo da decenni. Seduto sulla stessa panchina a leggere il Corriere della Sera che puntualmente, al mio passaggio, alzava lo sguardo e mi sorrideva da sotto quella barba incolta. A me veniva naturale contraccambiare.

Mi domandavo come avesse fatto a ridursi così e se avesse da qualche parte una famiglia. Più d’una volta mi venne la tentazione di fermarmi a parlare con lui, ma temevo una sua reazione. Avevo forse il diritto di violare la sua privacy? Il suo sguardo non era triste. I suoi occhi brillavano di una strana luce e riuscivo ad intravvedere da sotto quell’aria burbera, un’infinita dolcezza.

Quel piccolo rituale mattutino, mi faceva star bene e mi dava la carica giusta per cominciare la giornata. Soprattutto da quando la mia vita era cambiata. Ero uscita da poco da un brutto periodo. Avevo perso mio padre qualche mese prima, dopo una lunga malattia. Il mio fidanzato mi aveva lasciato, perché non aveva compreso il mio bisogno di stargli accanto fino all’ultimo. Era stato un grande insensibile egoista. Mia madre era morta quando avevo solo quattro anni a causa di un brutto incidente. Si trovava in macchina con mio padre. Lui ne uscì illeso. Adesso ero completamente sola a dover rimettere assieme i pezzi e ricominciare la mia esistenza.

Fortunatamente avevo un buon lavoro che mi piaceva e così, trascorrevo moltissimo tempo in ufficio.

La stagione calda volò come un lampo e giunse l’autunno. Nonostante tutto, non volli modificare il mio rituale ed anche nelle brutte giornate, m’incamminavo lungo i sentieri del parco.

L’anziano signore era sempre lì, con i suoi abili lisi, che si proteggeva alla meglio dal freddo e dal vento che soffiava imperioso, alzando le foglie oramai gialle cadute dagli alberi. Il cuore mi si stringeva nel petto ed il mio sorriso era tirato. Al contrario lui pareva noncurante di tutto ciò che gli accadeva attorno. Sembrava rilassato, tranquillo quando con passo spedito lo guardavo, mentre oltrepassavo la sua postazione.

Le domande sul suo conto cominciarono a farsi più insistenti nella mia mente. In modo particolare la sera, quando mi sdraiavo al caldo nel mio letto. Chi era? Aveva un riparo, dove coricarsi la notte? Perché mi era entrato così nel cuore? Forse era solo il mio bisogno d’affetto, che mi spingeva in quella direzione.

Una notte un violento temporale mi svegliò di soprassalto. Lampi, tuoni, grandine. Ricordo un bruttissimo incubo, ma non era nitido. Mi restò addosso una tale paura, che non mi riuscii più di dormire. Io che urlavo ed una voce d’uomo in lontananza che mi diceva: “Non ti preoccupare, veglierò su di te”.

La mattina seguente, ero scossa, agitata. Avevo il presentimento che mi dovesse accadere qualcosa. La giornata però si presentò limpida. In cielo nessuna nuvola ed anche il vento dei giorni passati, si era attenuato.

“Che sciocca che sono” pensai camminando lungo i sentieri del parco “E’ una così bella giornata che non mi può capitare nulla di brutto”. Detto questo, cercai con lo sguardo il viso familiare dell’anziano signore. Era lì al solito posto che mi aspettava. Questa volta però nel vedermi, si alzò e mi venne incontro.

“Ha perso questo” disse porgendomi qualcosa “Lo prenda, è suo”.

Scossi il capo “Non credo, non mi sembra…”

Serio in volto, insisté affinché prendessi l’oggetto e senza guardarlo lo misi nella tasca dell’impermeabile. Sorrisi e velocemente andai via.

Quel gesto inaspettato mi aveva turbato. A quanto pare ero ancora agitata, anche se non lo davo a vedere.

La giornata volò. Al lavoro c’era sempre tanto da fare. Al contrario dei miei colleghi, non avendo impegni, molte volte restavo oltre l’orario e fu così anche quella sera. Quando guardai l’orologio, erano quasi le venti. A quell’ora nel palazzo non c’era più nessuno, se non i custodi. L’ufficio si trovava al dodicesimo piano ed anche se io non amavo i luoghi al chiuso, ero costretta a prendere l’ascensore.

Le porte scorrevoli si schiusero con uno strano cigolio. Premetti il tasto per scendere e la cabina si mosse. Gli occhi erano incollati sul display con la numerazione dei piani. Avevo uno strano presentimento. L’ultimo numero che vidi fu l’ottavo. La luce si spense. Avevo la sensazione di continuare a scendere, ma forse non era così. Mi stava prendendo il panico. Dovevo riuscire a trovare il campanello d’allarme, ma come potevo fare al buio? Non avevo accendini con me poiché non fumavo. Mi schiacciai verso la parete opposta l’entrata ansimando. Mi mancava l’aria. Da quanto tempo ero lì dentro? Mi sembrava un’eternità. Misi una mano in tasca per prendere un fazzoletto e fu allora, che mi accorsi di avere qualcosa che mi avrebbe aiutato: una piccola torcia.

L’accesi e finalmente potei trovare e premere il tasto per chiedere aiuto. 

“Per fortuna aveva questa luce” esclamò il custode facendomi uscire dall’ascensore.

Una volta all’esterno mi fermai a guardare quell’oggetto che mi aveva salvato.

“Adesso la può spegnere” continuò l’uomo “E’ curioso però che una signora come lei, abbia con sé un gingillo da bimbe. Dove l’ha preso?”

Alzai lo sguardo. Avevo le lacrime agli occhi e con voce tremolante risposi: “Me l’ha dato mio nonno”.

Dicendo quella frase rividi tutta la scena come in un vecchio film.

La lite furibonda che lui ebbe con mio padre accusandolo di aver ucciso mia madre nell’incidente. Quest’ultimo che gli urlava di sparire dalla nostra vita e di non farsi più vedere.

Io bimba che gli correvo incontro buttandogli le braccia al collo e lui che mi stringeva amorevolmente.

“Nonno, non te ne andare. Mi dimenticherai!”

“Non succederà mai piccola mia. Veglierò sempre su di te”.

“Prendila nonno” e gli diedi la mia piccola torcia a forma di paperetta.

Il grosso portone si chiuse alle sue spalle lasciando la casa nel silenzio. Lo stesso silenzio che ora aleggiava nell’androne del palazzo. Il mio cuore era in tumulto. Ora capivo tutto. In quel parco mio nonno mi ci portava sempre a giocare. Come quella bimba gli corsi incontro.

Ero convita che l’avrei trovato lì, su quella panchina ad aspettarmi.

I viali deserti erano illuminati da lampioni. Riecheggiavano solo i miei passi sulla ghiaia. In lontananza vidi una figura e mi assalì, un’euforia incontrollabile. Le palpitazioni erano così forte che le sentivo riecheggiare in testa. Il respiro era decisamente accelerato e cominciai ad allungare il passo.

In pochi minuti giunsi di fronte a quell’uomo: non era mio nonno, ma un manutentore del parco.

“Mi scusi, conosce il signore che è seduto sempre su questa panchina?” domandai speranzosa.

Il tipo alzò le spalle e sgarbatamente rispose:” che ne so. Ho preso servizio questa sera. Chieda al mio collega laggiù. Sono mesi che lavora qui”.

Corsi dall’altro uomo e riproposi la domanda.

“Sì, certo che lo conosco” rispose secco senza aggiungere altro.

“vede, questa mattina mia ha dato un oggetto e vorrei restituirglielo” continuai col cuore in gola” Mi sa dire dove lo posso trovare?”

Si fermò di colpo e guardandomi come se fossi fuori di senno esclamò: “ Signorina, credo che lei si stia sbagliando. Non penso proprio che questa mattina lei abbia parlato con quel tipo, tanto meno che lui le abbia consegnato qualcosa”.

“Perché mai?”

“Perché è morto la scorsa notte, durante il temporale. Ho chiamato io stesso l’ambulanza”.

Mi mancò il respiro. Sotto i miei piedi si era aperta una voragine ed io ci stavo finendo dentro. Com’era possibile? Di colpo mi tornò in mente l’incubo della notte precedente. Forse avevo realmente vissuto qualcosa.

Smisi di parlare e mi allontanai, mentre i miei occhi si riempivano di lacrime. Udivo la voce del manutentore. Mi stava chiedendo qualcosa. Non risposi. Oramai era lontano…

Un improvviso vento si era levato ed io a lui mi abbandonai lasciandomi trasportare, proprio come le foglie gialle cadute dagli alberi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


*

La fotografia

La fotografia


“Forza muoviti pigrona!”
“Sai che odio camminare. Non potevamo posteggiare più vicine?”
Risi guardando Kate che saltellava sulle sue scarpe nuove, mentre una pioggerellina fine, cominciava a cadere.
Era metà dicembre e la città gremiva di luci e colori. Mercatini d’ogni genere spuntavano nei vari rioni.
Notai una bancarella tra le tante, quasi nascosta, che vendeva libri usati a metà prezzo. Mi ci accostai subito.
“No ancora libri!” esordì la mia amica “Ne possiedi almeno un migliaio. Sei proprio fissata”.
Non risposi nemmeno. Ero troppo concentrata a leggere i titoli. Quasi rapita da loro. Per me, era sempre così. Sfioravo delicatamente le copertine, con fare rispettoso. Osservavo ogni particolare, ogni dettaglio. Dopo quasi un’ora finalmente, ne avevo scelto uno.
Kate sospirò “Non ne potevo più. Che supplizio!”
Al momento di pagare però, la banconota mi cadde sopra un piccolo volume seminascosto. Tirai su entrambi. “Compro anche questo” dissi d’impeto senza sapere il perché.
La venditrice mi sorrise facendomi l’occhiolino.
“Molto bene, ottima scelta”.
Ci allontanammo ed il freddo pungente ci spinse dentro un locale a prendere qualcosa di caldo.
“Come vanno le cose con Willies? Avete programmato per le vacanze di Natale?”.
Prima di rispondere, presi una bella sorsata di cioccolata calda.
“Vanno come sempre”.
“Non sembri molto entusiasta”.
“Lui è troppo concentrato sul lavoro” risposi seccata “Io sono sempre al secondo posto. Mi domando come sarebbe un domani se ci dovessimo sposare”.
“Vedrai che questa vacanza, sistemerà le cose”.
Volevo molto bene a Willies, ma non riuscivo a scorgere un futuro con lui. Perlomeno, non uno felice.
La giornata di compere volò e sprofondai stanca sul divano. Chiusi gli occhi, cercando di riposare quando, mi tornò alla mente quel piccolo libro acquistato. Quel volume del quale non conoscevo nemmeno il titolo. Curiosa corsi a prenderlo.
L’autore era un nome noto. Lo ricordavo. Sapevo di lui che non aveva scritto molti romanzi, ma con quei pochi era diventato famoso. Nascondendosi al mondo dopo il successo.
“Mi domando se sia ancora vivo” pensai aprendo il libro “Dovrebbe avere almeno ottant’anni”. Mentre sfogliavo le pagine, cadde qualcosa sul tappeto. Era una vecchia fotografia di una giovane molto bella. Girandola mi accorsi che c’era una dedica. Si leggeva a malapena, eppure riuscì a comprendere che si trattava dell’amata dell’autore.
Un senso di tenerezza mi pervase. Avevo tra le mani il ricordo di qualcun altro.
L’indomani raccontai a Kate della mia scoperta e l’intenzione di fare delle ricerche.
“Si può sapere per quale motivo?”
“Non so spiegartelo. Quando tengo in mano quella foto, avverto qualcosa dentro. Qualcosa che mi spinge ad andare oltre.”
“Sei proprio strana. Non ti capisco.”
Risi di gusto. “Non mi capisco neanch’io”.
I giorni passarono velocemente ed i miei momenti liberi li dedicai alle indagini. Venni a sapere così, che lo scrittore era ancora vivo ed abitava in una cittadina isolata non molto distante, da dove avevo prenotato per le vacanze di Natale.
Parlai a Willies della piccola deviazione che volevo fare durante il nostro viaggio. Non ne fu per niente contento.
“Non ho intenzione di perdermi dietro alle tue follie”.
“Una volta tanto potresti assecondarmi in qualcosa. Ti ho detto che per me è importante. Sento che devo parlare a quell’uomo e riportargli questa foto”.
Le discussioni continuarono fino al giorno della partenza. Il destino però mi venne incontro e così, quando Willies mi telefonò per annunciarmi che non poteva più muoversi a causa del lavoro, ne fui contenta.
Non sapevo che cosa avrei trovato. Non avevo idea di che cosa avrei detto. Eppure una spinta interiore fortissima, mi costringeva a recarmi verso quella casa.

Quando suonai il campanello di quella grossa villa, mi batteva forte il cuore. Ero un po’ intimorita, come mi sarei presentata?
Mi aprì un giovane di bell’aspetto.
“Desidera?”
“Mi chiamo Mari Rose Flaherty. Sono venuta per parlare con il signor Gilyard “
L’uomo mi scrutò sospettoso.
“Posso conoscerne il motivo? Il signor Gilyard non riceve visite da anni”.
“E’ una questione personale”.
Cercai d’insistere, ma tutti i miei tentavi andarono a vuoto. Che bella vigilia di Natale, pensai. Rassegnata, delusa mi girai e tornai verso la macchina.
Istintivamente presi in mano la fotografia e la guardai. Quasi per scusarmi con quella signora, quando un colpo di vento me la strappò gettandola a terra vicino alla porta d’entrata.
Il giovane si apprestò a prenderla e la fissò. Forse in quella fotografia c’era davvero qualcosa di magico, perché mi chiese di entrare in casa.
Mi portò in salotto e facendomi accomodare, mi offrì da bere.
“Lei è un parente?” domandai sorseggiando la bevanda.
“No, sono un suo ex studente. Gilyard non ha alcun parente. Mi prendo cura di lui da quando si è ritirato in solitudine. L’età avanzata ha portato diversi acciacchi e così gli tengo compagnia e lo aiuto come posso”.
Lo ascoltavo come rapita dal suo modo di fare. Così diverso da Willies. Praticamente opposti.
Chiacchierammo per almeno due ore durante le quali mi raccontò della vita del famoso scrittore.
Gilyard s’innamorò perdutamente della donna della foto. A quei tempi era sposato e all’apice del successo. La loro fu una relazione clandestina. Lei restò in stato di gravidanza, ma per non coinvolgerlo in qualche scandalo, senza dirgli niente sparì.
Nel cuore dell’uomo quella signora aveva un posto speciale. Nonostante gli anni, non era riuscito a scordarla e una volta rimasto vedovo, assunse un investigatore per rintracciarla. Venne così a sapere di avere una figlia di nome Elisabeth, ormai grande. La cercò e riuscì a trovarla. Della sua amata invece, mai più nessuna traccia. Praticamente svanita nel nulla.
“Perché sorride?” mi chiese sorpreso.
“Mi perdoni. Mi è venuto in mente che anche mia madre si chiamava così. Prego… continui pure”.
“Vediamo… a sì… con la figlia aveva da poco iniziato a riprendere contatti, quando un malaugurato giorno, un incidente stradale gliela portò via. In quella circostanza, morì anche il marito.
Nel sentire quelle frasi cominciai a tremare come una foglia. Il cuore impazzito sembrava scoppiarmi nel petto e la testa iniziò a girarmi.
“In macchina con loro, c’era anche una bambina rimasta illesa. Tutti inutili i tentativi di ritrovarla. Il signor Gilyard si è consumato dal dolore in questi anni, al pensiero di quella creatura.”
Mi tappai la bocca con la mano per soffocare un urlo. Non era possibile.
Una voce roca in fondo alla stanza pronunciò il mio nome.
“Mari Rose”.
Mi alzai di scatto come una molla, rovesciando tutto per terra. Fissai quell’uomo che mi guardava con gli occhi lucidi.
“Come assomigli a tua madre”.
“Nonno” urlai.
La neve cominciò a cadere coprendo ogni cosa col suo candido manto. In mezzo alla stanza, in quel silenzio ovattato ci abbracciammo per la prima volta. Ci eravamo ritrovati e tutto grazie ad una fotografia: quella di mia nonna. La donna tanto amata da Gilyard.
Quella vacanza di Natale non potrò mai scordarla.

Sono passati due anni da quel giorno. Adesso vivo con mio nonno e mio marito: Robert.
Ogni tanto ripenso a quella bizzarra venditrice di libri apparsa dal nulla ed alle strane coincidenze che mi hanno portato alla mia nuova vita.
Questa esperienza così particolare, mi ha insegnato ad ascoltare le mie sensazioni, a vedere i segnali del destino e soprattutto a seguire il mio cuore.

*

DEVI CREDERCI

Possiamo cambiare molte cose. Città, usanze, idee, abitudini, ma ciò che è radicato nel nostro cuore, difficilmente si può modificare.

Non c’era mattina che non raggiungessi il molo e non guardassi lontano, oltre l’orizzonte, per cercare le mie radici ed i miei affetti. Strappato in tenera età dalla mia terra, sognavo un giorno di poterci tornare. Di vivere nel mio paese e di costruire una famiglia. Quanto tempo era trascorso… forse troppo.

La sera quando mi coricavo, avevo un peso sul cuore perché temevo che non sarei mai riuscito a tornare indietro; che quella era una vana speranza, era solo un sogno ed i sogni si avverano nelle favole. La realtà è ben diversa.

La tristezza e lo sconforto ti possono uccidere, ma anche far lottare per quello in cui credi. Nel mio caso decisi di non arrendermi e fu così che il destino, vedendo forse la mia tenacia, mi venne incontro e mi aiutò. E’ questo, quello che oggi insegno ai miei figli. Qui nel mio, nel loro paese.


*

I misteri della vita

La vita è strana e ci riserva tante sorprese. Alcune belle, altre brutte, ma tutte ugualmente importanti.

 

Avevo imparato a memoria ogni oggetto della mia stanza d’ospedale. In pratica ero cresciuta lì dentro. Conoscevo infermieri, inservienti e medici del reparto e loro, conoscevano me.

Ogni mattina allo stesso orario passava un frate missionario per portarmi un po’ di conforto. Così diceva lui. Io però non essendo credente, facevo solo finta di ascoltare i suoi sermoni.

Come potevo pensare che esistesse un Essere di luce e d’amore, poiché a soli cinque anni mi ero ammalata di una forma grave di leucemia.

“Non c’è giustizia” gli dicevo “Perché proprio a me? Che cosa avevo fatto di male?”

“Sei fortunata” osava dirmi “Molte persone non sopravvivono, mentre tu sei qui che puoi godere del sole del mattino”.

“Quale sole, quale vita!” rispondevo furiosa “Sono spesso attaccata ad una flebo. Le ragazze della mia età invece, sono fuori a divertirsi”.

Qualsiasi cosa mi avrebbe detto quell’uomo, non poteva cambiare la mia drammatica situazione. Ero arrabbiata con il mondo intero. Non volevo, non potevo accettare. Ero scontrosa, introversa, intrattabile e per questo mio comportamento, non avevo amici. Questo non doveva essere il mio destino. Piuttosto che continuare a vivere in questa maniera, avrei preferito morire.

Nonostante lo trattassi male e gli rispondessi sgarbatamente, tutte le mattine si presentava alla mia porta. Era dolce, pacato e riuscivo a scorgere un sorriso sotto la lunga barba.

Le settimane passavano e mi accorsi con stupore che attendevo la sua visita giornaliera.

Non avevo cambiato le mie idee, eppure lo cercavo. Tendevo l’orecchio per sentire il rumore dei sandali nel corridoio e mi sistemavo nel letto nella speranza che entrasse da me. Forse la serenità con la quale mi parlava, era riuscita a far breccia nel muro che avevo innalzato.

Mi domandavo come avrei fatto il giorno cui sarei uscita da lì. Sapevo già che mi sarebbe mancato.

Dopo diversi mesi, una mattina il medico mi chiamò d’urgenza. Era arrivato il risultato delle nuove analisi. Mi precipitai in ospedale col cuore in gola. Temevo qualcosa di orribile. Invece con mia grande sorpresa, mi annunciò che finalmente stavo rispondendo alle cure. Non mi sembrava vero. In quel momento, percepii quel piccolo spiraglio di luce, di cui il paziente frate mi aveva spesso parlato. Volevo comunicargli la bella notizia e lo cercai.

“Mi dispiace molto” rispose un frate anziano “Fra’ Robert è partito. Come da sua richiesta fatta molti mesi fa, è andato missionario in Africa”.

A quell’annuncio, rimasi molto male. “Perché non mi aveva detto niente?”.

L’unico amico che avevo, era partito. Sì, perché in fondo lo consideravo tale.

Per quanto stessi meglio, dovevo ancora continuare con le flebo e così dopo altri tre mesi, ero di nuovo ricoverata. Mi aggiravo tra i corridoi delle corsie che conoscevo come le mie tasche, quando notai un viso a me noto steso in un letto. Mi si gelò il sangue. Mi accostai a lui incredula.

“Fra’ Robert che cosa le è accaduto?”

L’uomo sorrise come sempre, prendendomi la mano e con la tranquillità che lo contraddistingueva, rispose: ”Non mi sono sentito molto bene e così son dovuto tornare. Non ti preoccupare per me”.

Era visibilmente dimagrito e si vedeva che soffriva, anche se cercava di nasconderlo. Gli sedetti accanto e cominciai a parlargli. Le uniche parole che mi vennero in mente però, erano quelle che lui aveva detto a me nelle sue orazioni.

Ascoltandomi non credevo alle mie orecchie. Eppure sapevo, che quelle frasi sarebbero servite e lo avrebbero aiutato a superare il dolore.

Quando lo lasciai, volli sapere di più sulle sue condizioni.

“E’ molto grave?” domandai al medico curante.

L’uomo sospirò scuotendo il capo “Non c’è nulla da fare. Ha contratto un virus letale. Gli restano solo poche settimane”.

Una parte di me avrebbe voluto urlare, arrabbiarsi nuovamente contro tutto e tutti, eppure sentivo quella quiete interiore giunta misteriosamente, che non mi lasciava scampo. Dovevo accettare.

Lo andavo a trovare tutti i giorni. Era incredibile la dignità con la quale portava avanti la malattia, pur sapendo che la fine era prossima, continuando inoltre a dare coraggio a me.

Dalle analisi che facevo ogni giorno, miglioravo in una maniera che i dottori reputavano straordinaria se non addirittura miracolosa, mentre il mio amico, si spegneva sempre di più.

Non riuscivo a comprendere che cosa stesse accadendo. Una cosa era certa, una spiegazione doveva esserci, anche se io non ero in grado di darla. Tutto era cominciato dal momento in cui avevo aperto il mio cuore.

 

E’ trascorso un anno dalla mia ultima flebo, sono guarita eppure anche oggi ho un appuntamento in ospedale. C’è una ragazza testarda e capricciosa che mi assomiglia molto, o meglio mi ricorda quella che ero. Mentre le parlo seduta accanto al suo letto, mi sembra di sentire i sandali di fra’ Robert nel corridoio che si avvicinano. E’ solo un attimo, una sensazione che mi scalda il petto, eppure mi basta per sapere che quello che sto facendo è giusto. Con gli occhi lucidi continuo. Lui l’ha fatto per me ed ha cambiato la mia vita.