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Raccolta di testi in prosa di Lorenzo Palombo
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Grandi aspettative

Ogni prima domenica del mese si svolge, nella mia città, il cosiddetto “mercatino della memoria”, il quale espone diversi oggetti di uso quotidiano appartenenti al periodo della Bonifica delle Paludi Pontine. Ci sono persino dei libri, cartoline e francobolli sul Duce; il fine è sempre stato quello di non dimenticare le nostre origini. Ancora oggi, quel mercatino è situato nel bel mezzo della piazza centrale, dove uomini, donne, vecchi e bambini si aggirano con curiosità e stupore fra le bancarelle. Oltre a loro, c’è sempre chi rimane seduto sulla panchina a parlare dei vecchi tempi o a lamentarsi delle nuove generazioni; oppure c’è chi si gode la propria giovinezza gironzolando – o chattando – con i propri compagni di scuola.

 

Fin da quando ero piccola, ci andavo solamente per i libri; anche se c’erano già due librerie nelle vicinanze. Una di quelle la gestiva Pietro, un amico d’infanzia dei miei genitori, dal quale mi portavano spesso, dopo la scuola. Tutti i libri che avevo chiesto per il mio compleanno e per Natale venivano da lì.

Ogni volta che Pietro e i miei genitori ricordavano i tempi andati, gironzolavo fra gli scaffali per dare uno sguardo ai dorsi, alle copertine e alle sinossi. Inizialmente, la carta aveva un odore ostile alle mie narici, ma con il passare del tempo me ne innamorai.  

Ogni volta che andavo da Pietro avrei voluto svuotare l’intero negozio, ma mi limitai a scegliere un solo libro.

Provai un certo dispiacere quando seppi che Pietro aveva chiuso bottega. Sarà stato perché, in quello stesso periodo, fu aperta una libreria appartenente alle grandi catene che vendevano anche DVD, Blue – Ray Disc e CD musicali; vendevano persino dei vinili, che a quanto pare erano tornati di moda.

Quando entrai per la prima volta in quella libreria nuova, mi era sembrato di tradire il povero Pietro, anche se non l’avevo più rivisto. Ciononostante comprai delle edizioni economiche dalle copertine flessibili, mentre al mercatino andavo a caccia di prime edizioni dai prezzi stracciati.

Alla fine degli anni duemila, frequentai il liceo classico e feci amicizia con una compagna di classe di nome Adriana. Era la più bella della classe; di certo lo era più di me. Era alta, snella, abbronzatissima e con dei capelli setosi; mentre io ero tozza, lentigginosa e miope, con dei capelli rossi.

Non so esattamente come nacque questo rapporto tra lei e me, dato che non avevamo gli stessi interessi; ad Adriana piacevano le boy band, i reality show del quinto e sesto canale e parlare di ragazzi che le correvano dietro. Ogni volta che le parlavo di letteratura, o quando l’aiutavo con le traduzioni di greco e latino, non faceva altro che dire <<ma basta co ‘sti libri!>>

In una di quelle prime domeniche del mese, la invitai persino al mercatino, ma non appena arrivammo, Adriana preferì andare nei negozi circostanti per fare shopping; mentre io decisi di proseguire con il mio solito giro.

In quel giorno arrivai ad acquistare due romanzi e una raccolta di poesie con la mia solita paghetta settimanale. Mentre cercavo di raggiungere Adriana, non resistetti all’idea di perlustrare un’altra bancarella, quella che vendeva dei testi introvabili. Fra questi trovai persino un testo giovanile del mio scrittore preferito in perfette condizioni. Era un romanzo breve che scrisse all’età di sedici anni e che venne pubblicato poco dopo la sua morte. Presi quel libro tra le mani, e gli accarezzai il dorso e la copertina rigida, prima di rimetterlo al suo posto.

Quando cercai di allontanarmi, il mio sguardo continuò a rivolgersi a quello stesso libro; sembrava che mi stesse chiamando. Mi pareva di sentire la voce rauca e gioviale dello scrittore che stava cercando di sedurmi. Non faceva altro che dire <<sfogliami! Sfogliami!>> Dopo qualche secondo, cedetti alla tentazione. Rimasi attratta dalla carta e dai caratteri del testo. L’incipit sembrava fedele allo stile del suo autore, oltre ad essere ben scritto.

Stavo quasi per chiedere il prezzo al proprietario della bancarella, ma in quell’istante il mio cellulare iniziò a squillare. Era Adriana. Diceva che si era stancata di stare in centro, e mi pregava di raggiungerla ad un suo negozio abituale.

Essendomi lasciata trasportare da quell’urgenza della mia cosiddetta amica, misi giù quel libro e iniziai ad affrettare il passo; quando mi trovai a metà strada, ebbi un ripensamento e tornai indietro, ma il libro non c’era più. Era già stato venduto un minuto prima del mio ritorno.

Ci rimasi molto male. Mi domandai il motivo per cui avevo esitato così tanto all’idea di comprarlo. Con quel prezzo stracciato poteva essere un affare!

Ci pensai giorno e notte, anche durante gli orari scolastici.

Nel tentativo di mettermi l’animo in pace, lo andai a cercare nelle poche librerie rimaste in città – anche in quelle che vendono dei testi scolastici – ma niente! Dicevano che era fuori catalogo.

Com’è possibile che un lavoro postumo di un grande artista possa avere minor vita rispetto agli altri?

In un pomeriggio come tanti, stavo facendo i compiti di matematica, fisica e inglese, mentre Adriana attendeva che si asciugasse lo smalto sulle unghie. All’inizio voleva che le facessi io i suoi compiti, ma le dissi di no perché i nostri professori se ne sarebbero accorti. Mentre studiavamo, le raccontai ancora una volta di quel libro e di come lo avessi cercato senza alcun risultato.

Adriana mi consigliò di cercarlo su Internet, ma all’epoca non sapevo che ci fossero delle librerie online. Davanti ai suoi occhi, sembravo appena riemersa dal Paese delle Meraviglie.

Dopo aver navigato per un paio di minuti, riuscimmo a trovare quel libro. Ero così contenta; ma il prezzo si avvicinava ai novanta euro, ed era rimasta una sola copia! Come se non bastasse, il pagamento avrebbe dovuto essere effettuato tramite una carta di credito.

<<Non ce l’ho una carta di credito! I miei genitori mi hanno detto che me la daranno dopo i miei diciott’anni!>>

<<E allora usa quella dei tuoi!>>

<<Ma sei pazza? Mi ammazzerebbero!>>

<<Stammi a sentire: sono giorni che parli di quel libretto e già m’hai rotto il cazzo! Perciò, prendilo e basta!>>

In quel momento, pensai di non avere altra scelta. Era pur sempre rimasta una sola copia; perciò decisi di usare la carta dei miei genitori; ma siccome lavoravano nel pomeriggio, aspettai fino a tarda notte per prenderne una dalla borsa di mia madre. Durante il pagamento, usai persino il suo nome sulla casella del titolare, e dopo aver compilato tutti gli altri dati, riuscii ad ordinarmi quel libro, che sarebbe arrivato dopo due settimane. Il conto invece arrivò su quello di mia madre il giorno seguente. Sapendo già che non era stato mio padre a spendere novanta euro per un libro, mi chiese se avevo qualche spiegazione da darle. Non appena confessai di averle rubato la carta, mi diede uno schiaffo così forte che mi rimase l’impronta della sua mano per diverse ore. <<Quella carta serve per le cose più importanti, e non per delle cazzate>> disse lei. Mi mise in punizione per un mese intero, e mi era concesso di uscire solamente per andare e tornare da scuola.

Quando arrivò il libro, mia madre se lo voleva tenere, ma mio padre – non so come – la convinse a lasciarmelo.

<<Spero che ne sia valsa la pena!>> disse mia madre, prima di lanciarmelo sul letto per poi chiudere la porta della mia stanza. Così passai il mio mese di punizione leggendo quel libro tanto agognato.

Continuai a pensare che lo stile di scrittura fosse quello del suo autore, ma rimasi altamente delusa dalla storia. Era qualitativamente inferiore rispetto ai suoi lavori più celebri; i personaggi erano bidimensionali, mentre i dialoghi non rispecchiavano le loro caratterizzazioni; tanto meno il loro contesto sociale.

Mi arrabbiai moltissimo con quel libro per avermi sedotta e ingannata. Pensai <<com’è possibile che uno dei miei autori preferiti abbia scritto una cosa simile?>> Pensai persino di essermi meritata quella punizione, dato che avevo derubato mia madre per nulla.

Sicuramente non ero in vena di parlare con lei o con mio padre, ma sentii comunque il bisogno di confidarmi con qualcuno. Telefonai ad Adriana, ma mi disse che non poteva stare al telefono perché stava uscendo con uno dei nostri compagni di classe che le faceva la corte. Dopo quella telefonata capii che quella ragazza non c’entrava niente con il mio mondo e che meritavo un’amica migliore; in effetti, dopo aver concluso l’anno della maturità, non la rividi più.

Alla fine mi accorsi che c’era solamente una persona che mi avrebbe potuto capire più di tutti gli altri, e quella persona sarebbe stata Pietro; ma non avevo il suo numero di telefono, e non sapevo nemmeno il suo indirizzo. Poco dopo lo ritrovai sui social e gli domandai se fosse possibile passare a casa sua nei prossimi giorni. <<Ti andrebbe bene per domani?>> mi scrisse Pietro sulla chat, e io gli risposi affermativamente.

L’appartamento dove viveva Pietro si trovava lontano dal centro, ma vicino a dove si trovava la sua ex libreria, che oggi è diventata un salone per barbieri.

Quando io e Pietro ci ritrovammo l’uno di fronte all’altra, si rivelò alquanto emozionato nel vedermi trasformata in un’adolescente. Mi disse che sembrava ieri da quando ero una bambina curiosa e loquace. Egli non ci pensò due volte nell’invitarmi ad entrare. L’appartamento era vecchio e molto piccolo, mentre il suo salotto era stracolmo di libri, che formavano delle colonne alte un metro e mezzo; molti di quelli erano in fase di lettura, altri invece erano semplicemente trascurati. Ricordo che a quei libri diede l’appellativo di “colonne infami”. In quello stesso appartamento ebbi l’occasione di conoscere sua madre, Bice, una signora di novant’anni di origini venete che, purtroppo, soffriva di demenza senile, dato che continuava a chiedermi come stessero i miei genitori ogni due minuti; a quella donna davo sempre delle risposte affermative e cordiali. Poco dopo, Pietro chiese impazientemente a sua madre di lasciarci soli.

Vedendo Pietro dopo tanti anni notai fin da subito che aveva perso qualche chilo, mentre i suoi capelli si erano diradati. La sua folta chioma scura sembrava un lontano ricordo. Dopo avergli raccontato dei bei voti che prendevo a scuola, Pietro mi riferì della sua vita da interinale e che aveva iniziato da poco a scrivere racconti e articoli per una rivista virtuale. Mi parlò anche di quanto fosse arduo trovare dei soldi per pagare le bollette e le spese mediche per sua madre. Oltre a ricorrere alla pensione della signora Bice, il povero Pietro doveva chiedere sostegno a sua sorella e vendere clandestinamente alcuni libri della sua ex libreria. Mi era sembrata un’operazione rischiosa, ma c’è di peggio in questo mondo.

<<Per il resto che mi dici?>> mi domandò Pietro, mentre io gli raccontai del libro e dell’odissea che avevo vissuto nel cercarlo. Subito dopo, Pietro si alzò dalla propria sedia, e iniziò a cercare qualcosa in mezzo a quelle colonne. A sorpresa mi passò una copia di quello stesso libro!

<<Potevi chiederlo a me invece di derubare tua madre!>>

<<Hai ragione. Ho sbagliato. È che … mi vergognavo.>>

<<Di che?>>

<<Per averti tradito con quelle librerie nuove.>>

<<Non lo devi dire neanche per scherzo! Qualsiasi libraio sarebbe fortunato ad averti come cliente.>>

<<È vero che in quella libreria mi diverto da matti, ma nessun’altra è come la tua.>>

Nell’istante successivo, Pietro mi domandò se quel libro mi fosse piaciuto, e io gli risposi negativamente, a costo di offendere uno scrittore defunto che ammiravo fin da quando ho memoria; ma Pietro mi rispose: <<capisco che è un’opera abbastanza acerba, ma è pur sempre il tuo autore preferito. Si è dovuto impegnare tanto per migliorare la sua tecnica e scrivere tutto ciò che hai letto fino ad oggi. Un giorno potrebbe capitare anche a te, sempre che tu voglia fare la scrittrice.>>

<<Sono anni che non ci penso! Però i miei professori dicono sempre che scrivo dei bei temi.>>

<<Non ne dubito affatto. Ricordo che quando eri bambina, dopo averti venduto le fiabe di Andersen, o qualche Roald Dahl o Harry Potter, avevi già cominciato a scrivere delle favole, e ce le leggevi ogni volta che venivo a cena da voi.>>

Non mi ricordavo di questo particolare, ma gli dissi di colpo che erano anni che sognavo di pubblicare un romanzo, ma i miei genitori desideravano che trovassi un impiego sicuro per il mio avvenire. Pietro mi consigliò di non smettere di scrivere e di non lasciarmi abbattere dalle critiche, a prescindere dal tipo di mestiere. Più continuerò a scrivere, più riuscirò a trovare il mio stile.

Dopo quell’incontro con Pietro, mi ritrovai ancora una volta con quel libro tra le mani, e capii che essendo stato scritto da uno dei miei riferimenti letterari avrei dovuto amarlo incondizionatamente; perché era pur sempre una sua creatura. Perciò presi una penna biro e ci scrissi il mio nome e cognome – e anche la data di acquisto – per poi inserirlo nel bel mezzo dell’intera opera del suo autore.

*

Storia di un gatto di nome Matisse

 

A tutte le vittime del Covid-19, incluso Luis Sepùlveda.

 

A tutti i nostri animali domestici che ci hanno dato conforto in questi mesi d’inferno, soprattutto i veri M., C. e N.

 

 

 

C’era una volta, 

un piccolo gatto dagli occhi azzurri e dalla pelliccia argentata di nome Matisse, che era stato adottato da una famiglia composta da un Padrone, una Padrona, due bambini (chiamati affettuosamente da Matisse “Padroncino 1” e “Padroncino 2”) e un cane di nome Caruso. 

Loro vivevano in una piccola città, le cui strade si svuotarono a causa di un’emergenza sanitaria che obbligò i due Padroncini a rimanere a casa e ad incontrare i loro maestri e compagni di scuola davanti allo schermo di un computer; anche il Padrone era costretto a rimanere a casa, escludendo le volte in cui portava Caruso a fare delle passeggiate, o quando andava a fare la spesa; la Padrona, invece, era l’unica che poteva uscire con il solo scopo di salvare più vite possibili, essendo un medico.

 

Durante quello stato di emergenza, i due Padroni riuscivano a mantenere la calma, e anche la giusta distanza di sicurezza, mentre i due bambini non facevano altro che piangere e litigare fra loro, non potendo uscire per andare al parco giochi, o al cinema con i loro amichetti.

Accorgendosi del disagio che c’era in casa loro, Matisse tentò di consolarli invitandoli a giocare ad acchiapparella; tale gioco, per Matisse, consisteva nel nascondersi sotto, o in mezzo a qualche mobile presente in casa, e ad afferrare i talloni dei bambini con la zampetta, per poi correre all’impazzata, con il desiderio di essere rincorso da entrambi i padroncini. I due bambini però non gradivano il gioco, perché qualche volta le unghie di Matisse, senza volerlo, gli graffiavano i talloni; in lacrime, Padroncino 1 e Padroncino 2 non facevano altro che dirgli: <<mi hai fatto male! Sei un gattino cattivo!>>, spezzando il cuore al povero Matisse. 

La Padrona, invece, essendo esausta a causa dei turni in ambulatorio e per le pulizie in casa, trovava sempre dei punti e graffi sulle poltrone e tappeti lasciati da Matisse, e non solo: c’erano anche dei batuffoli di peli che s’incollavano su diversi tessuti e sui vestiti; di conseguenza la Padrona lo metteva in punizione chiudendolo in terrazza, per evitare che il gatto commettesse altri guai.

L’unico amico che gli era rimasto era senz’altro Caruso, ma poi scoprì che entrambi i Padroni lo avevano portato in una pensione per cani per farlo svagare, dicendo ai loro figli che in casa non c’era abbastanza spazio per lui. 

Per un intero mese, Matisse passò le sue giornate in terrazza tra la lettiera, la ciotola d’acqua e quella dei croccantini; o a salire sui mobili per pulirsi o per dormire. 

Sempre in terrazza, incrociò spesso un gatto certosino di nome Oliver, che abitava nel palazzo accanto a quello della famiglia di Matisse. 

Per passare il tempo, Oliver gli diede degli aggiornamenti riguardanti il mondo esterno: come già sappiamo, le strade si erano completamente svuotate, ma a metà giornata Oliver trovava sempre degli umani che formavano delle lunghe file davanti ai supermercati e che indossavano delle mascherine buffe, mentre gli animali erano liberi di girare in ogni dove, essendo immuni alla malattia invisibile che stava colpendo tutti gli umani. Ogni volta che scendeva per strada, Oliver non aveva incrociato solamente dei cani e gatti randagi, ma anche diverse anatre, galline, pavoni, cinghiali e cavalli!

<<Ma perché gli umani indossano sempre delle mascherine?>> miagolò Matisse;

<<Per proteggersi, sciocco! A loro non è concesso abbracciarsi, toccarsi, prendere l'autobus ... a dire il vero non possono neanche starnutire! E poi alcuni di loro non indossano solamente delle mascherine, ma anche delle tute bianche o arancioni per proteggere i loro corpi; questi ultimi sono i peggiori, perché quando inziano a parlare, o a respirare, le loro voci sono così ovattate che sembrano dei mostri>> rispose Oliver.

Anche se gli animali non potevano ammalarsi, Matisse non si era mai sentito così a disagio per quei cambiamenti così drastici; solo le abitudini di Oliver, in realtà, erano rimaste quelle di sempre, perché, a differenza di Matisse, non era sterilizzato e di conseguenza lasciava sempre una lunga scia di gatte sedotte e abbandonate e con dei cuccioli che vagabondavano per il quartiere; spesso Oliver si univa anche ai gatti di strada e di casa per cacciare dei topi, visto che erano aumentati durante la quarantena degli umani; anche se c’era il rischio di competere con dei gabbiani che si trovavano di passaggio, in città, per cibarsi di quei roditori come alternativa alle aringhe.

Oliver invitò Matisse ad unirsi alla caccia insieme a loro, quando tutti i padroni sarebbero andati a dormire, però Matisse miagolò: <<sei sempre gentile ad invitarmi, ma ho sentito dire che Caruso tornerà domani, e vorrei essere presente>>;

<<Beh, se dovessi cambiare idea, trova un modo per farti rimettere in terrazza dopo cena>> miagolò Oliver prima di saltare con grazia dalla terrazza di Matisse fino a quella di casa sua.

Proprio come aveva miagolato Matisse, Caruso tornò a casa il giorno dopo, ma era cambiato: un tempo era un cane vivace, giocherellone ed estroverso, ma in quel momento era dimagrito un sacco; ed era triste e stanco: non faceva altro che passare tutte le giornate steso sul divano o sul tappeto a fare compagnia ai Padroni mentre guardavano la televisione, anche se non mancavano le tradizionali passeggiate.

Matisse e i due padroncini lo invitavano sempre a giocare con loro, ma Caruso abbaiò in una maniera fioca dicendo: <<Ora no. In questo mese ho corso così tanto che sono distrutto, ma presto mi riprenderò. Ve lo prometto.>>

Quando Caruso riacquistò le forze, però, i Padroni avevano già adottato un altro gattino dal pelo nero e corto di due millimetri, che si chiamava Nerone. Essendo appena svezzato dalla mamma, il piccolo Nerone emetteva dei miagolii così squillanti e acuti che facevano passare le notti in bianco ai Padroni e agli altri animali.

La situazione peggiorò quando Nerone cominciò a girovagare per tutta la casa: non faceva altro che salire su tutti i mobili, occupando alcuni posti preferiti di Matisse; poi s’intrufolava spesso in alcuni spazi stretti e pericolosi: sotto il divano, sotto il frigorifero e sotto la lavastoviglie; e le sue unghiette erano così lunghe e affilate che si incastravano sempre sulle lenzuola o su una conca del divano lasciando dei buchi ben visibili.

Quando si trattava di giocare con Matisse e Caruso, invece, Nerone si mostrava alquanto vivace e a tratti dispettoso. Però i due Padroncini non permettevano a Caruso di avvicinarsi al gattino per il solo timore che potesse "mangiarselo", essendo il più grosso rispetto ai due felini; con Matisse, invece, era più complicato: il gattino più piccolo non occupava solamente i suoi posti preferiti, ma aveva cominciato a rubargli la lettiera e la ciotola; e gli strappava anche qualche pelo dal petto e dalla coda (scambiando quest’ultima per un pon-pon), senza accorgersi però che gli stava facendo male.

Nonostante tutto, la famiglia non faceva altro che coccolare quel gattino nero e consolarlo per aver perso sua madre, mentre il povero Matisse cominciò a sentirsi abbandonato da loro.

Una sera, la Padrona lasciò Matisse ancora una volta in terrazza per evitare di trovare altri peli argentati in casa, e in quello stesso momento, incontrò nuovamente Oliver che stava fuggendo da una di quelle gattine che gli voleva presentare i suoi cuccioli.

Non appena la gatta si allontanò, Oliver riferì a Matisse che quella sera stessa ci sarebbe stata un’altra caccia ai topi, e gli chiese se stavolta avrebbe partecipato.

<<Ok, ci sto! A che ora ci vediamo?>> domandò Matisse;

<<Fatti trovare su questa terrazza tra quattro ore. Ti troverò io>> miagolò Oliver, prima di saltare ancora una volta sul terrazzo del palazzo accanto.

Non potendo lasciare un messaggio scritto come fanno di solito gli umani, Matisse dovette andare da Caruso per riferirgli della sua imminente evasione.

Il cane abbaiò: <<ma sei scemo? Non hai camminato per strada da solo, né di giorno né di notte! Potrebbe essere pericoloso!>>; Matisse, invece, miagolò: <<starò via solo per una notte! Prometto che arriverò prima del risveglio dei Padroni>>;

<<Ma non porti nemmeno il collare; potresti finire catturato da un accalappiacani!>>;

<<Ma smettila, gli accalappiacani non esistono da più di vent'anni!>>;

<<Credimi, esistono ancora! Dovevi sentire tutti quegli animali che ho conosciuto in quella pensione! E poi so bene il motivo per cui stai facendo questa scemata: è che non sopporti l’idea di essere rimpiazzato da un altro gatto>>;

<<Anche se fosse? Tu non sai cosa vuol dire sentirsi rimpiazzato dall'unica famiglia che hai; e poi non me la prendo solo con loro, ma anche con te! Un tempo eravamo inseparabili, poi te ne vai in campagna per un mese e torni a casa così triste e stanco che non hai più voluto giocare con me!>>;

<<Hai perfettamente ragione, Matisse; so di non essere stato un buon amico e ti chiedo scusa. Però ti scongiuro: non andare! Qui fuori c'è gente che sta male, molto male; e le strade non sono sicure nemmeno per gli animali>>;

<<Non provare a darmi ordini: sei tu il cane, non io, perciò ho il diritto di uscire quando voglio!>>

Dopo aver sentito questo, Caruso gli diede il permesso di uscire, a patto che Matisse rientrasse a casa prima delle sei del mattino.

Quando si erano fatte le dieci di sera, Matisse andò in terrazza e incrociò ancora una volta Oliver, che lo invitava a saltare sulla terrazza accanto; dopo aver compiuto quel salto, Matisse e Oliver scesero da una scala esterna del palazzo per poi ritrovarsi in strada, incrociando alcuni gatti di casa che si unirono subito ai gatti randagi.

Il gruppo era capitanato da un randagio di nome Baxter, che aveva una pelliccia unta di un color marrone con delle striature arancioni, un orecchio strappato a morsi e un paio d’occhi gialli da far rabbrividire qualsiasi altro gatto. Nonostante questi particolari, sembrava un gatto socievole, oltre ad essere un cacciatore astuto.

La caccia consisteva nello stare di vedetta in diversi angoli di una strada, nascondendosi dietro ad un muretto o in mezzo ad una siepe, per tenere d’occhio lo sbocco esterno di una fogna e attendere l’arrivo dei topi. Quando ne spuntarono due, i gatti partirono subito all’attacco. Il primo topo riuscì a fuggire arrampicandosi ad un muretto nei dintorni, mentre il secondo venne placato da Baxter, che gli infilò un’unghia in mezzo al collo per dargli il colpo di grazia.

Come per tradizione, Baxter fece a pezzi il topo morto per mettere su un banchetto. Ogni gatto presente si gustò la sua parte del bottino, inclusi Baxter e Oliver. L’unico a non aver toccato cibo era Matisse che, essendo abituato a mangiare solamente dei croccantini di carne e pesce, o a cacciare lucertole e gechi, non nascose un’espressione di disgusto alla vista di quell’avanzo.

Per questo motivo, tutti gli altri gatti lo istigarono a mangiare quel pezzo di topo, ma Matisse si rifiutò di eseguire l’ordine; di conseguenza, gli altri gatti lo presero in giro chiamandolo “fru fru”, “gattino da salotto” e “cocco della Padrona”.

Per far zittire tutti quei gattacci, Matisse decise di raccogliere quell’avanzo di topo con la propria zampetta, senza farlo avvicinare alla sua bocca. Per un istante, rivolse lo sguardo ad Oliver, nella speranza che egli potesse intervenire in suo aiuto, e invece gli miagolò: <<Avanti, Matisse! Non farmi fare brutte figure, mangialo!>>

Mentre Matisse stava tentando di mangiare quel pezzo di topo, una bottiglia di birra vuota scese in picchiata verso il gruppo per poi rompersi in frantumi, facendo rizzare il pelo e arcuare le schiene a tutti i presenti.

I gatti si accorsero che quella bottiglia veniva dal palazzo di fronte, lanciata da un anziano scorbutico che si trovava sul balcone; egli gridò, subito dopo: <<Andate via, luridi gattacci!>> prima di lanciare un’altra bottiglia.

E appena quella seconda bottiglia scoppiò in mezzo alla strada, tutti i gatti, incluso Matisse, si separarono rapidamente dal gruppo, andando in diverse direzioni.

Durante la fuga, Matisse si ritrovò davanti ad un’ambulanza in corsa, emettendo un miagolio di spavento. Per fortuna il guidatore lo vide in tempo e sterzò nella direzione opposta. Matisse continuò a correre incrociando dei cani feroci, dei gabbiani scontrosi e diversi uomini con la mascherina dalle voci contraffatte, che fecero tanta paura al povero gatto.

Quando Matisse si trovò abbastanza lontano dai pericoli, si accorse di non trovarsi più nel suo quartiere, e non aveva la minima idea di come potesse tornarci. In quello stesso momento cominciò persino a piovere, e il povero Matisse, che non sopportava l’acqua, era costretto a rifugiarsi sotto un piccolo portico nella speranza che la pioggia cessasse; ma l’acquazzone, purtroppo, durò per tutta la notte, facendolo piangere disperatamente.

Il mattino seguente, i due Padroni e i due Padroncini, anche se indaffarati con Caruso e Nerone, si accorsero che Matisse era sparito.

 

Il Padrone lo cercò per tutto il quartiere, ma di lui non c’era alcuna traccia, per questo i due Padroncini piangevano disperati, dicendo: <<è stata tutta colpa nostra! Lo trattavamo sempre male perché abbiamo sempre passato troppo tempo con Nerone!>>; ma la loro mamma disse: <<non vi preoccupate, Matisse non ci ha lasciati, sarà sicuramente smarrito. Vedrete che io e vostro padre lo ritroveremo>>

Nemmeno Caruso si dava pace per la sua scomparsa; di certo si sentiva responsabile di ciò che gli era successo, qualunque cosa fosse. Ma poi il cane si era ricordato di una pallina con la quale Matisse giocava spesso, senza passarla a Nerone; e dopo averla annusata, Caruso cominciò a scodinzolare festosamente per poi raggiungere la porta di casa alzandosi su due zampe e grattando la superficie.

<<Caruso, ma cosa stai facendo?>> domandò il Padrone <<devi fare la pipì? Aspetta che vado a prendere il guinzaglio.>>

Subito dopo avergli messo il guinzaglio, il Padrone, munito di mascherina, aprì la porta di casa, ma Caruso iniziò a correre come un fulmine, facendo cadere il Padrone a terra.

Caruso si allontanò da casa, trascinandosi il guinzaglio con sé, mentre il Padrone lo rincorse per un breve tratto di strada.

Dopo aver fatto un lungo tragitto con delle immancabili soste per fare pipì, Caruso riuscì a ritrovare Matisse nello stesso posto in cui si era fermato durante la notte.

I due animali erano così felici di ritrovarsi che si facevano le feste a vicenda.

Mentre stavano incamminando per la strada di casa, Matisse raccontò a Caruso ogni dettaglio su quella notte folle, promettendogli che d’ora in avanti non avrebbe lasciato mai più la loro casa.

<<Non è poi così male il mondo esterno, solo se sei un cane, ovviamente>> abbagliò Caruso nel tentativo di far sorridere Matisse, ma quest’ultimo era ancora scosso per quella disavventura.

<<Ascoltami: so che non ti piace l'idea che Nerone faccia parte della nostra famiglia, ma vedrai che con il tempo imparerai ad accettarlo>>;

<<E come fai ad esserne sicuro?>>;

<<Ti ricordi il giorno in cui i Padroni ti portarono a casa per la prima volta? Loro mi adottarono esattamente un anno prima del tuo arrivo. E quando loro ti concedevano tutte quelle attenzioni avevo creduto che mi stessero abbandonando. Non hai idea di quante volte abbia voluto sbranarti per fare un dispetto a loro! Poi accadde in un pomeriggio che entrambi i Padroni ci obbligarono a passare del tempo insieme, nella speranza che io e te cominciassimo ad andare d'accordo. Se non l'avessero fatto probabilmente non saremo diventati amici, anche se può sembrare improbabile per un cane e un gatto>>;

<<Ma pensa! Non me lo ricordavo, quel periodo!>>;

<<Lo immagino, eri solamente un cucciolo. Ma ormai sei cresciuto, ed è compito tuo far sentire quel povero gattino a casa sua, sopratutto in un periodo così critico per i nostri Padroni. D'altronde la situazione di Nerone non è poi così diversa dalla nostra, o sbaglio? E poi chi meglio di te può capirlo fino in fondo, essendo un gatto anche tu?>>

Non ha tutti i torti, pensò Matisse, che gli rispose miagolando: <<Va bene, Caruso. Ci proverò per il bene della nostra famiglia; a proposito: ma come mai eri così depresso quando sei tornato dalla tua vacanza? Cos'era successo?>>;

<<Ah! Beh … Tanto per cominciare ero veramente esausto per aver corso tutto il tempo in cui mi trovavo lì; però, essendo passato un mese, ero convinto che i nostri Padroni non sarebbero tornati più, e che non vi avrei rivisto. Quando sono tornato a casa mi ci è voluto del tempo per riconoscerli, e anche per perdonarli. Questo spiega il motivo per cui dormivo sempre e perché non vi facevo le feste. Quando ho realmente capito quanto fossero dispiaciuti per avermi tenuto lontano da casa, sono tornato ad essere quello di sempre>>;

In quel momento, Matisse gli sorrise accarezzandogli il muso con la sua zampetta, miagolandogli: <<sei un bravo cane, Caruso; e spero che tu rimanga tale>>; nel sentire queste parole, Caruso cominciò a scodinzolare dalla felicità.

Quando Matisse e Caruso si ritrovarono davanti alla porta di casa, vennero accolti con calore e gioia dall’intera famiglia, incluso il piccolo Nerone, che si avvicinò subito a Matisse per abbracciarlo, miagolandogli: <<ti voglio tanto bene!>; dopo un momento di resistenza, Matisse ricambiò il suo abbraccio con un affetto sincero, come se in quel momento stesse per nascere un vero e proprio rapporto fraterno.

Caruso non era mai stato così fiero del suo migliore amico.

 

*

Ci sentiamo presto. Un monologo breve

Valerio, unico personaggio in scena, è seduto tra due sedie poste diagonalmente sulla destra del palcoscenico, come se formassero, nell’insieme, una specie di divano; e sulla sinistra invece c’è un tavolo con qualche altra sedia.

Valerio tiene in mano il suo cellulare, osservando un numero di telefono, ed è indeciso se chiamare quel contatto oppure no. Poi preme il tasto “chiama” e si alza subito in piedi. Il ragazzo cammina avanti e indietro agitando continuamente la mano sinistra per il nervosismo, come se stesse dicendo tra sé e sé: “Non rispondere! Non rispondere!”

 

Quando il destinatario risponde alla sua chiamata, Valerio cerca di controllare le sue emozioni.

 

VALERIO: Pronto Giacomo, sono Valerio. (Sorriso forzato) Come stai? … Bene anche io, grazie. Disturbo, forse? …. Ok. E come va con la famiglia e il lavoro? … Bene, mi fa piacere. (Pausa) Senti, ti devo dire una cosa, ma non è facile. (Respiro profondo). È morta la Rossetti … Non lo so, non ho idea di come sia successo. Ce l’ha appena detto Barbara su WhatsApp; poverina, stanotte ha pianto come una fontana! … È successo a Capodanno, tra la notte del trentuno e l’inizio dell’anno nuovo; se ci pensi è pazzesco! All’inizio avevo pensato che Barbara stesse scherzando! … insomma, sappiamo entrambi che è sempre stata una paracula! Lo è fin dai tempi della scuola! (Pausa) Guarda, per ora ho lasciato un messaggio a Ivan, ma non mi ha ancora risposto. Riguardo a te, ho pensato che sarebbe stato giusto chiamarti direttamente …. Non lo so. Direi che sono abbastanza sorpreso. Non la vedevo da due anni, insomma dal giorno della maturità.

 

Valerio si siede su una sedia vicino al tavolo, e comincia a sorridere.

 

VALERIO: Ti ricordi quando insegnava alla nostra classe? Tu e Ivan avevate preso cinque in inglese, e lei vi diceva sempre, davanti ai nostri compagni: (Finto e scorretto accento napoletano) <<Ragazzi, perché non andate a studiare da Valerio? Lui è bravo!>>. (Ride un poco). No, no, ormai non sono più così bravo … Si, dispiace anche a me; certo, non la conoscevo al di fuori della scuola, ma era comunque una brava persona, e anche una buona insegnante. (Valerio si alza in piedi, continuando a camminare avanti e indietro) A proposito: stai ancora con quella ragazza che ho visto sul tuo Instagram? Com’è che si chiama? … Ah, Jessica! (Lunga pausa, rimane serio. Poi sorride) Ammazza, sei mesi! Auguri! A tutti e due, ovviamente … Sai, anche io mi sto vedendo con qualcuno … Si chiama Emanuele …. È un professore! Insegna matematica e fisica al liceo classico …. Sì, pure lui è di Latina! …. Beh, sì; direi che è una cosa seria, anche se c’è una gran differenza di età tra noi due … “Di quanto”? (A bassa voce) Quarantasette. (Alzando la voce) No, dico: ci ha quarantasette anni! …. Embè, ci mancherebbe. (Pausa, reazione alla domanda: “sei felice con lui?”) Sì, cioè non siamo ancora arrivati a quel punto … però sì, sono felice. Anzi, in questi giorni non sto più pensando a te come prima …. Nel senso che ormai ti vedo solo come un amico; un vecchio amico con il quale ho avuto una cotta ai tempi del liceo, tutto qui …. Quindi è tutto ok tra noi due? (Sorride commosso) Sono contento. (Poi torna serio) Senti, tornando alla prof., domani ci rivedremo tutti alla camera ardente. La Danieli dice che il funerale dovrebbe svolgersi a Pozzuoli, dov’è nata e cresciuta; o meglio: era, che riposi in pace! …. Domani, alle dieci. Pensi di farcela? (Colpito) Ah, e perché no?

 

Valerio ascolta attentamente la conversazione al telefono. Torna a sedersi tra le due sedie (cioè sul “divano”), e sgrana gli occhi.

 

VALERIO: Cavolo, mi dispiace! Era il ragazzo di cui hai condiviso la foto su Facebook, vero? …. Ho capito. Gli volevi bene, immagino …. Guarda, se non te la senti non c’è problema, anzi capisco perfettamente. (Breve pausa, poi prosegue) Comunque se cambi idea, puoi sempre chiamarmi, o mandarmi un messaggio …. Ok … va bene …. Sì, anche a me ha fatto piacere sentirti …. Sì, ci sentiamo presto. Ciao Giacomo.

 

Valerio attacca il cellulare. Rimane seduto sul “divano” per poi rivolgere uno sguardo nel vuoto.

 

VALERIO: (tra sé e sé) “Ci sentiamo presto” … ma perché diciamo sempre questa frase?

 

SIPARIO

 

FINE

*

La ballata dello zingaro. Un soggetto cinematografico

Questa storia è ambientata in pieno inverno nella città di Latina, dove è nata e cresciuta la protagonista, di nome Arianna (23 anni). Lei vive in un appartamento modesto insieme a suo padre Vittorio (56), un finanziere semplice. Egli è un uomo autoritario e neofascista, che colleziona delle teste in finto bronzo di Mussolini, che ha ereditato da suo zio. Con loro c’è anche la sorellina di lei, Silvia (10). Ogni giorno Arianna l’accompagna a scuola, l’aiuta a fare i compiti e tutte le sere le legge dei libri, fra cui la saga di Harry Potter e alcuni romanzi di Roald Dahl. Per consentire a lei un migliore tenore di vita rispetto a quello offerto dal padre, svolge vari lavori: ogni lunedì e mercoledì fa la commessa in un negozio di scarpe da ginnastica; ogni martedì e giovedì invece lavora in una libreria, dove stringe amicizia con il collega Fabio (32); tutti i fine settimana inoltre lavora al banco degli ortaggi al mercato. Arianna ha un pessimo rapporto con il padre, che la mortifica sempre e la tratta come se fosse una colf; probabilmente gli ricorda la sua ex moglie, che è morta quattro anni fa.

Quando si ritrova con la spia del motore accesa, Arianna si ferma alla prima officina che trova per far controllare la sua macchina. E in quella stessa officina incrocia lo sguardo del giovane nipote del meccanico, che si chiama Remus (21), un bel ragazzo dalla pelle “abbronzata”, che a lei sembra essere di origine bosniaca o romena, che indossa una maglietta sbiadita della A.S. Roma, e porta anche uno zaino rosa delle Winx. Remus dimostra fin da subito di essere attratto da Arianna, facendole dei complimenti anche per i suoi occhiali da vista. Però la ragazza si sente subito a disagio per le attenzioni che lui le rivolge, forse per il colore della sua pelle; o forse l’ha preso per un senza tetto, a causa della sua maglietta consumata e per lo zaino rosa. Lo zio del ragazzo, Andrej (37), avverte Arianna che il motore ha subìto un danno, e che per quattro giorni al massimo dovrà muoversi a piedi.

Nei giorni a seguire la povera Arianna è costretta a prendere l’autobus per spostarsi tra la scuola di Silvia e i suoi tre posti di lavoro, visto che Vittorio ha detto chiaramente che non le può prestare l’auto perché gli serve per il lavoro. In autobus però trova anche il tempo di leggere un libro; e porta con sé anche un piccolo quaderno con penna, nel quale però non scrive niente. Il suo sguardo incrocia quello di due stranieri, una donna con una gonna lunga con degli specchietti e un giovane uomo, che si trovano nei sedili in fondo. Il giovane uomo non fa altro che fissarla, ma Arianna riprende a leggere il suo libro, cercando di far finta di niente.

Passati i quattro giorni, Arianna ritorna all’officina per ritirare la macchina, e ritrova Remus, che nota con dispiacere che lei non si è portata dietro gli occhiali che gli piacevano tanto. Però Remus, capendo di aver corso troppo con lei l’altra volta, la invita a prendere qualcosa al bar che si trova vicino all’officina. Arianna non si lascia convincere subito; però Remus risponde che non le farà niente di male, ed è per questo che la invita in un posto vicino alla sua auto, in modo che possa sentirsi libera di andarsene quando vuole. La ragazza accetta.

Appena seduti ad un tavolino per bere, il silenzio fra loro è imbarazzante; anzi, pare evidente che la ragazza non abbia mai avuto un primo appuntamento. Perciò Remus, cercando di rompere il ghiaccio, le chiede se è da tanto che guida la sua macchina; e lei risponde che quella macchina era di sua madre, e che ha preso la patente otto mesi prima. Per questo Arianna sembrava preoccupata quando aveva visto la spia del motore accesa. Ma poi la ragazza fa capire gentilmente a Remus che non vuole andare avanti con la storia di sua madre. Remus invece le dice che lui invece ha perso suo padre, e che è stato cresciuto da sua madre e da suo fratello. A poco a poco Arianna perde il disagio iniziale e comincia a prendere in simpatia quel ragazzo: infatti gli dice che il suo nome gli ricorda quello di un personaggio di Harry Potter che piace molto a Silvia; tale particolare sembra lusingare molto il ragazzo. Quest’ultimo si propone di pagare il conto con cinquanta euro, ma il barista non ha da cambiare, perciò il ragazzo chiede ad Arianna se può pagare lei. Quest’ultima ne rimane interdetta.

Mentre sta lavorando al negozio di scarpe, Arianna riceve un sms proprio da Remus, che la invita ad andare al cinema, promettendole che stavolta avrebbe offerto per tutti e due. Arianna sembra interessata; ma per uscire inventa una scusa al padre, dicendogli che la sua amica Cinzia è tornata da Londra e che sarebbe andata a vedere il film insieme a lei. Prima di andare, Vittorio le chiede: << E ci vai vestita così da Cinzia? >>. Infatti sembra che per Vittorio sua figlia sia vestita in maniera eccessivamente elegante per un appuntamento al cinema insieme ad un’amica; Arianna, un poco allarmata da quella domanda, gli chiede se il suo vestito non andasse bene, e invece suo padre risponde: << Per carità, la vita è tua. Divertiti >>, e riprende a guardare in maniera assorta il telegiornale, mentre Arianna esce.

Appena arrivati al botteghino del cinema, Remus chiede ad Arianna se può andare a prendere dei popcorn e due lattine di coca-cola, mentre lui avrebbe preso i biglietti. Mentre sta pagando, la ragazza vede Remus che sta discutendo con la maschera del cinema, poiché le è parso di sentire una frase razzista come: << Ah, zingaro! Esci da ‘sto cinema! >>. Ma appena Remus raggiunge Arianna, si accorge che lei sta uscendo di corsa, senza ritirare la sua ordinazione. Il ragazzo però cerca di raggiungerla per darle una spiegazione, ma Arianna si sente molto offesa per il fatto che lui non le abbia detto di essere un rom. Arianna, probabilmente influenzata dalle convinzioni razziste di suo padre, gli dice che gli zingari le fanno impressione (da liceale ha anche manifestato contro la mafia rom locale che ha minacciato un magistrato). Anzi dimostra anche di essere stupita di averlo sempre visto indossare dei vestiti “normali”, salvo la bizzarria dello zaino delle Winx; il ragazzo, sentendosi offeso, la manda a fanculo. E anche Arianna se ne va alquanto indignata.

Nei giorni a seguire, mentre Arianna continua a fare i suoi tre lavori, Remus, oltre a lavorare in officina, è impegnato anche al banco di un negozio di kebab e pulisce i bagni di un bar; tutti i giorni inoltre frequenta una scuola serale composta da adulti, visto che non ha ancora un diploma di scuola superiore. Però il ragazzo dimostra di non essere molto brillante in diverse materie, soprattutto in italiano. In quella sequenza vediamo un altro lato della personalità di Remus che, oltre a sembrare sicuro di sé, è anche un ragazzo che cerca di sopravvivere in una città che vive ancora nel ricordo di un passato fascista. Molto spesso al ragazzo capita di pensare ad Arianna e a quello che è successo al cinema.

E ad Arianna, invece, capita di pensare a lui quando vede il telegiornale insieme a suo padre, in cui ci sono sempre delle notizie che riguardano i migranti che raggiungono l’isola di Lampedusa, oppure altre notizie legate alla mafia o ai censimenti dei campi rom. E Arianna è sempre costretta a sentire tutti i commenti razzisti pronunciati da suo padre. Nei giorni a seguire scopre su Facebook un video dove un youtuber intervista vari rom di nazionalità italiana, che sono dei lavoratori, artisti e studenti come tutti gli altri. Tutto quello che c’è su quel video sembra una novità per Arianna.

Un giorno, mentre la ragazza sta accompagnando Silvia a scuola, la bambina le racconta di aver conosciuto una sua compagna di classe dalla pelle nera di nome Jasmine, che viene dal Senegal e che è stata adottata da una coppia italiana. Silvia ha anche aggiunto che sono settimane che giocano insieme ad acchiapparella e a nascondino, e che i loro compagni di classe maschi la prendono in giro perché ha confidenza con lei; ma Arianna la invita a lasciarli perdere, poiché ha il diritto di scegliere gli amici che vuole, indipendentemente dal colore della pelle. Appena ha dato questo consiglio, Arianna capisce di essere stata una razzista come suo padre nei confronti di Remus.

Subito dopo aver lasciato sua sorella a scuola, Arianna raggiunge l’officina in macchina, ma non riesce a trovare Remus, e quindi lo zio Andrej le consiglia di andare a cercarlo al negozio di kebab. E infatti lo ritrova lì, mentre sta fumando una sigaretta fuori durante l’orario di pausa. La ragazza gli chiede scusa per quello che era successo al cinema, ammettendo di essersi comportata da razzista, cercando di convincerlo di essere tutto il contrario. E anche Remus le chiede scusa per non averle detto niente sulle sue origini rom, avendo creduto che se ne fosse già accorta, visto che nel giorno del loro primo incontro non gli aveva dato nessuna confidenza. Apprezzando la sua sincerità, Arianna gli chiede se un giorno avrebbe potuto invitarla a casa sua, giusto per curiosità. Nonostante l’esitazione iniziale, Remus le promette che le avrebbe inviato il suo indirizzo per messaggio.

Arianna poi raggiunge quell’indirizzo, e scopre che Remus abita nei dintorni di via Caio Giulio Cesare, nota in città per essere la “zona degli zingari”, che casualmente si trova vicino al suo vecchio liceo. L’interno di quella casa è molto diverso rispetto a quello di suo padre; infatti l’ingresso è poco pulito e pieno di spazi vuoti, ma nonostante ciò ha tutto quello che serve, come il tavolo, gli armadi, i letti, la cucina, la televisione, persino una X – BOX 360 con due joy stick. La camera di Remus invece è piena zeppa di poster della A.S. Roma; e lì c’è anche un piccolo comodino posto accanto al letto, e una mensola dove la ragazza scorge pochi libri, tra cui La Divina Commedia e Gomorra. Arianna ne rimane spiacevolmente sorpresa. La ragazza ha adocchiato anche diversi testi scolastici che Remus usa per la scuola serale.

In quella stessa casa Arianna incrocia la madre del ragazzo, che si chiama Ghera (45), e anche il fratello Alexandru (24). Lei infatti si ricorda di averli già visti una mattina mentre tutti e tre prendevano lo stesso autobus. Però entrambi i “padroni di casa” la lasciano per un attimo da sola all’ingresso per poi discutere animatamente con Remus per il solo fatto di averla accolta in casa. Per questo Remus decide di portarla fuori per mostrarle un recinto accanto alla loro abitazione, dove ci sono dei cavalli che un suo vicino vende abusivamente. Arianna si ricorda che tempo fa riusciva a vedere quello stesso recinto dall’esterno della scuola, e ogni volta che c’era la ricreazione andava sempre a vedere i cavalli da lontano. Remus le chiede scusa per il comportamento della sua famiglia, soprattutto per quello di sua madre, che non definisce razzista, ma semplicemente impulsivo, dal momento che è stata da poco licenziata come donna delle pulizie. Arianna però gli dice di stare tranquillo, aggiungendo che nessun altro sarà peggiore di suo padre, a livello di razzismo. Remus racconta che loro due e suo fratello, prima di stabilirsi a Latina, si trovavano in un recinto con il capannone in una zona della strada statale Pontina, che si trova vicino al parco di Cinecittà World. Questo particolare suscita maggiore curiosità in Arianna, e gli propone di spiegarle e mostrarle tutto ciò che sa sulla cultura rom; lei in cambio gli avrebbe fatto leggere alcuni romanzi che avrebbero potuto piacergli, e non solo: d’ora in avanti gli avrebbe dato anche delle ripetizioni di Italiano per la scuola serale.

Nei giorni seguenti, Remus gli presenta alcuni amici rom nati in Italia, primo fra tutti un certo Roberto (32), uno “zingaro” nato e cresciuto a Catanzaro, che insegna danza moderna; e poi le mostra anche alcuni campi rom dove alcuni residenti però non prendono in confidenza Arianna, proprio come la madre e il fratello di Remus, ma grazie al ragazzo cominciano pian piano a fidarsi di lei. Arianna in quella scena non fa altro che usare il suo vecchio quaderno per prendere appunti su ciò che vede e sente, e Remus le domanda cosa stesse scrivendo, senza ricevere alcuna risposta. La ragazza poi, fra le tante usanze rom che ha avuto modo di conoscere e di vedere, è rimasta affascinata dal fatto che i rom hanno sempre comunicato fra loro tramite l’utilizzo del linguaggio orale e non scritto, e che si esprimono anche attraverso dei canti popolari.

Nello stesso periodo lei gli presta diversi romanzi di formazione come L’isola di Arturo, Le avventure di Tom Sawyer e alcuni testi shakespeariani, fino a passargli Ti prendo e ti porto via di Niccolò Ammaniti, dicendo al ragazzo: << In effetti mi sei sempre sembrato un tipo all’Ammaniti >>; << E che vuol dire? >> domanda Remus, ma Arianna gli risponde: << Tu intanto leggilo >>.

Piano piano, grazie alle ripetizioni di Arianna, Remus comincia a prendere dei bei voti alla scuola serale; e non solo in Italiano, ma anche in tutte le altre materie.

Però Arianna si accorge che, a forza di frequentare Remus e il suo mondo, sta trascurando sua sorella Silvia, mancando spesso alle solite letture serali. Arianna, nello stesso periodo, viene licenziata dal proprietario del negozio di scarpe per le continue assenze, ma nonostante questo la ragazza dice di esserne contenta, ormai stanca di subire le umiliazioni che riceve dai clienti insoddisfatti e da bambini obesi che si lamentano per il numero di scarpa che non entra. Poi lei arriva sempre tardi in libreria, ma per fortuna c’è sempre Fabio a coprire i suoi turni, anche se il loro capo potrebbe non chiudere un occhio. La ragazza infatti esce troppo la sera e torna a casa tardi, trovandosi sempre davanti a suo padre, che è ancora più sospettoso nei suoi confronti.

Nei giorni a seguire, Arianna si mette a revisionare gli appunti segnati sul suo quaderno, per poi cominciare a scrivere sul computer e stampare, senza fermarsi mai. E’ come se in Arianna fosse ritornata una passione sopita da tempo.

Arianna porta Remus in un localino (gestito da un amico di sua madre) con un piccolo palco, dove nel periodo liceale aveva fatto degli spettacoli di letture, e che adesso è vuoto per un’“occasione speciale”. Proprio lì decide di regalargli il testo che ha scritto nelle scene precedenti. Si tratta di una poesia in otto strofe intitolata: << La Ballata dello Zingaro >>. Remus le chiede se può recitarla per lui, ma lei dice che si vergogna a farlo. Perciò il ragazzo rom si offre volontario, salendo su quel palco mentre si fa dirigere in un primo momento dalla stessa Arianna. Il modo in cui Remus ha recitato la poesia ha già fatto breccia nel cuore di Arianna. << Dovresti fare un corso di teatro >>, dice lei; e Remus invece le risponde: << E tu invece dovresti pubblicare questa poesia, è bellissima. >>. In quel locale rimangono anche per mangiare una pizza, e quella stessa sera Arianna confessa a Remus di essergli riconoscente: da quando ha cominciato a frequentarlo e a vedere tutto ciò che le ha mostrato, sente di aver recuperato gli ultimi anni dell’adolescenza che aveva perso. Subito dopo Arianna comincia a parlargli liberamente di sua madre. Quando la ragazza andava ancora a scuola, le avevano diagnosticato una forma di Parkinson precoce, e ha dovuto occuparsi sia di lei che di sua sorella, assentandosi spesso da scuola. Poi sua madre è morta proprio lo stesso giorno in cui ha sostenuto l’esame orale per la maturità. Sia Arianna che Silvia, subito dopo il funerale, sono andate ad abitare a casa di suo padre; lei ha dovuto rinunciare al sogno di iscriversi alla facoltà di Lettere e di diventare una scrittrice e poetessa per fare da “madre” a sua sorella. Da quel momento ha cominciato a fare più lavori per essere indipendente economicamente, e a prendere la patente. E per questo motivo non è più riuscita a scrivere niente. In quella stessa sera, l’attrazione tra i due ragazzi diventa più forte di com’era prima, e alla fine Arianna dona a Remus la propria verginità.

Passati due mesi dalla nascente relazione fra i due ragazzi, Ghera (vestita con una tuta da ginnastica o in borghese, al posto della sua gonna lunga) e Alexandru si trovano nella zona circostante la stazione Termini, a Roma. Entrambi si comportano in quelle strade con fare sospetto fino a quando non vedono una coppia dall’apparenza benestante che si sta dirigendo nella zona dei taxi. Ghera va loro incontro fingendo di essere una tassista da “servizio veloce” per poi accompagnarli in un parcheggio lontano dai mezzi, dove ci sono altre automobili comuni. Appena la coppia comincia ad avere dei sospetti su tale comportamento, Alexandru sbuca fuori minacciandoli con un coltellino per poi prendere i loro portafogli. Appena Ghera e Alexandru rubano loro i soldi, corrono fino a raggiungere la metropolitana. Ma appena scendono ad una fermata della Metro, c’è un uomo in borghese che li ferma, mostrando loro il proprio distintivo. Ghera decide di fermarsi per non avere problemi; Alexandru invece scappa via lasciando la madre con il poliziotto, ma viene afferrato di spalle da un collega, ed entrambi vengono rimandati alla centrale di Latina.

Alcuni poliziotti di Latina cominciano a perquisire la casa dei due rom, dove trovano un Remus apparentemente ignaro riguardo a cosa è accaduto a Termini. Il ragazzo però si rifiuta di farli entrare, dicendo che lui e la sua famiglia non avevano fatto niente. Però i poliziotti tengono il ragazzo fermo, afferrandolo per le mani, per poi tenerlo a terra come se avessero catturato un terrorista. Un ispettore di nome Michael (36) si propone di entrare nella camera del ragazzo per cercare i soldi rubati. Ha controllato dappertutto: bagno, armadio, letto, sotto il letto e anche sul comodino. Proprio in quel comodino ha trovato la poesia di Arianna; gli sembra di riconoscere il nome e cognome della ragazza, segnato sotto il titolo. Invece gli altri poliziotti hanno trovato dei soldi in contanti e carte di credito nella stanza della madre, sotto il suo materasso. Mentre portano via tutti i soldi rubati dai rom, l’ispettore ordina alla sua squadra di portare Remus in centrale insieme alla sua famiglia. Intanto Michael comincia a telefonare a Vittorio, che conosce da moltissimi anni, dicendogli che dovrebbero parlare di sua figlia.

Mentre Arianna sta cercando di far addormentare Silvia (per farsi perdonare per averla trascurata negli ultimi giorni), Vittorio la chiama dall’ingresso per poi picchiarla. Poi l’uomo le mostra con sgomento la poesia e le chiede: << C’hai scopato con quello zingaro? Rispondimi, cazzo! >>. Appena Arianna gli dice la verità, Vittorio continua a picchiarla dicendole di essere “una puttana come sua madre”; ma la ragazza, vincendo la paura che ha nei suoi confronti, gli dice che fin da quando erano sposati era sempre stato un marito e un padre di merda, e che per questo meritava di essere tradito. A causa di quel colpo basso, Vittorio straccia la poesia facendola a pezzettini e la obbliga a prendere le sue cose e ad andarsene di casa. E non le permette neanche di salutare la povera Silvia, che si sente strappata dalla sua adorata sorella.

La ragazza poi chiede a Fabio, il suo collega della libreria, se può ospitarla a casa sua, fino a quando non risolverà la faccenda, sapendo che a casa di Remus non sarebbe stata la benvenuta. Appena entrata nella casa del suo collega, Arianna si accorge che lui era in compagnia di un ragazzo più giovane, ed è rimasta sorpresa di scoprire che Fabio è gay. Arianna poi gli racconta quello che è successo a casa di suo padre. Però sarà Fabio a dirle dell’arresto di Remus e della sua famiglia, visto che Arianna non ne era a conoscenza. La ragazza in fondo ha capito il motivo di quel comportamento strano di Ghera e Alexandru, quando l’hanno vista a casa loro, ma è convinta che almeno Remus sia innocente. Però Fabio, anche se non mette in dubbio la sicurezza di Arianna, cerca di farla ragionare sul fatto che loro due si conoscono da pochi mesi e che hanno fatto l’amore soltanto una volta, chiedendole di fare comunque attenzione. Leggendo sui giornali si viene a conoscenza che l’inizio del processo sarebbe avvenuto la settimana a venire.

Arianna poi va a trovare Remus in carcere, e quasi non lo riconosce. E’ chiuso lì da pochi giorni e già si sente peggio rispetto a quando andava a pulire i bagni pubblici. Arianna gli dice che suo padre l’ha cacciata di casa e che si sente libera. Poi gli rivela anche che lo stesso Vittorio, grazie alle sue conoscenze in tribunale, ha convinto la corte a non chiamarla a testimoniare per evitare un certo scandalo. Arianna non solo è convinta che lui sia innocente, ma crede che lui non le abbia mai detto dei furti commessi da sua madre e da suo fratello, perché temeva di spaventarla come quella volta al cinema, e che lui stesso si vergognava di loro. Però Remus, non sentendosi a posto con la coscienza, le rivela un’altra cosa che non le aveva mai detto: quando loro tre abitavano in quel capannone sulla Pontina, sua madre era rimasta vedova e aveva cominciato a rubare per mantenere se stessa e i suoi figli. E Remus, per dimostrare lealtà e amore nei confronti di sua madre, aveva deciso di partecipare anche lui a qualche furto. In quel periodo Remus aveva nove anni, e Alexandru (che fra loro due è sempre stato il più astuto) gli aveva insegnato qualche “trucco del mestiere”. Ma fino ad un anno prima delle vicende narrate, una volta trasferiti a Latina, Remus ha deciso di lavorare seriamente, cominciando ad aiutare suo zio in officina. Però Arianna ritiene che questo segreto sia più imperdonabile rispetto a tutti gli altri, e per questo decide di lasciarlo.

Nel tribunale della città sono venute a testimoniare alcune vittime degli accusati, oltre alla coppia che loro hanno rapinato alla stazione Termini. Tutti i testimoni hanno raccontato più o meno la stessa versione, secondo la quale Ghera aveva attirato le persone in un parcheggio isolato spacciandosi per una tassista da servizio veloce, per poi essere colti di sorpresa dal figlio maggiore armato di coltellino. Poi viene fuori anche il coinvolgimento di Remus nelle rapine in tenera età. Fin dall’arresto Remus ha sempre detto che di recente non aveva commesso nessun furto, ma essendo obbligato a dire la verità, ammette di aver sempre saputo che la sua famiglia continuava a rubare, e che sua madre aveva perso l’ultimo lavoro perché aveva rubato dei gioielli alla padrona di casa. Il ragazzo si accorge che Arianna, nonostante abbia detto di non volerlo più rivedere, ha assistito alla sua testimonianza.

Appena la corte viene aggiornata, gli avvocati d’ufficio richiedono una sorta di doppio patteggiamento, che consiste sia per Ghera che per Alexandru in una condanna di tre anni con una multa di trecento euro; mentre per Remus si è pensato ad una pena breve di un anno, con il pagamento della stessa multa. Quel doppio patteggiamento alla fine viene approvato dal giudice e tutti e tre vengono condannati. Il verdetto ha suscitato dei pareri contrastanti fra i cittadini di Latina e le vittime dei furti, che continuano a vivere nella paura nei confronti dei rom (o degli “zingari”).

Passata qualche settimana dal processo, Remus cerca di contattare ancora una volta Arianna, mentre sta lavorando in libreria, per convincerla ad andare da lui, poiché avrebbe dovuto dirle una cosa importante. Dopo molte insistenze la ragazza cede e torna in carcere per fargli visita.

Ma prima di entrare, Arianna incrocia una guardia che le riconsegna il libro di Ammaniti, aggiungendo che l’internato aveva finito di leggerlo due giorni prima dell’arrivo della ragazza.

Remus, appena incrocia lo sguardo di Arianna attraverso il plexiglass, sembra molto felice che lei abbia accettato di rivederlo. La ragazza invece ammette di aver voluto essere altrove, ma comunque lo ringrazia per averle “ridato” il suo libro. Ma Remus le dice che non l’ha chiamata solo per il libro, ma le propone addirittura di lasciare la città, tutti e due insieme, appena il ragazzo avrà finito di scontare la sua pena. Arianna è alquanto sconcertata da tale proposta. Lei gli dice che questa idea è irrealizzabile, per il solo fatto che entrambi non hanno un soldo, e che si conoscono da poco tempo. E poi Arianna non è intenzionata ad abbandonare Silvia. Però Remus le ricorda che non è sua madre, e che crescerla non è una sua responsabilità, ma Arianna non vuole farlo solo perché l’aveva promesso a sua madre, ma perché è stata anche una sua scelta. Quindi Arianna non è affatto intenzionata ad aspettarlo per un anno, per poi scappare dalla città. << E quindi non mi ami? >>, e Arianna risponde: << Non è questo il punto. Ti sto dicendo di essere realista >>. Remus poi le chiede: << Perciò tutto questo tempo insieme per te non ha significato nulla? >>; Arianna ormai è confusa, non sa trovare una risposta, nemmeno quando lui continua a dirle: << Ti amo >>, e quindi la ragazza esce dall’area delle visite senza guardare indietro.

Appena Arianna si allontana dal carcere, portandosi dietro il libro di Ammaniti, si lascia andare ad un pianto liberatorio, sentendo sulle sue spalle il peso della scelta che ha fatto.

Dopo un anno, è tornata la primavera a Latina. Arianna non ha mai smesso di rivedere la piccola Silvia, mentre i suoi rapporti con il padre ormai si sono raffreddati. Però sappiamo che lei ha finalmente realizzato il suo sogno d’iscriversi alla facoltà di Lettere, facendo avanti e indietro tra Roma e Latina tutte le mattine, e portando sempre con sé una borsa con il marchio de La Sapienza; e ogni volta che prende l’autobus che parte dalla stazione di Latina Scalo fino alle autolinee, trova sempre il tempo di fare una telefonata alla sua sorellina, raccontandole tutto ciò che riguarda la scuola e l’università. Da quando Arianna se n’era andata via di casa, Silvia non fa altro che chiederle se sarebbe tornata, ma la ragazza continua a dirle che si sarebbero rincontrate presto per fare una passeggiata al mare. In quel periodo, Arianna ha continuato a lavorare in libreria, e non solo, ha anche trovato un posto come cameriera in un pub, che la impegna tutte le sere. Tutto questo lo fa per pagarsi gli studi.

Subito dopo essere rientrata a casa di Fabio, Arianna riceve una lettera da Remus, che le rivela di essere uscito dal carcere ormai da tre giorni (e di essere riuscito comunque a diplomarsi, grazie a tutto quello che la ragazza gli aveva insegnato), e che fra non molto sarebbe partito per il nord, dove un suo amico lo avrebbe ospitato. Ed essendo convinto che lei non lo avrebbe seguito, il ragazzo le dice che vorrebbe salutarla per un’ultima volta, comunicandole la data e l’orario della sua partenza. Ad Arianna è bastata solo quella lettera a rimettere in discussione la sua vita.

Nelle prime ore del pomeriggio, rivediamo Arianna nello stesso cinema dove era andata con Remus; ma stavolta viene accompagnata da un altro ragazzo col quale sta uscendo da qualche settimana. Durante la visione del film però, Arianna non fa altro che guardare l’ora sul display del suo cellulare, pensando che Remus possa partire fra un momento e l’altro.

Infatti il giovane rom si trova nei pressi delle autolinee con un borsone, girandosi intorno nella speranza di rivedere Arianna, fino a quando deve proprio salire sull’autobus che lo avrebbe accompagnato alla stazione.

Arrivato lì, Remus scopre che il suo treno sarebbe arrivato con cinque minuti di ritardo; e proprio lì ritrova con sorpresa Arianna. Entrambi sono contenti di ritrovarsi; ma lei gli dice che è venuta per regalarle uno dei suoi libri preferiti: Gente di Dublino di James Joyce, con un segnalibro fermo sull’incipit del famoso racconto Eveline, la cui vicenda ad Arianna ha fatto pensare proprio a quella di loro due. E poi gli riconsegna una nuova copia de << La Ballata dello Zingaro >>, che sarà pubblicata prossimamente su una rivista letteraria. Remus invece le promette che appena si sarà sistemato frequenterà un corso di recitazione. In quel momento Arianna è riuscita a confessargli che anche lei lo ha amato tanto. Appena si sono dati il loro ultimo bacio, Arianna rimane con Remus fino a quando egli non sale sul treno che lo avrebbe fatto allontanare dalla città.

*

La scatola di cartone

È passata un’intera estate da quando non ho più frequentato mio padre.

Più passa il tempo, più elimino la sua immagine con la forza della mente: il suo corpo, il suo volto, i suoi atteggiamenti e i suoi difetti; anche la sua voce non me la ricordo più.

In tutto questo tempo non gli ho mai lasciato un messaggio; non l’ho neanche invitato a prendere un caffè, o a fare una passeggiata. Niente, zero assoluto.

Tutti, sicuramente, hanno i loro buoni motivi per chiudere i rapporti con delle persone che entrano nella loro vita, a prescindere dal legame di sangue.

Mi sono sempre chiesto: che ragione ho di evitare mio padre?

Rabbia? Rancore? Pigrizia? Orgoglio? Vigliaccheria?

 

Vivere tutte le emozioni con il proprio compagno, leggere libri, guardare la televisione, andare al cinema o al teatro, non può essere una scusa valida per sparire dalla circolazione: questo lo so!

 

Spesso mi è capitato di pensare a mio padre, soprattutto di notte; più che altro, cerco di non pensare alle cause del nostro allontanamento; impiego uno sforzo tale, che alla fine sento una forte pulsazione alla testa fino a star male, e la conseguenza è l’insonnia. Dopo un paio d’ore, stremato dalla lotta, mi lascio accogliere nelle braccia di Morfeo e riesco finalmente ad addormentarmi.

 

Una sera di queste mi è capitato di sognarlo.

Non so dire se era un sogno bello o brutto, ma di sicuro mi ha trasmesso un messaggio che non voglio sottovalutare.

 

 

***

 

 

1

 

 

All’inizio di quel sogno, ho avuto modo di confessargli tutte le mie angosce e tutte le motivazioni per cui non mi sono fatto più sentire.

 

Nel sogno non c’erano molti dettagli, però mi è sembrato che mio padre abbia accettato le mie scuse, e che io abbia fatto altrettanto, anche se ero ancora stravolto dall’emozione che mi suscitava quell’incontro.

 

Io e mio padre eravamo seduti ad un tavolino in un bar, probabilmente in centro.

A bruciapelo mi ha rivelato di aver sposato la sua compagna, e che, solo dopo due mesi di vita coniugale, avevano adottato una bambina di due anni e tre mesi.

Per tale notizia sono rimasto di stucco; e avendo temuto che mio padre potesse accorgersi del mio stato d’animo, ho cercato di farfugliare qualcosa, sforzandomi di mascherare la mia delusione e la mia rabbia.

“Come si chiama questa … bambina?”

“Si chiama Chiku”

“Chiku? Ma … da dove viene?” ho chiesto io, ancora più sorpreso;

“Dal Congo”.

In quel momento non riuscivo più a fargli altre domande.

Un attimo dopo, mio padre mi ha guardato dritto in faccia, chiedendomi se fossi diventato razzista.

Ero sconcertato e offeso per quella affermazione, come se mi avesse detto una parolaccia, e gli dico: “Come faccio ad essere razzista, se sono frocio?!”.

In quell’istante ho realizzato che c’era gente intorno a noi, che ci fissava. Mio padre ha cercato di tranquillizzarmi, scusandosi anche per non aver detto nulla del suo matrimonio e dell’adozione di Chiku.

“… è che non ti sei più fatto sentire … credevo che non te ne importasse” diceva lui. Avrei voluto dirgli che non erano passati anni, ma solo una fottutissima estate; e invece ho deciso di non dire nulla.

 

Dopo la patetica discussione tra padre e figlio, mi ha proposto di fare una gita al parco insieme a sua moglie, invitando anche mio fratello, in modo che potessimo conoscere finalmente Chiku, che in fondo era la nostra sorellina adottiva.

Ho esitato molto prima di accettare il suo invito.

 

 

 

2

 

 

Nella seconda parte del mio sogno, ero sicuro di aver telefonato al mio ragazzo, dicendogli che stavo salendo in macchina per fare quella “insulsa gitarella”, come l’avevo chiamata io, aggiungendo di non sapere a che ora sarei tornato a casa.

Alla fine, ho concluso la telefonata dicendogli che ci saremmo rivisti l’indomani.

 

Guidava mio padre, e al suo fianco c’era sua moglie, ma aveva un aspetto diverso rispetto a com’era l’ultima volta che c’eravamo visti; in quel sogno aveva i capelli lunghi di un castano purpureo, e un ombretto scuro che le copriva le palpebre, esattamente come quella sera in cui mio padre me l’aveva presentata.

Io e mio fratello eravamo seduti dietro, e in mezzo a noi c’era proprio Chiku, seduta sul suo seggiolino, e aveva una carnagione più scura di quanto pensassi. Durante il tragitto, quella bambina non faceva altro che lallare, emettendo dei suoni infantili fastidiosissimi senza concedersi un momento di sonno. “E tuo figlio?” chiedevo alla mia matrigna, sforzandomi di sorridere. “Oggi c’ha una partita a Frosinone. Vi saluta”, ha risposto lei in maniera cordiale.

 

Nel sogno sentivo anche della musica provenire dalla radio della macchina. Era la voce di Lady Gaga che cantava: “It wasn’t love, it wasn’t love / It was a Perfect Illusion!1.

Nell’ascoltare quel ritornello mi veniva da ridere pensando al mio ragazzo, che per l’appunto odia Lady Gaga perché, secondo lui, scimmiotta Madonna. Di sicuro avrei preferito stare con lui, piuttosto che con quella famiglia che mi metteva a disagio.

 

Per un attimo ho distolto lo sguardo dal finestrino, e avrei giurato di aver visto mio padre e sua moglie nascondere una scatolina di carta marrone con su scritto il nome della bambina.

 

 

 

3

 

 

Appena arrivati al parco, la moglie di mio padre mi ha chiesto di badare per qualche secondo a Chiku, dicendomi di fare attenzione. Ho letto la preoccupazione nel suo volto, ma non capivo il perché; l’ho presa in braccio e lei non faceva altro che piangere.

Era un pianto davvero lancinante.

Mi era capitato, altre volte, di badare a qualche bambino, ma mai ad uno che avesse l’età di Chiku; e soprattutto che piangesse in una maniera così sofferente. La stavo solo tenendo in braccio con molta cautela, visto che avevo il terrore di farla cadere. Continuavo a domandarmi che cosa avesse quella bambina di così grave da far preoccupare sua madre.

 

Mentre Chiku continuava a piangere, ho provato a cantarle una canzoncina nel tentativo di calmarla. Non mi veniva in mente nient’altro che “Let it go2, pensando che di sicuro le canzoni del film Frozen piacciono a tutte le bambine. Le stavo intonando a bassa voce il ritornello in una sorta d’inglese inventato perché, a essere sinceri, non conoscevo le parole, ma in quel momento ero disperato.

Mentre continuavo a ripetere “Let it go … Let it go …” mi sono accorto che l’occhio destro di Chiku aveva qualcosa di strano.

Un punto della sclera era enormemente rigonfio e mi pareva che uscisse qualcosa di mostruoso dal bulbo oculare; sembrava un uovo che stesse cercando di schiudersi.

Mi sono messo a gridare disperato per chiedere aiuto.

Mio padre e sua moglie hanno preso la bambina, quasi strappandola dalle mie braccia e hanno iniziato a cercare concitatamente la scatola di cartone che avevo intravisto in macchina.

Con terrore ho visto aprire la scatola che conteneva gli occhi di “ricambio” per Chiku.

Io e mio fratello abbiamo assistito immobili a quella sorta di operazione chirurgica senza bisturi.

C’era silenzio, interrotto dalla voce della mia matrigna che diceva: “Lo sapevo che su tuo figlio non ci si può contare … è stata tutta colpa sua!”.

Ho avuto la sensazione che mio padre non mi stesse affatto difendendo.

 

 

 

4

 

 

Una volta calmatasi la bambina, tutti noi ci siamo rimessi in macchina per tornare a casa. La mia matrigna era seduta sul sedile posteriore accanto a Chiku, e la guardava continuamente. Mio fratello invece si trovava nello stesso posto dove era seduto prima, mentre io ero seduto davanti, accanto a mio padre.

 

Ero convinto che tutti mi odiassero in quella macchina. Mi sentivo come un condannato a morte che sta andando al patibolo; ero certo che mi considerassero un torturatore di bambini.

Chiku avrà quasi perso il suo occhio, mi dicevo, ma il mio cuore si era spezzato, e nessuno ne aveva voluto sapere.

 

 

 

5

 

 

Nell’attimo che precede l’ultima parte del sogno, c’era solamente mio padre che ha riaccompagnato me e mio fratello a casa di mia madre; quest’ultima era allarmata nel vedermi stravolto. In effetti lo shock per quello che era accaduto era così forte da impedirmi di parlare con lei. Ero ancora ossessionato da quell’occhio difettoso che cercava di uscire dalla testolina di Chiku.

 

 

 

 

6

 

 

La mia casa, in quel sogno, era identica all’appartamento dove la mia famiglia, cioè quella composta da mia madre e dal suo compagno, si sarebbe trasferita solo dopo qualche tempo, e sembrava che si trovasse ancora nella fase iniziale del trasloco.

Non c’era quasi niente all’interno di quelle stanze, tranne una sedia, una mensola vuota e quattro scatoloni aperti, dove si trovavano alcuni libri e soprammobili incartati.

 

Proprio su quella mensola avevo notato una pila di posta indirizzata a mia madre.

In mezzo a bollette e offerte telefoniche, c’era una lettera proveniente da una società di adozioni. Sembrava che il nome di quella società fosse Save the Children, ma non ne ero sicuro. Nel mio sogno il logo della ditta era di un colore rosso, ma i caratteri non erano affatto nitidi.

Un attimo dopo mia madre mi ha colto di sorpresa mentre avevo ancora in mano quella busta, e guardandomi, ha ammesso di aver adottato anche lei una bambina, proprio come aveva fatto mio padre. “La vuoi vedere? Vieni!”, mi ha detto.

Mia madre, in un’altra stanza vuota, mi ha mostrato una culla bianca con del pizzo rosa, alquanto stucchevole per i miei gusti.

In quel momento mi è sembrato di trovarmi in mezzo ad un vero e proprio momento di suspence, come se stessi vivendo in prima persona il finale del film Rosemary’s Baby.

Appena mi sono avvicinato a quella culla, ho trovato al suo interno un’altra bambina. Sembrava che avesse meno di due anni, esattamente come Chiku. La differenza consisteva nel fatto che aveva la pelle bianca come la neve, e un paio d’occhi che sembravano dei piccoli zaffiri.

“Non è bellissima?”, ha domandato mia madre, e che sembrava raggiante mentre la teneva in braccio. Avevo anche notato che quella bambina non piangeva affatto, anzi mi rivolgeva sempre un sorriso, però mi mancava la forza di ricambiare quel sorriso. Nonostante fosse bella come il sole, sentivo in me una sorta di ripugnanza nei suoi confronti, come se stessi cercando di evitare un insetto pericoloso.

“Dai, prendila in braccio …” diceva ancora mia madre, ma non ci riuscivo. Mi sentivo male dappertutto. Ancora mi ritenevo responsabile per quello che avevo fatto a Chiku; avevo paura, anzi terrore, che se avessi preso in braccio quell’altra bambina, sarebbe potuta accadere la stessa cosa. Mi sono allontanato rapidamente da mia madre e da sua figlia. Solo allora mia madre ha capito che quello era stato un momento inopportuno per farmela conoscere, considerato quello che era successo al parco.

 

Subito dopo mi sono visto all’interno della doccia, dove ho avuto modo di sfogare tutta la mia frustrazione, piangendo a dirotto.

 

Improvvisamente mi sono svegliato, e dopo aver guardato sul display del mio cellulare, ho scoperto di aver dormito fino alle 11:53.

 

 

***

 

 

Quella mattina ero alquanto sollevato dal fatto che tutto ciò che avevo vissuto in quel sogno non era mai avvenuto. Ma questo non mi ha comunque spinto a chiamare mio padre né quella mattina né quella successiva. Tutti ormai, anche il mio ragazzo, non facevano altro che dirmi: “Prima o poi ci dovrai parlare con tuo padre”. Quella frase mi ha ronzato intorno per tutta l’estate peggio di una zanzara. Ero convinto che avrei rivisto mio padre solo al funerale dei miei nonni, o di qualche altro parente.

 

Una mattina poi, ho ricevuto un sms proprio da mio padre, che mi diceva: “Dobbiamo vederci … che dici se andiamo a pranzo insieme alle 13:30? Ti va?”. Ho cominciato a sentirmi male, proprio come nel sogno, perché una parte di me avrebbe proprio voluto che fosse lui a cercarmi e che non dovessi sempre essere io a fare la prima mossa.

 

Avrò impiegato all’incirca due minuti per trovare una risposta a quel messaggio. Sentivo di volergli dire di sì, ma solo per mettermi l’anima in pace. Solo che non sapevo come formulare quella risposta.

Alla fine ho deciso di rispondere scrivendogli semplicemente: “Dove?”; e immediatamente mio padre ha risposto: “Fra 5 minuti sono da te”.

 

 

 

1 Perfect illusion (L.Gaga, M. Ronson, K. Parker, B.Pop), cantata da Lady Gaga.

2 Let it go (K. Anderson-Lopez, R. Lopez), cantata da Idina Menzel.