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Raccolta di testi in prosa di Elsa Paradiso
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Dialogo tra una Cornamusa e una Zampogna





Dice la Cornamusa alla Zampogna:


Taci plebea, non sei altro che Zampa di rogna!

Tu vieni dalle montagne delle pecore e dei pecorini. Io invece ho la testa piena di sangue blu, vesto elegante “scozzese originale”, con pieghe anche sui peli del nuovo re.

Di cui adoro le tenute, le ricchezze, le pretese, il suo circondarsi sempre di cose lussuose e belle … alla faccia dei poveracci.

E se rimango popolo tra il popolo è meglio, perché se prima godevo pensando alla regina, ora godo pensando al re!





Risponde la Zampogna alla Cornamusa:


Ma taci tu, aristocratica del mio stivale! Musa di corna e cornacchie.
Il mio nome è Zampogna e di cognome faccio Ciaramella, che ricorda il dolce sapore di una caramella.

La mia è una dinastia di suoni agresti sparsa in varie regioni, che col tempo si ampliò per cultura trasformando i miei discendenti nell’intellettuale oboe.

Io, rimasta Cornamusa, amo le rudi pietre e la vita semplice; appartarmi tra logge di montagne e scaldarmi nelle capanne.
Alle feste incoronate da una tradizione travestita con diplomazia politica, preferisco la maestosità di un alveare pieno d’api produttive e ronzanti, sentirmi suddita dell’unica regina che merita di esser chiamata tale: ossia l’ape regina.

Perché veramente nasce diversa, per eredità cromosomica, aspetto, qualità. Ed è regina che regna su un regno non creato col sangue degli altri viventi.

Ormai scendo poco a valle: sono stanca e di questi tempi s’incontrano per strada troppe cianfrusaglie.

Può accadere mi ricordi del Natale … e allora, in onore dei miei avi, faccio un salto in città.





*

Cloppete Cloppete

 

Cloppete Cloppete.

 

Gli zoccoli del mustang picchiavano sulla terra dura. Il caldo era snervante,  venivano da una lunga attraversata. L’Arizona può essere spietata senza un goccio d’acqua, lo testimoniano le corna di bufali scheletriti che di tanto in tanto spiccano per il loro lugubre bianco. Il percorso ampio non risparmia alcuna insidia. Una faticaccia anche dover dribblare crotali, cactus, insetti urticanti più dei rapaci avvoltoi che sorvolano sempre bassi quando qualcuno sta tirando le cuoia.

Finalmente c’era qualcosa all’orizzonte: Poetic City!

Gringo dette l’ennesima controllata alla sua borraccia inesorabilmente vuota.

Il cavallo s’impennò con un nitrito stoico o forse stava imprecando tutti i santi del calendario equino, per la stupidaggine di chi aveva sopra:

- Lo sapeva, no, che la borraccia era vuota, mica si poteva riempire da sola! 

L’altro non si scompose, ma rimise al loro posto i ruoli dando una speronata al sottoposto.

 

Cloppete Cloppete

 

- Cacchio! - esclamò Gringo appena superato il varco con l’insegna di confine. - Finalmente ci sono dentro.  

Aveva il gargarozzo sempre più secco, polvere sparsa perfino nei capelli che parevano tutti grigi.

Fece una rotatoria con lo sguardo per rendersi meglio conto della situazione.

Diverse casette in legno. Di fronte, una chiesa bianca con campanile al seguito. Avanzò. Si trovava in uno slargo che faceva da piazza principale. L’ora era buona. La campana proprio in quel momento mandò un dindondan petulante: cinque colpi che si ripetevano e ripetevano.

 

C’erano poche persone in giro. In prevalenza bovari, qualche campesino di seconda mano (perché l’altra l’aveva nascosta nel poncho).

Voleva, assolutamente voleva, farsi una birra. Una di quelle schiumose che paiono orgasmo di prima qualità.

Il cavallo nitrì nuovamente: anche lui aveva sete, lì vicino c’era una vasca per l’appunto. Ma non voleva beccarsi un’altra dose di speronate facendo resistenza. Quindi smise da subito usando un po’ di psicologia.

La pazienza doveva diventare il suo forte. Questione di poco e poi sarebbe arrivata la bella bevuta!

E invece arrivò subito, perché il suo cavaliere in fondo era un buono. E portò il cavallo alla vasca per farlo bere. Poi lo “posteggiò” davanti al saloon, con un giro di briglie attorno a un legno.

 

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Entrare in “scena” era di estrema importanza. L’apertura di quelle due ante a molle … determinante per spiccicare la prima impressione. Giocare su punti strategici, facendo dell’apparire cosa fondamentale.

Diede un colpo in contemporanea alle due ante, per lasciarle ondeggiare e fare eco al suo ingresso.

Intanto si aggiustò l’espressione: sguardo torvo, sicuro. E l’incedere: flemmatico, felino.

Mentre passava tra i tavoli affollati, il chiacchiericcio andò a sgocciolare, per finire quasi di colpo.

Non mancavano pollastre e galline conciate a festa: chi impegnata in un via vai di beveraggi, chi sulle ginocchia del puttaniere di turno, chi appoggiata a un appoggiabile come dovesse veramente reggere  altro, oltre che calze e tette.

 

Gringo arrivò al bancone:

- Dammi da bere oste della malora!

L’oste, un ometto smilzo e lungagnone che tendeva ad inclinarsi come un ramo (e infatti era soprannominato Ramo), si piazzò uno strofinaccio sulla spalla e si avvicinò al cliente.

- Da bere cosa?

- Birra! Della birra ghiacciata.

Prima di eseguire l’ordinazione, dette una strusciata al banco (tutti i baristi lo fanno, non stanno bene altrimenti. Per loro è un atto da collocarsi tra un tic e una missione).

Si udì il ronzio d’una mosca. L’ultima mosca rimasta nel locale, che osò sfidare Gringo solleticandogli più volte il naso. Non sapeva la tapina che così avrebbe segnato la sua fine.

Un attimo. E lui l’acchiappò lesto come un gatto, per spiaccicarla direttamente sul banco. Poi si asciugò la mano passandosela sui pantaloni.

 

Nel locale si annusava un timore così denso da poterlo tagliare col coltello.

I secondi sembrano eterni, quando si ha fretta o voglia di qualcosa.

E lo straniero non ne poteva più dalla sete:

- Allora questa birra arriva o devo farti diventare una gruviera?

Saltava agli occhi quanto il tizio potesse essere pericoloso. A ulteriore conferma, le due pistole che aveva posizionate con la fondina bassa.

- Ecco la birra! - gli vociò il barista dall’altra parte del chilometrico bancone, lanciandogli il boccale schiumoso con mano avvezza e usando il ripiano quale pista veloce e diretta.

Gringo l’agguantò fulmineo e la bevve tutta d’un fiato. La schiuma gli fuoriusciva dalla bocca, bagnandogli mento e collo.

Quando ebbe finito, gettò un respiro di soddisfazione, e col dorso della mano si dette un’asciugata.

Con l’indice fece cenno all’oste di avvicinarsi, e gli sventolò sotto il naso una sostanziosa banconota. La forza del denaro non si fece attendere.  Al Ramo si accesero gli occhi.

- Dimmi del Nano - disse Gringo.

- Sei fortunato, tra poco sbarcherà qui. Tieni d’occhio la porta.

- Come lo riconosco? Dal nome … forse?

- L’hai detto, è un tappo. E per tirarsela porta dei camperos tacco 15. Ma non c’è nulla da fare … sembra ancora più tappo.

- Descrivimi il resto.

- Ha faccia quadrata, mento largo, un grosso naso; e capigliatura con taglio alla Cristoforo Colombo …  gialla e tinta.

- Ma no!

- Ma sì!

E avvicinandosi in modo da sfiorare l’orecchio di Gringo, mise una mano a ventaglio per aggiungere:

- Pensa, la usa spesso per confondere … i suoi connotati …  

- Ahahah! - Gorgogliò l’altro.

Non aveva terminato la risata che la porta del saloon si spalancò nuovamente.

Lì per lì pareva non  fosse entrato nessuno.

Ma  come credere alle porte che si aprono da sole e  senza vento?

A Gringo venne il lampo del signor Genio.

In basso. Doveva guardare in basso. E aveva ragione.

Un tipo bassotto assai, era appena entrato.

Corrispondeva alla descrizione data: capelli gialli, taglio alla Cristoforo Colombo, camperos con tacco 15 pure sormontati da gambe storte oltre che corte. Gli occhi non riusciva a vederli perché indossava un grosso paio di occhiali da sole.

Non poteva essere che il Nano.

L’oste e Gringo si scambiarono un’occhiata d’intesa. Il primo prese il largo, ancora più fuggente dello sguardo che aveva appena dato.

 

 Ticchete Tacchete

 

Il nuovo arrivato stava avanzando nella metà esatta della stanza – vedi come procedo inesorabile- pensava.

A un paio di metri da Gringo, si fermò:

- So che mi cerchi  - disse con voce chioccia.

- Veramente sei tu che mi rompi i coglioni da anni.

- Finalmente parli!

- Dopo che hai sparato milioni di cazzate … che altro avrei potuto fare. Stavolta scioglierò il tuo comprendonio come burro al sole.

- Non ci riuscirai. Stabilisco io quel che devi pensare e capire!

- Noto un’evoluzione, però!

- Cioè?

- Ahahah. Gli occhiali. Dalla muta di maschere … sei passato agli occhiali!

- C’è poco da ridere!

 

A quel punto accadde il silenzio. Finalmente era venuto … il momento della sparatoria.

Le mani dei due contendenti vibrarono impercettibilmente vicino alle pistole.

Il pubblico sgattaiolò via come un fiume in piena.

 

Quale dei due sparò cazzate per primo non si capì.

Ma il risultato decisivo fu dovuto a una mosca, probabilmente compagna dell’altra trucidata. Al suo volersi vendicare.

Il caso volle che ronzasse attorno alla faccia del Nano. Questi, agendo d’istinto, dette un colpo per scacciarla, e invece scacciò via i suoi occhiali … rivelando un unico occhio: di vetro e dalle ciglia finte.

Gringo rimase allibito. Ma forte del  momento d’empasse sparò un’altra scarica di cazzate mirando stavolta anche all’abbigliamento di chi aveva di fronte.  

Così che ne fece cadere i pantaloni.

E lì, in quel preciso momento, tra le due gambette storte vide una voragine!

 

 

 

*

Virtual World

 

Valentina posò il libro sul comodino: un Collins di metà ‘800,  che la ispirò dal suo cristallo netto.

Moderno e interventista … con tante bollicine dalla temperatura giusta.

Decantabile anche con cibo poco digeribile.

Senza nemmeno accorgersene, dalle palpebre pesanti passò in un'altra dimensione.

Udì dei ragli. Due. Uno dietro l’altro.

Si trovava in un dove senza riuscirne a capire dove.

Non le importava. Aveva altro per la testa.

Entrò in un vecchio cinema. Biglietteria vuota, pavimento scalcagnato, ragnatele ovunque.

S’infilò fra tende di velluto incartapecorito … forse un tempo di color bordeaux.

Nella sala buia si proiettava un film.

Ci vedeva bene anche così. Nessun altro spettatore.

Solo a lei era dato sapere tenendo tutto per sé.

 

I caratteri scorrevano sullo schermo.

Il titolo: Virtual World.

Si accomodò in una delle poltroncine. Era curiosa di vedere. 

Ma le scritte non finivano mai, e sempre con lo stesso nome a interpretare ruoli e ruoli.

Si alzò.

Imboccando la "passatoia" centrale, arrivò ai piedi della proiezione. In maniera casuale, poiché posti da entrambi i lati, scelse di salire i pochi gradini che la portarono su. Proprio in faccia a quell’ossessivo scorrimento.  Allungò una gamba, poi un braccio ed entrò dentro.

Dentro quel film.

 

C’era una Tizia seduta a un computer. Batteva. Benché di spalle, l’aveva riconosciuta.

Valentina sapeva che l’oggetto della sua attenzione non avrebbe potuto vederla.

Quindi le si avvicinò  senza timore di essere scoperta.

Quella continuava maniacale a battere sui tasti. Aveva una schiera di innumerevoli caselle, ognuna nominata con nomi di vario tipo,  in prevalenza femminili.

Si fermava di battere solo quando chiudeva la casella,  per passare ad aprirne un’altra.

Trovò giusto approfittare dell’occasione.

Visto che per anni la Tizia non aveva fatto altro che spiarla, ora poteva prendersi la sua rivincita.

Lesse nella nuova casella aperta. C’erano diversi scritti, con appuntata la data di pubblicazione e il riferimento preciso che li aveva ispirati.

“Ha un fascino in fondo la follia. Arriva a comportamenti e a livelli che hanno dell’incredibile”. Pensò.

Voleva memorizzare tutto ciò che vedeva. Stupita più di quanto non lo fosse mai stata. 

 

La Tizia, non avendo altri interessi nella vita, passava la massima parte del suo tempo “abbullonata” al computer, che alternava con l’uso del cellulare posto lì a fianco … a portata di zampa.

Ogni tanto emetteva gridolini, sorrisi, imprecazioni; per sostenere e confermare il suo operato.

Un operato che consisteva nell’assumere diverse identità. Una vera bulla da tastiera!

Si serviva di svariate maschere per comunicare messaggi trasversali travestiti da poesie a chi era nel suo mirino.

Questa “arte” l’aveva appresa e affinata dal “Decano”, rinomato poeta del web.

La massa che li leggeva naturalmente non capiva.

 

 

 

Valentina riuscì a memorizzare moltissimo di quei messaggi trasversali.

Ma a me fece leggere solo uno di quei “botta e risposta”, perché convinta che io non le credessi.

Mi spiace.

Ad ogni buon conto e al fine di non dimenticarmene, quale esempio,  lo trascrivo qui di seguito:

 

 

Botta

 

 

tenui note

ha la sera che declina

la notte

e pacifica pensieri

l’acqua li trattiene.

Nei pini

il rosso cupo del tramonto

 

 

 

Risposta

 

 

e tu ci sei

mi coli i tuoi silenzi.

nel rosseggiare cupo del tramonto

la resina arpeggia

tra

i miei pensieri e i tuoi.  

la notte

trattiene

 

 

 

 

(continua)

*

Nemmeno a Natale

 

 

Dove si trovava non sapeva. Neve. La neve cadeva. Lenta, beata, inesorabile.

Era una piazza. Grande.

Diversa gente la percorreva. Portava qualcosa.

Aguzzò lo sguardo, per mettere meglio a fuoco: dei pacchi, borse colmi di roba.

Affondava i piedi nel bianco elemento con un minimo sforzo, perché ancora fresco.

Tante luci guarnivano l’aria.

In centro una grande vasca, da cui sgorgava a cascata dell’acqua sputata in alto.

Zampillava ricami ricadenti nella bocca che li aveva generati.

Ma il punto d’attrazione era lui: un albero enorme dagli strani frutti che s’accendevano e spegnevano.

E da una rimembranza fumosa, impercettibile, dal sé sbocciò la consapevolezza che si trattasse del Natale;  di avere degli occhi da cui come piccola fonte si scioglieva dell’acqua, e che dentro il petto sentiva pulsare.

Da tanto ciò non accadeva.

La sagoma ferma, timorosa a muoversi.

Sarebbe riuscita ancora a camminare? E per andare dove?

I passi avvennero uno ad uno con decisione guardinga. Per dove loro decidevano di andare.

Si trovò in mezzo ad una folla. Di qualcuno ogni tanto sentiva una spalla, lo strascico dei doni.

Perché erano doni , quei pacchi tutti infiocchettati.

Si guardò le mani: parevano rami staccati, avulsi da un possibile corpo.

 

Non sapeva chi fosse.

Nel dove di un luogo sconosciuto, un senso di vertigine l’arpionò.

Una voce domandò.

-Si sente male?

Non riuscì a rispondere. E aumentò l’andatura per staccarsi da chiunque fosse lì. Temeva per qualcosa. Forse era meglio non sapere. Forse era un sogno.

Si ricordò anche di loro, dei sogni. Tanti ne aveva fatto, quando si trovava in questo mondo.

Già, quando si trovava in questo mondo.

Una frase completa  era scappata all’improvviso: soggetto, avverbio, predicato.

Tutto lì pareva e sorgeva d’improvviso. Come da un abisso sconosciuto.

Il respiro divenne affannoso.

Si appoggiò ad una colonna. Apparteneva all’antico Teatro. Anche di questo si stava ricordando.

E la gente continuava a scorrere. Tutti quei colori volevano dire festa. Ma guardando i loro volti vedeva solo fretta, nervosismo, ansia.

Povero Natale! Pensò.

 

A me un camino con un fuocherello a legna e tanta fame addosso!

 

Quale la verità? Quale lo stare migliore. Dove avevano sbagliato gli uomini che possono vivere solo se danno la morte, siano cose o persone, o chiunque respiri.

Fino a che la morte non prende uno per uno anche loro.

 

La morte che in fondo non dà problemi, pensieri, ma è madre che non fa distinzione fra i suoi figli. Dopo che li ha tolti dalle classi degli uomini.

 

Un urlo si levò dentro le sue orecchie. Un volto deformato dall’orrore farneticò una frase fuggendo:

Non può essere. Chi è morto non torna, nemmeno a Natale.

*

Dialoghetto fra un Gambaletto e un’Autoreggente

 

 

PERSONAGGI:

 

GAMB (Gambaletto)

AUTO  (Autoreggente - calza)

 

 

 

 

GAMB : Sigh sigh

 

AUTO:  Che hai da frignare?

 

GAMB: Mi hanno appena detto che non ho sex appeal, nemmeno nel nome  … troppo ordinario e pure maschile. 

AUTO: Strano. Eppure con un po’ di fantasia il tuo nome potrebbe attizzare più del mio.

Pronuncialo staccato … gamba e letto. La gamba fa immaginare un bel polpaccio tornito con un ginocchio dalla rotula levigata, e delle caviglie da cavalla di razza. Il letto … a contorsioni sessuali, e dopo semmai al riposo. Il mio invece 

 

GAMB: Credi non ci abbia pensato? Auto e reggente, per giunta! Come un reggi palle. Ma la vita è ingiusta, lo si sa. Si va avanti per nomea. E tu hai una nomea che fa fibrillare anche l’osso sacro!

 

AUTO: Pensa come è stupido l’uomo. Solo perché sono più lunga di te e ho un cicinin di merletto … già godono!

 

GAMB : Forse perché sei vicinissima al monte, sia esso rasato o in chioma a seconda la tendenza del momento. O per scelta, o ancora per accontentare una gentile richiesta da psicanalisi e non.    

 

AUTO: E dimenticando che tu sei vicinissima al piede ... sempre ai primi posti nella hit parade del fetish.  

 

*

La pernacchia

 

 

Tuoni e lampi si sbagasciavano ovunque. La pioggia veniva e accadeva come qualcuno la mandava. E la casa li aspettava.

Appariva lì sulla collina, come compete ad ogni casa lugubre che ospita spiriti fantasmi e co. Le finestre sbrindellate e spente , i muri scrostati, il colore livido ancora di più illividito dalle esternazioni del tempo.

I tetti erano tre: quello grande centrale e gli altri due più piccoli, uno per lato ad altezza di spalle, tutti a sesto acutissimo.

I convenuti senza convenevoli avanzavano dentro dei mantelli come scuri carbonari.

Il portone d’ingresso posto sopra un largo patio non aveva bisogno di chiavi. Benché pesante e tozzo, il legno ne era bucherellato e bastava spingere con mano determinata per aprirlo. O possedere un piede da piazzista.

Entrarono in mistico rispetto. Tutto era stato preparato non importa da chi: Un ampio tavolo a tregambetre con relative sedie intorno e, sempre intorno e a far da cornicette, dei canterani dalle forme senza precisa forma con sopra delle grosse candele a lumeggiare.

Si sedettero. Uno di loro parlò.

- Ora senza perdere tempo  entreremo in un mondo senza tempo. Concentriamoci. Uniamo le mani. Iniziamo seduti la nostra seduta spiritica. La presenza si manifesterà.

Ci fu silenzio di umanità, perché da fuori il fragore della pioggia con annessi e connessi non si risparmiava.

Ad un tratto anche il temporale tacque per far spazio ad un botto purulento:

- Chi sei?

Nessuna risposta. Ehm … meglio cambiare il termine perché potrebbe confondersi con qualche altra cosa. Diciamo quindi muta attesa.

E poi :

- C’è nessuno?

- Sììììì ….

- Nessuno  … chi?

- Nievaaa

- Che nome strano. Chiarisci per favore. Eri uomo o donna?

- Donna e la davo a beeereee fingendomi uomooo. Ho ubriacato un sacco di fessiii!

- Dicci qualcosa di più.

- Ero lo spezzatino di me stessaaa. In verità una sella senza cavallooop. Mi chiamavo così perché oltre a essere un nessuno, nessuno lo sapevaaa.

Sopraggiunse un lampo e …

Prrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr !

La pernacchia di un tuono sradicò definitivamente porte e finestre dell’occulto ritrovo dando nuova aria al luogo, e disperdendo la nulla presenza chissà dove.

- Già fatto? Domandò uno del gruppo con un nodo ingroppato in gola e una siringa in vista.

- Che volete vi dica ... il lampo e il tuono sono astemi e la sanno lunga.

 

    

*

Dialoghetto ... ettoetto ... lampetto

 

 

La nonna:
- Lo volevo con le palle, non come un albero di Natale. Me ne bastavano due.
 
La mamma:
- Lo voglio con le palle, non come un albero di Natale. Me ne bastano due.
 
La figlia:
- Lo vorrò con le palle, non come un albero di Natale. Me ne basteranno due.
 
L’Albero di Natale:
- Ogni anno mi fischiano le orecchie anche senza  il vento. Che palle con ‘ste palle!

 

 

 

 

 

 

 

 


  

 

*

Il colore della bellezza

 

 

IL COLORE DELLA BELLEZZA

 

 

 

Breve dialogo ascoltato per caso, ieri, sull’autobus tra una mamma sudamericana e sua figlia, una bimba di circa quattro anni.

 

La prima , dall’aspetto tondo, ha l’espressione improntata al sorriso.

Salgono tenendosi per mano.

La fa sedere restando in piedi al suo fianco.

Si dicono qualcosa piano. D’un tratto il tono della bimba si alza:

- Mamma diventerò bianca?

- Quando crescerai diventerai più chiara, non bianca.

La donna la guarda con tenerezza, e le ricompone una treccina.

- Perché?-  incalza chi vuole sapere.

L’altra si guarda intorno come se volesse scusarsi di qualcosa con un ambiente dove l’indifferenza è stato illuminante e gli smartfone lo sono di più.

Poi l’attenzione torna alla figlia, e sfiorandole una guancia le dice:

- Perché sei già bella così.

 

 

 

 

 

*

La signora Rubacculi

 

La signora Rubacculi abitava …

come? Non avete capito il nome? Rubacculi, sì Rubacculi. Ancora non è chiaro? Vabbè, ora vi faccio lo spelling, così almeno vi entra in testa: ar, iu, bi, ei, si, si, iu el, ai.

Ok?

Dunque dicevo …  la   signora Rubacculi viveva in un luminosissimo e arioso seminterrato, dove l’aria pura le teneva compagnia mentre ritagliava e ricuciva vestiti non suoi: era specializzata in questo, e ne ricavava un tipo di patchwork che poi propinava al prossimo.

Nessuno conosceva il suo vero volto. Ma su lei i suoi “affezionati” pensavano quello che conveniva pensare, poiché la signora Rubacculi spesso lasciava loro regalini affinché venissero poi ricambiati.

La signora Rubacculi emetteva anche strani rumori che venivano dal basso e assai maleodoranti, al punto che i vicini si lamentavano. E per ovviare, visto che lei non ci sentiva, si dovettero dotare di maschere antigas.

Inutile trovare scuse da svendere  del tipo “Tutta colpa dello sciacquone che non funziona” :

- E che cavolo! Se ne compri uno nuovo, o mangi di meno!

Esclamava ogni tanto qualcuno sottoposto, suo malgrado, a quel fetore.

Ah, come manca ora la signora Rubacculi coi suoi dolci effluvi!

*

A carnevale ogni scherzo vale!

 

Già da qualche anno Fernanda andava a farsi psicoanalizzare. Il medico che la curava (un tipo di bocca buona e rotto anche alle esperienze più bizzarre) di lei si era rotto nel senso più papale.

Non ne poteva più di quella tizia che si portava addietro delle vetuste ciabatte per poi,  da sdraiata,  dire che erano le scarpette di Cenerentola.

E non solo per questo. Ma perché ultimamente l’aveva preso di mira mettendoselo in ogni pensiero e in ogni dire o fare che vi ricamava.

Su di lui riversava il suo io frantumato in mille pezzi sgravati da quello centrale.

A ognuno aveva dato un nome: maschile, femminile, senza sesso, con sesso inverso. Rimanendo in tema, c’era da impazzire.

E ora che arrivava carnevale “la cosa” diventava più complessa.

Doveva misurarsi con maschere vere, che avevano una loro ragione d’essere pur senza essere. Per via di discorsi  e significanti, di “caratteri”

simboleggianti l’ambivalenza di varia umanità  applicata al rapportarsi con se stessi, i propri simili, e ogni circondario.

Questo almeno doveva capirlo anche se dura d’orecchio.

Eppure … eppure non perdeva il “vizio” di proliferare. Manco fosse stata invitata alla moltiplicazione dei pani e dei pesci!

 

Il dottor Niev era dunque demotivato. E quel giorno decise di comunicare a Fernanda la sua decisione.

Dopo averla fatta accomodare su una sedia, chiamò la sua assistente Eva Allupatasulfuoco tanto per avere una specie di conforto morale.

- Signora, spero comprenderà quanto … ehm … sto per dirle.

- Siiiiii?

- Non è più il caso che venga qui … è inutile che io le faccia spendere tempo e denaro quando non ritengo di poter guarire i suoi disturbi … mentali. Le consiglio di consultare un altro, certo più in gamba di me.

-  Ma va là! Dopo così tanto tempo?

- Appunto. Tutti i suoi disturbi invece di regredire persistono e si ampliano. Non ha collaborato quanto avrebbe dovuto e potuto.

Insiste nei suoi sdoppiamenti proliferanti e ora ne ho lo studio pieno, al limite dallo scoppiare. Lei sollecita troppo le sue molteplici personalità!

- Forse dovrebbe ricorrere alla “masturbazione assistita”! Affermò d’improvviso l’assistente.

Bel termine pensò il medico, ignorando che l’Autrice lo aveva preso da un’altra parte appunto per lo stesso motivo.

- Non importa, in fondo me l’aspettavo. Ma siamo a Carnevale e ogni scherzo vale!

Si rispose Fernanda davanti allo specchio del bagno. Perché fisicamente lì c’era solo lei.

 

 

Conclusione:

In certi casi proprio dallo specchio si riflette la verità. Almeno quella che si può solo guardare.  

 

 

 

*

Un RaccontoPensiero

 

Mi alzo come scivolando una carezza al tepore delle lenzuola.

Cauta tasto il pavimento.

In un quasi inchiostro di silenzio porto la mia ombra con l’ombra del mio gatto che mi segue.

Non ha bisogno d’altro in questo momento lo sguardo che si dirige al vetro e apre.

 

Il freddo mattutino monta a neve.

 

Le case  sanno di presepe così incastonate sulle sagoma scura dei colli; ancora hanno pochi occhi aperti fra lampioni di stelle che invece fra poco saranno spenti.

Ai loro piedi la strada pare un fiume tranquillo,  sfuma luce amorfa e indifferente mentre scorre con qualche lume che va sulla sua rotta.

 

Guardo.

 

E non m’importa dei brividi che mi prendono,  perché i più forti provengono

da dentro … dalla paura del giorno che d’ansia perviene e lascia tracce di sé al passato.

 

 

 

*

La strana coppia ... più uno*

 

 

 

Personaggi:

 

Gaetano (Gaetanino detto Nino)

Carmelo (Carmeluzzo detto Meluzzo)

Artù  l’amico che ha un cuore di bambù

 

 

Gaetano e Carmelo si sono stufati delle loro mogli, che sempre li ossessionavano: fai questo e dopo l’altro, come al solito non ne azzecchi una,  sei proprio fesso e tutti se ne approfittano, guai a toccarti i tuoi parenti, ma la smetti di guardare quella, dove sei stato, dove stai andando, che stai pensando, non mi consideri mai, ecc. ecc.

 Così , dopo un “non se ne può più” sfiancato e all’unisono, si staccano dalle loro metà per ricomporla tra di loro. E se ne vanno a vivere insieme.

Un po’ si odiano, ma di più si amano, avendo in comune l’amore per internet e le belle femmine, almeno a parole. Quanto al lavoro, non ci sono problemi, visto che entrambi da poco sono dei pensionati. 

Per sfuggire l’occasione di ogni incontro con le rispettive mogli, hanno scelto di convivere in un’altra città, piuttosto lontana dalla precedente.

Nino, più pigro, lascia i compiti dinamici a Meluzzo, che si occupa del rassetto della casa,  della cucina e, alla fin fine, di tutto. Per ciò che concerne la spesa, Nino “interviene” quando necessita fare rifornimento. Allora prende la macchina ed accompagna Meluzzo. Dei due, lui solo ha la patente.

 

SCENA:

 

Meluzzo entra in casa tutto trafelato carico di spesa. Fuori piove e Nino non lo ha accompagnato perché lamentava un forte mal di schiena. Il povero Meluzzo è bagnato come un pulcino, ed anche incazzato. Percorre il lungo corridoio, e fa la sua apparizione in sala, laddove Nino sta al computer, come al solito, facendo tic tic sui tasti con le sue grosse dita.

 

Meluzzo - Minchia sempri nta ddu computer sii! E dammi ammenu na manu a  togghieri sta robba!

Nino       - Mi fa male a schiena assai, assai.

Meluzzo - Laggiù per le vene ho voltato, Dionisio e cani rognosi all’abbaio monetizzavano stomaci in ricerca ardita…

Nino       -   Iamme belle  ià, mo’ ci risiamo! Ma che vvò dì?

Meluzzo - (mentre porta le sporte della spesa in cucina, e quasi tra sé)

               L’acqua di fonte parlò!

Nino     -   (a voce un po’ più forte per farsi sentire dal compagno ora nell’altra stanza) Tengo fame. Assai, assai.

Meluzzo - (ritornando in sala) I speak about menu: pipareddi fritti cussì t’abbruci anticchia, e ti susi;  sta seggia a forma de tu chiappi prese.

Nino       - A Melù. lassame chattà, na bellezza accà! Na poesia io aggia a fa, da

dedicà…

Meluzzo  - Never, forever, stranger in the night.Susine susciano e si susunu. Avorio ed ebano in righi orizzontali, gli strappi del selciato in brache.

Nino-     In risposta compie un notevole atto di fatica, ossia si accende una  sigaretta.

Meluzzo -   (con voce isterica) Guarda che ho appena pulito, non vorrai sporcarmi il  pavimento!

Nino      -  (Muto. Continua il suo tic-tic al PC).

Meluzzo  - Zomma rispunniri mi vuoi? Sempri  cu ste fimmini stai!

Nino      -   (Muto, si versa del limoncello nel bicchiere già predisposto e a portata di mano. Con occhi acquosi poi si rivolge al compagno).

              - Tu mi vo’ fa male a o’ core. N’atra mulliera aggio sposato? E dillo ià, che vu’ esse tu l’unico sultano!

Meluzzo fa per replicare, ma suonano al citofono. E naturalmente è lui che va a rispondere.

Meluzzo - Cu iè…ehm, chi è? OK (Apre).

Nino      - Chi è chillo?

Meluzzo - Nu sacciu.

Nino      -  Vabbé!

Meluzzo - Chi minchia fu? Boh, sbagghiarunu.  Strane parole sentìì.

Nino      -  Eppure aperto hai, assai assai.

Meluzzo - E mica pozzu fari a viddiri chi non capisciu! Forse sbagghiu fu.

 

Non azzeccando Meluzzo (come sempre) previsione alcuna… suonano alla porta. I due si guardano con aria interrogativa. Nino, lascia in “libertà condizionata” le sue povere dita e fa cenno a Meluzzo di andare ad aprire. Meluzzo va. Poco dopo nell’appartamento si leva un grido di gioia. Meluzzo, accompagnando il visitatore in sala , non finisce di esclamare:

- Artù, Artù. Sei proprio tu? L’amico di bambù?

Il nuovo arrivato, forse intimidito da tanto frastornare, tace.  Nino tende appena un orecchio a tutto quel vociare, attento a risparmiare l’energia dell’altro. Le due dita, nel frattempo, avevano ripreso ad operare. Nuovamente si ferma, non appena Meluzzo e Artù entrano in sala.

Meluzzo -  (rivolto a Nino, e con un braccio sulle spalle di Artù) We All Loved Each OtherSo Much. Vidisti che bedda surprisa? nentidimenu chi u nostru Arturuzzu!

Nino – Con sprezzo del pericolo regala a quest’ultimo un sorriso e, “crepi la pigrizia”, porge una mano per stringere quella del suo ospite e dire: The Bird with the Crystal Plumage.

Artù      -  Yes,Seven beauties.  Motto co-ttento vottra a-tte-zione. A-votte  ina-pe- tata.

Meluzzo  - The hawks and the sparrows!Dita sotto sale, uno per occhio. Cucuzze in superotto.

Artù        -  Di profili, astrali semine nell’orbite, strade d’atolli in fase rem che il Don sfogliava in chiaro-scuro.

Nino       - E mo’ pur io. Tree of the Wooden Clogs. Alle strade rotte  di paese serpeggiano inutilizzati poliedri della mente.

E così, i tre, continuano per un bel po’. Ad un tratto, come un lampo abbaglia la stanza, bloccandoli nella forbita conversazione.

Meluzzo       -  Cu succidiu?

Nino             - Chiove assai, assai.

Artù             -  (Non parla, ma fissa lo schermo del PC).  Gli altri due se ne accorgono e fanno altrettanto.

Questa volta proprio dallo schermo, a dimostrazione di essere quello la causa, perviene  un rumore come di tuono. Poi appare un volto. Il volto di donna bellissima.

Sui tre in contemporanea sboccia uno sguardo arrapato.  E così pensano uno ad uno:

Il primo:     - La voglio alla mia corte.

Il secondo: - la voglio alla mia corte che deve essere migliore dell’altra.

Il terzo:      - Io non voglio corti, ma lei sola vorrei. Intanto mi accontento delle stelle.

Il volto parla:

- Tre siete, e tutti e tre monelli. Per questo io, il Sacro Spirito del Computer, vi condanno a riscrivervi alla prima elementare. Fuori da questo tempo. E precisamente al tempo di Colui che vero amore ebbe per la sola Lingua Italiana.

Un vocio di terrore in sala, che il Sacro Spirito zittisce:

- Inutile ribellarsi al mio volere. Tutti il “bagnetto di Lingua Italiana” dovete fare! Potrete ritornare in questa dimensione solo quando diverrete freschi di bucato. Lavati, e pure stirati!

 

 

 

 

 

*

Qualsiasi riferimento a persone o cose è da ritenersi puramente casuale.

 

 

*

25 aprile: per Aldo Gastaldi (Bisagno)

 

Per Aldo Gastaldi (Bisagno): il primo partigiano d'Italia ...
Chiara, dolce, fresca acqua.

 




Camminavo, ed era sera inoltrata.
I piedi mi portavano …  chissà dove.
Il giorno che sarebbe spuntato dopo era quello della vittoria.
Della liberazione che tanto sangue aveva sparso, per “uscirne fuori”,
su entrambe le mani.
Quando lo vidi non mi sorpresi molto, perché  dentro di me emerse una verità che già sapevo.
Se ne stava seduto pensieroso,  ai piedi della sua statua.
Il mento poggiato su un pugno. Potevo focalizzarlo fra le ombre per colpa di un lampione che  sembrava sguainare luce per dargli un poco di calore.
Lo chiamai:

“Aldo!”

Si volse. La fronte ampia, dall’attaccatura a punta, me lo marchiò ancora di più inequivocabile.
Mi avvicinai fino a che avrei potuto toccarlo, per spargere al massimo lo sguardo su quel bellissimo volto.
Lui mi piantò diritto il suo, come usava fare. Baluginava liquida luce.
Gli canticchiai in sussurro:

“Sciú pe-i monti, zù in te valli,
In mëzo a-e rocce, in te bûscagge...”

Una piega gli si manifestò sulle labbra. Un sorriso?
Tante parole premevano nella mia gola,  oltre al magone formatosi, creando un blocco al mio dire.
Sapevo che il tempo a disposizione era poco. Fosse sogno o altro, non importava. Ma mi rincuorò la consapevolezza improvvisa  che Aldo potesse sentirle lo stesso.
E si fece voce per me:

“ Scrivi. Ciò che pensi e credi è la verità. Non servirà a molto. Ma anche se solo un sasso avrà occhi per aprirli … 
Sì, mi hanno ammazzato. Perché non sarei mai diventato uno di loro, io non lottai per avere un “cadreghin”.
Nella stanza 28 del “Bristol” minacciarono quel che fu la mia fine.
 
 Riuscii a dire una parola:
“Autopsia” .
“Non ci fu nessuna autopsia. Anche mio fratello mi voltò le spalle convinto da sua Maestà l’avvocato.”
Aggiunsi:
Rifaresti ciò che hai fatto?
I suoi occhi si arricchirono di un lampo infuocato:
“Sì. Perché la mia  morte non è stata vana, se il  seme di questo pensiero germoglia nella mente di chi poi sarà.”
Mi mossi per abbracciarlo.
Ma abbracciai solo aria.

 

 

*

L o r o *

 

 

Non capiva perché certe cose dovessero capitare sempre a chi apparteneva al suo genere.

I riflettori, per esempio, ne avevano più volte ripreso il vissuto.

Perciò quella sera, giunto il momento fatidico, decise di giocare d’astuzia.

Appena fu possibile, si mosse e cambiò la pagina del calendario su cui LORO facevano affidamento. Si vestì d’altro genere e uscì.

Il cielo era puntellato di stelle, la luna appena un graffio. Perfetto. L’oscurità giusta.

Non stava nelle vesti per l’eccitazione. E cercava di cogliere ogni scansione di quel mondo che periodicamente pareva aspettare la sua libera uscita.

All’inizio, camminava a passi lenti e guardinghi, sospettando di ogni ombra di luce; poi prese fiducia e si rallegrò nell’andatura, rendendola a tratti veloce e argentina, come gocce di pioggia.

Il suo era un cuore bambino che non aveva mai vissuto, eppure idealmente lo conosceva. Ciò di cui si sente  e sa … esiste aldilà di se stessi.

Dalla strada ai viottoli, “tutta mia la città”, e pensò a un’antica canzone sentita da uno che osservava, più delle vesti, un corpo che non esisteva.

Passarono due sagome, abbracciate, si sussurravano certamente il paradiso, perché potevano almeno sperare in un paradiso. Non come chi dipendeva dalle mani che costruivano.

Eppure per gli occhi  poca la differenza, che la penombra annullava.

Si accorse di un ponte. Fantasmatici lampioni ne  illuminavano sprazzi.

Il suo sguardo fu attratto da un’altra sagoma,  che stava nel punto centrale di quell’arco.

Sentì uno strano timore,  ma cosa poteva temere oltre LORO, riflettori rifuggiti?

Si avvicinò quel tanto da poter vedere bene la scena.

Si trattava di un uomo che indossava un frak, proprio come chi nel momento lo stava guardando.

Ebbe un brivido e ne fu felice. Era comunque un segno di vita.

Sapeva di non poterlo aiutare.

Finto il suo genere, finta lei.

Che senso aveva quella libera uscita?

Un bicchiere d’acqua nel deserto.

Una consapevolezza infinita le marchiò l’idea infinita.

Perciò ritornò sui suoi passi e alla sua vetrina: MANICHINO.

 

 

 

 

 

  

* Liberamente ispirato al telefilm “Ore perdute” della serie Ai confini della realtà (1959)

 

*

Il Torrente

 

Vagai per molti giorni prima di  giungere  alla  piccola valle. Il sole splendeva  alto nel cielo, indifferente alle inezie.

Lì  notai un  torrente che ne rifletteva i raggi .

Mi ci avvicinai.

Volevo rinfrescare i piedi stanchi .

Appena lo feci, stupita, mi ricordai di quell’acqua:  era il mio ruscello amico!

Quante  sguazzate insieme,  in altra parte del suo corso. No,  non potevo sbagliarmi,  si trattava dello stesso rivo.

Tuttavia glie lo chiesi. 

Amo comunicare con la natura; in essa trovo purezza,  incanto, braccia  ancestrali .

In tutti questi anni quante  particelle di  H2O avevano scorso greto e ponti?

quante cellule  si erano modificate e perse?

Non  ha importanza, pensai, ritrovarsi è ciò che conta.

Ne ha molta invece. Se i cambiamenti  avvenuti svelano le parti in ombra.

A guardarla bene, la sua acqua non era più limpida e guizzante. Ma torbida, con  puzza di rancida melma.

Perciò indagai  a fondo andando a controllare le sponde vicine,  e mi accorsi che da diversi punti  s’infiltravano flussi nauseabondi .

Il  mio “amico” bovinamente  li accoglieva  impregnandosene  fino a contaminarsi.

Tolsi i piedi,  tra l’altro morbidi e lisci, e  senza una parola li rinfrescai altrove.

 

 

 

 

*

Una storia di pecore

C’era una volta

una pastora che possedeva tante pecorelle, tutte di pregiata qualità.

Un giorno si accorse che il terreno dove abitualmente pascolavano non era più adatto a loro.

Quindi si mosse per cercare un posto migliore.

Si ricordò di un sito che conosceva per sentito dire, la cui proprietaria un tempo l’aveva  invitata a entrare.

La pastora non aveva considerato tale proposta,  perché dotata di un sesto senso che le faceva inquadrare le persone,  e quella l’aveva ben inquadrata male!

Ma il tempo, si sa, sfuma un po’ tutto. E perciò le venne in mente che poteva sbagliarsi.

Vi entrò.

Una per volta cominciò a far pascolare le sue adorate pecorelle, che ricevevano tanti consensi.

Troppi … rispetto alla media che brucavano le altre.

Lì  c’era un’altra  pastora che si moltiplicava … con lingua doppia, trina e di rasoio; e un pastore di sostegno ed errante a servizio della proprietaria, che muoveva le dita solo per vantaggi suoi.

La nostra si ritrovò, dall’oggi al domani,  senza le sue pecorelle.

Basita, chiese spiegazioni.

Ottenne una  risposta che non rivelava  il coraggio delle proprie azioni, ossia  scuse addolorate per un guasto  ai cancelli, improvviso e personalizzato,  che le aveva fatte scappare.

Non si era sbagliata dunque sull’inquadratura.