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Raccolta di testi in prosa di Elisa Mazzieri
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

La neve

 La neve

 

La lama scivola intorno ai capelli. Di stoppa la ciocca che è stretta fra brividi di dita. Rami secchi le dita e paglia da ardere i capelli. Come un arco al violino, la lama libera scintille bruno ramate sul pavimento, timide prima, come ragazzini curiosi, gomiti incerti sul bordo della pista, a gruppi decisi, poi, giovani uomini gonfi nel branco.

Avanza la lama, inesorabile ipnosi degli occhi negli occhi dal vetro appannato.

Addosso soltanto quel vecchio poncho, pelle sulla pelle, non più ruvido, non ancora morbido, ma sicuro, un abbraccio sicuro del tempo vissuto con lei dentro.

L’alba.

Solo l’alba, è gelida. La tazza bollente scalda appena le dita e lascia freddi i polsi, ma è bella l’alba, ha il colore del glicine, oggi. Pensa tremando a quante volte, nella giornata, richiamerà il fresco dell’alba sotto il sole e tra le pietre. A queste latitudini è come vivere in due mondi separati, come la scuola e le vacanze estive. Sorride.

La pelle.

La pelle è dorata bruciata battuta dal vento, la pelle che gioca in piccole grinze ai lati della bocca e incarta il sorriso che arriva imprevisto e rimane incastrato lì, tra le pieghe, anche quando gli occhi non sorridono più, strani scherzi del tempo, pensa. Il corpo costringe a rallentare, a soffermarsi sulle emozioni, a non spenderle in fretta come una buona occasione qualsiasi; le buone occasioni non sono ovunque, il corpo lo sa, lo ha capito e impone l’ascolto. Questa è la vera rivalsa del corpo sul tempo.

Gli occhi.

Non sono da meno gli occhi. Quando puntano in alto socchiusi, mettono a fuoco come cecchini. Sia mai poi a sbagliarsi e cercare di ricomporli: impossibile, come la bocca. Il corpo ha preso il sopravvento, devi rendertene conto, devi fare una tregua.

 

Vorresti imporre ancora una volta il tuo controllo come quando eri giovane e controllavi fame freddo e stanchezza, vorresti convincere te attraverso il tuo corpo che tutto è rimasto identico ma scopri, un giorno poi un altro, che non è vero e a volte provi a fingere di essere impazzita e vivere in un film di fantascienza di quelli che le macchine si ribellano all’uomo. Peccato che la macchina è il tuo corpo e tu sei la donna, in questo caso. La trama non regge la tua bozza di follia e torni lucida.

 

Il ginocchio sanguina ancora, ancora e ancora, è come se tutto il sangue che hai in corpo dovesse uscire da lì, ora e subito. Si schianta in zampilli vermigli sul tappeto appena lavato e su quello sudicio del cane senza distinzione o clemenza, si raggruma come mostarda ma basta che muova più di tre passi e la crosta si apre, ancora e ancora, in labbra screpolate e giù, fiordi di sangue che ignoravi di ospitare in un corpo così arido.

 

Stai ferma. Hai scoperto che se resti ferma il sangue non esce. Allora cominci a pensare che a un certo punto dovrai alzarti per andare in bagno, oppure avrai fame, freddo, sonno, insomma tutte quelle cose che prima non avevi perché non c’era un ginocchio sanguinante a ricordarti di esistere.

Cerchi nella memoria, lontano, troppo, d’accordo, ma quanto? In fondo non sei così vecchia, cerchi e non ricordi, neanche vagamente ­― e questo sì che è strano per te che sai sempre quando e come sei fertile e perché ―  il giorno in cui tutta questa storia del ginocchio.

 

Dunque: era primavera, d’accordo, e poi?

Era forse due anni fa, giusto, anzi probabile anche questo. E poi? Sì ecco: avevi bevuto parecchio, anzi no, avevi bevuto poco ma decisamente male. Chi vuoi convincere? Insomma, eri poco lucida ― irrilevante ― va bene, e poi?

Poi è arrivato quel tizio con i capelli azzurri, o che forse portava una parrucca, azzurra. Questo sì, il colore, almeno, dovrebbe essere certo, peccato tu sia  daltonica!

Dopo è arrivato anche un altro, basso, con la faccia schiacciata come una focaccia e i capelli verdi o gialli. Lasci perdere il colore. Resta solo il fatto che alla fine erano in molti e poi è iniziato quel gioco.

Ti fermi un attimo per controllare il tuo viso nello specchio, niente da fare, il ghigno da joker è ancora lì, non stai sognando. Allora c’è stato davvero quel gioco e tu hai perso. Davvero.

 

La lama scivola via dai capelli. Il sole si alza e scende il gelo dell’alba, misuri la nebbia nella baia e sai che sarà una giornata bollente. La lama cattura i raggi come un diamante, non è più fredda e lasci che ti accarezzi il collo, la gola, la rotondità della spalla, la fossetta della clavicola, la turgidità bruna dei capezzoli, il destro, il sinistro, l’ombelico e più in basso.

 

Quella notte è così lontana e tu sei imprigionata in un sorriso che non sa più essere amaro, non sa più essere umano.

La lama scende e all’interno della tua coscia sboccia una gemma, lì, dove la pelle è più chiara, appena dorata, lì, nella cornice dei denti che ti hanno morsa stanotte, spunta una goccia, una sola, di sangue. Pensi a quei racconti di vampiri. Se lei fosse qui, ora, e ti mordesse, lì, e tu fossi una creatura delle tenebre, lei berrebbe quel sangue e sareste uguali e fuggireste via, nel mondo dei non vivi, dei non morti e sareste al sicuro, invece non si può.

È caldo.

Ti sfili il poncho e per un attimo hai un brivido. Alle tue cicatrici non riesci ancora a farci l’abitudine, quando le vedi nel sole al mattino, hai sempre un brivido. Almeno però ― ti dici ― non devi più sopportare gli sguardi degli uomini. Gli occhi si abbassano, le risate scivolano in sordina a ogni tuo passaggio lento e zoppo per il porto perché tutti sanno che è stato uno di loro, molti di loro e nessuno vuole vedere, nessuno ha voglia di guardare. Gli occhi si abbassano, le mani sono sempre indaffarate, qualche bocca ogni tanto mastica un saluto, i più luccicano di paura perché riconoscono la mano del proprio fratello nello strazio del tuo corpo.

 

Lei no! Di te non ti importa

Purché non la tocchino!  Ora che hai lottato come un “uomo”, sai che non la toccheranno.

Non andranno più a pascolare nel suo corpo in branco, non andranno più a svuotare dentro lei le loro sacche di violenza e frustrazione, le loro giustificazioni meschine, la loro immondizia.

È giovane, sì: era giovane. Era stata anche forte, ma non farai l’errore di dirle che passerà, sai che non passerà mai. Sai che ogni orgasmo sarà una punizione e che potrebbe anche piacerle, sai che vedrà sempre in ogni uomo un nemico e che quando smetterà di guardarsi le spalle sarà perché c’è stato di peggio, sai che nel suo corpo passeranno litri e litri di alcol, polvere e veleno e mai più una briciola di cibo e di amore, sai che subirà e cercherà e implorerà mille notti ancora e altre mille violenze elemosinando quello che si nega, nutrendosi di dolore e sottomissione, che avrà ancora e sempre un padrone e poi un altro e un altro ancora e che sarà sempre più misero e che la sua dignità sfuggirà da lei come una veste logora. Lo sai bene, però, tutto questo le piacerà, la farà eccitare, la renderà schiava e quando non ne vorrà più, quando non ne vorrà più davvero, sarà meno del fantasma della donna che avrebbe potuto essere. Tu lo sai.

Lo vedi nei suoi occhi al mattino, ipnosi degli occhi negli occhi, lo vedi nelle sue cosce incastonate di morsi, lo vedi nei nodi dei suoi capelli. Lo vedi e non puoi, non vuoi tollerarlo.

L’hai amata, hai amato la donna che era e che sarebbe, ancora, ma questa no. Questa maceria tu non la ami, tu non la vuoi!

La guardi dormire, si sveglia sempre tardi al mattino, la senti respirare, guardi il lenzuolo che la copre appena, si alza e si abbassa, si alza e si abbassa, respira, tu la ami, tu l’hai amata e ancora l’amerai, ma questa maceria, no, questa maceria sotto il lenzuolo, si alza e si abbassa, si alza, la mano, si abbassa, sia alza si abbassa, la mano, la lama e il lenzuolo fiorisce di sangue.

Ipnosi degli occhi nello specchio appannato, stupore degli occhi negli occhi. Ti sei amata. Hai amato la donna che eri e avresti amato la donna che verrà, ma questa maceria sottomessa e inerte, questo corpo sfregiato e implorante, questo vuoto tra lo sterno e il ginocchio, buco nero a precipizio di torrente privato di germogli, questo resto di dolore e pus non lo ami. Non ti ami! Il tuo respiro ti toglie l’aria. Il sussulto debole del lenzuolo: si alza si abbassa, si alza, lentamente, si abbassa, si spegne.

La mano scivola giù dal letto portandosi dietro anche il braccio. Le dita si sciolgono e lasci la presa, il coltello cade sul pavimento con un tonfo e vibra per un attimo impercettibile. Ti giri su un fianco, il sangue sgorga dalla bocca, dolce, caldo, denso, ora ricordi tutto, ora sai.

Ti raggomitoli come quando eri bambina e porti le gambe al mento, la bocca sul ginocchio, il sangue si mescola lento nel sangue. Il sole è alto ma oggi non hai bisogno di richiamare l’alba per non sentire il caldo, oggi è fresco, che bello. Come a casa, come quando da bambina giocavi nella neve, laggiù, a casa, nella neve, a dormire nella neve, che bello, ora sì che sei felice, ora quello sfregio intorno alla tua bocca si piega in un sorriso.

 

 

 

*

Salva

                                                                                                     

       

Le mani di Antonia scivolano sicure sulla lastra di marmo, avanti e indietro, avanti e indietro, sfregano, insaponano, sciacquano e sfregano ancora; forti, nodose e tese e protese come le radici della quercia dietro il lavatoio, come le sue, sradicate da qualche pioggia estiva e trapiantate qui, ora, forti e nodose. Senza indietro, senza avanti.

Antonia, i capelli fermati sulla nuca con una molletta da bucato, sfrega la lastra di marmo già pulita. Il gesto ripetuto rimanda a qualche rituale, lo sfrigolio della spugna di ferro consunta si fonde al richiamo svogliato delle cicale come in una preghiera. L’aria intorno è gravida di pioggia, la terra trasuda: un’inversione di elementi come questa è possibile solo alla fine di un giorno stremato dalla calura estiva ― pensa.

Marina la guarda da lontano, socchiude gli occhi, li apre, li chiude, passa una zampina sul muso, si lecca con cura e rimane sospesa, le orecchie all’erta, le pupille a spillo. Una farfalla è atterrata sul muretto vicino. Marina la guarda, le ali sottili tremano appena, calcola i passi, inarca la schiena, le pupille si dilatano ma è troppo tardi! Il geco arriva prima; si affaccia quatto da un buco sul muro, mimetico e grasso con una leggerezza insospettabile da colibrì è addosso alla farfalla. Marina strizza gli occhi, accenna uno sbadiglio e riprende a lavarsi con aria sprezzante.

Antonia si ferma. Le mani sui fianchi, schiena all’indietro, gode la brezza che arriva da ovest. Di fronte a lei solo campi dorati, quasi bruciati, si stendono a dismisura.

“Antonia!”

“Sì!”

Risponde prima di capire la direzione della voce.

“Antonia, che fai? Hai deciso, vieni con noi?”

Anna scende dalla bicicletta, si avvicina le dà un bacio sulla guancia e parla.

Antonia non trattiene neanche una parola.

“Anna, non lo so, ho molto da fare.”

“Beh, dai, se cambi idea, noi non ci muoviamo prima di mezzanotte, va bene?”

Anna risale sulla bicicletta e va, Antonia la guarda senza mettere a fuoco. Una volta o l’altra ― ricorda ― dovrà chiederle da dove è uscita fuori quella bicicletta, è così vecchia che potrebbe essere di un nonno, forse un bisnonno addirittura. In effetti, sì, a pensarci bene potrebbe essere plausibile, perché no, potrebbe essere appartenuta a un bisnonno e magari aver fatto la prima guerra mondiale. Anna è sempre vissuta lì, non sarebbe strano che nella casa enorme, quasi una masseria, di cui abita a malapena due stanze, si trovassero resti di altre generazioni, forse anche qualche tesoro. Antonia sorride: il tesoro forse no, ma una volta o l’altra dovrà chiederle la storia della bicicletta.

Antonia guarda i campi immersi nella luce calda del tramonto. Ora, avvolti nell’aria tiepida e confortante della sera, non rivelano la distruzione della siccità e il lavoro duro che si dovrà fare per ricavarne appena il minimo a copertura delle spese. Si chiede se non abbia fatto, se non stia facendo, una follia. Non ne sa niente, lei, della vita in campagna; non avrebbe forse fatto meglio, con i soldi della liquidazione, a comprare una casetta al mare, vicino Roma, trasferircisi per tutto l’anno e affittare la casa di Roma, oppure  restare a Roma, affittare la casa al mare nei mesi estivi o anche, come suggeriva Giovanna, viaggiare?

Sì, avrebbe dovuto viaggiare altro che tutte queste velleità da contadina, non era neanche così vecchia ancora.

Antonia scruta le sue mani e cerca i segni del tempo: qualche macchia, la pelle secca e ruvida, ma quella è sempre stata così, anche da giovane, qualche altra chiazza sulle gambe, non molte in fondo.

 

Da sud, lungo la stradina che fiancheggia il suo “investimento incosciente”, vede due figure ingrandirsi, due punti indistinti con l’ombra lunga della sera a strascico. Inforca gli occhiali appesi al collo con lo spago e guarda meglio. Bene! Stringe gli occhi: Stefano e Claudia, tra poco, quando saranno più vicini li chiamerà e chiederà di aiutarla con il piano di marmo.

La base per il tavolo è già pronta ma servono almeno sei braccia per spostare la lastra e collocarla sulla base, dietro la casa, lì dove ha intenzione di chiudere la veranda e piantare qualche rampicante… sì, ma quale? Anche di piante ne sa poco, ma non sono questi i problemi ― considera ―  si farà consigliare.

Allora, ricapitolando: dovrà scoprire la genealogia della bicicletta di Anna, farsi consigliare su rampicanti e piante varie per la veranda futura e, già che c’è, chiedere anche di qualche rivenditore fidato da cui acquistare materiali a buon prezzo, ma prima di tutto…

“Antonia!”

“Ehi!”

Claudia e Stefano sono lì.

Lo sapeva, ancora un attimo e le sarebbero sfuggiti.

“Ciao! Vi direi di entrare ma…” Stefano finge di aprire un portone pesante, Claudia ride.

“Appunto” prosegue Antonia “come vedete…”

“Non c’è ancora nessun cancello!” Stefano e Claudia concludono in coro a cantilena. Antonia sorride.

“Meglio così, almeno farai tutto esattamente come vuoi!” aggiunge Claudia.

“In effetti, sì, certo!”

Non ci aveva pensato, non ci pensava mai a questo lato delle cose. Aveva passato una vita a pensare a quello che mancava e mai a quello che c’era o ci sarebbe potuto essere.

“Vuoi una mano?” chiede Stefano

“Come?”

Stefano indica la lastra di marmo appoggiata al muro.

“Magari!”

                                                        

 

L’aria della sera si è fatta fresca e pungente.

Antonia è sempre sorpresa da questi cambiamenti, si vede che non è abituata; d’estate in città, persino di notte non c’era mai tregua dal caldo. Gira per i suoi possedimenti sgangherati accendendo candele e citronella qua e là, le zanzare sono le stesse ovunque però, pensa. Arriva vicino al tavolo nuovo, un bel lavoro tutto sommato, posa un paio di candele anche lì e le accende. Le spalle sono coperte da una mantella di cotone grezzo, usata, a tratti ha bisogno di stringerla addosso. L’abbraccio della mantella nella sera fresca la conforta.

Si siede su una poltrona malandata, compresa nel prezzo dell’affare e scorre l’elenco delle cose da finire, iniziare, capire.

Domani chiamerà Giovanna e le chiederà di passare il ferragosto da lei, può portare chi vuole, spazio ce n’è, comodità un po’ meno ma sapranno arrangiarsi. Anni di campeggi ovunque in qualsiasi condizione saranno serviti a qualcosa, giusto?

Giovanna e Laura: domani le chiamerà. Inviterà anche qualcuna delle sue nuove conoscenze: Anna, Stefano e Claudia sicuramente e, forse, le piacerebbe rivedere quell’amico di Stefano. No, non ancora, è ancora troppo presto.

Marina si muove sinuosa e pigra intorno alle gambe di Antonia.

“Non vorrai mica mangiare di nuovo?”

La gatta risponde con una contorsione più decisa del collo.

“Ma sì, perché no…cicciona!”

Antonia si alza e va verso la busta dei croccantini pensando che forse dovrebbe prendere l’abitudine di dare alla gatta i resti dei suoi pasti come le hanno consigliato ma proprio non ci riesce, i gatti che aveva in città erano abituati a ben altre leccornie!

“I gatti sono abituati a tutto!”

Le aveva detto Anna ridendo qualche giorno prima.

“Ma è incinta!” aveva risposto Antonia sgranando gli occhi.

“E allora? Meglio! Non lo sai che quello che non ammazza ingrassa!”

 Chissà come doveva sembrare eccentrica, lei, proprio lei che aveva passato la vita a cercare di farsi piccola, sempre più piccola per sfuggire alle botte del marito, agli sguardi accusatori dei colleghi, alle occhiate ammiccanti del suo capo, alle domande inquisitorie degli avvocati, alle accuse della suocera e…

 

Marina esige attenzione. Antonia è immobile; la mano sospesa sopra la busta dei croccantini.

Guarda la gatta e pensa che manca poco e si chiede di che colore saranno i gattini, neri o forse maculati rossi e neri come la mamma, non che ci sia una gran scelta, i gatti maschi in giro sono tutti rossi o neri, staremo a vedere.

“Stasera menù speciale, Mari’, offre la casa!”

Antonia si avvicina al frigorifero e tira fuori quello che è rimasto della sua cena: un po’ di pollo e qualche verdura, scansa le verdure e le mette da parte, prende il pollo e lo spezzetta nella ciotola della gatta.

“Guarda che i gatti se la cavano benissimo con le ossa!”

Le sembra di sentire la voce di Anna e sorride. Ha molto da imparare ancora, ma imparerà.

Ora che è salva.

 

 

 

 

 

*

L’Acqua

 

L’acqua

 

L’acqua schizza dal rubinetto stride e precipita nel buco del lavello con un tonfo sordo.

Il rumore dell’acqua che scorre, pensava, deve essere lo stesso in tutte le case del mondo. Una volta qualcuno le disse che nell’altro emisfero l’acqua gira in senso contrario; per la rotazione terrestre, le avevano spiegato e lei  annuì, sicura che non avrebbe mai verificato e che non sarebbe mai andata dall’altra parte del mondo né in un posto qualsiasi, forse, oltre la sua provincia.

 

“Che fai Anita, dormi?”

“No. Pensavo all’acqua che…”

“Cosa?”

“Niente.”

“Allora sbrigati, è tardi!”

È tardi, già. E la sua amica è già pronta da un pezzo. Sono cresciute insieme, loro due, in quella città di mare che esplode di gente, l’estate, l’inverno di noia. La sua amica non ha finito neanche la scuola e gestisce il ristorante di pesce del padre che un giorno sarà suo. Lei no: Anita ce l’ha, il diploma, e anche qualche esame all’università, ma non ha mai inviato un curriculum. A Bologna era tutto diverso, era sempre freddo e non era abituata a condividere una stanza; da lei gli spazi erano enormi, a Bologna non si era davvero integrata, era troppo vicina a casa e ci tornava troppo spesso e per periodi sempre più lunghi. Anita lo sapeva, sarebbe stato meglio Milano o all’estero, ma all’estero, chissà, magari i suoi avrebbero fatto storie; così era andata a Bologna, per capire, si rassicurava. Dopo due anni aveva capito soprattutto che voleva una stanza singola e quell’estate cominciò a lavorare nel negozio di famiglia, per risparmiare, si diceva, ma aveva smesso di rispondere ai suoi amici dell’università e, anche quando venivano a ballare sulla costa, li evitava e alla fine dell’estate non era più tornata a Bologna. Così, sono sei anni che Anita gestisce il negozio di souvenir che un giorno, naturalmente, sarà suo e che già da ora è aperto solo in alta stagione, quando le strade si riempiono di biciclette e motorini e cani che ci corrono dietro, quando le case disabitate si colorano di asciugamani sbiaditi, i bambini si schizzano con il tubo dell’acqua, i ragazzini fumano le prime canne e le bambine si tingono già labbra e capelli: sempre più piccole, sempre più in fretta.

 

“Allora ti muovi?”

“Arrivo.”

Le mani a coppa si gonfiano di acqua ghiacciata e la gettano sul viso; una chiude il rubinetto e traccia qualche linea di nero sulle palpebre, l’altra stappa il flacone del suo conforto quotidiano. Una, due pasticche: è pronta per il solito tuffo in un’altra notte troppo lunga, colorata, appiccicosa; notte torbida di fine estate. È così diversa l’estate e così inutile che sembra di essere in un altro posto, forse proprio nell’altro emisfero.

La macchina è rossa, aperta, brillante; il motore ancora acceso, il portone già spalancato. La sua amica scende in fretta, i piedi di Anita tremano dentro le scarpe viola, lucide, strette, nuovissime. I tacchi sono troppo sottili, vorrebbe cambiarle ma le gambe si rifiutano, affrontano gli scalini ripidi di sbieco come locomotive esperte su binari sgangherati.

“Andiamo dai! Ma che hai stasera?”

“Niente.”

In macchina due uomini stretti in giacche scure, capelli lucidi all’indietro e una ragazza troppo bionda e giovane che trabocca da un vestito vermiglio sorridono. Le labbra della tipa sono piante carnivore grasse e fiammanti, si avvicinano per baciarla e Anita quasi si scansa, la sua amica si lascia inghiottire, distratta: ha l’aria di una che ne sa più di lei di piante carnivore e fiamme e, forse, ne sa più di lei in assoluto di tutto; lei che almeno da quella città non si è mai allontanata e adesso non sente la stretta allo stomaco di fine estate, né quella dell’inverno, niente. Anita no: lei è sempre stretta o larga. Anita non sa più a chi dare del lei o del tu, non capisce certe parole in dialetto, ha un accento diverso e l’aspetto delle sue coetanee la sconcerta. Da quella volta che ha scambiato una sua ex compagna di classe per la sorella, che ha almeno dieci anni di più, non chiama nessuna per nome e non capisce perché tutti quanti si ricordino tutto, dettagli invisibili di fatti lontani che a lei sembrano stralci di altre vite: il suo passato, questo presente, la pausa a Bologna e il suo uomo che prima era un ragazzo e non le piaceva, prima. Anita non sa a chi dare la colpa, neanche ai suoi. L’avevano lasciata andare e quando era tornata e rimasta erano stati contenti alla stessa maniera. Forse il padre di più. Forse, pensava, la madre era più contenta prima, quando aveva deciso di andarsene. Ma non era sicura neanche di questo e non aveva niente da rimproverare a nessuno.

“Ciao, ci mettete sempre così tanto?” la ragazza ride.

“Ciao!” risponde la sua amica “dipende” e ammicca.

“No” aggiunge Anita, in ritardo. Nessuno ci fa caso, gli uomini ridono: hanno firmato qualche contratto con qualche gran costruttore; le donne si avvinghiano, Anita guarda i loro corpi dilatarsi come attraverso una palla di vetro per pesci. Eppure credeva si fossero appena conosciute.

 

Le luci di semafori e locali ingurgitano la strada in un vomito di colori artificiali. Il vento strappa qualche lacrima nera di mascara, taglia la pelle e i capelli delle donne, quelli degli uomini no: quelli restano scolpiti. La vista si appanna, a tratti rivela profili troppo netti, come un ritocco a basso costo o un ritaglio di giornale sfuggito al vento.

 

La macchina inchioda nel vicolo. A fianco, il locale sputa e inghiotte corpi accalcati in file ondeggianti, odore di fritto, sudore, profumo indiscreto e lacca, odore di gente fusa; sopra, una nuvola tossica asfissiante. La vista si sfuoca di più.

“Anita ma che hai?” chiede l’uomo che guidava.

“Niente” 

“Ho io qualcosa per te”
Non fa in tempo scuotere la testa che ha già sulla lingua il sapore amaro di un altro veleno familiare: un’altra caramellina di fiele dolcifica la notte, scava la gola e va in fondo, ottunde e risale e trascina la mente. La vista  ritorna e va oltre la sala, le mura, i palazzi, la città, oltre i volti e ancora più in là fino alla spiaggia e più giù, verso il fondo del  mare.

“Andiamo sbrigati, conosco uno che ci fa entrare subito” le dice qualcuno. Una mano la afferra, sente il solco delle dita nella carne, le sembra quasi di percepire l’odore dello smalto appena messo, è una mano di donna, la voce non l’ha riconosciuta però. La fila intorno si dissolve e sono già dentro, i piedi scendono a precipizio le scale ripide arabescate di moquette fluorescente e macchie, la pista luccica di corpi rallentati o convulsi.

“Anita, vai in bagno, c’è una sorpresa” grida la sua amica più forte delle casse.

In bagno c’è la bionda di prima che mormora qualcosa: braccia aggrappate al lavandino, testa in avanti e labbra lucide rosse contratte in un riso demente. Le passa una banconota arrotolata e indica una striscia di bianco su bianco. Anita sbaglia la mira, le sanguina il naso, la tipa ride più forte, Anita tenta con l’altra narice, sale la botta rosata di sangue e anfetamina. Ancora un assaggio di veleno e tutto è insonorizzato, ancora un altro assaggio, la ragazza sparpaglia la polvere sul lavandino e ci ficca il naso dentro.

“Non esagerare!” bisbiglia Anita. L’altra scoppia in un rantolo stridulo.

“Io non esagero mai, e tu?” Anita non risponde. Lo specchio rimanda due colature nere di trucco dagli occhi agli angoli della bocca e due rosse dal naso alla fossetta del labbro superiore. Il rubinetto non funziona, esce una goccia d’acqua per volta.

“Tieni” la ragazza le passa una bottiglietta di plastica “è solo acqua!”

 Anita ne versa un po’ dentro gli occhi.

“Sei matta!?”La ragazza non ride più. Le strappa la bottiglia di mano e, forse, grida qualcosa. Anita distingue solo la smorfia del labiale, è una smorfia di terrore. Sente ancora la mano che la trattiene, qualcuno si avvicina ma lei vuole andare.

La porta del bagno è inchiodata, i piedi slittano, le luci roteano in un limbo abbagliante, le facce, i corpi si attraggono e respingono risucchiati in una spirale lattiginosa. Dalle casse arriva l’eco di un lamento fossile.

“Ehi sta attenta, ma che fai? Guarda che sta proprio fuori questa qua!”

Qualcuno la urta. Un bicchiere si sgretola muto a rallentatore. Anita fa per raccoglierlo, stavolta le scarpe non reggono. Il pavimento è freddo, inondato da un diluvio di luci. Adesso è tutto fermo davvero, giusto un attimo. Volti scuri dai lineamenti confusi la soffocano, poi chiari, poi niente. La musica riprende. Qualcuno le sfila le scarpe e la porta in braccio. Il ritorno è un vortice rosso ventoso, sapore di bile e frammenti viola tra le mani, sono ancora le scarpe o le luci. Poi il buio

 

“Sei sveglia?”  

Anita solleva appena le palpebre. Il giorno filtra in rettangoli tra le persiane. Riconosce la camera: è quella dell’uomo che guidava. Sente fresco sulla fronte, l’uomo le sta cambiando la borsa del ghiaccio.

“Anita, è la terza volta in due mesi che ti succede. Alla fine ci resti!”

 

Anita finge di dormire e non risponde, non vorrebbe parlare mai più. Guarda la stanza e considera che la fine non dà resti. In fondo, la porta del bagno socchiusa scopre un triangolo di maioliche verdemare e uno specchio che riflette il suo corpo sdraiato sul letto dell’uomo.

L’uomo si allontana, entra nel bagno e svuota la borsa del ghiaccio nel lavandino, poi apre il rubinetto e l’acqua comincia a tuffarsi nel solito modo.

Il tonfo dell’acqua che scorre, comunque, fa sempre lo stesso rumore, è sicura,  in tutte le case del mondo.

 

*

Contratto letale

Una donna e un uomo, autunno inoltrato. Di fronte una scogliera, dietro una baita.

 

"Dunque" dice la donna "è sicuro, va bene? Io posso pagarla a lavoro ultimato."

L'uomo annuisce. Taglia il sigaro frugando nelle tasche, lei ha già la fiamma pronta.

"Sta bene" risponde lui.

Nota il profilo della donna, aguzzo, svelato a tratti dalla spuma delle onde sui frangiflutti.

"Ha controllato? Sa, questo non è proprio un affare, nessuna speculazione in vista"

"Sta bene" ripete l'uomo troncando il discorso "non sono un imprenditore."

Le appoggia una mano sulla spalla. 

Pensa che è magra e più giovane di quanto avesse calcolato.

Lei storce la mascella in un ghigno metà sorriso ma non si ritrae.

"Bene" dice lei, mano già in borsa "non resta che firmare",

Di colpo, sospesa fra gli scogli e la tempesta la donna volta il viso verso l’uomo "prima, però, è necessario che mi assicuri qualcosa. Io non voglio in alcun modo che…"

"Senta" la interrompe "sta bene per quello che mi chiede di fare. Gli extra non rientrano nel contratto."

Girata ancora verso di lui, la donna sorride: fronte liscia e fossette profonde ai lati della bocca.

"Sono sicura che quello che le chiedo rientri nel contratto."

"Insomma, cosa vuole?"

"Mi sono informata, sa, del resto abbiamo..."

"Certo, abbiamo forse delle conoscenze in comune" l'uomo contrae le mascelle e in un fiato "non mi sembra il momento di parlarne."

"No di sicuro, mi scusi."

"Non serve scusarsi, per favore, mi dica cosa vuole, senza equivoci."

"Naturalmente, senza equivoci."

 

"Dunque?"

"Guardi, è molto semplice. Io voglio che lei lo faccia in un momento in cui" esita. L'uomo attende.

"Io voglio che lei mi sorprenda, sì: mi sorprenda in un attimo di perfezione. Insomma, quando mi troverà bella davvero."

"Avrebbe, per caso” a occhi bassi “avrebbe ancora da accendere?"

"Sì, sì, tenga, ma ha capito cosa intendo? E non mi guardi così, so bene di essere bella o di sembrarle bella. Intendo in ordine. Sa, con il rossetto, lo smalto, i capelli in piega, un vestito adatto e..."

"Adatto a cosa? Senta, anche io mi sono informato e sembrava che lei, insomma che non avesse particolari..."

"No certo, non ne ho. Se è questo che la preoccupa. Io non voglio che sembri un suicidio né tantomeno un'esecuzione e meno ancora quello che è. Voglio solo essere consegnata in ordine!"

"Sta bene” l’uomo è indaffarato con il sigaro. Lei attende. “Ma: consegnata a chi?" trattiene un fremito.

"Alla morte, naturalmente."

 

L'uomo aspira lunghe boccate. Le donne non le aveva mai capite e non gli piaceva in modo particolare svolgere il suo lavoro se si trattava di donne, Questo, tuttavia, era un caso diverso.

 

"Senta" riprese lei stringendosi contro la spalla dell'uomo "immagino che lei creda di avere una certa etica, o morale? Non ricordo mai la differenza, ma sa che le dico? Non dovrebbe averne in questo caso e non mi guardi come se fossi una strega!"

"E lei che ne sa?"

"Di streghe o di etica?!" e scoppia a ridere alzandosi in piedi.

 

L'uomo sente freddo nel punto preciso da cui lei si è staccata. In piedi, sugli scogli e con la spuma contro, sembrava sempre più magra, sempre più giovane. 

Una bambina - pensò - non posso farlo.

 

"E chi glielo dice?" sussurra lei.

"Prego?"

"Ho più anni di quanti lei creda o voglia vedere. In più posso pagarla, conta questo nel suo mestiere giusto?”

“Sì, giusto.”

“E ho voglia di fare l'amore."

L'uomo aveva la stessa voglia da subito ma non avrebbe lasciato che questo interferisse. Mai, né l'amore né l'amicizia avevano interferito con il suo lavoro, mai avrebbe interferito l'ultimo capriccio di una ragazzina borderline: lui era un professionista e certe questioni le lasciava fuori.

 

"Lei mi piace e se proprio non vuole accontentarmi almeno avrebbe qualcosa?”

“Che intende?”

“Qualcosa come ultimo desiderio…"

Ecco, questa era una richiesta ragionevole. A questo ci era abituato, soprattutto quando si trattava di ricchi viziati con il cervello mangiato da anni di abusi di sostanze, farmaci e noia. Non si era mai chiesto perché scegliessero questo piuttosto alla disintossicazione e non aveva mai bevuto la storia che dopo un po’ il cervello non lo recuperi più. Lo recuperi eccome, conosceva almeno tre persone perfettamente reintegrate, un po’ noiose, forse, ma vive.

“Allora? Almeno un viaggetto finale me lo offre?”

 "Sì certo. È compreso nel contratto" e l’uomo tirò fuori dalla sua valigetta, un laccio omeostatico, bustine, ampolle etichettate, siringhe, pillole, imitazioni quasi perfette di pipe da oppio, cucchiaini, lamette, un foglio imbevuto di LSD grande come una bicicletta e un paio di bottiglie.

"No" rise "non intendevo quello "prendo volentieri un po' di whiskey, il resto non mi interessa. Magari mi piacerebbe accendere un falò, fare un bagno, quelle cose che non ho mai fatto quando ero impegnata a fare le altre"

"Altre? Quali?"

"Quelle che ha tirato fuori dalla valigetta"

"E allora, cosa vorrebbe?"

"Gliel'ho detto: fare un bagno, accendere un falò"

"Un bagno, a questa temperatura?

"Un bagno, sì, a questa temperatura, quindi? Ha paura di cosa, che io muoia? Certo, sì, la capisco. Mi dia il contratto e la mia penna, firmo, mi prendo ogni responsabilità" ride a testa indietro e con aria marziale.

"Le assicuro che se anche dovessi morire congelata e non per sua mano, avrà quanto stabilito. Sta bene?"

"Sta bene" risponde l'uomo di getto "ma no, no che non sta bene!"

"Perché?"

"Io sono un professionista."

"Questo l'ho capito, altrimenti..."

"Altrimenti cosa?"

"Niente di importante, davvero. Capisco che lei non accetti un compenso per un lavoro incompiuto, però."

"Infatti."

"Allora, beva un po' con me e tolga di mezzo tutta quella roba, ci si potrebbe fare male" e si stringe ancora a lui.

"Mi presterebbe una manica del suo cappotto? E non mi guardi così, ho freddo, mi abbracci, mi lasci infilare un braccio nella manica del suo cappotto o forse non posso?"

 

L'uomo sfila la pistola dalla fondina e la manica fa spazio alla donna, nota che è quasi nuda e scalza. È più bianca della scogliera e ha i capelli nero-blu come il cielo, sembra una versione artica di qualche antico camaleonte.

"Mancano le stelle" fa lei.

"Come?"

"Sì, con tutto questo bianco e nero e blu in tempesta, non si vedono le stelle. Peccato. “Comunque là, guardi, proprio là" l'uomo segue la linea sottile dell'indice.

"Esatto, là: si vede sempre la Cintura di Orione in questo periodo!"

"Non vedo niente."

"Certo, si avvicini, ancora." 

La donna gli pianta la lingua in bocca e afferra la mano. 

 

Le cosce sono ghiacciate, ma dentro è calda e viva, troppo viva.

Lui fa per ritrarsi ma le dita sono intrappolate

"Senta, mi faccia almeno fare il mio lavoro con pulizia."

"Cosa intende?" dice lei montandogli sopra.

"Intendo che…"

"Cosa?"

"Avrebbe una sua fotografia di quando si sente bella Per me è difficile altrimenti accontentarla."

"Dovresti pensare meno adesso, io sono sempre bella, lo hai detto tu."

"Non mi pare, pero…"

"Pero?"

"Però, magari questa volta potrei lasciare. Non hai ancora firmato niente e io in fondo…"

"Il fondo è molto lontano da qui. E non credo tu possa sistemarmi i capelli, lo smalto, il rossetto e chissà che vestito mi metteresti addosso, Ho cambiato idea!"

"Bene! va bene" 

Va bene si ripeteva l'uomo spingendo. Si sentiva sempre più vecchio e la donna sembrava sempre più una ragazza.

"Continua" insisteva "continua, non ho cambiato quella idea, ho solo deciso che va bene anche così, tutta scomposta, ma scomponimi, se ci riesci, Fammi venire!"

L'uomo spingeva, le mani ferite sotto le ginocchia della ragazza.

"Perché stai così attento a non farmi male?"

"Me lo hai chiesto tu?"

"Quando?"

"Prima. Hai detto che volevi essere consegnata in ordine alla..."

"Era un modo di dire"

"Io, ecco, non volevo ti restassero cicatrici inutili"

"Pensa a scopare, alle mie cicatrici ci ho sempre pensato io!"

 

La marea era scesa, la Luna al tramonto. L'uomo aveva perso il giro del tempo e i tratti della donna sopra di lui svanivano e si svelano con la risacca, allo stesso ritmo. 

 

Un gemito più forte degli altri lo scuote.

"Dammi la penna, Dai, dammi la penna, voglio firmare e voglio che tu lo faccia ora?"

"Ora?"

"Sì ora, ora, ma dammi la mia penna, dai, adesso, voglio che tu lo faccia ora, finché sono funesta e non mi interessano lo smalto, il rossetto, i vestiti, il futuro! Fallo"

L'uomo cerca il contratto, è illeggibile, Bene - pensa - una scusa per non adempiere.

"Dammi la mia penna e fallo"

"Eccola!"

 

Un grido rompe la risacca. La donna si inarca lenta sugli scogli, coperta a metà dal cappotto dell'uomo. Il seno e il profilo aguzzo spiccano bianchi come la Luna.

 

"Perché lo hai fatto?" chiede lui, paralizzato. La lama della stilografica conficcata nell'occhio destro, il riflesso delle gambe a compasso della donna fisse nel sinistro e gocciolanti.

 

Lei sfiora il rivolo di sangue e se lo porta alle labbra.

"Vita! Questa è vita, in mancanza del rossetto!"

"Perché lo hai fatto?"

"Non lo sai?"

"No"

"Davvero?"

"No, davvero"

"Semplice, l'ho fatto perché lei non è un professionista. Inoltre è un mercenario e un assassino."

 

 

La donna si allontana, fruga tra gli scogli, estrae un involucro e lo dispiega al vento.

L'uomo, immobilizzato, percepisce la sua figura bianca rivestirsi di nero. Le parole della donna gli arrivano sfumate dall'eco dell'alba.

 

"Sì, sì certo, ne ho trovato un altro"

Chi? Cosa? L'uomo vorrebbe gridare ma la paralisi glielo impedisce.

 

"Non dovresti avere paura. Non tu, non adesso" gli sussurra lei da lontano. Senza parlare.

Come è possibile? - si chiede - come fai?

 

"Capirai!" risponde la donna prima di svanire.

 

Rumori di eliche, un ronzio e grovigli di voci e suoni. Una scala scende dal mezzo sospeso

"Svelta!" grida qualcuno dall'interno "prima che la marea si alzi"

Lei si aggrappa e subito la scala si ritrae.

 

L'uomo vede la scogliera sotto di sé sgretolarsi, il cottage confuso fra le onde.

 

"Era solo un ologramma" dice lei "non preoccuparti, non avresti guadagnato niente comunque, e avresti dovuto controllare meglio".

Il mezzo si alza rapido, la scogliera è una bolla di schiuma fra le onde.

L'uomo fa per chiamarla ma le parole non escono, Le palpebre si abbassano.

 

Non temere, non temere - sono le ultime parole che ricorda.

"Sì, ne abbiamo trovato un altro, non sembrava capire. Sì, è vivo ma avrete molto da fare"

Cosa? Cosa dovrete farmi? - avrebbe voluto gridare l'uomo - e chi? Perché?

Ma la voce non usciva.

Lei era sparita.

La sua mano stringeva ancora il suo ultimo contratto mai firmato. Illeggibile.

*

Una seduta distratta

 

 

Il ragazzo tirava. Calci al pallone, pugni contro la parete, strisce di coca o secchiate di rosso sui vetri della scuola; in ordine sparso e secondo l’anno. A chiedergli ora una ricostruzione precisa degli eventi, c’era da confondersi, mischiarsi con lui.

I peli spuntavano dalle calze della psicoanalista, radi ma coerenti. Erano gambe depilate a rasoio e calze colore daino, uno strazio anni ottanta. Il ragazzo fissava le gambe, l’uomo gli diceva di non farlo per buona educazione. Da uomo, le avrebbe guardate comunque quelle gambe e, da uomo, si sarebbe sorpreso di non ricordare che aspetto avessero, le gambe. I peli, il colore delle calze, la scollatura delle scarpe scamosciate e la misura del tacco erano discronici. L’uomo sapeva che si trattava di un ricordo, il ragazzo credeva fosse un sogno riuscito peggio di altri, nessuno dei due avrebbe saputo giustificare la propria presenza in quello studio, in un pomeriggio assolato di una stagione che non richiede collant ma aria condizionata.

L’uomo sentiva in modo distinto il ticchettio di un orologio troppo vecchio per restare occulto, ogni tanto perdeva un colpo, ogni settanta o settantadue secondi, era difficile calcolare quanti ne perdesse in cinque minuti e cinque minuti era il tempo richiesto per abbandonarsi al ricordo.

Fino alla seduta precedente aveva funzionato. La voce lo aveva sempre condotto, strato sotto strato, nel limbo delle sue amnesie. Stavolta era diverso. Sapeva che se avesse perso fiducia nella capacità della voce di restare soltanto una voce e trascinarlo, avrebbe perso ogni oggetto recuperato con fatica e tempo che, in fondo, non considerava impiegato al massimo delle sue potenzialità imprenditoriali.

“Non farlo” gli sussurrava il ragazzo “continua, apriti, lascia andare”.

Era già successo. Aveva già sentito la voce del ragazzo sovrapporsi a quella della terapeuta, ma era stato all’inizio, quando aveva poco chiara la differenza fra il dormiveglia e il sogno lucido assistito. Ora conosceva il punto preciso di stacco da uno stato all’altro e sapeva che l’analisi, come la utilizzava lui, era giusto un regalo a buon mercato per la moglie e i colleghi. A lui non importava. Neanche, sentiva le urla di orgasmo del suo Ego per la riuscita dell’inganno, quindi, di fatto, era a posto e in più, mancavano poche sedute.

Quando arrivava nel luogo comodo, rassicurante, si addormentava di nuovo, a un livello più profondo, come indicava la voce e lì, sarebbe tornato, sempre come indicava la voce, quando avrebbe voluto. Non c’erano porte, parole magiche, oggetti di transizione o ganci. Era semplice: era sufficiente immaginarsi lì e tornarci. Tornare lì, era come ricordarsi di essere sulla poltrona della Dott.ssa M.

L’uomo, però, aveva scelto di restare sempre in quel luogo comodo, di passaggio. Ogni volta lo definiva in modo più nitido. I dettagli trasudavano realtà invecchiata, quasi marcita. Il prato fresco di pioggia, ora, era stagnante, la terra morbida lo risucchiava, le braccia che lo avvolgevano, di chiunque fossero, erano fili arrugginiti. Tutto puzzava di porto, né turistico né di pescatori. Tutto era un limbo rancido in dissolvenza perenne. Tutto, tranne le gambe della Dott.ssa M.

Oggi, quelle gambe erano l’unica realtà.

“Fermati!” gridava il ragazzo “se hai deciso di fare sul serio proprio ora che è la fine, va bene, ma non puoi scegliere le sue gambe come zona di comfort!”

L’uomo era stato tentato di rispondere ma non aveva ceduto. Un conto era la voce del ragazzo, faceva parte della sua costruzione ma dialogarci proprio no. Questo non faceva parte di niente e, come diceva il ragazzo, mancavano poche sedute alla fine. Che senso avrebbe avuto fare sul serio adesso? E con quale criterio avrebbe scelto un altro luogo ora che aveva impiegato mesi a distruggerne uno?

La risposta era lì, fra i peli rasati a lametta che spuntavano tra le maglie delle calze da impiegata statale anni ottanta. Mai viste calze così sulle gambe delle donne che conosceva. Mai. Neanche alle infermiere o le suore, non alle ballerine, nemmeno alle trapeziste.

Gli occhi erano chiusi, serrati già da anni. Secondo la voce, la regressione dell’uomo era costante, quasi completa, il trauma era stato lieve e già sepolto, si trattava di rendere omaggio alla memoria, mettere qualche fiore, magari di plastica, sulla tomba o spargere i resti inceneriti in un luogo adatto. Niente di eclatante, nessuna scogliera finis terrae, o rito norreno, niente tamburi né sotterfugi.

Lei era risolutiva. Lui era convinto che se la sarebbe cavata dato che lei sembrava, a tratti, persino soddisfatta.

“Non ha dimenticato chi sei e chi eri, non ti sbarazzerai di me” il ragazzo sogghignava.

Qualcosa nella scarpa dell’uomo gli impediva di tornare nel suo luogo comodo.

“Sarà la gravità? Hai dimenticato gli scarponi antigravitazionali?” il ragazzo rideva.

L’uomo si sente soffocare. Intorno lo spazio è nero e non percepisce il peso delle gambe.

“Te lo avevo detto!” il ragazzo saltellava nel buio. Era un folletto distorto, il volto mezzo ustionato, come quello del vecchio che entrava nella sua camera da bambino.

“Te lo avevo detto!” il ragazzo intonava una cantilena contorta di cui l’uomo distingueva poche parole; strofe sincopate in un’altra lingua, la lingua materna, la lingua degli zii.

Il ticchettio dell’orologio è più rapido, non perde secondi e ne mancano cinque, quattro, tre, due, uno. L’erba ricopre lo stagno, il porto svanisce, il ragazzo esce dalla cabina e si tuffa in mare. L’uomo apre gli occhi, si stropiccia e mette gli occhiali da sole; ha il collo indolenzito per la tensione e l’aria condizionata alta. L’analista è immobile ma ha le guance arrossate. L’uomo si chiede come faccia e perché, lei, che potrebbe mettere una gonna, si vesta sempre in tailleur con pantaloni, anche d’estate, anche in quella città.

“Magari sotto ha pure le calze pesanti!” il ragazzo ridacchia appollaiato sulla spalla dell’uomo.

“No!” risponde l’uomo.

“Prego? Ha problemi per la prossima settimana?”.

“No, no assolutamente!” si corregge l’uomo.

“Appena in tempo” continua il ragazzo.

“Bene. Giovedì, alle 14.00 allora”.

 

L’uomo esce scrollandosi il folletto dalla spalla. Anche la donna sente un brivido lungo il collo e pensa che un abito estivo non la renderà meno professionale, anzi, sarà meglio abbassare l’aria condizionata. Certi clienti, alla fine, sembra che abbiano la scimmia di Burroughs sulla schiena.

 

 

 

 

*

La casa di Anna

 

Anna aveva: occhi bassi, vita breve, fretta costante.

Anna evitava: gli incontri casuali e quelli inaspettati, i momenti vuoti tra una azione e la successiva e chi indugiava a guardare i tramonti o le vetrine. Camminava svelta fissando la terra con la certezza che si sarebbe spaccata — lei o la terra sotto di lei.

Anna dimenticava: il calore sul viso, le mani intorno ai fianchi e quelle intorno alla gola, la pentola piena sul fornello spento, il vino nel freezer e il gelato di fuori.

Aveva solo piante grasse e nessun animale domestico né di passaggio. Non produceva avanzi per gatti, briciole per uccellini, storie per catturare altri come lei.

Anna aveva avuto un amore e uno scopo, entrambi più grandi di lei, entrambi poco realistici, a pensarli, ora. Anna non ci pensava. Alle cose pratiche, ora, non pensava e a quelle altre, dello spirito, della coscienza, del resto, aveva smesso di pensare. Anna evitava.

La sua tristezza aveva una cura e un prezzo, entrambi accessibili. Il contorno, il mondo le erano sfuggiti, riversi in qualche cellula della memoria in bilico tra vissuto e sperato.

E non sapeva più niente. Niente di quello che aveva imparato, niente di quello che le accadeva addosso, niente di sé com’era prima e come sarebbe diventata se ci fosse stato un dopo. Il dopo, lei, lo spostava di qua e di là come una maglietta non del tutto sporca, non ancora rovinata da farne stracci, neanche adatta a uscire e scomoda per dormire. Il dopo era un indumento non conforme: come lei che, in questa mancanza di adesione non trovava alcun significato sovversivo o nichilista. Non ci trovava niente.

Anche la pigrizia era uno stato momentaneo e difforme: totale, esagerata, inverosimile. Se fosse stata una pigrizia semplice, l’avrebbe chiamata tregua. Invece, Anna era stanca. Da atea, aveva creato un dio personale manicheo e puntiglioso, dotato di una memoria anodina, quindi, inespugnabile.

Il suo dio automatico le proponeva, per programma, alternative inapplicabili a sviluppi potenziali di situazioni inesistenti. La confusione tra materia e pensiero, forma e oggetto, soggetto e azione si dissolveva nella stasi che era stasi fine a sé e priva di inclusioni.

Dei suoi tentativi era rimasto qualcosa, forse, negli scaffali della casa in fondo al vicolo. Forse, in quell’altra casa dove si era appena trasferita, la mancanza del superfluo era eccessiva — da risultare forzata. Lei era quella, però: tutta piena del suo nulla che non era simile in niente al vuoto di pensiero, alla tregua della mente e delle sue trappole ricorsive.

La nuova casa era bianca, vuota, affacciata sulla fine della città; ma era tardi. Non aveva più voglia di finirla, non aveva voglia di andare, né di sistemare gli scatoloni, la vita, il resto.

Aveva smesso di collezionare ipotesi e di cercare il punto preciso della frattura. Sapeva che ce ne era stato uno e che la causa era lontana, la “colpa” esterna, ma cambiava spesso versione. Alla fine, aveva smesso; le versioni sfumavano tutte nello stesso paesaggio misto di alba e distruzione. Sarebbe stato meglio non ricordare niente, continuare con gli incubi o i sedativi, occultarsi dentro la terra, buia, sghemba, arrotolata come una matassa sfatta e ricomposta con cura relativa ma senza abilità, senza rettifiche o pietre lucenti da scovare — senza scavare.  Non era andata così. Sedativi e incubi le si erano incastrati dentro e coalizzati, insieme agli avanzi di quella che non era diventata, scavano la loro propria trincea a basso costo.

Anna era stanca e pigra; non aveva un’età ragionevole per morire suicida.

Sarebbe rientrata in un’altra statistica: incidente stradale, incidente domestico, fatalità. Aveva smesso di chiedere aiuto e di mettere ordine. Aveva smesso di provare e sentire, non gridava più. La sua fiamma pilota era diventata una fiaccola, poi un moccolo, poi una coppetta di cera liquida economica con lo stoppino annerito che ci affogava dentro.

La casa era nuova, bianca, sgombra. Il suo compagno diceva di amarla; il resto, forse, avrebbe ripreso il suo corso. Forse: ma senza di lei. Anna continuava mossa da un obiettivo: finirla. Casualmente.

Da atea, confidava nel caso e il caso, per lei, era diventato l’attitudine canalizzata all’autoannientamento. Aveva superato la rabbia rinunciando al perdono. Non perdonava né si arrabbiava, davvero. Aveva dovuto accettare l’evidenza di sé ingoiando tutto, sputandolo addosso a chi poteva o capitava, per non soffocare e l’aveva fatto di sicuro più volte di quelle che ricordava o che riconosceva. Ora le avrebbe riconosciute tutte, ma ora era tardi, era tardi per ogni cosa, soprattutto per lei. Era tardi anche per fare bagni consolatori nello strazio. I segni sui polsi erano rimarginati. Lei no. Lei andava avanti con l’unico obiettivo: finirla. Un giorno in più, una settimana in più, un mese, due, il prossimo autunno.

Le avevano anche dato quello che meritava, in ritardo, ma nei tempi. Non aveva avuto quello che meritava prima, quando chiedeva con poche parole. Ora era tardi; adesso erano fiumi di parole tra parentesi o silenzi piatti, interminabili. In compenso, non provava più rancore. Le parole e le azioni subite vorticavano, ma i contorni sfumavano il ricordo. Quell’anno, di cui era certa, sarebbe potuto essere un altro o altrove. Quel fatto che aveva chiarito, nella ricostruzione raccontata, si sarebbe potuto leggere anche all’opposto o in parallelo.

Anna era stanca. Impigrita, violentata, ignorata, derisa, umiliata e, finalmente, arresa. Lei era piegata e arresa.

Il solaio era pericolante, domani sarebbero venuti a rinforzare pavimento e balaustra, l’area inagibile era delimitata da due file di transenne, visibili e inequivocabili. La casa, d’altronde, era proprio perfetta: vuota, bianca, affacciata sul nulla. Sarebbe diventata come voleva lei, come avrebbe voluto prima di cedere.

Anna era stanca, era tardi e le transenne, nella notte, risaltavano meno. Un passo, due, cinque, altri due. Stavolta aveva scelto meglio, stavolta la casa era al settimo piano.

*

Marmo - Racconto breve

La donna guardava il marmo freddo. Tre quarti di profilo perfetto. Un cristallo seccato dal sole, impercettibile, rivelava che aveva pianto. Almeno una volta. Forse, solo quel giorno. Ma il trucco sul volto restava immune.

 

Sua figlia la guardava. Non capiva perché l’essere umano avesse inventato una cosa così, una cosa come questa. Negli anni avrebbe trovato la parola adatta: perversa. I morti stipati in loculi come prodotti nei supermercati.

 

Sua madre era alta, dritta sulla scala come la cassiera del supermercato dietro casa, e suo padre, era tanto alto anche lui, come poteva entrare lì dentro? Ma a scuola le avevano detto che un tonno era alto più o meno quanto lei. Ecco, in scatola. Nessun problema. Bastava smembrarlo. Staccare la spina dorsale. Al corpo di suo padre doveva essere successo qualcosa di simile, forse.

 

Del marmo ricordava soprattutto il riflesso rosato. Il sole lontano da qualche parte, e l’improvvisa sfumatura di rosa. Il rosa non le piaceva. E neanche il marmo. Il marmo era la tromba delle scale, il corrimano freddo, alto come lei, nero come la pelle del tonno. Sei piani a piedi per arrivare lassù. A scendere sembravano meno.

 

Negli anni avrebbe scoperto che i piani erano solo due, sei erano gli anni che aveva. A tornare indietro sembravano di meno. Possibile fosse stata così piccola? Più bassa di un tonno?

*

L’inventore di sogni

L’inventore di sogni

 

Michele era basso, nervoso, prosciugato, sordo alla rissa ma velocissimo di lama. E già perso. Insomma, con Michele era meglio non litigarci e, inoltre, sembrava più alto.

Immaginarlo al lato del bancone, di un pub fumoso con la spillatrice di birra, bionda anche lei, giovane o rugosa secondo il vezzo di chi legge o scrive, va sempre bene: Michele.

Il ricordo del pub fumoso e aperto il pomeriggio o aperto fino a così presto la mattina che poi fuori è giorno, invece, è più difficile. Almeno, per me, che sono donna, ho una certa e comunque a Michele, magari gliela avrei pure data, ma non di pomeriggio.

In ogni modo, a Michele non importava quasi niente: della fica, la politica, il disturbo della quiete, il diritto al riposo, il calcio, l’oroscopo, la birra in plastica dopo un’ora precisa della sera, ma sempre diversa in ogni città per ogni stagione.

Michele, al pub, ci andava di pomeriggio. E non era disperato. Non era abbastanza giovane per redimersi o vecchio per dare consigli e non era, soprattutto, in quella età di mezzo adatta al pentimento. Quella età che si dilunga per generazioni e a ognuna ruba quattro, cinque anni, quanto basta, così che la durata della crisi coincide quanto serve con tutta l’età adulta.

A Michele non importava della crisi. Era sempre vestito di jeans, forse, o forse di velluto a coste, forse, il pub era sempre fumoso, infatti; e la donna al bancone, sicuro, un po’ mignotta, per scelta, ovviamente, e soprattutto perché la parola mignotta è proprio l’unica che rende l’idea. Secondo Michele che all’etimologia ci stava attento.

Ecco, il vero interesse di Michele: l’etimologia.

A circa un terzo delle parole già scritte sull’idea complessiva della bozza, è il minimo dare una virtù a Michele che, essendo l’unico nominato, è per necessità il protagonista.

Dargli uno scopo vero.

Trascendente.

Forte di librarsi sopra il bancone fumoso — detto fra trattini, se qualcuno (e mi rifiuto le “barra a” dato che l’italiano equipara il neutro al maschile e personalmente sono d’accordo, ma proprio d’accordo, d’accordo alla Christa Wolf, se qualcuna intende, sull’equiparazione maschile neutro e soprattutto poiché questo è un bieco esercizio di stile, io non sono una scrittrice, questa non è narrativa e di certo non ho stile) conosce un pub fumoso dove è sempre buio, buio davvero anche a luglio, magari fresco e senza obbligo di consumazione, con il fumo più che altro decorativo dato che in realtà fumo poco e, anzi, con gli anni mi urta anche un po’ la condensa, comunque se lo conoscete un posto così, sarei molto lieta di scoprirlo, anche io—elegante e inaspettato come la spillatrice di birre, che sciacqua le olive (tre!) prima di infilzarle con lo stuzzicadenti del cinese e affogarle nel vermut del discount, per niente dry, ma bilanciato da un accettabile gin. La barista beve gin, il Martini lo sa fare, di pomeriggio, nel fumo del pub, rigorosamente vuoto eppure al centro di Roma, era chiaro fosse il centro di Roma.

 

Bene, poiché ci si accinge alla risoluzione del racconto e va giustificato il titolo —altro motivo per cui, dell’italiano, oltre al neutro equiparato al maschile, è il caso di apprezzare le infinite potenzialità aperte dall’uso della forma passiva: fuorimoda come una permanente anni ‘80, vilipesa come un gay che non fa outing il giorno di Natale di fronte alla nonna novantenne — e poiché non è accaduto quasi niente: ecco Michele, scosso dal suo torpore. Attore di tutta la trama.

Dunque: Michele tutto vestito di jeans a coste — privo di veri interessi e per sua fortuna tutto privo anche di più di drammi — è appoggiato al bancone.

Entra un avversario. Chiede un Martini. La donna al bancone miscela un eccellente Martini cocktail, forse un po’ dolce per Hemingway che era più alto e maschio di Michele, tuttavia un gran Martini: con le olive sciacquate dalla salamoia e tutti gli orpelli del caso di un pub fumoso senza lavastoviglie, eppure al centro di Roma. Il tizio, però, la schifa e dice qualcosa che per ragioni di spazio ha poco senso indagare, qualcosa che include la parola “mignotta”.

“Eh no!” chiarisce Michele “la signora è tutt’altro che ignota.”

In più, per fatica o gioventù, la signora ha sgravato proprio lui: un difensore dell’etimologia. Uno che è meglio non litigarci e tutto il resto ma che la madre, puoi anche offenderla, certo (mica è bigotto!), come la crisi, la fica, la politica, il calcio e tutto il resto, ma senza imprecisioni. Soprattutto senza imprecisioni avvocatesche di etimologia che, si intuisce a questo punto, sarebbero il motivo vero per cui il davvero Michele svuota i suoi pomeriggi nel pub insieme ai bicchieri.

Ci è voluto un racconto inutile, ma finalmente Michele uno scopo ce l’ha. Un dramma persino, ce l’ha. Quindi: un passato potenziale parallelo antagonista futuro, insomma un fantasma frustrato regnante, un alter ego, un arazzo, un doppio sognante, un tarlo, una tenia, un verme solitario, un po’ di gastrite, almeno, qualcosa ce l’ha! Qualcosa Michele, finalmente, ce l’ha, oltre il velluto jeansato accostato alla permanente gay anni ’80!

 

Questo sognava Michele, accasciato sulla piramide di pinte svuotate, verso le due di notte, di fronte al cartello lampeggiante “non soking”, — la”m” è fulminata dal giorno del divieto.

“A Miche’, sveglia, devo chiude” urla la davvero biondissima, stanca, eternamente all’erta, livida, pallida, negra barista “vattene!”

“Mamma!” risponde tutto luce e moccolo Michele tirando su la faccia e il naso dal bicchiere.

“C’hai detto? Mamma a chi? Ma che te sta’ a inventa’? Stavi a sogna’? Levete che devo chiude!”

“Ecchilo” rincara un tipo all’altro lato del bancone “ce mancava: è arivato l’inventore di sogni!”

 

 

*

Ultime righe

Lauren guarda il soffitto, non si era resa conto di averle lanciate tanto in alto — così lontane, appena distinguibili fra le crepe dell’intonaco. Se non avesse appena finito di lanciarle, avrebbe giurato che non fossero sue, ma le ustioni sulle mani testimoniavano:  le aveva tirate lei, lassù, quelle righe. Le ultime. Poi, se ne sarebbe andata, fino a domani, come sempre, ma stavolta davvero. Aveva avuto tutto — davvero. Ogni sua richiesta all’Anello del Tempo era stata — con puntualità non richiesta — esaudita.

Per un momento, si era accorta di quanto aveva messo in atto, inconsapevole. Un momento ogni molte ère, Lauren se ne accorgeva ma, sempre, quando si trovava un frammento troppo vicina allo scatto e non era, finora, riuscita a inceppare l’Anello né a lasciare una traccia per la replicante successiva.

Stavolta ce l’aveva fatta. Erano le sue righe, le aveva tirate con meticolosità, una accanto all’altra, erano tutto. Racchiudevano le chiavi e i codici per la Camera Centrale, la grande cassaforte dove era custodito l’Anello del Tempo.

Sapeva che non sarebbe stato facile per la prossima Lauren decifrare il suo messaggio, aveva dovuto criptarlo al limite della comprensibilità, però, trovato l’inizio, tutto si sarebbe sciolto in fretta e lei aveva fiducia nella prossima Lauren, in fondo era lei stessa e, nel tempo aveva scoperto qualcosa: una tavola di memoria ancora rasa, scrivibile.

Aveva ricostruito, una notte dopo l’altra, prima, nelle pause del lavoro, poi, ogni frammento delle precedenti Lauren. Aveva sfiorato la matrice originaria quando non ci sperava più. All’inizio non aveva capito. I grappoli delle sue forme precedenti si annodavano alle pareti del circuito, contratte, per lanciarsi subito in altre forme, più riconoscibili.

Ci era tornata più volte e lo sgomento si era fatto curiosità, poi tenace speculazione. E così, a guardarle da altre angolazioni, quelle forme le apparivano poco diverse. Acquattata in certi angoli ancora vuoti, privi di interesse, osservava la danza e si lasciava trafiggere. Il dolore non aveva presa, lì.

In quegli angoli ancora vuoti non c’erano recettori automatici per la paura, così, Lauren, sicura e rispettosa, aveva visto tutto quello che c’era da vedere, fino alla fine. La sua stessa fine non era più un mistero, le erano state rivelate data e ora, e non mancava molto. Pochi mesi al termine della sua esistenza e li aveva dedicati al Codice: lo avrebbe trovato, era sicura. Aveva intuito anche qualcosa sui viaggi nel Tempo, ma non poteva dividersi, ora che sapeva di averne poco e, dai frammenti che aveva decifrato, traspariva una promessa di immortalità o di ritorno. Il nucleo era lì, ci sarebbe arrivata, lei o un’altra, era lo stesso.

 

Lo aveva trovato, quindi, e nascosto in quella stanza minuscola, nel fondo del soffitto sotto cui ora giaceva, sfinita. L’orologio segnava le tre di notte, le mancava poco, un’ora e ventitré minuti. Uno, due, tre, era divertente, contare in avanti e alla rovescia. Un’ora e venti e tre, anzi due, minuti. Però, si era detta, alla prossima andrà meglio, potrà vivere quanto vuole. Aveva chiuso gli occhi sotto il soffitto e inalato l’ultimo soffio di W.S.

Non ricordava quel sapore, dovevano averla fregata. Non importa, sorride, che importa, adesso. Quando si risveglierà, di sicuro, potrà vivere quanto vuole, già, ma perché? Perché? Per farsi fregare anche l’ultimo desiderio. No! Non vuole più, che la prossima si scervellasse, sì, soffrirà, ma perché?

Con l’ultimo spasmo dei muscoli Lauren si alza sui gomiti, beve dalla tazza di caffè ancora piena, si gonfia come un rospo, prende la mira e sputa.

 

Il soffitto, ora, è imbrattato di marrone, ai lati qualche goccia scivola sulle pareti schiarendosi. Bene, sorride. Che la prossima si ricordasse quanto è stato inutile trovare la soluzione poche ore prima di morire.

Forse, pensa, la prossima si ricorderà che è possibile solo così, trovare la soluzione e poi morire. Magari lo ricorderà e deciderà di farlo comunque o forse no. Non le importa. All’improvviso si sente separata davvero  da tutte le altre Lauren, facciano quello che vogliono. Non le interessa più. Inala due soffi di W.S., è buona. L’hanno trattata bene, è giusto, pensa, è il suo ultimo desiderio. Aspira il resto in fretta, l’effetto dura oltre un’ora, ma lei vuole finire questa esistenza lucida. Sono le tre e venti, perfetto, un’ora ancora senza limiti, e senza colpa, stavolta. E tre minuti di congedo — sorride.

 

Nella stanza accanto la prossima Lauren trema nel sogno, tra poco si sveglierà. Avrà fatto uno dei soliti incubi, verrà di qua, troverà l’inalatore vuoto, avrà la solita crisi di pianto e tremore seguita da buoni propositi fugaci. Farà una doccia in fretta e uscirà. È ancora inverno, andrà verso la stazione, sta seguendo qualcosa che ancora non conosce, dorme sempre meno e usa quantità letali di W.S. — ma solo per poco — si dice, giusto il tempo di trovare il Codice. La soluzione di tutto. Poi, lo sa, cambierà vita. Così, in tre minuti, si vede proprio così, è una certezza ostinata. In tre minuti, una di queste notti, uscirà dal sogno e tutto scorrerà di nuovo come prima dell’Anello. È la sua missione, per quello che ricorda, cosa sarà, in fondo, una vita sprecata a fronte dell’immortalità?

 

La vecchia Lauren apre gli occhi un momento, comincia a spegnersi, sorride. Sa bene, lei, cos’è una esistenza sprecata: tutto. Guarda il soffitto, ora sì, pensa, che la prossima ci farà caso. Fosse stato solo per quelle righe tremule, avrebbe potuto scambiarle per umidità, si conosce. Ma così, una macchia di caffè sul soffitto, dovrà notarla per forza e capirà. Trovato l’inizio, capirà. Poi, faccia quello che vuole. 

*

Il senso

C’era traffico stasera, come sempre, ma stasera che importa. Ferma al semaforo abbassa lo specchietto e si scruta, occhiaie profonde e una ruga nuova all’angolo delle labbra, tira una lunga boccata dalla sigaretta ormai alla fine e la getta fuori dal finestrino. La città è già tanto sporca, un mozzicone in più, considera, che importa. Davanti al locale c’è la solita calca di gente e macchine, a cercare parcheggio neanche ci prova, lascia la sua in doppia fila, accosta lo specchietto e si avvicina all’entrata. Sulla soglia c’è uno più sdraiato che seduto, quasi ci inciampa, una volta avrebbe avuto l’istinto di sferrargli un calcio, ora no, lo attraversa e tira dritta al bancone.

“Ciao”

“Ciao bella, che ti do?”

“Whiskey”

“Intero?”

“Doppio”

Si guarda intorno. A percorrere tutto il locale ci vuole poco, a tratti lo sguardo si incaglia su qualcuno, pochi secondi e la corsa riprende, uno, due, tre giri del locale ma lui non c’è, che importa, arriverà, più tardi arriverà. L’aria intorno è densa di fumo e umida di pioggia.

 Quel pomeriggio è uscita prima dal lavoro e si è messa a passeggiare sotto l’acqua, la prima dopo un’estate torrida. Ha camminato per le vie dietro l’ufficio, spiando nelle vetrine dei negozi angoli di altre vite. La zona dove lavora è abitata soprattutto da persone anziane, le stradine là intorno sono ammassate di mercerie e negozi di casalinghi, le proprietarie sono tutte donne e tutte nonne, dentro  ogni negozio un passeggino, una carrozzina. Ha spiato i rimasugli di quella quotidianità e il solito dolore l’ha invasa. Il solito struggimento che si fa incontenibile nel crepuscolo e si placa solo dopo, con il buio e un certo numero di whiskey. Ha provato a chiamarlo più volte, oggi, per dirgli che era uscita prima e che potevano vedersi a casa direttamente. Lui non ha risposto, non era raggiungibile, come troppe altre volte. Avrebbe voluto dirgli che era stanca, tanto stanca e che lo sarebbe stata sempre di più, che non c’era molto tempo, qualche mese le avevano detto, sei, forse otto, ma lei non si sarebbe accanita, quindi, forse anche meno. Avrebbe voluto dirglielo guardandolo fisso e dirgli ancora che averlo incontrato era stata una ricchezza e quei mesi, quei pochi che restavano… su questo non aveva ancora deciso. Aveva ripensato più volte, lei stessa non sapeva che desiderare né se desiderare avesse ancora senso. Aveva anche paura di quello che lui avrebbe potuto dirle, risponderle col suo solito cinismo per soffocare il dolore e forse lei non avrebbe retto stavolta. Restava soltanto che al telefono non aveva risposto e al locale non si faceva vedere e lei era già al  terzo whiskey.

 

Il cielo fuori ora è nero e compatto e quella morsa allo stomaco si è sciolta nell’alcol. Ancora lo sguardo percorre il locale, si ferma sulla porta. Lui sta entrando, cammina girato di lato e parla col suo amico, non l’ha ancora vista. Lei vorrebbe dirgli tutto quello che si è preparata ma le parole si incastrano in gola. Esce solo un “non è possibile che non ti si riesce a telefonare mai, mi sono stancata, non ne posso più!”

“Stai calma piccola! Hai bevuto?”

“Non abbastanza per sopportarti!”

Il suo amico si mette in mezzo e la cosa finisce lì.

 

Più tardi staranno per litigare ancora perché lui le dirà che non tornerà da lei stanotte. Lei gli griderà in faccia che la sua casa non è un albergo e si odierà nel sentirselo dire. Avrà ancora quella sensazione che le parole le siano uscite di bocca senza controllo, darà la colpa all’alcol senza esserne convinta. Comincerà a detestarsi per quel suo bisogno di voler rimettere le cose a posto, una volta ancora, come se fosse lei a sbagliare. Lui non ci farà caso, avrà solo un moto di fastidio per quel suo insistere e berranno ancora, fino alla chiusura, come sempre. L’ultimo bicchiere in plastica, fuori, sotto la pioggia sottile di ottobre. Si baceranno.

“Hai lo sguardo della morte” le dirà lui.

“Lo so, ci siamo trovati per questo no?... vieni da me?”

“Non posso”

“Perché?”

Silenzio. Silenzio e un ultimo sorso. Ora è abbastanza ubriaca per sopportare. Ora non ha più importanza. Lui l’accompagnerà alla macchina e lei gli dirà ancora qualcosa sulla sua voglia di mare e di caldo, ora che sta per iniziare l’inverno, sì, soprattutto ora e che potrebbero andare da qualche parte dove sta per iniziare l’estate. Lui le dirà che non può. Lei potrebbe, ora, sbattergli in faccia quella verità inevitabile, ottenere da lui tutti i sì che non ha avuto, ma non lo farà, ora ha deciso, non gli dirà niente. Lo bacerà a lungo e salirà in macchina.

Lui la guarderà andare via, la macchia scura mescolarsi all’asfalto e svanire. Aspetterà un po’ e la chiamerà. Lei a casa sentirà il telefono squillare, lontano, ovattato. Non ha la forza per rispondere. Potrebbe essere lui. Importa, ora?

Allora lui salirà sulla moto e andrà da lei. Non è mai accaduto. Che lei non risponda, che lei non aggiusti, credeva fosse lì per questo, come sua madre. Sputa. La saliva resta attaccata un attimo sul casco prima di mischiarsi con la pioggia. Si ricorda di una sera, qualche settimana prima. Era tornato da lei in piena notte, come adesso, dopo averle detto che non poteva  e quella volta sulla moto aveva pianto.

“Ho pianto venendo qui” le aveva detto.

“Per cosa?”

“Per me.”

Quella sera aveva ripensato alle richieste di lei scivolate sempre più nei silenzi e aveva considerato che la sua casa era calda. Lo aveva detto più volte quella notte, che era una casa calda e che lui aveva sempre vissuto in case freddissime. Lei continuava a sorridergli accarezzandolo, ma aveva gli occhi tristi e si era lasciata prendere senza voglia.  Era stata la prima volta, in tanti anni. Lui si era sentito invadere dalla paura di perderla, all’improvviso. Si era ripromesso che le cose sarebbero cambiate e lo aveva detto anche a lei. Lei non gli aveva creduto, o forse sì, ma le cose non erano cambiate. Va da lei e ripensa a quella sera, al suo sguardo nero, a lei che sembrava nuotare in un pozzo. Ha un morso di paura e accelera.

 

La casa è immobile, l’aria densa come un sogno alla morfina. La chiama, non risponde. Accende una luce, un’altra, la vede nel letto, voltata di fianco, solo i capelli e una mano fuori dalle coperte. Si avvicina, si inginocchia dal suo lato e la chiama ancora. Niente. Le prende il viso tra le mani e la bacia. Le prende la mano e la porta alle labbra, è gelida. La chiama di nuovo, la stringe. Lei non si muove, le coperte non si muovono, la sua mano scivola a terra. Nell’altra stringe la foto di una bambina che sorride. Ci sono due date. Una è quella di oggi, l’altra qualche giorno prima di molti anni fa. Cerca in testa fra la giostra dell’alcol. Non ha mai ricordato i suoi compleanni, neanche l’ultimo.

*

Errore - nei panni dell’altr...

Anche stavolta qualcosa si è rotto. Qualche piccolo ingranaggio, di quelli messi a punto da poco, in sperimentazione ti hanno detto, e tu ci hai creduto, e certo che ci hai creduto e che altro avresti potuto fare? Del resto glielo hai detto anche tu, poco fa, mentre bevevate la bevanda del conforto, che in ogni modo ne saresti uscito più contento, forse contento non era proprio la parola che stavi cercando, ma di cercare neanche avevi tanta voglia e così alla fine te la sei fatta andare bene. Insomma ne saresti uscito, bene o male, probabilmente più bene che male e altrettanto non si poteva  dire per tutti quelli che avevano, e quelle certo, e quelle, che avevano partecipato. Avevate iniziato quasi per scherzo prima che la cosa vi prendesse la mano, avevate iniziato così, più o meno come si inizia una partita a risiko, o a scacchi, certo d’accordo, anche a scacchi, solo che tu a scacchi non ci sai giocare e dato che stai parlando di te, ci starà pure che ti venga in mente un eufemismo, non dico tanto, ma che almeno tu ti ci possa ritrovare, così, se un giorno per caso ti andasse di farlo. Allora avevate iniziato così e ognuno, e ognuna ho capito sì, anche ognuna e ora sì che ci devi stare attent…ci devi fare attenzione a quello che dici e a come lo dici. Avevate iniziato per caso, dicevi, o diceva lui, insomma, ogni persona, ecco! E che era tanto difficile? No di certo, perfetto anzi direi, o direbbe, vabbè che importa, avevate iniziato per caso. La prima era stata Luisa e nessuno ci aveva fatto veramente attenzione, poi Giuliano e quello sì, a quello sì che ci avevate fatto caso, poi era toccato anche a Marco, a quel punto qualcuno, sì qualcuno, non qualcuna e qualcuno, proprio qualcuno e basta, a quel punto insomma c’era stato un sommovimento generale nel cerchio intorno al falò. Qualche bottiglia si era rovesciata, qualche piede, ahi!, nudo, era finito troppo vicino al tizzone e un gran casino di sabbia e saltelli.

Ma insomma che è?

E che sarà mai? Ma mica si ridurrà tutto a questo, a qualche centimetro (centimetro?! direbbe qualcuno, sì proprio qualcuno con la “o” indignato e offeso) di carne pendula? (pendula?!...) sì insomma, pendula, tesa, eretta? Eretta? Eretta va bene? Ma sì, boh, non so, non è che proprio non va bene. Allora che è? È che sarebbe coniugato al femminile, insomma fa un po’ strano. Strano? Come scusa? Fa un po’ strano a te fammi capire che c’hai un mondo coniugato al maschile? E io che è una vita? Voglio dire, una vita proprio intera, mica in senso metaforico una vita che: i bambini, per dire i bambini e le bambine, gli studenti per dire gli studenti e le studente. Studentesse. Studentesse non mi piace. Perché? Perché…lascia stare. I lavoratori per dire …beh, no, lasciamo perdere tra un po’ andrà a finire che le donne di lavorare non se ne parla di nuovo e poi si dirà che quasi quasi era giusto dire lavoratori “i”, anzi, avanguardistico, premonitorio.

 Apocalittico? E che c’entra ora l’apocalisse? E che ne so. Beh, senti, ora sono proprio stanca, ma stanca sul serio e non come in quel modo che poi che ne so, magari basta poco, a volte proprio poco e mi riprendo, sono proprio stanca perché non c’è via di uscita mi pare. Ti pare? Mi pare, mi pare. Certo mica che ora d’un tratto, così, io che ero sempre in dubbio, mica che ora posso avere una certezza netta e limpida, senza ombre, però mi pare che stavolta proprio non ci sia più nulla da fare. Voglio dire, prendi un desiderio. Desideralo. Non si può desiderare un desiderio. Uffa!

Allora, prendi quello che è, prima di essere un desiderio. Nutrilo, aspettalo, poi alla fine lascialo andare. Lo lasci andare e il resto va da sé. Che resto? E che ne so! La vita per esempio, con tutte le sue magagne ma anche con le cose belle. Tipo quella volta al mare? Sì, sì, tipo quella volta. Io ti dico di sì, ma mica ho la certezza sai, che ci stiamo riferendo alla stessa volta. Non ce l’hai? No. Neanche io, però io so che comunque ci riferiamo a un ricordo che è bello per tutt’e due almeno. Eh sì, la fai facile tu. Né facile né difficile, scusami, ma l’importante non era tenere presente che partivamo tutt’e due da un ricordo bello? No. Come no? No. Perché? Perché se per te è bella una cosa che per me non lo è, non vale. Ma cosa non vale scusa? Ma che è, un gioco? Non è un gioco, magari lo fosse, è un morbo, capisci, una malattia, che io proprio non riesco a spiegare né a spiegarti, a questo punto. Cosa? Come siamo arrivati fino a qui. Qui? Sì, tutta questa mescolanza, io non la volevo, io stavo bene come stavo, sì, guarda, alla fine la verità è che stavo proprio bene. Ma se dicevi sempre che ti eri inaridita e tutta quella roba lì. Sì però intanto, sai cosa? Stavo bene. E ora sto stretta.

 

Mi viene da piangere.

Lo so anche a me.

Perché?

Per te, e a te?

Anche.

Anche cosa? Per me o per te?

Per entrambi.

Credo di amarti

Anche io.

Va bene.

Va bene

È finita.

Lo sapevo.

Addio.

Addio.

Senti?

Sì?

Non avremmo mai dovuto desiderare di metterci l’una nei panni dell’altro, sai?

Sì.

Se non lo avessimo fatto ora non dovremmo lasciarci.

Lo so.

Ma ora dobbiamo.

Per forza?

Sì per forza.

Allora è finita?

Sì.

Per sempre?

Credo di sì.

Credi di sì ma non ne hai la certezza?

E che fa?

Chi?

Nel senso: che importa?

Nulla. Però se non ne hai la certezza, magari…

E tu ce l’hai?

Ce l’ho avuta.

E ora?

Ora non lo so.

Ma ce l’hai avuta anche del contrario?

Cioè?

Che non ci saremmo lasciati?

È possibile ma ora non ricordo.

Non ti amo più

Non è vero.

Sì che è vero

No.

No.

Neanche io.

Addio.

Addio.

Io non credo in nessun dio.

Io neanche.

*

La valigia di Annabel

 

La Contessa avanza dritta attraverso Piazza San Marco, attaccato alle sue anche come un morso, il fedele carrello di immondizia. Solca il fiume dei turisti, si allargano al suo passaggio come il Mar Rosso. La Contessa avanza dritta come dio. Ha un’età indefinibile che non cela né ostenta. Dicono abbia fatto la vita, da giovane, ma lo spazio e il tempo della sua giovinezza sono ipotesi sempre in mutamento. Dicono sia fuggita dal suo paese. È stata spia, schiava, assassina. Forse madre o moglie, amante di molti, rovina di troppi, su questo sono tutti concordi. Si vede dall’incedere, dicono, ha il collo troppo lungo e il mento troppo alto per essere addomesticata. Allora fu sicuramente l’assassina di suo marito, il Conte. Che fine abbia fatto il patrimonio del defunto, non lo dicono, ma di sicuro lo ha sperperato in vizi e lazzi.

Annabel cammina sghemba in pieno sole, il petto ansante e i capelli troppo lunghi raccolti in una coda. Attaccata alla sua vita come una zavorra, una valigia abnorme, i capelli si incastrano negli angoli ogni due passi. Ci entrerebbe tutta, rannicchiata. Ricordo di qualche nonna o zia, una valigia anacronistica, di cartone nocciola, rinforzata ai lati in cuoio e ottone e con una specie di uncino per tenere insieme la doppia cerniera. La chiave l’ha persa chissà dove e chissà chi. Il viso seminascosto da lenti scure, ai due lati i turisti si dividono per guardarla, il peso del bagaglio la costringe in un ancheggiamento troppo evidente. Annabel attraversa il ponte dondolando, la fronte brilla di sudore come la laguna.

In tutto il giorno non è riuscita a trovare una sistemazione per la notte, solo una stanza in una pensione discutibile sarà libera da domani, per questa notte niente. Le hanno consigliato di provare a Mestre ma non ne ha voluto sapere. Ha lasciato Parigi per Venezia, nessuna via di mezzo. Neanche per una notte, un’altra.

«Beh? Ma guarda un po’ questa qui! Ma guarda dove metti i piedi!»

La mole della Contessa oscura il sole. Un attimo di sollievo, la testa all’ombra della donna, Annabel prova a scusarsi dandole della signora.

«Signora un corno! Stai attenta, che ti credi? Il mondo è tuo?»

«No, io... veramente…»

Ma la Contessa è già oltre. Scavalca il ponte, Annabel e le sue scuse con la stessa falcata uguale.

Annabel la sente imprecare in lontananza, poi ridere. Lei resta ferma. Il morso della fame o un altro morso, giù dalla gola all’inguine, un languore lento. Lacrime. Le trattiene. È così, da sempre. Da che ne ha memoria ha voglia di piangere ma non lo fa. Se non sa perché, non lo fa, e finora sembra non sapere.

Più avanti, oltre il ponticello, tuona la risata della Contessa. Qualcuno le vuole scattare una foto, un gruppo di giovani. La donna ficca la lingua in bocca a un efebo biondo senza starci a pensare. Quello si trasforma in una statua di sale, per un momento. Poi la ricambia. Gli altri fanno il tifo, sono vestiti di stracci come lei, ma più colorati. Annabel li vede allontanarsi, la Contessa in mezzo a loro.

Dopo qualche tentativo smette di cercare. Posti per la notte non ce ne sono. Sarebbe andata anche a Mestre, adesso, anche più in là, ma neanche nei dintorni è rimasta una stanza libera. È piena estate, non lo sapeva? Le chiede il barista sorridendo a denti larghi. Lui ha una stanza proprio lì vicino, le dice tra uno spritz e un’ombretta. Ha lasciato Parigi per lasciare qualcuno? Non è così semplice, prova a rispondere lei, ma il ragazzo è già richiesto a un altro tavolo. Torna spesso, prima della chiusura. Ha il viso solcato dalla giornata e non sembra più tanto giovane come aveva creduto all’inizio. Seduto al tavolo con lei, aspira lunghe boccate di fumo, la cenere incandescente consumata in fretta taglia il nero della piazza. Qualcuno si attarda, le sedie ribaltate sui tavoli intorno, Annabel osserva tutto da un oblò.

«Vieni da me» le dice il ragazzo.

«Non posso» fa lei.

«Perché? Hai qualcuno?»

«No.»

«E allora che c’è?»

Annabel non risponde. Il mento sul polso e il gomito che cede. Sta crollando.

«Hai sonno. Vieni da me» le dice ancora, ma lei non risponde e lui se ne va accendendo un’altra sigaretta. Raggiunge un gruppo di ragazzi mezzo sdraiati sulla piazza. Qualcuno gli passa una bottiglia e una chitarra, una ragazza lo trascina dentro.

 

Aggrappata alla valigia, Annabel batte i denti. Il freddo prima dell’alba la punge dappertutto e dal canale si alza un’aria densa di brina. L’asfissia della giornata la ricorda appena, e ora la preferirebbe. Anche il letto del ragazzo andrebbe bene, e le sue braccia. Cerca la cerniera della valigia accanto a sé. Ricorda a malapena cosa ci ha infilato, la cerca con l’idea di mettersi addosso tutto quello che può. Ha troppo freddo. Trovata la chiusura dà uno strattone. Sente una resistenza. Non capisce, gli occhi ancora incollati dal sonno, si strofina. Un odore di tabacco e alcol e fiori secchi stura le narici. Apre gli occhi in un lampo. Il groviglio di carne, stracci e ferro prende forma. Riconosce la donna del mattino addormentata dentro un mucchio di colori, la testa al riparo del carrello, la valigia incastrata fra le ruote e il corpo.

Lei sì che dorme, pensa Annabel, e sente ancora qualcosa come al mattino. Prova a sciogliere il manico della valigia, una, due volte, ma il secondo strattone provoca uno smottamento inaspettato. Dalla matassa emerge una mano ingioiellata, la pelle distesa, non sembra più tanto vecchia. Fa capolino una testa bionda. Due occhi trasparenti la fissano un momento, il cuore di Annabel sobbalza. Fa per scusarsi di essere lì, ma il ragazzo borbotta qualcosa e fa un gesto come di lasciar andare. Anche la Contessa accenna un brontolio prima di trascinare il capo dell’efebo a sé. Quello si lancia grato in mezzo alle sue grazie. Lei sorride a occhi chiusi, la pelle nell’incavo del seno è tesa, sembra una ragazza, adesso. Annabel crede di intravedere un rossore sugli zigomi. Sorride ancora a occhi chiusi mentre il ragazzo è indaffarato con stracci e nodi da smontare. La donna lo conduce accarezzandogli la testa. Annabel non ha più freddo. Gli occhi delle due si incrociano in un guizzo ma la testa della Contessa è già all’indietro, la bocca aperta contro l’alba. Annabel sorride. Rinuncia e se ne va.

Il primo morso al cornetto le accartoccia le guance. Butta giù il caffè bollente, tossisce. Un sorso d’acqua, peggio. Le viene da ridere, e anche una lacrima.

«Non bisognerebbe stare troppo tempo senza mangiare, poi fanno male le guance.»

Annabel alza lo sguardo. Una ragazza dritta di fronte a lei le porge qualcosa.

«Cos’è?» chiede.

«Era nel fondo della tua valigia, la vuoi?»

È una chiave. Annabel ora ricorda.

«Credevo di averla persa»

La ragazza ride e rovescia indietro la testa. Ha i capelli rossi e l’aria di una che è abituata a ben altre serrature da forzare.

«La vuoi o no? La valigia però…»

La interrompe.

«No, grazie. Ce l’hai una sigaretta?»

«Certo!»

 

 

*

Aut.Os.Tima

Tre due uno. Lauren ingoia. Ora si tratta di solo di aspettare qualche minuto. La procedura è la stessa anche se il fornitore è diverso. Qualche minuto di nebbia, spilli nelle palpebre, lento risucchio di bagnasciuga, poi l’alba. Bruciore sordo, lo stomaco, una caverna implosa e vomito di lava fino allo sterno, poi ancora risacca. Conati a scatti e guance cave prima dell’ultima lenta salita di piacere. Lauren lo sa, quando ingoia, ogni volta è lo stesso, non la riguarda. Per quell’ultima salita vale tutto il baratro.

All’inizio pensava che non ce l’avrebbe fatta una volta di più, gli spasmi, la vertigine, la nausea e quel buco nero perforante tra l’inguine e il cervello, troppo alto il prezzo, si diceva, all’inizio. Poi, giorno dopo giorno, una settimana e un’altra ancora, strati identici di tempo confuso,  capitolati alla certezza contraria. Non ce l’avrebbe fatta senza: la sua dose di aut.os.tima, la sua dose per continuare. Solo prima del prossimo colloquio, si diceva, solo prima di quel giorno di lavoro o quelle ore extra, si diceva in seguito: per reggere lo stress, per sopportate l’umiliazione. Per sopportare la morsa allo sterno, quel tarlo parlante che l’attraeva come un canto, la dannava come una maledizione svelando nel canto o nell’ingiuria un doppio familiare. Solo questa sera, per festeggiare, si era detta più volte, quelle poche, che riusciva a trovare un impiego che le permettesse il guadagno di pochi giorni extra di lavoro per il mese successivo. E così, allentata la catena dell’ultima occasione speciale, sono nove anni che Lauren, tutte le sere, appoggia la fronte contro il metallo del suo distributore personale di autostima e si lascia squarciare la mente.

Le aveva provate tutte, da quando qualcuno una volta, non ricorda chi, le aveva detto che cambiando tipologia si limitava il rischio della dipendenza. Tutte e senza risultato. Autostima da giovane manager tipo Milano anni ottanta del secolo scorso, tenacia da migrante del Nord Africa anni dieci, orgoglio americano evergreen dell’uomo che si è fatto da sé, anche qualche virata in coscienza di classe e lotta studentesca, anni… che anni? Quelle avevano funzionato meno delle altre, non ricordava. Certe parole erano in disuso ormai, alcune fuorilegge, inutile rischiare altre multe per un trip di coscienza. L’importante era limitare, finire, una, due, tre dosi e da capo, solo stavolta, stavolta soltanto. Ma il patchwork non era servito a mitigare la dipendenza. Ormai non poteva farne a meno, lei come gli altri, lei come nessuna. Senza obblighi, senza limiti e senza parole.

Sdraiata sul letto, aspetta. Tra poco inizierà la ricerca. Forse sul video apparirà l’icona di Luise-2h, ma non risponderà ora. Sa bene che i primi venti minuti dopo il passaggio del flusso di autostima sono i più proficui, i migliori, nervi tesi e sensi all’erta, sa bene che non può permettersi di perderne uno. E, si chiede, se fosse vero? Gira la voce che abbiano iniziato a usare anche quest’altra tattica di distrazione. Luise-2h l’aveva contattata in un virtual bar qualche mese prima: qualche chattata, poi l’incontro. Erano state insieme la notte stessa e da un po’ si vedevano, troppo spesso perché durasse. Prima o poi, lei, le avrebbe chiesto l’esclusività e Lauren: no. Come sempre avrebbe chiuso, senza ripensamenti. Lo spazio era pieno di Luise, Michelle, Mikhail e ancora, lo spazio era pieno di lei: autostima. Eppure, stavolta, non era la solita asfissia da legame a farla sentire in pericolo, qualcosa di nuovo, come un altro tarlo. Luise-2h la chiamava spesso, e sempre più spesso in quei fatidici venti minuti e così aveva deciso di non risponderle più. Forse stava diventando paranoica. Probabile. Lo sapeva che la dipendenza da flusso provocava paranoia e alterazioni delle percezioni sensoriali, ma non poteva permettersi, alla sua età, nessuna distrazione. Se fosse vero, continuava a chiedersi, che queste bellissime creature, e Luise era una di loro, ancora in grado di provare e dare piacere, fossero lì apposta per distrarre?

Stava diventando paranoica. Sicuro. Doveva alzarsi dal letto altrimenti avrebbe perso la possibilità di quei venti minuti, eppure qualcosa la teneva inchiodata sguardo al soffitto. Una sepoltura scomposta che riaffiorava lenta. Quanti anni potevano essere trascorsi? Era una bambina, sapeva leggere a malapena, sua madre era ancora viva e la nonna appena morta. Era qualcosa lassù, proprio oltre il soffitto. Libri di carta a mucchi, non ne aveva mai visti tanti tutti insieme, solo qualche sample nel museo del modulo scuola di TipoF, ma così tanti mai. E ancora, lassù, nella soffitta della nonna, sua madre convulsa a raccogliere altra carta ammassata una scritta oscura l’aveva colpita. Qualcosa che aveva a che fare con la riduzione dell’orario di lavoro, questo non poteva saperlo allora, soltanto adesso ricostruiva. Forse aveva a che fare anche con quella nonna strange che era sempre vissuta in soffitta senza mai uscire? La madre le diceva che era malata ma a lei sembrava che stesse bene anche se a volte non capiva cosa dicesse. Aveva vissuto negli anni delle Rivoluzioni, c’erano altre parole, anche questo lo ricostruiva adesso. Allora, c’era soprattutto quello sguardo a spiegare, un bagliore fulmineo. Appoggiava la fronte alla sua, come adesso faceva Lauren con il monitor. Era la prima volta che questo ricordo la chiamava — forse. Chissà cosa sentiva, la nonna, a quel contatto. Di lei ricordava soprattutto quello strano modo di sorridere, all’ingiù, e lo sguardo precipitato all’interno per il tempo del sorriso. Ora, insieme al tarlo, un dubbio scavava rapido le sacche dense della memoria. E se la nonna non fosse stata malata? Se fosse stata una non-conforme? Ma no, impossibile, sua madre non l’avrebbe cresciuta in una situazione così pericolosa, sarebbe morta di paura lei per prima. Da sempre ricordava meglio la nonna della madre, ma ora, per la prima volta – forse – si sorprendeva di questa evidenza. Tutto era limpido fino a quel giorno della soffitta, il flyer — da dove arrivava questa parola? — e quelle parole — quali? Alcune in disuso, altre fuorilegge: meno lavoro ma più lavoro — com’era? Più lavoro e meno ore di lavoro? Che significava? Da sempre – davvero? – si  lavorava per legge un giorno ogni sei e poche ore facevano la differenza, eppure quella scritta sembrava un inno. Una vendetta? No, una ri-vendetta? Rivendicazione? Niente, la galleria si è chiusa di nuovo, il tarlo ci soffocherà dentro anche stavolta, nessun ricordo, nessun bagliore. Quell’ultima visione della madre che le strappa dalle mani il pezzo di carta colorata, un fischio di sirena, camici bianchi, scoppi di neon e fuochi di artificio negli occhi, poi niente. Di nuovo il soffitto e il bruciore latente all’emisfero destro che annuncia la fine del viaggio.

Aveva sentito dire che alle discendenti delle non-conformi veniva reimpostata la memoria alla nascita ma sembrava che qualche fronda sfuggita ai rastrellamenti, vivesse separata e si stesse riorganizzando. Quante voci, sussurrate ovunque e senza volto. L’unica realtà era la scadenza dei suoi venti minuti e il fallimento della ricerca, ora, senza sostegno e con le tempie gonfie e vuote. La fine dell’effetto era immediata, il ritorno alla stasi del modulo abitazione di TipoF, il più economico, una caduta fredda senza ovatta alle pareti e tutti insieme i sintomi dell’ascesa ribaltata. Nausea, crampi, ferro liquido tra inguine e cervello, coagulazione istantanea. Avrebbe dovuto iniziare a cercare senza sostegno, subito. L’astinenza era più dura se la ricerca falliva, ma insopportabile se neanche era partita. Venti minuti consumati nei meandri, inutili. Lo sapeva, Lauren. Ci aveva provato altre volte, all’inizio, quando trovava in fretta molte ore extra di lavoro e ne ricavava dosi sufficienti per le ricerche successive e per qualche ora nei meandri. Ma le cose erano cambiate in fretta, non poteva permettersi neanche un minuto di distrazione. E ogni volta, come questa, quando ritornava nella soffitta ricordava di esserci già stata, ricordava tutto per dimenticarlo subito dopo. E ogni volta lasciava un segno da ritrovare al prossimo viaggio, ma sempre troppo tardi, sempre prima di quel bagliore da fine effetto che non riusciva a collocare come memoria o precipizio dell’astinenza.

Si rialza dal letto a fatica, come sempre e  si avvicina al monitor. Luise non l’aveva chiamata stanotte e neanche le ultime tre. Che avesse deciso di troncare? Peccato, ma non poteva certo permettersi, alla sua età, altre distrazioni. La ricerca di lavoro senza autostima neanche a provarci ormai, questo mese aveva lavorato già quattro giorni, tre con lo stesso incarico, mancava pochissimo, bastava un altro giorno ancora e avrebbe ottenuto il bonus per i mesi successivi. Aspettative inutili, aveva perso il suo tempo per oggi e sentiva ancora di nuovo quella morsa allo sterno, come un richiamo. Esita solo un attimo prima di appoggiare la testa al monitor: mezza dose. Sa che domani sarà più dura con solo l’altra metà a disposizione, ma stasera andrà meglio, stasera troverà e avrà soldi a sufficienza per comprarne altre e forse anche per i meandri. Le avevano detto tempo fa, troppo per ricordare, di fare attenzione a quel tipo di viaggio. Sembrava che ci si potesse perdere, ma questo non la riguardava. Tre, due, uno. Lauren ingoia. Ora si tratta solo di aspettare qualche minuto.

 

Dal 2072 nel tentativo di sedare le rivoluzioni in atto in tutto il mondo a partire dal 2056, i governi mondiali hanno messo in atto un piano di reinserimento lavorativo e assicurazione forzata di un totale minimo di ore lavorative per ognuno. Da subito, il movimento dei non-conformi ha cercato di resistere trovando terreno sempre meno fertile. La maggioranza della popolazione mondiale, infatti, stremata da anni di guerriglia e blandita da nuove chimere, è stata indotta a trattare con i governi, migliaia di non-conformi, soprattutto di genere femminile, sono stati rastrellati e spariti nel nulla. Qualcuno è riuscito a sfuggire ma la riorganizzazione di un altro movimento, a ora, non sembra un obiettivo realistico. Per legge, non è permesso lavorare più di un giorno ogni sei, ma neanche meno, per consentire a tutti un tetto minimo di ore lavorative a fine mese, tuttavia, per chi riuscisse a ottenere lo stesso tipo di incarico per quattro volte consecutive, è previsto un bonus spendibile in una giornata in più di lavoro al mese per i successivi tre mesi o tre dosi di autostima. Entrambe, le dosi e le giornate extra, sono nominali e non cumulabili. Dal 2085, nel tentativo di debellare il traffico illegale di autostima, la sostanza viene fornita legalmente; volendo, e a chi ne facesse richiesta per tempo, in luogo del salario per le giornate lavorative. Tra gli effetti collaterali dell’uso prolungato di autostima, i più diffusi sembrerebbero essere paranoia e anorgasmia, si giudica che l’incidenza di quest’ultima sia più rilevante nella popolazione di genere maschile. Negli ultimi anni, l’uso prolungato della sostanza ha provocato autocombustione, catalessi, schizofrenia, afasia e logorrea. In qualche caso, soprattutto nel genere femminile, all’episodio catatonico segue un rush di glossolalia. Alcune pazienti, in fase di trattamento, presentano allucinazioni uditive; quasi tutte collocano la fonte delle “voci” nella zona centrale del torace. Questa recente neo-patologia sembrerebbe essere associata soprattutto alle consumatrici di “autostima di coscienza” del vecchio tipo - in gergo “viaggio nel meandro”.