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Raccolta di testi in prosa di Ivan Fanucci
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

E poi venne Amore

1.

Un piccolo gioco di sguardi, il volto che brillava e un sorriso difficile da mascherare, tante occasioni impossibili, tanti pensieri che bruciano la testa e il cuore. Era tutto, tutto li davanti come il vassoio di portata di un matrimonio e candido come il calice di un fiore. E tutto era svanito, tutto era stato sotterrato e non rimaneva più nulla.

Cominciava la giornata, una colazione frugale, misera senza colore e senza sapore. Srotola i calzini, metti le scarpe, la giacca. Portafoglio, chiavi e cellulare e via per una giornata come tante, dove cerchi in sporadici momenti di essere qualcuno e far del meglio per non fare il peggio, scoperto che le sole occasioni di vivere sono un discorso interessante o un fugace scambio di pensieri in una mattinata soffocata dalla noia. Poi il prezzo del vivere, lo sgrido del capoufficio, cose microscopiche che si immensano nel sentiero della mente e costruiscono mattone dopo insulto, insulto dopo mattone, enormi castelli assediati dalla tristezza e dal vuoto della vita priva di qualcosa.

Un buon piatto caldo per colorare il freddo invernale e il momento di pausa dove vedi lei, un'estranea che ti sorride mentre ti nutre a pagamento, forse ci pensi, forse no. Lei ti sorride e il tuo corpo sparisce lasciando solo un piacevole brivido che forse puoi chiamare amore che sta nascendo lentamente, sguardo dopo sguardo, le tendi i soldi e poi lei ti saluta. Ma sei solo e non sai se lei ricambia con l'attenzione dovuta questo germe luminoso che spunta dal seme. La bottiglietta d'acqua è finita come lo è il tempo a disposizione per rincorrere il suo sguardo, ma lei è nel retrobottega...

Già aveva tanti amori persi durante la strada della sua vita, occasioni perse per un bigliettino scritto male, per paura di conoscere il corpo dell'amata, per la dolorosa inettitudine nel dialogo e il tempo passava senza un nesso, senza un perchè, senza una meta o qualcosa che gli ricordasse quanto era importante per lei l'amato, senza i capelli dell'amata in volto la mattina o l'essere ricercati perchè il cuore di lei soffriva troppo la lontananza.

Per lui questo era l'amore, l'amore che pensava col cuore e poi con la mente, centinaia di pensieri su come sarebbero andate a finire varie storie d'amore se lui ne avesse avuta una, tanti rigiri di carne e di mente persi nel tempo.

La sera era la solita storia come la luna la notte da sola nell'alto dei cieli così solo nelle tenebre terrestri, la forte solitudine e il senso di abbandono a ciò che le persone sono spinte a fare da qualunque mass media lo spingeva a ritorcersi contro ciò che la società gli spalava in faccia come fango, storie banali, storie complesse, storie umide. Allucinato e alienato da ciò che per lui era l'amore non capiva più cosa era la realtà amorosa.

Sprofondato nei giorni persi a rincorrere il tempo perduto, in giro per rimediare uno di quei disintossicanti sorrisi splendenti, mete e luoghi non avevano importanza, come se la geografia sensoriale del mondo circostante si fosse ridotta solo ad una direzione motoria monotona e la delusione si affacciava nella sua mente in modo quasi pigro ma inarrestabile.

Molti di questi ricordi venivano affogati dal corso del tempo, mentre essi cercavano di non annegare ogni volta che venivano illuminati dall'occhio della memoria, ma il cuore cercava di selezionare le immagini migliori come foglie fotosensibili che lottano per non seccare.

L'incredibile senso di vuoto lasciato dalle giornate di lavori precari e corsie intasate dal traffico ritoccavano le immagini più belle, i sentimenti più profondi su questo vero amore sperato, non cercato, impaurito e impressionato nella nebbia dei ricordi, spiaggiavano in vani tentativi di fare più chiarezza ma senza riuscire a trovare la giusta via per esprimere e la paura di perdere l'essenza stessa della qualità del proprio amore.

Più che l'amore finisse, l'orrore più grande era di perderlo, uno dei più grandi nemici dell'umanità, il trauma, era li pronto ad affondare i suoi terrificanti artigli nei morbidi tessuti dei nervi e dell'umore e a sprofondare negli abissi dell'inquietudine, tutto ciò che valesse la pena di essere vissuto e di infondersi per sempre nell'amore e completarsi dunque senza alcuna macchia di malignità.

La tristezza che avvolge il ritorno solitario alla propria casa vuota è un compagno che parla di vecchie e nuove paure e che offusca tutto il bene che c'è intorno, le strade le scale di casa il proprio appartamento, tutto ovattato nel silenzio e nel cercare di fermare nella mente le poche immagini colorate di amore del giorno, un sorriso e una carezza che forse era ieri o forse immaginata.

Un'altra alba, iniziata con un lento e soffocato sforzo per tornare alla routine quotidiana fatta di incertezze, piccole delusioni complesse e altre deliziose noie della vita, sola. Il giorno frenetico come un alveare lascia poco spazio ai pensieri di natura amorosi e ormai sopraffatto dal vuoto, il pensiero incessante di non sperare più e di non voler guardare nessuno in volto lascia una patina innaturale e una vista stanca delle cose terrene. Una sigaretta, il metodo più costoso di fermare il tempo, tra un sospiro velato e un pensiero affranto, il pomeriggio passa come al solito provato e stanco. Poi la notte, un film divertente e un frammento di lettura, lasciano il giusto premio di emozioni ad una notte profonda e interessante.

 

2.

Nel sogno molte cose passano veloci, alcune restano nel profondo altre volano via come un fiume in piena, ma al risveglio i giochi della mente annebbiata finiscono e lasciano un solo e potente messaggio: la solitudine doveva finire.

Scarpe e caffè, macchina e lavoro, pausa e pranzo: lei. In questi pochi secondi di attenzione la mattina era scivolata come un'anguilla dalla mano di un pescatore inesperto, quel che ricordò prima di salire in macchina per tornare a casa erano quelle poche sfocate immagini di tutti i rigiri mentali per chiedere il numero di telefono della cassiera della mensa e un sorpreso platinato sorriso che gli svuotò la mente, poco sperato fino a che la chiave della vettura fù inserita. Salì le scale, entrò nell'appartamento e accese la radio e come se il cielo tenesse per lui un concerto in re minore gli fece esplodere un agognato sorriso e lo fece sprofondare sul divano.

Ora doveva solo chiamarla, già era schiavo d'amore per la prima attenzione datagli da lungo tempo e rimase tra le note che volavano a cascata dalle casse della radio a pensare il perchè e il percome fosse bastato così poco per avere un briciolo di gustoso sentimento di vittoria su quel se stesso che lo combatteva sempre in tutte le cose. Dopo pochi sospiri elettrizzati prese il cellulare e chiamò. Fù gioia, lei sperava di essere chiamata lui sperava di essere voluto, presero un appuntamento per vedere un film ma dentro lui era già in un film d'amore e si sentiva protagonista per la prima volta, aveva il ruolo principale e non si era mai sentito così bene.

Si videro di nuovo a pranzo alla mensa e poi di nuovo finito il lavoro, si parlarono e si parlarono ancora, lui la faceva ridere e lei lo faceva sognare; venne il giorno dell'appuntamento.

Lei sembrava nervosa, poi appena vide il suo accompagnatore salirono in macchina e si diressero al cinema; un film di cui lui non si sarebbe ricordato nulla visto che la passione che lo assalì lo portò alle dolci labbra di lei, come nei tanti sogni sperati mai raggiunti.

Finito il film andarono a casa sua. Era sera e fuori il cielo grondava lacrime forse di gioia forse di dolore. Si fermarono sotto un lampione e continuarono a baciarsi, poi lei lo prese per mano e salirono in camera. Era tutto così fantastico ma così veloce, lui stava vivendo in un sogno che stava per diventare umido e caldo e ne era quasi terrorizzato, poi scappò da lei un nome e lui provò un'enorme fitta al cuore, un sordo colpo al plesso solare. Era fatta, lui era innamorato di una persona già impegnata.

Erano nudi sul letto, lei era bellissima avvolta dalle lenzuola con i capelli bagnati che gli scendevano lungo il collo ma il suo volto era intimidito dalla vergogna, lui era li spento e acceso con una fitta al cuore e non voleva essere il protagonista di un film basato su di un tradimento, anche se di una persona mai conosciuta. Lui voleva essere l'unico uomo della sua vita, aveva sempre sentito con orecchio sordo che le storie iniziavano e finivano ma per se stesso aveva programmato qualcosa di più di essere sedotto da una donna leggera e più lei gli sfiorava la schiena con le dita e più gli chiedeva di concedersi più lui sprofondava nei suoi timori di non trovar mai un amore sincero e soddisfacente e di finire come il ragazzo di lei.

 

"Amor ceco non ti cerco più, amor semplice e caldo non ti aspetto più.

Se fosse per il sorriso della mia anima frustrata creerei più momenti di ricerca ma le mie interiora sono ferme e rigide, il mio sguardo non guarda più in avanti a sorrisi e ad abbracci."

 

Era come se la mente fosse ferma a impedire di sognare e il cuore di vivere per non abbandonarsi a scegliere di vivere qualcosa di già vissuto. L'Amore venne e cadde dal suo nido su un letto di spine di rose.

I giorni passano e la vista non migliora, lui vede ma non vede assapora la materia ma l'aroma non rimane e cosi il tempo passa e il gusto si affievolisce come una nube di fumo di sigaretta.

 

Un giorno caldo su una panchina in un parco dopo aver consumato con cura il suo trauma guardò davanti a se e vide un raggio di sole, un fiore magnifico, forse quella che sarebbe divenuta la sua sposa e con più coraggio di quanto ne avesse avuto mai le si avvicinò e si presentò. Lei sorrise, forse dopo tutto l'amore non era fuggito dalla sua vita e finirono per conoscersi, forse non era l'amore perfetto sognato e desiderato da sempre ma lui si sentì felice per la prima volta dopo tanto.

Ogni giorno passato insieme a lei erano fiori d'arancio e profondi passi sulla sabbia di una meravigliosa spiaggia assolata, il sole e l'amore erano tornati e così la serenità. Lei vendeva giornali nel parco sotto casa sua e passavano insieme il resto della serata passeggiando per i viali e i bar, tutto per lui si stava riaprendo le oscure saracinesche notturne della sua mente si aprivano e viveva meglio ogni giorno che viveva l'amore con lei.

E vennero le nozze, fresche e dolci...

 

 

 

 

Così l'Amore ebbe la meglio su di lui e sulle sue debolezze, concluse la sua vita senza dire addio, senza sentire il dolore degli altri e lasciando qualcuno dopo di lui a provare quello che si ripete sempre nella vita degli uomini.

*

La lettera

Qualche anno fa un mio amico mi disse che avrei trovato nel cassetto del mio comodino una lettera, scritta diversi anni fa da mio padre. Mi disse così mentre ero in cucina a preparare la cena. Il mio amico preso da una irrefrenabile curiosità aveva rovistato in camera mia, nel cassetto del mio comodino e aveva trovato questa lettera scritta da mio padre pochi mesi prima di morire. Ancora adesso ci penso, ma non ho mai avuto il coraggio di leggerla. Adesso la casa non è più mia, l'avevo venduta perché mi rattristava e desideravo più spazio per me e per la mia famiglia.

Mio padre aveva avuto, come desiderava, la fortuna di vedermi sposato e di tenere in braccio i suoi nipoti. Mi amava molto ma non avevo avuto la forza di vivere con così tanti suoi ricordi, nella casa dove ero cresciuto con mia nonna e mia madre, morta presto; io amavo i miei ma il tempo, come succede, li aveva strappati al mio amore. Mia nonna mi teneva quando i miei erano a lavoro e mi faceva giocare con i vecchi giocattoli di mia madre. Io li adoravo i miei, sempre felici e sorridenti, almeno questa era l'immagine che mi era rimasta impressa di loro. A tavola, la sera, si facevano lunghi discorsi su come si era svolta la giornata, un po' di televisione abbracciato a mia madre e nanna.

Poi come ho detto il tempo ha cambiato tutto, io e mio padre rimanevamo soli in casa la sera e non parlammo per molti anni fino a quando è mancato. Un giorno svoltai con la macchina vicino al vialetto dove c'era la mia casa di un tempo, mi fermai lentamente accanto al marciapiede e scesi. Bussai alla porta e una signora anziana mi venne ad aprire; mi chiese chi ero e io le risposi che da giovane avevo abitato in quella casa. Qualche anno fa l'avevo venduta a lei. L'anziana signora mi guardò da dietro i suoi spessi occhiali e mi riconobbe, le dissi che c'era una lettera scritta da mio padre prima che mi lasciasse, nel comodino della mia cameretta al piano di sopra e mi fece entrare. Mi offrì un succo di frutta ma rifiutai e gli chiesi se potevo andare a guardare, ma con mio dispiacere aveva venduto ad un rigattiere tutto il mobilio antico e anche quel comodino. Gli chiesi in quale negozio e dopo qualche telefonata mi diede l'indirizzo. Il rigattiere era vicino e quindi corsi con tutto il fiato che avevo verso l'antiquario. Una volta arrivato notai con dispiacere che il negozio si era trasferito in un'altra città e tutto il locale era sgombro. Sulla porta c'era il nuovo indirizzo, me lo segnai sul cellulare e tornai alla macchina.

Ne parlai con mia moglie, ci preparammo e il sabato seguente partimmo alla ricerca della lettera e del mio comodino. Chiamai il negozio per prendere un appuntamento con il commesso e non far così un viaggio a vuoto.

Partimmo dopo pranzo e dopo parecchie ore di viaggio arrivammo davanti al locale. Entrammo nel negozio, io tenevo per mano mio figlio e mia moglie aveva in braccio la piccola. Mi avvicinai al banco e parlai con il figlio del proprietario, gli descrissi accuratamente come era fatto il mobile, lui uscì da dietro il bancone e mi fece segno di seguirlo. Mi fece vedere un'infinità di comodini simili, ma io appena lo vidi lo riconobbi subito, era li che mi aspettava.

Gli chiesi se potessi aprire il cassetto e lui acconsentì visto che non era mai riuscito a venderlo, mi disse anche che stava per buttarlo via. Aprii lentamente il vecchio cassettino e dentro trovai la lettera, comprai il mobile e misi la busta nell'interno della mia giacca con le lacrime agli occhi. Non dissi una parola per tutto il viaggio.

La sera mi sedetti con mia moglie sul divano in salotto; fuori faceva freddo, era inverno e nevicava. Guardai e riguardai la lettera ancora sigillata poi lei mi incitò ad aprirla, dentro c'era una chiave e un foglio dove c'era scritto:

“Mio caro adoratissimo figlio

Ti devo confidare un segreto che mi ha tormentato da quando tua madre ci ha lasciati, sono passati molti anni, un segreto che non ho mai voluto svelarti per paura di perdere il tuo amore.

Io, la uccisi.

Uccisi tua madre in una notte di agosto, faceva caldo e col cuscino del letto la soffocai. Avevo scoperto che mi tradiva e che voleva portarti via da me.

Lei si trova nel solaio della nostra casa chiusa in un baule, quella che trovi nella lettera è la chiave del baule che si trova nell'angolo ad est, quando sarò morto ti prego seppelliscila vicino a me. Io la amavo alla follia ma di più amavo te e questi anni bui che ho vissuto con te nella menzogna mi hanno tormentato come mille inferni.

A te lascio questo semplice compito, dalle il riposo, il riposo che le ho strappato.

Ti amo infinitamente figlio mio.”

Io ho perdonato mio padre, tra i tormenti e la cruda realtà della vita ho ritrovato la pace insieme a mia moglie e ai miei figli. Dopo aver sepolto mia madre vicino a mio padre gli anni bui dei segreti e delle bugie sono finalmente svaniti lasciando solo una leggera polvere scacciata dal vento. Di notte ripenso sempre a quei due volti sorridenti e illuminati dal sole di un lontano agosto di tanti anni fa.

*

Il musicista

C'era una volta, ora non c'è più, un musicista. Era piuttosto in gamba ma non sapeva né leggere né scrivere la sua musica. Usciva di casa tutte le mattine e si sedeva vicino alla sua osteria preferita, ordinava la colazione. Ad una certa ora cominciava a suonare il suo strumento e con il cappello raccoglieva le monetine per il pranzo, più tardi per la cena.

Passava il tempo ed il musicista diventava sempre più bravo, suonava tutto il giorno, tutti i giorni, nota dopo nota, monetina dopo monetina. Un giorno un ragazzo gli chiese se gli avrebbe potuto insegnare a suonare, ma lui gli disse che non ne era in grado perché non sapeva né scrivere né leggere la musica e il ragazzo se ne andò via triste.

Al musicista andava bene così, non aveva voglia di impegnarsi con allievi o far comunella con altri artisti. Non voleva suonare per compagnie, a lui bastava avere quanto di che sfamarsi e di suonare il suo amato strumento fino a che, come diceva sempre all'amico dell'osteria dove si fermava, non gli si fossero consumate le dita.

Un giorno questo suo amico gli porse la ciotola come di consuetudine, prese dal cappello il dovuto e cominciò a fissarlo in modo pensieroso. L'oste disse al musicista, che non sapeva né leggere né scrivere, che una volta morto nessuno avrebbe più udito la sua musica e nonché fosse oramai sublime, tutti i suoi sforzi per migliorarsi e tutto il tempo dedicato sarebbero andati vani, lui e la sua musica non sarebbero mai esistiti.

Il musicista smise per un momento e guardò il suo amico con aria triste, non seppe come rispondergli e si rimise a suonare.

Quella notte il musico non riuscì a prendere sonno, ripensando a quello che gli aveva detto l'amico, aveva il terrore di ciò che sarebbe successo. I giorni che seguirono lui non suonò e non mangiò, non scese più in strada e non volle vedere nemmeno il suo amico che gli bussava alla porta per regalargli del cibo. Ossessionato dall'idea dell'imminente fine della sua vita e della sua musica, lo trovarono morto di fame nella sua stanzetta da solo aggrappato al suo strumento. Non aveva parenti e aveva un solo amico, il quale addolorato, prese lo strumento e lo incastonò nell'insegna del suo locale che aveva rinominato : L'anonimo musicista.

Molti si fermarono a chiedere come mai il locale si chiamasse così e lui ogni volta spiegava la storia del suo amico, del tempo che aveva trascorso suonando e racimolando i soldi per mangiare e delle infinite melodie che suonava seduto al tavolino. Ma come diceva sempre il locandiere agli avventori incuriositi, non abbandonatevi mai a ciò che vi riesce bene, imparate a fare anche quello che vi costa fatica.

*

Il perdente fortunato

Mauro era riuscito dopo lunghe settimane a finire il lavoro datogli dal suo capoufficio. Contento del risultato era tornato, dopo la nottata passata sui suoi conti e svariati caffè, alla sua postazione di lavoro con la stessa gioia che aveva provato quando fu finalmente assunto il primo giorno. Ma la chiavetta dove si trovavano i file a cui aveva lavorato per tanto tempo non si trovava.

Era arrivato presto, stanco e innervosito, pieno di aspettative per una promozione attesa e desiderata a lungo; quindi si sedette, prese un breve affannato respiro e cercò di calmarsi. Dispose la giacca sulla scrivania e sondò ogni tasca con minuziosa attenzione, poi i pantaloni e infine la borsa.

Probabilmente l'aveva lasciata dentro il suo portatile a casa e quindi uscì di corsa dall'ufficio. Salì in macchina, che aveva parcheggiato momentaneamente nel posteggio per gli handicappati prima che il vigile mattiniero gli facesse la multa e sfrecciò per le vie ancora poco trafficate della città, dritto verso casa.

Arrivato alla porta del suo appartamento notò che si era dimenticato le chiavi di casa e imprecando suonò nevroticamente al campanello, svegliando la moglie e facendo piangere il suo piccolo bambino. La donna aprì sgridandolo, ma lui non sentendo ragioni si precipitò al computer sicuro di trovare il frutto del suo lavoro nel pertugio della macchinetta. Niente da fare non era nemmeno li. E di nuovo a pensare dove potesse essere.

Cominciò a sbraitare muovendosi per la casa in lungo e in largo, convinto che fosse da qualche parte, caduta per terra in cucina o in salotto. Mentre faceva tutto quel trambusto chiamò il capo al telefono di casa sua chiedendo di lui. Mauro trasalì e rispose che stava per arrivare in ufficio.

Alla fine si sbracò sul divano e cominciò a piangere sicuro di essere licenziato per la sua negligenza, la relazione dei suoi conti era lunga e complessa, quindi non sarebbe riuscito a riformularla in tempo e abbandonò quel pensiero. Come quando si prepara un compito a scuola per una data fissata dall'insegnante, quell'incubo di gioventù era tornato a tormentarlo di nuovo; solo che questa volta non si trattava di un banale rimprovero, ma c'era in gioco la sua carriera e il futuro della sua famiglia.

Prese un secondo di tempo e chiese a sua moglie se aveva visto in giro per la casa la sua pennetta, cercando di non farle capire l'inghippo in cui si era trovato, per non darle pensiero. Ma lei capì di cosa si trattava e cominciò a sgridarlo preoccupata.

Lui non volle sentire le lamentele e si fiondò fuori casa non sapendo dove sbattere la testa. Salì in macchina e notò che aveva ricevuto una multa per averla parcheggiata davanti ai cassonetti dell'immondizia e si mise ad inveire contro il vigile che si stava allontanando, quello tornò indietro e lo ammonì intimandogli che lo avrebbe multato ulteriormente se non si fosse calmato, ma Mauro non riuscì a placarsi e ricevette un'altra ammenda.

Si recò velocemente in ufficio, per quanto la strada con le sue pause e attese e il traffico e la malizia degli altri guidatori lo ostacolavano. Pieno di dubbi e incertezze su quello che era il significato di ciò che gli si spianava davanti, nella sua mente; si sedette sulla sua sedia, nel suo ufficio nei suoi pensieri, venne riportato all'attenzione del mondo dalla segretaria del suo capo che lo voleva immediatamente vedere.

Entrò timidamente con la coda tra le gambe e si preparò al linciaggio.

Il suo capo lo lodò per l'egregio lavoro che aveva svolto.

Mauro trasalì ulteriormente. Non capiva, cercò di spiegare la situazione, ma lui lo rassicurò, facendogli vedere che aveva la pennetta inserita nel suo computer. Disse, che l'aveva ricevuta da un suo collega che l'aveva trovata vicino alla macchinetta del caffè e non capendo di chi fosse gliel'aveva portata e lui intuì di cosa si trattava.

Mauro, cadde per terra, l'emozione troppo intensa gli fece defibrillare il cuore e gli venne un colpo. Si risvegliò in ospedale la sera stessa tra lo sguardo preoccupato della moglie e incuriosito del suo piccolo.

Il medico disse che l'aveva scampata per un miracolo e che sarebbe bastato così poco se l'ambulanza non avesse trovato libero il posto degli handicappati sotto il suo ufficio e non l'avessero tratto in salvo prima che fosse stato troppo tardi.

Mauro guardò il volto brillante di sua moglie e gli promise che non sarebbe successo di nuovo. Si sarebbe ravveduto e ringraziò il cielo per la sua seconda occasione. Poi si rimise a dormire.

*

Le cose belle della vita

Le cose belle della vita sono tante, ripeteva il maestro delle medie, ogni volta che la campanella suonava la ricreazione, ma i bambini correvano fuori e pochi sentivano il suo messaggio finale. C'era solo uno di loro che si fermava ogni volta a chiedere che cosa avesse detto. Si posizionava davanti al maestro con le mani incrociate sul petto e lo fissava per tutti quei secondi nei quali il suono della campanella annunciava il tempo della libertà temporanea dai loro studi. Lo fissava con aria triste e poi gli faceva una domanda, sempre diversa, sempre con un'aria malinconica. Gli chiedeva perché ci fossero guerre, perché sua madre e sua sorella erano malate e perché la gente soffriva; il maestro ogni volta si piegava su di lui e gli accarezzava il volto dicendo che tutte le cose hanno un inizio e una fine e a volte si trasformano in qualcosa di meglio del loro stadio iniziale. E così il ragazzino si quietava e si asciugava le lacrime.

Un giorno il maestro non vide più arrivargli di corsa, alla pausa ricreativa il piccolo studente , così decise di fare un salto a casa sua e scoprì che era malato anche lui, ma al contrario dei suoi parenti non era in ospedale e si stava rimettendo, il maestro si prese tutto il pomeriggio libero per stare con lui.

Il bambino stava a letto, al caldo delle coperte in una stanza scura e poco illuminata, era pallido e sudava, il maestro gli si avvicinò pian piano e si sedette al suo fianco e gli chiese come stesse. Il ragazzino tremava per la febbre ma il maestro gli disse che sarebbe guarito presto, per confortarlo e che sarebbe tornato dai suoi compagni con cui giocare e studiare.

Il bambino gli disse, tra un colpo di tosse e l'altro, che a scuola non veniva considerato molto e che a volte veniva preso in giro perché era il più piccolo e gracile, ma il maestro gli disse che a volte i grandi uomini che avevano lasciato un segno non erano stati di grandi dimensioni e spesso erano i più motivati nell'affrontare il mondo.

Poi il maestro scostò le tende della stanza e aprì leggermente la finestra facendo entrare le luce di primavera e un po' d'aria fresca, chiedendo al ragazzo se gli faceva piacere. Il bambino annuì perché la tata di casa sua non voleva che prendesse freddo e quindi se ne stava in un ambiente torrido e buio fino all'arrivo del maestro.

L'uomo rimase in silenzio a fissarlo con i suoi occhi miti e gentili e il bambino gli sorrise, poi con voce ferma e dolce cominciò ad elencargli tutti gli aspetti della vita che gli piacevano, prima gli parlò di quanto era fondamentale lo studio e il bambino arricciò il piccolo naso. Il maestro sorrise e gli disse che forse quando sarebbe cresciuto, l'amore per lo studio gli sarebbe arrivato e lo avrebbe condotto per una strada forte e sicura, gli avrebbe fatto dubitare tutto quello che aveva imparato nelle scuole e avrebbe affrontato il mondo con occhio nuovo e rivalutato i propri modi di agire. Il bambino era intelligente e cercava di capire ma era ancora troppo piccolo per assimilare la cosa. Così il maestro gli disse che un giorno avrebbe inteso le sue parole. Ma per il momento lo lasciò meditare su un piccolo ragionamento, gli chiese se gli piacevano i dolci, il bambino annuì con la testolina sprofondata nel cuscino, e allora il maestro gli disse che una torta è una cosa complessa, adesso che lui era piccolo poteva gustarla e assaporarne i sapori, ma un giorno sarebbe stato in grado di farle lui le torte e un giorno avrebbe avuto le nozioni giuste per farle da solo con gli ingredienti che piacevano a lui e che se ci avesse lavorato con dedizione avrebbe potuto anche vincere una gara di cucina con quella sua torta o avrebbe potuto continuare a mangiare la stessa torta che gli piaceva da sempre e ne avrebbe potuto riconoscere gli ingredienti e la lavorazione.

Così il maestro gli disse che una buona fetta della torta della vita era così.

Il bambino si mise a ridere di gioia, ma poi cominciò a tossire e si rattristò di nuovo. Il maestro si girò verso la finestra e guardò fuori, c'erano gli altri bambini che tornavano allo studio pomeridiano e per distrarre il bambino gli chiese che cosa gli piacesse, a parte i dolci.

Lui lo guardò con i suoi occhietti scintillanti e con la sua piccola bocca gli disse che gli piaceva stare con sua madre e giocare con sua sorella.

Il maestro lo guardò e lo assicurò di una cosa, finché le persone le ami le porti con te e rimangono nel nostro cuore, ma bisogna anche imparare a lasciarle andare libere per la loro strada e questo è un atto di amore molto più forte che volerle continuamente a se, la forza dell'amore non è di per sé quanto si ama, ma il modo in cui lo si fa, e un giorno così saprai come affrontare la “debolezza” che insinua il tuo cuore.

Il bambino provava a capire ma per lui lo sforzo era enorme. Così il maestro lo guardò e gli chiese se aveva un animale domestico, lui gli disse che non si ricordava bene, ma quando era più piccolo aveva un cagnolino con cui giocava e che dormiva sempre ai suoi piedi ecco, ricordava solo quello. Il maestro lo fissò dolcemente e gli disse che gli animali non sempre ti possono accompagnare per tutta la vita, ma quando hai bisogno di loro ci sono sempre e sono pronti a donarti il loro amore con tutta l'intensità di cui abbiamo necessità poi devo andarsene come e quando la vita lo vuole perché la vita li ama e li richiama a se.

Il bambino annuì e dentro di se il suo cuore aveva incominciato a rasserenarsi. Allora il maestro, venuta l'ora di cena si congedò dicendo che le cose belle della vita sono tante e che un giorno, se essa avesse voluto donargli tutto il tempo che poteva, gli avrebbe anche regalato tutto l'amore e il sapere che gli sarebbe servito a capire, le cose belle della vita.

*

Il mordente

Michele era un artista, non era un genio, ma voleva diventarlo anche se in fondo pensava che la genialità nasce con la persona e non si crea; ma comunque si sforzava e voleva esserlo. Si esercitava giorno dopo giorno e con tenacia e dedizione si applicava alle proprie opere. Lui impiegava un sacco di tempo ai suoi lavori e ai suoi progetti, aveva abbandonato un lavoro dopo l'altro per inseguire il suo sogno e non si arrendeva mai.

Prima di mostrare le sue opere ci meditava ore intere sopra, per capire cosa potessero significare per lui e aggiungeva con la sua mente particolari che si era dimenticato di aggiungere e che non sapeva rendere nelle sue opere. Poi timidamente le mostrava una alla volta prima ad un amico e poi ad un gruppo di amici. Loro non erano artisti ma comunque dicevano, per non ferirlo o solo per compiacerlo, di rimaner affascinati dalle sue opere, ma null'altro.

Michele ci provava e ci riprovava, ma aveva sempre il timore di non riuscire a rendere l'idea e le emozioni che aveva in mente. Provava gran gioia solo dopo che aveva finito e aggiungeva i suoi fantastici particolari, spendeva più tempo ad immaginare ciò non riusciva ad esprimere più che a lavorare ai suoi progetti.

Un giorno incitato da un amico, portò le sue opere da un grande intellettuale ed estimatore d'arte. Michele non era pronto a sentire commenti negativi sul suo operato e il critico, avvisato che il povero ragazzo era fragile, cercò gli aspetti più belli delle opere ma non ve ne erano molti; per non ferirlo gli disse che Michele era discretamente bravo e che gli serviva solo più tempo per affinare le sue tecniche, aggiunse che secondo lui mancava solo un po' di mordente ai suoi lavori. Michele cercò in ogni modo di illustrare i meravigliosi particolari che lui immaginava ma effettivamente, gli fece notare l'estimatore scocciato dai suoi miseri tentativi di gratificare le sue opere di più di quanto valessero, mancava quel particolare che avrebbe fatto di lui un vero artista, qualcosa che rendesse il tutto più accattivante e piacevole. Michele scoppiò a piangere e trascinò istericamente come un bambino dietro a sé le sue opere, fuori dallo studio del grande intenditore.

Tornato a casa il ragazzo buttò via tutto il materiale e i suoi lavori, li distrusse con odio e non volle averci più a che fare. Ma giorno dopo giorno, senza la possibilità di esprimersi e di fantasticare sulle sue opere gli venne la paura di essere inadeguato e notò che veramente nella sua vita mancava quel mordente che l'intellettuale gli aveva fatto notare. Non era per niente un ragazzo accattivante, i suoi amici erano scialbi e lui si comportava mediocremente con loro, la sua ragazza lo aveva lasciato perché lo trovava un po' noioso e non riusciva bene in qualunque altra attività remunerativa. Passò molti anni in solitudine senza fare molto, più il tempo passava e più lui si incattiviva ed era sgarbato con le persone che lo venivano a trovare e si sentiva sempre offeso qualunque cosa dicessero.

Un giorno un suo amico prima di lasciarlo alle sue vacuità gli disse che se non avesse trovato il modo di cambiare sarebbe rimasto solo e non sarebbe stato più in grado di avere amici e di avere un qualunque rapporto umano; infine lo pregò di creare per lui un'ultima opera come ricordo di quando erano buoni amici. Sulle prime Michele lo scacciò in malo modo, ma la sera stessa riprese in mano gli strumenti che aveva nascosto in un baule e incominciò quella che doveva essere secondo lui l'ultima sua opera, un lascito per quella vita vuota e miserabile che aveva vissuto tra incertezze e il susseguirsi delle sue delusioni.

Era tardi ed era stanco ma senza che si sforzasse tanto riscoprì la gioia di creare, attimo dopo attimo finalmente i particolari tanto amati prendevano forma anche se gli mancava quella dannata tecnica e lo stile che aveva agognato da molto tempo e al sorgere del sole ebbe finito; Michele si sedette come al solito sulla sua poltrona davanti al suo lavoro ma non riusciva ad immaginare altro a quello che aveva sviluppato durante la notte. Poi verso mezzogiorno chiamò il suo amico per comunicargli che il suo lavoro era pronto, lui arrivò di fretta e furia e guardò.

Il suo amico rimase impressionato, disse a Michele che non aveva mai visto nulla di simile e che con quell'opera avrebbe fatto ricredere l'intellettuale sulla sua genialità d'artista. Il giorno stesso fecero venire l'estimatore a casa di Michele e lui gli mostrò l'opera, l'uomo rimase affascinato e gli chiese se i particolari che pateticamente vedeva nelle opere passate e distrutte erano così belli come quelli che aveva reso nel suo ultimo lavoro, Michele annuì e con le lacrime agli occhi aspettò il giudizio del critico intellettuale. L'uomo guardò e riguardò, si allontanò e si avvicinò all'opera e disse che stavolta il mordente c'era, che il lavoro era accattivante che era un pezzo da museo e lo voleva assolutamente nella sua galleria d'arte, ma Michele disse che lo aveva creato per il suo amico perché gli voleva bene e perché in tutti quegli anni bui di solitudine gli era sempre rimasto accanto. Sarebbe stato felice di fare altri lavori per l'intellettuale. L'uomo si dispiacque di non poter avere quella meraviglia nella sua collezione ma acconsentì alla volontà di Michele e gli commissionò altri lavori sperando che lui superasse se stesso ogni volta.

Adesso Michele è vecchio e felice e ha abbandonato gli strumenti di lavoro da tempo, dopo una carriera intensa d'artista, avendo lasciato la paura di essere inadeguato e avendo trovato l'amore per la vita e il mordente accattivante della vita stessa.

*

Il disagio

Mirco davanti alla psicologa, cercava di descrivere il suo disagio mentale, ma lei non capiva o percepiva solo frammenti di ciò che il ragazzo cercava di descrivere accuratamente. Seduta dopo seduta Mirco rielaborava assieme a lei momenti della sua vita dei suoi traumi e di come avrebbe potuto convivere con il suo problema. Il disagio di Mirco, da quello che aveva capito la psicologa era un malessere collegato probabilmente all'infanzia, al modo in cui era cresciuto il ragazzo, e di ciò che aveva combinato. Erano già a buon punto, visto che erano passate solo poche settimane da quando era stato ricoverato in psichiatria. Ma Mirco stava davvero male e a volte guardando gli altri ragazzi che gli sembravano stare peggio di lui, si chiedeva, come mai nonostante quel poco che aveva scoperto su di loro, stavano così male. Secondo lui non ne avevano il motivo e più non capiva più si arrabbiava e stava ancora peggio. Alla psicologa che lo seguiva, disse che aveva perso la speranza di riuscire ad uscire da quello stato e che gli faceva più male assai la fragilità altrui, dei suoi stessi problemi. La psicologa gli diceva di non preoccuparsi degli altri ma di concentrarsi su se stesso e di trovare la fonte del suo malessere. Mirco le aveva spiegato secondo lui più di quanto potesse ricordare dei fatti che lo avevano portato a questo misterioso male, ma non riuscendo a convivere con quest'ultimo cercava man mano di spostare la sua attenzione sui problemi degli altri e di capire come mai questi stavano peggio di lui, questa distrazione gli alleviava la sofferenza, per modo di dire, dal suo inestricabile problema.

Mirco passava la giornata tra la stanza della ricreazione, dove fumava sigarette, alla sua cameretta in fondo al corridoio. Ogni giorno dopo aver preso quei medicinali, che secondo lui non funzionavano affatto, faceva la sua seduta con la psicologa per mettere in ordine un pezzo del puzzle alla volta. Un puzzle che mostrava una figura incomprensibile. La psicologa gli fece notare che se a lui sembrava che gli altri non avessero motivo di stare male, neanche lui aveva un alibi così forte per definire il suo dolore così persistente e profondo. Ma a Mirco sembrava di non farcela più, aveva un fiume di pensieri nella sua testa, una confusione della quale il ragazzo sembrava percepire a tratti un filo logico ma di cui non riusciva a trarre una conclusione e giorno dopo giorno risveglio dopo risveglio il caos vorticoso nella sua mente riappariva colmandolo di disorientamento e di dubbi su ciò che lo circondava e su ciò che percepiva dal mondo esterno. Come se qualcuno lo volesse tenere sempre in inganno, come se una forza di cui lui non conosceva l'origine ce l'avesse con lui. O almeno queste erano le conclusioni a cui era arrivato il povero Mirco.

La psicologa continuava a ripetergli che il problema era un problema interno e che non sussisteva nessun motivo per il quale ci dovesse essere qualche forza “maligna” a tendere così tanti tranelli alla sua mente, secondo lei era solo una forma di psicosi. Ma al povero Mirco non piaceva questa versione, non riusciva a credere di aver perso la testa per colpa sua, lui era cocciuto ed orgoglioso e non voleva considerare questo orribile fatto personale.

Mentre cercava dopo attente riflessioni, tra un turbinio e l'altro, di venirne a capo con l'aiuto delle riflessioni che gli aveva proposto la psicologa, cercò di trovare un compromesso al suo modo di pensare, prima di prendere le redini della sua colpa; cosa di cui difficilmente riusciva a farsene una ragione. La durezza della sua mente, che aveva creato per proteggersi dal malessere, lo aveva reso debole a cambiare punto di vista; a fare quel passo indietro che lo avrebbe tanto aiutato a guarire, come una postura scorretta dà vita a innumerevoli problemi a tutto il corpo, così il minor male aveva alimentato tutto ciò che di negativo poteva esserci nella sua mente.

Mirco man mano se ne rendeva conto, sempre con l'aiuto della psicologa che instancabilmente cercava di riportarlo indietro dal mondo immateriale e innaturale che il ragazzo aveva creato nella sua mente e nel quale viveva ogni giorno dall'esordio psicotico.

La vita, diceva teneramente la psicologa, ci mette davanti problemi apparentemente insormontabili, ma che in realtà andavano affrontati uno alla volta per sbrogliare la matassa e vivere più serenamente. Mirco finalmente decise di affrontare i suoi problemi uno alla volta, con rigore logico, di catalogare le sue esperienze e di trovare un nesso tra un problema e l'altro, trovando il filo conduttore che lo aveva legato al suo malessere, lasciando perdere l'istinto di preoccuparsi dei problemi degli altri e concentrandosi solo su se stesso. Così pian piano il malessere diminuì, lasciando solo una leggera delusione, come se dovesse sfoggiare una cicatrice di cui non andava molto fiero e questo fu solo l'inizio della sua guarigione.