chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di Federico Zucchi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

La strega Succhiavita e lo scudo della luce

La strega Succhiavita e lo scudo della luce

C'era una volta un bosco di pini e di abeti rossi che si estendeva in una vasta valle circondata da alte cime montuose. Gli alberi arrivavano fino a cinquanta metri e, nelle giornate di vento, i loro tronchi emettevano una musica dolce che ricordava quella del mare sul bagnasciuga. Lì la vita degli animali scorreva tranquilla, modulata sul passaggio delle stagioni. Sembrava che niente potesse scalfire quel ritmo ancestrale, ma, all'improvviso, un evento inatteso sgretolò ogni certezza.
Quell'inizio giugno piovve per diversi giorni di fila e, successivamente, il cielo non tornò limpido, ma restò velato da uno strato di grigio. Fu così che il vecchio e saggio gufo decise di convocare un'assemblea di tutti gli animali del bosco sotto il larice secolare. In quelle rare occasioni si trovavano fianco a fianco caprioli e lupi, volpi e lepri, vipere e topolini: era infatti proibita ogni aggressione. Tom il cervo, Lella la talpa e Nina la cincia erano, come sempre, insieme e, aspettando l'inizio dell'assemblea, avevano improvvisato un'allegra e furiosa battaglia di pigne secche. Ma, quando il gufo iniziò a parlare, subito calò il silenzio, perché il suo tono era drammatico. “Cari animali del bosco – esordì – devo darvi brutte notizie. Ci siamo tutti accorti che da qualche giorno il cielo non è più lo stesso e l'altro ieri ho chiesto all'aquila di controllare lassù tra le cime. Ebbene oggi è tornata – sospirò, facendo una pausa – . Pare che sulla vetta del Monte Tempesta sia arrivata una Strega Succhiavita. Tutto intorno a lei è diventato nero, ad alta quota non ci sono più prati, cespugli, pini mughi e anche il fischio delle marmotte è spento. Non è rimasto niente. Niente. Sembra che la strega succhi l'essenza vitale di ogni creatura per preparare un filtro magico potentissimo. Siamo in grave pericolo. Nessuno sa come combatterla. Sappiamo solo che lascia freddi deserti dietro di sé, prima di spostarsi altrove. Io propongo di andare nel fondovalle, fintanto che passi la tormenta. Domattina inizieremo la grande migrazione. Mi dispiace molto, ma non vedo alternative”. E, dopo un ultimo rauco lamento, il gufo si chiuse in un sordo silenzio.
Gli animali, superato l'iniziale sgomento, si rianimarono e cominciarono a commentare l'accaduto. Molti dichiararono che non si sarebbero spostati per nessun motivo al mondo e che sarebbero rimasti a lottare contro la strega. Altri scuotevano la testa, già rassegnati a partire. La discussione si trascinò per ore, ma poi, lentamente, il sonno si posò sugli occhi come neve pesta.
Al risveglio gli animali non trovarono più il mondo di prima. Il Monte Tempesta era devastato, come se la desolazione avesse brucato ogni cosa. E il buio stava scendendo, velocemente. Era chiaro che la strega non intendeva fermarsi. Fu così che gli animali decisero di lasciare ogni cosa e partire. Tutti prepararono i bagagli, anche quelli che la notte precedente avevano giurato che mai se ne sarebbero andati. Tom, Lella e Nina si erano dati appuntamento per colazione. Enorme fu lo shock quando videro la gigantesca macchia nera sopra di loro, così come la sorpresa nel constatare che tutti gli animali si erano già disposti in file caotiche, pronti a mettersi in marcia. Invano provarono a farli desistere, ma fu tutto inutile e a mezzogiorno il bosco si era svuotato. I tre amici, però, non volevano abbandonare il loro amato mondo e, seppur combattuti, scelsero di restare. Ma come fermare la strega cattiva? Rimasero qualche minuto in silenzio, poi Tom il cervo cominciò a parlare: “Ho un'idea. È un'idea strana, ma non mi viene in mente niente di meglio. Mio nonno che aveva vissuto gli anni del Grande Inverno ripeteva sempre che il gelo non annienta chi sa farsi fuoco. Secondo me la strega, prima di succhiare la vita, ne offusca la luce, la musica, la forza segreta. E poi colpisce. Vedete come sembra spenta la nostra valle? Gli abeti non suonano più, gli uccelli sono fuggiti, i colori sono sbiaditi. Io credo che se riusciamo a mantenere uno spazio luminoso attivo a difesa del bosco, la strega non riuscirà a distruggerci, ma sarà costretta ad arretrare”. Lella la talpa si grattò la testa non proprio convinta. “Mi sembra una teoria strana – bofonchiò – . Se quello che dici è vero, allora perché noi siamo ancora qui? Non dovremmo anche noi sentirci deboli e confusi, non dovemmo anche noi...”. E qui si interruppe non trovando più le parole. Nina la cincia, intanto, iniziando a sbadigliare, aggiunse: “In effetti è da molto che non mi sentivo così stanca, farei volentieri un pisolino...”. “Sveglia! – urlò Tom – Non possiamo dormire, è quello che vuole la strega. Non so bene neanch'io perché noi siamo qui, ma credo che ci sia un motivo. Forse, forse.... – aggiunse il cervo un po' imbarazzato guardando negli occhi Lella e Nina – è perché siamo così amici. Voglio dire che l'amicizia ci ha protetti, ci ha reso più forti”. La talpa e la cincia incontrarono gli occhi del cervo (Lella, in realtà, colse solo un lampo dentro un alone) e capirono in modo istintivo e misterioso che Tom aveva ragione. Un senso di calore li avvolse.
Dopo aver mangiato qualcosa, si misero in marcia, incalzati da euforia e terrore. Avanzavano contro questo serpente scuro che calava dalle cime. Il silenzio intorno era denso come una colla. Fu per darsi forza che la cincia iniziò a cinguettare. Passo dopo passo anche gli stonati Tom e Lella gli andarono dietro e il canto si fece corposo. Il cielo era grigio e una strana foschia gravava sul paesaggio. I colori della natura parevano svaniti. I tre amici si strinsero sempre più; la cincia e la talpa salirono sul dorso di Tom e si aggrapparono al suo mantello. In breve la nebbia li ricoprì: era fredda, appiccicosa, inodore. Contemporaneamente una specie di ghigno malvagio prese a sferzare l'intera vallata. Tom lottò con tutto se stesso contro l'impulso di fermarsi e dormire. Continuarono a cantare, a gola serrata. Non si vedeva più nulla e allora fu la talpa, con i suoi miseri occhietti a dare indicazioni a Tom perché andasse avanti. Erano ormai usciti dal sentiero e salivano alla cieca roccia dopo roccia, tornante dopo tornante, frustati dalla risata spaventosa della strega. La talpa guidava, la cincia cantava, il cervo avanzava disperatamente. Salirono e salirono fino ad arrivare sul passo più alto della valle. La cima del Monte Tempesta si ergeva, invisibile, sopra le loro teste. Raffiche di vento gelido graffiavano i tre amici. Ad un certo punto le ginocchia del cervo si piegarono, la cincia e la talpa si ancorarono ancora più forte al manto dell'ungulato. In poco tempo si ritrovarono tutti e tre rannicchiati attorno ad un grande pietra. Il becco della cincia si muoveva ancora, anche se non usciva più suono. Restarono a lungo così avvinghiati, aspettando qualcosa che non sapevano immaginare. Infine il vento cessò e una lama di sole inondò le vette più alte. Poi lentamente si espanse fino a scaldare i tre amici. Fu la cincia la prima a riaversi. Mosse le ali, alzando nera fuliggine. Poi il cervo scosse il collo e questo movimento fece scivolare la talpa a terra. “Ehi, ma che modi sono questi, perbacco!” protestò la talpa. Il cervo si alzò e la prima cosa che vide fu lo stretto sentiero che avevano percorso, zigzagando sul costone. Brillava intensamente. Il resto della valle era ancora scuro, ma in alto il cielo era tornato limpido e non regnava più quel cupo senso di morte. “La strega non c'è più” mormorò la talpa, annusando l'aria e la cincia e il cervo annuirono. “Andiamo – disse quest'ultimo – torniamo a casa”. Cominciarono a scendere, lentamente, stremati, ma con una sensazione di gioia nel cuore. E successe una cosa meravigliosa: ad ogni passo che facevano rispuntava l'erba intorno. E poi sbucarono i primi fiori: genziane, botton d'oro, anemoni... Più avanzavano e più sperimentavano il miracolo della vita che rinasceva. Per l'emozione la cincia volteggiava qua e là come ubriaca. Era già pomeriggio inoltrato quando furono di nuovo al leccio secolare. C'erano le verdi foglie, i fiori, le bacche. Mancava, però, ancora qualcosa di essenziale. I tre amici si guardarono intorno, sbirciando tra i cespugli con una certa apprensione. Fu la cincia a dare l'annuncio: “Una farfalla! Una farfalla! Guardate lassù!”. Subito dopo apparve un'ape. Anche gli animali stavano tornando. Il cervo sorrise e, finalmente sollevato, si adagiò all'ombra del vecchio leccio. Lo stesso fecero la talpa e la cincia. Quest'ultima, prima di chiudere gli occhi, lanciò uno sguardo verso il Monte Tempesta. Le parve di scorgere qualcosa che si alzava in volo, come un puntino nero nel vasto cielo azzurro. Non fece in tempo a vedere altro. Come i suoi amici cadde in un sonno profondo, cullata dal suono del torrente poco lontano. La musica della foresta era tornata.

*

Capolinea Estate

Capolinea Estate

«Secondo me alla fine non vieni», disse Samu a Filippo, sputando sull'asfalto ancora rovente.
Filippo si girò verso di lui e per un momento i manubri delle biciclette si toccarono, facendo ondeggiare le ruote anteriori.
«Ci sarò, ho promesso». Filippo guardò negli occhi il suo amico prima di fermarsi sotto il grande tiglio del centro. Subito li raggiunsero Lele e Francesca che ridevano per un gioco di parole.
«Allora siamo d'accordo, all'una davanti a casa della nonna di Franci», la voce di Samu si era fatta seria e, prima di salutarsi e sparpagliarsi per cena, tutti annuirono solennemente.
Mentre si allontanava sul rettilineo di via Trieste, Franci incrociò lo sguardo assente di Filippo. Era stato un anno tremendo per lui. Sua madre era morta a febbraio. Di cancro, dicevano. Per molti giorni non era venuto a scuola e lei lo aveva atteso sotto la pensilina dell'autobus ogni mattina. Poi, un giorno di pioggia, era tornato. Si erano salutati chiudendo l'ombrello, lei gli aveva messo una mano sulla spalla salendo sul pullman e gli aveva offerto una rotella Haribo.
Per tutta l'estate Filippo non le era sembrato molto diverso. Solo ogni tanto si oscurava, come accade ai grandi alberi sul fiume quando una nuvola li copre, pensò Franci aprendo il vecchio cancello di ferro. Appoggiò la bicicletta al muro del garage dove un tempo c'erano le galline. Si sentiva esaltata. L'ultima notte dell'estate a Fiumicello, tutti insieme sull'Isonzo a vedere le stelle e fare il bagno nel fiume. Tuttavia era anche un po' malinconica. Sapeva dentro di sé che non ci sarebbe più stata un'estate come quella. A settembre tutti e quattro sarebbero andati alle superiori in scuole diverse e sua madre già progettava di mandarla a Londra il prossimo luglio per una vacanza studio. Scacciò quel pensiero entrando in casa.
La nonna l'aspettava seduta in cucina e lei si lasciò cadere nel suo caldo abbraccio che sapeva di sugo e cerotto Bertelli.


Scendendo le scale percepì la potenza dei rumori notturni: il ronzio del frigo, il russare fragoroso della nonna, il battito della lancetta della sveglia, il motore truccato del motorino sulla strada provinciale. Scorse le sagome dei gemelli dietro il garage: Lele magro e scattante, Samu saldo e concreto. Li raggiunse di soppiatto.
«Tutto a posto?», chiese Lele quando ormai era vicina.
«Sì», rispose Franci. «Ho la coperta e le candele. E Filippo?», domandò, guardando lontano nella luce dei lampioni.
«Spero non abbia casini....», fece Lele preoccupato. «Il padre si addormenta sempre sul divano davanti alla televisione e per lui non sarà facile uscire»
«Verrà», sentenziò Samu. «Vedrete che verrà, aspettiamo».
Rimasero tutti e tre in silenzio nella luce risicata della notte di paese. Alle loro spalle, da una finestra aperta, veniva il riflesso violaceo di un televisore ancora acceso. Sentirono distintamente le virate dei pipistrelli e poi un rumore lontano che man mano diventava più nitido. Samu emise un sospiro di sollievo, non c'erano dubbi, era l'inconfondibile cigolio della bicicletta di Filippo che avanzava sull'asfalto.
Non appena l'amico li raggiunse, si fecero reciproci cenni di intesa con la testa. Filippo legò la bici al lampione e, senza proferire parola, iniziarono a camminare sulla strada bianca verso la Mondina, il canale del paese. In una ventina di minuti contavano di raggiungere il parco sull'Isonzo. Avevano scelto di attraversare i campi per non dare nell'occhio. Camminarono in silenzio, Lele e Filippo davanti. Samu chiudeva la fila.
Franci affiancò Filippo.
«Tutto ok?»
«Sì...», rispose Filippo senza convinzione.
«Sembri strano...hai litigato a casa?»
«Un po'....le solite cose, lascia stare»
Franci non insistette, anche se avrebbe voluto.
Si fermarono sul piccolo ponte sulla Mondina dove Franci raccolse quattro sassolini. Era un rito che facevano fin da bambini. Lanciarono i sassi nell'acqua corrente esprimendo un desiderio nel buio argentato del chiaro di luna.


Continuarono a camminare di buona lena per una decina di minuti. Entrando nei campi di mais le piante erano così alte che ricoprivano interamente i quattro ragazzi. Conoscevano a memoria quei posti. Sorpassarono il muro cadente della trincea della Prima Guerra Mondiale. La struttura era invasa da acacie e rovi infestanti e fungeva da confine tra i campi. Prima di arrivare sull'argine e prendere il sentiero verso la sponda dell'Isonzo c'era un ultimo tratto di strada più esposto da affrontare. Passava accanto a una vecchia casa colonica costruita vicino alla cava di ghiaia abbandonata. Era la casa di Fredo, un vecchio che viveva da solo. Tutti lo conoscevano in paese, anche se lui non parlava con nessuno. In certi giorni, all'ora di chiusura, si presentava circospetto al supermercato per comprare lo stretto necessario e poi scompariva per giorni interi, inghiottito dal lavoro nei campi e da chissà cos'altro.
Ai ragazzi faceva paura, perché ogni volta che qualcuno invadeva per sbaglio la sua proprietà, non era raro sentirlo bestemmiare, cedere all'ira più truce, minacciare rappresaglie efferate. Per questo motivo, quando decisero di attraversare i suoi campi di pesche per evitare la strada asfaltata, i quattro amici si fecero cauti come pantere.
Non potevano sapere che Fredo, insonne e nervoso, era ancora seduto sulla decrepita veranda di casa. Bastò un movimento sospetto nei campi perché il vecchio si alzasse in piedi a scrutare l'orizzonte. I capelli bianchi spettinati, la camicia larga e il torace scarno lo facevano assomigliare a un marinaio di lungo corso, scampato per miracolo alla rovina.
«Chi è laggiù? Andate via o sparo!», inveì il vecchio avanzando a fatica sul porticato, brandendo qualcosa nel buio.
Senza perdere tempo i ragazzi si lanciarono a capofitto verso l'argine poco lontano, inseguiti dalle urla di Fredo. Corsero senza mai voltarsi indietro. Si fermarono solo quando si sentirono al riparo nella boscaglia.
«Cazzo, avete visto? Ci voleva uccidere!», sbottò Lele col fiatone, in mezzo ad un furioso attacco di tosse. «Quello è uno zombie!»
«Ma come ci ha visto?», chiese Filippo piegato sulle ginocchia.
«Sembrava strano, forse era ubriaco...», buttò lì Franci, quasi tra sé e sé.
«Quello voleva spararci, non vi entra nel cervello? Spa – rar -ci!» scandì Lele platealmente.
«E basta! Calmati una buona volta!», gridò Samu al fratello, riprendendo a camminare. «Dai, andiamo avanti, in dieci minuti siamo al fiume. Non possiamo ritirarci proprio adesso».
«No, non possiamo…», dissero quasi all'unisono Franci e Filippo, rimettendosi in moto.
Dopo un'esitazione, anche Lele si accodò, continuando a borbottare inascoltato.


Nella confusione della fuga, avevano preso un sentiero diverso dal solito, non del tutto battuto. Accesero le torce, ma i fasci di luce faticavano a penetrare in quell'intrico lussureggiante di arbusti e rami. Continuarono alla cieca, aspettando finalmente che il fiume si annunciasse con il suo ampio letto di ghiaia. C'era un forte odore salmastro che segnalava la vicinanza della laguna di Grado.
Arrivarono, infine, a una specie di radura.
«Dovremmo essere già arrivati», sbuffò Samu arrestandosi di colpo. «Che si fa?»
«Dai continuiamo un po', dovremmo esserci ormai», gli rispose Filippo.
«E questo sarebbe un sentiero?», chiese Lele sarcastico.
«La direzione è giusta», disse Franci, senza badare all'amico. «Continuiamo ancora dieci minuti, sennò torniamo indietro».
«Va bene, ma dieci minuti, non di più...», fece Samu rimettendosi lo zaino sulle spalle.
Ma proprio in quel momento Franci si abbassò con un movimento repentino. Fece cenno a tutti di zittirsi. «Sstt...sstt... ho sentito qualcosa, fate silenzio», bisbigliò. Chiusero le torce.
E in effetti qualcosa si muoveva poco lontano. Era come uno scalciare, un agitarsi folle e disperato.
«Che cazzo è?», sbottò Lele spaventato.
«Sstt!», fece Filippo. Anche lui tremava. «Forse è un animale».
«Zitti, aspettiamo, stiamo vicini», disse Franci piegandosi a terra.
Il rumore si intensificò seguito da un suono sordo, come uno schianto.
«È un animale, avevi ragione», sussurrò Samu.
«C'è qualcosa che non va, forse sta male», fece Filippo.
Rimasero in ascolto di quel roco ansimare.
«Che si fa?», chiese Samu dopo un po'.
«Andiamo a vedere?», disse Franci alzandosi in piedi.
«Cazzo, siete sicuri? E se è pericoloso? Magari è una volpe e ha la rabbia..nostro padre dice che le volpi sono idrofobiche..».
«Non fare il cagasotto Lele». Samu prese sottobraccio il fratello.
Lentamente avanzarono verso il lamento irregolare. Si fermarono a circa tre metri dall'animale. Un odore acre li avvolse.
Con cautela Filippo accese la sua torcia spostando il fascio di luce in avanti.
Sentirono di nuovo rumori confusi. E poi solo un respiro, intervallato da deboli raspi.
«È ferito, non riesce ad alzarsi», disse Filippo.
«Ma cos'è?», chiese Franci di rimando.
«Forse un capriolo...o un cervo», le rispose Filippo.
«Avviciniamoci piano», bisbigliò Samu, avanzando nel sottobosco.
Era proprio un capriolo. Giaceva in una pozza di sangue, aveva una chiara ferita da arma da fuoco sul fianco destro. La povera bestia cercò ancora una due volte di alzarsi, ma cadde subito riverso, le zampe impotenti, gli occhi vitrei terrorizzati dal fascio luminoso.
«Povero, è ferito...gli hanno sparato», biascicò Franci.
«È stato il vecchio, quello spara a ogni cosa che si muove...», rilanciò Lele con enfasi.
«Ma non dire scemenze», fece Samu. «È stato un cacciatore...forse un bracconiere...»
«Guardate», continuò Franci con un nodo alla gola. «Sembra che pianga, poverino».
Filippo che, fino a quel momento, era rimasto immobile, quasi paralizzato, fece due passi verso l'animale. Poi allungò una mano verso il dorso della bestia.
«Ma che fai!», urlò Samu. «Dai, è pericoloso!».
Ma Filippo non l'ascoltò. La sua mano toccò la schiena dell'animale e si fermò. Sentì il cuore dell'animale che batteva all'impazzata. Il corpo della bestia si mosse ancora una volta, prima di crollare. Il ragazzo non arretrò.
«Sta morendo», disse come in sogno.
Franci si avvicinò a Filippo e mise la sua mano sopra quella dell'amico. Gli occhi dei due si incontrarono, quelli del ragazzo erano rigati di lacrime. Franci se ne accorse e strinse la sua presa pensando al timido abbraccio che si erano scambiati fuori dalla porta della chiesa, al funerale di sua madre. Sentì il calore della sua pelle, mescolato al dolore e al rantolo della bestia, il fiato del fiume poco lontano. Anche Samu e Lele si fecero avanti e così si ritrovarono insieme abbracciati attorno al capriolo. Lele tirò fuori dalla borsa una vecchia felpa Lonsdale con cappuccio che aveva nello zaino e la mise sopra il fianco dell'animale che adesso tremava violentemente, come se stesse gelando. Il bianco leone del marchio si tinse di rosso amaranto. Restarono così, allacciati, a vegliare sulla bestia per un tempo indefinito come guardie reali in attesa del cambio.


Fu Franci la prima a parlare.
«Penso sia morto».
«Già, non respira più», disse Samu, abbassandosi un poco per sentire meglio. «Povera bestia».
Indugiarono ancora un po' nella penombra, come cercando qualcosa nel cielo stellato.
«Andiamo adesso, dai.», disse Samu. «E' ora di tornare, fra poco è chiaro».
«Lo lasciamo così?», chiese Lele. «Non lo seppelliamo?».
«Dai Lele, non abbiamo niente per scavare. Dobbiamo andare. Se papà ci scopre, ci uccide», gli disse Samu mentre indietreggiavano insieme. E poi, dopo una pausa: «Non era la tua felpa preferita?»
Lele rispose alzando le spalle.
Filippo e Franci rimasero ancora qualche istante di fronte alla bestia.
«Andiamo adesso», disse Franci dolcemente.
Filippo annuì con la testa. Entrambi si mossero all’unisono verso l'interno. I loro volti si sfiorarono, fremendo nel buio.


Uscendo dal bosco si accorsero che il cielo andava schiarendo.
Affrettarono il passo, non dovevano farsi scoprire. Avevano un segreto da custodire, un segreto da amici per sempre.
Per la prima volta, dopo molti mesi, sentirono freddo, come se l'estate si stesse staccando.
Non gli diedero peso, perché erano insieme.