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Raccolta di testi in prosa di Frank Gallo
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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La folle vita di Jean Rossignol il marinaio - 2

KINDO, La folle vita di JEAN ROSSIGNOL

«AURELIA! Sul serio Aurelia, non posso restare con te stasera. Ho degli impegni inderogabili, te lo avevo detto al convento, ricordi?»

«Dài, vieni con me, ho un’idea». Speravo che non mi ubbidisse come al solito. Ero nelle sue mani, anche se mi ribellavo non potevo fare a meno di seguire il suo profumo di camomilla, mi stava infondendo una calma ritrovata e mi sentivo oltremodo fiero di aver fatto l’amore con lei sulla scrivania della madre superiora. Non avevo più paura di aver peccato perché era visibilmente svestita dell’abito da suora. Probabilmente, visti i trascorsi, non le si addiceva più di tanto.

«Dove mi stai portando Aurelia? Non correre, mi fanno male i piedi».

«Ma dove le hai prese quelle scarpe? Ne avevo un paio uguale quando andavo al liceo».

Percorremmo insieme una strada in salita che portava fuori città, San Juan non aveva più di centomila abitanti, tutto sommato era un paese dal mio punto vista. Ma c’era molta gente che la chiamava città, anzi Città della Luce . La salita era sempre più ripida, stavamo superando il castello passandoci sotto, di fronte a noi tutta la baia splendeva sotto il tramonto, alle nostre spalle il buffo cartello si stava spegnendo sotto i comandi di dio solo sa chi.

«Come hai avuto l’idea del cartello gigante?»

«Ho chiesto a qualcuno che conoscevo di fare tutto questo. Per trovarti, Jean».

«Sei davvero una matta…»

Rise prendendolo come un complimento. Forse lo era. Poi mi tirò più forte su per la salita. Un giardinetto con le palme, grasse e sporche, ci accompagnava lungo quella camminata faticosa. La sera era fresca, soprattutto per indossare un vestitino bianco e scollato come quello. Si vede che doveva essere il più bello che aveva, con un significato particolare per lei, e se lo era messo anche se stava calando il sole, per venire a cercarmi, oppure lo aveva semplicemente addosso da quella mattina. In ogni caso è incredibile quante cose si possano scoprire tutte insieme in un giorno solo.

«Non mi dire che mi stai riportando al convento! Ho chiuso con quel posto io…» Scherzavo, ma scherzare era il modo migliore per essere seri. Lei lo sapeva, sapeva un po’ troppe cose per essere un’ex suora francescana.

«Non ti preoccupare Jean. Anche io ho chiuso con il convento e con la Chiesa, forse per le tue stesse ragioni».

Mi tranquillizzava sentirmelo dire. L’idea di avere a che fare con una specie di ibrida, di giorno suora e di notte donna, mi avrebbe inibito e non poco, con il rischio di compromettere qualunque cosa mi stesse aspettando al di là della collina del castello. E qualunque cosa fosse, l’aspettavo con ansia.

«Sei molto bella con questo vestitino scollato». Mi piace sempre fare un complimento a una bella ragazza o a una donna attraente. È il mio modo per riconciliare il male che aleggia nell’aria con i sorrisi che tiro fuori quando lo faccio. Tutto questo Aurelia non lo poteva sapere, lei si limitò ad arrossire e a stringersi più forte al mio braccio. Adesso avevamo preso lo stesso ritmo e potevamo parlare senza che l’affanno smorzasse le parole.

«Perché sei scappata ieri? Avremmo potuto risolvere tutto, parlarne da persone civili. Faceva freddo là dentro».

Sorrise. Si era presa la sua piccola vendetta. «Come hai fatto a uscire? Stavo già pensando di chiamare madre Adelaide e chiederle di venire ad aprirvi».

«Grazie, gentile da parte tua. Dopo…» guardai l’orologio sulla Torre del drago, «dopo esattamente 24 ore. Pensa se dovevo andare al bagno!»

«Beh, c’era sempre il pozzo». Ci mettemmo a ridere come due bambini, complici in un gioco dispettoso. «Ti immagini quanto ci metteva la tua pipì a cadere per novantasei metri!»

Sapevo quanto ci metteva e anche il rumore sfrigolante che faceva una volta giù, una eco rimbombante su per le pareti dopo essere caduta nell’acqua antica e piena di mistero. Ma non glielo dissi, lasciai che rimanesse una battuta e non le diedi la soddisfazione di sapere che mi aveva costretto a infilare la parte più preziosa del mio corpo in una grata centenaria piena di ruggine. Risi più forte e stavolta da solo, senza condividerlo con lei, quando ripensai alla faccia di Jacqueline il giorno prima, incuriosita davanti a quella scena.

La via che percorrevamo si faceva sempre più intima, il parco ai piedi del castello era illuminato dai fari delle auto che ci sfrecciavano a fianco, a volte pareva davvero che ci investissero. Eppure c’era gente che scendeva a piedi regolarmente per quella strada per arrivare in centro, era la stessa strada che veniva dal convento, era lunga diversi chilometri.

«Aurelia, tu come sei scesa giù in paese stamattina?»

«A dire il vero sono venuta via ieri sera tardi, ho camminato per tutta la notte e ad un certo punto mi sono ritrovata sull’Explanada. Avevo i piedi che mi facevano male».

«Ci avrai messo una vita! Perché non hai chiesto al maggiordomo inglese di accompagnarti con il furgone?»

«Perché il furgone lo avevi rubato tu. Quando sono uscita dal mio nascondiglio era già buio e ho visto che i ragazzi stavano facendo i pettorali in palestra. Dopo averli guardati per un po’ mi sono resa conto che se loro erano lì e di fuori il furgone non c’era, poteva esserci soltanto una spiegazione».

«Hai ragione. Me ne ero dimenticato, siamo scesi tutti e tre con il furgone del convento. L’ho lasciato al supermercato, se lo riprenderanno lì. Dopotutto, visto quello che mi stavano facendo, se lo meritavano».

«Tutti e tre? C’è qualche altra moglie della quale non mi avevi parlato?» mi rispose la giovane e dolce Aurelia.

«No, sta’ tranquilla, nessun’altra ex moglie. C’è un medico, uno di Nizza, che è venuto al convento ieri sera e ci ha aperto la porta. Mi è stato di grande aiuto».

«Comunque, riguardo i ragazzi, non saltare subito a conclusioni affrettate. Secondo me ci dev’essere una spiegazione per quello che hai sentito ieri».

«Stavano copiando il mio ultimo capitolo per darlo a quel tale che hai visto ieri, Roberto, e fargli girare la scena finale di un film che stavamo preparando con la mia società prima che m’imbarcassi. La superiora era d’accordo. Non ci sono altre spiegazioni».

«Chissà, eppure i ragazzi sono troppo buoni per fare una cosa del genere, te lo assicuro. Eccoci!»

«Eccoci dove?» Davanti a noi c’era soltanto il Silver Star e una chiesa. Se aveva chiuso con le chiese voleva dire che aveva una stanza al Silver Star! Non ci potevo credere. «Aurelia, dimmi che siamo venuti in chiesa per confessare i nostri peccati!»

«Una specie…»

Il tono di Aurelia era saccente, era la prima volta che la sentivo parlare così, mi faceva paura. La guardavo sculettare davanti a me e mi chiedevo dove avesse imparato in soli due giorni a muoversi così. Si vede che lo aveva sempre fatto e con la tunica non me ne ero accorto. Entrammo, era la prima volta che vedevo anche la reception del Silver Star eppure a San Juan era famoso, ci erano stati tutti almeno per prendere un caffè nell’elegante giardino a picco sul mare. In effetti non avevamo fatto altro che girare attorno ai piedi del castello e ritrovarci dall’altra parte del paese. Il mare di fronte alle finestre era impetuoso, mi fece paura anche quello. Un tizio dietro un banco nero prese la chiave della 99 prima che Aurelia aprisse bocca e gliela diede. «Buonasera signorina, fatto buone compere?» le chiese sorridendole in maniera malata.

«Non farci caso,» mi sussurrò all’orecchio mentre ci avvicinavamo, «gli ho raccontato che sono qui in visita e che andavo a fare shopping».

La reception era stretta e lunga, a forma di elle, i vasi delle piante erano quadrati e di un materiale color legno. Davano un’aria moderna all’ambiente. Le pareti tappezzate da panno beige, il pavimento in parquet chiaro, il quadro delle chiavi pieno. O erano tutti in giro, o l’albergo era vuoto.

«Andiamo su, mi è rimasta una bottiglia di vino bianco». Quando la porta dell’ascensore si aprì, il profumo di Aurelia mi arrivò in faccia come uno schiaffo.

«Vino? Tu bevi vino bianco?» le chiesi.

«Hm hm. Ne avevo tre, ma adesso me n’è rimasta soltanto una».

«E gli alti due che hai portato su prima di me hanno gradito?»

Anche adesso scherzavo, ma anche adesso credevo in quello che dicevo. Inoltre il portiere le aveva rivolto un paio di domande di troppo e questo poteva voler dire un paio di cose: o c’era confidenza con Aurelia, nel senso che era stata lei a dargli modo di osare tanto, oppure quello lì non sapeva fare il suo lavoro. Sperai sinceramente nella seconda opzione. Non riuscivo a credere che in due giorni una suora fosse diventata una femme fatale, né che in due giorni si fosse portata in camera altri due increduli pagliacci come me.

L’ascensore era stretto, potevo vedere il colore della sua biancheria, ma la guardai negli occhi e le sorrisi imbarazzato, non mi sentivo così dai tempi dell’università a Nizza, alle mie prime esperienze con le ragazze. Lei se ne accorse, ma non mi guardò per non farmelo capire, chiuse gli occhi e si lasciò baciare a lungo, ad ogni movimento della mia bocca diede un sussulto leggero e si lasciò accarezzare dalle mie labbra sul collo e sulle spalle. Arrivammo al terzo. Non mi chiesi per quale ragione la camera 99 fosse finita al terzo piano, non me ne importava nulla. Per terra c’era una moquette blu con fantasie persiane, sudicia, le pareti mi ricordarono la desolazione di un parcheggio sotterraneo al quale puoi accedere da diversi piani e noi eravamo al terzo. Sotto il soffitto si susseguivano specchi stretti e sporchi, vi si riflesse la scollatura di Aurelia. Si sentivano suoni incerti e musica ad alto volume venire dalle camere alla destra e alla sinistra. In fondo al corridoio c’era la sua camera. Non le chiesi perché era finita lì, per quanto tempo aveva intenzione di restarci e soprattutto perché mi ci aveva portato. Nonostante le mie esperienze passate con le ragazze, ogni volta che era una di loro a prendere il controllo, io mi sentivo di nuovo un ragazzino ingenuo e non sapevo cosa chiedermi per capire me stesso e loro.

«Non ho un apribottiglie, devi andare giù e chiederne uno al portiere. Fatti dare anche due bicchieri».

La lasciai sulla soglia della porta, non sembrò neanche ascoltarmi. Sorrisi mentre ubbidivo e tornavo indietro, mi guardai allo specchio appena entrato in ascensore. Che cosa stavo per fare? Che cosa volevo io da quella ragazza? Non era come tutte le altre, ma allora com’ero io? Diverso da prima? Se ero in quell’albergo con Aurelia e avevo lasciato Jacqueline con un bambino di dieci anni per farlo, voleva dire che ero davvero cambiato? E Aurelia lo sapeva, lo aveva scoperto anche prima di me. Allo specchio non riuscivo a guardarmi negli occhi, era come vedere senza guardare, la discesa durò molto di più che la salita. Quando arrivai di nuovo nella hall, mi sentii osservato. Mi chiesi se Aurelia fosse arrivata, vestita da suora, e poi fosse scesa dalla 99 con quel bel vestitino bianco. Ed io cosa sarei stato agli occhi di quel portiere e degli altri clienti? Una specie di sacerdote peccaminoso che si chiudeva in camera con le sue pupille? Un depravato che approfittava di una ragazza di dieci anni più piccola di lui? Oppure un povero cretino caduto nella rete dell’ennesima pescatrice di uomini di San Juan?

Il portiere, per i movimenti e lo sguardo di sbieco, pareva il gobbo di Notre-Dame, ma senza la gobba. Rideva come il padrone di una casa stregata nella quale potevi entrare e non uscire più, rideva e annuiva forse perché voleva sapere i dettagli di quello che succedeva lassù.

«Non l’abbiamo ancora fatto, se è questo che mi vuole chiedere».

Mi fece gli auguri allora per una prospera nottata e mi diede il tire-bouchon. Lo teneva sotto il bancone, come se fosse una richiesta frequente. O come se il tire-bouchon fosse rimasto lì dopo che aveva aperto le altre due bottiglie di Aurelia. Gli chiesi anche dei bicchieri e lui uscì oscillando dalla sua postazione e mi fece cenno di seguirlo. La giacca gli arrivava quasi alle ginocchia, aperta, con il bordo dorato alle maniche. Era caduto da un’altra epoca, dal passato forse. Ma il passato di chi? Il mio?

«Da dove viene?» gli chiesi mentre salivamo le scale tappezzate di rosso. Al primo piano c’era sicuramente la sala colazioni dove prendere i bicchieri.

«Vengo da Parigi. Può parlare in francese, non si preoccupi».

«E perché da Parigi è venuto fino a San Juan?» gli chiesi senza rendermi conto che non ero la persona più adatta a fare quella domanda, io che ci avevo passato due o tre anni laggiù. Il tizio mi rispose che non era esattamente quello il suo lavoro.

«Faccio un po’ di tutto,» disse, «per adesso sono finito qua. Aspetti un attimo».

Ci fermammo in una specie di lavanderia, proprio accanto alla sala, c’erano i cesti con le lenzuola sporche, due frigoriferi, uno più grande e uno più piccolo, e una montagna di fili dappertutto.

«Ecco a lei! Che c’è?» mi chiese. «Oh, forse è meglio che gliene dia due?»

«Sì, è meglio».

Rientrò nella stanzetta senza luce e ne uscì con un altro bicchiere da cucina impolverato, ma meglio che niente. Un brindisi non voleva necessariamente significare che avremmo dovuto bere lì dentro.

«Posso riprendere l’ascensore da qui?» Non mi ero reso conto che eravamo proprio sopra la reception. La forma a spirale delle scalinate mi aveva disorientato. Il tizio aveva salito gli scalini di tre in tre e avevo fatto fatica a stargli dietro con quegli scarponi.

«Certo, schiacci il bottone verde. Schiacci sempre quello verde. E non si dimentichi che la 99 è una brava ragazza, non è una di quelle…»

Rimasi shoccato da quello che mi stava dicendo. Dapprima mi irrigidii, stavo per tirargli un pugno in bocca, come se l’avesse offesa. Poi capii che intendeva fare il contrario, ma non il perché lo stesse facendo. Lo fissai, ridacchiava alienato e saggio.

Ripresi l’ascensore mentre il vecchio guardiano notturno mi guardava dalle mie spalle, sentivo il suo sguardo e i suoi pensieri strani pesarmi addosso, volevo scrollarmeli come la polvere che c’era sui bicchieri e non ci riuscii. Mi salvò il din e la porticina che si aprì come un sipario. Attraverso il vetro stretto, prima che apparisse un muro ammuffito davanti alla porta dell’ascensore, vidi quell’uomo chinato a far finta di sistemare delle riviste che già avevo visto allineate alla perfezione. Mi restava un grosso dubbio sul perché si incontrasse certa gente in certi momenti della nostra esistenza, poi mi convinsi che stavo facendo troppe domande a quelle mura da quando ero entrato. Le mura erano bianche, molto sporche, come quelle che ci sono all’esterno dei palazzi. Il corridoio blu apparve davanti a me. Davanti ad ogni porta, sotto delle lucette fioche, pareva quasi viola. Superai una rampa di scale elegante quanto disastrata, dipinta di bianco, coi pomi blu oltremare, in basso si stagliava una finestra gialla, coi bordi rossi. I colori sul vetro mi misero di buon umore, forse per qualche ora non avrei pensato a tutta quella storia. Arrivato davanti alla 99, capii che non era affatto quella storia che mi stava preoccupando tanto.

Appena entrai nella camera di Aurelia, sentii quell’inconfondibile odore dell’insetticida che usavano laggiù, misto al vino bianco e a frutta fresca. Le scarpe fecero un rumore sordo affondando nella moquette rossa, un piccolo corridoio portava al letto, era molto grande il letto, con una spalliera di legno nero e un quadro dai colori caldi che dava l’idea di un posticino invitante. Lei aveva tolto le scarpe e giocava con le dita dei piedi nei folti peli del tappeto mentre scriveva qualcosa e fissava la cornetta del telefono che stava alzata ed emetteva un suono dolce e ovattato. Le porsi un bicchiere ed io mi presi il mio, il vino era secco e freddo, odorava di medicina. Mi guardavo in giro perché non mi ero ancora abituato a quella sua nuova immagine, potevo vedere la forma del suo corpicino esile sotto la stoffa del vestito leggero, era magra, più magra di quando stava al convento, eppure era passato soltanto un giorno da quando l’avevo vista l’ultima volta con quella goffa tunica marrone e bianca. Il quadro appeso sulla spalliera del letto raffigurava una donna nera abbracciata a se stessa, aveva un grande capello e un velo trasparente, una gamba ripiegata verso il volto e l’altra no, non si vedeva la faccia e ti faceva pensare che non l’avesse, era seduta su una sorta di passerella sulla sabbia, i listelli di legno venivano verso di me e mi si piantavano in petto. Per me era come vedere Aurelia vestita di bianco e con i capelli sciolti, un corpo nuovo e un viso sconosciuto. Chi era quella ragazza seduta davanti a me? Qual era il suo vero volto? E perché io non facevo altro che guardarmi in giro?

L’alta finestra era aperta, un venticello fastidioso muoveva le tende trasparenti che si riflettevano in uno specchio alla mia destra, accanto a una porta che doveva essere quella del bagno. Guardai dentro, c’era una parete blu con dei fiori di loto dipinti al centro. Poi riportai gli occhi su di lei e li spalancai perché, a meno che non mi stessero giocando un brutto scherzo, Aurelia stava parlando in russo! Ero sorpreso e affascinato da tanta imprevedibilità, non credevo che Aurelia fosse di origini russe. Ma allora che ci faceva in un convento sperduto tra le colline di San Juan?

Con un dito si scusò e mi fece capire che avrebbe finito subito e che era importante altrimenti non mi avrebbe lasciato lì, in mezzo alla stanza, con il mio bicchiere di medicina in mano. Tutto con un dito. Io ero talmente sconvolto per tutto quello che in un solo giorno avevo scoperto, che questa del russo poteva anche essere la sorpresa meno importante, invece fu quella che mi lasciò più di sasso. Continuai a fissarla e continuai a fissare quella scollatura perfetta dalla quale veniva fuori un reggiseno di pizzo rosso, e due seni bianchi e rotondi. La sua pelle era liscia, ricordavo il sapore e la consistenza, come un buon piatto che hai mangiato e ti riviene in bocca ogni volta che lo vedi in qualche ristorante, fino a quando non ce l’hai di nuovo sulla lingua. Erano le sei di sera, ma fuori era già buio, così accesi una lampada che trovai lì sulla grossa scrivania nera di legno economico. Sotto la luce apparvero una serie di bracciali e anelli, una boccetta di profumo francese e creme di bellezza, molte creme, di diverse marche e per mille usi differenti. Mi chiesi se avesse scelto quella stanza di proposito, per la scrivania, e poi mi ci avesse portato per farmi tornare in mente la nostra avventura su al convento. Accanto al profumo c’era anche una pietra che forse veniva dalla spiaggia.

Da un lato del letto c’erano le sue scarpe, dall’altro lato, quello di fronte alla finestra, ci misi le mie. I piedi erano gonfi, non erano certo il modello più comodo, ma non avevo trovato di meglio. Quando lei le vide fece una smorfia e rise senza farsi sentire dall’altro lato della cornetta. Vedevo un collo sottile inarcarsi per ridere, una chioma rossa che splendeva come un crepuscolo all’interno di una stanza d’albergo, più rossa della moquette e più rossa di quel timido sole là fuori che accennava a stento a ostentare la sua luce, a quell’ora vinceva Aurelia. Guardavo il suo corpo che dava forma alla sedia e non ne prendeva la forma, i suoi piedi inarcati, le sue gambe tese e affusolate, il cuore mi batteva forte come la prima volta che vedi una donna nuda e non sai da dove incominciare. Ero d’un tratto ritornato adolescente, ma non avevo il telecomando per riavvolgere il nastro e riguardare quella scena tutte le volte che volevo, mi limitai a registrarla negli occhi e nella testa, ogni dettaglio mi entrò dentro come una freccia e in pochi minuti capii che quella non sarebbe stata una notte normale, come tutte le altre.

Si sentivano delle voci salire e scendere lungo il grosso corridoio che avevamo percorso per arrivare alla sua camera, al terzo piano di quel vecchio palazzo restaurato grazie a quei progetti della Generalitat dei quali mi aveva parlato il dottor Fontaine alla stazione. All’ingresso non mi avevano chiesto chi fossi e perché salissi su con una cliente, la cosa mi aveva infastidito perché voleva dire che erano abituati e che forse non ero stato il primo. Ma poi pensai che se due giorni prima aveva di sicuro dormito al convento, in due giorni non aveva potuto portare in una camera d’albergo chissà quanti altri uomini. Soltanto che le bottiglie di vino erano tre e due erano già vuote, quindi, a meno che Aurelia non si fosse data all’alcol, era proprio vero che io ero il terzo in due giorni. No, era impossibile, l’avevo vista il giorno prima al convento. Preferii non pensarci e mandai giù l’ultimo sorso prima di lasciare il bicchiere sul pavimento e buttarmi giù sul letto. Fu in quel momento che mi accorsi di un grosso televisore appeso in alto, sulla parete di fronte al letto, era nero e mi mise paura. Mentre fissavo il soffitto cercai di non pensarci, ma un televisore così grosso non poteva che farmi venire in mente il mio film e quello che ne sarebbe stato l’indomani. Era quella la ragione del mio stato, era la paura di quello che sarebbe successo martedì 1 ottobre del 1996? O quello che la sera prima accadde in quella camera d’albergo, sotto l’edificio del P.R.O.P?

Aurelia mise giù sulla scrivania la cornetta ed attivò il viva-voce, prese una sigaretta sottile da un astuccio argentato, la strinse con i denti mentre cercava dei fiammiferi nella borsetta che si era portata dietro. Quando eravamo in convento non aveva una borsa, non ne aveva bisogno oppure non ne aveva ancora scoperto l’uso. L’aprì e vi rovistò dentro, quando accese il fiammifero lo strusciò verso il basso, pareva che fosse un’esperta con quella sigaretta in mezzo ai denti, poi si mise davanti alla finestra aperta con il telefono in una mano e la sigaretta nell’altra. Erano due oggetti che non avevo neanche immaginato nelle sue mani fino al giorno prima. Rideva con la testa all’indietro, le sue risate facevano eco nel cortile retrostante l’albergo. Vecchi palazzi distrutti dal tempo e dal vento rimandavano indietro la sua voce  ovattata come la moquette, il cielo grigio di San Juan non osava rispondere al suo richiamo, l’urlo di quella lupa selvaggia affacciata alla finestra saliva nell’aria e non trovava ostacoli, poteva essere ascoltato da tutti. Le labbra fecero un rumore leggerissimo, diedero un bacio all’aria bruciata della sera spagnola, le nuvolette di fumo trasparente si allontanarono indisturbate su per la finestra, era lì di fronte a me con una sigaretta sottile tra i denti e un telefono che le parlava in russo.

D’un tratto, mentre ero preso dai miei pensieri e dagli intrecci che il mio ultimo capitolo avrebbe preso, mi si avvicinò con la leggerezza di un gatto in piena notte e mi baciò la parte di pelle che era rimasta scoperta quando avevo tirato su le mani. Io ero lì disteso e sentii il calore della lingua di qualcuno sulla pelle infreddolita per il vento che entrava dalla finestra. Mi diede tre baci e tornò di corsa all’apparecchio, “Da, da, Ya zdes”.

Da, da, Ya zdes? Ma come è possibile che non ci avevo capito niente?

Era possibile per il semplice fatto che era una donna, anche se io l’avevo conosciuta sotto altre vesti, c’era da aspettarsi di tutto.

Le pareti parevano rosa, forse perché non c’era molta luce, soltanto la lampada sulla grossa tavola e due abat-jour ai lati del letto. Uno era acceso, l’altro no. Il soffitto era bianco, contai i quadrati che si intrecciavano con i triangoli e mi ipnotizzai perché cercavo i dettagli di quella giornata perfetta. Avevo passato mesi su una nave a lavorare come un matto e adesso che ero tornato a San Juan mi ritrovavo davanti alla persona più enigmatica che avessi mai conosciuto. Non la guardai mentre ci pensavo, continuai a fissare il soffitto. Mi sarebbe piaciuto chiudere gli occhi e recuperare la stanchezza e il sonno, ma se lo avessi fatto non avrei trovato quello che trovai in quella camera, alla vigilia della presentazione del mio film alla Città della Luce .

Il letto di Aurelia era enorme, sentivo il dolore ai piedi che lentamente scivolava via e la stanchezza che affondava gradualmente nel caldo copriletto blu, di lana.

«Quali altre sorprese hai in serbo per me?»

«Non ti ho mai raccontato che i miei genitori mi hanno adottata quando avevo dieci anni?» Pareva incredula, aveva un’aria da attrice che non le si addiceva.

«Non mi hai raccontato mai niente, Aurelia».

«Beh, adesso te l’ho raccontato. Allora, a cosa brindiamo?»

«Alla Perestrojka?»

«Brindiamo al nostro incontro, sono felice di averti ritrovato, sapevo che il cartello avrebbe funzionato…»

«Un’idea discreta, rischiava quasi di passare inosservato se non mi ci fossi ritrovato sotto».

Mi piaceva come rideva la giovane Aurelia, mi faceva sentire importante. Bevemmo un sorso, io pensavo a come mi aveva tenuto la mano mentre raggiungevamo l’albergo. E lei, beh non so a cosa pensava lei. Avevo guardato quell’albergo a lungo mentre parlavo con Jacqueline, poche ore prima, ma adesso mi appariva completamente diverso, strano, come il vecchio guardiano, saltato fuori da altri tempi o per altri tempi.

«Aurelia…».

«Dimmi Jean!»

«Perché eri lassù, vestita da suora? Mi sono fatto tanti scrupoli a fare l’amore con te…»

«Sei dolce, Jean. Nessuno usa più quell’espressione. Sei dolce come la tosse di un bambino piccolo». Adesso avevo l’impressione che fossi io ad essere venuto fuori da un’altra epoca. «Sei un gentiluomo, sei l’incarnazione di quello che mi stavano insegnando le suore al convento. Era questo il loro compito, mostrarmi la mia via, perché secondo mia madre stavo rischiando di perderla. Ecco cosa ci facevo al convento. Nessun mistero. Beh, a parte il fatto che non ho avuto il tempo di raccontarti delle mie origini… Neanche tu mi avevi raccontato di essere sposato!»

Era vero, tanti misteri erano soltanto nella mia testa, in quei tre giorni tutto rischiava di apparirmi un mistero. Invece tutto era estremamente semplice e logico. Anche il dottor Fontaine la pensava come Aurelia, anzi mi sembrava che fosse stato lui a spingermi tra le sue braccia, con quelle sue domande strane sulle donne.

Mi aveva stretto la mano per tutto il tragitto, non l’aveva lasciata fino alla porta girevole dell’ingresso. Fissavo le pareti rosa, erano grandi, vaste come un tramonto africano. Il quadro con la donna nera palpitava al centro, canne di bambù e vasi bianchi si spargevano a perdita d’occhio sulla spiaggia, il grosso cappello trasparente continuava a coprirle gli occhi. Aurelia mi si avvicinò, continuava a stringere il suo bicchiere da cucina impolverato, mi guardò negli occhi e si lasciò baciare. Il suo collo parlava, le sue guance calde parlavano e mi dicevano di continuare, sentivo i suoi brividi e i suoi tormenti mentre le accarezzavo la schiena. Anch’io la fissai a lungo negli occhi, erano azzurri e innocenti, pregavano di essere capiti ed io non so se li capii o se furono loro a capire me.

«Ti ricordi quando mi hai raccontato la storia del cigno rivelatore?»

«Certo,» le risposi, «eravamo sul mio terrazzino, su al convento. Tu giocavi con il rosario e te lo arrotolavi attorno alle dita mentre ascoltavi le mie storie. E io stavo provando a camminare con i lacci delle due scarpe attaccati fra loro».

«È stato allora che ho capito».

«Capito cosa?» Con una mano le stavo stringendo un fianco, sentivo che si lasciava maneggiare come una bambola. Con l’altra mano sentivo quanto erano morbidi i suoi lunghi riccioli rossi, li afferravo e li stringevo delicatamente sotto la nuca. Le piaceva.

«Tu eri la persona della quale mi parlavano le suore, lo spirito santo che mi avrebbe portato via. Loro lo sapevano che sarebbe successo prima o poi, era il loro dovere in un certo senso».

«Io uno spirito buono? No, no, no. Sei sulla cattiva strada suor Aurelia!»

«Non mi chiamare più così! Non sono mai stata una suora…»

Le mutandine rosse di raso che si arrotolarono sotto le mie dita me ne diedero più o meno la conferma. Con un po’ più di affanno, sospirando e socchiudendo gli occhi, continuò: «Tu parlavi con gli animali, Jean. Proprio come San Francesco d’Assisi».

«Già, un giorno faranno santo anche me».

La pelle di Aurelia era morbida e sottile, una vita stretta che potevo afferrare con una mano, la pelle d’oca sotto le mie carezze. Dietro di noi c’era quel letto enorme che presagiva ore di piacere e di scoperta, mi sentivo ancora come se io fossi uno scrittore sfortunato apparso al convento in circostanze inusuali e lei una giovane novizia alla ricerca della sua via. Probabilmente mi sarei sentito sempre così al suo cospetto.

Ci lasciammo cadere sul copriletto blu che ribolliva sotto i nostri respiri sempre più forti, sentivo quella passione incontrollabile, quella che non ti lascia organizzare i pensieri e le azioni nello stesso tempo e che ti domina dall’inizio alla fine, come una ipnosi involontaria.  Le baciavo il collo e la bocca mentre i ricci finivano sotto le mie mani e la testa si piegava per il piacere. Trovai per la prima volta un pregio in quei pantaloni bianchi dell’ex manicomio che portavo addosso dal giorno prima, erano sottili, talmente sottili che Aurelia riusciva a sentire su di sé gli effetti della mia eccitazione, ci stringevamo con avidità, ci baciavamo e ci muovevamo sempre più velocemente. Il suo sapore era cambiato, era più selvaggio, più vero, sapeva di libri antichi, con pagine bruciate dalla sabbia calda. L’odore della sua pelle era dolce, era come mangiare una torta senza le posate, a morsi sempre più grandi.

«Tu sei pericolosa Aurelia» le sospiravo all’orecchio. Ero talmente stravolto che non mi resi conto di averglielo detto in francese. A meno che non iniziasse anche a parlare in francese non poteva avermi capito, invece mi sussurrò: «J’ai compris… Ho capito…»

Come un profugo appena ripescato dalle acque ghiacciate dell’antartico, mi sfilai i vestiti e mi ritrovai con la faccia immersa nei peli blu del copriletto, Aurelia mi stava baciando di nuovo la pancia, sentivo i suoi seni leggeri sfiorarmi una coscia, la guardavo mentre tirava fuori la lingua con una maestria che non poteva aver imparato in un giorno. Non poteva essere che il giorno prima fosse una suora e adesso una maestra di piacere in carne ed ossa. Dopo un istante smisi di pensare a tante cose e mi godetti i suoi baci. Un brivido mi percorse le orecchie, la stanza mi sembrava ancora più grande vista da quella posizione.  Le presi i capelli con tutte e due le mani e le sollevai la testa, aveva le labbra rosse e bagnate, gonfie, mi guardava con una lussuria che avrebbe fatto invidia alla più abile commessa di Rue de France, la strinsi più forte, la presi con un braccio e la portai a fianco a me. Mentre sentiva la mia mano sotto la schiena, si inarcava come un gambero vivo sulla brace. Mugolava libera perché non era più una suora? O perché stava facendo l’amore con uno che parlava con gli animali?

«Jean, non ti fermare, non ti fermare mai! Io sono tua Jean, ti appartengo dal primo momento che mi hai toccata…» Le sue parole si insediavano sottili e silenziose nelle mie tempie, mi sussurrava tutto quello che pensava, sapeva che mi eccitava da morire, lo sentiva, ad ogni parola lo sentiva sempre di più.

Fare l’amore con Aurelia, quel pomeriggio, fu in assoluto la maniera più sconvolgente di dimenticare le ragioni per le quali ero ritornato a San Juan e mi fece capire ancora una volta che era inutile ripromettersi qualsiasi cosa. Mi sentii esattamente come quella sera sotto la Sagrada Familia. Mi ritornarono in mente i suoi passi, quando veniva nella mia camera lassù al convento, e abbracciai più forte la sua testa tirandola contro il mio petto. In una mano stringevo le sue mutandine rosse. Le avevo ancora in mano e non me ne ero neanche accorto.

*

La folle vita di Jean Rossignol il marinaio

KINDO

Dopo che la mia follia uscì dalla porta dell’ingresso principale, una bella porta di mogano, lo stesso legno usato per le casse da morto, mi infilai nella sala ristoro delle suore al pian terreno dell’edificio principale sul lato nord. Lassù c’erano diverse suore, mi incuriosivano.

Non vidi nessuno, era tutto silenzioso, pieno di polvere, una polvere fredda e corposa. Quando mi avvicinai alla porta, non ne vidi neanche una, neanche una per sbaglio, sembrava che fossero scappate tutte. Forse avevano visto Gesù sul tetto del manicomio e qualcuno le aveva avvertite: “Correte, correte Sorelle, c’è Gesù!”.

Intanto mi inoltravo lungo gli uffici del vecchio edificio spagnolo, c’erano tre stanze dopo la grossa sala delle suore. Erano tredici sorelle in tutto, non sapevo i loro nomi, ma le vedevo sempre e ne avevo contate tredici, come le tredici apostole. Molte avevano preferito lasciare le loro camere interne, di pietra, ai malati gravi e si erano accontentate di condividere quella grossa stanza, con i fiori sul davanzale e un’arietta fresca che entrava sempre dal giardino.

Gli uffici erano anche quelli pieni di polvere, sembrava che a San Juan nessuno avesse voglia di lavorare o di togliere la polvere, non c’era neanche la luce, ma grazie alla finestra enorme della grossa stanza delle suore, si poteva vedere fin dentro l’ultimo dei tre uffici. Entrai. Ero in una parte dell’edificio che normalmente veniva tenuta chiusa, ci ero andato per cercare qualcosa, ma non ero sicuro di trovarla facilmente. Intanto ci provavo, infilavo il naso dove non erano affari miei. Provai ad alzare l’interruttore della luce, mi sembrava un grilletto di una pistola, ma era rotto e tornò giù in un attimo. Il rumore della plastica che mi sfuggì dal dito mi fece saltare fuori dalle scarpe, tirai un respiro e lasciai stare l’interruttore, aprii bene la porta, la fermai con una sedia o qualcosa del genere e mi guardai intorno. In fondo alla stanza, che non era più grande di venti metri quadrati, c’era una bella scrivania, mi sembrava un banchetto. Cercai i bambini con i grembiuli e gli zainetti con i dinosauri e le bambole e le penne colorate, ma non c’era niente di tutto questo, c’era soltanto polvere a tonnellate. Finirò anche io sommerso da quintali di polvere, mi chiedevo, ci sono quelli che sono arrivati qui prima di me sommersi qua sotto. Allora per togliermi il dubbio passai la mano sulla scrivania. Ancora quel maledetto mogano, lucido, riflesse la mia faccia sbalordita. La mano diventò nera, sporca e puzzava di vecchio. Ero dentro una maledetta tomba. Che cosa sotterravano là dentro?

«Che ci fai qui!» Una sorella mi trovò mentre mi stavo chinando su uno scaffale interessante, pieno di nomi e di cartelle ingiallite dal tempo che là dentro sembrava correre più lentamente del normale. Non sapevo cosa rispondere, cercare il bagno era la scusa di tutti gli 007, forse avrebbe funzionato, ma la suora subito aggiunse: «E non mi dire che stavi cercando il bagno! Che è la scusa di tutti gli 007! ».

«No, Aurelia». Avevo imparato i nomi di alcune di loro, per fortuna quella che mi trovò nel seminterrato del manicomio era Aurelia, la più giovane. Non so se anche la più bella perché avevano tutte quella tunica larga sui fianchi e si potevano distinguere soltanto quelle magre e quelle grasse. Aurelia faceva parte di quelle magre. Aveva il volto giovane delle novizie, la pelle bianca, un nasino piccolo, timido, gli occhi chiari e una voce talmente sottile che si faceva fatica a sentirla quando eravamo all’aperto. «Ecco, Aurelia, il fatto è che mi sto annoiando da morire da quando mi è finito l’inchiostro di quella meravigliosa penna nera che mi avete regalato al mio arrivo, sei settimane fa».

«Uhm, una penna in sei settimane non è tantissimo. Non è ispirato qui, signor Rossignol?»

«No. Non è questione di ispirazione, Aurelia. Anzi, qui si sta benissimo, è il posto ideale per scrivere un libro».

«Allora? Che cosa succede Jean?»

Suor Aurelia si era tolta quell’orrendo cappello e aveva sfoggiato dei capelli rossi, profumati di camomilla, senza le doppie punte, ricci, lunghi fino alla schiena. Era la prima volta che una suora mi chiamava per nome, mi venne così duro che sentii un urto contro la scrivania di mogano. Con la scusa di pulirmi la polvere dalle mani, mi diedi un’aggiustata, ero pur sempre davanti a una rappresentate della Chiesa.

«Le mie colleghe sono alla cappella in fondo al parco. Sai, qualcuno ha gridato di aver visto Gesù sul tetto del manicomio. Sono corse tutte lì! Sembravano delle matte».

«E perché tu non ci sei andata, Aurelia?»

«Mi sarebbe piaciuto, ma io sono ancora novizia e non mi è permesso lasciare il convento prima di un anno. Neanche per andare in fondo al parco. Ma, sai Jean, sono soltanto cinquecento metri!»

«Già, è un’ingiustizia. È una vera ingiustizia!»

«Inoltre mi obbligano a portare quest’orrendo copricapo anche quando siamo in privato. Sai che le altre se lo tolgono appena svoltano l’angolo della mensa!»

«No! Non ci credo!»

«Già, è così. E io invece sono costretta a sudare e a rovinarmi i capelli con quest’affare!»

«Mah» le dissi «non so se è una blasfemia disprezzare quel copricapo, ma hai ragione, è davvero un affare orrendo. Non ha nessuna forma. Fammi vedere!»

Mentre me lo passò, dovetti allungarmi in avanti per non spostarmi dal retro della scrivania, mi vergognavo perché pensavo che una novizia fosse una specie di mezza suora e quindi mezza rappresentate della Chiesa. Mi toccò le dita col dorso della mano, me le accarezzò, ci avrei giurato, ma scossi la testa. Non poteva essere vero.

«Già! Guarda qui, è come pensavo, sono questi orrendi ferretti infilati qui sotto che lo rendono così brutto. Sembra un coronamento francese del Settecento».

Cercai di fare qualcosa per la povera Aurelia, sfilai il ferretto che sosteneva il suo copricapo e lo trasformai in una specie di velo, inoltre la parte marrone sparì sotto le pieghe e sembrò quasi un foulard di seta bianca all’ultima moda.

«Oh, grazie Jean! È meraviglioso, me lo invidieranno tutte!»

Era fuori di sé dalla gioia, ma io non avevo fatto niente, stavo solo cercando di capire quanto fosse più magra delle altre. Sei settimane potevano causare tante fantasie davanti a una veste bianca e marrone tanto larga e tanto pulita. Profumava di detersivo di Marsiglia. Poi, accorgendomi che mi ero un po’ distratto e non si vedeva più quell’imbarazzante gonfiore sotto i pantaloni bianchi che mi aveva dato William al mio arrivo, mi avvicinai a lei per ricevere l’abbraccio che mi stava offrendo come ringraziamento. Mi sembrò un abbraccio sincero, dal cuore di una giovane donna resa felice con così poco. “Tutte le donne dovrebbero essere un po’ suore” mi dissi mentre mi avvicinavo ad Aurelia. “Dovrebbero essere tutte così quelle là fuori”.

«Oh, grazie, grazie» ripeteva, ed io la stringevo per eseguire il mio test. Era magra, era davvero magra. Non mi permisi di scendere lungo i fianchi perché era una mezza rappresentante della Chiesa, ma da quello che sentivo sotto i polpastrelli, aveva le costole a fior di tunica. Sentivo la sua guancia profumata posarsi sulla mia spalla, un entusiasmo adolescenziale l’attraversava da capo a piedi. Era felice.

Quando, con molta fatica e moltissima concentrazione, riuscii a liberarmi da quell’abbraccio senza conseguenze evidenti, le chiesi: «Aurelia, perché tu sei l’unica suora che mi ha chiamato per nome in vita mia?»

«Non so. Hai conosciuto molte suore in vita tua? ».

«No, soltanto voi. Una volta ho conosciuto un prete, mi ha benedetto e ha benedetto anche il mio libro. Ma nessuna suora».

«Beh, allora è normale, Jean. Qui sono tutte vecchie, non si sognerebbero mai di compromettersi con un paziente».

«Cosa intendi dire per compromettersi?»

«Sai, chiacchiere, voci. In fondo siamo in un piccolo paese della Playa di San Juan».

«Allora avevo ragione. Lo dicevo che eravamo alla Playa di San Juan! Perché William mi ha detto che mi sbagliavo?»

Aurelia sorrise. Pensandoci bene, io là dentro non conoscevo i nomi di nessuno perché anche le suore avevano nomi finti o inventati. I pazzi, quelli lì non parlavano neanche sotto interrogatorio. E i medici? Mai visto uno in sei settimane. Il fatto è che me li ero immaginati io, credevo che quel posto fosse una sorta di clinica dopotutto, ma non ero sicuro che ce ne fossero.

«Non so. Può darsi che William, come lo chiami tu, non aveva capito a cosa ti riferissi».

Mentì, me ne accorsi subito. Ormai me ne accorgevo subito quando una donna mi mentiva.

«Comunque» dissi «non è affatto vero che sono tutte vecchie. C’è Adelaide, quella che rifà le camere, che ha un bel corpo, bello sodo».

Lei intanto si era messa a pulire il vetro sulla scrivania rimasto opaco, si stava chinando troppo. Credo che quella fu la prima volta in cui pregai davvero nostro Signore. Anche perché era una sua seguace ad essere in gioco, era nel suo interesse ascoltarmi oppure no.

«Adelaide è stata sposata, sai!»

«Ah sì?»

«Molte di loro sono state sposate e poi hanno cambiato idea sposando la Chiesa e questo convento. Inoltre ha tutti i denti di porcellana» aggiunse Aurelia quasi per dare a vedere che quello fosse un difetto. Ma non mi sbilanciai su quell’argomento, non era il caso. Invece le chiesi: «Perché lo continui a chiamare convento?»

«Ecco, per due motivi. Questo era un convento prima che ci mettessero il manicomio, fin dal secolo scorso, credo. Quando ancora esistevano vere suore».

Una smorfia nelle sue labbra mi colpì come una balestra medievale in pieno petto.

«Poi» continuò Aurelia «ci misero i malati e lo chiamarono manicomio. Ma quando hanno iniziato a chiudere i manicomi, qualche anno fa, alla fine degli anni settanta, iniziarono a chiamare questo posto un’altra volta convento, come se cambiargli il nome bastasse per cambiare tutto il resto. E invece…» indicò lo scaffale dietro di me, proprio quello che avevo adocchiato prima che lei entrasse. «Oggi continuano a portare i malati qui dentro, pagano un mucchio di soldi per mantenerli e tutti si dimenticano della loro esistenza, proprio come ai tempi del manicomio. Ma non ti so dire molto su questa storia, io sono venuta qua solo due mesi fa. Sono giovane, ma la vocazione può arrivare a qualsiasi età, sai».

«Tu quanti anni hai?»

Aurelia smise di pulire la scrivania, si tirò su sudata, il viso accaldato, la tunica le aderiva ai seni. Mi pentii di averle fatto quella domanda.

«Non si chiede l’età ad una donna.  Non te lo hanno insegnato, Jean!»

«Ma tu sei una suora».

«E allora! Una suora non è forse una donna come tutte le altre?»

«Mah…»

«Ho capito, vieni qui!»

«Qui dove?»

Aurelia si tolse per la seconda volta in un giorno il suo foulard di seta bianco all’ultima moda e l’odore di camomilla mi fece sentire la pesantezza dei due mesi passati a scrivere da solo con quell’odiosa penna nera, di sopra, sul mio terrazzino, senza l’ombra di una donna. Mi prese una mano e me la mise tra i capelli. Guardai in alto, chiesi scusa in silenzio, chiedo sempre scusa in silenzio. Le accarezzai i capelli e lei mi disse con voce tranquilla e presuntuosa: «Hai mai toccato dei capelli così morbidi? Solo una donna sa come tenere i propri capelli così morbidi. Se non fosse per quello stupido copricapo».

«I tuoi capelli sono morbidissimi, Aurelia. Non hanno neanche le doppie punte».

Se c’era una cosa che mi ero sempre chiesto prima di quel giorno nel manicomio spagnolo, era da dove si aprissero le tuniche delle suore. Fin da bambino mi ero sempre domandato se avessero una cerniera nascosta sul lato o sulla schiena. La schiena l’avevo sempre esclusa perché era troppo sexy per una monaca. Poi l’idea che tra di loro si aprissero lunghe cerniere sulle schiene nude, senza quegli aggeggi imposti dal mondo moderno per sostenere i seni, un dono di Dio da tenere libero, era troppo eccitante. Avevo sempre cercato di escludere le cerniere. Forse c’erano delle clip da qualche parte, oppure erano più pezzi uno sopra all’altro, per questo c’erano quei disegni sul petto, come delle tovagliette quadrate. I colori erano così tanti, e le forme ancora di più, i materiali sottili, setosi. Ogni ordine aveva i suoi segreti e il suo modo di indossare i propri abiti. Era sempre stata una di quelle domande che stanno lì, nella tua testa, e sai che non avranno mai una risposta perché una risposta non la potevano avere, tutto qui.

Allora glielo chiesi. Erano i due mesi di astinenza, la mia follia, o tutte e due le cose messe insieme, le accarezzai un’altra ciocca di capelli, tirai il fiato e le chiesi: «Sai, Aurelia, mi sono sempre chiesto come si indossano queste tuniche, dove si sbottonano quando andate a letto». Poi subito aggiunsi: «Intendo dire, prima di andare a letto e fare le vostre preghiere al nostro Signore, Che Dio sia lodato, Amen!»

«Jean! Mi stai sfiorando il seno con il dorso della mano. Non avevi detto che io ero una suora e che le suore non hanno il seno? Smettila subito. No, non ti fermare, ti prego! Continua ad accarezzarmi e sentirai che il mio seno è stato sempre qui e la tua mano è stata sempre qui. Come ci disse Gesù, quello vero, quando apparve veramente».

Io non avevo detto che non avesse il seno, avevo solo detto che lei era una suora e non sapevo se una suora poteva essere paragonata a una donna, ma non m’importava in quel momento di darle delle spiegazioni inutili.

«Sai cosa ho sempre pensato io invece da quando ti hanno portato qui? ».

«No, a cosa?»

Era possibile innamorarsi di una suora o di una mezza suora o di qualunque cosa fosse Aurelia, la giovane Aurelia, arrabbiata con le sue colleghe, con il suo passato o con il suo corpo? Mi ripetevo un sacco di domande per evitare di ripetermi un sacco di risposte.

«Ho sempre pensato, ho pensato, oh ti prego, smettila Jean. No, aspetta, non smettere. Si apre da qui, guarda…»

*

Le ragazze di Gaston Twssokk

LE RAGAZZE DI GASTON TWSSOKK

(Il quindici maggio del 1891 un uomo di origini scandinave, trasferito in rue de Foresta, nell’antico palazzo del convento del porto, fu arrestato dopo aver distrutto due mura portanti e quasi tutte le porte dei dormitori, oggi trasformati in moderni monolocali per le studentesse di una rinomata scuola di economia. Prima dell’esecuzione, in presenza dei membri del consiglio medico e del sacerdote della chiesa del porto, Gaston Twssokk raccontò quanto segue…)

 

Erano tantissime, tutte organizzate come un esercito di bambole che non avevano mai visto un bambino, e ogni notte venivano fuori dalle pareti; erano le più furbe che avessi mai visto in vita mia!

A quei tempi facevo il cantante nelle osterie, cantavo e la gente si ubriacava, era bellissimo; vivevo da solo in una piccola casa in affitto, in un vicolo del quale non deve aver parlato molta gente, e loro, sebbene fossero mie nemiche, erano le mie uniche amiche. Ogni volta che uscivo, gli lasciavo qualcosa da mangiare, a volte gli lasciavo anche da bere; erano le mie ragazze, non ne avevo viste prima così, facevo fatica a credere che potessero esistere, eppure erano lì, alla mia tavola, e mi ringraziavano per quello che gli lasciavo da mangiare. 

«Per così poco ragazze! Dove si mangia in due, si può mangiare anche in tre».

«Sei gentile Gaston, sei il più gentile dei proprietari ai quali abbiamo…»

«Zitta! Non vorrai dirgli quello che stavi per dirgli!»

«Che cosa stava per dirmi?»

«Nulla, è una sciocchezza».

«Aspettate ragazze, il dolce!»

«No, grazie Gaston; per stasera c’è il ramadan delle ragazze, non possiamo mangiare dolci».

«Come volete. Io lo lascio qui, non ne voglio più».

Erano bionde, le mie ragazze, non potevo guardarle in faccia perché la loro faccia era piccolissima, più piccola di quelle che vedi dall’ultimo piano della Tour Eiffel o da un’aereo che sta decollando. Ma erano davvero care e gli volevo bene. Qualche volta le mie amiche mi raccontavano come funzionava il loro sistema, ma, visto che io non sono dotato di buona memoria, me ne dimenticavo sempre. 

Erano tantissime, qualcuna amava l’acqua, si facevano il bagno nel lavandino; gli lasciavo sempre il tappo a disposizione e quando gli andava lo tiravano via per rinfrescare la loro piscina di acqua calda. 

Avevo anche voglia di chiedergli dove andassero a dormire; quello era un argomento che mi stava molto a cuore. Loro dormivano pochissimo, avevano una vita molto organizzata, lavoravano sodo, non sempre avevano il tempo di dormire. 

«Dormi tu per noi!»

«Ma neanche io ho il tempo di dormire; è per questo che sono qui!» 

«Vuoi ancora sapere dove andiamo a dormire?»

«Certo!»

In quel momento stavo parlando con la regina delle ragazze, la più importante dell’intera organizzazione. Era piccolina, piena di gambe, le accavallava come una professionista dell’accavallamento; io la guardavo e ascoltavo con un occhio la storia e con l’altro la musica che veniva fuori dal suo corpo luccicante.

«Siamo arrivate qui con la neve dell’inverno passato, tu non ti eri ancora trasferito giù al porto, eri ancora a bordo della tua nave. Noi odiamo le navi perché soffriamo il mal di mare! Quando siamo arrivate, ci siamo accorte subito che questa casa sarebbe stata perfetta per riposare un po’ e decidere come organizzare i lavori per la prossima stagione. 

Le finestre non hanno giunture, anche la porta e il cancello che dà sulla terrazza non avevano nessuna protezione, così ci siamo riunite sulle tegole che corrono sotto la tua finestra e ci siamo organizzate: duemila ragazze per costruire il mio palazzo, dietro le mattonelle della cucina fino alla parete interna del bagno, con due ingressi laterali dalle credenze e uno principale sotto il lavello. Sotto il lavandino non ci guarda mai nessuno; è difficile, per questo noi altre ci accampiamo sempre lì prima che gli alloggi siano pronti.

Altre seimila si sono occupate degli approvvigionamenti. Non sapevamo ancora che tu ci avresti adottate, così ci siamo organizzate raccogliendo tutto quello che a te non serviva. Quello che si poteva conservare in frigorifero lo abbiamo nascosto sotto i cestelli per le uova. Anche lì non ci guarda mai nessuno. Per le spedizioni in frigorifero soltanto un centinaio di noi hanno la resistenza e il fisico adatti. Poi, dopo una settimana, durante una ricognizione del tetto, ti abbiamo visto per la prima volta. 

Quando una di noi vede uno di voi, sa che potrebbe essere la fine. Eravamo in cinquemila, stavamo percorrendo la parete dietro i fornelli confondendoci nelle intercapedini. Le intercapedini possono essere le nostre migliori amiche. Invece tu ci hai viste e ti sei messo a cantare; noi ti abbiamo guardato per un attimo per accertarci che non fossi pericoloso e ci siamo messe ad ascoltare la tua canzone. L’abbiamo chiamata La canzone delle ragazze perché ogni volta che ci vedevi la cantavi come un matto. 

D’accordo, volevi sapere dove sono i nostri letti. Ma perché sei così curioso?»

«Perché siete le mie amiche e voglio sapere tutto di voi! Volete ancora del pane ai cereali?»

«No, grazie Gaston, per ora siamo a posto. Vedi, il letto di una di noi è il segreto più importante che si porta appresso. Non importa se muoia o se viva per tanti anni, quanto non racconti mai, mai, dove si trova il suo letto».

«Ma perché?»

Perché tutti hanno i loro segreti. Tutte le persone importanti e tutte le ragazze».

«Vuoi dire che siete tutte donne!»

«Sì, è così, e non fare quella faccia…»

Dovevo sapere che erano tutte ragazze, adesso mi spiegavo come mai ero stato così gentile con quelle piccolette. 

La sera in cui parlai con la regina delle ragazze, riuscii anche a scoprire dove dormivano, e spiegherò adesso come feci:

«Quando parli mi fai pensare a un fiammifero che cade nell’acqua ghiacciata…»

«Sei dolce Gaston, anche perché sai che adoriamo l’acqua. Bene, sai anche che siamo tutte donne».

«Sì, me lo hai detto tu».

«E che, se siamo tutte donne, non c’è neanche un uomo».

«Sì».

«Neanche un uomo nel raggio di un chilometro tranne te…»

«Esatto».

Era sera, grazie all’arte della semplicità erano cadute in mano mia, o io ne ero diventato schiavo. Avevano sempre avuto la misteriosa abilità di porti davanti ad una scelta; era la loro natura. Ed io adesso dovevo lasciare tutto quello che avevo per scoprire dove fossero nascosti i loro letti. Ma che cos’è che avevo io, infine? Così decisi di seguirle fin dentro il loro palazzo a patto che non lo rivelassi a nessuno. Ma come avrei potuto?  Loro erano le mie uniche amiche. 

Passammo nella parete tra la cucina e il bagno; la regina mi spiegò come nascondermi nelle intercapedini, io l’ammiravo perché anche in tutti i posti dove avevo lavorato i capi erano sempre donne; questo ci legava al mio mondo anche se loro non lo sapevano. 

All’ingresso si sentiva un odore inebriante di curiosità, ero un fiammifero che cadeva nell’acqua ghiacciata. La regina mi sorrise, sentii che poteva capirmi anche se era piccolina e stanca. Era, la loro, vera curiosità; non avevano mai visto un uomo così da vicino. Dopo una vita intera passata sui mattoni a costruire il palazzo, erano davvero confuse, per quanto stentassi io a credere che la confusione fosse come felicità. Mi sedetti a tavola con loro; migliaia di piatti volavano sulla mia testa, scoprii sapori di vecchie pietanze ribollite nelle spezie dell’Est, comprate durante il loro viaggio, e più mangiavo più mi sentivo simile a loro.

La regina mi poggiò una mano sulla coscia e mi chiese: «Perché non hai altri amici oltre noi Gaston?»

«Perché vengo dalla Scandinavia. La gente non parla la mia lingua; non sa neanche dove si trovi la Scandinavia!»

«Ma certo! Da qualche parte lassù, dopo la terrazza».

«Sccc, zitta tu!»

«Visto…»

«Ma perché ci interrompi sempre tu? Chi sei?»

«Io sono l’ultima arrivata, non mi conosci perché ho lavorato sodo nel frigorifero per due settimane».

«Come ti chiami? Dov’è il foulard che indossano tutte le ragazze?»

«Lo indossano davvero tutte?». Già m’immaginavo tante ragazze nude con il loro foulard attorno al collo. Il collo è la parte che mi attirava di più in una di loro; può dire quello che gli occhi non dicono; non esistono colli bugiardi.

«Sì Gaston, lo indossano proprio tutte. Tranne lei».

La regina si alzò; tutta la tavolata si azzittì d’un colpo. Ci fu quell’assordante rumore che precede un silenzio, quando lei disse: «Questa ragazza non viene dall’Est come tutte noi! Non indossa neanche il suo foulard». 

«L’ho perduto signora, era solo uno stupido foulard».

«Ti sbagli, quello è il simbolo della nostra femminilità; è tanto importante almeno quanto i segreti».

Infine, la sconosciuta mi guardò e si rivolse a me: «Io sono qui per te Gaston!»

«Davvero!»

«Sono venuta per portarti via, questo non è il tuo Paese».

«Io vengo dalla Scandinavia. Scommetto che non sai neanche dove si trovi il mio Paese!»

«Certo che lo so. La Scandinavia, detta anche Penisola Scandinava, è composta da Norvegia, Svezia e Finlandia nord occidentale. Ma non è per questo che ti porterò via». Ero congelato perché le sue parole sembravano venire fuori dal frigorifero nel quale aveva trascorso le ultime due settimane. «Tu hai distrutto le mura delle ragazze, le hai perseguitate per mesi, attirandole nelle tue trappole ogni sera, per scoprire dove dormissero, e avvelenarle. Come se fossero formiche!»

«Formiche?» chiesi alla sconosciuta.

«Formiche?» chiese la regina.

«Formiche!» rispose la sconosciuta.

«Formiche…» risposi alla regina. 

Così le ragazze trasformarono la loro curiosità in paura, dandomi la conferma che non avesse nulla a che fare con la felicità. Gaston Twssokk era destinato alla solitudine, ormai ne ero certo.

Mentre la sconosciuta mi portava via, scorsi una lacrima sul volto lucido della regina, la quale si accarezzò il foulard e sussurrò qualcosa alla propria mano. Passammo per l’ingresso laterale, attraverso la credenza. Alla mia sinistra scorrevano le acque cristalline che io stesso avevo lasciato aperte per loro. E alla mia destra un barlume di luce mi rivelò finalmente la loro camera da letto… Al suo interno un mangianastri, recuperato durante una delle loro ultime incursioni notturne, cantava la canzone delle ragazze.      

 ***

Les petites amies de GASTON TWSSOKK

 

(Le quinze mai du 1891 un homme d’origine scandinave, installé rue de Foresta, dans l’ancien Palais du Couvent du port de Nice, devint fou. Il fut arrêté après avoir détruit deux murs maitres et presque toutes les portes des dortoirs, aujourd’hui convertis en modernes studios pour les étudiantes d’une renommée école de commerce. Juste avant son exécution, en présence des membres du conseil médical et du curée de l’Eglise du Port, Gaston Twssokk raconta ce qui suit…)

Elles étaient nombreuses, organisées comme une armée de poupées qui n’avait jamais vu un enfant, et chaque nuit elles sortaient des murs; elles étaient les plus malines que j’avais connues dans ma vie!

A l’époque j’étais chanteur de bistrot, je chantais et les gens se soulaient, c’était merveilleux. J’habitais tout seul dans une petite maison, au long d’une ruelle méconnue, et quoiqu’elles fussent mes ennemies, elles étaient aussi ma seule compagnie. Chaque fois que je sortais, je leur laissais quelque chose à manger; parfois même à boire. Elles étaient mes petites amies. Je n’en avais jamais vue des pareilles auparavant, j’avais du mal à croire qu’elles pouvaient exister, et pourtant elles étaient là, à ma table, et elles me remerciaient pour ce que je leurs laissais à manger:

«Ce n’est pas grand-chose, les filles! Où l’on peut manger à deux, on peut aussi très bien manger à trois».

«Tu es gentil Gaston, tu es le propriétaire le plus gentil auxquels nous avons…»

«Tais-toi! Tu ne voudras pas lui dire ce que tu allais dire!»

«Elle allait me dire quoi?»

«Rien, c’est une bêtises».

«Attendez les filles; le dessert!»

«Non, merci Gaston; pour ce soir il y a le ramadan des filles, nous n’avons pas le droit de manger du dessert».

«Comme vous préférez. Je le laisse ici, je n’en veux plus».

Elles étaient blondes, mes petites amies, je ne pouvais pas les regarder dans les yeux parce que leurs yeux étaient minuscules, encore plus que ceux que tu peux voir du dernier étage de la Tour Eiffel ou d’un avion qui est en train de décoller. Mais elles m’étaient vraiment chères et je les aimais beaucoup. Quelquefois mes amies m’expliquaient comment elles étaient organisées, mais étant donné que je ne suis pas doué d’une bonne mémoire, j’ai finis par tout oublier.

Elles étaient vraiment nombreuses. Certaines aimaient l’eau et prenaient leur bain dans l’évier; où je leur laissais toujours le bouchon à disposition pour qu’elles puissent se rafraichir dans leur piscine d’eau chaude quand elles avaient envie. 

Un sujet qui me tenait très à cœur, était aussi de savoir où elles allaient se coucher. Elles dormaient très peu en vérité, elles avaient une vie tellement organisée, car elles travaillaient beaucoup, et elles n’avaient pas souvent le temps de dormir.

«Tu peux dormir à notre place!»

«Mais moi non plus je n’ai pas trop le temps de dormir; c’est pour ça que je suis là!»

«Tu veux toujours savoir où nous allons nous coucher?»

«Bien-sûre!»

A ce moment j’étais en train de parler avec la reine des petites amies, la plus importante de l’entière armée. Elle était aussi très petite et avait beaucoup de jambes, elle les croisait comme une spécialiste; je la regardais, j’écoutais l’histoire d’un œil et la musique de son corps brillant de l’autre. 

«Nous sommes arrivées ici avec la neige de l’hiver dernier; tu ne vivais pas encore au Port, tu étais encore à bord de ton navire. Nous détestons les navires car nous avons le mal de mer! Quand nous sommes arrivées, nous nous sommes vite rendu compte que cette maison était parfaite pour nous détendre un peu et décider comment organiser les activités de la saison prochaine.

Les fenêtres n’avaient pas de jointures, la porte non plus et le portail de la terrasse n’avaient aucune protection; alors nous nous sommes réunies sur les tuiles de ta fenêtre et nous nous sommes organisées: deux milles filles ont construit notre château, derrière les carreaux de la cuisine. Il y avait deux entrées latérales dans le placard et l’entrée principale était sous l’évier. Personne ne regarde jamais sous l’évier.  C’est pour ça que nous campons toujours là-bas avant que les logements soient prêts.

Les autres six milles se sont occupées des approvisionnements. Nous ne savions pas encore que tu nous aurais adoptées, voilà pourquoi nous nous sommes organisées afin de rassembler tout ce dont tu n’avais pas besoin. Tout ce qu’on pouvait conserver dans le réfrigérateur nous l’avons caché sous les casiers des œufs.  C’est un autre endroit où personne ne regarde jamais. Pour les expéditions dans le réfrigérateur, seulement une centaine parmi nous a la résistance et le physique adaptés. Au bout d’une semaine, pendant une promenade sur la toiture, nous t’avons aperçue pour la première fois. Quand une des notre voit un des votre, elle sait que ça pourrait être la fin. Nous étions cinq milles, en train de parcourir le mur derrière la gazinière en passant par les fissures. En effet les fissures des murs pouvaient être nos meilleurs amis. Mais tu nous as vues et tu as commencé à chanter; nous t’avons regardé un instant, juste le temps de comprendre que tu n’étais pas dangereux, et nous avons écouté ta chanson. Nous l’avons nommé La chanson des petites amies. Chaque fois que tu nous voyais, tu commençais à chanter comme un fou. 

Et Bien, tu voulais savoir où se trouvent nos lits. Mais pourquoi es tu si curieux?»

«Parce que vous êtes mes amies et je veux savoir tout de vous! Voulez vous encore du pain aux céréales?»

«Non, merci Gaston, pour le moment ça va aller. Tu sais, le lit est le secret le plus important pour chaque une de nous. Peu importe si elle meure ou si elle vit longtemps, à condition qu’elle ne dise jamais, vraiment jamais, où son lit se trouve».

«Mais, pourquoi?»

«Parce que tout le monde a des secrets. Tous les gens importants et toutes les filles».

«Tu veux dire que vous êtes toutes des femmes!»

«Oui, exact, et ne nous regarde pas avec cette aire …»

J’aurais dû imaginer qu’elles étaient toutes des filles; maintenant je comprenais pourquoi j’avais été si gentil avec ces petites.

Le soir où j’ai parlé avec la reine, je réussis aussi à découvrir où elles dormaient. Et je vais vous expliquer maintenant comment j’y suis parvenu:

«Quand tu parles, tu me fais penser à une allumette qui tombe dans de l’eau gelée…»

«Tu es mignon Gaston, surtout parce que tu sais bien que nous adorons l’eau. Et Bien, tu sais aussi que nous sommes toutes des femmes».

«Oui, c’est toi qui me l’a dit».

«Et tu sais aussi que, si nous sommes toutes des femmes, il n’y pas d’hommes».

«Oui».

«Même pas un homme dans un rayon d’un kilomètre excepté toi».

«Oui, très juste».

C’était un soir; grâce à l’art de la simplicité, elles étaient toutes tombées à mes pieds. Ou en étais-je devenu esclave? Elles avaient toujours eu la mystérieuse habilité de vous amener  à faire un choix: c’était leur nature. Maintenant je devais quitter tout ce que j’avais pour découvrir où se trouvaient leurs lits. Alors je choisis de les suivre à la découverte de leur château à condition que je ne l’aurai jamais raconté à personne. Comment aurai-je pu? Elles étaient mes seules et uniques amies.

Nous passâmes à travers le mur entre la cuisine et la salle de bain; la reine m’indiqua comment se cacher entre les fissures; je l’admirais car j’avais toujours été dirigé par des femmes.

A l’entrée, il y avait un parfum enivrant de curiosité. J’étais une allumette qui tombait dans de l’eau gelée. La reine me sourit, je sentais qu’elle pouvait me comprendre malgré sa petite taille et sa fatigue. Il s’agissait d’un sentiment de véritable curiosité; elles n’avaient jamais vu un homme de si près. Après une vie passée parmi les briques à construire leur château, elles étaient un peu gênées; pourtant je pensais que la gêne était une sorte de bonheur. Je m’assis à leur table; de milliers de plats volaient au dessus ma tête. Je découvris les goûts des anciens plats épicés de l’Est; plus je mangeais et plus je me sentais proche d’elles.

La reine me posa sa main sur la cuisse et me demanda: «Pourquoi tu n’as pas d’autres amis à part nous Gaston?»

«Parce que je viens de la Scandinavie. Personne ne parle ma langue, et n’a aucune idée d’où se trouve la Scandinavie!»

«Mais oui, quelques part là-haut».

«Chut, silence!»

«T’as vue…»

«Mais pourquoi tu nous interromps chaque fois? Qui es tu enfin?»

«Je suis la dernière arrivée, tu ne me connais pas car j’ai travaillée dans le réfrigérateur pendant deux semaines».

«Comment tu t’appelles? Et le foulard que toutes les filles portent, où est-il?»

«Vraiment ? Vous le portez toutes?» Je m’imaginais déjà toutes les filles nues avec leur foulard autour du cou… Le cou était la partie de leur corps qui m’attirait le plus; il pouvait dire tout ce que les yeux ne peuvent pas. Il n’y a pas de cous menteurs.

«Oui Gaston, toutes les filles le portent. Sauf elle».

La reine se leva; tout à coup, la table se tut. Il eu cet assourdissant bruit qui précède un silence, quand elle dit: «Cette fille ne vient pas de l’Est comme nous toutes! Elle ne porte pas son foulard».

«Je l’ai perdu madame, c’était seulement un stupide foulard».

«Tu te trompes, celui-ci est le symbole de notre féminité; il est aussi important que les secrets».

Enfin, l’inconnue me regarda et se dirigea vers moi en me disant: «Je suis là pour toi Gaston!»

«Vraiment?»

«Je suis venue pour t’emmener. Ceci n’est pas ton Pays». 

«Je viens de la Scandinavie. Je parie que tu ne sais même pas où se trouve mon Pays!»

«Mais oui je sais! La Scandinavie, aussi dit Péninsule scandinave, est composée de la Norvège, la Suède et la Finlande nord-occidentale. Mais ce n’est pas pour cela que je t’amènerai avec moi». J’étais congelé parce que ses mots semblaient arriver du réfrigérateur dans lequel elle avait passé ses deux dernières semaines. «Tu as détruit les murs des filles, tu les as tourmentées pendants des mois, en les piégeant chaque soir, pour découvrir où elles se couchaient, et les empoisonner. Comme si elles étaient des fourmis!»

«Fourmis?» demandai-je à l’inconnue.

«Fourmis?» demanda la reine.

«Fourmis!» répondit l’inconnue.

«Fourmis…» répondis-je à la reine. 

Alors les filles changèrent leur curiosité en peur ; probablement la curiosité n’avait plus rien à voir avec le bonheur. Gaston Twssokk était destiné à la solitude, désormais j’en étais sûr.

Les arbres de la colline du Château regardaient les fenêtres du couvent; ils étaient froids. Les couloirs étaient froid aussi et sentaient le vin. Alors que l’inconnue m’amena avec elle, j’aperçus une larme sur le visage brillant de la reine, qui en caressant le foulard murmura quelque chose à sa main. Nous passâmes par l’entrée latérale, à travers le placard. A ma gauche coulait l’eau cristalline que j’avais laissée pour elles. Et à ma droite, une faible lueur me révéla enfin leur chambre… A l’intérieur, un magnétophone, récupéré pendant une de leurs dernières incursions nocturnes, chantait La chanson des petites amies.

(écrit dans le Café Sully.)

 

*

La donna robot

LA DONNA ROBOT

(Tratto da una storia vera)

  Era una tranquilla e calda giornata di primavera; gli uccellini facevano quello che fanno normalmente gli uccellini, i postini facevano quello che fanno normalmente i postini e le vecchiette, non si può dire quello che facevano le vecchiette perché in Italia c’era ancora il Papa.

La nostra donna robot se ne andava per la strada cigolando con le anche e svitandosi una tetta per metterci l’olio. Era tutta smontabile, un vero gingillo, tutta concentrata a oliarsi una tetta, era l’immagine divina dell’erotismo robotico in terra. Stava andando al negozio di ferramenta su Place Magnan, non ce n’erano di donne robot come lei, la nostra era davvero la migliore donna robot mai vista a Nizza, soprattutto perché non era totalmente robotica, ma… Un momento! Non può essere che dirai quello che stavi per dire! E perché, che c’è di male se la nostra donna robot aveva qualcosa di umano? Qualcosa? Sì, qualcosina. No, no, no, non si può dire perché in Italia c’era il Papa. Ma la nostra donna robot abitava in Francia. Allora lo puoi dire, continua pure. Bene, la nostra robottina tutta curve aveva la… No aspetta! Che cosa c’è ancora? Non si può dire, te ne rendi conto che non si può dire quello che stavi per dire! Questo libro potrebbe arrivare nelle mani di vecchi e bambini, inoltre è troppo maschilista. Maschilista? Sì, maschilista. Come ti permetti di dire “maschilista” a me, che amo tutte le donne dalla prima all’ultima! Non me ne importa, continua se vuoi la tua stupida storia sulla donna robot ma non dire quello che stavi per dire. Ok, d’accordo, non posso neanche usare qualche metafora, così, giusto per dare una pista? Basta che non sia una metafora delle tue, maschilista come al tuo solito Frank. Questa storia del maschilismo andrebbe chiarita, non mi va di deluderti, dopotutto ci tengo alla tua stima. 

Bene, la mia donna robot se ne andava a passeggio, si era appena fatta dare una bella sbullonata. Frank! Che c’è, che ho detto? Le avevano riavvitato dei pezzi dopo la revisione semestrale dall’elettroginecologo. Se ne andava per Place Magnan, nella sua carrozzeria si riflettevano il mare e la Promenade. Voleva andare da Brico. Sai Brico, quella ferramenta enorme? Sì, la conosco, va avanti, falla breve, già diventi noioso come al tuo solito, descrittivo e ripetitivo. Come sarebbe, “noioso”! Perché “noioso”? Sto raccontando la storia più romantica che conosca e tu dici che sono noioso. Se ci fosse la nostra robottina, lei si che mi apprezzerebbe. Le darei una bella passata di antiruggine e la farei filare velocissima a fare il suo shopping da Brico. Stava andando a fare shopping nella ferramenta, è vero, quando nell’attraversare la strada senza ruotare il collo a destra e a sinistra, fu investita da una di quelle auto anni ottanta, una di quelle con il paraurti ancora di ferro. Figuriamoci se con tante macchine, proprio una di quelle col paraurti di ferro doveva investire la tua donna robot! Oh, la mia povera donna robot era in fin di vita, le si erano svitate le tette e le anche erano tutte sgangherate, sembrava avere un culo enorme e ammaccato come se si fosse abbuffata al Mc Donald per dieci anni. 

La portarono all’ospedale dei robot, sulla collina dell’Ariane, la zona dove tutti i robot venivano fatti a pezzi e rivenduti per gli aspirapolvere, i frullatori o i vibromassaggiatori. Appena entrati nella sala del pronto soccorso robotico, il dottor Vinicius si accorse subito della gravità della situazione, le prese il polso, glielo rimise a posto, poi ordinò 100 mg di castrolmorfina e iniziò senza perdere tempo il massaggio cardioandroide. Ovviamente la nostra robottina non era niente male. Non ne avevo dubbi. Beh, lei era perfetta, non aveva neanche trent’anni bionici. Anche se era quasi morta, la sua bellezza e, soprattutto, quella sua parte umana, fecero commuovere Vinicius che iniziò a spingere sempre più forte. E spingendo, spingendo, spingendo, la robottina riaprì gli occhi. 

Dopo essersi svegliata, la nostra donna robot dovette pensare di essere arrivata nel paradiso della robonautica, si toccò dappertutto per controllare che non le mancasse nessun pezzo e si alzò. L’equipe medica restò esterrefatta perché per noi umani sarebbe stato impossibile alzarsi subito dopo un incidente del genere. Ma dove mi trovo? Che mi è successo? Era più bella che mai, la sua sensualità non poteva essere pesata come i bulloni che si portava addosso, la delicatezza con la quale si tastò la fronte non aveva eguali.

Il dottor Vinicius era molto felice di averle ridato la vita, sentiva dentro di sé l’incolmabile gioia della procreazione, era eccitato e avrebbe voluto… Frank! È possibile che non pensi ad altro! E che ho detto? Smettila. Ogni volta che m’interrompi così, mi fai perdere il filo della storia. Dov’ero? Ah sì, il dottor Vinicius e il suo… Aspetta, lasciami finire la frase: il suo ardente desiderio di sposare la robottina! 

Infatti, dopo circa un mese dall’incidente, nel quartiere dell’Ariane, a Nizza Est, spregiudicato e pieno di immondizia spaziale, ebbero luogo le loro nozze interspecie. 

Com’era possibile che un uomo come Vinicius si stesse sposando con la nostra bella robottina? Per vederlo con i miei occhi mi precipitai in chiesa, la chiesa di Saint Pierre, una delle più malfamate della città. Lo sapevano tutti che alla Saint Pierre sposavano chiunque in cambio di un’offerta generosa. Lei era stata rimontata alla perfezione, ogni pezzo era tornato al suo posto, ebbi l’impressione che le avessero persino sostituito le labbra con un paio al gel siliconato che dovevano provocare un sublime piacere quando… Adesso smettila, stai diventando un maniaco! Ma non ho detto nulla, stavo parlando della preghiera, la preghiera per il Papa. Che vai pensando? Non lo so, sei tu che hai detto che in Francia non c’era il Papa. Bene, si stavano sposando e il prete pronunciò la fatidica frase di rito: Chi di voi si oppone a questa unione parli adesso oppure taccia per sempre! Eccomi, parlo io, io che ho qualcosa da dire a voi tutti. Quell’uomo ha manipolato il cervello della donna robot e ha fatto sì che questa s’innamorasse di lui. Ma lei è destinata a me, lo capite! Io ne sono innamorato, fino all’ultima vitarella. E anche lei lo sarebbe se non fosse per quel mostro. Tu, maledetto! Che cosa le hai fatto? Confessalo oggi, davanti a questi fedeli, anche se in Francia non c’è il Papa!

Vinicius aveva indosso un vestitino bianco tutto lucido che ricordava il suo camice da medico, e stringeva in mano un telecomando. Ecco! Ecco come la controlla! Consegnami quell’ordigno, maledetto, te lo ordino! I fedeli dissero: Ohhhhh. Il prete si passò le sue mani paffutelle sulla faccia, non immaginava che con quella domanda avrebbe scatenato un tale inferno, altrimenti non l’avrebbe mai fatta. 

Il medico era una vecchia volpe, si svincolò dalla mia presa e scappò dalla porta principale, gettò per terra l’oggetto che stava stringendo nella mano e s’infilò nella sua vecchia auto anni ottanta col paraurti di ferro. Il paraurti di ferro! Aveva progettato tutto, fin dall’inizio, era diabolico, era un uomo scaltro e diabolico, non c’erano dubbi. Ma l’importante era che adesso eravamo rimasti soltanto io e la mia robottina, la quale, per la prima volta in questa storia, parlò esprimendosi in questi termini: Frank, mio amato, tu sai quanto ti ho amato, amato, amato, amato. Doveva amarti davvero tanto per ripetertelo quattro volte! No, si era incantata, qualcuno aveva dato il telecomando ai bambini che portavano le fedi nuziali e quelle pesti si erano messe a giocare coi tasti del listen&repeat. Così glielo strappai di mano e lo feci in mille pezzi, poi mangiai i pezzi per non farli ritrovare e riassemblare da Vinicius e i suoi compari. La mia amata proseguì, io ero tutto sudato e ancora affannato per l’emozione: Ti ho amato fin da quando ci siamo conosciuti nel reparto giardinaggio di Brico e tu mi hai messa a punto svitandomi e avvitandomi e svitandomi e avvitandomi e svitandomi e avvitandomi ancora. Che cosa c’era adesso? Un altro telecomando? No, adesso fu lei a ripetere quattro volte. Anche io ti amo robottina mia, scappiamo via, saremo felici sull’isola intergalattica di Neapolys, nell’emisfero Sud dell’Universo, mangeremo datteri spaziali e faremo l’amore senza la forza di gravità, volteggiando nello spazio, volteggiando, volteggiando, volteggiando, volteggiando… La mia robottina mi prese per mano e mi rispose con la sua vocina dolce: Amore mio, purtroppo c’è un altro nella mia vita! So che tu sei l’unico ad aver toccato con mano la mia parte umana, la parte preferita da voi uomini, ma, oltre al cervello, (Il cervello?) io sono dotata di migliaia di viti e fili gialli e rossi e microchip. E tu sei soltanto un uomo, sei fatto di carne. E allora? Il mio cuore può battere più forte, può battere per due, se tu me lo chiedi. E le mie mani possono piegare il ferro per venire da te, amore mio. No Frank, non hai capito. Non avevo proprio capito. Tu sei fatto di carne, dappertutto… Che cosa? La donna robot ti disse proprio cosi? Già, e mi disse anche che il dottor Vinicius aveva consacrato la sua vita alla ricerca biotica per migliorare gli esseri umani, beh, gli uomini. Pare che si fosse offerto come cavia facendosi trapiantare qualcosa che io, con i miei modesti centimetri, non avrei mai potuto equiparare. Non la prendere male Frank, io sono una robot. Già, sei solo una robot. Non ti ho mai detto di avere un cuore. Lascia stare, lascia stare… 

La mia robottina mi fece talmente male con quelle metalliche parole che decisi di andare in una clinica privata per informarmi quanto costasse un trapianto androrobotico. Trovai una bella clinica verde pisello a Las Planas, dalle finestre si vedeva l’uscita dell’autostrada, sembrava un’ovaia enorme nella quale s’infilavano tutti gli spermatozoi targati 06 ad una velocità incontrollata perché la strada era in discesa. Ma che diavolo dici? Gli spermatozoi non s’infilano nelle ovaie ma nell’ovulo. Sì, d’accordo, d’accordo. Adesso che importanza aveva dove finissero gli spermatozoi! Lo devi sapere tu, è la tua storia, non la mia. L’infermiera della clinica comunque mi guardò dal basso all’alto, e poi di nuovo dall’alto al basso; mi chiese perché volessi fare una cosa del genere. Per amore. Amore? Sì, amore per la donna robot, la donna robot che mi ha spezzato il cuore.

Allora, vediamo cosa possiamo fare per lei! Io indossavo un bel completo grigio, camicia blu notte e cravatta blu notte fonda. Che differenza ci sarà tra la notte e la notte fonda? Te lo spiego subito: la notte è blu mentre la notte fonda è molto più blu. Bravo, ma che bravo Frank, si vede proprio che sei uno scrittore. E comunque questa storia non parlava di me e neanche delle mie camicie e delle mie cravatte, ma della mia robottina tutta sola. Come mai “sola”? Non hai detto che era scappata con Vinicius perché lui era più dotato di te? Sentimi bene! Non ho mai detto una cosa del genere!

L’infermiera mi guardò e mi disse: vediamo cosa possiamo fare… Mi tirò giù i pantaloni, si mise giù e mi esaminò. In quel momento ebbi l’illuminazione. Non era il cervello la parte più bella della mia robottina. Ecco perché me ne ero innamorato! Così presi l’infermiera per le braccia e le diedi un grosso bacio sulla guancia, la ringraziai per il suo aiuto e corsi da Vinicius all’Ariane. Ero un uomo con i pantaloni abbassati che correva fuori da una clinica androrobotica.

Mentre guidavo, sentii gradualmente tornare tutto nel suo stato originale. Parlo dei sentimenti, di quell’attimo in cui ti rendi conto che tutto quello che senti puoi anche non sentirlo affatto, e non se ne accorgerà nessuno. 

Arrivato all’ospedale dell’Ariane, l’Antico Ospedale di Sainte Marie, mi feci dire dove avrei potuto trovare il dottor Vinicius, lo scienziato. All’accueil c’erano due ragazzi magri con i capelli cortissimi, sembrava che non avessero mai avuto i capelli e neanche le sopracciglia. Tutti e due mi risero in faccia e mi dissero: Guardi che Vinicius non è un dottore e neanche uno scienziato. È soltanto un vecchio paziente. Come un paziente? Ma allora la rianimazione? L’operazione di riassemblaggio? Le cure prestate alla donna robot? Quelle sono tutte storie che si è inventato lei, signore, perché non voleva ammettere di essere stato lasciato per uno più dotato di lei. Non poteva essere vero, non ci credevo, non potevo crederci. Un momento! E l’infermiera allora? Lei non me l’ero inventata… Maledizione, mi ero accorto troppo tardi che la realtà era molto meglio della finzione. Oh, robottina mia, dove diavolo ti sarai cacciata!