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Raccolta di testi in prosa di Francesco Renzoni
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

In eterno

Creusa e Palinuro sono due dei personaggi minori del mito di Enea, narrato da Virgilio nell'Eneide; entrambi muoiono misteriosamente per volere del Fato, il destino a cui tutti, uomini e Dei, devono assoggettarsi.

Creusa era la moglie di Enea e scomparve perché questi, giunto a Cartagine, potesse congiungersi con Didone. Palinuro, nocchiero della nave ammiraglia, dovette morire per lasciare il suo posto allo stesso Enea, che così poté entrare trionfalmente nel Lazio alla testa della sua flotta.

Virgilio dedica loro pochi versi, preso dalla narrazione di avvenimenti più determinanti, e la mitologia greco-latina non reca molte altre testimonianze della loro esistenza. Mi sono preso la libertà di modificare un poco la versione virgiliana della storia di Palinuro, in cui egli viene ucciso da "genti barbare" sulle coste meridionali dell'Italia. Non me ne vogliano i puristi.

 

Luce. Ombra. Terreno. Cielo. Gli Inferi non sono fatti di molto altro. I rumori e i suoni sono solo sussurri e leggere cantilene; non c'è bisogno di gridare qui, e nemmeno di parlare. Palinuro è uno dei pochi che ancora comunicano usando le labbra, non si è mai abituato; le parole a bocca chiusa gli sembrano innaturali. Solo con Creusa riesce a controllarsi; forse perché trova bello comunicare così con lei, quasi per creare quella comunione di pensieri che avrebbe voluto sperimentare quando erano in vita, e che adesso, per lui, è naturale e sconcertante allo stesso tempo.

Adesso si sta guardando intorno, cercandola; forse è andata da Persefone, o magari sta ancora pensando a quella sua idea fissa, testarda com'è. Quando si ritrovarono insieme in quella parte dei Campi Elisi toccò a lei confortarlo, tentare di spiegargli che la loro sorte era inevitabile; ora, dopo tanti anni, si erano scambiati i ruoli, ed era lei a soffrire di più per quella situazione, per la loro esistenza terrena troncata così presto in nome di un destino di guerre e di sopraffazioni.

La guarda venire verso di lui, con quello sguardo turbato che da qualche tempo ha imparato a detestare, e capisce subito dove è stata fino a quel momento:

"Ciao."

"Scusami se ho fatto tardi, ero..."

"A parlare con Ade, lo so."

Creusa lo guarda contrariata, poi sorride:

"Sì, infatti è così. Da quanto tempo mi leggi nel pensiero così bene?"

"Da quando ti amo."

"Allora da un bel po'. Forse dovrei preoccuparmi, con tutti gli amanti che ti ho nascosto..."

Ridono a lungo, insieme. Palinuro è il primo a farsi di nuovo serio:

"Che ti ha detto?"

"Chi?"

"Ade, la tua nuova fiamma. Chi altri?"

"Oh, niente di importante; che me ne dovrò stare qui, sorbendomi la tua irritante presenza per l'eternità, ma che ogni tanto potrò andare da lui a fare - cito alla lettera - un po' di movimento extra."

"Chissà se lo pensa veramente..."

"Scherzi? Con Persefone che non lo molla neanche durante il Concilio degli Dei? Se vuole sperimentare i supplizi di un'Ombra Perduta per mano di sua moglie faccia pure, ma non a causa mia."

"Sbaglio, o stiamo evitando di proposito un argomento scomodo?"

Creusa abbassa gli occhi per un istante, poi lo guarda di nuovo:

"A quanto sembra non c'è più bisogno di discuterne..."

"Io penso di sì, Creusa. Non è la prima volta che ti rivolgi a Ade per questo motivo, e ti ha sempre dato la stessa risposta; perché insisti tanto nel chiedergli quello che sai che non può darti?"

"Non puoi capire, Palinuro..."

"Ah, no? Non ricordi quanto sono simili le nostre storie? Non ricordi quando arrivai qui?"

Un senso di freddo lo assale quando ripensa a quel momento... rivede se stesso, un giovane nocchiero al timone in una notte di tempesta furiosa, impaurito ma sicuro della propria maestria, e del compito che gli Dei gli hanno affidato... e d'un colpo le sue mani stringono il vuoto invece della barra, il vento cala improvvisamente, una giovane donna gli è accanto, venuta dal nulla, con uno sguardo di infinita pietà e dolcezza sul volto...e quando la riconosce si rende conto che gli Dei hanno altri piani, e che lui non è più necessario.

Era stata almeno risparmiata ad entrambi una morte atroce; anche Creusa era stata portata via prima che il suo corpo bruciasse nell'incendio di Troia. Non che questo li rendesse meglio disposti ad accettare i fatti, e ancor meno a sentirsi parte della gloriosa storia di Enea, che dopo tutto era un pover'uomo come tanti, non un granché come soldato né come condottiero, ma a cui entrambi volevano bene, e che almeno aveva avuto il merito di farli incontrare.

Creusa lo guarda con affetto:

"Certo, mi ricordo quando sei arrivato, e da quel giorno ho sperato che con te avrei potuto dimenticare che ho vissuto troppo poco, e non parlo solamente di albe e tramonti; ma è dura, Palinuro, è dura soltanto chiedersi come poteva essere...".

Al vederlo adombrato sorrise di nuovo:

"Lo sai che mi sono innamorata di te da subito, e sai anche che ti amo ancora, ma..."

"Ma forse non è abbastanza. Non ti sto rinfacciando niente, Creusa, e di sicuro non la voglia di vivere che forse dovrei avere anch'io; ma ti stai facendo soltanto del male in questo modo. Conosci le regole, e sai che non verranno cambiate solo perché il destino si è preso le nostre vite."

Creusa distoglie in fretta lo sguardo. Palinuro la guarda per un lungo momento, sentendosi forse più impotente nei confronti di lei che in quelli del Fato; poi trova la forza di dirle:

"Ad ogni modo, continua a parlarne con Ade, se vuoi; non è giusto che tu perda le speranze solo perché devi startene a sentire un gufo come me."

Lei lo guarda negli occhi, con quello sguardo dolce e comprensivo che gli ha sempre fatto dimenticare dove si trovano, insieme ad una piccola punta di gelosia al pensiero che forse anche il suo amico Enea veniva guardato così.

"Non è vero che non ti amo abbastanza, amore mio; nessun tesoro, nel mondo dei vivi o in quello degli Dei, è più prezioso di quello che ho qui, davanti a me."

La guarda allontanarsi, esile e strana come lui, come tutte le ombre di quell'angolo di creato. E pensa che darebbe tutti i tesori dei vivi e degli Dei per poterle credere.

 

A Palinuro piace camminare, qui. Il fatto che il paesaggio non cambi granché è forse un vantaggio per lui, lo aiuta a schiarirsi le idee. Non è un problema nemmeno la sensazione, un tempo inquietante, di girare in tondo senza spostarsi mai; ha imparato da parecchio che un'ombra non si muove mettendo un piede dopo l'altro.

Ora la sua mente ritorna al passato, a quando cominciò a conoscere questo mondo, e insieme ad esso la donna che glielo mostrava. Se ne innamorò praticamente subito, quando si rese conto di quale sofferenza albergava in quegli occhi che tuttavia tentavano di sollevarlo dal peso dello stesso dolore. E seppe che anche lei lo amava, in virtù di quel particolare modo di comunicare tra le ombre, che trascende le parole e le espressioni del viso. In effetti, pensa Palinuro, non hanno mai messo in parole il loro sentimento; chissà, se ci fossero state dichiarazioni più solenni...

"Buongiorno."

Si volta senza fretta, non è spaventato; per aver paura bisogna avere anche qualcosa da perdere, almeno la vita.

"Oh, Ade, non ti avevo..."

"...sentito arrivare?".

Sorridono.

"Tu pensi troppo, Palinuro. Pensi, e non ti accorgi di quel che ti accade intorno."

"Sai che perdita..."

Ade si fa serio, innaturalmente teso, e adesso Palinuro ha paura, la sola paura che gli è rimasta.

"E' vero, forse qui non succede molto, e proprio per questo non dovresti lasciarti sfuggire le poche cose importanti che possono cambiare l'esistenza di un'ombra."

"Stai parlando di Creusa, non è vero?"

Ade non risponde subito; guarda lontano, oltre Palinuro, forse oltre i nebbiosi confini del regno che porta il suo nome.

"Come consorte di un semidio, per giunta madre di un eletto all'Olimpo, può decidere di modificare il suo destino, a patto che esso non alteri il corso degli eventi stabilito dal Fato... e ciò ormai non può più verificarsi. Creusa è libera."

Palinuro resta immobile, ma solo per un istante. Poi unisce il suo sguardo a quello di Ade, che non fa nessuna fatica a leggergli dentro.

"Sei un essere raro, ombra; ben pochi, tra coloro che ho visto camminare qui, sono capaci di provare un amore come il tuo. Tieniti stretto questo sentimento, ti sarà utile."

Dopo un momento si accorge di quel che ha detto. Sorride tristemente. Palinuro si volta, e ha sul volto lo stesso sorriso.

"Sai anche tu che è proprio questo mio speciale amore che mi condanna. Vorrei poter dire a chi passa la vita a desiderarlo che è più pericoloso della morte..."

Ade sostiene a fatica il suo sguardo, cosa che gli capita assai di rado.

"Grazie, Ade. So che non eri tenuto a dirmi tutto questo, e non lo dimenticherò."

Palinuro riprende a camminare, mentre il signore degli Inferi lo segue con gli occhi, perso in pensieri che, lui solo, non è obbligato a dividere con alcuno.

 

Creusa, nel frattempo, sta cercando di capire perché mai il Fato ce l'abbia tanto con lei, un tempo privandola della possibilità di scelta, per poi dargliela in questo momento. Forse ancora non si rende conto di aver già deciso; capita anche ai vivi di aver paura delle proprie azioni o, meglio, di aver paura di non tormentarsi abbastanza per esse, di non soffrire quanto ci si aspetterebbe a causa di prese di posizione che alla fine risultano inevitabili. Non sa come dire a Palinuro che ha ragione, che dopotutto sembra evidente che non lo ama abbastanza da rinunciare alla possibilità di vivere di nuovo, nonostante non sappia cosa l'attende, e se riuscirà a farsi amare da un'altra persona come è amata adesso...

Non lo vede avvicinarsi, e non si accorge di lui finché non percepisce la sua enorme tristezza, e allora è troppo tardi per cercare le parole meno dolorose. Tuttavia lei le cerca, sente di doverglielo.

"Palinuro, ti prego..."

"No."

Rimane immobile, senza aver capito il tono di quella parola; non se l'aspettava, forse.

"Non ti scusare, non ne hai bisogno. Quello che hai deciso è quello che deve essere."

Creusa non può piangere, fisicamente. Ora è più disorientata che triste, non sa più se vuole che lui si rassegni per poi dimenticarla, o se desidera che questo amore nato per disperazione sopravviva anche senza di lei. E, se potesse, piangerebbe adesso, perché si rende conto che Palinuro le sta togliendo anche quest'ultima incertezza, pagando il più alto prezzo possibile.

"Ho chiesto a Ade la tua immersione nel Lete. La tua nuova vita deve essere libera da tutto, dai ricordi della tua vita passata e di questo posto. Del resto, probabilmente avresti dovuto dimenticare comunque per non rischiare di far conoscere ai vivi cosa li attende...ora vai, Caronte ti aspetta; lo sai quanto è insopportabile quando si irrita."

Creusa, controvoglia, gli permette per l'ultima volta di addolcire la sua pena, e sorride. Non gli risponde, e non si volta a guardarlo. Capisce che non è giusto parlargli ancora, che non vi sono più parole abbastanza grandi, abbastanza dolci, e si incammina verso i confini del Mondo delle Ombre.

Palinuro fa per tornare indietro, poi non resiste e la cerca con gli occhi.

La vede scomparire piano.

Sorride.

Per lui, l'eternità comincia in quell'istante.

 

*

Non ne hanno più il coraggio

Vorrei parlarvi di un ragazzo di nome Gianluca.

Uno strano.

Parecchio strano.

L'ho conosciuto al liceo, eravamo compagni di banco. Gli unici misti.

In tutti gli altri banchi c'erano due ragazze o due ragazzi, e io e Gianluca venivamo guardati come alieni. Non eravamo neanche alla perifrastica passiva che tutti in classe pensavano che lui fosse gay e io lesbica. O lui un morto di figa e io una suora mancata. O lui un minorato mentale e io un'aspirante infermiera.

Questo i maschi. Sempre indecisi. Le femmine avevano un'idea più chiara e più univoca. Pensavano tutte che io fossi una puttana, e che mi fossi messa di banco con un maschio per esercitare la professione. Lui, non pervenuto.

Arrivati all'aoristo secondo, anche i maschi pensavano che io fossi una puttana. Non si spiegava, altrimenti, come mai io prendessi voti così alti. Sicuramente facevo delle “interrogazioni speciali” ai professori.

Anche Gianluca andava bene, ma lui era perché studiava. A dire il vero studiavamo insieme, lui era dislessico, e io gli davo una mano leggendo ad alta voce i libri di testo e registrandogli i miei appunti. E lui non si sentiva inferiore, o minacciato, o umiliato.

Ve l'avevo detto che era strano.

All'inizio della quinta ginnasio venne fuori che studiavamo insieme. E via alla riscrittura del Kamasutra! La cosa buffa è che essendo entrambi una sorta di appestati nessuno della classe ci frequentava, eppure erano tutti una miniera di informazioni. Sapevano con precisione cosa facevamo, come lo facevamo, con che frequenza e in quali stanze della casa o anfratti della scuola. Roba che Christian e Anastasia spostatevi, che ci fate ombra.

 

Io e Gianluca andammo avanti così, l'uno la boa dell'altro. Io giocavo a pallavolo e lui veniva a vedere le mie partite, lui suonava in un gruppo e io andavo ad ascoltarlo in garage o alle feste. Quando usciva con le ragazze gli suggerivo io i posti dove portarle.

E mi portò lui all'ospedale, quando il mio allenatore ci dette un po' troppo dentro.

Non mi stupì più di tanto, quando mi portò nel ripostiglio della palestra e si chiuse dentro con me. In fin dei conti ero una puttana per tutti, a parte per Gianluca, quindi era normale che anche il coach mi trattasse come tale. Dopo quella prima volta non aveva neanche bisogno di picchiarmi: bastava che alzasse la mano sopra la testa e io capivo.

È che poi ci prese gusto.

Quando dissi ai miei genitori che volevo denunciarlo mi dissero di no. Avrei fatto la figura della puttana. Troppo tardi, avrei voluto dirgli.

Quando Rebecca lo denunciò nessuno le dette di puttana, però. Tutta la squadra le si strinse attorno, per i giornali fu un'eroina, i suoi genitori erano orgogliosi di lei. E lo ero anch'io.

Quando la abbracciai eravamo tutte e due in lacrime, ma lei pensò che io piangessi per empatia.

 

L'unico che mi stette accanto fu Gianluca. Sempre. Sembrava quasi che mi chiedesse scusa, per il mondo che mi circondava. Non capiva, forse, che il mio mondo cominciava e finiva con lui.

E non l'avevo capito nemmeno io.

Gianluca che camminava accanto a me, passando davanti a quel locale. Gianluca che chiese rispetto per me, quando quei ragazzi mi chiamarono puttana. Gianluca che continuava a urlarmi di scappare, anche quando lo riempivano di botte. Gianluca che non sentì le urla dei vigili, che passavano di là per caso. Quel caso che ha salvato la mia vita, ma non la sua.

 

Io adesso faccio paura. Faccio paura agli uomini e alle donne.

Perché in ogni uomo adesso cerco Gianluca, e in ogni donna cerco Rebecca.

Per questo, nessuno mi dà più di puttana.

Tanti non lo pensano.

Gli altri non ne hanno più il coraggio.

*

La turista di Brighton

Vi dico subito che non siamo da Rivoire. Nemmeno da Gilli. E nemmeno alle Giubbe Rosse. Qui i camerieri non hanno il panciotto e i guanti bianchi. Perché non ci sono camerieri. E di qui non c'è mai passato né Marinetti né Fattori, e nemmeno Soffici. In via delle Belle Donne non ci vengono grandi uomini, e se ci vengono non lo fanno sapere a nessuno. Noi però siamo dei poveri bischeri, quindi il caffè Rogai ci calza come la pelle alla salsiccia.

 

“Oh, Bellini, noi si fa festa!”

“O bravo! L'hai fatto uno squillo a casa? La tu' moglie deve avere il tempo di rivestirsi e buttar fuori il ganzo dal balcone...”

“Imbecille!”

“Meglio imbecille che becco.”

“Ma vaìa, vaìa...Giovanni, quanto devo?”

Il barista alza il capo dal libro dei corrispettivi.

“Se la fa per tutti, Tosi, son quarantacinque lire”.

“Sìe! E pago per gli amici, mica per...”

“Il Bellini ha già pagato il suo, la faccia meno lunga.”

“Va bene, vai. Ecco il lesso. Buonanotte, Giovanni.”

“Buonanotte, Tosi. Fate piano quando uscite, che la vedova Giunti del pian di sopra, se la svegliate a quest'ora, chiama i carabinieri...”

“Sì, sì, 'un ti preoccupare...”

Giovanni sbuffa. Lo sa già, che appena passati sotto il bandone cominceranno a vociare e a ridere, come essere in mezzo al mercato.

“E te, Bellini? Ci dai mano a dare il cencio in terra stasera?”

Bellini sono io, quello seduto al tavolino d'angolo, con la sigaretta in bocca e il bicchiere vuoto da almeno tre quarti d'ora.

“Mah. E 'un c'ho mica voglia di tornare a casa.”

Giovanni mi guarda da sopra il banco.

“Se tu' speri in un bicchiere a ufo t'hai sbagliato uscio. E poi la mescita finisce all'undici in punto, quindi nisba.”

Mi metto a guardare dentro il bicchiere, senza ragione.

“O com'è che nei film americani il cliente c'ha sempre ragione e i baristi sono educati più delle monache, e qui a Firenze ce l'hanno tutti tòrta nemmeno gli si chiedesse le decime?”

Giovanni sta per rispondere a modo, quando sente un leggero bussare al bandone.

“Siamo chiusi!!”

Una voce femminile si insinua sotto la lamiera.

“Excuse me?”

Scarpine nere, calze chiare e una sottana plissettata verde al ginocchio sono le uniche cose che riesco a vedere. Poi la figura si accoccola per passare sotto al bandone e vedo anche il resto. Giacchina dello stesso colore della gonna, camicetta bianca, foulard fantasia al collo, cappellino con la veletta alzata e guanti di pelle scura.

“I'm so sorry but...I've been robbed...”

“Signorina, e 'un capisco i'che la dice, ma siam chiusi a quest'ora...”

Intervengo, alzandomi in piedi.

“Stai buono, Giovanni, dice che l'hanno derubata. Where, madam?”

La bella sposa fa due passi dentro il caffè, mi guarda come se fossi l'ultima scialuppa sul Titanic.

“I was going back to my hotel...they took my purse...it was near the church, the one with the bare front...”

“Come, have a seat. Giovanni, si può avere un bicchier d'acqua? Alla signora gli hanno rubato la borsetta in San Lorenzo.”

“Ahia. Certo, a girar da sola a quest'ora, se l'è chiamata...”

Non so perché ma scatto come una tagliola.

“Bel discorso a bischero! O come tu ragioni? La gente la dovrebbe poter girare tranquilla giorno e notte, sa un tubo la signora che qui siamo il paese dove i ladri fanno buca!”

La voce della signora si incrina.

“Please, no...don't fight, please...”

Comincia a piangere piano, dev'essere una brutta botta esser derubati in un paese che non è il tuo, dove non c'è santi a cui votarsi.

“I'm so sorry. Please, sit here. My friend will bring you a glass of water.”

Le prendo una mano con una delle mie, poso l'altra sulla sua spalla e la accompagno al tavolino. Mi arriva la voce di Giovanni.

“Sarà il caso di dargli anche uno Strega, così ripiglia colore. Ma te, com'è che tu sai l'inglese a questa maniera?”

“E' perché, a farmi i fatti miei, m'è avanzato il tempo per impararlo. Lascia perdere lo Strega e porta l'acqua e basta, giù”

Appena la signora si siede le offro il mio fazzoletto.

“Thank you. Sorry for bothering you...”

“No problem, madam. Take a moment.”

Arriva Giovanni col bicchiere d'acqua.

“Prego, signora.” E poi subito a me:

“E i'che gli si fa, a lei? Si deve chiamare i carabinieri per la denuncia...”

Alla parola carabinieri la signora si riscuote:

“Oh, I don't want to call the police now! Can I report the robbery tomorrow morning?”

“Chiede se può fare la denuncia domattina, non vuole chiamare adesso.”

Giovanni fa la faccia a pensatoio. Mentre gli girano le rotelle dietro la fronte la signora si rivolge di nuovo a me.

“I was just hoping to find someone to...to escort me to the hotel. I don't want to go alone.”

“Allow me, madam.”

“It's Christina, by the way, mister...”

“Bellini. Everyone here knows me as Bellini.”

“Thank you so much, mr. Bellini. I'm so glad I found you.”

A quel punto Giovanni ci comunica il risultato del suo arrovellarsi.

“Mah...secondo me si deve chiamare ora. Quando c'è bailame qui bisogna chiamar subito. ”

“Ho capito, ma se la signora dice che non c'ha voglia ora...che ti cambia, quando fa la denuncia?”

“Eh, mi cambia che ce l'ha detto a noi. E se mi chiedono come mai non ho chiamato quando me l'hanno detto io i'che gli rispondo, che la signora c'aveva il fru fru? No, via, Bellini, e bisogna chiamare ora.”

La signora si alza piano.

“Oh...I'm so sorry, mr. Giovanni...”

“Icché la dice?”

“Che gli dispiace, ma un' lo so mica perché...why are you sorry, Christina?”

“Because of this”.

Si sente uno scoppio, come di un petardo. Giovanni strabuzza gli occhi, si mette una mano al lato dello stomaco e cade in terra. Batte la testa contro il poggiapiedi del banco e lì rimane. Faccio per chinarmi su di lui, mi volto verso la signora e mi blocco.

Il rumore di petardo è in realtà quello di una piccola rivoltella, che adesso è puntata su di me.

“And now, Bellini, it's you and me.”

Mi alzo piano e sollevo le mani.

“Oh, mamma mia...Christina, what...why...?”

“Let me refresh your memory.”

La donna si siede di nuovo e mi fa cenno con la pistola di fare altrettanto. Dopo avermi fatto mettere le mani sul tavolino per poterle vedere, comincia a parlare in un italiano un po' stentato.

“Mio nome è Christina Lynott, e sono di Brighton. Sono la filia di Gerald Lynott.”

La guardo, spaventato ma anche perplesso. A terra c'è Giovanni che si lamenta piano.

“Mi dispiace, Christina, ma a me questo nome non mi dice nulla.”

Fa una smorfia di disgusto.

“Tu ha già dimenticato, vero? Il Camp eighty-two, in Laterina...”

“Laterina? È qui vicino, verso Arezzo...ma io non ci sono mai stato...”

Christina mi tira un ceffone con la mano libera. Faccio un urlo, più di sorpresa che di dolore.

“You bastard!! Mio papa era in Camp con altri inglesi, quando è guerra, e tu conosceva lui! Lui scritto di te in lettera a nostra familia...tu fatto male lui, per tanto tempo...tu reportato a tedeschi lui quando lui scappa...e tedeschi...”

Singhiozza.

“...e tedeschi porta lui a Blechhamer. Lui morto là.”

Alza di nuovo la rivoltella e me la punta contro.

“You Fascist shit! Now, you have to die!”

Mi tiro indietro sulla sedia, alzando ancora di più le mani.

“Christina, guarda che ti ho detto la verità! Mi dispiace per il tuo babbo, ma io a Laterina non ci ho mai messo piede, ero in Garfagnana coi partigiani...”

Mi guarda per un istante. Poi fa una smorfia che vorrebbe essere un sorriso.

“Of course...tutti italiani partigiani...oh, io no fassista, never!! Ma io conosce te, Bellini...papa scritto tanto di Camerada Marsio Bellini...”

“Marsio??”

L'esclamazione inaspettata di Giovanni, da terra, spaventa la donna, che d'istinto gli punta la rivoltella addosso, allungando il braccio. Mi basta: la prima manata, di piatto, è per la pistola, che finisce sotto la madia d'angolo, la seconda, a pugno, sulla faccia della figliola, che va giù dalla seggiola. Non le do il tempo di riprendersi e le blocco le braccia dietro la schiena, la tiro su e la sdraio a pancia sotto sul tavolino. E' ancora intontita.

“Christina, spell my name!”

Mi arriva una voce sottile.

“What?”

Le do una strattonata ai polsi, un po' per svegliarla un po' per prendermi una rivincita dallo spavento.

“Spell my name, I said!”

Si volta a guardarmi, gli occhi che mandano fiamme.

“M-A-R-C-I-O. Marsio!”

Mi scappa un bestemmione, di quelli davvero pesanti. Tenendola sempre per i polsi, mi frugo nella tasca dei pantaloni e tiro fuori la carta di riconoscimento. Gliela paro di malgrazia davanti al viso.

“Leggi, cretina!”

Lei continua a guardare me, per qualche momento. Poi, controvoglia, abbassa gli occhi sulla carta e legge. Vedo i suoi occhi che si fissano su un punto, poi si allargano piano piano.

“But...but...how...”

Si sente battere sul bandone.

“Oh, chi c'è qui dentro? Carabinieri! I presenti s'identifichino!!”

Giovanni fa uno sforzo e alza la voce.

“Polvani?”

Risposta secca:

“Sì, son io! Bartalesi, che mi tiene aperto a quest'ora? Per stavolta passi, ma...”

Giovanni dà fiato alle ultime energie.

“Venite dentro, che ci s'ha un problema o due...”

 

Tranquilli, Giovanni sta bene. Il proiettile è entrato e uscito, non ha beccato nulla di importante. Domani esce da Santa Maria Nuova, e meno male perché al caffè in questi giorni ci ha pensato il figliolo più grande, negato come un cinghiale a lavare i piatti.

A Christina invece, per uscire da Santa Verdiana ci vorrà un po' più di tempo. Tre anni, nessuna attenuante, quindi niente condizionale e niente uscita per buona condotta. L'ambasciatore inglese non ha nemmeno voluto sentirla, appena gli hanno spiegato com'è andata se n'è lavato le mani, e ha fatto in modo di farlo sapere a tutti.
Io credo che sia gli inglesi che gli italiani l'abbiano voluta portare ad esempio, la povera Christina. Capite, non è che si può permettere a tutti quelli che c'hanno qualche conto di guerra in sospeso di andare a giro a sistemarlo a colpi di rivoltella.

Mica perché tanti non se lo meriterebbero, per carità. È che a volte, nella frenesia della vendetta, capita che si sbagli qualcosa. Magari una particolare, una cosina da nulla.

E così può succedere di confondere una guardia in un campo di prigionia, particolarmente odiosa e con parecchi morti da giustificare al Signore, all'anagrafe Marco Bellini, con un bischero che restaura mobili e svuota bottiglie di Chianti, all'anagrafe Marzio Bellini.

Intendiamoci, ce l'ho anch'io qualche morto sulla coscienza: ma per quanto ho saputo il Camerata Bellini, fra l'altro scomparso nel nulla prima dell'arrivo degli americani, a torturare e ammazzare la gente c'aveva preso parecchio gusto, e quello posso dire di non avercelo mai avuto.

Quando l'hanno portata via, Christina stava piangendo anche l'anima. Mi guardava e non faceva che ripetere, con le labbra solamente: “I'm sorry”.

Sapete, domani o doman l'altro io una visitina a Santa Verdiana la faccio. Se mi volete dar di bischero fate pure: c'è da prendere il numero e mettersi in coda.

*

Musica d’insieme

MUSICA D'INSIEME

 

Se chiedi ad un uomo qualsiasi sulla cinquantina chi era John Bonham, spesso ti risponderà: “Il più grande batterista della storia”. Chiedi allo stesso uomo chi era Giulio Capiozzo e ti risponderà: “Chi?”. Ecco, Giulio Capiozzo sarebbe stato il più grande batterista della storia, se si fosse chiamato John Bonham e fosse nato nel Worcestershire invece che in Emilia.

Quando feci ascoltare ai miei ragazzi “Arbeit Macht Frei” mi guardarono come si guarda uno sotto LSD. Quando attaccò Stratos, il dubbio nei loro occhi divenne certezza: ero un vecchio fricchettone con ancora qualche rimasuglio di roba che circolava in vena e che a intervalli irregolari gli ottenebrava il giudizio.

Era il mio secondo anno all’ITI Galilei, e tenevo un corso che aveva più del ricreativo che del didattico: musica d’insieme. Cinque o sei adolescenti, convenientemente borchiati, strappati e smutandati, che tentano di capire cosa faranno della loro vita e se la musica potrà entrarci in qualche modo.

All'inizio le posizioni erano concilianti: i ragazzi mi proponevano i pezzi che volevano suonare e io lasciavo passare almeno cinque secondi prima di cassarglieli. Quando facevo suonare loro il giro blues o quello reggae loro sbuffavano pesantemente la loro noia, ma dopo almeno un paio di minuti.

Poi le cose si fecero difficili: non riuscivo far vedere loro i traguardi che la musica fatta bene poteva procurare. Per alcuni, poi, le mie lezioni erano un modo per passare qualche ora di divertimento, e non l'ossessione che mi pervadeva da molto prima che fossi loro coetaneo, quindi non capivano perché fossi così esigente. La tensione, certe volte, si poteva pizzicare con un plettro.

Dovevamo trovare un punto d'incontro.

Mi venne in mente quello che mi disse un chitarrista con cui suonavo nei locali, negli anni '80: “Hai presente quei chitarristi tipo Malmsteen, quelli che incidono quei dischi pieni di assoli velocissimi? Ci andavo pazzo, letteralmente. Pensavo che fosse il non plus ultra in fatto di musica. Beh, la prima volta che andai a sentire un'orchestra sinfonica, mi sembra che suonarono Mendelssohn, mi accorsi che la signora sessantenne nel terzo leggio dei secondi violini, con il coprispalle di lana nero e gli occhiali con la catenella, suonava molto, ma molto più veloce. Da quel momento cominciai a pensare la musica in modo diverso.”

Era quello il segreto. Pensare la musica in modo diverso.

Il giorno dopo presentai al preside del Galilei un piano di uscite da autorizzare. Mi chiese se lo stavo prendendo in giro. Risposi di no. Mi disse che la cosa non aveva precedenti, e che aveva paura di stabilirne uno pericoloso. Gli risposi che i precedenti, almeno a quanto ne sapevo, non hanno mai spaccato finestre a pallonate o intasato i bagni della scuola con fogli protocollo. Fece una smorfia. Poi firmò.

Contattai un'orchestra da camera, chiedendo di far assistere gli studenti alle prove. Chiamai un quintetto jazz, chiedendo di far assistere gli studenti alle prove. Feci lo stesso con un coro gospel, un gruppo popolare irlandese, uno di percussionisti ivoriani. Tutti mi dissero di sì. Stavo per chiedere anche ad un ensemble barocco, sull'onda dell'entusiasmo, ma riuscii a trattenermi.

E nel frattempo arrivò Matteo.

 

Matteo Burchi. Sedici anni. Me lo ritrovai in classe quando la madre, single, venne a sapere che il mio corso si teneva nel pomeriggio, e che poteva sistemarlo da me e restare al lavoro un paio d'ore in più al giorno.

Me lo ritrovai in classe anche nel senso che prima dell'inizio di una lezione, a dicembre, aprii la porta dell'aula\sala prove e ce lo trovai dentro.

E tu? Che ci fai qui? Chi ti ha fatto entrare?”

Ero piuttosto seccato per la mancanza di sicurezza, il mese prima l'aula era stata derubata di diversi strumenti, quindi probabilmente la frase mi venne fuori più secca di quanto intendessi. Ma Matteo non sembrò particolarmente urtato dal mio tono. A dire il vero, non si accorse nemmeno che avevo parlato. O che ero lì, se è per questo.

Era seduto su una sedia e mi dava le spalle, rivolto verso la finestra dove si intuiva un sole troppo timido per tentare di penetrare le nuvole. Agitava una mano di fronte agli occhi, senza sosta.

Oh, ma mi senti?”

Niente. La mano continuava a salire e scendere, le dita leggermente separate. Gli andai vicino, mi misi di fronte a lui. La mano non si fermò, ma attraverso le sue labbra chiuse cominciò a trapelare un leggero mugolio, che lentamente acquistava volume. Anche la sua testa cominciò a muoversi da una parte all’altra, come in una stolida negazione.

Non me la sentivo di toccarlo, intuendo che avrei fatto peggio. Stupidamente, senza riflettere, tornai verso la porta dell’aula per chiuderla e non far sentire in corridoio quell’ormai quasi grido…e il mugolio si affievolì, tornando al silenzio in pochi istanti.

Mi voltai di nuovo verso il ragazzo, la cui testa aveva smesso di scuotersi. La mano invece continuava imperterrita il suo gioco incomprensibile.

Guardai verso di lui, poi verso la finestra. E capii in che modo avevo increspato le acque del suo laghetto personale.

Mettendomi fra lui e la finestra, gli avevo tolto la luce.

 

Nessuno sapeva niente. Non il preside, non gli insegnanti di Matteo, nemmeno i bidelli. La madre almeno mi venne a supplicare di aiutarla e di tenerlo con me almeno fino alla fine del quadrimestre, e se dopo non fosse stato possibile si sarebbe organizzata; per tutti gli altri, sembrava che stessi parlando di un soprammobile.

Mah, guarda, dove lo metti sta, non dà noia a nessuno...”

Ho capito, mica mi preoccupo per le belve, a loro non fa né caldo né freddo. Mi preoccupo per lui. Noi facciamo parecchio casino a lezione, non è che si sconvolge o che so io?”

No, professore, non si preoccupi. Il soggetto non mostra alcuna reazione agli stimoli uditivi anche quando improvvisi o ad alto volume. Oltretutto non interagisce con gli altri soggetti se non si insinuano nella sua sfera e non utilizza gli oggetti intorno a sé, quindi è del tutto avulso...”

Sì, sì, ho capito.”

E in effetti il “soggetto” se ne rimase bello, tranquillo e rilassato a passarsi le dita aperte davanti alla faccia mentre i miei ragazzi macellavano “Long train running” e massacravano “All right now” prima delle vacanze di Natale. Devo dire che gli smutandati dimostrarono molta più sensibilità dei loro insegnanti: cercavano di non urtare Matteo né fisicamente né con gli amplificatori, sbirciavano spesso nella sua direzione per vedere se stava bene, due di loro provarono pure a suonargli qualcosa. “Magari gli piace, profe, lei che pensa?”

Non sapevo che pensare. Mi sentivo drammaticamente insufficiente, non in grado di affrontare una situazione simile. Volevo e sentivo che si poteva fare di più, ma cosa? Come? A gennaio poi avevo in programma le prove aperte con il quintetto bop, le prime di quella serie di incontri che sarebbe andata avanti fino alla fine dell'anno scolastico. E Matteo? Ce lo portavamo dietro sull'autobus di linea? E se “reagiva male”, noi cosa avremmo fatto? Non era un “soggetto”, era un ragazzo vivo e presente fra di noi, che però aveva un suo universo in cui non potevamo entrare, figuriamoci comprenderlo.

Un'associazione di volontariato ci venne incontro, affiancandoci alcuni dei suoi membri più esperti nella specifica patologia di Matteo, e dette a me e alla scuola la sicurezza che ci serviva. Quindi il 10 gennaio entrammo per la prima volta al “Peach Jam Bar”, dove ci aspettavano i Bam Boppers.

Passammo due ore ad osservarli mentre studiavano “Salt peanuts” e “A night in Tunisia”, ed io cercavo di far notare ai miei ragazzi la precisione, la ricerca del suono e la passione che mettevano in ogni singolo passaggio. E mentre dicevo tutto questo mi voltavo spesso verso Matteo, forse inconsapevolmente. Aveva trovato un punto in cui l'intersecarsi delle luci creava un effetto che a lui evidentemente piaceva e stava lì, muovendo il tronco e la testa per assecondare il gioco che i suoi occhi percepivano. Vedevo la sua testa entrare e uscire dal cono di luce e pensavo a cosa potesse mai arrivargli. Se e cosa pensasse, o se solo si era accorto di essere in un posto sconosciuto, con musica che sicuramente non aveva mai sentito.

Col bebop il progetto aveva funzionato bene: febbraio lo passammo con l'orchestra di Santa Marta, marzo con gli Whisky In The Jar, aprile con Mori, Mamadou e Kasimir...i ragazzi erano entusiasti, facevano domande su domande, chiedevano di assistere a dei concerti e di organizzarne a scuola, suggerivano contaminazioni di ogni genere e livello. E Matteo era lì, diventato una via di mezzo fra una mascotte e un cucciolo. Tutte le volte che lo guardavo mentre la musica invadeva o accarezzava l'aria intorno a noi cercavo di scoprire un guizzo degli occhi, un rallentamento del suo moto incessante, e spesso mi illudevo di averlo visto. Mi resi presto conto che il mio desiderio di comunicare con lui attraverso le note era pia illusione.

Un pomeriggio tornammo alla scuola alla fine di una prova aperta e in segreteria mi attendeva un messaggio della mamma di Matteo, che mi pregava di trattenermi un altro po' e che sarebbe venuta a prenderlo al più presto.

Mi misi quindi a riordinare l'aula, con il mio silenzioso compagno seduto immobile davanti alla sua finestra. Nel prendere le bacchette da sopra il rullante, dove naturalmente le aveva abbandonate uno degli smutandati in vena di emulare John Bonham, detti un paio di colpi sul rullante stesso, per sentire se come al solito era stata lasciata in tirare la cordiera.

Ta – ta.

Pausa.

Ciac– ciac-ciac.

Pausa. Decisamente più lunga.

Mi guardai intorno, la soluzione più logica era che fosse arrivato qualcun altro e non lo avessi ancora visto.

No. A parte me e Matteo, l'aula era deserta.

Lo scrutai, mi stava dando le spalle. Feci un altro tentativo.

Ta – ta.

Il movimento era quasi impercettibile, da dove mi trovavo, ma era inequivocabile che i colpi di risposta arrivavano dalle sue mani battute contro le cosce.

Ciac– ciac-ciac.

Un'altra volta. E il pattern si ripeté.

Lo riconobbi, era il gioco del rullante di un pezzo che avevamo sentito quel pomeriggio.

Non sapevo cosa fare. Mi veniva da saltare di gioia, da avvicinarmi a Matteo e abbracciarlo, da telefonare in Svezia e propormi per il premio Nobel. Il mio sguardo si perse per la stanza senza sapere dove guardare, finché non si fissò verso la porta dell'aula, dove c'era la mamma di Matteo che guardava lui, poi me, poi di nuovo lui, come uno spettatore di una partita di tennis. Vidi che stava per scoppiare a piangere, forse per l'emozione, forse per la paura di una reazione nuova e inaspettata, forse per questi e altri mille motivi. Per un istante mi passarono davanti le norme base della deontologia professionale, l'istante dopo le avevo già buttate nel cesso e stavo abbracciando quella giovane mamma, che si aggrappava a me soffocando i singhiozzi sul mio maglione.

 

Lo specialista che aveva in cura Matteo riassunse magistralmente la sua opinione professionale con un “Boh?”. I volontari che ci accompagnavano nelle trasferte fecero valere la propria esperienza sul campo con un “Mah?”. Il preside e gli altri insegnanti mostrarono il loro spasmodico interesse con un “Vabbè”.

Visto il decisivo supporto degli addetti ai lavori, decisi di esplorare quanto può essere pericoloso un insegnante incompetente se adeguatamente motivato, e alla lezione successiva provai a mettere il nostro più promettente batterista dietro le pelli senza dirgli nulla. Appena seduto al panchetto il pischello dette due colpi di rullante, ai quali risposero subito le mani e le cosce di Matteo. La reazione dell'imberbe fu encomiabile: anche lui riprovò lo stesso pattern un paio di volte, poi si voltò verso gli altri ragazzi con lo sguardo che diceva: “Avete visto anche voi?”. Nessun urlo belluino, nessuna escandescenza puberale, da parte di nessuno. Erano tutti incantati, consapevoli ognuno al suo livello del vero significato di quanto stava accadendo.

Poi il ragazzo provò a dare quattro colpi equidistanti. Matteo non si mosse.

Ci scambiammo uno sguardo, io e il batterista. Ci stavamo dicendo: “Beh, Roma non fu costruita in un giorno”. Proseguimmo con la lezione, anche se era difficile focalizzarsi su qualunque cosa non fosse ogni piccolo movimento di Matteo, che invece se ne rimaneva placido sulla sua sedia con lo sguardo alla finestra.

Avevamo provato la nostra versione di “Badge” per tutto il pomeriggio, e quando mancavano dieci minuti alla fine della lezione chiesi il silenzio, che incredibilmente arrivò subito, e pregai Oliver, il batterista, di ripetere le prime quattro misure di intro, con il bordo rullante, da solo.

Tac-tac-tac-tac.

Matteo non si fece pregare.

Ciac-ciac-ciac-ciac.

Ancora.

Tac-tac-tac-tac.

Ciac-ciac-ciac-ciac.

Mi mossi d'istinto, presi una sedia e mi misi accanto a Matteo. Feci cenno ad Oliver. Un'altra volta.

Tac-tac-tac-tac.

Stavolta anch'io risposi al rim shot insieme a Matteo.

Ciac-ciac-ciac-ciac.

Il suo sguardo era ancora perso in un punto indefinito fra sé e la finestra, non gli usciva ancora un suono dalla bocca, ma mi sembrava di aver trovato un traduttore universale Matteo-resto del mondo.

Provai a continuare il ritmo sulle mie cosce, per vedere se mi seguiva, e dopo qualche tentativo prese anche lui a scandire i quattro quarti insieme a me.

Io mi sarei fermato lì, ero troppo vecchio per sperimentare di più in un solo pomeriggio, ma per fortuna ho degli allievi meno vigliacchi di me: infatti, mentre ero concentrato sul pattern per doppio quartetto mani e cosce, non mi accorsi che il bassista aveva attaccato di nuovo il suo strumento e aveva acceso l'amplificatore. All'improvviso sentii la linea di basso dell'intro di “Badge” a tempo con il nostro ritmo. Mi voltai quasi arrabbiato verso il bassista, ma l'orecchio che avevo lasciato insieme a Matteo registrò il fatto che il ritmo non si era affatto interrotto. Forse era un mio pio desiderio, ma mi sembrava che il pattern, con l'ingresso del basso, avesse acquistato più dinamismo...più groove.

Con la coda dell'occhio colsi un movimento alle mie spalle e mi voltai. Sulla porta dell'aula c'era Anna, la mamma di Matteo, sorridente e con le lacrime agli occhi. Una risatina scambiata fra bassista e batterista mi fece rendere conto che anche i miei occhi erano umidi.

Guarda, il profe che piange!!” pensavano. Ma, credo, con molto rispetto.

 

Non fu tutto rose e fiori. A volte le belve si lasciavano trasportare, provavano a rivolgersi a Matteo come avrebbero fatto con chiunque altro e, quando andava bene, restavano delusi. Quando andava male, come successe dopo un tentativo di abbraccio o di pacca sulla spalla, Matteo reagiva scattando, allontanando tutti mulinando le braccia e poi chiudendosi in sé stesso. In modo inequivocabile, fra l'altro, rannicchiandosi accovacciato in un angolo e proteggendosi la testa con le braccia.

Per fortuna, dopo questi incidenti, non passava molto prima che le cose tornassero come al solito, e non successe mai quando eravamo fuori dalla classe; non ci azzardavamo a fare esperimenti in una situazione che non ci fosse familiare.

Alla fine, poi, trovammo tutti la giusta misura per interagire con la nostra mascotte: gli proponevamo dei pattern ritmici, che assorbiva con i suoi tempi, e poi suonavamo insieme a lui. In alcuni casi, come alcuni passaggi di “White room” o “Cold shot”, ci arrivava prima lui degli altri; suppongo che le difficoltà di scansione ritmica non fossero gli stessi per Matteo e per Oliver, Andrea e il resto della truppa.

Anna si fermava spesso dopo la lezione a parlare con me. La sua stanchezza era ancora il tratto più evidente nelle nostre conversazioni, ma ogni volta che le raccontavo i nostri progressi vedevo ad occhio nudo che un po' di quella stanchezza scivolava via dal suo viso e dalle sue spalle. Lo ammetto, stavo cominciando a farmi delle idee decisamente poco etiche su di lei; ovviamente prima di sapere che si era innamorata di un ingegnere civile e che stavano pensando di andare a convivere. Lo so, la vita a volte fa schifo.

Ci stavamo avvicinando alla fine dell'anno scolastico. Tempo di bilanci, voti, esami. Perfino i maturandi non vollero comunque rinunciare alle lezioni di musica d'insieme, anche perché avevo organizzato una sorta di saggio finale, in cui i miei allievi avrebbero suonato alcuni brani studiati in classe.

Ovviamente le belve cominciarono a latrare: “Profe, ma Matteo il saggio lo fa, vero?”, “Profe, se mettessimo anche Matteo sul palco? Sarebbe ganzissimo!” (ovviamente la consecutio di questa frase l'ho aggiustata io).

La reazione dei primati non si fece attendere: “Professore, naturalmente è improponibile un qualsiasi coinvolgimento di Burchi nel suo concertino. Non possiamo prenderci una simile responsabilità, pensi a tutti i genitori che saranno presenti...”.

Se non avesse usato la parola 'concertino' anch'io ci avrei messo una pietra sopra. Ma ci sono cose che fanno vedere rosso anche un insegnante di mezza età.

Quindi il giorno del saggio, oltre a montare amplificatori, microfoni e strumenti, montammo anche un piccolo rialzo alla destra della batteria, con una sedia e un microfono all'altezza delle ginocchia. Il sound check durò quasi due ore, e Matteo fu l'unico che non dette neanche un grattacapo.

Andò così, il primo ed unico saggio di musica d'insieme dell'ITI Galilei con body percussionist. Con ragazzi entusiasti, volumi da correggere ogni trenta secondi, genitori e familiari in delirio neanche fossimo stati ad un concerto di Madonna, e un tranquillo sedicenne su una sedia che non sbagliò neanche un colpo. Non lo aveva mai fatto in due mesi di lezioni, e non sarebbe stata quella la prima volta.

Quando scendemmo dal palco Anna mi abbracciò e mi tenne stretto per almeno due minuti buoni, piangendo. Anche i ragazzi erano commossi, anche se cercavano di non darlo a vedere. Nel frattempo Oliver e un altro paio si erano preoccupati di formare una sorta di cordone intorno a Matteo, per proteggerlo dagli entusiasmi del pubblico che lo aveva applaudito. Il ragazzo dondolava la testa, cercando chissà quale luce, probabilmente non rendendosi conto che la luce quella sera veniva da lui.

 

Ho scritto una relazione dettagliata del nostro lavoro con Matteo e l'ho consegnata ad Anna, le servirà quando si trasferirà con il suo nuovo compagno a Milano. La scuola dove andrà Matteo ha un corso di musica di prim'ordine, e gli insegnanti avranno delle basi con le quali imbastire un programma di massima che possa coinvolgere anche lui.

Quest'estate andrò a sentire Oliver e alcuni altri smutandati, che hanno formato una band partendo dai pezzi fatti insieme e faranno una mini-tournée nei locali all'aperto. Non dico siano i Led Zeppelin, ma se la cavano decisamente bene, e soprattutto sono molto uniti. Mi piace pensare che anche Matteo abbia contribuito a questo risultato, e forse non mi sbaglio più di tanto.

Non è detto che le cose importanti debbano essere per forza grandi, o famose, o di successo. Se chiedessi a chiunque chi è Matteo Burchi, tutti mi risponderebbero: “Chi?”. Magari, se fosse nato a New York e avesse avuto come insegnante mister Holland adesso sarebbe conosciuto in tutto il mondo, avrebbero messo il suo “caso” davanti ad ogni obiettivo e sotto ogni riflettore.

Ma va bene così, credo.

In fondo, alla Berklee School of Music di Boston viene insegnato lo stile John Bonham, ma anche lo stile Giulio Capiozzo.

 

DISCOGRAFIA:

 

Led Zeppelin, album senza nome (aka “Led Zeppelin IV”), 1971

 

Area - “Arbeit macht frei” (album), 1973

 

Yngwie Malmsteen, “Trilogy” (album), 1986

 

Felix Mendelssohn, sinfonia n° 4 “L'Italiana”, 1830-34

 

Doobie Brothers, “Long train running”, 1973

 

Free, “All right now”, 1970

 

Dizzy Gillespie, “Salt peanuts”, 1942

 

Dizzy Gillespie, “A night in Tunisia”, 1940-41

 

trad. irlandese, “Whisky in the jar”, ca. 1720

 

Cream, “Badge”, 1969

 

Cream, “White room”, 1968

 

Steve Ray Vaughan & Double Trouble, “Cold shot”, 1984