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Raccolta di testi in prosa di Gabriele Greco
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Un per zero

 

Il mare, il mare, è grande il mare, ma ancor più grande è l’oceano. Il settantacinque percento del pianeta Terra è ricoperto da acqua. L’acqua del mare è ottocento volte più densa dell’aria. Nel mare vivono duecentocinquantamila specie diverse. I pesci nel mare sono più di venti miliardi. Mi chiamo Filippo Casilli, ho quindici anni e quest’estate vado al mare.

 

Mia madre dice sempre che quando sono nato per tre giorni non ho pianto. Poi ho iniziato, ma con moderazione. Dormo con la luce accesa. Prima di addormentarmi penso sempre all’immensità del cosmo. L’universo ha all’incirca cento miliardi di galassie. La nostra si chiama Via Lattea e contiene duecento miliardi di stelle. Nel nostro sistema solare ci sono otto pianeti maggiori: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno e cinque pianeti minori: Cerere, Eris, Haumea, Makemake e Plutone, che prima però era considerato un pianeta. Sono figlio unico e a pensarci bene non ho mai desiderato avere un fratello. Quando avevo poco più di cinque anni trascorsi un’intera settimana in ospedale. I miei erano preoccupati, perché non parlavo molto e passavo la maggior parte del tempo seduto negli angoli bui di casa. Ricordo i dottori con candidi camici bianchi, suore gentili e grandi finestre illuminate dal sole. Il giorno che mia madre venne a riprendermi i medici le dissero che avevo la sindrome di Asperger. Hans Asperger era un medico austriaco, pediatra, scienziato e, a quanto pare, fervente nazista. Una volta tornati a casa, mia madre mi abbracciò forte e con gli occhi pieni di lacrime mi disse: “Filippo, tu non sei strano, sei speciale.” Questa frase nel corso degli anni me l’ha ripetuta più volte. Di mio padre ho solo qualche ricordo, tipo una mattina di festa che mi portò in auto all’edicola in centro e mi comprò un fumetto, uno di quelli con cowboy e indiani, copertina rigida e disegni in bianco e nero. Mio padre era alto, capelli lunghi, folti baffi biondi e un sorriso sornione. Fumava sigarette che si preparava da solo e quando mi prendeva per portarmi sulle spalle aveva un odore pungente di tabacco e colonia silvestre. Quando era a casa voleva essere divertente, faceva le facce buffe e cercava di farmi ridere con il solletico o arruffandomi i capelli. Ma io non ridevo, anzi, andava a finire che diventavo rigido come un ciocco di legno, perché in realtà dopo un po’ mi faceva male e piangevo. Lui si arrabbiava e usciva di casa diretto chissà dove. Con mia madre non parlava granché e quando erano insieme mi apparivano distanti, pur vivendo tutti sotto lo stesso tetto. Un giorno all’improvviso fece la valigia e partì o, come dice mia madre, si dileguò. Non penso però che fu per il fatto che io non sopportavo il suo solletico. Non l’ho mai più rivisto e capendo che a mia madre non piaceva toccare l’argomento, della faccenda non se ne parlò più. Un po’, a esser sincero, mi vergognavo dell’assenza di mio padre ed è per questo che a scuola al mio primo tema in classe sui genitori, scrissi che era scomparso durante una missione in Iraq. Che poi la cosa, per quanto ne so, potrebbe anche essere vera.

 

Oggi fa più caldo del solito. Me ne sto all’ombra dei pini e cerco di capire il vento. I venti si distinguono a seconda della direzione. Ne conosco almeno otto: Tramontana, Australe, Levante, Ponente, Grecale, Scirocco, Libeccio e Maestrale. Un rumore mi distrae. Sento qualcuno che sale lungo il sentiero. Guardo giù e vedo una ragazza dai capelli rossi che si avvicina. Ha le cuffiette e si muove a ritmo di musica. Si ferma, si dimena e riparte. Arrivata in cima mi scorge sotto il pino e come se nulla fosse si avvicina.

 

“Ciao, che fai? Studi il vento vero? Ti ho visto mentre salivo. Hai un drone da qualche parte?” dice con un tono di voce piuttosto alto.

 

“Eh? Un drone? No, no, no.” Scuoto la testa per sottolineare il concetto.

 

“Perché non sei in spiaggia a fare il bagno?”

 

“Perché, perché non mi piace, c’è troppa gente, confusione, rumori, e l’acqua la mattina è sempre molto fredda. Sai, dipende dal fiume che sfocia poco più avanti con il suo carico di acqua fredda. Infatti ci sono tanti fiumi in Italia, sai quanti sono?”

 

“No, quanti saranno... cinque?” e mentre lo dice muove le dita con la mano aperta. “Come ti chiami?”

 

“Filippo.”

 

“Io mi chiamo Agnese, piacere” mi dice e mi tende la mano. Io, colto di sorpresa, prima asciugo il mio palmo sudato sui pantaloncini e poi stringo la sua.

 

“Piiiaaacere mio” balbetto.

 

Rimaniamo in silenzio. Poi lei continua: “Neanche a me piace stare fissa sulla spiaggia, ogni tanto mi muovo per curiosare nei dintorni. Filippo, Filippo, non conosco nessuno con questo nome.”

 

Si siede sul muretto di fronte a me e tiene il ritmo della canzone che ascolta battendo le mani sulle gambe abbronzate. Ha indosso un vestitino rosso con stampati cavallucci marini gialli di varie dimensioni. Si alza, toglie le cuffiette e si esibisce in una perfetta piroetta, così, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Torna a sedersi ancora più vicina a me.

 

“Io faccio danza Filippo. Ho anche dei video postati su Youtube. Mi trovi se cerchi agnesebellaballa. A te cosa piace fare?”

 

“Mi piace…mi piace giocare a ping pong e leggere. Adesso ho appena finito un libro che parla della mitologia greca e degli Dei dell’Olimpo: Giove, Giunone, Atena, Marte, Apollo, Dioniso, Venere, Mercurio, Diana, Nettuno, Bacco, Cerere e Vulcano che poi sono i nomi di molti dei pianeti del nostro sistema solare, come saprai.”

 

“Accidenti che bravo, sei quasi meglio di Wikipedia!”

 

“Invece l’ultimo libro che ho letto io, è stato La Matematica dell’amore ed ha per argomento i sentimenti. Per meglio dire, parla delle conseguenze che producono le relazioni. Hai mai sentito parlare dell’equazione di Dirac?” Scuoto la testa. Lei prosegue. “Ora ti spiego, secondo la meccanica quantistica se due persone interagiscono per un po’ di tempo, oppure anche se per poco in maniera intensa, in qualche modo diventano un unico sistema. Accade infatti che anche se poi si separano e rimangono distanti chilometri, o addirittura anni luce, continuano comunque a influenzarsi a vicenda”. Ce ne stiamo un po’ in silenzio, poi mi dice: “Ti annoi? Io sì. Sono qui con mio padre e mio fratello. Uno è sempre attaccato allo smartphone e l’altro gioca a tennis tutto il giorno.”

 

“Tuo padre gioca a tennis?”

 

“No, quello che gioca è mio fratello.” E ride.

 

“Io invece sono con mia madre e anche lei non ama tanto la spiaggia. La sera sta sveglia fino a tardi. Beve e guarda le stelle sdraiata sull’amaca in giardino. Poi dorme tutta la mattina.”

 

“Perché fa così?”

 

“Non so, non so, forse è depressa. Non voleva nemmeno più fare la vacanza, ma poi era già tutto prenotato, tutto pagato.”

 

All’improvviso Agnese si alza di scatto. Appoggia il telefono sul muretto. “Guarda” mi dice e fa un passo indietro. Poi uno di lato, alza le braccia prende lo slancio e fa una ruota e poi ancora una e così facendo il vestitino rosso, capovolto, scopre le gambe sottili e tornite come fusi. Si ferma con il suo viso a cinque centimetri dalla mia faccia. I suoi occhi sembrano brillare come stelle nelle sere di agosto. Mi fissa dondolando piano la testa con un sorriso che mi stordisce. Mi sento in subbuglio e una forza misteriosa mi spinge verso di lei. Chiudo gli occhi, metto le mani sui suoi fianchi e la bacio. La sua bocca, umida, sa di cannella, sole e sale. Attorno a noi si spengono tutti i rumori, anche il vento cessa di colpo e le cicale smettono di frinire. La testa mi gira in una spirale di intensa vertigine senza fine. Sono stordito, sopraffatto dalle emozioni.

 

Il cuore umano nel corso della vita batte più di tre miliardi di volte, diecimila in un giorno, settantacinque in un minuto. Oggi sono certo che i battiti del mio cuore hanno infranto ogni regola.

 

La vibrazione e la musichetta della suoneria del cellulare di Agnese mi riportano sulla terra. Dà una rapida occhiata al display e si stacca dalla mia presa.

 

“Uffa, è mio padre, devo proprio andare. Ci vediamo domani? Qui, stessa ora? Ciao, ciao Filippo.”

 

“Sì, sì, sì. Ciao.” La guardo mentre si toglie le infradito e scende di corsa verso la spiaggia a piedi nudi senza voltarsi mai. Rimango solo, attonito, io e le cicale che nel frattempo tornano a frinire e il mondo che torna a girare.

 

Descrivere come mi sento è difficile, voglio dire in genere, non solo oggi. È come se il mio personale metronomo interno avesse sempre un ritmo diverso da quello di tutti gli altri. Oggi invece, per la prima volta mi sono sentito in perfetta armonia con la melodia interiore di qualcun altro. Preso da una frenesia irrefrenabile, mi avvio verso casa e a tratti corro a perdifiato fino a farmi bruciare i polmoni e scoppiare il cuore, così senza alcun motivo apparente.

 

Tornato a casa trovo la tavola apparecchiata. Bottiglia di acqua a temperatura ambiente, il mio bicchiere preferito con il logo della Pepsi, forchetta a destra, coltello a sinistra e il piatto di pasta coperto da un altro piatto. Quest’ultimo particolare mi fa capire che mia madre è di là a dormire. La chiamo e dopo un po’ arriva in sala da pranzo. Ha gli occhi gonfi, i capelli arruffati e anche se fa caldo ha un foulard sulle spalle. Mi squadra da capo a piedi. “Io non ho fame, ho mangiato qualcosa prima” e mi indica un vasetto di yogurt e delle bucce di mela sul tavolo. “Hai lavato le mani? Che hai? Sembri tutto accaldato.”

 

“Niente, niente ma’, ho conosciuto una ragazza stamattina, lì sul promontorio sopra la spiaggia.” Probabilmente divento rosso, perché mi sento cogliere come da un senso di calore improvviso che mi attraversa da capo a piedi. Lei strabuzza gli occhi che le si illuminano di colpo, scoppia in una risata e mi abbraccia con forza aumentando a dismisura il mio già grande imbarazzo.

 

“Vieni qui, vieni qua da mamma, piccolo ometto e raccontami tutto!”

 

Scuoto la testa e guardandola di sbieco le sussurro: “Ma’ non chiedermi niente.”

 

La sera a letto non riesco a prender sonno. I soliti pensieri rassicuranti sfuggono, mi sento agitato, irrequieto, inquieto. Alzo lo sguardo e l’ombra dei rami degli alberi, scossi dalla brezza marina, disegnano sul soffitto della mia cameretta figure femminili danzanti e che hanno un aspetto del tutto simile ad Agnese. Sospiro, respiro, sospiro e il cuscino che abbraccio, prima fresco di bucato e poi via via sempre più tiepido e infine rovente, mi riporta a quella vertigine intensa provata al mattino.

 

Lo spazio e il tempo. La circonferenza del nostro pianeta all’equatore è di 40.075 chilometri. La Terra dista circa 374.400 chilometri dalla Luna, la Galassia visibile più vicina è Andromeda e si trova a 3,2 milioni di anni luce, mentre quella più lontana è a 13,2 miliardi di anni luce, ma io non faccio che pensare alla distanza e al tempo che mi separano da Agnese.

 

Arrivo al promontorio di buon’ora e guardo giù, la spiaggia è ancora del tutto deserta. All’orizzonte nubi spesse e gonfie di pioggia sembrano intenzionate a portare il loro umido carico esattamente qui dove sono io. Mi siedo sotto un pino e aspetto. Il tempo scorre lento ed è quasi ora di pranzo. Osservo due file ordinate di formiche sul tronco dell’albero di fronte a me. Una che sale e una che scende, evitando accuratamente sia di scontrarsi sia le gocce di resina dorata che a tratti increspano il legno. Penso che debba essere davvero tranquilla la vita delle formiche, basta seguire quella che ti sta davanti e tutto diventa di una rassicurante semplicità. Provo a contarle, ma non riesco a concentrarmi. Uno, due, tre, quattro... Agnese che ride. Ricomincio daccapo. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei...un tuono all’improvviso scuote fin dentro le fondamenta i miei pensieri. Un temporale. Faccio appena in tempo a tornare a casa prima che una replica del diluvio universale trasformi la strada di casa in un fiume in piena. Trovo mia madre seduta in veranda mentre legge una di quelle riviste che si trovano dai parrucchieri. Senza alzare lo sguardo dalla sua lettura mi dice: “Hai preso la pioggia? Datti un’asciugata e se hai fame guarda in frigo, ti ho lasciato un’insalata di riso.”

 

“Grazie ma’, adesso però non ho tanta fame.”

 

Salgo in camera mia. Sul soffitto nessuna ombra. Penso all’equazione dell’amore descritta il giorno prima da Agnese, l’avevo trovata su internet:(∂ + m) ψ = 0. La mia attenzione non può che andare allo zero finale. Ecco cosa succede davvero quando due persone si incontrano, si influenzano e poi si dividono. Basta una semplice operazione matematica. Due individui si incontrano, formano una coppia e il risultato è uno più uno? No, le persone non possono fondersi in un’unica entità, si rimane sempre singoli individui e infatti la coppia che si viene a formare, credo, diventa un’ulteriore unità. Ecco che allora l’operazione giusta da fare per spiegare il concetto è invece uno per uno. Quando poi ci si lascia la cosa è ancora più chiara. Venendo a mancare una delle unità nell’operazione, la moltiplicazione per descrivere la situazione sarà per forza di cose un per zero e lo zero risultante spiega perfettamente il senso di perdita che si prova. Non si rimane soli, si rimane vuoti. Sono questi pensieri che mi accompagnano prima di addormentarmi, colto da una tristezza densa e cupa che potrebbe benissimo competere con la nera vastità del cosmo.

 

E ora è già domani, sono di nuovo seduto sotto ai pini sul promontorio, aspetto da un pezzo, guardo giù verso il mare, penso ad Agnese che non si vede e al fatto che un per zero, a quanto pare, fa davvero zero.

 

 

 

[ Opera terza classificata al Premio Babuk - Proust en Italie, VII edizione 2021, Sezione B ]