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Raccolta di testi in prosa di Arcangelo Galante
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Ladro di bugie

Tutto ebbe inizio in un sereno e apparente navigare dentro un virtual place assai frequentato, con la scoperta di limiti, già prefissati da colui che si sarebbe potuto definire un invisibile maneggiatore.

Tempeste poetiche e uragani di insulti, nell’oceano limpido del web, rendevano il soggiorno degli internauti talvolta pericoloso, qualora si tentasse di accedere alle frontiere confinanti, divenute col tempo invalicabili.

Non vi era alcun modo di conoscere la verità sul perché altri non dovessero sapere le decisioni di chi già le aveva stabilite in partenza, per tutti i neofiti.

L’importante era accumulare bottini di danaro, per poter pagare il silenzio di colui che, impavidamente, giammai si sarebbe preoccupato delle conseguenze di un’abusata virtualità.

A poco servivano blocchi, sospensioni, nascondimenti, nello scenario apocalittico che stava preannunciandosi, ma l’irremovibile manipolatore a nessuna istanza cedeva, perché solo lui era l’incontrastato padrone di una surreale dimensione che aveva conquistato.

Vane furono le lotte e i reclami di chi cercava, nei fondali, almeno una flebile spiegazione, e per comodità si lasciò temporaneamente campo libero a chiunque volesse entrare in quel fantasioso luogo, colmo di insidie nascoste.

Alieni presenze, finti profili, iscrizioni fasulle, gente priva di scrupoli, menzogneri, serpi di basso livello culturale, approfittatori, complici del signore assoluto di tutti i mari mediatici, facevano la loro parte, senza immaginare la fine che li attendeva.

Il ladro di bugie non guardava in faccia nessuno, poteva fare ciò che voleva e ciò soddisfava il proprio mercenario ego.

Persino gli ingenui, spinti dalla buona volontà nel credere a valori universali, si arresero dinanzi a questa figura che, con un solo dito, spazzava via tracce di preziose comunicazioni, dalla tastiera arbitrariamente occultate.

L’amarezza sostituì celermente la piacevolezza di fraterni scambi, perché tutti dovevano imparare a essere nemici, senza neppure accorgersene.

Sulla pelle, pagando un alto prezzo emotivo, un umile eroe, pieno di virtù, schiacciò il pulsante desiderato.

Tutto svanì e la nera nube si dissolse, per dare spazio a una creazione che, seppur tecnologicamente avanzata, giammai obliasse l’umanità dello scrivere.

 

N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia; ogni riferimento è puramente casuale.

 

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Solo questione di fortuna

Non è certo una scoperta che la gelosia possa nascere improvvisamente, ma accorgersene delle conseguenze, potrebbe essere motivo di inaspettate sorprese.

Didietro, lato B, chiappe, natiche, fondoschiena, questi i sinonimi del sedere delle donne, mentre tra i suoi opposti, la parola più gettonata è in abbinamento con la “sfortuna”.

Il lato B a pera, con vita stretta e fianchi larghi, è sicuramente quello più diffuso tra le donne; la vita è generalmente stretta, mentre, con il trascorrere del tempo, è probabile che ai lati si creino le cosiddette “culotte de cheval”.

Eh si, pertanto una sfortuna, non avere il culo, soprattutto di questi tempi, dove va sempre più di moda il sedere abbondante.

Gli occhi di Rosetta non erano mai schizzati fuori dalle orbite per un vestito firmato, un gioiello, un’automobile o per i soldi in tasca.

Ma quando le capitava di ritrovarsi assieme a Simona, per fare shopping, non poteva evitare di osservare il sedere magnifico dell’amica.

Alto, sodo e rotondo, rappresentava proprio quello ideale, scolpito da un’artista, buon intenditore delle giuste forme da favola.

Il suo culo, lo considerava invece una spianatoia e fu proprio la gelosia forte che iniziò a suggerirle di fare qualcosa per competere con l’altra, divenuta ormai la rivale da abbattere. 

Cercò di superarla in ogni cosa, sino a che, desiderando indossare un tailleur attillato per pavoneggiarsi, si accorse che c’era poco da fare. 

Si sposò e mise al mondo tre figli.

Per un lungo periodo non vide Simona, la quale era rimasta nubile, tranne qualche sporadico incontro con un ragazzo che decise di non sposarla, ritenendola troppo frivola e vuota dentro.

Rosetta si era arresa al pensiero di raggiungere gli standard fisici dell’amica e si gettò sui dolci che, con gli anni, l’avevano fatta lievitare, nel fisico.

Nonostante tutto, il lato dove non batteva il sole le rimase identico.

Una mattina Simona stabilì di uscire in sua compagnia, in nome dei vecchi tempi.

Rosetta accettò, lasciò i bambini con la tata e le si diresse incontro, correndo all’appuntamento, per non ritardare.

Mentre attraversava la strada, come una bambina preparatasi al primo giorno di scuola, si lanciò verso il marciapiede, per abbracciare Simona.

Non si accorse però di quella macchia di olio, fuoriuscita dal serbatoio dell’autobus.

La scivolata fu colossale: perse immediatamente l’equilibrio e con il peso che la contraddistingueva, nel tentativo di parare la caduta a terra, si attaccò con forza alle mani di Simona.

Il risultato fu che entrambe rotolarono letteralmente sul marciapiede, finendo l’una sopra all’altra.

Superato quel frangente, che aveva provocato un po’ di ilarità tra chi aveva assistito alla scena, senza accorgersene si ritrovarono in ospedale, a farsi compagnia nella stessa stanza.

La competizione era finita per tutte e due e l’infermiera riferì loro d’essere state fortunate, specialmente per il tipo di colpo, molto forte, attutito però dai chili di troppo accumulati.

Le due, divenute ancor più amiche durante la convalescenza, vennero accudite da un’infermiera russa che si prodigò per farle stare meglio, riacquistando la salute.

Quando giungeva l’attimo dell’iniezione, Rosetta e Simona, guardandosi negli occhi, a voce bassa, discorrevano tra loro: “Chissà cosa pensa Olga, del nostro culo?!”

 

(Nomi e fatti sono frutto di pura fantasia, ogni riferimento è puramente casuale)

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I missionari

Giunsero in un piccolo paesino dell’Italia settentrionale, quattro missionari di etnie differenti. 

Da tempo, la chiesa aveva divulgato ai fedeli l’idea di dover accogliere gli stranieri, essendo tutti figli di Dio. 

In realtà, l’incisiva mancanza di sacerdoti e la carestia di vocazioni, costringeva i vescovi a sottintesi compromessi, seppur mai rivelati pubblicamente. 

La storia lo insegna che il potere esercitato dal danaro e dal desiderio di controllo sulle masse popolari, sfruttando la fede e il buon cuore dei credenti, era una situazione affatto infrequente, in ogni angolo del mondo. 

Lupi travestiti da agnelli, a seconda dell’occasione, i nostri protagonisti concepivano la spiritualità in maniera assai moderna, al fine di mostrarsi aperti ai radicali cambiamenti della società. 

Ma per chi non rientrava nelle loro grazie, la mentalità medioevale nel rifiutarli, prendeva il sopravvento in ogni discussione. 

Accadde così che Vittorio frequentasse la parrocchia, ove ebbe modo di conoscerli in seguito al lutto di un parente. 

Vi si recò con l’intenzione di stabilire il momento opportuno per far celebrare una messa, a suffragio del defunto. 

Il giovane uomo, all'alba dei suoi 35 anni, si imbatté subito in uno dei consacrati, di nome padre Alfonso, da poco cinquantenne, e all’istante, in funzione di una grande esperienza di vita, egli capì di trovarsi dinanzi a un personaggio che si professava santo, nelle azioni, nient'affatto sincero e caritatevole. 

Si confidò, spiegando il motivo dell’ingresso in parrocchia e, possedendo una natura buona, però non stupida, non nascose la propria sensibilità particolare al prete che, essendo un autentico marpione, finse di accoglierlo con benevolenza e compassione.

 

Don Alfonso: Dove abiti?

 

Vittorio: Proprio dietro alla chiesetta, nella via che conduce qui.

 

Don Alfonso: Farò un salto a trovarti, perché ho preso a cuore la tua situazione. 

Conta su di me, vedrai, non sarai mai più solo.

 

Vittorio: Non dica così, la prego, ho già avuto abbastanza dispiaceri, fregature e ingiustizie, pure dai parenti. Non merito di essere preso ancora in giro.

 

Don Alfonso: Ma cosa dici, caro…?!

Dammi tranquillamente del tu, perché sono semplicemente un povero prete.

 

Invero, don Alfonso, che aveva parecchi fratelli perché sua madre era italiana, ma trasferitasi in Messico, godeva di uno stato economico vantaggioso, per nulla povero, come lui aveva fatto sempre intendere a tutte le anziane donne in preda all’efferato bisogno di considerazione e compagnia.

Per lunghi anni, prima che il destino lo rispedisse fuori dalla penisola italiana, aveva ingannato le persone, i frequentatori della chiesa e i saltuari visitatori, piangendo su di un’inesistente povertà familiare.

E i creduloni, lo avevano costantemente aiutato con regali, donazioni e riverenze, mossi dalla pietosa cattolica voglia di aiutare il prossimo.

Don Alfonso giunse alla casa di Vittorio che affettuosamente lo fece entrare, narrandogli la propria solitudine provata in conseguenza di una efferata discriminazione subita, a causa della sua innata omosessualità.

Il missionario non perse tempo, lo abbracciò sino a fargli sentire la calda intimità che stava affiorando tra i due. Vittorio, indebolito da attenzioni epidermiche che non lo facevano stare bene, non accettato e amato quale essere umano, piuttosto che preferito nei gusti sessuali, cedette alle avances.

Gli incontri si ripetettero, con regali, soldi e altre esternazioni affettive da parte di Vittorio, giacché il sacerdote era solamente un mercenario, finché un giorno accadde un episodio che fece letteralmente sbarrare gli occhi del cuore a Vittorio.

Venne la festa del paese e confabulando assieme per far cassa con le offerte per i poveri e la vendita di oggetti religiosi, i confratelli del pio uomo, don Alfonso, organizzarono una cena, ignorando speditamente Vittorio, grazie alla contagiosa superbia che li accompagnava nei loro pellegrinaggi e ritiri spirituali.

Ovviamente, il giovane, dotato di sincero altruismo e amore per i bisognosi, essendo perfino bello nell’anima, ma pure esteriormente, ci rimase malissimo.

Decise quindi di affrontare il sacerdote a viso aperto, ma dovette attendere il trascorrere di un intero anno, prima di far valere le proprie ragioni, perché il parroco, affermando di essere terribilmente impegnato con i suoi molteplici impegni di evangelizzazione, non poteva riceverlo.

Il fatto è che Vittorio, aveva intuito e realizzato con l’avanzare dei strani comportamenti del suo pseudo-amico e confessore, di essere stato usato, giammai compreso e amato, sebbene figlio di un unico Padre del cielo.

Stanco d’essere preso in giro, continuando a partecipare alle messe, nutrendo quel lato della preghiera autentica proferita con trasporto e sentimentalismo umano, incontrò don Alfonso in sagrestia.

 

Vittorio: Ti ho scritto dei messaggi, ma non mi hai risposto. C’è qualcosa che non va o che vorresti dirmi? Non ti piaccio più?

 

Don Alfonso: Guarda che ho da fare un sacco di cose e non posso stare dietro ai tuoi sbalzi d’umore. Buona vita!

 

Vittorio: Allora mi stai liquidando? Già… ho fatto bene a stare zitto, non credendo alle tue promesse da marinaio. Incredibile, non riesco a crederci!

 

Don Alfonso: Ma cosa vuoi da me? Chi ti ha chiesto niente? Scusa, devo celebrare un funerale. Ti saluto.

 

Vittorio: D’accordo Alfonso, perdonami se ti ho amato troppo e questo è stato il mio errore. Ci vediamo a messa, quando l’occasione lo consentirà. Buona giornata, don Alfonso.

 

Don Alfonso: Anche a lei !!!

 

I due si separarono, ma si incrociavano spesso in chiesa, durante le funzioni liturgiche e Vittorio proseguiva a testimoniare con costanza invidiabile il proprio credo, senza inviare alcun tipo di messaggio a colui che lo aveva incantato con ipocriti sorrisi e plagiato con squallide bugie.

Giunse un’improvvisa comunicazione ufficiale dal coadiutore del parroco, in merito alla scadenza dell’incarico in quella chiesa, annunciando la partenza di don Alfonso dal paese per ritornare nella sua Nazione, avendo ricevuto un ruolo più alto di quello che svolgeva lì.

Vittorio si sentiva poco bene, perché anche in assenza di rapporti epidermici con lui, non riusciva a odiarlo. 

Si doveva preparare una bella ricorrenza, per salutare don Alfonso con preziosi regali, una cena in suo onore e una meravigliosa torta.

Talmente abile, lui era riuscito a plagiare la folla di persone che riempivano la chiesa tutte le volte che saliva sull’altare per un motivo serio o uno più frivolo.

Vittorio sapeva che non ci sarebbe stato quel giorno, ma il dolore che lo ferì maggiormente, oltre la consapevolezza che la verità fosse emersa dopo tre anni circa, è il ritrovare don Alfonso all’ingresso della chiesa, mentre, con fare da attore di Hollywood, congedava coloro che gli si erano affezionati.

Gli sguardi dei due fecero scintille e dagli occhi di don Alfonso uscì una rabbia inveterata e compressa, similmente a quella di un diavolo colto in flagrante sul fatto.

Vittorio lo ignorò sino a quando, entrando in casa sua, poteva sentirsi al sicuro da una malignità inconcepibile. 

Si sedette subito, perché le gambe non lo reggevano in piedi e iniziò a sudar freddo, avendo compreso a fondo il gioco infido del prete che temeva una reazione inaspettata di rivalsa per ciò che aveva subito, sopportato e costretto a tenere celato agli altri missionari, non troppo differenti da chi sarebbe entrato nella storia come un ex parroco, parecchio in gamba e tenuto in alta considerazione dalla gente del paesello.

Fu esattamente la paura di don Alfonso a influenzare gli altri, studiando un pretesto credibile per far uscire definitivamente fuori dalla loro vita quel parrocchiano, divenuto un intralcio ai loro egoistici e ambiziosi piani.

Sapevano che qualora lo avessero fatto sentire una persona fastidiosa e inutile nel preparare l’altare che ogni mattina diligentemente Vittorio sistemava per i quattro missionari, egli, offeso per una osservazione spuria, avrebbe abbandonato l’impegno.

Lo caricavano ogni giorno di uno sbaglio ben congegnato, facendogli notare che il calice non era quello giusto, il libro sul pulpito era aperto su una pagina errata, le ostie mancavano dal tabernacolo e altro ancora.

Vittorio capii limpidamente che doveva lasciare la chiesa, in modo taciturno, senza reclamare nessun diritto. 

E così fece. Non lo si vide più seduto al primo banco situato a destra, accanto all’altare e quanti affermavano sulla Madonna e Gesù di volergli bene, non gli scrissero alcuna parola sul telefonino, chiedendogli dove fosse finito.

L’amarezza la serbò dentro di sé, recandosi ad ascoltare la messa in un’altra casa di Dio.

Stavolta, come uno spettatore, non prendendo confidenza con alcun sacerdote, perché il suo discernimento nel valutare persone e circostanze, era divenuto enorme.

Don Alfonso fu spedito in Messico, non volle mai più sapere di Vittorio, da lui reputato un giovane uomo dall’anima nera, a differenza della sua, che considerava linda e pura come quella di un bimbo!

 

(Nomi e fatti sono frutto di pura fantasia, ogni riferimento, è puramente casuale).

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La lattina

Stefano e Marco frequentavano il medesimo virtual place di scrittura, nutrendo considerazioni, spesso in antitesi tra loro.

Stefano amava davvero leggere e vivere le emozioni scaturite dalle parole, capaci di catapultarlo nella dimensione narrata, o semplicemente esternata, durante un confronto di pensieri con un internauta.

Lui rispettava le idee di tutti, ma specialmente innata era la capacità di saper donare attenzione a qualunque scrivente gli capitasse di incontrare, durante la navigazione nel web. 

Al di là del pannello elettronico, significava tanto porgere tempo adeguato a una pubblicazione, lasciando traccia del proprio passaggio.

Lo faceva, giammai per vantarsi, sfoderare un’intensa sensibilità particolare o una massiccia dose di cultura, bensì motivato dalla piacevolezza di uno scambio, che gli consentiva di riflettere e riversare sul prossimo il pathos di scribacchino, quale si definiva.

Una bella dose di umiltà lo contrassegnava, avendo appreso la saggezza che, nella vita, è impossibile sapere ogni cosa ed essere preparato su qualsivoglia argomento.

La gentilezza nel dedicarsi a un hobby, che nel lungo tempo era divenuto passione letteraria, non gli mancava certamente.

Marco, invece, interpretava il luogo di condivisione pubblica come un passatempo preferito, il quale, però, non doveva affaticargli la mente o sottrargli troppo tempo.

Era irrilevante, per lui, recensire un testo, perché la sua iscrizione, più datata rispetto a quella di Stefano, lo faceva sentire tranquillo, sotto ogni punto di vista, finché un giorno fu messo in crisi durante un dialogo che si trasformò in un diverbio assai significativo, sino a fargli capire lo sciocco antagonismo, perpetrato da un modesto poetuncolo.

 

Marco: Ehi, scusa, passa a mettere qualcosa a quello che ho scritto, grazie!

 

Stefano: Non so quante volte l’ho già fatto… Piuttosto tu, non ho mai visto apposta neanche una stellina che facesse salire in alto una mia opera. 

Se non ti piacciono, pazienza, ma non rispondermi ai commenti che ti ho spesso lasciato: grazie, con stima, amico vero, eccetera. Li reputo una presa in giro, dopo tanto tempo trascorso. Il mio è prezioso come il tuo, ma tento di usarlo bene, in ogni contesto. Perdonami, non ce la faccio a stimare chi si comporta come te. Grazie per l’attenzione e buon tutto!

 

Marco: Che cosa? Sei impazzito? Ma cosa pretendi? Guarda che io non sono obbligato a fare un bel niente e non ti devo dimostrare assolutamente niente. Se hai tempo da sprecare con queste cattiverie, lasciami in pace, perché ho battaglie più grosse da combattere. Hai capito???

 

Stefano: Accidenti! Non credevo che far notare a qualcuno l’ingratitudine morale verso una disponibilità data per scontata, solo perché è virtuale, significasse dire cattiverie. Ora comprendo come tu sia il più gettonato… Non fai niente, prendi e basta e te ne risenti per una spontanea e legittima opinione? 

Chi ti ha mai obbligato a lodare un lavoro pubblicato nello stesso sito? Non vedo neanche una faccia che mi faccia capire chi tu sia. Potresti perfettamente essere un gosht-writer o magari solamente uno che vuol far vedere agli amici degli amici quanto sia capace di arrivare in alto, perché è il migliore sulla piattaforma. Cosa ci stiamo a fare qui, se neanche parliamo del vuoto? Meno male che mi stimi, mi ammiri e mi reputi un amico…!

La verità è venuta a galla, inutile che ci giri attorno, mi hai esclusivamente sfruttato capendo quanto tenessi a divulgare la mia anima. Non ci si comporta così, ma non sarà più un mio problema. Ti saluto, per sempre.

 

Marco: Ma guarda un po’ questo qui…

Da dove sei uscito, dall’uovo di Pasqua? Guarda che soggiorno da parecchio tempo in questo sito e non ho mai avuto problemi con nessuno. Tu, invece, non sai relazionarti e aspetti pure che ti si dica grazie. Sono fatti miei quello che faccio e come uso il mio tempo. Sai a te, cosa non va?

 

Stefano: Che cosa?

 

Marco: Che entri a fare il professorino, facendo il ragazzo zuccheroso, pieno di sensibilità e benevolenza per tutti, quando poi, appena qualcuno ti dice che non vuole spendere una singola parola, ecco che la tua umiltà evapora in cielo.

Schiaffatelo bene in testa che sei solamente un recensore e ce ne sono parecchi, migliori di te.

Eppoi te lo sei scelto a pennello il nickname, Santo Stefano protomartire, ahahah, mi fai sbudellare dal ridere. Si vede che non hai capito niente dalla vita. E te lo ripeto un’ultima volta: non mi rompere più con le tue lezioni da saputello del web. Vivi la tua vita e vattene fuori da questo posto, perché la gente come te, non è gradita. Passo e chiudo!!!

 

Stefano: Hai ragione, non mi sarei dovuto permettere di dirti nulla. 

Forse, invece, mi sarei risparmiato di accorgermi di quanta amarezza regna in certe persone che vivono nel mondo reale. 

Ma l’hai espressa alla lettera.

Un ultimo appunto, per tua informazione: sono me stesso. Il nome l’ho ereditato dal mio bisnonno, mai usato uno d’arte.

Quando esegui login e logout, la faccia che vedi, è la mia, non è fittizia.

Sono dispiaciuto tantissimo ma imparo subito che è meglio così, appena il disinganno cerca di annebbiare il buonsenso. Nessun problema, non siamo bambini, le scelte vanno rispettate.

Buona fortuna, Marco.

 

Marco: Ancora rompi? Non mi devi più scrivere, hai capito? Se vuoi stare in pace, te ne devi sbattere i coglioni di quello che pensa la gente. Che cavolo ti importa se non passo a ricambiare quello che fai?! 

Tu fallo e basta. Vedrai come gli altri ti butteranno via come una lattina di Coca-Cola vuota, quando non gli servirai più.

Lo dico seriamente, per il tuo bene: è così che bisogna fare oggi, se vuoi dormire sereno.

Abbi pazienza e non venirmi a fare la predica, ho già i miei problemi fuori di qui. Stammi bene!

 

Stefano fece appello a tutte le energie psicofisiche, avendo realizzato che sarebbe stato vano replicare sui punti salienti del suo interlocutore, a cui aveva dispensato molte più che buone e candide parole, ma è risaputo che non sempre le migliori azioni e intenzioni di chiarimento, conducono a ottimi risultati, visto che uno ce n’era stato.

Proseguì a seguire il proprio talento nello scrivere e siccome faceva caldo, aprì il frigorifero e bevve una fresca lattina di Coca-Cola.

Pensando allo sconosciuto col quale si era poeticamente imbattuto, con grande gioia, la gettò vuota nel bidoncino posto in cucina.

Una gratificante consolazione, non assomigliare ai molti frequentatori del mondo virtuale, però con un duro prezzo da pagare, in solitudine.

Ma si sa, la solitudine non piange se stessa, è nata per concedersi agli altri.

 

 

(Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale).

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Un viaggio alquanto particolare

Venni contattato da un losco figuro, almeno questa fu la mia sensazione epidermica, a prima vista, per spostare delle grosse casse di legno dalla sua abitazione verso un luogo alquanto lugubre: una piccola casa immersa nei monti sperduti, a nord di Valmort, situata nei pressi di un cimitero.

Rimasi un po’ perplesso, non capendo il perché di quel trasferimento che sembrava essere stato organizzato in fretta e furia.

Alla fine, ci mettemmo d’accordo sul prezzo e mi organizzai alla meglio, per soddisfare le richieste del cliente.

Durante il trasporto, verso quella amena località di destinazione, cominciarono ad affiorarmi alla mente alcuni fatti di cronaca nera, accaduti negli ultimi mesi: la sparizione nel nulla di parecchie persone che, gli inquirenti dell’epoca, supponevano fosse opera di un possibile serial killer, definito dagli stessi come “The Ghost”.

Non so perché, ma il cuore per un attimo mi sobbalzò nel petto, mentre la mente mi invitava a dare una sbirciatina all’interno di quelle casse, peraltro alquanto strane, nella forma.

Il cervello continuava ad arrovellarsi senza tregua e una sorta di tensione emotiva stava prendendo il sopravvento.

La strada verso Valmort era una di quelle più impervie dell’intera zona.

Il piccolo paese si trovava arroccato in cima ad un monte, a circa 1.200 metri di altitudine.

I continui tornanti e le pessime condizioni dell’asfalto, ormai da tempo lasciato senza manutenzione, non rendevano agevole il trasporto.

Ad ogni buca, pregavo di arrivare al più presto, sperando che le gomme del furgone reggessero bene tutto il peso che stavo trasportando.

Pensavo - tra me e me - di fregarmene altamente di questa consegna: era un lavoro ben pagato e tutto sarebbe finito, una volta arrivato a destinazione.

Sulla bolla di accompagnamento, la merce veniva definita come “materiale inerte” che, a detta del committente, doveva essere utilizzato per la costruzione della sua nuova casa.

Ma qualcosa continuava a non convincermi: perché proprio io? Perché non affidarsi a qualcuno del settore? Io, in genere, mi occupavo di piccoli trasporti, qualche trasloco, svuotamento di cantine, eccetera.

Troppe domande, ma nessuna plausibile risposta. Un vero tormento!

Lentamente, si stava avvicinando la sera e mancavano ancora molte ore, prima di giungere a destinazione.

Una flebile luce in lontananza stava a indicare la presenza di un piccolo posto di ristoro, dotato di stanze ove poter passare la notte in tutta tranquillità.

La decisione fu la più ovvia: decisi di fermarmi per mangiare un boccone e riposare qualche ora, in modo da poter ripartire alle prime luci dell’alba.

L’ostello non era un granché, ma il sorriso e la gentile accoglienza ricevuta dalla locandiera erano riusciti, per un attimo, a tranquillizzarmi, soprattutto quella zuppa di funghi che mi riportò ai ricordi dell’infanzia.

Una buona pinta di birra e un caffè turco, completarono la frugale cena.

Fu allora che decisi di andare a fare quattro passi, per smaltire il tutto, prima di un buon sonno ristoratore.

Mentre camminavo, passando vicino al mio furgone, vidi un grosso corvo nero che si era appoggiato su una delle casse che stavo trasportando, gracchiando in continuazione.

Un brutto presagio - pensai.

Tentavo di scacciare quel brutto corvo nero che si era posizionato su una delle casse che stavo trasportando a Valmort.

Nulla da fare: incurante dei miei gesti, persisteva nel suo gracchiare insistente, colpendo, col becco, quel contenitore di legno e metallo, sul quale si era appollaiato.

Trovai una scopa nei paraggi, la afferrai e cominciai ad agitarla, in direzione del volatile: finalmente, preso dallo spavento, il corvo volò via, rimanendo sempre nei pressi, ma a debita distanza.

Quel brutto presagio continuava a tormentarmi la mente, già abbastanza provata dal viaggio, ma mi feci forza e decisi di dare un’occhiata al contenuto di quella cassa, oggetto di continue attenzioni da parte dell’uccellaccio.

Presi la cassetta degli attrezzi, alla ricerca di un piede di porco, salii sul furgone e mi misi all’opera, facendo leva sul coperchio superiore dell’oggetto incriminato.

Maledizione, pensai, non ho mai visto una chiusura così solida! Segno evidente che chi l’aveva sigillata voleva evitare che qualcuno la aprisse con grande facilità.

Il sudore mi grondava dalla fronte, ma dovevo farcela, perché, a questo punto, era necessario togliersi ogni dubbio, prima di essere coinvolto in qualcosa di losco.

Dopo vari tentativi, riuscii a sollevare il coperchio: era pesantissimo!

Un tanfo irrespirabile fuoriusciva dalla cassa, che, apparentemente conteneva materiali inerti, quelli che solitamente vengono utilizzati nel settore edile, per la costruzione di immobili.

Non soddisfatto di quanto appena visto, cominciai a rovistare tra quei detriti.

Non ci volle molto tempo per arrivare alla macabra scoperta: resti di ossa spuntavano qua e là, alcune ancora ricoperte di tessuto epiteliale.

Una sorta di malessere si stava impossessando di me, la testa girava all’impazzata, un senso di svenimento stava per prendere il sopravvento.

No, ripetevo a voce alta, devo farmi forza e non fermarmi, devo cercare subito qualcuno e dare l’allarme.

Chiusi il “sarcofago” come meglio potevo e corsi subito verso la locanda, dove mi accolse il sorriso della titolare: - “Cosa le è successo?” - mi chiese - vedendo la mia espressione del viso alquanto turbata.

Presto, le dissi, mi può indicare dove posso trovare un telefono?

“Mi spiace - rispose la locandiera - ma un guasto tecnico dovuto al forte maltempo delle scorse settimane, ha reso le linee inutilizzabili. Purtroppo, siamo sperduti in mezzo ai monti e prima che vengano a riparare il collegamento, dovrà ancora passare qualche giorno, se non addirittura, settimane”.

Mi arresi, stanco della giornata trascorsa, ma soprattutto terrorizzato per la spaventosa sorpresa.

Salii in camera, mi buttai sul letto, tentando di addormentarmi. L’indomani avrei affrontato la situazione: qualcosa mi sarebbe venuto in mente, pensai.

La notte trascorse in un baleno, la stanchezza aveva preso il sopravvento sui pensieri, anche se il cervello non aveva mai smesso di funzionare.

Mi svegliai di buon mattino, presi carta e penna, buttai giù poche righe, le misi in una busta chiusa, con la seguente dicitura: “da aprirsi tra due giorni a partire da oggi”.

Uscii dalla stanza e mi recai a fare una bella colazione abbondante e ristoratrice.

Poi mi recai dalla locandiera, pagai il conto e le consegnai la lettera, con la raccomandazione di attenersi alle istruzioni in essa contenute, una volta aperta.

La salutai e lei mi rispose con un sorriso rincuorante, salii sul furgone e ripresi il viaggio verso la mia destinazione.

Il tempo sembrò trascorrere più velocemente del solito.

Ero alla guida già da un paio d’ore e sullo sfondo riuscivo a intravedere le sagome di alcune piccole casupole, arroccate sulla cima del monte: su tutte svettava il campanile di una minuscola chiesetta, al cui fianco si trovava il locale cimitero.

A proposito, qual era l’indirizzo esatto? Che sbadato - mi dissi - basta guardare la bolla di consegna!

Ecco qua: Viale delle Ombre, al numero 17.

In un battibaleno giunsi a Valmort, senza sapere ancora esattamente cosa fare, ma, soprattutto, come comportarmi.

Mentre mi apprestavo a parcheggiare il furgone, vidi una figura da lontano che usciva in fretta e furia dal locale cimitero, tutta vestita di nero, da capo a piedi.

Si stava avvicinando, venendomi incontro, con fare alquanto sospetto!

Chi sarà mai?

Mi ero fermato al numero 17 di Viale delle Ombre.

La casa di fronte a me aveva un non so che di lugubre, tutta dipinta di un grigio talmente scuro che si faceva fatica a distinguerne il profilo e gli infissi.

La nera figura, uscita dal cimitero, si stava avvicinando a me: indossava una lunga tunica nera e il volto era coperto da un velo che lasciava apparire solamente gli occhi, anch’essi di un colore nero corvino.

“È lei, Başmelek Galanturk?” - pronunciò con voce roca, alquanto gracchiante.

Mi fece tornare alla mente quel brutto corvaccio nero che si era posato con insistenza su una delle casse che stavo trasportando: un altro presagio di sventura?

“Sono io”, risposi con tono tranquillo, senza cercare di lasciar trasparire tutta la mia inquietudine.

“Furkan, signore di Valmort, la sta aspettando. Mi segua, ma mi raccomando, è una persona molto suscettibile, veda di ascoltare e parlare solo se richiesto”.

Furkan di Valmort era il destinatario del carico. Non lo avevo mai conosciuto prima: i contatti per la spedizione erano avvenuti per il tramite di un suo emissario di fiducia, con cui alla fine avevo preso accordi per la consegna, dietro versamento di un congruo anticipo.

La nera figura mi fece entrare nell’ingresso dell’abitazione, la luce naturale penetrava a fatica, quasi soffusa, e le stanze apparivano perlopiù illuminate da un gran numero di candele nere, sparse un po’ ovunque.

“Il mio signore la attende in salotto, entri pure nella prima stanza a sinistra, seguendo il corridoio di destra, prima delle scale”, mi disse con voce sempre più fosca.

Ma non può accompagnarmi lei - dissi con tono insistente - con tutte quelle stanze, rischio di perdermi, data la scarsa illuminazione.

“Non mi è concesso - fu la risposta - ma posso solo dirle di sbrigarsi, perché il mio signore si sta spazientendo!”.

Non battei ciglio, presi coraggio e mi diressi verso il salotto. Il cuore batteva all’impazzata, ma la posta in gioco era altissima: dovevo capire a fondo il mistero che ci stava dietro, incassare la somma pattuita, dopodiché agire di conseguenza.

Arrivai alla porta, era socchiusa ma bussai ugualmente: “Venite, Başmelek!” - udii, con tono alquanto perentorio.

Entrai lentamente, la stanza aveva una forma circolare e al centro della stessa era posizionato un braciere acceso. Alle pareti parecchi ritratti che a malapena riuscivo a mettere a fuoco, tanto erano anneriti dal fumo circostante.

Dietro al braciere, appollaiato su una sorta di sedia in legno di ebano, dallo schienale altissimo, si trovava lui, Furkan di Valmort.

Facevo fatica a scorgere il viso, sul cui capo era appoggiato un fez di color rosso porpora. Indossava anch’egli una tunica nera con bordature e ricami in tessuto dorato. Doveva essere alquanto piccolo di statura, ma tutto era, fuorché minuto nel fisico.

“Si segga sullo scranno, di fronte a me - mi disse - le devo fare una domanda, ma ci pensi bene, prima di rispondere”.

Il tono minaccioso mi aveva intimorito, tant’è che riuscii ad abbozzare una risposta, con un filo di voce: “M...mi dica”, pronunciai, balbettando.

“Come mai il coperchio di una delle casse è stato manomesso?”.

Stavo pensando quale tipo di risposta convincente dare, quando sentii una forte botta: la vista mi si annebbiò e persi i sensi.

Non mi resi conto di quanto tempo fosse passato.

La testa mi sembrava volesse scoppiare da un momento all’altro, quasi mi fosse caduto addosso un carico da cento.

Aprii lentamente gli occhi ma la vista appariva alquanto annebbiata.

Sentii un forte odore di incenso e zolfo e un senso di nausea mi assalì rapidamente.

Mi trovavo sdraiato su qualcosa di estremamente freddo e tentai di alzarmi, ma non c’era nulla da fare: ero legato dalla testa ai piedi e un bavaglio mi impediva di urlare a squarciagola.

“Benvenuto tra noi, Başmelek Galanturk”.

- C...chi siete?, riuscii a biascicare, balbettando, nonostante la museruola.

Una figura femminile, alquanto esile, si avvicinò a me mi tolse quel pezzo di stoffa che mi impediva anche di respirare.

Era tutta vestita di rosso, ma di un colore così intenso che quasi infastidiva la vista al solo guardarlo.

“È inutile che provi a urlare” - mi disse con una vocina non per nulla rassicurante, anzi, alquanto imperiosa.

“Qui non ti sentirà nessuno, a meno che non venga dal paese” - continuò.

- Chi siete e cosa volete da me? Sono venuto qui per effettuare la consegna di un carico destinato a Furkan di Valmort, secondo gli accordi presi in città.

“Però nessuno le aveva chiesto di sbirciare quale fosse il contenuto delle casse! Non avrebbe dovuto, ora sa troppe cose e non possiamo permetterci che altri ne vengano a conoscenza”.

- Non volevo, provai a dire, ma un grosso corvo nero continuava con insistenza a picchiettare col becco quella cassa maledetta... pensavo ci fosse entrato qualcosa di deperibile.

“Ahahah, non v’è nulla di più deperibile di quanto ha trovato, nevvero?” - urlò sogghignando. Un sorriso che faceva accapponare la pelle.

Stavo per rispondere, quando lei mi mise una mano sulla bocca: “Silenzio, sta per arrivare il Signore di Valmort, il nostro gran Maestro!”.

La porta si aprì e apparvero altre due figure femminili, sempre vestite di rosso, con in mano dei candelieri. Su entrambi erano impilate sette candele nere, con una fiamma altissima di colore rosso acceso.

Dietro le due vestali si intravedeva la piccola e tozza figura di Furkan che avanzava lentamente verso il centro della stanza, con passo incerto.

Indossava anch’egli una tunica tutta rossa, adornata da ricami dorati che formavano delle strane figure e simboli che non avevo mai visto in alcun luogo.

Alle sue spalle, due loschi individui, vestiti di nero che pronunciavano strane parole.

Era una sorta di cantilena, composta da frasi ripetute in continuazione:

- Kau ia ik te ar chrisalka.

- Kau ia ik te ar piria.

- Kau ia ik te ar petumari.

- Per il tramite di questo seme, rifiorirai.

- Saka bashmata.

- Saka farua.

- Saka tupemari.

- Così ti arricchirai.

Cosa stava per succedere? - mi chiesi, cercando di non pensare al peggio.

Forse è solo un sogno o un brutto scherzo del destino!

Il Gran Maestro si stava avvicinando e una delle vestali gli porse un lungo coltello, uno di quelli utilizzati in strani rituali, visti solo al cinema.

Mi sentii perduto, ormai non avevo alcuna speranza di uscire vivo da quella situazione: “maledetto il giorno che mi sono lasciato coinvolgere e accettare questo lavoro” - pensai.

Chiusi gli occhi, cercando di non guardare quello che stava accadendo intorno a me.

Non riuscivo neppure a pregare, a cosa sarebbe servito?

L’unica cosa che riuscii a sentire era un forte rumore in sottofondo: qualcuno stava sfondando la porta d’ingresso. Uno scalpitio di passi e un rincorrersi di voci, urla e grida, mi fece ben sperare che qualcosa di positivo stesse per accadere

“Fermi tutti!” - qualcuno urlò - “Polizia! Tutti con le mani sopra la testa!”.

Non ci potevo credere, qualche santo era intervenuto in mio aiuto.

Un uomo in divisa mi si avvicinò e con voce pacata mi disse: “Non si preoccupi, è tutto finito, ora la slego e presto potrà tornare alla normalità”.

Mi rincuorai, anche se non riuscivo a spiegarmi come potessero essere arrivati sin lì, dato che non avevo avuto modo di dare l’allarme, a causa del guasto sulle linee telefoniche.

Uscii lentamente dalla casa, accompagnato dal poliziotto. Fuori vi erano delle persone, attirate dal trambusto che si era venuto a creare.

Tra di esse, riuscii a scorgere una figura femminile che mi sembrava di aver già incontrato da qualche parte.

Ma certo - pensai - era la locandiera!

Mi tornò alla mente il fatto di averle lasciato un biglietto chiuso in una busta, che lei avrebbe dovuto aprire, trascorsi due giorni dalla mia partenza.

Ma, come ebbi modo di sapere più tardi, la brava donna, visto il mio stato di agitazione, non ci pensò su due volte: aprì la busta, lesse il contenuto, mandò suo figlio in città a dare l’allarme e mi seguì di nascosto per tutto il mio viaggio sino a Valmort.

Lì attese che il figlio tornasse, accompagnato dalla polizia, alla quale lei stessa diede le indicazioni sul luogo ove mi ero recato e dal quale non avrei potuto più fare ritorno.

Nei giorni successivi, scoprii che il Gran Maestro non aveva nulla a che vedere con il serial killer, noto come “The Ghost”.

Il mio carico di materiale inerte sarebbe servito proprio ad ampliare le proprietà di Furkan e il desiderio di grandezza maniacale della sua setta.

I resti di ossa appartenevano ad un povero animale, finito chissà come in mezzo a quei detriti.

Io mi presi una bella vacanza, immaginate dove?

Nella locanda della mia salvatrice, una donna alquanto affascinante che scoprii essere rimasta vedova da qualche anno e che provava molta simpatia nei miei riguardi... chissà!

A proposito, si chiamava Kurtuluş, che, in turco, significa proprio “salvezza”: fatalità? Chi può dirlo?

 

- Crema, agosto 2020 -

*

La regina del web

Scrittura creativa dal sito Oggiscrivo (Luglio 2015).

INCIPIT: Scrivi una storia che inizi così: "Fissava il foglio bianco dinanzi a sé , mentre, veloci, i pensieri ballavano nella sua testa. Vedeva le immagini prendere corpo per poi, come d’incanto, svanire in un momento, in un battito di ciglia. Il tempo passava, ma niente, nulla, non un solo pensiero si era chiarificato, strabuzzava gli occhi cercando di vedere oltre la fitta nebbia in cui era avvolta la sua mente. Vuoto. Stava per chiudere tutto, andare via, si era fatto tardi e cominciava a sentire i morsi della fame. Non aveva pranzato e, ormai, doveva essere ora di cena. Stanca e avvilita, si accingeva a spegnere il computer quando vide una figura venire verso di lei. Si materializzava ad ogni passo, testa alta e espressione fiera “Io sono Claudia” disse “mi stavi aspettando”

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Fissava il foglio bianco dinanzi a sé, mentre, veloci, i pensieri ballavano nella sua testa. Vedeva le immagini prendere corpo per poi, come d’incanto, svanire in un momento, in un battito di ciglia. Il tempo passava, ma niente, nulla, non un solo pensiero si era chiarificato, strabuzzava gli occhi cercando di vedere oltre la fitta nebbia in cui era avvolta la sua mente. Vuoto.

Stava per chiudere tutto, andare via, si era fatto tardi e cominciava a sentire i morsi della fame. Non aveva pranzato e, ormai, doveva essere ora di cena. Stanca e avvilita, si accingeva a spegnere il computer quando vide una figura venire verso di lei. Si materializzava ad ogni passo, testa alta e espressione fiera “Io sono Claudia” disse “mi stavi aspettando”.

Le persone leggono, ma, ahimè, interpretano solo quella parte che intendono vedere. come faceva a saperlo, pensavo io! Io che avevo passato ore ed ore dinanzi al mio computer tentando di scrivere una favola da raccontare ai miei bambini, per conciliare loro il sonno. “So che stai cercando la giusta ispirazione ed io, regina del web, te ne voglio regalare una, ma una soltanto!

Inizia, più o meno, così: in un luogo, solo alla mente conosciuto, dimorava quell’innato capriccio. Era stato educato, sin dalla tenera età, a restare sottomesso. Lui, però, proprio non ne voleva sapere di rimanere lì, fermo ed immobile, confinato tra pensieri inconfessati, ansioso com’era di stuzzicare l’anima a chi l’avesse compreso ed accolto in mezzo ai desideri altrui. Sempre vitale e tempestivo, doveva attendere che a qualcheduno, magari ad un goloso ragazzo, venisse lo sfizio di mangiare un gelato prima del pranzo, per fargli ottenere subito ciò che desiderava.

Oppure, se una frivola donna sognasse di comprare un paio di scarpe nuove, benché ne avesse già molte, per essere chiamata in fretta e furia ad uscire con le amiche, eccolo pronto a sfogare il solito repertorio: viso imbronciato, brontolii, scatti d’ira, insoddisfazione frequente e, nei casi più disperati, frustrazione mal celata. Una ricetta ben servita per raggiungere lo scopo prefissato: l’appagamento solerte del bisogno.

Non era una bella vita, il restare sospeso tra il forse, il ma, il se, con la costante incertezza nel volere, per forza, soddisfare un’esigenza, a volte non indispensabile se paragonata al tenore di vita già goduto in virtù d’una buona sorte ricevuta. Insomma, diciamo la verità, il fatto che fosse un umano capriccio, l’ambizione e l’immagine imposte dalla società, lo infastidivano, solleticando in lui l’orgoglio di manifestare la propria esistenza ma, in maniera particolare, quel potere che invidiava a chi poteva sfogare capricci assai più costosi. Soprattutto, era scocciato dalle persone semplici e modeste, abituate, da sempre, ad accontentarsi del poco che avevano ricevuto dalla vita. Ma lui, il capriccio, lavorava alacremente, giorno e notte, per realizzare propositi sempre più grandi, ancorché ingestibili dal cuore.

Conosceva ogni abitante di paesi, città e metropoli, perché, presto o tardi, sapeva che tutti avrebbero avuto la necessità di informarlo e di usarlo per un comodo proprio. Il capriccio s’adoperò nel voler diventare una “guest star” a livello mondiale: preparò la valigia delle occasioni inaspettate, aggiungendovi l’esperienza che s’era fatto coi suoi giri tra le vetrine dei più disparati negozi, allestite di tentazioni sciocche e gustose, oltre che, economicamente, non a buon mercato. Viaggiava sul web, alla velocità di un milione di terabyte, per arrivare nei sogni e nei pensieri di ognuno, soffermandosi sugli sguardi della gente, in modo telegrafico e telepatico. Non risparmiava nessuno, neppure i più piccoli.

Un giorno si imbatté in un fanciullo che voleva, a tutti i costi, lo zucchero filato, quando il padre lo aveva già quasi convinto a rinunciare, ricordandogli il forte mal di pancia della sera prima. Il bimbo iniziò subito a strillare, ma così forte, che le rosse guance rischiavano di prendere fuoco. “Però, che risultato!”, esclamò soddisfatto il capriccio, mentre, silente, albergava nei dintorni della scena per punzecchiare qualche altro allocco. E fu in quell’occasione che, incantato, rimase a guardare una bellissima giostra di cavalli bianchi, sentendo una ragazzina dai capelli rossi brontolare con la mamma perché voleva fare un altro giro.

Ecco allora che il capriccio la raggiunse in un battito d’ali e, siccome la ragazzina, che era grandicella ed anche un po’ superba per mettersi a piangere, cominciò a pestare i piedi, finché le fecero male. “Perbacco, anche questa volta è andata alla grande!”, pensò il capriccio. Andò così per tutto il giorno e per i tanti giorni a seguire. Lui si prestò ai problemi più disparati degli uomini, creando nuove vicende, ancora più complesse di un semplice ed apparente tarlo che rode nella testa. Divenne così famoso, da non avere più un minuto libero, né di giorno né di notte: insomma, un’eterna occupazione mai toccata dalla crisi.

Anni passarono ed un giorno il capriccio sbarcò per la prima volta in un piccolo villaggio dell’Africa centrale, dove la miseria e la fame la facevano da padroni e l’unica ricchezza o fortuna, che dir si voglia, era quella di non morire entro sera, per fame o per sete. Il capo di quel villaggio, peraltro giovane, dato l’elevato tasso di mortalità, non conosceva il significato della parola “capriccio” e lo sfidò con una richiesta alquanto semplice. “Se ogni giorno fornirai al nostro villaggio l’acqua necessaria ai bisogni essenziali, avrai tanti di quei capricci cui dare retta nei secoli a venire”. Lui, il capriccio, tanto osannato in tutto l’universo, si lasciò sopraffare dalla ragione, impossibilitato ad esaudire un desiderio di tale portata.

E fu così che, con la coda tra le gambe, ritornò sui suoi passi, meno tronfio di prima, pensando: “non v’è spazio, qui, per me! Tutti, grandi e piccini, avrebbero bisogno di un piccolo capriccio, ogni tanto …  ma è l’essenziale quello che conta!”. “Ti è piaciuta?”, mi chiese Claudia. Non feci in tempo, stanca come ero, ad imbastire una risposta. Alzai lo sguardo solo per scoprire che, così come era apparsa, la regina del web si era già volatilizzata. Al suo posto, notai che il computer era rimasto acceso e la bianca pagina di word si era, come per magia, riempita di parole. Era la sua favola! Accesi la stampante in tutta fretta, lanciai il comando “print” ed i fogli uscirono in tempo record, ben impaginati. Li raccolsi e raggiunsi in men che non si dica la stanza dei miei figli: “devo raccontarvi una bellissima storia”, dissi loro.

E la notte si riempì di meravigliose e luminose stelle!

*

Il cielo si infuria

Per spezzare la monotonia di un'esistenza che diveniva fievole, giorno dopo giorno, la piccola e radiosa Astra, una stellina facente parte della costellazione di Orione, decise di staccarsi dalle sue lucenti amiche, iniziando a vagare per l'universo a lei sconosciuto, alla ricerca di nuove esperienze. Non ne poteva più delle altre stelle che aveva attorno a sè.

Ultimamente, infatti, erano divenute alquanto noiose e vanesie, trascorrendo tutto il loro tempo libero a prepararsi, quasi dovessero partecipare ad una sfilata di moda: si imbellettavano, si pettinavano e si lustravano con tale dovizia, per poter sembrare, nel buio della profonda notte, sempre più appariscenti.

Vi era poi chi non trovava più il suo nastro per capelli, chi invece si mostrava eccessivamente preoccupata dopo aver notato una ben visibile piega sul proprio abitino e chi, infine, urlava perchè aveva terminata la sua polvere d’oro e non poteva più lustrarsi il pallido visino.

Insomma, per Astra, sempre più scocciata da pizzi e merletti, l'esistenza delle amiche era divenuta un vero strazio: proprio a lei, che amava così tanto giocare a palla, rincorrere le comete per aggrapparsi alla scia della loro coda e farsi scaraventare in qualche angolo remoto del firmamento, per renderlo un po' più variegato.

E fu così che iniziò a girovagare in lungo ed in largo, in ogni spazio siderale circostante, sino ad allontanarsi sempre più dal luogo di partenza, sino a smarrire l'orientamento. Non riuscendo più a capire dove si trovasse, notò, non poco distante, un enorme tappeto dal colore blu intenso che, dolcemente, sembrava dondolare su se stesso. Pensando fosse il cielo dal quale era provenuta, vi si buttò dentro a capofitto.

Quando si accorse d’essersi sbagliata, spaventata, si mise ad urlare e chiese:

- Ma tu, chi sei?.

Una voce molto dolce e rincuorante, rispose:

- Mia piccola stella, io sono il mare. Non devi temere nulla, ti voglio solo cullare.

Astra imparò a nuotare e, col tempo, divenne talmente brava da fare invidia a tutti: ma lei non se ne curava, anzi, si divertiva moltissimo. Si fece anche tanti nuovi amici: pesciolini, polipetti e cavallucci marini giocavano con lei, a nascondino, tra salmastre rocce e coloratissimi coralli.

Finalmente non doveva perdere il suo tempo per lustrarsi e lucidarsi. Settimane erano passate, quando il cielo finalmente si accorse di aver perduto una stellina. Andò su tutte le furie e decise di scatenare un temporale violento ed inaspettato, lanciando saette e fulmini sul placido mare. Dal forte spavento, il mare si increspò sempre più, fino a quando le sue onde, ancora più alte, arrivarono quasi a toccare il cielo. Era una burrasca mai vista prima! Ora, pure il mare era arrabbiato ed i suoi frangenti spazzarono via ogni cosa.

Dopo una furiosa lotta, durata diverse settimane, entrambi i contendenti si acquietarono. Vedendo le loro creature, le stelle, i pesci, i polipetti ed i cavallucci marini tanto tristi, decisero di darsi delle regole. Il cielo disse che avrebbe lasciato scivolare nel mare le sue stelle più piccole, allegre e vivaci, mentre il mare, per tutta risposta, disse che avrebbe permesso al cielo di chinarsi, sino a specchiarsi nelle sue acque.

E fu così che, da quell'accordo, nacquero le stelle marine e da allora il cielo ed il mare possiedono lo stesso, bellissimo, colore blu cobalto.

*

Le ali di un angelo

Leon era un angelo stupendo, dai capelli lucidi e neri, occhi brillanti, color verde smeraldo, sempre vispi e penetranti. Aveva guance pienotte che, quando sorrideva, formavano due piccole fossette. Da quando la Suprema Commissione Celeste gli aveva affidato il compito di sorvegliare un birbantello che abitava nel borgo di una grande città, Leon era contento ma, soprattutto, molto meticoloso nei suoi interventi. Ovunque andasse quel ragazzino, battezzato col nome di Andrea, non lo perdeva d’occhio, neppure per un istante. Su e giù per i pendii di una collinetta dietro casa e poi più giù, sino al fiumiciattolo, con la bicicletta senza freni ed infine un bagno nell’acqua gelida, ove la corrente tirava molto forte. Eh sì, amava le pericolose sfide, il discolo.

Con santa pazienza ed innata abilità, Leon si era adeguato a quella vita movimentata anche se, a volte, si inteneriva da morire non appena vedeva fiottare sangue dalle ginocchia di Andrea, quando questi, incoscientemente, ruzzolava a terra con violenza. Ma la sua bellissima aureola si illuminava tutta quando Andrea arrossiva nel dare un bacio all’amica del cuore, oppure nel momento in cui la madre lo rimproverava e a lui, così temerario, la voce iniziava a tremare.

Giunta la sera, il piccolo protetto si addormentava e, finalmente, Leon preparava la sua nuvoletta, proprio lì, accanto al suo letto, vicino vicino, sospirando: “O Signore mio, ti ringrazio perché un’altra giornata è finita”; subito dopo, sprofondava in un sonno profondo e beato. Contagiato dall’eccessivo zelo, a Leon iniziò a frullare in testa un’idea, forse un po’ bizzarra. Pensava che avrebbe seguito meglio il piccolo nelle sue scorribande quotidiane, se solo avesse potuto ricevere una mano dalla tecnologia più avanzata.

Più volte aveva avuto l’occasione di vedere all’opera le cosiddette magie moderne, osservando, durante il suo temporaneo soggiorno in cielo, macchinine che facevano corse ed eccezionali volteggi, frullatori che schiacciavano, sminuzzavano, trituravano e, una volta, persino un buffissimo robot che portava il cappuccino al proprio padrone. Beh, insomma, a dirla tutta, lo aveva invidiato un pochino.

Da qualche tempo cominciava a credere che, se invece delle sue ali avesse avuto, per esempio, un’elica, sarebbe realmente andato forte, migliorando le proprie prestazioni. Per giorni continuò a rimuginare su quell’idea ed il fatto di non poterla realizzare in tempi brevi lo aveva rattristato non poco, facendo scomparire le fossette dalle sue guance. Una mattina come tante, si risvegliò sulla sua nuvoletta e, stiracchiandosi, avvertì qualcosa di strano ed inspiegabile. “Non è possibile!” esclamò guardandosi allo specchio. Non riusciva a credere ai propri occhi: le sue piccole ali erano sparite ed al loro posto era comparsa una bella e grande elica di colore bluastro. Intorno al collo, vi era appesa una piccola scatoletta, laminata d’argento, dotata di comandi e pulsanti vari sul lato anteriore e di un vano posteriore contenente quattro nano batterie.

Più in là, appoggiato sulla sua nuvoletta, c’era un piccolo manuale di istruzioni; ma l’eccitazione era ormai al settimo cielo e Leon non si preoccupò di leggerlo. Lui si sentiva già preparato per la fase di rodaggio e, poi, cosa poteva succedere di così pericoloso premendo il tasto “start”? L’elica si mise a roteare velocemente, troppo velocemente: “Ahi!”, urlò Leon, andando a sbattere contro la parete della stanza, consapevole di non aver regolato adeguatamente la potenza del motore. Fece allora numerose prove per poter prendere dimestichezza col nuovo strumento di volo e dopo qualche ora si sentiva pronto.

Era entusiasmante riuscire a spostarsi in maniera così celere e chissà gli altri angeli come lo avrebbero invidiato! Cominciò a volteggiare, fluttuare nell’aria, prendendo delle rincorse pazzesche: insomma, era tutto davvero eccezionale e lui si sentiva immensamente contento, nel poterlo fare. Un pomeriggio, Andrea prese la bicicletta senza freni: c’era un’importante gara sulla collina, al solito posto di ritrovo stabilito. Una volta l’anno, i ragazzi del quartiere disputavano una gara di bici cross ed il vincitore sarebbe diventato il capo: una carica molto ambita che sarebbe durata fino alla competizione successiva.

Il bimbo era prontissimo, si sentiva ben allenato, grintoso e, in cuor suo, certo della vittoria. Ricevuto il via, Andrea si lanciò a capofitto lungo il percorso studiato da mesi ma, purtroppo, un grosso sasso gli fece perdere l’equilibrio. Ecco che Leon entrò in azione, sospingendolo da una parte e poi dall’altra, nel tentativo di rimetterlo in pista. E quando c’era quasi riuscito, la sua elica cominciò dapprima a fare uno strano rumore e poi si fermò ed il bimbo cadde a terra, rovinosamente. “Che succede? No, non è possibile proprio adesso”, disse Leon, incredulo. Una spia rossa si era accesa sulla piccola scatoletta appesa al collo: le batterie erano completamente scariche! Inutile e semplicemente naturale immaginare la rabbia, lo sconforto e la delusione dell’angelo, mentre il suo piccolo pupillo, tra urla e lacrime, cercava di sfuggire alle medicazioni di chi era accorso in suo aiuto. “Non desidero più fare il protettore celeste, non ne sono capace”, pensò il buon angioletto quella tarda sera, poco prima di addormentarsi, meditando di inviare una lettera di dimissioni alla Suprema Commissione Celeste.

Il mattino dopo, Leon stava apprestandosi a mettere la sua nuvoletta nella valigia celeste per andarsene quando si accorse, con grande stupore, di avere ancora le sue splendide ali: l’elica era sparita del tutto. “Urrà, urrà!” urlò e corse subito a cercare il suo piccolo amico, con il fermo proposito di sorvegliarlo per sempre. “La tecnologia non fa per me”, pensò sorridendo: “meglio sudare un po’ di più e confidare nei propri mezzi piuttosto che cercare scorciatoie che poi è difficile controllare!”.

Spiegò le ali, sembravano più grandi del solito: un’altra dura giornata stava per iniziare!

*

La scelta

Indossava un nuovo abito, quel lungo vialetto che conduceva alla casa di Clara. Un tappeto di foglie rossastre pareva lo strascico di un autunno giunto precocemente, rispetto agli altri anni. L’apertura della scuola aveva appena battezzato l’inizio del mese di Settembre, che si avvertiva quasi trasformato, facendo respirare un’aria assai fresca, baciata, ogni tanto, da un pallidissimo sole. L’atmosfera era davvero insolita, perché la calura estiva, senza remore né avvisi, ormai era un lontano ricordo. Le stagioni ed il loro intermezzo non esistevano più, e Franco lo aveva notato da subito, mentre calpestava frettolosamente il piccolo viale che lo avrebbe condotto a destinazione. Sentiva il rumore dei suoi passi schiacciare il secco fogliame che incontrava nel cammino e, dentro di sé, pensava:

- Sono trascorsi tanti anni. Chissà se si ricorderà ancora di me? E se non lo facesse? Che scusa dovrò inventare, per farmi perdonare?

Eh si, proprio l’incertezza di non essere bene accolto, lentamente si affacciava alla sua mente. Cosicché, in preda a titubanti pensieri, che in un battere di ciglia divenivano crescente timore, arrestò il passo, sino a fermarsi. Si voltò, con l’intento di tornare indietro, ma, dopo aver proseguito un altro poco, si fermò nuovamente, per riflettere.

- Non posso non dirle la verità! Clara non lo merita proprio: deve sapere il perché l’ho lasciata. Lei deve assolutamente conoscere tutta la verità!

Quella voglia imperativa di giustificare una dolorosa assenza che gli aveva penalizzato l’anima per anni, fu come lo scoccare di una violenta freccia che uccise, all’istante, la paura di desistere dallo spiegare ogni cosa.

Riprese quindi il proprio cammino, sino a giungere nei pressi di un enorme albero che sembrava fungere da sentinella, accanto all’ingresso dell’abitazione. Lo osservò per pochi minuti, sentendosi piccolo piccolo dinanzi ai rami che volteggiavano verso il cielo sovrastante. Il tronco era robusto, ricoperto da un’umida corteccia che, a tratti, si squamava, mostrando parte della giovane rinascita dell’arbusto. Ricordò quando era solamente un alberello, non più alto di circa tre metri. Il tempo aveva fatto il suo lavoro, trascorrendo, e facendo vedere che era passato anche di lì.

Anche la lignea porta della casa mostrava i segni dell’allontanamento di Franco. Non era più tinteggiata di quel colore rossiccio che in passato sfoggiava un battente di ottone, a forma di anello. Cosa dire poi delle finestre, che lui stesso aveva dipinto per rendere ancor più accogliente la facciata di quella che, un giorno, avrebbe dovuto essere un’indimenticabile alcova d’amore?

Il bianchissimo colore aveva ceduto al grezzo del legno sottostante, invecchiato dai segni del tempo. Restava inutile soffermarsi sugli altri aspetti che testimoniavano un inesorabile e triste abbandono, oltre alla scarsa cura del volto della casa.

Salì i tre gradini di marmo ed afferrò con la mano il battente, per farsi sentire. Nessuna risposta, all’inizio. Non si udiva alcun rumore che potesse far capire la presenza di qualcuno, al suo interno.

- Non c’è niente da fare - pensava Franco - è segno del destino che io non debba più vederla!

Attese un pochino e riprovò a bussare, senza che nessuno si avvicinasse, per aprire la porta. Sconfortato, si stava sempre più convincendo di meritare l’inutilità di quel lungo viaggio, fatto per ritrovare la sua Clara.

- Sono proprio uno sciocco, nell’aver sperato che la vita mi ripagasse del torto subito. Debbo andarmene, prima che sia troppo tardi, così mai nessuno saprà che sono passato.

E mentre veniva assalito da mesti pensieri, udì, da lontano, una voce gentile:

- Chi è alla porta?

Franco non rispose.

- C’è qualcuno? Chi cercate? Allora, non fatemi perdere tempo.

- Po… potete aprirmi, per favore? - balbettò Franco.

Un lieve cigolio e la porta si aprì, facendo da cornice alla figura semplice e garbata di una giovane donna.

- Si...? Cosa volete?

Clara fissò quell’uomo, a lungo. Era talmente emozionato da non riuscire a proferire alcuna parola né, tantomeno, ad intavolare un discorso. Era una sensazione meravigliosa e, al tempo stesso, imbarazzante, quella che Franco stava vivendo. Finalmente riusciva a vedere il volto della donna che ancora amava e mai aveva scordato e che gli aveva letteralmente rubato il cuore.

- Clara, non ti ricordi di me?

Un attimo di smarrimento la colse, sino a quando la sua mente incominciò a spolverare i ricordi del passato. Lei era certa di avere già veduto quel signore, e i ricordi d’amore si affrettarono ad arrivare, proprio nel luogo in cui dovevano giungere.

- Franco, sei tu, non è vero? - disse Clara, profondamente commossa.

- Sono io - rispose Franco.

Gli occhi di Clara luccicavano di gioia che, presto, sarebbe stata sostituita col dolore di lacrime ardenti, non appena avesse saputo ciò che, in realtà, l’aspettava.

Per fargli sentire tutto l’entusiasmo che dentro le pulsava, affettuosamente Clara abbracciò Franco. Lui ricambiò prontamente, chiedendole se poteva entrare in casa. Per mano, lei lo condusse nel salotto e, dopo aver riposto nel guardaroba il soprabito che indossava, lo invitò a sedersi sul divano. Lo raggiunse, sedendosi accanto a lui.

- Mi sembra un sogno, rivederti dopo tanto tempo - disse Clara.

Franco, cogliendo la palla al balzo e superato un iniziale momento di trepidazione, non esitò un istante:

- Debbo dirti una cosa importante. Ascoltami con molta attenzione, te ne prego.

Improvvisamente, Clara si incuriosì molto, dinanzi alla serietà del volto di Franco. Pensò che volesse dichiarare i propri sentimenti, magari con una nuova promessa che, stavolta, avrebbe mantenuto. Infatti, si erano lasciati senza chiedere spiegazioni l’uno all’altra, quasi col terrore di spezzare quell’incantesimo d’amore che li avrebbe dovuti condurre ad un lieto fine. Ma qualcos’altro, era riuscito a fare in modo che i due amanti si separassero.

Franco iniziò col dire che sua madre non nutriva simpatia per la suocera e che quest’ultima l’aveva pagato affinché lui uscisse fuori dalla vita di sua figlia. Per non far soffrire Clara, aveva accettato quel denaro, perché l’azienda di famiglia versava in condizioni economiche critiche.

Ma il rimorso per un’azione così avventata, continuava a tormentarlo. Ecco perché si era fatto nuovamente vivo. Sentiva l’impellente bisogno di chiedere scusa alla donna che aveva tradito, vendendo la propria felicità alla suocera.

Clara arrossì tutta d’un colpo, ma il rossore che le accendeva gli zigomi divenne presto il fuoco della rabbia. Non credeva ad una sola delle parole che Franco aveva detto e si chiedeva:

- Se così fosse, perché me lo ha tenuto nascosto, sapendo che lei sarebbe stata disposta ad elargire una proficua somma di denaro, pur di sottrarlo ad una umiliante e vergognosa proposta?

Nella sua testa, rimuginava il pensiero di valere assai poco, per Franco, e decise di chiederglielo. Così, alzandosi dal divano, gli disse:

- Dimmi, perché li hai accettati? Te li avrei prestati io.

Guardandolo negli occhi, quasi a volerlo intimidire, proseguì:

- Rispondimi, Franco! Hai capito quello che ti ho appena detto?

Mentre infieriva sul malcapitato con espressioni malevoli, sentiva il cuore frantumarsi in mille pezzi. Era talmente sensibile, Clara. Una donna dall’animo buono che, quel fiabesco rincontrarsi, stava mutandosi in profonda agitazione, velata da un intenso risentimento e da un’insistente voglia di giustizia.

Franco tentò di farle capire che non era colpa sua e che la vita lo aveva messo con le spalle al muro. In realtà, dentro di sé, l’orgoglio eccessivo nel non voler mostrare debolezza alcuna agli altri, lo aveva condotto verso situazioni più facili e meno sofferenti.

- Lo sai che ti amo ancora, Clara. Accidenti! Mi chiedi un perché impossibile? E poi, non sono mai andato a genio a tua madre, ne sei perfettamente consapevole!

Come cera lenta, le lacrime iniziarono a scendere sul volto di Clara. Per anni lo aveva atteso, nella vana speranza che tutto potesse tornare come un tempo, in cui le frequenti visite romantiche, accompagnate da sfavillanti momenti di gioioso amore, potessero ancora fare capolino nella sua immensa vita solitaria.

Era una donna che sapeva amare le persone. Non per questo, Clara, era stupida. Intuitivamente, capì che avrebbe dovuto fare una scelta, pure lei. Una scelta spinosa, difficile, nella quale il suo futuro era, ancora una volta, messo a rischio, ma, di certo, non per colpa sua.

Voltò le spalle a Franco, che era rimasto seduto sul divano. Non voleva farsi vedere piangere e, soprattutto, esternare quel dolore, divorante ed impietoso, che lui le aveva, più o meno inconsapevolmente, procurato. Istintivamente, ascoltò la voce della coscienza che accorse in suo aiuto, in quel frangente zeppo di sgomento. Iniziò ad allontanarsi, uscendo dalla stanza in cui Franco si trovava, sempre più assente ed impreparato, dinanzi allo sconvolgimento di Clara.

Prese il soprabito di lui, lo appoggiò sul divano e, singhiozzando, disse:

- Esci da questa casa.

Franco finse di non capire e, con un filo di voce, rispose:

- Clara, ti amo, lo capisci vero? E’ stata tutta colpa di tua madre, io non c’entro nulla. Non t’avrei mai lasciata. Fidati delle mie parole.

Clara si sforzò di non piangere. Lo guardò negli occhi, sbigottita, e gli disse:

- L’amore non si conquista con l’inganno. Non si vende, non si compra. L’amore vero si conquista con il sacrificio e la fiducia; altrimenti, a cosa servirebbero le sofferenze? Ora, ti prego, Franco, esci da questa casa. Non te lo voglio ripetere nuovamente.

Ancora una volta, l’orgoglio bussò all’anima di Franco, assecondandolo, come al solito.

Prese il suo soprabito, si avviò verso quella porta, decolorata dal tempo, che Clara prontamente aveva aperto, al suo arrivo. Si voltò verso di lei:

- Cosa farai, ora?

- Quello che ho sempre fatto, sopravvivrò! - rispose Clara, con il cuore in gola.

Non aggiunse altro e serrò la porta a chiave.

*

Improvviso aiuto

Cercava qualcuno che potesse aiutarlo a superare quel momento difficile che stava attraversando. Era gioioso e gentile, malgrado indossasse la sofferenza con grande eleganza. Si, l’aveva masticata sin da piccolo, il buon Adriano, ma non per questo aveva smarrito l’ottimismo di fare l’incontro sperato. Cresciuto in una famiglia povera, senza mai aver ricevuto un appoggio economico da nessuno o, ancor peggio, l’affetto che avrebbe meritato, si era sentito spesso tagliato fuori dal mondo.

Una mattina, Adriano si recò nella solita bottega del paesino ove viveva per acquistare un po’ di pane, della farina e qualche bottiglia d’acqua. Appena entrato nel negozio, udì un vociferare di donne che mormoravano o meglio, sbraitavano col titolare:

- "Signor Gaetano, le avevo espressamente chiesto gli gnocchi per mio nipote e lei, invece, cosa mi ha combinato?".

L’altra donna, accanto alla vecchia signora brontolona, diceva invece ad alta voce:

- "Io le avevo domandato un chilo di pane fresco e mi sono stati invece consegnati gli gnocchi di cui non avevo affatto bisogno!".

L’uomo, in preda al più totale imbarazzo, tentava di giustificare gli errori commessi e, rivolgendosi ad entrambe, rispose:

- "Mie care signore, il lavoro qui è tanto, per me, e non riesco a seguire tutto da solo. Dovete perdonarmi per aver fatto confusione; forse, inavvertitamente, ho scambiato i nomi sulle consegne da fare e poi, proprio l’altro ieri, sono stato piantato in asso dal mio garzone: se ne è andato via perché non aveva voglia di lavorare. Vi prego, portate pazienza e datemi il tempo per rimediare al malinteso".

Adriano aveva assistito all’intera scena, ma non osava dire nulla. Dentro di sé pensava:

- "Chissà se questo lavoro, che non ho mai fatto, può fare al caso mio?".

Dopo che le due donne furono servite, rimase da solo con il signor Gaetano che, fissandolo negli occhi, gli chiese:

- "In che cosa ti posso aiutare, ragazzo?".

Da parte sua, Adriano fece scena muta, sino a quando la domanda fu ripetuta nuovamente:

- "In che cosa ti posso aiutare, giovanotto? Ti occorre qualcosa?".

Adriano fece un lungo sospiro, quasi come non si fosse reso conto che qualcuno finalmente si era accorto della sua esistenza. Educatamente, rivolgendosi al bottegaio, rispose:

- "Buongiorno signor Gaetano, mi scusi ma ero soprapensiero. Sono passato di qui perché mi occorrevano alcune cose ed ho sentito, senza volerlo, la discussione che c’è stata qualche minuto fa. Le serve ancora quel garzone, del quale tanto si lamentava? Beh, non so fare molto, però ho voglia di imparare ed ho tanta buona volontà".

- "Dici sul serio?", gli chiese Gaetano.

- "Si, certamente… quando posso cominciare?".

Il commerciante lo squadrò per qualche minuto, da capo a piedi, e, grattandosi sotto al mento, gli fece un ampio sorriso, facendogli capire che avrebbe accettato la sua proposta.

- "Per me puoi iniziare anche da subito. Dovrai fare ciò che ti dico, essere gentile con la clientela e molto preciso, nel tuo lavoro. Seguimi, che dovrei avere grembiule e cappello, giusto della tua misura!".

Nell’udire quelle parole, Adriano si illuminò come un albero di Natale. L’occasione che tanto aspettava era giunta in un momento improvviso ma, soprattutto, era riuscito a coglierla al volo. Nel giro di qualche settimana, divenne così esperto nel servire chiunque entrasse in negozio, da diventare affidabile e simpatico all’intera clientela, che più non si lamentò delle consegne: per Gaetano, qualche grattacapo in meno; per Adriano, certamente un incontro davvero fortunato!

*

Il segreto di Gianluca

Gianluca era un  giovincello dal carattere particolarmente solare. Era benvoluto nel piccolo paese in cui abitava, oltre ad essere ammirato per la sua notevole forza d’animo. Nulla, o quasi, lo scoraggiava: era sempre lì, in prima fila, a capeggiare qualche discorso con gli amici, che lo consideravano, a volte, un po’ stravagante, per le espressioni verbali usate, anche definite pittoresche per l’esagerata vivacità dei contenuti.

Ma lui non se la prendeva. Anzi, sembrava contento per quell’etichetta che gli era stata affibbiata dalla gente che lo considerava “un adorabile idealista”, col quale poter sempre scambiare qualche parola o prendere spunto da quel suo sognare ad occhi aperti, riuscendo a rendere reale ogni suo racconto.

Con qualche piccolo gesto di bontà, specie alla vecchina che abitava sul suo stesso pianerottolo,  si era conquistato la simpatia degli altri, facendosi perdonare dai genitori per quei cattivi voti scolastici, presi durante le lezioni.

Nei giochi, però, Gianluca, risultava essere il migliore. Vinceva ogni gara, dalla corsa a piedi, a quella coi sacchi, sino a quella con la bici-cross, scendendo, con spinta incredibile, dalla collinetta di detriti che i muratori avevano lasciato, quando era ancora in costruzione l’edificio dove lui stesso ed i suoi compagni sarebbero andati ad abitare.

I suoi amici non lo invidiavano, perché, a Gianluca, tutto veniva naturale e poi, lui, non si lagnava mai ed era sempre pronto a prendere le difese di chiunque fosse stato preso di mira dagli altri compagni di avventura.

Un bel giorno, mentre stava andando a scuola, incontrò, nel tragitto, un clochard. Era un signore parecchio avanti con l’età, con indosso un cappotto blu scuro ed una sciarpa così grande che gli avvolgeva non solo il collo, ma quasi tutta la testa. Se ne stava seduto sul marciapiede ed accanto a sé teneva una piccola ciotola di metallo: forse, pensò Gianluca, qualche anima gentile gli avrebbe gettato una monetina. Gianluca si fermò, non aveva denaro con sé, ma si ricordò della sua merenda e la offrì, in maniera del tutto spontanea al pover’uomo. Diventarono amici, chiacchierarono del più e del meno per qualche istante, poi, al momento di dividersi il vecchio mendicante gli chiese: “Qual è il tuo segreto?”

“Io non ho segreti”, rispose prontamente Gianluca, meravigliato.

Corse via, più in fretta che poté, s’era fatto tardi e certamente lo attendevano in classe. Per tutto il giorno, continuò a pensare a quell’incontro, cercando di capire a cosa si riferisse quel mendicante, facendogli quella domanda. A ben pensarci, poi, non era neppure riuscito a scorgere bene il viso di quel poveraccio, ma si ricordava il colore degli occhi che erano d’un azzurro denso, infossati in quel volto provato dal tempo.

Il mattino seguente, Gianluca rifece lo stesso percorso del giorno precedente, col preciso intento di andare a cercare il vecchio clochard, per capire meglio il motivo di quella strana domanda. Non appena lo vide, il mendicante abbozzò un ampio sorriso e, scoprendosi il volto nascosto dalla sciarpa, si rivolse al ragazzo: “Mio caro, il tuo segreto io lo conosco perfettamente ed è nel cuore che possiedi. Esso è ricolmo di una tale bontà, da averti condotto alla fonte del tuo stesso bene”. Fissando Gianluca negli occhi, proseguì aggiungendo: “Non avere mai paura di essere gentile e coraggioso, poiché avrò bisogno di te per aiutare i più bisognosi”. D’un tratto, il vecchio svanì nel nulla, dietro ad una fulgida luce che impediva al ragazzo di guardarlo.

Molti anni sono trascorsi ed ora Gianluca si trova in Etiopia. Ogni tanto il pensiero torna a quell’insolito incontro avvenuto quando era ancora un giovane ragazzo. Oggi, lo chiamano Padre e riveste i panni di un missionario, continuando a pensare su come un incontro, apparentemente semplice, abbia potuto, in realtà, trasformare l’intera sua vita.

*

Uno strano incontro

Era una giornata luminosa. Il treno si era appena fermato nella stazione di un piccolo paesino situato in alta montagna, in una Regione del Nord Italia. Tra i pochi passeggeri presenti, spiccava una tipetta alquanto stravagante: la signorina Gemma.
Tra la gente del posto, immediatamente, si diffuse la notizia che lei aveva portato con sé trenta bauli e dieci gatti. In realtà, i bagagli erano solo venti e gli animali da compagnia, cinque, ma è risaputo che le persone chiacchierano e, tra una parola e l’altra, le cose assumono proporzioni ben superiori, ingigantendosi.
La signorina si diresse subito verso l’unica agenzia immobiliare del paese, peraltro già contattata in precedenza telefonicamente, e lì ribadì la sua necessità di trovare una dimora carina, con tutti i confort del caso ed un bel giardino per i suoi amati micini. Ovviamente, la casa doveva essere piuttosto lontana dal centro abitato ed abbastanza isolata, al fine di poter godere di quella agognata tranquillità che Gemma andava cercando.
Occorsero tre giorni e tre notti, in quanto la scelta si dimostrò più complessa ed esigente del previsto. Visitò quasi tutte quelle disponibili, ma nessuna sembrava fare al caso suo; le speranze andavano affievolendosi, quando, finalmente, Gemma adocchiò una meravigliosa e piccola cascina azzurra, su cui spiccavano giallastre persiane ed attorniata da grandi alberi di meli in fiore. Osservandola più attentamente, istintivamente decise che era proprio quello il posto ove voleva stare.
La casa era una sorta di attrazione nel paese, poiché, inspiegabilmente, i grandi meli avevano una fioritura permanente. Non fiorivano nei mesi primaverili, come tutti i meli delle altre campagne, ma i loro bellissimi e candidi fiori profumati di rosa, resistevano al caldo asfissiante dell’estate, al primo freddo autunnale, all’inverno rigido e gelato ed al vento birichino della primavera.
Molti turisti arrivavano da ogni dove per ammirare i maestosi e superbi meli, ricoperti da una soffice e bianca neve, o subito dopo una violenta grandinata.
Da lungo tempo la casa non veniva più affittata; nessuno osava infrangere quel meraviglioso incantesimo: ci voleva proprio quella presuntuosa signorina di città, giunta a sconvolgere la quiete del nordico paese! Moltissima gente si chiedeva chi fosse mai quella donna, all’apparenza così impettita, mai un sorriso od una chiacchiera con qualcuno, solo frettolosi saluti. L’unica cosa certa è che aveva dato una ventata di freschezza alla quotidianità di quel campestre scenario.
Insomma, per farla breve, alla fine Gemma si stabilì nella casa dei grandi meli, ci portò molte provviste e per diversi mesi nessuno più la vide.
Una mattina, però, si svegliò di soprassalto: un enorme fracasso arrivava dall’esterno della casa: Gemma guardò dalla finestra e scorse Giovanni, un venditore ambulante che, con il suo furgoncino sgangherato, le voleva offrire le merci più svariate: dal vestito a fiori che aveva già acquistato in città tre giorni prima, all’ultimo modello di macchinetta per il caffè, sino ad un nuovo prodotto per lavare il bucato.
- Cribbio! - sbraitò, pensando tra sé e sé di tornare immediatamente sotto le coperte, per recuperare il sonno perduto.
Ma quella mattina ci ripensò ed uscì dall’abitazione con la voglia di fare due chiacchiere.
Incuriosito da quella presenza, il mercante le domandò che cosa facesse sempre chiusa in casa. Lei rispose:
- Scrivo emozionanti storie per coloro che sono stati dimenticati dal mondo - e, notando lo stupore dipingersi sul volto di Giovanni, proseguì ancora affermando:
- Sono una scrittrice.
- Accidenti! - deglutì l’uomo, ammirato.
La signorina si fece coraggio e iniziò a narrare la sua storia.
- Avrei già dovuto essere rinomata, avendo lavorato duramente per tanti anni. Avevo scritto racconti bellissimi, anche più di mille. Poi, la mia migliore amica se ne impadronì e, tramite un editore compiacente, li pubblicò col suo nome - aggiunse Gemma, non riuscendo a trattenere le lacrime.
Anche Giovanni si commosse e, sforzandosi di mantenere un tono autoritario, disse:
- Signorina Gemma, nessuno le ruberà più nulla, perché io la proteggerò!
E così fu: ogni nuovo dì, lui si recava alla casa dei grandi meli che, essendo assai sensibili all’amore che la scrittrice nutriva per le proprie opere, erano divenuti complici impensabili: la natura sente l’amore e la creatività umana e, se e quando può, dona tutti i suoi frutti a coloro che ne sono pianamente degni. Sorvegliando ogni cosa, Giovanni stava attento che nessuno si avvicinasse, né disturbasse l’atmosfera necessaria alla donna per creare nuovi racconti.
Nel frattempo, in tutto il paese, ma anche in quelli vicini, si era sparsa la voce che la signorina Gemma era una grande scrittrice ed a parecchie persone era nata la curiosità di leggere qualcosa.
Qualche giorno prima delle festività natalizie, gli abitanti del posto decisero di fare una gita fuori porta, per salutare Gemma e dare una sbirciatina alle sue sentimentali avventure, ma quello che videro fu più sorprendente di tutto il resto: un bellissimo fiocco celeste, appeso sull’uscio di casa, che spiccava in bella vista.
Ebbene si! Tra una chiacchierata ed un buon thè caldo, Gemma e Giovanni s’erano guardati troppo spesso negli occhi e si erano innamorati a tal punto, da unirsi così tanto, ma così tanto, che nacque un bambino: un piccolo poeta, scrittore, narratore? Chissà! Forse si, forse no.

*

La lucerna

Mormorio di ruscelli, lieve palpitare di fronde e bisbigli misteriosi, rompono, dolcemente, il cupo silenzio della notte, illuminato dal tenue chiarore della luna.
Passa il viandante, stanco, e il fuoco tremolante della lucerna, che oscilla in armonia con il suo passo cadenzato, rischiara la via incerta e malsicura.
Il pensiero corre ancora al suo lavoro, da poco lasciato, là, in quella oscura miniera, dove il rintronare continuo di colpi rochi e profondi, hanno accompagnato, fino all'ultimo, la sua dura fatica di minatore.
Ora, sta per ritornare alla sua casa, dopo un'altra giornata trascorsa lontano dal caro nido domestico, al cui interno, cinque bocche ridenti hanno atteso invano il suo ritorno, prima di sera.
Procedendo lentamente, nella notte buia, egli s'avvicina sempre più alla massa scura della vecchia casa, che si erge, lassù sulla montagna, quasi fosse una folle chimera irraggiungibile.
La mano, nera e callosa, del vecchio minatore stringe con più forza la piccola lucerna di vetro che, oscillando lentamente nel vuoto, spande il suo chiarore, lungo tutto il cammino, e riverbera nello spirito una vivida luce di speranza.

Altrove, alla luce di una lucerna, attenuata da un roseo velo, una pallida figura di donna è china sul lavoro. L'ago, stretto tra le dita, bianche e delicate, passa e ripassa alacremente sulla tela, senza mai fermarsi.
Accanto a lei un bimbo dorme. Nella culla, avvolta da morbide coperte, quel piccolo essere sogna gli angeli del cielo che, in schiera fulgente, per lui canteranno una dolce ninna nanna, raccolta, come una preghiera.
Nel dolce sonno, le labbra del piccolo pulsano lievemente e si schiudono in un vago e sommesso gemito. La mamma depone il lavoro e bacia le rosee gote della sua creatura che, al solo contatto del volto materno, soave s'acquieta, tranquillo.
Di nuovo al lavoro, senza tregua, la giovane donna non teme la stanchezza e, al pensiero della sua missione di sposa e madre, risolleva il capo stanco, abbandonato, per un momento, fra le mani e riprende il lavoro.
La dolce intimità che regna in quella stanza è profonda, le svelte mani della giovane donna cuciono abili e veloci e la lampada diffonde tra quelle pareti una luce calda e riposante.

Poco distante, sulla tremula distesa del mare, lento naviga il veliero. Il fianco, martellato dal frangersi dell'onda azzurrina, gronda di spuma e, sotto i raggi della luna, prende riflessi d'argento.
Il calmo dondolare del naviglio, culla il sonno dei marinai, raccolti sotto coperta, mentre una triste canzone, sale con aria sommessa, diffondendosi tutto attorno.
Chi canta tra tanto silenzio? Il comandante stringe fra le mani la dura asta del timone, vegliando su tutti, attento e con fare esperto. Egli vuole nascondere, in quel canto, il tormento del suo cuore affranto, cercando di dimenticare il dolore e l'ansia che l'opprimono: forse, desidererebbe inabissarsi in quella immensa distesa d'acqua, per non soffrire più, per cadere finalmente nell'oblio.
Sull'albero maestro oscilla, lenta, la lucerna, sospinta dalla brezza marina. Al suo debole chiarore, altre, lontanissime, se ne aggiungono: sono le stelle, e, in mezzo ad esse, una tondeggiante luna che accompagna il peregrinare notturno.

Gli astri sono sempre fedeli e, ad essi, tutti indirizzano il proprio nostalgico canto. La terra ed il mare accompagnano lentamente, con la loro sinfonia, quella nenia dolorosa, dolce e calda consonanza di una notte lunare, rischiarata dalla piccola lucerna.

*

La pira del poeta

La candela respirava gli ultimi soffi di vento. La luce del giorno plasmava le prime ombre trasognate del mattino. Il poeta aveva il collo teso sul foglio, mentre strizzava gli occhi stanchi, tenendo nelle mani, sporche d'inchiostro, il pennino, caldo per il duro lavoro.
Ebbe la strana forza di sorridere, tra le rughe di stanchezza, incise sul volto. Aveva finalmente terminato l'immensa ossessione, cuore pulsante di tutta la sua inconcepibile vita, dedicata alla realizzazione della sua più importante opera: un libro, un poema che, nell'infinità della storia, venisse ricordato.
Un giovane raggio di sole lambì la sua mano, stancamente sdraiata sul foglio, e i suoi occhi rossi, socchiusi, si spalancarono.
Come il livido nero e possente dell'oppressione, sentì crescere un peso consistente sul petto. La frase, l'ultima elegiaca frase, che dava il commiato all'intera opera, cadde sugli occhi. Il logoro e rauco respiro, ancorché regolare, sembrò cessare in un vorticoso oblio d'asfissia, mentre le parole ballavano una macabra, morbosa danza.
La fiamma della candela crepitava, angosciosa, quasi pregasse. Il poeta la prese tra le mani e l'avvicinò ai fogli. La sua vita era stata quel lavoro che, ora, bruciava e diventava cenere, il nulla, nera polvere.
La carta si contorceva sotto i suoi vecchi occhi. Tutte le parole, partorite nella mente, scomparivano, come mai esistite, una ad una, lettera dopo lettera. Insieme ad esse, scompariva per sempre anche l'ultima frase, madre di ogni disperazione, figlia di ciò in cui, forse, non aveva mai creduto.
“Questa è la grandezza del Paradiso. Si riflette nell'ombra delle passioni, da noi soffocate, per poter avere in esso tutto lo spazio che l'anima merita. Ma nessuno saprà mai dare la certezza che esiste, come nessuno saprà mai dire se c’è qualcosa, oltre questa vita, o negare che esso è stato tutto quello che potevamo avere e mai avremo.”
La pira si era ridotta ad un cumulo di cenere, la speranza aveva lasciato spazio allo sconforto. Chissà, forse doveva andare proprio in questo modo, per avere la possibilità di ricominciare ed affrontare nuove e più grandi sfide!

*

Turchino riflesso

Mi vidi riflesso sullo specchio dell'acqua. La luce del giorno imprimeva al serafico volto un riverbero color turchino. Mi accorsi di essere entrato in un mondo fiabesco ed intorno a me tutto aveva cambiato aspetto. Al mio fianco, la mia avvenente sposa, dalle nude e statuarie fattezze, faceva da guida. Osservammo, affranti, quello specchio, perdendoci tra sguardi di un tempo ormai invecchiato. Ci guardammo, tentando di scrutare la nuova realtà, lasciandoci catturare dall’invisibile preziosità di un’arcana, ancestrale bellezza. Improvvisamente, nella piccola radura al centro del bosco, apparve un piccolo scrigno. Lo aprimmo: custodiva i cuori pulsanti del nostro amore. I segni del tempo svanirono in un lampo: la giovinezza tornò a sbocciare sui nostri volti!

*

Il poeta che vive in me

Un vero poeta è come la sabbia: trasportata dal vento marino, raggiunge ogni luogo, vicino o lontano. Proprio come la sabbia, imprigionata nella clessidra del tempo, così scorre ogni tipo di emozione, scandendo il trascorrere del poeta stesso.

Egli è fragile, come la creta dipinta da antichi disegni e impreziosita da intarsi di vetri fusi, al suo esterno, per dare maggiore bellezza e risalto al monile stesso. Come l’argilla, egli si plasma per meglio adattarsi alle percezioni che vivono dentro di sé.

Scaldato dal fuoco dei sentimenti, il vero poeta perfeziona se stesso, mutando e ascoltando i mutamenti del suo tempo. Soffre il poeta, spesso anche in silenzio. Per far ascoltare la sua voce, scrive per dar corpo alle sue sensazioni. Crea, con la mente, poetiche immagini capaci di trasportare il lettore in ogni sua opera letteraria, toccando le corde di tutte le emozioni, vibranti nell’anima.

Il vero poeta è anche in grado di dipanare ogni stato d’animo dell’uomo che vive nel proprio io, ma che, inesorabilmente, è presente anche in qualsiasi altro mondo che lo circonda.

Con un’intensità così forte da fargli battere il cuore all’impazzata, il vero poeta sa amare in maniera profonda, sublime, passionale. Eterno amico è il vero poeta che, pur se tramonta, risorge, vivendo in un’altra persona.

Androgino, è capace di essere uomo e donna simultaneamente, senza possedere un’identità precisa: l’anima del poeta è una “coincidentia oppositorum” che raccoglie, contiene, racchiude e sigilla ogni sfumatura colorata di quel magico “sentire” che è proprio l’essenza segreta che ci rende degni di essere chiamati “umani”.
Per tutto ciò potrei essere contestato da pensatori, scrittori, artisti e grandi poeti... ma, permettetemelo, mi piace pensarla ancora così!