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Raccolta di testi in prosa di Giovanni Barlocco
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I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

L’Importante E’ Vincere

La partita era tirata e equilibratissima.

Achille però non se ne rendeva conto, non ne aveva il tempo.

Per fortuna, fin da quando aveva cominciato la sua carriera, le emozioni lo avvincevano con una forza inaudita che produceva una sensazione fisica di languido stordimento, solo poco prima del fischio iniziale dell’arbitro e poco dopo il suo fischio finale.

Durante il tempo della gara, invece, non c’era mai spazio per altro che non fossero decisioni immediate e impulsi quasi animaleschi, a cui il fisco reagiva con la massima prontezza possibile.

Lui si limitava a giocare, e non aveva mai analizzato i processi fisici e mentali che lo portavano spesso a essere il più svelto ad attaccare e il più difficile da superare sul sentiero stretto che portava al boato della folla.  

Ci fu un capovolgimento di fronte, nel suo sport si chiamava controfuga.

Berto aveva appena parato un tiro potente, dalla media distanza e Carlo si era allargato sulla destra, secondo uno schema collaudato, mentre i suoi compagni lasciavano scie come quelle di quattro siluri sulla superficie dell’acqua.

L’ambiente della piscina rimbombava di urla e incitazioni che lui udiva con l’intermittenza provocata dalla sua nuotata veloce, una testa davanti al diretto avversario.

Achille era partito quando il pallone scagliato era ancora in volo verso la sua porta, precedendo il russo che lo marcava, di un attimo; aveva visto che il suo portiere era piazzato e sapeva che c’erano ragionevoli possibilità che il tiro venisse neutralizzato.

A quel punto, un’eventuale respinta sarebbe stata compito dei difensori, ma se la palla fosse rimasta in loro possesso, era tutta un’altra storia.

Era andata come sperava.

Achille si trascinò il colosso sulle spalle per una quindicina di metri, nuotando verso il bordo laterale del campo, tenendolo a distanza con i gomiti ben alti. Del resto, neanche Popov faceva complimenti: a ogni bracciata gli pesava sulla schiena e sulle gambe.

Quando fu a sei metri dalla porta, Achille, all’improvviso, deviò verso il centro, aumentando la velocità delle braccia, dimenticando gli urti del cuore che sembrava scoppiargli in petto.

Raggiunse la linea immaginaria delimitata dal segnale verde posto sul bordo, a quattro metri dalla porta.

Il pallone gli piovve davanti al naso proprio in quel momento, e Popov gli salì sulle spalle, nel tentativo di impedirgli di raggiungerlo.

L’arbitro interruppe l’azione e, in osservanza al nuovo regolamento, espulse il suo avversario per un minuto, un attimo prima che Achille entrasse nell’area di rigore.

Lui rifiatò e buttò un’occhiata al tabellone: sette a cinque a metà del terzo tempo. I russi stavano rispettando il pronostico; del resto, un anno prima, nel sessantotto, si erano piazzati secondi alle olimpiadi di Città Del Messico, dove loro erano arrivati quarti per un soffio, dietro ai maestri ungheresi.

Questa era la finale della prima edizione dei mondiali di pallanuoto, una specie di rivincita; Popov e soci non volevano lasciarsi scappare l’occasione di tornare in patria carichi d’onore, per campare un po’ meglio fino alla prossima competizione.

E il suo amico Boris Lebedev aveva ragioni ancora migliori per vincere.

 

Gli avversari si disposero a semicerchio, mentre Popov usciva dal campo.

Achille batté il fallo, Boris cominciò a spostarsi lungo la linea di porta, esercitando pressione con le braccia e le gambe, la schiena inarcata e completamente fuori dall’acqua, seguendo l’andirivieni della palla che passava veloce di mano in mano.

Avrebbero aspettato che cedesse per tirare, magari alla fine del minuto di penalizzazione; oppure avrebbero tentato di inchiodarlo al primo ritardo di piazzamento rispetto a un passaggio.

Ma lui non avrebbe ceduto, e loro potevano anche sbagliare.

Boris non se li aspettava così tosti, quegli italiani.

Erano sempre stati svelti e pieni di inventiva, ma meno disciplinati di loro, e meno potenti.

I sistemi di preparazione italici erano evidentemente viziati da un’approssimazione latina, e questo si rifletteva spesso nelle prestazioni degli azzurri.

Ma in quella competizione tutto era andato per il verso giusto, all’Italia; non c’erano stati cali di concentrazione, né di forma. E la fantasia  aveva fatto la differenza, fino a quella sera.

Certo, la Russia stava vincendo, ma due goal di scarto al terzo tempo non erano un margine sicuro.

Il tiro partì, secco e improvviso, alla fine della parabola che il pallone aveva compiuto da un estremo all’altro dello schieramento avversario. De Giorgi era uscito dall’acqua fino alla cintola, schiacciando la sfera con tutta la rispettabile forza di cui era capace, dalla linea dei due metri.

Ma Lebedev, con uno scatto incredibile, aveva sollevato il suo corpo possente, per farlo crollare rapidamente verso destra, con ambedue le braccia distese e le grandi mani aperte e irrigidite a formare una barriera invalicabile.

Il proiettile era stato fermato, ricadendo nell’acqua biancheggiante dei sussulti di attaccanti e difensori.

Boris se ne era subito impossessato, con un'altra sforbiciata delle lunghe gambe muscolose.

La tonnara si era immediatamente allontanata verso l’altra metà del campo.

Un portiere ha meno risorse per tenere lontani i propri pensieri che, a volte, possono assalirlo nel corso delle pause in cui non è chiamato all’estrema difesa.

Gli venne in mente l’accordo, e il sogno che poteva svanire proprio ora che era a portata di mano.

Boris non poteva permettersi di perdere quella partita, c’era in ballo molto di più della gloria sportiva e delle briciole di privilegi che essa avrebbe potuto fruttargli.

C’era in ballo la libertà.

 

Achille ripartì, per l’ennesima volta, verso la propria porta, cercando di ostacolare il suo avversario in maniera non troppo appariscente e, prima di superare la metà campo vide, con la coda dell’occhio, che un russo aveva compiuto un disastro balistico; un immeritato colpo di fortuna aveva fatto tornare la palla in loro possesso.

Si spinse sul corpo del diretto avversario, così da ottenere un aiuto al cambiamento di direzione; quest’ultimo capì subito che qualcosa non andava, quando sentì che il peso di Achille svaniva all’improvviso, e si gettò all’inseguimento, ma ormai era troppo tardi; l’italiano arrivò nella posizione giusta un secondo prima del pallone, caricò il braccio, fece due finte e insaccò sotto il braccio destro di Boris, il cui busto teso nello sforzo sembrò quello di un cristo in croce scolpito da Michelangelo.

Sette a sei.

 

Fosse uscito basso, avesse tardato una frazione di secondo ad alzare le braccia, l’avrebbe presa.

Boris rifletté su quel che poteva essere e non era stato.

Poi scacciò il rimpianto. Achille non era uno sprovveduto. Aveva fatto il suo, e il suo prevedeva che, da quella posizione, segnasse.

A centrocampo, Andrey passò la palla indietro e l’arbitro fischiò la fine del tempo. Tutti i giocatori, nelle rispettive metà campo, si diressero al bordo ad ascoltare le direttive dei loro tecnici.

Boris voleva disperatamente partecipare e concentrarsi sulle parole del suo allenatore, ma l’ansia lo distraeva, riproponendogli continuamente lo stesso frammento di ricordo, nitido come un film.

L’anno precedente, il giorno dopo la fine del torneo olimpico..

Achille stava seduto ad ascoltarlo, al tavolo della mensa per gli atleti, nella cittadella. Avevano scelto quel posto e quel momento per essere sicuri di passare inosservati, ma anche così lui aveva corso i suoi rischi.

Alla fine, l’italiano gli prometteva che sì, l’avrebbe fatto; poteva contare su di lui.

Achille era un grande campione, un grande avversario, e un grande amico.

 

“Bene così, ragazzi. Adesso dobbiamo tenere duro e non commettere errori. Achille, punta il centro, tutte le volte che puoi, Popov non ce la fa con te.

Stasera possiamo essere campioni del mondo.”

Popov non ce la fa. Lui si domandò se l’allenatore russo stesse dicendo a qualcuno dei suoi la stessa cosa riferita a lui; in ogni caso, prima o poi sarebbe successo.

Achille era all’apice della sua carriera ma, per quello sport, non era più giovanissimo e la piscina, in cambio di una dedizione quasi totale, gli aveva lasciato tra le mani grandi onori e una fama circoscritta al loro ambiente, che non era certo quello professionistico del calcio o del ciclismo.

Tra le sue dita, quindi, scivolata via l’acqua, non sarebbe rimasto altro di solido che non fosse una quantità rispettabile di coppe e medaglie in metallo falsamente nobile.

Lui non era ricco, nemmeno benestante di famiglia; fino a quel momento aveva campato facendo lavori precari e utilizzando i rimborsi spese della società e della federazione, ma se avesse vinto i mondiali, forse avrebbe cambiato la propria vita; avrebbe avuto le credenziali giuste per essere inserito in qualche programma tecnico federale, come allenatore, o come dirigente, e quando il suo fisico non fosse stato più in grado di reagire così bene a quella fatica meravigliosa e massacrante, avrebbe potuto rendersi comunque utile e vivere, senza problemi, del proprio lavoro, come tutti.

Quella partita poteva finalmente regalargli il premio meraviglioso e definitivo di una vita normale.

Il colloquio di un anno prima con il suo amico Boris, gli balzò, repentino, alla mente, e l’italiano ricordò come il russo si guardasse continuamente intorno, con uno sguardo spaventato che pareva quasi buffo in un bestione alto due metri.

Achille e Lebedev si conoscevano da anni, avevano avuto storie sportive parallele, fin dalle selezioni nazionali giovanili. Avevano cominciato quella strana amicizia occasionale grazie ai consueti piccoli traffici che tutti gli atleti praticavano, quasi per gioco: calze di seta per scatolette di caviale, impermeabili di nylon per matrioske,  e si erano piaciuti.

Si vedevano a distanza di mesi o di anni, non si scrivevano mai, ma erano sempre lieti dei loro incontri.

Erano avversari leali, e Achille gli aveva promesso che l’avrebbe aiutato.

 

Il fischietto emise una serie di suoni brevi; l’arbitro li stava richiamando in posizione per il quarto tempo, l’ultimo.

Boris andò a prendere posto nello schieramento, mentre il rubinetto dell’adrenalina fiottava ancora un po’ all’interno del suo corpo.

Tra una decina di minuti, se avesse vinto, avrebbe cominciato a sconfiggere anche la propria ansia.

Si fidava di Achille, ma nessuno di loro due aveva considerato l’ipotesi di trovarsi a quel punto, in quel momento.

 

Il fischio perentorio del direttore di gara diede inizio all’ultima frazione di gioco.

L’Italia si impossessò del pallone e si dispose all’attacco, Achille cercò il centro come gli aveva chiesto di fare il suo allenatore. Il pallone gli arrivò preciso, davanti alla faccia, mentre lui si trovava girato con le spalle alla porta. Cercò di afferrarlo, ma Popov gli passò un braccio sopra alla spalla, mentre con la mano sinistra gli afferrava, da dietro, il cordino del costume.

Popov era pesante ma, nella fretta di contrastarlo, si era sbilanciato. Achille era forte; lo sostenne con le gambe e approfittò della sua irruenza per spostarlo con il braccio sinistro, che teneva sott’acqua, lungo il fianco dell’avversario. In un baleno si trovò nuovamente a tu per tu con Boris.

Ma l’arbitro decise che la manovra più scorretta l’aveva fatta lui e gli fischiò fallo contro.

Questa volta Popov, meno provato, fu lesto a battere e andare in controfuga.

Achille si gettò all’inseguimento, ma l’azione si sviluppò rapidamente sul capovolgimento di fronte, i russi impartirono una lezione di palleggio, e Berto fu costretto a raccogliere il pallone all’interno della propria rete.

Otto a sei.

 

Si stava mettendo bene. Adesso bisognava mantenere la calma, magari addormentare un po’ la partita.

I secondi, per Boris, scorrevano troppo piano.

Se avessero vinto… si corresse mentalmente: quando avessero vinto, avrebbero avuto la certezza di partecipare al quadrangolare organizzato in Italia.

Per loro sarebbe stata una specie di vacanza, in quel paese bellissimo e libero.

Gli accordi, in federazione, erano già stati presi da tempo, ma Boris e tutti i suoi compagni sapevano bene che quel viaggio-premio non ci sarebbe stato se loro non avessero appuntato sul petto la medaglia di campioni del mondo. Per i severi custodi dell’orgoglio della Gran Madre Russia, il secondo posto olimpico, anche fuor di metafora, era ormai  acqua passata,.

Achille, dopo le Olimpiadi, gli aveva promesso che lo avrebbe nascosto per i pochi giorni necessari a far perdere definitivamente le sue tracce, poi Boris avrebbe chiesto asilo politico e sperava che i suoi meriti sportivi lo avrebbero aiutato a ottenere la collaborazione dei funzionari italiani del comitato olimpico, o di quelli di qualche altro paese europeo.

Con la morte di sua madre, avvenuta due anni prima, si era spezzato anche l’ultimo legame capace di tenerlo avvinto al paese in cui era nato e di cui, viaggiando all’estero, aveva verificato tutte le ingiustizie.

Perfino la ragazza che aveva amato gli era stata sottratta da un funzionario di partito, un uomo meschino e insignificante, corazzato da un potere contro il quale non aveva nemmeno potuto immaginare di combattere.

E se anche avesse potuto, la certezza dell’anima piegata di lei, ne aveva reso inutile la conquista.

L’arbitro fischiò un’altra espulsione contro i russi.

Questa volta il tiro partì quasi subito, di sorpresa. Lui riuscì a toccare il pallone, deviandolo sul lato interno del palo e mandandolo a danzare, per un attimo, sulla linea di porta.

Boris si protese, trattenendo il fiato, e percosse la superficie azzurra dell’acqua, facendola esplodere in gocce iridescenti, quando il boato della gente coprì il fischio, confermandogli che gli italiani avevano segnato. 

 

Metà tempo.

Otto a sette.

Achille si lanciò a intercettare il suo uomo per concedergli meno spazio possibile e stancarlo, rendendogli difficoltoso anche solo il girarsi.

Popov si stava innervosendo, lo capiva dai suoi movimenti secchi e dagli sguardi minacciosi che gli lanciava.

I russi impostarono un’azione d’attacco piuttosto prevedibile, ma Kozlov, il loro centroboa, fece un miracolo e, spalle alla porta, scaraventò una rovesciata all’incrocio dei pali.

Da lì, il prodigio gemello di Berto tolse il pallone, prima che varcasse la linea inappellabile.

E Achille tiranneggiò di nuovo ogni fibra del suo corpo, obbligandolo a ignorare fatica e dolore, e ripartì per un altro viaggio, breve e terribile, oltre se stesso.

Lupo, all’altro lato del campo, partì con lui.

Il pallone, questa volta, arrivò un po’ lungo, tra Achille e il russo di Lupo, più vicino a quest’ultimo, che tentò di appropriarsene. Ma Achille aveva ancora cuore per un guizzo e fece saltare via la sfera,  mandandola ad appoggiarsi alla mano del suo compagno di squadra per il tempo necessario a dargli l’opportunità di trafiggere Boris, sopra alla spalla.

Otto a otto.

Stavano avvicinandosi all’ultimo minuto di gioco.

 

Otto a otto.

Stavano avvicinandosi all’ultimo minuto di gioco.

Poi si sarebbe proseguito con i supplementari.

La folla sugli spalti produceva ormai un boato continuo che riverberava tutt’intorno.

Di solito, negli arbitri scattava una sorta di compensazione inconscia che li spingeva a favorire la squadra che aveva subito l’ultimo goal, specie se questa era stata in vantaggio per la maggior parte della partita.

E così, all’ultimo, poteva arrivare un’espulsione, o un rigore a favore dei russi.

Boris aveva l’esperienza sufficiente e i nervi abbastanza saldi per non considerare ancora infranto il suo sogno.

 

Achille considerò che potevano farcela, ma temeva che l’arbitro li sfavorisse nel momento decisivo.

La folla, sulle gradinate, sembrava impazzita; sventolavano bandiere, si udivano cori e urla e rumore di tamburi.

Lui cercò di isolarsi da tutto.

I russi attaccarono rabbiosamente, gli italiani sapevano di dover resistere e furono capaci di saggezza; permisero il tiro all’uomo più distante dalla loro porta, contando sulla giornata di grazia del loro estremo difensore.

Non ce ne fu bisogno.

La bordata potente di Golubov fu deviata appena dalla mano protesa di Gigi, che lo marcava,  ma tanto bastò perché si schiantasse contro il palo.

Quando Achille tentò di ripartire, Popov gli misurò un calcio che lo colse all’altezza del rene destro, lasciandolo senza fiato. 

L’arbitro seguiva l’azione già più avanti, e non se ne avvide.

Achille riuscì a riprendersi, fece un paio di bracciate più lente, poi accelerò, sapendo benissimo che quello era il momento di rischiare, anche la propria incolumità fisica.

Mentre Ciro, con la palla tra le braccia, si allargava verso destra, lui puntò rabbiosamente il centro, ma questa volta, arrivato a cinque metri dalla porta, si arrestò di botto. 

Era uno schema che Ciro conosceva bene; gli passò la palla con un attimo di anticipo, in modo che, quando Achille fu pronto al tiro, essa si trovò già adagiata sul palmo della sua mano.

Ma il passaggio non era stato sufficientemente teso, e non bastò a caricargli il braccio della forza necessaria.

 

Boris se ne avvide subito. Non c’era più molto tempo. Il tiro di Achille sarebbe stato fiacco, o impreciso. Sarebbero andati ai supplementari.

 

Achille portò ugualmente indietro il destro, ma lo fece a una velocità tale che permise a Popov di avventarsi.

Il colpo del russo sembrò inciampare nel viso dell’avversario, prima di proseguire la sua corsa verso il braccio che reggeva il pallone.

Achille sentì un improvviso indolenzimento all’arcata sopracciliare, e capì che la sua finta era riuscita; buttò la palla in avanti con perfetta scelta di tempo rispetto al balzo del difensore, e lo dribblò.

A Popov non restò altro da fare che affondarlo, ma Achille era già entrato nell’area dei quattro metri.

Mancavano tre secondi alla fine dei tempi regolamentari quando l’arbitro fischiò il rigore.

Achille tirò su la testa e si accorse che l’acqua che gli scorreva sull’occhio destro era rossa.

Dalla panchina lo richiamarono a gran voce; la ferita mostrava le sue labbra rosate dividendogli il sopracciglio. I compagni gli si fecero intorno e lo accompagnarono al bordo.

Lui sentiva il sangue pulsare e la carne gonfiarsi. Chiese un cerotto.

Il medico avrebbe voluto farlo uscire, ma lui rimase in acqua. Tre secondi. E quel rigore era il suo.

 

Boris lo vide avvicinarsi. Era suo amico e gli sembrava il suo boia.

Se Achille avesse violato la sua rete, avrebbe fatto esplodere tutta la piscina, e anche tutti i suoi sogni di libertà.

 

Achille si preparò.

Pensò brevemente alla posta in gioco, al valore di quella vittoria per lui, e a quanto valesse per l’uomo che aveva di fronte.

Poteva sbagliare, magari di proposito.

Quello che aveva davanti era un amico, a cui aveva dato la sua parola.

Ma era anche un avversario e, all’epoca della promessa, nessuno dei due aveva immaginato il momento che stavano per vivere.

Achille aveva preso un impegno con lui, ma doveva qualcosa anche agli altri dieci compagni, insieme ai quali  aveva dedicato ogni risorsa a quella vittoria.

E doveva qualcosa anche a se stesso.

 

Boris si preparò.

Il punto di svolta era quello.

Ma, più ancora delle sorti della partita, avrebbe cambiato la sua vita.

Achille non teneva in mano solo un pallone, ma il suo stesso futuro.

Parole come vittoria o sconfitta assumevano ora un significato segreto, molto più ampio e terribile di quello certificato dai giornali del giorno dopo.

Poteva succedere che l’italiano sbagliasse, fortuitamente o di proposito; poteva succedere che lui parasse.

Ma l’effetto più consono di quel tiro sarebbe stato il goal.

Boris si domandò come si sarebbe comportato lui, a parti invertite.

Poi si domandò se avrebbe odiato quell’uomo, nel caso avesse tradito la sua speranza.

Nessuna risposta abbastanza rapida.

 

La gente, sulle gradinate, si azzittì.

L’arbitro sollevò le bandierine. Achille alzò il braccio e il suo torso fu più alto sull’acqua.

Boris cominciò la pressione.

L’attaccante e il portiere erano soli, adesso, lo sguardo dell’uno fisso in quello dell’altro.

Il destino fischiò.

*

Capitano Coraggioso

Sorrisi. E braccia agitate dall’alto e dal basso.

Respiro gli odori che intridono l’aria. Sono sempre gli stessi, familiari, eppure più intensi, come se si adoperassero per trattenermi in un ultimo abbraccio fragrante.

Ma è solo uno scherzo del mio olfatto nostalgico, acuito dalla lontananza incipiente.

La nave si stacca dal molo; lenta, e imponente più di una cattedrale, si allontana dalle case affacciate sul porto; vicine l’una all’altra, nella malinconia del tramonto, sembrano ragazze stanche, sedute in fila alla fine di un ballo.

Appoggiato al parapetto di poppa del ponte più alto, sorrido e saluto anch’io, come se lasciassi qualche affetto a terra.

Sono tra tanti, uguale a loro; come loro, si direbbe, porto il mio bagaglio di sogni in vacanza su quest’acqua danzante,  e splendente dei riflessi della grande nave, che adesso saluta il porto con la sua voce profonda di lusca.

Il battito delle macchine pulsa come un cuore immenso ma, credo, lo avvertiamo in pochi. Quasi tutti hanno altro a cui pensare, eccitati e gioiosi per una partenza che li porterà a scoprire altre spiagge incantate e case di legno e paladares  e rum e ragazze e ragazzi e salsa e son e habanera, prima del ritorno.

Lentamente il ponte si svuota.

I turisti si preparano alla cena, cercano, nelle cabine eleganti, il vestito adatto all’occasione, che potrebbe servire anche dopo, in discoteca o al casinò, o al teatro o al bar.

O forse no.

Più probabilmente, si cambieranno di nuovo d’abito, perché sono in crociera, e hanno a portata di mano,  in una notte, tutti i loro parchi giochi, uno vicino all’altro; posti che, a terra, ne basta uno per sera.

E allora anche cambiare se stessi fa parte del divertimento, dà l’illusione che la gente non sia mai la stessa, che il paradiso sia più lungo di trecentocinquanta metri, più alto di sessantacinque e, soprattutto, frequentato da molte più anime elette di quelle che hanno pagato il biglietto.

Sono rimasto solo, adesso, a guardare le luci già lontane della città e la schiena scura della mia isola bagnata dall’oceano.

Rigiro tra le dita la cartolina, mentre penso che, tra quindici giorni, quando tutti arriveranno a casa e ritroveranno il divano di pelle o di velluto, il televisore e il gatto, e dormiranno nel loro letto come tornassero al nido, eccitati dal primo volo,  io sarò soltanto all’inizio del viaggio.

Non va bene così. Non si deve notare la differenza. Devo mischiarmi e confondermi.

Mi volto verso le luci più vicine e più forti, prendo un respiro, apro la porta e affondo le scarpe nella moquette soffice del bar.

Il cuore metallico del mostro, qui, batte molto più piano, sopraffatto dalla canzone sussurrata da impercettibili bocche elettroniche, dissimulate nel lucido controsoffitto

Mi accosto al bancone e ordino un cocktail dal nome di donna.

Troverò il modo di parlare, anche se non si deve, di sapere.

Ho pazienza. E il tempo, Signore, mi dovrà bastare. Me ne dovrai concedere ancora un po’, mi accontento di poco.

Metto la mano nella tasca della giacca e accarezzo, ancora una volta, il suo nome.

 

E’ l’alba quando mi sveglio.

Scendo dal letto, tiro la tenda e faccio scorrere la vetrata che mi separa dal balconcino a picco sul mare.

Respiro profondamente e mi lascio accarezzare dalla brezza salata che precede l’ascesa del giorno.

Tutto è silenzio, tranne il tumulto dell’onda di scia, quaranta metri sotto di me, e il ritmo profondo  e sommesso che dà  vita allo scafo.

Ho fatto tardi, ho dormito poco. Ma non sono stanco. Complice l’alcool, sono riuscito a confondermi con un gruppo di passeggeri a cui ho raccontato la mia storia inventata, quella che mi aiuta a non destare sospetti: figlio di fuoriusciti cubani, emigrato in Europa, assunto in una ditta che importa rum dai caraibi, diventato manager, in pensione da un anno, vedovo da due, sto facendo un giro di piacere in posti che, da giovane, non mi potevo permettere e che, da adulto, ho sorvolato un paio di volte con desiderio.

E’ una recita che posso sostenere. Mi sono preparato bene su Milano, sede della mia azienda immaginaria, scelta perché so che nessuno dei passeggeri di questa nave è italiano; inoltre i crocieristi americani sono più interessati alle atmosfere esotiche, e io, di Cuba so parecchio, “grazie ai racconti dei miei genitori e dei miei poveri nonni.”

Lei non ce l’avrebbe fatta, a diciannove anni, a mentire così bene sulla sua vita, avrebbe corso rischi più seri dei miei e, soprattutto, avrebbe avuto molto di più da perdere.

Rimango a lungo sotto alla doccia, sperando di attenuare il mal di testa. Mi dico che le cose si stanno mettendo bene, anche se non ho un piano preciso per i prossimi giorni.

Del resto, non avrei scommesso un peso sui miei documenti falsi, e invece, eccomi qui.

Mi riprometto di scendere da questa nave con le informazioni che mi servono, anche se non sarà facile, anche se la segretezza assoluta era la prima delle condizioni del suo imbarco.

“Dovrai cancellare tutto quanto. Riceverai una cartolina al suo arrivo. Da quel momento in poi, sarà come se non fosse mai esistita.”

Sono cambiate molte cose, da allora, e quel patto non lo posso più rispettare.

Adesso, morto Miguel, c’è solo il capitano che mi può aiutare, e so già che non vorrà farlo.

Lo capisco. Per poter pagare il prezzo del suo biglietto, alcuni di noi hanno  venduto tutto ciò che avevano, compresa la dignità, ma quel prezzo paga l’impagabile e quell’uomo non rischia solo la carriera. Quell’uomo, sia benedetto  il suo nome, fa un lavoro segreto molto più pericoloso del suo, e molto più importante.

Cuba perseguita i suoi figli ribelli, e chi aiuta la loro fuga è un nemico.

Cuba è meravigliosa, ma è una dittatura che ha carceri buie arroventate dal sole,  e povertà, e pene severe per i dissidenti.

La gente libera guarda il nostro mare e si addormenta e sogna, e fa in fretta a dimenticare. Forse è il sole, forse è la nostra musica che impedisce loro di udire le grida.

Ma tutto questo ormai, per me non ha più importanza.

Io non tornerò, non potrei più farlo neanche se volessi, non c’è più niente che mi trattiene.

Il mio destino è segnato, e lo è anche la mia strada che ancora non conosco. Ma ne conosco la fine.

Mi vesto. Ho speso buona parte dei miei ultimi risparmi e della colletta, per un guardaroba credibile, ma non devo tralasciare alcun dettaglio se voglio diminuire i rischi di insuccesso.

Su questo grande albergo galleggiante è possibile trovare tutto a qualsiasi ora. Non è troppo presto per fare colazione. E nuove amicizie.

 

Ho trascorso la giornata in compagnia di un macellaio di Dallas e della sua giovane moglie.

In realtà, Jo ha cominciato come macellaio ed ora possiede una quindicina di negozi dove altri sgobbano per lui.

Ha sessantatre anni e ha fatto fortuna con le bestie argentine, ha inventato, mi ha detto, un tipo particolare di hamburger, una miscela segreta di carne macinata e spezie che ha decretato il suo successo e gli ha permesso di impalmare, in terze o quarte nozze, una splendida trentenne, dalle curve forse non del tutto autentiche, alla quale dava grandi manate sulla coscia, mentre mi raccontava, come se si trattasse di sottolineare la qualità di un quarto di bue.

Jo non è il mio tipo, però sembra ben introdotto a bordo; le sue macellerie sono avviate e gli lasciano parecchio tempo libero, così lui spende in crociere i soldi che gli restano, soddisfatte le esigenze vitali e i capricci personali della sua graziosa vitellina.

Gli ufficiali della nave lo chiamano per nome, quando lo salutano, e lui sostiene che il capitano sia un suo buon amico.

Su questo ho qualche dubbio.

Il comandante della nave è un tipo elegante e serio; partecipa alla vita mondana del suo piccolo impero galleggiante solo lo stretto indispensabile per assolvere ai suoi doveri di ospitalità.

E’ un uomo affascinante, e misterioso anche per me, che pure conosco parte del mistero.

La sua figura alta e asciutta, la sua voce profonda, la sua misura, incutono una certa soggezione

Non ce lo vedo a fare a pacche sulle spalle col texano.

Ma Jo sostiene che, nelle due precedenti  traversate caraibiche, ha cenato almeno una volta con lui e pochi eletti, nella sua sala da pranzo privata. Siccome gli sono simpatico, promette che quando riceverà l’invito mi porterà con sé.  

Questa è una cosa positiva. Una conoscenza ottenuta tramite i buoni uffici di un normale passeggero non  desterà sospetti e dovrebbe dare al capitano la certezza della mia cautela.

All’ora dell’aperitivo, ai tavoli esterni dell’ Hemingway, uno dei tre bar del ponte più alto, ci raggiungono altri “amici”.

Tra le donne la gara è a chi mostra più pelle levigata e scura, tra i maschi comincia il solito match a chi resta in piedi per ultimo, che decreterà il vincitore solo a notte inoltrata, quando tutti gli altri finiranno knock out in un letto, o su qualche divano finché un cameriere servizievole li accompagnerà in cabina.

Mi do da fare anch’io; le mie consuetudini mi aiutano, ma bevo comunque molto meno di quanto sembra e impasto la voce e sghignazzo molto di più di quanto mi obblighi l’alcool trangugiato.

Pamela, la moglie di un esperto finanziario di Chicago dallo sguardo sfuggente e dall’incipiente calvizie, mi fissa con occhi liquidi, e sbatte le palpebre un paio di volte.

Mi sorride in maniera un po’ troppo insistente. Suo marito non si accorge di nulla, già sulla strada della sconfitta alcolica.

Lei ha almeno la metà dei miei anni, ma la capisco. La sua bella vita, scandita dall’estetista, dalla palestra, da cene insulse a cui accompagna un marito insopportabile, deve essere piuttosto noiosa.

Non sa quanto volentieri io mi annoierei per il resto dell’esistenza.

 

Sono qui da quattro giorni. Ho partecipato a feste, cene, partite a carte ed escursioni, navigando mollemente su un mare dagli approdi bugiardi.

Le coste delle isole su cui sbarchiamo e che non abbiamo il tempo di percorrere fino al cuore, hanno l’aspetto voluto dagli scenografi bianchi, sono fondali di cartapesta che, sovente, nascondono povertà ossequiose.  

Sulla nave, ormai, mi conoscono in molti, e tanti mi salutano, mi invitano al loro tavolo, mi propongono di accompagnarli nel giro turistico delle spiagge di Antigua o nella salita al vulcano di St. Lucia o negli acquisti di spezie nei mercatini di Guadalupe.

Anche l’equipaggio ha cominciato a riconoscermi, e siccome io cerco di non essere noioso e importuno, ho risate contagiose, e elargisco giuste mance, le donne e gli uomini che sono qui per lavoro mi sorridono spesso e volentieri.

Sono riuscito, insomma, a rendermi abbastanza popolare, almeno quanto basta per essere una presenza familiare nelle mie passeggiate sui ponti e nel mio girovagare per i locali, e una compagnia gradita con cui scambiare quattro chiacchiere seduti sulla sdraio intorno  a una delle cinque piscine.

Il capitano è ancora distante, però; gentile con me come con tutti nelle sue rare apparizioni, ma mai a portata della voce bassa che serve per un segreto condiviso.

“Pepe! Ehi, Pepe!”

Non faccio in tempo a muovermi che una mano pesante mi cala tra le scapole.

Il macellaio texano mi afferra per le spalle e mi sbuffa in faccia il fumo del suo sigaro. Mi volto e vedo la mia faccia riflessa nei suoi grandi occhiali a specchio  Puzza di sudore e di crema solare al cocco, indossa una camicia hawaiana sgargiante che svolazza fuori dai suoi pantaloni corti.

“Ti cerco da un’ora. Che cosa ci fai qui, tutto solo? Vieni a bere una cosa con noi, siamo intorno alla piscina di prua.

Poi pranziamo insieme, ci rilassiamo e ci prepariamo alla serata.”

Si ferma e ammicca. Vuole sentirselo chiedere. “Che serata? “ Gli domando.

“Cena privata con il comandante. Che cosa ti avevo detto?”

Il suo sigaro mi soffoca, ma il mio sorriso è sincero.

“Sei contento, eh? Lo capisco. E’ il tuo debutto in società. Vestiti bene e mantieniti sobrio.”

Sghignazza e mi dà altre due manate sulla schiena.

“E adesso, vieni a farti un tuffo, e se hai paura dell’acqua, c’è sempre il Margarita.”

 

La sala sembra appesa al tramonto con un filo.

Architetti sapienti l’hanno ricavata in uno spazio a lato della plancia. Aggetta sul mare ed è un semicerchio di vetro contornato da una balconata  che mantiene i suoi ospiti invisibili dagli altri punti della nave.

Dentro, la musica di Chopin è solo un sottofondo, che risalta, tuttavia, stagliato contro un silenzio privo persino dell’onnipresente ritmo cardiaco del grande cuore d’acciaio.

Mi stupisce un po’ verificare di persona la confidenza che c’è davvero tra il capitano e il macellaio, che mi presenta, ed introduce anche l’esperto finanziario e la moglie annoiata, e un’altra coppia, lei manager, lui avvocato, di Boston.

Viene servito l’aperitivo e, con esso, si dà avvio a una conversazione formale che il comandante della nave conduce con affabile abilità.

Le mie dita corrono alla cartolina che mi brucia nella tasca della giacca scura. Cerco coraggio e ispirazione, mando giù un altro drink, sperando che qualcosa si sciolga nell’atmosfera che separa me e lui.

Non credo che sia il momento giusto per parlargli, ma lo è per rendermi meno anonimo ai suoi occhi, per diventare una presenza conosciuta, un ospite da non tenere fuori dalla porta. 

Ci sediamo a tavola.

Il cibo è ottimo e raffinato, e anche l’affiatamento tra i commensali migliora. Gli altri sembrano addirittura trovare spiritose le battute del texano, o forse è la sua rozzezza che li diverte. Fingo di associarmi alla loro allegria e, un paio di volte, incrocio lo sguardo del capitano. Ho l’impressione  che, in tema di umorismo, la pensi come me e mi sconcerta, una volta di più, la presenza di un individuo tanto volgare al suo tavolo elegante.

Il tempo passa e la cena sta per finire. Una volta di più, è la voce del macellaio a svettare sulle altre, un po’ impastata: “ Ehi! La cena è terminata, ma la notte comincia ora! So che il nostro comandante, che ringrazio per la magnifica serata,  è abituato a andare a letto con le galline; d’altra parte,  lui qui ci lavora;  noi invece siamo in vacanza e preferiamo le pollastre, e quindi, cosa ne dite di fare quattro salti in discoteca? Naturalmente dopo un ultimo brindisi al nostro Cristoforo Colombo. Al comandante! Che possa avere sempre mare buono e venti favorevoli!”

Tutti sollevano il bicchiere verso di lui, che si alza in piedi e, con un breve inchino della testa, solleva anche il suo calice rispondendo: “ E commensali squisiti come voi.”

Ho la sensazione di essere l’unico sufficientemente sobrio da cogliere l’ironia della sua frase, o forse sono solo l’unico che non si sta divertendo.

Il capitano riprende a parlare con gentilezza, come se davvero fosse dispiaciuto  della partenza dei suoi ospiti: “Signori, spero che la cena sia stata di vostro gradimento. Non vorreste assaggiare almeno un goccio del mio rum speciale, prima di andare via?”

Il texano risponde per tutti. “Oh, no, grazie!  Tienilo per la prossima volta, sono pieno come un uovo! Già così, per fare andar giù tutto di salti ce ne vorranno almeno sedici,  e se voglio stare al passo con la mia giovane pollastrella, conviene che mi dia una regolata.”

E’ un’occasione d’oro, e decido di non perderla.

“Io quel rum lo assaggerei, capitano, se non le dispiace. Il passaggio da Chopin alla musica da discoteca sarebbe troppo brusco per le mie orecchie anziane. Le prometto  di togliere il disturbo in fretta.”

“Ci mancherebbe! Sarà un piacere. Bere da soli è molto meno bello che in compagnia.”

In pochi minuti, gli altri sgomberano il campo, il capitano fa abbassare le luci,  e la sala, privata del chiacchiericcio delle donne e del vociare insulso dei loro maschi, diventa una bolla magica che racchiude un tesoro di note cristalline.

Un cameriere porta la bottiglia ed esce, ed è il comandante stesso a versare nei due bicchieri due dita di liquido ambrato. Me ne porge uno. Lo prendo, e mi dirigo verso la balconata.

La notte è limpida e calda, appoggio le braccia alla ringhiera e aspiro l’odore del mare.

Il capitano mi raggiunge, e si mette al mio fianco in silenzio.

So che è troppo presto. Non è possibile pretendere che lui si fidi già di me, e un approccio sbagliato rischia di creare danni irreparabili. 

Ma non ce la faccio a tacere, e decido che non posso più aspettare; che questa è l’occasione e non voglio  lasciarmela sfuggire.

Butto fuori tutto, senza esitazioni.

“Non sono quello che tutti credono. E avrei mantenuto il patto. Lei è l’ultima persona al mondo che vorrei mettere in difficoltà. So quanto sia pericolosa la sua missione e l’ammiro moltissimo per ciò che fa.

Per questo sono stato attento a inventare una storia che mi potesse permettere di avvicinarla senza destare sospetti. Mi dispiace, non avrei voluto farlo.

Ma non posso morire senza rivederla.”

Faccio scivolare la mano nella tasca della giacca, le dita mi tremano quando gli porgo la cartolina di mia figlia, quell’unico prezioso segnale a cui ho avuto diritto, la testimonianza della sua libertà.

La guarda, poi fissa i suoi occhi nei miei. “Alicia.-mormora, e la sua voce diventa un sussurro-  E’ vero, non avrebbe dovuto farlo. Lei sta mettendo a repentaglio l’intera organizzazione.”

Mi prende un brivido di freddo, mentre cerco di ragionare se questa risposta sia comunque meglio di uno stupore artefatto.     

E, a un tratto, lui perde tutto il suo distacco e il suo contegno e mi sorprende; mi abbraccia.

“ Ma tu sei il padre di Alicia, e non sai il regalo che mi fai. Le ragazze  e i ragazzi che porto via da Cuba li vedo per pochi minuti, il tempo in cui devo trovare loro un rifugio sicuro sulla mia nave. Non posso parlare con quelle persone, non so nulla delle loro storie e delle loro famiglie, sarebbe troppo pericoloso approfondire, e, a volte, ho l’impressione di essere soltanto un corriere di fantasmi che escono dal buio e al buio ritornano.

Capisco bene che è per la loro sicurezza e per la mia, ma il dolore che spesso hanno negli occhi, per il poco tempo in cui  incrocio i loro sguardi, non lo posso affrontare né lenire. E a volte  mi sembra che rimanga sulla mia nave.

Non conoscere la vita dei fuggiaschi, né prima né dopo, per me  è la parte più difficile della loro fuga.”

Non so se è la mia malattia a rendermi fragile o se sono le sue parole a commuovermi. Gli rispondo:

“Io sono il padre di Alicia, ma tu sei  il padre di tutti quelli che fai rinascere a una nuova vita.”

La bocca gli si piega in una smorfia.“Un padre che nessun figlio potrà  mai riconoscere. Per questo ringrazio dio di aver conosciuto almeno te. Me li fai sentire tutti un po’ più vicini.

Non ti preoccupare per tua figlia. Ti aiuterò a ritrovarla quando saremo in America. Fino ad allora, manteniamo la nostra cautela. Grazie, Pepe.”

Gli stringo la mano. “Non riesco a credere che sia tu a ringraziare me, dio ti benedica, so che non potrò mai sdebitarmi, e non mi chiamo Pepe.”

Il capitano sorride. “Non importa. Resta Pepe, per ora. Mi racconterai di te e di Alicia al nostro arrivo.”

Mi ritrovo sul ponte, per la prima volta con la testa leggera come un palloncino. La speranza ha davvero effetti prodigiosi sulle vite degli uomini.

Prendo a fantasticare sul prossimo incontro con Alicia come se fosse già reale e stabilito, poi vado oltre: perfino come se avessi un futuro di nonno accanto ai propri nipoti, per gli anni a venire che invece non verranno.

Mi ritrovo, a notte inoltrata, su una panchina, in compagnia dei miei sogni e di una bottiglia.

Sembra che tutti dormano, ormai; intorno a me c’è solo il rumore costante del solco d’acqua arato dallo  scafo, mentre la nave avanza sul suo sentiero scaglioso di luna.

Il frangere della prua è una ninna-nanna ed io sono in pace, come non mi accade da mesi. Mi assopisco, ma quando la mia testa crolla all’indietro, mi ridesto di soprassalto. Spalanco gli occhi, per caso  verso l’alto e, affacciata alla balaustra del ponte superiore, la vedo. Mi dà le spalle, forse intenta a fissare il margine scuro del cielo tuffato nell’oceano. Sta fuori dal  luminoso  giallo di un lampione, ma la luce d’argento che bagna la nave mi mostra ugualmente il vestito che indossa; è il suo preferito, a fiori, quello che la fa sembrare l’incarnazione stessa dell’estate.

“Alicia” Dico più a me stesso che a lei. Colgo appena il movimento del suo capo, e subito il mondo si mette a girare vorticosamente, non so per quanto. Ma quando si ferma, l’apparizione è svanita.

Respiro profondamente mentre la chimica del mio corpo, che ha accelerato il cuore,  riesce anche a sbarazzarsi di una buona percentuale del torpore alcolico.

Mi inerpico per la stretta scala che porta al ponte superiore, deserto come lo doveva essere anche pochi minuti fa.

Raggiungo il punto da cui la mia allucinazione scrutava il firmamento. Qualcosa brilla sulle assi del ponte. Mi chino a raccogliere un piccolo orecchino: un vetrino azzurro sfaccettato a cui è appesa una minuscola conchiglia.

Non lo riconosco. Non sembra prezioso. Apparterrà a qualche giovane turista che l’avrà perduto chissà quando, correndo sul ponte, passeggiando con un gelato in mano, o flirtando con il ragazzo che ha scelto per movimentare questa crociera.

Non è di Alicia.

Mi vergogno un po’ della mia visione; la speranza ha anche controindicazioni.

Lo metto in tasca e alzo, istintivamente, lo sguardo.

Sopra di me, verso prua, il balcone e la vetrata semicircolare che ha ospitato la cena col capitano, e la nostra reciproca confessione, sono immersi nel buio.

Lui starà dormendo poco distante, nel suo alloggio; o forse ha già cominciato il turno in plancia.

In ogni caso anche il mio viaggio è finalmente cominciato davvero e, per portarlo a termine, conviene  risparmiare le energie che mi restano.

La stanchezza torna ad aggredirmi e decido di dare retta alle richieste del mio corpo sfinito; scendo la scala, prendo l’ascensore e, un quarto d’ora dopo, mi lascio cadere sul letto.

 

Mi sveglio certo di aver sognato e, tuttavia, non riesco a scacciare dalla mente la nitidezza di quel miraggio notturno.

E anche l’orecchino che stringo nuovamente tra le dita mi lascia perplesso, per la capacità mostrata nello  sfuggire a ramazze solerti, sguardi acuti e innumerevoli paia di piedi.

A meno che non sia stato perduto poco prima che io lo ritrovassi.

Questa idea per un momento mi terrorizza, potrebbe essere stata partorita da una metastasi del mio cervello, così come la visione che l’ha prodotta, eppure non mi sento confuso, stamane, anzi, mi pare d’essere pieno di energie.

In ogni caso, conviene che tenga per me quel che mi è sembrato di vedere. Di una cosa sono sicuro: Alicia non può essere ancora su questa nave.

Mentre mi lavo, percepisco un rallentamento nel ritmo delle macchine e rammento che la giornata di oggi è dedicata alla visita di Barbados.

Jo mi vorrà di sicuro trascinare nel suo tour dei locali caratteristici, forse mi conviene fingere di non stare bene e prepararmi a essere fresco e riposato per questa notte.

Ordino la colazione in cabina e mi sistemo sul balconcino, in attesa. Se il macellaio venisse a bussare alla mia porta, indosserò una faccia sofferente prima di aprire.

Non passa più di un quarto d’ora prima che un tocco discreto  e una voce cristallina annuncino il servizio; apro la porta e aspetto che la graziosa ragazza in divisa apparecchi all’aperto il tavolino in teak.

Le do la mancia e mi accomodo, mentre la costa dell’isola comincia a sfilare alla mia destra.

Faccio a tempo a finire di mangiare e bere prima che la nave cominci le manovre d’attracco.

Di Jo nessuna traccia.

Me ne stupisco un po’; lui e la sua giovane moglie non si perdono un’escursione. Immagino che si stiano preparando per scendere a terra e non abbiano semplicemente voglia di venirmi a cercare. Meglio così.

Assisto all’ormeggio e alla discesa dei passeggeri dalla nave, quelli che posso vedere dal mio punto di osservazione a poppa.

Quando l’ultimo di essi ha messo piede in banchina, faccio passare  una ventina di minuti, per essere ben sicuro che anche dall’invisibile passerella di prua sia scesa tutta la processione, poi esco e mi dirigo alla piscina grande.

Come mi auguravo, non incontro Jo, né qualcuno della sua combriccola.

Mi sdraio al sole con un libro in mano e aspetto che si faccia sera.

 

I crocieristi sbarcati sono rientrati e la nave sta per salpare; sulla rotta di ritorno ci attende meno di una notte di navigazione  prima di arrivare a Martinica, poi toccheremo St, John, St, Croix, e infine,  il lungo salto fino a Nassau, Bahamas, per poi concludere la crociera nella vicina Miami.

Lì comincerà il mio viaggio vero, e non aspetto altro che il momento in cui metterò finalmente piede nell’ultimo porto.

C’è dell’altro, però. Un’impazienza nuova. Ora che ho parlato con il capitano e che posso contare sul suo appoggio non riesco più ad accontentarmi di sognare il momento in cui rivedrò mia figlia.

Voglio sapere di lei, del tanto che mi è stato sottratto anche quel poco che conosce il comandante.

Voglio sapere dove è stata durante la traversata, che parole ha detto, che cosa ha mangiato, se era più triste per l’esilio o  più allegra al pensiero della libertà che l’attendeva.

Non riesco a trattenermi dal desiderare di lei, come se avessi appena assaggiato un frutto delizioso e succulento dopo anni di acqua salata.

Cerco di pensare ad altro.

E’ strano che non abbia ancora visto in giro il texano; alcuni dei suoi amici sono risaliti; poi Pamela, passando di qui, svela il mistero; mi dice che Jo non è sceso a terra , mentre la sua mogliettina se l’è spassata tutto il giorno con loro: sabbia bianca, mare blu, daiquiri fantastici, e bla bla bla, eccetera eccetera.

Pare che il macellaio si sia perso tutta la festa perché non è stato bene, la notte scorsa.

Non ho difficoltà a crederlo: beve come una spugna e mangia come un lupo.

Racconto che anch’io devo aver esagerato con i bicchieri della staffa, e così sono rimasto a impigrire sul ponte.

Lei sembra indecisa sull’opportunità di cogliere l’occasione per coccolarmi, poi forse capisce che il suo insulso e danaroso marito potrebbe  vederla e risentirsi per una tenerezza eccessiva esibita in pubblico; si limita a una carezza e un casto bacio sulla guancia, mi strappa la promessa di cenare al suo tavolo, arriccia il naso, vezzosa, e va via.

Pochi minuti dopo vado via anch’io.

Stasera non intendo fare il giro dei bar, prima di cena. Voglio mantenermi lucido, perché, anche se non so ancora bene come, devo togliermi dalla testa quell’idea che si è piantata in qualche punto del mio cervello come un chiodo, dal momento della mia allucinazione.

 

A tavola, l’atmosfera era strana.

Mancava un po’ l’irruenza volgare del macellaio texano, che ha anche diminuito il consumo di alcool e si è limitato a mangiare le portate, invece che divorarle.

Deve aver preso una bella batosta.

Io ho abbandonato la compagnia e mi sono ritirato in cabina molto più presto del solito, ho cercato di dormire un po’ senza riuscirci, e alle tre del mattino sono venuto qui, a sedermi su un gradino della scaletta, invisibile dal ponte superiore.

Guardo il mare, e guardo in su. Finché nel mio campo visivo entrano due piedi nudi e due polpacci giovani e affusolati, che si dirigono, senza rumore, al parapetto.

Le mie pulsazioni aumentano a tal punto che temo siano udibili dall’esterno. Mi alzo lentamente  e salgo la scala con cautela.

La ragazza non si accorge di me. Sta dove l’avevo vista ieri notte, ma adesso riesco a coglierne il profilo, e non è quello di Alicia. Il cuore rallenta.

Mi incuriosisce, tuttavia, la sua presenza. Sono sicuro di non averla mai incontrata sulla nave, probabilmente è un membro dell’equipaggio che lavora in orari o settori che non ho mai frequentato.

Metto la mano in tasca ed estraggo l’orecchino raccolto sul ponte. Mi avvicino, abbandonando la mia circospezione, lei si volta e rimane,  per un attimo, come paralizzata, con gli occhi spalancati; ho addirittura la sensazione  che smetta di respirare. Le sorrido e le mostro l’oggetto che tengo tra le dita.

“Buonasera, o forse buongiorno, signorina. -sussurro-  Ho trovato qui questo, ieri notte. E’ suo, per caso?”

Non mi risponde. Si volta e schizza via, veloce come una gazzella, sparisce verso prua, lasciandomi basito, ma finalmente certo di non aver sognato e di non essere pazzo.

Provo a seguirla, ma la nave sembra nuovamente deserta.

All’improvviso mi pare di udire rumori, sopra di me: una specie di tonfo soffocato, e lo scatto di una porta.

Alzo gli occhi. Verso prua, per un momento, colgo un breve chiarore.

E allora capisco. E mi domando  come ho fatto a essere tanto ottuso. Quella che ho visto è una delle ragazze che, come Alicia, fuggono in America grazie al coraggio del comandante che le ospita clandestine sulla sua nave.

Per questo la mia presenza ha provocato il panico in quella sventurata.

Domani proverò a parlare al capitano, in modo che la rassicuri e si tranquillizzi anche lui sul mantenimento del nostro segreto.

Mi volto e scendo le scale; indugio un po’, affacciato alla ringhiera, con l’idea di prendere un’ultima boccata d’aria prima di andarmi a coricare, ma, a un certo punto, mi pare di udire una rapida nota stonata nella melodia monotona del mare tagliato; come se la prua si fosse imbattuta nel cavo di un’onda, ma senza produrre sussulti. E, in effetti, quale sussulto potrebbe provocare la navigazione su una scura tavola liscia?

Cambio idea e torno sui miei passi e, più in là, nella direzione in cui la ragazza è sparita.

La catenella che mi trovo di fronte delimita gli spazi riservati all’equipaggio; poco oltre, una porta immette nel corridoio; da lì, una scala e un ascensore conducono soltanto all’alloggio del capitano e alla sua sala da pranzo.

Scavalco facilmente;  la porta non è chiusa, il corridoio, rivestito di moquette, non fa risuonare i miei passi.

Salgo la scala e, proprio accanto alla cabina del comandante, scopro quello che non avevo visto la sera prima.

C’è un pannello, dissimulato nella parete, che adesso noto solo perché non è perfettamente chiuso; è più piccolo di una porta, probabilmente dà accesso a uno stanzino di servizio o a un qualche magazzino.

Mi guardo intorno soltanto un momento prima di chinare la testa ed entrare.

Dentro, il buio è completo. Decido di correre un altro rischio e cerco a tentoni un interruttore.

Lo trovo, e la luce illumina un ambiente squallido, privo di oblò, con tubature a vista sul soffitto e sulle pareti metalliche.

Una brandina disfatta è incongruente, qui dentro, come lo sono un paio di sandali da donna e un vestito abbandonato sul giaciglio.

Mi manca il respiro quando lo riconosco. E’ l’abito che indossava la ragazza misteriosa la prima volta che l’ho vista. E non è simile a quello di Alicia. Adesso che lo stringo tra le dita, mentre un  groppo mi sale alla gola, sono sicuro che sia proprio il suo.

In un angolo del ripostiglio c’è una specie di gavone. Lo apro, e lo scopro pieno di indumenti femminili.

Una serie infinita di pensieri mi attraversa la mente nello spazio di un secondo.

All’improvviso, le voci soffocate di un alterco mi arrivano da qualche parte.

Qui non c’è niente altro da vedere. Prendo il vestito ed esco.

Davanti alla porta della cabina del comandante ascolto ancora sussurri di rabbia trattenuta. Tento la maniglia e la sento cedere.

Entro. Nessuna lampada accesa, all’interno, ma una porta schiusa sulla vasta sala da pranzo, fornisce l’illuminazione che basta, ricevuta dalla balconata.

Due ombre, all’esterno,  appoggiate alla ringhiera, si stagliano contro la luce lunare. E, mentre mi avvicino, le loro parole si fanno più chiare.

“Quella piccola troia aveva trovato il modo di uscire e se ne andava a spasso di notte.”

“Proprio adesso che c’è capitato tra i piedi il ficcanaso, ti rendi conto del rischio che abbiamo corso?”

“Già. E’ tutto il giorno che me lo rinfacci. Però è andata bene. E secondo me tu hai esagerato. Potevamo godercela ancora un po’.”

“No, sei tu che esageri. Prima ti fai menare per il naso dalla mulatta, poi pretendi anche di farmi la paternale perché ci hai rimesso il giocattolo.”

“Mi pare che i miei giocattoli divertano anche te.”

“Sì, ma io non perdo la testa al punto di farmi abbindolare. Tu, invece,  sei ammalato di fica e vai in confusione. In ogni modo, anche il ficcanaso dovrà sparire.”

“Non sono sicuro che sia una buona idea. Potrebbe aver parlato con qualcuno. Potrebbe avere qualcuno che lo aspetta.”

“Ragiona, comandante: è un altro clandestino. Te l’ha detto lui o no, di non chiamarsi Pepe? Farà la fine delle ragazze e nessuno lo verrà mai a cercare.

E del resto, il sistema ha sempre funzionato, giusto? Quelli che sono arrivati di là ci adoreranno per tutta la vita; se ne avessimo bisogno, si butteranno nel fuoco per noi.”

“Intendi i maschi e le femmine brutte?”

“Sono così stupidi da credere di rinunciare al passato per la loro sicurezza e non sanno che così difendono soprattutto le nostre scappatelle.”

State tranquille. Una volta salite sulla mia nave, sparirete nel nulla. Sono sicuro che manterrete il segreto. Per sempre.

Non si può nemmeno dire che non siano state avvertite.”

Ridono. Sommessi e sguaiati, producendo suoni raschiati che paiono rantoli.

Adesso ho capito davvero tutto della mostruosa macchinazione.

Le sventurate che cercano il loro aiuto, se sono desiderate, vengono costrette a sottomettersi alle loro voglie dal miraggio della fuga e dalla paura del ritorno; credono che il prezzo della libertà sia cresciuto a dismisura, e non immaginano che salderanno il conto con la propria vita.

Per il comandante e il macellaio, ucciderle e gettarle in mare è un rischio minore di quello rappresentato dalla loro testimonianza. 

Si salvano quelle che non piacciono e gli uomini, che  serviranno a diffondere per misteriosi canali  le voci della loro riuscita, dando modo a due belve di continuare a cibarsi di carne giovane e lucrare sulla disperazione.

Ora so che cosa era il breve suono diverso dell’acqua. Era il rumore della caduta di un corpo.

Ora so che non vedrò mai più la mia scalza apparizione notturna.

Ora so perché è qui il vestito che la mia bellissima Alicia ebbe da sua madre, e che non avrebbe mai abbandonato.

Mi avvicino di più, lentamente, tenendolo l’abito in alto, come fosse una bandiera.

Il capitano e Jo si accorgono di me quando sono ormai a pochi metri e leggono qualcosa di ineluttabile nei miei occhi; così non tentano di mentirmi, di fermarmi; non parlano nemmeno. Il texano estrae una piccola rivoltella per minacciarmi, mentre il comandante mi balza addosso con le braccia in avanti e le dita protese come artigli.

Non mi interessa fuggire. Non durerei molto comunque, con il cancro che mi divora, e adesso mi resta solo un viaggio da intraprendere. Mi lancio contro i due assassini.

E’ rimasta  un’unica strada per arrivare ad Alicia, e passa di qui.

Capiscono, a un tratto, che non cerco di sottrarmi e i loro occhi sembrano schizzare dalle orbite. Jo spara e mi colpisce, ma non mi frena.

Mi avvinghio a loro, usando le forze residue e il vestito a fiori come fosse una corda. Jo bestemmia e spara di nuovo.

Ma è troppo tardi. Stiamo già saltando.

*

La Dea Della Bellezza

Ho fatto tutto per benino.

Certo, riconosco di essere partita in vantaggio. Mamma mi ha dotata di un corpicino niente male.

A quattordici anni mi agghindavo già come una signorinetta e, non dico per vantarmi,  ma erano tanti i torcicolli quando passavo per strada.

Mia mamma era contenta e orgogliosa di me. Papà un po’ meno, ma si sa che per certe cose gli uomini hanno poca sensibilità.

Sia come sia, io ascoltavo sempre i consigli della mamma: -carina con tutti, fidanzata con nessuno-.

Lei guardava avanti, voleva per me una vita importante, il successo e l’onore del mondo.

Ho vacillato un po’, a sedici anni, con il professore di filosofia.

Non è che mi piacesse proprio davvero, proprio tanto; era un po’ il tipo vecchio barbogio, però più interessante dei compagni di scuola stupidotti che volevano solo mettere le mani dappertutto.

Insomma, il fatto è che una ragazza deve fare le sue esperienze, e io volevo sperimentare se potevo  riuscire a fare innamorare di me un uomo così grande e intelligente.

Bé, non lo dico per vantarmi, ma ho  fatto centro!

Ha mollato la moglie e i figli, si è perfino inginocchiato, piangendo, davanti a me.

Che buffo!

Aveva ragione la mamma, gli uomini sono proprio dei bambinoni.

Poi però è scoppiato uno scandalo e non è stato bello.

Lui ha dovuto lasciare la scuola, ha avuto anche un processo.

Io ho detto la verità; che sono sempre carina e gentile con tutti (-fidanzata con nessuno- non l’ho detto, non mi sembrava il caso di ripetere proprio le parole della mamma), che forse lui aveva frainteso.

L’hanno accusato di  molesto, una cosa piccola, si dice anche dei moscerini.

L’hanno condannato, ma non sarebbe dovuto andare neanche in prigione,  un anno o due e di lui non si sarebbe più ricordato nessuno.

Credo che sia stato per la moglie.

Lei non l’ha voluto perdonare, l’ha scacciato di casa e lui era probabilmente un uomo fragile, tormentato.

Poverino. Si è gettato sotto un treno.

Certe donne sono davvero crudeli, quando ci si mettono.

Comunque quel brutto periodo è passato quasi subito; a diciassette anni mi hanno eletto reginetta di bellezza.

Un sogno che si avverava!

Però me lo sono meritato.

C’erano tante belle ragazze, lì, alla sfilata, ma il presidente della giuria ha notato me, tra tutte.

E la mamma, quando se ne è accorta, mi ha detto che con lui avrei dovuto essere davvero molto carina.

Bé, è stata una fatica.

Del resto, era la prima volta, -nessuno nasce imparato- dice sempre il mio parrucchiere, un uomo che ne ha viste di tutti i colori, e a me non mi aveva ancora imparato nessuno come fare a cavarmela in fretta e con il minimo danno possibile.

Però, se non è stato proprio bello, è stato davvero utile.

Tutti i giornali della città hanno parlato di me, alcuni hanno rispolverato la storia del benedetto professore, e siccome non tutto il male viene per nuocere e tutto il mondo è palese, grazie anche a lui, sono finita fotografata perfino sulle pagine dei quotidiani nazionali; poi è arrivata la televisione e il presidente della giuria è stato proprio un galantuomo, mi ha presentata a un sacco di gente, tanto che ho dovuto concedergli il bis.

Ma quella volta lì mi sono sbrigata meglio.

Intanto crescevo, e la mia carriera andava di pari passo con il mio bel corpicino: fioriva.

Ho partecipato a programmi televisivi, a vent’anni ho vinto un reality, ho conosciuto cantanti e calciatori, mi hanno invitata in tutti i locali alla moda, perfino quello là, in costa smeralda, dove per un po’ di tempo sono stata un’habité.

E il bello è che mi davano dei soldi per stare lì a divertirmi in posti dove altri pagavano fior di quattrini per venirmi a vedere.

Alla sera telefonavo sempre alla mamma, dovunque fossi, e le raccontavo tutto.

Anche di quella volta che sono stata invitata a una festa piena di politici importanti; alcuni importantissimi.

Lei era al settimo cielo, voleva che le spiegassi bene ogni dettaglio.

Bé, qualcuno lo tenevo per me, abbiamo tutti diritto alla sua privasi.

Anche con papà le cose andavano meglio, dopo che gli ho regalato la pors.

Dopo un po’ di tempo, però, le cose sono cambiate un pochino.

A venticinque anni mi chiamavano un po’ meno.

Certo, lo capisco, ci sono in giro miliardi di ragazzine senza scrupoli che ucciderebbero per comparire in tv.

Si drogano, si ubriacano e fanno di tutto senza vergogna.

La mia mamma, però, quelle non ce l’hanno.

E’ stata lei la prima ad accorgersi che ci voleva un ritocchino.

E così mi sono fatta rifare le tette.

Ho speso un sacco, non volevo mica quella roba da barbone che scoppia  appena ti muovi un po’ di più, volevo un lavoro ben fatto, che anche a strizzarle non te ne accorgi, e così sono andata dal migliore dei chirurgi plastichi.

Ne è valsa la pena! Adesso la mia quarta puntata verso il cielo attirava mosconi come il miele.

Da lì in poi, ho capito il trucco; appena calava un po’ l’interesse, aumentavo un po’ il silicone,senza badare a spese.

Labbra carnose, zigomi alti, tette spettacolose, ventre piatto.

Ma il capolavoro è stato il culo.

Dopo che l’ho sistemato un po’ (non che ne avesse davvero bisogno, un’intuizione di mamma), un giornalista ha commentato il mio calendario chiamandomi la dea della bellezza.

E’ stato il mio trionfo; le ho sbaragliate tutte: bella di una bellezza  impossibile, come la canzone.

Non riuscivo più a tenere il conto di tutti gli inviti, le proposte, i regali, i pretendenti; non dovevo preoccuparmi d’altro che di desiderare per vedere i miei desideri apparire in carne, ossa e contanti.

La mia bellezza era così assoluta che ho cominciato a innamorarmene anch’io.

E lì è cominciata la sofferenza, perché la parte di me che mi ha davvero conquistata era quella per me meno agevole da frequentare.

Certo, ci sono gli specchi, ma, quando mi contorcevo, tutto il mio corpo si deformava e non potevo avere del mio culo perfetto la stessa perfetta visuale che avevano gli altri.

E anche toccarlo, magnuscarlo, era scomodo per me, e mi dava la sensazione di portare in giro un dono bellissimo che però solo io, in tutto il mondo, non potevo godere del tutto; come avere una borsa Chanel a portata di mano e non poterla comprare, o sbavare per un tacco dodici stiletto delizioso e non riuscire ad entrarci.

Una specie di supplizio di Tontolo.

Perfino il postino o il posteggiatore, lascia stare un amante, potevano, con una semplice occhiata,

ricavare dal mio culo più soddisfazione di me.

Non era giusto!

Cominciai ad essere gelosa di tutti gli sguardi che si posavano incessantemente sul mio didietro, cominciai a nasconderlo e mortificarlo con gonnelloni da suora o pantaloni larghi, e così gli inviti diminuirono.

Anche la mamma non capiva e ci stava male, ma a lei non potevo proprio raccontare quella cosa così privata; dopo tanti anni di -carina con  tutti e fidanzata con nessuno-, non potevo mica dirle che avevo preso una sbandata per il mio culo.

Stavo precipitando nella disperazione, finché ho avuto un’idea, forse la prima della mia vita, ma è stata molto luminosa e, a pensarci bene, anche semplice.

Nessuno ne sa niente, ma tra poco mi toglieranno le bende e lo potrò finalmente vedere anch’io, in tutto il suo splendore, e toccare e accarezzare, e non avrò più bisogno di nasconderlo perché sarà davvero mio prima che di tutti gli altri.

Il dottore, all’inizio, era un po’ perplesso, ma poi, quando gli ho detto che non avrei potuto vivere altrimenti e che ero disposta a pagare qualsiasi cifra, si è convinto.

Anche la mamma sarà contenta della sorpresa, ne sono sicura; anzi, ci scommetto che si commuove.

Sai che colpo, alla prima apparizione in pubblico! Le ragazzine schiumeranno d’invidia.

Tra poco toglieranno le bende ed io non sto più nella pelle all’idea che finalmente potrò guardare e toccare fin che ne ho voglia il mio bel culo, girato sul davanti.

Oddio! Le tette non daranno noia? 

*

il pozzo e il pneuma

Un po’ di luce in più non mi  dispiacerebbe.

Neanche un po’ di caldo.

Respiro bene, tuttavia.

E anche i battiti cardiaci non sono accelerati.

Li posso sentire mentre pompano il mio sangue con la vibrazione regolare di una nota di basso, inserita tra lo scroscio ritmico dei risucchi seguiti da brevi gorgoglii.

Potrebbe essere un buon rap.

Niente paura.

Calma.

La mia esperienza è superiore a quella di chiunque altro.

La mia freddezza è esemplare..

Esamino la situazione.

Non c’ è da fare affidamento su Luca, l’ho spedito io stesso in un’altra direzione senza dirgli che sarei venuto qui.

Siamo scesi insieme, ma a me non piace lavorare con qualcuno intorno; si rischiano discussioni sulla divisione del guadagno.

Anche Pietro sa che deve tornare a prenderci tra un’ora,  davanti alla chiesa, cento metri più in là, questi sono i patti.

La caviglia comincia a far male, devo muovermi con cautela, se si gonfia è peggio.

Le lancette luminose mi dicono che sono inchiodato qui da cinque minuti; ho ancora una mezz’ora buona e pochi metri da percorrere verso la salvezza.

La mia frustrazione mi riporta a tutte le norme trasgredite da anni.

Mai da soli; mai senza appoggio; mai senza segnali, lo sanno tutti.

Certo che lo so che è pericoloso, ma  quello che faccio io viene meglio in solitudine, maledetti corvi, maledetti manuali, maledetto buon senso.

Mi ci sono già trovato, più di una volta, e me la sono cavata.

Sarà così anche oggi.

L’aria che inspiro è fresca e buona, ma devo dosarla, adesso sono mendicante del  bene più gratuito e comune, al punto che non posso permettermi neanche un respiro inconsapevole.

Cerco un’altra volta di capire in che modo il mio piede sia incastrato nella spaccatura, e il raggio della torcia illumina il viso della statua, libero quasi del tutto dalla sabbia del fondo.

Dioniso mi rimanda una smorfia beffarda.

Quella faccia potrebbe valere la cifra dell’esistenza di un uomo, preferisco pensare che mi stia sorridendo.

Appoggio la torcia alla fronte del dio, per dissipare l’oscurità che mi tiene e avere mani libere.

Del buco, però, continuo a capire poco; lì l’acqua è più torbida, come se una corrente mantenesse sabbia costantemente in sospensione.

Cerco di muovermi con delicatezza, ma una fitta mi rammenta che i bordi della roccia che mi imprigiona sono taglienti.

Mi sembra che, fra le alghe, si levi un ricciolo di fumo rosato, subito diluito.

Il piede deve essere già più gonfio, sento che comincia a intorpidire e non riesco a muovere le dita.

Mi fermo e respiro lento, ma mi pare che la nota di basso si faccia un po’ più incalzante.

Non va bene.

L’ansia brucia ossigeno.

Dall’imboccatura della grotta sottomarina proviene, celeste, il chiarore del giorno.

Saranno tre metri.

Poi altri diciannove verticali, fino alla superficie, alla carezza del sole, all’alito del vento.

Pochi secondi.

Fin da bambino ho compiuto percorsi ben più impegnativi.

E’ quasi buffa l’idea di essere bloccato qui, con un tesoro a portata di mano e poco mare  a contenderti la vittoria e la vita.

Mi arrabbio.

Questo non è oceano, quaranta ruggenti, profondità abissali

Questo è un mare da turisti, un mare noto, una specie di vasca da bagno di casa.

Non è una cosa che può succedere, non qui, non così, non a me.

La morte.

Un brivido; l’inizio di un rimpianto, mentre guardo la macchia luminescente, distante soltanto un paio di colpi di pinna.

Il cuore manca un battito, poi accelera.

Un respiro profondo, solo uno, per rallentarlo e sgomberare il cervello da quella parola nera che si forma sul muro della mente e ondeggia come il ghigno di un fantasma.

Non basta.

Ce ne vogliono due.

Poi tre.

Sento le bolle uscire rumorose dall'erogatore, le guardo affollarsi al soffitto di roccia e mutare forma per strisciare come amebe fatali, via, fino all'uscita. 

Libere.

Le immagino salire in fretta, loro, a cui neanche importa di salire, di abbandonare questa tomba salata di cui non hanno percezione.

Non hanno vita.

Niente da perdere.  

Pure sono così veloci  e ansiose, nella loro corsa verticale, da parere vive.

Io invece, io, quello vivo, io sto.

Quante ne ho sprecate? Quante ne rimangono?

Pochi litri d’aria sono lo scudo di nulla che mi mantiene al mondo.

Tento ancora, curvandomi, afferrando la roccia  e tirando piano in un’altra direzione.

Una lama di dolore mi lacera la gamba.

Mordo i pioli di gomma che stringo tra i denti, butto fuori d’un colpo secondi preziosi e visibili nella loro fuga gassosa.

La fenditura non mi  restituisce.

Cerco di rilassare i muscoli contratti, pinneggio lentamente col piede libero per riprendere l’assetto e scongiurare un crampo in agguato.

L’agonia di una foca arpionata.

Per normalizzare i processi chimici all’interno del mio corpo consumo troppa aria, ma devo, devo trovare più pace possibile, e lucidità. 

Dioniso ride, muto e impudente.

Per liberare lui, mi sono imprigionato

Ho spinto, puntando i piedi sulle rocce, per strapparlo all’abbraccio dei secoli; una pinna è scivolata via e il mio stesso impeto mi ha scagliato nella morsa.

La Moira scioglie l’immortale e chiede un mortale in cambio.

Sragiono.

Quando uscirò di qui, staccherò quella testa pietrosa dal busto, cancellerò quella gioia manufatta, mi prenderò una costosa soddisfazione,

Mi preparo.

Cerco di abbandonarmi il più possibile, mentre lascio colare verso l’alto i secondi necessari a radunare le forze e il coraggio.

Il soffio ritmico dell’erogatore scandisce, come il fruscìo del pendolo, il silenzio di questo mio pozzo inglorioso e domestico, così ad ogni passaggio d’aria  la mia vita si accorcia. 

Della similitudine sono stupidamente lieto: anche nel delirio di disperazione della pagina scritta da Poe, rievoco la pietà di un finale salvifico.

Non rassegnarsi, non perdere la mente.

Mi convinco della necessità del dolore, lo esamino, lo analizzo scomponendolo nel niente che rappresenta.

Una condizione temporanea, un parossismo sensoriale che non può alterare le mie funzioni vitali in maniera definitiva, di sicuro non come l’asfissia.

Per quanto esso possa essere forte, finirà, e questo lo rende meno spaventoso.

Meglio varcare la soglia del dolore che l’altra.

Immagino un male fisico che possa essere la somma di ogni altro mai provato, se sbaglierò per difetto non avrò nulla da rimproverami.

Riempio i miei polmoni, infine, e scatto, chiamando a raccolta muscoli e tendini e ossa, strappando nel guizzo più potente di cui sono capace.

La sofferenza, tuttavia, mi sorprende. E‘ molto di più di quanto potessi immaginare: un istante terribile di nebbia rossa che pare non avere mai fine.

Mi lascia semisvenuto, spossato, incapace di qualsiasi altra percezione.

E così non avverto subito quel che è successo, ci vuole il tempo in cui l’onda di strazio si ritira dopo aver allagato tutto il corpo e tutta la coscienza.

Scende piano, si allontana, ma non troppo.

Si ferma e si appuntisce, rovente consapevolezza del mio piede ancora serrato.

Adesso rimane un’unica alternativa.

Comprendo, in un momento di lucidità, di non essere più lucido.

Il mio  pensiero ormai si aggrappa e si avvita ancora lì: oscillazioni.

Tra  la speranza orribile e la certezza mortale.

Oscillazioni.

Resistere o lasciarsi finire.

Oscillazioni.

Del mio pendolo inconsistente che non taglia e non squarcia, ma si allontana dal mio petto, a intervalli di grappoli leggeri e letali.

Oscillazioni.

Non so nemmeno se me ne sono rimaste a sufficienza. Non sarà un lavoro breve.

Estraggo il coltello, perché la vita è caparbia.

Prego.

Non immagino da quale recesso della memoria mi ritornino le invocazioni che si formano nella mia mente, ma le ripeto ancora e ancora, per distrarmi, ipnotizzarmi nell’unica anestesia a cui ho accesso.

Piango.

Mentre l’acciaio affilato, che neanche vedo, mi cerca la carne nel buio.

All’inizio la sofferenza non aumenta di molto; la parte è indolenzita e quasi insensibile, e il taglio, sicuramente, netto.

Forse è la preghiera che funziona.

Pianifico.

Dovrò recidere rapidamente i tessuti con la parte liscia della lama, finché non arriverò all’osso; allora bisognerà lavorare con il bordo seghettato e ci vorrà più tempo e più forza, finalmente è possibile che io debba far leva con la punta del pugnale per scalzare l’articolazione che spero di trovare in fretta, perché poi mi resterà altra carne da tagliare, dalla parte opposta della caviglia, prima di essere libero.

Libero.

Un pensiero, un magnifico aggettivo, che mi sostiene finché l’arresto lancinante del coltello sull’astragalo scuote ogni centimetro delle mie membra, subito  mosse da un tremito incontrollabile.

Dalla spaccatura si estende ormai una nuvola scarlatta che attira alla festa nugoli di piccoli pesci affamati.

Mi fermo e respiro, respiro senza ritegno; non riesco più a controllare nulla di me, la nausea, le lacrime, l’urina,  il dolore, il terrore, il tremito; non sono capace più di formulare altro pensiero che non sia –tagliare- eppure non riesco a proseguire, non sono in grado di obbedire al mio cervello, o forse il mio cervello non è più in grado di impartire ordini.

L’erogatore mi sfugge di bocca, non ci sono più i gommini che mi permettono di trattenerlo con i denti, li ho spezzati e si sono spezzati anche i denti nello spasimo.

Mi manca l’aria all’improvviso, ed è quest’assenza brusca e terrificante a sferzarmi col suo atroce messaggio: -Sarà così. Tra poco. Per sempre-

Stringo le dita sull’impugnatura della mia cruenta salvezza che, per un attimo, ha rischiato di rotolare in fondo alle fauci che mi hanno catturato, rimetto in bocca l’erogatore, trattenendo i rimasugli di gomma con  i rimasugli di denti.

Respiro profondo; l’aria comincia ad arrivare con sforzo maggiore, o forse è solo una mia impressione generata dal panico.

Urlo.

Dentro di me urlo e manovro il coltello avanti e indietro come un forsennato.

Mi sembra di sentirne lo stridìo mentre divento un agglomerato di tormento, tale da non poter essere superato neanche aggiungendone.

Qualcosa cede, in ultimo, e la mia gamba sembra più mobile.

Rigiro il coltello senza neanche estrarlo dalla nebbia sanguigna che lo avvolge, che mi avvolge, e lo spingo avanti e indietro, ancora.

I pesciolini sono ormai uno sciame impazzito di gioia.

E di colpo la rivedo, la mia caviglia sepolta e difforme, e il movimento brusco con cui ritorna fuori dal buco mi sbilancia, il coltello mi sfugge di mano e non ho nemmeno il tempo di pensare che sono vivo, che pochi secondi mi separano da quell’aria illimitata di cui potrò bearmi fino alla fine dei miei giorni, senza risparmio.

Non ho il tempo perché nuoto, istintivamente e immediatamente, verso la luce.

L’ultima bolla mi abbandona quando sono ormai fuori dalla piccola caverna.

Mi viene da ridere.

Non sento più nulla, o forse sento così tanto da non rendermene più conto.

Da qui in avanti, ce la faccio da solo a risalire. Il pendolo si è fermato. Ho vinto.

Punto la superficie, la mia unica pinna spinge come un congegno difettoso; dietro di me, a partire dall’estremità della gamba orfana,  un nastro rosso segna il sentiero liquido  del mio trionfo.

In un attimo percepisco sul mio volto quell’alito  familiare  che sognavo come un bene inarrivabile, pochi minuti or sono.

Riempio i polmoni e assaporo i profumi, la luce, i rumori del fuori, che suonano una melodia bellissima, comune e mai ascoltata prima.

Il dolore torna a mordere, se mai ha smesso, e la spossatezza e il tremito mi lasciano in semideliquio, ma riesco a sganciare i piombi e abbandono le bombole.

So che il neoprene mi farà galleggiare finché Luca e Pietro mi troveranno al terzo o al quarto cerchio concentrico.

Mi rimane poco da resistere.

 

Non è  infrequente, in questi mari.

L’ho incontrato spesso, di solito a maggior distanza dalla riva.

La verdesca, tuttavia, è uno squalo.

Deve essere stato il mio sangue, ad attirarlo.

Penso di essere fortunato: gli esemplari più imponenti raggiungono i quatto metri, ma questo non è molto grande.

E’ un animale elegante e non aggressivo, perfino timido.

Non provo paura.

Sono più grosso, e più forte.

E lui non attacca l’uomo.

So che, tra breve, la barca di Pietro doppierà la punta.

Mi rimane poco da resistere, ma quando cerco di girarmi, il mio corpo gelato mi ignora.

Tento di gridare, ma la mia voce non supera il livello di un basso lamento. 

Lo squalo è scomparso.

Non mi accorgo più di lui finché non addenta il mio moncherino.

Non sento altro dolore, solo tirare.

So che è un suo diritto.

Senza movimento, voce, reazione, circondato dal sangue, non sono un uomo ai suoi occhi; solo una grande porzione di carne succulenta. 

Era un morso prudente, un assaggio. Mi lascia.

Mi dico che non può nemmeno sperare di farcela, in condizioni normali.

Ma, naturalmente, in condizioni normali non avrei perso tutto quel sangue che l’ha attirato e ha  dilapidato ogni mia energia.

In lontananza, il rumore del motore che si avvicina è una promessa.

Nello sguardo offuscato, la prua che si alza è vicina e troppo lontana, al di qua della punta.

*

Un Talento Naturale

Sì, lo so. Tu ora mi vedi così, seduto tranquillo al tavolino di un locale esclusivo, intento solo a calibrare la delizia dei sorsi del mio mojito.

Guarda il mare, là sotto, oltre lo strapiombo: un altro strapiombo azzurro.

Hai mai visto un mare così?

Respirato un’aria come questa?

Oh, sì, tu sì, ne sono sicuro. Ma ci scommetto che non te ne sei mai accorto, non ti sei soffermato sulla tua fortuna.

E’ un peccato. Come se io trangugiassi il mio cocktail senza apprezzarne il sapore.

E di me hai già un’opinione:

“Questo è uno che non si è mai fatto il culo, nella vita, un figlio di papà,  anche un po’ stronzo.

Anzi, magari parecchio stronzo.”

Ti capisco, sai, tu di me conosci nulla, io invece, so tutto  di te.

Bé, proprio tutto forse no. Per esempio, non so cosa pensi; posso intuirlo, dedurlo, ma non lo so davvero.

Del resto, nemmeno di una moglie, di un marito, un fratello, un figlio, si può davvero sapere cosa pensano.

Si intuisce. Si spera.

Io so, di te, la famiglia da cui provieni, gli studi effettuati, gli interessi coltivati, che successi hai avuto,  che amici hai e, come vedi, che luoghi frequenti.

So perfino, con discreta approssimazione, l’importo del tuo conto in banca.

Anche se, per la verità, conto in banca è solo un modo di dire riassuntivo per chi ha beni disparati e conduce affari in ogni parte di questo nostro strampalato pianeta.

Come vedi, è già molto quello che so.

E quello che intuisco è  che, di me, hai un’opinione sbagliata.

Io non sono stato sempre così come adesso, sai;  sono nato in una famiglia poverissima, ultimo di dodici figli, certo non una benedizione del cielo; piccolo, gracile e decisamente brutto.

Anche ora, senza questi vestiti costosi, il mio orologio, il mio portafoglio pieno, gli occhiali da sole firmati che porto; anche adesso, fossi nudo, non sarei un granché.

No, anzi, diciamolo: brutto ero e brutto resto. Quella che mi migliora un po’ è la sicurezza faticosamente conquistata attraverso la certezza del mio talento.

Tutti noi abbiamo almeno un talento, solo che, a volte, non è facile scoprirlo e valorizzarlo.

E’ lì che entrano in gioco il libero arbitrio e  la nostra intelligenza.

Ma non è il caso di arrivare subito alle conclusioni, in una serata come questa. Abbiamo tutto uno splendido  tramonto da consumare, da questa terrazza incomparabile sospesa sull’agonia del giorno.

Sembra quasi che il sole si tuffi soltanto per noi.

E, in fondo, è proprio così. Il nostro crepuscolo si può vedere solo da qui, venti metri più in là è già altra cosa, una visuale di categoria inferiore e, comunque, non c’è nulla di accessibile lungo un raggio ben più lungo di venti chilometri da qui.

I ricchi hanno diritto ai posti migliori, ovunque.

Ma sto divagando.

I primi anni della mia vita non furono felici, sai. Neanche i secondi, se è per quello.

Mia madre mi partorì in quella baracca che chiamavamo casa, sullo stesso pagliericcio che aveva assistito al concepimento e alla nascita dei miei sette fratelli e delle mie quattro sorelle, e all’andirivieni di numerosi padri.

Adesso non farti un’altra opinione sbagliata; anche se lo sembra, non è una storia lacrimevole; finisce bene, per me.

L’amica che aiutò la mamma a farmi venire al mondo era una donna povera anche lei, e molto bella.

E’ strano, perché i poveri non hanno tempo per coltivare l’estetica, ma lei era avvenente a dispetto della sua indigenza. 

Mi afferrò, tagliò il cordone ombelicale e mi diede a mia madre sorridendo: “E’ un altro maschio”

La mamma mi guardò e non seppe trattenere un moto di repulsione: “Come è brutto!”

“Non ti preoccupare, sono sicura che, crescendo, diventerà bellissimo.”

Si sbagliava. O forse mentiva per bontà d’animo.

Immagino che tu penserai che questo dialogo mi sia stato riportato, e invece no.

E’ curioso, eh?

Per quanto sembri improbabile, io ho ricordi precisi della mia nascita, come se, all’improvviso, si fosse accesa una luce sul mondo, dissipando la tenebra liquida che mi aveva protetto, fino allora, dalla consapevolezza di me.

Sta di fatto che io pensai: “Volesse il cielo che diventassi bello come te!”

E la mamma lo disse alla sua amica, con le stesse parole precise: “Volesse il cielo che diventasse bello come te!”

La mia levatrice si mosse per farmi una carezza, inciampò nel pavimento sconnesso, batté il bel  viso su uno spigolo  del comodino che aveva il ripiano protetto da un rettangolo di vetro.

Forse il ripiano era già venato. Si aprì del tutto e la deturpò perennemente, rendendola guercia dall’occhio destro.

Un disgraziato infortunio, quindi, accompagnò il mio debutto nella società dei mortali.

Mia madre e i miei fratelli ne furono molto dispiaciuti; prestarono alla poveretta i primi soccorsi, chiamarono un’ambulanza e, nella confusione che seguì, io fui abbandonato per alcuni minuti, avvoltolato nei poveri  panni che servivano a riscaldarmi.

Avevamo un cane. Anzi, la mia famiglia lo aveva. Anzi, non è che lo avesse proprio, Nick era un grosso randagio bastardo, fetente e spelacchiato, che faceva da spazzino agli scarsi resti dei pasti dei miei cari e di altri sventurati, abitanti quella specie di favela, e perciò la sua fame non si saziava mai.

Era, lo seppi dopo, un bestione indistruttibile, prodigioso incassatore di calci e bastonate, con una dentatura capace di sgretolare ossa di bue, legno, plastica, qualunque cosa il suo stomaco formidabile fosse in grado di digerire.

E il suo stomaco mirabolante forse non si tirava indietro nemmeno di fronte al metallo.

Questo fenomeno della razza canina era capace di entrare in ogni recesso, di superare qualsiasi barriera e aveva un fiuto allenato a percepire ogni più piccola particella odorosa di plausibile cibo.

Inevitabile che l’attirasse l’odore del sangue, e che mi scoprisse, povera bestia, come un succulento boccone di tenera carne fresca, confezionato apposta per lui.

Se quello sciagurato quadrupede avesse potuto piangere di commozione, sono certo che l’avrebbe fatto.

Mai, in tutta la sua vita, gli era stato offerto un pasto tanto sontuoso.

Mi si avvicinò in punta di zampe, con una sorta di rispettosa eleganza, come se fosse conscio dell’importanza del momento.

Io ero così piccolo ed ingenuo, allora; ricordo che non ne ebbi paura, anzi, quando snudò le zanne mi parve quasi che sorridesse e ricordo che pensai: “Che bel cagnone! Voglio tenerti con me per sempre.”

Gli occhi concupiscenti gli si fecero, d’un tratto, opachi, e le labbra ricaddero sui denti come se fossero state appese a un filo tagliato di colpo.

Mi parve che il suo ultimo sguardo fosse stupito, o forse deluso dalla crudele inopportunità dell’accadimento.

Uggiolò. Sparò una lunga, tonitruante  scoreggia, e si afflosciò a terra come un palloncino sgonfiato.

Morto stecchito.

Ebbi come un brivido di inquietudine, ma lo scambiai per il dispiacere della perdita repentina di un possibile compagno di giochi, caduto sul campo senza aver avuto nemmeno l’opportunità di cominciare a giocare.

Riflettei sul fatto che quella mia vita appena cominciata, mi sembrava già scortese e mal disposta nei miei confronti, ma ero un pargolo ottimista, e con un bell’urlo di gioia scacciai i cattivi pensieri.

Crescendo, però, non potei fare a meno di notare quante  e quanto strane  coincidenze  si verificassero in mia presenza.

Certo, ci sta che uno degli amici di mia madre abbia scoperto all’improvviso una rarissima allergia ai latticini, mai evidenziata prima, quando, cercando di farmi digerire una poppata, colpito da un mio rigurgito neonatale, ne risultò ustionato come da un getto d’acido, ricoprendosi istantaneamente di macchie rosse e soffrendo di un immediato edema della glottide, un gonfiore veloce e invadente che rese indispensabile la tracheotomia, tra l’altro, non perfettamente riuscita, con esiti disastrosi per le sue corde vocali.

Ricordo, tuttavia, che, momenti prima, mentre mi batteva dolcemente tra le scapole, dicendomi: “Su, su, piccolo mostriciattolo, fa’ il ruttino, così io e la tua mamma possiamo spassarcela un po’.” Ricordo che, nonostante la pancia mi dolesse, facendomi strillare, io, colpito dalla virile profondità del suono, avevo formulato un muto apprezzamento: “Che bella voce che ha quest’uomo!”

Fu un vero peccato che, nonostante anni di esercizi, da quel giorno il suo eloquio, diventato avaro,  somigliasse a un gracchiare faticoso e roco.

E, quando acquistai l’uso delle gambe e della parola, gli eventi rimarchevoli si moltiplicarono.

La nostra baracca stava in pianura, in una periferia attraversata da strade che tiravano via dritte, tracciate dalla speranza di un altrove meno grigio e disperato.

C’era, vicino, un prato mai verde e un albero conficcato in esso, sempre scheletrito.

Neanche parevano appartenere al regno vegetale, ricoperti com’erano di polvere e tristezza.

Eppure, un giorno, su quell’albero ai margini di quel prato, separato da un muraglione solo dallo sferragliare di pachidermi ferrosi sulla loro pista inesausta, un uccello fece il suo nido e depose le sue uova.

Noi bambini ce ne accorgemmo subito e, da quel momento, i più piccoli al seguito dei più grandi, andavamo spesso a vedere il prodigio della natura che non voleva rassegnarsi ad abbandonare quel pezzetto di terra vilipesa alla sua malasorte.

Stavamo lì sotto a osservare, in compunto silenzio, la fatica della vita che si voleva rinnovare ad ogni costo, grazie alla protezione delle fragili ali di quel batuffolo pulsante che attendeva. 

Anche noi attendevamo.

E quando, una domenica mattina, trovammo finalmente gusci rotti e testine pigolanti, la felicità esplose, subito trattenuta da una sorta di religiosa devozione, come fossimo al cospetto dell’epifania di un miracolo in cattedrale.

Fu allora che i nostri sguardi innocenti si riempirono di un altro, sorprendente dono.

Fu quando esclamai: “Belli ccellini!” pensando a quanto sarebbe stato meraviglioso vederli crescere, giorno per giorno, fino al primo volo.

L’aquila comparve, come dal nulla.

Impensabile un rapace in quella periferia insolente; una distesa suburbana, piatta senza misericordia, che aveva quasi le stesse probabilità di ospitare una caccia d’ala e artiglio e la visita dell’unicorno.

Ma quell’aquila inopinata piombò sul nido come un castigo divino, lo distrusse, lasciando solo, spenta l’eco dell’ultimo strido, ciuffi di stecchi, e lanugine di piume a danzare lenta nell’aria; poi mi guardò, ne sono sicuro. E un attimo dopo tornò nell’inferno celeste da cui proveniva.

In seguito la mia povera famiglia si avviò a un sensibile miglioramento delle sue condizioni.

In realtà non era difficile migliorare una situazione così compromessa, bastò che l’ultimo degli amici di mia madre fosse uomo di quel poco cuore sufficiente a concepire un’attrazione non  guidata esclusivamente dalla bacchetta di rabdomante che avevano gli altri tra le cosce.

Andammo quindi a vivere in un quartiere appena più decente, e alcuni di noi trovarono la loro strada.

Restammo con mia madre in quattro, due sorelle e due fratelli, i più piccoli.

La mia vita però continuava a subire i colpi di un fato che sembrava accanirsi contro chi mi stava vicino, risparmiando solo i miei famigliari.

Fu forse la circostanza in cui un gatto nero morì, pubblicamente, nel momento stesso in cui incrociò il mio cammino, schiacciato da un’auto che non avrebbe dovuto trovarsi lì, in un bugigattolo di vicolo chiuso al traffico.

Il destino a motore lo spianò, un attimo dopo la mia frase scherzosa rivolta agli amici sul marciapiede opposto: “No! Un gatto nero che mi attraversa la strada! Che sfortuna!”

Potrebbe aver contribuito l’ascolto delle mie valutazioni sulla bonaria clemenza del tempo, udite un paio di volte, forse tre, da alcuni ragazzi,   in occasione di scampagnate o gite scolastiche, appena prima che scoppiassero, subitanee violente e imprevedibili, autentiche tempeste tropicali, con scrosci di acqua, vento e fulmini inusitati alle latitudine nostrane.

In ogni modo,  sul mio conto, le voci si moltiplicavano.

Quelli citati, però, erano fatterelli banali, tutto sommato spiegabili nella loro dinamica semplice; ciò che li trasformò in segnali agli occhi altrui fu la loro frequenza e la voglia di leggenda, tanto più grande quanto più una comunità è sprovveduta e indifesa.

L’insieme cospicuo delle concomitanze bizzarre, elaborato e condito, produsse quindi il sostentamento della mia prima fama.   

Forse, il colpo di grazia lo diede  l’incidente insolito che distrusse la vettura nuova del ragazzo più invidiato del quartiere.

Credo che l’avesse appena ritirata dalla concessionaria di proprietà di suo padre, quando ci passò davanti, a me e alcuni compagni, suscitando commenti rancorosi..

Non accadde nulla quando Paolo disse: “Che culo che ha quella merda di Luigino!”

Né quando Giacomo rincarò la dose: “Quell’affare vale almeno cinque anni dello stipendio di mio padre. Sai quante donne ci tirerei su! E allo sbruffone piace solo farsi vedere in giro per il quartiere.”

Neanche allora accadde nulla.

Invece la betoniera, che precedeva l’invidiabile Luigino, inchiodò e, tamponata, svuotò in un batter d’occhio il suo pesante carico di cemento sul cofano già fumante della fuoriserie, solo un secondo dopo la mia decisa affermazione: “Dite quel che volete, però quella è una gran bella macchina!” 

Bé, sì, capisco anche che tu lo possa trovare divertente.

Il lato più buffo della faccenda si riesce a vedere, in genere, quando non capita a te.

Ma ti assicuro che questa storia ha condizionato pesantemente i miei rapporti umani.

Gli amici erano ormai un problema per me, e io lo ero per loro.

Nessuno mi confidava pene o aspirazioni, per paura che io esprimessi una valutazione o un augurio.

E, d’altra parte, come avrei potuto dire a uno studente che l’interrogazione sarebbe andata bene senz’altro, senza sentirmi responsabile della sua probabile catastrofe; come avrei potuto rincuorare un innamorato tradito col trito luogo comune chiodo scaccia chiodo, senza rischiarne la crocifissione; o gioire insieme a un giovane asso del pallone per il suo ultimo goal, magari apprezzando il suo sinistro esplosivo, senza temere che quello stesso arto potesse andare in frantumi nella partita successiva?

Immagina poi la mia fortuna con le donne.

Se già la realtà non mi aveva elargito fascino, la mia mitologia mi rendeva praticamente un appestato.

Quando gli ormoni urgono, non è bello desiderare di sfiorare un seno acerbo e vedere che quello stesso seno  è già stretto tra le mani della sua proprietaria, in un  gesto apotropaico di disperato scongiuro.

E così divenni sempre più cupo e taciturno.

Immagina: brutto, cupo, taciturno e con la patente di portarogna. E, a differenza del Leopardi, senza nemmeno il conforto di Euterpe.

In definitiva, la mia adolescenza e la giovinezza  furono una via crucis di solitudine, segnata da stazioni di accadimenti funesti.

Nemmeno gli studi, in cui eccellevo, compensavano le assenze delle agognate stupidaggini che mi erano precluse e, d’altra parte, neppure mi piaceva particolarmente lo studio; avevo solo molto tempo a disposizione.

Le mie emozioni di carta erano tuttavia solitarie e smunte, e valevano a stento il prezzo delle pagine su cui altri le avevano scritte.

Io le avrei cedute  volentieri in cambio di una sola viva, nuova e condivisa.

Ebbi perfino pensieri suicidi, non mi vergogno a dirlo.

Quel che cambiò del tutto il corso della mia esistenza accadde passati i vent’anni.

C’era una ragazza. 

Oh, c’è sempre una ragazza. Ed è sempre bella.

Sapevo bene di non avere speranze con lei e mi struggevo di desiderio e autocommiserazione.

Lei spasimava per uno. Uno bello, intelligente, affascinante.

Insomma, una carogna integrale, anche tralasciando il fatto che io mi rodevo per la gelosia.

Una sera seppi che ci sarebbe stata una festa, una delle tante che si tenevano a casa di Tizio o di Caia, una di quelle faccende tra ragazzi, dove magari si beve un po’ e si trova il coraggio per qualche bacio meno casto, una di quelle occasioni in cui si impara che cosa si è e quanto si vale senza l’ingombro degli adulti; insomma uno di quegli eventi a cui non mi veniva mai proposta la partecipazione.

Spiavo.

Quando accadeva, a casa dicevo che anch’io ero stato invitato e mi piazzavo nascosto in un bel punto di osservazione, in strada, o vicino al giardino, perfino appeso ad un traliccio, e guardavo chi entrava e chi usciva, raggranellavo emozioni riflesse come fossero briciole di un pasto sontuoso cadute dalla tavola.

Quella sera lei arrivò con lui, e con lui uscì prima della fine della festa; li seguii, non visto, finché non sparirono oltre la porta di un magazzino abbandonato da anni.

Lungo il breve tragitto, lei sbandava vistosamente e si appoggiava a lui ridendo; rischiò più volte di cadere.

Aveva esagerato a vuotare bicchieri, che sospettai riempiti con astuta premeditazione.

Mi avvicinai e sentii, dopo poco, dei rumori soffocati, dei lamenti, un ansimare doppio, poi un singolo pianto sommesso.

Avrei voluto intervenire, ma non sapevo se la mia partecipazione sarebbe stata ben accolta almeno da un componente della coppia. Non avevo esperienze in materia. E, in ogni caso, lei consenziente o meno, avrei potuto fare ben poco per impedire ciò che, confusamente, avvertivo.

Il ragazzo era una montagna di muscoli veloci.

Trascorsero i minuti più lunghi della mia vita, mentre mi maceravo vigliaccamente in un dilemma che non avrei risolto.

Poi lui uscì, sistemandosi i pantaloni.

Quando fu lontano, mi affacciai sulla soglia, col cuore che menava colpi per uscirmi dal petto, e quella che vidi, alla bassa luce della luna fu, inequivocabilmente, la vittima di uno stupro.

Tu ora pensi che fosse la mia occasione.

Basta entrare, aiutarla, accompagnarla a casa o all’ospedale, condividere la sua pena o il suo silenzio, rendere  testimonianza, se lo vorrà, per acquisire meriti ai suoi occhi.

Ma io non ero nelle condizioni di fare niente di tutto questo.

Se fossi entrato, lei probabilmente avrebbe urlato, sarebbe fuggita, e magari, chissà, avrebbe potuto perfino accusarmi per il delitto dell’altro. Sarei stato un colpevole certamente più credibile; perfino i suoi stessi occhi gonfi, complice la confusione etilica, sarebbero stati lieti di sbagliarsi nel designare l’autore del crimine.

E, se tutto questo fosse accaduto, nessuno avrebbe dubitato della mia violenza e magari, col tempo, anche lei si sarebbe convinta di aver fatto e ottenuto giustizia.

Dici che avrei dovuto correre il rischio? Forse. Ma non lo feci.

Rimasi nell’ombra e attesi finché non la vidi alzarsi e camminare, storta e stracciata, verso casa.

Sapevo che, l’indomani, Jack Lo Stupratore, avrebbe costituito la colonna portante della squadra di pallavolo della scuola, finalista nel campionato studentesco.

Non dubitai neanche per un attimo che si sarebbe recato a fare il suo dovere, per la gloria sua e dei propri compagni.

Così fu.

Il ragazzo giocò una partita magistrale, era davvero un atleta fantastico. La sua squadra vinse e lui fu portato in trionfo.

Attesi sugli spalti (che si vuotarono in fretta, soprattutto nelle mie immediate vicinanze) il tempo giusto per permettergli di togliersi la divisa e cominciare a rilassarsi sotto la doccia, ed entrai negli spogliatoi, vestito di nero come un angelo vendicatore.

Sì, lo ammetto, fu un ingresso un tantino teatrale, con occhiali scuri e tutto.

Al vedermi, i lazzi dei giovani agonisti morirono sulle loro labbra, le mani scattarono ai rispettivi inguini, calò un silenzio assoluto e, per la prima volta, godetti del rispetto e del timor panico che la mia figura, visibilmente, provocava.

Mi guardai intorno lentamente, poi feci tre passi e aprii deciso la porta a vetri della piccola cabina.

Jack Lo Stupratore sbarrò gli occhi, mentre piccole goccioline di rimbalzo colpivano le mie lenti scure, e il vapore mi annebbiava la vista.

Tolsi lentamente gli occhiali e lo guardai fisso.

“Volevo complimentarmi con te. Una partita davvero superba. Sono certo del tuo luminoso futuro. Lo meriti. –poi spostai lo sguardo in basso-  E complimenti anche per il tuo batacchio, raramente ho visto un tipo così ben dotato. Chissà quante ragazze farai felici con un arnese così!”

Si ammalò di tumore ai testicoli nel giro di un mese.

Per guarire guarì, dopo molte cure e molte sofferenze, ma uno dei suoi ninnoli gli fu amputato e l’altro avvizzì.

Non poté mai più praticare sport alcuno e divenne un grasso rottame, assolutamente impotente.

La mia carriera cominciò lì.

Cominciò quando capii che possedevo un talento davvero singolare e che la sfortuna degli altri  poteva diventare la mia fortuna.

Da allora ho affinato il dono, e adesso la situazione è radicalmente cambiata.

Viaggio molto. Mi piace viaggiare, per lavoro e per diletto; nei posti dove vado le persone non hanno quasi mai il tempo di conoscermi a fondo e, se ce l’hanno, poi manca loro la possibilità di diffondere informazioni.

Questo è un grande vantaggio, sai. Specie con le donne.

Ora credo che ti domanderai perché tutte queste cose, così intime, se vogliamo,  le racconto proprio a te, che neanche mi conosci.

Ti avrò fatto l’effetto di uno squilibrato, di uno sfacciato seccatore, nella migliore delle ipotesi.

Eppure il motivo c’è, ed è molto semplice. Qualcosa ci unisce.

Per essere precisi, si tratta della tua foto e del tuo dossier, trasmessi nella mia casella riservata, quella dedicata ai contratti.

E ritengo ci uniscano anche i miei committenti che devono essere i tuoi più acerrimi nemici.

Credo che sia superfluo parlarti del mio attuale mestiere, quello che mi ha reso così diverso dal reietto che ero.

In definitiva, sono riuscito a comprendere il mio talento e l’ho messo a frutto. Sembra facile, ora, ma è stato un autentico colpo di genio che mi ha mostrato l’ampiezza delle mie potenzialità.

Tu capisci, ho fatto del mio handicap il mio punto di forza, la mia salvezza, e adesso sono il migliore.

Nessuna arma per uccidere, a meno di non considerare armi i pensieri, o le parole.  Nessun rischio.

Nessun giudice sarebbe disposto a crederci. E comunque non esiste il reato d’opinione.

Dunque, eccoci qui. Il sole sta incendiando il mare e la mia storia è terminata.

Temo che tu possa dire altrettanto.

Ti auguro il meglio, dal profondo del cuore, il prima possibile.

E riguardati, mi raccomando. La tua è un’età pericolosa.