chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di guido iannone
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Vuoto a perdere

Mi lascio dietro, sovrappensiero, impronte sulla spiaggia, spinto da un vento micidiale che scende a picco giù nella marina per le gole scoscese delle Serre, e mi sferza la schiena con sabbia calda e pungente, a folate, alta nell’aria. Lo Jonio è tutto crespe d’onde che, al largo, si fondono al biancore dei gabbiani inquieti e petulanti, mentre il sole, cocente ancora, s’inerpica in cima alle montagne per poi, con flemma, scendere dall’altra parte, verso il Tirreno e inabissarsi in esso.
Tra breve, ombre assai lunghe e affilate cadranno sulla spiaggia, soverchieranno ovunque e il vento, forse, si vestirà di brezza.
Non più sovrappensiero, decido di tornare indietro, e viro.
Il vento che screpola labbra e insecchisce pupille, pare tenda a calare; di sabbia ne solleva un po’ di meno. E il sole, pur prossimo d’arranco all’altro mare, continua ad avvampare. L’aria, è salata in gola e brucia forte quando svapora fracassona l’onda sbattendo sulla rena e sugli scogli.
Avverto del dolore sul calcagno, il destro, leggero, a dire il vero. Ho calpestato un duro, un ciottolo può darsi, e mi trattengo, per tema d’incappare in qualche vetro nascosto sotto sabbia. Mi chino per capire cos’è stato: smuovo la sabbia e affiora una bottiglia, intera, per fortuna. Un vuoto a perdere, non certo nell’ambiente. Nell’ambiente, appunto. E mi sposto di testa sull’ambiente, però mi perdo, mi avvilisco in fretta. E’ troppo faticoso ragionare con sé di queste cose. E poi nell’ora di calo di giornata, scalzo e arruffato, massacrato dal vento, di voglia non ne ho proprio. Domani all’alba quando s’infuoca nuovamente il mare di sole che ritorna all’orizzonte, può darsi che la mente si rinnovi. Ora così mi sento, mi avverto senza senso, inerte, e, in fin dei conti, in buona compagnia, mi consolo, di un vuoto a perdere.
Mi parlo: “che anch’io lo sia, in fondo, per davvero? A perdere, di certo, e vuoto? “
E’ l’assioma del vuoto che poco mi convince. Me lo domando quasi a cantilena, con gli occhi fissi sopra la bottiglia; e mi adiro perfino per questo stato scemo di indagare sul vuoto:
“Che c’entra la bottiglia? Il vuoto è la sua essenza; da piena è indifferente, il vuoto non si avverte.”
E continuo cazzoso a fare tiritera sulla cosa, fuori dall’ambiente che più non percepisco. Né vento, né mare, né spiaggia, né sole. Tutto è un disparte e sembra, in pieno, un vuoto.
Mi ritrovo seduto, non so come, in punta a un pedalò con la bottiglia in mano.
Pare un sipario aperto su una scena: il paesaggio rimane, eccetto il sole che ha già fatto il balzo, ma da poco però; c’è molta luce ancora dei suoi raggi che irradiano riverberi nel cielo. La spiaggia ha gente assorta a rincasare, borsone in spalla e infradito ai piedi. Alcuni scalzi e altri su sandali o ciabatte, e qualche ragazzino con le bizze, che vuole rimanere ancora al mare.
Mi viene di fumare. Ma poi, me ne ricordo: “che stupido”, mi dico, “ho smesso da più tempo.” Passasse un fumatore, però, lo troverei l’ardire di piatire due tiri per lavare la voglia, per svuotare quel vuoto che m’invade. Ecco ritorna, quel vuoto di bottiglia, quel pensiero di prima, che giù dal ventre sale.
- Prendi. La vuoi fumare? E’ la tua nazionale, quella di tempo fa.
E’ la voce del vento? Un subbuglio improvviso mi trasale. E’ quasi stordimento ed un risveglio, insieme. Mi domando:
“E’ la voce del vento che s’acquieta e gioca nella testa per sbaragliare la voglia di fumare, oppure…? “
Mi giro appena per guardarmi attorno.
Scalza. Pareo, tutto gerani in fiore intorno ai fianchi. Alabastro per pelle e occhi in cui annegare.
Un’angoscia improvvisa mi trasale e grido a perdifiato.
- Anna? Cosa ci fai tu qui? Da dove arrivi? E perché proprio ora che il vuoto mi frastorna?
Il caldo mi ha fregato. Son partito di testa. Chiudo e riapro gli occhi e spero che quell’Anna mi scompaia. Ma cosa mi succede?!
-Non volevi fumare? E’ già da un po’ che ti osservo seduto sul pattino. Ti sei invecchiato assai, ma veramente sai. Dai, fuma, magari ti riprendi.”
-Anna. Sei tu Anna davvero? Quella dei diciassette. Ancora diciassette tu ne hai?
-Certo, ancora diciassette. Non lo vedi? Sono rimasta là, io. Sul terrazzo di allora, al calare del sole, davo l’acqua ai gerani e mi piaceva sbirciarti mentre mi spiavi da dietro la persiana semichiusa. Avrei voluto almeno farti un cenno dei miei tumulti al cuore, dei miei rossori al viso, ma dentro la ragione mi bloccava. E poi me ne scappavo in casa, e ti pensavo, e ti pensavo. Sì, sono rimasta ancora là, sul nostro Corso. Sul Corso senza tempo e della mente. A quella volta dentro il tabaccaio. Le cinque nazionali. E poi le dieci lire che non trovavi in tasca ed impacciato farfugliavi: “scusi signora, non cinque, quattro me ne dia.” E via di fretta, poi, a lavare il rossore lungo il Corso. L’ho rubata a mia madre appena sei scappato, ecco, questa è la nazionale che mancava, la quinta, è quella, te lo giuro. L’ho conservata apposta per ridartela, oggi, in riva al mare.

Voglio scappare via da questo immaginario che mi stravolge il mondo tutt’attorno. E’ come un pezzo di follia che mi travolge. Ho voglia di ficcarmi sotto sabbia assieme alla bottiglia che tengo stretta in mano. Ma non posso.
Anna, mare negli occhi e grano già maturo per capelli, sorride. E mi fissa, piantata a me davanti, tutta vera.

-Toccami. Toccami se vuoi, te ne accerti da te che sono vera. Facciamo come allora, sul finir della scuola: siamo sul Corso. Io con la Milena e tu con Salvo, l’amico tuo più vero. Nove mesi di scuola e senza una parola. Turbolenze di sguardi solamente e fremiti nel petto. E’ stato bello, sai. Quella sera speciale mi sei passato accanto e hai sfiorato la mia con la tua mano. L’effetto brace ch’è durato tanto, volevo non svanisse. E poi. E poi, null’altro. Ti sei perduto, mi son perduta anch’io, e il vuoto ha soggiogato pure il tempo, lì sul qul Corso nostro. Io, solo crisalide, attaccata a te per la tua mente. Tu chi sa dove. Ma ora sei tornato.

Assurdo. Tutto inconcepibile. Anna, soave, continua a fissarmi, parla sorridendo, ha gli occhi d’un bagliore folgorante.
Il vento si è fugato; il cielo limpidissimo marca l’azzurro scuro; il mare, blu cupo, specchio; la spiaggia un deserto, caldo.

-Te l’accendo se vuoi. Fumala la tua quinta nazionale che poi si va; si va sul nostro Corso a camminare ancora. Sì, proprio sul Corso dove io sono rimasta. Mi dai la mano, ora?

Anna mi tende lenta la sua mano, pallida, dalle lunghe dita.
Sto per scoppiare. Il petto non contiene più l’affanno e il ventre rantola conati e sta per vomitare. Tremori e spasmi. Soffro di brutto. penso:”questo è forse il preludio della morte.” Ma Anna è sempre lì, vera, in carne e ossa e, angelica, continua a illuminarmi di sorrisi.
Con la vista che ora s’è annebbiata tendo la mano anch’io. Le dita già si sfiorano, le mie sono bagnate dal sudore, le sue sembrano fuoco. Avverto un gran calore, come se stessi entrando in crematorio, e poi, devastazione immane, l’onda d’urto d’un botto mi spazza via, violenta, dal pattino.
Mi ritrovo per terra, e non sul Corso, disteso sulla stuoia, bagnato anche le ossa dal sudore, sovrappensiero e non? No. Sveglio, sveglissimo, semmai, e con gli occhi sgranati verso il cielo, ad inseguire Anna che scompare al seguito d’un rombo d’aeroplano.
Anna. Ricordo. Anna della mente. Anna pensiero assente ma presente.
Anna dell’oltre, è l’oltre.
E’ morta a diciassette, trafitta contro il muro della scuola da una moto impazzita su una bottiglia vuota lasciata, pure allora, nell’ambiente. Un vuoto a perdere Anna, se l’è portata via!
Scaglio la bottiglia in alto mare e il tonfo apre lo specchio d’acqua in cento, in mille cerchi che si ampliano lenti e vanno all’infinito.
Rincaso anch’io fumando, non so come, la quinta nazionale del mio tempo.

*

Carmelina spiritata


Era un pomeriggio caldo e sonnolento di fine estate.
In un lampo la notizia si era sparsa in paese. Correva di porta in porta come un sinistro alito di vento, generando inquietudine nel petto della gente.
“Carmelina di Carlo, ha preso lo spirito.”
Questa la voce che circolava e le poche donne, sedute sugli usci delle proprie case a snocciolare rosari o a chiacchierare tra comari, ricasavano di fretta e sprangavano le porte.
Il luogo dove si stava consumando l’angoscioso evento di Carmelina era la via principale del paese. Correva, urlava e sbraitava a squarciagola, elargiva, a chiunque adocchiava, ingiuriee e frasi sconnesse intercalate da bestemmie e parolacce. Andava su e giù, dalla fontana al ponte sulla fiumara. Scalza. Alternava, a tratti di corsa veloce, in cui le sue grida si facevano più marcate, andamenti più lenti, che sembrava attenuassero gli impeti del suo delirio.
Si portava dietro uno sciame di persone, come un’ape regina. Erano parenti, amici e qualche curioso. La inseguivano, nel tentativo di convincerla a fermarsi per farla acquietarla, ma era inutile, e quando qualcuno osava di avvicinarla diventava più violenta e si difendeva con tutte le sue forze, sferrando calci e pugni, graffiando e lanciando potenti e copiosi sputi di bava, proprio come un’indemoniata.
gli inseguitori che la rincorrevano nutrivano il timore che la disgraziata, in quello stato d’incoscienza, potesse procurarsi qualche irreparabile danno o commettere gesti sconsiderati ed estremi. In quelle condizioni, Carmelina era seriamente un pericolo non soltanto per se stessa e per la creatura che aveva in grembo da cinque mesi, ma anche per le persone che le stavano appresso.

Carmelina, orfana di madre, morta di parto, era la quintogenita di un contadino, tra i più poveri del paese, con nove figli da sfamare. Assieme ai fratelli e le sorelle maggiori, si davano da fare a lavorare, a giornata, nei campi, dei pochi benestanti del paese. Aveva tredici anni quando Carlo, vedovo da qualche mese, avendo bisogno di una donna che gli accudisse alla casa, se l’era presa al servizio a ore, sottraendola così allo sfiancamento del duro lavoro della terra. Anche suo padre, sebbene le brutte dicerie soffiate sulla morte della moglie di Carlo, correva, infatti, voce che fosse morta di crepacuore quella buona donna, era stato consenziente, convinto di aver fatto la scelta migliore per il bene della sua figliola.
Fu così che Carmelina, gracile e spilungona com’era, che dimostrava avere più anni di quelli veri, incappò in Carlo. Lo serviva a giornata e percepiva pure qualche lira; poche, a dire il vero, perché Carlo, oltre alla paga, le passava da mangiare mattina, mezzogiorno e sera. Carmelina, infatti, in breve tempo, cambiò colorito, perse l’aspetto smunto ed esile e acquistò qualche chilo, divenendo veramente una bellissima ragazza.
Chiara di pelle, bionda di capelli. Viso ovale con incastonati due occhi smeraldini a taglio obliquo, perfetti. Naso regolare e bocca demarcata da labbra piene, turgide e ben tagliate, fresche e sensuali.
Dopo qualche anno di buon servizio, Carlo, ancora col consenso del padre della ragazza, se la tenne in casa pure a dormire, divenendo, di fatto, la sua compagna. All’epoca Carlo era già grande, aveva quarant’anni suonati e due figli maschi di quattordici e dodici anni.
A sentire la gente del paese, Carlo la trattava veramente bene, come fosse sua figlia, e non le faceva mancare niente. Lei, per gratitudine, lavorava, sgobbava come un mulo.

Carlo. Tozzo e grosso di pancia, basso, con un faccione rotondo e barba nera in cui risaltavano sparsi peli bianchi; si radeva ogni due o tre settimane; occhi grandi scuri e testa un po’ chiazzata. Il suo puzzo di sudore si fiutava a distanza, specie in estate. Diceva, spesso e con strafottenza, che lavarsi troppo consuma la pelle e la rende delicata come quella delle femmine. Un uomo preminentemente burbero, incazzoso e attaccabrighe, Carlo. Chi lo salutava ne sentiva il dovere per questa sua indole scontrosa e anche per la sua condizione di mutilato. Gli mancava, infatti, la gamba destra; proprio questa sua invalidità, era forse la causa del suo caratteraccio. Sulla sua mutilazione, tuttavia, circolava in paese una voce. C’era chi sosteneva che l’amputazione della gamba, Carlo se la fosse cagionata ad artificio, in guerra, per prendere il vitalizio dello stato. Aberrante se fosse stato vero.

Il rapporto di convivenza aveva cambiato radicalmente la vita di Carmelina. Da servetta era diventata la donna di casa nella famiglia di Carlo. Restò incinta ben presto e non solo una volta. Nell’arco di tre anni concepì due femmine e un maschio; circa un figlio l’anno le faceva figliare Carlo. Il quarto era in gestazione da qualche mese. Su quest’ultima gravidanza, le malelingue del paese insinuavano che fosse la conseguenza dei rapporti che lei, di nascosto, intratteneva con il primogenito di Carlo, che era circa sua stessa età.

La piazza del paese si era trasformata in platea. Appoggiati alla balaustra di cemento, sovrastante la parallela via principale, erano accorsi parecchi uomini a vedere Carmelina. Al suo passaggio si facevano ripetutamente il segno della croce, per paura di essere anche loro soverchiati dallo spirito che stava tormentando l’infelice.
“Ma parchè non chiamano il prete?” Bisbigliava qualcuno e qualche altro “no, l’hanno avvisato Don Vito, arriverà dopo la benedizione del vespro.” C’era pure chi, sottovoce, domandava: “Ma, dove l’avrà preso questo spirito Carmelina? Proprio su di lei, povera donna, doveva caricarsi?”
Per più di un’ora, durò quel trambusto sulla via principale. Nel tardo pomeriggio Carmelina, cominciò a dare i primi segni di cedimento, si fermò alla fontana esausta e immerse nella fonte i piedi gonfi, scorticati e sanguinanti, prese poi dell’acqua con le mani, si bagnò la bocca e bevve a lungo, provandone sollievo.
Dopo quella breve sosta, Carmelina, parve aver recuperato energia. Di scatto si rivoltò, rabbiosa, cogli occhi iniettati di sangue e le pupille dilatate, contro la gente, che la attorniava a giusta distanza. Ricominciò a sbraitare, bestemmiare e mugugnare da forsennata. Indietreggiarono tutti verso il centro della via per evitare gli sputi che Carmelina, quasi inumana, lanciava tra un attacco di delirio e l’altro. Si strappava la camicetta, denudando i seni, e sollevava la veste scura a pois, oltre il bacino, scoprendo tutto, cosce bianche e basso ventre, su cui spiccava solo il rosa delle mutandine il nero dell’abbondante peluria pubica.
Questo sfogo segnò il tracollo. Carmelina iniziò a storcere bocca e occhi, fu presa da tremori e sussulti in tutto il corpo, fu colta come da una forte crisi epilettica. Stramazzò al suolo e dalla bocca le uscirono rivoli di bava filettati di sangue.
“Oh dio mio, dio mio. Povera Carmelina sta morendo.” Commentavano alcuni mentre si accostavano con cautela al corpo, apparentemente esamine della sventurata.
Zoppo, sulla sua gamba di legno, comparì Carlo, che iniziò a scrutarla non con afflizione, semmai con il cipiglio di chi volesse, dall’alto, biasimarla per l’indecoroso spettacolo che stava dando. Ma lei, Carmelina, chi sa dove si trovava con la testa, in quel momento.
Anche il medico condotto, che intanto era sopraggiunto nella mischia, si avvicinò sospettoso. Le tastò il polso, le sollevò una palpebra e ne scrutò l’occhio. “E’ solo svenuta per il forte stress”, disse rivolgendosi a Carlo, “si riprenderà, si riprenderà, comunque è da trasportare con urgenza in ospedale, trovate un mezzo, intanto io vado a prendere un tranquillante e il disinfettante per medicarle i piedi”.

Nella piazzola della fontana, nel frattempo, alcune donne avevano portato delle sedie impagliate, che furono sistemate in fila e su cui furono posati dei bianchi guanciali. Tentarono di sollevare da terra il corpo semi-rigido della poveraccia, per adagiarlo sull’improvvisato giaciglio, ma fu inutile. Carmelina si risvegliò e, seppure meno aggressiva di prima, allontanò in malo modo le donne.
“Puttane, lasciatemi stare, andate via puttane!” Le scacciava agitando braccia e gambe.
“Carmelina, stai tranquilla, che ti vogliamo solo aiutare ad alzarti, stai tranquilla non vogliamo farti del male.” Tentavano di imbonirla.
“Via, via puttane! Che so alzarmi da sola! Andate via sporche puttane!” Con questi sfoghi Carmelina scattò sulla schiena e si sollevò da sola. Una volta in piedi, dalla bocca semiaperta in una smorfia di sofferenza, le uscì un lungo mugugno, per il forte dolore dei piedi lacerati e sanguinanti. Stava per accasciarsi ma fu sorretta appena in tempo dalle donne che le stavano ancora vicino e fu adagiata seduta su una sedia.
Altra gente, un passo dopo l’altro, si era intanto portata nella piazzola della fontana. .
“Carmelina, ora basta! Hai capito? Non vedi come ti sei ridotta. Su, andiamo a casa ora.” Le urlò Carlo, sgridandola come si sgrida una bambina in preda ai capricci.
“Via, vai via! Brutto zoppo che non sei altro! Vattene via da me!” Reagì lei con estrema rabbiosità.
“Portatemi una gallina, voglio una gallina, voglio una gallina.” Ripeteva, urlando ferocemente e alternando bestemmie e parolacce.
La presenza di Carlo e il suo duro ammonimento l’avevano riportata in uno stato di agitazione molto intenso.
Poco dopo un ometto, sulla cinquantina, si fece varco tra la folla e si avvicinò a Carmelina, tenendo per le zampe una gallina starnazzante.
“Ecco, la gallina che avevi chiesto, Carmelina, te l’ho portata. La vuoi? Prendila che ti fa bene, è tua.” Gliela porse.
Carmelina afferrò la povera bestia per le ali, la immobilizzò con forza tra le ginocchia, la prese per il collo, glielo torse, lo strappò con violenza inaudita e scaraventò la testa col collo mozzato sulla folla impietrita. Spruzzi di sangue schizzarono ovunque. E anche il pennuto decapitato volò via dalle gambe di Carmelina e cadde tra i piedi della gente, spruzzando ancora dal collo reciso sangue fumante.
“Un’altra, un’altra, ne voglio un’altra.” Urlava ora Carmelina resa ancor più assatanata da quel gesto feroce e dalla vista del sangue.
“Voglio un asino pure, voglio un asino, lo voglio ammazzare qui, con le mie mani, gli voglio tagliare la testa.” Cambiò animale perché in quel momento un asino l’aveva visto per davvero. E, infatti, un contadino rientrando stanco dalla campagna, appresso al suo asinello, incuriosito per la presenza di quella folla, si era avvicinato alla fontana per veder cosa stesse accadendo. Udita, però, la pretesa della sciagurata, se la diede a gambe levate, facendosi ripetutamente il segno della croce, e tirando forte, forte l’asino dalla cavezza per farlo trottare. Il ciuco però per i due pesanti sacchi di carico che si portava legati al basto, non ne voleva proprio sapere di mettersi a correre. “Povera Carmelina. In nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Povera Carmelina, l’ha preso proprio brutto e maligno questo spirito. Poverina.” Farfugliava intimorito il contadino, allontanandosi.
Carmelina continuava imperterrita a pretendere l’asino. E lo urlava cambiando perfino timbro e tonalità vocali. Alternava, a strilli con voce femminile, assordanti urli dal timbro robusto e rauco da maschio e pure versi strani e rabbiosi; da belva feroce.

Un vero incubo stava vivendo la gente del paese. Tutto inspiegabile e misterioso per alcuni, per altri invece la ferma convinzione che la sventurata fosse stata veramente cavalcata da uno spirito malefico.

Il prete ancora non compariva, eppure la campana aveva già annunziato la fine della celebrazione del vespro. Si aspettava con ansia il prete, perché Don Vito era esorcista a pieno titolo, riconosciuto dal vescovo. Solo lui, in presenza di possessioni demoniache, avrebbe potuto scacciare lo spirito maligno.
don Vito, già in passato, aveva esorcizzato altre persone del paese. Liberto e Gianni, per esempio, lo spirito lo prendevano con una certa frequenza e Don Vito, con i suoi riti e le sue pratiche, immancabilmente, riusciva a scacciarlo con l’esorcismo.
si raccontava che l’ultimo spirito che si era caricato addosso a Gianni, il macellaio, sia stato veramente potente, malvagio e testardo. Non ne voleva sentire prediche dal prete per andarsene. Gianni, si diceva avesse preso lo spirito mentre toglieva l’arsura di dosso, dissetandosi e bagnandosi a una sorgente d’acqua pura, in campagna. Si raccontava che nei pressi di quella sorgente, in epoca molto remota, fosse stata ammazzata, per gelosia una giovane donna innocente, la cui anima, non dandosi pace, vagava nei luoghi del suo martirio.
per riportare Gianni a casa gli uomini del paese avevano tribolato parecchio, era divenuto di una tale potenza che solo legandolo con delle grosse funi erano riusciti a neutralizzare la forza dirompente che sprigionava. E con quelle stesse funi, una volta a casa, l’avevano immobilizzato legandolo ai ferri nel letto come un capicollo. Chi era andato a vederlo diceva che Gianni appariva irriconoscibile e che sembrava perfino non aver più sembianze umane, tanto si era trasfigurato.
Don Vito, per scacciare quello spirito, tribolò per ben più di tre o quattr’ore, pigliandosi addosso e in faccia fiumi di sputi e di bave che l’indemoniato continuava a vomitare con virulenza.
Alla fine, e solo a notte fonda, lo spirito maligno decise di abbandonare il corpo di Gianni e lo annunciò pure, dicendo che se ne sarebbe uscito attraverso l’unghia dell’alluce destro. Fu quando Don Vito, quasi con aggressiva autorità, impose il grosso crocefisso sulla fronte di Gianni cospargendola d’acqua santa, che lo spettacolo divenne terrificante. Gianni si contorse, ebbe forti convulsioni, perfino gli occhi sembrava gli fuoriuscissero dalle orbite; emise, infine, un lungo urlo taurino e crollò quasi stecchito. Parve fosse stato colpito da una potentissima scarica elettrica, fu come folgorato da un fulmine. I pochi presenti impalliditi e muti si scrutarono tra loro sottecchi e sbigottirono notando, sull’unghia dell’alluce destro di Gianni, un profondo taglio, da cui usciva un rivolo di sangue scuro che macchiò il bianco lenzuolo di lino.

“Sta arrivando Don Vito.” Si sentì bisbigliare tra la gente della fontana. E tutti a puntare lo sguardo sulla via verso la piazza. In fondo spiccava alto il grande crocefisso dorato, sorretto da uno stelo ligneo, portato a braccia sollevate, dal sacrestano in veste bianca. Al seguito avanzavano Don Vito con veste nera e stola viola e un ragazzo, un chierichetto, pure di bianco, che portava l’ampolla dell’acqua santa.
le preghiere che i tre recitavano, avvicinandosi alla fontana, si udivano sempre più nitide.
“Padre nostro, ave Maria, Padre nostro, ave Maria…”
Carmelina, udendo la cantilena delle preghiere, ebbe un sussulto e per un attimo parve assumere un’aria di curiosa attenzione; poi, però, alla vista della croce e del prete, esplose. Provocò uno sconquasso. Tentò perfino di scappare, ma gambe e piedi non la assecondarono e fu costretta a risedersi.
Ricominciò a sbraitare, a urlare, a bestemmiare, agitando le braccia e dimenandosi tutta, per far indietreggiare la gente. Solo tre o quattro donne sembravano incuranti della furia di Carmelina e le stavano quasi appiccicate addosso, per intervenire in caso di necessità.
“Via, via, andate via brutti porci e cornuti; voglio l’asino, lo voglio ammazzare. Via, andate tutti via, vi ammazzo tutti come la gallina se non andate via.” E giù bestemmie a fiume e sputi dappertutto.
don Vito, procedendo, sganciò dal laccio che teneva al collo, il crocefisso di legno con inchiodato un Cristo di metallo brunito. Lo teneva sollevato nella mano sinistra; con la destra prelevò dall’ampolla dell’acqua santa il dispensatore e si avvicinò a Carmelina che oramai quasi ruggiva come una leonessa.
“In nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Pronunziò don Vito con voce ferma e autoritaria, indirizzando l’acqua benedetta sulla disgraziata.
“In nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.” Ripetette più marcatamente, quand’ebbe gli occhi iracondi di Carmelina puntati fissi nei suoi. Per breve, era sembrato che si fosse acquietata, che fosse rientrata in sé, e invece una nuova violenta convulsione la invase. Le donne tentavano di bloccarla, e la sventurata a ogni schizzo d’acqua benedetta ricevuto, si contorceva, sembrava provasse bruciore e bestemmiava e rideva, pure, sguaiatamente e piangeva e tentava di strapparsi i capelli e di graffiarsi le braccia e il petto. Di tutto faceva Carmelina, qualsiasi sconcezza, si riscopriva la veste lacera e mostrava al prete cosce e mutande, e si denudava anche i seni.
“Toh! Brutto prete! Le vuoi? Ti piacciono le mie minne?” E gli sferrava sputi, sgranava gli occhi tra risate beffarde di sfida e bestemmie.
“Spirito maligno lascia questo corpo innocente! In nome di Cristo te lo ordino, lascia questo corpo”. Imponeva ora Don Vito, incurante del comportamento assatanato di Carmelina.

Il rito si protrasse per molto. Lo spirito maligno pareva non avesse nessuna intenzione di lasciare la povera donna, che solo a notte fonda, anche in questo caso, manifestò i primi segni di fiaccamento fisico. A mezzanotte, infatti, Carmelina appariva afflosciata, sembrava sfinita, priva di energie. Si sdraiò sulle sedie e le donne, anch’esse sfinite, la aiutarono a stendersi e le fasciarono i piedi con delle fasce bianche di lino. I suoi occhi non lanciavano più sguardi insanguinati d’odio e di cattiveria, apparivano come velati e semichiusi. Così distesa anche i fremiti la traversavano con minore violenza; non urlava con la stessa aggressività di prima; pronunziava, con veemenza smorzata, frasi sconnesse, in cui nominava ora Carlo, ora suo figlio e per soprannomi alcuni del paese. Era al collasso ormai. Si stava spegnendo come una candela la cui fiammella sfavilla tremolante fino all’ultima goccia di cera che riesce a succhiare.

Carmelina la sua battaglia l’aveva vinta. Era riuscita a far saltare la sua razionalità per rifugiarsi, passando attraverso il caos mentale, dove nessuno mai avrebbe potuto più raggiungerla. E forse, in quel vortice di smarrimento, in cui era stata risucchiata, proprio lì, in quel buco nero, si era acquietata.
L’aveva saltato il muro, Carmelina, e dall’altra parte, il buio pesto nella sua mente aveva fatto il resto.

La seicento multipla sostava nelle vicinanze della fontana fin dal pomeriggio, da quando il medico l’aveva fatta arrivare, e anche la carta per il ricovero era pronta.
Bisognava, però, essere certi che lei fosse sedata del tutto per facilitare il trasporto all’ospedale distante una cinquantina di chilometri.
Le donne, senza parlare, si capirono a gesti e a occhiate col medico. E così la dose di tranquillante iniettata sulla natica, ammosciò del tutto Carmelina .

L’automobile scomparve lentamente alla prima curva e alla fontana, annunziata dal gracidio delle rane, dal ritmato richiamo d’amore del chiù e dallo sciacquio dell’acqua sgorgante dai massi di granito grigio, era rientrata maestosa la notte e Carlo, con lo sguardo smarrito, stette lì fino all’alba seduto su una sedia. Nessuno gli tenne compagnia.
Di Carmelina si seppe, dopo diversi mesi, che era stata internata in manicomio. Nessuno mai più la vide.