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Raccolta di testi in prosa di Veronica Mogildea
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Arcobaleni

"...Arcobaleni. Attaccati alle speranze, i bambini gli cercano nei loro cieli e si stupiscono di non trovarli lì, dove avrebbero dovuto esserci. Allora li inventano. Sfoggiano la loro creatività nei disegni. Le piccole dita con le unghie morsicati stringono in tensione la matita. E linei dopo linei sul foglio bianco si stendono le fantasie di luce i colori. Il sole. L’arcobaleno. Il cielo. Mamma e papà. E lì in mezzo ai genitori con i capelli arruffati e il sorriso largo che copre il volto intero ci sono loro. I figli. Respinti. Abbandonati. Scambiati per una bottiglia di alcol. O per qualcos’altro.

Per cosa mi hai scambiato, mamma?

Gridano nei cieli sfaldati dalla solitudine la loro domanda e trepidanti, col cuore in mano, attendono amore. Un piccolo gesto che sia per loro. Soltanto per loro.

I bambini attendono. Tutti. Allo stesso modo. Anche quelli che fingono indifferenza, attendono. Anche quelli che non sanno di attendere, attendono. Non si trovano da nessuna parte porte più guardate, implorate, sognate, spiate di quelle di un orfanotrofio, perché la porta è l’unica che può portare un giorno la risposta all’attesa. Lo sanno tutti lì, dentro. Lo imparano con il cuore. Ad ogni cigolio di cardini decine di cuoricini vibrano e gli occhi cercano, impazienti e speranzosi, nel varco dell’uscio che si allarga qualcuno da amare.

«Sei la mia mamma?»

E gli ospiti si imbattono in due occhi grandi, quanto il mondo, che implorano di accoglierli.

Mariuccia ha quattro anni, non si ricorda la madre, ma non ha mai smesso di amarla. La vede ovunque e di notte, quando si sveglia, la chiama e stringe al suo petto di orfanella l’unica cosa che ancora la collega a lei – una vecchia copertina di flanella rosa che l’avvolgeva, quando è stata abbandonata. Sulla scalinata della chiesa.

Le manine magre, di un bianco trasparente, come la porcellana azzurrina, si aggrappano alle pieghe dei vestiti degli ospiti, fermi indecisi accanto alla porta, mentre i piccoli cuori battono, si accavalcano in palpitazioni frenetiche in speranza di essere notati e scelti. E se la giornata è generosa e concede un abbraccio anche a qualcuno di loro, il fortunato si abbandona felice con tutta la fiducia che possiede, come se volesse rimanere attaccato per sempre al petto che lo accoglie in quel momento, così com’è, senza rimproverargli nulla.

«Sei la mia mamma?»

Un lamento leggero, appena percepibile si intromette fra i pensieri dell’elegante ospite che indecisa, quasi intimorita si è fermata sulla soglia della grande stanza. Abbassa lo sguardo. Una bambina dai capelli neri, o forse biondi, o forse ancora rossi, come il fuoco, non si capisci, la testa è pelata, liscia e lucida - che importanza ha alla fine in colore - le si piazza davanti. La donna sussulta, presa alla sprovvista e per l’abbondanza delle emozioni, che la invadono, non ce la fa a metterla a fuoco tutta per intera, affonda nel cristallo puro e lucido di due occhi teneri. Tenerissimi. Sussulta. Come risvegliato il cuore comincia a pulsare con forza, con passo veloce, da tempo smarrito. Lei si mette una mano sul petto - aveva dimenticato i fremiti che poteva provocargli uno sguardo. O forse non gli ha mai provati.

Amore! Sono gli occhi più belli che abbia mai visto, senza alcun dubbio. Pensa la donna, ne è convinta. Qualcosa di caldo, simile ad un desiderio o forse ad un sogno l’avvolge. Un desiderio vorace, mischiato alla speranza. Un desiderio a cui non ha mai voluto dare ascolto, fino a quel momento.

«Amore!» esclama gioiosa a voce, già trasportata, tutta presa da un entusiasmo fanciullesco che le gonfia il petto. Si inginocchia accanto alla bambina e si lascia abbracciare. Ma come fanno due manine così piccole, ad esprimere tutto questo amore? Che più dura l’abbraccio, più diventa forte.

«Sei la mia mamma, vero?»

«Mariuccia, lascia in pace la signora, non importunarla.»

L’educatrice corre in soccorso, tira la bambina per mano.

«Scusi tanto, signora, l’insolenza della bambina. Lo fa con tutti, sa come sono i bambini qui.»

«Non si preoccupi, tutto bene», mormora appena l’ospite, quasi con imbarazzo. Si stacca malvolentieri da quelle manine e lascia andare via la bambina. Ma mentre si allontana, senza quel corpicino al seno si sente scoperta, come senza pelle. Estremamente confusa, la donna non sa come definire il sentimento che la trabocca. Deve pensare, ha bisogno di tempo per metabolizzare. Evita apposta di guardare nella direzione della bambina, mentre con un finto distacco la mano allunga un cioccolatino - ha la tasca dell’impermeabile piena. La bambina l’afferra al volo, golosa, un tremito attraversa il suo volto e lei si stringe in un groviglio di vestiti fuori misura per il suo corpicino magro, ma lo sguardo resta inchiodato in una supplica fissa dentro il cuore della donna.

Sei la mia mamma?

Mi vuole! pensa la donna. È lei! Amore mio!

Le palpebre sbattono incapaci di mascherare la sorpresa. E il cuore si dilata incredulo, la faccia - in un sorriso gratificante. Sotto lo sguardo della bambina la donna si sente già più bella, più affascinante. E anche più donna. Si sente materna.

I ghiacciai della solitudine che la circondavano fino ad un momento prima già si sciolgono. Lei lo avverte con tutto il suo corpo. Che bella sensazione! E si sente già pronta a tutto pur di conservarsela.

L’affetto riempie di contenuto il respiro, filtra i pensieri rendendoli puri, guarisce le ferite e sbiadisce le tenebre. La gioia la spinge a filosofare.

Era arrivata all’orfanotrofio senza troppe aspettative, più che altro spinta dal desiderio di agire, di fare qualcosa per sconfiggere il malessere che la rodeva dentro da tempo e ora il sereno di questa pace imprevista, che sorge in fiotti dalla piccola orfanella e la investe in pieno volto, le sembra un dono, ancora più caro, perché immeritato, pensa. La gratitudine le illumina lo sguardo e lei risponde con un sorriso al richiamo della bambina.

«Tornerò. Tornerò ancora!» promette e sa già che non potrà fare altrimenti. In un modo ignoto lo intuisce anche la bambina. Il rosso della piccola bocca si schiude in un cuoricino, gli occhi smaglianti, lo sguardo languido e tenero. La bambina annuisce con la testa. Si fida, come se vedesse già, in anticipo la traiettoria del suo destino, che cambia direzione..." (frammento dal libro ALTALENE DI NEVE)

*

Altalene di neve (frammento)

«Guarda! Guarda!»

«Dove?»

«Su, in alto. Verso il cielo.»

«Perché?»

«Vedi quella nuvoletta bianca a forma di cuore?»

«Sì, bella.»

«Sono convinta che porti fortuna. Quando ti capiterà di vederla, sappi che qualcuno da lontano ti vuole tanto bene e forse in quel momento è in cammino verso di te…»

«Davvero?»

Angelica non ce la fa a trattenere un sospiro meravigliato. Osserva stupita il cielo, poi torna a fissare gli occhi materni. La mamma sorride. Di un sorriso buono. Dolce. Angelica sorride a sua volta, rassicurata, poi annuisce. Ama sua madre. Tanto. E le crede. Sempre. La sua fantasia galoppa. Veloce. Perché ogni idea nuova nella sua testa prende radici. E vola.

Ha otto anni e come tante bambine della sua età crede nelle favole. È convinta, per esempio, che le principesse esistono per davvero, soltanto che non si incontrano mai, perché rinchiuse dentro le torrette dei castelli stregati. E che gli spiriti buoni abitano all’interno dei fiori, perché amano le cose profumate. E appunto per questo, quando è da sola nella stanza, all’insaputa della madre, usa mettersi dietro le orecchie – con lo stesso gesto che ha visto fare anche la mamma – due goccine del profumo buono. Proprio quello a cui la mamma ci tiene davvero tanto, perché regalato da papà al ritorno del suo ultimo viaggio di lavoro.

«Oh» sospirò allora felice la mamma. «Un profumo francese.»

E gli occhi le brillavano.

Negli occhi di mamma abitano due stelline, forse sono cadute per distrazione dal cielo, pensò Angelica stupita.

Il papà sorrideva - sembrava avesse notato anche lui le stelline – lo attiravano tanto, tantissimo e lui si mise subito a cercarle con le labbra, prima sugli occhi, poi sul collo della mamma per raccoglierle. Non ci riuscì - Angelica ne fu certa - gli occhi della mamma brillavano, forse ancor di più di prima, ma qualcosa di splendente rimase comunque appiccicato anche nel sorriso di papà.

Un po’ di polvere de stelle, decise Angelica, che amava dare spiegazioni a tutto e subito pretese di assaggiare anche lei il sapore. Sorniona, infilò il visino fra i baci dei genitori e chiuse gli occhi per l’abbondanza della dolcezza che la stava invadendo. Che bello!

«Ti amo» disse papà.

«Ti amo» sussurrò anche la mamma e Angelica, stretta fra i loro petti che fremevano, vibravano e si aprivano, intuì una grande forza dentro le due parole.

Parole magiche, pensò, belle, portano gioia e luce.

«Ti amo» si intromise anche lei, giusto per sperimentare l’effetto in prima persona.

I genitori risero, tutti due insieme. E Angelica, abbracciata dal loro amore, si sentì talmente felice che lo esternò in una risatina allegra, allegrissima, con tutta la faccia, come se le facessero il solletico. Per lo schiamazzo, la sorellina Taniuscia, che dormiva, si svegliò nel suo lettino da bambola e pretese subito l’attenzione di tutti. Fu presa in braccio anche lei e sperimentarono per la prima volta il bacio a quattro, che a sorpresa piacque a tutti senza differenza, perciò lo ripeterono a lungo. Ancora. Ancora. Fino alla stanchezza...

*

Altalene di neve (frammento)

Gli orfani bianchi.

Il volto, rimasto in ombra, dell’emigrazione delle donne dell’Europa dell’Est.

Gli orfani bianchi. Una generazione intera nata sulle rovine di un sistema ormai tramontato, che tutti criticano e dal quale, spinti da un’illusione vasta quanto il mondo, si affrettano a prendere distanze. Senza proporre niente in cambio, a parte il caos, la corruzione, il degrado. La povertà. La disperazione. Il vuoto.

Da un momento all'altro tutti cominciano ad affannanarsi e a correre, come se fosse possibile erigere una vita su un domani più incerto che mai, che sbriciolato ancora prima di nascere, offre grande opportunità a pochi e toglie la speranza a tanti.

Gli orfani bianchi. Bambini senza identità, radunati sotto un’unica parola: orfani. Nelle statistiche sono privi di nome, nominando uno, nomini tutti. Bambini maltrattati. Bambini abbandonati. Bambini dimenticati. Vittime silenziose ed innocenti delle scelte sbagliate degli adulti. Bambini con genitori in vita, ma che per un motivo o l’altro sono costretti a vivere lontani da loro. Figli di madri e padri disperati, che annegano nell’alcool e miseria, o di quelli che, con la vita stipata dentro una valigia, partono in cerca di un lavoro.

 

Viviamo nell’epoca degli addii e dei saluti amari. Ormai è diventata una consuetudine che non ci stupisce. Si parte in fretta, senza guardarsi troppo indietro, ognuno convinto di fare la cosa giusta. E di conseguenza, anno dopo anno la serenità di migliaia di bambini viene sacrificata in nome di un benessere sfuggente, che è capace di cancellare tutto, perfino la sacralità di un legame di sangue.

I genitori partono. Ma il prezzo lo pagano soprattutto i figli. Lasciati in cura dei nonni, abbandonati a se stessi o accantonati come merce inutile negli orfanotrofi, si trovano da un giorno all’altro soli, spesso senza nemmeno capire il motivo.

«Lo faccio per voi! Per il vostro futuro!» si giustificano con i figli quelli chi partono.

«E il presente?» I bambini con il cuore vedono lì, dove gli occhi degli adulti non arrivano.

«Tornerò presto» promettono allora le mamme e i papà, i sensi di colpa spezzano le voci. «Tornerò!»

Dopo un periodo di lontananza, più o meno lungo, ritornano. Con la speranza di salvare il salvabile, ricostruire da capo il rapporto interrotto con i figli.

Alcuni ci riescono, alcuni invece, no. Altri ancora, semplicemente, non tornano. Scompaiono. Dalla vita dei figli. Dei loro figli. Lo sapevano già prima della partenza, che non sarebbero tornati. È la categoria di quelli che sfuggono le responsabilità, non sentendosi in grado di reggerle e che, con la leggerezza di una scrollata di spalle, cancellano legami e promesse.

Ma i loro figli non lo sanno. Attendono. Come tutti gli altri bambini, allo stesso modo. E sperano. Finché ne hanno la forza.

Nei cuori dei bambini dimora l’attesa. Che si rispecchia in colori di varia intensità dentro le pupille innocenti dell’infanzia. A seconda del giorno. In una sintonia perfetta con il tempo. Se splende il sole, i bambini sorridono e l’attesa è leggera come un raggio di luce. Se piove, si oscurano gli sguardi, perché con il grigiore del cielo l’attesa torna a schiacciare il respiro. Diventa spessa.

Senza una spiegazione il tempo diventa lungo, fuori dal controllo, si stringe e si dilata. Divora. Lascia soltanto un piccolissimo spazio alla speranza. Che continua a palpitare. A nutrire i sogni. Comunque.

Ma i bambini sanno attendere. L’attesa si trasforma con il passar del tempo nella ragione della loro vita. Non possono rinunciare. Non vogliono. Si renderebbero complici di un tradimento che non hanno ideato loro e che respingono con tutte le energie pure, ancora non contaminate, che scorrono nelle vene.

Arriverà quel giorno, dicono, mentre i loro sguardi si spingono fiduciosi al di là delle nuvole. Non c’è spazio per i dubbi nei loro pensieri. Generosi, costruiscono ponti di fiori, arcobaleni di luce. Nel mondo che sognano non ci sono persone infelici. Abbandonate. Il mondo dei bambini abbraccia. Unisce. Non respinge nessuno. È più piccolo di un foglio di carta. Più grande dell’Universo. Perché i sogni dei bambini sono casti.

Arriverà quel giorno. Tornerà la mamma. Tornerà il papà. Meglio se tutte due insieme. Ci sarà sole e gioia. Tanta gioia. E i baci pioveranno in cascate di luce su di noi. Non ci saranno più braccia senza abbracci. Né labbra senza sorrisi. Né lacrime dentro gli occhi. Né cuori senza amore. Non ci saranno bambini tristi. Non ci saranno orfani. 

I bambini sono come gli angeli, sanno perdonare. Nella loro immaginazione le mamme e i papà sono tutti buoni. Anche le mamme assenti sono buone. Anche i padri ubriaconi, gli orchi più crudeli possono diventare un giorno buoni. Anche la mano più dura può imparare a accarezzare. Ci credono.

Ti ho perdonato mamma. Ti ho perdonato papà. Tornate, non voglio altro, basta che mi vogliate bene. Mi basta questo, per davvero, perché io vi amo.

 

*

E’ tutta colpa della mela

      Ecco, ora l’ha combinata. L’ha fatta proprio grossa. Angelica batte disperata le mani. Sicuramente le diranno che l’ha fatto apposta, solo per attirare l’attenzione su di sé e per dare un dispiacere ai genitori. Così come allora, quando fece cadere, per sbaglio, la tazza di colazione che si ruppe in mille pezzi con un rumore terribile. Fu un rumore così forte, fortissimo, da darle l’impressione di esserle scoppiata la testa. Il ricordo era ancora talmente fresco che la indusse a chiudere gli occhi come per proteggersi. E poi tutti quei schizzi, ovunque, perfino sulle scarpe nere e lucide di papà.

Qui la bambina non poté schiacciare un sorriso. Che buffo! Le piccole gocce di latte, simili a delle perline incollate.  Aveva guardato spaventata intorno e incappò in un muro di silenzio, dove ancora ondeggiava l’eco della tazza che si rompeva. Guardava smarrita ed incredula la mamma, poi il papà, cercava disperatamente una spiegazione. Come è possibile, pensava, un attimo, solo un attimo prima c’è l’avevo fra le mani; ancora sentiva sotto le dita il liscio caldo della porcellana, ancora vedeva i bei disegni colorati. Voleva dire tutto questo, ma inciampò nello sguardo carico di rimprovero che le aveva indirizzato la mamma e si bloccò con la bocca aperta, senza respiro. Non osò a guardare il padre, sapeva benissimo che le sopracciglia paterne erano aggrottate, non si sarebbero lasciate commuovere. Comunque non poteva tacere. Doveva assolutamente dire qualcosa! Provò a scusarsi, spiegando, che le dispiaceva moltissimo, ma sentì il suo mento tremare a tradimento e riuscì a malapena a balbettare:

“Non volevo!”

La voce le spuntò fuori con fatica ed era così sottile e debole da sembrare pietosa e ammalata. Il suono che fu prodotto dalla sua gola, che ora, bisogna dirlo, le sembrava secca ed estranea, stupì perfino lei. Del resto nessuno fece cenno di aver sentito. Nella sua famiglia i deboli ed gli irresponsabili non venivano neanche considerati, questo lo sapeva benissimo. Allora la bambina si fece forza e aggiunse un po’ più forte:

“Non l’ho fatto apposta. Mi è scivolata dalle mani. Forse … era, era un pò bagnata.”

Poi, visto che nessuno le rispondeva, nessuno parlava - solo sguardi di disapprovazione e labbra strette - si sentì terribilmente sola ed impaurita. Perché non parlano, perché non dicono niente, si chiese smarrita, mentre il tremito nervoso del mento aumentava sempre di più e si diffondeva già alle mani; cominciarono a bruciarli gli occhi, come se avesse annusato la cipolla e lei non fu più in grado di frenare quel fiume di lacrime che la stava investendo. La bocca le si storse in un ultimo tentativo di non cedere; il nasino si arricci in un modo strano; tutto il volto le si increspò, tradendo un grande dolore e Angelica scoppiò in un pianto disperato, carico di pentimento:

“Non volevo. Era la mia tazza preferita!” si difese lei, allungando i vocaboli che parevano sciolti nelle lacrime che le entravano in bocca ed erano così salate!

“Eccola, ora è capace di continuare così per ore, pur di sfuggire alle proprie responsabilità!” aveva sibilato indignata la mamma, guardando suo marito in cerca di un sostegno: “Dille tu qualche cosa.”

 “Smettila di frignare!” ordinò severo il padre. “Hai otto anni … Sei una bambina grande, devi stare attenta. Era prevedibile che se l’avessi messa troppo sul margine del tavolo la tazza sarebbe caduta. Non è così?” chiese lui greve, prendendola per il mento.

“Si,” mormorò Angelica, senza cercare più la compassione negli sguardi genitoriali, convinta pure lei di essere una bambina cattiva e distratta. Dunque, non protestò quando le dissero di pulire per terra.

“Hanno ragione loro!” pensò, mentre in ginocchia sotto il tavolo asciugava il pavimento. “Hanno ragione!”

Il padre se ne andò, sbattendo la porta; lei rimase immobile ad osservare le perline bianche di latte staccatasi dalle scarpe indignate di papà e rotolare per terra. Piccole palline tonde, cariche di allegria e sorrisi. Allungò la mano e raggiunse una e la schiacciò col dito. Sul pavimento rimase una strisciolina bianca appena visibile. La mamma si sentiva nel salotto; parlava al telefono tutta agitata e nervosa.

Probabilmente sta raccontando alla nonna l’accaduto, pensò la bambina sconsolata. Chissà se la nonna vorrà ancora vedermi.

Si sentiva sola ed infelice, come se si fosse smarrita nel bosco, da dove non sapeva uscire. Sospirò, strofinandosi gli occhi. Guardinga aspettò un altro po’, con gli occhi fissi sulla porta del salotto - la mamma non si sentiva, certamente si era dimenticata di lei - allora Angelica s’infilò di nascosto in tasca un pezzo di quella porcellana fine, sparsa sul pavimento. Proprio quel pezzo su quale stava dipinta la Cenerentola, intenta a ballare con il suo principe.

Lo conserverò per sempre, giurò con dolore. Era la mia tazza preferita!

Più tardi, all’ora di cena promise ai genitori di fare la brava e di comportarsi bene e ora, ora, ecco. Tutto da capo. Ma lei non voleva. Non sa bene neanche come fosse successo. È stato un attimo.

Basta così poco tempo per sbagliare. pensò. È colpa di quella mela. Se non ci fosse stata lei. Davvero, è colpa della mela ...

 Le era sembrata estremamente rossa e bella. Nessuno sarebbe stato in grado di prevedere che una mela così potesse diventare fonte di disperazione. Angelica l’ha vista per caso, nascosta fra le foglie, proprio su uno dei rami più alti dell’albero. La mela stava lì e ammiccava birichina, convinta di non poter mai essere raggiunta e mangiata. Addirittura le sembrò che, mentre si dondolava pigra sul ramo, stesse ridendo. Spavalda. Da brava bambina, Angelica finse indifferenza e decise di continuare per la sua strada, perché a casa l’aspettava la mamma, ma quella mela non la lasciava in pace, l’attirava, come una calamite, con le sue forme rotonde e il colore accesso, pareva avesse raccolto tutto il sole dentro di lei. I piedi di Angelica si fermarono da soli, contro la sua volontà, poi dopo un attimo di esitazione la fecero tornare indietro. La bambina si fermò sotto l’albero e lanciò un’altra occhiata in alto, verso la mela, valutandola.

Chissà quanto dolce è! pensò e già sentiva l’acquolina in bocca e la dolcezza che si scioglieva sulla lingua. Deve essere proprio dolce! decise. Se non me la prendo io, che sono capace di arrampicarmi meglio di tutti, chi se la prenderà? Questa mela da un minuto all’altro potrebbe staccarsi e cadere. Guarda che picciolo piccolo ha, si nasconderà fra l’erba e non la troverò più. O magari, cadendo, si rovinerà. Peccato farla perdere. Meglio che salga io da lei, ci metto un attimo.

Finalmente convinta dal proprio ragionamento, Angelica si attaccò con le braccia al primo ramo, quello più basso e si tirò su piano, piano, cercando con gli occhi un appoggio sicuro, dove mettere i piedi. Era senz’altro una abile arrampicatrice, si sentiva sicura. Quando arrivò allo stesso livello della mela, sorrise trionfante, la mela era veramente bella. Allungò la mano e la mela le saltò nel palmo, quasi da sola, come se l’avesse aspettata e ora era contenta dell’incontro.

Angelica la studiò con attenzione: aveva la buccia integra e rossa, coperta da una leggera pattina biancastra. L’annusò golosa. Profumava. Era tentata di mangiarsela subito; moriva dalla voglia di affondare i dentini nel frutto; le sembrava di sentire già il succo dolce nella bocca.

Bella, disse infilandosela nella tasca del giubbotto, decisa di prolungare l’attesa. L’avrebbe mangiata dopo, non prima di imortalarla un disegno nell’album che le fu regalato per il compleanno, decise, compiaciuta dalla sua idea che le sembrava ottima. Resterà come ricordo!

Per un altro attimo rimase lì appesa al ramo e si guardò curiosa in giro.

Che bello! Quante cose si vedevono da qua su!  E' tutto diverso!

La brezza dondolava leggermente il ramo e Angelica si immaginò di essere lei una mela con la sua gonnellina rossa e il giubbotto giallo.

Sono una bella mela! rise lei divertita.

L’albero le rispose con un fruscio di consenso, appena percepibile come un sussurro. Sì, sei bella!

Sono bella! ripete la bambina.

Bella! Bella! si unirono in coro le foglie, il merlo che la studiava con gli occhi neri e curiosi, il cielo, adornato da piccoli cirri bianchi e vaporosi e perfino il sole che pigro si appoggiava sulla cima verde della collina. Contenta, Angelica rimase a dondolarsi per un altro po’, giocando con il raggio di luce, penetrato fra il fogliame che cercava di abbagliarla.

Che bello! esclamò a voce, parlando con l’albero, con la mela, con il sole. Com’è tutto bello!

Il tempo passava, però. Ora devo scendere. si ricordò. Mi aspetta la mamma.

Ecco, quasi fatto. L’ultimo ramo. Decise di saltare giù a volo. L’aveva fatto già altre volte. Adorava quell’istante, quando, staccata dal ramo, pianeggiava come una piuma sopra la terra; avvertiva un leggero brivido che le nasceva nel petto e che si allargava. Il salto le piaceva; sperava sempre che durasse un po’ di più dell’altra volta, per trasformarsi un giorno in un vero volo. Carica di attesa, inarcò le gambe e si spinse giù, chiudendo gli occhi. La gonnellina rossa allargò le pieghe, come un paracadute.

Ora volo. gridò. Volo!

Seguì uno strattone, poi un rumore secco. E prima ancora di atterrare nell’erba capì. Un lembo della gonna si era agganciato in uno di quei nodi appuntiti, rimasti dai rami spezzati. Impietrita aspettò che il pensiero la attraversasse e con un movimento lento girò la testa per valutare il danno: uno strappo grande, largo da poter infilare la mano, spalancava beffardo la sua bocca.

Di colpo il giorno non le sembrò più così bello, né la mela poi tanto rossa. La inquadrò con gli occhi smarriti e le parve impossibile che fosse la stessa che pochi minuti prima la stuzzicava a salire fino in cima all’albero.

Almeno se fosse stata un po’ più grossa … pensò delusa. Probabilmente non è neanche tanto dolce … sicuramente non è per niente dolce. Che stupida!

Fu presa da un misto di panico e rabbia contro se stessa. Aveva proprio voglia di prendersi a schiaffi.

Stupida, stupida, stupida! continuavano a ripetere le sue labbra lividi. Hanno ragione i miei genitori, quando sostengono che sono una bambina distratta! Sono proprio distratta! Che fare?

Davanti agli occhi le passarono le numerose infuriate del padre e gli sguardi muti, ma molto più dolorosi della madre.

Pensò un po’, grattandosi il naso. Meglio non dire niente.    

Nasconderò la gonna, le balenò in mente il primo pensiero. No, non ha senso, lo scartò subito dopo. Non c’è un luogo sicuro in tutta la casa; prima o poi la mamma l’avrebbe trovata e si sarebbe arrabbiata di più.

E già nella sua mente correvano le immagini talmente reali dei vari castighi che sarebbero seguiti. Rabbrividì, scuotendo la testa combattuta.

Forse è meglio dirlo ora, così almeno potrò dimostrare che sono onesta. Che, in fin dei conti, non l’ho fatto apposta. Certo, mi prenderò la punizione, ne sono convinta, ma …

Con la testa bassa e le falde strappate della gonna raccolti in una mano si trascinò verso casa. Oh, come le pesava quella mela nella tasca del giubbino! Com’erano pesanti i suoi piedi!

La mamma stava cucendo. Il tintinnio ritmico della macchina da cucire spezzava il silenzio della casa. Nascosta dietro alla porta, Angelica vedeva le spalle della madre ondeggiare, seguendo il movimento del braccio che girava la manovella.

Meno male che non c’è papà. riflette. Meglio affrontare uno alla volta!

 Piegò ancora di più la testa.

“Mamma ...” disse piano.

La mamma si girò appena, poi un sorriso le illuminò il viso.

“Sei già di ritorno? “ chiese e sorrise. La voce era soave e dolce, come un cielo sereno e la bambina indugiò un altro po’: dirglielo? Come pesava la sua colpa! Rovinare un tale sorriso! Sospirò.

“Mamma!” la chiamò di nuovo. “Ho strappato la gonnella.”

La mamma alzò gli occhi e chissà perché le sorrise nuovamente.

Non ha capito, pensò Angelica.

“Ho strappato la gonna!” disse più forte. “Guarda!” e infilò la mano dentro il buco, arrabbiata con se, ma anche con la mamma che non voleva capire.

La mamma fece un gesto con la mano, come se volesse dire, che vuoi che sia:

“Si può riparare, no?” domandò a lei, quasi allegra, attirandola a se.

“Come sei grande e bella!” le sussurrò nei capelli.

Angelica sentiva il respiro materno caldo che le sfiorava l’orecchio. Non si muoveva; quel abbraccio la rendeva molto felice. Desiderò che non finisse mai. E poi mai. Se fosse per lei, l’avrebbe fatto durare all’infinito!

“Ti devo confidare un segreto,” sussurrò di nuovo la mamma. E senza lasciarle il tempo di assorbire la prima frase, aggiunse: “Avrai un fratellino!”

“Quando?” in un batter d’occhio la bambina si sciolse dalle mani materne.

Quello che la mamma aveva preso per una manifestazione di sorpresa e impazienza, per Angelica non era che panico allo stato puro.

Un fratellino???

“Presto.” rispose la mamma. E di nuovo quel sorriso sconosciuto s’impadronì del suo viso.

Affondando nel caldo abbraccio materno, sorrise anche Angelica all’immagine bella della madre, ma il profumo dolce dell’amore che la invase diede nascita ad un pensiero fastidioso, come un verme, come un millepiedi, che lei odiava tanto: avrebbe dovuto condividere la sua mamma con qualcun altro.

Un fratellino!

Chiuse gli occhi e sospirò di fronte a tale certezza. Non era pronta; la gioia di un attimo prima si sciolse come un fioco di neve nel palmo della mano, scomparendo senza traccia; avvertì un dolore incredibile nel cuore; aveva l’impressione di aver perso qualche cosa di caro, di importante che neanche lei era in grado di definire. Sbatté addolorata le palpebre. No, era troppo per il suo cuore. Profondamente infelice scoppiò in lacrime, ancora più amare, perché mute, nascoste fra le pieghe del vestito della madre, riuscendo soltanto a pensare:

È tutta colpa della mela!

*

I bambini (framm.)

...I bambini sono seduti sul bordo della strada asfaltata che, indifferente, corre più lontano della loro possibilità di vedere. Oltre l'orizzonte. Non hanno paura: la strada è comunque più breve della loro capacità di immaginare. Rannicchiati dentro l’attesa i bambini parlano di macchine che sfrecciano, tirano dentro le narice la nube di gas inquinante che sale. Non sembrano infastiditi, anzi, sorridono, si credono parte di un mondo che per il momento li esclude. Ad ogni invadenza rombante del rumore gli occhi li si riempiono di stupore, leggono a voce alta i numeri delle targhe, continuamente meravigliati da ogni cosa che non sia loro e che per quello sembra accrescere il proprio valore. La corrente mossa dal passaggio delle macchine li scompiglia i capelli. I bambini la intendono come saluto, rispondono con alzate di braccia. Esultano, sperando in messaggeri buoni che forse un giorno si fermeranno davanti a loro e riempiranno di contenuto reale l’attesa.

I bambini sperano. Usano pezzi di vetro rotto, schegge di bottiglie colorate per trovare arcobaleni. Li tengono fra i piccoli pollici e indici con reverente timore e guardano attraverso il colore il mondo che vedono diverso e nell’accelerazione che abita i piccoli cuori pare più bello, al di sopra di ogni realtà vissuta. L’occhio strizza, acuisce lo sguardo, tira in un sorriso inconscio una parte del volto. Linee delicate e sottili. I bambini vedono arcobaleni e si rassicurano, la temporaneità della loro attesa sembra ovvia. Un orgoglio ansioso li spinge a ricordarsi dei tesori abbandonati per terra, li raccolgono frettolosi e li stringono al petto.

I bambini. Sui loro volti il cameraman si sofferma di più, inquadrando soprattutto gli occhi, dove grida la solitudine, la paura ed un senso di marcata accettazione di fronte all’inevitabile. Con i loro visetti magri e rinsecchiti sembrano dei vecchi, bambini invecchiati prematuramente, sotto il peso del loro destino, schiacciati dal dolore e dalla disperazione. Si concedono all’obiettivo senza particolari emozioni, trapela, forse, solo un debole brillio di curiosità repressa, come se si trovassero seppelliti sotto un cumulo enorme di sofferenza, da dove faticano ad emergere... 

*

La solitudine della neve ( dentro la stazione, frammento)

...Sono le cinque di mattino. Una nebbia fitta sbava i contorni degli edifici attorno. Le mie compagne di viaggio hanno fretta. Gli addii s’impigliano dentro la paura. In breve rimango sola e non so cosa fare. Desolata mi siedo sull’angolo di una panchina ghiacciata. La testa affossata fra le spalle, se potessi diventare piccola, piccola! Lungo i binari persone estranee si affannano. Mi passano accanto frettolose. Corrono dietro quel attimo in più che li aiuti a cominciare bene la giornata. I treni spuntano dal nulla, sbuffano, stridono con i freni e poi spariscono. Nell’aria ovattata riesco a percepire le vibrazioni del loro movimento, anche dopo che la nebbia li avesse inghiottiti. La voce dell’altoparlante scandisce parole incomprensibili. La gente si agita frenetica. Brullica. Io non mi muovo. Non c’è un posto per la mia solitudine. Il vuoto brucia dentro la testa. Non riesco ad inventarmi nessuna mossa che giustificherebbe il respiro. Attendo... 

*

La solitudine della neve (frammento)

 

Come sono lunghi, infinitamente lunghi e brutti i pomeriggi d’inverno in questa parte del mondo. La nebbia, puntellata da piccole gocce di acqua, avvolge tutto per giorni, senza alzarsi un attimo, senza liberare dalle sue catene umide né la natura, né l’animo umano. Ogni tanto si affaccia un sole bianco e calvo, privo di raggi, che galleggia solitario dentro la foschia. Resta a lungo immobile, senza forza, sospeso, sembra un grande piatto e non c’è nemmeno un brivido di vento che l’aiuti a rotolare aldilà dell’orizzonte.

Mi lascio piombare in una sorta di attesa vuota, in cui sento congelare le mie energie. Non devo fare niente! Devo soltanto aspettare che passi il tempo. Poi tornerò a casa. Poi … non sapendo cosa altro stia dietro a questa parola, aggiungo a voce: “Vedrò.” Giro e rigiro per la stanza, senza riuscire a scrollarmi di dosso la sensazione di essere rimasta intrappolata. Come un gatto che maltratta le superficie solide in cerca di un po’ di sollievo per le unghie, anche io vorrei raschiare il tempo che inizia ad incrostarsi stagnante attorno alla mia esistenza. Mi soffoca con la sua immobilità ed inerzia. Fra il risveglio del mattino e l’abbandono della notte vi sono migliaia di respiri, troppi per uno spazio riempito di nulla. Il mio torace alla sera è stanco, come se gli pesasse tutto questo sforzo non giustificato.

*

La solitudine della neve (frammento 3)

Ci ha mai pensato qualcuno che si può capire veramente la storia di una nazione soltanto guardando attentamente gli occhi delle sue donne? E quando noti la rassegnazione che domina su tutte le altre espressioni, così è stato prima, così è ora, perché sperare di cambiare? Capisci allora che questo popolo è finito, che non ha futuro, né dignità. Così come non hanno dignità gli uomini di questa nazione che non sanno proteggere e stimare le proprie donne.

Madri. Sorelle. Moglie. Figlie.

Si può rispettare un popolo che sacrifica le proprie donne, costringendole a delle scelte che non avrebbero mai voluto fare?

L'indignazione è grande, ma non voglio cedere alla rabbia che mi cova dentro, anche se in questo momento è l’unico motore che mi spinge in avanti. I pensieri, come in una centrifuga impazzita, continuano a girare. 

Sono convinta che nelle rughe premature che incidono i volti delle miei compaesane, donne ancora giovani, ma già molto provate, che subiscono e sopportano sin dalla nascita una condizione di inferiorità e sottomissione, accompagnata spesso di violenze e maltrattamenti, occultati abilmente sotto dichiarazioni ipocrite di uguaglianza, si possa leggere la storia di un popolo, il mio popolo, con tutte le sue sofferenze, umiliazioni e disgrazie. E finché non cambierà la condizione femminile, esso sarà condannato ad una esistenza precaria e miserabile ai margini della storia. 

*

La solitudine della neve (frammento)

... “Vuoi che ti accompagni?”

La voce dolciastra di mio marito mi si insinuò dentro i pensieri, riportandomi alla realtà. Sussultai insofferente, come se fossi stata aggredita. La mia sopportazione era a limite. Mi infilai frettolosa il giubbotto.

“No.” risposi secca. Evitavo di guardarlo. I nostri pensieri da tempo non si incontravano più. Come i nostri cuori. Lontani. Indifferenti. Estranei.

Appena fuori dalla finestra infervorava furioso l’inverno. A quanto pare era una stagione contagiosa. Dentro i nostri sguardi c’era il ghiaccio. Dentro le nostre parole c’era la neve. E la bufera scuoteva con forza le nostre anime.

Parole. Le parole. Nascono dal nulla, inafferrabili come l’aria, senza corpo e senza peso, ma pericolose, possono diventare micidiali. Possono scoppiare in aria, frammentandosi in mille schegge, pesanti come le pietre, appuntite come il vetro. Armi taglienti. Meglio tenersi alla larga dalle punte. Meglio tacere. Non volevo dirle. Non volevo sentirle. Desideravo andarmene senza lacrime e senza scene. 

“Ce la faccio.” mormorai.

Come in un banale copione cinematografico, lui mi si avvicinò. Sorrideva.

“Allora ci salutiamo.”

Non pareva per niente offeso per il rifiuto di prima, anzi mi sembrava quasi sollevato. Il viaggio che dovevo affrontare non lo preoccupava.

“Salutiamoci.” risposi con un sospiro, lontana ormai chilometri. Migliaia di chilometri.

“Stammi bene e abbi cura di te e dei bambini.”

Banalità, giusto per dire qualcosa. Ormai dovevo recitare fino in fondo la mia parte. Il pensiero corse nuovamente ai miei genitori, con loro i miei figli saranno al sicuro!

Lui sospirò come se fosse l'agnello sacrificato: “Non preoccuparti. Farò del mio meglio. In qualche modo mi arrangerò … A te auguro buon viaggio e fatti sentire appena puoi.”

Sorrise, esibendo il bel sorriso che una volta mi aveva conquistata. Maledetto quel giorno! Avrei voluto dirli di lasciar perdere: da un bel po’ che non mi fa nessun effetto. Ovviamente non lo dissi. Restai circondata dallo stesso silenzio immobile di prima.

Mio marito mi scrutò un istante come combattuto se doveva proseguire o meno, poi aggiunse con la voce grossa, una sottile minaccia velata di miele: “Vedi di comportarti bene. Io sono un uomo e certe condotte sai che non gli supporterei …”

“Non ricominciare per favore!”

Mi strinsi infastidita nelle spalle.

Tutti questi brandelli di orgoglio maschile in quel preciso momento li considerai veramente fuori luogo e mi scocciavano parecchio. Puzzavano di vigliaccheria. Puzzavano di codardia. Lo inquadrai così com’era davanti a me, con la tuta stropicciata addosso che accentuava ancor di più la sua indole molle e priva di volontà e pensai per l’ennesima volta che era meglio che uscissi prima, prima di dare spazio alla rabbia sconosciuta che spingeva con forza da sotto lo stomaco. Feci un respiro profondo, trattenni dentro la gola il bisogno di urlare, di umiliarlo, di spaccare qualcosa, magari la sua faccia intorpidita. L’aria lì dentro mi opprimeva e lo sforzo che facevo per controllarmi era veramente devastante. Scossa, tremavo per la tensione. Dovevo calmarmi!

Trovai un punto sopra la sua spalla e vi affondai lo sguardo dentro, finché le pupille cominciarono a bruciarmi.

“Stai calma!” mi imposi. “Stai calma!” ormai mi rivolgevo a me stessa in terza persona. Chissà cosa avrebbe potuto dire uno psicologo.

Il punto si allargò lentamente in un cerchio fosforescente dai contorni un po’ sbavati ed io sperai con tutta me stessa di sprofondare lì per sempre. Scomparire senza lasciare traccia. Scomparire, invocavo. Scomparire. Ma non successe niente. Dopo un minuto intero, lungo un’eternità ero ancora lì davanti ai miei obblighi.

Rimassimo come prima in silenzio uno di fronte all’altro, spingevo lo sguardo altrove per non incrociare i suoi occhi. Le parole non dette erano sospese in aria, pesanti e minacciose; le avvertivamo tutti e due.

Due estranei. Io e lui. Una donna e un uomo. Una moglie e un marito. Due mondi, due dimensioni lontane, destinati a restare lontani per sempre. Quel qualcosa che ci univa si era rotto irrimediabilmente. Ammesso che sia mai esistito.

“Sarebbe troppo lungo e complicato cercare di capire ora, quando e come è iniziato tutto …” pensai con amarezza.

Meglio andarsene. Scappare.

Agguantai la maniglia della porta.

“Non mi baci?” mi fermò lui, interrompendo le mie riflessioni e mi sorrise ancora. Sussultai.

“Che c’hai da sorridere?” avrei voluto gridare. “Cosa hai da gioire? Tua moglie parte per un tempo ancora indefinito, per un posto indefinito, per un lavoro indefinito; i tuoi figli vivranno in una casa che non è la loro; tu resterai solo a intontirti in più di duecento metri quadrati di spazio, con l’unica compagnia della solitudine; la tua famiglia si sfascia, non lo senti come si sfascia e tu sorridi. Che hai da sorridere?”

Dentro di me continuava ad echeggiare il rombo della rabbia. Vicino. Sempre più vicino. Assordante. Soffocai con difficoltà l’odio che mi premeva il petto. Mai prima di ora l’avevo sentito così violento. Immobilizzai la lingua per restare muta. “Però la farsa deve finire presto.” decisi. “Presto.”

Tutta tesa, allungai il collo in avanti senza spostarmi di un centimetro dalla porta e gli porsi la guancia, sbrigativamente. Senza nessuna, nessunissima voglia di effusioni amorose. Non ce la facevo più a fingere. Lui simulò di non capire, o forse non capiva; mi attirò a sé con la forza, sentii le sue dita come tenaglie attorno al mio braccio. Cercò le mie labbra e mi imposi un bacio violento, che avrebbe voluto passare per passione e affetto, ma conservò soltanto il sapore acro di forzatura disperata. Incapace di liberarmi strinsi le labbra. Era il mio modo di protesta. Non lo ricambiai. Non potevo. Non riuscivo a perdonargli il fatto di avermi spinto a quel viaggio, allontanandomi dai miei figli. Non potevo perdonargli la sua vigliaccheria. Perlomeno non in quel momento. Chi lo sa, magari col tempo e con tutta la distanza che si metterà fra noi. Quando il sedimento del rancore si depositerà sul fondo …

Con la valigia in mano diedi un’ultima occhiata alla mia casa; cercai un motivo valido a cui aggrapparmi per poter restare, ma non lo trovai. Era come se il mio mondo mi avessi già girato le spalle. Dimenticato. Un altro spasmo doloroso mi strinse il cuore: il prossimo passo che avrei dovuto fare mi faceva soffrire e mi impauriva. Inspirai forte, come prima di un tuffo ed uscii senza più voltarmi...

*

L’ultimo volo del gabbiano (frammento)

... Il nonno strizzava pensieroso gli occhi. Ora bruciavano sotto le palpebre. Sembravano infiammate. Con la bocca aperta per lo stupore il bambino raccoglieva dentro il petto le sensazioni che colmavano l’aria.

“Oh!” sospirava il vecchio, dentro il berretto scolorito si dibattevano inqueti i pensieri.

“Oh!” faceva eco il bambino, più che altro per la voglia di sentirsi grande, ma già si scioglieva in mille distrazioni che ora formicolavano sotto la pelle con la loro urgenza.  

I bambini, si sa, non sono portati per la filosofia. Dimenticano in fretta gli interrogativi, spinti da altre premure, sono sempre in cerca di un qualcos’altro. La curiosità del nipote si spostava, veniva distratta dai gabbiani. Liberi. Orgogliosi. Ali distese che abbracciavano il cielo in giochi vertiginosi e inebrianti.

Con lo sguardo voltato verso l’alto il bambino si alzava, il fascino della meraviglia colmava di luce il suo volto. Voleva volare. Tutti i bambini sognano di volare. Amano abbandonarsi alle sensazioni di libertà procurate dal non sentire il proprio peso. Leggeri come le piume. Con le braccia larghe, in punta dei piedi il piccolo sospendeva il respiro in attesa del volo. Uno, due, tre, contava. Un altro attimo in bilico, dondolante, avanti ed indietro, filo di erba leccato dal vento, poi si lanciava fiducioso dentro la cornice rosea del proprio sogno. Le braccia erano libere, si tendevano con fiducia verso gli orizzonti; lo sguardo premeva sul cielo, direttamente sul punto più alto, dove in ondate lievi, appena visibili nasceva la luce. Sorrideva. Il corpo lo sentiva libero. Indisturbato. Il desiderio allontanava il terreno da sotto le piante dei piedi. Accadeva per davvero.

“Volo!” gridava felice il bambino. “Volo!”

Ora era una piuma. Bianca e leggera. L’assenza del peso tamburellava le tempie. Dentro il cuore l’intero mondo. Dentro gli occhi l’azzurro del cielo. In onde di luce. Di vita.

“Volo! Come il gabbiano!”

La schiuma delle nuvole gli accarezzava il volto, gli cadeva addosso in fiocchi soffici e caldi, come una coperta. Il bambino cercava di raccogliergli nel incavo del palmo. Monello. La gioia prendeva la forma dell’aria e lo riempiva in tutte la fibre, fino alla risata...

*

Luna spenta

Era troppo. Questo era troppo. Non dovevo assecondarlo, lo sapevo benissimo. Mi avrebbe disprezzata ancor di più, pensavo, non posso lasciarmi umiliare in questo modo, ma contro la mia volontà le gambe si piegarono con una solerzia priva di dignità. Ero di nuovo ai suoi piedi, tremante e confusa, che strisciavo sottomessa, inseguendo i suoi passi.

“Perdonami!” gridai con disperazione, abbracciandogli le gambe. In quel momento mi pareva la cosa più importante del mondo. Avere il suo perdono.

Indifferente, lui mi scacciò con uno spintone, come una mosca petulante che gli portava noia, ma pareva contento, non c’era più rabbia nel suo volto. I lineamenti si distesero compiaciuti, offrendomi la vista di una bellezza assoluta. Che subito colmò il mio sguardo. Sussultai. Era così bello il mio uomo che offuscava tutto attorno. Ero felice, nonostante mi sentissi piccola ed insignificante. Rimpicciolita. Accanto a lui ero niente. Soltanto un riflesso sbiadito dentro le sue iride.

La sua mano si allungò verso di me. Fremetti rinchiusa in una attesa trepidante. Il fremito del mio corpo esplose in una vampata accecante, appena lui mi sfiorò i capelli. Sapeva come prendermi. Conosceva il mio corpo meglio di me stessa. Piena di gratitudine gli presi la mano e gliela baciai. Adorazione. Tutto per lui. Niente, assolutamente niente per me.

“Sei mia.” disse. La sua voce roca si stava insinuando dentro la mia pelle.

“Sono tua.” risposi in fretta. L’odore acidulo delle stoviglie sporche sparse attorno mi innervosiva l’olfatto. Lo sentivo fastidioso sulla pelle; tracce di sugo che si seccavano lenti sul mio viso. Pensavo ad un geto di acqua fresca che avrebbe lavato la sporcizia, prima che mi impregnasse tutta.

“Sei mia.” Ripete lui. Non mi era chiaro, se la sua fosse una domanda o una semplice affermazione. Nella sua voce non c’era niente. Assolutamente niente, a parte il ghiaccio. La pressione della sua mano sulla testa aumentava, col dito stava attraversando avanti ed indietro l’incavo dietro la nuca. Con i sensi protesi mi stavo smarrendo dentro la percezione di carezza e ritardai la risposta.

“Perché taci? Perché non rispondi?”

“Sono tua,” stavo precipitando sempre più in basso. “Sono tua, amore.”

“Stai attenta … certi scherzetti non mi piacciono affatto.”

Le sue dita si mescolarono con i miei capelli, sembrava un gioco, poi di scatto, senza un preavviso si chiusero in pugno. Sorpresa, la pelle dell’attaccatura dei capelli si accese bruciata. Gridai. Alex mi tappò la bocca con un bacio, raccolse avido il mio gemito, lo fece suo. Lo strinse fra le labbra e sorrise.

Infine mi amava, me l’aveva ripetuto tante volte.

“Ma certo, è ovvio che ti amo.” Diceva, mentre mi baciava. Soltanto lui sapeva farlo in quel modo. Era buono, forse un pochino nervoso. Impulsivo. Incapace di dominare certi stati di anima. Allora mi picchiava.

“Mi fai male.” gli dicevo, appena sussurravo. I miei occhi diventavano prigionieri dei suoi. Una farfalla dentro la promessa del fuoco. Più mi dibattevo, più rimanevo impigliata.

Sempre di più.

“Mi fai male.”

Lui rideva. Sembrava che si divertisse. Un bambino dispettoso.

“Mi piace farti del male. Mi diverte.”

Tacevo. Non sapevo cosa dire. Ogni colpo esplodeva in mille schegge nella testa. Forse così sono le bombe. Un boato seguito da lunghe fitte che distruggono. Chiudevo gli occhi. Stretti. Stretti. Per non vedere il suo volto trasfigurato. Non lo sopportavo. Facendo del male a me, danneggiava se stesso. S’imbruttiva. Ma non glielo potevo dire. Non avrebbe capito.

Masticavo in silenzio la mia delusione che si scioglieva liquida sulle guance.

“Sei bella, quando piangi. Ancora più bella.” Diceva e mi mordeva le spalle, il collo, i seni, che erano il mio corpo. Ero io. Almeno credevo che lo fosse. Continuavo a chiedermi fino in che misura il mio corpo mi appartenesse. Ancora. Non lo sapevo.

Andai a nascondermi dentro la camera da letto con tutti i sensi tesi come corde. La bambina dormiva nella stanza accanto. Fuori dalle finestre splendeva in raggi languidi e sensuali un bellissimo tramonto estivo. Mi ritirai spaventata dietro lo spessore pesante delle tende. L’invadenza della luce mi ustionava i nervi martoriati. Non la volevo vedere la luce. Non si addiceva per niente alla tempesta scatenata dentro il mio cuore. Una paura pura, senza veli mi scuoteva la carne. Tremando, mi fasciai dentro le coperte, sperai che lui mi dimenticasse. Quando entrò nella stanza, finsi di dormire. Nei pugni stringevo gli angoli del lenzuolo. Lui accese la luce sopra il suo comodino. Rimase a lungo immobile, sentivo il suo fiato addosso, era vicino, forse mi spiava. Un brivido freddo mi fece rizzare i peli sulla nuca.

“Elena!”

Non risposi. Pregai muta che mi lasciasse in pace. Non volevo la sua vicinanza. Non volevo che mi toccasse.

“Elena!” una rabbia appena domata inquinò l’aria. Iniziò a slanciarsi la cintura. “Alzati!”

Suoni che sferzavano l’oscurità della stanza, nella mia testa rimbombavano con la violenza dei tuoni.

“Che vuoi?” mormorai senza aprire gli occhi. Non dovevo farlo entrare nel mio campo visivo. La paura m’infettò la voce di brividi. Un groviglio di rettili si contorcevano dentro lo stomaco. Erano freddi. E viscidi. Corrugai la fronte per ricordare la spiegazione scientifica del sangue freddo dei serpenti. 

Con uno stappo Alex tirò la coperta. Lo scudo pietoso che teneva insieme il mio corpo cade come due ali morte ai piedi del letto. Restava la pelle. L’unica protezione. Che non serviva a nulla. Sapevo che Alex, quando la colera prendeva il sopravento, era in grado di strapparmela a brandelli, striscia dopo striscia, pur di affermare il proprio dominio. Pur di saziare i demoni che lo abitavano.

“Te lo devo spiegare?” la minaccia diventò dura. Solidificata pendeva sopra la mia testa. Come una lancia. Pronta a colpire.

No, non doveva spiegarmelo. No! Erano più che chiare le sue intenzioni.

“Brutto porco!” avrei voluto gridare, perché ero nauseata di tutto quello che stava per accadere, ma non lo dissi; non osai nemmeno affrontare il suo sguardo pieno di tenebre. Pensai subito alla bambina. Avrebbe potuto svegliarsi in qualsiasi momento. Senza una parola mi alzai e andai a inginocchiarmi davanti a lui che si scuoteva in sghignazzi di riso infernale che come percorse frustavano la mia pelle. Umiliata. Trascinata dentro un fango che non avrei mai potuto levarmelo di dosso. Nonostante ridesse, il suo sguardo affondava in una spietatezza furibonda e non mi risparmiò nemmeno una delle umiliazioni. Come una medicina amara, o veleno dovetti assorbirle tutte, goccia dopo goccia. Con i miei capelli stretti nel pugno rimase a guardarmi dall’alto verso il basso, cogliendo con occhio vigile ogni sfumatura delle emozioni che attraversavano il mio volto, come se la contemplazione della mia caduta lo ergesse più in alto.

Ogni tanto alzavo gli occhi, lo spiavo da sotto le palpebre che a stento frenavano le lacrime in cerca di un briciolo di tenerezza, d’un ombra di complicità, ma non vi trovai niente che avrebbe giovato il mio cuore, nessun balzammo sulle ferite dell’orgoglio. Nessuna consolazione. La stessa attenzione che si accorda ad un oggetto, necessario per adempire un bisogno.

Un suono ringhioso e soddisfatto interrompe il mio supplizio. Aspettai. Con un calcio nel fianco si staccò da me, ancora prostrata ai suoi piedi e senza una parola mi abbandonò lì, in mezzo alla stanza. Non si curò nemmeno del rumore per la porta sbattuta che avrebbe spaventato il sonno della piccola. Andò via. Non mi sono chiesta dove, avevo la testa sprofondata in una sorta di nulla viscoso. Senza forma. Come se tutto il sangue del corpo si fosse racchiuso nella scatola cranica in un grumolo nero di vergogna.

“Non può essere vero. Non è successo a me. Ora mi sveglio e mi accorgo che non è che un sogno. Un brutto sogno.”

 Un filo di speranza si opponeva ancora, resisteva. Rimasi immobile. Trafitta. Non so quanto. Un’ora? Un giorno? Forse un anno. Il tempo esiste soltanto nelle nostre percezioni. Le mie erano smarrite. Pietrificate dentro una clessidra pietrificata. Rotta. Da dove stavo seduta si intravvedeva il cielo grigio, quasi nero. Un’ angolo scuro e opaco, spalmato di nebbia che mi teneva ancora legata al mondo. Quel mondo.

Dovrei reagire, mi ripetevo. Cercavo di aggrapparmi ad ogni cosa che mi prometteva sostegno. Per evadere. Evadere da quella vita. Da me stessa. Ma il pensiero non riusciva ad andare oltre. Si dibbatteva penoso senza trovare abbastanza forza per proseguire. 

Mi odiavo. Detestavo tutto quello che mi rappresentava: la mia carne, la mia mente, la mia indole vigliacca. Perfino la mia ombra. Nemica. Raschiavo la disperazione sotto le unghie, grattando la pelle. Era tutto quello che potevo fare. Non immaginavo la vita senza di lui. Era dentro di me. Padrone del mio cervello. Del mio corpo. Scorreva nelle mie vene insieme al sangue che tanto aveva avvelenato. Dominava il mio respiro con soffio spietato che bruciava la voglia di essere. 

Il suo odio.

Odio. Amore. Che differenza faceva? Esistere nei suoi pensieri. Questo importava. Immaginai il suo volto. Bello. Bellissimo. Concentrato su di me. Le sue mani. La sua bocca. La mia testa dentro le vertigini. Il mio corpo prigioniero dei suoi abbracci.

L’amavo.

Ancora.

 

 

 

*

Sono un bambino morto

Dedicato agli orfani bianchi della Moldavia, vittime innocenti delle scelte sbagliate degli adulti. Ogni anno decine di loro moiono suicidi.

 

SONO UN BAMBINO MORTO

<<… Puro e disposto a salire alle stelle.>>

Dante. Purgatorio. XXXIII, 145

 

Sono un bambino morto.

Lo capii nello stesso istante in cui mia madre mi disse che sarebbe partita. In cerca di un lavoro. All’estero.

La terra crollò, inghiottita dalla deflagrazione dello stupore e io mi vidi precipitare senza nessuna possibilità di salvarmi dentro un freddo terribile.

Era un tradimento. Inaspettato. Crudele.

“Quando?” soltanto questo riuscii a dire, o forse neanche questo, non ricordo bene. Un rumore strano iniziò a riempire la testa, e le orecchie, e gli occhi, e tutto quello che ancora restava del mio corpo. In brandelli.

Una sorta di rombo ruggente. Vicino. Sempre più vicino, che si metteva di traverso e mi impediva di udire. Frastornato, ancora incredulo lessi la risposta inseguendo lo spasmo sulle labbra di mia madre.

“Fra tre giorni? Come fra tre giorni? E io? Che cosa sarà di me?” protestai allarmato contro quella partenza precipitosa che già mi escludeva, ne ero certo.

Lo sguardo della mamma mi tolse ogni dubbio.

Attraverso le lacrime la vedevo diversa. Già estranea. Distante. Un volto dipinto di bianco. Che scivolava via.

“Oh, mamma, aspetta, non lasciarmi, ti prego! Non voglio, non voglio lontano da te. Morirò!” e con un slancio di disperazione l’afferrai per il braccio, speravo ancora che cambiasse l’idea, ma quello pendeva morto, come una manica svuota di ogni volontà. Amputato dalla fretta di una scelta. Scelta crudele. Che non sapeva perdonare niente. Nemmeno i mei pochi anni.

“Mamma! Aspettami!”

Non ebbi risposta. Mi sdraiai a terra e tesi l’orecchio per raccogliere dentro tutto quello che mi rimaneva di lei: l’ecco dei suoi passi. Nudi. Smarriti dentro una lontananza sempre più ostile.

Fili rotti. Schegge appuntite nel mio corpo che non voleva credere. Cedere.

Raccoglievo nei pugni il gelo minaccioso di una presenza mancante. Attorno a me il deserto. Nient’atro, sennò un’ombra scura che come una nuvola s’ingrossava fra i battiti del mio cuore.

“Mamma!” gridavo, ma era già tardi. Mia madre era lontana, più lontana dei miei occhi, più lontana della mia voce. Non potevo raggiungerla neanche con lo strazio della nostalgia che mi sfibrava.

Era lontana. Scappata di corsa. Talmente di fretta da dimenticarsi perfino il proprio figlio. Come un pacco. Smarrito sui binari di una via. Preclusa.

“Perché? Dove ho sbagliato, mamma?” mi mordevo i pugni rovistando nella memoria in cerca di colpe per cui andavo punito. Respinto.

Abbandonato.

Dentro la testa rimbalzava la colpa.

Cattivo. Cattivo.

Nessuno ti vuole.

Corsi allo specchio, dovevo sapere. Cercai la risposta nel occhio di vetro. Lo specchio mi restituì un’immagine storta. Di spetro. Non mi riconoscevo più.

“Chi sono? Chi sono?” grattavo le ombre che mi stavano attorno. “Un guscio di uovo? Una conchiglia vuota? Una terra scavata? Un blocco di ghiaccio? Un verme? Un ragno. O forse una pietra?”

Non m’importava. Qualsiasi cosa. Niente è peggio di un figlio lasciato. Abbandonato. Orfano bianco. Perché bianco, quando perfino il sogno si era dipinto di nero?

Il buio. Il buio. Ancora il buio.

 “Morirò. Senza la mamma morirò.” 

Lo dissi a tutti. Non mi hanno creduto. Forse pensavano ad un macabro gioco. Forse un capriccio…

Lo gridai al cielo, ma era lontano. Indifferente. Assente. Nemico. Con il suo non saper leggere il dolore umano.

L’avrei detto a mio padre, ma non sapevo chi fosse, sparito da anni, prima ancor che nascessi.

Ero solo. Si spense il sole con un tremolio di palpebre. Manco fosse un lume. Di cera. Che muore.

Nulla rimase dopo la mamma, come se andando via si fosse portata dietro anche il sole. Il cielo. L’intero mondo. Il mio mondo.

Sbattevo le palpebre in cerca di luce, ma gli occhi erano colmi di buio. Soltanto buio.

 “Morirò. Senza la mamma morirò.”

Come una pianta che non trova più sole. Si spegne lentamente dalla punta dei rami.

Morirò.

Lo dissi a tutti.

Non c’era ragione per cui respirare. Senza la mamma. La mia certezza si faceva più cruda. Incalzante. Assurda. Aveva fretta di chiudere un tempo. Spoglio di ogni speranza.

Combattevo da solo con il mio dolore, troppo grande lui per essere sconfitto, troppo piccolo io per difendermi e nessuno, nessuno capì.

Smisi di parlare, che senso aveva? Le parole smarrirono la loro consistenza. Prive di senso divennero soltanto suoni. Inutili. Duri. Cristali di sale bloccati nel cuore.

Poi si sono aggiunti i rumori dentro la testa. Che scavavano. Giorno e notte. Senza trovare sfogo. Covavano in profondo come i tizzoni. In agguato. Pronti a esplodere.

Scoppio. Rogo.

Ardeva il cuore come un pezzo di carta.

Cenere. Fumo. Veleni. Offuscarono per sempre la luce.

Buio. Nero. Truce.

La mente oscillava fra giorno e notte.

Lontananze e vuoti.

L’ombra dell’abbandono diventava più grossa. Con l’arroganza di un invasore occupava il mio corpo e lo faceva suo. Il corpo si sfibrava in schegge minuscole. Un po’ alla volta. Fili di polvere. Disperse nel nulla. Non ero più niente. Nemmeno un corpo.

Nulla.

Nuvola. Aria spenta. Cos’altro potevo diventare, quando la mamma mi aveva lasciato, prima ancora che io lo sapessi. Meritassi. Volessi. Mi aveva scambiato per un sogno distorto. Il riflesso di una stella. Da millenni spenta.

Solitudine. Il pensiero mi spogliava a nudo di ogni resistenza. Insisteva tenace sotto la presa assurda del dolore.

Enorme. Troppo greve da non essere considerato. Troppo grande da contenerlo tutto. Dentro.

Ero un bambino. Soltanto un bambino. L’assenza della madre sembrava immensa. Troppi gli attimi ostili che intasavano l’esistenza. Troppi. Più della mia capacità di comprendere.

Attendere.

Il tempo ostentava un’infinita lentezza, sembrava annoiato o forse deluso ed io che vagavo fra due rintocchi di un tempo duro senza incontrare nessuno che confermasse la temporaneità dell’attesa.

Attorno il deserto. Assoluto. Nel cuore il vuoto. Senza speranza. Sarebbe bastato un solo abbraccio. Una parola. Un gesto d’amore. La mamma accanto. Per far ritornare la luce. Per salvarmi.

Nient’altro.

Sali.

Muoviti.

Dove?

Fidati. Verso un indizio di appartenenza a un qualcosa di giusto e buono.

Buono. Non più solo.

I rami del noce erano larghi, ondeggiavano in richiami vibranti sotto la finestra della mia stanza. Così saldi e forti da sembrare costruiti apposta per poter raccogliere storie umane. E raccontarle. Dal tronco saliva un profumo forte: erano i ricordi incisi nella sua corteccia. L’altalena. Il nido di merli. Il suono delle foglie disturbate dal vento. La mamma che strizzava gli occhi in un sorriso. Io che mi perdevo dentro i suoi abbracci. Luce. Cielo sereno. L’orizzonte sembrava a portata di mano. Pace.

Sali.

Muoviti.

Non mi opposi. Non ero più niente. Polvere. Aria spenta. Dispersa. Priva di forma. Nemmeno la grazia di un corpo. Cosa sono?

Salii. Non c’era nessuno la su. Perfino il vento sembrava smarrito. Il nido di merli abbandonato da tempo. Soltanto il cielo con le sue promesse. Tese.

Vieni. Più su. Verso il perdono. Sali in alto, affidati all’aria. Volta le spalle al rifiuto terreno.

Qualcosa si aprì nel varco del cielo. Qualcosa che desiderava di essere visto. Sentito. Una luce bellissima, più bella delle stelle. Calda. Materna. Come un soffio dolce.

Vieni.

Vola.

La luce si stese sulle ombre degli occhi. Trattieni il respiro e allargai le braccia, volevo afferrarla, tenermela stretta. Compagna fedele dei futuri progetti. Espirai. Il corpo si liberò di ogni dolore. Leggero. Aperto. Privo di peso.

Io.

In punta dei piedi sul ramo più alto in un gioco di equilibrio perfetto fra due respiri. Sotto, in basso le rovine del mondo. Il riflesso immobile di un sogno che non mi apparteneva. Non più.

La vita.

Vieni.

Il richiamo galleggiava in onde attorno. Il corpo in bilico. Dentro il dubbio. Il cielo si sfaldava, inghiotito dal vuoto.

Ancora un momento! Un ultimo sguardo prima del salto. Forse la mamma …

Vola!

Si spense la speranza dentro il petto. Chiusi gli occhi. Mi abbandonai al volo.

Crollo.

La terra si avvicinava, quasi amica. In uno slancio d’amore offrì soffice il suo abbraccio. Di petali. Non sentii il dolore.

Il canto degli angeli cullano il mio riposo. Senza più il peso della solitudine.

Tanto amore. Nel cuore. Perdono e pace.

 

Frammenti di tempo sprecati in vano. Un unico fascio d’occasioni perdute.

Domande lasciate senza risposte. Mute.

Dall’alto guardo il mondo. Di sotto.

Ci sono tutti. Uniti in dolore. Nel cielo spaccato brilla aspro il sole. Come un rimprovero. Senza calore. E il vento tormenta i rami. Del noce. La mamma è tornata. E perfino papà. Ora li vedo per la prima volta insieme. Due estremi. Spalla nella spalla, un unico cuore. Dolore. Fili d’argento nei loro capelli. Sembrano vecchi, più vecchi del tempo. Sprecato. Tradito. E ora rimpianto. Nelle pieghe del volto croste di sale. La gente gli abbraccia, si stringe in conforto. La mamma si nasconde sotto il velo di lutto. Non basteranno gli anni per consumare i rimorsi. Forse.

Ci sono tutti. In vestiti di festa. Tutti. Quanto ho desiderato questo momento! Vederli insieme. Averli accanto. Rinchiusi in uno sguardo d’amore. Vorrei dirli che sono felice. Non posso. Non ho più una bocca per gli sorrisi, né un corpo per gli abbracci. Ho perso tutto. Perfino il nome. Ora sono un numero senza volto dentro le statistiche. Nere.

Un orfano bianco. Bambino respinto oltre i confini di non ritorno. Immune al male. Ma anche al bene. Scintilla smarrita in mezzo alle stelle.

Nomade. Per sempre. In volo.

Portato dal vento.

Verso un tempo senza dimensioni.

Non siate tristi. Non ho paura. L’orizzonte è fatto di arcobaleni. E fiori.

Tutti per me.

Addio. Volo.

    

 

*

frammenti

Finì sul molo del porto. Rimase a guardare a lungo le distese vaporose che ondeggiavano calme davanti a se. I richiami stridenti e acuti dei gabbiani spezzavano l’aria. Li cercò con lo sguardo, strizzando gli occhi per l’eccesso di luce. Il cielo brillava basso, si rifletteva bianco sull’ acqua. Le palpebre bruciavano secche. Con lo sguardo fisso alzò la mano per proteggersi dall’invadenza della luce. I gabbiani erano tanti, tantissimi, uno stuolo intero. Rocco riuscì a cogliere il movimento lento delle ali larghi che come lame appuntite ed efficiente intagliavano le nuvole. Piccole macchie candide che sfrecciavano libere. Superbe. Una vaga nota di rimpianto lo fece sussultare. Inseguì a lungo le scie del volo con lo sguardo. Ogni tanto un gabbiano si staccava veloce dal corpo vibrante della sua famiglia e si tufava a picco nel mare. Scompariva senza traccia fra le onde e l’uomo con il fiato sospeso batteva le palpebre dentro lo stupore, forse non aveva visto bene, forse era soltanto una briciola di luce staccatasi dal sole. Ma come per smentirlo il gabbiano riemergeva sulla cresta schiumosa di un’onda e restava lì a galleggiare perfettamente al proprio agio.

Allora l’uomo si rallegrava, riprendeva il respiro e con la mano alta segnava saluti dentro l’aria per non sentire il freddo immobile della sua solitudine. Nella sua testa tutto si mescolava in sbuffate aride. Frantumi di sogni abbandonati, ormai inutili, svuotati di senso. Scaglie di ruggine friabile come il tempo che non gli aveva perdonato niente. 

 

*

Il mattino

Benché sia ancora presto, l’aria è già afosa e soffocante. Un nuovo giorno preme sul vetro della finestra. La luce bianca ed innocente si sprigiona in schegge da dentro un nuovo sole appena nato. Un giorno nuovo inizia sempre con un sole nuovo con la stessa trepidazione del giorno primo. Granelli di luce multicolore in pioggia incalzano le ombre ancor più sbiadite e tremule della notte, come se dicessero, vai via, il tuo tempo è finito.

Le ombre hanno paura della luce. Luce uguale alla vita.

Vita.

Il cielo si macchia di vita. Chiazze bianche prendono il volo: i gabbiani. Assaltano la volta, spezzettano in piccoli frammenti l’azzurro che cade sui tetti rossi in fremiti di desiderio. Un’impietosa voglia di libertà stuzzica i sensi. Palpita dentro le vene. Spinge verso un passo che ancora non ha deciso dove posarsi. In bilico l’attesa pulsa dentro un impazienza sciocca. si espande e carica l’aria di promesse. Disturba senza un perché la serenità del momento. Un sogno si scontra con un altro sogno. Tremolano lievi le palpebre e il respiro si abbandona all’urgenza del immediato, come se rincorresse il tempo con la voglia di sorpassarlo.

È mattino. L’ora del risveglio.

 

 

*

La solitudine della neve (frammento1)

Ecco, stiamo per partire. Finalmente. Dall'altezza dei miei centosettanta centimetri senza tacco inquadro la scena con occhio critico. Perfetta. Il grigiore, quasi nero, sconsolato incipit di un giorno freddo e ghiacciato e poi la frenesia della partenza stessa, alle cinque del mattino, con l’inquietante divieto di essere accompagnati dai parenti, come se fossimo degli ostaggi a cui vengono negati perfino i saluti, gli ultimi addii smarriti davanti all’incognito, tutto mira ad accentuare lo stato d’animo sconvolto che traspare nell’aspetto della protagonista: labbra livide, serrate in un tumulto soffocato di sentimenti, guance pallide, orfane di vita, sguardo arido e febbrile, le mani che tormentano il lembo della sciarpa, le ciocche pietose che scendono da sotto il basco rosso, alla francese, l’unico accessorio civettuolo che brilla come un’offesa in mezzo alla massa opaca e deforme dalla foschia. Un concentrato desolante e lugubre di percezioni che grafia la vista come un urlo.

“Julia!”

Sussulto. La voce imperiosa cerca me. Forse è meglio che chiarisca subito. Mi chiamo Julia Vieru, sono moldava, ho trentuno anni, fino a ieri ero una insegnante, oggi mi appresto ha diventare un numero dentro la statistica sul traffico di vite umane, un misero anello nella lunga catena di servi che collega le due sponde dell’Europa.

“Julia! Che hai? Sembri imbalsamata. Dai, avvicinati!”

Il capogruppo ridacchia, muovendo le braccia un po’ per incitarci, un po’ per il freddo che taglia il respiro. Vari occhi si posano su di me. Evito di inciampare nei loro sguardi interrogativi. Non ho niente da spiegare, non potrei neanche se volessi, penso, mentre mi sposto verso di loro, cercando di mascherare l’inquietudine dei miei passi. Ogni passo, ogni respiro in più mi svuota dalle certezze su cui avevo edificato finora la mia esistenza.

Parto. Sì, mio malgrado parto. Dopo giorni di code sotto le ambasciate europee ad aspettare il visto Schengen, dopo respingimenti amari, dopo rinnovi frettolosi di certificati e passaporti, dopo altre infinite file sotto le ambasciate, eccoci finalmente qui, accanto a questo pullman vecchio, che sputa fumo nero nell’aria gelata e immobile di un freddo mattino invernale. Ognuna di noi ha in tasca un visto turistico di sette giorni per l’Italia, ma sappiamo benissimo che lo violeremo, che non torneremo presto, perché questo visto è soltanto un mezzo per entrare in un Paese europeo alla ricerca disperata di un lavoro. Smarrita dietro le riflessioni, mi perdo quasi interamente il discorso pomposo del nostro organizzatore turistico.

“Voilà, Julia, non mi piaci per niente oggi!” mi ammonisce a voce alta il responsabile del nostro viaggio, nascondendo dietro ad un sorriso sottile lo sguardo ansioso. Per darsi più importanza si fa chiamare Michail Ivanovici, alla maniera russa, come un vero nostalgico dei vecchi tempi dell’occupazione. Mi stavo giusto chiedendo perche mai dovrei piacergli e perché fosse così spaventato, non parte mica lui, quando, per dare più peso alle sue parole, o forse per scaricare la tensione che grava in aria, lui aggiunge anche una pacca sonora sulla mia spalla. Pacca che fra l’altro, gliel’avrei restituita volentieri se non fossi stata così attonita, persa ad osservare, oltre i fiocchi di neve che scendono abbondanti, oltre le voci striduli che si sovrappongono, oltre tutti questi corpi tremanti ed isterici, il proiettare vago e minaccioso di qualche cosa di indefinito che mi si apre davanti, un’immensa disperazione sul punto di ingoiarmi. Devo fare uno sforzo veramente grande per tenere a bada il mio desiderio di fuga e i denti che battono in una cadenza di marcia funebre. Dunque, incasso il colpo senza reagire, nemmeno il principio di rivolta che mi spunta dentro sotto forma di una vampata, riesce a scuotermi. Resto imbambolata nella mia paura, incapace di muovermi, incapace di parlare, incapace di pensare. Una paura pura e crudele che mi assale da tutti i lati. Paura per quello che lascio. Paura per quello che troverò.

Sospendo il fiato per non far passare dell’altro tempo che preme per aumentare il divario fra ieri e oggi, e rimango con gli occhi fissi, intontita. Nella mente come una macchia si dilaga l’aspro senso del tradimento di cui vittima sono ad ogni modo.

Il peso di un torto. Il panico si mescola ai violenti, strazianti sensi di colpa: i figli. I miei figli. Lasciati. Dispersi oltre la lontananza. Mi sento confusa, svuotata, un fantoccio con i fili rotti, spinto in avanti dalla corrente. Michail Ivanovici mi inquadra con disapprovazione, storce il naso, poi si volta verso le altre donne immobili, altri fantocci, raccolte una contro l’altra in un tumulo innevato di emozioni:

“Forza, ragazze, siate allegre e rilassate. Non dimenticatevi che siete turiste, partite per visitare Venezia, la più bella città del mondo!” le sprona e ride in gorgogli acuti, quasi femminili, battendo le mani con finto entusiasmo in tentativo di disperdere lo spettro di una crisi isterica.

Chiacchiere. La sua voce rotola come un sasso nell’aria ghiacciata per finire in fondo al pozzo dell’indifferenza o dell’impassibilità: nessuna di noi gli risponde, nessuna accenna una reazione qualsiasi. Semplicemente lo ignoriamo. Non badiamo più a lui, non ci interessano più né la sua persona, né le sue chiacchiere. Soltanto il cuore trepida irritato: stupidaggini! Altro che turisti! Dalla Moldavia partono i servi. Tutti i giorni. A migliaia. Per capirlo basta guardare le facce delle mie compagne di viaggio, dove si legge il panico puro e lo smarrimento. I vestiti consunti o a volte troppo nuovi, ancora con l’odore dei negozi dentro, tradiscono la povertà, accentuano la disperazione. I gesti frenetici, insensati con cui vengono spostate le valigie da una parte all’altra svelano i sentimenti che ci tormentano. Ci guardiamo frastornate in giro; occhiate appannate e fugace su dei visi che si sforzano di dare l’impressione di una apparente normalità che in quel momento non c’è.

Per sei mesi avevamo rincorso le promesse di Michail Ivanovici di ottenere un visto Schengen; anche se lo detestavamo profondamente ci siamo lasciate spennare, ingannare, trattare male, mancare di rispetto, umiliare; l’avevamo adulato, pregato, implorato, imbonito, sopportando con stoicismo le sue prediche, lamenti, bugie, sfuriate, perché solo lui, il corruttore, il signore delle bustarelle e delle amicizie giuste era l’unica via di uscita, l’unica possibilità che avevamo. A parte questo non ci lega niente altro; noi abbiamo avuto un bisogno e lui, in cambio di tanti soldi, ci ha offerto la risoluzione. Tutto qui.

Ora abbiamo il visto; ora possiamo partire, ma non sento nessuna gratitudine verso quest’uomo “risolvo tutto io”, anzi, per essere sincera, la sua vicinanza mi ripugna, come un odore nauseante e fastidioso. Non posso avere rispetto per un uomo corrotto. Non posso stimare un approfittatore. Sono ingrata? Siamo ingrate? Può darsi. Non mi importa. Non lo voglio più vedere. Ho altro a cui pensare.  Indifferente gli giro le spalle. Fingo di non sentire le sue ultime battute.

Salgo in cerca di un posto. Dentro l’autobus c’è un caos totale; donne, che si affannano a sistemarsi, vociferano e si agitano, si spingono frettolose, spostano cariche di valigie e borsoni, incuranti delle imprecazioni dell’autista arrabbiato.

“Silenzio!” urla, aumentando ancora di più il baccano con la sua voce rauca e minacciosa. Ora ci ha prese in consegna lui, dunque vuole farci capire subito chi è che comanda. I piccoli occhi scuri, affossati sotto la fronte bassa ci scrutano una ad una come se fossimo merce, solo carne, carne e basta. Non si preoccupa neanche di nascondere il disprezzo che trapela prepotente nel suo sguardo, probabilmente il nostro aspetto, il nostro modo impaurito non sono di suo gradimento, di conseguenza egli storce le labbra schifato e ogni tanto sputa sul pavimento, direttamente sotto i nostri piedi, come per sottolineare il grande disgusto. Decido di ignorarlo. Capisco che il suo gesto cerca uno scontro frontale con la nostra dignità. Mi aggroviglio come un riccio sotto l’arsura della offesa e a fatica domino la rabbia. Evito di guardarlo.

“Eh, tu! Tu con il berretto rosso, muoviti!” il suo latrato sovrasta gli altri rumori. Forse si rivolge a me. Non voglio saperlo. Non reagisco. Mi sento di pietra. Sono soltanto un blocco di pietra. Pietra. Le pietre non hanno emozioni. Resistono. Tacciano. Sui loro fianchi il tempo scolpisce la memoria. Sono fatta di ricordi. Ricordi. Croste di tempo. È tutto quello che mi resta.

Avanzo, dissipata in mille attimi conclusi. Riesco ad inserirmi nel fiume umano che scorre dentro il pullman; mi muovo lenta, schivo un braccio alzato, scavalco un borsone abbandonato nella corsia di passaggio e frugo con gli occhi dentro questa massa mobile di corpi e valigie in cerca di un posto.

 “È libero?” chiedo ad una piccola donna che sta seduta pensierosa, con il volto nascosto fra le mani.

Con un sussulto alza la testa, gli occhi arrossati mi inquadrano per un attimo, mi mettono a fuoco lentamente, come un obiettivo fotografico cieco, infine mi risponde di sì con la testa e mi cede il posto accanto al finestrino. Infilo il borsone sotto il sedile e mi siedo.

“È fatta.” respiro sollevata. “Finalmente!”

La donna resta in silenzio, come se non mi avesse sentita.

“Mi chiamo Julia.” mi presento educatamente giusto per rompere l’angoscia che mi soffoca.

Un altro sguardo spento che si spinge oltre la mia corazza tremante. Mi attraversa come se fossi una lastra di vetro, senza il conforto di una parola, di un sorriso. Niente. Soltanto un stramaledetto silenzio lungo. Devastante. Assurdo. Faccio in tempo a chiedermi se ho fatto bene a sedermi accanto a lei: tre giorni di mutismi sarebbero troppi anche per una di poche parole come me. Alla fine, emersa da chissà che abissi, la donna mi risponde: “Nina.”

E basta. Niente altro.

Con uno sforzo dei neuroni impazziti spremo un po’ di ottimismo e mi adagio sopra. Mi sta bene, penso, neanche io ho voglia di parlare. La gola mi si stringe dall’abbondanza di sentimenti. Troppi per poterli decifrare in una volta sola.

In breve l’organizzatore resta solo sul marciapiede, avvolto nel suo cappotto impellicciato. La luce opaca del lampione diluisce il suo sorriso sazio. Michail Ivanovici batte i piedi sull’asfalto ghiacciato e mastica in solitudine la propria contentezza, simile ad un pasto solitario e penoso sotto gli occhi di mille bocche affamate, perché di contento pare che sia solo lui. L’osservo da dietro il vetro. Il sorriso gli si spegne di colpo, appena le porte del pullman si chiudono. Grida ancora qualcosa all’autista che muove la testa in segno di consenso e se incammina veloce verso la macchina con i vetri oscurati, parcheggiata in modo arrogante sui marciapiedi.

Una nuvola di fumo nero invade l’aria. Il pullman parte. Il respiro si perde da qualche parte e mi lascia in apnea. Il cuore martella in gola. A spasmi cerco di ingoiarlo, di mandarlo giù al suo posto, ma lui resta incastrato fra la faringe e l’esofago. Ognuna di noi si sforza di mascherare le proprie paure, ma non è facile farlo, quando le mani tremano, il volto si increspa in una smorfia che fatica ad assomigliare ad un sorriso e la voce si spezza. Non c’è nessun posto sicuro, dove nascondere le lacrime. Abbasso gli occhi per non urtare contro le altre paure. Altri sguardi. Sguardi fissi. Sguardi vaganti. Sguardi persi nel vuoto. Sguardi sciolti dentro la paura. Sguardi che si aggrappano disperatamente all’ultimo bacio, rimasto orfano sulla guancia, il cui sapore salato pizzica ancora la pelle. Sguardi che cercano un appoggio, un appoggio qualsiasi per resistere.

Resistere.

Combatto contro la voglia di piangere. Fa freddo qui dentro. Troppo freddo.

 “È rotto il climatizzatore,” ci avverte l’autista con fare aggressivo. Poi aggiunge con tono di beffa: “Questa è. A chi non piace la carrozza, madames, può anche scendere.”

La battuta vola come una bolla carica di marcio, nessuno la raccoglie. Sensi paralizzati. Sentimenti repressi. Chiudo dentro i pugni l’urlo che mi gonfia il petto. Le unghie si infilano nei palmi, piccole semilune intagliano la pelle. Nel cuore l’unica cosa viva è la disperazione. Davanti, tre giorni di viaggio e duemila chilometri.

Un salto nel vuoto. Tante domande. Nessuna certezza. I ricordi che pulsano. Vivi. Ferite aperte. I figli. Sospiro. Il mio sospiro si intreccia con quello di mia compagna e resta appeso sopra le nostre teste. Solidificato, condensato di dolore.

Premo le mascelle per non battere i denti. Il tremito mi prende il mento, poi anche la fronte e l’intero viso. Mi tremano le mani; mi tremano i piedi; qualcosa trema dentro lo stomaco. Mi lascio andare in un monologo sordo con l’autista. Dai, cammina, penso. Vai avanti, purché si arrivi presto, prima possibile. Muoviti e lascia stare le chiacchiere, non mi divertono. Senti, non mi divertono proprio!

Mi raccolgo come una palla dentro il giubbotto per conservare meglio il calore.

Meno quindici. Un cartello luminoso lampeggia fiacco la sua informazione. Nevica. Lentamente scompare la miseria triste, senza speranza sotto il velo casto. Scompare il fango e il sudiciume delle periferie popolari; scompare l’immondizia abbandonata lungo le strade; scompaiono i tetti grigi di eternit corroso da anni; scompaiono le strade piene di buche.

Nevica. Una nevicata abbondante come la manna celeste che copre tutto, nascondendo la faccia della città con la sua gente triste e stanca, con le sue piazze deserte, vetrine vuote, vetri ghiacciati, vie infangate, vite cancellate. Tutto viene celato sotto una maschera bianca e pulita, creando l’illusione di un’immacolata bellezza.

Nevica. Ma non c’è niente di bello. È una nevicata volgare e irritante, mi fa pensare al volto rugoso di una vecchia, nascosto sotto un strato denso di fondotinta.

La neve scende silenziosa, come una minaccia fastidiosa e massacrante. In un paese come il mio la neve non fa mai rima con le feste e le vacanze bianche; la neve è soltanto il presagio sinistro dei disagi che si inaspriscono, della fame, del freddo, tanto freddo, delle difficoltà che aumentano. E della disperazione.

La disperazione. Quante volte ho sentito questa parola negli ultimi tempi! Come una maledizione è entrata nel nostro vocabolario, nel linguaggio comune di tutti. La nominano i giovani, la sussurrano i vecchi, la gemono i malati, la maledicono i poveri, la storpiano i bimbi ancora prima di imparare a parlare bene.

La disperazione. La mancanza della speranza. Quando ti prende di mira, non hai scampo. Una sensazione terribile. La percepisci con lo stesso senso con cui gli animali percepiscono il pericolo, mentre essa, la disperazione si avvicina con passo furtivo come un ladro e ti penetra lentamente. L’avverti un po’ alla volta nel cervello, nei muscoli, nelle ossa, nel cuore, in ogni cellula del tuo corpo. Comincia a dominare i tuoi sogni, a condizionare i tuoi pensieri, finché ti rende senza fiato per l’angoscia. Non puoi fare a meno di pensarla; non puoi fare a meno di temerla, ma non te ne puoi liberare; anche se lo desideri con tutte le forze non puoi scappare, ovunque vai essa ti insegue, perché fa parte di te ora e ti rode, ti rode in continuazione come un tarlo, e non ti molla, fino a quando non ti fa crollare, come crolla un albero corroso. I rami nel fango, le radici esposte al vento.

Si combinano brutte cose spinti dalla disperazione, perché si mette in moto un incontrollabile meccanismo di autodistruzione. La gente cerca soluzioni nella delinquenza e nella prostituzione, si rifugia nella droga e nell’alcool, dalle nostre parti, soprattutto nell’alcool. Si beve per dimenticare; si beve per non sentire; si beve per non pensare; si beve per stordirsi. Si beve per illudere le disgrazie che simili alla scabbia ti si attaccano addosso e non ti mollano. Si beve per placcare il senso di rabbia e impotenza che padroneggia nel cuore. Vari motivi e un unico scontato finale: il degrado.

Ho deciso di scappare. Parto per disperazione. Fuggo prima che essa mi distrugga. Prima che ci distrugga. Prima che il coraggio mi abbandoni. Prima che sia troppo tardi. La mia terra è una terra impregnata di disperazione. La respiri con l’aria, la ingerisci con l’acqua. La trovi dappertutto. Basta guardarsi attorno. Basta volerla vedere.

Imprigionato nella solitudine condensata della neve, un cane randagio urla solitario. Al nostro passaggio alza il muso congelato verso il cielo e invoca aiuto. Il suo lamento come una lama spacca l’aria. Un brivido freddo percorre le vene. È un richiamo di disperazione il suo; probabilmente si è perso, ha freddo, fame, paura, è stanco di correre lungo la città, non ha più forza, né speranza. Il pullman gli passa accanto, a meno di un metro, continuando imperterrito la sua lenta avanzata. Il cane scompare, resta indietro, inghiottito dal nevischio impietoso e dall’indifferenza.  

Mi sento come quel cane, sopraffatta dalla paura, vorrei urlare anche io, ma mi il mio orgoglio che mi impedisce di piangere. Con i denti riesco ad afferrare la parte interna della guancia e la stringo, la schiaccio, la mordo più forte che posso, finché sento il sapore del sangue in bocca. Niente lamenti! Niente lamenti, Julia! Con un ultimo residuo di una forza che non sento mi costringo ad alzare la testa, anche se mi fa male. Molto male.

 

*

L’incidente

Quel giorno l’aria sembrava imbevuta di euforia. Una trasparenza cristallizzata in granelli di luce attraversava il mondo. L’orizzonte era vicino, raggiungibile anche con la lunghezza del braccio. I sogni si erano liberati dalla catena dell’impossibile. Una magnetica sensazione di grandezza stuzzicava il palato. Rocco guidava la sua moto Guzzi in mezzo alle vampate di gioia. Alle spalle, come uno zaino, sentiva appiccicato il corpo caldo di Margit.

“È strana questa ragazza,” pensieri insoliti popolavano la testa di Rocco, che si trastullava dentro i salti scattanti delle marce, “strana nel suo essere donna e bambina nello stesso tempo, come se fosse abitata in concomitanza da due persone diverse in competizione fra di loro.”

Preso dai pensieri Rocco correva, anche se non aveva altra urgenza se non la nuda, primaria voglia di vivere. Il desiderio bruciante di essere con tutto se stesso dentro il suo tempo. Si sentiva felice. Un giubilo totale riempiva il vano del casco integrale; Rocco cedeva ai fumi formicolanti di ridondanza che battevano contro le vene e faceva progetti. La motocicletta ronzava domata e le vibrazioni passavano in onde dal metallo alla carne, scuotevano i muscoli tesi, solleticavano i sensi. Con la testa spinta in avanti e il corpo che oscillava in un equilibrio fatto di vento, Rocco contava i sorpassi, giocava in onde sulla linea della strada, un po’ a destra, poi a sinistra. Schivando l’invadenza del traffico, i freni fischiavano, firmavano il loro passaggio sul asfalto. La tensione induriva le braccia. Con il rombo del motore che invadeva la testa, diventava difficile evitare l’orgoglio.

“Senti, amore? Senti?” urlava Rocco dentro il casco.

“Sento!” la voce di Margit si confondeva con la velocità.

“Sento!” allungava i suoni il vento.

“Che dici?” voleva sapere Rocco, questa conversazione a tre lo divertiva molto.

“Sento!” ripete la ragazza. La sua testa appoggiava pigra sulla spalla tesa dell’uomo.

“Che cosa?”

“La campana del tuo cuore matto!”

Margit si strinse più vicino a lui, vincendo l’ultimo centimetro di lontananza che ancora resisteva. Un unico corpo ora, uniti dallo stesso brivido. Rocco sussultò, la testa girava in cerchi larghi; il fruscio della contentezza tappava le orecchie; il palpito dell’adrenalina nelle vene; il cuore gonfio, straripante spingeva la voglia di stupire. Vedrai, vedrai tu, ragazza mia! Un altro colpo al acceleratore incitava i cavalli dentro la corsa; la moto rombava, strappava l’aria come la carta; la sfida al vento stuzzicava il desiderio; il cielo dentro il pugno, tutto ormai era possibile. La velocità ingoiava la strada, mangiava i chilometri a grossi bocconi; ignorava con la noncuranza dell’incoscienza la beffa bastarda dei rettilinei che nascondono le curve. E Rocco dimenticò che ad ogni incrocio stava l’agguatto di una distrazione pronta a saltare addosso con la sua maleducazione.

“Ti sposo!” urlava Rocco per farsi sentire dal mondo.

“No, non ci credo. Sei troppo vecchio!” la felicità di Margit si nascondeva birichina dietro la gaiezza delle sue risate.

“Ti sposo. Lo giuro.” Non era uno scherzo, stavolta il velo solenne di un impegno si posò sulle parole e Margit non rise.

Ma l’incrocio si mise di traverso, decise di spezzare la promessa, l’affidò al vento che la portò via. Il camion spuntò come dal nulla, si materializzò di colpo con la sua minaccia ingombrante. Rocco strizzò gli occhi, si attaccò al ferro bollente della sua moto con tutte le speranze. Stridettero le gomme dentro il sogno, invasero la pace del sorriso. Nessuna tregua. La strada improvvisamente si accartocciò su se stessa, si annodò in un cammino finito. Spinse verso l’alto i centauri, li sputò con l’ostilità di uno scoppio, scaraventandoli lontano. Pupazzi abbandonati dal loro destino, dimenticati dentro la tragedia. E poi la strada, forse pentita, inciampata in un ripensamento, inutile ormai quanto tardivo, li risucchiò indietro, ma molto lontano da dove li aveva sobbalzati. Senza preoccuparsi del comodo dei loro corpi, espose i fianchi duri del asfalto. La corsa si spezzò in mille schegge; bloccato rimase il tempo in bilico fra un attimo e l’altro; senza alcuna pietà il caso decise di rubare le fatiche e le aspettative di una vita. Per colpa di un istante che non doveva venire.

“Oh, Dio, un incidente!”

E piombò la notte dentro il giorno. Anche se gli occhi rimasero aperti, si coprirono con il rifiuto di vedere. La gente si bloccò lungo i marciapiedi, il brivido incollato alla pelle dei testimoni. Polvere nera macchiò l’aria. Ali spezzati di un uccello a terra; una piuma fatta di plastica volteggiò ancora, quasi incredula, poi si lasciò cadere dal alto, animale fedele, accanto al corpo immobile dell’uomo. Tutto finito. Soltanto il motore che ancora ronzava insisteva sulla continuità dell’attimo di prima.

“Avete visto? Pare siano in due, un uomo e una donna. Una ragazza, forse la figlia.”

La curiosità fece passare la voglia di guidare. Le macchine rallentavano, si fermavano in mezzo la strada. Non c’era più udito dentro le orecchie e le sirene delle ambulanze si smarrivano non sapendo dove posare le loro urgenze.

“Fatte passare, fatte passare le ambulanze!”

È bastato un’istante per svuotare il tempo di ogni fiducia. La vita ingannata da una traiettoria senza senso. Sul asfalto il sangue rappreso, dimenticato dai corpi portati via dalla fretta efficiente di una barella.

*

Senza lavoro

SENZA LAVORO
Iniziò tutto all’improvviso, proprio nel momento, quando venni a sapere che l’indomani non sarei più dovuta andate al lavoro. Licenziata. Precisamente, licenziati tutti quanti. In blocco, come merce scadente. L’azienda annunciava trionfante la sua delocalizzazione. Tanti saluti e grazie.
Non appena la notizia, arrivata fra l’altro con l’arroganza ufficiale di una raccomandata nell’ultimissimo giorno di ferie, appena, dico, la notizia si riempì di senso alquanto vago all’interno della mia scatola cranica, mi sentii precipitare, un crampo doloroso dentro le viscere mi bloccò il fiato. La testa diventò pesante, come se tutto il sangue del corpo si fosse racchiuso lì in un grumolo nero di dolore. Non può essere vero, pensai, è uno brutto scherzo. Un filo di speranza si opponeva ancora, resisteva. Quasi rassicurata chiamai la Nina, una delle mie colleghe, giusto per ridere insieme. Il tremolio della sua voce fece vibrare la cornetta nelle mie mani. La battuta che mi solleticava il labbro si spense oramai inutile. “Anche tu?” sussurrai, ma già sapevo la risposta. “Sì.” La voce di Nina aveva un sapore estraneo. Rimasi immobile, con una mano sull’addome contorto ed il respiro smarrito nei meandri complicati del cervello. La bocca annaspava paralizzata, mentre nella gola cresceva la nausea di un inganno.
Fu un attimo lungo. Un attimo senza tempo, incastrato dentro le vertigini dell’assurdo e il senso di ingiustizia che si gonfiava nel petto senza lasciare spazio a niente altro.
La confusione si posò prepotente sul mio sguardo, allontanando l’immagine del domani. Il dolore presto si calmò, lasciò dentro il mio addome un formicolio strano abitato da mille insetti che, spinte da chissà che urgenza, salivano e scendevano impazzite sotto la pelle. Commisi un grave errore, contrasi il diaframma, forse in questo modo sarei riuscita a mettere in fermo il strano movimento, pensai. Quella invasione a tradimento scompari, ma la pressione della mia muscolatura finì in un tragico scontro con i polmoni. Quel poco di aria che vi restava fu spinta fuori con la violenza di un fischio che mi ustionò la gola. Seguii con lo sguardo il materializzarsi di quel suono in aria. Aveva la forma di una lancia, una striscia accecante che si delineava rapida davanti ai miei occhi. Sapevo che senza aria nei polmoni non avrei potuto restare a lungo, nessuno lo può fare, ragionai, sapevo anche che dopo una espirazione avrebbe dovuto seguire una ispirazione, così è sempre stato, ma per quanto provassi non riuscivo più a ricordare come si facesse. Fu proprio in quell’istante che scoprii con stupore che respirare non era per niente semplice. Fui invasa dalla paura. L’aria attorno sembrava solida, un freddo muro opaco schiacciava impietoso il mio naso. Sulle palpebre qualcosa di pesante si depositava, lo avvertivo chiaramente, anche se non ero in grado di stabilire cosa fosse.
Rimasi trafitta, con la testa vuota, impigliata nella crepa del tempo. Il torace si dibatteva convulso, cercava di afferrare il fiato perduto. Forse stavo per svenire. Sarebbe stato bello affondare nel nulla senza rimpiangere niente. Sono così confortevoli le ombre. Ma probabilmente non era ancora arrivato il momento. L’istinto di sopravvivenza fu più forte; accecata dal terrore scossi la testa, mossi le braccia con furore in tentativo di spezzare in infinite briciole minuscole l’opprimente muro ed inghiottirlo. Funzionò. Qualcosa si rompe nella mia testa, un boato mi distolse l’attenzione, il diaframma cedete come un elastico rotto. Tornai a respirare, sentivo la mia bocca affollarsi di tutti quei fiati ripresi. Come una affamata acchiappavo l’aria a grande boccate e mi lasciai inebriare dalla massa di ossigeno che nuovamente si impossessava delle mie vene. Dentro il cuore pulsava la contentezza di un sopravissuto. Dentro il cuore, ma non dentro la mia testa. Lì, rimaneva a padroneggiare la disperazione. Dalla vita non ho avuto granché, se non la passione per il lavoro che colmava ogni mio istante. Come avrei fatto ora a spingere il mio tempo in avanti? Mi sentivo spiazzata, sfibrata in mille inutili granelli de polvere, rimasta senza fine e senza scopo, smarrita dentro l’agguato del non senso, con gli occhi colmi ancora dalle uniche certezze dissipate in un istante.
Andai a casa di mio padre e con distacco, un finto distacco gli diedi la notizia e fui sinceramente infastidita dallo scoraggiamento della sua voce. Contro la mia volontà la disperazione annidata dentro il mio teschio orfano di pensiero raddoppiò la sua forza.
“Non preoccuparti.” tentai uno scherzo. “Morto un papa se ne fa un altro!”
La mia voce risonò schifosamente falsa e debole. La battuta invece di sdrammatizzare, aumentò la tensione. Lo avvertivamo tutti i due: era fuori posto. Inghiottii un nodo per mascherare l’imbarazzo. Una sorta di malessere appena percepibile cominciò a ronzare dentro la mia mente. Dal nulla si sprigionava l’inspiegabile fretta che mi spingeva a congedarmi senza tanti preamboli. Salii in macchina e accesi la radio, lo mise al massimo, ma non fu abbastanza per coprire il vespaio che aggrediva la mia testa.
“Via, andate via!” volevo gridare. “Lasciatemi in pace!”
Non lo dissi a voce, decisi di ignorare l’ansia. Guidavo senza meta per le strade della città, ero troppo depressa per interessarmi dove andare. Come una coda la valanga del dolore mi inseguiva. A casa non cenai, non avevo fame, né voglia; una spossatezza insensata avvolgeva le mie membra, un vuoto immenso si impadroniva di me. Sprofondai in una confusione senza tempo; volteggiavo avvolta dalle fitte nebbie putride che stagnano per giorni sulle paludi.
Cercai rifugio nel sonno, mi avrebbe impedito di pensare. Fu un riposo agitato che faticava a liberarsene dalla petulanza molesta dell’unico pensiero, avevo perso il lavoro, entrato in ogni palpito, in ogni respiro. Dormii molto e forse poco. Il tempo aveva perso ogni misura. Mi svegliai di colpo, strattonata da una sensazione di pericolo. Il cuore impazziva dietro le tempie. Seduta sul letto cercavo di capire. Lo stesso senso formicolante e stringente di prima nelle viscere. Una contrazione diffusa bloccava i circuiti del mio corpo. Non respiravo più. Annaspavo con rumore. Gorgogli di uno che affoga. Dovevo convincermi che ancora sapevo respirare. C’ho messo tutte le forze, tutta la volontà. L’aria era diventata nemica, le sue schegge graffiavano le mie vie respiratorie. Non demordevo, decisa di non rinunciare, anche se una paura terribile, enorme, totale mi soffocava. Urlai, mossi le braccia per liberarmi dalla crudeltà della stretta e di nuovo qualcosa si spezzò dentro la mia testa. Un rumore terribile. Uno scoppio che mi sparpagliò nel nulla. Chiusi gli occhi. Frantumi di luce mi accecarono con la violenza dei fulmini.
Poi il silenzio. Il respiro ripartì, a stento, ma ripartì. Me lo confermava il cuore che, sebbene con dei salti irregolari, rallentò i battiti. Soltanto il rumore dentro le orecchie persisteva testardo. Per paura di perdere il controllo della situazione, decisi di non addormentarmi più. Concentrai tutte le mie energie nelle palpebre in tentativo di tenerle aperte. Il mattino mi trovò stanca, ma viva. Era già tanto.
La luce del giorno si intromise nei miei pensieri e mi spinse a reagire. Dovevo capire cosa mi stesse succedendo. Dovevo saperlo. La conoscenza mi ha sempre rassicurato. Meglio dell’ignoto. Decisamente meglio.
Accesi il computer. Trovai qualcosa sugli attacchi di panico. Lessi con attenzione tutto. Capii meno. Per il momento mi dovevo accontentare della definizione. Chissà perché cominciai a stare meglio, come se il nemico che avevo dietro le spalle, in agguato, fosse uscito allo scoperto. Perlomeno lo vedevo, sapevo chi era.
La prima settimana di disoccupazione la impegnai nelle file davanti agli sportelli del Centro dell’Impiego. Senza alzare gli occhi l’impiegata prese le mie carte, scarabocchiò un numero, storto fra l’altro, e le depositò in un cassetto alla sua sinistra sopra un mucchio di tante altre carte, spoglie nella disperazione da ogni pudore. Sapevo che ognuna di esse gridava lo sconvolgimento di qualcuno. Forse ancora più grande del mio. Avvilita continuavo a fissarle. Le mie carte sembravano abbandonate e smarrite, umiliate dalla indifferenza, mi sentivo umiliata anche io. Lì era registrata nero su bianco la mia vita. La mia vita dentro l’indifferenza immobile di un cassetto.
“Prossimo!” urlò la bocca rossa della funzionaria.
La gente mi spinse di lato, affannata a diventare un numero anche essa. Non mi opposi. Il fiume umano mi rigurgitò di lato come un detrito. Con la testa vuota restai a lungo impantanata dentro i pensieri senza riuscire ad afferrarne uno.
L’urgenza di un lavoro mi tormentava. Passai giorni a spedire curriculum. Era diventata una attività regolare. Un lavoro. In breve diventai un’esperta in curriculum. Ostinata li mandai ovunque, forse per ingannare un’attesa priva di senso. Poi cominciai a telefonare, ad insistere.
“Sono una lavoratrice.” urlavo dentro la cornetta. “Voglio lavorare! Sono brava, respo …”
“Sì, certo, signora.” mi rispondevano con la voce controllata di uno che stava per perdere la pazienza. “Le faremo sapere!”
Mi credevano pazza, ne ero certa, invece io non facevo altro che reclamare un mio diritto, il diritto alla dignità. Era quello che mi pesava di più, sapermi inutile. Essi non capivano. M’interrompevano, lasciandomi con la bocca piena di parole non dette. Le masticavo in solitudine, sentivo il sapore di carne tritata, forse era la mia lingua, forse il cuore. Presto mi diventava impossibile tenerli ancora all’interno della mia cavità orale, la frenesia dell’angoscia mi spingeva a correre per vomitarli nel lavandino del bagno, un veleno che minacciava di uccidermi.
Sono passati quindici mesi. Il calendario in cucina è fermo a quel giorno. Sembra un orologio rotto, bloccato al momento dell’impatto. Fermo all’ultimo giorno di ferie. Ho smesso di combattere. Non ho più forza. Mi sento come una pila senza più il suo carico di energia. Dunque, inutile. Non ci credo più, non ci spero. Ho cinquant’anni. Sono vecchia. Uno scarto. Ci sta scritto qui, nelle mie carte. Sono loro la mia condanna. Gli altri non c’entrano. La mia carne invecchiata è diventata la mia nemica. Una carcassa rinsecchita che mi imprigiona. La detesto. Quando l’odio supera la mia resistenza mi metto a scorticare la pelle con le unghie. Mi solleva osservare la cute che si storce impotente sotto le dita. La mia anima in decomposizione respinge la complicità del corpo.
“Per colpa tua!” mormoro. “Per colpa tua!”
Strisce rosse, marcate restano impresse sulla pelle, ma non sento il dolore, perlomeno non più di quello che sento dentro. Ho perso il sonno. A stento mangio. Che senso ha nutrire il mio nemico? È tutto futile. Fumo. Fumo tanto. Fumo senza tregua in speranza che venissi un giorno inghiottita da tutto questo residuo gassoso. Residuo anche io, respinta da un sistema troppo frenetico ed egoista da pensare a tutti. Vorrei scomparire. Sciogliermi nel acido della mia disperazione. Non dormo. Di notte accendo la luce e con gli occhi orfani di sonno guardo le ombre che si spostano sul soffitto. Sembrano pipistrelli con lunghe ali assassine, ho paura che si stacchino e mi cadano addosso. Non mi muovo, prima o poi i loro artigli strapperanno i miei capelli, caveranno i miei occhi. Cerco di urlare per avvertirli di lasciarmi stare. Gli spigoli dell’urlo rimangono impigliati nella gola. Soltanto un rantolo, soffocato nell’accoglienza soffocante del cuscino, accompagna le mie paure.
Di giorno tiro giù le tapparelle. Da dietro le stecche non trapela neanche un debole barlume. Non supporto la luce vana, sprecata che si accende nel cielo. Non la voglio vedere. Mi pesa sentirla addosso, io sono invasa dal buio. Buio totale. Buio. L’unico divertimento che ancora mi anima è invertire le consuetudini. Rispondo con beffe alla beffa. Il mondo capovolto. Il tempo rinchiuso nel vano di una clessidra rotta. Notte di giorno, giorno di notte, il pavimento sopra, il soffitto sotto, le gambe sul cuscino, la testa scaraventata sotto il letto, rottola come un pallone sgonfio. Conto allo rovescio. Il tempo trascina il nulla macchiato da una luce disfatta. Dimentico il conforto delle parole sciolte nel incavo delle mie lacrime. Dentro lo specchio l’immagine distorta dei miei pensieri esausti. Il respiro gonfio di attesa congela il sangue. L’aria stagna dentro la corsa delle mie angosce. Sono stanca; piombo fiacca in abbandono; il mio sonno alla caccia delle notte, anche se artificiale, dove coccolare le voglie. Mi vieni da piangere e rido, poi mi gratto per togliere dalle orecchie i singhiozzi.
Non vado più a trovare mio padre, il rimprovero delle sue lacrime mi brucia. Non gli rispondo nemmeno al telefono. Che gli devo dire? Non ho più la forza di mentire. Un giorno ha smesso di chiamarmi. Forse si è offeso. Neanche io lo chiamo. Il credito sul mio cellulare è finito da mesi. La mamma, beh, la mamma continua a sorridermi come prima con il volto incastonato in una lapide di marmo. A volte la invidio, pare così contenta di essere altrove. Non vedo nessuno. Nessuno mi chiama, come se mi avessero già cancellato dalla loro memoria. Attorno a me si condensa la solitudine ed il silenzio. Molle e opaco. Il mio cuore echeggia nel deserto fatto di sale. Ascolto i suoi ritocchi regolari che mi abitano; il pensiero si incaponisce all’infinito nell’unico interrogativo: perché? Esco ben poco, quasi mai. La vita di fuori mi disturba con la sua normalità. Mi disgusta l’inerzia che galleggia come la nebbia. Ognuno recita la ebete farsa della contentezza. Se avessi coraggio spaccherei il miraggio della perfezione, griderei a tutti loro che la cecità dell’ignoranza li rende innocui ed inoffensivi, ma molto funzionali al sistema ingiusto che ci domina. Ma non lo dico, la sfumatura di ribellione che mi sfiora appena è una pulsazione troppo debole per poter prendere il volo dell’azione. Neanche ai miei compagni di disgrazie, agli altri disoccupati non trovo il coraggio di rivolgermi. Nonostante li riconosca da lontano, dalla pesantezza del passo, dalla disperata incurvatura delle loro spalle, dallo smarrimento inciso nella carne dei loro volti. Tutti uguali, tutti identici, una maschera imposta loro dalla forza del bisogno. Non abbattetevi, vorrei dire, in fin dei conti non abbiamo che perso le nostre catene. Non lo dico. Peccato che insieme alle catene è svanito anche il senso del nostro risveglio.
Il medico mi dice che dovrei pensare positivo, che il bicchiere è mezzo pieno. Positivo un cazzo, dottore, penso io. Che ne sa dell’incertezza che accompagna lo strascicarsi scricchiolante del prossimo minuto? Lasci perdere i discorsi che è meglio. Le paure e le disgrazie sono individuali, vero? Mi ha sentito, dottore? Certe esperienze si possono capire soltanto vivendole in prima persona. Non esteriorizzo la mia protesta, la ristringo nel guscio opaco del mutismo. A casa resisto a fatica contro il desiderio di picchiare la testa contro il muro, vorrei liberarla di tutto quello che la intasa, di tutto quello che non funziona dentro. Ho paura di diventare pazza. Stringo nei pugni l’urlo che mi gonfia il petto. Non si fa tenere, scivola fra le dita viscido, va e viene, raschia la mia carne con le sue schegge.
Incapace di fermare i miei passi, cammino. Come una fantasma smarrita dentro la sua solitudine. Avanti ed indietro, rincorro il senso del mio fiato. Cammino con la fretta di riempire un vuoto che vuole risucchiarmi dentro. Cammino. Cammino e conto, cinque passi fino alla finestra, dodici fino in bagno, dieci fino al rubinetto della cucina. Contando, è come se m’impossessassi meglio della mia casa. Forse un giorno la perderò. Le carte della banca si accumulano sul mio tavolo. Non le leggo più. Le lascio prigioniere nelle loro buste intestate. È la mia vendetta. Non voglio far entrare la cattiveria dell’intimazione nella mia casa. È la mia casa. Finché posso la difendo. Continuo a camminare, ogni passo è l’affermazione che qui ancora sono io la padrona. Alla porta d’ingresso non mi avvicino, sul pianerottolo c’è sempre un viavai di gente. Gente che brulica su e giù per le scale spinte dall’affanno delle proprie vanità. Invadono il silenzio con l’arroganza delle loro scarpe, voci, fiati, corrono verso un nulla che rimane comunque oltre l’orizzonte. A volte il silenzio diventa completo per lungo tempo. Ma anche il silenzio ha voce. E come se desse più durezza all’aria. Le mie orecchie sono piene di piombo.
L’ansia è diventata la mia compagna. Riaffiora con una forza sempre nuova, accompagnando il mio respiro. Mi insegue nel sonno come un branco di cani affamati, domina i pensieri e li guida. Convivo. La coccolo. Ogni tanto le parlo. Anche lei mi parla; scivola lungo il mio corpo; sento il suo fiato freddo sulla pelle e mi parla. Mi dice, sei mia, non avere paura di me, vieni, vieni con me. Sarei tentata di mandarla via, poi ci ripenso. Perché? È l’unica che ancora mi cerca. Il suo abbraccio è come una morsa incollata alla mia carne, mi divora lentamente. Fremo come una preda intrappolata che si sa senza scampo. Il respiro pulsa dentro la gola e una nebbia fitta, fitta attutisce il tamburellare sempre più caotico del mio cuore.
Pericolo. Qualcuno mi spia; il pensiero non mi molla da giorni. In punta dei piedi vado a controllare se ho girato la chiave. Qualcuno è lì, dietro la porta. Una presenza constante come la disgrazia. Mi accovaccio sul letto e aspetto che mi assalti il suono del campanello da un momento all’altro. Attendo senza muovermi, con la paura nidificata sotto le palpebre. L’angoscia chiusa nei pugni cerca la protezione delle maniche troppo lunghe della felpa. Il respiro si perde dentro l’attesa. Il sapore di un insensato desiderio mi invade la bocca. Forse … Ma nessuno suona.

*

La solitudine della neve (nostalgia, frammento)

Per l’ennesima volta, prima di spegnere la luce rilego la letterina di Victor. Anche se la conosco a memoria, trovo un certa vicinanza scivolare lentamente sulle lettere tracciate con diligenza dalla manina di mio figlio. Più tardi, di notte, accovacciata sotto le lenzuola, con le ginocchia strette al petto, stento a mettere insieme frammenti di vita legata ai miei bambini. Una cupidigia insaziabile mi impone a razzolare in ogni angolo della mia memoria in cerca di un particolare, di una briciola di ricordo che messa insieme alle altre potrebbe ricostruire la sfuggente immagine dei miei figli.

I miei figli! Il pensiero, come liquefatto, si insinua rapido nella breccia della mia resistenza ed invade il mio cervello, riempiendo l’intera scatola cranica, che comincia a pulsare ritmica, simile ad una bomba ad orologio. Sullo sfondo buio dell’infelicità che mi assale, guardo impotente gli scopi di dolore che irradiano in mille direzioni e si espandono nel corpo. Sussulto. Rabbrividisco, incapace di controllare i battiti accelerati del cuore. Due lacrime, linfa della mia anima tormentata, scivolano tremolanti sul viso, per poggiarsi poi, una dietro all’altra, sulla pagina che ho davanti, mescolandosi fra le parole. 

Non devo pensare! Non devo pensare, urlo dentro di me. Non devo pensare! Il dolore continua a palpitare come una ferita. Una ferita contaminata dai sensi di colpa che non guarirà mai. Mi schiaccio la testa fra le mani. Mi fa in effetto strano sentire la presa sulle tempie, come se avessi il teschio incastrato fra due blocchi di marmo freddo. Contrago i muscoli delle braccia ed aumento la pressione. Inconsapevole cerco il dolore fisico in speranza di lenire un altro molto, ma molto più struggente. Il pensiero dei miei figli mi strugge. Pensare a loro è come strappare un po’ alla volta il mio cuore. Più forte della tortura della goccia. Ma anche non pensare è una tortura. Ad ogni modo fa male.

“Hai pianto?” mi chiedono gli occhi perspicaci della signora Filomena.

“Sì. Ho sognato i miei figli … mi mancano … tanto …” rispondono esitante le mie palpebre.

“Non devi. Sei …”

Non voglio sapere come sono. Mi ritiro spaventata dietro la tenda salata delle mie lacrime. La mano della mia amica mi cerca nella nebbia del dolore e si offre come appoggio. Riemergo, ma non ho nessuna voglia di parlare. Non posso parlare dei miei figli. Non senza sentirmi strappare il cuore …

La signora Filomena intuisce il mio stato d’animo, mi avvolge nel suo sguardo buono, come per proteggermi.

“Il mondo è ingiusto …” sospira.

“È ingiusto …” rispondo come l’eco, imponendomi di controllarmi. 

Non reggo il dolore, cedo; appena l’argomento cade sui miei figli, appena un piccolo ricordo mi torna in mente, appena vedo dei bimbi della stessa età, mi sento soffocare, come se un grosso nodo mi bloccasse la gola. Fatico a respirare e il nodo si ingrossa, si gonfia fino a scoppiare come un pallone in un mare di lacrime. Per questo tengo nascoste le loro foto, non posso guardarle senza sentirmi lacerare.

Cosa ci può essere di più grande e di più struggente della nostalgia per i propri figli, soprattutto quando sono tanto piccoli e tanto lontani e tu sai che non potrai vederli per un tempo che neanche riesci a stabilire?

“Cari, dolci figli miei, quanto vi amo, quanto mi mancate!” grida il mio cuore. “Non giudicatemi … Se avessi saputo …”

Non finisco il pensiero. Non voglio dare spazio ai rimorsi. Non ha senso.

Dalla finestra della cucina vedo le mamme portare per mano i propri bimbi; ogni tanto rallentano il passo e la mamma abbassa l’orecchio per raccogliere meglio il cinguettio di suo figlio, annuisce seria e gli sussurra qualcosa, provocando la gioia del bimbo che comincia a trottare contento, allineando il suo passo a quello materno. Li seguo ancora un po’ con gli occhi finché, felici ed ignari della loro fortuna, scompaiono dietro l’angolo. All’inizio mi capitava di scendere davanti al cancelletto e mi azzardavo a fare complimenti a quella normale felicità. Lo smisi presto; troppo spesso le mamme non  gradivano la mia gentilezza.

È già autunno. Ogni tanto una foglia gialla passa lenta davanti al vetro. Qualcuna si aggrappa malinconica al davanzale esterno e aspetta che un soffio la mandi giù, l’ultimo moto del suo ciclo. Il sole è scomparso, inghiottito dalle nebbie. È scomparso anche il merlo dai rami della magnolia. Per me è tutto uguale, continuo a combattere con la lentezza del tempo, appesa alla banalità del giorno e nella scura eternità della notte combatto con la nostalgia rovente per i miei figli, struggendomi per i momenti non vissuti, per le occasioni perse, per le carezze non condivise, per le parole non dette. Cosa me ne faccio dei tutti i baci incrostati sulle mie labbra, delle carezze dimenticate nel incavo delle mie mani? Orfana di amore. I ricordi mi assalgono, ma io li schiaccio via, come se fossero mosche moleste. Via, andate via, lasciatemi! Non vi voglio ora, mi fatte troppo male. Troppo male!

  L’isolamento mio sta diventando normalità. Il dolore è sempre uguale: irrompe dentro con la stessa intensità e prepotenza. È come se una mano invisibile mi passasse senza pietà alcuna la carta vetrata direttamente sul cuore: avanti ed indietro, avanti ed indietro. Il vuoto che mi circonda è insopportabile. Con tutte le forze mi oppongo al desiderio di farmi del male, una piccola incisione per liberarmi dal veleno derivato dai sensi di colpa. Con uno sforzo quasi muscolare spingo i pensieri fuori dai spazi pericolosi e mi impongo di pensare in positivo. Devo pensare in positivo. Devo. Trovo un aggancio: la ricongiunzione; io mi aggrappo a quell’idea come ad una corda che dovrebbe tirarmi fuori dal burrone. Sarà un momento felice, sicuramente felice, ripeto. Le mie labbra si muovono artificiale, come in un esercizio di dizione. Controllo la respirazione. Schiaccio diligente su ogni suono in speranza di riempirlo di contenuto. Sarà un momento felice. 

 

*

Charlotte

CHARLOTTE

“Lei è proprio una inetta maldestra, signorina Bronte!”

L’acuto isterico della signora Gibson la investì come una follata brusca, mentre raggomitolata sul pavimento di pietra della sala da pranzo, stava raccogliendo i cocci della tazza andata in frantumi. Era l’opera di Paul, lo sapeva bene, il figlio di dieci anni dei suoi datori di lavoro, che da sei mesi la tormentava con le sue angherie. Anche ora, gli è bastato un attimo per combinarla, appena ha visto lei, girata di spalle, che cercava di pulire le manine della piccola Sarah; lui, perfido aveva spinto la tazza di tè sul bordo del tavolo fino a farla cadere. Gli è bastato un attimo!

“Ah, ha rotto una tazza del mio servizio di tè preferito. Miserabile e imbecille creatura!” strillava la signora Gibson con le mani premute contro il seno grosso, cercando di domare l’affanno dell’indignazione che in quel momento la soffocava.

“Oh, mi vogliono morta, mi vogliono!” si doleva fra se e se la signora Gibson; nella gola un gorgoglio di lacrime si stava accumulando, il ché non le impediva affatto di continuare a gridare ancora di più in tentativo di sovrastare la propria voce.

L’insinuazione era troppa. La capiva la stessa signora Gibson, ma il piacere di sentirsi vittima di un’enorme ingiustizia le provocava una fitta dentro il petto, un tremolio strano che spezzava la noia del tempo. Grassa nobildonna continuava a frangersi le mani con gesti teatrali; una pattina di rossore le colorava le guance; le labbra tremavano, ora strette sotto forma di un piccolo cuoricino, ora allargate e indifese con una espressione melodrammatica, sennò tragica addirittura. Charlotte si sentì avvampare.

“Com’è patetica!”pensò.

L’indignazione le stese un velo appannato sulla vista; il rumore sordo dentro le orecchie attoniva i suoni circostanti; piccole gocce di sudore si depositarono rapide sulle tempie. Con il cuore in subbuglio Charlotte lasciò cadere indietro i frantumi, raddrizzò lentamente le spalle, si passò una mano sulla fronte, infine posò gli occhi sul volto affondato nel grasso della padrona, indugiò impigliata per un lungo istante nel nero della gola spalancata, poi si scosse, spostò disperata lo sguardo attorno, istintivamente cercava un appoggio; la piccola Sarah continuava a spalmarsi indisturbata la marmellata di mirtillo selvatico sulle dita paffute, gonfiando le guance per la contentezza, brontolava qualcosa sotto il naso; la timida Helen, una bimba malaticcia dallo sguardo dolce, spostava gli occhi spaventati un po’ sulla madre, un po’ sul fratello che dietro le spalle materne si esibiva in smorfie e linguacce.

Charlotte si alzò in piedi, il viso in fiamme, il senso di ingiustizia che le montava dentro, il disagio la spingeva a reagire. Vuole dire qualcosa, forse giustificarsi, forse scusarsi, era dispiaciuta, veramente dispiaciuta; mosse le labbra; inciampò nel sorriso perfido del ragazzino che si godeva la scena, oh, come si la godeva! Allora s’irrigidì tutta, come colpita; soffocò un urlo di rabbia e dolore; soffocò la tentazione di prendere a schiaffi il maleducato ed insolente bambino; soffocò il desiderio di rompere l’intero servizio della signora e ridere in faccia a tutti loro come una pazza; strinse forte i pugni, da tagliarsi la pelle dei palmi con le unghie; strizzò gli occhi e schiacciò indietro le lacrime. Fremente fece un passo in avanti; increspò disgustata le labbra; il disprezzo prudeva la lingua, chiedeva di essere riversato, ma all’ultimo la ragazza si fermò, il suo animo signorile le impose di non polemizzare. Con la testa alta, senza una parola, una sola parola, aggirò l’imponente donna strillante e senza nemmeno un inchino, un fatto grave che sicuramente non sfuggì all’aristocratica signora Gibson, uscì dalla stanza, non prima, però, di fulminare con lo sguardo il piccolo bastardo che si la rideva.

“Li detesto. Non resto un minuto in più! Lascerò immediatamente questa casa!” ripeteva Charlotte; con gesti frenetici raccoglieva le poche cose personali e le buttava, senza alcun riguardo, nella sacca di tela, appoggiata sul letto. Le lacrime, finalmente libere, si mescolavano alle parole sconnesse, mentre la decisione si rinforzava nella sua mente. Avrebbe lasciato il lavoro, ora, in questo instante; non sentiva nessun bisogno di aspettare, non avvertiva la necessità di chiedere consigli; le decisioni nascevano potenti dentro di lei, spazzando, come una raffica forte di vento ogni dubbio, ogni incertezza.

Accompagnata dalle ombre grigi della sera, arrivò a Yorkshire all’ora di cena. La sua famiglia stava riunita attorno al tavolo della cucina. La zuppiera panciuta fumava promesse saporite in centro tavola. Il capofamiglia, il signor Bronte con gesti gravi affettava il pane. Emily, munita di un piccolo coltello, spalmava il burro sulle fette. Gli altri, cucchiai alla mano, aspettavano in silenzio.

 “Sono tornata.” Con voce debole, quasi colpevole Charlotte annunciò il proprio arrivo; non più tanto sicura della decisione che ora credeva più che mai precipitosa. “È difficile insegnare a dei bambini, quando hanno per madre una persona vuota ed ignorante.”spiegò laconica alla famiglia il suo ritorno anticipato. Voleva aggiungere qualcos’altro, ma non sapeva nemmeno lei cosa. La sua natura introversa si opponeva ad ogni tentativo di apertura, anche quando si trattava, come in questo caso di persone vicine, molto vicine, i suoi familiari.

Ognuno reagì a modo suo, Emily le rivolse uno sguardo carico di comprensione e le sorrise da dietro la tenda di vapori della zuppiera. La vecchia Tabby girò pesantemente in una mezza piroetta il suo grosso tronco e batté le mani ad un pensiero tutto suo. Anne l’abbracciò in silenzio, aiutandola a sciogliere i nastrini del cappello. Il fratello Branwwell sembrava assorto, pareva che non avesse nemmeno notato la sua apparizione. Il padre rimase un attimo immobile, mascelle serrate, i muscoli del collo irrigiditi, scrutò il volto imbronciato della figlia. Capiva, oh, come capiva la sua bambina. “Forse ho sbagliato tutto con loro.”pensò sconsolato, abbracciando in un unico sguardo le figlie. “Stimolando la loro curiosità, affilando lo spirito analitico le ho rese infelici. È un arma a doppio taglio … Il mondo non è pronto ad accogliere donne come loro. Forse …”

Con il gesto energico del braccio spezzò il filo dei propri pensieri, avrebbe continuato dopo cena, sicuramente, rifugiato dentro la morbidezza accogliete della sua poltrona. Ora era risoluto a non cedere alle considerazioni amare; respinse l’ondata liquida che minacciava di investirlo; soffocò il seme di una rabbia improvvisa; cacciò via il principio di una preoccupazione che inopportuna si dibatteva dentro il petto; occultò sotto le palpebre le ombre del rimorso; impose un sorriso al suo volto invecchiato: sua figlia è a pezzi, è vero, ma è tornata sana e salva, in questo momento è tutto quello che conta. 

“Avvicinate!” la chiamò, aprendo le braccia; un tremolio trasparì debole nella sua voce. “Sei dimagrita.”constatò morbido; con un gesto pudico accarezzò veloce il viso smagrito di Charlotte, poi aggiunse tranquillò: “Ben tornata. Dove mangiano in cinque, c’è sempre un boccone anche per il sesto. Dai, siediti.”   

Non ci furono altri commenti, la famiglia Bronte era tirchia nelle manifestazioni dei sentimenti: abituati a non lamentarsi, ognuno se le custodiva gelosamente all’interno del proprio animo. Charlotte non aggiunse altro; nel cuor suo la giovane donna intuiva che, forse, il motivo del suo ritorno fosse un’altro. Orgogliosa e libera si sentiva intrappolata nel ruolo di subalterna, in perenne balia dei caprici e degli umori altrui; dover abitare l’ambiente arrogante ed ipocrita dell’alta società decisamente le pesava. Il suo spirito si ribellava indomato, passioni interiori la percorrevano con la violenza dei temporali. Aspirava ad essere libera! Non poteva più tenere rinchiusi i propri pensieri, da dentro loro esigevano sfogo, volevano esserci per prendere volo. Come del resto tutte le persone orgogliose, Charlotte non si lamentò, non fece mai trapelare il proprio disaggio, allevò le sofferenze dentro di se, soltanto nel chiuso della sua solitudine si lasciava andare a lunghi monologhi liberatoti.

“Che credono loro, i ricchi? Se sono povera, brutta e piccola che non abbia né cuore, né anima? C’è lo il cuore esattamente come loro, c’è lo l’anima, forse anche più ricca. Ed il fatto ché non possegga bellezza e ricchezza, non dà loro alcun diritto di umiliarmi e calpestarmi. Anche a prezzo di perdere il pezzo di pane, non rinuncerei alla mia dignità, non oscurerei la libertà del mio sguardo, non toglierei l’interrogativo alle mie domande, non soffocherei la mia mente! No!”

Il volto si accendeva dalla foga dei pensieri; i capelli ribelli circondavano vaporosi la sua piccola testina indomata, appoggiata orgogliosamente sulla linea retta del collo; nel profondo degli occhi si muovevano ombre e luci che ipnotizzavano. Era magnifica! 

Ben presto la sua appassionata eloquenza si trasformò in un categorico desiderio di elevarsi sopra tutti quei che l’avevano sconsiderata e derisa. Nutrire lo spirito per arricchire la mente, ecco la vera superiorità!

La vita riprese il corso monotono di una volta, i giorni si allineavano uno dietro all’altro in un cammino senza fine. Charlotte tornò con gioia alle vecchie abitudini, ritrovò con entusiasmo la sua passione di sempre: la lettura. Si mise a studiare con un fervore frenetico, assorbendo libri dopo libri, a caso, senza scelta. Semplicemente leggeva tutto quello che le capitava sottomano, spinta dalla frenesia di superare le catene mentale che la legavano ancora a quel mondo. A tentoni, come un bimbo ai suoi primi passi avanzava, sopportata da un’assidua tenacia, si distaccava sempre di più dalla realtà, circondata da un mondo immaginario ricco ed onesto. Purtroppo le mancava una guida sicura e preparata che avrebbe potuto indicarle dei percorsi per risparmiare tempo e forze, ma non si scoraggiò. Vagare solitaria nel vasto mondo del sapere le permetteva di sviluppare la capacità critica di sintesi del pensiero libero, senza barriere e senza influenze illustre. Non voleva imbottirsi di dogmi, Charlotte voleva a ragionare con la propria testa.

D’estate il suo posto preferito era sotto i pini, contigui alla casa, dall’aspetto triste ed invocante per un’eterna penuria di sole. Alcuni rami magri ed ossuti, come le braccia rinsecchiti di un vecchio mendicante si allungavano pietosi verso l’alto, implorando un po’ di calore per le loro articolazioni massacrati dal freddo. Charlotte li guardava a lungo in silenzio, le piaceva immaginare il lamento scricchiolante del vecchio dolore, convinta di poter penetrare dentro l’anima della natura, sentire il suo respiro. Ogni volta che poteva, che il tempo glielo permetteva, si ritirava lì. Circondata dal comodo del sole che come una carezza le si posava sulla spalla, con la brezza leggera del vento dentro i suoi capelli, essa leggeva, scriveva, lavorava, o si abbandonava semplicemente alla sensazione strana del silenzio assoluto, interrotto soltanto dalla corsa disinibita dei propri pensieri che le pulsava dentro le tempie. Seduta su un piccolo sgabello, con le falde del severo vestito raccolte da un lato e la schiena appoggiata contro il tronco vigoroso dell’albero, a lei pareva di percepire con chiarezza il mistero del filo vitale che la collegava alla terra, alla natura, dove lei non era che una minuscola, ma indispensabile particella della grande realtà che portava il nome di Universo. Domande eterne, domande fatali sull’esistenza, sul senso della vita, sul ruolo riservatole incombevano esigente nella sua testa e Charlotte finiva per invidiare la vecchia Tabby, la governante, essere buono e onesto che da persona quasi analfabeta conduceva la sua vita senza tormentarsi troppo sul perché.

E quando la ricca biblioteca del padre esaurì i suoi tesori, la giovane ed insaziabile testa le impose di andare a cercare altrove; così Charlotte affrontava lunghe passeggiate fino al villaggio più vicino per poter usufruire dei libri della biblioteca circolante di Keighley. Col tempo ebbe accesso alla biblioteca privata della ricca famiglia Heaton, sfruttando con avidità tutte le risorse. 

Decise di rimanere nella casa paterna, di non allontanarsi mai più dallo Yorkshire.

“È così bello qui!” esclamava con una sorta di febbrile entusiasmo, arrischiando i suoi passi dentro gli angoli più remoti della brughiera. Le vertigini di un’energia a lungo repressa la spingevano a correre come un folletto indomato, respirando a pieni polmoni si arrampicava sulle rocce da dove esponeva ridendo il volto infiammato al vento. La sua figurina rimaneva a lungo lì in piedi, solitaria e magnifica, i lunghi capelli sciolti, la gonna che svolazzava come una bandiera, le braccia alzate. Libera nella solitudine e contenta come in compagnia di un caro amico. Pareva immersa in un appassionato discorso, o forse un una contemplazione senza fine di un mondo che vedeva solo lei; non sentiva né freddo, né paura, né suggestione.

“Forse dovremmo organizzare un viaggio a Londra. È iniziata la stagione. Possiamo divertirci.”

La proposta della sorella Emily s’infilò timida fra i pensieri di Charlotte. Non alzò nemmeno la testa. Scosse nervosa le spalle e non nascose la sua irritazione.

“Io non ci vengo. Non m’interessa. Yorkshire mi soddisfa in pieno.”

Non avrebbe potuto trovare un luogo più isolato e scostato dalla vita mondana, lontano dai vizzi e passioni che la ripugnavano. Non era odio il suo, non era rancore, solamente un disincanto di tutte le cose effimere e ipocrite del mondo.

Amava la vecchia casa dalle grosse mura in pietra, amava la solitudine superba della brughiera. Si sentiva figlia di questa terra dura, nera, bruciata dal gelo, nei suoi sogni si illudeva di assomigliarle; lei, figlia del cielo di acciaio che in lontananza si perdeva dentro la palude; lei, figlia del vento pungente ed instancabile che senza sosta scuoteva i rami contorti dei pini; lei, figlia delle cornacchie che dal alto vegliavano solitarie sopra la distesa desolante ed aspra, abitata dalla selvaggia vegetazione di erica. E prima ancora, Charlotte era e si considerava in pieno figlia della sua numerosa famiglia, a cui si sentiva legata da fasci contraddittori di sentimenti; la sua anima era eternamente scossa dalle vibrazioni delle più alte sfumature dell’amore, fino alle profonde e oscure tonalità dell’odio verso la famiglia che la soffocava e che la faceva vivere, che l’amava e l’odiava e lei diventava sempre più consapevole che per un’inspiegabile bisogno della sua complicata natura, le risultava altrettanto vitale sia l’amore che l’odio.

Il buio della sera li univa tutti insieme attorno al lume accesso che a malapena illuminava il vano largo della cucina. Ognuno stretto nella propria solitudine; ognuno libero e lontano nei propri pensieri.

Charlotte staccò gli occhi dal libro e con amore e gratitudine inquadrò per l’ennesima volta la sua famiglia: il padre, ormai con i capelli bianchi che, aiutandosi di una grande lente, insisteva testardo, nonostante i gravi problemi di vista, a leggere in modo indipendente il suo giornale, la sorella Emily, assorbita dalle confidenze del proprio diario, Anne, la piccola, alle prese con una traduzione di francese, il fratello Branwell, tornato di recente da uno dei suoi indefiniti viaggi di affari, che sonnecchiava con la testa scivolatagli su una spalla, la vecchia Tabby, buona e premurosa, che lavorava ai ferri le ennesime calze di lana.

La scena, inondata dai riflessi ramati del fuoco che allegro scoppiettava nel camino, le si apriva talmente pittoresca e cara che Charlotte sorrise, reprimendo un sottile senso di disaggio, nato dentro il petto, simile ad una percezione di vertigine davanti ad un vuoto. Che strana cosa è il presentimento! Cos’è questa misteriosa simpatia fra la natura e il’uomo? Forse è soltanto la paura di perdere un giorno tutto ciò? O forse è la fretta di un’attesa che la divorava da dentro?

Non lo vuole sapere, decise resoluta di non indagare oltre. Non voleva rovinarsi la serata! Era contenta, sarebbe stata quasi felice se non fosse per il freddo che attanagliava le sue membra sempre gelati; una sensazione viscida, partiva dalla punta dei piedi, lentamente afferrava le caviglie, fino a renderli quasi insensibili. Il pensiero la fece rabbrividire.  Aveva scelto di tornare in campagna, seguendo un suo ideale, ma il suo spirito, la sua mente si rifiutava di idealizzare quel ambiente rurale che lei, standosene in disparte, non condivideva, perche semplicemente non poteva condividere. Rabbrividiva ad ogni contatto con la gente del posto, gente rozza che mangiava il pane con le mani sporche e dormiva vestita; rimaneva stupita dall’arretratezza delle loro vedute; la indignava la rassegnazione con cui accettavano le ingiustizie. Con la percezione critica di una grande osservatrice Charlotte notava ogni difetto, ogni stonatura di quel mondo chiuso e conservatore, in mezzo al quale il progresso e l’apertura mentale si facevano spazio con grande difficoltà. Si sentiva diversa, senza poter decidere se nel bene o nel male. Semplicemente diversa, si ripeteva scrollando le spalle. Non basta forse questo per sentirsi estranea?

Immersa nel suo mondo, Charlotte respinse convinta le varie proposte di matrimonio. Forse stava male a casa di suo padre? Non le pesava la povertà, non aspirava alla fama, perché cambiare? Ogni intromissione nella sua vita l’agitava, introversa e timida viveva ogni cambiamento della sua vita con eccessiva ansia.

C’erano di quelli che pensavano che Charlotte fosse superba. “Dall’altezza del suo illustre piedestallo non vuole mescolarsi con noi altri. Ha paura di sporcarsi di sterco, la signorina!” dicevano spregiativi, con mal celata invidia.

Charlotte non rispondeva, anche se considerava ingiuste le critiche, anche se la mancanza di riconoscenza la feriva. Oh, come la feriva! Resisteva con fatica alla tentazione di spiegare alle malelingue che non era lo sterco che la ripugnava, bensì il loro modo ottuso e denaturato di guardare il mondo.

“La causa di tutti i mali è l’ignoranza!” ripeteva per darsi coraggio. Nel cuore, come un’aria che sapeva di putrido e muffa, si insinuava la convinzione che nelle iridi dei suoi paesani si riflettesse un immagine distorta di se stessa. Si sbagliavano loro! Lei non era così! Scuoteva la testa desolata e non finiva di chiedersi perche fosse così difficile farsi comprendere.

Circondata dalle proprie riflessioni solitarie, Charlotte si avvicinò alla finestra per scrutare il tempo. Il crepuscolo grigio stava cedendo il posto alla notte, una notte nera, dove il cielo, le colline, i pini, l’intera brughiera si confondevano, inghiottiti in un lugubre vortice di neve e vento. In fondo al giardino, appena delineate, biancheggiavano pallide le pietre funebre del cimitero. Vi erano tale desolazione e abbandono in quel paesaggio che Charlotte si sentì risucchiata, sciolta nell’atmosfera surreale. Non aveva paura, la morte non la spaventava, era l’inizio e la fine di ogni cosa, questo lo sapeva, ne era certa, ma perché allora il tremolio appena percepibile dentro lo stomaco? Come spiegare l’inquietudine che le annebbiava i pensieri? E da tempo che un rammarico molesto l’abitava dentro per una cosa che le sfuggiva da sotto controllo, senza riuscirci però, di dargli un nome.

In cerca di un po’ di sollievo appoggiò la testa contro il cornicione della finestra. Il freddo solido del legno, simile ad una stretta di mano forte e decisa, simile ad un abbraccio amico, simile ad uno sguardo comprensivo ed eloquente la supportò con fermezza.. Il cuore tornò ai soliti ritmi. Pensierosa, Charlotte riprese a camminare, inseguendo i propri passi da un lato all’altro della stanza. Allungando le mani verso il fuoco del camino in cerca di un’illusione di carezza, si chiese, se fosse davvero immune, se la sua anima non fosse raggiunta e corrosa dalla vanità. Forse era davvero superba. Forse esisteva quel piedestallo …

L’atmosfera silenziosa induceva alle meditazioni; soltanto il fuoco scoppiettava tranquillo; ogni tanto una scintilla con un scatto brusco di ribellione si staccava dal groviglio rovente, disegnando una piccola  traiettoria luminosa, e andava a spegnersi lentamente con un luccichio palpitante sul pavimento di terracotta. Charlotte la inseguiva con lo sguardo e non poteva fare al meno di domandarsi, se quella scintilla non fosse la parodia tragica della sua vita.

Stretta nel piccolo scialletto di lana si perdeva nelle riflessioni. Rimaneva a fissare assorta la fiamma con il mento fra le dita, la fronte aggrottata, lo sguardo febbrile e ostinato; abbandonava liberi i pensieri; ogni tanto muoveva combattuta, più che mai fragile, le labbra in un muto duello interiore, aperto e schietto, dove non c’era spazio per finzione.

Davanti al giudizio della sua coscienza incorruttibile dovette ammettere e dire di sì, era vanitosa: però, la sua vanità non risiedeva nelle pieghe dei vestiti che indossava, non si nascondeva nelle cose materiali che la circondavano, non le importava proprio niente, anzi non le notava nemmeno, ma piuttosto nell’inconfessabile orgoglio della propria intelligenza, la sua creatura, il frutto di un duro lavoro, di tante ore insonne, il risultato della mortificazione del proprio fisico nella speranza di attingere le vette alte dello spirito. Era questo il suo torto. Sarebbe stato un piccolo peccato, quasi da assolvere, se la sua vanità fosse stata una di quelle innocenti che ogni tanto affiorano in superficie in modo inconsapevole, senza condizionare il cammino della vita. Charlotte, invece, era assolutamente cosciente del proprio tesoro. Lucidamente si compiaceva di possedere una mente abile, assetata, curiosa che la sollevava, aprendole degli orizzonti inaccessibili agli altri. Nello stesso instante apprese con stupore di non sentirsi per niente colpevole di tutto ciò. Rimase immobile ferma, come di fronte ad una meraviglia inaspettata, dando tempo alla sua mente, o forse all’animo di assimilare il senso di quel pensiero. Voleva sentirlo scorrere dentro le vene, penetrare in ogni cellula del suo corpo. Voleva assorbirlo con calma, assaporando la gioia di una consapevolezza tutta nuova.

“Non ho tolto niente a nessuno!” mormorò infine e la fiamma del camino acconsentì tremula. Un soffio caldo, partito da una sbuffata del cammino, come una mano invisibile e amorevole  le accarezzò il volto acceso e rigirò la pagina del libro che teneva nel grembo.

Un’altra pagina …

 

*

Il sogno

“Ho fatto un brutto sogno.” Gli dico piano senza girarmi. Non lo guardo, so che è sveglio e mi ascolta. Il suo respiro regolare segna il tempo che scivola su di noi. Un tempo impassibile, privo di ricordi, privo di rimorsi. Un tempo assente.
Lui resta in silenzio. Aspetta. Con lo sguardo osservo le lame di luce, posate sul soffitto, che si sono create penetrando fra le stecche delle tapparelle. Perfettamente parallele, tranne una che sbieca accavalca le altre e va a rovinare intero disegno. Scrollo le spalle. C’è sempre qualcosa che distrugge la perfezione del momento. Un presentimento inizia a palpitare sotto le tempie. Nella mia vita ci sono state tante linee storte.
La sua mano si allunga incerta, in un richiamo e cerca la mia pelle. Rabbrividisco. La sensazione di estraneità è forte, come se ci trovassimo in due dimensioni diverse. La consapevolezza della fine mi schiaccia. Prima o poi tutto finisce, anche quando non lo vogliamo.
Decido di ignorare l’angoscia che mi imprigiona. Torno al mio sogno. Sento il bisogno di raccontarlo, di liberarmi. Solo così riuscirò a dimenticarlo.
“Ero sul margine di un dirupo. Sotto di me, come una bocca minacciosa, si apriva un buco nero. Il cuore mi martellava forte le tempie. A momenti avevo la sensazione di essersi annidato dentro le orecchie. Con un rumore assordante e ritmico. Come le campane. Sapevo che stavo per cadere lì, dentro quella voragine nera, ma non avevo la forza né di gridare per chiedere aiuto, né di scappare. Guardavo un po’ te che ti avvicinavi lento, passi pigri, quasi svogliati e un sorriso largo sul viso. Un po’ guardavo il buco nero che pulsava sotto i miei piedi e che presto mi avrebbe inghiottita. Tu hai allungato la mano, come ora, forse con un po’ più di pressione. Era una spinta morbida, senza cattiveria, quasi una carezza. Speravo fosse solo una carezza. Continuavi a sorridere. Chissà perché mi era passato per la mente che avevi un bel sorriso. Rassicurante. Forse la parte più bella di te. Che mi piaceva di più.
La terra cominciò a sbriciolarsi sotto le mie scarpe. Cercavo di resistere, chissà se avevo anche gridato. Cominciai a scivolare. Credo di aver registrato il momento stesso del distacco dei miei piedi dal piano solido che mi sorreggeva. Un attimo terribile. Chiusi gli occhi e mi lasciai cadere.
“È il mio destino.” Pensai. “Perché opporsi?”
Non puoi ribellarti al proprio destino.
Sentivo il mio corpo glissare lungo il labbro sporgente del precipizio. Rami o forse radici cercavano di frenare la mia caduta inerte. Pezzi di pelle strappati dalle ginocchia, dai gomiti vi rimanevano attaccati come pegno di quel abbraccio disperato. Atterrai. Credevo fossi morta. Una grande paura mi impediva di aprire gli occhi. Nessuno sa cosa c’è aldilà. Con una lucidità insolita analizzavo il mio stato. Volevo capire. Non avevo male. Non sentivo alcun dolore.
“Forse è così quando non ci sei più.” pensai.
Qualcosa, simile ad una carezza mi stava sfiorando la mano. Mi feci coraggio e mi imposi di aprire un po’ le palpebre. Mi trovavo su un prato verde. Piccole margherite parevano perle bianche sparse nel erba. Accanto a me un grosso cane sguainava piano. Sorrisi. Anche se non lo vedevo da anni lo riconobbi subito. Era Vulcan, mio cane di infanzia, un grosso labrador nero, intelligente e fedele.
“Vulcan.” Sussurrai.
Le mie labbra faticavano a muoversi. Avevo l’impressione che fossero incollate. Il cane mi sorrise con gli occhi. Aveva gli occhi simili ai tuoi. Marroni con stelline gialle ed io mi rispecchiavo dentro …”
Rimango in silenzio assorta.
“Vorrei annegare per sempre in quel sguardo.” aggiunsi dopo un po’ incapace di liberarmi dai lacci di quel sogno.
Lui sospira la sua voce profonda mi circonda insieme alle ombre mobili della stanza.
“Di cosa hai paura Elena?”
Il fruscio leggero delle lenzuola mi avverte che sta cambiando la posizione. Mi stringo nelle spalle, ma non c’è incertezza nella mia risposta. Non c’è nessun dubbio.
“Di soffrire. Ho paura di soffrire …”
L’uomo si muove. Si mette seduto accanto a me. Il suo profilo si delinea chiaro contro la luce. Reprimo il desiderio di abbracciarlo, di affondare nel suo abbraccio, di nascondermi. Non mi è nuovo lo stato d’animo che provo: tutta la vita ho corso con il fiato corto in cerca del nascondiglio che mi avrebbe protetto.
“Non voglio farti soffrire.” Mormora con il volto nei miei capelli. La sua bocca avida cerca appoggio nelle mie labbra.
“Mi devi credere … non devi avere paura. Era soltanto un sogno”.
“Sei tu il mio sogno.”
La vigorosa stretta delle sue braccia, un po’ eccessiva forse, raccoglie i frantumi del mio essere in un pezzo unico. Un po’ ammaccato, è vero, ma comunque integro. Le schegge del passato si ritirano, scoppiando come le bolle di sapone. Attorno a me galleggia il suo profumo pulito, forte, deciso che invade il mio respiro e mi solletica le narici. Inspiro. Rovescio la testa all'indietro e lo attiro nella caduta. Stavolta decido di non restare inerte.
“Ti voglio.” Gli dico. “Ti voglio … ora ...”
“Amore mio!”

*

Solitudine

SOLITUDINE
Di estate il suo posto preferito era sotto la larga chioma del tiglio che si stendeva generosa sopra il cortile. Alcuni rami scendevano giù come i raggi di un enorme ombrello, creando un ambiente isolato e tranquillo che la proteggevano dall’ invadenza dei rumori e degli sguardi. E poi là sotto, anche nei giorni di calura soffocante si stava freschi; una perenne brezza muoveva lentamente le foglie con un fruscio tenue come un sussurro. Ogni volta che poteva, che il tempo glielo permetteva, si ritirava lì. Circondata dal comodo della frescura e dell’ombra essa leggeva, scriveva, lavorava, o si abbandonava semplicemente alla sensazione strana del silenzio assoluto, interrotto soltanto dal vagare disinibito dei propri pensieri che le pulsava dentro le tempie. Seduta su un piccolo sgabello, con la schiena appoggiata contro il tronco vigoroso dell’albero, a lei pareva di percepire con chiarezza il mistero del filo vitale che la collegava alla terra, alla natura e lei non era che una minuscola particella della grande realtà che portava il nome di Universo. Domande eterne, domande fatali sull'esistenza, sul senso della vita, sul ruolo riservatogli incombevano esigente nella sua testa e Lucia finiva per invidiare a sua madre, essere buono e onesto che da persona quasi analfabeta conduceva la sua vita senza tormentarsi troppo sul perché.
“Non ti annoi, Lucia?” le chiedevano gli amici, cercando di smuoverla dal suo guscio.
“Io?” rispondeva divertita. “Quando?” ed in modo regolare schivava inviti ed intromissioni, proteggendo gelosa il suo mondo.
Aveva scelto di tornare in campagna, seguendo un suo ideale, ma il suo spirito, la sua mente si rifiutava di idealizzare quel ambiente rurale che lei, standosene in disparte, non condivideva, perché semplicemente non poteva condividere. Con la percezione critica di una grande osservatrice notava ogni difetto, ogni stonatura di quel mondo chiuso e conservatore, in mezzo al quale il progresso e l’apertura mentale si facevano spazio con grande difficoltà. Si sentiva diversa, senza poter decidere se nel bene o nel male. Semplicemente diversa, si ripeteva scrollando le spalle. Non basta forse questo per sentirsi estranea?
C’erano di quelli che pensavano che Lucia fosse superba. “Dall'altezza del suo illustre piedistallo non vuole mescolarsi con noi altri … ha paura di sporcarsi di sterco la professoressa!” dicevano spregiativi, fingendo di ignorare l’entusiasmo con cui da anni essa si dedicava ai loro figli, fingendo di non vedere con quanta dedizione lavorasse il terreno modesto ereditato dal padre. Poteva vantare il più bel orto del villaggio. Altro che piedestallo!
Lucia non rispondeva, anche se considerava ingiuste le critiche, anche se la mancanza di riconoscenza la feriva. Oh, come la feriva! Resisteva con fatica alla tentazione di spiegare alle malelingue che non era lo sterco che la ripugnava, bensì il loro modo ottuso e denaturato di guardare il mondo.
“La causa di tutti i mali è l’ignoranza!” ripeteva per darsi coraggio. Nel cuore, come un’aria che sapeva di putrido e muffa, si insinuava la convinzione che negli iridi dei suoi paesani si riflettesse un immagine distorta di se stessa. Si sbagliavano loro! Lei non era così! Scuoteva la testa desolata e non finiva di chiedersi, perché era così difficile farsi comprendere.
A volte, nelle lunghe sere invernali, passate in compagnia delle riflessioni solitarie, si chiedeva, allungando le mani verso il fuoco del camino in cerca di un’illusione di carezza, se fosse davvero immune, se la sua anima non fosse raggiunta e corrosa dalla vanità. Forse era davvero superba. Forse esisteva quel piedistallo …
L’atmosfera silenziosa induceva alle meditazioni; soltanto il fuoco scoppiettava tranquillo; ogni tanto una scintilla con un scatto brusco di ribellione si staccava dal groviglio rovente, disegnando una piccola traiettoria luminosa, e andava a spegnersi lentamente, con un brillo palpitante sul pavimento di terracotta. Lucia la seguiva con lo sguardo e non poteva fare al meno di domandarsi, se quella scintilla non fosse la parodia tragica della sua vita. Stretta nel piccolo scialletto di lana si perdeva nelle riflessioni. Rimaneva a fissare assorta la fiamma con il mento fra le dita; abbandonava liberi i pensieri; ogni tanto muoveva combattuta, più che mai fragile, le labbra in un muto duello interiore, aperto e schietto, dove non c’era spazio per finzione.
Davanti al giudizio della sua coscienza incorruttibile doveva ammettere e dire di sì, era vanitosa: però, la sua vanità non risiedeva nelle pieghe dei vestiti che indossava, non si nascondeva nelle cose materiali che la circondavano, non le importava proprio niente, anzi non le notava nemmeno, ma piuttosto nell'inconfessabile orgoglio della propria intelligenza, la sua creatura, il frutto di un duro lavoro, di tante ore insonne, il risultato della mortificazione del proprio fisico nella speranza di attingere le vette alte dello spirito. Era questo il suo torto. Sarebbe stato un piccolo peccato, quasi da assolvere, se la sua vanità fosse stata una di quelle innocenti che ogni tanto affiora in superficie in modo inconsapevole, senza condizionare il cammino della vita. Lucia, invece, era assolutamente cosciente del proprio tesoro. Lucidamente si compiaceva di possedere una mente abile, assetata, curiosa che la sollevava, aprendole degli orizzonti inaccessibili agli altri. Proprio come aveva previsto anni all'indietro il suo vecchio, idealista professore!
Nello stesso instante apprendeva con stupore di non sentirsi per niente colpevole di tutto ciò.
“Non ho rubato niente a nessuno!” e la fiamma del camino acconsentiva tremula.