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Raccolta di testi in prosa di Caterina Niutta
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

U cucuzzaru


“ Jivi sutta all’ortu e trovai tri cucuzzi”
“E pecchì tri cucuzzi ?”
“ E quantu sinnò ? “
“ Cincu cucuzzi”
“E pecchì cincu cucuzzi? “
“ E quantu sinnò ?
“Sei cucuzzi.”
“E pecchì sei cucuzzi ?”
“ E quantu sinnò ? “
“ U cuczzaru !”
Giocavamo, seduti in cerchio davanti casa mia, nelle sere d’estate. Mio fratello, due anni più grande di me e i figli dei vicini di casa. A me toccava di solito il ruolo dell’ultima cucuzza, mai del cuccuzzaro, essendo la più piccola e non riuscendo a tenere il ritmo del gioco, non vincevo mai!
Così andavano le cose,le regole del gioco erano chiare, chi si distraeva e non rispondeva a tono: “ E pecchì x cucuzza ?” era eliminato e scontava una penitenza. L’ultimo rimasto in gioco, diventava il cuccuzzaro e si passava al turno successivo.
Il gioco era istruttivo oltre che divertente, ci insegnava a dialogare correttamente rispettando ognuno il proprio ruolo in un’alternanza quasi ritmica.
Parlavamo tutti in dialetto e nemmeno ci ponevamo il problema di farlo in italiano. I miei non se ne crucciavano, d’altro canto, non che non conoscessero “l’altra lingua”, semplicemente pensavano fosse compito della scuola metterci a conoscenza del fatto.
Il primo ottobre 1969, strappata ai miei giochi e alla mia strada, che per la prima volta percorsi fino in fondo tenendo stretta la mano di mia madre, mi avviai verso la scuola. Distava solo qualche centinaio di metri da casa mia, ma io fin lì non ci ero mai arrivata. Non si addiceva alle donne andarsene in giro da sole, lo sosteneva a spada tratta mia nonna, dalla quale ho ereditato il nome di battesimo, ogni qualvolta cercavo di allontanarmi. Io non mi sentivo una donna, in realtà ero solo una bambina, ma quanto me lo facevano pesare!
Varcai il cancello, serrandomi sempre di più a mia madre. Il maestro ci aspettava sulla soglia. Impettito come un gallo da combattimento, pronto a saltarci addosso al primo sussurro fuori luogo. Parlava, anzi urlava in dialetto, pace all’anima sua!
Guardai mia madre, e vidi nei suoi occhi una nota di sconforto. “Non piangere” mi disse, e distolse lo sguardo. A me sembrò di scorgere una lacrima nei suoi occhi, ma di sicuro sarà stata una mia impressione.
Mi lasciò lì, ed io non ebbi il tempo di domandarmi come mai, perché non mi riportava indietro, a quell’orco avrei preferito sicuramente le suore, che fino a qualche mese prima avevo frequentato. Qualcuno mi afferrò per il braccio e m’indicò la porta…
Erano altri tempi, altri giochi, un altro mondo. In quella scuola, seduta tra quei banchi, imparai a leggere (a scrivere ci sto ancora provando). Da quei banchi guardavo la mia terra e presto seppi, era molto più grande di quel che pensavo. Si estendeva a perdita d’occhio, ben oltre il campo di calcio, nel quale per inciso io non ci avevo mai messo piede, essendo il calcio uno sport da maschi!
Del nostro Paese , la Patria come spesso usava enfatizzare il maestro, con un’autorità e impeto quasi da gerarca fascista, avevamo una fotografia appesa in classe. Uno stivale, ed io la guardavo dal basso e mi sembrava la più bella, ma non l’unica, perché presto appresi che più in là, c’erano altre terre, altre lingue, altre persone, sicuramente altri giochi. Il mondo era grande e tutto da scoprire.
“ E pecchì tri cucuzzi? “
“ E quantu sinnò?”

*

Aicha

Aicha
Arrivai in Francia in una tiepida serata d’inizio settembre. Lo Jura si
stagliava davanti a me, in tutto il suo splendore! I colori furono la prima
cosa che mi colpirono. Il verde, in tutte le sue sfumature,dall’intenso
cobalto, al pallido e tenue, tanto da sfiorare il giallo; mi avvolsero mentre
mi guardavo intorno frastornata. Il soffio di una brezza fresca e leggera, mi
sfiorò il viso e mi scompigliò capelli e pensieri. L’afa cui ero abituata era
ormai lontana , stranamente la rimpiangevo. La casa a tre piani, proprio al
bordo del bosco era accogliente e s’incastonava armoniosamente in quella
tavolozza variopinta Un misto di tristezza e trepidazione mi colsero, quando
uno strano odore mi stuzzicò le narici, appena nell’ingresso. Acre, quasi d’
incenso, non capivo di cosa si trattasse, una strana essenza. Più tardi mi resi
conto, era il legno che ricopriva le pareti, non c’ero abituata.
L’odore di foglie, misto a muschio ed erba, sostituivano la brezza marina e la
salsedine, al tramonto, quando passeggiavo per sentieri solitari pensando al
mio mare. Il mio Mediterraneo, quella bacinella colma d’acqua azzurra e
spumeggiante; ma dall’alto della collina potevo ammirare il lago. Vele bianche,
si apprestavano a riguadagnare il porto. Tutto mi pareva strano, sconosciuto.
Eppure il lago era li da millenni, come il mio mare, come i miei pensieri.

Aicha , l’ho incontrata il mattino successivo il mio arrivo in Francia. Il suo
sguardo, i suoi occhi nocciola, mi conquistò subito e il suo timido sorriso
supplì ai soliti convenevoli. D’altra parte, io non parlavo benissimo il
francese, e lei seppi in seguito, nonostante i numerosi anni di soggiorno oltre
alpe, non lo “ masticava” tanto!
La vedevo uscire di buon’ora, si addentrava nel bosco, tutte le mattine,
furtivamente. Scompariva per pochi minuti e poi sgaiattolava velocemente in
casa, senza far rumore. Mi dava l‘impressione di voler nascondersi alla sua
stessa ombra. Mi domandai spesso, dove andava, cosa cercasse a quell’ora nel
folto della foresta.
Pian piano, ci avvicinammo. Fu facile parlarle, era semplice e smaliziata,
come una bambina. Sedevamo spesso in giardino, chiacchierando all’ombra di un
faggio. Nadia , la sua piccolina, scorazzava nel cortile con il suo triciclo
rosso. Una bimba graziosa e paffutella di circa quattro anni, nata dal suo
matrimonio con Mustafà.

Ricordo come fosse oggi, la prima volta che mi offrì un tè alla menta.
Osservavo i suoi gesti, antichi, quasi mistici, pareva si apprestasse a
celebrare un antico rituale. Un vassoio d’argento, cesellato a mano,
bicchierini di vetro con fini decorazioni dorate, e una teiera forse anch’essa
in argento, ma quello che mi rapiva letteralmente e mi trasportava in altri
mondi, lontani e misteriosi, era quel suo modo di versare il tè.
Sollevava la teiera, dal beccuccio molto lungo, e versava l’infuso da una
notevole altezza, per raffreddarlo e dargli più ossigeno, diceva, in modo che
si formasse una lieve schiuma nel bicchierino. Come riuscisse a centrare l’
imboccatura dei bicchieri, non l’ho mai capito! Un gesto unico, grazioso, che
ripeteva per tre volte e le conferiva eleganza e mistero.
“E’ un ottimo digestivo”-
Mi diceva, quando ci apprestavamo a sorseggiare il tè dopo pranzo. Altre
volte, lo presentava come ottimo dissetante o corroborante; tutto dipendeva
dal momento della giornata che Aicha decideva d’offriti il tè! Ma,
immancabilmente rimaneva un vero e proprio rito, che col tempo mi divenne
sempre più familiare.
Mentre gustavamo quella prelibatezza parlavamo del più e del meno, di cose
futili, ma spesso ci lasciavamo andare ai ricordi, allegri, talvolta
malinconici. Le nostre case, lontane, a sud, dove c’era sempre il sole e l’aria
era limpida e pulita già al suo levare
”T’insegno l’italiano, vuoi? Ma tu m’insegni l’arabo, tanto il francese mi
pare che non l’impareremo mai.”- Le dissi un giorno, tanto per dire qualcosa,
ed incoraggiarla, perché ormai era evidente , parlavo molto meglio di lei da
un bel pezzo.
“ Certo, mi rispose sorridendo . Però ti devi accontentare, del mio dialetto.
Io l’arabo non l’ho mai imparato, i miei non mi hanno mandata a scuola.” -
“ Che vuoi che sia, chi vuoi che se ne renda conto, imparerò il tuo dialetto”.
-
Lei rideva, mi sembrava felice, anche se un velo di malinconia oscurava a
volte il suo sguardo.

L’avevano promessa in sposa che era quasi bambina, a un lontano parente,
partito in Francia a cercar fortuna. Un bel giovane, dagli occhi di fuoco e
baffetti birichini.

Aicha, vide per la prima volta Mustafà il giorno dell’hidia, quando giunse
accompagnato da alcuni suoi familiari. La madre e le sorelle , entrarono
insieme, dopo il padre. Portava i doni che la tradizione impone in queste
occasioni. Si presentò, tenendosi a debita distanza. Le porse un cofanetto
contenente una serie di splendidi braccialetti d’oro e una tintinnante
cavigliera.
Le donne non dimenticarono di portarle zucchero, per augurarle una vita felice
e latte a simboleggiare la sua purezza. Ma con loro si conoscevano già, erano
cresciute insieme nel villaggio, giocato per le strade, fin quando i genitori
non decisero, che non era conveniente per una signorina, scorrazzare per le
strade in bicicletta. Ed ora il momento era arrivato, Mustafà era li, seduto
comodamente su un cuscino adagiato sul tappeto.
Lei ne fu rapita, lo sguardo di quel giovane pareva di fuoco, e poi… la
Francia!
Già s’immaginava in viaggio e faceva mille congetture su quel paese che non
conosceva e del quale aveva tanto sentito parlare. Qualche cartolina le era
giunta, ma la sua fantasia andava oltre e si vedeva vivere una vita felice,
insieme con lui, il suo principe, promesso sposo che aspettava da una vita.
I doni passarono di mano in mano, soppesati e scrutati fin nel più piccolo
dettaglio. In fine li prese in mano pure lei. E quasi si sentì mancare per la
gioia. Erano suoi. Finalmente, il dono più bello e prezioso che avesse mai
tenuto in mano, qualcosa di speciale che la rendeva fiera e raggiante oltre
ogni aspettativa.

Di tanto in tanto, Aicha si sedeva su una panchina in cortile e s’imbrattava
le palme delle mani e dei piedi, con l’henné.
Io la guardavo con curiosità e mi pareva una cosa tanto strana.
“Non sono brava a farlo, ci vorrebbe una hannaya (donna che sa disegnare con
l’henne), ma il profeta ci raccomanda di farlo.”-
Mi disse un giorno, e mi resi conto che la stavo guardando con particolare
attenzione. Quella poltiglia scura emanava uno strano odore. La fissavo
sbalordita, compiere quei gesti, per me inusuali, ma per lei naturali quasi
quanto il respirare.
Ero completamente affascinata dal suo mondo e avrei voluto porle mille
domande. Lei spontaneamente mi raccontava, avevo l’impressione che parlarmi
della sua terra la rendeva felice, ed io l’ascoltavo con passione.
Solo alle sue visite mattutine nel bosco non accennò mai.