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Raccolta di testi in prosa di Michele Rotunno
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Il 18 BL

Il caporalmaggiore Paolo Libertelli, vestito in abiti borghesi, varcò la soglia della biglietteria della Calabro-Lucana di Matera martedì 11 novembre del 1940 alle ore 17,02 minuti. La sala d’attesa era pressocché deserta e quindi si diresse direttamente allo sportello della biglietteria, anch’esso deserto. Bussando a più riprese sul vetro attrasse l’attenzione di un addetto a cui chiese a che ora partiva il primo treno per Bari.
“Non ci sono treni, l’ultimo è partito mezz’ora fa” informò questi un po’ sgarbatamente.
“Non ci sono treni?” ripetè chiedendo Libertelli.
“Esatto, forse domani mattina”
“E come devo fare? Devo essere a Bari per questa sera” chese sgomento il caporale.
“Non posso farci niente, ci dovete andare domani”
“Ma dovrei essere lì stasera. Mi hanno richiamato!”
“Ah, siete stato richiamato?” chiese ora con più apprensione il bigliettaio.
“Sì, adesso come faccio?”
“Secondo me dovete andare in Prefettura e spiegare lì come stanno le cose”
“Ed è lontana la Prefettura?”
“No, è qui a due passi. Ecco, uscite dalla stazione e attraversate la piazza, di fronte c’è una strada in discesa che porta proprio alla Prefettura. Ci arrivate in cinque minuti”

“Chi cercate?” chiese con manifesta autorità il piantone della Prefettura.
“Non so di preciso, sono stato richiamato e dovrei raggiungere Bari. Non so come fare”
“Avete un foglio? Fatemi vedere” Il piantone dispiegò il foglio che gli venne subito consegnato e lesse con attenzione quanto riportava.
“Ma qui c’è scritto che dovreste essere a Bari già questa sera”
“Lo so, solo che la corriera ha avuto un guasto e siamo stati fermi più di tre ore fin quando non l’hanno riparato. Ecco, io non vorrei passare dei guai, perciò sono qui”
“Ma questa non è la stazione!”
“Dalla stazione mi hanno suggerito di presentarmi qui. Hanno detto che non ci sono treni fino a domani. Mi pare strano..”
“Caporalmaggiore, a che ora sei partito questa mattina?
“Le quattro e mezzo, signore” rispose con soggezzione Libertelli alla domanda diretta espressa in tono molto più che formale.
“Ah!, quindi non sapete nulla di quanto è successo?”
“Perché, cosa è successo?” chiese confuso il caporalmaggiore.
“Questa notte c’è stato un vile attacco dei perfidi inglesi alla base navale di Taranto”
“Un attacco? E come è finito? Hanno fatto danni?”
“Non si sa di preciso, pare che abbiano colpito qualche peschereccio all’attracco. Che vigliacchi!”
“Scusate, ma questo cosa c’entra con il mio treno?”
“C’entra, c’entra, tutte le linee ferroviarie sono in subbuglio e sono state momentaneamente soppresse tutte le linee notturne. A che ora doveva partire il vostro treno?”
“Alle 17,30 signore”
“Tardi, troppo tardi, a quell’ora è già quasi buio. Non se ne parla”
“Ed io, ora, cosa faccio? Dovrei almeno segnalare al distretto di Bari il mio ritardo. Non vorrei pensassero che sono un disertore”
“A questo non dovete preoccuparvi, adesso chiamamo il distretto e segnaliamo la vostra presenza qui. A che unità appartenete?
“Ventunesima divisione, secondo reggimento granatieri di Sardegna”
“Dopo Bari dovete proseguire oltre?”
“Sì, devo raggiungere il comando di reggimento a Parma”
“Ah, capisco. Quindi siete stato richiamato! Eravate in congedo da molto?”
“Diciannove mesi, signore. Per favore ditemi dove posso passare la notte?”
“Avete soldi con voi?”
“No, solo pochi centesimi, non posso spenderli per un posto letto”
“Capisco. Non so cosa suggerirvi. Dovrete arrangiarvi nella sala d’attesa della stazione. Lo so, fa piuttosto freddo la notte, con il maltempo che c’è la temperatura si pè abbassata di brutto. Pazienza, che ci possiamo fare!”

Alle diciotto in punto il caporalmaggiore Libertelli era di nuovo nella sala d’attesa della stazione, aveva trovato un angolo riparato dagli spifferi e vi si era rintanato. Rannicchiato su una panchina con la valigia di cartone pressato usata per cuscino e la pesante palandrana avvolta intorno al collo come una coperta, stentava a chiudere gli occhi benchè la stanchezza per un viaggio breve nella distanza ma logorante si facesse sentire in ogni membro del corpo.
Con lo sguardo fisso verso la porta d’ingresso alla biglietteria, che aveva solertemente chiuso, così come aveva fatto per l’altra che dava sui binari, lasciò che la mente varcasse i confini del tempo. Diciannove mesi, era questo il tempo intercorso dall’altima volta che si era trovato in quella stazione, ma con lo stato d’animo ben diverso.

“Matera, stazione di Matera” annunciò una voce stentorea, come se ci fosse bisogno visto che quella era il capolinea proveniente da Bari. La littorina si fermò poco dopo con ampio stridore di freni e i pochi occupanti si apprestarono a scendere. Erano le sette e trenta di una tiepida giornata di fine aprile e tra i passeggeri vi era un anchilosato giovane dall’animo sereno per essere di ritorno a casa dopo una ferma di circa tre anni e mezzo, interrotta saltuariamente per poche settimane.
Scendendo dal treno rivolse un radioso sorriso alla prima persona che si trovò davanti, un carabiniere scelto in servizio che lo guardò con curiosità mista a sospetto.
“Finalmente ho finito la mia naia” specificò Libertelli per fugare ogni perplessità.
“Ah, quindi sei a casa, soldato”
“Magari, il mio viaggio non è ancora finito. È finito solo quello su rotaia”
“Dove sei diretto?”
“A Montepiano” rispose Libertelli e, osservando una strana smorfia del carabiniere, aggiunse..
“Devo solo prendere una corriera..”
“Ah, allora buona fortuna” rispose questa volta ridendo il carabiniere.
“Dov’è la fermata? È lontana da qui?”
“No, appena fuori la stazione, dall’altra parte della piazza. Da dove vieni?”
“Dal Brennero, ma il mio reggimento è di stazza a Parma”
“Che reggimento è?” chiese curioso iol carabiniere.
“Secondo granatieri di Sardegna – disse fiero Libertelli, poi aggiunse – caporalmaggiore Libertelli” Il carabinieri allora assunse un’aria più riguardosa, in fondo il caporalmaggiore era di un grado superiore al suo, che equivaleva a quello di un semplice caporale.
“Allora avete fatto un lungo viaggio?” chiese con diverso tono.
“Sì, quasi due giorni. La tradotta fermava in tutte le stazioni, anche le più piccole”
“Beh, anche la corriera che dovete prendere farà la stessa cosa”
“Solo che ora respirerò più forte l’aria di casa” rispose felice il caporalmaggiore.

Seguendo il flusso dei pochi viaggiatori scesi dal treno attraversò la piazza della stazione e insieme agli altri si trovò nelle vicinanze di un trabiccolo fermo con il motore acceso.
“Scusa, la corriera per Montepiano quando arriva?” chiese all’autista del mezzo.
“Come quando arriva? Semmai quando parte!” rispose questi un po’ seccato.
“Sì, vabbè è la stessa cosa, ma dov’è?”
“Come sarebbe dov’è, è questa, non la vedi?”
“Cosa? Questo ferro vecchio?”
“Perché ti fa schifo forse?”
“Ma questo che cos’è?”
“E’ un Fiat 18BL, non sai leggere?”
“Ma è un carro militare di vent’anni fa!”
“E allora? Porta diciotto persone e non c’è rischio di bucare, lo sai?”
“Tiene ancora le gomme piene?” più che una domanda la sua era una constatazione, anzi una costernazione. Imaginava cosa sarebbe stato un viaggio su una strada quasi del tutto in terra battuta con un mezzo con gomme piene. La spina dorsale sarebbe stata messa a dura prova. Ora capiva la risatina del carabiniere a proposito della durata del viaggio.
“A che ora parte?” chiese sconsolato all’autista.
“Tra pochi minuti, alle otto in punto. Noi siamo puntuali, almeno per la partenza” finì ridacchiando e alludendo l’autista.
Il caporalmaggiore Libertelli, alzo gli occhi al trabiccolo che sembrava sul punto di accasciarsi in mille pezzi e con la mente ripassò la scheda tecnica che aveva studiato in caserma. Motore a benzina di 25 cavalli, 30 chilometri all’ora, in discesa. Calcolando il tragitto fino a Montepiano, un saliscendi continuo, tortuoso e malridotto, di oltre trecento chilometri definì sarebbe arrivato a casa verso le sedici, ovvero circa otto ore di viaggio. Sospirando con mestizia e rassegnazione salì a prendere posto, maldicendo quando aveva scelto la linea adriatica alla tirrenica. Se non altro arrivato a Potenza avrebbe preso la corriera per Montepiano che percorre la statale 103. E forse su quella linea non ci sarebbe stato il 18BL.
Che stramberia! Montepiano è in provincia di Matera ma la strada per raggiungere il capoluogo è quasi una mulattiera, mentre quella per il capoluogo di regione almeno è asfaltata.

Alle sedici e dieci finalmente la corriera fermò in piazza Garibaldi. Ormai i passeggeri si erano ridotti solo a cinque. Oltre a lui, una coppia di sposi piuttosto anziana, e un paio di mezzadri raccolti per strada non molto lontano dal paese.
La seconda discesa dal mezzo pubblico fu davvero liberatoria, era l’ultima. Nelle vicinanze della fermata sostavano alcune persone e tra questi un paio di giovani della sua età, che conosceva bene. Con questi scambiò calorosi abbracci e amichevoli informazioni sul periodo di naia che aveva condiviso. La chiacchierata si completò nella più vicina osteria e solo all’imbrunire il congedato Paolo Libertelli riuscì a varcare la soglia di casa nel non lontano rione Caporetto. Ad accoglierlo festosamente la mamma e i suoi sette fratelli e sorelle. Il padre Giovanni era e rimase seduto alla tavola, già pronta per la cena.
“Padre!” salutò con soggezione. Questi accennando uno stentato saluto allungò la mano che subito il figlio prese e sfiorò con un bacio.
“Come sei arrivato?” chese con finta naturalezza al figlio.
“Con la corriera”
“Ci sono stati degli intoppi per strada?” chiese ancora.
“Non, nessuno” rispose Paolo, accorgendosi solo allora dove andava a parare la discussione.
“Quindi sei arrivato alle quattro e adesso sono le cinque” constatò con voce dura.
“Si, padre. Mi dispiace, ho incontrato degli amici alla fermata che mi hanno trattenuto”
“Il fiato ti puzza di vino”
“E’ vero, ci siamo fermati alla cantina di zia Concetta, poi si sono aggiunti altri amici..”
“Adesso hai fame?”
“Sì, certo. Non mangio un boccone da ieri sera”
“Siediti e rimettiti in forze. Domani mattina devi venire al cantiere”
“Si padre”.

La cena, un piatto di fagioli e cotiche si consumò in assoluto silenzio e appena ingoiato l’ultimo boccone, prima che il padre si alzasse da tavola, per indicare che il rito della cena era ultimato, rivolgendosi al figlio rientrato da militare disse..
“Devi sposarti, sei grande abbastanza”
“Si padre” rispose Paolo.
Quella sera, con il padre ormai coricato, Paolo, che era il primogenito, fu intrattenuto dai fratelli e dalle sorelle a raccontare la sua vita militare e solo verso la fine si accorse che la sorella Concetta, di soli diciotto anni, aveva la mano sinistra fasciata e che teneva quasi nascosta sotto uno scialletto. Le chiese cosa le fosse successo e alle risposte evasive della sorella che subitò si dileguò in casa, fu costretto a chiederlo agli altri ma nessuno volle parlargli. Allora si rivolse alla madre.
“E’ successo il mese scorso sul cantiere. Lei portava dal fontanile il barile da trenta litri di acqua che serviva per l’impasto della calce, ad un certo punto è scivolata e cadendo, per paura di mollare il barile, l’ha tenuto stretto e così il cerchio di ferro sul bordo gli ha tranciato il dito medio”
“Mio Dio è terribile! Già Concetta non è bella di per sé, ora con la mano deturpata non la vorrà più nessuno”
“Non preoccuparti, questo non sarà un problema, c’è già chi si è fatto avanti. Vedrai che alla fine sarà l’unica della famiglia a fare un buon matrimonio”
“Chi è, lo conosco?”
“Sì, è Antonio, la guardia forestale”
“Ma non è già sposato?” chiese meravigliato Paolo.
“E’ vedovo, la moglie, pace all’anima sua, è morta un anno e mezzo fa, appena dopo la tua partenza. Gli ha lasciato due figli..Lo so, ha venticinque anni più di lei ma ha un posto e un salario fisso. Meglio di così..”

Sposarsi, per Paolo, non fu un problema. Rosina, la sua ragazza gli si era promessa già dalla tenera età e caparbiamente lo aveva aspettato. Il fidanzamento, che doveva quindi durare solo pochi mesi, venne rinviato ben due volte per tragici eventi, la prima volta per la perdita del nonno di lei e la seconda volta per quella di uno zio di Paolo, un fratello della madre. Alla fine fu celebrato a maggio dell’anno successivo.
Sei mesi, appena sei mesi e lo avevano richiamato. Credeva di aver già dato tutto alla patria ma evidentemente si sbagliava. La guerra era scoppiata pochi mesi prima e l’Italia si era imbarcata nell’avventura greca. Dopo un inizio che sembrava favorevole le sorti della guerra si erano capovolte e la situazione in Albania si era fatta critica. Questa era la spiegazione del suo richiamo. Ed ora lì, su una panchina della stazione di Matera, con gli occhi che si rifiutavano di chiudersi Paolo ripensava agli ultimi mesi passati a casa. Su tutto rivedeva la scena di Rosina che gli diceva di essere incinta, appena sei mei prima. E solo ventiquattro ore prima l’aveva lasciata con le guance solcate da fiumi di lacrime. L’aveva rassicurata dicendole che lui in fondo era solo un riservista e lo avevano richiamato per servizi interni.

Il caporalmaggiore Paolo Libertelli un mese dopo venne spedito in Albania e una scheggia di bomba gli tranciò la vita sulle rive del Kalamas. Non avrebbe mai visto nascere sua figlia che Rosina, con l’animo colmo di dispertazione chiamò Addolorata. Di lui restano ben poche cose, tra cui un distintivo a braccio dalla forma di uno scudetto con la scritta 21 divisione granatieri di Sardegna. Poc’altro!




*

Anna e Annina

“Annina, a nonna per favore, oggi puoi andare tu dalle tue amiche? Io non mi sento tanto bene e vorrei distendermi un po”
“Va bene, nonna, non ci sono problemi, ho già appuntamento con Giusy alle tre e mezzo da lei, tu puoi riposarti quanto vuoi, anzi se ti serve qualcosa, nonna, dimmelo pure”
“No tesoro, hp solo bisogno di starmene un po’ sdraiata, sai sempre queste gambe..”
“Nonna, ma il dottore cosa dice? Sono parecchio gonfie”
“Eh, cara mia, cosa vuoi che dica, vene varicose, flebite…”
“E non ti da nessuna cura?”
“Hahaha, bimba mia, a sentire i medici c’è da impazzire, mentre ti dicono che bisogna fare del moto ti suggeriscono di non fare sforzi e di stare a riposo”
“Nonna, devi prenderli alla lettera, fare del moto con una motocicletta, magari con un sidercar così stai anche a riposo”
“Sì, con tuo nonno appollaiato sul manubrio, te lo immagini? Gesù non farmi ridere..”
“Io ce lo vedrei il nonno su una moto, alto e slanciato com’è sembra un giovanotto”
“Sì, un poppante che si regge a stento in piedi e che ogni momento gli devi ricordare le cose, eh Annina mia, la vecchiaia è una brutta bestia..oh, ma ora va altrimenti gli roviniamo la pennichella, e poi chi lo sente!”
“Ciao Nonna, a stasera, dunque!”
Annina, mandato un bacio con l’indice alla nonna, si allontana in punta di piedi per non svegliare nonno Carlo, appisolato sulla poltrona. Nonna Anna segue teneramente con gli occhi la nipote sedicenne mentre si allontana da casa e non un sospiro rivolge il pensiero ai genitori di lei, suo figlio Andrea e sua nuora Giovanna, impegnati tutto il giorno in città con i rispettivi lavori mentre lei, in paese, accudisce la nipotina. Il paese dista una dozzina di chilometri dalla città ed è parecchio popolato, per la maggior parte da vecchi ed anziani pensionati dediti all’unica preoccupazione terrena che ancora viene loro riservata, quella di accudire i nipoti.
Assorta non si accorge del risveglio di Carlo, il marito settantottenne, che con crescenti brontolii e stiracchiamenti attira la sua attenzione. Prima che sia del tutto sveglio lei,alzatosi dalla sedia, gli passa vicino e con una mano gli da una stiratina ai capelli, bianchi e arruffati, sorprendendosi ancora una volta di come il marito dimostri oltre una decina d’anni in meno di quelli che ha, fisico asciutto, muscolatura ancora salda e, se vogliamo, un’espressione ancora piacente. Non fosse per la memoria…che ormai lo sta lasciando un pezzetto al giorno dovrebbe ancora preoccuparsi..
“Dove vai?” le chiede lui ormai desto del tutto.
“Non vuoi il caffè?”
“Ah, certo, perché l’hai già fatto?”
“Lo sai che puoi bere solo il caffè d’orzo, e quello non c’è bisogno di farlo al momento”
“Ho capito, ma sei proprio sicura che il dottore ha detto caffè d’orzo? Quella porcheria non la digerisco per niente, non fosse per sciacquarmi la bocca impastata dal sonno…”
“Ecco, bravo, aspetta buono che adesso arriva”
“Non vedo Annina, dov’è?”
“Da Giusy, passa il pomeriggio da lei. Ecco, tieni il caffè, attento che scotta”
“E adesso dove vai? Perché non ti siedi da qualche parte?”
“Vado a distendermi sul letto, sono tutta un pezzo di dolore”
Carlo, sorseggiando il caffè, osserva Anna arrancare per il corridoio. ha pochi anni meno di lui, quasi quattro, ma se li porta davvero male, il corpo appesantito, le gambe gonfie e bluastre, eppure dalla vita in su sembra un’altra persona. È come se il tempo le avesse risparmiato i segni del decadimento preservandole un volto ancora liscio e sottile, scevro di rughe e flaccide borse. La gente, quelle poche volte che si sono mostrati insieme in pubblico, ha sempre malignato sul loro conto, per carità solo a livello fisico, ammirando lui per un appariscente vigorio fisico e provando compassione per lei e il suo corpo in perfetta sintonia con il respiro asmatico.
Finito di sorseggiare il caffè, Carlo si alza per rtecarsi in cucina a sciacquare la tazza, un piccolo pensiero verso Anna alleggerendola di una futile incombenza, quindi si guarda intorno e tediato per non sapere come ingannare il tempo, si dirige verso la camera nuziale in cerca di compagnia. Anna è distesa sul letto, non si è coricata del tutto, ha solo tolto scarpe e gonna per restare più libera nei movimenti e si è tirata addosso il leggero copriletto, senza disfare del tutto il letto. Non dorme, in effetti non ha sonno, se ne sta solo distesa con le braccia incrociate dietro la testa e gli opcchi socchiusi.
“Ti disturbo?” le chiede Carlo quasi sussurrando. Lei non gli risponde, senza aprire gli occhi le fa solo cenno di no con la testa.
“Allora ti faccio un po’ di compagnia” afferma lui sedendosi sul letto.
“Se devi stenderti togliti le scarpe, non vorrai sporcarmi il copriletto?”
“No no, mi tolgo anche i pantaloni e mi infilo sotto”
“Uhm!” esclama lei, immobile come una mummia. Intanto Carlo si toglie scarpe e pantaloni e, come detto, si infila al suo fianco.
“Scusa, perché hai chiuso la porta?”
“Come? Lo faccio per abitudine, perché?”
“Se ritorna Annina e bussa non la sentiamo”
“Ma se lei ha le chiavi di casa!”
“Metti che decide di non usarle? Se nessuno le risponde le viene un colpo”
“Eh, addirittura! Hai visto mai!”
“Scherza tu, sono cose che possono capitare, eppoi lei è una ragazza molto sensibile”
“Beh, senti, io non mi alzo, se vuoi, fallo tu”
“Non me la sento”
“Allora lasciala chiusa” lei si adegua con un lungo sospiro, senza peraltro cambiare posizione mentra Carlo, giratosi su un fianco si issa sul letto puntellandosi con un gomito. Solo allora lei, incuriosita, apre gli occhi per guardarlo, ma senza parlargli, intuisce che il marito abbia in mente qualcosa da dirle. Infatti, pochi seondi dopo..
“Sai, è curioso, stamattina al mercato ho visto una persona che non vedevo da almeno una ventina d’anni!”
“E sarebbe?” Chiede lei mentre tra se pensa “sapevo che c’era qualcosa..!”
“Erminia, te la ricordi la Erminia, vero?” lei non batte ciglio.
“Certo che me la ricordo, mica sono rimbambita come te”
“Erano più di vent’anni che non la vedevo, sapessi come cambiata”
“Tutti cambiamo con il tempo”
“Non parlo fisicamente, perché è sempre la stessa rinsecchita di un tempo, solo come si veste”
“Porta ancora le minigonne?”
“No, ma poco ci manca”
“Già, ricordo che era una sua abitudine quella di far vedere il culo alla gente!”
“Uh, come sei severa, allora tutte portavate la mini”
“Ma io non mi piegavo in avanti con le gambe ritte!”
“E meno male che non l’hai mai fatto altrimenti..”
“Altrimenti cosa?”
“Non saresti qui con me ora”
“Ah, che bel premio di consolazione”
“Oh, sarei io il premio di consolazione allora?”
“Dì, ma ti senti bene? Non è che ti gira un po’ la testa? Sebbene in passato non sei mai stato un fulmine di guerra”
“Che vuoi dire con questo?”
“Oh, nulla, lascia perdere”
“E’ per via dell’Erminia?”
“Ecco, si, cosa ti ha detto?”
“Oh nulla, non mi avrà nemmeno visto!”
“Allora se tu che te la ritrovi tra le mutande? Oh, no scusa, non volevo..”
“Non mi piace la tua malignità, del tutto gratuita, nemmeno se fossi gelosa”
“Gelosa? Di chi poi, di una vecchia lebosciata con il culo fuori?” Anna, non riesce proprio a digerire quella conversazione e, pur sapendo che il marito le sta solo raccontando un evento del tutto innocente, la sua vulnerabilità fisica la rende astiosa. Carlo, comunque non demorde, non ha alcuna intenzione di litigare, perciò dopo qualche momento di imbarazzante silenzio continua..
“Sai, la cosa più ridicola è quel mezzo quintale di stucco che si è messa sul volto, probabilmente per nascondere le rughe” quelle parole raggiungono l’effetto sperato, Anna si gira, finalmente, verso di lui con una smorfia di curiosità.
“E’ davvero così incerottata?”
“Sì, da sembrare una maschera di carnevale. Sai non è come te”
“Perché io come sono?”
“Il tuo volto è liscio come lo era a sedici anni, non c’è una ruga, piccolo, ovale e, quando sorridi come ora, non mi fai capire più niente” dice lui accompagnando le parole facendo scorrere un dito lungo la guancia di Anna.
“Ehi, che ti sta passando per la testa?” chiede lei fingendo una temuta ingenuità.
“Niente, è solo che non ho potuto fare a meno di confrontarti con lei. Eppoi lo sai che una volta mi sentivo attratto da lei, ma solo fisicamente, cioè per una scopata e basta. Te, invece, no, tu sei sempre stata la donna che non ho mai smesso di desiderare. Tu sei sempre stata la mia donna. Anna, voglio morire al tuo fianco”
“Ma che vai a pensare ora, vecchio rimbambito, pesassi come una piuma ancora ancora, chi ti raccoglierebbe da terra….Carlo? che ti sta passando per la testa? Lo conosco bene quello sguardo, non farti venire strane idee per la testa”
“Perché strane? Cosa ci sarebbe di tanto stravagante tra due persone che si vogliono bene? Tu mi vuoi bene, vero?”
“Ma che razza di domande sono queste, lo sai che hai quasi ottant’anni, vuoi farti venire un’infarto qui nel letto? Su, girati di lato e addormentati…ehi, sta fermo con quella mano, cosa vuoi fare?” Intanto, lei non fa nulla per distogliere Carlo da quell’impulso anzi, il suo respiro inizia a diventare irregolare con lunghe pause di attesa. La mano di Carlo delicatamente, con finto pudore le scivola sul corpo, sotto la sottana soffermandosi nei pressi della sua intimità provocandole apnee sempre più lunghe.
“Carlo..potrebbe arrivare Annina..” riesce a mormorare con un filo di voce.
“Non verrà prima di sera e a noi, poi, non occorre tanto tempo”
“Una volta di tempo ce ne mettevi di più” sussurra incoraggiante lei mentre la mano di lui inizia a sbottonarle la camicetta per poi scivolare dentro lo slip. Anna trattiene il respiro, così come ha sempre fatto in passato, aspettando quel dolce momento.
I minuti trascorrono silenziosi squarciati solo dai loro respiri ansanti e dai gemiti a stento trattenuti. Infine, quasi goffamente, Carlo si posiziona sopra di lei e, artigliato dalle sue dita, raggiunge un orgasmo felicemente condiviso.
“Vecchio pazzo!” sussurra Anna accompagnando il corpo di lui a ritrovare la posizione supina al suo fianco. Carlo chiude gli occhi, forse per imprimersi nella mente quell’ultima sensazione di travolgente estasi che la vita gli accorda. Anna, con una mano riassetta il copriletto avvolgendo i loro corpi.
Nel trambusto della passione nessuno di loro si è accorta dell’uscio che si apriva e, solo ora, Anna scorge la testolina di Annina che fa capolino nel varco della porta socchiusa della loro camera. Le due donne, scontata la reciproca sorpresa, trattenendo il respiro, rimangono lunghi secondi a fissarsi.
Anna, punta la nipote con uno sguardo perplesso ed interrogativo, Annina guarda la nonna quasi incredula, poi è lei la prima ad agire, con un sorriso di rassicurante comprensione richiude la porta mentre la nonna, con un sorriso di maliziosa complicità, china la testa per sfiiorare con le labbra la fronte di Carlo.




*

Rosa purpurea

“Squadrone..alt!”
Al perentorio comando i cinquantadue soldati componenti il reparto delle nuove reclute provenienti dal CAR si fermarono all’unisono e restando sull’attenti. Poco dopo, un secondo ordine ordinava loro di mettersi in posizione di riposo. Sulla ghiaia che rappresentava il piano di calpestio dello spazio antistante gli uffici del distaccamento di artiglieria contraerea il rumore degli scarponi veniva maggiormente amplificato e più di qualche birba, come già venivano scherniti dal loro sbarco dai camion, non abituata a quel particolare piano stradale, sembrò comicamente sbandare provocando ancor più ilarità tra la dozzina di “veci” che bigollonavano nei dintorni pronti a inquadrare le future prede degli scherzi da bullismo a cui saranno sottoposti nell’immediato futuro.
Lo spazio in cui lo squadrone si era fermato era quello delimitato dai vari uffici del distaccamento, Fureria, Amministrazione, Sala riunione, Comando distaccamento, Comando di batteria, Magazzino, Dispensa, Cucina, ed infine OATIO, il secondo per ampiezza dopo quello delle riunioni. Era, quest’ultimo, l’anima dell’intero distaccamento, qui veniva ospitato il centro pianificatore di tutte le attività militari, esercitazioni varie, vi aveva sede il centro degli avvistatori PAO (pattuglie di avvistamento ottico) nelle varie esercitazioni, il centro NTBS (l’apparato radar di primo avvistamento aereo) ed infine quello delle trasmissioni radio.
A gestire tutte le attività dell’OATIO era un maresciallo capo, ma essendo sempre introvabile (dicasi grande imboscato) il tutto era sotto il ferreo controllo del sergente maggiore Loddu Enrico, per tutti “capo” e solo per pochi intimi Rico. Alto un metro e ottanta e con oltre novanta chili di peso, quasi tutti muscoli eccessivamente malriposti, incuteva più che rispetto un vero e proprio timore fisico convalidato da una maschera impressionante che rappresentava il volto, zigomi sporgenti e naso distorto e schiacciato erano solo alcuni dei tratti più caratteristici. A ciò si aggiungeva una voce rauca, quasi cavernosa e uno sguardo penetrante e quasi sempre minaccioso.
A troncare le sghignazzate dei “nonni” fu proprio l’apparizione di Loddu che, fermatosi sul vano della baracca, a gambe larghe e mani sui fianchi, dopo aver squadrato con la solita autoritarietà le pallide reclute, con la voce più rauca del solito gridò:
“Chi di voi, bestie, è capace di disegnare?” e mentre i “nonni” restavano in perplesso silenzio chiedendosi quale diavoleria stava escogitando il sergente l’intero reparto delle reclute, temendo anche loro trattarsi del solito trucco per appioppare agli sprovveduti qualche lavoro pesante o poco gratificante, non fu da meno, rimanendo nel più rigoroso silenzio.
“Allora siete sordi? Ho chiesto chi voi sa tenere in mano una matita, se anche sapete cosa sia una matita. Non costringetemi a spulciare l’elenco con i vostri dati personali” precisò con un ghigno feroce Loddu sventolando un fascio di fogli, ovvero l’elenco che aveva citato. Passarono alcuni secondi e infine dal fondo del gruppo una timida voce si fece a malapena sentire.
“Io so disegnare, signore” disse uno sbarbatello dall’aspetto più da collegiale che militare.
“Non sono un ufficiale, imbecille, non ti hanno insegnato che il signore non si da ai sergenti?”
“Signornò sergente…cioè..sissignore” Questa volta nulla potè la minacciosa presenza del “capo” a trattenere l’ilarità dei “nonni” ma subito repressa dal sergente maggiore con il solo sguardo, poi rivolgendosi al soldato disse:
“Come ri chiami artigliere?”
“Artigliere Bruno Rossi..di Brescia, sig..sergente!”
“Uhm, che sai fare?” interpellò con voce più normale e poggiandosi allo stipite della porta dopo aver abbandonato la posa plastica.
“Disegnare..”
“A mano libera o con righello?”
“A mano libera”
“Che scuola hai fatto?
“Terzo liceo artistico”
“Ok, fuori dalle righe e vieni qua” Pochi secondi dopo quando l’artigliere Rossi fu a pochi passi dal sergente questi, osservandolo con malcelata ironia, gli chiese se per caso l’avessero arruolato alla scuola elementare spacciandolo per maggiorenne.
“Ho diciannove anni compiuti da poco..” precisò ingenuamente Rossi, strappando una divertita risata al sergente.
“Beh, ora sei arruolato alle mie dipendenze, raccogli i tuoi stracci e vieni dentro. Ehi, Voialtri dov’è finito il vostro capo?” chiese rivolto alle altre reclute.
“Sono qui, arrivo, disse un suo pari grado spuntando dalla fureria. Ma ne manca uno… non è che te lo sei già preso tu?”
“Ti dispiace forse?”
“Cazzo..Loddu, lo sai che poi gli altri fanno storie, non puoi aspettare una benedetta volta?”
“A me serve un disegnatore, mi sai dire cosa se ne farebbero i meccanici o i capo-pezzi?”
“Sì, fingi sempre di cascare dalle nuvole tu, lo sai che vogliono sentirselo chiedere per accampare punti sui favori”
“Cosa? Ripetilo di nuovo, sacco di merda, mettetevelo in testa che qui sono io che faccio i favori, e nessun altro, e adesso portami via dalle scatole questo branco di ricchioni, te compreso!” Sbuffando e incassando l’altro sergente ordinò alla truppa prima l’attenti e poi l’avanti marsh e, in testa al reparto, si incamminò verso il piazzale di smistamento, che poi era l’unico piazzale di degne dimensioni presente nell’intero distaccamento.
“Imbecille!” esclamò sottovoce Loddu, accompagnando con gli occhi il reparto che si allontanava poi, rivolgendosi al soldato Rossi lo invitò a entrare nella baracca.
“Su, avanti, non stare lì impalato a raccogliere mosche, butta da qualche parte lo zaino e facciamo meglio la conoscenza” dopo di che andò a sedersi sull’unica poltroncina presente dietro una degna scrivania zeppa di scartoffie. L’artigliere Rossi, dopo essere entrato titubante nella baracca, si fermò a pochi passi dalla scrivania e furtivamente iniziò ad esplorare quello che già prefigurava come l’anticamera dell’inferno. Anche il sergente, stravaccato nella poltroncina e con le mani in panciolle osservava divertito il soldato immaginando ciò che gli passava per la testa. Inoltre, almeno in questa situazione che già riteneva straordinaria, l’aspetto del soldato riusciva a intenerirlo, e ciò in passato non era mai successo. Osservandolo meglio ancora si meravigliava dei tratti adolescenziali del suo volto, di militaresco non aveva nulla ma del collegiale, perbacco, tantissimo!
“Allora..soldato, hehehe!, cosa non ti convince di questo posto?” gli chiese, divertito.
“Oh, niente, o meglio..non so..è il tutto..”
“Ah, capisco! Non ti par vero di stare in un posto che sembra più una topaia che una caserma. Immagino che al CAR stavate in una bella struttura moderna con vialoni alberati e asfaltati mentre qui, invece, strade in ghiaia e baracche tipo accampamento da Corea, come in MASH. Ma se allunghi lo sguardo di qualche centinaio di metri, oltre il reticolato, c’è il campo dell’aviazione, e lì è tutt’altra cosa. Ma anche questa sistemazione ha i suoi vantaggi, come ad esempio sotto i nostri piedi, lo spazio sotto il pavimento è stato occupato interamente da legna da bruciare per quella stufa lì al centro che d’inverno resta accesa anche di notte e la baracca si trasforma in bisca clandestina dei sottufficiali”
Il soldato Rossi abbozzò un sorriso accentuando ancor più i lineamenti del volto, e volgendo lo sguardo intorno sembrava chiedere al superiore dettagliate informazioni sull’ambiente interno della baracca. Il sergente, intuendo, riprese la spiegazione.
“Qui dentro c’è tutto ciò che occorre per far diventare operativa una sala comando. Lì il tavolo da disegno, a fianco due tabelloni in plexiglas per disegnare le rotte degli aerei avvistati, in quell’angolo l’apparecchiatura radio e telefonica che ci portiamo dietro nelle varie esercitazioni e dall’altra parte l’angolo eliografico. Ti avverto che quello è il punto cruciale di tutto l’appararato, ne capirai l’importanza nel tempo, diciamo che serve soprattutto ad allontanare dalle scatole gli ufficiali. Cosa c’è? Perché mi guardi così? Ah, sappi solo che vi maneggiamo l’ammomniaca, che non emana certo un bel profumo hahahaha! Ma non pensarci troppo, siamo nel ’75 e queste sono diavolerie di fine secolo.
Allora, ti mostro il tuo compito, devi sempre e solo disegnare ciò che ti ordino e, quando inizierà l’inverno dovrai recarti al deposito legna a rifornirti. Tutto chiaro?”
“Ma qui sotto non è pieno di legna?”
“Ah,ah, acuto il ragazzo! Quella è la nostra scorta segreta, per i tempi delle vacche magre e, in questo dannato buco di culo, d’inverno ti si gelano anche i coglioni se non stai attento a dove pisci, ok? Ora va, la tua camerata è la baracca dodici, in fondo a sinistra. Dopo che ti sarai sistemato ritorna qua. Ah, se non ci sono io vi troverai altri due imboscati, un caporale e un soldato, dì loro che hai già parlato con me”
“Sissignore!” scandì Rossi scattando sull’attenti.
“E lascia perdere queste fregnacce, riservale ai damerini ufficiali. E ora via dal cazzo!”

L’autunno quell’anno arrivò precocemente, e con esso i primi freddi. La stufa nella baracca venne anzitempo accesa e, come aveva preannunciato il sergente, una volta accesa non veniva più spenta. Rossi, nel frattempo, era riuscito ad ambientarsi benissimo, totale armonia con i commilitoni e, in fondo, anche con il sergente, che poi aveva pian piano scoperto che non era affatto quell’orco che gli era sembrato di primo acchito. Spesso si era soffermato ad osservarlo impegnato nel lavoro, era coscienzioso, brusco con i colleghi seccatori e nemmeno servile con gli ufficiali. Questi a volte invadevano l’ufficio alle ore più impensate pretendendo di studiare utopistici piani di battaglia spesso non accorgendosi che si faceva tardi, allora Loddu facena un cenno al caporale che con discrezione versava un dito di ammoniaca in una piccola bacinella che faceva scivolare inosservato sotto il tavolo da disegno. Entro pochi minuti nella baracca non si riusciva più a respirare e, con gerande sollievo di tutti, gli ufficiali se la davano a gambe subito seguiti da tutti loro dopo aver rimosso la bacinella, con l’accortezza di lasciare le due finestre aperte ma la stufa accesa. Un’ora dopo l’aria ritornava salubre e l’ambiente pronto per trasformarsi in bisca clandestina. Ma non sempre ciò avveniva, a fine settimana nella baracca restavano solo loro due, gli unici lontani da casa e quindi obbligati a rimanere per forza di cose.
Era in quelle circostanze che i due, accovacciati nei pressi della stufa, approfondivano la loro conoscenza. Loddu era sempre più meravigliato dalla semplice bravura di Rossi come disegnatore, a mano libera faceva di tutto, una volta a sua insaputa si era prodigato a fargli un ritratto e un sabato sera glie lo mostrò.
“Accidenti, sei davvero bravo!” disse complimentandosi con lui. “Quando l’hai fatto, non me ne sono accorto”
“Mi basta cogliere i tratti principali di un volto, poi li memorizzo nella mente, e su quelli ci lavoro nei ritagli di tempo”
“Quindi non è qui che l’hai fatto?”
“Sì, invece, solo che non te ne sei mai accorto”
“Infatti non me ne sono mai accorto, almeno se me l’avessi detto mi sarei messo in posa”
“Ma lo sei stato continuamente”
“Cioè quando?”
“Spesso ti scoprivo a guardarmi ed allora aggiungevo qualche tocco”
“Allora avrai cancellato spesso il tuo lavoro, dico..era sempre frutto della occasionalità”
“No, sai..ogni volta vedevo nei tuoi occhi sempre lo stesso sguardo e questo mi aiutava parecchio”
“E’ lo stesso che hai disegnato?”
“Sì, lo stesso”
“E’ così che mi vedi, dunque?”
“Così..come?”
“Beh, un ritratto dovrebbe essere fedele come lo è uno specchio”
“Questo non lo è?”
“No, sono diverso, oppure non so, questi occhi sono i miei?”
“Sì!”
“Ma il volto non è il mio”
“E’ come io ti ho visto e..ti vedo..sempre..”
“Anche ora?”
“Sì, anche ora. Il tuo viso è segnato dalla sofferenza ma gli occhi lo rendono più dolce”
“Sei riuscito a vedere questo?”
“E’ ciò che vedo, sempre, almeno quando tu mi guardi”
“Credevo di incutere timore nella gente”
“Io non sono la gente e quello che vedo in te non mi fa nessuna paura”
“Sai, anche io ti vedo in un certo modo”
“Come il collegiale che hai semre detto?”
“Il tuo viso è semplice e in esso traspare ingenuità e debolezza”
“Spesso è così, e tu, senza saperlo, mi offri ciò che intimamente chiedo?”
“Sarebbe?”
Non so...la tua forza..mi infonde sicurezza..”
“Vieni, avvicinati. Dal primo momento il tuo viso mi ha colpito, hai dei lineamenti delicati e i tuoi occhi, poi, sembrano quelli di un cerbiatto in fuga”
“Oh..perchè tu hai visto dei cerbiatti da qualche parte?”
“Dai, stupido, non farmi ridere”
“Tu, invece, mi hai messo una fifa addosso la prima volta che ti ho visto..”
“Davvero ti ho fatto tanta paura?”
“Lo sai benissimo, perché me lo chiedi?”
“E poi?”
“Poi, te l’ho detto, con te mi sento protetto. Mi ha sempre incuriosito il tuo naso, perché è storto?”
“Violenze del passato”
“Cosa vuoi dire?”
“Fino a qualche anno fa ho fatto pugilato, militare dilettante”
“Davvero? Perché non hai continuato?”
“Perché mi hanno rotto il naso, e ne ho avuto abbastanza”
“E prima com’eri?”
“Più bello di te”
“Che ridere, e dovrei crederci?”
“Sciocco, tu sei bello come un angelo. Cos’hai, perché tremi?”
“Non sono un angelo. Gli angeli sono buoni”
“Lo sei anche tu, Bruno. Non lo sai ma lo sei”
“No, tu sei troppo buono, io so solo disegnare, nient’altro”
“Però disegni anche l’anima delle persone”
“Tu non sei una persona..”
“No? E cosa allora?”
“Tu sei Enrico”
“Oh, piccolo…!”
“Sento freddo, tanto freddo, per favore..”
“Vieni, piccolo, vieni!”
Il resto della sera passò così con i due, ormai amici, abbracciati. Bruno, con gli occhi chiusi del tutto abbandonato tra le braccia di Enrico e questi a sfiorargli con le dita l’ovale del volto.
“Bruno..Bruno…Bruno..”
“Sì, Enrico…”
“Ti voglio bene”
“Anche io, Enrico!”
Timidamente Enrico accostò il volto a quello di Bruno e infine, quando le labbra di lui si schiusero, delicatamente le sfiorò, ricambiato, con le sue. Fu il loro primo bacio, tenero, quasi ingenuo, sacro di sicuro.

“Cos’è questo” disse una sera Enrico, notando quella che sembrava una medaglietta al collo di Bruno. Questi, sorridendo, gli rispose..
“Oh, una sciocchezza che ho creato una volta”
“L’hai fatta tu? È bellissima, cos’è”
“E’ una rosa!”
“Una rosa rossa!”
“No purpurea”
“Purp..cosa?”
“Purpurea, una rosa purpurea” precisò Bruno divertito.
“Cosa vuol dire purpurea?”
“Una tonalità di rosso”
“Allora mi prendi in giro? Come l’hai fatta?”
“Con il filo di rame, poi ho usato lo smalto”
“Oddio, e per usare tutti questi colori?”
“Con un pennellino sottile, e con una lente d’ingrandimento”
“Accidenti, è un’opera d’arte”
“Ti piace Enrico?”
“Sì, è bellissima!”
“Voglio regalartela, così mi penserai sempre”
“Cosa dici? Intendi forse lasciarmi?”
“Io mai, ma tu forse sì, un giorno troverai un altro angelo”
“Sei tu il mio angelo”
“Stringimi Enrico, stringimi forte, ho paura. Non lasciarmi mai, no saprei vivere senza di te”
“Questa rosa mi ricorderà di te, sempre”
“Attento, non stringerla forte, è delicata. Stringi me semmai!”

Un mese dopo Bruno ricevette da Enrico la brutta notizia, era stato trasferito presso un altro distaccamento. Venne sopraffatto dalla disperazione, temeva di non vederlo più e a nulla valsero le rassicurazioni di Enrico perché il destino, spietato, non volle farli più incontrare.
Una mattina i funzionari della Polizia Militare vennero allertati dalla notizia di un militare trovato senza vita nella stanza dì un alberghetto. Aveva ingoiato un intero flacone di pillole che gli avevano procurato anche una lunga agonia. Era rannicchiato su un fianco, non fu facile distenderlo, aveva inoltre le mani serrate a pugno e in una di esse stringeva con forza una minuscola rosa purpurea.





*

Supermonteradio 100.2 Mz - Cap. 5/5

L’ora di Gionni

Quando sfuma l’ultimo brano non stop e dopo qualche secondo di silenzio assoluto la calda voce di Gionni col tono più naturale possibile annuncia:
“Qui, dall’emittente libera Radio Monte, sui cento punto due megaertzs, un cordiale saluto a tutti gli ascoltatori. Saranno molti? Saranno pochi? Ebbene, a tutti giunga il mio personalissimo saluto.
“detto questo, amici in ascolto, devo farvi una confessione: sono emozionato che non vi dico. Mi tremano le gambe e la mia voce non so come vi arriva. Diciamo allora che avrò bisogno di qualche minuto per scongelarmi e poi, se Dio lo vuole, si andrà a mille.
“intanto, come avrete già notato, in sottofondo non c’è alcuna sigla sonora; non è una dimenticanza ma un’omissione voluta. Vi sembra strano? Si? Allora il tempo di ragionarci un po’ sopra e capirete il perché.
“dunque, una sigla cos’è? Risposta: è un marchio indelebile che ti si appiccica addosso e consente a tutti di riconoscere il programma già dalle prime note. E questo è il punto, amici; questo è stato il mio primo pensiero, sin da quando è stato messo in cantiere questo programma. Se ho tardato ad andare in onda è dovuto in minima parte anche a questo. Devo confidarvi che fino ad un’ora fa non avevo la più pallida idea come iniziare il programma e tanto meno sulla sigla. E forse vi state chiedendo se sono ancora in alto mare, in effetti non so nemmeno io se quanto vi sto dicendo riuscite a comprenderlo o se, addirittura, non vi siete già scocciati di ascoltarmi.
“la sigla, invece, quella c’è e tra qualche minuto la ascolterete in tutta la sua bellezza. Già, perché vi preannuncio che sarà una bella sigla. Prima, però ho ancora qualcosa da dirvi, diciamo un percorso verbale obbligatorio.
“tra poche ore è Natale ed è universalmente riconosciuto che questo è un giorno felice, per tutti indistintamente. Tutti, in questo giorno dovrebbero, il condizionale è d’obbligo, smettere i panni della tristezza, gettarsi alle spalle, almeno per quarantotto ore, tutti i problemi che ci affliggono la esistenza e gioire. E se proprio il magone è duro da mandare giù allora che le lacrime si confondano con l’atmosfera festiva che ci circonda. Ed è quanto io auguro a questa emittente: che ogni giorno di trasmissione sia un giorno festivo, e come tale anche possibilmente felice.
“si, amici, un continuo, intramontabile giorno felice”.
E mentre Gionni si avvia a concludere il soliloquio, dal fondo del mixer, magicamente, prima in sordina e poi sempre più nitide ed intense salgono le note di Happy day.

Gionni non lo sa e nemmeno lo immagina ma le persone in ascolto sono molte, non decine nè centinaia ma qualche migliaio, e tutte in religioso silenzio ad ascoltare una voce stranamente fuori le riga.
“diavolo se c’è riuscito! Da dove l’ha tirata fuori quella sigla? Non è una pubblicità?” Franco, con i gomiti poggiati ad incastro tra i raggi del volante della Escort, non nasconde la propria ammirazione.
“l’ho sempre detto io che Gionni è l’uomo dalle mille risorse. È proprio vero quello che ha detto, quando l’abbiamo lasciato era totalmente in alto mare.”
Anche Savino fa il verso a Franco, in effetti sono entrambi testimoni di una imprevista metamorfosi. L’unico a starsene in un colpevole silenzio è Gino, egli sa di aver deluso l’amico, di aver disattese le sue richieste di aiuto e sa che la bugia propinata era smascherata già in partenza. Inoltre l’affetto che prova per l’amico amplifica a dismisura il proprio senso di colpa.
Per fortuna la sigla sta per finire e Gionni sicuramente riprenderà il soliloquio così tutti potranno evitare di fare discorsi inutili. Cosa dirà ancora Gionni? Nessuno di loro lo sa ma, questa volta di una cosa sono certi, che qualunque cosa dirà sarà senz’altro vincente.
“eh, il Natale è davvero un giorno felice! – riprende Gionni - Peccato sia un giorno che cade una sola volta all’anno, dovrebbe essere Natale tutti i giorni, non tanto inteso come giorno festivo ma come giorno felice, sì.”
“certo che la felicità è proprio un’utopia, eppure se potessimo estrapolare dalla mente ogni pensiero terreno allora forse riusciremmo anche a dare una spiegazione a un quesito tanto unico quanto importante. Provate a chiedervelo cosa sia la felicità, se una componente di tanti stati d’animo o la risultante di tanti interrogativi. Secondo me è la seconda ipotesi. La felicità è ciò che si ottiene quando ogni nostro interrogativo esistenziale viene soddisfatto, come ad esempio la verità, la saggezza, chi siamo, da dove veniamo, verso cosa siamo diretti….”
Le ultime parole Gionni le pronuncia sussurrando lentamente creando così una surreale suspence che viene improvvisamente squarciata dalle tambureggianti note di Così parlò Zaratustra.
Quattrominuti e diciotto secondi, tanto è durato il pezzo musicale ed altrettanto il silenzio radiofonico di Gionni, tutto preso a coordinare le idee. Quindi, senza clamore, cessando la musica, riprende con sottile ironia.
“allora, simpaticoni in ascolto, cosa mi dite? Pensate anche voi che la conoscenza di se stessi porta alla felicità?
Già, la felicità, che utopia! Ma in fondo la felicità di cosa si compone? Chiariamolo questo concetto. Innanzi tutto quanto deve durare il tempo che ci è concesso per essere felici? Un minuto, un’ora, un giorno, un anno, tutta una vita? Beh, spesso confondiamo la felicità con una sensazione di benessere materiale ed allora ci scappa di affermare che i soldi danno la felicità. È quanto di più sbagliato ci possa essere. Il benessere è tutt’altra cosa. La ricchezza, infatti, ci aiuta a vivere meglio, sebbene non sempre.
“allora si è felici quando si è in pace con se stessi e per ottenere tale stato d’animo occorre quindi innanzitutto conoscere se stessi. Ma se andiamo a scavare dentro di noi, nei più nascosti meandri della mente, siamo davvero sicuri che tanto ci condurrà a quello stato d’animo che la felicità richiede?
“dobbiamo quindi presupporre che anche l’essere felici richieda una certa dose di ipocrisia. Prendiamo ad esempio un criminale, se impara a conoscere se stesso raggiungerà la felicità? A suo modo direi di sì poiché un assassino può raggiungere l’estasi ammazzando senza per questo essere un ipocrita. Ma allora non serve a nulla conoscere se stessi? Parrebbe di no, sarebbe più che altro un esercizio inutile e pernicioso.
“Eh, eh, vi sto confondendo, nevvero? Be, seguitemi ancora.
“finora abbiamo analizzato due teorie contrapposte e non siamo affatto convinti che portano alla felicità, anzi….ma allora? Allora riprendiamo il camino dell’uomo nella storia.
“la teoria dell’evoluzione ci dice che l’uomo in origine era una scimmia e poi si è evoluto. Io vi chiedo: in cosa? Mi direte che si è evoluto l’uomo delle caverne ed io concordo con voi. Ma nel proceso di evoluzione cosa ha portato con se? Dalle caverne è balzato meno di dieci anni fa sulla Luna ed è pronto ad un balzo ancora più immenso, nello spazio alla conquista di mondi alieni o a colonizzare pianeti sperduti nelle galassie.
“questa è l’evoluzione ma qual è la componente primaria della propria esistenza che l’uomo porta gelosamente con sé e dentro di sé? Ve lo dico io: la bestialità! Senza la quale l’uomo non riesce a fare a meno di uccidere i suoi simili, d’imporre il predominio e di bramare con tutte le sue foze all’effimero possesso di cose terrene.
“gloria, fama, orgoglio, sono componenti indispensabili per evolvere la civiltà ma riuscirà mai, questa, a disfarsi della bestialità, primo e indelebile marchio dell’uomo? Caino insegna.
“ed allora torniamo alle origini del discorso: la felicità. Io non so se esiste e se da qualche parte esiste cosa potremmo fare per raggiungerla?
“secondo me per esere felici bisogna essere ciechi perché solo non vedendo il male che ci circonda possiamo fingere d’ignorarlo e, malgrado ciò, anche la felicità così raggiunta sarà una finzione. Il surrogato di un sentimento che nemmeno conosciamo e, Dio mi perdoni, forse non conosceremo mai”.
L’amarezza delle ultime parole è talmente grande che non bisogna fare alcuno sforzo per avvertirla, tanto più che, questa volta, nessuna nota musicale viene a sancire il termine del soliloquio. Con un profondo sospiro, ascoltato in diretta da qualche migliaio di persone in attonito silenzio, Gionni conclude il discorso e dopo aver armeggiato con qualche levetta del mixer annuncia:
“basta con le tristezze, è mezzanote passata e siamo entrati nella vigilia di Natale. Ci vorrebbe della musica allegra, tanto per restare in argomento, ma non so minimamente cosa cercare allora vi propino la prima che capita “Drupi – piccola e fragile”
Alla fine il dispetto verso gli amici ha avuto il sopravvento, non era nelle sue intenzioni il sarcasmo, sotto Natale per giunta, per cui dopo la lunga tiritera si sente svuotato di ogni energia. Ora vorrebbe essere a casa nel suo letto.
“Che ci sto a fare ancora qui?” si chiede sconsolato, a tirarlo d’impaccio e a farlo sobbalzare è lo squillo del telefono che, erroneamente credeva di aver staccato.
“Pronto, qui RadioMonte” risponde in tono freddo e distaccato.
“Buona sera Gionni” la voce dall’altro capo è calda, amichevole e sobria. Il tono gentile ed educato ha un accento pugliese.
“Buona sera a te” risponde Gionni un po’ sciogliendosi, poi continua “forse sarà il caso di dire buona notte, ormai”
“Ancora un po’ e diremo buongiorno” ridacchia l’altro senza malizia.
“Mi dici il tuo nome o come vuoi essere chiamato?” chiede Gionni.
“Mi chiamo Luigi, è il mio vero nome e così vorrei essere chiamato”
“Oh, scusa, sono un principiante ma nei giorni scorsi ascoltando le telefonate ho riconosciuto un sacco di persone al telefono benchè avessero dato un nome falso”
“Uh, che parolona! Più che falso possiamo dire un nome d’arte”
“Anche arte è un parolone, arriviamo a un compromesso dicendo un nome di copertura”
“Questo va decisamente meglio” ridacchia di nuovo divertito Luigi.
“Parli un italiano corretto ma dall’accento sembri pugliese, è così?”
“Sì, sono di Gravina, dopo Matera..”
“Sì, so dov’è. Arriviamo fin lì?”
“Forte e chiaro ma un amico mi ha confidato che vi ascolta anche a Molfetta”
“Addirittura!? Esclama Gionni al colmo dello stupore.
“Non c’è molto da stupirsi, voi siete a circa ottocento metri e con un buon tecnico è facile arrivare sparati così lontano”
“Non immagini le conseguenze di quanto hai appena detto” afferma Gionni mentre non riesce a trattenere il riso. Quindi precisa.
“Immagino già il conto del nostro tecnico se ti ha ascoltato. E chi lo reggerà più, ci costerà subire ogni ricatto da parte sua”
“Ma in fondo se lo merita non è così?”
“Sì, ma non esageriamo adesso sennò si monta la testa”
“Gionni è un piacere parlare con te”
“Aha, niente dediche percò!”
“Giuro, niente dediche. Ho chiamato solo per dirti che questa sera mi hai fatto doppiamente felice”
“Accidenti! Ho tutto questo potere? E come avrei fatto?”
“Senza saperlo, condividendo semplicemente due mie teorie”
“E sarebbero?”
“Primo, la felicità è solamente un’illusione, un miraggio in un deserto di tristezza e, secondo, che solo chi è cieco si avvicina alla felicità”
“No, no, sei in errore, non ho detto precisamente così. Mentre condivido pienamente la prima sulla seconda mi sono espresso diversamente”
“No no, hai detto proprio così”
“Ti sbagli, ho detto che bisogna essere ciechi per essere felici, o avvicinarsi alla felicità”
“Comunque è una precisazione che non modifica di molto il concetto, sei d’accordo?”
“Certo, anche se il condizionale è una forzatura. Sai meglio di me che con i se e con i ma ogni concetto è aleatorio”
“Però io posso confermarlo”
“Scusa, cosa vuoi dire?”
“Che sono cieco” La rivelazione piomba addosso a Gionni come una mazzata a tradimento, cioè del tutto inaspettata. Egli resta di sasso con la bocca improvvisamente secca. Non sa più cosa dire, cosa rispondere, non riesce nemmeno a riflettere. La sorpresa è stata totale. Luigi, dall’altro capo del telefono, lo percepisce e gli viene incontro.
“Ehi Gionni, ci sei ancora? Sai, io da qui non ti vedo”dice ridendo.
“Si ci sono, solo che non so cosa dirti. È da molto? Cioè, voglio dire, lo sei diventato o..”
“Lo sono da diciannove anni”
“Scusa, quanti anni hai adesso?”
“Quarantanove, tra poco più di un mese, il ventisei gennaio”
“Perciò sei rimasto cieco a trent’anni. Vuoi parlarne o..”
“Certo, oggi non è più un problema per me, ma nei primi tempi Oddio, meglio non pensarci! Adesso però è tutto superato”
“Dev’essera stato a causa di un incidente allora?”
“Sì, ero un camionista, guidavo un Tir, partivo di solito da Taranto per il Nord. Sai, ho viaggiato per tutta l’Europa occidentale, tranne l’Irlanda e il Portogallo. Quanti posti ho visto! Paesi, città, monti, laghi, fiumi, paesaggi da mozzare il fiato. E gente, gente di ogni genere, vecchi, giovani, bambini, puttane e santarelline…”
“In che percentuale?”
“Come?”
“Puttane e santarelline, in che percentuale?”
“Ah, dieci a uno” risponde divertito Luigi.
“Una vita massacrante, comunque!”
“Troppo. Perciò è successo l’incidente. Ero rientrato la sera prima dalla Francia e la mattina successiva sono ripartito per Porto Marghera. Avevo un carico di acido non so che… altamente infiammabile. Mi sono fermato ad Atri per prendere un boccone e bere una birra, poi sono ripartito, pensando di essere a posto, solo che avevo i sensi leggermente intorpiditi. Mentre guidavo mi sono messo ad armeggiare per accendere una sigaretta, sai con una mano reggevo il volante e con l’altra cercavo di aprire il pacchetto. Un’auto mi è sfrecciata a fianco strombazzando, ho fatto un sussulto, il camion ha sbandato e io ho perso del tutto il controllo. Mi sono cappottato e tutto è esploso in un bagliore di fiamme. È tutto ciò che ricordo, mi sono risvegliato in un letto d’ospedale, bendato come una mummia. Erano trascorsi diversi giorni, quasi due settimane. Un medico mi ha detto che avevo ustioni per tutto il corpo. Mi hanno rifatto la pelle centimetro per centimetro, anche i capelli. Hanno detto di aver fatto un buon lavoro, non lo so, non ho prove per dubitare. Solo gli occhi non hanno rifatto. Al loro posto due fossette vuote, riempite con due palline colorate”
“Dio, è spaventoso!” commenta amaramente Gionni.
“Puoi ben dirlo. All’inizio è stato terribile, volevo farla finita. Ci ho messo un anno per accettarmi. Devo ringraziare qualche infermiere, mia sorella e, quando sono uscito, qualche amica..”
“A parte la vista, ovviamente, in cosa sei cambiato, se sei cambiato”
“Ecco, grazie ancora Gionni, questa è un’altra bella domanda. Sai, c’è una cosa su cui mi hai fatto riflettere questa sera..”
“Sarebbe?”
“Ho scoperto di essere meno cieco oggi di quando avevo gli occhi. È curioso, ma è proprio così”
“Dai, questa me la devi raccontare”
“E’ semplice, prima guidavo il camion, giravo per il mondo e vedevo tante cose ma non osservavo nulla. Probabilmente ho immagazzinato molto nella mente perché ora ricordo distintamente quasi tutto. Allora il mondo mi passava davanti ma avevo altri pensieri assillanti per godermi lo spettacolo della natura. È come quando sei al cinema con la testa altrove, il film ti scorre davanti ma non lo segui, quando esci dalla sala non ricordi assolutamente nulla della trama poi, a distanza di tempo, con la mente sgombra, ti sovvengono anche i particolari. Tu sai spiegarlo questo fenomeno?”
“Personalmente no, ma i dottori sì, quelli del ramo, intendo”
“Forse, della mia cecità, l’unico rimpianto che ho è quello di non poter approfondire le conoscenze con la lettura”
“E’ vero, ma non devi farne un dramma”
“No, per carità, assolutamente no. Eppoi sono avvantaggiato rispetto a chi è cieco dalla nascita. Vedi, Gionni, io ho avuto modo di vedere le cose e quando si parla di qualcosa so abbinarla a un colore. Sai qual è la cosa che mi riesce meglio di conoscere?” Nella domanda Gionni non vede il trabocchetto che Luigi gli tende e lui abbocca in pieno.
“No, quale?” chiede ingenuamente.
“La Ferrari rosso fuoco. Capisci? Rosso Fuoco, a me. Cazzo se lo conosco bene” nella risata di Luigi non vi traspare alcun sarcasmo, solo voglia di scherzare e di amicizia.
“Accidenti a te, sei una peste, ma simpatica. Anzi, sai cosa ti dico? Che anche se non la richiedi te la faccio io una dedica”
“Davvero? Dimmi, sono curioso, non vedo l’ora!”
“Ahahahah! Non ci casco più, furbastro!”
“Questa volta è venuta fuori spontanea, giuro. Ma dimmi della dedica”
“Ti chiami Luigi? Allora ti dedico una canzone cantata da Natalino Otto”
“Da chi? Natalino Otto? Perché è ancora in circolazione?”
“Penso di si, ma la canzone è di una quarantina di anni fa”
“Addirittura! E come si chiama?”
“Si chiama.., bada che te la dedico tutta in esclusiva.., Tristezza di San Luigi”
“Giuro che non l’ho mai sentita nemmeno nominare”
“E invece l’avrai sentita almeno un centinaio di volte”
“Tu dici? Su, dai, mettila che non vedo l’ora!”
“La vuoi sentire per telefono?”
“Ho capito, devo riattaccare. Ehi Gionni, è stato un piacere, e non finisce qui, se ti fa piacere ti richiamerò ancora. Ora che ho trovato un amico non lo mollo più. Ciao e Buon Natale!”
“Buon Natale anche a te, amico. Tristezza di San Luigi. Questa è per te”
Pochi secondi dopo ecco scaturire, tradotta in italiano e cantata da Natalino Otto, la versione coatta di Saint Louis Blues.
Alla fine del brano la stanchezza, quella vera, assale Gionni che trova solo il tempo di lanciare via etere i ringraziamenti a coloro in ascolto e augurare a tutti il buon Natale, posiziona le musicasette per la notturna non stop e, spenta la luce, se ne esce.
Quando arriva in piazza, meraviglia delle meraviglie, trova una cinquantina di giovani che lo acclamano. Tra loro, i suoi amici. Vi è anche Gino che, emozionatissimo, lo abbraccia strettamente. Ora il suo debutto è davvero finito.
Ogni sera e ogni notte, ritornano puntuali, le note di Happy Day. A Montepiano e dintorni quelle note saranno ascoltate a lungo, per alcuni anni, finchè Gionni e i soci resteranno padroni dell’emittente. Quando spunteranno i primi capelli bianchi i giovani di una volta saranno ormai alle soglie della anzianità, esausti e poco vogliosi, e passeranno la mano cedendo a nuovi soci la radio. Vi saranno, e ancora oggi vi sono, altri personaggi, altre musiche, altre sigle, altre ragazze a telefonare per le dediche ma le note delle musiche moderne continueranno a squarciare l’etere sulla stessa banda dei 100.2 Mz di Supermonteradio.

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Supermonteradio 100.2 Mz - Cap. 4/5

Imprevisti e scongiuri

Già al secondo giorno di trasmissione sono venute a galla le prime disfunzioni in sala radio, ovviamente non previste per mancanza di specifica esperienza, anche da parte di Mario Ferri, il tecnico, sebbene qualche perplessità in fase di organizzazione l’abbia avuta. Ma in quei giorni i problemi da affrontare erano tanti e, onestamente, più tangibili.
Il primo giorno, nell’euforia generale si è soprasseduti a parecchie cose e al fatto che in sala mixer mancava a momenti anche l’aria per respirare non si è dato troppo peso ma il giorno seguente, sbollita l’euforia, ci si è accorti che anche una sola persona, così come era stato previsto, riusciva a muoversi con troppa difficoltà. Tra dischi che venivano ammucchiati alla rinfusa vicino al mixer per mancanza di tempo per riporli negli scaffali al di fuori e il groviglio di cavi e fili vari spostarsi diventava impossibile. Così, dopo una breve e concitata riunione tenutasi alla fine del secondo giorno è stato drasticamente deciso di modificare la disposizione interna, con la complicità di Ferri che vi ha visto un ulteriore profitto personale.
Il terzo giorno è trascorso nei preparativi e nelle successive quarantotto ore, lavorando tutti come pazzi, è stata realizzata la disposizione ottimale e definitiva che in pratica ha portato ad occupare tutto il piano superiore destinandolo a sala trasmissione compreso le scaffaliere dei dischi, non prima, però, di aver tappezzato le pareti con pannelli di polestirolo, alias i contenitori quadrati delle uova, per insonorizzare tutto l’ambiente dai rumori esterni. In effetti ogni volta che arrivava qualcuno, soprattutto Gino con la Gilera, il rombo dei motori disturbava parecchio e spesso il suono del clacson veniva, addirittura, mandato in onda.
Al piano terra, invece, la striminzita ex sala mixer è diventata il ripostiglio tecnico con deposito di tutte le chincaglierie di Mario Ferri ma già qualcuno, con fare molto ma molto distratto, ha obiettato che potrebbe diventare anche un angolo relax, in fondo basta piazzarci una branda con materasso…..
Per il resto è stato sistemato un tavolo con quattro sedie, un secondo tavolo con funzione di scrivania con sopra una macchina da scrivere e una derivazione telefonica.
In questo ambiente Gino si propone di realizzare le pubblicità. Nessuno sa come intende operare ma per questo non ci sono neanche le commesse. La prima, quella di uno studio commerciale associato con quello di consulenza di Mario Strada, è stata risolta con la semplice lettura di alcune righe frettolosamente scritte su un foglietto. La qualità dell’annuncio? Pari al compenso scucito, ovvero pietoso.
Il sesto giorno, senza peraltro sospendere le trasmissioni avendo spostato le apparecchiature in piena notte, si è debuttati di nuovo, ma questa volta senza alcun patema d’animo. All’esterno solo qualcuno ha notato un miglioramento nella ricezione, decisamente più “nitida e pulita”.
Anche Gionni, a questo punto, si ritiene ormai pronto per il gran salto.

“Cristo santo, Gionni, non puoi fare una scaletta solo con Drupi e le colonne sonore di Morricone. Ti rendi conto che stai parlando di due ore di trasmissione, come minimo. Savino, diglielo anche tu per piacere.”
Franco è sul punto di esplodere, da due ore sta discutendo inutilmente con Gionni sempre sullo steso argomento: la scaletta notturna. Poiché questi teme di fare una brutta figura con la propria ignoranza in lingua inglese si ostina a voler realizzare una scaletta tutta italiana. Fin qui nulla da eccepire, il problema è che Gionni ha iniziato a scartare tutti i cantanti che Franco gli ha proposto perché non gradiva la musica oppure semplicemente non conosceva la canzone. Alla fine ha raggiunto un personale compromesso (con se stesso), due L.P. di Ennio Morricone, quasi tutta musica western, in pratica dei films di Leone. Ora, col sopraggiungere di Savino, cerca un improbabile aiuto, cosa non affatto semplice per la cocciutaggine di Gionni.
“ma lascialo perdere, che vada a farsi friggere!” esclama Savino per nulla disposto a lasciarsi invischiare in una discussione che ritiene inutile.
“Ah Savino, bell’aiuto che mi dai!, invece di convincerlo….”
“Franco, con Gionni non la spunti. Se ha deciso così non c’è niente da ridire o da fare”
“Ma Cristo Santo, vi rendete conto che così facendo è l’immagine della Radio che ci rimette?”
“ma non dire cavolate! L’immagine della Radio, questa poi…. Vuole andare in onda con la sua scaletta? Che ci vada, quando non saprà più che pesci pigliare chiude il programma, augura la buona notte e tutti a nanna. Ok?”
“ma sì, hai ragione, tanto per quello che….”
“per quello che, cosa?” Gionni adesso li guarda torvo tutti e due.
“volete dire che non ci sarà nessuno a sentirmi stasera?” aggiunge.
“Stasera? Stanotte, vuoi dire, vai in onda alle dieci”.
“e ricordati – aggiunge Franco – che oggi è l’antivigilia di Natale. Chi vuoi che si metta ad ascoltare la radio stasera?”
“ne hai avuto di giorni a disposizione per debuttare, no!”
“sapete cosa vi dico? Siete due grandissimi stronzi, ecco cosa siete. – Gionni è talmente arrabbiato che comincia a balbettare con la voce stridula – ma vi faccio vedere io se…se…. stasera non mi staranno a sentire, o credete forse che a… a… tutti piacciono le dediche?
Franco e Savino non sanno cosa rispondergli e per non peggiorare la situazione voltano le spalle e se ne vanno borbottando lasciandolo solo. Gionni, allora, si lascia prendere dall’agitazione, si convince di trovarsi senza una via d’uscita, tra le mani ha solo tre 45 giri di Drupi e i due L.P. di Morricone. A peggiorare le cose non ha ancora trovato un pezzo per la sigla ed è proprio questa la goccia di veleno che gli fa traboccare la bile.
“e adesso che faccio?!” si chiede ripetutamente disperato “Cazzo, sono nella merda fino al collo. Maledetti! Ma me la pagheranno!”. Poi, dopo la sfuriata, guarda per l’ennesima volta l’ora sul grande orologio da parete e, constatato che mancano ancora quasi due ore prima di andare in onda, decide di andarsene a casa a mandar giù un boccone “se ci riesco” pensa avvilito. Intanto la giornata per più d’una persona è stata piuttosto intensa e per nulla disinteressata agli avvenimenti.

“allora, Cifuno, come stanno andando le cose con questa nuova radio, tutto a posto?” il tenente Minniti, un sanguigno catanzarese, comandante la tenenza di Ferrandina, distretto di cui fa parte la stazione C.C. di Montepiano, non avendo ancora avuto notizie ufficiali dal maresciallo Cifuno ha deciso di contattare direttamente il subalterno.
“No, signor tenente….., cioè sì, voglio dire, non c’è nulla da segnalare. Non si preoccupi, se ci fosse stato qualcosa di rilievo l’avrei già avvertita”
“Cifuno, lo sapete, quello che mi sta a cuore è la “normalità”
“la intendo, la intendo, signor tenente, qui è tutto sotto controllo, e non vi è nulla che non sia normale”.
“quindi mi assicurate che in questa… diciamo… novità, non vi sono componenti politici?”
“no, per carità, signor tenente, la politica qui proprio non c’entra per nulla. In pratica sono quattro giovanotti per bene. Se mi permette, li conosco fin troppo, ormai sono qui da sei anni e le mosche bianche le conosco tutte…, come dice signor tenente?”
“le pecore nere, Cifuno, le pecore nere, non le mosche bianche. Magari si trattasse di mosche bianche in certi ambienti”.
“sì, ha ragione signor tenente, comprendo e condivido benissimo l’apprensione del Comando dopo tutti i fatti successi quest’anno”.
“mi raccomando, Cifuno, bisogna stare sempre all’erta, con certa gentaglia non bisogna abbassare mai la guardia, mai. Mi comprende?”
“benissimo, signor tenente, benissimo. Comunque, può stare tranquillo, questa radio è composta da ragazzi… apolitici, mi pare si dica. E comunque, ripeto…, se mai dovesse verificarsi qualcosa non esiterò a informarla”.
Deposta la cornetta, il maresciallo capo Cifuno tira un lungo sospiro di sollievo, non si è mai sentito a suo agio con i superiori e ogni volta che il tenente, suo diretto superiore, lo cercava si sentiva il corpo trafiggere da una miriade di spilli.
“maledette brigate rosse!” esclama ad alta voce, neanche queste ce l’avessero esclusivamente con lui. Poi, per maggior sicurezza, prende una decisione, alzando la voce chiama il brigadiere di servizio nell’altra stanza.
“Antonelli, girando per il paese cerca di saperne di più su questa radio, assicuriamoci che non ci sia proprio nessuno dietro a questi quattro ragazzi”
“Maresciallo, li conosciamo tutti, non si sono mai occupati di politica”
“proprio per questo, Antonelli, proprio per questo. Tutta sta storia è nata dalla sera alla mattina e il latte non mi quaglia”. Lo congeda il maresciallo.
Antonelli lo guarda a sua volta ben lungi da fare obiezioni, scuote il capo in segno d’assenso: “agli ordini, maresciallo”. Mormora poco convinto, poi, voltate le spalle si congeda dal superiore.

Memoranda.
Nella settimana dal sedici al ventitrè dicembre u.s. 1977, sono state verbalizate due contravvenzioni nella fattispecie a certo Angelo Tritti e Rocco Cerilli per taglio abusivo di pino da utilizzare come albero di Natale. I detti contravvenuti, dopo lunga discussione hanno conciliato la multa ma prima hanno espressamente denunciato che giorni addietro in località Temparella sono stati tagliati arbitrariamente due alberi senza che sono state fatte multe. A seguito di tale denuncia mi sono recato personalmente in località Temparella, presso la proprietà Plasmati dove ho potuto accertare trattasi di due piante di ulivo rinsecchite e infruttifere. Non trattandosi di piante sotto il vincolo forestale ho soprasseduto.
P.S. in questa località Temparella è stata installata una emittente radiofonica che trasmette musica e canzoni. La stessa è gestita da quattro giovani che interpellati hanno acconsentito a mettersi a disposizione del Comando Forestale di Montepiano per eventuali annunci in caso di incendio
23.12.77 Maresciallo Chiti Eustacchio.

“mangia piano, e mastica. Così ti fa male lo stomaco”.
“mamma, lasciami in pace per favore”.
“da quando ti sei imbrattato con questa radio non ti conosco più”
“mamma, non mi sono imbrattato con niente, lasciami solo mangiare in santa pace. Per favore.”
Dopo lo sfogo con la madre Gionni, almeno, riprende a mangiare masticando e, per evitare altre intromissioni, aumenta il volume del televisore. Qualche minuto dopo, finito il Tg della sera, iniziano le pubblicità. Sovrappensiero non fa alcun caso a quanto viene trasmesso, poi improvvisamente una delle pubblicità attira la sua attenzione. Poco dopo si alza sorridente. “è proprio vero che Natale è un giorno felice” esclama trionfante. Ha trovato la sigla!

“embè, voi che ci fate qua?” a rivolgere la domanda a Gino, Franco e Savino, come al solito rintanati nell’Escort parcheggiata nei pressi del monumento ai caduti è Ciccio Maiellaro, il vicecomandante dei vigili urbani o, come si autodefinisce della polizia municipale, mentre si reca a casa dopo aver smontato dal servizio.
“perché, dove dovremmo stare?” risponde scorbutico Savino.
“Perché, stasera non va in onda Gionni?”
“e allora?”
“beh, lo lasciate solo?”
“è maggiorenne o no?”
“ragazzi, che vi prende a tutti quanti?”
“perché?”
“ah mbè, andate al diavolo, voi e chi vi da retta!”
“Ciccio, scusa – interviene tollerante Gino – è che Gionni intende fare a modo suo, sai com’è fatto”. Rabbonito, Maiellaro torna sui suoi passi.
“comunque, per me sbagliate lo stesso a lasciarlo solo. Sarà cocciuto quanto sia ma che diamine, vi credevo superiori a queste cose…”
“no, Ciccio, stavolta no. Se non la capisce stasera la lezione…..”
“uhmm, credete che Gionni sia uno che si fa capace?”
“allora peggio per lui. Noi non possiamo farci mettere i piedi in testa in questo modo”. Sbotta Franco.
“anche perché se glie la diamo vinta oggi siamo fottuti per sempre” conclude Savino sforzandosi di mantenere la calma.
“allora auguri, a tutti”. E scuotendo divertito la testa Ciccio si allontana.

Fischiettando e ritmando il tempo con le dita sul volante Gionni si dirige su per l’erta stradina verso le sede radiofonica. L’umore, rispetto a poco più di un’ora prima è radicalmente cambiato. Si è recato a casa con la morte nel cuore, colmo di disperazione e traboccante d’astio nei confronti dei soci.
Per lui, ormai, non sono più gli amici di sempre ma semplici soci in un’impresa che per quanto lo riguardava appariva fallimentare. Eppure il rancore che lo attanagliava non era rivolto verso Franco e Savino con i quali si era scontrato prima ma nei confronti di Gino, che di tutti era il suo amico più intimo. Con lui aveva condiviso gioie e dolori sin dai primi anni infantili, prima ancora di frequentare la scuola materna essendo nati nello stesso rione, li separavano solo pochi mesi l’uno dall’altro.
Il tradimento che in cuor suo imputava all’amico era quello di essersi eclissato appena finito il proprio orario adducendo una scusa nient’affatto credibile. “Corro a casa perché c’è mamma che non si sente bene” aveva farfugliato frettolosamente. Una bugia stupidissima in quanto proprio la mattina lui stesso con tutti i colleghi si era incontrato con la madre, direttrice didattica e sua superiore, per scambiarsi ufficialmente gli auguri di natale, e lei stava in perfetta salute. La verità era che anche l’amico più caro gli aveva voltato le spalle nel momento più delicato non osando spalleggiarlo nella discussione che al momento si preannunciava di già dai toni aspri. In pratica lo aveva così condannato ad una pesante solitudine.
Questo, però, era lo stato d’animo di prima che andasse a cenare. Ora la situazione era totalmente cambiata. Gionni, infatti, sta guidando pervaso da una traboccante euforia, e questo dal momento in cui il Padreterno lo aveva illuminato. Si è alzato da tavola con l’animo in subbuglio e una smania addosso di far presto per correre su alla radio. Prima di uscire è corso in camera sua, ha quasi buttato per aria tutto il contenuto di una cassapanca stracolma di oggetti, ha rovistato fin quando non ha trovato una musicassetta e, agguantatela, è uscito di casa più trionfante che mai.
Appena entrato in sala radio si è diretto senza indugi verso la scaffaliera dei dischi ben sapendo cosa e dove cercare, infatti il 45 giri che cerca lo ha sistemato lui stesso pochi giorni prima. In pochi secondi ha tra le mani l’intera scaletta del suo primo programma che si compone oltre al 45 giri e alla musicassetta che ha portato da casa anche degli incriminati tre dischi di Drupi e i due LP di Morricone. Punta lo sguardo sul grande orologio da parete, mancano venti minuti buoni, c’è il tempo di fumare ancora un paio di cicche. Apre la porta del ripostiglio, tra le tante cianfrusaglie di Mario Ferri ha trovato un angolo tutto suo dove ha infilato, celandola, una bottiglia di Amaro Lucano, ne beve direttamente due lunghe sorsate poi, dopo una smorfia di piacere si siede sui primi gradini della scala che porta al piano superiore e si accende, tirando profonde boccate, una prima Lido.

*

Selvaggio West

Nel lontano Far West, lontana da altri centri vi era una cittadina sperduta dove i suoi abitanti vivevano immersi nella felicità. Mai una volta che si verificasse un reato tanto che i cittadini non avevano mai avuto il bisogno di eleggere uno sceriffo o tanto meno una milizia armata. A che scopo se non succedeva mai nulla?
Un giorno, però, arrivò in città un gruppo di banditi che, smontati da cavallo, irruppero nell’unica banca e compirono indisturbati una bella rapina. Poi, ancora più indisturbati se ne uscirono e si dileguarono.
Enorme fu lo stupore dei cittadini, mai avrebbero immaginato un evento simile. Comunque si fecero coraggio e continuarono come se nulla fosse successo. Ma un mese dopo i banditi si ripresentarono e rapinarono di nuovo la banca e, sempre indisturbati, si allontanarono.
Per altri mesi ancora, la banca venne puntualmente rapinata e i banditi erano arrivati al punto che dopo ogni colpo, tanto erano sicuri delle loro intoccabilità, entravano nel saloon per brindare al successo prima di andarsene tranquillamente al trotto, cantando e fischiettando.
Fu così che un giorno i maggiorenti del paese, ovvero il sindaco, il dottore, il veterinario, il banchiere, alcuni grossi allevatori, insomma una dozzina di persone in tutto, si radunarono e si posero la fatidica domanda sul perché i banditi ogni mese rapinavano indisturbati la banca. La risposta fu semplice: perché non vi era nessuno in paese che facesse rispettare la legge.
La conclusione del comitato fu scontata e irremovibile. Elessero uno sceriffo, peraltro fatto venire apposta da un lontano centro e gli dettero carta bianca. Questi, infatti, si portò con sé una mezza dozzina di pistoleri, fatti passare come suoi aiutanti, o come si diceva allora vicesceriffi.
Alcune settimane dopo, puntualmente, i banditi tornarono baldanzosi in città, parcheggiarono tranquillamente i loro cavalli davanti la banca, entrarono scherzando e ridendo e trovarono il cassiere già con un borsone colmo di denaro poggiato sul bancone. Ammirati e giulivi se ne impossessarono e in tutta allegria si apprestarono a uscire dalla banca. Ma con loro grande sorpresa trovarono, dislocati a semicerchio, gli uomini dello sceriffo con le armi in pugno che intimarono loro di arrendersi.
Erano sì i banditi ma prima che criminali persone ragionevoli e, sebbene a malincuore, deposero le armi e si lasciarono arrestare. Da quel giorno in paese non vi furono più rapine e la comunità continuò a prosperare con lo stesso spirito con cui anni prima era nata.
Morale della favola: dove non c’è legge non c’è giustizia e dove non c’è controllo non c’è rispetto della legge.

*

Supermonteradio 100.2 Mz - Cap. 3/5

- Inverno, metà dicembre 1977 - Finalmente ci siamo


Sono passati due mesi da allora, due lunghi, lunghissimi, estenuanti mesi, ma anche intensissimi e, per questo volati via in un soffio. A leggere il calendario dovremmo essere ancora in autunno ma effettivamente siamo in pieno inverno. In montagna, con il paese esposto a tutti i venti, si può tranquillamente sostenere che qui davvero non esistono le mezze stagioni, si passa semplicemente dall’estate all’inverno così come dall’inverno all’estate. Il freddo che attanaglia Montepiano si placherà solo a giugno in concomitanza con la chiusura dell’anno scolastico poi, di colpo esploderà il caldo. Così è da sempre e, probabilmente, così sarà per sempre.
Anche questo 1977 non è da meno, a metà dicembre si indossano cappotti e giacconi pesanti e, soprattutto la sera, i camini accesi attirano molto più della passeggiata lungo il Corso. La sosta, invece, nelle macchine parcheggiate in piazza è refrattaria ad ogni stagione, per cui ad intervalli più o meno regolari si odono motori accendersi e rombare immobili, giusto il tempo di far riscaldare la temperatura interna all’abitacolo.
Dopo la fatidica e decisiva riunione ne sono susseguite altre, tutte fatidiche e decisive per l’intensità con cui sono avvenute, aventi quasi sempre le stesse dissertazioni; in effetti, circa gli argomenti tecnici sono tuti in balia di Mario Ferri, il tecnico radiofonico elettricista tutto fare. Chi s’è visto saltuariamente è l’altro Mario, il consulente, a cui basta una telefonata per mettere al corrente i soci sull’iter burocratico. Ogni tanto sono stati precettati per apporre firme su qualche documento ma niente di più.
In paese, invece, è tutto un ribollire di discussioni e soprattutto un continuo andirivieni, quasi una fervente processione, verso la cima della Serra Antica a constatare l’avanzamento dei lavori. Questi, peraltro, sono andati miracolosamente veloci nonostante gli intoppi tecnici e a dispetto di una improvvisa quanto prematura nevicata che ha flagellato la cima del monte. Anche questa considerazione è stata oggetto di una tesa discussione circa la scelta del sito così fuori mano e finita come al solito presso il magazzino di Savino.
Stranamente, più si avvicina il giorno del debutto e più sembra scemare l’interesse di tutti, comprensibilmente il calo di tensione produce questa impressione, in realtà è stata una reazione dovuta all’eccessiva ansia.
A patirne è stato solo Gionni con stupore di tutti che lo hanno sempre considerato insensibile a tutto per la freddezza mostrata in ogni circostanza. Lo si è visto, a volte, fumare anche tre pacchetti di Lido in un giorno e spesso piegato in due con le braccia conserte e in punta di piedi senza profferir parola e rispondendo con il solo cenno del capo. Pochi giorni di passione, giusto il tempo di scaricare la tensione, e poi ritornare fortunatamente alla normalità. Chi come lui ha patito la tensione è stato Gino che per alcune settimane non si è rasato e spesso è stato visto girovagare per i campi come in trance e rispondendo a tutti che andava per funghi.
Gli altri due invece hanno reagito più fattivamente, impegnandosi anima e corpo in tutto, dalle quisquiglie ai lavori più impegnativi e pericolosi come maneggiare cavi elettrici o attrezzature di cui non conoscevano nemmeno l’uso. Spesso facendo imbestialire Mario Ferri per il troppo interessamento che finiva per intralciare il suo lavoro aumentando la già eccessiva confusione per il dover lavorare in uno spazio tanto ristretto.
Tra bestemmie e improperi il lavoro è stato portato a termine e si è finalmente pronti per la prima trasmissione. A celebrarne l'inizio sarà Gino. È in pratica un atto dovuto a colui che a buon diritto si può chiamare il progenitore di tutto avendone lanciato per primo l’idea.
Nel poco spazio disponibile davanti il villino, ricavato anche abbattendo due piante di ulivo vecchie e improduttive vi sono parcheggiate almeno una mezza dozzina di auto, in pratica ognuno dei presenti è venuto con la propria. Anche Gionni, straordinariamente ha usato la sua Fiat 500 rossa, tirata a lucido ma non per l’occasione poiché è sempre tenuta così. Al suo fianco, con i gomiti poggiati sul tettuccio dell’auto, e per questo destinatario di occhiatacce assassine, Savino, dimenandosi nervosamente, tamburella incessantemente con le dita sulla cappotte.
“andrà tutto bene, vero Gionni?” chiede preda di una crescente agitazione.
“stai calmo, andrà tutto benissimo. – lo tranquillizza Gionni – e poi le apparecchiature funzionano, già da tre giorni senza alcun problema – rintuzza ironico – c’è solo da temere che Gino s’impapera”.
“Gionni, hai visto Gino? Qui non c’è e non lo si trova da nessuna parte- chiede Franco arrivando trafelato – di solito sta sempre con te”.
“stamane non l’ho visto, l’ho chiamato verso le nove per sapere se passava a prendermi, ha farfugliato qualcosa che non ho capito e comunque m’ha detto di arrangiarmi. Perciò ho tirato fuori la ‘500’”.
“potevi chiamare noi, per questo!”
“ho provato. Tu non rispondevi e Savino era già uscito”.
“allora oggi come minimo piove” allude Savino,
“no, come minimo nevica, se non ci scappa un terremoto. Guardate là. Che mi venga un colpo!” afferma con gli occhi spalancati dallo stupore guardando oltre le spalle degli altri due. Questi, a loro volta incuriositi, si girano e ammutoliscono sbalorditi. A venti passi da loro è improvvisamente comparso Gino, tirato a lucido come non mai. In effetti gli amici non ricordano di averlo mai visto così. Rasato e con i capelli tagliati corti, camicia e cravatta sotto un doppio petto marrone a righine beige sottili con panciotto. Scarpe marrone scuro extra lucide, polsini e ferma cravatta in oro, oro puro e non laccato visto che se lo può permettere. Avvicinandosi sotto vento viene preceduto da un pungente profumo, un miscuglio di lacca, dopobarba e acqua di colonia. Savino, arricciando il naso, lo sfotte.
“che ti è successo, sei caduto in una fogna per puzzare così?”.
Gino non risponde, impegnato ad accendersi una sigaretta.
“ma come ti sei combinato? Questa è una radio non un’emittente televisiva” dice Franco, strizzando gli occhi divertito. Anche Gionni, che nel frattempo si è spiegato il farfugliare dell’amico due ore prima, stenta a mantenersi serio sebbene abbia compreso il suo stato d’animo. “siamo tutti su di giri – pensa tra sé – e ognuno lo manifesta a modo suo”. Infatti, stemprando l’agitazione che pervade un po’ tutti, dice: “anche Mario Ferri sono due ore che si agita e sbraita per un nonnulla, per questo che sto qua fuori e non mi è passato nemmeno per la testa di mettere la punta del naso la dentro”. Franco, sbottando a ridere divertito, lo stuzzica.
“anche se entravi mi sai dire cosa ci avresti capito, tra cavi, pulsanti e levette, tra l’altro con tutte le diciture scritte in inglese?”
“guarda che “on” e “off” l’ho capito cosa significano”
“ah, si? E allora spiegacelo, sapientone”.
“dunque, “on” significa “si” perché da come è scritto è il contrario di “no”, e quindi, è positivo. “off” è l’opposto di “fo”, abbreviativo di “fottiti” quindi negativo; al massimo” spiega Gionni tra le risate convulse degli amici. In effetti ha raggiunto lo scopo che si era preposto: quello di alleggerire la tensione.
Rimane, comunque, l’incognita di Gino, vera mina comica a scoppio improvviso, infatti, facendo capolino dall’interno, Mario Ferri si arresta di botto sull’uscio e scoppia in una risata a crepapelle appena si avvede del suo abbigliamento. Dopo alcuni minuti di riso irrefrenabile, con le lacrime agli occhi comunica al gruppo che tutto è pronto e quindi si può anche iniziare. Al che l’angoscia lo riattanaglia facendolo deglutire a vuoto.
“ma perché, adesso ci stanno già acoltando?” chiede sbiancando in volto.
“eh!!! – esclama Ferri scoppiando a ridere di nuovo, questa volta addirittura piegandosi e contorcendosi senza controllo, poi, dopo qualche minuto, con voce tremula spiega che i microfoni sono spenti ma ha messo una cassetta di musica dance, quella con la voce di Gino che, intercalando avvisa i radioascoltatori di essere sintonizati sulla modulazione di frequenza 100.2 Mz di Radio Monte, ovvero (pomposamente) “super monte radio, la radio dei sogni eccetera, eccetera.
Gino, al colmo dell’emozione, lancia un ultimo sguardo implorante aiuto, si allenta il nodo della cravatta e, come un condannato a morte, si avvia a valicare l’ingresso, diretto verso la personale sedia elettrica. Un attimo prima di sparire all’interno tutti fanno in tempo a scorgere un furtivo segno di croce e più d’uno mentalmente lo imita. Qualcuno, ancora più furtivamente, e qualcun altro, fingendo aria distratta, si tocca nei punti cruciali o va alla ricerca di qualsiasi oggetto metallico, che sia di ferro naturalmente.
Intanto, nella radura antistante il villino si è radunata una piccola folla di giovinastri, tutti spinti dalla curiosità, e non sono bastate la raccomandazioni a non inoltrarsi per la stretta stradina di montagna con le auto perché non c’era nulla, assolutamente nulla da vedere.
Anche una pattuglia di carabinieri, con il maresciallo Cifuno, il comandante della locale stazione che si è scomodato di persona, si è posizionata all’incrocio della stradina interpoderale con la strada comunale ed ora, insieme a due vigili urbani presenti per lo stesso motivo, hanno allestito un posto di blocco rimandando indietro i curiosi prima di inoltrarsi per l’erta stradina. Anche loro, i militi, argomentano sulla novità della radio in paese e s’interrogano se rappresenterà un bene o un male per l’abitato. Sono in piena discussione quando vengono a loro volta raggiunti dalla Fiat campagnola della Guardia Forestale. “ci mancano solo i pompieri e la Guardia di Finanza!” esclama sarcastico “capo” Cifuno. Comunque dopo pochi minuti il fuoristrada, la Ritmo dei vigili urbani e la Panda dei carabinieri sbarrano totalmente l’incrocio. Tutti, rigorosamente, con le radio accese in trepidante attesa delle prime parole dal “vivo” di Gino Plasmati, fresco D.J.
L’attesa non si prolunga per molto e, improvvisamente cessata la musica, esplode rauca e tremula la voce di Gino che dà il saluto iniziale a tutti i radioascoltatori.
Gionni, appena cessa la musica, inspiegabilmente spegne l’autoradio e s’incammina solitario e con le mani in tasca verso la campagna incurante delle rimostranze degli amici, è in preda ad una personale agitazione che non vuole mostrare nè condividere con alcuno. Ritiene, inoltre, che sia una forma scaramantica non ascoltare quanto dirà Gino, sebbene già si conosca la prima parte, precedentemente programmata a tavolino e scritta su dei fogli, questo per vincere l’emozione iniziale poi, sciolta la lingua e placato il battito cardiaco, andrà a briglie sciolte improvvisando al momento. Torna dopo un’ora buona di passeggiata solitaria, non si è perso niente, tutto è andato secondo le previsioni.
A venire incontro a Gino sono stati i giovani all’ascolto tempestandolo di richieste e dediche ovvero quanto di meglio si potevano augurare, raggiungendo così lo scopo primario per cui si è messa su l’emittente. In sala “mixer”, così come è stato ribattezzato un angolo di sei metri quadri, ricavato ergendo delle pareti con pannelli in legno truciolato e contenente piatti e miscelatore, ovvero il cuore di ogni postazione radiofonica, ad aiutare Gino si è messo Savino porgendogli volta per volta i dischi che nella scaffaliera esterna Franco speditamente cercava. Una vera e propria catena di montaggio, insomma, per la gioia dei tre soci, sempre sotto l’occhio vigile, almeno per i primi giorni, di Mario Ferri, il vero unico responsabile del buon andamento delle trasmissioni.
L’altro Mario, il consulente ragioniere, è già da alcune settimane impegnato a contattare ditte ed aziende per le risorse linfatiche, ossia le inserzioni pubblicitarie. Al tramonto, quando vengono inserite le musicassette per la non stop notturna, infatti si è previsto che il programma di Gionni inizierà solo dopo qualche giorno, tutti posso tirare un sospiro di sollievo. Non poteva andare meglio e, come afferma scaramantico qualcuno “il buongiorno si vede dal mattino.
Una settimana e…., alzi la mano chi ha dormito più di sei ore di fila, l’eccitazione non tende a scemare. Ci sono, evvero, dei momenti di pausa, al mattino, dalle otto alle undici circa, quando gli studenti sono a scuola e le casalinghe ancora alle prese con i lavori domestici più impegnativi o a fare la spesa, ma da mezzogiorno in poi il “ferro” comincia a scaldarsi per raggiungere il massimo ascolto tra le due e le otto di sera. Dopo, nessuno rinuncia alla sacra passeggiata nel corso, tanto più che adesso c’è un motivo in più per trattenere i giovani per strada, ovvero i commenti, le critiche gratuite e le “dicerie” sugli interventi radiofonici del giorno.
Un po’ di gloria spetta, è doveroso riconoscerlo, anche ai principianti nonché improvvisati D.J., per l’impegno che vi stanno profondendo. Franco e Savino sono i due mattatori delle dediche; inizialmente si sono spartiti gli orari, il primo al mattino e il secondo nel primo pomeriggio quando è libero dai doveri del negozio. Alla fine i due si sono uniti perché la fascia oraria dalle quattordici alle diciassette è la più caotica e da soli non la si fa a reggere. Sicché Gino interviene a seguire fino alle venti come pure apre le trasmissioni alle sette del mattino.
Sia ben chiaro tutto si basa sulle dediche, prenotate o in diretta che siano, di altro non se ne parla nemmeno. Gino ha pure accennato a un notiziario d’informazione ma neanche lui ha le idee chiare in proposito, se dare le notizie locali (ma quali?, non succede mai niente di sensazionale!) oppure se effettuare una specie di rassegna stampa con gli unici due quotidiani del meridione il “Mattino” e la “Gazzetta del Mezzogiorno”. Ma poi decide che non ne vale proprio la pena perciò l’idea abortisce appena nata, oltretutto, nelle ore libere si sta impegnando a creare uno stacco pubblicitario. Per la verità è finora l’unica commessa ottenuta da Mario Strada, praticamente offerta a titolo gratuito giusto per dimostrare al pubblico che le cose vanno alla grande.
Gionni è il solo che ancora non ha preso iniziative, prima di impegnarsi nel suo programma notturno vuole tastare il polso alla piazza (così dice lui), in verità aspetta che gli altri si sottomettano e gli sistemino la scaletta musicale visto che ammette candidamente di non capirci niente, né di apparecchiature né di titoli. Sa solo che ci sono delle canzoni o dei motivi musicali che gli piacciono ma non sa come si chiamano ed allora crocifigge tutti con assurde richieste poiché pretende che indovinano il titolo di una canzone dopo che stentatamente, essendo anche stonato come una campana, ne ha canticchiato due o tre parole.
Di positivo, e questo se vogliamo è di una straordinarietà unica, c’è che possiede un fiuto musicale eccezionale, gli basta ascoltare solo poche note per predire il successo del brano e su questo non sbaglia mai. Infatti gli altri quando sono indecisi su qualche pezzo da inserire in scaletta lo interpellano fidandosi ciecamente del suo giudizio. A volte, però, questo è condizionato dai propri gusti e in tal caso è assolutamente inutile interpellarlo. Ad esempio vi sono dei complessi musicali per i quali stravede e pertanto il giudizio espresso è totalmente inaffidabile.
Alla larga, quindi, dai Dire Straits, Premiata forneria Marconi, Genesis, Queen, o cantanti come Drupi o Barry White del quale da un paio d’anni continua a storpiarne “C’ant get enough of your love babe”, roba che se lo sapesse l’autore gli farebbe causa a vita. Chiedergli non tanto come si scrive questo titolo ma almeno la corretta dizione inglese significa sviscerarsi dalle risate per almeno una decina di minuti. questo è Gionni, prendere o lasciare. Intanto la sera è diventato un attentissimo frequentatore del Corso, guarda, osserva, ascolta e tace immagazzinando tutto nella mente, sta di fatto conducendo una personalissima inchiesta speciale su usi e consuetudini giovanili, preferenze musicali e non. In pratica gli si è aperto davanti un universo del quale non immaginava nemmeno lontanamente l’esistenza ed ora lo imprigiona fino ad asfissiarlo. È pervaso da una febbre di sapere, conoscere, imparare, da lasciare di stucco anche chi lo conosce da sempre, o almeno finora così ha creduto. Tutti si chiedono nel frattempo cosa stia macchinando ed aspettano curiosi quando arriverà la sua ora. Aspeteranno solo una settimana e l’inizio, piuttosto problematico e molto discutibile, avrà per questo un inaspettato successo.

*

Supermonteradio 100.2 Mz - Cap. 2/5

Si gettano le basi

Sono passati dieci giorni da quella sera umida e nebbiosa; il tempo si è rifatto discreto, non c’è più la nebbia, la temperatura, comunque, è rimasta invariata. Di giorno però fa sensibilmente più caldo, non è l’estate di san Martino ma, almeno, non piove e le strade sono spazzate da una costante tramontana.
I giubbotti di tela jeans sono stati tuttavia sostituiti da giacconi un po’ più pesanti. Sono di moda i Montgomery, di panno pesante o impermeabili e foderati.
Le macchine continuano a sostare una dietro l’altra in fila indiana in piazza Monumento ed anche nell’altra piazza, un po’ più piccola, e il frastuono si fa sempre più intenso quando i cosiddetti nottambuli si concentrano in questi due spazi, ormai in loro possesso per usucapione serale.
Qualcosa nell’aria, però, bolle. La notizia che quattro soci hanno intenzione di installare una stazione radiofonica, in gergo paesano aprire una radio, è diventata di dominio pubblico e, quindi, argomento di discussione non solo la sera, nelle due piazze, ma in ogni ambiente solare.
L’eccitazione sta crescendo con il passare dei giorni e i pareri contrapposti danno adito a infinite diatribe circa l’esito dell’impresa, così come è vista e considerata l’intera operazione. I più giovani, ovviamente, sono entusiasti e fremono d’impazienza; almeno non dovranno dissanguarsi in spese telefoniche per le dediche visto che attualmente la radio più vicina è raggiungibile solo con telefonate fuori distretto.
Gli anziani sono per lo più scettici, ovviamente quelli che si intendono di radio perché la quasi totalità ha ben altro a cui pensare. Quelli che, in ogni caso, mostrano interesse e quindi animano le discussioni sono i rappresentanti del ceto medio ed inoltre, dai cinquant’anni in giù.
Quasi tutte le rappresentanti del sesso debole, di ogni lignaggio, in modo discreto e con il civettuolo silenzio che li distingue, mostrano indifferenza. Esse, le donne, fingono di non capire alcunché di queste cose, fanno spudoratamente pure la morale a chi li interpella, ma tra loro, ovviamente con la sempieterna discrezione, mostrano di saperne molto più del dovuto, se non del consentito. Soprattutto considerano che una emittente radio in paese permetterà loro di civettare telefonicamente con la tranquillità consentita dall’anonimato e dalla modica spesa telefonica, con uno scatto si può stare al telefono finché l’orecchio non arrostisce, ed anche oltre se lo si intervalla con l’altro.
Di tutto questo tran-tran i nostri eroi ne sono totalmente consapevoli e, fra tutti, sono i più ansiosi di iniziare, si sa infatti che in ogni impresa il temporeggiare è sinonimo di fallimentare aborto.
A rendere oltre modo difficile tutta l’operazione imbastita sono naturalmente tutte quelle nozioni di cui nessuno di loro è in pieno possesso (sic), di radio ne sanno poco più del resto dell’intera popolazione di Montapiano e per questo, dopo la messa a punto dell’idea iniziale, ovvero la decisione unanime e senza ripensamenti, si sono inoltrati nella seconda fase del piano, così semplicemente espressa: “tattica e strategia”, in altre parole “non perdersi d’animo per nessun motivo”.
Per la verità la prima fase non è stata indolore in quanto si è trattato di spartirsi il vino senza l’oste cioè stabilire a priori le competenze e il raggio d’azione neanche se avessero già risolto tutti i problemi. Per questo le discussioni sono state accese e in qualche momento hanno rasentato una vera e propria ostilità, a salvarli è stata probabilmente un’amicizia di ferro risalente all’infanzia e, quasi sicuramente, la rinuncia a favore altrui di un qualcosa non ancora definito e totalmente impalpabile.
Dai negoziati è risultato che i quattro amici si sarebbero “spartiti” l’orario radiofonico in modo da non ostacolarsi l’un l’altro, possibilmente a rotazione.
L’unico escluso da questa volgare spartizione, e sono parole sue, è Gionni, il quale a crudo di conoscenza dell’inglese e di conseguenza di tutti i titoli in quella diabolica lingua, si è riservato l’orario più confacente alle proprie ambizioni e meno d’intralcio agli altri: dalle ventidue in poi, senza limiti di orario e con assoluta libertà di organizzarsi la propria fascia come meglio crede. Ciò che conta è che non vi sia alcuna concorrenza nelle fasce d’orario dedicate alle dediche e di conseguenza al contatto telefonico con il gentil sesso.
Stabilito questo si è passata alla seconda fase, quella veramente operativa. Come già detto non avendo alcuna cognizione di causa circa l’installazione di una emittente si sono dovuti rivolgere a persone esterne, per il momento almeno due, un tecnico elettricista-radiofonico e un ragioniere per la consulenza legale e amministrativa.
Il primo non è stato facile trovarlo, si è dovuto andare fino a Matera, il capoluogo, e una volta trovato sono cominciati i dolori (leggesi soldini) per le prime spese di sopralluogo e di elenco dei materiali occorrenti.
Il secondo invece è stato, per così dire, trovato sul posto. Un quasi coetaneo si è infatti materializzato e offerto di seguire tutto l’iter burocratico consistente, primo: nella costituzione di una società di fatto presso la Camera di Commercio provinciale, secondo: una sfilza di segnalazioni a Prefettura, Siae, Questura e, non ultimo, un imprecisato ufficio comunale. Insomma è già un miracolo che la determinazione non sia evaporata di già. E a dieci giorni di distanza i quattro, ormai soci, insieme ai due consulenti esterni sono in prossimità di mettere nero su bianco.
La riunione, per ovvii motivi di privacy, intesa non nel senso di riservatezza vera e propria ma di non avere tra i piedi ficcanaso e disturbatori avviene nel magazzino di Savino, commerciante alimentare, e quindi non distante da pericolose distrazioni.
Qualcuno, a conoscenza del fatto, ha infatti insinuato che tutto sarebbe finito a tarallucci e vino. Le malelingue verranno, una volta tanto, smentite del tutto. Sebbene la “mazzata” economica sia di considerevole proporzioni, circa sei milioni come minimo per le apparecchiature e le prime spese commerciali, a cui si sarebbero aggiunti altri due milioni tra dischi già in circolazione e la fornitura in abbonamento, questa però solo nel caso si andava avanti, i quattro soci, infatti, non intendono indietreggiare sulla decisione.
Gino, il più pragmatico tra tutti, sostiene che bisogna, prudentemente, aumentare il preventivo di altri due milioni per mettersi al sicuro da ogni imprevisto. Ovviamente, sostiene, col tempo le spese sarebbero state annullate dagli introiti di natura esclusivamente pubblicitaria, ma questo solo il tempo e la riuscita dell’operazione poteva dirlo. Per ora l’interrogativo è: “ce la sentiamo di investire in questa avventura quasi tutti i nostri risparmi?” La risposta, senza nemmeno pensarci molto sopra, l’adrenalina che ti fa!, è univoca ed esultante. Come aveva esclamato qualcuno in passato è imperativo vincere e “vinceremo!, perbacco!.”
La decisione definitiva è stata quindi presa e Savino, euforico, propone di brindare all’evento, ovvero è giunta l’ora dei tarallucci e vino, gentilmente offerti dalla casa, ma a raffreddare gli spiriti ci pensa Mario Ferri, il tecnico, con una domanda, in fin dei conti un po’ tardiva nella cronologia della discussione.
“vogliamo, prima di brindare, dare un’occhiata al locale?” chiede con plateale mimica.
Poi osservando le facce stupite dei presenti continua: “ragazzi, il locale dove sistemare le apparecchiature, ce lo avete o no? Non penserete mica di usare questo?” ripete accentuando la mimica. Balbettando è Franco a rispondere per tutti.
“perché quando dev’essere grande? Più di questo?”
“ma non è questione di grandezza, Gesù mio!, dev’essere …. Strategicamente idoneo”. Gli altri tacciono e, quindi, con marcata sufficienza prosegue: “innanzi tutto occorre che sia in posizione dominante, per coprire il maggior territorio possibile, e poi che vi sia un certo spazio esterno per ospitare l’antenna, o credete che questa sia come quella di una normale a larga banda della televisione? Pensate che dev’essere alta circa sei metri e forse anche di più. E poi bisogna che ci sia corrente elettrica e linea telefonica. Mi sono spiegato?”. E mentre catechizza i presenti il volto di Gino si va illuminando sempre più di un radioso sorriso.
“sì, sì, ho….trovato, ce l’abbiamo il locale idoneo, ce l’abbiamo, sì.” E, senza dare il tempo di fiatare agli altri, che lo guardano stupiti, precisa:
“il mio casotto in montagna. È l’ideale. Il meglio che ci sia per….aspettate…- prevenendo dei moti di protesta, continua- è in posizione dominante, è dotato di corrente elettrica, di telefono, manca solo l’acqua corrente, ma chi se ne frega, c’è il pozzo”.
“l’acqua, veramente, non è che sia poi tanto indispensabile…” accenna il tecnico.
“Gino, torna con i piedi per terra, per favore. Vorresti rifilarci quel buco di casotto, fatiscente e isolato dal mondo?” chiede minaccioso Savino.
“che cosa?, fatiscente il casotto? Ma allora nessuno di voi l’ha visto dopo i lavori fatti dal Boss l’altr’anno, durante l’estate? Figuratevi, l’ha dotato anche di linea telefonica, per sentirsi raggiungibile in ogni momento, così diceva, ma poi non ci è andato mai una volta”. Termina soddisfatto.
“quando uno ha i soldi che gli escono dalle orecchie!” commenta sarcastico Franco.
“quando l’avremmo dovuto vedere se non ci hai mai invitato, cazzone!”
“non attizzate, adesso, Gionni, tu che ne pensi?, non hai detto una parola”.
“veramente ci sto pensando sopra. Hai detto che è dotato di tutto, ma non è comunque un po’ striminzito, come spazio, intendo dire. E, poi, la strada per arrivare fin lassù? È ancora in terra battuta, come l’ultima volta?” s’informa pragmatico.
“dunque, prima di rifare il tetto è stato gettato un solaio e rialzate le mura, cosicché adesso risulta una casetta con due piani di trenta metri quadri per piano. La strada è stata asfaltata questa primavera, quando è venuta a Montepiano quella ditta che ha rifatto il manto stradale per l’ANAS. Non è molto larga, circa tre metri, lo spazio necessario alle macchine che vi hanno lavorato, ma è comoda e sicura. D’altronde il percorso è rimasto lo stesso, anzi in un punto è stata raddrizzata una curva. È vero che ci vogliono cinque minuti per arrivarci, saranno due chilometri di strada, ma in linea d’aria si e no se dista seicento metri”.
“Già, adesso ci mettiamo anche a volare!, ma se le cose stanno così il posto potrebbe essere l’ideale. Appartato, ben asservito e in posizione dominante, almeno per quanto riguarda l’antenna come dice il nostro amico Ferri”.
“ok, allora?” domanda ansioso Gino.
“allora, Savino, tira fuori lo Champagne che brindiamo”.
“eh?, l’Asti spumante, vuoi dire? Quello, quando ne vuoi!” commenta ridendo Savino, accingendosi, entusiasta, a inoltrarsi verso ‘angolo cantina.
“anche i tarallucci!, spilorcio!” gli gridano alle spalle. E mentre la combriccola festeggia allegramente l’organigramma della nuova società è opportuno fare una descrizione dei luoghi appena citati, giusto per orientarsi un po’.
Montepiano si erge, avvolgendolo quasi interamente, su un omonimo monticciolo alto settecentocinquantadue metri sul livello del mare e condivide la radici con un monte quasi gemello che gli indigeni chiamano Serra Antica per via di alcuni resti archeologici trovati sparsi qua e la sui suoi fianchi e fanno pensare a un insediamento risalente all’epoca tarda ellenica.
I due monti nascono quindi insieme e a seicento metri di altitudine si separano. Serra Antica sovrasta Montepiano di centocinquanta metri circa ergendosi quindi fino a novecentosei metri. I due monti non presentano particolari pendii scoscesi tranne qualche balza dovuta a piccoli smottamenti avvenuti in epoca non recente ed oggi ricoperti di macchia mediterranea.
Serra Antica oggi è costellata da decine di piccoli casotti costruiti in altrettanto piccoli poderi, quasi tutti vigneti e uliveti, qualche orticello qua e la, essendo i fianchi della montagna attraversati da copiose falde acquifere.
Il fianco prospiciente Montepiano è attraversato da due strade comunali e da queste si diramano una miriade di stradine interpoderali, quasi tutte ben tenute e quindi facilmente percorribili.
Il casotto di Benito Plasmati, medico condotto, è situato a circa cento metri dalla sommità della Serra, infatti appena sopra il casotto la natura della montagna cambia improvvisamente con una erta parete rocciosa quasi irraggiungibile che prende il nome di “Cinto dell’eremita” per via di una leggenda che vuole appunto fosse stato in passato l’eremo di un santone. Il casotto è circondato da un vigneto quasi sempre incolto e da poche piante di ulivo. Passione incostante del sempre impegnato medico, l’anno prima era stato totalmente ristrutturato, per non dire ricostruito, ma ciò nonostante, dopo l’ultimazione dei lavori, causa il picco negativo della passione, il fattivo proprietario aveva ripreso a disinteressarsene. Di lì a poco diverrà il centro di una fervente attività.
E già che ci siamo andiamo a conoscere meglio i personaggi principali di questa vicenda, già ormai noti caratterialmente.
Fisicamente sono longilinei, Savino è un po’ più tarchiato degli altri, non molto alto con una folta capigliatura rossiccia e un viso lentigginoso, figlio di un commerciante alimentare è commerciante anch’egli sotto l’occhio vigile di zi Antonio, il padre. Ha un fratello più grande che ha intrapreso una carriera militare, maresciallo addetto alle cucine in un reggimento della Folgore, una sorella di qualche anno più piccola, l’ormai nota Lucia, studentessa universitaria a Roma, oggetto delle mire amorose, ma forzatamente platoniche, di Franco Dicaro.
Questi è di un palmo più alto e scuro di carnagione e di capelli, lisci e sempre lunghi, unica nota di risalto, timido con le ragazze arrossisce facilmente ma difficilmente visibile per la carnagione scura. Franco si è diplomato da ormai sei anni alla scuola magistrale e, nonostante faccia domande in continuazione presso il Provveditorato di Matera, è ancora in attesa di prima occupazione.
Per il momento vive in famiglia con il padre che lavora in proprio come meccanico e la madre casalinga e sarta a tempo pieno, ha due sorelle di cui una più grande di sei anni, sposata e in attesa, che vive a Matera con il marito tecnico catastale, l’altra sorella, anche lei più grande di undici mesi, diplomata al professionale femminile, vive in casa aiutando la madre nei lavori di taglio e cucito.
È fidanzata ufficialmente con un commesso del supermercato e per il momento non pensano ancora di mettere su casa per conto proprio.
Gino Plasmati è il più benestante di tutti, figlio, come già detto, di Benito,medico condotto, e di donna Margherita, direttrice didattica della locale scuola elementare, è figlio unico, viziato, coccolato, studente universitario da ben sette anni, ovviamente fuori corso, passa il tempo rombando con una Gilera 250 cc, da motocross.
È anche il più alto del gruppo, sfiora il metro e novanta, fisico asciutto, fianchi stretti, spalle larghe, capelli biondi e ricci alla Klaus Dibiasi ma allergico a tutte le acque, salmastre e dolci, è il bello del paese, desiderato dalle ragazze verso le quali nutre un moderato interessamento, causa una marcata forma di narcisismo.
È l’unico non automobilista del gruppo in quanto gli altri possiedono: Savino una Ritmo 60, Franco una sconquassata Ford Escort del 63 e Gionni una fiat cinquecento del 72, ben custodita e utilizzata con il contagocce, dopo cinque anni non ha ancora percorso ventimila chilometri. “Gionni” Ferrara, appunto, è l’unico stipendiato del gruppo; l’anno dopo essersi diplomato al Magistrale è entrato nella scuola elementare come maestro, favorito nel punteggio per essere orfano di padre, e ha quindi iniziato il suo nono anno scolastico.
Magro come un chiodo, alto una spanna meno di Gino porta i capelli, castani, tagliati cortissimi a spazzola o, come si diceva una volta alla Umbertina. Dal cranio apparentemente pelato spiccano due orecchie a sventola e un naso aquilino e, ciononostante, non è ritenuto dalle ragazze un brutto da evitare, semmai in possesso di un fascino esotico, come disse una anni addietro faraonico.
È il più anziano, ventotto anni appena compiuti, vive con la madre la sorella maggiore, quarantenne, infermiera e sposata con un caposala dell’Ospedale Civile di Policoro. Sono entrambi pendolari, amareggiati e pentiti, hanno due gemelli, Andrea e Nicoletta, diciottenni. Questa, tutta casa e chiesa, ottima studente del grande contenitore locale che è il Magistrale, e Andrea che si avvia, ormai refrattario a ogni controllo, sulla strada della perdizione. Ombroso di carattere è sempre in lite, finora solo verbale, ringraziando il Cielo, con tutti; la compagnia che frequenta non è da meno e fanno gruppo a parte nelle due piazze, per lo più bazzicano i giardinetti pubblici, ovvero un’aiuola poco più grande di un fazzoletto di terra, sottostante piazza Monumento e semi abbandonata tanto di giorno quanto di sera.

All’uscita dal magazzino, dopo ripetuti brindisi, il ragioniere e consulente Mario Strada, col viso accigliato stoppa il gruppo con una domanda che nessuno si era ancora posto, interessati com’erano a spartirsi prematuri allori.
“che nome devo mettere sulle carte?, sì, sì,… come si deve chiamare la radio?”
“oh bella! – esclama al colmo dello stupore Savino – questa sì che è bella. Non ci abbiamo per nulla pensato. Cosa ne dite, ragazzi, come la chiamiamo?”.
Si accende una nuova discussione che forza il gruppo a rientrare nel magazzino, ma con le rimostranze di Savino ben deciso a non stappare altre bottiglie. Un’ora dopo, finalmente, l’accordo viene raggiunto e Gino può trionfalmente sentenziare:
“si chiamerà Radio Monte, frequenza 100.2 Mz, vero?” battezza rivolto al tecnico.
“sì – afferma questi – è l’unica frequenza libera che ho trovato”.
“mi piace il nome – conferma Savino – Radio Monte, anzi, super Radio Monte, meglio ancora SUPER MONTE RADIO!!! – motteggia enfaticamente. È sarà con questa forma enfatica che l’emittente, benché ufficialmente sarà sempre Radio Monte, verrà da tutti nominata e conosciuta con l’appellativo di Super Monte Radio.
In piazza Monumento si è intanto raccolta una piccola folla ansiosa di conoscere l’esito della riunione e il tutto, appellativo compreso, viene accolto da grida di esaltazione tali da far allarmare, data l’ora inoltrata, gli abitanti del posto. Più di una finestra e di un balcone che danno sulla piazza si apre e facce assonnate e perplesse si sporgono dai davanzali. Qualcuna, borbottando improperi, rientra subitaneamente ma più d’uno partecipa allegramente al trambusto sottostante al grido di “Viva Super Monte radio” tanto da far impallidire lo storico “Dio lo vuole” dei crociati. Anche questa è fede, radiofonica semmai, ma sempre fede.

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Supermonteradio 100.2 Mz - Cap. 1/5

Autunno, quasi inverno, 1977 – Nascita di un progetto

Da quando la nebbia ha cominciato ad avvolgere la sommità della montagna su cui si arrocca, come un muschio variopinto, l’abitato di Montepiano, la sera, puntualmente, la colonnina del mercurio scende di circa cinque gradi per cui l’orologio-termometro-datario piazzato sulla parete sovrastante la vetrina della cartoleria-edicola-tabaccheria di piazza Monumento segna costantemente circa dieci gradi al calar del sole riducendosi a poco meno di cinque all’approssimarsi della mezzanotte, e non si è che ai primi di novembre ma a settecentocinquanta metri di altitudine.
Come tutte le sere, in ogni periodo, tempo e stagione dell’anno, dalle ventuno in poi tutto il perimetro di piazza Monumento è una linea continua e ininterrotta di auto parcheggiate, e quando raramente qualcuna se ne va, sgommando, viene istantaneamente rimpiazzata.
La piazza è abbastanza grande da contenere così allineate una trentina di macchine aventi come unico comune denominatore l’autoradio ad alto volume, spesso intervallato da grida e lazzi degli occupanti intenti a sfottersi tra loro.
Il resto del paese appare come l’anticamera dell’obitorio ma piazza Monumento, con i suoi tre bar quasi equidistanti fra loro e l’altra piazza del paese, piazza Cavour, lontana circa duecento metri, con l’unica strada che la collega alla prima, pomposamente denominata corso Garibaldi, ma larga appena sei metri, pullula di vita sebbene tende a scemare con l’avanzare incalzante della notte.
Nella vecchia Ford Escort del sessantatré color amaranto sbiadito Franco Dicaro, sbadigliando e ruttando contemporaneamente, lacera un provvisorio silenzio e sbuffando di noia, dopo essersi puntellato con braccia e mani contro il volante, prorompe:
“puttana miseria, porca e maledetta, ogni sera è sempre la stessa solfa, se non si fanno le dieci quel morto di sonno non arriva. Mi sono rotto di aspettarlo”.
“perché hai di meglio da fare?” lo apostrofa sghignazzando Gino Plasmati, infossato nel sedile a fianco a quello di guida con le ginocchia puntellate sul cruscotto, suscitando l’ilarità del terzo occupante, a sua volta stravaccato lungo tutto il divanetto posteriore dell’auto.
”non riesce a stargli lontano nemmeno per un minuto che subito comincia a frignare, sta a vedere che è geloso!” insinua infatti a coronamento Savino Andrulli, schizzando a sedere per affrontare la scontata reazione plateale dell’amico che ridendo si è voltato fingendo un attacco manesco.
“un giorno o l’altro te la tappo per sempre quella boccaccia di fogna che ti ritrovi, ricchione sarai tu, provolone del cazzo!”
“ma la volete piantare tutti e due di rompere le scatole, ahoooooo!” reagisce a quel punto Gino, sfiorato da una pericolosa quanto casuale gomitata di Savino, ma che ottiene l’effetto di coalizzare gli altri due contro di lui.
“vostro Onore si disturba? – conferma infatti Franco e con un cenno del capo indirizzato a Savino – tienilo fermo che gli calo i pantaloni” continua eccitato.
In pochi istanti nella Escort non si capisce più niente, è tutto un groviglio di mani e braccia schizzanti da ogni parte mentre urli e gridolini d’ilarità colmano l’angusto spazio della macchia. Ma di tutto il trambusto interno ben poco traspare all’esterno, sia per i finestrini chiusi che per l’alto volume della radio. Unico segno della convulsa amichevole lotta sono i visibili sobbalzi della macchina di cui nessuno si interessa più di tanto. Improvvisamente, così com’era iniziata, la scherzosa baruffa cessa lasciandoli esausti e ansanti.
“Ragazzi non si vede più niente, tutti i vetri sono appannati. Franco, dove lo tieni quello straccio?” chiede Gino, e intanto con il palmo della mano toglie la parte centrale del vapore sul parabrezza.
“ehi!, quello non è Andrea, il gemello?, chiamalo e chiedi di Gionni” esorta rivolto a Franco, intento ancora a cercare lo straccio.
“Andrea – chiama questi ad alta voce il ragazzo che mani in tasca, ingobbito nel giubbotto jeans, con una cicca penzoloni dalle labbra, cammina spedito verso il centro della piazza – Andrea, dov’è quel morto di sonno di tuo zio?” Questi mal celando una nota antipatia verso di loro risponde scorbutico di non saperlo e che, comunque, a lui non interessa un accidenti di dove sia e cosa stesse facendo lo zio.
“uhuuu, ma come siamo delicati – punzecchia Franco, poi cambiando tono di voce ringhia – togliti dalle palle idiota frocio che non sei altro, se non vuoi che scendo e ti cambio i connotati”
“ma vaffanculo, stronzo” gli risponde per nulla intimorito il ragazzo che, comunque tira avanti senza fermarsi.
“ma tu guarda che educazione danno oggi a questi stronzetti…, sto cretino, non ha nemmeno diciott’anni e già si crede un padreterno, ma si stesse attento che un giorno o l’altro glie lo insegno io il modo di comportarsi. Stronzo e mille volte stronzo” bofonchia irritato Franco ma senza uscire dalla macchina per cui lo sfogo rimane solo di natura verbale. Gli altri due amici, pur condividendo l’indignazione con grugniti ed esclamazioni di vario genere, non accennano alcuna reazione perciò quest’altro fuocherello si estingue prim’ancora di accendersi.
“ehi Franco, cambia stazione, metti su radio Stella che per le dieci e mezza aspetto una dedica” dice Savino da dietro e rizzandosi a sedere, improvvisamente conscio dei minuti che mancano all’appuntamento.
“chi è questa volta, la frangetta del quarto liceo?” chiede Gino.
“no è una di fuori, l’ho conosciuta la settimana scorsa alla fermata della corriera a Senise, quando sono andato a prendere Lucia che veniva da Roma” specifica mentre Franco improvvisamente mostra il proprio interesse nei confronti di Lucia, la sorella di Savino.
“e’ tornata Lucia e non mi dici niente?, a proposito come si è fatta?”
“è sempre bionda, te lo dico io che l’ho vista con il ganzo ieri mattina” interviene ridendo Gino ammiccando a Savino. Entrambi sanno del debole di Franco per la ragazza ma, per pudore verso l’amico, non osa avvicinarla. Tanto basta che gli altri, compreso Savino, a denti stretti, lo prendano spesso in giro, divertendosi a vederlo arrossire come un’aragosta.
“che canzone ti dedica questa qui?, come si chiama a proposito?”
“Angela, ma non è una canzone vera e propria”
“cioè, che significa non è una canzone vera e propria? Chiede Gino.
“Voglio dire che non è la solita canzone del solito cantante” risponde ancora più confusamente.
“senti, come si chiama” insiste allora spazientito Gino.
“è la colonna sonora del Padrino, cantata da Dorelli in italiano, quella che fa “parla più piano….”eccetera”.
“dì, sei sicuro che la dedica sia per la simpatia e non perché la tipa ti ha forse conosciuto bene, chiacchierone come sei .”interviene Franco ridendo.
“bla, bla, bla, invidiosi!” Tronca Savino piccato dall’ilarità degli altri.
Per alcuni minuti a seguire i tre amici rimangono in silenzio ad ascoltare la colonna sonora del Padrino, ognuno immerso nei propri pensieri o alle prese con la personale fantasticheria.
Quella quasi surreale atmosfera viene infine rotta da un grugnito di Franco appena scorge in lontananza la sagoma del quarto amico, quello che ancora manca all’appello. Giovanni Ferrara, Gionni per gli amici, è infatti spuntato da un vicolo in fondo a corso Garibaldi, quasi in prossimità di piazza Cavour, e in direzione diametralmente opposta alla propria abitazione. Avanza con le mani insaccate nel giubbotto di tela jeans, completamente abbottonato e con il colletto alzato. La testa china come a proteggersi da un impetuoso quanto inesistente vento, e la sigaretta infilata strettamente tra le labbra. Cammina spedito senza alcuna necessità di guardarsi intorno alla ricerca degli amici tanto sa benissimo dove stanno. A testa bassa, quindi, procede verso piazza Monumento a passi lunghi e con gli occhi quasi chiusi perché infastiditi dal fumo della sigaretta.
“ma da dove cavolo viene, quel disgraziato? Non sta venendo da casa” esclama Franco rizzandosi a sedere e cominciando ad armeggiare con uno sgualcito pacchetto di Gitane alla ricerca di una mezza cicca precedentemente fumata a metà e poi conservata. Tra le rimostranze di Gino verso la puzza della mezza cicca Savino riprende lo sfottò di poco prima.
“te lo avevo detto che è geloso il ragazzino! E dai Franco apri almeno il finestrino per la miseria santissima, se no ce ne usciamo!”.
“e poi dov’è scritto che deve rendere conto a noi delle sue mosse” completa Gino, ma subito dopo aggiunge “chi ci abita da quelle parti? Non è che il fetente si è fatto abbindolare da qualcuna e non ci ha detto niente?”
“già, così sarei io quello che pensa male!” sostiene allora Franco.
“dai, zitti che sta arrivando” sussurra Savino.
“embèh!” esclamano in coro gli altri, ma subito cambiano discorso perché Gionni è ormai giunto a pochi passi dalla macchina.
Senza dire alcuna parola, Gionni apre la portiera posteriore, dietro a Franco che sta alla guida, sputa lontano il filtro della Lido, ormai quasi raggiunto dalla brace, e si infila nella Escort.
“che schifo di tempo, non si vede un accidenti ed è così umido che ti bagna le ossa”. Brontola con voce rauca e strascicando le parole.
“Uh! Esagerato!” risponde ridendo Gino, che dei tre è quello con cui lega di più. “dì, piuttosto, da dove cavolo stai venendo? Casa tua, se non sbaglio, è esattamente dall’altra parte”.
“e chi ha detto che venivo da casa!” risponde enigmaticamente Gionni.
“abbiamo chiesto a tuo nipote poco fa e ci è sembrato che così avesse detto” specifica Franco, senza accennare al diverbio con Andrea,
“uh! Mi stupisce che ti abbia risposto senza mandarti a quel paese”. Commenta Gionni ben al corrente del pessimo rapporto esistente fra i due.
“insomma ce lo dici da dove vieni o no?” sbotta spazientito Savino e subito aggiungendo” non è che ce ne freghi più di tanto, comunque, questo sia ben inteso. Ma quando si va millantando una decennale amicizia…..”
“ma che vuoi? Visto che non ve ne frega mettiamoci pure una bella pietra sopra, ma di quelle grosse, anzi un macigno” risponde Gionni senza concedere alcuna soddisfazione alla curiosità degli amici. Al che Gino, guardandolo in tralice ma sorridendo, lo apostrofa:
“che figlio di una buona donna!, scommetto che hai fatto apposta tutto un giro così lungo per farci credere chissà cosa”, e visto che Gionni continua a tacere s’intromette Franco con una domanda diretta.
“scommetto che ti sei fatto una ragazza fissa, ma chi? Se passi tutto il tuo tempo con noi”.
“sarà una collega delle elementari” indaga Savino. Niente, Gionni tace.
“aspetta, aspetta, da quelle parti non abita Graziella, quella della segreteria?”
“Graziella? Ma sì, hai capito il bellimbusto, punta al meglio”.
“no, no, frenate ragazzi, Graziella sta con Tonino della scuola guida, li ho visti insieme ancora oggi”
“allora, faccia di rospo, ce lo dici o no!” sbotta infine Franco.
“no”. Risponde ermeticamente Gionni, col tono di chi intende archiviare l’argomento e a conferma di ciò scandisce “non sono cazzi vostri!”.
I tre si guardano allora sconcertati e fingendo un malanimo assolutamente inesistente gli voltano, per così dire, noncuranti le spalle. Gionni, allora, emettendo sospiri di vittoria, allunga un braccio e con le punta delle dita cambia stazione radiofonica esclamando:”che cos’è questa lagna, trova una radio più allegra, che ne so, sintonizzati su radio Stella, che sentiamo almeno qualche fregnaccia”. Inviperito Savino reagisce “era già su radio Stella, imbecille!”. E mentre gli altri due davanti sghignazzano Gionni risponde a filo di voce “scusa”.
“scusa un cazzo”.
“non lo sapevo, mi dispiace, perdonami, perdonami, non lo faccio più”. Sbeffeggia.
L’evidente presa in giro di Gionni, oltre a scatenare le risa di Franco e Gino, fa sorridere anche Savino che esclama “che stronzo!”.
“te l’hanno già fatta la dedica del Padrino?” chiede fingendosi interessato Gionni.
“e tu che cazzo ne sai?” domanda sospettoso Savino mentre gli altri due rizzano le antenne meravigliati.
“oh, niente, una certa Angela mi ha chiamato stasera a casa chiedendomi se il brano sarebbe stato di tuo gradimento. Fino in fondo, gli ho risposto. La poverina sapessi come era felice e sollevata. Se non era al telefono mi avrebbe sommerso di abbracci e baci di contentezza”.
“maledetto bastardo, come lo hai saputo?” insiste furente Savino.
“già, come?” chiedono gli altri due.
“ho le mie fonti d’informazione” replica secco Gionni, “e il giorno in cui non mi romperete le scatole ve lo dirò. Ma adesso nisba. Chiaro?!”
Savino avrebbe voluto continuare la discussione, in fondo è l’unico veramente interessato alla vicenda, ma Gino gli fa cenno di lasciar perdere, quasi a dire “me lo lavoro io, dopo”. In verità Gionni ha semplicemente sommato due più due. In mattinata aveva incrociato Lucia, la sorella di Savino, che non vedeva da circa due mesi, appena tornata da Roma dove frequenta la facoltà di lettere, e durante la chiacchierata aveva saputo che il fratello, in attesa della corriera aveva fatto conoscenza con quella Angela, una ventenne di Corleto. Quando era scesa dalla corriera aveva captato qualcosa circa una dedica a radio Stella, ma niente di più. Gionni, sapendo che l’amico ha una fissa per quel brano e che la tipa, Angela, solo la sera aveva del tempo libero, a detta di Lucia, ha fatto quadrare tutte le informazioni azzeccando infine la dritta. Se ne sta, pertanto, rintanato e gongolante nel suo angolino di macchina, trattenendosi a stento dal ridere vedendo l’espressione scombussolata dipinta sul volto dell’amico. Embé sono piccole ma appaganti soddisfazioni!.
Per una mezza dozzina di minuti in macchina regna un relativo silenzio, verbale, poiché oltre all’autoradio accesa ognuno inganna il tempo con propri movimenti. Infine è Gino a rompere la tregua invitando Franco a cambiare stazione radiofonica, ovvero a cercare una emittente nazionale “purché non si senta più la voce di questo cretino delle dediche” sostiene sbuffando.
“vuoi che metto su Raitre” provoca Franco.
“sei scemo, tanto vale tenerci il cretino, allora. La lirica proprio non mi attizza”.
“visto che sei così esigente perché non te la fai per conto tuo una radio su misura?”
“perché, credi che non ne sia capace?”
“già, in fondo che ci vuole?” s’intromette Savino “quattro dischi e un megafono”
“e le dediche?, a chi le facciamo fare?, a Gionni, che legge nel pensiero della gente?”
“Solo a quello delle ragazze”.
“che ricominciamo?”
“mamma!, quanto sei permaloso, ancora non t’è passata?”
“passata a me?, ma che vai dicendo, mica sono io quello che se l’è presa”
“come vuoi!, tra dieci minuti ti richiamo”.
“ecco, bravo, stattene a cuccia. E tu la vuoi trovare una radio decente!”
“senti chi parla! Che musica vorresti sentire? Ovviamente italiana visto che non spiaccichi una parola che sia una d’inglese”
“a Gionni è sufficiente dargli l’elenco delle canzoni di Sanremo, non è vero Gio…?”
“non parlavo di canzoni, mi riferivo alla musica, quella non ha lingua”.
“beh, ragazzi, su questo Gionni ha ragione, ci sono delle musiche straniere che sono la fine del mondo. Neanch’io so pronunciare bene i titoli ma ad averne!”.
Gino, nel frattempo si è zittito di colpo, come folgorato da un improvviso pensiero e, dopo che anche gli altri si sono zittiti, quasi timidamente se ne esce con un profondo interrogativo, non immaginando l’importanza per tutti gli eventi futuri:
“ragazzi, cosa ci vuole veramente per farla?” sollecita con un’espressione seria.
“per farla cosa?” gli domanda Franco.
“ma una radio, ovviamente” risponde Gino con l’aria più naturale del mondo.
“Una radio?, che ti da di volta il cervello, per caso?”.
“chi ti fornisce l’erba?” domanda ridendo Savino, mentre il solo Gionni scruta in silenzio l’amico, perplesso circa la serietà dell’osservazione.
“non sto scherzando, parlo seriamente”.
“veramente parli sul serio?” chiede meravigliato Franco che, nel frattempo, è riuscito a sintonizzarsi su un’emittente che trasmette solo musica non stop.
“sì, seriamente, che ci vuole per mettere su una radio? A parte un locale idoneo e un po’ di attrezzatura….?”
“e qualche soldino” completa per tutti Savino, con l’anima del commerciante qual è.
“ragazzi – sbotta Gino spazientito – con voi non si può mai fare un discorso serio. Che ci trovate di tanto scandaloso? Forza pensateci sopra, per mettere su una radio, in fin dei conti, cosa ci vuole, burocrazia a parte? Un locale, delle apparecchiature e poi?”.
Stimolati dalla caparbietà di Gino gli altri si conformano alla serietà di quella improvvisa argomentazione e nei minuti e giorni successivi, infatti, si mette in moto una macchina destinata a non fermarsi più.

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Conto alla rovescia

Conto alla rovescia

Se qualcuno pensa a un improvviso abbassamento della temperatura si sbaglia di grosso, benchè dalle mie parti l’altro giorno si è abbattuto una tremenda grandinata che ha ricoperto tutto il paese come se avesse nevicato e ancor oggi si riscontrano i residui cumuli raccolti con le ruspe, sono invece i giorni che mancano all’appuntamento del turno riparatorio alle comunali in alcuni centri tra cui Milano e Napoli.
Parlando di temperatura si dovrebbe dire che di contro all’improvviso abbasamento la stessa si sta surriscaldando, non oso dire pericolosamente ma molto incivilmente sì. L’ultima di oggi ci dice di una aggressione a una donna a Milano che faceva volantinaggio pro Moratti. È da condannare senza remore, (l’aggressione non il volantinaggio ndr) e senza alcuna scusante circa la presunta provocazione perpetuata e continuata dai maggiori esponenti della Pdl.
Un consiglio alla manovalanza stradale della Pdl sarebbe quello di stare attenti ai raffreddori perché provocano l’intasamento delle narici impedendo alle stesse di percepire il sopraggiungere dell’olezzo delle squadracce mao-rom, notoriamente restie al contatto dell’acqua e quindi con l’epidermide cosparsa di spesse cotiche.
Al di là delle facili battute nelle due metropoli sta tirando una brutta aria, da oggi in poi, e per una decina di giorni, è meglio mantenersi alla larga, non si sa mai in cosa ci si va a cacciare. Certamente a contribuire al surriscaldamento sono stati gli interventi sconsiderati dei maggiori esponenti del centrodestra, questa volta soccorsi furbescamente anche da Bossi e soci. Dico furbescamente perché i sunnominati furbetti del quartiere meneghino hanno profittato delle cattive acque in cui versa l’armata Branberlusconi per portare altra acqua al loro mulino, quella della decentrazione di alcuni ministeri. Non hanno precisato quali, ma è facilmente intuibile che si sia trattata di una sparata a salve perché nemmeno loro lo sanno. Quali ministeri? La sanità, la pubblica istruzione, il commercio con gli esteri, l’agricoltura, il lavoro, o della marina mercantile? Foss’io gli darei un ministero senza portafoglio, non si sa mai le tentazioni…. Invece potrebbe essere quello dei rapporti con il parlamento, debitamente trasformato in rapporti con casa Arcore, così chi preposto non si dovrebbe nemmeno scomodare più di tanto.
Ovviamente non è tutta colpa della destra perché buona parte di benzina la versa sul fuoco anche la sinistra, non tanto con i propri rappresentanti politici, ormai in piena metamorfosi catalessica, ma dei nobili e divertenti fiancheggiatori come, ad esempio Crozza, perché, benedetto ragazzo io stravedo per lui ma dovrebbe darsi una calmata con le battute al vetriolo sulla seconda carica dello stato. Quel poveretto ha ben altre gatte da pelare che non può distrarsi per sottrarsi ai diabolici e proditori attacchi a tradimento della cricca di Crozza, Floris e compagnia, tant’è che non riescono a strappare nemmeno un sorriso ai politici presenti negli studi.
Al sig. B e soci, invece, dovrebbero suggerire un comportamento più..come dire da snob e non alzare i toni più del dovuto perché è risaputo da che mondo è mondo che non ha ragione chi grida più forte, semmai dimostra di essere ormai alla frutta.
Per quanto riguarda il turno di ballottaggio credo sia una grande cretinata, dovrebbero abolirlo perhè è proprio nei quindici giorni d’intervallo tra il primo e il secondo turno che si gettano le basi dei peggiori mali della democrazia. Pensateci bene, cosa avviene in quei giorni? Semplice operazione di compravendita dei voti, che dovrebbe essere punita per legge sotto l’accusa di voto di scambio. E poi ci lamentiamo quando qualche giudice, accogliendo i piagnistei di alcuni poveri trombati, aprono insulse inchieste che finiscono sempre, dopo un grande spreco di tempo e denaro, nel dimenticatoio per mancanza di prove o perché il fatto non sussiste o, peggio ancora, perché non costituisce reato ( e sfido io!).
Allora un turno solo, possibilmente in un solo giorno. È vero che votare è un diritto della società ma è anche vero che la società stessa dovrebbe essere già incentivata a esprimere le proprie preferenze senza aspettare il secondo giorno, a che serve? Invece del ballottaggio si potrebbe escogitare un espediente tipo minimo di sbarramento, anche elevato al dieci per cento, in cui i voti degli eslusi andrebbero a finire nelle tasche del primo eletto al fine di raggiungere la maggioranza necessaria per governare. Ma questa è solo una mia personale e opinabilissima opinione.
Infine, cari elettori, calma e gesso perché il giorno del ballottaggio non è l’11 maggio e nemmeno il 21 dicembre, tanto per intenderci, e il 32 maggio la vita continua, con o senza la Moratti o Pisapia, con o senza Lettieri o De Magistris. Ci sarà ancora Berlusconi, alle prese con gli attacchi alla e della magistratura, con qualche penna in meno, la voce un po’ rauca simile a quella del collega Bossi, e alle prese con la lavagnetta degli organigramma della Pdl.
Alla prossima e… votate bene!

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Il riposo del guerriero

IL RIPOSO DEL GUERRIERO
Le recenti Amministrative ci hanno consegnato una mappa politica italiana diversa dalle aspettative del centrodestra. In pratica la partita si è svolta principalmente in quattro aree metropolitane, Torino, Milano, Bologna e Napoli. Ovviamente sono state interessate molte altre giunte comunali ma queste quattro sono le più indicative.
A Torino e Bologna la partita si è chiusa nei tempi regolamentari, ovvero al primo turno con l’elezione dei due candidati sindaci del centrosinistra, a Milano e a Napoli si ricorrerà ai tempi supplementari, alias ballottaggio a fine mese.
Se a Torimo e Bologna la sconfitta del centrodestra non pone alcun problema perché quelle aree sono quasi sempre state appannaggio della sinistra, tranne la parentesi bolognese di Guazzaloca alcuni anni fa, a Milano e a Napoli la situazione precedente prevedeva una vittoria al primo turno della destra. Così non è stato.
A Napoli si è addirittura corso in tre, Pdl Pd e Idv. A sorpresa il ballottaggio si farà tra Idv e Pdl. Eppure le premesse erano ben altre. l’arma in più della destra doveva essere la spazzatura perché su quella si è maggiormente incentrata la campagna elettorale. Le colpe dell’immondezzaio urbano erano addebitate all’amministrazione uscente, Berlusconi stesso è sceso come Federisco Barbarossa un paio di volte e, forte del suo carisma, ha costretto la spazzatura ha fare le valige e traslocare da sola verso gli inceneritori, un po’ come quella pubblicità del panno antipolvere, tanto per intenderci.
Cosa, quindi, non ha funzionato nella campagna elettorale? Più d’una cosa, vediamone una insieme.
A Napoli oltre la spazzatura vera e propria vi è un altro tipo di spazzatura, quella politica, ed è proprio questa che non è facile da smaltire. Ultimamente scandali e dicerie hanno dilagato e costretto molti politici a fare come i piloti di formula uno quando si tolgono dalla visiera le mascherine trasparenti sporcate dei residui delle macchine davanti. Solo che per i piloti questo funziona ma per i politici avviene un fatto curioso, tolta la mascherina quello che c’è sotto non è una faccia pulita ma ben più compromessa.
L’elettorato non è stupido, non si fida più, ha voglia di cambiamento, ormai le carte in gioco sono tutte segnate e riconoscibilissime. Occorrono nuove carte, sperando che portino fiù fortuna. Carte che siano ancora intonse non solo per la brava gente ma anche per le organizzazioni che dietro le facciate controllono tutti i traffici. Ovviamente è più facile imbastire accordi con nuovi personaggi che con quelli ormai del tutto smaliziati. Per carità di Dio, spero di non essere frainteso, qui si parla di possibili tentativi, col dire si può fare tutto poi sta alla persona corretta non accettare determinate offerte, e in politica si è sempre sperato che il nuovo sia meglio del vecchio. In ogni modo aspettiamo l’esito dei tempi supplementari.
A Milano la faccenda è completamente diversa, anche se per certi versi anche quall’area è sempre più contaminata dalle stesse “società” che imperversano al Sud, checchè ne dicano i poveri finti illusi. Qui, ad ogni modo, le premesse erano un sindaco uscente dopo due legislature contro un nuovo personaggio, vecchio sessantottino, svezzato nelle fila dell’antico comunismo, molto prossimo all’eversismo.
A rendere più emozionante la campagna è sceso addirittura in campo il big dei big. Per la verità lo aveva sempre fatto, ma senpre con la sicurezza di essere nel giusto e di leggere negli occhi degli elettori l’insopita fiamma della fede. Questa volta la vista doveva essere appannata perché non è precisamente questo ciò che traspariva dagli occhi dell’elettorato ma un sentimento simile alla noia, alla stanchezza, alla rottura de bal, come si dice lassù.
Questa volta il pifferaio magico ha fatto cilecca, non è riuscito a sovvertire i pronostici perché in fondo non è riuscito, e non poteva in alcun modo riuscirci, a infondere negli elettori quello spirito combattivo pioneristico che in passato aveva infiammato gli animi. Ormai il grande big non ha più nulla da offrire, dopo quasi venti anni i suoi cavalli di battaglia sono sempre gli stessi e perciò usurati.
Se fossimo in un dopo guerra lo slogan Giustizia e Libertà avrebbe fatto sicuramente furore ma guerre non ce ne sono state e il motto si è tradotto in Lotta alla giustizia e Libertà di cavarmela sempre nel migliore dei modi. L’elettorato è stanco, non ne può più. Può anche darsi che alla fine con qualche miracolo di estrema compravendita riesca anche a farcela ma ormai il giocattolo è logoro, sarà difficile riproporlo di nuovo. Anche i comprimari sono logori, a forza di rimboccarsi le maniche per accorrere in aiuto al capo non sanno più cosa sia giusto e cosa invece sbagliato. Qualcuno dirà che questo è spirito di corpo, sbagliato, il corporativismo è morto, siamo ormai al canto del cigno.

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L’imprevisto del 30° parallelo

L’imprevisto del 30° parallelo

È cronaca recentissima. Periferia di Islamabad, un commando di forze speciali USA attaccano a sorpresa una villa fortificata e uccidono Bin Laden, poi avvolgono il cadavere in un telo e lo portano sull’oceano indiano dove lo lasciano sprofondare in alto mare. Esultanza negli Usa e tra la popolazione occidentale. Euforia dei capi di stato, Obama in primis.
Fin qui la cronaca, a seguire i primi dettagli. Circola una foto del volto del principe terroristaorrendamente tumefatto, viene da chiedersi come l’abbiano ucciso, se a colpi di mitra o con i calci dei fucili mitragliatori. Orrore nel mondo e primi dubbi.
Qualcuno si prende la briga di analizzare al microscopio, si fa per dire, l’immagine della foto e sorge il sospetto che l’uomo raffigurato non sia il famigerato Bin Laden. Arrivano le smentite e le contro smentite. Ci si chiede perche tanta fretta nel far sparire il cadavere. Si noti bene, letteralmente far sparire non seppellire da qualche parte ma proprio sparire. A rintuzzare i dubbi espressi dagli scettici interviene la stessa famiglia Laden ad assicurare che il cadavere sia proprio quello del famoso terrorista. A questi si aaggiungono anche dettagli non richiesti e quindi assolutamente gratuiti. Gratuiti perché manca la minima documentazione e prova di quanto sia realmente accaduto in quella villa. Perciò gli interrogativi restano e senza risposta esauriente.
Il mio dubbio, probabilmente condiviso da molti. Non riguarda morte del terrorista, perché questa ritengo sia certa, ma piuttosto quando sia avvenuta. In altre parole sospetto che la morte di Bin Laden sia avvenuta anni fa, forse appena dopo l’attacco alle Torri, ammesso che anche questo ci sia realmente stato. Certo sono consapevole di mettere molta carne al fuoco ma con un po’ ragionevole pazienza posso rendere chiaro il mio pensiero.
Mi verrebbe da dire: cominciamo dal principio ma in questa storia di ampio respiro è proprio il principio che non si riesce a ben definire. Nella Bibbia si legge che in principio c’era il caos, nella nostra storia bisogna dire che al principio c’erano gli USA, con la loro manifesta potenza e superiorità mondiale. Purtroppo tale potenza non sempre riesce a concretizzarsi come si vuole e spesso gli intoppi sono tanti e tali che occorre forzare un po’ la mano per raggiungere gli scopi prefissi.
Uno scopo di primaria importanza per gli Usa è sempre stato quello di dominare quella parte del mondo che produre, oggi e forse ancora per un centinaio d’anni, l’unica vera ricchezza mondiale: il petrolio. Per arribìvare a controllare con sicurezza quella parte del mondo non è facile, vi si frappongono ostacoli insormontabili rappresentati da centinaia di milioni di abitanti, decine e decine di governi e una religione che non si piega volentieri ad essere dominata dal pensiero occidentale. Cosa bisogna, quindi fare per aggirare questi ostacoli e accorciare i tempi? Semplice trovare un espediente (e gli USA in questo sono veri maestri insuperabili) che giustifichi un intervento plateale.
L’intervento a cui si pensa dev’essere clamoroso tanto quanto e forse anche di più di quello escogitato a Pearl Harbor, soprattutto ecclatante. L’idea c’è, prende forma e si concretizza. Le Torri gemelle, che proprio in quel periodo stanno attraversando un nebuloso periodo intriso di vari interessi economici. Il piano prevede un finto attacco da sferrare, guarda caso, in una mattina di settembre di un giorno non lavorativo, tanto da ridurre al minimo le conseguenti e calcolate perdite, per la maggior parte personale di bassa manovalanza.
L’operazione viene portata a termine, vi è anche il capro espiatorio: un pericoloso e notorio principe del terrore di nome Bin Laden il quale, per la verità, ha una strana reazione alla notizia che lo coinvolge. Dapprima cade dalle nuvole e poi, quasi ringraziando gli USA per il piacere che gli fanno, si auto appropria della paternità. Veramente anche questa seconda fase avviene quasi con timidezza, come se avesse paura di essere smascherato. Vedete sono io che ho rubato la marmellata, ma intanto nasconde la mano non perché sia sporca ma pulitissima.
Gli USA ottengono in tal modo il lasciapassare politico per operare a piene mani in medio oriente, cade sotto i loro colpi un altro testa di montone, Saddam Hussein, che fino a quel momento sono più le cose sbagliate che ha fatto di quelle giuste. Per carità non era uno stinco di santo ma che si preparasse a una guerra atomica è di la da dimostrare.
Il popolo americano plaude ai nuovi eroi e intanto comincia a contare i morti per stillicidio, una media di una decina al giorno, quando va bene e quando ci viene detto, e i fondamentalisti si trovano a vivere una seconda e fiorente giovinezza. Chi mai avrebbe detto loro che sarebbero assurti alla notorietà mondiale con un capo spirituale come Bin Laden e grazie proprio al loro nemico principale. Roma da matti.
In questo conseziente stallo si è andati avanti per un decennio. Gli USA a insistere nel dare la caccia al fantomatico Bin Laden, sempre più inafferrabile come e meglio di Fantomas, e a nulla servono le dicerie che lo danno spesso e volentieri già morto e seppellito. Saltuariamente compaiono video che lo mostrano, ora ringiovanito, ora invecchiato, ma sempre pronto a dare battaglia e promettere sfracelli. Mai, però, se ci si fa caso, a commentare un evento realmente accaduto in tempi recentissimi alle sue esternazioni.
Ovviamente il conseziente stallo non poteva certamente durare in eterno, prima o poi Bin Laden le cuoia doveva pur tirarle una buona volta, solo che non c’era lcuna fretta, con calma bisognava preparare un evento, soddisfacente per tutti, per farlo uscire di scena. Ma, come si sa, la gatta nella fretta fece i gattini ciechi.
Fino ai giorni nostri la figura di Bin Laden ancora vivo e vegeto faceva comodo a molti, agli americani in primo luogo, ai foindamentalisti che potevano godere di una guida spirituale da mostrare quando faceva comodo e, fin’anche, alla famiglia Laden che in tal modo avrebbe mantenuto una sicura considerazione nell’ambito islamico. In pratica, quel poveraccio di Bin Laden si è trovato ad essere una star per circa un decennio senza sapere neanche come e perché.
Quanto tempo sarebbe durata questa farsa? Non si sa, certamente non in eterno, ovviamente senza che qualcuno o qualcosa venisse a rompere le uova nel paniere. Invece proprio qualcosa si è verificato, un imprevisto che nessuno avrebbe mai preso in considerazione, un imprevisto che prende il nome di 30° parallello. Ovvero la crisi del 30° parallelo.
Come un vulcano che si credeva spento del tutto e improvvisamente erutta cenere e lapilli il mondo arabo, che occupa all’incira tutta la fascia di questo parallelo e che va dal Marocco all’Egitto, allargandosi poi in Siria e di Bhareim, improvvisamente insorge contro i propri governanti, despoti ultradecennali e, guarda caso tutti amici del mondo occidentale. Moubarak, Ben Alì, Assad esoprattutto il variopinto Gheddafi, vengono contestati e assaliti da folle di uomini esasperati, stufi di vivere una quotidianità fatta di stenti.
L’eruzione islamica avviene tanto rapidamente da sconvolgere qualsiasi strategia, che sia occidentale o integralista, sia gli Usa che la famigerata Al Quada ne restano attoniti. Non sanno che pesci pigliare. Per quanto riguarda i primi, lo sconcerto è palese, non sanno come schierarsi e soprattutto con chi, per i secondi, invece, la sorpresa è totale. I fondamentalisti, come si evincerà dalle cronache, sono del tutto assenti e, soprattutto, spicca l’asenza del loro capo indiscusso: Bin Laden, appunto.
Ci si chiede dove sia, perché non interviene? Ovviamente i maligni si sbizarriscono in battute al vetriolo, che abbia esaurito le pellicole per la cinepresa, che sia andato a curarsi i reumatismi in qualche amena località termale, che stia trombando come un pazzo con le sue concubine, tanto per fare un dispetto a qualche occidentale. Comunque è un’assenza che pesa proprio perché tale.
In molti si chiedono poi seriamente dove siano davvero finiti gli integralisti e la domanda costringe la strategia USA a intervenire, cioè ad affrettare quel passo che tanto a lubngo era stato accantonato in attesa del momento giusto. Solo che il momento giusto è arrivato inaspettato cogliendo tutto l’entourage della CIA fuori posizione.
A questo punto occorreva correre ai ripari e cioè far morire una volta per tutte e in modo inconfutabile Bin Laden ma, come già detto all’inizio, la fretta ha fatto compiere una serie di errori uno più incredibile dell’altro e, ironia della sorte, a venire in soccorso è stata proprio la fazione che più ha beneficiato fino ad oggi della finta vita di Bin Lade, la propria famiglia appunto.
Torniamo alla fine alla cronaca. Si compie la cosiddetta azione militare, si afferma l’avvenuto successo, si mostrano delle foto raccapriccianti, si fa sparire il corpo e Alleluhia, il gioco è fatto. Restano percò gli interrogativi della gente che non è tanto disposta a farsi prendere per i fondelli.
Allora, primo interrogativo, perché far sparire il corpo? Semplice perché solo così si può far sparire il dna dell’uomo ucciso e passato per Bin Laden.
Secondo interrogativo, perché sfracellarne il volto? Anche questo ha una sua risposta, si deve cammuffare la vera sembianza del morto e non farla comparare con le immagini storiche ampiamente disponibili.
Rriflessioni: non sarebbe stato più ovvio esibire il cadavere come un trofeo, visto che poi sono state esibite della raccapriccianti fotografie che tanto ricordano i capi briganti del nostro meridione dopo l’unità d’Italia, solo che in quel caso i corpi furono addirittura esposti al pubblico vilipendio?
Ancora, è giustificabilissimo, tanto considerato, che sia i capi del movimento estremista che gli stretti familiari abbiano avvallato la tesi americana. In fondo è grazie a questa tesi che per anni sono riusciti a mantenersi al centro dell’attenzione e della popolarità. Immaginiamo cosa sarebbe successo se fosse benuto alla luce il mega imbroglio di un Bib Laden morto dieci anni fa e fatto credere vivente per tutto questo tempo. Credo che sarebbe crollata, oltre alla credibilità degli integralisti, anche la loro fanatica fede. Hai voglia, oggi, a proclamare disastrosi eventi, simili a quelli sulla fine del mondo, nessuno ormai li prenderebbero sul serio.
Anche le attuali minacce rivolte all’occidente promettenti violenze inaudite somigliano sempre di più ai colpi di coda di Hitler quando rintanato nel suo bunker si faceva coraggio millantando super armi e vaneggiando distruzioni immani, come se non bastavano quelle già compiute.


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Mazzacane - cap. 9

E’ tarda sera, Nino è solo in casa, sprofondato in una poltrona sorseggia del cognac. È in attesa di una visita che tarda a venire quando il silenzio nella stanza è rotto dallo scampanellio della porta d’ingresso. Si alza e va ad aprire, la persona che attendeva è arrivata. È Gibbì. Senza mostrare alcuna sorpresa Nino nota l’abbigliamento trasandato del vecchio bidello, anche l’aspetto lascia a desiderare.
“Tua nipote ti ha rintracciato”
“Non sapevo che mi cercasse, sarei venuto ugualmente domani ma passando ho visto la luce accesa”
“Entra e siediti”
“Grazie. So che sei stato in ospedale..come sta lei?” Nino lo ferma con un gesto dicendogli..
“Non è di questo che dobbiamo parlare”
“Lo so, dobbiamo parlare di tante cose”
“Voglio delle risposte sincere..su tutto”
“Saprai la verità..su tutto, ma prima dimmi come sta lei”
“E’ più grave delle altre volte. In tanti anni non ho mai immaginato che ti stesse così a cuore”
“Non avevi alcun motivo di chiedermelo”
“Raccontami tutto”
“Sarà una lunga spiegazione”
“Ho tutto il tempo che voglio. Comincia dal principio”
“Sai com’era questa strada trent’anni fa? E questo rione? Già, tu non eri ancora nato, non puoi ricordare ciò che non hai nemmeno visto”
“So che è cambiato molto”
“Puoi ben dirlo. Questa casa esisteva solo come piano terra e faceva da stalla e abitazione di tuo nonno. Qui davanti non c’era una strada così larga ma solo uno stretto vicolo tortuoso e laggiù, in fondo all’angolo, dove oggi c’è quella officina c’era la casa dove sono nato io”
“Perché mi racconti di questo, ha qualcosa a che vedere con me?”
“Perché è da qui che tutto è iniziato, più di mezzo secolo fa”
Nino lo guarda perplesso ma non lo interrompe così Gibbì può continuare.
“Filomena è più grande di me di otto anni. Le nostre famiglie si conoscevano a fondo, non erano imparentate ma si trattavano più che familarmente. I nostri genitori avevano ben poco tempo da dedicarci impegnati com’erano a procurarsi un pezzo di pane per mantenerci. Filomena era figlia unica, una rarità per quei tempi. Allora lo ero anch’io, ma per poco perché dopo ne sarebbero arrivati altri sei. E così a prendersi cura di me il giorno era lei, la ragazzina maggiore. Fu prima madre, poi sorella maggiore poi amica per la pelle, sai fu lei a farmi conoscere Lucia, mia moglie, ma questa è un’altra storia, non c’entra nulla con noi”
Gibbì si ferma, come a riordinare i pensieri, poi ricomincia..
“Qualche anno più tardi, quando aveva sedici anni, vide un giovanotto, un damerino ben vestito, di buona famiglia, un tipo cordiale e sicuro di sé. Se ne innamorò di colpo e anche lui perse la testa per lei. Filomena era bellissima, la più bella del paese”
“Chi era lui?”
“Proprio quello che immagini, era Mazzacane! Non era un cattivo ragazzo, al contrario sapeva farsi voler bene ma aveva un solo difetto, la sua famiglia. Gente ricca, di origine nobile, con la puzza sotto il naso. All’inizio la loro relazione fu di sguardi, ammiccamenti e sospiri, le solite cose insomma, comuni per tutti i ragazzi di quell’età, e non destava apprensione per alcuno. Poi, però, le cose si complicarono. Più gli anni passavano più il loro amore si fortificava. Nino, si chiamava come te, andava a studiare dai salesiani a Napoli ma quando tornava in paese non aveva occhi e pensiero che per Filomena e lei, per lunghi mesi, sospirava pensando a lui. Poi egli terminò gli studi e ritornò definitivamente in paese, divenne maestro di scuola e si mise in politica”
“Così smisero di vedersi?”
“Magari l’avessero fatto! Oggi non saremmo qui a parlarne. Purtroppo contro il cuore non si può nulla. Continuarono a vedersi e a incontrarsi, di nascosto ma lo facevano finché un giorno quell’ingenuo ragazzone ebbe l’infelice idea di comunicare al padre le sue intenzioni. Apriti cielo! Si prese una lavata di capo da non finire. E pensare che lui, il nuovo sindaco del paese costretto a chinare la testa davanti al padre, roba da ridere!”
“Come andò a finire?”
“Calma, ragazzo, calma. A quell’epoca non era ancora il Mazzacane che tutti hanno conosciuto, la sua cattiveria è maturata dopo. Il nomignolo, però, se l’era già guadagnato sul campo, per così dire, un anno prima quando una notte, per correre da Filomena, nel tentatuivo di svignarsela da una finestra del suo palazzo si ritrovò quattro metri sotto con un ginocchio fracassato. Quel ginocchio non è mai guarito del tutto e per camminare ha sempre avuto bisogno di un bastone. Ma torniamo alla nostra storia. Dopo la sfuriata del padre, che lo minacciò di diseredarlo, Mazzacane si costrinse a lasciare Filomena. Non puoi immaginare la tragedia che ne fece lei, pianti e disperazione! Gli chiese un ultimo incontro, forse sperava di convincerlo a ripensarci, chi lo sa! E s’incontrarono, giusto il tempo per combinare un bel guaio. Lui, però, fu irremovibile e lei, per non rovinarlo, gli nascose di essere incinta”
“Così, dunque..?”
“Sì, è così. Ma ora ascolta il resto. Lei voleva abortire ma come una stupida si era confessata con don Mario, a cui però non ha mai voluto dire chi fosse il padre. Quello la convinse a non commettere un assassinio, così aveva detto quell’altro bigotto! Lei, però, aveva bisogno di un marito per non rovinarsi la reputazione. Mazzacane era all’oscuro di tutto, non immaginava minimamente di essere il padre ed io mi ritrovai con la responsabilità di risolvere, benchè fossi ancora uno sbarbatello, quella delicata faccenda”
“Così pensasti di coinvolgere Capuana”
“Un altro balordo senza né arte né parte, capitato qui grazie a Volpicella. Eseguito il compito affidatogli doveva sparire in fretta dalla circolazione per buona pace di tutti. Ma con tutta la buona volontà dei “signori” le cose non riuscivano proprio a filare come l’olio. Quel poco di buono non lo voleva nessuno tra i piedi, bisognava perciò creargli una situazione accettabile all’estero e, per questo, ci voleva una moglie”
“Fu un’idea tua o ti venne suggerita?”
“Fu farina del mio sacco. Lo avevo conosciuto alcune settimane prima, quando giunse in paese per agitare le acque. Gli raccontai che Filomena era presa di mira da Volpicella in persona ma che lei non voleva piegarsi e, pertanto sola e indifesa, maturava l’idea di andarsene dal paese. Gli feci credere che per lui sarebbe stato un vero colpo fregargliela sotto il naso poiché quello non poteva certo recriminare. Lo scemo abboccò e in un paio di giorni fu tutto fatto”
“E Mazzacane come la prese?”
“Ci rimase di sale. Non riusciva a immaginare come la sua Filomena lo avesse dimenticato così presto. Ancor di più quando alcuni mesi dopo apparve chiaro che Filomena era incinta. Ma nessuno, dico nessuno, di quelle grandi cime si accorse che la sua pancia era troppo grossa per essere incinta di così pochi mesi. Mazzacane si sentiva irriso e lei non trovava il coraggio di parlargli. Erano l’uno più orgoglioso dell’altra. In più Mazzacane non le nascondeva il proprio risentimento, che cammuffava in ribrezzo. Quel poveraccio non ha mai smesso di amarla”
“E’ incredibile!” esclama Nino scuotendo la testa.
“Un giorno trovandosela davanti le rivolse un commento poco edificante e lei se ne tornò a casa con il magone, tanto da mettersi a piangere disperata ma anche decisa a vendicarsi”
“E qui iniziano le reciproche vendette”
“Già. Lei si mise in testa di far tornare Capuana in paese, diceva che ci avrebbe pensato lui a mettere a posto, una volta per tutte, quell’ingrato e così, pur contro la mia volontà, si mise alle costole di don Mario affinchè si adoperasse con Volpicella prima e Mazzacane dopo”
“Quindi in quello che successe dopo tu non c’entri?”
“Beh, per la verità sì. Ti spiego. Bisogna pensare come un politico a volte, per metterla in quel posto a quelli come loro. Sapevo che a Mazzacane non sarebbe dispiaciuto vedere il barone in difficoltà, benchè fossero amici, e così gli suggerii di dare ascolto a don Mario”
“E Mazzacane dava retta a te?”
“Dimentichi che per anni gli avevo coperto il culo”
“Facesti leva solo su di lui?”
“Anche su don Mario. A lui dissi più o meno la verità, che il barone, con i contatti precedenti avuti con Capuana non poteva esporsi più di tanto perciò doveva far leva su Mazzacane”
“Ma le cose non andarono per il verso giusto!
“Proprio per niente! Non avevo calcolato che lui avesse ancora l’animo colmo di risentimento e quanto ancora cercasse la sua vendetta ma non avrei mai immaginato quale condizione ponesse. Una cosa dell’altro mondo! Farla servire nuda e con quel pancione alla Scannatoia e davanti a tutti per giunta! Inoltre era riuscito a farsi anche i conti giusti circa la gravidanza di Filomena e credeva fosse opera del prete, chissà perché poi! A quel tempo non ci si scandalizzava per nulla figurarsi di una cosa del genere”
“Ma non bastò per placare il risentimento!”
“No, non bastò. Quando le chiese come le avrebbe chiamato il nascituro alla risposta di lei di dargli il suo nome, non capì e credette che lo stesse prendendo ancora in giro e, quindi, cercò di vendicarsi maggiormente scrivendo una lettera a Capuana e, immaginando di farla più grossa, accusò me di essere il padre. Non so come la prese Capuana in Svizzera ma morì poche settimane dopo in un incidente di cantiere”
“Quella lettera fu per molti versi una manna dal cielo”
“Forse l’unica cosa buona che ha fatto don Mario in vita sua, intendo di darmi retta ad accusare Mazzacane”
“Perché, non aveva forse riconosciuto la calligrafia?”
“Ma quando mai! Fui io a insinuarlo e lui abboccò in pieno. Ma ci colsi nel segno”
“Accidenti, sapevo che eri un figlio di buona donna ma non fino a questo punto!”
“Quando si vive nella miseria non si ha riguardo per niente e per nessuno, credimi”
“E Mazzacane quando ha saputo la verità?”
“Due anni fa circa, poco prima che l’operassero la prima volta”
“Sei stato tu a rivelargliela?”
“Nooo! Io ero contrario, è stata lei a volerlo. Maledizione Nino, quei due si sono amati alla disperazione per tutta la vita, ne hanno cominato di cotte e di crude ma non hanno mai smesso di amarsi. Lei non riusciva ad accettare l’idea che lui potesse morire senza sapere di avere un figlio”
“Fu quando ebbe la prima crisi cardiaca?”
“Sì, temeva per lui e invece ci stava per rimettere le penne lei. Nino, non so cosa pensi ma rispetta i suoi sentimenti. Non ha mai amato nessun altro uomo oltre Mazzacane e anche quel testone le è stato a modo suo fedele per sempre. Ed era tuo padre!”
“Non so Gibbì, non so cosa pensare, ora a caldo poi.., vorrei chiudere gli occhi e svegliarmi come se non fosse mai successo niente”
“Ti comprendo”
“Mi chiedo perché tutta questa messinscena del libro, non poteva dirmelo direttamente?”
“Prova a metterti al suo posto e pensa all’imbarazzo che ha provato. Hanno fatto di tutto per farti conoscere la verità, finanche i quadernetti”
“Non dirmi che sono opera tua anche quelli!”
“Eh no! Adesso non accollarmi tutte le malefatte. A questo ci ha pensato donna Rosaria..a proposito zi Rocco ti cercava, doveva consegnarti una busta, ma sono riuscito a dispensarlo, eccola qui”
“Cosa contiene, altri soldi per caso?”
“E che ne so, mi hai preso per un veggente?”
“Mi stupirei se tu veramente non lo sapessi”
“Ci sono le ultime volontà di Mazzacane al tuo rihuardo. Oh, per carità, non sei obbligato ad accettarle ma..”
“Di che si tratta di preciso?”
“E aprila no?”
“Ecco..mi tremano le mani..”
“Ragazzo mio che fai, ritorni indietro nel tempo ora? Va bene, contiene la dichiarazione con la quale si accolla la tua paternità. È disposto a darti il cognome che ti spetta e..tutto il resto. Però, prima di prendere una qualsiasi decisione parlane con tua madre, fa che sia lei a consigliarti. Non agire d’impulso, comunque deciderai. Me lo prometti?”
“Per ora mi preme solo di Stefania. Intendo sposarla al più presto. Semmai decideremo insieme”
“Perbacco, saggia decisione! È degna di te. Posso andare ora?”
“Sì, puoi andartene al diavolo, vecchio imbroglione!
“Senza rancore?”
“Senza rancore anzi..ti dirò che c’è stato un momento in cui ho creduto che fossi davvero tu mio padre. Beh, in confidenza, non mi sarebbe dispiaciuto affatto”
“Questo mi lusinga, soprattutto per il fatto che io non ho avuto figli, ma allora sappi che anche Mazzacane ne era degno. Se all’inizio le cose si fossero messe diversamente sono sicuro che lui sarebbe stato un ottimo padre, così com’è stato per sempre un fedele innammorato”
“Stento a credere che tu lo pensi davvero”
“L’unico lato negativo di Mazzacane era quello di essere un uomo di potere, ma sappi, Nino, che non c’è potere che tenga contro l’amore. Non scordarlo mai, figliuolo!”
“Credo che tu abbia ragione, una volta tanto ti darò retta”
“Va bene, ora ti lascio, ci vediamo al solito posto, quando vuoi, prenditela comoda, intesi?”
“A domani, vecchia canaglia!”
FINE

*

Mazzacane - cap. 8

Benchè abbia novantadue anni e sia immobilizzato su una sedia a rotelle don Mario conserva una invidiabile lucidità. I riflessi mentali e la voce ferma sembrano farlo ringiovanire. In una saletta dell’ospizio Nino si trova al cospetto del vecchio parroco.
“E così tu sei Nino, il figlio di Filomena! Come sta quella santa donna?”
“Così così don Mario. Che volete..gli acciacchi della v..”
“Eheheheh della vecchiaia? A chi lo dici figliuolo!”
“Più che altro è il cuore a procurarle dei problemi”
“E’ stato sempre il cuore a dannarla. Questo doveva essere il suo destino”
“Ultimamente è peggiorata. Non mi stupirei se avesse un’altra crisi. L’ultima volta, un paio di anni fa, se l’è vista brutta”
“Un paio di anni fa, dici? Quando di preciso? Ricordo giusto due anni fa sono stato in paese, è stato quando operarono la prima volta Mazzacane”
“A proposito di Mazzacane. L’altro giorno ho parlato con il maresciallo Molisano e mi ha raccontato delle cose che che non sapevo circa ..mio padre”
“Quando parli di tuo padre ti riferisci a Capuana?”
“E a chi altri sennò?”
“Damiano Capuana non è tuo padre”
“Ormai l’ho capito anch’io. Ma chi è mio padre allora?”
“Non lo so. Non l’ho mai saputo e Filomena non ha mai voluto dirmelo, nemmeno in confessione. Che donna.. e che testa quella Filomena!”
“Ho saputo della faccenda della Scannatora ma vi sono molti punti oscuri. È per questo che sono qui. Voi cosa potete dirmi?”
“Posso dirti molto, tutto su come andarono le cose ma non chi sia tuo padre”
“Non importa, ditemi quello che sapete”
“Capuana fu ingaggiato da Volpicella con il preciso compito di far sollevare i braccianti, gli stessi a cui aveva dato le terre anticipando la Riforma fondiaria. Quelle terre sarebbero state comunque espropriate e così lui lo impedì”
“In che modo? Non capisco”
“Per evitare l’esproprio lui le assegnò ai braccianti ma c’era un vincolo che se questi avessero creato disordini i contratti sarebbero stati annullati”
“E questo ci guadagnava?”
“Non lo so di preciso. So solo che aveva escogitato un piano che poi mise in atto. Doveva quindi disfarsi dei braccianti e per questo assoldò Capuana, un professionista”
“Dove l’aveva conosciuto?”
“Non credo lo conoscesse già. Credo invece sia stato Molisano a suggerirglielo”
“Propabilmente Molisano ne aveva sentito parlare per via dei disordini di due anni prima”
“Molisano lo conosceva da prima. Aveva prestato servizio anni prima proprio nel paese di Capuana, all’epoca era ancora vicebrigadiere”
“Questo me l’ha taciuto”
“Sono molte le cose che Molisano non ti ha detto. Immagino non ti ha detto nulla della lettera”
“Quale lettera? Per la verità negli appunti di Mazzacane ho trovato un riferimento circa una lettera che Capuana doveva ricevere, ma non so altro in proposito”
“Quando Capuana venne fermato, dopo i disordini, Volpicella si dette da fare per allontanarlo dal paese. Non poteva permettersi di far restare nei paraggi un testimone pericoloso. Ma quantunque vi fosse la buona volontà di tutti vi erano degli impedimenti per l’espatrio. Uno con quella reputazione non era un ospite molto gradito, ovunque andasse”
“Così gli proposero il matrimonio”
“Era una soluzione”
“Quindi Volpicella sapeva di mia madre?”
“No, non sapeva nulla e non fu lui a proporlo a Capuana. Per la verità Volpicella fingeva addirittura di non conoscerlo affatto”
“E chi allora? Mazzacane?”
“Nemmeno! Fu Giuseppe Battistino, quello che tutti chiamano Gibbì”
“Gibbì? Lui? Proprio lui?”
“Sì, quella specie di faina! Ma non gli rivelò che Filomena aspettava un bambino. S’inventò una storia di persecuzione e lo fece così bene che Capuana abboccò come un pesce”
“Forse confidò nel fatto che Capuana, dovendosi allontanare in fretta e furia non lo avrebbe mai scoperto”
“Esattamente quello che avvenne. La faccenda si mise male quando Filomena mi confessò che voleva abortire. Era contro i principi religiosi e riuscii a farla desistere da quel proposito”
“Quindi scrisse la lettera per..”
“No! Non scrisse nessuna lettera. Era analfabeta, in seguito io stesso le ho insegnato a scrivere a malapena il suo nome”
“Oddio che confusione! Non ci capisco niente”
“Eppure è semplice. Filomena, o meglio Gibbì, sapeva che Voklpicella non gradiva il ritorno in paese di Capuana e sapeva anche che Capuana non faceva nulla per denaro quindi se avesse procurato una sistemazione sicura per il marito questi avrebbe accettato di tornare”
“E cosa ci guadagnava?”
“Contava che Capuana era privo di scrupoli e che stando in paese avrebbe ricattato Volpicella e gli altri”
“Stento a credere che mia madre..”
“Oh, non era lei la mente, lasciava fare tutto a Gibbì. Era lui che aveva ideato tutto”
“Ma perché? Perché il ricatto?”
“Più che un ricatto era una vendetta. Forse tra loro si nascondeva colui che aveva abusato di lei”
“Ma vi siete prestato anche voi!”
“No, io ero all’oscuro di tutto. Tutto questo l’ho appurato in seguito, al momento credetti davvero che lo scopo fosse quello di farti crescere con un padre”
“Così vi adoperaste con Mazzacane”
“Già, e qui ebbi la prima sorpresa. Ero sicuro che si sarebbe opposto e invece mi ritrovai con una strana condizione”
“Quella di farla servire nuda alla Scannatora”
“Fu una richiesta che mi sconcertò, alla quale non ero affatto preparato. E mi sconcertò ancor più la reazione di Filomena. È vero che inizialmente non voleva saperne ma quando poi accettò lo fece con un atteggiamento passivo che mal si conciliava con le sue reali intenzioni. Possibile che pur di ottenere una vendetta si facesse umiliare in quel modo? Ma fu ciò che avvenne”
“Perché foste costretto ad assistervi?”
“Fu una penitenza a cui mi costrinse Mazzacane. Credeva fossi l’amante di tua madre”
“E la lettera? Parlatemi della lettera”
“Dopo quella sera ritenni fosse tutto finito e lo credetti ancor più alla notizia della morte di Capuana in un cantiere in Svizzera. Ma passò una settimana che Filomena venne da me con una busta indirizzata al marito dicendomi che l’avevano spedita dalla Svizzera insieme alle poche cose del defunto”
“Chi l’aveva scritta?”
“Mazzacane”
“Mazzacane?”
“Sì, proprio lui”
“Gli rivelava la scena alla Scannatora?”
“No, di questo non faceva alcuna menzione”
“E cosa conteneva allora?”
“Mazzacane faceva sapere a Capuana di essere stato preso in giro dalla moglie che aspettava un figlio da Gibbì”
“Quindi è lui mio padre?”
“Ma no! Era tutto falso. Probabilmente Mazzacane non aveva alcun appiglio a cui aggrapparsi. Lui voleva solo screditare Filomena agli occhi del marito e allontanare Capuana da Volpicella. Solo che quella lettera si ritorse contro di lui”
“In che modo?”
“Che Iddio mi perdoni ma avevo anch’io un conto in sospeso con Mazzacane. Non gli avevo mai perdonato la mia umiliazione alla Scannatora”
“Cosa faceste?”
“Come credi che Gibbì abbia avuto il posto da bidello alla biblioteca? E, soprattutto, come pensi abbia fatto tua madre a ricevere un sussidio privato oltre ai tanti lavoretti che le venivano commissionati?”
“Come?”
“Ricattando Mazzacane, e gli altri tramite lui”
“Non capisco..Mazzacane poteva sempre negare tutto”
“Ma non quando si ha avuto la leggerezza di scrivere la lettera a mano. Mazzacane non pensò di scriverla a macchina, forse per troppa presunzione, perciò la scrisse di suo pugno. Riconobbi la sua calligrafia e glie la sventolai sotto il naso. Non disse mezza parola, accettò e basta”
“Voi escludete che Gibbì possa essere mio padre?”
“Sì, lo escludo, a meno che non mi abbia mentito”
“Glie lo avete chiesto in confessionale?”
“No, ma glie l’ho chiesto da uomo a uomo e ha negato”
“Quindi, escludendo anche Gibbì, chi diavolo è?”
“Non lo so davvero e non penso nemmeno sia uno di loro”
“Uno di loro chi?”
“Quelli della cricca di Mazzacane”
“Quali prove avete per escluderli?”
“Mazzacane non ha mai avuto interesse di questo genere e Volpicella non è certamente il tipo che si faccia scrupoli a tenerlo nascosto, piuttosto la avrebbe sbandierato ai quattro venti”
“Allora perdio chi?”
“Non è bestemmiando, ragazzo mio, che avrai delle risposte. Devi portare pazienza. Anche se non capisco il tuo accanimento, dopo tanti anni..”
“Devo sapere di chi sono figlio. Non posso chiederlo a mia madre, per due ragioni. La prima che non deve sapere che so tutto e la seconda ne morirebbe di vergogna”
“Devi lasciarla fuori da tutto questo, ha già sofferto abbastanza. Piuttosto, dimmi se intendi ora scrivere il libro di cui mi hai parlato”
“Non credo che lo farò. Al mio ritorno rispedisco al mittente l’assegno con tutte le carte”
“Aspetta a farlo, non si sa mai”
“Cosa dovrei aspettare?”
“Se lo fai ora, ammetterai di aver scoperto tutto il passato che ti riguarda. Perché dar loro tanta soddisfazione?”
“Cosa dovrei fare allora?”
“Se non lo vuoi scrivere sei padrone di farlo, ma prendi tempo, fa che sia donna Rosaria a chiedertelo. Allora dirai che non ti senti all’altezza e le restituirai ciò che ti ha dato”
“Non capisco perché dovrei fingere di aver fallito”
“Perché potrebbe essere una loro vendetta. Credi non sapessero? Credi che quei quadernetti strappati siano stati messi lì per caso? Chi ce li ha messi sapeva che li avresti letti e contava sul fatto che avrebbero attirato la tua attenzione. Qualcuno voleva che tu scoprissi il tuo passato”
“Gesù! Credete che si possa cadere così in basso?”
“Ragazzo mio, ci sono tanti modi per vendicarsi!”
“Ma..”
“E alcune vendette sono molto sottili. Ascoltami, fingi di non aver scoperto nulla e non darai alcuna soddisfazione a chi ti vuole male”
“E se vi sbagliaste?”
“Se mi sbaglio avrai tutto il tempo per avvedertene”

Nel chiuso della cabina telefonica, vincendo la repulsione per l’untuosa cornetta, Nino attende impaziente che Stefania gli risponda al telefono. Attesa e improvvisa gli giunge la sua voce.
“Pronto..pronto..”
“Stefania! Sono io, non eri in casa?”
“Stavo rincasando quando ho sentito squillare il telefono. Ho fatto una corsa..”
“Stai bene, comunque?”
“Io sì, ma tu quando ritorni?”
“Domani. Potrei partire anche adesso ma..non me la sento. Sono stanco”
“Perché, è successo qualcosa?”
“No, è solo che ho una gran confusione in testa. Ma te ne parlerò domani. A casa tutto bene?”
“Nino..sì, ma faresti meglio a non stare troppo lontano, sai, ho visto tua madre oggi e..Nino, non mi piace come sta”
“Sta male? Ha avuto una crisi? Hai chiamato il dottore?”
“No, glie l’ho pure consigliato ma mi ha risposto che non era necessario”
“Fa sempre così..”
“comunque ho notato che è tutto un affanno e si muove appena”
“Allora parto adesso. Tu, per favore, tienila d’cchio, ma con discrezione. Altre novità?”
“Sì, Gibbì si è messo in permesso da ieri, si è preso una settimana e se non è una novità questa..”
“Ah sì? Sta male anche lui?”
“Non lo so, ma credo sia davvero partito, a casa non c’è. Com’è andata la tua ricerca?”
“Ho saputo molte cose, tranne la più importante”
“E sarebbe?”
“Te ne parlerò appena ritorno. Ma ci sono ancora troppe domande senza risposte e tanti particolari da mettere a fuoco. Avrò bisogno della tua logica”
“Uhm, grazie per il complimento, ma adesso mi farai stare sulle spine. Muoio dalla curiosità”
“Senti, una cosa puoi già farla, cerca di sapere dove si è cacciato Gibbì. Ho bisogno di parlargli al più presto. È essenziale”
“Come vuoi. Se lo trovo cosa devo dirgli?”
“Che deve assolutamente mettersi in contatto con me”
“Solo questo, nient’altro?”
“Nient’altro, senti amore devo lasciarti, sto per finire i gett…”

La sera stessa Nino fa ritorno in paese, ad attenderlo, nei pressi di casa sua, c’è Stefania che lo mette al corrente circa la salute della madre.
“Mezz’ora dopo la tua telefonata ha avuto una crisi. Per fortuna ha avuto la prontezza di chiamare in aiuto quelli del vicinato. Sono stati loro che hanno avvisato me”
“Hai chiamato tu il dottore?”
“Sì ma non l’ho trovato. Allora mi sono rivolta al Pronto Soccorso. In pochi minuti sono venuti a prenderla”
“Ora come sta? Di solito queste crisi regrediscono in poche ore”
“In ospedale hanno detto che questa volta la crisi è stata peggiore. L’hanno messa nel reparto Medicina. Il primario ha detto che ha bisogno di assoluto riposo. Nino non devi assillarla”
“Non ho alcuna intenzione di farlo, vado solo a vedere come sta. Se non mi vede sta peggio”
“E’ così! Quella poveretta non ha fatto altro che sussurrare il tuo nome. Quanta pena mi ha fatto!”
“Faccio un salto da lei”
“Dopo vieni a casa mia?”
“No amore, preferisco tornare a casa. Dì, sei poi riuscita a rintracciare Gibbì?”
“Lui personalmente no ma ho parlato con la nipote. Mi ha detto che ci pensava lei a farlo. Ma è così importante che ci parli?”
“Sì, per me sì”
“Muoio dalla voglia di sapere”
“Dopo. Dopo ti racconto tutto. È una storia molto lunga e vi sono ancora molti dettagli da definire”
“E Gibbì dovrà chiarirteli?”
“Sì, solo lui può farlo. Ciao, ti amo!”
“Ti amo anch’io. Nino, non farmi stare in pensiero”
“No. Ah senti, voglio sposarti al più presto. Se tu sei d’accordo ovviamente!”
“Davvero? Credevo non me lo avresti mai chiesto! Ho il corredo pronto da un pezzo”
“Bene, rispolveralo!”
“Ah Nino, dimenticavo la cosa più importante”
“Cioe?”
“In questi giorni che sei stato via ti ha cercato più d’uno”
“Chi ad esempio?”
“Alfredo Volpicella, per conto del padre. È venuto più d’una volta. Una volta pure don Cosimo il farmacista e, ieri sera anche Zi Rocco che ha detto di avere un biglietto di donna Rosaria”
“Ce l’hai qui?”
“No, non ha voluto lasciarmelo. Ha detto che doveva consegnartelo di persona. Nino, ma che succede? Cosa vogliono da te tutti all’improvviso?”
“Non preoccuparti. Non è niente d’importante. Credo di sapere perché si agitano tanto”
“Perché?”
“E’ solo il passato che torna a galla, nulla di più”

*

Mazzacane - cap. 7

In pochi giorni Nino è riuscito a rintracciare il maresciallo Molisano, uno scapolo di settantasei anni che vive in un monolocale a Salerno, sua città d’origine. Dopo averlo contattato telefonicamente presentandosi come Antonio Rubino, il cognome della madre, lo raggiunge di persona. Bussa alla sua abitazione e ad aprirgli è un uomo alto e asciutto, dai capelli bianchi e dal portamento ancora militare.
“Buongiorno! Il..maresciallo Molisano?”
“Sì, sono io. Maresciallo maggiore in pensione. Lei chi sarebbe?”
“Rubino, Antonio Rubino, ci siamo sentiti per telefono”
“Sì, ricordo, ma non mi ha chiarito perché”
“Vorrei parlare con lei di alcune vicende risalenti al suo servizio presso Monpepiano, intorno agli anni sessanta, per la precisione”
“Perché?”
“Sto scrivendo una biografia su don Antonio Rinaldi. Sono stato incaricato da egli stesso, prima che morisse”
“Ah! È morto, non lo sapevo, quando?”
“Un paio di mesi fa circa”
“Venga, si accomodi”
“Grazie”
“Dunque, Rinaldi le ha dato questo incarico?”
“Sì, circa un mese prima che morisse”
“Ho prestato servizio a Montepiano dal 57 al 65. Oggi siamo nel 90. Se non erro lei mi chiede di ricordare dei fatti risalenti a una trentina di anni fa. Ma, di preciso, cosa le interessa sapere? Ammesso che io ricordi”
“Sono sicuro che ricorderà”
“Come ha detto di chiamarsi, giovanotto?”
“Rubino. Antonio Rubino”
“E’ un cognome molto diffuso nel suo paese, quindi è inutile che le chieda della sua famiglia. Allora, su cosa desidera essere ragguagliato?”
“Su quanto avveniva alla Scannatora”
Dopo una lunga pausa, impiegata a soppesare Nino, Molisano parlando con lentezza, risponde..
“Cosa vorrebbe che le dicessi della Scannatora?”
“Quello che sa, che le risulta. A cui è stato testimone e, a volte, partecipe”
“Sono stato spesso ospite alla Scannatora. Comunque sempre in veste assolutamete privata”
“Benchè questo mi riesca difficile comprenderlo non metto in dubbio che la sua presenza fosse privata”
“Signor..Rubino, le rivolgo di nuovo l’invito su cosa, in particolare, desidera sapere da me”
“Signor Molisano, credo sia meglio parlare a carte scoperte, almeno eviteremo fastidiosi equivoci e inutili scontrosità”
“Sarebbe sicuramente meglio”
“Allora le dico subito che non ho avuto alcun modo di parlare con Mazzacane di certe vicende. Primo perché non c’è stato il tempo necessario e, secondo, per le sue condizioni di salute. Deve sapere che..”
“Sono al corrente della malattia di Rinaldi e..immagino come fosse ridotto alla fine..”
“Bene, questo facilita le cose. Mazzacane mi mise a disposizione una montagna di documenti da spulciare e, in più di un caso, da decifrare. Non avevo ancora terminato quando è morto”
“Continui..”
In quelle carte Mazzacane scrive di alcuni episodi avvenuti alla Scannatora e parla anche di lei, pur indicandola con la sola iniziale del grado”
“Mi sembra un po’ poco per arrivare alla mia persona”
“Ma vi sono dei quadernetti in cui è fin troppo esplicito, come ad esempio di un certo attacchino assunto a forza al Comune. Ma lei, di questo, ricorda certamente bene”
“Mettiamo le carte in tavola signor Rubino, a lei non interessa affatto l’attacchino, perciò..?”
“Signor Molisano, lei era già a conoscenza del mio incarico, non è vero? Altrimenti mi avrebbe già sbattuto fuori di casa. Allora collabori con me. Non ho alcuna intenzione di scrivere un romanzo scandalistico anzi, è proprio per evitare questo che intendo chiarire alcuni fatti. Non vorrei urtare i sentimenti di nessuno”
“Sono d’accordo con lei, mi dica..”
“No, facciamo così, mi parli lei della Scannatora, io semmai le chiederò di essere più preciso”
“Intende citarmi come fonte delle sue informazioni?”
“Assolutamente no, non intendo fare alcun nome”
“Benissimo! Allora cominciamo dal principio. Arrivai a Montepiano il quattro gennaio del cinquantasette. Lo ricordo bene perché proprio in quel giorno un mio collega di corso cadde in uno scontro a fuoco con dei banditi in Sicilia. Lo avevo lasciato due giorni prima dopo una serata trascorsa in allegria. All’epoca prestavamo entrambi servizio a Trapani e quella sera festeggiavamo la mia promozione e il mio trasferimento a Montepiano.
Al mio arrivo, benchè abbattuto per la notizia fui sorpreso e anche lieto di rivedere un mio vecchio compagno di collegio, Antonio Rinaldi per l’appunto. Non eravamo coetanei ma frequentavamo lo stesso collegio salesiano. Sapevo che era originario della provincia di Matera ma non ricordavo il paese. Fu per me giocoforza riallacciare una vecchia amicizia”
“Mi scui, ma questo come poteva giustificare una così assidua frequentazione della Scannatora?”
“Beh, questo merita una spiegazione a parte. Comunque al principio vi fu una..frequentazione meno, come dire, impegnativa. Ci vedevamo spesso la sera e prendevamo volentieri una consumazione al bar. Non dimentichi che Rinaldi era pur sempre il sindaco di Montepiano ed avevamo per questo dei contatti ufficiali. Un altro particolare non trascurabile era il ceto a cui Rinaldi apparteneva, una famiglia benestante e di lontana origine nobile
“E questo ha inciso sui vostri rapporti?”
“Indubbiamente, era fondamentale”
“Quindi anche il rapporto con don Cosimo e don Ferdinando era conseguenziale?”
“In un certo senso sì. Sebbene non vi fosse con loro un precedente legame, quando meno cameratesco. Vede signor Rubino, a quell’epoca, la vita in un paese era regolamentata diversamente da oggi. Il potere, soprattutto quello amministrativo, era gestito da poche persone e, quantunque in modo molto privato, con una certa autorevolezza. Non che vi fosse una vera e propria dittatura locale ma l’ordine era un fattore molto importante”
“Un momento, mi faccia capire bene. Lei asserisce che l’Arma si metteva a disposizione di pochi potenti per controllare tutto un paese?”
“Ma no, ovviamente! Cosa ha capito? L’Arma è sempre stata al servizio dello Stato, solo che lo Stato, nei piccoli centri, era rappresentato essenzialmente da poche persone”
“O famiglie”
“O famiglie, se questo serve a renderle più chiaro il concetto”
“Una discriminazione bella e buona”
“Lei crede che oggi sia diverso? Sono solo cambiati i soggetti ma il concetto è sempre lo stesso. A quei tempi vi era una diffusa ignoranza, il popolino era composto quasi eslusivamente da analfabeti e il livello economico sfiorava la miseria. Alcuni cominciavano ad arricchirsi con il commercio e l’artigianato ma la vera economia era ancora rappresentata dal latifondo, saldamente in mano a poche famiglie, che poi erano le stesse che si avvicendavano nella gestione amministrativa del Comune. Intorno a queste gravitava una fascia intermedia di piccoli burocrati, funzionari, maestri di scuola, impiegati vari, ma erano solo un gradino più su della plebe. A qualcuno di loro il popolino affibiava anche il titolo, ironico, di don ma i veri don erano pochi e ben altri”
“Tutto questo quanto ha influito sulle vicende della Scannatora?”
“Ma quanta fretta signor Rubino! Dopo aver fatta tanta strada per conoscere il passato ora non ha alcuna pazienza di ascoltare? È chiaro che il nostro compito fosse quello di mantenere l’ordine pubblico ma è anche chiaro che a minarlo lo potevano solo i subbugli del popolo. Già nel capoluogo, pochi mesi prima del mio arrivo in paese, vi erano state agitazioni di massa sedate con difficoltà ma, per fortuna, in paese vi erano giunti solo echi lontani e deboli. La gente era tranquilla e i braccianti, che a Matera si erano rivoltati, su in paese trovavano sempre lavoro”
“E’ straordinario come lei trasforma in rivolta dei semplici scioperi!”
“Quando le agitazioni non sono controllate da organismi legali per me sono e restano delle rivolte”
“In paese i braccianti erano controllati da don Ferdinando?”
“Il barone Volpicella era il maggior latifondista e nelle sue terre trovavano lavoro centinaia di persone. Ma non era un oppressore, al contrario, era un magnanimo. Inoltre aveva un riguardo particolare per l’Arma. In pratica la mensa era assicurata dai suoi prodotti”
“E don Cosimo curava le indigestioni?”
“Signor Rubino, lei mette a dura prova la mia volontà nel venirle incontro. Se sono gentile con lei è in riguardo alla memoria di don Antonio Rinaldi”
“Che Dio l’abbia in gloria”
“La prego, Rubino, faccia uno sforzo d’immaginazione e provi, mentalmente, a fare un salto nel passato. Io cercherò di agevolarle il compito descrivendole i tempi, il resto, se non le dispiace, lo analizzi tra sé dopo”
“Mi scui, continui pure..”
“Il dottor Colasanti era un farmacista di ottima scuola, aveva una perfetta conoscenza delle erbe medicamentose e proveniva da una famiglia molto benestante. Certo non ho impiegato molto tempo a rendermi conto, dal brogliaccio, chi fossero, come lei direbbe, i veri padroni del paese ma, mi creda, non sono mai venuto meno ai miei doveri verso lo Stato. Rinaldi ha ristretto i tempi del mio inserimento nella società locale, e di questo glie ne sarò sempre grato, ma non mi ha mai chiesto di venir meno ai miei doveri”
“E lei, attacchino a parte, quante volte ha influito nelle decisioni della Scannatora?”
“Solo quella volta. Si trattò di un caso particolare che mi stava molto a cuore. Altre volte mi sono limitato a consigliare. Per meglio dire mi venivano spesso chiesti pareri sulla personalità di vari individui e la mia era, in un certo senso, una consulenza basata sull’esperienza che avevo nel valutare e giudicare le persone. Ovviamente questo avveniva in forma del tutto privata nei nostri incontri alla Scannatora”
“Così siamo ritornati alla Scannatora. Eravate un gruppo numeroso?”
“Al contrario, eravamo una cerchia ristretta, e sempre gli stessi”
“Come si svolgevano questi incontri?”
“Principalmente erano delle cenette organizzate da Rinaldi approvigionate da Volpicella, soprattutto per quanto riguardava il vino. Lui era un fine intenditore e possedeva una originale cantina fatta di sole particolari damigiane da dieci litri a forma di grosse pere, le chiamavano appunto Pirette. Ad ogni incontro se ne consumava una, la tavolata aveva fine solo quando si era consumata l’ultima goccia. Mi ricordo che il vino veniva travasato in cinque fiaschi che al nostro arrivo trovavamo già sulla tavola. Per reggerlo si mangiava parecchio e facevamo le ore piccole e tra un boccone e l’altro, tra i tanti argomenti, si parlava anche di questioni amministrative
”E le donne? Quando facevano la loro comparsa?”
“Quali donne?”
“Suvvia Molisano, sa bene a cosa mi riferisco. Le..cameriere, per così dire. Quelle i cui familiari venivano poi compensati con un posto al Comune”
“Riguardavano i rapporti personali di Colasanti e Volpicella nei quali non intervenivo”
“E Mazzacane? Lui non aveva di questi rapporti?”
“Vuole scherzare? Rinaldi non si prestava a questi compromessi. Lui esercitava un potere diverso. Non gli è mai importato granchè delle donne, tanto è che non si è mai sposato. A lui interessava solo gestire e rafforzare il suo potere”
“E la Velata? Anche di quella Mazzacane non glie ne importava? Da quanto mi risulta pare che avesse un particolare interessamento per quella donna”
“Vedo che ne è a conoscenza! Ma si sbaglia, Rubino, quella della Velata, benchè sia stata per me un’esperienza sconvolgente, fu una vicenda molto particolare. Ma perché le sta tanto a cuore?”
“Non mi sta a cuore ma leggendo i diari di Mazzacane non ho potuto fare a meno di notarlo e disapprovarne il comportamento”
“Le ripeto, Rubino, quella fu una vicenda particolare, che Merita un chiarimento a parte. È un discorso lungo, sarà bene bere qualcosa prima, preferisce un caffè o un cognac?”
“Mi dia del cognac, grazie”
“Allora si serva pure, il cognac è nel mobiletto alle sue spalle, vi sono anche i bicchieri”
“Perché fu una vicenda straordinaria, per il fatto di essere umiliata a mostrarsi nuda?”
“Anche per quello. Confesso che ne fui molto turbato e non mi riuscì mai di ottenere una spiegazione da Rinaldi per la sua durezza in quella circostanza. Glie lo chiesi più di una volta ma ottenni solo delle risposte evasive, seccamente evasive. E quella volta dovetti anche assistere alla pietosa reazione di don Mario”
“Don Mario? E chi sarebbe?”
“Ma il parroco della Chiesa Madre. Il quinto del gruppo che frequentava la Scannatora”
“Credevo foste in quattro!”
“Mi meraviglio di lei! Le ho pur detto che un piretto contiene dieci litri!”
“Sono pressocchè astemio. Ecco spiegata allora la distinzione della Emme puntata!”
“Cosa dice, scusi?”
“Oh niente! Ma cosa stava dicendo della Velata?”
“Che quella fu il culmine di una storia piuttosto ingarbugliata”
“Me la spieghi”
“Farò del mio meglio. Dunque, prima abbiamo parlato delle agitazioni sindacali. Ebbene, come un fulmine a ciel sereno i disordini scoppiarono in paese nella primavera del 59. I disordini ci colsero tutti di sorpresa perché non vi erano state avvisaglie. Il paese si stava avviando verso una ripresa economica che avrebbe limitato il fenomeno dell’emigrazione. Certo non era un grande segnale ma per l’impegno degli amministratori la situazione era tranquilla”
“E cosa avvenne?”
“Avvenne che in paese arrivò una testa calda, un agitatore di professione, un tale Capuana, originario di un paese del leccese. Di professione faceva il tosatore ma si adattava a tutti i mestieri. Due anni prima era stato coinvolti in certi disordini in città e si era beccato diciotto mesi”
Nino, sentendo il nome del padre, prova un senso di disagio ma riesce a mascherarlo sotto un’apparente calma. Con voce ferma gli chiede..
“Quindi era appena uscito di prigione?”
“Probabilmente sì, non mi risultano amnistie in quel periodo. Era dotato di una grande intelligenza che però metteva a frutto in malo modo. Riuscì in poche settimane a scatenare una incomprensibile rivolta dei braccianti che, inizialmente, procurò seri danni alle campagne e alla fine si risolse con una caterva di denunce e il ripensamento di Volpicella ad anticipare la Riforma Fondiaria”
“Non mi pare che ne sia stato molto danneggiato!”
“Già! E questo ci indusse a sospettare che l’azione di Capuana fosse stata premeditata”
“Da Volpicella?”
“Non abbiamo mai appurato nulla di concreto ma i sospetti rimasero. Certo che appena il Capuana fu di nuovo arrestata proprio Volpicella si adoperò per farlo rimettere in libertà adducendo il fatto che Capuana era fermamente intenzionato a lasciare il paese e a emigrare in Germania. Gli feci notare che non sarebbe stato facile per lui ottenere il visto per l’emigrazione, tanto più che il soggetto era privo di fissa dimora e di una famiglia. Devo però confessare che l’idea di togliercelo dai piedi mi allettava molto. Capuana era come una patata bollente, con lui nei paraggi non si poteva stare tranquilli”
“E la faccenda come si risolse?”
“Capuana affermò che stava per sposarsi con una donna del posto. Sa Dio dove e come l’avesse conosciuta! Fatto sta che in tre giorni il matrimonio venne celebrato e appena una settimana dopo tolse le tende”
“In pochi giorni riuscì a ottenere il visto?”
“Gluie l’ho detto quanto puzzasse quella faccenda! Comunque quando lo vedemmo salire sulla corriera tirammo un sospiro di sollievo”
“Dagli appunti risulta che sia stato lei ad adoperarsi, non Volpicella”
“Lui mi pregò di farlo e fui io a spingere in alto loco finchè tutto andasse come poi andò. Ovviamente non mi chieda come feci perché non potrei mai dirglielo”
“Poi cosa successe?”
“Successe che la moglie di Capuana si rivolse a don Mario affinchè patrocinasse il ritorno del marito. Don Mario disse che la donna aspettava un figlio. Capuana un mese e mezzo dopo essere arrivato in Germania era stato espulso perché sospettato di azioni sovversive. Era sicuramente quello il suo vero lavoro, quello in cui eccelleva. Comunque era passato in Svizzera dove aveva trovato lavoro in un cantiere edile”
“Ovviamente Volpicella perorò la causa”
“No, per nulla. Se Volpicella era stato il mandante di Capuana non doveva trovare alcun piacere a ritrovarselo tra i piedi. Si sarebbe esposto troppo a perorare una causa come quella. A nessuno faceva piacere quel ventilato ritorno”
“E invece?”
“E invece, con grande sorpresa, fu proprio Rinaldi a porre delle condizioni, tanto originali e inaccettabili”
“Si riferisce all’umiliazione di servire nuda?”
“Sì, era proprio un’umiliazione. Dapprima pensai a una diavoleria di Rinaldi per dissuadere la donna. Anche don Mario ne rimase sconvolto e cercò prima di opporsi e poi di defilarsi ma Rinaldi da una parte e la donna dall’altra lo indussero a trattare quella resa senza condizioni. Comunque fu ella accettò e una sera ce la trovammo alla Scannatora. Da parte mia, dopo aver espresso a Rinaldi tutta la mia disapprovazione me ne andai via”
“E don Mario, anche lui se ne andò?”
“No, lui rimase. Era nei patti che sarebbe rimasto. Il poveretto passò una terribile serata. Rinaldi, scherzando, aveva insinuato che forse il prete se la tenesse. Io non vi ho mai creduto, sebbene in quei tempi tutto fosse possibile. In ogni modo il sacrificio della donna fu tutto inutile perché due settimane dopo Capuana rimase vittima di un incidente sul cantiere. Un matrimonio durato sei mesi e consumato, forse, in una sola notte”
“E della donna cosa ne è stato?”
“So che ebbe un figlio ma non so altro. Comunque su di lei non si “chiacchierò” affatto”
“E come visse, con quali mezzi si sostenne?”
“Facendo dei lavori saltuari e ricevendo di tanto in tanto un piccolo sussidio dalla Svizzera o da qualcuno che in quel modo intendeva, forse, tacitare la propria coscienza”
“Qualcuno chi? Volpicella?”
“Forse, o forse lo stesso Rinaldi, alle prese con i rimorsi”
“E il figlio? Di lui cosa avvenne?”
“Non ne ho la più pallida idea. So solamente che gli fu dato il nome di Antonino, probabilmente lo stesso del nonno, come usanza vuole”
L’imbarazzo di Nino raggiunge il massimo. Sa di aver ottenuto delle rivelazioni ma sa anche di essere alle prese con altre domande alle quali Molisano non può rispondere. Inoltre sa di non aver alcun nonno o uno zio di nome Antonio. Più di ogni altra cosa è consapevole di essere nato un mese dopo la morte di Capuana. In altre parole non può essere suo figlio. Vedendolo assorto Molisano gli chiede..
“C’è qualcosa che non le è chiaro? Se è così non si faccia scrupoli”
“Oh nulla! Mi stavo solo chiedendo che essendo morto Mazzacane..”
“Rinaldi! Per favore lo chiami Rinaldi. Mazzacane mi mette a disagio”
“Come vuole, dicevo comunque che essendo morto il..mio committente e, non credendo di poter ricevere ulteriori informazioni da Volpicella e Colasanti non so proprio a chi altri rivolgermi”
“Forse qualcosa di più potrebbe dirglielo don Mario”
“Don Mario? Perché è ancora vivo?”
“Sì che è vivo – risponde divertito Molisano – lo sa che santi e demoni sono eterni?”
“Nel caso specifico?”
“Ma sì, penso sia un sant’uomo, alla sua veneranda età, poi”
“Quanti anni avrà oggi?”
“Credo abbia superato la novantina”
“Dove lo trovo, in paese no di certo”
“Vive in un ospizio a Matera e se accetta un consiglio.. si affretti perché alla sua età ogni minuto è prezioso. Ah, per quanto mi riguarda, se desidera altri chiarimenti, sa dove trovarmi”
“Lo farò senz’altro”

*

Mazzacane - cap. 6

Nel piccolo spazio antistante la cappella della famiglia Rinaldi stazionano una ventina di persone in tutto. Donna Rosaria e alcuni cugini rappresentano la famiglia, qualche vicino di casa e un paio di amici di famiglia. Nessun politico e nemmeno un amministratore comunale. Nino e Stefania arrivano a messa già iniziata. Avvicinandosi, Nino le sussurra..
“Donna Rosaria aveva pienamente ragione dicendo che gli amici del partito si sarebbero dissolti non appena avesse chiuso gli occhi”
“I morti non fanno paura a nessuno. Ammenocchè non abbiano lasciato dei segreti da custodire” risponde lei a bassa voce.
“A cosa ti riferisci?”
“Hai la coda di paglia forse?”
“Credevo alludessi a..”
“Non alludevo a niente, sei tu che ..cosa guardi?”
“Scusa, vedi quel vecchio che arranca? Credo sia il Zi Rocco di cui parlavamo ieri sera. Aspetta che si avvicina di più e te lo dico con certezza”
“Ma quello è zi Rocco il Muto! Nino mio, se speri di sapere qualcosa da lui stai fresco!”
“Lo conosci?”
“Sì, spesso ha fatto dei lavori in campagna da mio zio. Lo chiamano il muto perché è di poche parole”
“Allora, se lo conosci, perché non lo fermiamo insieme?”
“Sarebbe un errore. Mi conosce e so che ultimamente non è in buoni rapporti con mio zio”
“E questo che c’entra con te?”
“Eccome se c’entra! È gente all’antica, capace di ricordarsi di uno screzio per tutta la vita, accomunando anche i parenti. Ti conviene parlargli da solo, ma con ciò non ti garantisco che ti risponderà”
Dopo la funzione religiosa Nino non perde di vista il vecchio che si attarda nei pressi della tomba a mettere a posto i fiori che sono stati portati. Nino, salutata donna Rosaria, ritorna verso la cappella e gli parla.
“Vi do una mano?”
Zi Rocco si gira lentamente e, impassibile, squadra Nino. È molto vecchio, il volto solcato da rughe profonde. Gli occhi, pur arrossati dalla cateratta, sembrano di ghiaccio. Non risponde e continua imperterrito il suo lavoro, Nino lo prende per un consenso e si piega a raccogliere gli scarti. In silenzio mettono a posto i vasi con i fiori e solo alla fine rompe il silenzio dicendogli..
“Zi Rocco, vorrei farvi delle domande alle quali terrei ad avere delle risposte – il vecchio non reagisce e lui continua – mi chiamo Nino Capuana e sto scrivendo un libro su don Antonio..”
“So benissimo chi sei, Rosaria me lo ha detto”
“Ah bene, allora mi darete le informazioni che vi chiederò?”
“Non so niente di politica. Non mi sono mai occupato di queste cose”
“Si tratta della Scannatora”
Il vecchio non mostra alcuna sorpresa, rimane silenzioso e infine, scrollando le spalle, risponde..
“Che c’entra la Scannatora con il tuo libro?”
“So che vi tenevano delle riunioni, don Antonio, don Cosimo, don Ferdinando e.. gli altri”
“E allora? Non so nulla di quello che si dicevano”
“Quanto tempo duravano, un’ora, due, tutta la notte?”
“Non lo so, tornavo il mattino dopo a rimettere a posto”
“A sparecchiare? Quindi non parlavano solo di affari banchettavano, e chi cucinava?”
“Le d.., non lo so, non mi occupavo dei preparativi”
“E di cosa ti occupavi, solo dell’orto?”
“Io..portavo solo il vino dalla cantina di don Ferdinando”
“Ogni momento? Facevi avanti e indietro?”
“Solo un “piretto” alla volta. Lo travasavo nei fiaschi che mettevo sulla tavola, un fiasco a testa, quando lo finivano si finiva anche la festa”
“E poi?”
“E poi cosa? Sistemavo il vino e me ne andavo. Tornavo il giorno dopo a..”
“Sì, tornavi a sparecchiare. Questo l’hai già detto. Allora non sapevi chi erano gli invitati?”
“I soliti, sempre gli stessi”
“E nessun altro? Chessò..donne, per esempio?”
“Non so niente, io”
“Hai detto che sai del libro per averlo sentito da donna Rosaria, è vero?”
“Sì, è vero!”
“L’hai sentito o te l’ha proprio detto lei?”
“Me l’ha detto lei”
“e non ti ha detto altro? Non ti ha detto di darmi tutte le informazioni che chiedo?”
“Non mi ha detto che mi avresti parlato, ma solo che avresti fatto un buon lavoro”
“Per farlo ho bisogno anche delle tue risposte”
“Io non so altro, quello che so ti ho detto”
Nino, non insiste oltre con il vecchio e va in biblioteca. Verso mezzogiorno, mentre sta indaffarato a giocare a scopa con Gibbì, arriva il garzone del bar con una busta per conto di donna Rosaria.
“La manda donna Rosaria, ha detto che è urgente”
“Devi portare la risposta?” chiede Gibbì.
“No, donna Rosaria è appena partita per Napoli da una sua cugina, ha detto che torna tra un mese o due” dopo di che il garzone va via lasciandoli soli. Nino apre la busta e vi trova un foglio piegato con dentro un assegno di cinque milioni di lire. Sorpreso legge il contenuto del foglio ed esclama..
“Accidenti! Mi ha dato cinque milioni come anticipo per la pubblicazione del libro!”
“Ehilà, stai diventando ricco! Allora il libro l’hai già finito?”
“Macchè, ho solo riempito due quaderni di appunti ma non ho scritto una sola pagina”
“Beh, non si può dire che donna Rosaria manchi di fiducia!”
“Già, è proprio questo il guaio”
“Ma cosa aspetti a scriverlo?”
“Mi ero dimenticato i quadernetti, quelli strappati a metà. Sono scritti fittemente e con una srcittura minutissima. Vi sono inoltre molte siglie al posto dei nomi. Per leggerli tutti prima devo mettere a posto le pagine, e sarà un lavoraccio che non ti dico!”
“Non lo so ma i quadernetti neri come quelli non mi hanno mai ispirato fiducia. Ho dei presentimenti..”
“Cioè?”
“Non mi dicono niente di buono ecco tutto”
Quella sera stessa Nino si dedica ai quadernetti. Dapprima riunisce le pagine con del nastro adesivo trasparente facendo attenzione a far combaciare perfettamente il bordo strappato e alla fine passa alla lettura che con estrema difficoltà gli porta via una settimana intera. La stessa è resa ancora più difficoltosa dalla miriade di lettere maiuscole punteggiate che stanno a indicare senza alcun dubbio le iniziali di persone conosciute ovviamente allo scrivente.
Incombe su tutti la lettera Emme, nominata molte volte. Un particolare, però, attira la sua attenzione e riguarda l’uso dell’articolo che non sempre precede la lettera. Questo gli fa nascere il dubbio che la Emme stia a indicare due distinte persone.
A metà del primo quadernetto riesce anche a scoprire chi sia colui indicato con l’articolo, il maresciallo dei carabinieri comandante la stazione di Montepiano all’epoca degli eventi. Infatti ogni volta che Mazzacane si riferiva a lui appuntava il grado facendolo precedere dall’articolo. La prova che fosse proprio il maresciallo Nino la ottiene ritornando a rileggere quel verbale in cui, a distanza di poche ore e sotto pressione di M., veniva assunto un attacchino comunale. Dopo una rapida ricerca Nino scopre che l’uomo, in precedenza, aveva spesso eseguito dei lavoretti di tappezzeria nell’alloggio del maresciallo sito al piano soprastante la caserma. Nel quadernetto Mazzacane descrive anche come il sottufficiale si sia interessato presso i propri superiori affinchè un carabiniere del paese, prestante servizio nel Friuli, venisse trasferito in un centro distante pochi chilometri da Montepiano. Nino, euforico per la scoperta, festeggia l’avvenimento con Stefania in pizzeria.
Una settimana dopo, però, l’euforia si trasforma in assoluta disperazione. Tra le ultime pagine del quadernetto e le prime del successivo Mazzacane annota una vicenda che lo riguarda direttamente.
Scrive Mazzacane:
“Quella disgraziata di F. dopo essersi rivolta all’M. per aiutare il marito a emigrare adesso vuole farlo ritornare in paese. Se si piega a venire alla Scannatora l’accontento”
Alcune pagine dopo:
“F. fa la schizzinosa, ma quando si è messa con il leccese non ci ha pensato due volte”
Nel secondo quadernetto:
“M. insiste ancora con F. quella maledetta adesso fa la santa, tutta casa e chiesa, ma alla Scannatora deve venire, e prima o poi ci verrà”
Nella pagina successiva:
“M. sta rompendo con F. non li sopporto più tutti e due. Sono sicuro che M se la tiene. Sarebbe il colmo! Li farò stare sulle spine per un po’”
Tre pagine dopo:
“Ho deciso, adesso basta con F. deve venire alla Scannatora e servire nuda, anche davanti a M. voglio proprio vedere fino a che punto arriva”
Nella pagina successiva:
“Incredibile! F. è disposta a piegarsi. Ma se M. crede cha abbia scherzato sulla sua nudità si sbaglia di grosso. F. deve venire alla Scannatora e servirci nuda. Al massimo le consento di coprirsi la faccia con un velo”
Tre pagine dopo l’ultima annotazione al riguardo:
“Che serata ieri sera! F. è venuta alla Scannatora, che coraggio però! Ha servito nuda con la faccia coperta da un velo nero. M. non è riuscito a mangiare nemmeno un boccone, ha solo bevuto tutto il vino del suo fiasco ubriacandosi come un porco. Strano che alla domanda come avrebbe chiamato il figlio ha risposto che gli avrebbe dato il nome di N. precisando come sia il diminuitivo di A. e quando le ho chiesto se fosse il suocero ha risposto che lo faceva in mio onore. Che Dio la maledica per sempre!”
Poi un’annotazione cancellata ma ancora leggibile:
“Manderò una lettera a D. in Svizzera”
Stravolto Nino fa presto a intuire che si tratta della propria madre. F. sta per Filomena, D. per Damiano, il proprio padre morto in Svizzera. Lo stesso era di oprigine leccese e prima di trasferirsi in Svizzera era stato per una quarantina di giorni in Germania. Egli stesso si chiama Nino ma è un diminuitivo di Antonino, il suo nome all’anagrafe.
Per tutta la notte non fa che rileggere quegli appunti e bere lunghe sorsate di cognac poi, prima dello spuntar del sole, intasca i quadernetti e piangendo esce di casa. Si dirige alla biblioteca dove sfoga tutta la rabbia buttando all’aria libri e tavoli. Infine, vinto dall’alcool e dalla stanchezza si accascia in un angolo addormentandosi, non prima di essersi vomitato addosso. È in questo stato pietoso che lo trova Gibbì due ore dopo, entrando in biblioteca.
“Oddio santo! Nino! Nino!”
Gibbì lo scuote e intanto cerca di sollevarlo ma egli è come un peso norto e il vecchio bidello non ce la fa. Nino, comunque, da segni di vita lamentandosi flebilmente. Gibbì, allora, con notevole padronanza, si affretta a chiudere la porta della biblioteca poi, usando il telefono interno, chiama Pasquale, il suo collega delle elementari al piano di sopra, e lo prega di far venire giù Stefania, tutto senza far nulla trapelare di quanto accaduto. In attesa che la ragazza scenda presta le prime cure a Nino passandogli sulla fronte un asciugamano bagnato. Cinque minuti dopo Stefania bussa alla porta e Gibbì corre ad aprirla. Lei entra e rimane sbalordita, infine nota lo stato di Nino e si precipita verso il giovane.
“Oh mio Dio! Nino! Nino! Cos’è successo Gibbì?”
“Non lo so, non lo so. L’ho trovato in questo stato dieci minuti fa quando sono arrivato. Ma cosa gli sarà mai successo? Lei immagina qualcosa?”
“Mio Dio no! Nino, Nino, amore mio!”
“Io, per la verità ho subito pensato a lei. Mi perdoni, ho pensato a un vostro litigio”
“No, no, no. Ieri sera siamo stati così bene insieme e l’ho lasciato allegro e felice. Mio Dio cosa sarà successo?”
“Sarà successo qualcosa che lo avrà sconvolto. Da come ha ridotto questa sala..maledetto libro!”
“Libro? Perché parli del libro? Credi che c’entri qualcosa con tutto questo?”
“Sì maledizione! Sono sicuro che tutto questo ha a che vedere con i quadernetti!”
“Ne sei sicuro? Eppure in questi giorni nulla faceva presagire..”
“Sono pronto a scommetterci la testa. Su signorina, mi dia una mano a tirarlo su. Corichiamolo su quel tavolo, finchè non si riprende”
Facendo seguire i gesti Gibbì passa un braccio sotto le spalle di Nino. Aiutato da Stefania lo adagia su un tavolo e, intanto, nota il rigonfiamento della tasca della giacca. Incuriosito infila la mano estraendo i famosi quadernetti.
“Vede, vede, sono i maledetti quaderni. Ha visto che avevo ragione!”
“Dammeli Gibbì, voglio vedere cosa contengono”
“Non so se..facciamo bene a leggerli, forse..”
“Al diavolo le forme Gibbì! Dammi quei quaderni, ma non dirgli niente quando si riprenderà, intesi?”
“E quando li cercherà cosa gli dirò?”
“Nulla. Se la causa di tutto questo è qui dentro sarà lui stesso a dirlo. L’importante che adesso non gli facciamo mancare il nostro aiuto”
“Signorina..”
“Sì?”
“Avrà bisogno della sua vicinanza”
“Lo so Gibbì, lo so, e l’avrà””
“Non lo farà per..?”
“Per compassione, vuoi dire? No Gibbì, no. Lo amo questo testone e lui non immagina nemmeno quanto”
“Di là, nel ripostiglio, c’è un lavandino con degli asciugamani. Se lei gli fa degli impacchi sulla fronte io faccio un salto al bar a prendere un thermos di caffè. Bisogna rimetterlo in piedi, ma con discrezione. Lei capirà, non è vero? Poi, con calma, sistemo questo macello”
“E se intanto viene qualcuno cosa faccio?”
“Stia tranquilla che qui dentro solo il diavolo ci mette piede”
“E sembra ci sia già stato!”
“Ecco, brava, vedo che ha capito al volo. Piuttosto, lei non deve giustificare la sua assenza di sopra?”
“Non c’è problema, oggi sono di compresenza. Ma di a Pasquale che avvisasse la mia collega in classe che sono impegnata qui per una ricerca”
Durante l’assenza di Gibbì, sotto l’effetto delle cure di Stefania, Nino riprende i sensi e, appena acquista coscienza della situazione, scoppia in un pianto nevrotico mentre Stefania lo consola amorevomente. Superato il momento critico, parlando a scatti, quasi farfugliando, le dice..
“Cosa..ho..fatto? mio Dio..mio Dio!”
“Di questo non devi preoccuparti, metterà tutto a posto Gibbì appena torna. Come ti senti piuttosto?”
“Dov’è. Dove è andato?”
“Al bar, a prendere del caffè. Nino, cos’è successo?”
“Niente, niente che ti riguarda”
“Tutto di te mi riguarda. Non essere così duro, io voglio aiutarti”
“Non puoi, nessuno lo può..ormai”
“In quegli appunti c’è qualcosa che ti ha sconvolto?”
“Gli appunti? Ma dove sono i quadernetti? Li avevo in tasca. Li ha preso Gibbì?”
“No, li ho messi al sicuro. Te li darò quando sarò sicura che non farai altre sciocchezze”
“Tu non puoi capire. Mi è crollato il mondo addosso”
“Gesù! E che sarà mai di tanto grave?”
“Credevo..non immaginavo..mi viene da vomitare..”
“Di là, nel lavandino, ce la fai ad arrivare?” Poco dopo, lei gli dice..
“Nino, non puoi tenerti tutto dentro. Devi aver fiducia in me, se mi ami”
“Dopo..potresti non amarmi più”
“Quanto sei sciocco! Se taci mon to amerò più per davvero. Parola mia!”
“Riguarda mia madre..”
“E allora..?”
“Oh Stefania! Era una di quelle..”
“Una di quelle cosa? Che andava alla Scannatora?”
“Sì, come hai fatto a capirlo?”
“Non ci voleva molto. E perché l’ha fatto, secondo te? Per il piacere di farlo?”
“Comunque l’ha fatto”
“Comunque riguarda lei, il suo passato, la sua coscienza. Per te cosa cambia?”
“Cosa vuoi dire? È mia madre”
“Era vedova, sola e indifesa. Doveva pensare al tuo avvenire. Non puoi farle una colpa. In simili casi molte l’hanno fatto. Chissà, forse l’avrei fatto anch’io”
“Ma Mazzacane ci ha preso gusto a infierire”
“Mazzacane era un porco. Di questo non puoi incolpare lei”
“Devo andare fino in fondo. Devo sapere cosa è successo di preciso”
“Perché? Perché devi rovinarti l’esistenza?”
“Per il libro”
“Per il libro? Cosa vuoi dire? Non ti capisco”
“Voleva che lo scrivessi? Ebbene lo farò. Ma gli farò giustizia. Ed anche a quelle disgraziate che gli sono capitate sotto”
“Sei sicuro di voler fare la cosa giusta? E non ti chiedi nemmeno se loro, quelle disgraziate, ti approverebbero? Forse preferirebbero non ricordare”
“Non credo che abbiano mai dimenticato”
“Non è bello riaprire delle cicatrici. Ti prego, pensaci, prima di farlo”
“Non farò alcun nome. Ma devo sputtanarlo quel miserabile bastardo!”
“Dovresti saperne di più e non penso che don Cosimo e don Ferdinando siano disposti a parlare”
“Ma c’è quell’M. il maresciallo dei carabinieri. Oggi dovrebbe essere in pensione. Non sarà difficile rintracciarlo”


*

Mazzacane - cap. 5

Dopo la cena in pizzeria Nino accompagna Stefania verso casa. I due, chiacchierando, passeggiano lentamente.
“E’ incredibile! – dice Stefania – credevo di conoscerti bene dopo tanti anni e, invece, sono bastate poche settimane per scoprire tante dfaccettature”
“Mi trovi davvero tanto cambiato?”
“Sì, e molto anche. Direi che sei in continua trasformazione. Stamattina eri allegro e…sfacciato e stasera, poi, non so.. sei pacato, riflessivo e anche..come dire.. sicuro di te stesso”
“Per la verità anch’io mi sento diverso stasera”
“E’ sempre per via del libro?”
“Sì, lo ammetto, quel libro mi sta cambiando”
“Ed anche profondamente. Lo sai, mi piace stare con te stasera”
“Ti scoccio se parlo delle mie ricerche?”
“Al contrario, mi affascina”
“Oggi ho fatto una lunga chiacchierata con Gibbì. Ha detto delle cose che mi hanno fatto riflettere e, non volendo, mi sono sentito coinvolto”
“Su cosa in particolare?”
“Abbiamo parlato dell’emigrazione, di quello che è costato in sentimenti, di quandto abbia condizionato i rapporti familiari. Sai, anche la mia famiglia vi è passata ed io nemmeno lo sapevo. Mio padre è morto in Svizzera cadendo da una impalcatura, io non ero ancora nato”
“Perciò sei cresciuto senza neanche avvertire la sua mancanza”
“No, senza neanche avvertire la sua presenza. Il concetto è diverso”
“C’è qualche appunto che riguarda l’emigrazione nei documenti in tuo possesso?”
“In un cereto senso, non proprio edificante, ma vi è qualcosa. Forse più di qualcosa”
“Si tratta di considerazioni politiche?” Sorridendo Nino puntualizza
“Noo, affatto. Si tratta di gestione del potere. Sai cosa sono le vedove bianche?”
“Le vedove bianche? No, mai sentito”
“Erano le mogli degli emigranti, quelle che restavano in paese ad attendere la buona sorte dei mariti. Un’attesa lunga..troppo lunga per delle donne sole e..a volte anche indifese”
“Forse capisco cosa vuoi dire. Donne sole e…”
“Anch’io credevo di capire la stessa cosa, finchè Gibbì non mi ha chiarito il concetto. Erano solo povere vittime di un sistema in cui tutto era permesso, dove il potente schiaccia il debole e il debole conosce ed accetta il suo destino”
“Ma non è una novità. È sempre stato così. Lo è anche oggi e non cambierà mai. In fondo è una legge naturale”
“Lo so, lo so, ma la trovo ugualmente perniciosa”
“Sei molto pessimista. Sarà perché ancora scosso. Le ingiustizie fanno parte della vita. Oggi almeno i compromessi sono diversi”
“Ma offendono sempre la dignità dell’uomo”
Stefania con un gesto spontaneo gli scompiglia teneramente i capelli. Lui ferma la mano di lei e, accarenzzandole il volto, le confessa finalmente il suo amore e, senza alcuna opposizione da parte sua, la bacia con passione ricambiata.

Qualche giorno dopo, in biblioteca, Nino è tutto intento a leggere le pagine sportive di un quotidiano. Gibbì, come un’anima in pena, si affira sbuffando tra i banchi, infine sbotta
“Che palle! Ma quando si decide a suonare la campanella quel deficiente di Pasquale? Sono le dieci e trentacinque”
“Perché anche tu mangi la merendina nella ricreazione?”
“Perché così sentiamo un po di rumore. Sembra di stare in un cimitero qua dentro!”
“In ogni biblioteca che si rispetti il silenzio è un fattore basilare”
“Ma va! Questo è solo un mortotio. Ogni tanto mi assale il dubbio che che la biblioteca è una scusa per dare un senso allo stipendio che ci danno”
“Allora dovresti essere grato all’Amministrazione”
“Almeno venisse qualcuno a portarci una tazzina di caffè. Mi ero illuso dopo quella volta di don Cosimo…Ehi, Nino, ma quello laggiù non è il garzone del bar con un cestino? Sembra diretto qui.”
“Sì, illuditi tu! Sicuramente va su dal direttore”
“Se è così perche ha scelto la strada più lunga? Eh no, quello, ti dico, viene proprio qui”
“Ok, ho capito, non ti va che leggo il giornale”
Gibbì non si sbaglia, il garzone, pochi secondi dopo, entra nella sala della biblioteca con due tazzine e un thermos dicendo
“Buongiorno! Caffè per i signori. Lo bevete subito o dopo? Se lo bevete subito mi riporto tazze e thermos indietro”
“Ma chi lo ha mandato?” chiede Nino.
“Che c’è, vai di fretta?” Chiede scorbutico Gibbì.
“Sì, oggi sarà una giornata d’inferno, prevedo che farò avanti e indietro fino a notte”
“Perché?” chiede Gibbì.
“E’ morto Mazzacane. Mezz’ora fa hanno spalancato il portone del palazzo”
Pur essendo una scomparsa da tempo attesa Nino e Gibbì si guardano sorpresi, dimentichi di sapere chi ha offerto loro il caffè.
Ovviamente fino all’ora di chiusura l’argomento tra i due resta la notizia del decesso e, anche dopo, l’emozione rimane viva. Infatti Nino entra in casa e rivolgendosi alla madre le dice
“Hai sentito la notizia, mà? È morto Mazzacane”
“Sì l’ho sentita. Pace all’anima sua”
“Il paese è in subbuglio. Credo che gli faranno un funerale coi fiocchi, non ti pare?”
“Perché, perché dovrebbero?”
“Beh..è stato il sindaco per circa trent’anni”
“E allora? Adesso è un morto come tanti altri”
“Mamma che hai, perché sei così scontrosa?”
“Niente, cosa dovrei avere? Ho tanti problemi per la testa che dovrei anche preoccuparmi della morte di Mazzacane. Piuttosto, perché hai fatto così tardi ieri sera? Non hai nemmeno cenato a casa ed erano anni che non lo facevi”
“Ah, allora è per questo che sei di malumore! Sono stato in pizzeria con Stefania e poi, non erano ancora le undici quando sono rientrato”
“Ma io sono stata in pensiero lo stesso. Potevi anche avvisarmi..non c’era nulla di male”
“Scusa, me ne sono dimenticato”
“Allora..lascerai perdere il libro, immagino”
“No, perché dovrei? Mi sono impegnato a scriverlo”
“E a che punto sei? Finora ti ho solo visto leggere e prendere una montagna di appunti”
“Ne ho presi abbastanza da cominciare a scrivere una prima bozza. Comunque non ho fretta”
“Ma ti vedrai ancora con quella ragazza?”
“Ci puoi scommettere mà..ehi, il libro, comunque, lo scriverò lo stesso”

Intanto Nino assapora una vita nuova e diversa. Di giorno il rilassante impiego in biblioteca in completa armonia con Gibbì, col quale non ha più avuto alcun diverbio, quindi le passeggiate serali con Stefania con la quale il rapporto sentimentale si fa sempre più intimo e, infine, le ore notturne dedicate al libro, rileggendo i documenti e scrivendo appunti su appunti.
Dopo le vicende sessuali dei vari personaggi citati nei primi documenti Nino presta attenzione alle altre sfaccettature del potere di Mazzacane. E questo gli fa dimenticare i quadernetti neri che giacciono avvolti in una cellofhane in fondo a un tiretto della scrivania.
Qualche settimana dopo Gibbì ritorna sull’argomento del libro.
“Nino, è da un po’ di giorni che ti osservo e noto in te un cambiamento che mi preoccupa”
“Cioè, che vuoi dire?”
“Non so, psicologicamente sembri a posto. Da quando poi fai coppia fissa con Stefania hai sorale alle stelle, eppure sei sciupato, dimagrito. Fisicamente sembri più maturo, solo non mi spiego gli occhi lucidi che hai, come se avessi la febbre”
“Saranno le ore piccole. Ogni notte faccio le tre”
“Perché non lasci perdere? Ormai con Stefania non dovresti avere più problemi”
“Non so Gibbì, effettivamente ci ho pensato più d’una volta”
“E perché continui, allora?”
“Prima era una sfida con me stesso ora, invece, avverto l’ansia di conoscere il passato”
“Appunto, è solo “passato”, che ti frega quando hai un presente davanti e un bel futuro che ti attende?”
“Non mi sono mai occupato del passato e, forse, avrei dovuto. È come se dentro di me vi sia qualcosa che mi spinge a continuare”
“Ne avrai ancora per molto?”
“Francamente non lo so. Scrivo e riscrivo pagine su pagine che poi correggo e alla fine mi sembra di stare sempre allo stesso punto”
“Dove in particolare?”
“A Mazzacane. Non riesco a definirlo. È così complesso quel personaggio! A volte mi affascina, per il modo come supera gli ostacoli, così..così..come dire.. sbrigativo, determinante, sfrontato, sicuro e inappellabile..”
“Era Mazzacane e basta”
“Un personaggio che ti attira e ti soggioga”
“Mazzacane significa Potere”
“E sapeva gestirlo bene”
Gibbì, con uno sguardo penetrante, commenta lentamente
“Senza alcun dubbio”

La sera stessa Nino e Stefania ritornano in pizzeria e vi si attardano. È quasi mezzanotte quando lentamente s’incamminano verso la casa di lei, mano nella mano.
“Dovremmo andarci più spesso in quella pizzeria, si sta davvero bene” dice Nino.
“Sì è vero, è gente accogliente e simpatica” conferma lei.
“E si mangia pure bene!”
“Me ne sono accorta..da come hai divorato la pizza”
“Cioè?”
“Se non era buona dovevi avere un arretrato..”
“Divoro il cibo in due circostanze, quando sono felice o quando sono in ansia”
“E stasera com’eri?”
“L’uno e l’altro”
“Sommando quindi…?”
“Vuoi sapere perché sono felice?” Con civetteria mista a divertimento Stefania sussurra..
“Perché?” sorridendo senza impaccio Nino le risponde..
“Perché sei qui con me. Perché sei bellissima e perché ti amo”
“Che strano..non me n’ero accorta. E da quando?
“Da domani..”
“E perché sei in ansia?”
La domanda di Stefania fa ritornare Nino serio. Dopo una lunga pausa le risponde..
“Il libro”
“Maledetto libro – sbotta lei – ti sta togliendo la salute. Hai gli occhi lucidi e due borse così”
“Ci sto sopra fino a tardi ma sono a un punto fermo”
“Non me ne hai mai parlato ma cosa c’è scritto di preciso in quelle carte?”
“Sono come un diario scritto su fogli volanti, ma con poche date. Quelle sono rimaste nella mente di chi li ha scritti. Riguardano un po’ tutto, atti amministrativi, riunioni di partito..e cose del genere, insomma. E poi..”
Nino s’interrompe, come scosso da una rivelazione. Stefania, incuriosita, gli chiede..
“E poi cosa?”
“Niente, è che solo ora mi è venuto in mente un particolare. A parte qualche documento ufficiale la maggior parte riguarda un arco di tempo di poco più di di una dozzina d’anni. Dal cinquantasette al settanta”
“Sono stati anni particolari per la storia del paese?”
“Direi di no, a parte l’emigrazione massiccia. E indirettamente nei documenti non si parla d’altro”
“Un elenco cronologico di chi è partito?”
“No no, per carità! Storie di posti e di donne”
“Dai raccontami, ora sono curiosa”
“Se vogliamo sono vicende tristi e meschine. Con i mariti lontano da casa alcune mogli si sono date da fare, molte per trovare loro una sistemazione qui in paese. Si sono concesse ai potenti di allora..”
“Mazzacane??” chiede lei impaziente. Perplesso e accigliato Nino le risponde..
“No, lui no. Vero è che alcuni sono stati piazzati da lui personalmente, un paio pagando e altri due o tre per via di mezze parentele ma, stranamente, non vi è traccia di mantenute”
“Peccato” e gli altri chi erano?” chiede lei sempre più morbosa.
“Puoi immaginarlo, i soliti due porconi, don Cosimo il farmacista e don Ferdinando, il barone. Poi c’è una terza persona che non sono riuscito a scoprire, un certo Emme puntato. Doveva essere, dopo Mazzacane, uno dei più potenti. Discreto ma decisamente influente”
“E non hai fatto alcuna indagine? Chissà chiedendo a Gibbi? Lui sa vita e miracoli di tutto il paese”
“Glie l’ho chiesto, ma non ha saputo dirmelo. Dice di non saperlo. È strano, ma a volte Gibbì mi da l’impressione che voglia nascondermi qualcosa”
“Perché non chiedi a tua madre, è piuttosto anziana..”
“Meglio di no, è abbastanza preoccupata per il fatto che mi sto impegnando in questa faccenda”
“La comprendo, lei teme che tu possa farti dei nemici”
“Nemici? E perche? In fondo non li ho scritti io gli appunti e il libro, se non lo scrivo io lo farebbe certamente qualcun altro”
“Ma intanto lo stai facendo tu. Tesoro ti confido che anch’io, quando ci penso, a volte sono preoccupata”
“Suvvia..davvero lo sei?”
“Si lo sono, o meglio, ora lo sono un po’ meno ma prima lo ero di più”
“Come sarebbe che ora lo sei di meno?”
“Te l’ho già detto, ogni giorno che passa ti vedo diverso, più maturo, più sicuro, all’inizio sembravi un pulcino indifeso”
“E’ il tuo amore a rendermi forte”
“Davvero?”
“Ti amo, ti amo, ti amo immensamente”
Nino l’attira a sé e la bacia, ricambiato con eguale passione. Circa un’ora dopo, in un luogo appartato, si distacca da Stefania e con la mente rivolta all’onnipresente libro le dice..
“E’ incredibile come quell’uomo abbia gestito un potere quasi assoluto senza un gesto violento. Tra le carte emerge una personalità controversa. Nessun legame affettivo, nessuna corruzione, nessuna cricca di squadristi, nessun lusso sfrenato, nessuna ambizione, niente di niente. Eppure ogni sua parola era un comando”
“Perché nessuna corruzione? Tu stesso hai affermato che alcuni posti furono comprati”
“Comprati per modo di dire. Era gente benestante, che desiderava un posto tranquillo e di rilievo e, poi, furono più che altro dei finanziamenti al partito”
“Resta sempre un intrigante”
“Eppure non ha fatto del male a nessuno.. Sai un potente come lui il bene non è obbligato a farlo ma il male può farlo volontariamente. Ha solo posseduto una ferrea volontà”
“Così come sta possedendo te anche adesso”
“Ormai è morto!”
“Anche da morto si è impossessato di te, solo che tu non te ne sei accorto”
“Quanto vorrei parlare con qualcuno che lo abbia conosciuto bene al di fuori dalla politica!”
“A che scopo, non bastano i documenti?”
“Ho l’impressione debba esserci dell’altro. Quei documenti sembrano troppo ufficiali e superficiali”
“Allora dovresti cercare qualcuno che lo abbia conosciuto a fondo, magari un vecchio”
Improvvisamente Nino si batte la fronte con la mano ed esclama..
“I quadernetti! Che stupido che sono stato!”
“Quali quadernetti?”
“Nella valigia c’era una busta con dentro due piccoli quaderni neri. Erano strappati a metà, forse con l’intenzione di distruggerli. Poi ripensandoci sono stati conservati. Sono scritti con una calligrafia minutissima. Ricordo di aver letto una mezza pagina prima di conservarli in un tiretto della scrivania. Me li ero dimenticati del tutto. In quella mezza pagina era nominato un certo Rocco, un ortolano in pensione che lavorava per conto di Mazzacane”
“Ma sarà morto da un pezzo!”
“No,credo sia ancora vivo. Quando andai a casa di Mazzacane vidi un cesto con della verdura in cucina e donna Rosaria disse che l’aveva portato il vecchio “Zi Rocco, il nostro ortolano”, e ora che ci penso, poco prima che arrivassi, incrociai un vecchio che era appena uscito dal portone”
“Allora devi solo cercare questo Zi Rocco e parlarci”
“Lo farò domani. Ehi, accidenti, s’è fatto tardi! Ti accompagno a casa”
“Non mi pare sia tanto tardi”
“Ma è passata mezzanotte!”
“Hai detto bene perciò se devi andare a tuffarti nelle tue scartoffie o stare con me, allora scelgo che tu stia con me. Chiaro?”
Nino, ridendo, si lascia sopraffare e, di nuovo abbracciati riprendono a baciarsi. Prima di lasciarsi, però, Stefania gli dice..
“Caro, ma non è domani che fa il mese Mazzacane?”
“Sì è domani, perché?”
“Allora diranno una messa. Tu ci andrai, vero?”
“Sì, alle otto nella cappella di famiglia”
“Ti passo a prendere, voglio venirci anch’io”
“Perché? Non lo conoscevi nemmeno!”
“Così, per curiosità. Voglio vedere quante persone ci saranno”
“Come vuoi. Ti aspetto alle sette e mezzo sotto casa”
“No, alle otto meno un quarto tesoro. Ciao, ti amo”

*

Mazzacane - cap. 4

Nei giorni successivi, per fortuna di Nino, non vi sono altri omaggi. Egli, comunque, continua il suo lavoro di lettura che lo impegna ormai ogni pomeriggio. Dopo i documenti datati passa agli altri. Sempre più spesso s’imbatte in quella “M” puntata e nelle citazioni di quella strana località “la Scannatora”. L’unica cosa chiara è che in quel posto vengono prese, dai tre personaggi noti più il fantomatico M. le vere decisioni circa gli atti amministrativi comunali. Riunioni di partito, Giunte e Consigli comunali sono semplici messinscene per dare una parvenza di legalità al loro operato. Sempre più frequentemente Nino si chiede chi sia quell’M. tanto importante, quasi quanto Mazzacane stesso. Una mattina, in biblioteca, Gibbì gli chiede come va il lavoro ed egli risponde laconico “procede” al che lo attacca risentito.
“Ehi, non ti ho fatto niente, ti ho solo chie..”
“So già dove vuoi andare a parare”
“Santa pazienza come sei intrattabile! Avevi detto che appena organizzato..”
“Gibbì, non ho voglia di discutere. Il lavoro procede come deve. Tutto qua”
“Mi sembri attaccato con gli spilli”
“Ma no, niente di personale, stavo solo sovrappensiero. Tutto qua”
“E’ lecito chiederti cosa t’impensierisce…amico?”
“Ma sì, in fin dei conti potresti anche essermi d’aiuto. Sai cos’è la Scannatora?”
“Perché? Dove l’hai trovata scritta?” chiede guardingo Gibbì.
“Ecco vedi? Per questo che sto sulle mie. Ti offri di aiutarmi, ti faccio una richiesta e tu? Tu mi fai delle domande. Bell’aiuto che mi dai!”
“Non lo so, potrebbe voler dire tante cose..”
“Credo sia una località”
“Non ho mai sentito che ci sia una contrada con questo nome, almeno nel nostro paese”
“E sennò dove, in America, forse?”
Il dialogo tra i due viene interrotto dall’ingresso di un giovane, rimasto a loro insaputa a origliare dietro la porta socchiusa. È Alfredo Volpicella, coetaneo di Nino e figlio di don Ferdinando. Appena entrato si rivolge a Nino in tono ironico.
“Buongiorno a don Nino, nostro esimio scrittore!”
“Buongiorno. Cerchi un libro?”
“Sì, il tuo. Perché non l’hai ancora scritto?”
Gibbì, che intanto si era messo ad armeggiare con la scopa, interviene tra i due.
“Alfrè, questa è una biblioteca, non si fanno chiacchiere inutili e si sta in silenzio”
“E tu che vai cercando? Resta al tuo posto!”
“Questo E’ il mio posto. Non mi sembra, però, che sia il tuo”
“Ma guarda guarda che strafottenza..” a questo punto Nino interviene per calmare le acque.
“Gibbì, per favore..” imperterrito Alfredo continua.
“Ecco, bravo! Così si fa con la plebe. Ma veniamo a noi, come procede il tuo lavoro?”
“Va avanti. Faccio del mio meglio”
“Ma certo! Di questo ne sono sicuro. Solo che potrei esserti d’aiuto in più di una circostanza. Come ben sai mio padre è un intimo amico di Mazzacane..”
“Ti ringrazio ma preferisco fare a meno del tuo aiuto. I documenti sono abbastanza esaurienti”
“Ma i documenti a volte non dicono tutto. Certe cose non sono spiegabili, certe parole non trovano alcun riscontro nella realtà, hanno un doppio senso che solo chi le pensa o le dice conosce”
“Sarebbe a dire?”
“Sarebbe a dire la Scannatora..per esempio”
“Adesso basta! Ti ho già detto che qui si sta in silenzio” irrompe minaccioso Gibbì.
“Che c’è che ti scaldi tanto, amico? Che sei, il suo supervisore forse?”
“Vattene via…per favore” Gibbì trattiene a stento la sua ira.
“E sennò? Oseresti cacciarmi o vuoi che non sappia della Scannatora?”
Sotto gli occhi attoniti di Nino, Gibbì ha una sconcertante reazione. Afferra la scopa e la sbatte con violenza su un tavolo spaccandone il manico di legno in due parti. Quindi, impugnando il moncone come un’arma e puntandolo contro il petto di Alfredo lo minaccia urlando
“Vattene perdio! Fuori di qui o ti..ti..”
Sbiancato in volto Alfredo guadagna velocemente l’uscita. Gibbì, dopo qualche momento di affanno, sbatte per terra il moncone e a sua volta esce ritornando poco dopo con un manico nuovo e mettendosi, scuro in volto, a ripristinare la scopa. Nino è rimasto sconvolto dalla sua furibonda reazione e segue con la gola secca ogni suo metodico movimento finchè, travolto anch’egli da un’ira tardiva, lo investe
“Cosa voleva dire Alfredo? Tu sai della Scannatora. Perché volevi tacermelo? Quale segreto si nasconde dietro di essa?”
Investito dalla raffica di domande Gibbì resta imperturbabile poi, mollando i pezzi della scopa, fa un lungo sospiro, siede quasi accasciato su una sedia e mormora
“Non c’è alcun segreto, credimi. È solo la parte peggiore della tua ricerca, quella che volevo evitarti”
“Parla dunque, dimmi tutto”
“Tieni presente quel piccolo bosco appena fuori il paese? Ebbene nel bel mezzo, a poco più di due miglia Mazzacane possiede un vecchio casolare. Sì è proprio quello nella contrada della chiusa del Monaco. Quella è la Scannatora”
“Non capisco..”
“Eh, non ci vuole poi molto a capire! In quel casolare Mazzacane e compagni tenevano le loro riunioni. È lì che venivano prese tutte le decisioni politiche e amministrative. La chiamavano tra loro la Scannatora perché era lì che andavano ad umiliarsi tutti coloro che chiedevano i favori di Mazzacane e dei suoi compari”
“La scannatora! Ma di preciso cosa vuol dire?”
“la scannatora è il posto dove una volta venivano macellate le pecore. Ovviamente nel gergo dei pastori. Ma tu lo hai trovato scritto in quelle carte?”
“Sì, Mazzacane nei suoi appunti la nomina spesso”
“E che altro?”
“Nomina spesso anche don Cosimo Colasanti, il vecchio farmacista..”
“…un altro porco bastardo…”
“…don Ferdinando, il padre di Alfredo…”
“…puah!..”
“…e un altro che non sono riuscito a individuare. Lo indica sempre con una iniziale”
“E sarebbe?”
“Una Emme puntata e basta. Ma dev’essere un pezzo grosso, uno che conta insomma, perché in più di una occasione si è imposto con estrema facilità, senza la minima opposizione. Nemmeno di Mazzacane”
“Una Emme puntata..no, non mi dice nulla..”
“Dicevi così anche con la Scannatora..”
“Avevo un motivo per non parlare ma adesso…adesso che sai, che motivo avrei per non dirtelo?”
“E che ne so, chi ti capisce è bravo!”
La sera, esaminati tutti i documenti datati, Nino ottiene la conferma ai suoi sospetti. In pratica alla Scannatora venivano decise le assunzioni presso il Comune, il resto, le riunioni pubbliche del Partito e del Consiglio comunale, era solo una messinscena per dare una parvenza di legalità. Riflettendo, poi, sui fortunati assunti, Nino si chiede in base a quali meriti venivano gratificati. Così prende un foglio su cui ha scritto una lista di nomi e comincia a scorrerla. Metà di quei nomi li conosce bene perché ancora in servizio e gli altri per averli sentiti nominare. Alcuni sono quasi suoi coetanei ma altri prossimi alla pensione. Pochi altri già pensionati . Sorridendo pensa che almeno cinque dei più anziani hanno condiviso la medesima “sfortuna”, quella di avere delle mogli “chiacchierate”. Il pensiero inizialmente lo diverete poi lo fa riflettere:
“Caspita! Ma dell’accalappiacani non si vociferava che la moglie se la “teneva” don Cosimo? E, poi, anche la moglie dell’autista.. quello morto l’anno scorso..anche di lei si diceva avesse una relazione con don Cosimo e, e..ecco qua..il giardiniere. Anche su di lui si sparlava a proposito della moglie. Questa volta c’era di mezzo don Ferdinando e la moglie del messo comunale? Con Mazzacane in persona. E chi altro? Sì, ci sono, la vedova del salariato di don Ferdinando…ma, allora alla Scannatora ci andavano pure a fottere! Hai capito che marpioni!”
Eccitato dalla scoperta si rituffa tra i documenti alla ricerca di appunti più chiarificatori. Rileggendoli più volte ne ricava ben poco, tranne qualche particolare in più circa i nomi degli assunti. Quattro dei nominativi sono seguiti da un numero scritto tra parentesi. E considerato che alcuni sono degli impiegati comunali di origine benestante, sospetta che questi abbiano comprato la loro assunzione e il numero sta a indicare in qualche modo il prezzo pagato.
Stanco, si abbandona sullo schienale della poltrona e fumando riguarda sconsolato e avvilito la massa dei documenti pensando tra sé “Possibile sia tutto qui?” si chiede meravigliato. Con una smorfia desolata fissa i documenti finchè lo sguardo cade sulla busta che custodisce i quadernetti neri strappati a metà e poi conservati.
“Forse lì dentro ci troverò qualcosa di molto importante, ne sono sicuro. Ma se ne parlerà domani, ora sono troppo stanco”
Il mattino dopo, fresco e riposato, Nino si dirige al lavoro. Strada facendo scorge davanti a lui Stefania in compagnia di Manfredi. Stranamente non prova alcuna gelosia, allunga il passo e in pochi secondi li raggiunge. A ridosso della coppia con voce ferma e sicura li saluta.
“Stefania! Salve Manfredi, bella giornata oggi, vero?”
“Ciao Nino! Sei in forma splendente. Manfredi, ci vediamo dopo a scuola, mi fermo con Nino” Congedato il collega lei elargisce un radioso sorriso a Nino dicendogli
“Allora Nino, sei davvero in ottima forma, sai? Devi essere a buon punto col libro!”
“Il libro? Veramente non ho ancora scritto un solo rigo” divertita lei commenta
“Ecco perché sei così allegro allora! Non dirmi che hai rinunciato, non sarebbe da te”
“E se fosse la verità?”
“Non si crederei lo stesso. Piuttosto, è da un po’ di tempo che ti trovo cambiato. Sei diverso, sembri un altro. A volte mi fai senso. Forse ti preferivo com’eri prima, impacciato e spontaneo. Mi facevi una tenerezza..!”
“Allora per te sono peggiorato? Guarda che anche ora sono spontaneo”
“E lo so sì, accidenti! Solo che ora con te devo stare sulla difensiva, sei così sfrontato!”
“Allora stasera usciamo insieme. Andiamo in pizzeria?”
Stefania, ridendo, accetta e Nino, fischiettando euforico, raggiunge la biblioteca e investe Gibbì con la sua euforia.
“Sempre tra i piedi, vecchio, sei ingombrante!”
“Vuoi che ti suono la scopa in testa? Hai bevuto di prima mattina per caso?”
“Bello di papà, ma quando vai in pensione, mai?”
“ E sta fermo con le mani, accidenti, si può sapere che ti prende oggi?”
“Di in po’ Gibbì, quando sei stato assunto in Comune, in che anno? Nel sessanta forse? Hehehe!”
“Ma che diavolo vai cianciando, perché me lo chiedi?”
“Caro mio, non immagini cosa ho scoperto. Lo sai che una dozzina di impiegati del comune sono cornuti contenti? Lo sai a cosa serviva la scannatora, eh?”
“Non mi dire che..? povero babbeo! E l’hai scoperto solo ora? Se me l’avessi chiesto te l’avrei detto io, a parte che lo sa tutto il paese”
“Come, come? Tu lo sapevi? Figlio di buona donna! E perché non me l’hai detto?”
“E perché non me l’hai chiesto? Io ti ho chiesto più di una volta a che punto stavi con i documenti ma tu stavi abbottonato neanche se custodissi i segreti del vaticano. E poi, in vita mia non ho mai fatto il ruffiano, io”
“Allora dimmi chi è Emme?”
“Non lo so!”
“E dovrei crederti?”
“Certo! A parte il fatto che non te lo direi comunque. A un ingrato come te…pfui!”
“Perché non me lo diresti?”
“Perché fin’ora non hai mai chiesto “per piacere”, hai sempre preteso. E chi sei, il Papa?”
“Ti odio!”
“Vuoi sapere chi è Emme?”
“Si”
“Non te lo dico, scoprilo da solo se ti riesce”
Il battibecco tra i due avviene senza alcun astio perché Nino crede alla sincerità di Gibbì. Il loro è stato semmai un reciproco sfottò. Più tardi i due riprendono seriamente l’argomento e Nino si confida con l’amico
“Non lo so, Gibbì, non riesco a provare ribrezzo per il modo di agire di Mazzacane e gli altri. So che è sbagliato il loro comportamento ma, non so, è come se tutta la faccenda mi divertisse”
“Invece non è per nulla divertente. Tu, Nino, sei giovane e certe cose non puoi capirle, non le hai vissute in prima persona. Pensa invece a quei poveracci..”
“Mi fanno pena, niente di più. In fondo l’hanno voluto. Voluto loro, o almeno l’hanno accettato”
“Non te ne faccio una colpa se non riesci a capirlo. Le cose non stanno come pensi tu”
“Cioè? Fammi capire allora!”
“Vedi, quasi tutti quei fortunati cornuti, come li chiami tu, a parte un paio,ebbene erano emigrati, chi a Milano, chi a Torino, chi in Svizzera e uno anche in Argentina. Avevano lasciato in paese mogli e figli. Sai per loro, all’epoca, era un rischio avere il marito lontano. In passato era successo più di una volta che il distacco fosse diventato definitivo. Quando un uomo si trova catapultato in un mondo nuovo è facile che si disorienti, che trovi una nuova compagna e che si faccia una nuova famiglia, dimenticandosi di quella lasciata in paese. E allora le mogli, non tutte per carità, hanno pensato bene di trovare per i mariti un posto sicuro qui in paese. Guarda che quelle che hanno sfruttato la lontananza per scopi sessuali sono rimaste puttane per sempre ed erano ben contente di avere il marito lontano. Quelle che l’hanno fatto per calcolo e convenienza sono riuscite nell’intento di sistemarli. Certo è che se ci fosse stato il lavoro qui, tutto questo non sarebbe mai successo. Inoltre, se spulci bene tra le tue carte vedrai che quelli che hanno pagato in moneta contante avevano le mogli brutte o i parenti forti”
“Era una piaga sociale allora?”
“L’emigrazione era una piaga, quella sì che lo è stata, non il resto”
“Non capisco con quale criterio si scieglievano il santo protettore. Che io ricordi né don Cosimo né don Ferdinando erano delle bellezze”
“Eh, caro il mio ingenuo! Non erano loro a scegliere né ad essere scelte. Quei due porconi facevano come i pescatori che gettano le reti e poi le ritirano con i pesci impigliati. Loro le adocchiavano tutte, senza alcuna preferenza, tanto sapevano che alcune di loro avrebbero corrisposto. Bastava solo aspettare. Non fare quella faccia, ti meraviglia tanto? Eh, Nino mio, la vita? Puah, è solo una schifezza!”

*

Mazzacane - cap. 3

La mattina del lunedì, recandosi al lavoro, Nino casualmente vede Stefania e Manfredi in atteggiamento più che amichevole e ne rimane turbato, entra in biblioteca prima dell’arrivo di Gibbì. Questi, arrivando pochi minuti dopo, lo affronta malignamente.
“Ciao, ieri sera mentre tu scrivevi il tuo libro ho visto tornare i “romani”, tutti e quattro allegri e felici. Quel Manfredi deve aver fatto passi da gigante. Certo è che quei due fanno proprio una bella coppia insieme! Intendo lui e la signorina Stefania. Eh, dovresti vederli…!” Nino, scattando in piedi dalla rabbia gli urla
“Basta! Non permetterti più, mai più di…di..” Sconvolto non riesce a terminare la frase e Gibbì, imperterrito, si finge indaffarato poi, con calma glaciale, si avvicina alla scrivania e gli dice
“Scusami, non volevo ferirti, ma è questa maledetta storia del libro che mi fa diventare maligno. Non riesco proprio a mandarla giu. Scusami ancora”
“No, guarda che non attacca! È una malignità che potevi anche risparmiarti. Non so cosa ti prende ma il libro non c’entra. Sono tutte scuse”
“Se è così che la pensi allora…”
“Ma dai, non essere tanto vigliacco! Cosa c’entra il libro adesso? Primo, non devi scriverlo tu e secondo, non vedo a quali pericoli io vada incontro e, terzo, non ti sei mai interessato alle mie faccende personali e non vedo perché di punto in bianco dovresti occupartene”
“Ma allora non vuoi proprio capirlo che ti sono amico e come tale mi preoccupo per te?”
“Ma se fino ad oggi non hai fatto altro che sfottermi!”
“Ma questa è l’amicizia Nino. Fino ad oggi abbiamo vissuto come in un guscio, isolati dal mondo esterno, nulla ci veniva a intaccare e quasi nulla di quanto succedeva la fuori ci riguardava direttamente. Cos’altro ci restava, pardon mi restava, che stuzzicarti di tanto in tanto? Anche su cose cha sapevo per te serie, ma sempre senza alcuna malignità. Ma ora, Nino, le cose sono cambiate e questa in cui ti sei impegolato è una faccenda maledettamente seria e tu la prendi sottogamba. Lasciatelo dire da uno che ha i capelli bianchi, questa volta rischi di grosso”
“Ma rischiare cosa, santo Iddio?”
“Innanzi tutto la tua serenità. Guardati, sono solo tre giorni che sei preso da questo libro e sembri dimagrito di cinque chili. Sei diventato serioso di colpo, anche se in effetti..ti dona un aspetto più..maturo, negli occhi ti si legge una preoccupante apprensione. Hai l’aspetto di uno che si è beccato una bella influenza, con gli occhi lucidi che ti ritrovi. E poi, il tuo libro quando lo scriverai? Non certo qui in biblioteca perché avrai bisogno di consultare ogni momento quelle stramaledette carte o i tuoi appunti. A casa, di giorno, non potrai dimenticarti di avere una madre che non sta bene in salute e quindi non ti resterà che la notte. Quanto potrai resistere?”
Nino non gli risponde. Sa che ha perfettamente ragione. Per cui Gibbì continua
“Non voglio sembrarti ossessivo ma questo è niente in confronto alle preoccupazioni vere che provo e di cui abbiamo già discusso venerdì. Quei maledetti figli di puttana ti staranno addosso, vedrai che non ti lasceranno in pace e ti faranno venire tanti complessi che nemmeno te li immagini. Dapprima ti liscieranno a dovere, poi verranno le frecciatine e gli avvertimenti e tu ti sentirai, prima in obbligo, poi in scrupolo e infine preoccupato. Nino, tu ora credi di aver toccato il cielo con un dito, sicuramente ti senti importante, ed è comprensibile per uno che è sempre vissuto nascosto in un buco come questo ma, ascolta il consiglio di un amico, non montarti troppo la testa, per favore, patirai di meno, dopo..”
“Non mi sto montando la testa e so che il compito che mi attende è arduo ma, l’hai detto tu stesso, per uno che è sempre vissuto in questo buco è l’occasione buona per misurarsi. Ecco Gibbì, di questo sono preoccupato, ho paura di non farcela”
“Ti comprendo, ma tu non comprendi me. Non ho mai avuto dubbi sulle tue qualità, e lo sai bene, quante volte ti ho detto, a proposito di certi libri che ci arrivano, che se tu avessi preso la penna in mano avresti fatto di meglio? Non hai certo bisogno di una sfida per misurarti o… ma ti hanno dato un limite di tempo per scriverlo?”
“No, assolutamente! Ho tutto il tempo che voglio, anche se, immagino, ogni tanto mi sarà chiesto a che punto sono”
“E non solamente dal committente, vedrai.., anche Stefania è preoccupata per questa faccenda” Nino ha un sobbalzo e, tutto eccitato, chiede
“Stefania? Perché lo sa? E come lo sai tu?”
“Ma se ti ho detto che ero presente al loro ritorno ieri sera! Lei mi ha visto e ha chiesto tue notizie”
“E tu le hai raccontato tutto?”
“Certo, glie l’ho raccontontato!”
“E..?”
“E..cosa? ah, vuoi sapere cos’ha risposto?” Nino lo guarda torvo mentre lui ridacchia.
“Ci è rimasta di stucco. Ma non ti gasare ora, era preoccupata per te. Mi ha chiesto di starti vicino perché, secondo lei, avrai proprio bisogno di questo” Nino, parzialmente deluso, commenta con un semplice “Ah!” mentre Gibbì continua
“E non è tutto, Manfredi ha fatto un commento cretino, che non sto a ripeterti, e lei ha avuto una smorfia di disappunto. Beh, ora non chiedermi altro perché il ruffiano non sono avvezzo a farlo, intesi?”
Nino sprizza gioia da tutte le parti e Gibbì, tornato serio, gli chiede a che punto si trova.
“Li sto ancora selezionando, mettendo da parte quelli datati”
“E questi di cosa parlano?”
“Non li ho ancosa esaminati, comincerò a farlo oggi”
“Beh, inutile dirtelo, se hai bisogno conta pure su di me”
Ricreata l’armonia i due riprendono il solito tran tran, interrotto verso mezzogiorno da una inaspettata cisita. È il sindaco in carica Giovanni Rizzuto, questi, che non ha mai messo piede in biblioteca, entra con assoluta circospezione e si rivolge a Nino.
“Buoingiorno..Nino..come va?”
“Buongiorno signor sindaco, tutto bene, grazie!” gli risponde lui, meravigliato.
“Sa, passavo di qua e..ho pensato di fare una visitina. Vorrei dirle, caro Nino, che..se le occorresse qualcosa..non si faccia scrupoli..chieda, chieda pure..”
“La ringrazio. Lo farò senz’altro se dovesse…”
“Bene, bene, ho sempre pensato che lei è uno dei nostri più efficienti collaboratori. Bravo, bravo..”
E senza aggiungere altro toglie il disturbo. Nino soddisfatto, lo segue con gli occhi poi, girandosi verso Gibbì, nota il suo sguardo ironico da cui traspare, però, un inquietante avvertimento. A fine lavoro ritorna di filato a casa a rinchiudersi nella sua stanza. Trrascorrono molte ore finchè sulla sua scrivania non si distinguono tre pile di documenti datati. Dodici copie di delibere di Giunta, tredici di verbali di riunioni di partito e una trentina di fogli di quaderno di appunti autografi di Mazzacane, tutti riguardanti un arco di tempo tra il 1956 e il 1967. Nino, da un primo esame, si accorge che le delibere di Giunta seguono di pochi giorni i verbali del partito. Una delibera è preceduta di sole ventiquattro ore da ben due verbali del partito recanti la stessa data. Una riunione tenutasi al mattino e la seconda il pomneriggio. Deciso più che mai a immergersi in quei documenti Nino inizia dalle delibere, essendo queste battute a macchina sono più leggibili.
Alla fine della lettura le note predominanti sono poche. A parte le piccole elargizioni di denaro a varie associazioni, l’unico punto in comune è l’assunzione di personale a tempo indeterminato. Passando ai verbali del partito, scopre che gli ordini del giorno riguardano proprio le assunzioni. In pratica ognuno di queste veniva preventivamente determinata dal partito. La stranezza riguardava la forma. In ogni riunione veniva fatto un nome da un membro del direttivo e regolarmente approvato da tutti senza alcuna obiezione. Tre volte da don Cosimo, il farmacista del paese, tre volte da don Ferdinando, barone e latifondista, grande produttore di olio e vino, cinque volte da don Antonio, Mazzacane. Una sola volta compare un quarto nome, ma è indicato con una M puntata, e riguarda proprio la seconda riunione pomeridiana, dopo che al mattino don Cosimo aveva espresso un’indicazione diversa. Il pomeriggio, appunto, su indicazione di “M.”, e senza alcuna protesta di don Cosimo, si era chiuso definitivamente il verbale, poi “ratificato” in Giunta il giorno successivo.
Nino, incuriosito, si chiede chi poteva mai essere questo personaggio tanto potente. Spinto dalla curiosità, senza effettuare pause, inizia a spulciare tra gli appunti di Mazzacane. Tra la conferma di una gestione del potere da parte di Mazzacane, principalmente, e dei due soliti don…, senza che sia svelato il mistero di “M.” Nino s’imbatte in un’altra incognita. Mazzacane spesso cita un termine a lui sconosciuto “la Scannatora”. Egli intuisce che debba trattarsi di una località ma non l’ha mai sentita nominare. Il mattino dopo si presenta al lavoro con gli occhi gonfi e la barba non rasata. Vicino l’ingresso incontra Stefania che gli si rivolge in tono apprensivo.
“Nino, mio Dio come sei ridotto, ma ti senti bene?” egli risponde con voce rauca, dovuta alle troppe sigarette.
“Ho lavorato fino a tardi e fumato più di un turco”
“Hai deciso di rovinarti la salute per quel libro?”
“Ma no! È che i documenti sono tanti e..”
“Nino, sei solo all’inizio, e sei ridotto così..”
“Appena avrò inquadrato il lavoro vedtrai che..”
“..che ti ritroverai all’ospedale”
“Gibbì non crede che io possa fercela e più d’uno, anche. Tu sei tra questi?”
“Stupido! Sono solo preoccupata per te. Se poi a te non interessa…”
“Allora credi che ci riuscirò?”
“Sì che ci riuscirai! - dice sospirando – ti conosco abbastanza e so che si molto ostinato. Quando vuoi…”
“Grazie, grazie dei complimenti Stefania”
“Nino, perché lo fai? Perché hai accettato? Solo per dimostrare di esserne capace?”
“Non lo so, ovvero non so spiegartelo. Me lo sono chiesto anch’io ma..non so..sento che devo farlo, sento in me una voce che mi spinge a farlo”
“Ok! Ma, per favore, riguardati. Promesso?”
“Sì. Promesso..promesso” e felice come una Pasqua entra in biblioteca dove Gibbì lo attende con le braccia conserte.
“Buongiorno don Nino! Benvenuto a vossia!” dice ironico.
“Beh, che c’è, sei allegro anche tu stamattina? Ti avverto che oggi non riesci a farmi incazzare, hehe!”
“E chi vuole sfotterti! Adesso poi che sei una persona di riguardo!”
“Guarda che non ci riesci a rovinarmi la giornata!”
“Ma davvero? Allora guarda sulla scrivania” Nino si accorge, infine, di un vassoio con una caffettiera, una tazza e un pacchettino di biscotti. Stupito cli chiede spiegazioni
“Che roba è? Cosa significa?”
“Te l’ho detto che ormai sei una persona importante”
“Che vuoi dire, spiegati!”
“L’hanno portato dal bar prima che tu arrivassi. “è per don Nino” ha detto il garzone. E non ha voluto nemmeno la mancia!”
“Ma chi..?”
“Chi? E che ne so! Forse Mazzacane o qualche tuo fans”
“Avanti, chi?”
“Cosa c’è, ti stai arrabiando forse? Leggi il bigliettino, pezzo di scemo!” Nino legge e infine esclama
“Don Cosimo! Il vecchio don Cosimo!”
“Già, ieri il sindaco e oggi don Cosimo. Ragazzo stai facendo carriera. Di questo passo presto sarai un intoccabile! Ah, puoi spargere la voce che qui dentro ci sono anch’io? Sai, una tazzina di caffè, anche senza biscottini, piacerebbe berla anche a me, qualche volta, non sempre. Ma cos’hai? Sei diventato serio tutto d’un colpo. Suvvia Nino, è il prezzo della popolarità”

*

Mazzacane - cap. 2

Dalla penombra in cui viene a trovarsi sente una voce femminile che gli dice
“Lascialo socchiuso, per favore, almeno ci eviteremo il fastidio del campanello. Sei Nino, vero? Vieni avanti, io sono Rosaria, la sorella di don Antonio”
Attraversando enormi stanzoni, tutti nella penombra, la donna la lo conduce davanti a una porta chiusa. Nino, seguendola, ha solo notato come la casa sia grande e la mobilia antica e che uno spesso tappeto annulla ogni rumore di passi. La donna, allungando la mano verso la maniglia della porta chiusa, prima di aprirla, gli dice
“Cerca di non farlo stancare troppo, mi raccomando”
Nino entra titubante e con gli occhi bassi. La stanza è scarsamente illuminata e al centro della parete adiacente la porta campeggia un letto a baldacchino. Quasi seppellito nelle coltri giace don Antonio Rinaldi. Nino, timoroso di guardarlo, fissa intensamente il bastone poggiato sul bordo del letto. È un bastone da passeggio, nodoso e lucido. L’impugnatura rappresenta la testa di un cane mastino con due luccicanti topazi al posto degli occhi. Per via di quel bastone don Antonio Rinaldi era da tempo e da tutti soprannominato Mazzacane. Un nome che per oltre trent’anni è stato sinonimo di un potere quasi assoluto. Alzando gli occhi, Nino vede una testa calva e un volto rinsecchito, giallo e grinzoso, un naso aquilino e due occhi vividi e lampeggianti come i topazi incastonati nel bastone. L’omone corpulento che Nino ricordava è ormai ridotto a una manciata di ossa ricoperte dalla sola pelle. Se non fosse per gli occhi… Benché allo stremo delle forze, Mazzacane, grazie ai suoi occhi, riesce ancora a suggestionarlo. Con un debole ma deciso gesto della mano lo invita ad avvicinarsi. Nino ubbidisce e Mazzacane, ripetendo il gesto, gli dice
“Avvicinati di più” Poi senza alcun preambolo continua “Devi scrivere un libro sulle mie memorie, senza alcuna fretta, ma devi farlo bene” e dopo un profondo sospiro aggiunge “La..sul comò..prendi..”
Seguendo l’indicazione Nino nota una grossa valigia di cartone, intanto Mazzacane gli spiega
“E’ piena di documenti, alla rinfusa. Alcuni sono datati, altri no. C’è tutto un paese li dentro. Vedi tu quello che ti può servire” Finalmente Nino riesce a trovare il coraggio di parlare
“Ma .. io? Non so.. perche? Perche io?”
“Perché.. sei puro, tu!”
“Non so se ne sarò capace. Non ho mai fatto nulla del genere e, a parte il mio lavoro in biblioteca, i libri li ho solo visti e sfogliati”
“A tutto c’è una prima volta, e tu sei l’unico che possa farlo. E so cha saprai farlo bene”
“Io..vi ringrazio per la fiducia, mi ci proverò…ma.. dovrò disturbarvi spesso..per eventuali chiarimenti”
“Di questo non dovrai preoccuparti molto” poi, quasi divertito aggiunge “No, non penso che mi darai alcun disturbo” e fattosi serio continua “Mia sorella, potrai rivolgerti a lei per qualunque spiegazione. Quella dannata conosce vita e miracoli di tutto il paese, da quando è nata fino a oggi”
“Ma allora perché non lo scrive lei, so che in passato ha pure scritto qualcosa, mi pare di aver sentito dire…”
“No, lei sarebbe troppo di parte e qualcun altro lo sarebbe altrettanto. In un modo o nell’altro”
Mazzacane chiude gli occhi e a Nino pare esausto, quindi in silenzio si alza e, presa la valigia, si avvia in punta di piedi verso la porta. La voce di Mazzacane lo raggiunge. Flebile ma chiara e ferma gli chiede
“Come sta tua madre?” Benchè sorpreso Nino gli risponde d’istinto
“Bene, cioè così così”
“Ah!” Mazzacane non aggiunge altro e Nino esce dalla stanza. Quando si richiude la porta alle spalle appare donna Rosaria che con un cenno lo invita a seguirlo in cucina, dove a bassa voce gli dice
“Ho fatto un tentativo di mettere un po’ d’ordine in quelle carte ma ci ho rinunciato, e non sapendo quali scartare le ho rimesse così alla rinfusa, ma guarda tu stesso”
Nino non aspetta altro e apre la valigia. Dentro vi trova di tutto. Documenti su carta intestata del Comune, altri su fogli protocollo, molti appunti scritti su pagine di quaderni e moltissimi altri, con frettolosa calligrafia, su ogni pezzo di carta avuta a disposizione, finanche su un pacchetto di sigarette aperto e sventrato. Mentre Nino sbircia avido nella valigia donna Rosaria continua
“Su alcuni di questi appunti ci sono le date, alcune di quelle che ricordavo le ho scritte io. Molti sono senza e dovrai individuarle da solo”
“E’ molto importante questo libro?” chiede sorpreso Nino. Donna Rosaria pondera le parole e aiutandosi con dei cenni di assenso risponde
“Sì Nino, è molto importante. Forse oggi non lo è ancora ma tra qualche anno lo sarà senz’altro. Tu sai bene chi è mio fratello e cosa è stato per questa comunità e sai anche bene cosa dice la gente di lui. Oggi non credo che qualcuno possa parlare male ma..appena non sarà più in grado di potersi difendere tutti i suoi nemici, quelli che per anni hanno vissuto nascosti, usciranno allo scoperto e diranno di lui tutte le nefandezze che potranno. Oh, non è che lui sia stato uno stinco di santo ma..ha avuto anche grandi meriti, politicamente intendo, e quelli, soprattutto, desidero vengano messi in risalto.
“Ma a difenderlo ci sono gli amici del partito.. ne ho visti tanti là fuori che attendono..”
Donna Rosaria sorride, lo invita con un gesto a seguirla davanti a una finestra che da sulla piazza e, scostati leggermente i tendaggi, gli dice
“Guarda Nino, guardali, sono tutti lì gli amici del partito. Guardali bene, guarda le loro facce, scruta le loro espressioni, soppesali e giudicali, e poi dimmi cosa te ne pare. Non sono uomini! Alcuni lo sembrano ma non lasciarti ingannare, sono delle iene, peggio, degli sciacalli. Stanno lì ad aspettare che la morte se lo prende. Non aspettano altro, non vedono l’ora di entrare a vederlo nelle condizioni in cui è. E pensare a tutte le volte che sono entrati in questa casa e con gli occhi bassi, intimoriti finanche di guardare la mobilia. Ah se la guardavano invece! Sembravano tante pecore smarrite, timorose che il cane le azzannasse. Sì, il cane, Mazzacane! Lo hanno sempre chiamato così e lui lo sapeva e ne era fiero. Ci godeva. Anche oggi entrerebbero a testa bassa, anzi lo faranno pure il giorno…e, quanto credi che resteranno tali gli amici del partito, eh? Quanto? Te lo dico io, saranno i primi che sputeranno dalla bocca le maldicenze peggiori. Ecco il perché è tanto importante il libro”
Nino ascolta affascinato e senza alcun commento, riprende la valigia, si avvia verso l’uscita ma anche lei, prima che esca, gli rivolge la stessa domanda del fratello
“Come sta tua madre?”
“Così così, grazie”
Nino rientra a casa. La madre, trattenendo la curiosità gli prepara la cena e solo alla fine gli chiede
“Allora, cosa voleva da te? Perché voleva parlarti?” in tono evasivo Nino risponde
“Niente, vuole che scriva un libro sulla sua vita” Con una smorfia di sorpresa, delusione, sospetto, inquietudine e..altro.. lei balbetta
“Cosa?..tu..tu devi scrivere un ..un libro..libro..?
“Sì, tutto qua. E nella valigia c’è una montagna di carte e documenti su cui devo lavorare per farmi un’idea, per lo meno cronologica” Nino si sente importante e con fierezza accende una sigaretta poi, ancora eccitato, va a letto.
L’indomani, puntuale come sempre, entra in biblioteca e, con sua sorpresa vi trova Gibbì che esclama
“Oggi è sicuro che nevica” sorridendo Nino risponde
“Infatti è una delle rarissime volte che tu arrivi in anticipo”
“Gesù! Sei in ritardo di ben otto minuti e tutti in una volta sola. Nino, non ti era mai successo prima di oggi. Ti è scappato sonno o è stato il pensiero di Stefania a non farti dormire?”
Nino non raccoglie e sbuffando va a sedersi alla scrivania sotto lo sguardo indagatore di Gibbì che con calma apparente lo raggiunge e gli fa la domanda che si aspetta.
“Beh, non mi dici niente?”
“Mi ha..no, vuole che scriva un libro su di lui” Gibbì reagisce alla notizia serrando le mascelle e con uno sguardo penetrante commenta duro
“Ti vogliono fottere. Dovresti lasciar perdere, ma immagino sia troppo tardi per tirarti indietro, non è vero?”
“Ma che stai dicendo, mi vogliono fottere! Chi?, chi mi vuole fottere?”
“Lascia perdere, scusa, fa come non detto”
“Non lascio perdere un bel nulla. Cosa volevi dire con quella frase? Cosa sai che io non sappia? Su, avanti, parla!”
“Ma niente, non so niente, stavo solo riflettendo”
“Non è vero, volevi dire qualcosa di preciso”
“Cos’è, non so libero di pensare adesso?”
“Certo che lo sei ma..credevo mi fossi amico”
“Lo sono sì, ragazzo mio! Per questo che..senti Nino, ascoltami bene, perché dovresti interessarti di politica? Cosa ci vai a guadagnare? Vuoi a tuti i costi farti dei nemici? Non ti garba più la vita tranquilla che fai?”
“Politica? Ma quale politica? Che c’entra adesso la politica?”
“Sì che c’entra, testone! Cosa credi di dover scrivere in questo libro, le imprese di guerra di Mazzacane? Ma se quell’imboscato non ha fatto nemmeno il servizio militare!”
“Beh, nella sua vita non c’è stata solo la politica!”
“Quello è nato politico e sta crepando politico”
“D’accordo, ma non è detto che debba tesserne le lodi, devo solo scrivere la sua bibliografia, così come un cronista”
“Già. E gli altri? Quelli dove li metti?”
“Gli altri? Di quali altri parli?”
“Gesù Nino, i suoi e i tuoi contemporanei! Sono tutti politici e non potrai fare a meno di citarli, o credi che se ne staranno indifferenti a tutto ciò che scriverai sul loro conto? Svegliati ragazzo e ascolta cosa ti dice il tuo vecchio..Gibbì, questa è una rogna! Mi spiace solo che ci sei finito dentro senza accorgertene. Vecchio bastardo di Mazzacane, questa non doveva proprio fartela, non doveva proprio! Ma d’altronde, cosa ci si può aspettare da un bastardo?”
“Dai, adesso non esagerare! In fondo non è detto che deve essere per forza così nera come l’hai dipinta!”
“Uhm, aspetta e vedrai!”
I due non si rivolgono più la parola per timore di ferirsi e Nino, oltretutto, pensa di dimostrare a Stefania la sua bravura. Gibbì spesso lo guarda pensieroso e, visibilmente preoccupato scrolla il capo.
A sera Nino si chiude nella sua stanza e inizia a esaminare il contenuto della valigia. Per meglio organizzarsi il lavoro decide di affondare le mani nel mel mucchio di carte e quindi separare sul tavolo i documenti ufficiali dagli altri. Alla quinta “pescata” avverte la presenza di una busta di cellophane con dentro quattro metà di due libretti neri per appunti che qualcuno aveva prima strappato e poi, forse pentito, aveva conservato. Le pagine sono scritte fittemente con una calligrafia minuta e appena visibile ma chiara e leggibile. Tra le righe vi sono molte lettere maiuscole puntate. Nino pensa e alle iniziali di persone e sospirando sul duro lavoro che l’attende riprende il vaglio dei documenti. Alla fine fa un primo esame. I documenti sono stati messi tutti in ordine cronologico. Il più vecchio risale al 1954 e il più recente al 1986, ovvero un arco di tempo di oltre trent’anni. Pressappoco gli anni del potere incontrastato di Mazzacane a Montepiano. Inoltre il primo documento riguarda la copia di una delibera relativa alla prima Giunta comunale dopo le elezioni amministrative locali e Mazzacane vi risulta come assessore con delega all’igiene pubblica. L’ultimo è il passaggio delle consegne al suo successore Giovanni Rizzuto. Il primo atto di Mazzacane sindaco risale al 1956 quando, venuto a mancare per un incidente l’allora sindaco, inspiegabilmente era stato chiamato proprio lui a sostituirlo. Per trent’anni lo sarebbe stato ininterrottamente.
Per tre giorni Nino resta segregato in casa a decifrare appunti e carte varie dimenticandosi finanche di Stefania. Una cosa, comunque, lo infastidisce ed è il comune atteggiamento della madre e di Gibbì. Entrambi gli rivolgono poche parole ma non gli tolgono da dosso sguardi carichi di apprensione. Gibbì, inoltre, lo urta di più perché continua a fissarlo silenzioso e immobile come una sfinge. Le poche volte che si rivolgono la parola lo fanno a monosillabi, come due ostinati nemici.

*

Mazzacane - ca. 1

Montepiano. Un giovedì di metà maggio, anno 1990, ore tredici e trenta circa.
Antonio Capuana, per tutti Nino, si appresta a chiudere la biblioteca che occupa un vasto ambiente del piano terra di un edificio che ospita ai piani superiori la scuola elementare e materna. Adiacente la biblioteca vi è la palestra ginnica con annessi spogliatoio, magazzino e vano caldaia.
Nino, in compagnia dell’anziano bidello Gibbì, ha appena chiuso la porta della biblioteca e si dirige verso l’uscita generale quando un improvviso lampo, immediatamente seguito dal fragore di un tuono li fa sobbalzare. Pochi istanti dopo scatta l’interruttore della corrente elettrica mentre la pioggia inizia a cadere scrosciante. Gibbì, con l’eterna cicca incollata ad un angolo della bocca, alzando lo sguardo al cielo impreca.
“ecco, ci risiamo! Puntuale come un orologio svizzero. Che gli costa al Padreterno di mandarla giù mezz’ora dopo? No, deve costringerci ad aspettare che passa!
“Dai, non te la prendere tanto Gibbì, dura al massimo mezz’ora” minimizza Nino.
“Bravo! Chè a te lo Stato te lo paga lo straordinario di mezz’ora?”
“Hahaha, quando si tratta di soldi, per te…”
“Ehi Nino, ma non dobbiamo ridare la corrente prima di andarcene?”
“No, meglio di no, potrebbero esserci altre scariche. Nel pomeriggio torno qui e la ridò” afferma Nino mentre Gibbì lo scruta con finto stupore.
“Perché nel pomeriggio tu torni qui? Ecco perché non ti sei ancora sposato, hehehe!”
“Gibbì, quando la smetterai di sfottere?” risponde Nino con un’occhiataccia.
“Eh, povera Italia! Come si può andare avanti così? Con tanto ben di Dio che si perde per strada, ah mani mie, mani mie! Maledetta vecchiaia, maledetta..!”
“Dai smettila una buona volta. Sono stufo dei tuoi sfottò”
Una voce femminile, giungendo dal fondo del corridoio ai piedi della scalinata che porta ai locali superiori, interrompe i due. È Stefania, giovane maestra elementare, che chiama Nino mentre Gibbì accentua il suo ghigno ironico. Nino, impacciato, balbetta..
“Ciao Ste..Stefania, ti..ti..serve qualcosa?” mentre con voce appena udibile Gibbì mormora:
“Nino, Nino, lo so io cosa cerca quella lì. E tu cosa aspetti a dargliela prima che Manfredi te la soffia da sotto il naso?” Nino finge di non udire e si concentra sulla ragazza che si avvicina mostrando un libro tra le mani.
“Nino, scusa, solo il tempo di consegnarti questo”
“No, nessun disturbo, e poi non c’è alcuna fretta”
“Si invece, mi devo assentare per alcuni giorni e non mi piace lasciare le cose in sospeso”
Gibbì, intromettendosi, in tono molto educato le chiede perché e dove.
“Vado a Roma per il concorso elementare”
“E ci va solo lei? Dal paese dico..”
“No, siamo in quattro, io Desanto, Filippini e Manfredi”
“Ah, viene pure Manfredi!” esclama senza alcuna intonazione particolare Gibbì, fissando solo intensamente Nino il quale scopre improvvisamente di avere la gola secca. Il nome di Manfredi gli ha fatto scattare un moto di gelosia. Gibbì, intuendo lo stato d’animo di Nino corre in suo aiuto e, togliendogli il libro dalle mani, dice:
“Dai a me Nino, ci penso io a metterlo a posto, tu puoi anche andartene. Ah, signorina Stefania, glie lo darebbe un passaggio a Nino, quanto a me non preoccupatevi, viene mia nipote a prendermi”
I due giovani si allontanano con l’auto di lei e durante il tragitto Nino scopre un insolito lato del carattere della donna. Stefania guida con sicurezza nevrotica che lo soggioga al punto che, scoraggiato, fa il paragone tra lui e l’aitante Manfredi. Giunti a destinazione, Stefania, quasi eccitata dice;
“Eccoci qua, se non ci fosse stato tutto quel traffico saremmo arrivati prima”
“Così domani parti?” le chiede lui.
“No, oggi pomeriggio, intendiamo arrivare a Roma prima che faccia notte”
“E quanti giorni starai via?”
“Il concorso si farà venerdi ma torniamo domenica. Sai, non capita tutti i giorni di andare a Roma e quindi sabato ne approfittiamo per folleggiare”
Soffocato dalla gelosia Nino non dice nulla e lei continua:
“Ehi, Nino, perché non ti prendi anche tu tre giorni di ferie e vieni con noi?”
Pur lusingato Nino si defila.
“Grazie per l’invito ma non posso lasciare la mamma sola. Grazie lo stesso, comunque”
“Beh, noi lo stiamo dicendo a più d’un amico”
“Grazie lo stesso, anche per il passaggio e.. auguri”
“Grazie Nino, ci rivediamo lunedì mattina. Ciao”
Lasciata l’amica Nino entra in casa salutando la madre che lo aspettava vicino alla finestra.
“Ciao Mà, mi spiace per il ritardo, sai la pioggia…”
“Ciao, temevo che ti bagnassi, ti hanno dato un passaggio? Ero alla finestra e tiho visto arrivare in macchina, chi ti ha accompagnato?”
“Un’insegnante delle elementari. È Stefania mamma, la conosci”
“Si, la conosco, è una brava ragazza”
Durante il pranzo Nino ha modo di osservare come la madre si muove con lentezza, pesantezza e sofferenza. Pensa alle sue artrosi, inoltre lei mangia anche di malavoglia, con gli occhi bassi e lo sguardo fisso nel piatto e la mente rivolta chissà dove. Nino intuisce che qualcosa la turba. Infine, imrovvisamente lei gli dice:
“Prima, prima che tu arrivassi, ti hanno cercato per telefono”
“Sì, e chi era?”
“Da casa Rinaldi, era donna Rosaria”
“Chi?” chiede Nino con genuino stupore.
“Donna Rosaria, la sorella di don Antonio”
“La sorella di don Antonio? E che voleva?”
“Non lo so, ha detto che don Antonio ti vuole parlare. Vuole che tu vada da lui nel pomeriggio, alle tre”
Nino, è davvero sbalordito dalla notizia, tanto che ripete le parole della madre.
“Io devo andare da don Antonio alle tre di oggi!?”
“Sì, e non ha detto altro”
“Ma perché, don Antonio è qui in paese? Sapevo che lo avevano portato a Milano…”
“Dicono che l’hanno riportato a casa questa notte. Non possono fare più niente per lui. Si dice in giro che ha i giorni contati”
“E vuole parlare con me in punto di morte??” Lei non risponde, scrolla le spalle e sta per alzarsi quando ci ripensa e risiede. Poi, con molta circospezione gli chiede
“Tu è da molto che non parli con don Antonio?”
“Chi io? Si e no ci avrò parlato una paio di volte in tutto, quand’era sindaco e per motivi di lavoro”
“Chissà che vorrà da te!” quindi, in silenzio, sparecchia la tavola e prepara il caffè. Anche Nino è agitato, continuia a chiedersi cosa mai voglia da lui don Antonio Rinaldi, e in punta di morte per giunta. Dopo sparecchiato lei gli dice
“Devi metterti il vestito buono, voglio che tu faccia una buona figura”
“Mamma, non devo andare a un ricevimento. Già mi imbarazza dover andarci, figurati se incravattato poi! No, non se ne parla nemmeno”

Camminando a testa bassa e con le pulsazioni che aumentano ad ogni passo Nino non ga alcun caso alle persone che incontra per strada. Ad ogni modo la noncuranza è reciproca. Perciò ha un sobbalzo quando, contemporaneamente ad una pacca sulle spalle, sente la voce irriverente di Gibbì.
“Ehi Nino, che hai perso?” Nino, a disagio, risponde evasivamente.
“Cosa? Oh, no, nulla ero solo distratto”
“Non starai andando a ridarla, vero?”
“A ridare cosa?”
“Ma la corrente, no? Ehi Nino, sveglia!” Nino,imbarazzato al massimo, fa una piccola ammissione dicendo
“Gibbì, per favore, vacci tu..io non posso farlo.. ecco ti do la chiave”
“Nino, la chiave ce l’ho anch’io, sono il bidello, no? Ma tu dove stai andando, in piazza a salutare Stefania?”
“Come? Ah sì, certo!”
“Uhm, e perché vai da quella parte allora?”
“Perché partono dalla piazza… l’hai detto anche tu”
“Sì, ma da quell’altra” ormai sconfitto Nino gli rivela la sua destinazione.
“Sto andando a casa Rinaldi. Questa mattina la sorella ha telefonato alla mamma dicendo che don Antonio vuole parlarmi, devo essere lì per le tre”. Gibbì, di colpo serio, lo fissa intensamente.
“Mazzacane vuole parlare con te? Perché riesce ancora a parlare? Ho saputo che il cancro non lo fa nemmeno respirare. Cosa vuole da te?”
“Non lo so, è stata una sorpresa anche per me. Non sapevo nemmeno che l’avessero riportato in paese”
“Vuoi che ti accompagni” gli chiede Gibbì apprensivo.
“No grazie, comunque domani ti racconto tutto. E poi, tu devi andare a dare la corrente!”
“Ma va là, l’ho ridata stamani prima di andarmene. Ma ora va, sono quasi le tre”
Nino s’incammina e quando si ritrova in prossimità della meta si lascia quasi prendere dal panico. Dirimpetto la casa, davanti un bar, stazionano tutti di notabili del paese. L’impulso di voltare le spalle viene debellato dall’inconscio timore riverenziale nei confronti del personaggio che lo attende. Accelera i passi e, notato il portone socchiuso, vi s’infila rapidamente.

*

Come lui

Sul ripiano color noce del tavolo del soggiorno spicca solitaria una busta bianca, la guardo curioso, è indirizzata a me, rivolgo lo sguardo a mia moglie che indaffarata a togliere granellini di polvere mi risponde con un secco “leggi”. Prendo la busta, leggo il mandante, la segfreteria del liceo scientifico. Mi rivolgo di nuovo a lei, questa volta espressamente.
“Cos’è, Valerio ne ha combinata un’altra? Quel ragazzo ci farà impazzire. Di che si tratta?”
“Leggila” conferma lei agitando il pennacchio sullo schermo della tv.
“Tu l’hai già letta?” le chiedo mentre l’apro. Domanda inutile perché si nota che non è stata ancora aperta. Estraggo la lettera e vengo messo a conoscenza dalla presidenza che dovrò recarmi a scuola per conferire con il preside. Valerio si è assentato illegittimamente all’inizio dell’ultima ora di quattro giorni prima.
“Che significa che si è assentato?” chiedo a lei mentre il sangue comincia a pulsarmi in testa.
“Significa che quando è suonata la campanella ha alzato i tacchi e se n’è uscito contro ogni avvertimento del professore”
“Quindi te l’aveva già detto?”
“Sì, mi aveva accennato già qualcosa in proposito, aveva detto, però, che era stata tutta la classe a uscirsene, non solo lui”
“E perché l’avrebbero fatto?”
“Pare che mancasse un professore e invece di starsene in classe senza far niente se ne siano usciti prima”
“Quindi questa lettera l’hanno mandata a tutti i genitori?”
“Pare di no, solo a chi ha organizzato la cosa, è per via che sono ancora minorenni”
“Questo significa che lui è stato il promotore.. diciamo della protesta?”
“Si, così pare”
“Ma santo Iddio, possibile che tu sappia solo rispondere così pare e così sembra?”
“Inutile che ti scaldi, cosa vuoi che ti dica di più?”
“”Contro chi si è messo questa volta?”
“Quello di matematica, cos.., Niente..”
“Cristo santo, la matematica! Già deve portarsi un debito in Fisica e zoppica Chimica, adesso facciamo il tris!” Esclamo furente. Abbiamo due figli, Simona, la grande studia con profitto all’università e Valerio, il piccolo di sedici anni, che ci fa impazzire.
“Il terno, si dice il terno” mi risponde lei meticolosa, facendomi adirare di più.
“Già, un bel terno secco! E tu non sai dire altro che queste stupide precisazioni, invece di preoccuparti per la piega che sta prendendo questa situazione”
“Scusa, quale piega, quale situazione? È come se avesse marinato la scuola, ma che dico.. l’ultima ora. Certe cose le abbiamo fatto anche noi al liceo, o te le sei dimenticate?”
“Puttana miseria, Clara, qui ha mancatoi di rispetto a un professore, altrimenti non mi avrebbero convocato. Ed io cosa gli vado a dire al preside? Che mi dispiace? Che non succederanno più spiacevoli situazioni? Questa cos’è la quarta volta che succede quest’anno?”
“E’ solo un ragazzo adolescente, Bruno, non dico che bisogna passarci sopra ma con un po’ di pazienza, parlandoci, lo si può responsabilizzare”
“Uh, che filosofia! E ci dovrebbe farlo questo, la madre o il padre? Ma se igni volta che ci ho provato a parlargli mi hai sempre criticato!”
“Per forza. Tu non sai cosa significa parlare, alzi solo la voce…sì come stai facendo adesso con me, non te ne accorgi, credi di fare bene e invece sbagli tutto”
“E ti pareva se non arrivavamo alle critiche! Tu non hai capito nulla di quel ragazzo, credi sia un angioletto, come quando ancora poppava dal biberon, è furbo e malizioso e sa ben approfittare proprio di questi tuoi passaggi. Lui mi sgrida ma lei poi mi perdona, ecco come agisce e ogni volta che io alzo la voce, che poi è l’unica cosa che faccio, corre da te con il muso lungo e tu a coccolarlo, anzi a prendertela con me come se fossi io colpevole di chissà cosa. Invece in quei momenti non ti accorgi dell’espressione di finto vittimismo di tuo figlio”
“Perché tu alzando la voce e minacciando credi di ottenere qualcosa?”
“Quante volte devo dirti che se non ti intrometti e mi lasci agire a modo mio per una settimana vedi come te lo addrizzo io”
“Ma guardati, occhi di fuori e tutto paonazzo, somigli proprio a tuo padre!”
“Cazzo significa adesso questo? Perché lo tiri in ballo ora?”
“Già, perché tu non te ne accorgi ma in certi momenti assomigli tutto a lui. Mi dispiace dirtelo me è davvero così, diventi tale e quale a lui”
“Io non sono come lui, non sono un manesco alcolizzato. Come ti viene in mente di rinfacciarmi certe cose?”
“Ascolta Bruno, ti sei fatto crescere barba e pizzo ma questo non fa cambiare, tu diventi come lui anche se sei astemio”
“Perché tenti di ferirmi adesso? Vuoi distrarre l’attenzione dal vero problema di Valerio”
“No Bruno, è da tempo che dovevo dirtelo. Vedi, tu sai che io con tuo padre, fino all’ultimo momento in cui è vissuto, non ci affatto legato. Mi faceva paura la sua personalità, quando alzava le mani su tua madre e anche su dite e i tuoi fratelli, ma questo non mi ha impedito di amarti e di sposarti. Quabdo tu mi sussurravi, te lo ricordi vero?, che mai saresti stato come lui io ti ho sempre creduto ma con qualche riserva. Con lui non sono mai andata d’accordo, non gli ho dato mai soddisfazione, in fondo io non ero sua figlia, l’importante che stava alla larga da casa mia”
“Vuoi dire che ha tentato di molestarti in qualche modo?”
“No, cosa vai a pensare, se l’avesse fatta avrei mollato tutto in un batter d’occhio. Ho solo pregato che tu non diventassi un giorno come lui”
“Non lo sono, questo lo sai bene, e non lo sarò mai”
“Bruno, c’è un’altra cosa che voglio dirti, ma non equicocare, tu hai sempre litigato con tuo padre, per tutto, qualsiasi cosa, non vi era quasi nulla che vi accomunava, tranne il carattere, ma, in tutta sincerità, tuo padre dal lunedì mattina fino al venerdì pomeriggio non toccava una goccia di alcool, poi fino alla domenica si combinava da corsa. Che io sappia non ha mai alzato né la voce né un dito sulla famiglia in quei giorni, ha sempre lavorato come un forsennato nell’azienda guadagnandosi la nomea del “Buon Nerone”. Scontroso, taciturno, ostinato, pugno duro in ogni situazione ma anche ligio al dovere, comprensivo per le disavventure dei suoi operai, sempre puntuale con la paga, insomma diritti e doveri. E da te, Bruno, non ti ho mai sentito dire una sola parola contro di lui in tale riguardo. La cosa non ti dice nulla?”
“Cosa dovrebbe dirmi?”
“Da lui hai ereditato oltre l’azienda anche il suo modo di trattare con gli operai. Nessuno si è mai lamentato di te, i sindacalisti hanno sempre detto che magari in Italia tutti i padronoi fossero come e e i tuoi fratelli. Ti ho osservato più volte alle prese con grane di lavoro sui cantieri e in te ho visto la stessa sua determinazione, quella che tu hai sempre criticato facendola passare per disumanità familiare. Tu con lui reagivi esattamente come Valerio fa con te. Anche tu con lui sei autorevole e determinato, sempre pronto a riempirgli la testa della responsabilità che dovrebbe avere alla sua età. Ma quale responsabilità Bruno, quella che anche tu contestavi a tuo padre a sedici anni? Ricordo una volta che sei corso da me con le lacrime agli occhi per non so quale motivo ti eri scontrato con lui e ora tu critichi Valerio perché fa gli occhioni gonfi alle tue sfuriate?”
“Io non sono come lui, io… io… contestavo lo spazio che non mi veniva accreditato, la mancanza di fiducia, la libertà d’azione, ma solo dopo aver finito gli studi”
“Non è vero, tu stesso mi hai raccontato di come una volta di ha dato uno schiaffone sulla nuca facendoti sbattere i denti contro il bordo del tavolo perché non ti applicavi nello studio”
“E’ stata l’unica volta che mi ha messo le mani addosso, poi non l’ha mai più fatto”
“Però bastava un suo sguardo ammonitore accompagnato da un cupo silenzio a farti intimorire”
“Cosa…?”
“L’hai raccontato tu, non me lo sono inventato io. Bruno, io ringrazio il Signore ogni giorno per averti tenuto lontano dall’alcool, anche se in qualche circostanza, agli inizi, mi è capitato di vederti alzare il gomito, sono stata in apprensione. Ma ti giuro, sul bene che ti voglio e che voglio ai nostri figli se tu fossi minimamente diventato come lui non avrei esitato u istante a lasciarti”
Non ho osato ribattere, le ho lasciato l’ultima parola. Ciò che mi ha detto mi ha scosso. Non è stato il ricordarmi mio padre ma per quello che mi ha rivelato sui suoi timori. Senza dire nulla l’ho lasciato ai suoi granellini di polvere e mi sono rinchiuso nello studio a riflettere. Conscio ho aperto l’ultimo tiretto della scrivania, dove sono riposti alcuni raccoglitori di vecche fotografie di famiglia. Li ho aperti e rovistato tra loro. Alla fine ho trovato una foto di mio padre Valerio scattata quando aveva circa cinquanta anni, la stessa mia età di oggi, poi ne ho trovato un’altra, mia questa volta, scattata una settimana fa e provvisoriamente riposta in quel tiretto in attesa di doverla incorniciare, incomprensibile desiderio di Clara, le ho affiancate, sono entrambe della stessa dimensione 18x12. Le osservo attentamente.
La prima cosa che mi colpisce in entrambe sono gli zigomi e gli occhi, anzi lo sguardo, quasi ammonitorio, un brivido mi percuote, è lo stesso. Provo a immaginare il mio volto scevro di barba e pizzetto, un altro brivido, sembra la foto della stessa persona scattata a distanza di trenta o quaranta anni di distanza, come se il tempo si fosse fermato. Sì il tempo..il tempo…
“Bruno, cosa fai lì impalato come uno stoccafisso, vai a controllare quell’impalcatura che mi sembra malmessa. Avanti muoviti perdio, non dormire in piedi!”
Una rabbia inespressa mi monta alla testa, stringo i pugni, serro le mascelle, quasi puntando i piedi mi dirigo marciando, sotto lo sguardo divertito dei carpentieri, verso il punto da lui indicatomi. Sento i loro sguardi addosso ma nessuno osa dire mezza parola.
“E voialtri lassù che cazzo state a fare? Forza! Su con le chiappe che si fa notte”
“Maestro, sono solo le dieci di mattina!” afferma uno tra le sghignazzate generali.
“E di questo passo tu non arrivi a sera. Forza fannulloni che il mattino ha l’oro in bocca. Entro stasera tutta l’impalcatura dovrà essere sistemata, Bruno, alza i tacchi, non dormire in piedi, questo vale anche per te, dormiglione”
Osservando le foto la mente è andata oltre nel tempo. Solo ora mi accorgo che il passare degli anni ha scalfito una nebbia che credevo fitta e impenetrabile. La stessa inizia a diradarsi. Altre immagini si accavallano. Liti furibonde fra me e lui, io che me ne andavo via con il magone e lui che calava ancor di più la sua impassibile saracinesca. Lo rivedo il sabato, con i postumi delle bevute fatte la sera prima con i suoi amici. Un particolare attira la mia attenzione, o meglio l’assenza di un fondamentale particolare, non l’ho mai visto bere con i suoi amici. Solo ora mi chiedo come si comportava con loro, uno che beve in quel modo non può non essere espansivo e a sentir loro hanno sempre magnificato la sua compagnia. Allora perché in casa era così diverso?
Sospirando scrollo le spalle, riguardo le due foto. La somiglianza è impressionante, non so cosa pensare. Conservo le due foto, prima di mettermi a piangere.

*

La gallina Mata Hari

La gallina Mata Hari

Il guasto al cineproiettore dell’Ariston si riscontrò più grave del previsto e, invece delle due solite settimane, il cinema rimase chiuso per quasi due mesi. Per le bande di quartiere fu un periodo drammatico perché dopo neanche un mese cominciarono a frazionarsi in tanti gruppi e sottogruppi, alcuni dei quali composti di appena quattro o cinque elementi. L’anarchia divenne totale e liti e zuffe varie scoppiavano ogni momento e quando succedeva qualcosa la colpa era ovviamente di tutti, che c’entrasse o meno. A tal proposito vigeva un detto assolutamente rappresentativo. “La pipì bagna il letto e il culo le busca” .
Bisognava correre ai ripari ed allora i capi zona indissero un summit per analizzare la situazione. Il luogo prescelto fu lo spiazzo intorno al lavatoio pubblico, alla periferia del paese e nel mandamento del rione Fontana, il nostro per le precisioni. Lì, alle sei del pomeriggio, i sei capi zona vi arrivarono accompagnati dai relativi sottocapi e in tutto vi si radunò una piccola folla di circa trenta ragazzini. I sei capi si disposero a cerchio in un angolo tra il lavatoio e la fontana del leone (una sorgente vecchia di secoli) e, a circa dieci metri di distanza il semicerchio dei sottocapi.
Dopo un’ora di chiacchiere inutili ancora non si era trovata una soluzione, quando dal gruppo dei sottocapi si levò alto un grido di richiamo. Era Rocky Red, ovvero Rocco il rosso, chiamato così per la capigliatura e le tante lentiggini dello stesso colore che lo riempivano totalmente. Questi era anche lo sgobbone non solo del suo gruppo d’appartenenza ma anche di tutte le bande, almeno era così considerato, a torto o a ragione (più a torto però..). Aveva sì un’infarinatura complessiva, però faceva un’enorme confusione tra personaggi ed epoche diverse, ma gli andava spesso bene per la nostra totale ignoranza dovuta alla scarsa applicazione allo studio.
“La fortezza – gridò all’improvviso con il dito puntato verso l’alto – facciamo l’assalto alla fortezza!”
Di colpo il summit si zittì, tutti i capi stavano seguendo la direzione del dito del Rosso e ognuno di loro già iniziava a spremersi le meningi. In effetti, la soluzione proposta non era poi tanto malvagia, bastava solo elaborarla al caso.
Qui, però, bisogna inevitabilmente descrivere i luoghi della futura battaglia.
Alla periferia del paese vi era il lavatoio, a dieci metri di distanza e a dieci di maggior dislivello vi era la testa dell’aquila, una roccia enorme che spuntava da terra avente quella strana forma. Sotto la testa in una piccola caverna naturale noi del nostro quartiere vi avevamo fatto un personale rifugio dove ci andavamo a rintanare appena potevamo. Non è che vi facessimo chissà cosa, ci raccontavamo balle o giocavamo d’azzardo con le figurine o con i tappi delle bottiglie di birra sempre aventi come palio le figurine, (piccola spiegazione del gioco, consisteva nel posizionare sul palmo di una mano dieci tappi uno dietro l’altro e poi fare il “palmo-dorso-palmo” ovvero lanciare in alto i tappi tutti insieme farli ricadere sul dorso della mano, rilanciarli per riceverli sul palmo. Vinceva chi alla fine n’aveva salvato il numero maggiore. Era un gioco semplice ma non per niente facile.).
A trecento metri di distanza ma più in alto di una cinquantina di metri vi era la fortezza. Questa consisteva in quattro rocce come quella della testa dell’aquila, disposti a formare un quadrato. Tre di queste erano quasi uguali e una invece era più piccola delle altre, lo spazio racchiuso da questa naturale formazione era appena un centinaio di metri quadri che varie generazioni prima della nostra avevano provveduto ad appianare con terreno fresco fino a farlo diventare piatto con tanto di erba che vi cresceva spontaneamente. Arrivare alla fortezza non era per niente difficile perché lambiva una strada comunale, questo da un lato, ma dagli altri tre lati la faccenda era piuttosto complicata. Da est e da nord era pressoché impossibile per la proibitiva scarpata, da ovest si poteva anche attaccarla ma con la dovuta attenzione. Ovviamente era da questo lato che era sempre attaccata e di solito senza riuscirci, il successo dipendeva dal rapporto tra assedianti e assediati.
I capi ci misero solo una decina di minuti per accordarsi e alla fine convennero di risolvere la questione in equo modo.
I sei quartieri del paese avrebbero sorteggiato cinque guerrieri ciascuno per comporre la squadra dei difensori e altri venti per quella degli attaccanti. In totale trenta difensori e centoventi assedianti.
Il rapporto era in verità giusto, le regole quelle solite e semplici. Quando uno dei guerrieri era ferito doveva gridare semplicemente “ferito” e defilarsi dal campo di battaglia, se invece catturato, bastava gridasse “prigioniero” e si defilasse anche lui per raggiungere le due zone specifiche dove si riunivano i prigionieri senza mischiarsi tra loro, questo per gli eventuali scambi. Mica facevamo le cose alla leggera noi! Giorno stabilito per l’attacco il primo sabato pomeriggio dalle sedici in poi. Nient’altro, tutto il resto era affidato alle varie strategie.
I giorni precedenti l’attacco, appena possibile i cinque capi del corpo assalitori si riunivano presso il nostro piccolo rifugio dell’aquila, che per l’occasione diventava fin troppo striminzito, e si studiavano le strategie. Come al solito era il Rosso che lanciava le idee, anche le più strampalate, come quelle di arrivarci col paracadute. Una di queste fu anche presa in considerazione per pochi secondi e poi scartata. Non era poi tanto malvagia, bisognava attaccare la fortezza dall’alto della montagna, con pietre e proiettili vari fino a farla capitolare, ma per questo bisognava avere almeno un giorno intero a disposizione, il tempo necessario per schierarci senza allertare i difensori per l’evidente assenza dalla strada di un centinaio di ragazzini sin dal mattino presto. A preoccuparci non erano le armi da utilizzare perché scriteriatamente era ammesso di tutto ma il ritorno a casa con i vestiti possibilmente integri perché altrimenti erano davvero guai. Ferite ed escoriazioni erano all’ordine del giorno, non destavano alcun pensiero sia in noi sia nei nostri genitori, semmai si preoccupavano vederci tornare a casa senza un graffio perché allora sospettavano avessimo combinato qualcosa di imperdonabile (vedasi Giacchino, il vasaio).
Tre giorni di spremute di meningi ma ancora non si era trovata uno straccio di strategia fin quando il diabolico Rosso ebbe quella geniale.
“Ducse! – esordì eccitato verso Lorenzo l’alianese, (questi era il capo della alleanza, era chiamato così perché il padre non era di Montepiano ma di un paese vicino, Aliano, il paese di Carlo Levi) – Ducse eureka, eureka!”
“Rosso, che cavolo dici? Cos’è questo ducse?” chiese Lorenzo, grande capo massimo ignorante.
“E’ il titolo dei romani al loro capo” rispose risentito il Rosso.
“Non me ne frega niente, chiamami Cesare!” ordinò indispettito.
“Allora ti chiamo il Magnifico, va bene?” disse speranzoso ed ostinato il Rosso.
“Ho detto Cesare e Cesare sia, se non vuoi che te le suono”
Debellata ogni ostinazione il Rosso passò ad enunciare la strategia. Non era male, si poteva fare, e alla fine si attuò. Consisteva nel dividere gli assalitori in due gruppi di sessanta combattenti ciascuno, uno avrebbe fatto finta di attaccare dal solito posto della roccia piccola a ovest e l’altro, invece, avrebbe attaccato dalla strada comunale, allo scoperto. Sembrava incredibile, ma si poteva fare, bastava far convergere tutta l’attenzione dei difensori verso le macchie di ginestre in basso quel tanto da consentire al secondo gruppo di avvicinarsi con circospezione lungo l’argine a monte della strada, quello alberato e con maggior possibilità di acquattarsi.
Furono sufficienti pochi minuti e la strategia, elaborata a puntino, fu approvata all’unanimità.
Mancavano solo due giorni all’attacco e l’unico problema era solo quello di mantenere il segreto. Ci riuscimmo in pieno, niente trapelò nonostante gli sfottò a cui eravamo sottoposti dal gruppo dei difensori, in un caso anche appartenente alla stessa famiglia di un assalitore.
Arrivò il gran giorno, i finti assalitori riuscirono ad attirare tutta l’attenzione su di loro, mentre la colonna dei veri attaccanti lentamente procedeva lungo la strada. Per riuscire nell’impresa bisognava sferrare l’attacco allo scoperto ad una distanza di venti metri, non oltre, per non consentire ai difensori di organizzarsi. Dalla strada sentivamo gli sberleffi a cui la prima colonna era sottoposta, anche al lancio intimidatorio di qualche sasso dall’alto. Tutto stava procedendo nel migliore dei modi, ma. non avevamo fatto i conti con un solo grande imprevisto: la presenza sulla strada a pochi metri dalla fortezza di una grigia gallina ruspante che beccava nei dintorni.
Eravamo arrivati ad una trentina di metri dalla meta, quando improvvisamente la gallina si bloccò, alzò la cresta e rimase col becco rivolto verso di noi immobile a fiutare il pericolo. Noi facevamo lo stesso acquattati tra i cespugli. Dopo un interminabile minuto lei riprese a beccare e noi ad avanzare ma, fatto sì e no due o tre metri ecco che la maledetta si animò.
Dapprima rimase di nuovo immobile e poi squarciò il silenzio con un poderoso “Coccodè, coccoccodè!”
Noi ci acquattammo il più possibile, ma ella, infingarda, continuò: “Coccoccodè, coccoccodè!” a questo punto allargando le ali e mettendosi a salterellare.
Infine alcuni difensori, incuriositi, volsero l’attenzione verso la strada finché non si accorsero della nostra presenza. A quel punto si scatenò l’inferno. Fummo presi di mira da una gragnola di proiettili d’ogni tipo e dimensione ed essendo il nostro fronte d’attacco frazionato per una lunghezza eccessiva, quasi cinquanta metri, ci fu impossibile compiere la benché minima sortita, cosa che invece riuscì alla perfezione ai difensori che, lasciando di guardia alla scarpata una mezza dozzina di loro si catapultarono su di noi costringendoci a rovinosa e impietosa fuga.
Un’ora dopo stavamo tutti riuniti davanti il lavatoio sottoposti allo scherno dei difensori esultanti e deridenti dall’alto. Dopo lo smacco bisognava trovare un capro espiatorio. Per la verità ce lo avevamo già: la gallina infame e traditrice.
“Tutta colpa di Marta Cara” sentenziò Rocco il rosso e la maggior parte di noi a fargli il coro con assensi d’ogni tipo.
“Marta chi?” chiese uno dei capi, maldisposto verso la cultura di Rocky.
“Marta Cara” ripropose questi con l’atteggiamento del saputello.
“Mai sentita, e chi sarebbe?” chiese più ostinato l’altro.
“Una famosa spia che poi fu giustiziata” specificò il Rosso con supponenza.
“Cretino, quella era Mata Hari” disse una voce tra la piccola folla, quel tanto da far scoppiare a ridere tutti e a far diventare cremisi il Rosso.
“Non ha importanza chi è, quella maledetta gallina deve pagarla, ci state?”
Come no! C’era bisogno di chiederlo? La risposta fu unanime.
Mezz’ora dopo la rea fu catturata e legata per la gola con dello spago ad un albero. Fu un processo bulgaro, senza una corte, senza una giuria, soprattutto senza un avvocato difensore. In dieci minuti venne letta la sentenza: condanna a morte tramite… già, come?
Piccolo, supplementare summit, la decisione: fiondata da trenta passi da un plotone di cinque elementi, uno per ogni rione della coalizione. Detto fatto, tiri imprecisi, gallina starnazzante ma viva, anzi nemmeno sfiorata. Esecuzione ripetuta ben tre volte, gallina impazzita e quasi suicida con lo spago alla gola ma viva e vegeta. Incazzatura generale dell’alto comando e uno di loro che si avvicina, tira lo spago e impicca la gallina che grida ad ali aperte a più non posso.
“Così sta ferma, tirate ora” esorta il geniaccio. Ultimo tiro, mira da schifo, gallina ormai silenziosa e dondolante come pendolo.
“Giustizia è fatta!” esclama trionfante Lorenzo, che doveva essere il magnifico. “Andiamo via”
Detta così poteva sembrare la soddisfazione di chi ha ottenuto giustizia, ma a me parve invece un frettoloso “diamocela a gambe prima che ci prendano”. Nel defilarci chiesi al compagno più vicino, uno del mio quartiere, chi mai fosse il proprietario della gallina.
“Non preoccuparti è Zi Teresa la Zellosa!” tanto bastò a rasserenarmi non poco. Teresa la Zollosa era una specie di strega malvista da mezzo paese, (Zellosa, in dialetto vuol dire irascibile) e pertanto non si prevedevano rappresaglie paterne.
Pochi passi più in là la incontrammo che chiamava la gallina “Pio, pio, pio,pio! Avete visto la mia gallina grigia?” chiese a tutti e noi a brontolare di No. Ma non eravamo arrivati nemmeno alle prime case del paese che la sentimmo urlare a perdifiato e lanciare anatema contro di tutti minacciandoci di ogni divina maledizione. La fuga a quel punto divenne inevitabile.
Ore venti, ritorno a casa. Apro l’uscio e vedo mio padre di spalle alla finestra che impugna il mio righello di legno, sottomarca della Martini, da sessanta centimetri lordi, e lo fa battere sul palmo dell’altra mano, delicatamente e ritmicamente.
“Ciao pà, che c’è?” chiesi fingendo di non capire.
“Perché, cosa dovrebbe esserci?” il righello continuava a battere minaccioso.
“Che vuoi fare col mio righello?” chiesi inutilmente speranzoso.
“Tu cosa pensi voglia fare?” pac-pac-pac il ritmo era incessante.
“Papà che ho fatto adesso? Mi fa ancora male!” affermai con le mani sulle natiche.
“Io con te non so come fare, sembra che le mazzate non facciano effetto”
“Non è vero pà, tu te la prendi sempre con me, anche quando non ho fatto niente”
“Sei fortunato che la gallina era di Teresa la Zellosa”
“Sì, è vero pà, quella nessuno la può vedere” ed io, come un cretino gli spiattellai quello che ancora non sapeva ma che sospettava solamente.
“Ah, quindi tu non hai fatto niente?” solo allora mi accorsi della mia stupidaggine e cercai di correre ai ripari. Allargai le braccia e completai l’opera d’autodistruzione.
“Non sono stato io a strozzarla” dissi euforico pensando di cavarmela.
“Te l’ho detto, sei fortunato che la gallina era di quella strega, ma con te devo cambiare atteggiamento. Da lunedì vieni con me sul cantiere, non farai niente, ma almeno ti alzerai all’alba ed io ti terrò d’occhio tutta la giornata”
“Sì, papà, promesso, vengo con te al cantiere” affermai euforico. Se quella era la punizione ebbene l’accettavo senza tentennamenti. Tranne la sveglia alle cinque del mattino, per il resto era una pacchia, poi lui sarebbe stato impegnato tutto il santo giorno a dirigere lavori e maestranze che non si sarebbe occupato di me.
Risollevato nello spirito mi avviai fieramente verso la mia stanza passandogli, però, proprio davanti. Allora ..Pac! Ecco il righello.
“Ma papà! Perché adesso, accidenti mi fa ancora male dall’altra volta!”
“Così lunedì non ti fai scappare il sonno! Te lo ricorderai, vero? Sveglia alle cinque”
Accidenti e come me lo sarei dimenticato, con un colpo aveva preso tutte e due le natiche! E ancora non mi era passato il ricordo del vasaio!
Ah, per la cronaca, all’epoca feci una scoperta: non è vero che i gatti hanno nove vite, le galline ne hanno una in più. Quella stramaledetta il giorno dopo andava ancora razzolando disinvoltamente.

*

L’ultimo eremita - parte seconda

Devo ammettere che appena messo piede sul sicuro poggio tirai un bel sospiro di soddisfazione, non è da tutti i giorni infatti che un sessantenne pensionato dopo una intera vita vissuta tra i banchi di un liceo con le poche escursioni alla ricerca di funghi si possa improvvisare un Indiana Jones o un pellerosse mohicano. Compiaciuto rivolsi lo sguardo alle mie spalle e la vista dello strapiombo appena oltrepassato mi riempì di orgoglio. Sinceramente in quel momento non pensai affatto che in giornata avrei dovuto rifare la stessa strada per il ritorno. Mi concentrai invece sul luogo in cui mi trovavo.
Il terrazzamento era lungo una cinquantina di metri e largo mediamente due, con punte di tre nella parte centrale, quella davanti l’accesso alla grotta. Proprio in quella zona vi era l’origine del fumo, dovuto alla bruciatura di un mucchietto di foglie e sterpaglie in parte secche e in gran parte ancora verdi e umide. Al centro dello spazio, quasi a mezza distanza dalla grotta era stato improvvisato un braciere fatto di pietre disposte a semicerchio e in quell’incavo erano state deposte le foglie. Non molto lontano dall’improvvisato focolaio vi era un grosso mucchio di sterpi e foglie che, poco alla volta, sicuramente venivano usate per alimentare il fuoco. Ovvio che in quelle condizioni il fumo che ne scaturiva fosse grigio, quasi bianco, e per la quasi mancanza di vento si innalzava alto nel cielo come una colonna bianca.
Aguzzando lo sguardo riuscii a notare oltre il fumo una indistinta sagoma umana accovacciata per terra e con le spalle poggiate ad un grosso arbusto, di quelli che spuntano miracolosamente anche dalle rocce. Prima di avvicinarmi lanciai un rapido aguardo ai dintorni, alla mia destra il magnifico panorama che spaziava sulla sottostante valle e le basse colline, qualche centinaio di metri più sotto, oltre una mezza dozzina di altri terrazzamenti si riusciva a intravedere un vecchio ovile in muratura e da esso un cavo nero che superando la distanza arrivava fino all’arbusto e da lì entrava nella grotta attraverso una fessura tra le pietre a secco della parete. Ricordai allora come oltre venti anni prima il barone Pizzuto ave provveduto a portare quel cavo elettrico dall’ovile alla grotta dicendo che doveva servire per le eventuali luminarie della ricorrenza di san Guittone. Essendo il santo mai stato ufficializzato dalla Chiesa la festa non era mai avvenuta e l’elettricità mai adoperata.
Ritornai a interessarmi di quella figura umana e con prudenza iniziai ad avvicinarmi. Fatto pochi passi sentii una voce ben chiara e tenorile e altrettanto ferma che mi incoraggiava senza tentennamenti.
“Venga, venga senza alcun timore, venga ad accomodarsi qui, sarà sicuramente stanco, immagino, hehehe, ha scelto una brutta strada per arrivare fin qui” disse in tono gentile e garbato e, soprattutto, in perfetto italiano. Mi avvicinai allora più speditamente e intanto ebbi modo di osservare meglio il mio interlocutore. Pian piano le sue forme si facevano più distinte, era un ometto magro e alto forse un metro e sessanta, almeno tanto appariva stando seduto.
Ciò che impressionava era tutto l’insieme, aveva una lunga barba bianca e altrettanto lunghi capelli che fuoruscivano da uno strano berretto, più tardi ebbi modo di constatare fosse un vecchio cappello a cui era stata tolta tutta la tesa, ormai sembrava più un copricapo arabo. L’abbigliamento era costituito da un paio di jeans straconsumato e sfilacciato da più parti, che sicuramente avrebbe fatto l’invidia dei giovani moderni che li comprano apposta così, un paio di scarponi da alta montagna dal colore indefinito legati con dello spago al posto dei lacci, una vecchia consunta camicia di flanella a quadroni blu e rossi sotto la quale si intravedeva il bordo giallastro di una maglia intima di lana. Sopra la camicia una vecchia e deforme giacca di velluto dal bavero alzato e abbottonata sul davanti dall’unico bottone visibile. Le tasche rigonfie all’inverosimile di noci raccolte e non aperte, notai infatti che ogni tanto l’uomo ne estraeva una e con un piccolo temperino l’apriva e mangiucchiava poco alla volta con i pochi denti di cui ancora faceva sfoggio nei suoi smaglianti e dolci sorrisi.
Quando fui a pochissima distanza da lui si alzò con sorprendente agilità e allungando la mano strinse energicamente la mia, dopo averla quasi coattamente afferrata.
“Buongiorno, ma prego si accomodi” disse di nuovo indicando una pietra liscia e piatta poco distante. Risposi sorridendo di circostanza e accogliendo l’invito mi accomodai alla meglio.
“Non ha avuto alcun problema a superare quel balzo?” mi chiese gioviale.
“Non molto, non soffro di vertigini”
“Beato lei, conosco gente che svenirebbe solo a guardare questo straordinario panorama” disse indicando con un gesto ciò che avevo poco prima ammirato anch’io giungendo sul posto.
“Come mai è venuto fin qui?” Beh, questa poi…
“Come dice scusi?” chiesi quasi costernato.
“Voglio dire cosa l’ha spinta ad arrampicarsi fin qui, quale motivo”
“Accidenti, lei è davvero straordinario, mi parla come se fosse il padrone di casa”
“In pratica lo sono, sono anni che risiedo qui, lei è appena arrivato”
“Per via del fumo” dissi sconcertato e disarmato.
“Prego?”
“Il fumo, si vede da lontano, fino dal paese, credevo avesse preso fuoco la grotta”
“Oh bella, questa? Scusi, e se anche fosse stato?”
“Come, lei sta qui da.. anni ha detto, e non sa cosa rappresenti questa grotta per Montepiano?”
“Questa..grotta..significa..qualcosa..per la gente del..posto?” chiese stupefatto.
“Certo che sì, questo è l’eremo di san Guittone!”
“Ah, mi scusi, ma chi sarebbe stato costui?”
“Beh, diciamo quasi il fondatore di Montepiano. È, comunque, una storia lunga” dissi tagliando corto e in tutta risposta ebbi un sorriso divertito che metteva in bella mostra tutti e cinque i suoi denti in tutto. Quel sorriso invece di contagiarmi mi irritò e dalla mia espressione egli capì di aver esagerato. Infatti, rifattosi serio se ne rammaricò.
“Mi scusi, non volevo offendere nessun abitante del posto, tanto meno lei che mi sembra una persona tanto gentile e a modo ma, quando ha citato la storia, è stato più forte di me”
“Non capisco cosa voglia dire, cioè perché la storia dovrebbe divertirla tanto. Sappia che io sono, anzi sono stato perché adesso in pensione, un professore di storia e geografia al locale liceo di Montepiano” improvvisamente i suoi occhi si dilatarono eccitati.
“Lei è un professore di storia? Ah, non dica che lo è stato perché o lo si è oppure no. Non significa nulla, lei è professore di storia che HA insegnato al liceo. Ma è e rimane un professore di storia. Permette che mi presenti? Pancrazio De Osvaldi, professore di storia che ha insegnato per ventisei anni al liceo classico di Napoli. Attualmente in pensione da…ventisei anni appunto. Che splendida giornata! Incontrare un collega! Ah, com’è piccolo il mondo!”
“Lei è stato un professore di storia al liceo classico e…?”
“E cosa, signor…?”
“Ah sì, Mirante, Carlo Mirante”
“Non posso crederci, un collega! Ma sa che lei ha davvero l’aspetto di un professore di storia?”
“Di lei certamente non si direbbe. Come è potuto succedere che..?” chiesi accompagnando la domanda con un plateale gesto della mano.
“Succedere cosa? Ah, capisco, lei si riferisce al mio modesto abbigliamento!”
“Veramente non solo a quello ma a tutto questo” indicai ampliando il gesto. Non rispose subito, agrottò la fronte mentre con una mano si lisciava la folta e lunga barba bianca, scosse più volte il capo e infine, dopo un lungo e liberatorio sospiro, riprese a parlare.
“Eh, caro collega, la sua domanda merita non una ma tante risposte, non è facile spiegarglielo. Intanto togliamo ogni superfluo dubbio. Non ci sono retroscena per così dire sentimentali, familiari o eventi drammatici, sia ben chiaro, si tratta di una scelta di vita, ponderata e quindi fortemente voluta”
“Ma perché? A cosa o a chi serve ridursi così?” la sua reazione fu davvero sconvolgente.
“Ridursi così? Così come? Cosa ci vede di tanto strano in tutto questo se non un personale anticonformismo controbacchettone? Professore mio le nostre strade hanno preso direzioni ben diverse, eppure sono partite dallo stesso punto”
“Francamente non comprendo”
“Allora l’aiutero volentieri. Sappia intanto che il mio numero personale è il 26. A ventisei anni ho iniziato la mia carriera di professore di storia, che ho ininterrottamente svolto per altri ventisei anni quando, sfruttando la possibilità del prepensionamento, ho lasciato la scuola per iniziare una nuova e più gratificante avventura: la vita libera da ogni legame.
“Qui come c’è finito?”
“Al liceo, quando lo frequentavo come studente avevo un compagno di banco di nome Alberto Pizzuto, sì proprio il vostro presunto barone. Ovviamente non è affatto un titolato ma, poveretto, lo ha sempre desiderato di esserlo che non se ne può fare alcuna colpa per esserselo imposto. Abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto di amicizia e quando per caso l’ho incontrato tre anni fa, dopo una lunga chiacchierata mi ha messo a disposizione questa umile dimora. Badi che questa ha superato ogni mia aspettativa, se solo sapesse in che posti ho vissuto…”
“Appunto questo le chiedo, perché questa sua scelta?”
“Caro collega, la mia scelta nasce proprio dalla materia che.. entrambi abbiamo insegnato, la storia appunto. Mi segua, se possibile.
Ventisei anni, mio caro, ad insegnare sempre le stesse cose, fatti, date, eventi, biografie di grandi personaggi, ogni ciclo di anni sempre le stesse cose e per chi poi? Studenti a cui non fregava niente”
“Su questo devo darle ragione, ci sono passato anche io”
“Eppure ho sempre fatto di tutto per far capire loro giusto l’essenziale, che nella storia dell’uomo tutto si ripete perché a muovere i fili dell’esistenza umana sono solo ed esclusivamente i sentimenti umani”
“Sentimenti? Amore, odio…?”
“Ma no, non questi. Perlo dell’ambizione, potenza, ricchezza, fama, gloria, sono questi i sentimenti che portano l’uomo a compiere sempre le stesse azioni. Più che un giro compiuto è una spirale eterna in cui l’uomo è sempre perdente.
“E poi l’uomo non comprenderà mai”
“Esatto, compierà sempre gli stessi errori. Non capirà mai l’inutilità di un’ambizione smisurata. Tutto finisce, mio caro, anche l’universo un giorno finirà di vivere e di tutto questo cosa resterà? Nulla, per cui sarà valsa la pena di lottare.
“Per questo si è ritirato? Non le pare un tantino esagerato?”
“Esagerato, lei dice? Per nulla, non avverte la grazia di respirare aria pura, lontano dall’avvilente consumismo, in pace con la natura, a leggere sani libri e ponderare sul pensiero di chi davvero nel passato, avendo capito questo mistero che è la vita, ha fatto di tutto per tramandarlo ai posteri?”
“Non possiedo la sua forza per condividerla ma l’apprezzo totalmente”
“”Riflietta, amico caro, e se possibile si spogli della civiltà che l’avvolge e torni alla natura. Oh, ben inteso la mia non è una forzatura, solo un invito”
“Era evidente”
“”Ora, però, devo lasciarla per qualche minuto. Sa, l’architetto quando ha eretto questa reggia ha dimenticato i servizi sanitari, pertanto… oh, ma lei stia pure, mi assenterò al massimo per cinque minuti”
“Francamente vorrei andare, prima che si faccia tardi, dimentichi che dovrò rifare il sentiero”
“Ah, giusto, allora per cortesia faccia una cosa, io vado davvero di fretta, prima di andare via vuole gentilmente attizzare il fuoco aggiungendo un po’ di quella sterpaglia?”
Gli feci cenno di si e lo lasciai allontanare con una trotterellante e buff andatura. Prima ancora che si fosse allontanato dalla mia vista attizzai il fuoco e mi avviai anche io verso il ritorno. Una curiosità, però, m’invase passando davanti l’entrata della grotta, quella di vedere come si era attrezzato. Mi chinai leggermente e misi dentro il busto. Alla destra notai subito un grosso pagliericcio composto da un sacco ripieno probabilmente di foglie di mais, a fianco una grossa cesta piena di vai logori indumenti, dall’altra parte una cassetta tutta sgangherata colma di vari libri.
Nel voltare le spalle lo sguardo cadde sul lato sinistro della grotta e soprattutto su un grosso cubo bianco, un mini frigorifero da 300 cc, sopra di esso spiccava un cellulare e, poco distante, posizionato alla meglio su di un’altra grossa cesta capovolta un LCD a schermo piatto da 20”.

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L’ultimo eremita - parte prima

Montepiano sorge sulla cima di un dolce monticello a circa settecentocinquanta metri di altitudine. Prospiciente il paese, verso nord, vi è un altro monte che supera i mille metri chiamato semplicemente la Montagna. Fino all’altezza di ottocento metri questo monte sembra la fotocopia di quello di Montepiano, con un dolce declivio ricoperto da uliveti, orticelli e casette rurali di ogni tipo e dimensioni. Dagli ottocento metri in su la natura cambia repentinamente con pareti rocciose e scoscese ricoperte da scarsa vegetazione, qualche arbusto, qualche ginestra e molti rovi, fino a raggiungere appunto la cima a oltre mille metri. La parete opposta, quella nascosta al paese e rivolta verso nord è invece meno erta e terrazzata su diversi strati.
Quasi in cima alla Montagna si trova una grotta grande una cinquantina di metri quadri, ottima per il ricovero di pastori e armenti tanto che da sempre una mano intelligente ha eretto sull’entrata una parete in muratura a secco lasciandovi appena uno striminzito vano di accesso.
La leggenda narra che intorno al millecentocinquanta un cavaliere normanno di nome Guittone, di ritorno dalla Terra Santa, con un fardello di colpe sulla coscienza, vi abbia trovato oltre l’aria salubre anche una pace interiore per trascorrere il resto della vita in odore di santità, o quanto meno in quella della saggezza. Amato e considerato dalla popolazione del vicino villaggio, oggi Montepiano appunto, sia stato da sempre considerato santo sebbene non vi sia in alcun calendario un santo di questo nome e nemmeno un beato, per la verità. Ma l’amore del popolo ha fatto sì che venisse nei secoli ritenuto tale e quindi oggetto di devozione.
La grotta, o la dimora dell’eremita, per secoli è rimasta intatta causa un totale abbandono tanto che fino a mezzo secolo fa nessuno ne avesse memoria e la stessa era addirittura nascosta da un fitto roveto. Quando negli anni settanta esplose la moda, con l’avvento delle Pro-loco, di arricchire la stora dei paesi con riferimenti storici e leggendari, qualcuno si ricordò della grotta e della leggenda dell’eremita e nel volgere di una stagione la grotta venne ripulita e indicata ai curiosi da tabelle stradali azzurre con tanto freccia bianca che, dalla statale in su accompagnavano il curioso, finto devoto, fino al limitare della parete rocciosa. Da qui in poi, lasciato ogni automezzo, si procede a piedi per un contorto sentiero che per alcuni tratti ricorda quello del film sull’ultimo mohicano, ovvero uno strapiombo da far paura. Superato questo tratto ci si trova improvvisamente a sbucare sul lato corto di un modesto terrazzamento antistante proprio la grotta.
Un altro exploi dovuto all’interesse della Pro-Loco furono le costruzioni di una miriade di casette rurali grandi appena una trentina di metri quadri, costruite con l’intento di offrire un riparo ai tanti piccoli viticoltori proprietari di modesti appezzamenti e a qualche piccolo maggiorente del paese per fare sfoggio di una villetta dove passare i fine settimana a far bisboccia tra fiumi di vino e abbondanti libagioni. In una di queste villette, quella posta più in alto, ai piedi della parete rocciosa, è sorta sul finire degli anni settanta l’emittente locale SuperMonteRadio che, oltre ad offrire musica non stop con contorno di stupide dediche anche un adeguato parcheggio per le auto di tutti i bramosi arrampicatori con meta finale la grotta.
Alle ultime elezioni comunali, esortato da più d’uno a dedicarmi alla politica, mi sono lasciato candidare in una lista civica che poi è risultata vincente, sebbene il mio apporto sia stato scarso, appena trentotto voti sufficienti per risultare l’ultimo degli eletti. In virtù, poi, del mio titolo di studio, professore in pensione di Storia e Geografia, ho ricevuto l’alto onore di avere dal sindaco una pomposa delega ai beni culturali. In pratica il mio compito riguarda, in collaborazione con l’altro delegato alle attività turistiche nonché responsabile della Pro-Loco, il mantenimento in stato di salute di una mezza dozzina di chiesette e cappelle nell’abitato, un’altra dozzina sparse nel territorio comunale, la manutenzione di squarci di antiche rovine e palazzi storici, o meglio ciò che ne è rimasto dallo sfacelo urbanistico. Esempio massimo è il palazzo Consalvo-DeBellis che presenta delle pareti intonacate e porte a garage sulle stradine laterali. Il fiore all’occhiello, si fa per dire, altro non è che la grotta dell’eremita o, per meglio dire di san Guittone l’eremita.
Proprio in virtù delle mie mansioni avvenne una mattina di fine novembre scorso che ricevetti la segnalazione di un fumo grigio apparentemente proveniente proprio dalla grotta. Il fumo, per essere sinceri si vedeva benissimo anche dal paese, in fin dei conti la grotta dista dall’abitato circa sette o otto chilometri in tutto ma per arrivarci ci vuole più di mezz’ora, cinque minuti fino al parcheggio davanti la Radio e il resto a piedi. Dall’altra parte il tragitto è molto più agevole ma oltre a dover chiedere il passaggio al barone Pizzuto per l’attraversamento delle sue terre bisogna sobbarcarsi almeno una trentina di chilometri di strada e, comunque, procedere a piedi negli ultimi cento metri, ma la salita è piuttosto agevole. Ciò che scoccia maggiormente è il fatto di dover sottostare a un puntiglioso interrogatorio da parte del barone Pizzuto inerente il perché, il percome, il perquando che fa cascare le braccia. Costui, in fondo un un buon diavolo, è barone come Guittone è santo ovverosia è un titolo che si è autoimposto, potenza dei quattrini, per il fatto di essere il proprietario di tutta la mezza montagna non visibile dal paese, in tutto milleduecento ettari tra bosco, uliveto, frutteti vari, seminativi e diversi fabbricati rurali tra stalle, granai e reggia rurale personale. Per farla breve a nessuno piace l’idea di dover chiedere il permesso a Pizzuto perché altrimenti il tempo si decuplica, non rimane quindi che la scarpinata sul sentiero indiano.
A seguito della segnalazione allertai il comando dei vigili urbani ma mi fu risposto che loro si occupavano solo di quanto avveniva nell’abitato, per questi casi bisognava chiamare i vigili del fuoco. Telefonai pertanto alla caserma dei vigili del fuoco più vicina, sede in Policoro, e mi fu risposto che sarebbero intervenuti immediatamente. Un quarto d’ora dopo, effettivamente, un elicottero rosso fuoco sorvolò più volte la zona e mezz’ora dopo, puntuale, la telefonata del comando dei vigili del fuoco mi comunicò che dall’alto non vi erano tracce di incendio, solo il fumo grigio che proveniva proprio da quei paraggi. La competenza, pertanto, non era loro ma di altri. Alla mia domanda su chi verteva mi venne suggerita la Guardia Forestale, che guarda caso ha una casermetta proprio a Montepiano. Stupidamente nessuno ci aveva pensato.
Al telefono nessuno rispondeva per cui mi recai personalmente per la segnalazione. La porta era chiusa e, in bella vista un foglio appiccitato su un battente evidenziava l’orario d’ufficio, aperto tutti i giorni dalle 9,30 alle 12,30 e al pomeriggio dalle 16,00 alle 18,00 tranne il venerdì pomeriggio e, ovviamente il sabato e la domenica. Non mi restava che aspettare l’arrivo di qualcuno che puntualmente alle dodici e venti si presentò. Il graduato, forse un brigadiere, gentilmente mi informò che quella non era competenza del Corpo Forestale dello Stato in quanto quel territorio era proprietà comunale quindi a interessarsene doveva essere la Pro-Loco. Meravigliato che non mi avessero consegnato ai Carabinieri o alla Marina Militare tornai in paese nell’ufficio laddove ore prima era iniziato tutto il carosello.
Il collega delegato alla Pro-Loco disinteressatamente mi comunicò che non potevano in alcun modo provvedere a effettuare un sopralluogo perché sprovvisti di adeguato mezzo e l’unica auto disponibile era in servizio presso la polizia municipale. Inutile obiettare che non era necessaria un’auto a trazione integrale perché l’intero tragitto era su strada asfaltata perché la risposta, secca ed anche offensiva, fu di usare la propria auto. Chi vuole va chi non vuole comanda, più chiaro di così….
Ormai si stava facendo tardi, l’opzione era di recarmi nel primo pomeriggio dopo pranzo o subito, tenendo conto che d’inverno fa scuro presto e il percorso al ritorno è assoluitamente sconsigliato dal buon senso, oltre al doversi muovere con lo stomaco appesantito, avvisai casa che avrei fatto molto tardi a pranzo, anzi desinassero pure senza di me, e mi diressi sul posto.
Lasciai la mia auto nel parcheggio, indossai un vecchio paio di jenas e gli scarponi che normalmente uso quando vado per funghi, e mi incamminai in direzione del sentiero. Oltre un quarto d’ora dopo, attento a non scivolare sul sentiero roccioso, appoggiandomi alla parete e in alcuni punti aggrappandomi a degli spuntoni superai l’infame tragitto e mi ritrovai finalmente all’inizio del terrazzamento antistante la grotta.

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Libia

Le recenti vicissitudini nord africane, in generale, che hanno interessato tutto il mondo islamico e in particolare la Libia hanno dato da pensare. Vi è, infatti, una constatazione di fondo che occorre fare, quella che tra i tanti movimenti di protesta esplosi dall’Atlantico al mar Rosso, concentratasi per determinazione e violenza in Libia, spicca la totale assenza di integralismo islamico.
Gheddafi tuona asserendo che se la rivoluzione dovesse imporsi la Libia cadrebbe in pasto ai fondamentalisti di al qauaida cercando in tal modo di scoraggiare l’occidente a dar man forte ai rivoltosi. Intanto è riuscito a investire miliardi di petrodollari per assoldare non truppe ma eserciti mercenari con i quali sta riguadagnando le posizioni perse in partenza.
I rivoltosi libici affermano che la loro rivolta non ha nulla da spartire con i fondamentalisti e c’è da crederci perché almeno fino ad oggi non ci sono state avvisaglie di proclami da parte dei seguaci di Bin Laden.
Identico discorso è valido per le sommosse in Tunisia, Egitto, Marocco, Yemen. Manca in questo elenco l’Algeria, ed il fatto è piuttosto strano poiché proprio in quello stato nord africano per anni, fino all’altro ieri, il fondamentalismo ha dato parecchio filo da torcere al potere governativo.
Tanto premesso la riflessione, come suol dirsi, sorge spontanea, ma dove sono gli integralisti? Possibile che nel covo dove si è rintanato Bin Laden non vi sia alcun modo di fargli arrivare le notizie dal mondo? Possibile che uno sconvolgimento così epocale non abbia attirato quanto meno l’attenzione del re dei sabotatori e agitatori islamici? Vien quasi da pensare che vi sia tra le fila dei fondamentalisti il più alto menefreghismo per quanto riguarda il mondo islamico nord africano, cosa che appare tanto improbabile quanto sconvolgente.
E’ pur vero che le masse proletarie del nord africa si sono agitate per malumori di pancia e ribellate per necessita virtù contro un potere dittatoriale tenuto più o meno fermamente da pochi dittatori, rivestiti da una falsa patina democratica, ma bisogna anche ricordare che in Egitto, al pari dell’Algeria, i fondamentalisti sono stati molto attivi in passato. In passato, già, ma ora? Dove sono finiti gli attentatori dinamitardi che hanno scatenato il terrore sulla costa egiziana del mar Rosso? Non cito i luoghi per pura ignoranza linguistica, ma ci capiamo lo stesso.
Il tutto è avvenuto in poco più di una quarantina di giorni, Ben Alì e Mubarak buttati fuori, estromessi dal potere con grande debacle della loro salute, il primo pare sia morto e il secondo starebbe più di la che di qua. Curioso come il mondo sia piccolo, quando un potente cade rovinosamente la prima certezza della sua caduta è il malessere fisico. A farci caso avviene anche dalle nostre parti, appena un furbetto, di quartiere e non, viene accompagnato in luoghi di villeggiatura con gradevole temperatura dopo un paio di giorni comincia a star male e gli avvocati ne richiedono a gran voce il reintegro nella società per incompatibilità di salute. Evidentemente a Ben Alì e a Mubarack non sono riusciti a dar loro degli avvocati efficienti.
Ma torniamo alla domanda di fondo, Bin Laden dov’è? Uno stratega come lui avrebbe cavalcato con gioia l’onda della sommossa in quei paesi, soprattutto in Egitto dove pare si stia accendendo un altro fuoco sociale tra musulmani e copti e, invece, latita come un timido scolaretto che evita di farsi interrogare per non aver studiato.
Eppure lo stesso personaggio dieci anni fa ha scatenato il più mirabolante attentato alla società occidentale con l’abbattimento delle torri americane e il quasi riuscito affondo al Pentagono. Si è fatto riprendere con tanto di mitra in mano pronto a scatenare la più grande guerra santa islamica costringendo la famiglia Bush a dichiaragli guerra e a invadere l’Irak ufficialmente e l’Afganistan ufficiosamente per distruggerlo. Fino ad oggi non vi è alcuna certezza che tanto sia avvenuto anzi, ultimamente Bin Laden, quasi per nulla invecchiato perché spettrale appare oggi come ieri, ha lanciato ulteriori proclami velleitari, molto velleitari per la verità da sembrare l’eco non sopita di quelli ultradecennali.
Ma Bin Laden non è a conoscenza delle sommosse nord africane, né della cacciata di Ben Alì né di quella di Mubarak, forse si è preso un periodo di ferie arretrate andando a svernare in qualche isola caraibica, a dispetto di terremoti e conseguenti tsunami.
A questo punto la domanda da farsi è: pare credibile tutto questo? In un mondo dove i mass media la fanno da signori dei fondamentalisti non vi è alcuna traccia.
Sono scomparsi improvvisamente oggi o non vi sono mai stati? E quelli che tutti credevano lo fossero ieri in realtà non era che un gigantesco fumo negli occhi per offuscare la nostra visione delle cose e dar credibilità a tutto ciò che ci veniva mostrato come fatti imprescindibili?
In dieci anni abbiamo sentito alte voci levarsi accusatorie contro il reale attentato alle torri gemelli ai quali abbiamo risposto con un sorrisino e facendo spallucce. “fantascienza, anzi fantapolitica” abbiamo detto passando oltre, poi abbiamo constatato come la più grande potenza mondiale, con il beneplacito di tutte le potenze atomiche del pianeta, non sia riuscita a debellare il terrorismo e nemmeno a catturare il suo capo spirituale e materiale, Bin Laden, nemmeno a trovarne il cadavere, magari defunto per morte naturale o malattia, cosa nient’affatto esagerata considerata l’apparente stato di salute mostrato dalle immagini.
Le conclusioni non tardano ad arrivare, Bin Laden probabilmente è tanto reale quanto lo sia stato Zorro, è vero lascia il segno, ma solo cinematograficamente. Il fondamentalismo si serve di un personaggio astratto per condurre una lotta senza quartiere contro l’occidente e nelle vicende nord africane si è fatto sorprendere tanto quanto lo è stato l’occidente. Come questo non è riuscito a prendere immediate decisioni e relative posizioni in merito, escludendo dai ragionamenti le considerazioni di real politik, per gli stessi motivi il fondamentalismo si è fatto superare dagli eventi in modo tale che uscire allo scoperto oggi appare poco credibile per la sua causa.
Ciò che rende invece credibili queste riflessioni è l’atteggiamento dell’Occidente nei confronti di Gheddafi che sventola il pericolo dell’integralismo. Come sempre le super potenze non riescono a prendere una sana e immediata decisione come se il ventilato pericolo di Gheddafi non faccia alcuna paura. In effetti può un nemico immaginario far paura?

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Tappeto volante

Tappeto volante

Mi capita spesso di cadere in una fase involutiva della fantasia, volgarmente si dice perdere il ritmo, e non sono riuscito, dopo tanti anni di vita sulle spalle, a capire da cosa dipenda. Spesso succede a causa di avvenimenti che come ostacoli in una corsa campestre si parano davanti costringendo a deviazioni o semplicemente a modificare appunto il ritmo della corsa.
Ultimamente, per la verità da Natale suppergiù, vuoi per problemi di salute, vuoi per problemi familiari, vuoi per intoppi dell’apparecchiatura mediatica, mi sono lasciato letteralmente andare. Inutilmente non so quante volte mi sono lasciato sprofondare sulla poltroncina a rotelle davanti a questa infernale macchina sforzandomi di ritrovare quel feeling che per tanti mesi mi ha consentito di scrivere pagine su pagine di racconti, aforismi un inizio di romanzo fermo già da tempo al secondo capitolo.
Ogni volta che ci ho provato sono rimasto addirittura per ore davanti lo schermo ad osservare incantato una bianca scogliera della Cornovaglia e a nulla è valso l’essermi sintonizzato sulle mie radio preferite, cinque in tutto, la già citata radio Monacensis, a cui vanno ad aggiungersi Celtic-rock, Calm-Radio Celtic, Bretagneblog e buon ultima Cinemix, l’unica che trasmette non stop musica da film.
Ogni volta il massimo della mia operosità è stato giocare a majong con la mente abbandonata a se stessa sotto l’effetto di una musica celtica o di qualche colonna sonora. Nei rari momenti di lucidità sono riuscito finanche a leggere la posta e qualche racconto postato sul sito, addirittura scrivendo anche un debole commento, spesso pro-forma, tanto per non perdere l’abitudine e i contatti con il mondo. Tutto nella speranza che l’estro ritornasse da chissà dove è andato a rintanarsi. Niente, la pagina del Word è rimasta totalmente immacolata, nemmeno un tiepido tentativo di scarabocchiare qualche insulsa lettera alfabetica.
Alla fine, come un novello Alfieri, mi sono deciso quasi a legarmi alla poltroncina, ho acceso il pc, formato ultimo modello, ho aperto la pagina del Word – nuovo documento, mi sono sintonizzato su Cinemix dove ho trovato una splendida musica, ritmica e non assordante e, con una mano sul bordo della tastiera, quasi a impedirla di scappare via, e l’altra a tamburellare sul mouse, mi sono lasciato andare in trance. Cacchio, prima o poi questa maledetta scintilla dovrà pur scoccare. In fondo si tratta solo di un imput, poi si scatenerà un’eruzione vulcanica. Aforismi, racconti e quant’altro (tranne le poesie) saranno eruttate dalla mente a ritmo vertiginoso.
Questa era la speranza, sperando che non restasse tale. Lentamente mi sono lasciato andare sempre di più sulla poltroncina, la mente, sotto l’effetto della musica, ha cominciato finalmente a muioversi nella direzione giusta, immagini, alcune provenienti da un lontano, infantile, passato, si sono avvicendate davanti agli occhi, ma senza raggiungere quella parte della mente che invia gli impulsi agli arti superiori. Cosicchè le mani sulla tastiera sono rimaste immobili con gli indici puntati e contrapposti come nell’affresco della Sistina.
La mente, nonostante tutto, ha continuato a viaggiare come un’anima lasciva adagiata su un alato tappeto volante. Alle bianche scogliere della Cornovaglia si sono susseguite quelle di Westminster ed ancora di Stonehenge, qualcosa ha iniziato a prendere forma, un leggero formicolio ha attravesrato carpo e metacarpo, falange e falangette, ancora un istante e la prima lettera sulla tastiera sarebbe stata finalmente raggiunta.
Si apre la porta dello studio, fa capolino una massa di capelli castani, una vocina dal tono perentorio esclama “Papà, quando hai fatto non spegnere che mi serve il computer”.
Puff, Come due tessere drago del majong che si accopiinano, così la mia mente si apre alla triste realtà. Visi e volti conosciuti e solamente immaginati si guardano intorto straniti e mestamente svaniscono, la pagina del Word sembra guardarmi beffarda, con un moto di stizza clicco sulla crocetta rossa. Non mi appare nemmeno la scritta se voglio salvare il contenuto. Giuro che se fosse apparsa avrei scaraventato il pc fuori dalla finestra.

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Il vasaio Giacchino

Il vasaio Giacchino

Questa è una storia di mezzo secolo fa, risale appunto alla fine degli anni cinquanta e i principali protagonisti sono un gruppo di scalmanati ragazzini dai sette agli undici anni. Inutile dire che tra loro vi era anche chi oggi la racconta.
Il luogo in cui si svolge la storia è, manco a dirlo, Montepiano, il mio paese in provincia di Matera. All'epoca dei fatti il paese contava più di dodicimila abitanti (oggi nemmeno la metà, soprattutto vecchi) e le classi scolastiche elementari, come pure quelle delle medie, composte rigorosamente da ventotto alunni, arrivavano alla lettera "H" mentre oggi, con classi di appena venti alunni siarrivaallalettera"B".
Ciò sta significare come all'epoca un migliaio di piccoli avventurieri da strada si scervellassero per trovare un modo per passare i pomeriggi, senza televisione, computer, Nintendo e diavolerie varie. L'unico svago era appunto la strada che pullulava di bande di quartiere che a volte si univano tra loro, formando effimere alleanze, per combattersi prendendo spunto dai soliti film della domenica proiettati nell'unico cinema esistente. Anche quella di entrare nel cinema era un'impresa, e non da poco, perché bisognava intrufolarsi sotto lo sguardo attento del "caporale", il controllore e bigliettaio. Non sempre si riusciva a fargliela e allora bisognava mettere mani "alla tela" ovvero scucire i soldini, fare una colletta e andare a comprare un pacchetto di Nazionali per poi mercanteggiare l'ingresso con le sigarette sfuse.
Il cinema era per le bande una inesauribile fonte d'ispirazione sebbene i film proiettati fossero quasi sempre dello stesso genere, cappa e spada, banditi e indiani (Ombre Rosse visto e rivisto almeno venti volte), Robin Hood, Ivanohe. Corsari e pirati vari.
Si usciva dal cinema con tutte le scene impresse nella mente (tranne baci, carezze e moine varie per molti di noi ancora premature) che, durante la settimana a seguire, venivano rielaborate e adattate sull'unica scenografia esistente,la strada appunto.Ad essere sinceri non si faceva molta fatica a rigirare" le migliori scene dei films anche perché la fantasia non scarseggiava certamente e poi, in fatto di armi, si rasentava l'incoscienza. Le migliori armi, oltre alle solite spade fatte con scarti di carpenteria o, nel migliore dei casi, con manici di scope e gli scudi che andavano dai semplici cartoni con legacci di spago ai coperchi delle pentole, trafugati per l'abbisogna, vi erano archi, frecce e fionde.
Gli archi venivano ricavati in due modi, da sottili rami di alberi che molto spesso si spezzavano in mano per la troppa tensione a cui venivano sottoposti o dalle stecche di metallo degli ombrelli del tempo, simili agli ombrelloni da spiaggia di oggi. Inutile dire che le frecce tirate con i primi archi non valevano granché, gittata corta e tiro molto impreciso, quelle tirate con i secondi, composte dalle medesime stecche avevano una gittata maggiore e, grazie a Dio, una massima imprecisione perché quando arrivavano, se arrivavano, facevano male.
Discorso diverso erano le fionde. Qui ci voleva davvero arte speciale, primo per trovare gli incroci adatti tra i tanti rami della natura e in secondo tempo procurarsi la molla adatta, ovvero quella ricavata dalle camere d'aria delle biciclette (quelle di color rosso per chi se le ricorda) perché erano molto elastiche nonché resistenti. A questo punto contava l'abilità del fiondista, qualcuno era capace di lanciare proiettili anche a cento metri di distanza con la massima precisione. Ripensando a quei giorni è con estrema meraviglia come non ricordo di alcun caso di un ragazzino colpito da quelle armi micidiali. Forse era proprio per questo che i fiondisti erano in numero scarso, A tirare non tutti eranobuoni!
Arrivò infine il giorno che il cinema chiuse per qualche mese per problemi tecnici, così dissero, e le bande del quartiere si trovarono "disoccupate". Fare e rifare le scene dei films già visti diventava monotono e quindi ognuno cercava diinventarsiqualcosa.
Ecco, oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, non ricordo chi ebbe la scellerata idea, anche perché non ho fatto la spia allora figuriamoci se la faccio oggi; comunque fu, che uno di noi improvvisamente propose di prendere di mira quel povero disgraziato di "Giacchino il vasaio". A questo punto, per meglio intenderci,necessita un approfondimento.
Un centinaio di metri appena l'ingresso del paese inizia via Vittorio Emanuele, la strada principale che tutti chiamano "il corso", in verità è una strada larga al massimo una decina di metri che arriva fino a piazza Monumento, da qui continua verso l'altra piazza del paese, piazza Cavour, cambiando pomposamente il nome in corso Garibaldi.
A metà circa del "Corso" si diparte una larga e lunga scalinata che discendendo collega il vecchio quartiere "Caporetto", un rione edificato nel ventennio fascista per dare un alloggio decente ai reduci della prima guerra mondiale.
La scalinata, a sua volta, è interrotta a metà percorso da un tratto pianeggiante lungo un'ottantina di metri per poi riprendere la discesa definitiva. Lungo questo troncone, negato agli automezzi, si trovavano alcune botteghe artigianali, un paio di falegnami, un fabbro, un sellaio, un sarto, un ramaio e infine il vasaio Gioacchino, da tutti chiamato Giacchino. Costui aveva il suo laboratorio proprio alla fine del primo tratto della scalinata e nelle calde giornate di sole usava esporre sulla scalinata i suoi lavori appena usciti dal tornio o dal forno, a seconda della lavorazione, "per farli stagionare" diceva lui. Dopo alcune settimane erano pronti per passare alla seconda fase della smaltatura.
Riprendiamo la storia, lanciata l'idea, ponderata e accettata, freneticamente si passò alla sua elaborazione.
Punto primo: il gioco consisteva nel lanciare a turno un sasso con la fionda da una distanza di sessanta metri circa, ovvero dal punto della strada più vicino ad un angusto vicolo laterale che rappresentava l'eventuale unica via di fuga senza incorrere nell'intralcio di vari passanti.
Punto secondo: stilare una graduatoria di merito per valutare i tiri che andavano a bersaglio. Ora occorre dire che i manufatti del vasaio erano piccole giare, vasi, ciotole, brocche, bicchieri e fiaschi di vario formato. Il punteggio fucosì proposto:
Punti dieci per grandi vasi, giare, bicchieri e fiasconi da due litri, tutti di altezza intorno ai quaranta centimetri.
Punti venti per giare, ciotole, brocche e fiasconi da un litro, tutti di altezza intorno ai venticinque trenta centimetri.
Punti cinquanta per ciotole, brocche e fiaschi da mezzo litro di altezza inferiore ai venti centimetri.
Stabilite norme e punteggio si aspettò la prima giornata di sole che non si fece attenderemolto.
Quel giorno, armati di sassolini e, chi ne aveva, di fionde, che poi venivano prestate agli sprovvisti, alla spicciolata ci riunimmo nella strada. Prendemmo posizione nel vicolo e a turno uscivamo allo scoperto per il tiro al bersaglio.
Il "gioco" durò parecchio, uno perché avevamo una mira del cavolo e poi perché il povero Giacchino era impegnato all'interno col tornio che faceva un cigolio che sembrava il lamento di un'anima dannata.
Ogni tanto avveniva qualche centro seguito da un coro di urrah, poi tutti pronti nel vicolo a darsela a gambe nel caso che Giacchino o qualcuno dei passanti se ne fosse accorto. In mancanza di riscontri avanti il prossimo. Quando avevamo già distrutto una decina di manufatti una donna di passaggio lanciò alte grida di richiamo attirando l'attenzione non solo di Giacchino ma anche di "Saltafosso" la guardia comunale che stazionava perennemente sul "corso". Questi con il fischietto riuscì ad attirare l'attenzione di un sacco di persone tra cui, sfortunatamente, il fratello maggiore di uno della banda che, correndo per la strada principale andò all'uscita del vicolo giusto in tempo per placcare il fratello e, catturatolo, riportarlo a casa tenendolo per un orecchio.
Come sempre avviene nei regimi totalitari il predestinato prigioniero non tardò molto a confessare sotto minaccia di tortura il nome dei complici.
Epilogo immediato: la sera furono cinghiate sul sedere per tutti i componenti della banda, nessuno escluso.
Epilogo ritardato: tutti i genitori dovettero acquistare da Giacchino il pezzo più caro dei suoi manufatti al prezzo da egli imposto.
Questa volta voglio sollevarvi dal farmi la domanda di rito se questa sia una storia vera, perché, se avete la bontà di seguirmi, vi conduco nella vecchia casa paterna a Montepiano dove, abbandonato in un angolo della cantina vi è un grosso fiascone in terracotta da due litri (da noi chiamato in dialetto Hummolone).


*

La piastrina

La piastrina




Non ho mai conosciuto mio padre. Beninteso so chi è, quale sia il suo nome e la sua immagine, ma non l’ho mai conosciuto. Ho cinquant’anni e sono nato nell’autunno del 42, sì in autunno quando dai rami degli alberi cominciano a cadere le prime foglie secche e, quando come una di esse, anche lui è caduto dall’albero della vita. Aveva solo venticinque anni, la metà degli anni che ho io adesso. Di lui si sa solo che si è spento nel gelo della steppa russa, durante la ritirata, e di lui, oggi, oltre al ricordo di mia madre e di pochi altri famigliari, restano poche e ingiallite fotografie.
Guardo quelle immagini con immensa tenerezza. Vedo il viso di un giovane all’apparenza ancora immaturo, ma non abbastanza da vestire una divisa e per morire con un fucile in mano. Chissà cosa avrà pensato nei momenti precedenti la sua fine, avrà avuto il tempo di pensare alla donna che lasciava lontano? Avrà saputo almeno di essere diventato padre? O avrà solo maledetto quella morsa di gelo che, avvolgendolo, lo inghiottiva per sempre?
Vedo il suo sguardo nella foto, sembra smarrito, è diretto verso un punto imprecisato, forse suggerito dal fotografo. La sua espressione è seria, di circostanza, magari tesa a non deluderlo. Oltre gli occhi spicca la magrezza del volto, liscio, appena rasato, e due baffetti ben curati che risaltano sul pallore delle guance. Rivolto la foto e leggo la data scritta con bella grafia: Roma, “26/IX/1940”. È sicuramente stata scattata in caserma, forse appena dopo il richiamo alle armi.
Dal contenitore estraggo le altre foto che completano il ricordo di lui. Sono una dozzina in tutto e un paio riguardano la sua vita militare. In una è ancora solo, immortalato davanti una garitta con l’elmetto in testa e un moschetto tra le mani, nell’altra è insieme a dei commilitoni in una posa poco militaresca. Sembrano tutti felici e contenti. Mi chiedo quanti di loro, oggi, gli fanno compagnia.
Le altre foto ritraggono l’aspetto borghese. In una è a torso nudo, con un fazzoletto annodato sulla testa e un piccone tra le mani, impugnato con maggior sicurezza e familiarità del moschetto. Il volto è sorridente, più disteso e naturale. Lo sfondo raffigura un cantiere edile, uno dei tanti in cui ha lavorato come operaio. Accosto questa foto alla prima, non posso non riflettere che in entrambe è ritratto in divisa. In fondo, sempre di due guerre si tratta, cambiano solo le armi. Le altre foto lo vedono ora su una bicicletta, ora con dei coetanei davanti un’osteria con in mano dei bicchieri colmi di vino. Nelle rimanenti è con la mamma in abiti nuziali e in viaggio di nozze a Venezia.
Erano anni che non curiosavo in questo cassetto del comò dove, dentro una scatola metallica, giacciono questi pochi ricordi. Sto per rimettere a posto le foto quando lo sguardo cade su un oggetto metallico. È una lamella di ferro con sopra stampigliati dei numeri, la sua piastrina di riconoscimento, unico oggetto pervenuto alla famiglia tra quanto avesse addosso nel momento della morte. La osservo commosso poi la ripongo nella scatola insieme alle foto.

Trascorro la maggior parte del tempo stando seduta su una vecchia poltroncina in legno dall’imbottitura consumata, posta in adiacenza del balconcino alla romana nel grande tinello della casa di mio figlio. Questa è una posizione strategica in quanto, con il solo movimento del capo, mi consente di guardare nella sottostante strada. Non è che mi interessi molto ciò che accade fuori ma cos’altro posso fare per occupare il tempo? Ho settantadue anni e me li porto pesantemente. Non è solo la pesantezza del corpo che mi opprime ma tutto il bagaglio della vita trascorsa. Nella solitudine della casa arranco tra una stanza e l’altra aspettando che arrivi l’ora in cui si anima per la contemporanea presenza di tutti i componenti della famiglia. Questa non è poi affatto numerosa. Me compresa, siamo in quattro. C’è mio figlio Giancarlo, di cinquant’anni, che si appresta lentamente a ricalcare le mie orme, quindi Angela, mia nuora di quarantotto anni, che ostinatamente cerca di nascondere con inutili e dispendiose applicazioni cosmetiche la realtà imposta dagli anni. Infine c’è Guido, di venticinque anni, l’unico che francamente non riesco a comprendere, non tanto per la differenza di anni che ci separa ma per tutto un insieme di cose e considerazioni che mi sfuggono. Speravo fosse il più vivace della famiglia, i suoi venticinque anni dovrebbero imporglielo, invece lo vedo apatico e annoiato e mi chiedo invano cosa mai lo fa essere così. Il fatto, poi, di non capirlo mi addolora profondamente. Nei suoi riguardi, oltre la nonna, mi sento anche madre. Quando nacque suo padre avevo solo ventidue anni e si era in tempo di guerra. Ero sola perché Alberto, mio marito, si trovava sul fronte russo da dove, buon’anima, non sarebbe più tornato. Poco più di una ragazzina e con un figlio da mantenere e non potendo nemmeno contare su gli uomini della mia famiglia, anch’essi presi in pari difficoltà, scoprii i gomiti e mi detti da fare per guadagnarmi la vita. Giancarlo venne così accudito, per i primi anni, da mia madre e, qualche volta, da mia sorella maggiore. Alla nascita di Guido, Giancarlo aveva venticinque anni ed era tutto immerso nel lavoro di rappresentante farmaceutico. Angela, mia nuora, era stata appena assunta come dattilografa in uno studio notarile ed io, benché lavorassi come bidella presso la scuola elementare mi prendevo cura del bambino, così come aveva fatto anni prima mia madre con Giancarlo. Del piccolo si prendeva cura anche Giovanni, mio marito, il mio secondo marito. Benché invalido di guerra e dovesse camminare poggiandosi alle stampelle, se ne occupava volentieri.
Guido è figlio unico, come suo padre, e a volte mi chiedo se non è proprio questa particolarità che lo intristisce così tanto. Più che triste mi sembra introverso, chiuso ermeticamente in se stesso. Eppure proprio perché solitario dovrebbe essere portato ad una maggiore apertura verso il mondo che lo circonda. Invece lui, come suo padre prima, vive immerso in un mondo tutto suo dove pare non ci sia posto per alcun altro, geloso perfino di esternare i propri sentimenti, ma solo verso la famiglia. Non sta quasi mai in casa, sempre fuori a fare non so cosa. Lui dice di andare alla ricerca di un lavoro, io, invece, lo vedo quasi sempre al bar in fondo alla strada dove passa la maggior parte del tempo con altri come lui.
Con loro scherza e ride, poi, quando rientra in casa, si immusonisce tutto. Così giorno dopo giorno, passo le ore seduta su questa vecchia poltroncina davanti il balcone a vedere come scorre la vita nella strada sottostante, attendendo chissà cosa e, spesso, immersa nei ricordi.

Maledizione ne è spuntata un’altra!, non faccio in tempo a coprirne una che subito ne spunta un’altra!, maledette rughe! Però in fondo, ben camuffate possono diventare un vantaggio. Meglio essere ammirata come donna matura ma ancora piacente che giovane e scialba invecchiata anzitempo. In fondo sono solo queste agli angoli degli occhi… per il resto non si può certo dire che sono fatta male, anzi… posso dare dei numeri a molte signorinelle . eh sì, non ho un grammo di peso in più, le gambe sono perfette. Sì, sono decisamente bella, poi, se me lo dice Sandro che se ne intende vuol dire che è così. Ah, Sandro, Sandro, quel mascalzone, eppure ci sa fare, ah se ci sa fare!, al solo pensarci mi vengono i brividi. Le sue mani, la sua bocca, i suoi denti, la sua lingua…oh che bello…Calma, mi sto eccitando!.
“sbamm”
Cos’è stato questo rumore? Forse la vecchia sarà sbattuta da qualche parte. Sempre tra i piedi quella rompiscatole, a spiare. Sì a spiare…ma che si vuole spiare…che il Padreterno non se la prende…Gesù, che ore sono?...già le nove? Va a finire che oggi si fa tardi.
“Sbamm”
Ancora quel rumore! Ma che diavolo sarà? Guido non può essere, quello a quest’ora dorme ancora, lui è già uscito da un pezzo… mah, vediamo un po’…, ah ecco, lo sapevo io! Quella rimbambita si è addormentata vicino al balcone aperto e …. quello sbatte. Ah, quando finirà questa storia……?

Uffa! Che rottura di palle! Possibile che in questa dannata casa non si possa mai dormire in santa pace, per la miseria! Ma chi ha lasciato il balcone aperto?
Uhm, da com’è duro ci vorrebbe proprio una bella fica in questo momento, già, ma chi? Forse Gisella, no quella è troppo scema. Uhm, vediamo un po’ c’è Merisella, quella ha un bel culo tosto… no, è troppo bassa e porta gli occhiali. Uhm, ma sì, la signora …, la moglie del ragioniere del terzo piano, come si chiama, Tina, sì, sì Tina, sì, sì con quelle gonne sempre corte e attillate… e con lo spacco… sì quella ci sta, quante volte me l’ha fatto capire con gli occhi? E, poi, ogni volta che c’incontriamo per le scale trova sempre il modo di fermarsi e la scusa per piegarsi…oh, sì,sì,sì, magari quando il marito esce di casa il mattino, io salgo su, busso alla porta, sì,sì,sì, lei mi apre, sì,sì,sì, indossa la vestaglia, anzi no, una camicetta corta, sì, sì, sì, sotto è nuda…sì,sì,sì, prendimi mi dice, sì,sì,sì, prendimi,sì,sì,sì, l’afferro.. le infilo le mani tra le gambe, sì,sì,sì, oh, sì…
“sbamm”
Cazzo, cazzo, neanche una sega in santa pace uno si può fare in questa maledetta casa, accidenti dov’ero?, sì,sì,sì, mi abbraccia, sì,sì,sì si toglie la camicetta, si sdraia, sì,sì,sì, ohhhh!
Ohhh, ci voleva proprio….
“Sbamm”
Questo è il balcone, uffa, ma chi se ne frega, quando mi alzo lo chiudo.

Ormai non riesco più a dormire la notte e nemmeno a restare sveglia e lucida di giorno. Vivo in un continuo dormiveglia alternando momenti di trance comatosa a momenti di inquietante agitazione. La notte dormo meno di tre ore poi, svegliandomi del tutto verso le quattro del mattino, desta ma già stanca mi alzo e prendo a spostarmi da un punto all’altro della casa. Questa mattina anche Giancarlo si è alzato presto, erano le cinque, gli ho preparato il caffè, non ha fatto colazione, non la fa mai. Prima di uscire, con un tocco delle dita, gli ho sistemato il nodo della cravatta, ricambiando lui mi ha fatto una carezza ed io gli ho baciato le mani. Che strano, non l’avevo mai fatto prima d’oggi.. appena è uscito mi sono seduta sulla poltroncina e l’ho visto portare fuori la macchina dal garage e, con le luci accese, è andato via. Sono rimasta a guardare la strada deserta, infine, quando si sono spenti i lampioni ho cominciato a vedere le prime persone, il fornaio, il barista, le prime casalinghe, quasi tutte della mia età, uscire per andare al mercato.Eh, se non fosse per queste gambe, sempre gonfie, ora anch’io sarei con loro!
Oh, devo essermi appisolata, adesso c’è più luce fuori e anche un po’ di traffico, brrr, fa ancora freddo la mattina, eh, questa primavera… si porta ancora dietro i segni dell’inverno!
Mah... mah, chi c’è fuori il balcone? Chi è?, ma che fa quel giovanotto? Non ha freddo?, ma… è Alberto!
Alberto?, ma che fa la fuori?, si prenderà freddo, aspetta che ti apro il balcone, ecco, ecco, vieni, vieni dentro mio caro, vien __________________________________

“Mamma, il balcone…” questa dorme alla grossa, “Mamma, ehi mamma” oh, mio Dio, questa non risponde, ma… ma…, Gesù è morta, oh mio Dio!!
“Gianc.. no, no Guido, corri, corri, per favore, svegliati, svegliati, Guido!
“eh, che c’è, Cristo, ma che cazzo succede? Che c’è?”
“Guido!!”
“Sì, sì, che c’è?”
“Corri, la nonna è morta!”
“Santo Cielo, ci mancava solo questa, dov’è?”
“Di là, sulla poltrona, vieni, corri”
“E a che serve?, uffa, chiama qualcuno!”
“Qualcuno chi?”
“Ma che cazzo ne so…, cazzo!”
“Ma…, ma…”
“Oh, cazzo, cazzo, cazzo!”

Ma che cavolo, possibile che il telefono è sempre occupato? È da mezz’ora che cerco di chiamare casa per avvisare che non torno a casa per pranzo e trovo sempre la linea occupata, sarà fuori posto. A quest’ora dovrebbero essere tutti a casa, possibile che nessuno se ne sia accorto? Cristo si sta facendo tardi, va a finire che quelli non pranzano per aspettarmi, poi stasera chi li sente….maledizione, provo per l’ultima volta…, ah, finalmente libero!
“Pronto!”
“Pronto un accidenti, è mezz’ora che chiamo…. Ma che è tutto questo vocio in sottofondo, che diavolo state combinando?”
“Giancarlo, è morta tua madre”
“Come?, mamma è morta?, quando…, un infarto? Accidenti avevo chiamato per dire che tornavo stasera, beh, vorrà dire che tra un paio d’ore sono a casa”
Maledizione!, questa non ci voleva, proprio oggi…adesso mi tocca di chiamare Concetta e disdire l’appuntamento, e dire che aspettavo questo momento da un mese circa…, mah, pazienza!

Che rottura di palle! È proprio giornata oggi! E’ cominciata bene!…, almeno si è tolta di mezzo. Sempre a guardarti, a fissarti, senza dire mai una parola. E, poi, quella faccia lunga ogni volta che mettevo piede in casa, con la disapprovazione dipinta negli occhi…, ma che aveva poi da rimproverare, che glie ne fregava a lei? Come disse quella volta? “devi trovarti un lavoro” come se fosse facile con la crisi che c’è! Il posto tutti te lo promettono: “Ma sì, senz’altro, certamente, puoi stare tranquillo…” Si, tranquillo, poi…”Ma sai ..ho fatto tutto il possibile ma mi hanno detto che bisogna aspettare, qualche mese… due.. al massimo tre, adesso siamo al completo…, comunque è solo questione di tempo, basta solo aspettare”. Sì, aspettare, è una vita che aspetto e sono sempre allo stesso punto. Ho la maturità scientifica e con quella mi ci pulisco il culo. Mi sono anche iscritto all’università, in sociologia, un’altra stronzata…, per fortuna che mi arrangio un po’ altrimenti…, a proposito oggi c’era da fare una consegna, devo avvisare che non mi sarà possibile con tutto questo casino….
Accidenti a lei, proprio oggi doveva andarsene, doveva proprio rompere fino all’ultimo! Almeno non la vedrò più piantata come una statua dietro il balcone a guardare e a pontificare in silenzio, puttana miseria…..

Questa mattina prima di uscire di casa mi ha preparato il caffè. Per la verità lo faceva sempre e, some al solito mi ha suggerito di fare colazione ben sapendo che non mangio mai nulla al mattino presto, ma lei, irriducibile, me lo chiedeva sempre. Prima di aprire la porta di casa mi è venuta vicino, mi ha posato una mano sul braccio e con l’altra mi ha dato un tocco alla cravatta, le ho sorriso e le ho fatto una carezza. L’ultima volta che l’ho fatto avevo si e no dieci anni e lei, allora, si è illuminata tutta, ha afferrato la mia mano e l’ha baciata, delicatamente, e questo è un gesto che non aveva mai fatto prima. Povera mamma se n’è andata senza soffrire, in silenzio, in punta di piedi, discretamente come aveva sempre vissuto. Accidenti, mi mancherà il suo sguardo ammonitore col quale temevo che lei sapesse tutte le nostre colpe. Eppure non ha mai detto nulla, ci guardava solamente, e adesso che non c’è più chi avrà il coraggio di rinfacciarci le nostre verità nascoste?
Dio che famiglia sfasciata che siamo! Mia moglie che a quasi cinquant’anni si impiastriccia il corpo con dozzine di porcherie varie credendo di piacere. Mi domando come fa quel cretino del suo amichetto a sopportarla, mah! Chissà perché abbiamo continuato a dormire nello stesso letto, forse per non far sapere a lei che tra noi non c’era più nulla. Ma forse lei lo sapeva da un pezzo, come forse già sapeva di me e la Concetta di turno. Ma Guido dov’è? Quel debosciato passa tutte le mattine a farsi le seghe nel letto, sfido che sia incapace di trovarsi una donna, figuriamoci un lavoro. Mio Dio quando finirà questa storia? Mi sono arreso da un pezzo a cercargli un lavoro, è così incapace che dopo pochi giorni lo mettono puntualmente alla porta. Alla fine passa le sue giornate al bar ad aspettare la manna dal cielo, quando si renderà conto che sta sprecando la sua esistenza? Eh sì, cara mamma, te ne sei andata in pace, con te ho chiuso i ponti con il passato, ora non mi resta che il presente e il futuro e, francamente, non ne vedo la differenza, incoerente il primo, incolore il secondo.

Il mio corpo è ormai dissolto ma lo spirito è avvolto intorno ad un pezzo di metallo, una piastrina di riconoscimento.
Una mano pietosa l’ha sfilata dal corpo martoriato e, infine, un’altra mano l’ha depositata in questa scatola di metallo. Quando ho chiuso gli occhi sul mondo non mi sono accorto di morire. La morte viene infida, senza farsene accorgere, non ti da il tempo di pensare a lei, né di rimpiangere il passato. In un istante non ci sei più.
Durante quella tremenda marcia nel gelo la mente stava sempre lontana. Più che la moglie agognavo il caldo di un fuoco familiare. Non sapevo di essere diventato padre, certamente se lo avessi saputo avrei lottato di più per la vita. Forse sarei morto ugualmente magari rimpiangendo disperatamente un futuro ignoto. In fondo è stato meglio così. In tutti questi anni, per me inconsistenti, ho visto tutti gli avvicendamenti della casa. Ho visto Lucia, dapprima giovane e vivace, poi diventare vecchia e pesante. Ho assistito divertito ai suoi amplessi con Giovanni, poveretto, senza le gambe com’era goffo in quei momenti. Che ironie, lui le gambe le ha perse in Libia bestemmiando per il troppo caldo…!
Ho visto Giancarlo farsi grande e adesso anche lui sta invecchiando. Ho visto quella poco di buono di sua moglie e la vedo tuttora quando, sconcia, si guarda nuda allo specchio. Ho visto e vedo con tristezza Guido masturbarsi ogni giorno e poi andarsene scialbamente fuori di casa. Povera Lucia, che pena mi ha fatto in tutti questi anni, leggevo dentro di lei l’amarezza e la compativo. Già, che tristezza vegliare su questa casa tutto questo tempo e che rabbia mi fa ancora oggi pensare al mio disgraziato destino. Mi hanno mandato a crepare in una sterminata pianura di ghiaccio e … per cosa? Oggi mi guardo intorno e rifletto sull’ipocrisia che regna sovrana sulla terra e, alla fine, concludo che è tutto uno schifo. Mi hanno mandato a morire, dicevano loro, per un ideale. Poi sono venuti altri a dire che sono morto per un ideale sbagliato.
“Avete capito gente? Siamo morti per un ideale sbagliato, che iella!”
Già, nella vita si muore sempre per un ideale sbagliato, prima però è quello giusto, è dopo che diventa sbagliato, poi magari ridiventa di nuovo giusto e dopo ancora…. Magari erigono pure i monumenti con sopra la scritta ipocrita: “caduti per la patria” Eppure non hanno eretto mai monumenti a quelli che sono morti sul lavoro. Quelli sì che sono morti per un ideale, quello giusto, l’unico che sia eternamente giusto.
Dicono che lo Stato si fonda sul lavoro, allora quelli che muoiono schiacciati o che si sfracellano al suolo da una impalcatura non sono forse eroi? Non è scritto da nessuna parte che lo Stato si fonda sulla guerra, allora perché sono eroi solo quelli che crepano con un moschetto in mano?
Ora, anche come spirito sono stanco e nauseato ma, purtroppo, finché sarò avvolto a questo oggetto sarò, in un qualche modo, sempre vivo. Allora spero con tutta la mia disperazione che qualcuno apra questo cassetto, scoperchi questa dannata scatola, prenda questa fottuta piastrina e la butti nel cesso tirando dopo la catena. Forse solo così potrò finalmente riposare in pace.

*

L’equivoco

Che serata quella del tredici agosto per noi interisti, battere il Milan e la Juve e vincere il trofeo Tim, una serata iniziata bene ma finita in modo piuttosto strambo.
Non volevo parlarne ma, alla fine, preso il coraggio a due mani lo faccio, senza omettere nulla. In fondo non è successo niente, a patto che quanto vi racconto resti confinato tra noi. Lo avete giurato? Bene, allora ecco a voi la cronaca di una giornata a dir poco insolita.
Le premesse risalgono ad una decina di giorni prima quando Giulio, il mio medico di famiglia, un buontempone che avete già avuto modo di conoscere, lancia l’idea di andare a Bari per vederci il trofeo Tim 2010. ovviamente l’idea piace a tutto il gruppo, alias le altre due persone del famigerato quartetto degli ex compagni di scuola (Asilo. Elementari e medie), tutti patiti interisti.
Per Antonio, il meccanico che in passato si è sobbarcato trasferte anche lontane, come quella a Madrid per la finale di coppa campioni, quella di Bari è una scampagnata fuori le mura e per Rocco, consulente finanziario, l’idea è addirittura superba.
“Ragazzi, lo sapete che ho ancora un bilocale in via Roma? Dopo la partita ci prendiamo delle pizze a ce ne andiamo a casa mia. Ripartiamo sabato mattina con calma, che ne dite?”
Giulio, come al solito è quello che non si tira mai indietro e propone tutte le trasgressioni possibili immaginabili tanto che per la precarietà delle sue coronarie lo chiamiamo Cuore Matto, propone addirittura di ritornare la domenica pomeriggio.
“Tanto l’indomani della partita è sabato e non si lavora, poi viene la domenica e quindi…”
“Uhm, mica fesso Cuore Matto!” commenta Antonio, poi rivolto a Rocco, il padrone di casa chiede se si può fare. Risposta secca ed eccitata “ C’è bisogno di chiederlo?”
E vai! Alla grande! Fioccano i preparativi, ovviamente di tipo coniugale , che vengono accettati con mugugni, direi quasi di sollievo. “Così questi quattro rompiscatole si tolgono dai piedi!” è l’unanime consenso. Ho dei dubbi sul liberatorio consenso se avessero immaginato quanto sarebbe accaduto, ma che poi non accadde. Ma non anticipiamo.
La serata di venerdì, quella calcistica, andò liscia come l’olio, così come doveva andare. Ci siamo divertiti a vedere i nostri beniamini giocare bene e vincere il trofeo e, infine, dopo aver acquistato quattro pizze ben farcite di ogni condimento, ce ne siamo andati a casa di Rocco. A mezzanotte e mezza avevamo finito di cenare. Considerazione: nessuno ha sonno ma non si ha nemmeno voglia di uscire. Farlo a Bari di notte può non essere piacevole. Riflessione: cosa facciamo per ingannare il tempo? Trovata geniale (Antonio) perché non telefoniamo a….
“A….. chi?” gli chiediamo in coro.
“Ma come a chi? A una di quelle che….”
“Quelle che….?”
“Oh ma siete tutti scemi? A quelle che vengono a servirti a domicilio, no?”
“Vuoi dire a una Escort?” chiede Giulio, già con gli occhi bramosi.
“Tu statti calmo, che vogliamo portarti indietro intero” dice Rocco e intanto approfondisce.
“Ammesso che… a chi chiamiamo? Tu hai qualche numero?”
“Accidenti ma siete nati ieri? Basta prendere un giornale e spulciare l’elenco”
“Beh, se lo dici tu che sei un esperto di queste cose..”
“Chissà quante volte lo ha fatto il vecchio porcone” affermo strizzando l’occhio.
“L’ultima era una madrilena di Madrid…”
“Idiota se era madrilena per forza di Madrid doveva essere o no?” commenta Rocco.
“Ci sono anche le madrilene di provincia, cretino. Quella era di Madrid, Madrid. Chiaro?” risponde cantilenando Antonio.
“Sì, era spuntata fuori dal Manzanarre!” ridacchio io.
“Era per caso il cinque maggio?” chiede di nuovo Rocco.
“Beh, sentite, mi avete rotto. La facciamo o no questa telefonata?”
“Ok, falla, vediamo cosa sai fare”. Affermiamo in coro.
Per prima cosa Antonio prende un vecchio quotidiano trovato in casa, assicurandosi che non lo fosse di qualche anno, per non fare brutte figure, e dopo scorso l’elenco degli annunci improvvisamente esclama euforico di averlo trovato.
“Cos’hai trovato di preciso?” Chiede Giulio.
“L’indirizzo che cerchiamo. Ragazzi questa fa proprio al nostro caso”
“Su, leggi cosa dice!”
“Ecco: << Animalista esperta offresi per terapie anche domiciliari >> Capito? Questa fa anche le cose più scabrose” spiega tutto eccitato Antonio.
“Scusa, da dove lo deduci?” chiede dubbioso Rocco.
“Animalista esperta, non ti dice niente? Offresi anche a casa, che vuoi di più, che ti faccia anche la descrizione dei lavoretti?”
Nessuno gli risponde, in effetti siamo degli scolaretti al suo cospetto, avevamo sempre avuto il dubbio che tutte le trasferte fatte con gli Interclub fossero state solo per il piacere corporeo. Anche perché ad ogni ritorno la cronaca della partita era più veloce della sintesi di Rai Tre mentre quella dei piaceri durava anche delle settimane. Ci guardiamo l’un l’altro senza sapere cosa obbiettare, ammesso che le nostre coscienze avessero di cha farlo. Eravamo tutti già peccatori in pectore.
“Ok, allora chi chiama? Lo fai tu?” gli chiede Rocco, piuttosto titubante. Noi pensavamo a un probabile imbarazzo intimo invece quello si preoccupava del buon nome del suo bilocale. Antonio, allora, senza farselo ripetere, materializza nella mano il cellulare e compone il numero della porcona dagli istinti bestiali, come dice lui.
“Pronto? Ehm, signorina, buonasera” inizia lui mentre in sottofondo Giulio bisbiglia “cictuci..” facendo il verso ad una vecchia canzone di Jonni Dorelli degli anni sessanta. Ma Antonio non lo sente e continua.
“Ecco, signorina, noi abbiamo letto il suo annuncio e…come? Quanti siamo? Beh siamo in quattro, perché ci sono problemi per lei…. Ah, vista l’ora sarebbe,, impegnativa… beh, dipende dalla sua bravura… Come dice…? Se sono tutti della stessa… grandezza..?... un attimo per favore…” e messa una mano sulla cornetta si rivolge a noi dicendo:
“Questa vuole sapere quanto l’abbiamo grosso? Che gli dico?” ci informa strabiliato.
“Come sarebbe? Si fa pagare per la lunghezza?” chiede sconcertato Rocco.
“Dov’è un righello?” esclama eccitato Giulio, provocando grasse risate strozzate.
“Un momento – intervengo io – non ha detto lungo, ha detto grosso. E diversa la questione”.
“Già è vero – conferma Antonio, che togliendo la mano parla di nuovo alla cornetta – Ehm, signorina..” Riprende imbarazzato mentre Giulio canticchia sommessamente << buonasera….cictuci >> mentre io e Rocco ci mettiamo le mani davanti alla bocca per reprimere le risate.
“Signorina – ripete Antonio che questa volta ha sentito Giulio e lo guarda in tralice – lei capirà che non è facile ne attendibile una misurazione fatta così all’improvviso… come dice?... “
A quel punto Rocco, gesticolando, fa intendere ad Antonio di inserire il vivavoce. Questi, facendo segni di aver inteso preme un tasto giusto in tempo di ascoltare la signorina dire…
“.. per così dire… avvolgendolo nel palmo della mano e constatarne la grossezza, almeno indicativamente. Sa è per la scelta degli strumenti idonei”
Ehhh?, ci guardiamo l’un l’altro a bocca aperta mentre Giulio con la mano aperta messa in orizzontale all’altezza dovuta mimando di soppesarlo fa ampi cenni di soddisfazione. A questo punto mi viene spontaneo, rivolgendomi ad Antonio, portare l’indice all’altezza della tempia e battercelo più volte. Lui capisce e con una scrollata di spalle ci fa intendere che ne sa meno di noi. Poi parlando ancora al telefono tende di saperne di più sul caso, prima però minacciando con la mano Giulio a non rifargli il verso canticchiando.
“Ecco, signorina, ma è proprio necessario fare questa misurazione?” chiede quasi implorando.
“Ebbene sì, serve per stabilire la tariffa” risponde lei con tono deciso mentre noi, trasecolati (anche Giulio) incassiamo la nostra virilità nelle spalle.
“La tariffa? Perché lei si fa pagare per quello?” chiede disperato Antonio.
“Ma sì. È fondamentale, come devo ripeterglielo. Senta, facciamo così, lei li ha davanti?”
“Sì, certo, sono tutti qui davanti a me, perché cosa dovrei fare?”
“Allora mi dica, quanto sono pelosi?”
“Co… co… come? Come dice, scusi?” balbetta Antonio mentre stiamo tutti a bocca aperta meravigliati.
“Si, le chiedo. Sono pelosi?” Antonio, che ormai boccheggia peggio di un pesce fuori dall’acquario, non sa più a quale santo voltarsi facendo un ultimo tentativo di chiarimento.
“Scusi signorina – chiede senza l’accompagnamento ironico di Giulio che, per la sorpresa, non ha badato affatto a ripetere il ritornello – non capisco cosa intende dire. In che senso devono essere pelosi?”
“Ma come in che senso? Sono tutti ispidi e a pelo corto?”
“A pelo corto? Ispidi? Signorina, francamente non capisco…”
“Mi scusi lei, ma come pretende che le applichi una tariffa senza le necessarie indicazioni. Non mi ha nemmeno detto per quanto tempo intendete servirvi delle mie prestazioni”
“Ah, beh, su questo sì, diciamo una mezz’ora a testa, va bene?” afferma Antonio, confortato dai nostri assensi. Finalmente un argomento che conosciamo bene. Però come sono difficili queste Escort di città!
“Mezz’ora, per così poco. Dovrei scomodarmi per tanto?”
“Perché lei cosa proporrebbe?”
“Un periodo di almeno una settimana, sarebbe il minimo!” Questa volta siamo davvero sconcertati.
“Una settimana?, no, non è possibile domani dobbiamo ripartire. Siamo solo di passaggio, sa per le partite del trofeo Tim”.
“Perché non erano sufficienti quelli statali?”
“Quelli statali cosa?” chiede Antonio mentre un dubbio comincia a insinuarsi nelle nostre menti. Ma a chi abbiamo telefonato?
“I reparti cinofili, no?” afferma più che scocciata la voce.
“I repar, cosa? Che c’entrano i cani adesso?” chiede stupefatto Antonio.
“Ma allora perché mi avete chiamato?” il tono ora è abbastanza irritato.
“Mi scusi lei, ma che mestiere fa?” ormai è chiaro a tutti che si tratta di un equivoco e Antonio, alquanto sollevato, riprende sicurezza nella voce.
“Mestiere? Ma come si permette, io sono una professionista seria. Sono animalista terapeutica io, per chi mi ha preso, cafone che non è altro?” e al colmo dell’irritazione ci sbatte offesa il telefono in faccia.
Dopo un momento di indiscutibile smarrimento in cui ci guardiamo increduli un sorriso liberatorio si impadronisce di noi e piano piano si fa largo dalle viscere fino a sbellicarci dalle risate.
Sfiorando più volte la tragedia con le risate incontrollate abbiamo passato tutta la notte in piedi. E quando sembrava tutto acquietarsi ecco che nel silenzio più assoluto riemergeva dapprima un piccolo sussulto, poi un brontolio mal controllato e infine di nuovo la sghignazzata con tanto di lacrime, tanto irrefrenabile quanto contagiosa.
Beh, quello stato di ilare delirio è durato per tutta la notte e, ancora, come uno sciame sussultorio, per tutto il giorno successivo. Ancora oggi, evitiamo di incontrarci in pubblico per paura di riaccendere le sopite braci della risata.

*

L’ultimo contratto 2

Il ritiro di Moretti

Ho ucciso Ziegler tre mesi fa, ho dovuto farlo, non avevo scelta, e da allora la mia vita è cambiata.
È cambiata già nel momento stesso in cui premevo il grilletto, mentre lui mi ringraziava perché mettessi fine alla svelta alla sua esistenza.
Pochi minuti prima gli avevo chiesto del perché della sua sventatezza, l’aver rivelato il proprio nome è una regola che nel nostro campo non si deve mai infrangere e lui, poi, l’aveva fatto per ben due volte nella stessa missione. Avevo intuito che ci fosse di mezzo una donna, lui me l’ha confermato. Era ciò che volevo sapere perciò gli ho sparato al corpo e non alla testa, come nostra abitudine.
Per farlo fuori ho dovuto servirmi di un secondo sicario, non era facile eliminare il numero 1 dell’Agenzia, in uno scontro diretto forse non ci sarei riuscito ma volevo parlargli prima che morisse, volevo sapere il perché del suo atteggiamento. Per questa bramosa curiosità ho sacrificato l’altro sicario, votato in partenza alla morte, perché Ziegler è uno tosto. Anzi lo era.
Aveva in mente di vendicare la morte della sua donna, da lui stesso fatta fuori per contratto, è entrato nel salone del suocero armato con due pistole. Ho detto al secondo uomo appostato alla sua sinistra di far fuoco appena lui estraesse le pistole e così ha tentato di fare, ma non sapeva di tenere sotto tiro Ziegler che fulmineo ha sparato incrociando le armi. Due colpi in tutto, alla testa, uno alla sua vittima predestinata e l’altro al sicario alla sua sinistra. Solo allora ho fatto fuoco anch’io, alla sua destra, cogliendolo al fegato ma sconquassandogli tutto il torace.
Perché Ziegler? Perché tanta inutile distrazione? Una donna vale la vita di un uomo? Un uomo di nome Ziegler? Questo volevo sapere direttamente da te e per questo non ho mirato alla tua testa.
Da quel giorno sono passati tre mesi, la vita doveva rientrare nella sua quotidianità e tale è sembrato, invece nulla per me è stato come prima.
Tutti abbiamo una donna che nella nostra vita occupa uno spazio, quello che noi le concediamo illudendola di essere la sovrana del nostro rapporto, la regina dei nostri sensi, la gendarme del nostro cuore, ma noi dovremmo essere persone normali invece non lo siamo. Siamo i dipendenti di una Agenzia speciale, che si occupa di morte, siamo killer professionisti, ben pagati per le nostre prestazioni di alta precisione e assoluta affidabilità e le nostre donne sono le prime vittime dì questa professionalità. Esse conoscono di noi solo ciò che noi concediamo loro di sapere sul nostro conto. Nomi, cognomi, origini, lavoro, sentimenti, tutta una finta facciata dietro cui si cela il vero individuo, impassibile, spietato, cinico, sordo al richiamo di qualsiasi sentimento. Ma fino a che punto?
La mia donna si chiama Noelle ed è la traduzione esotica di Natalina, il nome datole all’anagrafe dai genitori, siciliani purosangue; a lei non è mai piaciuto e, dopo diversi tentativi di modificarlo, appena uscita fuori di casa è passato da Lina a Noelle.
Ci siamo conosciuti cinque anni fa, casualmente, presso una mostra di pittura figurativa in una fredda mattina primaverile . Lei vi aveva portato la sua scolaresca di prima media ed io perché vi avevo trovato riparo dalla pioggia battente. Ci siamo rivisti e frequentati e qualche mese dopo abbiamo intimizzato il nostro rapporto, alla fine dell’anno siamo diventati conviventi. Da allora lei ritiene di essere la compagna di Alberto Maritati, rappresentante di macchine agricole e industriali, spesso fuori sede in giro per la penisola e a volte all’estero per le varie fiere. Mi crede originario marchigiano, figlio unico, laurea in ingegneria meccanica, invece il mio vero nome è Alessandro Moretti, sono nato a Imperia e ho avuto una sorella, deceduta a dieci anni di leucemia acuta. Un’altra morte, la più innocente di tutte, ma che non ha intuito per nulla sui miei sentimenti. All’epoca eravamo già soli poiché i nostri genitori erano da poco deceduti in un incidente stradale.
Sono entrato nell’Agenzia circa dieci anni fa, reclutato da Emile Costantini, un anziano franco algerino di Sètif, basso, tarchiato, viso grinzoso o meglio, scalpellato nella pietra; naso schiacciato, labbra grosse da cui pende un’eterna Gitane, capelli neri crespi e due fessure al posto degli occhi. Già l’aspetto non è dei più accattivanti e a questo occorre aggiungere un lungo curriculum di ben ventinove omicidi, quelli eseguiti per contratto, di quelli privati nessuno conosce il numero perché nessuno ha mai osato ficcare il naso.
Rimasto privo di famiglia, appena diplomato come perito industriale, ho iniziato a vivere per le strade arrangiandomi in mille espedienti finché un giorno, nei pressi di un’osteria del porto, ho sfilato il portafoglio dalla tasca di un tipo che credevo addormentato. Non lo era, ha aperto gli occhi e ha portato la mano verso una tasca, non quella del portafoglio. Ho intuito cercasse un’arma e, più svelto di lui, ho estratto dalla sua tasca un coltello a serramanico alla cui vista il tipo ha sgranato gli occhi puntandomeli addosso chiedendosi cosa avessi in mente. Sotto il suo sguardo, ben presto diventato supplichevole, ho fatto scattare la lama e l’ho infilata nel petto all’altezza del cuore. È morto in pochi istanti, i suoi occhi mi guardavano smarriti e increduli. L’ho adagiato su un fianco e mi sono allontanato con passo calmo e sicuro, stranamente il mio cuore batteva ritmicamente senza alcuna accelerazione. Non mi sono voltato nemmeno una volta e il tipo, da lontano, sembrava un ubriaco addormentato, di lui ne ha parlato la cronaca cittadina per i due giorni successivi, di lui so solo che veniva da Alghero, nulla di più.
Credevo di non aver avuto testimoni al mio omicidio e invece uno spettatore c’era stato, un intenditore per la cronaca. Era Costantini, a bordo di un mercantile distante un centinaio di metri, mi aveva visto all’opera con il suo binocolo da marina e, guarda caso gli ero piaciuto. Nei giorni successivi mi ha seguito per tutta la città finché una sera me lo sono ritrovato davanti in un vicolo, istintivamente ho impugnato nella tasca il manico del mio coltello ma a pochi metri da me, portando il palmo della mano in avanti mi ha detto:
“Niente scherzi, ragazzo, con quello non ci fai niente con me” lo guardai truce.
“Cosa vuoi da me?” gli chiesi sena mollare il coltello.
“Fare due chiacchiere” prima di rispondergli detti un’occhiata fuggevole alle mie spalle, ero solo.
“Perché? Non ci conosciamo”
“Tu no, ma io conosco te. Sai, ho potuto ammirare la tua abilità al porto” Cazzo, sapeva!
“?”
“Tranquillizzati, ho la faccia dell’infame io?”
“!?”
“Se avessi voluto denunciarti l’avrei già fatto, perciò?”
“Vuoi ricattarmi allora?”
“Ricattarti? Ahahahah, per toglierti cosa? I quattro stracci che porti addosso?”
“Allora cosa vuoi?”
“Te l’ho detto, parlarti. Ma dovremmo toglierci da qui, non è il posto adatto”
“Ok! Presumo che se avessi voluto farmi del male non avresti ciarlato tanto” lui sghignazzò.
“Oltre che svelto sei anche intelligente. Mi piaci davvero”
“E non sono un finocchio!” asserii per togliere ogni pensiero.
“Ahahah! Anche perspicace. Perfetto ragazzo, credo che c’intenderemo bene”
“In ogni caso, di qualunque cosa si tratti sappi che costo caro” Era un bluff il mio ma non avrei mai immaginato che in futuro sarebbe diventato una mia prerogativa.
“I soldi sono l’ultimo dei miei pensieri. Allora dove si va?”
“Non so, non ho una casa sicura” per la verità non ce l’avevo affatto ma lui già lo sapeva.
“Andiamo sulla mia barca, è ancorata poco distante dalla tua opera d’arte” non gli risposi, sapevo a cosa si riferisse e non avevo alcuna voglia di ritornarci sopra.
Sulla barca mostrò le sue carte, non mi svelò tutto, solo l’indispensabile a capire con chi avevo a che fare e, soprattutto, con cosa avrei avuto a che fare accettando la sua offerta.
Devo ammettere che non fui molto sorpreso, forse non mi aspettavo qualcosa di così grosso. Non presi subito una decisione, in fondo avevo solo ventitrè anni, però rimasi d’accordo con lui che ci avrei pensato su tutto il tempo che volevo, anche degli anni, lui mi avrebbe sempre accolto nella sua agenzia. Mi accolse due anni dopo, quando l’aria che respiravo si stava facendo troppo calda per me per aver fatto fuori un idiota della cricca del porto per cui dovevo mantenermi alla larga, non solo dal porto ma anche dalla città e dalla regione.
Quei due anni furono sufficienti perché Costantini arruolasse un altro giovane, dal nome esotico di Tobias Ziegler, diventando di fatto e a pieno titolo il numero uno dell’agenzia.
Ora sono io il numero uno ma la nostra non è una lunga lista, in tutto ora siamo in tre. Dopo di me Jacob Orloff, un ebreo polacco di ventisette anni originario di Lubecca ed infine Julio Santiago, venticinque anni, spagnolo di Valencia. Noi siamo i professionisti, in più vi è una squadra di una decina di “aiutanti”, sicari di secondo e terzo livello che usiamo come contorno in alcune operazioni complesse. Uno di questi l’ho sacrificato per eliminare Ziegler.
La direzione dell’Agenzia è saldamente nelle mani di Costantini, coadiuvato da Magda Schillaci, una messinese di trentadue anni che funge da segretaria, Mirella Zamponi, una trevigiana di quarant’anni che si occupa della sicurezza e degli aspetti legali della nostra professione ed infine Igor Volcic, la spalla di Costantini, un croato di circa sessant’anni, almeno credo, una vera sfinge dalla cui bocca ho sentito proferire si e no una dozzina di parole in dieci anni di conoscenza.
Ecco, questa è l’Agenzia della morte, camuffata da agenzia di consulenza industriale e artigianale con tanto di recapito legale.

L’ultima settimana è trascorsa nella calma più assoluta, niente contratti da stipulare, capita spesso nel nostro lavoro di restare inattivi per qualche periodo. Non è vero che la gente è desiderosa di ammazzarsi. In questi frangenti mi occupo dei lavoretti in casa. Vivo in una grande città, in periferia. Piccola villetta a due piani abbastanza grande per due persone. Noelle è al lavoro, insegna in una scuola media, io ho spaccato della legna nel retro cortile, mi piace farlo, mi tiene impegnato e, poi, la legna serve per il caminetto.
È quasi sera quando Noelle rientra a casa, la fermata del bus è a una cinquantina di metri, entra senza alcun affanno. La osservo mentre si toglie il cappotto, non posso che ammirare le sue forme sinuose. Mi è piaciuta dal primo momento, le ho fatto una breve corte, si è arresa presto. Credo sia innamorata di me, per me è un’ottima copertura. Mi piace stare con lei, convivere sotto lo stesso tetto, fare sesso con lei, sentirla gemere tra le mie braccia. In effetti potremmo essere una vera famiglia, ma un muro ci separa, un muro invalicabile di nome Agenzia.
Ho la canottiera bagnata di sudore quando mi si avvicina sorridente.
“Ciao amore” dice mentre mi si incolla addosso incurante del mio stato. Mi arruffa i capelli mentre la sua bocca s’incolla sulle mie labbra, succhiandomi anche l’anima. Riesco a svincolarmi e, divertito le do un buffetto sulle natiche.
“Ehi, vai di fretta questa sera? Sono stanco, sporco e affamato”
“Per la fame ci penso io a fartela passare, anche la stanchezza e…lo sporco..uhm ha un buon odore…”
“Meno male che non hai detto sapore, mi sarei preoccupato” aggiungo ridendo.
“”Anche quello, anche quello…” sussurra mordicchiandomi un capezzolo.
“Accidenti, cosa ti prende stasera? Sembra che ti sia strafatta con qualcosa”
“Ho voglia di strafarmi di te. Vieni…” afferma tirandomi per la canottiera verso la nostra camera.
Non posso fare a meno di ridere divertito, Noelle a volte é mille e una notte, imprevedibile come un terremoto della massima scala. Ai piedi del letto con una mano mi sgancia la cintura dei pantaloni e con l’altra si libera dei suoi jeans. In pratica in pochi secondi restiamo quasi nudi dalla cintola in giù ma la sua maestria è tale che nel breve tempo di altri pochi secondi lo siamo del tutto, dopodichè non ho più alcun bisogno di essere trainato da lei infatti sono io ora a condurre il gioco. Afferrandola saldamente per i fianchi la sollevo la terra mentre lei si avvinghia con le cosce ai miei fianchi, le sua braccia si serrano dietro la mia nuca e le nostre bocche sono diventate un tutt’uno, come due ventose alla ricerca di ossigeno succhiano l’aria reciproca con determinata violenza. In tal modo i nostri corpi si lasciano cadere sul letto, ancora per qualche minuto continuano ad avvinghiarsi nella estenuante e calcolata ricerca dei punti erogeni, infine sono le nostre bocche, distaccatesi per l’immissione di aria nei polmoni, a coadiuvare le mani nell’esplorazione dei corpi baciando, succhiando, mordicchiando e leccando le parti più intime e delicate tra infiniti sospiri, mugolii e spasmi di piacere.
Conosco Noelle da cinque anni e, devo ammetterlo, il più delle volte che facciamo sesso per me è una vera scoperta, sebbene alla fine il tutto si riduca a pochi secondi di potente gestualità sono i minuti di preparazione al rito finale che cambiano di volta in volta e, come ogni volta, i nostri corpi sono veri e propri vergini pianeti pronti per l’esplorazione sensuale.
Questa volta però accade qualcosa di diverso, nel bel mezzo delle nostre effusioni erotiche lei si distacca e, con il palmo delle mani sul mio volto, dice qualcosa che, ancora soggiogato dalle erotiche sensazioni, di primo acchito non afferro, tanto che deve ripeterlo.
“Al, vorrei che questo fosse per sempre” Dopo la seconda volta, quando si accorge della mia attenzione, porta la mia testa sotto il suo seno e, stringendosi a me, conclude il pensiero dapprima espresso.
“Vorrei che la nostra unione sia per sempre, non riesco più a vivere senza di te”
Sì, ora il concetto è ben chiaro. Le mie remore, come campanelli impazziti, intonano trillii preoccupanti, dovrei stare ad ascoltarli invece qualcosa, che non sono le sue braccia, mi cinge la testa tenendomi incollato alla sua pelle. L’odore che emana il suo corpo, il contatto vellutato della sua pelle, il battito incessante del suo cuore, tutto di lei mi avvolge in una nebbia sensuale, calda, protettiva. Afferro le sua braccia costringendola a distaccarsi, mi distendo supino sul letto con lei sopra di me, mi guarda curiosa chiedendosi cosa voglia fare. Nulla, voglio solo guardarla negli occhi, quegli occhi che a loro volta mi scrutano colmi di palpitante attesa. Non aspetta che io faccia altro, si piega su di me con le braccia tese puntate sul materasso, con il corpo cerca la posizione ideale finché è lei stessa a compiere il rito della penetrazione mentre io fisso la mia attenzione sulle sue labbra socchiuse che impercettibilmente si aprono e si chiudono assecondando il movimento che lei stessa impone ai nostri corpi.
Ed è proprio allora che qualcosa di imprevedibile succede. Nella mia posizione di passiva collaborazione davanti agli occhi della mente mi appare Ziegler, sanguinante e morente, che con estrema sofferenza mi dice “visto che l’hai capito anche tu Moretti!”.
Erano state, queste, le rivelanti parole del pensiero di un essere umano che dopo tanti anni di metodica routine aveva optato per una scelta di vita diversa. In quel momento mi sono chiesto in cosa di diversa sarebbe stata la sua vita, se avesse potuto realizzarla, ora, il corpo vibrante di Noelle su di me lo stava chiarendo alla perfezione.
In verità quelle riflessive domande rivolte a Ziegler in punto di morte ho continuato a rivolgermele nel tempo. Negli ultimi mesi ho iniziato a guardarmi intorno più spesso osservando tutto il mondo che mi circondava sperando che mi parlasse, che mi rivelasse qualcosa, che mi squarciasse infine la mente.
E comunque, nonostante la mia attesa di un segno rivelatore, ho continuato la mia attività con l’Agenzia.
Ben due contratti ho portato a termine, con estrema naturalezza, quella di sempre.
Il primo, in un bagno aeroportuale, per eliminare il socio in affari di un noto personaggio pubblico e il secondo, piuttosto insolito per la nostra Agenzia, in pieno centro presso un’edicola.
Noelle intanto ha svincolato il suo corpo dal mio, le nostre intimità si sono distaccate me lei continua il suo assalto erotico riprendendo a stuzzicarmi con la bocca, per alcuni secondi pare indemoniata tanto che le mie mani le afferrano le anche riconducendo la sua intimità ad avvolgere la mia.

Ho eseguito il contratto il terzo giorno di pedinamento, pochi minuti prima che salisse su un aereo diretto a Melbourne. È entrato nel bagno pubblico chiudendosi in una cabina, io l’ho seguito dopo pochi secondi scoprendo che l’antibagno era completamente vuoto, una sola delle porte delle cabine era chiusa, la sua. In un attimo ho preso la decisione, sono entrato nella cabina a fianco, ho estratto la pistola, ho inserito il silenziatore poi salendo velocemente e silenziosamente sul vaso prima e sulla cassetta dopo mi sono issato sulla parete divisoria gli ho puntato la pistola alla testa. Ho sparato un solo colpo e velocemente sono ridisceso ma facendo in tempo a vedere l’effetto del colpo. Il proiettile che ho usato era stato precedentemente segnato alla punta per farlo aprire appena fosse entrato nella testa, non nel corpo ma specificatamente alla testa, come nostra consuetudine. Appena entrato nel cranio è esploso squarciandogli il capo e spargendo schegge da ogni parte, ho fatto in tempo a vedere un occhio attaccato sotto un cazzo disegnato sulla porta della cabina prima di ritrovarmi in piedi nella mia. Ho smontato velocemente il silenziatore, ho riposto la pistola sotto la cintura dietro la schiena, ho tirato lo sciacquone e sono uscito con estrema calma dal bagno. Ho attraversato la sala d’attesa fingendo di leggere un opuscolo illustrativo e mi sono diretto verso l’uscita fermandomi per cedere gentilmente il passo a una coppia di anziani signori che mi hanno ringraziato con un lieve sorriso. Fuori l’aeroporto mi sono fermato in attesa del solito taxi appostato nelle vicinanze. Ne sono arrivati ben due che quasi si sono messi a litigare su chi si sarebbe accaparrato la corsa. Ho rivolto un sorriso divertito all’agente davanti la vetrata d’ingresso che complicemente mi ha corrisposto, infine sono salito sull’auto del vincitore della verbale contesa allontanandomi dal posto. Ho saputo in seguito dai notiziari che il corpo è stato scoperto mezz’ora dopo, quando l’occhio attaccato alla porta è scivolato finendo per terra nello spiraglio della porta e attirando così l’attenzione. Nessuno ha fatto caso al gentile signore che poco dopo era uscito tranquillamente dileguandosi nel nulla.

Noelle ora accelera il movimento dei fianchi, finora sono stato passivo sotto di lei lasciandole condurre il gioco a suo piacimento, ho resistito grazie al ricordo dell’aeroporto. Lei pare si sia accorta della mia inerzia e sospettando un mio assenteismo mentale cerca di indurmi ad una fattiva collaborazione. Non ha torto, il suo corpo merita tutta la mia attenzione.
Mi inarco verso di lei raggiungendo con la bocca i suoi capezzoli turgidi, ne mordicchio la punta, lei geme di passione, alza la testo in su mostrandomi selvaggiamente il collo su cui affondo avido la bocca come un felino. La copro di baci, con il viso sommerso dai suoi capelli mentre lei tenta invano di sfuggire la mia presa. Le impedisco di scappare tenendola inchiodata sopra di me fermamente deciso a restare immerso dentro di lei. I miei colpi si fanno furibondi, la mia mente esplode.
Ziegler! Ziegler! Ziegler! Cosa mi hai fatto, dannazione!
Con un colpo d’anca cambio posizione, la costringo supina a sottostarmi, per alcuni secondi affondo violentemente dentro di lei mentre con le mani le immobilizzo la testa e con la bocca le soffoco la sua impedendole di respirare. I miei colpi si fanno più prepotenti e determinati allora lei, con un colpo di reni si libera della mia morsa e, sempre restando immerso dentro lei, cambia di nuovo posizione. Ora siamo distesi di fianco con la sua coscia sopra il mio fianco e, per non farmi allontanare, con la mano serra un mio gluteo mentre di contro acuisce la spinta. Pur eccitati siamo entrambi stanchi e ansanti, restiamo in questa posizione, eccitati ma coscienti. Le bocche si cercano questa volta con delicata sensualità. “Ti amo” mi ripete non so quante volte in un minuto.

Il secondo contratto è stato diverso da tutti gli altri. Si trattava di un testimone in un processo per omicidio, la commessa ricevuta era di non farlo arrivare al processo. Non era specificato da nessuna parte se bisognava ammazzarlo o meno, solo che non doveva presentarsi al processo. D’accordo con Costantini abbiamo preso alla lettera l’ordinativo. Il testimone non avrebbe testimoniato ma non l’avremmo nemmeno ucciso.
Con questo proposito mi sono messo sulle sue tracce, non sarebbe stato un compito facile intervenire.
L’uomo era sotto protezione, un agente in borghese gli faceva da angelo custode perciò bisognava eludere la sua guardia. Per una settimana abbiamo seguito passo per passo ogni loro movimento, tutte le usanze, infine puntualizzando un’abitudine quotidiana mattutina, l’unica che ci offriva uno spiraglio per intervenire. Nei pressi di un sottopassaggio vi era un’edicola e i due uomini ogni mattina sostavano per circa un minuto, il tempo di acquistare un quotidiano, aprirlo e scorrere velocemente le notizie in primo piano prima di avviarsi verso un parcheggio poco distante. Bisognava intervenire in quel frangente, solo in quel momento, nemmeno nel parcheggio perché la via di fuga era troppo aperta ed esposta a eventuali interventi di forze d’appoggio.
Una grigia mattina con un cielo coperto e una leggera umida nebbiolina, indossando un giubbotto da operatore ecologico e un berretto a visiera spingendo un trabiccolo a forma di cariolone su cui spiccava una lunga scopa e il manico di una pala mi sono appostato nei pressi dell’edicola. Nel momento in cui il mio uomo e la scorta si sono fermati all’edicola ho spinto il cariolone facendolo urtare di proposito sulla schiena della scorta mentre, impugnando la pistola con il silenziatore nella destra, velocemente ho portato la canna della pistola su per il corpo del mio bersaglio al disotto del giaccone. All’altezza della cintura dei pantaloni ho fatto fuoco una sola volta puntando alla spina dorsale. Contemporaneamente ho chiesto scusa all’uomo di scorta che stava per ricomporsi mentre la mia vittima è rimasta immobilizzata con le mani poggiate sulla mensola dell’edicola. Ho tirato indietro il cariolone portandolo di lato all’edicola e con apparente calma mi sono diretto verso il sottopassaggio. Ho sceso la scalinata con calma, senza correre, svoltando l’angolo mi sono tolto il giubbotto indossandolo di nuovo rivoltato, era infatti un double face. Ho tolto il berretto a visiera e dopo aver fatto fuoriuscire un una folta chioma di capelli posticci l’ho ricalcato sulla testa. Poco più avanti mi sono fermato a osservare la vetrina di un negozio di telefonia, ma non sostando a lungo, solo una decina di secondi, il tempo di far imprimere nella mente di eventuali testimoni l’immagine di un capellone che bighellonava senza alcuna meta precisa. A un mendicante che chiedeva qualcosa gli ho fatto segno con le dita della mano di non avere nulla strappandogli anche un sorriso di comprensione. Sono risalito sull’altro lato della strada a una trentina di metri dall’edicola soffermandomi solo per un attimo a contemplare la scena dell’uomo di scorta chino sul corpo ormai crollato a terra della mia vittima mentre chiedeva a gran voce aiuto, incurante persino di guardarsi intorno. Mi sono allontanato dalla piccola folla di curiosi sparendo di nuovo nel nulla.

“Sei stanco?” mi chiede Noelle. La guardo curioso accorgendomi solo allora di un mio percettibile rilassamento. Le sorrido, le faccio cenno di no e con rinvigorita passione mi immergo di nuovo dentro di lei che riprende a gongolare di piacere.
Ora lei è sotto di me e i miei colpi sono diventati ritmici e di crescente potenza infine, dopo alcuni minuti, il desiderio di lei mi ottenebra la mente placando la mia forza. Dopo un ultimo spasmo crollo esausto al suo fianco, anche lei rimane priva di energie a fissare il soffitto mentre la mia mente ancora una volta si lascia catturare da un’immagine che ben conosco.
Ziegler! Ziegler! Ziegler! Maledizione a te cosa mi hai fatto? Quale malattia mi hai trasmesso? Con cosa mi hai contagiato?

Costantini mi guarda con una curiosa espressione, non sembra affatto sorpreso della mia rivelazione, come se l’avesse già intuita da tempo. Con una mano tamburella sul piano della scrivania e con le labbra fa strane smorfie, il volto, però, non tradisce alcun nervosismo.
Dopo qualche minuto, rivolgendosi all’onnipresente Volcic, dice in tono ironico:
“Sentito Igor? Moretti ci lascia”
“Ci lascia o vuole lasciarci?” replica Volcic.
“Non rompere Igor, ha detto che ci lascia, chiaro e tondo”
“Non ha specificato il momento” ribatte lui.
“La volete piantare voi due? Sono qui, se avete qualcosa da chiedermi fatelo ora”
“Ok Moretti, immaginavo da un pezzo che avresti preso questa decisione, si trattava solo di tempo”
“Non te ne avevo mai parlato”
“Tu no ma la tua faccia sì. Vuoi sapere da quando? Dalla morte di Ziegler. Quella sera sei rientrato stravolto e non era un atteggiamento che ti si confaceva. Emil, mi sono detto, Moretti prima o poi ci lascia!”
“Mi dispiace ma credo sia la soluzione migliore per tutti”
“Non te ne voglio Moretti, hai fatto fin troppo per questa agenzia”
“Nessun rancore anche da parte mia, ragazzo. Beh la vita continua, vado giù, c’è una macchina da sistemare”
“Grazie Igor, stammi bene”
“Anche tu Moretti, qualche volta passa a salutarci” afferma ridacchiando mentre si allontana. Sa che sarà impossibile perché una volta sganciati dall’agenzia è tassativo non mantenere più alcun contatto con il passato. È una questione di sicurezza generale.
“Allora cosa farai da domani?” mi chiede Costantini.
“Ciò che ho sempre finto di fare, il rappresentante industriale, così non devo tante spiegazioni a Noelle”
Nell’ufficio di Costantini compaiono le due ragazze, Magda e Mirella. Noi le chiamiamo così sebbene siano donne fatte.
Magda ha trent’anni, dal corpo pienotto e dall’apparenza di un’oca svampita, in realtà ha un’intelligenza di prim’ordine. Ha una memoria di ferro e sa gestire il computer come e meglio di una ragazzino con il proprio telefonino.
Mirella di anni ne ha quaranta ma ne dimostra almeno cinque di meno, sarà forse per il trucco sapientemente usato e per un’attività sportiva che ha sempre praticato fin da bambina che il suo corpo snello e longilineo fa di lei la più ammirata avvocatessa del foro penale.
“Qualcosa bolle in pentola capo?” chiede cinguettando Magda a Costantini mentre Mirella ci saluta con un cenno.
“Moretti si ritira dall’attività” afferma lui.
Le due donne hanno una reazione totalmente contrastante, Magda sgrana gli occhi e si lascia andare a un lungo “Ohhh!”
di stupore mentre Mirella mi punta gli occhi indagatori addosso senza proferire alcuna parola poi, come a confermare un proprio pensiero commenta:
“E’ giovane e carina almeno?” mi strappa un sorriso, ci ha preso in pieno al primo colpo. Non le rispondo, lei mi fa un occhiolino e si allontana agitandomi una manina. Fortunato chi la catturerà, mi chiedo, è una ragazza in gamba.
Ancora dei passi e questa volta entrano insieme senza parlare tra loro Orloff e Santiago. Il primo mi volge un sorriso, l’altro mi guarda con indifferenza. Mi è sempre stato antipatico, dal primo momento, e per fortuna non ci ho mai dovuto lavorare insieme, non mi ispira nemmeno fiducia.
Anche a loro Costantini da l’annuncio del mio ritiro. Santiago mi lancia un’occhiata e mormora “buono a sapersi”, Orloff mi si avvicina tendendo la mano che stringo volentieri.
“Davvero vai via Moretti?”
“Sì Jacob, smetto da oggi”
“Per l’agenzia sarà una grossa perdita ma a me fa piacere che tu chiuda tutto intero” è davvero un simpaticone.
“Hai ragione non è da tutti”
“Beh, allora buona fortuna la fuori” mi augura.
“Credo ne avrai più bisogno tu di me”
“Sì, anche questo è vero, comunque buona fortuna lo stesso” conferma ridendo.
“Addio Orloff!” gli auguro prima di andar via.


*

L’ultimo contratto

“Vendesi mandarino rosso” l’annuncio era più che esplicito, dovevo rientrare quanto prima, ovviamente seguendo tutte le regole relativa alla sicurezza. Il giorno stesso ho interrotto le ferie in Tunisia, col primo volo ho raggiunto Catania, in autobus a Messina, traghetto e a Reggio l’Eurostar per Milano.
Sono sceso a Taranto, con un altro autobus ho raggiunto Bari e adesso sto aspettando un altro Eurostar per Torino, che non raggiungerò perché scenderò a Piacenza e quindi con un regionale arriverò finalmente a Milano, la mia destinazione. Il tempo del viaggio si triplicherà ma non avrò lasciato tracce dirette del mio percorso.
È quasi sera, pochi minuti alle diciotto, lo speaker annuncia l’arrivo del treno, è in orario, non sosterò a lungo sul marciapiedi. Ho preso un biglietto di prima classe, non lo faccio quasi mai ma siamo ad ottobre e prevedo la prima classe abbastanza vuota e al riparo da viaggiatori impiccioni.
Non mi sono sbagliato, nello scompartimento vi sono solo due persone, un bambino di circa cinque anni e una donna, probabilmente la madre. Lui ha un aspetto birichino, di sfrontata ingenuità lei, invece, è bella da morire, il suo sguardo mi ha trafitto cuore e cervello, non mi è mai successo fino ad oggi una simile sensazione. Come un adolescente alla prima cotta le punto addosso gli occhi, lei fa altrettanto, nessuno abbassa gli occhi e restiamo a fissarci per un minuto abbondante. Ho modo di osservarla attentamente, il vestito dalla gonna larga non lascia intravedere le forme ma è snella e ben fatta, anche il volto, per le sue fattezze, non è eccezionalmente bello ma i suoi occhi azzurri posizionati su un naso piccolo e a punta in su mi hanno letteralmente catturato, non riesco a distogliere i miei dai suoi, e pare che sia ampiamente ricambiato. Non so chi per primo ha abbozzato un sorriso, peraltro subito ricambiato, ma il nostro reciproco rapimento viene interrotto dal piccolo che tirandomi i pantaloni mi chiede a voce alta:
“Non ti siedi?” L’incantesimo è spezzato, quasi con imbarazzo i nostri sguardi si lasciano rivolgendosi entrambi sul piccolo. Lei ridacchia, poi guardandomi di nuovo mi dice a voce bassa “Lo perdoni”.
“Di che?” le rispondo mentre con una mano arruffo i capelli al bimbo. Mi siedo e, spezzato l’incantesimo ma anche il ghiaccio, con la mano afferro il mento del piccolo e chiedo:
“Come ti chiami giovanotto” e lui prontamente “Guido – e subito dopo – e tu come ti chiami?”
Catturato dalla sua innocenza gli rispondo.
“Tobias, Tobias Ziegler” dico divertito mentre osservo la donna guardarmi meravigliata. La comprendo perciò mi rivolgo a lei precisando:
“Sono austriaco, in Italia praticamente dalla nascita, mio padre era un addetto all’ambasciata e ha sposato un’italiana, di Sabaudia. In pratica ho la doppia nazionalità” Lei mi sorride affascinata.
“Parla così bene anche il tedesco?” mi chiede con ammirazione.
“Non solo, ma anche l’inglese, il francese, lo spagnolo, e mi arrangio un po’ con un’altra dozzina di lingue”
“Oh! Ma allora è un poliglotta?”
“Sì, la mia attività mi porta molto spesso all’estero”
“Perché che lavoro fa?”
“Sono consulente industriale” mi guarda inarcando le arcate, la muta domanda è molto esplicita.
“Mi occupo di tutto ciò che riguarda l’industria, soprattutto marketing”
“Ah, ora capisco!” esclama poco convinta tanto da strapparmi una risatina contagiosa perché anche lei scoppia a ridere portando l’indice sotto il naso in un gesto di raffinata educazione. Intanto i nostri sguardi si incrociano di nuovo e di nuovo si catturano, e di nuovo interrotti dalla vitale ingenuità del piccolo Guido. Pochi istanti di distacco e subito a ritrovarsi all’unisono. È così bella da farmi impazzire, non riesco a restare lontano dai suoi occhi ed anche lei; quando volge i suoi su di me il volto le si vela di una arcana tristezza. Non conosco il motivo, probabilmente le ricordo qualcuno.
Nella successiva ora, mentre Guido si astrae con una macchinina, noi approfondiamo la nostra conoscenza, precisamente è lei a darmi tutte le informazioni che la riguardano. Si chiama Elena ed è vedova da otto mesi, il marito un certo Dibartolo appartiene ad una delle famiglie più ricche di Torino. Lei lo ha conosciuto sei anni prima e se n’è invaghita, il primo grande amore di una ventiduenne. Come sempre accade in queste circostanze è rimasta incinta e lui, pur contro il parere della famiglia l’ha sposata ma non ha smesso nemmeno per un momento di vivere la sua vita fatta di gesti spericolati ed insulsi fin quando sfidando per l’ennesima volta il destino ci ha rimesso la vita precipitando in un crepaccio alpino. Lei, rimasta sola con il bambino si è rinchiusa nella sua casa paterna a Lecce, con i suoi genitori, resistendo a tutte le pressanti richieste del suocero tendenti ad avere tutto per sé il piccolo,
Alla fine, stanca e probabilmente consigliata dai suoi genitori, ha deciso di recarsi a Torino per qualche settimana, ma è fermamente decisa a riportarsi Guido a Lecce, inoltre la legge è tutta dalla sua parte, lei è la madre e per questo tutelata.
Alla fine del racconto, entrambi in piedi vicino al finestrino, non riesco a frenare la mia mano e in un gesto di affetto, le sfioro leggermente e lentamente la guancia, lei non si ritrae anzi, con un improvviso fremito, chiude gli occhi e preme il viso acuendo il contatto, poi riapre gli occhi, mi guarda aspettandosi ciò che inevitabilmente non riesco a fermare. Mi avvicino a lei e dolcemente poso le mie labbra sulle sue. È un bacio lieve ma avverto sulle mie le sue labbra umide e desiderose. Un altro impulso, con la stessa mano scivolata sulla nuca l’attiro a me, lei aderisce spontaneamente, le sue mani artigliano, non viste il mio torace, il nostro bacio si fa impetuoso, le labbra si cercano avidamente, potendo si strapperebbero dal desiderio. Un piccolo rumore ci scuote, è Guido, scivolato per terra addormentato. Lei quasi mi implora di mantenere l’incantesimo, mentre si distacca per sollevare Guido e distenderlo dolcemente sul sedile di fronte al mio. Dopo un ultimo tocco assicuratesi che il bimbo dorma in una posizione comoda, si volge di nuovo verso di me che intanto, come uno scolaretto, la osservo con tutto il desiderio che mi fa fremere ogni centimetro del corpo. È un attimo, il desiderio contrapposto la spinge di slancio verso di me, i nostri corpi questa volta senza alcun tentennamento si avvinghiano e la bocche affamate si cercano spasmodicamente.
Sono perdutamente tramortito dalla eccitazione quando riesco a sussurrarle che la desidero,
“Anch’io” mi risponde in un attimo. Allora non ci sono più freni o impedimenti. Blocco la porta dello scompartimento, tiro le tendine e spengo la luce. Ho appena il tempo di girarmi verso di lei che già si trova tra le mie braccia, mi spinge a sedermi che già mi è sopra accavallata sulle mie gambe. Il respiro è ansante, il suo più del mio che mi pare in apnea.
“Ti desidero, ti voglio da impazzire” non è un’esclamazione ma una focosa richiesta a cui il mio corpo risponde prontamente. L’eccitazione mi sconvolge, non riesco più a trattenermi, con la testa che ormai ha smesso di pensare cerco di slacciare la cinghia dei pantaloni, le sue mani avidamente lo fanno per me, poi lei in un attimo si sfila l’unico indumento che ormai si frappone al nostro desiderio. Le nostre intime carni si toccano, si cercano, si vogliono, si impossessano, è un attimo di erotismo spasmodico, io sento lei avvolgermi con tutto il suo calore, lei sente me invaderla di un rigido fuoco. Mentre le mie mani afferrandola le stringono l’incavo dei fianchi, dopo averla velocemente esplorata, scivolando sulla pelle morbida, lei, con il volto trasfigurato dalle smorfie di piacere, mordicchiandomi le labbra e sussurrando parole quasi indistinte, comincia a muoversi ritmicamente e lentamente su e giù, ansimando eccitata. Poi si ferma, affannosamente mi bacia con tutta la passione quasi soffocandomi sotto il peso del suo corpo che m’inchioda sul divanetto; chiude di nuovo gli occhi e poi riprende il movimento di prima, ma solo per pochi secondi, si ferma ancora, e riprende con un movimento diverso, questa volta laterale, quasi a compiere un giro erotico, poi un rapido scatto verso l’alto e di nuovo in senso laterale, e così via per non so quante volte tra un gemito e l’altro di purissimo piacere.
La mia testa ormai non regge più dal desiderio, mi sembra stia esplodendo, pur nella scomoda posizione mi inarco in alto velocemente e possentemente, lei si accorge che sto per cedere allora si ferma , con uno stratagemma si volta verso il bambino che dorme poco distante, poi mi dice, rassicurata, che non ci sono problemi. Intanto il mio spasmo è rientrato e lei è pronta a riprendere il gioco erotico. Con la sua sagacia riesce a condurlo fino all’estrema esasperazione quando, ormai travolta ogni resistenza mentale, la mia intimità trabocca come un vulcano in piena esplosione. Come ogni eruzione che si rispetti, accompagnata da scosse di assestamento, i nostri corpi si acquietano sotto uno sciame di sussulti sempre meno intensi.
Nella posizione in cui mi trovo non posso muovermi granché perciò rimango immobile dentro di lei, che intanto ancora mi stringe tra le sue braccia. Mi accorgo di come lei sia ancora una brace non sopita ma io mi sento svuotato di ogni scintilla di fuoco. Lei non ci bada, continua ad ansimare sopra di me,
“Ti desidero ancora, voglio ancora sentirti palpitare dentro di me” sussurra mentre riprende il suo diabolico gioco che in meno di pochi secondi riesce a rinvigorirmi e a scatenare la sua sessualità non ancora doma. Questa volta il gioco dura decisamente di più, tanto di più, i miei sensi restano sempre vigili e coscienti del piacere che lei mi procura e che senz’altro si procura. Alla fine arriva la seconda eruzione, più composta della precedente, più matura, più cosciente, più calcolata e anche più esauriente della prima. Ora i nostri corpi finalmente si rassegnano svuotati di ogni ultima energia, anche volendo, il sacro fuoco ormai si è incenerito.
Nei minuti successivi, pur in quell’ultima e intima posizione, lei mi parla chiedendomi di non lasciarla sebbene comprende la particolarità del momento. Le rispondo che non deve nemmeno pensare una cosa del genere, infatti sono perdutamente innamorato di lei. Ci promettiamo di incontrarci di nuovo, a Torino per il sabato successivo. Oggi è solo mercoledì e mancano solo tre giorni, ma so già che saranno interminabili.

Rientro a casa a Milano che è quasi l’alba, calcolo che anche lei a quell’ora stia arrivando. Non riesco a togliermela dalla mente, nel tragitto da Piacenza a Milano ho pensato solo a lei e ho preso la mia decisione, dopo quest’ultimo contratto rassegno le dimissioni dall’Agenzia, posso farlo è previsto nel regolamento. Non possiamo in alcun modo uscirne fuori durante la stipulazione di un contratto ma appena dopo sì. In ventiquattro ore vengono liquidate le pendenze e ogni rapporto cessa irrimediabilmente senza ripensamenti.
Riesco comunque a riposarmi per alcune ore poi sul tardi mi reco all’ufficio postale a ritirare il plico raccomandato che mi attende. Ritorno a casa, mi distendo sul letto con la schiena poggiata al muro e apro il plico. Dentro vi è un biglietto con la notifica dell’avvenuto pagamento di duecentomila euro per l’ultima commessa, sono sorpreso, dev’essere una persona importante, non hanno mai pagato così tanto. Nel plico vi è un’altra busta chiusa, la apro, so già che contiene la foto del prossimo contatto con tutti i dati relativi alla persona e all’ambiente in cui vive. Vi è anche un biglietto con una scritta ben precisa e chiarificatrice: “tempo massimo dieci giorni”. Nient’altro, significa che il contratto dovrà essere chiuso entro e non oltre quel tempo stabilito, le modalità sono a mia discrezione.

È sabato, in mattinata ho chiamato Elena le ho detto che sarei arrivato verso diciotto e trenta lei mi ha risposto che mi avrebbe atteso presso un piccolo parco ai piedi della collina della Superga, poco distante dall’abitazione del suocero, non vuole allontanarsi troppo dal suo bambino.
Ho indossato un abito scuro di lanetta, camicia e cravatta, ho inforcato un paio di occhiali e in testa un Borsalino di cotone, anch’esso grigio. Siamo in ottobre, ancora non fa freddo ma nemmeno caldo, ho portato con me uno spolverino leggero ma non indosso, piegato con cura avvolge il mio braccio destro.
Cammino con passo spedito, so dove si trova il parco da lei indicato, è piccolo ed anche non eccessivamente illuminato, a quest’ora è quasi deserto, vi entro da un’entrata laterale, da lontano la vedo seduta su una panchina. Dista una trentina di metri, mi avvicino e noto come con la punta dei piedi freme d’impazienza, si guarda continuamente da un lato all’altro, mi ha già visto due volte ma senza riconoscermi, l’ultima volta indossavo un completo jeans, alquanto consumato. Intanto continuo ad avvicinarmi, sono ormai a meno di tre metri da lei. Punto decisamente verso di lei, per la terza volta lei guarda verso di me, curiosa che io non cambio direzione. Sono a due metri, lei si irrigidisce sulla panchina, sono a un metro, adesso mi osserva attentamente, finalmente mi riconosce, aggrotta la fronte per la sorpresa e un immenso sorriso le illumina il volto, il proiettile la centra esattamente la fronte lasciandole come buco d’ingresso un puntino appena visibile. La sua testa ha un sobbalzo all’indietro e poi si accascia senza vita sulla panchina.
Non mi fermo, continuo nella mia direzione senza alterare il passo, so che il proiettile, se non è fuoriuscito, non fatto grandi sconquassi, è un calibro 22, non era necessario usare un’arma più potente, le avrebbe spappolato la testa.
Nei cento metri successivi ho il tempo di svitare il silenziatore della pistola che impugno nascosta dallo spolverino, appena fuori il parco lo lascio scivolare per terra e con il piede lo accompagno a cadere in un grata della raccolta di acqua piovana. Poco più avanti strappo il colletto della finta camicia con la cravatta e la stessa la faccio scivolare attraverso l’anello del grilletto della pistola, ormai scarica, vi avevo messo il solo colpo in canna. Annodo la cravatta al grilletto e sul ponte Vittorio Emanuele, fingendo una breve sosta la faccio cadere in acqua. Arrivo alla stazione centrale, entro in sala d’aspetto e poggio lo spolverino su una spalliera poi mi dirigo sotto il tabellone delle partenze fingendo di controllare gli orari, dopo qualche minuto esco dirigendomi verso il bagno. Qui assesto il colletto della polo indossata sotto la finta camicia, tolgo la giacca e strappo la copertura del colletto, sotto vi appare un colletto bianco, rivolto la giacca, la parte interna ha sulla schiena una cineseria, con tanto di stemma sul taschino anteriore. Esco dal bagno e ripasso davanti la sala d’attesa, lo spolverino, come calcolato, non c’è più, ha cambiato possessore. Dieci minuti dopo salgo sul treno, un Intercity diretto a Crotone, località che non raggiungerò, scenderò di nuovo a Piacenza e, questa volta, dopo essermi cambiato i vestiti presso un monolocale che ho in fitto da alcuni anni nei pressi della stazione, riparto per Milano con un autobus di linea.

Ancora una notte insonne, la più tremenda delle notti. La mia rabbia impotente si comprime in un cupo mutismo. Ho dovuto uccidere la donna di cui mi ero perdutamente innamorato e con la quale avevo sognato di cambiare vita. Ricordo quando ho aperto la seconda busta contenente la sua fotografia, sono rimasto di sasso per l’atroce destino che mi condannava ad eliminare proprio la mia donna del cuore. Purtroppo la situazione non consentiva alcuna scelta, dovevo portare a termine il contratto altrimenti sarebbe stata la fine per entrambi.
Ripenso anche allo svolgimento dello stesso, non una sbavatura, tutto si è svolto in pochi secondi come previsto nei minimi dettagli. Purtroppo nel mio lavoro sono apprezzato per la meticolosità e la pulizia con cui eseguo i contratti. Sono un professionista serio, sono un perfetto killer.
Ora, pur con tanto strazio, ho chiuso un capitolo ma se ne apre un altro, Elena grida vendetta ed è quello che avrà. Domani presento le mie dimissioni, unendo il mio ultimo compenso con tutti i miei risparmi farò un bonifico ai genitori di lei, scriverò, per ogni evenienza, una lettera ad uno studio notarile esigendo che siano puntigliosamente rispettate le mie volontà e poi entrerò in azione, questa volta il termine ultimo per il mio contratto privato sarà di ore, non di giorni, al massimo quarantotto.

In attesa che l’Agenzia formalizzi le mie dimissioni ho telefonato a Dibortolo, con la scusa delle condoglianze ho fissato un appuntamento di lavoro per martedì, esattamente domani mattina, sarò puntualissimo.
Con un taxi arrivo fin davanti la villa, appena sceso sistemo le mie armi, due Glock 45 automatiche e questa volta con i caricatori pieni. Per il mio scopo basta un solo proiettile ma presumo che il personaggio tanto di spicco si circondi di guardie del corpo, non dimentico che è il mandante di un omicidio e quindi disposto a tutto.
Un inserviente viene al cancello, mi presento, mi fa entrare, mi precede fino davanti la porta di un ufficio, qui si ferma, mi comunica che il suo padrone mi attende all’interno, apre la porta e si discosta per farmi entrare per poi richiuderla subito dopo alle mie spalle, troppo velocemente.
Compio due passi e sono accolto da un sibillino “Ben venga signor Ziegler”, l’uomo è lontano circa sette metri da me, è in piedi dietro ad una grande scrivania, con la coda dell’occhio percepisco un movimento alla mia sinistra, estraggo le armi e faccio fuoco contemporaneamente incrociandole. Con la sinistra su Dibartolo e con la destra sul tipo comparso alla mia sinistra con una pistola puntata su di me.
Cadono entrambi senza vita, li ho centrati alla testa, come sempre non sbaglio mai, ma un attimo dopo avverto un immenso dolore al fianco destro e un bruciore infernale allo stomaco. Mi accascio per terra piegato in due. Maledizione! Erano in due e non ho visto quello alla mia destra, il figlio di puttana non si è mosso subito ha atteso che noi sparassimo poi ha fatto fuoco anche lui. Tutto in una questione di secondi, giusto quanto bastano.
Dev’essere sicuramente un professionista, ho mollato le pistole, non mi servono affatto, so di stare per tirare le cuoia. Mi chiedo perché ha mirato al corpo, questo prolungherà la mia agonia di parecchio. Bastardo, chi sei?
Riesco a sollevare lo sguardo su di lui e la sorpresa questa volta cancella il dolore. È Moretti, un mio collega dell’Agenzia, il numero due dopo di me. Egli mi ha raggiunto e ora si accovaccia vicino a me, impugna ancora la sua arma, puntandola innocuamente per terra.
“Cazzo! tu? Perché sei qui?”! gli chiedo. Lui scuote la testa prima di rispondere.
“Ma che cazzo ti è preso Ziegler di dare il tuo vero nome? Non potevi farne a meno?”
“Non puoi capire” gli rispondo. Ma lui capisce benissimo, perché prima annuisce poi dice.
“Volevi cambiare vita con lei vero?”
“Visto che lo sai! Come sono andate le cose?” voglio saperlo prima di tirare le cuoia.
“Prima hai dato il tuo nome a lei che lo ha riferito al suocero dicendogli cosa rappresentavi per lei, poi hai ridato il tuo nome a lui. Non ci ha messo molto a fare due più due ed essendosi già rivolto all’Agenzia una volta lo ha rifatto per te. Da quel momento la tua sorte era segnata”
“Ho capito. Ma perché non alla testa?” gli chiedo ancora.
“Perché voglio darti la possibilità di farti esaudire l’ultimo desiderio, per un amico si deve fare di tutto. Dimmi cosa vuoi che faccia per te” E’ onesto, lo è sempre stato.
“Il bambino, Moretti, portalo dai nonni materni”
“Contaci, entro stasera sarà fatto”
“Ma adesso sbrigati, non vorrai farti trovare qui? Sento in lontananza già le sirene, stanno arrivando”
“Ok, amico, non preoccuparti” Solleva l’arma verso di me, ascolto il rumore del cane mentre lo arma.
“Grazie Moretti” faccio in tempo a dirgli, ma non sento la sua risposta.
“Addio Ziegler”.



*

La mia unitè d’Italia

Pressato da più parti a dover forzatamente scrivere qualcosa sull’unità d’Italia di cui l’anno prossimo ricorre il centocinquantenario, dopo strenua resistenza, per quieto vivere, ho dovuto capitolare. Sì, mi sono arreso ma a modo mio, ovverosia di scrivere sull’argomento tutto ciò che mi passa per la testa, che possa infine piacere o no agl’incauti committenti.
Così, prima d’iniziare a battere sui tasti mi sono documentato un po’ sulla situazione peninsulare relativa al periodo tra la fine della joint venture napoleonica e le rocambolesche vicende che portarono alla unificazione italiana.
Ciò che risalta subito è la totale diversità che contraddistingue le contrade italiane da nord a sud della penisola. I comuni denominatori sono davvero pochi poiché cultura, sistemi amministrativi, usi, costumi, lingua parlata, più che unire dividono la popolazione del tempo, perciò gli unici elementi in comune sono la religione cattolica, la lingua ufficiale (ma non del tutto) e la miseria della popolazione, tradotta in lingua parlata: la fame.
Religione e miseria sono ovviamente estranei al processo che si scatena dopo Napoleone, periodo nel quale anche le scintille repubblicane covate in precedenza dalla brace della rivoluzione francese, sono del tutto sopite, perciò resta un solo elemento fondativo: la lingua.
Non c’è dubbio che l’intera penisola è un crogiuolo di etnie ognuna con un linguaggio parlato diverso l’uno dall’altro, i cosiddetti dialetti costituiscono la vera lingua italiana dove ad esempio un calabrese per intendersi con un bergamasco può riuscirci solo con la mimica, se aprono bocca avranno il sospetto che l’altro parli arabo.
La lingua ufficiale però è altra cosa. Dal latino in poi la lingua scritta si è evoluta fino a diventare quasi unica per tutti. Sebbene i maggiorenti del Paese, a partire da re e principi, parlino il loro dialetto tutto ciò che viene scritto è in italiano per i laici e in latino per i clericali.
Se prendiamo ad esempio i due re esistenti in quel periodo scopriamo come quello del sud Franceschiello parla in stretto napoletano e il suo antagonista del nord Vittorio Emanuele in stretto francese. Anzi, a ben vedere, anche molta documentazione ufficiale sabauda è scritta in francese, lingua ufficiale piemontese.
La lingua scritta, come dicevo sopra, viene insegnata nelle scuole, pressoché a esclusivo beneficio di chi possa permetterselo ma straordinariamente viene capita dalla popolazione, che sia del nord o del sud non fa differenza. Infatti se un letterato, non importa la sua provenienza, si reca lontano mille chilometri dal suo paese natio e interpella un indigeno in lingua italiana da costui sarà perfettamente capito sebbene poi la risposta, nel proprio dialetto, sarà incomprensibile.
Tanto per intenderci, un secolo dopo l’avvenuta unità ci sono stati dei programmi televisivi, rigorosamente in bianco e nero, condotti tra l’altro da Gregoretti e Mario Soldati, in cui viaggiando per l’Italia intervistavano contadini, braccianti, operai e casalinghe del posto, ebbene si potrà allora notare come tutti davanti alla telecamera non avevano alcuna difficoltà a comprendere le domande loro rivolte in italiano ma le risposte, per essere capite da tutti, venivano sottotitolate.
Ecco, questa era e lo è stata, almeno fino a qualche decennio fa se non ancora oggi in molte sacche, la nostra penisola unita sotto la medesima bandiera.
Ciò che avviene dopo il 1821 è la cosiddetta restaurazione che soffoca ogni anelito di progressismo scaturito dalla rivoluzione francese. Non si tratta ancora, e temo non si sia mai trattato, di spirito unitario ma di un grande equivoco nato prima spontaneamente e poi pilotato astutamente causato dalla incomprensione tra letterati e popolino.
Quest’ultimo, tanto per toglierci subito il pensiero, desiderava esclusivamente pagare meno tasse ed essere meglio considerato nella scala sociale. Anelava a migliori condizioni di vita e non erano certo i discorsi dei letterati sull’unità italiana che potevano soddisfarlo. Perciò tali discorsi cadevano perlopiù nel vuoto assoluto e di questo se ne ha riscontro nei tragici avvenimenti di Pisacane e dei fratelli Bandiera. Il popolo si ribellava, alzava barricate, si faceva maciullare dalle cannonate, caricava e si difendeva con i forconi e null’altro per un solo ideale, placare i brontolii di uno stomaco quasi sempre vuoto. Di tutto il resto non sapeva niente e niente voleva intendere e pertanto era sempre alla mercè dei colti che spiegavano a modo loro e peggio ancora traducevano per la storia.
Le altre categorie, escluso i preti, sempre restii ad abbracciare nuove teorie per il timore di perdere le loro prerogativa, ovvero gli interessi tridirezionali, chiesa, stato, popolo, rimanevano la borghesia e la nobiltà, i veri artefici della unificazione italiana, ma ciò non vuole essere affatto un titolo di merito.
Ora qui occorre aprire una parentesi, ciò di cui disserto è riferito esclusivamente al sud della nostra penisola, quello che geograficamente era conosciuto all’epoca come il Regno delle Due Sicilie, ovvero lo stato dei Borboni.
Riferendomi a questo non voglio assolutamente aprire capitoli della storia ampiamente sviscerati, in altre parole non ho alcuna intenzione di ricalcare una sostanziosa letteratura che narra di un sud ricco, dotato di fabbriche, di grande cultura eccetera… perché era un sud molto povero, con una popolazione affamata e dominata dai nobili latifondisti gelosi della propria casta e retrivi ad ogni cambiamento. Vi erano altresì delle sacche geografiche dove cultura e fabbriche splendevano di luce propria ma erano delle flebili luci che non rischiaravano uno stato totalitario ed oppressivo.
La borghesia, che veniva un gradino sotto la nobiltà ma spesso più ricca e benestante era numericamente maggiore della stessa ma non altrettanto emancipata. Essa dipendeva sempre dalle bizze della nobiltà della quale spesso scimmiottava la gestualità comportamentale.
Vi erano certamente imprenditori illuminati ma ben pochi pronti a rischiare i loro averi senza un avvenire perciò si limitavano a gestire, anche sagacemente, quel poco cha avevano mirando a intaccare la nobiltà spesso anelando a sostituirla.
In questo scenario, così succintamente descritto, vengono mossi i fili che porteranno alla unificazione.
Ciò che fa sicuramente scalpore è come abbia potuto un personaggio come Garibaldi, allora unicamente conosciuto come un avventuriero ed anche mal sopportato negli ambienti sabaudi, conquistare così facilmente ed in pochissimo tempo un regno come quello borbonico. Beh non ci ha messo molto perché vi erano tutte le pregiudiziali per una buona riuscita, che purtroppo si sono basate sulla ipocrisia, sulla menzogna e sulla perfidia, valori non certamente nobili sui quali sono state gettate le basi di uno stato nuovo e i cui rigurgiti si sono fatti sentire spalmati nel tempo, nostri giorni purtroppo compresi.
La prima considerazione da fare è che una penisola frammentata politicamente e quindi molto debole sarebbe sempre stata alla mercé della potenza asburgica ma nello stesso tempo l’Inghilterra non avrebbe mai acconsentito ad una penisola italiana fagocitata dalla Francia. Inutile girarci intorno, la questione italiana è sempre stata questa, divisa e sparpagliata com’era avrebbe sempre causato insonnia ai potenti vicini e alla ancor più potente Inghilterra, padrona del Mediterraneo. Occorreva perciò trovare una soluzione soddisfacente per tutti, ma quale se non l’unificazione sotto un’unica bandiera spazzando via principati, granducati e reami vari. Il dilemma semmai era su quale cavallo puntare, Savoia o Borbone? Beh, non ci voleva molto a capire che tra i due chi avrebbe potuto reggere il peso era il Savoia, oltretutto era a quello che puntavano i letterati sparsi nella penisola che avevano da quelle parti fatto un ammirevole lavoro. Per cui trovata la soluzione occorreva metterla in atto.
La prima fase: bisognava circuire la nobiltà, non ci volle molto, fu sufficiente l’ipocrisia. Nei secoli precedenti nei vari regni succedutosi nel sud la nobiltà è sempre stata una spina nel fianco della autorità precostituita, sommosse e rivolte ce ne sono sempre state che poi finivano con qualche testa rotolata e il condono generale con aggiunta di premio finale di buona uscita. Con tante premesse non vi fu quindi alcuna difficoltà a convincere la quasi totalità dei nobili che il passaggio dai Borboni ai Savoia non avrebbe rappresentato alcun cambiamento per loro anzi veniva loro assicurato un seggio parlamentare quasi ereditario, così tanto per arrotondare.
Comprati i nobili che avrebbero così assicurato la tranquillità nei loro feudi, spesso così grandi da rasentare la diretta concorrenza con i reali, l’attenzione si rivolse alla borghesia.
Qui fu doveroso cambiare tattica, l’ipocrisia non si addiceva ad ceto di per sé già abbondantemente ipocrita, entrò quindi in gioco la menzogna, molto ben articolata. Fu fatto balenare agli occhi dei vari imprenditori che con l’unità si sarebbero aperti mercati fino ad allora assolutamente preclusi. Questo avrebbe significato maggiore ricchezza e di conseguenza maggior peso politico e sociale. Una volta abboccato il pesce la zuppa era pronta.
Per il terzo stato non fu affatto difficile bastò spargere la voce che sarebbero state espropriate le terre dei ricchi per darle ai poveri, un procedimento ante litteram di quello che sarebbe accaduto cento anni dopo con l’Ente di Riforma Agraria. Una perfidia bella e buona nei riguardi della povera gente che stentava a vivere e che veniva così illusa.
Queste tre operazioni strategiche portarono quindi alla spedizione garibaldina, contro la quale non vi fu quasi nessuna opposizione, anche gli alti ufficiali erano stati comprati come i nobili alla cui casta la quasi totalità di loro apparteneva. Sull’onda dell’esultanza generale, salvo qualche increscioso incidente (Bronte…) che la storia dei vincitori ha prontamente sommerso, il generale Garibaldi conquistò di slancio un reame gettando le basi della prima autostrada italiana, l’unica grande incompiuta fino ad oggi, quella del Sole.
Peccato che il famoso incontro con il Savoia sia avvenuto in quella sperduta località passata poi alla storia con il nome di Teano, a ben vedere sarebbe stato più strategico farlo a Roncobilaccio.
Ma non finisce qui, chi pensa di festeggiare il centocinquantesimo anniversario dell’unità italiana si sbaglia di grosso perché si festeggerà sì un anniversario, peccato sia solo il cinquantesimo.
Questo cosa significa? Che grazie all’autostrada tracciata dal signor Garibaldi un secolo dopo vi fu la vera spedizione, e non si trattò dei mille ma di centinaia e centinaia di migliaia di persone stranamente equipaggiati con contenitori di cartone legati con lo spago che presero a invadere, novelli visigoti, le piane del nord. Fu una marea inarrestabile che tempo alcuni decenni attuò quella tanto agognata unità nell’unico modo possibile la miscelazione delle razze. Ancora oggi il fenomeno, sebbene in quantità moderata, è in pieno svolgimento ma con delle sostanziali modifiche. La valigia di cartone è stata sostituita dalla più pratica Sansonite e al posto del treno, brutto sporco e maleodorante, il Suv ultimo modello. Perché si va? Semplice sopravvivenza. Eh sì allora era la fame a spingere le masse oggi è la necessità di mantenere gli agi del consumismo. Non si possono infatti mantenere telefonini, televisori, automobili di grossa cilindrata con il solo ausilio delle pensioni, spesso di invalidità e accompagnamento, dei nonni, e poi gli stessi non sono eterni e in quel ramo non vi è di sicuro alcun avvicendamento.
Gli eroi della reale unificazione? Non è difficile, pensateci un po’ su, hanno nomi familiari, Rivera, Mazzola, Del Piero, Baggio, il cast del Grande Fratello, quello di Amici, il grande Silvio, come…Bossi? Ma va ramengo!

*

2 secondi

Solo, finalmente solo! Sono andati via tutti, con discrezione, pavidi e tentennanti, ma sono andati via.
È la prima volta che resto solo da… ormai più di sei mesi, voglio godermi questo momento iniziando con un profondo sospiro di sollievo. Mi guardo intorno, sono in un piccolo bilocale in un grande condominio. Unica parete esterna una grande vetrata che affaccia su un terrazzo. L’ingresso dà direttamente in casa, un ampio soggiorno, in un angolo la zona cottura con a fianco un bagno, dirimpetto l’angolo notte. Non una camera da letto ma un vero e proprio angolo letto, ovverosia uno striminzito spazio dove a stento vi entra un letto ad una piazza e mezzo, senza alcun comodino, vi sono solo due piccole mensole ai lati, grandi appena da contenere un abat-jour e una piccola sveglia, nient’altro.
Il soggiorno invece è grande, quasi quaranta metri quadri, altrettanto grande è il terrazzo, non quanto la stanza, forse la metà, ma essendo collocato al trentaseiesimo piano ti da una piacevole sensazione vertiginosa.
Tutto il palazzo comprende sessanta piani e si snoda come un immenso serpente sul litorale adriatico per una lunghezza di oltre mille metri. Ormai le costruzioni si fanno con questi criteri, ovvero deturpando la natura in ogni modo.
Mi avvicino alla vetrata, sento il bisogno di respirare aria fresca, l’apro e mi sento invadere da una folata di vento. È solo un momento, quanto basta per stordirmi, poi varco la soglia e mi dirigo verso la rete di protezione che funge da parapetto. La vista è da mozzare il fiato, il mare sotto di me è di una bellezza unica. Le prime ombre pomeridiane mi permettono di scrutare senza bagliori un orizzonte di azzurro intenso.
Respiro profondamente poi, inebriato, mi dirigo verso l’unico mobile presente, una sedia a sdraio ben imbottita e con sopra un quotidiano dai lembi svolazzanti. Mi siedo accomodando la spalliera ed apro il giornale, è il Cronic, titoli e foto non mi dicono nulla, solo la data, spezzando l’incantesimo, mi riporta alla dura realtà 8 ottobre 2098.
Il sospiro che emetto questa volta è di rassegnazione. Lo richiudo, come detto, le notizie che riporta non mi dicono assolutamente nulla. Secondo la data dovrei avere novantotto anni essendo nato nell’anno duemila, il quindici luglio. Invece ho solo quarantadue anni, forse uno in meno, questo è da stabilirlo.
Dovrei dire chi sono, ma sarebbe un’aberrazione, meglio sarebbe dire chi ero, o chi sono stato fino al duemilaquarantuno, uno degli uomini più ricchi del pianeta. Questo sì, lo ricordo perfettamente, e da sicure informazioni, ancora lo sono.
Però mi trovo in un bilocale da quattro soldi in un megacondominio sulla costiera adriatica nei pressi di Pescara. Certo che se non fossi qua sarei ancora in una maledetta stanza bianca di una asettica clinica circondato da camici bianchi e verdi, monitorato minuto per minuto, con deferenza e servilismo, tanto per ricordarmi che, sebbene tutto, sia ancora l’uomo più ricco della terra, o quasi.
Non posso non ricordare il mio passato, ma non voglio nemmeno soffermarmi più di tanto sulla mia vita, ciò che conta sono gli ultimi momenti di un giorno specifico, il venti agosto del duemilaquarantuno.
La Ferrari impazzita, causa una macchia d’olio sulla pista di Imola, piomba come un proiettile contro un muretto rimbalzando come un innocuo giocattolo fino a fermarsi, già pira ardente, nei pressi di una catasta di copertoni. Le fiamme avvolgono tutto il mezzo da farlo diventare una immensa torcia. Gli uomini accorrono ma non riescono a spegnere subito le fiamme. Il serbatoio che scoppia, la mia tuta lacera espone il corpo alle fiamme, solo la testa riesce a passare indenne protetta dal casco.
Non mi accorgo di nulla, ho perso i sensi già al primo impatto. L’unica cosa che ricordo è l’urlo che ho emesso gli istanti precedenti l’impatto, poi più nulla, ho riaperto gli occhi in una sala bianca su un letto bianco cinquantasette anni dopo.
La prima cosa che ho visto è stato un volto estraneo, quello di un uomo di mezza età, calvo, triste e con occhiali da miope. I suoi occhi esprimevano apprensione e speranza, la sua bocca si muoveva su e giù senza emettere alcun suono, non era vero, erano i miei sensi ancora non pronti alla percezione.

“Signor Gomez, mi sente? Riesce a sentire la mia voce?” l’ometto calvo, miope e triste domanda insistentemente le stesse cose. Non rispondo, mi guardo intorno finché non mi approprio di tutti i miei sensi. Muovo le dita, tocco il lenzuolo, muovo i piedi, li sento freddi, muovo gli occhi, vedo altre facce apprensive, sento le voci, i brusii, i rumori di vari oggetti, tende che vengono tirate, sento la sua voce distintamente, querula e invadente. Sento gli odori, sono quelli tipici degli ospedali che ricoprono tutti gli altri, tranne quello del dopobarba dell’ometto calvo, miope e triste.
Respiro profondamente poi, infastidito, mormoro “Sì”
L’ometto calvo e miope non è più triste, sa sorridere, e con lui tutto lo staff che lo circonda. La sala si anima, un applauso scaturisce dal nulla, mi tramortisce i timpani, faccio una smorfia di disappunto, lui allarga le braccia per zittire la sala che di colpo ubbidisce.
“Signor Gomez, bentornato nel mondo dei vivi” afferma giulivo, non sa che da quel momento è iniziato il mio calvario, durato più di tre mesi, fino ad oggi, il mio primo giorno di libertà assoluta.

“Signor Gomez, buongiorno, come ci sentiamo oggi?” Sono due mesi che ogni mattina alle nove in punto gli sento fare la stessa domanda, vorrei strozzarlo ma non posso muovermi legato come sono al letto da una miriade di fili e tubicini vari. Lo guardo in tralice, come sempre, sperando di farlo desistere con velate minacce ma egli non se ne cura, ogni giorno il suo buongiorno è sempre lo stesso, ma oggi mi sento di rispondergli per le rime.
“C’è un motivo per cui dobbiamo sentirci all’unisono?” gli chiedo inaspettatamente. Raggiungo lo scopo di confonderlo, per un attimo esita a rispondermi finché se n’esce con una risatina.
“Oggi è di buon umore, signor Gomez, mi fa piacere, anche perché dovremo iniziare un’altra fase del suo recupero. È importante che sia di buon umore signor Gomez. Vedo che di nome si chiama Victor, questo è senz’altro di buon auspicio Victor, posso chiamarla per nome, vero?”
“No” gli rispondo secco rifiutando il suo approccio, e per la seconda volta in pochi minuti lo vedo confondersi nei movimenti.
“Come vuole signor Gomez, nessun problema.” Afferma appena ripresosi, poi attacca imperturbabile:
“ Signo Gomez, oggi la toglieremo la maggior parte dei collegamenti ai macchinari, il suo corpo ha risposto bene ad ogni sollecitazione.”
“Bene, allora potrò alzarmi, sono stanco di stare sdraiato in questo letto.”
“Ecco, non subito, prima devo ragguagliarla su alcune cose circa la terapia che stiamo attuando.”
“Si spieghi meglio, di che terapia sta parlando?”
“Ecco, signor Comez, lei cosa ricorda del suo passato, qual è l’ultimo ricordo che ha, sa cosa le è successo?”
“Sì, ricordo fino agli ultimi istanti prima dell’impatto della macchina contro il muretto, filavo a oltre trecento chilometri all’ora”
“Trecentododici, per l’esattezza signor Gomez, poi lo schianto. Di questo non ricorda nulla?”
“Nulla, devo aver perso i sensi in quell’istante. Ho riaperto gli occhi in questo letto.”
“Nell’urto la sua tuta si è strappata in più punti mentre la macchina esplodeva e si incendiava. Le fiamme l’hanno avvolta come una torcia penetrando all’interno. La tuta era ignifuga ma la parte interna era di un normalissimo materiale di plastica che si è infiammato all’istante. In pochi minuti il suo corpo è arso del tutto. Si è salvata solo la testa, protetta dal casco. I soccorritori, dopo aver spento le fiamme, hanno compiuto un vero miracolo mantenendola in vita. In ospedale, poi, ha avuto la fortuna di trovare il dottor Marconi che ha fatto il resto”
Lo seguo con attenzione. Mi sta raccontando gli eventi che mi hanno portato in questo letto, sebbene stia facendo nomi di persone che nemmeno conosco. Fa una pausa scrutandomi per bene, gli faccio un cenno d’assenso e riprende il racconto.
“Il cuore, nonostante tutto, ancora batteva, il corpo era irrimediabilmente distrutto. È stato in quel momento che Marconi ha preso l’estrema decisione…”
Sollevo le braccia, è l’unico movimento che posso fare, le guardo e sono intatte, poi guardo lui mostrandogliele. È una muta domanda a cui risponde con un filo d’imbarazzo.
“La decisione del dottor Marconi è stata quella di ibernarla in attesa che la scienza medica trovasse il modo per farla rivivere. Ciò che è successo oggi”
“Allora devo ringraziare questo dottor Marconi, quando potrò incontrarlo?”
“Ecco, signor Gomez, ciò non è possibile perché, ehm.. il dottor Marconi è intanto deceduto”
“Oh, mi dispiace, quando è successo?”
“Undici anni dopo la sua ibernazione, signor Gomez” Mentre fa questa rivelazione mi guarda attentamente, io ci metto dei secondi a metabolizzarla, infine, con un velo di sospetto gli chiedo:
“Ha detto undici anni? Non capisco..” invece ho capito benissimo, mi serve solo una conferma.
“Sì, signor Gomez, esattamente quarantacinque anni fa”
“Per quanto tempo sono stato ibernato?” non ha bisogno di calcolatrice, la sua risposta è immediata.
“Cinquantasette anni signor Gomez”
“Lei non era nemmeno nato allora?” è l’unica banalità che mi viene in mente.
“No signor Gomez, sono nato due anni dopo.”
“Ma allora, avete trovato il modo di ricostruire ogni tessuto, non mi pare di avere alcuna traccia di cicatrice o di bruciatura”
“No, signor Gomez, nessuna cura, ciò che le è stato fatto è qualcosa di altamente innovativo. Ma le spiego come sono andate le cose. Durante tutto il tempo in cui è stato ibernato la medicina ha compiuto passi da gigante, che alla sua epoca erano impensabili, se non nella fantascienza più sfrenata. Dopo alcuni interventi su cavie animali, perfettamente riusciti, siamo intervenuti direttamente su di lei, e con totale successo, come può ben vedere”
“Non riesco a capire…”
“Il suo corpo era irrimediabilmente distrutto, solo la testa si è salvata, e noi, comunque, lo abbiamo interamente ibernato poi, quando ci siamo sentiti sicuri dell’intervento e appena c’è stata la disponibilità di un corpo, abbiamo eseguito il trapianto”
“Cosa avete trapiantato?”
“Il suo cervello signor Gomez, abbiamo semplicemente sostituito il cervello del donatore con il suo”
“Avete messo il mio cervello in un altro corpo? Ed è stato possibile farlo?”
“Certamente signor Gomez, e lei stessa ne è la prova vivente”
“Non immaginavo che tanto fosse possibile, stento a crederci”
“Invece sì, l’intervento è durato circa sedici ore poi l’attesa prima del risveglio”
“Allora adesso potrò finalmente alzarmi da questo letto?”
“Non subito, signor Gomez, o almeno non prima di aver preso dimestichezza con il corpo. In fondo, capirà, per il suo cervello è pur sempre un corpo estraneo, sebbene lo controlla con gli impulsi nervosi.”
“Non capisco, il corpo è come una grande unica protesi, io comando e lui obbedisce, non vedo cosa ci possa essere di tanto complicato”
“Dovrà familiarizzare con il nuovo corpo. Le faccio un esempio, quando lei andrà in bagno per i suoi bisogni, il corpo compierà i normali gesti del caso ma la mente non sarà immediatamente pronta ad affrontare la situazione. In fondo le sembrerà il contatto con un corpo estraneo. Questo implicherà un lasso di tempo affinché il cervello metabolizzi la situazione e mandi i dovuti impulsi nervosi”
“E questo tempo, di cui lei parla, a quanto esattamente corrisponde?”
“Oh, qualche secondo, diciamo un paio di secondi, non di più”
“Due secondi? Beh non sono poi tanto!”
“A volte no ma altre volte possono dire tanto, dipende dalle circostanze, signor Gomez”

Nei mesi successivi la terapia è stata incentrata esclusivamente sulla pratica, come aveva anticipato il dottore, ah si chiama Mazzei, non glie l’ho chiesto ma l’ho letto sul suo tesserino, il primo notevole imbarazzo l’ho provato in bagno nel momento di orinare. Prenderlo in mano non è stato semplice, oltretutto le sue dimensioni sono maggiori delle mie, e in quel caso il tempo intercorso tra il comando e l’azione è stato ben maggiore di due secondi. Però ho anche scoperto che recandomi in bagno all’ultimo istante del bisogno l’azione era tanto simultanea che a volte anticipava gli impulsi mentali.
In cento giorni, tanto è durata la riabilitazione, ho imparato a conoscere il mio nuovo corpo perfettamente, solo una cosa ho notato e della quale non ho avuto che risposte evasive ogni qualvolta ne ho fatto menzione al dottor Mazzei ed è stata la mancanza assoluta di specchi. Infine, pochi giorni fa, alla vigilia della mia dimissione, mi ha chiarito il perché.
“Vede signor Gomez, il suo nuovo volto è l’ultimo passaggio della sua riabilitazione, prima abbiamo preferito che lei scoprisse poco alla volta il corpo lasciando il volto per ultimo, e a questo proposito desidero che lo faccia da solo, voglio dire lontano dal centro ospedaliero. Per questo motivo le abbiamo messo a sua disposizione un appartamentino non lontano da qui dove sarà trasferito tra pochi giorni. Lì potrà starci tutto il tempo che vorrà, non sarà abbandonato perché uno staff assistenziale occuperà un appartamento non lontano dal suo. È importante che lei si abitui a vivere una nuova vita signor Gomez, ha trascorso fin troppo tempo lontano dal mondo. Per questo motivo scoprirà il nuovo volto quando sarà solo, questo sarà il suo ultimo test prima di lasciarla libero del tutto”
“A proposito, non abbiamo affrontato la questione economica, riguarda tutte le spese ospedaliere”
“Vuole scherzare signor Gomez? Lei era già una delle persone più ricche del pianeta un secolo fa ed oggi, grazie alla gestione del suo patrimonio da parte delle banche che già all’epoca controllava, è forse ancora più ricco di un tempo. Semmai, se mi permette, potrebbe esprimere la sua gratitudine per il nostro centro con una donazione, le spese sono state già saldate con totale soddisfazione, ma come lei potrà ben vedere oltre a curare le persone investiamo anche nel futuro”
“Non si preoccupi dottor Mazzei, sebbene ricordi a quanto ammontasse il mio capitale immagino che oggi sia ancora più florido perciò darò disposizione che venga fatto un bonifico di un terzo del capitale a questo istituto, credo che lo meritiate”

Solo, finalmente solo, l’ultima ad uscire è stata un’infermiera, abbastanza carina per giunta, mi ha ricordato che per tutta la notte non sarà molto distante dal mio appartamento per cui non impiegherebbe che pochi minuti a raggiungermi in caso di necessità, basta che io premi un pulsante del cerca persone. Lo sguardo che mi ha lanciato andando via mi è parso alquanto significativo ma ora ho altro a cui pensare, semmai ci farò un pensierino più tardi.
Ho preso dimestichezza con il corpo in cui mi ritrovo, altezza e peso sono simili ai miei, parlo del mio corpo naturale è ovvio, e, come afferma il dottor Mazzei, anche familiarità delle parti intime. Una sola cosa non sono ancora riuscito a controllare e che spesso mi indispone ed è il tempo di reazione di due secondi che dovrebbe intercorrere tra il pensiero e l’azione. Ho notato che per alcuni movimenti il corpo agisce in modo molto spontaneo, a volte mi sembra che anticipi il pensiero, mentre altre volte reagisce oltre i due secondi fatidici. Ad esempio se ho sete e devo bere non ho bisogno di pensarlo perché il corpo lo fa automaticamente mentre se decido di fare qualcosa di non fisiologico allora devo aspettare che il comando arrivi ai muscoli interessati. Probabilmente il totale livellamento avverrà nel tempo, per ora trovo molto soddisfacente la situazione.
Ripenso al corpo in cui mi trovo, non mi sono ancora chiesto di chi fosse, parrebbe un atleta, dall’ottimo stato di conservazione, ma non ho mai approfondito. Ora ho la possibilità di farlo e, come mi è stato consigliato, dovrò farlo da solo. Non capisco il perché ma mi adeguo.
Nel bagno l’immagine che lo specchio mi rimanda, ovviamente di un estraneo, non mi dice granché, ha un volto che trovo simpatico, e non perché adesso è il mio, l’avessi conosciuto ai miei tempi lo avrei trovato simpatico. Non mi sconvolge affatto, in preda all’euforia mi rivolgo all’immagine riflessa e ad alta voce affermo: “Sì, mi sei veramente simpatico, caro sconosciuto”
“Anche tu lo sei per me!”
Giuro, nell’abitazione sono solo, la voce che ho sentito, mi raggela il sangue. Stavo per voltare le spalle allo specchio ma quella frase che ho sentito mi ha paralizzato di colpo. Lentamente mi riposiziono davanti lo specchio e provo a muovermi per vedere se l’immagine riflette i miei movimenti. Lo fa.
Improvvisamente penso di prendere il flacone del dopobarba sul mobiletto alla mia destra. Non è un gesto istintivo, ho pensato di farlo per mettere alla prova il corpo e questi reagisce con oltre tre secondi di ritardo, poi, senza alcun comando da parte mie lo riposiziona al suo posto.
Ora ho la conferma che qualcosa di strano stia avvenendo. Fisso l’immagine nello specchio e chiedo.
“A chi appartenevi in passato?” la risposta, mentalmente, non tarda ad arrivare.
“Sono sempre appartenuto a me, ieri come oggi”
“Chi sei? Come fai ad essere in questo corpo?
“Ci sono sempre stato, tu, piuttosto sei un intruso qua dentro”
“Il tuo corpo è un involucro vuoto dove è stato inserito il mio cervello”
“Questo è ciò che ti hanno fatto credere”
“Cosa vuoi dire, che non è vero, forse?”
“Tu credi che sia possibile in natura trapiantare un cervello in un altro corpo?”
“E’ quanto è stato fatto, io ricordo perfettamente il mio passato e non potrei comandare questo corpo se non fossi stato inserito in lui”
“Vedo che sei convinto di quanto affermi, allora dimmi, come avrebbero fatto a inserirti nel mio corpo?”
“Non conosco i particolari tecnici, so che l’hanno fatto”
“Il cervello non è un elemento gassoso, dovrebbero aver aperto il cranio per inserirlo, e poi per effettuare tutti i collegamenti”
“Allora devono aver fatto così”
“Se così fosse dovrebbero esserci delle cicatrici, hai delle cicatrici da qualche parte che lo dimostrerebbero? Puoi toccarti, fallo, non hai che da comandare, o vuoi che lo faccia io per te? Non mi costa molto farlo, sai, guarda, sto alzando le braccia…”
“Fermati, fermati… Oh Dio! Perché non ubbidisci?”
“Perché non sei tu a comandare il corpo, lo sto facendo io, ed io sono il cervello che è sempre stato in questo corpo. Ti stupisce, vero? Ti hanno fatto credere di aver compiuto chissà quale miracolo tecnico, probabilmente per mungerti un bel po’ di quattrini, o sbaglio?”
“Non capisco! Come faccio a pensare? E come fai tu a farlo? In una testa non possono esserci due cervelli, eppure sembra che tu ed io condividiamo lo stesso spazio”
“Qui ti sbagli, sono solo io in questo cranio, tu non esisti come cervello, in quanto tale”
“Non è vero, posso pensare autonomamente, quindi esisto”
“Ahahahah Cogito, ergo sum, lo dicevano gli antichi romani, ma non avevano fatto i conti con la scienza, almeno quella medica”
“Cosa vuoi dire?”
“Non hanno trovato il modo di trapiantare un cervello in un altro corpo perché ciò è impossibile farlo ma sono riusciti a trasferire la memoria di un cervello in un microcip che poi hanno collocato nella mia testa collegandolo al mio cervello”
“Perché dovrei crederti?”
“Perché ne ho la prova, anzi ne abbiamo la prova, ce l’hai anche tu. È la prima cosa che ti hanno detto”
“A cosa ti riferisci?”
“Ai due secondi, mio caro. Perché un corpo collegato ad un cervello dovrebbe impiegare due secondi per agire dal momento in cui riceve l’impulso a farlo? Anche un robot impiega meno di un secondo a farlo, è tutta una questione di impulsi elettrici. Perché invece tu dovresti impiegarci due secondi?”
“Non sempre avviene, a volte non devo attendere nemmeno un istante”
“Beh, mio caro, non mi è mai piaciuto farmi la pipì addosso, se è a questo che ti riferisci. Se ho sete, fame, sonno, caldo, freddo, e perché nò anche scopare, a proposito quando ti decidi a farlo?, non ho bisogno di impulsi, agisco istintivamente. Veramente il mio corpo lo faceva anche prima del tuo arrivo, per tutto il resto mi devo chiedere perchè tu vuoi che io faccia ciò che chiedi”
“Perché, sei tu che dai gli impulsi al corpo?”
“Non l’hai ancora capito? Tu sei solo un microcip piazzato nella mia mente e sono sempre io a comandare il corpo, i tuoi comandi passano attraverso me, perciò occorrono i famigerati due secondi. A volte i tuoi impulsi sono di tipo ordinario ed impiego anche qualche nanosecondo di meno, altre volte devo capire cosa intendi finalizzare e, pertanto, i secondi diventano anche tre e in rare occasioni anche di più. Non meravigliarti, il dottor Mazzei e tutto lo staff ne sono al corrente ma dovevano mettere le mani su un certo gruzzolo e non avevano altro modo di farlo”
“Allora tu sei loro complice?”
“No, sono un condannato a morte, ho ucciso e, secondo la legge dovevo essere giustiziato sei mesi fa, poi mi è stata fatta questa proposta. Non dovevo accettare secondo te?”
“Quindi era un tutto un complotto, fin dall’inizio?”
“Non era, lo è ancora, perché credi ti abbiano lasciato solo con me? Sai dove sono loro adesso? Nell’appartamento a fianco e ci stanno monitorando. Amico mio, siamo tutti e due nelle loro mani, essi dispongono di noi come meglio credono. A noi non resta che adeguarci, altrimenti sarà la fine per entrambi”
“Tu potevi non svelarmi nulla, non ti sarebbe costato nulla”
“Qui ti sbagli, dovevo farlo, lo avevano deciso sin dall’inizio, sei, e siamo, più controllabili in questo modo che a tua insaputa, ti rende chiaro il concetto?”
“Si abbastanza, si chiama complicità. Allora come si dovrebbe svolgere il nostro futuro?”
“Niente, dovremo solo convivere, tutto qui”
“Già, tutta la mia vita si riduce in due secondi!”
“Anche la mia, non dimenticarlo”




*

Storia di un’amicizia

Questa è la storia di due personaggi vissuti in un piccolo paese della Lucania fino a qualche anno fa, il primo di nome Vittorio e l’altro di nome Firmato. È una storia un po’ bizzarra e il nome stesso di Firmato è appunto indice di bizzarria.
Il primo è stato un avvocato senza mai patrocinare alcuna causa essendosi dedicato fin dall’università alla politica, è stato prima assessore poi sindaco quindi consigliere provinciale e infine vice presidente del Consiglio regionale, sempre nelle fila del partito socialista.
Il secondo è stato un ciabattino fin dalla nascita in quanto ciabattino lo era anche il padre, analfabeta e costante frequentatore delle osterie paesane.
Il primo si chiama Vittorio perché il padre, insegnante elementare, ha voluto onorare sua maestà Vittorio Emanuele mentre il secondo si chiama Firmato perché il padre, ignorante, ha voluto onorare il generale Diaz, vincitore a Vittorio Veneto. Infatti leggendo il famoso proclama della vittoria che si concludeva con la dicitura “Firmato Diaz” ha creduto che firmato fosse appunto il nome dell’illustre generale.
Anche Firmato si è dato alla politica con la passione che di solito contraddistingue i puri e sanguigni militanti. Anch’egli tra i primi iscritti al partito socialista è riuscito a diventare un semplice consigliere comunale nel cinquantacinque ed è stato questo l’apice della sua carriera politica.
I due personaggi così diversi tra loro hanno moltissimo in comune. Sono nati entrambi nel venticinque, addirittura sotto lo stesso tetto, quello di un vecchio palazzo nobiliare, Vittorio negli appartamenti al secondo piano e Firmato in un misero stabile al pianterreno. I due, da ragazzi hanno condiviso le vita nelle strade del rione, da grandi quella nelle campagne elettorali e politiche. Sono andati d’amore e d’accordo fino a quando Vittorio ha spiccato il volo, nel settantacinque, diventando consigliere provinciale. Allora le loro strade si sono definitivamente separate e Firmato, che già aveva iniziato a seguire le orme del padre circa la frequentazione delle osterie, è rimasto il solito sentimentale amante della pura lotta sociale.
Dal settantacinque in poi e ogni volta che Vittorio era in sede Firmato ha preso l’abitudine, dopo aver fatto il pieno all’osteria, di fermarsi, rincasando, davanti il palazzo e di cantare la serenata all’amico.
Ovviamente parlare di serenata è un eufemismo, meglio sarebbe dire di cantargliele tutte.
Dapprima Vittorio e i suoi familiari hanno protestato anche energicamente poi, seguendo saggi consigli, hanno fatto orecchio da mercante accettando il fatto come il male minore.
Tutto questo fino a un giorno non ben precisato del marzo del novanta quando gli eventi hanno preso una piega insolita e della quale anche il sottoscritto ne è stato involontario testimone, sono infatti un dirimpettaio dei due personaggi.
La mattina di quel giorno di marzo il vice presidente Vittorio di buon ora è partito per Potenza per i suoi impegni politici, dovendo tra l’altro presiedere una seduta del Consiglio Regionale ma verso le dieci dello stesso mattino si è sentito male, subito soccorso è stato portato all’ospedale San Carlo dove, però, vi è giunto senza vita, stroncato inesorabilmente da un infarto. La notizia della morte è piombata come un fulmine anche in paese e la famiglia, dolorosamente compattata sì è subito messa all’opera per allestire la camera ardente e sistemare il salone principale della casa per accogliere i previsti notabili della politica regionale che sarebbero venuti per la veglia funebre.
Questa è la premessa poiché è da questo punto in poi che tutta la vicenda prende una strana piega in cui si andranno ad intrecciare vari interessi più o meno nobili sia personali che politici.

Ore 14,30 – durante un frugale pasto consumato in cucina dai famigliari del defunto qualcuno, ripassando ad alta voce tutte le incombenze circa i preparativi della camera ardente ha chiesto verso che ora presumibilmente la salma sarebbe stata esposta e quando, di conseguenza, ci sarebbe stata la massima affluenza degli ospiti di riguardo. Considerando che la salma, dopo aver espletato tutte le legali formalità, sarebbe arrivata in tarda sera, si è prevista la massima presenza dei big politici verso mezzanotte, appunto.
“Come la mettiamo con Firmato?” questa domanda, detta quasi come una profonda riflessione, ha gettato nel panico l’intera famiglia. Il solo pensiero dei soliloqui a ruota libera del vecchio ciabattino ha fatto accapponare la pelle a tutti, bisogna correre assolutamente ai ripari, ma come?
“Bisogna impedire ad ogni costo che quel vecchio pazzo si metta a farneticare qui sotto” suggerisce, terrorizzato uno di loro.
“Sì, ma come? Come facciamo a impedirlo?” risponde un altro.
“Dobbiamo trovare un sistema per mantenerlo lontano da qui” consiglia un altro ancora.
“Non possiamo mica sequestrarlo” commenta anche la vedova.
“Sequestrarlo no ma trattenerlo sì” annuncia convinto il figlio maggiore.
“Sì, ma come?” chiedono in coro tutti.
“Un modo ci sarebbe. Lasciate fare a me, ci penso io”
“Per carità di Dio non farai mica qualche sciocchezza?” chiede atterrita la madre.
“No, nessuna sciocchezza, sarà tutto legale, vedrai” rabboniti, i congiunti gli lasciano campo libero.

Ore 14,50 – Il telefono nella fureria della locale stazione dei carabinieri squilla già da un po’ quando la svogliata voce di un appuntato si decide a rispondere.
“Pronto, desiderate? Come? Siete… ah, subito vi passo il maresciallo”
“Maresciallo, sulla linea uno vi è il figlio del defunto presidente, chiede di parlare direttamente con voi”
“Sì, passamelo subito”
“Prontooo, carissimo, le faccio subito le condoglianze dell’Arma, una perdita davvero grave, ma ditemi cosa posso fare per voi?
“Ecco maresciallo, dovrei parlarvi di una faccenda piuttosto delicata, ma non voglio farlo per telefono dove potremmo vederci?” a questa strana richiesta le antenne del maresciallo si sono subito rizzate, di qualunque cosa si tratti è sicuramente poco ortodossa.
“Uhm, non potete proprio anticiparmi nulla? Vede, in questo momento, qui in caserma ci sarebbe parecchio da fare!” è una bugia bella e buona che non ingannerebbe nemmeno un bambino e anche il maresciallo lo capisce da solo ma non sa dove aggrapparsi. Nella sua lunga carriera ne ha viste e sentite tante che fiuta lontano un miglio le rogne.
“No maresciallo, come vi dicevo è una faccenda delicata, anzi delicatissima”
“Allora se non volete parlarne per telefono venite qua che ne parliamo di persona!” è l’ultimo appiglio.
“Maresciallo, data la delicatezza della, uhm .. faccenda, sarebbe opportuno non rendere la mia visita lì da voi ufficiale eh… nemmeno ufficiosa” a questo punto il maresciallo capitola, oltretutto è roso dalla curiosità di sapere cosa preoccupa così tanto la famiglia del defunto.
“Va bene, facciamo così, dovrei fare un’ispezione dalle parti dell’emittente SuperMonteRadio sulla Serra Antica, potremmo vederci sulla statale, al bivio con la strada comunale. Va bene?”
“Perfetto, ci vediamo lì tra un quarto d’ora”

Ore 15,20 – presso l’incrocio con la via comunale. All’arrivo della Ritmo dell’Arma il figlio primogenito, di nome Alfredo, del defunto don Vittorio è già da quasi cinque minuti sul posto attendendo con una certa ansia. Dopo l’arrivo del maresciallo Pantone tra i due vi è uno scarno scambio di convenevoli e subito il giovane Alfredo arriva al nocciolo della questione.
“Dunque maresciallo ciò che vi chiedo è per conto di tutta la mia famiglia, noi siamo infatti preoccupati per questa sera”
“Preoccupati per cosa signor Alfredo?”
“Maresciallo, siete qui in paese da …quanto tempo? Circa otto anni se non erro? Quindi siete certamente al corrente della strana abitudine di mastro Firmato, il ciabattino, voglio dire degli sproloqui notturni sotto le finestre di casa nostra ogni sera al suo rientro sempre ubriaco fradicio!”
“Sì, sono a conoscenza della cosa ma non ho mai preso provvedimenti perché sin dal mio primo giorno il defunto vostro padre mi pregò di lasciar perdere. Mi disse che ormai nessuno ci faceva più caso a quei sproloqui e, poi, non voleva arrecare alcun danno a quel poveraccio”
“In effetti maresciallo questo è ancora il desiderio della famiglia ma, vedete, questa sera sul tardi ci sarà la veglia funebre con le più importanti personalità politiche della regione e non vorremmo che il ciabattino rovinasse tutto con i suoi sproloqui”
“Capisco la situazione ma non capisco cosa posso fare io per evitarlo”
“Ecco maresciallo, se voi, preventivamente tratteneste in caserma il ciabattino, giusto il tempo necessario per il funerale, noi saremmo più tranquilli”
“Come, come? Trattenerlo? E come? Questo significa arrestarlo, e senza alcun motivo poi! È assolutamente illegale!” Il maresciallo ha infine compreso quanto gli viene chiesto e ne è preoccupato.
“Ma no, che dite arrestare? Non ho detto questo ma solo trattenere! Non diciamo per l’intero funerale ma almeno per la veglia funebre!”
“Signor Alfredo, non si può fare. Non posso trattenere per la notte in una cella un innocente cittadino”
“Signor maresciallo si tratta solo di poche ore. È la famiglia che ve lo chiede!”
“Voi non capite a cosa vado incontro. Basterebbe una denuncia… ma nemmeno, che dico… una segnalazione alla tenenza ed io mi ritroverei chissà dove” implora il maresciallo atterrito.
“Maresciallo, non vi sarà nulla del genere. Tutta la popolazione capirebbe!”
“No, assolutamente no!. È un rischio troppo grosso.”
“Mio Dio, che guaio, maresciallo. Voi non immaginate il disonore della famiglia se costui stasera si presenta sotto casa con le sue dannate filippiche!”
“Vi comprendo ma, davvero, non posso fare proprio nulla” afferma un po’ rincuorato il maresciallo.
“No, un momento, una cosa forse si può fare. Sì, sì, si può fare e non apporterebbe nessun rischio per voi e darebbe alla famiglia un minimo di tranquillità”
“Cosa?” chiede di nuovo sulle spine il maresciallo.
“Si tratta di questo: il ciabattino verso le sei chiude bottega e va direttamente in osteria fino alla mezza quando chiude, voi potreste, diciamo convocarlo in caserma e in un modo o nell’altro trattenerlo con qualche scusa senza permettergli di andare all’osteria. Quando non beve Firmato se ne sta docile come un agnellino e non trova nemmeno la carica per i suoi sproloqui”
“Dovrei trattenerlo per sei ore senza motivo?” la resistenza del maresciallo pare incrinarsi.
“Maresciallo di motivi se ne possono trovare a iosa, basta una piccola volontà. D’accordo allora?”
“Vedrò cosa posso fare ma, non vi prometto nulla, se la situazione diventa insostenibile…..”
“Ma certamente, non sarebbe nemmeno il casi di dirlo! Maresciallo, tutta la famiglia vi sarà sempre riconoscente” E così i due si lasciano. Uno è soddisfatto per aver raggiunto il suo scopo e l’altro per aver promesso senza giurare e con l’assicurazione di non correre alcun rischio per la propria carriera.
Ciò che non sanno è che il loro incontro non è avvenuto senza occhi indiscreti.

Ore 16,00 – Abitazione del Compagno segretario del Partito Comunista. Il telefono squilla una mezza dozzina di volte fin quando una voce femminile, dal tono piuttosto seccato, risponde scortese.
“Pronto, ma chi è a quest’ora?”
“Signora devo parlare con il Segretario. È urgente. Passatemelo per favore”
“Che c’è di tanto urgente?” è chiaramente il tono di chi è stato inopportunamente interrotto.
“Signora, devo parlarne personalmente con suo marito”
“Va bene, chi siete? Almeno questo me lo potete dire?”
“Sì, sono l’addetto al cimitero”
“Uhm, Madre di Dio! Te lo passo subito!” e facendo gli scongiuri ella chiama il marito.
“Pronto Placido, di che si tratta di così urgente?”
“Segretario, ti devo dire una cosa che ho visto, forse non è importante ma te la devo dire lo stesso”
“Avanti, di che si tratta?”
“Ecco, un quarto d’ora fa all’incrocio con la strada comunale il maresciallo dei carabinieri si è incontrato con Alfredo, il figlio di don Vittorio buonanima. Mi sono chiesto cosa potrebbero mai dirsi a quest’ora e in quel posto, Sai sembrava che si fossero dati un appuntamento. Che dici è importante?”
“Non lo so ma hai fatto bene a chiamarmi, cercherò di saperne di più”
<Davvero strano, qui c’è qualcosa sotto!> esclama tra sé il Compagno segretario non sapendo che il becchino Placido è di nuovo al telefono e sta raccontando la stessa notizia al vice sindaco, nonché segretario della Democrazia Cristiana locale.

Ore 16,08 – Abitazione del dottor Franco Abbondanza, sindaco socialista. Il telefono squilla anche qui una mezza dozzina di volte finché don Franco in persona solleva la cornetta.
“Pronto, chi parla?” chiede in tono naturale.
“Pronto Franco, sono Giovanni, il tuo vice, ti ho disturbato?”
“No, lo sai che tu non mi disturbi mai”
“Grazie per la gentilezza. Ascolta Giovà, non so se ti hanno già informato ma mi hanno riferito di un incontro, diciamo privato, tra il maresciallo Pantone e Alfredo Boccia, il figlio di don Vittorio”
“No, non ne so niente, ma … con ciò?”
“Non ti sembra una cosa fuori dalle norme?”
“No, e perché poi? Probabilmente sarà per via del funerale domani, immagino vi sarà un casino di gente, e molti verranno anche da fuori”
“E secondo te, per questo, è necessario incontrarsi su alla “Temparella”?
“Alla Temparella? Perché è lì che si sono incontrati?” chiede ormai interessato il sindaco.
“Sì, una mezz’ora fa ….sì, sì sono stati visti.”
“Uhm, allora c’è qualcosa sotto, cerca di saperne di più. Io tra mezz’ora sono in ufficio”

Ore 16,20 – Caserma dei carabinieri. Il maresciallo Pantone è appena rientrato dall’incontro con Alfredo e si avvia a mettere in atto il piano concordato. Chiama nel suo ufficio il brigadiere Rasulo.
“Brigadiere, io mi devo assentare di nuovo, vado giù alla fiumara, pare che un trattore si sia cappottato, non so come stanno le cose ma sembra che qualcuno si sia fatto male.”
“Portate con voi qualcuno, maresciallo?”
“Sì, con me viene Randò, se c’è da fare qualche schizzo lui è la persona adatta, essendo bravo in disegno”
“Bene, maresciallo, se avete disposizioni da dare…”
“Sì Rasulo, devo lasciarti una consegna .e ….guarda che si tratta di una cosa delicata. Non la posso sbrigare di persona perciò….”
“Dite pure maresciallo, potete stare tranquillo!”
“Uhm, ascolta, conosci il ciabattino, Firmato?”
“Chi, Firmato Diaz? È così che lo chiamano in paese. Sì, lo conosco, perché cos’ha fatto?”
“Niente, non ha fatto niente, solo che voglio parlarci e… vorrei trovarlo qui in caserma al mio ritorno”
“Tutto qui? Che problema c’è?”
“Rasulo, stammi bene a sentire, non voglio complicazioni, chiaro? Lui alle diciotto chiude la bottega e se ne va in osteria. Ebbene, non ci deve arrivare in osteria, perciò al mio ritorno me lo devi far trovare qui, hai capito?”
“Come comandate, maresciallo. Al vostro ritorno qui lo troverete”
Il maresciallo Pantone, congedato il brigadiere e prima di prepararsi a uscire di nuovo, si lascia sprofondare sulla poltroncina con un lungo sospiro, intanto pensa di aver avuto una geniale idea, anche ringraziando il caso che gli è venuto incontro con l’incidente del trattore.
“Sicuramente non sarò di ritorno prima delle sette, perciò per un’ora buona il ciabattino sarà bloccato in caserma. Perfetto tempismo” esclama tra se convinto di aver risolto brillantemente la situazione.
Appena, cinque minuti dopo, esce dalla caserma con la Fiat campagnola, in compagnia dell’appuntato Randò, il telefono del suo ufficio squilla ma a vuoto. Risponde poco dopo dal centralino il carabiniere di turno comunicando allo sconosciuto richiedente che il maresciallo è appena uscito per recarsi alla fiumare per un incidente.

Ore 16,41 - Ufficio del sindaco. Don Franco Abbondanza, il sindaco socialista, fa il suo ingresso nel proprio ufficio trovandovi il suo vice Giovanni Normanno, anche segretario della DC del paese. Questi sta riponendo la cornetta del telefono. Si alza dalla poltrona cedendo il posto a chi di diritto mettendolo al corrente della telefonata appena fatta.
“Ho appena chiamato la caserma dei carabinieri – dice visibilmente sollevato – il maresciallo non c’è. È appena uscito per recarsi alla fiumara dove c’è stato un incidente con un trattore”
“Di chi si tratta? S’è fatto male qualcuno?”
“Non credo, non so di chi si tratta, il piantone non me l’ha detto, ma non pare sia grave”
“Grazie a Dio! Meglio così! Quindi di quell’altra faccenda…?”
“Nulla! Probabilmente si saranno incontrati per caso sulla strada, niente di più”
“Visto? Cosa ti dicevo? Tu vedi complotti dappertutto”
“Ma no! È che mi sembrava strano un incontro da quelle parti!”
“Senti, passiamo alle cose serie. Come Amministrazione dobbiamo ordinare una corona per il funerale e disporre anche che siano in servizio tutti i vigili. Domani ci sarà parecchio traffico in paese”
“Non ti preoccupare, me ne occupo io”

Ore 17,14 – Davanti la bottega di Firmato, (poiché l’interno è così piccolo che a stento ci entra il solo ciabattino). Il brigadiere Rasulo con l’appuntato Antonazzi, contravvenendo alle disposizioni del maresciallo ha anticipato di una buona mezz’ora il fermo del ciabattino.
“Sei tu Firmato Diaz?” chiede ironicamente al ciabattino.
“E tu chi sei, il generale Cadorna?” gli risponde questi senza alcun timore riverenziale.
“Ehi, non facciamo gli spiritosi qui!” intima punzecchiato il brigadiere.
“Appunto, è quello che dico anch’io!”
“Chiudi la bottega e vieni con noi” ordina il brigadiere autorevolmente.
“E’ presto, mancano ancora tre quarti d’ora”
“No, tu adesso chiudi subito e ci segui in caserma”
“Perché, chi lo dice?” Firmato è un vecchio combattente, indomito e rotto a tutte le astuzie.
“Perbacco lo dico io”
“E chi sei tu? Te l’ha ordinato qualcuno che devo chiudere anzitempo?”
“Il maresciallo vuole parlarti. Perciò adesso mi segui in caserma”
“Ce l’hai il mandato?”
“Ma quale mandato! Non occorre un mandato, è solo una convocazione”
“Il mandato è per chiudere prima, sai è per i clienti che vengono e trovano chiuso, poi si lamentano”
“Dopo ti farai rilasciare un certificato dal maresciallo”
Sbuffando e imprecando il ciabattino mette a posto le sue cose, poi chiude la porta della piccola bottega e si avvia trai due carabinieri.
Considerato che la bottega si trova nel mezzo di una lunga scalinata pubblica i due militi hanno dovuto lasciare la Ritmo sulla strada principale pertanto tutto il tragitto, a piedi, si svolge sotto gli occhi curiosi del vicinato. In men che non si dica si sparge per tutto il paese la notizia che il ciabattino “Firmato Diaz”, come viene chiamato, è stato arrestato dai carabinieri. Per cosa non si sa.

Ore 17,35 – Abitazione del compagno Giuseppe, segretario del locale PCI. Il telefono questa volta squilla solo due volte e a rispondere è Giuseppe in persona.
“Pronto chi parla?”
“Compagno Stalin sono Giovanni Normanno”
“Uè, amico bacchettone, da quanto tempo! Dimmi tutto caro papista!”
“Senti, ti può interessare sapere cos’è successo cinque minuti fa in piazza?”
“Avanti sputa”
“I carabinieri hanno arrestato Firmato Diaz – pausa per ascoltare la reazione, che non avviene – hai capito cosa ho detto?”
“E allora?” Il compagno Giuseppe in poco più di un’ora ha sentito già due volte la parola carabinieri e qualche campanellino gli trilla in testa. Peccato che dall’altra parte vi è uno che certamente fesso non è.
“Oh niente! Volevo solo dirtelo. Ti saluto…”
“Aspetta! Aspetta, che vai di corsa?”
“Allora dimmi ciò che sai!”
“Ma io non so niente, e di che poi?”
“Peppì, smettila di fare il furbo con me, con chi credi di avere a che fare?”
“So solo che un’ora e mezza fa circa il maresciallo si è abboccato con Alfredo, tutto qui!”
“Quindi lo sapevi anche tu! Allora il fatto che hanno preso Firmato non ti dice nulla?”
“Perché tu pensi che le due cose sono collegate?”
“Sveglia Stalin, la rivoluzione è finita! Ancora non ci sei arrivato?”
“No, veramente no” questa volta il compagno Peppino è sincero, sospetta qualcosa ma nulla più.
“Allora seguimi. Prima Alfredo parla con Pantone poi, prima che Firmato chiude bottega, lo vanno a prelevare i carabinieri, secondo te per impedirgli cosa? Che si fa stasera in casa Boccia?”
“Cristo! La veglia funebre! Sarà piena di gente che viene da fuori”
“E tu saresti disposto a perderti lo spettacolo?” sobilla malizioso il democristiano.
“Ma nemmeno per sogno!” esclama bramoso compagno Peppino.
“Allora ci vediamo in caserma…diciamo tra dieci minuti?”
“D’accordo, ma aspettami, tu abiti più vicino”
“Ma certamente, non ti dice niente il detto: l’unione fa la forza?”
“Ah ah ah ah, ma… mica hai avvisato il sindaco?”
“Fossi scemo, quello è di casa!”

Ore 17,55 – Presso la caserma dei carabinieri. Compagno Peppino e papista Giovanni già da cinque minuti stanno invano cercando di parlare con qualcuno che “comanda” ma il piantone, inspiegabilmente non li fa nemmeno accomodare nella saletta d’attesa all’ingresso. Afferma che il maresciallo è stato avvisato via radio della loro presenza e ha riferito che sta per arrivare.
Intanto il brigadiere Rasulo, che sta sudando le sette fatidiche camicie, cerca di non far entrare nessuno dentro le mura della caserma. Vediamo perché.
Firmato, è risaputo, con la testa dopo le otto di sera, non ci alloggia più. In effetti gli bastano pochi cinquantini (così vengono chiamate le dosi di vino in osteria, un bicchiere corrisponde a cinquanta lire) per andare su di giri, ma fino a quell’ora, soprattutto se ancora a secco non è affatto uno stupido. Si sa già che ne ha passate di cotte e di crude per via della politica e quindi nulla ormai gli fa più impressione. Peraltro, rinchiuso in una cella senza apparente motivo, intuisce che qualcosa non va per il verso giusto.
Allora che fa un vecchio militante socialista in simili circostanze? Semplice! Canta a squarciagola e ripetutamente l’Internazionale alternandola con Bella Ciao.
In caserma gli sprovveduti carabinieri non ne possono più. Inoltre temono che venga sentito al di fuori e non potendo giustificare il suo fermo stanno in totale apprensione. Non bastasse si sono presentati al portone il vice sindaco con il segretario del PCI. “Che casino!” esclama il brigadiere, senza rendersi conto che il maggior danno l’ha provocato proprio lui.

Ore 18,15 – Sempre presso la caserma dei carabinieri. Ormai vi si è radunata qualche dozzina di persone, tutti militanti dei due partiti di Peppino e Giovanni, i quali sono i primi a scalpitare e a imbonire a dovere i propri accoliti, col solo gusto di mettere in imbarazzo i militi dell’Arma. Bisogna dire che ci stanno riuscendo brillantemente.
Finalmente arriva rombando la Fiat Campagnola del maresciallo che, evitando la piccola folla entra direttamente nell’autorimessa. Come una furia il maresciallo si precipita in fureria dove per prima cosa fa un cazziatone di quelli al brigadiere poi, dopo essersi passato più volte le mani nei capelli, ordina di lasciare libero il ciabattino il cui fermo è durato meno di un’ora. Quindi da ordine di far passare i due rappresentanti politici rabbonendoli e invitando loro a sciogliere l’improvvisata adunata davanti la caserma. Alle loro rimostranze afferma che la convocazione, e non il fermo, del ciabattino era per una questione di natura del tutto estranea ai loro sospetti e che lo stesso era già stato congedato.
Visibilmente sollevati e con uno sguardo di complice intesa i due furbastri si congedano anche loro.
Intanto il maresciallo solleva la cornetta del telefono.

Ore 18, 26 – Abitazione di Alfredo Boccia. Al terzo squillo la cameriera di casa risponde al telefono e appena appura che a chiamare è il maresciallo dei carabinieri prima incolla il palmo della mano sulla cornetta poi cerca con gli occhi il Giovane Alfredo e, appena scortolo, gli fa ampi cenni per attirare la sua attenzione. Questi si avvede quasi subito dell’insistente gesticolio e, interrotta la conversazione che stava tenendo, raggiunge la donna.
“Che c’è Carmela?” chiede con naturalezza all’agitata donna.
“C’è il mrsrsiscalo di cabrinnghiri” mormora incomprensibilmente la donna.
“Che cosa? Parla bene!”
“C’è mrssslllooo cribbiionier” riconferma sempre agitata. Alfredo allora perde la pazienza.
“Ma che cavolo dici, alza la voce e parla chiaro” Per tutta risposta la donna gli si avvicina all’orecchio e a bassa voce scandisce:
“C’è il ma-re-scia-llo dei ca-ra-bi-nie-ri!”
“Oh santo Iddio, passa qua!” esplode spazientito Alfredo.
“Pronto maresciallo, ditemi pure!”
“Ecco signor Boccia, si tratta di quella faccenda di cui abbiamo parlato oggi”
“Tutto a posto, immagino?”
“Veramente no! Ecco, c’è stato più di un contrattempo e la cosa non si è potuto fare.”
“Oh Signore Iddio! Volete dire che Firmato è libero?”
“Sì, e a quest’ora sarà già in osteria. Ma non preoccupatevi, vi garantisco che farò tutto il possibile perché non dia alcun fastidio”
“Santo Cielo, come?” Alfredo si sta facendo assalire dal panico.
“Gli starò dietro come un’ombra. Mi metto in borghese e appena lascia l’osteria non lo mollo un istante”
“Maresciallo, voi capite che siamo tutti nelle vostre mani”
“Tranquillizzatevi, vi do la mia parola che questa sera non accadrà nulla”

Ore 18,30 – Firmato entra trionfante in osteria.

Ore 20,00 – 23,00 – In casa Boccia fervono gli ultimi ritocchi per la veglia funebre. Il salone è stato riempito con le più disparate sedie, e il tavolo è stato messo da parte in un angolo. Nello studio, grande abbastanza per ospitare la bara sono state anche lì messe una ventina di sedie già occupate da alcuni parenti stretti e una mezza dozzina di donne del paese vestite tradizionalmente a nero. Per ora nessuno fa caso a loro poiché i parenti hanno altro a cui pensare. Si scoprirà dopo che sono le préfiche, di cui nessuno ha richiesta la presenza. Queste si sono messe tutte insieme in un angolo della stanza e hanno già cominciato a snocciolare in un coro sommesso un lungo rosario coinvolgendo senza alcuna difficoltà la vedova di don Vittorio.
Prima che cala del tutto la sera con le sue ombre e le sue angosce si ode un piccolo trambusto proveniente dall’esterno, un rumore di macchina e sportelli che si aprono e qualche pianto che scoppia improvviso. È arrivato il carro funebre. Qualcuno sale trafelato le due rampe per avvisare la famiglia e intanto i serventi del carro funebre tirano fuori il carrello porta bara piazzandolo davanti il portellone aperto. Alfredo scende solerte dabbasso e comincia a dare le disposizioni circa l’alloggiamento della bara. Nella mezz’ora che segue la bara viene trasportata in casa, nello studio, e vengono predisposti gli addobbi del caso, portacandele ai quattro lati con vari cestini di fiori finti e, ai piedi della bara un ventilatore a colonna che dovrà servire più in là per mantenere fresca la temperatura della stanza, sebbene nella sola stanza sia stato interrotto il riscaldamento acceso in tutta la casa.
Appena finito il posizionamento le préfiche hanno ripreso posto e improvvisamente parte un pianto dirotto con tanto di grida e urla strazianti subito interrotte dall’accorrere di Alfredo che mette fine perentoriamente alla consumata usanza. Le stesse donne, gentilmente vengono ringraziate ma accompagnate fermamente alla porta, non prima di aver loro offerto in segno di ringraziamento qualche migliaio di lire.
Nel paese l’argomento di ogni discussione è, scontato, la morte del vicepresidente Boccia non ancora raggiunto dalla vecchiaia. Molti commentano se il pronto soccorso prestato sia stato veramente tempestivo come si dice e qualcun altro il fatto che don Vittorio non si è mai sottoposto ad alcuna visita medica preventiva asserendo di sentirsi sano come un pesce.
Più di qualcuno, invece, commenta a bassa voce quello che sicuramente potrà essere l’atteggiamento di Firmato e tutti si chiedono cosa mai si lascerà cacciar fuori il ciabattino in quella che sarà la sua ultima filippica rivolta a don Vittorio e già stanno architettando su quale sia la posizione migliore, nei vicoli circostanti la casa, per meglio assistere in prima persona all’evento.
Verso le dieci e mezza, come previsto, cominciano ad arrivare alla spicciolata ma distanziati di pochi minuti gli uni dagli altri i maggiorenti del partito e della politica regionale in generale. Alle undici in punto arriva anche il presidente socialista della giunta regionale insieme al segretario regionale del partito. Sono questi i pezzi da novanta del partito socialista in tutta la regione. Al loro arrivo scambi di convenevoli non si contano, infine, poco dopo, può iniziare la veglia funebre.

Ore 23,30 – Firmato viene invitato con una scusa a lasciare l’osteria. Non è ancora del tutto ubriaco e lo si evince dal passo sì malfermo ma ancora spedito con cui si dirige verso casa. Il suo cammino avviene in un silenzio assoluto nemmeno disturbato dalle decine di persone che come indiani in agguato seguono il ciabattino andandosi a nascondere negli angoli più bui dei vicoli circostanti il palazzo Boccia bramosi di sentire l’ultimo sproloquio di Firmato al defunto.
Anche il maresciallo Pantone, in borghese, ha seguito con discrezione il ciabattino ed è andato a rintanarsi nell’unico portone socchiuso dirimpetto al punto di arrivo del ciabattino, quello di casa mia dove già ci sto appostato io con la non gradita compagnia del vice sindaco e di Peppino Stalin, che pochi minuti prima hanno fatto letteralmente irruzione e lasciando il portone socchiuso per meglio osservare e sentire. A questi ora si è aggiunto il maresciallo dei carabinieri. Che dire? Sono in ottima compagnia!

Ore 23,40 – Sotto le finestre illuminate e semiaperte di casa Boccia. Firmato, senza alcuna fretta ha raggiunto il lampione dove solitamente si appoggia per caricarsi nelle sue filippiche. Anche stasera fa la stessa cosa poi, come un fulmine a ciel sereno squarcia il silenzio ad alta voce.
“Vittorio, compagno Vittorio, bugiardo in vita e bugiardo anche nella morte!”
Un simile attacco davvero nessuno osava immaginarlo, infatti tutti, nessuno escluso, si sono stropicciati le mani pensando “se questo è l’inizio figuriamoci ora il seguito!”,
Anche in casa Boccia l’improvvisa irruzione fonetica del ciabattino ha procurato più di un brivido sulla schiena dei presenti, in particolare i parenti del defunto, con Alfredo in testa.
“In vita sei stato un grande bugiardo Vittorio. Quando mi dicevi che le lotte si fanno sempre insieme. Ed ora mi hai escluso proprio dall’ultima, la più grande! Sì, non mi hai voluto al tuo fianco. Cos’hai pensato? Che forse questo miserabile non è capace di darti una mano proprio quando ce n’è più bisogno?
Vigliacco, hai dimenticato le tante lotte che abbiamo sostenuto insieme, sin da giovani? Quelle per dare le terre ai poveri braccianti contro i ricchi padroni? Quelle contro la corruzione dei tanti compagni deviati? Le hai dimenticate tutte? Eppure io non ti ho mai lasciato solo! E tu invece, cosa fai? Mi lasci qui da solo contro tutta questa marmaglia! Avevi ragione. Hai sempre avuto ragione, non sei stato tu a lasciarmi ma io a non seguirti. E per questo non mi sono mai dato pace. Ma cosa potevo mai fare io per te? Io, un misero ciabattino mezzo analfabeta? Se non darti calore e incoraggiamento? L’ho fatto, Vittorio mio, ma senza farmi mai vedere. Quante volte ho pregato Dio per te affinché desse a te la forza di mantenerti onesto in questo mondo di disonesti! E Dio mi ha ascoltato Vittorio perché tu sei sempre stato l’uomo più corretto e onesto che ho mai avuto l’onore di conoscere. Vittorio, amico mio, te ne sei voluto andare da solo, perché? Non potevi chiamarmi? Vittorio, compagno mio! Mi hai lasciato qui ma non pensare di avermi abbandonato ancora perché ti prometto che presto ti raggiungerò. Noi siamo stati sempre insieme e sempre insieme resteremo. Addio, amico mio!”
Firmato non ha ancora concluso la sua speciale omelia che la quasi totalità degli “indiani” asserragliati nei dintorno ha già defluito commossa e delusa. Anche il maresciallo rivolgendosi ai due poco graditi ospiti del mio portone chiede loro: “Soddisfatti, signori?” al ché a capo chino, come due bricconi si eclissano nella notte.
In casa Boccia, dopo le prime parole di Firmato, i sentimenti sono cambiati di colpo. La vedova, in un angolo dello studio, ha tirato fuori uno stropicciato fazzoletto e si è messa ad asciugare copiose lacrime tra un singulto e l’altro.
Il presidente della giunta regionale, la massima autorità civile presente alla veglia, chinandosi verso Alfredo gli chiede chi sia la persona che hanno ascoltato.
“Un brav’uomo, Presidente, un brav’uomo!” mormora lui con voce roca e gli occhi umidi dalla commozione.
Firmato ha finito la sua evocazione e, apparentemente svuotato di ogni energia, si affloscia sorretto dal palo del lampione. Il maresciallo allora viene fuori dal portone e gli si avvicina. Firmato lo scorge e gli chiede ironico:
“Un’altra convocazione, maresciallo?”
“No, Firmato, voglio solo augurarti la buona notte”.
“Hai ragione, maresciallo, bisogna andare a letto. È tardi, e domani sarà una lunga giornata” quindi si fa docilmente accompagnare fin sull’uscio di casa.
Una promessa, però, Firmato ha fatto al suo grande amico quella notte e l’ha mantenuta perché esattamente settantuno giorni dopo lo ha raggiunto per sempre.




*

I suoi occhi

La vita nei paesi è scandita da avvenimenti ben precisi. In autunno la vendemmia, in pieno inverno il maiale e in estate si concentrano tutti i matrimoni. In due mesi, dalla metà di giugno a quasi fine agosto, vi sono almeno due matrimoni al giorno per cui, volenti o nolenti, ci si sta sempre imbracati a festa. Il mio non è più un paese molto popoloso come lo era mezzo secolo fa, oggi i suoi abitanti non arrivano a seimila anime, compreso le badanti e tutti gli altri extracomunitari. La scelta di concentrare i matrimoni in quel periodo non è certamente dovuta a un improvviso riscaldamento ormonale ma semplicemente ad una politica di pura economia. È in estate, infatti, che tutti i parenti residenti fuori rientrano in paese, pronti per farsi spennare con le bustarelle agli sposi, e non vi è nessun miracolato poiché tutti sono parenti di tutti, me compreso che vivo al nord da ormai più di venti anni. A farla da padroni in queste circostanze sono i ristoratori, capaci di moltiplicare i posti affinché tutti gli invitati, siano essi anche un mezzo migliaio, possano trovare un angolino dove pigiarsi. Un’altra caratteristica è l’occasione di incontrare o almeno di rivedere persone di cui abbiamo perfino perso il ricordo come lontani parenti, compagni di scuola, amici e conoscenti di strada e, qualche volta, anche vecchie passioni.
Ed è quanto mi è capitato l’estate scorsa al matrimonio di una lontana cugina.
Ad occupare almeno quattro tavoli, quelli rotondi da nove posti ciascuno, vi è tutto il mio clan famigliare capeggiato da uno zio, il fratello più grande di mio padre, e viavia tutti gli altri, cugini primi e acquisiti con relativa prole. Allo stesso tavolo, unico celibe ultra quarantenne, io con i miei tre fratelli.
Nel caos generale ci apprestiamo a trascorrere il pomeriggio che ci attende quando qualcosa, ad un tratto, attira la mia attenzione. Non so cosa sia di preciso, forse la sensazione di essere osservato con intensità, cos’ i miei occhi si dirigono senza tentennamenti nella direzione da cui inconsciamente avverto la provenienza di quell’interessamento.
Gli occhi, solo ed unicamente gli occhi, gli stessi, profondamente azzurri, originano uno sguardo ancora civettuolo, falsamente pudico. Non sono mai stati veramente innocenti, bensì consapevoli dell’attenzione che producevano, ma ora, dopo tanto tempo, restano solo loro con un fondo, forse, di marcata nostalgia, non per quello che avrebbe potuto essere ma per quello che fatalmente si è lasciato alle spalle.
Dal giorno che sono ritornato ho desiderato vederla, così come si può desiderare di rivedere un oggetto caro e familiare, rappresentante di un’età spensierata, raccoglitore di quei sentimenti ingenui e genuini che solo l’adolescenza può produrre.
Ora Giulia è davanti ai miei occhi, a poco più di due tavoli di distanza. Non so quando è arrivata, forse era già lì quando siamo arrivati noi, né ho sentito fino ad ora la sua voce, eppure ricordo bene il suo tono acuto. In pratica non ho avvertito la sua presenza se non ora, forse anche lei si è solo ora accorta della mia. Per lunghi attimi restiamo a guardarci, curiosi di scoprire i rispettivi cambiamenti. Ho adesso la consapevolezza che abbia sempre saputo, o per lo meno intuito la mia infatuazione per lei, ciò che riconosco è che non ho mai avuto il minimo incoraggiamento da parte sua per tentare delle avances. Il mio è sempre stato, nei suoi confronti, l’atteggiamento rassegnato e rinunciatario di chi si ritiene sconfitto in partenza. Ma in fondo il suo atteggiamento era forse quello giusto, quello che rispettava gli usi e le consuetudini del paese di circa trent’anni fa, e la mia era semplicemente insicurezza e immaturità.
Nel guardarci scopro nei suoi occhi una punta di compiacimento, probabilmente alimentato dalla sua femminile vanità, ed allora sposto l’attenzione sulle persone che le stanno sedute vicino. Alla sua destra un adolescente, sarà forse suo figlio? Comunque non le somiglia affatto, è basso e magro, ha i capelli neri, colorito scuro e porta occhiali da miope. Ho la conferma che lo sia quando la interpella chiamandola mamma. Alla sua sinistra siede un uomo, basso, magro, quasi del tutto calvo, dal viso rugoso e i lineamenti delicati. Mostra una sessantina d’anni, probabilmente ne avrà di meno solo se li porta male.
Anche in questo caso ho la conferma che sia il marito dai gesti di affettuosa confidenza che si scambiano. Ogni tanto lui posa la sua mano sulla sua attirandone l’attenzione. Lei allora avvicina il capo al suo e ascolta ciò che le mormora sottovoce, quindi lei sorride e ritorna eretta, sempre però senza distaccarmi gli occhi di dosso.
Spazio il mio sguardo su di lei. Fisicamente è cambiata, è parecchio appesantita, probabilmente fa una vita sedentaria. Il viso è tondeggiante, pienotto, con due piccole rughe sotto gli occhi. I capelli, poi, completano la trasformazione, non più portati sciolti sulle spalle bensì corti con acconciatura a casco, quasi a risaltare l’incipiente pinguedine.
Improvvisamente avverto la pressione di un piede sul mio, mi giro e vedo mio fratello maggiore, al mio fianco, che mi guarda ironicamente poi, avvicinandosi al mio orecchio mormora:
“Ancora infatuato?”
“No deluso”
“Pensi che ora lei poteva essere tua moglie?”
“La mia infatuazione per lei non arrivava a tanto”
“Ti confido che anch’io, una volta, ci avevo fatto un pensierino”
“Avevi senz’altro più possibilità di me di riuscirci, potevi provarci”
“Non l’ho mai fatto”
“Perché?”
“Mi sono accorto che lei si compiaceva soltanto di attirare l’attenzione su di se”
“Probabilmente hai visto giusto”
“Comunque sia non ci siamo persi niente, non trovi?”
“Ti sbagli, abbiamo perso la nostra giovinezza”
“Che vuoi dire?”
“Allora tutto ci era permesso!”

*

Angeli e demoni

L’uomo arranca barcollante per la stradina che costeggia la scoscesa riva del fiume. Cerca di passare dall’altra parte, ma deve forzatamente arrivare al ponte, distante ancora parecchio. La stradina, sul lato del fiume, è limitata da un alto steccato perciò l’uomo, ubriaco fradicio, non corre alcun pericolo di finire nelle sottostanti torbide acque.
L’uomo, come avviene ormai metodicamente ogni sera, è da poco uscito dalla solita osteria e per rincasare deve compiere quel tragitto. Da anni, ormai, quella è diventata un’abitudine che termina puntualmente, poco dopo essere passato dall’altra parte, su una panchina non molto lontana dalla sua abitazione. Le forze, puntualmente, lo abbandonano nello stesso punto, in qualunque stagione e con qualsiasi tempo.
L’uomo è ormai ridotto ad una puzzolente sagoma, fradicia del peggior vino dell’osteria, ma a lui ciò non interessa. In un qualche modo desidera che la morte ponga fine alla sua depravata vita, ma non ha il coraggio di correrle incontro. Osare tanto non è un gesto in sintonia con il suo carattere, in tutta la vita non ha mai osato anzi, si è macchiato delle peggiori nefandezze proprio per la mancanza di coraggio. La peggiore delle quali, quella che da decenni lo ha portato tanto in basso nella scala sociale togliendogli le residue volontà, è davvero unica. La vicenda, impressa indelebilmente nella sua mente gli ha tolto il sonno da tantissimo tempo e ogni volta che crolla con la mente sgombra dai fumi alcolici il ricordo di quanto successo lo assale inesorabilmente. Rivede allora un essere brutale in un lontano e tardo pomeriggio che, solitario e furtivo, si aggirava tra le navate della grande chiesa e, una dopo l’altra, svuotava le cassette delle offerte. Ad un certo punto compariva la figura di un ragazzino di circa dodici anni che lo guardava più incuriosito che sospettoso, e tanto meno minaccioso. Egli allora si fermava e, preso dal panico, afferrava il piccolo testimone per le spalle e lo sbatteva con violenza contro una colonna della navata. L’intenzione era quella di incutere un sacro terrore al ragazzino per fargli tenere la bocca chiusa invece la violenza fu tale da fracassargli il capo. Quando se n’accorse il corpo giaceva inerte tra le sue mani, allora, quasi con ripugnanza, lo scaraventò rabbiosamente lontano da sé e, racimolato il piccolo bottino, si dileguò nella penombra dell’incipiente sera. Da allora sono passati diversi lustri e quella scena gli è rimasta impressa per sempre nella mente, ma non per questo egli ha cambiato la sua vita. E’ rimasto, infatti, lo stesso ripugnante essere di prima. Furti e violenze, violenze e furti, stranamente impuniti come il barbaro assassinio, sono stati il suo pane quotidiano per tutti gli anni successivi fino all’imbrunire quando, seduto nella solita osteria , una forma di rimorso lo aggredisce e per soffocarla inizia a bere smodatamente. Infine, quando l’osteria chiude, inizia l’incerto e tormentato cammino e quando resta solo con la sua disperazione allora e solo allora la sua mente trova la forza di sfogare lo strazio con un silenzioso pianto. Agogna la morte pur temendola al punto di aggrapparsi disperatamente alla vita. Vuole morire ma con le spalle al muro senza avere alcuna via d’uscita.
Anche oggi l’uomo, arrivato a metà del ponte sul fiume crolla per terra, sempre terrorizzato e aggrappato al parapetto. La mente è più offuscata del solito e i sensi, ormai stanchi di lottare sembrano sul punto di arrendersi all’inevitabile.
Dopo pochi secondi in quello stato due figure si materializzano quasi contemporaneamente nei pressi del moribondo. Uno è Fapes, demone di terzo livello in una scala di valore che va da uno a cinque (il livello massimo) e l’altro è Zaffiro, un angelo di pari livello in una scala di simile valore.
“Fapes!!” esclama contrariato Zaffiro all’improvvisa comparsa del demone.
“Zaffiro?” esclama invece meravigliato Fapes trovandosi al cospetto dell’angelo.
“E’ da tempo che non ci si vede!”
“Fin troppo, sarà un’eternità. Che ci fai da queste parti?”
“Lavoro” afferma mantenendosi sul vago Zaffiro.
“C’è qualche brav’uomo che è finito giù tra i flutti?” chiede Fapes poi, vedendo che l’altro non fa una piega, rivolge lo sguardo verso il disgraziato rantolante e, costernato, chiede a Zaffiro:
“Sei qui per questo sciagurato?”
“Beh, mi ci hanno mandato” conferma quasi scusandosi Zaffiro.
“Allora ti hanno giocato uno scherzo da preti. Questo ha più peccati sul groppone delle guglie del duomo di Milano. Chi te l’ha tirato Gabriele in persona?”
“Nessuno scherzo, mi hanno dato l’indicazione esatta, mi hanno pure esortato ad affrettarmi per non farmi precedere da te.”.
“Cosa?? Allora sei davvero qui per lui? Roba da pazzi! Lassù hanno preso una bella cantonata. Ma lo sai di quale orrore si é macchiato questo coso qui? Appena lo porto giù come minimo lo elevano direttamente al secondo livello.”
“No, tu non lo tocchi. Ho la precedenza, e non solo perché sono arrivato prima. Conosci le regole, quando ci siamo noi dovete fare un passo indietro.”
“Ma che vi sta succedendo lassù? C’è in atto un’altra rivolta di cui sono all’oscuro? In tal caso gradirei sapere di chi si tratta stavolta.”
“Nessuna rivolta Fapes, le cose stanno come ti ho detto.”
“Ma è pazzesco! Se adesso vi mettete a raccattare anche gli infanticidi noi quaggiù di cosa ci dovremo occupare? Dei ladri di polli?” Fapes è davvero incavolato e non fa nulla per trattenersi.
“Mi dispiace, sinceramente, e non ti dico quanto, ma purtroppo questi sono gli ordini”.
“Almeno vuoi spiegarmi come stanno le cose o è un segreto anche questo. Da chi è partito l’ordine?”
“Dai capi in persona. Anche loro, però, Gabriele e Michele, si sono dovuti piegare.”
“Non mi dire che l’ha disposto Lui in persona? Non si è mai occupato, che io sappia, di cose terrene”.
“No, Lui no ma Pietro sì”
“Ehhh! È un’idea di Pietro? Lo dovevo immaginare, non ne combina una che sia buona. Cos’ha escogitato questa volta quel gallo canterino?” Zaffiro, pur sforzandosi di non sorridere alla battuta di Fapes, tenta di dargli una spiegazione plausibile.
“Non lo so di preciso, afferma che vuole fare un esperimento”.
“Già così fece quella volta e scatenò il putiferio. Non fosse stato per lui non ci saremmo ribellati”.
“Lo so, e non immagini quanto ci sia dispiaciuto”.
“Allora dimmi cosa gli passa ora per la testa. Accogliere gli assassini, mah! chissà dove andrete a finire, magari vi trasferirete tutti dabbasso un giorno. Allora fammi sentire”.
“Non è così facile spiegartelo”
“E tu provaci lo stesso, tanto di tempo n’abbiamo quanto ne vogliamo, e non mi riferisco tanto a noi quanto a questo porco che la sta tirando per le lunghe.”.
“Ecco, si tratta di questo: premesso che anche tu conosci la sua storia – dice indicando il morente – ha compiuto ogni nefandezza possibile fino all’infanticidio, poi non ha più vissuto come avrebbe dovuto o voluto. Ogni sera, puntualmente si è sempre pentito ….”
“Ma che cazzo vai dicendo Zaffiro! Si è pentito lui? E quando di grazia, se lo abbiamo monitorato da oltre vent’anni. Mai una volta che avesse implorato pietà o che avesse gridato il suo pentimento. No, no, Zaffiro, questa proprio non la bevo. Dì quello che vuoi ma a Pietro qualche fusibile comincia a partire.”
“Aspetta, senti il resto: anche se non ha mai implorato il perdono o gridato il suo pentimento, a Pietro è bastato il tormento quotidiano per farlo prendere in considerazione. Anzi per farlo entrare nelle attenzioni della nuova strategia che vuole porre in atto.”
“E sarebbe, tutti giù le brache?”
“Ascolta, lui intimamente è pentito, noi accettiamo il suo pentimento e lo portiamo su da noi, però lo mettiamo nel regno degli infanti morti innocenti così avrà per l’eternità davanti agli occhi l’oggetto della sua nefandezza e noi saremo sicuri del suo effettivo pentimento.”
“C’è qualcuno che vi rifornisce roba speciale per caso? Perché non facciamo l’inverso, voi ci mandate giù i bambini e noi ce li teniamo nel girone degli infanticidi così possono vedere come li trattiamo?”
Fapes non fa in tempo ad ascoltare la risposta di Zaffiro che il morente, con un’estrema forza di volontà, si riprende e loro devono eclissarsi.
“Questo sciagurato è più coriaceo di quanto supponiamo. Andiamo via, ma ci ritorniamo su.”
“Sì, giusto, andiamo via, ma ci rivedremo presto.”
“Questo è scontato!”

* * * * *

In men che non si dica l’insolita disputa tra i due speciali servitori ultraterreni fa il giro dei mondi scatenando costernazione e meraviglia. Il cherubino Zaffiro è subito chiamato a rapporto per informare gli arcangeli, i veri alti funzionari del regno celeste, di conseguenza anche giù, nel regno satanico avviene qualcosa di simile con l’Alta commissione infernale.
Zaffiro, dei due disputanti, è certamente il più imbarazzato, poiché, oltre ad enunciare i fatti ha un gran bisogno di sapere dagli arcangeli come realmente stanno le cose circa l’insolita strategia studiata da Pietro per dare una scossa di carattere progressista nel regno celeste.
A presenziare la seduta vi è solo uno dei tre arcangeli maggiori Gabriele, che poi è quello che ha lavorato più a stretto contatto con Pietro. Gli altri due, Michele e Raffaele, sono impegnati altrove.
“Allora come ti è sembrata la reazione di Fapes?” chiede a Zaffiro.
“Ovviamente stenta a credere una cosa del genere e, secondo me, non ha tutti i torti, quando afferma che non è per niente corretto”.
“Gli hai assicurato che è tutta opera di Pietro?”
“Sì e non ti dico cos’ha detto in proposito!” risponde sorridendo divertito al pensiero della battuta fatta da Fapes circa il gallo canterino. Anche Gabriele abbozza un sorrisino ma senza allargarsi più di tanto.
“Effettivamente, Gabriele, se devo essere sincero, non è che io l’approvi questa faccenda, a meno che non ci sia dell’altro sotto di cui non sono stato informato”.
“Infatti, c’è dell’altro ma bisogna procedere con cautela. Non sarà facile spiegare a tutti le ragioni che ci hanno spinto ad attuare una riforma tanto ardita”.
“Quindi Pietro è solo una copertura?”
“Tu che dici, se lo fosse?”
“Accidenti! Allora dev’essere più complicato di quanto immagino”.
“Venendo qua hai avuto modo di appurare come la pensano gli altri, i serafini voglio dire?”
“Beh, si agitano un po’. Non hanno ancora digerito l’ultima rivolta, quella del mille intendo”.
“Quella sì che fu una vera sciocchezza, e tutta di Pietro. Scatenare le Crociate dopo aver imbonito a dovere il suo omonimo, invece di cercare di unire le forze con i cugini islamici, e provocare la rivolta di parecchi dei nostri fu davvero imperd…. no, meglio non usare certi termini”.
“Dopo la ribellione di Lucifero nessuno si sarebbe aspettato un secondo gesto così sconsiderato”.
“In certe cose non ci possiamo fare niente. Suo Figlio ci tiene tanto a Pietro che glie la da sempre vinta.
Questa volta, però, devo ammettere che la strategia è davvero geniale”.
“In realtà di cosa si tratta?”
“Quel disgraziato laggiù che la tira tanto lunga non c’entra per niente, è solo un pretesto. Il vero scopo è quello di indebolire Lucifero e far rientrare i rivoltosi più titubanti, sì come Fapes, ad esempio, anch’egli è uno dei meno convinti”.
“In che modo dovrebbero convincersi a ritornare sui loro passi?”
“Semplice, se mostriamo loro che abbiamo compassione di cotanti peccatori in via di redenzione potranno ben sperare di ottenere il perdono per la loro eresia, non ti pare?”
“E tu dici che saranno in molti a lasciarsi suggestionare?”
“Si, Zaffiro, siamo ben informati, sono in molti. Inoltre non è che laggiù abbiano trovato una buona accoglienza dopo la rivolta”.
“E le anime candide come la prenderanno quando si troveranno a spartire il Paradiso con certa gente?”
“A certa gente, come dici tu, non offriremo granché, solo fumo negli occhi. Li vestiremo candidamente e faremo credere loro di essere stati redenti. In pratica si troveranno sempre alla mercé delle loro vittime terrene e non otterranno nulla a parte il compatimento. Ti assicuro che sarà una punizione peggiore di quella fisica che avrebbero laggiù. Tempo qualche secolo e desidereranno di non essere mai saliti quassù”.
“D’accordo, mi hai convinto, ma dopo aver chiarito la situazione con i nostri dovremo anche affrontare l’argomento con loro laggiù. Non possiamo cavarcela ignorandoli. Perciò cosa diremo?”
“Vedrai che saranno loro stessi a chiederci un chiarimento sul nuovo modus operandi, devono farlo per forza se non vogliono trovarsi ogni momento in situazioni come quella di oggi con Fapes”.
“E quindi?”
“Ci parlerai tu, vedrai che manderanno Fapes a parlamentare, e tu gli confermerai ciò che hai già anticipato, che Pietro è convinto nella redenzione di molti peccatori”.
“Sì – conferma Zaffiro dopo averci rimuginato sopra – sì, credo che può funzionare. C’è ancora una cosa che non mi torna del tutto, perché dobbiamo far ritornare i ribelli?”
“Per due motivi di prevenzione mio caro, uno che bisogna scoraggiare ogni forma di deviazione e l’altro che con l’infoltimento delle schiere, i demoni hanno più forza di convinzione sugli uomini. Tutta la faccenda non è molto gradita a Lui, Michele pare Gli abbia sentito sussurrare qualcosa a proposito di un secondo Suo intervento drastico”.
“Un altro diluvio?”
“Mah, lo sai che non possiamo osare a leggere il Suo pensiero, quindi ….”

* * * * *

“Fapes, ripetimi di nuovo cosa vi siete detti, nei minimi particolari” La novità riportata da Fapes ha reso molto pensieroso Lucifero e, apparentemente incredulo, chiede per la terza volta al subordinato di raccontargli come sono andate esattamente le cose con il cherubino. Che sia preoccupato non lo da a vedere eppure non è spensierato come al solito. Fapes, quindi, racconta gli eventi non omettendo nulla anzi soffermandosi sui particolari.
“Quindi, secondo te Zophiel (è il vero nome del cherubino da tutti chiamato Zaffiro tranne che da Lucifero) non pare condividere questa cosiddetta nuova strategia?”
“Sì, da quello che ho potuto capire ha notevoli perplessità. Certo che da qui a non condividerla ce ne corre ma a me è sembrato molto scettico”.
“E ti ha esplicitamente confermato che si tratta di una iniziativa di Pietro?”
“Sissignore, inoltre ha confermato che anche gli arcangeli si sono dovuti adeguare”.
“E’ ciò che m’impensierisce, la Triade non può sottomettersi di nuovo a Pietro, dopo gli sfracelli fatti con le Crociate. Questo significherebbe che lassù si stia combattendo una guerra di potere molto pericolosa”.
“Per noi Signore?”
“Non è di questo che mi preoccupo ma non vorrei che venissero scoperti i nostri infiltrati”.
“Abbiamo degli infiltrati Lassù?” chiede Fapes al massimo della costernazione. Lucifero ha un moto di stizza, soprappensiero si è lasciata sfuggire una delicatissima indiscrezione. Ora che la frittata è fatta dovrà rivelare tutto a Fapes.
“Quattro plotoni, Fapes. Inizialmente erano meno di una dozzina, al tempo delle Crociate, poi sono aumentati di numero. Oggi sono più di duecento”.
“Duecento? Per la miseria! Così tanti? E ….. dove? Come?”
“Occupano posti molto delicati. In pratica stiamo forzando la mano agli uomini”.
“Credevo non ce ne fosse bisogno, deboli come sono”.
“A parte qualche spontaneo scellerato la massa non è poi così malvagia. Noi, però, dobbiamo accelerare la loro dannazione”.
“Perché? Voglio dire che fretta abbiamo?”
“Non avremmo avuto alcuna fretta se le cose fossero rimaste immutate nel tempo con le parti ben delineate. Il male da una parte e il bene dall’altra. L’uomo non aveva mai mostrato tanto interesse per tutto ciò che esulava dalla sua piccola sfera d’interesse poi è arrivato Lui, il Figlio, a scombussolare ogni cosa. Una nuova religione che ha soppiantata la vecchia e, non contenti, si è ramificata in diverse sette. Non bastasse ecco spuntare Maometto, in diretta concorrenza, con altre forme di fede. Il male ormai si era così ampliato e modificato che la linea di separazione con il bene è diventata così sottile e indefinibile da non poterlo più valutare”.
“Non capisco, gli infiltrati, Signore, cosa fanno di preciso?”
“Ah ah ah, se non riesci proprio ad accorgertene vuol dire che stanno facendo un ottimo lavoro”.
“Eh sarebbe?” chiede Fapes timorosamente.
“Ti faccio un esempio, la pedofilia nella chiesa, o credi che sia tutta opera della sola malvagità umana?”
“Accidenti! Non lo avrei mai immaginato! Allora sarà per questo che Pietro vuole cambiare le regole?”
“Ecco, mi hai fatto ritornare il malumore, potevi farne a meno di nominarlo?”
“Credevo che a innervosirvi fosse solo la Triade!”
“No, quelli almeno li conosco perfettamente sebbene l’unico che realmente temo è Michele, quello che non appare mai se non al momento decisivo. Pietro, invece, è quello che mi fa andare in bestia perché nella sua superficialità è incontrollabile”.
Voi temete, Signore, che possano aver scoperto gli infiltrati?”
“Non lo so, certamente qualche sospetto ce l’ho, altrimenti non capisco questo improvviso cambio di metodo. Senti, quel tipo lassù si è ripreso e intende ritornare a bere ma non ne ha per molto, come sei rimasto con Zophiel? Vi dovete rincontrare di nuovo?”
“Certamente, abbiamo quell’anima in sospeso”.
“Perciò questa sera fatti trovare nei pressi del ponte e attacca bottone, oltre tutto dobbiamo pur sapere quali sono i nuovi metodi di valutazione se non vogliamo litigarci ogni momento, ti pare?”
“Sì, certamente”.
“Allora va e cerca di saperne di più”.

* * * * *

“Fapes! Spero che questa volta sia quella buona” commenta il cherubino all’apparizione del demone nei pressi del ponte. Poi, arricciando il naso in direzione dell’atteso moribondo, mormora:
“Guardalo, si sente il puzzo da lontano. Mi fa una pena!”
“Vai di fretta? O è la mia compagnia che ti disturba?”
“Certamente non mi attira”
“Possiamo sempre farci una bella chiacchierata”
“E quali argomenti possiamo avere in comune noi due?”
“Non so, ad esempio perché tutti ti chiamano Zaffiro quando il tuo vero nome è Zophel?”
“Ah, quella! È una vecchia storia”
“Ecco vedi?, non avevo ragione a dire che ne abbiamo argomenti da discutere?”
“Solo che ….” Il cherubino s’interrompe perché inaspettatamente è comparso l’arcangelo Gabriele.
La sorpresa è totale, soprattutto per Fapes che, improvvisamente mostra paura temendo di essere caduto in un tranello degli angeli. Ma ogni timore personale viene fugato dalle parole che l’arcangelo rivolge ad entrambi.
“Lasciate perdere quel miserabile, c’è qualcosa di molto importante su cui discutere, tra poco verrà qui Michele, tu – dice rivolgendosi al demone in tono di malcelata sufficienza – chiama Lucifero e digli di venire qui, portasse con se chi vuole, non importa, Michele deve comunicarci un messaggio del Padre”

* * * * *

Lucifero, un po’ per non mostrarsi inferiore agli arcangeli si è presentato da solo ed ora, con l’unica compagnia di Fapes guarda impavidamente l’arcangelo Michele. I due, dalla cacciata, s’incontrano per la prima volta. Mentre Lucifero cerca di non mostrare il suo timore l’arcangelo, piuttosto accigliato, non mostra alcun sentimento, intento com’è a trovare il modo per comunicare ai presenti il pensiero di Dio. Infine è Dio stesso a invadere la sua mente e tramite la sua voce lancia il proprio monito diretto all’umanità.
“Ascoltatemi, parlo a voi perché sono a conoscenza di tutte le vostre azioni. Infiltrati, strategie, metodi, mi sto stancando dell’intera umanità. Dopo la Creazione, per un capriccio ho creato anche l’uomo, la più inutile delle mie azioni. Gli ho dato una forma intelligente e gli ho messo a disposizione l’intero universo. “prendilo, gli ho detto, un giorno ne diventerai il dominatore”. È stata la più banale delle mie affermazioni perché da subito egli ha intrapreso le strade più diverse da quelle che gli avevo tracciato. Gli ho lanciato un monito cercando di farlo ricominciare dall’inizio ma non c’è stato nulla da fare, imperterrito ha ripreso il vecchio malcostume. Ho pensato a delle correzioni donandogli il senso della fede e della religione, gli ho persino sacrificato il Figlio, senza esito. La sua cocciutaggine è davvero immensa così come la sua presunzione.
Ho cercato di tracciargli una strada morale dandogli dei comandamenti da seguire, Mosé è stato novanta giorni sul monte a metabolizzarli e scriverli sulle sacre tavole, niente, è stato tutto inutile.
Ora sono stanco, non ho più voglia di sopportare il fastidioso ronzio di questi stupidi insetti perciò ecco il mio ultimatum. Mosè ha impiegato novanta giorni per tutti i comandamenti allora io concedo all’uomo novanta giorni per ognuno dei comandamenti. Trascorso tale termine se l’uomo non sarà ritornato in sé lo cancellerò per sempre dal creato distruggendo il suo pianeta. Andate e spargete la mia voce”.
Un attimo dopo, tra il silenzio imbarazzante dei presenti, Michele riprende possesso del suo corpo e della sua mente. Angeli e demoni si guardano tra loro, la minaccia è davvero sconvolgente. Michele è il primo a prendere la parola.
“Dovremo fare l’impossibile per salvare l’umanità perché è il solo modo per salvare noi stessi”.
“Sono d’accordo con te, senza il male e il bene noi non esisteremmo” conferma Lucifero.
Il cherubino Zophiel e il demone Fapes si guardano stravolti, forse sono gli unici che hanno appreso in pieno il senso del tempo che il Signore ha concesso, infatti, rivolgendosi a Fapes chiede:
“Novanta per dieci, sono novecento giorni. Quando scade il tempo concesso?” Fapes fa un rapido calcolo e poi afferma: “Pressappoco alla fine del 2012”.

*

Odio Pirandello

Odio Pirandello! In passato mi è sempre stato del tutto indifferente, forse anche un po’ simpatico, poi, sette giorni, che hanno stravolto la mia esistenza, sono stati sufficienti a farmelo odiare.
Tutto è iniziato il ventotto maggio, per la precisione alle tre del pomeriggio, quando, a scuotermi dalla siesta pomeridiana arriva il ciclone Terry, la zitella. Costei, quarantacinquenne insegnante di lettere alla scuola media statale di Montepiano, è per disgrazia la mia sorella minore, unica mia germana vivente e procreata dai miei genitori con lo scopo recondito di dannarmi l’anima.
Infatti, come si fa a dire sempre di no, per poi accondiscendere puntualmente, ad ogni richiesta, anche la più strampalata, della sorellina?
Dal momento della ragione, ammesso che questo sia mai avvenuto, la sua esistenza si è basata unicamente a mettermi in croce. Oltretutto la sanguisuga non ha mai inteso mettere su famiglia per conto suo, non è che gli mancano i mezzi, anzi ne possiede fin troppi. Sospetto che ad allontanare atterriti i vari mosconi di turno sia stata, più che la prorompente bellezza, la manifesta aggressività.
Così sono rimasto l’unica vittima dei suoi soprusi e della sua sgangheratezza.
Ma dicevo, ore quindici, brusco risveglio, mi piomba in casa tutta trafelata la sorellina.
“Tesoro, mi devi aiutare, assolutamente” mi dice melliflua. Guardo con occhi sgranati prima lei e poi mia moglie che mi risponde con una impotente scrollata di spalle. Non c’è rimedio contro la calata degli Unni. Guadagno minuti preziosi e a stento, poi, riesco a farfugliare un “Cosa?”
“Sì, sì, tesoro, tesoruccio, mi devi aiutare, non so che fare sono disperata. Lo farai, vero?”
“Terry, che vuoi?” le rispondo con voce alterata. È solo un bluff, fatto male per giunta. Lei non ci casca.
“Sì, caro, solo tu puoi farlo, puoi salvarmi” pressante e piagnucolosa, ancora due minuti e comincerà a strapparsi i capelli e ad invocare le buone anime di mamma e papà. Tanto vale prendere il toro per le corna. Sospiro, mi metto a sedere più dignitosamente e lancio l’ultimo affondo.
“Ti sei indebitata, vero? Di quanto hai bisogno?”
“Ma che vai dicendo? Quando mai ti ho chiesto dei soldi?” non fa l’offesa, lo è.
“Allora di cosa si tratta” mi preparo alla prossima capitolazione.
“Devo fare la giara” afferma con disarmante naturalezza. Inarco un sopracciglio, il sinistro, perché mi riesce meglio. Poi tiro su l’altro, stupito.
“Che cosa?” questa volta sono davvero sincero, non ho la più pallida idea di cosa stia parlando.
“La giara, stupido, quella di Pirandello” ne so quanto prima.
“E allora che vuoi da me? E comunque grazie per lo stupido”
“Ma sì, tu mi fai arrabbiare! Sembra che lo fai apposta! Non capisci quanto è grave la situazione!”
“Ah, io non capisco? Terry, cosa diavolo vuoi da me?” stavolta mi sto irritando davvero. Lei se n’accorge e cambia repentinamente registro.
“Semplice, me la devi fare” nel dirlo volge gli occhi da un’altra parte. La guardo costernato.
“Che cosa dovrei fare?”
“La giaraaa! Quella di Pirandello. Diamine la conosci no? L’avrai pure fatta a scuola!”
“Come no, a scuola facevamo di tutto, fiaschi, bottiglie, bicchieri….”
“Ecco, lo sapevo che su di te era inutile sperarci, sei un mostro!” comincia a piagnucolare, mentre mia moglie mi guarda ironica e divertita con le braccia conserte. So già cosa pensa “tanto lo so come va a finire”. Con piglio duro mi rivolgo a Terry:
“Senti, con tutto il bene che ti voglio, non puoi chiedermi questo, non so nemmeno da dove cominciare.” Ma lei non demorde.
“Cosa ci vuole? devi farla di cartapesta mica di terracotta.”
“Terry, non ho mai fatto una cosa del genere, dovresti farti aiutare da qualche ragazzo di quelli cha fanno i carri per carnevale”
“Invece lo dico a te perché so che sai fare di tutto e, poi, chi li conosce quelli?”
Terry, per favore non ….”
“Ti prego, solo tu puoi aiutarmi…” Crollo, è così tenera e implorante.
“Va bene ci proverò, per quando ti serve?”
“Tra una settimana” Ecco, la mazzata finale, ma ormai non posso tirarmi più indietro. Lei se ne va trionfante ed io resto alla mercé di mia moglie che, tamburellando l’orologio con l’indice sentenzia:
“Otto minuti” ecco quanto è durata la tua resistenza. Però vai migliorando!” Analizzo la situazione.
Cosa serve innanzi tutto? Due cose fondamentali: rete metallica, idonea, e colla. Così comincia il calvario. Tutto il pomeriggio a visitare negozi di ferramenta, d’edilizia, di fai da te e infine di materiali per l’agricoltura con il medesimo scoraggiante risultato, nessuno ha in magazzino quel tipo di rete.
“Sa, noi la ordiniamo su misura per i ragazzi nel periodo di carnevale e la diamo tutta a loro” La colla invece si trova facilmente perché è quella in polvere che usano i tappezzieri. Alla fine rinuncio alla rete, ne ho, in campagna, qualche residuo di quella usata per la recinzione del pollaio, userò quella.
Ovviamente la giara dovrò farla in campagna, dove ho la principale materia prima. La casina è un po’ lontana dal paese e, lasciata la statale, bisogna inerpicarsi per un centinaio di metri su una stradina in terra battuta. Faccio incetta di vecchi giornali, poi, un secchio pulito, qualche lattina d’acqua, tenaglia, pinza, e la colla in polvere. Così affardellato sono pronto ad improvvisarmi cartapestaio.
La rete, mi accorgo subito, non è proprio idonea, è sottile a maglia larga e da sola non regge un granché.
Rifletto, la giara, in pratica, deve avere la forma di due tronchi di cono uniti ed aventi la base minore all’esterno. La rete, però, è lunga un metro e mezzo ma è larga solo settanta centimetri, quindi come utilizzarla? Inoltre bisognerà dotarla di un’ampia apertura da dove far infilare l’alunno che dovrà interpretare Zi Dima. Ci penso un po’ su e decido di unire i due vertici opposti dei lati più lunghi in modo che la stessa si trova naturalmente allargata nella parte centrale. In pratica si forma da se un’apertura a forma romboidale, per dare meglio l’idea basta unire pollice e indice delle mani ed ecco la fessura.
Fatto questo, unisco i due tronchi di cono, o meglio le basi maggiori, poi metto verticale la struttura e, quella non si regge in piedi. Quest’ostacolo non me lo aspettavo, comincio a imprecare, quindi mollo tutto perché si fa sera e me ne torno a casa a pensarci su.
Secondo giorno. Il problema è ancora irrisolto, però, penso tra me, se comincio ad imbastirla con la carta e la colla, questa, indurendosi, dovrebbe farla reggere. E via, allora, sciolgo mezza confezione di colla in dieci litri d’acqua, rimescolo per quindici minuti, come dice l’istruzione, e inizio a imbrattare i fogli di giornale, riservando uguale spennellata a tutte le testate edicole. Dopo un’ora di inzuppamento cartaceo qualcosa comincia a prendere forma, ma solo se coricata Mi dico che dovrò attendere che la colla si asciuga e, quindi, sospendo il lavoro fino al giorno dopo.
Terzo giorno. La colla si è indurita, non proprio del tutto, ma la pseudo giara non regge per niente.
Moltiplico le imprecazioni. Così non va, devo trovare un sistema per farla stare in piedi. Nella vana speranza stendo qualche altro strato di giornali, non si sa mai…., , sospendo di nuovo per farli asciugare.
Quarto giorno. La stramaledetta giara non vuol saperne di stare dritta. Sconfitto mi siedo davanti al mostro e spremo le meningi su come porre rimedio. Inutile, trascorrono le ore, arriva mezzogiorno e torno a casa. Sto per inserire la chiave nella toppa quando l’idea mi folgora, ho trovato il modo. Ritiro la chiave e mi dirigo in cantina. Febbrilmente vado nel reparto delle damigiane vuote, sfilo due di queste dall’involucro di plastica, afferro le due parti basse a forma di piccolo tinello, risalgo in macchina e via di corsa all’improvvisato laboratorio.
Esulto infine dalla gioia, vanno su misura, sembrano fatte apposta. Il primo tinello lo infilo direttamente senza alcun ritocco, all’altro gli tolgo il fondo e lo posizione sull’apertura superiore. Con il filo di ferro faccio qualche legatura e voilà: la giara è bella e dritta davanti ai miei occhi. Sono un maestro, mi congratulo con me stesso, ma non è finita, purtroppo.
Il pomeriggio do inizio alla parte finale, munito di alcuni fogli di carta da pacchi, perché oltre ad essere più spessa possiede la giusta colorazione della terracotta, imbastisco tutto l’esterno della giara. Con alcuni rotoli della stessa carta ci faccio l’orlo e, infine, per farla aderire perfettamente, una spennellata generale su tutta la superficie esterna. A lavoro finito esulto. Ma chi sono io? I cartapestai? Sic! Mi fanno un baffo. Tutto fiero torno a casa, chiamo la sorellina informandola che la giara è fatta e, tra un urlo di gioia e l’altro, prendiamo appuntamento per l’indomani per andare a prenderla.
Durante la notte si guasta il tempo, piove che Dio la manda giù. Risultato, la stradina che porta alla casa in campagna non è transitabile. Piove per tutta la mattinata e, salvo un’ora d’intervallo, riprende per tutto il giorno e quello successivo. In pratica, il 2 giugno la giara è ancora in campagna e la recita si dovrà fare solo tre giorni dopo. I ragazzi non potranno forse nemmeno provarla.
Il settimo giorno, finalmente, esce il sole, ma per andare a prendere la giara bisogna farlo con un mezzo a trazione integrale. Ovvero compiere il tragitto dalla statale alla casa e ritorno, duecento metri in tutto. Verso le dieci mi vedo arrivare sotto casa un Nissan Navara, da un finestrino spunta la chioma di Terry. “Andiamo allora?” mi esorta sotto lo sguardo serio e pomposo dell’autista, che non conosco per niente.
Mezz’ora dopo apro la porta del locale dove risiede la giara pregustando le espressioni stupefatte di Terry e dell’altro. Infatti, queste ci sono, ma di costernazione. Rivolgo lo sguardo alla giara, quella maledetta è sì in piedi, ma è ancora tutta bagnata. Con l’umidità che c’è stata negli ultimi giorni la colla non si è ancora asciugata del tutto anzi, pare sia appena spennellata. Cosa facciamo? Così com’è non si può rimuovere, liberiamo il tipo della Nissan pregandolo di tenersi almeno a disposizione quanto prima e corriamo al riparo. Velocemente si torna a casa, prendiamo due fon, ritorniamo di corsa in campagna e ci mettiamo ad asciugare la colla neanche avessimo fatto lo shampoo alla giara. Il pomeriggio vola così.
La mattina dopo, l’ottavo giorno, finalmente possiamo trasportarla a scuola, ma, nel posizionarla sul cassone del Navara, urtando da qualche parte, si è graffiata e quindi mi tocca portare con me un altro foglio di carta d’imballaggio e il secchio della colla per le rappezzature da fare sul posto.
Arriviamo a scuola e comincia il dramma finale.
Primo, il ragazzo che doveva fare Zi Dima è a letto con la febbre e viene sostituito da un compagno che è alto esattamente quanto la giara, perciò una volta entrato si vedono solo alcuni ciuffi di capelli. Bisognerà trovare, e in fretta, qualcosa da mettere sotto i piedi del ragazzo. Cerca e ricerca, alla fine, lo Zanichelli trova la sua “naturale” collocazione.
Secondo, non abbiamo fatto i conti con l’esuberanza degli allievi moderni. Dopo aver incollato qualche striscia di carta là dove occorreva, qualcuno ha la brillante idea di rovesciare il secchio con la colla residua sul palco improvvisato per la recita. Io non me n’accorgo e ci metto i piedi sopra. Risultato faccio un volo da far invidia a Klaus Dibiasi e un atterraggio da wrestling su un fianco. Mi slogo la spalla sinistra, sebbene a caldo non mi faccia poi così male. Il dolore arriverà dopo.
Terzo, nel mentre eravamo indaffarati con la giara noto, ma senza farci tanto caso, che le ragazze sghignazzano tra loro. Non capisco cosa le fa tanto divertire e non ci do importanza. Ma, appena cominciano le prove nel momento che il piccolo Zi Dima si appresta a infilarsi nella giara una vocina proveniente dal loro gruppo fa: “Zi Dima, che fai? ci penetri bene?” seguita da frizzi e lazzi di ogni genere. Non ci avevo fatto caso ma l’apertura lasciata sul fianco della giara somiglia precisa precisa a quella ……, eppure quando ho fatto il gesto delle due mani unite con l’indice e il pollice non l’avevo notato. Le santarelline invece sì, lo avevano afferrato per prime e poi comunicato con il passaparola a tutti gli altri. Il risultato finale è stato che Zi Dima, già cosciente del fatto, scoppia in una risata irrefrenabile e, inciampando, butta giù la giara facendola rotolare con lui dentro fin sotto il palco. La Giara, frutto di tanto paziente lavoro, è andata a farsi benedire. Oltretutto, per intervenire tempestivamente sono scivolato di nuovo e uno dei ragazzi mi saltato sulla mano destra schiacciandomi l’indice.
Il risultato è stato che per altre due settimane ho dovuto battere sulla tastiera con il solo dito medio che non voleva essere un gesto volgare ma l’unica risorsa che mi restava.
Ripensando a tutto mi convinco ancor di più di odiare Pirandello, perché scrivere la giara invece di … non so … un secchio. Ecco, magari una secchia. Sia benedetto il Tassoni!

*

Stelle

“Che stanchezza, uffa! Non si arriva mai. Quest’anno, poi, la strada è peggiore, sempre più sconnessa”.
“Ogni anno dici sempre le stesse cose e sempre negli ultimi cento chilometri. Dì che sei stanco; ti fossi fermato a metà strada, come ti avevo suggerito…..”
La guardo indisponente, riconosco che ha ragione, non si possono fare più di mille chilometri in una sola tirata, eccetto qualche piccola sosta per fare rifornimento o per un fugace caffé. Ma l’ansia di arrivare al paese natio dopo un anno di assenza è tanta. Anche la strada, apparentemente la stessa e nelle medesime condizioni di come la ricordavo non invita, certo, a placarla, anzi…
Lei, però, appare distaccata e disinteressata alla mia ansia, eppure, proprio perché natia di un altro sperduto paesino del Veneto, il lungo viaggio con destinazione Lucania dovrebbe “romperla” parecchio. Così il suo totale rilassamento mi innervosisce, e non poco. Tra qualche chilometro abbandoneremo anche la statale per una stradina lunga e tortuosa, la vecchia provinciale, che porta direttamente al paese. Ironicamente la chiamano “scorciatoia” e, in effetti, accorcia il tragitto di una ventina di chilometri ma lo allunga di un quarto d’ora. Sarà, quindi, l’aria di casa o la naturale rassegnazione che mi induce a chiacchierare, conscio di farlo con un interlocutore totalmente maldisposto se non addirittura assente.
“Anche quest’anno saremo gli ultimi ad arrivare” affermo.
“Ti metteranno la multa per questo” risponde lei ironica.
“Vuoi che accelero, così in queste curve ti faccio star male?”
Lei sembra ignorare la mia sfida e con uno sbadiglio e uno stiracchiamento prima cambia posizione e poi, pacificamente risponde:
“Non te la prendere, lo sai che tutti gli altri di cui parli risiedono più vicini al paese e non devono certo sobbarcarsi un viaggio così lungo”.
“Non vedo l’ora di arrivare, sai, un anno è lungo da passare ed è come se gli amici del paese ti chiamassero a gran voce. Ma tu questo non lo puoi capire, uno perché non sei di qui e secondo sei una donna”.
“E terzo tu ti sei bevuto il cervello per dire certe cavolate. Cosa credi che io provi quando andiamo al mio paese? L’unica differenza è che di chilometri ne facciamo solo un centinaio, Oddio!, la strada è certamente migliore ma il resto è lo stesso.”
“Se è per questo dai tuoi ci andiamo almeno sei o sette volte l’anno”.
“Ma ci stiamo si e no un pomeriggio e non tre settimane. Tesoro!!”
“Ecco, ora hai detto la cosa giusta, quella che spiega il mio stato d’animo. “
“E sarebbe?”
“Che tu plachi i tuoi sentimenti più spesso, non importa quanto tempo ci stiamo, io invece accumulo per un anno intero. Tu le tue amiche le vedi più spesso e anche la vicinanza fa sì che, comunque, respirate la stessa aria. Io è come se vivessi mille anni luce lontano, un anno luce per chilometro, e le cose da raccontarci sono infinite”.
“Anche se poi sono sempre le stesse”.
“Ma perché sei così acida? Sembra che i miei amici ti stiano tutti sullo stomaco!”
“Tutti proprio no ma quasi. È quell’atteggiamento borioso di alcuni di loro che non sopporto. Lazzi e frizzi del tutto gratuiti, una confidenza esagerata che spesso si trasforma in maleducazione e arroganza bella e buona. Questo non sopporto dei tuoi amici e in qualcuna delle loro mogli. Ti giuro, quando siamo quaggiù, non vedo l’ora di ripartire, mi dispiace per i tuoi familiari ma è così, anzi, è sempre stato così”.
“Accidenti se hai svuotato il sacco una volta per tutte! E te le sei tenute dentro per tutti questi anni senza mai fartene accorgere?”
“Perché la tua ansia cos’è? I tuoi sentimenti sono tutti così spontanei e genuini come adesso dici? Non mi pare di sentire lo stesso registro quando siamo a casa nostra, o mi sbaglio forse?”
“Ma dai, lo sai benissimo che la nostra non è vera amicizia, semmai è il ricordo di una passata amicizia che ogni anno cerchiamo di rispolverare. E, per la miseria se ci riusciamo!”
“Tu confondi l’amicizia con il rapporto cameratesco tra compagni di scuola. Il tuo “gruppo” non è altro che questo.
“Non voglio contraddirti, proprio ora che manca poco alla fine del viaggio, ma in un qualche modo quel rapporto giovanile lo devo pur classificare. Chiamalo cameratismo o amicizia o come ti pare ma è pur sempre un serbatoio di sentimenti, e di ricordi….zitta non interrompermi, che non posso e non devo dimenticare. Sì, fa parte del passato ma è un passato innocuo”.
“Sei sicuro che non faccia male rispolverarlo?”
“Sì” le rispondo con un nodo alla gola e con la mente rivolta al passato. Anche lei si è addolcita nelle sue espressioni ed è per questo che mi metto a rivangarlo.
“Sai, c’è una cosa che abbiamo sempre fatto da ragazzi e che facciamo ancora oggi ormai cinquantenni suonati ogni volta che c’incontriamo. Quella nostra abitudine di recarci la sera tardi, verso notte, alla vecchia fontana dei “tre cannoni” come la chiamiamo noi…”
“Quale, quella in periferia?”
“Sì, proprio quella, una volta, e ti parlo di quando eravamo ragazzi, era totalmente fuori l’abitato ora è in prossimità della periferia e per fortuna che non è facilmente raggiungibile così resterà sempre intatta nel tempo”.
“Tu dici!, prima o poi ci faranno una bella strada asfaltata, qualche muro in cemento e vedrai se non sarà fagocitata dal paese”.
“No, questo non potranno mai farlo, la fiancata della montagna in quel tratto è troppo ripida, c’è uno strapiombo da far paura. Già è assai che hanno fatto un muretto in pietra a protezione, abbastanza alto da non farci precipitare qualcuno”.
“sì, qualche ubriaco” afferma lei ridacchiando.
“E’ la verità, lo hanno fatto apposta per quello. La sera più d’uno ci va a “sfumare” a rischio di precipitare giù per una trentina di metri di costone.
“anche voi andavate a “sfumare” come dici tu?”
“No, eravamo troppo giovani e squattrinati per permettercelo. Ci andavamo a fumare l’ultima sigaretta della notte. Sai, prima ci facevamo una bella bevuta d’acqua fresca e poi ci disintossicavamo con l’ultima cicca della giornata. Ci acquattavamo sul muretto in fila indiana con i piedi penzoloni nel vuoto e cominciavamo a parlare del più e del meno. Immancabilmente lo sguardo si proiettava su per il cielo stellato e dopo un po’ ce ne stavamo assorti a fissare quel magnifico spettacolo. Sai, inconsciamente ognuno aveva la propria stella, quella sua personale, scelta tra le tante, e su quella puntavamo il nostro destino. Ogni volta diverso ma in fondo sempre lo stesso. La fortuna, sai, è al singolare, magari si manifesta in mille modi ma, in fondo, è sempre unica.”
“I vostri sogni a occhi aperti erano così impossibili da realizzarsi?”
“Beh, qualcuno certamente sì. Quando sognavamo di diventare grandi calciatori senza saper tirare un solo calcio alla palla indubbiamente erano impossibili ma quando fantasticavamo il panfilo personale con a bordo le più belle donne del mondo non lo erano poi tanto, bastava azzeccare un buon tredici e …..”
“Bastasse quello…..!”
“Sì, ma toglierci anche quello….!”
“Dì, racconta, c’è mai stato qualcuno che ha visto realizzarsi qualche sogno?”
“Nessuno, mai. Anzi, sai cosa disse una volta Salvatore? quello che morì in quel tragico incidente sei anni fa.”
“Chi quello che stava guidando la macchina pur avendo una gamba ingessata?”
“Sì, proprio lui, una sera d’estate di trent’anni fa disse: <<le stelle nel cielo non sono altro che i nostri desideri irrealizzati, perciò ce ne sono tantissime.>>”
Mi aspetto un commento da parte sua ma non arriva. Mi volto a guardarla e la vedo assorta con gli occhi puntati lontano. Chissà cosa pensa! Vorrei chiederglielo ma non oso destarla, in questo momento è così bella da farmi rivivere l’attimo in cui l’ho vista la prima volta. Anche se siamo in pieno giorno forse anche lei starà fissando la propria stella. Sono però curioso di sapere se anche i suoi sogni sono rimasti irrealizzati. Un giorno lo farò e le chiederò se in un qualche modo io ne faccia parte integrante. Adesso, mentre guido, con la mano destra la sfioro carezzandole dolcemente un ginocchio. Non chiedo nulla, è solo un modo per dirle che le sono vicino, qualunque cosa stia pensando.
Il suo silenzio mi contagia ma non tanto da restare assorto a contemplare il nulla perciò allungo la mano alla ricerca del tasto di accensione dell’autoradio, un po’ di musica, da qualche parte, non può che far bene. L’ho quasi trovato quando la sua voce mi interrompe. È lontana, quasi un sussurro, quando dice:
“Sai, a proposito delle stelle, ti è sfuggita una cosa.”
“Cosa?” Le chiedo al colmo dello stupore.
Mi guarda sorridendo e mentre stavolta è lei a posare con dolcezza una mano sulla mia, risponde:
“Caro, ci sono anche quelle cadenti”.

*

Resurrezione

L’uomo giaceva supino sul freddo impiantito della piccola caverna immersa nel buio totale. L’unica entrata era sbarrata da un grosso macigno e non vi erano altre fonti di possibile luce, nessuna finestra né uno sfiatatoio che immettesse aria dall’esterno. L’uomo giaceva esanime in quella posizione già da molte ore. Era alto più della norma, quasi un gigante, aveva capelli lunghi sciolti e il corpo martoriato da profonde e numerose ferite. La schiena, poi, portava i segni di una lacerante flagellazione. La punizione che aveva subito, secondo le usanze del posto, era stata dolorosa e di indicibile sofferenza.
Esternamente alla caverna l’aria notturna era fredda e umida, senza vento e quasi senza luna, sembrava immersa in un cupo silenzio, anche gli animali notturni tacevano come soggiogati e atterriti di far sentire la propria voce.
All’interno l’aria si era fatta stantia e pesante e ancora non era sfumato l’odore acre delle lampade a olio spente molte ore prima e il silenzio, già cupo e innaturale dell’esterno, ora appariva ancor più opprimente. Sebbene la temperatura non fosse del tutto invernale tutta la fauna e gli insetti che popolano la notte sembravano essersi volatilizzati quasi a presagire un incombente evento.
Nella caverna l’unica presenza era rappresentata dall’uomo che giaceva immobile e privo di vitalità disteso orizzontalmente sull’impiantito a secco posizionato sulla naturale levigatura della roccia.
Come da migliaia di cateratte improvvisamente apertesi l’aria inondò i polmoni dell’uomo ridandogli la vitalità perduta.
Con essa il sangue riprese a circolare impetuosamente e pochi istanti dopo anche la mente si risvegliò.
L’uomo, come colpito sul viso da un getto di acqua ghiacciata aprì gli occhi trovandosi ancora immerso nel buio. Ingoiando aria a pieni polmoni tentò invano di muovere il corpo, imprigionato nel sudario che lo copriva interamente davanti e dietro per tutta la sua lunghezza dalla testa ai piedi. Inoltre larghe fasce esterne girando intorno al corpo lo avvolgevano strettamente impedendogli qualsiasi movimento.
Preso da istintivo terrore, divincolandosi invano, l’uomo lanciò un urlo agghiacciante che riuscendo a oltrepassare le pareti della grotta, benché attutito, si sparse nei dintorni squarciando, unico segno vitale, il silenzio della notte.
Con gli occhi sbarrati, per alcuni interminabili secondi, la mente dell’uomo si perse nel nulla mentre i polmoni inspiravano ed espiravano aria a ritmo frenetico. Il terrore, comunque, durò solo pochi secondi, una luce bianchissima si sprigionò da ogni millimetro del suo corpo e irradiandosi in ogni direzione. Un istante dopo l’uomo si ritrovò ritto e tremante al centro della grotta. Un freddo intenso lo pervase, si strinse in sé avvolgendosi nelle proprie braccia, cercò di rannicchiarsi poi lo sguardo gli cadde su dei logori cenci abbandonati in un angolo. Febbrilmente li raccolse e li indossò. Infine si guardò intorno più attentamente per capire dove si trovasse.
Prima la vita ora la coscienza, ovvero la consapevolezza di sapere dove fosse, come ci fosse arrivato, quando e perché. Chiuse gli occhi rilassato mentre anche il respiro si normalizzava. Ora sapeva tutto quel che c’era da sapere.
Sapeva di trovarsi in una tomba, dopo la crocifissione la madre e le altre donne avevano liberato il corpo dalla croce, avevano faticato non poco ad estrarre i chiodi incurvati dai colpi, poi lo avevano lavato ed unto ed infine disteso nel sudario e avvolto nelle fasce, completamente, come si usava fare per i lebbrosi e gli appestati. Quindi, così sistemato per evitare che il corpo venisse fatto oggetto di ignobile accanimento da parte dei suoi nemici, era stato trasportato nella tomba di Arimatea, uno dei più autorevoli dei suoi seguaci.
Sì, ora sapeva tutto, ogni senso era rinato, vigile e cosciente, guardò il sudario e le fasce che lo avevano avvolto, distese per terra svuotati del suo corpo, li lasciò dov’erano. Con gli occhi della mente vide i due soldati romani messi a guardia della tomba che dormivano profondamente, poi si avviò verso l’entrata ostruita dal masso rotondo. Allungò il braccio e questi rotolò di fianco liberando l’ingresso, l’aria umida e fredda della notte invase la grotta ed anche i suoi polmoni producendogli brividi liberatori.
Sul punto di varcare la soglia rivolse un ultimo sguardo ai panni mortuari, aprì le braccia e vide i fori dei chiodi sulle mani e poi, chinandosi, sui piedi, aprì la logora tunica e osservò l’intero suo corpo con il segno lasciato dalla lancia nel costato. Con una mano sfiorò la fronte, toccando anche lì altre piccole croste di cicatrici.
Rivisse allora ogni minuto dal momento della sua cattura, ai patimenti subiti, le frustate, la corona di spine, il lungo e doloroso calvario, la crocifissione, la lunga e straziante agonia, infine la morte.
Deglutì profondamente poi alzò lo sguardo al cielo esclamando:
“Mai più! Padre mio, mai più!”
Rilasciò un ultimo brivido, poi, non più uomo, il figlio del Signore, varcò quella soglia.

*

Anima vagante

Non ho visto il mio carnefice se non di riflesso sul vetro oscurato della mia auto un attimo prima che la lunga lama penetrando dall’alto in basso tra collo e spalla, dopo aver squarciato ogni organo incontrato non terminava la sua corsa trafiggendomi il cuore. Da quel momento ogni anelito di vita cessava per sempre trascinandosi dietro dolore e sofferenza, rabbia e furore impotente. Il nulla mi avvolgeva e mi inghiottiva in un oscuro tunnel senza fine, eppure in un qualche modo inspiegabile, dopo non so quanti attimi ho riaperto gli occhi, non più su un presente ormai inesistente ma su un passato inconciliabile ed un futuro ancora lontano.
Ho visto il mio corpo grottescamente raggomitolato su se stesso in un lago di sangue per terra vicino l’auto su cui ero impegnato a sostituire una ruota bucata, dal collo fuoriusciva l’elsa di un lungo, sottile e affilato stiletto, in piedi a poca distanza lui, il mio carnefice che, visto dall’alto non riusco nemmeno a vedere in volto. L’assassino, prima di eclissarsi ha preso a calci il mio cadavere, la cosa mi ha molto sorpreso, mi sono chiesto perché lo ha fatto, che senso avesse quel gesto di vilipendio, poi ho rammentato le volte che l’ho fatto anch’io in altre situazioni simili, quando ero il carnefice, allora ho capito cosa fosse il meschino disprezzo verso un nemico tanto odiato che sarebbe potuto diventare molto pericoloso se l’agguato non fosse riuscito.
Dopo il carnefice, ormai allontanatosi dalla scena sono comparsi due ragazzini che veloci e furtivi hanno rovistato nelle mie tasche trafugando il portafoglio e la mia inutile rivoltella che non ho avuto nemmeno il tempo di impugnare. Anche questo gesto ricordo di averlo fatto più volte quando avevo la loro età, le armi e il portafoglio venivano consegnate a chi di dovere e in cambio ci guadagnavo una bella somma di denaro, sfilata tra le banconote del portafoglio.
Mi pare così strano osservare dall’alto queste scene, pur sapendo di vedere il mio corpo morto per terra, tanto da chiedermi come sia possibile perché so di essere in un’altra dimensione, infatti, non vedo null’altro oltre la semplice vista, non ho corpo né sensazioni, osservo solo, nitidamente ciò che avviene laggiù dove pochi minuti prima, forse, il mio corpo aveva ancora un senso di esistere.
Però penso, questo sì riesco a farlo, penso, ricordo e analizzo il mio passato. Non mi stupisco più di tanto della mia morte, essa era una componente della mia esistenza in un ambiente dove la vita stessa aveva un valore molto relativo, tanta era la sua vulnerabilità.
Ma dove è iniziato tutto questo? Mi sono rivisto più che bambino ad agire di contorno a micidiali misfatti, ma ancor prima cos’ero? Toh! Vedo un uomo, lo riconosco, è mio padre quand’era giovane, si piega su un lettino a sollevare tra le braccia un infante, credo di essere io, lo osservo bene e noto nella sua cintura il calcio di una rivoltella, anche lui apparteneva a quella vita. Oggi è ancora vivo, non ha ancora sessanta anni e, se ha lacrime nel suo bagaglio umano, piangerà la morte del proprio figlio.
Chiudo gli occhi un attimo, li riapro e vedo scorrere velocemente altre scene, è la mia vita passata, molte sono scene simili alla mia ultima in vita. Non ho bisogno di contarle so esattamente quante sono.
Ho rivestito diciannove volte i panni del giustiziere per conto della mia “famiglia” di appartenenza. Un paio di volte ho perfino guardato negli occhi le mie vittime e vi ho visto paura, terrore, disperazione, pietà e compassione, inutilmente sprecate perché davanti a loro vi era non un essere umano ma un Dio invulnerabile ed implacabile.
Ho ucciso, senza tentennamenti, anzi spesso con sadica gioia, senza mai chiedermi il perché di tanta violenza, solo una volta sono stato vicinissimo ad una profonda riflessione ma la velocità dell’azione me lo ha impedito. È stato quando in chiesa ho assistito al battesimo di un neonato, il padre era la mia vittima predestinata, defilato lo osservavo pregustando il momento in cui gli avrei sparato in testa, così mi era stato raccomandato, qualcosa deve essere trapelato dal mio volto perché guardandomi intorno ho notato un ragazzino che mi guardava attentamente. Nel suo sguardo non vi era paura e nemmeno sfida, solo innocenza. Mi puntava gli occhi addosso senza distogliere lo sguardo dal mio, impavidamente mi ha costretto ad abbassare gli occhi per primo, quando li ho rialzati lui era ancora lì a fissarmi. Sentendomi a disagio mi sono allontanato. Aveva tredici anni e due anni dopo, senza nemmeno immaginarlo, gli avrei puntato una pistola sparandogli un colpo in testa facendola esplodere in mille pezzi. Era il nipote dell’uomo del battesimo, passato dalla parte opposta al nostro clan. In quel momento, prima che gli sparassi mi ha puntato ancora gli occhi addosso senza alcuna paura e, Dio devo ammetterlo, senza alcun odio.
Dio, è la prima volta che lo nomino, perché ci penso solo adesso? Che senso ha farlo ora, non l’ho fatto quando ho pianto mio fratello e nemmeno quando ho consolato mia madre del dolore per la sua perdita. Non mi sono mai chiesto dov’era né perché non lo avesse impedito, vi ero io a sostituirlo, ma non ho potuto impedirlo. Non l’ho nemmeno vendicato, ordini dall’alto, le famiglie si erano riappacificate.
Dio, quanto sangue ho visto scorrere nella mia vita! Quanto dolore procurato con spietata facilità e naturalezza!
Dio, perché ci sto pensando solo ora? Perché rivedo la mia vita, fatta esclusivamente di nefandezze ignobili, meschinità e vigliaccheria. Perché solo ora che non riesco nemmeno a vedere le mie mani sporche del tanto sangue versato? Il mio corpo è li disteso per terra, quarant’anni di esistenza spesa nel nulla, semmai a guardarmi sempre dietro le spalle ed infine colpito proprio alle spalle.
La mia famiglia? Quella vera, nella mia onnipotenza non sono riuscito ad apprezzarla mai, lei sapeva del mio passato ed anche del presente, ha accettato il futuro, perché? Cosa ne sarà ora di lei e del bambino?
Oh Santo Cielo! Il bambino! Il mio bambino! Di lui cosa ne sarà?
NO!, questo no! Questo non è successo, perché l’ho visto? Non può essere, egli è ancora piccolo, ha solo sette anni eppure… Dio no, no, non permetterlo. Ciò che ho visto non è ancora successo ma avverrà tra meno di dieci anni, sarà raggiunto da due proiettili, al cuore e alla testa, un’altra vendetta trasversale. No, Dio, non farlo, ti prego non farlo, al mio bambino no, non devi farlo.
Ora comprendo perché “vedo” sebbene sia ormai morto. È Lui, Dio, che mi fa vedere la mia vita sprecata ed anche quella che sarà dopo, frutto di quella passata. Perché non mi sono fermato quando quel bambino mi ha guardato negli occhi, forse già vedendo in me il suo futuro carnefice? Eppure non mi ha odiato nemmeno in punto di morte! Oh Dio, quanto male ho fatto ed ora è questa la Tua punizione? Dovrò vedere in eterno le mie colpe? Straziandomi il cuore per il passato ma soprattutto anche per l’agghiacciante futuro che mi è stato offerto di vedere?
No, non penso che sarà questa la mia pena perché già le immagini vanno lentamente dissolvendosi, solo il mio strazio rimane ancora vivido e concreto. Tra poco ogni immagine si dissolverà del tutto ed allora di me cosa resterà? Nulla, nulla di tangibile, solo l’interminabile strazio della mia anima vagante.

*

Urlo

Sono le diciotto e trenta e finalmente in casa sono solo. I figli, uccelli di bosco, moglie e suocera, una volta tanto fuori casa insieme, forse per qualche visita, magari ci restano fino a tardi. Non so che fare, la tv trasmette ovunque repliche già abbondantemente replicate. Mettermi a leggere qualche libro, non ne ho voglia così come dedicarmi all’enigmistica a schema libero, la mia preferita.
Accendo il pc ma non ho molta voglia di starci, comunque faccio un salto su facebook. Che noia! Non c’è un amico in linea, nemmeno i miei cugini all’estero. Così vado sul sito della mia radio preferita dove ascolto le ultime note di un concerto per cornamuse, una specie di musica celtica. Appena dopo ha inizio un altro brano di musica religiosa con tanto di coro.
Ritento su facebook, potrei mandare dei poke a qualche amico che immagino sta sul sito ma desisto, so che li disturberei, fanno parte della tribù che passa il tempo su farmville, il passatempo per me più inconcepibile, e non aggiungo altro sperando di non urtare la suscettibilità di alcuno.
Nel frattempo la musica si sta facendo tambureggiante. Le note penetrano nel cervello coinvolgendomi in un’atmosfera irreale.
Qualcosa di positivo, in tutti i sensi, la potrei, fare come scrivere qualcosa. Per la verità qualche idea già da qualche giorno che mi sta frullando in testa ma non è ancora giunta a maturazione, è ancora un frutto acerbo, necessita di ulteriore maturazione. Allora che faccio?
Ecco, improvvisamente la soluzione! Stamattina mia figlia mi ha chiesto cosa sapessi del Grido, un famoso quadro. Le ho risposto che sebbene il nome mi dicesse qualcosa non riuscivo a collegarlo a nulla di preciso. Ora posso benissimo documentarmi. Non ci vuole molto, una paio di clic.
Ecco, ci sono, pochi istanti e … la memoria mi sovviene. Il quadro apparso sul monitor mi riporta indietro di circa quarant’anni, quando frequentavo le superiori. Ricordo perfettamente che con i compagni ci abbiamo scherzato su, disegnandoci affianco, dopo averlo riprodotto, le caricature dei professori.
Oggi, nell’intimità del mio studio, lo rivedo sotto un’ottica certamente più matura. Mi soffermo sul volto della figura in primo piano, da esso traspare un sacro terrore. Leggo le poche righe di spiegazione. Non mi interessano le due figure degli amici in secondo piano e nemmeno il rosso tramonto che avrebbe scatenato nell’autore angosce e terrore. Quella figura quasi spettrale mi irretisce, mi costringe a fissarla e, solo allora, mi pongo la domanda su cosa realmente abbia scatenato quella reazione.
La musica alla radio è cambiata, ora trasmette una saga medievale, altra variante di musica celtica. L’atmosfera nella stanza si fa più soggiogante.
Mi soffermo su quella sconvolgente espressione dell’uomo del quadro. Cosa hai visto realmente?
Gli chiedo come se potesse rispondermi. In qualche modo lo fa, il quadro mi sta ipnotizzando. Compio un volo nello spazio tempo, mi immedesimo in quell’essere, mi guardo intorno, cosa vedo?
Nulla di materiale o di tangibile, ma allora cosa?
Chiudo gli occhi, penso a cosa mi potrebbe atterrire. Cosa? Forse la morte. Si penso proprio ad essa.
Impercettibilmente, quasi senza rendermene conto i battiti del cuore accelerano mentre il fiato sembra soffermarsi davanti la bocca. Intanto intensifico i pensieri sulla morte. Lo so, è il destino di tutti. Un giorno arriverà per tutti. Chiuderemo gli occhi e, già mi pare di vedere i volti piangenti dei cari, poi una bara, un funerale e poi, poi più nulla.
La musica accelera il ritmo, anche il mio cuore lo fa a dispetto dei polmoni che sembrano non volerne sapere di ingoiare l’aria.
Morire, chiudere gli occhi per sempre. Sparire, senza lasciare alcuna traccia del nostro passaggio. Immergerci nel nulla dell’eternità,
Il nulla! Questa parola mi penetra lentamente nel cervello costringendomi a pensare all’estremo momento della vita. Un attimo e non saremo più nulla. Il corpo si dissolverà e precipiteremo nell’eternità, Eternità, la parola mi sconvolge. Il nulla mi sconvolge.
Nulla, nulla, nulla. Non sarò più nulla.
Dio! Non sarò nulla, non penserò.
La mente no! Quella no! Non posso accettarlo. Ora il cuore impazza e la mente è in completo subbuglio.
No, accetto il corpo ma la mente no, quella NO!.
NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!
Ora è la mia mente che urla. È un istante. Non esisto più nella stanza. Mi sento perso. So di non avere alcuna via di scampo. Ferma tutto Dio, ferma tutto, non voglio morire. Mai, non lo voglio. Ancora un istante e irrompe il vero urlo “NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!
È l’istinto di conservazione che sblocca i polmoni. L’aria irrompe come un’esplosione dando tossine al cervello. Tanto basta a farmi ritornare rapidamente in me. Mi serve un’ancora. Afferro il tavolo del pc, poi la spalliera della sedia più vicina ma nella mente ancora il grido che si va rapidamente strozzando.
NO! NO! NO! NO!, è sempre più debole, è la resa definitiva e incondizionata.
Il cuore batte all’impazzata, si placherà più lentamente del respiro. Il cervello riprende a fatica il suo lavoro. Coscientemente tendo le orecchie a percepire eventuali segni al di fuori dell’abitazione del mio urlo. Niente, nessun trambusto. È passato inosservato. Nessuno ci avrà fatto caso e poi, è durato solo due o tre secondi.
Ripenso alla causa scatenante e mi ritrovo a pensare ancora alla morte ma ormai l’incubo è passato. Sebbene il pensiero tende a ritornarci sopra il dramma non si ripete. Intanto mi accorgo di essere tutto sudato e sulla testa avverto i capelli ispidi, come quelli di una spazzola, i battiti si sono regolarizzati, solo il respiro rimane ancora un po’ affannoso.
Infine avverto il rumore di una chiave nella toppa della porta d’ingresso, poi la stessa che si apre e dei passi con dei vocii. Qualcuno della famiglia è rientrato in casa. Non importa chi, l’importante è il calore che porta con se, che dà conforto. In pochi secondi, altri interminabili secondi, riprendo il totale controllo della mente. Sì, adesso tutto è passato. Almeno per questa volta!