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Raccolta di testi in prosa di Davide Liberati
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Alex













Alex non e` un romanzo di pura fantasia. I luoghi descritti esistono, le persone descritte vivono o hanno vissuto. Alex sono io, e siamo tutti noi. Alex e`la parte curiosa, fanciullesca, istintiva in ognuno di noi, che respira liberamente ogni volta che azzardiamo una roulette russa con la vita, dimenticando gli affanni e timori giornalieri





“Oslo fresca, giovanile, vergine. Si distende sulle mie aspettative riscaldandomi il cuore. I tram nel perfetto orario di ogni giorno, i norvegesi accompagnati dai loro fidati libri, che li sembrano far viaggiare in contrade e mondi lontani, la giovinezza di donne che non scappano alla vita ma la cavalcano come se fossero in un rodeo per una parita` senza timori: questa e` un Oslo che cresce come i suoi abitanti di giorno in giorno. Oslo ragazza. Oslo donna nel suo vestito sobrio del mattino immersa nel lavoro, Oslo seducente e vogliosa di vita nel fine settimana. Un Oslo dal corpo di donna sensuale, indipendente e slanciato verso la vita, che ogni weekend sembra afferrarre.»




<<I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore. <<


Alda Merini



Ideato, scritto e pensato nelle profonde e silenziosi notti norvegesi





Alex


di


Davide Liberati


Ero uscito di corsa. Su di me ancora il suo seme caldo, mischiato alla mia saliva. Mi eccitava che il mio corpo sapesse ancora di lei. Mi eccitava sentirmi suo prigioniero, suo amante, sua delizia prelibata e peccaminosa. Eravamo lupi affamati e lussuriosi, privi di morale. Caldi e immorali corpi sessuali. Il penetrante odore del piacere nelle narici e sotto le unghie il suo aroma di donna, mentre mi rivestivo nella penombra dell`atrio. Pronto, socchiusi la porta della nostra alcova lentamente. Tutto era assonato, quasi ricoperto dei vellutati e densi sospiri di pochi attimi prima. Uscii senza pensare, senza respirare. Volevo che quell`aria e quel torpore rimanessero miei per sempre, lì incastrati nei polmoni dritti sopra il cuore. Mi inebriava i sensi tenere per me il suo amplesso; mentre salivo sul treno diretto a lavoro odorarmi le dita era una droga ipnotica. I suoi occhi profondi avevano fatto vibrare i miei sospiri accordando ogni brivido al piu` intenso languore della carne. Camminavo in una stazione vuota, ma il pensiero fuggiva ad altro. Ero infreddolito, mi muovevo confusamente, la voglia di non arrivare stava prendendo il sopravvento. Il treno ripartì gelidamente e meccanicamente, questa volta senza di me. Lo vidi allontanarsi cercando di sfuggire al giorno, correndo fra le gambe della notte. Scopava, scivolava dentro mentre io distrattamente tornavo ad essere. Erano da poco passate le undici, un vento solitario s`alzava dal mare, sembrava sussurrasse risposte gelose. Camminavo sull`argine di un canale, sperando di veder muovere nell`acqua scura qualcosa che mi allontanasse da lei. Non vidi nulla. Nell`altalena che solo il fiorir d`amore tra anime nude puo` dare, godei un`ultima volta sfiorando con le mie labbra la sua carne astratta fatta di purezza spoglia. Una notte di guardia stava per cominciare. Aprii la porta dell`ufficio, salutai i presenti, mi tolsi d`impaccio dal centro della sala cercando di scomparire nello sfondo.Ci riuscii.


Capitolo 1 A: Un InIzIo.

Il lavoro notturno come guardia privata era il risultato finale di 4 mesi di ricerca continua di lavoro.4 mesi di apnea.4 mesi di miniera sotterranea. Non era capitato per caso. Avevo studiato la Norvegia come un mercate studia i clienti e le proprie mercanzie, come un compositore studia la teoria musicale prima di poter comporre la sua prima opera. Il progetto di trasferirmi a Oslo era la mia finale armonia, e farlo senza indugi era il mio stile. Avevo afferrato le emozioni di 3 anni di desideri non curandomi dei dubbi prima della partenza, dei consigli di familiari e amici che cercavano di cambiare i miei piani. L`audacia che provavo immagginando di cambiare il mio letto d`infanzia era una voce sommessa, dinamica e profonda che proveniva dall`irrazionale e sensibile, rapporto dentro di me, fra ragione e follia. Sapevo bene che a Oslo la mia vita si andava a materializzare di nuovo. Sapevo di essere pronto. Inghiottivo ogni giorno che mancava, bevendo la schiuma che ogni perplessità lasciava. Avevo deciso di trovare un giorno per salutare tutti: fratelli, amici, conoscenti, lingue inquiete, avvelenatori di spirito, iettatori, indifferenti, fratelli assenti, ipocriti e guaritori di menzogne. Tutti. Non doveva mancare nessuno al mio appello. Non mi ero risparmiato neanche i filosofi e i falsi. La mia non era un fuga e ne andavo fiero, tutti dovevano saperlo. Non so bene se facevo questo per prepararmi a mordere la vita, quando avrei incontrato difficili situazioni, quasi fosse un auto-ricatto morale dover riuscire, a costo di una derisione eterna, o se in questo modo avevo detto apertamente «...da oggi le nostre strade non si intrecceranno piu` e le nostre vite smetteranno di essere incrociate, ho pagato il conto, ora scordatevi di me...». Credo fosse un seplice rimmedio per evitare di cadere fra abbaglianti dilemmi esistenziali, dove in fondo dopo poco, mi sarei imbattuto in una strada chiusa. Ricordo con piacere le parole d`appoggio come le aperte critiche. Quello che proprio mi esasperava, facendomi perdere la calma, era l`invidia mascherata e camuffata d`approvazione e sostegno. L`invidia e` un serpente velenoso, senza coraggio, privo di scrupoli e rigori. Cova le sue uova al riparo dalla luce, fra i dubbi e l`indecisioni. Adora il freddo, uno spirito caldo e` facilmente detestabile, iroso, fastidioso, mai però invidioso, perchè sempre occupato a lottare contro il mondo. L`invidioso e` un indolente compagno di viaggio dalla lacrima facile, che per diletto o necessita` deve rendere amara e penosa anche la squisitezza piu` dolce e zuccherina; anche il nettare piu` divino e paradisiaco diverra` effimero e profano; anche la fica piu` bagnata e invitante sarà sempre troppo secca e detestabile per lui. L`accento invidioso scivola spregiudicatamente sulle parole camuffandosi da irritazione, ma zoppica vistosamente ed è così che quasi tutti se ne accorgono, ma piuttosto che rispondere apertamente e per le «rime» all`espediente meschino, scelgono di evitare. Ha così campo libero l`invidioso che avanza di passo in passo con il suo atteggiamento sbilenco, lo stesso che usa quando oscilla fra doppi sensi mai troppo evidenti. «Certo che bello che parti, te lo meriti, fai bene qui non c`è nulla per te», un secondo dopo aggiunnge «Come farai con la famiglia? Con gli amici? Con il lavoro, mi raccomando pensaci bene», dopo 5 minuti «Sai fai bene a pensare di partire, ma non dovresti, forse la tua idea e` sbagliata, qui e` come li`. Qui trovi le stesse cose che troveresti all`estero». Dal tempo verbale dell`indicativo si e` passati all`uso del condizionale per descrivere lo stesso pensiero, come se la conversazione fosse doppia e avesse una valenza duplice. Il condizionale esprime dubbio, incertezza, possibilita` ed è diametralmente opposto al tempo verbale dell`indicativo. Ma non basta. Il sostegno e l`aiuto puo` essere dubitativo? O vero, si puo` essere incerti quando si aiuta? Certo puo` tremare la mano quando il braccio e` teso per aiutare, ma una mano che e`in dubbio non ha un braccio teso. Il condizionale e` il tempo dell`inganno. La mano e` ancora nelle mie tasche, ma stai sicuro, «io ti aiuterei» sicuramente se ne avessi bisogno. Spero, per te che non ne abbia mai bisogno.
È facile immagginare e capire cosa sia accaduto, da un iniziale stupore e curiosità provocava dalla simpatia innata per una novità, lo stupore curioso quasi subito lasciava lo spazio e il ruolo a un doveroso avviso fraterno, fino ad arrivare, dopo che l`invidia subentrava fra pensiero e parola, a una conoscenza onniscente dei fatti e del mondo ingiudicabile e sicura, che descrive il cambiamento come negativo e privo di logica, probabilmente intrinsenco fra i neuroni c`era stato il paragone fra la mia vita e la sua vita. L`ostilità finale non era pero` la fine, bensì era l`inizio di un processo eterogeneo nel cercare di destabilizzare ogni narrazione futura al momento della mia assenza. Mi avrebbe «sputtanato», parlato alle mie spalle, le sue, maledicenze avrebbero occupato il respiro dei miei familiari e amici, tutto questo con l`unico scopo di disprezzare, «disammirare»,aborrire e seppellire ogni cronaca e narrazione che mi riguardava. Nella mia assenza non avrei potuto difendermi, lo sapevo. Lo sapeva. Sarebbe successo e non sarebbe stato il solo.

















Capitolo 2 B Il primo sapore del Nord

1
Mi sono agitato, inseguendo il tuo alito di miele, mentre il petto febbrile ardeva.
La mia lingua di velluto, si scioglieva sulle tue bianche perle e di spezie gli aromi sottili ai margini della nostra esistenza, io dipingevo.

Liberando le tue gambe impaurite, catturai la tua chioma fiorita.

Mille organi su un unico corpo di cera, balbettavano il tuo orgasmo.
Le nostre carezze si rincorrevano su una pista rauca.
Presto bruciammo, stringendoci i palmi.

Nel nostro rogo, sospesa fu la vita.
L`anima c`era sgualdrina quando il piacere ci inarcava la schiena.

Senza clemenza, i nostri giovani corpi chiedevano di peccare ancora.
Temendo che ci sentissero, cercammo di svanire nell`acerba rugiada.
Eravamo lontani. Siamo lontani nel nostro paradiso.
Mentre i fiori ancora profumano di memorie.



Vicino al cuore, nascosto fra le vertebre, accanto ai polmoni ognuno di noi ha un invisibile non-luogo2, una piccolissima porta dove corre ogni istintiva emozione e dove la polvere di desiderio scava microsolchi dal sapor di memoria e futuro. Lì il senso della vita assume tragici o giocosi aspetti, e spesso danza al ritmo di un sassofono malinconico con le speranze, ma non rifiuta a volte un walzer elegante con l`intelletto. Superata la piccola porta si cammina sull`orizzonte, e l`estremo confine del senso delle domande diventa sempre prossimo. Nella propria riflessione non c`e` più finzione. Si diventa lucidamente consapevoli dell`assoluto, ma questa allucinata consapevolezza non la puoi portare fuori, pena la follia. I folli,«Sognatori da svegli»3 hanno cercato di far uscire, reinterpretandolo qualche frammento, ma quello che succede quando si cerca di toccare un`atmosfera così magica e astratta da svegli, da sobri, e` solo una contaminazione immediata che le fa perdere la forma del modello originario. Muta diventando follia pura, rovina di tante anime. È troppo fragile per cercare di concretizzarla, oscilla fra perplessita` e insicurezze, desideri e sconfitte, esistenza e suggestione. Non la puoi cercare di controllare, manovrare, ma possediamo un abbonamento eterno per farle visita. Si può passare a trovarla senza impegno, basta affidarci a noi stessi, alla nostra «riflessività», al bisogno di chiuderci nel nostro silenzio e andare alla deriva. Le acque, sfumature di suggestioni emotive, scivoleranno in un piccolo canale sottocutaneo diretto verso la piccola porta, saremo dentro senza crisi e senza aver incontrato difficoltà.
Dietro quella piccolissima porta, si celano le dinamiche fluide dei nostri stati emotivi e i significati logici che il nostro pensiero, in virtù della nostra cultura, conferisce ad ogni situazione della vita. Tutto si mischia, diventa un mix di simboli, interazioni cicliche dove la trama essenziale siamo noi e il nostro cuore pulsante, la nostra irrazionalità` e quello che seminiamo per il futuro. L`uso che nè facciamo di quella porta, confine fra spirito e materia, così sensibile ed eterea, è la nostra discordanza e distinzione di vita. Lasciamola socchiusa, facciamo in modo che sia un ponte, un collegamento, e che da esso dilaghi la malattia in noi stessi: la malattia d`essere veri e unici mentre mordiamo la vita, mentre nè succhiamo la linfa unica e giovane in giorni che non si ripeteranno. Abbandoniamo l`uso ponderato della logica, per stringere il tormento celebrale. Baciamo la fronte rugosa del morbo emotivo, e dalle sue rughe afferriamo l`impressionabile senso della vita senza timori.
La mia malattia era il Nord. Si sparse in me fin dall`adolescenza l`aria gelida del nord. Da prima con suggerimenti immotivati, poi pian piano diventando uno sviluppo vivo e costante. È` spuntata in me senza una ragione precisa, come la prima barba, come la prima eiaculazione notturna. Da prima fu un`astratta sensazione del tutto irregolare, che con il tempo andò a radicarsi saldamente dentro di me.
L`estate d`adolescente la passavo fuori Roma, in Ciociaria, un luogo caratteristico e peculiare, dove si condensano insieme natura e riposo. Un luogo alieno rispetto alla capitale, dove si vive ancora con leggi non scritte, dove le persiane nascondono storie di tempi lontani e dove le vecchie del paese sanno di donne d`altri tempi. Odori contadini invadono le vie strette nell`ora di cena, un silenzio salato nasconde il borgo proteggendolo dall`esterno. Nel silenzio i pettegolezzi, le voci di paese raccontano le passioni volgari espiando quei peccati impolverati e reminiscenti, nei ricordi e nelle memorie. Passavo in quei luoghi i tre mesi d`estate, smarrendo il mio aspetto di cittadino, e recuperando un`ombra extra mondana. Allontanandomi dalla condizione forzatamente sociale della città acquistavo giorno dopo giorno una concreta vicinanza fraterna alla natura. La casa dove abitavamo era priva di televisione, i vicini erano i nostri giornalisti, così era per tutti. Il postino che veniva dalla grande città una volta a settimana, ci informava sui principali avvenimenti italiani, in cambio di un bicchiere di buona grappa fatta in casa. Si accomodava al tavolo rotondo nel salone, scambiava i saluti con mio nonno, e poi ci informava di cosa accadeva nel mondo. Quando andava via, prometteva di essere piu` informato per il sabato seguente. Tutti noi allora ci riunivamo e parlavamo discutendo degli avvenimenti che le sue parole ci avevano descritto. Facevamo ipotesi, raccontandoci le vecchie storie e quando tutta la stanza vibrava per le voci sovrapposte era una buona occasione per aprire una nuova bottiglia di grappa. In quelle montagne ho conosciuto il vento e il suo origliare curioso, fra quei boschi ho incontrato angeli dal vestito di nubi e nelle pozzanghere infagate mi sono specchiato stupendomi del mio aspetto. Andavo per boschi quasi ogni giorno, aiutavo mio padre a tagliare la legna per il fuoco. Per lui era un modo di insegnarmi cose nuove, di conoscermi, il nostro rapporto si rischiarava. Quando eravamo in città il lavoro spesso lo riduceva ad essere un filosofo sornione, addormentato mai troppo vicino mai troppo lontano. Mio nonno era la saggezza ferma e decisa dall`aroma d`uva. In ogni situazione cercava d`aiutarmi. Non mi fermava, casomai mi osservava fisso e su di me posava il suo sguardo ponderoso. I suoi occhi mi informavano con decisione se facevo bene o se avevo trascurato qualcosa. Conobbi il Nord, una sera d`estate vicino al cimitero. L`agosto in montagna, è un susseguirsi di nuvole cariche acqua e caldo afoso, non sai mai precisamente se dopo una mattinata di sole afoso pioverà. Quella sera non piovette. Dopo una serata nell`unico bar del paese, dove bevevamo nascondendoci dalle nostre famiglie, io e gli altri «romani», così ci chiamavano in un modo quasi dispregiativo, e alcuni ragazzi del paese non avevamo voglia di rientrare. Proposi di comprare un pacchetto di sigarette in comune e di fumarlo insieme, la proposta fu subito accolta fra le risate. Ridevamo perchè nessuno di noi era un fumatore. Qualcuno aveva provato, altri dall`aria più spavalda raccontavano che non c`era nulla di speciale, loro fumavano spesso e non capivano che cosa ci fosse di così bizzarro e curioso. Lì tradiva però il fatto che non avevano accendini con loro e che non sapessero, come me, che sigarette comprare. Erano tutte uguali, capivo solo che alcune costavano di più di altre ma non sapevo bene perchè. Decidemmo le cammel blu. Mi piaceva l`idea che insieme con noi s`era aggiunto un piccolo cammello, quel cammello dorato suggeriva di fumare lentamente e di rilassarsi. Dovevamo fumare come la sua andatura lenta e armoniosa. Andai io a comprare le sigarette al bar, la vecchia signora conosceva bene la mia famiglia, ma questo non mi preoccupava, altre volte ero andato a comprare sigarette per mio padre, quella sera erano per me.
«Salve, un pacchetto di cammel blu per favore». Cercai di evitare i suoi occhi, girando intorno al piccolo bancone.
Lei si mise sicura sulla sedia, scrollandosi la gonna dalle ginocchia, aprì gli occhi stanchi persi fra le annose rughe.
«Tu n`s` i n`pot d` Stella?4»
«Si, sono io signora». Fiorina, era di tutti la nonna del paese. Ci conosceva tutti, e prima di noi conosceva i nostri genitori. Era una donna forte, aveva vissuto la guerra su questi monti e la fame che la seguiva. Una fame e una povertà che le avevano rubato la giovinezza. Le sue parole rigrinzite e callose avevano un calore umano indescrivibile.
«Ohi matre, figli` mi comme s`cresciuto! Comm t`ha s`fatt` homo! nònn`ta sta be`?5.»
«Bene, bene, si riposa è l`età, siamo venuti perchè a Roma faceva molto caldo.»
«Stella s`tèta repusà. Quand`è che sete venuti? n`ncuntrai nònn`ta alla chiesa domenica6.»
«Siamo arrivati domenica sera, poi dovevamo mettere in ordine casa»
Si giro` verso il grande orologio attaccato al muro e lo fisso` un breve secondo. L`orologio era un regalo di qualche soldato americano tornato vivo in patria dopo la guerra. Lo stile anni `50 nè caratterizzava l`età, come le ammaccature il vecchiume.
«Ohi matre, ta pòzza pia n` curpu comm`e`tardi massèra. S`a fatt tardi pure pe` te Ale`!7»
«Si infatti, stavo per rientrare, poi papà mi ha chiamato e mi ha chiesto di comprargli le sigarette, perchè deve sistemare il frigorifero che dopo cena a smesso di funzionare, e senza sigarette si innervosisce velocemente.»
«Ohi matr` figli`mi, a ffiàccu`d`mpiastr`! Pure Mauro figli` m` saraiàt` bèn` bèn! Ma trammenta chigli` che dice nònn`t, quande nùa i auìm giovani, nùa n`t`nauìm` nulla solo la fame! altro che frigoriferi, nùa t`nauìm l`grotti8»
«Si, anche noi ancora ce l`abbiamo, d`estate ci mettiamo la grappa a freddare (comprendevo che la vecchia signora aveva voglia di parlare, si sentiva sola, non dovrebbe mai lavorare una nonna di notte)»
«Ma ti`ta pija l`sigari? L`sai capa`?9.»
Pensai nervosamente. I brividi delle gambe s`abbattevano sugli scogli del mio coraggio ininterrottamente. Intuivo che la domanda era a doppio fine, così decisi di non farmi vedere troppo sicuro. «Cammel blu, credo»
Con decisione le sue pupille stantie e impolverate incrociarono i miei occhi catturandoli. Aggiunse scrutandomi «Ma l`sigari si t`n` per pàtt e per ziu`t`10?»
Gelai. I muscoli e la lingua smisero di muoversi, ero impietrito. Afferando il ritmo ipnotico del suo dialetto risalii la fune e tornai alla domanda e stavolta non smettendola di guardare le risposi con voce profonda di uomo «Si certo sono per mio padre, credo cammel blu o ms blu»
«Pàtt fuma solo ms blu fin` da quande `ieua n`hometto, chisse
l`pijo solo per isso. Qui allu` Paese isso e Vittorio; cuginn`t`, fumano chesse11»
«Ah! bene grazie, per me sono tutte uguali (l`avevo rassicurata, adesso era convinta che non faceva nulla di male...Ancora non capisco che cambia fra l`una e l altra marca»
«Bhe tè! Attòcca che uèi!P`zze`ssa b`n dìtt a salutame Stella12»
«Certo signora grazie buonanotte». Stavo per uscire quando di nuovo parlandomi alle spalle
«Arègna iànna aiocco`! n` altra cosa13»
«Si»
«Nònn`t` a fatt`14 ancora la grappa?»
«Certo, senza grappa non sarebbe lui, passa più tempo in cantina che con nonna»
Rise di cuore e poi disse « n` tè n` fiaschetto che j`avanza? A marit`m Giuseppe je pòssa pija`n`curpu` quant`je piace15.»
«Ma certo, faccia una cosa, passi a casa quando vuole, nonna sara` sicuramente felice di fare due chiacchere, e così potra` prenderla lei la grappa»
«I s`contenta d`avenni ma n`vojo ddà ccasione16.»
«Nonna e nonno saranno sicuramente contenti, sarà una bella sorpresa»
« N gi`ènt vengo co` marit`m dd`màn o dopp`d`màn, mo` uattènn` a dormi! Notte` Ale`17»
«Notte Signora»

Mio nonno mi avrebbe ucciso, non sopportava Fiorina. La vecchia signora era la pettegola del paese e suo marito era un «lazzarone», aveva cercato inutilmente di piantare l`uva in inverno per anni, dicendo che in serra sarebbe stato possibile, ma sapevamo tutti ch`era un modo per non trovarsi un vero lavoro. Avevo detto addio al cammello ma avevo le sigarette, e l`anziana pettegola aveva la coscienza pulita. Lui sarebbe rimasto al caldo del bar aspettando pazientemente un`altra occasione. Un prato di montagna era troppo freddo rispetto al deserto.
Uscii stringendo il pacchetto tra le mani, ero geloso del mio trofeo. Nessuno si accorse che il cammello era andato in letargo ad agosto; fra le risate di ragazzi spavaldi prendemmo la strada che usciva dal paese. Tutto era perfetto. Quando la vidi venirci incontro. Era lei, Viviana. Incantevole, più grande di me. Il suo passo brillante e incantatore, faceva in modo che invece di camminare sembrasse danzare. Ostentava una persuasione risoluta mentre ci veniva incontro. Era sicura della sua bellezza di donna e non di bambina. Ci conosceva tutti, mi conosceva anche bene. Qualche settimana prima l`avevo aiutata a riprendere il suo cane scappato nel bosco; il suo cane sentiva l`odore dei lupi e impazziva. Era un pastore maremmano bianco grande come una casa, quando camminava lo sentivano tutti in paese, era così selvaggio. Correva, correva sfidando chiunque, ma io a lui piacevo. Quando potevo gli portavo qualcosa da mangiare e lui mi ringraziava leccandomi la mano. Eravamo amici. Il giorno che scappo` nel bosco lo chiamai e lui venne subito da me. Viviana rise, non immagginava che fossimo amici, e fu una sorpresa inaspettata e benvoluta che la costrinse ad accorgersi di me. Ora dopo una settimana in cui c`eravamo visti da lontano, l`avevo davanti di nuovo. Avvertivo che che il mio cuore pulsava con un ritmo tribale dentro di me, e più si faceva vicina più il ritmo aumentava.
Decisi che le sigarette con gli amici potevano aspettare. Feci un passo indietro, aprii il pacchetto di ms blu e sfilai 5 sigarette. Chiami Augusto, e gli dissi «Tieni prendile, no dire nulla agl`altri»
«Ma che fai, dove vai?»
«Guarda»
Avevo preso 5 sigarette, perche` la parte più rischiosa del lavoro l`avevo fatta io e le meritavo, ma sapevo che non avrei fumato da solo. Lei abitava nella stessa zona dove abitavo io, avevo capito che non stava per rientrare perche` camminava nella direzione opposta, e così ne approfittai. La guardai negli occhi mentre era ormai di fronte a noi, ci salutammo, ma non Le feci dire altro.
«Facciamo 2 passi, gli altri stavano per rientrare, io non ho ancora voglia».
«Certo, mi fa piacere! Non ti ho ancora ringraziato per FIDO».
Che nome Fido, un nome che solo una donna puo` dare a una montagna di peli e muscoli come quella, pensai.
«Non devi» risposi, «È stato un piacere e poi io e Fido siamo amici»
«Eh si! infatti ti considera il suo padrone, ma cosa gli avrai fatto!! Non mi sente piu` quando gli parlo», me lo disse con il sorriso, non era amareggiata, era ancora stupita e credo Le piacesse l`idea che io e il suo amato cane eravamo amici.
«Senti perchè non andiamo su, vicino al cimitero, sul prato di Pasquale, da lì si vede tutto, sono stanco di stare al bar rischio di diventare una pettegola anch`io»
Rise. I suoi occhi la tradirono, aveva capito i miei programmi, conosceva anche lei quel prato, e sapeva che l`aria che si respira lassu` era un`aria magica. Con lo sguardo si dominavano tutti i monti e le valli di Porciano, non c`era forse luogo piu`affascinante e malizioso di quello, tutte le coppie infatti in cerca di intimità andavano lì.
Nei 10 minuti che ci dividevano dal belvedere, fu lei a parlare. Mi raccontò che aveva bisogno di rilassarsi che la vita a Roma era troppo caotica, che ormai stava per compiere 19 anni e che aveva mille progetti a cui pensare. Io mi limitavo a stare zitto e ascoltare non sapevo cosa dire o consigliare, mi limitavo ad esclamare in ritardo cose tipo «Si certo», «Lo farei anch`io», «E si dovresti», in modo tale che non capisse di star facendo un monologo.
Arrivammo e ci sedemmo. Il prato era isolato piu` del solito. Una tenue luce lunare illuminava la notte e per terra la rugiada si era deposta fra i fili d`erba e la metuccia, e ora rifletteva la luce, quasi accarezzasse il vuoto. A sinistra in fondo, le piccole luci rosse dei lumetti funebri rischiaravano tratti di bosco. Stranamente il cimitero vicino non ci inquietava, era lì solitario in fondo alla strada, come un guardiano ramingo del borgo. Mi tolsi il maglione e Le feci cenno di sedergli sopra. Arrosì. Intuivo dai suoi occhi crescere una curiosita` discreta nei miei confronti. Ci sdraiammo l`uno accanto all`altro. Presto fummo ricoperti dall`umido e fresco sentore della terra di campo. Nel silenzio guardammo il cielo estivo, con le sue soffuse e vespertine luci. Quella sera le chiavi della volta celeste, erano le nostre percezioni. Le stelle rispledevano solo per noi. La stella polare signoreggiava lucente incontrastata. Eravamo egoisti ma quella parte di cielo notturno era solo nostra.
«Alex, vai ancora nel bosco da solo?», mi chiese con una voce sottile
«Si» risposi esitando, non capivo che tipo di domanda era, «...Poche volte e quasi mai da solo» non era vero, ma almeno credevo di averla rassicurata.
«Non troppo spesso e quasi mai da solo...» ripetè sorridendo.
«Ma non hai paura? Non ti senti a disagio?». Mi domandò mordendosi il labbro superiore. I suoi grandi occhi entravano dentro di me, sentivo le sue mani indagare i miei segreti mentre fiutava le mie parole.
«Bhe no, mi piace il bosco forse alcune volte sto meglio nel bosco che con le persone. Non mi sento strano per questo, anche se lo sò, qualcuno in paese crede che io abbia qualche rotella fuori posto»
«E gia`...» sospiro`, si fece più vicina e le sue labbra premettero contro le mie. La sua lingua di seta incontro` la mia. Le nostre lingue danzavano, e i nostri sospiri s`univano palpitando. Sentivo il cuore battere forte; il suo odore di ciclamino mi strego`. Lo bevvi e ne volli ancora. Il suo odore era dolcissimo veleno, respirai un`ultima volta e poi precipitai nel suo profumo. Il suo corpo si incateno` al mio, e facemmo l`amore. Un amore primaverile, in cui il piacere squilibrava i nostri equilibri affettuosi. Bevevo il suo fiato, mentre i suoi occhi mi insegnavano la strada verso il suo vellutato ventre. Scoprii la sua orchidea bagnata, la baciai e me ne dissetai. Fra le foglie e i fili d`erba la nostra giovinezza correva su uno stelo di promesse, fuggendo nel desiderio. Lei mi voleva piu` di quanto mai avessi immaginato.
Rimannemmo abbracciati allungo, ma l`amore continuava nelle carezzee negli abbracci. Dopo lunghe ore dove il silenzio era rotto da sibilii e sussurri, mi parlo` di nuovo:
«Sai Alex, io non sono tutta italiana».
Lo so,sei una fata un elfo pensavo, ma non dissi nulla, lei stava per aprirsi di nuovo come i fiori fanno all`alba di ogni nuovo giorno, e con la testa stringedola a me Le feci capire che poteva continuare.
«Mio padre e` italiano, ma mia madre è svedese». A quel tempo non sapevo nulla della Svezia, il tempo per studiare geografia lo passavo ai videogiochi, o in palestra. Di studiare non avevo voglia. Neanche questo Le dissi, Le chiesi pero` di dirmi qualcosa della Svezia, di quello ero curioso. Il viaggio mi aveva sempre interessato, sarà forse perchè ogni volta che lasciavamo la capitale per tornare in ciociaria un po` mi sentivo un esploratore.
«E com`e` la Svezia?». Le chiesi cercando di avere una voce molto dolce e mielata. Lei aprì gli occhi, era contenta, s`era illuminata di nuovo, non aspettava altro che parlarne.
«La Svezia è come te Alex, come te che senti il bisogno di evadere dagli altri, nessuno a Stoccolma ti prenderebbe per matto se decidi di andare nel bosco, anzi molti dei miei amici verrebbero volentieri con te».
Adesso ero io che ero sorpreso, mi sentivo spaesato. Mi mancava la terra sotto i piedi. «Davvero? Sarebbe stupendo». Non ero riuscito a tenere sotto controllo l`entusiasmo, e lei ridendo mi disse «I tuoi occhi sono diventati grandi e illuminati», era vero.
«Ti ho visto spesso uscire di notte da solo e una notte che non prendevo sonno ti ho seguito, ero curiosa di sapere cosa combinavi. Ti ho visto uscire così deciso, da casa, eri nel pieno di un ebbrezza malinconica, sembravi voler fuggire da tutto. La notte s`apriva ai tuoi passi veloci, e tu non sembravi aver occhi che soltanto per la luna»
Arrosii. Le sue parole descrivevano molto bene cosa provavo. Quelle volte scappavo da tutto e correvo a guardare il cielo, sotto la luna mi sentivo cosi` bene. Al buio non tremavo e la luna piena aveva l`effetto di un` alta marea dentro di me.
«E cosa hai visto?» chiesi
«Ti ho visto distenterti per ore a guardare le stelle. Ho visto il tuo viso cambiare espressione e ho sentito il tuo cuore gemere». Non sentivo piu` le gambe piano piano sprofondavo nell`erba. Avevo timore di quelle parole. Il suo corpo caldo disteso sopra il mio trasmetteva emozioni uniche.
«In Svezia non devi aver sempre qualcosa da dire, il silenzio non fa paura anzi e` il tempo della riflessione. Alex tu non sei come tutti gli altri, tu non hai bisogno di apparire, di essere protagonista, tu vuoi essere sempre fuori dalle luci, lì accanto alla scena ma non nel centro.» Quanto era vero.
«Vuoi il tuo spazio, segui i tuoi gusti senza paura, non riesco ad immagginarti crescere con la mamma che ti compra i calzini e gli splip». Ridemmo di cuore. Le nostre risate erano un chiarone nella notte, il sole sembrava di nuovo sorto fregandosene di ogni legge fisica.
«Mi immaggini con il pigiama scelto da mamma che bello ometto sarei», continuammo a ridere. Il suo sorriso faceva brillare i suoi capelli biondi, in quei morbidi capelli si andavano a mescolare le mie domande.
«A te mamma non compra i reggiseni?»
«Eh eheh, non succede quasi mai che le ragazze svedesi lasciano che la propria madre attraversi la porta della propria intimita`, e neanche le madri svedesi lo desiderano. Il rapporto tra madre e figlia e` un rapporto di complicita`reciproca. Si diventa amiche e confidenti, e poi a 19 anni si decide di andare a vivere da sole, o con le amiche, ma lontano dalla famiglia. La vita e` una Alex e se ne passi metà con mamma e papà diventa troppo breve». Ora capivo perchè la vedevo donna. Riflettei, mi chiusi in breve silenzio. Pensavo a mio cugino di 30 anni, Aldo, che ancora viveva con zia e zio; pensai a Luca che doveva sposarsi fra pochi giorni e ancora viveva con i suoi genitori. Pensai a me e non riuscivo ad immagginarmi in quel mondo. Proprio non ci riuscivo. Ci addormentammo abbracciati mentre il sole cominciava lento a giocare con le nubi. A casa al mio ritorno mi aspettavano grida e rimproveri. Domande e giudizi, ma io ormai avevo cominciato la mia vita e tutto questo non riusciva a preoccuparmi.
Quella notte fu la prima notte che sognai il nord. Non sapevo che forma avesse, e Lo immagginai prima come un signore saggio che istruisce un giovane alla vita. Poi vidi dei luoghi dove la natura drammatica era una madre premurosa e giovani che danzavano insieme in boschi di betulle. Giovani come Viviana, piccole donne dai capelli dorati. Vidi gli anziani signori leggere libri in lingue sconosciute, le donne ridere fra loro. Un`aria fredda cullava ogni uomo, una notte soave era il rifugio di ogni poeta. Nelle strade pulite un`atmosfera familiare rendeva ogni angolo come un dolce ricordo. Dopo anni mi resi conto che quel sogno non era così sbagliato.
Dopo quella notte diventai malato. Viviana era stata una narratrice preziosa, con la dolcezza di una colomba bianca. Con le sue parole avevo danzato, e vibranti pensieri mordevano ora la mia psiche. Fluttuavo in uno stato di leggerezza effimera e gli interrogativi erano bolle di sapone che mi divertivo a rompere. Ero ubriaco di curiosita`. La descrizione seducente di una mia futura vita diversa rispetto alle vite che conoscevo, suscitava in me un distacco dal presente, e mi induceva ad aprire le mani cercando di afferrare il nord. Ero malato. Ero ormai stregato dalle immaggini evocate da quella confessione. Il ritmo melodioso che fanno le speranze quando si pronunciano ad alta voce, inziò da allora ad accompagnare i miei sogni.