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Raccolta di testi in prosa di Mara Limonta
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Il viaggio continua

Più o meno un anno fa ho spedito una poesia al concorso 'La poesia del lavoro', promosso dalla CISL  e dalle riviste culturali 'LASSOCIAZIONE' e 'Job' , a Milano.
Ovviamente , l'iscrizione del concorso era gratuita, ve lo dico così quelli che mandano quintali di liriche pagando fior di ghelli per un nome su di una pergamena similoro disgustati passano oltre, lo dico per chi mi vuole bene  e voi, ma chi siete ?
Mi hanno invitato alla premiazione , io come tanti autori, alla prestigiosa Sala Alessi di Palazzo Marino , moltissima gente , si è parlato dell'importanza del lavoro anche in tempi precari come questi, al concorso hanno partecipato anche alcuni detenuti del carcere di Bollate.
Non ho vinto ma è stato bello,  ho salutato due vecchi colleghi , piacevole esperienza, stop.
Oggi, ritornando a casa c'era nella cassetta della mia posta un plico e l'ho aperto.
Era il libro antologico del concorso fatto  e la mia poesia, nero su bianco, autore anch'io.
.....e il viaggio continua.....:)

 

LAVORO

 

La tua Opera c'è , ma se non hai il Lavoro

Anche tu, non esisti.

Vogliamo Pane e Dignità,

Ora che la battaglia si fa dura.

Resistenza e Rispetto,

Oggi . Sempre.

*

Il Presepe



'Oggi non gira proprio'  , pensa la donna, ultimo giorno di lavoro, impegni a non finire, anzi di più e trentotto di febbre, Natale bussa agli uomini di buona volontà, non a lei, ossa rotte , reali , ahimè , non metaforiche , quelle non si sentono ma si vedono eccome, occhi cerchiati , una tisana di dubbi e maalox come ansiotica compagnia.
'Ok, oggi 'passo' e non vado a salvare il mondo' ,come di dovere avvisa l'ufficio , loro ringraziano e rognano, sempre, efficienza e cafonaggine è il motto della sua agrodolce ditta che ogni anno 'pende, pende ma sta sempre su' ', e meno male, se sparisce nella nebbia milanese il mutuo della sua casa fa karakiri...
E poi c'è la funerea cena natalizia, regali e coltelli si sprecano ma lei è assente giustificata, domani si siederà lungo la riva del fiume e vedra' passare cadaveri aziendali in giacca e cravatta , così gira il mondo!
Ha quasi voglia di metter su l'albero di Natale, quando era piccola si metteva d'impegno ad addobbare il pino , vero, che troneggiava sul balcone dei suoi genitori, con tanto di fiocchi e stelline multicolori , bruciato in un attimo, colpa del suo papà che non c'è più , e questo sì che la fa piangere, e tanto.
Poi , i casi della vita, traslochi e amnesie varie l'hanno ridotta a decorare almeno il minuscolo presepe nel mobile della sala 'buona', come diceva sua madre, 'se viene su qualcuno, che figura ci facciamo?', stretto tra piatti di porcellana polverosi e sei flutes di cristallo, un anno in più, un bicchiere di meno, come passa il tempo per chi non si diverte...
E prepara la mini stalla in simil legno, non trova l'asinello , va bene il bue, infiacchito e stupito per la stranita compagnia di un angelo senza stelle e 'l'uomo che dorme', visto e preso alle bancarelle della Fiera di S. Ambrogio , simbolo di una Grazia svilita , di tranquilla indifferenza , o si sente così, scettica su ogni cosa, anche a Chi sta per arrivare, forse.
Poi , con infinita cura, ha messo Maria e Giuseppe, e il Bambino Gesù lontano ancora , ma arriva, pian piano è qui, basta trovarlo, cercarlo, una domanda , la sua, che pare una preghiera, laica, poi gli anni passano e si deve rendere conto della vita , dare ed avere non sono tutto, in fondo.
Guarda il suo Presepe , che peccato , è spoglio davvero, povero di oggetti o di ricordi , ripensa a caldi inverni, di gioia , di serenità ormai perduta.
E ha deciso, sarà la febbre , sarà quel che sarà, prende gli scatoloni che tiene in alto negli scaffali nel corridoio e trova le antiche foto dei suoi, il Nadir , papà imbranato che sorride a lei bambina , o 'Nuci', sua madre, in posa come una diva e il profumo di buono, di pulito, che rimane nel tempo.
E' l'epifania della sua memoria , frammenti d' anima che si sciolgono in un unico abbraccio, ricordare e farne senso , significato.
E Natale è qui, per lei.
Per tutti.

*

Il dono

 

Quando è volato in cielo un figlio di una cara, carissima amica, un anno fa, io ero a pezzi, come tutte le altre famiglie del piccolo paese dove lui abitava, si stringevano muti e pensavano che la sua mamma si schiantasse dal dolore .
Invece l'ho vista cheta e fortissima, una pace dovuta da Qualcuno che dava un senso a parole come morte , dolore, la sentivo battagliera ,viva quando ci siamo salutate, mentre io ero in continua guerra con un Signore sfuggente quasi alle futili domande della mia vita.
E sono ritornata alle mie giornate non vissute , parvenze di amici , di amori , apparenza e non altro, sopportare per non soffrire.
Ieri sera ci siamo ritrovati a un anno di distanza, per ricordare lui, il figlio di tutti, eravamo in pochi ma io volevo rivedere lei, per sapere se ancora ci fossero attimi, ricordi di un' esistenza felice ma breve, o se fossero già scivolati via nella nebbia di sempre.
Era sempre uguale, sempre sorridente , mi ha abbracciato con calore chiedendomi del lavoro , dei miei acciacchi, e nonostante i problemi che aveva, ecco, era luminosa, la sua fede l'ha salvata , era già credente, ora di più, parla con il suo bambino e si affida, completamente, semplicemente.
E ritornando a casa ci ha detto che voleva offrirci un regalo speciale, un 'dono', a ognuno il suo, non cose concrete e superficiali, in fondo , ma qualcosa cercato, voluto, amato con tutto l'amore che c'è , anche ritrovarci dopo tanto tempo è grazia, oppure felicità per me che , ripeto, faccio a botte amichevole con Lui, e lo rispetto.
Così, scopro i doni che inaspettati vengono , con sorpresa, amici veri , non blasonati , con il due di picche incorporato, o il significato di quel che penso e che scrivo ed essere libera , non arlecchino servitore di mille padroni.
E' il mio dono, così io sono.

©testo&foto Mara L.

*

Sentinella nella notte

(mio racconto premiato per il concorso 'Racconti tra le Nuvole2016' e inserito nel testo antologico ( LoGisma Editore )

 

Il suo nome, Annamaria, glielo aveva dato sua madre, Teresa, quando era nata, un unico lungo nome per due sante per proteggerla due volte, da donna di chiesa e superstiziosa qual era.
Da brava milanese però aveva imparato a chiamarla 'Nuci', la rossa, chioma ribelle,voglia matta di giocare, di domandare, nella piccola abitazione di ringhiera, triangolare, che sembrava una fetta di formaggio, tanti orti e poche case a Porta Romana, una zona di Milano lontana dal centro, anni '40 e guerra feroce, barcamenarsi sul filo della sopravvivenza era l'unico modo per andare avanti.
Teresa era sarta, cuciva e rammendava alla perfezione, riparava orli di gonne e camicette alle signore benestanti, mogli di bottegai, di salumieri che avevano fatto i soldi, e tanti, vendendo sottobanco al mercato nero.
Si comprava di tutto, e salato, dalle sigarette al pane, anche i collant con la riga dietro, vera, non disegnata maldestramente con la matita, come usava allora, c'era poco lavoro, si doveva mangiare e si doveva fare di necessità virtù, donne pazienti e fantasiose.....
La giovane Nuci era impiegatina in una ditta francese di profumi, vicino al Duomo.
Si alzava presto, preparava sulla stufa il bollitore con il caffè di cicoria, si utilizzava nei periodi di guerra come surrogato del caffè, troppo costoso o introvabile, dava un bacio al Bigio, cane di strada e di avventura con una zampina in meno, trovato davanti al loro portone magro da far pietà e diventato per lei inseparabile, e andava a lavorare a piedi, i tram erano pochi e scassati, si gelava per il freddo alla mattina, forse per la fame arretrata, chissà, comunque si andava.
Erano donne sole, Agostino, suo padre, 'rosso' convinto, era fuggito per un pelo a una retata della polizia politica ed era scappato su in montagna a combattere per la libertà, ma Teresa non aveva più notizie, neanche dagli amici più stretti, e temeva per lui, per loro.
La guerra era ovunque, dai manifesti di propaganda fascista che si vedevano per le vie, ai motti del Duce, impressi ben in grande da tutte le parti, 'Credere, obbedire, combattere', e Nuci pensava ad un giovane timido che la salutava sempre, l'accompagnava a casa dopo il lavoro, partito al fronte perchè si doveva, non perchè si sentiva, le mandava lettere colme d'amore e di lontananza, e lei era in ansia per lui, piccolo amore, soldato controvoglia.
Aspettava il tram alla sera, ma sentiva l'urlo angoscioso della sirena, segno di bombe in arrivo, ed era il fuggi fuggi generale, ci si nascondeva giù per le cantine come topi in trappola, sperando che la buriana passasse, pensava a sua madre, senza difesa, a questa guerra crudele, senza esclusione di colpi, marcia, dentro.
Si mangiava in silenzio, con le persiane schermate di carta azzurra, per coprire case e persone, temendo il feroce sibilo di un aeroplano, gli ordigni cadevano come birilli, dove capitava e la paura era una nera compagnia, sempre.
A volte, e a bassissima voce, accendevano la radio a valvole, cercavano di sintonizzare le frequenze di Radio Londra, sapere le sorti del conflitto, ma era vietato dal regime fascista, i delatori erano dappertutto, forse la spia era l'inquilino del piano di sopra, e dormire voleva dire sognare poco e male, incubi, non in tecnicolor, ormai.
La loro casa era come tante altre, era un quartiere popolare e pochi fortunati avevano il riscaldamento e il 'frigor', in milanese il frigorifero, molti si accontentavano della stufa e della ghiacciaia, ogni sabato si andava dal 'sustree', o dal 'giasee', quelli che vendevano legna o ghiaccio nei capannoni di Rogoredo, quasi in campagna, ed era una sfacchinata andare a prenderli, ci volevano più persone o delle biciclette che almeno funzionassero.
Quella sera Teresa si era accorta che era finita la legna, l'autunno era alle porte e voleva scaldare un poco la stanza e pregò Nuci di andare a comprarla.
La figlia accettò di buon grado, la serata era ancora bella, prese la sua bici rosa, da una parte un cestino per l'onnipresente Bigio, dall'altra un capiente portapacchi per le fascine e andò verso Chiaravalle, tra pioppi e risaie.
Non aveva paura di faticare, pensava a sua mamma, lavorava sempre e non si lamentava mai, amava camminare in bici senza fretta ma vedeva le macerie delle fabbriche venute giù per le bombe, la povertà spicciola, quotidiana della gente che voleva dire 'no' ad un potere soverchiante ed oppressivo, chi ci salverà, e quando, rifletteva, quando potremo ricominciare a sorridere?
Intanto andava, svicolando pietre e sassi degli edifici crollati, per la via di San Donato, verso Nosedo, cascine abbandonate e odore di campagna, di cose dimenticate e buone, una pausa di pace tra l'inferno quotidiano, voltò la bici verso un vecchio fabbricato e si trovò in un grande spiazzo, un'antica chiesetta, piccola e graziosa, ormai ricovero di attrezzi agricoli e, qualche volta, giaciglio di fortuna per chi non aveva niente, solo gli occhi per piangere.
Istintivamente Nuci accellerò con più forza ma sentì un gemito, un fioco lamento dentro la chiesa, anche il cane, che dormicchiava beato, alzò il capo guardingo.
Nuci non era fifona di natura, però giravano tipi loschi, che facevano affari d'oro con il contrabbando, scappare via era meglio, fresca e fragile com'era, ma sentì di nuovo un flebile 'please, help me, aiutatemi....'
Era sola, ma non ci pensò un attimo, lasciò la bici ed entrò nella chiesa in rovina, tra cesti e scope di saggina, ovviamente con il suo Bigio, che la seguiva passo passo.
E lo vide.
Mamma mia, com'era giovane, e tanto, tanto pallido! Avrà avuto trent'anni, l'uniforme era quella di un militare inglese, forse un tenente, vedeva i galloni sulla giacca d'ordinanza, e sangue, in abbondanza, sgocciolava nel pantalone destro, sistemato in qualche modo con uno straccio zuppo ormai, e febbricitante.
Per lavoro Nuci parlava francese con venditori e negozianti, e sapeva qualche frase d'inglese, poche in verità, invece Johnny, così si chiamava, era nato in Inghilterra ma sua madre era italiana, capiva e parlava la sua lingua e raccontò la sua storia.
Militare del British Army, era infiltrato nel fronte italiano con il compito di carpire informazioni, il più possibile esatte e sicure, delle stazioni ferroviarie di Milano, da mandare ai comandanti di reparto britannici, per ostacolare e rallentare il nemico.
Però qualcuno aveva fatto la soffiata, come si diceva allora, era fuggito, ma era stato ferito, e non ce la faceva più a camminare.
S' era trascinato fino qui, e per vie traverse, sapeva che l'esercito inglese voleva portarlo via, al sicuro, con un aereo da ricognizione, ma era debole, e non poteva mettersi in salvo.
Nuci lo guardò, indifeso eppure deciso nell'azione e nel coraggio, pensò a suo padre partigiano, al suo moroso lontano, all'amore della vita nel caos tetro della morte, e decise.
E insieme aspettarono, notte profonda, nessuno in giro, l'oscurità si stendeva come una coltre silenziosa, anche la statua della 'Madunina', lassù, piccolina sopra al Duomo, era velata, coperta dai teli per ridurre la visibilità e i pericoli dei bombardamenti, Madre dolorosa, Madre che soffre, per tutti.
Ad un tratto, la ragazza sentì una vibrazione, sommessa ma continua, su tra le stelle oscure, guardò con attenzione, ma non vide nulla, soltanto un punto nel cielo.
Ma il soldato inglese, nonostante il dolore intenso che provava incominciò a sorridere, era lui, era la salvezza che arrivava, una sentinella nella notte che cercava, che trovava il soldato che s'era perso, per riportarlo tra le linee amiche.
Era lo Stinson L5, piccolo e versatile aeroplano di ricerca e collegamento, detto 'Flying Jeep', si posò senza problemi planando sull'aia deserta e aspettò il clandestino, sfinito.
Ma lui per la tensione svenne, per un attimo.
Ci pensò la giovane, Nuci senza paura, ad aiutarlo, a sorreggerlo fino quasi ad un passo dal portello dell'aereo, poi il pilota lo sollevò di peso nella carlinga al sicuro, finalmente.
Ma prima di entrare sull'abitacolo, Johnny si voltò, e baciò sulle labbra la ragazza, un vivo bacio appassionato e profondo, sapeva di calore e sentimento, nostalgia, e Vita.
Nuci lo vide andar via, ancora un puntino nella notte, un rombo come un saluto e una promessa, tornerò, diceva, per ricominciare.
E la giovane arrivò a casa zigzagando come un'ubriaca, vide la mamma vitrea, spaventata come non mai, e le raccontò di Johnny il soldato, e il bacio, oh, il primo vero bacio donato da un uomo ad una donna, ormai, l'unico dono regalato alla guerra, per ogni guerra .
Contro tutte le guerre.

*

L’Elvira

(mio racconto , nono classificato nel concorso 'Una foto una storia' , dell' Associazione Fahrenheit di Vimercate, presto in ebook)

 

Quando sono nata io, Augusto, mio nonno, è arrivato all'ospedale per vedermi, di corsa, letteralmente, in bicicletta. Non aveva la patente, inforcava la bici e via, per le strade della Milano di allora, affollata di tram ma poche macchine in giro, tutte Fiat 500 e pochi soldi, quasi come ora...
Anni '70, aria di libertà, di lotte politiche e di voglia di fare, per Augusto di lavorare. Era un uomo semplice e lo studio proprio non era adatto a lui, soltanto le elementari e faticare, tanto, e mai un lamento.
'Rosso' convinto, giovanissimo aveva fatto la guerra, era stato preso prigioniero in Germania, era fuggito e ritornato a casa magro da far pietà ma vivo. Aveva fatto mille duri mestieri, avanti e indietro con la sua fidata bicicletta, comprata per quattro soldi alla Fiera di Senigallia, sulle ripe della Darsena, lo storico mercato delle pulci milanese, per la gente che aveva necessità di comprare qualcosa con le cinque lire che c'erano, e contate.
Si vendeva di seconda mano un po' tutto, dalle scarpe ai vestiti, bijoux appariscenti, riviste e libri d'epoca, ma Augusto, uomo pratico, aveva bisogno di spostarsi velocemente, e soprattutto senza pagare. Una volta sui tram c'erano fior di bigliettai all'ingresso per staccare e timbrare il dovuto, poi sostituiti da una fredda macchinetta obliteratrice per contenere i costi. Sono spariti i bigliettai e la poesia, ma gli impiegati erano innamorati del proprio lavoro, guai a sgarrare e non pagare!
Così mio nonno puntò deciso al bancone di bici usate, ne scelse una, con telaio e ruote nero fumo, con raggi d'argento e una comoda sella, agile quanto basta per sfrecciare da Porta Romana, dove abitava, alla periferia, per scaricare casse all'ortomercato. Preferiva i portapacchi con i ganci, così ritornava dal lavoro con la cassetta di legno stracarica di sugosi pomodori, gentilmente 'offerti' da padroni distratti.
Aveva chiamato la sua bicicletta Elvira, non sapevo perché, forse il nome di una fidanzatina, tempi beati della sua giovinezza.
In effetti mio nonno era proprio un bell'ometto, capelli bruni ribelli fissati con la brillantina Linetti, e un sorriso malandrino alla Cary Grant, ma era buono come il pane.
Alla domenica andava con l'abito della festa al Cral del quartiere per giocare alle bocce e le donne gli morivano dietro, ma lui rideva e pensava a lanciare a punto la boccia al pallino, era perdutamente innamorato, per davvero.
Il suo amore si chiamava Teresa, mia nonna, una rossa chioma inquieta fermata con una spilla a cuore, piccolina ma tosta, più di lui, incredibile a dirsi.
Era impiegata in una piccola azienda vicino al Duomo, andava a lavorare con il tram e odiava la bici, non aveva testa di imparare ad usarla, “Ma cosa fai, sempre in bicicletta, parla con me!” diceva al marito, e giù litigate che si sentivano dalle finestre delle case vicine.
Era molto religiosa, ogni domenica andava alla messa e così, per quieto vivere, lui l'accompagnava, non in chiesa, era ateo convinto, l’aspettava fuori con gli altri amici della stessa fede politica, a metter su feste di partito, con tanto di riffa e, ovvio, un ristorante all'aperto. In gioventù era stato cuoco, e cucinava... da dio!
Quante volte l'ho visto rimestare il minestrone, affettare la filzetta di salame per i panini, da chef esperto qual era, ma trovava il tempo di giocare con me bambina: io vincevo un peluche ed ero contenta, ma lui pagava il giocattolo sottobanco ai gestori della lotteria, per l'unico scopo di vedermi felice.
Teresa lo teneva in riga, gli stirava le camicie e di sera cenavano insieme sentendo la radio, ma dopo il caffè Augusto spariva, prendeva l’Elvira e pedalava sul Naviglio Grande girovagando senza fretta.
La strada sterrata lambiva il canale a pelo d'acqua, vedeva i pescatori in cerca di fortuna, di acchiappare, chissà, qualche alborella, qualche luccio, si fermava a parlare con loro, scambiando consigli di cucina e di vini, da vero intenditore.
Vedeva le grandi cascine, i vecchi lavatoi di pietra, dove lavare i panni e i peccati di una città di affari e malaffari. La Milano da bere era ben di là da venire! Augusto si ricaricava d'aria pura, ritornava lasciando la bici vicino al portone d'ingresso, senza lucchetto, tanto ci si conosceva tutti, ritrovava lei, Teresa, che rattoppava i suoi pantaloni lisi e si baciavano stretti nel buio della stanza, mille e mille baci per l'eternità.
Gli anni passavano, e vedevo i miei nonni anziani, attivi ma fragili, come una nuvola.
Erano in pensione, Teresa con la chiesa e le faccende domestiche, Augusto indaffarato ancora tra le bocce e l'amore inossidabile di sempre, l'Elvira, la sua bicicletta.
La tirava a lucido pulendo alla perfezione ruote e pedali, anche se era un po' vecchiotta bastava per girare nel quartiere, metteva nel portapacchi il sacchetto della spesa e il giornale, andava al parco per veder giocare i bambini e si sentiva in pace con la vita.
Accadde all'improvviso, con Augusto vicino, “Aiutami, ho una fitta forte qui”.
E Teresa se ne andò, lasciando il compagno di una vita senza lacrime e senza difesa.
Lo vedevo vagare piano con l'Elvira tra i caseggiati, in mezzo alle macchine, erano un pericolo per lui, lo sapeva, ma non gli importava, anzi, il suo sogno era che un'auto distratta lo stendesse lungo il selciato, morire così, in un istante, e rivedere lei, con un sorriso.
Così fu, il suo cuore malandato soffiò l'ultimo battito, Augusto sbandò e cadde dalla bicicletta, s'addormentò tranquillo.
E l'Elvira lo prese amorevole con mani forti d'acciaio, gambe in spalla e pedalare, verso un mondo migliore.

*

Il mattatore - una storia vera

ecco il mio racconto, menzionato dall' 'Associazione Cultura e Solidarietà, ricordando Tiziana'

 

Oggi è una giornata speciale, da non dimenticare.
Mi sono messa un abitino elegante, un filo di perle, gli occhi luminosi, serata di gala, stasera si va a teatro, c'è uno spettacolo bello, almeno per me e per chi arriva emozionato per mettersi in coda, trovare un posto più vicino al proscenio, per sentir chiaramente anche un sospiro d'amore. Silenzio, si va ad incominciare.
Entrano gli attori, si recita d'amore , i dubbi e le pene d'amanti traditi ed io aspetto, dietro le quinte , che il primattore venga e , finalmente, faccia scena.
Ecco che arriva, cammina spedito e con vezzo galante accarezza il volto di una giovane dama, io resto rapita , emozionata , non da lui, ma dal volto fanciullo che vedo sotto la maschera di biacca, parla in modo comprensibile, senza incespicare, i suoi gesti scorrono con naturalezza , è vitale, non un automa che balbetta azioni mille e mille volte, inerte , ma è 'lui', è persona, , il vero mattatore è Matteo.
Matteo adesso ha quasi trent'anni, un colosso con la faccia da buono, ma io lo ricordo bambino, isolato dagli altri ragazzi della scuola elementare, col viso voltato sul muro , muto, i bimbi lo prendevano in giro, ' è strano, è scemo' , dicevano, e Matteo d' un tratto urlava , urlava forte , sbatteva con forza la testa sul banco, fino a sanguinare, Matteo fragile come cristallo , Matteo era altrove, non qui.
Io ero fresca di laurea, precaria, come sempre, e insegnante di sostegno in una scuola alla periferia di Milano.
Il preside mi aveva assegnato Matteo per studiare insieme in classe, il bambino aveva bisogno di attenzioni e impegno, sempre, la sua maestra riusciva a seguire al meglio la classe se c'era qualcuno vicino a lui, così quando entravo in aula mi mettevo al suo banco, cercavo ogni occasione per aprire le chiavi del suo mondo silenzioso.
I genitori non erano in grado di gestire la sua situazione ed erano disperati , ero inesperta anch'io e ho cercato sui libri il problema del bimbo, per aiutarlo, come si poteva.
Così ho scoperto i mille volti dell'autismo, un severo disturbo nella psiche e nel linguaggio,una labilità di stimoli e di interessi, l'incapacità di aprirsi al mondo con me e con tutti .
Matteo era , come si dice, senz'armi e senza riparo.
Rammento che Matteo evitava lo sguardo quando gli parlavo, senza un sorriso ,un pianto, lui era un'isola in mezzo al mare ed io non sapevo nuotare fino a lui, solo stringerlo forte e difenderlo dalle asperità della vita.
Poi, piano piano e con l'aiuto di una brava psicologa infantile della zona, Matteo si è 'sciolto' , col tempo ha imparato a guardare dritto ai miei occhi , parlava con me, piccole frasi ripetute cento volte, ma era segno di attenzione, come per dire ' Parla con me , sono solo e prigioniero in un pianeta straniero, inaccessibile, spezza il mio incantesimo !'
E dopo giorni di disillusioni e sconfitte, di stupidi scherzi della gente e dei bambini 'normali', Matteo mi regalava il suo sorriso ingenuo , mi ripagava di tutto, e ritornavo con grinta a cercare metodi mirati alla sua piccola persona , esercizi adatti per aprire di più il bimbo alla vita.
Avevo scoperto che Matteo aveva una specialissima 'marcia in più' , una memoria eccezionale, sapeva imparare interi racconti con facilità, lo svantaggio era che non poteva esprimere giudizi, commentare, la capacità di giudicare non era per lui, però lo sentivo che recitava poesie con naturalezza e si sentiva bene.
Per lui recitare era un 'dono' speciale per svincolarlo dai problemi reali , per essere libero e felice.
Con la maestra d'italiano e con la psicologa abbiamo così organizzato un piccolo testo teatrale, 'Grease' , con i costumi prestati in oratorio, quattro dialoghi in croce e le canzoni in playblack, ma ho visto Matteo fiorire, letteralmente, era 'in parte' e si vedeva, e anche i ragazzini lo hanno rivalutato e hanno cominciato a rispettarlo, a essergli amico.
E ogni anno di scuola ,mentre studiavamo insieme i percorsi didattici specifici per lui, ripassavamo la parte per la recita di fine anno, e vedevo Matteo più impegnato, piccolo grande 'signore del teatro'.
Poi ho vinto il concorso d'insegnamento e mi sono trasferita dall'altra parte della città , ma ho continuato a seguire Matteo, che , accompagnato con amore da un team di insegnanti preparati l'ha portato fino all'università , con tanta calma, soprattutto lavora , eccome, piccoli passi per diventare finalmente autonomo.
E non dimentica il suo primo amore , il teatro, s'impegna in un gruppo di recitazione creativa alla sera, è per questo che sono lì in prima fila per 'tifare' per lui, caro Matteo, il 'mattatore'.