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Raccolta di testi in prosa di Mariano Berti
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Sulle orme della libertà

Era un passista Vito Taccone, un formidabile arrampicatore. Pur non avendo mai vinto un Giro, aveva una marea di fan, molti dei quali andavano ad applaudirlo lungo i tornanti          alpini.

Abruzzese, di media statura, incarnava la tenacia di un’Italia che stava inseguendo quel Miracolo che modernizzava ma anche lacerava la società. Per questo piaceva a mio padre, lavoratore indefesso come lui, che si alzava presto al mattino per andare a rovesciare sacchi di cemento in una betoniera di una fabbrica di piastrelle. Di quel corridore, simbolo di un paese onesto e stakanovista, ero entusiasta anch’io e mi lasciavo trasportare dall’enfasi con la quale Adriano De Zan, telecronista della Rai al seguito del Giro d’Italia, ne narrava le gesta.

Taccone era uno scalatore puro. Pedalata dopo pedalata, dosando il respiro e le forze, inseguiva la sua meta come un lupo affamato, senza mai demordere. All’annuncio dello speaker, un boato si levava e tutti stavano col naso incollato allo schermo o l’orecchio alle radioline a transistor per non perdersi nemmeno un istante di quella che sarebbe stata una nuova epica impresa.

Era il mio idolo, anche se non era farina da far ostie. Quando iniziai a lavorare, il primo obiettivo fu la bicicletta, sportiva, ma non da ciclismo, perché mi serviva soprattutto per recarmi al lavoro. Aveva ugualmente le ruote sottili e il manubrio obliquo, come si usava in quell’epoca di rivoluzione industriale. Così, talvolta, sull’onda delle emozioni trasmesse dai campioni delle due ruote del momento, quali Adorni, Mealli, Zandegù, Van Looy, Anquetil, Merckx, Gimondi, tutta gente con un invidiabile palmares, anche noi quattro amici, di domenica, improvvisavamo delle gare a chi giungeva prima sui colli, inseguendo mete fisiche che rispecchiavano quelle interiori, non sempre facili da raggiungere.

Taccone, il Camoscio d’Abruzzo, come lo chiamavano i suoi compaesani, si allenava percorrendo le tortuose stradine della Marsica, che conosceva a menadito essendovi nato. Mio padre lo ammirava anche perché andava con i ricordi ai tempi in cui nella nostra casa c’era l’impellente necessità di sbarcare il lunario e bisognava arrancare sui sentieri della fantasia per inventarsi ogni giorno il modo di mettere qualcosa sotto i denti. Alfredo, mio padre appunto, aveva meno di vent’anni quando, con mio nonno Giovanni, trasportato sul ferro della bici e due amici imbianchini, partendo da un paese vicino a Treviso, era andato a Figline Valdarno a prendere accordi per lavorare il podere di un signorotto. Erano state le sorelle di mio nonno, Suore Stimmatine, a offrirgli quell’opportunità, ma le condizioni erano proibitive dato che la carenza d’acqua non permetteva un sufficiente raccolto che compensasse l’immane fatica di lavorare esclusivamente a braccia un terreno inaridito, perciò, a malincuore, rinunciò.

Ma la mia famiglia di allora era tutt’altro che inaridita, povera sì ma ricca di quei valori umani di cui si è persa la semente. Vivevamo in una casa diroccata, in affitto, due stanze e un granaio adibito a stanza da letto, privo di finestre e del soffitto, cosicché, d’inverno, il sottotetto s’imbiancava per la brina. Era lì che io dormivo con le mie sorelle. Di suo, la mia famiglia possedeva soltanto un modesto terreno agricolo che non rendeva più di tanto, mentre in stalla teneva una mucca da latte, l’unico vero sostentamento, ma che ai miei genitori costava un immane sacrificio dato che quotidianamente si doveva elemosinare un po’ di erba per il suo nutrimento. Era dura la vita allora, e non solo per la nostra famiglia. Nessuno, infatti, a parte i proprietari terrieri, era così ricco da possedere del sovrappiù, eppure c’era tanta carità, tanta comprensione e solidarietà tra le persone. E non mancavano i sogni da inseguire.

Mio padre raccontava spesso di quella sua epica impresa verso la Toscana, terra dei più grandi artisti rinascimentali. Vi era andato emulando Alfredo Binda, campione del momento, partendo dal Trevigiano, territorio considerato depresso come tutto il Veneto agricolo, una regione che, negli Anni Trenta, vedeva intere famiglie emigrare verso le aree bonificate dal Governo al motto “è l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende, e il vomere e la lama sono entrambi di acciaio temprato come la fede dei nostri cuori”. Migliaia furono quelle che lasciarono tutto, quel poco che possedevano, per trasferirsi nella terra promessa dal regime, anche se era tutto da dimostrare che fosse idilliaca come si voleva far credere, famiglie altrimenti destinate a tirare la vita con i denti, ma anche colà non migliorarono il loro tenore.

Fatto è che i quattro amici, inforcata la bicicletta prima dell’alba, partirono alla volta della Toscana con pochi spiccioli in tasca. Si era all’inizio di una primavera a cavallo delle due guerre mondiali. Si fermarono a sera a Ferrara per pernottare nell’antico convento dove era superiora suor Ugolina, una delle tre sorelle di mio nonno. Ben rifocillati dalle religiose, i tre più il trasportato ripartirono il dì seguente e, attraversata la Città della Garisenda, imboccarono la polverosa Porrettana, tutti gocciolanti per la calura e lo sforzo. Fortunatamente sul percorso si poteva beneficiare di un po’ di fresco emanato dalle piante che lambivano la bianca arteria senza asfalto. Pochi erano i veicoli motorizzati che vi transitavano, rispecchiando la modesta economia del tempo. A percorrerla erano principalmente autocarri militari che trasportavano truppe in un’epoca in cui la Patria, influenzava la gagliardia dei giovani per costruire il suo glorioso impero. Era un’illusione.

Fatto è che percorso un buon tratto di salita, con una fatica immane, quando mancavano poche centinaia di metri al passo della Futa, sarà stato che le buche non mancavano e sarà stata la complicità del peso del passeggero, la bicicletta di Alfredo si spezzò in due tronconi, rovinando a terra con i due uomini, fortunatamente senza gravi conseguenze per loro. Che fare?Imprecare non si poteva, perché era tutta gente con timor di Dio. Mio padre non si perse d'animo e adocchiato un vigneto, con due balzi salì su quel terreno, divelse una palina da uno dei filari, strappando pure del filo di ferro, con cui unì alla bell'e meglio i due tronconi della bici così da poter proseguire il viaggio. Non potendo più montare in due sul precario mezzo, a turno si pedalava o si camminava, dandosi il cambio. Giunsero così a Calenzano, al convento dove viveva un’altra sorella del nonno. Il dì seguente, fatta saldare la bicicletta con i pochi spiccioli che avevano in tasca, poterono raggiungere Figline Valdarno, oltre Firenze. Non erano persone particolarmente istruite, ma la necessità e la voglia di migliorare stimolava la loro fantasia.

 

Non deludeva mai Vito Taccone, semmai a deludere erano quelli che governavano perché non riuscivano ad interpretare il bene comune nel periodo di quel Boom economico che si stava ormai allontanando anche grazie ai loro continui dissidi. La media dei governi era di pochi mesi: una vergogna nazionale. Litigavano sempre su tutto: democristiani, comunisti, socialisti, liberali, socialdemocratici, repubblicani, missini, e un lungo elenco di partitini, anche all’interno dello stesso partito, dato che si distinguevano in correnti, per la sete di poltrone e di gloria. Era la democrazia, si diceva, ma non sembrava una corsa a chi voleva avere il privilegio di servire il Paese, anzi. Nonostante ciò la gente lavorava sodo e l’Italia si trasformava.

Mio padre, che ammirava molti leader della DC almeno quanto ammirava Taccone, stravedeva per il partito della croce e si entusiasmava quando sentiva parlare di libertà contrapponendola ai comunisti. Comunista, in un paese veneto di campagna, equivaleva a pecora nera, un’anima irrimediabilmente perduta. Al villaggio dove abitavo viveva uno dichiaratamente comunista, che non andava mai in chiesa, alle funzioni, era perciò additato come un poco-di-buono e soprannominato Vecio Tabaro. Era, questa, una forma di razzismo politico e religioso. Conseguentemente pure la sua famiglia era guardata con sospetto. Aveva tre figlie e un maschio, e questo, influenzato dal genitore, cresceva da vero discolo. Incarnava l’arma di vendetta del padre nei confronti dei concittadini conformisti e soprattutto dei preti che a suo parere plagiavano e assoggettavano la gente.

E venne il Sessantotto. Cresciuto in una famiglia di Chiesa, a vent’anni decisi di iscrivermi alla gioventù democristiana. Non perché mi sentissi particolarmente attratto, anzi, semplicemente seguivo gli amici e non volevo essere da meno. Loro sì che ci credevano veramente. Personalmente la politica che ho conosciuto non è mai stata da p maiuscola, avendo constatato che in quel campo rare sono le persone che hanno veramente a cuore il bene comune. Ho visto tanti rincorrere le poltrone perché sono ben remunerate, non tutti per fortuna.

Gli Anni Sessanta furono quelli in cui democristiani e comunisti si contrapponevano, soprattutto perché ad influenzarli c’era ancora la Cortina di ferro. Il Muro di Berlino era stato eretto da poco e il pericolo di una guerra nucleare era reale, epilogo dell’umanità. In sostanza, si contrapponevano due visioni: la libertà incarnata dal capitalismo americano e il materialismo rappresentato dal comunismo sovietico. Non ci si poteva permettere di essere neutrali di fronte a due concezioni della vita così radicali e contrapposte, sarebbe stato un peccato da confessionale. Sì, perché anche il parroco della mia parrocchia neutrale non lo fu mai: “Ricordatevi di votare bene, da buoni cristiani!”, raccomandava nelle omelie in vista delle elezioni. E qual era il partito cristiano se non quello che brandiva lo scudo crociato? Con quel simbolo la DC avrebbe dovuto rappresentare uno stile di vita etico e morale, e per un bel po’ tenne fede a questa sua vocazione, ma i buoni propositi iniziali nel tempo si guastarono finendo per rivelarsi un tradimento, una delusione. Per questo, pur simpatizzante, io democristiano del tutto non fui mai, essendo per natura uno spirito libero, libero di pensare e di conservare il senso critico. E ancora oggi sono su queste tracce: con determinazione inseguo i valori di libertà e di verità.

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I ricordi non muoiono

Sembrava di sentire ancora il tuono del cannone e il crepitio delle mitragliatrici quando i Vettorel s’insediarono su una presa del Montello, nel Trevigiano, provenendo da Cordignano. In questo paese ai piedi del Cansiglio, erano stati mezzadri dei Conti di Mocenigo, una famiglia veneziana di nobili origini, alle dipendenze dei quali si erano sempre trovati bene, poi il rapporto si era incrinato e dovettero emigrare. Qualcuno dice che fu perché si erano ribellati a certe imposizioni, quali portare le “dovute” onoranze, di fatto il vero motivo non si seppe mai. A quei tempi, inizio del XX secolo, la popolazione veneta era sostanzialmente contadina, assoggettata ai proprietari terrieri che avevano il potere di far vivere o far morire di fame la povera gente dei campi.

Perso il lavoro, che si svolgeva tutto a braccia, i Vettorel dovettero cercare nuove terre da lavorare, ma ne avevano abbastanza di vivere e operare in subalternità, dovendo operare più per i padroni che per se stessi. Così, con i pochi risparmi messi da parte in anni di sudato lavoro e impegnandosi a restituire i prestiti concessi da un benestante e dalla cassa rurale, acquistarono a buon prezzo un appezzamento con casa colonica sul Montello, nella collina disastrata, già teatro di epiche battaglie della Grande Guerra.

Era un mattino di sole quello delle idi di marzo del 1924, quando, attaccati i buoi al carro dov’erano caricate fin dalla sera precedente le poche masserizie che possedevano, i Vettorel lasciarono Cordignano, incamminandosi verso una nuova terra e un futuro assai incerto. Uomini, donne e bambini, ognuno con il proprio fagotto in spalla, seguendo il convoglio agrestre, attraversarono Conegliano e poi il ponte sul fiume sacro alla Patria, il Piave, imboccando quindi la polverosa strada Schiavonesca verso Nervesa della Battaglia, giungendo a Giavera a mezzogiorno suonato. Ogni tanto, lungo il percorso, si erano fermati per far riposare e rifocillare le bestie. L’ultima tappa fu alla sorgente “Forame”, prima di affrontare la salita verso la quinta presa del Montello. A metà pomeriggio giunsero finalmente nella loro Terra Promessa, in Via Bongiovanni, attuale Via del Solstizio, quinta presa del Montello.

Nella nuova residenza, ma meglio sarebbe parlare di catapecchia, circondata dal bosco di acacie e di castagni, lontano da ogni vociare, il silenzio era quasi irreale. Solo alcune specie di uccelli, con il loro volteggiare e cinguettare, accolsero i nuovi arrivati sull’epica rinomata collina. Ovunque si vedevano ancora i crateri lasciati dalle bombe, che la natura faceva del suo meglio per appianare.

Giunti a destinazione e sbarazzatisi di quel timore che coglie l’animo spaesato, che arriva in un posto poco familiare, furono assaliti da un empito gioioso. Dimenticando ogni stanchezza, uomini e donne si misero alacremente al lavoro per sistemarsi come meglio potevano, mentre i bambini esploravano i dintorni, correndo dentro e fuori dal bosco con la loro incontenibile allegria, foriera di tempi migliori. Ora, davanti a questa famiglia, si apriva un nuovo orizzonte, un futuro di speranza, anche se il debito contratto per quell’acquisto era di notevole entità.

I primi a mettere piede in quello che era considerato un territorio depresso, come depresso era tutto il Veneto di allora, furono Pietro e Adalgisa con i loro figli. Con loro c’erano pure la nonna Caterina e il cugino Antonio con il suo nucleo. Due famiglie, quindi, che si spartirono equamente sia la spesa sia gli oneri divenendo ognuno proprietario per la quota di una metà.

Il bene, acquistato nel comune di Giavera - allora territorio di Arcade -, comprendeva una casa con sei ettari e mezzo di terreno circostante, fondo ricoperto prevalentemente di rovi e sterpaglie oltreché ancora disseminato di trincee.

Si rimboccarono le maniche mettendosi alacremente all’opera e, a mano a mano che veniva dissodato, il terreno faceva emergere di tutto: pezzi di filo spinato e pericolosi residuati bellici, ma anche resti umani, ossi da morto e perfino teschi di soldati caduti in quella che era stata, dopo Caporetto, la prima linea del fronte. Il conflitto aveva visto il suo epilogo da pochi anni strascicandosi una collezione di lutti, malattie e miserie, immani sofferenze e lacrime, perché, anche se la definiscono vittoriosa, una guerra, soprattutto per la povera gente è sempre perdente e luttuosa.

Antonio, già fattore dei Conti di Cordignano, anni prima era emigrato in Canada, a Vancouver, a disboscare foreste sulla costa del Pacifico della Brithis Columbia pensando di metter da parte un gruzzolo sufficiente ad acquistarsi una nuova casa. Aveva iniziato a inviare alla moglie Anna il necessario per l’acquisizione della casa e delle terre sul Montello, quando scoppiò la grande crisi economica del 1929. Contava di trattenersi colà ancora qualche anno, il tempo necessario per pagare tutto il debito e ritornare con la somma necessaria a dare tranquillità alla famiglia, ma perse il lavoro e con questo svanì buona parte dei suoi risparmi con i sogni coltivati fino allora. Persa l’occupazione, ritornò dal Canada per riprendere il suo posto di contadino sul Montello, in quell’oasi felice che gli fece ben presto dimenticare la terribile esperienza.

L’abitazione dei Vettorel si trovava in una zona alquanto isolata e, purtroppo, nelle vicinanze non c’erano fonti d’acqua. Si doveva pertanto scendere più volte al giorno la collina per rifornirsi alla sorgente “Forame”, percorso effettuato sempre a piedi, trasportando i recipienti di legno sulle spalle con un bilanciere di legno. Lo stesso si faceva per andare a lavare la biancheria, utilizzando delle ceste di vimini. E si recuperava pure l’acqua che veniva dal cielo, convogliandola dalle grondaie, ma il più si disperdeva nel sottobosco. Quella che si riusciva a trattenere veniva poi potabilizzata con la calce. Perfino quella piovana delle pozzanghere veniva raccolta. Era la natura che dava il suo prezioso contributo.

Radicatisi sul Montello, Pietro e Antonio si rimboccarono le maniche per contendere progressivamente la terra al bosco. Estirpate le sterpaglie e i rovi spellandosi le mani, dopo vari esperimenti divenne chiaro che il terreno, grazie all’esposizione particolarmente soleggiata, si prestava alla coltivazione di alberi di frutta e vigneto. E fu così che, quella terra che inizialmente era sembrata tanto avara, dopo qualche stagione, cominciò a dare i primi frutti, e che frutti!: fichi, mele, ciliegie e uva, dalla quale si ricavò il primo vino, rivelatosi subito d’ottima qualità e sapore.

I Vettorel iniziarono così, per necessità, un po’ di commercio portandosi a piedi nei paesi più a valle, con il solito bilanciere di legno sulle spalle al quale erano appese due ceste di frutta, offrendo di casa in casa i loro prodotti casalinghi. Non fu subito facile vendere la merce perché la guerra si trascinava un’enorme povertà dalla quale sembrava non ci si potesse scrollare. Giravano per le case tanti cenciosi accattoni, soprattutto donne che avevano perso il marito al fronte, costrette a mendicare con i figli più piccoli un tozzo di pane per sopravvivere.

Erano tempi di grande indigenza. Mi si passi la divagazione come autore di questo brano. Non scappava a questa regola neppure la nostra famiglia, eppure avevamo sempre un pezzo di pane per chi stava peggio di noi. Quando facevamo la carità a un questuante era il nostro riscatto, perché ci sentivamo meno poveri.

 

Con il passare degli anni i Vettorel conobbero un certo progresso, riuscendo a estinguere tutti i debiti. Ma quando era subentrata una certa tranquillità, accadde un fatto sconvolgente. Si era alla vigilia di una nuova guerra, quando vigevano i razionamenti e si doveva annotare ogni acquisto in una tessera. Fu in quel periodo che Francesco, quarto dei figli di Pietro Vettorel, ritornando dal mulino dove era stato a macinare un po’ di granoturco per la farina da polenta, fu investito da un treno. Quel giorno, all’andata, il sole se ne stava ben nascosto sotto una spessa coltre di nuvole. Al ritorno il tempo si guastò e l’uomo fu colto da un’improvvisa tormenta, con il vento e la pioggia che gli sferzavano il viso. Con il cappello calato sugli occhi e la solita giacca rattoppata, stava sulla sponda del carretto incitando l’asina a tener duro e proseguire verso casa.

Poco oltre la chiesa del paese si trovava il passaggio a livello della linea ferroviaria. Chechi – così era soprannominato Francesco –, raggomitolato su se stesso teneva saldamente le briglie, accorgendosi del pericolo soltanto quando fu sopra i binari. Sentì il fischio della vaporiera, ma era troppo tardi. Questione di un attimo e la locomotiva del convoglio proveniente da Conegliano Veneto fece volare mulo e carretto, con il conducente e il carico di farina. L’urto fu violento e rovinoso, ma poteva andare peggio. Con un interminabile stridio di freni il convoglio si fermò poche decine di metri più avanti dato che procedeva a lenta andatura. Scesero due impauriti macchinisti, sconvolti dalla disastrosa visione. L’asina era morta sul colpo e giaceva scompostamente nel fossato laterale.  Ovunque erano sparsi pezzi del carretto, fortunatamente Francesco, che era stato sbalzato contro la recinzione di cemento lambente la massicciata, era ancora cosciente e si agitava per alzarsi. Gli prestarono immediatamente i primi soccorsi, lo caricarono sul treno lasciandolo alla più vicina stazione, e da qui fu trasferito al vicino ospedale.

Lasciò il ricovero lo stesso giorno, contro il parere dei medici, ma aveva fretta di ritornare alle sue faccende domestiche. Gli sembrava di stare bene, anche se in realtà era tutto contuso; niente se si pensa che avrebbe potuto essere all’altro mondo. Venne a prenderlo il fratello Antonio che lo trasportò a casa seduto sul ferro della bicicletta, accolto dall’apprensione dei suoi famigliari. Le molteplici contusioni però si fecero ben presto sentire, tanto che la notte non riuscì a dormire e il giorno seguente fu incapace di alzarsi. E così, chiamato il medico della mutua, fu nuovamente ricoverato.

Negli Anni Cinquanta in casa dei Vettorel avvenne un’autentica rivoluzione, la prima dal loro arrivo sul Montello. La famiglia si era notevolmente allargata per i nuovi arrivi: giovani speranze ma anche nuove bocche da sfamare. Constatata l’insostenibilità della situazione, Antonio decise di lasciare quella dimora per sistemarsi in proprio, altrove. Fu una scelta assai dolorosa ma necessaria, obbligata dall’incedere degli eventi. Cedette pertanto la propria quota del patrimonio al cugino Pietro e si trasferì con il suo nucleo in un’altra località. Dopo di lui, altri giovani della famiglia scelsero nuove strade. Uno dei figli di Pietro prese il treno per la Francia e poi per la Svizzera; un altro, ancora minorenne, raggiunse la pampa venezuelana, dalla quale rientrò qualche anno più tardi per sposare una compaesana con la quale ritornò in Sudamerica. Per un certo tempo i due emigrati lavorarono sodo per darsi un futuro migliore, poi, colti da un’irresistibile nostalgia, rimpatriarono per mettere definitivamente radici in patria.

Deceduti gli anziani, sul Montello si svilupparono nuove generazioni di Vettorel. E ora questa famiglia è una delle più radicate ed evolute dell’epica collina con delle succursali anche all’estero. Ma i ricordi di quando stavano a Cordignano, mezzadri dei Conti di Mocenigo, con il successivo doloroso trasferimento, rivivono tuttora passando di bocca in bocca, trasmessi di padre in figlio affinché non cadano nell’oblio. 

 

Elaborato di Mariano Berti,

Primo premio (pp. 100/100) al 5° Concorso letterario indetto dal Comune di Campagnano di Roma, 2016, sez. adulti.