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Raccolta di testi in prosa di Maria Rosa Giannalia
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I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Tanino



Quando mi dissero che sotto casa mia, appena un po’ più avanti, nel marciapiede stretto e sempre bagnato da un rivolo di acqua sporca, avevano trovato Tanino, morto ammazzato spalmato come un vecchio cannavazzu, io non ci volevo credere.
Ma non perché pensavo che quel tipo di ammazzatine non fosse possibile, no. Ma perché non mi capacitavo che era proprio lui, Tanino, con tutti quei capelli a tendina sull’occhio, con tutti quei denti bianchi bianchi, con quelle sue mani che parevano di femmina tanto erano lunghe e delicate, e le due fossette ai lati della faccia, una di qua e l’altra di là, che sembrava gli avessero messo un filo dentro che si tirava col sorriso. Proprio no, non poteva essere.
Io lo sapevo che lui non aveva niente a che fare con nessuno di quelle male persone che ogni tanto nel paese si sapeva che circolavano. Che poteva avere a che fare lui?
A me aveva raccontato sempre tante storie, mi aveva preso in braccio tante volte, mi aveva portato al bar della piazza a mangiare il gelato con la brioscina, lui lo sapeva che a me piaceva quello alla nocciola e qualche volta pure quello al caffè.
Lui mi guardava sempre quando io prendevo in mano il gelato e mi cadeva sulle dita della mano, sul polso e poi pure sul braccio, che si vedeva una lunga striscia scura, specie in estate quando avevo il vestito senza le maniche.
Tanino rideva sempre, mi diceva guarda che poi tua madre te li dà se ti vede tutta sporca di gelato, io lo guardavo e ridevo pure io e poi lui si accosciava in terra per vedermi da vicino e io gli mettevo il mio dito sporco di gelato dentro le sue fossette.
Io pensavo che lui lo facesse apposta a farsele venire tutte le volte che rideva e mi immaginavo l’elastico che si partiva da una guancia all’altra dentro la sua bocca e che faceva comparire le fossette. Lo sapevo io sola di quell’elastico, perché quando gli chiesi perché aveva quei due buchi nella faccia quando rideva, lui mi disse sai ho un elastico nella bocca che si tira quando rido, ma tu non lo devi dire a nessuno.
Nessuno lo sapeva , oltre a me , e lui sapeva che di me si poteva fidare. Anche se sono una femmina io i segreti li so mantenere.
Lui, Tanino, era il figlio della zia Caterina, lei veramente non era mia zia, ma io l’avevo chiamata sempre così. Anche i miei fratelli l’avevano chiamato sempre così e anche le mie cugine che stanno dall’altra parte del paese, l’hanno sempre chiamata così.
La zia Caterina era vecchia, aveva tutti i capelli bianchi ma di lato aveva ne aveva una striscia nera nera che sembrava dipinta di proposito. E dietro la testa aveva una treccia grossa grossa a forma di tuppo.
Tutte le mattine si pettinava davanti alla porta di casa e si scioglieva il tuppo e si disfaceva la treccia grossa. I capelli le arrivavano fino alla vita e io pensavo come mai così vecchia e aveva i capelli fino alla vita. Possibile che non se li fosse tagliati mai?
Mi piaceva vedere la zia Caterina come si pettinava quei capelli lunghi lunghi e poi quando raccoglieva i fili dal pettine e li attorcigliava tutti e li metteva in un fazzoletto. Io mi chiedevo perché metteva i capelli dentro quel fazzoletto, che bisogno c’era di metterli lì. Un giorno glielo chiesi. Mi avvicinai mentre si pettinava. Io avevo un po’ paura di zia Caterina , era così vecchia e pure alta e aveva tutte le mani con le pieghe. Ma io lo volevo sapere perché ormai erano tanti giorni che la guardavo. Lei mi disse che raccoglieva tutti i capelli perché poi passava quello dei fiammiferi e lei glieli dava e si prendeva una scatola grande di fiammiferi.
La zia Caterina aveva tanti figli, ma non stavano più tutti con lei , solo Tanino stava ancora con lei perché era il più piccolo di tutti e ancora non se ne poteva andare perché non lavorava tutti i giorni e non era sicuro che poteva mangiare tutti i giorni con quello che gli davano. Lui faceva il cameriere, serviva ai tavoli nei matrimoni. Era un lavoro bello questo, perché poteva anche mangiare tutte le cose che mangiavano gli invitati e magari portarne pure a zia Caterina che era vecchia e queste cose non le sapeva cucinare. Erano molto buone tutte le cose che davano ai matrimoni.
Anche a me Tanino dava qualche cosa. Lui lo sapeva che a me piacevano i dolci e me li portava sempre. Però di nascosto di sua madre, perché se lei vedeva che li portava a me, poi gli diceva che le cose le portava ai figli degli estranei invece di darli a sua madre.
Ma lui li metteva dentro la tasca dei suoi pantaloni oppure qualche volta li metteva dentro la cesta dei fichi che tra un matrimonio e l’altro andava a vendere per conto suo.
Lui andava qualche volta in campagna e lì c’erano quattro alberi grandi di fichi. Il padrone del giardino neanche se ne accorgeva che Tanino raccoglieva i fichi grandi . perché lui era furbo e non si faceva mai vedere. Ci andava sempre dopo che il sole se n’era andato, tutti gli uomini già da un pezzo non c’erano più in campagna e non c’era neanche l’uomo dell’acqua. Perché quello era amico del padrone e se lo vedeva sicuro che glielo diceva e allora Tanino avrebbe preso un sacco di legnate da loro due.
Ma lui era troppo furbo. Raccoglieva un paniere di fichi bello grande e se ne tornava in paese che già era scuro e nessuno lo poteva vedere. E così l’indomani mattina se li vendeva in mezzo alle vanedde dove le donne che lo conoscevano gli davano i soldi. E lui non se li teneva tutti per sé. Li portava tutti alla zia Caterina che poi ci comprava il pane , la pasta e i fagioli. E qualche volte anche il caciocavallo.
A me Tanino mi voleva bene, perché lo vedeva che io giocavo sempre da sola. Io volevo stare con gli altri bambini ma loro non volevano. Io non lo so perché non volevano stare con me. Qualcuno ogni tanto ci stava con me a giocare ma appena venivano gli altri se ne andavano tutti e io non ero veloce e quando correvo mi veniva sempre il fiatone grosso e poi mi fermavo e non li raggiungevo mai. Allora tornavo nel marciapiede vicino a casa mia e giocavo da sola.
Tanino era bravo a costruire pure i giocattoli e mi aveva fatto una bambola tutta di legno. Questa bambola aveva tutti i capelli gialli gialli e gli occhi neri perché Tanino li aveva disegnati con la matita di suo fratello che era muratore e che l’aveva sempre sopra l’orecchio. Io un giorno l’avevo visto questo suo fratello e non capivo perché teneva quella matita sopra l’orecchio.
Tanino mi diceva che lui ci scriveva sul muro, ma io pensavo cosa mai poteva scrivere sul muro? Boh! Ma ci credevo, perché Tanino a me di bugie non me ne diceva mai.
Come quel giorno che era tornato a casa stanco perché c’era stato un matrimonio e l’avevano chiamato per servire ai tavoli. Lui lo chiamavano sempre perché era veloce e poi perché faceva una bella figura. Era alto e poi aveva quelle sue mani lunghe da femmina ed era sempre attento con gli invitati, portava le cose che loro chiedevano presto presto e non li faceva mai aspettare. Non come quell’altro cameriere figlio del padrone che era lento lento e non si spicciava mai a portare le cose in tavola.
A Tanino lo chiamavano sempre nei matrimoni.
Quel giorno lui era tornato a casa e si stava lavando tutto perché era sudato, faceva caldo, c’era pure stato tutto il giorno lo scirocco per questo era tutto sudato. Ma non si era neppure messo la camicia pulita che erano venuti i cabinieri a chiamarlo.
La zia Caterina restò davanti alla porta mentre lui usciva con i carabinieri. Anche i carabinieri erano alti ma lui era più alto di loro e più bello, anche se loro avevano tutti i bottoni d’oro nella giacca e lui invece la camicia ancora sbottonata.
Lo avevano portato in caserma perché dicevano che alla fine del matrimonio , quando tutti gli invitati se n’erano andati, il padrone non aveva trovato più i soldi che aveva lasciato dentro il cassetto chiuso a chiave. Il cassetto era ancora chiuso e poi quando lui l’aveva aperto non c’era più niente.
I carabinieri avevano detto che volevano interrogare Tanino su questa cosa dei soldi, ma lui poi quando uscì me lo disse che non ne sapeva niente, che lui non c’entrava niente con quei soldi, che anzi non sapeva neppure che sotto il bancone della verdura c’era un cassetto nascosto.
Io ho creduto a Tanino perché lui a me bugie non me ne diceva mai. Però non lo chiamarono più per i matrimoni e lui non poteva sempre andare a rubare i fichi per venderli.
Dopo che tornò a casa, ma non tornò subito subito, forse dopo tanti giorni che io non ho potuto contare, passava con me molto tempo.
Giocava sempre con me e mi portava anche al bar a comprare il gelato, anzi non me lo comprava lui, perché soldi non ne aveva, ma qualche suo amico che incontravamo ogni tanto lo comprava anche a me.
Io volevo bene a Tanino, e quando lui mi costruiva i giocattoli con il legno oppure con il filo di ferro o con le pezze vecchie che sua madre non voleva più, io gli guardavo sempre le mani.
Si muovevano leggere le sue dita, leggere leggere e io pensavo che anche alle bambole che mi costruiva piaceva farsi toccare le gambe come piaceva a me.
Io volevo bene a Tanino.

*

Sa strangia

Venne nell’isola ma non fu per sua volontà. Per matrimonio, mi disse.
Sì, doveva sposarsi. Ma non era con uno di noi. Disse che era con uno della sua stessa isola che lavorava qui. E fu per questo che venne.
Quando arrivò a Cagliari era il dodici giugno del millenovecentosettanta. Era di pomeriggio ed era arrivata con suo padre. Mi raccontò che quando l’aereo, - un fokker a elica che sembrava un pullman del cielo con la sola differenza che aveva le ali - atterrò sulla pista di Elmas, aveva pensato di essere atterrata in un posto strano, un posto dove un vento fortissimo e caldo le aveva scompigliato quei suoi capelli biondi che cominciarono a sparpagliarsi di qua e di là come fiamme senza torcia e che lei non riuscì a fermare né a sistemare in alcun modo. Le altre poche donne scese dall’aereo non ci facevano proprio caso, anzi sembravano non accorgersi di quello scompiglio sulla loro testa e avanzavano sicure e dritte sulla pista, tenendo le valigie sospese a filo sul cemento.
Margherita si sentì avvolta in un silenzio che non aveva mai sentito prima: un silenzio colorato del giallo bruciato di tutta la vegetazione alta che cresceva lussureggiante e disordinata ai bordi della pista. Fu presa da una specie di ubriacatura, la stessa che continuò ad accoglierla ad ogni suo successivo sbarco sull’isola, quando, tornando dalle strade vocianti e affollate della sua città, si ritrovava, solo dopo un’ora, depositata in una culla ovattata e primordiale, in cui ogni suono cessava.
Margherita non aveva mai conosciuto quel silenzio. Aveva conosciuto musica, strilli di bambini, urla di adulti, strepiti di venditori ambulanti che andavano e venivano per le stradine strette dei quartieri della sua città di quell’altra grande isola da cui proveniva, la Sicilia, a vendere la frutta e la verdura, il pesce e le uova, i gelati, le olive, le pentole, le scope, le cianfrusaglie di casa a tutte le donne. Perciò, quella nuova atmosfera, intrisa di silenzio, quasi la smarrì.
Non era abituata. E nei giorni e negli anni della sua vita di sposa disperata, quando usciva di casa nella speranza di incontrare qualcuno che avrebbe raccolto la sua parola per restituirla accresciuta di altre parole, anche sconosciute, dovette rimanere sempre delusa. Nessuno le si rivolse mai direttamente e pochi ricambiarono il suo saluto. Prigioniera di quei silenzi, Margherita intesseva , nella sua casa, fili di discorsi articolati, arricchiti da tanti che pensi? e come stai? e da improbabili che ne pensi? e vieni da me!
Tuttavia attendeva sempre con un filo di speranza. Un giorno o l’altro, si diceva, avrò un’amica anche qui. E ogni mattina provava ad uscire: per le strade cittadine incrociava sguardi, ma solo di uomini che sembravano bambini nella loro piccola statura e quasi timorosi e tuttavia sfacciati ché lei i
loro sguardi li sentiva sulla pelle appena l’incontro dei corpi lasciava la mano all’assenza.
Decise che il silenzio della sua casa, privo di voci, quando il marito non c’era, dovesse diventare sonoro. E allora iniziò a cantare le nenie della sua fanciullezza con la voce di sua madre che gliele suggeriva sottotono alle orecchie.
E si faceva compagnia così. E dal silenzio della casa, la sua voce traboccava fuori, e scorreva nei marciapiedi e nella strada, e lei cantava e cantava e le vicine non si affacciavano mai neppure per dire buongiorno.
E allora lei usciva in strada, strisciava rasente i muri , nell’ombra, per giovarsi della frescura e per respirare il vento di maestrale e berlo e gonfiare i suoi polmoni uniformando il suo respiro a questo. La voce del vento, si diceva Margherita, è sempre una voce. Meglio del silenzio è questo respiro dell’isola che mi batte dentro. E non ricordava, Margherita, di avere mai avuto i capelli scompigliati con quella forza, i suoi capelli colore del grano di solito intrecciati per non infastidire lo sguardo ma questa volta disciolti per sentire la compagnia di una carezza. E allora la solitudine sembrava meno solitudine se la pelle del suo volto era attraversata da tutti quei fili sottili mossi dal vento come mille dita a toccare il suo volto, ad asciugare le sue lacrime, a consolarla dell’assenza di voci e di amiche.
-Itta si boli nai custa strangia? - cosa vuole dire questa straniera?- sentì per caso dire ad una vicina una di quelle mattine della sua solitudine, in cui la disperazione l’aveva afferrata più forte e l’aveva gettata fuori dalla porta. Quella domanda non era per lei ma riguardava lei senza coinvolgerla. Aveva però ben capito, ché, nei silenzi che l’avvolgevano, qualche frase riusciva a coglierla con l’angoscia di farla anche sua ma senza riuscirci: quella lingua era stata a lungo per lei come pioggia di diversa acqua di un altro pianeta. Anche senza confronto, però, la ripetizione dei suoni le aveva portato infine anche i significati. Ma .non osava rispondere per paura. Sapeva di essere una strangia , come sentiva vagamente che la chiamavano tra loro le donne del vicinato, ammiccando con il mento e lo sguardo verso di lei. Imparò così ad ascoltare. E quando Bonaria, la sua vicina piccola e magra, un giorno la vide passare per caso, Margherita ripagò il suo sguardo con un grande sorriso. Bonaria non parlò né sorrise, solo allungò il suo braccio e nella mano aveva un piccolo pane con la crosta dura e tagliuzzata a cresta di gallo: -Coccoeddu si zerriara, Margherita, coccoeddu - coccoeddu si chiama, Margherita, coccoeddu-.Margherita allungò la sua mano e sorrise.

*

Melchiorra

 

L’ho vista per caso. Andava a piedi, come al solito, per la lunga e stretta via che da casa sua arrivava all’incrocio con la strada maestra, la provinciale per andare in città.

Era alta, dinoccolata, contenta  e sicura di sé. Teneva stretto  un involto sotto il braccio, un sacchetto di plastica che stringeva come un tesoro. La chiamai, si girò, mi vide e spalancò un sorriso tutto gengive in quella faccia lunga e piatta che non riusciva a farla passare mai inosservata.

Il nome che suo padre  aveva voluto darle non le era mai piaciuto perché a scuola i suoi compagni delle elementari la prendevano sempre in giro e lo storpiavano in mille modi. Melchiora, Melchè, Orina, Melchiana e qualcuno, più grandicello, azzardava un improbabile Baldassarra per analogia di ruolo. Così, quando ebbe compiuto i dieci anni, si intestardì con suo padre che era stato sempre orgoglioso di quel nome appartenuto a sua madre, e disse che, se avesse continuato  chiamarla così, non avrebbe mai, mai più dato risposta.

Si concordò allora un più spiccio Rina, che, oltre ad ingentilire i tratti del nome, permetteva un’emissione minore di fiato e, forse, una risposta più immediata ai richiami perentori di tutta la famiglia.

In casa la chiamavano molto spesso per disbrigare faccende, per lavare i panni sporchi , i càmici unti del padre che arrivava lercio di grasso dall’officina, per spazzare il marciapiede sotto casa sempre pieno di immondizie, per stirare montagne di roba gualcita  accartocciata e resa spessa dalla lunga esposizione al sole di luglio, per andare a comparare il pane e il latte.

E lei si era persuasa che la sua presenza fosse indispensabile in famiglia e che tutti suoi fratelli e sorelle, suo padre e sua madre, dovessero sempre dipendere da lei, dalla sua sveltezza nel fare le faccende di casa, dalla sua vocazione alla pulizia. Senza di lei nessuno in quella casa avrebbe potuto più vivere. E in questa convinzione era cresciuta, alta, allampanata, magrissima e faconda. Non si lamentava mai, parlava con tutti  di buon grado, intessendo racconti sui fatti del giorno, ingigantendo particolari e dando corpo a minimi indizi di insignificanti discrepanze nei comportamenti altrui.

Volevo fare una conversazione con lei. Mi si avvicinò  quindi con quel sorriso stampato in faccia e con la disponibilità a narrare di sé.

-Dove vai? dissi io facendole segno con la mano che si avvicinasse.

-Sto facendo una passeggiata, vado a buttare questo sacchetto di immondizia-, mi disse mostrandomi l’involto.

-Che passeggiata? Sotto questo sole? Per buttare la spazzatura?- dissi aggrottando le sopracciglia.

-Certo. Così ho una scusa-, rispose con il suo solito sorriso tutto gengive.

-Mah, ci vuole una scusa per andare a fare una passeggiata?- , dissi io.

-Per me sì. Non sono abituata ad uscire per niente-, mi rispose.

-Come per niente, Rina!- dissi io, -una si fa una passeggiata e basta. Esce per questo.

-Eh, no, mia cara! Non è così semplice. Per te forse è così ma non per me- mi disse con fare perentorio accompagnando le parole dondolando  il dito indice della mano destra.

-Ma perché per te no?- dissi io in attesa di spiegazioni.

-Da quando sono rimasta vedova, nessuno deve poter dire che esco per niente, ne va della mia reputazione!-

Lo stato di vedovanza la esponeva a dicerie malevoli sul suo conto, pensava.

-Dai, vieni un po’ qui, raccontami- dissi io- è tanto che      non  ci si vede-.

-Eh, sì, disse lei. -Vedi adesso porto il lutto per mia madre. Tu lo sai che è morta?-

-Morta?

-Sì, sei mesi fa è morta. Era in una casa di riposo. Mia sorella ha voluto portarla lì. Sai io non avrei voluto, l’avrei tenuta con me , sarei andata a stare con lei nella sua casa, l’avrei accudita e rispettata meglio che in quell’orribile posto. Ma non hanno voluto.

-Come non hanno voluto? Chi non ha voluto?- chiesi io in apprensione.

-Le mie sorelle non hanno voluto. Non volevano che io potessi spendere i soldi della sua pensione.

-Che cosa orribile. Ma perché?

-Lo sai che mi odiano, specie Angela. Lei proprio mi   ha sempre ostacolato. Da quando poi sono diventata vedova non me ne ha fatta passare una-.

-Ma proprio perché sei vedova dovrebbe aiutarti. Tuo marito ti ha lasciato qualcosa di cui vivere?

-No, solo la pensione di reversibilità prendo, ma è una cosa da ridere. E poi i miei figliastri…mi hanno quasi cacciato di casa. Mi hanno fatto la guerra. Il maggiore mi ha costretto a cedergli la parte superiore della casa, il più piccolo ha preteso di stare con me nell’altra metà.

-Bene- dissi io- così non sei rimasta proprio da sola?

-Ma cosa dici! Non sai che inferno è  stata la mia vita. Peggio di prima-, dice agitando in aria la mano.

-Perché prima com’era?- faccio io  con meraviglia.

-Lo sai che non ho avuto figli miei, lui non ne voleva, mi picchiava sempre e i suoi figli si approfittavano di me, non mi volevano bene e si lamentavano col padre per ogni sciocchezza- rispose.

-E adesso però continui a stare in quella casa?- dissi io

-Chiamala casa, disse lei, non c’è più nulla che la ricordi. Quando mi sono sposata avevo con me un bellissimo corredo, la trapunta di raso, le lenzuola ricamate, le tende di pizzo. Tutto, tutto  ho dovuto togliere. Mi hanno fatto cedere tutto il primo piano della casa, che è andata al figlio grande.

-E tu adesso dove stai?- dissi io sempre più incuriosita.

-Sto al pianterreno insieme al figlio piccolo. Ma sai com’è, quando non è fuori per lavoro, non esce mai di casa e occupa tutto lo spazio. Poi non posso neanche uscire a fare la spesa.

-Neanche la spesa?- chiesi io.

-Neanche la spesa. Compro sempre lo stretto necessario per un giorno, al massimo due. Ma mi tocca fare la veglia di notte.

-La veglia di notte?-

-Sì, dormo nella sedia sdraio davanti al frigorifero, perché altrimenti lui tutto si mangia!-

-Si mangia tutto quello che tu compri?-

-Sì, tutto.

-E tu come fai dopo?

-Te l’ho detto, dormo davanti al frigorifero. Solo così lui non può aprire lo sportello e io riesco a mangiare qualcosa anche l’indomani, rispose con aria furba.

-Ma non esci mai da casa?

-Praticamente vado solo a comprare da mangiare  e a buttare le immondizie. Per il resto sto in casa.

-Ma neanche  quando lui è fuori, esci?

-No, ho paura che ritorni, che non mi trovi e ne approfitti per mangiare tutto quello che trova.

-Ho capito Rina. Hai qualche amica?

-No, anzi, sì, una signora che abita qui vicino. Vado a messa con lei e poi alle riunioni della chiesa. Devo tanto a lei.  Tramite lei ho conosciuto le altre donne  del gruppo di preghiera che mi hanno accolta- rispose con un largo sorriso che scopriva completamente le gengive.

-E ti vogliono bene?- aggiunsi io con curiosità.

-Sì, ma io non rimango mai indietro, sai. Vado a fare tutte le pulizie a casa loro. Le aiuto e mi dicono brava, sai, sono sempre stata brava a pulire la casa. E loro hanno fiducia in me. Mi lasciano sempre la chiave di casa a disposizione e io pulisco tutto, così quando arrivano possiamo andare in chiesa a pregare. Pensa che bello, in quei giorni non devo neppure farmi la spesa, perché mangio a casa loro.

Sono tanto buone queste signore.

 

 

 

 

 

*

Tanino

Quando mi dissero che sotto casa mia, appena un po’ più avanti, nel marciapiede stretto e sempre bagnato da un rivolo di acqua sporca, avevano trovato Tanino, morto ammazzato, spalmato come un vecchio cannavazzu, io non ci volevo credere.

Ma non perché pensavo che quel tipo di ammazzatine non fosse possibile, no. Ma perché non mi capacitavo che era proprio lui, Tanino, con tutti quei capelli a tendina sull’occhio, con tutti quei denti bianchi bianchi, con quelle sue mani che parevano di femmina tanto erano lunghe e delicate e le due fossette ai lati della faccia, una di qua e l’altra di là, che sembrava gli avessero messo dentro un filo che si tirava col sorriso. Proprio no, non poteva essere.

Io lo sapevo che lui non aveva niente a che fare con nessuno di quelle male persone che ogni tanto nel paese si sapeva che circolavano. Che poteva avere a che fare lui?

A me aveva raccontato sempre tante storie, mi aveva preso in braccio tante volte, mi aveva portato al bar della piazza a mangiare il gelato con la brioscina, lui lo sapeva che a me piaceva quello alla nocciola e qualche volta pure quello al caffè.

Lui mi guardava sempre quando io prendevo in mano il gelato e mi cadeva sulle dita della mano, sul polso e poi pure sul braccio, che si vedeva una lunga striscia scura, specie in estate quando avevo il vestito senza le maniche.

Tanino rideva sempre, mi diceva guarda che poi tua madre ti dà legnate se ti vede tutta sporca di gelato, io lo guardavo e ridevo pure io e poi lui si accosciava in terra per vedermi da vicino e rideva e io gli mettevo il mio dito sporco di gelato dentro le sue fossette.

Io pensavo che lui lo facesse apposta a farsele venire tutte le volte che rideva e mi immaginavo l’elastico che si partiva da una guancia all’altra dentro la sua bocca e che faceva comparire le fossette. Lo sapevo io sola di quell’elastico, perché quando gli chiesi perché aveva quei due buchi nella faccia quando rideva, lui mi disse sai ho un elastico nella bocca che si tira quando rido, ma tu non lo devi dire a nessuno.

Nessuno lo sapeva , oltre a me e lui sapeva che di me si poteva fidare. Anche se sono una femmina io i segreti li so mantenere.

Lui, Tanino, era il figlio della zia Caterina. Lei veramente non era mia zia, ma io l’avevo chiamata sempre così. Anche i miei fratelli l’avevano chiamato sempre così e anche le mie cugine che stanno dall’altra parte del paese, l’hanno sempre chiamata così.

La zia Caterina era vecchia, aveva tutti i capelli bianchi ma di lato aveva una striscia nera nera che sembrava dipinta di proposito. E dietro la testa aveva una treccia grossa grossa a forma di tuppo.

Tutte le mattine si pettinava davanti alla porta di casa e si scioglieva il tuppoe si disfaceva la treccia grossa. I capelli le arrivavano fino alla vita e io pensavo come mai così vecchia e aveva i capelli fino alla vita. Possibile che non se li fosse tagliati mai?

Mi piaceva vedere la zia Caterina quando si pettinava quei capelli lunghi lunghi e come poi raccoglieva i fili dal pettine e li attorcigliava tutti e li metteva in un fazzoletto. Io mi chiedevo perché metteva i capelli dentro quel fazzoletto, che bisogno c’era di metterli lì. Un giorno glielo chiesi. Mi avvicinai mentre si pettinava. Io avevo un po’ paura di zia Caterina , era così vecchia e pure alta e aveva tutte le mani con le pieghe. Ma io lo volevo sapere perché ormai erano tanti giorni che la guardavo. Lei mi disse che raccoglieva tutti i capelli perché poi passava l’uomo dei fiammiferi e lei glieli dava e quello le dava in cambio una scatola grande di fiammiferi.

La zia Caterina aveva tanti figli, ma non stavano più tutti con lei. Solo Tanino stava ancora con lei perché era il più piccolo di tutti e ancora non se ne poteva andare perché non lavorava tutti i giorni e non era sicuro che poteva mangiare tutti i giorni con quello che gli davano. Lui faceva il cameriere, serviva ai tavoli nei matrimoni. Era un lavoro bello questo, perché poteva anche mangiare tutte le cose che mangiavano gli invitati e magari portarne pure a zia Caterina che era vecchia e queste cose non le sapeva cucinare. Erano molto buone tutte le cose che davano ai matrimoni.

Anche a me Tanino dava qualche cosa. Lui lo sapeva che a me piacevano i dolci e me li portava sempre. Però di nascosto di sua madre, perché se lei vedeva che li portava a me, poi gli diceva che le cose le portava ai figli degli estranei invece di darli a sua madre.

Ma lui li metteva dentro la tasca dei suoi pantaloni e li nascondeva per darmeli poi. Qualche volta li metteva magari dentro la cesta dei fichi che tra un matrimonio e l’altro andava a vendere per conto suo.

Lui ogni tanto andava in campagna e lì c’erano quattro alberi grandi di fichi. Il padrone del giardinoneanche se ne accorgeva che Tanino raccoglieva i fichi grandi perché lui era furbo e non si faceva mai vedere. Ci andava sempre dopo che il sole se n’era andato, tutti i giornatari già da un pezzo non c’erano più in campagna e non c’era neanche l’uomo dell’acqua. Perché quello era amico del padrone e se lo vedeva sicuro che glielo diceva e allora Tanino avrebbe preso un sacco di legnate da loro due.

Ma lui era troppo furbo. Raccoglieva un paniere di fichi bello grande e se ne tornava in paese che già era scuro e nessuno lo poteva vedere. E così l’indomani mattina se li vendeva in mezzo alle vanedde del paese dove le donne che lo conoscevano gli davano i soldi. E lui non se li teneva tutti per sé. Li portava tutti alla zia Caterina che poi ci comprava il pane , la pasta e i fagioli. E qualche volte anche il caciocavallo e qualche pezzo di carne.

A me Tanino mi voleva bene, perché lo vedeva che io giocavo sempre da sola. Io volevo stare con gli altri bambini ma loro non volevano. Io non lo so perché non volevano stare con me. Qualcuno ogni tanto ci stava con me a giocare ma appena venivano gli altri se ne andava con tutti e io non ero veloce e quando correvo mi veniva sempre il fiatone grosso e poi mi fermavo e non li raggiungevo mai. Allora tornavo nel marciapiede vicino a casa mia e giocavo da sola.

Tanino era bravo a costruire pure i giocattoli e mi aveva fatto una bambola tutta di legno. Questa bambola aveva tutti i capelli gialli gialli e gli occhi neri perché Tanino li aveva disegnati con la matita di suo fratello che era muratore e che l’aveva sempre sopra l’orecchio. Io un giorno l’avevo visto questo suo fratello e non capivo perché teneva quella matita sopra l’orecchio.

Tanino mi diceva che lui ci scriveva sul muro, ma io pensavo cosa mai poteva scrivere sul muro? Boh! Ma ci credevo, perché Tanino a me di bugie non me ne diceva mai.

Come quel giorno che era tornato a casa stanco perché c’era stato un matrimonio e l’avevano chiamato per servire ai tavoli. Lui lo chiamavano sempre perché era veloce e poi perché faceva una bella figura. Era alto e poi aveva quelle sue mani lunghe da femmina ed era sempre attento con gli invitati, portava le cose che loro chiedevano presto presto e non li faceva mai aspettare. Non come quell’altro cameriere figlio del padrone che era lento lento e non si spicciava mai a portare le cose in tavola.

A Tanino lo chiamavano sempre nei matrimoni.

Quel giorno lui era tornato a casa e si stava lavando tutto perché era sudato, faceva caldo, c’era pure stato tutto il giorno lo scirocco per questo era tutto sudato. Ma non si era neppure messo la camicia pulita che erano venuti i carabinieri a chiamarlo.

La zia Caterina restò davanti alla porta mentre lui usciva con i carabinieri. Anche i carabinieri erano alti ma lui era più alto di loro e più bello, anche se loro avevano tutti i bottoni d’oro nella giacca e lui invece la camicia ancora sbottonata.

Lo avevano portato in caserma perché dicevano che alla fine del matrimonio , quando tutti gli invitati se n’erano andati, il padrone non aveva trovato più i soldi che aveva lasciato dentro il cassetto chiuso a chiave. Il cassetto era ancora chiuso e poi quando lui l’aveva aperto non c’era più niente.

I carabinieri avevano detto che volevano interrogare Tanino su questa cosa dei soldi, ma lui poi quando uscì me lo disse che non ne sapeva niente, che lui non c’entrava niente con quei soldi, che anzi non sapeva neppure che sotto il bancone della verdura c’era un cassetto nascosto.

Io ho creduto a Tanino perché lui a me bugie non me ne diceva mai. Però non lo chiamarono più per i matrimoni e lui non poteva sempre andare a rubare i fichi per venderli.

Dopo che tornò a casa, ma non tornò subito subito, forse dopo tanti giorni che io non ho potuto contare, passava con me molto tempo.

Giocava sempre con me e mi portava anche al bar a comprare il gelato, anzi non me lo comprava lui, perché soldi non ne aveva, ma qualche suo amico che incontravamo ogni tanto lo comprava anche a me.

Io volevo bene a Tanino, e quando lui mi costruiva i giocattoli con il legno oppure con il filo di ferro o con le pezze vecchie che sua madre non voleva più, io gli guardavo sempre le mani.

Si muovevano leggere le sue dita, leggere leggere e io pensavo che anche alle bambole che mi costruiva piaceva farsi toccare la patatina come piaceva a me.

Io volevo bene a Tanino.

 

 

 

 

 

 

Pubblicato in " Antologia Cartabianca" a cura di Fabrizio Manca Nicoletti, Cagliari 2011


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