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Emigrati
EMIGRATI Di Maria Rosa Giannalia Le città erano due: New York, Brooklyn quartiere Little Italy. Sicilia, Palermo, quartiere Kalsa. Rosalia era sola nella grande casa al quinto piano del numero centonove di Mulberry Street. Ogni tanto si affacciava dal balcone e guardava di sotto in strada. Vedeva il grande telone del suo fruttivendolo preferito: Ciccio. Lui sapeva sistemare la frutta per sfumatura di colore: le mele dal rosso squillante al rosa acceso, al rosa tenue, altre dal giallo paglierino al giallo dorato fino al verde delle ultime, disposte in ordine nell’ultima fila in alto. E le arance, poi. A Rosalia piaceva annusarle quando risaliva nel suo appartamento: era un tornare nella casa di Palermo, quando dal cestino ricolmo di agrumi sceglieva quelli dalla buccia più grossa per fare il cileppo per le cassate. Rosalia scendeva a comprare la frutta tutti i giorni: quattro mele, due arance, due pere e qualche banana. Le piaceva parlare con Ciccio e contrattare sul prezzo. Nessuno in quel negozio lo faceva mai - contrattare sul prezzo - ma lei sì. Ogni tanto Ciccio la frutta gliela regalava. E Rosalia quasi si sentiva a Ballarò, il quartiere-mercato di Palermo dove andava ogni tanto con Totò, suo marito, a comprare frutta e pesce perché lì il pesce era più fresco, diceva lui. Col suo vestito leggero a fiorami, a Brooklyn, in quella strada grande e affollata, Rosalia era elegante anche se scendeva solo a comprare la frutta. E i capelli non erano più legati a tuppo come quando era a Palermo, ma corti e con i boccoli ai lati della faccia. Non sorrideva, però. Solo gli occhi neri e grandi sfavillavano contro il biancore della pelle diafana e due piccoli segni sottili si intravvedevano agli angoli della bocca: era tutto il suo sorriso. Suo marito era un po’ in pena per lei e le diceva scendi, scendi, vai a farti una passeggiata, vai nei negozi. Eh, sì, pensava lei: come quell’unica volta in cui aveva deciso di andare in uno store. Era grandissimo che quasi ci si perdeva. Era andata a comprare un utensile per la cucina ma sembrava che non ne tenessero. Aveva provato a chiedere a un commesso: uarioppe uarioppe, maccarruni stope poi aveva proseguito a gesti unendo i polpastrelli delle prime tre dita della mano destra per chiedere al commesso dove potesse trovarlo. Non c’era verso. Nessuno capiva e lei quasi stava per mettersi a piangere finché un altro commesso, in là con gli anni, che stava sistemando gli scaffali in fondo alla corsia, la vide e si avvicinò per dare una mano al collega. Please, what do you want ma'am? Rosalia aveva ripetuto ancora e ancora, rossa in viso, confusa, con un filo di voce: uarioppe uarioppe, maccarruni stop, uarioppe uarioppe, maccarruni stop! E solo quando il commesso, sorridendo le disse: Signora ho capito, vuole uno scola-pasta, lei ebbe un sussulto di gioia che quasi lo abbracciava. Rosalia si era illuminata e aveva iniziato a parlare col commesso come fossero amici da sempre. Si era scordata di tornare in fretta a casa come faceva tutti i giorni quando preferiva la solitudine e il silenzio di quell’estraneo appartamento al vocìo dei passanti. Ma fu solo quel giorno. Il marito al rientro la trovò con le guance arrossate e un po’ affaticata. Le tolse lo scolapasta dalle mani e le chiese come c’era riuscita a farsi capire. Il sorriso soddisfatto di Rosalia gli diede la conferma che qualcosa di eccezionale era accaduto. Totò colse l’espressione di orgoglio soddisfatto e sperò che la moglie potesse spolverarsi di dosso tutta la malinconia di ogni giorno che si sollevava dai mobili pulitissimi, dal pavimento brillante e da ogni cosa al suo posto. Quasi non ci fossero abitanti in quella casa. Lei era accuratissima e niente sfuggiva alla sua meticolosità nel rassettare i cassetti, nel mettere a posto la biancheria stirata, nel lucidare il lavello di acciaio brillante che mai aveva avuto nella sua casa palermitana. Ma non ne era felice: quella brillantezza non illuminava il suo cuore né quell’ordine la rasserenava. Con Ciccio il fruttivendolo era più in confidenza. Andava in negozio per acquistare le zucchine lunghe e i tenerumi per fare la minestra. Lui gliele metteva da parte chè tanto a nessuno poteva venderli. Nessuno conosceva il fresco sapore della minestra con quelle tenere foglie di zucchina lunga che si coltivava solo in terra di Sicilia. La preparava la sera quando Totò, stanco del lavoro nella fattoria tornava a casa e si sentiva abbracciare da quel fresco profumo e anche a lui bastava chiudere gli occhi per ritrovarsi di colpo lì, a Palermo, nella sua casa di sole due stanze, con pochi mobili vecchi e nient’altro da mangiare che quella stessa minestra ma col cuore sereno e sicuro di trovarsi al suo posto in quel mondo. Totò avrebbe voluto raccontare a Rosalia della sua giornata dei suoi compagni di lavoro e del boss che bonariamente ma con fermezza andava esortando tutti ad affrettarsi ché le commesse erano tante e bisognava affrettare le consegne. Rosalia neanche capiva quella parola. Prima di venire a N.Y. era abituata al marito che lavorava nella sua piccola falegnameria sotto quelle due stanze, a Palermo, alla luce smorzata dalle case del vicolo che oscuravano il sole, dove spesso qualche amico andava a fargli compagnia discutendo del più e del meno mentre lui, Totò, passava la pialla sulle tavole di pino, l’unico legno che le famiglie si potessero consentire per i loro mobili. Totò era bravissimo e dalle sue mani nasceva qualsiasi oggetto gli ordinassero. Ma gliene ordinavano pochi perché quella gente non li poteva mai pagare e anche se costavano poco, Totò doveva accontentarsi di piccole rate mensili messi da parte a fatica da quel genere di clienti. Ma i suoi due bambini dovevano andare a scuola, dovevano mangiare, dovevano anche avere degli abiti decenti. Totò e Rosalia si dicevano l’un l’altro che i figli dovevano studiare. Pensavano che quello fosse l’unico modo per sottrarli alla fame sicura e agli stenti che loro stessi non avevano mai potuto superare. Enzo e Carmelina no. Non avrebbero dovuto fare la loro vita. Non avrebbero vissuto nei vicoli stretti di Palermo con le balate sempre umide e bagnate dall’acqua che le donne che vivevano nei bassi, scaraventavano continuamente fuori dalla porta. Volevano per i loro figli una vita diversa. Diversa soprattutto dalla loro. *** Se n’erano andati via dalla loro casa di Palermo perché Totò non aveva di che vivere decentemente e di che far vivere Rosalia, Enzo e Carmelina. Enzo e Carmelina erano ancora piccoli, ma non abbastanza per andarsene via senza dolore. Anzi, fosse stato per loro, sarebbero rimasti avvinghiati alla strada polverosa, al marciapiede, alla persiana della casa del nonno. Loro lì ci stavano bene. Giocavano in strada con gli altri bambini; correndo e vociando, andavano sempre qua e là in giro per il quartiere o a casa di questo o di quel bambino. Perché mai se ne dovevano andare? Una mattina di primavera del millenovecentosessantatrè, molto presto - il sole era sorto da poco sul mare che si intravvedeva in lontananza alla fine del vicolo - Carmelina era già in strada col suo completino rosa a strisce bianche e un gilet senza maniche. Rosalia aveva un cappottino leggero celeste, le scarpe bianche intonate alla borsetta, Enzo indossava già i pantaloni lunghi, nuovi. C’era un gran viavai per la strada stretta. Aiutato dai fratelli, Totò caricava sull’imperiale della Fiat Millecento le valigie voluminose, le borse, i pacchi. Poi salirono tutti in auto: i fratelli di Totò nella Millecento, Totò, Rosalia, Enzo e Carmelina in una Fiat Ottocentocinquanta, più piccola, verde mela. Guidava Totò, quella era la macchina del fratello. Il vicinato spiava dietro le persiane: le donne ancora in camicia da notte, qualche uomo mattiniero con la tazza del caffè in mano, qualche altro si era già vestito, nessuno voleva perdersi la partenza degli americani. Per loro già erano americani ancora prima che le ruote delle due auto si mettessero in moto. Gli americani salirono a bordo, Totò e Rosalia raggianti, Enzo e Carmelina riottosi e piangenti. Quando l’ultimo sportello si fu richiuso con un gran rumore, in mezzo alle voci, ai saluti, alle lacrime, ai fazzoletti umidi, le automobili cominciarono a muoversi. Tutti seguirono quella piccola carovana fino all’imboccatura della strada maestra e poi via verso l’aeroporto di Punta Raisi. Alcuni parenti stretti li accompagnarono, solo quelli che avevano l’auto, fin laggiù: attraversarono la città e poi la statale per Trapani, interminabile, e alcuni tra essi videro, forse per la prima volta, Sferracavallo, Capaci, Cinisi, il mare, l’Isola delle Femmine sempre in attesa di approdi vicino alla costa, la spiaggia, le onde, gli scogli, la tonnara, i giardini, i villini e di nuovo i giardini, i villini, i giardini, i giardini, i giardini, verde, verde, verde, e cielo azzurro, e le nuvole di zucchero filato e tutti i colori del torrone del festino di Santa Rosalia che correvano veloci, veloci. E poi l’aeroporto e quell’aereo, enorme, spaventoso, un uccello gigantesco che avrebbe portato Giuseppina, Totò e i bambini in un mondo sconosciuto di cui non sapevano, fino a qualche mese prima, neppure l’esistenza. *** - Ma perché se ne sono andati in America? Ma chi glielo ha fatto fare? Che fa, non potevano vivere qui? Ma come? Lasciano il padre vecchio, la madre malata? - Sì, ma ci sono gli altri figli: i fratelli di lei, la sorella di lui. Ce ne sono persone che badano a loro, non ti preoccupare! - Ma che fa scherzi? Andarsene così coi bambini piccoli! E quand’è che ritorneranno? Non è che sono andati a vivere, che so, a Roma, che possono prendere il treno e venire! Ci vuole l’aereo, ci vogliono un sacco di soldi, e quando ce li avranno tutti i soldi per ritornare? Ma io non mi capacito: Totò ce l’aveva la sua falegnameria, perché se ne andò in America? Eh, lo so io: lui si vuole fare i soldi, i soldi si vuole fare! - Ma che soldi e soldi, lo ha fatto per i figli! Per i figli, certo. Che fanno qui i figli, senza una sicurezza, senza un avvenire? - E che fanno? Fanno come tutti gli altri. - Perché gli altri che fa? Muoiono di fame? E noi, noi non stiamo ancora qui? E allora? Allora se ce ne andiamo tutti, qui non ci rimane più nessuno. Noi qui dobbiamo stare, te lo dico io! - Tu stai dicendo un sacco di minchiate, tutta invidia è la tua! Questa è terra bruciata, lo vuoi capire o no? Che futuro abbiamo noi qui? Bene hanno fatto ad andarsene. Anzi, sai che ti dico? Che ci dovevano pensare prima, anche prima di aver i bambini. Prima se ne dovevano andare. La Sicilia, la Sicilia! E che è? Perché qui ci siamo nati, detto è che ci dobbiamo pure morire? - Certo! Io qui voglio morire, non me ne voglio andare. A sentire te io me ne dovrei andare. Ma dove? a Bruccolino, a che fare poi? Lì una persona non è una persona, è uno dei tanti. Con chi parli a Bruccolino se non sai neppure la lingua? Che farà Rosalia tutto il giorno a casa, con chi parla, coi muri? - Ma vah, vah! lascia stare, si vede che sei arretrato. A te ti pare che uno, perché nasce in un posto ci deve stare per sempre, magari pure che muore di fame. Io se muoio di fame sai che ti dico? Me-ne-vado! Ecco che faccio. I parenti, il padre, la madre, i fratelli, sì, lo so, dispiace, ma che vuoi fare? Prima viene il pane. *** - Za’ Giuse’, che dice Rosalia, scrive? E suo marito lavora bene? E i bambini ci vanno a scuola? Quando ci scrive me li saluta tutti, ci dice che noi li pensiamo sempre. Ci dice pure a Totò che quando passo davanti alla falegnameria mi viene un groppo nella bocca dello stomaco. Si ricorda ancora delle nostre chiacchere Totò? Ce lo scriva, mi faccia questo piacere. Mi fa vedere una fotografia? Ih! Guarda che belli! Come sono cresciuti i bambini! E questa che è? La casa loro! Che bella casa che hanno. Si vede che stanno bene. E Rosalia pure: che beddra! - Ma voi come ve la passate senza di loro? Nostalgia? I bambini li vorreste vedere? E loro? Quando vengono a trovarvi? Eh, sì, i soldi, i soldi, sempre per questi soldi si dividono le famiglie! Pazienza bisogna avere, tanta pazienza. Ma poi vedrete che tornano, tornano. Tornano sempre. Cosa? dice che non tornano? Per i bambini che crescono lì a Bruccolino? Eh, sì, ma loro, vedrete, vedrete che tornano. E Totò? Si è impiegato in una bella fattoria? Ma perché? Lavora con le bestie? Ah, no? La fattoria in America è dove fanno le porte? Allora, sì sì, una falegnameria, grande. Certo, certo. Lui falegname è, quello è il suo mestiere. Ma vede che appena si fanno un po’ di dollari, tornano. *** Sono tornati, Totò e Rosalia. Hanno venduto la casa di Brooklyn, ma si sono tenuti i mobili. I mobili della loro vita li hanno voluti con sé. Ora stanno in un appartamento al primo piano di un palazzo nuovo nuovo nel quartiere Oreto. Un quadrivano grande con la sala da pranzo, la cucina, due bagni, una camera da letto dove dormono tutte le notti i loro sonni senza sogni, e un’altra camera con due letti in attesa. Il tavolo pieno di fotografie in fila, pulite, con le cornici d’argento scintillanti al sole che tutte le mattine allaga la stanza. Tutto è pulito, tutto è in ordine. Totò ogni mattina va a fare la spesa, Rosalia resta a casa a sbrigare le faccende. I suoi gesti sono lenti, si muove in quegli spazi con molta cautela, silenziosa, senza disturbare. Con Totò parla poco. Ogni tanto squilla il telefono. - Ciao, Carmen sei tu? Come stai? Che fai? Ah, sei a Dallas? No? A Seattle? (chissà dove si trova ‘sto posto. Quando torna Totò?, quanto ci mette a tornare?) lo sai, tuo padre è uscito, ma torna presto. Dici che non puoi aspettare? Ma lo sai che lui ci tiene a sentirti. Quando vieni a trovarci? Non puoi più venire? No? Il prossimo anno a Natale? Allora ti faccio richiamare? No? Va bene, Te lo saluto io. Rosalia si alza dalla sedia dove pensava di stare a lungo. Decide di farsi un caffè, suo marito sta per tornare, gli racconterà di Carmelina e della telefonata e di quando verrà a trovarli. Totò arriva: è stanco e sudato. Rosalia gli racconta della telefonata. - Ah, che peccato, non c’ero. Sempre quando non ci sono telefona! Totò si asciuga il sudore, si siede, si guarda intorno. Posa la busta sul tavolo. - Ma, Rosalia, lo senti tutto questo chiasso? Sono le automobili, fuori in strada, io non lo so perché si sente tutto questo chiasso, e anche questi ragazzi che giocano in strada, il pallone che tirano giù contro la saracinesca, la gente! Fanno tutti voci, parlano forte, si sentono dappertutto, le senti, le senti Rosalia? E i ragazzini? Non si sta in pace un momento in questa strada. Ti ricordi quando in America ci veniva la nostalgia della campagna di qui, ti ricordi quanto piangevi che non avevi nessuno per parlare, nessuno per uscire a fare le spese, ti ricordi? Perché non vuoi uscire mai, ora? Perché non vieni con me? No? Sei stanca? Hai messo su il caffè: ne prendiamo una tazza? E tutti questi rumori! Sì, è vero, hai ragione, non c’erano tutti questi rumori: quando ce ne siamo andati in America non c’erano. Guarda, ho comprato il pane, il pane inciminato.[1] E’ quello che ti piace di più. Lentamente, seduti in cucina, Totò e Rosalia bevono il caffè ancora caldo. *** Totò ha ritrovato il suo silenzio. Anche lui ormai è là, alla villa dei quattro tumuli, Rosalia ogni tanto va a mettere dei fiori nello stretto vaso di ottone e lucida la foto del marito che la guarda rassegnato e ironico dall’ovale porcellanato. Forse devo portare quelli di stoffa, questi fiori qui muoiono presto e puzzano.
[1] E’ una specialità di pane con i semi di sesamo tipica di Palermo
Id: 5891 Data: 16/06/2025 16:55:59
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Tanino
Quando mi dissero che sotto casa mia, appena un po’ più avanti, nel marciapiede stretto e sempre bagnato da un rivolo di acqua sporca, avevano trovato Tanino, morto ammazzato spalmato come un vecchio cannavazzu, io non ci volevo credere. Ma non perché pensavo che quel tipo di ammazzatine non fosse possibile, no. Ma perché non mi capacitavo che era proprio lui, Tanino, con tutti quei capelli a tendina sull’occhio, con tutti quei denti bianchi bianchi, con quelle sue mani che parevano di femmina tanto erano lunghe e delicate, e le due fossette ai lati della faccia, una di qua e l’altra di là, che sembrava gli avessero messo un filo dentro che si tirava col sorriso. Proprio no, non poteva essere. Io lo sapevo che lui non aveva niente a che fare con nessuno di quelle male persone che ogni tanto nel paese si sapeva che circolavano. Che poteva avere a che fare lui? A me aveva raccontato sempre tante storie, mi aveva preso in braccio tante volte, mi aveva portato al bar della piazza a mangiare il gelato con la brioscina, lui lo sapeva che a me piaceva quello alla nocciola e qualche volta pure quello al caffè. Lui mi guardava sempre quando io prendevo in mano il gelato e mi cadeva sulle dita della mano, sul polso e poi pure sul braccio, che si vedeva una lunga striscia scura, specie in estate quando avevo il vestito senza le maniche. Tanino rideva sempre, mi diceva guarda che poi tua madre te li dà se ti vede tutta sporca di gelato, io lo guardavo e ridevo pure io e poi lui si accosciava in terra per vedermi da vicino e io gli mettevo il mio dito sporco di gelato dentro le sue fossette. Io pensavo che lui lo facesse apposta a farsele venire tutte le volte che rideva e mi immaginavo l’elastico che si partiva da una guancia all’altra dentro la sua bocca e che faceva comparire le fossette. Lo sapevo io sola di quell’elastico, perché quando gli chiesi perché aveva quei due buchi nella faccia quando rideva, lui mi disse sai ho un elastico nella bocca che si tira quando rido, ma tu non lo devi dire a nessuno. Nessuno lo sapeva , oltre a me , e lui sapeva che di me si poteva fidare. Anche se sono una femmina io i segreti li so mantenere. Lui, Tanino, era il figlio della zia Caterina, lei veramente non era mia zia, ma io l’avevo chiamata sempre così. Anche i miei fratelli l’avevano chiamato sempre così e anche le mie cugine che stanno dall’altra parte del paese, l’hanno sempre chiamata così. La zia Caterina era vecchia, aveva tutti i capelli bianchi ma di lato aveva ne aveva una striscia nera nera che sembrava dipinta di proposito. E dietro la testa aveva una treccia grossa grossa a forma di tuppo. Tutte le mattine si pettinava davanti alla porta di casa e si scioglieva il tuppo e si disfaceva la treccia grossa. I capelli le arrivavano fino alla vita e io pensavo come mai così vecchia e aveva i capelli fino alla vita. Possibile che non se li fosse tagliati mai? Mi piaceva vedere la zia Caterina come si pettinava quei capelli lunghi lunghi e poi quando raccoglieva i fili dal pettine e li attorcigliava tutti e li metteva in un fazzoletto. Io mi chiedevo perché metteva i capelli dentro quel fazzoletto, che bisogno c’era di metterli lì. Un giorno glielo chiesi. Mi avvicinai mentre si pettinava. Io avevo un po’ paura di zia Caterina , era così vecchia e pure alta e aveva tutte le mani con le pieghe. Ma io lo volevo sapere perché ormai erano tanti giorni che la guardavo. Lei mi disse che raccoglieva tutti i capelli perché poi passava quello dei fiammiferi e lei glieli dava e si prendeva una scatola grande di fiammiferi. La zia Caterina aveva tanti figli, ma non stavano più tutti con lei , solo Tanino stava ancora con lei perché era il più piccolo di tutti e ancora non se ne poteva andare perché non lavorava tutti i giorni e non era sicuro che poteva mangiare tutti i giorni con quello che gli davano. Lui faceva il cameriere, serviva ai tavoli nei matrimoni. Era un lavoro bello questo, perché poteva anche mangiare tutte le cose che mangiavano gli invitati e magari portarne pure a zia Caterina che era vecchia e queste cose non le sapeva cucinare. Erano molto buone tutte le cose che davano ai matrimoni. Anche a me Tanino dava qualche cosa. Lui lo sapeva che a me piacevano i dolci e me li portava sempre. Però di nascosto di sua madre, perché se lei vedeva che li portava a me, poi gli diceva che le cose le portava ai figli degli estranei invece di darli a sua madre. Ma lui li metteva dentro la tasca dei suoi pantaloni oppure qualche volta li metteva dentro la cesta dei fichi che tra un matrimonio e l’altro andava a vendere per conto suo. Lui andava qualche volta in campagna e lì c’erano quattro alberi grandi di fichi. Il padrone del giardino neanche se ne accorgeva che Tanino raccoglieva i fichi grandi . perché lui era furbo e non si faceva mai vedere. Ci andava sempre dopo che il sole se n’era andato, tutti gli uomini già da un pezzo non c’erano più in campagna e non c’era neanche l’uomo dell’acqua. Perché quello era amico del padrone e se lo vedeva sicuro che glielo diceva e allora Tanino avrebbe preso un sacco di legnate da loro due. Ma lui era troppo furbo. Raccoglieva un paniere di fichi bello grande e se ne tornava in paese che già era scuro e nessuno lo poteva vedere. E così l’indomani mattina se li vendeva in mezzo alle vanedde dove le donne che lo conoscevano gli davano i soldi. E lui non se li teneva tutti per sé. Li portava tutti alla zia Caterina che poi ci comprava il pane , la pasta e i fagioli. E qualche volte anche il caciocavallo. A me Tanino mi voleva bene, perché lo vedeva che io giocavo sempre da sola. Io volevo stare con gli altri bambini ma loro non volevano. Io non lo so perché non volevano stare con me. Qualcuno ogni tanto ci stava con me a giocare ma appena venivano gli altri se ne andavano tutti e io non ero veloce e quando correvo mi veniva sempre il fiatone grosso e poi mi fermavo e non li raggiungevo mai. Allora tornavo nel marciapiede vicino a casa mia e giocavo da sola. Tanino era bravo a costruire pure i giocattoli e mi aveva fatto una bambola tutta di legno. Questa bambola aveva tutti i capelli gialli gialli e gli occhi neri perché Tanino li aveva disegnati con la matita di suo fratello che era muratore e che l’aveva sempre sopra l’orecchio. Io un giorno l’avevo visto questo suo fratello e non capivo perché teneva quella matita sopra l’orecchio. Tanino mi diceva che lui ci scriveva sul muro, ma io pensavo cosa mai poteva scrivere sul muro? Boh! Ma ci credevo, perché Tanino a me di bugie non me ne diceva mai. Come quel giorno che era tornato a casa stanco perché c’era stato un matrimonio e l’avevano chiamato per servire ai tavoli. Lui lo chiamavano sempre perché era veloce e poi perché faceva una bella figura. Era alto e poi aveva quelle sue mani lunghe da femmina ed era sempre attento con gli invitati, portava le cose che loro chiedevano presto presto e non li faceva mai aspettare. Non come quell’altro cameriere figlio del padrone che era lento lento e non si spicciava mai a portare le cose in tavola. A Tanino lo chiamavano sempre nei matrimoni. Quel giorno lui era tornato a casa e si stava lavando tutto perché era sudato, faceva caldo, c’era pure stato tutto il giorno lo scirocco per questo era tutto sudato. Ma non si era neppure messo la camicia pulita che erano venuti i cabinieri a chiamarlo. La zia Caterina restò davanti alla porta mentre lui usciva con i carabinieri. Anche i carabinieri erano alti ma lui era più alto di loro e più bello, anche se loro avevano tutti i bottoni d’oro nella giacca e lui invece la camicia ancora sbottonata. Lo avevano portato in caserma perché dicevano che alla fine del matrimonio , quando tutti gli invitati se n’erano andati, il padrone non aveva trovato più i soldi che aveva lasciato dentro il cassetto chiuso a chiave. Il cassetto era ancora chiuso e poi quando lui l’aveva aperto non c’era più niente. I carabinieri avevano detto che volevano interrogare Tanino su questa cosa dei soldi, ma lui poi quando uscì me lo disse che non ne sapeva niente, che lui non c’entrava niente con quei soldi, che anzi non sapeva neppure che sotto il bancone della verdura c’era un cassetto nascosto. Io ho creduto a Tanino perché lui a me bugie non me ne diceva mai. Però non lo chiamarono più per i matrimoni e lui non poteva sempre andare a rubare i fichi per venderli. Dopo che tornò a casa, ma non tornò subito subito, forse dopo tanti giorni che io non ho potuto contare, passava con me molto tempo. Giocava sempre con me e mi portava anche al bar a comprare il gelato, anzi non me lo comprava lui, perché soldi non ne aveva, ma qualche suo amico che incontravamo ogni tanto lo comprava anche a me. Io volevo bene a Tanino, e quando lui mi costruiva i giocattoli con il legno oppure con il filo di ferro o con le pezze vecchie che sua madre non voleva più, io gli guardavo sempre le mani. Si muovevano leggere le sue dita, leggere leggere e io pensavo che anche alle bambole che mi costruiva piaceva farsi toccare le gambe come piaceva a me. Io volevo bene a Tanino.
Id: 5298 Data: 30/01/2022 19:59:07
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Sa strangia
Venne nell’isola ma non fu per sua volontà. Per matrimonio, mi disse. Sì, doveva sposarsi. Ma non era con uno di noi. Disse che era con uno della sua stessa isola che lavorava qui. E fu per questo che venne. Quando arrivò a Cagliari era il dodici giugno del millenovecentosettanta. Era di pomeriggio ed era arrivata con suo padre. Mi raccontò che quando l’aereo, - un fokker a elica che sembrava un pullman del cielo con la sola differenza che aveva le ali - atterrò sulla pista di Elmas, aveva pensato di essere atterrata in un posto strano, un posto dove un vento fortissimo e caldo le aveva scompigliato quei suoi capelli biondi che cominciarono a sparpagliarsi di qua e di là come fiamme senza torcia e che lei non riuscì a fermare né a sistemare in alcun modo. Le altre poche donne scese dall’aereo non ci facevano proprio caso, anzi sembravano non accorgersi di quello scompiglio sulla loro testa e avanzavano sicure e dritte sulla pista, tenendo le valigie sospese a filo sul cemento. Margherita si sentì avvolta in un silenzio che non aveva mai sentito prima: un silenzio colorato del giallo bruciato di tutta la vegetazione alta che cresceva lussureggiante e disordinata ai bordi della pista. Fu presa da una specie di ubriacatura, la stessa che continuò ad accoglierla ad ogni suo successivo sbarco sull’isola, quando, tornando dalle strade vocianti e affollate della sua città, si ritrovava, solo dopo un’ora, depositata in una culla ovattata e primordiale, in cui ogni suono cessava. Margherita non aveva mai conosciuto quel silenzio. Aveva conosciuto musica, strilli di bambini, urla di adulti, strepiti di venditori ambulanti che andavano e venivano per le stradine strette dei quartieri della sua città di quell’altra grande isola da cui proveniva, la Sicilia, a vendere la frutta e la verdura, il pesce e le uova, i gelati, le olive, le pentole, le scope, le cianfrusaglie di casa a tutte le donne. Perciò, quella nuova atmosfera, intrisa di silenzio, quasi la smarrì. Non era abituata. E nei giorni e negli anni della sua vita di sposa disperata, quando usciva di casa nella speranza di incontrare qualcuno che avrebbe raccolto la sua parola per restituirla accresciuta di altre parole, anche sconosciute, dovette rimanere sempre delusa. Nessuno le si rivolse mai direttamente e pochi ricambiarono il suo saluto. Prigioniera di quei silenzi, Margherita intesseva , nella sua casa, fili di discorsi articolati, arricchiti da tanti che pensi? e come stai? e da improbabili che ne pensi? e vieni da me! Tuttavia attendeva sempre con un filo di speranza. Un giorno o l’altro, si diceva, avrò un’amica anche qui. E ogni mattina provava ad uscire: per le strade cittadine incrociava sguardi, ma solo di uomini che sembravano bambini nella loro piccola statura e quasi timorosi e tuttavia sfacciati ché lei i loro sguardi li sentiva sulla pelle appena l’incontro dei corpi lasciava la mano all’assenza. Decise che il silenzio della sua casa, privo di voci, quando il marito non c’era, dovesse diventare sonoro. E allora iniziò a cantare le nenie della sua fanciullezza con la voce di sua madre che gliele suggeriva sottotono alle orecchie. E si faceva compagnia così. E dal silenzio della casa, la sua voce traboccava fuori, e scorreva nei marciapiedi e nella strada, e lei cantava e cantava e le vicine non si affacciavano mai neppure per dire buongiorno. E allora lei usciva in strada, strisciava rasente i muri , nell’ombra, per giovarsi della frescura e per respirare il vento di maestrale e berlo e gonfiare i suoi polmoni uniformando il suo respiro a questo. La voce del vento, si diceva Margherita, è sempre una voce. Meglio del silenzio è questo respiro dell’isola che mi batte dentro. E non ricordava, Margherita, di avere mai avuto i capelli scompigliati con quella forza, i suoi capelli colore del grano di solito intrecciati per non infastidire lo sguardo ma questa volta disciolti per sentire la compagnia di una carezza. E allora la solitudine sembrava meno solitudine se la pelle del suo volto era attraversata da tutti quei fili sottili mossi dal vento come mille dita a toccare il suo volto, ad asciugare le sue lacrime, a consolarla dell’assenza di voci e di amiche. -Itta si boli nai custa strangia? - cosa vuole dire questa straniera?- sentì per caso dire ad una vicina una di quelle mattine della sua solitudine, in cui la disperazione l’aveva afferrata più forte e l’aveva gettata fuori dalla porta. Quella domanda non era per lei ma riguardava lei senza coinvolgerla. Aveva però ben capito, ché, nei silenzi che l’avvolgevano, qualche frase riusciva a coglierla con l’angoscia di farla anche sua ma senza riuscirci: quella lingua era stata a lungo per lei come pioggia di diversa acqua di un altro pianeta. Anche senza confronto, però, la ripetizione dei suoni le aveva portato infine anche i significati. Ma .non osava rispondere per paura. Sapeva di essere una strangia , come sentiva vagamente che la chiamavano tra loro le donne del vicinato, ammiccando con il mento e lo sguardo verso di lei. Imparò così ad ascoltare. E quando Bonaria, la sua vicina piccola e magra, un giorno la vide passare per caso, Margherita ripagò il suo sguardo con un grande sorriso. Bonaria non parlò né sorrise, solo allungò il suo braccio e nella mano aveva un piccolo pane con la crosta dura e tagliuzzata a cresta di gallo: -Coccoeddu si zerriara, Margherita, coccoeddu - coccoeddu si chiama, Margherita, coccoeddu-.Margherita allungò la sua mano e sorrise.
Id: 5285 Data: 17/01/2022 16:53:00
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Melchiorra
L’ho vista per caso. Andava a piedi, come al solito, per la lunga e stretta via che da casa sua arrivava all’incrocio con la strada maestra, la provinciale per andare in città. Era alta, dinoccolata, contenta e sicura di sé. Teneva stretto un involto sotto il braccio, un sacchetto di plastica che stringeva come un tesoro. La chiamai, si girò, mi vide e spalancò un sorriso tutto gengive in quella faccia lunga e piatta che non riusciva a farla passare mai inosservata. Il nome che suo padre aveva voluto darle non le era mai piaciuto perché a scuola i suoi compagni delle elementari la prendevano sempre in giro e lo storpiavano in mille modi. Melchiora, Melchè, Orina, Melchiana e qualcuno, più grandicello, azzardava un improbabile Baldassarra per analogia di ruolo. Così, quando ebbe compiuto i dieci anni, si intestardì con suo padre che era stato sempre orgoglioso di quel nome appartenuto a sua madre, e disse che, se avesse continuato chiamarla così, non avrebbe mai, mai più dato risposta. Si concordò allora un più spiccio Rina, che, oltre ad ingentilire i tratti del nome, permetteva un’emissione minore di fiato e, forse, una risposta più immediata ai richiami perentori di tutta la famiglia. In casa la chiamavano molto spesso per disbrigare faccende, per lavare i panni sporchi , i càmici unti del padre che arrivava lercio di grasso dall’officina, per spazzare il marciapiede sotto casa sempre pieno di immondizie, per stirare montagne di roba gualcita accartocciata e resa spessa dalla lunga esposizione al sole di luglio, per andare a comparare il pane e il latte. E lei si era persuasa che la sua presenza fosse indispensabile in famiglia e che tutti suoi fratelli e sorelle, suo padre e sua madre, dovessero sempre dipendere da lei, dalla sua sveltezza nel fare le faccende di casa, dalla sua vocazione alla pulizia. Senza di lei nessuno in quella casa avrebbe potuto più vivere. E in questa convinzione era cresciuta, alta, allampanata, magrissima e faconda. Non si lamentava mai, parlava con tutti di buon grado, intessendo racconti sui fatti del giorno, ingigantendo particolari e dando corpo a minimi indizi di insignificanti discrepanze nei comportamenti altrui. Volevo fare una conversazione con lei. Mi si avvicinò quindi con quel sorriso stampato in faccia e con la disponibilità a narrare di sé. -Dove vai? dissi io facendole segno con la mano che si avvicinasse. -Sto facendo una passeggiata, vado a buttare questo sacchetto di immondizia-, mi disse mostrandomi l’involto. -Che passeggiata? Sotto questo sole? Per buttare la spazzatura?- dissi aggrottando le sopracciglia. -Certo. Così ho una scusa-, rispose con il suo solito sorriso tutto gengive. -Mah, ci vuole una scusa per andare a fare una passeggiata?- , dissi io. -Per me sì. Non sono abituata ad uscire per niente-, mi rispose. -Come per niente, Rina!- dissi io, -una si fa una passeggiata e basta. Esce per questo. -Eh, no, mia cara! Non è così semplice. Per te forse è così ma non per me- mi disse con fare perentorio accompagnando le parole dondolando il dito indice della mano destra. -Ma perché per te no?- dissi io in attesa di spiegazioni. -Da quando sono rimasta vedova, nessuno deve poter dire che esco per niente, ne va della mia reputazione!- Lo stato di vedovanza la esponeva a dicerie malevoli sul suo conto, pensava. -Dai, vieni un po’ qui, raccontami- dissi io- è tanto che non ci si vede-. -Eh, sì, disse lei. -Vedi adesso porto il lutto per mia madre. Tu lo sai che è morta?- -Morta? -Sì, sei mesi fa è morta. Era in una casa di riposo. Mia sorella ha voluto portarla lì. Sai io non avrei voluto, l’avrei tenuta con me , sarei andata a stare con lei nella sua casa, l’avrei accudita e rispettata meglio che in quell’orribile posto. Ma non hanno voluto. -Come non hanno voluto? Chi non ha voluto?- chiesi io in apprensione. -Le mie sorelle non hanno voluto. Non volevano che io potessi spendere i soldi della sua pensione. -Che cosa orribile. Ma perché? -Lo sai che mi odiano, specie Angela. Lei proprio mi ha sempre ostacolato. Da quando poi sono diventata vedova non me ne ha fatta passare una-. -Ma proprio perché sei vedova dovrebbe aiutarti. Tuo marito ti ha lasciato qualcosa di cui vivere? -No, solo la pensione di reversibilità prendo, ma è una cosa da ridere. E poi i miei figliastri…mi hanno quasi cacciato di casa. Mi hanno fatto la guerra. Il maggiore mi ha costretto a cedergli la parte superiore della casa, il più piccolo ha preteso di stare con me nell’altra metà. -Bene- dissi io- così non sei rimasta proprio da sola? -Ma cosa dici! Non sai che inferno è stata la mia vita. Peggio di prima-, dice agitando in aria la mano. -Perché prima com’era?- faccio io con meraviglia. -Lo sai che non ho avuto figli miei, lui non ne voleva, mi picchiava sempre e i suoi figli si approfittavano di me, non mi volevano bene e si lamentavano col padre per ogni sciocchezza- rispose. -E adesso però continui a stare in quella casa?- dissi io -Chiamala casa, disse lei, non c’è più nulla che la ricordi. Quando mi sono sposata avevo con me un bellissimo corredo, la trapunta di raso, le lenzuola ricamate, le tende di pizzo. Tutto, tutto ho dovuto togliere. Mi hanno fatto cedere tutto il primo piano della casa, che è andata al figlio grande. -E tu adesso dove stai?- dissi io sempre più incuriosita. -Sto al pianterreno insieme al figlio piccolo. Ma sai com’è, quando non è fuori per lavoro, non esce mai di casa e occupa tutto lo spazio. Poi non posso neanche uscire a fare la spesa. -Neanche la spesa?- chiesi io. -Neanche la spesa. Compro sempre lo stretto necessario per un giorno, al massimo due. Ma mi tocca fare la veglia di notte. -La veglia di notte?- -Sì, dormo nella sedia sdraio davanti al frigorifero, perché altrimenti lui tutto si mangia!- -Si mangia tutto quello che tu compri?- -Sì, tutto. -E tu come fai dopo? -Te l’ho detto, dormo davanti al frigorifero. Solo così lui non può aprire lo sportello e io riesco a mangiare qualcosa anche l’indomani, rispose con aria furba. -Ma non esci mai da casa? -Praticamente vado solo a comprare da mangiare e a buttare le immondizie. Per il resto sto in casa. -Ma neanche quando lui è fuori, esci? -No, ho paura che ritorni, che non mi trovi e ne approfitti per mangiare tutto quello che trova. -Ho capito Rina. Hai qualche amica? -No, anzi, sì, una signora che abita qui vicino. Vado a messa con lei e poi alle riunioni della chiesa. Devo tanto a lei. Tramite lei ho conosciuto le altre donne del gruppo di preghiera che mi hanno accolta- rispose con un largo sorriso che scopriva completamente le gengive. -E ti vogliono bene?- aggiunsi io con curiosità. -Sì, ma io non rimango mai indietro, sai. Vado a fare tutte le pulizie a casa loro. Le aiuto e mi dicono brava, sai, sono sempre stata brava a pulire la casa. E loro hanno fiducia in me. Mi lasciano sempre la chiave di casa a disposizione e io pulisco tutto, così quando arrivano possiamo andare in chiesa a pregare. Pensa che bello, in quei giorni non devo neppure farmi la spesa, perché mangio a casa loro. Sono tanto buone queste signore.
Id: 2669 Data: 01/03/2015 20:23:22
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Tanino
Quando mi dissero che sotto casa mia, appena un po’ più avanti, nel marciapiede stretto e sempre bagnato da un rivolo di acqua sporca, avevano trovato Tanino, morto ammazzato, spalmato come un vecchio cannavazzu, io non ci volevo credere. Ma non perché pensavo che quel tipo di ammazzatine non fosse possibile, no. Ma perché non mi capacitavo che era proprio lui, Tanino, con tutti quei capelli a tendina sull’occhio, con tutti quei denti bianchi bianchi, con quelle sue mani che parevano di femmina tanto erano lunghe e delicate e le due fossette ai lati della faccia, una di qua e l’altra di là, che sembrava gli avessero messo dentro un filo che si tirava col sorriso. Proprio no, non poteva essere. Io lo sapevo che lui non aveva niente a che fare con nessuno di quelle male persone che ogni tanto nel paese si sapeva che circolavano. Che poteva avere a che fare lui? A me aveva raccontato sempre tante storie, mi aveva preso in braccio tante volte, mi aveva portato al bar della piazza a mangiare il gelato con la brioscina, lui lo sapeva che a me piaceva quello alla nocciola e qualche volta pure quello al caffè. Lui mi guardava sempre quando io prendevo in mano il gelato e mi cadeva sulle dita della mano, sul polso e poi pure sul braccio, che si vedeva una lunga striscia scura, specie in estate quando avevo il vestito senza le maniche. Tanino rideva sempre, mi diceva guarda che poi tua madre ti dà legnate se ti vede tutta sporca di gelato, io lo guardavo e ridevo pure io e poi lui si accosciava in terra per vedermi da vicino e rideva e io gli mettevo il mio dito sporco di gelato dentro le sue fossette. Io pensavo che lui lo facesse apposta a farsele venire tutte le volte che rideva e mi immaginavo l’elastico che si partiva da una guancia all’altra dentro la sua bocca e che faceva comparire le fossette. Lo sapevo io sola di quell’elastico, perché quando gli chiesi perché aveva quei due buchi nella faccia quando rideva, lui mi disse sai ho un elastico nella bocca che si tira quando rido, ma tu non lo devi dire a nessuno. Nessuno lo sapeva , oltre a me e lui sapeva che di me si poteva fidare. Anche se sono una femmina io i segreti li so mantenere. Lui, Tanino, era il figlio della zia Caterina. Lei veramente non era mia zia, ma io l’avevo chiamata sempre così. Anche i miei fratelli l’avevano chiamato sempre così e anche le mie cugine che stanno dall’altra parte del paese, l’hanno sempre chiamata così. La zia Caterina era vecchia, aveva tutti i capelli bianchi ma di lato aveva una striscia nera nera che sembrava dipinta di proposito. E dietro la testa aveva una treccia grossa grossa a forma di tuppo. Tutte le mattine si pettinava davanti alla porta di casa e si scioglieva il tuppoe si disfaceva la treccia grossa. I capelli le arrivavano fino alla vita e io pensavo come mai così vecchia e aveva i capelli fino alla vita. Possibile che non se li fosse tagliati mai? Mi piaceva vedere la zia Caterina quando si pettinava quei capelli lunghi lunghi e come poi raccoglieva i fili dal pettine e li attorcigliava tutti e li metteva in un fazzoletto. Io mi chiedevo perché metteva i capelli dentro quel fazzoletto, che bisogno c’era di metterli lì. Un giorno glielo chiesi. Mi avvicinai mentre si pettinava. Io avevo un po’ paura di zia Caterina , era così vecchia e pure alta e aveva tutte le mani con le pieghe. Ma io lo volevo sapere perché ormai erano tanti giorni che la guardavo. Lei mi disse che raccoglieva tutti i capelli perché poi passava l’uomo dei fiammiferi e lei glieli dava e quello le dava in cambio una scatola grande di fiammiferi. La zia Caterina aveva tanti figli, ma non stavano più tutti con lei. Solo Tanino stava ancora con lei perché era il più piccolo di tutti e ancora non se ne poteva andare perché non lavorava tutti i giorni e non era sicuro che poteva mangiare tutti i giorni con quello che gli davano. Lui faceva il cameriere, serviva ai tavoli nei matrimoni. Era un lavoro bello questo, perché poteva anche mangiare tutte le cose che mangiavano gli invitati e magari portarne pure a zia Caterina che era vecchia e queste cose non le sapeva cucinare. Erano molto buone tutte le cose che davano ai matrimoni. Anche a me Tanino dava qualche cosa. Lui lo sapeva che a me piacevano i dolci e me li portava sempre. Però di nascosto di sua madre, perché se lei vedeva che li portava a me, poi gli diceva che le cose le portava ai figli degli estranei invece di darli a sua madre. Ma lui li metteva dentro la tasca dei suoi pantaloni e li nascondeva per darmeli poi. Qualche volta li metteva magari dentro la cesta dei fichi che tra un matrimonio e l’altro andava a vendere per conto suo. Lui ogni tanto andava in campagna e lì c’erano quattro alberi grandi di fichi. Il padrone del giardinoneanche se ne accorgeva che Tanino raccoglieva i fichi grandi perché lui era furbo e non si faceva mai vedere. Ci andava sempre dopo che il sole se n’era andato, tutti i giornatari già da un pezzo non c’erano più in campagna e non c’era neanche l’uomo dell’acqua. Perché quello era amico del padrone e se lo vedeva sicuro che glielo diceva e allora Tanino avrebbe preso un sacco di legnate da loro due. Ma lui era troppo furbo. Raccoglieva un paniere di fichi bello grande e se ne tornava in paese che già era scuro e nessuno lo poteva vedere. E così l’indomani mattina se li vendeva in mezzo alle vanedde del paese dove le donne che lo conoscevano gli davano i soldi. E lui non se li teneva tutti per sé. Li portava tutti alla zia Caterina che poi ci comprava il pane , la pasta e i fagioli. E qualche volte anche il caciocavallo e qualche pezzo di carne. A me Tanino mi voleva bene, perché lo vedeva che io giocavo sempre da sola. Io volevo stare con gli altri bambini ma loro non volevano. Io non lo so perché non volevano stare con me. Qualcuno ogni tanto ci stava con me a giocare ma appena venivano gli altri se ne andava con tutti e io non ero veloce e quando correvo mi veniva sempre il fiatone grosso e poi mi fermavo e non li raggiungevo mai. Allora tornavo nel marciapiede vicino a casa mia e giocavo da sola. Tanino era bravo a costruire pure i giocattoli e mi aveva fatto una bambola tutta di legno. Questa bambola aveva tutti i capelli gialli gialli e gli occhi neri perché Tanino li aveva disegnati con la matita di suo fratello che era muratore e che l’aveva sempre sopra l’orecchio. Io un giorno l’avevo visto questo suo fratello e non capivo perché teneva quella matita sopra l’orecchio. Tanino mi diceva che lui ci scriveva sul muro, ma io pensavo cosa mai poteva scrivere sul muro? Boh! Ma ci credevo, perché Tanino a me di bugie non me ne diceva mai. Come quel giorno che era tornato a casa stanco perché c’era stato un matrimonio e l’avevano chiamato per servire ai tavoli. Lui lo chiamavano sempre perché era veloce e poi perché faceva una bella figura. Era alto e poi aveva quelle sue mani lunghe da femmina ed era sempre attento con gli invitati, portava le cose che loro chiedevano presto presto e non li faceva mai aspettare. Non come quell’altro cameriere figlio del padrone che era lento lento e non si spicciava mai a portare le cose in tavola. A Tanino lo chiamavano sempre nei matrimoni. Quel giorno lui era tornato a casa e si stava lavando tutto perché era sudato, faceva caldo, c’era pure stato tutto il giorno lo scirocco per questo era tutto sudato. Ma non si era neppure messo la camicia pulita che erano venuti i carabinieri a chiamarlo. La zia Caterina restò davanti alla porta mentre lui usciva con i carabinieri. Anche i carabinieri erano alti ma lui era più alto di loro e più bello, anche se loro avevano tutti i bottoni d’oro nella giacca e lui invece la camicia ancora sbottonata. Lo avevano portato in caserma perché dicevano che alla fine del matrimonio , quando tutti gli invitati se n’erano andati, il padrone non aveva trovato più i soldi che aveva lasciato dentro il cassetto chiuso a chiave. Il cassetto era ancora chiuso e poi quando lui l’aveva aperto non c’era più niente. I carabinieri avevano detto che volevano interrogare Tanino su questa cosa dei soldi, ma lui poi quando uscì me lo disse che non ne sapeva niente, che lui non c’entrava niente con quei soldi, che anzi non sapeva neppure che sotto il bancone della verdura c’era un cassetto nascosto. Io ho creduto a Tanino perché lui a me bugie non me ne diceva mai. Però non lo chiamarono più per i matrimoni e lui non poteva sempre andare a rubare i fichi per venderli. Dopo che tornò a casa, ma non tornò subito subito, forse dopo tanti giorni che io non ho potuto contare, passava con me molto tempo. Giocava sempre con me e mi portava anche al bar a comprare il gelato, anzi non me lo comprava lui, perché soldi non ne aveva, ma qualche suo amico che incontravamo ogni tanto lo comprava anche a me. Io volevo bene a Tanino, e quando lui mi costruiva i giocattoli con il legno oppure con il filo di ferro o con le pezze vecchie che sua madre non voleva più, io gli guardavo sempre le mani. Si muovevano leggere le sue dita, leggere leggere e io pensavo che anche alle bambole che mi costruiva piaceva farsi toccare la patatina come piaceva a me. Io volevo bene a Tanino. Pubblicato in " Antologia Cartabianca" a cura di Fabrizio Manca Nicoletti, Cagliari 2011
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Id: 2547 Data: 29/12/2014 14:51:13
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