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Raccolta di testi in prosa di Paola Salzano
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Piccolo grande Boss

 

In quel periodo complicato della sua vita Lorenzo non si sarebbe mai spettato di vivere un’esperienza così emozionante, che avrebbe ricordato per sempre.

Il giovane, appena trentenne, risiedeva nella periferia di Bologna. Appassionato di sport e fiducioso nell’avvenire, non stava nella pelle all’idea di coronare la sua storia d’amore con Gianna, una ragazza con cui stava insieme da cinque anni. Avevano spesso parlato di matrimonio, ma solo da qualche mese si erano prefissati di convolare a nozze per l’inizio di giugno.

Lorenzo però non aveva fatto i conti con le strade imprevedibili della vita e mentre fervevano i preparativi, una sera a cena Gianna gli confessò tra le lacrime di essersi innamorata di un altro uomo, facendo intuire a Lorenzo che forse il matrimonio per lei era stato una decisione scontata, dovuta alla durata del loro rapporto.

Tra lo sgomento e l’incredulità, magari sottovalutando dei segnali che pure c’erano stati, il giovane incassò un pugno nello stomaco e in quel freddo mese di febbraio oramai agli sgoccioli, quando credeva di essere vicino ad una delle primavere più belle della sua vita, Lorenzo si trovò a sprofondare nel più buio degli inverni.

Cadde così in uno stato di prostrazione, rimpiangendo il suo grande amore nel quale aveva investito tutte le energie, dopo anni a rincorrere storielle senza avvenire. Vedendolo sempre più depresso, i suoi amici cercavano di aiutarlo in tutti i modi, proponendogli serate a base di piada e birra, oppure organizzando appuntamenti galanti, senza però sortire alcun effetto.

Lorenzo era a pezzi, trascorreva le giornate come un automa, trascinandosi al lavoro e passando il tempo a vittimizzarsi, chiedendosi se per caso avesse sbagliato qualcosa con Gianna. Teneva gli occhi fissi sul cellulare, aspettando un messaggio o una telefonata di pentimento dalla sua ex, che però non arrivava.

Un sabato mattina, dopo aver fatto la sua abituale corsetta tra le vie del quartiere, Lorenzo stava rincasando quando, varcata la soglia del portone, incrociò un vicino di casa che lo salutò affettuosamente con una pacca sulla spalla.

Lorenzo contraccambiò il saluto, ma la sua attenzione si diresse verso il basso, dove due occhietti vispi di un cucciolo al guinzaglio lo fissavano curiosi. Con la testolina dal pelo fulvo, leggermente incrinata, il cagnolino era seduto sulle zampette posteriori e muoveva energicamente la coda quasi a volerlo salutare.

“Non ricordavo avessi un cane, è tuo?”, chiese Lorenzo, osservando intenerito e sorpreso quello scricciolo peloso che gli faceva le feste.

“Sì, io e mia moglie l’abbiamo ricevuto in regalo da un amico”, lo informò il conoscente. “Ma non so se accettarlo sia stata una buona idea, nonostante ami gli animali. Mia moglie è via tutto il giorno per lavoro, io pure, così lo portiamo spesso da mia madre”.

“Già, non va bene lasciarlo da solo tanto tempo”, concordò Lorenzo.

“Infatti ciò mi dispiace”, soggiunse l’altro. “Sai, è incredibilmente affettuoso e giocherellone, pur col suo caratterino. Ne combina delle belle: mordicchia tutto ciò che trova sotto tiro, trascina in giro calzini e pantofole e, se lo sgridiamo, diventa proprio buffo. Abbassa le orecchie e in tono di sfida distoglie lo sguardo, girando il muso. Infatti l’abbiamo chiamato Boss, nonostante la stazza!”

Lorenzo intanto osservava divertito il piccolo Boss, che non gli staccava gli occhi di dosso.“Ciao piccoletto!”, lo salutò, piegandosi sulle ginocchia. Boss ricambiò l’interessamento, scodinzolando ancora più forte. Lorenzo prese ad accarezzargli la testolina, sormontata da piccole orecchie dritte a forma triangolare.

Lorenzo non aveva mai posseduto un animale domestico, ma quell’esserino fece breccia nel suo cuore infranto. Così nelle settimane successive, giusto il tempo di sbrigare le pratiche di rito presso l’anagrafe canina, divenne a tutti gli effetti il nuovo proprietario di Boss, con gioia del vicino, ben lieto di saperlo in ottime mani.

Da quel momento per Lorenzo iniziò un’avventura inaspettata, fatta di impegno ma anche di momenti spensierati. Ora le giornate avevano un sapore diverso. Il lavoro gli permetteva di essere a casa nel primo pomeriggio, in ogni caso Lorenzo si premurava di assicurare al cucciolo ciò di cui avesse bisogno per trascorrere serenamente i suoi momenti solitari, come acqua, cibo e giochi. Boss fungeva anche da ottimo antifurto, perché a dispetto delle dimensioni, latrava come un rottweiler e divenne ben presto il terrore dei postini e dei corrieri.

Quando rincasava, Lorenzo veniva inondato dall’entusiasmo del suo piccolo amico, che metteva in scena vere e proprie esibizioni di giravolte e piroette; così come era tenero, in alcune occasioni però si dimostrava un autentico discolo e ingaggiava col padrone veri e propri inseguimenti alla conquista degli indumenti sequestrati. “Sorbole, così mi farai venire un infarto…molla!”, sbottava Lorenzo. E per tutta risposta Boss, sentendosi alle strette, lo guardava di sottecchi e gli voltava il muso per dispetto. Di fronte a quel buffo atteggiamento, Lorenzo non poteva fare a meno di sorridere, ripensando alle parole del suo vicino. “Piccolo, grande Boss…”, ripeteva tra sé e sé.

E così, mentre l’amore per Boss cresceva ogni giorno, la malinconia di Lorenzo andava scemando.

Fino a quando un pomeriggio, tornando dalla solita passeggiata con Boss, Lorenzo intravide la sua ex, camminare teneramente abbracciata al nuovo compagno. Fu come se qualcuno lo avesse colpito in pieno viso: la ferita ancora fresca si riaprì, se possibile più dolorante. Accecato dalla gelosia, il ragazzo si precipitò verso casa. Spalancò il portone d’ingresso, salì le rampe di scale in pochi secondi e, varcata la soglia del suo appartamento, liberò frettolosamente il cagnolino dal guinzaglio, lasciandosi cadere esausto sul divano e sprofondando in un mare di singhiozzi.

Boss, disorientato, recuperò dalla cuccia la sua treccia di cotone preferita, saltò sul divano come a voler giocare ma poi, lasciandola cadere, si accucciò accanto al padrone e prese a leccargli prima una, poi l’altra guancia bagnata. Riscaldato dal corpicino peloso del suo amico, Lorenzo si addormentò esausto.

Quell’anno la primavera tardava ad arrivare, ma finalmente si presentò a metà maggio, permeata da delicati profumi e inondata da sgargianti colori. Anche Boss mostrava di apprezzare l’atmosfera carica di aspettative, anzi da qualche tempo sembrava gradire particolarmente le passeggiate assieme al padrone; ciò era dovuto agli incontri con un’avvenente barboncina dal manto immacolato, che spesso incrociavano.

Bossne percepiva la presenza anche a centinaia di metri e appena si avvicinava, le saltava addosso in ogni modo: era sbocciato un amore!  A dire il vero anche a Lorenzo non dispiacevano quelle soste; si era accorto infatti che la padrona della cagnolina era una giovane donna carina. I due cominciarono a salutarsi e, dopo alcuni scambi di cortesia, Lorenzo si mise in testa di provare a conoscerla.

“Beh, tanto vale che mi presenti”, azzardò un giorno schiarendo la voce. “Piacere, sono Lorenzo. Abito a qualche isolato da qui”. Fece per porgerle la mano e fu allora che incrociò i suoi occhi lucenti.

“Mi chiamo Giada e anch’io vivo da queste parti”, rispose cordialmente la ragazza. “Sono ospite a casa di una zia”.

“Infatti non ti avevo mai vista prima.”

“Sì è vero, mi sono trasferita a Bologna da qualche mese, per motivi di lavoro”, spiegò Giada, mentre con una mano attorcigliava vezzosamente una ciocca dei suoi lunghi capelli.

Lorenzo non riusciva a distogliere lo sguardo da quello di lei, mentre i cuccioli si divertivano nei paraggi, annusandosi e inseguendosi, mentre approfittavano di quella sosta più lunga del solito.

“Magari, se ti fa piacere, una sera potrei farti da cicerone e portarti a conoscere il centro di Bologna”, propose Lorenzo, essendo determinato a non perderla di vista. “Senza cuccioli, naturalmente”, aggiunse arrossendo.

“Perché no”, rispose Giada, accennando un timido sorriso.

E così, nell’aria tersa di quel tardo pomeriggio primaverile, Lorenzo si incamminò verso casa, finalmente sereno dopo tanto tempo e rinfrescato da una leggera brezza che gli carezzava il viso; al suo fianco Boss trotterellava soddisfatto, ebbro dei giochi con la barboncina. Rientrando a casa in preda a quella piacevole euforia, Lorenzo liberò il cucciolo che subito si precipitò nella camera del padrone per agguantare uno dei calzini sul letto. Quella volta Lorenzo non lo redarguì, ma piegandosi sulle ginocchia, prese ad accarezzarlo. “Ti devo molto, piccolo grande Boss”, gli sussurrò.

Con il calzino umido di saliva ancora tra i denti, Boss si mise seduto e restò a guardare il giovane a lungo, scodinzolando.

Quello sguardo Lorenzo non lo avrebbe più dimenticato.

*

C’era una volta la favola di una bambina

 

“Questa sera ti racconterò la storia di un viaggio meraviglioso, di un’avventura che vale una vita intera…”.

Durante una notte piena di stelle, in una casa ai margini del bosco, due occhi si schiusero alla vita, dopo aver fluttuato per mesi nel buio e nel silenzio di un mare misterioso; erano gli occhi di una bambina appena venuta al mondo, annunciata dal canto di fate madrine che, volteggiando attorno alla piccola, le portavano in dono forza, coraggio e sensibilità.

La mamma l’accolse impaziente tra le braccia, ancora confusa dai dolori del parto, mentre il papà osservava emozionato ed incredulo il miracolo che aveva visto compiersi sotto i suoi occhi. Il buon Dio disegnò all’istante sul viso della bambina un incantevole sorriso, ad attenuarne il pianto disperato.

La bimba venne avvolta da coccole e amorevoli cure, imparando che il mondo era un posto meraviglioso, un giardino profumato e pieno di colori; si sentiva davvero fortunata. Trascorse così l’infanzia felice e spensierata.

Passarono gli anni e lei andava incontro al suo destino fiduciosa, inventando nuovi giochi e disegnando, tra sogni e speranze, la sua vita futura. Ma presto capì che non tutto era come aveva immaginato: la madre le insegnò che talvolta bisognava mettere da parte i propri desideri per non recar dispiacere agli altri.

Così ordinava alla figlia di fare la brava quando il padre, tornando stanco la sera a casa, facilmente poteva arrabbiarsi. Lo vedeva in quei frangenti furibondo mentre aggrediva la madre, trasformandosi in un drago sputafuoco da cui era prudente allontanarsi per non essere travolti.

Iniziò a credere che la madre avesse ragione: era meglio non rischiare lasciando stare i capricci, in fondo di coccole ne aveva abbastanza. “Che stupida però a credere di essere così speciale”, rifletté delusa la bambina.

Continuava a fantasticare, ma ora avvertiva un peso sulle spalle, una zavorra che ne rallentava il passo. Affinò l’arte del compiacere, pur di accontentare chi aveva vicino; andava bene così, perché li amava. Diventata una giovane donna decise di spingersi nel bosco incantato che ogni mattina ammirava dalla finestra. Iniziò a camminare e d’improvviso si imbatté in elfi maligni, strani ometti che, non essendo riusciti a diventare maghi, mal sopportavano le ragazze dotate di bellezza ed intelligenza.

Così le prepararono un tranello. Elargendo belle parole a profusione, da abili pifferai la trascinarono in un burrone: lei si disperò, poiché non riusciva più a venirne fuori. D’improvviso apparve una delle fate madrine. “Cara, non disperarti”, le sussurrò in un orecchio. “Ricordati che hai ricevuto in dono la forza: usala e sia quel che sia!”

In lacrime la bambina pensò che la sua buona madrina avesse ragione e, armatasi della forza, pian piano cominciò a risalire dal precipizio. Sicura e decisa, riprese il cammino, meno ingenua di prima.

Lungo la strada le ritornò il buonumore, ma dopo poche miglia ecco comparire dinanzi ai suoi occhi strani personaggi: le streghe arcigne. In origine fate buone, per pigrizia non avevano fatto uso dei doni ricevuti alla nascita e così, invidiose e rabbiose, tentarono di rallentare il viaggio della giovane. Le fecero credere infatti che il mondo fosse una giungla piena di draghi sputafuoco e di elfi maligni, come del resto lei stessa aveva sperimentato, per cui la incitarono a munirsi di una buona corazza, così da potersi difendere.

Confusa ed impaurita, la ragazza indossò un’armatura di ferro, assumendo un aspetto duro come quello delle streghe. Allora mise da parte i sogni e riprese il viaggio nel bosco, guardinga. Si trasformò in una guerriera, anche perché non voleva seguire lo stesso destino della madre, costretta a subire gli attacchi del terribile drago sputafuoco.

Cominciò ben presto a sentirsi stanca ed afflitta. “E se le streghe si fossero sbagliate?”, pensò. Inaspettatamente le venne in sogno un’altra fata madrina. “Cosa fai, bambina, ti arrendi? Hai ricevuto il coraggio: usalo e sia quel che sia!”, la incitò dolcemente. La ragazza si armò di coraggio ed esclamò: “Questa non è la vita che avevo sognato!”. Si tolse l’armatura e riprese con fiducia il cammino, più coraggiosa di prima.

Dopo pochi passi fece un incontro inaspettato: vide arrivare, tra i raggi del sole che faceva capolino dietro le nuvole, un giovane dagli occhi sorridenti, il quale la salutò chiedendole dove stesse andando. “Sto seguendo la mia strada”, rispose la ragazza. Lui fu colpito da questa affermazione, scorgendo nel suo animo tanta sensibilità; in quel momento l’ultima delle tre fatine apparve dinanzi ai due giovani, volteggiando e cantando soavi melodie.

Timido ed imbarazzato il giovane le propose di camminare insieme; lei acconsentì, essendo rimasta impressionata dal suo sguardo, in cui vide riflessa se stessa. Aveva conosciuto l’Amore.

Finalmente insieme trovarono la via d’uscita dal bosco: si presentò dinanzi a loro una radura lussureggiante, allietata dal gorgogliare di un ruscello. I due giovani rimasero estasiati a contemplare quel meraviglioso spettacolo della natura, cullati dalle melodie di uccellini di ogni specie. Non sappiamo se continuarono a camminare insieme per sempre o solo per un tratto. Di sicuro la bambina, oramai donna, non permise mai più a draghi sputafuoco, elfi maligni o streghe arcigne di portarle via i sogni e le speranze.

“E sia quel che sia”, ebbe a ripetersi spesso.

 

                                                     **************

Terminato il racconto la piccola Siria, nel suo lettino, stirò le braccia in un lungo sbadiglio, le palpebre socchiuse per il sonno imminente. “Bella questa storia, mamma… sei sicura che sia una favola?”, osservò con un filo di voce.

“Certo che lo è, amore mio. E’ la favola di ogni bambina”.

“Che riesce sempre a venir fuori dal bosco?”, chiese la bimba, perplessa.

“Sempre. L’importante è che lei abbia tanto coraggio”, rispose la madre in tono rassicurante, mentre le rimboccava le coperte.

A quelle parole Siria diventò pensierosa, mentre con le manine attorcigliava alcune ciocche dei suoi capelli sparsi sul cuscino.

“Da brava, adesso è ora di dormire”.

“Buonanotte, mamma”, bisbigliò la piccola assopita, stringendo forte il suo coniglio di peluche.

La donna le diede un bacio sulla fronte e si alzò per uscire. Fermandosi sulla soglia, la guardò un’ultima volta.

“L’importante è che tu abbia coraggio, bambina mia”, pensò ad alta voce scivolando fuori dalla stanza, mentre Siria si arrendeva al sonno profondo dell’infanzia.

 

 

 

*

Amore impossibile

 

 

Cara,

ti ho sempre amato e lo sai. Ti osservo da sempre, ogni secondo, ogni minuto, ogni ora e tutte le notti sogno ancora un tuo sorriso, un tuo bacio o una carezza.

Non riesco proprio a lasciarti andare.

Adoro ogni cosa di te: gli immacolati rilievi, belli da guardare e da scalare e le vaste pianure intervallate da boschi profumati dove poter riposare. Amo quei rivoli d’acqua impetuosi che sfociano in oceani immensi, dove nuoterei come un naufrago in eterno; nei tuoi anfratti misteriosi e profondi invece mi insinuerei sì da perdermi in un carezzevole oblio.

Anche tu di certo mi desideri, lo capisco dal modo in cui mi guardi, e pur temendomi, hai bisogno del mio caldo abbraccio come prezioso ossigeno per vivere. Purtroppo so bene che, se provassi ad avvicinarmi, ti distruggerei, allora resto ad ammirare da lontano la tua inarrivabile bellezza.

E non posso accettare il fatto che molti uomini, fortunati ad averti accanto, non ti apprezzino quanto meriti, sporcando il tuo corpo e calpestando la tua anima.

Tu, amore, sopporti in silenzio, perché hai un cuore grande di madre che non rinuncia ad allattare i propri figli ingrati ed io mi chiedo: quando si renderanno conto dello scempio che stanno compiendo su di te?

Nonostante lo spazio che ci separa, sappi che io mai ti negherò l’appoggio ed il calore di cui hai bisogno.

Terra cara, ti confesso che per me resterai in eterno l’unico grande amore, la sola ragione per continuare ad andare avanti.

 

Per sempre tuo,

il Sole.

*

Cari professori

 

 

“Cari professori,

siamo arrivati al termine del nostro percorso scolastico, un cammino lungo il quale ci avete accompagnato giorno dopo giorno, sostenendoci anche nei momenti di crisi…”.

Era l’inizio del saluto che la classe quinta, sezione U dell’Istituto tecnico commerciale, rivolgeva a tutti gli insegnanti, in persona della rappresentante Martina, durante la cena di fine anno in un’afosa serata di giugno.

Fabrizio Tassi, professore di italiano, ascoltava emozionato, riflettendo a quanta fatica era stata fatta per accompagnare, in un viaggio non privo di scossoni, una classe che si era rivelata sin dai primi anni problematica, come non di rado accade ai giorni nostri: alunni con situazioni familiari complesse, studenti provenienti da altre scuole o con difficoltà di apprendimento, rappresentavano l’universo variegato di quel gruppo. A ciò si era aggiunto un continuo avvicendamento di supplenti, l’aggravante di una situazione già precaria.

Ne era risultata una classe non omogenea, diffidente verso i docenti e difficile da gestire, per le diverse personalità concentrate in un’unica aula. Fin dagli inizi di settembre il professor Tassi, appena nominato dal Preside coordinatore della quinta U, si rese conto che l’ultimo anno non sarebbe stato una passeggiata; era un giovane insegnante, ma la passione per l’insegnamento e l’empatia, di cui era naturalmente provvisto, gli conferivano un infallibile istinto nel valutare le dinamiche tra gli studenti.

Senza indugi prese in mano le redini del corpo docenti e prospettò la situazione soprattutto ai nuovi colleghi, che si trovarono ad affrontare una rogna tra capo e collo, neanche il tempo di varcare la soglia dell’istituto.

L’anno partì al ritmo convulso delle giornate scolastiche; entrare in quell’aula, era come mettere piede nel girone degli apatici: scarso interesse per le materie, poca voglia di collaborare e sostenersi reciprocamente regnavano sovrane. Nonostante l’intelligenza vivace della maggior parte degli studenti, sembrava che niente potesse veramente accendere il loro interesse.

“Cerchiamo di stimolarli al confronto, di proporre spunti di riflessione, ma non c’è niente da fare. Interagiscono poco tra di loro”, lamentavano molti colleghi nelle prime riunioni. Al termine delle vacanze natalizie, Fabrizio Tassi si decise. Entrò in classe e fece capire in modo chiaro ai suoi alunni che diventare grandi voleva dire innanzitutto assumersi delle responsabilità ed il loro atteggiamento non era certo da ragazzi maturi.

Il suo discorso cominciò a sortire i primi effetti nei giorni successivi, quando ci fu un via vai di studenti in sala professori che chiedevano di parlare con Fabrizio. “Prof., noi vorremmo collaborare”, iniziò timidamente la rappresentante Martina. “Il fatto è che alcuni compagni, tra risatine e prese in giro, ci definiscono leccapiedi”. “Ci evitano”, lamentavano altri. “Se chiediamo appunti o schemi, perché magari siamo stati assenti, veniamo accusati di essere lavativi e non abbiamo il coraggio di parlarne con voi insegnanti”.

Fabrizio rimase colpito dalle confidenze dei suoi alunni e si rese conto che il problema non era la volontà di studiare o l’impegno nei compiti. Il problema era la paura. Tanti anni trascorsi sui banchi non erano serviti a quei ragazzi per capire come lavorare in squadra ed avere il coraggio di esprimere le loro opinioni serenamente.

In qualità di professore si sentì responsabile della situazione, allora pensò di parlare alla classe a cuore aperto. “Il motivo per cui venite a scuola non è solo lo studio o il voto, ma soprattutto la possibilità di confrontarvi e crescere insieme, senza inutili condizionamenti”, esordì, sistemandosi con le dita i suoi occhialini rotondi. “Sarebbe bello che tutti vi sentiate a vostro agio e, in caso di problemi, non abbiate paura: alzate la mano, siamo qui per voi”.

Nel silenzio dell’aula i ragazzi si scambiarono parole mute, sottolineate per la prima volta da sguardi di complicità.

Durante i mesi successivi la quinta U cominciò lentamente ad aprirsi con i docenti e ad essere più coesa, mentre si accorciava, tra ansia e sentimenti di inadeguatezza, la distanza alla sospirata maturità.

Nel corso della cena di fine anno, Martina, con un lieve tremore nella voce, concludeva la lettera rivolgendosi proprio all’insegnante di italiano. “Professor Tassi, vorremmo ringraziarla per averci fatto capire che il valore delle persone non si misura da un voto, ma dall’impegno e dalla tenacia nel cercare di migliorarsi…Grazie per esserci sempre stato, dandoci la possibilità di diventare grandi e, se dovesse aver bisogno, non abbia paura, alzi pure la mano!”

A queste ultime parole Fabrizio ebbe un attimo di esitazione, sostenendo a fatica gli sguardi lucidi della tavolata stranamente silenziosa. Visibilmente commosso, riuscì solo ad annuire in segno di gratitudine.

Arrivò l’estate che si portò via gli esami di maturità e la quinta U. Quell’anno il professor Tassi si rese conto di aver imparato un’altra lezione grazie ai suoi ragazzi e crebbe in lui una consapevolezza: magari anche lui, prima o poi, avrebbe alzato la mano.

 

“Ricordando la scuola in presenza…”

 

Paola Salzano – Luglio 2019

 

 

*

Non mi basti mai

 

Alice giunse a destinazione in un’afosa mattina di giugno. L’attendeva una Milano assolata, priva di nubi, in contrasto col suo animo cupo, disperato, di chi è ancora al centro di una tempesta.

Era partita mezz’ora prima da Bologna, ripromettendosi di non cedere, ma quando il treno stava per giungere in stazione, non riuscì a resistere ed indossò gli auricolari del suo lettore mp3. La melodia di una delle canzoni di Lucio Dalla, “Non mi basti mai”, rese Alice ancora più inquieta e depressa: quelle note erano state la colonna sonora degli ultimi mesi.

Nel dicembre dell’anno precedente, appena assunta come ragioniera in un prestigioso studio di Bologna, non stava nella pelle per quell’inatteso impiego alla sua prima esperienza significativa di lavoro.

Il colloquio l’aveva sostenuto con Riccardo, uno dei soci dell’ufficio, dallo sguardo comprensivo e i modi cordiali, che subito l’aveva fatta sentire a proprio agio. Tra di loro la complicità fu istantanea, gettando le basi per un rapporto di collaborazione fondato sulla fiducia e sulla stima. I due si trovarono a trascorrere tanto tempo insieme; Riccardo chiedeva spesso il suo aiuto, mentre la donna accettava volentieri di seguirlo in commissioni al di fuori dello studio.

Pian piano Alice cominciò a sentirsi attratta da quell’uomo, di cui ammirava la caparbietà, la determinazione sul lavoro, nonché la disponibilità verso gli altri. Riccardo invece si perdeva in quegli occhi limpidi ed espressivi, quando lei gli parlava dei suoi progetti o snocciolava le ricette dei suoi piatti preferiti.

All’inizio della primavera sbocciò tra i due un sentimento fresco come una brezza d’aprile seppur impetuoso come un vento inarrestabile. Riccardo aveva circa trent’anni, era sposato e padre di un bambino di alcuni mesi, ma nonostante i buoni propositi non riuscì a resistere a quell’amore che stava per travolgerli: l’entusiasmo di Alice ed il profumo della sua pelle gli avevano rubato il sonno e il cuore.

Le uscite di lavoro si trasformarono di lì a poco in passeggiate romantiche, sotto gli interminabili portici di via Indipendenza, da cui si scorgevano le due Torri che emergevano dalla foschia cittadina come alberi di un vascello. Alice aveva l’impressione che gli antichi edifici la scrutassero dall’alto con fare inquisitorio, facendola sentire ancora più colpevole, in quanto era a conoscenza del fatto che Riccardo fosse un uomo impegnato.

Avrebbe voluto scappare, ma allo stesso tempo non riusciva a stare senza di lui. Ogni angolo di strada divenne l’occasione per sfiorarsi furtivamente e gli androni dei palazzi posti appartati dove potersi abbracciare e soddisfare, anche se per poco, l’urgenza del loro amore.

“Dovrei starti lontano”, le disse un giorno Riccardo, durante la pausa pranzo nell’ufficio deserto. “Invece ho bisogno di averti vicino, ho bisogno di te…”. Ricambiato da Alice si lasciò andare al desiderio represso, al riparo da occhi indiscreti e dal giudizio del mondo.

In un pomeriggio di maggio, mentre passeggiavano lungo via D’Azeglio avvolti dalla tenue luce dell’imbrunire, vennero cullati dalla melodia di quella canzone di Lucio Dalla, che proveniva dagli altoparlanti posti ai bordi della strada. Riccardo non poté fare a meno di seguirne il testo: “Vorrei essere l’anello che porterai, la spiaggia dove camminerai…così non ci lasceremo mai, neanche se muoio e lo sai…Tu, tu non mi basti mai, davvero non mi basti mai…”

Si voltò verso Alice: “Chi ha scritto parole così intense, deve averle vissute almeno una volta nella vita”, osservò commosso. La donna ricambiò il suo sguardo e realizzò di non aver mai amato nessuno come Riccardo.

Sapeva però che lui non gli apparteneva. Ne ebbe triste conferma un sabato, quando, passeggiando per i viali dei Giardini Margherita con un’amica, intravide da lontano proprio Riccardo con a fianco la moglie ed il loro bimbo nel passeggino. Fece finta di non vederli, ma si sentì impazzire e provò un forte senso di nausea. Quell’incontro la riportò con i piedi per terra. L’indomani al rientro in ufficio, si mostrò sfuggente nei suoi confronti.

“Mi vuoi dire cosa ti prende?”, le chiese Riccardo appena ne ebbe l’occasione. “Non capisco…ti ho fatto qualcosa?”

Guardandolo negli occhi, Alice non riuscì a trattenere il pianto. “Mi dispiace, ho sbagliato tutto. Sei un uomo sposato ed io non ho alcun diritto di intromettermi nella tua vita”.

“Se è per questo, abbiamo sbagliato entrambi, anzi io mi sento un marito deplorevole. Ho intenzione di dirlo a mia moglie…”.

“Ma io non voglio privarti della tua vita, soprattutto di tuo figlio. Non riuscirei più a guardarmi allo specchio ed anche tu, con il tempo, mi vedresti come la donna che ti ha allontanato da lui”, replicò Alice con voce roca.

Riccardo la strinse a sé. “Non so cosa accadrà in futuro, ma so che sei tutto per me”.

L’indomani Alice, disperata, rassegnò le dimissioni e in lacrime scrisse un messaggio a Riccardo. “Domani parto per Milano, sarò ospite di mia cugina per qualche tempo”. Poi aggiunse: “Mi dispiace tanto”.

La mattina seguente Alice, seduta al bar della stazione, si aspettò di vedere Riccardo correrle incontro. “Che sciocca”, pensò.  Così pagò il caffè e raggiunse il binario.                            

 

 

Il Frecciarossa fendeva l’aria densa ed afosa di Milano centrale, mentre negli auricolari sfumavano le note della loro canzone. Poco dopo la donna recuperò il bagaglio e scese facendosi largo tra i passeggeri; fu allora che vide sua cugina agitare le braccia per farsi riconoscere. Cercò di ricambiare con entusiasmo il saluto, nascondendo lo sguardo arrossato dietro gli occhiali da sole.

Poi le donne si avviarono verso l’uscita, dove Alice finse di ascoltare gli ultimi pettegolezzi di famiglia, ma già nella sua mente si insinuava, prepotente, il dubbio di aver preso la decisione giusta.  

 

Paola Salzano (marzo 2019)

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I miei favolosi anni 80

 

I MIEI FAVOLOSI ANNI 80

 

 

Nel periodo storico in cui le sorti del pianeta erano decise dal presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, e in Russia il segretario del partito comunista, Michail Gorbaciov, inaugurava la “perestrojka”, il programma rivoluzionario che avrebbe trasformato la società sovietica, io mi apprestavo a vivere quella fase della vita, di grandi cambiamenti, che difficilmente si dimentica.

Era l’inizio degli anni 80. Da adolescente, timida ed impacciata, mi affacciavo al mondo con una voglia inesauribile di vivere emozioni e nell’epoca dell’apparire e dell’affermazione ad ogni costo, desideravo anch’io essere vista e trovare un posto da qualche parte, che non fossero la famiglia o la scuola, luoghi che iniziavano a starmi stretti.

Nei pomeriggi oziosi, dalla mia terrazza di un condominio alla periferia di Napoli, osservavo il mondo come oggi si sbircia sui social network e la mia attenzione cadeva spesso sulle ragazze del mio quartiere che, ancheggiando per strada con una falsa sicurezza di sé, gettavano occhiate languide ai maschi sui motorini, catturati da quegli sguardi da femme fatale.

Strizzate nei loro jeans Levi’s e avvolte in giubbotti di pelliccia (secondo la moda del tempo), mi facevano molta invidia, non tanto per lo stuolo di ragazzini brufolosi appollaiati sui loro “Ciao”, quanto per l’atteggiamento da dive vissute, molto lontano dal mio modo di essere. Nonostante ciò, grazie ad amici in comune, entrai nel loro giro ed iniziò così il periodo più esaltante della mia adolescenza. Ricordo l’impazienza di incontrarsi nei pomeriggi sotto i portoni a chiacchierare e ad organizzare uscite per il weekend: eravamo veramente “connessi”.

I nostri genitori non stavano tanto a preoccuparsi per i mille pericoli, che forse già esistevano, ma non incutevano tanta paura e così noi riuscivamo a goderci le strade e i parchi senza troppe ansie.  Il capocomitiva, un tipo amichevole e cordiale, il cui sorriso ricordo con nostalgia, trascinava tutti con il suo entusiasmo, coinvolgendoci in mille iniziative.

Nel periodo natalizio ci imbarcavamo in allegre spedizioni nella famosa via dei presepi, San Gregorio Armeno, per ammirare le bancarelle zeppe di pastori di terracotta che all’epoca non avevano ancora la faccia di Hamsik o di Trump, tutt’al più le sembianze del goleador Maradona (quasi un Dio nella Napoli di allora) e quelle di Giuseppe, Maria ed il Bambino Gesù.

Senza avvertire il freddo e con la sensazione di onnipotenza della gioventù, percorrevamo le vie del centro cullati dalle note delle hit del momento, provenienti dalle auto ingabbiate nel traffico: come dimenticare la nostalgica “Last Christmas”, cantata dagli Wham, il duo britannico che faceva impazzire le ragazzine di mezzo mondo!

Ma i momenti più attesi della settimana erano le feste del sabato sera, organizzate a turno nelle nostre case, per divertirci senza dover soccombere all’inferno assordante delle discoteche.

Noi ragazze curavamo nei minimi dettagli il look. All’epoca cercavamo di imitare lo stile di Madonna, la cantante pop del momento: ricordo con quanta cura strapazzavo i miei poveri capelli, attorcigliandoli in grandi fiocchi di tulle ed impreziosivo le orecchie con blasfemi orecchini a forma di croce, cercando di apparire trasgressiva.

Così abbigliate e sotto le luci specchiate della strobosfera roteante, installata sul soffitto di turno, ci sfrenavano al ritmo della pop music di Michael Jackson o dei Duran Duran, fino a quando un improvvisato deejay cominciava ad allentare il ritmo, introducendo un pezzo lento.

In quell’attimo la pista da ballo si svuotava, mentre gli angoli della stanza venivano presi d’assalto dagli invitati, terrorizzati dal momento tanto atteso ma anche temuto. Le ragazze speravano di essere invitate a ballare e così, se il miracolo si avverava, si ritrovavano tra le braccia del prode cavaliere, guancia a guancia e gli sguardi sognanti.

Durante lo shopping per le vie cittadine, guardavamo invece i “paninari” ossessionati dalle griffe, che sfoggiavano costosi giubbotti Moncler e scarpe Timberland con fare snob, mentre i nostri genitori si lamentavano dei prezzi che salivano in modo inaudito nel vortice consumistico di quegli anni, da cui inconsapevoli eravamo risucchiati.

Nel frattempo volavano i mesi e gli anni, fino alla tanto sospirata maturità, che decretò la fine dell’adolescenza e di quel decennio mai dimenticato: la spensieratezza era destinata lentamente a dissolversi.

In quel periodo il futuro si prospettava roseo, con un bagaglio di sogni e progetti da realizzare, senza la paura del domani; conservo ricordi indimenticabili, alcuni catturati attraverso la Polaroid, la macchina fotografica con cui mi illudevo di poter fissare, in poche frazioni di secondo, momenti irripetibili.

Oggi capita che qualche mio studente mi chieda come fossero quegli anni: forse non furono così belli come li ricordo, ma so che resteranno per sempre i miei favolosi anni ’80, quando riuscivamo a dire “mi piace”, guardandoci negli occhi.

 

 Paola Salzano - dicembre 2017

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Quando la luna

 

Quando la luna incontrò il mare, avvenne in una notte di mezza estate.

Scelse un incantevole scenario, quello del golfo illuminato a festa di una delle terre più belle del sud Italia, che la guardava estasiato aspettando da sempre giorni migliori per i suoi figli.

Salutata la stella madre all’imbrunire, l’elegante signora si affacciò sul nitido cielo di luglio, indossando il suo vestito migliore: era piena, abbagliante, con i crateri in evidenza. Decisa a conquistare, si fece largo tra le luci della volta celeste, gettando lo sguardo verso il vulcano dormiente che, osservando sornione, le fece l’occhiolino.

Quando la luna incontrò il suo amante ne rischiarò l’ondeggiante superficie, increspata solo da una leggera brezza estiva e si arrese tra le acque in un abbraccio senza tempo. La sua immagine si riflesse nei toni dell’oro, del verde smeraldo e del blu argenteo in quello scorcio di mar Tirreno, offrendo, a coloro che ebbero la fortuna, uno spettacolo straordinario.

Quando la luna fece l’amore con il mare illuminò la cornice della storica città fondata col nome di Parthenope, dal lungomare alle auto in corsa, agli eleganti alberghi e ai ristoranti. Sull’isolotto di Megaride tutt’uno con la costa, l’antico Castel dell’Ovo, dagli imponenti cannoni di guardia, assistette pure lui all’evento; lui che nel corso dei secoli ne aveva viste di tutti i colori, arrossì di colpo, restandone però compiaciuto.

Nella notte magica anche lei era lì, ad ammirare quell’attimo eterno, appoggiata al muretto di una delle strade panoramiche della sua città. Con lo sguardo rivolto verso il cielo, la donna si rese conto che stavolta sarebbe stato difficile lasciare il luogo dov’era cresciuta.

Dinanzi allo spettacolo di terra, acqua e cielo uniti in un abbraccio senza fine, comprese quanto l’amore e la bellezza siano preziose ancore di salvezza, le uniche capaci di dare un senso al nostro essere, in questi giorni persi di paura e scoramento.

 

 

Paola Salzano - agosto 2016

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L’isola

 

 

Nel buio della notte estiva, attenuato dal chiarore lunare, la bella signora era distesa sul mare, cullata dallo sciabordio delle onde ed illuminata da un manto di stelle lucenti. Lea, rapita, osservava da lontano quella magia.

Di fronte a sé l’isola di Capri appariva senza un’ombra di foschia, riflettendo nel Golfo di Napoli la propria l’immagine, in cui si distinguevano il volto di una donna ed il suo ventre distesi sull’acqua. La nobildonna era avvolta dall’abbraccio della sua corte regale: la penisola sorrentina e le isole di Ischia e Procida, che da sempre la osservavano con un fremito di desiderio.

Dal terrazzino sul lungomare, Lea assaporava gli ultimi istanti della sua vacanza oramai al termine; erano state settimane rigeneranti, avendo fatto scorta di affetti, di buon cibo e soprattutto di ossigeno, come definiva lo spirito della città che l’aveva cresciuta. Ogni anno vi faceva ritorno ed era un periodo irrinunciabile: finalmente poteva respirare l’aria mite, ma soprattutto l’ospitalità della sua gente. Era partita anni prima per realizzare un grande sogno, ma le radici le mancavano terribilmente; ovunque andasse, era sempre alla ricerca del calore umano che emanava quella terra del sud, spesso martoriata e denigrata, cui sentiva ancora di appartenere.

Scrutando l’orizzonte, la donna non riusciva a staccare gli occhi dall’isola, il luogo dove aveva trascorso tanti momenti spensierati, e d’improvviso fu pervasa da un’inaspettata nostalgia. Si rivide bambina quando, terminata la scuola, si imbarcava nei fine settimana con i genitori sul traghetto al molo Beverello, per trascorrere qualche ora di sole e di mare e tornare a casa all’imbrunire con il viso scottato dal sole, ma felice.

Ripensò poi alle giornate passate a Capri da adolescente assieme agli amici, abbigliata con canotta e pantaloncini, mentre assaporava la soddisfazione di sentirsi diva con i capelli mesciati dal sole ed il colorito caramello sulla pelle; sperava magari di far breccia nel cuore di quell’amico troppo timido per dichiararsi in città.

Le piaceva mischiarsi alla folla dei turisti stranieri sbarcati sulla rada di Marina Grande, per invadere quel territorio scosceso in tutti gli anfratti. Tra risate e giochi d’acqua, trascorreva le giornate sulla spiaggia di Marina Piccola, dall’altro lato del porto, dove lo sguardo si perdeva osservando gli scogli dei Faraglioni, da cui le Sirene di Omero tentarono Ulisse nel viaggio di ritorno verso Itaca. Ricordava ancora il sapore dei gelati alla frutta, gustati al tramonto nella piazzetta avvolta dagli aromi dei fiori capresi.

Lea ripensò a quanti anni erano ormai trascorsi da quando, euforica e determinata, era partita lasciando la sua terra. Allora si sentiva ancora una bambina, nonostante avesse già raggiunto l’età adulta, ma fino a quel momento aveva sempre vissuto nel suo bozzolo, senza mai assumersi grandi responsabilità.

Tutt’a un tratto realizzò di somigliare all’isola millenaria. Una parte del suo essere riluceva come le spiagge affollate d’agosto o le casette linde abbarbicate sulle rocce a precipizio; al contempo vi era in lei una parte sommersa, ombrosa, simile alle grotte di Capri, dove si diceva che spiriti dispettosi attendessero i turisti ignari.

Tante volte era andata a infrangersi contro gli scogli aguzzi, avendo imparato a nuotare disperatamente per scansare solitudine e pregiudizi, temendo a volte di affogare. Nell’esplorare i fondali oscuri, non di rado si era imbattuta in temibili creature, ma era sempre riuscita ad intravedere un appiglio da cui risalire per ritrovare la luce.

La donna si era appisolata sulla sdraio, complice una leggera brezza che le accarezzava il viso, smorzando l’afa serale. “Si è fatto tardi Lea, non vieni a dormire?” Dalla stanza una voce maschile la invitava a rientrare.

“Arrivo”, farfugliò, scossa dal torpore del breve sonno. Quella notte l’isola le aveva ispirato tanti pensieri; ogni volta che tornava a casa, Lea ritrovava una parte di sè. Ora però era tempo di spiegare le vele, non senza aver salutato la nobile signora, scenario di tanti momenti felici.

“Prima di andare, ti prego”, le chiese in una sorta di dialogo intimo. “Tu che da sempre proteggi questo mare ed i suoi figli, se puoi veglia anche su di me, quando sarò di nuovo lontana”.

Le lucine intermittenti che illuminavano l’isola sembrarono rivolgerle un cenno di saluto. Lea rientrò in camera, consapevole che anche stavolta il suo sarebbe stato un semplice arrivederci.

 

 “Napoli per me non è la città di Napoli, ma solo una componente dell’animo umano che so di poter trovare in tutte le persone…”

(Così parlò Bellavista – Luciano De Crescenzo)