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Raccolta di testi in prosa di paolo massimo rossi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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L’intruso nelle vecchie stanze. Romanzo

L'intruso delle vecchie stanze. Solfanelli Editore
La scoperta di antichi documenti in una vecchia casa abbandonata accende la curiosità del protagonista, inducendolo a scrivere una storia che si sviluppa tra la ricerca di una verità oggettiva e la falsificazione letteraria della stessa.
Immerso in una sorta di anti umanismo che risente di filosofie di stampo popperiano, il protagonista Giulio vive la modalità del raccontare come necessità di interpretare il vero e il falso nascosti in documenti e parole che, di volta in volta, viene a conoscere.
Ambiti letterari dove i pretesti sono l'occasione di parlare d' altro: le condizioni al contorno della storia lentamente si trasformano nel centro della stessa, relegando ad ambiente ciò che inizialmente doveva essere il cuore del narrato.
Dunque, il non detto e il nascosto reclamano i loro diritti, mostrandosi in nuove vesti e facendo affiorare quelle che, inizialmente, sembravano solo apparenze da archiviare: un criptato da svelare per scoprirne verità e falsità.
L'intruso è tutto questo. Ma vuole essere anche un discorso sull'ambiguità e sul fraintendimento che si svincolano da quotidianità e ipocrisia per acquisire pretese letterarie.
E ancora, è storia di una formazione culturale e di un calarsi di questa nel parlarsi anche il più banale; è una riflessione sull'interpretazione; è una lunga ininterrotta dichiarazione di sentimenti amorosi; è, infine, una ricerca di parole minuziosamente perseguita per evitare il rischio della loro insignificanza.
STRALCIO DAL ROMANZO
La luce è bassa, diffusa dalla lampada con paralume a forma di calotta semisferica in metallo brunito.
«Non vuoi sapere come si concluse la storia di Eleonora?» Le chiedo.
Fulvia on risponde, ma un imbarazzato silenzio ha implicita la risposta.
«Soffrendo le lacerazioni del proprio corpo, credo che Eleonora cercò di conservare lucidi la testa e il cuore per sperare; una lucidità che, invece, scivolerà col tempo in una deriva esistenziale, in un progressivo trascorrere da insignificanti accadimenti del quotidiano in quelli blasfemi del plagio.»
«Tu sai?»
«La memoria può sapere da altri o può interpretare.»
«Vuoi dire che è stato necessario ricostruire?»
«Non più sui diari: voci del paese dicono che Simone morì alla fine degli anni Ottanta e lei e Francesco ne depositarono il corpo fuori del portone di casa, a disposizione dell’amministrazione e della chiesa.»
«Non ci credo.»
«Chissà, forse l’ennesimo passaggio del racconto ha finito per narrare un’altra storia. A ogni modo, fu seppellito nella cappella di famiglia e Francesco partì per Torino, per abitare nella casa del fratello Simone, in fondo il suo alter ego. Andò via, io credo, quando l’età e la decadenza fisica non gli permisero più la tentazione del letto della sorella Eleonora, così morbosamente amata. Ma, probabilmente, anche per non dover più sopportare la testimonianza della propria perdizione e del proprio egoismo.»
«Non sarebbe stato certo possibile un racconto del genere nella storia ufficiale; e lei, Eleonora?»
«Morì in una casa di riposo, qualche anno fa.»
Il silenzio avvolge lo studio dell’avvocatessa Derose; tanto era stato detto, eppure nulla aveva il crisma di una verità definitiva.
«E tu? Pensi di partire anche tu?»
«Solo per qualche giorno, poi tornerò al paese, non so per quanto tempo.»
Mi alzo, e Fulvia Derose subito dopo di me.
Tempo sospeso, momento che sembra corrompere sicurezze affidabili, pronto a essere usato per addentrarsi nella conoscenza del bene e del male, tra allegrezza e morbosi abbandoni.
Mi avvio alla porta d’ingresso, camminando tra le ombre delle stanze, mentre lei ha la sensibilità di evitare ogni ferita di luce. Nei suoi occhi, intravisti appena nella semioscurità e nel silenzio, sembra che ogni attimo possa dimenticare il precedente, non mi chiedo perché.
Ci salutiamo, vicini, lei immobile nell’eleganza del corpo, per un attimo lontana dalle pretese della mente, improvvisamente pronta a tradire l’equilibrio di un’armonia tra desiderio e ragione.
Esco e cammino di nuovo lungo il Marrucino, prenderò l’auto per tornare al paese, il tempo per i bagagli.

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racconto minimalistico

Brevissimo racconto
Improvvisa un'immagine tornò al suo ricordo: una ragazza di cui aveva dimenticato il nome. Aveva piccole mani quadrate, il collo ben tornito, e i lobi degli orecchi adornati da pendenti che spuntavano appena sotto i capelli.
Avevano passato il pomeriggio in un bar e lei gli aveva chiesto: -Mi accompagni?
E lui: -Non ho l'auto.
-Possiamo andare con la mia.
Abitava un condominio a tre piani, in una mansarda che sapeva di caldo e di odori speziati.
-Ti offro un dolce che ho preparato stamane e ti preparo un caffè. Propose la ragazza.
Passarono la notte in un letto in cui ognuno si era abbandonato agli sguardi e al piacere dell'altro. Poi, come spesso accade, la passione, che era sbocciata in turbinio indistinto di mezze parole e di nuove carezze, aveva ritrovato la propria usuale indifferenza.
Non l'aveva più rivista, e ormai erano passati più di vent'anni.
Gli era rimasto il ricordo di quella ragazza, come di tante altre, a segnare certi episodi della sua vita, come anche gli eccessi che la sua mente era stata curiosa di esplorare.
Erano le manifestazioni di una lussuria che, dopo essere stata vissuta, aveva finito per adagiarsi in un languore che gli riempiva il corpo e lo spirito di sentimentalismi a volte sconosciuti, a volte repentinamente ritrovati e infine dimenticati.

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Stralcio dal romanzo Diari sospesi

(Dal mio nuovo romanzo Diari sospesi Antipodes Editore)
... Juste si alzò, andò alla cassa e uscì.
“Che ne pensi?” Mi chiese Agata.
“Di questa Juste? Non penso niente, non so neanche se è tua amica.”
“Non lo è … Se riusciamo a cancellare l’esteriorità che mostriamo, resta quello che siamo dentro; poi, ma solo se siamo bravi e sinceri, mettiamo l’anima a nudo.”
“Avevi spacciato me per filosofo.”
“Si va?” chiese.
“Andiamo.”
Salimmo al suo appartamento, entrammo e mi chiese di aspettarla.
Tornò completamente nuda, mi sedette accanto e spense la lampada accanto al divano. Nella semioscurità, distinguevo appena il suo volto e la forma del suo corpo; solo il chiarore dei lampioni della strada diffondeva una tenue luce nella stanza, permettendo di fantasticare sulle ombre.
“Ci sono occasioni in cui scopare è un po’ morire; sei d’accordo?” Mi chiese.
“No” Risposi.
“Perché? Riusciamo a conoscere la strada che abbiamo percorso solo alla fine del cammino, quando essa è già morta … Amami, ti prego, non solo col sesso, anche col cuore, con i sentimenti che leggo nelle lettere che scrivi in risposta alle mie. Non sei freddo come vorresti sembrare … Abbracciami.”
L’abbracciai, pensando che aveva un temperamento lunatico, a volte razionale e indifferente, a volte romantico e malinconico. Sentii i profumi di cui si era impregnata, per la prima volta ascoltai il suo cuore. Eppure sapevo che non ero il suo grande amore, né lei lo era per me.
In quel momento, l’ora sospese il suo progredire; la figura di Agata assunse una nuova sembianza, quasi se ne fosse oscurata una parte. Le parole non furono più in grado di esprimere l’amore e neanche la sua assenza: ci guardammo nell’oscurità come mai ci eravamo visti alla luce del giorno.

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Stralcio dal romanzo Diari sospesi

(Dal mio romanzo Diari sospesi. Antipodes Editore)

A pranzo incontravo spesso Giammaria che, quasi sempre, mangiava in compagnia di qualche bella ragazza.
Mi chiedeva: “La solita gramigna?”
In una di quelle occasioni, andammo a trovare un vecchio e comune amico, Eddy, argentino di origine. Lo trovammo che assisteva a una partita di calcio in TV.
Complice la seduzione esercitata da una bottiglia di Armagnac agé, mi accomodai a un tavolo di cucina, avendo alle spalle lo schermo e di fronte Giammaria ed Eddy il quale, seguendo senza continuità l’incontro, e come d’abitudine, mi raccontava del Mar del Plata della sua infanzia. Al che rispondevo parlando con dovuta modestia di me. Nell’intervallo chiesi a Eddy che mi facesse riascoltare, accompagnandosi con la chitarra, “Rio abajo voy llerando la jancada”, la mia preferita tra le sue canzoni di struggente argentinità. Chiedevo a tratti chi stesse vincendo, e lui rispondeva: “Quegli altri”, aggiungendo: “Non c’è partita”. La sera continuò così, mentre l’Armagnac profumava una notte in arrivo che non riusciva a decollare in senso sportivo, tranne per il borbotto di Eddy che, tra una strofa e l’altra dei versi di Eduardo Falù, confermava come non ci fosse partita. Giungemmo alla fine del lungo poema che chiosava con “El alto Paranà”. A quel punto chiesi chi avesse vinto, mi risposero: “Quegli altri, non c’è stata partita”.
La sera terminò così e io mi avviai da solo verso Fonte di marzo senza alcuna nostalgia del circolo. Anzi, pensavo che le cose inattuate da perseguire e in attesa di me, mi attraevano più di quelle concluse. Era come la ripetizione di una mia storia antica: nel piacere che si stesse avverando la parte di un’idea, sembrava inevitabile che ne restasse incompiuta la restante. Ero solo in questa visione del mondo? Oppure essa era comune a tanta gente che, in cerca di salvezza, la riversava in una sorta di oblio rassicurante?

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Brevissimo racconto

Improvvisa un'immagine tornò al suo ricordo: una ragazza di cui aveva
dimenticato il nome. Aveva piccole mani quadrate, il collo ben tornito,
e i lobi degli orecchi adornati da pendenti che spuntavano appena sotto i capelli.
Avevano passato il pomeriggio in un bar e lei gli aveva chiesto: -Mi accompagni?
E lui: -Non ho l'auto.
-Possiamo andare con la mia.
Abitava un condominio a tre piani, in una mansarda che sapeva di caldo e di odori speziati.
-Ti offro un dolce che ho preparato stamane e ti preparo un caffè, propose la ragazza.
Passarono la notte in un letto in cui ognuno si era abbandonato agli sguardi e al piacere
dell'altro. Poi, come spesso accade, la passione che era sbocciata in turbinio indistinto di mezze parole e di nuove carezze, aveva ritrovato la propria usuale indifferenza.
Non l'aveva più rivista, e ormai erano passati più di vent'anni.
Gli era rimasto il ricordo di quella ragazza, come di tante altre, a segnare certi
episodi della sua vita, come anche gli eccessi che la sua mente era stata curiosa di esplorare. Erano le manifestazioni di una lussuria che, dopo essere stata vissuta, aveva finito per adagiarsi in un languore che gli riempiva il corpo e lo spirito di sentimentalismi a volte sconosciuti, a volte repentinamente ritrovati e infine dimenticati.

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A casa di Fanette e dintorni

A casa di Fanette e dintorni

Manuel era arrivato a casa di Fanette in fondo a un lungo viale fiancheggiato da alberi spogli.
Dopo aver salito le strette rampe di scale e schiacciato il pulsante lucido d’ottone, attese qualche secondo, poi Fanette lo fece accomodare. Entrò in una stanza in penombra dove non poté non notare i laconici sguardi di due donne apparentemente in attesa.
Fanette si premurò delle presentazioni: i nomi furono pronunciati sottovoce, quasi un bisbiglio. Le due donne, restando distese in poltrona, si presentarono e gli porsero mani bianchissime e mollemente avvolgenti, con un gesto accompagnato da una evidente indifferenza.
Mentre il momento sembrava sospeso, suonò il campanello d’ingresso; Fiore, una delle due, si diresse alla porta e fece entrare una donna di età indefinibile, magra e molto truccata e che, silenziosa, andò a sedersi in una poltrona appartata rispetto alle altre.
Fanette lo attirò lentamente verso una finestra su una parete di fondo, mentre quelle donne continuavano a parlare tra loro, con scivoloso, gli apparve, distacco.
Manuel e Fanette l’una all’altro di fronte: lei lo guarda con occhi che sembrano alludere a un languido passato, quasi volessero rinnovare antiche intimità solo apparentemente sublimate in ricordi.
Ha il viso adorno di un orecchino soltanto; forse un pegno per un amore futuro. Appoggia il viso sulla spalla di Manuel. Lacrime lente e umidicce bagnano la giacca sgualcita e di anonimo grigio che lui indossa.
-Perché piangi? le chiede.
-Non vorrei essere qui, risponde, ma lontano, in un’oasi di palme del deserto, circondata dal sole. Un sole violento, da togliere il fiato; io che amo la pioggia, lo sai. Quante volte mi hai rimproverato di non parlare di me! Eppure lo vorrei, e basterebbe un tuo gesto d’amore più che mille parole. Ma tu non hai gesti di tenerezza, solo parole prive di sentimenti. Sembrano quelle del mio dentista quando mi chiede, toccandomi con uno di quei terribili attrezzi metallici, dove mi fa male. Non soffrirei più se sentissi un briciolo d'amore in te, e anche tu, forse, potresti cancellare ogni tuo malessere.
-Non ti capisco, Fanette. Forse non ti ho mai capita … Chi è la donna che è entrata poco fa?
-Miranda, ma non importa.
Manuel guarda verso i divani, le tre donne sono scomparse.
-Dove sono andate?
-Di là, nel salottino piccolo.
-Per lasciarci soli?
-No, puoi immaginare il motivo.
-Usi ancora la coca, vuoi dire?
-Quando loro vengono da me; è Miranda che la porta.
-Che bisogno hai di questi sogni?
-Non sono sogni.
-E cos’altro?
-Viaggi, dentro me stessa.
-Sai che non sopporto tutto questo, a che serve?
-A non vedermi come sono: brutta e sgradevole.
-Non sei brutta, né sgradevole, smetti con questa storia.
-Ma sì, domani sarà tutto passato, anche il mal di testa. Vorrei dimenticare, è vero, eppure sono ossessionata dal fatto che poi ogni paura ritorni e io non riesca più a liberarmi.
-Dimenticare cosa?
-Tu sai che ho avuto un marito?
-A che serve tornare alla tua vita passata?
-Non riesco a fare a meno dell’odio che provo ancora per lui. Un essere ignobile e volgare. E anche violento.
Tacquero per un po’, restando fermi, in piedi, accanto alla finestra.
-Vieni di là anche tu, ti prego, resta con me, ho bisogno del tuo amore.
-Potresti averlo anche senza questa pantomima.
-Le cose cambieranno, cambiano sempre, le cose. Per questo si aspetta tanto, adesso sembrano immobili, eppure, già da ieri, o dall’altro ieri, o dal mese scorso, che importanza vuoi che abbia, sono cambiate.
Lo guardò con occhi quasi imploranti, poi aggiunse: -Chi mi ha amata mi ha perduta; inseguo chi mi disprezza. Resta con me, questa notte, ti prego.
-Perché?
-Perché ho bisogno di te, perché potrei arrivare a capirmi, finalmente; il tuo amore, se sarai generoso, può salvarmi.
-Il mio amore?
-Come il mio per te, io ho amato solo te. Tacque per qualche secondo, poi aggiunse: -----Devo andare; e tu vuoi fuggire come al solito. Come ogni volta che ho veramente bisogno di qualcuno di cui potermi fidare.
-Sì, vado via.
-Ceniamo insieme domani?
-Un momento diverso? Una sera diversa? È questo che vorresti?
-Sì, spero che sarà così.
Manuel guardò il suo volto teso: i lineamenti si stavano indurendo lentamente. Poi Fanette, con gesto improvviso, mise l’orecchino in una mano di lui.
Non c'era alcuna grazia nel gesto, solo la voglia di sottrarsi, di evitare la parole, concedendo in cambio orpelli da nulla. La sua bocca appariva ghignosa, gli occhi erano diventati come fessure.
Manuel le prese la mano che lei cercò di divincolare.
La lasciò andare e Fanette, quasi per addolcirlo, disse ancora: -Amo solo te.
La guardò avviarsi verso l’altra stanza nel suo abito sciatto, i capelli erano raccolti in disordine sulla nuca, il passo trascinato.
Si chiese chi fosse veramente Fanette.
Poi pensò che l’essenza non potesse che essere prevaricata dall’esistenza.
Pensiero banale? Scarno tentativo di dare un significato qualsivolglia al rapporto sfilacciato e inconcludibile con lei?
Uscì dall’appartamento e si ritrovò nel viale bagnato dalla pioggia d’inverno.

Ristorante in centro.
Manuel aspetta Fanette in un tavolo d’angolo.
La vede arrivare e togliersi il cappotto che un cameriere porta nel vestiaire. Resta elegante in un tailleur Chanel color malva con bottoncini gialli di stoffa, gonna al ginocchio, tacchi alti e velatissime calze.
È al braccio di uno sconosciuto che le ha fatto strada entrando. Sorride, scintillante nell’oro degli anelli e degli orecchini.
Siedono a un tavolo al centro della sala, evidentemente prenotato. Manuel cerca il suo sguardo, ma Fanette non vede o lo ignora.
Un’altra coppia arriva e siede con loro. Sembrano euforici, parlano e ridono allegramente. L’accompagnatore di Fanette le prende una mano, Fanette sembra gradire.
Manuel si alza e si avvia verso l’uscita passando accanto a quel tavolo, invano aspettando uno sguardo o un cenno di saluto.
Si sentì trasparente, eppure ferito nell’amor proprio.
Si consola: quel ristorante non è certo il suo ambiente.
Non vuole leggere le parole che ha visto, non ascoltate, sulle labbra
di lei. Avvolge la sciarpa intorno al collo, indossa l’impermeabile ed
esce.
Per strada s’interroga; nient’altro può fare che circoscrivere il comportamento a ciò che ha visto, al presente inatteso.
L’aria è umida e nebbiosa, potrebbe piovere ancora o, addirittura, nevicare.

Lesse, tre giorni dopo, sulla cronaca locale del giornale più diffuso in città, che una signora del bel mondo era stata trovata morta nel suo appartamento, probabilmente a causa di un cocktail di droghe pesanti; il corpo era stato rinvenuto dalla donna delle pulizie. In casa non c’era nessuno, solo il corpo nudo della signora Fanette Assalò disteso nel letto. Gli inquirenti cercavano il fornitore della droga.
Sarebbe stato suo dovere presentarsi in una caserma dei carabinieri?
Poteva raccontare tutto quello che aveva visto al ristorante; anche se i camerieri e il proprietario certamente erano già stati interrogati e la sua testimonianza sarebbe stata inutile. Però, avrebbe potuto riferire di un ambiente che aveva frequentato, se pur saltuariamente.
Come aveva conosciuto la signora Fanette Assalò?
Sapeva delle sue amicizie e frequentazioni? E lui, Manuel, aveva mai fatto uso di stupefacenti insieme a lei? Che rapporto aveva con la donna?
Spiegare, interpretare, parlare dello smarrimento che, tante volte, aveva osservato negli occhi di lei.

Una domenica mattina l’aveva incontrata mentre entrava in una chiesa. Si era fatto vincere dalla curiosità e, durante la messa, l’aveva vista prendere la comunione: cercava un segno che la aiutasse? Manuel ne era rimasto sorpreso ma era uscito senza aspettarla.
Aveva provato gelosia, a volte; un sentimento che era stato spesso sostituito dalla curiosità e dalla voglia di sperimentare un mondo che gli era sconosciuto.
Ebbe paura: se quelle due donne, Fiore e Gidia, avessero parlato di lui? Cosa sapevano? Quando gli erano state presentate non gli avevano mostrato alcun interesse; certamente, non ricordavano neanche il suo nome.
Testimoniare e riferire quel poco di cui era a conoscenza?
Forse avrebbe dovuto acconsentire a un’indagine; magari parlare di sé, del suo io, quello profondo e mentendo sul rapporto che aveva avuto con Fanette: non avrebbe sofferto di alcun senso di colpa. Ma che colpa? Lui non aveva mai partecipato al rito dello sniffo, non conosceva quella Miranda, probabile fornitrice della droga. Gli investigatori non avrebbero avuto nulla da ridire sul suo comportamento.
Pensava tutto ciò camminando per strade di periferia, dalle parti della sua abitazione, con l'unico obiettivo di non essere coinvolto in storie fastidiose se non, addirittura, pericolose.
Si accorse di avere ancora in tasca l'orecchino che Fanette gli aveva dato, lo tirò fuori e lo guardò con scarso interesse.
Si sentiva stanco.
Avrebbe voluto tornare indietro nel tempo, quando ancora non la conosceva, prima delle sue bugie. Adesso sapeva che lei diceva bugie; ma non aveva più importanza, così si sentiva giustificato per l'atteggiamento di indifferenza che le aveva mostrato.
Certo, avrebbe potuto trascinarla via da quella riunione di donne perse dietro stupidi sogni. Avrebbe potuto dirle; -Vieni tu via con me, sarà il mio amore a salvarti. Non l'aveva detto, forse era un impegno di cui non voleva farsi carico.
Fanette ormai era morta, non doveva più preoccuparsi.
Pensò a un giorno in cui era appena tornato dal mare e, in casa, la luce si spegneva a intermittenza per un temporale in arrivo.
Un’assenza, un riposo nel buio con un sigaro tra le labbra, in un’atmosfera esiliata e superflua, forse per colpa della pioggia, o del mare che era stato agitato, tanto che, pur lontano dalla battigia, gli spruzzi erano spesso arrivati sino a lui.


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percorrendo Parigi

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Stralcio dal romanzo Jacob Rohault I giorni di Venezia

Una giovane donna fece il suo ingresso nel salottino e Laura Stellarìn si rivolse a Jacob, cambiando discorso. “Fulvia. La mia pupilla e nipote, figlia del mio amato fratello che ci ha lasciati ormai da tre anni.”
Jacob si alzò e rimase in attesa. “Vorrei che voi foste il suo maestro di Scienza e di Lettere. So bene che dovrebbe essere un uomo di chiesa a farlo, eppure preferisco così, tanta è la fiducia che m’ispirate.”
“Mi fate un onore del quale non posso che ringraziarvi.”
“L’intelligenza di Fulvia e il suo spirito puro vi saranno d’aiuto.”
Jacob la guardò. Il colorito del volto aveva un che di carnale che lasciava intuire una sensualità apparentemente nascosta in occhi di fredda indifferenza; là dove, invece, la bocca a bocciolo era come una promessa di piaceri.
Laura Stellarìn continuò:
“Potreste venire in questo palazzo ogni mercoledì e dedicarvi a istruire la mia Fulvia su quanto c’è di nuovo nel nostro mondo e, naturalmente, a migliorare il suo francese. Lei è seguita già dal suo confessore per la fede e per la dottrina. Con la vostra guida, io credo, la sua educazione sarà completa.”
Fulvia taceva: la sua espressione era di cortese ascolto.
Osservandola, Jacob si sentì a disagio. Naso retroussé, labbra simili a un frutto squarciato e, ai lati della bocca, due leggerissimi solchi, forse creati da una precoce diffidenza verso gli uomini e verso la vita, che contrastava con una morbida offerta di sé, palese nei movimenti delle mani diàfane. «Par endroits,» pensò Jacob, esibite come aduse ad avvolgenti abbandoni.
Fu tentato di rifiutare: avrebbe voluto dedicarsi all’edizione del Trattato e non a educare allieve per la vanità di nobildonne veneziane.
Decisiva fu la conclusione della proposta: “Naturalmente, il vostro impegno sarà ben retribuito. Se siete d’accordo, potrete cominciare dalla settimana prossima.”
Laura Stellarìn si alzò; Jacob prese commiato e uscì.
Non vide Camillo e decise di tornare a La Campana.
La pioggia era cessata. Le strade sembravano piene di animazione: molte case, che a Jacob erano già apparse tendenti all’impenetrabilità, avevano i portoni spalancati. Fiaccole, appese ai muri o tra le mani di persone vocianti, creavano riflessi quali immagini iridate su selciati e pareti. Tremule luci, ineguali penombre, sfoggi d’accatto. Accanto alla gondola di un venditore di dolci, uomini e donna che chiamavano e si rispondevano. Uno sciancato con bocca priva di forma passò muovendosi a scatti.
Si addentrò in strade buie, là dove figure di uomini divenivano man mano più rade.
Dentro una stanza illuminata da una candela infilata in un collo di bottiglia, una vecchia si toglieva dai capelli antiche crosticine.
Vapori impalpabili ristagnavano sugli stretti canali. Cominciava a riconoscere vicoli e campielli, angoli di palazzi e fittoni sbrecciati.

Laura Stellarìn gli aveva mostrato stima e simpatia; certamente, avrebbe avuto un appoggio anche da lei.
Nel frattempo sarebbe stato precettore per Fulvia. Conciliare il mestiere di aio con quello di filosofo teso a studiare ipotesi per la conoscenza del mondo: una sorta di molla a spirale che avrebbe applicato alla ruota del progredire dei giorni veneziani.
Nell’ora ormai tarda i suoi occhi azzurri guardavano oggetti resi vaghi dalle ombre notturne mentre, senza motivo apparente, ricordava quelli scuri di Fulvia. In essi non aveva visto cenno di autentico interesse, ma ambigua suadenza, un ammiccante pendant col movimento delle mani, agili ali nei luminosi saloni di Laura Stellarìn.


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Dal romanzo Con gli occhi di Arianna

(Da pag. 264 a pag. 268)
Restò pensosa e con gli occhi rivolti in basso e poi, senza più riflettere:
“Io ho avuto un amore, Francesca, un amore grande di cui nessuno ha mai saputo nulla.”
“Un amore … come?”
“Un amore, un amante.”
Era indecisa se continuare, ma Francesca la guardava con dolcezza e senza malizia.
“Non ne ho mai parlato,” continuò.
“Ed è stato importante per te? E lui ti ha amata? “
“All’inizio è stato un flirt, per tutti e due poi, senza che ce ne accorgessimo, è diventato profondo e vero, e grande”
“Ho sempre pensato che ci fosse stato qualcosa di simile nella tua vita.”
“Venivo da esperienze di sesso superficiale che mi avevano nauseata, avevo bisogno di un sentimento vero e completo e …”
“Hai voglia di parlarne con me?”
“In realtà, ho solo bisogno che almeno una persona che mi è cara lo sappia.”
“Mi chiedo se è possibile nascondere per sempre un amore, specie se è stato grande.”
“Io l’ho fatto, per tanto tempo e, in qualche modo ne ero anche felice. Tenerlo solo per me, lo rendeva ancora più unico.”
“E adesso?”
“Adesso è finito, quasi senza un motivo vero, se non che forse lui aveva smesso di amarmi. Mi resi conto, a un certo punto, che mi trascurava, che pensava a me in modo diverso, e anche per me, di conseguenza, stava cambiando qualcosa, e senza motivi chiari, per lui soprattutto.”
Sentì che non riusciva a trovare le parole giuste per raccontare.
“È stata una delusione, allora?”
“La più grande della mia vita, Francesca, sino ad esserne ferocemente torturata al solo pensarci.”
“Ma non c’è qualcosa che …”
“Si che c’è, anzi credo che l’amore mi abbia purificato, in qualche modo, di quanto di basso e meschino aveva potuto esistere nei rapporti con gli altri.”
“E potrebbe rivivere?”
“No, proprio perché, per tanto tempo, quell’amore e quel rapporto furono in grado di aprirmi la mente, di farmi illudere di aver trovato un uomo col quale dividere la vita come ho sempre desiderato, da amare e dal quale essere amata. E io l’ho amato e lui mi ha amata, lo so.”
“E sei riuscita a nascondere a tutti un sentimento così importante?”
“È stato così, proprio perché lo sentivo come qualcosa al di sopra di ogni giudizio.”
“Si, ma adesso?”
“E’ una storia che non rivivrà più; mi fa piacere che tu la conosca, però.”
“Vorrei saperne di più, così, d’istinto, però non so se …”
“Te ne parlerò, non sai quanto sia difficile farlo oggi, anche superficialmente, ma ne sono contenta “
“Non lo hai mai raccontato a nessuna?”
“No, neanche a Sonia, e sai quanto noi due siamo amiche e vicine.”
“Lo so, e posso dirti che qualche volta sono stata gelosa di Sonia.”
“E’ il giorno delle confessioni?”
“Eccoti, la mia Arianna!”
“La tua Arianna, rompiballe e insopportabile!”
“Credo sia inevitabile domandarti perché sia finito, se era un grande amore, come mi sembra di capire che tu lo abbia vissuto.”
“Ma lo era, non posso pensare diversamente.”
“Perché? Sai bene che in queste cose ci si può sbagliare, e quando un amore finisce ci si può ritrovare a vederlo diverso da come sembrava.”
“Io l’ho vissuto come ti ho detto.”
“Ma tu hai un cuore grande, sei sentimentale, sei …”
“Ma credo anche di saper giudicare con freddezza e razionalità.”
“Nelle cose dell’amore?”
“Lo so che è difficile spiegare, eppure io mi sono sentita amata.”
“Ma perché è finita, allora? E non è stato lui a tirarsi indietro?”
“Non so, improvvisamente, è come se non lo avessi sentito più accanto a me.”
“E continui a pensare che sia stato un grande amore lo stesso?”
“Penso lo sia stato, anche se, adesso, non ho voglia di giudicarlo.”
“Senti Arianna, io ti ascolto, ma vorrei dirti qualcosa che mi viene da pensare e che potrebbe farti male.”
“Dimmi.”
“Ho l’impressione, magari senza un motivo preciso, ma solo con intuito femminile, che quest’uomo lo hai un po’, come dire, idealizzato; hai finito per identificarlo con un sogno. Hai dato ascolto al cuore, a qualcosa che forse non è mai esistito realmente.”
“Come fai a dirlo?” C’era una sfumatura di apprensione nella voce di Arianna.
“Intanto per come mi dici sia finito, e come lui possa aver smesso di amare una donna come te. E, soprattutto, per il modo che hai di difendere non tanto lui o il vostro rapporto, ma l’idea dell’amore che è, come dire, i tuoi sogni. È questa l’impressione che dai.”
Arianna non riuscì a ribattere, e Francesca continuò:
“Io credo, e ti prego di capire che posso parlarti così perché ne sono fuori, non sono coinvolta, io credo che questa persona non abbia avuto così tanto di speciale, hai proiettato in lui i tuoi sogni, le tue insoddisfazioni e le delusioni precedenti.”
“Ma non sai nulla.”
“No, però leggo nelle tue parole non solo una storia d’amore, ma il desiderio di dimenticare una parte della verità, per restare ancorata non tanto al suo ricordo concreto e reale, ma a quello di cui avevi bisogno.”
Arianna ebbe l’atteggiamento di chi si sente aggredita e colpita nel suo essere donna e nei suoi sentimenti.
“Forse hai vissuto una storia di cui non potevi fare a meno, come tante se ne vivono, ma hai dovuto ammantarla di una luce abbagliante e ideale che, mentre ti permetteva di realizzare un sogno, ti garantiva di non sentirti in colpa. Probabilmente ti rendeva un po’ cieca.”
Arianna avvertì improvviso un groppo alla gola, mentre nel petto le scendeva una vampata di calore violenta. E lo smarrimento era tanto più forte perché si rendeva conto che di un sentimento vissuto a lungo con tenerezza e passione, inconoscibile ai più, si potesse parlare in pochi attimi, riducendolo ad argomento di sole parole.
“Sento che vuoi dimenticare e ricordare nello stesso tempo – continuò Francesca – dimenticare banalità e mancanze che quest’uomo ti ha inevitabilmente mostrato di sé e ricordare, piuttosto, ogni attimo d’amore e passione, che pure avrai vissuto con lui. Non voglio dire che ci sia stato molto di negativo ma, alla fine, sfrondando i ricordi dagli ornamenti della sensualità e delle intimità, potresti vederlo in una luce diversa.”
“Ti prego, Francesca.”
“Arianna, ti vedo nervosa e un po’ perduta; però, pensaci con fredda razionalità, tu hai visto quest’uomo non come veramente fosse: magari non era un uomo da poco come tanti altri, e scusami se ti appaio cinica, ma in qualche modo era anche questo.”
“Ma come puoi dirlo senza conoscerlo?”
“Da come ne parli, dal senso di amarezza che traspare nel modo di raccontare e che non è legato solo alla tristezza ovvia e contingente per la fine di un rapporto, ma anche a una latente delusione esistenziale che aleggia in tutto ciò che dici e in come lo dici.”

*

Tabriz

Tabrìz

In una sera di caldissima estate nella città persiana di Tabriz, diedi a taxista, nell'antico linguaggio Farsi, nome e indirizzo di Léon.
Léon, cuoco russo fuggito ragazzo dalla Georgia dei Soviet per approdare a Tabrìz: velleità di far conoscere a quel mondo la gastroenologia di un altro mondo.
Taxista disonesto mi giravoltò per itinerari di incombenti minacce e di buche allagate, proponendo una mèta sempre più in là. Considerai, allora, l’urgenza di procurarmi un’auto che, pur con apprensione e possibili dubbi, mi avrebbe consentito di percorrere strade di incerti e sconnessi andirivieni privi di toponomastica.
Mi recai ad acquistarla, dopo un giorno, da venditore dal mercanteggiamento levantino. Si presentò e disse il nome: Mohamar Aziz e, accogliendomi, s’informò, come da prassi, della mia salute:
“Al shomà kube, Aghà? (1)”
“Keilo kube! Mèrci (2)” risposi di rito.
Chiesi di un’auto.
Mi guardò e soppesò, sconsigliò Chevrolet, quasi arca di Noè inadatta alle mie esigenze, per proporre auto Diane francese.
Non ebbi che assentire dicendo: “Bale (3)”
Mi disse: “Sei mesi per averla.”
Risposi: “Impossibile.”
Ma Aziz, con studiata reticenza, mi disse che in luogo appartato e serale avrei trovato subito, congruo sovrapprezzo, il mezzo motore per le mie necessità viaggiatorie.
All’ora del tramonto, mi recai all’indirizzo più da intuire che precisamente identificabile.
Il quartiere prometteva concreta la presenza di un buio ostile, senza palesarne nitidamente i pericoli. Trovai il posto, anonimo e privo di insegne, entrai curvandomi sotto la serranda sospesa a metà della corsa e lì trovai l’ineffabile Aziz conosciuto al mattino.
Non mostrò segno di avermi già visto, io altrettanto.
Salutandomi s’informò della mia salute: “Al shomà kube, Aghà?”
“Keilo kube! Mèrci,” risposi.
Ascoltò attentamente le mie esigenze, sconsigliò Chevrolet e mi propose auto Diane color beige chiaro, immobile al centro del locale, appoggiata su tappeto Malayer moderno. Il prezzo: sei milioni di Rials (all’altro mercato cinque).
Contrattammo a lungo. Preparò un tchaì (4) alla menta, dalla tazza di vetro, versammo il liquido verde bollente nel piattino rosa trasparente ricamato in argento e dai bordi alti e ricurvi. Così raffreddato, bevemmo all’unisono il tchaì, tenendo schiacciato al palato una zolletta di zucchero.
Al termine del conforto si alzò per comunicare una momentanea sospensione della trattativa. Decidemmo di continuare l’indomani. Su un foglietto di carta scrisse, affinché ricordassi: فردا . Sonorizzando, rese chiaro: Fardà, domani.
Fardà tornai dopo le sei.
Mi chiese: “Al shomà kube, Aghà?”
“Keilo kube! Mèrci,” risposi.
Mi offrì il tchaì, parlammo del mondo, di Dio, della fede e, al riguardo, s’informò con educata cautela, se il Papa fosse il Re di Roma e, nel caso affermativo, se eletto dal popolo. Propendeva, ad ogni modo, per la benevolenza di Allah.
Chiese se avevo degli eredi, alla mia risposta di unico figlio, scosse la testa per sottolineare l’inaffidabilità delle donne: diverso sarebbe stato se avessi avuto almeno due mogli.
Infine, chiudemmo il contratto (cinque milioni e trecentomila Rials) con stretta di mano e doppio bacio di guance.
Mentre uscivo, con aria interrogativa e aggrottata mi chiese: “Aghà! Chi ti ha detto di questo posto?”
Poi, come dovuto, e senza attendere risposta, aggiunse: “Khoda hafiz, aghà (5).”
Risposi: “Allah Hafiz (6)”
E lui: “In šāʾ Allāh (7)”
“Khoda Hafiz” dissi uscendo.

(1) Stai bene, Signore?
(2) Benissimo, grazie
(3) Si
(4) Tè
(5) Arrivederci, Signore
(6) Col favore di Allah
(7) Solo Allah può sapere


*

Stralcio dal mio romanzo L’intruso nelle vecchie stanze

Stralcio dal mio romanzo L'intruso nelle vecchie stanze

Di Eleonora e dei suoi due fratelli, Simone e Francesco, ho un vago ricordo, persone conosciute solo di vista e con le quali non avevo mai parlato. Misteriose o, in qualche modo, solo timide e riservate, in ogni caso quasi sempre rinchiuse in quella vecchia casa oggi abbandonata.
Simone e Francesco uscivano raramente, mai insieme, e solo in auto da un garage nascosto, probabilmente per andare a cena al ristorante. Magari riportavano qualcosa da mangiare a Eleonora. Si diceva esistessero dei lontani parenti che vivevano all’estero, in Francia; la mia era solo una parentela indiretta. In paese li consideravano arroganti e presupponenti, al più degli originali, in ogni caso alieni da ogni rapporto di amicizia con chiunque. Non si erano mai sposati e non avevano discendenza.
In rare occasioni, soprattutto d’estate, mi accadeva di incontrare Eleonora in passi notturni poco prima dell’alba e lei, nel vedermi, cercava di nascondersi, fuggire o cambiare strada. Quasi lunare nel buio, prima che rapida sparisse alla vista, spesso vestita con una camicia da notte color giallo sbiadito, lunga, dalle spalle sino ai piedi, i capelli quasi bianchi, sempre legati dietro la nuca. Mi dava l’impressione che camminasse scalza.
Penso che non avesse idea di chi io fossi, e che mostrasse quell’atteggiamento a ogni abitante del paese. Perché facesse quelle uscite notturne non mi fu mai possibile capire.
Adesso ho violato quella casa che nessuno visitava da anni.
Percorro le vecchie stanze lasciando impronte nella polvere depositata sui pavimenti; la luce va scemando, non mi darà tempo per altre ricerche, quelle prive di progettualità e fatte senza alcun ordine.
Mi chiedo: forse sono io che non ho ancora capito questo progetto, il suo scopo e la sua medialità; lo vedo come uno scorrere di immagini e di velleitarie memorie. Gesti e atmosfere, niente di definito, forse soltanto apparenze. Che cerchino nei documenti virtù rassicuranti, capaci di rendere autentici i luoghi al di là di ogni fantasticheria? Anche rigorose testimonianze, se ce ne fossero, potrebbero essere interpretate e manipolate.
I ricordi dell’adolescenza mi suggeriscono immagini che sono quelle modificate dalle fantasie e dai racconti; i suoni e i rumori no, quelli sono ancora presenti, ed erano echi e scricchiolii notturni, perché di giorno tutto taceva.
Raccontare i bisbigli? O piuttosto le immagini dei vicoli e delle vecchie mura bianche di calce?

*

Dal romanzo Diari sospesi

Dal mio nuovo romanzo inedito DIARI SOSPESI.
Mi avvicinai e Brusi mi disse, con una voce indecisa:
“Purtroppo Macor, l’ha fatta finita!”
Lo guardai stupito: “Che vuoi dire?”
“Si è buttato giù dal settimo piano del suo condominio.”
Rimasi senza parole. In quel momento pensai che Macor mi avesse sempre dato l’impressione di essere una persona tormentata, alla ricerca di un se stesso che si manifestava in modo incomprensibile.
C’era un’atmosfera pesante; improvvisamente, nella stanza era sceso un silenzio che sapeva di stupore e tristezza. Prese la parola Alfonso:
“Forse Brà è in grado di dirci di più. In fondo era l’unica persona, qui al circolo, con cui Macor si confidava e che aveva in simpatia,”
“Posso solo dire che ho un grande dolore dentro,” risposi, e mentre lo dicevo sentii che gli occhi mi si stavano riempiendo di lacrime.
“Quando è successo?” Chiese Cesidio.
“Stamattina all’alba,” rispose Alfonso.
In fondo al salone, notai Yvonne che piangeva in silenzio.
“Cosa facciamo?” chiese Censis.
Poi, rivolto a me: “Aveva parenti … viveva solo?”
“Non lo so,” risposi.
Mi guardarono come se fossi colpevole della sua morte.
“E i funerali?” Chiese Manuela.
“Ci informeremo, ma credo non prima di dopodomani,” fece Alfonso, che aggiunse: “In ogni caso, oggi la seduta del circolo non ci sarà. Poi dovremo preoccuparci di preparare un comunicato e di comprare una corona di fiori.”
“Ma ci sarà una cerimonia funebre in chiesa?” S’informò Cesidio.
“Intanto bisognerà trovare i parenti,” osservò Brusi. “Te ne occupi tu, Glauco?”
“Credo che sia compito del responsabile di questo gruppo,” fece notare Cesidio.
“Me ne occuperò,” rispose Alfonso, “Manuela tu mi darai un’assistenza? In ogni caso le riunioni sono sospese almeno sino a dopo il funerale. Farò un comunicato; ci vediamo domani pomeriggio qui, per organizzarci.”
E aggiunse: “Certo un qualcosa di inspiegabile!”
Mi chiesi se avrei dovuto avvisare Millìa, ma mi resi conto di non averne alcuna voglia. Tra l’altro, avevo sentito Macor esprimere un giudizio poco lusinghiero su di lui: pensai che non sarebbe stato opportuno.
Domandai se potevo avere qualche sua poesia. Alfonso le cercò in un cassetto e me le consegnò. Ne fui contento, anche se nei suoi modi frettolosi notai un atteggiamento connotato da mancanza di rispetto verso un uomo che, pur con tante contraddizioni, aveva partecipato alle iniziative e allo spirito del circolo con spontanea sincerità. Oltretutto senza timore di essere giudicato. Era stato se stesso senza fingere mai e senza accettare acquiescenti compromessi, a costo di irritare più di una persona lì dentro.
Mentre uscivamo, udii la voce di Manuela: ”Non ho mai capito se fosse credente. All’inizio sembrava animato da una fede sicura, poi era diventato cinico e aspro, verso sé e verso il mondo. Veramente inspiegabile. Forse è lì la spiegazione del suo gesto.”
Arrivai a casa e mi accinsi a rileggere alcuni versi di Macor. In quelle parole, a volte prive di senso, doveva trovarsi il preannuncio di una tragedia che si era manifestata in un modo così inaspettato e doloroso.
Lessi: «La parola indomata è garante di vita, Rugge e muggisce contro sguardi villani …»
E ancora: «Per il poeta bellezza allora fu il sogno, e segreto nutrì il suo candido amore.»
Non ci avevo mai riflettuto, ma adesso ero in grado di dire che Macor credeva nella forza delle parole e sognava una bellezza da trovare, probabilmente, solo nella sua immaginazione poetica e non nelle banalità quotidiane.

*

Stralcio dal romanzo Diari sospesi

Titolo del romanzo: Diari sospesi.
Breve sinossi
Una mancanza di concretizzazione è contenuta nell’enunciazione programmatica del titolo. Tutto il romanzo ne sarà impregnato.
Il luogo nel quale la storia si svolge è un circolo di lettura, metafora di un certo modo di essere della società, nella quale tutto sembra stia per concludersi ma, per quanto il non concluso suggerisca e affascini, si sospende a tratti la narrazione, in modo che altri testi, magari solo appena accennati nei titoli (nelle modalità usuali per i circoli di lettura), ne prendano momentaneamente il posto. In tal modo lasciando sottintendere l'esistenza di un mondo parallelo - tanto immaginario quanto desiderato se pure in modo criptato – in grado di fornire un criterio di narrazione sovrapponibile a quello diaristico della storia.
STRALCIO
Dovevo andare in Santa Caterina per pagare l’affitto di casa. L’androne era lungo e stretto; salii al primo piano. Sul campanello c’era scritto sbilenco il nome Bovieri su un pezzetto di carta da salumiere, ritagliato più o meno a misura. Schiacciai il pulsante ma non sentii lo squillo, mi decisi a bussare con le nocche delle dita. Dopo un po’ Bovieri mi aprì, mi guardò sospettoso, evidentemente non mi aveva riconosciuto.
“Sono Glauco Brà, l’inquilino di Fonte di marzo, sono venuto per l’affitto,” gli dissi.
“Entri,” rispose, poi: “È in ritardo, e mi deve ancora la pigione del mese scorso.”
La stanza puzzava di sporco, le imposte delle finestre erano chiuse e una lampadina appesa al centro del soffitto illuminava debolmente l’ambiente. Su un fornello c’era un pentolino con del brodo che bolliva diffondendo un odore di rancido: un recipiente di smalto sbeccato, blu all’esterno e bianco lattiginoso all’interno. Bovieri recuperò la dentiera affogata in un bicchiere, se la infilò in bocca, armeggiando maldestramente per fissarla, poi restò in attesa. Contò il denaro che gli avevo consegnato, prese un sacchetto di plastica e ne estrasse il resto in banconote da cinquanta e cento lire unte e sdrucite. Facevano un po’ schifo, per questo sperava che gliele lasciassi, immaginai. Le presi e andai via senza salutare; mentre uscivo, mi ricordò di portare l’arretrato la volta successiva.
Pioveva ancora. Sotto il portico c’era poca luce, il buio incipiente mi dava meno fastidio dei maleodori stagnanti nella cucina di Bovieri. M’infilai nelle stradine del quartiere agognandone un’oscurità che mi avesse reso invisibile.

*

Labirinti del desiderio


I LABIRINTI DEL DESIDERIO

… Intanto …
Sono sul rogo, giudicato e condannato per immoralità d’amore da tribunale applicante legittimi commi pratico-ragionieristici.
Si potrebbe diversamente in questo contesto-mondo?
Sono libero di scegliere: scendere o bruciare.
Cripticamente suggerito?

… eppure …
Non scendo da quel rosso fiore, fiamma non incenerisce ancora le membra peraltro contorte.
Tertium non identificabile, lo fosse sarebbe illusorio salvavita.

… domande …
Intimità sognata, passione non reprimibile, possono chiedere risposta?
Retorica interrogativa, ma a quali domande, di grazia?
Vaniloquio o malafede dialettica?

… Ma …
Il linguaggio usato, ermetico in apparenza, è reso possibile da passione e desiderio che trasfigurano in cadenze emozional-sentimentali un indagare teatralmente invasivo.

… dunque …
Tutto potrebbe essere un finto happening, un universo che erompe dal nulla, specchio dell’umano
e agognato possibile:

… infine
Inevitabili sopravvivono i mondi del desiderio. Pulsioni morbose. Voglia di abbandoni.

*

Nuovi viaggi

Nuovi viaggi

Dal campo
Inosservato uscii, l'orme ripresi
Poco innanzi calcate, indi alla manca
Piegai verso aquilone, e abbandonando
battuti sentieri, in un'angusta
oscura valle m'interna,
ma quanto Più il passo procedea, tanto allo sguardo
più spaziosa ella si fea.
(A. Manzoni. Adelchi)


Parlavano, Ermanno e Giacomo, della possibilità di futuri viaggi.
Giacomo: “Il Boeing ha già ridotto tempi e distanze, le nuove tecnologie le renderanno pleonastiche.”
Ermanno: “Mi dà un senso di vuoto, di amarezza.”
Giacomo: “Rimpianti? Magari si apriranno sconosciuti orizzonti nel modo di viaggiare!”
Ermanno: “Viaggiare solo con la mente? Con i mezzi elettronici delle nuove tecnologie informatiche? Interrogando un computer?”
Giacomo: “Potrebbe essere un esergo per nuovi viaggi.”
Ermanno: “Mi fai venire in mente S. Dionigi che, dopo essere stato decapitato, camminava tenendo tra le mani la sua propria testa in modo da poterla consultare in ogni momento, semplicemente facendogli sollevare le palpebre e interrogandone gli occhi.”
“Giacomo: “Sacro e profano? Per ironizzare stai sconfinando nel macabro?”
“Ermanno: “Ma no, rifletti: anche noi, oggi, siamo stati decapitati, ma la nostra testa rimane lì, davanti a noi, appoggiata sul ripiano del tavolo. Per farle aprire gli occhi è sufficiente schiacciare un pulsantino verde su cui fa mostra di sé un cerchietto luminoso, tagliato, in alto, da un minuscolo segmento. Non è più necessario portarla in giro a conoscere il mondo e farla parlare.”
Giacomo: “La tua è solo nostalgia, di viaggi ormai passati, di spazi indefiniti e mal ricordati, di immaginarne quella che fu un’imprecisata durata temporale. Ma la nostalgia può farti conoscere solo gli angoli ristretti di luoghi possibili, senza contare che il fascino di questo modo di viaggiare è legato alla tendenza inconscia a decantare acriticamente i bei tempi andati, come si usa dire.”
Ermanno: “E dunque! Perché non dovrei provare un sentimento del genere? Malgrado il tuo tentativo di buttarla sulla psicoanalisi, il viaggio fisico, reale, per me rappresenta uno dei valori dell’istinto estetico. E credo che questo, quasi completamente trascurato dai nostri frettolosi e informati contemporanei, era vivo presso i greci e i romani, presso antichi di altri tempi e lo è di tanti epigoni odierni. L’osservazione parziale, e quindi aperta e non turbata dalla presunta - bada bene, dico presunta – completezza della ricerca, è esercizio pago di sé. Che necessità c’è di sapere tutto? Solo i turisti vorrebbero farlo, ma loro non viaggiano, sono troppo presi a fotografare l’idea che hanno delle immagini, inutilmente, credo, se non per renderle penosamente visibili nel dopocena con gli amici.”
Giacomo: “L’indeterminazione poetica in contrapposizione a quella pratico/scientifica? E se avessi voglia di conservare ricordi e testimonianze?”
Ermanno: “Non lo farò, i ricordi e le nostalgie dei viaggi resteranno, e non me ne dispiace, come tracce irrisolte di una sorta di paradiso perduto.”
Giacomo: “Che rischieranno di essere false!”
Ermanno: “Beh, in fondo i resoconti dei viaggi e la vita: l’uno sostiene il senso del suo alter.”
Giacomo: “Ma ti illudi ancora di poter viaggiare, come Quenod, lungo la strada da Bou Jeloud a Bad Fethou, costeggiando le mura della città algerina in una sera di pioggia? E pensi che Quenod stesso abbia realmente visto e percorso quei luoghi o, piuttosto - sorvolando sul tempo e sugli spazi reali – non abbia semplicemente immaginata l’azione proiettandola nella sua rappresentazione letteraria o, per meglio dirla, virtuale?”
Ermanno: “E tu puoi affermare il contrario?”
Giacomo: “Ma non pensi, rifiutando i viaggi virtuali, di rinchiuderti in una posizione elitaria? Non vorrei che per viaggiare con le modalità di cui parli non debbano essere previsti neanche testimoni.”
Ermanno: “Ma sì; ci saranno testimoni: sono coloro ai quali saranno affidati parte dei ricordi e che racconteranno.”
Giacomo: “Se vi troveranno - possibile o meno che sia - un qualsivoglia interesse. Nel frattempo, tu sarai fuggito? Non pensi di essere troppo vanitoso o presupponente di te?”
Ermanno: “E’ riduttivo; intanto ci si può interrogare sulle motivazioni che ci spingono a viaggiare. Senza contare che possiamo essere affascinati dal semplice piacere di farlo, fisicamente e realmente. I viaggi virtuali in rete corrono il rischio, invece e inevitabilmente, di essere metaviaggi!”
Giacomo: “Ti precludi diverse prospettive e possibilità, direi.”
Ermanno: “Potrei io stesso diventare racconto e cronaca.”
Giacomo: “Oh, le parole scritte! In procinto di essere messe all’angolo dai tempi nuovi.”
Ermanno: “Sai proporre di meglio?”
Giacomo: “Si, se le strade dei tuoi viaggi ambiscono a mete più ricche e più varie.”
Ermanno: “Eppure, le mie strade da qualche parte mi conducono sempre: a incontri con me stesso o con mondi e persone reali con cui sento affinità; sono possibili nei viaggi nei quali la virtualità ha abolito le distanze? Quelle di cui parlavamo?”
Giacomo: “Sono cose che possono accadere ugualmente nel mondo virtuale, ma diffido degli esteti che parlano come te o di chi esprime solo ciò che gli detta il cuore!”
Ermanno: “Non esteta, solo estensore asettico di cronache. E’ quando si matura la capacità di far questo che si può, finalmente, iniziare a viaggiare veramente, ben oltre la virtualità!”
Giacomo: “Romanticismo nostalgico; forse neanche tu ci credi veramente!”
Ermanno: “Tu vuoi dirmi, dunque, che i miei viaggi sono sì, come credo, splendidi e ricchi, ma che io li faccia illudendo me stesso?”
Giacomo: “No, capisco solo che, per te, arrivare in un luogo dai confini inconoscibili sia più importante, alla fin fine, che lasciare un luogo familiare da cui partire. Viaggi nell’ovvio, nel déja vu, cioè.”
Ermanno: “Mentre, vuoi dirmi, nel viaggio elettronico/virtuale le due cose possono coincidere, abolendo tempo e spazio, e quindi rassicurarci? È questa la conclusione a cui vorresti portarmi? Mi è difficile seguirti e resterò fedele, con retrogrado cinismo, agli angoli ristretti e incompleti dei viaggi reali e possibili.”
Giacomo: “Eppure, riflettici bene, paradossalmente i viaggiatori virtuali sono sempre più numerosi, in ogni caso reali e concretamente in moto; mentre i viaggiatori che preparano minuziosamente le valigie e le trasportano nelle stazioni ferroviarie o in aeroporti, tendono a diventare sempre più immaginari o vivono solo nei racconti spesso pubblicati nella letteratura on-line.”
Ermanno: “Dunque, mi prefiguri un presente senza limiti e senza progetto, una società immediata, un tempo senza tempo? E, infine, uno spazio veloce e cangiante dove ci si possa muovere anche restando fermi?”
Giacomo: “Sì, per fortuna o purtroppo. Certo, inevitabilmente, tutti, in qualche modo, saranno costretti ad adeguarsi; anche tu. Che dire? Sembra che stiamo per inoltrarci in un eterno presente.”
Ermanno: “Sembra, il tuo, un presente senza etica e senza riflessione
critica, una società immediata, un tempo senza tempo. E, infine, uno spazio dove ci si possa muovere anche restando fermi.”
Giacomo: “Sì, purtroppo. Inevitabilmente, chiunque potrebbe capire come sia palpabile il tentativo di costringerci a non pensare e ad adeguarci a mode acefale. Che dire? Sembra che stiamo per inoltrarci in un eterno presente dove l’etica cui accennavi è sempre più lontana.”

*

Zoroastro Deserto del Dasht-e-kavir

Zoroastro (Deserto del Dasht-e-Kavir)

Il capo dei guardiani notturni propose un accordo soddisfacente per tutti. Per noi e per loro. Noi per andare avanti con le costruzioni; loro per sopravvivere e guardare della vita non solo l’argilla, le pecore e gli sterpi del deserto.
“Ruberemo solo tre bombole di ossigeno per notte e due matasse di cavo di rame” comunicò.
“Conviene” pensai, infatti ogni giorno il consumo era pari a trenta bombole e tre su dieci rappresentavano un’accettabile proposta.
Alternativa: i guardiani avrebbero chiuso tutti gli occhi e le bombole involate sarebbero state trenta per notte.
Postilla all’accordo: avremmo riacquistato le nostre bombole direttamente presso la tenda dei guardiani, a tre chilometri dal cantiere, pagandole con lo sconto del dieci per cento rispetto al mercato, per congruenza con le quantità rubate.
Seguì stretta di mano, io per la Società, il capo dei guardiani per la tribù.
Nuova amicalità mi permise di sapere che erano di fede Zoroastra e che presto avrebbero ripreso il girovagare dei nomadi: percorrendo le piste, battezzando le grandi caldaie di rame, vendendole in mercati e Bazàr.
“Festeggeremo - mi disse – la festa del fuoco stasera, nella nostra tenda alla fine della pista numero cinque, conosci la strada, ti aspettiamo.”
“Verrò,” comunicai.
“Ti prego,” aggiunse “porta qualche cassa di bottiglie di vodka. Khoda Hafiz, aghà(1)” sorridendo.
“Khoda Hafiz,” a mia volta.

La pista cinque va a sud senza curve, senza limite evidente tra l’asfalto e il deserto, verso Khorramshar e il golfo. La strada costeggia grandi tubi d’acciaio, verticali sul terreno argilloso e sulla cui sommità, da trent’anni, brucia il metano che fuoriesce dai pozzi di petrolio e non viene utilizzato. La violenza della fiamma fa tremare il terreno d’intorno per un raggio di centinaia di metri. e la luce è così forte che le auto e i grandi truck, di notte, non accendono i fari, ma solo piccole luci appese in alto, sopra il parabrezza.

Arrivo e parcheggio la mia Land al limite del campo.
Il guardiano Baràd mi accoglie con un abbraccio: scaricherà lui le cassette. Entro chinandomi e scostando la leggera pezza di stoffa che funge da porta del grande tendone. Lunghissimo il Kilìm steso per terra, tanti sono seduti su cuscini e sembrano in attesa, un solo posto è libero a un’estremità del tappeto. Mi siedo, dopo il saluto – Salam - con la mano dal cuore alle labbra.
Ragazza vestita di brillanti colori, nera di capelli, dita lunghissime, mi porge il piatto di coccio; al centro, circondato di riso, melanzane e foglie di vite arrotolate, mi guarda immobile l’occhio d’agnello in arrosto. Tutti hanno un identico piatto e guardano me: mangeranno dopo che avrò iniziato per primo, prendo l’occhio tra le dita e, lentamente, lo porto alla bocca, mangio e subito tutti mi seguono.
Infine, il resto dell’agnello. Poi dolci di glassa dolcissima, addobbata di zuccherini colorati.
Fuori, rumori di pecore e dromedari assonnati.
La notte è calda e di vento sabbioso.
Le bottiglie di vodka vuote sono già tante, portano quelle delle mie casse.
In tre suonano strumenti a corde, due per strumento. Musica ripetuta, ossessiva. Donne ballano la tradizione delle danze tramandate dalle antiche tribù.
Bevono; io non bevo.
La ragazza, ora danzatrice, dalle mani lunghe e dita affusolate, siede sulle mie gambe incrociate. Mi dice: cinque Rials per saluto con bacio, io sono Farnàs. Porgo i Rials, sorridendo del gioco.
I tre sono ormai due a suonare, uno è già steso vinto dalla Vodka.
Farnàs mi offre la fronte per il bacio e mi sfiora le guance con un dito.
C’è un fuoco che brucia più in là.
Uomini ridono, scherzano, bevono; ragazze danzano in movenze di rituale lentezza: illusione ad occhi che non sanno vedere, ad orecchie che non sanno ascoltare.
Farnàs sorride, si avvicina, mi guarda, dieci Rials stavolta.
Giri di vesti, colori di erbe, di rosso e viola. Il fuoco di altalenante bagliore palesa a me Zoroastro come intermittente e trasparente fantasma, complice l’ossessivo trascorrere di nenia e di effluvi d’odori speziati.
Un solo strumento, di unico budello sonante, accompagna il ritmo di musica codificata non scritta, sconosciuta al pentagramma.
C’è chi russa disteso su tappeti in disordine sparso.
Ora il budello suona da solo, chi lo sfiora ha occhi lucidi ed ebbri, incerte le dita.
Guardo la tenda, grande come da circo, la vedo ormai vuota, resiste liuto monocorda.
Farnàs si accosta, accenno ad estrarre i Rials, mi ferma la mano, si compiace di sguardo tagliente. Si siede e mi offre una vodka in grande bicchiere. Bevo, affinchè le parole non debbano chiedere.
È il suo corpo adesso che suona, la musica può solo inseguire, succube alla danza, mentre il tempo resta sospeso; la corda è spezzata e ormai vibra soltanto.
In estasi assonante, la notte sembra rinunciare alla ricerca dell’alba. Infine, silenziosa scompare.
Interrogante inquietudine segna il mio sguardo, il violista è sparito, il fuoco è agli ultimi lampi.
Sollevo il mio corpo indeciso, mi avvio, in alcolico barcollio.
Riuscirò a trovare l’uscita?

Tornai dopo due giorni: trovai solo la baracca dei guardiani e ricomprai le mie bombole, chiesi della tribù.
Mi disse Baràd: partiti, con gesto della mano verso l’orizzonte: Esfahan, Shiraz, i villaggi del Dasht-e-kavìr, accenno impreciso, vaga indicazione. In un sacchetto plastificato mi porse altri occhi d'agnello da cucinare in cantiere.
Mi avviai verso la Land Rover passo corto priva di tetto e con parabrezza abbassato.
Presi la pista del nord.
Il vento sollevava la polvere fine d’argilla seccata dal sole.
(1)Khoda Hafiz, aghà = Arrivederci, signore.

*

Lisbona

Lisbona


Sarei stato viaggiatore a Lisbona, dove ero arrivato con volo diretto da Roma.
Nella Rua Nova do Carmo, trovai una camera in un piccolo albergo caratteristico, con i balconi carichi di fiori.
Seguendo il buon senso, mi procurai un’auto per gli spostamenti in città e per raggiungere le località da visitare e fotografare. Noleggiai una Mercedes di medie dimensioni.
I giorni furono subito pieni: il Portogallo mi accoglieva con atlantici umori. Spesso, la sera, mangiavo nella Casa do Bacalhau.
Affiancata al marciapiedi antistante l’edificio bianco e pannellato in azulejati ornamenti, era parcheggiata una vecchia auto Isetta che sembrava in attesa. Il proprietario della pensione mi disse più volte: ≪Le piace? Una vera auto d’epoca, se l’acquista fa un vero affare. Il prezzo è un po’caro, però congruo per una così originale vettura≫.
Ero preso dal fascino dell’ Isetta non tanto per l’auto in sé, quanto, piuttosto, per l’idea che, con quella, non mi sarei sentito un turista: la mia vanità. Era azzurra, o meglio di uno sbiadito color celestino. I pneumatici erano cerchiati di bianco e il volante era avvolto in una guaina di finta pelle slabbrata e bucherellata, fissata con dei bottoncini di metallo ormai arruginiti.
Più di una volta il proprietario mi aveva offerto la chiave, sorridendo ed esortandomi, con gesti delle mani e della testa, a salire a bordo e provarla. Nel dirlo, apriva la portiera frontale di accesso sulla quale era innestato il volante. Sempre accompagnava il gesto con un sorriso ammiccante.
Avessi accettato, l’Isetta avrebbe percorso con me, leggera e meccanica, vicoli stretti e gradini precipitanti verso il fiume e il mare lontano, per svoltare infine, prima di altri orizzonti e prima di altra avventura, in penultimi angoli di strade. Non decidevo.
Uscendo dall’hotel al mattino, mi fermavo a curiosare nella Livreria Portugal, dove entravo varcando una porta di legno verniciata di verde. Lì avevo acquistato un libro guida di Pessoa e di Lisbona: sfogliando le sue pagine, sarebbe stato facile addentrarmi nella parte vecchia della città.
In un gioco scherzoso e poetico, immaginavo il libro levitante nell’aria, quasi guida rarefatta a precedermi. Avrei cercato di raggiungerlo affrettando il passo, per ritrovarlo, di nuovo materia, nelle mie mani in attesa. Il libro e io, nella Rua Nova do Carmo, sul marciapiedi ancora lucido di una pioggia antica che immutata sembrava resistere, quasi a fissare un pensiero e le sue iterate parole, specchio di nuovi e vecchi sogni. Allora poteva accadére che crepuscoli acquosi rigassero di blu, di lilla e di giallo le strade, i cortili, le auto e i tram lenti nel loro arrampicarsi su per le strade in salita.
Nell’atrio dell’albergo, con annessa caffetteria poco oltre l’ingresso, conosco due giovani: fratello e sorella, italiani in vacanza.
“Francesca,” mi dice lei, offrendo un sorriso.
“Biagio,” aggiunge lui, ritrosamente.
Stringo deciso le mani: audace e nervosa quella di Francesca; molliccia e sfuggente quella di Biagio.
“È da molto che è a Lisbona?” chiede lei guardandomi negli occhi.
“Una settimana,” rispondo.
Ci sediamo e ordiniamo degli aperitivi che avrebbero reso facile ogni successiva confidenzialità.
Al tavolo di alluminio, col piano screziato di sfumature grigio satinate, Francesca e Biagio bevono da lunghi bicchieri addobati con fette d’arancio in precario equilibrio sui bordi e cannucce sporgenti; fissi gli sguardi, quello di Biagio nel vuoto, di Francesca sorridente e forse per me.
Si avviano complicità d’atmosfera, in attesa di parole da pronunciare per sapere di più.
Di fronte al tavolo, attraverso le trasparenza di una vetrina serigrafata con stilizzate bottiglie di Porto, faceva mostra di sé la sagoma dell’Isetta, in coerente pendant con la stradina di selci sconnessi. Accanto, il marciapiedi sembrava invitare a un passeggio verso mete usuali di viaggiatorie attrattive, tra ombre e lucori a volte tremolanti sulle sfaccettature con cui la luce del sole tagliava il selciato.
“Ha visto la torre di Belem?” mi chiede Francesca.
“No, vorrei andare oggi, venite con me?”
Saliamo sulla Mercedes, Francesca mi siede a fianco, Biagio dietro.
In fondo, non sapevo perché li avessi invitati.
Partiamo; poi Francesca: “Ho dimenticato gli occhiali da sole.”
“Vuole che torniamo indietro?” Chiedo, offrendo la mia gentilezza.
“No, non importa, li indosso più per moda che per necessità.”
Biagio siede in silenzio, cadenti le sembianze del volto, contrastanti con occhi di un color acciaio scurito dal tempo. Francesca parla di sé e chiede di me: “Resta molto tempo in Portogallo?”
“Voglio visitare Lisbona, Coimbra, le cattedrali e le fortezze dei Templari.”
“Le interessano i Templari? Che mestiere fa?”
“M’incuriosisce la loro storia, voglio andare anche a Tomar.”
“Dov’è?”
“A nord di Lisbona, non è lontana.”
“Noi vorremmo esplorare la costa, l’Atlantico; viene con noi? A Tomar ci andrà dopo.”
Guardo nello specchietto la faccia di Biagio: è inespressiva.
Francesca si riavvia i capelli, nervosamente apre e chiude il finestrino. Ha mani piccole, con le unghie tagliate a squadro, il collo abbellito di un ninnolo d’oro appeso a una catenina e proteso nello scarto dei seni.
Vorrei chiedere qualcosa di lei e del fratello, lo farò più tardi, adesso mi dedico a guardare la strada e guidare.
Poi chiedo: “È molto che siete a Lisbona?”
“Due giorni” risponde Francesca, ”Ci fermiamo una settimana. E lei?”
“Ancora qualche giorno.”
Nel pomeriggio esco da solo a camminare senza meta. In Piazza Dom Pedro mi accomodo in un bar e chiedo un caffè. Mi guardo intorno indolente, mi attira un passaggio coperto in lontananza: la luce della piazza impedisce che gli occhi possano scrutarci dentro, forse m’inoltrerò sino a svelare quell’ombra.
Mi alzo e torno verso do Carmo, mi accompagna la brezza che risale salmastra dal mare non lontano.
Alle sette bussano alla mia porta, è Francesca che mi chiede se voglio uscire per la cena con loro; appuntamento per le otto nell’atrio.
Scendo qualche minuto prima e il proprietario s’informa se sono ancora interessato all’Isetta.
Alle otto mi raggiunge Francesca. “E Biagio?” Le chiedo.
“Non si sente bene, preferisce restare in camera sperando che il mal di testa gli passi.”
In auto raggiungiamo le colline a nord. Dalla città bassa saliva l’umidità che condensava in alto, nel cielo notturno, facendo aleggiare un sipario che velava il brillìo delle stelle.
Parcheggio, troviamo un piccolo ristorante e ci sediamo a un tavolo sistemato all’aperto, sul marciapiedi di una stradina in leggera salita.
Non so cosa raccontare a questa Francesca che mi aveva chiesto di uscire, di cenare insieme e di passeggiare in città.
“Non mi hai parlato delle tue attività,” mi dice guardandomi con occhi quasi inespressivi e che si animavano solo quando si sentiva osservata.
È abbronzata. Accavalla le gambe mostrando ginocchia perfette.
Guardo il suo viso, l’attaccatura dei capelli termina con una punta appena accennata al centro della fronte. Non è alta, eppure longilinea.
L’ascolto parlare, replico con dei sì o con dei no, penso che potrei essere più gentile con lei. Intanto ordino un Porto, un gosto di famìlia, chiedo.
Camminiamo, dopo la cena, per strade percorse da languidi passanti e coppie di turisti sedotti dall’aria notturna. Volti maschili a volte ricchi di baffi, volti femminili dalle labbra rosse come per una festa d’estate.
Infila il suo braccio sinistro sotto il mio destro.
Avrà trentacinque anni, più o meno; Biagio è certo più anziano.
Un canto risuona in fondo alla via.
“Andiamo?! Propone.
Entriamo in un cortile circondato su tre lati da un porticato con grandi arcate sorrette da colonne sottili.
Al centro, un’anziana cantante celebra la sera ormai tarda con un tristissimo fado in tonalità minore. Una sola chitarra accompagna la voce che si affanna a spiritualizzare il senso di un incerto futuro.
Girando gli occhi più che la testa, guardo ancora Francesca, in piedi accanto a me; forse è bella, certo ha modi sensuali.
Non ho voglia di sapere altro di lei, rimando a domani.
Ero venuto a Lisbona per viaggiare e per fotografare la città, le case e i paesaggi, invece mi aggiro tra fioche luci notturne.
Il Fado suggerisce nuove malinconie, mai prima provate.
Lei, la cantante, è immobile nel grande cortile, avrà forse settant’anni ma la voce è limpida e forte. Ieraticamente, evita pleonastici gesti; le braccia restano abbandonate lungo il corpo etereo. Ha il viso scavato, le labra truccate con un rossetto aggressivo e capelli bianchi legati sulla nuca, tesi sulle orecchie.
Il chitarrista si avvicina, porge il cappello, riceve qualche moneta per il conforto della notte in arrivo.
Torniamo in auto e intuisco lo sguardo di Francesca; vorrebbe forse ascoltare qualche parola da me, mi chiede se può fumare, rispondo che sì.
L’attimo è lì, pronto a recuperare l’atmosfera del fado: un’intimità che si nasconde e si svela in attesa di un gesto, di un’imperfezione che renda seducente il momento.
Torniamo in Rua do Carmo; il silenzio dell’atrio si adagia sulla penombra con eufonica assonanza. Saliamo la scala, una guida rossa bordata di blu e fissata ai gradini con barrette di ottone, attutisce il rumore dei passi.
Il corridoio deserto permette di prolungare la stretta di mano, lasciando che il tempo scivoli impalpabile su parole che non hanno motivo per essere pronunciate.
Chiusi la porta della stanza dietro di noi.
Disse solo: “Spogliami tu.”

Nel dormiveglia notturno guardo l’orologio di plastica appoggiato sul comodino: le quattro. Allungo il braccio, Francesca è andata via, sarà ormai nella sua stanza.
Mi rigiro nel letto, tirando il lenzuolo sul corpo nudo e umido di sudore freddo.
Non so nulla di questa donna; forse è più giovane di come il corpo si è mostrato e di come parlava di sé.
Torno al mio sonno, sordo a ogni domanda.

Mi svegliai per la luce diffusa dalla persiana solo accostata. La mattina doveva essersi già inoltrata nel giorno.
Ero solo e rimasi per un po’in uno stato di dormiveglia.
Le dieci e mi alzo.
Nel piccolo bagno, mi dedico alla cura di me. Torno in camera, inizio a vestirmi, poi esco.
Camminando nel corridoio, ho l’impressione mi manchi qualcosa: sì, portafoglio e documenti. Torno in camera, cerco, non trovo neanche la macchina fotografica, penso: Francesca.
Incalzato da preoccupato istinto, salgo al piano superiore e busso alla sua porta, senza ottenere risposta.
Nell’atrio chiedo di Biagio e Francesca al proprietario dell’albergo. “Francesca?” s’informa.
“Ma sì, la signorina e suo fratello, siamo usciti insieme ieri.” “Ah, la signora Ilde Alborelli e il marito.”
Perplessità lascia spazio all’interpretazione dei fatti.
“Sono usciti?”
“Sono partiti questa mattina alle sei, come da programma, credo avessero un aereo alle otto; ha deciso poi per l’Isetta?”
Torno in camera e faccio l’inventario: mi mancano tremila euro, carnet di assegni, carte di credito, documenti e la macchina fotografica.
Tra rabbia e rancore, si fa strada un sorriso d’ironia. Per le circostanze impreviste, per le ombre ingannevoli di una stanza di notte, per il letto disfatto, per le parole che furono taciute perché non debordassero in impudenti cliché.




*

Un appuntamento difficile

UN APPUNTAMENTO DIFFICILE

Ero riuscito a entrare di soppiatto nell’appartamento di Fosca, probabilmente era notte inoltrata.
Non mi fu chiaro come fosse stato possibile, né che strada avessi fatto per arrivarci.
Lei mi vide; ma sembrò che la cosa non le creasse alcun problema.
In qualche modo fece finta di niente, né mi rivolse la parola: si comportava come se tutto fosse scontato.
In casa avvertivo la presenza del marito: io non vidi lui e lui non vide me.
Più tardi, mi addormentai su un materasso poggiato sul pavimento, in una stanza appartata.
L’abitazione era grande e aveva molti ambienti che non mi riuscì di visitare e neanche mi attiravano. Era un appartamento che conoscevo poco, essendo quella la seconda volta che mi ospitava.
Si trovava al primo piano di un palazzo di aspetto signorile in un complesso residenziale in città e che, in anni passati, era considerato estrema periferia. Ci trascorsi con Fosca una notte in occasione dell'assenza del marito, ricoverato in ospedale.
Improvvisamente, in casa si mostrò (non mi fu chiaro se fosse arrivata con me o subito dopo) un’altra donna: assomigliava vagamente a Fosca Mi sembrò di averla conosciuta molto tempo addietro. L’ultima volta dovevo averla incontrata casualmente per strada, alcuni anni prima.
Anche questa cominciò ad aggirarsi silenziosa nell’appartamento.
Al mattino, quando mi svegliai, il marito di Fosca era già uscito. Avrei voluto sapere dove avesse dormito la sconosciuta.
In cucina, incrociai più volte le due donne, sempre senza che ci si rivolgesse la parola.
Andai in bagno, dove c’era un apparecchio alla turca.
Mi occupai delle mie abluzioni mattutine e venni fuori dal locale sempre restando in silenzio. Le due donne e una terza più anziana che non avevo ancora notata, parlavano tra di loro ignorandomi. Erano pronte per andare fuori di casa: avevano indossato i cappotti.
Ovviamente, sarei uscito anch'io.
Sussurrai a Fosca: -Bisogna che parliamo per chiarirci.
Mi rispose (le prime parole che mi rivolse): -Oggi a ... Verso le … Non riuscii a comprendere il luogo e l'ora.
Camminai lungo il quartiere e arrivai in centro. La vidi camminare sotto un porticato, ma finsi che fosse la prima volta, come se fossero passati dei giorni dalla mia visita.
Le dissi: -Mi fa piacere di incontrarti dopo tanto tempo.
Rispose: -Ma se mi stai seguendo da ieri, sono stufa!
Mi vergognai di me.
Mi fermai da un fiorista e acquistai un'orchidea, poi iniziai di nuovo a seguirla. Passò all'asilo per prelevare il figlio. Tenendolo per mano, entrò nei giardini pubblici. Si accomodò in una panchina di legno verniciata in verde. Le sedetti accanto e, senza parlare, le porsi il fiore.
Mi disse: -Sono i miei preferiti, lo sai. Si avvicinò e mi depositò un bacio su una guancia.
Provai a prenderle una mano, ma lei si ritrasse: -No, solo quando faremo l'amore di nuovo. Anche stasera, se vuoi.
-In casa tua? Mi sembra che ci sia troppa gente!
-Andremo in cantina!
Il bambino le chiese: Mamma perché vuoi andare in cantina?
-Tutti vanno in cantina, almeno una volta l'anno.
-Vai con l'ascensore?
-Si.
-La cantina mi fa paura. Mi dai la palla per giocare?
Gliela dette e il bambino si spostò dietro la panchina, su un prato con l'erba rasata di fresco.
Fosca si avvicinò e mi baciò sulla bocca, cercando la mia lingua con la sua: -Ti ricordi? Mi chiese. Poi: -Domani parto per le vacanze; andiamo in montagna, sulle Dolomiti.
Si alzò, prese il bambino per mano e andò via, verso la fermata del bus.
Provai a seguirla ancora, ma mi fece un cenno con la mano per invitarmi a starle lontano.
Mi chiesi se alla sera sarei riuscito a ritrovare il suo condominio; ma pensai che Fosca non si sarebbe fatta incontrare, neanche dentro casa.










*

Viaggi e mete, mentali

Viaggi e mete, mentali


Ero solito vagare in città senza programmi. Quando ancora lo faccio, è sempre per una meta non prestabilita, sorta di esplorante innocenza di strade e di piazze. Non sempre funziona così, credo dipenda dal fatto che, da un po’ di tempo, sogno di più, anche se non sempre ricordo che cosa. Silenziose apparenze, vaghi desideri.
C’era un amico, Zeno, che riusciva a suggerire e a condurmi verso l’orizzonte speranzoso degli uomini, ma la speranza riguarda spesso la poesia, non sempre la ragione.
La poesia evoca ombre; può insinuarsi come un’illusione - certo dolce e a volte esaltante - che talvolta riesce a infondere vita a evanescenti fantasmi. Sul passato ha un oscuro potere, cercandone le parvenze, le intangibili forme. Sul futuro agisce come droga leggera, qual liquido alcolico che smaschera, finalmente, il tanto che dà tanto. Per il presente, fa da pendant alla felicità mancante: la felicità non crea vera poesia, se lo fa, è rarissimo evento.
Riprendo il viaggio - quello privo di mete - perché tra i pensieri si aggirano immagini che, paludate d’antico, anelano il nuovo.
Dopo un’ultima occasione nelle campagne che circondavano il paese di mia madre, non rividi più Zeno. Qualcuno mi disse infine che era diventato poeta, uno vero, uno che esplora le emozioni per raccontarle senza cadere nella palude dell’innamoramento di sé o della suadenza ingannatrice dei propri versi.
Ma c’è un tempo per comunicare e un tempo per riflettere.
Accadeva, viaggiando, che ragione mostrasse le ripetute convenienze dell’educazione, malgrado che i desideri chiedessero di perdersi nel rapimento morboso delle trasgressioni. Tali erano, e sono, i meccanismi che funzionano a disconnettere le reti dei pensieri, affinchè equilibri continuamente minacciati conservino il modo per bilanciare gioie e i dolori.
Il viaggio, altalenante tra pause e ripartenze, conobbe, in giorni di maggio, una donna di eleganza ineffabile che mostrava, dietro ironici sguardi, occhi che solo all’apparenza sembravano indifferenti e distanti. A un’indagine seria e accurata svelavano illusioni morgàne e accecanti miraggi, quali riverberi del deserto che fanno agognare acqua trasparente a uomini in marcia e assetati. Allora, un’intrigante amicizia avrebbe percorso quei viali di maggio proiettandoli verso ombrose sere d’ estate e verso ugge autunnali, in attesa di coltivare in inverno i riti, di necessità saltuari, per la voluttà di anime e corpi. Fulvia era il nome, personaggio che nacque da artificio fantastico, simile a quel di Cyrano (fu saccheggiata l’idea di Rostand) che scriveva al fine di sedurre Roxanne.
Ineluttabile sopravvenne un sogno in amblé: la bellezza come felicità dei sensi, questi non inviluppati nell’ipocrisia del vivere quieto.
Lei sussurrò: «T’immagino sonnambulo,» antropomorfica fantasia prese atto.
È pleonastico dire che in ogni luogo si ritrova sempre un angolo da cui il viaggio era iniziato? L’angolo delle circostanze eventuali e impreviste, dal passato al futuro e viceversa, da scrivere e raccontare. Infatti, la scrittura è l’unica scienza (la scrittura deve essere una scienza se non vuole scivolare nel patetico) che, accarezzando filosofici temi, può violare la freccia del tempo.
Dunque i pensieri favorirono un nuovo viaggio, importa da dove e per dove?
Il tempo: un mattino d’autunno accompagnato da un sole ultima chance, nel rugginoso invito di provvisorio colore. Strade anguste, vicoli che immettevano in un inizio che sia; esitavo. Ne parlai all’amico Maurizio, sentenziò: tua madre. Non risposi e lui mi fece notare che, come al solito, non rispondevo. Gli resi palese, pur con il beneficio del dubbio, che rimpiangeva il confessionale.
Fu inevitabile incamminarci in silenzio.
L’autunno s’inoltrava nell’ombra e nell’odore di foglie marcenti, mentre Maurizio notava che la strada, quella appunto percorsa, con gli alberi dai rami sparuti e con gli striduli gracchi di corvi indifferenti ai passanti, costituiva un segno, una premonizione di futuro viaggio. A se stesso, perciò, consigliò Compostela, non ne compresi l’inferente motivo. D’altra parte, in pochi conoscevano i suoi veri pensieri, raccontati con un linguaggio a volte divagante, a volte teso a procedere nel surreale al di là del significato.
Lo immaginai ruotare, per le strade di Spagna, come un vero viaggiatore propenso solo a partire, dicendo “Andiamo,” senza sapere perché, magari alla ricerca di prostituzione proposta non per denaro, ma con accattivanti sorrisi, inevitabili per pellegrini in cerca di dubbi.
Compostela lo aveva accolto con un leggero vento di ponente che trascinava nubi veloci di passo, sempre le nuvole di quell’atlantica plaga sono di un argenteo grigio canna di fucile.
Seppi che si era ritrovato a seguire il funerale di uno morto da giorni. In chiesa, le porte erano state chiuse: i parenti gelosi a nascondere un intimo dolore.
Maurizio era entrato dal retro, attraverso una ripida scala, diversa da quella frontale larga e cupa di barocco spagnolo; quella posteriore era stretta, le pareti odorose di calce e imbiancate da poco.
Andai ad attenderlo all’aeroporto al ritorno. Mi parlò di modeste trattorie di campagna, di funerali e cattedrali ristrutturate da poco, nulla mi disse di Giacomo il Santo e io rimasi perplesso al racconto.
Ne favoleggiai, tempo più tardi, a Fernando, vecchio amico d’infanzia, che mi fece notare come Maurizio avesse ragione. Ero io a rimanere legato a un cogito che, ne era certo, non mi avrebbe condotto in nessun luogo, se non all’intorno di labirinti mentali. Concordai, il giudizio era corroborato dal fatto che Fernando conosceva Maurizio solo dalle mie storie, necessariamente viziate - dopo anni di rivagheggiati indizi - da inevitabile entropia del linguaggio.
Fui costretto, per questo, a rendere meno angusto il racconto.
La ricerca - perché di ricerca si trattava - doveva cominciare da un viaggio fatto dentro ognuno di noi e non sui selci delle strade.
Questo dicevo a Fernando, pur mancando di rigore il ricordo.
Ma un ormai statico viaggio, in costante pressione mentale/amicale, reclamava le sue urgenze e le sue verità. Per rimettersi in moto, sarebbe stato opportuno rivisitare le informazioni immaginate e le equivoche affermazioni. In un tempo fisico o letterario? Il presente nelle parole in divenire, il passato nei pensieri tornanti.
D’altra parte, legittime diversità interpretative potrebbero essere giudicate, di volta in volta, oscene, giocose, non consoni all’idea che si accredita inevitabilmente (obbligatoriamente nei contesti vigenti) di se stessi.
Ma c’è l’altra faccia della luna! Chi non ne ha?
Parlavamo, con Fernando, seduti in poltroncine di vimini sul terrazzo di casa sua. Era una tarda sera di primavera e, come ogni anno in quella stagione, Fernando celebrava un rito: osservare il viaggio delle rondini in arrivo da occidente.
Dopo inutile attesa, mi disse che, di certo, sarebbero arrivate l’indomani. Il discorso virò, allora, dalle rondini alla quotidianità e all’autenticità della vita, e ci chiedemmo se mai se ne potrebbe parlare senza parteciparvi, nel qual caso, convenimmo, questa rischierebbe di decadere nell’ imitazione di sé. Anche se poi la saggezza di ognuno di noi ci farebbe recuperare, contro l’arroganza della presupponenza, l’umiltà nei rapporti interpersonali.
Forse, solo uno scrittore di grande talento potrebbe resistere a qualsiasi stimolo a risolvere i problemi pratici, appunto, della quotidianità.
Pura teoria, naturalmente, ma possibile nelle circostanze limitate in un terrazzo e al proseguire di un viaggio che s’inoltrava in una sera di primavera incipiente.
Parlammo, più tardi, dell’amore e delle donne, e di come queste possano essere trascinate a rinunciare a qualcosa del proprio io, amaramente giocando una partita nella quale troppe volte sono destinate alla sconfitta. Eppure, osservai, molte donne stanno imparando a comportarsi da uomini. Ma Fernando aspirava a un mondo fatto di equilibri e reciproca sincerità dei ruoli.
Fu così, nel corso di quella sera, che i pensieri - fuggendo il rischio di rinchiudersi in monadi isolate - si avviarono a esplorare i bisogni degli esseri umani e delle loro anime. Magari esprimendosi in una cadenza di personali intendimenti che, al di là di ogni apparente autocompiacimento, sapessero accettare - con ovvia saggezza - l’altalena dei viaggi tra sogni e realtà.

*

Dal mio romanzo 18:30 Per caso a parigi

(Karin) .... -Sei qui, adesso, e forse anche tu, come me, senti che non è più come le altre volte, quando, pur vivendo liberamente trasporto e passione, non ci siamo resi conto sino in fondo che un residuo di maschera sopravviveva in noi anche a nostra insaputa, ingannando in tal modo la volontà e la lucidità che vorremmo ci vivessero sempre dentro.
Philip taceva, ma capiva che Karin si stava spingendo verso uno di quegli orizzonti che spesso ci si rifiuta di guardare, per paura dell'inconoscibile.
Stava cercando di corrompere sicurezze banalmente affidabili, pronta ad addentrarsi nella conoscenza del bene e del male, tra allegrezza e morbosi abbandoni. Aveva solo bisogno della complicità di lui.
-Sei venuto da me, e oggi, stanotte, puoi gettare via quella maschera che inconsapevolmente, e in fondo senza peccato, ti porti dentro. E anch'io voglio essere con te allo stesso modo, con la volontà di liberarmi a mia volta, di essere nuda nell'anima davanti a te.
Stasera, puoi creare il miracolo di un'opera la cui idea vive dentro di te da sempre ma che, per noia o paura, ti sei sempre vergognato di mostrare.
Philip continuava ad ascoltare, indovinando alcuni aspetti di Karin che aveva solo intuito, ma che l'abitudine agli affanni e alle passività quotidiane avevano nascosto.
-Ti sto parlando Philip, e vorrei pronunciare non il tuo nome, ma dire più semplicemente: amore mio. E nel momento in cui le mie parole hanno avuto la possibilità di essere pronunciate, per un attimo ho avuto paura del loro diventare dichiaratamente eloquenti, ma anche appena comprensibili al tuo ascolto e alla tua voglia di complicità.
Sembrano tante, eppure sono poche: ruotano su se stesse, aggirandosi in questo mio appartamento da dove scoprire la notte. Eppure, anche nella loro pochezza, fanno accadere tante cose che riguardano il comprendersi e i cambiamenti possibili, quelli che aspettano noi come anche tutti coloro che desiderano amarsi.
Tacque per qualche minuto, mentre Philip, pur desiderando interloquire, si lasciava andare ad ascoltare e ad abbandonarsi a quella che sembrava una confessione.
E Karin, invogliata dall' attenzione che leggeva sul volto di lui, continuò: - Cerco la verità, lo avrai compreso; una verità troppo semplice per essere visibile agli occhi di chiunque. Una verità che sembra poter riguardare la conoscenza dell'universo mondo, ma che, minimalisticamente, può essere riferita anche solo al mio mostrami a te.
Allora, ti sembro una donna che possa frequentare il letto di un uomo per capriccio? E mi riallaccio alle parole con cui tutto questo discorso è nato: fossi andata a letto con Tobas a Venezia o a Firenze, sarebbe stato, appunto, un capriccio. E tu saresti stato geloso per un inconcludente e povero episodio, masochisticamente ludico.
Se tu lo pensassi, vorrebbe dire che non sono stata capace di farmi conoscere veramente, e avresti ben ragione a considerare in me una donna che insegue sogni infantili.
Io, ingenuamente, ho omesso, in altre occasioni, di mostrarti la mia essenza più profonda; ma tu quante volte hai tradito la tua capacità di conoscere veramente una donna? Adesso, se lo vogliamo, possiamo mettere da parte la voglia di nasconderci e iniziare a guardarci veramente negli occhi. Dimmi, lo desideri anche tu?
-Potrei negarlo, a te e a me stesso?
-No, non puoi più, ormai. Perché io stasera sto suggellando un impegno d'amore con te. Un impegno la cui firma non ha bisogno di testimoni.
-Dici la verità, Karin, e io non posso che immergermi in essa con te!
-Allora, possiamo cercare la pienezza del vivere insieme. Forse ho avuto bisogno di tempo, e tu con me, per cercarmi la verità dentro. E tu, dopo questa notte, come potresti guardare negli occhi un'altra donna? Non potresti! Non solo per fedeltà, ma per non essere la semplice ombra di un uomo.
-Non potrei, Karin, perché l'amore ha bisogno sì di un letto, ma anche del mondo su cui far sentire l'alito della sentimentalità che vive dentro ognuno di noi; un mondo a cui mostrare uno sguardo depurato da ogni infida malignità. Potrei dire che l'amore, come la vera bellezza, non è altro che la promessa della felicità.
Karin spense la luce centrale della stanza, lasciando accesa solo una lampada da tavolo. Nella semioscurità e nel silenzio, Philip intravide gli occhi di lei che lo guardavano come se fosse la prima volta.
Poi, lei si alzò e, prendendolo per mano, lo condusse sino alla camera da letto.


*

Jacob Rohault I giorni di venezia

Jacob Rohault, scienziato e filosofo Cartesiano, nell'anno 1658 si trasferisce da Parigi a Venezia per seguire, presso l’antica tipografia Eredi Hieronymus, la stampa dell'edizione italiana del suo Tractatus Physicus. Il protagonista della storia è uno scienziato cartesiano protagonista della rivoluzione filosofica seicentesca, tesa al sovvertimento di un passato dogmaticamente cristallizzato. E non è un caso che per alcuni giorni lascia Venezia per recarsi a Bologna, dove, nella Biblioteca dell’Archiginnasio cercherà altri testi dell’epoca per sostenere e avvalorare le sue ipotesi.
Nei mesi del soggiorno veneziano, quasi involontariamente si ritrova a frequentare la società patrizia; accetta l’incarico di precettore di Fulvia, una fanciulla di nobile casato passionale e ambigua dalla quale, suo malgrado, viene coinvolto in tipici intrighi della città lagunare. Fulvia gioca coi sentimenti che Jacob comincia a provare per lei, alternando momenti di aggressività sensuale (“La donna che state ignorando, di notte si rigira nel letto che lei avrebbe voluto accogliente per voi e per le attenzioni che desiderava rivolgeste al suo cuore e anche ai suoi fianchi e al suo seno.”) ad altri di malinconia (“Mi sembra di non aver portato a termine cose che avrei dovuto fare; ma è un elenco inutile. E poi … la lentezza di questa neve che cade a riempire ogni vuoto. Vorrei vederla come qualcosa di salvifico, neve caduta per sopire le lacerazioni dell’anima, metafora di un tempo sospeso, in attesa che io possa tornare a parlare impudicamente. Chissà, forse in altro luogo, diverso da Venezia.”)
Dunque, i giorni di Jacob si dipanano tra considerazioni filosofiche: (“Io credo che per spiegare e conoscere il mondo, ci siano tanti modi che la mente può scegliere. E tra essi, oltre Dio, ce ne sono altri, come il caso, la ragione, la fantasia o i sogni,” dice a Fulvia in un momento di dubbio speculativo,) suadenze erotico/sentimentali, il piacere di nuove amicizie e, inevitabilmente, il fastidio di inevitabili inimicizie.
Sino al giorno in cui, richiamato dal Re Sole, riparte per Parigi dove assumerà altri incarichi prestigiosi, lasciandosi alle spalle qualche rimpianto, commenti salaci, accuse di eresia, gratificazioni, delusioni e forse dei cuori spezzati.

Stralcio
“Vi aspettavo, monsieur. Ho la presunzione di credere che sarò l’unico a cui rivolgerete un saluto di arrivederci o d’addio.”
“Né l’uno né l’altro. Il mio è il tentativo di seguire un filo di pensieri di cui voi siete il tessitore, in certe occasioni occulto, in altre straordinariamente visibile.”
“Mi fate passare per qualcuno in cui non mi riconosco. Semplicemente, ho usato le mie capacità per raccontare come, in questa città, il falso può appropriarsi ineffabilmente del vero, anche dopo che questo sia estinto.”
“Probabilmente cercate non tanto la verità oggettiva delle cose, quanto piuttosto la prova che siete capace di considerare voi stesso come maître à penser in Venezia.”
“E credete che io sia riuscito in questo scopo?”
“Non è nelle mie possibilità giudicare, posso semplicemente ringraziarvi per avermi accolto nel mondo dei vostri pensieri.”
“E se smettessimo i reciproci encomi che, a lungo andare, finirebbero per farci perdere il senso del pudore?”
“Non posso che convenire con voi!”
“Quando partirete?”
“Non appena il mio fedele Camillo avrà approntato bagagli e vettura, cioè entro tre giorni, al massimo.”
“Naturalmente sarò lieto di avere in dono una copia del Tractatus.”
“La riceverete direttamente da Hieronymus.”
“Vi auguro un buon viaggio e un felice ritorno nella città che, io so bene, più di ogni altra avete nel cuore. Da parte mia, resterò in questa, per la quale, pur volendo, non riesco a provare un sentimento d’amore. Coltivando in me vanità e presunzione, l’osserverò dal tavolo al Caffè degli specchi, nei ricevimenti della nobildonna Stellarìn o in altri palazzi. Là dove continuerò a interrogarmi su quelle parole, Mane, Thekel, Phares, che si sospetta sempre annuncino la caduta di ogni luogo d’illusione. Voi, mio eccellente amico, siete un puro; mentre io amo l’impurità, la mescolanza e la contaminazione, tutte cose che, nel mio modo di vedere il mondo, sono fonte di vita, le sole che possono sottrarci al destino che quelle tre parole sembrano adombrare.”
Venne l’ora dei saluti. Jacob tornò a La Campana. Non conosceva il significato di quelle tre parole, ne avrebbe chiesto a Le Grand una volta giunto a Parigi. Supponeva avessero a che fare con le maledizioni divine, quelle che spesso accompagnarono i prodromi delle civiltà.
Uscire dalla solitudine: avvertì l’urgenza insensata di fare una visita a Eva. Una conseguenza del sogno notturno: essere casti o libertini dipende da troppi e diversi fattori. Aveva circoscritto il mondo allo studio della scienza e dei suoi risvolti filosofici: “Cercano di spiegare le ragioni e le cause di tutti gli effetti prodotti dalla Natura. ”Eppure, anche le pulsioni e i turbamenti del cuore sono effetti della natura. I giorni di Venezia gli avevano mostrato che era facile sottrarre i sentimenti ai principi della fisica per circoscriverli nell’estetica e nello spettacolo. Provò una sensazione d’inadeguatezza e spaesamento.
Il mare oltre la gran piazza sembrò diventare pozzanghera. L’allegoria prendeva la via del possibile tra illusione e imprevedibile sventatezza. Entrò nel Caffè degli specchi, attraversò il grande ambiente principale per accedere alla saletta del biliardo, prese una stecca dalla rastrelliera, poi sistemò bocce e birilli. Un colpo secco e la sfera bianca colpì la piccola rossa: filotto e buca precisa. Le traiettorie delle palle d’avorio si conformano a una modalità spiegabile coi principi di causa ed effetto.
L’aria della notte era calma e fresca, foriera di un clima adatto al viaggio. Fu preda di pensieri asciutti e veloci che non si soffermavano sul domani: il cigno illude, mentre si presenta come dispensatore di flessuosi piaceri. Fosse nero mostrerebbe evidenti indizi di peccato.
Erano due le ancelle di modi leziosi? Gli tolsero il mantello; si accomodò dimenticando ogni rigore del dubbio. La signora gli sedette accanto: lo aspettava come mai nessun altro. Si spensero le candele.
Guardando la notte dal balcone, intuì che non sarebbe caduta la volta del cielo sulla tarda estate martiniana: un’occasione che uomini da poco avrebbero abbellito con parole insignificanti, funzionali all’occasione. Un presepe meccanico avrebbe scandito l’ora fluida e cangiante.
Fare a meno dell’aria, nutrirsi di umori, cercare una glabra e umida seta mentre il mondo d’intorno si offuscava, vagando, come assenzio stordente, in arse e vaneggianti ebbrezze.
Tempora sic fugiunt pariter pariterque sequuntur et nova sunt semper(10).
Si concesse un’ora di passi nella Piazza S. Marco e nei vicoli adiacenti. Finivano i giorni di Venezia.
Sentì un desiderio improvviso di primavere ventose e di un colle alto su una città sotto distesa, là dove era stata fondata quell’Abbaye de Monmartre che la rabbia dei parigini aveva nominato, qualche anno era appena trascorso, magasin des putaines de l’armée. Eventuale ripiego, all’occasione – Jacob sorrise – un vino che avesse avuto la reputazione «de faire sauter comme une chèvre».
Il colore del cielo era quello tipico di novembre.
Sapeva che Madama Stellarìn non gli avrebbe inviato il giusto compenso, il saluto era stato privo di menzione. Fulvia non era comparsa, gli aveva fatto pervenire i saluti: «per sempre avrebbe conservato nel cuore il ricordo.» Non la ritenne propensa alla menzogna: generosità necessaria. Ma ricordò una delle tante affermazioni di Le Grand: l’Ordine domenicano considera maculata persino la madre di Gesù.
Avrebbe potuto subire un interrogatorio blindato da parte dei difensori della fede: il mistero della trinità, la predestinazione, se il caos abbia avuto un creatore ordinante da cui nacquero i mondi e i cieli. Era stato graziato, anche se il rischio non era ancora da considerarsi svanito. A sua consolazione, i roghi non erano più in voga. Lo fossero stati, una pira l’avrebbe accolto «en causa de la suprema religion» e lo scriba della Serenissima avrebbe annotato che «miserrima anima efflavit ad supplicia sempiterna».
Una gondola, simbolo di fortuna stavolta, li trasbordò sulla terraferma: Jacob, Camillo finalmente contento, e i bagagli.
“Hai programmato il percorso?” chiese Jacob.
“Certamente, signore. E per quanto il viaggio sarà più lungo, faremo la via che costeggia il mare, passando per Genova e, da quella parte, entreremo nella nostra Francia.”
I cavalli trottavano leggeri, l’orizzonte non si rinnovava sul mare della laguna.
Prima del solstizio sarebbe stato a Parigi.







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L’amore di violetto pallido e Pernice

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